Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Statistiche e cifre confermano: il Ticino è uno dei Cantoni che spende meno per la formazione
Ambiente e Benessere Alcune piante selvatiche possiedono un grande valore perché potranno garantire il nostro futuro alimentare di fronte ai grandi cambiamenti ambientali
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 15 giugno 2020
Azione 25 Politica e Economia In Russia decretata la fine del lockdown per permettere il referendum costituzionale
Cultura e Spettacoli Da come la gente vive si possono scoprire anche i suoi pensieri: lo racconta una mostra imperdibile
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Progetti per una funicolare
Archivio Ti-Press
di Ada Cattaneo pagina 33
Responsabilità delle imprese: si voterà di Peter Schiesser Dunque, alla fine andremo a votare, sulla responsabilità delle imprese. L’iniziativa popolare lanciata cinque anni fa non verrà ritirata, perché il controprogetto indiretto votato dalle Camere federali la settimana scorsa non viene considerato abbastanza efficace. Questo sull’iniziativa popolare «Per imprese responsabili – a tutela dell’essere umano e dell’ambiente» è un dibattito che le Camere hanno affrontato con fatica, consapevoli della delicatezza dell’argomento, in cui questioni etiche sono messe a confronto con interessi economici; un compromesso fra Nazionale e Stati è giunto solo all’ultimo momento . Gli Stati volevano semplicemente respingere l’iniziativa, al Nazionale invece aveva prevalso l’intenzione di opporvi un controprogetto. E quel controprogetto, alla cui elaborazione nella Commissione degli affari giuridici avevano lavorato la liberale radicale Christa Markwalder e l’UDC Hans-Ueli Vogt, riprendeva la maggior parte delle richieste dell’iniziativa, a tal punto che i promotori dell’iniziativa erano propensi a ritirarla. In sostanza, l’iniziativa chiede che le imprese con sede in Svizze-
ra debbano rispettare anche all’estero i diritti umani e le norme ambientali internazionali e che siano ritenute responsabili, secondo la legge svizzera, anche per violazioni compiute all’estero da proprie società come pure dai fornitori, in quei casi la prova di aver rispettato a sufficienza gli obblighi di diligenza devono fornirla le imprese stesse. Il controprogetto del Nazionale riprendeva il principio della punibilità di fronte alla giustizia svizzera, ma limitando l’applicabilità alle grandi imprese, con più di 500 impiegati e una cifra d’affari superiore agli 80 milioni di franchi annui. Questo controprogetto aveva trovato un largo supporto, anche nel mondo economico, persino Coop e Migros lo hanno sostenuto. Ma il Consiglio degli Stati non ne ha voluto sapere, la risposta all’iniziativa continuava a dividere le due Camere. Per una certa parte del mondo economico il controprogetto era troppo indigesto, c’era però una consapevolezza diffusa che senza un controprogetto l’iniziativa avrebbe vita più facile alle urne. Quindi, su pressione di Swiss Holdings (associazione mantello delle grandi imprese con sede in Svizzera) l’estate scorsa la consigliera federale Keller-Sutter ha portato in gioco un nuovo controprogetto, più blando: obbligo di rapporti su
come le imprese rispettano diritti umani e ambiente e come evitano la corruzione, norme più severe in tema di lavoro minorile e minerali da zone di conflitto, ma nessuna sanzione – sull’attuale modello UE. Trova una maggioranza agli Stati, ma lo stallo fra le due Camere non viene superato. Si giunge dunque alla conferenza di conciliazione, e qui i giochi si fanno sporchi: UDC e PLR escludono dalla delegazione alla conferenza di conciliazione sia Markwalder sia Vogt, sostituendoli con deputati che voteranno contro il controprogetto del Nazionale. Tuttavia, anche fra le multinazionali c’è chi è consapevole che ci vuole qualcosa di più incisivo del controprogetto portato da Keller-Sutter e alla conferenza di conciliazione arriva una proposta (dietro alla quale c’è Nestlé) che riprende la soluzione del Nazionale ma statuisce che sia il giudice a stabilire se spetti o meno all’azienda l’obbligo di dimostrare la non colpevolezza. Alla fine la spunta il controprogetto degli Stati in entrambe le Camere. Infatti, l’UDC, sempre dichiaratasi a maggioranza contraria a un qualsiasi controprogetto, cambia tatticamente idea per togliere vento alle vele dell’iniziativa. Voteremo probabilmente in novembre, e sarà una campagna accesissima.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 giugno 2020 • N. 25
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Società e Territorio Intervista Ursula Nold è stata riconfermata Presidente del Consiglio d’amministrazione della Federazione delle cooperative Migros
In occasione dell’epidemia La quarantena italiana vista dalla cucina dello scrittore e saggista Francesco M. Cataluccio in un libro pubblicato da Casagrande
L’innovazione nel settore pubblico Danny Bürkli ci spiega il successo dei progetti dello Staatslabor, sostenuto anche da Engagement Migros pagina 8
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pagina 6 Le truffe arrivano anche via telefono. (Jochen Zick/flickr.com)
Le truffe durante (e dopo) la pandemia Prevenzione Le campagne di informazione e sensibilizzazione messe in atto dalla Polizia cantonale
aiutano ad arginare il fenomeno. Particolare attenzione è dedicata agli anziani
Nicola Mazzi Le truffe, in Ticino, non sono scomparse neppure durante la pandemia. Due fenomeni hanno caratterizzato quei mesi: l’aumento di quelle online e telefoniche e un calo dei furti con scasso. Ne abbiamo parlato con il sgtm Claudio Ferrari che si occupa della prevenzione per la Polizia cantonale, un lavoro importante e che aiuta a proteggere la popolazione dai vecchi e nuovi metodi usati per aggirare i cittadini. «Premetto che in Ticino, per fortuna, non esiste un numero elevato di questi fenomeni, siamo nell’ordine di alcune decine di casi. In particolare ci arrivano segnalazioni da cittadini che notano per esempio siti sospetti o che vendono oggetti a un prezzo troppo basso». Ma non solo. C’è chi ha ricevuto un’email in cui si promettono visite a domicilio per una valutazione sanitaria, con mittenti come l’Organizzazione mondiale della Sanità o l’Ufficio federale della sanità pubblica. Anche in questi casi, l’intento è quello di entrare in possesso dei dati riservati, come il numero della carta di credito o le password d’accesso all’e-banking. I casi restano bassi anche perché, come aggiunge lo stesso responsabi-
le della Polizia, «spesso e volentieri la persona truffata non li segnala. C’è una certa ritrosia a dirlo, a meno che si tratti di cifre importanti». E come precisa Ferrari «la maggior parte dei truffatori opera dall’estero ed effettuare una rogatoria è molto oneroso per una cifra contenuta». Questa è la prima tipologia di truffe che si basa su piccoli annunci, effettuati anche sui social media. Una seconda tipologia di truffe arriva sul telefono. «Da un lato ci possono essere persone smaliziate che chiamano l’anziano proponendo fantomatiche cure contro il coronavirus o si spacciano per operatori sanitari che cercano pazienti per fare dei tamponi, ovviamente con visita a domicilio. Insomma, cercano di avvicinarsi alla persona più indifesa per truffarla». Non mancano neppure appelli che chiedono donazioni a favore di vittime del Covid-19. «Sono stati segnalati anche messaggi in whatsapp da parte di profili clonati che hanno l’obiettivo di infettare i cellulari. E non potevano non esserci le catene di Sant’Antonio, che diffondono false notizie», sottolinea ancora Claudio Ferrari. Difficile risalire alle persone che stanno a monte delle truffe perché i numeri di telefono usati sono generati elettronicamente, sono falsi e camuffa-
no quello vero. In questo senso è cambiata la tecnica. «Qualche anno fa lo facevano con il numero nascosto, ma i cittadini spesso bloccano questi numeri attraverso il provider. Ecco perché, ora, usano dei numeri apparentemente validi per truffare il malcapitato». Ma veniamo alla seconda tendenza riscontrata durante la pandemia: le truffe più classiche, come possono essere quelle del falso nipote o, più in generale, i reati con scasso. «Sappiamo che all’origine delle truffe del falso nipote, ci sono delinquenti che provengono dall’est Europa e che si appoggiano su complici che raggiungono il nostro territorio. Con la chiusura delle frontiere questi fenomeni delinquenziali, cifre alla mano, sono diminuiti in modo importante. Non voglio dire che durante il lockdown non ci siano stati furti, ma è indubbio che siano stati molto meno». Per arginare le truffe e i furti la Polizia mette in atto numerose campagne di sensibilizzazione, spesso mirate, che come aggiunge il nostro interlocutore, hanno effetti importanti. Il lavoro è eseguito in collaborazione con le associazioni degli anziani come ATTE e Pro Senectute. «Personalmente, durante l’anno, tengo diverse conferenze nelle case anziani, nei vari gruppi di
queste associazioni, o in collaborazione con i Comuni, dove parlo dei furti in generale. A dipendenza del pubblico con cui sono confrontato cambio il tipo di prevenzione. Per esempio nella Case anziani informo maggiormente dei furti al telefono, più che di quelli online, mentre con i neo pensionati parlo tranquillamente anche di phishing o di truffe con le carte di credito». Proprio nel periodo del lockdown Ferrari ha dovuto annullare tre eventi in programma con Pro Senectute. Li riproporrà in settembre. L’attenzione degli anziani alla prevenzione è diversificata. «Devo dire che ho osservato delle differenze. Se nelle città si fa un po’ più fatica a far passare alcuni messaggi, nei piccoli Comuni e nelle regioni periferiche esiste una maggiore attenzione». Un altro discorso è quello legato alle risorse messe in atto per la prevenzione. «È indubbio che se la sensibilizzazione è più “leggera” la percezione dei cittadini è piuttosto blanda, mentre se viene fatta in modo importante, l’attenzione dei media e di conseguenza della popolazione cresce. Lo abbiamo riscontrato con la truffa dei falsi nipoti che negli ultimi anni è calata in Ticino proprio per la prevenzione capillare che abbiamo
messo in campo. Sono segnalati solo due-tre casi l’anno, rispetto ai 30-40 casi in tutto il Paese». Lo stesso Claudio Ferrari desidera ricordare alcuni consigli che sono sempre utili per prevenire una truffa. «Se ricevete email da sconosciuti e senza sollecitazione non aprite il link e non rispondete. In particolare, nei casi di phishing, il mittente tende a sfruttare indirizzi riconducibili a ditte o enti conosciuti. Non condividete dati personali, password o dati di accesso ai vostri account o dispositivi. Mantenete costantemente aggiornati il sistema operativo e le applicazioni presenti sui vostri dispositivi (ad es. antivirus). Non lasciatevi mettere sotto pressione da sconosciuti che vi chiamano al telefono. In caso di dubbio appendete. Effettuate pagamenti anticipati solo su piattaforme sicure e per importi poco elevati. Per importi maggiori scegliete un altro tipo di pagamento. Prima di dar seguito a richieste di pagamento verificatele attentamente. La polizia invita anche la popolazione a informarsi unicamente attraverso i canali ufficiali per non incorrere in false notizie pubblicate in particolare sui social». Infine, in caso di sospetti, il 117 della Polizia è sempre a disposizione.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 giugno 2020 • N. 25
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Pochi soldi per la scuola
Ticino Statistiche e cifre per conoscere il nostro sistema scolastico. E un dato inconfutabile: siamo uno dei Cantoni
che spende meno per la formazione
Fabio Dozio Chissà se l’onda del coronavirus servirà per far capire che la scuola e la formazione sono fra i capisaldi della nostra società? In particolare la scuola dell’obbligo, che in questi mesi è stata messa a dura prova, dovendo introdurre un insegnamento a distanza grazie a supporti informatici. L’emergenza ha stravolto il sistema scolastico, ha spaventato gli allievi e ha scombussolato i docenti e le famiglie. Il bilancio, pur provvisorio, è però positivo: la scuola dell’obbligo a distanza ha garantito un insegnamento con forme diverse e il sistema scolastico ha dimostrato capacità di adattamento ed elasticità. Ma l’essenza della scuola dell’obbligo è l’aula, in cui si svolge la scuola viva, che garantisce le relazioni fra gli allievi e con i docenti, che non discrimina i ragazzi e non è solo apprendimento di nozioni. Il Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport ha pubblicato, prima del coronavirus, l’opuscolo Scuola ticinese in cifre che, in una sessantina di pagine, illumina sullo stato del nostro sistema scolastico. Le statistiche vanno maneggiate con cura per cercare di tradurre i numeri in concetti, utili in questo caso per capire come funziona il settore più importante per lo sviluppo di una società democratica. La scuola dell’obbligo, in particolare, deve offrire le migliori condizioni d’istruzione ed educazione che poi si riflettono sulla qualità della nostra società. Le scuole superiori, formando personale qualificato, garantiscono opportunità di sviluppo e di benessere a tutto il Paese. Le cifre della scuola ticinese rivelano, soprattutto, che il Cantone è spilorcio e si classifica agli ultimi posti in Svizzera per quanto riguarda la spesa per la formazione, sia nei confronti del PIL (prodotto interno lordo), sia nei confronti della spesa pubblica complessiva. La spesa per l’educazione ammontava a 508’726 milioni di franchi nel 1990 (18,3% della spesa pubblica) e a 1’139’352 milioni nel 2016 (23%). Ciò equivale al 23esimo posto della classifica nazionale, davanti a Vallese, Giura e Grigioni. Il responsabile del DECS Manuele Bertoli definisce questo dato il punto più critico dal profilo politico. Dalla metà degli anni Novanta il Ticino ha creato l’Università (USI) e la Scuola Universitaria (SUPSI), due voci di spesa non indifferenti. Quindi l’investimento per gli ordini di scuola inferiori è quasi rimasto al palo. Tolti i contributi cantonali per la formazione universitaria, saremmo all’ultimo posto nel confronto intercantonale. «La questione delle risorse è un punto politicamente importante, – sostiene Manuele Bertoli. – Va detto che il grosso della spesa dell’educazione fa riferimento alla spesa salariale e, siccome il Ticino ha stipendi decisamente più bassi della media nazionale, questo impatta anche sulla spesa dell’educazione.
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Per quel che riguarda la distribuzione delle risorse interna al settore educativo, va rilevato che l’aumento di quelle dedicate a USI e SUPSI dalla metà degli anni 90 al 2010 è congenito alla prima fase della loro vita ed alla scelta dei miei predecessori al DECS di preservare i due atenei da misure finanziarie anche in periodi difficili. Dal mio arrivo al Dipartimento, tenuto conto che USI e SUPSI avevano ormai 15 anni, questa “esenzione” è stata abbandonata e l’impegno è stato prodotto nel cercare di salvaguardare tutta la spesa educativa dalle misure di risparmio realmente incisive, cosa che è parzialmente riuscita, se si pensa che, in periodi di inflazione zero per scuole medie, medie superiori, professionali e speciali il Ticino, tra il 2013 e il 2019 è passato da 505 a 537 milioni (+32), mentre per USI, SUPSI e DFA (Dipartimento formazione e apprendimento), è passato da 79 a 94 milioni (+15). Alcuni nuovi progetti sono andati avanti e hanno comportato anche aumenti di spesa, l’affiliazione all’USI di IRB e IOR, la nuova Facoltà di scienze biomediche. Altri purtroppo si sono fermati, come “La scuola che verrà”, impedendo l’afflusso di nuove risorse. Per aumentare l’investimento nella formazione bisogna avere progetti di ammodernamento del sistema formativo e poi raccogliere maggioranze politiche a loro sostegno: le posso assicurare che sul fronte dei buoni progetti non abbiamo alcuna difficoltà, il vero problema, soprattutto per quel che riguarda la scuola dell’obbligo, sono le maggioranze politiche». Certo, mettere in piedi USI e SUPSI – di cui tutto il Cantone può essere orgoglioso – ha richiesto investimenti cospicui, ma anche gli aumenti di spesa recenti sono andati, proporzionalmente, piuttosto agli istituti universitari, con un aumento del 19% circa, e meno alle altre scuole, solo il 6,5% circa. È indubbio che la scuola dell’obbligo, in particolare, sia stata sacrificata. Malgrado ciò, le maggioranze in Parlamento perseverano nelle politiche di risparmio nel campo della formazione, tant’è che per ottenere 17 milioni di franchi per una piccola riforma, come la riduzione del numero degli allievi nelle classi delle elementari, si è posta come condizione l’accettazione degli sgravi fiscali, mentre dovrebbe essere una spesa corrente. Un altro punto interessante messo in luce dalle statistiche riguarda la suddivisione degli allievi del secondo biennio di scuola media in rapporto alla frequenza dei corsi attitudinali o base. Chi frequenta i corsi attitudinali, una volta chiamati livelli A, sono in maggioranza le ragazze (61,9%), gli svizzeri (63,8%) e gli allievi di lingua madre italiana (61,8%). A frequentare entrambi i corsi base sono invece tendenzialmente i maschi (27,8%), gli stranieri (38,8%) e gli allievi di lingua madre non italiana (34%). La scuola media, con la differenziazione dei corsi, rivela perduranti difSede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Il direttore del DECS Manuele Bertoli in visita a una classe di scuola elementare. (Ti-Press)
ferenze sociali e personali. D’altra parte su questo tema ci sono pareri discordi. Come pensa di intervenire il DECS? «È intenzione del mio Dipartimento – precisa il Direttore – tornare su questo tema, che era già affrontato dal progetto “La scuola che verrà” ma che, dopo il voto del 23 settembre 2018, non ha potuto entrare nel vivo dei modelli di superamento dei livelli previsti. Ho sul mio tavolo alcune ipotesi di lavoro su cui ci concentreremo nei prossimi mesi. I dati oggettivi sono molto chiari nell’indicare i livelli come problematici, ma non si può nascondere che esiste in Ticino, tra i politici ma anche tra i docenti, una resistenza a procedere in questa direzione da parte di chi confonde il sistema dei livelli con un sistema che premia il merito degli allievi. Purtroppo le analisi ci dicono invece che sono piuttosto i meriti “sociali” dei genitori a essere premiati, cosa che evidentemente per la scuola non può essere accettabile». È una storia vecchia quella delle differenze sociali che si ripercuotono sui risultati scolastici. Franco Lepori, il padre della scuola media ticinese, lo diceva già nel 1967: «Una larga parte della popolazione scolastica non riesce ad attualizzare compiutamente il suo potenziale intellettivo; le scelte scolastiche-professionali sono in gran parte condizionate da fattori extra-intellettuali, ciò che limita considerevolmente il grado di democrazia del nostro paese». E, citando il biologo Jean Rostand, Lepori rincarava: «I buoni geni delle classi sociali inferiori hanno difficoltà a salire alla superficie, mentre i cattivi geni delle classi superiori non hanno troppe difficoltà a mantenervisi». «Anche in Svizzera – scrive la docente SUPSI Giovanna Zanolla in Scuola a tutto campo – sussiste una relazione diretta tra origine sociale familiare e istruzione, e la letteratura scientifica
internazionale evidenzia che tra i fattori che compromettono l’equità rientrano in molti casi anche il trascorso migratorio, il genere e la zona di residenza». Altro dato rilevante riguarda le differenze di genere. La netta maggioranza dei docenti delle scuole pubbliche sono donne (75,4%). Come valuta questo dato il responsabile della scuola ticinese? Come si può rendere più attrattiva la professione del docente? «Ogni squilibrio può nascondere una criticità, – spiega Bertoli – anche se non è necessariamente sempre così. Non sono quindi in grado di dire se il dato sia da leggere per forza come un problema, ma intuitivamente credo che sarebbe bene che l’equilibrio tra docenti donne e docenti uomini possa essere migliorato. Mi pare piuttosto chiaro che la situazione attuale che vede le donne essere sempre più presenti nell’insegnamento dipenda da due fattori, da un lato il netto aumento negli ultimi lustri del numero di ragazze che accedono agli studi universitari, dall’altro l’assoluta imbattibilità della professione di docente in termini di conciliabilità lavoro-famiglia rispetto a qualsiasi altra professione. Quanto all’attrattività dell’insegnamento, mi permetto di segnalare come, dalla mia entrata in carica a oggi la situazione salariale, soprattutto al primo impiego, sia ben migliorata: i salari iniziali sono di franchi 77’000 annui lordi, per un docente di scuola elementare o di scuola dell’infanzia con refezione, e di franchi 87’000 per un docente di scuola media, tant’è che non registriamo problemi di “vocazioni”, salvo per alcune discipline specifiche alla scuola media». Il numero delle donne che studiano è aumentato molto. Dal 1980 al 2016 il tasso di maturità liceale e di commercio, nei confronti della popolazione complessiva della stessa età, è rimasto sostanzialmente invariato per gli allievi
maschi, passando dal 22 al 23,2%. Per le femmine, invece, c’è un incremento notevole, passando dal 17 al 27,3%. Le bocciature rimangono un cruccio per gli allievi liceali e per le loro famiglie. Alla fine del primo anno di liceo o di commercio viene fermato il 24% degli allievi. Un dato che non si discosta molto nel corso degli ultimi decenni. In un articolo degli anni Novanta, Franco Lepori citava un professore che così si esprimeva, nel 1964: «Attualmente il livello intellettuale, di volontà di lavoro e di coscienza professionale degli studenti dello scientifico è incredibilmente basso. Io ho classi dove su 30 allievi ci sono due allievi degni veramente della scuola superiore che frequentano; tutto il resto è una zavorra fenomenale». Gli studenti liceali erano allora 310. Il tasso di bocciatura e di abbandoni si aggirava attorno al 20%. Che dire? Selettività per dar senso ai licei? Le polemiche attorno all’apertura e alla chiusura delle scuole durante la pandemia sono significative: il dibattito sulla scuola diventa facilmente politico. Il Movimento della scuola critica il Dipartimento e chiede di ridare voce all’insegnante, che sarebbe estraniato dalle politiche scolastiche: «È mortificata la matrice intellettuale e progettuale della professione, l’insegnamento è progressivamente privato di autorevolezza e prestigio sociale, l’autonomia didattica è piegata a mera operatività». Fra i partiti di centro e di destra non mancano le critiche nei confronti di un Dipartimento che ha proposto, senza successo, una riforma sostanziale della scuola media. Nel mezzo, l’impavido Direttore del DECS, che afferma «che c’è ancora diverso lavoro da fare per rendere il nostro sistema formativo all’altezza delle sfide alle quali è confrontato». E ora, per la scuola, si aggiunge anche il rischio di essere messa sotto pressione da un invisibile virus.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 giugno 2020 • N. 25
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Idee e acquisti per la settimana
Il festival del filetto
Attualità Questa settimana diverse varietà di filetto in offerta speciale presso i banchi
macelleria Migros
Che si tratti di manzo, vitello, maiale o agnello, il filetto è senz’altro il taglio di carne più noto e pregiato per la sua indiscussa tenerezza e prelibatezza. Sono le fibre muscolari sottili a determinare la morbidezza di questa carne, che rappresenta una piccola parte della zona lombare dell’animale. Il filetto richiede tempi di cottura brevi, sia in padella che sulla griglia o in forno. La cottura ideale di manzo, vitello e agnello è al sangue, che corrisponde ad una temperatura al cuore di 55-60 gradi. Il maiale, dal canto suo, per questioni igieniche, necessita di una temperatura interna mai inferiore ai 60 gradi. Affinché la carne sviluppi pienamente il suo aroma e rimanga tenera, è importante lasciarla riposare a temperatura ambiente almeno mezz’ora prima della preparazione. In caso contrario lo choc termico provocato dalla cottura rischierebbe di far contrarre le fibre muscolari e indurire troppo la carne. Si consiglia di non eccedere con i condimenti per non compromettere il delicato aroma del taglio: anche solo un pizzico di sale grosso e qualche macinata di pepe nero
sono sufficienti. Ricordarsi sempre di rosolare prima brevemente il filetto a calore vivo da entrambi i lati, in modo da chiudere i pori ed evitare che perda i suoi succhi e diventi asciutto e stopposo. Al termine della cottura, lasciare riposare la carne avvolta in foglio di alluminio, in modo da permettere alle fibre di rilassarsi e al calore di disperdersi uniformemente, ciò che assicurerà un risultato finale ancora più tenero. Filetto di manzo TerraSuisse al banco, per 100 g Fr. 7.30* invece di 9.20 Filetto di vitello TerraSuisse al banco, per 100 g Fr. 7.20* invece di 9.– Filetto di maiale TerraSuisse al banco, per 100 g Fr. 4.95* invece di 6.20 Filetto di agnello al banco, per 100 g Fr. 4.15* invece di 5.20 Azione* 20% di sconto valida dal 16 al 22.06
Filetto di maiale con rub Ingredienti 4 persone 2 filetti di maiale di ca. 500 g ciascuno 1 cucchiaio di semi di coriandolo 1 cucchiaio di semi di finocchio 1 cucchiaino di pepe nero 1 cucchiaio di timo secco 1 cucchiaino di sale marino grosso Preparazione Estraete i filetti di maiale dal frigo ca. 1 ora prima di cuocerli e lasciateli a temperatura ambiente. Accendete il grill a 250 °C. Pestate le spezie nel mortaio ben fini oppure macinatele con un macinino. Sfregate bene la carne con
il mix di spezie e grigliate i filetti su tutti i lati per ca. 15 minuti finché la temperatura interna non avrà raggiunto 60 °C. Togliete la carne dalla griglia, avvolgetela nella carta alu e lasciate riposare per ca. 5 minuti. Spacchettate la carne e tagliatela.
Mozzarella artigianale ticinese Attualità La specialità dei Nostrani del Ticino
Meno imballaggio
Sostenibilità 50% in meno di plastica nelle
confezioni di diverse creme per il viso
per un’estate a tutto gusto
Azione 20% di sconto Mozzarella Nostrana 125 g Fr. 1.80 invece di 2.30 dal 16 al 22.6
Grazie alla sua freschezza e versatilità, la mozzarella è un piatto perfetto per la stagione calda. Quando poi è di provenienza locale, ancora meglio. La mozzarella nostrana è prodotta artigianalmente dal Caseificio Ticino di Rivera del rispetto delle tradizioni del Sud Italia, ma nel segno della regionalità. Il latte utilizzato proviene infatti al 100% da mucche allevate in modo rispettoso nel nostro Can-
tone. Appena giunto in azienda, il latte viene subito controllato per verificarne la qualità e pastorizzato. Nella successiva trasformazione il latte viene fatto coagulare. La massa così ottenuta subisce quindi il processo di filatura e mozzatura. A questo punto la mozzarella è pronta per essere imballata nella caratteristica confezione raffigurante un tipico paesaggio ticinese e fornita nel più breve tempo
possibile alla centrale di distribuzione Migros di S. Antonino. La mozzarella nostrana si distingue per il suo colore bianco lucente e il sapore dolce, delicato, che ricorda il buon latte fresco. È ideale da consumare cruda, da sola o con un filo di olio di oliva e un pizzico di origano secco. Accostandola a qualche fetta di pomodoro della nostra regione otterrete una caprese a km 0 da leccarsi le dita.
«I am», la linea Migros di prodotti per la cura quotidiana del corpo per tutte le esigenze, si è messa a dieta. Tutte le otto creme per il viso del marchio hanno ora un nuovo imballaggio: la quantità del contenuto non è cambiata, ma le confezioni sono più snelle. Tra le altre cose il coperchio risulta più piatto. Questa modifica permette di risparmiare ben la metà di materia plastica
rispetto a prima. Per il bene dell’ambiente Migros ottimizza costantemente i propri imballaggi. Interessata all’adeguamento, è per esempio la crema da giorno per il viso «I am» Q10+ anti-aging IP 15. Grazie al coenzima Q10 previene e attenua le rughe. La pelle risulta ben rassodata, idratata in profondità, migliorandone l’elasticità cutanea.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 giugno 2020 • N. 25
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Idee e acquisti per la settimana
Grande spesa, grande risparmio
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 giugno 2020 • N. 25
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Società e Territorio
«La Migros rimane unica!»
Intervista A colloquio con Ursula Nold, riconfermata nella carica di Presidente del Consiglio d’amministrazione
della Federazione delle cooperative Migros
Signora Nold, come ha vissuto personalmente il periodo di lockdown?
Come per la maggior parte delle persone, anch’io e la mia famiglia abbiamo avuto bisogno di tempo per abituarci all’improvvisa sospensione della vita pubblica. È stato complicato confrontarsi con la nuova situazione di incertezza. Di colpo, ci si è ritrovati con la scuola e il posto di lavoro a casa. Come si è organizzata in questa situazione insolita?
Abbiamo dovuto riorganizzarci per l’istruzione e il lavoro a domicilio e adattarci al fatto di stare più a lungo assieme durante la giornata. Contemporaneamente, abbiamo trascorso molto più tempo tra di noi in famiglia e l’abbiamo anche molto apprezzato. Ad esempio, abbiamo giocato di più a carte e scoperto il gioco di società Brandy Dog. E cosa ha significato il blocco per il suo lavoro alla Migros?
Sono state settimane molto intense per tutti! Migros ha dovuto chiudere tutti i negozi specializzati, i centri fitness, le scuole club, i ristoranti e i reparti non alimentari, mentre contemporaneamente la domanda di generi alimentari e dei negozi online è letteralmente esplosa. La nostra missione è stata quella di approvvigionare la popolazione svizzera con cibo e merci di prima necessità. Migliaia di nostri collaboratori si sono ritrovati senza lavoro
Nuove nomine L’assemblea dei delegati ha eletto, in una votazione tenuta per corrispondenza a causa della situazione legata alla pandemia, i nuovi membri del Consiglio di amministrazione della FMC. A far parte del gruppo di 23 dirigenti entreranno dal prossimo 1. luglio la responsabile di Microsoft Svizzera Marianne Janik, il capo delle finanze della Intersport Martin Künzi, Christoph Tonini, che dal 30 giugno lascerà il suo ruolo di CEO del TX-Group, Hubert Weber, ex capo della Mondelez Europe e Cornelia Ritz Bossicard, fondatrice dell’Agenzia nel settore della Corporate Governance 2bridge AG. Nel corso dell’assemblea, tenuta in forma telematica, sono stati inoltre approvati la relazione annuale e il conto annuale 2019 della Federazione delle cooperative Migros.
dalla sera alla mattina, mentre molti altri hanno dovuto fornire una mole di prestazioni straordinaria. Mi riferisco soprattutto ai collaboratori impiegati sul fronte delle vendite, nelle industrie, nella logistica o negli studi medici di Medbase. Queste sfide caratterizzavano il mio lavoro quotidiano ed erano il tema di ogni incontro e riunione. Naturalmente, al contempo proseguiva anche il lavoro strategico. Questa crisi ha messo a soqquadro molte cose. La Migros ha reagito adeguatamente?
Sì, la dirigenza e i collaboratori hanno fornito un buon lavoro durante la crisi. Ne vado molto fiera. Mi ha colpito pure la grande solidarietà. In poco tempo, siamo stati capaci di trovare delle soluzioni concordate, ad esempio per i nostri affittuari o per premiare quei collaboratori cui è stato richiesto un impegno particolare.
Migros è un grande gruppo imprenditoriale. Come avete fatto a reagire con sufficiente rapidità?
La reazione è stata molto rapida ed efficiente, come ad esempio dimostra la riattivazione in brevissimo tempo di «Amigos», il nostro programma di aiuto al vicinato in collaborazione con Pro Senectute. Ho potuto constatarlo personalmente quando, durante i giorni di Pasqua, ho consegnato io stessa tre ordini a persone del gruppo a rischio. Ha reagito rapidamente anche LeShop, allestendo in poche settimane due magazzini supplementare per le merci da consegnare. Contemporaneamente, i collaboratori dei negozi specializzati o della gastronomia Migros sono stati trasferiti rapidamente e senza complicazioni ad altri compiti in altri reparti. Per questa flessibilità e per l’enorme impegno dimostrato ringrazio di cuore tutti i collaboratori.
Cos’altro l’ha colpita?
In primo luogo che le nostre aziende industriali abbiano reagito all’accresciuta domanda in modo straordinariamente flessibile. È stato un grosso vantaggio. Ad esempio, in poco tempo siamo riusciti ad aumentare considerevolmente la produzione di pasta o a fabbricare in proprio le sostanze disinfettanti. Mi ha colpito anche la grande comprensione e la pazienza dimostrata dai nostri clienti se uno scaffale era temporaneamente vuoto a causa della grande richiesta, se a volte dovevano attendere a lungo per una consegna online o se dovevano mettersi in coda davanti alle filiali. Grazie alla buona collaborazione di tutti siamo riusciti ad adempiere con successo al nostro
Nata nel 1969, è la prima donna ai vertici della FCM. È membro del Consiglio di amministrazione di diverse aziende e docente alla Scuola Superiore di Pedagogia di Berna.
mandato di approvvigionamento e alla responsabilità nei confronti dei collaboratori, dei partner commerciali e della popolazione. Com’è cambiata la Migros durante la crisi?
Durante questa crisi, che non è ancora finita, abbiamo fatto esperienze importanti. Tuttavia, le conseguenze a lungo termine e il loro significato per la Migros non sono ancora valutabili con precisione. Quello che però possiamo dire sin d’ora è che il commercio online crescerà notevolmente e in modo stabile. In questo periodo molte persone hanno scoperto quanto è comodo fare la spesa su Internet e non si lasceranno più scappare questa opportunità. Ciò avrà ripercussioni durature anche sulla Migros e accelererà ulteriormente il passaggio dal commercio statico a quello online. E dimostra che con i nostri investimenti nel commercio online avevamo ragione. In quali settori la Migros continua ad avere difficoltà?
Al momento gli affari della nostra compagnia di viaggi Hotelplan sono
praticamente crollati e purtroppo non si riprenderanno tanto presto. Anche il settore gastronomico si sta riprendendo solo lentamente. Sono però fiduciosa per il Gruppo Migros nel suo complesso. La crisi dimostra anche che abbiamo preso le decisioni strategiche giuste concentrandoci sulle nostre attività principali. Ma è sufficiente?
Migros svolge un ruolo trainante per l’approvvigionamento di base della popolazione non solo durante la crisi, ma in generale, e quindi ogni giorno, perché è sempre presente laddove è importante per i nostri clienti. Questi ne traggono vantaggio se la Migros si impegna per una maggiore sostenibilità, se rafforza le sue attività online e convenience store o se continua ad ampliare l’offerta nel settore della salute. E il tutto sempre con l’obiettivo di offrire prodotti e prestazioni di buona qualità a prezzi abbordabili.
All’inizio di giugno, lei è stata rieletta per un nuovo mandato come presidente del Consiglio d’amministrazione della Federazione delle coopera-
tive Migros. Quali obiettivi si è posta per la Migros nei prossimi anni?
Oltre all’ulteriore espansione nel settore della salute e del commercio online, ci siamo posti l’obiettivo di rendere ancor più attrattivi gli allestimenti nei nostri negozi e di conseguenza di migliorare continuamente l’esperienza di fare acquisti. Per me personalmente è molto importante poter proporre alla nostra clientela servizi e prodotti di buona qualità a prezzi accessibili.
E il suo obiettivo tutto personale per la Migros?
Il Gruppo Migros è ben attrezzato per le sfide che verranno e poggia su basi solide. Il mio principale obiettivo è di guidare con coraggio e convinzione la trasformazione già avviata, al fine di garantire il successo e lo splendore della nostra azienda anche in futuro. La Migros resta unica e continuerà ad essere fortemente coinvolta nella società grazie alla sua natura solidale di cooperativa. * Redattore di Migros Magazin
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Società e Territorio
Tutto è iniziato a Carnevale
Donne, emergenza e ripartenza In casa Le riflessioni nate durante
Libri La quarantena italiana vista dalla cucina dello scrittore
la pandemia ora guardano al futuro
e saggista Francesco M. Cataluccio
Silvia Vegetti Finzi «A volte sogno che questo incubo sia un sogno che sto sognando», inizia così il libro di Francesco Matteo Cataluccio scritto durante l’isolamento forzato nella cucina della sua casa milanese dove è stato relegato col compito di preparare i pasti. Tutto è cominciato durante il periodo del Carnevale che a Milano, ricorda l’autore, termina quattro giorni dopo che nel resto del mondo, è il Carnevale che sopravvive anche da noi a Tesserete: «nel IV sec. D.C. la città era stata decimata dalla peste: la popolazione posta in quarantena; chiuse le vie d’accesso e limitati gli scambi commerciali; le scorte alimentari razionate. Il vescovo Ambrogio, per evitare altre sofferenze alla sua gente (il digiuno e la penitenza subito dopo la fame e la malattia) ottenne dal Papa una dispensa speciale perpetua: la possibilità, per la sola diocesi di Milano, di festeggiare il Carnevale fino al sabato precedente la prima domenica di Quaresima». È nato così il Carnevale ambrosiano, dal connubio tra contagio e festa. Torna nel 2020 questo connubio, nel giro di pochi giorni si è passati dalle maschere colorate a quelle chirurgiche, dalle risa per le strade ai pianti nelle corsie d’ospedale. Un mondo sottosopra ma per nulla divertente. L’epidemia è iniziata, tutti chiusi in casa, il tempo si dilata, i pensieri vagano, i suoi l’autore li ferma sulla carta e sono un flusso di ricordi personali
Sulla copertina un disegno di F. Kafka.
e rimandi letterari che si intrecciano con la cronaca quotidiana. Cataluccio, che ha studiato tra Firenze e Varsavia, racconta che la prima volta che provò paura della «morte invisibile» fu nel 1986 quando si ritrovò vicino alla zona di Chernobyl: allora le radiazioni oggi un virus. Spesso divaga tra le memorie di gioventù, le lunghe convalescenze da diverse malattie che lo afflissero durante l’infanzia e l’adolescenza gli permisero di scoprire la lettura e che «ci sono
dei libri che possono essere veramente letti e gustati soltanto se si ha un lungo tempo a disposizione, senza eccessive interruzioni… I grandi russi dell’Ottocento hanno avuto bisogno di diverse bronchiti per essere letti e assimilati». Difficile nel breve spazio di un articolo ripercorrere la ricchezza di riferimenti e ricordi che emergono man mano nelle pagine. L’arte, la letteratura, le esperienze di vita, le relazioni personali, le osservazioni sulla società, la scuola, la storia arricchiscono questa riflessione sull’Italia nel periodo della pandemia. La grande sofferenza, la morte e la malattia sono lo sfondo ineluttabile, ma lo sguardo spesso si fa ironico e autoironico («come sempre accade nei periodi più bui della storia dell’umanità, la migliore difesa e salvezza è l’ironia e soprattutto l’autoironia. Ci sarebbe da ridere se non fosse per le migliaia di morti, i malati, il buio dolore e la crescente ansia che si diffondono a macchia d’olio»), senza la pretesa di predire cosa e come sarà il futuro, se saremo migliori o peggiori perché «è davvero troppo presto, e persino inopportuno, ragionare su cosa accadrà dopo». / BM Bibliografia
Francesco M. Cataluccio, In occasione dell’epidemia, Edizioni Casagrande, 2020 (disponibile anche in ebook).
Durante l’emergenza Covid-19 alle donne non sono mancati meritati elogi e riconoscimenti. Ma, visto che non si può vivere di rendita, dobbiamo chiederci se risulteranno altrettanto apprezzabili nella fase due, dove si tratta di riprendere il cammino mostrando, non tanto capacità di resistenza, quanto di resilienza. Molti ne sono già convinti ma per non cadere nello stereotipo dell’ideale femminile, dovremo chiederci perché e mostrare le credenziali. Innanzitutto prendiamo atto che durante la pandemia i Paesi guidati da donne hanno conseguito risultati migliori degli altri: alla fine di maggio la Nuova Zelanda di Jacinta Arden contava 4 morti per milione di abitanti. La Danimarca di Mette Fredrickson 97, la Germania di Angela Merkel 100, mentre sono stati 408 in Svezia, 545 in Italia, 545 in Inghilterra. Evidentemente un governo al femminile ha gestito meglio l’emergenza. Forse perché più disponibili ad ascoltare i suggerimenti e più disposte ad affrontare i rischi. Ma questi comportamenti non sono ancora in grado di dirci perché. Ci aiutano allora le ricerche che si tengono da anni per convincere le aziende che accrescere la presenza femminile nei posti di responsabilità e di comando comporta notevoli vantaggi. Mai come in questi mesi la vita è entrata nel lavoro e viceversa produ-
cendo competenze da valorizzare reciprocamente. Purtroppo cura e lavoro entrano sovente in conflitto e spetta per lo più alle donne, in particolare alle madri, compiere una difficile scelta rinunciando alla piena realizzazione di sé. Una perdita che colpisce anche il mondo del lavoro perché la maternità, palestra di vita, costituisce un vero e proprio Master. Nessuno come la madre si fa carico di una persona globalmente e così a lungo. Crescere un figlio richiede empatia, dedizione e capacità di organizzazione e infine, per rinunciare a un legame possessivo, senso del limite e della responsabilità. Doti essenziali per il versante «risorse umane» delle imprese da quando le comunicazioni contano più della merce. Come ha dimostrato l’eroismo del personale sanitario che si è preso cura dei malati di Covid-19, maschi e femmine sono entrambi disposti, quando riconoscono il valore della causa, a sacrificare la propria vita, ma le motivazioni sono diverse. Mentre gli uomini agiscono per senso del dovere, le donne si sacrificano per amore, un sentimento meno astratto, più vicino al corpo del morente, più capace di cogliere le sue richieste di conforto e di aiuto. L’importante è riconoscere la complementarietà delle disposizioni e delle competenze e cercare di equilibrare i piatti della bilancia perché il loro scompenso si ripercuote sull’efficienza e l’armonia di tutta la società. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Innovazione pubblica
Incontri Da alcuni anni a Berna un giovane team s’impegna per promuovere l’innovazione nel settore pubblico.
Danny Bürkli ci spiega il successo dei progetti dello Staatslabor, sostenuto anche da Engagement Migros Stefano Castelanelli La Bialetti sbuffa dolcemente mentre il piacevole odore di caffè si diffonde nell’appartamento. Danny Bürkli afferra la caffettiera e versa un sorso del liquido caldo e scuro in una tazza. Si dirige in salotto con la tazza fumante in mano e dopo aver dato un rapido sguardo alle ultime notizie su Twitter, si siede alla scrivania e accende il computer. Inizia così una nuova giornata di lavoro. «Divido il tempo tra i compiti di gestione dell’associazione e il lavoro concreto nei progetti in corso – racconta Bürkli. – Attualmente sono molto impegnato nel gestire il punto di contatto Covid-19». Bürkli da aprile è co-direttore dello Staatslabor. A causa della pandemia lavora da casa, dal suo appartamento di Zurigo. Altrimenti sarebbe a Berna nella sede dell’Impact Hub, lo spazio coworking situato nella città vecchia e punto d’incontro per creativi e imprenditori. Assieme alla co-direttrice Alenka Bonnard e altri quattro colleghi, Bürkli s’impegna a promuovere l’innovazione nell’amministrazione pubblica. Innovazione nel pubblico, ma non è una contraddizione? Apparentemente no. Come sottolinea il rapporto del 2017 delle Nazioni Unite «Innovation in the public sector», il settore pubblico ricopre un ruolo centrale nella nostra società e, analogamente al settore privato, può innovare per migliorare i servizi offerti ai cittadini, ridurre i costi e promuovere la crescita economica. Ma come si può favorire l’innovazione nel settore pubblico? «Lo Staatslabor è attivo su tre fronti – spiega Bürkli. – Innanzitutto, mettiamo in contatto i vari dipendenti statali tra di loro e con esperti esterni». Un esempio è la Staatskantine, la serata a tema gratuita e aperta a tutti con cadenza mensile, dove un referente esterno viene invitato a parlare su un tema legato all’innovazione. «Il secondo aspetto è che vogliamo essere fonte d’ispirazione proponendo modelli di successo svizzeri o esteri». Per favorire il cambiamento però, a volte, più delle parole sono necessari i fatti. Per questo motivo lo Staatslabor lavora anche a stretto contatto con gli enti pubblici per testare sul campo nuove innovative soluzioni. «Lavoriamo assieme all’amministrazione pubblica a tutti i livelli – Confederazione, Cantoni e Comuni
Da sinistra a destra: Maximilian Stern, Danny Bürkli, Alenka Bonnard, Nicola Forster.
– per sviluppare e testare nuovi approcci innovativi» dice Bürkli. Ma di che tipo di progetti si tratta? «Abbiamo svolto progetti molto diversi tra loro – racconta Bürkli. – che variano dalla strategia alla pratica. Abbiamo ad esempio supportato la Biblioteca Nazionale Svizzera nello sviluppo di una nuova strategia, ma anche svolto una valutazione per la città di Berna del nuovo sistema di riciclaggio, in cui siamo andati a casa delle persone a raccogliere il loro feedback sull’utilizzo dei nuovi sacchi colorati». Bürkli ci tiene a presentare in particolare un progetto. «Lo Staatsbox è una scatola che contiene le istruzioni per trasformare un’idea in una nuova soluzione funzionale. Nello Staatsbox viene descritto un metodo, che guida i dipendenti statali passo a passo a sviluppare e testare prototipi di un’idea. Incluso nel pacchetto si riceve anche un coach che segue tutto il processo». Lo Staatsbox è stato sviluppato in collaborazione con un gruppo di dipendenti statali e messo alla prova durante un periodo di tre mesi in un progetto con la città di Zurigo. «Il pro-
gramma è aperto a tutti gli impiegati statali e inizierà ufficialmente in settembre – dice Bürkli. – L’iscrizione è online sul nostro sito». Lo Staatslabor s’impegna anche a supportare nuove innovative soluzioni per combattere la pandemia. «In aprile abbiamo creato il Punto di contatto Società Civile Covid-19 – racconta Bürkli. – Ogni organizzazione o gruppo, che ha sviluppato un progetto per contrastare la pandemia, e necessita il sostegno della Confederazione, può annunciarsi senza impegno presso il Punto di contatto e noi lo metteremo in contatto con l’ufficio responsabile». Lo Staatslabor è un’associazione senza scopo di lucro. Si finanzia tramite i progetti e fondi terzi, come ad esempio Engagement Migros, il fondo di sostegno del gruppo Migros per progetti pionieristici. «Col tempo ci siamo fatti conoscere e adesso le richieste da parte dell’amministrazione pubblica non mancano – dice Bürkli. – Non tutte le richieste finiscono in un progetto. Spesso mettiamo semplicemente in contatto gli impiegati statali con gli esperti in Svizzera o all’estero. Quando però arriva
qualcosa di nuovo e innovativo, allora lanciamo un nostro progetto». La risonanza è grande in particolare nella Svizzera interna e in Romandia. «In Ticino abbiamo organizzato solo un workshop a Mendrisio sull’innovazione nelle biblioteche pubbliche – racconta Bürkli. – Ma ci piacerebbe essere più attivi. Per questo siamo anche in contatto con i fondatori dell’Impact Hub Ticino». Ma com’è nata l’idea? «Per noi quattro fondatori è fondamentale, che l’amministrazione pubblica abbia uno spirito innovativo – racconta Bürkli. – Eravamo a conoscenza di laboratori d’innovazione pubblica in altri paesi. Quando ci siamo accorti che in Svizzera non esisteva niente di simile abbiamo lanciato il nostro progetto». Tutto ebbe inizio con degli incontri informali. «All’inizio abbiamo organizzato dei meet-ups aperti a tutti – racconta Bürkli – ma ci siamo accorti in fretta che l’interesse era grande. Ci sono molti impiegati statali in Svizzera che desiderano un’amministrazione pubblica innovativa e vicina alla popolazione. Noi li abbiamo semplicemente riuniti sotto lo
stesso tetto». All’inizio hanno però dovuto lottare per superare un certo scetticismo. «Abbiamo dovuto far conoscere il tema dell’innovazione nel settore pubblico – dice Bürkli. – All’inizio le persone non capivano. Ci chiedevano ad esempio se l’innovazione pubblica fosse possibile». Nel frattempo, il concetto è noto ai più e si sta muovendo qualcosa. Proprio a metà maggio è stato inoltrato un postulato a Berna che chiede la creazione di un centro per l’innovazione nella Confederazione (Public Innovation Hub). Il lavoro presso lo Staatslabor è però solo agli inizi. «Abbiamo appena iniziato – dice Bürkli. – e abbiamo ancora tante idee». Cosa ci riserverà il futuro? «Spero – conclude Bürkli – che tra 5, 10 o 15 anni lo Staatslabor nella sua forma attuale non sia più necessario perché l’innovazione sarà la norma anche nel settore pubblico». Ce lo auguriamo tutti in fondo. L’innovazione non è solo importante in ambito aziendale. Anche altri settori possono usufruirne, come l’amministrazione pubblica ad esempio, che ricopre un ruolo così importante nella nostra società.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Louise O’Neill, Il silenzio dell’acqua, Edizioni Il Castoro, collana Hot Spot. Da 14 anni Sempre con un’accesa e apprezzabile (al netto di qualche venatura rivendicativa) impostazione femminista, la scrittrice irlandese Louise O’Neill, dopo Solo per sempre tua e Te la sei cercata, giunge con questo suo terzo romanzo a riscrivere la storia della Sirenetta in modo avvincente. E quello che crea nella sua versione, peraltro negli snodi principali molto fedele alle vicende narrate da Andersen, è un quadro complessivo non certo a tinte acquarellate, ma proprio a forti tinte. Il titolo, in originale The Surface Breaks, diventa in italiano Il silenzio dell’acqua. Se in inglese l’accento era messo forse sul rompere lo strato di superficie (dell’acqua, ma anche delle apparenze), andando più a fondo e mettendo a nudo ipocrisie, prevaricazioni e violenze di una società maschilista, sott’acqua come sopra, in italiano l’accento è sul tema del «silenzio», del tragico silenzio a cui è condannata la giovane sirena mutilata della voce. La voce, che connota ognuno di noi nella propria impalpabile unicità, diviene qui, come del
resto già nella storia originale, metafora della possibilità stessa di esistere, di esprimere autonomamente il proprio sé nel mondo. Che sia il mondo degli abissi o il mondo della terraferma, e che questo mondo della terraferma sia il mondo odierno, senza principi ma con rampolli della società industriale – i quali non hanno vascelli, ma yacht di lusso su cui fare feste molto alcoliche con i coetanei – non cambia ahimé poi molto. Ovunque, la sirenetta troverà arroganza maschile. E ovunque troverà creature femminili (con code di squame o con gambe) annullate, sacrificate,
oppure indurite dal dolore e dal rancore. Tanto che persino quelle apparentemente più «cattive», come la Strega del Mare o, sulla terraferma, la potenziale e mancata suocera (donna in carriera, a capo dell’azienda di famiglia), riveleranno molte ferite sotto la loro durezza, e insospettabili lati di sorellanza. Un romanzo che ricorda alle ragazze la loro forza: «non permettete mai a nessuno di farvelo dimenticare». Mal Peet, Il nostro albero. Illustrazioni di Emma Shoard, Edizioni uovonero. Da 12 anni Le case sull’albero (e gli alberi in quanto tali) sono per l’infanzia meravigliosi luoghi dell’altrove, come i giardini segreti e le isole misteriose. Per l’infanzia, appunto, ma non per l’età adulta. Se a isolarsi su una casa sull’albero è un padre (con la barba incolta, il viso stanco e qualche bottiglia di vino di troppo), ecco insorgere qualcosa di perturbante. Di fuori luogo, letteralmente. È un accorato e sobrio racconto su questo «spaesamento» familiare, visto dalla prospettiva del figlio, ma in flashback, dal figlio ormai adulto che torna a vedere il luogo dove ha trascorso un
anno della sua infanzia. Doveva essere, quell’anno, l’inizio di una nuova vita in una casa con un grande faggio nel giardino. Benjamin ricorda il giorno del trasloco, carico di aspettative, con la mamma che organizza la sistemazione delle cose e il papà che si incanta a guardare l’albero. È chiaro che sarà la dimensione fantastica del padre, artefice di una meravigliosa casa tra i rami, denominata Il Nido, ad affascinare il bambino: insieme, padre e figlio trascorreranno tanti momenti lassù, mentre la madre si farà carico di incombenze forse più ordinarie, ma fon-
damentali per non andare alla deriva. Perché è proprio alla deriva che sembrerà, da un certo punto in poi, avviarsi il padre, «ritiratosi» dal mondo. Depresso, verrebbe da dire, ma il raffinato scrittore inglese Mal Peet (1947-2015) si tiene sempre, sapientemente, al di qua dell’interpretazione, preferendo invece fornirci, in tutto il suo dolente nitore, la percezione del bambino, che assiste impotente all’annullarsi del padre e alla separazione dei genitori. Eppure questo padre, oltre alla rabbia, gli ha lasciato anche dei ricordi luminosi, rievocati con vividezza ad esempio nei titoli dei due romanzi che gli ha letto nel Nido (non a caso Il vento tra i salici e Il giardino di mezzanotte, capolavori della letteratura inglese per ragazzi). Ricordi che Benjamin, ora che è tornato a rivedere quell’albero, dai cui rami pende, come «un relitto», ciò che resta del Nido, può finalmente rielaborare. Il valore di questo libro è dovuto, oltre che alla traduzione di Sante Bandirali, alle importanti illustrazioni di Emma Shoard, già apprezzata per aver illustrato, nella stessa collana di uovonero, Il pavee e la ragazza, su un testo di Siobhan Dowd.
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi La bandiera che cadde dal cielo «Siamo profondamente turbati e profondamente preoccupati quando udiamo che i selvaggi Estoni ed altri pagani di quelle regioni ostacolano e combattono i fedeli di Dio, combattono la virtù del nome cristiano… (vi esortiamo pertanto) a cingervi delle armi celesti e della forza dell’Apostolica esortazione per difendere la verità della fede cristiana ed espanderla con la forza». Così Papa Alessandro III nella bolla Non parum animus noster («Il nostro animo non è tranquillo») del 1171 o 1172. Seguiva una meticolosa e generosa lista di indulgenze ed altre franchigie spirituali: coloro che avessero partecipato alla disfatta dei pagani e fossero caduti nell’intento avrebbero goduto della remissione dei peccati allo stesso modo di coloro che si fossero recati in pellegrinaggio al Santo Sepolcro. Il XII secolo segnò un punto di svolta nelle politiche ecclesiastiche di conversione delle ultime sacche pagane d’Europa e – più in generale – di quanto fosse rimasto dell’eredità precristiana nelle credenze e nelle pratiche delle classi
subalterne e periferiche ad un cristianesimo diffuso soprattutto nelle città e fra le classi urbane: «pagano» era colui che viveva nel pagus, sinonimo di arretratezza ed oscurantismo. Prendiamo il caso classico delle credenze nella stregoneria. Per dodici buoni secoli la Chiesa aveva perseguito le credenze nell’esistenza delle streghe e dei loro poteri con mano leggera. Considerate superstizioni pagane e relitti di una fase delle pratiche religiose nelle quali prevalevano ignoranza e credulità venivano punite in confessionale con penitenze leggere e ridicolizzate nei Penitenziali vescovili. Quel tipo di atteggiamento sostanzialmente «razionalista» cominciò a cambiare con la constatazione che, in dodici secoli di tentativi, pratiche e credenze «pagane» erano ancora profondamente radicate fra il popolo. Sotto pressione da parte delle autorità civili, specie in area tedesca, preoccupate dal montare di accuse di stregoneria che portavano disturbo alle quiete civica, le autorità ecclesiastiche cominciarono a cedere. Ancora nel 1258 l’intervento papale
riuscì ad arginare l’ondata di caccia alle streghe montante limitando l’intervento inquisitoriale ai soli casi nei quali vi fosse un ragionevole sospetto che, dietro alle pratiche stregonesche si nascondessero ben più sostanziali dottrine eretiche, ma i tempi erano maturati per cui ogni opposizione all’ortodossia dominante venisse contrastata non più con l’arma della persuasione ma a fil di condanne al rogo dopo che, altrove, la spada aveva già inaugurato la nuova era. Raccolto l’invito del Papa al balzo, Re Valdemaro II di Danimarca guidò la prima delle cosiddette Crociate della Livonia fra il 1198 ed il 1212. La Livonia comprendeva grossomodo quelli che ora sono i territori delle Repubbliche Baltiche, genti periferiche dimenticate dalla storia mai fino ad allora convertitesi al cristianesimo globalizzante. L’obiettivo della coalizione che Valdemaro guidava a capo di un’alleanza di principati germanici era di estendere i fino ad allora limitati confini del regno col sostegno delle potenti classi mercantili tedesche interessate ad aprirsi un corridoio com-
merciale verso la Finlandia e – soprattutto – verso la sconfinata Russia. Gli Estoni che si opponevano a Valdemaro non erano militarmente all’altezza di opporsi alla cavalleria Danese ed all’Ordine Monastico-Militare dei Cavalieri Teutonici. Da tempi immemorabili gli underdogs d’Europa, primitivi eredi delle popolazioni indigene d’Europa prima dell’arrivo degli aggressivi Indoeuropei che avevano colpito Plinio, lo storico romano, per aver come unico animale domestico il cane – che mangiavano – gli Estoni sapevano di essere arrivati alla fine. Cosa mai potevano contro un esercito venuto via mare a bordo di millecinquecento navi? Tentarono fino alla fine di guadagnare tempo fingendo di negoziare. Poi, rassegnati, decisero che la miglior difesa sarebbe stato l’attacco di sorpresa: forse gli dei avrebbero aiutato. È la sera del 15 giugno 1219. Il lungo crepuscolo nordico che precede il solstizio estivo rilassa i crociati attorno ai fuochi all’interno del castrum costruito a difesa contro un peraltro improbabile attacco degli Estoni. Si canta, si balla,
si beve. D’un tratto è il caos: il nemico scavalca le staccionate da cinque diverse direzioni. Si cercano le armi, si inciampa nei fuochi, ci si calpesta nel tentativo di mettersi in salvo… i cavalli strappano le pastoie… terrore, confusione… L’unico a mantenere il controllo è l’Arcivescovo di Lund, Anders Sunesen: alza le mani al cielo e comincia a pregare. Come un vessillo, le sue mani alzate fungono da catalizzatore della resistenza e chi può accorre a tenergliele alzate. Ma presto il vecchio vescovo è esausto: alla vista della carneficina che lo circonda gli cadono sì le braccia, ma non crolla la fede. Fu allora – così si racconta – che una bandiera rossa con croce bianca ad inquartarla cadde dal cielo. Subito issata dai crociati rovesciò le sorti della battaglia. Era la Dannebrog, il vessillo che ancor oggi denota la nazione Danese. I Danesi chiamano il luogo della vittoriosa battaglia fatale Lyndanisse. Gli Estoni, che la spiavano meravigliati dai boschi alla vigilia del massacro, la chiamavano Taani-linn, «la città dei Danesi». Oggi Tallinn, capitale dell’Estonia.
Cara Paola, come avrà capito sono una «non credente» ed è come tale che sono stata invitata anni fa a parlare alla «Cattedra dei non credenti» istituita a Milano dal Cardinal Martini per rappresentare coloro che definiva «i cercanti». Istruita sin da piccola nella pratica della religione cattolica, conservo in me memoria della devozione infantile: il segno della croce, le mani giunte, la sequenza delle prime preghiere. Come racconto nel libro Una bambina senza stella, quei riti della sera non prevedevano destinatari perché il mio cielo era vuoto, esprimevano piuttosto la consapevolezza del buio che ci circonda e l’accettazione dell’ignoto che incombe. Questa era ed è rimasta la mia «fede»: il riconoscimento dell’umana solitudine, il bisogno di dare e ricevere amore, la capacità di resistere alla disperazione chiamando a raccolta le proprie, più profonde risorse. Mentre il mio sentimento religioso è
fatto di assenza, il suo, cara Paola, è colmo di una presenza forte, immanente, un bene personificato che conforta e sostiene in ogni momento della vita. Forse, azzardando una interpretazione psicoanalitica, suo padre è stato per lei una figura importante e benefica, capace di infondere sicurezza e speranza e ora, nell’emergenza indotta da una terribile pandemia, si ripresenta come una presenza rassicurante e protettiva. Ciò non nega l’esistenza di Dio, ne descrive semplicemente una modalità di esperienza. In un periodo storico contraddistinto dalla paura, lei testimonia che la fede suscita sentimenti di serenità e di pace che rendono bella la vita. Un invito che non può essere trascurato. Impossibile però credere usando la ragione: la fede non si può pretendere ma solo attendere. Purtroppo la capacità di attendere è stata cancellata dall’impazienza e dalla fretta indotte dall’economia del pro-
fitto e dalla società dei consumi dove, secondo Bauman la parola «attesa» suona come una parolaccia. Tuttavia la fede, come la felicità, si può propiziare ricavando, nell’incalzare ossessivo delle scadenze e degli impegni, spazi di silenzio e di vuoto. Chi ascolta se stesso è capace di ascoltare gli altri, di comprendere i loro bisogni, di condividere le loro sofferenze. È significativo infine che le Virtù teologali siano tre: Fede, Speranza e Carità. Considero l’ultima la più significativa in quanto, realizzando sulla terra le promesse dell’amore di Dio, conferisce alle prime senso e valore.
che la politica, giustamente o ingiustamente sotto tiro, non è più sinonimo di un’autorevolezza da rispettare, bensì di un autoritarismo da contestare. Si moltiplicano motivi e pretesti che inducono a praticare lo sport della critica. Tanto da giustificare qualche perplessità. Proteste, cortei, fischi, referendum a iosa, per altro legittimi, giovano o danneggiano la democrazia? Münkler poneva un interrogativo imbarazzante: stai dalla parte del sì o del no? Una precisazione è d’obbligo. Ho citato un articolo che risale al 14 giugno 2018. L’ho ripescato fra i ritagli del mio piccolo archivio che raccoglie commenti d’attualità meritevoli di conservazione. In questo caso più che mai. A distanza di due anni, quel pezzo sembra scritto oggi. L’infausta stagione della pandemia riconferma proprio come una crisi, questa volta anche sanitaria, alimenti malumori, diffidenze, persino astio nei confronti dell’élite che, per le circostanze, si è allargata. Comprende i politici, gli
organi di polizia, gli addetti all’informazione, in particolare la RSI, i medici con funzioni burocratiche e via enumerando persone costrette a gestire una situazione insolita, persino irreale. Certo, ne hanno ricavato notorietà, pagandola però a caro prezzo. Chi, prima di marzo, conosceva la faccia del medico cantonale Merlani, del suo omologo federale Koch o del capo della polizia ticinese Cocchi? Evidentemente, alle prese con l’ingrato compito di imporre divieti, limitazioni, addirittura sgarri anticostituzionali, tipo segregazione domestica per anziani, distanziamento fra persone, frontiere chiuse, il rischio di sbagliare, di contraddirsi, di offendere era alto. E, infatti, le cadute di stile, di tatto, di linguaggio non sono mancate. C’era, e continua a esserci, un abbondante materiale a disposizione dei critici, categoria a sua volta diversificata. C’è il critico occasionale che reagisce in un preciso momento. Mentre quello abituale lo fa per abitudine, per piacere, da professionista del genere. E se, adesso,
dice peste e corna dei politici, impantanati nel caos Coronavirus, prima dirigeva il suo malcontento alle FFS, al vescovo, alla massoneria, al LAC, alla scuola, al futuro stadio a Lugano: in pratica a tutto e a tutti, confusamente. In fondo, incontrandolo al bar o leggendone l’ennesimo sfogo su un quotidiano, il bastian contrario riesce persino divertente. Sempre che la tendenza al no non precipiti nel negazionismo e nel complottismo. Pur di rifiutare la scienza ufficiale, si arriva a sostenere che la terra è piatta. E si scende in piazza, a Milano, per ribadirlo. Casi estremi a parte, il piacere per la critica è sempre vivo e vegeto, anzi rinvigorito dalla prova COVID. Dopo la clausura, durante la mia prima uscita in centro città, ritrovando amici e conoscenti ho raccolto un’infilata di critiche e lamentele sull’operato di politici, poliziotti, autorità sanitarie, commentatori mediatici. La testimonianza, insomma, di un reale ritorno alla normalità.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Il sentimento religioso Gentile Silvia, ogni tanto mi soffermo a leggere le condivisioni che le persone le fanno, leggo le preoccupazioni, le paure le domande senza risposte, ecc... ammiro la sua professionalità e gentilezza nel dare le risposte, il suo cuore per infondere coraggio e dare consigli! Io sono una donna sposata felicemente da quasi 30 anni, con due figli maschi ormai adulti; ho affrontato anch’io come tutti tensioni e conflitti, preoccupazioni e paure, poi un giorno lungo il mio cammino ho incontrato un vero gentleman (se così posso dire), parlavo e mi ascoltava sempre con interesse, piangevo e asciugava le mie lacrime, lottavo e lui era al mio fianco, avevo paura e lui mi consolava, ero preoccupata e lui mi incoraggiava a non mollare, non parlo di una persona qualsiasi; ma di Dio! Quel Dio che spesso viene beffeggiato, incolpato, deriso; che ama le persone di un amore sincero, che ha
sempre dato consigli per vivere una vita piena di pace e gioia. E l’uomo cosa ha fatto? L’ha chiuso fuori dalla porta dicendo che poteva fare senza di lui! Dicono che chi ha fede riesce ad affrontare la vita con più serenità. In tempi come questi penso sia importante e incoraggiante sapere di non essere soli ad affrontare i problemi e le tensioni che giornalmente ci circondano. La mia riflessione desidera solo essere un incoraggiamento a cercare le soluzioni al cospetto di Dio; con la garanzia di essere ascoltati e accettati; al di là di ogni credo o pregiudizio! Questo non significa che condividere con lei problemi e riflessioni non serva; al contrario è molto edificante sapere che qualcuno ti ascolta e ti incoraggia! Ma comunque dove non può arrivare lei ecco che arriva Dio! Auguro a lei Silvia ogni bene e Dio la benedica! Cordiali Saluti! / Paola
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio La tentazione del no Criticare le élite: nuovo sport popolare. Sembra quasi uno slogan. L’azzeccata definizione di un fenomeno, sempre più diffuso, spetta al politologo tedesco Herfried Münkler, docente universitario a Berlino e a Lucerna, saggista e, non da ultimo, giornalista. In un articolo sulla «NZZ», intitolato appunto Quelli in alto sono colpevoli! (Die oben sind schuldig!), analizzava con conoscenza di causa, ma senza pontificare, un tipico aspetto della
Herfried Münkler. (Wikipedia)
società contemporanea. Dove i detentori del potere, politico, economico o giudiziario che sia, si trovano ad affrontare, non tanto l’opposizione degli avversari nei parlamenti quanto i malumori delle piazze. E, precisava poi l’autore, questa tendenza al risentimento reso pubblico si accentua nei periodi di crisi. Più crescono le difficoltà e più cresce il discredito che circonda quelli in alto, accusati di difendere i loro privilegi, le proverbiali poltrone o cadreghe, a discapito del benessere dei cittadini. D’altro canto, mentre l’élite ufficiale perde consensi e simpatie, ne conquista una nuova élite: quella dei campioni sportivi, dei divi dello spettacolo, dei personaggi promossi da tv e social. Si tratta di ambiti, per forza di cose, non paragonabili. Da un lato, i responsabili di scelte ardue, che a volte appaiono punitive, tipo imposte, tariffe ferroviarie, accordi Schengen, ecc. Dall’altro i responsabili del tempo libero, che propongono svaghi, salute e cultura, cioè il bello della vita. Fatto sta
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Ambiente e Benessere Il viaggio lento a piedi Non si cammina solo per ammirare la natura o riscoprirsi novelli pellegrini
La «viticoltura eroica» valdostana L’uomo ha plasmato il territorio della Valle d’Aosta con enorme fatica; i risultati si vedono e si sentono al palato dalla degustazione dei suoi vini pagina 16
La bontà dei fichi Oltre che freschi si possono gustare secchi, per cui sono disponibili tutto l’anno e si prestano per molte preparazioni
Nasi da Coronavirus Un utile progetto londinese mette alla prova l’olfatto dei cani… anche in Ticino
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Le selvatiche vinceranno le carestie
Biologia I cosiddetti crop wild relatives,
potrebbero diventare fondamentali per l’uomo, garantendo cibo anche in caso di clima estremo
Marco Martucci Fare la spesa nel reparto alimentari di un grande supermercato può, al di là dell’immediata necessità di nutrirsi, rivelarsi oltremodo istruttivo, specialmente se ci si prende un poco di tempo per esplorare fra banchi e scaffali. Possiamo concentrarci, per esempio, sugli alimenti di origine vegetale, come frutta, verdura e tutti gli annessi e connessi, dal riso alla farina, dal pane ai biscotti. Si apre così un mondo di scoperte dal confronto con ciò che, proveniente da altre parti del mondo, ci viene offerto: come le varietà di frutti, semi, radici, tuberi e foglie. Tutto quello che vediamo esposto, a parte forse qualche raro frutto o fungo selvatico, non è stato raccolto in prati o foreste ma è stato coltivato in luoghi più o meno lontani. Da millenni ormai, l’uomo, che prima raccoglieva e cacciava ciò che gli veniva offerto dalla natura, è divenuto allevatore e coltivatore. In un lungo processo, mai terminato, fra innumerevoli tentativi falliti e riusciti, ha saputo ricavare da animali e piante selvatici nuovi animali e nuove piante dotati di caratteristiche spesso lontane da quelle naturali ma per lui ben più utili. Un lavoro lungo e svolto nell’ombra, che si perde nella notte dei tempi e che ha sortito animali e piante più produttivi e redditizi attraverso quel processo chiamato domesticazione, con selezioni e incroci su lunghissimi periodi di tempo. Scegliendo nella natura le piante con le caratteristiche più utili, le si teneva da parte, le si seminava, si praticava una selezione, artificiale. Mentre la selezione naturale, che procede da quando la vita è apparsa sulla Terra, produce varietà e specie adatte all’ambiente, quella artificiale, praticata dall’uomo, fornisce piante e animali che meglio rispondono alle sue esigenze. Ricerche archeologiche specializzate hanno permesso, almeno in parte, di fare luce su tempi e luoghi. Fra le piante, pare che quella del frumento, diecimila anni or sono, sia stata la prima, dalle parti dell’attuale sud della Turchia. Nella famosa «Mezzaluna fertile», fra Nilo e Mesopotamia, si svilupparono poi farro, orzo, piselli e lenticchie. In altre «Mezzelune fertili» e in altri tempi
in tutto il mondo videro la luce, in Asia, riso e miglio, mentre in America, mais, patata, fagioli e pomodori. Le piccole spighe con pochi semi che cadevano da soli si trasformarono in spighe ricche di semi che restavano sulla pianta fino alla mietitura, pannocchie con pochissimi chicchi di mais divennero le grandi pannocchie di granturco che tutti conosciamo, da banane piccole e piene di semi nacquero frutti grandi e privi di semi e così andò per tante altre piante. Per contro, togliendole dalla concorrenza per sopravvivere nelle dure condizioni ambientali, le piante persero in parte la loro resistenza e diventarono dipendenti dall’uomo e dalle sue cure, irrigazione, fertilizzanti, prodotti fitosanitari, senza cui tutte le piante coltivate sparirebbero in poche generazioni. Inoltre, fra le migliaia di piante commestibili e adatte alla nostra alimentazione, la scelta si concentrò su pochissime piante. Si stima che il 90 per cento del fabbisogno di carboidrati, grassi e proteine di tutta l’umanità venga attualmente coperto da non più di 50 piante. In cima alla lista delle pochissime che nutrono l’umanità troviamo frumento, mais, riso e patata. Si assiste ormai da anni a una vera e propria «erosione genetica», un assottigliamento di quel «serbatoio» o «pool» genetico da cui ebbero origine le attuali piante coltivate. Il rischio è grosso perché, con questa perdita di varietà e il ridotto numero di piante destinate all’alimentazione umana, carestie di vaste proporzioni non sono da escludere. Nel popolo irlandese è ancor ben viva la memoria della «Great Famine», la grande carestia del 1845-1849 che provocò un milione di morti e fece emigrare un altro milione di irlandesi verso l’America. Fra le cause: fattori climatici, ignoranza e povertà, una cattiva politica agricola ma soprattutto il fatto di basarsi solo sulla patata per l’alimentazione. Patate che, arrivate dall’America, furono colpite da un fungo parassita, pure proveniente dall’America, che distrusse tutti i raccolti. Malattie delle piante e mutamenti climatici potrebbero mettere anche oggi in ginocchio miliardi di esseri umani. Si pensi solo a cosa potrebbe
La fragola comune (Fragaria vesca L.), piccola e gustosa, è la parente selvatica delle grosse fragole. (M. Martucci)
succedere se dovessero andar persi i raccolti di riso, mais o frumento. Misure per evitare e prevenire questi disastri ci sono: diversificare l’alimentazione, favorire la biodiversità nell’agricoltura. E, soprattutto, valorizzare e preservare l’ancor grande patrimonio genetico delle piante. Molto promettenti sono i «parenti poveri» (e selvatici) delle piante coltivate, che possono essere, se ancora esistono, le specie o varietà da cui si ottennero in passato le attuali piante coltivate oppure anche piante geneticamente simili a loro. Sono, per usare il termine internazionale con cui vengono definite, i «crop wild relatives» o CWR: piante che vivono senza alcun intervento da parte dell’uomo e geneticamente simili a quelle coltivate e che dunque si possono incrociare con loro. A livello mondiale ne sono state identificate tantissime e circa mille, imparentate con 81 piante coltivate, sono state scelte per un programma di salvaguardia. Sono forse le piante che potranno garantire il futuro della nostra
sicurezza alimentare. Fra i loro geni ci può essere la resistenza alla siccità, al caldo, ai parassiti. È un vero e proprio tesoro che occorre mettere al sicuro. Ciò può essere fatto in due modi: «in situ», dunque nella crescita in campo oppure «ex situ», conservando parti della pianta, rizomi, semi, ad esempio in cosiddette «banche dei semi». Famosa è la banca dei semi nell’isola Spitsbergen, dell’arcipelago norvegese delle Svalbard, la «Svalbard Global Seed Vault» con quasi un milione di campioni di oltre 4mila specie. A livello mondiale, la conservazione dell’inestimabile patrimonio genetico dei CWR è assicurata dal Global Crop Diversity Trust, fondato fra gli altri dalla FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura alla quale contribuiscono molti Paesi e organizzazioni, fra cui la Svizzera. Nel nostro Paese, Info Flora, Centro nazionale per i dati e le informazioni della flora svizzera, e l’Ufficio federale dell’agricoltura hanno allestito
e attualizzato un inventario dei CWR svizzeri. La lista comprende ben 2252 specie selvatiche, piante importanti per l’alimentazione umana e animale, piante medicinali e aromatiche. Di queste sorprendentemente numerose specie ne sono state scelte 285 cosiddette prioritarie per cui si raccomanda una protezione, anche perché 90 di queste sono sulla Lista rossa delle piante minacciate. Per la loro conservazione si prevedono misure «in situ», dunque nel loro ambiente naturale e strategie «ex situ», attraverso strutture come Agroscope, Banca dei semi del Giardino botanico di Ginevra e la Svalbard Global Seed Vault. In queste piantine spesso umili e nascoste si cela un patrimonio d’immenso valore che potrà garantire il nostro futuro alimentare anche di fronte ai grandi cambiamenti ambientali e climatici. Informazioni
www.cwrdiversity.org oppure www. croptrust.org
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Ambiente e Benessere
Un passo verso l’inesplorato Reportage Si cammina anche per esplorare, conoscere e studiare luoghi ancora fuori dalle rotte turistiche
tradizionali come può esserlo la Via Egnatia
Vincenzo Cammarata, testo e foto Camminare è forse la maniera più democratica che l’uomo ha per muoversi nello spazio. Come insegna il professor Keating, magistralmente interpretato da Robin Williams ne L’attimo fuggente (1989), camminare è una delle modalità con cui ognuno di noi afferma sé stesso e la propria identità in un determinato territorio. In Svizzera, ad esempio, si pratica l’hiking: sono ben 1154 (sentierisvizzeri.ch) i circuiti e i percorsi corti che vanno dai 5 ai 30 chilometri, ben segnalati da cartelli gialli che riportano precise indicazioni spazio-temporali sulla percorrenza: dislivelli importanti e andatura sostenuta. Ma, impensabile per qualcuno, non tutti decidono di muoversi a piedi per ammirare le bellezze della natura, e soprattutto, non tutti hanno il fisico, la preparazione, o anche solo la voglia di stambeccare fra i monti alla ricerca di una stella alpina. «Grazie a Dio» esistono i Cammini. Già perché è la fede che ha fatto fare il primo passo ai pellegrini fautori dei principali cammini europei. Il Cammino di Santiago (347’578 pellegrini nel 2019) e la Via Francigena (circa 40mila pellegrini/anno sulla Canterbury-Roma che taglia da nord a sud la Svizzera Romanda), offrono ormai da anni un modo più autonomo di camminare, più abbordabile anche per chi indossa le scarpe da trekking solo una volta l’anno, o addirittura, per chi, come un vero pellegrino, affronta le proprie vesciche a cavallo di sandali alla moda. Anno dopo anno, questo modo sano e responsabile di viaggiare si è sviluppato esponenzialmente, contando su una moltiplicazione di pubblico e di proposte volute da amministrazioni ed enti turistici locali che hanno iniziato a credere fortemente in questo nuovo modo di viaggiare, che, di fatto, per molti borghi nascosti, lontani dalle grandi direttrici stradali, rappresenta l’unica possibilità di aprirsi al mondo. E oggi come oggi, vien da credere che
La Via Egnatia parte da Durazzo in Albania e attraversando Macedonia del Nord e Grecia arriva fino in Turchia ad Istanbul (una più ampia galleria fotografica si trova su www.azione.ch).
possa essere davvero una delle svolte più importanti per il turismo del dopo lockdown. Un report 2019 di Terre di Mezzo (www.percorsiditerre.it), analizza le motivazioni che fanno preferire vesciche e strada a mojito e piscina. Metà dei viaggiatori cammina per trekking (52%) e per vivere la natura (50%), seguono quelli che vogliono scoprire il territorio (46%) e quelli che li percorrono per amore della cultura (40%). Solo un quarto degli intervistati sono veri «pellegrini» (25%). Ma il camminare è anche un’esperienza personale
(1,5%), di crescita e meditazione, o, al contrario, un bel modo per conoscere gente (2,5%): del resto, non sono poche le coppie che si formano in cammino. Camminando s’impara. Lo sapeva Aristotele con le sue lezioni peripatetiche e lo riscoprono nel 2013 in Norvegia teorizzando il walkshop (Wickson F. et al., The Walkshop Approach to Science and Technology Ethics, Springer 2014), traducibile come laboratorio itinerante: allievi e docenti camminanti verificano sul campo, tramite un approccio etico, diretto e immediato, tutte quelle osservazioni che in un’aula rimarrebbero assunti dogmatici. Il Laboratorio camminato di ecologia della città e del paesaggio dell’Università Iuav di Venezia, cammina dal 2000: Santiago (2000-2006), Francigena (2006-2012), Francigena nel Sud o Via Appia (2012-2014). Lo scopo era quello di osservare il paesaggio che si attraversava a passo d’uomo. Nel 2015 il gruppo Laboratorio Francigena giunto a Brindisi attraversa l’Adriatico. L’impresa era di pura esplorazione e di riscoperta della Via Egnatia. Costruita nel 146 a.C. su ordine di Gaio Ignazio, proconsole di Macedonia, serviva per movimentare eserciti e merci tra Durazzo e Istanbul, passando da Albania, Repubblica della Macedonia del Nord, Grecia e Turchia.
Nel 2016 si forma l’associazione culturale FuoriVia (fuorivia.org), che continua per tre anni quanto iniziato, conducendo sulla direttrice romana un eterogeneo ed eccentrico gruppo di compagni, spinti dalla curiosità e dalla passione per il cammino. Gestita da un direttivo di ex studenti e appassionati, FuoriVia mantiene il legame con lo Iuav che riconosce crediti formativi agli studenti che si uniscono all’impresa. «In questi anni abbiamo fatto un lavoro di esplorazione importante», afferma Giulia Motta Zanin, cofondatrice e presidente di FuoriVia pianificatrice territoriale attualmente ricercatrice al Politecnico di Bari. «Siamo entrati in contatto con numerosi studiosi dell’antica Via Egnatia, con cui abbiamo condiviso dati raccolti e informazioni. Abbiamo attraversato i confini di quattro Stati: confini non facili a causa di ferite diplomatiche non ancora del tutto risanate. Abbiamo visto culture mescolarsi ed evolversi passo dopo passo. Bellezze naturalistiche, ma anche poli industriali, laghi inquinati; coltivazioni di tabacco, cotone, riso, viti, ulivi, girasoli: un grande patchwork che nell’ultimo tratto, era asfalto e cemento: Istanbul, città infinita. Il nostro passaggio ha creato sinergie tra enti locali, che finalmente vedevano il proprio territorio come parte di
un unicum: la Via Egnatia. Abbiamo sperimentato la Geografia», conclude la presidente. L’ultima tappa, terminata ad agosto dell’anno scorso, ha visto una carovana di 43 camminatori: da Enez sull’Evros al confine tra Grecia e Turchia, una decina di giorni e 280 km ad est si è giunti a Santa Sofia, dove una stele indica proprio l’inizio della Via Egnatia. Punti di vista. Camminare insieme ad altri compagni di viaggio per due settimane, condividendo le stesse difficoltà, è un’esperienza di vita totalizzante. «Viaggiando in gruppo, lentamente, camminando» racconta Giulia Melilli, co-fondatrice e community manager di FuoriVia, prossima alla laurea in Pianificazione Ambientale alla Technische Universität di Berlino, «sei da solo e, al contempo, con gli altri: ognuno col suo passo e la sua strada davanti, con i propri limiti. Spazio e tempo diventano elastici: capisci che il cammino è sia fuori che dentro di te. Tante persone diverse da te, ma che, come te, stanno condividendo la stessa esperienza. Cogli l’attimo, il presente, del luogo in cui ti trovi». Il Cammino per FuoriVia non presuppone per forza un tracciato inesplorato: è l’approccio con cui lo si affronta. Non occorre essere ricercatori per spingersi oltre il concetto di turismo responsabile. Qualche tempo fa, «La Repubblica» denunciava discariche abusive tra Bari e Matera lungo il Cammino Materano: ecologia del paesaggio lungo questi nuovi itinerari significa monitorare, denunciare e segnalare, così da creare una coscienza del territorio anche da parte di chi quel territorio lo abita e lo vive ogni giorno. Camminare allora non è solo un atto democratico, come spiegava ai suoi ragazzi il professor Keating, è anche un atto politico, rivoluzionario. E come Keating affidiamo a Robert Frost e agli ultimi versi de La strada non presa (1916) il compito di indicarci la via: «Due strade trovai nel bosco e io scelsi quella meno battuta, ed è per questo che sono diverso».
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Ambiente e Benessere
Hyundai non si fa mancare nulla, nemmeno la polizia
Motori La diversificazione di modelli, design e tipi di alimentazione sembra voler coprire a 360 gradi
ogni possibile soluzione, e intanto le ecologiche conquistano le polizie europee
Mario Alberto Cucchi Quale sarà la mobilità del futuro? Il costruttore coreano Hyundai non si sbilancia e oggi produce automobili con ogni tipo di propulsione. Motori alimentati a benzina e a gasolio di ultima generazione ai quali si aggiungono ibridi, ibridi plug-in ed elettrici puri. Non manca neppure il modello a fuel cell che utilizza l’idrogeno come carburante.
Autonomie elevate, costi di gestione ridotti e, nel caso di mezzi fuel cell, brevi tempi di rifornimento rendono le Hyundai ecologiche le favorite della polizia
Il parco auto Hyundai Kona electric in forza alla polizia di San Gallo.
Una scelta decisamente impegnativa quella di tenere tutte le porte aperte. D’altra parte, negli ultimi anni la Casa automobilistica asiatica, fondata nel 1967, ha premuto a fondo il pedale del gas investendo a 360 gradi. Non solo tanta tecnologia ma anche design, mantenendo sempre un buon rapporto qualità prezzo. Automobili di sostanza. Lo sanno
bene numerose forze di polizia in Europa che scelgono la mobilità elettrica Hyundai per i propri spostamenti. Danno il buon esempio. Con una maggiore attenzione alle tematiche ambientali legate all’inquinamento, i veicoli a emissioni zero rappresentano una soluzione ottimale. Ma cosa piace ai poliziotti? Autonomie elevate, costi di gestione ridotti e, nel caso di mezzi fuel cell, brevi tem-
pi di rifornimento. «L’apprezzamento dei veicoli a zero emissioni di Hyundai tra le forze di polizia in tutta Europa è una testimonianza della qualità e della versatilità di questi modelli» spiega Andreas Christoph-Hofmann, vice presidente Marketing & Product di Hyundai Europa. «Il fatto che i nostri veicoli eco-friendly siano in grado di rispondere alle loro esigenze, oltre a quelle dei cittadini, dimostra come possiamo aiu-
tare a rendere le strade più sicure e più eco-compatibili». In Svizzera la polizia del Canton San Gallo ha recentemente allargato la propria flotta con 13 Kona Electric. Un modello che rispetta i molteplici requisiti richiesti: oltre 100 kiloWatt di potenza, autonomia superiore ai 400 chilometri e un prezzo inferiore ai 50mila franchi svizzeri. Lo stesso modello è stato scelto anche nei Paesi Bassi. Lo sta testando la
polizia di Amsterdam. Dalle colonnine dedicate a 100 kw ricaricano le batterie sino all’80% in circa 54 minuti. Kona Electric viene utilizzata anche in Spagna dalle forze di polizia di Valencia, e nel Regno Unito dalla Sussex Police e dalla North Wales Police. Inoltre, il dipartimento dell’Hampshire Police riceverà il prossimo mese altri nove esemplari del SUV compatto a zero emissioni. In Italia sono invece in servizio delle Hyundai ix35 Fuel Cell, prima generazione di veicoli a idrogeno della Casa coreana. Svolgono funzioni legate al pattugliamento, alla vigilanza e alla repressione di crimini. Il tutto senza emettere alcuna sostanza inquinante e rifornendosi di idrogeno ricavato esclusivamente da fonti energetiche rinnovabili. Per il pattugliamento a emissioni zero possono oggi contare inoltre su un esemplare di Nexo. Questo modello rappresenta la seconda generazione di veicoli Fuel Cell Hyundai ed è utilizzato anche dalle forze di polizia di Osnabrück in Germania e dalla Surrey Police nel Regno Unito. In Spagna i poliziotti di Guadalete e Bilbao invece usano delle Hyundai Ioniq a zero emissioni. Entro il 2025 Hyundai vuole arrivare a vendere 670mila veicoli elettrici all’anno. Ci riuscirà? La polizia è dalla sua parte. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 giugno 2020 • N. 25
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Ambiente e Benessere
La pergola valdostana lungo secoli di vicende umane
Scelto per voi
Bacco giramondo Le fatiche della gente di questa valle porta alla produzione di vini
d’eccellenza ma non riesce mai a soddisfare la domanda
Davide Comoli «Eroico» il termine può sembrare banale, ma è quello che meglio rappresenta la viticoltura della Valle d’Aosta. La Dora Baltea ha scavato nei secoli il suo alveo e percorre la Valle da ovest verso est. In questi luoghi, da secoli, la vite (il 65% vitigni autoctoni), ha selezionato gli anfratti e le migliori conche, dove il clima si fa più propizio a una coltura viticola orientata alla qualità e alla piacevolezza: il clima valdostano è continentale, caratterizzato da inverni lunghi e rigidi, frequenti gelate primaverili ed estati calde con un’ottima escursione termica, fattore che favorisce una maggiore intensità olfattiva nei vini prodotti. Il vino è rimasto per secoli un alimento di particolare ricchezza in una società dove il benessere non era certo denominatore comune. La coltura vinicola, espressa il più delle volte nella forma ricorrente (la pergola valdostana), ha accompagnato per secoli le vicende umane. L’uomo ha plasmato il territorio con enorme fatica, plasmandolo con quella struttura a gradoni, caratterizzata da muretti a secco e più o meno pianeggianti strisce di terra. L’attaccamento della gente valdo-
stana a questo genere di «viticoltura eroica», porta alla produzione di vini d’eccellenza, ma che non riesce mai a saziare la domanda. Gli ettari vitati sono 520, dei quali ben il 65% in montagna. A dipendenza dell’annata si producono circa 15mila ettolitri di vino, dei quali l’80% rossi o rosati, il 15% vini bianchi, ma l’originalità dei vini della Valle è data da vitigni autoctoni, i quali con i loro caratteri individuali danno senza dubbio originalità, rendendo inimitabili questi vini. La resa è molto bassa, circa 6 t/ha. Circondata a mo’ di ferro di cavallo dalle Alpi Graie, le quali culminano nel gruppo del Monte Bianco, la Valle è una delle zone più riparate d’Europa, ma anche una delle più secche. Nel giro di poche decine di chilometri, la vite deve affrontare situazioni ambientali molto differenti, determinate da un’altitudine che passa da 300-400m della Bassa Valle ai 500-700m della parte centrale, fino ai 1200m di Morgex. Nella parte bassa si trovano le zone più vitate, con terreni a tessitura franco-sabbiosa, e la presenza di scheletro a favore del drenaggio. Qui crescono vitigni a bacca nera come il Nebbiolo e derivati. La parte centrale, invece, vanta terreni poco fertili. Mentre verso Morgex, i terreni sono di natura granitica:
Malbec Terrazas de los Andes
Un tipico pergolato dei vigneti terrazzati in Valle d’Aosta. (Arnaud25)
ed è proprio qui che viene prodotta una delle gemme locali, il «Blanc de Morgex et de la Salle». Man mano che si sale, è d’obbligo impiantare la vite solo sui versamenti più assolati e più riparati, per cui nelle parcelle che si trovano in zone più elevate vengono coltivati vitigni a bacca
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bianca, i quali beneficiano di un’ottima acidità, mentre sui terrazzamenti orientati a sud, nel Mezzo e Bassa Valle, si privilegiano vitigni a bacca rossa, i quali danno dei vini robusti e corposi. Dal 1987 il CERVIM (Centro di ricerche, studi e valorizzazione per la viticoltura montana), prosegue l’obbiettivo di salvaguardare e promuovere la viticoltura in montagna e/o in condizioni orografiche difficili, come in forte pendenza o terrazzamenti, minacciata dagli alti costi di produzione e dalle caratteristiche del territorio. Furono i Salassi, preistorica tribù di origine ligure-gallica, i primi abitatori della Valle, a praticare la coltura della vite, favoriti da condizioni climatiche migliori delle attuali. Sconfitti nel 25 a.C. dal console romano Aulo Terenzio Varrone, più di 35mila di loro furono deportati come schiavi e la Valle passò sotto il dominio di Roma. I primi documenti che ci parlano di vini appaiono nel 515, momento in cui, Sigismondo (re dei Burgundi poi riconosciuto santo) fondò l’Abbazia di S. Maurizio nel Canton Vallese. La tradizione vitivinicola fu mantenuta nei monasteri anche sotto i vari domini stranieri che hanno nei secoli attraversato la Valle. Nella seconda metà del 1800, la filossera sconvolse tutto quel che era stato creato nel passato. Dal 1985 la struttura qualitativa della vitivinicoltura ha preso la sua definitiva fisionomia che prevede una sola D.O.C. Valle d’Aosta o Vallée d’Aoste, denominazione che viene poi suddivisa in sette sotto-denominazioni le quali fanno riferimento a zone di produzione più piccole: Donnas, Arnad-Montjovet, Chambave, Nur, Torrette, Arvier e Morgex-La Salle. Ciascuna di queste caratterizza ancora meglio la propria produzione, utilizzando il riferimento a un vitigno, al colore o alla metodologia d’ottenimento: circa trenta sono le varie tipologie. Lo sperone del Monte Cormet che divide Morgex da Courmayeur, impedisce agli abitanti di Morgex di vedere il Monte Bianco. Per fotografare la cima del Bianco e in primo piano i vigneti, siamo saliti a Villaret, frazione di La Salle. I due comuni costituiscono il tetto della viticoltura europea, dove resiste a più di 1200 m il Prié Blanc, sui terrazzamenti a pergole basse, su ceppi a «piede franco», che danno un vino ricco di mineralità, sentori di erbe alpine e fiori di sambuco. Prima d’incontrare la piana aostana che è un po’ il cuore della viticoltu-
Un tempo popolare a Bordeaux, il Malbec è un vitigno oggi molto legato all’Argentina, tanto da esservi stato per un certo periodo la varietà di uva a bacca nera più allevata. Il Malbec arrivò in Argentina esattamente a Luján de Cuyo (Mendoza) a metà del XIX sec. portato dal francese Aimé Pouget, divenuto negli anni l’alfiere della viticoltura del Paese sudamericano, che occupa la quinta posizione come produttore nel rango mondiale. Situati lungo le vallate degli altopiani delle Ande, i vigneti della zona di Mendoza si trovano a un’altitudine che varia dai 200 fino ai 1700 m sul livello del mare, come quelli del Malbec prodotto dalla storica cantina Terrazas de los Andes. Da noi provato, si presenta con un colore rosso profondo, con leggera unghia violacea; al naso rivela note di ciliegia matura e frutta scura, con un leggera speziatura, i tannini sono morbidi e testimoniano una grande struttura con un finale piacevole che sa di cioccolata. Nel nostro recente viaggio lo abbiamo spesso gustato con i grandi piatti di carne alla brace, per questo lo raccomandiamo per le vostre grigliate estive. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 22.90. ra della valle, troviamo lo storico rosso Enfer d’Arvier, assemblage di rossi autoctoni, Petit Rouge, Mayolet, Fumin e Vien de Nus, ottimo con la tipica «carbonade»: spettacolare è l’anfiteatro di rocce, soleggiato anche in inverno, in cui matura. Dove la Dora Baltea s’allarga a fondo valle, i vigneti si estendono su una stretta fascia di terreno che da ovest a est si estendono da Villeneuve fino a Montjovet, toccando i comuni di Introd e Aymavilles, il più vitato della regione. Questa è la zona elettiva per gli autoctoni a bacca nera, il Petit Rouge, capostipite di quasi tutti i vitigni rossi aostani; il Fumin che si affina con ottimi risultati, molto spesso vinificato in purezza, stupendo con gli gnocchi alla fontina; il Vien de Nus, da godere se bevuto giovane; interessanti pure il Cornalin (Humagne Rouge in VS) e il Mayolet; e se avete la fortuna non lasciatevi sfuggire il raro Vuillermin. Non mancano di certo i vitigni internazionali come il Gamay, Syrah, Merlot, ma se vi trovate a Saint-Pierre, passate dalla Maison Anselmet a provare (poche bottiglie) il superbo Pinot Nero. Tra i bianchi internazionali, il più coltivato è lo Chardonnay con Müller Thurgau, Pinot Grigio (chiamato Nus Malvoisie), l’emergente Petite Arvine, sconfinato dal vicino Vallese, il Prëmetta uva a bacca grigia che dà buoni rosati, e il Moscato Bianco, sia secco che dopo appassimento. In fondo valle, da Montjovet a Bard, si coltiva il Nebbiolo, su terrazze ripide e pergole sorrette dai «pilun» (colonne di granito), dove le vigne sembrano templi dedicati a Bacco. Brindiamo al nostro viaggio con un rosso di montagna austero, di fronte a una tipica e fumante fonduta; a due passi inizia il Piemonte.
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Ambiente e Benessere
Alzi la mano chi non ama i fichi
Gastronomia Dalle marmellate ai piatti salati, per finire con le salse come quella senapata, questi frutti
Conosco gente che non ama i cavoli (ahimè tanta, e dire che, oltre a essere buoni, fanno così bene: veramente non me ne capacito, perché sono una mia assoluta passione), ma anche gente che non ama le patate e qualcuno che non ama il pomodoro – pochi ma esistono. Però tutti, ma proprio tutti quelli che conosco amano i fichi. È sempre arduo capire il perché dei gusti in cucina. Certo, sono buonissimi, ma al di là del loro sapore credo che siano amati perché sono un ingrediente millenario, archetipo, che conosciamo da sempre, come a dire che fanno proprio parte del nostro DNA. Già i greci ne erano ghiotti – ne sono certo: mentre Socrate, Platone e Aristotele stabilivano con i loro allievi il nostro canone filosofico, si nutrivano di pane, per i carboidrati, di olive, per i grassi, e di fichi più che altro per gola. E dal momento in cui oltre che freschi si potevano e si possono gustare secchi – essiccati al sole o, oggi, tramite esposizione a correnti di aria calda – erano e sono disponibili tutto l’anno. E dunque presentiamoli: è un frutto di origine asiatica con buccia verde o giallo verdastra (fico bianco) oppure marrone, rosso-violetto o viola-nerastro (fico nero o violetto). A seconda del periodo di maturazione, questo frutto si distingue in tre definizioni: fichi fioroni (giugno), prodotti dalle gemme dell’anno precedente; fichi veri e propri o forniti (agosto-settembre), la più parte; cimaroli (autunno inoltrato), più rari rispetto ai precedenti. Sono tutti a polpa tenera e dall’elevato contenuto zuccherino. Possono essere a buccia spessa o sottile (questi ultimi sono più dolci). A tal proposito mi preme fare una raccomandazione fondamentale: mangiate anche la buccia che è buonissima e ricca di sali minerali. Eliminate solo il picciolo. Molti (quasi tutti) non lo
fanno e questo è un vero spreco. E, di nuovo mi raccomando, per lavarli non immergeteli in acqua, basta passarli rapidamente sotto quella corrente. I fichi si possono mangiare sia crudi sia cotti. Crudi, sono un naturale ingrediente per i dessert: per esempio accompagnati da panna, macerati con zucchero e un liquore, ma anche per la realizzazione di gustosi gelati e confetture. Pure cotti, i fichi danno gustosi dessert, sono usati per insaporire crostate, torte o dolci al cucchiaio come bavaresi e budini. Ma non finisce qui. Si accompagnano molto bene alle carni, come dimostra l’uso con il prosciutto per antipasto; in particolare sono frattaglie, maiale, oca e anatra ad avvantaggiarsi dell’accostamento con questi frutti zuccherini. Secchi, arricchiscono infinite preparazioni, anche in questo caso prevalentemente dolci e piatti di carne: il loro zucchero serviva e serve a smorzare il sapido dei grassi della carne. Qualche consiglio? La confettura senapata di fichi è da provare. Per la sua produzione i frutti vengono cotti finché non si sono addensati e poi arricchiti di senape: sono un accompagnamento ottimale per i formaggi, ma guarniscono anche i filetti. Oppure potreste assaggiare una salsa agrodolce ai fichi e olive, un abbinamento veramente archetipo, fatta anche con capperi, pomodori secchi, uvetta, pinoli e aceto balsamico. E cosa dire del fegato coi fichi, tagliati a spicchi e rosolati con poco burro per pochi minuti? Per finire, non posso che citarvi il mio amato chutney ai fichi: cuocete per 1 ora 3 parti di fichi freschi spezzettati con 1 parte di cipolle spezzettate, 1 parte di zucchero di canna, 1 parte di aceto di mele, poco sale. Alla fine, frullate se volete, io non frullo. Messo da tiepido in vasi, in frigorifero dura a lungo.
CSF (come si fa)
Prof. Lumacorno
Allan Bay
Pxhere.com
si gustano in mille modi
La cicerchia è il seme di una leguminosa originaria del Medio Oriente. Simile a un cece per dimensioni ma di forma più irregolare, fino all’Ottocento ha rappresentato una voce importante nell’economia contadina dell’Italia centrale e meridionale per il gusto spiccato, il buon valore nutritivo e il ricco contenuto proteico; poiché, però, le varietà più antiche contenevano una sostanza tossica dal gusto
amaro, la latirina, sono state in seguito abbandonate. Il recente recupero è dovuto all’introduzione di varietà più sicure, dal basso tenore di latirina. La cicerchia richiede un ammollo fino a 2 giorni – per alcune cultivar bastano 6 ore – cambiando spesso l’acqua, e una cottura prolungata. Particolarmente nota è la cicerchia di Serra de’ Conti, località in provincia di Ancona dove si prepara una squisita zuppa che mescola questo legume con fagioli e ceci, aromatizzandolo con odori vari e peperoncino. La cicerchia macinata dà una farina usata al Sud per alcuni tipi di pasta fresca o per una polentina; in Abruzzo si prepara la fracchiata, una polenta di farina di cicerchie e di farro. Vediamo come si fa una ricetta base, la zuppa di cicerchie (ingredienti per
4 persone). Lasciate a bagno 150 g di cicerchie per il tempo indicato sulla confezione, cambiando ogni tanto l’acqua. Mettete a bagno per una notte, in una seconda terrina, 50 g di fagioli cannellini, 50 di borlotti e 50 di ceci. Alla fine, scolate e sciacquate tutti i legumi. Mettete a cuocere le cicerchie e i ceci in acqua fredda; dopo 30’ unite i fagioli e proseguite la cottura per 1 ora e 30’ circa. Salate solo verso la fine. Tritate finemente una cipolla grossa, 2 coste di sedano, 2 carote, 2 spicchi d’aglio e un rametto di rosmarino. Metteteli in una casseruola con 4 cucchiai d’olio e fateli insaporire a fuoco basso, rimestando spesso per 5-10’. Fate cuocere 160 g di pasta corta nella zuppa. Al termine, aggiungete il soffritto alla zuppa, rimestate e regolate di sale e di pepe.
Ballando coi gusti Oggi due pesci d’acqua dolce, ingiustamente, considerati meno saporiti rispetto a quelli di mare.
Trota alla fontina e guanciale
Luccio al pomodoro
Ingredienti per 4 persone: 4 grossi filetti di trota · 4 fette di guanciale · 4 fette spesse di fontina · farina · vino bianco secco · burro · sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: 1 luccio da 1 kg mondato · 400 g di polpa pronta di po-
Salate e pepate i filetti di trota, adagiateli sul piano da lavoro e sovrapponete a ognuno una fetta di guanciale, quindi piegateli a metà e fermateli con uno stuzzicadenti. Infarinate i filetti e rosolateli in un tegame con una noce di burro, sfumate con ½ bicchiere di vino e cuocete per 10 minuti. A fine cottura, sovrapponete a ogni filetto la fetta di fontina. Passate in forno a 100° per pochi minuti e servite.
modoro · 1 spicchio di aglio · 1 peperoncino piccante fresco · capperi sotto sale · vino bianco · prezzemolo · olio di oliva · sale. Lavate il luccio e tagliatelo in 4 trance. Mettete un filo di olio in un tegame, unite l’aglio mondato e leggermente schiacciato e spezzettate il peperoncino, cuocete per 1 minuto, adagiate le trance e rosolatele 1 minuto per lato. Sfumate con poco vino, aggiungete il pomodoro e i capperi dissalati e cuocete per circa 12 minuti. Cospargete con il prezzemolo tritato, regolate di sale e servite.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 giugno 2020 • N. 25
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Ambiente e Benessere
Cani annusa-Covid
Mondoanimale Il fiuto dei cani potrebbe riconoscere il Coronavirus
Maria Grazia Buletti «Londra ci crede, ma ci crediamo pure noi!», così Paolo Riva che, con il suo cane Hulk, è attivo presso la Detection Dogs Ticino (DDT) che si occupa di «formazione di cani per la discriminazione olfattiva». A lui ci rivolgiamo per sapere cosa ne pensa quando a metà maggio rimbalza una notizia molto interessante: nel Regno Unito inizia la sperimentazione per capire se i cani possono fiutare la presenza di Coronavirus nell’uomo. La prima fase del progetto – che ha ricevuto finanziamenti governativi per 500mila sterline – sarà guidata dalla London School of Hygiene & Tropical Medicine, insieme alla Durham University. Coinvolgerà il personale del National Health Service degli ospedali di Londra che raccoglieranno campioni di odore da coloro che sono stati contagiati dal Coronavirus e da coloro che non sono infetti. «Il nostro lavoro precedente ha dimostrato che la malaria ha un odore particolare e, con i cani di rilevazione medica, abbiamo addestrato con successo quelli per rilevare accuratamente per l’appunto la malaria», spiega il professor James Logan, della London School of Hygiene and Tropical Medicine. «Questo, unito alla consapevolezza che le malattie respiratorie possono cambiare l’odore del corpo, ci fa sperare che i cani possano anche rilevare Covid-19». In effetti, nell’arco di più di dieci anni di esperienza, le ricerche raccolte dal Medical Detection Dogs (Mdd) hanno dimostrato che i cani possono essere addestrati a fiutare l’odore di una malattia equivalente a un
cucchiaino di zucchero diluito nell’acqua di due piscine olimpioniche. La sperimentazione appena iniziata in Inghilterra verificherà se i «cani Covid», composti da Labrador e Cocker spaniel, possano individuare il virus nell’uomo da campioni da annusare prima che compaiano i sintomi. Se avessero successo, essi sarebbero in grado di arrivare ad «analizzare» fino a 250 persone all’ora. Tra circa sei mesi potrebbero entrare in servizio nei punti di accesso chiave del Regno Unito per effettuare screening rapidissimi dei viaggiatori provenienti dall’estero. La rapidità degli attesi risultati è una speranza supportata dalle capacità mostrate da altri quattro zampe già addestrati che sono riusciti a rilevare gli odori di alcuni tumori, della malaria e del morbo di Parkinson. «Quando è uscita la notizia, ero molto scettico per via di questioni insolute che riguardavano la sicurezza di cani e persone; problematiche che ora sono risolte», racconta Paolo Riva dal quale ci aspettavamo che «sgonfiasse» la notizia britannica, mentre in realtà la vera grossa novità sta nelle parole che pronuncia appena gli parliamo di questa possibilità: «Risolte le questioni inerenti cani e persone, stiamo aspettando l’ok sanitario per cominciare qui da noi a realizzare un progetto analogo con i nostri cani di DDT. È un progetto maturato da un’esperienza avuta in una manifestazione organizzata dall’Unione Europea, EU versus virus: ci eravamo iscritti e ci hanno accettati, così, nei due giorni e mezzo dell’evento al quale abbiamo potuto partecipare, il nostro progetto “open source” ha preso forma e lo realizzeremo a livello locale».
Un esperto a quattro zampe della Detection Dogs Ticino durante un esercizio. (Paolo Riva)
I cani di Detection Dogs Ticino hanno tutti finalità operativa e si suddividono, per ora, in un gruppo di cinque soggetti che fiutano il tumore alla prostata, ci sono quelli specializzati a trovare muffe e quelli che scovano gli insetti nocivi: «I cani addestrati a questo scopo, trovano ad esempio sia le larve sotto terra che l’insetto adulto della Popilia japonica: un coleottero giapponese disastroso che abbiamo ora anche da noi». Gli chiediamo quanto tempo è necessario per la loro formazione: «Si comincia in una situazione da labora-
torio dove il cane deve avere a disposizione un odore, per segnalare bene il quale impiegherà circa 6-8 settimane. Quando sarà pronto, si dovrà passare all’ambiente esterno dove dovrà imparare a concentrarsi sull’odore da cercare, facendo il più possibile astrazione di tutte le altre sollecitazioni olfattive». Ecco perché a Londra parlano di circa sei mesi prima che questi cani che fiutano il Coronavirus possano essere impiegati. «Quando il cane è all’opera a contatto con la persona, è soggetto a parec-
chie influenze che vengono da questa, come paura, aggressività, socievolezza e via dicendo: tutte reazioni umane che i cani sanno leggere e per le quali hanno delle risposte». Abbiamo compreso che si dovrà fare una selezione per trovare i soggetti più idonei: «Ci saranno cani che non andranno bene perché si lasceranno influenzare troppo, mentre altri sapranno concentrarsi solo sull’odore richiesto». Al netto di tutto ciò, Paolo Riva ribadisce di non nutrire alcun dubbio sul progetto londinese di riuscire ad addestrare con successo i cani a questo nuovo nobile compito. Però dovrebbero farcela anche i cani di Detection Dog Ticino ai quali non mancano i requisiti necessari al successo di questo tipo di impiego in questa disciplina tanto utile all’essere umano: «Si tratta in generale di cani curiosi, normalmente dinamici, meglio più vivaci che troppo poco svegli: insomma, cani che già dimostrano l’attitudine naturale di usare tanto il naso, strumento principale per riuscire a fiutare con successo ciò che insegniamo loro a cercare». Nel nuovo caso specifico della ricerca di Coronavirus nelle persone, il fattore precisione sarà ancora più determinante, fanno sapere da Londra dove già sono certi del successo dei loro cani: «Saranno capaci di rilevare l’odore del Covid-19 e potremo presto dare il via alla seconda fase di test, in situazioni reali. Speriamo poi di poter lavorare con altre agenzie per addestrarne un numero ancora maggiore». L’essere umano sarà ancora una volta incredibilmente fiero del fatto che il naso di un cane possa nuovamente contribuire a salvare altre vite.
Giochi
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba «Gli uomini costruiscono troppi…» Completa la frase di Isaac Newton risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 4, 1, 3, 10, 5)
ORIZZONTALI 1. Cambiare, modificare 6. Fu amata da Vasco de Gama 7. 1500 romani 9. Si dice a «Sette e mezzo» 10. Prendono per la gola 11. Nel broccato e nel velluto 12. Non la conforta la fede 13. Padre in famiglia 17. Desinenza verbale 18. Dagli Urali al Giappone 19. Ambiente chiuso 20. Quanto detto 21. Rifugi montani 22. Sono pari nella china 23. Il punch italiano... 24. Ultime in deficit 25. Nome femminile 26. Isola in francese
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
VERTICALI 1.Formato da più elementi diversi 2. Prescelto da Dio 3. Il Teocoli della tv 4. Le iniziali del comico Siani 5. Una consonante 8. Le nozze del sessantesimo anniversario 10. Vi nacque Platone 12. Terre lavorate per la semina 13. Diventeranno farfalle 14. Lo è l’onagro 15. La vita nei prefissi 16. Le iniziali del cantante Antonacci 17. Filosofia morale 19. L’amò Chopin 21. Insieme a ton... è raffinato 23. Le iniziali di un giornalista Angela 24. Un articolo Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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Soluzione della settimana precedente
ALL’ANAGRAFE – Nome risultante: ADELMO FORNACIARI.
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T B M I O I E R I N T A N E S I T N C I A R A M I O R E A
luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 giugno 2020 • N. 25
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Politica e Economia America sotto shock Proteste contro il razzismo e gli abusi della polizia, con la partecipazione crescente dei giovani bianchi, unisce il Paese che al tempo stesso vive di paure
Reportage dalla Libia Sul campo si registra la sconfitta del generale Haftar appoggiato da Emirati, Egitto e Russia mentre Tripoli ha sfruttato l’aiuto della Turchia, arbitro quasi assoluto. Così il Paese ricco di gas e petrolio è sospeso in un limbo sotto lo sguardo immobile dell’Europa
L’odio per la Lombardia Accusata di essere l’untrice d’Italia e di avere gestito male l’emergenza. Quanto c’è di vero?
Petrolio poco richiesto La serrata mondiale dovuta al Covid-19 contribuisce a far crollare il prezzo dell’oro nero, già sotto pressione a causa della sovraproduzione pagina 27
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pagina 25 Durante i tre mesi di epidemia la fiducia nei confronti di Putin è scesa al minimo storico del 25%. (AFP)
Putin non vuole più attendere
Referendum La riforma della Costituzione è oggetto della prossima consultazione, il suo iter era stato sospeso
per il Covid e ora ripreso nonostante i numeri epidemici nel Paese siano poco rassicuranti Anna Zafesova L’annuncio della fine del lockdown di Mosca è arrivato all’improvviso, poche ore prima: la sera dell’8 giugno Vladimir Putin si è congratulato con i russi per la «vittoria nella lotta» al virus, e si è scoperto che praticamente tutto avrebbe riaperto il giorno dopo, nonostante le misure antiepidemiche fossero state indette fino al 14 giugno, e il sindaco della capitale Sergey Sobyanin avesse già annunciato una probabile proroga della quarantena. Gli esperti dicono che l’appiattimento della curva dei contagi non è stato ancora raggiunto, e ogni giorno si registrano più di 8 mila casi nuovi di Covid-19, di cui 2-3 mila nella capitale. Ma il Cremlino – che aveva già annunciato la fine delle «settimane non lavorative» a livello nazionale sul picco dell’epidemia – ha deciso il ritorno alla vita normale, per riesumare l’agenda politica di Vladimir Putin che la pandemia aveva cancellato: il 25 giugno inizierà il referendum sugli emendamenti costituzionali, di cui il più importante «azzera» i mandati precedenti del presidente e gli permette tecnicamente di farsi rielegge-
re ancora due volte, rimanendo al potere fino al 2036. Un voto che era in programma per il 22 aprile, e che Putin aveva rinviato – insieme alla parata per il 75simo anniversario della vittoria sul nazismo, il 9 maggio – solo dopo che perfino alleati fidati come lo stesso Sobyanin lo avevano convinto che il voto in piena pandemia avrebbe provocato una strage. Il Cremlino però non può attendere oltre: durante i tre mesi di epidemia la fiducia nei confronti di Putin è scesa al minimo storico del 25%, rispetto al già scarso 35% di gennaio. Per mettere in sicurezza il capitale politico del presidente, le regole del voto sono state ulteriormente modificate con il pretesto dell’epidemia: le urne rimarranno aperte per una settimana, fino al 1. luglio, si potrà votare anche a casa e online, oppure in tende gonfiabili e altre strutture provvisorie. Secondo le indiscrezioni pubblicate da alcuni media, anche i numeri di affluenza e voto favorevole richiesti dal Cremlino alle regioni sono gradualmente scesi: dal sogno di un plebiscito, Putin ora sembrerebbe pronto ad accontentarsi di un
55% di «sì» con un’affluenza del 55%. Un risultato facilmente raggiungibile: rispetto alla media russa, questo voto – ufficialmente infatti non viene definito «referendum», anche perché il pacchetto degli emendamenti in realtà è già entrato in vigore – è ancora meno trasparente del solito, non solo grazie alle modalità inedite come il voto online, ma anche per via dell’assenza di osservatori nei seggi. Non sono nemmeno previsti dibattiti a favore o contro gli emendamenti – che prevedono anche maggiori poteri del presidente sui giudici e sul parlamento, la dichiarazione della supremazia delle leggi russe sul diritto internazionale e qualche dichiarazione ideologica di stampo conservatore come l’introduzione della definizione del matrimonio come unione tra un uomo e una donna, la menzione di dio o la proclamazione dei russi «popolo fondante dello Stato» – anche se i propagandisti governativi hanno già lanciato numerosi spot per pubblicizzare gli emendamenti. Dai video che promuovono il voto sembra di capire che Putin abbia deciso di scommettere sul suo elettorato più fedele, gli anziani e i nostalgici dell’Urss,
con spot che attaccano i gay e ricordano che tra gli emendamenti ci sarà anche la norma sull’indicizzazione delle pensioni. Allo stesso elettorato è rivolta anche la sfilata, che ora si terrà il 24 giugno, alla vigilia del voto. Il problema è che dai sondaggi del Levada-zentr, unico istituto demoscopico indipendente della Russia, risulta che praticamente tutti gli altri strati della popolazione, inclusi i ceti meno abbienti solitamente molto leali al regime paternalista, manifestano un livello di scontento sempre più elevato, e il 28% si dichiara pronto a scendere in piazza per protesta contro le proprie condizioni. La crisi economica, la gestione estremamente maldestra dell’epidemia, la scarsità di aiuti a imprese e lavoratori, l’inefficienza della sanità e l’occultamento delle statistiche reali sulla mortalità per Coronavirus, tutto questo ha eroso la fiducia verso il governo, e a pagarne le spese è stato proprio il presidente, che i russi da vent’anni erano abituati a vedere come l’uomo che risolveva i problemi. Una crisi di consenso che ha aperto anche una crisi politica. Il sindaco di
Mosca Sobyanin, il primo politico ad affiancare quando non surclassare per decisionismo il presidente in tutto il ventennio putiniano, ha prima introdotto il lockdown che il Cremlino era refrattario a imporre, e poi ha fatto sapere in maniera nemmeno troppo discreta di averlo abolito soltanto su richiesta diretta di Putin. Considerando che l’epidemia appare tutt’altro che sotto controllo, è probabile che in questo modo voglia scaricare sul presidente la responsabilità di un’eventuale impennata dei contagi come conseguenza del voto. E il fatto che il portavoce del Cremlino abbia subito smentito, sostenendo che il sindaco avesse cambiato idea sulla quarantena di sua spontanea e improvvisa volontà, dimostra che anche la presidenza teme le conseguenze sanitarie delle decisioni politiche che ha preso. L’opposizione russa infatti è incline all’opzione di boicottare il referendum, e il leader della protesta Alexey Navalny ha annunciato ai suoi seguaci che la sua linea sarà quella di disertare i seggi, per tutelare la salute degli elettori e degli scrutatori e tentare di delegittimare il risultato.
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Politica e Economia
Tutto questo è già accaduto
Stati Uniti La nostra memoria storica ci obbliga a riconoscere che questa nazione, un tempo guida dell’Occidente,
nel passato ha già proiettato un’immagine così disastrosa nel mondo Federico Rampini «Stop the pain», fermate la sofferenza: è l’appello lanciato da Philonise Floyd, fratello di George, alla Camera dei deputati di Washington. «Io vi chiedo – ha detto ai parlamentari – cosa vale la vita di un nero? Venti dollari?». Il riferimento era alla banconota contraffatta che fece scattare l’arresto di George Floyd, poi ucciso per soffocamento in un video che il fratello ha ricordato: «Ho continuato a rivedere quelle immagini, otto minuti che mi sono sembrati lunghi otto ore. Non si tratta così un animale. Questo è il 2020. È ora di dire basta. Tutti quelli che protestano nelle strade ve lo dicono: basta». Una rivoluzione culturale, sotto il segno dell’anti-razzismo, sembra soffiare impetuosa negli Stati Uniti. Investe anche il mondo dei media vecchi e nuovi. Fra i segnali c’è la cancellazione della 33esima stagione di una serie televisiva accusata di apologia dei poliziotti violenti, Cops. Ci sono le dimissioni di capiredattori di testate importanti, dal direttore delle pagine dei commenti del «New York Times» ad altri nel «Wall Street Journal» e «Philadelphia Inquirer», in seguito a contestazioni delle loro redazioni sul taglio scelto per le cronache o i commenti sulla questione razziale e sulle manifestazioni di protesta. Dopo le statue di personaggi controversi abbattute, c’è la decisione della US Navy di abolire da ogni base della marina militare le residue bandiere confederate, cioè quelle del Sud schiavista sconfitto nella guerra civile. La rivoluzione culturale investe da tempo anche i social media, con il precedente di Twitter che da tre settimane ha cominciato ad ammonire gli utenti quando le affermazioni di Trump risultano fake news o possono incitare la violenza. Un dato significativo delle ultime proteste è la crescita costante della partecipazione di bianchi, soprattutto giovani. Questo rispecchia quanto dicono i sondaggi: la consapevolezza delle ingiustizie razziali e delle discriminazioni da parte della polizia è aumentata molto negli ultimi anni fino a raccogliere il 71% dei bianchi (il livello è aumentato del 25% in cinque anni). Un altro fattore sembra spiegare il costante aumento di giovani bianchi nei cortei. Gli studenti universitari o liceali che invadono le piazze – di qualunque etnia o colore siano – escono da un lockdown che li ha privati dei loro studi «normali» ed entrano in un mondo che si presenta molto avaro di opportunità. Questa è stata già definita come «The Unluckiest Generation», la più sfortunata delle generazioni, con prospettive di lavoro e di benessere ridotte. I più anziani di questa fascia di popolazione sono quei Millennial che si avvicinano alla soglia dei 40 anni e sono già alla terza recessione: soffrirono quella (breve) provocata dall’11 settembre 2001, poi quella del 2008-2009. Il loro reddito potere d’acquisto non si era ancora ripreso dalla crisi di 11 anni fa. Dietro di loro ci sono i Millennial ancora ventenni; poi giù giù fino alla cosid-
Un dato significativo delle ultime proteste è la crescita costante della partecipazione di bianchi, soprattutto giovani. (AFP)
detta Generazione Z. Tutti quei giovani che avevano un lavoro hanno sofferto l’ondata dei licenziamenti da lockdown più dei loro genitori. L’occupazione dei Millennial è già scesa del 16% a marzo e aprile. La Generazione Z o «zoomer» ha avuto un terzo dei posti di lavoro cancellati dall’inizio del coronavirus. Gli studenti universitari o liceali hanno subito un peggioramento nella qualità dell’istruzione e presto affronteranno un mercato del lavoro depresso. Messe insieme, queste generazioni avranno sperimentato la peggiore situazione economica di tutte quelle che le hanno precedute dall’Ottocento a oggi. Naturalmente al loro interno chi soffre di più sono le minoranze etniche. Già in un periodo prospero come il quindicennio dal 1985 al 2000, due terzi dei bambini neri abitavano in aree povere e segnate dalla «segregazione di fatto» (cioè abitate in prevalenza da famiglie afroamericane), un dato peggiore rispetto agli anni Sessanta. Perfino nel ceto medioalto, i figli degli afro-americani avevano già prima di questa crisi una mobilità sociale in discesa, stavano peggio dei loro genitori. La protesta contro il razzismo e gli abusi della polizia, con la partecipazione crescente dei giovani bianchi, unisce queste generazioni attorno a un ideale condiviso; al tempo stesso concentra un insieme di paure più generali.
«Sono contrario a tagliare i fondi alla polizia». Così Joe Biden ha preso le distanze dall’ala sinistra del suo partito e ha scontentato i cortei della protesta anti-razzista. L’ex vice-presidente di Barack Obama, candidato democratico alla Casa Bianca, si è dissociato dallo slogan più gridato nelle manifestazioni: «De-fund the police». Per Biden sarebbe un errore: «Condivido il dolore e la frustrazione di chi chiede un cambiamento. Una riforma è urgente. Voglio condizionare i finanziamenti federali alle forze dell’ordine, in modo che vadano a quei corpi di polizia locale che garantiscono il rispetto di standard basilari di onestà e giustizia». La tutela dell’ordine pubblico e della legalità, secondo Biden richiede più mezzi, soprattutto nelle aree dove si concentrano povertà e disagio sociale. La spaccatura è totale, con un pezzo consistente del suo stesso partito. I giovani che hanno invaso centinaia di città americane. La sinistra radicale che si rifà al socialismo, con il leader storico Bernie Sanders e la trentenne Alexandria Ocasio-Cortez. Ed anche il «partito dei sindaci», o almeno i sindaci di alcune grandi metropoli ultra-progressiste: sia Bill de Blasio a New York sia Eric Garcetti a Los Angeles hanno annunciato tagli al bilancio dei rispettivi corpi di polizia (in quasi tutte le città Usa la polizia è agli ordini del sindaco).
La presa di distanza di Biden è clamorosa: nel momento in cui il Paese vibra di sdegno per le troppe violenze della polizia, non è scontata la scelta di andare contro la piazza, e contro i grandi media liberal. «The Washington Post» gli ha dedicato un titolo velenoso sugli «antichi legami tra Biden e le forze di polizia». I poliziotti americani – corpo iper-sindacalizzato, tra i più garantiti nel pubblico impiego – sono stati a lungo una constituency elettorale potente, corteggiata dai politici di ogni colore. Ma non c’è bisogno di immaginare patti di voto di scambio, inconfessabili mercanteggiamenti. La storia di Biden è trasparente: a 77 anni, appartiene a una generazione che ricorda gli errori della sinistra nei «rivoluzionari» anni Sessanta, quando la piazza ribolliva di contestazione e la «maggioranza silenziosa» diede la Casa Bianca al repubblicano Richard Nixon per ben due mandati. O ancora negli anni Ottanta quando fu il repubblicano Ronald Reagan a diventare il presidente Law and Order. Biden sa anche di quale appoggio gode nella comunità afroamericana: furono i neri a salvarlo dalla débacle nelle primarie, ripescandolo con un trionfo in North Carolina. Quell’elettorato afroamericano del Sud è un ceto medio moderato, molto lontano da Spike Lee e dall’intellighenzia di Harlem. La
middle class nera del Sud detesta la polizia razzista ma vuole ordine e sicurezza nei propri quartieri. Sembra ovvio affermare che l’America ha toccato il fondo. Che questa nazione, un tempo guida dell’Occidente, non ha mai proiettato un’immagine così disastrosa nel mondo. La memoria storica obbliga a riconoscere che è vero il contrario. È un film già visto. Ero bambino quando vennero assassinati John e Robert Kennedy, Martin Luther King. Dagli adulti intorno a me percepii che il sogno di un’America giovane e idealista si era spento nel sangue. Ero adolescente quando le piazze del mondo ribollivano di proteste: gridavamo «Yankee Go Home» contro la guerra ingiusta degli americani in Vietnam; le proteste pacifiste incrociavano la denuncia del razzismo contro i neri. Lo scandalo del Watergate che costrinse alle dimissioni Nixon venne percepito come l’agonia di una democrazia corrotta. Ero ventenne quando Ronald Reagan fu visto nel resto del mondo come un cowboy ignorante, attore di serie B, e un guerrafondaio anticomunista. Vivevo in California quando George W. Bush rubò un’elezione, e di nuovo parve che più in basso di così la democrazia non poteva precipitare. Invece era solo un inizio. Molto prima di Trump, già Bush favorì l’industria del petrolio e abbandonò il trattato di Kyoto sul clima. Poi l’invasione dell’Iraq, giustificata con una bugia. Nella mia San Francisco di allora, anno 2003, la piazza era tutta pacifista, Bush sembrava bocciato senza appello. Rivinse un secondo mandato. E a proposito di questione razziale: l’uragano Katrina, gli afroamericani della Louisiana abbandonati sui tetti delle case, circondati dalle acque mentre attendevano soccorsi inesistenti. Unilateralismo, arroganza, prepotenza imperiale: è tutto accaduto. Rientrai in America dopo cinque anni in Cina, quando il capitalismo di Wall Street trascinava il mondo in una grave crisi. E durante la presidenza di Barack Obama: i banchieri salvati con i soldi dei contribuenti senza porre argini alla loro avidità, mentre tante famiglie erano rovinate. I ripetuti episodi di violenza razzista nelle forze di polizia, le fiammate di protesta dopo Ferguson e Baltimora, la nascita di «Black Lives Matter» e quindi «niente sarà più come prima». Non è una consolazione ma una constatazione: l’Occidente pratica l’autocritica, sconosciuta in altre parti del mondo. Qualche volta c’illudiamo che il fervore autocritico possa scatenare una catarsi, che basti accendere grandi roghi sulle piazze per bruciarvi i peccatori designati. Pensiamo che tutto il male sono «loro», quelli là, con la complicità di qualcuno dei nostri che non è abbastanza purista, intransigente. Proclamiamo che la rivoluzione è iniziata, e guai a chi non marcia compatto dietro gli striscioni giusti. Pensiamo che la democrazia sia troppo lenta, troppo tollerante verso i malvagi, gli stupidi e gli ignoranti. È già accaduto tutto: pure questo. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Libia, la guerra non è finita
Reportage Sul campo si registra la sconfitta del generale Haftar appoggiato da Emirati, Egitto e Russia
mentre Tripoli ha sfruttato l’aiuto decisivo della Turchia. Così il Paese ricco di gas e petrolio è sospeso in un limbo sotto lo sguardo immobile dell’Europa
Francesca Mannocchi Haftar si ritira da Tripoli, Erdogan gioisce, la Russia media e cambia strategia, gli Emirati inviano armi in supporto del generale della Cirenaica e l’Europa sta a guardare. Così si potrebbe riassumere il recente, repentino, radicale, cambio di passo della guerra libica. Se non fosse che, come sempre nel paese nordafricano, i piani si sovrappongono e le alleanze diventano fluide. Il 20 maggio scorso le forze del governo di Tripoli hanno sfilato nella capitale con un Pantsir, un sistema di difesa aereo costruito dalla Russia e finanziato dagli Emirati, bottino della riconquista della base aerea di al Watiya, che era in mano alle forze di Haftar dal 2014.
Lanciata da Haftar ormai 15 mesi fa, la guerra che nei suoi piani e in quelli dei suoi alleati avrebbe dovuto essere solo una formalità, si è trasformata in una guerra di interessi Una settimana dopo il GNA ha riconquistato i campi di Yarmouk, al Sawarikh e Hamza, a sud della capitale. Sono solo le ultime vittorie sul fronte di Tripoli da quando Erdogan sta supportando con uomini e mezzi il governo di Fayez al-Sarraj. Prendere al Watiya segna un passaggio decisivo della guerra, sia in termini strategici – la base militare è vicina al confine tunisino ed era utilizzata dagli aerei del generale Haftar per attaccare Tripoli – sia perché la vittoria ha rafforzato il morale delle truppe. Dopo pochi giorni, in un’accelerazione tanto improvvisa quanto inaspettata, le forze del governo tripolino, altresì noto come Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Fajez al Sarraj, sostenuti dai turchi, hanno ripreso il controllo della capitale e in rapida sequenza si sono spostati verso Tarhouna, ultimo bastione delle forze del Generale della Cirenaica e verso Sirte. Il piano simbolico delle ultime settimane è di particolare interesse. Sarraj, il giorno della conferenza stampa che comunicava al mondo l’avvenuta riconquista di Tripoli, era in Turchia, ad Ankara. Haftar, lo sconfitto, in Egitto, paese alleato da cui in poche ore, per voce di al Sisi, avrebbe dichiarato di chiedere un cessate il fuoco e un tavolo di negoziazione. L’ipotesi più probabile è che ben prima dei cambiamenti militari sul campo di battaglia, a modificare la guerra di Libia, siano intervenuti fattori terzi. In particolare il parallelo tavolo negoziale di Erdogan e Putin, che si muove dalla Siria al Nord Africa. L’«offensiva-lampo» lanciata da Haftar ormai 15 mesi fa, la guerra che nei suoi piani e in quelli dei suoi alleati avrebbe dovuto essere solo una formalità, si è trasformata in una guerra di interessi. Haftar è sostenuto dagli Emirati e dall’Egitto, e le sue truppe rafforzate da mesi dalla presenza di mercenari russi del gruppo Wagner e mercenari sudanesi e ciadiani. Un anno fa c’erano tutte le premesse – compresa un pubblico ringraziamento del presidente americano Trump per le lotte condotte da Haftar contro i gruppi terroristici in
La ritirata di Haftar, oltre che militare, è anche diplomatica. (A. Romenzi)
Libia – affinché, fallite tutte le negoziazioni politiche precedenti, una rapida e decisa soluzione militare riconsegnasse il Paese al destino di una dittatura in stile egiziano. Mentre Haftar avanzava verso la capitale e continuava a boicottare tavoli di trattative – l’ultimo a Berlino lo scorso gennaio – conducendo una guerra che ha prodotto centinaia di morti e 400 mila sfollati, il governo di Sarraj, sostenuto dalle Nazioni Unite ma trascurato nei fatti dagli storici alleati europei, ha stretto due accordi (l’uno dipendente dall’altro) con la Turchia di Erdogan: uno sulle aree di giurisdizione marittima nel Mediterraneo – che compromette gli interessi di Egitto, Israele, Grecia e Cipro – e uno sulla sicurezza e la cooperazione militare. La Turchia si è dichiarata pronta ad aiutare il debole premier di Tripoli sul fronte della guerra a patto di rafforzare i propri interessi nella regione, non solo economici, perché Ankara vuole anche rafforzare la presenza della Fratellanza Musulmana contro i rivali emiratini. Do ut des. Così Erdogan ha fornito a Sarraj droni, sistemi missilistici, veicoli blindati, personale addestrato e migliaia di ribelli siriani, elementi che hanno trasformato la guerra di Libia in una guerra di Siria nordafricana, e reso la partita per Tripoli simile a quella di Idlib, cambiando inesorabilmente le sorti del conflitto. Gli Emirati Arabi Uniti hanno effettuato 900 attacchi aerei con droni da combattimento cinesi, la Turchia ha risposto schierando droni Bayraktar TB2 nel tentativo di aiutare il GNA a resistere all’attacco. La Turchia ha inviato tremila miliziani siriani ribelli e altri duemila fedeli al regime di Bashar alAssad, starebbero invece combattendo a fianco delle forze di Haftar, che in risposta ha aperto una sede diplomatica a Damasco. Secondo i dati analizzati dallo specialista di localizzazione di aeromobili
Gerjon «negli ultimi mesi ci sono stati numerosi voli dagli Emirati verso la Libia e Sidi Barrani, in Egitto, che sembra essere una fermata intermedia sulla rotta verso la Libia. Dal lato di Tripoli, invece, nell’ultima settimana l’aeronautica turca ha volato regolarmente in Libia con il supporto dei Globemaster del Qatar C-17A». Gerjon conferma i dati sui voli diretti dalla Siria: «principalmente voli da Latakia verso aereporti affiliati a LNA, sono “SafeAir” Boeing 727 5Y-GMA e i due Cham Wings Airbus A320 e altre decine di voli dell’aereonautica russa per al Beida da Latakia, è ormai chiaro che Cham Wings (compagnia aerea privata siriana, con base a Damasco, ndr) sia coinvolta nel trasporto di mercenari centrafricani in Libia via Latakia».
Difficile che gli Emirati rinuncino al piatto ricco del petrolio. Più probabile che le battaglie che si stanno preparando siano più feroci di quelle cui abbiamo assistito finora L’attuale situazione libica sconta fortemente la debolezza e l’incertezza europea, ne è conseguenza diretta; secondo Jalel Harchaoui, Research Fellow al Clingendael Institute de L’Aia, «la Libia occidentale è ormai diventata un protettorato turco, e a questo punto è improbabile che la Turchia se ne vada. Ma rimane una domanda: cosa significa esattamente Libia occidentale? Si ferma a Sirte o include la regione di Oil Crescent? Contiene il Fezzan? Include al-Jufrah? Rispondere a ognuna di queste domande significa prevedere un sanguinoso conflitto». Ora gli occhi sono puntati sulle
prossime mosse degli alleati di Haftar, soprattutto gli Emirati Arabi Uniti che con più forza degli altri hanno sostenuto una soluzione bellica della crisi e si trovano seduti ora al posto dei quasi sconfitti. La ritirata di Haftar, è, inoltre, anche una ritirata diplomatica. In Cirenaica ha vinto la linea di Aguila Saleh, il presidente del consiglio presidenziale che da qualche mese prova, a scapito della credibilità di Haftar, di imporsi come interlocutore unico della comunità internazionale nell’est del Paese. Saleh sa che per tenere unito il Paese è necessario riprendere i tavoli negoziali, ma che il generale è ormai privo di ogni credibilità su quei tavoli, avendo fatto fallire tutte le conferenze degli ultimi due anni. Haftar ha finora agito in un clima di quasi totale impunità. La comunità internazionale è stata timida, se non assente, quando ha lanciato l’offensiva su Tripoli e di nuovo tiepida ogni volta che il generale della Cirenaica ha fatto saltare i tavoli negoziali. Anche quando, nelle stesse ore in cui si discuteva la possibilità di una soluzione negoziale e un cessate il fuoco a Berlino, le milizie che lo sostengono hanno bloccato i pozzi petroliferi, provocando danni irreparabili di un miliardo e mezzo di dollari al mese alle casse dello Stato e aerei emiratini rifornivano di armi le sue truppe. La partita vera, come sempre in Libia, torna sempre lì. Al gas e al petrolio. Haftar è indebolito e in ritirata in molte aree, le forze di Sarraj stanno riconquistando anche il controllo dei pozzi di petrolio. È necessario ora capire come e se i due alleati esterni, Turchia e Russia, vorranno imporre i loro interessi su questa ricchezza. È dalle entrate della vendita del petrolio e del gas che si sostiene lo Stato libico, cioè gli stipendi pubblici cioè – anche – le paghe dei suoi soldati. Difficile dunque pensare che gli
Emirati rinuncino ora al piatto ricco del petrolio, più probabile e temibile che le battaglie che si stanno preparando siano più feroci di quelle cui abbiamo assistito finora. Secondo il «Financial Times», la Russia avrebbe dispiegato otto aerei da combattimento nell’est della Libia. Da parte sua, l’agenzia di stampa internazionale Bloomberg ha confermato di avere informazioni sull’arrivo in Cirenaica di sei aerei da combattimento MIG-29 e due Sukhoi24 direttamente dalla base di Hmeimim in Siria. E i mercenari che supportavano Haftar si stanno spostando da Beni Walid verso al Jufra, segno che la guerra non finisce, ma si sposta. Nella Libia troppo vasta, troppo ricca e troppo cruciale l’elemento imprevedibile sono gli Emirati, partner di molti governi europei che non vogliono conflittualità nel Golfo. Il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed non ha intenzione di rivisitare la sua visione del mondo e il suo stile, indipendentemente da quanto le cose stiano andando in una direzione contraria alla sua agenda in Libia. Continueranno a tentare di combattere e sabotare Tripoli, gli Emirati si occupano principalmente di immagine e ideologia, non di efficacia militare o di sicurezza nel senso convenzionale del termine. Infine, sono ricchissimi, quindi possono permettersi di andare avanti. Turchi e russi, invece, hanno obiettivi comuni, sono rivali ma non nemici, in cerca di accordi strategici che tutelino gli investimenti a lungo termine sulla regione, spiega Jalel: «la Russia gode di un certo grado di coordinamento con la Turchia e non desidera bruciare ponti con essa. Le due potenze non europee e non arabe non sono certamente alleate, ma non sono neppure nemiche. Questo spiega molto della cinica Realpolitik a cui stiamo assistendo». Intanto i mercenari e le truppe muovono verso sud. La guerra in Libia è tutt’altro che finita.
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Politica e Economia
Che spasimo vederti così
Milano e la Lombardia Incapace di contenere il virus anche a causa del pessimo comportamento della giunta,
Alfio Caruso Ci sono quelli che all’arrivo a Milano si sono sentiti chiedere 900 euro di affitto mensile per un monolocale in periferia; ci sono quelli che non sono riusciti a entrare in una delle scuole di alta specializzazione post universitaria; ci sono quelli che si sono visti respingere la richiesta di uno stand al Salone del Mobile o alla Settimana del Designer; ci sono quelli che hanno sempre detestato il Milan e l’Inter; ci sono quelli che avrebbero dato un braccio per esser presi in considerazione da Strehler o da Ronconi; ci sono quelli che hanno sofferto come un’offesa personale l’ascesa internazionale di Milano; ci sono quelli messi nei guai da Striscia la notizia o dalle Iene; ci sono quelli che hanno sempre avversato Berlusconi e le sue tv; ci sono quelli che hanno invano accompagnato un parente nel suo viaggio della speranza in un ospedale milanese; ci sono quelli che non sono stati assunti dal «Corriere della Sera»; ci sono quelli, infine, che non sopportano Salvini, la Lega e la loro presunzione che la Lombardia sia meglio, a prescindere. Per tutti costoro la pandemia del Coronavirus, che ha messo in ginocchio la regione più popolosa e più ricca d’Italia, è stata quasi una manna dal cielo. Ha permesso di regolare conti vecchi di decenni; ha regalato il gusto di sentirsi per una volta superiori a coloro i quali dalle Cinque Giornate del 1848 ritengono di poter dettare il passo
alla Nazione. A Milano è nato il socialismo riformista di Turati; a Milano è nato il fascismo di Mussolini; a Milano è nata l’Eni di Mattei, cioè il capitalismo di Stato; a Milano è nato il socialismo governativo di Craxi; a Milano è nata la telecrazia di Berlusconi; a Milano è nata Mani Pulite, che ha cancellato i vecchi partiti e dato l’illusione di poter cancellare anche la corruzione. Uffa, sempre Milano. Che goduria, quindi, vederla annaspare dinanzi a un contagio insidioso e pervasivo. La Milano e la Lombardia dei dané, dei grandi istituti super specializzati incapaci di contenere il Covid-19, anzi bastonati da alcune decisioni autolesionistiche. Questo fritto misto d’invidia, di gelosia, di rivalsa è stato purtroppo incentivato dal pessimo comportamento della giunta regionale. Dal presidente Fontana, afflitto da un aspetto perennemente funereo, all’assessore alla Sanità Gallera ridens a quello del Bilancio, l’incazzoso Caparini, è stato un continuo scaricare sul governo centrale qualsiasi colpa: un incessante esercizio di vittimismo nella speranza di sottrarsi alle proprie, pesanti responsabilità. Alle giuste osservazioni sul fallimento della sanità di base hanno risposto ricordando i 140mila malati provenienti ogni anno dalle altre regioni, che è proprio il motivo per il quale è stato distrutto il sistema territoriale dei medici di famiglia. Accusati di aver gestito al peggio i ricoverati nelle case di riposo con migliaia di morti hanno
reagito con l’inutile allestimento dell’ospedale in Fiera costato 21 milioni per 25 pazienti, adesso a un passo dall’esser smantellato e già sotto la lente dei magistrati. Vengono annunciate querele per l’oscura vicenda di camici prima commissionati alla società di famiglia della moglie di Fontana e poi trasformati in donazione quando sono cominciate le domande dei giornalisti di Report. Per ultimo la sentenza del Tar (tribunale amministrativo regionale), che ha bocciato l’accordo senza gara della Regione con la società privata Diasorin per i test sierologici. Una serie di scelte tali da giustificare le critiche, ma non il malanimo, anzi questo ha finito con il concedere una piccola via d’uscita alla giunta: ce l’hanno con la Lombardia, è un attacco politico. Non è vero, giacché le procure di Milano, Brescia, Bergamo hanno cominciato a indagare sulle stesse vicende al centro delle polemiche. Tuttavia, è innegabile che da più parti sia scattata una sorta di caccia all’untore. La Sardegna e la Sicilia, il cui turismo prospera grazie ai lombardi e ai milanesi, si sono prodotti in stucchevoli distinguo su chi accogliere e chi rifiutare. Lo stesso presidente del Veneto, Zaia, anch’egli leghista, ha preso le distanze per mettere in difficoltà Salvini gran protettore di Fontana. Si è giunti al paradosso di un membro della task governativa contro l’odio su internet, che ha proposto di chiudere i lombardi in Lombardia. Dinanzi alle reazioni
AFP
tanto odio nei suoi confronti non può essere giustificato. Anche perché senza questa regione l’Italia non si riprenderà
indignate di molti ha detto di esser stato equivocato. Al di là dell’incomprensibile rancore di taluni, resta che la disastrosa condotta degli esponenti lombardi della Lega si sia trasformata nella giustificazione di tanti oscuri imbrattacarte sparsi per la Penisola. Una pericolosa gara verso lo sprofondo, l’insano desiderio di mostrare che non esistono isole
felici, la voglia di tirar giù nella melma chiunque ambisca a emergere. La conferma che il Coronavirus ci abbia lasciati peggiori di come ci avesse trovati. È passato il messaggio che se sbaglia la Lombardia, possono sbagliare anche gli altri, per di più privi dei suoi mezzi. Mentre la realtà è un’altra: finché non si solleva la Lombardia, non si solleverà l’Italia. Ce lo garantisce la Storia. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 giugno 2020 • N. 25
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Politica e Economia
Il declino dell’oro nero
Materie prime Il 19 aprile 2020 è stata una data storica. Per la prima volta chi aveva del petrolio
ha pagato per farselo portar via
Marzio Minoli Non era mai successo nella storia delle quotazioni del petrolio così come le conosciamo oggi, utilizzando gli strumenti derivati, iniziate nel 1983. Chi aveva un contratto «future» di acquisto di petrolio con consegna per la fine di maggio, sarebbe stato pagato circa 40 dollari per prenderlo. Insomma, i produttori avrebbero pagato gli acquirenti per ritirare i barili di petrolio. Una cosa che detta così è controintuitiva, ma di questi periodi ha un suo senso.
Ci si attende un’ondata di fallimenti fra le compagnie estrattive statunitensi entro i prossimi due anni Il petrolio in questione è il WTI, acronimo di West Texas Intermediate, ovvero il petrolio statunitense, il quale, assieme al Brent, il greggio del Mare del Nord, è uno dei riferimenti mondiali sul mercato. E cosa sia successo il 19 aprile è presto detto. Questo petrolio viene immagazzinato soprattutto a Cushing, una cittadina di circa 8000 abitanti nell’Oklahoma che ha più cisterne che case con una capacità di 76 milioni di barili. Ebbene, questa capacità stava per essere raggiunta: era arrivata al 72% già il 10 aprile. In condizioni normali non sarebbe stato un problema. Il petrolio entra ed esce dalle cisterne con regolarità. In condizioni normali. Ma in queste settimane di normale, nel mondo, c’era ben poco. Dalla Cina, agli Stati Uniti passando per l’Europa le attività economiche di 187 paesi si sono bloccate. E una delle prime conseguenze è stato un crollo della domanda di petrolio
a livello mondiale, 30 milioni di barili in meno, ovvero il 30% della domanda giornaliera. Dunque, in quelle settimane c’era in giro molto petrolio, che nessuno poteva usare, data la chiusura delle attività, e che nessuno sapeva dove immagazzinare visto che le capacità delle cisterne erano praticamente esaurite. E quel poco spazio che c’era, era carissimo. L’offerta superava la domanda, e di molto, anche perché non erano ancora entrati in vigore gli storici accordi sui tagli alla produzione decisi qualche giorno prima. 10 milioni di barili al giorno per i mesi di maggio e giugno, che passeranno a 8 milioni in luglio. E poi 6 milioni da gennaio 2021. Tagli decisi dai paesi OPEC più la Russia. Seguiti poi anche da altri, Stati Uniti in primis, che si sono detti d’accordo a ridurre la produzione. Una mossa che però non è servita a frenare il crollo. Ecco quindi che man mano che si avvicinava la scadenza del contratto per le forniture di maggio di WTI, il prezzo scendeva sempre di più, fino, come detto, ad arrivare alla storica quotazione negativa. Costava meno pagare per farsi portar via i barili, che tenerli a costi altissimi. Quanto successo il mese di aprile è stato più unico che raro. Oggi le quotazioni del contratto di luglio, il prossimo in scadenza, si aggirano attorno ai 35 dollari, segno che la domanda cresce. La Cina ha ripreso a funzionare, così come buona parte dell’Europa. E anche gli Stati Uniti lo faranno presto. Perlomeno dal punto di vista del mercato, la normalità è stata ripristinata, anche se gli analisti rimangono prudenti. C’è molto oro nero nei depositi, e anche con una ripresa in corso ci vorrà del tempo affinché venga utilizzato tutto e si torni ai livelli pre-covid. Quindi ci si attende una certa immobilità dei prezzi per qualche mese.
Quanto successo in aprile resta comunque un fatto più unico che raro. (Keystone)
Secondo Avenergy Suisse, l’associazione che rappresenta gli importatori di combustibili liquidi in Svizzera, si stima che dopo il calo della domanda di 30 milioni di barili di aprile, per maggio si arriverà ad un meno 21 milioni e a giugno meno 13 milioni. Come si vede la ripresa sarà lenta. Ma quali sono le conseguenze pratiche di quel fatto così straordinario successo ad aprile? Molti penseranno
che anche i prezzi della benzina sarebbero potuti scendere a livelli bassissimi. Certo, la logica direbbe ciò e qualche piccolo vantaggio al distributore lo si potrà vedere, ma nulla di eclatante. Come detto il WTI è solo uno dei «petroli» in circolazione. Il Brent ad esempio, quello del Mare del Nord, non ha subito gli stessi scossoni. Come mai? Semplice, il Brent viene stoccato nelle petroliere, mentre il WTI non ha
sbocchi sul mare e deve essere portato a Cushing o nelle raffinerie. Un’altra conseguenza pratica del crollo del prezzo del petrolio, in generale non solo riferito al WTI, è il rischio fallimento di molte aziende estrattrici statunitensi. Visti gli alti costi d’estrazione, per molte di queste società un prezzo di 30 dollari al barile è già molto difficoltoso da sostenere. Si stima che le principali compagnie perderanno 26 miliardi di dollari nel primo trimestre e ci si attende un’ondata di fallimenti nei prossimi due anni. Fallimenti che toccheranno anche molti risparmiatori. Infatti, queste compagnie sono molto indebitate e difficilmente riusciranno a onorare gli 86 miliardi di dollari di obbligazioni in scadenza. Il petrolio dunque continua ad essere al centro dell’attenzione. Probabilmente si tratta della materia prima più condizionabile da fattori esogeni che superano il semplice meccanismo della domanda e dell’offerta. Le tensioni internazionali giocano un ruolo fondamentale e il petrolio diventa un’arma micidiale contro quei paesi che ne fanno una, se non l’unica, risorsa economica. Un aumento o una diminuzione del prezzo, indotta da manovre politiche può mettere in ginocchio intere nazioni. Ed è paradossale che questo bene così prezioso provenga proprio da zone del mondo molto instabili. Senza contare la sempre più crescente avversione ai combustibili fossili, che ne potrebbe condizionare il prezzo in futuro. Elementi teorici, forse, ma il fatto che l’Arabia Saudita, il secondo maggior produttore mondiale dopo gli Stati Uniti, stia tentando di riconvertire la sua economia, rendendola meno dipendente dal greggio, è un segnale che probabilmente l’era del petrolio, così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, non durerà per molto.
Nuove banconote – in Svizzera ed Eurozona
Analisi Gli (s)vantaggi dal cambio della cartamoneta circolante in tempi d’instabilità economico-monetaria Edoardo Beretta Da sempre mi ritengo sostenitore dell’importanza che, anche in epoche di mezzi di pagamento sempre più moderni, il contante (cfr. banconote e monete) continui a detenere un ruolo anche psicologico importante. Si ricordino le corse agli sportelli – verificatesi nel 2007 nel vicino Regno Unito con il collasso del gruppo finanziario Northern Rock –, quando i correntisti richiedevano il prelievo (e non il trasferimento interbancario) dei loro risparmi. Fra i vantaggi da elencare vi sono immediatezza del saldo di ogni transazione – non a caso, in spagnolo, il «contante» è chiamato efectivo –, migliore percezione di spesa, fisicità difficilmente sostituibile nella concezione di ricchezza economica indiviSvizzera1)
duale oltre che totem di libertà di scelta delle modalità di pagamento. Fra gli svantaggi spesso menzionati figurano il contributo ad attività illecite grazie alla non-tracciabilità – a onor del vero, la complessità di certi strumenti finanziari fra cui le «modernissime» criptovalute fa altrettanto –, i costi di produzione/manutenzione/sostituzione oltre che una minore gestibilità delle politiche monetarie a fronte della possibilità che una parte consistente dei risparmi individuali venga tesaurizzata. Risulta, quindi, interessante formulare alcune osservazioni circa le recenti serie di banconote introdotte sia dalla BNS sia dalla BCE. Tali misure sono testimonianza viva di come questi strumenti di pagamento siano ancora centrali nella quotidianità. I mezzi di pagamento contanti sono,
Numero di serie 1a 2a 3a 4a 5a 6a 7a
Anno 1907 1911 1918 1938 1956 1976 1984
Pezzi (CHF / EUR) 50, 100, 500 e 1.000 5, 10, 20, 40, 50, 100, 500 e 1.000 20 e 100 50, 100, 500 e 1.000 10, 20, 50, 100, 500 e 1.000 10, 20, 50, 100, 500 e 1.000 10, 20, 50, 100, 500 e 1.000
8a 9a
1995 2016
10, 20, 50, 100, 200 e 1.000 10, 20, 50, 200 e 1.000
Area Euro2) 1a 2a
2002 2013
5, 10, 20, 50, 100, 200 e 500 5, 10, 20, 50, 100 e 200
dunque, «vivi» ed – in quanto tali – è assai apprezzabile che le banche centrali ne salvaguardino regolarmente le caratteristiche tecniche immettendo nuove serie e sostituendo le precedenti. Tuttavia, vi sono criticità che dovrebbero essere prese in considerazione. In effetti si palesano ciclicamente antagonismi nei confronti del principale legal tender, cioè il mezzo di pagamento a corso legale, oltre che di diretta emissione della banca centrale. È anche opportuno far notare come quanto sopra rilanci il dibattito sull’opportunità che la banca centrale proceda in siffatto modo, cioè che investa tempo e risorse per concezione, emissione e sostituzione del circolante in epoche di pagamenti tecnologici. Il cash rischia di divenire oggetto di tenzone piuttosto che vero e proprio
Osservazioni Priva di valore
Richiamata, ma convertibile Serie di riserva (mai emessa e distrutta con procedimento ordinario) In circolazione In circolazione
assunto dei sistemi economici odierni. Inoltre, l’incertezza economico-finanziaria deve essere ponderata con attenzione affinché tali policy non mettano (anche solo psicologicamente) in discussione la tenuta del contante, che è anche «riserva di valore» (store of value). Il proverbiale risparmio «sotto il cuscino» può divenire di difficile gestione – sebbene il sistema bancario coinvolto assicuri la validità dei biglietti di precedente emissione fino a comunicazione alternativa: a lungo andare, modifiche ricorrenti alle serie di banconote potrebbero produrre un effetto segnale per il cittadino medio, spingendolo a detenere i propri risparmi in forma diversa. Se è vero infatti che il contante non è remunerato, è altrettanto veritiero che non sia nemmeno gravato da interesse passivo (come ormai gli stessi conti deposito). Ci si chiede quanto le banche centrali non mirino a «dirottare» parte della liquidità verso forme di detenzione alternative gestibili tramite politica monetaria. Il ragionamento è semplice: maggiori i volumi su cui la policy dell’istituto bancario centrale può fare leva – ricordiamolo: il circolante non vi rientra –, maggiori sono impatto ed efficacia. Quanto è opportuno, poi, prevedere banconote di dimensioni centimetriche sempre più ridotte come nel caso di quella da 1000 CHF o 200 Euro? Una riduzione delle dimen-
sioni della cartamoneta non dovrebbe essere presa a cuor leggero. Infatti, se per motivi di risparmio sui già infimi costi di produzione (40 centesimi di CHF a seconda dei tagli3)) può essere in qualche modo ragionevole, molto meno lo è da un punto di vista psicologico verso il suo detentore. Un biglietto più piccolo sarà sì pratico, ma simbolicamente di minore valore. Dunque, anche nel 2020, il cash deve essere tutelato a difesa dello stesso benessere economico-nazionale e non si deve cedere alla tentazione di pensare che il concetto di modernità sia sinonimo di dematerializzazione. In tempi di congiuntura economica favorevole i risparmi – come amano gli scandinavi – in forma elettronica possono apparire assai pratici, in una crisi economica, invece, possono rivelarsi un errore fatale. Forse, le banche centrali dovrebbero spingere maggiormente all’utilizzo di esso piuttosto che esporlo a cambiamenti ciclici. Note
1. Elaborazione propria da http:// www.snb.ch/de/iabout/cash/history/ id/cash_history_overview#t4 2. Elaborazione propria da http:// www.ecb.europa.eu/euro/banknotes/ html/index.en.html. 3. https://www.snb.ch/de/iabout/cash/ cash_lifecycle/id/cash_lifecycle_ costs.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 giugno 2020 • N. 25
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Politica e Economia
Ascesa e caduta di un astro politico
Pubblicazioni In un libro Philippe Reichen ripercorre la vicenda del consigliere di Stato ginevrino Pierre Maudet,
tradito dalla propria ambizione Marzio Rigonalli Per quali ragioni un brillante uomo politico, destinato a ricoprire una delle massime cariche dello stato, s’inciampa nel suo percorso e cade senza poter risollevarsi e continuare a nutrire le sue ambizioni? È la parabola di Pierre Maudet, giunto a 39 anni sulla soglia del Consiglio federale, che Philippe Reichen, corrispondente del «Tages Anzeiger» nella Svizzera romanda, cerca di analizzare e di spiegare in un libro di recente pubblicazione (Pierre Maudet – sein Fall, edizioni Stämpfli).
La sua carriera politica cominciò all’età di 12 anni, quando propose la creazione di un parlamento dei giovani Prima di inoltrarsi nei momenti decisivi della caduta di Maudet, Reichen ripercorre la sua rapidissima carriera politica, senza dimenticare i tratti della sua personalità. Una carriera che comincia già quando Maudet aveva 12 anni, il giorno in cui propose al municipio ginevrino di creare un parlamento dei giovani. Il progetto si realizzò due anni dopo e Maudet divenne presidente del parlamento. Sei anni dopo, Maudet si iscrisse al PLR ginevrino, che allora comprendeva soltanto i radicali, e a 21 anni venne eletto nel «Conseil municipal». Era il più giovane degli 80 membri del legislativo cittadino. Nel 2007 diventò municipale ed assunse il dicastero della sicurezza, comprendente le forze di polizia, la protezione civile ed i pompieri. Quattro anni dopo, venne confermato nell’esecutivo e ne assunse la presidenza. Diventò il più giovane presidente del «Conseil administratif», un traguardo mai registrato da nessuno fino allora nella storia della città. Il passaggio al livello superiore era ormai imminente. Un anno dopo, nel 2012, approfittando di un’elezione complementare, Pierre Maudet si fece eleggere nel Consiglio di Stato. Aveva soltanto 34 anni e stabiliva un altro record, quello di essere il più giovane consigliere di Stato nella storia del canton Ginevra. La nomina nel governo cantonale non rappresentava però un punto d’arrivo, bensì un trampolino, che Pierre Maudet voleva usare per
Che cosa sarebbe successo se Maudet fosse stato eletto in Consiglio federale nel 2017? (Keystone)
dare concretezza alle sua ambizioni nazionali e diventare consigliere federale, imitando così Micheline Calmy-Rey, che passò direttamente dall’esecutivo cantonale all’esecutivo federale. L’occasione si presentò nel giugno del 2017, quando Didier Burkhalter annunciò le sue dimissioni. Pierre Maudet presentò la sua candidatura e lo stesso fecero Ignazio Cassis e la vodese Isabelle Moret. Le peripezie che caratterizzarono la successione di Burkhalter costituiscono ormai un lungo capitolo della nostra storia nazionale recente. Ricordiamo soltanto che Cassis venne eletto dall’Assemblea federale al secondo turno con 125 voti. Maudet ottenne
90 voti. La sconfitta non intaccò la sua popolarità a Ginevra. Qualche mese dopo, nell’aprile del 2018, venne riconfermato nel Consiglio di Stato e fu l’unico membro del governo ad essere rieletto al primo turno. Sfogliando le pagine della carriera politica di Pierre Maudet, Reichen mette in luce quelle caratteristiche che gli hanno consentito di essere al centro della scena politica ginevrina per molti anni. Una grande forza di lavoro, una buona dose di coraggio, che gli consentiva di difendere anche progetti molto criticati e difficili da far accettare, un dinamismo continuo che caratterizzava il suo lavoro quotidiano e una pos-
sente capacità retorica. Molti ginevrini vedevano in lui non soltanto un uomo simpatico e capace, ma anche un politico in grado di avere delle idee e dei progetti, e di sapersi proiettare nel futuro. I suoi appoggi e le simpatie che generava si estendevano ben oltre il suo partito. Una parte della sinistra l’accettava perché proponeva una politica economica sociale e perché fu l’autore dell’operazione papyrus, che mirò a legalizzare lo statuto dei «sans-papiers». La destra lo appoggiava perché sapeva essere duro ed intransigente nei confronti della criminalità e dell’immigrazione clandestina. Il brillante percorso politico di
Maudet nascondeva, però, un’ombra che a poco a poco emerse e si estese, fino a minare la sua credibilità e la sua affidabilità. I primi segnali giunsero attraverso alcuni articoli di stampa. In gioco c’era un viaggio che Maudet compì ad Abu Dhabi nel novembre del 2015, con la sua famiglia ed il capo del suo gabinetto. Era un viaggio ufficiale o un viaggio privato? Chi pagò le spese? Quali vantaggi ne derivavano e per chi? Nel 2017 la Procura ginevrina aprì un’inchiesta. Maudet cercò di giustificarsi, attribuendo l’invito e le spese del viaggio ad un suo amico. Mentì, probabilmente per non danneggiare la sua carriera politica. Più tardi si scoprì che Maudet era stato invitato dal principe ereditario di Abu Dhabi, il quale aveva assunto anche tutte le spese di viaggio e di soggiorno. L’inchiesta sul discusso viaggio, si estese poi anche ai finanziamenti delle campagne elettorali di Maudet ed alle sue dichiarazioni fiscali. Il modo di agire di Maudet ebbe ovviamente conseguenze politiche, che Reichen descrive con dovizia di particolari. I suoi colleghi di governo gli tolsero importanti dossier, privandolo così di una parte dei suoi poteri. La direzione del PLR nazionale gli chiese di dimettersi ed altrettanto fece la direzione del PLR ginevrino. L’ambizioso consigliere di Stato, però, rifiutò e si appellò alla base del suo partito. Il 15 gennaio 2019, in un’assemblea molto attesa, la maggioranza dei membri del PLR ginevrino (341 contro 312) gli rinnovò la propria fiducia. Forte di questo consenso, Maudet rimase al suo posto e, più volte, dichiarò di voler restare consigliere di Stato fino alle prossime elezioni cantonali del 2023. L’inchiesta non è ancora finita e soltanto una sentenza giudiziaria consentirà di scrivere l’ultima pagina di questo scandalo. È una vicenda che coinvolge innanzitutto la politica ginevrina, ma che, almeno in parte, tocca anche quella nazionale. Molte domande rimangono in sospeso. Per esempio: perché il principe ereditario di Abu Dhabi ha invitato un consigliere di Stato ginevrino? Oppure: che cosa sarebbe successo se Maudet fosse stato eletto consigliere federale nel 2017? Sono domande che probabilmente non avranno mai una risposta, ma che inducono a riflettere sui pericoli e le insidie cui devono far fronte le nostre istituzioni democratiche. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Si fa presto a dire «decrescita» Le situazioni drammatiche, come quelle della pandemia che stiamo ancora vivendo, possono far fare salti in avanti alla politica ha scritto di recente, su questo settimanale, Remigio Ratti. Forse è vero e forse no. Quel che è certo è che proprio in crisi di questo tipo nascono, o rinascono, dibattiti di importanza fondamentale attorno ai fini perseguiti dalla politica. Come, per venire al tema che vogliamo trattare in questo articolo, quello sulla decrescita dell’economia come mezzo per combattere gli effetti perversi della continua crescita sul clima e sull’ambiente. Nel corso delle ultime settimane è sorto , anche in Ticino, un dibattito sulla possibilità e sui vantaggi e i costi di una crescita negativa del Pil. Tutti coloro che vivono in vicinanza di grandi aeroporti (come è il caso del vostro servitore) hanno potuto apprezzare, in questi ultimi mesi, la pace di giornate
senza aerei che, in partenza o in arrivo, passano sopra la vostra testa facendo così tanto rumore da impedire di capire che cosa vi sta dicendo, sopra la siepe, il vostro vicino. Anche i pochi pendolari rimasti hanno in cuor loro ringraziato il virus per aver tolto dalle strade almeno il 60% del traffico usuale. Il cielo è diventato più trasparente e l’aria migliore perché le immissioni dell’industria e del traffico motorizzato, così come le polveri fini, si sono ridotte vistosamente. Certo che se guardiamo al costo in termini economici di questi aspetti positivi possiamo restare inorriditi. In più la decrescita non ha favorito tutti i gruppi di popolazione nel medesimo modo. Essa ha avuto aspetti positivi per certi gruppi di popolazione come i rappresentanti del ceto medio che vivono nella periferia dei grandi agglomerati urbani, in particolare i pensionati, ma anche costi enormi per
gli imprenditori che hanno dovuto ridurre il grado di utilizzazione della loro capacità produttiva, per i lavoratori che si son visti imporre riduzioni di salario o, in molti casi, sono restati disoccupati, per l’ente pubblico che ha dovuto intervenire in tutti sensi e in tutte le direzioni per sostenere aziende e rami in difficoltà, e per le generazioni future che dovranno rimborsare l’enorme debito pubblico accumulatosi in questi mesi. E con questo esempio ci sembra di aver illustrato, in modo esauriente, anche i grandi temi del dibattito in corso su una possibile decrescita dell’economia nei prossimi decenni. Le questioni centrali dello stesso sono due. La prima riguarda l’interrogativo a sapere se sia possibile programmare una crescita negativa della produzione nazionale in un’economia di mercato che usa il denaro per finanziare i propri investimenti e i propri scambi. Un
economista-ecologista come Matthias Binswanger in Crescere è un obbligo, sostiene che non è possibile arrestare la crescita mantenendo banche e mercato. E non è che consigli un cambiamento di sistema. Piuttosto che battersi per conquistare un tasso di crescita negativo, Binswanger propone di concentrarsi sulla riduzione degli effetti ecologici negativi generati dal sistema attuale. L’altro grosso tema di discussione è quello al quale abbiamo accennato nel nostro esempio, ossia quello degli eventuali effetti negativi di una riduzione drastica dei tassi di crescita sulla distribuzione della ricchezza e del reddito a livello mondiale. Ricordiamo che, da Adamo Smith a Keynes, per più di 150 anni, gli economisti si sono occupati esattamente del tema contrario: ossia degli effetti positivi che la crescita della produzione può avere a livello di redistribuzione del reddito
e della ricchezza. Il problema è che, con la crescita di reddito e ricchezza, anche i bisogni sono aumentati, tanto che oggi il reddito minimo (garantito in molti paesi europei da legislazioni a livello nazionale) consente alla famiglia di coprire bisogni che, nel 1770, quando Smith lavorava al suo trattato, erano quelli delle classi più elevate. Da qui l’impressione che hanno molti che una possibile riduzione della crescita del reddito non dovrebbe avere conseguenze troppo gravi. Purtroppo, però, come hanno dimostrato le ultime settimane, tassi di crescita negativi hanno sempre un influsso asimmetrico sulla distribuzione del reddito. È vero che con la decrescita tutti avremo meno per i nostri bisogni. Ma è anche molto probabile che chi oggi vive in condizioni agiate potrà sopportare meglio la riduzione di chi invece deve, già oggi, vivere con poco.
letto in piazza una dichiarazione: inizia «il processo che porterà alla fine del dipartimento di polizia» della città. Il sindaco non è d’accordo e anzi proprio il suo rapporto con la piazza racconta bene la trasformazione della battaglia. Jacob Frey, democratico trentottenne, sindaco dal 2018, ha gestito l’uccisione di Floyd, le proteste e la polizia con grande empatia e determinazione fin dal primo momento: anzi, per molti giorni Frey è risultato l’antitesi del presidente Donald Trump. Come spesso è capitato da ultimo, la Casa Bianca ha ingaggiato scontri diretti con molti amministratori locali (basti pensare agli attacchi ai governatori durante il picco della pandemia) e naturalmente il giovane democratico con la retorica kennediana non poteva essere risparmiato. Frey ha continuato la sua operazione di rassicurazione davanti a una città ferita – e Minneapolis è ferita da sempre perché una vera integrazione non c’è mai stata. Ma qualche giorno fa, il sindaco amatissimo è stato fischiato dalla piazza che lo aveva fino ad allora acclamato. La
sua colpa? Non è a favore dell’abolizione della polizia. Ha detto lì e poi anche in altre occasioni in tv che è a favore di una grande riforma delle forze di polizia, che vuole un cambiamento culturale oltre che pratico dell’approccio della polizia alle persone, che è necessario rivedere voce per voce il budget del dipartimento e investire su una formazione diversa. Frey insomma è a favore di quella grande riforma che è stata discussa anche al Congresso e che ha a che fare con la riduzione dei fondi alla polizia: anche questa è una materia molto controversa, e non c’è affatto un consenso bipartisan (al Congresso nessun repubblicano ha votato a favore) ma fa parte di un processo di ripensamento innescato dalle proteste e dentro a un perimetro definito. L’abolizione della polizia è tutt’un’altra faccenda e anche lo stesso Frey lo ha detto chiaramente: su questo non sono con voi. «Abolish the police» potrebbe diventare un boomerang sia per i manifestanti sia per il Partito democratico: la macchina propagandistica di Trump
è già al lavoro. L’occasione ghiotta è stata, come spesso accade, fornita dalle manifestazioni stesse che sono entrate nella fase massimalista in cui si vuole regolare tutti i conti in una volta sola, e subito. Joe Biden, candidato democratico alle presidenziali di novembre, ha detto di non essere d’accordo sull’abolizione ma nemmeno sulla diminuzione dei fondi alla polizia e questo ha causato la reazione stizzita dell’ala più radicale (e giovane) del partito. In realtà anche i repubblicani sono all’attacco, non soltanto secondo le linee dettate da Trump, ma anche segnalando che, di fatto, la riforma adottata al Congresso diminuisce e di molto i fondi della polizia. Il guaio in vista è chiaro: i democratici si dividono e Trump ne approfitta. E poi i più radicali si accorgeranno che non soltanto non si può abolire la polizia, ma che non conviene soprattutto ai più poveri. E il cambiamento vero – un nuovo patto sociale tra la polizia e i civili – dovrà attendere il prossimo, tragico, giro.
smo di qualità e ingegneria informatica. Certo, siamo (con numeri e mezzi finanziari) in America. Ma è risaputo, e comprovato, che quel che accade laggiù oggi, dalle tempeste invernali sino alle nuove tecnologie e alle mode consumistiche, presto o tardi diventerà un trend anche in Europa e imporrà sviluppi in tanti settori. Non a caso le strategie del NYT sono già seguite e messe in atto, ovviamente in forme meno sofisticate, anche dalle nostre parti. In aggiunta al successo economico, dal NYT arriva un altro segnale: la sua prima pagina dell’edizione cartacea di domenica 24 maggio, subito trasmessa in tutto il mondo (si dice «virale», gratuito omaggio alla velocità di diffusione dei virus...) dai social media. Titolo sulle sette colonne del grande formato: «I morti negli Usa arrivano a 100’000, una perdita incalcolabile». Apre la prima colonna questo sommario: «Non erano solo nomi su una lista. Eravamo noi»; segue una tristissima sottolineatura: «Mille persone rappresentano appena
l’uno per cento del bilancio totale dei morti. Nessuno di loro era solo un numero». Inizia poi la processione dei nomi di mille scomparsi per il coronavirus, senza ordine, gente comune e illustri personaggi, ognuno segnalato da stringati e toccanti «curriculum vitae». Una straordinaria lezione di giornalismo che, introdotta dal cordoglio per i lutti, raggiunge alti livelli di coraggio civico e si trasforma in messaggio politico rafforzato dall’autorevolezza di un quotidiano prestigioso. Tornando al tema dell’editoria e guardando solo con occhio tecnico, l’idea del NYT di far testimoniare quei 1000 falciati dal virus non v’è dubbio che in parte ricalchi le emozioni legate al numero esorbitante di annunci funebri comparsi su tanti altri giornali (come L’«Eco di Bergamo», o i nostri due quotidiani) per le vittime della pandemia. Tuttavia se la redazione del NYT non avesse ideato quella prima pagina del giornale, cioè senza il supporto della stampa scritta, i «Mille» non avreb-
bero mai potuto avere la loro epigrafe trasformata in messaggio politico, lanciata poi come una freccia nel cuore e nelle menti di milioni di individui. Di conseguenza, portando quelle vittime sulla sua prima pagina il NYT dimostra che il più forte, efficace e valido risultato giornalistico è possibile solo con quella base di partenza. Non sto cercando di prolungare vita e nomea della carta stampata, dei giornali. Scacciando la nostalgia, arrivo a capire e ormai anche ad ammettere che nel giro di una generazione tutti i media saranno solo digitali, salvo forse settimanali e mensili di altissimo livello. Tuttavia non riesco a dimenticare un anonimo avvertimento: chi legge il giornale di carta a 80 anni avrà molta più memoria di chi a 30 privilegia l’informazione usa e getta. È latino chiaro: chi legge solo informazioni digitali senza sosta, può preventivare solo l’indigestione di notizie e non informazione o cultura. Forse è il caso di tener conto anche di questo pericolo nei cambiamenti.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Abolire o riformare la polizia? di essere: devi scusarti, devi obbedire, devi essere remissivo. Eppure viene ucciso. Chauvin e gli altri tre agenti presenti all’uccisione saranno processati, ma le proteste continuano, anche a Minneapolis, da due settimane, pure se i saccheggi e gli incendi sono molto diminuiti: inizialmente i manifestanti chiedevano giustizia immediata, poi quando l’hanno ottenuta – anche per i poliziotti «complici» – hanno alzato la posta. Ora la piazza di Minneapolis urla lo slogan: «abolish the police», abolite la polizia. E le altre piazze americane – sono ovunque – guardano attente che cosa accade dove tutto è cominciato, e anzi vogliono che l’ultima fase di questa protesta, la fase massimalista, inizi proprio lì. Il consiglio cittadino di Minneapolis ha
AFP
A Minneapolis è cominciata l’emergenza e ora molti vogliono che questa città del Minnesota specchio delle più grandi contraddizioni della vita sociale americana diventi il caso esemplare, il trofeo da brandire per dire: abbiamo vinto. A Minneapolis è stato ucciso dalla polizia, il 25 maggio scorso, George Floyd, un afroamericano di quasi cinquant’anni sospettato di aver usato una banconota falsa da 20 dollari. Il video – e chissà cosa sarebbe successo se non ci fosse stato il video – dell’omicidio è stato pubblicato: 8 minuti e 46 secondi in cui l’agente Derek Chauvin preme le ginocchia sulla testa di Floyd, togliendogli il respiro fino a soffocarlo. Floyd è sdraiato a terra ed è come tutte le madri nere d’America dicono ai loro figli
Zig-Zag di Ovidio Biffi I «1000» del New York Times Tutti i media del mondo da anni sono alla ricerca della formula che consenta alla pubblicità online di avere l’efficacia e la praticità delle inserzioni sulla carta. Obiettivo: rimpiazzare il mix abbonamenti – pubblicità che sinora ha tenuto in vita la stampa scritta. La caccia a questo «Sacro Graal dell’editoria» è tornata di grande attualità negli ultimi mesi, cioè da quando la pandemia ha imposto una ulteriore e inattesa riduzione delle abituali entrate pubblicitarie. Così le aziende giornalistiche e tutta l’industria mediatica, pur sapendo di dover cercare maggiori sostegni dai lettori per coprire le minori inserzioni pubblicitarie, ora vagolano all’insegna di un «cosa potrà ancora capitarci domani?». (Detto tra parentesi: a guardare bene è la stessa insegna che il Coronavirus ha acceso anche sopra la testa di politici, imprenditori, azionisti e lavoratori. Infatti lo stesso interrogativo sovrasta lo stallo di tante industrie, dalle compagnie aeree al settore dello spettacolo e della cultura, mettendo in forse il futuro della glo-
balizzazione). C’è però un’eccezione: sui siti online, anche degli stessi quotidiani, dei siti di informazione e delle riviste, la pubblicità è aumentata vistosamente. Questo paradosso sembra suggerire che – un po’ come è capitato con il teleworking o le vendite online – che pandemia e «lockdown» stanno spingendo anche l’editoria a cercare cambiamenti o nuovi orientamenti tecnici. Una conferma a questa personale impressione l’hanno data due notizie che riguardano il «New York Times». Dapprima l’annuncio di un nuovo primato: il quotidiano americano ha realizzato nel primo quadrimestre dell’anno utili per oltre 44 milioni di dollari, garantiti in parte da nuovi abbonamenti sottoscritti da lettori durante il «lockdown», ma dall’altra anche da un aumento della pubblicità dell’edizione online. Il risultato ripaga la scelta strategica del maggior quotidiano statunitense di puntare principalmente sul digitale, mantenendo però come base il cartaceo e rafforzando la simbiosi fra giornali-
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Cultura e Spettacoli Eterno sottovalutato Nonostante le opere e la vivacità culturale, il compositore russo Rimski-Korsakov è stato dimenticato dalla storia
La poesia come risorsa Forza, crudeltà e tenerezza nella nuova raccolta poetica di Paolo Fabrizio Iacuzzi Consegnati al silenzio
Amici che non si conoscono Una mostra celebra i pionieri della fotografia Roberto Donetta e Andrea Garbald
Dall’Inferno al Purgatorio Dopo il successo dell’Inferno di Dante illustrato da Dell’Otto in libreria arriva il Purgatorio
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Funiculì funiculà
L’arte della risalita Anche la funicolare
degli Angioli di Lugano potrebbe rinascere a nuova vita
Ada Cattaneo Prendere la funicolare è sempre un’emozione. Per quanto moderne siano le strutture, conservano pur sempre quel fascino d’antan. Anche se il tragitto è breve, immagini che ti condurranno in luoghi altrimenti inarrivabili. Certo, è piacevole anche fare il percorso a piedi. Ma, mentre sali sulle sue carrozze, ti sembra per un attimo di essere in vacanza anche nella tua città. E, se ancora non foste convinti, si tratta di un mezzo di trasporto «lento» e perfettamente sostenibile dal punto di vista energetico. A Lugano, per fortuna, ben quattro impianti si sono conservati quale prezioso retaggio dei tempi d’oro del turismo lacustre. È del 1886 l’inaugurazione della prima funicolare, a soli 10 anni dall’apertura della nuova stazione: collegava direttamente il centro con i binari. Segue quella del San Salvatore nel 1890 e nel 1908 apre la linea da Cassarate al Monte Brè, ma la serie si conclude solo nel 1913 con la nascita della funicolare degli Angioli. I primi tre impianti sono tuttora in funzione ed è notizia recente che anche il quarto sarà presto oggetto di un processo di valorizzazione. Proviamo allora a ripercorrere la tradizione entro la quale si inserisce questa scelta del comune di Lugano. Naturalmente gli appassionati non concordano su quale sia stata la prima funicolare al mondo. C’è chi ipotizza che si tratti della piccola linea sulla collina del castello di Salisburgo, realizzata nel XVI secolo per il trasporto merci e ancora oggi esistente. Ma nessun documento confermerebbe questo primato. Tutt’altra storia quella del trasporto passeggeri: dobbiamo arrivare fino alla prima metà dell’Ottocento per vedere i primi impianti di questo tipo, quando il loro fiorire procede di pari passo allo sviluppo del turismo. Nel 1845, per esempio, una linea viene realizzata a fianco delle cascate del Niagara. La maggior parte delle più celebri funicolari cittadine in Europa risalgono agli ultimi decenni del secolo e ai primi anni del Novecento. Il sotterraneo «Tünel» di Istanbul è del 1875, mentre l’impianto che dalle pendici del Vesuvio risale fino alla cima del vulcano si inaugurò nel 1880. Sì, se fosse necessario ricordarlo, era proprio quello che ispirò la celebre «Funiculì, funiculà». La funicolare di Montmatre venne creata per agevolare il cantiere della basi-
lica del Sacré-Coeur nel 1900, rimanendo poi in funzione per il traffico dei passeggeri. (In Ticino simili circostanze si presentarono per la funicolare del Ritòm, nata per agevolare la creazione della diga di Piora.) Dello stesso anno è la Trieste-Opicina, una tranvia cittadina che include un tratto in forte pendenza nel quale i vagoni sono trainati o frenati da un sistema con trazione a fune. Da fine Ottocento in poi, in forza dei considerevoli dislivelli da superare e della crescente vocazione turistica del paese, è proprio in Svizzera che si fanno i maggiori progressi tecnici. Ancora oggi sono elvetiche le imprese più affermate in questo settore e la Svizzera rimane un vero e proprio paradiso per gli appassionati di funicolari, considerato che gli impianti di trasporto a cavo nel paese sono circa 1700, fra cui quella di Stoos, che è la più ripida al mondo, e la «Funi» di Friborgo azionata grazie alle acque di scarico della città alta. Nel 1879 fu creato il primo impianto ad uso turistico: la Giessbachbahn. Qui come altrove si trattava di impianti finanziati da privati e dai grandi alberghi che volevano offrire ai propri ospiti un’attrazione moderna e una comoda via d’arrivo. Così, la più antica funicolare d’Europa tuttora in uso trasporta i viaggiatori dal lago di Brienz alle cascate di Giessbach, dove ancora oggi è possibile pernottare al Grandhotel. Anche a Lugano, il maggiore beneficiario della funicolare degli Angioli era l’Hotel Bristol, come spiega Antonio Gili in Lugano capolinea. Quando chiuse l’albergo, negli anni Ottanta, cessò anche la ragione d’essere della linea, che finisce le sue corse nel 1987. Qualche anno più tardi si pensò addirittura di sostituirla con una scala mobile, ma fortunatamente il Cantone la dichiarò bene culturale, impedendone così lo smantellamento. Per molti anni ci si è interrogati sul modo migliore per utilizzarla e finalmente oggi si intravvede una soluzione. Gino Boila, direttore della Divisione Edilizia pubblica della Città di Lugano, racconta il percorso fin qui intrapreso: «Insieme al Dicastero Spazi Urbani abbiamo scelto di organizzare un mandato di studio in parallelo (MSP). Si tratta di una forma di messa a concorso che non scaturisce in un incarico, ma serve per elaborare un bando al quale parteciperanno altri progettisti. È uno strumento molto utile, un
Una Belle Époque che sembra lontanissima: la Funicolare degli Angioli di Lugano.
processo di sviluppo che i concorrenti percorrono insieme al committente, anche grazie a incontri regolari fra progettisti e collegio degli esperti» Sono quindi stati invitati quattro team: un gruppo di giovani, due gruppi ticinesi affermati e un gruppo d’oltralpe, così da avere un ventaglio di proposte diversificato. Ciascun gruppo era formato da un architetto, un ingegnere, un paesaggista e un economista, che garantisse la sostenibilità della proposta. Ancora Boila spiega cosa è stato chiesto ai partecipanti del MSP: «Volevamo delle proposte sulla rimessa in funzione della funicolare. Non era nemmeno ipotizzabile eliminarla o lasciarla in disuso. Da questo presupposto, abbiamo fatto un passo ulteriore: la mettiamo in funzione, ma a che scopo? Abbiamo ipotizzato che la Funicolare
degli Angioli potesse essere un buon modo per collegare l’area di Piazza Luini e del LAC al Parco del Tassino. I quattro progetti presentati ci hanno permesso di individuare le potenzialità e i limiti dell’intervento e hanno fatto chiarezza sulle possibilità di sviluppo. Inizialmente ci chiedevamo come attraversare la strada cantonale: un tunnel, una passerella? Tutti e quattro hanno pensato alla stazione di arrivo della funicolare come snodo per l’attraversamento e, all’interno dei quattro progetti si intravvedono delle soluzioni estremamente realistiche. Gli elementi emersi più consoni o realizzabili verranno inseriti nel bando di concorso». Gino Boila sottolinea che il processo non si ferma qui e il concorso ci sarà davvero, auspicabilmente il prossimo anno: «Non si tratterà solo di collegare
piazza Luini alla torretta di arrivo della risalita, di connettere un punto A ad un punto B. Ci sono una serie di tasselli intermedi e complementari. Si potrebbe per esempio pensare a un imbarcadero di fronte al LAC? Come si può utilizzare la zona retrostante al centro culturale? E quale destinazione per la torretta intermedia e la scalinata? Saranno questi gli elementi su cui dovranno riflettere i partecipanti al concorso, per risolvere il tragitto LAC-Tassino». Non si tratta quindi della sola rimessa in funzione di una funicolare. Ma piuttosto del tentativo di individuare nuove soluzioni urbanistiche, anche recuperando dispositivi e accorgimenti del passato che abbiamo abbandonato a cuor leggero sulla via del progresso, per poi accorgerci che possono concorrere alla sostenibilità e al fascino della città.
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Cultura e Spettacoli
Rimski val bene una scoperta Musica Il russo Rimski-Korsakov è considerato uno dei grandi sottovalutati della storia
della musica: una recente riedizione ne svela la grandezza Giovanni Gavazzeni La Prospettiva Zagorodny di San Pietroburgo divenne, a fine Ottocento, ricercata meta d’artisti. Al numero 28, piano terzo, il compositore Nicolai Rimski-Korsakov (1844-1908), visse i suoi ultimi quindici anni. La Rivoluzione requisì l’appartamento trasformandolo in una comune per una ventina d’inquilini: oggi, perfettamente restaurata, è la splendida Casa-Museo dove aleggiano le memorie delle sette opere che Rimski vi scrisse (fra le quali alcune delle sue più riuscite, La storia dello Zar Saltan e Il Gallo doro da Puskin e La Leggenda della città invisibile di Kitez) e del salotto frequentato dall’eletta cerchia di allievi (Stravinskij) e dai maggiori musicisti e pittori del tempo (Taneev e Rachmaninoff, Repin e Serov). Mentre la moglie Nadežda accompagnava al pianoforte Becker le stelle del Mariinskij, una sera Fedor Šaljapin, l’altra Yevgenija Mravina (zia del futuro zar della Filarmonica di Leningrado, Evgenij), il Professor Nicolai accoglieva una giovane artista che lo aveva incantato come Principessa cigno nella sua opera-epopea Sadko, Nadežda Zabela, che diverrà negli ultimi anni la musa ispiratrice del compositore. Era moglie del visionario pittore simbolista Mikhail Vrubel, implicato spesso nella realizzazione di bozzetti e figurini per la compagnia operistica itinerante del mecenate Savva Mamontov, artista che aprì il folclore rimskiano alla foresta soprannaturale dei simboli. Il pubblico liberal-borghese più colto coglieva nelle fiabe rimskiane parodie del regime assolutista di Nicola II. Così già nella «parabola autunnale in un atto», Kascei, l’Immortale (1902), il protagonista, un mago-maligno concupiscente fanciulle la cui immortalità è invano protetta nelle lacrime della figlia super-
Il compositore in un’immagine scattata intorno al 1900. (Keystone)
spietata, è un tenore molto «caricato» che desta, come i sopraffattori del tempo, più ribrezzo che paura. La parte della Bella Inenarrabile il cui bacio fa piangere la figlia del mago, scritta per l’avvenente Zabela-Vrubel, si può ascoltare in ammirevole edizione Melodya del periodo tardo-stalinista, ristampata in occasione del recente centosettantacinquesimo anniversa-
rio della nascita di Rimskij, un autore le cui opere sono per la maggior parte quasi sconosciute in Occidente, tanto che l’insigne musicologo Richard Taruskin ha parlato di Rimski-Korsakov come di uno dei più sottostimati compositori di tutti i tempi, arcinoto solo per il trittico dei poemi sinfonici (Sheherazade, Capriccio spagnolo e La Grande Pasqua russa) per l’abusatissi-
Al Sociale il Fondo del sacco Teatro Una ripresa
difficile e sentita mo Volo del calabrone. Nella fiaba dello Zar Saltan ci sono altre meraviglie sinfoniche: l’onnipossente forza del mare che trasporta la botte con lo zarevic Guidon verso l’isola incantata di Bujan, i carillon ipnotici delle campane ortodosse e i festosi ritmi brillanti del folclore popolaresco. Nonostante ristampe e grandi sforzi compiuti da Valerij Gergiev al Mariinskij con allestimenti e registrazioni, solo Il Gallo d’oro incanta l’Occidente. Ambientata «chissà dove, in un regno lontano, / ai margini estremi del mondo», la fiaba satireggia con stile magistrale e disincantato lo zar Dodone, ridotto a zimbello dalla vincitrice regina di Samachan. Una seduttrice estremo orientale come i nemici che umiliarono nella guerra russo-giapponese lo zar Nicola II, divenuto feroce repressore del suo popolo nella Domenica di sangue del 1905. Oggi un regista in vena di attualizzazioni avrebbe potuto traslocare la vicenda al tempo del polonio e della nuova plutocrazia, anche se al Cremlino il dominus non dorme come Dodone cullato dalla ninna-nanna e pare non guidi militi senescenti. La partitura del Gallo d’oro è il prodromo al mondo dell’Uccello di fuoco di Stravinskij, ammirata dal futurista Prokof’ev e dall’aristocratico Rachmaninoff, il quale fuggendo dalla Russia bolscevica si portò nella cartella solo quella partitura, manuale d’orchestrazione e scrigno di tesori della sua terra. Soprattutto il fascino che esercitano le opere della maturità di Rimski risiede nell’essersi emancipato dal mero realismo per realizzare una successione di quadri umani e fantastici, resi verosimili e magistrali dalla sua acutezza acustica: l’intonazione di un suono colorava impressioni e immagini, marine tempeste, battaglie e ascensioni.
Giorgio Thoeni Occhi lucidi. Palco e pubblico uniti in un abbraccio corale per il ritorno a teatro: una sorta di rinascita condizionata, visti i tempi, ma significativa. Non può dunque passare inosservato ciò che si è consumato al Teatro Sociale di Bellinzona sabato 6 giugno. Una liturgia, un evento creato in occasione della riapertura di una sala teatrale rimasta chiusa dagli inizi di marzo che si è trasformato in un atto di condivisione importante e vitale per la città e per la comunità di attori, tecnici e tutte quelle maestranze che vivono di teatro e lo nutrono, un mondo che senza il pubblico non potrebbe esistere e che solo grazie alla sua presenza ritrova la sua forza. «Quando un teatro rimane chiuso, significa che qualcosa di grave sta succedendo», si è detto per l’occasione. Già. È come ostruire un flusso vitale. Lo sanno bene le compagnie teatrali e gli artisti rimasti da un giorno all’altro senza prospettive per tre lunghi mesi. Il Teatro Sociale ha voluto associare le speranze per il ritorno alla normalità a un’iniziativa altamente simbolica entrata di diritto nella memoria della storia locale con l’apertura ufficiale di tutti i teatri dopo la pandemia. L’ha fatto scegliendo la lettura scenica de Il fondo del sacco di Plinio Martini (prodotta da Gianfranco Helbling e dal Teatro Sociale) proposta con l’adattamento, la regia e l’interpretazione di Margherita Saltamacchia. Con ciò ha riaffermato un processo identitario importante, non solo attraverso l’indiscutibile va-
Dal prodigio all’introspezione
CD Il coraggio di mettersi a nudo: «l’ex prodigio» Alanis Morissette torna alla ribalta
con un album maturo, dall’onestà e potenza emotiva invidiabili Bendicta Froelich Certo non è facile, quando si è stati dei cosiddetti «giovani prodigi», autori di un album da milioni di copie e subito salutati come veri e propri fenomeni della scena pop-rock, riuscire a riprendersi dalla troppa fama – e, soprattutto, a soddisfare le aspettative che il successo troppo precoce inevitabilmente porta con sé. Il caso della rocker canadese Alanis Morissette dimostra quanto sia difficile (ri)crearsi una carriera dopo il riscontro planetario di un album di culto come Jagged Little Pill (1995): un successo che l’artista non è, di fatto, riuscita a riprodurre con nessuno dei cinque album pubblicati negli anni successivi. Oggi, la Morissette torna però alla carica con un disco particolarmente coraggioso e intenso, vera e propria «dichiarazione d’intenti» di una donna ormai ultraquarantenne, confrontata con le proprie paure e, soprattutto, con la realtà della sofferenza psichica. In effetti, questo Such Pretty Forks in the Road è forse l’album più personale e rivelatorio di una performer la cui musica è sempre stata caratterizzata da una grande introspezione di matrice autobiografica; ed ecco che stavolta Alanis fa un ulteriore passo avanti, presentandosi come un’artista matura, consapevole di quanto la vita possa essere spietata e straziante per chiunque sia dotato di una sensibilità superiore alla media. L’album
nasce infatti dalle esperienze più sofferte della Morissette – la quale, dopo aver combattuto e vinto svariati disordini alimentari giovanili, ha sofferto di una grave e recidiva forma di depressione postparto, sopraggiunta dopo ognuna delle sue tre gravidanze: un vissuto evidente nella natura stessa di questo lavoro dolente e spesso spiazzante, interamente animato dalla struggente consapevolezza della propria fragilità emotiva e dalla costante sensazione di trovarsi in bilico tra un illusorio controllo e padronanza di sé e della propria vita, e la più disperante impotenza. E proprio grazie a ciò viene a crearsi una sorta di «transfert psicologico» tra Alanis e il suo pubblico, reso possibile dal legame anagrafico con la stragrande maggioranza degli ascoltatori di venticinque anni fa, all’epoca poco più giovani della stessa cantante: tardoadolescenti che, al pari di chi scrive, finirono per consumare (letteralmente) la musicassetta di Jagged Little Pill nei loro walkman. Oggi adulti e, nella maggior parte dei casi, pervasi dalla nostalgia per quegli anni spensierati, molti di loro hanno assistito alla disillusione e al crollo degli ingenui sogni di allora – ritrovandosi, proprio come la loro antica eroina, confrontati con la dura quotidianità della cosiddetta «real life». Così, fa un certo effetto ascoltare un brano come Diagnosis, forse l’autoritratto più crudo e onesto mai interpretato dalla Morissette: un piccolo capolavoro in
grado di esplorare con totale onestà (e senza troppi giri di parole) la realtà quotidiana che soltanto chi ha sperimentato in prima persona il lento e alienante succedersi di mesi (o magari anni) perduti negli indefinibili abissi della più bieca sofferenza psichica può davvero comprendere e riconoscere. Soprattutto, la voce di Alanis si può qui definire al suo meglio, in quanto combina la peculiare e coraggiosa emotività di sempre con una maturità e spessore vocale di gran lunga superiori a quelli di gioventù: la grande personalità da sempre insita nel timbro della Morissette si fonde infatti con una nuova consapevolezza, caratterizzata da grandissimo autocontrollo interpretativo – vera forza di ogni traccia di questo CD. Lo dimostra il singolo di lancio, Reasons I Drink, coinvolgente
Un album coraggioso e sincero: Alanis Morissette ci riprova.
riflessione sulle «addictions» e sull’impossibilità di esternare davvero agli altri ciò che si prova; mentre la ballata Smiling, incentrata sulle sensazioni contrastanti che l’ammissione di un fallimento porta con sé (e sulla necessità di cercare aiuto) ci riporta direttamente all’inconfondibile «vibrato» per il quale Alanis è da sempre nota, e allo stile compositivo degli anni d’oro – un po’ come accade con Losing the Plot, Her e Ablaze (quest’ultimo uno dei pochi brani di tema strettamente romantico del disco). E se il cantato ha qui raggiunto notevoli picchi evocativi (si veda Nemesis), anche le liriche, a tratti più immediate e concise di un tempo, si fanno urgenti ed efficaci, evidenziando subito come gli argomenti esplorati tocchino da vicino l’interprete. Such Pretty Forks in the Road diviene così un album per molti versi sorprendente, caratterizzato dalla rara capacità di ammaliare l’ascoltatore tramite un sapiente connubio tra cruda emotività e raffinata sensibilità artistica – qualcosa di cui non troppi artisti possono oggi vantarsi; e se la voce di Alanis Morissette suona meglio di quanto abbia mai fatto prima, anche la sua energia di donna e performer sembra beneficiare della natura fortemente personale e perfino intima di questo lavoro, restituendole un carisma che forse non aveva più saputo esprimere dai tempi gloriosi del tanto sbandierato Jagged Little Pill.
Margherita Saltamacchia e Daniele Dell’Agnola al Teatro Sociale.
lore letterario di un racconto in cui si rispecchia la testimonianza del nostro passato, ma anche rispettando uno dei principi di una programmazione volta alla valorizzazione del territorio. Un’idea forte e significativa che il pubblico, non solo bellinzonese, dimostra di apprezzare da diverse stagioni. Il classico dell’autore valmaggese era già diventato soggetto teatrale nell’ottobre dello scorso anno con la proposta di tre appuntamenti di un’ora ciascuno. Un’operazione che, durante il periodo di confinamento, ha spinto il Sociale a realizzare 12 videoletture con la Saltamacchia e Daniele Dell’Agnola (autore e interprete delle musiche) pubblicandole su Facebook e sul canale del teatro di YouTube. Pochi minuti dalla semplice fattura artigianale e particolarmente seguiti, a tal punto da indurre a ripensare lo spettacolo. E… cosa fatta capo ha, come ha dimostrato l’affluenza del pubblico in sala per quella riapertura simbolica e gratuita (pochi i teatranti...) tributando un lungo e commosso applauso per le atmosfere musicali di Dell’Agnola e per l’eccellente prova di Margherita Saltamacchia, protagonista intelligente e matura, ideale nel restituirci il racconto con un generoso e appassionato monologo: un disegno dai colori caldi sui margini delle intense pagine di Plinio Martini.
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Grande carattere e forti aromi Le varietà di pane a pasta acida richiedono lunghi tempi di lievitazione e di riposo dell’impasto prima della cottura. In tal modo gli ingredienti naturali sviluppano i loro aromi, che ne caratterizzano il sapore. Questi pani a lievitazione naturale non solo hanno aromi più intensi, ma mantengono la freschezza più a lungo. Una nuova famiglia di pani rustici a pasta acida vi aspetta da subito alla Migros con tre creazioni dal forte temperamento: Luisa Aromatica, Lara Delicata e Leo Croccante.
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casa. Anche le Farm Chips non vengono sbucciate e sono ancora più croccanti grazie al loro spessore. E per concludere, nuove nell’assortimento sono due edizioni limitate: Farm Chips Wave Sour Cream e Farm Chips Wave BBQ. Grazie allo speciale taglio a onda, le spezie aderisco meglio e il loro gusto è ancora più intenso. Se la scelta è difficile, perché non assaggiarle tutte?
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«Le cose buone sono fatte per essere condivise. Mi piacciono le Farm Chips, sono più spesse e molto croccanti!» Sebastian Schaub (37) artista, Basilea
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Cultura e Spettacoli
La crudeltà felice di Iacuzzi
Il virus della parola Linguistica Lo sviluppo del linguaggio
nei bambini e lo sviluppo della competenza linguistica nell’evoluzione dell’uomo, in due recenti pubblicazioni
Poesia È uscita recentemente la nuova raccolta di poesie
di Paolo Fabrizio Iacuzzi
Stefano Vassere
Il poeta e critico italiano Paolo Fabrizio Iacuzzi è nato a Pistoia nel 1961. (Iacuzzi)
Guido Monti Paolo Fabrizio Iacuzzi torna alla poesia con una raccolta edita da Bompiani dal titolo Consegnati al silenzio, Ballata del bizzarro unico male e naturalmente il libro è come se prendesse per mano i precedenti nel loro comune denominatore: passare e ripassare sulla vita propria e degli altri, sempre alla ricerca di nuovi punti di significazione. E difatti Iacuzzi, come un amanuense, tratteggia con rara perfezione d’immagine, le tante esistenze conosciute e sconosciute, i loro punti di caduta, talvolta quel loro rialzarsi a stento dal fumo di ogni giorno. Col suo pennino corregge e ricorregge paziente la curva ortografica delle vite che va segnando, depurandole di volta in volta da certe sovrastrutture linguistiche per recuperarle finalmente ad una pienezza di senso. E rinominare esistenze lontane, con accento poetico, vuole dire averne cura definitivamente, dando ad esse lo stigma di una presenza che ancora oggi può valere, dirci sui giorni che sono e che saranno. Naturalmente la scrittura di Iacuzzi, sappiamo bene, è stata sempre mossa da immagini retrostanti e assieme prospettiche; si addensano difatti nella pagina figure memoriali dentro quadri crudi e amari ma dai colori, potremmo dirlo, felicemente rinascimentali. Ecco il cuore di questo libro: immettere nell’abisso della vita, nei suoi neri flussi, la corrente dell’arte e attraverso essa farne, di tutto questo patire, un punto di riscatto: «… / …L’ansia di comprensione / portare a compimento una missione. Alzarsi al cielo / o abbassarsi nelle viscere delle terra. Immedesimarsi / nell’amore. Diventare arte… / ...». Umilmente il poeta vi riesce, toccato da illuminazioni lontane e vicine. A sfogliare le pagine difatti, è come se risuonassero le parole millenarie del Qoelet sotto diversa forma certo, ma piene di quello stesso spirito: vanità delle vanità, tutto è vanità; e Iacuzzi fa sentire il loro boato escatologico proprio mettendo in fila, quasi come incipit del libro, il ventaglio famigliare toccato da alterne fortune ma alla fine macinato dal silenzio: «… / Qui riuniti babbo nonno figlio nipote. Mozzi nomi / d’organi virus e batteri… // Uno reduce da guerra mai finita. Uno da una ragioneria / di conti a contadino… / Uno compromesso in vita dalla poesia. A spiedo tutti / con-
segnati al tempo dei relitti… / …». E il vaticinio poetico di questi nostri mesi oscuri, vediamo, scorre davvero forte, quando tra le pagine si trovano i virus acquattati negli incunaboli degli organi, che sfiniscono l’uomo disteso a languire nelle case di cura, e il luogo di cui qui si parla è lo Spedale del ceppo di Pistoia dalla storia plurisecolare. Ma Iacuzzi riesce a portarci lontano, proprio partendo da una quotidianità che risuona sempre di memoria, mai, quindi, consegnata al silenzio, ma alla mirifica immaginazione. Dunque l’adiacenza del poeta al reale è il punto di forza. Il suo continuo ritornare dentro certe case, nelle nature, quel pellegrinare di costa in costa, richiama tempi e storie altre: «Mentre guarda il cielo di settembre / quello che lo sovrasta nei pensieri / fatti di nuvole dentro le tele di Piero / … // Mentre pensa rivolgendosi ora agli olivi / e nei praticelli risale appena a mezza costa. / Nella valle delle cento storie di peste». E così egualmente i carteggi ritrovati, non sappiamo quanto casualmente, tra le veline di carta, hanno sottotraccia meta eventi che propagano come un’onda i dolori del mondo: «Natale. Chi erano i corrispondenti? Fratello e sorella / distanti mille miglia. / Le mani legate dietro la schiena. / Emersi dalla tomba etrusca dentro il Novecento. Statuette / venute da lontano per ricordarci i nostri affetti recisi // …». Ecco, Iacuzzi fa dei tanti oggetti, delle tante nature e case sgretolate, la simbologia per una continua interpretazione del reale. E così ancora le pene personalissime nel capitolo centrale Cuore e pietra, si mischiano con quelle che hanno riguardato una comunità più grande, devastando tante vite e declinando ogni amore, nella più terribile idea di peccato: «Ruvida sveglia delle sei. La corsa in fretta allo spedale / … Ogni volta ricordarsi / di essersi ammalati così presto. Mentre altri tentano / il suicidio e sperperano la vita. Non tutti noi possiamo / resistere alla realtà che è coatta… / …». Ma la morte è in agguato, ghermisce l’uomo di ogni epoca affaccendato ad allontanarla. Sì perché Iacuzzi, come abbiamo ricordato, costruisce nel libro una diacronia d’immagini, dove sempre la signora nera aleggia, col suo continuo andirivieni, nei padiglioni dello Spedale; a volte prende, a volte rimanda la presa. Ecco allora che la
parola del poeta, nel bellissimo capitolo Il padiglione verde, è lì a costeggiare il dolore dei malati di oggi e di ieri nel reparto emodialisi. Il luogo di cura diviene quindi uscio che si apre e chiude sulla precarietà di ogni esistenza, sul suo condensato di amarezza e rara felicità, di lotta anche dell’uomo di scienza per una sua prorogatio seppur limitata: «… / …Quando e come mai // un giorno arriva il male. E porta via il passato / prima del futuro. Con le pasticche pensaci / solo sopravvissuti… / …». E le parole alla fine del libro somigliano sempre più a quadri, quando ripercorrono in quartine e terzine le sette storie del fregio in ceramica invetriata posto sopra il portico ed eseguito a partire dal 1525 da Santi Buglioni su commissione dello spedalingo e monaco fiorentino Leonardo Buonafede; sette stazioni illustranti le opere di misericordia del pensiero cristiano delle origini, che poi titolano anche i capitoli finali del libro: Vestire gli ignudi, Alloggiare i pellegrini, Visitare gli infermi, Visitare i carcerati, Seppellire i morti, Dar da mangiar agli affamati, Dar da bere agli assetati. È come se questo luogo di cura, fondato settecento anni or sono, tornasse a popolarsi di umana caritas, laica prima che cristiana: «Agita bene l’orina nell’ampolla bianca. / Dice che questo ti farà guarire e ti alzerai / dal letto per puro miraggio… / … // Quando è il momento di propinare il filtro / uno piega il capo e aspetta che venga poi / dimesso da questa sofferenza… / …». E Buonafede, una delle grandi guide dello Spedale, sembra ancora lì, sfumato nei colori che il tempo sfarina, ad indicare con la sua pietas la strada per una esistenza esemplare. Ecco, Paolo Fabrizio Iacuzzi ci ricorda le vie che l’arte sempre percorre, partendo da frammenti sepolti, così parlanti però per la poesia che sempre è pronta a riesumarli; ecco, Consegnati al silenzio sembra sussurrarci a fior di lettera, quelle cose vaganti e lucenti che fondano la vita e che gli altri saperi si sforzano inutilmente di spiegare con la loro scienza esatta. Bibliografia
Paolo Fabrizio Iacuzzi, Consegnati al silenzio, ballata del bizzarro unico male, Milano, Bompiani, 2020, euro 16, pp. 144.
Sono due le vicende che spesso si incontrano quando della facoltà del linguaggio si desideri approfondire gli aspetti evolutivi e cognitivi. La prima riguarda quando e come i bambini imparano a parlare e soprattutto su quale base mentale questo fatto succeda. Da molti decenni, dalla nascita delle grandi teorie sull’acquisizione del linguaggio del secondo Dopoguerra, molti studiosi di diverse prospettive e punti di vista hanno cercato di dare una spiegazione al fenomeno detto della «povertà dello stimolo», un accadimento secondo il quale a un certo punto il bambino si mette improvvisamente a produrre frasi complesse senza che nessuno gliene abbia mai spiegato il funzionamento e anzi spesso senza che il piccolo parlante le abbia mai sentite. Cosa che stupisce lo studioso ma anche il milieu famigliare, che trova tutto ciò fonte di buonumore e di buoni auspici per il proprio ultimo nato. Un secondo grande tema della linguistica cognitiva riguarda le specificità della facoltà del linguaggio presso gli umani. Per semplificare, anche qui: perché l’uomo parla e gli altri animali no. O meglio, perché l’essere umano è dotato di una capacità così raffinata di comunicazione pur presentando il mondo animale attrezzature in alcuni casi molti simili (le scimmie antropomorfe ci assomigliano molto, come dice la parola) e quindi potenzialmente abilitate alla parola. Ragionamenti originali a proposito di questi due argomenti sono ora in due libri di pregio appena stampati dall’editore Carocci: Il cervello sintattico dello psicobiologo Marco Tettamanti e La verità sul linguaggio del già numerose volte sorprendente psicologo Michael Corballis. Il primo dei due è molto affascinante nella trattazione delle localizzazioni cerebrali di molti aspetti del linguaggio, e cioè di quale parte del cervello si occupa delle parole, quale delle frasi, quale dei suoni, che sezione è delegata alla produzione e quale alla comprensione: oggi, con le tomografie e le risonanze magnetiche si può vedere gran parte di tutto ciò, negli adulti e nei bambini. Questi ultimi stupiranno per le capacità eminentemente linguistiche sviluppate già nelle prime ore di vita, per il fatto che i giovani par-
Un esemplare di gibbone dal berretto: cosa vorrà mai dirci? (Keystone)
lanti cominciano a capire le frasi con «sintassi gerarchica complessa» solo a 8-9 anni (quando già vanno a scuola da un po’), per molte e molte altre brave cose. Il raffronto tra linguaggio umano e linguaggio degli animali è un portento per i contenuti; perché è uno spasso osservare come parliamo bene noi e come (non) parlano primati, cetacei, uccelli, insetti, batteri; quanto siano imperfette le pur accreditate forme di comunicazione dei corvi della Nuova Caledonia, della cinciallegra giapponese, dei tamarini a chioma di cotone, degli stornelli europei. Dalle scimmie che più ci somigliano ci siamo separati circa sei milioni di anni fa. Secondo alcuni «un lasso di tempo sufficiente per l’evoluzione graduale delle abilità sintattiche più complesse che caratterizzano il linguaggio umano»; secondo altri no: lo iato tra la nostra lingua naturale e quei pochi e poco articolati versi delle scimmie non può che essere stato determinato da un improvviso episodio, traumatico e rivoluzionario. A maggior ragione perché riferibile a un periodo non sospetto, ha così un fascino straordinariamente attuale un articolo del 2004 dei cognitivisti Massimo Piattelli Palmarini e Juan Uriagereka che, dopo essersi chiesti quale «singolo evento catastrofico» abbia potuto procurare all’uomo la facoltà del linguaggio e ricercatolo nella biologia, ipotizzano e cercano di dimostrare che il salto evolutivo decisivo possa essere stato causato da un’infezione virale o batterica. Questa, «introducendo modifiche genetiche o epigenetiche nella specie umana o nei suoi antenati più prossimi, avrebbe permesso lo sviluppo di un cervello più grande, con per l’appunto facoltà linguistiche». Ora, nessuno all’epoca avrà avuto gli strumenti per affermazioni correnti in questo periodo, del tipo «niente sarà più come prima»; anche se magari, visto il futuro che si preparava, sarebbe stato molto difficile convincerlo del contrario. Bibliografia
Michael C. Corballis, La verità sul linguaggio (per quel che ne so), Roma, Carocci editore, 2020. Marco Tettamanti, Il cervello sintattico, Roma, Carocci editore, 2020.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 giugno 2020 • N. 25
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Cultura e Spettacoli
Donetta e Garbald, al di là di spazio e tempo
Fotografia In mostra a Casa Donetta una serie di scatti realizzati da due veri e propri pionieri
della fotografia che (purtroppo) non si conobbero mai
Giovanni Medolago È nato nella seconda metà dell’Ottocento in una valle discosta. Per lui è un colpo di fulmine scoprire la fotografia, che sperimenta con entusiasmo e assoluta libertà, rivelando un’invidiabile abilità tecnica e un’insospettata creatività. Nel suo villaggio – da cui si allontana poche volte nel corso della sua vita – lo guardano con curiosità, è un personaggio particolare, e non solo per la sua passione per la fotografia. Stenta parecchio a vivere unicamente di fotografia, e alle difficoltà economiche si affianca l’amarezza di non vedersi riconosciuto il proprio lavoro. Muore solo e dimenticato da tutti in una casa molto particolare. Decenni dopo la sua scomparsa, vengono ritrovati per caso migliaia di negativi su vetro, miracolosamente sopravvissuti alle ingiurie del tempo, i quali documentano con precisione la vita arcaica della sua valle, usi e costumi dei suoi abitanti e il lento arrivo della modernità. Una scoperta fortuita che finalmente gli attira l’attenzione generale: libri, mostre e documentari a lui dedicati ci permettono oggi di situarlo con maggior precisione tra i più interessanti pionieri della fotografia elvetica. Sembrerebbe il perfetto identikit di Roberto Donetta, invece stiamo parlando del bregagliotto Andrea Garbald (1877-1958), nato a Castasegna nell’uni-
ca casa – ancor oggi meta di numerosi turisti – progettata a sud delle Alpi da Gottfried Semper, archistar della sua epoca (a Vienna realizzò il Burgtheater, a Dresda il Teatro dell’Opera e tra l’altro progettò il Politecnico di Zurigo, dove divenne poi insegnante). Pur vivendo e operando a poche decine di chilometri – in linea d’aria! – Donetta e Garbald rimasero «Amici sconosciuti» e così si intitola la mostra attualmente in corso alla Casa Rotonda di Corzoneso. Alle nuove immagini di Donetta curate da Stefano Spinelli si affiancano quelle, tutte vintage, dell’artista bregagliotto. Evidenti allora gli interessi comuni: foto di gruppo, ritratti, paesaggi, ecc. Detto delle analogie, bisogna però evidenziare anche le differenze tra i due pionieri. Mentre Donetta si presentò da perfetto autodidatta, il giovanissimo Garbald iniziò uno stage nel laboratorio del già citato Poli di Zurigo e nella stessa città svolse un tirocinio presso lo studio del ritrattista Rudolf Ganz. La famiglia del Ruberton era di umili origini e precarie condizioni economiche; quella del grigionese era di ben altro lignaggio: suo padre era un alto funzionario delle dogane, mentre la madre – all’anagrafe Johanna Gredig – divenne una scrittrice di una certa fama con lo pseudonimo di Silvia Andrea. Se per aumentare il proprio magro reddito Donetta divenne venditore di sementi, Garbald si inge-
tanti quali Giovanni Segantini o la famiglia Giacometti. Il ritratto di quest’ultima (firmato da Andrea nel 1909), con il piccolo Alberto seminascosto dai folti riccioli biondi che lancia uno sguardo enigmatico alla madre, ebbe un successo e una diffusione internazionali. Così commenta questa immagine lo scopritore dei negativi dimenticati a Villa Garbald, l’artista grigionese Hans Danuser: «Un ritratto realizzato all’aperto, forse per caso. Non è però un caso che Andrea faccia accomodare tutta la famiglia sull’erba disponendola in semicerchio. Ciò provoca una dinamica nel gruppo, nell’inquadratura c’è drammaturgia. James Lord (autore di un’importante biografia dello scultore di Stampa, n.d.r.) dice d’aver trovato la chiave del suo libro proprio nello sguardo di Alberto verso la madre». Personaggio particolare ed eccentrico, Andrea Garbald portò il cinema in Val Bregaglia, studiò il sanscrito e si avvicinò al buddismo: sicuramente sarebbe piaciuto a Roberto Donetta!
Andrea Garbald, Autoritratto, 1950 ca. (© Fondazione Andrea Garbald)
gnò per fare altrettanto restando però nell’ambito fotografico, sia vendendo cartes de visite e cartoline turistiche con gli splendidi paesaggi della sua valle, sia aprendo un gabinetto ottico nella villa di Castasegna, dove un’insegna recitava «Tutto l’occorrente per cinematografia e fotografia, occhiali&binoccoli» (con
due «ci»!). Burbero e scontroso, Donetta si scontrò anche duramente con i suoi cari, mentre Andrea poté sempre contare sull’aiuto e la complicità dei suoi familiari, soprattutto di sua sorella Margherita. E se Donetta era circondato da gente semplice, a Villa Garbald erano di casa personaggi illustri e artisti impor-
Dove e quando
Amici sconosciuti. Roberto Donetta e Andrea Garbald con Hans Danuser, Katalin Deér, Florio Puenter, a cura di Stephan Kunz. Corzoneso, Casa Donetta. Fino al 30 agosto 2020. www. archiviodonetta.ch Annuncio pubblicitario
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Spegni la sete con Rivella
Fotografie: Yves Bachmann
La Svizzera è la nostra casa. E anche il nostro parco giochi: sono infinite le possibilità per svagarsi nella vita quotidiana, come lo dimostrano Cathrin, Eva e Geraldine. Se i passatempi sono molti, una cosa rimane uguale: una rinfrescante Rivella per dissetarsi con gusto
Qualcosa con le bollicine dopo il giardinaggio
«Scavare nella terra mi rigenera» Cathrin Michael (37) redattrice nel settore food, Zurigo (a destra)
«Ho sempre desiderato avere un orto in comune. Siccome nessuno ne aveva uno, ho preso il progetto in mano personalmente. Oggi gestisco un grande orto con cinque amici. Non importa cosa accada nella vita, il giardino è sempre lì. Mi rigenero quando metto le mani nella terra. Un amico un giorno portò con sé una Rivella e subito nacque una sorta di Rivella-Mania. Dopo ore passate a fare giardinaggio non c’è nulla di meglio di una frizzante e rinfrescante Rivella!».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 giugno 2020 • N. 25
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La casa dei sogni con slancio «Nella mia vita vedo ogni giorno molte belle case – sono agente immobiliare per case di lusso. Io stessa mi sento a casa quando sono con il mio cavallo Curly oppure quando faccio del jogging. In questo modo posso staccare la spina e rilassarmi. Quando corro scelgo spesso percorsi attraverso eleganti quartieri, dove posso scoprire nuove case. Di ritorno a casa, bevo una bella Rivella. È il rinfresco perfetto e mi dà la carica».
«Dopo il jogging la Rivella ti dà una sferzata di energia» Geraldine Scalea (25) agente immobiliare, Ginevra
Meritato rinfresco in capanna «Lo sport è una parte importante della mia vita. Sono capitana di una squadra di unihockey, ma soprattutto amo fare delle gite in mountainbike con il mio amico. Non prendiamo la funivia, ma raggiungiamo la cima in bici, così ci guadagniamo una meritata Rivella nella capanna alpina. Fa semplicemente parte dell’escursione. Le mie vacanze estive le trascorrerò sulle montagne svizzere. Non vedo l’ora di concedermi lunghi tour in bicicletta nella natura e di immergermi nei boschi, dove mi sento a casa».
«Una rinfrescante Rivella in capanna è il massimo» Eva Bachem (27) insegnante di liceo, Winterthur
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 giugno 2020 • N. 25
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Cultura e Spettacoli
Dimmi come vivi, capirò come pensi Mostre Al Vitra Design Museum di Weil am Rhein sono esposti venti straordinari modi di vivere
Luciana Caglio È un identikit che raramente inganna. Varcando le soglie di un’abitazione ci s’inoltra in un territorio privato ma rivelatore. Mobili, suppellettili, illuminazione, colori compongono un ambiente che la dice lunga sulla personalità del proprietario, o inquilino che sia. Ecco la casa ordinata, spoglia, che sottintende freddezza e calcolo. Mentre quella caotica, troppo piena, allude a fantasia e improvvisazione. A sua volta, l’arredo tradizionale, con pezzi d’epoca pregiati conferma un bisogno di stabilità, non disgiunto a una dose di esibizionismo sociale. Qualcosa che, in forme diverse, si ritrova nella casa del patito di modernità, che testimonia orgogliosamente il suo fiuto per le tendenze «in», sedili magari scomodi ma attuali. E via enumerando scelte non soltanto volute, ma obbligate. Infatti, l’ambiente domestico, se riflette sensibilità e necessità individuali, non sfugge agli umori del momento, in gergo lo «Zeitgeist». Insomma, racconta pagine di storia. A quest’intreccio fra privato e pubblico, fra gesti del vissuto quotidiano e invenzioni artistiche e tecnologiche esterne, è dedicata la mostra, in corso al Vitra Museum di Basilea (per l’esattezza a Weil am Rhein, appena oltre frontiera). S’intitola Home Stories: 100 Years, 20 Visionary Interiors: l’inglese è ormai d’obbligo per un evento di portata internazionale. Qual è una rassegna, allestita in una sede già di per sé prestigiosa (porta la firma di Frank Gehry), che illustra un secolo di cambiamenti urbani, sociali ed estetici decifrando i segni lasciati nelle abitazioni. Da qui l’originalità di una rievocazione storica, affidata non ai monumenti, bensì a edifici che ospitano la vita di tutti ogni giorno. Cioè, la casa promossa protagonista, come si è verificato, appunto, nell’ultimo secolo, a partire, e la coincidenza non è casuale, dalla nascita del Bauhaus, a Weimar, nel febbraio 1919. Quando, con l’incontro fra arte, artigianato, architettura, urbanistica, tecnica, socialità, economia si aprì una
nuova concezione dell’abitare: con effetti, sul piano mondiale, ispirati sia ai criteri estetici del design, sia all’utopia della casa popolare bella e funzionale. Al di là delle circostanze economiche e politiche e delle correnti creative, rimane decisivo il ruolo dell’utente dello spazio domestico. Quell’interno in grado di soddisfare esigenze materiali e intellettuali, buon gusto e ambizioni, che diventa «Home» o «Heim», termine intraducibile: dove, insomma, ci si sente completamente a proprio agio. «No place like Home», per dirla con Johnatan Donavan, fotografo londinese, impegnato in un’operazione a favore di abitazioni sociali accoglienti. Ma è anche il luogo che mette alla prova la capacità d’interpretare le lezioni del design, del cubismo, della pop art e di usare al meglio gli strumenti offerti dal mercato, ingigantito dall’industrializzazione e dal consumismo. Soprattutto dopo l’arrivo dell’Ikea, che ha segnato una svolta epocale: con l’arredamento fai da te, oggetto di consumo popolare, che ha sostituito il mobile perenne, tramandato di generazione in generazione. Ma, lo dice il titolo, il Vitra propone «Interni visionari», che rappresentano le punte più alte e significative nell’arte di abitare. Ecco, allora, le residenze di privilegiati, personaggi che disponevano dei mezzi finanziari per farsi la casa più bella, e non soltanto. Qui più che mai, si manifesta quel sesto senso indispensabile per captare le cose giuste da associare accortamente, in uno spazio che diventa esemplare. Non si tratta, sia chiaro, delle dimore lussuose, di superricchi, bensì di ambienti dove si respira il presente e persino il futuro. Lo lascia intendere, del resto, il manifesto della mostra, con l’immagine della «Casa de vitro», opera di Lina Bo Bardi, nel 1953, a San Paolo del Brasile: una donna appoggiata a una parete trasparente che annulla la separazione interno-esterno. Un moderno ritorno all’antico: le ville romane includevano i giardini. Questa rassegna non si limita a esporre fotografie, grafici, didascalie,
Lina Bo Bardi, Casa de Vidro, São Paolo. (© Nelson Kon, 2002)
non teorizza, rivolgendosi a specialisti e addetti ai lavori, come avviene in tante mostre tematiche. Qui, invece, si riesce a coinvolgere il visitatore, senza distinzione di categoria, in un’esperienza diretta. E lui o lei si sente chiamato in causa attraverso continui riferimenti al proprio habitat personale e familiare. Sotto il suo sguardo, sfilano fedeli ricostruzioni di luoghi, simbolici, con cui confrontarsi: salotti, atri, stanze da letto, cucine, uffici che ospitarono la quotidianità di protagonisti, nell’ultimo secolo, della cultura, dello spettacolo, del costume. Dove affiora l’intuito geniale di visionari che, proprio negli interni, trovarono l’ambito in cui esprimersi, interpretando del resto un’emergente necessità. Mentre, fuori, gli edifici si adeguavano al rigore razionalista, dentro si dava spazio a estri decorativi in libertà. Da qui la funzione rappresentativa che, nel corso del ’900, doveva spettare sempre più agli interni. Affidati a nuovi professionisti, l’architetto degli interni, l’arredatore, lo stilista. Al cospetto degli ambienti, creati
da questi venti pionieri, per il pubblico si apre una sorta di gioco «chi-cosa»: individuare, cioè, il legame tra gli oggetti e chi li ha scelti. Un rapporto che, in alcuni casi, balza subito all’occhio. Ecco, esempio eloquente, la «Silver Factory», ricavata da un «loft», nel Soho di New York, anni ’60: non poteva che appartenere a Andy Wahrol. A sua volta, la «Villa Arpel», a Nizza, ultramoderna con servizi automatizzati, offrì la materia prima al suo inquilino, Jacques Tati, regista e attore che, negli anni ’50, inventò Monsieur Hulot, parodia del cittadino sopraffatto dalla tecnologia. All’opposto, la «Villa Tugendhat», a Brno, Cecoslovacchia, progettata da Mies van der Rohe illustra la piena sintonia fra l’architetto e il proprietario, entrambi convinti esponenti del modernismo. C’è, poi, chi guarda al futuro, con prospettive persino inquietanti. Ecco la «Nakagin Capsule Tower», abitazione dell’architetto Kisho Kurokawa, destinata all’«homo movens», un nomade urbano che, quando si ferma, si rifugia in un loculo di 8 mq.
Ben diversa l’atmosfera di «Adhcombe», a Wilshire, residenza di Cecil Beaton, fotografo per «Vogue», coreografo e arredatore, affascinato dal barocco, dall’esuberanza ornamentale, dentro e fuori casa. Come avviene nell’appartamento, a Monte Carlo, di Karl Lagerfeld, lo stilista, recentemente scomparso, che aveva guidato con successo la Maison Chanel. E, in pari tempo, figura di spicco del postmoderno. Apparteneva al gruppo milanese «Memphis Design», nato negli anni 80, argutamente controcorrente. E la sua abitazione, tutta colori e mobili simili a giocattoli, ne reca l’impronta. È, insomma, un continuo succedersi di situazioni contrastanti all’insegna del comune denominatore: la nostra quotidianità, raccontata dalla casa. Dove e quando
Home Stories: 100 Years, 20 Visionary Interiors, Vitra Design Museum, Weil am Rhein (D). Fino al 28 febbraio 2021. www.design-museum.de
E ora non manca che il Paradiso
Pubblicazioni Dopo il successo dell’Inferno Franco Nembrini, Gabriele Dell’Otto e Alessandro D’Avenia
sono ritornati alla passione per Dante realizzando il Purgatorio Enrico Parola Poteva esserci il sospetto che fosse una sorta di trinità artificiale e soprattutto commerciale: Gabriele Dell’Otto, disegnatore che firma in America le copertine dei comics Marvel, Alessandro D’Avenia, scrittore divenuto popolare col romanzo Bianca come il latte, rossa come il sangue, e Franco Nembrini, che per cento serate ha spiegato in televisione tutti i canti della Divina commedia,
uniti in una nuova edizione del capolavoro dantesco. Il primo a illustrarne con una tavola a tutta pagina ogni canto, commentato e introdotto da Nembrini con la prefazione di D’Avenia. La bontà dell’operazione è stata confermata dall’uscita dell’Inferno, divenuto subito l’edizione più venduta della prima cantica; a sfogliare, dopo l’Inferno, anche il Purgatorio, uscito per Mondadori in queste settimane, emerge evidente come può
L’immagine di copertina del libro, edito da Mondadori.
anche funzionare a livello commerciale, ma il progetto è prima ancora e soprattutto culturale e ideale. Un modo per avvicinare Dante che è popolare nel senso di saper intercettare l’esperienza, il vissuto di chiunque e non solo le conoscenze e l’acume intellettuale dei dotti, ma allo stesso tempo capace di condurre fino al cuore spirituale e concettuale della Commedia. È emblematica la scelta dell’immagine con cui Nembrini, che per trent’anni è stato anche insegnante alle scuole superiori, cerca di spiegare che cosa sia il Purgatorio: «È la domanda di tutti gli studenti, perché Inferno e Paradiso si capiscono, ma il Purgatorio un po’ meno. Dico loro: siamo in quarta liceo, in questi anni siamo diventati amici, stiamo benissimo insieme. A un certo punto un nostro compagno se ne va e inizia a frequentare cattive compagnie, conducendo una vita balorda; poi torna, perché ha capito che con noi stava meglio e la vita era più bella; lo accogliamo con tutto l’affetto di cui siamo capaci, andiamo a bere una birra o mangiare una pizza, ma lui non può, ora ha il fegato spappolato. Per poter tornare a gustarsi totalmente il far le cose con noi ha bisogno di un trapianto di fegato: il Purgatorio è il tempo in cui deve andare in
ospedale, il tempo dell’operazione per guarire e della convalescenza». Ciò che sottolinea Nembrini e rimarca D’Avenia è l’amore come movente di tutto: nel Purgatorio va chi ha peccato per troppo amore verso una certa cosa, «ma cosa spinge Dante a salire il Purgatorio e ad attraversare la barriera di fuoco? Il sapere che in cima al monte, dietro le fiamme c’è Beatrice. L’amore per la poesia e l’amore per la donna lo spingono: sette secoli prima che ce lo spiegassero i manuali di psicologia Dante ci dice che il piacere nelle proprie attività e le relazioni buone sono fondamentali per vivere bene» si accalora D’Avenia. «Il fuoco non è infernale, punitivo, è il fuoco dell’amore che spinge a vivere; in inglese on fire vuol dire che si è vivi. Nel 26esimo canto dell’Inferno Ulisse è on fire, avvolto in fiamme: credo che Dante abbia scelto questa pena per sottolineare come Ulisse sia acceso dalla brama di vivere e conoscere, non a caso nel suo “folle volo” intravvede la montagna del Purgatorio prima di affondare; Dante usa le stesse parole per parlare dell’eroe omerico e di sé davanti al fuoco, divenendo anche lui un eroe epico. Ma la sua non è una conquista, bensì un ricongiungimento: vuol riabbracciare Beatrice».
Nella tavola non compare Dante, tra le fiamme emerge la figura di Virgilio: «Come in altre ho voluto ritrarre il momento in soggettiva, così che il lettore si immedesimi» spiega Dell’Otto «Io per primo, lavorando con Franco e Alessandro, ho capito di vivere la stessa esperienza: Dante sa che non si farà male, sa che dall’altra parte c’è Beatrice, ma non riesce a passare, manca una convinzione affettiva; capita anche a noi: sappiamo che dovremmo fare una certa cosa, ma tra il sapere e il fare c’è tutta la mossa della libertà». Mossa che Dante compie anche quando inizia a scalare le prime pendici del Purgatorio: «Sembra un po’ l’uomo ragno» sorride Dell’Otto, come a richiamare i supereroi che ritrae per Marvel «mentre Virgilio è comodamente appeso con una sola mano, perché lui non ha un vero corpo e quindi non fa fatica; ma Dante ha comunque il volto rilassato nonostante lo sforzo, perché si fida di Virgilio». Lui si è fidato di Nembrini: «All’inizio la ritenevo una mission impossible, alla terza richiesta ho ceduto e ne sono entusiasta». Ora tocca al Paradiso: «Il più difficile: come ci diciamo, speriamo di fare il Paradiso e non di finirci direttamente per le troppe difficoltà».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 giugno 2020 • N. 25
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Decreti d’antan Si parla tanto dei decreti che regolano la nostra vita fin nei minimi dettagli. Ma non è la prima volta che succede. Nel 1578, la città di Torino conta 14’000 abitanti e dal 1563 è capitale del ducato di Savoia per volere del Duca Emanuele Filiberto il quale emana «Gli ordini politici» affinché «si raffreni l’ingordigia degli eccessivi e perniciosi guadagni». Si regola tutto, persino la distanza che devono tenere i banchi dei venditori fuori dal loro negozio, «non più di un piede comune». «I panettieri non facciano più di tre sorte di pane, cioè bianco, mezzano & negro». Nelle pescherie: «Non si venderanno rane con la testa, né con le gambe, né le seppie con la testa». Sono 38 fitte pagine, prevedono regole anche i mendicanti e le meretrici: «Che le meretrici pubbliche non possino abitare nel corpo della Città, salvo negli ultimi cantoni, quali sono verso la muraglia». Cioè dal lato della Cittadella fortificata di recentissima costruzione (1564-1566) e si sa che i militari sono i loro clienti più
assidui. Rimane una curiosità da soddisfare: per una città così piccola quante erano le meretrici? Procediamo nella lettura: «Ogni macellaio essendo interrogato sia tenuto rispondere la verità sopra la carne che egli vende, se sarà vitello, o bue, manzo, o castrato, maschio o femmina. Né far frode per cui la femmina appaia esser maschio». Dal che si deduce che la carne del maschio è più pregiata di quella della femmina. Curiosità: oggi è ancora così? Il capitolo dedicato ai conciatori è uno dei più lunghi e dettagliati e si spiega pensando che in quel tempo le pelli e i cuoi non avevano concorrenti e occupavano un posto centrale nell’abbigliamento e nell’arredamento. Un dettaglio curioso: fra le merci in vendita non è mai nominato l’olio mentre il burro «si venda senza altra mercanzia» ovvero abbia un banco dedicato. I gesti del venditore sono regolati: «Che nessun mercante non possa vendere panni di seta, o d’oro o di lana di qualunque sorte, facendo la misura in aria, ma sia tenuto
a misurare sopra la tavola, ossia banco coperto di tela e in piano». Quanto agli orefici, ciascuno deve avere un’insegna alla sua bottega «e una marca della medesima insegna con cui marcherà tutti i lavori d’oro o d’argento». Per loro è regolata anche la successione: se l’erede è un figlio unico «non muterà l’insegna del padre». Ma se gli eredi saranno due e staranno separati «il secondo dovrà alterare l’insegna del padre, ma non in tutto». Non poteva mancare il capitolo sui servitori e servitrici, famigli e lavoranti: «Vedendosi ogni giorno nascere questioni, sdegni, furti e altri inconvenienti per l’instabilità delle persone che servono», nessuno può prendere a suo servizio alcun servitore che sia già al servizio di un altro padrone, a meno che sia finito il tempo per il quale era stato «fermato». Anche il vino era disciplinato, a riprova che aveva un ruolo centrale sulle mense. È stabilito che «nessun vino puro o misto sia introdotto in Torino o nei suoi confini o nel distretto che non
sia di origine torinese tranne il caso in cui per la siccità e il maltempo, votando concordemente tre parti dei consiglieri, si possa dare licenza per un certo tempo di importare vino forestiero, secondo il parere del Consiglio». Non si finirebbe più di citare. Preferiamo trovare esempi che potrebbero ancora tornarci utili. Ogni anno il consiglio elegge due «stanziatori», che noi chiameremmo ispettori, scelti fra i buoni padri di famiglia che abbiano almeno trent’anni e esperienza dei commerci. Informati ogni giorno del valore d’ogni merce da un bollettino appeso alla torre civica dovranno controllare che i venditori la vendano al prezzo giusto. Se scoprono una maggiorazione sequestrano la merce e infliggono al venditore una multa che sarà divisa in quattro parti: una al fisco, una all’ospedale, una alla Città e la quarta parte all’ispettore che ha scoperto l’inganno. Ai sarti è dedicato un lungo capitolo: ogni anno devono eleggere tra loro quattro consoli, due per gli abiti da uomo e due
per quelli da donna. Saranno secondo il caso i periti del giudice ogni volta che un cliente chiederà i danni per una «veste malfatta, guasta o peggiorata in qualche modo» o quando la mercede sarà stata sproporzionata. Però se il cliente avrà lasciato libero il sarto di acquistare la stoffa e, dopo averla pagata, scoprirà che non è sufficientemente buona, «il sarto sarà tenuto di pagarla, salvo che faccia notare che non ve ne sia di meglio nella Città» e che lui di tale mancanza abbia dato notizia al cliente. Ancora: chi fabbrica mattoni deve tenerne uno di pietra o di ferro che diventa il campione e tutti i mattoni che saranno da lui prodotti dovranno rispettare quelle misure. Nell’ultima pagina si trova un’annotazione che sembra riferirsi ai nostri giorni: «Si trovano in questa città magistrati e ufficiali maggiori, mezzani e inferiori, i quali molte volte concorrono nel far ordini e comandamenti, onde ne seguono disordini, spese e confusione di autorità».
avrebbero cercato nella chimica dei corpi, negli umori del sesso, di disinfettare la ferita, qualunque fosse la sua estensione o profondità. Si trattava di un primo soccorso necessario, cui non intendeva sottrarsi. L’attenzione del vecchio che le aveva offerto la cena, aveva funzionato come un preliminare. L’aveva, il vecchio, senza saperlo, scaldata. Sciolta. Eccitata. Preparata al godimento. Tom si era sdraiato su un fianco e la guardava, la testa appoggiata sulla mano, il gomito piantato sul cuscino. Nessuno dei due voleva muovere la prima carezza, eppure fra loro era palpabile la voglia di toccarsi, di strofinarsi uno contro l’altro. Betta disse: «Volevi lasciarmi e hai cambiato idea? O non hai trovato un posto per dormire? Eva e Nicola hanno dato via il divano degli ospiti?» Il tono non era quello giusto, Betta si sentì stridula. Ma esiste un tono giusto quando non hai voglia di parlare?
Tom sospirò, esagerando aggressivamente la noia. Si lasciò cadere sul letto, supino, e smise di guardarla, gli occhi al soffitto. Litigavano spesso, da quando le ambizioni di entrambi si erano rivelate insufficienti a sopportare la povertà. E fare la pace, a parte la scopata rituale, era sempre più difficile. «Non ho mai detto che volevo lasciarti», disse Tom, con una voce arresa. «Conosciamo la formula: una pausa di riflessione. Ho bisogno di stare un po’ solo, scansati e vedrai che si aggiusta tutto». Betta si alzò per andare a prendere una sigaretta. Non aveva voglia di fumare ma voleva camminare nuda davanti a lui. Costringerlo a considerare la sua bellezza, a non abituarcisi, a conferirle il giusto valore. A sentirsi in debito. Tommaso la guardò, perché la conosceva abbastanza per sapere che voleva essere guardata, poi provò ad alzare la voce. «Con chi hai cenato stasera?
Dov’eri? Dove sei andata a festeggiare la libertà?», disse, cercando una gelosia che non provava. Il vestitino nero, aderente come una seconda pelle, era il suo scudo, lo indossava quando aveva paura. Era stata anche la sua arma da guerra. Era da un pezzo che non la dissotterrava. «Mi rispondi o no?», disse, perché lei continuava a fare la statua in fondo alla stanza. Betta rispose, con un timbro volutamente soave: «Ho rimorchiato un tipo in un bar». Quindi sedette sull’orlo del letto, vicina al corpo supino di Tom, come una parente in visita ad un malato. «Per ripicca», disse Tom «No, per soldi. Solo per soldi. Mi ero dimenticata come si mangia bene in un buon ristorante. Se c’è un uomo che paga». Il ceffone le arrivò in faccia improvviso, sonoro. Data la posizione di Tom, risultò alquanto artificioso.
casi di omicidio, complicati da problemi sociali, primo fra tutti quello razziale. Non sempre c’è il lieto fine, e proprio la discrepanza tra le indagini della polizia e la pena è il punto di forza della serie, perché mostra con precisione il funzionamento del meccanismo giudiziario. Così, la colpevolezza dell’imputato può essere messa in dubbio ribaltando le indagini svolte dalla polizia, prove certe durante le indagini vengono annullate per un vizio di forma, il colpevole ha altri moventi rispetto a quelli dichiarati alla polizia e cambia il crimine per cui è imputato, le procedure del sistema giudiziario illuminano di una nuova luce le indagini della polizia. Nello storytelling dell’immaginario televisivo, il concetto di «LAW & ORDER» si estende in un lungo arco di tempo dalle arringhe di Perry Mason (1957-1966) o dalle indagini del tenente Colombo (1968-2004), entrambe decisamente rassicuranti, alla giustizia solitaria di Dexter (2006). Come un vecchio eroe del West, Dexter si fa giustizia da solo in nome di una ragione che lui
ritiene superiore. Rimasto orfano, è stato adottato da un agente di polizia che nota subito nel figlio un’insopprimibile tendenza omicida. Il padre tenta così di raddrizzare la perversa inclinazione di Dexter spingendolo a colpire solo i criminali impuniti. Il telefilm americano crime, generalmente definito come «procedural drama», presenta una serie di caratteristiche stilistiche e di formato comuni: in primo luogo, una struttura narrativa costante, quasi formulaica, che prende avvio dal tradizionale quesito del whodunnit. I quaranta minuti netti che costituiscono il formato standard degli episodi affrontano il cosiddetto case of the week: un delitto che viene risolto attraverso diverse tipologie di investigazione, come la raccolta delle prove, l’interrogatorio dei testimoni, gli esami autoptici, capaci di innescare le inferenze degli inquirenti secondo i meccanismi mentali della logica deduttiva. Spesso i casi sono ispirati a vicende reali, oppure colgono l’occasione per affrontare alcuni dei temi caldi al cen-
tro dell’agenda setting statunitense. La ricchezza di spunti narrativi è permessa proprio dalla specificità del sistema giudiziario statunitense, che presenta una molteplicità delle strutture investigative, di giudizio, di custodia, ciascuna caratterizzata da peculiari codici e convenzioni. A ciascuna sono riservate nei telefilm specifiche modalità di messa in scena. Al racconto delle vicende della polizia metropolitana (che ha ispirato serie classiche, come Dragnet, Hill Street Blues, NYPD), si affiancano così l’Fbi, gli Swat, la Dea, gli sceriffi di contea, gli agenti specializzati nella negoziazione dei sequestri, la polizia scientifica al lavoro sulla scena del crimine e molto altro. Il clamoroso caso della morte di George Floyd insegna come, nonostante anni di straordinarie serie televisive, il problema principale non sia quello di essere, banalmente, comprensivi o politically correct, ma quello di ribaltare in modo decisivo i punti di vista, anche attraverso un immaginario che sappia farsi prassi politica, rispetto, convivenza civile.
Quaderno a quadretti di Lidia Ravera Le nuove povertà/6 Betta restò per un attimo immobile, le chiavi nella mano destra , il sorriso, prodotto da quella serata strana e gratificante, ancora sulle labbra, ma fermo, e quindi sul punto di spegnersi. Pensò che Tom avrebbe detto «Dov’eri» o «dove cazzo eri». Minime variazioni sul tema. Era sempre stato smanioso di controllo. Poteva non intervenire, non reprimere, non limitare, ma doveva sapere. «Vuoi che ti dica dov’ero?», chiese Betta, con la voce che tremava appena di collera negata. Tommaso era pallido, e la guardava. Sapeva perfettamente che, quando si sentiva messa sotto accusa, lei aggrediva, ma stando sempre bene attenta a non passare dalla parte dei forti. Si situava stabilmente dal punto di vista della vittima. E da quella postazione privilegiata cercava di vincere. Come tutti. Pensò, guardandola, che era un’attrice molto migliore di quanto credeva di
essere. Ed era bella. E allora perché? Perché erano finiti tutti e due impantanati nell’insuccesso? Si fece da parte per farla entrare, cerimoniosamente. Betta si tolse le scarpe con il tacco e camminò verso il bagno. Eretta, tesa nel suo collo da cigno, per bilanciare la nudità dei piedi. «Dimmi dov’eri tu, piuttosto. È durato poco il tuo momento di riflessione». Chiuse la porta del bagno, senza aspettare la risposta. Fece scorrere l’acqua nella vasca, che era scomoda, angusta, come tutto in quella casa odiosa. Si lavò con un vigore inutile. Come se volesse levarsi di dosso, fregando la pelle col guanto di crine, chissà quale contaminazione. Quando uscì dal bagno Tom era nel letto. Nudo. Betta lasciò cadere con un gesto molle l’asciugamano che aveva legato come un pareo sopra il seno. Si infilò fra le lenzuola con un movimento unico, sinuoso, da ballerina e come una ballerina in una pausa della danza, restò lì, sul palcoscenico. Sotto i riflettori. In attesa. Sapeva che
A video spento di Aldo Grasso Ribaltare i punti di vista Fin dalle origini della filmografia e della serialità televisiva americana, l’immaginario che ruota intorno al concetto di «LAW & ORDER» è stato fonte e ispirazione per numerose opere: il mantenimento dell’ordine ha rappresentato un tema centrale (e idealizzato) per molte narrazioni, dal mito della frontiera dei western fino ai nostri giorni. Concetto che oggi è di bruciante attualità, dal momento in cui i canali americani continuano a proporre immagini di police brutality. Il presidente Donald Trump usa l’espressione «LAW & ORDER» come se le violenze in atto appartenessero a uno show, più che a un rivolgimento sociale. Ovviamente, la distanza che esiste tra realtà e rappresentazione è molto marcata. Nella quotidianità, la polizia raramente risolve tutto, una gran parte della popolazione afroamericana ha paura di chiamarla perché non di rado si è trovata di fronte a uomini brutali. I Cops non sono sempre eroi, ma persone normali, alcune con problemi psicologici, di violenza.
Ma noi dobbiamo occuparci di immaginario. La serie Law & Order è del 1990. «In the criminal justice system, people are represented by two different, yet equally important groups: the police who investigates crime, and the district attorneys who prosecute the offenders. These are their stories». Queste le parole che aprono ogni episodio della serie. Come a sottolineare che esiste un contrappeso istituzionale per il bilanciamento della Giustizia. La Legge e l’Ordine, i poliziotti e i procuratori, le due facce del sistema giudiziario americano unite in un unico racconto. Ai poliziotti spetta il compito di far rispettare la legge e ai procuratori di ricomporre l’infrazione commessa. Ogni episodio è diviso in due parti: la prima racconta le indagini dei poliziotti, la seconda i processi del viceprocuratore e dei suoi assistenti. Poco o nulla ci viene raccontato della vita privata dei protagonisti: il reato è il solo protagonista. I crimini al centro delle indagini, in alcuni casi ispirati a fatti di cronaca, sono per lo più violenti
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PVC laminato, gonfiabile, per max. 4 persone, temperatura dell’acqua fino a 40° C, capacità 700 l, protezione da 10 mAh, incl. copertura con chiusura a clip e telo sotto piscina, L x P x A: 168 x 168 x 70 cm 6472.419
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Tagliuzzato di pollo Optigal Svizzera, in conf. da 3 x 222 g / 666 g
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11.– invece di 19.– Salmone selvatico Sockeye MSC in conf. speciale pesca, Pacifico nordorientale, 280 g
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11.– invece di 14.25 Capesante M-Classic in conf. speciale, MSC pesca, Atlantico nordoccidentale, 240 g
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13.– invece di 16.50 Gamberetti tail-off cotti, bio, in conf. speciale d'allevamento, Vietnam, 240 g
Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 16.6 AL 22.6.2020, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
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1.25 invece di 1.90 Carne di manzo macinata M-Classic Svizzera/Germania/Austria, per 100 g
20% Filetti in vendita al banco per es. filetto di maiale TerraSuisse, per 100 g, 4.95 invece di 6.20
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Bresaola Casa Walser Italia, affettata in vaschetta, per 100 g
34%
4.95 invece di 7.60 Entrecôte di manzo Paraguay, imballato, per 100 g
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3.65
Filetto di maiale Svizzera, imballato, per 100 g
20%
6.25 invece di 7.85 Fettine fesa di vitello fini TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g
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3.90 invece di 4.90
1.80 invece di 2.90
Albicocche bio provenienza: vedi confezione, conf. da 500 g
Limette Fairtrade provenienza: vedi confezione, rete da 500 g
34%
3.60 invece di 5.50 Pesche noci bianche Spagna, al kg
20%
7.95
invece di 9.95
Rose in vaso 2 pezzi, in vaso, Ø 12 cm
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5.90 invece di 7.90 Zucchine bio Ticino, sciolte, al kg
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1.60 invece di 2.– Mango Repubblica Dominicana, al pezzo
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3.95 invece di 5.90 Fragole provenienza: vedi confezione, conf. da 500 g
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Le Gruyère dolce a libero servizio, per 100 g
15% Grana Padano per es. blocco, ca. 250 g, per 100 g, 1.85 invece di 2.20
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4.40 invece di 5.55 Caprice des Dieux in conf. speciale 300 g
–.10
di riduzione
–.95 invece di 1.05 Tutti gli iogurt Nostrani prodotti in Ticino, per es. castégna (alla castagna), 180 g
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. e r e c ia p o r e v n u è ì s o c a Far la spes conf. da 2
25% Michette in conf. da 1 kg o panini al burro in conf. da 600 g, precotti, M-Classic, TerraSuisse per es. michette, 1 kg, 4.30 invece di 5.75
22%
conf. da 4
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Bretzeli o Mandelplätzli Créa d'Or in confezioni multiple per es. Bretzeli in conf. da 4, 4 x 100 g, 6.80 invece di 10.20
Baby Kisss in conf. da 2, UTZ Milk o Dark, 2 x 15 pezzi, per es. Milk
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20%
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1.80 invece di 2.25
Tortine in conf. da 4 per es. tortina di Linz M-Classic, 4 x 75 g, 3.90 invece di 5.20
Millefoglie, 2 pezzi 157 g
33%
conf. da 2
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Gallette al granoturco e gallette di riso alle mele Lilibiggs nonché gallette di riso allo yogurt e gallette di riso al cioccolato in conf. da 3 Biscoff, Biscoff Pocket o Dinosaurus per es. gallette al granoturco Lilibiggs, 3 x 130 g, con cioccolato al latte Lotus in conf. da 2 3.30 invece di 4.95 per es. Biscoff, 2 x 250 g, 4.70 invece di 5.90
20% Tutti i praliné in scatola Frey e i praliné Adoro Frey, UTZ (confezioni multiple escluse), per es. praliné Prestige, 132 g, 7.80 invece di 9.80
conf. da 4 conf. da 2
30% Pizza al prosciutto e mascarpone o mini al prosciutto Anna's Best in confezioni multiple per es. prosciutto e mascarpone in conf. da 2, 2 x 400 g, 9.60 invece di 13.80
20% Tutti gli antipasti Anna's Best, M-Classic e bio per es. Hummus al naturale Anna's Best Vegi, 175 g, 2.80 invece di 3.50
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20% Tutti i latticini You per es. skyr alla vaniglia, 170 g, 1.35 invece di 1.70
–.60
di riduzione Tipi di miele in vasetto da 550 g o in flacone squeezer da 500 g per es. Miele di fiori cremoso, 550 g, 5.– invece di 5.60
16% Barrette Mars, Snickers e Twix in confezioni speciali 10 + 2 gratis, per es. Twix, 12 x 50 g, 4.90 invece di 5.85
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6.20 invece di 7.80 Gelato in coppetta monoporzione in conf. da 4 Ice Coffee, Japonais o Bananasplit, per es. Ice Coffee, 4 x 165 ml
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40%
–.70
di riduzione
Patate fritte o patate fritte al forno M-Classic prodotto surgelato, 2 kg, per es. patate fritte al forno, 5.65 invece di 9.45
conf. da 2
30% Strudel al prosciutto M-Classic e tortine di spinaci M-Classic in conf. speciale prodotti surgelati, per es. strudel al prosciutto, 2 x 420 g, 7.55 invece di 10.80
33%
8.95 invece di 13.40 Bastoncini di merluzzo Pelican in conf. da 2, MSC surgelati, 2 x 24 pezzi, 2 x 720 g
Tutti i tipi di pasta M-Classic a partire da 3 pezzi, –.70 di riduzione l'uno, per es. spaghetti, 750 g, 1.45 invece di 2.15
Hit
3.90
Olive spagnole nere denocciolate o verdi con peperoni, per es. nere denocciolate, 400 g
conf. da 6
33% Tutti i tipi di acqua minerale Vittel in conf. da 6 per es. 6 x 1,5 litri, 3.80 invece di 5.70
20% Tutto l'assortimento Sarasay per es. succo d’arancia, Fairtrade, 1 l, 2.30 invece di 2.90
OFFERTE VALIDE SOLO DAL 16.6 AL 22.6.2020, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
20% Fette d'ananas Sun Queen in confezioni multiple, Fairtrade per es. in conf. da 6, 6 x 140 g, 5.70 invece di 7.20
a par tire da 2 pe z zi
20%
Tutti i tipi di aceto e i condimenti Ponti e Giacobazzi a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione
30%
9.95 invece di 14.40 Tutti i tipi di Rivella in conf. da 6 x 1,5 l disponibili in diverse varietà, per es. rossa
conf. da 3
20%
50%
Ripieno per vol-au-vent M-Classic in conf. da 3 con funghi prataioli e carne o Forestière, per es. con Chips M-Classic in conf. speciale funghi prataioli e carne, 3 x 500 g, alla paprica e al naturale, 400 g, per es. alla paprica, 9.80 invece di 12.30 3.– invece di 6.–
a par tire da 2 pe z zi
20%
Tutti i prodotti Thomy in tubetto, squeezer e vasetto a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione
33% Tutte le birre analcoliche delle marche Feldschlösschen, Eichhof e Erdinger per es. Feldschlösschen Lager, 10 x 330 ml, 7.95 invece di 11.90
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– .5 0
di riduzione Tutti i prodotti da forno per l'aperitivo Gran Pavesi e Roberto a partire da 2 pezzi, –.50 di riduzione l'uno, per es. Crocchini al rosmarino Roberto, 250 g, 2.30 invece di 2.80
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20%
Tutti gli snack per cani e per gatti a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione
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27% Deodorante Borotalco in conf. da 2 per es. deodorante spray Original, 2 x 150 ml, 7.95 invece di 11.–, offerta valida fino al 29.6.2020
Tutti i collutori Listerine (confezioni multiple e confezioni da viaggio escluse), a partire da 2 pezzi, 25% di riduzione, offerta valida fino al 29.6.2020
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Prodotti per la doccia Le Petit Marseillais in conf. da 3 per es. latte di mandorla dolce, 3 x 250 ml, 6.95 invece di 10.50, offerta valida fino al 29.6.2020
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Tutto l'assortimento di posate Cucina & Tavola a partire da 2 pezzi, 40% di riduzione, offerta valida fino al 29.6.2020
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Tutti i prodotti per la doccia, gli shampoo e le lozioni per il corpo Le Petit Marseillais (confezioni multiple escluse), a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione, offerta valida fino al 29.6.2020
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15%
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Detersivo per i piatti Handy in conf. da 3 per es. Classic, 3 x 750 ml, 4.55 invece di 5.40, offerta valida fino al 29.6.2020
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20% Fazzoletti di carta e salviettine cosmetiche Linsoft, Kleenex e Tempo in confezioni speciali per es. salviettine cosmetiche Linsoft in scatola quadrata in conf. da 3, FSC, 3 x 90 pezzi, 4.80 invece di 6.–, offerta valida fino al 29.6.2020
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Tutti i prodotti in carta Cucina & Tavola, FSC (prodotti Hit esclusi), a partire da 3 pezzi, 50% di riduzione, offerta valida fino al 29.6.2020
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Cartelle con elastico Papeteria disponibili in diversi colori, per es. giallo, 5 pezzi, offerta valida fino al 30.8.2020
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