Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 22 giugno 2020
Azione 26 speciale
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Società e Territorio L’importanza del pensiero scientifico per arginare teorie complottiste e bufale: intervista al fisico Antonio Ereditato
Politica e Economia Un’annosa contesa territoriale tra India e Cina causa decine di morti e feriti nel Ladakh
Ambiente e Benessere L’infettivologo dottor Christian Garzoni fa il punto della situazione sul Coronavirus raccomandando la massima prudenza, nonostante il numero ridotto di contagi
Cultura e Spettacoli A Bologna una mostra riunisce per la prima volta le 16 tavole originarie del Polittico Griffoni
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USA, prologo di un autunno caldo
Cura dell’infanzia: l’importante ruolo della famiglia diurna
di Peter Schiesser
di Guido Grilli
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Mancano quattro mesi e mezzo alle elezioni presidenziali americane: verrà rieletto Donald Trump? Avrà presto termine questo periodo dirompente alla Casa Bianca, o vedremo anche di peggio, con un presidente che in un secondo mandato non deve temere altre elezioni? I democratici riusciranno a conquistare anche il Senato, dopo essere tornati in maggioranza nel 2018 alla Camera dei deputati? Vista la personalità e i metodi di Trump, non pochi fra i democratici ma anche fra alcuni repubblicani si chiedono quali colpi bassi potrebbe ideare per influenzare le elezioni di novembre. Si ipotizza pure che Trump possa disconoscere una vittoria di Joseph Biden accusandolo di brogli e persino di rifiutare di lasciare la Casa Bianca il 20 gennaio del 2021. Segni di un nervosismo crescente, prologo di una campagna che si annuncia rovente, senza esclusione di colpi, in un contesto economico e sanitario impensabile fino a pochi mesi fa, con l’onda del Coronavirus che si sposta verso gli Stati del sud e dell’ovest. Ma questa volta, nella gara a chi fa il danno maggiore all’avversario, sembrano in vantaggio gli oppositori del presidente, fra cui non ci sono solo democratici. Non a caso è uscito in questi giorni un libro di una nipote di Trump (Too much and never enough, Mary L. Trump) e domani dovrebbe uscirne uno ancora più esplosivo a firma di John Bolton, già consigliere alla sicurezza di Trump (The room where it happened), se il ricorso del Dipartimento di giustizia per presunte rivelazioni lesive della sicurezza nazionale non dovesse avere effetto sospensivo. Mary L. Trump definisce lo zio la persona più pericolosa al mondo e rivela che è stata lei a trasmettere al «New York Times» i documenti confidenziali sulle tassazioni del presidente; nel libro descrive un Donald Trump assettato di denaro, senza scrupoli – una vendetta postuma per essere stata privata assieme al fratello dell’eredità che spettava loro dopo la morte del padre, su iniziativa di Donald. Un quadro che non stupisce nessuno. Ma il libro di John Bolton ha una valenza politica superiore, poiché racconta in 592 pagine i 17 mesi trascorsi accanto al presidente (aprile 2018 – settembre 2019) e perché Bolton è un repubblicano di ferro, un falco che ha favorito la guerra in Irak, che avrebbe voluto muovere guerra alla Libia, all’Iran e in Siria, cresciuto sotto Reagan e Bush padre, affermatosi sotto Bush figlio e quindi con Trump. La sua visione politica non si discosta di molto da quella del presidente, ma i metodi, le menzogne, l’impreparazione, l’incapacità di dominare i propri istinti, l’abuso che Trump fa dei poteri presidenziali, le decisione di avviare negoziati con il dittatore nordcoreano Kim Jong un, l’intenzione di invitare i talebani alla Casa Bianca (poi mai concretizzatasi), gli sono andate contropelo. Trump, scrive Bolton, avrebbe dovuto essere impeached non solo per aver messo sotto pressione l’Ucraina trattenendo aiuti militari per ottenere documenti compromettenti sul figlio di Biden, ma anche per aver chiesto a Xi Jinping di aiutarlo nella rielezione acquistando prodotti agricoli americani, così da assicurarsi il voto degli agricoltori americani, e per l’intenzione di fare dei favori ad altri dittatori e presidenti autoritari per ottenere vantaggi personali (da Putin a Kim Jong un a Erdogan). Sarà un autunno caldo negli Stati Uniti.
Risultati della votazione generale 2020 15’643 soci hanno votato (partecipazione al voto 15,9%) Lei segue Migros Ticino su Facebook e/o Instagram?
SI: 15’109
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Il Consiglio di amministrazione ringrazia per la fiducia accordatagli A pagina 9 le nomine 2020-24 per gli organi della Cooperativa
Marka
Approva i conti annuali 2019, dà scarico al Consiglio di amministrazione e accetta la proposta per l’impiego del risultato di bilancio?
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Società e Territorio Pro Juventute sostiene apprendisti e aziende Il progetto «AAA apprendisti cercansi» nato in collaborazione con l’associazione professionale degli spedizionieri SpedLogSwiss sarà intensificato cercando di coinvolgere più categorie professionali
Passeggiate svizzere Continuano le esplorazioni delle isole elvetiche di Oliver Scharpf, che oggi ci accompagna alla scoperta della Gamma-Inseli sul Lago di Sempach pagina 11
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L’importanza della scienza
Intervista La diffusione di teorie complottiste
e bufale ci fa riscoprire il valore del sapere scientifico, risultato di ricerche rigorose e faticose, come spiega il fisico Antonio Ereditato, professore a Berna, in un libro appena pubblicato
Stefania Prandi La scienza ci permette di indagare, capire e scoprire. Attraverso osservazioni, formule ed esperimenti «scaviamo nella profondità della materia, viaggiamo con la fantasia nel vuoto del cosmo e nell’immensità del tempo» e solchiamo «il confine sottile tra la natura inanimata e la vita biologica». Così Edoardo Boncinelli, genetista di fama mondiale, e Antonio Ereditato, professore di fisica all’Università di Berna, dove dirige l’Istituto di fisica delle alte energie, scrivono nell’Infinito gioco della scienza (Il Saggiatore). Il pamphlet, appena pubblicato in italiano, ribadisce l’importanza e il valore della ricerca scientifica, messa in discussione dai complottisti e da chi fomenta la circolazione di bufale sui social network e su certi media. Antonio Ereditato, in questo periodo di emergenza sanitaria globale, abbiamo assistito al proliferare di teorie cospirative e fake news contro il sapere scientifico. Tra le congetture più recenti c’è quella sulla diffusione del Covid-19, che sarebbe imputabile a un piano segreto e globale dei grandi ricchi del mondo per aumentare i tassi di vaccinazione. Come si può contrastare questa tendenza?
Le fake news sono essenzialmente di due tipi. Ce ne sono di banali, facili da smontare e normalmente con poca presa sul grande pubblico. Di questa categoria fanno parte le tante bufale su internet, come ad esempio le notizie a supporto del terrapiattismo o sulla comparsa di Elvis Presley vivo e vegeto. Ci sono poi le fake news pervasive, più pericolose, generalmente costituite da tante piccole verità montate ad arte per costruire una falsità molto specifica. Spesso hanno lo scopo di ottenere consenso politico, denigrare persone o istituzioni, facilitare raggiri finanziari oppure contrastare «il potere» della
scienza. Sono subdole perché fanno cadere in trappola le persone che si focalizzano soltanto su alcune loro componenti, potenzialmente e individualmente corrette. Io credo che, indipendentemente dal target delle bufale, lo strumento principe per contrastarle sia esercitare lo spirito critico, innato nel metodo scientifico, non basato sulla creduloneria ma sul dubbio metodologico. Questo è un antidoto potente nelle mani dei cittadini e, forse proprio per ciò, uno dei motivi degli attacchi mirati alla scienza. Il sospetto che diverse persone nutrono verso la scienza non è nuovo. Da dove arriva e su quali basi poggia?
Effettivamente l’avversione verso la cultura scientifica e gli scienziati viene da lontano. Pensiamo a come Galileo, il padre della scienza moderna, sia stato osteggiato e minacciato proprio quando sviluppava i fondamenti del metodo scientifico odierno. I motivi sono tanti e le spiegazioni complesse. Gli esseri umani hanno bisogno di certezze, indipendentemente dalla loro veridicità. La scienza, invece, è basata sul dubbio, produce sempre risultati con intrinseche incertezze sperimentali, essendo permeata, come lo è la stessa Natura, da probabilità e indeterminazione. La scienza dice la verità, valida solo fino a prova contraria, fintanto che una nuova teoria comprovata dalla sperimentazione la confuti o la includa in uno schema più ampio. Un medico che parli al paziente della gravità della sua malattia è spesso inascoltato rispetto a un ciarlatano che proponga una cura mirabolante. E, infine, va detto che la scienza è intrinsecamente difficile da capire. Non esiste la pillola del sapere: la conoscenza richiede sempre un impegno, e in molti non ritengono opportuno investire nello sforzo necessario per comprendere davvero le cose. Sembra impossibile riuscire a convincere i complottisti della validità
Oggi la scienza sembra sotto attacco eppure mai come ora la ricerca scientifica è stata affidabile e... appassionante. (Marka) e dell’importanza della scienza. Ci sono persone che mettono in discussione, per usare le parole del vostro libro, «risultati scientifici fondamentali, acquisiti e condivisi dalla comunità scientifica e, in alcuni casi, perfino dalla quasi totalità dell’umanità». Serve un’educazione diversa per le nuove generazioni?
Le ragazze e i ragazzi sono più liberi da preconcetti e stratificazioni pseudoculturali e, per questo, sono anche naturalmente più disponibili verso un discorso di metodologia scientifica. Per educarli non dobbiamo dare loro numeri e risultati preconfezionati, ma offrire strumenti per esercitare uno spirito critico e per affrontare da soli i problemi della vita. La mia disciplina, la fisica, si presta bene, ad esempio, a fornire l’attitudine al problem solving, a mio avviso molto più importante della pura acquisizione di elenchi e
nozioni e trasversale a tutti gli aspetti della conoscenza. Nel vostro libro affrontate il tema della fatica richiesta dalla conoscenza che diventa sopportabile grazie alla passione.
Fare lo scienziato è uno dei mestieri più belli e gratificanti che ci siano: scoprire i segreti della Natura è, come recita il titolo del nostro libro, un gioco infinito, un’attività che regala piaceri profondi e spesso indescrivibili. Da questo punto di vista, i tanti sacrifici necessari appaiono giustificati. Sapere è comunque meglio che ignorare. La conoscenza apre sempre nuove porte e dà molte più possibilità, anche nella vita di tutti i giorni e nelle varie attività lavorative. Viviamo nell’«Età dell’Elogio dell’ignoranza», per usare una vostra definizione. Come possiamo avere fiducia nel futuro?
La scienza non offre soltanto un
potentissimo metodo conoscitivo, ma anche un forte modello etico. L’etica scientifica è un’etica di pace, di tolleranza e di inclusione. Lo scienziato non discrimina i propri simili né tanto meno il resto della collettività. Se nella storia la società si è impossessata dei risultati scientifici per scopi deleteri non è avvenuto certo col consenso della scienza. Il coltello che in sala operatoria incide un tumore, può essere usato per uccidere un uomo, ma non per questo il messaggio scientifico di progresso e conoscenza deve essere tralasciato. Nel nostro lavoro quotidiano non accettiamo disuguaglianze e discriminazioni, siamo sempre paladini della democrazia. Io credo che la speranza per il futuro risieda da una parte nei giovani, ancora vergini dei tanti problemi e condizionamenti del mondo d’oggi e, dall’altra, nella forte tensione etica insita nella scienza.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Mamma diurna, un’esperienza per tutta la famiglia
Notizie brevi Fotografare l’agricoltura
Infanzia La famiglia diurna gioca un ruolo fondamentale per consentire alle donne
di conciliare professione e cura dei figli. Eppure oggi sono in diminuzione, ne abbiamo parlato con Simona Sandrinelli coordinatrice dell’Associazione del Mendrisiotto
Guido Grilli Di mamma ce n’è una sola, non si discute. Eppure – poniamo il destino, l’occasione, la necessità – i bambini durante la loro crescita possono facilmente incontrare una seconda figura materna, non una «tata» né una babysitter, bensì una mamma diurna. Il motivo è presto detto: consentire alle madri di poter conciliare il tempo-lavoro tra i propri impegni professionali e personali con la cura dei figli. Rappresenta una presenza sociale preziosa la mamma diurna, che in tempi recenti si è professionalizzata, divenendo ormai un lavoro a tutti gli effetti. E – novità – sempre di più la mamma diurna sceglie di svolgere questa attività lavorativa a tempo pieno, ciò che complessivamente ha coinciso per contro con una marcata diminuzione del numero delle candidate che finora lavoravano per poche ore, ponendo difficoltà nel reperimento di personale alle tre Associazioni delle Famiglie Diurne – la sezione del Mendrisiotto, quella del Luganese e del Sopraceneri, riunite nell’omonima Federazione ticinese. Per focalizzare le peculiarità di questa singolare professione abbiamo interpellato Simona Sandrinelli, coordinatrice di lungo corso dell’Associazione del Mendrisiotto. Quali criticità attraversano in questo momento le famiglie diurne? «La figura della famiglia diurna e della mamma diurna continua a ricoprire un importante valore sociale e viene ancora molto richiesta. Le tre associazioni Famiglie diurne presenti nel Cantone sono nate più di un trentennio fa, ma la situazione sociale, anche rispetto alla figura femminile, allora era molto diversa. Negli anni 80-90 la donna che voleva restare nel mondo professionale non aveva accesso al tempo di lavoro ridotto. Oggi invece la donna lavora di più. L’economia ha sempre più bisogno delle donne. Di conseguenza diminuiscono le madri che rimangono a casa full time. Pertanto se molte di esse, in passato, sceglievano di accudire per qualche ora anche i figli di altre famiglie, ecco che questa loro disponibilità è venuta sempre meno. La difficoltà negli ultimi anni risiede appunto nel trovare nuove famiglie diurne che si mettano a disposizione. A fronte di un loro calo generale si assiste per contro a un loro crescente bisogno. Ad esempio nel Mendrisiotto, i dati relativi al gennaio 2020 indicano un totale di 34 famiglie diurne per 150 bambini accolti. Analoga situazione presso l’Associazione del Luganese – 46 famiglie diurne per un totale di 216 bambini; e del Sopraceneri – 90 famiglie diurne e 431 bambini accolti». Ma come si diventa mamma diurna e quali requisiti occorrono? «Avere il piacere di stare con i bambini, aver
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Una mamma diurna può occuparsi di 5 bambini contemporaneamente, ma la media è di uno o due. (Keystone)
voglia di dedicare loro del tempo, una casa spaziosa che consenta loro di giocare e muoversi ed essere disponibili a seguire i corsi di formazione: si tratta di un pacchetto base obbligatorio di una sessantina di ore. A organizzarli, gratuitamente, sono le nostre associazioni, grazie ai sussidi del Dss riconosciuti dal 2006 con l’entrata in vigore della Legge per le famiglie. I corsi, tra cui quello sui primi soccorsi pediatrici, costituiscono una formazione continua e pertanto possono essere svolti anche mentre si è già avviata l’attività». Prosegue, Simona Sandrinelli: «Uno dei punti di forza delle mamme diurne risiede nella loro ampia flessibilità negli orari di lavoro, che possono protrarsi anche fino alle 20, a loro discrezione, un grande vantaggio rispetto agli orari fissi in vigore in asili nido o centri extrascolastici. Di quanti bambini può occuparsi una mamma diurna? Di al massimo 5 bambini contemporaneamente, esclusi i propri figli. Un numero limite, raramente raggiunto. La media è di uno, due bambini. L’età dei figli collocati va da 0 a 15 anni, anche se nella maggior parte dei casi si interrompe a 11». Come si inizia? «La candidata si annuncia a una delle tre associazioni Famiglie diurne. La coordinatrice la incontra una prima volta in ufficio per un colloquio di idoneità (presenti devono essere anche il marito e i figli perché vi sia una condivisione), poi al loro domicilio per verificare che gli spazi rispondano agli standard fissati dall’Ufficio prevenzione infortuni. Una volta comunicato il numero di ore di disponi-
bilità da parte dell’aspirante mamma diurna, avviene la firma del contratto con l’associazione, la quale funge da datore di lavoro e s’incarica di versare l’onorario – aumentato a 8 franchi all’ora a bambino con l’ultima riforma cantonale (prima la retribuzione era di 5,5 franchi all’ora) e il versamento degli oneri sociali. Il contratto vero e proprio è comunque quello con le famiglie, fondato sulla fiducia, un elemento fondamentale. Il nostro ruolo di coordinatrici funge da intermediari fra le due parti. C’è un periodo di ambientamento nel collocamento, superato il quale l’esperienza ci insegna che poi le cose evolvono in modo positivo. In tal senso la figura della coordinatrice e il suo ruolo di mediatrice sono importanti. Negli ultimi anni l’associazione ha inoltre introdotto l’intervento dell’educatrice famigliare che accompagna e consiglia le famiglie diurne nella loro attività». Aggiunge Simona Sandrinelli: «La famiglia diurna può tradursi in un aiuto decisivo. Svolgere il ruolo di mamma diurna, oltre a rappresentare un riconoscimento e un valore sociale, reca con sé un vantaggio sia per la famiglia collocante sia per quella ospitante, in termini d’esperienza, come pure di solidarietà tra donne e tra i bambini che ogni volta si viene a creare». Esistono anche i papà diurni? «Sì, anche se sono pochissimi. Si parla tuttavia di famiglia diurna, perché anche i padri rappresentano un sostegno importante a beneficio dei bambini collocati nel loro nucleo e affidati alla mamma diurna. Più in generale, tutti
i membri della famiglia sono coinvolti nella sfida, compresi i figli naturali della famiglia diurna. Senza una accettazione e una condivisione completa di tutta la famiglia, difficilmente il progetto potrà andare a buon fine». Qual è il target della mamma diurna? «Due sono le tipologie: mamme giovani che hanno i figli ancora piccoli e che quindi, rinunciando a entrare nel mondo del lavoro, decidono di ottenere un riconoscimento sociale; o madri con figli già grandi e autonomi o già usciti di casa che trovano il tempo da dedicare a questa nuova attività». E chi dice associazione famiglie diurne, dice anche strutture d’accoglienza per l’infanzia. I tre sodalizi, infatti, oltre a coordinare l’attività delle mamme diurne, gestisce asili nido, centri extrascolastici, mense e colonie estive. «Oggi, solo nel Mendrisiotto, abbiamo 140 dipendenti, in particolare educatrici che assicurano i diversi servizi. Le nostre associazioni sono affiliate alla Federazione svizzera delle strutture d’accoglienza per l’infanzia, Kibesuisse. Questa associazione mantello ha avuto un ruolo importante durante il periodo di pandemia di Covid-19, emanando fra l’altro utili linee guida durante la fase di allentamento delle misure sanitarie decretate dal Consiglio federale. Un aspetto importante, nell’imminente inizio delle colonie diurne, per cui abbiamo avuto il via libera sia dalla Confederazione sia dal Cantone. Le iscrizioni sono aperte e ci auguriamo di ritrovare quella serenità che con il virus avevamo tutti un po’ perduto».
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
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La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
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Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
La Sezione dell’agricoltura della Divisione dell’economia del DFE promuove, in collaborazione con l’Unione Contadini Ticinese (UCT), la seconda edizione del concorso fotografico «Obiettivo Agricoltura». Lo scopo è quello di avvicinare ulteriormente le famiglie ticinesi al mondo dell’agricoltura, coinvolgendole a promuoverlo attivamente attraverso immagini originali e rappresentative di questo importante settore dell’economia cantonale. Le immagini sono da inviare, entro il 15 agosto 2020, all’indirizzo di posta elettronica obiettivoagricoltura(at) ti.ch. Possono inoltre essere condivise su Facebook taggando l’UCT e su Instagram, utilizzando l’hasthag #obiettivoagricolturaticino. Le categorie del concorso sono: Persone in fattoria, Animali della fattoria, Paesaggi agricoli e Macchinari/utensili agricoli. Ciascun partecipante può presentare al massimo quattro foto (una per categoria). Queste ultime, sia che vengano trasmesse per email, sia che vengano condivise su Facebook, devono essere comprensive di titolo, data e luogo esatto in cui sono state scattate, e categoria. La partecipazione è aperta a tutti tranne che ai professionisti della fotografia. Un’apposita giuria, costituita dalla Sezione dell’agricoltura, si occuperà di selezionare un vincitore per categoria: i primi classificati di ognuna delle quattro categorie vinceranno un pranzo, accompagnati dal partner o da un amico/a e dai propri figli, presso l’alpe Giumello (luogo di estivazione dell’azienda agraria cantonale di Mezzana), con la possibilità di osservare l’attività casearia. Informazioni
www.ti.ch/agricoltura Infovacanze solo online L’Ufficio del sostegno a enti e attività per le famiglie e i giovani (UFaG) del Dipartimento della sanità e della socialità, ha pubblicato online l’edizione 2020 dell’opuscolo «Infovacanze – Colonie, campi e soggiorni di vacanza estivi». L’opuscolo offre alle famiglie numerose proposte che favoriscono lo sviluppo e la crescita di bambini e giovani che, in occasione di colonie, campi e soggiorni estivi di vacanza, avranno di nuovo l’opportunità di trascorre il tempo insieme, a giocare e a divertirsi all’aria aperta. La pubblicazione contiene inoltre gli indirizzi e i recapiti telefonici per ottenere informazioni in merito alle colonie e i soggiorni di vacanza organizzati nella Svizzera romanda e tedesca. Informazioni
www.ti.ch/infogiovani Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Idee e acquisti per la settimana
La tavola dei ticinesi
Attualità Al via la nuova campagna pubblicitaria per celebrare il 15° anniversario
dei Nostrani del Ticino
Qualche scatto del backstage durante le riprese della nuova campagna pubblicitaria dei Nostrani del Ticino.
Prodotti regionali autentici certificati
Nel 2005, con lo scopo di dare maggiore visibilità e omogeneità all’assortimento dei prodotti della nostra regione, Migros Ticino lanciava la coccarda dei Nostrani del Ticino. Questi 15 anni segnano il grande e costante impegno dell’azienda nel sostenere decine di produttori locali che ogni giorno si adoperano per offrire ai consumatori oltre 300 articoli di qualità, sostenibili e a km zero. Verdure, frutta, formaggi, salumi, carne, generi alimentari, prodotti biologici… l’assortimento dei Nostrani del
Ticino è ampio e variato. Prodotti che nel tempo hanno riscontrato un successo crescente, segno tangibile che sempre più consumatori desiderano comprare e consumare locale, sostenendo l’economia del nostro territorio. Per sottolineare degnamente questo importante traguardo, quest’anno è previsto il rilancio del marchio Nostrani del Ticino, attraverso una nuova campagna di comunicazione, allettanti promozioni e un evento speciale durante il mese di settembre, di cui vi
parleremo prossimamente. La campagna prevede un’importante presenza sui principali media ticinesi, su manifesti affissi in tutto il Cantone, nonché nei canali social della Cooperativa. Il concetto è incentrato sulla tavola dei ticinesi dove, la famiglia, la coppia e gli amici, si ritrovano a gustare le specialità a km zero più disparate. La tavolata è stata allestita dove nascono i prodotti stessi o comunque in altri luoghi insoliti ma tipicamente ticinesi. Lasciatevi sorprendere!
Tutti i prodotti dei Nostrani del Ticino sono certificati con il marchio di qualità «regio.garantie», che ne attesta la territorialità e tracciabilità. Il marchio è stato lanciato dall’Associazione svizzera dei prodotti regionali, di cui è membro anche l’organizzazione «alpinavera» che applica la garanzia di qualità “regio.garantie” ai prodotti agroalimentari di Ticino, Grigioni, Uri e Glarona. I prodotti certificati «Ticino regio.garantie» devono essere almeno all’80% a base di ingredienti regionali
(per quelli non composti al 100%) e la loro produzione genera almeno 2/3 del valore aggiunto nella regione di riferimento. Il rispetto delle direttive e il diritto di utilizzare il marchio sono garantiti da un organismo di certificazione esterno e indipendente. Preferire i prodotti a marchio «Ticino regio. garantie» significa non solo mangiare regionale e con gusto, ma anche garantire occupazione sul territorio, ridurre i trasporti e sostenere i produttori tradizionali e innovativi.
Busción da Pégra Novità Un formaggino fresco ticinese
In estate la voglia di gustare del formaggio fresco è particolarmente sentita. Lasciatevi allora deliziare dai nuovi busción di pecora dei Nostrani del Ticino. Questa cremosa specialità è prodotta artigianalmente dalla Fattoria del Faggio di Sonvico, azienda gestita dalla famiglia Rezzonico da oltre 25 anni, già fornitore Migros di diverse specialità di latte caprino. Il latte utilizzato per i nuovi busción proviene da un’ottantina di pecore di razza Lacaune allevate a Leontica, in Valle di Blenio (questa razza ovina di origini francesi è tra l’altro considerata la regina del roquefort, dal momento che per
la produzione del famoso formaggio erborinato si usa esclusivamente latte di pecore Lacaune). Rispetto ai più diffusi busción di capra o mucca, la variante con latte di pecora ha un sapore più intenso e aromatico, dato dal maggiore contenuto di grassi nel latte. Tuttavia posseggono anche una buona digeribilità. Per apprezzarne appieno le sfumature di gusto, si consiglia di togliere i formaggini dal frigo almeno un’ora prima del consumo. Accompagnateli anche solo con qualche fettina di pane tostato per un antipasto o stuzzichino da veri gourmand.
Busción di pecora 100 g Fr. 3.95 In vendita nelle filiali con banco formaggio
Giovanni Barberis
che sprigiona tutto il delicato sapore del latte di pecora appena munto
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Idee e acquisti per la settimana
Un ortaggio molto amato
Novità Le carote di produzione ticinese sono ora disponibili nel sacchetto da 1 kg
Carote Nostrane 1 kg Fr. 2.40
Le carote sono tra gli ortaggi preferiti dai rossocrociati, insieme ai pomodori e alle patate. Ogni svizzero consuma in media una decina di chili di carote all’anno. Le carote sono parte integrante della nostra alimentazione, già a partire dai primi anni di vita sotto forma di pappa e fino alle ricette più elaborate sia dolci che salate. Presenti tutti l’anno sugli scaffali dei negozi, le carote svizzere sono coltivate nel rispetto dell’ambiente e della biodiversità. Servite grattugiate in insalata, a bastoncino per l’aperitivo, come zuppa calda o fredda, saltate in padella per un contorno nutriente oppure per la preparazione di fantastici dessert come la torta di carote argoviese, le carote non sfigurano proprio mai. È importante ricordare che gli ortaggi arancio sono ricchi di carotenoidi, i pigmenti responsabili del loro bel colore, sostanze dalle elevate pro-
prietà antiossidanti, utili tra l’altro per la salute di pelle, vista e cuore. Le carote nostrane
Grazie all’Orticola Bassi di S. Antonino, potete gustare le carote di produzione ticinese. Disponibili sciolte e, come novità, nel sacchetto da 1 kg recante la coccarda dei Nostrani del Ticino, sono coltivate in pieno campo su una superficie di ca. 7 ettari. «La nostra azienda – spiega Christian Bassi, titolare dell’azienda – è specializzata nella produzione orticola da oltre 30 anni e anche nella coltivazione delle carote applichiamo tutta la nostra competenza ed esperienza. Sui nostri terreni sabbiosi e ben drenanti pratichiamo la rotazione delle colture e la compensazione ecologica. Queste condizioni sono ideali per ottenere delle carote gustose, croccanti e dalla forma regolare». Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Idee e acquisti per la settimana
Tutto pronto per le vacanze Quest’estate sarà un piacere godersi i nostri balconi, giardini e montagne. Tuttavia, anche le zanzare non mancheranno all’appuntamento. I prodotti Anti-Insect della Migros proteggono contro zanzare e zecche, mentre spray e cerotti impermeabili aiutano velocemente in caso di piccole ferite. In questo modo sarete sempre ben equipaggiati
Aiuta velocemente contro il prurito dopo essere stati punti. Rinfresca subito ed ha un effetto calmante. Anti Insect Après Pic Roll-on 10 ml Fr. 4.30
Lo spray protegge efficacemente tutta la famiglia fino a quattro ore contro le zecche. Indicato per bambini a partire da due anni e dermatologicamente testato. Anti Insect Zecche 100 ml Fr. 6.95
Spruzzare generosamente sulla pelle esposta per proteggersi dalle punture. Consiglio: per una protezione supplementare spruzzare anche sui tessili di cotone o lana. Dermatologicamente testato. Anti Insect Forte Spray 100 ml Fr. 6.50
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Primo soccorso per piccole ferite
Spray per la cura di piccoli tagli o ferite. Non brucia e può essere spruzzato direttamente sulla pelle e sulla ferita. M-Plast Spray per ferite 50 ml Fr. 5.95
Il gel con estratti di foglie di vite rinfresca e ravviva le gambe stanche e pesanti. Ha un piacevole profumo e si assorbe rapidamente.
Il materiale elastico e impermeabile protegge durante il lavaggio, la doccia e il bagno. Perché incolli bene, la pelle deve essere asciutta e esente da grassi.
Sanactiv Gel rinfrescante alle foglie di vite 100 ml Fr. 7.95
M-Plast Cerotti impermeabili 30 pezzi Fr. 3.50
M-Plast Cerotti per bambini box 20 pezzi Fr. 5.90
Foto Filipa Peixeiro; Styling Kathrin Rebsamen
Affinché i bambini possano dimenticare subito le piccole ferite. Adatti anche alle pelli sensibili, dermatologicamente testati.
Il primo soccorso nel caso di piccole ferite: il gel cicatrizzante attenua il dolore e si applica direttamente sulla pelle. M-Plast Gel cicatrizzante 30 g Fr. 5.95
APERTURA A I R A N I D R O A R T S
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Società e Territorio
Un patto per apprendisti e aziende
Formazione Sarà intensificato coinvolgendo più categorie professionali il progetto ticinese di Pro Juventute:
sostiene i giovani e anche le imprese che li accolgono per il periodo del tirocinio
Stefania Hubmann È sicuramente uno dei passaggi scolastici più delicati: dalla scuola dell’obbligo al mondo della formazione professionale. Da un universo conosciuto e strutturato ai nuovi ritmi del lavoro, da conciliare con il relativo impegno scolastico e la vita privata. La crisi economica legata all’emergenza Coronavirus pone i futuri apprendisti in una situazione ancora più difficile, soprattutto se le loro risorse sono limitate. Per alcuni un sostegno educativo nell’ambito di questo passaggio fa la differenza sulla via del successo formativo. Un sostegno di cui possono beneficiare anche le aziende, le quali non sempre riescono a capire che formare un apprendista non solo è fattibile, ma pure vantaggioso. A promuovere questa visione è il progetto educativo di sostegno ai giovani e alle imprese «AAA apprendisti cercansi», avviato dall’Ufficio Svizzera Italiana di Pro Juventute alcuni anni or sono in collaborazione con l’associazione professionale degli spedizionieri SpedLogSwiss, sezione Ticino, e ora rilanciato su più vasta scala per affrontare la preoccupante situazione economica e sociale. L’iniziativa è in linea con la strategia di Pro Juventute Svizzera, in particolare con il principio delle «pari opportunità». La Fondazione si impegna affinché bambini e giovani residenti nel nostro Paese possano disporre delle chance (in questo caso anche professionali) per crescere in modo armonioso sviluppando la loro personalità. Il sostegno va quindi ai più deboli, il cui percorso scolastico è sovente caratterizzato da insuccessi e ai quali mancano stimoli, interessi e motivazione. «AAA apprendisti cercansi» è parte di un concetto di sostegno costituito dall’Ufficio Svizzera Italiana. Questa rete comprende in particolare il progetto Mentoring – elaborato nel 2008 in sinergia con la Divisione dell’azione sociale e delle famiglie e il Municipio di Locarno – per sostenere e incoraggiare attivamente i giovani fra i 15 e i 25 anni che si trovano in un momento di difficoltà attraverso una figura di riferimento (mentore) che li aiuta nel loro percorso. Un percorso che in alcuni casi può passare dal recupero della Licenza di IV media, obiettivo per il quale è stato istituito un progetto ad hoc. «Una delle caratteristiche del progetto destinato ai futuri apprendisti – spiega Ilario Lodi, responsabile dell’Ufficio Svizzera Italiana di Pro
Un apprendista elettricista con il suo formatore. (Keystone)
Juventute – è di essere nato su sollecitazione di SpedLogSwiss Ticino, l’associazione delle aziende del ramo che faticavano a trovare giovani da formare nel loro settore. Ciò dimostra l’esigenza di una parte delle imprese da un lato di ridestare l’interesse per la loro professione e dall’altro di beneficiare di un accompagnamento nel compito formativo. Il nostro sostegno si muove quindi contemporaneamente in due direzioni, verso i giovani e verso le aziende. Queste ultime (soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni) spesso rinunciano alla presenza di un/una apprendista per paura di non riuscire a gestire la sua formazione e il carico amministrativo che ne deriva. Noi possiamo sostenerle per quanto riguarda il secondo aspetto, assicurando inoltre un accompagnamento del/della giovane dal punto di vista educativo». L’ottima collaborazione con l’associazione degli spedizionieri ha spinto l’Ufficio Svizzera Italiana di Pro Juventute ad ampliare l’esperienza. Alcuni grossi Comuni sono già partner del progetto che ora si vuole ulteriormente estendere coinvolgendo nuove categorie professionali come ad esempio gli elettricisti e i giardinieri. Prosegue Ilario
Lodi: «In questa fase post emergenza Coronavirus puntiamo ad aumentare le assunzioni da parte degli enti pubblici, mentre da parte nostra ci attiviamo per trovare chi assumerà gli apprendisti al termine della formazione. In questo modo assicuriamo al settore economico il tempo necessario per riprendersi, evitando però che i giovani più fragili restino a casa senza un’attività». Le ragazze e i ragazzi che rischiano di trovarsi in questa situazione non sono pochi. Secondo il responsabile dell’Ufficio Svizzera Italiana di Pro Juventute «il bisogno è enorme. Quest’anno vorremmo aggiungere una decina di apprendisti a quelli che seguiamo e ancor di più nel 2021. Per andare oltre, il progetto, finora finanziato esclusivamente dagli imprenditori e dalla Fondazione, dovrebbe beneficiare di un sostegno dell’ente pubblico, penso in particolare a una più intensa collaborazione con la Divisione della formazione professionale». La sfida di rafforzare l’esperienza dell’apprendistato, favorendo un inserimento professionale e sociale nel rispetto delle possibilità del singolo, passa pertanto da un coinvolgimento di tutti gli attori: giovani, aziende, enti formatori.
«Raggiungere quanti più giovani possibile e creare nuovi posti di tirocinio sono i nostri obiettivi, ma il loro valore aggiunto riguarda ogni partner e l’intera società», precisa il nostro interlocutore, aggiungendo che «promuovere la trasmissione delle conoscenze da parte di aziende ricche sul piano dell’esperienza e dell’innovazione va a vantaggio dell’azienda medesima, come pure della categoria professionale che rappresenta». Pro Juventute lavora in questa direzione affinché un numero crescente di imprese guardi ai giovani come a una ricchezza, a una forma di investimento per il futuro della professione. Nei confronti dei ragazzi mira non solo a trovare loro un posto di lavoro, ma anche a sostenerli in modo che riescano a mantenerlo e a completare la formazione. Passare dalla Scuola media – dove si è inseriti in una classe di coetanei con numerosi amici – alla realtà lavorativa caratterizzata da attività completamente nuove e dal confronto con colleghi adulti, costituisce un mutamento radicale al quale non tutti i giovani sono in grado di adeguarsi in modo autonomo. Chi è seguito da Pro Juventute beneficia di un accompagnamento volto ad acquisire le capacità di adattamento e a
superare i momenti di crisi. Conciliare vita professionale, scolastica e personale è pure una nuova sfida da affrontare in questo passaggio che avviene ancora in giovane età. «Un equilibrio fra queste tre sfere è la garanzia di un percorso di tirocinio di successo», rileva Ilario Lodi. «Attraverso incontri settimanali, schede ed esercizi da svolgere a casa, affrontiamo con gli apprendisti queste tematiche discutendo le loro rispettive esperienze. Il valore del tempo e le relazioni sul posto di lavoro sono due esempi dei temi che affrontiamo». In una situazione di crisi generalizzata l’Ufficio Svizzera Italiana di Pro Juventute invita il settore economico a non chiudersi, bensì a puntare sui giovani e sulla trasmissione delle conoscenze fra le generazioni. Offre il suo sostegno pratico sia ai datori di lavoro che credono in questa scelta non da ultimo per valorizzare la loro professione, sia ai giovani desiderosi di affrontare un’esperienza di tirocinio incamminandosi verso la propria indipendenza. Informazioni
www.projuventute.ch svizzera.italiana@projuventute.ch
Nuove nomine per la Cooperativa
Migros Ticino Ecco le liste dei membri degli organi statutari, eletti per il periodo legislativo 2020-2024 Elenco dei nominati Le seguenti persone sono state elette per il periodo luglio 2020 – giugno 2024 quali membri degli organi statutari della Cooperativa Migros Ticino o quali rappresentanti presso altre istanze della Federazione delle cooperative Migros. Consiglio di cooperativa di Migros Ticino
Conformemente allo Statuto, il Consiglio di cooperativa si compone di 48 membri, in maggioranza donne, di cui almeno un terzo risulta rinnovato dopo ogni periodo legislativo. In occasione della sua riunione costitutiva il Consiglio di cooperativa provvederà a eleggere il presidente, il vicepresidente,
nonché altri 3-5 membri che formano il Comitato. Anna Baratti, Ponte Capriasca (nuova); Daniela Biadici, Cavergno; Clara Borsari, Muzzano (nuova); **Nadia Bregoli, Morbio Inferiore; Sandra Casoni, Agno; Tosca Cattaneo, S. Antonino; Cristina Coduri Mossi, Mendrisio (nuova); Antonella Copis, Cadro; **Simona Corecco, Claro; Maurizia Dal Zovo, Gnosca (nuova); Maria De Boni, Biasca; Tiziana De Gottardi-Agnelli, San Vittore; Antonella Delmenico, Novaggio; Letizia Delmenico, Novaggio (nuova); Nicla Dolfini, Giornico; Nadia Fabbro, Airolo; Luca Ferrari, Cureglia (nuovo); Patrizia Ferrari, Cadro (nuova); *Francisco Gessi, S. Vittore (nuo-
vo); Sandro Glaus, Losone (nuovo); Simona Guenzani, Breganzona; Francesco Guerini, Biasca; *Sarah Guerini, Castione (nuova); **Matteo Hoderas, Breganzona; *Nilla Jäger, Stabio (nuova); **Gabriella Malacrida, Mendrisio; Manuela Marmori, Sigirino (nuova); Annarita Mazza-Grandi, Capolago; Patrizia Mazzola, Ponte Capriasca (nuova); Antonio Muoio, Camorino; Barbara Paglia, Bellinzona; *Margherita (detta Mara) Pedraglio, Cuasso al Monte (nuova); Eleonora Pellanda, Locarno (nuova); Morena Pellanda, Locarno; **Daniele Poggiali, Lugano; Sandra Pozzi, Maggia; Franca Rezzonico, Gravesano; Andrea Schuster, Arzo (nuovo); *Ombretta Serena, Masliani-
co (nuova); Silvana Solari, Cadenazzo; Maria Teresa Soldini, Sigirino; **Alessandro Speziali, Minusio (nuovo); Carmela Stadtmann, Lostallo; Simona Vezzoli, Prato Leventina; Rita Weit, Bellinzona; Maja Werder, Bellinzona; Michela Werder, Monte Carasso (nuova); **Danilo Zanga, Cugnasco-Gerra. *= collaboratrici/collaboratori della Cooperativa Migros Ticino **= delegati all’Assemblea dei delegati della Federazione delle cooperative Migros Consiglio di amministrazione della Cooperativa Migros Ticino
Monica Duca Widmer, Arosio, presi-
dente; Sharon Guggiari Salari, Lugano; Roberto Klaus, Tesserete; Gianni Roberto Rossi, Brissago; Stefano Scricciolo, Grono, eletto dal personale, merchandiser mercati specializzati (nuovo). Rappresentante di Migros Ticino presso il Consiglio di amministrazione della Federazione delle cooperative Migros
Lorenzo Emma, direttore della Cooperativa Migros Ticino È infine stato eletto l’Ufficio di revisione per un mandato di due anni (20202021): PricewaterhouseCoopers SA, Lugano.
Veramente Nostrani!
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Società e Territorio Rubriche
Approdi e derive di Lina Bertola Lo spirito del dono In un recente comunicato l’Associazione per la donazione di organi Swisstransplant ha fatto il punto sulle conseguenze dell’emergenza Covid-19. I doni di donatori viventi e i trapianti di reni sono stati interrotti per alleggerire gli ospedali, ma il peggio è stato evitato. La Svizzera infatti non è stata confrontata, come invece è accaduto ad altri Paesi, con un arresto completo delle pratiche di donazione. Nonostante la limitazione delle attività sia stata abbastanza contenuta, la situazione ha avuto tuttavia influenza sulla lista d’attesa, in cui il tasso di mortalità è nettamente aumentato, soprattutto per quanto riguarda la donazione di reni. A questi dati, che parlano di una situazione comunque problematica, va aggiunto il calo di trapianti di fegato registrato già a partire dall’estate dell’anno scorso. Complessivamente in Svizzera nel 2019 c’erano più di duemila malati in attesa e le
donazioni sono state poco più di 500 (157 doni post mortem). Il dono di organi è una scelta molto delicata che invita a riflettere sul senso e sul valore della vita e ci interpella nel nostro più intimo vissuto. Questa delicata e attualissima questione etica è anche un invito ad aprirci ad un più ampio orizzonte di senso in cui sia possibile riconoscerne l’essenza, illuminare ciò che la fonda, ovvero il significato originario del dono, il significato antropologico originario dell’atto di donare. Punto di avvio di una riflessione a più voci che ha attraversato tutto il Novecento è il Saggio sul dono di Marcel Mauss, pubblicato nel 1923/24, a partire da ricerche su culture-altre, compiute soprattutto in Oceania. Secondo questi studi, il dono costituirebbe una vera e propria forma di scambio preeconomico, basata su una reciprocità aperta, dove dare e ricevere non è mai un semplice restituire. Lo spirito del
dono fonda e nutre di sé il legame con l’altro e lo alimenta in una specie di debito reciproco. In gioco non è mai solo l’oggetto donato. Di questa essenza del dono e del donare, che appare come un carattere costitutivo della nostra umanità, ci sono almeno un paio di aspetti che, nella nostra cultura basata sullo scambio economico, ne rendono difficile la comprensione. Il primo aspetto riguarda la gratuità di un gesto o di una relazione con l’Altro. Un agire disinteressato, che esprime una finalità, mosso da una motivazione intrinseca, senza cause né scopi fuori di sé: un atto libero. Questa attitudine alla gratuità è anche il fondamento dell’azione morale, del «devo perché devo» senza un fine ulteriore. Nel nostro clima culturale che enfatizza il valore di ciò che è utile, di ciò che serve, la gratuità del dono e del donarsi, mai misurabile e senza alcuna garanzia di un controdono, diventa esperienza difficile.
Quando, come accade oggi, la domanda «a che cosa serve?» diventa la principale domanda di senso, rischiamo davvero di perdere il sentimento del valore intrinseco alle cose. C’è poi un altro aspetto dello spirito del dono piuttosto difficile da cogliere, e soprattutto da vivere, nella nostra cultura, ed è il suo essere fonte e nutrimento di un legame: nella circolarità di uno scambio aperto, il dono è sempre, in qualche modo, dono di sé. È un donarsi nelle cose che crea una condizione di debito reciproco. Una condizione di intensa reciprocità che riusciamo a cogliere nei legami d’amore. Nelle nostre relazioni sociali, invece, l’essere in debito si trasforma in qualcosa di negativo, di insopportabile. Quando un amico ci offre un aperitivo, mentre lo ringraziamo sentiamo l’obbligo di garantire al più presto un «buon rendere». Sullo sfondo di una cultura pervasa dallo scambio economico è sempre
necessario sdebitarsi e il dono, scorporato dall’esperienza impegnativa del legame, diventa regalo, o donazione, un oggetto comunque sempre misurabile nel suo valore. Ma noi non siamo soltanto homo oeconomicus e lo spirito del dono sopravvive in tanti aspetti del nostro stare al mondo. È un «supplemento d’anima» in cui risuona il desiderio di gratuità e il sentimento del legame. Penso al mondo del volontariato che attraversa la società con i suoi linguaggi intimi e discreti. Penso alla figura del maestro che, al di là delle conoscenze, sa nutrire la relazione educativa con il suo esserci autentico. E infine penso al «supplemento d’anima» che ci ha offerto il personale sanitario in questi mesi difficili. Lo spirito del dono, insomma, circola ancora sempre tra noi e queste sue atmosfere, silenziose ma vive, possono offrire anche alla medicina dei trapianti una forza e un senso ulteriore.
(504 m) alla mezza verso la metà di giugno, si ribalta tutto. Guardando fiero la barca ormeggiata per un secondo o due, lo confesso, mi sento Huckleberry Finn. E ai primi passi sull’isola, udendo un verso esotico di chissàquale uccello, un po’, va da sé, Robinson Crusoe. Poi, invece di stevensoniani tesori, trovo un paio di stronzi. Il capitano Kurt mi aveva avvertito che «i pescatori usano a volte l’isola come wc». Mentre alla «Surseer Woche» dichiarava soltanto che «l’isola ha qualcosa di mistico». Mi addentro comunque, con i piedi di piombo, all’interno dell’isoletta dominata dagli ontani neri. Abitata tremila anni avanti Cristo, secondo dei frammenti dissotterrati di una ciotola datata dell’antica Età del Bronzo. Oggi mi cibo solo di datteri, come gli anacoreti nel deserto. Magari dopo, come i tennisti intelligenti stanchi, ci aggiungo una banana. Il coniglio non è un’allucinazione, mistero. Forse risale al giorno di festa per il suo battesimo in pompa magna, quando tutta la classe con le autorità comunali e uno sconosciuto scrittore per la gioventù in ghingheri sono venuti qui in motosca-
fo, dandole il nome di un professore di botanica nato a Horw e morto, scrissero sui giornali, «tragicamente». Molti dei centottantaquattro metri quadrati dell’isoletta, sono cosparsi di guano e sommati ai bisogni dei pescatori, non invogliano tanto a sostare più a lungo. In inverno, pare che la Gamma-Inseli sia tutta imbiancata di guano come l’isola di Peilz raccontata tempo fa. Oltre ai cormorani, è l’alloggio di oche selvatiche. Va detto, a proposito di oche, che a Sursee permane un’usanza curiosa per San Martino. Due oche bianche domestiche, già morte e appese per l’occipite, vengono decapitate, alla cieca, l’undici novembre, davanti al Municipio: una serie di concorrenti bendati e vestiti con manto rosso e in testa una maschera di sole umanizzato, provano con una sciabola non affilata a tagliarle il collo. Le indagini sulla morte violenta del professor Gamma e sul coniglio di Pasqua totemico-isolano non hanno ancora portato da nessuna parte, ho scoperto però l’esistenza di un’altra Isola Gamma. È una delle isole Melchior, nell’arcipelago Palmer, in Antartide.
più avanti, per ora ciò che conta è il principio». Positiva anche la reazione di NPR, National Public Radio, che sottolinea l’importanza in un momento critico per tutto il settore di poter contare su un’entrata in più e un più ampio pubblico senza dover produrre nuovi servizi o contenuti. Josh Constine di Tech Crunch mette invece in guardia dalla strategia volubile di Fb: «entrare in questo progetto sarà come giocare a bocce durante un terremoto», si chiede agli editori di riporre fiducia in chi non la merita, basti pensare all’insuccesso degli Instant articles. Non vi è dubbio che quella di Zuckerberg sia in primis un’operazione di maquillage visto che negli ultimi anni non ha brillato per trasparenza sui dati, verifica delle informazioni o assunzione di responsabilità. Nei giorni scorsi Joe Biden e il suo staff su Twitter hanno lanciato una petizione affinché Fb elimini la disinformazione
evitando che si ripeta ciò che è successo per le presidenziali del 2016. Ecco l’altro elemento che ha fatto scattare Zuckerberg, la notorietà che sta acquisendo il social di Jack Dorsey (Twitter è stata l’app più scaricata tra le sue affini in queste settimane) che ha avuto il coraggio (anche questo a Zuckerberg è sempre mancato) di prendere posizione contro i Tweet di Donald Trump bollandoli come contenenti falsità nel caso del voto postale (e rimandando a fonti giornalistiche attendibili come la CNN) o istigatori alla violenza nel caso del Tweet sugli accadimenti di Minneapolis. Che i social media stiano prendendo coscienza e non vogliano più essere considerati solo dei contenitori, dei dispensatori di tecnologia che non si assumono alcuna responsabilità circa i contenuti che diffondono? La speranza è l’ultima a morire e di questi tempi ne abbiamo bisogno.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf L’isoletta Gamma Sul lago di Sempach, non lontano da Lucerna, forse non tutti sanno che c’è un’isoletta chiamata Gamma. La terza lettera dell’alfabeto greco, come nome per diverse cose, tra le quali i raggi gamma o la funzione gamma, è stata utilizzata un’altra volta, mi sono detto subito. Invece, a mia grande sorpresa, è stata battezzata così in onore di un professore: Hermann Gamma (1901-1955). Gamma-Inseli: così c’era scritto a mano su un cartello con dei disegnini, tenuto bene in vista da alcuni bambini della terza elementare di Horw – vincitrice del concorso Un’isola cerca un nome – appena sbarcata alle otto e diciotto dell’otto luglio 1956 alla stazione di Sursee. Arrivato a metà mattina in quella stessa stazione ferroviaria, per approdare al porticciolo di Sursee, a differenza di altre località più dirette al lago e nonostante il toponimo contenga il lago, si è costretti a pascolare un po’. Alle spalle del chiosco per il noleggio barche e pedalò, caprette bianche e un paio di agnellini belanti, gironzolano brucando. Appena dietro, salgono morenici i vigneti di solaris, ordinatissimi e ornati di rose, verso la chiesa di
Mariazell. M’imbarco poco prima di mezzogiorno, diretto all’isoletta Gamma che non si vede all’orizzonte per via dell’imbocco stretto dell’insenatura. Mai andato da solo su una barca a remi. Kurt Schäfer, il tipo con berretto da capitano in bermuda e sandali che si occupa del noleggio barche per la Corporazione di Sursee, proprietaria dal 1836 dell’isola, mi spiega al volo, come fare, non è semplicissimo. Non ci arriverò mai, penso, uscendo a fatica dal molo ed evitando per un soffio di cozzare contro una barchetta di due giovani pescatori belli stoni. La prima cosa strana è remare all’indietro, di schiena, non vedendo bene dove vai. Eppure, il rimpianto-pedalò dura tre secondi, mi diverto e rido di me stesso trovando una mia andatura scoordinata, incostante, a zig zag. Senza nessuna fretta, spesso perdo tempo a riprendere la rotta, uscendo da un testacoda piano piano. Sulla riva destra, tra i canneti, si notano un paio di vecchie capanne balneari di legno imbrunito. Nonostante la rotta balorda, remare rilassa molto. Capisco, di colpo, la gente in canoa; come quella ragazza là in
bikini. Eccola laggiù l’isoletta Gamma, paradisiaca con lo sfondo scintillante delle alpi innevate in una splendida giornata di sole. Riemersa, dopo secoli, durante l’ultimo abbassamento del lago, nel 1807. Senza nome fino al concorso indetto nel 1956, in occasione del settecentesimo della prima menzione di Sursee nel 1256. Facendo il periplo dell’isola, spicca il muretto intorno costruito negli anni sessanta con grossi sassi ovali. Tra il folto degli alberi, sorprende un gigantesco coniglio tipo pasquale. Mi avvicino per vedere meglio la scultura-totem ma m’impiglio tra le fronde sulla superficie del lago. Disincagliato in qualche modo, guardando ancora il panorama alpino accecante, risalta, a fianco del Pilatus, una montagna più bianca delle altre: il Titlis (3238 m). Attraccare è una parola. Il capitano Kurt mi ha mollato una corda sulla prua senza dirmi molto altro. Provo ad affiancarmi al pontile di legno, tiro i remi in barca, e giro intorno all’ormeggio la corda – cima mi viene in mente, ora, il termine nautico giusto, credo – annodandola. A momenti, sbarcando sull’isoletta Gamma
La società connessa di Natascha Fioretti Come giocare a bocce durante un terremoto Negli USA è partita la nuova sezione di Facebook dedicata all’informazione di qualità. Si chiama News Tab ed è una sezione dedicata alla quale si accede tramite un’icona a forma di quotidiano. Gli articoli si possono condividere, si possono aggiungere like e faccine ma niente commenti. Altra novità, c’è una redazione di giornalisti professionisti in carne e ossa che si occupa di selezionare e curare i contenuti più importanti e le notizie del giorno. Al resto, in particolare alla personalizzazione degli articoli, ci pensano gli algoritmi. Duecento le testate per ora coinvolte nel progetto tra queste anche «Washington Post» e «BuzzFeed News» ma anche media locali e media specializzati su singoli settori come la finanza o la scienza. Per Fb il progetto è chiaramente improntato a smarcarsi dalle accuse di essere un veicolo di fake news e disinformazione ma anche dall’immagine di predatore della
stampa. Nella primavera dello scorso anno, in un incontro con il CEO di Axel Springer Mathias Doepfner, Mark Zuckerberg disse: «Il giornalismo è importante per la democrazia ma Internet è stato dirompente per il tradizionale modello di business dei giornali. Credo che oggi abbiamo la responsabilità di collaborare con i media per costruire modelli sostenibili a lungo termine». Il CEO di Fb, lo stesso coinvolto nello scandalo politico dei dati con Cambridge Analytica, vuole dunque recuperare il rapporto con gli editori e lo fa con un gesto di rottura rispetto al passato e cioè pagando agli editori una sorta di diritto di licenza, dando a loro quasi tutti i proventi pubblicitari di questa sezione con la promessa di aumentare esponenzialmente il traffico sui loro siti. Per i compensi agli editori, ad alcuni non a tutti, si parla di cifre tra uno e i tre milioni di dollari. Un’operazione simile è nata
qualche anno fa in casa Apple con Apple News e ora con Apple News Plus, un’edicola virtuale alla quale ci si può abbonare per dieci dollari al mese, in cui si trova una ricca offerta di magazine come «The New Yorker» o «Wired» ma anche quotidiani come il «Wall Street Journal» (una delle prime testate ad avere avuto successo con gli abbonamenti digitali). La spartizione dei ricavi è del 50%. Il direttore del «New York Times» Mark Thompson ha declinato l’invito a farne parte, ritiene che affidare i contenuti a terze parti equivale a perdere il controllo sul proprio prodotto e sui propri lettori. Inoltre l’abbonamento mensile al quotidiano costa quindici dollari al mese, che senso ha entrare a far parte di un’edicola digitale che ne costa dieci? Robert Thomson amministratore delegato di NewsCorp, il leader della resistenza dei media contro big tech dice «I dettagli dell’operazione li vedremo
«IN QUANTO A CROCCANTEZZA, SU UNA SCALA DA1A10? 11.»
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Idee e acquisti per la settimana
Per più carattere nel cestino del pane Lara Delicata, Luisa Aromatica e Leo Croccante (qui a destra): così si chiamano i membri della nuova famiglia di pani, da poco disponibili sugli scaffali di Migros. Ognuno di essi possiede un proprio carattere, grazie per esempio all’utilizzo di grano duro o orzo. Una cosa hanno però tutti in comune: la base di pasta acida, ingredienti naturali al 100% e una lunga lievitazione prima di essere infornati. Queste caratteristiche rendono i pani particolarmente aromatici e mantengono a lungo la loro freschezza.
Un pane all’orzo originale
La pagnotta leggermente angolare di Leo Croccante viene ritorta due volte dal panettiere. Impossibile resistere alla sua bella crosta marrone scuro dal delicato aroma tostato. Al suo interno si nasconde una mollica umida e ariosa. I fiocchi d’orzo rimandano subito al carattere individuale dei pani a pasta acida – la sapiente combinazione tra pasta e note di orzo gli conferisce il suo aroma speciale.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Ambiente e Benessere Viaggiatori di colore Il sotterraneo razzismo nel mondo del turismo passa ancora troppo inosservato
Giganti che si nutrono di piccolini Recenti ricerche hanno constatato strategie alimentari davvero sorprendenti per le pacifiche megattere pagina 21
Il sapore della primavera La freschezza degli asparagi verdi e del prezzemolo per un ricco risotto al limone pagina 24
pagina 19
Mare de Deu de Gràcia Una festa patronale dove danzano uomini e cavalli come un’unica anima
pagina 25
Coronavirus: punto o virgola?
Covid-19 «Lavat i man!» e «MascheraTI!»:
restiamo attenti e prudenti per non buttare alle ortiche il nostro vantaggio sul virus
Maria Grazia Buletti Avanti piano coi contagi in Svizzera e in Ticino dove i casi positivi al Coronavirus marciano sul posto. Dalla prima metà di giugno la diffusione della malattia ha subìto una frenata in tutta Europa, con il nostro Paese che registra giorno per giorno nessuno o pochissimi nuovi casi positivi. «In Svizzera e nel Canton Ticino siamo usciti da una fase di chiusura totale che ha evidentemente abbassato la quantità di virus a valori vicini allo zero. Per ripartire, un’epidemia necessita di una certa massa critica che oggi, proprio grazie ai valori così bassi, fortunatamente non c’è», così l’infettivologo dottor Christian Garzoni interpreta il presente, ricordando che oggi si testano tutti i sintomatici («anche quelli con sintomi banali»), senza dimenticare che il controllo dell’epidemia è frutto di un «lavoro artificiale di blocco di società»: «Il virus c’è. C’è nel mondo e non possiamo illuderci che sia sparito dalla circolazione». E se da noi il 9 giugno ha segnato la data di dimissione dell’ultimo paziente Covid-19 dal reparto di cure intense della clinica Luganese di Moncucco, in altre parti del mondo la realtà è ben diversa e la malattia si sta propagando rapidamente in America latina, mentre gli Stati Uniti restano il Paese più colpito con quasi due milioni di contagiati e oltre 110mila decessi. La fotografia del mondo mostra regioni con situazioni epidemiologiche estremamente diverse che meritano alcune considerazioni: «America, Africa, Stati Uniti e Brasile destano grosse preoccupazioni, anche in ragione del fatto che i numeri reali non si conoscono alla perfezione e a livello globale sta succedendo quello che abbiamo passato qui a febbraio e marzo». Il virus gode di ottima salute e non è scomparso nemmeno laddove è tenuto per ora sotto controllo: «Ad oggi non c’è nessuno studio che dimostri che il virus sia in qualche modo cambiato nella sua composizio-
ne e nel modo di agire e, di fatto, i dati recenti che anno sequenziato decine di migliaia di ceppi mondiali dicono che è lo stesso seppur con mutazioni regionali, senza che ne venga cambiata la sostanza». Eppure, alcuni specialisti danno il Coronavirus come «clinicamente scomparso», e altri sottolineano il fatto che non si è verificata la temuta sua recrudescenza conseguente alle aperture e agli allentamenti: «Osservando anche altri paesi ci aspettavamo che pure qui le misure di allentamento avrebbero portato a un aumento dei casi, perché sappiamo che il virus si trasmette attraverso contatti ravvicinati di persone. Aumentandoli, anche il virus sarebbe dovuto aumentare». Così non è stato: «Verosimilmente le aperture sono avvenute quando la quantità di virus nella popolazione era bassa e questo potrebbe spiegarne il perché. L’estrema cautela della popolazione, l’apertura di attività che permettessero di rispettare distanze sociali e norme igieniche, hanno fatto sì che l’attività virale non fosse favorita». Un risultato positivo che potrebbe però creare un sentimento fuorviante nella popolazione: «Ammetto che, come altri esperti, anch’io sono rimasto felicemente stupito, ma significa che la popolazione ticinese ha saputo giocare un buon gioco, rallentando i tassi di contagio. Trend positivo che inspiegabilmente non è avvenuto in Nord Italia, ad esempio, malgrado il loro lockdown molto più stretto del nostro». Ancora una volta, la chiave di comprensione risiede nel fatto che: «Questo virus è nuovo e ci sono cose che ancora non sappiamo; penso che oggi nessuno specialista sia in grado di prevedere con esattezza come si comporterà e si profilano scenari che paventano direzioni opposte a seconda di come si costruiscono e come si analizzano». Certo è che le differenti affermazioni di alcuni esperti spaccano e confondono l’opinione pubblica che non sa più come interpretare questi «distan-
L’infettivologo dottor Christian Garzoni. (Vincenzo Cammarata)
ziamenti scientifici», anche in previsione di una ipotetica seconda ondata attesa per l’autunno. «Serve prudenza», ha messo in guardia il medico cantonale Giorgio Merlani. Serve prudenza, conferma Garzoni: «Oggi, con le misure di cui disponiamo, è impensabile si possa eradicare questo virus. Ma la società può controllarlo fino a liberarsene con misure di distanziamento sociale sia “più leggere” che estreme, come il lockdown». Quel che succederà in futuro è solo ipotizzabile: «Il virus ha il potenziale per tornare ad essere importante. Oggi non possiamo prevedere se, come e quando riprenderà a circolare nella popolazione ticinese, perché non possiamo fare previsioni a lungo termine». Ma bisogna stare in campana: «Per ora con un attento monitoraggio, pronti a reagire se la situazione dovesse peggiorare». Insomma, Garzoni non nega che ora siamo in una fase molto positiva, ma esorta alla coerenza e al rispetto delle regole igieniche e di distanziamento: «Sono felice, ma resto prudente,
all’erta e preoccupato. Mi rendo conto di sembrare menagramo o rompiscatole invitando a non abbassare la guardia, perché a fronte di questi buoni dati rischiamo di essere poco credibili nel ricordare le misure di protezione. Sono comunque realmente convinto che per il futuro la minaccia sia reale. Non è per spaventare: c’è un che di razionale nel mettere in guardia e stare attenti a quello che riserverà il futuro». Un domani con diversi scenari, dal più ottimistico al più grave («comunque meno probabile») che devono pure tenere conto di due potenzialità positive: «Se arriva un farmaco per il Covid-19 davvero efficace e dimostrato, e naturalmente un vaccino efficace e disponibile su larga scala». Ad ogni modo, un’ipotetica seconda ondata autunnale sarebbe un’ondata mista: coronavirus e virus influenzali: «È ciò che più spaventa perché durante i mesi invernali gli ospedali sono al limite delle capacità a causa delle malattie abituali non Covid. Se a queste dovessimo aggiungere una ricomparsa
di ospedalizzazioni importanti di pazienti Covid, avremmo un grosso problema logistico. Altro nodo sarebbe la differenziazione dei virus influenzali dai sintomi del Covid-19 che può manifestarsi pure con forme blande, dunque simili, ma che necessita di isolamento, a differenza dai virus influenzali. Come distinguerli?». Un breve cenno all’importanza delle mascherine: «Indossiamole nelle situazioni dove non possiamo assicurare la distanza sociale che tendiamo a diminuire senza renderci conto quando interagiamo». Un’ultima considerazione sulla voglia di viaggiare: «Quest’anno penso sia ideale scoprire la Svizzera e favorire il turismo locale. Se proprio non rinunciamo a sconfinare, verifichiamo bene la meta e soprattutto il grado di diffusione del virus, badando ai dati a corto termine e alle regole di confinamento ed eventuale quarantena del Paese che ci ospita». Responsabilità personale e decisioni ragionevoli stanno alla radice di tutto. Motto: «Prudenza e turismo locale».
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Ambiente e Benessere
Il colore della pelle fa la differenza anche in viaggio Viaggiatori d’Occidente La discriminazione razziale è un tema che tocca
molti ambiti della vita sociale, tra cui quello delle vacanze
Le persone di colore si rivolgono spesso a catene di alberghi in cui sono bene accette. (Pexels.com)
per parecchio tempo, anche dopo la fine della segregazione razziale, tutto continuò come prima. Arnie Weissmann, caporedattore (bianco) di «Travel Weekly», ricorda un episodio della sua infanzia. «Avevo 11 anni e il nostro era un classico viaggio americano con auto e carrello delle tende. Eravamo già stati nel Rocky Mountain National Park, poi Mesa Verde, Grand Canyon, Los Angeles, San Francisco, Yosemite ed eravamo diretti a Yellowstone. Prima di attraversare il Deserto del Nevada però avevamo caricato troppa acqua, nel timore non bastasse, e l’asse posteriore della nostra macchina cedette per il peso. Per fortuna c’era un motel vicino. Ma quella sera, quando i miei genitori pensavano che io dormissi, sentii mio padre raccontare con voce turbata la storia di un’ingiustizia: quando era entrato nell’hotel, una coppia di colore stava uscendo perché avevano detto loro di essere al completo. Invece c’era ancora una stanza libera e fu data a noi. Mentre mio padre stava compilando i moduli, la donna dietro la scrivania gli disse con aria complice: “Se quelle persone ti
fanno domande, digli che avevi già prenotato”». Ancora oggi, del resto, molti neri usano Facebook per farsi segnalare luoghi dove sono benvenuti. E alcune catene alberghiere, per esempio Homage Hospitality Group, accolgono soprattutto viaggiatori di colore. «Torniamo dove sono già stati i nostri amici e parenti perché sappiamo che è sicuro» spiega Dianelle Rivers-Mitchell, fondatrice di Black Girls Travel Too. Altri, specie al sud, hanno ancora paura di andarsene in giro dopo il tramonto o di essere fermati dalla polizia, per questo installano sulle loro auto delle videocamere per riprendere un eventuale fermo; inoltre lasciano sempre detto dove sono e tendono a seguire strettamente il programma senza permettersi rischiose divagazioni, come farebbe invece un bianco. Nel paese di Jack Kerouac e dei viaggi On the road, la prima domanda che i poliziotti rivolgono ai viaggiatori neri è «Dove stai andando? Perché sei qui?», come se non avessero il diritto di allontanarsi dal ghetto. E se gli afroamericani amano viaggiare in grandi
Bussole Inviti a
letture per viaggiare «Le splendide spiagge di torrente – 35 in questa edizione su Canton Ticino e Alto Piemonte, comprese le famose “Maldive di Milano”, a due passi da Locarno…».
Claudio Visentin «Perché i maschi bianchi devono prendersi tutto il divertimento?». Sin dall’infanzia questa domanda ha assillato Jini Reddy, scrittrice di viaggio di origini indiane emigrata in Canada con la sua famiglia. «Da bambina ho sempre sognato di diventare una scrittrice e di viaggiare all’estero. Ma non ho mai letto una storia che parlasse di una come me, una piccola donna bruna che se ne andava in giro e viveva avventure straordinarie. Vedevo uomini – sempre uomini! – nei libri e in TV e mi chiedevo come facessero a tenersi quel ben di Dio solo per sé». Poi finalmente Jini ha scoperto in libreria opere come Indigeno straniero. Un viaggio africano di un Nero d’America di Eddy L. Harris, (Feltrinelli, 1994), dove si raccontava un viaggio a ritroso nella terra dei padri per recuperare la propria identità. Per le donne, sia pure lentamente, tradizionali esclusioni sembrano attenuarsi: dopotutto da qualche tempo il loro numero supera quello dei viaggiatori maschi e si sono aperti spazi importanti anche nel giornalismo specializzato. La questione di genere insomma fa progressi, invece il sotterraneo razzismo del mondo del turismo spesso passa inosservato. Forse questo dipende anche dall’idea che il viaggio sia sinonimo di apertura mentale, rifiuto del pregiudizio, disponibilità alla diversità. Ma non sempre è così. Il caso degli Stati Uniti, in queste settimane scossi dalle rivolte razziali, è emblematico. Negli USA questo 2020 sarà l’anno delle vacanze con la propria auto: uno stile di viaggio molto apprezzato sin dagli anni Venti del Novecento, ora rinforzato dalla tendenza a restare più vicini a casa (niente aereo!) e a limitare i contatti in tempo d’epidemia. Certo non sono più i tempi di quando i viaggiatori di colore si affidavano alla Guida Verde (Negro Motorist Green Book), pubblicata dal 1936 al 1967 (ricordate il film?) per trovare alberghi e ristoranti disposti ad accoglierli. Ma
I bagni di fiume
gruppi familiari, o di membri della stessa Chiesa, questa scelta dipende anche da qualche timore nascosto. Non va meglio per i viaggi all’estero. Chi vende viaggi di lusso o posti in prima classe raramente si rivolge alle persone di colore nella pubblicità. E la maggior parte dei dirigenti delle principali aziende turistiche sono bianchi, nonostante i 63 miliardi di dollari spesi ogni anno dai neri. Quando Margie Jordan, un’agente di viaggio, va in vacanza nei Caraibi molti, a causa della sua pelle scura e dei capelli crespi, pensano sia una dipendente: «Mi hanno chiesto di prenotare un ristorante, di chiamare un taxi, persino di portare asciugamani puliti nella loro stanza». Per questo ha finito per viaggiare soprattutto in Paesi dove avere la pelle scura è normale. Qualche anno fa per esempio è stata in Sudafrica ma quando su un modulo le hanno chiesto la sua nazionalità ha scritto «nera». «Poi mi sono accorta che tutti intorno a me lo erano, allora ho tirato una riga e ho scritto “americana”. Il portiere ha guardato il foglio con la correzione, ha sorriso e mi ha detto: “Bentornata a casa”».
Quest’anno, in una prospettiva di turismo di prossimità, torrenti e fiumi possono rivelarsi una risorsa preziosa per rinfrescarsi e nuotare. È una forma di turismo divertente: vi condurrà per strade secondarie o sterrate, piccoli paesi, trattorie di campagna, valli quasi spopolate. Serve solo un poco più di cautela rispetto al mare – l’acqua di fiume è fredda, i sassi scivolosi e qualche corrente può essere pericolosa – ma in fondo un poco di avventura non guasta. Questa ricerca della spiaggia nascosta lungo i fiumi era sin qui praticata da pochi appassionati, gelosi dei loro posti migliori, scoperti negli anni. Ma nessun segreto rimane tale a lungo e quindi sarà bene prepararsi all’arrivo dei turisti, dal momento che anche un piccolo numero di visitatori può mandare in crisi un territorio poco attrezzato per accoglierli. Per questo, prima che si ripetano spiacevoli episodi passati (le Maldive di Milano in Valle Verzasca), meglio prevedere cestini per i rifiuti, bagni chimici, sorveglianza specialmente nei giorni festivi e limitazione degli ingressi: perché le valli appartengono ai loro abitanti e non sono il luna park di chi vive in città. Questa piccola guida ai bagni di fiume ha la giusta sensibilità ecologica; inoltre le informazioni sono frutto di esperienze personali e di ricerche sul campo in Val Verzasca, Valle Maggia e lungo il torrente Melezza; oltre il confine italiano le proposte si estendono alla vicina Valle Cannobina e alla Val Grande. Da migliorare solo qualche ingenuità nella confezione e nei testi introduttivi, ridondanti di natura incontaminata, acque cristalline, spiagge di sabbia bianca e panorami mozzafiato… / CV Bibliografia
Filippo Tuccimei, Canton Ticino e Alto Piemonte, WeBeach, 2020, pp. 89, € 9,99 (www.wildecobeach.com)
Il viaggio immortalato
Fotoreportage Non basta la passione e un buon software per raccontare con le immagini il mondo che esploriamo Eliana Bernasconi In un’epoca in cui sempre più spesso si improvvisano esperienza, professionalità e curriculum qualcuno crede ancora nella vera fotografia. Grazie al software, cioè ai sistemi operativi di programmi e applicazioni, con supporti e attrezzature che il computer esegue per noi, sempre più spesso si può avere l’illusione che nel campo della fotografia si possano saltare le tappe, improvvisare professionalità ed esperienza. Non è cosi, la vera fotografia, l’attimo magico al termine di un lavoro di impegno e di una lunga esperienza resterà sempre un’altra cosa. Ed è con questi presupposti che è nata e da poco è online una rivista di fotografia: «Foto Video Accademy Italia» (www.fotovideoacademyitalia.com) che è una vera scuola online di Fotografia, Videoripresa di viaggio e Fotoreporter in Italia. Questo nuovo Magazine è curato da professionisti di grande livello nei loro settori specifici, sono un gruppo di fotografi e videomaker professionisti, specializzati nel fotoreportage e nei vari settori di viaggio, documentaristici, sportivi, etnici, sociali. Ci sono foto
di wedding e scene varie, immagini di fotoreporter e videomaker, ci sono specialisti di grammatica video che insegnano le regole del video-racconto. Si tratta, insomma, di una vera scuola di fotografia, scrive nell’editoriale di questo primo numero Michele Dalla Palma, (che oltre ad avere un’esperienza pluridecennale nel mondo del giornalismo e del fotoreportage e ad
aver diretto per 15 anni un’importante rivista di turismo è autore di fotografie la cui visione consigliamo a chi ancora non le conoscesse). Dalla Palma cita Henry Cartier Bresson: «E un’illusione che le foto si facciano con la macchina fotografica, si fanno con gli occhi, con il cuore e con la testa», la vera fotografia, prosegue, è l’ultimo attimo di un lungo percorso
HC Bresson: «Le foto si fanno con occhi, cuore e testa». (Pxhere.com)
di lavoro e conoscenza che coinvolge mente ed esperienza, la fotocamera è il magazzino, analogico o digitale, delle proprie visioni nelle quali vi è un 5% di tecnologia, un 15% di tecnica, e un 85% di creatività. Le sezioni di questo Web Magazine approfondiscono le tematiche di Ambiente, Natura, Paesaggio, Uomo, in una visione il più possibile oggettiva, realistica e documentaristica della fotografia, svincolata dalle mode imperanti che purtroppo la pubblicità diffonde sui social media. Nelle pagine troviamo inoltre le proposte del progetto «Exsclusive Esperience» un calendario di corsi, workshop e viaggi fotografici, scrive sempre Dalla Palma, «ideati, garantiti e realizzati da FotovideoAcademyItalia». Michele dalla Palma è dal 2018 coordinatore di progetti in collaborazione con National Geographic Expeditions e con KEL 12, un Tour operator nel settore dei viaggi esperienziali con l’accompagnamento di specialisti, (viaggi che certo non tutti possono permettersi, va doverosamente aggiunto) e con Nikon School, il comparto didattico del più prestigioso produttore mondiale di fotocamere.
Inoltre, da ultimo ma non per ultimo, le pagine della rivista online ospitano anche immagini di qualche emergente, perché si vuole offrire a chi lo merita l’occasione e l’opportunità di comunicare il proprio linguaggio e la propria espressività a un ampio pubblico di osservatori. Come nel caso di Antonella Stancheris, che partita nel 2015 con una Nikon D 80 in 5 anni ha appreso gli insegnamenti fondamentali e la tecnica dapprima nel Foto Club di Chiasso, dove con grande impegno ha sperimentato uscendo a fotografare sul campo. Ha poi proseguito nel suo lavoro sempre cercando e trovando ottimi insegnamenti di giusti maestri. La sua passione di oggi sono le foto di reportage in paesi lontani, tra gente sconosciuta che incontra e da cui si lascia affascinare nel corso dei suoi viaggi. Dietro ogni suo scatto significativo vi è tantissima pazienza e lavoro, la fotografia è per lei ormai una seconda pelle, che le ha cambiato il modo di guardare il mondo. A 61 anni è fra i migliori fotografi usciti dai corsi di Michele Dalla Palma: se si crede in qualcosa, dice Antonella, l’età è solo un numero.
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Ambiente e Benessere
Il cetaceo dalle grandi ali
Gigantesche, eppure si nutrono dei più piccoli, ma in abbondanza: si stima che gli esemplari più grandi possano inghiottire sino a 2500 chili di pesci al giorno Le pinne di questo incredibile cetaceo raggiungono quasi un terzo della lunghezza del corpo: quando le megattere nuotano con le pinne pettorali estese assomigliano ai piccoli aerei delle pattuglie acrobatiche dell’aeronautica militare. Possono infatti misurare fino a quattro metri cadauna negli esemplari femminili (che raggiungono al massimo quattordici metri di lunghezza totale) e quasi cinque metri in quelli maschili (la cui lunghezza massima è di diciassette metri complessivi), anche se gli esemplari comuni hanno dimensioni più contenute. Questa caratteristica dominante ha influenzato il nome latino Megaptera novaeangliae, che deriva dal greco mega «grande» e pteron «ali». Quasi fosse un contrappasso nelle leggi che governano la natura, animali tanto grandi si nutrono dei più piccoli, e con una voracità sorprendente. Come tutti i misticeti, le megattere si alimentano filtrando l’acqua e trattenendo il cibo (piccoli crostacei e piccoli pesci)
d’aria dallo sfiatatoio mentre nuotano in circolo al di sotto dei banchi di aringhe. Queste bolle, risalendo verso la superficie, creano ai pesci l’illusione di essere circoscritti in una rete e istintivamente si compattano, nuotando più vicini gli uni agli altri. Le megattere, a fauci spalancate, piombano sui pesci ammassati inghiottendone una quantità maggiore. Recentemente i biologi del Marine Education and Research Society di Port McNeill hanno documentato un’altra sorprendente abilità delle balene lungo la costa nord-orientale dell’i-
sola di Vancouver. Quando le urie – uccelli che vivono sul mare aperto, tranne nel periodo della nidificazione sulle scogliere costiere – si tuffano in acqua per pescare le aringhe, le megattere risalgono lentamente e aprono l’immensa bocca a pelo d’acqua, creando piccoli bacini di calma apparente. Molti pesci vi si dirigono credendo di trovare riparo alla furia delle urie. Allorché la quantità di pesci è sufficiente, le megattere serrano le mascelle approfittando di un pasto senza dispendio energetico, e talvolta si aiutano con le lunghe pin-
Franco Banfi
Le balene megattere sono uno spettacolo della natura. Chi ha il piacere di vederle, anche solamente tramite i documentari video, resta affascinato dalla grazia dei loro movimenti, associata alla forma goffa e alla potenza del corpo muscoloso. È molto facile riconoscerle tramite le caratteristiche lunghe pinne pettorali, che sono bianche nelle megattere dell’Oceano Atlantico mentre sono nere sopra e bianche sotto in quelle dell’Oceano Pacifico e dell’emisfero meridionale.
tramite i fanoni, che sono lamine cornee, di colore scuro, fissate alla mascella superiore. La necessità di filtrare grandi volumi di acqua ha motivato una gola particolare, dotata di numerose pieghe della pelle in direzione longitudinale al corpo, che permettono alle megattere di espanderla, similmente al mantice della fisarmonica. Hanno una delle bocche più grandi di tutti gli animali viventi e vissuti, e l’appetito non manca. È stato stimato che gli esemplari più grandi possano inghiottire sino a 2500 chili di pesci al giorno, ed è però vero che trascorrono lunghi periodi senza nutrirsi affatto. Grazie a studi recenti sono state documentate strategie alimentari davvero sorprendenti: i differenti comportamenti alimentari sono influenzati dalle caratteristiche ambientali nelle diverse località, e determinano interazioni ecologiche diverse. Climatologia, chimica e fisica giocano ruoli determinanti sulla presenza di tutta la fauna marina: temperatura, correnti, salinità (presenza di ghiacciai, fiumi e sversamenti di acqua dolce nell’acqua marina), presenza di fertilizzanti (terreni coltivati nelle vicinanze della costa) e quindi di fitoplancton / zooplancton, incidono sulla concentrazione di cibo e sulla produttività della catena alimentare, considerato che le megattere (misticeti) si nutrono di specie che ne occupano i gradini più bassi. È certo che alcuni requisiti oceanografici siano fondamentali, anche se alcuni di questi rischiano di falsare una parte dei risultati ottenuti qualora non siano normalizzati ponderando i dati. Ad esempio, una batimetria inferiore ai cento metri consente sicuramente di effettuare monitoraggi con maggiore frequenza e a un costo più contenuto rispetto alle spedizioni in oceano aperto, e conseguentemente le rilevazioni in queste aree sono più numerose. Queste ricerche hanno consentito di osservare comportamenti differenti fra le balene che frequentano zone oceaniche diverse. In Canada, ad esempio, è noto da tempo che le megattere emettono bolle
Franco Banfi
Sabrina Belloni
Franco Banfi
Franco Banfi
Mondo sommerso Le balene megattere, giganti buone del mare ma anche molto voraci – Prima Parte
ne pettorali per ammassare più aringhe nelle gole fameliche. È stato monitorato invece un diverso comportamento delle megattere in aggregazione con le orche, mentre cacciano le aringhe in frega nei fiordi della costa settentrionale della Norvegia. I ricercatori del Norwegian Orca Survey di Andenes e del Norwegian Polar Institute di Tromsø hanno dimostrato un incremento del numero di megattere nelle aree dove le orche si stavano alimentando. La tattica di caccia delle orche che frequentano i fiordi norvegesi durante l’inverno è nota: esse nuotano sotto i banchi di aringhe e li inducono verso la superficie (da dove i pesci non possono fuggire) emettendo bolle d’aria dagli sfiatatoi; contemporaneamente li compattano nuotando in circolo; quando i pesci terrorizzati cominciano a nuotare vorticosamente, le orche danno potenti colpi di coda nei banchi per tramortire i pesci e li mangiano uno a uno, come se fossero piccoli bocconi. Di questa situazione approfittano non solamente gli uccelli marini ma anche le megattere, le quali banchettano con il minimo sforzo. I ricercatori hanno rilevato che nel 94,4 per cento degli eventi documentati, sono state le orche ad iniziare la tattica di pesca e le megattere si sono aggregate successivamente, quando il lavoro di raggruppamento delle aringhe era già stato svolto.
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Idee e acquisti per la settimana
La materia prima proviene dal Messico: i cosiddetti chicleros si arrampicano sulle piante di Manilkara zapota e ne intagliano la corteccia. In tal modo se ne estrae la linfa, il chicle, da cui si ricava la gomma da masticare.
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Il responsabile sviluppo prodotti spiega:
Una gomma da masticare naturale che arriva dalla foresta
Michel Perret (31) Responsabile sviluppo prodotti alla Chocolat Frey
Michael Perret, da quando lavorate allo sviluppo della Real Gum? Noi, vale a dire una squadra composta da diversi colleghi, stiamo lavorando al progetto da circa due anni. Come sono stati scelti i tre gusti proposti? Menta piperita e menta verde sono tra i gusti più richiesti per le gomme da masticare, quindi questa scelta è stata facile. La cannella di Cinamon Gum ha invece un aroma molto particolare, che ben si adatta alla naturalezza di Real Gum. E in più si tratta di un gusto che conserva a lungo il suo aroma.
Da tempo Chocolat Frey lavora allo sviluppo di una gomma da masticare sostenibile. Ora sono disponibili le Real Gums di Skai. Sono prodotte con un impasto di gomma naturale e non contengono sostanze di sintesi Testo: Dinah Leuenberger
Foto Getty Images; Roger Hofstetter
Noi tutti attribuiamo un’importanza sempre maggiore a uno stile di vita sostenibile. In tale ambito la gomma da masticare potrebbe non essere il primo esempio che ci viene in mente. Eppure anche le «cicche» possono essere prodotte in modo sostenibile. Già dieci anni fa Chocolat Frey ha avuto l’idea di realizzare una gomma da masticare naturale. L’aumento di interesse nei confronti dei prodotti sostenibili ha spronato l’azienda a perseguire l’obiettivo, come ci racconta il responsabile dello sviluppo prodotti Michel Perret, 31 anni. «La tendenza verso una maggiore sostenibilità ben si sposa con il pensiero Migros, e ciò ci ha motivati nel creare una gomma da masticare con ingredienti naturali». Trovare gli ingredienti naturali necessari non è però stato facile. «Dieci anni fa la gomma base naturale, e più in generale le materie prime naturali, non erano ancora molto richieste, di conseguenza non erano disponibili in quantità e qualità sufficienti. Come primo passo è dunque stato necessario trovare i fornitori in grado di soddisfare le nostre esigenze». Anche la lavorazione è stata più difficile del previsto. Processi di produzione adattati
«La base naturale per produrre la gomma da masticare, chiamata chicle, si comporta in modo molto diverso dalla massa sintetica comunemente utilizzata. Quest’ultima viene normalmente arricchita con materie prime tipiche della produzione delle cicche, come per esempio aromi o xilitolo». Il chicle, invece, si utilizza come natura l’ha creato. È quindi stato necessario rivedere com-
Quale è la sua gomma da masticare preferita? Mi piace molto la gomma da masticare Skai al gusto Raspberry Ginger, ma ora anche le Real Gum naturali rientrano tra le mie favorite. pletamente il processo di produzione e adattare la ricetta, affinché la Real Gum potesse essere elaborata in un normale impianto destinato alla produzione di gomme da masticare. Il chicle proviene dal Messico
Superato lo scoglio della produzione, Chocolat Frey è ora in assoluto la prima azienda a produrre a livello industriale le cicche Real Gums di Skai con ingredienti di origine naturale. Tra questi la gomma base naturale, il chicle. Viene estratto dal fusto delle piante di Manilkara zapota, che crescono in America centrale, soprattutto in Messico. In Messico i cosiddetti chicleros vantano una lunga tradizione: il chicle veniva infatti già estratto ai tempi dei Maya. La produzione del chicle permette alla popolazione indigena di guadagnarsi da vivere e nel contempo assicura la conservazione delle foreste. Per la produzione delle Real Gums non viene utilizzata alcuna materia prima proveniente da piantagioni. Analogamente a quanto avviene con l’estrazione dello sciroppo d’acero, i chicleros praticano delle incisioni sul tronco delle piante di Manilkara zapota, senza abbatterle o danneggiarle. Dopo di che fanno immediatamente bollire il chicle ottenuto e creano dei blocchi, che vengono poi trasformati in gomma da masticare in Svizzera, alla Chocolat Frey. Real Gum di Skai è un prodotto alternativo che, a differenza delle usuali cicche, non è realizzato partendo da una materia prima di sintesi, bensì da una base di gomma assolutamente naturale. Una gomma da masticare particolarmente gustosa e sostenibile.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Risotto al limone con asparagi verdi Primo piatto Ingredienti per 4 persone: 1 kg di asparagi verdi · sale · 60 g di fette di pancetta
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
· ½ cipolla · 2 c d’olio d’oliva · 200 g di riso per risotto, ad es. Carnaroli · 1 limone · 8 dl di brodo di verdura, caldo · 40 g di burro · 60 g di parmigiano · ½ mazzetto di prezzemolo · pepe. 1. Pelate gli asparagi nel terzo inferiore del gambo e spuntateli. Lessateli in acqua salata per circa 8 minuti e scolateli al dente. Passateli sotto l’acqua fredda e fateli sgocciolare. Tagliate i gambi a pezzettini lasciando intere le punte. Nel frattempo, rosolate le fette di pancetta in padella senza aggiungere grassi finché diventano belle croccanti. Fatele sgocciolare su carta da cucina e lasciate raffreddare. 2. Tritate finemente la cipolla. Scaldate l’olio in una pentola. Soffriggete la cipolla. Unite il riso e tostatelo finché diventa traslucido. Aggiungete la scorza di limone grattugiata. Spremete il succo, versatelo sul riso e fate ridurre brevemente. Incorporate poco alla volta il brodo caldo, e continuate la cottura del riso a fuoco basso mescolando, fino a ottenere un risotto cremoso. 3. Incorporate al risotto i pezzetti di asparagi e il burro. Aggiungete la metà del parmigiano grattugiato. Tritate il prezzemolo e unitelo. Regolate il risotto di sale e pepe. Servitelo con le punte d’asparago e pancetta. Condite con il parmigiano rimasto. Preparazione: circa 30 minuti. Per persona: circa 17 g di proteine, 21 g di grassi, 51 g di carboidrati, 480 kcal/
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Ambiente e Benessere
Il cavallo nel cuore delle feste patronali di Mahón Reportage Giganti in processione e stalloni meticci allevati per la guerra torneranno a sfilare a settembre
Didier Ruef, testo e foto È compatta la folla radunata nella Plaza Constitucio, nel cuore del centro storico di Mahón, sull’isola di Minorca, nella comunità autonoma delle Baleari (Spagna). I suoi 29mila abitanti fanno di Maó – secondo il suo nome catalano – la più grande città dell’isola. È anche la capitale e la sede del consiglio dell’isola. Sono le 21.00, la notte è appena calata e la temperatura di 25 gradi è ancora mite in questa sera d’estate settembrina del 2019. Tutte le generazioni e origini miste, famiglie, bambini, giovani e anziani, gli abitanti si sono riuniti in piazza. Tutti gli occhi convergono sul balcone del municipio, dal quale una serie di altoparlanti si rivolge alla folla. Un uomo canta una canzone popolare dedicata alla città; le molteplici voci del pubblico la riecheggiano in una melodia condivisa. Dopo l’ultima nota, il sindaco annuncia finalmente l’apertura delle feste patronali della «Mare de Deu de Gràcia», in onore della Vergine di Gracia. Un clamore gli risponde, preludio a tre giorni di giubilo. Nelle strade del centro città traboccanti di gente, i bar si riempiono. La folla è allegramente sbalordita dalla pomada, una bevanda altamente alcolica a base di gin di Minorca – una miscela di acquavite d’uva e bacche di ginepro – ghiaccio tritato e succo di limone. Le feste in onore della Virgen de Gracia si tengono ogni anno il 7 e l’8 settembre. La loro prima edizione risale al 1890, quando il Municipio decise di aggiungere eventi laici alle cerimonie religiose in onore del santo patrono della città.
Il 7 alle 16.00, il suono delle campane seguito da un grande petardo annuncia l’arrivo dei festeggiamenti. Alle 16.15 iniziano il corteo della «Banda de Música de Maó», della «Banda de Cornetes i Tambors de Maó», di altri gruppi musicali e dei giganti, pupazzi di dimensioni gulliveriane con personaggi storici vecchi e recenti. Allo stesso tempo, 150 cavalli decorati con i loro migliori sfarzi e i loro caixer – ovvero uomini e donne cavalieri della città, tutti vestiti con il costume dei giusti bianchi e neri – iniziano un lento viaggio urbano. Si riuniscono in una lunga parata e percorrono le principali vie e piazze della città. Non scendono da cavallo fino alle 19 per la Messa dei Completi nell’eremo di Gracia. Il cavallo ha il suo posto in tutte le feste patronali che si celebrano a Minorca durante l’estate, a testimonianza dell’autenticità delle usanze equestri dell’isola. Questi festeggiamenti presentano il cavallo minorchino, o cavallo spagnolo di razza pura, e varie altre razze minorchine (PRMe), specifiche dell’isola. Questo equide di vari incroci si distingue per il suo mantello nero. La sua origine risale a quasi sette secoli fa: nel XIV secolo, il re Jaime II di Minorca decise di creare una cavalleria di guerra montata su animali agili, maneggevoli, veloci ed elastici. Questi cavalli dovevano anche avere una mente eccellente per affrontare il nemico in battaglia. A tal fine, il re incrociò i piccoli cavalli neri nativi dell’isola con la genetta spagnola (l’antenata della razza spagnola di razza pura), i purosangue arabi e le barbe recuperate dalle in-
I «giganti» sono pupazzi che rappresentano personaggi storici, antichi e recenti.
vasioni. In seguito, l’isola fu occupata dagli inglesi, i cui purosangue inglesi influenzarono anche il patrimonio genetico del cavallo di Minorca. Il cavallo minorchino è nobile, dal sangue caldo, sobrio, robusto, resistente ed energico. È elastico, agile e mostra un grande equilibrio naturale. Anche se ibridato per scopi bellici, è allegro e gioioso sotto la sella, ha un buon carattere e una mente molto stabile. È una figura rischiosa e spettacolare. Durante i festeggiamenti tradizionali, gli stalloni dividono le folle di persone nelle stradine strette per esi-
birsi con una tipica e così particolare figura che vede il cavallo stare in piedi sulle zampe posteriori e muoversi per diversi metri, anche decine di metri, in equilibrio sulle zampe posteriori. Intanto gli spettatori toccano gli animali tenuti sollevati il più a lungo possibile, senza temere i colpi di zoccoli. Alle 21.00, i cavalieri tornano in Plaza de la Constitución e lo spettacolo del jaleo può iniziare con una messa in scena dello stallone, del cavaliere e della folla in una danza ipnotica e pericolosa. Guidato dalla «Banda de Música de Maó», al suono di un unico tema
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musicale ripetuto all’infinito per tutta la serata, l’uomo cavallo balla come un corpo unico su questo loop musicale. Su un improvviso aumento di note, il cavaliere esegue una rotazione formando un otto, così facendo allontana la folla e apre uno spazio per il cavallo. L’umano allora tira le redini e il cavallo si alza sulle zampe posteriori mentre le zampe anteriori tagliano l’aria in cerca di equilibrio. Questo è il momento scelto dagli spettatori per toccare l’animale, per tenergli le gambe e persino per accarezzarne il petto. Si tratta di un balletto intenso e stressante, sia per il cavaliere sia per l’animale, che dura quattro minuti. I cavalieri si ritirano poi nelle stradine laterali per permettere agli animali di riprendere fiato, poi in fila indiana tornano al centro della piazza per un altro giro. Una performance fisica e mentale che durerà più di cinque ore. Il giorno dopo, i Giants sfilano di nuovo dopo la messa mattutina. Poi un nuovo jaleo dura da mezzogiorno alle 18. All’inizio della serata, un galoppo finale vedrà i cavalli gareggiare in gruppi di due lungo la via Cós de Gràcia. Seguirà un ballo in Plaça d’Espanya. Uno spettacolo pirotecnico, sparato a mezzanotte dalla base navale del porto, chiuderà i festeggiamenti. L’ultima parola va a un cavaliere incontrato sabato in uno dei vicoli. Lavora come camionista durante la settimana, mette a tacere l’isola durante il giorno e la sera si esercita a cavalcare. Appassionato di cavalli sin dall’infanzia, partecipa regolarmente alle feste patronali di Mahón da oltre 40 anni. Non possedendo un cavallo, cavalca il cavallo di un amico. L’espressione del suo volto è raggiante, quando esprime con orgoglio l’amore che lo lega alla sua isola e al cavallo, simbolo dell’idiosincrasia e della cultura di Minorca. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Ambiente e Benessere
Dall’Alba al tramonto
Sport Michael Albasini fa la riverenza e toglie il disturbo. Ci mancherà quali brilla il secondo posto alla Liegi del 2016. Sarebbe il coronamento di un sogno, se, alla soglia dei quarant’anni, Alba riuscisse a salire sul gradino più alto del podio. In carriera ci è riuscito già trenta volte, sette al Tour de Romandie, tre al Tour de Suisse e al Giro di Catalogna, due nei Paesi Baschi e una alla Vuelta di Spagna, per citare solo i suoi successi più importanti. Mancherà molto al ciclismo svizzero. Dopo l’uscita di scena di Fabian Cancellara, avvenuta nel 2016, e nell’attesa della maturazione dei giovani talenti come Stefan Küng e Marc Hirschi, è stato lui a tirare il carro, lui a portare punti preziosi alla Svizzera nel Ranking mondiale, lui, a far capire al mondo che dalle nostre parti, il ciclismo è un tema. Non è un caso che non abbia mai faticato a trovare un impiego nelle squadre più forti e prestigiose del circuito. Comunque vada, dal 1° gennaio 2021, Michael Albasini sarà un ex corridore. Di formazione è maestro di scuola elementare, e sono convinto che potrebbe essere un eccellente maestro. Tuttavia, il mondo del ciclismo lo reclama. Ha bisogno di uomini che, come lui, concludono la carriera senza scheletri nell’armadio. Suo padre, Marcello, è tuttora uno dei tecnici più capaci e più credibili. Dopo essere stato uno dei migliori formatori in circolazione, dopo essere stato direttore sportivo con l’elvetica IAM Cycling, ha assunto le redini della Nazionale rossocrociata, unitamente al nostro Rubens Bertogliati. Perché non seguire le orme paterne, mettendosi a disposizione della causa del nostro ciclismo? Sarebbe cosa buona e giusta.
Giancarlo Dionisio Compirà quarant’anni il prossimo 20 dicembre. Avrebbe voluto salutare e ringraziare il popolo del ciclismo al termine del Tour de Suisse previsto negli scorsi giorni. Il Coronavirus gli ha negato questo palcoscenico e questa gioia. Ma il ticinese Michael Albasini non ha desistito. Il suo ultimo Tour de Suisse lo ha corso comunque: su idea e stimolo del giovane connazionale Stefan Küng, ha percorso le otto tappe che avrebbero portato la carovana da Frauenfeld ad Andermatt tra il 7 e il 14 giugno. Senza gruppo, senza la lunga teoria di staffette e ammiraglie, senza il colore e i gadget della carovana pubblicitaria e, soprattutto, senza il calore e l’affetto del pubblico. Il popolare Alba non ha, tuttavia, pedalato da solo. Da un lato, Stefan Küng non si è limitato a fornirgli l’assist. Il bronzo degli ultimi mondiali – dopo essere passato sotto i ferri del chirurgo per l’asporto della placca applicatagli dopo la caduta alla ParigiRoubaix dello scorso anno – è tornato in sella e ha fatto da scudiero al festeggiato. Dall’altro lato, Michael si è ritrovato accanto gli amici di sempre. Angeli custodi che hanno costellato di aneddoti e di ricordi la sua brillante carriera: Grégory Rast, con cui, agli esordi, aveva condiviso la casacca del Velo Club Mendrisio, quando, sotto le insegne del club Momò, nel 2002, Albasini si era laureato Campione Europeo Under 23, sulle strade di Bergamo; David Loosli, che da alcuni anni è direttore tecnico della nostra corsa nazionale; Mathias Frank, ancora in attività, un carissimo ragazzo, che alcuni anni fa
Michael Albasini, in posa qualche giorno fa, per sottolineare il suo addio al ciclismo. (Keystone)
si era visto sfilare sotto il naso un Tour de Suisse che pareva già vinto; Michael Schär, compagno di mille battaglie con la maglia della Nazionale; Alex Zülle, il cronoman timido e gentile, campione mondiale della prova contro il tempo, nel 1996 a Lugano. Tutto il mondo dello sport ha risposto presente. Impossibile restare indifferenti di fronte alla proposta di un collega, che non è un campionissimo, ma che è – scusate se è poco – soltanto un ottimo corridore, e soprattutto un uomo corretto, sensibile, intelligente e astuto in corsa. In particolar modo la Svizzera Orientale (Alba è cresciuto nel Canton Turgovia), ha voluto rendergli
omaggio. A Frauenfeld, sull’ideale tribuna d’onore, popolata secondo le regole di distanziamento sociale, sedeva Nöldi Forrer, una delle icone della lotta svizzera. Accanto, spiccavano la sagoma muscolosa di Pablo Brägger, campione europeo di ginnastica artistica, e quella più asciutta di Selina Büchel, campionessa europea degli 800 metri. Poco più in là Julie Zogg, iridata nello snowboard, Nicola Spirig, ovvero Lady Triathlon, una leggenda vivente, e Beat Hefti, olimpionico nel bob. Sul tracciato inaugurale del prologo di Frauenfeld, il via è stato dato da Jürg Stahl, presidente di Swiss Olympic, già presidente della Camera Alta. Non
importa chi abbia vestito la maglia gialla al termine dell’ultima, durissima tappa alpina di Andermatt. Francamente non sappiamo neppure se una maglia gialla sia stata consegnata. Si è trattata di una lunga scampagnata fra amici, che hanno voluto sottolineare la virtuale uscita di scena di un loro caro collega. Sì: corsa finalmente reale, ma l’addio, per ora, è solo virtuale, poiché quando la stagione vera riprenderà, nel mirino di Michael Albasini ci saranno le classiche delle Ardenne, sfrattate dalla loro collocazione storica di primavera, per andare in scena, eccezionalmente, in autunno. Quante battaglie, quanti ricordi, e quanti piazzamenti, fra i
Giochi
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Lo sapevi che il nostro corpo ha vasi sanguigni per circa… Trova il resto della frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 10, 10)
ORIZZONTALI 1. Bagna Firenze 4. Leggerezza, fatuità 9. Un ufficiale abbreviato 10. Condizionata dalla luna 11. Sillaba sacra ai buddisti 12. Inconfutabili 13. Duecento romani 14. Aumentano in età avanzata 15. Si usa per richiamare l’attenzione 16. La «legge» del silenzio 18. Trama nell’ombra 19. Oscuro, tenebroso 21. Un verso con le fusa… 22. Pronome personale 23. Abbreviazione di titolo onorifico 24. Lo erano Priamo ed Ettore
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
VERTICALI 1. Corpuscolo di materia 2. Una fase del sonno 3. Sigla di paternità ignota 4. Differente, diversa 5. Abilità creativa 6. Preposizione articolata 7. Due vocali 8. Attrezzo per carpentieri 10. Può essere sfuggente 12. Veicolo d’altri tempi 13. Pronome 14. Utilizzato come combustibile 15. Le iniziali del conduttore Papi 17. Avverbio di tempo 20. Primo… scrittore 21. Parola a Parigi 22. L’uomo inglese 23. Le iniziali dell’attore Amendola Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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SAGGE PAROLE – Frase di Isaac Newton «Gli uomini costruiscono troppi…: «…MURI E MAI ABBASTANZA PONTI».
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Politica e Economia Un fiume di idrocarburi Un’enorme perdita di gasolio nel nord della Russia provoca una catastrofe ecologica pagina 31
La rissa sulle montagne Questioni territoriali che risalgono lontano nel tempo sono alla base degli attuali scontri tra India e Cina
Legge sul CO2 al traguardo Vede la luce la serie di misure per diminuire le emissioni, ma già si prospetta un referendum
Gli aiuti hanno funzionato In Svizzera finora contenuti i fallimenti delle aziende quale conseguenza della crisi Covid
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Gelo tra Washington e Berlino
Geostrategia Trump decide di ridurre il contingente di soldati americani in Germania come ritorsione
per i rapporti dei tedeschi con Russia e Cina, risvegliando così la volontà di difesa della nuova destra nazionalista Lucio Caracciolo Gli Stati Uniti hanno annunciato la riduzione delle loro Forze armate stanziate in Germania dalla seconda guerra mondiale, per protesta contro la «delinquente» Berlino, che non spende abbastanza per la sua difesa, e perché li «maltratta» sul fronte commerciale: parola di Trump. Nel giro di qualche mese, i soldati americani nelle basi tedesche calerebbero da circa 38’600 a 29 mila. Il Pentagono sta studiando il piano di evacuazione, che dovrebbe riportare a casa una parte delle truppe, rischierarne una quota altrove, forse nella vicina Polonia. Atto simbolico, che confermerebbe la disistima americana per la «Vecchia Europa», cui appartiene la Germania, e la «Nuova», guidata da Varsavia, molto più affidabile se non altro per paura della Russia. Oggi il territorio tedesco ospita il più numeroso e strategicamente ri-
levante schieramento militare degli Stati Uniti in Europa. La base aerea di Ramstein (foto), in particolare, è perno di valore pratico e simbolico globale. Non è possibile fissare con certezza se e quando il piano sarà eseguito, ma il solo annuncio ha già provocato una crisi nei già tesi rapporti fra Berlino e Washington. Tutti ricordano il trattamento poco amichevole riservato a Angela Merkel dall’attuale presidente degli Stati Uniti in occasione del loro primo incontro in America. Al ritorno, la cancelliera stabilì che d’ora in avanti il suo paese avrebbe dovuto recuperare un buon pezzo di responsabilità nei campi della sicurezza e della difesa, non potendo più davvero fidarsi dell’ombrello strategico a stelle e strisce. Le performance dell’ambasciatore Usa a Berlino, Richard Grenell, appena nominato direttore ad interim dell’intelligence americana, esplicitamente
critiche della Germania e dei tedeschi, hanno contribuito ad inasprire le relazioni fra i due paesi. Al punto che un recente sondaggio registra il crollo verticale delle già non formidabili simpatie tedesche per gli Usa, scese al livello della montante sinofilia. La ambasciatrice tedesca a Washington, Emily Haber, ha commentato così l’annuncio di Trump: «Le truppe americane non sono da noi per difenderci. Ci sono per proteggere la sicurezza transatlantica e aiutare gli Stati Uniti a proiettare la propria potenza in Africa, in Asia». Per capire l’importanza della disputa germano-americana, occorre considerare il posto che Berlino occupa nella geopolitica statunitense. Nei manuali strategici del Pentagono si spiega che il peggiore degli scenari possibili è l’allineamento Berlino-Mosca-Pechino. In questo modo si formerebbe in Eurasia un nucleo di potenza
alternativo agli Stati Uniti, capace di minarne il dominio mondiale. Siamo molto lontani da questo triangolo. Ma non c’è dubbio che i rapporti fra la Germania e i due supernemici di Washington siano di gran lunga i migliori, e i più radicati, in campo europeo. Per storia e per scelta politica, la Repubblica Federale Germania resta tuttora un nano militare. La Bundeswehr è strumento assai inefficiente, poco legittimato, debole nella proiezione esterna. Nettamente al di sotto delle Forze armate francesi o britanniche. Soprattutto, non è potenza nucleare. Settantacinque anni dopo, il peso della catastrofica sconfitta nella seconda guerra mondiale, lo stigma del regime nazista, sono realtà attuali. La società tedesca è fra le più pacifiste al mondo. Tanto più ha colpito il dibattito pubblico aperto un paio d’anni fa nell’establishment tedesco circa la
possibilità di dotarsi dell’arma atomica, in spregio degli impegni internazionali sottoscritti. Un ballon d’essai, certo, ma impensabile fino a ieri. Così com’era inimmaginabile una forza di destra nazionalista quale la AfD (Alternativa per la Germania), con quasi cento deputati al Bundestag e un’agenda piuttosto inquietante. Quanto più Berlino e Washington si allontanano, tanto meno sarà possibile arginare la voglia di «normalità» geopolitica che serpeggia in Germania. Dove per «normale» s’intende l’esplicita difesa degli interessi nazionali con tutti i mezzi utili, compreso quelli militari. Forse inconsciamente, o forse no, la mossa di Trump sembra destinata ad aizzare il neo-nazionalismo tedesco. E con questo le latenti germanofobie europee, francese in particolare. Avrà allora avuto ragione Emmanuel Macron a decretare la «morte cerebrale» della Nato.
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Politica e Economia
Una Chernobyl del petrolio Disastro ecologico La rottura di una cisterna fa defluire ventimila tonnellate di gasolio nei fiumi
Daldykan e Ambarnaya, nel nord della Russia
Anna Zafesova Acque rosse in fiumi rossi, con le rive coperte di erba rossiccia e pesci morti dalle squame rossastre. Un paesaggio da film di fantascienza postapocalittico, ma non sono effetti speciali: le acque dei fiumi Daldykan e Ambarnaya sono diventati rosso sangue a causa di 20 mila tonnellate di gasolio che hanno formato una macchia talmente grande da essere stata rilevata dal satelliti dallo spazio. La perdita, originata il 29 maggio scorso da una cisterna di una centrale di riscaldamento di Norilsk, nell’Estremo Nord russo, è stata proclamata dagli esperti di ecologia la peggiore sciagura ambientale nell’Artico, paragonata da Greenpeace Russia al disastro della petroliera Exxon Valdez al largo dell’Alaska, nel 1989. Secondo le stime degli esperti, ci vorranno almeno sei mesi per raccogliere il gasolio dall’ambiente, e circa dieci anni prima che la natura della zona colpita possa rimarginare le ferite. Sempre che la macchia di gasolio – per il momento arginata da galleggianti e reti – non si sposti con la corrente verso il mare di Kara, con il rischio potenziale di intossicare le acque dell’oceano Glaciale Artico per diversi anni.
Secondo gli esperti ci vorranno almeno sei mesi per riassorbire la perdita, causata dall’incuria e dall’obsolescenza dello stabilimento Il governo russo ha già proclamato il regime di «emergenza ecologica federale», ma il disastro ecologico, come spesso accade in Russia, è diventato subito un disastro politico. Le TV nazionali hanno trasmesso la videoconferenza (in Russia sono ancora in parte in vigore le limitazioni dovute all’epidemia di Covid-19) in cui un Vladimir Putin furioso ha chiesto al governatore della regione di Krasnoyarsk Alexandr Uss se «ha problemi di salute mentale» e l’ha accusato di aver «saputo del disastro dai social media». L’incidente, avvenuto il 29 maggio scorso, è stato infatti registrato dal ministero per le Emergenze soltanto il 1. giugno, quando non solo le foto e i filmati dei fiumi rossi circolavano già sui social network russi, ma perfino il WWF si era attivato per invocare l’intervento di Mosca senza il quale non sarebbe stato possibile intervenire efficacemente in una zona remota e difficilmente accessibile come quella di Norilsk. Ma fino al 3 giugno a lottare contro la macchia che si stava espandendo c’erano soltanto le squadre di pronto intervento del
L’incidente si è verificato nella centrale di riscaldamento gestita dalla società privata Norilsk Nickel. (Keystone)
Norilsk Nickel, il colosso industriale cui appartiene la cisterna difettosa, e quelle del municipio. Il Comitato per la sorveglianza sulla natura (Rosprirodonadzor) federale scopre in effetti il disastro dalla Rete, e solo una settimana dopo l’emergenza diventa oggetto di una discussione nel governo, che dopo l’ordine di Putin invia i soccorsi necessari nell’Artico. Uno scenario che ha avuto inquietanti similitudini con i silenzi su Chernobyl, dopo che la popolare serie della HBO ha ricordato a tutto il mondo il disastro nucleare che il Cremlino aveva cercato di rendere nascosto. Una prassi comune anche nella Russia contemporanea, soprattutto quando ci vanno di mezzo le compagnie petrolifere, che temono di dover pagare i danni, e le autorità dello Stato che possono imporre il silenzio ai responsabili ambientali e ai media. Ma nel caso di Norilsk, la ricostruzione del sito indipendente Meduza ha svelato più che altro una catena di comando estremamente restia a dare brutte notizie ai superiori: l’allarme sulla fuga di gasolio viene lanciato tempestivamente sia dai vigili del fuoco che dai responsabili locali per le emergenze, ma si blocca al livello del governatorato e del ministero federale. Il governatore Uss spiega a Putin di non aver avuto notizie sulla presenza della macchia di gasolio e scarica la responsabi-
lità sulle autorità cittadine (il sindaco di Norilsk viene indagato per negligenza), il ministero per le Emergenze sostiene di non essere stato informato, e tutti scaricano la colpa su qualcun altro. Il governatore poi si guadagna un secondo rimprovero dal presidente russo, quando propone di eliminare la macchia di gasolio incendiandola, incurante dell’impatto inquinante di un rogo di dimensioni simili. La rabbia di Putin è stata utilizzata anche a scopi politici, per distrarre l’opinione pubblica dalla gestione tardiva e maldestra dell’epidemia di Coronavirus, e restituire ai russi l’immagine di quel presidente decisionista di cui avevano sentito la mancanza nelle settimane di lockdown, importante soprattutto in vista del voto sugli emendamenti costituzionali di fine giugno. Un’operazione facile anche perché la centrale di riscaldamento da cui è partita la fuga appartiene a una società privata, il Norilsk Nickel, gigantesco consorzio al primo posto al mondo per estrazione di nichel e palladio, di proprietà dell’oligarca Vladimir Potanin, molto più vulnerabile alle critiche del capo di Stato di quanto lo sarebbe stato in una situazione analoga un consorzio statale come Gazprom o Rosneft. Anche il leader dell’opposizione Aleksey Navalny, in un raro momento di sintonia con il Cremlino, ha accusato Potanin e il suo
ex socio Mikhail Prokhorov di aver preferito spendere soldi in squadre di basket e ville invece che nella sicurezza ambientale della città da cui venivano le loro ricchezze. Potanin – che è stato spesso in cima alla lista degli uomini più ricchi della Russia – ha reagito annunciando un taglio dei dividendi della sua società a favore di un maggior investimento ambientale, una decisione che gli è valsa una discesa dei titoli del Norilsk Nickel nelle piazze finanziarie di Londra e Mosca. I responsabili locali della compagnia hanno attribuito la colpa dell’accaduto al cedimento del permafrost sotto la cisterna, una conseguenza del riscaldamento globale. Il problema di Norilsk, che resta il posto più inquinato della Russia e uno dei dieci più inquinanti del pianeta, è però di gran lunga precedente. Il comunismo sovietico, con il suo gigantismo industriale e le tecnologie arretrate, ha lasciato in eredità decine di emergenze ecologiche drammatiche, in città-fabbriche come Norilsk, dove le emissioni solforose avevano reso la bronchite cronica una malattia comune anche ai neonati. Subentrato allo Stato con la privatizzazione degli anni 90, Potanin ha investito miliardi nella riduzione del contenuto di zolfo nell’aria, una priorità per la città e i suoi impianti. Ma anche tutto il resto è obsoleto e fatiscente: la cisterna dalla
quale è fuoriuscito il gasolio era stata costruita nel 1985 e una revisione del 2018 ne aveva chiesto la messa in sicurezza. L’emergenza potrebbe riguardare praticamente qualunque impianto in Russia, dove incidenti con grave impatto ambientale sono all’ordine del giorno. «Quanto accaduto è comune a tutte le società con vecchi attivi industriali sovietici, non vogliono investire nella modernizzazione», ha detto al «Financial Times» Evgheny Shvartz, ex dirigente del WWF e ora membro indipendente del consiglio di amministrazione di Norilsk Nichel. Tra gli emendamenti proposti alla Costituzione da Putin – oltre a quello principale che dovrebbe permettergli di rimanere al Cremlino per altri 16 anni – c’è l’obbligo per il governo di proteggere l’ambiente. L’ecologia resta però una preoccupazione di pochi, con sensibilità sulla raccolta differenziata e le cannucce di plastica che riguardano quasi esclusivamente i giovani delle grandi città, mentre la crisi economica spinge in secondo piano considerazioni di tipo ambientale. A maggio, il più grande produttore di automobili russo, VAZ, si è ritirato dal mercato europeo, in quanto le sue automobili – commercializzate in Europa sotto il marchio Lada – sono ormai incompatibili con le regole ambientali dell’Ue, e l’azienda non ha alcuna intenzione di investire per renderle meno inquinanti. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Politica e Economia
Xi Jinping mostra i muscoli
India-Cina Battaglia con decine di morti e feriti nel nord-est del Ladakh in una regione contesa da decenni,
un cuneo indiano che impedisce a Pechino di collegare la Cina con l’alleato Pakistan Francesca Marino Più che una battaglia, una rissa in piena regola, combattuta con sassi e bastoni, che ha lasciato sul terreno una ventina di soldati indiani e un numero imprecisato di militari cinesi. Secondo fonti dell’intelligence americana i cinesi, tra morti e feriti, sarebbero una quarantina. Pechino, in nome della trasparenza che da sempre contraddistingue il suo governo, non conferma né smentisce. A provocare tante vittime da entrambe le parti sarebbe stato, in realtà, un cedimento del terreno. Su questo, almeno, le versioni ufficiali di Delhi e di Pechino coincidono. Per il resto, al netto delle accuse reciproche per aver dato il via alla battaglia, dopo aver fatto sfoggio verbale di muscoli i due governi stanno quietamente gettando acqua sul fuoco. Non si sa per quanto tempo ancora. Tramontata del tutto l’era del «hindi-chini bhai-bhai» (gli indiani e i cinesi sono fratelli) tanto caro a Nehru, e tramontato anche il famoso «spirito di Wuhan» dal luogo dei distesi colloqui di un paio d’anni fa tra Xi Jinping e Narendra Modi, i rapporti tra le due potenze asiatiche sembrano per il momento dominati, come in tutto il resto del mondo, da un altro spirito di Wuhan: quello del Coronavirus. Da quando mezzo mondo è in lockdown, difatti, e si accusa il governo cinese di aver nascosto il virus e i relativi dati, Pechino è sempre più aggressiva, sia militarmente che a livello diplomatico e verbale. La teoria del «wolf warrior», del guerriero-lupo, è una recente creazione dell’ineffabile Xi e del suo ufficio propaganda. I guerrieri lupi agiscono sui social media, nelle organizzazioni internazionali e anche sul campo. Hong Kong, in violazione ai trattati internazionali, è stata di fatto ridotta a una provincia dell’impero soggetta allo stesso regime dittatoriale del resto della Cina. In aprile i cinesi hanno affondato un peschereccio vietnamita, e si sono annessi, dichiarandoli «distretti amministrativi» cinesi, due arcipelaghi nel Mar cinese meridionale che fanno in realtà parte del Vietnam. Pechino ha forzato la mano all’Organizzazione Mondiale della Sanità
non soltanto costringendola a dichiarare fino a fine gennaio che il virus di Wuhan non si trasmetteva tra esseri umani ma anche, per tornare all’India, a pubblicare il 29 aprile scorso una mappa che mostra parti dell’Arunachal Pradesh (nel nord-est dell’India), del Jammu&Kashmir e del Ladakh (nel nordovest) come territorio cinese. Perché la storia infinita della contesa tra India e Cina per i territori di confine viene in realtà da molto lontano. Ai tempi dell’Impero britannico, i confini tra India e Cina erano delimitati rispettivamente dalla «linea Johnson» e dalla «linea Mac Mahon». Semplificando di molto: alla nascita dell’India, la Cina si rifiutava di riconoscere la linea McMahon e la linea Johnson, riconosciute invece come confini permanenti dalla neonata nazione. Per i cinesi il confine stabilito dalla linea McMahon correva molto più a sud, e includeva per motivi di «appartenenza naturale e culturale» l’Aksai Chin tra i territori controllati da Pechino. L’Aksai Chin, ai tempi, faceva parte dello Stato indipendente del Kashmir che comprendeva gli attuali territori del Jammu and Kashmir e del Ladakh, che sono adesso sotto la giurisdizione indiana il Gilgit Baltisan e l’attuale Kashmir pakistano controllati da Islamabad più la regione dell’Aksai Chin, che secondo l’India è parte del Ladakh, e infine la valle di Shaksgam, che era parte del Baltisan e che è stata ceduta alla Cina dal Pakistan nel 1963. Dopo una serie di scaramucce tra i due paesi, le tensioni tra India e Cina sfociarono nel 1962 in una guerra nota come la «guerra dei Trenta giorni». Materia del contendere l’Aksai Chin e l’odierno stato dell’Arunachal Pradesh, ma anche lo Stato del Sikkim (situato fra Nepal e Bhutan) che era ai tempi indipendente. Il Sikkim è entrato a far parte nel 1975 dell’unione indiana, ma i cinesi ne hanno riconosciuto l’annessione, a denti stretti, solo nel 2005. I cinesi si ritirarono dall’Assam (che a quel tempo comprendeva l’Arunachal Pradesh) ma non dall’Aksai Chin nel novembre del 1962, dichiarando un cessate il fuoco unilaterale. Tra le due nazioni non è mai stato ufficialmente firmato un trat-
Truppe indiane dirette a Leh: Delhi rafforza la sua presenza militare ai margini della regione contesa dell’Aksai Chin. (Keystone)
tato di pace ma soltanto un armistizio, e la Cina continua a rivendicare l’Arunachal Pradesh mentre l’India considera ancora l’Aksai Chin come territorio indiano. I 3488 chilometri di confine tra Cina e India sono al momento regolati dalla cosiddetta Line of Actual Control (Lac): un confine provvisorio che i due paesi interpretano ciascuno a suo modo. Tra India e Cina, da allora, sono intercorse circa ventidue tornate di colloqui tra rappresentanti speciali dei due paesi per cercare di risolvere le dispute sui confini. O, almeno, i problemi più scottanti al riguardo. Ma i risultati, fatti alla mano, non sono mai stati particolarmente brillanti. La percezione che i due paesi hanno della Lac, e quindi dei rispettivi territori, non è, per usare un eufemismo, uniforme. Scaramucce e tensioni sono piuttosto frequenti e sfociano, a volte, in incidenti ad alto rischio. La situazione è peggiorata lo scorso anno quando l’India ha abrogato l’articolo 370 della Costituzione smembrando il Kashmir in due territori dell’Unione: il J&K e il Ladakh. E difatti, all’indomani dell’abrogazione dell’articolo 370, la Cina dichiarava che
«La recente revisione unilaterale delle leggi interne da parte indiana continua a minare la sovranità territoriale cinese: il che è inaccettabile, e non riveste alcun effetto» rispondendo a dichiarazioni da parte indiana per bocca del ministro degli esteri Amit Shah secondo cui, invece: «Il Kashmir è parte integrale dell’India, non ci sono dubbi in proposito. E quando parlo di Kashmir, non mi riferisco soltanto al Jammu and Kashmir ma anche al Kashmir occupato dal Pakistan e all’Aksai Chin, che del Kashmir fanno parte». L’area interessata dall’attuale conflitto, che va avanti in realtà da una quindicina di giorni, si trova proprio in questa zona ed è di importanza strategica vitale per la Cina: si tratta infatti di una striscia di terra, controllata dall’India, che si incunea tra l’Aksai Chin e il Baltisan. Quella fetta di territorio indiano è, in pratica, l’unico impedimento a un collegamento militare e commerciale diretto nella zona tra Cina e Pakistan. E in Pakistan, è importante non dimenticarlo, la Cina ha investito miliardi di dollari nel ChinaPakistan Economic Corridor, che fa parte del più ambizioso progetto della Belt and Road Initiative. L’India dal
canto suo considera il China Pakistan Economic Corridor (Cpec) totalmente illegale perchè costruito per ampi tratti in territorio rivendicato da New Delhi: l’Aksai Chin, per l’appunto, e il Kashmir pakistano. E considera la più ampia Belt and Road Initiative soltanto un mezzo per occupare anche militarmente i territori coinvolti. Secondo l’India, Xi Jinping avrebbe adesso intenzione di rimuovere il «cuneo» indiano tra Cina e Pakistan occupando i territori a nord del lago Pangong: mossa che non soltanto faciliterebbe la connettività tra Pakistan e Cina, ma impedirebbe anche definitivamente l’accesso indiano all’Afghanistan e all’Asia centrale. La mossa di Modi in Kashmir ha cambiato, e non di poco, le dinamiche geopolitiche della regione. E la Cina, tenendo conto delle politiche di stampo imperialistico-coloniale messe in atto ormai da un pezzo, non intende aspettare una eventuale mossa di New Delhi. Continuando ad accusare gli indiani di «provocazioni», ha fatto la prima mossa. È improbabile per il momento che scoppi una guerra che nessuno ha intenzione di combattere. Ma di certo questo non sarà l’ultimo scontro lungo i confini. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Legge sul CO2: più verde, più cara
Lotta al cambiamento climatico In futuro volare e guidare costeranno di più. Le Camere federali hanno fissato
i paletti della futura politica climatica della Svizzera per perseguire gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. L’ultima parola spetterà al popolo
Luca Beti Quanta fatica, ma alla fine la revisione totale della Legge federale sul CO2 vede finalmente la luce. È stato un parto podalico. Nata sotto una cattiva stella nel dicembre 2017, la revisione è stata gettata alle ortiche dal parlamento nella sessione invernale del 2018. C’è voluta l’ondata verde per raccogliere e rimettere insieme i cocci dell’ultima legislatura. Allora, a far naufragare il progetto presentato dal governo ci aveva pensato un’alleanza tra rosso-verdi e Unione democratica di centro. La sinistra, con la complicità dell’UDC, aveva silurato la revisione dopo che i borghesi l’avevano annacquata e svuotata di ogni contenuto. E così, nel 2019 si è ritornati alla casella di partenza, ma con una nuova ministra dell’ambiente, la socialista Simonetta Sommaruga, e con equilibri mutati a Palazzo. Infatti, le elezioni federali dell’ottobre scorso ci hanno consegnato un parlamento più giovane, femminile e soprattutto più verde. Un’ondata, quella ecologista, che ha investito anche il PLR, partito che in parte ha sposato la causa di Greta Thunberg e della gioventù per il clima. Ratificando l’Accordo di Parigi nell’ottobre 2017, la Svizzera si è assunta l’impegno di ridurre entro il 2030 le proprie emissioni di anidride carbonica del 50 per cento rispetto al 1990. Il governo elvetico ha inoltre comunicato di voler raggiungere in trent’anni la neutralità climatica, ossia l’intenzione di emettere tanto gas a effetto serra quanto riescono ad assorbire i serbatoi tecnici o naturali di CO2, per esempio le foreste o il suolo. «Chi inquina paga» è questo, in estrema sintesi, il principio che sta alla base della nuova legge sul CO2 con cui il parlamento definisce la politica climatica svizzera per il periodo 2021-2030. In futuro, per esempio, chi acquisterà una macchina di grossa cilindrata sarà chiamato maggiormente alla cassa. Il settore dei trasporti è, infatti, la pecora nera per quanto riguarda le emissioni di anidride carbonica. Ne emette quasi un terzo del totale, una quota rimasta praticamente uguale dal 1990, nonostante le prescrizioni per ridurne l’impatto ambientale. Tali sforzi sono stati vanificati dall’aumento dei chilometri percorsi e dal crescente acquisto di veicoli più potenti. Una tendenza che Consiglio federale e parlamento vogliono ora invertire, per esempio fissando quote di com-
pensazione delle emissioni di CO2 più alte, fino al 90 per cento. Ciò causerà un incremento del prezzo di benzina e diesel fino a un massimo di 10 centesimi, rispettivamente di 12 cts dal 2025. Finora il sovrapprezzo alla pompa di benzina non poteva superare i 5 centesimi. Questa tassa sul CO2 andrà ad alimentare il fondo per il clima, per un massimo di 450 milioni di franchi, e verrà restituita alla popolazione, ad esempio per ridurre i premi delle casse malati, e alle imprese, attraverso una compensazione AVS. In futuro, anche chi viaggerà in aereo dovrà allargare maggiormente i cordoni della borsa. La tassa sui biglietti sarà di 30 franchi per i voli a corto raggio, misura volta a favorire il traffico ferroviario, e di 120 franchi per quelli a lunga distanza. Il Consiglio federale avrà inoltre la possibilità di tassare maggiormente i passeggeri di business o prima classe. Occupando più spazio sui velivoli, questi causano infatti più emissioni di gas a effetto serra. A pagare sarà soprattutto il 5 per cento degli svizzeri, con un reddito netto superiore ai 12 mila franchi, che volano spesso e sono responsabili di circa un terzo dell’inquinamento provocato dal traffico aereo. Ad approfittare saranno, in maniera particolare, le famiglie dei cantoni di montagna e rurali, così ha evidenziato uno studio dell’istituto di ricerca Sotomo. Come con la tassa sul CO2, parte del sovraprezzo sui biglietti d’aereo sarà ridistribuito all’economia e alla popolazione, mentre il 49 per cento confluirà nel fondo per il clima. Con queste entrate, stimate a circa un miliardo di franchi all’anno, si intende promuovere, per esempio, la riduzione delle emissioni di gas serra degli immobili, le innovazioni, come lo sviluppo di carburante più ecologico per gli aerei, la geotermia o il traffico ferroviario transfrontaliero, per esempio i treni notturni. In Svizzera, circa un quarto delle emissioni di gas serra e il 40 per cento del consumo energetico sono imputabili al settore degli edifici. Un problema per l’ambiente che la Confederazione ha riconosciuto da tempo e che dal 2010 cerca di risolvere con il Programma edifici. Purtroppo, i risultati non sono ancora soddisfacenti: quasi due case su tre vengono ancora riscaldate con energie fossili. Così, governo e parlamento hanno deciso di aumentare l’imposta applicata ai combustibili (nafta) da 120 a un massimo di 210 franchi per ton-
Tra le varie misure previste, una sovrattassa sui biglietti aerei. (Keystone)
nellata di CO2 emessa. L’obiettivo del Consiglio federale è di ridurre le emissioni degli edifici tra il 55 e il 60 per cento entro il 2030, di almeno l’80 per cento entro il 2050 rispetto al 1990. Infine, diverse misure toccheranno l’industria, un settore che negli ultimi due decenni ha compiuto importanti progressi per ridurre il suo impatto sull’ambiente e che oggi genera circa un quinto delle emissioni in Svizzera. I provvedimenti volti a ridurre l’impronta ecologica dell’agricoltura, responsabile di quasi il 14 per cento dei gas a effetto serra, saranno invece definiti nel quadro della nuova politica agricola 2022. In parlamento, l’Unione democratica di centro ha lottato da sola e invano contro «una legge che crea una società a due livelli, che accresce il divario tra popolazione urbana e rurale, che non cambierà nulla a livello di lotta al cambiamento climatico visto che Trump, Bolsonaro e Jinping, i
maggiori inquinatori, non fanno nulla al riguardo», questo il tenore degli interventi dei deputati UDC Mike Egger, Pierre-André Page e Albert Rösti. Un dibattito che si sposterà prossimamente da Bernexpo alla piazza. Infatti, si prospetta un referendum popolare che l’UDC ha già detto di appoggiare. Se l’Unione democratica di centro parla di salasso per il ceto medio, l’Alleanza per il clima, a cui fanno parte circa 90 organizzazioni della società civile, sostiene invece che le misure sono insufficienti per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. «Piccoli passi verso una politica ambientale più incisiva dopo il 2020», si legge in una nota dell’alleanza che non vuole però tirare troppo la corda. Il rischio è infatti di vedere bocciare la legge dagli elettori, già provati dalla crisi causata dal nuovo coronavirus. Ma possiamo rimandare alle calende greche l’adozione di una nuova
legge sul CO2? La risposta è no. Il novembre scorso, un gruppo di esperti di Meteo Svizzera e del Politecnico federale di Zurigo ha illustrato alcuni possibili scenari climatici per la Svizzera. Se non si riuscirà a invertire la rotta, dobbiamo aspettarci da qui al 2060 estati più asciutte, forti piogge, periodi di canicola più frequenti, inverni poveri di neve. Uno scenario nemmeno tanto lontano, visto che alla fine di maggio, Meteo Svizzera ha comunicato di aver registrato per 12 mesi una temperatura media nazionale superiore alla norma 1981-2010 di 2 gradi Celsius, un riscaldamento climatico che ha subito un’accelerazione dall’inizio del XX secolo. E allora non possiamo più aspettare perché, parafrasando il senatore liberale lucernese Damian Müller «siamo la prima generazione a sentire gli effetti del riscaldamento climatico e siamo forse l’ultima a poter agire efficacemente contro le emissioni di gas serra». Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Crediti Covid-19, prime valutazioni Conseguenze della pandemia La rapida concessione di fondi alle imprese ha generato qualche truffa
e ha per qualche mese ridotto fallimenti e liquidazioni, che ora però tornano a crescere. Come ripagare i crediti? Ignazio Bonoli Dopo il caso di truffa per 1,5 milioni di franchi nel canton Vaud, anche il caso di due cittadini italiani, proprietari di una società in Ticino, che hanno chiesto e ottenuto un credito agevolato con garanzia della Confederazione, ha sollevato un certo scalpore. Ma, al di là del fatto di cronaca, l’episodio ha messo in evidenza la probabilmente troppa facilità e rapidità con le quali questi crediti sono stati concessi. Sembra perfino che questa società fosse sull’orlo del fallimento, per cui il credito avrebbe dovuto essere rifiutato. Non c’è ancora una statistica di casi simili in tutta la Svizzera, per i quali sarà molto difficile recuperare il denaro ottenuto con o senza frode, ma quasi sicuramente non in buona fede. Del resto, già al momento dell’annuncio di questa operazione – per altro molto apprezzata tanto in Svizzera, quanto all’estero – il consigliere federale Ueli Maurer, responsabile delle finanze della Confederazione, aveva detto di prevedere che alcuni di questi casi sarebbero stati inevitabili. Aveva però anche aggiunto che la Confederazione era in grado di recuperare buona parte del denaro versato a chi non avrebbe dovuto riceverlo. Ancora una volta la fretta è stata cattiva consigliera, ma l’urgenza di un intervento a favore delle aziende più minacciate era evidente. Tuttavia, almeno per il momento, l’analisi dei dati del registro di commer-
cio non permette di constatare una moria di piccole e medie imprese. Sembra quindi che la strategia messa in atto dal Consiglio federale abbia avuto successo. Il numero di fallimenti e liquidazioni nei primi mesi dell’anno è comunque superiore a quello dello stesso periodo dell’anno precedente. La situazione si stava però già deteriorando prima della pandemia, e al momento del «lockdown», il governo aveva anche proposto una moratoria nelle procedure di esecuzione e fallimenti, comprese le ferie giudiziarie, accanto ad altre misure puntuali. Il numero di fallimenti e liquidazioni è così sceso dai 90 giornalieri ai 50 a fine marzo. Da inizio maggio è però cominciata una fase di normalizzazione, con il volume globale risalito al livello dell’anno precedente. Si notano però parecchie differenze fra le regioni: in Ticino vi è stata una forte reazione alle misure politiche con un calo sensibile di casi. Da qualche settimana si nota però un aumento costante. Di solito la scomparsa di aziende dal mercato è accompagnata dalla creazione di nuove attività. Come si poteva prevedere questa creazione è stata più debole del solito, durante il periodo del «lockdown». In maggio si è però assistito a una ripresa, il che può significare anche un rinvio di alcune decisioni a dopo la chiusura. Lo si è visto in particolare nella gastronomia e negli alberghi, nonché in settori tradizionali del commercio. L’attività è stata in questo caso molto intensa nella regione del
Fra le proposte c’è quella di trasformare i crediti con l’emissione di azioni privilegiate. (Keystone)
Lago Lemano, mentre in Ticino non si riesce ancora a coprire la forte diminuzione subìta durante la chiusura. I prossimi mesi, con le aperture e la stagione estiva, saranno determinanti per la ripresa. La questione dell’effetto del «lockdown» e della ripresa delle attività economiche comincia pure a precisarsi. Ci si rende conto che l’aiuto alla liquidità non è un regalo e ci si chiede come fare a restituirlo se la liquidità a disposizione sarà poca, almeno per un bel po’ di tempo. Proprio perché si tratta di crediti commerciali, l’ordinanza prevede termini di transizione. Intanto
128’616 aziende hanno ritirato 15,2 miliardi. Molte altre si sono però annunciate a titolo precauzionale. Nel frattempo si può però supporre che una parte di piccole e medie imprese, nonostante o magari a causa del credito garantito, possano cadere in difficoltà finanziarie, soprattutto se non ci sarà una consistente ripresa dell’economia. A questo punto, ci si chiede: come evitare un’ondata di fallimenti di PMI? Strumenti già utilizzabili sono le dilazioni di pagamento, cui può seguire un concordato con i creditori. Dal 20 aprile questo strumento ha subito alcuni adeguamenti, proprio a causa della
pandemia, in vista di trovare il modo per risanare l’azienda. Un’operazione che può rivelarsi costosa, per cui il Consiglio federale ha creato uno strumento limitato nel tempo proprio per le piccole e medie imprese che non fossero però già sovraindebitate a fine 2019. Di regola l’imprenditore può continuare l’attività senza sorveglianza. Per chi si trovasse ancora in difficoltà, si auspica ora che il Consiglio federale proponga un ulteriore periodo di transizione, in modo da evitare un eccessivo indebitamento al 31 marzo 2022. Il nuovo problema è proprio in questa data. Che cosa si farà in caso di una seconda ondata di «Covid-19»? Oppure se l’economia non avrà una ripresa sufficiente? In Svizzera non sembra proponibile trasformare questi crediti senza interessi in crediti a fondo perso. Tre professori del Politecnico federale di Losanna propongono un’altra soluzione: sostituire i crediti di transizione con l’emissione di azioni privilegiate. Il vantaggio consiste nel fatto che, al contrario degli interessi, i dividendi in caso di crisi non devono essere pagati e possono essere ricuperati. Le azioni privilegiate, inoltre, non hanno scadenza e non devono essere rimborsate. Un fondo creato da privati, al quale può partecipare anche lo Stato, potrebbe acquisire queste azioni, riducendo il rischio di fallimento. L’esperienza recente dimostrerebbe che lo scorporamento di rischi, col tempo, può diventare favorevole a entrambe le parti. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Politica e Economia
Il settore tecnologico cinese in primo piano La consulenza della Banca Migros Thomas Pentsy
Rallentamento della crescita economica in Cina 12 %
10 %
8%
6%
4%
2%
0% 2010
2011
2012
2013
2014
2015
2016
2017
2018
Crescita del PIL rispetto all’anno precedente
Non da ultimo, il piano di crescita a lungo termine si concentra sul settore tecnologico. Anche se si tratta in questo caso di un piano governativo, in ultima analisi saranno soprattutto
le imprese private cinesi ad attuare lo sviluppo tecnologico. In tal modo, la controversia tecnologica tra Pechino e Washington già in corso continuerà ad aggravarsi. La Cina, infatti, sviluppe-
2019
2020 1)
1) Previsione
Fonte: Bloomberg, Banca Migros
Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
Nel mese di maggio, nell’ambito del Congresso nazionale del popolo, il governo cinese ha presentato un ingente pacchetto di stimoli economici pari ad almeno il 4,5% del prodotto interno lordo (PIL). Alcuni punti delle misure di stimolo all’economia, pur essendo inferiori a parte delle aspettative, sono degni di nota. Invece di fare affidamento principalmente sull’aumento del credito, come nella crisi finanziaria mondiale del 2008/2009, quest’anno la Cina intende utilizzare la propria politica fiscale per rilanciare l’economia aumentando la spesa pubblica. Questa è una buona notizia per la stabilità finanziaria del Paese. Colpisce anche il fatto che, contrariamente alla prassi seguita finora, Pechino non abbia indicato un obiettivo di crescita del PIL per l’anno in corso. A fronte della grande incertezza dell’economia mondiale e delle modeste prospettive congiunturali, questo era probabilmente inevitabile. L’assenza di un obiettivo di crescita significa tuttavia che il governo e le autorità possono concentrarsi sulla stabilizzazione dell’occupazione e sulla salvaguardia dei mezzi di sostentamento delle persone. Da un lato, ciò riflette l’importanza che nel frattempo ha assunto il settore privato per la Repubblica popolare, dall’altro sembra indicare che la situazione del mercato del lavoro cinese sia critica.
rà maggiormente le proprie capacità tecnologiche per non dipendere dal know-how estero. Tale situazione potrebbe creare in futuro ulteriori tensioni con gli Stati Uniti. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Frontalieri: solo vantaggi I lettori di «Azione» ricorderanno la polemica che, quasi una decina di anni fa avevano sollevato, in Ticino, i risultati di studi, eseguiti a livello federale e cantonale, sugli effetti della crescita del frontalierato sull’occupazione e sui salari nelle regioni di frontiera che attribuivano al fenomeno solo effetti positivi. Questi risultati erano in contrasto con quanto l’opinione pubblica del nostro cantone pensava, ossia che l’aumento dei frontalieri minacciava l’occupazione e l’evoluzione dei salari dei lavoratori residenti nel paese. Ora che la votazione sull’iniziativa dell’UDC che intende sopprimere la libera circolazione si avvicina, ecco che il tema dell’impatto dei frontalieri sull’occupazione e i salari ritorna di moda. E gli economisti quantitativi ritornano ad occuparsene. Così il KOF,
l’istituto di ricerche economiche del Politecnico di Zurigo, secondo la NZZ, avrebbe preparato uno studio sugli effetti del frontalierato che dovrebbe venire pubblicato addirittura nell’«American Economic Review», vale a dire nella rivista economica più quotata del mondo. I risultati di questo studio confermano quelli di una lunga serie di studi già condotti da istituti di ricerca svizzeri, nel corso degli ultimi venti anni. Stando agli stessi, l’aumento dei frontalieri di questi ultimi due decenni ha favorito sia lo sviluppo dell’occupazione, sia quello dei salari, nelle regioni di frontiera. Per essere più precisi, la possibilità di ricorrere liberamente a questa offerta supplementare di manodopera ha assicurato alle regioni di frontiera, in questo periodo, un aumento dell’oc-
cupazione e dei salari superiore a quello esperimentato dal resto delle regioni del paese. Si tratta di risultati che richiedono di essere spiegati perché in economia, normalmente, da un’offerta in aumento ci si attende una pressione sui prezzi (o, nel nostro caso, sui salari) verso il basso. Secondo lo studio del KOF, invece, nel corso degli ultimi anni, i salari nelle regioni di frontiera sarebbero aumentati più rapidamente che quelli nelle regioni centrali del paese. Di più, l’aumento dell’effettivo di frontalieri occupati in Svizzera non sarebbe andato a scapito dell’occupazione di lavoratori svizzeri. In altre parole, l’occupazione di frontalieri è cresciuta perché è aumentata la domanda di lavoratori da parte delle aziende. È anche possibile che quest’ultima sia aumentata per l’allargamento
dell’offerta consentito dalla libera circolazione della manodopera. Questi effetti particolarmente positivi derivanti dal fortissimo aumento dell’occupazione di frontalieri vengono spiegati, nello studio del KOF, dal fatto che i livelli di qualifica dei frontalieri sono migliorati. Due terzi dei nuovi frontalieri, infatti, possiedono una formazione universitaria. Essi hanno consentito lo sviluppo nelle regioni di frontiera dei rami basati sulla conoscenza come quelli della tecnologia dell’informazione o dell’industria farmaceutica. Come si è già ricordato, il nuovo studio del KOF riconferma i risultati di numerose ricerche eseguite da diversi istituti, universitari o privati, nel corso degli ultimi dieci anni. Per le regioni di frontiera, considerate come un insieme, l’aumento dell’occupazione di fron-
talieri, consentito dall’adozione della libera circolazione della manodopera, è stata una vera benedizione. Tuttavia è probabile che in Ticino anche questo studio sarà criticato come tutti gli altri (e non sono pochi) che hanno messo in evidenza gli effetti positivi dell’aumento dei frontalieri. Anche le ragioni di chi critica sono conosciute. Rispetto all’occupazione di frontalieri il Cantone Ticino è, tra le regioni di frontiera, un Sonderfall. Gli effetti positivi sull’evoluzione dell’occupazione e dei salari, dovuti all’alto grado di qualifica dei nuovi frontalieri, si vedono infatti molto meno in Ticino che, da quando mondo è mondo, possiede un’economia molto più orientata verso il fattore lavoro, e quindi con livelli di produttività inferiori alla media, che nel resto delle regioni di frontiera svizzere.
inquilini pagano malvolentieri l’affitto. L’Italia, l’Europa, fanno i primi bilanci, e si rendono conto che – con rare eccezioni, come la Germania – il prezzo pagato alla pandemia è altissimo, sia dal punto di vista economico, sia da quello delle vite umane. Molte vittime appartengono alle categorie schierate in prima linea. Medici e infermieri, ovviamente. Ma anche volontari del 118, portantini, sacerdoti, forze dell’ordine, vigili del fuoco. E poi la seconda linea, quelli che non hanno mai smesso di lavorare: farmacisti, cronisti, rider, ferrovieri, tranvieri, cassieri dei supermercati, contadini, operai delle aziende alimentari. Quelli per cui il lockdown non è stato un modo per riposare e ritrovare i legami familiari, ma ha significato levatacce, notti senza sonno, turni di lavoro in città deserte. Quelli che non uscivano sul balcone ad applaudire alle sei di sera, e molto spesso non riuscivano neppure ad ascoltare gli applausi di cui erano destinatari. Altre sono state vittime del caso, o di un errore altrui: persone che si sono trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato.
L’epidemia ha colpito in modo diseguale. In alcune vallate del Nord Italia – tra le più ricche e laboriose d’Europa – non c’è famiglia in cui non si pianga qualcuno. Le grandi città del Settentrione sono state segnate, anche nel morale: a fatica saranno dimenticate le notti deserte e zitte, percorse solo dalla sirena delle ambulanze. Del resto, in tutta Europa sono state colpite le metropoli, le aree più avanzate: Londra, Madrid, la Catalogna, i Paesi baschi, la regione di Parigi, la Baviera, la Ruhr. A Roma e al Sud hanno prevalso all’inizio la paura, poi la frustrazione per la clausura forzata. Nel momento più drammatico del dopoguerra, l’Italia ha dato una prova in linea con la sua storia. Ci sono stati casi straordinari di abnegazione, coraggio, generosità. Non soltanto storie individuali, ma vicende collettive di resistenza e di successo: si pensi al Sacco di Milano, allo Spallanzani di Roma, al Cotugno di Napoli, e in genere allo sforzo profuso dal personale sanitario. Nel complesso, gli italiani hanno capito, e tranne le solite eccezioni si sono comportati con rigore e dignità, accettando i
sacrifici senza lamentarsi troppo. Come da tradizione, sono mancate le classi dirigenti. Negarlo sarebbe ipocrita e non aiuterebbe a fare meglio in futuro. Qualche luce: la decisione di chiudere per tempo, evitando che il contagio arrivasse in modo massiccio al CentroSud; la campagna di tamponi a tappeto della Regione Veneto. Per il resto, l’Italia ha pagato un prezzo molto alto all’impreparazione e alla disorganizzazione. Non c’erano abbastanza mascherine, e a lungo si è raccontato che non servivano. Molti ospedali e troppe residenze per anziani sono diventati focolai. Non si sono fatti abbastanza tamponi. Non è stata fatta la zona rossa in Val Seriana. E ora il Paese è ripartito alla cieca, senza un piano serio di test e tracciamenti, senza neppure che siano arrivati a tutti i soldi della cassa integrazione, con il miraggio di aiuti europei che rischiano di arrivare troppo tardi. Servirebbe un altro governo, una nuova stagione. L’Unione europea finalmente si sta muovendo. Ma non finanzierà sussidi, bensì progetti. Temo che il governo italiano non sia all’altezza della situazione.
controsenso, una contraddizione in termini. In realtà sono regimi autoritari, piante infestanti attecchite in paesi che non hanno mai veramente conosciuto il lungo e travagliato percorso del liberalismo storico. Di questo si dice convinto Roger de Weck, nel suo ultimo saggio La forza della democrazia (Die Kraft der Demokratie), che reca come sottotitolo «Una risposta ai reazionari autoritari». Già «Chefredakteur» del settimanale tedesco Die Zeit e dal 2011 al 2017 direttore generale della SSR, de Weck appartiene alla non folta schiera dei liberaldemocratici che negli Stati Uniti chiamano «liberals». L’analisi che svolge ha già suscitato parecchio dibattito, non solo in Germania (dov’è uscito per Suhrkamp) ma anche nella Svizzera tedesca, giacché al referto (cause e sintomi della crisi) aggiunge una dettagliata farmacopea di rimedi possibili per rianimarla. Se intendono sopravvivere, e non soccombere alle oligarchie (poteri forti, grandi aziende) da un lato e alle oclocrazie (potere della
folla) dall’altro, le democrazie devono trovare il modo di affiancare alle istituzioni tradizionali sedi di confronto in cui abbiano parte preponderante gli esperti, comitati in cui i progetti di legge passino al vaglio degli specialisti. Non per bocciarli preventivamente (qui saremmo alla tecnocrazia) ma per valutarne incidenza e impatto prima di trasmetterli al parlamento. L’autore avanza dodici proposte di «rivitalizzazione», molte delle quali intersecano l’ecologia, filo rosso dell’intera argomentazione. Perciò de Weck insiste nella creazione di una seconda camera (o di una terza, in presenza di un sistema bicamerale, come quello elvetico) in cui le questioni ambientali ricevano una speciale attenzione. L’altra grande malattia di cui soffrono le democrazie occidentali è data dall’invecchiamento della popolazione. Di qui l’esigenza di abbassare il diritto di voto e di eleggibilità ai sedicenni. La «generazione Greta» ha dimostrato una sensibilità e una maturità invidiabili, non sempre riscontrabili nella citta-
dinanza più matura. Inoltre i giovani sanno muoversi nel mondo digitale con maggiore rapidità e destrezza dei loro genitori, spesso impacciati di fronte alle innovazioni provenienti da questo universo. Non è qui possibile seguire tutti i punti di riflessione («Denkanstösse») che Roger de Weck elenca e discute. Un accenno tuttavia merita l’ultimo, il dodicesimo, là dove l’autore affronta la sfera dell’informazione. Non esiste una «buona democrazia» senza «buon giornalismo». L’esplosione della rete e dei media sociali fa credere che la democrazia diretta sia alla portata di tutti, una scorciatoia immediata, fors’anche divertente e soprattutto poco impegnativa. Ma è un’illusione che odora d’imbroglio. Perché ieri come oggi una democrazia solida ha bisogno di un cittadino informato e consapevole, aperto al confronto e al dibattito. Solo un giornalismo serio e credibile è in grado di arginare le tossine populiste e smascherare le false notizie che inquinano la nostra quotidianità.
In&outlet di Aldo Cazzullo Il prezzo della pandemia L’Italia, l’Europa, sembrano un cibo decongelato, appena estratto dal freezer, ancora inerte, che poco per volta però si scioglie e torna a essere commestibile. La vita sta ricominciando lentamente, forse troppo lentamente. Le città, le vite si stanno rianimando. Le strade sono piene, ma i locali e i negozi sono ancora vuoti. Ci si rimette in moto con cautela, pieni di voglia ma nello stesso tempo esitanti.
L’istituto nazionale per le malattie infettive Spallanzani di Roma. (Wikipedia)
La pandemia ha accelerato e reso più evidenti cose che stavano già accadendo. Lo smart-working, cioè il lavoro a distanza. L’abitudine di ordinare il cibo a casa. L’importanza del digitale nelle operazioni burocratiche e nei consumi culturali. Il commercio elettronico che sostituisce quello tradizionale. Sono fenomeni che avrebbero fatto il loro corso comunque: non si ferma il vento con le mani. Qualcuno avrà anche implicazioni positive. Ma un colloquio via Skype non sarà mai come un colloquio di persona; così come una gomitata non sostituisce una stretta di mano. Se lavorassimo tutti e sempre da casa, non solo crollerebbero l’edilizia e il mercato immobiliare; rischieremmo tutti di impazzire. E la graduale cancellazione del commercio al minuto non solo apre voragini nei bilanci familiari e comunali, ma rende più povera la nostra vita sociale. Purtroppo tra le tendenze e le (cattive) abitudini che escono rafforzate dall’emergenza c’è quella per cui nessuno paga più nessuno. Lo Stato italiano paga malvolentieri i fornitori, le grande aziende pagano malvolentieri le piccole, e gli
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Ossigeno per la democrazia Sugli scaffali delle librerie i volumi che hanno per tema la democrazia (i suoi affanni, la sua sorte, persino la sua morte) si stanno moltiplicando a vista d’occhio. Segno che il suo stato di salute negli ultimi anni è andato aggravandosi, portandola alla soglia della terapia intensiva. Circolano anche testi che riecheggiano antichi slogan maoisti, come quello del belga David van Reybrouck: Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico (Feltrinelli). Ma quanto è veramente grave il quadro clinico della democrazia? La diagnosi varia da paese a paese, dato che ogni sistema ha sviluppato nel tempo una configurazione differente, in cui ha riversato le proprie esperienze storiche, le proprie regole elettorali, le proprie preferenze istituzionali. L’Italia non è la Francia, la Germania non è l’Inghilterra. E la Svizzera non è nessun altro; è per certi versi un caso unico («Sonderfall»), che combina parlamento (democrazia rappresentativa) e voto popolare attraverso iniziative e referendum (democrazia diretta).
Naturalmente esistono «marcatori» per giudicare la bontà, o l’efficacia, di questo o quel modello di democrazia. Alcune regole sono fondamentali e non si possono eludere: la presenza di una Costituzione discussa e approvata, il catalogo dei diritti e dei doveri, l’elenco delle libertà (di opinione, stampa, associazione, ecc.), la periodicità della chiamata alle urne, la divisione dei poteri eccetera. Nel 1984 Norberto Bobbio, intervenendo al convegno di Locarno sul futuro (omaggio a Orwell e al suo celebre romanzo), disse che «è poco probabile che uno Stato non liberale possa assicurare un corretto funzionamento della democrazia, e d’altra parte è poco probabile che uno Stato non democratico sia in grado di garantire le libertà fondamentali. La prova storica di questa interdipendenza sta nel fatto che Stato liberale e Stato democratico, quando cadono, cadono insieme». All’Est sono tuttavia spuntate, dopo il crollo del comunismo, democrazie geneticamente manipolate. I media le definiscono «illiberali», ma è un
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PUBBLIREDAZIONALE
«In Svizzera la Rivella ghiacciata fa parte dell’esperienza con il surf» Stefanie Weber (30) Responsabile progetti marketing, Zurigo
La passione per la tavola «Sono sempre stata affascinata dagli sport che prevedono l’uso di una tavola, indifferente se snowboard o skate. Nel 2013 ho vissuto in California e lì ho finalmente scoperto la mia passione per il surf. Ora gran parte delle vacanze le organizzo laddove è possibile praticare questa disciplina. Quando sono in Svizzera e mi viene voglia di vivere le sensazioni del surf, vado al lago il mattino presto e pagaio sul paddle, pratico wakeboard oppure mi alleno con le onde artificiali. Il bello di fare surf in Svizzera è che dopo l’attività sportiva posso ricompensarmi con una Rivella ghiacciata».
Il lago è sinonimo di libertà «Silvan ed io abbiamo la passione per le barche, con le quali amiamo armeggiare non appena ne abbiamo la possibilità. Ci è sempre piaciuto stare sull’acqua. Ci fa sentire come se il nostro spazio vitale si estendesse. È la libertà. Ecco perché, in compagnia delle nostre famiglie, usciamo spesso a fare delle gite o a pescare sul lago. Oltre alla protezione solare e alla canna da pesca, il nostro equipaggiamento comprende anche la Rivella, fresca al punto giusto. Ora vogliamo condividere la nostra passione con altre persone e stiamo così avviando un’azienda di noleggio di barche».
«La Rivella è parte integrante dell’equipaggiamento della barca» Andrin Pavlovic (30) Designer industriale, Zurigo
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Rivella Refresh
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Isaac, Andrin e Stefanie hanno qualcosa in comune: amano l’acqua. Equipaggiati con una tavola da surf, una barca o semplicemente nuotando, quest’estate intendono esplorare le acque svizzere, dove si sentono a casa. E quando la sete si fa sentire, una Rivella rinfrescante non può mancare
Isaac Mcha (28) Studente, Winterthur
Foto Yves Bachmann
Come un pesce nell’acqua «L’acqua è sempre stata una componente importante della mia vita. Nell’acqua mi sento a mio agio, sia nel mare di Zanzibar, dove sono cresciuto, sia in quella dei diversi laghi svizzeri. Mi piace in modo particolare il lago di Pfäffikon, dove ci sono tanti angolini tranquilli. Quest’estate voglio scoprire nuove mete, per esempio nel Canton Grigioni. Ed è sicuro che porterò della Rivella con me. Rivella è tipicamente svizzera tanto quanto lo sono i suoi bellissimi laghi. Ed è pure una delle mie bevande preferite. Ogni volta che torno a Zanzibar ne porto alla mia famiglia».
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Cultura e Spettacoli La sensibilità di Pennetta Il regista Michele Pennetta convince il pubblico (a casa) con il film Il mio corpo
Anche Israele si tinge di giallo A colloquio con lo scrittore e studioso israeliano Dror Mishani, autore di Tre, avvincente giallo psicologico pubblicato da e/o
Un altro joint per Spike Lee C’era grande attesa per Da 5 Bloods, il nuovo film del regista cult, ora anche su Netflix
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INXS, un omaggio A vent’anni dalla morte del frontman Michael Hutchence esce il set box di LiveBabyLive pagina 55
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Un’esposizione straordinaria Mostre Il Polittico Griffoni a Bologna
Gianluigi Bellei Siamo a Bologna durante la signoria di Giovanni II Bentivoglio, una delle grandi famiglie della città, che governa fra il 1463 e il 1506. Giovanni aderisce alla lega, costituita dai Medici, da Ercole d’Este e da altri signorotti della Romagna, contro papa Sisto IV Della Rovere e il re di Napoli. Governò come i dittatori di allora accentrando sulla sua figura tutte le cariche e gli onori. Accumulando così un ingente patrimonio. Tutto questo sino a che le armate papali di un altro Della Rovere, Giulio II il papa terribile, entrano da vincitori in città. Come i Medici, Bentivoglio ama circondarsi di letterati e artisti. Bologna si arricchisce di grandi palazzi, vengono fatte ristrutturazioni (eliminando portici lignei e superfetazioni), si avvia la costruzione di una rete fognaria; vengono coperti alcuni tratti di canale, installate delle fontane (nel 1483 l’acqua di San Michele in Bosco viene convogliata fino in Piazza Maggiore) e aperto il nuovo porto Navile. Alla fine un anonimo scrive che Giovanni II trova una Bologna «facta de legni et terra incomposta e la lascia tutta restaurate, mondanissima, ornatissima». In quegli anni lavora Niccolò dell’Arca. Tutti dovrebbero vedere il suo Compianto su Cristo morto del 1485 all’Oratorio di Santa Maria della Vita. Un capolavoro drammatico di urla e di dolore. D’Annunzio scrive di donne «infuriate dal dolore, dementate dal dolore». Poi troviamo Lorenzo Costa e Francesco Francia. Di entrambi possiamo ammirare i ritratti dei Bentivoglio. Nella Cappella Bentivoglio della Chiesa di San Giacomo Maggiore Costa raffigura la famiglia bolognese ai piedi della Madonna. In ginocchio Giovanni II, di fronte a lui la moglie Ginevra Sforza e in basso ai lati gli undici figli, da una parte i maschi e dall’altra le femmine. Nell’Adorazione del Francia, alla Pinacoteca Nazionale, il giovane Bentivoglio appare inginocchiato a lato della Vergine con la barba e gli abiti da cavaliere di San Giovanni. Il duo Costa-Francia non impedisce in ogni caso l’arrivo di artisti forestieri come Francesco del Cossa (dal Vasari confuso con Costa) ed Ercole de’ Roberti, direttamente da Ferrara. A loro si deve, fra le altre cose, la realizzazione del trittico per la Cappella Griffoni in San Petronio. Il dipinto è dedicato a San Vincenzo Ferrer, canonizzato nel
1458 e ordinato dalla famiglia di Floriano Griffoni per la loro cappella. Per realizzarlo viene chiamato Francesco del Cossa (Ferrara, 1436 - Bologna, 1478), allora molto rinomato e che a Bologna ha già realizzato diversi capolavori. Cossa porta con sé come collaboratore il giovane Ercole de’ Roberti (Ferrara, 1450-1496). Le singole parti vengono realizzate a tempera su tavola fra il 1470 e il 1473. Per la cornice vi lavora il maestro d’ascia Agostino de’ Marchi di Crema, come si evince da un documento del 19 luglio 1473 dell’Archivio di San Petronio, riguardante la sua richiesta di compenso che dice: «Agustino de Marchi de Crema, magistro lignaminis, libras sex quatrinorum pro capsa quam fecit circa tabulam altaris Floriani de Grifonibus; promiserunt Officiales ei donare». L’intera opera viene scomposta nel 1725 dopo che la cappella passa alla famiglia di monsignor Pompeo Aldrovandi che toglie i dipinti e ne porta alcuni con sé nel suo palazzo di famiglia a Mirabello, vicino a Ferrara. In seguito altri entrano nel mercato antiquario separatamente. Sappiamo com’era il polittico in base a uno schizzo del 1725 realizzato da Stefano Orlandi prima dello smembramento. Orlandi, infatti, viene incaricato di ridurre il polittico «in tanti quadretti della miglior forma, che si potrà…» e fornisce al committente «un piccolo abbozzo della forma che si ritrova la tavola di detto altare…», come riporta Daniele Benati ne La pittura rinascimentale del 1984. Nel 1871 Giovanni Battista Cavalcaselle e Joseph Archer Crowe nella loro A History of Painting in North Italy tentano una ricostruzione scrivendo che al centro del trittico doveva trovarsi l’effigie di San Vincenzo Ferrer e ai due lati San Pietro e San Giovanni Battista. Nel 1888 Gustavo Frizzoni avanza un’ipotesi ricostruttiva che viene poi precisata da Roberto Longhi nella sua Officina ferrarese del 1934 e nei suoi ampliamenti successivi. Nel 2013 Cecilia Cavalca pubblica la sua tesi di laurea su La pala d’altare a Bologna nel Rinascimento: opere, artisti e città, 1450-1500 nella quale descrive anche le disavventure del Polittico Griffoni. Siamo a Bologna, oggi, e una straordinaria esposizione, a cura di Mauro Natale e Cecilia Cavalca, riunisce per la prima volta le 16 tavole originali conosciute. In tutto dovrebbero essere 25. Finalmente una mostra di ricerca che nasce da un progetto di studi e
Ricostruzione del Polittico Griffoni di Francesco del Cossa e Ercole de’ Roberti. (da Cecilia Cavalca, La pala d’altare a Bologna nel Rinascimento. Silvana Edit. 2013, Per gent. conc. di C. Cavalca e Silvana Editoriale Spa)
non semplicemente da una raccolta di dipinti un po’ casuali, o a seconda del budget disponibile, e dalla collazione di testi commissionati separatamente gli uni dagli altri. Come nella maggior parte delle esposizioni odierne. Una mostra che «nasce», scrive Mauro Natale in catalogo, «da un’idea semplice e ambiziosa, tanto da apparire ai nostri tempi quasi inattuale: restituire alla città d’origine, almeno durante il breve periodo di un’esposizione, uno dei capolavori che hanno segnato la cultura artistica del suo Rinascimento». Le opere provengono dalla National Gallery di Londra, dalla Pinacoteca di Brera di Milano, dal Louvre di Parigi, dalla National Gallery of Art di Washington, dalla Collezione Cagnola di Gazzada, dai Musei Vaticani, dalla Pinacoteca Nazionale di Ferrara, dal
Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam e dalla Collezione Vittorio Cini di Venezia. Da una parte si possono vedere le opere, una accanto all’altra, e al piano successivo la ricostruzione virtuale ad alta risoluzione di come doveva essere il polittico. Cossa dipinge gli scomparti principali ed Ercole de’ Roberti quelli periferici e la predella. Al centro San Vincenzo Ferrer, ai lati San Pietro e San Giovanni Battista. In alto la Crocifissione e ai lati San Floriano e Santa Lucia. La predella di Ercole de’ Roberti racconta i Miracoli di San Vincenzo Ferrer: una splendida tempera su tavola di più di due metri per un’altezza di quasi trenta centimetri. Un lavoro con una complessa iconografia oggetto di diverse interpretazioni che illustra il salvataggio di una giovane caduta dalle
scale il cui figlio, dopo la nascita, è battezzato; la guarigione di un’indemoniata; la guarigione di Giovanni Limon dalla podagra; il salvataggio di un giovane che stava per cadere; l’estinzione di un incendio e la resurrezione di un figlio di due anni fatto a pezzi dalla madre e poi cotto. Scene di guarigione che possono preludere alla salvezza dell’anima o, forse per la presenza di figure esotiche, un appello alla mobilitazione per una crociata dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453. Dove e quando
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Cultura e Spettacoli
Pennetta, per ridare voce a chi l’ha persa
Personaggi Il regista Michele Pennetta, che avrebbe dovuto presentare il suo nuovo film a Visions du Réel,
da sempre si china sulla valenza e sul significato del corpo Muriel Del Don Malgrado la pandemia di Covid-19 abbia inevitabilmente condizionato tutta la scena culturale svizzera e internazionale, questa non è però riuscita a fermare il giovane regista italiano ma svizzero d’adozione Michele Pennetta. Il suo ultimo film Il mio corpo, prodotto dalla Close Up di Ginevra (capitanata dalla carismatica Joëlle Bertossa) che gli è sempre stata fedele, può infatti già vantare al suo attivo la selezione in due festival di alto livello e indiscussa fama: Visions du réel di Nyon e il Festival di Cannes. Il mio corpo doveva debuttare in aprile a Visions du réel, nella Competizione internazionale lungometraggi, questo prima che il mondo si mettesse in modalità standby. Non potendosi svolgere come di consueto sulle sponde del Lago Lemano, tra le stupende mura di Nyon, Visions du réel ha dovuto reinventarsi proponendo un’inedita edizione online che si è rivelata un successo. Comprensibile è stata l’ansia dei registi che, confrontati con questa situazione a dir poco inaspettata, non sapevano sotto quale forma i loro film sarebbero stati presentati al pubblico e ai professionisti del settore cinematografico. Tra questi ritroviamo Michele Pennetta che ha comunque accettato di far debuttare la sua ultima fatica proprio a Visions du réel. La scelta si è rivelata vincente e l’affluenza (virtuale) di pubblico e critica ha permesso comunque a Il mio corpo di brillare, anche se su piccolo schermo.
Il film Il mio corpo dello svizzero di adozione Michele Pennetta denota una sensibilità e uno sguardo straordinari e toccanti Il viaggio dell’ultimo film di Pennetta è quindi cominciato in maniera anomala ma intrigante, come anomala e intrigante è anche la sua visione del cinema, mezzo espressivo che gli consente di osservare la realtà da un punto di vista altro, al contempo radicale e umano. Sì, perché Pennetta affronta le riprese quasi fossero degli studi antropologici, con un rigore e un’intensità rari. Per il suo ultimo film, che si svolge nell’entroterra di una Sicilia lontana anni luce dai cliché «alla Club Med», Pennetta ha vissuto per mesi in simbiosi con i suoi protagonisti: Oscar, ragazzino che (soprav)vive aiutando suo padre a raccattare ferraglia e Stanley, giovane nigeriano alla ricerca di un posto in una società che della sua umanità non sa che farsene. Pennetta rivendica questa necessaria fase di avvicinamento e immersione in un universo che non conosce ancora ma che desidera ardentemente scoprire. I suoi film, sin dal suo primo cortometraggio I cani abbaiano (2010), passando per il misterioso ed esteticamente potente ’A Iucata (2013), fino ad arrivare a Pescatori di corpi (2016) e più recentemente a Il mio corpo, ci catturano nel loro universo fatto di quotidianità spesso disperata ma mai miserabilista, umana e sincera. Questo grado di sincerità e naturalezza, la sensazione di essere confrontati ad un’intimità che non sembra filtrata dal prisma del cinema, «è faticosa da ottenere ma anche incre-
L’immigrato Stanley, uno dei protagonisti del nuovo film di Pennetta. (YouTube)
dibilmente gratificante» come ci confessa Pennetta. La toccante intensità di Il mio corpo non ha lasciato indifferenti nemmeno i programmatori dell’ACID, ricettacolo del meglio del cinema indipendente ai margini del Festival di Cannes, che hanno deciso di accoglierlo nel loro olimpo. Come per Visions du réel, l’edizione 2020 dell’ACID (e del Festival di Cannes più in generale) sarà obbligatoriamente «diversa» ma comunque sempre stuzzicante e controcorrente. Nove i film selezionati: cinque film di finzione e quattro documentari che formano il cuore dell’avventura ACID CANNES versione 2020, sorta di super eroi e eroine pronti a tutto pur di tenere alto il nome del cinema indipendente. Siccome Cannes non potrà accogliere la première dei film, saranno loro a viaggiare per incontrare professionisti del settore e pubblico. A partire da questo mese il comitato dell’ACID lavora infatti alla promozione dei film durante il Marché du Film de Cannes online, mentre in autunno, li accompagnerà nel resto della Francia per delle proiezioni destinate a differenti esercenti di sale cinematografiche. Le presentazioni vere e proprie, con l’équipe dei vari film, per delle «classiche» proiezioni pubbliche si terranno tra settembre e ottobre a Parigi, Lione e Marsiglia. Pennetta parteciperà all’avventura grazie a un film che del cinema indipendente non prende che il meglio. Formatosi alla SUPSI e successivamente all’ECAL di Losanna e alla HEAD di Ginevra, quello di Pennetta è stato un percorso pieno di sorprese. La sua personale visione del cinema è stata influenzata e arricchita da innumerevoli incontri: con Gregory Catella (ex responsabile della filiale comunicazione visiva della SUPSI) e Fulvio Bernasconi per quanto riguarda il Ticino, ma anche e soprattutto con il documentarista Claudio Pazienza e il critico cinematografico e regista Jean Louis Comolli, entrambi professori alla HEAD, che l’hanno spinto a indagare la realtà attraverso il suo personale punto di vista. Questi due monumenti del cinema del reale gli hanno mostrato la potenza del documentario in quanto mezzo espressivo a tutti gli effetti, al pari della finzione, per raccontare la realtà che ci circonda.
Pennetta ha fatto sue tutte queste esperienze, questi incontri «fortuiti» che si sono trasformati in nutrimento
artistico che gli permette di osservare il mondo con precisione e sensibilità, eleganza formale e rugosità tipica
dell’immediatezza. Il mio corpo, sorta di climax di una ricerca che da artistica è diventata umana, rappresenta il punto finale della sua «trilogia siciliana», cominciata con ’A Iucata. I suoi protagonisti, corpi spesso umiliati ma mai afflitti, sembrano dimenticare la presenza della cinepresa: Oscar che deve lavorare per ore nella ferraglia o Stanley che continua a subire il peso della discriminazione causata dal colore della sua pelle. Malgrado la vita continui a metterli alla prova, i protagonisti dei film di Pennetta non si arrendono mai e continuano a lottare per una manciata di tenerezza. La sua cinepresa riesce a catturare l’essenza di questi esseri alla deriva che non si arrendono, ci racconta la loro storia attraverso la potenza delle immagini più che della parola. Parola che ai personaggi sembra negata, come se non se la potessero permettere, sorta di lusso al quale non hanno accesso. È il loro corpo, la loro presenza fisica che da utilitaria diventa poetica a parlare al posto delle parole. Molti i progetti di Pennetta per il futuro, tra questi un film di finzione che si svolgerà tra l’Italia e i Balcani, ma quello che accomuna tutte le sue produzioni è un’inesauribile ricerca di verità e di luce dove questa sembra ormai spenta. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Cultura e Spettacoli
È solo un romanzo giallo
Incontri A colloquio con Dror Mishani che con il suo fortunato giallo Tre contribuisce a riequilibrare
il volto di Israele nell’immaginario dei lettori in lingua italiana
violenza interna alla società israeliana. La particolarità del romanzo giallo è infatti quella di rivolgere i riflettori verso l’interno, cercando la violenza nel tuo letto, nel tuo salotto e nella tua casa, e forse questa è la ragione per cui non piace sufficientemente agli israeliani. Mi preme di trasmettere che la violenza nei confronti delle donne o dei bambini ha una connotazione politico-sociale. Non faccio diagnosi psichiatriche, ma sono certo che non si tratti solo di psicopatici, bensì anche di violenza politica resa possibile dal sostrato sociale israeliano nel quale una badante straniera come Emilia conduce un’esistenza solitaria e non protetta, e una donna divorziata come Orna può venire isolata dai circoli che frequentava. È ovvio che la violenza sociale si somiglia tra un paese e l’altro, ma qui ci addentriamo nel campo del sottile confine tra universale e particolare.
Sarah Parenzo È un pomeriggio di fine maggio a Tel Aviv. Dror Mishani mi ha dato appuntamento alle 18 in un piccolo centro commerciale del quartiere residenziale dove abita, a una ventina di minuti dal centro città. Con mia piacevole sorpresa mi attende un piccolo caffè sul retro circondato da un bosco. È la prima volta che mi siedo al tavolino di un bar dalla fine del lockdown, così, mentre lo aspetto, godo compiaciuta del privilegio ritrovato complice la magia della luce che precede i tramonti estivi del medioriente. Non è la prima volta che incontro Mishani, ma nel ripassare la scaletta delle domande percepisco un’insolita curiosità verso l’esponente di punta del noir israeliano: oltre che autore, Mishani è anche studioso e docente di letteratura poliziesca all’Università di Tel Aviv. Il suo ultimo libro, Tre, ha come protagoniste tre donne. Orna, un’insegnante di liceo sulla quarantina, Emilia, una badante lettone immigrata in Israele ed Ella, giovane madre insoddisfatta. E tutte e tre trovano lo stesso uomo, Ghil. Prima di parlare di Tre, le chiederei di spiegare cosa l’ha condotta a scegliere il romanzo giallo e quale importanza attribuisce al poliziesco come scrittore e come studioso.
Dal punto di vista storico-temporale mi sono imbattuto nel romanzo giallo a Parigi, dove mi ero trasferito subito dopo aver conseguito la laurea in letteratura ebraica e giurisprudenza a Gerusalemme. Per migliorare il mio francese un’insegnante della Sorbona mi suggerì di cominciare a leggere i romanzi gialli di Simenon perché scritti in un linguaggio relativamente facile. È dunque leggendo la serie di Maigret che mi sono appassionato, finendo per leggere in francese tutto il genere, compresi i gialli americani, inglesi e scandinavi. Una volta conseguito il master con una tesi sul concetto di mizrachiut (i mizrachim sono gli ebrei giunti in Israele dai paesi arabi) pensai di cambiare completamente argomento e scrivere un dottorato sulla nascita del romanzo giallo, sul suo affermarsi a partire dalla metà del secolo XIX e sulle motivazioni storico, ideologiche e politiche per le quali questo genere non ha preso piede nella letteratura in lingua ebraica. Negli stessi anni, tuttavia, lavoravo come redattore per la casa editrice Keter dove, mentre mi occupavo di autori israeliani come Amos Oz e Sayed Kashua, chiesi all’editore di affidarmi una collana di libri gialli classici in traduzione ebraica. Fu allora che compresi che la mia vocazione non era quella di scrivere un dottorato, bensì di riprodurre in ebraico il romanzo giallo di carattere psicologico e realistico della tradizione europea. In realtà non si è trattato di un vero e proprio cambiamento di rotta. Un osservatore attento può infatti scorgere una continuità con la mia ricerca precedente sulla presenza dei mizrachim nella letteratura ebraica (pubblicata in Israele nel 2006) poiché il romanzo giallo è proprio uno dei canali attraverso i quali i mizrachim sono entrati a far parte di essa. Negli stessi anni in cui uscivano romanzi come Cinque Stagioni di A.B. Yehoshua o La scatola nera di Amos Oz, Batya Gur scriveva il primo vero romanzo giallo in lingua ebraica, Delitto in una mattina di sabato (1987). Questo romanzo si interroga sulla questione della mizrachiut attraverso il protagonista, l’investigatore di polizia Michael Ohayon, israeliano di origini marocchine, storico mancato, che abbandona gli studi all’università per indagare un omicidio avvenuto presso la Società
Lo scrittore israeliano Dror Mishani. (Lukas Lienhard / © Diogenes Verlag)
Psicoanalitica di Gerusalemme. La contrapposizione e la tensione tra l’élite ebraica degli psicoanalisti di origini tedesche e ashkenazite e l’esponente del mondo mizrachi-sefardita, così come il senso di inferiorità di quest’ultimo, sono al centro del romanzo della Gur. Allo stesso modo il romanzo Giornale locale (1989), della scrittrice Shulamit Lapid, pone al centro una protagonista mizrachit, quasi come se fosse il giallo, in qualità di romanzo «periferico» rispetto alla produzione letteraria israeliana, a permettere a queste autrici di parlare dei mizrachim, categoria confinata alle periferie della medesima società. Del resto quando Batya Gur, allora critica letteraria per il quotidiano Haaretz, sentì l’impulso di pubblicare un romanzo, non osando fare concorrenza a scrittori come Yehoshua e Oz, affermò in un’intervista di voler scrivere «solo un romanzo giallo». E questo vale anche per me, dal momento che, a prescindere dalla passione per il genere, non posso negare che dal punto di vista psicologico mi è stato più facile entrare nella letteratura israeliana dalla porta sul retro che non da quella principale.
Mishani si inoltra nelle zone più grigie della società israeliana, quelle senza rilevanza storica o nazionale Tuttavia Tre è un romanzo molto sofisticato. È dunque così importante il genere, o alla fine un romanzo si afferma e valuta per la sua qualità, a prescindere dalla classificazione?
Quella con il giallo è un’identificazione a cui tengo molto, sia come lettore che come scrittore, al punto che quando la casa editrice francese stava per inserirmi nella collana Blanche di letteratura generale dietro raccomandazione di un noto scrittore israeliano, ho apprezzato il complimento, ma, ciononostante, ho insistito per entrare a far parte della collana del noir. Però ha ragione, in un certo senso nell’ultimo libro ho percepito il bisogno di allontanarmi dagli schemi ripetitivi e dal personaggio di
Avraham, per inoltrarmi in una nuova avventura.
Mi sembra ne sia valsa la pena! Ma come si colloca il romanzo giallo israeliano rispetto a quello del resto del mondo?
Purtroppo Israele non regge il confronto con gli altri paesi. Nei paesi scandinavi per esempio, il genere giallo è emerso negli anni 60 grazie al contributo di Maj Sjöwall e Per Wahlöö, una coppia di marxisti che si prefisse di analizzare la società svedese facendo del giallo uno strumento letterario dalla valenza politica per affrontare temi come quello del welfare o della violenza sulle donne. Non solo, ma ogni scrittore deve poter contare sulla tradizione di chi ha approcciato il genere letterario prima di lui, e lo stesso vale per i lettori. Così negli anni 80, sulla scia di Sjöwall e Wahlöö, con l’arrivo degli immigrati dai Paesi baltici, vedendo nel razzismo un «reato» Henning Mankell abbandonò poesia e teatro, affidandosi al genere giallo per denunciare il razzismo. Forte della stessa tradizione si è affermato successivamente anche Stieg Larsson con la trilogia Millennium. In Italia naturalmente c’è il grande Camilleri, ma non solo, molti dei grandi scrittori come Leonardo Sciascia o Emilio Gadda hanno flirtato con il romanzo giallo. Lo stesso può dirsi per Patrick Modiano in Francia, o per Borges e Bolano in Sud America che elevano il genere pur senza scrivere il giallo «puro» alla Agatha Christie. Tutto questo non avviene in Israele, motivo per cui il giallo resta un genere modesto e minore. La letteratura israeliana è infatti ancora profondamente impegnata con i grandi temi della società al suo interno, mentre per tradizione il romanzo giallo non è affatto nazionalistico, al punto che Edgar Allan Poe, fondatore del genere, scriveva in America ambientando le trame a Parigi, mentre Agatha Christie scriveva in inglese ambientandole in Belgio. Per lo stesso motivo in Israele non hanno successo anche altri generi come la fantascienza.
Secondo lei, a proposito di nazionalismo, il lettore che legge i suoi libri in traduzione italiana ne percepisce i protagonisti come ebrei?
Io spero di no, spero che li percepisca come israeliani. Da questo punto di vista sono un sostenitore della tesi di A.B. Yehoshua e anche per me la categoria «israeliani» è non solo valida ed esistente, ma più importante di quella di «ebrei». Quest’ultima è molto interessante dal punto di vista intellettuale e testuale-letterario, ma sotto il profilo della mia identità personale quella israeliana è radicata e prevalente.
Sul filone della letteratura yiddish, o della produzione sulla Shoah, anche recenti serie televisive di Netflix, come Unorthodox e Fauda alimentano lo stereotipo dell’ebreo come «altro». Al contrario Ghil, protagonista di Tre, propone al lettore un ebreo/israeliano meno «diverso», uno che una volta tanto non è vittima, né uccide il «nemico» palestinese, bensì un serial killer di donne come ce ne sono purtroppo ovunque. Come inquadrerebbe la drammatica «banalità» di femminicida di Ghil?
Dal mio punto di vista Israele è così banale che non ho dubbi che l’israeliano possa essere «normale» come chiunque. Io sono cresciuto a Holon leggendo autori stranieri come Kafka e Beckett. Quando all’università mi sono accostato alla letteratura ebraica ho trovato difficile identificarmi con le ambientazioni religiose di Gerusalemme o con quelle eccessivamente laiche di Tel Aviv, piuttosto che con i ricorrenti motivi militari o della seconda generazione della Shoah. Questi grandi temi che fanno da sfondo alla letteratura israeliana hanno ben poco a che vedere con la periferia urbana dove sono cresciuto, dove il ceto mediobasso cerca come può di sbarcare il lunario. Forse per questo motivo, anche dal punto di vista estetico mi sono prefisso di inoltrarmi nelle zone più grigie, zone non simboliche e prive di rilevanza storica e nazionale, dove si muovono e agiscono dei perfetti sconosciuti. Già con il mio primo libro, Un caso di scomparsa, ho sfidato il lettore presentandogli il rapimento di un ragazzino. Un libro senza Shoah, Iran né Hamas, dove si consuma «solo» un dramma familiare. In sostanza, sia nei romanzi precendenti che in Tre, il mio scopo è di parlare della
Se il tema della solitudine delle badanti come Emilia trova corrispondenza anche in Europa, Orna è una rivelazione israeliana, sintomo della debolezza di una società fondata prevalentemente sulla famiglia. La socialità in Israele si svolge intorno alla coppia e ai figli, o agli amici dei tempi del servizio militare, e chi non può attingere a queste risorse viene facilmente tagliato fuori con il rischio di sperimentare situazioni di vero e proprio isolamento. Chi direbbe che nel caldo e colorito Medioriente ci sia tanta solitudine e alienazione?
Sì, Orna non versa in condizioni disagiate, tuttavia affronta la vergogna dell’abbandono da parte del marito nascondendosi alla società. Ed è proprio questo suo isolamento che favorisce Ghil… Si tratta di una dinamica che va oltre il dolore privato e personale. In ebraico si usa l’espressione «zofe le beit Israel» in riferimento allo scrittore che guarda dall’alto la «casa d’Israele» come se si trattasse di un’unica famiglia. Al contrario io penso che non ci sia una casa sola, bensì tante case, o meglio appartamenti, a loro volta divisi in stanze. Il mio ruolo di scrittore è quello di sbirciare dal buco della serratura e raccontare non una storia sola, bensì storie diverse di israeliani. Ha detto di non avere una diagnosi della condotta di Ghil. Cosa ha provato come scrittore nel descrivere una scena drammatica e crudele come quella dell’omicidio di Orna?
Ho compreso meglio questo aspetto nel corso delle interviste in occasione del lancio del libro in Germania. Nella stesura di una scena come questa lo scrittore si trova paradossalmente a identificarsi in entrambi i ruoli, di vittima e di assassino. Se dunque da una parte ho provato un grande dolore per Orna, nel contempo ho sperimentato anche gioia e compiacimento nella percezione di scrivere una scena di qualità sotto il profilo estetico e artistico, pur consapevole di essere all’apice della crudeltà. Se ho scritto il libro in piena identificazione con Orna ed Emilia, al punto che ho dovuto concedermi delle pause per elaborare il lutto di entrambe, nonostante tutto la logica del romanzo è quella di Ghil, ossia del travestimento. Tre infatti è un libro che, almeno al principio, inganna, al punto che se non hai letto le recensioni, penseresti che si tratti di un libro piacevole sul tema dell’amore e della coppia. Lo definirei un romanzo sul femminicidio che si finge una storia d’amore. Bibliografia
Dror, Mishani, Tre, Roma, edizioni e/o. 2020.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Idee e acquisti per la settimana
Fajitas per tutta la famiglia Le Fajitas sono il pasto perfetto per mettere tutti d’accordo: sul tavolo vengono serviti tanti gustosi ingredienti ideali per farcire le tortillas senza conservanti di Pancho Villa. Per i più grandi sono disponibili salse piccanti e tortillas di frumento morbide. Con l’Easy-Fill-Tortillas anche i più piccoli possono preparare la loro bontà secondo il proprio umore. E siccome un solo piatto non è sufficiente, il successivo offre ulteriori possibilità per irresistibili creazioni culinarie. Insomma, con Pancho Villa le variopinte pietanze per scacciare la noia e mantenere il buonumore non mancano di certo.
Come vengono farcite tradizionalmente le tortillas?
Le tortillas messicane solitamente si farciscono con della carne di manzo arrostita. Ottimi sono anche con sminuzzato di pollo o Quorn. Si possono poi aggiungere delle cipolle fresche, una salsa di pomodoro, coriandolo e jalapenõs, come pure diversi topping: per esempio crème fraîche, insalata iceberg o formaggio grattugiato.
Foto Veronika Studer; Styling Feride Dogum
Quali ingredienti freschi sono ideali per affinare i prodotti Pancho Villa?
Non c’è limite alla fantasia: per le salse piccanti sono ideali pezzettini di pomodoro fresco, un dip all’avocado è invece perfetto per il Guacamole-Mix. Oppure cosa ne direste dei Nacho Chips al forno? Farcendoli con fagioli kidney, jalapenõs e formaggio cheddar grattugiato otterrete un delizioso aperitivo.
Pancho Villa Tortillas di frumento morbide 8 pezzi, 326 g Fr. 4.60
Pancho Villa Mexican Seasoning Mix 25 g Fr. 1.40
Pancho Villa Salsa Mexicana medium 312 g Fr. 2.90
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Come si prepara un perfetto guacamole con la miscela di spezie?
Pelare gli avocado, metterli in una ciotola e spruzzarli con il succo di due limette. Schiacciarli con un cucchiaio. Aggiungere il Guacamole-Mix e mescolare bene. È ottimo come dip per i Nacho Chips oppure per farcire i Tacos.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Cultura e Spettacoli
Permette, signorina?
Editoria Il libro di Chiara Sfregola invita chi lo legge a fare una serie
di riflessioni sul matrimonio nelle sue possibili forme
I cinque fratelli di sangue di Spike Film Su Netflix esce Da 5 Bloods, il nuovo
atteso «joint» di Spike Lee
Laura Marzi
Nicola Mazzi
Il matrimonio non è un argomento di cui si parli molto, almeno se le cose vanno bene o comunque procedono. L’unione civile fra omosessuali, se non fosse per le proteste di chi non è favorevole, come quella che qualche anno fa smosse la Francia, non è un argomento approfondito né nei luoghi del sapere, né altrove. Fosse anche solo per questo il libro di Chiara Sfregola Signorina edito da Fandango è un testo da leggere e da far leggere. L’autrice è una giovane donna lesbica sposata, che nella migliore tradizione femminista parte da sé per affrontare diverse tematiche, che ruotano intorno alla questione del matrimonio, ma che riguardano soprattutto la condizione femminile, le diverse tappe dell’emancipazione e come da essa si siano diramate battaglie per i diritti civili di tutte e tutti, come Sfregola giustamente sottolinea. A rendere interessante il testo prima di tutto lo studio ampio che l’autrice ha condotto sulla storia del matrimonio, ma non solo: leggendo Signorina scopriamo, attraverso le ricerche che cita, che ci sono differenze sostanziali nei conflitti tra coniugi gay, lesbiche e etero. Ovviamente, gli etero litigano di più e litigano peggio. Diverso è anche l’approccio alla sessualità, il modo in cui essa viene non solo vissuta, ma anche percepita all’interno di un matrimonio fra due donne, che per quanto possa essere rivoluzionario, nuovo, mantiene anche il carattere di scelta ancestrale di stare insieme con un’altra persona per tutta la vita. Sfregola esplicita come la possibilità del divorzio influenzi tutte le relazioni matrimoniali e quindi anche quella fra due donne, ma anche come quel passo, decidere di compierlo, sia cosa ben diversa dal rimanere conviventi o «compagne». Decisivo poi come Sfregola, dati alla mano, arrivi a mostrare come il matrimonio sia attualmente una scelta per pochi, un punto di arrivo paragonabile a una promozione, una casa di proprietà. Questo non è il tempo in cui ci si sposa, in cui si azzarda un’ipo-
L’ultimo «joint» di Spike Lee (così il regista afroamericano chiama i suoi film) è uscito sulla piattaforma Netflix in concomitanza con le rivolte del movimento Black Lives Matter in tutti gli Stati Uniti. Con Da 5 Bloods (Come fratelli) l’autore, pluripremiato per BlacKkKlansman (2018), abbandona i toni della commedia per tornare a quelli drammatici, anche se – come nel precedente – utilizza un evento passato per parlare anche del presente. Seguiamo la vicenda di quattro veterani che 50 anni dopo ritornano in Vietnam per recuperare le spoglie di un commilitone (il caposquadra «Stormin» Norman) – ma soprattutto i lingotti sepolti durante un combattimento. L’idea è di spartirseli come risarcimento per tutti gli afroamericani morti servendo gli Stati Uniti. In particolare per quel 32% di afroamericani – sul totale dei soldati mandati in Vietnam – che ha combattuto la guerra asiatica (all’epoca gli afroamericani rappresentavano l’11% della popolazione statunitense). Il film viaggia a due velocità. Nella prima ora il regista costruisce con efficacia le vicende dei 4 «fratelli» sopravvissuti, le loro storie e – grazie ad alcuni flashback girati con una camera 16 mm e in un formato quasi quadrato (4:3) che
Chiara Sfregola, classe 1987, è nata a Terlizzi, in Puglia. (Chiara Sfregola)
tesi a tempo indeterminato, bensì delle convivenze, in cui alla voglia di stare insieme si affianca la necessità di dividere le spese. Ancora, scopriamo leggendo Signorina quali siano, secondo le statistiche, gli status sociali delle coppie etero rispetto a quelle gay e di come le coppie lesbiche vivano per la stragrande maggioranza in grandi centri dove possono essere maggiormente protette, ci si augura, da discriminazioni e pericoli. Nel testo è radicata, ma non invasiva, la consapevolezza di Sfregola di far parte di una minoranza sessuale in una società etero-normata, con tutto ciò che ne consegue, ma è ugualmente forte in lei la coscienza di appartenere alla borghesia e come questo privilegio abbia anch’esso le sue non trascurabili conseguenze. I temi affrontati sono davvero molti, in modo approfondito: il gender gap, ovviamente, ma anche le scelte rispetto ai figli oppure alla monogamia, in una prospettiva diacronica anche abbastanza ampia. Nonostante sia evidente e comprensibile la necessità dell’autrice di divulgare dati attendibili e quindi il suo impegno a scrivere un testo informato, non si patisce noia. C’è nel libro una commistione ben orchestrata di informazioni e di vita per-
sonale, di esperienza diretta, di schiettezza. C’è una grande sincerità che suscita simpatia e invita a procedere nella lettura. Soprattutto c’è nel mondo necessità che molte delle cose che Sfregola scrive vengano diffuse, conosciute, comprese. Nonostante infatti, come ci informa Sfregola, i video porno in cui protagoniste sono due donne siano molto visti, ovviamente anche e soprattutto dagli uomini, l’omosessualità femminile suscita resistenze, opposizioni, genera ancora odio. Un testo come Signorina, ragionato, con un posizionamento politico chiaro e mai urlato, può avere dei riscontri importanti in termini divulgativi. Leggere delle sue peripezie, delle sue relazioni, della tenacia con cui ha portato avanti i suoi obbiettivi, la fissazione per la casa, per l’arredamento, il corredo che sua madre le ha composto da quando è nata, situa il suo punto di vista specifico – quello di una donna lesbica che ha scelto di sposarsi – all’interno di una conversazione più ampia e potenzialmente interessante per molte e molti. Bibliografia
Chiara Sfregola, Signorina, Fandango, 2020, pp. 227.
hanno lo scopo di dare una verità documentaristica alle immagini – quanto successe in quei terribili anni di guerra. Non vediamo solo le azioni di belliche dei nostri eroi, ma anche frammenti di repertorio: dai discorsi di Martin Luther King a quelli di Muhammad Ali, passando per i ricordi di altri personaggi, più o meno conosciuti, come l’attivista Bobby Seale, l’atleta Edwin C. Moses e Milton L. Olive III, morto in Vietnam da eroe. Anche le meravigliose musiche, che come sempre Spike Lee attinge con sapienza dalla cultura black, contribuiscono a immergerci in quell’atmosfera. Senza dimenticare la prova recitativa di Delroy Lindo (forse un poco eccessiva, seppur da molti indicato come un possibile Oscar), dei suoi colleghi e di due francesi (i bianchi): il redivivo Jean Reno e Mélanie Thierry. Nella seconda parte, invece, la ricerca del corpo e dell’oro prende il sopravvento. Spike Lee si diverte, noi forse un poco meno, nel citare Il tesoro della Sierra Madre di John Huston e Apocalypse Now di Frances Ford Coppola, mischiandoli a scene crude e a sparatorie degne di un western di Sam Peckinpah, in mezzo alla giungla vietnamita. E il legame di sangue (come da titolo) tra i 4 «fratelli» vacilla. Ma vacilla anche la trama, perché se all’inizio era ben congeniata e invogliava a scoprire il passato dei protagonisti, nella seconda parte lascia troppo spazio all’azione e ad alcune scene scontate. Qualche volta, e anche questo è il caso, Spike Lee esagera nel voler sviscerare, da ogni punto di vista possibile, i problemi razziali dei neri. L’impressione è quella di una centrifuga colorata e molto saporita che dopo qualche bicchiere diventa stucchevole e che ci allontana in modo netto da quell’opera essenziale, chiara e limpida che è stata Fai la cosa giusta. Tuttavia Lee ha avuto la fortuna e il merito di realizzare il nuovo film in concomitanza con le proteste nelle città americane. E quindi, quando lo guardiamo non possiamo non pensare al ginocchio mortale su George Floyd e alle sue conseguenze, così il tutto prende anche un altro significato. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 giugno 2020 • N. 26
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Cultura e Spettacoli
Intensamente rock
Musica A oltre vent’anni dalla morte di Michael Hutchence, la potenza live degli INXS rivive nella riedizione
sotto forma di box set dello spettacolare LiveBabyLive
Benedicta Froelich Tornando con la mente agli anni 90, è un vero peccato constatare come quella sorta di snobismo tipico del popolo di appassionati della musica pop-rock di matrice «impegnata» abbia portato molti alla decisione, più o meno consapevole, di ignorare il successo planetario che, tra il 1985 e il ’97, accolse ogni sforzo della rock band australiana degli INXS. Eppure, il sestetto di Sidney, capitanato dal tormentato e carismatico Michael Hutchence e responsabile di hits da classifica quali New Sensation, Disappear e Need You Tonight, ha costituito un caso piuttosto atipico nella scena musicale di allora: seppur alfieri del più puro e viscerale «stadium rock» del decennio, gli INXS erano infatti capaci di grande finezza e delicatezza compositiva – e, soprattutto, di magistrali performance dal vivo, in cui l’energia a dir poco travolgente tipica del loro sound si ammantava della prorompente e consapevole sensualità emanata da uno straordinario frontman. Il tutto riuscendo comunque a trasmettere tutta la delicatezza e introspezione permesse da una voce duttile come quella di Michael – responsabile, grazie a un’intensità pervasa da raffinate sfumature interpretative, anche del successo di tante struggenti ballate intimiste. Così, con l’improvvisa scomparsa dell’appena 37enne Hutchence (av-
venuta nel 1997 in circostanze ancora misteriose, che sembrano puntare alle gravi responsabilità di molte, troppe persone coinvolte), il successivo e inevitabile declino della formazione ha lasciato una sorta di vuoto nella scena rock internazionale – un vuoto, oggigiorno, forse più simile a una vera e propria voragine: in tempi in cui è davvero difficile trovare una band «giovane» che non si appoggi ad ausili come l’autotune o addirittura il playback, la maestria live degli INXS appare infatti come quasi soprannaturale, soprattutto quando si considera come ogni loro esibizione dal vivo mostri una qualità e disinvoltura tali da poter apparire in tutto e per tutto come una registrazione in studio. E ciò è particolarmente vero nel caso del concerto «per eccellenza» tenuto dalla formazione nel momento di massimo successo: il celeberrimo live at Wembley Stadium del luglio 1991, in cui un Michael nel pieno della forma e una band compatta ed efficientissima ammaliarono un pubblico di quasi settantaquattromila persone. Solo pochi mesi dopo, quell’incredibile serata veniva immortalata per il pubblico in un film dal titolo di LiveBabyLive, il quale ha oggi finalmente ricevuto il trattamento a cui ogni caposaldo del rock aspira, e cioè la più moderna rimasterizzazione digitale – operazione applicata, peraltro, anche all’album dal medesimo titolo, che, uscito in contemporanea al film, raccoglieva una mi-
Gli australiani INXS, Michael Hutchence è il terzo da sinistra. (Keystone)
scellanea dell’intera tournée mondiale del 1991, forse il punto più alto nell’intera carriera degli INXS. Ne è così nato un succoso cofanetto, in uscita nei negozi proprio in questi giorni, il quale unisce in una sola sede le già note testimonianze della serata, ovvero i due CD audio e il corrispondente DVD: il tutto, però, in una veste mai sperimentata prima, dal momento che il film dello show è stato convertito in formato widescreen dall’originale pellicola in 35 mm
e rimasterizzato in qualità 4K (definibile come «ultra HD»). Lo scorso autunno, il frutto di tale lavoro è infine stato proiettato – per un solo giorno, secondo una moda recentemente estesa ai documentari musicali – nei cinema di mezzo mondo, come preludio alla pubblicazione di una versione DVD caratterizzata da una definizione dell’immagine e del suono di gran lunga superiori all’originale. Risultato del meticoloso lavoro del produttore Giles Martin, incaricato del remissag-
gio audio in Dolby Atmos Surround, questa «rigenerazione sonora» viene estesa a entrambi i CD del cofanetto; e la trasformazione non fa che enfatizzare ulteriormente la maestria di performer degli INXS, a partire dall’invidiabile sicurezza e dal trasporto mostrati da Hutchence e colleghi dalla prima all’ultima traccia della scaletta. Certo, ci sarebbe qualche piccola annotazione da fare anche su questa nuova riedizione: infatti, pur essendo pressoché perfetta dal punto di vista formale, essa non costituisce un’opera integrale (perché, dal momento che è stata infine inclusa Lately, traccia finora esclusa dalle versioni su CD di questo storico show, si deve ora fare a meno di Shining Star?). Ma si tratta comunque di appunti minori, soprattutto davanti alla professionalità e all’amore con cui il lavoro di restauro è stato svolto. Di fatto, questo meraviglioso box set conferma l’impressione che un’opera come LiveBabyLive debba, oggi più che mai, essere considerata come required listening – ovvero, come una sorta di «bigino» dall’ascolto obbligato – per chiunque abbia l’ambizione di farsi strada nel mondo alla testa di una rock band professionale: e forse questo basterebbe a far sì che molte pretenziose giovani star di oggi si rendessero infine conto di quanta intensità sia necessaria per «dominare» davvero un palco. Annuncio pubblicitario
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