Azione 29 del 13 luglio 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Una pubblicazione dell’Ufficio cantonale di statistica analizza il passaggio dalle università al mondo del lavoro

Ambiente e Benessere Quanta natura è in grado di ospitare una città e cosa possiamo fare per aumentare la biodiversità nelle aree urbane?

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 13 luglio 2020

Azione 29 Politica e Economia In Etiopia scontri e arresti dopo l’uccisione di un noto cantante appartenente all’etnia oromo

Cultura e Spettacoli I capolavori scomparsi nel patrimonio artistico italiano: la Natività di Caravaggio

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di Simona Dalla Valle pagina 15

Simona Dalla Valle

Un lago più salato del mare

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Covid-19, certezze mutanti di Peter Schiesser La nuova normalità? È l’anormalità, una quotidianità inclinata, in cui le certezze mutano, si trasformano in qualcosa di vago. Oggi vale una regola, domani forse un’altra. Un momento ci si sente liberi come sempre con il piacere di stare tra la gente, in un altro di nuovo vulnerabili, a disagio nella massa. Ieri ci spiegavano una cosa, oggi in nome della scienza ce ne dicono altre, se poi aggiungiamo le teorie selvagge ne esce un bel caos. Passati i tempi degli inizi della pandemia, quando le motivazioni scientifiche parevano solide, le misure e le regole da seguire tutte chiare, logiche, coerenti. Ricordate le regole iniziali? Distanza fisica, igiene delle mani (con disinfettanti ovunque, per le mani e per i carrelli della spesa), ma niente mascherina se non per le persone malate, a rischio e gli operatori sanitari. Oggi la mascherina è d’obbligo sui mezzi pubblici e dove non può essere rispettata la distanza fisica, in alcuni cantoni viene imposta anche nei negozi. E da quando si è constatato che i luoghi chiusi e affollati sono un buon ambiente per la propagazione del virus, portarla offre quel senso di sicurezza che in una fase di ripresa

dei contagi ci permette di vivere più tranquilli la quotidianità. Avevano sbagliato, il delegato del Consiglio federale per la pandemia Daniel Koch, Alain Berset e tutti gli altri, quando ci dicevano che alle persone sane la mascherina non serviva, che non dava protezione, persino delle false certezze, che bastava mantenere la giusta distanza per evitare che le goccioline prodotte da starnuti e colpi di tosse potessero infettare chi sta troppo vicino? Era lo stato delle conoscenze. Che era evidentemente incompleto. Si è infatti puntato fin dall’inizio molto sull’igiene delle mani, poiché si sapeva che altri Coronavirus sopravvivono per diversi giorni su determinate superfici. E così siamo stati inondati di disinfettanti, per il timore che ci si potesse contagiare attraverso il contatto con le cose. L’Organizzazione mondiale della sanità è ancora convinta che sia così, anche se mancano evidenze scientifiche su questa forma di contagio, o perlomeno sembra che simili contagi non sono preponderanti. Piuttosto, nella comunità scientifica mondiale sempre più studiosi sono convinti che altre microparticelle infettive vengano esalate (parlando, urlando, cantando) e aerotrasportate, restando in sospensione nei luoghi chiusi. Ne sono convinti 139 ricercatori di 32

paesi, che hanno scritto una lettera all’OMS descrivendo le prove di una trasmissione del virus anche attraverso goccioline più minuscole, per chiedere che cambi le sue raccomandazioni nella lotta contro il Covid-19. Gli esperti dell’OMS non ne sono convinti. Ma intanto la mascherina da coperta di Linus si sta trasformando in elemento centrale in questa fase della pandemia. I risultati dello studio sierologico condotto in Ticino ci dicono che ad aver contratto il virus non sono solo le 3365 persone risultate positive al test, bensì oltre 30 mila, circa un abitante su dieci, meglio quindi restare prudenti (e mascherati). Un numero verosimile, visti i 350 decessi e una mortalità del Coronavirus che veniva stimata attorno all’1 per cento dei casi. Cambiano le teorie scientifiche, cambiano anche i nostri atteggiamenti, di continuo, influenzati da nuove evidenze, dall’ambiente in cui ci troviamo, dalle fasi che stiamo attraversando. Personalmente, a lungo ho evitato ogni luogo affollato per non dover portare una mascherina, nel tentativo di scacciare dalla mente l’evidenza così totalizzante della pandemia. Oggi, quando non la indosso pende al polso (di stoffa, per non aver l’impressione di essere uscito da una corsia d’ospedale), compagna indispensabile di una nuova vita.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 luglio 2020 • N. 29

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Attualità Migros

Il nuovo Consiglio di cooperativa

Migros News Marianne Meyer-Müller nuova presidente dell’Assemblea dei delegati

Migros Ticino I membri sono stati designati per il periodo luglio 2020 – giugno 2024

Nelle scorse settimane è stato eletto il nuovo Consiglio di cooperativa di Migros Ticino, per il periodo luglio 2020- giugno 2024. Si compone di 48 membri, in maggioranza donne, di cui 5 eletti dai collaboratori di Migros Ticino.

L’organo è chiamato a occuparsi delle questioni di principio della cooperativa e delle relazioni con la Federazione delle cooperative Migros, con competenze sia proprie, sia congiunte con il Consiglio di amministrazione. I nomi dei membri sono stati pub-

blicati sul numero 26 di «Azione»: ben diciannove di loro sono di nuova nomina. Sette i membri del Consiglio di cooperativa eletti quali membri dell’Assemblea dei delegati della Federazione delle cooperative Migros, che di prassi si riunisce due volte all’anno a Zurigo.

Quest’anno ha concluso il suo mandato presidenziale Giuseppe Cassina, che per ben 20 anni ha diretto i lavori del Consiglio di cooperativa. Abbiamo pensato di interpellarlo per chiedergli qualche ricordo della sua lunga esperienza.

Intervista a Giuseppe Cassina Ha un ricordo che le sta particolarmente a cuore del suo mandato?

Per quanti anni ha fatto parte del Consiglio di cooperativa ?

Ero da tempo socio di Migros Ticino quando, nel 1996, sono entrato nel Consiglio di cooperativa. Ricordo che a suggerirmi di entrare a farne parte fu l’allora direttore, Ulrich Hochstrasser, che conoscevo perché ero agente generale di una compagnia d’assicurazioni che faceva parte del gruppo Migros. Dopo un periodo, diciamo così, di gavetta, sono stato eletto Presidente del Consiglio di cooperativa nel 2000. Il ruolo del CC è molto importante, all’interno di Migros: la funzione dei membri è, a mio parere, quella di ambasciatori che osservano la presenza dell’azienda sul territorio, con occhio critico e che sottopongono alla direzione proposte di miglioramenti. Inoltre, i membri del CC sono il termometro della cooperativa, in quanto la vivono dal punto di vista del consumatore, osservando con particolare attenzione anche l’attività giornaliera dei diversi punti di vendita. Come ha visto evolvere l’azienda in questo periodo?

Nel corso del lungo periodo intercorso fino ad oggi ho vissuto tutti i cambiamenti nella gestione aziendale e ho assistito all’avvicendamento dei suoi quadri, a livello cantonale e nazionale. Dai primi anni del 2000 ci sono state naturalmente molte innovazioni tecnologiche: un tempo durante le assemblee il direttore illustrava alla CC l’attività dell’azienda con dei semplici lucidi proiettati sulla parete (e la cosa

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

era già all’avanguardia per l’epoca). Tra i cambiamenti a cui ho assistito negli ultimi vent’anni apprezzo molto la nuova immagine dei negozi, grazie alle varie ristrutturazioni. Le filiali sono diventate sicuramente più raffinate nel modo di porsi al cliente, i negozi sono diventati quasi delle «boutique». Ma la cosa che ritengo più importante è il cambiamento avvenuto nell’ultima generazione dei consulenti di vendita, che hanno potuto giovarsi di una formazione sicuramente più solida e competente. Questo ha determinato un cambio qualitativo evidente nella capacità di vendita. È una cosa molto positiva, un segnale di professionalità, attenzione e responsabilità dell’azienda verso i collaboratori, e di rispetto da parte dell’azienda verso i consumatori, ovvero i clienti. Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Sono molto soddisfatto nel ricordare come la nostra voce, le informazioni che abbiamo sottoposto alla Direzione e al COnsoglio di amministrazione dell’azienda hanno potuto essere ascoltate e prese in considerazione. In fondo, i membri del Consiglio di cooperativa rappresentano il punto di contatto tra i clienti e la Direzione e svolgiamo dunque un ruolo di attenti portavoce che informano i vertici aziendali delle sensazioni e degli umori dei clienti. Va inoltre tenuto conto che il CC è uno dei garanti della gestione delle attività, cosa che ci responsabilizza nei rapporti con la Direzione e Il CdA. Valuto dunque positivamente l’ottimo dialogo intercorso tra le parti, la facilità di contatto e la regolarità degli scambi e dei rapporti personali. Per quanto mi concerne, durante le nostre assemblee ho sempre curato al massimo, tra le trattande in discussione, il momento degli «Eventuali». Quella trattanda era l’occasione per tutti di esprimere le loro opinioni personali e le loro emozioni. Sono occasioni di dialogo che stimolano in modo concreto riflessioni e valutazioni, trasformando le assemblee in un dialogo produttivo, con i membri del CC che possono indirizzare la loro energia e dare un loro contributo tangibile. Un fatto che ho sempre ritenuto importante è stato, inoltre, la possibilità data in passato ai membri del Consiglio di cooperativa di visitare le industrie Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Migros disseminate in varie località della Svizzera. Un momento irripetibile per vedere da vicino e toccare con mano l’attività industriale e conoscere l’apparato produttivo dell’azienda.

C’è un saluto o un messaggio che vuole mandare ai soci della Cooperativa Migros Ticino?

Ho avuto la possibilità di mantenere per vent’anni il ruolo di Presidente del Consiglio di cooperativa e sicuramente rimarrò sempre, anche in futuro, in contatto con l’azienda. Non penso di provare una particolare nostalgia rinunciando al mio ruolo, poiché quando una persona ha agito in modo trasparente, con passione, realismo e concretezza non può e non deve avere rimpianti. D’altro canto, un legame affettivo non si può sottacere, anche perché il ruolo di membro del Consiglio di cooperativa comprende anche un coinvolgimento personale che evolve con il tempo, tenuto conto che si esprime attraverso un impegno volontario. Del mio periodo alla presidenza del CC conservo bei ricordi: anche se non rammento il nome di tutte le singole persone che ne hanno fatto parte, serbo nella mente una loro fotografia a colori e, soprattutto, il ricordo delle loro opinioni e dei loro punti di vista. Come detto con affetto sarò sempre vicino a Migros Ticino, rimanendo sempre un fedele cliente senza perdere di vista l’evoluzione dei punti vendita e con un sorriso di simpatia a tutte le collaboratrici e collaboratori, che sono il bene più prezioso dell’azienda. Tiratura 101’634 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Sabato 27 giugno i delegati della Federazione delle cooperative Migros (FCM) hanno eletto a Zurigo Marianne Meyer-Müller nuova presidente. Marianne Meyer-Müller subentrerà il 1° luglio 2020 a Irmgard Flörchinger che ha presieduto l’Assemblea dei delegati ad interim. Marianne Meyer-Müller succederà quindi a Ursula Nold che ha ricoperto la carica fino alla sua elezione di presidente del Consiglio d’amministrazione della Federazione delle cooperative Migros. Il mandato è iniziato il 1° luglio 2020 e durerà quattro anni. Marianne Meyer-Müller (53 anni) ha maturato 16 anni di esperienza come membro del Consiglio della cooperativa Migros Aare e Migros Zurigo. Nel corso dei due mandati (di otto anni in tutto) è stata anche membro dell’Assemblea dei delegati FCM. L’Assemblea dei delegati è l’organo principale della Federazione delle cooperative Migros ed è composta da 111 membri, di cui 100 sono delegati del Consiglio delle 10 cooperative regionali. Le 10 Amministrazioni regionali inviano per ogni assemblea un delegato ad hoc. L’Assemblea dei delegati è diretta da un presidente indipendente che presiede anche l’ufficio dell’Assemblea dei delegati. L’organo è responsabile tra l’altro delle modifiche degli statuti FCM, dell’elezione e destituzione dei membri esterni dell’Amministrazione e del rispettivo presidente nonché per l’approvazione del rapporto annuale e del conto annuale della FCM. 96 filiali Migros offrono la possibilità di spedire e ricevere pacchi DHL La crisi causata dal coronavirus ha dato ampio slancio allo shopping online. Il numero di pacchi spediti è notevolmente aumentato. Dopo aver trascorso molto tempo in home office, molte persone desiderano ora ricevere e consegnare i loro invii in orari e luoghi di loro scelta. Migros vuole soddisfare questa esigenza e da subito offre la possibilità di ricevere o spedire i pacchi DHL, oltre a quelli della Posta, in 96 filiali. Il partenariato tra Migros e DHL presenta dei vantaggi per la clientela: i clienti approfittano degli orari di apertura dei negozi Migros e possono ritirare e consegnare comodamente i pacchi in occasione dei loro acquisti quotidiani. Nei 96 punti PickMup con ServicePoint DHL è possibile ritirare i pacchi DHL che non possono essere presi personalmente in consegna a casa. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 luglio 2020 • N. 29

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Società e Territorio L’intelligenza collettiva È uno strumento molto potente nella lotta contro la pandemia, ma può essere usata anche per fini meno nobili

Lungo la Val Vegornèss Un itinerario etnografico che parte da Sonogno e segue il corso della Verzasca permette di riscoprire numerose testimonianze del passato

Arte e storia sul Ceresio Nel suo libro Passeggiate sul lago di Lugano Lorenzo Sganzini ci guida alla scoperta di trenta chiese e monumenti storici pagina 9

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L’urbanistica dopo il lockdown

Città Il dibattito in corso dopo l’emergenza

sembra mettere in discussione la tendenza alla densificazione degli insediamenti e allo sviluppo centripeto. C’è chi mette in guardia dal rischio di un arretramento culturale

Alberto Caruso Passata la fase più critica della pandemia, non c’è stata trasmissione televisiva o radiofonica, non c’è stato quotidiano – soprattutto nei paesi europei dove la pandemia ha colpito più duramente – che non abbia offerto spazio a riflessioni di architetti, economisti e sociologi su come deve essere ripensata la città dopo il lockdown. L’obbligo doveroso del «distanziamento sociale» ha modificato profondamente il nostro stile di vita, imponendo l’urgenza di prospettare le misure necessarie ad evitare o a ridurre la drammaticità di altri simili eventi che, a detta degli esperti, la crescente globalizzazione delle comunicazioni favorirà. Gli insediamenti devono essere riorganizzati mettendo al primo posto il tema della salute degli abitanti, le città devono diventare più verdi e più lente. Un’infinità di formule e scenari, più o meno suggestivi, è stata rappresentata: dalla città come insieme di piccoli borghi dotati ognuno dei servizi essenziali per la salute, alla massima estensione della mobilità dolce e alternativa, alle misure più diverse per evitare ogni forma di promiscuità. Scenari che erano presenti tra gli esperti anche prima della pandemia, ma che oggi la paura ha dotato di una diffusione popolare prima impensabile. Un fenomeno, quindi, che inciderà – non sappiamo in quale misura – sulla cultura politica, sulle visioni e sui programmi di chi è impegnato nelle istituzioni che sovrintendono alla trasformazione dei luoghi nei quali viviamo. In filigrana, quasi tutte queste rappresentazioni sottendono concetti diretti a rendere permanenti forme di distanziamento sociale e mirano a privilegiare la riduzione della densità delle relazioni interpersonali. Così l’idea

di città si trasforma, abbandonando le suggestioni moderniste novecentesche dell’urbanità come luogo della vita più intensa, veloce e convulsa, tutta dedicata al progresso tecnologico. Tuttavia, in quasi tutte queste formulazioni è presente – a volte implicita, a volte dichiarata – la volontà di rimettere in discussione la tendenza alla densificazione degli insediamenti e allo sviluppo centripeto. Tendenza che nel pensiero urbanistico degli ultimi decenni ha faticosamente conquistato consenso (e in Svizzera è stata proclamata da provvedimenti legislativi federali), come antidoto necessario allo sprawl, alla diffusione insediativa e allo spreco di territorio, che hanno caratterizzato le aree più ricche ed evolute del continente. Una delle voci più esplicite è quella di Giovanna Borasi, neodirettrice del Centre Canadien d’Architecture (CCA) di Montreal che ha affermato – in una intervista recentemente pubblicata da espazium.ch – che «la crisi rimetterà in discussione numerosi fondamenti che configurano le città odierne, come la questione in voga della “condivisione”, ovvero della riduzione degli spazi individuali a favore degli spazi collettivi. Tutte le tipologie fondate su questa premessa saranno messe in questione. Così come la tendenza alla densificazione: è anch’essa vantaggiosa come pensiamo?». Il tema è fondamentale e l’esito della sua diffusione nella pubblica opinione e nella cultura politica può rappresentare un vero e proprio pesante arretramento culturale. Tutti gli esperti mettono al centro della loro riflessione la necessità di modificare la relazione tra l’uomo e la natura a favore della seconda. Ma, al di là delle formulazioni più astratte, quando si parla di insediamenti, di urbanistica

Le città si ripensano e si riorganizzano a causa della pandemia. (Marka)

e di economia, la relazione materiale tra uomo e natura si traduce essenzialmente nella relazione tra l’uomo e la terra. Una relazione che si misura con la quantità di terra che viene trasformata e infrastrutturata nel pianeta – dalla periferia del nostro villaggio fino alla foresta amazzonica – sottraendo all’agricoltura, al pascolo e al bosco enormi quantità di suolo. La questione del risparmio di suolo, dell’equilibrio tra gli insediamenti e la terra è la vera questione strutturale, dalla quale dipende il futuro e la stessa sopravvivenza delle prossime generazioni, al confronto con la quale le suggestioni di città più verdi e più lente appaiono sovrastrutturali, rappresentazioni estetiche. La crisi pandemica ha rivelato la nostra fragilità davanti ai fenomeni naturali. Ce ne eravamo già accorti per gli

uragani e gli altri disastri climatici provocati dal riscaldamento globale, che però erano eventi lontani dalle nostre case, conosciuti dalle immagini televisive. La pandemia, invece, ci ha toccato da vicino, abbiamo avuto paura. Alla consapevolezza così largamente condivisa della fragilità della nostra specie, è necessario contrapporre strategie mirate alle questioni fondamentali. Vogliamo dire che le battaglie per città più verdi e più lente vanno certamente condotte, e l’attuale condizione postpandemica può favorirne il successo, ma vanno coniugate con quelle per il risparmio di suolo, pena la loro inutilità. Nonostante non appaia evidente, è necessario che non si producano contraddizioni tra l’obiettivo di piantare più alberi, realizzare più aree pedonali e campi gioco e piste ciclabili e servizi

sociali decentrati e l’obiettivo di contenere le nuove edificazioni, riutilizzando il patrimonio esistente e i terreni inedificati nelle aree già infrastrutturate, anziché continuare ad invadere le aree verdi. Non bisogna tornare indietro, e neanche riproporre tipologie insediative già sperimentate. Lo dicevamo anche prima della pandemia: la densità insediativa e lo sviluppo centripeto non si perseguono aumentando gli indici di edificabilità, ma investendo in ricerca urbanistica e architettonica, progettando nuove morfologie abitative, che rappresentino la nostra capacità di cavalcare la condizione critica per progredire. Il contributo della ricerca universitaria, in questo senso, potrebbe essere decisivo, se torna di attualità la questione delle relazioni tra scuola e territorio.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 luglio 2020 • N. 29

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Idee e acquisti per la settimana

Le alici del Mar Cantabrico

Novità Una fresca prelibatezza va ad arricchire

l’assortimento ittico di Migros Ticino

Filetti di alici Rizzoli «Le Rustiche» 80 g Fr. 4.95

Filetti di alici Rizzoli «Le Intere» 80 g Fr. 3.40

Filetti di alici Rizzoli «Le Marinate» MSC 80 g Fr. 4.80

Filetti di alici Rizzoli «Le Dolci» MSC 80 g Fr. 4.95

In vendita nei reparti freschi delle maggiori filiali Migros

100% senza glutine Novità Scopri le due nuove paste dedicate a chi è affetto

da intolleranza ma non solo

In vendita fuori frigo al reparto pasta delle maggiori filiali Migros

Tortellini al prosciutto crudo Le Veneziane 250 g Fr. 6.30

Soffrire di un’intolleranza alimentare non vuol certo dire rinunciare alla bontà. Le nuove paste ripiene «Le Veneziane» senza glutine sono una genuina e gustosa idea non solo per i celiaci, ma anche per coloro che cercano un’alternativa valida e di qualità per ampliare e arricchire la propria alimentazione quotidiana. Inoltre risultano partico-

Tortelloni ricotta e spinaci Le Veneziane 250 g Fr. 6.30

larmente digeribili. Tutta la freschezza della ricotta di mucca e la leggerezza degli spinaci si sposano a meraviglia con la delicatezza del tortellone 100% senza glutine, per un piatto ricco di sapori perfetto in ogni occasione. Chi preferisce le paste di piccolo formato, troverà nei tortellini al prosciutto crudo di che soddisfare la propria voglia di

un piatto classico fedele alla migliore tradizione italiana. Le paste ripiene «Le Veneziane» gluten free posseggono una sfoglia corposa, fatta con la migliore farina di mais, ruvida al punto giusto per trattenere al meglio i sughi più variegati. Sono pronte in soli 2 minuti, cuocendole in acqua bollente non salata.

Gli amanti delle specialità di mare più ricercate saranno felici di assaggiare le nuove alici fresche del noto marchio italiano Rizzoli, disponibili in quattro varianti diverse. Le acciughe vengono pescate in modo sostenibile in primavera, quando sono più carnose, nel nord della Spagna, nel Mar Cantabrico. Le acque fredde e profonde di questo mare si caratterizzano per la ricchezza di ossigeno e plancton, condizioni ideali che rendono le carni delle alici particolarmente tenere e saporite.

Una volta pescati, i pesci sono subito lavorati a mano sul luogo di pesca, al fine di preservarne il sapore intenso e l’elevata qualità. Le alici Rizzoli sono ottenibili in quattro appetitose varietà: «Le Dolci» con il 25% di sale in meno e confezionate in olio di semi biologico, «Le Marinate» con marinata all’olio di agrumi per un piatto fresco e gustoso, «Le Intere» fatte come una volta per esaltare tutto il sapore tipico della tradizione e «Le Rustiche» con pelle all’olio di semi biologico e con meno sale.

Efficace contro le zanzare Attualità La Catambra è l’unica

pianta ornamentale che funziona contro i fastidiosi insetti Ideale sia per gli spazi interni che esterni, la Catambra è in grado di esplicare un effetto repellente verso le zanzare in modo assolutamente naturale, grazie alle sue foglie contenenti catalpolo. Questa sostanza è presente in quantità quattro volte superiori rispetto ad altre piante, e costituisce un mezzo assolutamente biologico per contrastare fastidiosi parassiti. Oltre alla sua efficacia, la pianta ornamentale è anche bella da vedere, e rappresenta un’idea originale per valorizzare il vostro giardino o balcone. Dopo l’acquisto, la pianta va piantumata in un vaso più capiente o in piena terra affinché possa crescere nelle condizioni migliori. Bagnare ogni 2-3 giorni se in vaso o 4-6 giorni in terra. Per ricreare una bella siepe in giardino, effettuare un canaletto profondo 15 cm e posizionarvi la piantina con il suo pane di terra, coprire e bagnare subito abbondantemente. Lasciare uno spazio di 50/60 cm tra una pianta e l’altra. La Catambra resiste bene al freddo.

Catambra Fr. 29.– In vendita nei reparti fiori e Do it + Garden Migros


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Società e Territorio

Verso il mondo del lavoro

Scuole universitarie Una pubblicazione curata dall’Ufficio cantonale di statistica assieme a Università della Svizzera

italiana e Scuola universitaria professionale fa il punto sul passaggio dallo studio al lavoro Fabio Dozio In Svizzera i giovani che scelgono studi universitari o scuole universitarie professionali non rimangono disoccupati. Non è però sempre facile trovare un lavoro soddisfacente al termine degli studi. Sono osservazioni confermate dalla recente ricerca Dalle scuole universitarie svizzere al mondo del lavoro pubblicata dall’Ufficio di statistica del Canton Ticino. Anna si laurea in psicologia a Losanna, l’Università che figura ai vertici delle scelte degli studenti ticinesi. Torna in Ticino dove non trova lavoro come psicologa, ma viene assunta in qualità di educatrice al Centro di Pronta Accoglienza e Osservazione (PAO) della Fondazione Torriani di Mendrisio. Dopo un paio di anni di esperienza ottiene un posto di psicologa a Ingrado a Lugano, dove si occupa di consulenza e terapia nell’ambito della tossicodipendenza. Infine sceglie il mondo della scuola, che per una futura mamma offre maggior tempo libero: diventa docente di sostegno pedagogico, con un incarico al 50%. La famiglia e la scelta di far figli portano spesso anche le laureate a svolgere un lavoro a tempo parziale. La ricerca curata dall’Ufficio di statistica analizza tre aspetti: la transizione nel mercato del lavoro dei laureati provenienti dal Ticino, dei laureati all’USI e dei diplomati alla SUPSI. Sono stati analizzati i dati che vanno dal 2010 al 2016, periodo in cui il numero dei laureati è cresciuto in ognuno dei gruppi considerati. Dei laureati provenienti dal Ticino poco più della metà ottiene la licenza fuori cantone. A un anno dalla fine degli studi il 95% dei laureati provenienti dal Ticino lavora, percentuale che vale anche per chi esce dall’USI. Mentre i diplomati SUPSI ottengono un lavoro nella misura dell’84%. La SUPSI offre un bachelor e quindi molti giovani preferiscono continuare la formazione per conseguire un master. I laureati dell’USI sono svizzeri nella misura del 27%, a fronte del 73% di stranieri di oltre 100

nazionalità, in maggioranza italiani. L’Università della Svizzera italiana non è diventata un «ghetto per ticinesi» come qualcuno forse paventava. Al contrario, è piuttosto un’università per stranieri. Il rettore dell’USI Boas Erez ha ripetuto in più occasioni di voler vedere un numero maggiore di indigeni iscritti all’università di casa, così come fanno, in maggioranza, gli studenti d’oltralpe che hanno un ateneo nella loro regione. Rocco dopo il Liceo si iscrive al Politecnico di Zurigo, facoltà di scienze ambientali. Conclusa la formazione in una delle scuole svizzere più prestigiose cerca lavoro, ma si trova confrontato con molte offerte di incarichi precari. Stage sottopagati con promesse di sviluppo, incarichi a tempo parziale in start-up che devono costruirsi un futuro. Dopo un paio di mesi di ricerche insoddisfacenti decide di proseguire gli studi e di svolgere un dottorato spostandosi all’università di Ginevra. Ottiene il PhD in scienze farmaceutiche e si accinge a cercare lavoro. Qui i giovani si scontrano con una realtà piuttosto diffusa. Molte aziende e ditte cercano personale qualificato (laurea o dottorato) ma con esperienza, requisito che un giovane fresco di studi non sempre è in grado di offrire. Diversi potenziali datori di lavoro propongono al giovane di continuare gli studi affrontando un post dottorato. Da Washington riceve una proposta allettante di postdoc dall’Istituto della sanità degli Stati Uniti, a Bethesda. Lui ha però voglia di lavorare e di consolidare la sua posizione e nel giro di due mesi dall’ottenimento del dottorato trova un posto di lavoro a tempo pieno quale ricercatore (scientific project manager) in una giovane azienda biotech di Zurigo: stipendio adeguato e buone condizioni di lavoro. Un dato interessante e che fa riflettere è che il 60% degli studenti provenienti dal Ticino e laureati oltre Gottardo, sei su dieci, lavora fuori dal Ticino a un anno dalla fine degli studi. Si tratta di fuga di cervelli? L’analisi non prende in considerazione questo fenomeno.

Per chi decide di restare oltralpe si citano «dove abita il/la partner, la famiglia o gli amici». Strano che non si consideri il fatto che il Ticino, verosimilmente, non può offrire occasioni di lavoro adeguate a tutti i laureati o a coloro che hanno conseguito specializzazioni di alto livello. «Colpisce l’elevata correlazione tra sedi di studio e di lavoro – annota Mauro dell’Ambrogio, ex segretario di Stato per la formazione a Berna, nella prefazione dell’opuscolo – chi non taglia il cordone ombelicale con gli studi lo fa difficilmente dopo. Che solo il 40% dei ticinesi laureati altrove lavora in Ticino spiega perché sul mercato del lavoro qui, credo di poter supporre più come effetto che come causa, li suppliscano immigrati e frontalieri». Per contro, i laureati all’USI tornano nei paesi d’origine (Italia in testa) nella misura del 40%, il 37% lavora in Ticino e il 23% nel resto della Svizzera. Viola dopo le medie si iscrive alla Scuola di Diploma (oggi Scuola Specializzata per le Professioni Sanitarie e Sociali), consegue la maturità professionale, frequenta la Scuola cantonale degli operatori sociali e intraprende il tirocinio di monitrice di asilo nido. In questo campo è facile scontrarsi con nuove forme di precariato, in quanto gli asili nido privati non offrono condizioni di lavoro paragonabili agli istituti pubblici. È un problema che riguarda la Svizzera intera e negli ultimi anni il Consiglio federale ha investito in questo settore per migliorare la situazione. Dopo l’esperienza lavorativa, Viola decide di riprendere gli studi e si iscrive alla SUPSI, che concluderà con un diploma di assistente sociale. Ciò le dà la possibilità di entrare immediatamente nel mondo del lavoro con un incarico qualificato all’Associazione delle famiglie diurne. La posizione professionale dei neolaureati a un anno dal titolo dipende fortemente dal tipo di formazione svolta, annota lo studio. I laureati delle Università risultano più spesso stagisti o dottorandi rispetto ai laureati delle SUP. Tra gli universitari che concludono gli studi, il 55% ha ottenuto un con-

Studenti universitari: a un anno dalla fine degli studi il 95% ha un lavoro. (Keystone)

tratto a tempo determinato (stagisti o dottorandi). All’USI questa percentuale è solo del 38% e alla SUPSI del 27%. Il contratto delle donne è più sovente a durata determinata rispetto a quello degli uomini. Molto diffuso anche il tempo parziale, che riguarda un terzo degli attivi. Chi lavora a tempo parziale desidera un tempo pieno, ma non lo trova: e fra loro, le donne sono in maggioranza. Questi ultimi dati rivelano situazioni di precariato che hanno ormai una diffusione piuttosto ampia. Le giovani generazioni mettono in conto che la sistemazione professionale non può essere definitiva dopo gli studi e accettano di cambiare lavoro nell’ambito della loro carriera. Per quanto riguarda le buste paga, lo studio rivela che il reddito annuo lordo standardizzato mediano dei neolaureati delle università è all’incirca

di 75mila franchi annui. Per i laureati dell’USI il reddito si ferma a 63mila franchi all’anno, più basso perché il 40% dei giovani sono occupati all’estero, con condizioni salariali peggiori rispetto alla Svizzera. Le tre storie di giovani che abbiamo citato, che passano dal mondo della scuola al mercato del lavoro, ben rappresentano e riassumono i dati contenuti nella pubblicazione dell’Ufficio di statistica. Si riscontra una certa difficoltà a iniziare subito dopo gli studi un lavoro consono alla licenza e ben retribuito, la diffusione degli stage e del precariato, la differenza tra la situazione professionale a un anno o a cinque anni dalla fine degli studi, il ritorno in Ticino per chi dà vita a una famiglia e l’alta percentuale di ticinesi che, se studiano oltralpe, rimangono a lavorare dove hanno studiato.

I due volti dell’intelligenza collettiva

Nuove tecnologie L’intelligenza può emergere anche in gruppi di persone connesse tra loro e può essere usata

per arginare la pandemia, ma anche per fini meno nobili

Si chiama SwissCovid e siamo tutti invitati a usarla. Di che cosa si tratta? Dell’app per cellulari sviluppata dai politecnici federali di Losanna e Zurigo che aiuta a tracciare la diffusione del coronavirus nella popolazione svizzera. L’app sfrutta il potenziale dell’intelligenza collettiva per cercare di arginare la pandemia. E non è l’unico esempio. «In tutto il mondo, l’intelligenza collettiva viene usata per arginare l’espandersi del coronavirus»

dice Kathy Peach, co-responsabile del Center for Collective Intelligence Design di Nesta, la fondazione britannica di global innovation. Gli usi sono i più diversi. «Il primo utilizzo è la previsione della diffusione del virus. Come ha fatto Blue Dot ad esempio» dice Peach. Blue Dot è un’azienda digitale che utilizza l’analisi dei big data per anticipare la diffusione delle malattie infettive più pericolose al mondo. «Il 31 dicembre 2019 Blue dot ha informato i suoi clienti dello scoppio di un virus simile all’influenza a Wuhan – dice Peach. – L’Or-

Pixabay

Stefano Castelanelli

ganizzazione mondiale della sanità ha rilasciato una sua prima dichiarazione sul nuovo virus solo nove giorni più tardi.» In seguito, Blue Dot ha previsto correttamente che il virus passava da Wuhan ad altre città asiatiche. Non solo previsioni, l’intelligenza collettiva viene anche utilizzata per il monitoraggio e l’informazione in tempo reale, per trovare soluzioni più velocemente e per coordinare la ricerca scientifica. A quest’ultimo scopo, governi e organizzazioni internazionali hanno creato task force e banche dati per condividere gli ultimi risultati scientifici sul nuovo coronavirus. La speranza è che la collaborazione tra ricercatori acceleri la ricerca di una cura. L’intelligenza collettiva può quindi essere uno strumento molto potente nella lotta contro il Covid-19 ma non solo. Uomini e computer possono interagire per trovare soluzioni ad altri grandi problemi dei nostri giorni. Ma cos’è l’intelligenza collettiva dopo tutto? «In sintesi, l’intelligenza collettiva è la maggior capacità di gruppi di persone, spesso connesse tramite la tecnologia, di elaborare più informazioni e idee per risolvere i problemi» spiega

Peach. L’intelligenza non è una qualità unica della mente umana, ma può emergere anche in gruppi di individui connessi tra loro e questa caratteristica si chiama intelligenza collettiva. Come sottolinea anche il manuale dell’MIT Center for Collective Intelligence, l’intelligenza collettiva è vecchia tanto quanto l’uomo. Famiglie, eserciti o aziende hanno tutti agito in modo collettivo e intelligente. Negli ultimi decenni però l’intelligenza collettiva è entrata in una nuova dimensione. «Negli ultimi anni, la digitalizzazione ha ampliato le capacità dell’intelligenza collettiva – dice Peach – collegando sempre più persone e potenziando l’intelligenza umana tramite i computer.» L’esempio più semplice di intelligenza collettiva è un team che completa con successo un compito. Un’interazione più complessa è invece Wikipedia: l’enciclopedia più estesa al mondo è il risultato di milioni di autori che collaborano tra loro su una piattaforma digitale per condividere le loro conoscenze. Wikipedia mostra quanto può essere potente l’intelligenza collettiva. Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia. La stessa tecnologia che ci con-

nette può essere usata anche per creare un nuovo sistema di controllo digitale. E se fosse già realtà? Come riporta un documentario di ARTE, più di 500 milioni di telecamere presenti in tutto il mondo consentono alle autorità di identificare tramite il riconoscimento facciale non solo i criminali ma persino di capire lo stato emotivo dei cittadini. E in tempi di pandemia, allo scopo di proteggere la salute della popolazione, i governi hanno la possibilità di implementare sistemi di controllo e sorveglianza ancora più sofisticati. Non il governo svizzero però. L’app SwissCovid protegge la privacy dei cittadini. Altri paesi hanno agito diversamente. «La Corea del Sud ha introdotto un’app per i pazienti infetti che tramite il GPS controlla i loro movimenti per assicurarsi che le persone non violino la quarantena» dice Peach. E se questa nuova sorveglianza diventasse la norma? «È possibile che nuove forme di controllo della popolazione persistano dopo la fine della pandemia» afferma Peach. Come per tutte le nuove tecnologie, anche l’intelligenza collettiva può essere utilizzata per fini nobili o meno nobili. Sta a noi decidere come sfruttarla.


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Società e Territorio

Pietre e natura della Val Vegornèss

Itinerario etnografico In cima alla Valle Verzasca una bella passeggiata si snoda lungo il fiume da Sonogno a Cabiói

e oltre, tra pascoli, pietre, nuclei, cascine, fregère e sprügh

Elia Stampanoni Per scoprire la Val Vegornèss è necessario risalire la Valle Verzasca, lasciandosi alle spalle il Piano di Magadino, s’oltrepassano la diga, i nuclei caratteristici, i ponti storici, le pozze e, risalendo il fiume che scorre limpido, si raggiunge Sonogno. Qui inizia l’itinerario etnografico, promosso nel 2015 dal Museo Val Verzasca e dall’organizzazione turistica Lago Maggiore e valli con il supporto anche del Centro di dialettologia e etnografia di Bellinzona. Un tragitto di circa sette chilometri (a cui aggiungere il ritorno), percorribile in gran parte anche in bicicletta (fino a Cabiói) e che porta il turista dai 918 metri di Sonogno ai 1150 di Gann (o Ganne), dov’è posto l’ultimo dei sei punti d’interesse segnalati. Una passeggiata che costeggia il fiume Verzasca, il quale accompagna la visita con i suoi rumori, la sua acqua e le sue rocce, rendendo la gita sempre più solitaria e silenziosa, come suggerisce anche l’opuscolo informativo: «la strada asfaltata si trasforma dapprima in terra battuta poi in un sentiero a fianco del fiume, mentre la presenza umana si dirada e lascia spazio ai molti sassi e alla tipica vegetazione alpina». Sassi che, assieme al verde della flora e all’acqua, sono effettivamente tra gli elementi caratteristici: sia con le impervie rocce delle montagne arricchite da ruscelli e cascate che scendono dai versanti, sia con i massi a tratti rossicci del fiume. Senza dimenticare case, cascine e le altre co-

struzioni che s’incontrano risalendo la Val Vegornèss, tutte o quasi rigorosamente edificate in pietra. L’avvio è quindi dal nucleo di Sonogno, ultimo villaggio della Verzasca, che conta oggi un’ottantina di residenti e si trova all’intersezione di due valli: la citata Vegornèss e la Redòrta. Come riporta la descrizione dell’itinerario, «Sonogno negli ultimi decenni è diventato un’apprezzata meta turistica», e lo si nota dall’importante valorizzazione del patrimonio culturale: la casa della lana, il museo etnografico e il forno del pane, che si possono visitare all’inizio o alla fine dell’escursione. In direzione nordest s’imbocca quindi la Val Vegornèss che inizialmente sale dolcemente, lambendo case d’abitazione, alcuni rustici riattati e, poco più avanti, due aziende agricole. Da qui ci si lascia velocemente alle spalle anche la «vita di paese» e la natura diventa ancor più protagonista. Si toccano gruppi di case o cascine a Pinell, Rescadèla (Reschedèla) o Secada, dove l’itinerario propone uno spunto di riflessione sulla strada principale della Verzasca, che nel XIX secolo sostituì l’antica mulattiera. La carrozzabile arrivò a Sonogno solo nel 1873, portando però «nuove opportunità e una ventata di modernità». Sbarrata al traffico veicolare, se non quello agricolo o dei proprietari con autorizzazione del patriziato, è invece la strada della Val Vegornèss, lungo la quale si snoda la prima parte dell’itinerario. Dopo la località di Val e dopo qualche salitella,

Il suggestivo nucleo di Cabiói. (E. Stampanoni)

un pannello didattico al bivio per Cognora, presenta la «serra di Cabiói», ossia uno sbarramento artificiale del fiume con cui in passato s’accumulavano importanti quantità d’acqua che, dovutamente regolate, permettevano di trasportare a valle il legname prima di proseguire sul lago. Un’attività in uso fin verso l’avvento della rete viaria e di cui oggi rimangono due anomali ammassi di pietrame. In un attimo si giunge di seguito al suggestivo e pittoresco nucleo di Cabiói, con i suoi rustici riattati, oggi apprezza-

to luogo di soggiorno ma che in passato ospitava gli alpigiani con il loro bestiame prima e dopo la stagione all’alpe. Con una breve deviazione si oltrepassa il fiume Verzasca e, tornando per cinque-dieci minuti di cammino sull’altro versante, s’arriva a delle costruzioni in pietra, basse e incastonate nella montagna, le fregère. Alcune sono state parzialmente ripristinate su iniziativa della Fondazione Verzasca e sono una sorta di «antichi frigoriferi» che, grazie alla loro ubicazione (sfruttando l’aria che circola nella sottostante pietraia),

permettevano di mantenere al loro interno un ambiente fresco e adatto per la conservazione degli alimenti, soprattutto di latte e latticini. Cabiói è di fatto un maggengo dove gli animali fanno tuttora una tappa intermedia durante la salita all’alpeggio e dove in passato veniva anche trasformato il latte munto, il quale trovava nelle fregère il luogo ideale per essere conservato. Sempre legata al mondo della pastorizia e dell’allevamento è anche la tappa di Gann o Ganne, a circa 20 minuti di cammino da Cabiói. Si raggiunge percorrendo un sentiero sassoso di montagna dove nella stagione estiva non è raro imbattersi anche in capre al pascolo, alla ricerca di un po’ di frescura all’ombra di qualche masso o delle fronde degli alberi. Qui è segnalato uno degli sprügh presenti nella zona, ossia le costruzioni sotto roccia di cui si servivano i pastori (e il bestiame) durante la loro transumanza da e verso l’alpeggio. Nei pressi dello sprügh principale, quello destinato al pastore, un pannello didattico riporta anche il ricordo in prima persona di Ettore Rossi (1933), mentre entrandovi si può solo immaginare come i pastori potessero qui trascorrere alcuni periodi a inizio e a fine estate. Lo sprügh di Gann è ricavato sotto un imponente macigno, completato con alcuni tratti di muri a secco e mostra ancora lo spazio per il focolare e alcuni oggetti usati in questi momenti. L’escursione può ora tornare a Sonogno, oppure continuare verso l’alto, collegandosi alla Via Alta della Val Verzasca. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

In barca, in bici, a piedi tra arte e storia Pubblicazioni In Passeggiate sul lago di Lugano Lorenzo Sganzini

ci guida alla scoperta di trenta chiese e monumenti storici

Ada Cattaneo Se il mar Mediterraneo riunisce attorno a sé un bacino di paesi uniti da comuni fattori culturali ed ambientali, potremmo tentare di guardare al Ceresio nella stessa ottica. Certo, su scala diversa. Eppure, anche qui, una distesa d’acqua unisce territori divisi politicamente, ma con un innegabile nesso culturale. Un segnale di questa unità si potrebbe ritrovare proprio nei monumenti storici che si affacciano sulle sue acque. Lorenzo Sganzini, nel suo libro appena uscito Passeggiate sul lago di Lugano (ed. Casagrande), sembra proprio applicare questa visione, in un esercizio di esplorazione del territorio imperniato sulle chiese che sorgono (più o meno direttamente) in riva al Lago di Lugano. Sono trenta le mete visitate dall’autore, scegliendo barca, bicicletta e cammino per raggiungerli. Tutti sono luoghi di devozione, con l’eccezione di tre tappe, fra cui spicca non a caso Villa Fogazzaro Roi ad Oria. Sganzini racconta come il progetto sia nato proprio dall’esperienza fatta in occasione della mostra da lui curata presso il Museo delle dogane svizzero nel 2018 – «Un piccolo mondo antico» – dedicata all’opera dello scrittore vicentino che sulle rive del Ceresio veniva in villeggiatura. Spiega Sganzini: «Proprio in quel periodo, per la preparazione della mostra, cominciai a girare con più attenzione in quelle zone della Valsolda e del lago che fanno da cornice alle vicende narrate da Antonio Fogazzaro. Ritrovavo i luoghi da lui descritti e decisi di cominciare a scriverne, sentendoli sempre più miei. È proprio da lì che ha preso corpo il libro che è ora in uscita». Per distanziarsi dalla rischiosa categoria della «storia locale» l’autore ha messo in atto un continuo lavoro di rimandi esterni: «Per me uno dei grossi problemi da risolvere era come parlare di questi luoghi senza illudersi che siano l’ombelico del mondo. Uno spunto per aiutarmi ad affrontare la questione mi è venuto dalla mostra 14 artisti. Via Crucis che nel 2018 è stata organizzata presso il santuario della Madonna d’Ongero». In quell’occasione artisti contemporanei erano stati invitati a ripensare le cappelle che accolgono chi arriva su questa collina a poca distanza dal nucleo di Carona. Questa esperien-

La Masseria di Torello, nel Medioevo era un monastero. (Incisione su rame, acquaforte e puntasecca di Francesca Sganzini)

za ha rappresentato per Sganzini uno schema valido, una chiave di volta per cominciare a parlare del patrimonio storico ticinese sempre con uno sguardo all’altrove. Questo gioco di contrappunti si nutre talvolta di rimandi letterari e cinematografici, ma spesso è l’arte contemporanea ad offrire nessi utili ad estrapolare i monumenti ticinesi dal loro isolamento. L’arte del racconto nasce spesso dal sapere gestire il contrasto, la giustapposizione di elementi che ad una prima analisi appaiono inconciliabili. Così accade per la scelta di Sganzini di occuparsi prevalentemente di luoghi della fede cristiana, che convive con la sua limpida dichiarazione di ateismo, retaggio familiare ancor più che scelta privata. «Le chiese nei nostri territori sono i massimi depositari della storia, che pure si proiettano nel presente. Io sono attratto da questi luoghi. Percepisco la vertigine del tempo, la sua profondità proprio grazie alla spiritualità di simili edifici, a prescindere dalla confessione religiosa. Anche se una persona è non credente, la ricerca di una dimensione spirituale del sacro è possibile. Hermann Hesse è un caso esemplare di questo atteggiamento. Non era credente, ma più di tutti ha portato in superficie la dimensione spirituale delle nostre chiese, dei nostri paesaggi, rimanendone fortemente attratto». È proprio con un ricordo delle passeggiate di Hesse alla Madonna d’Ongero che si apre il libro. Un autore

quest’ultimo che abbraccia nord e sud nel suo amore per il Ticino, mettendo nelle pagine dedicate ai nostri territori un esotismo ed insieme una spiritualità che forse non sempre noi riusciremmo a vedere. Un’esperienza determinante per allenare lo sguardo di Sganzini sono state le lunghe tratte che ha percorso a piedi sulle grandi vie del pellegrinaggio. «La misura di un edificio si coglie anche nel modo in cui ci si arriva. Soprattutto in passato c’erano ragioni ben precise per edificare lungo un percorso. Ho cercato di cogliere quelle ragioni originarie. Chi le ha realizzate le raggiungeva in un modo ben diverso da oggi. Dalla Via Francigena, dal Cammino di Santiago ho imparato la lentezza. In Ticino ho cercato di applicare un uguale metodo con barca e bicicletta, oltre che a piedi. Come si potrebbe capire la struttura di Santa Maria dei Ghirli a Campione se si arriva dalla strada? Non si può cogliere la ragione d’essere di Sant’Antonio a Morcote se non si considera che era posta proprio all’imbocco del sentiero per Lugano». Nel solco di quell’idea di «Lombardia elvetica», Sganzini condivide con il lettore la sua fascinazione per il Ceresio, cercando di guardare all’unità del territorio, al netto dei confini nazionali e delle obbligate rotte consuete. La matrice culturale che accomuna tutti i luoghi raccontati si propone come proposta per un contemporaneo turismo lacustre.

La Belle Époque in riva al lago Mostre Il Museo delle dogane ospita

i manifesti della Biblioteca nazionale svizzera Il 22 maggio 1882 il primo treno, in viaggio da Lucerna a Milano, attraversa la nuova galleria del Gottardo e, da qui per i successivi vent’anni, il Ticino diventa un grande cantiere dedicato alla realizzazione dei più lussuosi alberghi, affiancati da parchi ricchi di vegetazione subtropicale, e delle più avveniristiche vie di comunicazione, per accogliere al meglio la più coltivata borghesia europea che aveva appena scoperto le gioie del turismo. I laghi insubrici costituivano una delle mete predilette dagli stranieri, poiché coniugavano condizioni climatiche favorevoli, nuove strutture ricettive e, rispetto ai laghi più a nord, un tono mediterraneo che li rendeva piacevolmente esotici. A questa prima ondata si andò ad aggiungere il turismo sanatoriale, un altro interessante capitolo che ha lasciato sul territorio ticinese architetture come quelle del Monte Verità, di Cademario e di Piotta. Fino al 18 ottobre è possibile visitare, presso il Museo delle dogane svizzero alle cantine di Gandria, una selezione di manifesti dedicati al turismo lacustre durante la Belle Époque, realizzati fra gli anni ottanta dell’Ottocento e lo scoppio del primo conflitto mondiale. La curatela della mostra è ad opera di Lorenzo Sganzini.

I manifesti esposti raccontano Ceresio, Verbano e Lario in un’unica regione, presentata in un pastiche di elementi, che attingono ai cliché di mete ben più famose, fra Venezia e Napoli, Lucerna e le Alpi. D’altronde i manifesti erano destinati a richiamare visitatori raffinati dalle grandi metropoli europee, dove verosimilmente ben poco si sapeva del Ticino e degli «indigeni», rappresentati come simpatici contadini dai piedi scalzi, intenti a raccogliere frutta o a bagnarsi nelle acque del lago. Sempre interessante osservarsi attraverso lo sguardo altrui… Ma in realtà l’arrivo a Lugano avrebbe riservato numerose attrazioni adatte ai raffinati ospiti, dalle gite in piroscafo ai concerti della Filarmonica di Lugano, dalle lussuose botteghe del centro agli spettacoli teatrali o, per i più fortunati, esclusivi ricevimenti in dimore private ricche di arte e cultura internazionale. /AC Dove e quando

Belle Époque. I laghi prealpini nei manifesti della Biblioteca nazionale svizzera, Museo delle dogane svizzero (Cantine di Gandria), ma-do 12.0016.00, lunedì chiuso, fino al 18 ottobre 2020. www.museodogane.ch

I manifesti esposti sono stati realizzati fra gli anni ottanta dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Claudia Flandoli, Sulle tracce del DNA, Editoriale Scienza. Da 11 anni ClaudiaFlandolisièlaureatainbiologia ehapoistudiatoillustrazioneegrafica, diventandodisegnatricedifumetti: questadoppiaformazionelarende un’autricesicuramentecompatibilecon lamissiondiEditorialeScienza,quella cioèdifaredivulgazionescientificaseria ealcontempovivace.Competenzae brio,insomma.Cosìèinfattiancheper questarecenteproposta,chespiegala geneticaconungraphicnovel.Un’avventuraafumettitranucleotidi,nucleosomi,ribosomi,proteinetuttofare,congli altriaffascinantiprotagonistidiquesto viaggio«sulletraccedelDNA».Unviaggiochecompionodueragazze,gemelle, AmbraeBlu.Inrealtàlorosonostate createdallamatitadell’autrice,chesi mettedirettamenteinscenanellastoria, disegnandolenelleprimepagine,come seavessedisegnatounodeisuoilettori. Ecco,tuseifattocosì.Maperchécihai fattepropriocosì?,lechiedonoAmbra

eBlu,perchéabbiamodueocchienon tre?Eperchéabbiamoicapellidiquesto colore?Nonèmicafacileindovinare comeseifatto,carolettore,rispondein sostanzal’autrice,perchésiamotutti diversi.Consomiglianze divariogrado, nelcasodeiparenti,ealtissimenel casodeigemelli.Lascienzachestudia questecosesichiamagenetica, spiega l’autricealledueragazzeche,incuriosite, decidonodilanciarsiallascopertadelle suemeraviglie.Eccolealloradiventare microscopiche,tantodafinireall’internodiuncorpoumano,epoterne vedere,anzivisitare,lecellule,finoad attraversareleparetidelnucleo.Daqui l’avventurasifaràdensadiscoperteedi

incontriepaginadopopagina,vignetta dopovignetta,AmbraeBlu,econloro igiovanilettori,siaddentrerannonei misteridellagenetica,avvicinandoli intuttalalorocomplessabellezza. L’espedientemetaletterariodellastessa autrice/disegnatricechesimettedentro ilfumetto,rimpicciolendoAmbraeBlu perspedirledentrounacellula(eanche fornendol’illuminazionealsuointerno, senonoilettorinonvedremmonulla, «masappiatecheinrealtàlalucedentro nonarriva»)èefficaceedivertente.Ogni capitolodellastoriasiconcludeconun focusdiriassuntoeapprofondimento,a garantireilrigorescientifico. Emanuele Luzzati, La tarantella di Pulcinella, Interlinea. Da 5 anni DopoRodariePininCarpi,dicui quest’annosisonocelebratiicentenari, ilprossimoannosaràilturnodiun altrograndemaestroitalianodell’illustrazioneedell’arte:EmanueleLuzzati. Scenografo,artista,illustratore,architettohonoriscausa,LeleLuzzatispaziòa

tuttocampo,dallibro,alteatro,all’opera, alballetto,agliallestimentinavali,al cinemad’animazione,perilqualefu duevoltecandidatoall’Oscar,conLa gazzaladraeconPulcinella.ÈproprioLa tarantelladiPulcinella illibrochevisegnalooggi,inoccasionedellasuanuova edizioneperl’editoreInterlinea,cheha incatalogoalcunititolidell’autoreeche stapreparandolariedizionedialtri. Tarantella,tarantella/tarantelladi Pulcinella./Pulcinellaerapoveroin canna/evivevainunacapanna/senza porta esenzatetto/elapagliaerailsuo letto.Cominciacosìlastoria,inrima, vivificatadalleillustrazioninell’incon-

fondibilestiledelmaestro;edèunastoria cheriprendelafiabatradizionaledel «Pesciolinomagico»,conilpescatorePulcinellachesalvailpesceenehain cambiolarealizzazionediundesiderio. Unabellapastasciuttaperlamiafamiglia eperme,chiedesobriamentePulcinella, maaquestasobrietàfadacontraltare l’aviditàdellamoglie,chenonèmaisazia didesideri:«vogliounvestito,voglioun visone/edunmaritomenostraccione, /vogliodeifigliconguantiegilè/etre cappellieunmantelloperme:/livoglio subito,inquestomomento/senovedrai, pesced’argento!».Ilfinale,però,rispetto allafiabaèpiùoniricoesorridente:«Il mondoèbuffo,lavitaèbella,/masembra tuttounatarantella...».Untrascinante cantoallavitadapartediunartistache tral’altrotrascorsepartedellagiovinezza inSvizzera,dovesirifugiòdurantele leggirazziali,edovesidiplomòall’École desBeaux-ArtsetdesArtsAppliquéesdi Losanna.Unartistadanondimenticare, dicuisperiamoilcentenariociporti nuoveoccasionidiriscoperta.


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Fahrenheit 451, Yucatan style Siamo nei primi anni della seconda metà del Cinquecento, in un villaggio del Caciccato di Cupules, una vasta regione nel Nord dello Yucatan (Messico contemporaneo) a malapena ancora controllata con efficacia dai Conquistadores e dalle loro truppe di rincalzo – quei missionari francescani ai quali era stata concessa l’esclusiva di convertire l’intera regione dove sopravvivevano attivi nuclei di resistenza Maya. Un pubblico di fedeli di trecento persone è radunata nella plaza del villaggio di fronte ad un altare sul quale campeggiano le figure delle divinità locali. Un ragazzino viene trascinato fino all’altare ed i sacerdoti avviano il rituale per il sacrificio. D’un tratto sono rumori da tafferuglio. Grida d’alterco, imprecazioni in Maya e in Castigliano. Pugni, spinte, strattoni. Poi irrompe sulla plaza la figura di un frate francescano, sguardo spiritato, visibilmente alterato. Afferra la giovane vittima e trancia le corde che la legano. Si rivolge agli idoli in terracotta e li sfascia al suolo. La folla

ammutolisce. I sacerdoti fanno un passo indietro. Silenzio. Ripreso fiato, il frate scruta i presenti uno ad uno. Poi, in buon idioma Maya, inizia a predicare contro gli idoli e i loro inganni a favore di un Dio che invece ha sacrificato sé stesso per salvarci dalla siccità e dalle malattie. Il suo zelo e la sua sincerità erano tali da indurre la folla a pregarlo di rimanere ed insegnare loro di più di questo dio strano e meraviglioso. Così il francescano Lopez de Cogulludo, il maggiore biografo di una delle figure più di spicco e controverse dell’intera storia della conquista delle Americhe. Diego de Landa Calderón, O.F.M. era nato a Cifuentes, nella provincia spagnola di Guadalajara. Entrato nell’ordine francescano nel 1541, nel 1549 fu selezionato ad essere membro del primo contingente missionario nel Yucatan, presso la Missione di San Antonio a Izamal. Prima e fondamentale preoccupazione di questi pionieri missionari d’assalto era di mettere fine alla pratica dei sacrifici

umani secondo le antropologiche elaborazioni simboliche rese celebri nella rinnovata controversia sul diritto alle pratiche culturali rinfocolata di recente dal film Apocalypto (2006). Come è del tutto probabile, nelle zone periferiche ancora relativamente toccate dalla Conquista, non solo le pratiche religiose tradizionali continuavano, ma acquisivano maggior forza nel tentativo di placare l’ira degli dei che aveva portato di conseguenza la catastrofe di un’intera civilizzazione per opera di una manciata di avventurieri dediti ad un dio altro. Qui, dunque, il sacrificio umano era forse aumentato in frequenza. Se con Abramo ed Isacco si era affermata la linea di pensiero religioso che metteva fine ai sacrifici umani, col sacrificio di Cristo gli ordini dei fattori si erano invertiti ed il risultato era radicalmente cambiato: col sacrificio di dio stesso era finita l’era del sacrificio come atto di scambio vita-per-vita per inaugurare l’era del «dare» come puro atto d’amore, senza contropartita: Dio

ha dato la sua vita per il Mondo. Eradicare la pratica del sacrificio umano costituiva dunque per i primi francescani dello Yucatan una priorità non solo «religiosa», ma anche e soprattutto antropologica, proprio in quanto radicata nella logica cognitiva del Sacrificio di Dio. Atto fondante prima, e discrimine poi, della specificità del messaggio evangelico, la fine del sacrificio umano era banco di prova ineluttabile. Diego de Landa si dedicò alla missione con un impegno dagli esiti paradossali. Il suo impegno per la conversione delle zone più remote dello Yucatan gli valse una fama sempre più vasta. La conoscenza minuta della cultura e della lingua Maya lo portò alla stesura dell’opera Relaciòn de las cosas de Yucatàn che completò attorno al 1566. Per quanto giunto a noi monco di parti importanti, la versione pubblicata nel 1666 sulla cultura, la lingua e la religione dei Maya è ancora considerata la più importante fonte di conoscenze

sulla civiltà Maya. Con un improvviso colpo di scena, Diego de Landa fu rimpatriato in Spagna per rispondere all’accusa di aver ordinato un’Inquisizione nella diocesi nella quale operava abusando del suo ufficio, ovvero senza l’approvazione dell’autorità vescovile. L’accusa cadde, e nel 1569 Landa divenne il secondo vescovo dello Yucatan. All’apice dell’Inquisizione da lui ordinata dunque, 27 codici e 5000 effigi degli dei Maya erano stati messi al rogo il 12 luglio 1562. Dei codici Maya ne sarebbero restati solo tre, più uno frammentario. Sintesi e morale della favola: uno zelota fondamentalista contribuisce a distruggere la documentazione più importante della civilizzazione della quale diviene il maggiore testimone. Proprio per questo viene messo sotto processo dagli stessi che pure gli hanno dato il mandato in prima battuta. Historia magistra vitae? Sì, forse. Ma prima stipuliamo una polizza assicurativa.

sempre, in chi sa leggerla, un vortice inesausto di pensieri, quasi il suo significato fosse troppo arduo e complesso per le nostre menti. Di fatto non esiste un solo Dio né nel tempo né nello spazio: ogni civiltà lo rappresenta in modo diverso benché esprima le medesime domande sul significato e il senso della nostra povera vita. Lei osserva che, per la massa, Dio è una figura antropomorfa, una proiezione dello stato d’animo del momento. Freud direbbe che è così perché costituisce l’interiorizzazione del padre reale, il ricordo della presenza forte e protettiva che ha rassicurato la nostra infanzia. Ma poi Freud stesso, oltrepassando quella spiegazione psicologica, s’inoltra in concettualizzazioni teologiche di ben altra portata. Proprio per sottrarre la concezione della divinità alle strettoie autobiografiche, ebraismo e islamismo proibiscono, con l’iconoclastia, la rappresentazione della divinità. Ma credo che anche nelle persone più colte, più introdotte negli studi teologici, permanga, accanto al concetto astratto e formale di Dio, l’immagine infantile del Padre buono. È a lui che ci rivolgiamo nel momento del

bisogno, quando la paura, la solitudine e il dolore sembrano travolgerci, è a lui che con voce tremante chiediamo aiuto e conforto quando il prossimo sembra abbandonarci. La fede, che risponde all’insufficienza della ragione, ci dice che Dio è ben altro, che trascende la realtà, che è eterno, infinito e onnipotente, oggetto di una ricerca che non ha avrà mai fine. Eppure lei l’ha riconosciuto, non in una istanza metafisica, ma nel corpo morto di suo genero, un giovane che il vostro amore aveva collocato nella posizione di figlio. Non a caso il Dio cristiano si è incarnato in un corpo umano e come tale ha vissuto, sofferto e affrontato la morte. Delle tre figure trinitarie lo Spirito Santo è la più teologica ma le altre due, padre e figlio, sono quelle che sentiamo più vicine a noi, più responsabili della nostra sorte. Il Dio dei filosofi, di Platone e di Kant, astratto e formale, depurato da ogni scoria infantile, ci convince razionalmente ma non ci coinvolge emotivamente, non ci rende «folli» di passione, come San Francesco. È significativo che lei sia uscito dal gorgo del lutto grazie al sorriso della

sua nipotina, alla gioia di vivere della piccola Gaia che, del padre, rappresenta la prosecuzione nella catena delle generazioni. Vuol dire che Dio s’incarna nel volto dell’altro, che è nelle relazioni umane più intense e più vere che si sperimenta la dimensione del sacro, l’incidenza di un tempo verticale che spezza la continuità lineare del tempo cronologico, facendo intravvedere, in uno squarcio violento del presente, la trascendenza che ci rende umani. A questo corrisponde forse il meteorite sfaccettato su cui lei cerca, giustamente, la coesistenza di ragione e passione. Tuttavia non disprezzi, la prego, la divinità, paterna e materna, attribuita alla «massa delle persone». In fondo è quella che ognuno invoca al momento della morte, quando il ciclo della vita si chiude riportandoci là da dove siamo venuti, all’ignoto.

incuriosire, a commuovere, a smuovere. Glaser ne è convinto. Confermando, con ciò, un ottimismo all’americana, che magari fa sorridere gli europei. Certo è che, nell’operazione di recupero della metropoli, il logo ha avuto la sua parte, almeno sul piano psicologico collettivo. Mentre, su quello pratico, fu poi decisivo lo storico intervento del sindaco Rudy Giuliani, quello della «tolleranza zero», per altro criticata da molti. Ma, per l’autore, il successo di quest’amatissimo logo rappresenta un episodio particolarmente fortunato, fra tanti altri meno popolari, lungo un affollato percorso creativo contrassegnato dal culto persino maniacale, del lavoro. «Art is Work» era il motto di Milton Glaser, interpretato su piani diversi. Sia

con le sue opere, fra cui i ritratti di Obama e di Bob Dylan, ovviamente famosi, sia studiando la storia dell’arte, anche attraverso contatti diretti. In Italia, aveva scoperto Piero della Francesca ad Arezzo, e Giorgio Morandi a Bologna, dove insegna all’Accademia di belle arti. Entra in contatto con l’Olivetti, azienda all’avanguardia nello «styling», che gli affidò il lancio della macchina da scrivere Valentine. Era di casa, si fa per dire, al Louvre, dapprima come assiduo visitatore e, poi, come ospite, con una personale nel 1970. Mentre a Londra la Royal Accademy gli offre una cattedra. Un po’ come i nobili inglesi, che nell’800 compivano il «grand tour» alla scoperta del mondo classico, in Egitto e in Grecia, Glaser prediligeva la vecchia Europa,

in cui trovare stimoli da riportare negli USA. Dove insegna in varie università e pubblica saggi, quali Drawing is Thinking e Design of Dissent. Titoli eloquenti, che testimoniano il costante impegno nei confronti della grafica, da promuovere ad arte, a pieno titolo. Senza se e senza ma. Questione di talento, di serietà, di fatica e di ripensamenti. «Il dubbio, diceva, è meglio della certezza». Glaser faceva e rifaceva finché raggiungeva l’obiettivo di un «segno» in grado di «colpire lo sguardo e di rimanere nella mente». Tutto ciò, lavorando, ostinatamente a mano, servendosi di carta e matita, da artista-artigiano. Il computer gli era estraneo. Un rifiuto, quasi una civetteria, da parte di un sensibilissimo interprete della modernità.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi L’immagine del Padre Buon giorno gentile signora Silvia, da un po’ di tempo leggo la sua stanza per due motivi principalmente, il primo è che mi offre uno spaccato della società reale; l’altro la banale saggezza di chi sa ascoltare e che risponde dopo ponderazione, cioè lei. Ma la lettera di oggi, quella della signora Paola, mi ha portato un pensiero che avevo accantonato e cioè l’immagine di Dio che ha la massa delle persone. Tutti, o comunque la stragrande maggioranza, hanno un’idea di un Dio antropomorfo, un qualcuno che ti guarda con due occhi e ti ascolta con due orecchie e che alla fine ti dà un responso che coincide con ciò che ti auspicavi sia nel bene che nel male. Io credo in Dio, ma non quella cosa acchiappa merluzzi che propongono tutte le chiese; in un Dio entità perfetta creatrice ma indefinibile, un qualcosa, non certo un qualcuno, talmente totale da sfuggire alla nostra limitatezza umana, la limitatezza di un essere che può solo riferirsi a ciò di cui ha esperienza. Quel Dio che cercano all’esterno non è che la proiezione di ciò che hanno all’interno; non è altro che l’esame di coscienza, quel guardarsi dentro con gli occhi dello stato d’animo del momento, scuro e rimproverante se

si sentono in colpa, solare ed approvante se si sentono in pace con se stessi. Questa è la faccia che mi sorride in un vento di per sé non positivo, la morte di mio genero che era per noi, mia moglie me, il terzo figlio. Dopo la botta che mi piegò le ginocchia grazie a Gaia, la nipote rimasta orfana che aveva sedici mesi, mi sono rialzato ed ho cominciato a considerare l’evento come fosse una pietra tagliata da un gioielliere e che aveva molte, tante facce, e l’ho girato e rigirato guardandole tutte, da quella nera dell’evento fino a quella solare del sorriso di Gaia, la faccia che m’ha portato a riflettere molto, all’introspezione da chirurgo, col bisturi per asportare ciò che ritenevo metastatico per lasciar spazio alla fusione dei sentimenti con il raziocinio; quest’ultimo sempre presente a gestire, non soffocare, i sentimenti. Ma ora penso che non sia il caso che sia io nel confessionale. Con amichevole stima. / Diego B. Gentile Diego, la ringrazio per essere entrato ne La stanza del dialogo, apportandovi un contributo straordinario di riflessione e interrogazione. La parola «Dio» suscita

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Quel cuore diventato universale È l’eredità più famosa lasciata dal grafico Milton Glaser, scomparso, novantenne, lo scorso 26 giugno. A lui si deve un logo, in apparenza semplice, persino banale, entrato ormai nella nostra quotidianità, in infinite varianti. È appunto, quel cuore, preceduto dalla I e seguito da NY, cioè una dichiarazione d’amore per la propria città, che più sintetica e incisiva non si può. L’originale del messaggio, disegnato con la matita rossa su un foglio di carta bianca, ha trovato, giustamente, posto al Moma, il museo che documenta, già con la sua architettura, l’avvento della grafica, espressione multiforme, ancora da sdoganare sul piano critico. Non a caso, quel logo nacque a New York, e per via di una coincidenza che Glaser amava raccontare. Si era nel

1976, quando la metropoli si trovò ad affrontare un’allarmante crisi di sicurezza. Le strade, anche nel centro, di giorno come di notte, erano ostaggio della criminalità mafiosa, degli spacciatori di droga e di sbandati violenti. La moglie di Glaser confessa di aver paura a uscire di casa. Per Glaser, cittadino socialmente impegnato, l’emergenza non si risolve soltanto mobilitando la polizia. Serve un risveglio morale, culturale e affettivo. Da trasmettere in termini visivi eloquenti, perché questa è una funzione che spetta anche all’arte. E in particolare alla grafica che, in tanti modi, attraverso manifesti, slogan, simboli, segnaletiche sollecita e guida i comportamenti umani. Da qui la scelta del cuore abbinato a lettere dell’alfabeto: un emblema destinato a


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 luglio 2020 • N. 29

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Ambiente e Benessere Un museo per Alfa Romeo All’età di 110 anni, la Casa del biscione ha creato la sua macchina del tempo

Un ecosistema unico Reportage dal Mono Lake, un lago più salato del Pacifico, ai margini della Sierra Nevada

Il nocciolo in fitoterapia È una delle piante più antiche in natura, viene anche coltivata, e ha molte proprietà curative pagina 18

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Un giorno da cane Rimandata a maggio del 2021 la prima Giornata svizzera dedicata agli amici a 4 zampe

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La natura in città

BetterGardens L’urbanizzazione

e la densificazione degli spazi abitati pone la questione del verde e della biodiversità nelle aree urbane

Marco Martucci Non è una novità ma il fenomeno è sempre più attuale e i numeri fanno impressione. Ormai, oltre la metà della popolazione mondiale vive in città e si prevede che, entro il 2050, il 70% dei 9,8 miliardi di abitanti del mondo abiterà in aree urbane. Per il nostro Paese è già una realtà: tre quarti degli svizzeri vivono in città e agglomerati urbani. La crescente urbanizzazione unita alla densificazione degli spazi abitati comporta molte implicazioni complesse e interconnesse e una di queste riguarda il ruolo della natura in città. Quanta natura è in grado di ospitare una città, quanto è importante la presenza della natura per i suoi abitanti e cosa possiamo fare per aumentare natura e biodiversità nelle aree urbane? Il tema è di stretta attualità ed è presente nella gestione del verde pubblico: lo si nota nelle costruzioni, con tetti e pareti verdi, viali alberati e parchi. Uno dei dieci obiettivi della Strategia Biodiversità Svizzera, «Uno spazio urbano di migliore qualità», si propone di promuovere la diversità biologica negli spazi insediativi, di preservare le specie tipiche di questi spazi e di consentire alla popolazione di vivere a contatto con la natura nel contesto abitativo e nelle zone ricreative. Un grande studio nazionale condotto fra il 2006 e il 2011 nelle città di Zurigo, Lucerna e Lugano e denominato «BiodiverCity» aveva evidenziato fra l’altro un’insospettata ricchezza di specie nelle città e la grande importanza per i cittadini del verde urbano di prossimità. Un aspetto finora poco studiato riguarda gli orti e i giardini urbani che, anche se di piccole dimensioni, sono numerosi, formano un vero e proprio mosaico con una superficie complessiva tutt’altro che trascurabile. Ad essi si è dedicato un recente studio interdisciplinare, condotto fra il 2015 e il 2019 dal WSL, l’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio e dall’Istituto di ricerca dell’agricoltura biologica FiBL, finanziato dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica FNS. Il progetto di ricerca chiamato «BetterGardens» si è svolto in tre città, Zurigo, Berna e Losanna, con la collaborazione delle autorità locali e della Federazione svizzera dei giardini famigliari ed è stato una vera e propria indagine scien-

tifica sul valore ecologico e sociale dei giardini urbani. Lo studio ha riguardato due tipi di giardini, quelli privati e quelli cosiddetti «famigliari», una realtà poco nota a meridione delle Alpi ma ben presente altrove, come nella Svizzera tedesca e romanda e in molte regioni d’Europa. Si tratta di appezzamenti di piccole e medie dimensioni messi a disposizione da associazioni o comuni a famiglie private, originariamente destinati soprattutto alla coltivazione di frutta e verdura e oggi ricchi anche di fiori e piante ornamentali. I gestori di questi orti sono affiliati a una federazione nazionale che conta oltre 26mila membri. Il progetto «BetterGardens» è stato diviso in quattro sottoprogetti. Il primo ha indagato i fattori che influenzano il comportamento del «giardiniere urbano», come regolamenti, norme sociali, attitudini e credenze e si è avvalso di un questionario distribuito a 1800 persone e di 50 interviste nelle tre città di Zurigo, Berna e Losanna. Il secondo si è concentrato intorno agli effetti sul giardiniere, come svago e benessere e ha coinvolto 100 orti famigliari e 200 giardini privati nella città di Zurigo attraverso un questionario. Il terzo e quarto sottoprogetto, di natura biologica, sono stati svolti a Zurigo e hanno preso in esame gli effetti sulla qualità del suolo, sulla biodiversità e su importanti servizi ecosistemici, come la decomposizione della materia organica e l’impollinazione. Le risposte al primo questionario, in ordine d’importanza da 1 a 5, hanno permesso di chiarire le motivazioni e il modo d’agire dei giardinieri. La motivazione più forte (media 4,5) è «stare all’aria aperta», seguita da «vivere la bellezza della natura» (media 4,41). Una buona metà dei giardinieri rinuncia all’uso di pesticidi e non pochi creano piccole strutture come mucchi di rami, prati fioriti, nidi per api selvatiche e muretti a secco. Per molti, come si evince dai risultati del secondo sottoprogetto, lo stare in giardino è un’importante fonte di benessere. Anche la biodiversità è correlata con il ristoro ma per oltre il 15% il giardino è spesso fonte di stress. Lo «stress da giardino» è più diffuso nei giardini privati che non in quelli famigliari, questi ultimi vissuti più quale libera scelta che non come obbligo. Nei due progetti ecologici, suolo e biodiversità, si sono analizzati a fondo

Uno scatto del biologo David Frey che, con i suoi colleghi, il 29 settembre presenterà al Museo di storia naturale di Lugano il progetto «BetterGardens» e i suoi risultati. (David Frey)

42 orti famigliari e 43 giardini privati nella città di Zurigo. I risultati sono molto interessanti e anche sorprendenti. Nel terzo sottoprogetto, attraverso prelievi di suolo, si sono cercate risposte a questioni come i fattori che influiscono sulla qualità del suolo e la sua capacità di decomposizione. Sono stati misurati ben 44 indicatori fisici, chimici e biologici e si è indagato l’influsso della fauna del suolo. I suoli sono risultati di buona qualità, ricchi di humus e con elevata presenza di lombrichi. Il tipo di gestione influisce sulla qualità del suolo: con una coltivazione biologica aumenta il tenore di humus. Eventuali metalli pesanti non derivano dalla cura dell’orto ma dal traffico e dalle industrie, spesso residui del passato. La varietà di piante favorisce la biodiversità degli invertebrati e l’attività dei microorganismi. Il quarto sotto-

progetto, dedicato alla biodiversità e ai servizi ecosistemici, appare quello più complesso, articolato e ricco di risultati affascinanti. Ad esempio, il campionamento degli invertebrati ha raccolto durante 13 settimane con due tipi di apposite trappole oltre 150mila animaletti di 1110 specie diverse, 12 nuove per la Svizzera. Si tratta di una delle serie di dati più grandi al mondo per la biodiversità di invertebrati nei giardini. Come non bastasse, sono state individuate in media 119 diverse piante per ogni giardino, fra coltivate e spontanee. In due ulteriori lavori sul campo sono stati analizzati gli impollinatori e il controllo dei parassiti da parte degli uccelli e dei coleotteri carnivori. Dal progetto «BetterGardens» traspare, oltre all’elevata biodiversità urbana, il valore sociale ed ecologico dei

giardini di città, meritevoli di sostegno e protezione. Ne scaturisce anche la necessità di coinvolgere sempre più persone a gestire il loro giardino in modo biodiverso. Nel nostro Cantone non mancano le occasioni. Già in passato uno studio aveva analizzato le preferenze e l’uso del verde urbano nei giardini privati del Bellinzonese. Pure da noi la biodiversità in città è un tema attuale, sia negli spazi privati sia pubblici. Anche per questo, tre ricercatori di «BetterGardens», i biologi Marco Moretti e David Frey, insieme al sociologo Christopher Young, presenteranno il progetto e i suoi risultati il 29 settembre a Lugano, presso il Museo cantonale di storia naturale. Informazioni

www.bettergardens.ch


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Ambiente e Benessere

Centodieci anni per Alfa Romeo Motori Il glorioso passato della Casa del biscione oggi è raccolto nel museo di Arese,

che sorge sul luogo in cui era insediata la storica fabbrica Mario Alberto Cucchi Il 24 giugno 1910 viene fondata a Milano, in Italia, la ALFA. Acronimo di Anonima Lombarda Fabbrica Automobili. Bisogna aspettare il 1918 perché il nome diventi quello attuale, in seguito all’acquisizione della società da parte dell’ingegner Nicola Romeo.

La nuova Giulia GTA da 540 cavalli sarà un modello prodotto in serie limitata: solo 500 esemplari Oggi Alfa Romeo compie 110 anni e li festeggia ad Arese, nel Museo a lei dedicato (www.museoalfaromeo.com) vicino a dove un tempo sorgeva la storica fabbrica. Protagonista del mondo a quattro ruote, Alfa ha ora una macchina del tempo dedicata agli appassionati. Un luogo in cui il passato incontra il presente guardando al futuro. Un Museo che può ospitare in totale sicurezza club e appassionati, i quali possono ammirare non solo automobili, ma anche motori da strada, aeronautici, nautici e innumerevoli trofei. Non mancano migliaia di documenti che raccontano il glorioso passato della Casa del biscione. Insieme creano un percorso storico autentico che lascia a bocca aperta non solo gli alfisti, ma tutti gli amanti delle quattro ruote.

Alfa Romeo: automobilismo di alto livello dal 1910.

Ampio spazio nel Museo di Arese è dedicato ai successi nelle corse. Un albo d’oro che vanta undici vittorie alla Mille Miglia e dieci alla Targa Florio. Suo anche il primo campionato del mondo di automobilismo e il primo mondiale di Formula 1. Alfa ha partecipato con successo a molte categorie di competi-

zioni automobilistiche: F1, Sport Prototipo, Competizioni Turismo e anche Rally. Va ricordato che la Scuderia Ferrari ha esordito nelle competizioni utilizzando proprio vetture Alfa Romeo. Non si è fatta mancare davvero nulla sino ai giorni nostri. Nel 2017 fu Sergio Marchionne ad annunciare il ritorno

del marchio Alfa Romeo in Formula 1 per la stagione 2018 come sponsor principale del team svizzero Sauber. L’attuale Alfa Romeo Racing. Ma oggi cosa si può trovare nelle concessionarie Alfa Romeo? Non molto, va detto. È schierata una gamma ridotta, comunque di spessore: Stel-

vio, Giulia e Giulietta. Presto potrebbe arrivare un sogno chiamato Tonale, assieme a motori ibridi e poi magari anche elettrici. Oltre un secolo è passato da quando è stata costruita la prima Alfa, la 24 hp. Oggi come regalo di compleanno gli uomini nelle cui vene scorre sangue rosso Alfa si regalano un vero bolide: Alfa Giulia GTA. Gran Turismo Alleggerita, ispirata tecnicamente e concettualmente alla Giulia GTA del 1965. La nuova Giulia GTA deriva da Giulia Quadrifoglio ed è equipaggiata con una versione potenziata del motore Alfa Romeo 2.9 V6 Bi-Turbo che ora eroga ben 540 cavalli. Le prestazioni sono da vera supercar: scatta da ferma a cento orari in soli 3,9 secondi. Una dieta ferrea a base di materiali ultraleggeri porta come risultato un risparmio di peso pari a cento chilogrammi rispetto alla Quadrifoglio. Ora il rapporto peso-potenza è davvero eccezionale: 2,82 kg/cv. Si tratta di un modello prodotto in serie limitata: solo 500 esemplari. Tutti dotati di scarico centrale Akrapovic in titanio integrato nel diffusore posteriore in fibra di carbonio e cerchi specifici monodado da 20 pollici. Dettagli preziosi e ricercati in grado di ingolosire gli appassionati nonostante il super prezzo: 188mila franchi svizzeri per la versione standard e 193mila per la «M», ancora più estrema e priva dei sedili posteriori. Pronta per la pista, ma omologata per la strada. Avanti chi può. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Le mosche e i gamberetti del Mono Lake

Biosistemi Alla scoperta del lago più salato dell’Oceano Pacifico, con un ecosistema unico al mondo

Simona Dalla Valle, testo e foto Situato ai margini del Great Basin e delle montagne innevate della Sierra Nevada in California, il Mono Lake si estende per oltre 180 chilometri quadrati. Si tratta di un lago di soda, dunque fortemente alcalino – il suo pH arriva fino a dieci – e particolarmente salato: si stima che la salinità del lago sia da due a tre volte quella dell’oceano Pacifico. A causa delle condizioni ambientali estreme, animali e piante si sono adattati all’elevato pH rendendosi in grado di tollerare il contenuto di sale. Descritto da Mark Twain come una sorta di Mar Morto della California, in realtà nelle sue acque salmastre il lago ospita un ecosistema di poche specie, ognuna con un numero elevato di individui. Le mosche alcaline del lago sciamano a filo d’acqua nella stagione estiva, simili a grandi nuvole nere. Queste mosche hanno la singolare capacità di «respirare» sott’acqua per mezzo di minuscole bolle d’aria che si formano sulla loro peluria prima di immergersi allo scopo di nutrirsi con le alghe che crescono sul fondo del lago, o di deporre le uova sugli scogli sommersi. Nella stagione primaverile nascono 10-12mila miliardi di Artemia monica, una sorta di gamberetti d’acqua salmastra che misurano circa 1-1,5 centimetri. Anche i gamberetti si nutrono delle alghe che crescono sott’acqua, e costituiscono a loro volta un nutrimento per le numerose specie di uccelli acquatici che sostano sulle rive del lago. Il lago Mono è considerato uno dei laghi più antichi d’America e la sua origine risale a oltre un milione di anni fa. Il bacino di questo lago si formò a partire dai processi geologici che plasmarono il paesaggio del Nevada e della Sierra orientale negli ultimi milioni di anni: l’estensione della crosta terrestre originò catene montuose affiancate da profonde e lunghe valli e la successiva attività vulcanica, avvenuta circa 2,5 milioni di anni or sono, riversò nelle valli spessi accumuli di roccia fusa (basalto), i quali modellarono il paesaggio e crearono dighe naturali che controllavano il flusso dell’acqua. Il bacino iniziò a riempirsi d’acqua circa 750mila anni or sono con l’acqua proveniente dallo scioglimento delle lastre di ghiaccio situate sul fianco

orientale dei monti della Sierra Nevada. Durante questo periodo il clima della regione era diventato più fresco e umido, limitando dunque l’evaporazione dal lago e fornendo abbondanti precipitazioni. Tali condizioni climatiche durarono fino al termine dell’ultima era glaciale, avvenuta circa undicimila anni or sono, quando il lago Mono raggiunse la sua massima profondità: quasi 275 metri. Al termine di questa era glaciale le condizioni climatiche divennero più asciutte e calde e le calotte di ghiaccio alpine scomparvero, interrompendo un’importante fornitura di acqua dolce al bacino. Alimentato da torrenti d’acqua dolce, il lago Mono è quello che i geologi definiscono un bacino endoreico, cioè privo di emissari. Senza deflusso, i sali si accumulano mentre l’acqua evapora, rendendo il corpo idrico ipersalino (più salato dell’oceano) e creando un ecosistema unico nel suo genere. L’area intorno al lago è ricca di arbusti in grado di crescere in condizioni estreme; oltre ai cespugli di Chamisa (Ericameria nauseosa), che fioriscono alla fine dell’estate tingendo la zona di giallo brillante, sono diffusi Salvia e Sarcobatus. L’attività vulcanica è in corso nel bacino del lago Mono da quasi tre milioni di anni. Le più recenti eruzioni vulcaniche, avvenute solo 400 anni or sono, formarono l’isola di Paoha al centro del lago. Lungo la riva meridionale grandi

torri di tufo si ergono sopra la superficie dell’acqua. Questi iconici pilastri si sono formati nel corso di migliaia di anni a partire dall’interazione tra le sorgenti sottomarine di acqua dolce, ricche di calcio, e le acque altamente alcaline del lago Mono, ricche di carbonato: la reazione tra il calcio e i carbonati ha formato un deposito salino di carbonato di calcio, il tufo. Molti di questi pinnacoli sono oggi luoghi di nidificazione per gli uccelli. Sono oltre trecento le specie di uccelli che transitano nella zona del lago. Ogni primavera circa 40mila gabbiani (Larus californicus) migrano dalla co-

sta della California fino al lago Mono per fare il nido e deporre le uova. I più piccoli e delicati falaropi di Wilson e falaropi beccosottile (Phalaropus tricolor e Phalaropus lobatus) non fanno il nido qui ma si servono del lago come di un’area di ristoro per nutrirsi e fare la muta durante una migrazione di quasi 5mila km verso l’America del Sud. Anche lo svasso piccolo (Podiceps nigricollis) si serve del lago per nutrirsi durante la migrazione annuale dal Canada verso il golfo della California. Gli svassi si nutrono di gamberetti e si stima che gli stormi, che ammontano intorno ai 750mila esemplari, arrivino a con-

sumarne fino a 55mila chili in un solo giorno! All’inizio degli anni Quaranta, l’acqua di deflusso della Sierra orientale che avrebbe alimentato naturalmente il lago Mono fu deviata dall’amministrazione di Los Angeles (DWP) nel sistema dell’acquedotto del suo dipartimento. Senza un adeguato afflusso vi fu un calo progressivo dei livelli del lago e un aumento della salinità dell’acqua. Ciò ha contribuito a rendere visibili le spettacolari torri tufacee che lo hanno reso famoso, tanto che un’immagine del Mono Lake fu inserita nell’artwork interno all’album Wish you were here dei Pink Floyd del 1975; ma la perdita del volume d’acqua, che nel 1990 era circa del cinquanta per cento, stava rapidamente conducendo a un disastro ecologico e a un pericolo per la salute per la regione a causa delle polveri alcaline trasportate dall’aria. Il Mono Lake Committee fu fondato nel 1978 allo scopo di salvare il lago con soluzioni cooperative. Nel 1994, dopo oltre un decennio di controversie, fu ordinato al DWP di riportare il lago Mono a un livello di 1948 metri sopra il livello del mare e, anche se è probabile che il lago non torni più alla condizione originaria, i livelli dell’acqua stanno gradualmente aumentando. Informazioni

www.monolake.org/mlc (in inglese).


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Ambiente e Benessere

Andar per vini in Alto Adige

Scelto per voi

Bacco giramondo Influenzata dai Romani, la cultura vitivinicola degli altoatesini

si dice vanti un’esperienza di oltre tremila anni Davide Comoli La coltivazione della vigna in Sudtirolo giunge verso est sino alla zona attorno a Bressanone (Brixen) a 700 m slm, mentre il Val Venosta raggiunge Kortsch a 800 m slm. Sui pendii e lungo i fianchi delle vallate, i vigneti arrivano a sfiorare i 900 m, come ad esempio a Renon (Ritten). Oggi il vigneto dell’Alto Adige è come un mosaico di circa 5800/6000 ettari, ma anticamente l’area in cui veniva coltivata la vite aveva un’estensione maggiore. Sia perché forse c’erano migliori condizioni climatiche, sia per il fatto che i vitigni si adattavano di più oppure i vini erano fatti per consumatori meno esigenti. Camminando tra i vigneti altoatesini, si respira un’atmosfera che ci riconduce ai fasti dell’Impero Austroungarico, case con facciate dipinte, piccole chiese con i tipici campanili a cipolla, villaggi impreziositi da castelli immersi in fitti boschi e pascoli. I terreni – ricchi di porfido – sono in prevalenza di origine calcarea, e si sono formati dopo il ritiro dei ghiac-

ciai, nel fondovalle per lo più pianeggiante e pietroso, che costringe le radici delle viti ad aprirsi con fatica la strada alla ricerca delle falde acquifere, e di nutrimento: ecco spiegato il motivo per cui i vini di questa regione hanno tutti spiccate note minerali, grande freschezza e, per i rossi, un basso tenore di tannini. Nella zona di Bressanone, affiorano rocce granitiche, mentre sull’altopiano che circonda Bolzano più a sud, è il porfido rosso che la fa da padrone; ma non lasciate l’Alto Adige senza visitare la Valle del fiume Isarco, dove – unico al mondo – potete ammirare gli affioramenti di «calcare dolomitico». Grazie alla sua grande permeabilità, è particolarmente adatto ai prestigiosi vitigni a bacca bianca della zona. Le estati fresche e gli inverni rigidi caratterizzano il clima tipicamente montano, ma sono le forti escursioni termiche giornaliere che in estate creano le condizioni ideali per arricchire in modo straordinario il bagaglio aromatico delle uve. Lo sviluppo ottimale delle vitivinicolture della Valle è favorito dalle quasi

Vigneti attorno al Castello di Castelbello in Val Venosta, Alto Adige. (Stefan Kuhn)

duecento ore di sole annuali, da precipitazioni di moderata entità, dalle Alpi che creano una barriera ai gelidi venti del nord e dal caldo «Föhn» che spesso spira tra le vallate. Si può ragionevolmente supporre che la viticoltura, in questa regione, fosse già praticata più di tremila anni fa; sicuro, però, è che i Romani ne furono i principali maestri e diffusori. Numerose parole come: Wein, Keller, Kelter, Torggl, Kufe, Spund, Most ed Essig, sono prestiti latini e tutto sta a indicare che le popolazioni germaniche, prima di entrare in contatto con i Romani, non conoscevano il vino. La viticoltura nel Tirolo meridionale superò molto bene le varie invasioni barbariche. Corbiniano di Frisinga (725), vescovo, fece piantare dei vigneti a Kuens e a Kortsch, in seguito numerosi vescovati e abbazie germaniche divennero proprietari di vigneti in Sudtirolo. È nel XIII secolo che i diversi vitigni vengono denominati a seconda del luogo di provenienza: la «Vitessclave» (la Schiava), proveniva dalla costa slava dell’Adriatico. Nel 1220 documenti parlano del «Vinum de Caldario» (lago di Caldaro), del «Bozenaere» (Bolzano) e del «Traminer» (Termeno). Ma il grande impulso alla vitivinicoltura della regione fu senza dubbio dato dall’editto del 1769 promulgato dall’Imperatrice Maria Teresa, grande sovrana illuminata, la quale concesse un’esenzione fiscale «trentennale» per tutti i nuovi impianti. Non di meno fece circa cento anni dopo, nel 1850, l’Arciduca Giovanni d’Austria, grande sostenitore e protettore dell’agricoltura che introdusse tra l’altro i vitigni del Riesling, del Silvaner, del Pinot Nero e del Pinot Bianco. Le zone vitivinicole altoatesine si snodano per circa 70 chilometri attraverso realtà diverse tra loro per clima, esposizioni, altezza di impianti, passando tra colline soleggiate e ripidi pendii, costeggiando scorci alpini di incredibile fascino. La zona più estesa e più calda è la Bassa Atesina, con terreni ricchi di calcare e affioramenti di argilla, dove trova l’habitat ideale, grazie anche all’ot-

tima ventilazione, il Gewürtztraminer. In quel di Termeno questo vitigno ci regala vini profumati e morbidi, ma da trovare soprattutto sono i vini prodotti con «vendemmia tardiva»: sono un’esplosione di profumi, sapori e morbidezza, da provare sui formaggi a crosta lavata. L’Oltradige, con i suoi castelli resi celebri dai villaggi di Caldaro e Appiano, ospita la Strada del vino dove sono a dimora vitigni a maturazione tardiva; grazie al clima più caldo, ottimi i Cabernet Sauvignon e il Merlot d’abbinare ai tipici piatti di selvaggina da pelo. Qui troviamo ottimi Sauvignon e Pinot Bianco, coltivati in vigne dove regna il porfido e il calcare, che danno ai vini grande sapidità e mineralità. La Schiava e il Lagrein di Gries sono i regnanti incontrastati dei «Bozner Leiten» (Colli di Bolzano). Strutturata e vellutata, la Schiava, quella coltivata nella sottozona Santa Maddalena, risulta essere l’ideale compagna del «fegato alla veneziana». Anche nella zona di Merano si coltiva con successo la Schiava, ma qui è più fresca e leggera, ottimi invece sono i Pinot Nero e i Merlot, che maturano su terreni ghiaiosi. La Valdadige è situata tra le province di Bolzano, Trento e Verona, si distingue per tre sottozone molto famose: Terlano, Nalles e Andriano; qui le radici devono scavare molto in profondità per raggiungere il vitale nutrimento, che dà origine a vini di grande mineralità e longevità, che alle volte stupisce, soprattutto nei Sauvignon, Pinot Bianco e grandi Chardonnay. Tra filari di mele che contendono spazio ai filari delle viti, entriamo in Val Venosta (Vinschgau), qui il clima è più secco e nei pressi di Merano troviamo incredibili Pinot Nero; lo abbiamo provato con un cosciotto d’agnello all’anice stellato: «sublime». Nei pressi del villaggio di Naturno abbiamo gustato un Riesling che non aveva nulla da invidiare ai più noti vini Alsaziani. Non dobbiamo dimenticare i vivaci Müller Thurgau, un meraviglioso Kerner, vitigno particolarmente resistente al freddo e dulcis in fundo, i dolci Moscati Gialli e Moscati Rosa, anche in versione Passiti.

Clos Floridène

Un po’ prima di entrare nella città di Langon (Bordeaux), troviamo un terreno composto da una serie di affioramenti di depositi sedimentari, dove dominano ciottoli misti a sabbia con delle sacche d’argilla che si sono accumulate nel corso del tempo. Ci troviamo nella zona chiamata «Graves». Qui il famoso enologo Denis Dubourdieu – conosciuto in tutto il mondo per i suoi consigli per produrre i vini bianchi, pioniere della pratica del bâtonnage e della macerazione pellicolare – ha creato nella sua tenuta a Pujols, il «Clos Floridène», un grande vino bianco prodotto da uve Sémillon, Sauvignon e 1% di Muscadelle che dona una tipica aromaticità. Dal colore giallo oro con un brillante riflesso verdolino, il «Clos Floridène» ci porta al naso freschi profumi di frutta dalla polpa bianca e piacevoli note aggrumate, con un tocco di spezie e cera d’api. Molto equilibrato in bocca e piacevolissima la sua vivacità, con un lungo finale che lascia in bocca la freschezza della frutta. Da bere a una temperatura tra 8° e 10° C, è l’ideale compagno estivo per i vostri piatti di pesce e crostacei. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 23.–. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Il piatto migliore? Quello buono Gastronomia Non conta davvero il nome della portata, conta che la pietanza sia cucinata bene,

Quando mi chiedono quale piatto o cibo mi piaccia, rispondo sempre: quelli buoni. E preciso ogni volta un mio piccolo snobismo, che fra un risotto, (piatto principe per me e voi lo sapete bene, ve ne ho dato tantissime ricette in questi anni…) fatto mediocremente e un montone con le albicocche, mitico piatto afgano, fatto bene, scelgo il montone. Sono molto eclettico, mi piace il buono, fatto con qualsiasi ingrediente, di qualunque tradizione. Ciò detto, alcuni ingredienti sono da me più amati di altri. Per esempio, ho sempre amato i funghi, fin da piccolo.

Buono, sì, ma poi se l’ingrediente è quello preferito, come possono essere i funghi per Allan Bay, allora il piatto è perfetto E, curiosamente, era una delle poche cose che condivideva tutta la famiglia. Un ricordo infantile indelebile: la Tata, ovvero la signora che a casa cucinava – mia madre lavorava e pur amando i buoni ristoranti proprio non amava cucinare – mondava rapidamente i funghi. Non li metteva mai in acqua, li puliva solo con una pezzuola bagnata, salvo la base del gambo che veniva tornita per eliminare la terra: era una delle poche cose «di alta cucina» che faceva, perché così si deve fare – e che fanno veramente in pochi, dato che i più li passano in acqua ammollandoli inesorabilmente. Mai ammollarli! Poi li tagliava a fette e li saltava in padella con poco burro, uno spicchio di aglio e abbondante prezzemolo. Li metteva sopra un’infinità di piatti, soprattutto pasta, riso, filetti ma soprattutto sulla polenta: e polenta e funghi resta un mio personale super meme, che è il confort food più confort che io

riconosca – be’, insieme al risotto con i funghi. Fra l’altro, in genere la Tata portava in tavola il piatto finito ma senza funghi, che erano a parte, in una zuppiera, poi ognuno ne metteva quanti ne voleva, vediamo se immaginate chi in famiglia era imbattibile… Li mangiavamo sempre. Ovviamente i porcini in autunno, ma anche altre stagioni hanno i loro funghi, come i primaverili prugnoli, cantarelli e prataioli – questi ultimi due, reperibili fino a novembre, i lattari estivi, che proseguono fino all’autunno quando si trovano anche i finferli e i geloni, che a loro volta proseguono per tutto l’inverno. E in mancanza del fresco, ci si dava dentro con i funghi secchi, spesso altrettanto validi, come i porcini e le ancor più mitiche spugnole. Un’attenzione: i funghi secchi si ammollano in acqua, poi si scolano e si procede. Ma mi raccomando: non gettate quell’acqua, saporitissima! Filtratela bene in una mussola e poi usatele a mo’ di brodo nel piatto, dove utilizzerete quei funghi. Crescendo, visitai sempre di più la Francia: anzi a essere più esatti la Borgogna, madre della cucina francese – nella altre regioni francesi non sono tutti d’accordo… Fra le mille cose di quella cucina, esiste una loro salsa che più mitica non si può. È a base di scalogno, vino rosso, pancetta, timo e funghi. Solo che… loro utilizzavano gli champignon! Ora io sono eclettico, ma mettevo e metto in cima ai funghi spugnole e porcini, gli altri stanno sotto e gli champignon… molto sotto. Ma i borgognoni ne vanno matti. Quindi la mia decisione fu di continuare a utilizzare porcini & Co. ma che la salsa borgognona l’avrei sempre fatta con gli champignon, per l’affetto che mi lega a quella regione. Questo detto, continuo a consumare quantità industriali di funghi: adesso ho il trip degli shiitake giapponesi, i più diffusi al mondo dopo gli champignon, che credo sarà sostituito da altri trip, forse funghi cinesi…

CSF (come si fa)

Pxhere.com

Allan Bay

Publicdomainpictures.net

se poi è a base di funghi…

Vediamo come si fanno tre piatti a base di funghi. Salsa ai funghi e scalogno (con ingredienti per 4 persone). Mondate 600 g di funghi champignon o freschi di qualsiasi tipo e tritateli più o meno finemente. Stufateli in una casseruola a fuoco medio con 4 cucchiai di soffritto di scalogni e 1 filo di olio o 1 noce di burro mescolando. Appena l’umidità dei funghi sarà completamente evapo-

rata, regolate di sale e di pepe. Cospargeteli con una presa di prezzemolo tritato, mescolate e togliete dal fuoco. È una salsa adatta a nappare tutte o quasi le verdure cotte e per guarnire carni bianche e rosse arrosto, pesce cotto al forno e tanto altro. Funghi trifolati (per 4 persone). Mondate 600 g di champignon, strofinateli con una pezzuola umida e affettateli. Scaldate in una casseruola un filo di olio e rosolateci 2 spicchi di aglio. Eliminate l’aglio, aggiungete i funghi e saltateli per 5 minuti. A fine cottura regolate di sale e di pepe e insaporite i funghi con una manciata di prezzemolo tritato. Classico contorno. Risotto con ostriche, porcini e spugnole (per 4 persone). Mettete in ammollo 40 g di porcini secchi in acqua tiepida per 20’, scolateli, strizzateli, spezzetta-

teli e filtrate l’acqua di ammollo, meglio se con una pezzuola bagnata. Fate lo stesso con 40 g di spugnole, senza spezzettarle ma tagliandole a metà per il lungo. In una casseruola tostate 360 g di riso per 2 minuti, mescolando bene e sempre, bagnatelo con l’acqua dell’ammollo dei funghi e unite 4 cucchiaiate di soffritto di scalogno. Mescolate e portate il riso a cottura unendo un mestolo di brodo di pollo o vegetale (ottimo mi raccomando, ben concentrato, è un grande brodo che fa grande un risotto) alla volta. 5 minuti prima di fine cottura unite i funghi. Regolate di sale, mantecate con 40 g di panna acida fredda da frigorifero. Coprite e lasciare riposare per 2’. Impiattate in piatti individuali, nappate con 2 ostriche spezzettate a piatto e servite con abbondante pepe.

Ballando coi gusti Oggi due paste estive: vanno bene un po’ in tutte le stagioni, in realtà, ma vanno meglio quando fa caldo.

Insalata di pasta con asparagi

Insalata di mare con orecchiette

Ingredienti per 4 persone: 320 g di pasta a piacere · 8 punte di asparagi, anche decongelate · 12 pomodorini · 120 g di mozzarella · origano · olio d’oliva · sale.

Ingredienti per 4 persone: pasta tipo orecchiette o altra · 500 g o più di misto mare

Cuocete la pasta, scolatela al dente e passatela rapidamente sotto l’acqua fredda per fermare la cottura; poi lasciatela intiepidire. Sbollentate le punte di asparagi per 3 minuti, scolatele. Lavate i pomodorini e tagliateli a spicchi. Tagliate a cubetti la mozzarella e fatela sgocciolare in un colino per 10 minuti. Mescolate in un’insalatiera la pasta con gli asparagi, la mozzarella e i pomodorini. Condite con origano e olio, salate, mescolate e servite.

Per la pasta, se sono orecchiette bastano 200 g, se secca vanno bene i canonici 320 g. Il giorno prima mettete il misto mare in frigorifero. Il giorno dopo sciacquatelo e saltatelo in padella con poco olio e 1 spicchio di aglio per 3 minuti o per il tempo indicato sulla confezione. Levate da 1 terzo a metà del misto e frullatelo. Tenete il frullato al caldo, insieme al resto del pesce. Cuocete la pasta, scolatela al dente. Mettete il frullato col pesce in quattro piatti fondi. Adagiate sopra la pasta e servite. A mo’ di guarnizione potete utilizzare molluschi con guscio, cotti alla bisogna e guarnire anche con i gusci.

surgelato · aglio · olio d’oliva · sale e pepe.


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Ambiente e Benessere

Leggende e virtù del nocciolo

Fitoterapia Pare che la bacchetta magica usata nei rituali di maghi e streghe dovesse essere rigorosamente

ricavata dal legno di questa pianta

Eliana Bernasconi A dispetto delle polveri fini, dell’inquinamento atmosferico da traffico veicolare o elettromagnetico, erbe e fiori, alberi e piante di ogni genere seguono il loro eterno ciclo, sicuramente soffrono ma rinascono e rifioriscono a ogni primavera, per l’equilibrio del pianeta che abitano e per quello delle nostre vite. Oggi parleremo del nocciolo, un piccolo albero che cresce spontaneo in Europa e in tutta l’area mediterranea presso le siepi, nelle macchie, ai margini dei boschi, fino a 1700 m. È una delle piante più antiche in natura, viene anche coltivato. In Piemonte, nelle Langhe, è usato come parte essenziale per la produzione industriale di un noto dolcissimo prodotto molto spalmabile, di colore marrone, amato da bambini e adulti. Come le castagne, il nocciolo rientrava nella dieta degli uomini primitivi: era conosciuto in epoca neolitica. Sono stati ritrovati esemplari fossili di questa pianta risalenti a 5000 anni or sono e grandi quantità di gusci presso villaggi durante scavi archeologici. Il suo nome scientifico è Corylus avellana L, della famiglia delle Betulaceae. Corylus deriva dal greco Korys, che significa elmo, nome che rimanda alla forma dell’involucro che avvolge i suoi frutti, alla durezza estrema del guscio che li protegge. Avellana rimanda alla città di Avellino, nei cui territori circostanti prosperano da sempre sui terreni asciutti una grande quantità di squisite nocciole: per

questo pare che il secondo nome sia stato dato dagli antichi romani. Quando l’inverno sta per abbandonarci, ma nessun fiore è ancora comparso, prima insomma di scorgere una Primula o un Bucaneve, improvvisamente si scoprono i fiori del Nocciolo, che sono di un delicato giallo, e precedono la nascita delle sue foglie. Gli incantevoli «Amenti», spighe pendenti dove la natura si manifesta con eleganza e leggerezza infinite, sono i fiori maschili; i fiori femminili sono invece verdi e molto meno visibili. Le nocciole si raccolgono a partire da maggio e agosto-settembre. Contengono potassio, fosforo, magnesio, calcio, manganese, ferro, rame e zinco, inoltre sono ricche di vitamine e di Omega 3. Non solo i principi attivi, ma anche le vitamine e i sali minerali di origine vegetale vengono assorbiti meglio nell’uso «naturale» delle piante, rispetto ai farmaci creati in laboratorio con gli estratti da esse. Per molti motivi rivolgersi alle piante medicinali significa personalizzare la cura centrandola sul singolo individuo. I disturbi di cui soffriamo sono gli stessi per tutti ma si manifestano in modo soggettivo nell’organismo di ognuno. Quindi anche il nocciolo, che, ad esempio come le noci, per la ricchezza dei suoi elementi nutritivi, combatte la stanchezza fisica e mentale, ha molte altre indicazioni. La corteccia, raccolta tutto l’anno ma specialmente a ottobre, ha proprietà febbrifughe all’interno e cicatrizzanti all’esterno; le foglie, raccolte in questo

periodo, da luglio ad agosto, possiedono proprietà depurative, tonico-nervose, vasocostrittrici e antidiarroiche e sono indicate per le varici, nei disturbi circolatori in genere, negli edemi delle gambe, e sono stati riscontrati successi anche nel trattamento delle piccole emorragie oculari o nei soggetti colpiti da tosse secca e resistente ad altri trattamenti. Dalle gemme fresche di nocciolo si ottiene il Macerato glicerico, come tutti i macerati. Si assume in gocce, 3060 gocce 3 volte al dì, nel caso del nocciolo, che cura anemie, bronchiti croniche, asma, insufficienza arteriosa degli arti inferiori e altro ancora. Il Macerato glicerico, chiamato anche Gemmoderivato (citato spesso in questi brevi scritti che, pur se in

minima misura, vogliono contribuire a una migliore conoscenza della fitoterapia) si ottiene raccogliendo le gemme fresche e facendole macerare in una soluzione mista di alcol e glicerina che viene poi spremuta, filtrata e imbottigliata. Come tutti gli esseri viventi le piante vivono fasi di sviluppo e crescita; per la gemmoterapia la qualità terapeutica racchiusa nei boccioli di fiori, negli amenti, nei germogli di giovani piante ha una potenza e concentrazione superiore rispetto alle preparazioni di sole foglie, fiori o radici di pianta. I gemmoderivati hanno un’azione disintossicante, agiscono sul piano fisico depurando il corpo con una azione purificatrice sugli organi emuntori. Nella medicina popolare la de-

cozione in aceto dei fiori maschili era usata come collutorio per fortificare le gengive deboli; un cataplasma di foglie di nocciolo e di alloro era applicato, molto caldo, sulla pianta dei piedi in caso di febbre e per i dolori dell’influenza; foglie di nocciolo e di tiglio aggiunte all’acqua del bagno rendevano la pelle morbida; il decotto di corteccia curava l’influenza; il sangue da naso era fermato aspirando polvere di foglie e corteccia essiccate; con l’acetolito preparato macerando gli amenti in aceto si faceva un impacco contro il mal di denti. Innumerevoli le leggende sull’origine del Nocciolo, noto a tutte le culture. Pare che la bacchetta magica usata nei rituali di maghi e streghe dovesse essere rigorosamente di nocciolo, non sono noti i motivi. Era considerato pianta della saggezza e della conoscenza da celti, greci e romani, nei miti greci Ermes, messaggero degli dei, porta sempre con sé un bastone di nocciolo avvolto da due nastri, poi sostituiti da due serpenti, simbolo in uso ancora oggi in Grecia per indicare l’arte della medicina. Anche nella lontana Irlanda il Nocciolo viene accostato all’arte medica. Nella favola di Cenerentola dei fratelli Grimm un grande albero di Nocciolo protegge la fanciulla da ogni avversità. Bibliografia

Gabriele Peroni, Trattato di Fitoterapia Driope, Nuova Ipsa editrice. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Slitta al 2021 la prima giornata nazionale del cane

Mondoanimale Passata l’emergenza Covid-19, la Svizzera cinofila accenderà i riflettori

sul migliore amico dell’uomo

Maria Grazia Buletti Nel nostro Cantone vivono circa 30mila cani. E non parliamo soltanto di quelli da compagnia che abitano insieme a noi nelle nostre economie domestiche, perché nell’importanza che l’uomo riconosce al cane rientrano pure quelli che fungono da guida per ciechi, da ricerca e salvataggio, i cani di supporto alle attività di sicurezza e polizia, e quelli impiegati nella Pet therapy con persone anziane, bambini e ammalati. Nel complesso, secondo i dati dell’Ufficio del veterinario cantonale, è un numero destinato a crescere che merita dunque attenzione e conoscenza atte a favorire la migliore convivenza con l’essere umano e in società. «Sabato 9 maggio scorso avrebbe dovuto aver luogo la prima Giornata svizzera del cane, ma il Coronavirus ci ha obbligati a posticipare di un anno questo evento», ci racconta la presidente della Federazione cinofila ticinese (Fct) Jsabel Balestra che anticipa il prossimo appuntamento: «Tutto è rimandato al sabato precedente la festa della mamma di maggio del 2021, quando si svolgeranno diverse attività su tutto il territorio elvetico, nei campi delle Società cinofile appartenenti alla Società cinologica svizzera (Scs)». Una giornata di porte aperte che si ripeterà ogni anno, con l’intento di avvicinare le persone con cani alle attività cinofile, ma non solo: «La Scs ha deciso

di lanciare la giornata del cane per promuovere le attività delle diverse società cinofile svizzere e per attirare nuovi membri; per questo è stata presa a modello la giornata delle porte aperte degli Scout che, in difficoltà con le quote sociali, hanno potuto farsi conoscere e incrementare così le loro fila con nuovi soci». Oltre al desiderio di farsi conoscere e di presentare le attività che si possono svolgere in compagnia del cane, la Scs persegue un obiettivo ben più importante e profondo: «Desideriamo far comprendere alle persone che con il cane ci si può divertire facendo non solo passeggiate, ma molto di più, perché per ogni cane si può trovare l’attività adeguata da svolgere insieme. Ecco il motivo per cui durante la giornata nazionale del cane diventerà una consuetudine durante la quale saranno presentate le varie attività e gli sport cinofili; non da ultimo si farà passare il messaggio dell’importanza di educare adeguatamente il proprio amico a quattro zampe». Oggi più che mai è dunque lecito chiedersi se abbiamo ancora sufficiente conoscenza del cane e della sua natura o se sia andata persa nel tempo, visto che gli imponiamo di convivere insieme a noi in una società sempre più complessa che esige da tutti un comportamento consono in ogni circostanza. Allora, una manifestazione come questa, proposta a livello nazionale, ci permetterà di riconsiderare il rapporto uomo-ani-

Vanno considerate razza e attitudini prima di scegliere l’attività. (Ron Armstrong)

male, per ricollocarci al suo fianco nel modo più equilibrato possibile. È pure vero che da quando in Ticino è in vigore la legge per cani soggetti a restrizione se ne parla molto di più e queste iniziative permettono di incontrare persone qualificate a cui porre ogni sorta di questione. Possiamo altresì capire l’importanza e la grande utilità dei corsi OPAn per detentori di cani, peraltro recentemente abrogati per i cani che non figurano sulla lista delle trenta razze soggette a restrizione. «La Federazione cinofila ticinese (www.fcti.ch) propone sempre il corso di Cittadino a 4 zampe (C4Z) convinta del prodotto (che cerca di adeguare

e attualizzare) e attenta all’evoluzione che le permette di dare sempre il meglio possibile a cane e proprietario. Ciò consente ai proprietari di acquisire gli strumenti per rispettare anche coloro che di cani non ne hanno, perché anche le persone senza cane hanno il diritto di andare a spasso tranquillamente senza essere infastiditi da cani liberi o mal gestiti», afferma Jsabel Balestra che pur differenziando il corso obbligatorio per le trenta razze, ricorda che i cani di taglia medio piccola sono sensibilmente aumentati e, sebbene non viga l’obbligo di frequenza, è assolutamente consigliabile seguire un corso di educazione, anche se troppo spesso i proprietari

di questi cagnolini non lo ritengono, a torto, necessario. Assume pertanto ancor più senso la giornata dedicata alla conoscenza delle società cinofile, degli istruttori e delle attività che si possono praticare con il cane: «Tanti proprietari pensano che sul campo di una società si tengano unicamente corsi di educazione di base come il Cittadino 4 zampe. Eppure, ci sono innumerevoli attività divertenti da praticare insieme. Ad esempio, Agility, HoopAgi, Divertimento Sport, il test per esordienti, ma anche ricerca di figuranti nel bosco, Cani d’accompagnamento e molte altre discipline nelle quali si può pure partecipare a gare e concorsi». Certo, dobbiamo tenere conto di razza e attitudini di ogni cane: magari il Chihuahua non riesce a correre per il tempo e la distanza richiesta nel campo per la ricerca del bosco, o un Alano fa più fatica infilarsi nel Tunnel di Agility. Ma per ogni cane si trova l’attività ideale». La nostra interlocutrice giustifica in questo modo l’impegno degli addetti ai lavori nel cercare di invogliare i conduttori dei cani a svolgere diverse attività, sempre divertendosi insieme: «Quest’anno la giornata nazionale non ha avuto luogo, ma ricordo che in ogni società cinofila si possono ottenere consigli per risolvere dei problemi, fare conoscenza con altre persone amanti di cani, mentre questi ultimi possono sfogarsi anche mentalmente e trovare nuovi compagni».

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Sapresti dire qual è la temperatura nello spazio intergalattico? Lo scoprirai a cruciverba ultimato leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 16, 5, 4)

ORIZZONTALI 1. Gobbe nel deserto 4. Se è apostrofato esiste... 6. Pronome personale 7. Tuo a Parigi 8. Le iniziali di Venditti 9. Inviato... in Inghilterra 10. Piante delle Mimosacee 13. Termine da ricette mediche 14. Un ente fondamentale della geometria 18. Nella manica... 20. Con, per i tedeschi 21. In italiano e in tedesco 22. Famoso quello d’America 23. Prepara all’università 25. Consonanti dell’ultima consonante... 26. Procedura liturgica 27. Terzogenito di Adamo 29. Piccoli spazi di verde in città 30. Angusto passo montano VERTICALI 1. Compone i cromosomi 2. Simboli della Pasqua 3. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco 4. Solidi geometrici 5. Pertinente all’intestino 7. Vetrina per preziosi 9. Un anagramma di naso 11. Una pura coincidenza 12. Si accosta alla bocca 15. Estate a Parigi 16. Le iniziali del conduttore Timperi 17. Un anagramma di arato 19. Posti, collocati 20. Può esserlo il clima 23. La Dagover attrice d’altri tempi 24. Audace 26. Ne ha due Roberto 28. Lo... spagnolo

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

Partecipazione online: inserire la

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Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Soluzione della settimana precedente

RICORDATEVI CHE… – Lo spazzolino da denti si dovrebbe cambiare…. Risposta risultante: QUATTRO VOLTE IN UN ANNO.

E C O E Q U T O B R U T E I A L E T R E Z E V I O L E N O P E L I A I U E N

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D A R O N C A S T R I A A S A C T E N E L N A N I O M E A

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 luglio 2020 • N. 29

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Politica e Economia Scenari politici Che cosa cambierebbe se il 3 novembre prossimo Donald Trump venisse sconfitto da Joe Biden?

TikTok nella bufera Mentre l’azienda cinese proprietaria dell’app ha deciso che il social media non sarà più disponibile a Hong Kong, gli Stati Uniti stanno valutando un ban completo sul mercato americano pagina 25

Che ne è della mafia? Cosa Nostra è sempre vispa e pronta a reinventarsi dopo ogni retata o, al contrario, l’organizzazione boccheggia? Domanda legittima dopo gli arresti eccellenti delle ultime settimane pagina 29

pagina 22 Da sempre gli oromolamentano la propria marginalizzazione dal potere. (AFP)

Nuove tensioni fra governo e oromo Etiopia Addis Abeba, la capitale, e l’Oromia, Stato che la circonda, sono stati teatro di grandi proteste

dopo l’uccisione di un famoso cantante. Un rigurgito di violenza mai visto dopo l’insediamento di Abiy Ahmed Pietro Veronese Tutti noi abbiamo scritto peana in suo onore, quando nell’ottobre scorso è stato insignito del Premio Nobel per la pace. Ma ecco che non è passato un anno e Abiy Ahmed Ali, primo ministro d’Etiopia, si trova al centro di due guerre: l’una civile, e in atto; l’altra per ora solo in potenza, ma internazionale, e terribile se mai dovesse davvero precipitare in scontro aperto. Abiy Ahmed è un esperto in risoluzione di conflitti: ha studiato questo argomento fino a conseguire in materia un dottorato di ricerca. È salito al potere aprendo le carceri, dialogando con gli oppositori che i suoi predecessori avevano imprigionato, restituendo libertà ai media e stringendo la mano ai tradizionali nemici del suo Paese. Tutto questo, a quanto pare, non è bastato. Il premier etiopico rischia di diventare, in un contesto totalmente diverso, una specie di Aung San Suu Kyi africano. Come l’eroina della libertà birmana – Nobel per la pace 1991, diventata leader del suo Paese e oggi universalmente accusata per la feroce persecuzione della minoranza

Rohingya – il grande prestigio internazionale di cui gode potrebbe non resistere alla dura prova dei fatti. Il problema storico dell’Etiopia, colosso africano di oltre 100 milioni di abitanti, è la convivenza tra le sue diverse nazionalità. La vastità di questo enorme Paese, grande quasi quattro volte l’Italia, l’estrema varietà geografica, la difficoltà delle comunicazioni, le complesse e plurisecolari vicende storiche ne hanno esasperato le differenze, rendendo sempre difficile governarlo. Tradizionalmente, il trono imperiale (ma non necessariamente la famiglia dell’imperatore o della sua consorte) era espressione dell’etnia amhara; dopo il suo abbattimento e altri 17 anni di regime militar-comunista, l’Etiopia cadde nelle mani dei guerriglieri del Tigrè, arido e impervio territorio del nord, e gli equilibri del potere ne risultarono sovvertiti. Invece di essere negata, conculcata, la «questione nazionale» fu riconosciuta, discussa e divenne il criterio sulla base del quale si tentò di riorganizzare lo Stato. Ma l’esito non è stato molto migliore, e la ragione è semplice. La nazionalità più numerosa della Repubblica Fede-

rale Democratica d’Etiopia, gli oromo, circa un terzo della popolazione totale, lamenta da sempre, e tuttora, la propria marginalizzazione e l’esclusione dal potere. Sono decenni che gli oromo si battono per vedere riconosciute le loro rivendicazioni – e che i nemici dell’Etiopia soffiano su questo scontento. Ed è un paradosso non piccolo che la protesta oromo si tramuti in rivolta ai tempi di un primo ministro che è figlio di un oromo di religione musulmana (e di una amhara di fede cristiano-ortodossa), e che ha concesso ampia espressione alla contestazione. L’episodio che ha scatenato i sanguinosi scontri di luglio è stato l’uccisione, il 29 giugno, di Hachalu Hundessa, cantautore le cui canzoni sono considerate «la colonna sonora della rivoluzione oromo». Amatissimo, popolarissimo, con un repertorio il cui primo nucleo fu composto nei cinque anni in cui il suo autore, all’epoca appena diciassettenne, era in prigionia, e poi cantato da decine di migliaia di bocche, Hachalu è stato abbattuto in strada ad Addis Abeba da killer non identificati. Per gli oromo era una bandiera e quella bandiera è stata im-

mediatamente impugnata dalle frange più radicali della protesta. Ci sono state manifestazioni, uccisioni, scontri a fuoco; particolarmente cruento il giorno dei funerali, giovedì 2 luglio. Il numero delle vittime è incerto: i primi bilanci sembrano ora ridimensionati, i morti sarebbero comunque un centinaio. Oltre mille gli arresti; la tensione nella capitale e tra gli oromo resta altissima. Parlare di guerra civile per l’intero Paese è certamente eccessivo; ma la questione oromo è riesplosa in maniera cruenta e il governo di Abiy Ahmed appare per il momento incapace di trovare una soluzione. Più elusiva, ma potenzialmente ben più allarmante, è la crisi internazionale che oppone l’Etiopia a Egitto e Sudan. L’oggetto della discordia è la gigantesca diga sul ramo etiopico del Nilo, il Nilo Azzurro. Il colossale progetto fu voluto in tempi in cui Abiy Ahmed era ancora molto lontano dal potere; è stato realizzato dall’impresa italiana Salini, non nuova a simili imprese d’ingegneria in giro per il mondo: e oggi è pronto a entrare in funzione. Fin dall’inizio la presenza della diga è stata motivo d’allarme per i Paesi

che si trovano a valle lungo il corso del grande fiume africano e la cui sopravvivenza letteralmente dipende dalle acque del Nilo. Sotto passati regimi, l’Egitto aveva dichiarato di vedere in quello sbarramento una giusta causa per la quale entrare in guerra. Uno dei primi gesti compiuti dal nuovo premier etiopico, poche settimane dopo essere asceso al potere nell’aprile di due anni fa, fu di volare al Cairo per incontrare il presidente al-Sisi e dargli le sue rassicurazioni: la gestione della diga sarebbe stata concordata attraverso un negoziato. Le cose, però, si sono rivelate molto più complesse del previsto. La commissione tripartita Etiopia-Egitto-Sudan, alla quale partecipano anche i capi dei rispettivi Servizi di sicurezza, si è riunita più volte; molti aspetti sono stati risolti, altri, importanti, restano insoluti. Gli argomenti sono molto tecnici e complicati. Nel frattempo, la stagione delle piogge 2020 è cominciata, il Nilo Azzurro va ingrossandosi e il gigantesco invaso della diga ha iniziato, lentamente, a riempirsi. È come una clessidra che misura il tempo mancante al primo giorno della prossima guerra.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 luglio 2020 • N. 29

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Politica e Economia

E se Trump venisse battuto? Scenari Che cosa cambierebbe nella politica economica americana se il democratico Joe Biden

vincesse l’elezione presidenziale del 3 novembre?

Federico Rampni Wall Street «prevede» Joe Biden, ma non tifa per lui. Lasciamo da parte le preferenze e intenzioni di voto di chi lavora nei mercati finanziari (i newyorchesi votano a maggioranza per il partito democratico, anche quando sono ricchi). Le scommesse degli investitori, alla stregua dei sondaggi, in questo momento danno a Biden un vantaggio molto netto, e dunque le grandi banche cominciano a fare i conti su cosa significherebbe per i mercati finanziari una presidenza democratica. Le notizie non sono tanto buone. Tra le poche certezze, il ritorno alla Casa Bianca di un democratico – soprattutto se affiancato da una maggioranza omogenea al Congresso – segnerebbe la fine dei generosi sgravi fiscali che Trump diede alle aziende. Tanto più in un contesto di drammatico peggioramento delle finanze pubbliche, l’aggravio della pressione fiscale sulle imprese sarebbe quasi certo. Donde una penalizzazione dei profitti, cosa che certo non giova alle quotazioni azionarie. Che cosa cambierà nella politica economica americana se Biden vince l’elezione presidenziale del 3 novembre? Biden ne ha parlato la scorsa settimana in Pennsylvania, Stato-chiave per ribaltare il risultato elettorale del 2016. Riassunto in estrema sintesi, al protezionismo di Donald Trump il candidato democratico risponde con… più protezionismo. Un avviso a chi crede che si possa chiudere la «parentesi» Trump e tornare alla globalizzazione com’era prima. Un po’ di speranza per gli europei c’è, tuttavia: Biden ha in mente una strategia delle alleanze che li coinvolga, almeno con loro sarebbe meno duro di Trump. L’asse centrale della proposta Biden è un uso energico e determinato della spesa pubblica e delle normative su appalti e commesse statali, per favorire sistematicamente il made in Usa. Con l’aggiunta di una politica industriale attiva, diretta a promuovere la competitività americana soprattutto nelle tecnologie avanzate. Nulla di nuovissimo rispetto a Trump; semmai il messaggio di Biden è che la sua politica sarebbe più efficace nel promuovere una ricostruzione e rinascita della potenza economica americana. Il programma Biden prevede nell’arco del mandato presidenziale di quattro anni un aumento di 400 miliardi di dollari negli acquisti di prodotti e servizi made in Usa da parte della pubblica amministrazione; più un fondo di 300 miliardi a sostegno della ricerca e sviluppo. Biden intende riesumare un programma dell’era di Barack Obama che si chiamava «Buy American»: fu una clausola di preferenza nazionale inserita da Obama negli «stimulus package» (manovre di sostegno della crescita) varati dopo la crisi del 2009. All’epoca non mancarono le proteste e i ricorsi dall’Unione europea e dal Ca-

nada contro quella clausola autarchicoprotezionista, anche se ce li siamo un po’ dimenticati: il nazionalismo economico però aveva cominciato la sua strisciante avanzata già allora, senza aspettare l’elezione di Trump. Ora Biden promette di rendere ancora più stringente l’applicazione della regola «compra americano» per tutte le spese del governo federale. Dunque, che cosa cambierebbe davvero rispetto a Trump, sul fronte economico? Tre cose soprattutto. Primo, il segno della politica fiscale tornerebbe ad essere più perequativo, spostando il peso dei maggiori prelievi sulle imprese e sugli alti redditi. Secondo, verrebbero rafforzati i diritti dei lavoratori e il ruolo dei sindacati. Terzo: il Green New Deal tornerebbe alle politiche ambientaliste dell’era Obama, con un rafforzamento ulteriore. Su tutti questi tre terreni occorre precisare che il presidente degli Stati Uniti, chiunque sia, ha un potere importante ma limitato. La politica fiscale e di bilancio deve passare dal Congresso, in questo senso è cruciale l’equilibrio che verrà a determinarsi alla Camera e al Senato; come sappiamo non è scontato che l’elezione di un presidente democratico coincida con una maggioranza del suo partito nei due rami del Congresso. (Biden a questo risponde che lui è capace di negoziare intese bipartisan a differenza di Trump; i margini per gli accordi tra democratici e repubblicani però si sono ridotti negli ultimi decenni con la polarizzazione della politica americana). In quanto ai diritti dei lavoratori, in parte questi dipendono dai singoli Stati; nel Sud per esempio molti Stati hanno frapposto ostacoli legislativi molto grossi contro la sindacalizzazione. La politica ambientale è quella dove il potere presidenziale di legiferare per decreto è più ampio, come si è visto nell’opera di sistematico smantellamento dell’eredità di Obama che è stata perseguita da Trump. Sarà più facile rifare ciò che Trump ha disfatto sul terreno della lotta al cambiamento climatico e degli incentivi alla sostenibilità. Il discorso di Biden in Pennsylvania è importante per due ragioni. Primo, il candidato democratico è in netto vantaggio sul presidente in carica nei sondaggi, con un’unica eccezione: quando gli elettori vengono interrogati su chi sia più efficace nel governare l’economia, Trump è ancora in testa. In secondo luogo la Pennsylvania è uno di quegli Stati industriali che furono decisivi per il «ribaltone» del 2016. Trump prevalse su Hillary Clinton con un vantaggio di 44’292 voti su più di sei milioni di votanti, uno scarto dello 0,7%, il più ristretto margine di vittoria in 176 anni. La Pennsylvania con qualche Stato del Midwest fu il laboratorio di quel travaso di voti operai che voltarono le spalle al partito democratico. Già allora qualcuno sosteneva che una candidatura di Biden al posto della Clinton avrebbe tenuto la Casa Bianca

Joe Biden si rivolge agli elettori in Pennsylvania. (AFP)

in campo democratico, grazie al migliore appeal di Biden presso l’elettorato operaio. Ora deve dimostrare che questo appeal è reale ed è più forte di quello di Trump. Come si è visto bastano spostamenti di poche frazioni percentuali. Una parte dello scontro fra lui e Trump avverrà proprio sul protezionismo. Il presidente ha sempre associato Biden ai trattati di liberalizzazione degli scambi, la cui firma è stata seguita da un’accelerazione nelle delocalizzazioni, uno smantellamento di fabbriche, la perdita di posti di lavoro ben pagati a vantaggio di paesi come la Cina e il Messico. Biden da senatore votò in favore del Nafta, il primo mercato unico nordamericano che aprì le frontiere col Messico e il Canada nel 1994. Biden è stato associato anche agli ultimi bagliori del liberismo commerciale, i due trattati transatlantico e transpacifico che Obama tentò invano di realizzare sul finire della sua presidenza. Quell’era della globalizzazione è stata percepita come un netto danno per la classe operaia americana e la disaffezione dal libero scambio ha contribuito all’ascesa di Trump. Ma negli ultimi anni Biden, come gran parte dell’establishment democratico, ha indurito le sue posizioni sul commercio estero e in modo particolare sulla Cina. Nei duelli televisivi tra i due candidati – che saranno pochi – assisteremo probabilmente ad una gara a chi risulta più credibile come avversario di Xi Jinping. Diverso è il discorso sull’Europa. Mentre Trump non ha mai articolato una strategia delle alleanze, e ha imposto dazi su prodotti europei come su quelli cinesi, Biden vorrebbe resuscitare lo spirito atlantico e il ruolo della

Nato, quindi cercherebbe di trovare terreni d’intesa con l’Unione Europea contro la Cina. Dopo il discorso in Pennsylvania, Biden ne ha altri in programma: sul Green New Deal e sulla sanità. Quest’ultimo è un suo piatto forte. L’attacco di Trump contro la riforma sanitaria di Obama non è mai stato molto popolare: piace alla base repubblicana, fino al momento in cui si percepiscono i prezzi da pagare con la riduzione dell’assistenza medica. Biden ha avuto l’accortezza di non abbracciare mai gli slogan più radicali della sinistra democratica, le proposte di Bernie Sanders e di Elizabeth Warren per una sanità interamente pubblica sul modello europeo. Lui è per un approccio più gradualista che aumenti il ruolo dello Stato senza dichiarare guerra al capitalismo sanitario privato (composto da assicurazioni, ospedali, e Big Pharma, spesso in conflitto tra loro ma pronti a coalizzarsi contro la statalizzazione). Il tema sanitario tornerà ad assumere un’importanza enorme da qui al 3 novembre, per ovvie ragioni. Ma non bisogna credere che la pandemia abbia improvvisamente convertito la maggioranza degli americani alla superiorità del modello europeo: in effetti nei dati sulla mortalità da Coronavirus gli Stati Uniti finora presentano un bilancio meno pesante di Regno Unito, Italia, Francia, Belgio e Spagna. Tra i temi sui quali Biden è atteso al varco, sempre sul terreno economico, segnalo questi: con quale mix di imposte andrà a finanziare le sue politiche, quanta parte del nuovo gettito verrà dalle imprese, quante dalle persone fisiche più abbienti? Il tema della politica di bilancio diventerà via via più impor-

tante quando sarà evidente l’enorme buco nel gettito fiscale generato dall’attuale recessione. Altro tema è l’atteggiamento verso Big Tech. L’attuale presidente pur avendo rapporti burrascosi con alcuni protagonisti della Silicon Valley, li difende strenuamente dalle digital tax europee o dalle offensive dell’antitrust di Bruxelles. Biden dovrà dire da che parte sta. Uno dei migliori analisti della geopolitica a mio avviso è Ian Bremmer del gruppo Eurasia. Nella sua ultima riflessione, nota la coincidenza delle ultime mosse parallele da Vladimir Putin e Xi Jinping. Il primo ha di fatto trasformato la sua presidenza in una monarchia imperiale, dandosi un mandato a vita e sbarrando la strada ad ogni rivale. Il secondo continua a moltiplicare gesti aggressivi, da Hong Kong all’India. Sembrano fatti per intendersi, e Bremmer ragiona sulle convergenze che faranno di Cina e Russia l’anti-Occidente in grado di calamitare tanti altri paesi attratti dal modello autoritario. La Cina ha più da perdere della Russia nel «decoupling» che lentamente ma inesorabilmente è destinato a destrutturare tante catene industriali e logistiche rispetto ai tempi d’oro della globalizzazione. La Russia ha meno da perdere in quanto si era già emarginata dall’Occidente. Insieme possono costituire un’opzione interessante per chi voglia aggregarsi a un polo alternativo rispetto a una comunità transatlantica assai sfilacciata. Una presidenza Biden rimetterebbe al loro posto alcuni ingranaggi della coalizione transatlantica, ma la coesione sarà comunque messa a dura prova dall’impoverimento successivo ai lockdown. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Usa-Cina, in guerra c’è anche TikTok Internet La Cina blocca l’app a Hong Kong mentre gli Usa ne valutano la sua messa al bando perché temono

che possa essere utilizzata da Pechino per sorvegliare le persone e fare propaganda Giulia Pompili Dopo che il segretario di stato Mike Pompeo ha detto che l’Amministrazione americana sta pensando di vietare TikTok sul suo territorio, il popolare social network è diventato ufficialmente un problema politico, parte della guerra ideologica e di propaganda tra America e Cina. La piattaforma per ragazzini, lanciata nel 2016 per produrre video in cui si canta e si balla, senza nessuna velleità di contenuti più seri, col tempo si è trasformata, al contrario, in un social network con messaggi politici. Ma è soprattutto fuori dalla realtà virtuale che il sistema TikTok è diventato il simbolo di un sistema che l’America vorrebbe combattere: «Le persone dovrebbero scaricare l’app solo se vogliono che le proprie informazioni private siano nelle mani del Partito comunista cinese», ha detto Pompeo. Zhang Yiming, trentotto anni, è il nono uomo più ricco della Cina. Ha lavorato per il sito di viaggi cinese Kuxun, poi per Microsoft, fino a quando, nel 2012, ha fondato ByteDance, che oggi è una delle società internet più di valore al mondo, valutata circa cento miliardi di dollari. ByteDance possiede un aggregatore di notizie ma soprattutto il social del momento, TikTok, che sin dalla sua fondazione ha messo in campo un modello di business simile a quello dei grandi social americani. TikTok funziona grazie al numero di utenti e guadagna quasi esclusivamente dalla

pubblicità. Ma per fare i soldi in Cina bisogna anche essere molto vicini al Partito comunista cinese. Zhang è riuscito nella scalata dei colossi di internet cinesi, come Alibaba e Tencent, non solo per l’idea innovativa dietro alla sua società – unire l’intrattenimento all’esodo, sempre più massiccio, degli utenti di internet dal computer allo smartphone – ma anche grazie al fatto che ha sempre rispettato le regole imposte da Pechino. Un anno fa il quotidiano inglese «Guardian» ha ottenuto dei documenti riservati di ByteDance, e ha svelato un sistematico piano di censura dei video sgraditi a Pechino, per esempio quelli sulla strage di Piazza Tiananmen, sul Tibet, sulle minoranze religiose. La spinta sulla censura è stata ancora più evidente dopo l’inizio delle proteste a Hong Kong: su TikTok sono spariti praticamente tutti i video che facevano riferimento all’autonomia dell’ex colonia inglese. Con l’introduzione, il mese scorso, della legge sulla Sicurezza nazionale che impone le stesse regole di comportamento (e di censura) anche per la regione autonoma, l’azienda di Zhang ha deciso di abbandonare del tutto Hong Kong. Al suo posto, i cittadini potranno utilizzare Douyin, un’applicazione gemella fatta però per gli utenti cinesi, e quindi in grado di censurare preventivamente tutti i contenuti sgraditi. TikTok è il primo social network cinese ad avere successo anche in Occidente, ed è oggi il principale concor-

L’India è il primo paese che ha ufficialmente vietato l’uso di TikTok. (AFP)

rente di Facebook. Lo ha ammesso perfino il fondatore, Mark Zuckerberg, dopo che all’inizio di quest’anno i dati sui download delle applicazioni hanno visto solo Whatsapp superare gli utenti di TikTok. È stato lo stesso Zuckerberg però a criticare l’app cinese per il suo modello di censura: «I nostri servizi come WhatsApp sono utilizzati da manifestanti e attivisti di tutto il mondo grazie alla crittografia e alla protezione della privacy, su TikTok le menzioni di certe proteste vengono censurate, perfino negli Stati Uniti», ha detto durante

un discorso alla Georgetown University: «È questo l’internet che vogliamo?». Ma la censura funziona in modo selettivo per la Cina: quello che può danneggiare il Partito comunista va cancellato, e quello che invece può avere un effetto positivo per la Cina va fatto diventare virale. Quando a fine maggio la morte di George Floyd in America ha dato il via al movimento di Black Lives Matter, in un primo momento quel tipo di contenuti ha subìto la censura. Poi però l’azienda di Zhang Yiming si è scusata con i manifestanti

americani e ha parlato di «un problema tecnico». E così anche la propaganda cinese ha usato moltissimi video di violenze condivisi su TikTok in chiave anti-Trump. Il primo paese che ha ufficialmente vietato l’uso di TikTok è l’India. Il governo di Narendra Modi, nel mezzo della peggiore crisi diplomatica con la Cina degli ultimi trent’anni, ha deciso di limitare ai suoi cittadini l’uso di moltissime applicazioni cinesi, tra cui l’app dei video. Per Delhi è anche un modo per fare boicottaggio: il mercato internet indiano è il più grande del mondo, ed è un enorme danno economico per le aziende tech cinesi non avervi accesso. Anche il primo ministro australiano Scott Morrison sta considerando il divieto. In un’intervista radio la settimana scorsa ha detto che molti australiani sono preoccupati dalla possibile violazione della privacy di applicazioni come quelle per il tracciamento dei contatti durante l’epidemia, eppure non hanno nessun problema a caricare contenuti privati su piattaforme come TikTok: «Credo che le persone dovrebbero essere più consapevoli sull’origine di certe piattaforme e sui rischi che presentano». Sebbene TikTok sia un’azienda privata, la raccolta dei dati degli utenti avviene in Cina: come succede a tutte le aziende cinesi, se il governo dovesse richiederne l’accesso, la compagnia sarebbe obbligata a condividere le informazioni. È il capitalismo autoritario con caratteristiche cinesi. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Da Cosa nasce (e muore) Cosa? Storie di mafia La sensazione è che Cosa Nostra attraversi la peggiore crisi della sua storia quasi millenaria:

non ha più uomini, non ha più quattrini, non ha più influenza Alfio Caruso Un bel rompicapo per magistrati e forze dell’ordine: i dieci boss di spicco e i sessanta picciotti ingabbiati in tre settimane significano che Cosa Nostra è sempre vispa e pronta a reinventarsi dopo ogni retata o, al contrario, significano che l’organizzazione boccheggia, che i suoi tentativi di riprendere il controllo del territorio si scontrano con la volontà di parecchi commercianti, imprenditori, professionisti di non sottostare più al «pizzo», all’estorsione base di ogni intrapresa mafiosa? Tra gli ammanettati ci sono i vertici di due mandamenti di antico lignaggio, Tommaso Natale e San Lorenzo; c’è Giulio Caporrimo, al terzo arresto in tre anni, che per scongiurare le microspie degli investigatori s’incontrava con il suo vice Nunzio Serio sul gommone in mezzo al mare; ci sono Francesco Paolo Liga e Vincenzo Taormina, il cui giro di affari e di conoscenze arriva addirittura a Carminati e all’ormai famoso «mondo di mezzo» della malavita romana; c’è Mico Farinella, il vecchio capofamiglia di San Mauro Castelverde, fedelissimo di Riina, scarcerato un anno addietro dopo un quarto di secolo in isolamento; c’è l’avvocato Raffaele Bevilacqua, ex dominus della democrazia cristiana siciliana, anch’egli libero da pochi mesi per motivi di salute, che fedelissimo lo era a Provenzano; c’è Mariano Asaro al vertice delle cosche trapanesi, indicato da diversi collaboratori di giustizia come l’omicida, nel 1983, del magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto: in libertà dopo 25 anni di carcere duro, lo riverivano in tanti, compreso l’ex deputato regionale del Pd, Paolo Ruggirello. Tutti traditi dalle denunce delle loro vittime e più ancora dalla morsa di carabinieri e polizia, che spesso hanno giocato d’anticipo. Tutti rassegnati a un piccolo cabotaggio quotidiano, lontani dai grandi traffici internazionali di un tempo quando c’erano i corleonesi o addirittura le «famiglie» storiche dei Bontate e degli Inzerillo. E il desiderio di tanti di tornare al passato si è dovuto limitare alle cerimonie di affiliazione con quel rituale barbaro che tira in mezzo pure santa Rosalia o addirittura al ripristino del bacio in bocca, in un caso senza neppure togliersi la mascherina anti Covid 19, era il caso di Ruggirello con Asaro. L’avvocato Bevilacqua aveva, invece, preteso un più autorevole bacio della mano da quanti erano andati a ossequiarlo appena fuori dal penitenziario. La sensazione è che Cosa Nostra attraversi la peggiore crisi della sua storia quasi millenaria. Non ha uomini, non ha quattrini, non ha influenza. I reparti speciali di polizia, carabinieri, guardia di finanza; i droni e le microspie; i collaboratori di giustizia e il patrimonio di conoscenze acquisito negli ultimi trent’anni, hanno stroncato il 90 per cento delle attività dei mafiosi. Le mani sugli appalti adesso le allungano i politici, non più i picciotti. D’altronde, non c’è dinastia che abbia scampato condanne giudiziarie e lunghe pene detentive. Continua a resistere la latitanza del solo Matteo Messina Denaro, attorno al quale è stato creato il vuoto al punto tale che nei sussurri della squadra incaricata di dargli la caccia si comincia a valutare l’ipotesi che sia morto e che il suo nome venga usato da quanti provano a sfruttarne lo spessore criminale prima di finire a loro volta in carcere. Nell’ultimo repulisti delle forze dell’ordine sono finiti impigliati anche gli eredi degli Inzerillo, degli Spatola, dei Mannino, dei Di Maggio costretti a fuggire tra l’81 e l’82 per salvarsi dalla carneficina dei corleonesi. Le squadre della morte di Riina e Provenzano col-

Armi sequestrate alla mafia dai carabinieri, in un una fotografia esposta al No Mafia Memorial di Palermo. (AFP)

pirono con precisione chirurgica quanti si vantavano di volerli rispedire a calci in culo a Corleone per fare ciò che avevano sempre fatto, i «viddani». Venne definita la seconda guerra di mafia, in realtà fu un annientamento sociale: la nobiltà di Cosa Nostra, arricchitasi a dismisura con il traffico della droga, sterminata dai poveracci di Cosa Nostra, che fin lì avevano vissuto d’espedienti. Gli uomini della campagna, «i viddani» per l’appunto, all’assalto della città, zeppa di quattrini e di opportunità. Un rapporto di forze sproporzionato, 1000 contro 50, che non offriva alcuno spiraglio a quelli sotto attacco. Nell’81 in poco più di due mesi furono uccisi Stefano Bontate, il numero uno, il grande massone riverito e temuto nei salotti del vecchio patriziato e della nuova borghesia, capace di tenere in mano la politica, di assoggettare deputati e senatori, di minacciare persino Giulio Andreotti. Dopo di lui, toccò al suo principale alleato Totò Inzerillo esponente di un clan storico, quello di Passo di Rigano, da dov’era incominciata un secolo prima l’emigrazione mafiosa negli Stati Uniti. A seguire fratelli, zii, capibastoni, semplici soldati in un crescendo di barbarie e di ferocia. Al figlio quindicenne di Totò, Giuseppe, prima di strangolarlo amputarono il braccio destro perché aveva giurato di volersi vendicare degli assassini del padre. Pietro Inzerillo, uno dei numerosi fratelli di Totò, fu rinvenuto decapitato dentro il bagagliaio di un’auto a Mont Laurel, nel New Jersey. Gli avevano infilato una banconota da 5 dollari in bocca e ricoperto di monetine i genitali. Sparì anche lo «zio americano» Antonino: secondo alcuni collaboratori di giustizia, lui e Pietro furono eliminati dai loro congiunti quali vittime sacrificali per bloccare il massacro dei palermitani. A quel punto si mosse Paul Castellano il capo dei capi di Cosa Nostra americana, espressione delle cinque «famiglie» newyorkesi, cugino degli Inzerillo, che erano anche cugini dei riveriti Gambino, dai cui ranghi proveniva il sessantaseienne «big Paul». Fu costretto a umiliarsi mandando i suoi ambasciatori a Palermo per riconoscere che ormai «comandava Corleone» e con i suoi boss, cioè Riina e Provenzano, egli avrebbe trattato affari e decisioni. In cambio ottenne che quanti erano ancora in vita degli Inzerillo e dei loro congiunti, gli Spatola, i Di Maggio, i Mannino, potessero raggiungere gli Stati Uniti. Con l’impegno esplicito di non fare più ritorno in Sicilia. Nel gergo

dei picciotti divennero «gli scappati». A Palermo, per loro espressa volontà, rimasero la moglie di Totò, Filippa Spatola, e il figlio minore Giovanni, di soli sei anni. L’accordo durò fino al 1997 allorché Provenzano, ormai sicuro del comando con Riina e suoi seppelliti dagli ergastoli, concesse al fratello di Totò Inzerillo, Franco, espulso dagli Stati Uniti, di rientrare purché facesse il pensionato. Il ritorno degli «scappati» si è intensificato con il nuovo secolo. Venne mandato in avanscoperta Sarino Inzerillo, dietro il quale si stagliava l’imponente sagoma di Frak Calì, detto «Franky boy», cognato di un Inzerillo e soprattutto in ottimi rapporti con John Gotti, il successore di Castellano. Fu lui a trattare per conto degli americani e a benedire l’investitura di Giovanni, il figlio di Totò, scortandolo nel giro delle presentazioni americane. Una tournèe, che aumentò i sospetti degli irriducibili nemici, quelli che avevano partecipato al massacro dell’81 e per i quali ciascuno dei sopravvissuti dell’epoca continuava a essere soltanto un nemico da stendere. Ma gl’Inzerillo, i Di Maggio, gli Spatola, i Mannino non solevano solo rientrare, volevano anche investire in Sicilia la montagna di dollari accumulata negli Stati Uniti. Per le «famiglie» palermitane in crisi economica da anni rappresentò un bel rompicapo. Accettare o rifiutare? I Lo Piccolo padre e figlio, all’epoca i boss emergenti, si dichiararono favorevoli a riabbracciare «gli scappati» e soprattutto a usare le loro sostanze. Di avviso diverso gli antichi complici palermitani dei corleonesi, Nino Rotolo, Nino Cinà, Franco Bonura, timorosi di tramutarsi nell’obiettivo di una vendetta. L’arresto di Provenzano nel 2006 produsse una campagna di morte bloccata dall’intervento immediato di carabinieri e polizia, che già tenevano sotto osservazione molti degli arrestati. Nell’ultimo decennio le attività degli Inzerillo e dei cugini si sono intensificate. Oltre agli affari, hanno provato a scalare il vertice della cupola, quella che in gergo si chiama la «commissione provinciale», espressione dei 15 mandamenti (8 in città e 7 in provincia), composti da 81 «famiglie» (32 in città e 49 in provincia). L’ultimo a presiederla fu Riina, mentre Provenzano mai venne investito ufficialmente del ruolo, che risulta tuttora non coperto. In una riunione di alcuni capi mandamento a Catania nel 2016 non fu possibile tro-

vare l’intesa. L’uccisione poi negli Stati Uniti di «Franky boy» Calì ha vieppiù ingarbugliato la composizione di una nuova struttura e le conseguenti nomine. A detta degl’inquirenti, la ricerca di un modello al passo con i tempi e la designazione di un vertice erano anche la causa dei frequenti incontri di Franco Inzerillo con l’ottantenne gioielliere Settimo Mineo, indicato quale possibile erede di Riina. Ma le sue ambizioni sono state cancellate dallo scattare delle manette. Anche le file degl’Inzerillo e dei loro parenti sono state decimate da

inchieste e ingabbiamenti. I proficui business con New York smantellati, il mandamento di Passo di Rigano messo in ginocchio. I verbali degli interrogatori raccontano di arrestati che sostengono di attraversare una profonda crisi mistica, di aver cambiato vita, di essere pecorelle smarrite in cerca del sentiero. Tutto pur di sfuggire alle proprie responsabilità. E torna in mente un’antica previsione di Falcone: nelle umane vicende tutto ha un inizio e una fine e sarà così anche per la mafia. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 luglio 2020 • N. 29

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi E se i «Nostri» dovessero diminuire? Chi nelle vacanze estive o in quelle autunnali è approdato all’isola di Mikonos (destinazione turistica frequentatissima, nei tempi felici in cui si poteva ancora viaggiare senza il rischio della quarantena) ha certamente avuto occasione di visitare anche l’isola di Delos, che dalla prima dista una ventina di minuti di traghetto. Delos è l’isola dove, secondo la mitologia greca, sarebbe nato Apollo. La città si è sviluppata pressappoco sull’arco di un millennio. È stata dapprima un centro religioso e poi un centro commerciale importante. Oggi i turisti possono passeggiare tra le sue imponenti rovine e appassionarsi alla sua storia. Apprenderanno così che nel 540 avanti Cristo il governatore Peisistratos ne ordinò la prima purificazione. Stando a questa decisione nessuno avrebbe potuto più nascere o morire sull’isola. Con un

colpo di stilo su una tavoletta di cera Peisistratos decise quindi di abolire il movimento demografico naturale sull’isola da lui governata. La popolazione non poté più svilupparsi che per l’apporto del movimento migratorio. Non so quanto a lungo questo decreto sia stato mantenuto. Col passare del tempo comunque sull’isola, dove non si poteva nascere né si poteva morire, la popolazione si sarà venuta formando di soli immigrati. La componente autoctona, ossia la parte della popolazione nata sull’isola, sarà invece sparita perché le future mamme andavano a partorire altrove. In Ticino sta avvenendo la stessa cosa, anche senza decreto. I Nostri, ossia la componente autoctona della popolazione, tendono a sparire, perché il saldo del movimento naturale (nascite meno decessi) è, da anni, diventato negativo. Prendiamo per

esempio il 2019. In quell’anno i nati nel Cantone sono stati 2494. Poiché i morti raggiunsero la cifra di 3238, il movimento demografico naturale si chiuse con un saldo negativo di 744 unità. Siccome poi il saldo del movimento migratorio, pur rivelandosi positivo, toccò appena le 183 unità, la popolazione residente nel Cantone diminuì, alla fine dell’anno, di 561 persone, ossia dell’uno per mille circa. Non vi fosse stato l’apporto del movimento migratorio, la diminuzione sarebbe stata di più di 700 persone. Non si tratta di un risultato casuale. La diminuzione della popolazione è in atto, in Ticino, da tre anni. Essa è determinata dal sommarsi di due fenomeni demografici negativi. Il primo è costituto dalla riduzione del saldo naturale. Per il continuo diminuire del numero dei nati, nel corso degli ultimi cinque anni il saldo naturale

negativo è più che raddoppiato. L’altra tendenza negativa è costituita dal diminuire del saldo migratorio che, nel periodo esaminato, è passato da quasi mille a poco più di un centinaio di unità. L’evoluzione dei prossimi anni dovrebbe prolungare e aggravare queste tendenze. Difficile anticipare, proprio ora, una ripresa delle immigrazioni. La situazione economica non sta evolvendosi al meglio e nel paese ci sono forze politiche che, se potessero, eliminerebbero il termine «libera circolazione» dal nostro vocabolario politico. È possibile che il numero dei nati, sceso a livelli molto bassi nel corso degli ultimi due anni, possa riprendere qualche centinaio di unità nel prossimo futuro. Questo non basterà comunque a far ritrovare all’evoluzione demografica del Cantone un ritmo ascendente. Nonostante che gli scenari

demografici per il 2040, ripubblicati anche nell’annuario statistico ticinese più recente, continuino a anticipare, per quella data, una popolazione tra le 380’000 e le 450’000 unità, per noi nei prossimi anni la popolazione del Cantone rimarrà stazionaria. Non passeremo la soglia dei 360’000 abitanti prima del 2030. La continua erosione della popolazione autoctona, che accompagna questa evoluzione, dovrebbe avere una ripercussione sul dibattito politico intorno all’esigenza di privilegiare i Nostri. Sebbene non esista una definizione ufficiale si pensa che i Nostri siano abitanti nati nel Cantone e di nazionalità svizzera. Alla luce delle tendenze demografiche in corso, se non vogliamo che, in futuro, il loro effettivo si riduca a poca cosa dovremo chiedere alle nostre autorità di aumentare in misura significativa le naturalizzazioni.

ne per varie ragioni: la prima è che il Texas è uno Stato in transizione, sta diventando per ragioni demografiche soprattutto molto più democratico e questo già è visibile nelle grandi città. Fino a qualche tempo fa, si diceva che il 2020 non sarebbe stato l’anno del passaggio storico dal rosso repubblicano al blu democratico, ma ora invece il timore è molto più alto. Allo stesso tempo però Abbott è assediato dalle forze libertarie fuori e dentro il suo partito, che come si sa sono rilevanti in Texas e custodi di un’insofferenza nei confronti dell’interventismo del governo che affonda nella loro stessa identità (o come la percepiscono). Per questo il governatore non è mai riuscito a introdurre regole troppo stringenti di contenimento dei contagi, ma nemmeno quelle di base, come la mascherina. Ancora qualche giorno fa, quando infine Abbott ha dovuto firmare un ordine esecutivo che impone la mascherina obbligatoria, ha dovuto precisare: questa non è una limitazione della vostra libertà, questa è una

protezione della vostra libertà. Già il fatto che il governatore debba spiegarla, l’importanza della mascherina, rende bene l’idea di come questo strumento di prevenzione sia diventato – complice il presidente Donald Trump che ha deciso di mettersi ogni tanto la mascherina perché ha scoperto che non gli sta così male, ha detto – un ennesimo simbolo della polarizzazione americana. Ma poiché il Texas è il Texas, succede anche che in moltissime città di questo Stato enorme le autorità non vogliono eseguire gli ordini del governatore. Per chi non rispetta l’utilizzo della mascherina, la multa è di 250 dollari, ma per la polizia fermare le persone sembrerebbe un arresto, e quindi dice di non poterlo fare. Starà ad Abbott risolvere questo conflitto, ma non sarà facile, soprattutto perché è stato lui il primo, per buona parte della pandemia, a dire che la mascherina – e molte altre misure – non era necessaria. E come molti governatori repubblicani, anche Abbott ha accelerato sulla ripartenza alla prima flessione dei contagi, rendendo quasi

inevitabile la seconda ondata (anche se non ci si aspettava che fosse così ravvicinata e così forte). Ora essere credibili sulla mascherina obbligatoria è complicato, anche se Abbott come molti altri non ha scelta. Si moltiplicano gli studi che dimostrano che il semplice utilizzo della mascherina è il migliore strumento di prevenzione e contenimento del Coronavirus. Gli studi sono sia asiatici, dove la mascherina è già molto utilizzata, sia europei – soprattutto tedeschi. Sono molto convincenti e lo sono ancora di più per gli stessi repubblicani americani che finora avevano seguito la linea trumpiana un po’ strafottente e un po’ negazionista. Ora che i sondaggi per il presidente non vanno così bene, ora che l’impatto della gestione sciagurata della pandemia diventa sempre più drammatico, il Partito repubblicano inizia a chiedersi se tanta fedeltà presidenziale sarà remunerata. Le risposte non sembrano a oggi rassicuranti, e così intanto per non sbagliare, spuntano mascherine dove prima non c’erano.

interventi urbanistici fanno correre il pensiero a cosa si inventa altrove: Siviglia, Cascais e Marsiglia tanto per far esempi. Da noi prevalgono rappezzi e aggiunte progettuali, specchio di titubanze di chi a tavolino discute di nuovi poli, poi alla fine opta per i compromessi e rinuncia a osare qualcosa di creativo. Siamo davanti al Municipio e ai fontanoni emblemi di un turismo di inizio Novecento, nel mezzo di quello che urbanisticamente rimane il cuore della Lugano bella: la tratta che dal LAC arriva al Casinò Kursaal. Girando le spalle al Ceresio, sguardo e mente vedono la Lugano del 2020, quella che spera di uscire dalle crisi che si assommano puntando su arte e cultura, cioè all’incontrario rispetto al passato che proponeva sul Golfo i corpaccioni dei grandi alberghi come il Palace, il Beha, il Bristol, il Majestic. Alcuni resistono, pochi e poco considerati, quasi colpevolizzati. Quella Lugano si è disintegrata: prima ha vagheggiato nuove atmosfere di

accoglienza che arrivavano sino a Piazza della Riforma e tentavano di andare oltre (ricordate i Mövenpick del Ciani e del Liceo?); poi sedotta e abbandonata dalle dorate atmosfere che hanno condecorato la preminenza delle banche sino alla fine del secolo scorso. Il declino ha lentamente fagocitato anche artigiani e piccoli commerci, costretti a emigrare in periferia, travolti dalla corrente di rialzi degli affitti che ancora prosegue le sue erosioni. Resiste, e si difende, solo quella che chiamo la «Lugano 8-17»: migliaia di impiegati, commessi, burocrati, funzionari e dirigenti chiamati a riempire i palazzi una volta «nobili» o di rappresentanza; una socialità «a ore» che sera dopo sera, fine settimana dopo fine settimana, limita ad orari di ufficio, la vitalità, quindi anche l’accoglienza e la socialità, del centro. Non mi va di sconfinare nel politico, men che meno in alibi progettuali che ricicciano a rimorchio di emer-

genze o... scadenze elettorali. Meglio tornare al passeggio sul lungolago, schivando runner più o meno tonici impegnati nel loro rispettabilissimo rituale domenicale. Al Parco Ciani portale presidiato dall’ottocentesco organetto di Jörg, villa chiusissima, per la sete solo vedovelle e visitatori che guatano zone d’ombra più che piante e fiori. Quasi alla foce l’assembramento suggerisce una sosta. Seduto su una panchina, un po’ stufo di veder processioni, alzo la visuale e, su un ramo alto di un grosso platano, intravvedo un velo multicolore. Penso a un foulard sospinto dal vento. Alzandomi, vedo anche una gamba e indovino un manichino, innalzato o fatto volare fino a tre metri dal cielo. La visione quasi felliniana di quel manichino (già recuperato?) sembra suggerire che forse solo un artista (senza o con l’apostrofo) può aiutare politici, urbanisti e architetti a reperire quel che manca alla Lugano turistica: un po’ più di poesia.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Mascherina, che problema è?

Wikipedia

Ogni giorno è un record in Texas: la progressione del contagio di Coronavirus è rapidissima, molto più rapida di quella già preoccupante di aprile. Per avere un’idea: sabato 4 luglio, il giorno dell’Indipendenza, festa grande per l’America, in Texas c’erano 8258 casi accertati. Un numero enorme: un record. Martedì 7 luglio, tre giorni dopo, i casi hanno

superato per la prima volta la soglia diecimila, 10’028 per la precisione: un nuovo record. Ma, dicono molti, oggi si muore di meno di Covid, sembra che la seconda ondata (che poi sarà una seconda ondata o semplicemente è la prima ondata che non era finita e si è fatto finta che lo fosse?) sia meno letale. Sarà, ma gli ospedali sono pieni come, di nuovo, non lo erano nemmeno ad aprile. Il Texas non è l’unico Stato americano a registrare nuovi picchi (attenzione alla Florida, un altro posto da record e molto seguito perché per le elezioni presidenziali questi sono stati decisivi), ma la sua storia è utile per comprendere, o ribadire, una cosa semplice: servono le mascherine. Il governatore dello Stato è un repubblicano, Greg Abbott (nella foto), che per sua fortuna non deve riconfermare il proprio posto a novembre, altrimenti, scrive la «Texas Tribune», per lui sarebbe molto difficile imporsi, anche all’interno del Partito repubblicano, perché la gestione della pandemia è stata terribile. Abbott è sotto pressio-

Zig-Zag di Ovidio Biffi Ritorno sul lungolago di Lugano In casa si decide di iniziare l’estate tornando sul lungolago di Lugano, di domenica, a passeggiare, con tanto di aperitivo come ai tempi ante-covid. Posteggiamo al LAC e sbuchiamo sul desertissimo piazzale. Il sole accecante ci spinge, letteralmente, verso il lago e scattano pensieri rivolti indagare sul cruccio del turismo dopo il lockdown. Sul lato alberato c’è stato (è ancora in atto?) un intervento urbanistico, forse un po’ troppo «leggero», nel senso che se c’è un progetto, ancora non lo si indovina. Prevale il dubbio che il tutto sia in risposta a quanto avviato lo scorso anno dall’altro comune affacciato sul lungolago, Paradiso. Primo «input»: sembra stiano facendo affari i noleggiatori di natanti, aiutati dall’incredibile colore del lago (verde pantone 3375 o medium aquamarine, direi; pistacchio o menta per chi preferisce riferimenti meno tecnici). La speranza è che a marcare il nostro abbrivo con l’estate e con la ripresa turistica saranno nuovi colori. Una

gelateria ha scippato il posto al chiosco dove ai tempi d’oro oltre a giornali e bibite si offrivano anche souvenirs e cartoline. Oggi non li cerca più nessuno. Tutto parte e arriva, le news e i ricordi, confezionato in digitale, quindi in diretta: smartphone puntato verso il lago o rivolto a un selfie e in pochi secondi attraversa tutto il mondo, documentando che sei «svizzero», che Lugano ti saluta con acque simili per colore a quelle dei fiumi himalaiani o dei laghi dell’Engadina. Altra novità: il negozietto di cappelli situato da tempo immemore a lato dell’imbarcatoio principale si propone qualche decina di metri prima, più piccolo e solitario, ancor più surreale! In strada transitano moto e alcune supercar con rombi decisamente arroganti, e si fa il tifo perché il lungolago nei fine settimana resti chiuso anche la domenica mattina (per chi ama la quiete) e non solo di sera (per la gioia di chi invoca struscio o movida). Oltre il pontile centrale dei battelli gli


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 luglio 2020 • N. 29

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Cultura e Spettacoli Chi le ha viste? Opere d’arte trafugate e mai più ritrovate: storie di capolavori di cui si sono perse le tracce

Le emozioni storiche Il Laténium di Neuchâtel propone una raccolta di testimonianze sull’attaccamento al patrimonio

Teatro come provocazione Al crocevia di vari stili e media, l’attrice italiana Chiara Bersani mostra una volontà di esprimersi senza remore

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L’agile atleta della carta stampata

Personaggi Martin Meyer, responsabile

Natascha Fioretti Hanno Helbling era un uomo elegante, molto discreto e profondamente colto. Gli abiti di sartoria londinesi di Cottrell e Parker a Savile Row stabilivano una perfetta armonia tra il suo aspetto esteriore e la sua personalità. Così lo ricorda Martin Meyer in quello che non vuole essere un testo biografico ma un omaggio a chi lo ha iniziato al giornalismo offrendogli, all’indomani del suo primo articolo, un posto in redazione a metà tempo. Era l’estate del 1974. Studi in storia, filosofia e letteratura tedesca all’Università di Zurigo, lo studente provò un’immediata simpatia per il suo futuro maestro e non si lasciò scappare l’occasione di entrare a far parte del prestigioso quotidiano di lingua tedesca. La «Neue Zürcher Zeitung» era considerata un’istituzione, una voce liberale autorevole che nei decenni del fascismo e del nazionalsocialismo non perse né la testa né la sua morale ma rimase fedele a sé stessa accrescendo la sua reputazione. È qui, a mio modo di vedere, che risiede la bellezza e la peculiarità di questo volume: ritrae Helbling dal punto di vista professionale e umano e al contempo ripercorre ciò che la NZZ è stata e ha rappresentato fino a qualche decennio fa. Una testimonianza particolarmente preziosa in tempi in cui il management della Zürizytig della Falkenstrasse ha annunciato tagli per 3,9 milioni di franchi nelle redazioni. Uno scenario impensabile ai tempi di Meyer e Helbling, tempi in cui uscivano tre edizioni cartacee quotidiane, il giornale era famoso per la sua eccellente rete di corrispondenti politici ed economici sparsi per il globo e entrare a farne parte significava prestigio, potere e riconoscimento. Un’altra epoca, un altro modo di fare giornalismo se si pensa che Willy Bretscher, direttore dal 1933 a 1967, sosteneva fosse un giornale da centomila copie e non di più perché solo una ristretta cerchia meritava di leggere la NZZ. Classe 1930, storico, giornalista, traduttore dall’inglese, dal francese e dall’italiano, autore ed editore, Hanno Helbling attraverso le sue molteplici

attività letterarie, tra le quali si muoveva come un agile atleta, ha influenzato il panorama culturale svizzero e non solo. Responsabile delle pagine del Feuilleton dal 1973 al 1992, incarico onorato con grande competenza e stile, era un uomo brillante dalla penna raffinata ed ermetica, un proustiano appassionato, amico di Golo Mann e grande estimatore del pensiero leopardiano. Rispetto al suo predecessore Werner Weber lasciò più libertà e indipendenza alla redazione, nella sua conduzione rigore e originalità andavano a braccetto e non erano esclusi cambi di programma all’ultimo momento. «Un giorno trascorso uguale all’altro è un giorno perso» usava dire e amava la parola disinvoltura nel senso di un’inattesa serenità nel pensare o fare ciò per cui si deve rendere conto solo a sé stessi. «Con Helbling si andava sul sicuro, sapevamo di poter fare affidamento e ci ha dato molto: intelligenza, cultura e una virtuosità linguistica». Di formazione storico e letterato, Helbling scrive il suo primo articolo per la NZZ nel 1954. Esce nell’inserto Letteratura e Arte ed è un’originale interpretazione dell’opera teatrale Il segretario particolare in cui a suo dire, pur trattandosi di una commedia, T.S. Eliot riesce a sviluppare uno dei suoi temi cardini: l’incapacità umana di portare e sopportare il peso della realtà. Dopo una parentesi da collaboratore esterno nel 1958 approda alla redazione degli esteri e finalmente al Feuilleton nel 1960. Nel raccontarci il giornalista, l’uomo e la sua epoca Martin Meyer usa una scrittura sobria e pulita che non dà spazio a grandi sentimentalismi ma attraverso tanti dettagli e particolari ravvicinati fa emergere la stima e l’amicizia che a lui lo legarono. Il direttore del Feuilleton quando redigeva gli articoli lo faceva con maestria e grande velocità, spesso sorridendo. Scriveva i suoi contributi esclusivamente a mano. Aveva, naturalmente, una macchina da scrivere elettrica, ma era riservata alla corrispondenza amministrativa. Per tutti i suoi articoli si armava di penna e blocco a righe formato A4 o A5 che consegnava diretta-

Keystone

delle pagine del Feuilleton della «Neue Zürcher Zeitung» fino al 2005, in una pubblicazione rende omaggio a Hanno Helbling, suo predecessore e tra i più importanti intellettuali svizzeri della seconda metà del secolo scorso

mente in tipografia prendendo il piccolo ascensore a corde da tirare a mano. Perché il passaggio funzionasse i testi dovevano essere scritti nel modo più chiaro possibile, per questo Helbling utilizzava una calligrafia quasi bambinesca a grandi lettere e tra ogni riga ne lasciava una vuota. I campi in cui Hanno Helbling si distinse furono quello storico, religioso e letterario. Come corrispondente da Roma dal 1962 al 1965 seguì i lavori del Concilio Vaticano II. Nel 1966 a un convegno a Torino incontrò un giovane teologo e occasionale firma del giornale che presto avrebbe fatto carriera nella Chiesa: Joseph Ratzinger. I temi religiosi così come la mistica eckhartiana furono delle costanti del suo pensiero ma il suo centro di interesse rimase la storia. Guardava a Leopold Ranke, maestro della storiografia tedesca e tra le figure più rappresentative dello spirito europeo del 19. secolo, secondo il quale il corso della storia coincide con una varia interazione di forze, colta dall’intuizione dello storico oltre il fortuito combattersi e avvicendarsi di Stati e di popoli. Si ispirò a Jacob Burckhardt e fece sua questa citazione «nell’osservazione storica la poesia è l’immagine dell’eterno di ciascun popolo». O per

usare le parole di Thomas Mann in Carlotta a Weimar «il mio canto dà perennità a tutto ciò che è caduco». In campo letterario grande stima e amicizia lo legarono alla scrittrice Christa Wolf di cui teneva una foto sulla scrivania. Nelle sue critiche sapeva colpire di sciabola e lo fece in occasione del Guglielmo Tell per la scuola di Max Frisch definendo il pamphlet «il tentativo inqualificato e infantile di rivisitare un’opera che ormai non vantava più alcun credito scientifico. Si trattava di un’intenzione parodistica? Per quanto si cerchi di tendere l’orecchio non si sente la risata dell’ironico, né la smorfia del satirico, solo il ridacchiare della persona gretta». Nato a Zuoz in Engadina, cresciuto a Rapperswil, l’uomo che da bambino superò la poliomelite e nel 1985 subì un importante intervento al cuore amava andare a caccia, a cavallo e a passeggio con il suo Golden retriever Hazel al quale dedicò un racconto sulla falsa riga di Cane e padrone di Thomas Mann. Un’altra sua grande passione era la musica. A Zurigo ad un recital in cui Itzhak Perlman eseguì sonate e partite per violino solo di Bach disse «chi ascolta questa musica si rende conto che in seguito non è stato prodotto più

niente di eguagliabile». Nel 1981 divenne membro della Deutsche Akademie fuer Sprache und Dichtung, nel 1986 ricevette il premio Johann – HeinrichVoss e nel 1997 il Prix lémanique de traduction. Innamorato dell’Italia e della sua cultura sin da quando, ancora giovane, seguì le lezioni di Federico Chabod a Napoli e a Roma, fu qui che scelse di vivere gli anni della pensione e del suo secondo amore per la scrittrice e traduttrice svizzera di origine ungherese Christina Viragh. Ma non smise mai di scrivere, di tradurre e di collaborare con la NZZ alla quale rimase legato per tutta la vita. Anzi, per lungo tempo, ci racconta Martin Meyer, continuò a vedere il Feuilleton come un’estensione di sé stesso, a concepirlo come quella torre d’avorio che in stile Sainte Beuve si era impegnato a costruire e a difendere. Ma i tempi stavano cambiando e la torre iniziò a scricchiolare. Hanno Helbling muore a Roma nel 2005 all’età di 74 anni. Grazie a Martin Meyer per questo bel ritratto e per il tuffo in un mondo giornalistico che non esiste più. Bibliografia

Martin Meyer, Hanno Helbling, NZZ Libro, Zurigo 2020.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 luglio 2020 • N. 29

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Cultura e Spettacoli

La Natività del Caravaggio

La nuova stagione dell’Orchestra OSI Presentato il cartellone concertistico

che si aprirà il 1. ottobre prossimo

Opere scomparse e mai ritrovate – 1 Trafugata a Palermo

nel 1969 è tuttora una delle opere d’arte più ricercate al mondo

Emanuela Burgazzoli

Enrico Parola

È una notte d’ottobre e una banda di ladri forza le imposte delle finestre che danno su via Immacolatella dell’Oratorio della Compagnia di San Francesco nella chiesa di San Lorenzo nel quartiere antico della Kalsa. È un piccolo edificio sprovvisto di allarme, custodito da due donne. Spostano i candelabri e il crocefisso, poi estraggono il quadro – un olio su tela di cm 298 per 197 cm – dalla cornice assieme al telaio e lo avvolgono in un tappeto. Caricato il bottino su una Fiat 642 i malviventi lasciano il quartiere, che è uno dei capisaldi della mafia locale. Le due custodi non si accorgono di nulla, né tantomeno i vicini. Così almeno attesta il primo verbale, siglato il 30 ottobre da un maresciallo dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio artistico, quindi molti giorni dopo la notte del furto, avvenuta presumibilmente fra il 17 e il 18 ottobre. Ma della data effettiva non c’è ancora assoluta certezza, come del resto non si possono ricostruire con precisione i numerosi trasferimenti che subisce il capolavoro del Caravaggio dopo quella notte. «Un giochetto da niente per i ladri portarsi via il quadro di Caravaggio», titolava a pagina 2 il «Giornale di Sicilia» il 20 ottobre, mentre su «L’Ora» una dettagliata cronaca la firma Mauro de Mauro, il giornalista che l’anno dopo sparirà nel nulla per volontà della mafia. Divampano subito le polemiche per l’incuria con cui era conservato il dipinto, di fatto di proprietà della curia; si accusa di «inconsapevolezza» anche la sovrintendenza alle belle arti (che ammette candidamente di non essere affatto sorpresa di questo furto); tutti d’accordo nel compiangere la scomparsa dell’unica opera di Caravaggio a Palermo (ma che secondo le tesi più accreditate di numerosi studiosi sulla base di indagini storico-artistiche e stilistiche il dipinto appartiene al periodo romano del pittore, realizzata nel 1600 a Roma e non nel 1609 a Palermo, dove il pittore in realtà non avrebbe mai messo piede) e ad essa si legavano anche i famosi stucchi di Giacomo Serpotta, anch’essi danneggiati. Da allora la Natività si può dire che sia entrata nel mito; nota ormai per gli addetti ai lavori come la «pratica 799». Di certo la tela, trafugata da una gang palermitana che ne ricava circa 5 milioni, passa in seguito nelle mani di boss mafiosi come Stefano Bontade e Gaetano Badalmenti; arriva anche una richiesta

In questi mesi segnati dalla pandemia anche il mondo musicale ha vissuto chiusure, timori e dubbi su un futuro che appena un paio di mesi fa sembrava fosco: si parlava di riaprire teatri e sale da concerto a dicembre se non addirittura nella primavera 2021. La ragioni ideali che richiamavano l’importanza della bellezza e della cultura si sono intrecciate con quelle sociali ed economiche, col rischio disoccupazione per artisti, musicisti e maestranze attive nel mondo dello spettacolo. Ad oggi le previsioni sono decisamente più ottimistiche, tanto che l’Orchestra della Svizzera italiana ha potuto presentare la stagione 2020-21 che la vedrà impegnata per dieci serate al LAC e quattro in Auditorio RSI: un cartellone ambizioso che avvicina talenti emergenti a stelle del firmamento musicale, i capolavori più popolari a pagine rare. Ma prima ancora di dettagliare le scelte artistiche, impressiona la prospettiva attraverso cui il direttore musicale dell’Osi Markus Poschner guarda alla stagione, spingendosi ben più nel profondo rispetto al semplice sollievo di poter tornare a suonare davanti a un pubblico numeroso. «In questo periodo d’emergenza siamo stati chiamati senza preavviso a un confronto diretto, senza sconti, con noi stessi. Tutt’a un tratto l’essenza più profonda della nostra esistenza è divenuta visibile come mai prima, ognuno è inevitabilmente rimasto solo con se stesso e con tutta una serie di domande fondamentali: cosa è importante per me? Cosa mi serve effettivamente per vivere? A che cosa non posso rinunciare? Viviamo collettivamente questa crisi anche

Copertina del libro di Michele Cuppone, Caravaggio. La natività di Palermo. Nascita e scomparsa di un capolavoro, Campisano Editore 2020.

di riscatto al parroco di San Lorenzo per «’U Caravaggiu», come ha confermato a una recente puntata di Falò l’allora sovrintendente alle belle arti di Palermo Vincenzo Scuderi. Ma con la mafia non si tratta. Quindi la mafia cerca di rivendere la tela a un anziano trafficante di opere d’arte di origini elvetiche, residente nel Luganese; si sa poi che già nel 1970 la Natività viaggia su camion «di quelli per la frutta» a destinazione della Svizzera, dove forse viene diviso in più parti per agevolare la vendita. Nella vicenda emerge anche il nome del barone Von Thyssen-Bornemisza, la cui famosa collezione aveva (ancora) la sua sede a Lugano; il ricco collezionista diventa un sorvegliato speciale di Rodolfo Siviero, noto anche come lo «007 dell’arte» che all’epoca dirigeva l’Ufficio per le restituzioni al Ministero degli affari esteri italiano. Le ultime piste degli inquirenti portano al nome – secretato – del trafficante svizzero che però è morto da tempo; si spera a questo punto di poter ricostruire nel dettaglio le sue frequentazioni per poter forse un giorno risalire all’attuale e illegittimo proprietario della Natività; «la prescrizione cancella il reato, il perdono cancella il peccato. Fateci ritrovare Caravaggio»: questo il recente appello di Papa Francesco. La scomparsa del capolavoro di

Caravaggio sembra una vera spy story, in cui entrano in scena boss mafiosi, detective, commissioni parlamentari, trafficanti d’arte e persino il Vaticano. Ma quel vuoto sopra l’altare di San Lorenzo – da qualche anno riempito con una fedele riproduzione del quadro – simboleggia la profonda ferita inferta al patrimonio culturale di una città che affrontava il drammatico problema delle scarse difese delle opere d’arte. Si capisce allora l’amarezza delle parole di Leonardo Sciascia che all’indomani del furto su «l’Ora» concludeva il suo articolo così: «L’Italia è il paese dell’arte: ma le opere d’arte vadano in malora». Nel suo ultimo romanzo, Una storia semplice, Sciascia si ispirerà proprio alla sparizione del Caravaggio, che era (e resta) una questione di legalità e di civiltà di un intero paese. Quello della Natività era infatti l’ultimo di una preoccupante serie di furti che in quegli anni colpisce la Sicilia (poco prima era stato sventato il tentativo di furto a Palazzo Abatellis dei tre santi dottori di Antonello da Messina): un furto che non può più far chiudere gli occhi su un patrimonio culturale alla mercé della malavita, dell’incuria e della speculazione edilizia. Non è un caso che proprio nel maggio del 1969 l’Italia si fosse dotata del primo Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale.

Markus Poschner, direttore musicale dell’Orchestra della Svizzera italiana.

come una grande domanda di senso, come qualcosa che ci faccia finalmente aprire gli occhi: in fin dei conti come uno specchio di noi stessi». Mettendo in guardia da un possibile «puritanesimo della salute» come reazione al Covid-19 («finiremo per mantenerci sani e sicuri, ma la nostra vita ne risulterà completamente impoverita. Nessuno vuole dire che la nostra sicurezza sanitaria non abbia la massima priorità, ma le emozioni non sono da meno»), Poschner rivendica il ruolo della cultura, «che non sarà necessaria alla mera sopravvivenza, ma è senza dubbio rilevante per l’essere umano come tale: noi umani tendiamo inevitabilmente ad andare oltre lo stretto necessario per vivere»; per questo «non possiamo più aspettare a presentarci sulla scena e suonare finalmente di nuovo per il nostro pubblico». «L’essenziale è invisibile agli occhi», sosteneva Saint-Exupéry nel Piccolo principe, e la musica sa dare corpo invisibile ai sentimenti e agli aneliti più profondi e sinceri dell’animo umano. Nella lirica pochi lo hanno saputo fare come Verdi e Rossini, che Poschner omaggerà nel concerto inaugurale del 1° ottobre, con un’ampia antologia di ouverture, da Nabucco fino ai Vespri siciliani e La forza del destino, e in quello conclusivo del 15 aprile, con le sinfonie da La gazza ladra fino all’immancabile Guglielmo Tell; il maestro tornerà al LAC il 2 dicembre, per guidare non solo l’Osi ma anche l’orchestra del Conservatorio ne Le sacre du printemps di Stravinskij e ne La valse di Ravel, e l’11 febbraio per accompagnare Francesco Piemontesi nel Concerto per pianoforte n. 1 di Brahms. Dopo aver sorpreso e conquistato pubblico e orchestra al suo debutto luganese, ospite della serie «Play&Conduct in Auditorio», François Leleux salirà sul podio dell’Osi a ottobre per accompagnare nel Concerto K 488 di Mozart Alexandra Dovgan, bimba prodigio lanciata da giganti come Gergiev e Sokolov: ha 13 anni e si esibisce con le maggiori orchestre da tre stagioni; Leleux raddoppierà a novembre, per la Terza sinfonia di Brahms e il Concerto n. 4 di Paganini, solista Sergej Krylov. Doppio appuntamento anche per Krisztof Urbański, che a marzo omaggerà Saint-Saëns nel centenario della morte (Secondo Concerto per pianoforte, solista Alice Sara Ott) e Ciajkovskij, con la Quarta sinfonia e il Romeo e Giulietta. Torna Charles Dutoit, che il 25 febbraio continuerà con Pulcinella il suo percorso su Stravinskij. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 luglio 2020 • N. 29

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Cultura e Spettacoli

Emozioni e patrimonio

Intervista A colloquio con la direttrice aggiunta del Laténium di Hauterive,

per parlare di una recente attività proposta dal museo romando

è conclusa, strutturata in quattro momenti (stimolante il tema della nostalgia, vista come «presenza dell’assenza») che avete ambientato non a caso in un immaginario appartamento in rovina che obbligava il visitatore a riflettere sul suo rapporto con le vestigia del passato.

Marco Horat I mezzi di comunicazione hanno stabilito da tempo un rapporto di interazione con il loro pubblico attraverso lettere o telefonate, quasi a voler sovvertire la base stessa del principio comunicativo che prevede l’emissione di un messaggio a senso unico da un’emittente unica verso una molteplicità di fruitori. La stessa cosa ha fatto recentemente il Laténium di Hauterive. Il museo infatti nel 2018 aveva lanciato una proposta alla popolazione all’insegna delle «Emozioni patrimoniali. L’archeologia svizzera nella memoria collettiva», in collaborazione con l’Istituto di archeologia dell’Università di Neuchâtel e il sostegno del Fondo nazionale della ricerca. In seguito ha allestito una grande esposizione e ora pubblica in Internet i risultati di quella sfida, con la possibilità aperta a tutti di contribuire ulteriormente alla raccolta. L’indirizzo web a cui fare riferimento è: https:// notrehistoire.ch/@emotions. Ne parliamo con Géraldine Delley, direttrice aggiunta del Laténium. Signora Delley, ci spiega gli obiettivi di questa iniziativa?

L’idea era ed è rispondere in modo costruttivo a una tendenza sempre più marcata, cioè lo scollamento tra società civile e archeologia. Si è creata una frattura: da una parte stanno gli archeologi, gli specialisti che detengono il sapere, mentre dall’altra c’è il grande pubblico chiamato a fare unicamente da spettatore: prendendo atto di una scoperta o visitando una mostra. Gli esperti non devono perdere di vista che il patrimonio del quale si occupano e che hanno il compito di studiare e valorizzare appartiene a tutta la società, non è cosa loro. D’altra parte il patrimonio archeologico e storico necessita di un riconoscimento collettivo per

Una delle foto inviate dai partecipanti. (notrehistore.ch)

continuare ad esistere, altrimenti sarebbe lettera morta.

Non possono vivere l’uno senza l’altro, insomma. Voi come specialisti avete fatto la vostra parte e vi siete messi in gioco. Al pubblico invece cosa avete chiesto?

Abbiamo chiesto alla popolazione di inviarci fotografie nelle quali le persone fossero riprese accanto a vestigia storiche o monumenti archeologici più o meno importanti. Unitamente alle im-

magini si chiedeva anche di raccontare quali fossero i loro ricordi in relazione a quei momenti immortalati: aneddoti, emozioni, sensazioni suscitate dalla visita a quelle vestigia. Con nostra grande sorpresa insieme agli scatti fotografici e ai commenti sono cominciati ad arrivare video, films d’animazione, commenti registrati in voce e persino oggetti archeologici e personali legati al luogo ricordato nella foto. Così la mostra al Laténium che si

Abbiamo lavorato su oltre 400 immagini reali e virtuali e altrettanti commenti, spesso ricchi di spunti interessanti e toccanti, che parlano dello stretto rapporto tra i luoghi storici del paese e la vita delle persone, a formare una memoria collettiva. Qualcuno per esempio ci faceva notare come grazie a questa iniziativa avesse recuperato ricordi lontani e ne avesse reso partecipi figli, nipoti e amici che aveva perso di vista; una riattivazione dei rapporti sociali insomma, compresi quelli generazionali. Altri ci hanno confidato di aver riaperto i loro vecchi album di fotografie. È un dato sociologico interessante perché documenta un tratto di cultura materiale un tempo diffuso e oggi in via di sparizione poiché tutti fanno foto digitali. Gli album in genere non vengono tramandati dalle famiglie e così verranno cancellati dalla memoria. Con essi tutto quello che li accompagnava: l’annotazione curiosa, una descrizione personale, un nome, il biglietto d’ingresso del sito visitato o una cartolina acquistata sul posto, perfino un fiore raccolto e disseccato. Un patrimonio di cultura popolare che sta scomparendo.

C’è anche Daniele Finzi Pasca fra le marionette esposte: «È un omaggio personale, Daniele mi ha molto aiutato nel riuscire a sbloccare la situazione per allestire questo spazio», così commenta Michel Poletti mostrando il pupazzo esposto in bacheca dell’artista, riccioluto e occhialuto, con un biglietto d’aereo che gli penzola dallo scialle. È solo una delle creature messe in bella mostra nello spazio messo a disposizione dalla Città di Lugano. Un atto dovuto, diciamolo, a fronte della storica precarietà di luoghi destinati alle compagnie indipendenti del Luganese. E chissà che la lunga crisi sanitaria che stiamo attraversando non abbia in qualche modo dato la possibilità alle istituzioni di riflettere sulla necessità di preservare in maniera concreta la loro creatività a detrimento di tanta inutile superficialità. La scorsa settimana Michel Poletti e Lucia Bassetti hanno accolto diversi giornalisti per presentare il Nuovo Museo delle Marionette allestito nei locali de «La Comacina», situata in viale Cassarate a Lugano. Per intenderci, sono i locali dello stabile adiacente al teatro delle Radici, al Teatro Pan e alla vecchia sede della

La cultura non va in vacanza. Durante i mesi di luglio e agosto sarà infatti possibile conoscere di persona, all’aria aperta, alcuni autori locali e alcuni professionisti la cui attività è legata al mondo dell’editoria. L’opportunità sarà fornita dalla rassegna «Incontra uno scrittore al parco», un progetto promosso dalla Divisione della cultura e degli studi universitari del DECS, in collaborazione con le Biblioteche cantonali e le Città di Bellinzona, Locarno, Lugano e Mendrisio. «Uscire negli spazi aperti adiacenti agli istituti ed estendere il calendario al periodo estivo sono due novità assolute», osserva Stefano Vassere, direttore delle Biblioteche cantonali. «Espedienti che rispondono ad esigenze legate all’emergenza Covid-19: quella di recuperare terreno dopo il blocco delle attività e quella di esplorare la modalità degli incontri all’aperto, la quale favorisce il rispetto delle norme igienico-sanitarie e di sicurezza». La rassegna è sostenuta dall’Aiuto federale per la lingua e la cultura italiana. Per l’occasione sarà data quindi al pubblico la possibilità di mantenere il contatto personale con alcuni degli autori attivi nella nostra regione, i quali saranno intervistati e invitati a parlare

della loro attività creativa e, chissà, magari anche a svelare qualche interessante retroscena legato alle loro pubblicazioni editoriali. Ecco un assaggio del fitto calendario di incontri, che potrà arricchirsi strada facendo. Il programma infatti non è definitivo: il 20 luglio verranno annunciati gli appuntamenti di agosto e potrebbero essere previste aggiunte.

Il marionettista tra le sue creazioni.

landa, Pulcinella… tutti si portano appresso un’aura speciale, tra fascino e leggenda, pronti ad animarsi accanto a preziosi esemplari d’antiquariato prestati da collezioni di pregio. Come un Gianduia torinese d’inizio Otto-

novità proposta dalla Divisione della Cultura del DECS

Gli incontri si terranno negli spazi aperti adiacenti alle biblioteche cantonali.

Teatro di figura Un’insolita quinta teatrale per Michel Poletti Compagnia Finzi Pasca. Un museo non è un cimitero, anzi, quell’allestimento è un inno alla vita. Entrare in quello spazio è come immergersi in un mondo colorato e pieno di racconti. Storie di una vita trascorsa a raccontare favole, immaginare atmosfere ed episodi di una vita trascorsa a costruire personaggi, marionette e fantocci, scenografie che, miste a luci soffuse o dagli improvvisi caratteri forti, lasciano trapelare la voglia di lasciarsi trasportare dalla narrazione. «Un progetto che nuotava nel nulla da un paio di anni», racconta Michel, «ora abbiamo provato a esporre le marionette in situazioni che richiamano il movimento, perché non sono delle bambole». Predomina il gusto patafisico di Poletti, a cominciare da il personaggio di Père Ubu, diventata negli anni una cifra stilistica e artistica della sua drammaturgia, da grande appassionato della filosofia di Jarry, delle sue provocazioni, fra parodia e umorismo. Opera che l’autore francese aveva scritto proprio per il teatro delle marionette e che Poletti ha messo in scena negli anni Settanta: un’esperienza che gli valse la prima ripresa televisiva dell’allora TSI. Ma c’è anche il Gatto con gli Stivali, Mozart, Pinocchio, Merlino, Robin Hood, la Sirena d’Ir-

Letteratura Una

A commento conclusivo, si può notare come un immagine fermata nel tempo possa essere da stimolo, a noi stessi e ad altri, per visitare luoghi visti magari in gioventù. L’archeologia e la storia della Svizzera offrono molte occasioni in fatto di siti e di musei, nelle città come nelle zone più discoste del paese. Approfittiamone, soprattutto di questi tempi.

Apre a Lugano il nuovo Museo delle Marionette Giorgio Thoeni

Scrittori al parco d’estate

cento o la Geisha di Madame Butterfly appartenente al fondo di Vittorio Podrecca, grande marionettista italiano della prima metà del Novecento. Il Museo è visitabile su prenotazione: scrivere a musicateatro@palco.ch.

13 luglio, Bellinzona: Gabriele A. Quadri e Pietro Aiani; 14 luglio, Bellinzona: Christian Paglia; 16 luglio, Bellinzona: Matteo Beltrami; 24 luglio, Locarno: Benedicta Froelich; 25 luglio, Lugano: Max De Stefanis; 4 agosto, Lugano: Renato Giovannoli; 6 agosto, Mendrisio: Stefano Marelli; 10 agosto, Bellinzona: Franco Facchini; 11 agosto, Bellinzona, Anna Ruchat; 18 agosto; Lugano: G. Martignoni; 19 agosto, Bellinzona: Laura Accerboni/ TESS Babel; 20 agosto, Mendrisio: Andrea Fazioli; 20 agosto, Lugano: Mattia Bertoldi; 21 agosto, Locarno: Mattia Pini e Matteo Ferrari; 24 agosto, Lugano: Alexandre Hmine; 25 agosto, Lugano: Roberto Falconi; 26 agosto, Lugano: Pietro Montorfani; 27 agosto, Bellinzona: Matteo Ferretti; 28 agosto, Locarno: Arnaldo Alberti; 29 agosto, Lugano: Andrea Bertagni; 31 agosto, Bellinzona: Marco Zappa. Per info: www.sbt.ti.ch oppure www.ti.ch/agendaculturale


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Cultura e Spettacoli Un fotogramma dal film Miracle Blade. (Vimeo)

PRO SENECTUTE

Informa Novità Attività di movimento all’aperto Durante il mese di giugno sono iniziate diverse attività di movimento all’aperto, nel rispetto della sicurezza e aperte a gruppi di massimo 14 partecipanti. Per informazioni richiedere il programma al centralino. Nuovo centro diurno socio-assistenziale di Ascona Il centro, situato presso il complesso residenziale San Clemente ad Ascona, in via Ferrera 24, è aperto a tutte le persone anziane interessate a trascorrere momenti in compagnia. È possibile prendere contatto con il coordinatore Antonino Cannizzaro al numero 091 792 10 08 o tramite mail a: cdsa.ascona@prosenectute.org

Chiara Bersani: «il mio corpo è politico»

Attività e prestazioni

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Contatto: Pro Senectute Ticino e Moesano Via Vanoni 8/10, 6904 Lugano Tel. 091 912 17 17 info@prosenectute.org Le nostre sedi regionali si trovano anche a: Balerna, Bellinzona, Biasca e Muralto

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Contaminazione è certamente la parola che più si addice all’universo di Chiara Bersani, un’artista unica ed inclassificabile che alle etichette ha sempre preferito il dialogo: frontale ma benevolo, rischioso ma catartico. Lei stessa innesto, come un fiore esotico che si ritrova improvvisamente a dover vivere in un ambiente nuovo e per molti versi ostile, Chiara Bersani ha da sempre dovuto lottare per esistere in quanto «unicum» di una specie ancora senza nome. Nell’universo della performing art italiana (ma non solo), i corpi «atipici» come il suo non sono di certo ampiamente rappresentati malgrado si ritenga spesso che la danza contemporanea abbia liberato la scena dall’imperativo dell’atletismo e della grazia eterea promulgato dal balletto classico. Una cosa è certa, eccezione fatta per la camaleontica Silvia Calderoni, le scene italiane, ma anche i luoghi di formazione, restano tristemente impermeabili alla diversità dei corpi che rappresentano invece la ricchezza delle nostre vite, che ci spingono a superare quelle barriere: di genere (sessuale ed artistico) e di linguaggio che ci imprigionano e che utilizziamo (troppo) spesso come corazza. Un’uniformizzazione rassicurante ma decisamente stancante dietro la quale Chiara Bersani, dall’alto dei suoi novantotto centimetri, non può nascondersi. Affetta da una forma medio grave di osteogenesi imperfetta (conosciuta anche come la «malattia delle ossa di vetro»), Chiara Bersani fa parte di quel gruppetto di straordinari outsiders che sono riusciti nell’arduo compito di contaminare l’universo stesso della performing art, senza violenza ma con un’intelligenza sottile non sprovvista d’(auto)ironia. Una miscela straordinaria di consapevolezza e apertura mentale che non può non sedurre penetrando nel profondo e facendo vacillare le certezze di molti. Attiva nell’ambito delle arti visive e performative, dove è riconosciuta come una delle personalità più forti e interessanti della sua generazione (premio Ubu 2018 per il teatro come miglior attrice/performer under 35), Chiara Bersani ha sin da subito dovu-

to ingegnarsi per trovare una scuola equipaggiata per accoglierla (incredibile ma vero!). È infine alla Fondazione Lenz di Parma che comincia a formarsi prevalentemente nel campo della ricerca teatrale che contaminerà in seguito con la danza contemporanea e la performing art. Camaleontica per natura, Chiara Bersani non si è in mai imposta nessun limite per quanto riguarda la sperimentazione di medium complementari al teatro (come interprete ma anche e soprattutto come coreografa). Lei stessa lo ammette, la sua ambizione come autrice è quella di «cercare di trovare sempre le giuste risposte, nella messa in scena, alle domande che muovono una creazione». È quindi in un certo senso il soggetto che definisce le modalità: danza contemporanea (con il suo ultimo lavoro Gentle Unicorn), performing art (Goodnight, Peeping Tom con i suoi partners in crime Marco D’Agostin, Matteo Ramponi e Marta Ciappina), teatro più «classico» (The Olympic Games, scritto a quattro mani con Marco d’Agostin), cinema (la famiglia disfunzionale di Miracle Blade), e non l’inverso. Una libertà di movimento che Chiara Bersani si concede senza paura, rimanendo sempre fedele ad uno sguardo riconoscibile fra mille: impertinente e colorato, profondo e sempre giusto. Il pensiero fuori dagli schemi che la contraddistingue ha inevitabilmente influenzato anche la sua maniera di considerare i corpi «differentemente abili», una definizione che la irrita nel profondo: «come se ci fosse un solo modo di essere abili!» esclama a giusto titolo. Malgrado le difficoltà di inserirsi in un contesto artistico non sempre pronto ad accettare nuove sfide: come proporsi, raccontarsi come attrice con un corpo atipico? Quali sono i contesti più idonei a inglobare la fisicità così come lei l’intende? Chiara Bersani ha da subito voluto scostarsi dai circuiti classici delle compagnie «inclusive» (che lavorano solo o in parte con interpreti portatori di handicap). Questo non per criticarli ma per dimostrare che tutti i corpi, con le loro piccole grandi differenze, sono politici in quanto membrane che contengono la nostra interiorità senza poterci però proteg-

gere dalla società che ci circonda e con la quale dobbiamo interagire in uno spazio preciso. Il nostro corpo, la sua esposizione, il suo sottoporsi agli sguardi degli altri diventa quindi inevitabilmente politico. «Il lavoro con il mio corpo nasce da un’esigenza che i corpi si mostrino, scendano in strada: chi li osserva, indipendentemente da come siano questi corpi, non può fare altro che accettarli e accoglierli, perché sono realtà. Non si salva nemmeno chi è “nella media”» spiega Chiara Bersani. Una presa di posizione che ha dato vita a una trilogia estremamente potente composta da Family Tree, progetto che si sviluppa a partire dal corpo visto come punto di contatto fra passato e presente (famigliare), dal meraviglioso trio di Goodnight, Peeping Tom, e dal primo assolo di Chiara Gentle Unicorn. Quest’ultimo, in cui la performer dà corpo a un animale mitologico la cui presunta esistenza nasce da un fortuito malinteso, rappresenta il punto culminante di una riflessione che mette il pubblico al centro in quanto partner fondamentale di un processo di guarigione bidirezionale. Attraverso un susseguirsi di sguardi scambiati con quanti hanno deciso di prendere parte al rituale scenico, Chiara Bersani, un finto corno di peluche sulla fronte, chiama il pubblico in causa. Fra le persone presenti su scena (il pubblico è seduto per terra in forma di ferro di cavallo) le relazioni si tessono naturalmente, come naturalmente si incontrano i loro corpi. Questo attraverso un movimento al contempo reale e immaginario che obbliga ognuno a guardarsi, ed è proprio questa la vera potenza della scena. Durante quarantacinque minuti, Chiara Bersani dilata all’estremo lo sguardo fugace e non sempre benevolo della persona che si incontra per strada, e lo trasforma in riflessione. Un manifesto, il suo Manifesto, che nella sua radicalità nasconde la chiave per un incontro costruttivo fra tutti noi (meravigliosamente diversi) esseri umani: «Manifesto. Manifesto seduta, manifesto muta, manifesto occupando uno spazio, la mia voce è politica, il mio corpo è politica, la mia solitudine è politica, voglio disturbare con l’immobilità».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 luglio 2020 • N. 29

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Rumori e ansie nella notte Dalle lettere a un’amica. Carissima, ti risulta forse che qualcuno abbia mai studiato la sbalorditiva sensibilità dell’udito di un nonno apprensivo? Come sai, il lato interno del nostro condominio si affaccia su un’area chiusa da altri tre palazzi di otto piani. Il cortile è riempito da 48 garage fra cui il mio; 48 garage e 48 saracinesche tutte uguali che vengono sollevate e abbassate a tutte le ore del giorno e della notte. Io sono in grado, con il solo ausilio dell’udito, di riconoscere il rumore della nostra saracinesca quando ad alzarla e ad abbassarla è mio nipote che come sai, vivendo con me da quando è nato, è più di un figlio. L’altra sera la pioggia veniva giù a secchiate e lui mi ha chiesto le chiavi dell’auto per andare da un suo compagno a prendere in prestito delle dispense senza le quali non avrebbe potuto continuare a studiare. Ci hai mai fatto caso? «Dispensa» è la parola magica, l’apriti sesamo dei figli per farsi dare le chiavi dell’auto senza discutere. Se te le chiedono per fare un

salto in birreria, è uno scherzo da ragazzi negargliele, ma per le dispense come si fa? Prima di chiedertele aspettano che tu ti sia messo il pigiama, così non puoi più dire: «Mi dispiace, te le darei volentieri, ma l’auto serve a me, stavo per uscire». Per la verità l’altra sera ho tentato qualche mossa in difesa, sia pure maldestra. «L’ho appena fatta lavare, se la tiri fuori dal garage si sporca», gli ho detto. «Preferiresti che mi bagnassi io, che mi prendessi una doppia polmonite, e poi diventassi tubercolotico e che tu mi dovessi mantenere per tutta la vita in un sanatorio di Zermatt?» Mi sta bene, un’altra volta imparo a fargli leggere La montagna incantata di Thomas Mann. Mentendo come una carogna mi sono lanciato in un elogio dell’efficienza dei mezzi pubblici della città di Torino. «L’amico che mi presta le dispense sta dall’altra parte della città». Hai notato? Il compagno che possiede le preziose dispense ed è disposto a prestarle a tuo figlio abita sempre dall’altra parte della

città. Quando siamo fortunati, altrimenti abita in un paese della cintura. Così ho finito per dargli la chiavi dell’auto con le solite mille raccomandazioni e mi sono messo a letto a leggere, come faccio tutte le sere che trascorro in casa. Per quanto sia avvincente quello che sto leggendo, il mio orecchio è sempre proteso al di là della finestra ad ascoltare il concerto di saracinesche alzate ed abbassate. Quand’ecco che 13 minuti dopo la mezzanotte ho percepito la musica di quella del nostro garage che veniva alzata con piglio deciso da mio nipote. Bene, anche questa volta era tornato sano e salvo, potevo rilassarmi, chiudere il libro, spegnere la luce e dormire. Fra pochi secondi avrei udito il consueto rumore del motore imballato prima di spegnerlo, il classico sbattere della portiera e la saracinesca che veniva abbassata, un suono diverso da quello dell’innalzamento. Invece niente. Quella sera al sollevamento non facevano seguito i cari rassicuranti rumori consueti. Cosa sarai mai suc-

cesso? Mi sono chiesto. Avrà avuto un incidente, avrà fracassato la macchina, beh, mi sono consolato, almeno lui non s’è fatto niente, visto che è riuscito ad aprire il garage. Ma cos’è venuto a fare in garage? Sarà venuto a prendere le corde elastiche per chiudere in qualche modo le portiere e il cofano rimasti spalancati dopo l’urto frontale. Avrà funzionato l’airbag? Come mai non ho sentito il botto? Come si comporta in questi casi uno che vuole dare l’immagine di un nonno saggio? Come mio solito, non sapevo cosa fare: ho pensato di alzarmi, rivestirmi e scendere giù a vedere cosa era successo. Poi mi ha trattenuto il timore di passare per un nonno un filino apprensivo. Dopo venti minuti ho captato il rumore delle saracinesca che veniva abbassata senza che prima l’auto venisse ricoverata nel garage. Va be’ che mio nipote si era salvato, ma la macchina aveva solo due anni di vita. Adesso eccola lì, un rottame informe trainato dal carro attrezzi verso il demolitore. Quest’auto

sarà l’ultima, se mio nipote si aspetta che ne compri un’altra sta fresco, d’ora in avanti in tram o in bicicletta e il taxi solo per andare in ospedale. E quando mio nipote torna a casa come mi devo comportare? Lo inchiodo alle sue responsabilità? Oppure faccio il compagnone, gli vado incontro e gli batto una mano sulla spalla consolandolo, l’importante è salvare la pellaccia? Oppure aspetto che sia lui a parlarmene, forse è la soluzione migliore, so già come inizierà: «Senti qua, c’era un pazzo, ubriaco e strafatto, che andava contromano ai 150: tu cosa avresti fatto al mio posto?». Mentre m’interrogavo sui possibili scenari, ho sentito la saracinesca del garage che veniva sollevata, seguita dalla famigliare sequenza di rumori e poco dopo mio nipote che rientrava a casa. «Come mai», gli ho chiesto, con aria innocente, «hai aperto due volte il garage?» «Ho mostrato la moto a un mio amico. Perché vuoi saperlo, eri preoccupato?» «Io preoccupato? E quando mai?»

aver indossato gli stessi pantaloni della sera prima, la stessa camicia e lo stesso maglione. Pensò di andare a prendere Sara a scuola, era quasi mezzogiorno, poi si ricordò che era domenica e che probabilmente Sara era andata in weekend a Capalbio con i genitori di Maddalena Vattelapesca, una coppia di giornalisti voraci e mondani che posavano a animebelle, smistavano migranti fra le case degli amici e ovviamente non avevano mai avuto mezzo problema economico. Probabilmente sarebbe arrivata la sera tardi, piena di confronti fra la loro vita e la vita dei genitori della sua amica. Avevano una casa su due piani a Roma, avevano un casale del 600 in campagna, tutto di pietra e l’anno prossimo avrebbero scavato una piscina, se arrivavano i permessi. Ma i permessi sarebbero arrivati perché il padre, il signor Vattelapesca, era un giornalista importante, un polemista senza macchia e nessuno vo-

leva avercelo contro. L’immagine della piscina nel centro del giardino fiorito di un casale del 600, in Maremma, sostituì degnamente quella degli uomini libidinosi nel bar affollato. Ma questa volta le lacrime non vennero. Tom si sentì pervadere da una specie di debolezza mista a rabbia. Una miscela spossante. Sedette su una panchina. Chiuse gli occhi. Un capogiro molto opportuno gli ricordò che non aveva cenato e non aveva fatto colazione. Provò a sentirsi malato. Pensò che sarebbe stato meglio, un bel cancro al cervello e via, tutti parlano bene di te. Restò con gli occhi chiusi cercando sintomi di labirintite. Sentì soltanto il suo stomaco gorgogliare per il vuoto. Qualcuno si era seduto sulla panchina vicino a lui. Aprì gli occhi quel tanto che bastava per accorgersi che era un vecchio. Si spostò verso il margine estremo, senza che ce ne fosse alcun bisogno. Il vecchio era marcatamente elegante, e lo guardava

senza ritegno. Tom tirò fuori il cellulare e incominciò a digitare messaggi, per autodifesa. Scrisse a Nicola: «crisi verticale con stronzissima Betta. Urge divano». Scrisse a Barbara, che era stata aiutoregista con Bertolucci e conosceva tutti e aveva promesso di aiutarlo. «Desolato disturbarti bella ragazza, solo una domanda: hai parlato del mio progetto a quel produttore svizzero carico di soldi?». Con più sforzo, stringendo i denti, scrisse a sua madre: «Se vengo a pranzo da te senza preavviso mi cacci o mi sfami?» Controllò le spunte. Erano tutte azzurre. Si accinse ad aspettare le risposte, ma non voleva fissare lo schermo del suo smartphone, era un gesto da sfigato. Alzò gli occhi come chi sa godere del paesaggio e vide che il vecchio lo stava ancora fissando. «Ci conosciamo?», chiese con il tono giusto per litigare. «No, ma credo di conoscere la sua giovane moglie», disse il vecchio. Con un sorriso.

mediabilmente in crisi? La cosa curiosa è che i termini critica e crisi hanno la stessa radice. Derivano entrambi dal verbo greco krino, che significa «separare». In origine indicava il procedimento della trebbiatura. In altri termini, la distinzione della parte buona da quella cattiva del raccolto. Il verbo krino porta con sé dunque i significati di scelta, interpretazione, discernimento, soluzione, disputa, giudizio. È implicito un lavoro di selezione, in questo caso fisico, che presuppone una conoscenza che è frutto di un’esperienza sul campo, senza la quale non è possibile compiere un’accurata separazione tra quello che si ha di fronte. È rilevante la presenza di due parti: questa duplicità presuppone una krisis. L’operazione critica consiste in un giudizio che non intacca il significato dell’opera ma la arricchisce di nuovi significati: la inserisce in una rete di confronti, associazioni e interpretazioni. La critica letteraria sembra, in sé, molto emarginata, almeno dal punto di vista

della «critica militante». Si preferisce, sui media, far recensire romanzieri da romanzieri, poeti da poeti, rischiando e talvolta enfatizzando un chiacchiericcio convenzionale. È del resto ormai di parecchio tempo fa il provocatorio saggio Eutanasia della critica di Mario Lavagetto (2005), che ne proclamava una morte periodicamente annunciata almeno a partire dalla fine del secolo scorso. Poi è arrivato internet a cambiare ancora le carte in tavola, spesso a confondere. Chi gestisce un blog letterario è preso fra l’incudine dell’esigenza di pubblicare contributi di qualità, forniti per giunta gratis, e il martello di dover far uscire almeno un intervento al giorno per garantire visibilità e aggiornamento. Non può uscire dalla contraddizione che lo stesso medium crea, perché pubblicare interventi ogni giorno comporta la partecipazione del numero più alto possibile di aspiranti critici non ancora affermati (e spesso, com’è ovvio, di valore diseguale). Perché, se da un lato il real time, sul piano

di fruizione e condivisione, può rilanciare un articolo come un boomerang da un tweet a un altro – la condivisione culturale è una cosa che si dà solo su internet, al momento –, dall’altro la velocità con la quale la piattaforma web produce contenuti letterari rischia di snaturalizzare il discorso critico, che, in realtà, richiede distacco e studio. In genere, si pensa, come avrebbe detto Totò, che il compito del critico sia quello di criticare, cioè «parlare male». Non è vero niente. Il compito del critico, se mai, è un altro: quello di segnare la sua presa di distanza dal circo mediatico. Se è bravo, come lo era Achille Campanile, riesce anche a usare una materia «vile» come la televisione per un esercizio di immaginazione e di intelligenza. La vera critica può insegnare poco: non è normativa, non è orientativa, non è pedagogica. Diciamola tutta: non serve a nulla. Ma insegna una sola cosa: l’esercizio critico. L’analisi di un testo diventa uno spunto, un attivatore della curiosità di chi legge o di chi guarda.

Quaderno a quadretti di Lidia Ravera Le nuove povertà/7 Non finì nel solito modo, l’incidente di quella sera. Betta non pianse, Tom non la consolò, non fecero l’amore. Restarono distesi, uno accanto all’altra, mentre il buio si assottigliava fino a insediare nella stanza (nessuno aveva pensato a chiudere gli scuri) il chiarore lattiginoso dell’alba. Era già mattino quando un appesantirsi impercettibile del respiro di Betta avvisò Tom che, almeno lei, era riuscita ad addormentarsi. Ne provò un fastidio irrazionale, come se quella resa alla stanchezza collocasse la sua donna in una provincia di gente rozza e senza cuore. Cercò di scacciare l’immagine di un bar gremito di uomini soli che si davano di gomito uno con l’altro e allungavano verso Betta sguardi pieni di libidine. Era la scena ossessionante che gli aveva impedito di prendere sonno. Si alzò. Preparando il caffè si concesse tutto il rumore necessario e anche qualche punta di superfluo, l’appartamento era

talmente piccolo che disturbare il sonno di Betta, in un’altra circostanza, sarebbe stato perdonato come inevitabile. Adesso no. Non dopo quello schiaffo, quell’amore mancato, quella dichiarazione di guerra. Com’era? Ho rimorchiato un uomo in un bar. Non si dice. Non si deve dire. Dirlo è una provocazione e più ancora dire che ti ha pagato la cena. E che la cena era buona. Tom sentì montare una collera a cui non era in grado di imporre uno sbocco non violento. «Uno schiaffo è poco, dovevo ammazzarti di botte», mormorò, guardando il lungo corpo nudo di sua moglie. La coperta era scivolata di lato. Tom pensò che certamente aveva freddo, dato che non si era messa il pigiama. La coprì, istintivamente. E quel gesto paterno gli fece sentire pena per se stesso. Gli si riempirono gli occhi di lacrime. Uscì precipitosamente. Senza essersi lavato, senza calzini, dopo

A video spento di Aldo Grasso Il compito della critica Oggi, ha ancora un senso la critica letteraria, la critica in genere? Trovo questo grido d’allarme nel sito di una piccola casa editrice, Gilgamesh edizioni: «Sebbene oggi quasi nessuno se lo ricordi troppo, in passato, non era solo il portafogli delle grandi case editrici a stabilire l’ordine gerarchico nelle vetrine delle librerie, bensì l’opinione delle personalità più attente al dibattito sulla letteratura e sulla sua decifrazione ed interpretazione. Per apportare un esempio tra i più noti, fu James Joyce il primo ad apprezzare Senilità e a segnalare ai critici francesi Benjamin Crémieux e Valéry Larbaud La coscienza di Zeno, che, pubblicata a spese dell’autore due anni prima, aveva ripetuto il totale insuccesso dei due romanzi precedenti. L’eco di questa segnalazione giunse in Italia e spinse Montale a chiedere al letterato e critico triestino Roberto Bazlen una copia delle opere di quell’autore ancora sconosciuto, per poi recensirlo positivamente, portandolo finalmente all’at-

tenzione del grande pubblico… Quel periodo, quello dell’era della critica, appare ora remoto, quasi irriconoscibile. Oggi, la critica letteraria sembra non esistere più». Nell’interrogarsi sul ruolo della critica letteraria, Claudio Giunta, che insegna Letteratura italiana all’Università di Trento, scrive: «Come lettore, mi aspetto che il recensore entri nel merito, che riassuma e giudichi, e mi faccia sentire la sua voce. Non amo i giudizi non argomentati, soprattutto quando riguardano cose complicate o persone la cui opera o il cui pensiero non possono essere sintetizzati in uno slogan; e soprattutto quando sono giudizi negativi. Invece la contrazione degli spazi, nei giornali di carta (poche pagine per la cultura, troppe novità di cui parlare, molte pressioni da parte delle case editrici), ha portato alla proliferazione di queste schedine, che non servono a niente, o al fiorire di pareri immotivati e perentori». Ha ancora un senso la critica? O è irri-


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