Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXX 24 luglio 2017
Azione 30 M sh alle p opping agine 41-47 / 6167
Società e Territorio L’Associazione 18-24: un aiuto per i neodiplomati a inserirsi nel mondo del lavoro
Ambiente e Benessere Intervista ad Annalisa Lentini, presidente dell’Associazione Cefalee Ticino, sulle cure fai da te che vanno evitate
Politica e Economia È morto in Cina Liu Xiaobao, premio Nobel per la pace, oscurato dalla censura
Cultura e Spettacoli A dieci anni dalla scomparsa dell’immenso regista Ingmar Bergman, un ricordo
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di Elena Roberts pagina 17
Elena Robert
Cadagno, natura da esplorare
La matematica che illumina di Barbara Manzoni Sabato 15 luglio è stata una giornata di lutto per la comunità scientifica internazionale. A soli 40 anni si è spenta Maryam Mirzakhani. La matematica iraniana è stata la prima e unica donna ad aggiudicarsi, nel 2014, la medaglia Fields, un riconoscimento considerato alla stregua di un Nobel della matematica che premia ricercatori under 40. La genialità sconfitta da un tumore. Della vicenda umana e professionale di Maryam Mirzakhani si sono occupati i media di tutto il mondo, raccontando soprattutto la biografia di questa giovane professoressa di Stanford perché, ammettiamolo, pochi giornalisti saprebbero spiegare su cosa vertevano le sue ricerche: la dinamica e la geometria delle superfici di Riemann e dei loro spazi di moduli. La sua tesi di dottorato ad Harvard le era già valsa la stima dei colleghi, la sua prima cattedra era stata a Princeton, poi a Stanford. Si era laureata a Teheran, a 17 anni aveva vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi internazionali di matematica di Hong Kong. Eppure l’amore per la matematica era nato tardi, durante l’ultimo anno
delle scuole superiori (insomma in quarta liceo), glielo aveva in qualche modo «suggerito» suo fratello maggiore come lei stessa ha raccontato in un’intervista. Prima sognava di diventare scrittrice. Amava la letteratura e i libri, ma il suo futuro era nei numeri. Il destino l’aveva favorita, come raccontava, perché aveva finito le scuole elementari nel momento in cui giungeva al termine la guerra tra Iran e Iraq, una circostanza che le aveva permesso di continuare gli studi in tranquillità e di frequentare buoni istituti. Noi crediamo solo fino ad un certo punto nella buona sorte, un successo femminile in un ambito ancora tanto maschile deve essere coltivato da una motivazione, da un ingegno e da un contesto particolarmente favorevoli. L’ingegno, certo, rimane l’incognita di questo puzzle, il resto non dovrebbe essere lasciato al caso, come invece avviene ancora troppo spesso. La famiglia di Maryam Mirzakhani l’aveva sostenuta, i suoi genitori avevano incoraggiato tutti i figli a seguire le proprie passioni senza preconcetti di sorta, senza credere in precoci predisposizioni, impossibili recuperi o vecchi stereotipi. Inoltre lei stessa ha raccontato che la sua scuola a Teheran era diretta da una donna
forte convinta che a maschi e femmine dovessero essere offerte le stesse opportunità di studio. Questo puzzle oggi noi, in Ticino e in Svizzera, siamo capaci di comporlo? Siamo sicuri di essere guidati come adulti, genitori, educatori e politici dagli stessi ideali? Siamo sicuri di essere all’altezza dell’ingegno delle nostre bambine? Offriamo loro un futuro libero da stereotipi? La realtà è che nel nostro sistema formativo continuiamo a registrare una presenza femminile troppo bassa negli ambiti tecnici, a tutti i livelli, e che più è elevato il grado scolastico, minore è la quota di donne in seno al corpo insegnante. La vita breve di Maryam Mirzakhani non può che suscitare ammirazione ma soprattutto dovrebbe essere di ispirazione. Con il suo lavoro è stata la migliore ambasciatrice per le ragazze interessate a un percorso di studi scientifici. E come spesso capita alle vite straordinarie il loro splendore fa vacillare tabù e barriere ritenute insormontabili. Anche dopo la morte: negli scorsi giorni molti giornali iraniani hanno pubblicato la sua fotografia e il capo, eccezionalmente, era mostrato senza velo. Capelli corti, occhi limpidi. Occhi di donna, matematica, moglie, madre.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Società e Territorio E Internet arrivò in Ticino Intervista a Simone Cicalissi, pioniere della Rete negli anni Novanta
La Valle della Motta Il Parco che si estende tra Coldrerio e Novazzano è una preziosa nicchia naturale che propone interessanti attività didattiche
La coppia oltre la fede Due coppie di fede diversa raccontano la loro esperienza che, nel caso di Carolina e Victor, è diventata una serie televisiva pagina 6
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Il futuro è nella nuvola
Personaggi Intervista a Simone Cicalissi, uno dei pionieri di Internet in Ticino
Alessandro Zanoli Se qualcuno avesse un giorno l’intenzione di ricostruire la storia di Internet in Ticino, non potrebbe fare a meno di considerare il lavoro pionieristico (e anche un po’ visionario) di un gruppetto di giovani informatici che, a metà degli anni 90, nel luganese hanno iniziato a sperimentare la possibilità di creare un’attività commerciale legata al World Wide Web. Si trattava di un’Internet completamente diversa da quella che conosciamo. I suoi meccanismi di funzionamento, per quanto fondati su protocolli di comunicazione che in qualche modo sono tuttora attuali, erano legati all’uso di una tecnologia tutta da inventare. Faceva parte di quel gruppo di entusiasti Simone Cicalissi, un ingegnere informatico diplomatosi a Bienne. Lontano dai riflettori mediatici Cicalissi è in realtà molto conosciuto da tutti coloro che si sono occupati di Internet «visto da dietro le quinte». È per questo che molto volentieri abbiamo chiesto di registrare anche la sua testimonianza nella serie di ritratti che stiamo raccogliendo sull’inizio del movimento Internet in Ticino (altre puntate su «Azione 47» del novembre 2016, Bruno Giussani; «Azione 50» del 12 dicembre 2016, Alessio Petralli; «Azione 22» del 29 maggio, Gianni Giorgetti).
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Il primo impiego Giovani L’Associazione 18-24
aiuta i neodiplomati ad inserirsi nel mondo del lavoro Paola Bernasconi «Trovare lavoro per un giovane? C’è crisi, è difficile, ma bisogna darsi da fare, formandosi». A dirlo è un 26enne, che nella sua breve carriera di lavori ne ha già trovati tre, due grazie all’Associazione 18-24. Di che cosa si tratta? Ce lo spiega la sua fondatrice, anima del progetto, Cristina Pagani. «18-24 è un’associazione no-profit, che ha lo scopo di aiutare i giovani neodiplomati ad inserirsi nel mondo del lavoro attraverso una piattaforma gratuita, che vuole fungere da vetrina verso il mondo del lavoro. Per potersi iscrivere è necessario avere tre requisiti: l’età dev’essere compresa tra i 18 e i 24 anni, bisogna essere residenti in Ticino ed avere un diploma di scuola professionale o superiore. Il progetto è rivolto anche a chi desidera ampliare le proprie conoscenze lavorative intraprendendo nuove sfide professionali». Come il giovane con cui abbiamo parlato. «Come ho scoperto l’esistenza dell’associazione? Quasi per caso mi sono imbattuto nella loro pagina Facebook, ed ho provato a inviare i miei dati. Da lì, mi hanno chiamato per un colloquio, poi sono riusciti a trovarmi dapprima un posto a tempo determinato e infine il mio attuale». Un’impresa non sempre facile. «18-24 – prosegue la signora Pagani – è nata dalla difficoltà che molte aziende hanno nel riuscire a trovare giovani residenti in cerca di un lavoro. O meglio, spesso la domanda non si incontra con l’offerta e viceversa. Avere un punto di riferimento dove neodiplomati e aziende possano incontrarsi, permetterà ad entrambi di non perdere delle occasioni di collaborazione». Perché, ed è un fattore a cui non si pensa, non sempre le aziende sono in grado di trovare il profilo richiesto. «Paradossalmente abbiamo avuto più difficoltà nel farci conoscere dai giovani che non dalle aziende. Quest’ultime infatti, non hanno tardato a contattarci dopo aver lanciato il progetto attraverso vari canali. Alcune di loro si sono già rivolte a noi più volte per assumere un giovane. Un dato che dovrebbe far riflettere: sono
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
oltre 40 le richieste di lavoro ricevute da aziende specializzate in svariati settori professionali, rimaste insolute causa mancanza di profili», ci fa notare. Uno strumento di collegamento è dunque utile, e l’Associazione è apprezzata anche da numerose aziende, che l’hanno utilizzata per reclutare giovani. Fra queste c’è la ditta Spinelli SA. «Io stesso, come la gran parte dei nostri quadri aziendali, siamo partiti proprio dall’apprendistato», ci racconta con orgoglio il direttore generale Giorgio Ortelli. «Cerchiamo persone motivate e con passione che siano desiderose di condividere la nostra visione e i nostri valori. Investire su un giovane è, a volte, una scommessa ma, da anni, puntiamo su di loro per introdurre nuova linfa nell’azienda e scegliamo di dare l’opportunità ad alcuni dei migliori apprendisti assumendoli al termine dell’apprendistato». Così, conoscendo e stimando da tempo per motivi professionali Cristina Pagani, quando hanno avuto un posto scoperto, da assegnare a un giovane, si sono rivolti a 18-24. Come funziona la presa di contatto? «Abbiamo stilato una descrizione della mansione e delle caratteristiche necessarie per ricoprire il ruolo: abbiamo quindi inviato la richiesta all’agenzia. Sulla base delle nostre richieste, 18-24 ci ha proposto alcuni candidati. Abbiamo fatto una prima scrematura, ottenendo una piccola rosa che è poi stata presentata al nostro direttore finanziario che ne aveva fatto richiesta». Le aziende, ci spiega Cristina Pagani, hanno due canali per cercare i giovani iscritti. Si può, come ha fatto la Spinelli, inviare una descrizione del profilo richiesto, oppure visionare i curricula vitae pubblicati e segnalare quelli che interessano: «a quel punto l’Associazione prende contatto con l’azienda per ottenere maggiori informazioni inerenti capacità e attitudini ricercate, fisserà un colloquio conoscitivo con i candidati prescelti e, se ritenuti conformi a quanto richiesto, organizzeremo un incontro con l’azienda». Ma quali sono le difficoltà maggiori in vista dell’entrata nel mondo del lavoro? La crisi, così come ha sottolineato il Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Simone Cicalissi, lei è uno di quelli «che c’era» quando Internet è arrivato in Ticino...
La ricerca di lavoro non è sempre facile, 18-24 vuole essere un collegamento tra neodiplomati e aziende. (Keystone)
nostro giovane interlocutore, non si può negare. La scuola, però, forma in modo adeguato i ragazzi? Secondo Pagani, sì, anche se si potrebbe migliorare. «Ho sempre ricevuto dei riscontri molto positivi da parte delle aziende con l’eccezione della conoscenza delle lingue che in molti casi è ritenuta scarsa. Purtroppo o per fortuna la globalizzazione ha portato a lavorare sempre più con aziende straniere; i ragazzi, specialmente nel settore commerciale, devono mettere in conto di dover approfondire la conoscenza delle lingue straniere terminata la scuola. Nonostante l’inglese sia una lingua franca, in Ticino il tedesco rimane ancora la lingua più richiesta». Un dettaglio che potrebbe sembrare di
poco conto e che invece a suo avviso ha un peso, è poi la preparazione del curriculum vitae «troppo spesso incompleto o poco curato, stenta a destare l’interesse del selezionatore». A Ortelli, per contro, abbiamo chiesto come mai non sempre le aziende puntino sui giovani. «Il grado d’istruzione è uno dei fattori complici della situazione, unito a un mercato del lavoro difficile, con uno sbilanciamento quantitativo tra domande delle imprese e scelte dei giovani. Un altro punto che sicuramente in taluni casi disincentiva l’assunzione è l’investimento di risorse necessario alla formazione, e i salari d’entrata per ragazzi che devono comunque essere formati».
18-24 riscuote consensi tra chi vi si è rivolto. «Sono stato molto contento della mia esperienza con loro, tornerei a rivolgermi all’agenzia e la consiglierei a degli amici», è convinto il giovane con cui abbiamo parlato, mentre Ortelli parla di «un lavoro molto apprezzato e di grande valore sociale in quanto aiuta i giovani a muovere i primi passi nel mondo del lavoro e a valutare le loro attitudini nonché i settori in cui meglio potrebbero operare per avere opportunità e future soddisfazioni personali».
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Abbiamo iniziato nel 1994. A quei tempi io lavoravo al Cimsi, ossia un ente para-universitario che offriva aiuto alle aziende esterne. Una delle tecnologie che offrivamo era la posta elettronica. Il Cimsi esiste ancora: è stato integrato nella Supsi. Lì avevamo un inizio di rete informatica, formata da robot a controllo numerico che venivano collegati in rete. Eravamo un gruppo di giovani diplomati, arrivati più o meno nello stesso momento. Collaboravamo anche con una società esterna, Remedios. Da questa azienda e dal nostro gruppo (Bruno Giussani, Paolo Cattaneo, Alberto De Lorenzi, Raffaele Giulietti, Giovanni Taddei) che allora non si chiamava ancora Tinet, è nata l’idea di fornire Internet, perché in Ticino c’era richiesta per questo tipo di servizio da parte delle aziende.
Si può dire che Tinet sia stata una delle prime aziende che ha pensato a Internet come qualcosa di commerciale?
In quel momento non c’era nessun altro: «Ticino.com» è arrivata più tardi. C’era qualche azienda da Zurigo che offriva il collegamento Internet. C’era America on Line: aveva una rete fatta di sistemi che collegavano i suoi utenti e permetteva uno scambio di dati fra loro. Se vuole, Internet allora era una realtà fatta da tanti attori indipendenti.
Internet, un tempo, era un numero di telefono da chiamare...
Sì, e i problemi erano diversi. Intanto i costi telefonici erano variabili a dipendenza della regione da cui si chiamava per accedere alla rete. Allora, avevamo deciso, dopo aver valutato molte opzioni, di collegarci direttamente con il CERN. Questo fu il nostro costo più grande: il collegamento era Manno – CERN, e poi con qualche server e alcuni modem, distribuivamo agli utenti l’accesso a Internet. Pensi che, visto che eravamo gli unici in Ticino, siamo stati contattati da Swisscom per diventare loro partner.
Così piccoli avevate quasi una situazione di monopolio...
È vero, ma comunque in quel tempo ancora in pochi volevano allacciarsi ad Internet. Molti non sapevano neppure cosa fosse. Tutti usavano i fax, quindi Internet sembrava inutile. Succedevano cose divertenti perché, visto che eravamo gli unici a fornire Internet, tutti i grossi clienti venivano da noi, banche e grandi società. Tinet era una società piccolissima, ridicola a confronto. Eravate tutti ingegneri informatici? Intervenivate su hardware e software?
Ognuno arrivava da scuole diverse. Ovviamente all’inizio tutti facevano tutto, poi ognuno si è specializzato nel suo campo. Abbiamo superato i molti problemi di compatibilità tra computer. Da notare che molti PC non sapevano gestire il protocollo TCP-IP, quello che permette l’accesso alla rete di Internet. Allora avevamo sviluppato un software per riuscire a velocizzare le cose, su dischetto. Ricordo che quando è uscito il film The Net distribuivamo il floppy nei cinema per promuoverci: serviva per collegarsi ad Internet con Tinet per una settimana gratuitamente. Ne abbiamo stampati migliaia, con una macchina speciale: mi sembra ancora
di risentire il rumore dei dischetti terminati che cadevano in una scatola per raccoglierli...
Quale era la sua funzione nel gruppo?
Costruivo la rete: ero chiuso in cantina, dove non mi vedeva nessuno, ad attaccare fili (ride). Dalla nostra sede partiva, come detto, un cavo collegato al CERN a 64 KB. Avevamo dei veri e propri armadi pieni di modem e quando un nuovo utente si collegava si accendeva la lucina di uno di quelli. Man mano ne dovevamo aggiungere di nuovi, quando le lucine iniziavano ad essere troppe... Riguardando a quel periodo possiamo dire che il Ticino era abbastanza all’avanguardia, in buona posizione anche a livello nazionale.
Siamo stati tra i primi cinque e quel che è interessante è che andavamo controcorrente rispetto agli altri. Facevamo una fatica infernale ma non volevamo usare i sistemi standard. Volevamo capire fino in fondo. Le grandi ditte di networking non ci prendevano neppure in considerazione perché eravamo piccoli ma in poco tempo siamo riusciti ha guadagnare grandi clienti e reputazione. Occorre dire che Internet in quel periodo era comunque un’altra cosa rispetto ad oggi. Pensi a come funzionava «Yahoo!» allora: era un catalogo di siti distinti per categoria. Dopo un po’ si poteva quasi quasi conoscerli tutti. Oggi questo è impensabile. Comunque per tornare alla storia, passato l’iniziale disinteresse c’è stato un boom e noi effettivamente eravamo gli unici in grado di fare tutto quello che offrivano le grandi società, nonostante le nostre dimensioni. Alla fine gestivamo migliaia di connessioni tramite i router, ma non era più così divertente come con i primi server. Ho deciso anche per questo di tornare a essere indipendente. Quello che mi interessava era aiutare chi voleva Internet e praticare la sua messa in sicurezza.
Simone Cicalissi. (Stefano Spinelli)
non è facile avere la possibilità di fare esperienza orizzontale in più settori, come abbiamo fatto noi. Oggi si parte «specializzati», e da un solo settore dell’informatica è molto difficile avere un’idea globale. La mia esperienza di oggi mi mostra che spesso mancano figure professionali in grado di collegare tra loro queste aree di specializzazione.
Secondo ciò che osserva ogni giorno nel suo lavoro, quale le sembra l’evoluzione generale nel settore informatico?
Sì, ho dato molte idee alla gente: mi sono documentato studiando, leggendo documenti un po’ qui e un po’ là. È la parte più divertente. Per qualcuno che inizia oggi a lavorare in questo settore è più difficile, perché in fondo non sa veramente «cosa c’è sotto», non sa come è cresciuta la tecnologia che c’è alla base di Internet. In secondo luogo, oggi
Mi sembra che prenda sempre più piede l’idea di «cloud» e l’informatica come la conosciamo oggi nei prossimi 10 anni cambierà. Siamo abituati a installare software, ad esempio per la posta elettronica, ma la direzione verso cui ci si avvia è di non usare più programmi installati sul PC in ufficio. I programmi saranno «noleggiati», usati online, solo quando se ne ha bisogno. Ciò avviene perché la rete diventa sempre più veloce. Un tempo lo scambio di dati era
ticolo «Protagonisti del cambiamento». Con Alessandro si discuteva della portata del cambiamento tecnologico in atto che tocca e coinvolge tantissimi ambiti e sfere della nostra vita famigliare e professionale, delle nostre relazioni ma non sempre è chiara e tangibile a tutti. Molti vivono ancora nella convinzione che il mondo reale e quello del Web siano due sfere distinte, separate, come se le cause e gli effetti dell’uno non intaccassero l’altro. Ma «la velocità del cambiamento è talmente rapida – diceva Trivilini – che le persone si ritroveranno in un nuovo mondo senza nemmeno accorgersi». Nel nostro caso, l’immagine concreta che riunisce e materializza i due mondi rendendoli tangibili, è proprio questa tradizionale lettera di carta dell’assicurazione recapitata da una postina in carne ed ossa nella
bucalettere. La mia esperienza l’avrete forse già vissuta anche voi nei mesi scorsi o la vivrete presto visto che, secondo l’Insurtech Report 2016 di Burnmark, la cyber security è uno dei driver che in questo e nei prossimi anni spingeranno maggiormente la crescita di assicurazioni e insurtech a livello internazionale. Gli hacker non sono dei marziani e la cyber sicurezza non è un tema da sottovalutare o da considerare solo nei casi di clamorosi attacchi globali come quelli recenti dei ransomware Wannacry e Petya. E non riguarda solo le aziende e i governi ma anche i privati cittadini. Certo è tutta un’altra storia quando l’argomento è trattato sulla prima pagina di un giornale e quando invece ci tocca dal vivo. Ne sanno qualcosa i miliardari proprietari di yacht di lusso riunitisi
La gestione delle reti è da sempre la sua specialità.
lento, ridotto, ma adesso non è più necessario che un qualsiasi programma sia installato sul PC o sul MAC. Anzi, averlo genera costi: bisogna aggiornarlo, «occupa spazio», ogni tanto ha update obbligatorie, eccetera.
E nel settore dell’hardware, invece, a che evoluzione assisteremo?
Da questo punto di vista, il problema che causa i maggiori rallentamenti sono gli hard-disk. Penso che pian piano si arriverà ad usare un tipo di memoria composta di solo RAM, molto più veloce, che di tanto in tanto si sincronizza con un disco rigido. Inoltre, a meno che non si vogliano utilizzare programmi di grafica come il CAD, che richiede un po’ più di performance, non serve a niente avere processori super-potenti. In un normale ufficio, la maggior parte degli utenti non fa nulla che richieda particolari capacità di calcolo o grafica dal PC. Le macchine, a livello di processore, oggi sono davvero già ultra-dimensionate.
La, società connessa di Natascha Fioretti Se l’assicurazione è cyber Non so voi, io quando ricevo posta dalla mia assicurazione, dalla banca o da qualche altro istituto o ente e sento odor di bolletta senza pensarci metto la lettera tra le pendenze da evadere a breve. Poi arriva il fatidico giorno, quello in cui mi sembra di essere dell’umore giusto per poter affrontare qualsiasi cifra e apro la temuta corrispondenza. Questa volta con una sorpresa interessante: la mia assicurazione mi propone di integrare la polizza sulla mobilia domestica con una nuova assicurazione cyber. In tempi in cui computer e internet rendono tutto molto più semplice di un tempo, anche perdere i propri dati personali o essere vittime di un attacco hacker, recita più o meno il testo sul dépliant, abbiamo sviluppato l’assicurazione cyber che tutela voi e la vostra fami-
glia in tutti gli ambiti. In sostanza la polizza promette di fornire assistenza telefonica e via email per tutte le questioni relative a hardware, software e internet, di fornire aiuto per reimpostare il salvataggio online dei dati, di fornire il supporto per la configurazione del computer o la rimozione di malware, di offrire assistenza giuridica in caso di truffa in internet. La polizza prevede anche l’assunzione dei costi per il ripristino dei dati e dei danni finanziari derivati dall’abuso della carta di credito o dai nostri dati di accesso. Mi è subito tornata in mente la chiacchierata di qualche tempo fa con Alessandro Trivilini, responsabile del Servizio di informatica forense del Dipartimento tecnologie innovative (DTI) della SUPSI, fatta proprio su queste pagine in occasione dell’ar-
qualche settimana fa a Londra per celebrare il migliore anno di vendite per l’industria nautica dalla crisi finanziaria del 2008. Tra gli ospiti c’era anche Campbell Murray, esperto di cybercrime di Blackberry, che ha dimostrato quanto sia facile hackerare uno yacht di super lusso ad iniziare dalle comunicazioni via satellite, dal sistema telefonico e wifi sino ai dati finanziari e alle foto private. Anche in questo caso il pericolo è reale: un miliardario si è visto derubato di oltre 100’000 euro da dei criminali che hanno hackerato il suo conto bancario, altri sono stati ricattati con foto compromettenti, altri ancora sono stati obbligati a pagare per far sbloccare il sistema di navigazione della propria imbarcazione. Assicurazioni a parte, nell’era della società connessa la cyber sicurezza ci riguarda tutti.
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Società e Territorio E Internet arrivò in Ticino Intervista a Simone Cicalissi, pioniere della Rete negli anni Novanta
La Valle della Motta Il Parco che si estende tra Coldrerio e Novazzano è una preziosa nicchia naturale che propone interessanti attività didattiche
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Il futuro è nella nuvola
Personaggi Intervista a Simone Cicalissi, uno dei pionieri di Internet in Ticino
Alessandro Zanoli Se qualcuno avesse un giorno l’intenzione di ricostruire la storia di Internet in Ticino, non potrebbe fare a meno di considerare il lavoro pionieristico (e anche un po’ visionario) di un gruppetto di giovani informatici che, a metà degli anni 90, nel luganese hanno iniziato a sperimentare la possibilità di creare un’attività commerciale legata al World Wide Web. Si trattava di un’Internet completamente diversa da quella che conosciamo. I suoi meccanismi di funzionamento, per quanto fondati su protocolli di comunicazione che in qualche modo sono tuttora attuali, erano legati all’uso di una tecnologia tutta da inventare. Faceva parte di quel gruppo di entusiasti Simone Cicalissi, un ingegnere informatico diplomatosi a Bienne. Lontano dai riflettori mediatici Cicalissi è in realtà molto conosciuto da tutti coloro che si sono occupati di Internet «visto da dietro le quinte». È per questo che molto volentieri abbiamo chiesto di registrare anche la sua testimonianza nella serie di ritratti che stiamo raccogliendo sull’inizio del movimento Internet in Ticino (altre puntate su «Azione 47» del novembre 2016, Bruno Giussani; «Azione 50» del 12 dicembre 2016, Alessio Petralli; «Azione 22» del 29 maggio, Gianni Giorgetti).
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Il primo impiego Giovani L’Associazione 18-24
aiuta i neodiplomati ad inserirsi nel mondo del lavoro Paola Bernasconi «Trovare lavoro per un giovane? C’è crisi, è difficile, ma bisogna darsi da fare, formandosi». A dirlo è un 26enne, che nella sua breve carriera di lavori ne ha già trovati tre, due grazie all’Associazione 18-24. Di che cosa si tratta? Ce lo spiega la sua fondatrice, anima del progetto, Cristina Pagani. «18-24 è un’associazione no-profit, che ha lo scopo di aiutare i giovani neodiplomati ad inserirsi nel mondo del lavoro attraverso una piattaforma gratuita, che vuole fungere da vetrina verso il mondo del lavoro. Per potersi iscrivere è necessario avere tre requisiti: l’età dev’essere compresa tra i 18 e i 24 anni, bisogna essere residenti in Ticino ed avere un diploma di scuola professionale o superiore. Il progetto è rivolto anche a chi desidera ampliare le proprie conoscenze lavorative intraprendendo nuove sfide professionali». Come il giovane con cui abbiamo parlato. «Come ho scoperto l’esistenza dell’associazione? Quasi per caso mi sono imbattuto nella loro pagina Facebook, ed ho provato a inviare i miei dati. Da lì, mi hanno chiamato per un colloquio, poi sono riusciti a trovarmi dapprima un posto a tempo determinato e infine il mio attuale». Un’impresa non sempre facile. «18-24 – prosegue la signora Pagani – è nata dalla difficoltà che molte aziende hanno nel riuscire a trovare giovani residenti in cerca di un lavoro. O meglio, spesso la domanda non si incontra con l’offerta e viceversa. Avere un punto di riferimento dove neodiplomati e aziende possano incontrarsi, permetterà ad entrambi di non perdere delle occasioni di collaborazione». Perché, ed è un fattore a cui non si pensa, non sempre le aziende sono in grado di trovare il profilo richiesto. «Paradossalmente abbiamo avuto più difficoltà nel farci conoscere dai giovani che non dalle aziende. Quest’ultime infatti, non hanno tardato a contattarci dopo aver lanciato il progetto attraverso vari canali. Alcune di loro si sono già rivolte a noi più volte per assumere un giovane. Un dato che dovrebbe far riflettere: sono
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Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
oltre 40 le richieste di lavoro ricevute da aziende specializzate in svariati settori professionali, rimaste insolute causa mancanza di profili», ci fa notare. Uno strumento di collegamento è dunque utile, e l’Associazione è apprezzata anche da numerose aziende, che l’hanno utilizzata per reclutare giovani. Fra queste c’è la ditta Spinelli SA. «Io stesso, come la gran parte dei nostri quadri aziendali, siamo partiti proprio dall’apprendistato», ci racconta con orgoglio il direttore generale Giorgio Ortelli. «Cerchiamo persone motivate e con passione che siano desiderose di condividere la nostra visione e i nostri valori. Investire su un giovane è, a volte, una scommessa ma, da anni, puntiamo su di loro per introdurre nuova linfa nell’azienda e scegliamo di dare l’opportunità ad alcuni dei migliori apprendisti assumendoli al termine dell’apprendistato». Così, conoscendo e stimando da tempo per motivi professionali Cristina Pagani, quando hanno avuto un posto scoperto, da assegnare a un giovane, si sono rivolti a 18-24. Come funziona la presa di contatto? «Abbiamo stilato una descrizione della mansione e delle caratteristiche necessarie per ricoprire il ruolo: abbiamo quindi inviato la richiesta all’agenzia. Sulla base delle nostre richieste, 18-24 ci ha proposto alcuni candidati. Abbiamo fatto una prima scrematura, ottenendo una piccola rosa che è poi stata presentata al nostro direttore finanziario che ne aveva fatto richiesta». Le aziende, ci spiega Cristina Pagani, hanno due canali per cercare i giovani iscritti. Si può, come ha fatto la Spinelli, inviare una descrizione del profilo richiesto, oppure visionare i curricula vitae pubblicati e segnalare quelli che interessano: «a quel punto l’Associazione prende contatto con l’azienda per ottenere maggiori informazioni inerenti capacità e attitudini ricercate, fisserà un colloquio conoscitivo con i candidati prescelti e, se ritenuti conformi a quanto richiesto, organizzeremo un incontro con l’azienda». Ma quali sono le difficoltà maggiori in vista dell’entrata nel mondo del lavoro? La crisi, così come ha sottolineato il Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Simone Cicalissi, lei è uno di quelli «che c’era» quando Internet è arrivato in Ticino...
La ricerca di lavoro non è sempre facile, 18-24 vuole essere un collegamento tra neodiplomati e aziende. (Keystone)
nostro giovane interlocutore, non si può negare. La scuola, però, forma in modo adeguato i ragazzi? Secondo Pagani, sì, anche se si potrebbe migliorare. «Ho sempre ricevuto dei riscontri molto positivi da parte delle aziende con l’eccezione della conoscenza delle lingue che in molti casi è ritenuta scarsa. Purtroppo o per fortuna la globalizzazione ha portato a lavorare sempre più con aziende straniere; i ragazzi, specialmente nel settore commerciale, devono mettere in conto di dover approfondire la conoscenza delle lingue straniere terminata la scuola. Nonostante l’inglese sia una lingua franca, in Ticino il tedesco rimane ancora la lingua più richiesta». Un dettaglio che potrebbe sembrare di
poco conto e che invece a suo avviso ha un peso, è poi la preparazione del curriculum vitae «troppo spesso incompleto o poco curato, stenta a destare l’interesse del selezionatore». A Ortelli, per contro, abbiamo chiesto come mai non sempre le aziende puntino sui giovani. «Il grado d’istruzione è uno dei fattori complici della situazione, unito a un mercato del lavoro difficile, con uno sbilanciamento quantitativo tra domande delle imprese e scelte dei giovani. Un altro punto che sicuramente in taluni casi disincentiva l’assunzione è l’investimento di risorse necessario alla formazione, e i salari d’entrata per ragazzi che devono comunque essere formati».
18-24 riscuote consensi tra chi vi si è rivolto. «Sono stato molto contento della mia esperienza con loro, tornerei a rivolgermi all’agenzia e la consiglierei a degli amici», è convinto il giovane con cui abbiamo parlato, mentre Ortelli parla di «un lavoro molto apprezzato e di grande valore sociale in quanto aiuta i giovani a muovere i primi passi nel mondo del lavoro e a valutare le loro attitudini nonché i settori in cui meglio potrebbero operare per avere opportunità e future soddisfazioni personali».
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Abbiamo iniziato nel 1994. A quei tempi io lavoravo al Cimsi, ossia un ente para-universitario che offriva aiuto alle aziende esterne. Una delle tecnologie che offrivamo era la posta elettronica. Il Cimsi esiste ancora: è stato integrato nella Supsi. Lì avevamo un inizio di rete informatica, formata da robot a controllo numerico che venivano collegati in rete. Eravamo un gruppo di giovani diplomati, arrivati più o meno nello stesso momento. Collaboravamo anche con una società esterna, Remedios. Da questa azienda e dal nostro gruppo (Bruno Giussani, Paolo Cattaneo, Alberto De Lorenzi, Raffaele Giulietti, Giovanni Taddei) che allora non si chiamava ancora Tinet, è nata l’idea di fornire Internet, perché in Ticino c’era richiesta per questo tipo di servizio da parte delle aziende.
Si può dire che Tinet sia stata una delle prime aziende che ha pensato a Internet come qualcosa di commerciale?
In quel momento non c’era nessun altro: «Ticino.com» è arrivata più tardi. C’era qualche azienda da Zurigo che offriva il collegamento Internet. C’era America on Line: aveva una rete fatta di sistemi che collegavano i suoi utenti e permetteva uno scambio di dati fra loro. Se vuole, Internet allora era una realtà fatta da tanti attori indipendenti.
Internet, un tempo, era un numero di telefono da chiamare...
Sì, e i problemi erano diversi. Intanto i costi telefonici erano variabili a dipendenza della regione da cui si chiamava per accedere alla rete. Allora, avevamo deciso, dopo aver valutato molte opzioni, di collegarci direttamente con il CERN. Questo fu il nostro costo più grande: il collegamento era Manno – CERN, e poi con qualche server e alcuni modem, distribuivamo agli utenti l’accesso a Internet. Pensi che, visto che eravamo gli unici in Ticino, siamo stati contattati da Swisscom per diventare loro partner.
Così piccoli avevate quasi una situazione di monopolio...
È vero, ma comunque in quel tempo ancora in pochi volevano allacciarsi ad Internet. Molti non sapevano neppure cosa fosse. Tutti usavano i fax, quindi Internet sembrava inutile. Succedevano cose divertenti perché, visto che eravamo gli unici a fornire Internet, tutti i grossi clienti venivano da noi, banche e grandi società. Tinet era una società piccolissima, ridicola a confronto. Eravate tutti ingegneri informatici? Intervenivate su hardware e software?
Ognuno arrivava da scuole diverse. Ovviamente all’inizio tutti facevano tutto, poi ognuno si è specializzato nel suo campo. Abbiamo superato i molti problemi di compatibilità tra computer. Da notare che molti PC non sapevano gestire il protocollo TCP-IP, quello che permette l’accesso alla rete di Internet. Allora avevamo sviluppato un software per riuscire a velocizzare le cose, su dischetto. Ricordo che quando è uscito il film The Net distribuivamo il floppy nei cinema per promuoverci: serviva per collegarsi ad Internet con Tinet per una settimana gratuitamente. Ne abbiamo stampati migliaia, con una macchina speciale: mi sembra ancora
di risentire il rumore dei dischetti terminati che cadevano in una scatola per raccoglierli...
Quale era la sua funzione nel gruppo?
Costruivo la rete: ero chiuso in cantina, dove non mi vedeva nessuno, ad attaccare fili (ride). Dalla nostra sede partiva, come detto, un cavo collegato al CERN a 64 KB. Avevamo dei veri e propri armadi pieni di modem e quando un nuovo utente si collegava si accendeva la lucina di uno di quelli. Man mano ne dovevamo aggiungere di nuovi, quando le lucine iniziavano ad essere troppe... Riguardando a quel periodo possiamo dire che il Ticino era abbastanza all’avanguardia, in buona posizione anche a livello nazionale.
Siamo stati tra i primi cinque e quel che è interessante è che andavamo controcorrente rispetto agli altri. Facevamo una fatica infernale ma non volevamo usare i sistemi standard. Volevamo capire fino in fondo. Le grandi ditte di networking non ci prendevano neppure in considerazione perché eravamo piccoli ma in poco tempo siamo riusciti ha guadagnare grandi clienti e reputazione. Occorre dire che Internet in quel periodo era comunque un’altra cosa rispetto ad oggi. Pensi a come funzionava «Yahoo!» allora: era un catalogo di siti distinti per categoria. Dopo un po’ si poteva quasi quasi conoscerli tutti. Oggi questo è impensabile. Comunque per tornare alla storia, passato l’iniziale disinteresse c’è stato un boom e noi effettivamente eravamo gli unici in grado di fare tutto quello che offrivano le grandi società, nonostante le nostre dimensioni. Alla fine gestivamo migliaia di connessioni tramite i router, ma non era più così divertente come con i primi server. Ho deciso anche per questo di tornare a essere indipendente. Quello che mi interessava era aiutare chi voleva Internet e praticare la sua messa in sicurezza.
Simone Cicalissi. (Stefano Spinelli)
non è facile avere la possibilità di fare esperienza orizzontale in più settori, come abbiamo fatto noi. Oggi si parte «specializzati», e da un solo settore dell’informatica è molto difficile avere un’idea globale. La mia esperienza di oggi mi mostra che spesso mancano figure professionali in grado di collegare tra loro queste aree di specializzazione.
Secondo ciò che osserva ogni giorno nel suo lavoro, quale le sembra l’evoluzione generale nel settore informatico?
Sì, ho dato molte idee alla gente: mi sono documentato studiando, leggendo documenti un po’ qui e un po’ là. È la parte più divertente. Per qualcuno che inizia oggi a lavorare in questo settore è più difficile, perché in fondo non sa veramente «cosa c’è sotto», non sa come è cresciuta la tecnologia che c’è alla base di Internet. In secondo luogo, oggi
Mi sembra che prenda sempre più piede l’idea di «cloud» e l’informatica come la conosciamo oggi nei prossimi 10 anni cambierà. Siamo abituati a installare software, ad esempio per la posta elettronica, ma la direzione verso cui ci si avvia è di non usare più programmi installati sul PC in ufficio. I programmi saranno «noleggiati», usati online, solo quando se ne ha bisogno. Ciò avviene perché la rete diventa sempre più veloce. Un tempo lo scambio di dati era
ticolo «Protagonisti del cambiamento». Con Alessandro si discuteva della portata del cambiamento tecnologico in atto che tocca e coinvolge tantissimi ambiti e sfere della nostra vita famigliare e professionale, delle nostre relazioni ma non sempre è chiara e tangibile a tutti. Molti vivono ancora nella convinzione che il mondo reale e quello del Web siano due sfere distinte, separate, come se le cause e gli effetti dell’uno non intaccassero l’altro. Ma «la velocità del cambiamento è talmente rapida – diceva Trivilini – che le persone si ritroveranno in un nuovo mondo senza nemmeno accorgersi». Nel nostro caso, l’immagine concreta che riunisce e materializza i due mondi rendendoli tangibili, è proprio questa tradizionale lettera di carta dell’assicurazione recapitata da una postina in carne ed ossa nella
bucalettere. La mia esperienza l’avrete forse già vissuta anche voi nei mesi scorsi o la vivrete presto visto che, secondo l’Insurtech Report 2016 di Burnmark, la cyber security è uno dei driver che in questo e nei prossimi anni spingeranno maggiormente la crescita di assicurazioni e insurtech a livello internazionale. Gli hacker non sono dei marziani e la cyber sicurezza non è un tema da sottovalutare o da considerare solo nei casi di clamorosi attacchi globali come quelli recenti dei ransomware Wannacry e Petya. E non riguarda solo le aziende e i governi ma anche i privati cittadini. Certo è tutta un’altra storia quando l’argomento è trattato sulla prima pagina di un giornale e quando invece ci tocca dal vivo. Ne sanno qualcosa i miliardari proprietari di yacht di lusso riunitisi
La gestione delle reti è da sempre la sua specialità.
lento, ridotto, ma adesso non è più necessario che un qualsiasi programma sia installato sul PC o sul MAC. Anzi, averlo genera costi: bisogna aggiornarlo, «occupa spazio», ogni tanto ha update obbligatorie, eccetera.
E nel settore dell’hardware, invece, a che evoluzione assisteremo?
Da questo punto di vista, il problema che causa i maggiori rallentamenti sono gli hard-disk. Penso che pian piano si arriverà ad usare un tipo di memoria composta di solo RAM, molto più veloce, che di tanto in tanto si sincronizza con un disco rigido. Inoltre, a meno che non si vogliano utilizzare programmi di grafica come il CAD, che richiede un po’ più di performance, non serve a niente avere processori super-potenti. In un normale ufficio, la maggior parte degli utenti non fa nulla che richieda particolari capacità di calcolo o grafica dal PC. Le macchine, a livello di processore, oggi sono davvero già ultra-dimensionate.
La, società connessa di Natascha Fioretti Se l’assicurazione è cyber Non so voi, io quando ricevo posta dalla mia assicurazione, dalla banca o da qualche altro istituto o ente e sento odor di bolletta senza pensarci metto la lettera tra le pendenze da evadere a breve. Poi arriva il fatidico giorno, quello in cui mi sembra di essere dell’umore giusto per poter affrontare qualsiasi cifra e apro la temuta corrispondenza. Questa volta con una sorpresa interessante: la mia assicurazione mi propone di integrare la polizza sulla mobilia domestica con una nuova assicurazione cyber. In tempi in cui computer e internet rendono tutto molto più semplice di un tempo, anche perdere i propri dati personali o essere vittime di un attacco hacker, recita più o meno il testo sul dépliant, abbiamo sviluppato l’assicurazione cyber che tutela voi e la vostra fami-
glia in tutti gli ambiti. In sostanza la polizza promette di fornire assistenza telefonica e via email per tutte le questioni relative a hardware, software e internet, di fornire aiuto per reimpostare il salvataggio online dei dati, di fornire il supporto per la configurazione del computer o la rimozione di malware, di offrire assistenza giuridica in caso di truffa in internet. La polizza prevede anche l’assunzione dei costi per il ripristino dei dati e dei danni finanziari derivati dall’abuso della carta di credito o dai nostri dati di accesso. Mi è subito tornata in mente la chiacchierata di qualche tempo fa con Alessandro Trivilini, responsabile del Servizio di informatica forense del Dipartimento tecnologie innovative (DTI) della SUPSI, fatta proprio su queste pagine in occasione dell’ar-
qualche settimana fa a Londra per celebrare il migliore anno di vendite per l’industria nautica dalla crisi finanziaria del 2008. Tra gli ospiti c’era anche Campbell Murray, esperto di cybercrime di Blackberry, che ha dimostrato quanto sia facile hackerare uno yacht di super lusso ad iniziare dalle comunicazioni via satellite, dal sistema telefonico e wifi sino ai dati finanziari e alle foto private. Anche in questo caso il pericolo è reale: un miliardario si è visto derubato di oltre 100’000 euro da dei criminali che hanno hackerato il suo conto bancario, altri sono stati ricattati con foto compromettenti, altri ancora sono stati obbligati a pagare per far sbloccare il sistema di navigazione della propria imbarcazione. Assicurazioni a parte, nell’era della società connessa la cyber sicurezza ci riguarda tutti.
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Società e Territorio
Un’oasi nel Mendrisiotto
Novità
Valle della Motta Il Parco tra Coldrerio
e Novazzano è una preziosa nicchia naturale Elia Stampanoni La Valle della Motta nell’immaginario di molti ticinesi è ancora sinonimo di discarica, di puzze e di rifiuti. Ma non è così e basta una breve sosta per accorgersi di quanto questo fazzoletto di terra possa stupire. L’omonimo parco deve però la sua nascita anche ai rifiuti, dato che quando nel 1988 si decise di trasformare una parte della Valle in discarica, furono necessarie delle misure di compensazione per dissodare l’area boschiva.
Restaurato e perfettamente funzionante: il Mulino del Daniello è il fulcro del Parco Grazie a uno studio sulle particolarità naturalistiche della zona interessata si adottarono di conseguenza degli interventi mirati per la ricostituzione di ambienti nella rimanente area della Valle della Motta. Lo studio servì quale base per la realizzazione di un Piano di utilizzazione cantonale (PUC), lo strumento pianificatorio per definire le utilizzazioni e gli obiettivi di sviluppo del parco. Nel frattempo dal 2005 la discarica è ufficialmente chiusa, su di essa è stato ricreato un ambiente diversificato, in grado di favorire l’insediamento di specie indigene, il biogas prodotto viene ancora captato, mentre il percolato è recuperato e depurato Il Parco della Valle della Motta si estende oggi su 163 ettari in territorio di Coldrerio e Novazzano, diramandosi per alcuni chilometri verso Chiasso e dando origine a un paesaggio agricolo e forestale del tutto particolare. Uno scenario che si può scoprire con una passeggiata, accompagnati dal fiume Roncaglia che per diversi tratti corre accanto al sentiero didattico creato all’interno del parco. Una quindicina le tappe con relativi pannelli esplicativi proposti lungo i due chilometri del pianeggiante tracciato, dove altri punti d’interesse sono senz’altro lo stagno, la ex cava d’argilla, l’apiario didattico e soprattutto il mulino del Daniello, fulcro del parco. La storia del Mulino del Daniello è descritta nella pubblicazione Il Mulino dei Galli. Momenti di vita quotidiana nella Valle della Motta e dintorni del XIX secolo, di Ivan Camponovo. Lo stesso autore accoglie scolaresche, gruppi e interessati per una visita guidata alle infrastrutture, restaurate a tuttora funzionanti. «Si tratta di due grandi ruote idrauliche azionate dal fiume Roncaglia che a loro volta mettono in moto macina e frantoio», spiega Ivan. Una volta utilizzato per produrre olio di noci e di lino, oggi il frantoio viene attivato a scopo
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didattico, mentre una delle tre macine esistenti permette ancora di produrre farina per polenta: «Sì, una classica miscela gialla e una miscela particolare con un terzo di grano saraceno. Una piccola produzione che contribuisce a ridare vita a un manufatto di grande valore che in passato era utilizzato soprattutto per ottenere farina da granoturco, frumento, segale o grano saraceno», racconta il mugnaio del Daniello. Nel 1990 gli eredi Galli donarono al Comune di Coldrerio l’intera proprietà del mulino, comprendente i quattro ettari di terreno circostanti, lo stabile principale e la bigattiera, il locale attrezzato per l’allevamento dei bachi da seta, altra attività tipica del Mendrisiotto rurale. Donazione vincolata dalla richiesta di creare un’oasi a disposizione di tutta la popolazione, quindi integrata nel progetto parco che è oggi completato da una sala per conferenze o riunioni (ricavata negli spazi della bigattiera), da una cucina e da una zona picnic coperta. Nelle vicinanze del Mulino, rimasto attivo fino agli anni 50, troviamo pure lo stagno e le arnie didattiche, dove osservare le api tramite sportelli che permettono di vedere all’interno il loro affasciante mondo. Poco lontano la cava d’argilla è una testimonianza di un’attività che fornì fino al 1979 la materia prima per le fornaci di Balerna, dove si producevano apprezzati laterizi, quali mattoni, tegole, coppi o pianelle. Per molti anni un luogo poco frequentato e risparmiato dall’urbanizzazione, l’intera Valle della Motta è così stata riscoperta e valorizzata, diventando non solo un’area di svago, ma anche una nicchia naturale con diverse specie e ambienti sopravvissuti all’invasione dell’uomo. Il Parco, affidato alla Fondazione Luigi e Teresa Galli, è suddiviso in vari settori: si distinguono le zone di protezione della natura con i biotopi più importanti e più delicati, le zone agricole con prati, campi e vigneti, l’area forestale con i boschi di pianura e la zona per attrezzature d’interesse pubblico che si concentra nell’area circostante al Mulino del Daniello. La creazione del Parco ha pure permesso il ripristino della rete di sentieri che collegano i diversi Comuni del Basso Mendrisiotto, tragitti che ben si adattano per una gita nella natura e a due passi dalla città. Come ogni parco naturale, anche questo si pone come obiettivi la conservazione della natura, abbinata alla promozione di attività ricreative e didattiche. Il parco intende dunque da un lato creare nuove strutture e ambienti favorevoli alla flora e alla fauna indigene, dall’altro vegliare affinché la sua fruizione avvenga nel rispetto della natura e dei suoi equilibri.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Società e Territorio
Amarsi e credere in un altro dio
Notizie in breve
Religione Due coppie con fedi diverse ci raccontano la loro esperienza
Carolina Costa con il marito Victor. (© Atalahalta)
Sara Rossi Guidicelli Cosa significa condividere tutto tranne la religione? Quando due persone si amano e desiderano passare la vita insieme, è possibile che ci sia qualcosa di così importante che non li accomuni? E cosa comporta? Spesso in una coppia si fanno mestieri diversi, a volte non si hanno nemmeno gli stessi hobby, magari persino la visione della vita differisce. Ma per la fede? In un mondo che si mischia sempre di più, cosa succede se ci si innamora di qualcuno che crede in un dio diverso? Non è facile trovare statistiche su quante coppie miste conti il Ticino, la Svizzera, il mondo. Quello che si può certamente dire è che sono in aumento, dappertutto. Queste che seguono sono le storie di due coppie che non rappresentano nessuno se non se stesse. Una ha deciso di mantenere l’anonimato, l’altra ha messo sul web una serie tv autobiografica. Tutto può avere inizio grazie a Vanni (nome di fantasia), che decide di raccontarmi. Devo però andare fino a casa sua, sul lago di Zurigo. La casa di due persone colte, viaggiatrici, aperte. Sul tavolino c’è una pila di giornali e riviste, libri di ogni genere, da Pavese all’ultimo giallo di Donna Leon, e grandi vetrate che danno sul lago. La libreria rispecchia chi abita la casa: volumi in ebraico, bibbie di antico e nuovo testamento, libri sull’ebraismo e letteratura europea, sud e nord americana, cataloghi di mostre. E ovunque statue africane, manoscritti, pitture, oggetti; appeso a una parete c’è persino un vecchio annuncio di quelle case di piacere di una volta, che fanno tenerezza tanto ingenuo è il tocco romantico che le pervade. Ma sono venuta con uno scopo preciso: sapere come si vive se si è una coppia di religione mista. In questo caso Vanni è ebreo, cresciuto in una famiglia ortodossa e tuttora praticante, e lei, Kristine, è una cattolica che va a messa la domenica. Stanno insieme nella stessa casa, nella stessa vita, da 40 anni, ma non si sono mai sposati. Questo sarebbe stato troppo: in Sinagoga si può ignorare una convivente, una moglie no. Vanni fa Shabbat, mangia e cucina kosher, mette i tefillin in settimana, ma nonostante questo, gli sfugge la parola «ipocrisia» parlando dei severi precetti della sua religione.
«Per me il rapporto tra due persone si basa su rispetto, amicizia, fiducia. Una coppia che funziona non significa che sia senza problemi, ma è una coppia in cui si discutono i problemi. Per me Kristine è moltissimo, ma la religione, sì, è un punto dolente. Avrei voluto sposarla, ma non me la sono sentita. La mia famiglia non ha mai accettato che io avessi scelto lei, cattolica. E per lei non è mai stato questione di cambiare credo: lei è la donna che accende le candele di casa mia il venerdì sera, ma è stata educata alla religione cattolica romana e la mantiene. La domenica, dopo la sua messa, le chiedo su cosa verteva la predica, mi interessa davvero; parliamo anche di Dio, persino scherzando: quando lei prega, per esempio, le dico “parla piuttosto col Padre... del figlio non siamo così sicuri”».
Carolina e Victor Costa nella serie televisiva Ma femme est pasteure raccontano con humour la loro quotidianità I cris tiani nel mondo sono 2,4 miliardi, un terzo della popolazione. I musulmani 1,8, circa il 20%. Gli ebrei sono poco più di 14 milioni, lo 0,22%. Secondo Vanni, quando si tratta di decidere cosa fare con i figli, pesa anche questo. Se rappresenti una buona fetta di mondo, hai più potere decisionale. Lui e Kristine non sono diventati genitori, ma Vanni pensa che certamente avrebbero tramandato la cultura dell’uno e dell’altra, anche se, dice lui, forse non avrebbero potuto partecipare totalmente alla vita in Sinagoga. «Tra di noi non ci sono tabù, ce ne sono invece verso il mondo esterno», conclude. Una coppia più giovane e forse più sorprendente è formata da Carolina e Victor. Questi sono nomi veri, perché il web della Svizzera francese li conosce benissimo, dopo che hanno girato una serie televisiva Ma femme est pasteure, che racconta la loro autentica situazione: lei di professione è pastora protestante, lui agnostico. Tre episodi sono stati anche passati alla Rsi all’interno del programma Segni dei Tempi con il titolo Aiuto! Mia moglie è pastora.
«Nella Bibbia, in una lettera di Paolo ai Corinzi, si parla dei primi cristiani convertiti», mi racconta Carolina. «C’erano famiglie in cui il marito o la moglie si erano convertiti a Cristo, mentre l’altro era rimasto ebreo o pagano. E Paolo cosa dice loro? La cosa più importante è mantenere la pace nel vostro focolare, preservare l’amore nella coppia e verso i figli, perché anche chi non è diventato cristiano riceverà l’amore di Dio attraverso questa pace». Carolina è nata lei stessa in una famiglia mista: il padre era italiano e cattolico romano, la madre danese e luterana. Per lei non ci sono mai stati dubbi che il multiculturalismo è una risorsa, solo crescendo ha saputo che per altri può essere diverso. Da piccola esitava tra voler diventare una cantante o un pastore protestante. «Ho studiato teologia perché ero appassionata di questioni esistenziali e perché mi piace cercare di capire tutte le cose che riguardano l’umano», prosegue. «Avevo avuto a catechismo un pastore argentino che ci parlava della vita, che accostava la religione al nostro quotidiano, che ci ha presentato Gesù come un rivoluzionario anarchico. Ho letto i Vangeli e ho trovato un amore enorme che mi toccava». Finiti gli studi in Teologia, è partita a Parigi in una scuola di musica, dove ha incontrato Victor, attore proveniente dalla Spagna. È stato l’incontro che le ha dato la serenità di cui sentiva la mancanza e che le ha permesso di tornare alle sue domande religiose filosofiche senza smettere di recitare e cantare. «Ho trovato l’amore personale, e così ho potuto dedicarmi a un amore più assoluto. Con Victor parlavamo per ore di vita, morte, Dio, scienza, di tutto ciò che riguarda l’essere umano. Abbiamo iniziato a creare spettacoli sulla coppia, ci siamo divertiti. Ma per lui era più che un divertimento, era la sua vita, la sua carriera. Io ho deciso che volevo dare corsi di religione ai bambini, ma un altro pastore che è poi diventato il mio mentore mi ha risposto che dovevo provare a diventare pastora anche io, per parlare con tutti, non solo con i bambini. Io? Io così festaiola, così rock&roll e pronta a fare stupidate... Alla fine mi ha convinta e sono tornata a Ginevra. Dal primo giorno ho capito che ero al posto giusto. Quell’anno ci
siamo sposati Victor e io e abbiamo iniziato anche uno spettacolo che poi è diventato la nostra prima serie Tv su una coppia in cui lui è spagnolo e viene a vivere in Svizzera (Bienvenue chez nous). Ora abbiamo inventato quest’altra serie proprio su una moglie pastore e un marito agnostico...». Hanno due bambine, Carolina ha scritto anche un libro sul matrimonio (Vie à deux, mariage, pacs. A l’aventure!) e con Victor continuano a parlare di religione e d’altro. «Un matrimonio felice è una lunga conversazione che sembra sempre troppo breve» ha detto uno scrittore francese. Ma naturalmente è più complicato di così, anche se succede loro qualcosa che capita in qualunque matrimonio: si cerca di incontrarsi a metà strada. «Potremmo chiamarlo compromesso, ma in inglese c’è un’espressione che mi piace di più: il winwin, dove ognuno guadagna qualcosa, senza perdere niente d’importante. Per esempio, ci siamo sposati in Svizzera con un matrimonio benedetto da un pastore protestante che ha parlato in modo speciale alla famiglia cattolica di Victor. Nostra figlia è battezzata con il rito cattolico. Teniamo conto di ciò che ci importa, dello spazio che prende l’altro, dei suoi desideri. A me piacerebbe una volta condividere con lui uno spazio spirituale. Per ora non vuole, però non mi dice “Mai”, mi dice “Forse, un giorno” e per me è già bello che capisca la mia richiesta e mi lasci una possibilità». Alla fine entrambi sanno che la risposta certa non c’è: lei crede che dio esista, lui crede di no. Lei pensa che ci sia una vita dopo la morte, lui pensa di no. Nessuno può infondere la sua certezza nell’altro. «Alcuni sono sorpresi che io abbia un marito che non viene al culto, pensano: ma se non riesci nemmeno a convincere tuo marito, chissà con gli altri... All’inizio pensavo che sarebbe stato meglio credere tutti e due, però adesso, con l’esperienza, ho cambiato opinione. Senza Victor non sarei una pastora così aperta e così a mio agio nel nostro tempo. Quando preparo una predica, o un discorso per un matrimonio, un funerale o un battesimo, scrivo sempre anche per lui, anche per chi non crede. Cerco di toccare tutti, e ci riesco, perché tutti in qualche modo credono nell’amore. Victor è stato ed è il mio migliore insegnante di spiritualità».
Tirocinio: un sostegno al collocamento In un comunicato il Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport (DECS) informa i giovani nati tra il 1998 e il 2001 che non hanno ancora un posto di apprendistato malgrado le ricerche fatte, che fino al 18 agosto 2017 sarà possibile ottenere sostegno annunciandosi alla Divisione della formazione professionale (DFP). I giovani residenti nel Cantone, che non hanno ancora trovato un posto di tirocinio hanno adesso la possibilità di annunciarsi compilando il formulario scaricabile dal sito: www4.ti.ch/decs/dfp/sportello/ ricerca-di-un-posto-di-tirocinio/ Oltre ad allegare curriculum vitae e pagelle scolastiche, sarà richiesto di segnalare la professione per cui si cerca un posto di apprendistato motivando la scelta e comprovando le ricerche effettuate sino a quel momento. Seguirà in una seconda fase un colloquio con un ispettore di tirocinio della DFP per verificare il grado di motivazione e l’idoneità della persona rispetto al tirocinio scelto. Per gli allievi della Scuola media usciti a giugno, la segnalazione non è necessaria perché tutti i giovani senza alcun collocamento a metà agosto saranno segnalati d’ufficio dai rispettivi orientatori che li hanno seguiti nelle sedi scolastiche. Per svolgere questo lavoro il DECS attraverso la DFP ha istituito un Gruppo Operativo per il collocamento a tirocinio (GOCT). Uomini, lavori domestici e lavoro non remunerato In Svizzera le donne dedicano la maggior parte del tempo ai lavori domestici e familiari (28,1 ore a settimana), mentre ne impiegano 16,6 a settimana per il lavoro remunerato e 2,0 per le attività di volontariato. Gli uomini invece investono la maggior parte del loro tempo nel lavoro remunerato (27,3 ore a settimana), mentre dedicano 17,9 ore a settimana ai lavori domestici e familiari e 1,6 al volontariato. Rispetto al 2010, le donne dedicano un’ora in più a settimana al lavoro remunerato e gli uomini 1,7 ore in più ai lavori domestici e familiari. Questo è quanto emerge dagli ultimi risultati della rilevazione sulle forze di lavoro in Svizzera 2016, condotta dall’Ufficio federale di statistica (UST). Sommando il lavoro retribuito e quello non retribuito (lavoro domestico, familiare e di volontariato), le donne e gli uomini dai 15 anni in su lavorano quasi lo stesso numero di ore a settimana (46,7 contro 46,8 ore), ma è evidente come i lavori domestici rimangano appannaggio delle donne. La statistica mette inoltre in evidenza come siano le coppie con figli quelle a dover affrontare una grande mole di lavoro. In questi casi i lavori domestici occupano le madri con un partner e figli di meno di 15 anni il doppio del tempo che i padri (31,3, contro 15,8 ore a settimana). Per la custodia dei figli investono circa il 50% di tempo in più rispetto ai padri (21,5 contro 13,8 ore a settimana). Infine circa il 43% della popolazione residente permanente dai 15 anni in su svolge almeno un’attività di volontariato (organizzato e/o informale). Ma anche qui c’è una distinzione di ruoli: gli uomini sono più spesso impegnati in attività di volontariato istituzionalizzate, le donne piuttosto in quelle informali come l’aiuto tra vicini di casa, la custodia di bambini, i servizi di assistenza e cura di conoscenti e di parenti che appartengono a un’altra economia domestica.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La follia che avanza Un tempo vigeva una distinzione abbastanza netta tra quelle che oggi sono definite patologie psichiche – epilessia, schizofrenia, ansia, depressione, demenza senile ecc. – e quelli che l’etica e la morale religiosa definiva «vizi». Ma oggi anche il vizio viene spesso classificato tra le forme di patologia mentale: si pensi al «vizio del gioco», o alla pedofilia, che tendono ad essere considerati una malattia, un’ossessione compulsiva che travalica i freni inibitori della morale e della ragione. Senonché, questi sconfinamenti dal normale al patologico sono largamente instabili, perché i confini delle due zone si ridefiniscono continuamente nel corso delle culture: si pensi alla pedofilia, che oggi, secondo taluni, può essere dovuta a uno scompenso mentale, ma che nell’Atene di Socrate non solo era pratica corrente, ma veniva addirittura considerata una prassi educativa per avviare il giovane alla
condizione adulta. O, al contrario: il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, che costituisce uno dei sistemi di classificazione delle psicopatologie più utilizzati in tutto il mondo, nelle ultime edizioni ha rimosso dal suo elenco l’omosessualità, che nelle edizioni precedenti veniva inserita tra le malattie psichiatriche. Insomma, dal «normale» al «patologico» il passo è breve; o anche, frequentemente, si va e si torna. Ancora: la malinconia (letteralmente, nell’etimologia greca: «umore nero»), oggi è chiamata «depressione» ed è il disturbo mentale che viene più frequentemente diagnosticato dagli psichiatri. Eppure, Aristotele identificava nella malinconia il segno dell’uomo di genio: non proprio una patologia, dunque, ma una forma d’eccellenza. In effetti, l’accostamento di genio e follia, che verrà teorizzato nel Romanticismo, dispone a suo sostegno di una casistica
sconfinata: Torquato Tasso per sette anni fu internato nell’ospedale di S. Anna, tormentato dalle grida dei pazzi, in una cella angusta infestata da cimici, pidocchi e scarafaggi. Soffriva di mania di persecuzione e vedeva ovunque spie che volevano ucciderlo e rubargli i manoscritti, ossessionato dall’idea di essere denunciato all’Inquisizione e finire sul rogo. Gaetano Donizetti, il delicato cantore dell’Elisir d’amore, subì in pochi mesi la perdita del padre, della madre e della moglie, che aveva abortito un figlio deforme; dopo la morte di altri tre figli, completamente solo, cadde in uno stato confusionale e un nipote lo fece rinchiudere nel manicomio di Ivry, dove morì tre anni dopo. I primi sintomi di schizofrenia si manifestano in Friedrich Hölderlin all’inizio del 1800; nel 1806 viene internato in manicomio; fu poi rinchiuso in una torre sulla riva del Neckar: lì visse per 37 anni, fino alla
morte, in uno stato di mite demenza, suonando il piano e scrivendo strani versi. Robert Walser fu internato in un ospedale psichiatrico nel 1929 fino alla morte, nel 1956. E poi Nietzsche, van Gogh, Robert Schumann, Antonin Artaud, Ezra Pound… Sì, la follia e la genialità, la creatività artistica e scientifica vanno spesso a braccetto. Purtroppo, non basta una depressione a fare un creativo, e la follia ha poi moltissime forme e manifestazioni, non tutte socialmente innocue. Ma, riandando alla lista dei geni che ho ricordato e ai tanti altri dei quali siamo a conoscenza, viene da rabbrividire pensando alle orribili condizioni di reclusione alle quali veniva condannata la patologia mentale. È un indubbio progresso, dunque, che la follia non sia più considerata una punizione divina o una possessione demoniaca, com’è stato per un lungo percorso di secoli dell’e-
ra cristiana; e che anche gli ospedali neuropsichiatrici non siano più luoghi di segregazione e di rifiuto. Insomma, anche per quanto riguarda i disturbi mentali la logica dell’inclusione avanza: cosa più che giusta, visto che diventa sempre più difficile definire il concetto di «normalità» e che i casi di disturbi psichici sembrano in crescita costante; a parte l’invecchiamento della popolazione, che ovviamente concorre a moltiplicare le forme di demenza senile, l’OMS prevedeva, già alla fine del secolo scorso, che la vera emergenza per l’umanità del Duemila sarebbero stati i mali della psiche. Insomma, sembra di dover dare ragione all’Ariosto: quando Astolfo va sulla Luna a cercare il senno di Orlando, impazzito d’amore per Angelica, vi trova senni innumerevoli e infinite altre cose perdute dagli uomini; l’unica cosa che lì non si trova è la pazzia, «che sta qua giù, né se ne parte mai».
di Crodo (425 m): Cistella, Valle d’Oro, e Lisiel, scoperta solo nel 1956. Vecchie conifere, panchine di legno ondivaghe, e là una balaustra in pietra percorre il perimetro del parco verso il fiume. Il primo abbozzo del parco risale al 1880, opera di Bernardo Del Boca, nonno del curatore del libro sulle acque dove si scopre che è sempre lui a ribattezzare le due fonti storiche. La Fonte Rossa diventa così Cistella e Valle d’Oro soppianta la Fonte Casa del Bianco, per «ancorarne i nomi alla geografia dei luoghi». Cistella si riferisce al Monte Cistella e l’oro della valle all’ex miniera non lontana. L’acqua zampilla da due fontanelle ai lati di un bel bancone di zinco stile bar anni cinquanta. La zigrinatura verticale si accorda con le linee parallele dei tratti di legno alle pareti, in concomitanza con le finestre. Appoggio cinquanta centesimi di cauzione e parto con un bicchiere di Valle d’Oro in mano. Fuori, al primo sorso, avvisto un angolo sopravvissuto all’alluvione dell’agosto 1987. Un leone
in pietra dorme, due sedie scompaginate della stessa pietra illudono giocosamente di essere legno. Due massi erratici, a differenza del grande albergo dei Bagni distrutto e del termalismo scomparso, sono sempre lì. Vicino scovo il microcosmo teatrale messo in scena per la valligiana fonte aurifera. La magistrale ombra è quella inimitabile dei castagni secolari. Sul frontone di un tempietto, attorniato da due putti su colonne con mascheroni, si legge a semicerchio, in un bel rosso sinopia slavato come su certi vecchi grotti ticinesi, la scritta Thermae Crodenses. Tra le due parole, una stellina giallo senape stinta dove c’è su l’anno 1685 e sotto, quasi cancellato, si legge Sorgente Valle d’Oro. Un cancello chiuso in legno segue l’arco a tutto sesto. Peccato non si possa più abbeverarsi direttamente da qui. Quest’acqua solfato-calcica, secondo gli ultimi studi del dottor Nello Montanari della Sapienza di Roma, è utile contro le gastriti croniche, enterocoliti acute, calcolosi urica, stati caren-
ziali di calcio. A malincuore lascio la centenaria ombra castanile per tornare al bancone a provare la Cistella. L’addetta alla mescita però mi dice che non c’è più: «si è imbastardita». Tra la Lisiel e ancora un bicchiere di Valle d’Oro, scelgo il bis. Una radiolina trasmette canzonette, la sala è popolata da quattro tavolini bianchi da giardino con le loro sediole. Otto sono le colonne di marmo della zona. Accantonando gli eccessi rinuncio a un terzo bicchiere e parto a piedi su verso il paese di Crodo, a caccia della prima centrale idroelettrica disegnata dal grande Piero Portaluppi (1888-1967). Possibile meta, un giorno o l’altro, per un altro pezzo. E poi, in attesa del prossimo bus che parte fra tre ore, ammazzerò il tempo con il famoso analcolico biondo inventato da Piero Ginocchi (1901-1998) che per la réclame ai tempi del Carosello aveva scomodato Brigitte Bardot. Più che per il piacere in sé di un «aperitivo zero impegnativo» solo per il gusto di vedere stappare un Crodino a Crodo.
ti, i luoghi sacri del patriottismo USA. Due pesi e due misure, insomma. Da qui la polemica contro una discriminazione di genere: via libera allo short maschile, stop all’abito femminile, persino elegante, ma sbracciato, come quello della giornalista incriminata. La manifestazione, forte del sostegno popolare, ha ottenuto un risultato concreto sul piano politico. Di fronte al crescente rumore suscitato da un episodio, a rischio di ridicolo, il presidente della Camera, il repubblicano Paul Ryan, ha promesso che lo storico Dress Code, incentrato su «sicurezza e decoro per non offendere la decenza», verrà aggiornato. Ma era visibile il suo imbarazzo, che esprimeva, del resto, una tipica contraddizione americana. Da un lato, l’attaccamento a un breve passato, di cui quelle parole erano una testimonianza, e, d’altro canto, l’esigenza di sostituirlo con il nuovo, di cui gli USA si ritengono i detentori. Esportando, nel mondo intero, quell’american way of life, che deve il suo successo a proposte che rendono la quotidianità più facile,
più comoda più libera. A scapito della qualità, del buon gusto, e, ovviamente, del vecchio decoro. E, qui, si torna al tema dell’abbigliamento, di stretta attualità proprio in queste giornate di gran caldo, che inducono a togliersi di dosso indumenti, considerati superflui. Altro che le braccia nude della giornalista in Campidoglio. Le parti scoperte si sono ormai allargate: concernono le spalle e le schiene di ragazze, in tenuta balneare, esteticamente accettabili. Ma, purtroppo, anche il dorso di omaccioni, in canottiera scollata e calzoncini tipo mutande, o, tutt’al più in pantaloni a metà polpaccio. Si tratta, sia chiaro, di una tenuta, per così dire normale, senza secondi fini pruriginosi. Lo scopo è semplicemente difendersi dalle temperature in impennata. Anche se, in pratica, il rimedio è controproducente. Più aumenta la superficie esposta al sole, più cresce la percezione del calore. Lo ribadiscono i dermatologi, ricordando l’esempio dei beduini, avvolti nelle loro palandrane.
Ma tant’è. Questa situazione vestimentaria appartiene, ormai, stabilmente alle nostre estati, prestandosi alle interpretazioni di giornalisti di costume e di storici. Per Isabella Fedrigotti, sul «Corriere della Sera», le milanesi in vestiario da spiaggia esprimevano piacevolmente un bisogno di libertà, un anticipo di vacanze. Non è, insomma, un sintomo allarmante, di cui il nudo sarebbe un indizio. Tanto più che, come osserva John Carl Flügel in Psicologia dell’abbigliamento (Franco Angeli editore): «Tutta la storia della moda è un continuo alternarsi di parti scoperte o coperte». Con ciò ci si deve arrendere a un cambiamento. Scriveva Flügel, già nel 1928: «Il nostro modello di imitazione non sono più gli anziani, che non godono più di ammirazione e rispetto, bensì i giovani, che rappresentano il nuovo verso il quale guardiamo con speranza e invidia. La moda diventa il simbolo di questa speranza e giovinezza». Il guaio è che, imitando i giovani, i vecchi finiscono, inconsapevolmente, nel ridicolo. Basta guardarsi attorno.
A due passi di Oliver Scharpf Le fonti di Crodo «Ciospis!» mi fa una barista di Viganello quando le dico da dove deriva il nome Crodino. Mai visto, tra l’altro, in nessun bar del Ticino, stappare un Crodino. Credo che i crodini si scolino a casa, di nascosto. Ad ogni modo il Crodino contiene in sé, attraverso il diminutivo, un toponimo. È a Crodo infatti che nasce nel 1964 «l’analcolico biondo che fa impazzire il mondo». Intruglio inutile pieno di coloranti per molti, non tutti sanno che invece l’acqua alla base del Crodino è curativa, scoperta al tempo delle crociate. Si racconta che dopo qualche sorso d’acqua sgorgata dalla viva roccia, un cavaliere di ritorno malconcio da Gerusalemme, assieme al suo cavallo moribondo, rinasce a nuova vita e riprende il viaggio. E allora via, verso Crodo. Centovallina fino a Domodossola, poi bus. Ce n’è uno ogni morte di papa, perciò casomai fate un salto a bere un caffè in piazza del Mercato: posto abbastanza unico con portici rinascimentali e tetti in pioda. E una fornita libreria dove
trovo un libro sulle acque minerali di Crodo a cura di Angelo Del Boca, intitolato L’oro della valle Antigorio (1993). L’inusuale bellezza, appena fuori Domodossola, è spazzata via dall’orrore seriale delle case «geometrili» come le aveva definite, altrove, Gianni Celati. Salendo in Val Antigorio, una delle sette diramazioni dell’Ossola, si riconquista – come stamattina nelle Centovalli e in Val Vigezzo – una gradevole selvaticità. Dopo il paesino di Oria ci si infila nella stretta di Pontemaglio e appena fuori dalla galleria, un vertiginoso ponte antico supera il Toce. Qualche chilometro ed ecco lo stabilimento del Crodino, oggi della Campari. Scendo così un primo pomeriggio di fine luglio alla fermata Bagni di Crodo. Le foglie dei platani ondeggiano al venticello ossolano, un colonnato di marmo rosa introduce al Parco delle Terme di Crodo. Qui, per tutta l’estate, in un’atmosfera di dignitosa decadenza, si possono sorseggiare le benefiche acque sorgive. Tre le fonti
Mode e modi di Luciana Caglio Scoprirsi? Il caldo c’entra poco Fra tante proteste di piazza, violente e indecifrabili, eccone invece una condivisibile e persino simpatica. Risale a una decina di giorni fa quando, a Washington, sulla scalinata del Campidoglio, un gruppo di parlamentari, democratiche e repubblicane, si era mobilitato per una causa bipartisan, chiaramente esibita: infatti, tutte le partecipanti avevano le braccia nude. E non per via del caldo, ma in segno, appunto di protesta, in seguito al caso
della cronista cui era stato vietato l’ingresso alla Speaker’s Lobby, per via dell’abito senza maniche. Così vuole una norma del severo codice che impone un vestiario, cosiddetto decoroso, per accedere alla sala stampa, mentre non viene applicata ai visitatori che entrano nella Rotonda, lo spazio riservato al pubblico. Proprio in questi giorni, frotte di turisti, in tenuta vacanziera, calzoncini, maglietta, infradito, cappellino da basket, affollano, indisturba-
Braccia scoperte davanti al Campidoglio: alcune parlamentari USA protestano contro un anacronistico Dress Code.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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È importante non curare i propri mal di testa da soli. (Keystone)
Cefalea: no alle cure «fai da te» Salute Provare a curare da sé e in modo empirico le crisi di cefalea è inutile e rischioso Maria Grazia Buletti «Il mal di testa viene a trovarmi così spesso che ormai lo considero uno di famiglia». Attribuito al vulcanico Woody Allen questo aforisma fa sorridere chi non soffre di frequenti cefalee, perché coloro i quali si trovano a dovervi fare fronte sanno quanto un mal di testa può essere doloroso e difficile da gestire. Non è un caso che la saggezza popolare dica: «Quando la testa duole tutte le membra languono». Di cefalea parliamo con Annalisa Lentini, presidente e membro fondatore dell’Associazione Cefalea Ticino: «Ho 40 anni e soffro di emicrania da quando ne avevo tre. Questo mi ha spinta, nel 2012, a fondare la nostra Associazione (il cui gruppo presente su Facebook oggi conta circa 3500 membri) che ha lo scopo di sostenere e informare correttamente chi soffre di cefalea o emicrania, come me». Abbiamo compreso che purtroppo, per dirla alla Woody Allen, quella fra Annalisa e la cefalea è una fra le relazioni più stabili della sua vita. Ma questo non le impedisce di mobilitarsi su più fronti per informare, condividere e sostenere altre persone che soffrono di questa pesante patologia: fra le tante cose, dal 2008 gestisce su FB anche il gruppo di Sostegno Emicrania, del qua-
le fanno parte pure diversi medici neurologi, che pur essendo aperti all’acquisizione di nuovi pazienti, «rispondono gratuitamente alle domande dei membri e partecipano dunque a solo scopo benefico come supporto informativo sull’argomento della cefalea». Grazie alla sua lunga esperienza e per la sua militanza nell’ambito informativo e di sostegno, la signora Lentini è in grado di spiegarci molto bene cosa succede quando si è sopraffatti da una crisi di cefalea: «Spesso si è tentati di ricorrere a un farmaco qualsiasi fra quelli a disposizione nella farmacia di casa, magari una medicina consigliata da amici, conoscenti o scelta in seguito a informazioni reperite sul web: sono di norma farmaci antidolorifici e antinfiammatori, perciò non specifici per il trattamento della cefalea». Con la premessa di questa situazione comune a parecchie persone, la nostra interlocutrice rende attenti sul fatto che nella cura della cefalea questo tipo di «fai da te» comporta il rischio di abusare di quei farmaci senza ottenere il sollievo sperato: «Si rischia di alimentare la crisi fino a cronicizzare la cefalea, perché l’abuso di farmaci sintomatici, oltre ad aggravare la cefalea stessa, può annullare l’efficacia dei farmaci di profilassi». È perciò importante infor-
mare le persone sul fatto che la cefalea da abuso di farmaci («parliamo di un uso eccessivo quando vengono assunti per 10 o 15 giorni al mese») comporterà una vera e propria disintossicazione: «Si tratta di una procedura necessaria a tutti quei pazienti con una cefalea cronica, presente circa 15 giorni al mese da almeno tre mesi». C’era un fondo di amara verità nelle parole del comico statunitense George Carlin, quando diceva: «Talvolta in TV si vede un prodotto che è “ottimo per il mal di testa”. Non voglio qualcosa che sia ottimo per il mal di testa. Voglio qualcosa che sia pessimo per il mal di testa. E ottimo per me». Scherzi a parte, Annalisa Lentini è irremovibile: «Se si soffre di ripetute crisi prolungate di cefalea è bene rivolgersi al medico di famiglia o a uno specialista». Questo proprio perché, per evitare di cronicizzare queste crisi prolungate di cefalea, è assolutamente necessario seguire le indicazioni del medico: «Egli prescriverà il farmaco adatto, indicherà il dosaggio che dovrà essere rispettato, la quantità e la modalità di assunzione delle medicine prescritte». Ed è altrettanto importante informare il proprio medico ad ogni cambiamento dei sintomi della cefalea: «Soprattutto se essa è farmacoresistente».
Le raccomandazioni che Lentini indica come più importanti sono le stesse divulgate nell’ambito della campagna informativa dell’Associazione Cefalea Ticino e nei gruppi Facebook a tema: «Il cosiddetto “fai da te” comporta solo il rischio di peggiorare la cefalea e la nostra salute; no assoluto a un’inutile e dannosa autodiagnosi, e no pure all’abuso di farmaci per il rischio di cronicizzare la cefalea a tutto svantaggio della salute generale». E ancora: «Mai interrompere bruscamente le medicine prescritte dal medico, perché anche in questo caso rischiamo di peggiorare la cefalea». Per ogni dubbio che potrebbe sorgere è sempre importante consultare il proprio medico che saprà come far fronte all’evoluzione della cefalea del proprio paziente. Alcuni consigli preziosi sono quello di compilare un diario nel quale annotare le crisi, come pure di assumere il farmaco sintomatico subito all’apparire delle prime avvisaglie. La nostra interlocutrice sottolinea nuovamente l’importanza di attenersi alle prescrizioni dello specialista neurologo e non cambiare le cure prescritte, come pure: «Rispettare i ritmi di sonno-veglia, gli orari dei pasti e praticare regolarmente un’attività fisica». Ne risulta che le armi più efficaci
nella cura della cefalea sono informazione e prevenzione: «Per questo, l’Associazione Cefalea Ticino è a disposizione di chiunque desideri informarsi, condividere o chiedere qualcosa di specifico». Lentini spiega che l’Associazione è senza scopo di lucro, e ha unico obiettivo quello di promuovere la comunicazione, la discussione e il sostegno reciproco fra persone affette da cefalea: «Proponiamo anche iniziative formative e di prevenzione volte a incrementare le conoscenze in questo campo e invitiamo le persone che ritengono importante aderire al nostro sodalizio (o desiderano esserne semplicemente sostenitori) di prendere contatto con noi attraverso il nostro sito (www.cefaleaticino.ch) o a seguirci su Fb, sul canale Youtube, su Twitter e Pinterest». Una rete molto capillare a disposizione di tutti coloro che soffrono di cefalea, patologia con cui deve aver avuto che fare anche Roberto Gervaso che ne La volpe e l’uva afferma: «Il mal di testa mi ricorda che ho una testa». L’Associazione Cefalea Ticino vuole dunque essere vicina a chi soffre di cefalea e desidera informarsi e condividere, non avendo certo bisogno di questa «brutta compagnia» per essere consapevole di avere un cervello.
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Ambiente e Benessere
Il mondo allo specchio
L’Afghanistan ieri e oggi
di venti nuovi luoghi, ma servono criteri di inclusione ed esclusione più solidi
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Viaggiatori d’Occidente La Lista del Patrimonio dell’umanità dell’Unesco si è arricchita
«A Istanbul un ingegnere, giovane e sveglio, ci avverte: “Due donne che viaggiano sole senza parlare nemmeno una parola di turco e vogliono andare in Iran da Trebisonda passando per l’interno dell’Anatolia? Magari non avrete problemi, ma forse ne avrete quanto basta per farvi passare la voglia di viaggiare per tutto il resto della vita”…».
Claudio Visentin Avanti il prossimo! Nell’ultima riunione a Cracovia, pochi giorni fa, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura (Unesco) ha proclamato venti nuovi luoghi Patrimonio dell’umanità, un riconoscimento ambito e conteso. Chi l’avrebbe immaginato. Quando l’Unesco fu creata dopo la Seconda guerra mondiale, con il compito di gettare ponti tra le diverse culture per evitare nuovi conflitti, il turismo di massa, in rapidissimo sviluppo (gli arrivi internazionali passarono da 25 milioni nel 1950 a oltre duecento milioni negli anni Settanta), era considerata più una minaccia che un’opportunità. Poi nel 1972 venne introdotta la Lista del patrimonio dell’umanità per censire quei luoghi di valore universale la cui protezione è affidata a tutti gli uomini, senza distinzioni di nazione. La lista ottenne un inatteso successo e questo cambiò completamente la prospettiva, tanto che aggiornare questo elenco è ora l’attività più conosciuta dell’Unesco. Al momento la lista comprende 1073 siti – 832 per ragioni culturali e 206 naturali, più altri misti o transfrontalieri – distribuiti in 167 Stati. L’Italia è in cima alla classifica con 53 eccellenze, seguita da Cina, Spagna, Francia e Germania; ma anche la Svizzera se la cava bene con le sue 12 proposte, 2 delle quali in Ticino: i Castelli di Bellinzona e il Monte San Giorgio.
D’Eramo: «Il tocco dell’Unesco è letale: dove appone il suo label, la città muore, sottoposta a tassidermia» Nelle pieghe del successo, qualche ombra. Per esempio i criteri di inclusione ed esclusione non reggono a un’analisi approfondita perché sono deboli, marcatamente eurocentrici e tengono poco conto delle diverse categorie di civiltà e culture non europee. E poi col tempo un certo disincantato realismo si è fatto strada: tutti sanno bene che pressoché qualsiasi luogo significativo può aspirare al riconoscimento Unesco se è in grado di mettere in campo una squadra di esperti, risorse adeguate e anni di duro lavoro per creare il necessario consenso politico attorno alla propria candidatura. Forse anche per questo da qual-
Asmara, capitale dell’Eritrea, la stazione di servizio futurista Fiat Tagliero. (David Stanley)
che tempo si levano delle voci critiche contro l’Unesco. La più recente e autorevole è quella del sociologo Marco d’Eramo nel suo libro Il selfie del mondo – Indagine sull’età del turismo (Feltrinelli, 2017). «È straziante assistere all’agonia di tante città. Città gloriose, opulente, frenetiche, che per secoli e a volte per millenni sono sopravvissute alle peripezie della storia, a guerre, pestilenze, terremoti. E che ora, una dopo l’altra, avvizziscono, si svuotano, si riducono a fondali teatrali su cui si recita un’esangue pantomima. (…) Il tocco dell’Unesco è letale: dove appone il suo label, letteralmente la città muore, sottoposta a tassidermia. Questo vero e proprio urbanicidio non è perpetrato di proposito, anzi è commesso in perfetta buona volontà e buona fede, per preservare (appunto) un “patrimonio” dell’umanità. Ma preservare vuol dire imbalsamare, o surgelare, risparmiare dall’usura e dalle cicatrici del tempo». Il marchio Unesco – continua D’Eramo – getta le città nell’abbraccio letale del turismo di massa. I visitatori allontanano i lavoratori e i residenti dal centro della città, trasformato in un gigantesco museo a cielo aperto, privo di vita e di relazioni sociali. Certo nel
caso delle mete più famose – pensiamo a Venezia – l’invasione dei turisti vi sarebbe anche senza l’Unesco. Ma in altri casi il suo ruolo è decisivo. In Asia è esemplare (e paradossale) il caso della città cinese di Lijiang. Distrutta da un terremoto nel 1996, l’anno seguente ottenne il riconoscimento Unesco. Ricostruita in modo arbitrario secondo una logica di sviluppo turistico, accoglie oggi più turisti dell’intera Grecia (oltre venti milioni all’anno). Il caso di Dresda ha invece mostrato come la tutela dell’Unesco può entrare in contrasto con le legittime esigenze dei cittadini: inserita nel 2004 tra i paesaggi culturali patrimonio dell’umanità, la capitale della Sassonia perde questo titolo già nel 2009 perché i cittadini, per ridurre il traffico, scelgono di costruire un ponte moderno ma questo, a detta dell’Unesco, altera in modo irrimediabile il paesaggio storico… Nei prossimi anni i criteri e le procedure Unesco dovranno essere ripensati. Ma qualche segnale di novità è visibile sin da ora. I commentatori non lo hanno sottolineato abbastanza, ma tra i venti nuovi siti scelti a Cracovia spicca Asmara, la capitale dell’Eritrea, premiata per la sua architettura modernista. Tra il 1890 e il 1941, l’Eritrea fu
Consigli biblio-ludici Editoria Libri per giocare e giochi da leggere
Ennio Peres Giocare con le parole, Simone Fornara e Francesco Giudici (Carocci, pp. 112, € 12,00) Un manuale di ludolinguistica, la disciplina che permette di capire come funziona la nostra lingua, attraverso il gioco. Il libro, impostato sulla convinzione che imparare o rafforzare l’italiano possa essere anche molto divertente, propone una serie di spunti e di giochi linguistici adattabili a ogni contesto, dalla scuola primaria in poi, senza escludere il lettore adulto. Anagrammi di… versi – talento e carmi, Nicoletta Mare (Il Bandolo, pp.
72, € 8,60) Un’interessante raccolta di articoli, sul
Bussole I nviti a una
tema dell’anagramma, pubblicati dall’autrice, nella pagina enigmistica della rivista palermitana «Il Bandolo», talvolta firmati con pseudonimi–anagrammi del proprio nome e cognome: Carmela Titone, Claretta Mineo, Ercole Mattina. Il volumetto è suddiviso in quattro parti: la prima introduce all’argomento analizzando l’anagramma anche nei suoi aspetti storici; la seconda propone alcune creazioni originali dell’autrice circa gli anagrammi poetici; la terza si sofferma su proverbi e aforismi sempre da lei anagrammati; l’ultima coinvolge il lettore in esercitazioni divertenti e fornisce le soluzioni dei problemi proposti. In appendice sono riportate utili indicazioni bibliografiche, a beneficio di chi volesse approfondire l’argomento. Il titolo: Ana-
colonia italiana e qui negli anni Trenta, ai margini dell’Impero di Mussolini, gli architetti italiani godettero di un’inedita libertà di sperimentazione. Centinaia di edifici realizzati in quegli anni sono sopravvissuti grazie all’isolamento del Paese durante l’occupazione etiope e sono stati poi riscoperti negli anni Novanta dopo l’indipendenza. L’edificio più originale di Asmara è la stazione di servizio futurista Fiat Tagliero, con le forme di un gigantesco aereo, progettata dall’architetto Giuseppe Pettazzi e inaugurata nel 1938. E molti altri – il Cinema Impero, l’Opera o la Farmacia centrale – hanno conservato anche gli arredi originali. Nei numerosi bar con un’aria felliniana di provincia italiana è rimasta l’abitudine del gelato e del caffè espresso. Questo riconoscimento all’Eritrea è importante in primo luogo perché segna comunque un momento di apertura alla vita internazionale da parte di un governo dittatoriale ripiegato su sé stesso. Ma soprattutto invita diversi altri Paesi a fare i conti con l’eredità del proprio passato coloniale, spesso rimossa con fastidio e quasi con vergogna. Un esempio che potrebbe essere ripreso in altri Stati africani e nel sudest asiatico. Con o senza l’Unesco. dalle estrose illustrazioni del disegnatore Tuono Pettinato (Andrea Paggiaro). È logico!, Anna Cerasoli (Emme Edi-
grammi di...versi ha un sottotitolo, talento e carmi, che corrisponde all’anagramma onomantico di Nicoletta Mare… e non poteva essere diversamente. Diario di Vlad, aspirante vampiro,
Fabrizio Casa (Rizzoli, pp.144, € 12,00). Un’originale e avvincente storia, rivolta a lettori dai dieci anni in su, che narra le avventure di un ragazzino particolare, asso dell’enigmistika e della matemagika, conscio di essere destinato a diventare un vampiro. Oltre all’aspetto avventuroso, il libro può essere visto anche come un romanzo di formazione, perché il piccolo protagonista, crescendo, cerca di acquisire consapevolezza della propria natura e delle conseguenze che da essa possono derivare. L’opera è impreziosita
zioni, pp. 64, € 11,90) Un racconto, rivolto a lettori dai sei anni in su, che attraverso le avventure di un maialino simpatico e abile, espone i concetti più elementari dei connettivi logici, ricorrendo anche a delle chiare illustrazioni. L’obiettivo del libro è mostrare anche a dei bambini che, attraverso la logica è possibile giungere a conclusioni vere, partendo da premesse vere. Il racconto termina con una morale da porcello, che può essere così sintetizzata: «È colto chi fa bene quello che fa, sia pure l’imbrattarsi nel fango».
Numeri. Raccontare la matematica,
Umberto Bottazzini (Il Mulino, pp. 200, € 11,90) Un saggio coinvolgente che traccia la storia dei numeri, iniziata migliaia di anni fa nella civiltà babilonese, in quella egizia, in Cina, e poi nella cultura inca e maya. L’autore mette in luce anche l’aspetto sacrale dei simboli numerici, dove
Giugno 1939: da un mese la Germania nazista e l’Italia fascista hanno siglato il Patto d’acciaio, l’Europa è sulla soglia della guerra. Annemarie Schwarzenbach sceglie di partire su una Ford Roadster 18 CV insieme all’amica Ella Maillart. Da Ginevra – attraverso Italia, Jugoslavia, Armenia, Turchia e Persia – giungono sino agli altopiani e alle steppe dell’Afghanistan. Le due compagne di viaggio non potrebbero essere più diverse, a parte la comune passione per i viaggi e l’avventura. Ella Maillart è esperta, sicura di sé, la via per l’Oriente le è già familiare. Anche Annemarie Schwarzenbach ha viaggiato a lungo, ma è assai più fragile. Il suo curriculum è ineccepibile: laureata in storia, scrittrice, giornalista, fotografa e archeologa, ottima pianista… ma è in rotta con la ricca famiglia di industriali di Zurigo, ha conosciuto la dipendenza dalla droga, i tanti internamenti in cliniche psichiatriche, l’amore non corrisposto per Erika Mann. Per ripercorrere questo viaggio straordinario e avventuroso potete leggere il libro di Annemarie Schwarzenbach, e in particolare Tutte le strade sono aperte. Viaggio in Afghanistan 1939-1940 (Il Saggiatore, 2015, pp.168) e vedere le foto originali nel sito della Biblioteca nazionale: http:// bit.ly/2tk2FHr. Poi visitate la mostra mémoires di Prisca Groh a Morcote. Gli stessi luoghi del grande viaggio, fotografati settant’anni dopo. Dove e quando
La mostra mémoires della fotografa Prisca Groh, resta aperta fino a domenica 24 settembre (ore 10.0018.00), nel Parco Scherrer a Riva di Pilastri, Morcote. Inoltre al Parco Scherrer di Morcote, 23 luglio, ore 20.30 «Donne in viaggio: incontro con le più celebri viaggiatrici d’inizio 900». Ella Maillart e Annemarie Schwarzenbach, testi scelti dai loro diari di viaggio con Cristina Zamboni e Nick Shugaev, violoncello.
la perfezione della Creazione si coniuga con i libri mastri dei mercanti medioevali, ma si contrappone con quelli falsi, ovvero con i numeri reali e immaginari creati dalla fantasia dei matematici. Matematica per comuni mortali, E. Peres (Salani, 2017, pp. 160, € 13,90) Da consigliere a «oggetto» consigliato. Ennio Peres, autore di questa rubrica e nostro collaboratore da anni, è uno tra i più autorevoli divulgatori matematici in Italia e Matematica per comuni mortali non è certo il suo primo libro. È un piacere quindi aggiungere questo titolo tra i suoi suggerimenti. Il sottotitolo parla chiaro: giochi, numeri curiosi, enigmi, paradossi, logica e strategia. La forza di un libro di questo genere? È certamente quella di insegnare la matematica, o il pensiero matematico, facendo divertire il lettore. Di fatto Peres in questo agile libro propone anche una serie di quesiti da risolvere con la logica. Tra le pagine si troveranno anche paradossi e altri problemi da risolvere e persino alcuni giochi di prestigio per ravvivare qualche serata tra amici.
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Ambiente e Benessere
Gelato al caffè
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Ambiente e Benessere
Culla di un’elevata biodiversità Turismo naturalistico In Val Piora sul sentiero didattico di osservazione di fenomeni naturali
poco conosciuti, unici nel loro genere in Svizzera
Elena Robert Questa estate si ha un motivo in più per tornare nella splendida Val Piora. Lo spettacolare paesaggio che la qualifica presenta una grande varietà di ambienti, tra cui molti laghi, corsi d’acqua e zone umide ed è culla di un’elevata biodiversità. Il turismo naturalistico vi convive con la plurisecolare pascolazione delle lattifere e la produzione del rinomato formaggio, con la caccia e la pesca, con lo sfruttamento idroelettrico, con l’intensa attività di insegnamento e di ricerca universitari del Centro di biologia alpina.
Elena Robert
L’attività di divulgazione scientifica ad esso legata, destinata al pubblico e alle scuole, è in sensibile crescita da anni. La nuova attrattiva nella regione è un sentiero didattico di osservazione di fenomeni naturali poco conosciuti, unico nel suo genere in Svizzera, inaugurato nell’autunno dell’anno scorso. Completa l’offerta esistente in loco rappresentata da altre stimolanti proposte nate in anni recenti: il Sentiero didattico Lago Ritóm, l’itinerario La forza idrica Val Piora-Piotta, dell’Atlante idrologico svizzero, lo strumento cognitivo sulle particolarità della valle Piora-Lago di Cadagno-Ritóm. Guida natura e ambiente e la mostra a Airolo «No limits! I campioni dell’altitudine» focalizzata proprio sulla Val Piora e sulle strategie di organismi vegetali e animali attuate in montagna per sopravvivere a basse temperature e a radiazioni ultraviolette elevate. Ora, a rubare la scena di questo pregiato palcoscenico naturale in alta quota sono batteri, alghe e funghi microscopici, oltre a cianobatteri e licheni, diventati protagonisti del nuovo percorso che si sviluppa tra 1900 e 2000 metri attorno al Lago Cadagno. Inizia dai laboratori di ricerca del Centro di biologia alpina, che costituisce il fulcro e l’anima di questa iniziativa. La scoperta dei microorganismi della Val Piora si fa lungo un sentiero circolare e pianeggiante di cinque chilometri. I microbi sono gli organismi più numerosi sulla Terra, concorrono al 99,5 per cento della biodiversità, sono indispensabili per la vita, sul corpo umano proliferano abbondanti rispetto alle cellule. Lasciano indizi riconoscibili nell’aria, nell’acqua, nel terreno e all’interno o sulla pelle di altri esseri viventi. Sul circuito di Cadagno, percorribile in un’ora cui vanno aggiunte le osservazioni e le pause, si può così ora vivere anche l’esperienza di esplorare il mondo nascosto dei microbi senza ricorrere al microscopio, partendo da quanto ci raccontano le tracce visibili, come le sostanze colorate prodotte dai loro metabolismi: esse ci spiegano ad esempio il rosso dell’acqua di alcuni abbeveratoi dovuta a un’alga, o le diverse stratificazioni marroni, verdi, rosse, bianche e gialle dei tappeti batterici nelle torbiere, o i puntini neri lasciati dalle spore di un fungo parassita sotto le foglie dell’Euforbia. E pensare che ogni punto di attrazione del percorso è stato oggetto di tesi di dottorato, cui si aggiungono quelle in corso. L’avvio della ricerca scientifica regolare nella regione risale a più di trent’anni fa, mentre le osservazioni in vari campi della scienza presero avvio duecento anni or sono. Piora è for-
Patrick Linder
Sul circuito di Cadagno, si può ora vivere anche l’esperienza di esplorare il mondo dei microbi senza il microscopio
se una delle aree più studiate dell’arco alpino, in particolare per le acque di Cadagno e la loro stratificazione permanente legata al raro fenomeno naturale, unico in Svizzera, della meromissi crenogenica. Tra due strati d’acqua che non si mescolano mai per diversa densità salina, quello superiore ossigenato e quello inferiore anossico, vive una popolazione batterica attualmente dominata dal Chromatium okenii, che filtra le sostanze tossiche delle profondità ed è in grado di fare la fotosintesi arricchendo la catena alimentare del lago, le cui acque sono di conseguenza e notoriamente molto pescose. In questo caso il fenomeno della colorazione rossa è visibile immergendosi in profondità nel lago o osservando i campioni d’acqua prelevati e le colonie batteriche al microscopio nel laboratorio a Cadagno.
La Fondazione e il Centro di biologia alpina hanno realizzato il progetto del percorso sui microorganismi con le Università di Ginevra, di Zurigo e con la Supsi. Piora del resto continua a qualificarsi come un istituto universitario dislocato, una sorta di trait d’union tra gli atenei di Ginevra e Zurigo. La novità questa volta sta nel fatto che il Fondo nazionale per la ricerca scientifica, focalizzato sul sostegno alla ricerca di punta, ha voluto appoggiare il progetto finanziando un programma di divulgazione scientifica su tre anni conclusosi con successo questa primavera, che ha coinvolto scuole e studenti universitari in formazione a Piora. I punti di interesse del sentiero didattico sono ubicati al Centro di biologia alpina, in Val Fripp, a Cadagno di Dentro e a Cadagno di Fuori. Sul terre-
no sono segnalati da cippi indicatori discreti ai quali corrispondono puntuali riscontri di informazioni scientifiche, curiosità, aneddoti di una guida tascabile in cui fungono da accompagnatori tre uomini di scienza, esperti di microbiologia, idrobiologia e batteriologia, anche della regione: Raffaele Peduzzi, airolese, dalla lunga carriera accademica, per trent’anni direttore dell’Istituto cantonale di microbiologia, tra i fondatori del Centro di biologia alpina e presidente dell’omonima fondazione; Mauro Tonolla, responsabile del Laboratorio di microbiologia applicata della Supsi e docente all’Università di Ginevra; Reinhard Bachofen, professore emerito all’Università di Zurigo, con studi sulla diversità metabolica di batteri anaerobici e fototrofi come quelli del Lago Cadagno e sull’ecologia microbica degli ambienti acquatici. Le attività in quota sono riprese da poco. Il percorso sui microorganismi lambisce due delle quattro torbiere della Val Piora protette a livello federale, Cadagno di Dentro e Cadagno di fuori. Proprio perché preservato e protetto, il complesso e delicato ecosistema idrobiologico di un ambiente così speciale come il Lago Cadagno, ha potuto prestarsi come luogo ideale anche per lo sviluppo di questo nuovo progetto divulgativo. Contribuiscono all’equilibrio di un unico ecosistema e vi concorrono fattori interdipendenti riconducibili alla geologia, alla fisica, alla chimica, alla biologia. Tra l’altro, oggi non potremmo beneficiare di tutta questa ricchezza se al lago non fosse stata garantita la stabilità del suo livello. È pertanto auspicabile che rimanga tale, anche ora che è stata rinnovata la concessione per lo sfruttamento idroelettrico Ritom 2. E c’è da sperare che i cambiamenti climatici non alterino troppo questo habitat eccezionale già messo a dura prova da freddo, povertà di nutrienti, forte ra-
diazione ultravioletta e lunghi periodi di oscurità. L’aumento medio in maggio-giugno della temperatura atmosferica di due gradi degli ultimi anni ha già modificato il metabolismo nel lago facendo incrementare il numero di specie di zooplancton e quindi la ricchezza della catena alimentare. Questi e altri effetti sono sotto osservazione e meritano costanti e ulteriori approfondimenti. La posa, un anno fa, della stazione meteorologica a Cadagno, è finalizzata anche a questo. Bibliografia
Raffaele Peduzzi, Reinhard Bachofen e Mauro Tonolla, Alla scoperta di un mondo nascosto. Percorso didattico sui microorganismi della Val Piora. Ed. Università di Ginevra, 2016, scaricabile sui siti www.cadagno.ch e www.bioutils.ch/ticino
Come arrivare Per accedere al Centro di biologia alpina e al Lago Cadagno vi sono due modi: con la funicolare PiottaRitom, quindi 1h30 a piedi, oppure utilizzando la propria auto (strada di montagna a una sola corsia) se si transita sulla diga del Ritóm prima delle 9 e dopo le 17 (posteggio a pagamento a Cadagno). La mostra invece No limits – I Campioni dell’altitudine è permanente al Museo cantonale di storia naturale e Fondazione Centro Biologia Alpina, Palazzo Immoteco, via San Gottardo 40, Airolo. Orari: sa, do e festivi 15.00-18.00 (vacanze scolastiche comprese), nolimits@airolo.ch e 079 938 70 38. Su richiesta visite guidate per gruppi, privati, scuole e colonie.
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Ambiente e Benessere
Non solo un libro ma anche una guida
Azione
Il seme nel cassetto I l giardino che vorrei
è l’ultima opera di Pia Pera, una scrittrice che parla di verde e piante come pochi altri Laura Di Corcia Dopo aver letto (e recensito per questa rubrica) Al giardino non l’ho mai detto, un libro-diario dove il tema della morte era connesso al giardino, avrei voluto veramente conoscere e incontrare Pia Pera, tante e tanto ricche sono state le suggestioni che la lettura mi aveva ispirato, ma purtroppo l’autrice è venuta a mancare subito dopo, a causa della Sla, malattia che era stata anche la spinta a scrivere quell’ultimo, struggente libro. Il giardino che vorrei, testo di cui mi appresto a parlare oggi, è sorretto da un’altra vitalità, visto che l’ombra della malattia non aveva ancora oscurato gli orizzonti di una scrittrice in grado di parlare di verde e piante come pochi altri. Sgomberiamo il tavolo da un equivoco: questa lettura non è tutta suggestioni e riflessioni romantiche: qui ci sono principalmente consigli concreti. Ben venga quindi chi vuole usare il testo per fini pratici, come una guida, anche se non mancano parti descrittivopoetiche che soddisferanno anche un altro tipo di lettore.
E N A T T I F O R P P A OR A a a par tire dall tti ro d o compera di 2 p
La prima domanda da porsi riguarda il «dove» vogliamo creare il nostro bel giardino: mare o città? Montagna, collina o pianura? da 2 pezzi
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Bibliografia
Pia Pera, Il giardino che vorrei, Ponte alle Grazie (2015), 165 pp.
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Pia Pera sottolinea sin da subito che il percorso non è semplice, che va vagliato con calma per evitare sbagli che potrebbero risultare quasi irreversibili; lei stessa ammette che, pur amando il suo giardino, tornando indietro avrebbe cambiato questa cosa o quell’altra. La perfezione non è di questo mondo, ma attenzione a non cadere nel re di tutti gli errori: partire da un modello preconcetto e pensare di poterlo applicare ovunque. La prima domanda da porsi riguarda proprio il «dove»: mare o città? Montagna, collina o pianura? Il mare, ad esempio, offre spesso paesaggi di abuso edilizio, per cui occorre pensare a come separare il proprio angolo di paradiso da quello squallore. Nelle località marine il vento è spesso implacabile, inutile cercare di affrontarlo di petto, «me-
glio contrastarlo (spiega la scrittrice) con astuzia, proprio come nello judo: indebolirlo, disorientarlo, spezzarlo». La pianura è come un foglio bianco, muto, non ha in sé l’allegria della collina e della montagna; «parla, quando va bene, il linguaggio dell’assolutismo più o meno illuminato, è suscettibile alle seduzioni di geometria e simmetria». Bisogna stare attenti, qui, a non cadere nella tentazione di linee troppo nette, di rime semplici e baciate «che non sempre fanno poesia e si fermano alla filastrocca». L’ideale è giocare con i colori e con il paesaggio intorno, cercare nella sfumatura il senso del giardino; creare come una nebbiolina, in cui le rette si addolciscano e acquisiscano profondità. Però serve anche un’ossatura, una sorta di muro portante che può essere un albero, un muraglione di alloro, qualcosa che dia struttura alla danza cromatica. La montagna va bene per chi non ama stare troppo appresso al suo giardino e alle sue piante, che saranno indipendenti come gatti; anche qui, però, attenzione alla scelta dei fiori, non tutti attecchiscono ovunque. La seconda domanda alla quale dobbiamo rispondere è quando: d’inverno avremo esigenza di sole, d’estate d’ombra. Meglio quindi prevedere spazi adeguati rispetto alle stagioni, piantando per esempio piante con foglie spesse, larghe, di colore verde carico, per adombrare il nostro dondolo o la nostra sedia preferita, dove potremo immergerci in letture meravigliose al riparo dai penetranti raggi solari. Sempre per smorzare la canicola, meglio uno stagno che una piscina: la manutenzione sarà più difficile, ma con gli accorgimenti di Pia Pera costruiremo un angolo di paradiso per noi e per animali e piante. Secondo la scrittrice, un giardino senza orto è monco: piantiamo, quindi, senza remora alcuna insalate, pomodori, piante di zucchine e peperoni. Non solo ci delizieremo il palato con prodotti biologici, ma capiremo che forse il legame fra bellezza e bontà, se non è assoluto, quando avviene ha certamente qualcosa di miracoloso.
L’immagine di copertina del Giardino che vorrei.
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Ambiente e Benessere
L’unico errore di Roger: non aver ballato con la bella Muguruza Sportivamente La bella favola di Federer, vincitore a 36 anni suonati per l’ottava volta al torneo di Wimbledon
è pura realtà. La storia può ancora continuare
Pam! Paff! Pam! I colpi si susseguono con perfetta regolarità. Ogni tanto una pallina finisce lontano, ma il color giallo permette di ritrovarla presto per continuare la partita che si svolge quasi interamente nella fantasia di Victoria o – per chi non la conosce per nome – della governante di villa Collinetta. Roger Federer ha vinto per l’ottava volta il torneo di Wimbledon. Quasi a tutti non sembrava possibile, qualche mese fa, che il tennista elvetico potesse riuscire in un’impresa del genere, a 36 anni compiuti. Ma il campione ha saputo gestire con molta professionalità uno dei momenti più delicati della sua carriera. Non per nulla alle sue spalle c’era un vero e proprio popolo di fan. Gli addetti ai lavori più scrupolosi hanno calcolato che i tifosi del basilese sono molti anche fuori dalla terra elvetica. Gli stessi inglesi preferiscono vedere lui trionfare sulla magica erbetta londinese piuttosto del sempre accigliato Andy Murray, pur sempre scozzese. Il torneo dell’imperatore Federer – c’è chi preferisce definirlo così piuttosto che ripetere lo scontatissimo «re» – è stato senza errori. Non un solo set perso, ma alcuni incontri di rara bellezza. Basta coi servizi che schiacciano l’erba e rimbalzano in modo imprendibile: per tutti gli avversari dal braccio
Giochi Cruciverba La pianta raffigurata nello schema si chiama «Mimosa Pudica» saprete il perché di questo nome, leggendo a soluzione ultimata le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 2, 7, 2, 3, 6, 2, 10)
forte e fermo, Roger ha avuto mirabili risposte. Lungolinea da lasciare allibiti gli stessi contendenti; diagonali inattese; servizi non fortissimi ma sulla linea. Sulle tribune le più anziane fra le sostenitrici, del ragazzo perbene che è Federer in ogni situazione, avrebbero voluto tornare a essere ragazzine, inalberando striscioni e cartelli originali, non di meno dei loro compagni. Eccoli sorridere sui colpi magistrali del nostro Roger, lanciando tutti insieme degli «oh!» di meraviglia. Dal canto mio potevo solo immaginare invece la commozione che 1 2 3 tradiva Donna Michelle a ogni colpo,4 vincente o sbagliato che fosse. Victoria del resto, accompagnata dal Labrador 9 10 di villa Collinetta, era certa che Federer sarebbe giunto vittorioso sino in fondo. 11 12 da tempo Victoria aveva, infatti, capito che i rovesci benedetti del giocatore, che ormai amava15come la sua giovane 14 e bella padroncina, avrebbe avuto vita facile in finale. Anche perché il croato 17 un malessere sempre più Cilic tradiva evidente negli spostamenti. I suoi micidiali servizi – suo punto forte contro 19 20 ogni avversario – erano perlopiù fuori misura e le risposte non erano da meno. 22Victoria, 23 pur di non assistere a24 quel match, era scesa in cortile armata di25 racchetta e palline da scagliare con26 tro la grande porta in legno del garage. E pam!, e pam! E ancora pam! Il La27 la seguiva ammirato. 28 Anche lei brador
derer che mi ha permesso di chiudere la sua storia fuori dal court. Ormai è un papà che commuove gettando un’occhiata alla sua bellissima doppia coppia di gemelli. Lontani i tempi in cui si rivoltava nell’erba dopo aver battuto pure Björn Borg in un’attesa finalissima». «Come, come?», Donna Michelle non è affatto d’accordo con questo tentativo di uscire di scena. «Ci sono ancora gli Open USA. Che fretta hai, così all’improvviso?» «Te l’ho già detto e ripetuto più volte: ho il doppio degli anni di Roger. Credo anch’io che egli possa sorprenderci ancora una volta, con quel suo gioco divino. Lo hanno detto tutti, sia i detrattori – ce ne sono stati – sia i dubbiosi. E il grande Gianni Clerici lo descrive ora come un imbattibile, superiore perfino alla splendida stella che è stato Rod Laver, l’australiano ricco di stile e di colpi già allora fantastici. ria aumentare la violenza dei colpi che Un suo collega, esagerando alla ricerrimbombavano all’interno dell’autori- ca dell’originalità, lo invita a salire su messa. Com’era bello giocare, anche a Marte, per vedere se c’è ancora un avquarant’anni! versario in grado di impensierirlo. O Donna Michelle, nel delirio consono intimiditi anche lassù?» SUDOKU PER AZIONE - LUGLIO 2017 tenuto di FACILE Wimbledon, dove non c’era Quanto a me sono intimidito N. 21 stata partita, ha trovato il tempo per te- sempre da Donna Michelle, che mi fa Schema Soluzione lefonarmi: «Mi raccomando, continua battere il cuore un po’ più forte ogni 9 8Mi7sa che 2 dovrò 6 5 scri1 4 8 nostro». 6 1 a scrivere del volta 3 che 4la vedo. ho replicato6 che i miei936 anni vere 7 ancora 5 2su 4Federer 1 6 in 8futuro, 3 9a 5Io 2 erano ormai «Non meno6che,1 ormai decida 8 9scoppiato, 5 3 non 4 7 2 8 9 lontani 3 nel 4 tempo. 7 ce la faccio più. Sono vecchio e un po’ di salutare tutti, anche la dolcissima fan 1 Federer. 6 4 3 9 5 7 2 8 6 5 2 malandato. Per questo ringrazio Fe- di Roger
Giochi per “Azione” - Luglio BIS 2017 Stefania Sargentini
(N. 29 - ... Tisana di galega e nocchio) 5
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stava vincendo la sua finale. Avrebbe voluto essere allo stesso tempo il forte Federer e 18 la bella Garbine Muguruza (nella foto, con il nostro), la connazionale autrice di uno splendido finale di 21 torneo vinto quasi con la sicurezza di Roger. Il quale non ha ballato con lei «violando» la prassi della serata coi festeggiamenti dei vincitori. Colpa di un po’ di gelosia, o altro? Sappiamo però che Roger ha festeggiato fino a notte inoltrata con i suoi vecchi amici… Forte di questa spinta, ecco Victo-
S T I A A I A D R A L E A R G E N A R A T C A C E L O I R A T E I S 2N3 O 6 9L O 8
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A P O N I R I O G T O G L O F I O N O N O H A O M O R D2 3 7 1 6 8 9 4 Keystone
Alcide Bernasconi
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Vinci una delle 3 carte regalo da 501 franchi con il4 cruciverba 2 6 5 3 9 1 8 7 2 5 SUDOKU e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 9 7 3 2 8 1 5 6 4 4 (N. 30 - Se toccata, le sue foglie si ritraggono)3 2 N. 25 FACILE 5 8 1 6 4 7 2 9 3 5 1 6 7 1 2 3 4 5 6 N. 22 MEDIO Sudoku Schema 7
S E T2 7 T1 3 O9 4 R5 6 1 3 4 9 R I8 29 57 7 C Scoprire i 3 6 1 C A 4 6 3 8 2 5 7 numeri3corretti 5 7 da inserire 4 nelle 9 8O A 6 1 L43 9 E54 3 S 22 caselle colorate. 3 3 5 7 1 8 2 6 3 4 7 1 9 92 8 4 78 6 1 T S O A P 4 6 7 4 6 5 3 8 9 4 5 1 8 2 6 4 9 83 1 8 A U L E A F5 3 O9 2 N1 7 I8 5 9 1 8 6 1 9 N. G23 DIFFICILE L I S T E S I 73 9 2 9 1 54 2 4 6 57 I2 A T 11O 4 R R3 8 E22 7 5 9 A66 7 3 7 6 1 3 4 7 6 1 3 8 2 G O L 6 I A6 9 1 5 G73 2 N3 9L 5 2 8 1 7 5 2 8 4 9 3 1 I D 6 O 8N 9 E O 7 63 O4 8 N6 1 D5 2 Soluzione: 5
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ORIZZONTALI 1. Porzione di uno spazio 7. Croce Rossa Italiana 8. Gatto inglese 9. Le ali dell’oca 10. Parte... danneggiata da un reato 11. Con «opera» fa una telenovela 12. Sale per riunioni solenni 15. Perdita della voce 17. Articolo per studenti 18. Bucati... all’aria 19. Le iniziali dell’attrice Adjani 20. Circondata da merli 21. Preposizione latina 22. Gigante biblico 23. Antilope africana
24. Conveniente, opportuno 25. Propagazione vibrante di energia VERTICALI 1. Scozzese a Buckingham Palace 2.1La Giunone dei3 greci 4 2 3. Una consonante 4. Sono tre sulla Terra 5.10 Grappoli d’uva senza uva 6. Dipende dalla classe 10. 12Sciolto in inglese 13 11. Esiste anche quella celeste 12. Lo sono i ginnasti 14 13. Unità Lavorative per15 Anno 14. Pronome personale 15. 17Cavità superiore del cuore 16. Faticosa, difficile
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo19Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblica22 23 zione del gioco.
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N. 26 MEDIO
Giochi per “Azione” - Luglio BIS 2017 1 5 9 6 2 4 8 7 3 Stefania FUTURE MAMME – PerSargentini stimolare la produzione di latte materno bere:
18. Simbolo di bellezza 20. Tuo a Parigi 3 8 9 21. inglese (N. Congiunzione 29 - ... Tisana di galega e nocchio) TISANA DI GALEGA E FINOCCHIO.2 N.24 GENI 22. Cambiano perle4in pergole 1 2 3 5 6 7 8 23.5 Le iniziali S T I A4 S2 A P O N I 6 della7cantante 8 Nannini 9 9 10 6 A I A D A R1 I O G 11 12 13 5 R1 A 11 L E7 N T O3 G L 14 15 16 A9 R G E7 N3 T O 8 F I O 17 18 Vincitori del concorso Cruciverba A R A T O N8 O N O 19 su «Azione 20 21 28», del 10.7.2017 4 7 C A C E H F. 23 Stacchi, G. Prest, N. Ambro 22 24 5 16 5 2 3 L O I R A O Vincitori del concorso Sudoku 25 26 su «Azione 28», del 10.7.2017 8 A T9 E I 5 S M O 1Soluzione della settimana 4 8 precedente
(N. 31 - ... Un ottimo deodorante naturale)
P U N T I D E A V I I O T D 2N O 9 O4 R D8 T OL R O 3
1 4 D9 6O2 8T 3 5T 7 E 5 1 4 2 6 7 8 9 3 6 1 M O1 9Z5 6A 7 R 3 4 T 2 8 9 7 6 4 7 5 8 2 9 3 1 D E S3 2 I 8 O 4 1 9 6 T 7 5 2 1 4 5 1 7 2 8 3 6 9 E N S8 77O9 3 5 R 6 1 A 1 4 4 2 A. Pargaetzi, G. 18Macrì 7 2 3 6 1 9 4 5 8 7 N T O P E R 6 (N. 30 - Se20toccata,online: le sue foglie si ritraggono) Partecipazione inserire la luzione, corredata da nome, cognome, è possibile un pagamento in contanti TOdeveR7OEdei5premi.N A saranno T avvertiti O soluzione del cruciverba o del sudoku indirizzo, email del partecipante I vincitori S E 8T TAzione, nell’apposito formulario pubblicato essere spedita a «Redazione per iscritto. Il nome dei vincitori sarà 21 C R6901 I Lugano». C A Tpubblicato su «Azione». Partecipazione sulla pagina del sito. Concorsi, C.P. 6315, I S Ariservata P esclusivamente U 9R Ia 8lettori 2che Partecipazione postale: la lettera o Non si intratterràOcorrispondenza A L E sui 24 la cartolina postale che riporti la so- concorsi. Le vie legali sono escluse. Non risiedono in Svizzera. T S OCA PA R D N. 27 DIFFICILE I N I
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Politica e Economia Il mondo che verrà: 4. parte Sono inevitabili le migrazioni: chi riesce a governarle meglio e chi peggio. Una mappa delle regole
Quale futuro del Califfato? Se pochi sono i dubbi della sconfitta definitiva dell’Isis dopo la cacciata da Mosul, la vera chiave della sua sopravvivenza rimangono i finanziamenti da privati e charities islamiche oltre che dagli equilibri politici dello stesso Iraq
La crisi della democrazia Siamo in un’era di postdemocrazia come sostiene il politologo inglese Colin Crouch?
Si lavora meno di un tempo Dal 1950 a oggi in Svizzera l’orario di lavoro medio è sensibilmente diminuito, la produttività è molto aumentata pagina 24
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Molte persone hanno reso omaggio al memoriale allestito per la morte di Liu a Hong Kong. (AFP)
Censurato anche dopo la morte
Cina È morto il dissidente Liu Xiabao, Nobel per la pace 2010, che non ha mai potuto ritirare il premio perché
già «seppellito» in un ospedale-prigione di Shenyang. Anche in rete le sue parole e le sue opere sono state oscurate
Giulia Pompili Le attenzioni adesso sono tutte rivolte sulla sorte di Liu Xia. La comunità internazionale ha chiesto a Pechino di rendere libera la vedova del premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo, scomparso il 13 luglio scorso a sessantuno anni per un cancro al fegato mentre era ancora in stato di arresto in Cina. Liu Xia, poetessa, pittrice, fotografa, anche lei malata di cancro, è stata vista l’ultima volta al funerale e alla cerimonia di dispersione delle ceneri del marito, accompagnata dal fratello e dal cognato. Poi più nulla. Secondo le autorità cinesi Xia in realtà sarebbe «libera», ma di fatto sin dal 2010 si trova agli arresti domiciliari, controllata da agenti cinesi in borghese che non le hanno mai permesso di muoversi in libertà. Quegli stessi agenti che qualche giorno fa hanno respinto violentemente una troupe del «Guardian» che cercava di raggiungere la casa del più famoso dissidente cinese, lasciato morire in un ospedale di Shenyang nonostante gli appelli internazionali che chiedevano a Pechino di lasciarlo curare all’estero. Ma la strategia cinese è ormai più che evidente: ogni sforzo è volto a limi-
tare il più possibile che le idee di Xiaobo e della moglie Xia si diffondano, come un virus, e provochino il consolidarsi di una coscienza sociale che vada contro gli interessi del governo centrale. È il 2009 l’anno chiave per capire quanto Pechino stia tutt’oggi combattendo contro i suoi critici, per limitare i danni della dissidenza civile. Il 2009 è infatti l’anno in cui Liu Xiaobo viene arrestato per «attività sovversive». Lui, che aveva partecipato alle proteste di piazza Tienanmen nel 1989, è la figura che più ricorda, anche senza dire una parola, solo con il suo volto e il suo amore per la moglie Xia, sposata nel 1996 mentre era detenuto in un campo di rieducazione cinese, quei giorni di massacro. Ma nel corso degli anni il suo attivismo si era trasformato in un appello alla riforma democratica, quanto mai distante da una rivoluzione violenta. Nel dicembre del 2008, insieme ad altri intellettuali e attivisti, Liu Xiaobo contribuisce a scrivere e pubblicare la Charta 08, un manifesto per la democrazia che chiede «Libertà, Diritti umani, Uguaglianza, Repubblicanesimo, Democrazia, e un Governo costituzionale»: «Per la Cina, il sentiero che
conduce fuori dalla situazione attuale esige che ci spogliamo del concetto autoritario dell’affidarsi a un “sovrano illuminato” o a un “onesto funzionario”, per orientarci invece verso un sistema di libertà, democrazia e Stato di diritto, e verso l’adozione di una mentalità da cittadini moderni che considerano i loro diritti come fondamentali e la partecipazione come un dovere». Qualche giorno dopo, alla vigilia della giornata mondiale dei diritti umani, la polizia va a prenderlo, sospettato – insieme con un altro attivista, Zhang Zuhua – di aver raccolto le oltre trecento firme della Charta. Nel 2009 si celebra il processo, che lo condanna a undici anni di carcere per atti contro il governo. Ma Liu Xiaobo non rinuncia a scrivere, e denuncia dalle colonne del «South China Morning Post» la violazione dei diritti umani fondamentali e della libertà d’espressione perpetrata da Pechino: «Fare opposizione, criticare, non vuol dire essere sovversivi». La condanna di Liu solleva polemiche internazionali, si mobilita la società civile, ma il governo cinese non fa alcun passo indietro. Nel 2010 viene insignito del Premio Nobel per la Pace dall’Accademia svedese, un
premio mai formalmente riconosciuto da Pechino, tanto che non verrà citato nemmeno nel comunicato ufficiale sulla sua morte, il 13 luglio scorso. Liu Xiaobo è morto senza mai aver potuto ritirare il premio, e nella storia dei Nobel era accaduto soltanto un’altra volta: nel 1938, quando il regime nazista lasciò morire il dissidente Carl von Ossietzky, anche lui celebrato Nobel per la Pace. Negli ultimi sette anni la comunità internazionale ha lentamente dimenticato Liu Xiaobo. Un’attenzione sempre più forte agli affari interni, ma anche la minaccia del fondamentalismo islamico, la diffusione del protezionismo, ha messo in luce i limiti delle dichiarazioni universali, e della mobilitazione politicamente corretta della società civile internazionale. Per Amnesty International i simboli della libertà occidentale sono stati abbandonati nelle mani della potenza cinese, seconda economia del mondo, per realpolitik e forse anche imbarazzo. Non è un caso se anche gli altri premi Nobel cinesi si sono spesi poco per difendere Liu: Mo Yan, premio Nobel per la Letteratura, ha parlato del dissidente cinese soltanto nel 2012, dicendo di «sperare» nella
sua liberazione. Gao Xinjinag, premio Nobel per la Letteratura nel 2000, che scappò nell’89 dalla Cina proprio per i fatti di piazza Tienanmen e poi prese la cittadinanza francese, ha detto pochi giorni fa: «Non so nulla di Liu Xiaobo, so solo che è morto». La guerra della Cina di Xi Jinping contro l’eredità di Liu Xiaobo continua perfino oggi, dopo la sua morte. Da giorni la censura blocca ogni tentativo di celebrare le parole e le opere di Xiaobo su Weibo, il social network cinese. Ma perfino WhatsApp, il social network di messaggistica privata, sembra bloccato. La comunicazione è ciò che spaventa di più il governo di Pechino, ma cancellare del tutto l’eredità di Liu Xiaobo è una missione impossibile: dall’estero sono iniziate a circolare fotografie di una sedia vuota davanti al mare, con l’hashtag #withliuxiaobo. Ed è soprattutto a Hong Kong che si concentrano le manifestazioni di solidarietà per quello che viene definito «un vero eroe» dei diritti umani. Il 15 luglio centinaia di persone sono scese in piazza con una candela, a ricordare quanta strada ancora deve fare la Cina per conoscere la democrazia.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Politica e Economia
Come governare le migrazioni? Il mondo che verrà – 4. parte Che cosa c’è dietro il dibattito sullo Ius soli e le nuove regole
per l’acquisizione della cittadinanza nei paesi di arrivo?
Federico Rampini Per arrivare a Ventimiglia prendo un treno locale da Genova, di quelli che fanno tutte le fermate. Mentre sto leggendo, all’improvviso scoppia un parapiglia. Nel corridoio del treno vedo sfrecciare di corsa un ragazzo nero. A pochi metri di distanza, lo insegue una donna controllore che urla: «Devi scendere! Scendi subito! Guarda che non mi sfuggi!» Dopo un po’ la funzionaria di Trenitalia rinuncia, arrivata in fondo al vagone si ferma e torna indietro ansimando. Per rincuorarla le faccio i complimenti per lo scatto, la butto sul ridere. Non è una ragazzina, ci vuole fiato per correre così, dietro un ventenne. Ci vuole anche coraggio. Ogni tanto leggo notizie di aggressioni violente, capitreno e controllori pestati o accoltellati. Non sempre, ma spesso da immigrati che viaggiano senza biglietto. Che sia un andazzo frequente posso testimoniarlo, pur abitando in America: ogni volta che sono in vacanza in Italia e prendo un treno locale mi capita di assistere a scene simili. L’abitudine di viaggiare a sbafo è diffusa tra gli immigrati. Ci saranno pure italiani che fanno lo stesso, però tra gli stranieri sembra un vizio di massa. I poveri controllori sono costretti a trasformarsi in poliziotti, pur disarmati. Combattono una piccola guerra quotidiana, forse inutile, per istillare un senso di legalità, di rispetto delle regole. Li ammiro perché non ci guadagnano proprio nulla, non ne ricavano un tornaconto personale, corrono dei rischi per fare il proprio dovere. La donna controllore sul treno per Ventimiglia ha il senso dell’ironia e ha voglia di sdrammatizzare: «Finché le gambe mi reggono, continuo. Ma ormai mancano solo due mesi alla pensione, e allora chi s’è visto s’è visto…»
Nell’era di Trump, è ancora tollerabile un’applicazione senza restrizioni dello Ius Soli? La scena del treno fa da preludio alla mia visita ai profughi di Ventimiglia. Questa è l’ultima città della Liguria prima del confine con la Francia. Un tempo, prima dell’emergenza profughi, quando l’Europa rispettava gli accordi di Schengen, il confine di Ventimiglia era diventato virtuale, lo si passava senza controlli. Poi la Francia lo ha chiuso per bloccare l’afflusso indesiderato. Adesso i profughi che fanno il viaggio della speranza, vengono dall’Africa e raggiungono la costa libica, poi attraversano il Mediterraneo e sbarcano in Italia (se sopravvivono), raramente vogliono rimanere nel nostro Paese. Le mète più ambite sono a Nord: Germania, Scandinavia, Inghilterra. Alcuni vogliono andare in Francia perché vengono dall’Africa francofona e pensano che un futuro migliore li aspetti lì; magari hanno parenti o amici dai quali farsi aiutare. Oppure la Francia stessa è terra di transito, per raggiungere Calais e da lì tentare il passaggio in Gran Bretagna. Adesso vanno a cozzare contro la barriera di Ventimiglia, la polizia francese li respinge. È una nuova linea rossa: vietato oltrepassarla. È una frontiera invisibile dal significato inquietante per molti italiani. È come se i veri confini dell’Africa si fossero spostati qui. L’Italia risucchiata nel suo «destino mediterraneo». La Francia che non ci tratta più come Europa, ma come Sud dal quale arrivano gli indesiderati, il pericolo.
Quest’immagine del confine africano che si è trasferito a Ventimiglia, la ritrovo lungo il fiumiciattolo Roja. È uno di quei corsi d’acqua tipici della Liguria, che dalle montagne scoscese piombano verso il mare: rigagnoli semiasciutti d’estate, torrenti impetuosi gonfiati dai primi nubifragi autunnali. Sul greto del Roja, tra banchi di sabbia e cespugli di sterpi, vedo centinaia di neri. Sono i profughi dall’Africa che campeggiano all’aperto, nell’attesa di tentare la traversata del confine nelle zone meno custodite, affidandosi ai «passeur» a pagamento. Da qualche tempo questi profughi sono al centro di una nuova paura italiana. Si chiama Ius soli. È un termine latino, significa «diritto della terra», si distingue dallo Ius sanguinis. Il primo stabilisce che si è cittadini della terra in cui si nasce, il secondo lega la nazionalità al sangue cioè ai genitori o agli antenati. La riforma in discussione a Roma (da più di due anni) dovrebbe modificare il percorso verso la naturalizzazione, rendere un po’ meno difficile diventare cittadini italiani per chi è nato qui. Che c’entrano i profughi di Ventimiglia? Nessuno di loro è nato qui. Vedo qualche donna incinta, nella chiesa vicino al Roja, la parrocchia di Sant’Antonio alle Gianchette che ha aperto le porte ai rifugiati. Ma la legge in discussione in Italia pone limiti severi anche per chi nasce qui: almeno uno dei genitori deve avere avuto un regolare permesso di soggiorno da anni. Eppure il dibattito sullo Ius soli si mescola con l’allarme-profughi. D’altronde, qualcosa di analogo è accaduto anche nella mia America. Lo Ius soli nella sua versione moderna è proprio un’invenzione americana. Lo è nel senso delle Americhe al plurale. Fu adottato in quasi tutte le aree del Nuovo Mondo, con un’applicazione molto estensiva della common law britannica, viste le particolari necessità di popolamento da parte dei coloni venuti dall’Europa. Ma è lo Ius soli degli Stati Uniti quello più rilevante, sia per le circostanze particolari della sua nascita, sia per i numeri dei cittadini Usa che diventano tali per il solo fatto di nascere qui, magari da genitori immigrati illegalmente. Si stima che oggi trecentomila diventino ogni anno cittadini degli Stati Uniti in questo modo, pur avendo genitori che potrebbero essere espulsi. Nell’era di Trump, è tollerabile un’applicazione senza limiti dello Ius soli? In tutti i paesi europei che hanno riformato le leggi su cittadinanza e naturalizzazione negli ultimi anni – sotto la pressione di nuove ondate migratorie – è prevalsa qualche forma di Ius soli «con limitazioni». Per esempio il requisito che almeno uno dei genitori abbia avuto un permesso di soggiorno regolare per un certo periodo. Nulla di simile esiste in America, per ora. La storia dello Ius soli statunitense ha radici giuridiche, filosofiche e culturali nell’antichità classica, dalle regole ateniesi sulla cittadinanza all’editto di Caracalla nell’impero romano. Ma la ragione specifica per cui gli Stati Uniti adottano uno Ius soli «estremo», è legata alla piaga dello schiavismo. Dopo la Guerra civile e la vittoria dei nordisti, viene aggiunto alla Costituzione il 13esimo emendamento che abolisce e vieta la schiavitù. Ma gli Stati del Sud tentano con ogni mezzo d’impedire che i neri acquisiscano diritti veri. Una delle strategie usate è questa: il divieto per legge che un nero possa essere cittadino degli Stati Uniti. Ci vuole il Civil Rights Act del 1866, e soprattutto il 14esimo emendamento alla Costituzione del 1868, per risolvere definitivamente la questione. Tutto merito dei repubblicani: allora erano il partito di
Migranti africani sulle coste di Ventimiglia, al confine con la Francia. (AFP)
Abraham Lincoln, anti-schiavista. Con il 14esimo emendamento entra nella legge fondamentale del Paese il principio per cui «tutte le persone nate negli Stati Uniti… sono cittadini degli Stati Uniti». Il principio è affermato in modo chiaro, totale, inequivocabile. Naturalmente il legislatore dell’Ottocento pensava solo agli afro-americani nati sul territorio nazionale. Non poteva porsi il problema dei figli di immigrati clandestini, per la semplice ragione che l’immigrazione era tutta legale. Nel 1868 chiunque poteva entrare negli Stati Uniti, se voleva. Solo in seguito arrivano leggi restrittive. Come ricorda lo storico Eric Foner (The Good Kind of American Exceptionalism, su «The Nation») le riforme che successivamente regolano l’afflusso dall’estero escludono via via, nell’ordine, «prostitute, poligami, pazzi, anarchici, infine l’intera popolazione della Cina». Il Chinese Exclusion Act, adottato nel 1882 e abrogato solo durante la Seconda guerra mondiale, è il caso più importante di una restrizione che prende di mira in modo esplicito un’etnìa. Ce ne saranno altri, magari mascherati attraverso «quote nazionali» di visti. Ci vorranno le grandi riforme sociali di Lyndon Johnson a metà degli anni Sessanta per dare agli Stati Uniti il grado di apertura che conosciamo oggi, con le leggi odierne sulla Green Card, la facilità del processo di naturalizzazione (dopo cinque anni di
Green Card o residenza permanente, scatta il diritto a chiedere la cittadinanza). Quelle che Trump ha promesso di rimettere in discussione, a cominciare dal suo Muslim Ban. A fine Ottocento neppure la svolta anti-immigrati del Chinese Exclusion Act, fece scattare qualche ripensamento sullo Ius soli. C’erano nel 1882 almeno 50’000 figli di cinesi nati in America, ma nessuno tentò di negargli la cittadinanza. Il principio dello Ius soli era ormai entrato a far parte della cultura nazionale, come ha ricordato uno studioso della materia, l’ex viceministro della Giustizia di Bill Clinton, Walter Dellinger: «Dopo gli anglosassoni arrivarono gli immigranti tedeschi, poi gli ebrei tedeschi, poi altre nazionalità europee, infine i latinoamericani, e c’era questo fatto bellissimo che i figli nati qui erano indiscutibilmente, legittimamente americani: a differenza dello Ius sanguinis, qui non si guardava all’indietro, alle storie dei loro genitori». È quella che Foner ha definito «la versione migliore dell’eccezione americana». Nella destra repubblicana oggi non manca la tentazione di cambiare regole. Due anni fa all’inizio della sua campagna elettorale Trump dichiarò: «Molti giuristi sostengono che il 14esimo emendamento non si applica ai figli di clandestini, agli anchor-baby». Questa immagine dei «bebè-àncora» non l’ha coniata lui, circolava da molti anni nel
gergo della destra. Sarebbero le «àncore» che le mamme senza permesso di soggiorno lanciano sul territorio Usa, per potersi un giorno regolarizzare anche loro. I numeri sono grossi o piccoli a seconda dei punti di vista. Stime indipendenti indicano che ogni anno nascono negli Stati Uniti – e ne diventano automaticamente cittadini – oltre trecentomila figli di stranieri senza permesso di soggiorno. Non sono pochi, e tuttavia rappresentano solo l’8% di tutte le nascite. Se si guarda al totale della popolazione di nazionalità americana, è poco più dell’un per cento ad avere acquisito la cittadinanza per questa via «anomala». Inoltre l’immagine dell’àncora è una forzatura: il bambino che nasce americano deve aspettare il 21esimo anno di età per avviare una richiesta di Green Card a favore dei genitori. È forse per queste ragioni che il tema dei «bebé-ancora» fa un’apparizione ciclicla, stagionale. Se ne parla solo in campagna elettorale. Nell’ultima, oltre a Trump anche altri candidati repubblicani (Ted Cruz, Rick Santorum, Lindsay Graham) proposero di cambiare lo Ius soli introducendo una restrizione che escluda i figli di immigrati illegali. Da quando Trump è alla Casa Bianca si è occupato di Muro col Messico e Muslim Ban ma non ha mai più citato la questione Ius soli. Una ricerca su Google col termine anchor baby rivela che l’affollamento di citazioni è di due anni fa, poi crolla.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Politica e Economia
Quale Isis dopo Mosul Medio Oriente Infranto il suo sogno di controllare
Marcella Emiliani Era il 29 giugno scorso quando l’esercito e le forze anti-terroristiche irachene sostenute dalla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti (Operation Inherent Resolve) hanno riconquistato il cuore di Mosul ovest (nella foto), cioè il mucchio di macerie su cui si ergevano la Moschea di al-Nuri e il suo minareto «gobbo», distrutti dall’Isis una settimana prima. Esattamente tre anni fa, il 29 giugno 2014 dal pulpito di quella moschea Abu Bakr al-Baghdadi aveva proclamato la nascita del Califfato. Solo 10 giorni dopo, il 9 luglio, ripulite le sacche in cui ancora si annidavano i jihadisti a Mosul, il primo ministro iracheno Haider al-Abadi cantava vittoria «sulla brutalità e il terrorismo» e annunciava «al mondo intero la sconfitta e il crollo del fittizio Stato» islamico. Circondato dai suoi generali, lui stesso in divisa militare, al-Abadi era cosciente che l’Isis non era definitivamente sconfitto nonostante le sue bandiere nere venissero esibite come trofei o calpestate nella polvere da soldati esultanti. Dietro la gioia del momento, infatti, cominciavano a intravedersi le tante minacce alla stabilità dell’Iraq che la vittoria sul Daesh a Mosul rendeva più concrete, come se proprio quella vittoria rappresentasse l’apertura di un nuovo vaso di Pandora. Quali minacce? Proviamo a mettere in fila le più importanti. Cacciato da Mosul, l’Isis non è sparito dall’Iraq, ma mantiene ancora il controllo di Tel Afar, ad ovest di Mosul nel governatorato (provincia) di Ninive, di Hawija nel governatorato di Kirkuk, di al-Shirqat nel governatorato di Saladin e di una serie di piccole cittadine sulla riva dell’Eufrate conosciute col nome collettivo di al-Qaim nel governatorato di al-Anbar. In Siria è arroccato a Raqqa che probabilmente non tarderà a cadere, ma dall’inizio dell’offensiva contro Mosul in Iraq, il 17 ottobre 2016, ha perso le sue maggiori fonti di auto-finanziamento con cui è diventato il movimento terroristico più ricco del mondo, ha visto
infrangersi il suo sogno di controllare un territorio contiguo nel Siraq (a cavallo tra Siria e Iraq), ha visto smentita la sua presunzione di cancellare i confini coloniali tra gli Stati (con le sue parole «stracciare l’Accordo Sikes-Picot»), ha visto crollare il suo mito di invincibilità spietata e il suo «prestigio» internazionale – abilmente pompato dal suo apparato mediatico – che aveva spinto qualcosa come 40’000 foreign fighters provenienti da 120 paesi ad ingrossare le sue fila. E non giovano ora alla causa dell’Isis né il fatto risaputo che a combattere a Mosul negli ultimi giorni siano stati lasciati proprio i foreign fighters che non potevano confondersi con la popolazione civile perché non parlano l’arabo e dell’arabo non hanno nemmeno i tratti somatici. Come fa rabbrividire e scandalizza il racconto delle torture e delle angherie subite dagli abitanti di Mosul prima come sudditi del Califfato poi come scudi umani per arrestare l’offensiva delle forze irachene. Tutto questo è vero, ma l’Isis ha la capacità di cambiar pelle e strategia pur di sopravvivere. Ha già dimostrato di saperlo fare trasformandosi da al-Qaeda in Iraq in Isis, appunto, dopo la morte di Abu Musab alZarqawi nel 2006. E nemmeno la perdita dei suoi leader è importante: c’è sempre un aspirante califfo pronto a sostituire quello ucciso. Da poco più di un mese a questa parte, ad esempio, assistiamo a un balletto di conferme e smentite sulla presunta morte di Abu Bakr al Baghdadi. L’annuncio sulla sua probabile morte nel corso di un attacco aereo russo a Raqqa del 28 maggio è stato dato il 16 giugno dalla agenzia Tass. Dopo la riconquista di Mosul, la tv irachena Al Sumaria, ha confermato la notizia citando una fonte locale nella provincia di Ninive. Poi è stata la volta della emittente saudita Al Arabiya, che il 15 luglio oltre a confermare la scomparsa di al-Baghdadi ha annunciato il nome del suo successore, Jalaluddin al-Tunisi, al secolo Mohamed Ben Salem Al-Ayouni. Ma il giallo rimane e il dubbio verrà fugato solo quando si
esprimerà in merito l’agenzia Amaq o la centrale mediatica dell’Isis, Al Furqan. Sulla strategia di sopravvivenza del Daesh invece di dubbi ce ne sono pochi e la cronaca ce lo conferma. Moltiplicherà gli attentati con qualsiasi mezzo (auto-bomba, camion sulla folla, lupi solitari armati di coltello …) sia in Medio Oriente che in Europa o comunque in Occidente. L’ha già fatto nella fase in cui lottava per affermarsi tra il 2006 e il 2013. Ma la vera chiave della sua sopravvivenza rimangono i finanziamenti che continua a ricevere da privati e da charities islamiche specie della penisola arabica e dagli equilibri politici nello stesso Iraq. Per dirla in breve se il premier iracheno al-Abadi non garantirà alla minoranza sunnita un equo powersharing politico ed economico a livello nazionale, gli sceicchi sunniti saranno sempre tentati di ricorrere all’arma e al ricatto del terrorismo con qualsiasi sigla si riproponga. La ricostruzione e il futuro governo della città saranno cruciali non solo per la possibile rinascita dell’Isis, ma anche per la stabilità dell’intero Iraq. Mosul è sempre stata una città a maggioranza sunnita e proprio i nove mesi di guerra per strapparla al Califfato hanno esteso a nord l’influenza degli sciiti iracheni e dei loro protettori iraniani, i Guardiani della rivoluzione o pasdaran che dir si voglia. Le forze irachene che hanno liberato Mosul e continueranno la lotta al Califfato sono infatti costituite dall’esercito, dalle formazioni del Servizio di contro-terrorismo, dalla Polizia federale (e la sua Emergency Response Division) e dai peshmerga (guerriglieri) curdi, tutti coadiuvati dall’aviazione della coalizione internazionale guidata dagli Usa. Ebbene, sia nel Servizio di controterrorismo sia nella Emergency Response Division della Polizia federale sono state inglobate le al-Hashad al-Shaabi, le unità di Mobilitazione popolare create in risposta all’appello della massima autorità sciita in Iraq, l’ayatollah Ali alSistani alla vigilia della proclamazione del Califfato nel giugno 2014. Nelle unità
La nostra epoca è finita
Hanif Kureishi Lo scrittore e regista anglo-pakistano riflette
sulle colpe del neoliberismo sfrenato e sui cambiamenti in atto Francesca Marino In Gran Bretagna stiamo assistendo alla fine di un’epoca: la fine dell’epoca del liberalismo sfrenato, la fine del sogno della Thatcher, la fine anche di un certo modo di fare politica. Viviamo un momento di particolare interesse storico. Abbiamo avuto la Brexit, le elezioni e poi il fuoco nella Grenfell Tower, la torre di appartamenti a Londra, per non parlare della serie di attacchi terroristici. È stato un continuo, e stiamo ancora cercando di capire, di decifrare bene i segnali. Hanif Kureishi, a Roma al festival delle letterature di Massenzio per presentare il suo ultimo romanzo Uno zero (Bompiani), ci spiega:
Negli ultimi anni c’è stata una crescita del nazionalismo, dappertutto ma anche e soprattutto in Gran Bretagna. Sotto i nostri occhi si è sviluppata ancora una volta l’idea di razza, di identità nazionale e culturale. L’idea del territorio. Eppure, a Londra è stato eletto sindaco Sadiq Khan, musulmano e figlio di immigrati. Un segnale forte, un segnale di questa nuova tendenza. Ritiene che la Gran Bretagna, dopo gli anni Settanta, stia ancora una volta per esplodere?
Penso che viviamo in tempi molti
interessanti e stimolanti. Penso che la situazione e la società siano in continuo divenire. Il fuoco nella Grenfell Tower è stato emblematico. Emblematico anzitutto del divario profondissimo tra ricchi e poveri nella città di Londra. Per molti l’incendio, per terribile che sia stato, è diventato un simbolo. Il simbolo di una vera e propria pulizia etnica in atto nella città: cacciare dal centro i poveri , gli immigrati, i musulmani per mandarli a vivere ai margini e dare i terreni edificabili ai ricchi. È tutto connesso, perché tutto ha a che
fare con la religione, con la povertà, con il razzismo. Ha tutto a che fare con il Paese in cui vogliamo vivere, col Paese che vogliamo costruire. È probabile che Jeremy Corbyn, leader di estrema sinistra, diventerà il nuovo Primo ministro perché gode del consenso dei giovani. Sta cambiando tutto il panorama politico dopo anni di neoliberismo, si cerca di costruire un nuovo modo di fare politica, di pensare o ri-pensare la società. Le politiche del passato hanno prodotto una nuova middle-class che sta perdendo o teme di perdere il suo posto al sole, una middle class che è diventata più razzista e intollerante che mai, anti-immigrati, che etichetta i musulmani come arretrati, misogini, razzisti e anti-gay.
Secondo Lei c’è un problema religioso? Che l’Islam abbia a che fare con tutto questo?
Credo che sia connesso con il genere di Islam che i musulmani vogliono. Con l’essere pronti al cambiamento, a una nuova versione dell’Islam. Abbiamo matrimoni gay in Gran Bretagna, e anche matrimoni gay di musulmani. L’Islam non è un monolita, non è fisso, si sviluppa come tutto il resto. La nuova generazione di ragazzi non ha idea delle rivolte o delle lotte del passato, è completamente nuova. Le
AFP
un vasto territorio fra Siria e Iraq, riuscirà il Califfato a sopravvivere?
di Mobilitazione popolare, a loro volta, sono confluite 40 organizzazioni – in maggioranza sciite, ma anche cristiane e yazide – impegnate nella lotta all’Isis. I sunniti di Mosul hanno temuto fino all’ultimo la violenza settaria di queste milizie (che si sono abbandonate ad atti di vera brutalità contro i sunniti nel corso della riconquista di Ramadi e Falluja nella provincia di al-Anbar lo scorso anno) e oggi non sono disposti a tollerare l’ingerenza sciita – qualsiasi forma assuma – in quella che considerano la loro città più importante. Temono inoltre la corruzione (ormai endemica nell’Iraq post-Saddam controllata dagli sciiti) in vista della ricostruzione, per la quale l’Onu ha calcolato occorrerà almeno un miliardo di dollari. I danni causati dalla guerra al Daesh infatti sono ingentissimi: è stato distrutto il 90 per cento degli edifici e delle infrastrutture pubbliche, e il 70 per cento delle abitazioni ed esercizi commerciali privati. Per non parlare dei costi umani: dall’inizio della battaglia di Mosul nell’ottobre dell’anno scorso è fuggito dalla città un milione di persone e ad oggi gli sfollati sono ancora 700’000. Una sfida che un governo debole come quello di al-Abadi potrebbe non essere in grado di affrontare. La lotta all’Isis da tre anni a questa parte ha tenuto unite fazioni e organizzazioni che, venuta meno l’emergenza della guerra al Califfato in Iraq, oggi potrebbero combattersi tra loro mettendo in pericolo la stabilità e l’unità dello stesso Iraq. Veri e propri eroi nella lotta contro il Daesh tanto in Siria quanto in Iraq, sono i curdi a preoccupare maggiormente il governo di Baghdad e non
solo quello. Il presidente del governo regionale curdo Massoud Barzani infatti, ha indetto un referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno per il prossimo 25 settembre. Referendum destinato a scatenare le ire non solo di al-Abadi ma anche e soprattutto della Turchia (che non tollera l’indipendenza dei curdi né in Iraq né in Siria, per paura che questo rafforzi la lotta dei curdi in Turchia contro lo strapotere di Erdogan) e dell’Iran che non vuole vedersi spezzare l’arco che oggi – passando per il nord dell’Iraq e della Siria – ormai lo collega al Libano e al Mediterraneo. La Turchia negli ultimi due anni ha già compiuto incursioni nel Kurdistan iracheno, ma fino ad oggi non abbiamo ancora assistito a scontri diretti tra sciiti e curdi in Iraq che comprometterebbero seriamente l’assetto e la stabilità di tutto il Paese. Interessi dell’Iran e della Turchia a parte, la nota dolens del referendum del 25 settembre è data dall’estensione del territorio che Massoud Barzani intende rivendicare come curdo e far diventare indipendente. Quel territorio, infatti comprende la città di Kirkuk e gran parte dei suoi campi petroliferi, oggi controllati dai peshmerga curdi in virtù della guerra all’Isis, ma che non sono più a maggioranza curda dai tempi di Saddam. Fu lui a stravolgere la geografia umana di Kirkuk cacciando i curdi e spostando nella sua provincia arabi, turkmeni ed altre minoranze. Il tutto mentre la comunità internazionale sta a guardare e gli Usa di Trump non hanno ancora chiarito cosa intendano fare non solo in Iraq ma nell’intero Medio Oriente.
ideologie si sviluppano, cambiano. Specie in un posto in costante cambiamento come Londra. È difficile in questo momento utilizzare categorie del passato, la situazione è molto fluida e in continuo divenire. E il sentimento più diffuso, al di là di tutto, è la lotta contro il neoliberismo. La società ha fallito, il governo ha fallito, non ha risposto ai bisogni della grande maggioranza dei suoi cittadini. Solo dei ricchi.
E molti giovani che erano partiti per combattere in Siria stanno tornando, la situazione là è un disastro. Questa concezione di Islam non funziona in Occidente, è riuscita soltanto a creare un fascismo di ritorno, un razzismo di ritorno, di odio intorno ai musulmani, molto più che in passato.
Si, ma al momento i musulmani non sono interessati, non sono più interessati al fondamentalismo. A causa dell’Isis, perché l’integralismo si è ormai ficcato in un vicolo cieco. I ragazzi musulmani a Londra, quelli con cui parlo, sono molto più interessati alla lotta politica che all’Islam, sono parte di una società multiculturale. Per loro, la religione è un fatto privato e non politico, ha a che fare con le loro origini, con i genitori, con il Pakistan o con l’Afghanistan, con il passato.
A fallire sono state anzitutto le famiglie, basta incolpare la società per tutto. Incolpare sempre e solo la società è una follia. Se si parla di mancanza di lavoro, di prospettive, non è scorretto incolpare anche la società: ma sono problemi che riguardano i giovani in generale, non soltanto i musulmani. A fallire sono stati padri e madri, è un problema di struttura familiare piuttosto che di integrazione. Perché questi ragazzi sono così facili da manipolare, chi li ha lasciati soli? I miei figli non lo fanno, io non l’ho fatto. Quando passavo le giornate steso sul letto a fare nulla mio padre mi urlava che stavamo in Inghilterra per lavorare, per costruire una nuova vita in una nuova società di cui dovevamo accettare le regole. D’altra parte, nessun pakistano della generazione di mio padre era integralista, i paesi d’origine erano luoghi diversi, più aperti e liberali di adesso. Forse sarebbe bene riflettere sul colonialismo e sul neo-colonialsmo di ritorno, oltre che sull’integrazione.
Lei ha scritto diffusamente in passato sul radicalizzarsi delle seconde o terze generazioni di immigrati, sul cosiddetto fondamentalismo di ritorno
Eppure dietro ogni attentato si risale a un legame con il Pakistan, con la Siria o con l’Arabia Saudita
Si, ma non funziona, non ha funzionato. Non ha cambiato la Gran Bretagna, anzi. Dopo questa ultima serie di attentati, casuali e insensati che hanno causato vittime anche tra i musulmani, ci sono sempre meno giovani e meno giovani disposti a farsi tentare dall’integralismo, dal terrorismo. Attentati del genere sono un segno di disperazione, non di attività rivoluzionarie.
Però esiste un problema di radicalizzazione delle nuove generazioni, dappertutto in Europa abbiamo «foreign fighters»: vanno a combattere in nome di ideologie integraliste. Le nostre società, la società britannica, ha delle responsabilità, ha fallito nell’integrare gli immigrati
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Politica e Economia
Postdemocrazia?
Dibattito Le attuali tendenze di svogliata partecipazione popolare
alla vita politica mostrano disaffezione per questa forma di governo Alfredo Venturi La democrazia è stanca? Sembrerebbe di sì a giudicare da certe tendenze elettorali, in particolare dal crescente numero di cittadini che considerano superfluo l’esercizio del diritto di voto e voltano le spalle alla politica e ai suoi riti. Forse il sistema politico nato nell’antica Grecia e resuscitato ventitré secoli più tardi dal pensiero illuministico sta scontando le sue contraddizioni, quelle stesse che spinsero Winston Churchill a definirlo la peggior forma di governo, ad eccezione di tutte le altre. Del resto la democrazia è sempre stata imperfetta, nacque infatti con un vistoso vizio di origine: nella polis ellenica il demos escludeva non soltanto le donne ma anche gli schiavi. La democrazia è tuttora oberata da un limite: conviene a chi è governato ma non altrettanto a chi governa. Prevede un insieme di condizionamenti che ostacolano, di fatto, l’azione di chi è stato chiamato a reggere il timone della cosa pubblica. Ma quei vincoli non sono altro che i diritti dei governati, e se questi ultimi si accorgono che i loro rappresentanti non li rappresentano più, allora scatta il rigetto. È quanto va accadendo da qualche tempo in Europa e nel resto dell’Occidente.
La silenziosa rivolta dei cittadini contro i vecchi riti della rappresentanza si fece largo nelle cronache un quarto di secolo fa in Germania. Correva l’anno 1992 quando Politikverdrossenheit, disaffezione per la politica, fu scelta come parola dell’anno dalla Gesellschaft für deutsche Sprache. Parola dell’anno, perché molti tedeschi non ne potevano più dei dibattiti su governo e partiti, e cambiavano canale quando deputati e ministri si affacciavano ai teleschermi. Nonostante la caduta del muro di Berlino e la riunificazione, che avevano prodotto un momentaneo ritorno d’interesse per la cosa pubblica, a unità acquisita la Verdrossenheit dominava la scena. E così nel resto d’Europa, allora e ancor più oggi. Di questa disaffezione si nutrono le forze anti-sistema, le varie versioni del populismo e i loro controversi personaggi: dalla francese Marine Le Pen all’olandese Geert Wilders, dall’italiano Matteo Salvini alla tedesca Frauke Petry. Per non parlare dell’americano Donald Trump, che deve il sorprendente ingresso alla Casa Bianca anche a questa ondata d’insofferenza per la routine politica. Gli elettori europei hanno invece neutralizzato alcuni pronostici antisistema ricacciando nell’angolo Wilders nei Paesi Bassi e Le Pen in Francia,
mentre al contrario la decisione britannica a favore della Brexit deve molto al fenomeno della disaffezione. C’è inoltre da considerare quello che in vari paesi è ormai segnalato come il primo partito: il partito dei non votanti. Perché molti fra coloro che non si riconoscono nel chiacchiericcio della politica tendono a ignorarlo sottraendosi all’adempimento elettorale, percepito sempre più come una liturgia priva di contenuti reali. Oppure affidandosi, come è accaduto nella Francia di Emmanuel Macron, a un movimento come En marche!, che si proclama radicalmente alternativo rispetto ai partiti. Anche in Francia, del resto, l’affluenza elettorale è decisamente in ribasso. Il fenomeno sembra inarrestabile e ha conosciuto un’evoluzione caratteristica. Esemplare il caso dell’Italia dove la partecipazione al voto, che fu altissima per ovvie ragioni all’indomani della dittatura fascista e della restaurazione parlamentare, si è mantenuta al di sopra del novanta per cento, per l’elezione della Camera dei deputati, fino al 1979: ma poi ha cominciato progressivamente a calare, attestandosi nel 2013 attorno al settanta. Ancora più scarsa l’affluenza al voto in occasione dei referendum, al punto che non di rado, quando si tratta di consultazioni abrogative, la soglia di partecipazione del cinquanta per cento necessaria per produrre effetti concreti è rimasta un miraggio. È il destino inevitabile di una politica estraniata dalla società che ricorre al marketing, e confinando nel passato i comizi e le piazze entusiaste del Dopoguerra si nutre di likes e tweets, in un contesto oscillante fra una distratta indifferenza e un’esplicita ostilità. È stato un politologo inglese, Colin Crouch (nella foto), a definire i termini del fenomeno parlando di «postdemocrazia». Nella sua visione il vuoto scavato dai bizantinismi della politica e dalle loro conseguenze sul controllo popolare della classe dirigente viene riempito dai veri animatori della gestione pubblica: i poteri forti, le grandi lobby soprattutto multinazionali, i mezzi di comunicazione di massa. E
così la democrazia, che pure conserva i suoi istituti e dunque è formalmente intatta, si affida a una forma nuova di oligarchia, dotata di grandi risorse, attrezzata con i nuovi strumenti informatici di persuasione e dunque sempre più capace di pilotare il consenso. Il britannico Crouch ripercorre le tappe storiche del suo Paese, dove il potere prima si allargò dal sovrano alla nobiltà terriera, quindi passò dai Lords al popolo elettore per poi approdare a questo nuovo tipo di aristocrazia che al sangue blu ha sostituito il controllo del denaro e del pensiero. Partecipa poi al banchetto sulle spoglie apparentemente vitali della vecchia democrazia un nuovo attore, la mano oscura dei servizi segreti o di altrettanto misteriosi centri di potere, capaci di frugare nelle reti sociali, intossicarle con false notizie, costruire per via informatica esiti elettorali sapientemente programmati. E tutto questo in una dimensione globale, oltre le frontiere, da paese a paese. Intanto la politica parla d’altro, ed è un vizio antico. Pare che nel settimo secolo, quando l’impetuosa espansione araba arrivò a minacciare Costantinopoli, e poi ancora nel quindicesimo, alla vigilia della conquista ottomana, nella metropoli bizantina si discutesse non già di vitali strategie difensive ma di questioni molto meno concrete, anche se capaci di stimolare argomentazioni di rara eleganza dialettica, fra le quali è rimasta proverbiale la disputa sul sesso degli angeli. Qualcosa di simile era accaduto alcuni secoli prima durante le guerre cartaginesi: dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Roma si perde in chiacchiere, e intanto il nemico avanza e occupa Sagunto. Sono gli antecedenti classici della politica politicante dominata dai nuovi padroni, chiusa nella torre d’avorio, incurante del reale, affezionata al suo linguaggio esoterico, sorda ai richiami e alle sollecitazioni che salgono dalla società e dunque facile preda dei suoi nemici: il disinteresse di chi non va più a votare e la rabbiosa reazione degli «antipolitici». Un destino beffardo attende i responsabili di questa deviazione autoreferenziale. Le reazioni che suscita ostacolano e rischiano di rendere inattingibile il solo obiettivo al quale costoro sono tenacemente legati, la conservazione del potere. Spesso il perseguimento di questo obiettivo cancella pratiche correttive come la verifica e l’autocritica, e annulla certi fieri propositi formulati alla vigilia della battaglia: se perdo mi ritiro a vita privata! Recente il caso di Matteo Renzi, che all’in-
domani del referendum sulla riforma costituzionale, chiamato a tener fede all’impegno di dimettersi ha sì lasciato la guida del governo ma non certo quella del suo partito. Che poi è andato incontro a una scissione a sinistra attraverso una procedura una volta ancora incomprensibile ai più. Effetto dell’esito del referendum, di una rivolta contro il dirottamento destrorso del partito, della volontà di riscossa degli iscritti di provenienza comunista, del ritorno al meccanismo proporzionale che favorisce il proliferare di gruppi e gruppuscoli alla ricerca di scampoli di visibilità, ma soprattutto del crescente disgusto per la politica delle parole vuote. Per una gestione che si intuisce manovrata nell’ombra dai veri misteriosi depositari del potere. La democrazia a volte degenera ancor prima di avere raggiunto la massa critica dell’impopolarità. È il caso della Turchia, che ha visto il presidente Recep Tayyit Erdogan approfittare di un tentativo di colpo di stato contro i suoi abusi di potere per renderli legali. Non si è limitato a una spietata repressione in nome dell’ordine, ma ha imposto una riforma costituzionale che gli attribuisce quegli stessi poteri assoluti il cui esercizio aveva provocato la reazione di buona parte della società. E così un regime assai vicino alla tirannide si serve del guscio vuoto della democrazia formale per rendersi presentabile, verificando il teorema di Crouch. Perché la democrazia in sé è considerata intoccabile, degna di quello che gli americani chiamano lip service, un ossequio formale, un riconoscimento tutt’altro che impegnativo. La crisi della politica e la conseguente disaffezione mettono a dura prova chi studia i movimenti d’opinione. Ossessionati dalle masse enigmatiche dei riluttanti e degli indecisi che sfuggono alle loro analisi, i sondaggisti cercano di orientarsi fra le nuove coordinate proposte dalla sfiducia nei partiti. Ma a ben vedere anche loro fanno parte del sistema dei condizionamenti, anche loro contribuiscono alle tristi fortune della postdemocrazia. Nel deteriorato rapporto fra rappresentati e rappresentanti si smarrisce il nocciolo autentico della questione politica, la cura e il miglioramento della società. In un quadro che vede dissolversi la polarizzazione destra-sinistra sono in gioco valori e interessi, i motori della storia. Ma sempre più le opinioni pubbliche sentono i propri interessi ignorati dalle classi dirigenti. Quanto ai valori, non ci si raccapezzano più.
Lula condannato per corruzione Brasile L’ex presidente ricorrerà in appello contro la sentenza a nove anni e mezzo di carcere,
che potrebbe impedirgli di ricandidarsi l’anno prossimo Angela Nocioni Stravolge la politica brasiliana la condanna in primo grado dell’ex presidente della repubblica Lula Da Silva a nove anni e sei mesi di carcere per corruzione e per riciclaggio pronunciata l’11 luglio a Curitiba. Nonostante la notizia fosse data per imminente da mesi, nonostante la grande copertura mediatica dell’inchiesta «Lava Jato» (autolavaggio) sul sistema di corruzione degli appalti pubblici e finanziamento occulto ai partiti abbia preannunciato l’esito della prima istanza del processo contro Lula già da tempo, l’uscita della sentenza ha scosso come un sisma lo scenario già terremotato della crisi politica brasiliana. Per il momento Lula non andrà in prigione. Solo se la sentenza d’appello confermerà il giudizio pronunciato dal giudice Sergio Moro, instancabile accusatore di Lula, potrà scattare l’arresto. E non è detto. Il Superiore tribunale di giustizia ha chiarito che solo se all’unanimità i tre giudici del secondo grado confermassero il giudizio di condanna potrebbe scattare l’arresto. In caso ci fosse
anche un solo voto contrario, l’appello non potrebbe essere considerato concluso, quindi non potrebbe avvenire l’arresto. La questione è fondamentale per il futuro degli scenari politici brasiliani perché l’ex presidente è da mesi, secondo tutti i sondaggi, il favorito alle elezioni presidenziali dell’ottobre 2018. Una volta confermata in appello la sentenza, scatterebbe per lui la revoca del diritto all’elettorato passivo. Addio candidatura. Potrebbe verificarsi il caso opposto: un’assoluzione al tribunale di secondo grado. Il Tribunale d’appello che passa in rassegna le sentenze della procura di Curitiba, emesse dal giudice Moro, è il tribunale di Porto Alegre, che finora ha bocciato il 54 per cento delle sentenze di Moro nell’inchiesta Lava Jato. Un ribaltamento della sentenza di Moro a ridosso delle elezioni porterebbe probabilmente Lula in volata alla rielezione. Lui ha già detto che si candida. «Se qualcuno pensa che questa sentenza mi abbia messo fuori gioco, sappia che io sono in gioco» è stato il suo commento alla condanna. Molto probabile è una terza via: un giudizio di condanna confermato, ma
non all’unanimità. È questo, perlomeno, lo scenario al quale la difesa di Lula si sta preparando. Il Tribunale di secondo grado ha fatto sapere di voler esprimersi prima delle prossime elezioni, ma non ha potuto dire ovviamente quando. Gli avvocati dell’ex presidente puntano a riuscire a far slittare la sentenza a dopo il 15 giugno 2018, data di inizio delle convention per la nomina dei candidati. Se arrivasse a quel punto una sentenza di conferma di condanna, ma non unanime, non potrebbe scattare la legge che impedisce al condannato di candidarsi e Lula punterebbe tutto allora sulla elezione. La sentenza contro Lula – che sessanta giuristi lulisti stanno smontando riga per riga per farne un libro su «come non si fa una sentenza» con cui stroncare il lavoro di Moro – nasce da un caso minore dei cinque in cui Lula appare come accusato: i lavori per la ristrutturazione di un attico, in una località balneare del litorale di San Paolo. Quella ristrutturazione, secondo i giudici, nasconderebbe il pagamento di una tangente di 3,7 milioni di reais brasiliani, circa un milione di euro, da parte di una impresa di costruzioni, La
Oas, beneficiata dal sistema di tangenti di cui Lula è considerato essere stato perfettamente a conoscenza. La difesa dell’ex presidente contesta, tra moltissimi rilievi, il fatto che la proprietà di quell’appartamento non può esser fatta risalire a Lula in alcun modo visto che non esiste un documento di proprietà, un atto di compravendita, nulla. Moro risponde che «nei reati di riciclaggio il giudice non può attenersi unicamente alla titolarità formale dei beni» sostenendo che quell’attico fosse di fatto a disposizione dell’ex presidente. Che, però, non l’ha mai abitato nemmeno per un giorno. Il primo effetto collaterale della sentenza Moro è stato la resurrezione politica di Marina Silva, l’ecologista radicale che uscì dal primo governo Lula in polemica contro la deforestazione dell’Amazzonia. La Silva, che tutti i sondaggi fino alla settimana scorsa davano come l’unica candidata in grado di battere Lula al ballottaggio (su di lei convergerebbero i voti della sinistra anti Lula, più quelli della destra) è rimasta negli ultimi mesi in disparte. Da qualche giorno sta invece mobilitando Rede, il partitino da lei creato per par-
tecipare alle ultime elezioni, preparando i suoi a mettere in piedi la campagna elettorale. Scrive la «Folha de Sao Paulo»: «Il giorno dopo la condanna dell’ex presidente, Marina Silva ha chiamato i leader di Rede al Congresso per parlare dei programmi del 2018. Fino ad adesso enigmatica sulla sua disponibilità a correre per il Planalto, vuole ora allestire una sua agenda da candidata». Tutto ciò avviene in un momento di gravissima crisi istituzionale e politica del Brasile. Dopo l’impeachment per una pedalata fiscale, reato amministrativo e non penale, che a fine agosto dell’anno scorso cacciò dal Planalto la presidente Dilma Rousseff, Michel Temer (il vice che ha preso il suo posto, ultradestra conservatrice) rischia di essere cacciato dalla presidenza per reati ben più pesanti di quelli attribuiti a Dilma, di cui si dice innocente, compiuti secondo l’accusa in vari casi di corruzione.
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Politica e Economia
Lavoriamo meno, ma con maggiore produttività
Statistica Le ore lavorative in Svizzera sono poco più di quelle francesi, nonostante la Francia abbia adottato
la settimana di 35 ore: rispetto al 1950, la produttività da noi è migliorata di quasi cinque volte
Ignazio Bonoli Il popolo svizzero e i molti stranieri che operano nel nostro paese sono da sempre considerati come solerti lavoratori. In passato, le classifiche sulle ore lavorate in settimana li ponevano sempre in testa fra i paesi europei e a buon livello anche nei confronti mondiali. Oggi però la situazione sembra cambiata, nonostante alcuni lavoratori nel nostro paese abbiano persino aumentato le ore di lavoro, senza aumento di stipendio, per far fronte, nell’industria, alla svalutazione dell’euro nei confronti del franco. Secondo uno studio dell’Istituto di ricerca del Politecnico federale di Zurigo (KOF), le ore di lavoro prestate in Svizzera sarebbero diminuite di un terzo rispetto al 1950. Oggi, infatti, una persona in Svizzera lavora in media 1562 ore all’anno. Nel 1950 le ore lavorate in media dalla persona presa a confronto erano 2400. Le vacanze erano limitate a due settimane, i giorni festivi ufficiali erano cinque e il sabato era considerato giorno lavorativo. Solo un dipendente su sette poteva godere del sabato libero. Oggi la situazione, anche nel campo lavorativo, è molto diversa. Le settimane di vacanza sono salite in media a 5,2 all’anno e le giornate festive ufficiali sono diventate nove. Il sabato libero è
ormai largamente diffuso, così come i «ponti» a ridosso delle giornate festive infrasettimanali. La massiccia riduzione del tempo di lavoro, commenta il KOF, è significativa dell’aumentato benessere nella nostra società. Da notare che in Svizzera – a differenza di molti altri paesi – le ore di lavoro non sono decretate per legge dallo Stato, ma sono frutto di accordi codificati nei contratti collettivi di lavoro. L’orario settimanale negli anni cinquanta era di 49 ore,ma nella ristorazione poteva raggiungere perfino le 52 ore. Oggi le ore di lavoro settimanale sono scese di regola sotto le 42 ore ed è molto cresciuto il numero di coloro che non lavorano più a tempo pieno. Tra le donne il lavoro a tempo pieno è ormai limitato al 41 per cento delle dipendenti, mentre anche fra gli uomini la proporzione è scesa all’83 per cento. Comunque, per la statistica, anche un lavoro a mezza giornata conta come un tempo pieno. Non solo in Svizzera, ma anche a livello internazionale, le statistiche del lavoro riservano qualche sorpresa. In molti paesi le ore di lavoro sono superiori. Negli Stati Uniti si lavorano 1770 ore all’anno. In testa alla graduatoria mondiale non figurano più i giapponesi, ma i coreani. Nella Corea del sud si lavora per 2213 ora all’anno. L’ultima volta che in Svizzera si è raggiunta una
Nel 1950 si lavorava in media per 2400 ore l’anno: oggi sono 1562. (Keystone)
simile mole di lavoro era il 1966. Perfino in Francia, dove si pratica la settimana di 35 ore, le ore effettive di lavoro sono solo 90 di meno di quelle svizzere, cioè mezz’ora al giorno di meno che nel nostro paese. In Francia, proprio a causa delle 35 ore settimanali, il lavoro a tempo par-
ziale è molto ridotto ed è della metà di quello svizzero, che tocca ormai il 37 per cento. Un po’ ovunque, nei paesi industrializzati, la tendenza all’aumento del tempo libero è molto diffusa. Tuttavia, soprattutto presso le piccole e medie aziende, si constata una forte tendenza al ricorso alle ore supplementari.
Il che provoca un aumento del costo del lavoro e raramente raggiunge l’obiettivo di una diminuzione della disoccupazione. Il fatto che in Svizzera si possa ottenere un aumento del benessere nonostante la riduzione dei tempi di lavoro è dovuto a un aumento della produttività del lavoro. Nel 1950 il prodotto interno lordo per ora di lavoro era di 4 franchi, il che, riferito al potere d’acquisto di oggi, significa 18 franchi circa. Oggi questa cifra si è moltiplicata quasi per cinque e raggiunge gli 85 franchi. Una produttività che permette non solo di ridurre i tempi di lavoro, ma anche di prolungare quelli del pensionamento, come sta avvenendo in questi anni. Se nel 1950 soltanto un lavoratore su due raggiungeva l’età di pensionamento, oggi lo fanno il 90 per cento degli uomini e il 94 per cento delle donne. Tuttavia la pressione per l’efficienza nel lavoro è aumentata e provoca situazioni di stress, nonostante la riduzione dei tempi di lavoro. Il fenomeno è dovuto – secondo il professor George Sheldon dell’Università di Basilea – in parte alle difficoltà di separare l’attività lavorativa da quella privata e in parte al tenore di vita, diventato sempre più esigente. Lavoriamo di meno, ma cresce la sensazione di non avere abbastanza tempo. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
L’economia europea è in fase di ripresa. Quando arriva la svolta dei tassi? La consulenza della Banca Migros
Christoph Sax
La crescita in Europa accelera 4° trimestre 2016 1° trimestre 2017
1.0% 0.8% 0.6% 0.4% 0.2% 0.0% Crescita del PIL rispetto al trimestre precedente.
Spagna Germania Francia
di misure anticonvenzionali, tra le quali spiccano gli interessi negativi e gli acquisti di titoli di Stato su larga scala. Entrambi i provvedimenti mirano a stimolare gli investimenti da parte delle aziende. Ci aspettiamo che la BCE sia molto cauta nel modificare la propria politica,
Italia
Eurozona Giappone Svizzera
in modo da non rischiare di compromettere la ripresa economica. Il primo passo sarà porre gradualmente fine all’acquisto dei titoli di Stato nel corso del 2018. Un aumento del tasso di riferimento non verrà preso in considerazione prima dell’inizio del 2019. Al momento non si profilano dunque
USA Regno Unito
Fonte: Bloomberg
Christoph Sax, capo economista della Banca Migros
La ripresa dell’eurozona continua a rafforzarsi. Attualmente l’Unione monetaria evidenzia una crescita economica superiore rispetto a tutti gli altri Paesi industrializzati. Nel primo trimestre del 2017 si è registrato un aumento del prodotto interno lordo (PIL) pari allo 0,6% rispetto ai tre mesi precedenti. Su base annua corrisponderebbe a una crescita dell’1,9%. È particolarmente positivo il fatto che la ripresa dell’eurozona non sia da ascrivere esclusivamente alla Germania. Nonostante i nostri vicini del Nord rappresentino un’importante forza trainante, la situazione è migliorata anche nella maggior parte degli altri Paesi membri, con progressi che interessano ad esempio anche Spagna e Italia. I consumatori e le aziende europee guardano al futuro con rinnovato ottimismo: il pericolo di una crisi politica si è attenuato e, anche grazie alla ripresa del commercio internazionale, i dati sugli ordini appaiono incoraggianti. Con il miglioramento della situazione economica anche la normalizzazione della politica monetaria appare sempre più vicina. Ormai da anni la Banca centrale europea (BCE) sostiene l’economia europea attuando una serie
novità per la Banca nazionale svizzera, che può alzare il tasso di riferimento solo dopo la BCE. Se agisse in anticipo, ne risulterebbe infatti un indesiderato apprezzamento del franco sull’euro, dovuto ai tassi d’interesse diventati più convenienti in Svizzera rispetto all’eurozona. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La congiuntura e le finanze pubbliche Sono appena stati pubblicati i risultati finanziari ottenuti dai comuni ticinesi nel 2015. L’occasione è buona per verificare come evolve nel tempo il risultato d’esercizio dei nostri comuni e compararlo con l’evoluzione dell’avanzo/disavanzo del Cantone. È anche una buona occasione per esaminare in che misura la congiuntura economica influenzi l’evoluzione della gestione dei nostri enti pubblici e vedere se sia vero, come viene sovente criticato, che lo Stato (in questo caso i Cantoni e i Comuni) gestisce le sue risorse finanziarie in modo anticongiunturale. Una politica finanziaria anticongiunturale dovrebbe influenzare soprattutto la spesa dello Stato facendola aumentare in misura più che proporzionale quando la congiuntura è bassa, mentre negli anni di forte crescita lo Stato cercherebbe di contenere l’aumento della spesa entro tassi bassi. C’è da
credere che uno Stato che gestisca la sua finanza in modo anticongiunturale avrà disavanzi nei periodi di bassa congiuntura e avanzi di una certa consistenza in quelli di alta congiuntura. La curva del risultato d’esercizio degli enti pubblici dovrebbe quindi essere parallela a quella del tasso di variazione annuale del Pil. Ma cominciamo dal risultato finanziario dei Comuni ticinesi che, nel 2015, è stato positivo, aggirandosi sui 22 milioni di franchi. Questo risultato è influenzato tra l’altro dal fatto che la città di Lugano, che si era trovata largamente nelle cifre rosse nel 2014, è riuscita, l’anno seguente, ad arginare il suo disavanzo in poche decine di migliaia di franchi. Se consideriamo l’evoluzione degli ultimi dieci anni troviamo quasi sempre, per l’insieme dei comuni, un avanzo d’esercizio di qualche milione di franchi. Come scrive il Municipio di Locarno
nel suo sito «Come accade per un’economia domestica, anche in seno a un Comune la buona gestione delle finanze è la premessa indispensabile per assicurare l’ottimale andamento delle cose ai vari livelli». Quella dei nostri Comuni è dunque una gestione meticolosa delle risorse finanziarie, attenta ad evitare ogni e qualsiasi disavanzo. Dovessimo rappresentare su un grafico il risultato finanziario, raggiunto dall’insieme dei Comuni, nel periodo 2004-2015, otterremmo una curva che oscilla attorno a zero con solo due eccezioni notevoli: gli anni 2010 e 2011 nei quali l’insieme dei Comuni realizzò un avanzo superiore ai 50 milioni di franchi. Nessuna relazione quindi tra questa curva e quella della congiuntura economica. Molto diverso è invece il caso delle finanze cantonali. Con due sole eccezioni, il 2005 e il 2009, il Cantone, durante il
periodo esaminato, non ha conosciuto che disavanzi nel conto d’esercizio. A guardare la curva dei risultati finanziari del Cantone nel periodo 2004-2015 si riconosce però l’esistenza di un ciclo della finanza pubblica. Dal 2004 al 2010 questa curva assume (con l’eccezione del 2006) la forma di una U inversa e segna quindi una fase di forte miglioramento fino al 2008 per poi entrare in una fase di peggioramento fino al 2013. Toccato il punto più basso la curva dei risultati ricomincia a salire nel 2014 ma, purtroppo, finora, non è ancora uscita dalla zona dei disavanzi. Questo andamento ciclico non è unico. Anche la curva dei risultati d’esercizio dell’insieme dei Cantoni svizzeri conosce queste tre fasi. La differenza tra il Ticino e gli altri Cantoni è che il Ticino durante questi dodici anni non ha mai realizzato avanzi di esercizio importanti. È quasi come se,
nella corsa al risultato d’esercizio positivo, il Cantone Ticino avesse, rispetto agli altri Cantoni, un handicap di partenza di almeno una cinquantina di milioni. E la congiuntura economica in tutto questo che ruolo gioca? È facile dimostrare che esiste una correlazione significativa tra la variazione annuale del Pil nominale e il risultato d’esercizio dei Cantoni due anni dopo. È però difficile dire se questa correlazione sia dovuta al fatto che i Cantoni adottano volentieri una politica del disavanzo, quando la congiuntura non tira, oppure, più semplicemente, al fatto che, quando l’economia è in recessione, i ricavi fiscali tendono a stagnare. Probabilmente il risultato finanziario dei periodi di magra economica è determinato da ambedue questi fattori. Non aspettatevi quindi un avanzo nel risultato d’esercizio del Canton Ticino per il 2017!
l’educazione, la gentilezza di molti degli studenti stranieri, o figli di immigrati, allora penso che, ancora una volta, la politica che non riesce ad approvare lo ius soli è molti passi indietro rispetto alla realtà. L’Italia vive il dramma della disoccupazione intellettuale, dei laureati che restano precari a vita, perché investe
troppo poco in cultura, ricerca, istruzione, università, e anche spettacolo. Bisogna avere però il coraggio di riconoscere che, se molti giovani non lavorano, la colpa è anche un po’ loro. Non è vero che gli stranieri fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare, tipo raccogliere i pomodori o pulire le case. O, meglio, la gamma dei lavori che si preferisce evitare si è molto ampliata. Ad esempio non si trova un cameriere o un cuoco italiano. E presto i figli degli immigrati, che hanno più «fame», faranno l’avvocato, il medico, e ovviamente il giornalista. Un adolescente dell’Italia (e dell’Europa) di oggi è l’uomo più fortunato della storia. Anche se nato in una famiglia impoverita dalla crisi, ha infinitamente più cose e più opportunità di un ragazzo di qualsiasi generazione cresciuta nel Novecento. Vive in una casa riscaldata, illuminata, con il bagno e l’acqua corrente, che i miei bisnonni da ragazzi avrebbero osservato con la bocca spalancata dallo stupore. Ha un motorino o una macchinina o l’abbonamento a una rete di trasporti pubblici che nelle grandi città include
la metropolitana, mentre i miei nonni erano troppo poveri per avere anche solo una bicicletta e pagarsi il biglietto della corriera. Va al mare, in campeggio, in discoteca, all’estero su voli low cost, ai fast-food o nei ristoranti etnici dove mangia piatti esotici: tutte cose che i miei genitori non conoscevano o non potevano permettersi. Ha la tv a colori con decine di programmi a qualsiasi ora del giorno e della notte, un computer connesso potenzialmente con il mondo intero, il telefonino con cui scaricare qualsiasi canzone o film immaginabile, una varietà di social network per ritrovare i vecchi amici o entrare in contatto con gli sconosciuti. Noi, quando eravamo ragazzi tra gli anni 60 e 70, avevamo la tv in bianco e nero, aspettavamo con ansia (al Nord) il sabato sera per vedere i cartoni animati della tv svizzera, ascoltavamo per ore le prime radio libere nella speranza che trasmettessero una canzone familiare. Ma ora è di moda il lamento: «Ci stanno rubando il futuro!». I ragazzi però dovrebbero sapere che il futuro è nelle nostre mani. In particolare nelle loro.
In&outlet di Aldo Cazzullo La precarietà non è obbligatoria Gli ultimi dati sulla disoccupazione giovanile in Italia sono drammatici. Un milione di ragazzi non studiano, non si formano, non hanno un lavoro e neppure lo cercano. In queste condizioni, il reddito di cittadinanza – dare quasi mille euro a tutti in cambio di nulla – sarebbe un’autentica follia. Eppure è una proposta che viene presa sul serio.
La responsabilità di una statistica così deprimente è in primo luogo di noi adulti. Forse abbiamo illuso i nostri giovani con l’idea di una società sempre in espansione, in progresso, con lavoro ben remunerati, creativi, non noiosi, «smart». Non è andata così. Però quando vedo la volontà di imparare e di lavorare,
Nonostante le difficoltà, i giovani hanno più opportunità di un tempo. (Marka)
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Educazione civica: l’obiettivo è l’egemonia culturale Educazione civica sì o no? Sì, naturalmente, nessuno ha mai messo in dubbio questa necessità. Il titolo dell’ultima iniziativa generica è infatti fuorviante: «Educhiamo i giovani alla cittadinanza (diritti e doveri)». Ancora più incomprensibile è la denominazione che si vorrebbe dare alla nuova materia d’insegnamento: «Educazione civica, alla Cittadinanza e alla Democrazia Diretta» (almeno due ore al mese nelle scuole medie con voto). Viviamo forse in un regime di democrazia diretta? No, quello svizzero è un sistema semi-diretto, in cui il momento rappresentativo non ha un valore inferiore al voto espresso nell’urna dal cittadino. Già qui vi si potrebbe leggere un ammiccamento al «grillismo» oggi arrembante: screditare i parlamenti (riserva protetta della «casta politica») permette sempre di raccogliere qualche consenso.
La diatriba non è nuova. Come dimostra un saggio di Marcello Ostinelli pubblicato nel n. 160 dell’Archivio Storico Ticinese, la questione era già emersa all’epoca della Rigenerazione, negli anni 30 dell’Ottocento, fase in cui Franscini rifletteva su come avvicinare i ticinesi dall’indole rissaiola alla patria comune. Basta un’istruzione fondata su un catalogo di diritti e doveri, oppure occorre introdurre un’educazione ispirata alle virtù repubblicane? Il leventinese era per la seconda opzione, ovviamente, ma si scontrava con una controparte, dagli austriacanti alla Chiesa, che non intendeva cedere porzioni di potere alle classi plebee: l’ignoranza era il miglior guardiano dell’ordine gerarchico costituito. Anche il radicale Brenno Bertoni, sul finire del secolo, si pose il quesito, dandosi questa risposta: «La civica non dovrebbe entrare nella scuola primaria
come materia speciale, ma piuttosto come parte integrante del libro di lettura, delle lezioni di cose, e dell’insegnamento geografico». Non elenchi di nozioni, dunque, mandati a memoria e presto dimenticati, ma un ragionamento sulle «cose», vale a dire sui processi reali della politica, dall’organizzazione comunale all’edificio confederale. Bertoni non si limitò ad enunciare dei princìpi pedagogici, ma si mise alla scrivania, redigendo un buon numero di «lezioncine» che alla fine confluirono nel manualetto Frassineto, ben noto alla generazione dei nostri padri. Motto (ripreso dal radicale neocastellano Numa Droz): «La democrazia senza l’educazione popolare è un flagello». Nel frattempo altri prontuari erano entrati nelle aule scolastiche, non tutti accettati di buon grado da famiglie e partiti. Ricordiamo qui il Libro del cittadino, promosso nel secondo
dopoguerra da Guido Calgari, con contributi di Piero Bianconi, Egidio Reale (già esule italiano al tempo del fascismo), Brenno Galli, Giuseppe Lepori, Elmo Patocchi, nonché il più volte riedito Il cittadino di RegolattiDonini. Testi che oggi consideriamo superati, soprattutto per l’aspetto didattico, ma che nascevano dentro una «forma mentis» storica: scaturivano infatti dalla consapevolezza che le istituzioni non s’erano formate dentro un vuoto pneumatico, ma nel trambusto di idee, riforme, conflitti, opposizioni, rivoluzioni e restaurazioni. Non ha dunque senso, come fa l’iniziativa, contrapporre la civica alla storia, ossia sottrarre ore all’insegnamento della storia per assemblare una disciplina autonoma. Ogni ricostruzione del pensiero politico – dal classico Sabine ai manuali di Giorgio Galli – si fonda su una solida conoscenza
del passato, dei suoi passaggi e snodi fondamentali, senza i quali non si comprende la logica delle conquiste civili, come pure le sconfitte, gli arretramenti, i passi falsi. Ben si comprende quindi la reazione dell’Associazione dei docenti di storia Atis, che si vedono affibbiare una camicia di forza supplementare, giacché – giriamola come vogliamo – alla fine saranno sempre loro ad occuparsi delle due ore di educazione alla cittadinanza. Si potrà dire che se non è zuppa è pan bagnato, con alcuni oneri burocratici in più da caricare sulle spalle dei recalcitranti insegnanti. Ma intanto il centro-destra ticinese, dalla Lega all’Udc, potrà collocare un altro trofeo nella sua bacheca, sventolare un nuovo gagliardetto vittorioso sul proscenio bellico-simbolico in cui oggi si svolgono le battaglie per l’egemonia culturale.
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Cultura e Spettacoli Il ritorno di Roger Waters Nonostante un’amarezza difficile da dissimulare, l’artista britannico nel suo nuovo album non è del tutto disilluso
La scrittrice più omaggiata In occasione del bicentenario dalla morte la grande e intramontabile Jane Austen è finita sulle banconote da 10 sterline
Il tempo nelle immagini Alla ConsArc di Chiasso una piccola ma preziosa mostra sulla cronofotografia pagina 37
pagina 35
pagina 33
Ingmar Bergman insieme alla moglie Käbi Laretei e il figlio Daniel in un’immagine del 1960. (Keystone)
I sogni della vergogna
Anniversari A dieci anni dalla morte, ricordare Ingmar Bergman attraverso un suo film Daniele Bernardi Sarebbe troppo facile – e inutile – commemorare Ingmar Bergman (Uppsala, 1918 – Fårö, 2007) come il regista de Il settimo sigillo (1956) e Il posto delle fragole (1957). Se questo pretesto degli anniversari ha un senso, è forse quello di mettere in luce il vissuto artistico da una diversa prospettiva, o quello di cogliere l’occasione per sfilare, dai cassetti del passato, oggetti inconsueti, dimenticati – e, chissà perché, oggi poco valorizzati. Il grande regista svedese – che, non va dimenticato, fu innanzitutto un uomo di palcoscenico e, al contempo, un cineasta – non è «solo» l’autore di notissimi film quali Sussurri e grida (1971), Sinfonia d’autunno (1977) e Fanny e Alexander (1982). Nella sua intensa carriera Bergman ha diretto teatri, messo in scena pièce e, pure, prodotto alcune pellicole ora meno considerate. È questo il caso, credo, de La vergogna – del 1968, con due importanti protagonisti dell’universo bergmaniano (Liv
Ullmann e Max Von Sydow) e vincitore, all’epoca, di svariati riconoscimenti. La storia è semplice è scarna: una coppia di ex-musicisti, Jan ed Eva, vive su un’isola mentre sulla terraferma imperversa la guerra. Da principio, questa sembra essere solo una lontana eco: le notizie dei media sono confuse e, ancora, non si comprendono gli sviluppi del conflitto. Man mano però, attraverso tanti piccoli segni, qualcosa pare penetrare dentro alle esistenze degli abitanti: gli autoblindo sfilano massicci nelle vie; l’esercito si palesa chiamando alle armi i cittadini; la gente, che spesso preferisce non pensare e, soprattutto, non parlare, si fa inquieta (è quel che dice il fragile Jan all’inizio del film: meglio non saperne niente). Ma la guerra arriva. Se c’è un aspetto preminente del film, assieme alla potenza delle immagini fotografate da Sven Nykvist, è il sonoro: dallo stridere dei titoli di testa, al trillare disturbante del telefono, al rintocco ossessivo di una campana, fino ad arrivare allo sconquasso dei bombardamenti e alle fiamme, il rumore pare do-
minare il destino dei coniugi – sempre Jan, mentre l’aviazione si accanisce e il nemico è ovunque, crederà di impazzire a causa del frastuono (non si dimentichi il mestiere dei protagonisti: musicisti). Lo svolgersi de La vergogna (che nell’originale si intitola solo Skammen, senza l’articolo) è interamente concentrato sul corrompersi della relazione inscindibile tra la Ullmann – apparentemente più forte – e Von Sydow: quindi sulla «piccola guerra», come la chiamò lo stesso Bergman nel suo libro Immagini (Garzanti, 1992), in cui «la confusione è totale e dove nessuno sa niente». Questo contorcersi degli affetti, infatti, sembra essere il riflesso particolare del grande annientamento. Bergman dava profonda importanza ai propri sogni (alcuni di questi, identici, appaiono nei suoi film) e pure La vergogna, da principio, era infatti pensato come I sogni della vergogna. Per quale ragione? Mentre viene trattenuta dall’esercito in attesa di un interrogatorio, Liv Ullmann confiderà di sentirsi come il personaggio di un sogno, ma un
sogno non suo, di un altro: cosa sarà di noi, dice, quando questo «altro» si sveglierà e si vergognerà del proprio sogno? Forse Bergman, involontariamente, voleva ricordare quanto l’inconscio, che contiene parti sostanziali di noi stessi, indichi anche la radice inaccettabile delle nostre pulsioni? La guerra che ci offre, come la peste di Antonin Artaud, è un evento disvelante: i ruoli si rovesciano: il più debole diviene il più feroce e chi, al contrario, sembrava saldo crolla di fronte alla natura manifesta della crudeltà. E in effetti, non è forse questo ciò che mostra la persona di Jan? Un indifeso che, di fronte al vendersi della compagna al borgomastro, coglie senza indugio l’occasione per giustiziare quest’ultimo come collaborazionista; un «innocente» che uccide un giovane disertore per rubargli il posto sulla barca che potrebbe trarlo in salvo, lontano dall’isola. Bergman sosteneva che, «nel mondo degli incubi», era uno «di casa»; e come un incubo, «per immagini», aveva narrato questa storia. Aggiungeva
anche, in una testimonianza, di concepire l’inferno come un luogo pieno di luce, bianco, offuscato da un chiarore abbacinante, senza nubi. Lo conferma l’ambientazione della scena conclusiva del film: ormai imbarcati, non più in grado di parlare, i due viaggiano coi profughi in mezzo all’acqua. Attorno picchia un sole cocente. D’improvviso, la barca si incaglia: Max Von Sydow si sporge oltre il bordo e scorge, sul pelo dello specchio, l’affiorare di una catena di cadaveri. Invano, i fuggiaschi tentano di muovere l’imbarcazione ma i remi arrancano sui corpi. Mentre il gruppo resta a bruciare tra la scarsità delle onde, la Ullmann rammenta ancora un sogno e il perduto desiderio di avere un figlio. Nell’era della guerra in Siria, degli attentati suicidi e delle migrazioni che affollano un Mediterraneo in cui nuotano le salme, non è forse questa la vergogna che qualcuno sogna? Non potrebbe risiedere in questa pellicola la sulfurea attualità di un Ingmar Bergman oggi meno noto?
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Cultura e Spettacoli
Vacanze d’arte in tutta Europa Estate in mostra / 2 Alcune proposte estive
di esposizioni d’arte curiosando in provincia fra Francia, Germania e Italia
Concetti efficaci
Musica Protesta in chiave intimista: l’attesissimo ritorno
sulle scene dell’indimenticato Roger Waters ci offre un album amaro e impegnato, ma non ancora completamente disilluso Benedicta Froelich
Emanuela Burgazzoli Da non mancare se viaggiate attraverso il Sud della Francia: l’esposizione dedicata ad Alice Neel, una delle pittrici più importanti del Novecento negli Stati Uniti, scoperta e celebrata soltanto negli anni Sessanta. Mentre l’arte americana si converte all’astrazione e ai nuovi linguaggi dell’informale e del minimalismo, Neel (scomparsa nel 1984) colleziona con un’asprezza espressionista volti e corpi, una lunga serie di ritratti che documentano i cambiamenti sociali e politici di quei decenni. Significativo un impietoso ritratto di Andy Warhol, una delle oltre 70 tele esposte alla Fondazione Van Gogh di Arles fino al 17 settembre. Fondazione che ospita – per inciso – anche sei tele di Van Gogh provenienti dalla collezione Bührle. In Normandia Rouen rende omaggio a Picasso facendo scoprire al pubblico per la prima volta i cinque anni che il maestro spagnolo ha trascorso nel suo castello di Boisgeloup, vicino a Gisors fra il 1930 e il 1935, castello che sarà eccezionalmente aperto al pubblico per l’occasione. Tre mostre in tre musei cittadini per scoprire il suo atelier – arredato temporaneamente con le opere dell’artista americano Joe Bradley – ma anche le sculture in ferro e le ceramiche. A Rennes fino al 3 settembre, un’occasione di conoscere meglio Camille Godet, il più importante pittore bretone del XX secolo, noto anche come illustratore della «grande guerra». I disegni e gli schizzi di quel periodo costituiscono infatti una preziosa fonte storica sulla
The Faez Family, Rehovot, 2009, foto di Thomas Struth. (Thomas Struth)
vita quotidiana dei soldati. Ma di Godet, di cui il museo d’arte cittadino possiede il più ricco nucleo di opere in collezione pubblica, è conosciuto anche per i suoi paesaggi e le scene di vita operaia, in cui rieccheggia la lezione impressionista. Per chi viaggia in Germania, due segnalazioni: ad Amburgo, alla Deichtorhalle fino al 10 settembre è visibile l’esposizione dedicata a uno dei massimi esponenti della videoarte, definito anche il «Rembrandt» dell’era digitale, l’americano Bill Viola. Tredici videoinstallazioni, alcune di queste monumentali – oltre 10 metri di altezza. Una mostra proposta nell’ambito dei 500 anni della Riforma protestante perché i temi e il linguaggio di Viola rappresentano una forma di spiritualità nell’arte del XXI secolo. A Monaco invece alla Haus der Kunst sono di scena le fotografie di Thomas Struth fino al 17 settembre: con oltre 130 opere è la più ricca antologica dedicata all’artista tedesco, autore delle celebri «Museumbilder» in cui ha reso osservati gli osservanti, ovvero il pubblico dei grandi musei. Una mostra che presenta lavori giovanili mai esposti e materiale proveniente dall’archivio personale di Struth. Anche in Italia i centri di provincia promettono mostre preziose e sorprendenti: come a Spoleto dove fino al 1. ottobre sarà possibile ammirare i disegni e i bozzetti per il teatro realizzati da un giovanissimo Domenico Gnoli, pittore italiano scomparso a soli 37 anni nel 1970 e noto soprattutto per la sua produzione di dipinti fra il genere metafisico e l’iperrealismo, in cui ingrandiva i dettagli di oggetti quotidiani come il collo di una camicia. Appena fuori Parma si può fare tappa in due luoghi di grande interesse architettonico e culturale: a Fontanellato il Labirinto della Masone di Franco Maria Ricci che espone fino al 24 settembre Carlo Mattioli, un raffinato pittore figurativo che «ha superato la soglia fissata da Morandi a ogni possibile paesaggio italiano contemporaneo». Infine alla Fondazione Magnani Rocca, a Mamiano di Traversetolo, un dialogo fra due grandi maestri: Giorgio Morandi e Paul Cézanne, di cui la fondazione ha ottenuto per la prima volta il dipinto le Baigneurs (1890-94) dal Museo Puskin di Mosca.
Non c’è bisogno di essere degli esperti per rendersi conto di quali e quante aspettative possano, oggigiorno, circondare qualsiasi ritorno sulle scene internazionali di un nome dal «pedigree rock» invidiabile quale quello di Roger Waters – l’uomo che, insieme a David Gilmour, ha costituito per circa vent’anni la mente creativa degli indimenticabili Pink Floyd, per poi dedicarsi a una carriera solista in verità ben poco prolifica. Ecco quindi che l’uscita di questo nuovo e attesissimo Is This the Life We Really Want?, giunto dopo ben dodici anni di silenzio discografico da parte di Roger, ha scatenato ampi dibattiti, anche a causa del carattere «politicamente rilevante» di gran parte dei brani. D’altra parte, un artista con la coscienza sociale viva e vibrante di Waters non avrebbe mai potuto – specialmente in tempi oscuri e contraddittori come quelli attuali – pubblicare un disco che non costituisse, in qualche misura, una personale dichiarazione d’intenti; anche se in realtà, proprio come in passato, la protesta espressa da Roger nelle canzoni di Is This the Life We Really Want? rappresenta un atto di rivolta essenzialmente intimo e personale – una sorta di «rivoluzione interiore», espressa attraverso le liriche e le atmosfere di volta in volta inquietanti e amare del CD, e, forse per questo, perfino più significativa. Ciò che però davvero colpisce chiunque abbia familiarità con l’opera di Waters e dei Pink Floyd è la continuità stilistica del lavoro, evidente fin dal primo brano di lancio, non a caso intitolato Déjà Vu – una ballata tesa e angosciante che ricalca da vicino più di una traccia del memorabile The Final Cut (1983), ultimo album inciso da Roger con i Pink Floyd prima della rancorosa separazione. All’epoca, gli altri membri del gruppo erano esasperati dall’invadenza creativa del collega, il quale, mai ripresosi dal trauma della morte in guerra del padre – già tema principale del precedente The Wall – arrivò a «monopolizzare» la composizione di The Final Cut, facendone (oltre che un capolavoro) il capitolo conclusivo del suo personale contenzioso contro l’apparato bellico e la manipolazione delle masse; e a distanza di oltre trent’anni, Waters sembra più
L’eclettismo di Alice
La musica va in vacanza Dopo anni trascorsi all’estero e dedicati
alla crescita professionale e personale, la musicista è tornata in Ticino Zeno Gabaglio Alice Noris
Nata a Lugano, dopo il liceo ha vissuto a New York e Parigi formandosi in arte drammatica e studiando canto lirico. Nel 2003 si è trasferita a Roma, dove ha cominciato a suonare il trombone conseguendo il diploma jazz al Conservatorio di Santa Cecilia nel 2013. Da diversi anni lavora come musicista, suonando in Europa e negli Stati Uniti in complessi di vario genere: dalla musica etnica con l’Orchestra del 41esimo parallelo (accanto a Nada, Giovanna Marini e Rita Marcotulli) allo streetband funk con i Pink Puffers; dall’improvvisazione radicale alla musica contemporanea di Domenico Guaccero alle canzoni dei cartoni animati con Cristina D’Avena. Recentemente è tornata a vivere in Svizzera, a Bigorio, dove continua la sua attività di stru-
mentista e dove ha costituito l’associazione Materiale Elastico con cui organizza eventi culturali. Nella valigia musicale
1. Scarpe da tip-tap – Se oggi so camminare sui tacchi è perché prima ho imparato a ballarci. Il mio insegnante di recitazione diceva che avevo la grazia di John Wayne, ma penso fosse un complimento. Fred Astaire è stato il mio primo grande amore, volava sopra il ritmo con un timing e un’eleganza impressionanti. Gene Kelly è stato il secondo e poi c’è stato Frank Sinatra, che ho amato in un altro modo, più tardi e più matura. Da bambina avevo una passione per i musical del passato, col tempo ho capito che a catturarmi era il suono delle grandi orchestre che nell’ombra rendevano tutto più bello. 2. Cabaret – Il film musicale di Bob Fosse – con Liza Minelli e le musiche di
Versatile, curiosa e capace di stupire: la musicista ticinese Alice Noris.
John Kander – è un racconto poetico, decadente e grottesco, ma allo stesso tempo brillante e umoristico. Non ha un lieto fine, cosa che io di solito pre-
Un disco di idee semplici ma emozionanti.
che mai legato alle suggestioni di allora, dal momento che questo CD ce lo mostra come totalmente dedito alle stesse atmosfere e contaminazioni stilistiche dei tempi di gloria. Così, se Déjà Vu potrebbe essere un outtake di The Final Cut, altri brani dell’album ricalcano fedelmente il sound di dischi storici dei Pink Floyd (si veda Smell the Roses, incrocio tra le sonorità di The Dark Side of the Moon e quelle di Animals). Purtroppo, però, ciò non riesce a offuscare la sottile, inevitabile pedanteria alla quale Roger non è mai stato del tutto estraneo: infatti, nonostante le lodevoli intenzioni di denuncia sociale che animano brani come la title track Is This the Life We Really Want?, i testi rischiano di apparire a tratti un po’ troppo enfatici e ingenui, quasi come i pensieri «in bianco e nero» di uno studente politicamente impegnato, a cui tuttavia manchino gli strumenti culturali e l’esperienza per interpretare davvero la realtà politica ed economica mondiale. La questione, fortunatamente, cambia con un pezzo ossessivo e crudele quale Picture That, in cui Waters abbandona i toni vagamente da sermone per scattare una brutale istantanea della realtà che ci circonda e che in molti, troppo presi dalla propria piccola dimensione borghese, fingono di non scorgere: «Seguimi fino a un punto lungo il fiume / sono stato venduto per i miei reni, per il mio fegato (…) Non si è mai troppo avidi».
La stessa potenza priva di compromesso e autocompiacimento si ritrova anche in un lento suggestivo «à la Bowie» come The Last Refugee (stilisticamente più innovativo del resto della tracklist), e, soprattutto, nel trittico di brani che, legati tra loro nella miglior tradizione dei rock album anni 60, chiudono in modo magistrale il disco, indicando infine all’ascoltatore, in modo diretto e dolorosamente semplice, quale sia per Roger il punto centrale del discorso – ovvero, la forza dei sentimenti più nobili insiti nell’essere umano, in grado di redimere, tramite l’affetto e l’empatia, anche i peggiori orrori. Forse proprio per questo, gli accenti nettamente romantici di Wait For Her risplendono di innegabile magia, favorita dai versi del poeta palestinese Mahmoud Darwish, a cui le liriche si ispirano; mentre il gran finale, le ballate Oceans Apart e Part of Me Died, costituiscono il punto d’arrivo di quest’idea: «Quella parte che è invidiosa, spietata e subdola / avida, maliziosa, globalizzata, colonialista (…) Quando ti ho incontrato, quella parte di me è morta». E chi scrive non riesce a reprimere una sensazione di grato sollievo davanti alla dimostrazione di come un vecchio leone quale Waters, responsabile di alcune tra le sensazioni più forti che la musica rock ci abbia donato, rimanga in grado di emozionare con concetti tanto semplici, eppure ancora efficaci.
ferisco, ma è all’insegna del The show must go on. Siamo a Berlino, al Kit Kat Club, dove c’è un’orchestrina eccentrica – clarinetti, calze a rete, ottoni e paillettes – con il trombone che, grazie alla sua coulisse, assume un tono comico che non mi dispiace. Mi fa pensare a Giulietta Masina ne La strada di Fellini. Grazie a Cabaret ho iniziato a studiare canto, preparandomi a un’audizione per un riadattamento teatrale. 3. Una gardenia – Ogni signorina ha bisogno di accessori. Billie Holiday portava sempre una gardenia bianca tra i capelli scuri. Talento immenso, voce sensuale e fragile, quel pigro ritardando nel fraseggio, quella rivoluzionaria interpretazione della linea melodica. Billie ha fatto da colonna sonora alla mia vita, per anni, con i suoi colleghi Louis Armstrong, Ella Fitzgerald, Duke Ellington e Benny Goodman; ma anche Charlie Parker, Miles Davis... e più tardi James Brown. Chiusa in camera cercavo le note delle loro melodie sullo strumento, poi ho cominciato a suonare per strada ed è lì che ho imparato a stare sul palco, a entrare in contatto con il pubblico e ad accattivare lo spettatore. Lo spettatore non accattivato per strada semplicemente se ne va, mentre quello che hai saputo attrarre te lo ritrovi in braccio.
4. «In search of the lost riddim» – Conosco l’Africa attraverso la musica, considero i musicisti africani i supereroi della musica, il loro senso del ritmo, le voci profonde e avvolgenti... L’Afrobeat è un genere che mi è sempre piaciuto in modo viscerale, ma questo disco ha un altro stile, qui si mischiano i ritmi e gli strumenti dell’Africa, il colore della kora, dell’hoddu, del tamburo parlante con l’animo caraibico. 5. Lo spartito di «Stripsody» – è la più nota composizione di Cathy Berberian. Scritto per voce sola, la strepitosa voce dell’autrice, è un capolavoro di sperimentazione musicale ancora oggi fresca e curiosa. Cathy – appassionata di fumetti – lo ha scritto unendo con gusto e genialità suoni onomatopeici: sospiri, risate e miagolii si susseguono mentre sullo spartito appaiono disegni ed esclamazioni tipiche dell’animazione: paff, smack, gulp. Un brano di alta classe ma pure molto giocoso, ed è proprio questa doppia natura che intriga. La stessa doppia natura che con la nuova associazione Materiale Elastico vogliamo riproporre, promuovendo appuntamenti dal carattere insolito: musica, arte, cibo, spettacolo, laboratori creativi, viaggi nel tempo e nella materia.
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Cultura e Spettacoli
L’immenso talento di Jane
Letteratura A ben duecento anni dalla morte la grande scrittrice inglese Jane Austen
Un piccolo capolavoro inglese
Mariarosa Mancuso
Swift ci regala un originale romanzo
è più vittima che mai di commemorazioni e veri e propri saccheggi letterari
È segno di vera grandezza sopportare senza consumarsi – né venire a noia – le imitazioni, gli spostamenti di tempo e di luogo (dall’ottocento al duemila, dall’india bollywoodiana ai mormoni), i ribaltamenti, i seguiti, gli omaggi che somigliano a saccheggi, le versioni «dal buco della serratura», i club del libro con tè e pasticcini, i film tratti dai romanzi, i film biografici, i musical, i ribaltamenti di prospettiva, i personaggi secondari promossi a protagonisti, perfino l’invasione degli zombie.
Simona Sala
Potrebbe essere celebrata anche in silenzio, semplicemente leggendo i suoi libri
Ma è proprio necessario renderle omaggio? Un gruppo di fan travestite tiene in mano una banconota da 10 sterline. (Keystone)
A Jane Austen è successa ogni cosa, comprese le volenterose fanciulle che – dopo qualche scaramuccia per conquistare un antipatico di dubbio fascino – sentono il bisogno di trasformare le loro faccende private in romanzetti rosa da definirsi «austeniani» sul risvolto di copertina. A leggerli senza una dritta, infatti, nessuno mai li accosterebbe al genio che dallo scorso 18 luglio, in occasione del bicentenario, ha scalzato il naturalista Charles Darwin sulla banconota da dieci sterline. Il ritratto è sempre lo stesso, tracciato dalla sorella Cassandra – e un pochino ritoccato nei riccioli che spuntano dalla cuffietta e nel naso all’insù. Accanto, in miniatura, la scrittrice al suo tavolino portatile: glielo aveva regalato il padre George, pastore anglicano che l’aveva fatta studiare e cercò all’inizio di farle da agente, con scarso successo. Lei era più brava, con i suoi romanzi mise insieme un centinaio di sterline, prudentemente collocate in banca.
Il rosa e Jane Austen in comune non hanno nulla. Certo, alla fine Elizabeth Bennet e Fitzwilliam Darcy si sposano, ma non è questo l’importante (né è importante sapere se poi vissero felici e contenti, allietati da una schiera di bimbi, e piantatela di ambientare romanzi gialli a Pemberley). I soldi compaiono già nella prima frase – «È verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di una solida fortuna debba essere in cerca di una moglie». Se ne parlerà di continuo. In Orgoglio e pregiudizio come negli altri romanzi della scrittrice, con l’eccezione solo di L’abbazia di Northanger, satira dei romanzi gotici in voga all’epoca tra le signorine in cerca di brividi. Si parla di soldi, e di matrimoni come sistemazione: a quei tempi una signorina i soldi o li ereditava o li sposava (meglio se tutte e due). C’era perfino un «mercato nazionale del matrimonio» – l’espressione è forte, ma non se ne trova una migliore, e comunque non è nostra, l’abbiamo letta in un saggio di Franco Moretti – che si teneva a
Bath. Le signorine da marito e gli scapoli benestanti in cerca di una moglie facevano conoscenza alle terme, oltre che ai balli. «Ho pensato tante volte di scrivere un saggio contro Jane Austen. Ho dovuto rinunciare. Quando comincio a leggerla vado su tutte le furie, ho voglia di disseppellirla e di spaccarle il cranio con la sua stessa tibia». Il lettore furioso è Mark Twain, certo non le manda a dire. Storceva però il naso anche Virginia Woolf – «la più perfetta tra le donne» non è esattamente un complimento – e Charlotte Brontë, che non trova negli scritti di Miss Austen sufficiente energia, entusiasmo, commozione, cuore. In effetti Jane Eyre funziona diversamente, e nessuno oserebbe paragonare quel romanzo a «un giardino ben tenuto». Però sempre di matrimonio come sistemazione si tratta, fermamente voluto dalla fanciulla: da qui il grido vittorioso «lettore, l’ho sposato», dopo che la moglie pazza nascosta in soffitta ha rovinato la prima cerimonia.
Tolti i cuori di pietra, e le scrittrici che con Jane Austen rivaleggiano – mettiamoci anche la vicina di casa che dopo aver letto Orgoglio e pregiudizio dichiarò «che assurdità» – nessuno resiste alla bravura della scrittrice. Alla sua abilità nell’uso di quel che si chiama – scusate il tecnicismo, ma se parlassimo di cucina sarebbero ammesse parole come chiarificare, deglassare, o mantecare – «stile indiretto libero». Certi romanzieri descrivono i personaggi e le loro azioni guardandoli dall’esterno. Altri romanzieri – appunto Virginia Woolf – raccontano quel che succede dentro la testa dei personaggi. I più bravi riescono in un magnifico dentro & fuori. Sembra che stiano osservando da spettatori una situazione. Poi cambiano prospettiva, senza farsi notare, e all’improvviso ci accorgiamo che il punto di vista non appartiene più al romanziere ma a Elizabeth Bennet. E la signorina da marito subito ne approfitta per una risposta o un’osservazione delle sue. Chi non applaude non ama i romanzi.
Come lo leggo Pubblicazioni Istruzioni per l’uso all’indirizzo del lettore consapevole
in un ampio libro della pedagogista e saggista Sandra Tassi Stefano Vassere «Il Lettore non sa ancora che, leggendo Se una notte d’inverno un viaggiatore, verrà coinvolto in una vera e propria rivoluzione culturale. Abituato a farsi catturare dalla copertina e dal titolo, acquista il libro esposto in vetrina tra le novità e si convince che “proprio quello” è ciò che stava cercando». Pochi romanzi sono rimasti nella mente di chi li abbia letti come Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino; ed è probabile che chi abbia letto quel romanzo sia oggi un lettore di romanzi migliore e privilegiato; perché, almeno nella letteratura italiana, a quell’epoca nessun testo aveva messo in scena in modo così incisivo e nuovo il lettore stesso. Se una notte d’inverno è la storia del lettore che sta leggendo, un metaromanzo, un libro sui libri; e in quegli anni è il metalinguaggio narrativo a dare una improvvisa e violenta svolta moderna alla narrativa occidentale. Ora, si comprende chi dica, con fare pensoso e sguardo perso nell’orizzonte, che un romanzo è bello perché racconta una storia meravigliosa e inscena personaggi indimenticabili, e che quello che conta sono le emozioni e il coinvolgimento e che una storia fa pensare e tutto il resto. Sia permesso dire
Narrativa Graham
però che aiuta anche conoscere come un romanzo è fatto e come è fatta una tradizione narrativa, critica e letteraria, il che rimane privilegio di chi si sia dato la pena di studiare un po’; perché è peccato, insomma, non intuire nulla della forma, dello stile, del laboratorio della scrittura di un autore. Come i romanzi iniziano, come vengono introdotti i personaggi, la differenza tra la fabula e l’intreccio, il montaggio, quello che
è chiesto al lettore di integrare e completare. Ci permette peraltro, questo armamentario, di distinguere tra la buona letteratura e la numerosa robaccia; cosa utile, fosse solo a cena con gli amici, quando qualcuno comincia a fare il saputello e a buttare là cose senza dignità. In questa direzione è molto invitante e immediato il titolo di questo Come leggere un romanzo. Diventare lettori consapevoli di Sandra Tassi, una pedagogista che vive a Modena. Il libro è una specie di guida al romanzo che, con piglio pedagogico e non pedante, smonta l’attività di lettura nelle sue componenti che conviene conoscere per dare un nome al piacere del leggere. Quindi: la differenza tra il romanzo tradizionale e quello moderno (quando gli autori hanno appunto capito i meccanismi di base e un po’ ci giocano, con grande gratificazione loro e nostra), il ruolo che il lettore sceglie o è costretto a scegliere, l’incipit o l’inizio dei romanzi, l’entrata dei personaggi, i rapporti continui o discontinui tra il procedere della narrazione e quello delle vicende narrate, il ritmo della scrittura, i generi letterari. Se nel romanzo tradizionale, quello di Dickens per esempio, l’inizio è una specie di entrata in scena teatrale, dove al lettore non rimane altro
che «sedersi davanti al testo», in quello moderno le prime pagine servono a delineare un’«impronta», «il carattere narrativo» di quello che ci aspetta. E non sarà banale stare attenti a come si presenta, se si presenta, un personaggio: «Chiamatemi Ismaele», ci dice il marinaio-baleniere? Ci fidiamo? Ma non si parlava di una balena? No perché ci sono anche i personaggi che sono presentati da altri personaggi, o quelli che sono presentati dal narratore, che non va peraltro confuso con l’autore, che è altra cosa. Tanta roba, conviene sapere. O meglio, tanta roba è forse più gratificante conoscere. Perde molto «piacere della lettura», in concreto, il lettore inconsapevole. «Dove cominciare?», si dirà. Da Calvino, appunto: «Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto».
È un giorno di festa in Inghilterra. Mothering Sunday, la nostra festa della mamma. Siamo nel 1924, si sentono ancora le conseguenze del primo disastroso conflitto mondiale e delle sue ripercussioni nelle biografie private della gente, e questa è la storia di una cameriera intelligente e un poco libertina. Ma è anche la struggente storia di una verità e, soprattutto, del destino. Non doveva certo spiegarcelo Graham Swift, il mondo della servitù, poiché al più tardi da Gosford Park di Robert Altman e da Downtown Abbey ci avevano – e come! – già pensato altri. Ma quando a esserci di mezzo è la servitù inglese, quel popolo spesso sotterraneo, perfettamente gerarchizzato e strutturato che fa da contraltare a un altro mondo per certi aspetti identico, con la sola differenza di essere popolato da gente con i soldi che per questo semplice fatto vive ai piani alti, l’argomento non sembra perdere mai di attualità. E di essere pruriginoso, soprattutto se in mezzo ci sono storie di letto (alla faccia del «Niente sesso, siamo inglesi»). Un giorno di festa, recente opera del 68 enne britannico Graham Swift, attraverso pensieri, ricordi, e molte riflessioni ci regala alcune argute e disincantate considerazioni sulla vita, frutto di quei bilanci che ogni tanto ci tocca fare, e che – purtroppo solo raramente – ci convincono del fatto che la vita forse non vada presa troppo sul serio. Anche perché, piani alti o bassi, le pulsioni rimangono sempre le stesse, così come l’eterno gioco a rimpiattino dell’amore. Noi lettori, e forse solo noi (e qui salta fuori l’ingegno dell’autore, capace, senza farsi riconoscere, di condurci per mano su diversi piani narrativi), insieme a una piccola cameriera spregiudicata e incredibilmente libera, sappiamo fino in fondo e nei minimi particolari, cosa sia successo quel giorno. Sappiamo di un suo amore proibito, degli incontri segreti, delle cose ancor più segrete che avvengono durante quegli incontri, cose di una tale gravità sociale da rappresentare, dovessero essere scoperte, un sovvertimento alle ferree regole di classe che sono in parte ancora un caposaldo della struttura inglese. Ma come tutti i segreti, anche questo è destinato a rimanere tale. O forse no, come sembrano raccontare gli occhi sospettosi di un’altra cameriera, meno bella e più ottusa, che con il suo silenzio e lo sguardo bilioso, sembrerebbe volere raccontare la sua, di versione dei fatti. Ma questa è un’altra storia, un altro destino.
Bibliografia
Sandra Tassi, Come leggere un romanzo. Diventare lettori consapevoli, Roma – Cesena, Giubilei Regnani, 2017.
L’autore è conosciuto per il suo celebre Il paese d’acqua (Waterland).
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Cultura e Spettacoli
Le sfide della cronofotografia
Fotografia In mostra alla Cons Arc di Chiasso alcuni esempi dell’evoluzione tecnologica che portò
alla nascita del cinema Giovanni Medoalgo Una fase importante della storia della fotografia è rappresentata dalla cronofotografia. Se già agli albori del XIX secolo erano nati apparecchi strani e dai nomi talvolta davvero bizzarri (taumatropio, ruote di Faraday, fenachistoscopio, stroboscopio, ecc), è soprattutto nella seconda metà dell’800 – appena qualche decennio dopo la realizzazione delle prime fotografie – che si accende un’aspra battaglia tra inventori, scienziati e medici, tutti alla ricerca del modo migliore per ottenere delle immagini che dessero in qualche modo l’idea
Eadweard Muybridge, l’inventore di questa tecnica, l’aveva brevettata nel 1878 con il nome di «zootropio» del movimento. Si trattava di spezzare la continuità in una serie di scatti discontinui ma calcolati per ricostruire in modo credibile e convincente il flusso temporale. L’ornitologo francese Etienne Marey, che definisce la fotografia «la retina dello scienziato», mise a punto il fucile cronofotografico, dove il grilletto funzionava come il pulsante di scatto dell’otturatore di una comune macchina fotografica e la tacca di puntamento ricordava il mirino di un «normale» fucile. Dall’altra parte dell’oceano, il fotografo inglese Eadweard Muybridge (1830-1904) ricevette dal governatore della California Leland Stanford (fondatore dell’omonima celebre Università) l’incarico di fotografare il suo purosangue Occident per stabilire se un cavallo al galoppo avesse in qualche momento della corsa tutte le zampe sollevate contemporane-
Cavallo in movimento. (Wikimedia Commons)
amente da terra. Nel 1878 Muybridge brevetta la sua invenzione chiamandola zootropio: una serie di dodici apparecchi disposti a breve distanza l’uno dall’altro lungo la pista d’allenamento. Correndo lungo una traccia bianca il cavallo spezza i fili ben tesi lungo il suo percorso, facendo scattare gli otturati della dozzina di apparecchi fotografici. Sono in molti a ritenere che i tentativi di Muybridge furono importantissimi per i Fratelli Lumière nel loro cammino verso l’invenzione del cinématographe. Muybridge ebbe una vita avventurosa. Nel 1874 uccise l’amante della moglie, ma fu assolto da
una sentenza che in qualche modo si richiamava al «delitto d’onore». A questa vicenda il compositore Philipp Glass dedicò il suo lavoro The Photographer (1983) e lo stesso Muybridge è adesso protagonista – unitamente a un altro «cronofotografo», l’ingegnere e ricercatore statunitense Harold Eugene Edgerton (1903-1990) – di una mostra ospitata nella Galleria Cons Arc di Chiasso. Si tratta di 25 immagini provenienti da collezioni private. «Entrambi i fotografi sono stati grandi divulgatori e hanno utilizzato la fotografia come strumento di osservazione e studio – spiegano Daniela e Guido Giudici –. L’approccio che più ci in-
teressa in questa piccola collezione è l’approfondimento di una “nuova” forma espressiva e non tanto quello, pur fondamentale, dello studioso che cerca di perfezionare una tecnica. Difatti l’opera di Muybridge, che ha anche anticipato la nascita del cinema, ha notevolmente influenzato le avanguardie artistiche del Novecento. La nuova tecnologia viene assimilata e assunta da alcuni artisti e polemicamente rifiutata da altri. Anche nel caso del più contemporaneo Edgerton, la fotografia mostra quello che l’occhio umano non può riuscire a vedere completamente, condizionato dal cervello umano. È quello che Walter Benjamin avrebbe chia-
mato inconscio ottico e il buon Franco Vaccari inconscio tecnologico». La Galleria chiassese presenta ameno un paio di immagini divenute nel frattempo icone: il colpo del golfista con la sua mazza che ruota descrivendo un arco perfetto; così come la racchetta del tennista «spiega» come ottenere un dritto degno di Roger Federer. Dove e quando
Cronofotografie. Harold Eugene Edgerton, Eadweard Muybridge, Chiasso, Galleria ConsArc. Fino al 10 settembre 2017. Orari: ma-ve 9.0012.00 / 15.00-18.30. www.consarc.ch
La pioggia che «fa viaggiare l’anima» Editoria Storico delle sensibilità, Alain Corbin ha scritto una breve storia della pioggia Lorenzo De Carli Se quella del clima e quella della meteorologia sono due storie ben studiate, è a lungo sfuggita all’indagine dei ricercatori una terza e più intima storia, che s’intreccia con le altre due, e in particolare con quella della meteorologia, ovverossia la storia dei sentimenti suscitati dalle condizioni atmosferiche. Wolfgang Behringer, per esempio, con la sua Storia culturale del clima aveva mostrato due aspetti molto interessanti: 1) che la società umana ha sempre
reagito anche a variazioni molto piccole delle temperature medie e del livello delle precipitazioni, e 2) che il tipo di reazioni prodotte sono dipese più dalla cultura umana, con i suoi modelli interpretativi, che non dai dati misurati. Tuttavia, né Behringer, né altri storici del clima si sono preoccupati di descrivere come le persone hanno soggettivamente reagito alle diverse condizioni meteorologiche; che sensazioni abbiano provato, sentendo la pioggia, l’arsura, il vento, il gelo. Lo storico francese Alain Corbin,
Tra fine 800 e inizio 900, la pioggia urbana ha perduto il fascino che le veniva attribuito nei secoli precedenti. (ville-ge.ch)
pioniere della storia delle sensibilità, cui si debbono opere come la Storia sociale degli odori e L’invenzione del tempo libero, ha scritto un saggio – Breve storia della pioggia. Dalle invocazioni religiose alle previsioni meteo – che comincia ad esplorare, appunto, la storia delle sensazioni prodotte dal tempo atmosferico, provando a rispondere a queste due domande: «In quale momento della storia s’individua l’avvento di un io meteorologico sensibile a tutte queste variazioni? Fino a che punto i modi di provarle si sono trasformati con il tempo?». La natura delle testimonianze di cui è andato alla ricerca Alain Corbin è stata prevalentemente scritta, ma lo storico francese ha prestato molta attenzione anche al modo in cui la pittura ha rappresentato i fenomeni atmosferici. Secondo la sua ricostruzione, è solo verso la fine del XVIII, quando aumenta considerevolmente il numero di documenti scritti che descrivono gli effetti dei fenomeni meteorologici, che emerge una nuova sensibilità e una nuova attenzione per la pioggia, il vento e tutti gli aspetti atmosferici che cadono sotto i nostri sensi. Pressoché coeva è anche una più affinata capacità retorica di descrizione sia dei fenomeni meteorologici, sia dei loro effetti nell’animo. Alla fine del Settecento, per esempio, lo scrittore e botanico francese Jacques-Henri Bernardin de SaintPierre, nei suoi Études sur la nature,
sottolinea il piacere «voluttuoso» della pioggia, a patto – ovviamente – di non avere «in programma gite, visite, battute di caccia o viaggi». Corbin sottolinea la percezione che Bernardin de Saint-Pierre ha della pioggia e dei suoi effetti: «il gusto, ad esempio, di quando piove a catinelle, quando vedo i vecchi muri spumeggianti e grondanti d’acqua, e sento i mormorii del vento che si confondono con i fremiti della pioggia. Questi rumori malinconici mi accompagnano, durante la notte, in un dolce e profondo sonno». Nella stessa epoca, attenti agli effetti della pioggia sono evidentemente anche i pittori. Pierre Henri Valenciennes, nel manuale destinato ai suoi allievi, descrive i piaceri, osservando la bellezza inaspettata che il retaggio della pioggia produce sulla natura: colori più vividi, lucentezza, riflessi. Nella prima metà dell’Ottocento, negli Stati Uniti, è Henry David Thoreau a tessere l’elogio dei piaceri della pioggia: «la pioggia gli suggerisce la sensazione di immergersi nella totalità del mondo, di ritrovare la gioiosa accettazione della natura tipici degli stoici». Nel suo diario Thoreau scrive che il gocciolare monotono dei rami e delle foglie gli procurano sensazioni di conforto e intimità. E dello stesso avviso, sempre tra gli scrittori americani dell’Ottocento, è Walt Whitman. Nella Parigi dei passages, quella di Charles Baudelaire, la pioggia
non è più intimità con la natura, percezione di uno stemperamento di sé nel paesaggio, bensì una componente dello spleen, della malinconia. In Baudelaire, così come in Verlaine o in Laforgue, la pioggia «favorisce una tristezza senza alcun’altra ragione che dimori al di fuori di sé»; e per tutto il XX secolo «la pioggia continua a essere percepita dall’individuo nella sua valenza negativa». Negli scrittori che hanno descritto l’esperienza dei due conflitti mondiali la pioggia è vista come ulteriore fonte di sofferenza. Nelle loro pagine, non c’è nessuna traccia delle sottili sensazioni che riempiono l’ozio dei contemplatori. In epoca di secolarizzazione del cielo, la pioggia non è più punizione divina ma è comunque un fenomeno che accresce la sofferenza umana. La Breve storia della pioggia di Alain Corbin getta le basi per uno studio su come i fenomeni meteorologici sono stati percepiti e descritti in epoche diverse. Giungendo in anni vicini ai nostri, sarebbe molto interessante aprire lo sguardo anche al cinema, studiando – per esempio – quali sensazioni lo spettatore sente di condividere con i protagonisti di Stalker o di Blade Runner. Sarebbe un lavoro che permetterebbe di far luce su una dimensione meteorologica che, pur essendo dell’ordine dell’immaginario, ha nondimeno effetti ben tangibili sulla nostra sensibilità.
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta La radio, un grande connettore Abbiamo sempre sospettato che la radio fosse stata inventata per permettere a Massimo Cirri di farla, prima dai microfoni di Radio Popolare e poi di Radio 2 con Caterpillar. Ora la visuale si allarga, come dimostrano le sue Sette tesi sulla magia della radio, piccolo magistrale libro. È strutturato a onde concentriche, come quelle disegnate sulla copertina, dalla grande storia man mano a stringere sulle esperienze personali mentre il mezzo radiofonico, dato ogni volta per morto, rinasce smaterializzandosi, dai monumentali apparecchi a cinque valvole fino al digitale. Nel prologo l’autore rievoca la sua «prima volta» da ascoltatore e ogni lettore è invogliato a ricordare la sua; per me è stato l’annuncio, il 4 maggio del ’49, che era morto il grande Torino. La prima delle sette tesi, «Il disperato appello», inizia rievocando la storia di David Sarnoff, il giovane marconista di ventun anni che dall’ultimo piano di un grande magazzino di Manhattan,
nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912 ascolta i messaggi in arrivo dal Titanic e li rilancia. La radio, come la intendiamo noi, nasce in quella notte. È un racconto teso, incalzante, magnifico; che Massimo Cirri possedesse le doti del narratore di razza lo sapevamo già, da Un’altra parte del mondo, la biografia del figlio di Palmiro Togliatti, e questo libro è una conferma. «Se fai un appello alla radio succede sempre qualcosa», sostiene l’autore e passa in rassegna i più efficaci, da quello di De Gaulle ai microfoni di Radio Londra a quello di Danilo Dolci che parla per 27 ore prima che arrivi la polizia postale a sequestrare gli impianti di una emittente che all’epoca era illegale. La seconda tesi, «Poligamia», rievoca l’arrivo dei transistor e delle batterie quando ogni ascoltatore pensa che il messaggio sia rivolto a lui e solo a lui che va a passeggio la domenica pomeriggio con la fidanzata ma tiene il transistor all’orecchio per ascoltare Tutto il calcio minuto per mi-
nuto. Ricordo un pomeriggio a Roma, in piazza di Spagna, alla festa della Polizia, mentre gli agenti motociclisti si esibivano in spericolate acrobazie, dagli spettatori arrivavano a ondate rumorose manifestazioni di sorpresa perché in quell’ultima convulsa giornata di campionato cambiò tre volte il nome della squadra vincitrice dello scudetto. La tesi numero 3 è dedicata alla «Porosità»: «è la vita a essere porosa, la nostra vita». La radio diventa interattiva, il 7 gennaio 1969, alle 10.40 quando nasce Chiamate Roma 3131, con le telefonate degli ascoltatori. Avvicinandosi il 2 novembre fecero una puntata sul tema della cremazione; non potendo dare voce a tutti gli esperti messi in preavviso, il conduttore si scusò dicendo: «Abbiamo messo troppa carne al fuoco». La quarta tesi, «Sintonia» è un altro racconto da antologia, dove si rievoca un celebre episodio di negoziazione a New York, il 6 ottobre 1975, fra un sequestratore, Ray «Cat» Olsen e il
capitano della polizia Franck Bolz con la triangolazione determinante di Scott Muni, celebre conduttore radiofonico. La storia va avanti, a onde successive, arrivano le radio private, i «lupi solitari» che tengono compagnia tutta la notte. C’è anche il chiacchiericcio, alternato alla musica, il nulla in onda. Come c’è «il grado zero della scrittura» teorizzato da Roland Barthes, esiste anche il grado zero della radio e anche questo ha i suoi estimatori, si veda il successo di Fabio Volo che andava in diretta la mattina ancora assonnato dichiarando che non aveva niente da dire e gli ascoltatori lo assecondavano. Nel mese di novembre del 1996 inizia l’avventura di Caterpillar quando il direttore della seconda rete di Radio Rai Bruno Voglino ingaggia Massimo Cirri e Sergio Ferrentino prendendoli da Radio Popolare, e qui troviamo un resoconto irresistibile sulla battaglia vinta per ottenere il permesso di mettere in onda le telefonate senza
richiamare l’ascoltatore, come succede tuttora in tutti gli altri programmi per cautelarsi da eventuali cause di diffamazione. Fino a quella data per la radio Rai vigeva la separazione rigorosa fra programmi di intrattenimento e quelli di informazione. L’attualità era prerogativa dei giornalisti. Con l’arrivo di Caterpillar saltano le paratie: il programma si interrompe per fare spazio a Onda Verde, con le notizie sul traffico e quando riprendono ad andare in onda i conduttori trovano naturale invitare gli ascoltatori che si trovassero invischiati negli ingorghi a telefonare diventando inviati sul campo. Da lì la deriva è inarrestabile. Ci sono storie, fatti, retroscena in queste sette tesi, attraversate da riflessioni teoriche. Una su tante: la funzione connettiva della radio. Edward Foster mette come epigrafe a Casa Howard: «Solo connettere». Queste sette tesi lo dimostrano: nessun altro medium è in grado di connettere altrettanto bene come la magica radio.
Postille filosofiche di Maria Bettetini Poiché del doman non v’è certezza, viva la freschezza Il sole non dà tregua. Appiccicati uno all’altro, i grandi filosofi della storia sono accalcati sotto gli ombrelloni della Spiaggia Mens-sana-e-basta, che da tempo immemorabile li accoglie ogni estate. Li abbiamo già incontrati, gli anni scorsi, e abbiamo anche capito che in verità si ritrovano tutti a Rimini, al bagno 11 e mezzo che è appunto il Mens-sana-etc. Avevamo visto Eraclito e Parmenide prendere un pattino per risolvere una volta per tutte il dilemma dell’acqua che non è mai la stessa, Hegel innalzarsi sopra tesi e antitesi trovando la sintesi nel seggiolone del bagnino di salvataggio, Nietzsche sudare negli abiti da montagna, nessuno gli aveva spiegato la differenza tra le rive del lago di Lucerna o dei Quattro Cantoni, – dove tra l’altro conobbe Wagner – e la riviera romagnola. In Romagna, se soffia il vento di terra, il garbino o libeccio o africo, la spiaggia diventa una simpatica fornace per il vetro, con tutta quella sabbia di ottima qualità. Garbino o tramontana, oggi è caldissimo. Empedocle di Agrigento però non
soffre, è abituato allo scirocco di Sicilia, che quando colpisce non lascia nemmeno la forza di dire «fa caldo». Discute quindi con Eraclito di Efeso – anche la terra turca sa essere discretamente soleggiata. Dice Eraclito che sentire l’aria calda gli fa ricordare l’origine del mondo, sorto dal fuoco, o forse dal logos, dalla ragione, se il fuoco non ne è altro che una metafora, con il suo incessante trasformarsi. Empedocle reagisce: non una sola volta si è formato il mondo, ma infinite, perché i quattro elementi, terra acqua aria e, appunto, fuoco non sono mai in equilibrio stabile, e passano dall’unione del più folle amore alla dispersione del feroce odio. Tra l’uno e l’altro, c’è questo mondo, dove amore e odio convivono. Per dimostrarlo, sale su un pattino in secca, si dondola su uno dei due piccoli scafi o galleggianti, balza sull’altro, salta in mezzo per mostrare lo stato di equilibrio. Ma non si accorge di Cagliostro, che stava all’ombra e al buio sotto il natante, cercando di ottenere la pietra filosofale dalla sabbia. Per fortuna nessuno è
superstizioso, perché il mago non si trattiene dal maledire tutti quei pensatori inutili. Gentaglia, di pochi si può essere amici in questa spiaggia, pensa raccattando le provette, di Giorgio (Gemisto Pletone), di Marsilio (Ficino), forse di quell’egiziano, Plotino, non fosse che per disprezzo del corpo non si lava mai e questo in estate non è proprio accettabile. Il fracasso dell’incidente sveglia Platone, assopito per la calura (e per la mole). Ha sentito dire «fuoco» e vuole sottoporre ai colleghi i disegni di un italiano, ispirati al suo Timeo. Purtroppo sono macchiati da una granita al lampone, questo succede a portare i fogli in spiaggia. Comunque si vedono bene lo stesso, «carini» dice Wittgenstein, che sperava di essere il solo capace di tenere una matita in mano. «Ma li ha fatti uno di noi?». «No, risponde Platone, un pittore, un artista». Sospiro di sollievo generale, non è un filosofo ad aver così bene interpretato i solidi di Platone, e quindi ben disegnato anche il fuoco rappresentato da un tetraedro, una piramide. Si tratta solo di Leonar-
do da Vinci, un artista. Che non capisca nulla lo si evince anche da una sua frase citata dal velenoso Kant: dice, questo Leonardo, artista italiano, figuriamoci, che la pittura conosce l’essenza delle cose meglio di qualunque filosofia. Una sincera risata accoglie tale affermazione, per qualche istante il caldo sembra smettere di tormentare i pensatori. Buoni, questi pittori, ride Marx, capelli e barba raccolti in codini per sudare meno. Silenzio, intima quel codino di Baldassarre Castiglioni, o non sapete che al bagno dodici e mezzo c’è la spiaggia dei pittori, la «Datemi-un-pennelloe-vi-solleverò-il-mondo»? Ah ma allora è vero che al dieci e mezzo ci sono i letterati, chiede sempre Cagliostro, che da tempo vorrebbe conoscere l’autore del Faust, Goethe. Tutti guardano per aria, fischiettano: ci manca che ci mescoliamo agli scribacchini, noi si scrive solo di ciò che si deve scrivere, pensa Wittgenstein, mentre Socrate, che stava riempiendo di domande sulla sua vita un venditore di parei, maledice in un colpo solo scrittori e scrittura. Il ven-
ditore intravede due che gli sembrano del suo paese, chissà che cosa vendono, e un po’ per solidarietà, un po’ per liberarsi dei filosofi, li interpella: Allah sia con voi, fratelli, che cosa posso comprarvi? Il ceffone è arrivato inatteso e violento, l’algerino Agostino di Ippona non sa se è più offeso da quello strano modo di chiamare Dio o dall’esser stato scambiato per un venditore ambulante, un simoniaco dunque, trattando lui solo di filosofia e cose sacre. Il suo compagno rialza la vittima coi suoi parei: «Attento, fratello, devi stare attento a come parli», gli dice Averroè, il pensiero agli anni in Andalusia, dove la sua libertà di pensiero si era scontrata con la chiusura del califfo, che aveva mandato al rogo tutti i suoi scritti e lo aveva esiliato in Marocco. Ancora tensioni, il caldo è una brutta compagnia. Ma dalla passerella arriva un urlo di gioia: le ragazze – Hannah, Simone, Maria, Ildegarda – hanno fatto il gelato, e nessuno oggi vuole che lo spirito combatta la materia, viva la freschezza, del doman non v’è certezza.
là: come il «chiù» alternato al «più». Un «arrinesci» al posto di «riesci», tanto per gradire. Quel saporino passepartout, come mettere una presa di origano su ogni pietanza, salata o dolce che sia, indiscriminatamente. Poi però ci sono tutti i congiuntivi al posto giusto… mai sentiti sulla bocca di un parlante in dialetto. Si sa che il camillerese non è il siciliano, ma una lingua inventata: però richiederebbe almeno quel poco di coerenza che nell’intervista della «Guida» manca del tutto fino a sembrare una involontaria parodia. Il mio paese diventa ogni tanto «il mio paisi» e «così» diventa ogni tanto «accussì». Si prende il camillerese e lo si fa diventare assurdo al quadrato mettendolo artificialmente in bocca al suo titolare probabilmente ignaro del risultato. La tesi di Camilleri è che c’è un invisibile cordone ombelicale che tiene legati sempre e comunque i siciliani alla loro terra: anche quando abitano in luoghi
lontanissimi (quante volte abbiamo sentito dire che ci sarebbero i «siciliani di scoglio», che si muovono sempre nei dintorni, e quelli «di mare aperto», che vanno via). Racconta, Camilleri, del suo rapporto con una città poco frequentata dalla letteratura, Enna, dove ha abitato per tre anni dopo la guerra. Enna si trova a 800 metri di altezza e all’epoca non conosceva il riscaldamento: c’era un «friddu terribile» (dire «freddo terribile» sarebbe stato meno letterario?), un paesaggio splendido e una biblioteca comunale meravigliosa dove il «diretturi» talvolta si levava la giacca sventolandola per alimentare il fuoco delle stufe a legna. In quella biblioteca il giovane Camilleri poteva stare al calduccio e aveva a disposizione fondi librari prestigiosi con importanti riviste del Novecento, compresa «l’Acerba»: clamoroso equivoco dell’intervistatore, poiché in realtà la famosa rivista di Soffici e Papini cui Camilleri allude è «Lacerba» (senza
l’apostrofo). Insomma, un mezzo disastro che una redazione anche minimale avrebbe potuto per lo meno limitare. Da straordinario fenomeno di letteratura popolare, Camilleri diventa, sfruttato malamente, una macchietta di se stesso, che risponde con inesistenti «sissi» e «nonsi» al posto di sì e no. E «insemmula» rende un pessimo servizio alla sua terra, che definisce «il mio sangue, mio patre, mia matre, i miei avi, la mia cultura, la mia aria». Il risultato è un artificio di pessimo gusto, dove la sicilianità linguistica diventa colore da negozio turistico come uno scacciapensieri («’a marranzana» di mafiusu), un pupo e una coppola. Un bravo scritturi comu Camilleri avissi dirittu assiri arrispettatu, ma accussì s’arrovina e s’arriddiculizza. A Sarausa e dintorni c’è un caudu terribbule in queste simane, ma a leggere certe interviste ti cala un friddu, un friddu che manco a Enna ndo ’nvernu…
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Il camillerese al quadrato Se non mi trovassi in Sicilia, non scriverei questo articolo. Ma mi trovo in Sicilia e mi capita tra le mani una «Guida ai sapori e ai piaceri della regione» (4–), pubblicato dalla Repubblica, e già il sottotitolo mi mette in allarme: «Le eccellenze». Nutro un grande sospetto per le cosiddette «eccellenze». Non mi piacciono. Con le eccellenze ci si riempie la bocca, ci si salva la faccia: quel che conta non sono le eccellenze ma la qualità media. Le eccellenze scolastiche di solito coprono le magagne dell’insegnamento, dei programmi, delle strutture; e così quelle universitarie, quelle gastronomiche, quelle sanitarie, eccetera. La «Guida» segnala ristoranti, dimore di charme, botteghe del gusto, piatti della memoria, ricette del mare… Vado a cercare due o tre ristoranti e trattorie che conosco dalle parti di Siracusa e non li trovo. Non solo per spirito campanilistico, vado a cercare, nell’indice temati-
co, se in quasi seicento pagine è citata la mandorla di Avola, detta «pizzuta», da cui derivano i dolci migliori che io abbia mai provato, e non la trovo. Ritorno deluso a sfogliare il volume dall’inizio e inciampo in un’intervista di Francesco De Filippo a (ovviamente) Andrea Camilleri. Quasi tutte cose già sentite, ma sarebbe irrilevante se non fosse presentata come un «contributo letterario di altissimo livello». Forse perché si arrischia nell’apprezzabile tentativo (2) di imitare – nelle risposte probabilmente ricostruite dall’intervistatore – la scrittura del Camilleri montalbanese. Per esempio, chissà perché non dice «quindi» ma «quinni», con pseudo-fonetica sicula applicata a una congiunzione che mai e poi mai verrebbe usata da un dialettofono. Idem l’improbabile «faccenna» per «faccenda»… che suona ridicolo a chi pratichi anche solo superficialmente il dialetto siciliano. È una coloritura qua e
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Idee e acquisti per la settimana
shopping Una caprese tutta ticinese Attualità Un grande classico dell’estate fatto con ingredienti firmati Nostrani del Ticino
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Mozzarella e pomodori affettati, conditi con delle foglioline di basilico o origano freschi, qualche goccia di aceto balsamico e olio, sale e pepe… ed ecco pronta in un battibaleno una bella insalata caprese. Data la sua freschezza, gustosità e leggerezza, questa ricetta è diventata talmente nota che la si chiama ormai in tutto il mondo semplicemente «Caprese». I buongustai preparano la caprese «alla ticinese» utilizzando unicamente gli ingredienti più genuini del nostro territorio. La mozzarella artigianale giunge dalla Latteria del Ticino LATI di S. Antonino, che per produrla utilizza il latte di oltre 150 allevatori provenienti da tutto il cantone. È un prodotto che spicca per il suo sapore di latte fresco molto delicato, per la ricchezza di calcio e fosforo e l’assoluta assenza di conservanti. Questa mozzarella è ottima anche per creare piatti caldi più tradizionali e inoltre esiste anche nella versione senza lattosio, indicata per coloro che soffrono di intolleranza a tale sostanza. Una buona caprese richiede buoni pomodori e tra le diverse varietà ticinesi disponibili attualmente nell’assortimento di Migros Ticino, il pomodoro cuore di bue, grazie alla sua polpa ricca e soda, è il più indicato per accompagnare la mozzarella, inoltre ha un sapore gradevolmente aromatico molto apprezzato e gustoso. Altro ingrediente indispensabile è il basilico fresco: in questo caso arriva dall’azienda Mäder di Sementina che ha esperienza pluriennale nella produzione di erbe aromatiche. Le erbe vi vengono coltivate secondo i criteri dell’agricoltura biologica, ossia senza l’impiego di fitofarmaci sintetici. Nel nostro bel cantone non manca nemmeno l’aceto balsamico, condimento che dà «quel qualcosa in più» a questa preparazione. È un prodotto dell’Azienda Delea di Losone, che per realizzarlo utilizza la migliore uva americana e la fa maturare in barili di legno pregiato per un minimo di due anni. Infine, chi desidera arricchire ulteriormente la propria caprese, può portare in tavola del delizioso prosciutto crudo ticinese. Per produrlo la Salumi del Pin di Mendrisio utilizza cosce selezionate di suini allevati in Ticino. Dopo un’accurata salagione a secco, le cosce vengono affinate in apposite celle per la durata di almeno 90 giorni.
Flavia Leuenberger
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Fino al prossimo 16 settembre tutti i giovedì, venerdì e sabato vi aspettano golose degustazioni di diversi prodotti dei Nostrani del Ticino, nei supermercati Migros di Agno, Locarno, Serfontana, Grancia, S. Antonino e Lugano. Non perdetevi questo appuntamento con la bontà!
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Idee e acquisti per la settimana
Direttamente dai nostri campi Attualità Le melanzane ticinesi sono garanzia di genuinità e freschezza
La Fondazione Orchidea produce melanzane a Riazzino. (Giovanni Barberis)
Noé si occupa della raccolta delle melanzane presso La Fondazione Orchidea.
Acquistare ortaggi locali di stagione non è semplicemente prediligere prodotti sostenibili dal punto di vista ambientale, sociale ed economico, ma è anche una questione di palato. Poter scegliere in sicurezza prodotti gustosi maturati al sole e raccolti al momento giusto. Tra i tanti ortaggi tradizionali della produzione orticola ticinese figurano anche le melanzane. Questa verdura, oltre ad essere ricca di vitamine e sali minerali, contiene antociani, sostanze coloranti della buccia dall’elevato potere protettivo contro i radicali liberi, e contiene anche molto acido folico (una vitamina del gruppo B, importante per l’emopoiesi e per lo sviluppo delle cavità neurali nel feto). Le melanzane sono inoltre poverissime di
calorie e sono ottime grigliate, rosolate, arrostite o stufate. Buone e sociali
Tra i diversi produttori locali di melanzane che riforniscono Migros Ticino, troviamo anche la Fondazione Orchidea di Riazzino, istituzione attiva nell’integrazione sociale e professionale di una ventina di persone con diverse difficoltà. Coadiuvati e seguiti da alcuni educatori qualificati, gli utenti si occupano della coltivazione secondo le norme della produzione integrata di vari prodotti orticoli: oltre alle melanzane anche pomodori, zucchine, verze, insalate, bacche e fiori. L’azienda agricola si estende su una superficie di ca. 2 ettari.
Deliziosa ricetta per accompagnare le grigliate
Vi proponiamo un contorno delicato perfetto per questa stagione: Melanzane caramellate con edamame. Per 4 persone tagliate 2 belle melanzane per il lungo a fette spesse 1 cm. Salate leggermente e lasciate riposare una decina di minuti. Sgusciate 240 g di fagioli edamame nel baccello* scongelati. Formate un cestino di carta alu. Mescolate gli edamame con 1 cucchiaio di olio di girasole e sale e trasferite nel cestino di carta alu. Asciugate le fette di melanzana tamponando con carta da cucina. Mescolate 3 cucchiai di zucchero di canna, 0,5 dl di mirin* (vino di riso dolce) e 1 cucchiaio di semi di sesamo e spennellate le melanzane con questa marinata. Grigliate le fette di melanzana da entrambi i lati a fuoco medio diretto per ca. 10 minuti. Sistemate il cestino con gli edamame sulla griglia e rimestate occasionalmente. Di tanto in tanto spennellate le melanzane con la marinata. Servite i fagioli con le melanzane. (*Disponibile nelle maggiori filiali Migros.)
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Idee e acquisti per la settimana
Bontà per la festa nazionale Attualità Per festeggiare il 1° agosto non possono
Le creazioni artigianali di pasticceria di Migros Ticino non smettono mai di sorprendere tutti i golosoni. Per la Festa Nazionale del 1° agosto i mastri pasticceri del laboratorio di S. Antonino hanno realizzato una torta speciale «griffata» con la bandiera rossocrociata in pasta di zucchero. Il dolce è composto di un morbidissimo pan di spagna chiaro, farcito con dell’irresistibile crema
pasticciera e completato con nocciole e delicata crema al burro. La specialità è in vendita solo lunedì 31 luglio nei i supermercati Migros dotati di banco pasticceria fresca, De Gustibus e Ristoranti. In occasione della Festa Nazionale anche il supermercato Migros di Mendrisio Borgo offrirà la deliziosa torta. Per non lasciarvela sfuggire, può essere riservata in anticipo nel vostro negozio di fiducia.
Flavia Leuenberger
mancare le dolci tentazioni!
Torta del 1° agosto 100 g Fr. 3.50
Prodotti meglio conservati grazie alla nuova borsa isolante 2 Borsa isolante Fr. 1.20
4 Colours 3+1HB: penna e portamine finalmente insieme
Flavia Leuenberger
1
3 Con il caldo dell’estate è davvero molto importante prestare attenzione alla corretta manipolazione di surgelati e alimenti freschi come carne, pesce, latticini, formaggio e insalate pronte. Basta poco tempo ai prodotti acquistati al supermercato prima che inizino a scongelarsi e deteriorarsi irrimediabilmente. Per non interrompere la catena del freddo, è consigliabile
seguire alcuni semplici accorgimenti sin dal momento in cui si fa la spesa: mettere nel carrello i prodotti surgelati e refrigerati solo alla fine, poi andare direttamente alla cassa. Una volta effettuato il pagamento, trasferire subito i prodotti sensibili nella borsa isolante e recarsi il prima possibile a casa. La nuova borsa isolante introdotta recentemente presso le casse Migros
permette di conservare meglio i prodotti durante il tragitto negozio-casa. La borsa è costituita da due strati separati di carta isolante. Gli articoli vanno inseriti nella prima borsa (colore marrone), la quale successivamente viene ripiegata all’interno del primo strato (vedi schema). In questo modo i prodotti si conserveranno bene sui tragitti più lunghi.
Penna 4 Colours 3+1HB Fr. 5.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros
L’ultimissimo modello della famiglia BiC 4 Colours, amatissima da più generazioni, si chiama «4 Colours 3+1HB»: un prodotto estremamente pratico e funzionale che unisce penna e portamine. Permette di risparmiare tempo, spazio e strutturare le proprie idee in maniera efficiente. 4 Colours 3+1HB
include tre inchiostri diversi e un portamina con gomma. Inoltre, la sua impugnatura in caucciù garantisce un’agevole presa per un maggiore comfort nella scrittura. Queste caratteristiche rendono la penna un prezioso compagno per tutti coloro che desiderano risultati veloci e professionali in ogni situazione.
PAGA CON LA CUMULUSMASTERCARD E VINCI: 20 X 500 000 PUNTI CUMULUS
Ecco come partecipare al concorso: registrati online, accetta le condizioni di partecipazione e tra il 24 luglio e il 24 settembre 2017 paga con la Cumulus-Mastercard un acquisto di almeno CHF 100.– in una filiale Migros o un negozio specializzato (melectronics, Do it + Garden, Micasa, SportXX). Nessun obbligo d’acquisto. Partecipazione gratuita: registrati online e invia una cartolina. Trovi tutte le informazioni e il formulario per richiedere la Cumulus-Mastercard su www.cumulus-mastercard.ch/vincita. Buona fortuna! Emittente della Cumulus-Mastercard è la Cembra Money Bank SA.
REGISTRATI ORA: www.cumulus-mastercard.ch/vincita
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Idee e acquisti per la settimana
Aperitivo
Variazioni frizzanti
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su tutte le bevande per l’aperitivo fino al 31 luglio
Tonic Water, Ginger Ale e Bitter Lemon della linea Apéritiv, sono rinfrescanti già da soli, ma con l’aggiunta di pochi e semplici ingredienti queste bevande possono diventare dei deliziosi cocktail analcolici. Tutte le bibite Apéritiv sono prodotte esclusivamente con acqua minerale e aromi naturali, senza l’impiego di alcun conservante.
Apéritiv Ginger Ale 50 cl Fr. 1.15
Apéritiv Ginger Ale 1,5 l Fr. 1.80
Consiglio di servizio
Con un pestello schiacciare leggermente in un bicchiere da cocktail qualche spicchio di limetta tagliata in otto e zucchero greggio. Aggiungere dei cubetti di ghiaccio e riempire con Tonic Water. A piacimento decorare con un rametto di menta. Apéritiv Bitter Lemon 50 cl Fr. 1.15
Apéritiv Tonic Water 6x50 cl Fr. 6.60
M-Industria crea molti prodotti Migros, tra cui anche le bevande Apéritiv.
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Idee e acquisti per la settimana
Noi firmiamo. Noi garantiamo.
Lo specialista del caffè
Nel 1925 Migros ha aperto la sua prima azienda di torrefazione di caffè a Zurigo. Oggi presso Delica a Birsfelden, impresa di produzione Migros, vengono lavorati chicchi di caffè provenienti dal mondo intero. Christoph Brunschwiler, lo specialista del caffè, spiega il modo in cui l’aroma arriva fino alla tazzina
Per chi come Christoph Brunschwiler è attivo professionalmente nella produzione di caffè, il lavoro non si esaurisce mai. Brunschwiler è responsabile ricerca e sviluppo per caffè e capsule presso l’industria di produzione Migros Delica. È qui, sulle sponde del Reno, che dal 1954 Migros effettua la torrefazione dei chicchi destinati ai differenti tipi di caffè e ai diversi sistemi. Ciò vale anche per il marchio proprio «Café Royal», lanciato nel 2012. Sulla ricetta del Café Royal Delica stende un velo di silenzio. Si tratta di un segreto aziendale. Quel che si può dire è che il Café Royal Espresso è una miscela costituita al 100 percento da chicchi di arabica. Questi chicchi sono meno amari e contengono più acidi dal gusto piacevolmente fruttato rispetto a quelli della varietà robusta, che sul mercato costituisce la seconda più importante specie di caffè.
Testo: Thomas Tobler Immagini: Paolo Dutto
Origine decisiva
Sono oltre 1000 gli aromi che si sviluppano da un chicco di caffè durante la tostatura, un numero superiore a ogni altro genere alimentare. «Tuttavia il gusto inizia a formarsi molto prima», dice Christoph Brunschwiler. «Il punto di partenza è la preparazione del chicco di caffè come materia prima. Vale a dire l’estrazione del chicco dal frutto maturo, chiamato ciliegia, e l’essiccazione». Analogamente al vino, anche per il caffè
il potenziale dell’aroma è caratterizzato dalle condizioni climatiche, dalla posizione geografica, o ancora dalle specificità che contraddistinguono il terreno in cui si trova piantagione. «Da un caffè greggio proveniente dalla Colombia ci si aspetta per esempio una nota fruttata di bacca, una certa cremosità e un’acidità leggera». Sfumature di sapori che possono essere percepite solo da palati esperti di caffè, ma che hanno un ruolo determinante al momento in cui si sviluppa una nuova miscela. «Le diverse varietà di caffè greggio sono come gli strumenti di un’orchestra classica. Per una buona armonia è necessario il suono delicato del violino così come quello più potente del contrabbasso. Nel caso del caffè si tratta di una combinazione tra diverse varietà di chicchi greggi con differenti aromi, il cui risultato porta talvolta a un aroma forte, a volte cremoso, a volte piuttosto amaro». Le combinazioni e le variazioni possibili sono praticamente infinite. Esaltare l’aroma
Tornando alla torrefazione presso Delica, la macinatura dei chicchi avviene in condizioni ben precise. Malgrado i processi siano quasi completamente automatizzati, la tostatura viene monitorata da esperti. La loro attenzione si concentra sulla cosiddetta curva di tostatura, che indica l’aumento di temperatura dei chicchi in
un determinato lasso di tempo nel corso della lavorazione nell’apposita camera di torrefazione. «Ogni tipo di caffè ha una propria curva di tostatura, che ne rivela pienamente l’aroma». Anche le più piccole variazioni di temperatura o dei tempi di tostatura influiscono sul gusto del caffè. «In aggiunta all’origine e alle modalità di lavorazione del frutto in caffè greggio, la tostatura è un ulteriore strumento con il quale si può influenzare l’aroma del caffè», dice Christoph Brunschwiler. Anche la capsula del caffè è decisiva nel determinare il gusto. Durante la preparazione del caffè nella capsula c’è una forte pressione e l’acqua scioglie gli aromi presenti nella polvere. È così che si crea la crema dell’espresso. La capsula funge inoltre da barriera per conservare gli aromi e proteggere dall’ossidazione. A contatto con l’ossigeno il caffè macinato può irrancidire velocemente. Il problema è stato risolto grazie a uno speciale strato del materiale della capsula, sviluppato a tale scopo. «Così come per il caffè, anche per le capsule si continuano a ricercare nuove soluzioni, con l’obiettivo di migliorare il risultato finale, il contenuto della tazzina di caffè», spiega Brunschwiler. Come detto, chi si dedica con passione alla ricerca sul caffè, difficilmente trascorrerà momenti di noia nella sua quotidianità professionale.
Star della settimana
Espresso dall‘aroma forte Le pubblicità del Café Royal Espresso e delle altre varietà di Café Royal hanno quale testimonial nientemeno che Robbie Williams. Le capsule sono state sviluppate per l’utilizzo con gli apparecchi Nespresso®*. I chicchi provengono da piantagioni che lavorano con criteri ecologicamente e socialmente responsabili e che beneficiano del marchio «UTZ», che ne certifica la sostenibilità. Novità: i Café Royal sono disponibili anche in tutti i ristoranti e take-away Migros. * Questo marchio è proprietà di terzi, che non hanno alcun legame con Delica SA.
Concorso Le capsule di Café Royal Espresso contengono chicchi di caffè di alta qualità. Di quale specie? Rispondendo alla domanda su www.noifirmiamonoigarantiamo/ star-della-settimana, si partecipa all’estrazione. In palio carte regalo Migros per un valore totale di 150.franchi.
Christoph Brunschwiler e la star della settimana. Il Café Royal Espresso è tra i preferiti dagli intenditori di caffè.
Già nel 1925 i camion vendita Migros proponevano il caffè per la moka. «Voncafé» apparve nelle scansie negli anni quaranta come primo caffè solubile Migros.
M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche il Café Royal Espresso.
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Idee e acquisti per la settimana
Noi firmiamo. Noi garantiamo.
Lo specialista del caffè
Nel 1925 Migros ha aperto la sua prima azienda di torrefazione di caffè a Zurigo. Oggi presso Delica a Birsfelden, impresa di produzione Migros, vengono lavorati chicchi di caffè provenienti dal mondo intero. Christoph Brunschwiler, lo specialista del caffè, spiega il modo in cui l’aroma arriva fino alla tazzina
Per chi come Christoph Brunschwiler è attivo professionalmente nella produzione di caffè, il lavoro non si esaurisce mai. Brunschwiler è responsabile ricerca e sviluppo per caffè e capsule presso l’industria di produzione Migros Delica. È qui, sulle sponde del Reno, che dal 1954 Migros effettua la torrefazione dei chicchi destinati ai differenti tipi di caffè e ai diversi sistemi. Ciò vale anche per il marchio proprio «Café Royal», lanciato nel 2012. Sulla ricetta del Café Royal Delica stende un velo di silenzio. Si tratta di un segreto aziendale. Quel che si può dire è che il Café Royal Espresso è una miscela costituita al 100 percento da chicchi di arabica. Questi chicchi sono meno amari e contengono più acidi dal gusto piacevolmente fruttato rispetto a quelli della varietà robusta, che sul mercato costituisce la seconda più importante specie di caffè.
Testo: Thomas Tobler Immagini: Paolo Dutto
Origine decisiva
Sono oltre 1000 gli aromi che si sviluppano da un chicco di caffè durante la tostatura, un numero superiore a ogni altro genere alimentare. «Tuttavia il gusto inizia a formarsi molto prima», dice Christoph Brunschwiler. «Il punto di partenza è la preparazione del chicco di caffè come materia prima. Vale a dire l’estrazione del chicco dal frutto maturo, chiamato ciliegia, e l’essiccazione». Analogamente al vino, anche per il caffè
il potenziale dell’aroma è caratterizzato dalle condizioni climatiche, dalla posizione geografica, o ancora dalle specificità che contraddistinguono il terreno in cui si trova piantagione. «Da un caffè greggio proveniente dalla Colombia ci si aspetta per esempio una nota fruttata di bacca, una certa cremosità e un’acidità leggera». Sfumature di sapori che possono essere percepite solo da palati esperti di caffè, ma che hanno un ruolo determinante al momento in cui si sviluppa una nuova miscela. «Le diverse varietà di caffè greggio sono come gli strumenti di un’orchestra classica. Per una buona armonia è necessario il suono delicato del violino così come quello più potente del contrabbasso. Nel caso del caffè si tratta di una combinazione tra diverse varietà di chicchi greggi con differenti aromi, il cui risultato porta talvolta a un aroma forte, a volte cremoso, a volte piuttosto amaro». Le combinazioni e le variazioni possibili sono praticamente infinite. Esaltare l’aroma
Tornando alla torrefazione presso Delica, la macinatura dei chicchi avviene in condizioni ben precise. Malgrado i processi siano quasi completamente automatizzati, la tostatura viene monitorata da esperti. La loro attenzione si concentra sulla cosiddetta curva di tostatura, che indica l’aumento di temperatura dei chicchi in
un determinato lasso di tempo nel corso della lavorazione nell’apposita camera di torrefazione. «Ogni tipo di caffè ha una propria curva di tostatura, che ne rivela pienamente l’aroma». Anche le più piccole variazioni di temperatura o dei tempi di tostatura influiscono sul gusto del caffè. «In aggiunta all’origine e alle modalità di lavorazione del frutto in caffè greggio, la tostatura è un ulteriore strumento con il quale si può influenzare l’aroma del caffè», dice Christoph Brunschwiler. Anche la capsula del caffè è decisiva nel determinare il gusto. Durante la preparazione del caffè nella capsula c’è una forte pressione e l’acqua scioglie gli aromi presenti nella polvere. È così che si crea la crema dell’espresso. La capsula funge inoltre da barriera per conservare gli aromi e proteggere dall’ossidazione. A contatto con l’ossigeno il caffè macinato può irrancidire velocemente. Il problema è stato risolto grazie a uno speciale strato del materiale della capsula, sviluppato a tale scopo. «Così come per il caffè, anche per le capsule si continuano a ricercare nuove soluzioni, con l’obiettivo di migliorare il risultato finale, il contenuto della tazzina di caffè», spiega Brunschwiler. Come detto, chi si dedica con passione alla ricerca sul caffè, difficilmente trascorrerà momenti di noia nella sua quotidianità professionale.
Star della settimana
Espresso dall‘aroma forte Le pubblicità del Café Royal Espresso e delle altre varietà di Café Royal hanno quale testimonial nientemeno che Robbie Williams. Le capsule sono state sviluppate per l’utilizzo con gli apparecchi Nespresso®*. I chicchi provengono da piantagioni che lavorano con criteri ecologicamente e socialmente responsabili e che beneficiano del marchio «UTZ», che ne certifica la sostenibilità. Novità: i Café Royal sono disponibili anche in tutti i ristoranti e take-away Migros. * Questo marchio è proprietà di terzi, che non hanno alcun legame con Delica SA.
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2.50 invece di 4.20 Bistecca di lonza di maiale TerraSuisse marinata in conf. speciale per 100 g
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1.10 invece di 1.85 Costine di maiale Svizzera, imballate, per 100 g
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MENU IN FESTA In famiglia o con gli amici? Comunque decidiate di festeggiare, il pâté del primo d’agosto Rapelli dà un tocco geniale al menu. Da gustare con un’insalata di sedano rapa e noci al miele. Trovate la ricetta su migusto.ch e tutti gli ingredienti freschi alla vostra Migros.
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9.90 invece di 17.– Paté del 1° d’agosto Rapelli Svizzera, 500 g
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1.80 invece di 2.60 Orata reale d’allevamento, Grecia/Croazia, per 100 g
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di riduzione Tutti i tipi di pane alle noci per es. Happy Bread con noci, TerraSuisse, 350 g, 2.40 invece di 2.90
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8.80 invece di 11.– Bistecca di quorn al pepe da grigliare Cornatur conf. da 2 x 200 g
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4.75 invece di 6.– Spiedini di filetto di maiale con pancetta TerraSuisse Svizzera, al banco a servizio, per 100 g
40%
11.80 invece di 19.80 Salmone affumicato ASC d’allevamento, Norvegia, 330 g
25%
9.40 invece di 12.60 Nuggets di tacchino prodotti in Svizzera con carne di tacchino dal Brasile, conf. da 2 x 250 g / 500 g
30%
–.95 invece di 1.40 Cosce di pollo speziate Optigal Svizzera, in conf. alu da 4 pezzi, per 100 g
25%
3.95 invece di 5.30 Lombatine d’agnello Australia / Nuova Zelanda, imballate, per 100 g
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15%
10.95 invece di 12.90 Tutte le minirose M-Classic, Fairtrade disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo 40 cm, il mazzo, 20 pezzi, per es. arancioni
25%
2.90 invece di 3.90 Pesche piatte bio Spagna, conf. da 500 g
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25%
1.95 invece di 2.60 Peperoni misti Paesi Bassi, 500 g
30%
2.10 invece di 3.05 Prosciutto cotto Vivaldi prodotto in Ticino, affettato in vaschetta, per 100 g
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2.80 invece di 4.80 Pomodori peretti S. Marzano al kg
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4.30 invece di 5.40 Mozzarella Galbani in conf. da 3 3 x 150 g
Piatto grigionese Svizzera, per 100 g
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11.30 invece di 18.90
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DALL’ASIA ALLA TAVOLA Avete voglia di un piatto caldo, ma non di stare ore ai fornelli? Gli snack Anna’s Best Asia fanno al caso vostro. Da servire con un’insalata di spinaci e mango con salsa asiatica. Trovate la ricetta su migusto.ch e tutti gli ingredienti freschi alla vostra Migros.
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conf. da 6
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4.05 invece di 5.85 Rösti Original in conf. da 3 3 x 500 g
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di riduzione l’uno Tutti i mascara Covergirl a partire da 2 pezzi, 3.– di riduzione l’uno, per es. Plumpify VB 800, 13,1 ml, 10.90 invece di 13.90
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Idee e acquisti per la settimana
M-Classic
Deliziose tortine alla zucca
Le nuove tortine alla zucca si accompagnano bene ad un’insalata.
Le stuzzicanti tortine dell’assortimento M-Classic convincono allo stesso modo bambini e adulti, e c’è addirittura una novità! Alcuni clienti selezionati, hanno potuto provare il prodotto durante la fase di sviluppo delle nuove tortine alla zucca, e hanno apprezzato molto questa combinazione tra dolcezza della zucca, panna acidula e sapore intenso del Mostbröckli (carne secca appenzellese). L’idea di questa golosità arriva dagli utenti della piattaforma online Migipedia. Queste deliziose tortine alla zucca sono ideali per un bel aperitivo.
M-Classic tortine alla zucca con Mostbröckli surgelate 4 x 70 g Fr. 4.20 Nelle maggiori filiali
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Idee e acquisti per la settimana
UTZ
La coltivazione di nocciole sostenibili
Buono a sapersi Le nocciole, così come tutta la frutta secca, contengono molti grassi. Di conseguenza possono irrancidire velocemente. Se ne raccomanda pertanto la conservazione in congelatore. La frutta secca macinata può essere utilizzata subito, per quella intera è meglio aspettare che si scongeli.
Delica
Gold partner Delica, impresa di produzione Migros, sostiene il progetto «Happy Hazelnut» in qualità di gold partner e si rifornisce di nocciole certificate «UTZ» dagli agricoltori bio associati. Per mezzo di un premio supplementare, Delica sostiene i lavoratori stagionali e le loro famiglie.
La maggior parte delle nocciole viene raccolta in Turchia. Spesso le condizioni dei raccoglitori sono difficili. Migros si è impegnata in un progetto modello che consente ai lavoratori stagionali di percepire un salario equo Testo: Kian Ramezani
Le premesse
A favore del benessere dei lavoratori Nocciole Migros Bio, UTZ 200 g Fr. 4.60 A livello mondiale la gran parte del raccolto di nocciole proviene dalle regioni che si affacciano sul Mar Nero. La maggior parte degli oltre 350’000 coltivatori di nocciole al momento della raccolta ricorrono all’aiuto di braccianti. Nella maggioranza si tratta di famiglie di lavoratori stagionali, che svolgono lavori agricoli in diverse zone della Turchia, spostandosi da un posto all’altro. L’inserimento sociale di queste persone non è regolata al meglio. La remunerazione e l’alloggio dei raccoglitori, così come la custodia dei figli durante il lavoro, costituiscono aspetti da migliorare. Per questo motivo Migros e Delica, con altri partner, hanno unito le forze e assieme all’associazione «UTZ» hanno elaborato gli standard di sostenibilità per le nocciole. Il rispetto di standard minimi del diritto internazionale del lavoro, l’organizzazione di azioni di sensibilizzazione e il sostegno degli agricoltori nella gestione professionale delle coltivazioni di nocciole, per «UTZ» sono elementi primari. Nel 2016 Migros è stata tra i primi dettaglianti a livello internazionale a proporre nocciole certificate «UTZ». Il suo obiettivo: entro il 2018 tutte le nocciole del settore dolciario provenienti dalla Turchia devono essere certificate «UTZ».
Mar Nero
Turchia 1 200 km
Le nocciole provenienti dalla Turchia dell’assortimento Migros sono certificate «UTZ». Ciò significa che devono soddisfare severi requisiti in materia di sostenibilità. Malgrado la grande importanza che la produzione di nocciole riveste per il settore agricolo turco, le condizioni di coltivazione e di raccolta sono tutt’altro che avanzate. Per questo motivo l’industria di produzione Migros Delica si impegna con partner del posto per introdurre cambiamenti positivi e sostiene in modo determinante lo speciale progetto dal nome «Happy Hazelnut». Nell’intervista la responsabile del progetto Caroline Omondi ne illustra le sfide e racconta i primi successi dell’iniziativa. Caroline Omondi, cosa ha dato origine al progetto «Happy Hazelnut»?
Quando nel 2013 abbiamo visitato la
Turchia assieme a partner dell’industria alimentare svizzera, siamo stati confrontati con le difficili condizioni di lavoro dei braccianti stagionali. Nei noccioleti abbiamo visto bambini che aiutavano i loro genitori. Abbiamo anche visto alloggi rudimentari senza acqua corrente, con pochi servizi igienici e attrezzature da cucina. Parte delle persone alloggiavano in tenda. Per noi era chiaro: era necessario un intervento urgente.
contadini anche vitto e alloggio gratuito. Nella Happy House, uno degli alloggi che abbiamo costruito per i lavoratori stagionali e le loro famiglie, personale qualificato si prende cura dei loro bambini durante il giorno. Si trova nel mezzo di un noccioleto ubicato nella località di Paşalar, nel nord-ovest del paese. Svolge anche un’importante funzione sociale quale luogo di incontro per i lavoratori stagionali, i contadini, così come per gli abitanti dei villaggi vicini.
Quali sono i vostri obiettivi?
In che misura i contadini traggono profitto da «Happy Hazelnut»?
Vogliamo migliorare le condizioni di vita dei lavoratori stagionali così come i metodi di coltivazione dei contadini. Caroline Omondi lavora per la società commerciale svizzera Varistor SA ed è responsabile del progetto «Happy Hazelnut»
Come intendete raggiungere questi obiettivi?
Oltre al compenso giornaliero definito dallo stato, i braccianti ricevono dai
Grazie al progetto possono migliorare le condizioni di lavoro nelle loro aziende. Alloggio gratuito, pasti e cura dei bambini fan sì che possano contare sul ritorno dei lavoratori per il successivo raccolto. I nostri partner mettono anche a disposizione agronomi che mo-
strano loro il modo corretto di potare i noccioli e come utilizzare correttamente gli antiparassitari, in particolare nelle colture biologiche. Assicuriamo un mercato al prodotto e concediamo dei finanziamenti prima del raccolto. Qual è il prossimo passo?
Vogliamo raggiungere un maggior numero di consumatori. Per farlo il mercato deve però essere disposto a pagare di più. È una grande sfida, ma la sostenibilità ha un suo prezzo. In questo contesto è stato per noi molto importante contare su un partner come Migros. Abbiamo iniziato in piccolo, ma dal momento che Migros ordina grandi quantitativi abbiamo potuto coinvolgere un numero molto più ampio di agricoltori. A sua volta la certificazione «UTZ» ci ha permesso di raggiungere una maggiore cerchia di consumatori. Attualmen-
te siamo a poco meno di 900 tonnellate all’anno, ma è ancora insufficiente. Entro il 2020 vogliamo raddoppiare i quantitativi acquistati.
In arancione la regione della Turchia in cui si coltivano nocciole
Fotografie: Caroline Omondi/Roger Hofstetter, Christoph Kaminski
Nocciole macinate Migros Bio, UTZ 200 g Fr. 4.60
Nocciole macinate M-Classic, UTZ 200 g Fr. 4.20
Azione 30% su nocciole e mandorle macinate M-Classic, all’acquisto di 2 confezioni, fino al 31 luglio
L’obiettivo finale di «Happy Hazelnut» dovrebbe essere l’autoscioglimento, non appena la sostenibilità delle condizioni di lavoro migliora. Quanto manca?
Ogni consumatore può contribuire al raggiungimento dell’obiettivo in tempi brevi. Chi acquista nocciole di questo progetto contribuisce a sostenere uno sviluppo positivo, affinché in futuro condizioni di lavoro eque per tutti i lavoratori e per tutti i contadini vengano considerate come ovvie. Maggiori informazioni
www.happyhazelnut.ch (in inglese e tedesco)
UTZ è sinonimo di coltivazione sostenibile per caffè, cacao, tè e nocciole. Offre nel contempo migliori opportunità agli agricoltori e alle loro famiglie, così come al nostro pianeta.
2 1. Braccianti nei noccioleti di Pa�salars. 2. Happy House con spazio giochi per le famiglie dei braccianti stagionali.
Parte di
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 24 luglio 2017 • N. 30
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Idee e acquisti per la settimana
UTZ
La coltivazione di nocciole sostenibili
Buono a sapersi Le nocciole, così come tutta la frutta secca, contengono molti grassi. Di conseguenza possono irrancidire velocemente. Se ne raccomanda pertanto la conservazione in congelatore. La frutta secca macinata può essere utilizzata subito, per quella intera è meglio aspettare che si scongeli.
Delica
Gold partner Delica, impresa di produzione Migros, sostiene il progetto «Happy Hazelnut» in qualità di gold partner e si rifornisce di nocciole certificate «UTZ» dagli agricoltori bio associati. Per mezzo di un premio supplementare, Delica sostiene i lavoratori stagionali e le loro famiglie.
La maggior parte delle nocciole viene raccolta in Turchia. Spesso le condizioni dei raccoglitori sono difficili. Migros si è impegnata in un progetto modello che consente ai lavoratori stagionali di percepire un salario equo Testo: Kian Ramezani
Le premesse
A favore del benessere dei lavoratori Nocciole Migros Bio, UTZ 200 g Fr. 4.60 A livello mondiale la gran parte del raccolto di nocciole proviene dalle regioni che si affacciano sul Mar Nero. La maggior parte degli oltre 350’000 coltivatori di nocciole al momento della raccolta ricorrono all’aiuto di braccianti. Nella maggioranza si tratta di famiglie di lavoratori stagionali, che svolgono lavori agricoli in diverse zone della Turchia, spostandosi da un posto all’altro. L’inserimento sociale di queste persone non è regolata al meglio. La remunerazione e l’alloggio dei raccoglitori, così come la custodia dei figli durante il lavoro, costituiscono aspetti da migliorare. Per questo motivo Migros e Delica, con altri partner, hanno unito le forze e assieme all’associazione «UTZ» hanno elaborato gli standard di sostenibilità per le nocciole. Il rispetto di standard minimi del diritto internazionale del lavoro, l’organizzazione di azioni di sensibilizzazione e il sostegno degli agricoltori nella gestione professionale delle coltivazioni di nocciole, per «UTZ» sono elementi primari. Nel 2016 Migros è stata tra i primi dettaglianti a livello internazionale a proporre nocciole certificate «UTZ». Il suo obiettivo: entro il 2018 tutte le nocciole del settore dolciario provenienti dalla Turchia devono essere certificate «UTZ».
Mar Nero
Turchia 1 200 km
Le nocciole provenienti dalla Turchia dell’assortimento Migros sono certificate «UTZ». Ciò significa che devono soddisfare severi requisiti in materia di sostenibilità. Malgrado la grande importanza che la produzione di nocciole riveste per il settore agricolo turco, le condizioni di coltivazione e di raccolta sono tutt’altro che avanzate. Per questo motivo l’industria di produzione Migros Delica si impegna con partner del posto per introdurre cambiamenti positivi e sostiene in modo determinante lo speciale progetto dal nome «Happy Hazelnut». Nell’intervista la responsabile del progetto Caroline Omondi ne illustra le sfide e racconta i primi successi dell’iniziativa. Caroline Omondi, cosa ha dato origine al progetto «Happy Hazelnut»?
Quando nel 2013 abbiamo visitato la
Turchia assieme a partner dell’industria alimentare svizzera, siamo stati confrontati con le difficili condizioni di lavoro dei braccianti stagionali. Nei noccioleti abbiamo visto bambini che aiutavano i loro genitori. Abbiamo anche visto alloggi rudimentari senza acqua corrente, con pochi servizi igienici e attrezzature da cucina. Parte delle persone alloggiavano in tenda. Per noi era chiaro: era necessario un intervento urgente.
contadini anche vitto e alloggio gratuito. Nella Happy House, uno degli alloggi che abbiamo costruito per i lavoratori stagionali e le loro famiglie, personale qualificato si prende cura dei loro bambini durante il giorno. Si trova nel mezzo di un noccioleto ubicato nella località di Paşalar, nel nord-ovest del paese. Svolge anche un’importante funzione sociale quale luogo di incontro per i lavoratori stagionali, i contadini, così come per gli abitanti dei villaggi vicini.
Quali sono i vostri obiettivi?
In che misura i contadini traggono profitto da «Happy Hazelnut»?
Vogliamo migliorare le condizioni di vita dei lavoratori stagionali così come i metodi di coltivazione dei contadini. Caroline Omondi lavora per la società commerciale svizzera Varistor SA ed è responsabile del progetto «Happy Hazelnut»
Come intendete raggiungere questi obiettivi?
Oltre al compenso giornaliero definito dallo stato, i braccianti ricevono dai
Grazie al progetto possono migliorare le condizioni di lavoro nelle loro aziende. Alloggio gratuito, pasti e cura dei bambini fan sì che possano contare sul ritorno dei lavoratori per il successivo raccolto. I nostri partner mettono anche a disposizione agronomi che mo-
strano loro il modo corretto di potare i noccioli e come utilizzare correttamente gli antiparassitari, in particolare nelle colture biologiche. Assicuriamo un mercato al prodotto e concediamo dei finanziamenti prima del raccolto. Qual è il prossimo passo?
Vogliamo raggiungere un maggior numero di consumatori. Per farlo il mercato deve però essere disposto a pagare di più. È una grande sfida, ma la sostenibilità ha un suo prezzo. In questo contesto è stato per noi molto importante contare su un partner come Migros. Abbiamo iniziato in piccolo, ma dal momento che Migros ordina grandi quantitativi abbiamo potuto coinvolgere un numero molto più ampio di agricoltori. A sua volta la certificazione «UTZ» ci ha permesso di raggiungere una maggiore cerchia di consumatori. Attualmen-
te siamo a poco meno di 900 tonnellate all’anno, ma è ancora insufficiente. Entro il 2020 vogliamo raddoppiare i quantitativi acquistati.
In arancione la regione della Turchia in cui si coltivano nocciole
Fotografie: Caroline Omondi/Roger Hofstetter, Christoph Kaminski
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L’obiettivo finale di «Happy Hazelnut» dovrebbe essere l’autoscioglimento, non appena la sostenibilità delle condizioni di lavoro migliora. Quanto manca?
Ogni consumatore può contribuire al raggiungimento dell’obiettivo in tempi brevi. Chi acquista nocciole di questo progetto contribuisce a sostenere uno sviluppo positivo, affinché in futuro condizioni di lavoro eque per tutti i lavoratori e per tutti i contadini vengano considerate come ovvie. Maggiori informazioni
www.happyhazelnut.ch (in inglese e tedesco)
UTZ è sinonimo di coltivazione sostenibile per caffè, cacao, tè e nocciole. Offre nel contempo migliori opportunità agli agricoltori e alle loro famiglie, così come al nostro pianeta.
2 1. Braccianti nei noccioleti di Pa�salars. 2. Happy House con spazio giochi per le famiglie dei braccianti stagionali.
Parte di
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Consigli e ispirazioni per il 1. Agosto su eccolestate.ch
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Idee e acquisti per la settimana
Zoé
«Sì, funziona»
Hyaluron-Filler di Zoé agisce sulle rughe dall’interno, colmandole. È anche un valido aiuto di emergenza prima di un appuntamento. Lo conferma nell’intervista Sigrid Schneider, che si occupa di sviluppo prodotti Testo: Dora Horvath Immagini: Paolo Dutto
Complimenti, la sua pelle ha un aspetto davvero splendido. Come convive con le sue rughe?
Ho un’età in cui è necessario fare i conti con le rughe e le altre linee di espressione. E’ però comprensibile che ognuno vorrebbe avere un aspetto curato e sentirsi bene nella propria pelle. Ha già provato il nuovo filler Hyaluron?
Si, certo. Per motivi professionali già durante la fase di sviluppo del prodotto. In collaborazione con il reparto marketing, nei laboratori di Mibelle Group a Buchs elaboriamo le migliori ricette tenendo conto delle proprietà desiderate, come consistenza, profumo ed effetto del prodotto. Cosa è Hyaluron?
L’acido ialuronico è presente nei tessuti connettivi della pelle e ha la capacità di legare grandi quantità di acqua. Con l’avanzare dell’età la concentrazione di acido ialuronico diminuisce e di conseguenza anche l’elasticità del derma: si sviluppano così le rughe. Mano sul cuore: la crema fa scomparire le rughe?
L’effetto del nostro filler non è ovviamente paragonabile a quello di un’iniezione di acido ialuronico o di botox praticata in modo mirato nel tessuto. Abbiamo svolto dei test, in occasione dei quali è stata verificata l’efficacia del prodotto nel rimpolpare e rassodare la pelle, così come la capacità di ridurre la profondità delle rughe. Si tratta di test costosi, che necessitano di una consulenza scientifica. Le persone che hanno partecipato al test sono inoltre state intervistate in merito alla loro percezione delle proprietà del prodotto. Quale è stata la loro sensazione?
Al tatto la superficie della pelle è stata percepita morbida e vellutata, curata e idratata. Oltre all’acido ialuronico, quali altri principi attivi sono presenti nella crema?
Phytocelltec Vitis Vinifera. Si tratta di un estratto di cellule staminali di una varietà di uva molto rara. Rafforza le difese naturali della cute e la protegge dai radicali liberi. La crema contiene inoltre il principio attivo Liftessence, ottenuto da una felce della Nuova Zelanda. Migliora l’elasticità e la compattezza della pelle. Perché nella preparazione del filler l’acido ialuronico non è stato combinato con l’urea?
L’urea è utilizzata in particolare nella preparazione di prodotti per le pelli molto secche, che devono quindi essere estremamente idratanti. Come e quando va utilizzato il filler?
Può essere usato mattina e sera, prima di spalmare le normali creme da giorno e da notte, applicandolo in modo mirato sulle zone del viso più sensibi-
Zoé Lift Advanced Anti-Aging Hyaluron Filler 30 ml Fr. 18.80 Nelle maggiori filiali La chimica Sigrid Schneider è visibilmente orgogliosa della sua più recente creazione. Ha sviluppato il filler Hyaluron con le sue sei collaboratrici.
li alle rughe. Si tratta per lo più della fronte e dalle zone attorno agli occhi e alla bocca. Le caratteristiche dell’erogatore permettono un dosaggio ottimale del prodotto. La crema ha un effetto preventivo nella formazione delle rughe?
Si, lo ha. Un’applicazione regolare rafforza l’efficacia del filler.
Si può utilizzare in modo mirato, per esempio se si desidera avere un aspetto più giovane prima di un appuntamento?
Sì, funziona. Alle volontarie che hanno partecipato ai nostri test abbiamo esplicitamente posto domande anche su questo aspetto. Il 70% delle donne ha confermato un immediato effetto rassodante. La piccola dimensione del
tubetto di questa crema fa inoltre sì che il prodotto possa essere facilmente portato con sé in borsetta. Il prodotto può essere usato anche dagli uomini?
Certamente. Del resto è da tempo risaputo che gli uomini attingono con frequenza ai vasetti di crema delle loro compagne.
M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche il filler Hyaluron di Zoé.
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