Azione 30 del 20 luglio 20

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Tra il cervello degli uomini e quello delle donne non ci sono differenze: il libro della neuroscienziata Gina Rippon contro gli stereotipi di genere

Ambiente e Benessere Allattamento ai tempi del Covid-19: ce ne parlano la pediatra Patrizia Tessiatore, la levatrice Veronica Birtolo, e il pediatra Alessandro Diana

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 20 luglio 2020

Azione 30 Politica e Economia La partita dei fondi UE per la ricostruzione delle economie comunitarie va molto al di là dell’aspetto finanziario

Cultura e Spettacoli Continua il nostro viaggio alla scoperta dei trattati d’arte del glorioso passato italiano

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di Mauro Giacometti pagina 5

Ti-Press

Molto più di semplice roccia

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Guerra fredda o guerra aperta? di Peter Schiesser Come segretario di Stato, Henry Kissinger fu con il presidente Richard Nixon l’architetto del disgelo fra Stati Uniti e Cina, nel 1971: che ora, a 97 anni, riconosca che fra le due superpotenze, l’una affermata l’altra in divenire, è cominciata una guerra fredda, la dice lunga sullo stato delle relazioni fra il paese alfiere del capitalismo e quello del capitalcomunismo. Se la prima guerra fredda che oppose Washington e Mosca terminò con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, non è detto che la seconda avrà un epilogo analogo. Al contrario potrebbe, come suggeriscono studiosi come Graham Allison dell’università di Harvard, riproporsi la cosiddetta «trappola di Tucidide», secondo cui la logica e inevitabile conseguenza dello scontro di due potenze in lotta per l’egemonia è la guerra, come avvenne per decenni nel quinto secolo avanti Cristo fra Atene e Sparta. Una guerra nucleare, un’invasione terrestre? Impensabile. Un «incidente» fra le marine dei due paesi? Molto più probabile, inevitabile secondo numerosi analisti. Perché è nel Mar Cinese meridionale, di cui Pechino rivendica la sovranità (3 milioni e 500mila km quadrati),

che la politica espansionista cinese si mostra più aggressiva: con la creazione di atolli artificiali trasformati in basi militari, con l’affondamento di pescherecci, con i ripetuti sconfinamenti di vascelli cinesi nelle acque territoriali di Malaysia, Vietnam, Filippine, con manovre militari. Ma l’imperialismo cinese, che possiamo far coincidere con l’arrivo al potere di Xi Jinping (ormai presidente a vita), non si limita al Mar Cinese: nell’Himalaya occidentale la «frontiera» con l’India (tecnicamente la Linea attuale di controllo) è diventata incandescente dopo gli scontri all’arma bianca che hanno causato decine di vittime, in quello orientale si avanzano pretese territoriali verso il regno del Bhutan. E forte della sua rafforzata posizione geostrategica, la Cina adotta ritorsioni contro chiunque osi criticarla. Sono gli Stati Uniti ad averla iniziata, questa nuova guerra fredda, con la guerra commerciale lanciata da Trump? Piuttosto, il presidente ha semplicemente adeguato la rotta della diplomazia statunitense verso una Cina che si mostra sempre più assertiva e corsara. Oggi la volontà di contrastare la sua avanzata è forse l’unica cosa che accomuna democratici e repubblicani negli Stati Uniti, troppo grande è il timore di vedersi superare nei prossimi decenni, con Pechino

che approfitta delle debolezze e del know how tecnologico dell’Occidente. Gli Stati Uniti hanno smesso di credere che il benessere materiale avrebbe spinto la Cina a riformarsi, hanno constatato che la ricchezza accumulata nei decenni in cui è stata la fabbrica a basso prezzo del mondo viene impiegata per primeggiare, per sbarazzarsi del fastidio democratico di Hong Kong, per rinchiudere in campi di rieducazione un milione di uiguri nello Xinjiang, per assorbire nella sua orbita i paesi che cedono al miraggio della Belt and road initiative. I cinesi sono consapevoli che la guerra fredda è iniziata. E sono pronti a combatterla. A questo punto lo sono anche gli Stati Uniti e a poco a poco pure gli europei. Lo vediamo nella crescente volontà di chiudere le porte al gigante tecnologico cinese Huawei, nonostante questo renda più difficile l’introduzione in Europa della tecnologia del 5G, nelle sanzioni decretate dopo l’imposizione di una nuova e repressiva legge sulla sicurezza a Hong Kong. Una scaramuccia nei mari cinesi del sud può ancora essere controllata. Ma che cosa potrebbe succedere se Pechino osasse invadere Taiwan, di cui rivendica la sovranità? In quel momento avremmo la misura dell’effettiva forza dei due contendenti.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Società e Territorio Formazione e tecnologia Le nuove tecnologie trasformano, supportano e completano il nostro modo di lavorare: una sfida per chi si occupa di formazione

Un’estate family Il festival luganese dedicato alle famiglie è più vivace che mai nonostante le restrizioni imposte che lo hanno privato del Villaggetto al Palazzo dei Congressi

Passeggiate svizzere Affrontiamo la breva del Maloja in barca sul lago di Sils con Oliver Scharpf per raggiungere l’isola Chaviolas pagina 7

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pagina 3 Nel suo libro Gina Rippon sostiene che i cervelli di uomini e donne sono in gran parte plasmati dai condizionamenti sociali a cui sono sottoposti nel corso della vita.

Le neuroscienze per la parità di genere Contro gli stereotipi Gina Rippon studia in laboratorio i cervelli di uomini e donne per dimostrare

che non ci sono differenze cognitive tra i due sessi

Stefania Prandi Quando Gina Rippon, neuroscienziata cognitiva, ha iniziato a studiare il cervello di donne e uomini, credeva che avrebbe trovato delle differenze. Dopo una serie di verifiche, cercando di scoprire quali aree cerebrali caratterizzassero un sesso rispetto all’altro, la professoressa emerita dell’Aston University di Birmingham, nel Regno Unito, si è però accorta che stava andando nella direzione sbagliata. Impiegando strumenti tecnologici e procedure sperimentali (in inglese neuroimaging) – come la risonanza magnetica – per la visualizzazione del cervello in vivo, non riusciva a trovare differenze tra teste maschili e femminili. Ha dovuto quindi constatare di essere partita da un assunto fuorviante, che adesso definisce non solo «il risultato di pregiudizi», ma, in modo più tranchant, usando un neologismo, «neurospazzatura». Un altro termine che utilizza è «neurosessismo», ricordando che a coniarlo è stata la scienziata australiana Cordelia Fine. Lo stereotipo nel quale è incappata Gina Rippon non è un’eccezione, anzi, continua ad alimentare un vero e proprio filone editoriale, nel quale spic-

cano titoli bestseller «che sostengono, addirittura, in modo paradossale, che donne e uomini vengano da pianeti diversi». Appena esce qualche ricerca che cavalca il preconcetto, viene rilanciata dai media con l’uso dei colori rosa e azzurro nelle illustrazioni. Un’attitudine che poggia su una tradizione, lunga secoli, di stampo «essenzialista», che cioè motiva i comportamenti umani attingendo ai dati biologici. Per fare qualche esempio: nell’Ottocento il medico e antropologo Cesare Lombroso e il sociologo Guglielmo Ferrero scrivevano che il «cranio femminile ha somiglianza con l’infantile e il cervello della donna pesa meno di quello dell’uomo». Gli studi più recenti confermano che le donne hanno un cervello, in media, più piccolo del dieci per cento di quello maschile, semplicemente perché hanno una corporatura, in genere, meno massiccia; è una questione di scala. Senza contare, che se si dovesse misurare l’intelligenza in base alla dimensione, cosa si dovrebbe pensare di animali come le balene e gli elefanti, con i loro cervelli enormi? Un altro fautore dell’inferiorità femminile era il filosofo August Comte, secondo il quale il destino delle donne era stare tra le mura domestiche dedicandosi a tem-

po pieno alla maternità, assecondando così la «loro vera natura». «Qualsiasi cosa renda diversi i corpi a livello sessuale, dall’apparato riproduttivo agli ormoni, non incide sui cervelli e quindi sulle potenzialità di pensiero» spiega Gina Rippon nelle numerose conferenze disponibili online e nel suo ultimo libro, The Gendered Brain (The Bodley Head Ltd), che ha ottenuto un grande seguito, con recensioni entusiaste e critiche feroci negli ambienti più conservatori. Nei talks su Internet risponde con ironia agli attacchi dei suoi detrattori, che la definiscono – per citare uno degli appellativi più gentili – una «vecchia bisbetica scorbutica», e precisa che i pregiudizi sulle differenze cerebrali tra uomini e donne hanno conseguenze nefaste. Il fatto che si creda che il cervello femminile sia predisposto «naturalmente» all’empatia e alla cura degli altri (figli e famiglia in primis) e non alla politica e al pensiero scientifico, incide sulle vite individuali. A causa di queste credenze, molte donne ricevono stipendi non adeguati, hanno meno possibilità di occupazione, di carriera e in generale di contribuire alla vita pubblica. Situazione diversa da quella del genere maschile, che gode

della fama di «innata e meravigliosa abilità cognitiva e strategica». Da dove ha origine il divario di genere se non viene dal cervello? «Dall’esterno», ribadisce Rippon. «La società, con la scusa di presunte differenze cerebrali, influenza le cose che facciamo, studiamo e pensiamo. Una delle maggiori scoperte dei tempi recenti è che i nostri cervelli continuano a cambiare nel corso dell’esistenza, non soltanto per l’educazione che riceviamo ma per il nostro lavoro, gli hobbies e gli sport. Possiamo osservare, sulle mappe cerebrali, le peculiarità delle persone che abitualmente giocano ai videogame, che fanno gli origami, che suonano il violino. Vedere i segni che la vita lascia nelle nostre menti ci fa anche capire il potere degli stereotipi di genere, fin dall’infanzia. Se potessimo seguire il viaggio dei cervelli di una bambina e di un bambino, monitorandoli fin dal momento della nascita, potremmo verificare nel dettaglio come vengano posizionati da subito su strade diverse. Giocattoli, vestiti, libri, genitori, famiglie, insegnanti, scuole, norme sociali e culturali condizionano potenzialità ed espressioni del pensiero». L’autrice di The Gendered Brain ha

sperimentato di persona gli effetti del divario di genere. Fin da piccola è stata una studentessa brillante. A undici anni ha vinto una borsa di studio per una scuola prestigiosa ma i genitori non hanno voluto che la accettasse. Invece, le hanno fatto frequentare un collegio per ragazze dove non si studiavano materie scientifiche e si riceveva un’educazione per diventare mogli di diplomatici oppure madri. Suo fratello gemello, pur non avendo la sua stessa predisposizione, ma essendo maschio, è stato iscritto a una scuola con tutti i crismi. «Il mio sogno era studiare il cervello. Avrei voluto tanto iscrivermi a medicina, purtroppo ormai fuori dalla mia portata. Dopo quel tipo di percorso scolastico, psicologia era la facoltà più accessibile». Successivamente si è specializzata con un dottorato in Psicologia fisiologica. Quando non è in laboratorio, dove con le tecniche di imaging cerebrale all’avanguardia studia anche i disturbi dello sviluppo, partecipa a incontri e conferenze «per sfatare il mito pernicioso delle differenze cerebrali». Una missione che a settant’anni porta avanti con passione e fiducia. Perché, come ripete spesso, il Ventunesimo secolo sarà quello della svolta, rispetto a certe credenze.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Il potenziale inespresso delle nuove tecnologie

Formazione Alcune tecniche, come la realtà aumentata, diventeranno cruciali per le aziende di domani

e per molte professioni di oggi. Ne abbiamo parlato con Siegfried Alberton responsabile regionale della formazione continua all’Istituto Universitario Federale per la Formazione Professionale Sara Rossi Guidicelli Nuovi mestieri. O mestieri che si trasformano. O nuovi modi di lavorare, di eseguire un lavoro, di coordinarlo. Secondo Siegfried Alberton, responsabile regionale della formazione continua all’Istituto universitario federale per la formazione professionale, «le nuove tecnologie hanno un potenziale ancora in gran parte inespresso». E queste opportunità di crescita, di inventiva, di cambiamento positivo hanno molto a che vedere con la formazione e la formazione continua. «In questo periodo di emergenza sanitaria lo abbiamo toccato con mano: tutto può rivoluzionarsi e dobbiamo essere pronti. Abbiamo anche imparato che alcune strategie di lavoro sperimentate possono essere adottate anche senza emergenza sanitaria, perché sono più efficaci, più economiche o più valide. Per esempio alcuni strumenti didattici digitali oppure una parte del lavoro che può essere svolto da casa o ancora alcune riunioni a distanza che funzionano benissimo con i programmi online di comunicazione, con effetti positivi sull’efficienza ma anche sull’ambiente. Al contrario abbiamo capito che ci sono alcuni processi lavorativi e formativi che non appena si potrà, sarà meglio tornare a svolgerli in presenza: alcune competenze considerate fondamentali dal mercato del lavoro non possono essere costruite a distanza, così come alcuni processi lavorativi come ad esempio le fasi finali di un negoziato commerciale», spiega Alberton, che da anni si occupa di come le nuove tecnologie possono aiutare le professioni e le attività economiche a modernizzarsi e a rimanere sul mercato con linfa nuova. Le «nuove tecnologie», quelle che hanno a che fare con il mondo digitale in particolare, non vanno a sostituire, detto fatto, il lavoro dell’uomo, ma lo trasformano, lo supportano e lo completano. Non è sufficiente trasferire online ciò che prima si faceva frontalmente. Nella didattica gli insegnanti lo hanno sperimentato e hanno appreso quanto sarà importante rivedere anche i modelli pedagogici-didattici. Idem nel commercio elettronico che ha dato un’idea del suo potenziale di sviluppo in questo periodo di distanziamento fisico. Il cambiamento in gioco va ben al di là della sostituzione dell’acquisto in un negozio con l’acquisto online: va rivista tutta la catena logistica con impatti non indifferenti in termini organizzativi, di trasporto, ambientali, economici e sociali. L’uso delle tecnologie, oggi più che mai, richiede un processo di ripensamento sistemico molto profondo. La formazione in questo ha un ruolo chiave, come ha scritto di recente

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

La realtà aumentata ha un grande potenziale ad esempio per manutenzioni o riparazioni a distanza. (Wikimedia)

Siegfried Alberton sulla rivista, «Skilled», edita dall’Istituto Universitario Federale per la Formazione Professionale: «La sfida sta nel trasformare concretamente i principi didattici in processi di apprendimento efficaci. I formatori e le formatrici in “transizione” dal vecchio al nuovo paradigma, grazie alla loro formazione continua, giocano un ruolo fondamentale nel preparare i giovani, già pienamente dentro il nuovo paradigma, a vivere questa nuova era da protagonisti e, soprattutto, ad armi pari». Lo sviluppo delle competenze professionali deve inoltre essere sempre più orientato alla pratica. Le competenze vanno costruite attraverso una didattica per situazioni veritiere, in ambienti reali e virtuali, sfruttando le potenzialità delle tecnologie digitali e le modalità attraverso cui le nuove generazioni desiderano apprendere, come giochi, simulazioni, apprendimento a distanza e apprendimento collaborativo, in stretto contatto con il territorio e il mondo dell’economia. Alberton ha portato a più riprese le sue classi master a risolvere problemi reali e concreti riscontrati nelle aziende. «Queste aziende, sempre molto sollecitate, non avevano spesso il tempo di riceverci in presenza; allora la tecnologia ci è venuta in aiuto. Abbiamo trovato soluzioni alternative, per esempio con la registrazione di video-presentazioni in cui le aziende lanciavano la sfida agli

studenti su problemi che stavano vivendo in quel momento, alla ricerca di soluzioni creative ma fattibili. Gli studenti hanno fornito proposte alle aziende le quali hanno inviato un feedback videoregistrato che è poi stato utilizzato come base per l’esame finale. Non tutto si può fare a distanza, o virtualmente, ma è anche vero che senza l’ausilio della tecnologia, nel caso specifico, non sarebbe stato possibile organizzare un lavoro pratico con le aziende. Ai giovani questo modo di lavorare piace molto; si sentono coinvolti perché devono organizzarsi (in modo autonomo e responsabile) per risolvere problemi reali. I casi aziendali proposti dalle riviste e dai manuali non producono gli stessi stimoli e nemmeno le stesse competenze». La tecnologia ha un potenziale inespresso, secondo l’esperto, perché ci sono ancora ampi settori in cui non viene sfruttata appieno. La realtà aumentata, per esempio, esiste da anni, ma pochi la usano, mentre permetterebbe tra le altre innumerevoli cose di fare manutenzione e riparazioni a distanza, risparmiando tempo e spostamenti. Anche le stampanti in 3D creano prototipi in modo rapido con materiali riciclabili direttamente a «casa» del cliente. Ci sono vantaggi ecologici ma anche economici: viaggiano files al posto di manufatti e lo fanno attraverso la rete e non sulle strade, sull’acqua o per via aerea. O ancora, la domotica permet-

terebbe a persone in età avanzata o con disabilità a vivere da sole (ma monitorate a distanza) a casa propria e la lista è ancora lunga. Gli chiediamo di farci un esempio di «nuovo mestiere» che si avvale di nuove tecnologie e si àncora ai bisogni del presente. Ce ne cita uno tra i vari che sono nati ultimamente – e non stiamo parlando degli ultimi mesi ma degli ultimi anni: gestore delle emergenze. Tra le crisi possibili nel nostro mondo odierno ci sono per esempio i cambiamenti climatici, con gli incendi di foreste, lo scioglimento dei ghiacciai e la migrazione forzata di persone; ci sono gli hackers, un nuovo virus o il sovraccarico di Internet. Mario Simaz, colonello Smg dell’esercito per le truppe di salvataggio, ha creato in Ticino nel 2015 la Swissteamleaders, che si occupa proprio della gestione di situazioni di crisi e catastrofi. «Nel mio lavoro bisogna soprattutto prevedere, stare attenti ai segnali, leggere le ricerche degli esperti», spiega Simaz. «Bisogna immaginarsi e attrezzarsi. Formarsi. Si lavora molto prima affinché quando si è nell’emergenza si possano disporre dei contatti, delle tecnologie, delle informazioni necessarie a fronteggiare la crisi». La Swissteamleader lavora a livello internazionale occupandosi di un grande ventaglio di possibili catastrofi. Lavora con esperti internazionali che hanno specifiche competenze e profili

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

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La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

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operativi strategici in numerosi campi, che vanno dai droni all’informatica alla formazione di personale specializzato. Tutto ciò che serve per «sapere in anticipo», sfruttando ogni nuovo metodo per figurarsi gli scenari, per esempio grazie alla realtà aumentata, e incrociando i dati per sapere del numero elevatissimo di variabili di cui tenere conto. Ma è anche in stretto contatto con aziende che non solo prevedono ma che anche «curano», cioè quelle società che hanno creato prodotti innovativi unici nell’ambito dell’emergenza. Swissteamleaders si occupa anche di dare supporto a start-up che hanno creato qualcosa di particolarmente innovativo nell’ambito della gestione di emergenze e crisi di varia natura. Nel mondo della produzione di beni, invece, la nuova tendenza riguarda il ciclo produttivo e in particolare il riutilizzo degli scarti. L’economia lineare è arrivata al suo limite, come tutti si stanno accorgendo, e ora si parla di economia circolare: «Si tratta di un paradigma che applica i principi della biomimesi, cioè l’approccio all’innovazione che emula i processi biologici della natura», spiega ancora Siegfried Alberton. «Il modello che ne sta alla base è la capacità del sistema economico di autorigenerarsi, riducendo al minimo gli scarti che, in parte, possono diventare risorse da reinserire nel ciclo produttivo in ogni sua fase». Per esempio il settore automobilistico: già dal design di una nuova macchina, si cerca oggi di prevedere dove finirà ogni pezzo affinché non vada buttato ma possa essere riciclato, trasformato, rivenduto. Non solo si risparmiano i costi di rottamazione, smaltimento, riciclo, ma considerando fin dall’inizio le possibilità di riutilizzo produttivo delle componenti e dei materiali, si può persino trarre profitto da ciò che di norma è conosciuto come un costo non recuperabile. «Con questa emergenza sanitaria che abbiamo vissuto», conclude Alberton, «ci siamo resi conto delle potenzialità di molte tecnologie innovative. Non basta conoscerle e applicarle, ma bisogna appropriarsene, ripensando, in modo sistemico e multidimensionale, a molti modi di lavorare e interagire. Abbiamo anche avuto le prove di come basta bloccare tutta una serie di spostamenti per avere un impatto sull’ambiente di rilievo. E in questo chi dovrebbe uscirne vincente non sono solo i “nuovi mestieri creati per il mondo di oggi”, ma anche i produttori locali, gli artigiani (i cosiddetti nuovi makers), chi punta sul chilometro zero e l’adattabilità, chi lavora con spirito creativo, facendo tesoro di innovazione e tradizione, per reinventarsi senza buttare via niente». Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Idee e acquisti per la settimana

Dolce velluto del Vallese

Attualità Da Migros trovate le deliziose albicocche vallesane. Tante varietà per un frutto simbolo di qualità svizzera,

rinfrescante e utile per il sistema immunitario

Fiorisce per prima, dunque del Vallese non poteva che esserne... regina! L’albicocca non a caso i romani la chiamavano praecocium, cioè precoce. La sua è una storia millenaria che inizia ovviamente in Asia, in Cina (Manciuria), passa dal bacino mediterraneo, in particolare dall’Armenia – da qui il suo nome scientifico Prunus armeniaca – poi da Siria e dalla Turchia, da dove è stata importata dai romani in Italia. Arriverà in Francia nel 15° secolo e finalmente in Svizzera, sulle rive del Rodano tra Sierre e Martigny, nella seconda metà dell’Ottocento. Oggi troviamo alberi di albicocche anche in California, Sud Africa e Australia. Pare che dobbiamo la presenza nel nostro paese della «Luizet», la varietà più diffusa fino agli anni Ottanta tra giugno e agosto, a un religioso con la passione per la botanica che, nella regione di Lione, iniziò a coltivarla, giungendo in Vallese grazie a un viaggiatore. Nel cantone ci sono coltivatori con alberi vecchi di 200 anni e ancora fruttiferi, e si contano quasi 700 ettari di frutteti, 150 produttori che dagli anni 90 hanno diversificato la produzione

con decine di varietà (precoci e tardive), la quale è capace di soddisfare la metà del consumo nazionale. Ma perché mai proprio il Vallese? Benché sia la regione più settentrionale d’Europa per la sua coltivazione, qui c’è un microclima secco e molto soleggiato, poca grandine e un’ottima irrigazione grazie ai famosi e antichi canali vallesani (bis-

ses). Ciò fa sì che tutta la sponda sinistra del Rodano sia riservata a questo frutto: esposta a nord ritarda la fioritura e previene il gelo. Ecco perché il 96% delle albicocche svizzere è vallesano. Con quel suo inconfondibile colore tra il rosso e l’arancione, la sua buccia come velluto, il sapore dolce-acidulo, l’albicocca è profumata, rinfrescante,

povera di calorie, ricca di vitamine, in particolare dell’antiossidante betacarotene che fa molto bene alla pelle, ma soprattutto utile al sistema immunitario perché aumenta le difese del nostro corpo. Che la si gusti al naturale o per altre ricette (crostate, sorbetti, marmellate, succhi ecc.), poco importa: l’albicocca è un raggio di sole in più che

allieta la nostra estate! Infine il «marchio Vallese» è garanzia di qualità e di freschezza. In primavera i fiori vengono sfoltiti per poter cogliere il frutto nel momento giusto, ma soprattutto passa dall’albero ai rivenditori al massimo in un paio di giorni. Quando si dice... dal coltivatore direttamente al consumatore! / mj

Lo zafferano biologico

Novità Lo zafferano Leprotto Bio per i tuoi

piatti di ogni giorno

Zafferano Leprotto Bio 2 bustine da 0,15 g Fr. 5.30 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Lo zafferano è una delle spezie più versatili e può essere utilizzato quotidianamente per esaltare il gusto di molte pietanze: dall’antipasto al primo, dal piatto forte fino al dolce. Chi predilige i prodotti biologici alla Migros trova ora lo Zafferano Leprotto Bio, uno zafferano realizzato con la medesima passione, cura e attenzione alla qualità che fin dal 1963 contraddistingue il classico zafferano Leprotto. Un pregiato prodotto, ottenuto dalle migliori coltivazioni da agricoltura biologica, per offrire al consumatore uno zafferano gustoso, naturale e certificato secondo

i severi controlli degli enti autorizzati dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. Lo Zafferano Leprotto Bio è un prodotto garantito da un marchio italiano di lunga tradizione e ottenuto con esclusive tecnologie di lavorazione e confezionamento capaci di offrire al consumatore uno zafferano sicuro, sostenibile e dalle qualità organolettiche costanti nel tempo e certificate. Lo Zafferano Leprotto Bio non contiene grassi o calorie, aggiunto ai tuoi piatti quotidiani ti regala salute, sapore, profumo e il bel colore giallo della felicità e del buonumore.

Insalata d’orzo allo Zafferano Leprotto BIO con gamberi freschi e pomodorini Ingredienti per 4 persone Pronto in 30 min 300 g. di orzo perlato 6 alici sotto olio 150 g. di pomodorini ciliegino 250 g. di gamberi freschi 1 bustina di Zafferano Leprotto BIO 5 cucchiai di olio extra vergine di oliva basilico q.b. sale q.b.

Preparazione Fate lessare l’orzo in abbondante acqua salata per 20 minuti o quanto indicato sulla confezione (l’orzo deve rimanere croccante). Nel frattempo, pulite i gamberi e metteteli insieme con le alici in una padella con l’olio e fateli scottare per qualche secondo, aggiungete lo zafferano precedentemente sciolto

in poca acqua di cottura dell’orzo e teneteli al caldo. Scolate l’orzo, fatelo saltare con i gamberi e lasciatelo raffreddare. A parte tagliate e private dei semi i pomodorini e le foglie di basilico, conditeli con olio e sale e unite il tutto all’orzo. Mescolate bene e lasciate raffreddare in frigorifero.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Società e Territorio

Storie di granito, cavisti e… galline golose di marmo

Incontri L’industria estrattiva della Svizzera italiana resiste nonostante concorrenza estera,

costi dei trasporti e qualche litigio. Tre esempi di imprenditori che da generazioni «coltivano» la pietra

Mauro Giacometti «Sa qual è la migliore clientela per il mio marmo? Le galline». Sorride e quasi ti schernisce Marzio Maurino, 80 anni, da 60 occupato nell’azienda di famiglia, la Graniti Maurino SA di Biasca, la più antica «fabbrica» di pietre del Ticino (ha da poco celebrato i 125 anni di attività). A vederci sgranare gli occhi dalla sorpresa nell’immaginare batterie di polli abbuffarsi del suo marmo (di solito sono le capre golose del sale sulla pietra viva), Maurino preleva da un sacchetto una manciata di granelli bianchi luccicanti: «Questo è granulato di Cristallina, il marmo bianco di Peccia, in Vallemaggia, che viene estratto da una mia cava. Mischiato al mangime, fornisce una dose di carbonato di calcio indispensabile alla produzione di uova. Noi preferiamo utilizzarlo nell’edilizia, ma nella regione di Massa Carrara, ad esempio, la produzione di granulato per galline sta superando il giro d’affari dei lastricati di marmo», sottolinea l’imprenditore biaschese. Che di graniti e di marmi sa praticamente tutto e però passa dal sorriso allo sguardo orgoglioso quando sul maxischermo dell’ufficio appare l’immagine del palazzo Bucherer di Zurigo, nella centralissima Bahnhofstrasse, tutto lastricato del «suo» marmo Cristallina. «Nonostante sia nato e cresciuto con il granito, ho sempre avuto un’attrazione speciale per il marmo bianco di Peccia. Così, dopo due tentativi andati a vuoto, una decina di anni fa ho acquistato la cava e l’azienda Cristallina. Quello di Peccia, in Vallemaggia, è un marmo veramente speciale ed unico in Europa: è composto al 98% da carbonato di calcio e i suoi cristalli hanno un diametro variabile dai 3 ai 5 mm, molto più grossi, ad esempio, di quelli di Carrara. Per questo motivo il marmo Cristallina ha un caratteristico e unico luccichio che ne fa un materiale speciale per l’edilizia e le composizioni artistiche», spiega. Ma il granito resta il suo primo amore, tanto che quando appare sul maxischermo Piazza Liberty a Milano e l’Apple Store, rivestito da lastre del suo gneiss della Riviera, tornano a brillargli gli occhi. «In oltre un secolo di storia aziendale ne abbiamo fatte di realizzazioni, ma quella dell’Apple

Vista dall’alto della cava della famiglia Polti in Valle Calanca. (Alfredo Polti SA)

Store di Milano è un’opera di cui vado veramente orgoglioso», spiega, raccontando che anche l’architetto Norman Foster, che ha firmato il progetto meneghino, s’è complimentato con lui e la sua azienda per la qualità e la posa del materiale. Gli stessi «atout» che hanno portato l’imprenditore biaschese a fornire il gneiss per la pavimentazione del mega centro d’affari e commerciale «The Circle» oramai ultimato presso l’aeroporto di Zurigo-Kloten. Anche Giovanni Polti è orgoglioso della cava aperta un secolo fa ed ereditata dal nonno, che si chiamava come lui, e ampliata dal padre Alfredo, che ha consolidato l’attività di famiglia, quella di «coltivatori di granito» in Calanca, valle laterale del Moesano. Dalla montagna che s’affaccia sul fiume Calancasca, su pendii quasi tutti di proprietà della famiglia Polti, si estrae a cielo aperto il Calanca Gneiss, un tipo di granito scuro e venato, molto simile a quello della Vallemaggia – mentre quello della Riviera di Lodrino è più chiaro – e adatto sia per costruzioni che per abbellimenti estetici. «Questa

cava non sarà eterna, anche se abbiamo una riserva di materiale per i prossimi 15/20 anni. Dunque ci concentriamo su una produzione di nicchia, gneiss utilizzato per rivestire fontane, piscine e giardini, per realizzare scale o ricoprire tetti, puntando ad una clientela svizzero-tedesca e germanica, che apprezza molto la pietra naturale. Poi abbiamo una lavorazione ancora di tipo artigianale, con interventi manuali nel trattare il materiale, ed anche questo è molto apprezzato sia dalla clientela che dagli architetti paesaggisti che sono il nostro principale punto di riferimento commerciale», spiega Giovanni Polti mentre ci accompagna in fuoristrada nel bel mezzo della cava, attorniati da massi giganteschi e altrettanto grossi macchinari per il trasporto più a valle della roccia appena estratta. «Nel 2007 qui ci fu una frana che sfiorò la nostra cava ma mise in ginocchio l’azienda estrattiva dei miei cugini. Abbiamo rilevato quella cava, liberandola dal materiale franato e mettendo in sicurezza tutta l’area. Ora disponiamo di un certo spazio in più per immagazzinare

L’emergenza sanitaria non ha fermato ma solo rallentato la «granitica» inaugurazione del Centro internazionale di scultura (CIS) di Peccia (Comune di Lavizzara), in Vallemaggia, zona doc di estrazione del marmo Cristallina, particolarmente adatto alla lavorazione artistica. Così, inizialmente prevista per il mese di maggio di quest’anno, l’inaugurazione del CIS è in programma per la primavera del 2021. Questo progetto di promozione culturale, sostenuto dal Canton Ticino con 3 milioni di franchi (50% del progetto), aprirà dunque le sue porte ad artisti provenienti da tutto il mondo, che potranno ricevere una borsa di studio per un soggiorno a Peccia per diversi mesi. L’ampio spazio espositivo ospiterà mostre di opere contemporanee curate dal Comitato artistico della Fondazione promotrice del progetto che ha come scopo sociale la costruzione e l’esercizio del CIS. Il villaggio valmaggese,

© Thierry Burgherr

A Peccia il Centro internazionale di scultura

con l’apertura del Centro internazionale di scultura, diventerà così un polo culturale dove artisti e un pubblico internazionale avranno la possibilità di confrontarsi e incontrarsi «cementando» i propri rapporti con il tipico marmo bianco che si estrae nella regione. Il Centro comprende

un ampio padiglione dedicato a esposizioni, conferenze e alle attività degli sponsor, nonché cinque atelier dotati di una moderna area di lavoro. Gli atelier verranno attribuiti annualmente ad altrettanti borsisti, sulla base di un concorso internazionale. Info su: www.centroscultura.ch.

lo gneiss appena estratto, che può arrivare a circa 50 mc al giorno», sottolinea Polti. Granito che non può essere interamente utilizzato per produrre lastricati o altri rivestimenti. «Se va bene riusciamo a lavorare la metà della pietra estratta, il resto è materiale di scarto. Ma, tramite un accordo con un’azienda specializzata di Grono, dallo scarto si riesce a produrre del granulato utilizzabile nell’edilizia e nella pavimentazione di strade», dice l’imprenditore della «Calancatal». Insomma di marmi e graniti, così preziosi e faticosi da estrarre e da lavorare, non si butta via nulla. E nonostante l’artigianato estrattivo abbia fatto passi da gigante, quello che per molti decenni è stato un settore trainante dell’economia della Svizzera italiana ora marcia un po’ sul posto. Sono rimaste una dozzina le aziende del settore e tra queste non regna certo l’armonia, tanto che l’associazione mantello s’è sciolta qualche anno fa e anche il recente tentativo di dare un marchio doc al granito indigeno, con la costituzione del gruppo «Ticino Gneiss», è destinato al fallimento. «Non c’è che dire, i cavisti sono molto litigiosi – conferma Fabio Campana, uno degli storici artigiani del gneiss con la sua cava privata a Riveo, in Vallemaggia, fondata dal padre nel 1939 e gestita tuttora con i fratelli –. Poi a metterci i bastoni tra le ruote ci sono anche i vincoli paesaggisti, rumori e polvere causati dall’estrazione e i rapporti non sempre idilliaci con i Patriziati, che in genere sono i proprietari delle cave. Infine la concorrenza estera e la committenza, che punta sul prezzo e non sulla qualità del prodotto», sottolinea Campana. Tutto ciò non vieta però all’imprenditore di Riveo di fregiarsi di qualche fiore all’occhiello tra le sue referenze, come le pietre per rivestimento e i gradini massicci che abbelliscono la chiesa bottiana di Mogno oppure il rivestimento dei piazzali delle stazioni ferroviarie di Thun o di Muralto, recentemente ristrutturata. «Per una regione periferica come la Vallemaggia o l’Onsernone, l’industria estrattiva deve continuare ad essere un’opportunità, anche dal punto di vista turistico. E il nuovo Centro internazionale di scultura di Peccia dovrebbe portarci ulteriore visibilità», conclude Fabio Campana.

Fiumi, cascate e laghi da (ri)scoprire Pubblicazioni Sono

120 i suggerimenti balneari contenuti nella guida illustrata curata dalla giornalista Iwona Eberle

In quest’estate a chilometro zero, nella quale molti hanno rinunciato alle vacanze e si godono le bellezze dietro l’angolo di casa arriva in libreria una pubblicazione che sembra pensata apposta, ma che ovviamente vede come destinatari privilegiati i turisti che vogliono scoprire la natura del Ticino. Si tratta di una guida illustrata ai luoghi balneari del nostro cantone, pensata dalla giornalista svizzerotedesca Iwona Eberle e arricchita dalle fotografie di Christoph Hurni. I due hanno esplorato l’intero cantone da nord a sud in un tour, scrivono, «molto faticoso dove non mancano né sudore né crampi muscolari» e che «dura più del previsto: le acque del Ticino offrono una quantità sorprendente di meraviglie idriche mozzafiato». Un tuffo in Ticino, questo il titolo della guida pubblicata da Casagrande (ma che è stata pubblicata anche in tedesco con il titolo Wild und frisch Tessin dall’editore Salamander), presenta ben centoventi luoghi dove fare il bagno, rinfrescarsi e trovare ristoro

In copertina: la cascata di Mondada.

nelle giornate più calde. Fiumi, pozze, cascate, laghi, laghetti, spiagge, lidi, scivoli naturali, rocce da cui tuffarsi: il Ticino è davvero una terra ricchissima per gli amanti dell’acqua. Il libro è organizzato in sezioni corredate da cartine (Leventina e Blenio, Riviera, Moesano, Piano di Magadino, bassa Verzasca, alta Verzasca, bassa Vallemaggia, alta Vallemaggia, Onsernone, Centovalli, Lago Maggiore e Sottoceneri) e per ogni meta c’è l’indicazione del percorso e delle vie di accesso più facili, le fermate dei mezzi pubblici e i parcheggi più vicini, oltre a una scheda con fotografie e, infine, le coordinate. Sorprende la ricchezza dei suggerimenti che completano la guida, dalle passeggiate o pedalate ai grotti, dalla visita a un mulino o a un mercatino a dove prendere il sole più a lungo o godersi un rilassante aperitivo. Particolarmente utile è aver pensato anche a una differenziazione tipologica delle diverse zone perché, si sa, una famiglia con bambini piccoli ha esigenze molto diverse da un gruppo di giovani amici, e poi c’è chi ama i tuffi e chi invece privilegia la vista panoramica. Completano la guida le indispensabili informazioni relative alla sicurezza in acqua e alle norme di comportamento adeguate. / BM


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Società e Territorio

Dieci anni di Family Festival

Estate Nonostante le restrizioni imposte dalle norme Covid che lo hanno privato del Villaggetto al Palazzo

dei Congressi il festival dedicato alle famiglie è più vivace che mai, parola di Tessa Casagrande

Valentina Grignoli Che sarebbe stata un’estate particolare già ce lo aspettavamo. Molti eventi annullati, accessi a bagni e lidi non sempre facilitati, assembramenti non garantiti. Ma mentre si pensava al peggio, negli ultimi mesi qualcuno ha continuato il suo lavoro nonostante tutto, ideando e programmando un festival per famiglie senza la certezza di poterlo poi realizzare. Stiamo parlando di Tessa Casagrande, del Dicastero Giovani e Eventi di Lugano, direttrice artistica del Family Festival.

Tra le novità di quest’anno: iniziative d’integrazione, eventi per teenager e numerosi laboratori per bambini «Programmo il Family, che è una delle anime del Longlake Festival, da 10 anni, coinvolgendo le famiglie in spettacoli e laboratori, in giochi e spazi», ci racconta. «Normalmente il Festival dura tutto il mese di luglio, con un villaggio per i bambini e uno stretto programma di eventi. Quest’anno c’era molta indecisione: non sapevamo se farlo nel solito luogo, se sarebbe stato rimandato ad agosto, oppure annullato. Io ho deciso di non pensarci troppo: mi sono preparata

come sempre, e quando a fine maggio il Consiglio di Stato ne ha annunciato attraverso le direttive la fattibilità, dall’entusiasmo ho fatto slittare gli artisti su tutti e tre i mesi estivi, inaugurando una formula che ad oggi trovo meravigliosa. Dura di più, e se i primi due giorni della settimana sono dedicati agli adulti attraverso film e spettacoli di teatro (Words Festival), da mercoledì a domenica sappiamo che al Boschetto Ciani c’è sempre qualcosa per bimbi e ragazzi». Con un palco tutto per sé, nel suggestivo «boschetto» al centro del Parco della Città, il Family Festival non sente troppo la mancanza dei giochi del Villaggetto al Palazzo dei Congressi, al quale ha dovuto rinunciare per ovvie ragioni igieniche, anzi, acquista così centralità e importanza. Non ci sono stati e non ci saranno i Grandi eventi musicali dell’estate luganese (l’Estival Jazz, il Roam, il Blues to bop), ma rimane intatta l’offerta alle famiglie. Tessa Casagrande, come si costruisce normalmente la programmazione di questo festival? «L’ideale sarebbe spostarsi e scovare gli spettacoli dal vivo. Non essendo sempre possibile ci si rifà spesso ad internet per trovare vincitori di festival e recensioni. Dieci anni fa mi ha dato un grande aiuto Vania Luraschi, è stata fondamentale, le devo davvero molto». Oggi che questa realtà è conosciuta sono le compagnie stesse a farsi avanti, e il lavoro è semmai quello di selezionare le proposte, anche secondo i criteri

Il palco del Boschetto al Parco Ciani. (© Divisione eventi e congressi, Città di Lugano)

propri del Festival: spettacoli fattibili all’aperto e con pochi mezzi tecnici. Il palco del Boschetto vede di fronte a sé sedie distanziate a gruppetti, molte, ma sparse. Come l’avrà presa il pubblico? «Sono rimasta stupita, l’atmosfera è ogni sera bellissima. La gente arriva, vede la situazione, si siede, è tranquilla». Poca tensione e diserzione insomma, e l’affluenza rimane invariata. «Certo, prima ci si ammassava di più e gli attori si sentivano più vicini al pubblico, questo ce l’hanno fatto notare le compagnie stesse, ma gli spettatori sono felici ugualmente».

Non solo spettacoli ma anche laboratori per bambini. Tre a settimana, e si va dallo yoga alle corone floreali, dalla cucina al rugby. Il tutto sparso in tre sedi centrali della città, Villa Carmine, il Foce e il Parco Ciani. «Mi piacerebbe poterlo decentralizzare un po’, andare incontro a chi non abita il centro, ma per ora non è possibile. Sono però attivi per tutta l’estate, e come sempre gratuiti. Basta iscriversi per assicurare la tracciabilità, condizione per la realizzazione di questa importante parte del Festival. Cerco nella programmazione di coinvolgere realtà già esistenti

sul territorio durante l’anno, così che la gente le possa conoscere». Tra l’universo di proposte una salta all’occhio, e sono i laboratori di mcmc, Un passo verso la città. Si tratta di un’associazione svizzera affiliata alla Fosit (Federazione delle ONG della Svizzera italiana), che propone, attraverso il progetto «Un passo verso la città» corsi di italiano, corsi professionalizzanti ed iniziative d’integrazione per donne straniere che necessitano di sostegno per potenziare e completare il loro percorso di integrazione. «Abbiamo proposto a mc-mc di collaborare, aprendo anche alle famiglie del territorio la partecipazione alle attività con i laboratori, favorendo così una reale integrazione. Già al Villaggetto, gli scorsi anni, abbiamo visto una forte affluenza di pubblico proveniente da paesi diversi dal nostro, abbiamo deciso quindi di andare in questa direzione». Da quest’anno poi sono attive le pagine su Instagram e Facebook che con le loro stories raccontano un Family per tutti, anche durante il resto dell’anno. E sono arrivate le proposte teen dai 13 anni in su: i film del giovedì sera e gli spettacoli teatrali della domenica. «Una fascia d’età che non ero mai riuscita ad attirare e che invece sta partecipando numerosa», conclude soddisfatta Tessa Casagrande. Informazioni

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Società e Territorio Rubriche

Approdi e derive di Lina Bertola I miti e gli infiniti intrecci della vita Nei giardini della Reggia di Caserta uno splendido gruppo scultoreo è dedicato alla vicenda di Diana e Atteone, narrata da Ovidio nelle sue Metamorfosi. Il cacciatore, di nobile stirpe, ebbe la sventura di imbattersi in una piccola grotta in cui la bellissima Diana, quando era stanca di cacciare, era solita «spandere puri fiotti sulle sue membra di vergine». Atteone non conosceva quel sacro recesso, ce lo portò il destino. Ma la scoprì nuda e per non vedere mai rivelato questo inconsapevole oltraggio, Diana trasformò le sue sembianze: «inondò la faccia dell’uomo, diede al capo spruzzato corna di cervo longevo, allungò il collo, appuntì in cima le orecchie, cambiò le mani in piedi, le braccia in lunghe zampe e ammantò il corpo in un pelame chiazzato. E aggiunse la timidezza». Le Metamorfosi di Ovidio, scritte tra il 2 e l’8 d.C., raccontano l’invincibile forza della vita nelle sue infinite trasformazioni, anche nelle forme più tragiche e

inquietanti. Con l’intensità espressiva dei miti, questo grandioso poema ci offre uno straordinario messaggio filosofico, un attualissimo invito alla riflessione: che siano umane, animali o vegetali, non esistono chiari confini tra le varie forme di vita. Forse è proprio per la potenza di questo messaggio che ogni volta che mi accolgono i colori del Parco e le luci della Foce, mi torna alla mente la vicenda di Atteone e dei suoi amatissimi cani, descritti da Ovidio con amorevole attenzione nei più intimi dettagli delle loro qualità «umane», proprio come fossero persone. Quando mi trovo in questi luoghi mi viene sempre da pensare all’intelligenza dei miti nel raccontarci gli infiniti intrecci della vita. Perché qui la vita mi accoglie con tanti fili colorati e luminosi, sospesi nell’aria, o fluttuanti sull’erba, o ancora, abbandonati per un attimo in riva al fiume. Sono fili simbolici i guinzagli che arredano l’orizzonte di uomini

donne e cani; sono fili simbolici che trascendono la loro fisicità e sembrano volerci suggerire il farsi e il disfarsi di sempre nuovi legami possibili. Chi sceglie il cammino su cui correre o il luogo in cui sostare? La domanda appare di per sé sbagliata, perché in questi panorami protagonista è solo la vita nel suo agitarsi. Una vita che danza i suoi attimi e inventa coreografie in un giocoso reciproco riconoscimento: una specie di intreccio identitario tra gli animali e i loro «padroni» (termine davvero infelice, infelice tributo all’immaginario economico). Nell’armonioso continuum della vita che ci accoglie in questi luoghi ciò che conta è solo il reciproco riconoscimento che, proprio come il riconoscersi allo specchio della propria umanità, mette in scena il gioco di una condivisione. Un gioco autentico proprio perché nutrito dal sentimento di libertà, bellezza e gratuità del gesto in cui si esprime la no-

stra comune appartenenza alla natura. Quanto sia fondamentale questo reciproco riconoscimento e quanto invece sia disastrosa la sua mancanza, o il suo fallimento, ce lo indica ancora Ovidio con il tragico epilogo della metamorfosi di Atteone. Trasformato in cervo da Diana, i suoi amatissimi cani non lo riconoscono più. Il nobile cacciatore guarda stupito nell’acqua e versa lacrime su un volto che non è il suo. «Tutta questa muta affamata di preda lo insegue per rupi e dirupi e rocce inaccessibili, per dove la via è difficile, per dove una via non c’è. E vorrebbe gridare: sono io, Atteone, non mi riconoscete? Vorrebbe ma gli manca la parola. E il cielo rintrona di latrati». Questo inquietante epilogo esprime la più grande tragedia possibile in cui, a differenza di ciò che accade in moltissime altre metamorfosi, la vita alla fine soccombe. Narciso, ad esempio, muore consumato dal dolore, ma si trasforma in un bellissimo fiore.

Qui Ovidio, con un messaggio capovolto, viene invece ad annunciarci il rischio di sempre possibili derive. E dopo averci guidato nell’assaporare le amorevoli armonie del Parco e del Fiume, ci trascina fuori da questo incanto. I possibili disastri di un mancato reciproco riconoscimento, o di un riconoscimento fallito, ci attendono in altri luoghi e in altre situazioni del nostro vivere e convivere. Luoghi e situazioni certo molto diversi, ma purtroppo anch’essi assai frequentati e familiari. Luoghi in cui l’ordine della natura rischia di essere frantumato, in cui si crea disarmonia e sofferenza e alla fine ribellione. Rivestitici del nostro antropocentrismo possiamo fare un giro allo zoo ad ammirare tigri annoiate o elefanti in attesa di esibirsi; o possiamo volgere lo sguardo soddisfatto sulle infinite risorse che continuiamo a pretendere dalla natura.

onda qua è dura» mi dice il capitano. «Si è alzato due ore prima del previsto» aggiunge. Sedici gradi non è freddissima per andarci a nuoto, ma è la distanza che mi preoccupa. Raggiungerla in windsurf sarebbe l’ideale magari. Alla fine mi porta il Capitano. Appuntamento all’una, per le due dobbiamo essere di ritorno perché deve salpare con il suo vapurin che dal 1907 è la linea nautica più elevata d’Europa. Mi siedo in fondo alla barca azzurra di nome Lessj – come il nome engadinizzato del famoso rough collie televisivo ma non credo sia così però non chiedo niente per rimanere con quest’idea in testa – che il Capitano spinge piano in acqua. E salta su mettendosi in mezzo. Rema fino a piegarsi indietro con la schiena, solo così riesce a cavalcare le onde. Inclinazione sportiva, ritmo, piega del remo. «È dura» mi fa. E per me, ancora prima di arrivare all’isola sul territorio di Sils che sembra non interessare a nessuno, è il mio eroe del giorno. Anche di domani, va. Il Capitano senza età con tanto di cappello bianco come in Love Boat, ha vinto la breva del Maloja e lascia scivola-

re la barca in una insenatura finché si spiaggia con naturalezza. Balzo fuori e perlustro, un primo pomeriggio di luglio, l’isola Chaviolas (1807 m). Prevale il cembro, qualche peccio c’è anche, un paio di larici non mancano. Spunta il rosa sgargiante della Rosa pendulina, scovo i fiori estrosi gialli della Gentiana lutea, in tinta con il papavero alpino che mi lascia di stucco. Conto tre uova appena schiuse di non so che uccello. All’estremità sud, scorgo bene l’isolotto senza nome e giù in fondo, spunta la torre Belvedere, sogno naufragato del conte belga Camille de Renesse di un castello mai realizzato. Un cervo una volta, è stato visto pattinare sul lago ghiacciato fino a quest’isola di tremilaquattrocento metri quadrati e rimanerci fino all’inverno successivo. Torna a casa Lessj. «E solo quando voi tutti mi avrete rinnegato, tornerò tra voi» disse Zarathustra. Itaca, mi viene in mente per un attimo l’isola omerica dell’eterno ritorno. Un mio amico, quando gli ho detto il mio traguardo di viaggio, quest’isoletta d’altura l’ha soprannominata «Cifolas».

il guazzo per la scenografia del Flauto magico mozartiano di Karl Friedrich Schinkel. L’Apparizione della Regina della notte in piedi su una falce di luna come adagiata su un vortice nuvoloso che porta con sé gli ultimi bagliori del tramonto sullo sfondo di un cielo blu brillante esaltato da curvilinee traiettorie stellate, dà ogni volta la sensazione di perdersi in un fondale magico senza fine che potremmo sentire come un’estensione cosmica di noi stessi. Non è la stessa romantica atmosfera dei quadri di Kiefer che sono piuttosto cupi. In Stelle cadenti l’uomo a torso nudo che osserva il cielo notturno è steso su un terreno rinsecchito. Non c’è uno slancio verso l’alto piuttosto quella miriade di puntini bianchi su sfondo nero sembrano spingere verso il basso, sembrano opprimere l’uomo e la sua terra inospitale. Affascinato da questo quadro e dalla sua potenza espressiva Mantellini con grande

rammarico sospira «Quel cielo, quella volta al contempo opprimente e meravigliosa, è oggi un oggetto morto: l’ultimo e il più importante dei nostri oggetti morti». Non voglio crederci, non voglio credere che abbiamo disimparato anche questo, a girare il naso all’insù per seguire la corsa di una nuvola o capire da dove cade la pioggia. Non voglio credere che l’uomo di Kiefer sia l’uomo di un tempo che non esiste più. Usciamo di casa, andiamo per le strade e ammiriamo il cielo. Insegniamo alle nuove generazioni che ci sono cose come la contemplazione della volta celeste, che la tecnologia non potrà mai superare. Emozioni, nel bene e nel male, che un telefonino non ci potrà mai dare. Se, come ci esorta a fare Proust, non riusciamo a conservare un lembo di cielo sopra le nostre vite, allora non solo il cielo è un oggetto morto ma noi siamo uomini a metà.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf L’isola Chaviolas Ricordo quando andavo in giro con uno o due amici delle elementari, da una casa all’altra, suonando con timidezza il campanello, per vendere i talleri d’oro. Li portavamo in una scatola al collo e alcuni ne compravano un paio anche per noi che appena girato l’angolo, scartavamo subito con gioia la stagnola dorata del tallero di cioccolato. La storia del tallero d’oro incomincia nel 1946 per salvare il lago di Sils. Idea di Pro Natura ed Heimatschutz che grazie a ottocentoventitremilaquattrocentoventi talleri d’oro, riescono a scacciare l’incubo di una centrale idroelettrica. Meno male, ma camminando tra i larici lungo il lago di Sils a quest’ora increspato dal vento, penso che neanche a un cinghiale verrebbe mai in mente di rovinare questo paesaggio che spesso scombussola quasi per la troppa bellezza. Per questo forse, «qui dove Italia e Finlandia si sono strette in alleanza» come scrive Nietzsche in Umano, troppo umano (1878), pochi fanno caso se sul lago ci sia un’isoletta o meno. Io, invece, senza questa isoletta che sembra chiamarsi come un terzinaccio spagnolo spaccagambe, oggi non

saprei che farmene di questo paesaggio quasi troppo paradisiaco la cui luce mutevole strega anche le mucche in riva al lago. Chaviolas si trova tra Sils Maria e Isola: un pugno di case – antiche stalle e fienili per l’estivazione dei contadini di Stampa oggi in gran parte ristrutturate, per una volta tanto, come Dio comanda – isolate a ridosso di una torbiera in un angolo del lago dove arrivo ora a piedi da Maloja. Ultimo pezzo di Bregaglia prima dell’Engadina: un miraggio, con la marea di rosa panna stordente della Persicaria bistorta a perdita d’occhio. Non posso non fermarmi a uno dei tavolini fuori del ristorante-hotel Lagrev per un caffè e una torta di mirtilli con il sole in faccia. Con Isola già nel cuore non solo per il toponimo, mi rimetto in cammino. Fino a rimanere senza fiato, su un promontorio, vedendo lì davanti, in uno squarcio di bosco, l’isola verde scuro sul lago smeraldo con lo sfondo laggiù del verdino alta montagna frammisto a roccia che a percorrerlo con gli occhi si arriva su fino al Piz Lagrev. Verso le cinque, in balìa delle onde e del vento incessante, incagliato tra gli

scogli, il capitano Franco Giani balza a bordo della barca a remi noleggiata cinque minuti fa. Mi salva da una deriva certa se prendevo il largo. Un imbranato che è andato una volta sola in barca a remi, per farla breve, ha fatto il passo più lungo della gamba. Ha prevalso l’incoscente desiderio d’isola. «Vieni domani verso le nove e mezza dieci che ce la fai, il lago è piatto, il vento si alza verso mezzogiorno l’una» mi fa il capitano Franco. Da cinquantunanni al comando del suo battello che da metà giugno a metà ottobre, quattro volte al giorno, fa il giro del lago: Sils Maria, Chastè, Plaun da Lej, Isola, Maloja. Nella rimessa dove il suo vapurin va in letargo mentre lui sverna sul Lario, c’è appesa un po’ la storia della famiglia Giani sul lago di Sils – raccolta dalla figlia Francesca che ha studiato filosofia – iniziata dal bisnonno Luigi venuto a fine Ottocento dal lago di Como. Il quale portava in giro Nietzsche in barca. Il giorno dopo, al mattino presto il lago è liscio come l’olio, un pescatore rema sereno. Poi però verso le dieci già mi sembra un po’ mosso. «Eh con questa

La società connessa di Natascha Fioretti Il cielo stellato sopra di noi Cari lettori, ci siamo lasciati con gli oggetti morti di Massimo Mantellini e, come promesso, a questi torniamo e per un semplice motivo: non si tratta solo di oggetti. Il libro nelle sue riflessioni e nelle sue traiettorie alla fine prende una piega inaspettata e arriva a parlarci di silenzi, di stelle e di cieli. Di cose che non sentiamo e non vediamo più perché immersi nella guerra dell’attenzione, nell’epoca della distrazione e delle sollecitazioni continue. Prima c’erano l’inquinamento acustico e quello luminoso poi sono arrivati i telefonini. Vi ricorderete come della «Sindrome dello sguardo basso» parlò tempo fa già Michele Serra nel suo libro Ognuno potrebbe, in cui la fidanzata del protagonista finisce al Pronto Soccorso per colpa di una strana malattia definita appunto Sindrome dello sguardo basso. Chi è afflitto da questa malattia «può venire investito da un camion o precipitare

in un buco sul marciapiedi semplicemente perché la testa è china sullo schermo dello smartphone invece di guardare avanti». Grazie a diversi studi e all’aumento del numero di investimenti stradali è ormai risaputo che la distrazione cognitiva tra i pedoni data dall’uso dello smartphone riduce la consapevolezza del rischio e aumenta i comportamenti pericolosi. A Honolulu chi passeggia con gli occhi incollati sul cellulare, oltre a non vedere le stelle che da quelle parti devono essere davvero belle, si prende una bella multa. Sta di fatto che per ogni cosa che lasciamo e una nuova che conquistiamo, nel passaggio dall’una all’altra, avviene una perdita. Non solo visiva, tattile ma di relazione e significato. Dice Mantellini «esiste un legame indissolubile fra gli oggetti e le persone che li hanno posseduti, una relazione che si sostanzia in piccoli segni fisici». E

non tutte le perdite sono uguali. Posso fare a meno di una cartina geografica cartacea in cambio di Google map ma non posso fare a meno del cielo stellato sopra di me. «Non devo attendere una notte serena, né alzare la testa, per osservare il cielo. L’ho dietro a me, sottomano e sulle palpebre. Il cielo mi avvolge ermeticamente e mi solleva dal basso» recitava Wislawa Szymborska nella sua poesia Il cielo. Mantellini non chiama in causa la poesia o la filosofia, se lo facessimo ci racconteremmo di cieli stupendi per ore e ore, ma l’arte e in particolare due opere di Anselm Kiefer pittore e scultore tedesco: Stelle cadenti e Il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me. Nel primo c’è un uomo sdraiato sotto un cielo scuro con tante piccole luminosissime stelle, nel secondo un uomo in piedi in città che con un braccio sorregge il cielo. Se penso alla volta celeste e alle stelle luminose vedo


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Ambiente e Benessere Inseguendo megattere Dopo le strategie alimentari, ecco studiate le rotte migratorie di questi giganti dell’oceano

Far «vacanza» lavorando Il workation fa collidere due geografie diverse anche se complementari pagina 12

Pollo latino-americano Intero, appiattito e spolverato con timo, rosmarino e aglio prima di finire sulla griglia pagina 15

Se lo sport non è salute Sempre più attuale il problema dell’estremo agonismo che mette a rischio psiche e corpo

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pagina 11

Covid-19 frena l’allattamento al seno? Medicina OMS: la paura del contagio non

deve separare i bambini dal latte materno

Maria Grazia Buletti «La paura del Covid-19 sta eclissando i progressi per migliorare la diffusione dell’allattamento al seno», «La paura del contagio separa i bambini dal latte materno»: a lanciare l’allarme è un nuovo rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), dell’Unicef e dell’International Baby Food Action Network (Ibfan), secondo cui la pandemia sta mettendo in secondo piano l’importanza e i benefici dell’allattamento al seno. «In troppi paesi madri e bambini vengono separati alla nascita, rendendo l’allattamento al seno e il contatto pelle a pelle difficili, se non impossibili, tutto sulla base di nessuna prova» afferma Patti Rundall del Consiglio globale dell’Ibfan a cui fa eco il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus che esorta non solo a non temere l’allattamento al seno, ma invita pure le madri con il Coronavirus ad allattare: «Madri con sospetto Coronavirus o positive devono allattare i loro bambini e non esserne separate, a meno che non si sentano troppo male». Alla Clinica Sant’Anna di Sorengo abbiamo incontrato la levatrice Veronica Birtolo per capire la percezione, i timori e le domande sull’allattamento delle future e neomamme sul territorio, cominciando dalla modalità con cui è stata gestita l’emergenza Covid-19: «Per quanto attiene alle informazioni sull’allattamento nel periodo precedente il parto, abbiamo osservato che certamente le donne esprimevano maggiore necessità di approfondire argomenti che, magari, fuori dal periodo pandemico non avrebbero suscitato preoccupazioni o timori così importanti. Da parte nostra, quando abbiamo la possibilità di incontrarle prima del parto e del travaglio (ad esempio durante la visita della sala parto), dedichiamo loro più tempo per placare i timori e le eventuali paure». Naturalmente prima della nascita è il ginecologo il punto di riferimento molto importante, anche se la levatrice spiega che il sistema ormonale della futura mamma è programmato in modo da «andare step by step» e l’allattamento viene normalmente affrontato dopo la nascita: «È sempre quella arte che “arriva dopo”, e possiamo affermare che, ad oggi, sull’allattamento non sono emerse paure così grandi per rapporto al Coronavirus». La nostra interlocutrice ricorda

che sia Unicef sia Oms riconoscono gli studi tutt’ora in corso e invitano ad allattare perché è emerso che il rischio è davvero minimo. «Potrebbe per contro destare un po’ di preoccupazione il rischio di trasmissione per via aerea, dunque dato dalla vicinanza durante l’allattamento tra neonato e mamma, qualora quest’ultima fosse infetta: più del latte, è la modalità di contagio che vale per tutti», spiega Veronica che non ha avuto a che fare direttamente con madri Covid positive perché queste sono eventualmente confluite nel centro di riferimento dedicato. «Comunque, avremmo dovuto far tenere loro la mascherina durante la poppata (e preferibilmente sempre), un’igiene approfondita delle mani, evitando eccessivi contatti di baci e abbracci col piccolo: alquanto spiacevole ma necessario». Il pediatra infettivologo Alessandro Diana di Ginevra conferma, dati alla mano, quanto la levatrice ticinese ha sino ad ora affermato: «Sebbene vi siano evidenze che il virus si possa trovare anche nel latte materno, i dati sono piuttosto “marginali” e il rischio di contagio è presente preferibilmente per via respiratoria-contatto». Qualche dato a suffragio di quanto egli afferma: «17 articoli messi assieme riportano 115 mamme infettate da Covid-19. 13 bambini Covid positivi (4 allattati, 5 con formula, 2 misti e 2 non si sa). La ricerca della presenza SARS-CoV2 nel latte materno su 20 mamme ha dato i seguenti risultati: 18 negative, 2 positive. 7 di queste mamme avevano neonati con Covid-19». Più dell’interpretazione scientifica di questi numeri, il dottor Diana ci fornisce una chiave di lettura confortante: «È difficile stabilire se la via di trasmissione sia stata il latte materno, il semplice contatto a pelle o per via respiratoria; importante è poter dire che i neonati ammalati sono davvero pochissimi e il decorso è in genere favorevole». La pediatra Patrizia Tessiatore di Lamone conferma l’efficacia dell’informazione delle future e neomamme da loro ricevuta al momento del parto: «Le neomamme ticinesi che si sono rivolte a me sino ad oggi erano già state informate in merito alla questione Covid-19 e allattamento. Questo grazie sia alle informazioni ricevute in ospedale o in clinica prima della dimissione, sia al lavoro delle levatrici e consulenti a domicilio che operano capillarmente e in modo molto efficace sul territorio». La pediatra incontra solitamente neonato

La Clinica Sant’Anna di Sorengo, dove lavora la levatrice Veronica Birtolo. (clinicasantanna.ch)

e famiglia nel primo mese di vita, quando è importante rinforzare le informazioni ricevute e confermarle attraverso i dati scientifici di volta in volta disponibili: «Così proseguiamo nell’accompagnamento dei genitori per quanto attiene alla scelta di allattamento; e così facendo nessuno ha mai deciso di interrompere l’allattamento per questo». Fino ad ora non è ancora mai successo alla nostra interlocutrice di ricevere neonati con mamme Covid positive: «Immagino che se avvenisse sarebbe importante sostenere la madre, il neonato e in generale il nucleo famigliare attraverso una solida “rete” di professionisti in costante comunicazione e collaborazione: ginecologo, neonatologo, levatrice, fino al pediatra

di riferimento». L’obiettivo è quello di permettere alla madre che lo desideri, e le cui condizioni di salute lo consentano, di poter allattare al seno: «Nel rispetto delle misure di igiene note e garantendo così al neonato tutti i benefici derivanti dal latte materno». Dall’altra parte della Svizzera, a Ginevra, il dottor Alessandro Diana è sulla stessa lunghezza d’onda: «Le mamme che desiderano allattare chiedono se lo possono fare, e devo dire che appena consigliamo loro l’allattamento, alla luce dei dati attuali e delle raccomandazioni dell’Oms, non hanno alcuna esitazione: nella decina di famiglie che ho visto alla visita del primo e secondo mese tutte le mamme hanno deciso di allattare».

Infine, la levatrice Veronica Birtolo ricorda i benefici del latte materno e come l’allattamento favorisca la profonda relazione fra madre e neonato in quel momento di intimità: «Anche in una condizione come questa, soprattutto il primo latte è ricchissimo di anticorpi e sostanze protettive per il neonato, quindi anche laddove la mamma fosse infetta, può continuare ad allattarlo con le dovute precauzioni. Inoltre, allattare è sempre un modo di esprimere un antico concetto di femminilità, oltre che una modalità molto istintiva di relazione con il proprio bambino, che dà una chiave immediata nella comprensione reciproca, facilitando la relazione col nascituro».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Sulle rotte migratorie delle megattere

Mondo sommerso Le ricerche proseguono tramite rilevazioni satellitari che monitorano la durata,

la distanza, le vie e la velocità dei viaggi di questi giganti del mare – Seconda parte

Franco Banfi

Le megattere compiono migrazioni stagionali lunghe migliaia di chilometri, dalle acque polari (dove si nutrono) a quelle tropicali e subtropicali (dove si accoppiano e partoriscono). Nelle zone tropicali si avvicinano molto alle coste e sostano in zone con profondità inferiore ai 200 metri, in aree quindi dove biologi e ricercatori riescono più agevolmente a dotare alcuni esemplari di strumenti di ricerca (tag satellitari) tramite i quali effettuano accurate osservazioni e ne tracciano gli spostamenti. Le recenti ricerche hanno messo in luce, come spiegato nel precedente articolo apparso su «Azione» del 22 giugno 2020, strategie alimentari davvero sorprendenti: i differenti comportamenti alimentari sono influenzati dalle caratteristiche ambientali nelle diverse località, e determinano interazioni ecologiche diverse. Per molte creature oceaniche, vivere in gruppo è più sicuro. Un banco di pesci piccoli e veloci può confondere e distrarre predatori più grandi come i leoni marini, i cui target sono pesci singoli.

Franco Banfi

Sabrina Belloni

Questa strategia comportamentale tuttavia non è efficace con le megattere, che possono divorare un terzo del banco in un solo boccone. Le megattere studiate nella baia di Monterey e lungo la costa meridionale della California dai ricercatori dell’Università, si avvicinano ai banchi di acciughe a una velocità variabile. Mentre le balene si avvicinano con discrezione, i piccoli pesci non le riconoscono come un pericolo. Le acciughe iniziano a fuggire troppo tardi, quando le megattere spalancano la bocca in prossimità dei banchi, creando una depressione che aspira i pesci nelle loro fauci. Si ritiene che la fuga ritardata dei pesci sia dovuta a un comportamento evolutivo: infatti essi sono adattati a fuggire da predatori più piccoli e veloci, come i leoni di mare, considerato che gli incontri con questi ultimi sono più frequenti. Le megattere sono propense a ritardare l’espansione della bocca finché non sono molto vicine ai banchi di pesce, sebbene questo comportamento comporti una maggiore resistenza idrodinamica, poiché ogni affondo consente loro di avere una efficienza energetica ben sette volte maggiore di quando si nutrono di krill. Le megattere dell’emisfero australe, studiate dalla ricercatrice Leena Riekkola dell’università di Auckland, mostrano un chiaro andamento stagionale nell’alimentazione. Il picco avviene durante l’estate (equivalenti ai nostri mesi invernali) quando esse si avvicinano deliberatamente alle zone antarti-

Franco Banfi

Il costo energetico delle lunghe migrazioni è maggiore per le megattere dell’Oceania (Polinesia, Melanesia, Micronesia, Australia e Nuova Zelanda) rispetto a quelle australiane

che dove il ghiaccio si sta ritirando e la banchisa si frantuma, laddove si determinano aree di accresciuta disponibilità alimentare. Una varietà di predatori, inclusi pinguini, foche, otarie, uccelli marini e balene, dipendono significativamente dal krill (Euphausia superba) come fonte di sostentamento, e le temporanee mega-aggregazioni di questi piccoli crostacei influenzano la distribuzione dei predatori attorno al continente antartico. I terribili venti catabatici antartici (possono superare i 300 km/h e sono i più violenti del pianeta) e le correnti costiere determinano i siti di accumulo del krill, che durante l’autunno migra dall’oceano aperto e dalla piattaforma continentale verso gli habitat costieri dove si rifugia per trascorrere l’inverno sotto le banchise ghiacciate. La vita di tutti gli animali antartici, dai più piccoli (zooplancton) ai più grandi (balene) è indissolubilmente

legata ai ghiacci e le conseguenze del riscaldamento climatico (riduzione della superficie ghiacciata globale e della durata dei ghiacci stagionali) pongono riflessioni sulla tenuta dell’intera catena alimentare. Gli studi sulle popolazioni australi di megattere non indicano solamente che esse sono capaci di scegliere l’area più idonea per nutrirsi, soprattutto in un ambiente in continua evoluzione, bensì hanno portato anche ad altre osservazioni. Non tutti gli esemplari di una determinata popolazione di megattere dell’emisfero australe compiono ogni anno le migrazioni stagionali verso le acque tropicali. Considerato l’immenso dispendio energetico che comporta sia la migrazione sia la riproduzione, alcuni esemplari femminili sessualmente maturi non migrano e restano nelle acque circumpolari, oppure ritardano la partenza o riducono le di-

stanze in risposta a condizioni di scarsa alimentazione. Le femmine sessualmente mature devono necessariamente accumulare ingenti scorte energetiche in acque circumpolari per potersi poi accoppiare durante la migrazione e portare efficacemente a termine la gestazione in acque tropicali. La migrazione su lunga distanza richiede un’attività fisica estenuante che causa conseguenze importanti sulla loro salute. In particolare, i ricercatori che studiano le popolazioni australi avallano l’ipotesi che il costo energetico delle lunghe migrazioni sia maggiore per le megattere che frequentano l’Oceania (Polinesia, Melanesia, Micronesia, Australia e Nuova Zelanda) rispetto a quelle australiane. Le ricerche proseguono tramite rilevazioni satellitari, con le quali si monitorano la durata, la distanza, le rotte migratorie e la velocità. Le megat-

tere dell’Oceania dirette verso i mari di Amundsen e Bellingshausen (nella regione occidentale dell’Antartide) nuotano più velocemente e per una distanza superiore del 15/21 per cento rispetto alle balene australiane dirette verso i mari d’Urville (nella regione orientale dell’Antartide) e di Ross (centro orientale). Tuttavia, il loro dispendio energetico non è proporzionale alla maggiore distanza, e pertanto a una ipotetica maggior durata della migrazione: esse infatti nuotano a una andatura più veloce delle megattere australiane, un ottimale mix che consente loro di avere performance migliori. Questi studi fanno riflettere sulle interazioni fra i vari animali che popolano gli oceani e sulla loro sopravvivenza, così pesantemente influenzata dal riscaldamento climatico che si sta verificando a una velocità mai prima d’ora documentata.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Ambiente e Benessere

Workation

Un turista nell’Oberland bernese

Viaggiatori d’Occidente Dopo l’epidemia emerge un diverso rapporto tra lavoro e vacanza

Bussole Inviti a

letture per viaggiare

Claudio Visentin

«Oberland bernese. Un immenso territorio di acque, pascoli, rocce e ghiacciai. Il suo punto focale, quello su cui tutti si concentrano, è la triade Eiger, Mönch e Jungfrau, l’Orco, il Monaco e la Vergine, che sovrasta l’orizzonte e si vede perfino dalle terrazze di Berna. Una regione estrema e inospitale, l’Oberland: oggi la chiamiamo wilderness, un tempo si chiamava Natura. E non sempre era apprezzata…». Pxhere.com

Per undici mesi la fabbrica, l’ufficio, il lavoro, la città. D’agosto l’ombrellone, la spiaggia, la vacanza, il mare. Poi da capo, anno dopo anno. Com’era semplice il mondo negli anni Sessanta! Gli spazi del lavoro e della vacanza erano ben distinti, due geografie diverse anche se complementari. Poi tutto si è complicato. I nomadi digitali sono stati i primi a mettere in discussione le regole del gioco. Hanno utilizzato le nuove tecnologie per soddisfare il loro desiderio di viaggiare e hanno imparato a lavorare in movimento. Chi aveva meno coraggio ha sperimentato il bleisure (business+leisure), ovvero approfittare dei viaggi di lavoro per qualche giorno di vacanza in più. Le due tendenze crescevano lentamente quando Covid-19 ha rimescolato le carte e ora si parla sempre più spesso di workation (work+vacation). Di cosa si tratta? Per prima cosa il lavoro a distanza – o telelavoro – è diventato la norma, mentre prima era un’eccezione. Da casa, naturalmente, ma anche dai luoghi più diversi poiché molti sono rimasti bloccati lontano, a volte per caso, a volte per scelta. Per esempio, una mia studentessa è tuttora a Bali (poteva andarle peggio), dove ha scoperto una passione per il surf facile da soddisfare, dal momento che gli istruttori sono rimasti senza clienti. E tutti ricordano in Italia i tentativi degli studenti meridionali di tornare al sud prima che scattasse il lockdown, affollando le stazioni per salire sugli ultimi treni. Poi l’immobilità forzata per lunghi mesi, cercando solo di far passare il tempo. Con il graduale ritorno alla normalità, ci si aspettava che tutto riprendesse come prima, ma non è stato così. A Milano il 19 giugno il sindaco Sala ha messo in guardia dall’effetto grotta (ndr: vedi articolo sulla «Sindrome della tana» di Maria Grazia Buletti, uscito sul numero 24 di «Azione» dell’8 giugno 2020), ammonendo: «Basta smart working, torniamo al lavoro!». Parecchi si sono risentiti, sottolineando di aver sempre lavorato in questi mesi; ma forse il sindaco pensava ai mezzi pubblici deserti, alle tavole calde e ai bar del centro, gravati di affitti stellari e desolatamente privi di clienti. Proprio questo è il punto. L’epidemia è stata un gigantesco esperimento sociale e molti stanno riflettendo sulle nuove esperienze. Se per diversi mesi è stato possibile vivere e lavorare lontano dall’ufficio, perché non continua-

re? Dopo la fine del lockdown e l’arrivo dell’estate i prigionieri del virus sono sciamati verso la casa dei genitori o le seconde case in montagna e al mare, quasi per un riflesso condizionato, un desiderio di spazi aperti. Del resto, molte aziende hanno scoraggiato il rientro in sede finché la situazione sanitaria non sarà chiara. Molti però avevano consumato tutte le ferie e hanno dovuto continuare a lavorare anche in vacanza: workation appunto. Anche così i vantaggi della nuova condizione sono stati subito evidenti: minori spese, meno tempo sui mezzi di trasporto e la cucina della nonna invece dei terribili panini del bar con una cotoletta impanata ore prima. Lorenzo Guerra, imprenditore proprio nel campo del cibo, ha lasciato Bolzano per Salerno unendosi ai south worker: «Lavoro dal mattino fino a metà pomeriggio e poi vado in spiaggia. Ho sostituito l’aperitivo serale in via Paolo Sarpi con un bagno al mare». Carmelita invece lavora per un’importante banca milanese ma lo fa da Siderno, Reggio Calabria: «Ho passato qui la mia infanzia. Da tanto tempo non tornavo per tutta l’estate. Da quando ho diciott’anni vivo a Milano, sono arrivata per studiare in Bocconi e mi sono fermata lì. Sono una donna del sud che si è milanesizzata… Qui i miei figli adolescenti possono uscire e io sono molto più tranquilla e felice. Vedo dopo tanto tempo il paese che si risveglia e si prepara all’estate. Non suc-

cedeva da quando ero bambina» (Fonte: «Huffington Post»). A chi non ha una casa di famiglia o una seconda casa provvede l’industria turistica. Alberghi e strutture ricettive si sono attrezzati per un’estate di workation offrendo piccoli uffici silenziosi, utilizzo gratuito di scanner e stampanti, servizio di consegna e ritiro documenti e pacchi, connessione wi-fi anche sulla spiaggia e negli spazi all’aperto, la babysitter per i bambini. E così a Entrèves, vicino a Courmayeur, si può lavorare in una baita d’inizio Novecento trasformata in ufficio con vista sul Monte Bianco. «Venite a Riccione a lavorare in smart working» è stato invece l’invito di Renata Tosi, sindaco della cittadina romagnola. Anche Airbnb, messa in ginocchio dalla crisi, offre sconti per workation. Potrebbe essere una prospettiva interessante anche per il nostro cantone, dove però si sta diffondendo più lentamente. In autunno capiremo se questo cambiamento diventerà una nuova regola, almeno per una parte consistente dei lavoratori. Cosa succederebbe se a settembre molti semplicemente scegliessero di non tornare dalle vacanze e di continuare l’esperienza? Tanto più se i figli studiano a loro volta da remoto. Jack Dorsey, capo di Twitter, ha dato la possibilità ai dipendenti di lavorare da casa per sempre, se lo desiderano. È una nuova filosofia, tenendo d’occhio i risultati e non le ore trascorse alla scrivania.

Quando serve, per esempio per una riunione coi colleghi, si può andare in ufficio una volta alla settimana, ma per questo non serve vivere in una grande città, basta poterla raggiungere in tempi ragionevoli. «Abitavo a Parma, dove ero tornato dopo un periodo a Roma. Prima della pandemia mi sono spostato a Mola di Bari. Vivo in una casa ampia e con due terrazze a quattrocento metri dal mare, per la quale pago un affitto che è la metà di quello di Parma. E se mi devo spostare ho l’aeroporto di Bari a venti minuti di macchina» spiega per esempio Giacomo Talignani, giornalista di «Repubblica». Si può vivere ovunque a patto che vi sia una buona connessione, un aeroporto o una stazione ben collegata nelle vicinanze; e secondo l’Istat in Italia il costo della vita a sud è in media più basso di novecento euro mensili rispetto al nord. Certo non tutto è così facile. I piccoli borghi devono dimostrare di essere in grado di cogliere questa sfida fornendo servizi adeguati. Ma ancora maggiore è la sfida per le grandi città. Per conservare il loro ruolo, dovranno dimostrare di essere insostituibili in termini di esperienze e relazioni, senza più accontentarsi di vivere di rendita. E se il mercato immobiliare e commerciale ne soffrirà per qualche tempo, ci sono anche aspetti positivi: meno inquinamento, meno traffico, migliore qualità della vita.

Perché mai uno svizzero dovrebbe leggere il racconto di un viaggio in Svizzera, Paese che si suppone conosca benissimo? E questo tanto più se si parla della regione più famosa, l’Oberland bernese. Ci sono almeno due ragioni. In primo luogo i viaggiatori offrono uno sguardo dall’esterno, distaccato, su luoghi che la quotidiana frequentazione e la troppa familiarità quasi ci nascondono. Inoltre il nuovo libro di Paolo Paci suggerisce una riflessione cruciale sul turismo contemporaneo. Il turismo fu creato in Svizzera nella seconda metà dell’Ottocento, quando gli Inglesi la trasformarono nel Campo giochi dell’Europa (The Playground of Europe è il titolo del famoso libro di Leslie Stephen, 1871). L’alpinismo prima e il turismo poi rappresentarono una straordinaria opportunità che gli svizzeri seppero cogliere a pieno, aprendosi a un futuro di prosperità. E tuttavia il libro pone anche domande inquietanti: ci siamo spinti troppo avanti? Abbiamo sacrificato la nostra identità al profitto? Oggi la maggior parte dei turisti sono orientali (giapponesi, cinesi e un numero sorprendente di indiani), le attività locali cedono il posto a marchi internazionali e negozi di souvenir, gli addetti al turismo vengono dal Portogallo o da altri Paesi più poveri. Il turismo lascerà dietro di sé solo un guscio vuoto? / CV Bibliografia

Paolo Paci, L’orco, il monaco e la vergine. Eiger, Mönch, Jungfrau e dintorni. Storie dal cuore ghiacciato dEuropa, Corbaccio, 2020, pp. 288, € 19,90.

Quesiti spiazzanti

Giochi di parole Quante persone corrispondono a due volte due coppie di gemelli? 11. Venti ragazzi della tua scuola sono andati in gita a Roma. Durante la gita hanno visitato venti musei. Quanti musei ha visitato ogni ragazzo? 12. Anna è madre di tre figli. Uno di loro è andato ad abitare da solo. Quanti figli ha ora Anna?

Soluzione

due volte due coppie di gemelli? 9. I Martinelli hanno cinque figli maschi. Ogni figlio ha una sorella. Quanti bambini ci sono nella famiglia? 10. Su una staccionata ci sono dieci corvi. Il contadino spara e ne colpisce uno. Quanti ne rimangono sulla staccionata?

1. Nessuna. Una coniglietta, chiusa da sola in una gabbia senza coniglietto, non può generare alcuna cucciolata. 2. La linea di taglio che interseca il quadrato intercetta due suoi lati, formando con essi due nuovi angoli; come qui di seguito indicato, la figura risultante, quindi, conterrà cinque angoli.

7. Un paziente deve sottoporsi a cinque punture, da effettuarsi a distanza di trenta minuti una dall’altra. Supponendo che le punture si eseguano istantaneamente, quanto tempo richiederà l’intera procedura? 8. Quante persone corrispondono a

8. Otto persone (due coppie di gemelli equivalgono a quattro persone). 9. Sei figli (cinque maschi e una femmina, sorella di ciascuno degli altri). 10. Nessuno, perché quelli che non sono stati colpiti sono volati via dallo spavento. 11. Ha visitato venti musei, come ognuno degli altri. 12. Chi non abita più con la propria madre, resta comunque suo figlio; quindi, Anna ha ancora tre figli.

Anna Khovanova, una stimata professoressa di Matematica statunitense, ha l’abitudine di proporre ai propri allievi dei quesiti apparentemente banali, ma piuttosto spiazzanti, allo scopo di spingerli a prestare maggiore attenzione agli enunciati dei problemi. Per quanto possa sembrare strano, anche i ragazzi più preparati riescono raramente a eludere le trappole da lei tese. Secondo la Khovanova, ciò accade perché i giovani d’oggi sono poco abituati a pensare con criterio, essendo portati a utilizzare in maniera acritica operazioni, formule, algoritmi e altri tipi di modelli precostituiti. Qui di seguito, è riportata una selezione scelta dei quesiti proposti dalla Khovanova; cercate di rispondere a ciascuno di essi, senza commettere neanche un errore.

1. Solitamente, i conigli incominciano a riprodursi quando hanno tre mesi e generano quattro cucciolate al mese. Se si mette in una gabbia una coniglietta dell’età di un giorno, quante cucciolate avrà procreato, dopo un anno? 2. Un quadrato possiede quattro angoli. Se ne tagli uno, quanti angoli conterrà la figura risultante? 3. Il lampadario della mia sala da pranzo ha cinque lampadine. Durante un temporale, se ne sono bruciate due. Quante lampadine ci sono ora sul lampadario? 4. Stai partecipando a una gara di corsa e superi il corridore che era secondo. Che posto occupi ora? 5. Gli esseri umani hanno dieci dita sulle mani. Quante dita ci sono su dieci mani? 6. Il mio cane Lillo ama i libri. Al mattino ha portato due libri nel suo angolino e tre altri libri alla sera. Quanti libri leggerà stanotte?

3. Le lampadine bruciate restano sul lampadario; quindi, questo ne contiene sempre cinque. 4. Il secondo posto (non il primo...); in pratica, stai occupando la posizione di chi hai superato. 5. Ogni mano ha cinque dita; quindi, su dieci mani ci sono cinquanta dita. 6. Nessuno. Lillo ama i libri, ma non sa leggere. 7. Durerà centoventi minuti (gli intervalli tra le cinque punture sono solo quattro…).

Ennio Peres


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Ambiente e Benessere

Pollo a la parrilla

Migusto La ricetta della settimana

Piatto principale Ingredienti per 4 persone: 1 pollo intero di circa 1,2 kg · 4 spicchi d’aglio ·

½ mazzetto di timo · ½ mazzetto di rosmarino · 4 c d’olio d’oliva · sale · pepe.

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

1. Accomodate il pollo sul petto e con un trinciapollo staccate la spina dorsale tagliando ai due lati di quest’ultima. Girate il pollo, apritelo e, con entrambi i pollici, fate forza sullo sterno di cartilagine fino a spezzarlo oppure staccatelo con un coltello. Appiattite bene il pollo. 2. Scaldate il grill a circa 200 °C. 3. Tagliate l’aglio a fettine. Infilatene alcune sotto la pelle del pollo assieme a qualche rametto di timo e rosmarino. Tritate le erbe aromatiche e l’aglio restanti e mescolateli con l’olio. Sfregate il pollo con la metà dell’olio aromatizzato e conditelo con sale e pepe. Grigliate il pollo a calore moderato indiretto per circa 45 minuti, girandolo di tanto in tanto. 4. Cinque minuti prima di fine cottura, spennellate il pollo con il resto dell’olio aromatizzato e fatelo arrostire a calore diretto. Per verificare la cottura del pollo infilzate un coltello appuntito in una coscia: se il succo che fuoriesce è chiaro, il pollo è cotto. Preparazione: circa 30 minuti; cottura alla griglia: circa 45 minuti. Per persona: circa 25 g di proteine, 22 g di grassi, 3 g di carboidrati, 310 kcal/

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Ambiente e Benessere

Il troppo è troppo

Sport Quando un/a giovane atleta non è felice, quando non dorme di notte, quando continua a piangere,

è giunto il momento di dire: «basta sport!»

Giancarlo Dionisio C’è chi sostiene che lo sport di punta faccia bene all’organismo. Personalmente non ne sarei così convinto. Le esperienze vissute su più fronti – più da osservatore che da protagonista – mi inducono a pensare il contrario, e cioè che di certo non mi pare faccia bene quello di punta. Infortuni, traumi, lesioni muscolari e ossee, disturbi dell’alimentazione che sfociano nell’anoressia o nella bulimia, danni psicologici a volte irreparabili, per non parlare di incidenti, a volte letali. Non si tratta di situazioni molto frequenti, ma neppure tanto rare. Qualcuno potrebbe legittimamente obiettare che anche altri ambiti possono generare un’analoga serie di complicazioni. Vero. Oppure che, se le conseguenze dell’eccessivo carico sull’organismo si riducono a qualche dolore alla schiena, magari cronico ma gestibile con un costante trattamento fisioterapico, ma sull’altro piatto della bilancia c’è un gruzzolo milionario, magari qualche sacrificio supplementare al corpo lo si può richiedere. Spesso, però, le complicazioni si verificano nell’ambito degli sport meno ricchi. Alcuni giorni fa Lisa Rusconi, ex capitana della Nazionale svizzera di ginnastica ritmica ha aperto il libro. In un’intervista rilasciata al quotidiano romando «Le Temps», e ripresa dai media di tutto il paese, ha denunciato le violenze, le umiliazioni, il mobbing subito per anni da parte delle sue allenatrici, al Centro Nazionale Sportivo di Macolin. Altre sue compagne di squadra l’hanno sostenuta, confermando la

veridicità delle sue accuse, in altrettante interviste rilasciate ad altri organi di stampa. In sostanza, queste ragazze, che hanno denunciato sia le violenze fisiche, le infinite ripetizioni degli esercizi strappate a suon di schiaffi, sia la pressione psicologica per indurle ad alimentarsi poco in modo da conservare un fisico esile e agile, non hanno inventato nulla. È tutto vero. Ciò che fa specie è che i loro precedenti appelli lanciati alla Federazione Svizzera di Ginnastica, e, nel caso di Lisa, anche a quella ticinese, siano stati sottovalutati e, in definitiva, ignorati. Nel frattempo, le due allenatrici, entrambe provenienti dalla Bulgaria, sono state licenziate in tronco. Le massime istanze della ginnastica si sono pubblicamente scusate nei confronti delle loro atlete e hanno garantito che quanto è accaduto non dovrà ripetersi. Proprio mentre ci accingiamo a scrivere è annunciata, da parte della Federazione, una presa di posizione più articolata. Scagliarsi contro le allenatrici bulgare adducendo il fatto che hanno importato in Svizzera la loro cultura e il loro vissuto, sottintendendo quindi che le nazioni dell’est europeo primeggiano a livello mondiale poiché spremono e brutalizzano le loro ragazze, è quanto meno fuorviante. I trionfi delle Farfalle, le splendide ragazze della Nazionale italiana, citate da Lisa Rusconi nella sua intervista, confermano che si può arrivare in alto, molto in alto, anche rispettando il corpo e la psiche delle atlete con le quali si lavora. Non dimentichiamo che nella

superiore che altrove. Ariella Käslin ha combattuto fino a 24 anni. Giulia Steingruber, a fronte di alcuni infortuni con relative operazioni chirurgiche, a 26 anni suonati non ha ancora deciso di porre fine alla sua brillante carriera. In Cina, dove il bacino di reclutamento è pazzesco, vediamo delle bimbette di 16 anni, e 132 cm di statura, che per un anno, al massimo due, ti lasciano a bocca spalancata, poi spariscono dai radar. Rotte, scoppiate, scavalcate da altri scricciolini che spingono da sotto. Per tornare a noi, credo che sia fondamentale il senso di responsabilità individuale e collettiva nei confronti di chi accetta di sottoporsi alle fatiche di discipline durissime come le due ginnastiche, ma ci metterei anche il pattinaggio artistico, ed il nuoto, dove però traumi e lesioni sono decisamente meno frequenti. L’adulto, che sia genitore, allenatore o dirigente, deve rendersi conto che ha a che fare con bambini e adolescenti. Non può quindi ignorare l’ABC del loro sviluppo psicofisico. Man mano che aumenta il carico di lavoro, i mezzi finanziari, anche se ridotti, devono essere utilizzati per ingaggiare un numero adeguato di professionisti di qualità: medici, fisiologi, terapisti, chinesiologi, nutrizionisti e, non da ultimo, psicologi dell’età evolutiva. In sostanza, dall’ABC si deve passare alla conoscenza dell’intero alfabeto, se vogliamo che dietro il sorriso di una campionessa ci sia anche quello di una ragazza felice, serena, soddisfatta di aver fatto sacrifici e rinunce per praticare al meglio la disciplina sportiva prediletta.

Nell’artistica o ritmica, gli allenamenti plasmano bambini dai 6 ai 15 anni. (Needpix. com)

ginnastica, sia ritmica, sia artistica, avviene una selezione precoce. Quindi allenatori e allenatrici si ritrovano a plasmare bambine (e bambini) tra i 6 e i 15 anni, con la speranza che dai 16 anni, ovvero dal momento in cui entrano a far parte dell’élite, possano ripagare con buoni risultati gli immani sforzi profusi. Sì, immani. E se ci fosse un aggettivo che enfatizza ulteriormente lo utilizzerei. Non so quale sia l’onere settimanale delle ragazzine dell’Europa dell’est. In svizzera, dove la scuola fa qualche concessione ma non sconti eccessivi, una ginnasta di 15 anni che si trasferisce dal Ticino a Macolin per entrare a far parte dei quadri della Nazionale maggiore, trascorre almeno 25-30 ore sui banchi di scuola, almeno altrettante le passa in

palestra. Nelle fasi di preparazione di un evento internazionale, le cifre lievitano ulteriormente. Ha senso tutto ciò? Sono portato a rispondere affermativamente, solo qualora queste ragazzine adolescenti siano in grado di reggere lo stress psicofisico con serenità e con gioia. Da quanto si è letto, non sempre è così. Anzi. Se pensiamo che gli enormi sacrifici non vengono ripagati, né da compensi in denaro, né da risultati che consentano di calcare palcoscenici più prestigiosi, la risposta è no. Non ha senso rubare l’infanzia e l’adolescenza. A scanso di equivoci, vorrei sottolineare che stiamo parlando di un paese, la Svizzera, in cui la situazione è meno compromessa rispetto ad altri. Nella ginnastica artistica, ad esempio, riscontriamo una longevità media

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Come si chiama questa pianta e qual è la sua particolarità? Scoprilo risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 7, 1, 9)

ORIZZONTALI 1. Agitate, irritabili 7. L’attore Delon 8. Passano mormorando... 9. Rende stretti i vestiti 11. Nota musicale 12. L’amore greco 13. Percorso sportivo senza penalità 17. Generi teatrali 18. Tessuto grezzo 19. Riceve una spina 20. Re... di Francia 21. Temporanea interruzione 23. Tirati fuori 25. La... precedono a tavola 26. Nel Nord America si chiamano caribù 27. Si legano in reste

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

VERTICALI 1. Denominazione di piante aromatiche 2. Gas raro 3. I raggi del vate 4. Le iniziali dell’attrice Incontrada 5. Gravosa 6. Si sono prese la libertà ... 10. Precipitato chimico 12. Dicesi di opinione assurda, insostenibile 13. È tutto... per il depresso 14. Lo scrittore Umberto 15. Sminuzzate 16. Pronome personale 17. Affluente del Danubio 19. Si spalma sulle tartine 21. Dio dei pastori 22. Io e te 24. Le iniziali dell’attore Nobile 25. Le iniziali dell’attrice Logan Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Soluzione della settimana precedente

CURIOSITÀ SPAZIALI – La temperatura nello spazio intergalattico è di… Risposta risultante: DUECENTOSETTANTA SOTTO ZERO.

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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Politica e Economia Casa Bianca Gli scenari della politica americana attraversano inevitabilmente quella della pandemia

Boris Johnson, la stella cadente Nel Regno Unito il fuoco del Covid-19 non è ancora spento e i tentativi di risollevare l’economia male si conciliano con le cautele messe in atto per salvaguardare la salute dei cittadini pagina 21

Il soft power di Xi Il Covid-19 ha accelerato un progetto che Pechino tiene in serbo da tempo: conquistare il mondo anche attraverso la sua medicina

Berna dixit Secondo l’ultimo rapporto, la libera circolazione con l’Ue non sfavorisce i lavoratori indigeni e non preme sui salari

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Quando faceva bel tempo

Fondi europei Dopo questa battaglia strategico-finanziaria per il Covid è probabile che la configurazione geopolitica

dell’Ue non sarà più la stessa. E la Brexit è il segno più evidente del processo disgregativo Lucio Caracciolo La partita dei fondi per la ricostruzione delle economie comunitarie, destinata a dominare le relazioni fra i paesi europei ancora per diverso tempo, va molto al di là dell’aspetto finanziario. È anzi una cartina di tornasole dell’Unione europea. In gioco è infatti molto più che la colossale redistribuzione di risorse fra i 27 Stati membri in conseguenza dell’epidemia da Covid-19, di dimensioni peraltro inimmaginabili solo pochi mesi fa. Di più: si sta decidendo della costituzione materiale dell’Ue. Infatti, i Trattati europei sono ormai, al meglio, un orientamento. Non certo un vincolo. È prassi consolidata, e accentuata sotto la spinta dell’emergenza, di azzardarne interpretazioni molto evolutive, distanti dalla lettera ma anche dallo spirito delle intese pattizie originarie. Questa reinterpretazione di fatto delle leggi che dovrebbero regolare il funzionamento dell’Unione europea è

la prova di quanto inattuali e inattuabili siano le sue regole prime. Semplicemente, appartengono a un’Europa che non c’è più e mai più tornerà. Sono trattati scritti per il bel tempo, del tutto inadatti ad affrontare i temporali. E siccome la tempesta del Coronavirus non ha fatto che moltiplicare gli effetti non voluti e non previsti dai padri fondatori e dai loro continuatori, razionalità vorrebbe che si mettesse mano alle fonti, per adattarle ai tempi nuovi. Impossibile: aggiornare o riscrivere i trattati sarebbe esercizio del tutto futile. I 27 sono semplicemente troppo diversi culturalmente, e troppo divisi da interessi divergenti se non opposti, per poter affrontare un atto rifondativo che pure sarebbe in teoria necessario. La partita del Recovery Fund – oltre che del Mes – ha visto infatti delinearsi diversi gruppi che, all’ingrosso, offrono un quadro verosimile degli schieramenti in campo, non da oggi e non solo per domani. Almeno tre gruppi, a loro volta instabili e fluttuanti. An-

zitutto, i cosiddetti «frugali», ovvero Austria, Olanda, Danimarca e Svezia, con al fianco, leggermente distanziata, la Finlandia. Fosse per loro, il fondo non si sarebbe nemmeno dovuto concepire. Nella loro visione dell’Europa, infatti, vige il principio che ognuno dovrebbe curare il suo orto, almeno finché le «cicale» mediterranee non avranno aderito alla cultura monetaria e fiscale cui le «formiche» nordiche aderiscono. Tanto vero che l’Olanda – geoeconomicamente un Land tedesco, con in dotazione il megaporto di Rotterdam e un paradiso fiscale da fare invidia al mondo – si è subito opposta con ogni mezzo e senza reticenze alla distribuzione di risorse ai meridionali, specie all’Italia, considerati inaffidabili spendaccioni. E pretendendo anzi di farne, se proprio è inevitabile dotarli di qualche aiuto, dei protettorati. All’estremo opposto, il fronte dei «mediterranei», guidato dall’Italia, con fra gli altri Spagna, Portogallo e Grecia, che cerca di strappare quanto possibile

e soprattutto rapidamente, in una logica che sarebbe tale se l’Unione Europea fosse una federazione, che non è né può diventare. Al loro fianco, o meglio in testa al gruppo, la Francia, che non sta molto meglio di quei quattro e che però è troppo orgogliosa per ammetterlo. Infine, l’ex Est, tutt’altro che compatto, ma animato dall’idea che si possa essere a un tempo membro dell’Unione Europea per estrarne risorse, ma in cambio di nulla, perché la sovranità nazionale non può essere intaccata. La partita doppia parrebbe non vigere a quelle longitudini. Si conoscono solo le entrate, non le uscite, almeno finché si tratta di Ue. Al centro di tutto e di tutti, la Germania. La novità del Covid-19 è che Berlino, chiamata a scegliere d’urgenza con quale idea di Unione Europea stare, ha scelto – per ora – di mettere la sua sopravvivenza al di sopra di qualsiasi considerazione altra. Coprendo quindi il gruppo dei meridionali, in particolare l’Italia. E non solo perché il Nordi-

talia è parte integrante e strutturale del sistema industriale tedesco, in qualche misura anche della sua rete commerciale – dunque Berlino non intende lasciarlo finire a gambe all’aria. Ma soprattutto perché fin dalla nascita lo spazio comunitario è elemento decisivo dell’identità della Repubblica Federale Germania. È il mantello che le consente di perseguire i propri interessi nazionali vestendoli da europei. E che, ancora oggi, funge da contrappeso rispetto ai vincoli del recente passato, rilegittimandone l’azione internazionale. Lo stress test del Covid-19 è però troppo potente per consentire una ricomposizione degli interessi, sia pure precaria e provvisoria, come avvenne nello scorso decennio di fronte alla crisi dell’euro. È molto probabile che dopo questa battaglia, davvero strategica, la configurazione geopolitica dell’Unione Europea non sarà più la stessa. Il Brexit, insomma, non è la fine di un processo disgregativo, ma solo il segno attualmente più evidente.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Politica e Economia

Trump (molto) in difficoltà

Casa Bianca e pandemia Sono molti i segnali che preoccupano il presidente nella corsa alla sua rielezione.

A iniziare dall’evento del 27 agosto di Jacksonville in Florida in occasione del discorso finale dell’accettazione, che a causa del Covid sta subendo un cambiamento di programma rispetto ai progetti originari

Federico Rampini La versione dominante sui media descrive un’America assediata dal Coronavirus, in ginocchio, con un governo incapace e destinato ad essere travolto da un’ondata di indignazione per la cattiva gestione della pandemia. I medesimi giornali e tv però fino a poche settimane fa descrivevano la stessa America assediata dalle proteste contro il razzismo della polizia, con un governo in mano a un suprematista bianco e destinato ad essere travolto da un’ondata di indignazione per la cattiva gestione della morte di George Floyd. Bisogna dunque imparare a discernere lo «hype», l’iperbole e l’esagerazione propagandistica di media molto schierati (se pensate che io stia esagerando, le dimissioni a catena tra gli opinionisti del «New York Times» confermano quanto quel giornale sia diventato un organo di battaglia «resistenziale», dove non ci si sforza più di cercare un equilibrio). È utile ricordare, per esempio, che l’impatto della pandemia non si misura sui numeri assoluti; in proporzione alla sua popolazione, il bilancio di vittime negli Stati Uniti finora rimane inferiore a quelli di Regno Unito, Italia, Francia, Spagna, Belgio. Inoltre una parte delle decisioni su come arginare il contagio – i lockdown o confinamenti – nel federalismo americano sono di competenza dei governatori. E il governatore democratico di New York ebbe risultati molto peggiori di qualsiasi altro, a marzo-aprile; così come oggi c’è un governatore di sinistra in California che non sembra cavarsela meglio dei suoi colleghi repubblicani nel Sud. Resta vero però che tira una brutta aria in termini di contagi e risalita dei decessi; e questo ha un riflesso politico evidente sul presidente degli Stati Uniti nonché sulle sue chance di rielezione. Brad Parscale, il capo della campagna elettorale di Donald Trump, è l’ultimo «declassato» eccellente. È brutto segno quando l’organizzazione di una campagna viene rimescolata a poca distanza dal voto: e ormai mancano poco più di 100 giorni all’elezione presidenziale. Parscale non viene proprio licenziato ma relegato ad occuparsi solo di tecnologie digitali. L’ex capo paga per uno stile personale controverso (troppa visibilità, un peccato che Trump perdona solo a se stesso), e soprattutto gli viene imputato il flop di Tulsa. Alla vigilia di quel comizio del 20 giugno in Oklahoma, Parscale si era vantato di aver ricevuto un milione di richieste, poi gli spalti erano semivuoti. Il flop di Tulsa è solo uno dei segnali che preoccupano Trump. La sua ira può scaricarsi su Parscale ma tutti sanno quel che ha ribadito il genero Jared Kushner: «È Donald Trump il vero capo della campagna Trump». La ricerca di capri espiatori quindi non aggredisce il problema di fondo. Il presidente continua a perdere quota nei sondaggi.

Una view sulla Bay di Miami, in Florida, epicentro della pandemia negli Usa. (AFP)

Ormai tutte le maggiori indagini demoscopiche gli danno uno svantaggio di almeno dieci punti rispetto al candidato democratico Joe Biden. In epoca contemporanea si ricordano solo due presidenti in carica che affrontarono un percorso così difficile per la rielezione: Lyndon Johnson nel 1968 (che in effetti rinunciò a candidarsi per un secondo mandato) e Jimmy Carter nel 1980 (perse contro Ronald Reagan). Inoltre è sempre Biden in testa in alcuni Stati-chiave come la Pennsylvania. Se venisse confermata la tradizionale distribuzione degli altri collegi elettorali, a Biden basterebbe riconquistare tre Stati «operai» come Pennsylvania, Michigan e Ohio, e la Casa Bianca sarebbe sua. Altro segnale inquietante per Trump è un’inizio di erosione di consensi tra i bianchi anziani, uno degli zoccoli duri del suo elettorato. Potrebbe essere un’altra «illusione ottica», un clamoroso errore dei sondaggi come nel 2016? L’esperto di analisi demoscopiche del «New York Times», Nate Cohn, osserva che a quest’epoca quattro anni fa il vantaggio medio di Hillary Clinton nei sondaggi era di tre punti inferiore, quindi Biden ha un margine superiore anche per assorbire l’eventuale errore. Nel 2016 inoltre era più alta la percentuale di indecisi. E i sondaggisti dicono di aver fatto del loro meglio per includere nei campioni intervistati più

elettori senza laurea, la fascia che fu protagonista della grande sorpresa in favore di Trump. L’altra speranza per il presidente sta nell’unica domanda dove ancora vince lui contro Biden. È quando nei sondaggi si chiede chi sia più efficace nel governare l’economia: su questo Trump conserva un vantaggio. Questo spiega la sua insistenza nel premere per una riapertura delle scuole dopo le vacanze, e per tutto ciò che può accelerare una ripresa economica. Su questo fronte i segnali sono ambivalenti. Le vendite al dettaglio sono aumentate del 7,5% a giugno, a conferma che un recupero dei consumi è iniziato. D’altra parte la scorsa settimana sono state presentate 1,3 milioni di domande per sussidi di disoccupazione, un indicatore che la situazione sul mercato del lavoro continua ad essere drammatica. Gli sforzi per una riapertura accelerata di tutte le attività si scontrano anche con la dinamica della pandemia. Tra gli Stati Usa che subiscono la più forte impennata dei contagi figurano il Texas e la Florida, oltre a California e Arizona. Il Texas, tradizionale serbatoio di voti repubblicano, doveva essere una «vetrina» dei governatori di destra che hanno abolito rapidamente il lockdown, ma è costretto a fare marcia indietro. La Florida, altro Stato-chiave che votò Trump nel 2016 ma aveva votato per Barack Obama, è la sede desi-

gnata per una parte degli eventi della convention. È a Jacksonville in Florida che Trump vuole tenere un evento di massa, il discorso finale dell’accettazione il 27 agosto. È già cominciata una cauta ritirata rispetto ai progetti originari, per ridurre l’affluenza di delegati e il rischio di contagio. Il piano di Trump prevede di condurre gli ultimi cento giorni come una «campagna da opposizione», incollando Biden all’establishment; molti americani però pensano che sia lui a dover rispondere dello stato della nazione. La centralità dell’economia spiega l’importanza del braccio di ferro in corso sulla nuova manovra anti-crisi: la terza o la quarta o forse la quinta (abbiamo tutti perso il conto). I democratici che hanno la maggioranza alla Camera vogliono che contenga un rinnovo degli assegni ad personam da 1.200 dollari mensili, anche per ovviare al fatto che le indennità di disoccupazione si esauriscono il 31 luglio. I repubblicani che hanno la maggioranza al Senato sostengono che questi assegni, soprattutto se cumulati con le indennità versate dai singoli Stati ai senza lavoro, creano un incentivo a rimanere inattivi. Purtroppo questo è vero, almeno per una parte della popolazione: è l’ennesima conferma di quanto fossero bassi i salari di tanti lavoratori americani, anche al termine di un decennio di crescita. È vero che molti ristoratori,

albergatori, esercizi pubblici, piccole imprese, anche se sono pronti a riaprire lo fanno offrendo salari così bassi che risultano inferiori al sussidio pubblico. Qualunque cosa decidano il Congresso e la Casa Bianca, la situazione sociale è drammatica e peserà sul voto del 3 novembre. Un altro tema è la sanità: molti perdendo il posto di lavoro hanno perso anche l’assistenza medica; gli sforzi di Trump e dei repubblicani per abolire la riforma sanitaria di Obama dovrebbero essere degli argomenti solidi per Biden. Quest’ultimo continua a fare una campagna elettorale «semi-invisibile», e con buoni risultati. Convinto che quest’elezione sarà un referendum su Trump, ha deciso che meno si espone meglio è. Questo gli ha anche consentito di assorbire «l’ondata anti-razzista», dove le frange più militanti come Black Lives Matter volevano imporgli la scelta di una vice afroamericana e radicale. Il boato delle piazze si è già placato, e i sondaggi dicono che gli elettori democratici non vogliono una scelta «etnica» come vice. Cioè: non vogliono che sia il colore il criterio decisivo. La saggezza convenzionale sostiene che in genere la designazione di un candidato vicepresidente appassiona gli addetti ai lavori ma non sposta voti, per l’elettorato conta il numero uno. Stavolta potrebbe essere diverso: Biden, se vince, nell’Inauguration Day del gennaio 2021 avrà compiuto 78 anni e sarà il più vecchio presidente della storia al momento di assumere la carica. In quest’epoca di virus e di «soggetti a rischio», forse le elettrici e gli elettori guarderanno con più attenzione la numero due del ticket democratico. Meglio sia rassicurante, solida, dotata di esperienza, e che una maggioranza di americani se la possa immaginare tranquillamente nello Studio Ovale. Un ultimo scenario va evocato fin d’ora. Anche questo incrocia la politica con la pandemia. Riguarda il rischio che il 3 novembre l’elezione sia un caos. Se il livello dei contagi rimarrà elevato, la ragione dovrebbe spingere verso un ricorso massiccio al voto per corrispondenza. Ma i primi esperimenti nel corso di alcune primarie – per esempio in Georgia – sono stati disastrosi. Gestire un voto per corrispondenza su scala nazionale con 150 milioni di elettori è un’operazione alla quale gli Stati Uniti non sono preparati. Inoltre Trump ha già messo le mani avanti denunciando il voto per corrispondenza come un espediente della sinistra per far votare gli stranieri, e truccare il risultato con vasti brogli. È una falsità, ma precostituisce un argomento per moltiplicare ricorsi e cercare di invalidare le votazioni, qualora lui perda. Ci stiamo ormai abituando a un’America inefficiente, dove tante cose non funzionano come dovrebbero o non funzionano affatto. Il prossimo test sarà il 3 novembre. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Politica e Economia

Salute e ricchezza: tutto perduto

Notizie dal mondo

Regno Unito Stride il tentativo di Boris Johnson di far ripartire l’economia

mentre si stanno adottando poche efficaci misure per la salute pubblica

Una deserta Leicester Square a Londra, che insieme al nord del Paese è ancora in pieno Covid. (AFP)

Cristina Marconi Quando a marzo l’ottimismo di Boris Johnson è andato a sbattere contro la crisi del Covid, ha cercato di ispirare la sua gestione della pandemia agli stessi principi spericolati con cui stava affrontando altri dossier, Brexit in primis. Cercando di far sentire i britannici eccezionali rispetto ai paesi che, come l’Italia, erano già a uno stadio più avanzato nei contagi e nella conta delle vittime, ha rimandato l’entrata del paese in lockdown, con la speranza di tutelare l’economia. Dopo quattro mesi di comunicazione confusa, di inversioni di rotta e di risultati deludenti su entrambi i fronti – il paese ha avuto 45mila vittime, più di chiunque altro in Europa, e il Pil di maggio è salito solo dell’1,8% nonostante il crollo del 20% il mese precedente – Johnson ha accettato che ci sia un’indagine pubblica indipendente sulla gestione della pandemia. Ma non subito, «non è il momento giusto», ha aggiunto.

I messaggi molto confusi del governo non sono riusciti a dare sufficiente fiducia ai cittadini riluttanti a uscire di casa Per ora, infatti, il fuoco è tutt’altro che spento, con Leicester ancora in lockdown e il nord dell’Inghilterra attraversato da nuovi focolai. Non solo: i messaggi molti confusi dati dal governo non sono stati in grado di dare la sufficiente fiducia ai cittadini, che nell’insieme si stanno dimostrando particolarmente riluttanti a uscire di casa e a tornare a spendere. Tanto che l’azione del cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak, unica stella politica brillante in un momen-

to in cui Boris appare un po’ opaco, è volta a riempire i ristoranti nei giorni della settimana in cui non esce nessuno, cercando di ridare vita a un settore della ristorazione e dell’ospitalità che sta boccheggiando. Con il suo «whatever it takes» da 200 miliardi di euro, Sunak sta cercando di evitare che la disoccupazione, in autunno, salga alle stelle, anche perché il governo ha annunciato che non terrà per sempre i lavoratori nella «animazione sospesa» del furlough (congedo temporaneo), della cassa integrazione all’80%. Il suo è l’intervento più massiccio sul mercato del lavoro dai tempi della crisi del 2008 e in molti pensano che il mite, secchione, rassicurante Sunak, con il suo piglio pacato e le sue misure di sostegno così generose che nessun cancelliere laburista se le sarebbe mai potute sognare, possa puntare a Downing Street a un certo punto. Boris Johnson non è più quello di una volta. Fallito il tentativo di emulare il suo mito Winston Churchill che prometteva «sangue, fatica, lacrime e sudore» con l’ipotesi di perseguire un’immunità di gregge accantonata dopo pochi giorni, è stato lui stesso colpito dal Covid e in maniera pesante, costringendolo a un ricovero in terapia intensiva che ha tenuto il Paese con il fiato sospeso e che gli ha però cucito addosso un’immagine di negligenza e leggerezza scriteriate. Boris che stringeva mani, Boris che faceva conferenze stampa a Downing Street in una sala piena di gente che tossiva nonostante la fidanzata incinta. E soprattutto, Boris che non ha saputo intervenire in maniera decisa quando il suo consigliere Dominic Cummings ha violato tutte le regole scritte e non scritte guidando per 300 chilometri fino a casa dei genitori con la moglie forse malata per portare il figlioletto di quattro anni dai nonni e farlo stare con dei parenti in caso i genitori avessero preso il Covid. Non solo:

il giorno del compleanno della moglie è andato a visitare un castello, dove è stato inevitabilmente riconosciuto, e ha detto di essere andato lì per controllare che la sua vista fosse a posto. Una serie di evidenti falsità che però non gli sono costati il posto, ma solo la riprovazione morale di un Paese in cui la classe media e in particolare l’elettorato conservatore non vede di buon occhio questo tipo di scivoloni.

Boris non è più quello di una volta e il Covid gli ha cucito addosso un’immagine di leggerezza scriteriata Fatto sta che tra «health» e «wealth», tra salute e ricchezza, il governo non ha saputo salvare nessuna delle due. Le mascherine, ad esempio, saranno obbligatorie nei negozi solo a partire dal 24 luglio, come se per due settimane il coronavirus potesse stare in standby, e membri importanti del governo come Michael Gove o come lo stesso Sunak si stanno facendo vedere in giro senza, dando la sensazione di una misura presa a malincuore. Senza capire che la classe media impaurita, a cui è stato detto di non prendere i mezzi pubblici se non strettamente necessario, è ancora troppo confusa per andare a spendere nei negozi se non ci sono regole chiare e tutele all’altezza della situazione. E il commercio online non basta certo a tenere in piedi un’economia e soprattutto dei posti di lavoro. Anzi: l’imbarazzante caso di Boohoo, un colosso dell’abbigliamento a bassissimo costo, sta gettando una luce particolarmente sinistra sulle condizioni di lavoro che ancora esistono nel Regno Unito. L’azienda, che non ha punti di vendita fisici ma solo un sito, è basata a

Leicester e ha avuto un boom di ordini durante il lockdown, visto che un vestito da sera costa 25 sterline e può somigliare a qualcosa di indossato da Kim Kardashian. Per far fronte all’aumento della domanda, Boohoo ha ignorato qualunque regola sul Covid, ha fatto lavorare anche i dipendenti che avevano sintomi senza nessuna condizione di sicurezza e sarebbe una delle ragioni dei contagi nella città. Ah, e il tutto con uno stipendio di 3 sterline e mezzo all’ora. Un sondaggio di NiemanLab, organizzazione che segue il mondo dell’informazione nell’era digitale, rivela che i britannici hanno trovato molto più fuorviante la comunicazione del governo rispetto alle «fake news», in fondo facili da trovare e smontare: il 5G non contribuisce alla diffusione e i gargarismi con acqua e sale non ti salvano la vita. Ma come fare davanti a un governo che dice che gli altri paesi sono stati «populisti» nell’attuare un lockdown mentre Downing Street ha fatto «parlare la scienza»? Come fare se l’esecutivo non è mai riuscito a raggiungere i suoi obiettivi di testare e tracciare i contagi nonostante i titoli di stampa? Oggi nel Regno Unito continuano a morire molte persone, una media di 81 al giorno, con punte di 138 e una media di 597 contagi al giorno. Il Covid si sta dimostrando smodatamente feroce nei confronti di fasce più povere e minoranze etniche, col risultato che il Nord è molto più colpito rispetto al ricco sudest e le persone di origine afrocaraibica prima e del sudest asiatico ora sono particolarmente bersagliate. Come una grande Grenfell Tower, questa pandemia sta facendo venire a galla gli abissi sociali esistenti nel Paese e sta allargando il divario, facendo apparire sempre più stridenti le voci lontane di chi diceva che il Coronavirus fosse una sorta di «livella».

Pressing su Huawei: Londra fuori gioco In un momento delicato per l’economia cinese come quello attuale, Pechino deve incassare lo sgarbo di Sua Maestà britannica, ossia la decisione di Downing Street di mettere al bando la sua tecnologia 5G. Gli Stati Uniti avevano messo in guardia gli alleati europei di non comperare tecnologia cinese perché significherebbe cyber spionaggio per conto di Pechino. Il problema è però che in America non esiste una rete 5G da vendere agli europei capace di surclassare l’avanzata cinese. La decisione del governo di Boris Johnson prevede che a partire dal 1.gennaio 2021 Huawei sia esclusa dalla realizzazione della rete di quinta generazione (5G) britannica, e impone la rimozione di tutte le apparecchiature dell’azienda cinese dalle infrastrutture di telecomunicazione del paese entro il 2027. L’inversione di rotta, accolta dal plauso degli Stati Uniti che da tempo hanno imposto un giro di vite su Huawei e avviato un pressing sugli alleati perché facciano lo stesso, avrà conseguenze sulle relazioni tra Londra e Pechino, già ai minimi storici a causa della questione di Hong Kong. Le tensioni su Hong Kong, lo scoppio della pandemia da Covid-19, il ruolo oscuro della Cina nella diffusione del virus, le proteste dei backbenchers e di alcuni grandees del partito e, infine, le sanzioni Usa imposte nei confronti di Huawei, hanno portato Johnson a cambiare idea. «Non credo che Londra l’abbia fatto solo per paura delle sanzioni americane, ma perché i loro team di sicurezza sono arrivati alle nostre stesse conclusioni», ha continuato il Segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, che ha definito il colosso tech cinese «un braccio dello stato di sorveglianza del partito comunista che censura i dissidenti politici e permette l’internamento in campi di detenzione di massa in Xinjiang». Huawei è una società cinese impegnata nello sviluppo, produzione e commercializzazione di apparecchiature per le telecomunicazioni e la fornitura di servizi di rete. Conta al suo attivo circa 180 mila dipendenti in oltre 140 nazioni e afferma di essere una società privata interamente posseduta dai suoi dipendenti. La precisa struttura proprietaria dell’azienda, tuttavia, non è nota e in tre decenni Huawei non ha mai venduto azioni al pubblico. La questione è tanto più controversa perché se si dimostra la presenza dello Stato cinese nell’azionariato della società, si può ipotizzare ragionevolmente un legame con il partito comunista che potrebbe avere un certo controllo sulle sue attività. Esattamente quello che sostengono due professori americani, Christopher Balding e Donald Clarke, in uno studio intitolato Chi possiede Huawei? (2019) in cui hanno accumulato molto materiale dai documenti ufficiali e dai media economici cinesi.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Politica e Economia

Medicina, la nuova Via della Seta

Cina Parallelamente alla corsa al vaccino per il Coronavirus, Pechino è impegnata su un altro fronte,

quello della medicina tradizionale, strumento del soft power all’estero

Giulia Pompili La corsa globale al vaccino per il nuovo Coronavirus è anche la corsa a un dominio politico: il paese che riuscirà a trovare la soluzione finale alla pandemia avrà anche un’influenza strategica, oltre che il prestigio e il riconoscimento di un primato a livello scientifico. America e Cina, in questi ultimi, complicati mesi, si stanno scontrando anche in questo campo. Periodicamente i media cinesi diffondono notizie su nuovi test, nuove speranze: l’ultima in ordine di tempo ad aver ottenuto l’autorizzazione alla sperimentazione umana in Cina è un’azienda di proprietà del governo di Pechino, la SinoPharm. «Ottenere il vaccino per la Covid-19 è il nuovo Santo Graal», ha detto Lawrence Gostin all’Ap, docente di Sanità pubblica alla Georgetown University, «la competizione politica per essere i primi non è meno importante della corsa all’allunaggio che c’è stata tra Stati Uniti e Russia». Ma parallelamente a questa partita tutta scientifica, la Cina, già da qualche anno, è impegnata su un altro fronte: la promozione della medicina tradizionale cinese, un ambito più vicino alla cultura e all’identità del Paese piuttosto che alla scienza. È il nuovo braccio armato del soft power cinese: quasi tutti i paesi asiatici e africani hanno la propria medicina tradizionale, che spesso viene considerata – senza alcuna base scientifica – più efficace delle terapie farmacologiche. L’obiettivo di Pechino è quello di promuovere la medicina tradizionale cinese come l’unica davvero funzionante, perfino in Occidente, dove resta comunque molto scetticismo nei riguardi delle (pseudo)terapie a base di erbe e ingredienti naturali.

Da una parte c’è la tradizione e l’identità cinese, che deve essere promossa nel resto del mondo, dall’altra c’è la corsa scientifica alla ricerca del vaccino E infatti, tra gli aiuti inviati da Pechino ai paesi in difficoltà durante la pandemia da Coronavirus, oltre alle mascherine chirurgiche e ai dispositivi di protezione, erano sempre presenti anche delle capsule bianche, i cui ingredienti

Pechino ha inviato molti aiuti ai paesi in difficoltà durante la pandemia da Coronavirus. (AFP)

sono ispirati da un libro di medicina tradizionale di milleottocento anni fa. Dall’inizio dell’anno, la vendita delle capsule di Lianhua Qingwen sono raddoppiate, e secondo la Shijiazhuang Yiling Pharmaceutical, che si occupa proprio di medicina tradizionale cinese, non solo in casa ma anche all’estero. L’azienda ha da poco comunicato gli utili netti della prima metà del 2020, che sono aumentati dal 50 al 60 per cento su base annua, e il suo titolo, quotato a Shenzhen, continua a crescere. Secondo i media cinesi l’aumento delle vendite sarebbe la conferma di «un crescente riconoscimento della medicina tradizionale cinese, sia in Cina che all’estero». Ma dietro alla propaganda c’è, ovviamente, molta politica. Sin da febbraio, le autorità sanitarie cinesi pubblicano bollettini e comunicati per tentare di convincere il resto del mondo dell’efficacia di certe terapie sui pazienti affetti da Covid. Il Lianhua Qingwen, che viene usato già da tempo in Cina per le malattie respiratorie, è un composto organico fatto con i frutti della Forsythia suspensa asiatica e altre dodici erbe, che fanno parte delle cin-

quanta fondamentali erbe della medicina tradizionale cinese. È una vecchia idea del presidente cinese Xi Jinping: la tradizione cinese fa parte dell’identità, e promuoverla come efficace, e quindi superiore, significa influenzare soprattutto l’opinione pubblica. In quasi tutti i paesi europei dove sono state inviate le scatole di Lianhua Qingwen, le pillole sono state poi riconsegnate alle comunità cinesi presenti sul territorio, perché mancano le autorizzazioni (e le basi scientifiche) per farne dei test di somministrazione sui pazienti. Perfino nelle Filippine il presidente Rodrigo Duterte, molto vicino a Pechino, ha dovuto vietare, attraverso le autorità sanitarie, la somministrazione del Lianhua Qingwen per curare i pazienti con il Covid-19. Altrove invece l’influenza politica di Pechino funziona: la scorsa settimana l’Uzbekistan ha inaugurato il primo centro di medicina tradizionale cinese, autorizzato da Pechino, e secondo la stampa cinese si tratta di «un passo concreto per la cooperazione strategica tra i due paesi». Oggi esistono centri simili in una dozzina di città del mondo tra cui Barcello-

na, Dubai, Bangkok, Budapest. In altre parole, l’amicizia con la Cina passa anche attraverso entusiastica ammirazione per certe tradizioni. Alla fine di maggio, la Commissione della salute della città di Pechino ha pubblicato una proposta di regolamento che avrebbe punito, anche con sanzioni penali, chiunque si fosse permesso di «diffamare o calunniare» la medicina tradizionale cinese. La faccenda non è piaciuta ai cittadini cinesi, soprattutto i più giovani, che credono poco a certe pratiche e preferiscono la terapia farmacologica. Dopo varie critiche arrivate online, la proposta è sparita dal comune di Pechino. Ma il fatto che agopuntura, capsule di erbe e zuppe medicali sarebbero diventate una questione politica era prevedibile, vista l’importanza che gli ha assegnato il leader. Nel 2016 il governo di Xi Jinping ha pubblicato il libro bianco sulla medicina tradizionale, che si apre con una dichiarazione eloquente: «La medicina tradizionale è un modo unico di vedere la vita, la forma fisica, le malattie e la prevenzione. Rappresenta una

combinazione tra scienze naturali e umanistiche, abbraccia profonde idee filosofiche della nazione cinese. L’idea di forma fisica e di modelli medicali cambia ed evolve, e la medicina tradizionale cinese arriva per sottolineare i valori più profondi». Poco prima della pandemia, a ottobre 2019, il presidente Xi in persona aveva partecipato al convegno annuale sulla medicina tradizionale, e aveva dato istruzioni chiare: la medicina cinese è «un tesoro della civiltà cinese che incarna la saggezza della nazione e del suo popolo», e che «si dovrebbe attribuire pari importanza alla medicina tradizionale cinese e a quella occidentale, dovremo lavorare per consentire la loro integrazione». Da una parte c’è la tradizione e l’identità cinese, che deve essere promossa nel resto del mondo come segnale d’influenza, dall’altra c’è la corsa scientifica alla ricerca del vaccino. Per il governo di Pechino le due strade non sono in contraddizione, e anzi, sono una questione politica e di potere globale. Nel frattempo, a guadagnarci sono le case farmaceutiche statali. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Politica e Economia

La nuova (a)normalità

Economia da Covid-19 Adagiarsi sullo status quo sarebbe – da ogni punto di vista –

insostenibile Edoardo Beretta

Non è stato raro in questi ultimi mesi ascoltare appelli secondo i quali la società globale doveva «imparare a convivere con la pandemia». Sono stati introdotti nuovi modi di salutarsi, gesti di interscambio individuale sono stati banditi fra persone estranee al nucleo familiare e la vita sociale è stata quasi azzerata. Per descrivere questo stato di cose – aberrante, nel 2020 – è stata (ri) utilizzata la formula «nuova normalità» (new normal). Sia chiaro, però: non c’è nulla di «normale» in tali stravolgimenti – pur nella necessità di rispettare stringenti norme igieniche – o nel dovere «convivere» con un morbo, contro cui un vaccino (o anche solo una cura) tuttora mancano. No, questa non è la «nuova normalità». È, semmai, la «nuova anormalità». Si assiste altresì ad improbabili ribaltamenti di nessi causali: anziché «sconfiggeremo la pandemia» riecheggia lo slogan «imparare a conviverci». Se la situazione (medico-sanitaria così come economico-sociale) non fosse drammatica, basterebbe fare uso di un esempio volutamente esagerato per evidenziare la lettura capovolta dei rapporti causali. Si ricorra alla favola di Cenerentola di C. Perrault: le sorellastre (per calzare la scarpetta e convincere il principe) si sono tagliate le dita dei piedi o i talloni. Non sarebbe stato «normale» tentare uno scambio di scarpa o ammettere di non esserne le proprietarie? Le prospettive economico-sociali sono così a tinte fosche da indicare come la situazione attuale possa e debba essere solo temporanea e non – come ipotizzato – prolungarsi nel tempo. Le stime di crescita del PIL mondiale sono state riviste al ribasso (–4,9% a giugno 2020 secondo il FMI contro –1,67% nel

Una temporanea anomalia a cui non ci si deve arrendere. (Keystone)

2009 a crisi dei mutui subprime in atto) con l’export di Paesi come la Germania (che nel 2019 era al terzo posto su scala globale) registrato a maggio 2020 –29,7% rispetto allo stesso periodo nel 2019 come rilevato da Destatis. Licenziamenti in ambito privato e/o salvataggi «selettivi» da parte degli apparati pubblici completano il quadro con tassi di disoccupazione negli USA pari a 11,1% nel giugno 2020 contro il 3,7% di un anno prima. Il settore turistico-alberghiero-ristorativo sta subendo – ove le strutture abbiano riaperto considerati i costi fissi – gravissime perdite: in Spagna il turismo contribuiva nel 2019 per il 11,8% del PIL contro il 4,4% nei Paesi OCSE. Il danno è inestimabile. Il settore sportivo, dell’intrattenimento o dei grandi eventi quali concerti, manifestazioni culturali, fiere, congressi etc. ha subito perdite senza precedenti: il calcio europeo ha secondo Statista generato nel periodo 2018-9 ricavi pari a 28,9 mld. € contro i 13,6 mld.

€ del 2006-7. Anche i viaggi internazionali (fra quarantene, Paesi su black list e stati d’emergenza protratti) sono coinvolti nel peggiore dei modi. Così anche i diritti individuali, fra cui quello di potersi spostare senza essere tracciati. Alcune banche centrali avevano iniziato un percorso di rialzi dei tassi di interesse: ora li hanno dovuti nuovamente tagliare (ad esempio, da +1,25% negli USA fino al 15 marzo 2020 a +0,25%), rinfocolando l’erosione storica del benessere da risparmio. Anche le modalità di pagamento sono influenzate – la BCE, Deutsche Bundesbank e Sveriges Riksbank hanno rassicurato sugli scarsi rischi di contagio da esso – quando in epoche di moneta sempre più digitale il cash è «àncora di stabilità». Anche le occasioni di spesa si sono ridotte e l’aumento del commercio elettronico (presso colossi online prossimi a posizioni oligopolistiche) esclude quello di prossimità. Stare insieme è, da sempre, la base del commercio. Rischia,

quindi, di venire meno il «filo rosso», che ha condotto lo sviluppo economicopolitico-sociale, cioè l’apertura verso l’altro in genere. Il messaggio è chiaro: non adagiarsi su scenari di convivenza con un morbo estraneo. Da ricercatore delle scienze sociali ritengo che quelle naturali – come lo furono economisti ed analisti nella crisi economico-finanziaria globale – siano chiamate a bruciare le tappe nello scoprire un vaccino o, perlomeno, una cura. Per farcela si devono superare quelle tempistiche assai lunghe dei processi di produzione scientifica fatti di studi, (contro)analisi, revisione, (pre) pubblicazione etc. Se ritenuta impossibile, ci si interroghi per il futuro quale ricerca privilegiare: automatizzazione, digitalizzazione «esasperati» e «scoperte spot» o ricerca sanitaria essenziale? Laddove si potesse giungere a brevissimo a soluzioni efficaci una task force internazionale dovrebbe incaricare aziende di diversi Paesi del mondo di produrre a ciclo continuo quanto necessario secondo principi di open source: l’argomento della «limitata capacità produttiva» e delle vaccinazioni scaglionate in base a classi di rischio decadrebbe. Perché la storia insegna che l’unione fa la forza. Così fu fatto alla Conferenza di Bretton Woods quando, dal 1. al 22 luglio 1944, 44 Paesi del mondo si trovarono per riscrivere l’ordine monetario internazionale post-bellico: gran parte degli organismi internazionali – non solo il FMI o la Banca Mondiale – derivano da quella visione comune per un mondo posttotalitaristico. La scienza deve, quindi, dare risposte rapide ed efficaci. Perché la presente non è una «nuova normalità»: è, semmai, una temporanea ed avvilente «anormalità», a cui le persone non possono e devono arrendersi.

quindi c’è una forte attenzione all’abbigliamento (soprattutto scarpe, felpe e pantaloni), ma anche abbigliamento sportivo, per attività extrascolastiche oltre che ai prodotti di elettronica. E vuoi vedere che quest’anno uno dei tanto decantati cambiamenti che la società starebbe per intraprendere sia proprio quello di accorgerci che sul mercato esistono tanti e buoni prodotti rispettosi dell’ambiente? Il Back to School può essere green con matite e colori, quaderni e agende, borracce e zaini rispettosi della natura. Li compreremo al supermercato o su Internet? Noi crediamo che l’evento si celebrerà nel nostro punto vendita fisico che giorno dopo giorno, a dispetto della crescita dell’online, torna a essere il luogo delle certezze in cui si trova tutto senza troppi giri di click. La tendenza di medio termine probabilmente sarà l’omnicanalità e cioè una situazione di equilibrio e di stretta relazione tra i canali fisici e quelli online, senza estremizzazioni e con benefici per le due modalità distributive. Ne parleremo meglio in futuro, per ora, buone vacanze.

Egregio Piero Marchesi, prendo atto della compattezza del gruppo dirigente dell’UDC sull’iniziativa in questione, e se le voci che ho riferito sono errate me ne scuso con tutti. Come prendo atto della sua affermazione secondo cui i due consiglieri federali Maurer e Parmelin difendano per senso di collegialità la posizione del governo contraria all’iniziativa. Tuttavia, mantengo i miei dubbi in proposito, anche perché non mi sembra che si tratti solo di voci: in un’intervista alla NZZ am Sonntag del 17 maggio il capo del Dipartimento dell’economia Parmelin ha dichiarato che «il Consiglio federale non ha cambiato opinione e il ministro dell’economia neppure: siamo contro l’iniziativa, perché vi vediamo un pericolo per la nostra economia. Una volta di più vediamo oggi quanto sia importante coordinare a livello internazionale questioni importanti. Per il Consiglio federale l’iniziativa è la via sbagliata». Comunque le do ragione: non badiamo (troppo) alle voci e alle sensazioni personali e guardiamo ai fatti – benché pure quelli sono spesso contestati e contestabili. / PS

diverse: alcuni beni si vendono di meno, altri di più

La sindrome della capanna, oppure della grotta, decidete voi quale ameno loculo scegliere, per raccontare di quel luogo in cui siamo tanto protetti da non volerlo più lasciare. Sembra che tale «sindrome» stia emergendo nel post lockdown dove un misto tra paura di affrontare il mondo aperto e abitudine alla vita domestica stiano reprimendo la voglia di uscire, tanto che lo psichiatra e filosofo Damiaan Denys ha evidenziato di come il virus sia «diventato una ossessione». In realtà, tale curiosa sindrome è molto legata a come siamo organizzati da un punto di vista psicologico e di cosa la società ci chiede. Questo fenomeno accade da anni a taluni ragazzi giapponesi che escludono le relazioni con gli altri e con il mondo esterno, preferendo l’isolamento sociale. A quelle latitudini il fenomeno viene chiamato Hikikomori ed è legato a una forma di ribellione dei giovani rispetto alla cultura tradizionale. Nel nostro caso le ribellioni non c’entrano. Si tratta piuttosto di un mix tra nuove abitudini e la paura di essere contagiati. A lanciare l’allarme è stato, nelle scorse settimane, il Collegio Ufficiale di Psicologi di Madrid. Un team di ricercatori spagnoli aveva segnalato che a soffrire di questo disturbo esistono più persone di quante si possa immaginare. Per alcuni aspetti questa sindro-

gno di sconfitta. Avete perso il controllo della vostra vita se uscite in tuta». Fuor di citazione, il settore fashion è sotto terra. Mancano eventi, cerimonie e occasioni d’incontro dove vestirsi alla moda. Pensate che sono mesi che non si celebrano cerimonie e la tendenza pare andare per le lunghe. Zero cresime, battesimi, feste comandate, matrimoni. Siamo alla Caporetto dell’abito blu e del tacco 12. Tuttavia, non tutto è perduto. L’estate è iniziata, la voglia di uscire è molta e almeno per gli abiti top della stagione – il costume e le braghette da spiaggia – un segno di rivalsa è alla porta, pancetta da lockdown permettendo. Torneremo a metà agosto e guarderemo la realtà con più distacco dai fatti negativi della primavera e la prima grande occasione di rilancio del mercato sarà quella dinamica chiamata «ritorno a scuola», dove anche le marche alla moda avranno qualcosa da dire. I più maturi tra noi non dimenticheranno mai la classica battaglia di fine estate tra gli zainetti Invicta (impossibile non averlo per i paninari fine anni 80) in perenne competizione con lo zainetto della Seven e quello della Barbie. Poi sono arrivati gli zainetti di Beverly Hills 90210, le ragazzine si tiravano le trecce per avere quello con il tenebroso Dylan. Il ritorno a scuola, infatti, non prevede solo l’acquisto di libri e accessori scolastici, per molte famiglie coincide anche con il cambio di stagione e

di posizione del presidente dell’UDC Ticino riguardo un nostro articolo

Anche l’abito da sposa si adatta alla pandemia. (Keystone)

Pandemia e consumi Se le persone stanno in casa si fanno scelte

me assomiglia all’agorafobia, ossia la paura degli spazi all’aperto, ma mentre quest’ultima è una vera e propria fobia, la sindrome della capanna tende a scomparire presto. Solitamente in un paio di settimane, il tempo necessario perché chi ne soffre possa riabituarsi alla routine quotidiana. Senza dilungarci troppo sulle questioni psicologiche, che non appartengono a questa rubrica, il fenomeno che abbiamo descritto è caratterizzato da un numero X di persone che stanno in casa e non escono e di conseguenza portano a una depressione del consumo di alcuni beni per favorire invece quello di altri. Ci nutriamo (alimentari e bevande), cerchiamo, nel limite del possibile, di curare il nostro corpo (prodotti beauty e allenamenti in YouTube Gym), consumiamo prodotti televisivi e video a tutti i livelli (soprattutto videogiochi), mentre alcuni si occupano della manutenzione della casa e del giardino (arredo e cura del verde). Perché comprare le scarpe se non esco? A cosa serve una bella gonna se nessuno la guarda? Sull’abbigliamento dei mariti, rispettive mogli, compagni e compagne nel corso del lockdown, stendiamo un velo pietoso. La dinamica è generalizzata. Abbiamo perso la trebisonda e le tute da ginnastica hanno imperversato, tanto che per riconciliarci con un minimo di decoro, corre l’obbligo di citare il grande Karl Lagerfeld: «i pantaloni della tuta sono un se-

Replica La presa

Egregio Sig. Schiesser, il suo editoriale del 30 giugno intitolato Una decisione di portata storica che richiama «L’iniziativa per la limitazione» promossa dal mio partito e che voteremo il 27 settembre prossimo, ha attirato la mia attenzione. L’iniziativa pone domande semplici ma fondamentali: vogliamo finalmente tornare a gestire l’immigrazione nel nostro paese? Vogliamo che i cittadini svizzeri possano riprendere le redini del proprio destino, avere la priorità nel mondo del lavoro e un futuro più prospero per i loro figli? Ecco perché concordo con lei che l’esito della votazione avrà una connotazione storica. Negli ultimi 15 anni, a causa della libera circolazione delle persone, il nostro paese ha perso la facoltà di gestire l’immigrazione, l’ha semplicemente subita. Un concetto che urta profondamente il principio di indipendenza e sovranità iscritto nella Costituzione federale. Non le nascondo che alcune sue affermazioni mi hanno piuttosto stupito. In particolare quando asserisce che anche i nostri due Consiglieri federali, Maurer e Parmelin, sarebbero contrari all’iniziativa. Non devo certamente ricordarle che nel Governo vige il principio della concordanza, dove anche chi è in minoranza è tenuto a sostenere le posizioni del Governo. D’altro canto, anche Sommaruga e Berset non rifiutano pubblicamente l’acquisto dei nuovi aerei da combattimento, dobbiamo forse dedurre che sono favorevoli? Afferma poi che l’UDC non vuole davvero vincere, ma solamente utilizzare l’iniziativa per profilarsi elettoralmente. Posso assicurarle che il mio partito considera questa battaglia fondamentale per le sorti della Confederazione. Per questo motivo abbiamo deciso di impiegare tutte le nostre energie e risorse per vincere questa votazione. La ringrazio per la possibilità di replica e rimango volentieri a disposizione per dibattere con lei su questo importante tema, ma a una condizione, che si considerino i fatti. Le voci di corridoio e le sensazioni personali contano poco. Piero Marchesi, Consigliere nazionale e membro di direzione UDC Svizzera

La capanna inibisce i consumi Mirko Nesurini

«Iniziativa UDC del 27 settembre: badiamo ai fatti»


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Politica e Economia

Nuova analisi dell’impatto della libera circolazione con l’UE

Mercato del lavoro Secondo l’ultimo rapporto del Consiglio federale complessivamente non si nota

un effetto sostitutivo né una pressione generalizzata sui salari. Dal 2015 arrivano meno lavoratori stranieri

Ignazio Bonoli A fine giugno, il Consiglio federale ha pubblicato i dati dell’ultima analisi sugli effetti della libera circolazione delle persone sul mercato svizzero del lavoro. A livello politico si è subito notata la tempistica di questa operazione, mettendola in rapporto con il voto popolare del prossimo 27 settembre. UDC e ASNI hanno, infatti, lanciato con successo un’iniziativa che chiede la denuncia del trattato con l’UE sulla libera circolazione. Casualmente anche le conseguenze dell’epidemia di Covid-19 contribuiscono a fomentare le paure che da tempo circolano a proposito del lavoro e dei salari in Svizzera, che sarebbero messi in pericolo da questo trattato. Nel frattempo, però i rapporti annuali della Confederazione sulla libera circolazione di lavoratori dell’UE, dovrebbero contribuire a ridurre i timori dei lavoratori in Svizzera. Il rapporto di quest’anno conferma intanto che, dopo lo choc del franco svizzero nel 2015, il trend delle immigrazioni dall’UE è in costante diminuzione. Durante l’attuale crisi dovuta al Covid-19 il saldo migratorio mostra perfino un’eccedenza di emigrati dalla Svizzera rispetto agli immigrati. Nel periodo da marzo a maggio, il saldo è di 1’900 emigrati in più degli

immigrati. Al momento della discussione alle Camere federali dell’iniziativa, l’immigrazione raggiungeva cifre record, portando a 90’000 il saldo migratorio netto, di cui 68’000 immigrati provenienti dallo spazio UE/AELS. Da allora, però, l’immigrazione è costantemente diminuita, raggiungendo, nel 2010, un calo del 40%, mentre la diminuzione dell’immigrazione netta dalla sola UE è stata di circa la metà. È chiaro che la causa principale di questa diminuzione è il peggioramento relativo della congiuntura economica in Svizzera rispetto all’UE, dovuto in maniera preponderante alla forte rivalutazione del franco rispetto alle altre valute principali. Questo a dimostrazione – ancora una volta – che il movimento migratorio è dovuto in modo preponderante alla situazione economica sia del paese di immigrazione, sia dei paesi di emigrazione. Quest’anno la pandemia del Covid-19 ha provocato un ulteriore choc. Secondo le ultime statistiche della Confederazione, come detto, la Svizzera, da paese di immigrazione, è diventata un paese di emigrazione, considerando i tassi di crescita del movimento migratorio. Evidentemente una delle preoccupazioni maggiori – per altro anche rafforzata dalle misure per combattere l’epidemia – è quella del mercato del lavoro. In particolare vengono eviden-

ziati due elementi: la sostituzione di lavoratori indigeni con lavoratori immigrati e la pressione sui salari in Svizzera. Gli studi regolarmente pubblicati da Berna – e anche altre analisi indipendenti – constatano che non vi sono tendenze alla sostituzione di lavoratori indigeni con immigrati e nemmeno un fenomeno generalizzato di pressione al ribasso sui salari svizzeri. Questo non significa però che vi siano regioni o settori particolari in cui questi effetti possono essere più evidenti, come per esempio nel canton Ticino. Lo studio citato analizza queste situazioni e constata che, in media annuale, circa un terzo dei lavoratori in Svizzera sono stranieri, tuttavia, secondo i dati a disposizione, questi stranieri non hanno sostituito lavoratori svizzeri, ma hanno occupato posti di lavoro a disposizione. Tant’è vero che, fin dal 2010, e anche dopo l’introduzione della libera circolazione, l’occupazione di mano d’opera residente è aumentata. Il tasso di disoccupazione è rimasto stabile e questo nonostante la forte immigrazione netta ogni anno. Fenomeno registrato, con forti oscillazioni, anche in Ticino. Nel frattempo, anche i salari sono aumentati. Secondo l’Ufficio federale di statistica, l’indice dei salari reali nel 2019 è aumentato dello 0,8% in media annua. Anche in Ticino, dove il diva-

Con la pandemia sono partiti più lavoratori stranieri di quanti sono arrivati. (Keystone)

rio salariale rispetto alla media svizzera rimane, si è registrato un aumento dello 0,4%. In Ticino si sente l’influsso della mano d’opera frontaliera. Il salario basso (meno dei due terzi del salario mediano) è percepito dal 7,5% della mano d’opera residente, ma dal 25% dei frontalieri. Tuttavia, nel periodo considerato, l’aumento percentuale del salario dei frontalieri è stato superiore a quello dei residenti. Anche questo rapporto constata però che la libera circolazione ha frenato l’aumento dei salari della mano d’opera molto qualificata.

Così il salario nominale medio del personale con diploma universitario, tra il 2008 e il 2018, non è aumentato, contrariamente a quello del personale non qualificato. Probabilmente la ricerca di personale molto qualificato fuori dalla Svizzera ha frenato l’aumento dei salari in questo settore. In ogni caso, lo studio conferma che la libera circolazione non ha avuto un effetto sostitutivo del personale svizzero e non ha contribuito a rallentare il livello salariale in Svizzera. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Politica e Economia

Sta per tornare l’inflazione? La consulenza della Banca Migros

Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

Negli ultimi tempi gli indicatori congiunturali sono risultati per lo più incoraggianti. In numerosi settori economici, l’attività si sta riprendendo più rapidamente di quanto previsto di recente. L’economia mondiale ha probabilmente superato il peggio ed è entrata nella fase di ripresa. Tuttavia, molti investitori si stanno ora chiedendo se la politica monetaria e fiscale tuttora espansiva causi una spinta inflazionistica, non appena l’attività economica si normalizzerà. Tali timori non sono una novità. Già durante la crisi finanziaria del 2008 sono stati lanciati molti segnali di allarme sul fatto che la politica monetaria espansiva delle banche centrali avrebbe portato a un rapido aumento dei prezzi. Tuttavia, nell’ultimo decennio, l’inflazione è rimasta per lo più al di sotto del 2% negli Stati Uniti e nell’eurozona. Il problema per le banche centrali era un’inflazione troppo bassa piuttosto che una troppo alta. Reputiamo che il rischio di inflazione rimanga limitato. Una rapida ripresa dell’economia mondiale potrebbe senz’altro favorire un aumento dell’inflazione. Riteniamo tuttavia più probabile che l’economia mondiale si riprenda più lentamente di quanto venga comunemente ritenuto e che la sua capacità produttiva rimanga sottoutilizzata. È improbabile che torni

Dalla crisi finanziaria l’inflazione si è mantenuta prevalentemente al di sotto del 2%

Fonte: Bloomberg, Banca Migros

Thomas Pentsy

al livello precedente la crisi per almeno un anno e mezzo. I primi segnali indicano che la crisi provocata dal coronavirus ha un notevole impatto deflazionistico sull’economia mondiale. Ad esempio, il crollo della domanda ha penalizzato i prezzi

del petrolio e ridotto i costi dell’energia, mentre la domanda di molti beni e servizi è notevolmente diminuita. Numerose imprese stanno ora riducendo le scorte invece di investire. Inoltre, a causa della persistente difficoltà nelle catene di approvvigionamento

e dell’incertezza delle prospettive congiunturali, non sono solo le aziende ad essere prudenti nelle spese, ma anche i consumatori a fronte dell’aumento della disoccupazione. Ci attendiamo pertanto che nel prossimo futuro le pressioni inflazionistiche restino contenute. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi L’importanza dello Stato per l’economia Per il fatto di portare un bel numero di anni sulle spalle non siamo di quelli che pensano che un fatto nuovo, e per di più inatteso, come la pandemia, nella quale ci troviamo, cambierà fondamentalmente il nostro modo di vivere. Una volta che le situazioni eccezionali arrivano alla fine, la gente è portata a rientrare nei parametri comuni del suo vivere quotidiano. Non è tuttavia da escludere che, anche in economia, la pandemia porti a modificare qualche giudizio. Per esempio che in futuro si riconosca, più di quanto non sia stato il caso negli ultimi tre decenni, che lo Stato gioca un ruolo di primo piano nel conseguire e assicurare il benessere economico di una comunità. E non solo in situazioni eccezionali come quella nella quale stiamo vivendo. Se così fosse, è possibile che coloro che commentano i

fatti economici riscoprano le argomentazioni che Alvin H. Hansen, un economista americano che insegnò a Harvard, aveva formulato, negli anni Sessanta dello scorso secolo, in merito al ruolo che il settore pubblico sarebbe stato chiamato a giocare in un’economia nella quale le attività di produzione andavano automatizzandosi e la domanda di lavoro nei settori di produzione tradizionale sembrava essere destinata a ridursi a poca cosa. Riscoprire quanto affermava Hansen può essere utile anche perché tra il processo di automazione della produzione di quell’epoca e la tendenza alla digitalizzazione e alla robotizzazione dei processi produttivi di oggi esistono, quanto alle conseguenze negative sull’evoluzione della domanda di lavoro, veramente pochissime differenze. Seguiamo dunque l’argomentazione

del professore di Harvard a proposito delle conseguenze dell’automazione. Per lui l’economia poteva essere suddivisa in un settore privato, che era quello che, di fatto, produceva i beni di consumo e di investimento, e un settore pubblico e para-pubblico che, invece, metteva a disposizione di aziende e popolazione una serie di servizi indispensabili come, per fare solo due esempi, quelli dell’educazione e quelli della protezione della salute. L’automazione dei processi di produzione industriale avrebbe determinato una riduzione dell’occupazione nel settore privato, perché in quel settore i robot, l’informatica e l’intelligenza artificiale (allora si parlava ancora di cibernetica), sarebbero stati in grado di sostituire un ampio ventaglio di qualifiche lavorative e di posti di lavoro. Di conseguenza la quota di occupati nel

settore privato sarebbe diminuita a favore della quota di occupati nel settore pubblico e para-pubblico, non da ultimo perché le attività del settore pubblico non potevano essere automatizzate (oggi diremmo piuttosto digitalizzate e robotizzate) facilmente. Hansen pensava così che i posti di lavoro che si sarebbero persi nel settore privato potevano essere recuperati nel settore pubblico. Tuttavia in questa descrizione del possibile sopravvento del settore pubblico, come datore di lavoro, su quello privato si presentava un grosso «ma»: quello costituito dalla questione del finanziamento delle attività dello Stato. Tradizionalmente, affermava Hansen, si pensa che queste attività siano finanziate dai proventi delle imposte e delle tasse che provengono dal settore privato. Ora, se nell’economia automatizzata di ieri, come in quella

dell’informatica e della robotizzazione di oggi, il settore privato era, ed è, destinato a declinare, chi avrebbe messo a disposizione o metterà a disposizione i mezzi finanziari necessari per assicurare l’espansione dei servizi dello Stato? Sarebbe stato in grado lo Stato di creare i mezzi necessari per finanziare le sue attività? Hansen dimostrava che i servizi del settore pubblico e parapubblico, come quelli del settore privato, potevano creare valore aggiunto e distribuire salari. Quindi anche queste attività erano in grado di generare introiti fiscali interessanti. Per capire che questa tesi è fondata basta pensare che, negli ultimi cinquant’anni la quota del settore pubblico e para-pubblico nell’occupazione è certamente più che raddoppiata mentre il gettito delle imposte non è diminuito nemmeno di un ette. Anzi…!

per mostrare il volto violento di una protesta, che per le strade riversa la sua furia contro le statue – comprese quelle di un grande italiano come Cristoforo Colombo – e nei luoghi della cultura esercita una censura cieca: vietato citare certe opere letterarie, o vedere certi film. L’impressione però è che il manifesto dei Centocinquanta sia caduto abbastanza nel vuoto. L’articolo di addio di Bari Weiss centra un punto importante. L’America liberal, di cui il «New York Times» è il faro, non ha visto arrivare Trump. Non ha capito che la Reazione negli Stati Uniti esiste, e può anche vincere le elezioni. Trump sarà probabilmente sconfitto il prossimo 3 novembre, perché le congiunzioni astrali non si ripetono mai due volte; e sarà un bene per tutti, per gli americani e pure per noi europei. Ma all’evidenza l’America liberal non ha imparato la lezione. Non ha capito l’importanza di comprendere gli «altri» americani, la necessità di resistere al tribalismo, la centralità del libero scambio di idee per una società democratica. Scrive ancora Bari Weiss: «È invece

emersa una nuova opinione diffusa sulla stampa, ma forse soprattutto su questo giornale: che la verità non è un processo di scoperta collettiva, ma un’ortodossia già nota a pochi illuminati, il cui compito è quello di informare tutti gli altri. Twitter non figura nel colophon del “New York Times”, eppure ne è diventato il direttore editoriale. Nel momento in cui l’etica e i costumi in voga sulla piattaforma sono diventati quelli del giornale, il giornale stesso si è trasformato sempre più in una sorta di palcoscenico. Le storie sono scelte e raccontate in modo da soddisfare un’audience più ristretta e selezionata possibile, piuttosto che permettere a un pubblico curioso di leggere del mondo di trarre poi le proprie conclusioni». Sono parole forse un po’ troppo pessimiste. Il «New York Times» non è mai stato così in salute, continua ad aumentare i suoi abbonamenti digitali, macina record di clic: all’evidenza ha un pubblico, intercetta una tendenza, detta una linea.

Ma non è detto che sia una linea maggioritaria, destinata a durare. Lasciamo alla Weiss l’ultima parola: «Mi è stato insegnato che i giornalisti scrivono la prima bozza della storia. Ma la storia stessa ora è diventata effimera, modellata per soddisfare le esigenze di una narrazione predeterminata. Le mie stesse incursioni nel “pensiero sbagliato” mi hanno reso oggetto di continuo bullismo da parte di colleghi che non sono d’accordo con le mie opinioni. Mi hanno definita una nazista e una razzista…». E infine: «La verità è che la curiosità intellettuale oggi al “Times” è considerata un disvalore. Perché pubblicare qualcosa di stimolante per i nostri lettori o scrivere qualcosa di audace per poi trovarsi a doverlo anestetizzare per renderlo ideologicamente kosher, quando possiamo mettere al sicuro i nostri posti di lavoro (e i clic sul sito) pubblicando il quattromillesimo articolo su Donald Trump pericolo numero uno per il Paese e per il mondo? Così l’autocensura è diventata la norma».

partito che si richiama all’insegnamento cristiano. Nella Svizzera tedesca e in Romandia il «fattore C» è ora sotto esame. L’attuale dirigenza sostiene che la denominazione attuale («Partito democratico cristiano») non rispecchi più le sensibilità della base, soprattutto tra i giovani. Intende quindi espungerla dalle sue insegne, per mantenerla solo negli statuti. In Ticino la questione non si pone, visto che l’aggettivo «cristiano» è stato soppresso già cinquant’anni fa (il che però non è bastato a frenarne l’erosione elettorale, segno evidente che le cause stanno altrove). Il Partito democratico cristiano non è l’unica formazione politica che esibisce nel nome la sua appartenenza religiosa: il rimando è presente anche nelle file degli evangelici («evangelische Volkspartei»). Si è tuttavia creata una sorta di ambiguità, con il «cristiano» ridotto a «cattolico», suggerendo che le due comunità debbano stare in case diverse (e lasciamo ai politologi il

compito di confrontare le due piattaforme ideologiche). Un altro aspetto che non va dimenticato è la peculiare evoluzione del partito, più degli altri ancorato all’impalcatura federalistica del paese. Il Pdc ha avvertito meno degli altri l’esigenza di darsi un’organizzazione nazionale. La centralizzazione dei suoi organi è avvenuta con fatica e fra mille ostacoli. Le differenze definitorie altro non sono che il riflesso di questa divergenza di itinerari cantonali, frutto di sviluppi territoriali disuguali. Che la confusione sia grande sotto il cielo della politica è evidente, e in tutti i segmenti della costellazione partitica. Si vuole capire, interpretare, magari anche trasformare, ma le categorie lasciate in dote dal secolo scorso non aiutano più. E questo non vale soltanto per il «centro», dove si collocano liberali e democristiani, ma anche per la sinistra. Che cosa significa oggi essere socialisti, o addirittura

militare in un partito che si proclama orgogliosamente comunista? S’intende sotto questi vessilli ripercorrere esperienze otto-novecentesche, oppure imboccare strade ignote, tutte da costruire (ma con chi e con quali strumenti?). Sul versante della destra simili domande sembrano meno urgenti. Forse perché basta aggrapparsi alla tradizione, o a formule di sicuro effetto, come «legge e ordine», «autorità e sicurezza», «no allo straniero». Tentativi spicci di ridurre la complessità della società odierna ad alcuni, pochi schemi elementari di facile assimilazione. L’auspicio è che dalla confusione possa nascere e maturare una cultura politica rinnovata, capace di mettere assieme passato e presente, conquiste storiche e sguardo analitico, patrimonio ereditato e indagine diagnostica: un doppio fronte che ogni partito dovrebbe coltivare nei propri luoghi di riflessione e approfondimento: giornali, portali e associazioni.

In&outlet di Aldo Cazzullo La dittatura del politically correct «Sono entrata nel giornale con entusiasmo e ottimismo tre anni fa. Sono stata assunta con l’obiettivo di portare sul giornale voci che altrimenti non sarebbero apparse sulle vostre pagine: scrittori alle prime armi, moderati, conservatori e altri che non avrebbero naturalmente pensato al “Times” come alla loro casa. La ragione di questo sforzo era chiara: il fatto che il giornale non fosse riuscito ad anticipare l’esito delle elezioni del 2016 rivelava una conoscenza non sufficientemente profonda del Paese». Comincia così la lettera d’addio al «New York Times» di Bari Weiss, ormai ex editorialista. Prima di lei se n’è andato James Bennet, responsabile della sezione Opinioni. La sua responsabilità? Aver pubblicato l’intervento di un senatore repubblicano, su un giornale vicino al partito democratico. Ma la vera colpa di Bennet e della Weiss è non essersi uniformati al clima da caccia alle streghe che vige negli Stati Uniti. Il politicamente corretto è nato nelle università americane come forma di

rispetto per le minoranze, e in genere verso i diritti e le sensibilità di ognuno. Una giusta dose di politicamente corretto servirebbe in ogni contesto sociale, a cominciare dalla politica italiana, dove ci si paragona quasi quotidianamente a Goebbels o a Stalin, vale a dire ad alcuni dei peggiori figuri nella storia dell’umanità. Ma la dittatura del politicamente corretto ha esasperato quello slancio iniziale. L’ha trasformato in un movimento completamente diverso, percorso da una vena fanatica, illiberale, intollerante. È quello che hanno cercato di dire i 150 intellettuali che hanno firmato la Lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto, pubblicata da «Harper’s Magazine». Tra loro ci sono pensatori come Noam Chomsky, da sempre vicino alla sinistra radicale, scrittori perseguitati dall’intolleranza religiosa, come Salman Rushdie, e la mitica J.K. Rowling, la mamma di Harry Potter, da sempre finanziatrice del partito laburista. Il manifesto denuncia che le giuste rivendicazioni sul tema caldo del razzismo hanno finito

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Idee confuse, militanti smarriti C’è agitazione nei partiti politici, regionali e nazionali. Il Plrt rimarrà presto orfano del suo presidente, Bixio Caprara. La macchina per individuare il successore è già in moto, ma nel contempo bisognerà fare i conti con i malumori della base, le delusioni degli esclusi, l’assenza di un progetto largamente condiviso. Sia ben chiaro: non è, quello dei liberaliradicali ticinesi, un caso isolato. Della crisi dei partiti, della loro eclissi, della loro atrofia, si discorre da decenni. I sociologi la riconducono al tramonto delle grandi famiglie ideologiche del Novecento, alle trasformazioni della società (diventata liquida, ossia sciolta dai solidi moschettoni che l’ancoravano alla tavola dei princìpi e dei valori), alla perdita di fiducia nelle istituzioni, al crescente individualismo fondato sulla ricerca del successo personale. Un tempo la scacchiera restituiva un’immagine ordinata: qui i pedoni della sinistra (comunisti e socialisti),

là gli alfieri del liberalismo, ai lati le torri della dottrina sociale della Chiesa. Il crollo del muro di Berlino ha rovesciato i pezzi e riscritto le regole dell’agire politico; anzi, spesso le ha del tutto cancellate, lasciando briglia sciolta alla «mano invisibile» del mercato. L’ascesa dei movimenti populisti ha sottratto energia ai partiti che fin dall’Ottocento hanno determinato le sorti del cantone. L’ultima bruciante sconfitta è intervenuta lo scorso anno alle federali con la sconfitta alla camera alta (Consiglio degli Stati). Sia Giovanni Merlini che Filippo Lombardi sono stati scavalcati dal blocco della destra (Udc-Lega con capofila Marco Chiesa) e dall’alleanza di sinistra (socialisti-verdi con Marina Carobbio). Un’estromissione che molti militanti hanno vissuto prima con incredulità e poi come un’onta a cui porre rimedio il più presto possibile. Più rapida ancora è stata finora la perdita di consensi da parte del


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Cultura e Spettacoli Tutti a sciare, anzi, a bere Al MASI gli impressionanti scatti della dissoluta Ischgl di Lois Hechenblaikner

Tre piani tra Nevo e Moretti L’israeliano Eshkol Nevo ci racconta la sua scrittura e la collaborazione con Nanni Moretti, che dal romanzo Tre piani sta realizzando un film

L’America di J.C. Oates Al centro di Ho fatto la spia, il razzismo e l’intramontabile American Dream

pagina 35

pagina 31

pagina 30

Il grande Bardo Per la gioia dei fan di tutto il mondo, Bob Dylan ha realizzato un album che è già in odore di capolavoro

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Paolo Pino, il veneziano

Trattati/5 Pittore, scultore e letterato,

ha lasciato pareri discordi sulla sua capacità artistica

Gianluigi Bellei Una delle dispute maggiormente interessanti del Cinquecento è quella sul primato tra disegno e colore. Fra due città: Firenze e Venezia. A Firenze è il disegno il fondamento di tutte le arti: «L’istessa anima – scrive Vasari – che concepe e nutrisce in se medesima tutti i parti degli intelletti». Mentre il colore è solamente una parte della pittura. Gli artisti fiorentini sono molto diligenti e in ogni dipinto si vede un metodo di lavoro preciso e rigoroso. A Venezia, al contrario, è sempre Vasari che scrive, si usava ritrarre qualunque cosa «con maniera secca, cruda e stentata». Un po’ come Tiziano. Ma a Venezia non stanno con le mani in mano. E prima Pietro Aretino e poi Lodovico Dolce si scagliano contro l’incombente monotonia e la «pericolosa disonestà» di Michelangelo. Ne riparleremo. Intanto Paolo Pino trova una formula mediana. Nel suo Dialogo di pittura scritto nel 1548 (la prima edizione delle Vite di Vasari è del 1550) scrive: «se Tiziano e Michiel Angelo fussero un corpo solo, ove al disegno di Michiel Angelo aggiontovi il colore di Tiziano, se gli potrebbe dir lo dio della pittura, sì come parimenti sono ancora dèi propri».

Di Paolo Pino non si sa molto. Nasce nell’ultima decade del Quattrocento. È attivo a Venezia dagli anni Trenta del Cinquecento. Da un documento del 1564 si evince che abita in contrada di San Vio e che il padre, già deceduto, si chiama Alessandro. Nel suo Dialogo di pittura sostiene di essere stato a bottega dal pittore bresciano Girolamo Savoldo prima del trasferimento di questi a Milano nel 1533-34. Di lui si conoscono alcuni ritratti e qualche pala d’altare. Nel 1534 firma (Paulus de Pinnis) il Ritratto di collezionista, oggi al Musée des beaux-arts di Chambery. Agli Uffizi di Firenze troviamo il Ritratto del medico Coignati. Poi figure a stucco, teleri, un pilo marmoreo a Noale. Muore a Venezia intorno al 1565. La sua produzione letteraria comprende un dialogo, due commedie e diversi poemi. Ma il testo che ce lo fa ricordare è il Dialogo di Pittura. I giudizi su di lui sono variegati. Lionello Venturi sostiene che la sua cultura e la sua intelligenza siano molto limitate, mentre Ettore Camesasca ritiene che occupi «un posto elevato nella storiografia veneziana» e Julius Schlosser Magnino che il suo testo sia scritto con «molta abilità, pieno di

Paolo Pino, Ritratto del medico Coignati, conservato agli Uffizi. (Wikimedia)

brio e spirito». Per contro tutti affermano che il suo lavoro pittorico sia poco più che mediocre. Il Dialogo di Pittura di Messer Paolo Pino nuovamente dato in luce viene stampato a Venezia da Paulo Gherardo nel 1548. Si tratta di un dialogo, appunto, fra il veneziano Lauro e il «forastiero» Fabio, toscano. Lauro invita il forestiero a un incontro «dove vi saranno venticinque matrone, tutte leggiadre, tutte graziose e belle». Il libretto parte e si incentra sulla bellezza muliebre che deve essere (citiamo un sunto) con «una carne delicata, senza macola, lucida e candida; che l’età non aggiunga alla trentacinque anni, ma più partecipi dell’acerbo che

del maturo, non debilitata dal coito, non passata, non arida; che le membra corrispondano insieme; con i capelli lunghi, sottili e aurei; le guance uguali; la bocca retta; le labbra di puro sangue e picciole; i denti candidi et eguali… il petto ampio e morbido, le poppe sode e divise… le cosce affusate e marmoree…». Lionello Venturi fa notare che i fiorentini erano portati verso la verità scientifica, mentre i veneziani verso la sensualità. D’altronde la grande pittura veneziana inizia con una Venere nuda dipinta da Giorgione. E come non dimenticare le carni rosee e i capelli rossastri delle femmine tizianesche. Dopo la ricerca della donna ideale si passa alla teoria che

deve comprendere tre categorie, il disegno, l’invenzione e il colorito, per addentrarsi negli aspetti tecnici come l’illuminazione dello studio e la disposizione delle finestre. Il pittore deve andare in giro curato e senza macchie di colore e soprattutto essere un buon cattolico. Quelli citati sono, fra gli altri, Tintoretto, Bronzino, Tiziano, il dio della pittura e chi non è d’accordo è un «eretico fetidissimo». Bibliografia

Edizione di riferimento (dalla mia biblioteca): Paolo Pino. Dialogo di pittura, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1954.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 luglio 2020 • N. 30

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Cultura e Spettacoli

A Ischgl si scia, ma soprattutto ci si ubriaca

Fotografia La capitale dell’après ski (e sede di uno dei primi focolai di Covid-19) al centro di una ricerca

artistico-antropologica di Lois Hechenblaikner

Giovanni Medolago Lois Hechenblaikner (in seguito LH) è nato nel 1958 a Alpbachtal, 975 metri sul livello del mare e 2500 abitanti. Il paese tirolese, rimasto quasi isolato sino al 1926 quando fu aperta la strada che lo collega alla Valle dell’Inn, già nel 1953 si dotò di rigorose norme urbanistiche che imponevano «costruzioni del tutto in linea con lo stile architettonico tipico del villaggio». Tutto ciò permette a Alpbachtal di potersi fregiare del titolo di «villaggio più bello d’Austria». Figlio di albergatori e dunque osservatore privilegiato dell’evoluzione del turismo tirolese, LH ha visto il villaggio di Ischgl (1400 m d’altezza, 1600 abitanti) compiere scelte diametralmente opposte: in nome del Dio denaro, Ischgl è divenuta in pochi decenni «l’Ibiza con la neve», capace di conteggiare 1,4 mio di pernottamenti annui con un fatturato di 250 milioni di euro. Come mai «Ibiza con la neve»? Ma perché Ischgl ha puntato non tanto sulle sue pur fantastiche piste da sci, quanto piuttosto su quell’après ski fatto di feste, concerti rock con nomi illustri, bagordi sino a notte fonda, alcool a fiumi e promesse di sesso facile. Un amo cui abboccano soprattutto gli «sciatori» tedeschi, in particolare quelli che nella birra ci farebbero pure il bagno! Il risultato di tale scelta è docu-

mentato da LH in un libro di freschissima pubblicazione (giugno 2020) e ora anche al MASI, sponda LAC, dove in due sale vengono proiettate in rapida sequenza 200 immagini. Niente foto incorniciate e fissate alle pareti, dunque, bensì una Pop-up project(ion), intitolata Ischgl and more. Pop-up è termine dell’informatica che in italiano diventa «finestra a comparsa», indicando quei riquadri – chiamati anche banner – che irrompono sullo schermo del nostro PC quando stiamo navigando su Internet. Nel nostro caso, tuttavia, possiamo azzardare la traduzione «qualcosa che appare all’improvviso e a tempo determinato». È precisamente ciò che si troveranno di fronte i visitatori al LAC, accompagnati da una colonna sonora originale fatta di ammiccanti annunci di rendezvous, gala, festini e qualche party, tutti previsti per la bisogna di chi considera l’astemia una pericolosa malattia. Per costoro, una volta raggiunto un notevole tasso alcolico, è facile offrire all’obiettivo membra desnude (deretani in particolare), linguacce che nemmeno quella dei Rolling Stones ed esibirsi in scollacciate pose da locale di lap dance. Quasi sempre tra lattine di birra sparse tutt’intorno, o accanto a torri di casse di bottiglie di whisky svuotate: un affresco squallido assai, al limite della ripugnanza.

Lois Hechenblaikner, Ischgl, 2012. (© Lois Hechenblaikner)

LH lo dipinge molto incisivamente, con una ricerca che dura da decenni e che di artistico ha ben poco: il suo lavoro sembra piuttosto una tangibilissima denuncia socioantropologica costruita sul folle quotidiano seral/ notturno di Ischgl. Infatti, confessa lo stesso LH, gli oltre 200 mila scatti (!) dedicati all’Ibiza austriaca con la

neve devono molto al sociologo tedesco Gerhard Schultze. In particolare alle sue riflessioni, nel saggio Società dell’avventura, sul concetto di eudomonìa, già motivo d’interesse dei filosofi greci e che designa la felicità quale fine ultimo assegnato agli uomini e di conseguenza alle loro azioni. Quanto questo «fine» debba all’alcol per esse-

re raggiunto, beh, questo nemmeno Aristotele&Co furono in grado di stabilirlo, mentre sappiamo che il quasi ascetico Immanuel Kant – a questa visione/miraggio di felicità – si oppose ferocemente. A Ischgl è stata imboccata la scorciatoia etilica, col risultato – vai tu a imporre distanze sociali e mascherine a una folla di ubriachi – di rendere il paesino tirolese non solo un riconosciuto quanto formidabile focolaio europeo della pandemia in corso (il lockdown è colpevolmente scattato solo verso fine marzo), bensì pure di issarlo in vetta alla graduatoria mondiale – mondiale: neanche nel Brasile di Bolsonaro – di contagiati dal Coronavirus, col 45% degli abitanti infettati. Ci sia concesso infine confessare due speranze: che i dati allarmantissimi e la denuncia di LH inducano le autorità di Ischgl a tornare sui propri passi e a concepire un «dopo virus» meno etilico; e che il pop-up resti un episodio isolato nei nostri musei. Come si fa a cogliere punctum&studium (Roland Barthes dixit) nella proiezione breve e sfuggente di una fotografia? Dove e quando

Lois Hechenblaikner, Ischgl and more, A pop-up project(ion). Lugano, MASI (sede LAC). Orari ma-do 10.00-17.00; lu chiuso. Fino al 6 settembre 2020. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Da Tel Aviv alla poesia di Moretti

Letteratura&Cinema Eshkol Nevo (di cui in questi giorni esce il Vocabolario dei desideri) ci racconta la nascita

e il pensiero del bestseller Tre piani, prossimamente al cinema grazie a Nanni Moretti

Blanche Greco «Non volevo essere uno scrittore: ho iniziato a scrivere perché avevo bisogno di sfogarmi, di tirar fuori ciò che per anni non ero riuscito a esprimere. In seguito ho continuato perché volevo prendere parte al dibattito sociale e politico che stava crescendo all’interno della società israeliana; o ancora perché, il cuore infranto da un amore perduto, avevo bisogno di nascondermi in una love story inventata il tempo necessario per guarire. Poco, o tanto, ogni mio romanzo parla di me, ma soprattutto sembra essere intimamente legato alla biografia dei miei lettori che misteriosamente si riconoscono nei desideri, nei sogni e nelle esperienze raccontate nei miei libri. Una magia che mi stupisce ogni volta», mi ha confessato Eshkol Nevo quando l’ho incontrato a Roma l’anno scorso, felice, anzi elettrizzato: lui scrittore israeliano di successo a livello internazionale, così amato per la maestria con cui descrive le sfumature e le spigolosità dell’animo umano, stava approdando con un suo libro al cinema. «Sono appena stato sul set del nuovo film di Nanni Moretti: Tre Piani». – mi ha bisbigliato con un allegro sorriso di complicità, attento a non rompere la promessa di discrezione fatta al regista. Il film (che adesso è pronto e si spera, visto i tempi incerti in cui viviamo, che esca in autunno) è tratto dal suo omonimo libro: tre storie che mettono

a nudo i segreti di altrettante famiglie che vivono nella stessa palazzina nella periferia borghese di Tel Aviv, una sorta di ricamo su amori e incomprensioni di coppia e sui complicati rapporti padrifigli. «Un libro che non volevo scrivere perché per certi versi troppo intimo», racconta Eshkol Nevo, «all’epoca cercavo di capire se sarei stato un buon padre e che tipo di relazione sarei stato capace di stabilire con mia figlia. Perciò quando Tre Piani venne pubblicato in Israele ero molto imbarazzato, mi ero messo a nudo e mi sembrava che tutti se ne fossero accorti. Invece, siccome nel precedente Nostalgia, al centro della storia c’erano quattro villette contigue dove abitavano i personaggi, quando uscì Tre piani, mi affibbiarono subito il soprannome di «romanziere dell’immobiliare». La verità è che benché ci sia la stessa atmosfera famigliare, nel primo m’interrogo su cosa significhi «casa», «sentirsi a casa» e dove e per chi questo sia possibile; nel secondo libro invece la domanda cruciale è: possiamo essere felici in una casa, vivendo in famiglia? E che tipo di segreti dobbiamo essere capaci di mantenere se vogliamo evitare che tutto vada in malora? La cornice di entrambi i romanzi è simile, ma ho scritto Nostalgia a trentun anni e Tre Piani a quarantaquattro, nel frattempo sono cresciuto». Nevo, gli occhi azzurri impazienti e il fisico asciutto e allenato, ricorda Arnon l’architetto del primo piano del

Eshkol Nevo, rappresentante della nuova letteratura israeliana. (Leonardo Cendamo)

suo romanzo. Un bell’uomo con una moglie molto amata e due figlie piccole, che a un certo punto è ossessionato dal dubbio che la sua bimbetta di sette anni sia stata molestata dall’anziano vicino di casa, sino ad allora persona irreprensibile. Vecchie paranoie si riaffacciano alla sua mente e la verità, nel vortice delle sensazioni, è difficile per lui da svelare, o forse da accettare. Al secondo piano vive Hani, ex grafica con due bambini piccoli e un marito sempre in viaggio all’estero. Si sente sola, rifiutata,

attirata da quegli stessi fantasmi della follia che in passato le hanno portato via la madre. All’ultimo piano abita Dvora, giudice in pensione e vedova da poco. La morte del marito la riporta ad episodi del passato: quella parte della sua personalità che si è arresa alla vita di coppia e l’insanabile frattura con l’unico figlio. Tre racconti avvincenti nei quali c’è «una lotta tra etica, immaginazione e impulsi»; tre piani sul modello delle tre istanze freudiane della personalità:

l’Es, l’Io e il Super Io. Tre mondi, che nel libro si sfiorano appena, ma che nel film di Nanni Moretti, interpretato tra gli altri da lui stesso, Riccardo Scamarcio, Margherita Buy, Alba Rohrwacher, sono destinati a intrecciarsi in modo inaspettato. Nel libro l’esigenza insopprimibile dei protagonisti a raccontare i propri segreti, li porta a ricercare un interlocutore «fidato» al quale indirizzare una lunga confessione intrisa di ribellione, rimpianti, egocentrismo, vanità, gelosie che punteggiano i fatti che hanno cambiato la loro vita e forse distrutto la loro «casa». «Nella religione ebraica non esiste il rito della confessione» – puntualizza Eshkol Nevo – «ma i miei personaggi ne sentono l’urgenza, per rompere la solitudine e allo stesso tempo per manipolare la realtà. Io non credo nel destino e neppure in Dio, o in un disegno divino, ma vedo la vita come qualcosa di caotico che si sviluppa secondo dei flussi che dipendono da noi stessi, ma che ignoriamo, o ai quali non prestiamo attenzione. Tre Piani è un libro scritto di getto, in pochi mesi, molto amato dai miei lettori. Nelle presentazioni, in molti mi hanno raccontato di essersi riconosciuti negli errori dei miei protagonisti e di essersi perdonati. Io da “groupie” del cinema di Nanni Moretti sono curioso di vedere come l’ha immaginato lui, perché i suoi film sono capaci di sprigionare una tale tensione intima, una tale autenticità da essere a loro volta quasi un genere letterario». Annuncio pubblicitario

Un ciarlatano per le strade di NY Romanzi Uscita per Adelphi la prima

edizione al mondo del capolavoro di I. B. Singer Simona Sala Una New York brulicante, piena di profughi affaccendati da una parte a sopravvivere alla bell’e meglio (in quello che è un rimasuglio dello spirito bohème di certa Europa) e dall’altra a fare soldi, a costruire un impero sulla scia dell’eterno American Dream (anche se, visto che siamo in pieno Secondo conflitto mondiale, i più si accontentano di non dovere temere le bombe che invece flagellano il vecchio continente). I bar sono pieni di perditempo e affaristi, i salotti di artisti in fuga e borghesi, le strade di botteghe, sartorie ed empori, ma anche di notizie che si susseguono, a mozziconi di dicerie che arrivano

direttamente dalle filiali dell’inferno che contrappunta l’Europa. E fra chi ha avuto la fortuna di riuscire a trovare un rifugio a New York, alcuni si sono lasciati alle spalle matrimoni falliti, mentre altri, pur di mettere in salvo la propria pelle, hanno abbandonato i figli. Anche Morris, Minna, Hertz e Bronia si muovono in questa costellazione che ha il sapore di un mosaico mal raffazzonato. Infatti, se da una parte ci affezioniamo al ricco e generoso Morris, dall’altra suscita una certa inquietudine lo studioso Hertz, suo malgrado affascinato dai fenomeni paranormali, geniale mente talmudica in un corpo indolente. E se accanto a Morris troviamo Minna, fedifraga ma perfetta padrona di casa, Hertz se la vede, fra le altre, con l’algida e spossata Bronia, in eterno tormento per i figlioli lasciati in Polonia. Nel racconto frenetico delle vite che ruotano intorno alla figura del Ciarlatano che dà il titolo al libro, il Premio Nobel Israel Bashevis Singer è riuscito a costruire nuovamente un ipnotico carosello di vite umane, tanto più autentiche proprio in virtù del fatto che in esse si mescolano la quotidianità (anche quella più gretta e umiliante), le riflessioni filosofiche e le dispute religiose. Ad accomunare queste vicende di disperazione e sopravvivenza, raccontate come sempre in modo magistrale, resta l’eterna questione dell’identità ebraica, della sua stessa natura e del suo destino, in una cornice storica che non lascia scampo. Bibliografia

Il ciarlatano è apparso a puntate in yiddish su «Forverts» (1967-1968).

Isaac Bashevis Singer, Il ciarlatano, Milano, Adelphi, 2019.

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Cultura e Spettacoli

Bivi letterari

Pubblicazioni In Due vite lo scrittore italiano Emanuele Trevi ci offre il ritratto di due amici scomparsi,

Pia Pera e Rocco Carbone

Laura Marzi Abbiamo incontrato Emanuele Trevi, scrittore e critico letterario, autore per la casa editrice Neri Pozza del romanzo Due vite, dedicato al racconto della sua profonda amicizia con i due scrittori scomparsi Rocco Carbone e Pia Pera. Nel tuo libro Due vite racconti dei tuoi cari amici Rocco Carbone e Pia Pera. Nel precedente Sogni e Favole avevi scritto di un’altra persona a te cara, Arturo Patten. In Due vite leggiamo: «la scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti, e consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso». Scrivi di loro solo per vincere la nostalgia?

No, la nostalgia è un demone che non si può vincere. Preferirei non avere scritto su di loro, e che fossero entrambi ancora qui con me. Però la scrittura, più del pensiero libero o del sogno, ricostruisce una specie di intimità, perché mentre scriviamo, ci apriamo all’imprevisto, il potere del nostro ego si attenua, ed ecco che l’assente, in qualche misterioso modo, si manifesta.

È molto interessante come dei due personaggi, Rocco Carbone e Pia Pera, rimangano molto impressi in chi legge i tratti del carattere più difficili, potremmo banalmente dire i difetti: l’indeterminatezza di Pia Pera e il facile risentimento di Rocco Carbone, per esempio. Questo

accade all’interno di una narrazione in cui trasuda l’amore che porti loro. Gli eccessi sono più memorabili, cioè più degni di essere raccontati, o resistono meglio all’oblio?

Dipende un po’, credo, dal mio carattere fondamentalmente ironico, dalla mia tendenza alla dissacrazione. Quando ero un bambino, gli adulti mi facevano un po’ ridere, spiavo non tanto i loro difetti, ma la loro comica inadeguatezza alla vita. Forse la prima idea «letteraria» che ho avuto riguardava mio padre e i suoi eterni tentativi falliti di parcheggiare bene la macchina.

A un certo punto elogi la capacità di Pia Pera di raccontare il sesso e la sua tendenza a essere porno invece che indulgere in un erotismo che di vero ed eccitante non ha nulla. Qual era il tratto della sua personalità che in questo frangente specifico la rendeva così diversa dai tanti narratori e narratrici che o le evitano o non sanno scrivere scene di sesso?

Pia era una persona libera e imprevedibile, estranea a qualunque forma di «correttezza» ideologica. Nemmeno il femminismo aveva presa su di lei. Come ha giustamente osservato Goffredo Fofi recensendo il mio libro, la lettura di Sade può avere influito sulla sua esplicitezza.

Di Rocco Carbone ricordi invece con totale incomprensione l’interesse per la teoria della letteratura sul quale avrebbe potuto anche costruire una carriera accademica, se lo

avesse scelto. Come scrivi, questo ambito del sapere ha l’ambizione di dare una scientificità alla letteratura. Perché ti sembra così riprovevole?

Riprovevole addirittura non direi, ma la programmatica aridità «scientifica» di quel modo di studiare la letteratura negli anni Settanta e Ottanta, quando Rocco era ancora impegnato nella sua carriera accademica, mi sconfortava. Non amo il gergo, il termine tecnico: lo capisco in medicina, ma la letteratura può essere descritta con qualche possibilità di illuminazione solo da altri scrittori, credo che la critica sia una forma artistica. Valgono più i due saggi di Baudelaire su Edgar Allan Poe che intere biblioteche accademiche. Semmai, amo l’erudizione, la grande scuola storica ottocentesca, perché lì ci vedo una specie di poesia implicita, l’idea che una tradizione immensa possa essere conosciuta da un singolo individuo.

Scrivi: «Noi pensiamo di essere infelici per qualche motivo, e non ci rendiamo conto che è proprio l’infelicità a produrre continuamente un suo teatro di cause che in realtà sono solo le sue maschere». Si tratta di un’espressione vera ed evidente. Ma se non ha cause originarie allora l’infelicità è un tratto della fisionomia, pari alla forma del nostro naso o al modo di camminare?

Forse potremmo dire che ognuno ha il suo modo di essere infelice così come

Lo scrittore e critico Emanuele Trevi. (Leonardo Cendamo)

ognuno possiede una sua fisionomia. La cosa più difficile, nel tipo di scrittura che pratico, è capire quanto una caratteristica appartiene alla collettività, e quanto invece alla singola, irripetibile persona. Questo secondo aspetto è la perla nell’ostrica, ma in mare non ci sono perle senza ostriche. Perché gli esseri umani, oltre che essere se stessi, assomigliano anche agli altri, altrimenti non esisterebbero. La letteratura, io

credo, si può esattamente definire come un’indagine su ciò che è unico in individui destinati a essere, per moltissimi aspetti, simili agli altri. Basti pensare alla Monaca di Monza di Manzoni: è una figlia della sua epoca, del suo ceto sociale, fino a un certo punto in lei è tutto prevedibile… ma poi c’è uno scarto, l’inizio di un destino personale: è qui, a questo bivio, che lo scrittore deve aspettare il suo personaggio. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Con l’American Dream nel sangue Narrativa Nel suo nuovo romanzo la scrittrice Carol Joyce Oates affronta magistralmente il tema

della questione razziale

Luciana Caglio La coincidenza può sembrare fortuita, ma non lo è. L’ultima opera narrativa di Joyce Carol Oates esce, nella traduzione italiana, Ho fatto la spia proprio mentre la brutale uccisone di George Floyd riporta alla ribalta l’irrisolta questione razziale negli USA, con ripercussioni e derive sul piano mondiale. Ma, per l’autrice, di cui è risaputo il militante antitrumpismo (evita di scriverne per intero il nome, come fosse una parolaccia), il razzismo rappresenta una costante nella realtà americana: una violenza che crea violenza. Qualcosa che la Oates, classe 1938, ha vissuto ininterrottamente, sia da cittadina sul fronte civile sia da scrittrice sul fronte creativo. Ne ha ricavato la materia prima per una quarantina di romanzi e centinaia di racconti, dove affrontando i grandi temi sociali, razzismo, povertà, rivendicazioni femministe sceglie una strada tutta sua. Non la denuncia, imposta dall’impegno ideologico, bensì l’invenzione letteraria ad ampio respiro, che supera i fatti del momento e li trasforma in simboli senza tempo. Pubblicato l’autunno scorso, il romanzo della Oates, s’intitola nell’originale My Life Like a Rat, e rat, in inglese significa anche tradimento. Ed è, appunto, la storia di un tradimento, commesso dalla protagonista Violet: Rue Kerrigan che, dodicenne, infrange il tabu dell’omertà familiare. Ha visto, casualmente, due suoi fratelli ripulire e seppellire l’arma di un delitto, una mazza da baseball insanguinata, con cui avevano massacrato un ragazzo di colore, e lo rivela. Diventa una spia, ingenuamente, senz’avvertire la gravità di un gesto inammissibile, in un ambiente dove vige la regola del silenzio. Qual è una famiglia irlandese emigrata nella cittadina di South Niagara, al confine con il Canada. Qui, se trova lavoro e un modesto benessere economico, stenta però a integrarsi in un diverso tessuto sociale, insomma approfittare dei vantaggi di un’«American way of life», all’insegna della libertà e della tolleranza. Ne assorbe, invece, gli influssi negativi, l’arrivismo, la violenza e, in particolare il razzismo, con il quale i Kerrigan devono fare i conti. Da un lato ne sono vittime, loro stessi come minoranza. Dall’altro, ne diventano protago-

Carol Joyce Oates è nata a Lockport nel 1938. (Keystone)

nisti, come succede ai fratelli di Violet che, uccidendo un adolescente nero, ottengono paradossalmente la solidarietà della maggioranza bianca di South Niagara. In città si diffonde la versione dell’incidente, poi smentita in tribunale alla luce di testimonianze inconfutabili. I due fratelli finiscono in carcere. Anche nei confronti di Violet scatta una condanna. Così ha deciso il clan familiare, chiuso a riccio sotto il dominio del padre-padrone, detentore di un

potere maschilista incontrastato. Ma la Oates, con raffinata accortezza psicologica, evita di calcare la penna facendone lo stereotipo del despota e basta. Ne delinea una fisionomia più complessa. È l’autoritario che incute rispetto e, in pari tempo, trasmette sicurezza e protezione, persino affetto. Magari in forma rude, come quello rivolto a Violet, la figlia prediletta. Che l’ha tradito e si merita una pesante punizione. Diventerà una vera e propria persecuzione: «Per-

ché la famiglia è uno speciale destino, dal quale non può esserci scampo». Violet viene espulsa, spedita «come un pacco», nella vicina Oriskany, presso una zia. È la prima tappa di un esilio che sarà definitivo. Inutili i tentativi di ristabilire un contatto, neppure con la madre. Le sue lettere, i biglietti d’auguri per le ricorrenze rimangono senza risposta. Soltanto una sorella riesce, di nascosto, a telefonarle. Resta sola, ad affrontare una precoce indipendenza, che

la trova impreparata e fragile, esposta alle minacce che spettano proprio alle donne. Lo zio, di cui è ospite, la molesta, costringendola a fuggire. Sarà poi affidata a una casa protetta, gestita dai servizi sociali. Per fortuna, può andare a scuola. Lo studio le piace, e ci riesce. È un barlume di normalità, ben presto oscurato dalla fama di spia e «puttanella» che la insegue. Oriskany dista appena 130 chilometri da South Niagara, le dicerie volano. Un docente di matematica sembra offrirle protezione. Sarà, di nuovo, una trappola. Adesso non è più un’adolescente, ma una giovane donna, chiamata ad assumersi la responsabilità dell’indipendenza. Le serve un lavoro per mantenersi e pagarsi i corsi serali all’università. Le serve la lontananza dalle meschinità e dai pettegolezzi della provincia. Si trasferisce a New York, dov’è possibile rifarsi un’identità. Violet ci prova, ma a proprie spese sul piano morale. Trova un lavoro part time che le consente, la sera, di seguire le lezioni all’università. Di giorno fa le pulizie in case di facoltosi uomini d’affari che, oltre alla tariffa ufficiale, le danno buone mance. Sembra la clausola di un implicito contratto. «Se perdi in dignità guadagni in soldi», le suggeriscono le colleghe. Agli inizi Violet lo sottoscrive, ma poi prevale la ribellione. Restituisce i regali e si licenzia. Una volta ancora riesce a farcela, superando non soltanto i pregiudizi di un clan familiare di vecchio stampo, ma anche quelli di una società evoluta e tuttavia maschilista. Con ciò Violet diventa un emblema vincente. Ed è del resto, il messaggio che J.C. Oates vuol trasmettere affidandosi a una magistrale reinvenzione del vero, in pagine coinvolgenti, che illustrano la realtà com’è e anche come dovrebbe essere. Da cui emerge un filo di ottimismo. «Ma dov’è finito il sogno americano: non è diventato un incubo?»: le hanno chiesto gli intervistatori. Ha risposto: «Soprattutto nel momento attuale, questo sogno sembra irraggiungibile. Ma è una risorsa che appartiene al nostro DNA». Bibliografia

Carol Joyce Oates, Ho fatto la spia, Milano, La Nave di Teseo, 2020.

Il colore della pelle

Pubblicazioni Tra aspetti biologici, antropologici e culturali, un lungo e leggibilissimo saggio

di Nina G. Jablonski sul significato del colore della pelle Stefano Vassere «La valle del Nilo è stata un’autostrada di interazioni umane. Grazie all’orientamento nord-sud e alla notevole lunghezza (6600 chilometri) – estendendosi per quindici gradi di latitudine e attraversando zone con irraggiamento UV da intenso a moderato – il fiume e la sua valle unirono popoli con tonalità della pelle visibilmente diverse che si erano adattati a regimi solari nettamente diversi». Non capita spesso di legge libri così luminosi, che rappresentano così vividamente la messa in scena della lettura come una specie di sereno continuum, che fa arrivare in un battibaleno in capo a quasi duecentottanta pagine con sforzi minimi e grande profitto. Questo Colore vivo. Il significato biologico e sociale del colore della pelle dell’antropologa americana Nina G. Jablonski è di questo tipo, ma è anche un libro che divide; non tanto per i contenuti e i temi, che anzi paiono inequivocabili, quanto

per le prospettive di approccio: dove la sezione dedicata agli aspetti biologici sembra appartenere a tutt’altra comunità di lettura rispetto all’ampia seconda parte, sulla società, le sue interpretazioni, i suoi simboli. Eppure anche la biologia ha ampia parte nell’avvicinamento a uno studio completo sulle cause e le implicazioni del colore della pelle. Il volume è organizzato in un testo «autoriale» di lunga narrazione cui si accompagnano immagini e box di approfondimento sui fatti e sugli aspetti che succede via via di incontrare. Così, ci si può attardare un po’ su una scheda dedicata alla rassegna storica delle teorie sui benefici della pigmentazione scura: la quale, nelle ipotesi anche recenti, «si era evoluta perché forniva un mascheramento migliore nelle foreste buie», oppure «perché rinforzava il sistema immunitario contro infezioni tropicali o parassiti». È molta, insomma, la paccottiglia pseudoscientifica giunta con agio fino alla seconda metà dello scorso secolo.

Poi viene, come detto, l’ampio discorso dei risvolti sociali e antropologici del colore della pelle, con la spiegazione di come tratti specifici salienti del fisico di una persona diventino con grande facilità motore degli stereotipi che ben conosciamo. Le persone devono attendere tre anni da quando sono nate per riconoscere nel prossimo un colore della pelle in un qualche modo significativo; e ancora devono aspettare di essere immerse in un sistema comunicativo più maturo per associare questa caratteristica a un qualsivoglia giudizio culturale. Da qualche anno la neurologia ha sviluppato tecniche che ci permettono di vedere come funziona il cervello di fronte a esperienze cognitive particolari e una generosa parte del libro della Jablonski è appunto dedicata a quali parti della mente si «accendono» in soggetti interessati da pregiudizi razziali, tanto più se posti di fronte a immagini di qualcuno con il colore della pelle diverso. In mezzo agli infiniti spunti che

mini di economicità, semplificazione e, in ultima analisi, comodità; «gli stereotipi sono pratici perché permettono di cavarsela senza pensare troppo agli altri e prestare attenzione a una persona o una situazione». Oppure, dalle parti di una discussione sull’«effetto Obama» a partire dal 2008, una cosa che molti di noi hanno forse già più volte pensato: il ruolo attenuante sui pregiudizi di bontà o cattiveria generato dal contatto diretto con l’oggetto del pregiudizio stesso: «l’attivazione della classificazione in categorie è facile quando si incontrano etichette verbali, più difficile di fronte a fotografie, difficilissima quando si incontrano persone reali». Libro fuori dall’ordinario. Anche per affrontare i tempi che corrono. rendono la lettura di questo Colore vivo un vero e proprio motivo di gratificazione, ci sono un paio di memorabilia originali e generali. Per esempio, la diffusa definizione dello stereotipo in ter-

Bibliografia

Nina G. Jablonski, Colore vivo. Il significato biologico e sociale del colore della pelle, Torino, Bollati Boronghieri, 2020.


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Cultura e Spettacoli

Bob and the miracle

Musica Un miracolo americano: dopo anni dedicati alle cover, Bob Dylan torna

al cantautorato d’alto livello con un album allo stesso tempo luminoso e struggente Benedicta Froelich Quando si parla dei cosiddetti «dylaniani», ovvero del gran numero di devoti dell’immenso Bob Dylan (di fatto, a tutt’oggi, il più importante cantautore americano di sempre), vi è una sola opinione unanimemente condivisa dai membri della categoria: e riguarda quella che è ormai da molti percepita come la scemante creatività del Maestro, il quale ha da tempo abbandonato la prolificità degli anni giovanili, finendo per abituare i fan ad attese sempre più lunghe tra un disco e l’altro – per non parlare della recente, controversa scelta di incidere ben tre dischi consecutivi di cover tra il 2015 e il 2017.

Con questo lavoro Bob Dylan offre ai suoi ammiratori uno degli sforzi più riusciti della maturità In realtà, troppo spesso si sottovaluta il fatto che, per Bob, queste incursioni nel passato – nonché l’atto stesso di rielaborare brani ormai apparentemente datati – non costituiscono affatto un’esperienza nuova, poiché, fin dagli esordi, l’intera opera dylaniana si è basata sulla rivisitazione di capisaldi della tradizione folk USA; e appare quindi naturale che, anche una volta passati i settant’anni, «His Bobness» abbia avvertito la necessità di immergersi in una rinnovata «metabolizzazione» di classici (nel caso del recente «trittico», gli standard del Great American Songbook). Un processo creativo che deve avergli giovato non poco, dal momento che Rough and Rowdy Ways, primo album di inediti da otto anni a questa parte, è stato da tutti salutato come un piccolo miracolo – trattandosi, in effetti, di uno degli sforzi più riusciti del Dylan maturo, nonché del suo miglior

disco dai tempi del glorioso Time Out Of Mind (1997). Del resto, le premesse erano state ottime, dal momento che il primo singolo estratto dall’album, l’eccellente Murder Most Foul, aveva mostrato un artista nuovamente catapultato nel mondo a lui più congeniale: ovvero, quello del migliore e più «socialmente impegnato» storytelling di sempre, contraddistinto da altissima raffinatezza lirica, stavolta al servizio di una rilettura ad alto voltaggio emotivo dell’omicidio Kennedy, definibile come un vero e proprio capolavoro di lirismo rock. Così, anche la seconda, indiscussa gemma dell’album, Key West (Philosopher Pirate) riprende i temi già cari al Bob più intimista, focalizzandosi sulla consapevolezza del tempo che scorre – e rifuggendo tuttavia dal ritrito rimpianto verso ciò che non potrà più essere, per concentrarsi piuttosto sull’eterno senso di profonda solitudine dal quale nessun essere umano davvero consapevole potrà mai dirsi immune. Rough and Rowdy Ways vede così il Nostro proseguire nel lavoro certosino di una vita: la costante ricerca stilistica incentrata sulle liriche, che anche stavolta presentano una sapiente combinazione di citazioni colte tratte dagli standard folk e blues del passato e degli arguti calembour di cui è da sempre maestro (si veda I Contain Multitudes, vero mosaico di versi pressoché leggendari tratti dai «sacri testi» blues e folk). E se Dylan non si fa mancare neppure i classici pezzi da ballo tradizionalmente ritmati e arrangiati (gli irresistibili Goodbye Jimmy Reed e Crossing the Rubicon), My Own Version of You e, soprattutto, False Prophet sembrano invece ammiccare a un’inconsueta ironia meravigliosamente old-fashioned. Del resto, anche dal punto di vista musicale, Bob si rifà a sonorità assai vintage, per non dire «démodé»; su tutte, il marcato sapore blues degli splendidi lenti Black Rider (arguta metafora sul potere che i fantasmi del passato

I corti sono più vivi che mai Netflix Una serie

breve ma intensa Nicola Mazzi

Antichi splendori: il ritorno trionfante di Bob Dylan.

sanno esercitare sul nostro presente) e Mother of Muses, quasi un inno dal sapore gospel e la stessa, sacrale malinconia tipica di un Blind Willie McTell o un Charley Patton degli anni d’oro. La medesima, dolente consapevolezza pervade anche la languida ballata I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You – la quale, riprendendo la celebre Barcarola di Offenbach, innalza un canto di puro ma disilluso desiderio, in grado di regalare all’ascoltatore momenti sospesi tra struggenti aneliti romantici («il mio cuore è come un fiume, un fiume che canti») e innegabili tensioni interiori, sostenuti dalla voce ammaliante di Dylan: oggi più che mai, il «Bardo di Duluth» è infatti in grado di mesmerizzare l’ascoltatore grazie a un timbro vocale non solo avvolgente, ma anche reminiscente del tono di un

«grande saggio» – qualcuno che abbia sperimentato e conosciuto le umane vicende in ogni loro particolare, e sia ora in grado di «insegnare a vivere» a chiunque abbia la pazienza di ascoltarlo con la dovuta attenzione. Proprio in questo, dopotutto, sta la vera grandezza di Rough and Rowdy Ways: nella capacità di Dylan di fondere l’ossessione quasi «proustiana» per il passato con la consapevolezza della propria, soverchiante mortalità – il tutto in un costante equilibrio, delicato quanto magistrale, tra un insopprimibile desiderio di rinnovamento e di salvezza personale, e l’esperienza dell’uomo maturo, capace di evitare qualsiasi enfasi o autocompiacimento. Proprio come il grande narratore che Bob è sempre stato: un patrimonio non solo per gli USA, ma per l’intera umanità.

Il lockdown ha dato una nuova vita al cortometraggio. Mai come nel periodo che abbiamo trascorso a casa sono stati prodotti e distribuiti sulle piattaforme online tanti filmati di durata ridotta. Anche in Svizzera, grazie alla SSR abbiamo visto una trentina di produzioni, tra cui alcune ticinesi. Netflix non è stata da meno e ha seguito l’onda lunga dei lavori brevi e fatti in casa durante la pandemia con Homemade, una produzione italo-cilena, che propone 17 corti d’autore. I partecipanti sono illustri: dai registi Paolo Sorrentino, Pablo Larraín, Nadine Labaki, Ladj Ly, Naomi Kawase, alle attrici Maggie Gyllenhaal e Kristen Stewart. Tra i corti da guardare sicuramente quello di Ladj Ly che ha ripreso uno dei temi presenti nel film premiato a Cannes, I Miserabili: l’indagine della periferia parigina. I casermoni infiniti e tristi e la fila di donne musulmane al mercato sono lo scenario urbano, filmato con un drone pilotato da un ragazzo, di questo lavoro senza parole. Solo un suono in sottofondo ad accompagnare lo sguardo aereo, eppure tanto vicino, su una realtà ancora tutta da scoprire. Pieno di parole, invece, il bel cortometraggio di Pablo Larraín. Un uomo, in un ospizio, via skype chiama una sua vecchia fiamma ribadendole il suo antico amore. Uno split-screen, a cui ci siamo abituati tutti in quarantena, che qui acquista verve grazie alla scrittura. Infatti, col passare dei minuti l’anziano diventa sempre più esplicito di fronte a una donna dapprima impassibile ma che alla fine svela i propri sentimenti. E con lei, anche noi comprendiamo il passato, non proprio limpido, dell’anziano protagonista.

Nel reame delle arti con Víkingur

Musica Deutsche Grammophon ha dato alle stampe Debussy-Rameau nell’interpretazione

del pianista islandese Víkingur Ólafsson Giovanni Gavazzeni Il nome Víkingur Ólafsson potrebbe far pensare ad una sorta di Han d’Islanda del pianoforte, se il trentaseienne pianista cresciuto a Reykjavik non fosse quanto di più lontano dal sanguinario bruto immaginato da Victor Hugo nel suo romanzo omonimo. Nato in una famiglia di musicisti educati a Berlino nel culto del grande

leone del pianoforte sovietico, Emil Gilels, perfezionatosi nella palestra musicale della Julliard School di New York, il suo pianismo è stato paragonato, dopo l’incisione degli ipnotici Studi di Philip Glass e soprattutto di una successiva scelta di brani bachiani (Album dell’anno 2019 per la rivista musicale della BBC), a una versione norrena del mistico artista canadese Glenn Gould. La sua personalità è certamente quella di un ar-

Il pianista islandese è nato nel 1984.

tista che pensa prima di suonare e che ha filtrato il suo suono cristallino e lucente attraverso il prisma dell’intelletto. Non solo. Si sentono ben presenti nella fermezza della sua articolazione sia la sua apertura mentale che le esperienze di remixaggio di brani bachiani compiute negli ultimi anni con dj e ingegneri sonori, incrociando le clausole antiche fra minimalismo, punk rock e suoni metal. Per capire le radici del suo pianismo e comprendere la composizione della sua speciale sensibilità artistica è utile conoscere le passioni di Ólafsson verso i maestri del pianoforte. All’ammirazione per la tersa lucidità del primo Maurizio Pollini (quello rivelato dalle incisioni degli Studi di Chopin e dei 3 pezzi di Petruska di Stravinski), si è aggiunto l’entusiasmo per la tavolozza coloristica di Martha Argerich («dipinge con i suoni con l’andamento rapsodico del ritmo»). Su tutti domina il magnetico Arturo Benedetti Michelangeli: «il pianista a cui guardo più di ogni altro negli ultimi anni quando si tratta di questioni relative ai coloriti, alle strutture e, in qualche modo, alla linearità dell’espressione». Da poche settimane è uscito un nuovo album pubblicato da Deutsche Grammophon, la storica etichetta tedesca a cui è legato da un contratto esclusivo, che alterna brani di due compositori

francesi, il grande armonista settecentesco Jean-Philippe Rameau e il poeta dell’impressionismo a cavallo fra Otto e Novecento, Claude Debussy. Non è storicamente inedito accostare pezzi di Rameau (Ólafsson lo definisce «un Newton dell’armonia» che rivela sempre il suo «senso armonico tattile») a Debussy. Claudio di Francia, infatti, non solo amava molto la nobile melanconia del grande maestro clavicembalista, ma è anche autore nel primo libro delle sue Images di un elusivo Hommage à Rameau (incluso ovviamente in questo album e che Ólafsson definisce «un cenno, non un inchino di un grande artista verso l’altro: il riconoscimento di una relazione spirituale, piuttosto che la gratitudine di un discepolo verso il maestro»). Molto più raro è suonare entrambi gli autori con uguale naturalezza digitale e brio d’intelletto, affratellando due grandi musicisti di epoche tanto distanti senza tesi cerebrotiche. Debussy e Rameau condividono titoli immaginifici e richiami sinestetici: tourbillons ramisti e piogge nei giardini debussiani, gighe e rigodoni barocchi si alternano a bambole infantili e fiocchi di neve ovattati nell’ansia, danzando intorno all’ascoltatore, il quale, senza accorgersene è già entrato fra i sortilegi del reame delle arti.

Qualche guizzo divertente ce lo regala Paolo Sorrentino. Il regista de La grande bellezza mette in scena, attraverso un dialogo surreale, una storia d’amore proibita tra la statuina da presepe del Papa e quella della Regina Elisabetta, intervallandola con alcune scene in cui appare quella di Big Lebowski. Un’idea inusuale e fantasiosa. Un gioco allegro, creativo e irriverente che si fa guardare. Ma probabilmente il lavoro più emblematico e focalizzato sul lockdown è l’ultimo di Ana Lili Amipour. Un viaggio in bicicletta nelle strade vuote di Los Angeles, mentre la voce off di Cate Blanchett racconta i luoghi famosi della città e l’atmosfera da day after in cui sono immersi. Azzeccato il discorso sulla prospettiva, sul cambio di punto di vista, che nel filmato si traduce in una modifica continua dell’inquadratura: dall’alto, dalla bici, a livello della ciclista, ecc. Un monologo metacinematografico su cosa voglia dire fare un film e sul significato ultimo di essere artisti e registi. Perché il cinema non è morto. Neppure durante la pandemia. Anzi…


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