Una passeggiata digitale per scoprire nel web antichi erbari e un manoscritto misterioso
Una graphic novel omaggia William Morris, tra i fondatori del movimento Arts and Crafts
TEMPO LIBERO Pagina 11
Il nuovo ruggito del Pardo
ATTUALITÀ Pagina 17
Nuove scintille in Medio Oriente e Venezuela mentre l’America latita, in attesa del dopo-Biden
Ad Alexander Calder, il grande scultore americano, il MASI dedica un’imperdibile monografica
CULTURA Pagina 27
Parlare di Olimpiadi senza parlare di sport
Si può parlare delle Olimpiadi di Parigi senza parlare di sport (lo fa anche Cesare Poppi a pag. 9). È un modo indiretto ma molto efficace per capire meglio il mondo in cui viviamo. Perché oggi ogni evento internazionale di massa, dai Mondiali agli Europei di calcio alle Olimpiadi, appunto, finisce fatalmente col diventare il prisma delle posizioni, delle contraddizioni, delle battaglie sociali, filosofiche e geopolitiche che infiammano il pianeta.
La scelta del verbo «infiammare» non è casuale. Qualche giorno fa, in effetti, un amico giornalista di lungo corso mi ha telefonato un po’ scandalizzato: «Ma tu lo sapevi che, per la prima volta, la fiamma del Braciere olimpico non è fuoco, ma è completamente elettrica? Che fine fanno le tradizioni?». No, non lo sapevo, e l’amico ha ragione: l’energia è stata fornita dall’ente di distribuzione francese e la fiamma in realtà è un sofisticato effetto ottico creato con giochi di luce e acqua.
Era la prima notizia non sportiva che sentivo sulle Olimpiadi, probabilmente la meno significativa, solo un debole ronzio nel bailamme mediatico che circonda l’evento. Subito dopo – o forse prima, non so – sono iniziate le diatribe medico-ambientali, ad esempio sull’inquinamento della Senna che avrebbe reso improponibili le gare in acqua. E così, la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, ha deciso di farsi un bagno nella Senna per mostrare al mondo che il fiume è pulito e può ospitare in tutta sicurezza le gare di nuoto libero.
Del resto, segno dei tempi, questi si presentano come i primi giochi olimpici completamente «verdi» della storia. Motivo per cui nel villaggio eco-friendly per gli atleti manca l’aria condizionata, suscitando il malumore di non poche delegazioni sportive. Perché van bene i pannelli solari sui tetti, le pareti in legno e cemento a basse emissioni, gli arredi riciclati e i pavimenti dei campi sportivi installati senza colla, ma l’a-
fa è afa e se punti a una medaglia un minimo di refrigerio in stanza non guasta.
E poi, come puoi parlare di Olimpiadi ecosostenibili quando fra gli sponsor della kermesse hai aziende come l’Air France e altre multinazionali che sono in cima alle classifiche degli inquinatori seriali del pianeta?
Altra polemica olimpica riguarda l’«invisibilizzazione» della precarietà: alcune ONG hanno stimato che nell’ultimo anno, in vista dell’evento, la capitale francese ha aumentato del 38,5% l’allontanamento dal centro di poveri e migranti. Quasi superfluo ricordare poi le controversie sulla cerimonia d’apertura, interpretata da molti come uno sdoganamento a tutti i costi della cultura woke e una parodia dei simboli cristiani. Noi siamo per la tolleranza e sappiamo che la manifestazione evocava scenari dionisiaci e non anti-cristiani, ma è difficile negare una certa ostentazione del gender fluid. In compenso queste sono le Olimpiadi più pa-
ritarie di sempre: per la prima volta nella storia dei Giochi, alle competizioni prenderà parte lo stesso numero di atleti e atlete. La polemica più seria e drammatica, tuttavia, ci riporta nel cuore delle tragedie dell’oggi: chi viola la tradizionale tregua olimpica non può prendere parte ai Giochi. Giusto. Ma allora perché la Russia è stata esclusa e Israele può parteciparvi? Due pesi e due misure? Senza contare che i 15 atleti russi e i 16 bielorussi che hanno deciso di andarci sotto la «bandiera» dell’AIN, Atleti Individuali Neutrali, come i tennisti russi Daniil Medvedev e Andrey Rublev, o la tennista bielorussa Aryna Sabalenka, nelle loro patrie sono considerati traditori. Come volevasi dimostrare: abbiamo parlato di tradizioni violate, inquinamento ambientale, riscaldamento globale, emarginazione sociale, contrasti culturali e crisi geopolitiche senza mai parlare di sport. Le Olimpiadi sono lo specchio del mondo.
Nicola Mazzi, Nicola Falcinella e Natascha Fioretti Pagine 28-29
Carlo Silini
Triathlon Locarno: 40 anni e non sentirli!
Appuntamenti sportivi ◆
Il triathlon di Locarno nasce nel 1984 sotto la guida di Marco Sasselli, che riunisce varie società sportive dando vita a un evento destinato a diventare un pilastro tra le manifestazioni della regione. Nel 1998 viene fondata l’Associazione Triathlon Locarno con la costituzione di un comitato direttivo, formula attiva ancora oggi. Il comitato, diretto da diverse persone, dal 2020 è sotto la guida di Juro Grgic. L’idea che si rinnova negli anni è di dare importanza al territorio in cui si svolge la competizione e regalare a tutti i partecipanti un’esperienza uni-
Concorso
«Azione» mette in palio 5 biglietti per una gara a scelta tra Mini-Tri, Kids o Youth all’interno del Locarno Triathlon. Per partecipare all’estrazione inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Triathlon 2024») indicando dati personali, indirizzo di posta tradizionale, gara scelta e mail entro domenica 11 agosto 2024.
ca e indimenticabile, promuovendo al contempo i valori universali dello sport. Il triathlon non pone limiti di età e di genere ed è una disciplina rivolta a tutte e tutti. Si propongono distanze adatte a tutte le età, dai bambini fino agli atleti professionisti, in un ambiente di divertimento e amicizia.
Sull’arco delle due giornate si svolgono gare dedicate ai bambini a partire già dai 3 anni. L’evento dei ragazzi è una vera e propria festa per tutta la famiglia. La giornata del sabato è impreziosita dalla presenza di Nicola Spirig, Oro Olimpico a Londra 2012 e Argento Olimpico a Rio de Janeiro 2016.
Dal 2022 UNICEF è charity partner per la raccolta fondi a favore dell’infanzia e sarà presente sabato con giochi e gadget per i bambini, in linea con la Città di Locarno, che dal 2023 ha ottenuto il riconoscimento ufficiale da UNICEF come Comune Amico dei Bambini.
Sempre al sabato si passa alla distanza più breve prevista dal triathlon, denominata Mini-tri, che permette a tutti di cimentarsi per la prima volta nella triplice sfida. La versione a staffetta dà la possibilità di creare squadre
e divertirsi in gruppo. Le aziende e le società sono incoraggiate attivamente a formare le proprie squadre; in programma anche il duathlon sulla corta distanza, affinché anche chi non sa nuotare, possa partecipare a una gara che prevede corsa, bici e nuoto.
Nella giornata di domenica i gio-
chi si faranno più impegnativi con le gare su distanza olimpica e media distanza – quest’ultima gara sarà regina della manifestazione e valida per i campionati svizzeri. Parteciperanno all’evento atleti di esperienza, nonché i migliori atleti svizzeri, che si contenderanno il titolo di campione svizze-
Sostenibilità come pratica ordinaria
Monte Generoso ◆ Chiara Brischetto, responsabile del progetto di sostenibilità, racconta le sfide affrontate per il raggiungimento della Certificazione massima di Swisstainable
Enza Di Santo
Chiara Brischetto, cosa ha spinto la Ferrovia del Monte Generoso a intraprendere il percorso di sostenibilità?
La motivazione principale è stata l’ambizione di dimostrare come sia possibile operare in maniera responsabile e innovativa nel settore turistico. Siamo la prima risalita e il primo campeggio in Ticino ad aver raggiunto il livello 3 di Sustainability. Il nostro impegno e la nostra leadership nel promuovere le pratiche sostenibili dimostrano come questo traguardo sia raggiungibile, e ciò può spingere altre aziende del territorio, sia nel settore turistico sia in altri settori, ad avere un occhio di riguardo per la natura e l’ambiente.
Nel 2021 la Ferrovia del Monte Generoso, ha raggiunto il Livello II – engaged. Cosa è migliorato nella sostenibilità per l’ottenimento del terzo livello?
Per raggiungere il livello 3 abbiamo migliorato alcuni aspetti strutturali e operativi, per esempio abbiamo incrementato l’uso di materiali riciclati e garantito l’acquisto al 100% di energie rinnovabili. Abbiamo anche implementato una gestione dei rifiuti più efficiente, pesando i rifiuti e dividendoli per categoria e per settore. Un processo lungo e piuttosto complicato, che però ci ha permesso d’imparare molto e capire come implementare le pratiche sostenibili all’interno dell’azienda. Nella nostra realtà odierna la sosteni-
bilità è veramente parte della nostra operatività in tutti i nostri quattro prodotti: la ferrovia, il campeggio, il Buffet Bellavista e il Fiore di Pietra.
Avete dovuto affrontare particolari criticità per ottenere il riconoscimento?
Ottenere la certificazione leading con il livello 3 ha richiesto più di un anno di lavoro, durante il quale abbiamo dovuto affrontare diverse sfide pratiche, specifiche e concrete. Alcuni esempi sono il mantenimento dei prati magri in Vetta al Generoso e al Buffet Bellavista, la costruzione di rifugi di legna e pietre per ospitare insetti e animali in via d’estinzione e la sensibilizzazione interna del personale e dei visitatori. Queste sfide a un certo punto sono diventate uno stimolo e grazie alla formazione continua, agli investimenti e a una comunicazione che ha coinvolto la Ferrovia Generoso e direttamente tutti i fornitori, siamo riusciti a raggiungere il traguardo.
Qual è il valore aggiunto di questo riconoscimento? Il riconoscimento di Swisstainable non è solo un certificato in più appeso al muro, rappresenta il nostro impegno a lungo termine verso la sostenibilità. Questo ci distingue nel settore e ci permette anche di attrarre visitatori che valorizzano la responsabilità ambientale. Si rafforzano così la nostra immagine e la nostra offerta turistica. Inoltre,
Da sin. Monica Besomi, già Vice Director MG, Chiara Brischetto Head Comm. Marketing&Sustainability MG, Michelle Hunziker e Giulio Rezzonico, Media&PR Manager in occasione del conferimento del label. (Svizzera Turismo)
c’è anche un discorso etico e morale, soprattutto per me che ormai non lo considero più soltanto lavoro, ma una sfida personale emozionante.
In generale, fare del bene alla natura corrisponde a fare del bene a noi stessi e alle generazioni future, e se tutte le aziende riuscissero a operare in maniera più sostenibile, tutti ne trarrebbero vantaggio.
Come pensate di mantenere il traguardo raggiunto?
Continueremo a migliorare le nostre pratiche sostenibili e a mantenerle nella quotidianità. Ciò include i piani per ulteriori riduzioni d’impatto ambientale e altre iniziative per incrementare la consapevolezza e l’engagement del pubblico.
Quali passi consiglierebbe di intraprendere nel breve periodo ad altri
attori turistici che desiderano essere più attenti all’ambiente?
Direi che tutti nel nostro piccolo possiamo fare, attraverso piccoli passi, la differenza nel quotidiano, per esempio riducendo l’uso della plastica, l’implementando i sistemi di raccolta differenziata o banalmente riducendo il getto d’acqua dei rubinetti. Credo sia essenziale, educare e coinvolgere il personale, ma anche i visitatori e mostrare i progressi. Celebrare successi come il nostro, può motivare a raggiungere ulteriori miglioramenti e attrarre altre persone a sposare questa filosofia. Per noi è stato così. Siamo molto soddisfatti, ma il traguardo non è raggiunto, anzi: il successo va mantenuto nel tempo.
ro. Triathlon Locarno da diversi anni è riconosciuto come Gold Event da Swiss Triathlon; il campionato svizzero si svolge per il secondo anno consecutivo in Ticino sulla media distanza. Le iscrizioni si prospettano più numerose rispetto agli anni scorsi, per questo si prevede un aumento del numero di partecipanti, pur continuando a garantire qualità e sicurezza. Non mancheranno gli appuntamenti collaterali, grazie al villaggio con i suoi numerosi espositori, l’animazione e la ristorazione per tutti i gusti. L’organizzazione coinvolge complessivamente oltre 300 collaboratori. Inoltre, per celebrare l’anniversario del 40esimo, è stata introdotta una grande sorpresa di nome «Trillo»: gioia e divertimento per tutti sono dunque garantiti. Migros Ticino sarà anche quest’anno al fianco dell’importante manifestazione sportiva.
Dove e quando Locarno, 31 agosto - 1. settembre Per info e iscrizioni www.3locarno.ch
Novità Too Good To Go
Info Migros ◆ Una nuova surprise bag
Ogni anno nel mondo, oltre il 40% di tutti gli alimenti finisce nella spazzatura – in Svizzera 2,8 milioni di tonnellate. Per contrastare questo fenomeno, gli alimenti ricevono una seconda possibilità grazie a Too Good To Go. Anche Migros Ticino lancia un chiaro segnale contro lo spreco alimentare e, insieme agli utenti di Too Good To Go, ha già salvato oltre 101’000 surprise bag nelle sue 42 filiali. Ora Migros fa un ulteriore passo, introducendo la nuova bag panetteria: i prodotti da forno della sera precedente avranno così una seconda possibilità. In Svizzera il pane è il prodotto che più spesso finisce nella spazzatura, ma con alcuni consigli e la giusta conservazione, potrà ora essere gustato più a lungo. Salvando una surprise bag panetteria di Migros Ticino i prodotti potranno essere ritirati in negozio il mattino successivo e gustati per colazione.
Informazioni
Attraverso il codice QR si può scaricare l’app e vedere l'offerta dei negozi Migros.
Editore
Un appuntamento per grandi sportivi, ma anche per le famiglie. (Foto Garbani)
SOCIETÀ
Novità contro il tumore al seno Oggi è possibile ritardarne la crescita, mentre un esame del sangue può valutare il DNA tumorale circolante prevenendo le recidive
La ricerca dell’amore
Le persone si affidano spesso alle app di incontri, eppure conoscersi di persona con lo speed dating può avere dei vantaggi
Erbe medicinali, piante magiche e un manoscritto misterioso
La cozza quagga invade le nostre acque Una ricerca universitaria conferma la presenza della Dreissena rostriformis in tre laghi svizzeri e nel Reno: forse si trova anche nel Verbano
Guida dilettevole per il passeggiatore digitale – 2 ◆ Nel secondo articolo della serie dedicata alle isole di conoscenza e memoria presenti nella Rete vi consigliamo di sfogliare le meravigliose pagine di antichi erbari. Proprio grazie alla loro digitalizzazione e accessibilità è maturata la soluzione di un enigma durato 600 anni, quello del manoscritto di Voynich
Nella frescura di alcuni degli angoli più reconditi di Internet, crescono erbe misteriose dai fiori profumati, le cui proprietà medicinali ci sono state tramandate nei secoli da antichi erbari, custoditi nelle più importanti biblioteche del mondo. È anche grazie alla loro digitalizzazione e alla loro disponibilità online che è maturata la soluzione di un mistero lungo 600 anni.
Eleonora Matarrese, filologa, etnobotanica, scrittrice e accademica, ha infatti recentemente annunciato di avere risolto l’enigma del manoscritto Voynich.
La storia merita di essere raccontata, almeno per sommi capi: si tratta di un codice illustrato risalente al XV secolo, rimasto indecifrato per ben seicento anni e conservato all’Università di Yale. Ed ecco il primo luogo della nostra passeggiata virtuale: la libreria dell’università americana, dove potremo sfogliare le pagine di questo libro straordinario che è stato completamente digitalizzato 1)
Scritto su pergamena di vitello il manoscritto di Voynich è conservato all’Università di Yale, che lo ha digitalizzato
Scritto su pergamena di vitello, è corredato da una grande quantità di illustrazioni a colori, una parte delle quali paiono ritrarre piante. Un erbario, quindi? Il problema è che le illustrazioni non sembravano riferirsi a piante reali, mentre la lingua in cui sono scritti i testi non pareva somigliare a nessun idioma conosciuto. E sono stati in molti a cercare di decifrare il manoscritto: medievisti, linguisti, crittografi e filologi di tutto il mondo. «La possibilità di consultare opere simili al Voynich è stata di grande aiuto per la sua decifrazione», spiega Eleonora Matarrese, che nella sua ricerca ha consultato collezioni digitali di istituzioni come la Cambridge Digital Library (www. cudl.lib.cam.ac.uk), l’Università di Padova (www.phaidra.cab.unipd.it), la Biblioteca Bodleiana di Oxford (www.digital.bodleian.ox.ac.uk), e siti come Internet Culturale, che propone cataloghi e collezioni digitali delle biblioteche Italiane (internetculturale.it) o come e-codices (e-codices.unifr.ch) creato dall’Università di Friburgo nel 2005 e che oggi offre oltre 2800 manoscritti conservati in Svizzera consultabili
su Internet. E così pure noi, davanti ai nostri schermi, possiamo sfogliare queste meraviglie frutto di lavoro certosino, in cui si mescolano sapere, arte e fantasia. Il punto di partenza di questa storia profumata di fiori ed erbe medicinali lo fissiamo provvisoriamente nella Roma imperiale, dove un medico greco, vissuto tra il 40 e il 90 d.C., scrisse un trattato di farmacologia intitolato De materia medica, che ebbe grande influenza per molti secoli. Il suo nome era Dioscoride e il suo studio sulle piante è giunto a noi attraverso numerose riscritture: una tra le più antiche (è del 900 d.C.) è conservata alla Biblioteca Nazionale di Napoli e si può consultare online sul sito della Libreria del congresso di Washington 2). La sua influenza fu così grande che Dante lo mise nel limbo, con l’epiteto di «buono accoglitor del quale», cioè della qualità delle erbe.
E tra quelle più misteriose e potenti rappresentate negli erbari antichi c’è la Mandragora, la cui radice di forma antropomorfa – insieme alle sue proprietà anestetiche e afrodisiache – ha probabilmente contribui-
to ad attribuirle poteri sovrannaturali. Molto bella è la rappresentazione in forma umana che si trova nel manoscritto del IV secolo d.C. chiamato Pseudo-Apuleio, la cui versione più antica è conservata presso l’Università di Leida ed è consultabile online 3)
«Il primo libro stampato in Europa dopo l’invenzione di Gutenberg fu la Bibbia, il secondo un erbario. Uno serviva a curare l’anima, l’altro il corpo»
Avvicinandoci ora geograficamente e culturalmente al nostro punto di partenza, il manoscritto Voynich, arriviamo al monastero di San Sebastiano, a Ebersberg, vicino a Monaco. Qui, nel 1479, il monaco benedettino Vitus Auslasser completò un erbario manoscritto con nomi di piante medio latine e medio alto tedesco, corredato da bellissimi acquerelli, oggi digitalizzato e consultabile sul sito Internet della Bayerische Staatsbibliothek 4)
«Il primo libro stampato in Europa dopo l’invenzione di Gutenberg
fu la Bibbia, il secondo un erbario. Uno serviva a curare l’anima, l’altro il corpo»: Eleonora Matarrese fa riferimento all’Herbarius Moguntinus, che venne stampato nel 1484 e che si può ammirare online (con una famosa xilografia della Mandragora femmina) su e-rara.ch, una piattaforma per la consultazione di edizioni antiche digitalizzate conservate nelle istituzioni svizzere. Ma è l’incunabolo conosciuto con il titolo Gart der Gesundheit, («Il giardino della salute») il primo erbario stampato in lingua tedesca, firmato dal medico Johann Wonnecke von Kaub 5) Il cerchio sta per chiudersi, il mistero sta per essere chiarito: siamo a Tolmezzo, in Friuli, dove, in un sacchetto di plastica abbandonato, qualche tempo fa una funzionaria della Soprintendenza di Udine scopre una preziosissima versione di questo manoscritto, ora esposto (ma non ancora consultabile online) presso il Museo Etnografico Gortani. Portato in Carnia dai cramàrs, venditori ambulanti di spezie e di medicamenti, la sua importanza sta nella lingua adottata, non quella aulica della cultura del tempo, ma quella del popolo, che ha
messo Eleonora Matarrese sulla giusta strada.
Perché la soluzione dell’enigma è in fondo piuttosto semplice: il manoscritto Voynich sarebbe scritto in un dialetto medio tedesco, molto simile a quello ancora oggi parlato a Timau/ Tischlbong, in Provincia di Udine e le piante rappresentate sono specie reali, presenti nelle Alpi. La nostra passeggiata alla ricerca di erbe magiche, curative e benefiche che ci accompagnano da millenni si conclude tra le pagine dell’Herball del botanico inglese John Gerard, pubblicato nel 1597 e ora consultabile online 6). «Se il diletto può provocare il lavoro degli uomini – scriveva – quale maggior diletto c’è nel vedere la terra vestita di piante, come una veste di lavoro ricamata, ornata di perle orientali e guarnita di una grande varietà di gioielli rari e costosi?».
Il codice illustrato conosciuto come manoscritto di Voynich risale al XV secolo e sarebbe scritto in un dialetto medio tedesco, le piante rappresentate sono specie presenti nelle Alpi. (Wikimedia/Università di Yale)
Mattia Pelli
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Un arcobaleno di sapori
L’«effetto banda» degli appassion
Novità ◆ Le capsule Caffitaly System di Caffè Chicco d’Oro regalano un gusto e un aroma unici. Ora in vendita anche a Migros Ticino in tre varietà
Simbolo di libertà ◆ Da icona della ribellione a status symbol, il marchio tra i più famosi e longevi della storia motociclistica ha incarnato
lent Grey Fellow», la pagna grigia
Le capsule Caffè Chicco d’Oro compatibili con il sistema Caffitaly assicurano un’esperienza di caffè eccezionale, un vero e proprio viaggio sensoriale fino all’ultima goccia. Caffè Crème è una miscela dei migliori caffè del centro America. Grazie a una speciale lavorazione e a una macinatura apposita, questo caffè acquisisce un aroma delicato e cremoso, tipico del Caffè Chicco d’Oro. L’intensità è di 3.5 su 7 e il profilo aromatico è floreale. Una vera prelibatezza per gli amanti dell’autentico
Rassegna dell’artigianato ticinese al Centro S. Antonino
espresso, Espresso Bar 100% Arabica contiene una selezione di pregiato caffè da piantagioni d’altura, offrendo un gusto forte e pulito e un aroma intenso. Cremoso e vellutato, possiede un’intensità di 6 su 7 e si caratterizza per le note floreali di mandorle e pan tostato. Ottenuta da piantagioni d’altura del Centro America, Caffè Espresso Long è una miscela delicata e ricca di aromi dal gusto ricco e con note speziate di malto, cannella e noce pecan. Un espresso lungo e aromatico che conquista ogni palato.
Il colore originale del primo modello era stato il nero con filetti dorati e un logo rosso e oro inventato dalla zia dei fratelli Davidson; al nero si aggiungerà ben presto il grigio, per l’appunto, mentre per le macchine che correvano nel campionato americano furono scelti il nero e l’arancione; tutti colori ancora presenti sulla tavolozza del marchio americano, arrivato fino ai nostri giorni tra alti e bassi (le due guerre, la grande depressione, la concorrenza delle case inglesi e soprattutto di quelle giapponesi a partire dagli anni Settanta-Ottanta).
Attualità ◆ Fino al 10 agosto vi aspetta il consueto appuntamento annuale in collaborazione con l’Associazione Artigiani del Ticino
L’harleysta, questo sconosciuto
Chi acquista una H-D può iscriversi di anno in anno, o «una tantum» per la vita, allo HOG (Harley Owners Group) che rappresenta il primo livello di appartenenza a un gruppo speciale che dovrebbe garantire una sorta di originalità distinguendolo da altri appassionati delle due ruote; l’HOG ha una sua rivista e un sistema di comunicazione e scambio tra soci. Sotto il suo cappello ogni Paese e ogni regione hanno organizzazioni che propongono attività varie e uscite di gruppo, con lo scopo di fidelizzare i membri alla marca. I sociologi lo chiamano: creare un «effetto banda». Quando percorrete una strada, ad esempio sui passi alpini, noterete come quasi sempre i motociclisti in generale, e gli Harleysti in particolare si salutano con la mano quando si incrociano, alzando il piede destro quando si sorpassano. Anche a chi scrive, individuo fondamentalmente solitario, è capitato di attaccar bottone con gente sconosciuta, incontrata per caso in un posteggio, casco in mano, e chiacchierare un momento dell’itinerario, della bellezza del pae-
Da diversi anni la rassegna dedicata all’artigianato del nostro cantone è ormai diventata un appuntamento immancabile per i visitatori del Centro S. Antonino. Qui, negli spazi della mall, ancora per tutta la settimana oltre dieci espositori propongono le proprie opere fatte a mano, in un affascinante mix di stili e tecniche. Le creazioni artigianali, oltre a essere ammirate, possono naturalmente essere anche acquistate e, presso alcuni stand, si possono osservare gli artigiani al lavoro intenti a trasformare con passione le materie prime in opere d’arte uniche nel loro genere. In questo mercatino variegato si potranno così scoprire delle attività tradizionali che anche solo pochi decenni fa erano ancora molto diffuse nella nostra regione, come per esempio la tornitura e la lavorazione del legno, la creazione di sculture, la realizzazione di
Sfiziose verdure e legumi 100%
plant based
Novità ◆ La nuova linea Legumizie della Polli promette momenti di piacere all’insegna della versatilità, praticità e bontà
La banda
V-Twin; un po’ meno piacevole per coloro cui non importava niente, più lità (gli Swiss Harley Days® si vi si
chiedere: come sono gli svizzeri o gli italiani? Pregiudizi, luoghi comuni, , piccole grandi verità frutto spesso di un’esperienza personale più o meno credibile, tutto serve a creare
Per i fan vengono organizzati raduni come quello mitico di Lugano del 2010 che attirò sul lungolago tremila moto provenienti da tutta l’Europa per una parata indimenticabile per i motards, i commercianti della regione e le migliaia di curiosi che si sono lustrati la vista con le cromature e ripulite le orecchie con l’inconfondibile sound del motore bicilindrico
pizzi e merletti con il tombolo, la lavorazione del vetro, l’uncinetto e i lavori a maglia, la tecnica tiffany, i lavori in resina, l’intreccio con foglie di mais e la produzione artigianale di saponi. Inoltre, gli artigiani presenti sono a disposizione del pubblico per rispondere a domande e fornire interessanti informazioni sui processi di lavorazione. I visitatori potranno così anche carpire qualche segreto particolare e, perché no, iscriversi a qualche corso. L’evento di quest’anno cade in conco-
mitanza con il 15esimo anniversario dell’Associazione Artigiani del Ticino (Ar-Ti). Per questo importante traguardo è stato organizzato un grande concorso che vedrà il pubblico nelle vesti di giudice, votando e decretando le migliori opere tra una decina di creazioni. Per rendere ancora più allettante il concorso, tra i partecipanti verranno estratti dei buoni acquisto presso i soci Ar-Ti, come pure delle carte regalo Migros. Aspettiamo la vostra visita!
ne sull’arco di più giorni per dare vita al più gigantesco raduno europeo! In queste occasioni si vedono moto di tutti i tipi: vecchie signore della stra da e ultimi modelli tecnologici, con mille colori e «customizzazioni» talvolta sorprendenti quando non folli; diverse l’una dall’altra, ma per certi versi tutte un po’ simili, condividendo il Dna che le caratterizza e le rende inconfondibili malgrado le imitazioni della concorrenza. Forse come lo sono anche i biker che le cavalcano? Qui la faccenda diviene complessa poiché si apre un ventaglio di personaggi e di situazioni e non si può fare un discorso monocorde. In altre parole: chi è il vero harleysta? È come
Il noto marchio italiano Polli – azienda leader nel settore dei pesti, sughi pronti, conserve, sottoli e sottaceti – ha da poco lanciato sul mercato un’innovativa linea di sfiziose verdure e legumi 100% plant based, pronte al consumo, perfette da servire come contorno oppure come ingrediente per arricchire le vostre insalate di stagione: Legumizie. Ideali per coloro che prediligono uno stile alimentare a base di proteine non
C’è il motociclista che sposa la fi losofia americana della libertà, gran di strade sotto il sole, capelli al vento (non sempre il casco era obbligatorio), posizione in sella rilassata e via, con un borsone legato al sellino posterio re, verso l’infinito. Uno slogan pub blicitario della marca ricordava co me la sola cosa brutta di un viaggio in Harley è che poi finisce. Ma qui da noi si devono fare i conti con strade strette e tortuose, traffico soffocante, automobilisti nervosi, tempo piovoso e radar in agguato; altro che libertà e vento in faccia! Eppure lo spirito è quello che alcuni film hanno celebrato: Easy Rider, del 1969 (era nato il mondo hippie) con gli indimenticabili Peter Fonda dietro un’infinita forcel-
la, Dennis Hopper con giacca e cappello stile Buffalo Bill, un giovane Jachopper, il casco a stelle e strisce. O il più recente e autodel 2007 con John Travolta, tradotto in italiano con un Svalvolati on the road; il film racconta le avventure motociclistiche di quattro borghesucci frustrati che decidono di fare un viaggio in cerca di avventure, in barba alla loro non più tenera età. Pellicole che da una parte hanno celebrato la marca americana, ma che anche grazie a questa presenza sono diventati a loro volta dei cult.
Un componente della famiglia
C’è chi acquista la moto dei suoi sogni anche per ragioni tecniche ed estetiche; poi magari comincia subito dopo a modificarne le caratteristiche esteriori: manubrio, scarichi, filtro
animali, ma non solo, sono disponibili in due varianti in un pratico vasetto da 190 grammi: ceci, olive e pomodorini cherry; oppure borlotti, funghi e olive. Come tutti i prodotti a firma Polli, anche queste invitanti novità nascono con l’obiettivo di aiutare i consumatori a mantenere uno stile di vita sano, genuino e sostenibile, proponendo loro delle soluzioni che siano al contempo gustose e nutrizionalmente valide.
Marco Horat
Legumizie ceci, olive e cherry Polli
190 g Fr. 2.90
Legumizie borlotti, funghi e olive Polli
190 g Fr. 2.90
In vendita nelle maggiori filiali Migros
Espresso Bar Caffitaly
Caffè Crème
Espresso Long Caffitaly
Concorso Migros Bellinzona Nord
Premiazione ◆ Recentemente sono state premiate le vincitrici del concorso organizzato in occasione dell’apertura
Lo scorso 27 giugno, in occasione dell’inaugurazione della nuovissima filiale Migros di Bellinzona Nord, sono stati organizzati diversi attrattivi eventi rivolti alla gentile clientela, tra cui un grande concorso con in palio tre carte regalo Migros del valore, rispettivamente, di 1000, 500 e 100 franchi. Tra i moltissimi partecipanti che hanno imbucato il tagliando nell’apposita urna, sono state estratte tre fortunate vincitrici della regione, alle quali porgiamo le nostre più sentite congratulazioni.
1° PREMIO
Carta regalo Migros del valore di CHF 1’000.–Miriam Christen di Bellinzona
2° PREMIO
Carta regalo Migros del valore di CHF 500.–
Tania Gordo di Cresciano
3° PREMIO
Carta regalo Migros del valore di CHF 100.–
Daniela Wenzin di Arbedo
Annuncio pubblicitario
La consegna della carta regalo Migros alla vincitrice del primo premio, Miriam Christen (al centro), da parte del gerente e della sostituta gerente di Migros Bellinzona Nord, Alessandro Galizia e Dana Vidovic. (Oleg Magni)
Rivoluzionata la lotta contro il tumore al seno
Medicina ◆ Novità al Congresso americano di oncologia ASCO di Chicago: riflettori su innovativi farmaci e test genetici
Antonio Caperna
Il tumore al seno colpisce 6650 persone in Svizzera ogni anno con una prevalenza quasi totale nelle donne (99%). Bisogna ricordare infatti che è una patologia che può interessare anche gli uomini, nello specifico 50 persone l’anno. I nuovi studi innovativi e incoraggianti sono stati presentati al recente Congresso americano di oncologia ASCO (American Society of Clinical Oncology), appuntamento annuale e tradizionale, che ha richiamato per quattro giorni a Chicago, prima dell’estate, oltre 35mila persone tra specialisti, esperti, istituzioni e personale sanitario a vario livello da tutto il mondo.
Le ricerche puntano ad aumentare la sopravvivenza che, nel nostro Paese, è pari all’88% a 5 anni dalla diagnosi (dati Lega Svizzera contro il Cancro). Con un esame del sangue si può prevedere la recidiva della malattia, nei pazienti ad alto rischio, mesi o addirittura anni prima che si verifichi una ricaduta. Un team dell’Institute of Cancer Research di Londra ha utilizzato una biopsia liquida ultrasensibile, per rilevare la presenza di piccole quantità di DNA tumorale (ctDNA), rimaste nel corpo dopo il trattamento: sono state identificate fino a 1800 mutazioni. I campioni sono stati raccolti dalle donne al momento della diagnosi prima della terapia, dopo il secondo ciclo di chemioterapia, dopo l’intervento chirurgico e ogni tre mesi durante il follow-up per il primo anno. Successivamente, i campioni sono stati raccolti ogni sei mesi per i seguenti cinque anni.
I risultati hanno mostrato che il rilevamento del ctDNA in qualsiasi momento dopo l’intervento chirurgico o durante il periodo di follow-up era associato a un alto rischio di recidiva futura e a una sopravvivenza globale più scarsa. «Le cellule maligne possono rimanere nel corpo dopo l’intervento chirurgico e altri trattamenti, ma possono essere così poche da non potersi rilevare durante il follow-up» ha spiegato il dottore Isaac Garcia-Murillas, dell’ICR di Londra
Viale dei ciliegi
Marc Ter Horst
Controcorrente
La Nuova Frontiera (Da 12 anni)
e primo autore dello studio. «Queste cellule possono causare ricadute nelle pazienti molti anni dopo il trattamento iniziale. Gli esami del sangue ultrasensibili potrebbero offrire un approccio migliore per il monitoraggio a lungo termine in cui la patologia è ad alto rischio di recidiva. La maggior parte delle biopsie liquide personalizzate attualmente utilizza il sequenziamento di migliaia e migliaia di geni per identificare le mutazioni. Ma questo approccio fa un ulteriore passo avanti e utilizza il sequenziamento dell’intero genoma, quindi abbiamo un test più sensibile». «È molto emozionante vedere i progressi nella tecnologia, che stanno avendo un effetto trasformativo sulla diagnosi della malattia», sottolinea il professor Kristian Helin
dell’ICR. Per quanto concerne le terapie invece un anticorpo monoclonale farmaco-coniugato può cambiare lo standard di cura in prima linea del tumore della mammella metastatico, evitando la chemioterapia dopo la terapia anti ormonale. I dati per gli esperti sono senza precedenti: nei pazienti con bassa espressione della proteina HER2 (HER2-low), la cura ha ridotto del 38% il rischio di progressione di malattia o morte e la sopravvivenza libera da progressione (PFS) mediana è stata di 13,2 mesi rispetto a 8,1 con la chemioterapia standard. Migliora anche il tasso di risposta oggettiva, che ha raggiunto il 56,5% rispetto al 32,3%. Nei pazienti con bassissima espressione della proteina HER2 (HER2-ultralow), questo parametro è più che rad-
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doppiato rispetto alla chemioterapia (61,8% rispetto a 26,3%). Lo dimostrano i risultati dello studio di fase 3 «DESTINY-Breast06».
Ciò significa che i pazienti hanno vissuto più a lungo, senza progressione o peggioramento della malattia rispetto alla chemioterapia standard. Cure che fanno vivere di più e funzionano significa anche sicurezza dei farmaci e possibilità di pensare alla qualità di vita e di affetti, e anche a creare una famiglia nonostante la malattia. Un nuovo studio su 1213 pazienti under 40, infatti, ha scoperto che la maggior parte delle sopravvissute al cancro al seno dallo stadio 0 allo stadio III che cercano di concepire dopo aver completato il trattamento sono in grado di rimanere incinte e avere un parto vivo.
«I dati dimostrano non solo la possibilità ma anche la sicurezza della gravidanza e del parto vivo dopo il trattamento del cancro al seno. Tutte le giovani pazienti interessate alla preservazione della fertilità dovrebbero avere un accesso equo a tali trattamenti per preservare le future opzioni di fertilità», sottolinea Elizabeth Comen, oncologa del seno presso il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York. In particolare tra le pazienti che hanno tentato una gravidanza dopo il trattamento, il 73% è rimasta incinta almeno una volta e il 65% delle pazienti ha riferito di aver avuto almeno una gravidanza in cui il bambino è nato vivo.
Il tempo mediano dalla diagnosi dei pazienti alla prima gravidanza è stato di quattro anni. Altri dati importanti: Il 76% aveva una malattia positiva ai recettori ormonali; il 68% aveva ricevuto chemioterapia; il 57% aveva ricevuto una terapia ormonale entro un anno dalla diagnosi; il 13% aveva una mutazione genetica germinale BRCA1 e/o BRCA2; il 51% non era mai stata incinta e il 72% non aveva mai partorito a termine; il 28% era stato sottoposto a preservazione della fertilità al momento della diagnosi, in particolare al congelamento di ovuli o embrioni e infine il 15% ha riferito di aver sperimentato infertilità prima della diagnosi. Infine, per restare in tema ginecologico, la buona notizia dello studio di fase 3 «CARACO», condotto in Francia con 379 pazienti, è che le donne con tumore epiteliale ovarico avanzato possono tranquillamente evitare di togliere i linfonodi durante un intervento chirurgico, volto a rimuovere la maggior parte possibile del cancro primario senza che ciò influisca sui risultati di sopravvivenza, contribuendo così a ridurre il rischio di complicanze postoperatorie. Il cancro epiteliale è il tipo più comune di cancro ovarico e rappresenta l’85-90% dei nuovi casi. In oltre il 75% delle persone viene diagnosticato in uno stadio avanzato.
Ultimamente, molti degli autori per ragazzi più originali e interessanti provengono dai Paesi Bassi. Edward Van De Vendel, Annet Schaap, Guus Kuijer, per fare solo tre nomi. A cui possiamo aggiungere Marc Ter Horst, finora conosciuto per le sue opere di divulgazione scientifica e adesso, con questo romanzo, al suo debutto nella narrativa. Una narrativa che tuttavia mantiene ben saldo lo sguardo scientifico sul futuro del nostro pianeta, sul cambiamento climatico e sull’urgenza di arginare i danni perpetrati alla Terra dall’umanità, ma lo fa con ironia, acuta leggerezza, e soprattutto, come ben espresso sin dal titolo, con una prospettiva critica e ribaltata. Quella di una dodicenne, Nora, esasperata dall’attivismo esasperato dei suoi genitori, sempre presi a fare riunioni con altra gente impegnata come loro, a organizzare manifestazioni di protesta, cortei, cartelloni, azioni di dissenso. Nora è stanca di essere coinvolta in queste cose, alle soglie dell’adolescenza si vergogna di questo integralismo, non è più disposta ad essere usata con indosso un costume da orso polare e reggendo un cartello con scritto «Salvami». Come ogni adolescente Nora ha bisogno di differenziarsi dai suoi genitori, e di prendersi dei momenti per concentrarsi su sé stessa. Solo che questo distanziamento viene preso per depressione e Tanja e Bert (sono i nomi degli alternativi genitori, che peraltro non vogliono essere chiamati mamma e papà) decidono di spedirla in un campo estivo. Il che scatenerà un’altra ribellione in Nora e da qui partirà anche la parte più avventurosa della storia
(avventurosa e un po’ sentimentale, visto che acquisirà molta importanza l’amicizia con Tim, un compagno di classe outsider come lei), in cui la ragazza raggiungerà più consapevolezza su sé stessa, sulle responsabilità che tutti abbiamo nei confronti del pianeta, e pertanto sull’impegno dei suoi genitori («magari i leader mondiali fossero stati così coraggiosi»), anche se la scintilla critica resta ben viva in lei: «Ah, lo fate per noi!» risponde sarcastica all’affermazione che tutto questo attivismo è per lasciare ai figli un mondo migliore. Sarcastica, tuttavia ben consapevole di quanto sia necessario impegnarsi e sentirsi responsabili: tra questi due poli si muove con coraggio il romanzo, controcorrente appunto, senza mai cedere all’ingenuità (come quando, alla vista di un bimbo in passeggino con un ciuccio con scritte le parole «no future» si chiede «che ne sa lui? Perché scaricargli addosso una cosa così?»), mantenendo una prospettiva scientifica (anche nei dialoghi, ben ritmati e argomentati, dei ragazzi tra loro), illuminata però da una componente emotiva e quasi filosofica, nelle riflessioni della giova-
ne protagonista sui suoi sentimenti e nell’atteggiamento profondo di meraviglia verso tutte le cose.
Tom Lichtenheld illustrato da Julie Rowan-Zoch Bobo
Il Castoro (Da 4 anni)
Un orsacchiotto, come ogni peluche del cuore, può rivestire molti ruoli e finire in vari contesti, non tutti propriamente gradevoli: a volte diventa un cuscino, o peggio un fazzoletto, o magari un damerino ingioiellato al party dei giocattoli; a volte viene steso con le mollette ad asciugare, o
dimenticato sull’autobus, o ricucito con un ago. Per questo Bobo vorrebbe fuggire, ma rimanda sempre il momento, finché… «ripensandoci… questa vita non è poi così male». Stare tra le braccia del suo bambino è qualcosa a cui non si può rinunciare! È questa la storia semplice che Tom Lichtenheld e Julie Rowan-Zoch ci raccontano, tuttavia «semplice» lo è qui, nel mio riassunto fatto solo di parole, ma Bobo è un albo illustrato, in cui ciò che conta è la sinergia di parole e immagini, due linguaggi complementari, non ridondanti. Così, ad esempio, mentre il testo dice che Bobo è usato «come cibo per bestie preistoriche» l’immagine ci mostra il bambino che fa lottare un dinosauro con l’orsacchiotto, o quando è «gettato in un uragano» l’immagine ce lo mostra nella lavatrice. L’io narrante è lui, Bobo, che ammicca al piccolo lettore, sin dalla copertina, che lo ritrae, all’inizio di tutto, mentre esce dal pacco dono, per giungere infine, dopo tutte le peripezie, al ritrovarsi con il bambino nel momento della nanna. Ma chi dorme è il bambino, mentre Bobo, tra le sue braccia, ammicca felice.
di Letizia
Bolzani
Incontrarsi nella vita reale
Relazioni ◆ Per la ricerca dell’anima gemella sempre più persone si affidano alle app di incontri, ma c’è un’altra via che prevede appuntamenti a tu per tu in locali pubblici: sono gli speed dating Parla chi li organizza in Ticino
Alessandra Ostini Sutto
Non c’è da stupirsi se in un mondo in cui il telefono è in grado di soddisfare molte delle nostre esigenze quotidiane, ad esso si affidi pure la ricerca dell’anima gemella, tramite app di incontri – come Tinder, Bumble e Meetic – un po’ ovunque diffuse. Per riuscire nel medesimo intento si può però optare per un’altra via, «reale» piuttosto che virtuale, quella degli speed dating, termine che riporterà la memoria di molti a film e telefilm di successo come L’amore è eterno finché dura e Sex and the City, i quali hanno contribuito ad aumentare la popolarità di questo singolare modo per trovare l’amore.
Pare sia stato un rabbino, Yaacov Deyo, ad aver messo a punto questo tipo di evento per far incontrare, e possibilmente sposare, gli ebrei celibi di Los Angeles negli anni Novanta del secolo scorso. Poco dopo, una serie di agenzie ha cominciato a organizzare incontri in tutti gli Stati Uniti, tanto che già nel 2000 l’iniziativa poteva dirsi coronata dal successo.
Fino a un annetto fa nel nostro Cantone era piuttosto difficile partecipare a un classico speed dating, realtà presente, invece, in Lombardia (Como, Varese, Milano) e in alcune delle principali città svizzere come Zurigo, Berna e Basilea. Lacuna, questa, che è stata colmata da due amiche e colleghe, Tania Oktay e Nicole van Gogh, ideatrici di Speeddating Ticino: «A me e Nicole interessa molto il tema delle relazioni e siccome lei ha incontrato suo marito su una dating app, incitava spesso me, che sono single, a iscrivermi».
«Teniamo molto a far passare il messaggio che dietro a questa proposta ci sono due persone fisiche con dei valori sani e non un algoritmo»
«Così, negli ultimi anni, ne ho provate alcune, che non mi hanno però mai convinta del tutto – racconta Tania – al tempo stesso, nelle nostre discussioni è emerso il tema dello speed dating, allora non presente in Ticino, e così, osservando anche come molte persone, a causa della vita frenetica ed impegnativa che conducono, fatichino a darsi l’opportunità di fare nuove conoscenze, abbiamo deciso di “buttarci” e creare un servizio che consentisse appunto di incontrarsi in leggerezza e divertendosi». Il progetto di Speeddating Ticino ha preso avvio nel marzo del 2023. «Per capire se nel nostro Cantone questa formula potesse funzionare nel mese di giugno abbiamo lanciato il sito www.speeddating-ticino.ch – continua la co-ideatrice dell’iniziativa –parallelamente abbiamo stampato e distribuito dei bigliettini promozionali ad amici e colleghi, nei bar e ristoranti, dal parrucchiere e dall’estetista e creato una pagina Instagram e di fatto abbiamo ricevuto le prime iscrizioni, andate poi crescendo grazie al passaparola».
Sul sito della loro iniziativa, Tania e Nicole ci mettono, letteralmente, la faccia, nel senso che compaiono in bella evidenza con foto, nome e cognome. «Teniamo molto a far passare il messaggio che dietro a questa proposta ci sono due persone fisiche,
con dei valori sani, e non un algoritmo che sceglie chi può partecipare e a quale serata – commenta Tania – allo stesso modo teniamo a mettere in primo piano le persone che si iscrivono ai nostri incontri, che ci possono contattare in caso di dubbi o domande e alle quali garantiamo professionalità e discrezione».
Sempre per garantire privacy ai partecipanti, le due amiche, per ospitare gli speed date, hanno optato per locali che disponessero di uno spazio separato da poter riservare loro. «La prima serata si è svolta nel Locarnese il 18 giugno dello scorso anno ed è stato un vero successo, tanto che si è subito formata una coppia; da allora ne abbiamo organizzate una decina», continua.
Ma come si svolgono le serate?
«Innanzitutto senza impegno, l’unica richiesta è quella di mettersi in gioco», precisa Tania, che, dopo aver deciso di proporre questo format per cercare l’amore in Ticino ha partecipato a un evento del genere a Como, così da poter capire meglio i partecipanti e poterli informare in modo ottimale.
Il concetto, comunque, è semplice. Gli incontri sono suddivisi per fascia d’età e si svolgono a partire da un minimo di cinque donne e cinque uomini, fino a un massimo di 10.
Ogni coppia siede a un tavolino e ha modo di chiacchierare sorseggiando un aperitivo per 7 minuti, dopodiché l’uomo passa al tavolo successivo. Per facilitare la conversazione, alle coppie viene messo a disposizione un box con delle domande rompighiaccio. Alla fine degli incontri, i presenti indicano sul formulario ricevuto se hanno interesse nei confronti di qualcuno. «Se questo interesse si rivela reciproco diamo i rispettivi contatti telefonici – afferma la co-ideatrice – oltre a ciò, durante le serate accadono comunque cose carine che riguardano i rapporti tra le persone, come l’incontro tra due compagni di elementari che si sono rivisti dopo 25 anni oppure, in una serata over 60, quello tra due vicini di casa che non
si conoscevano e ora portano in giro il cane assieme, vanno a bere il caffè, eccetera». Insomma, in ogni caso chi partecipa si porta qualcosa a casa dalla serata. «Anche con me e Nicole si creano spesso dei bei momenti. Ci sono ragazze che ci fanno delle confidenze, mentre ci è capitato che i ragazzi esternassero il fatto di non avvertire, con lo speed dating, l’ansia del primo passo o la paura del giudizio, dal momento che tutti i presenti sono lì per uno stesso motivo», continua. Ragazzi che risultano essere più propensi a iscriversi a questa forma d’incontro un po’ fuori dal comune, soprattutto quelli nella fascia tra i 30 e i 45 anni, che è poi quella che funziona maggiormente. «Le donne sono un po’ più restie, probabilmente per timidezza, perché hanno paura di una delusione o di uscire dalla propria zona comfort», commenta Tania.
Restando in tema di target, può sorprendere che vi siano serate rivolte a ragazzi sotto i 30 anni. «A volte metto delle storie su Instagram in cui chiedo quale fascia d’età interesserebbe i nostri potenziali partecipanti e ci capita di ricevere delle risposte da ragazzi tra i 24 e i 30 anni; altre volte sono loro stessi a scrivere per sapere se è prevista una serata – spiega Tania – complici anche i casi di cronaca che purtroppo si sentono, alcuni giovani hanno infatti una sorta di timore ad approcciare una ragazza, nel senso che non sanno come potrebbe prendere il loro gesto». Da questo punto di vista il fatto di partecipare a uno speed dating può rivelarsi utile. «Un uomo di quarant’anni, che è già venuto a tre o quattro delle nostre serate, mi dice di apprezzare la possibilità di interfacciarsi con più donne che gli consente di “fare esercizio” e lo aiuta a sciogliersi nell’incontro, appunto, con una nuova conoscenza», racconta una delle ideatrici del progetto. Così facendo, i «pretendenti» si accorgono di quanto in realtà non sia difficile avvicinarsi a una ragazza. «In quest’epoca di individualismo, abbiamo un grande bisogno di vicinanza e la chiave del successo dello
Parliamo di amore
Libri ◆ Tradotto in italiano Conversations on Love della giornalista
Natasha Lunn
Barbara Manzoni
Avere una relazione con un compagno o una compagna che ci rende felici è una delle nostre aspirazioni più naturali, è un punto centrale della nostra vita e se qualcosa va storto può diventare un problema serio, soprattutto perché ci muoviamo nel contesto di una società che dà molto più valore all’amore di coppia rispetto ad altre forme. Dopo anni di insuccessi sentimentali (ne sapete qualcosa?) la giornalista inglese Natasha Lunn, direttrice della rivista «Red», ha deciso di sondare cosa fosse veramente quel suo «desiderio di amore» nella consapevolezza di essere «ossessionata dall’idea dell’amore, non dalla sua verità». E così nel 2017 ha creato una popolarissima newsletter bimestrale intitolata Conversations on love, diventata un libro ora tradotto in italiano da Mondadori nella collana Strade Blu.
speed dating, a mio avviso, è proprio il suo aspetto di socialità. Durante le serate c’è infatti interazione, si creano delle connessioni e le persone ritrovano il piacere di parlare dal vivo e di raccontarsi. Si torna insomma a fare conoscenza in una maniera spontanea e naturale che si è un po’ persa – commenta Tania – quando sei davanti a un’altra persona con la tua faccia e il tuo nome sul cartellino sei meno propenso a mentire, o quantomeno a cercare di impressionare, e più portato a presentarti per quello che sei realmente». Cosa oggigiorno non scontata, soprattutto quando ci si trova mediati dallo schermo di un telefono o un computer come nel caso delle dating app. «Le app di incontri hanno secondo me non pochi limiti e sono inoltre poco umane», afferma una delle ideatrici di Speeddating Ticino. Lo speed dating ha il vantaggio di permettere di avere una prima impressione della persona che si ha di fronte. Vederla in faccia, ascoltare la tonalità della sua voce, osservarne la gestualità, sono tutti elementi che contano. Oltre a ciò, parlare di seguito con più persone aiuta a mettere a fuoco quello che si sta cercando e quello che invece si vuole evitare. Ma i motivi per provare questo modo per incontrare persone nuove non finiscono qui: lo speed dating – che in fondo è un aperitivo un po’ diverso dal solito – permette di ottimizzare il tempo e massimizzare le possibilità di trovare un potenziale partner, facendo più incontri in una sola serata, invece di dover organizzare appuntamenti separati o passare ore a chattare. Svolgendosi poi in un ambiente controllato e sicuro evita il rischio di incontri online con persone che potrebbero rivelarsi false o pericolose. Insomma, per chi è alla ricerca di un compagno di vita risulta essere una bella opportunità che vale la pena darsi. «Si dice che l’amore non si cerca, si trova. Io dico che l’amore si incontra, a condizione però di darsene la possibilità, il che non equivale sicuramente a starsene a casa sul divano», conclude Tania.
Durante le conversazioni sull’amore la Lunn ha intervistato moltissime persone, scrittori e scrittrici, poeti, filosofi, esperti ed esperte di psicologia, psicoterapia e sessuologia. Da questi ospiti si è fatta raccontare le loro esperienze, i loro punti di vista, non solo sull’amore di coppia, ma anche sui legami affettivi significativi che creiamo durante la nostra vita, con i genitori o i figli, ad esempio, o con gli amici. Tre le domande fondamentali affrontate nel libro: come troviamo l’amore? come lo sostentiamo? come sopravviviamo alla sua perdita? Le risposte degli intervistati si intrecciano con le riflessioni e i racconti di vita (anche dolorosi) dell’autrice, nei quali molti lettori non potranno che ritrovarsi. Tanti i nomi famosi che hanno accettato di mettersi in gioco con Natasha Lunn e ampissima la stratificazione delle forme di amore sondate, da Alain de Botton che ridefinisce la solitudine a Cadice Carty-Williams (l’autrice che ci ha fatto ridere e piangere con Queenie) che si affida all’amicizia, a Lisa Taddeo che ci parla della perdita, ma la lista è veramente lunga per questo breve spazio. A tutti, a fine intervista, la Lunn pone la stessa domanda: «Che cosa avresti voluto sapere sull’amore?». Inevitabile che il lettore la ponga a sé stesso, io ho la mia risposta e voi che cosa avreste voluto sapere sull’amore?
Bibliografia
Natasha Lunn, Conversation on Love, Mondadori 2024.
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Quagga in acque elvetiche
Mondoanimale ◆ Confermata la presenza della cozza invasiva in tre laghi Maria Grazia Buletti
Un’équipe di ricercatori dell’Università di Costanza, dell’Istituto Eawag di Dübendorf e dell’Università di Ginevra ha sondato per la prima volta la propagazione della cozza quagga (Dreissena rostriformis) nei laghi svizzeri, constatandone la presenza, oltre che nel Reno (a Basilea), nel lago di Bienne, Costanza e nel Lemano. Lo studio, conclusosi verso la fine dello scorso anno, poggia sulle conoscenze acquisite in tre decenni di sforzi nella sorveglianza della popolazione della quagga, monitorata in quattro dei cinque grandi laghi dell’America del Nord (Huron, Ontario, Michigan ed Erie), che ha registrato anche tutta una serie di cambiamenti sostanziali nei suoi ecosistemi. I ricercatori prevedono che, per analogia, nel Lemano, nel lago di Bienne e Costanza questa specie potrebbe moltiplicarsi e crescere, da ora al 2025, di un fattore che va da 9 a 22. Si tratta di una specie invasiva e, in quanto tale, è una fra le cause principali dei cambiamenti indotti dall’essere umano negli ecosistemi, ivi compreso quello lacuale: «Come per l’America del Nord, il massiccio aumento della sua presenza potrebbe comportare un’evoluzione verso individui di cozze più grandi dell’originaria, che si installerebbero in un habitat che va verso la colonizzazione di profondità molto più importanti di ora, compatibilmente con la maturazione di questa popolazione».
Così avvertono gli studiosi (per voce del professore ordinario Bastiaan Iberlings dell’UniGe) che pure mettono in guardia su uno scenario oramai più che plausibile: «Se si realizzasse questa rapida espansione, comporterebbe il più grande cambiamento dell’ecosistema acquatico del lago Lemano dai tempi dell’eutrofizzazione sopraggiunta nel ventesimo secolo». E per eutrofizzazione si intende «quel processo per cui un ambiente acquatico modifica il suo equilibrio ecologico per arricchirsi delle sostanze nutritive di cui scarseggia; esso può essere determinato da mutazioni naturali dell’ambiente, ma, più frequentemente da inquinanti (detersivi, fertilizzanti) o da eventi di specie invasive come questa che lo accelerano».
La modifica dell’ecosistema del lago Lemano preso in considerazione potrebbe in un primo tempo apparire favorevole: «L’attività di filtrazione delle cozze quagga aumenta la limpidezza dell’acqua che, a sua volta, favorisce una penetrazione più profonda e forte della luce». Ma, chiosa lo studio: «Il fenomeno potrebbe condurre a una stratificazione termica dell’acqua più stabile e più lunga, per mezzo di meccanismi simili agli effetti del cambiamento climatico». E questo non ha conseguenze positive nemmeno nel caso del Lemano dove, ad esempio «potrebbe innescare una diminuzione della quantità di ossige-
Azione
no nella parte più profonda del lago, e una liberazione di fosforo dei sedimenti, aumentando in tal modo il rischio di proliferazione delle alghe blu che sono tossiche».
Inoltre le cozze quagga assorbono altrettanta parte di energia e nutrimento necessari all’ecosistema alimentare pelagico (relativo al mare aperto o all’oceano): «Ciò impatterebbe negativamente sulla popolazione del coregone, una delle due specie principali pescate nel Lemano. Le quagga rischiano altresì di causare milioni di franchi di danni ai sistemi di approvvigionamento idrico, ostruendo le canalizzazioni». E vi sono altri effetti correlati a questa cozza che in soli sei anni si è riprodotta in modo massiccio nel Lemano: «Una diminuzione del fitoplancton e dello zooplancton, che esse filtrano in abbondanza, e una carenza delle pulci d’acqua (nutrimento dello zooplancton), che porterebbero inevitabilmente a un cambiamento della catena alimentare del lago».
A questo punto, abbiamo chiesto a Tiziano Putelli, dell’Ufficio caccia e pesca cantonale, come sono messi i nostri laghi Verbano e Ceresio: «A oggi, i campionamenti hanno permesso di dire che la quagga è presente a livello di DNA ambientale, senza essere fisicamente mai stata individuata». Ciò non significa però che possiamo dormire sonni tranquilli, a causa di
una serie di condizioni poco governabili: «Tale riscontro ha purtroppo evidenziato l’insuccesso delle misure di contenimento messe in atto dal canton Ticino, volte a impedire l’arrivo nei laghi ticinesi della cozza quagga tramite imbarcazioni da diporto. Infatti, la difficoltà a controllare tutti i punti di accesso per le imbarcazioni, ha reso di fatto i controlli difficoltosi». Putelli pone pure l’accento sul fatto che i nostri laghi sono parecchio turistici, con relativi spostamenti di barche tra i diversi cantoni e da una nazione all’altra: «Il Verbano è per quattro quinti italiano, rispettivamente il Ceresio lo è per circa un terzo della sua superficie e questo complica ulteriormente l’applicazione di protocolli di controllo atti a scongiurare l’immissione nelle nostre acque della quagga (attaccata allo scafo o nell’acque di sentina delle imbarcazioni provenienti da acque dove è purtroppo già presente)». Sul corto termine non resta che la via della sensibilizzazione, considerato che oggi non
esistono dei protocolli rigidi di controllo dei natanti in arrivo: «Abbiamo impiegato risorse ed energie per sensibilizzare e informare, turisti compresi, ma non si può oggettivamente immaginare di farlo in modo capillare in ragione di quanto detto sopra». Egli stigmatizza anche i «tempi stretti» che non giocano a favore di un’azione efficace e incisiva contro la colonizzazione futura della quagga, temendone l’eventuale futuro impatto generale: «Essa vive anche a profondità superiori ai duecento metri, generando tutta una serie di problemi nei punti di captazione del lago, solo per fare un esempio». Tiziano Putelli conclude con una riflessione: «I laghi sono grandi ecosistemi ed è praticamente impensabile immaginare un’eradicazione di qualsiasi forma di fauna non autoctona; non resta dunque che la sensibilizzazione, per quanto possibile, sperando che la quagga non trovi le condizioni per espandersi anche in Ticino».
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L’altropologo
Ultima cena a Parigi
Il menù servito su un piatto d’argento è talmente ghiotto da tentare anche l’Altropologo, che com’è noto preferisce tenersi al largo dai bassifondi del contemporaneo, ad avventurarsi, scandaglio alla mano, su per la Senna, sempre controcorrente, per un assaggio à la carte della gastronomia olimpica. Confessa il Vostro che in diretta di Cerimonia d’Apertura non c’era. In quelle occasioni preferisce sempre andare a pescare. Ma fra strepito e rumore, boatos e proteste – accuse e smentite scamparla è stato impossibile. Siamo costretti a essere informati. Cosa potesse avere a che fare l’Ultima Cena di Leonardo con quella roba là rimarrà un rebus sul quale i futuri storici della (s)comunicazione scriveranno biblioteche. O forse sarà perché l’originale è deteriorato, nonostante gli sforzi dei restauratori. Leonardo amava sperimentare anche quando avrebbe fatto meglio a risparmiarselo e dipinse con
la tecnica della «tempera a secco» (un po’ come spalmare la Nutella sul vetro, per intenderci). Presto il non-affresco si seccò polverizzandosi. Così uno, oggi, può «leggere» nella composizione (quasi) quello che gli pare… Insomma in quella roba lì ci hanno visto l’Ultima Cena di Leonardo e si è scatenato l’inferno. L’Inferno, today, è la cacofonia mediatica. Caos e confusione. Fino a quando dalla periferia dell’Empire, la cronaca locale dell’edizione bolognese del 29 luglio de «La Repubblica», svela al mondo l’arcano. La mondovisionaria teleparata delle Drag Queens in crapula non c’entra niente con Leonardo, ma si ispirerebbe invece a un dipinto molto meno noto ma scopiazzone di Leonardo, esposto nelle Collezioni Comunali d’Arte di Bologna. Etichetta: Bellosio Carlo (cognome ante nome, come si fa ancora nei militari e all’anagrafe dei paesi provinciali dove conta la Famiglia, a differenza dei Pa-
La stanza del dialogo
esi di PIL avanzato dove Individuo è Sovrano si dà del tu anche al Papa). Dunque: B.C. 1801/1849, Banchetto degli Dei, cm 134x85. Bellosio Carlo fu un pittore lumbard di scuola neo-neoclassica, una sorta di David in ritardo. E anche un po’ scolastico e (azzardo) bruttino. Fattostà che ornò con le sue tele la sala da pranzo di quell’eclettico neogotico che è il Castello Sabaudo di Pollenzo, nel cuneese, oggi campus – ci mancherebbe – dell’Università delle Scienze Enogastronomiche. Alcuni peraltro attribuiscono il dipinto al bolognese Pelagi Pelagio, personaggio eclettico, bon viveur e factotum dei Savoia – da qui forse la sovrapposizione col lumbard. Ora: non vi è dubbio che la composizione del Banchetto degli Dei ricalca la Cena di Leonardo (come certo confaceva un pittore d’accademia in affanno di fantasia). Sta di fatto che la figura centrale è un Giove Barbuto e Aureolato, paffuto per non
Crescere un figlio non è un compito individuale
Gentile Silvia, viviamo in un mondo in cui, finalmente, si parla tanto di maternità nel suo complesso, non solo della sua bellezza e della grande fortuna (mai scontata), ma anche delle difficoltà connesse, dalla solitudine alla frustrazione che spesso si prova nelle diverse fasi (il corpo che cambia e difficilmente torna quello di prima, la mancanza continua di sonno, la distanza nella coppia…) e poi del ruolo della mamma nella società, quanto è faticoso essere una mamma che lavora e sentirsi inadeguata sia al lavoro che in casa, o della mamma che non lavora e sentirsi continuamente giudicata da tutti. Leggo continuamente articoli di esperienze di mamme in difficoltà e mi rivedo in loro. Ma oggi sapete cosa vi dico? Guardo i miei bimbi e l’amore immenso che provano per me, sono il loro «tutto». La gratitudine genuina e profonda che hanno per me… beh quella è davvero senza prezzo. E allora, almeno per oggi, allontano i pensieri (purtrop-
po veri) legati alla figura della mamma nella società e mi godo una domenica di amore con loro, questa non me la porta via nessuno. Per le mamme a cui voglio bene un abbraccio. / Letizia
Cara Letizia, il nome che hai, o lo pseudonimo che ti sei scelta, non poteva essere più appropriato, corrisponde al tuo animo equilibrato e gentile. Senza smancerie, idealizzazioni o recriminazioni sai cogliere la complessità dell’impresa materna. Non si tratta, come vuole certa retorica, di un sentimento lieve e senz’ombre. Ma di una passione tanto spontanea quanto complessa. Soprattutto in quest’epoca quando alle donne si pongono due impegni, la famiglia e il lavoro. Anzi tre, quando sopraggiungono i figli. Mentre la tua generazione cresce nel rifugio protettivo della famiglia d’origine, delle amiche, dei viaggi e dello studio, viene il momento in cui vita di
La nutrizionista
Allergia
coppia e la maternità spalancano una nuova dimensione e tutto diventa difficile e contraddittorio. Non in generale, ma proprio nella quotidianità. È qui che il tempo diventa una coperta corta e ci si trova di fronte all’amara constatazione: non ce la faccio più Non riesco a essere come vorrei: una professionista ineccepibile, una mamma encomiabile, una moglie amabile e desiderabile. Chi parla in voi è l’Io ideale, una istanza della mente che deve essere ridimensionata, diventa altrimenti colpevolizzante e persecutoria. Giovani donne, rinunciate alla perfezione! Non siete onnipotenti, avete dei limiti e bisogna accettarli. Fate quello che potete, state nel giusto senza chiedervi troppo.
La depressione è un’ombra che ricade soprattutto sulle madri. Ma l’impegno dei primi anni non dura tutta la vita. Se non ce la fate, abbiate il coraggio di chiedere aiuto alla società,
di Cesare Poppi
dire cicciottello, spaparanzato sul triclinio ed evidentemente alticcio, mentre Era/Giunone lo tenta con un’altra ombra, alla veneziana. Resta un mistero dell’umana creatività e dei suoi ghiribizzi modaioli come da Giove si sia passati al Bacco extralarge-con-compagnia-di-Drag Queens alla porporina… (ma siamo poi sicuri di essere in zona LGBT che magari l’hanno presa male?). Sembrerebbero piuttosto i (m) nostri derivati dal rendering scopiazzato degli dei olimpici di un quasi recente film hollywoodiano, «trashata» in purezza, sul quale è meglio stendere un velo… Il peggio, molto divertente, è venuto con la difesa che Thomas Jolly (un nome, una garanzia), direttore della kermesse d’apertura dei Giochi, ha fatto del suo prodotto. La pezza peggio dello sbrego: funambolismi su inclusione e tolleranza, paternalistiche gnole e adolescenziali scuse verso chi «non ci ha capito», appelli un
di Silvia Vegetti Finzi
ai datori di lavoro, alla famiglia, alle amiche. La cosa peggiore è restare sole, come purtroppo accade a molte immigrate, costrette in casa da norme religiose restrittive.
Una buona esperienza di solidarietà femminile è creare una Banca del tempo dove scambiarsi le scarse disponibilità: t u tieni mio figlio sabato mentre vado a fare la spesa della settimana, io tengo il tuo la domenica sera quando vuoi uscire con tuo marito. È sempre possibile scambiare le parti e stringere nuove alleanze. Sembra invece più facile far ricorso ai nonni, sempre pronti a dare una mano, anche a scapito del loro riposo e talvolta della loro salute. Mettere al mondo un figlio e crescerlo, nonostante la gioia che procura, non può essere un compito individuale. Poiché rappresenta un contributo fondamentale alla comunità, deve divenire un obiettivo primario e condiviso.
alle proteine del latte: come recuperare i nutrienti?
Buongiorno Laura, le scrivo anche io per mia figlia di tre anni, stava spesso male e dopo vari esami abbiamo scoperto che è allergica alle proteine del latte. Come mi devo comportare? Può avere delle carenze se non assume latticini? Posso darle latte di capra o mozzarella di bufala? Cibi vegani? La ringrazio. / Antonia
Buongiorno Antonia, mi dispiace per i brutti momenti che ha passato sua figlia; ora che c’è una diagnosi, vedrà che starà meglio.
L’allergia di cui mi parla consiste in una risposta atipica che il nostro sistema immunitario ha nei confronti del latte e dei suoi cosiddetti derivati oppure ancora, in rapporto a quei prodotti che ne contengono anche solo qualche traccia. Per essere più precisa, sono due, i gruppi di proteine principali che possono causare una reazione allergica: la caseina e le proteine del siero del latte.
La caseina è presente in tutto il latte animale, compreso quello di pecora e capra. Il latte di bufala ha una struttura proteica molto simile a quello della mucca quindi presenta il rischio di una reazione crociata (il sistema immunitario lo attacca per somiglianza). È una delle allergie alimentari più comuni nei bambini. La maggior parte di loro però questa allergia al latte riesce a superarla. Coloro che non la superano potrebbero dover continuare a evitare i prodotti lattiero-caseari. Segni e sintomi si verificano normalmente subito dopo che il bambino ingerisce latte sotto qualsiasi forma e possono essere da lievi a gravi: dal respiro sibilante, all’orticaria e ai problemi digestivi (diarrea, crampi, vomito e via elencando). L’allergia al latte può anche causare anafilassi – una reazione grave e pericolosa per la vita. Non ci sono molti comportamenti alternativi per far fronte a questo tipo di
allergia: occorre evitare il latte, tutti i prodotti lattiero-caseari e tutti i prodotti che lo contengono come ingrediente. È l’unico trattamento. Per questa ragione è molto importante leggere bene le etichette alimentari: il latte può nascondersi in prodotti che non c’entrano nulla col latte come miscele di spezie, salsicce, prodotti da forno ma anche farmaci e creme per il viso. Essendo piccola, sua figlia, è difficile spiegarle la situazione, magari sarebbe più facile dirle di accettare solo la frutta dagli altri. Se fossi in lei sensibilizzerei invece tutte le persone che le stanno intorno, dagli amici alla mensa scolastica e, se andate al ristorante, è bene parlarne subito con il cameriere così che possa poi aiutarla nella scelta, se c’è un dubbio su qualcosa lo si evita. Per quel che concerne le possibili carenze, il latte è una fonte importante di calcio (salute ossa e denti), proteine, vitamine D (importante per la
po’ stizziti alla fratellanza e al volemose bene e poi…e poi… alla fine, quando si capiva che proprio gli scappava, l’inno finale ispirato ai valori Republicains (sic – cito, corsivo dell’Altropologo): «In Francia possiamo amare chi vogliamo… In Francia possiamo credere o non credere… In Francia abbiamo tanti diritti…». Tre volte di troppo. Chissà come avrebbe glossato il Marchese del Grillo, romano dde Roma. Assieme alla Sindachessa di Parigi, memore di Mao Zedong, che fa il bagno nella Senna (antica questa sì Dea dei Celti certo ora uscita di scena e forse di senno), per dimostrarne la baignabilité per poi trovarsi in piena Olimpiade con la medesima piena di… si chiamano E. coli!? Tanto che gli atleti-eroi optano per gareggiare nella vasca da bagno. L’Olimpiade parigina dovrebbe seriamente considerare l’idea di una Medaglia d’Oro per Gaffeurs
Va bene offrire sostegni economici e organizzativi ma ogni nuovo nato ha bisogno innanzitutto di essere accolto nella mente femminile, sognato, immaginato e atteso da una madre che lo condivide col padre. Viviamo una nuova emergenza: la denatalità che, nonostante tanti aspetti negativi, ci aiuta a riflettere sulla generatività Una possibilità che ha bisogno di parole per dirsi. Esemplare, il libro Storie di parto, pubblicato dall’Associazione Nascere Bene Ticino, a cura di Laura Lazzari e Isabella Pelizzari Villa, edizioni Ulivo.
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Inviate le vostre domande o riflessioni
a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
formazione di ossa e denti), e vitamina B12 (è necessaria al metabolismo degli aminoacidi, degli acidi nucleici e degli acidi grassi) tutti indispensabili per la crescita. In commercio esistono molti sostituti del latte come bevande di soia, riso, mandorle, avena, ma non tutti sono arricchiti con queste sostanze, quindi è bene anche qui leggere le etichette e cercare quelli che le contengono.
Per il calcio, le migliori fonti alternative sono soprattutto i cavolfiori e tutti i tipi di cavolo, le verdure a foglia, le mandorle, i semi di sesamo (soprattutto la salsa Tahina), i cereali integrali, i legumi e le spezie. Un’altra alternativa forse più facile per la bambina da assumere è l’acqua minerale in bottiglia; quella dei nostri rubinetti invece ne è povera.
Per la vitamina D è importante l’esposizione solare oppure nel cibo la si può trovare nei pesci grassi, nel tuorlo
d’uovo, nei funghi prataioli e nei gallinacci. La vitamina B12 è presente nei prodotti di origine animale e in maggiore quantità nell’uovo, nella coscia di pollo, nelle vongole, nel filetto di trota e nel salmone. In quanto ai cibi vegani è meglio non dar per scontato che ne siano privi, possono magari contenerne delle tracce che per una persona allergica bastano a scatenare una reazione. Spero di esserle stata utile, per una maggior serenità, però, le consiglio di parlarne col pediatra e di rivolgersi a una dietista così che la possa aiutare più nello specifico nella gestione della nuova situazione.
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di Laura Botticelli
L’inizio della grilling season
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TEMPO LIBERO
Dagli anni ruggenti ad oggi
Harley-Davidson: un mito, una leggenda, un’icona, un simbolo di libertà e non di meno, anche un pezzetto di storia da cavalcare
Pagine 12-13
Fragole, zucchero e rosato
Un drink alla frutta che, se sorseggiato ghiacciato, sorprenderà gli ospiti di ogni cena o festa estiva che si voglia
Pagina 14
Torna Ghost of Tsushima, ma su PC Un’avventura che si svolge tra le isole principali nipponiche e la penisola coreana, tra foreste di bambù, boschi, laghi e pianure ricoperte di fiori
Pagina 15
L’eclettico William Morris, un precursore negletto
Graphic novel biografiche ◆ Il suo incredibile lascito culturale rivive in un sentito omaggio fumettistico «tutto italiano»
Esistono, nell’immaginario popolare, figure che, pur essendo note agli addetti ai lavori, non hanno mai riscosso la medesima notorietà presso il grande pubblico; e ciò appare ancor più singolare quando si pensa che, spesso, è proprio la cosiddetta «gente comune» a essere circondata, nell’ambito della propria vita quotidiana, dai frutti del lavoro di tali misconosciuti eroi – magari sotto forma di innovazioni tecniche o estetiche. Si potrebbe quindi dire che sia soprattutto in casi come questi che la graphic novel diviene un mezzo eccellente per la diffusione e l’apprezzamento dell’operato di personaggi che rischierebbero altrimenti di scivolare nel dimenticatoio della cultura popolare, colpevoli soltanto di essere particolarmente difficili da classificare o banalizzare.
Un esempio lampante è quello dell’artista britannico William Morris (1834-1896), responsabile di grandissime innovazioni nell’ambito del design e della decorazione d’interni, e non solo: un uomo fortemente in anticipo sui tempi, destinato a esercitare grandissima influenza sulle arti visive e letterarie del XX secolo – ma che, nonostante ciò, al di fuori delle isole britanniche è sconosciuto ai più. Si tratta di una lacuna che, fortunatamente, il romanzo a fumetti William Morris. Alla ricerca della bellezza perduta, pubblicato pochi mesi fa da 24 Ore Cultura, tenta di colmare.
Creatore della corrente «Arts and Crafts», Morris rifiutò la pomposa distinzione tra arte e artigianato per restituire dignità al lavoro manuale
In effetti, il grande merito di questa graphic novel — la quale, nonostante l’argomento apparentemente «esterofilo», è tutta italiana, essendo nata dalla collaborazione tra i fumettisti Pia Valentinis e Giancarlo «Elfo» Ascari — risiede proprio nel fatto di analizzare l’impatto della figura di Morris non solo dal punto di vista strettamente artistico, ma anche in riferimento al contesto più ampio delle rivoluzioni sociali e politiche della sua epoca: dalle lotte delle suffragette e dal cambiamento epocale nella percezione del ruolo della donna, passando per l’ascesa del socialismo in Inghilterra (e non solo), fino ad arrivare alle lotte sindacali scatenate dalla seconda rivoluzione industriale. Per non parlare, naturalmente, del vero fulcro della vicenda, ovvero la compenetrazione pressoché totale tra le discipline artistiche del tempo, perfettamente esemplificata dalla storia di un artista che, tramite il movimento «Arts and Crafts» da lui stesso creato, ha rifiu-
tato la pomposa distinzione tra arte e artigianato per restituire dignità al lavoro manuale – non trascurando di prodigarsi per la tutela dei lavoratori, nonché delle donne.
Un uomo, insomma, sempre rimasto fedele al grande scopo intorno al quale tutta la sua vita ha ruotato: ovvero, come il titolo del fumetto suggerisce, la ricerca della bellezza. È chiaro che una graphic novel con una simile premessa deve riuscire nella difficile impresa di creare un equilibrio perfetto tra testo e immagine, vincendo la tentazione di indugiare in facili rimandi alle particolarità della cifra stilistica di Morris per trasmetterne piuttosto il fascino tramite i codici del puro e semplice tratto fumettistico; questione particolarmente spinosa nel caso di un personaggio che ha fatto della purezza e armonia estetiche il proprio credo, al punto da divenire cofondatore del movimento preraffaellita. E la scommessa è, in effetti, vinta, sebbene Alla ricerca della bellezza perduta sembri purtroppo soffrire di uno dei fraintendimenti più comuni che affliggono il mondo del fumetto da diversi anni a questa parte – vale a dire, la convinzione che una graphic novel debba reggersi soprattutto sulla qualità dei testi, e che l’aspetto grafico non rivesta per il lettore la medesima rilevanza. Avviene infatti che i disegni di Ascari e Valentinis ricordino a tratti dei ricalchi piuttosto schematici e non esattamente coinvolgenti, e fatichino a trasmettere il senso di fascinazione che l’opera di Morris ispira; una scelta stilistica che, tuttavia, rispecchia da vicino le ultime tendenze dell’universo fumettistico internazionale.
In tal senso, la direzione narrativa si rivela più azzeccata, in quanto il fumetto pullula di personaggi eccellenti (da Dante Gabriel Rossetti ed Edward Burne-Jones a Oscar Wilde e G. B. Shaw) il cui sentiero si è incrociato con quello di Morris, permettendo così a chi legge di immergersi nel contesto della vita dell’artista da un punto di vista privilegiato: dettaglio particolarmente importante nel caso di una narrazione quasi più affine alle regole del libro stampato che non a quelle del fumetto tradizionale. Viene qui infatti impiegata una voce narrante che si esprime soprattutto tramite didascalie narrative – il che agevola la lettura della graphic novel anche per un pubblico digiuno di questo mezzo espressivo, seppur lo scotto da pagare sia quello di un minore coinvolgimento emotivo da parte del lettore.
Alla ricerca della bellezza perduta si presenta così come un volume di stampo in parte didattico, anche in virtù dell’appendice illustrata dedicata alle maggiori opere grafiche e di
design di Morris; tuttavia, Valentinis e Ascari non trascurano di sviluppare anche una narrazione «parallela», ben più affine alle atmosfere rarefatte predilette dal loro protagonista – si veda l’intrigante sintesi che, nell’arco di poche tavole, illustra il romanzo News from Nowhere, opera di fantapolitica a cavallo tra fantascienza e utopia che William pubblicò nel 1890 come manifesto della propria visione socialista, nonché delle sue speranze per il futuro di un’Inghilterra ancora profondamente classista.
Così, complice la caratura del personaggio a cui è intitolato, il valore di-
vulgativo di questo volume permette di passare sopra a qualche ingenuità stilistico-narrativa; il che offre anche un’interessante considerazione sullo stato di salute del fumetto italico, il quale sembra aver finalmente assorbito la lezione impartita dalla scuola franco-belga – in modo da orientarsi infine verso una riscoperta della graphic novel come prodotto artistico a tutti gli effetti, con il quale raccontare storie anche di grande complessità e rilevanza storica e culturale: lo dimostra il fatto che Alla ricerca della bellezza perduta possa oggi vantare anche un’edizione per il mercato an-
glosassone. Un risultato non da poco per un prodotto in lingua italiana – e, del resto, del tutto meritato per una coppia come quella formata da Valentinis e Ascari, il cui maggior merito è quello di aver trovato un modo stimolante e godibile per riportare all’attenzione popolare una figura influente e, soprattutto, modernissima qual è William Morris.
Bibliografia Illustrazioni di Pia Valentinis e Giancarlo Ascari, William Morris. Alla ricerca della bellezza perduta, 24 Ore Cultura, novembre 2023.
Qui rappresentati sono i moti socialisti di Trafalgar Square del 13 novembre 1887.
Benedicta Froelich
L’«effetto banda» degli appassion
Simbolo di libertà ◆ Da icona della ribellione a status symbol, il marchio tra i più famosi e longevi della storia motociclistica ha incarnato
Marco Horat
Un mito, una leggenda, un’icona, un simbolo di libertà e, diciamolo pure, un pezzetto di storia da cavalcare. Per qualcuno uno status symbol da esibire quando si va a prendere il caffè in piazza, possibilmente a scappamento aperto. Parliamo della Harley-Davidson, uno dei marchi più famosi e longevi nella storia motociclistica. Siamo negli anni ruggenti a cavallo dei secoli XIX e XX, nei quali nascono le grandi case automobilistiche e, per le due ruote, nomi come Indian negli Usa, Norton e Triumph in Inghilterra. Nel 1910 le motociclette immatricolate negli Stati Uniti erano già quasi 90mila!
Libertà, grandi strade sotto il sole, capelli al vento o vie tortuose, traffico soffocante, automobilisti nervosi, tempo piovoso e radar
Harley-Davidson vede la luce nel 1903 grazie ai fratelli William, Arthur e Walter Davidson e a William Harley in un semplice capannone di legno di quindici metri quadrati a Milwaukee nel Wisconsin, dove fu assemblato artigianalmente il primo esemplare. In pochi anni la piccola impresa familiare comincia a produrne qualche altro; prima quattro poi otto e, infine, alcune decine, tra i quali una moto battezzata «Silent Grey Fellow», la silenziosa compagna grigia
Il colore originale del primo modello era stato il nero con filetti dorati e un logo rosso e oro inventato dalla zia dei fratelli Davidson; al nero si aggiungerà ben presto il grigio, per l’appunto, mentre per le macchine che correvano nel campionato americano furono scelti il nero e l’arancione; tutti colori ancora presenti sulla tavolozza del marchio americano, arrivato fino ai nostri giorni tra alti e bassi (le due guerre, la grande depressione, la concorrenza delle case inglesi e soprattutto di quelle giapponesi a partire dagli anni Settanta-Ottanta).
L’harleysta, questo sconosciuto
Chi acquista una H-D può iscriversi di anno in anno, o «una tantum» per la vita, allo HOG (Harley Owners Group) che rappresenta il primo livello di appartenenza a un gruppo speciale che dovrebbe garantire una sorta di originalità distinguendolo da altri appassionati delle due ruote; l’HOG ha una sua rivista e un sistema di comunicazione e scambio tra soci. Sotto il suo cappello ogni Paese e ogni regione hanno organizzazioni che propongono attività varie e uscite di gruppo, con lo scopo di fidelizzare i membri alla marca. I sociologi lo chiamano: creare un «effetto banda». Quando percorrete una strada, ad esempio sui passi alpini, noterete come quasi sempre i motociclisti in generale, e gli Harleysti in particolare si salutano con la mano quando si incrociano, alzando il piede destro quando si sorpassano. Anche a chi scrive, individuo fondamentalmente solitario, è capitato di attaccar bottone con gente sconosciuta, incontrata per caso in un posteggio, casco in mano, e chiacchierare un momento dell’itinerario, della bellezza del pae-
saggio, del traffico e del tempo oppure delle rispettive moto, dandosi subito del tu, indipendentemente dall’età, dalla provenienza e dalla rispettiva visione del mondo. Ci si lascia poi amichevolmente con una stretta e un movimento diversi dal solito stringimano tra comuni mortali. Difficile immaginare di fare lo stesso con un automobilista che guidi la stessa marca d’auto…
La banda
Per i fan vengono organizzati raduni come quello mitico di Lugano del 2010 che attirò sul lungolago tremila moto provenienti da tutta l’Europa per una parata indimenticabile per i motards, i commercianti della regione e le migliaia di curiosi che si sono lustrati la vista con le cromature e ripulite le orecchie con l’inconfondibile sound del motore bicilindrico
V-Twin; un po’ meno piacevole per coloro cui non importava niente, più preoccupati per ambiente e tranquillità (gli Swiss Harley Days® si vi si sono svolti dal 5 al 7 luglio). E al Faakersee, in Austria, ogni settembre accorrono decine di migliaia di persone sull’arco di più giorni per dare vita al più gigantesco raduno europeo! In queste occasioni si vedono moto di tutti i tipi: vecchie signore della strada e ultimi modelli tecnologici, con mille colori e «customizzazioni» talvolta sorprendenti quando non folli; diverse l’una dall’altra, ma per certi versi tutte un po’ simili, condividendo il Dna che le caratterizza e le rende inconfondibili malgrado le imitazioni della concorrenza. Forse come lo sono anche i biker che le cavalcano? Qui la faccenda diviene complessa poiché si apre un ventaglio di personaggi e di situazioni e non si può fare un discorso monocorde. In altre parole: chi è il vero harleysta? È come
chiedere: come sono gli svizzeri o gli italiani? Pregiudizi, luoghi comuni, fake news, piccole grandi verità frutto spesso di un’esperienza personale più o meno credibile, tutto serve a creare un’immagine diversificata. C’è il motociclista che sposa la filosofia americana della libertà, grandi strade sotto il sole, capelli al vento (non sempre il casco era obbligatorio), posizione in sella rilassata e via, con un borsone legato al sellino posteriore, verso l’infinito. Uno slogan pubblicitario della marca ricordava come la sola cosa brutta di un viaggio in Harley è che poi finisce. Ma qui da noi si devono fare i conti con strade strette e tortuose, traffico soffocante, automobilisti nervosi, tempo piovoso e radar in agguato; altro che libertà e vento in faccia! Eppure lo spirito è quello che alcuni film hanno celebrato: Easy Rider, del 1969 (era nato il mondo hippie) con gli indimenticabili Peter Fonda dietro un’infinita forcel-
la, Dennis Hopper con giacca e cappello stile Buffalo Bill, un giovane Jack Nicholson, i loro chopper, il casco a stelle e strisce. O il più recente e autoironico Wild Hogs del 2007 con John Travolta, tradotto in italiano con un poco felice Svalvolati on the road; il film racconta le avventure motociclistiche di quattro borghesucci frustrati che decidono di fare un viaggio in cerca di avventure, in barba alla loro non più tenera età. Pellicole che da una parte hanno celebrato la marca americana, ma che anche grazie a questa presenza sono diventati a loro volta dei cult.
Un componente della famiglia C’è chi acquista la moto dei suoi sogni anche per ragioni tecniche ed estetiche; poi magari comincia subito dopo a modificarne le caratteristiche esteriori: manubrio, scarichi, filtro
ati di Harley-Davidson
dell’aria, luci, sella, pedane e manopole, scegliendo pezzi originali da un catalogo infinito di ricambi possibili (sempre che si abbiano i mezzi per soddisfare i propri sfizi). La moto per la vita, insomma, che se tutto va bene resterà per sempre in casa, affiancata al caso da nuove arrivate; non sarà mai sostituita, perché venderla sarebbe come separarsi da un familiare. Una corrente di pensiero alternativa vede invece il proprietario di una H-D tenere l’originale così come è uscita dalla fabbrica di Milwaukee senza cambiare nemmeno una vite.
Lo fanno anche gli appassionati di altre marche. I più estremisti arrivano al punto di non pulirla e ripararla per il resto dei suoi giorni, all’insegna del motto «più è concia più è bella»; solo olio, benzina e al massimo una batteria nuova, quanto serve per tenerla in vita. Fango e sporcizia sono come le rughe sul volto di una vecchia signora: non vanno cancellate, ma anzi testimoniano una vita vissuta. La tenuta di marcia del biker sarà sulla stessa onda, tra il trascurato e il minimalista.
E c’è quello che si identifica col
suo veicolo, possibilmente il modello più recente e trendy, con sempre più pollici cubi di cilindrata; indossa casco del colore del serbatoio, tenuta di marcia all’ultima moda, scarpe da 400 franchi, jeans antisbucciatura da 700, gilet in pelle coperto di pins e sticker. Durante le soste per fumare una sigaretta, bandana in testa. Tragitti brevi e poco impegnativi con al massimo un’uscita extra stagionale, magari con partner, per passare una fine settimana in una località chic. Il contrario di coloro che di chilometri ne accumulano parecchi, anno dopo
anno, un po’ per il piacere di guidare una motocicletta a prescindere dalla marca e dalla destinazione, ma anche per visitare Paesi, regioni, città e luoghi in modalità curiosa e lenta, con relative pause culturali e gastronomiche. Il tempo libero messo a frutto. Qualche lettore arrivato fino a questo punto si starà chiedendo come mai non si sia ancora parlato di Hells Angels, Bandidos e bande simili di motociclisti ribelli, dediti a pestaggi e risse quando non di peggio, come raccontato in un film del lontano 1953, The Wild One (Il Selvag-
gio) con Marlon Brando, che cavalcava però una Triumph inglese. Veri machos a tutto tondo, almeno secondo un modo di pensare che si spera oggi sorpassato, anche un po’ patetici nella ricerca di una presunta e irresponsabile libertà dell’individuo nei confronti della società. Non ne parlo perché per loro la moto è solo un pretesto, non una vera passione. Per farla breve: non è facile tracciare in poche righe l’identikit dell’harleysta tipo. C’è un ventaglio ampio e sfumato che si è ulteriormente complicato da qualche anno con l’allargarsi della clientela dovuto al benessere (più o meno reale) che ha trasformato la motocicletta in un bene di consumo aggiunto, un di più, un lusso che oggi ci si può permettere grazie anche al leasing. Nel solo 2023 sono state immatricolate in Svizzera quasi 50mila nuove motociclette, e così è stato negli ultimi anni con punte sopra i 50.
Giunti a questo punto smettiamo di scrivere, e ci trasformiamo anche noi in motard, montiamo in sella e partiamo per una gita tranquilla sui passi di casa nostra, traffico permettendo, accompagnati in cuffia da un brano cult tenuto a basso volume: Born to be wild degli Steppenwolf, tanto per restare nell’ambito del mito.
Ricetta della settimana - Frosé, una fresca bevanda
Ingredienti
Ingredienti per 4 persone
7 dl di rosato
250 g di fragole
100 g di zucchero
1 dl d’acqua
2 c di succo di limone
200 g di ghiaccio frantumato basilico per guarnire
Preparazione
1. Il giorno precedente, versate il vino in un contenitore ermetico ideale per la congelazione e mettetelo in congelatore per tutta la notte.
2. Il giorno della preparazione, mettete da parte alcune belle fragole per la decorazione. Tagliate le restanti a pezzetti.
3. In una pentola portate a ebollizione lo zucchero con l’acqua e il succo di limone, finché lo zucchero non si è sciolto. Unite le fragole allo sciroppo e lasciate raffreddare.
4. Filtrate lo sciroppo con un colino a maglie fini e con un cucchiaio schiacciate le fragole.
5. In un frullatore capiente frullate il rosato congelato con lo sciroppo e il ghiaccio frantumato, fino a ottenere una massa cremosa.
6. Versate il frosé in bicchieri da cocktail e guarnite con il basilico e le fragole messe da parte
Consigli utili
Per il drink usate un vino rosato fruttato come ad esempio l’Oeil de perdrix
Preparazione: circa 20 minuti; raffreddamento: 45 minuti; congelamento: circa 12 ore
Per persona: circa 2 g di proteine, 0 g di grassi, 22 g di carboidrati, 190 kcal
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I samurai arrivano anche su PC
Videogiochi ◆ Dopo essersi affermato tra le avventure più apprezzate degli ultimi anni, Ghost of Tsushima si rinnova
Davide Canavesi
Dalla PS al PC. Nel 2020, Ghost of Tsushima si è affermato come uno dei videogiochi più apprezzati, grazie all’atmosfera coinvolgente, ai panorami mozzafiato e alla storia avvincente di Jin Sakai, un samurai impegnato a difendere la sua terra dall’invasione mongola. Dopo una lunga attesa, il gioco è disponibile anche per i fruitori su PC nella sua versione Director’s Cut, già nota agli utenti di PS4 e PS5. In Ghost of Tsushima il giocatore prende il controllo di Jin Sakai, erede di un potente e influente clan di samurai dell’isola di Tsushima. Addestrato sin da giovane secondo il rigido codice del bushido, Jin è nobile e retto, ma si ritrova coinvolto in un epocale sconvolgimento: l’arrivo di un’orda di invasori mongoli comandati da Khotun Khan, discendente di Gengis Khan. Lo scontro tra le truppe nemiche e i samurai dei vari clan giapponesi si conclude con una totale sconfitta per i difensori. I samurai vengono spazzati via, la sabbia è intrisa di sangue, e spade e lance sono spezzate. Lo zio di Jin, suo mentore dopo la morte del padre, viene fatto prigioniero dai mongoli. Jin, sospeso tra la vita e la morte, viene salvato da una donna, una ladra che ha bisogno della sua spada per soccorrere il fratello catturato dagli invasori. Comincia così una lunga avventura nei territori dell’atollo situato tra le isole principali nipponiche e la pe-
nisola coreana, tra foreste di bambù, boschetti, laghi e pianure ricoperte di fiori. L’avventura porterà Jin a interrogarsi su cosa significhi essere un samurai, combattuto tra il seguire la via del guerriero, la necessità di fare la cosa giusta e la brutalità della guerra, lontana da ogni tipo di onore. Durante le molte ore di gioco offerte da questo open world nipponico, il giocatore incontrerà amici e alleati, sarà chiamato a svolgere missioni principali, secondarie e altre attività tipiche del genere. Ma, se è fortunato, rimarrà anche rapito dalla struggente bellezza dei paesaggi e dall’atmosfera storica che raramente si incontra in un videogioco.
La Director’s Cut del gioco introduce anche l’espansione narrativa Iki Island, che offre una nuova campagna ricca di eventi e personaggi inediti. Dopo aver liberato l’isola di Tsushima dall’invasione mongola e aver sconfitto il nemico, Jin Sakai è diventato una leggenda, noto come il «Fantasma di Tsushima». Tuttavia, una nuova minaccia incombe: voci di persone che impazziscono, tormentate da incubi e visioni. Questi eventi preoccupano Jin, spingendolo a indagare. Giunto su Iki in modo piuttosto traumatico, scopre che le forze misteriose sull’isola sono conosciute come la Tribù dell’Aquila. Questi nuovi invasori, guidati da una potente sciamana, stanno lentamente avvelenando sia il
Giochi e passatempi
Cruciverba
La Francia è l’unico Paese occidentale dove si pratica … Risolvi il cruciverba, leggi nelle caselle evidenziate e scoprirai il resto della frase. (Frase: 2, 10, 4, 6)
ORIZZONTALI
1. Si proietta in tv
7. Si assicurano alla giustizia
9. Un soggetto da canzoni
10. Un serpente velenosissimo
12. Comandante arabo
13. Secrezione zuccherina di Rincoti Omotteri
15. Pari in firmare
16. Monete messicane
17. Se è segreto… fa la spia
18. Un risultato calcistico
19. Un mezzo di questo…
20. Con, per i tedeschi
21. Due vocali
22. Un tipo di vino
23. Il feticcio di antiche tribù
24. Luogo per asceti
VERTICALI
1. L’abate del Conte di Montecristo
2. Religioso musulmano
3. Il più lungo fiume della Francia
4. Precede i nomi delle signore inglesi
5. Le iniziali del fisico della relatività
corpo sia l’anima degli abitanti. Inoltre, gli abitanti di Iki nutrono un profondo odio verso i samurai, in particolare la famiglia Sakai, colpevole di aver portato la guerra sulla loro isola molti anni prima. Jin dovrà quindi affrontare non solo i nuovi invasori mongoli e l’ostilità degli abitanti locali, ma anche una minaccia molto più oscura e personale. Il combattimento è il fulcro del gioco, con Jin che utilizza katana, wakizashi e altre armi come arco, kunai, bombe e veleno. Il sistema di combattimento è fluido e senza lockon, ciò che permette a Jin di muoversi agilmente tra i nemici. Le abilità speciali richiedono energia di concentrazione, che si ricarica combattendo efficacemente o tramite amuleti ottenuti più avanti nel gioco. Il gioca-
tore può migliorare diverse abilità di Jin, dalle tecniche di spada alla difesa, dagli attacchi speciali alla salute e concentrazione, avendo a disposizione una certa libertà di personalizzazione. Nell’espansione sarà possibile esplorare spiagge, praterie, boschi e i villaggi di Iki, proseguendo il potenziamento di Jin con nuove abilità, armature e mosse per il cavallo. Sebbene il gameplay rimanga sostanzialmente invariato rispetto al gioco base, qui si assiste a una naturale progressione nelle abilità di Jin. Le missioni secondarie sono ben realizzate e arricchiscono la narrazione, offrendo esperienze immersive e stimolanti. Tra le nuove attività, troveremo la composizione di Haiku, sfide con l’arco e la possibilità di suonare il flauto per la fauna locale, come gatti-
ni selvatici e cervi. L’isola di Iki, sebbene più piccola rispetto a Tsushima, offre una buona varietà di ambienti e una ricca storia da scoprire attraverso missioni principali, secondarie e incontri casuali. Nonostante i riferimenti continui all’onore nel combattimento, le scelte morali non influenzano pesantemente la trama. Il gioco permette di affrontare i nemici sia con attacchi frontali sia con tattiche furtive, lasciando al giocatore la decisione sullo stile di gioco preferito. Ghost of Tsushima Director’s Cut arriva su PC con il supporto al feedback aptico, al lip-sync giapponese e ai grilletti adattivi (con un controller di PlayStation 5 collegato al computer), oltre a tempi di caricamento rapidissimi. Il gioco offre una resa visiva impressionante e supporta anche aspect-ratio diversi dal classico 16:9, garantendo un’esperienza visiva ottimale su schermi ultrawide
Ghost of Tsushima Director’s Cut per PC è una conversione eccellente, che mantiene la qualità visiva superiore e l’eccellente narrativa del gioco originale. Include il gioco base e l’espansione Iki Island, rendendolo imperdibile per gli appassionati di action-RPG open world ambientati nel Giappone feudale. Chi non ha ancora avuto l’occasione di giocarlo su PS4 o PS5, può godere di questo momento perfetto per immergersi in nell’epica avventura.
6. Giusto, corretto
7. Sono simili ai fiordi
8. Il mangiare degli inglesi
11. Pianta grassa usata in erboristeria
13. Parte del volto
14. Un raggio nei poligoni regolari
16. Calcolare, valutare
18. Dipartimento della Francia settentrionale
20. Opposto alla quiete
22. Una sigla da CD
23. Pronome personale
della settimana precedente STRANA PARTICOLARITÀ – La Crooked Forest in Polonia ha circa quattrocento alberi di pino con una particolarità, hanno… Resto della farse: …UNA INCLINAZIONE DI NOVANTA GRADI
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione
intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è
Sudoku
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
ATTUALITÀ
Tensione tra Israele e Iran
La serie di morti a distanza è nelle intenzioni dei contendenti un modo per evitare lo scontro totale
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L’indianità di Kamala Harris
I voti dei cittadini americani di origine indiana contano e la vicepresidente lo sa
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Serie tv e politica
In The Boys appare un bullo, assassino e stupratore pronto a conquistare gli Usa
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Troppo piccoli per l’inferno
Le terribili storie di un ragazzino sudanese di 15 anni e un 17.enne della Guinea salvati in mare
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Brucia il mondo mentre gli Stati Uniti latitano
L’analisi ◆ Nuove scintille in Medio Oriente e Venezuela con l’America ripiegata su se stessa a immaginare un futuro senza Biden; dal canto loro Pechino e Mosca continuano a tessere geometrie variabili di alleanze tra Paesi emergenti
La nuova escalation della tensione in Medio Oriente avviene sullo sfondo di una sorta di «vacanza» della politica estera americana. Una logica implacabile sembra spingere verso una generalizzazione del conflitto in Libano e Iran (dove settimana scorsa è stato ucciso il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh). La capacità degli Stati Uniti di imporre moderazione si è ridotta. Joe Biden è un presidente depotenziato in tutti i sensi. L’azione degli Stati Uniti è ancora meno incisiva del solito, perché tutti gli attori mondiali già pensano al «dopo», s’interrogano su quale sarà la strategia internazionale di una presidenza Harris o Trump. Molto dipende dai calcoli iraniani sui rapporti di forze nella regione. Nonché dal livello di incoraggiamento che il regime degli ayatollah sciiti riceve dai suoi protettori nell’Asse della resistenza, Russia e Cina.
Sangue a Caracas
Questo vale più in generale, ben oltre il teatro pur drammatico del Medio Oriente. Il resto del mondo si prepara in vista del 5 novembre, un’elezione americana gravida di incognite anche per le sue ripercussioni sul ruolo globale degli Stati Uniti. Perfino ciò che è accaduto in Venezuela si può leggere in questo quadro. Maduro rivendica una vittoria poco verosimile, l’opposizione denuncia brogli: lo scenario purtroppo non è nuovo. Ma la feroce violenza con cui il dittatore di Caracas infierisce contro i manifestanti, in un bagno di sangue, può anche essere favorita da un senso di latitanza degli Stati Uniti. C’è troppa carne al fuoco per l’Amministrazione Biden, occuparsi anche della nuova crisi in Sudamerica forse supera le risorse di attenzione geopolitica di una squadra vicina al capolinea. Eppure il Venezuela è un bubbone che ha ripercussioni concrete perfino sulla campagna elettorale: il disastro economico di quel Paese continua a spingere orde di profughi che tentano di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti. Miseria e caos in Venezuela contribuiscono alla crisi dei migranti, tema forte per la propaganda di Trump e punto debole per Kamala Harris.
Tornando all’altro incendio in corso, quello mediorientale, l’Asse della resistenza nella sua accezione originaria unisce le varie milizie jihadiste (Hamas, Hezbollah, Houthi) sotto la regia della teocrazia islamica di Teheran. Ma c’è un Asse ancora più importante, allargato a Russia e Cina, Corea del Nord e Venezuela: tutti i regimi autoritari
impegnati a vario titolo a indebolire l’Occidente. A cerchi concentrici, quel raggruppamento si può ridefinire Asse dell’evasione, includendovi pure molti altri Paesi del Grande sud globale che hanno deciso di non aderire alle sanzioni contro la Russia. Non tutti sono anti-occidentali, né tutti sono dittature. Però hanno in comune l’avversione all’ordine internazionale antico, che identificano con un’egemonia americana. Tutti si esercitano a prevedere che tipo di influenza l’America vorrà e potrà esercitare dopo il 5 novembre, quando in ogni caso gli elettori avranno scelto un leader diverso da quello attuale. Sia che ci sia un Trump II sia che vinca Harris, entreremo in qualche modo nel dopo-Biden.
Tra continuità e mistero
Un’Amministrazione Harris avrebbe elementi di continuità, appartenendo allo stesso partito, però non per questo la sua politica estera sarebbe identica. Per esempio abbiamo già visto Harris differenziarsi per una posizione più filo-palestinese e un tono più critico contro Benjamin Netanyahu. Trump è sempre un mezzo mistero, perché l’imprevedibilità fa parte della sua natura. Non a caso ha dovuto dimettersi dalla Heritage Foundation il responsabile del Project 2025, un insieme di riforme che era stato identificato come il program-
ma di Governo di una nuova Amministrazione Trump. La Heritage Foundation è un think tank di destra in cui lavorano molti esperti trumpiani, alcuni dei quali hanno avuto ruoli pubblici durante la prima presidenza Trump dal 2017 al 2020. Ma Trump era infastidito dal fatto che i democratici stessero già attaccando il Project 2025, anche perché lui non vuole farsi legare le mani da una piattaforma elettorale troppo precisa. Varrà in politica estera dove lui applicherebbe la sua indole «transactional», cioè il suo approccio da businessman pronto a mettere qualsiasi cosa sul tavolo negoziale. L’Economist Intelligence Unit ha stilato un Indice del Rischio Trump, una classifica dei Paesi che più hanno da perdere o da guadagnare nel caso di una sua rielezione. Tra i beneficiari c’è in testa la Russia di Putin; tra le vittime destinate a subire danni peggiori ci sono i vicini del sud, dal Messico al Centroamerica al Venezuela. Sulle mosse che tutti gli altri stanno facendo, è utile ricordare che luglio scorso – prima ancora di essere segnato dall’attentato a Trump, dal ritiro di Biden, dalla candidatura di Harris – si era aperto con un vertice ad Astana. Nella capitale del Kazakistan – una ex Repubblica sovietica – Xi Jinping e Putin avevano partecipato a un summit dell’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai: una delle tante sigle partorite dalla diplomazia cinese, per
organizzare attorno a Pechino delle geometrie variabili di alleanze tra Paesi emergenti. Un altro di questi club sono i Brics. L’idea è di rendere sempre meno decisivo il «nostro» G7. Poco dopo c’era stata la visita del premier ungherese Viktor Orban a Mosca, da Putin, gesto inaugurale della sua presidenza di turno dell’Unione europea, subito sconfessato da quasi tutti gli altri Stati membri. Dietro Orban si profilava l’ombra lunga del suo amico americano: Trump.
Nessuna pace in vista
Al Cremlino è possibile che Orban sia stato il latore di un «messaggio americano», o quantomeno di confidenze sulle intenzioni di Trump? Il premier ungherese ha definito questa visita a Mosca «una missione di pace». Il segretario uscente della Nato, Jens Stoltenberg, ha replicato: «Non c’è nessun segno che Putin voglia la pace». Di sicuro, non ora. Gli conviene aspettare le elezioni americane del 5 novembre. Trump ha promesso, se vince, «la pace in 24 ore». Le condizioni si possono immaginare: cessate-il-fuoco immediato, ciascuno resta sulle sue posizioni territoriali, quindi Putin si tiene aree conquistate con un’aggressione criminale. Poi la cessazione degli aiuti americani a Kiev. Una pace così sarebbe crudele per il popolo ucraino e pericolosa per la futura sicurezza dell’Europa inte-
ra. Senza garanzie di difesa – come un «ponte» verso l’ingresso nella Nato, più patti militari bilaterali – l’Ucraina sarebbe alla mercé della prossima aggressione russa. Trump ha anche ricevuto la visita di Benjamin Netanyahu, che lo ha omaggiato in occasione del suo viaggio a Washington per parlare al Congresso. Tutti si posizionano a seconda delle previsioni sul 5 novembre.
La discesa in campo di Harris ha reso meno sicure le scommesse. Da quando c’è lei come candidata, i sondaggi si sono bilanciati e le previsioni sono meno nette. Non si respira più quell’atmosfera di «inevitabilità» di un ritorno di Trump alla Casa Bianca. Però Harris non sarebbe come un Biden bis. Alcuni elementi di continuità verrebbero garantiti dall’establishment globalista che si riconosce nel partito democratico. La Nato sarebbe salva… Almeno in apparenza la fedeltà dell’America ai suoi alleati verrebbe rinnovata e confermata. Tuttavia Harris, rispetto a Biden, è più vicina a certe correnti della sinistra radicale che praticano una sorta di «estremismo umanitario»: si ricorda ad esempio che da vicepresidente lei fece una tournée africana dominata dai temi Lgbtq+. Nella sinistra radicale c’è una cultura isolazionista non meno forte che a destra, perché basata sulla convinzione che l’America nella sua politica estera abbia commesso soprattutto crimini e abusi.
Manifestazione contro la rielezione di Maduro a Valencia, in Venezuela, a fine luglio. (Keystone)
Federico Rampini
Per ora la guerra rimane circoscritta
Israele/Iran ◆ La serie di morti a distanza è nelle intenzioni dei contendenti un modo per evitare che lo scontro degeneri Lucio Caracciolo
Negli ultimi tempi Israele ha ucciso due tra i suoi principali nemici. A Beirut, nel quartiere popolare di Dahiyeh, roccaforte di Hezbollah, un missile ha colpito il 30 luglio l’edificio dove si trovava Fuad Shukr, braccio destro del capo supremo, Hassan Nasrallah. Gerusalemme ha rivendicato l’assassinio mirato. Poche ore dopo la vittima è stato nientemeno che il presunto capo politico di Hamas, Ismayl Haniyeh, centrato da un altro missile a Teheran, dove era ospite del Governo iraniano per la cerimonia di inaugurazione del nuovo presidente «riformista» Masud Pezeshkian. Nessuna rivendicazione, ma la certezza che sia stato Israele.
Subito si è scatenata la triste lotteria delle possibili rappresaglie: chi, quando, come vendicherà i due capi? E poi, quale sarà la controrisposta dello Stato ebraico? Spirale senza fine. Quindi rischio di espansione ulteriore di un conflitto in più fasi e teatri, dalla Striscia di Gaza al Mar Rosso, dal Libano al Golan, dove un paio di giorni prima un missile, che Israele attribuisce a Hezbollah, aveva ucciso dodici ragazzini drusi che giocavano a calcio. Tutto tragicamente logico e concatenato. O no?
Pensiamo di no. Può apparire un paradosso – e lo sarebbe alle nostre latitudini, non in quella regione – ma la sanguinosa litania di morti a distanza è nelle intenzioni dei contendenti un
modo per delimitare lo scontro. Per evitare che finisca totalmente fuori controllo, che sfoci quindi in scontro diretto fra i due veri contendenti per l’egemonia regionale, Israele e Iran. Una potenza atomica effettiva e un’altra virtuale. L’analisi delle intelligence israeliana e iraniana convergono su questo punto. La guerra di attrito via proxies continua e anzi si inasprisce, ma la linea rossa del duello Gerusalemme-Teheran non viene varcata. Almeno finora.
Orna Mizrahi, qualificato analista israeliano dell’Inss, il più influente think tank locale, espressione dello Stato profondo, osserva: «Dalla nostra esperienza risulta che finora l’eliminazione di dirigenti di rilievo non ha prodotto cambiamenti a livello strategico». Anzi, l’eliminazione di Shukr «è una risposta appropriata che consente a entrambe le parti di evitare una guerra più ampia, alla quale nessuno è oggi interessato». Simile l’atteggiamento finora tenuto dalla Repubblica islamica. Rappresaglie e controrappresaglie ci saranno, ma sotto la soglia della guerra aperta, diretta. Fra le reazioni iraniane, un occhio speciale dovrà essere dedicato agli huti dello Yemen, loro referente locale, che hanno già dimostrato di poter colpire dentro Israele. Certo, l’assassinio di Hanyeh, ospite a Teheran della Guida suprema, è un salto di scala. Il capo
dell’Ufficio politico di Hamas, legato ad alcune petromonarchie del Golfo, specie il Qatar, era figura troppo nota perché l’Iran possa assorbire il colpo senza reagire. Saremmo però davvero stupiti se Khamenei desse via libera alla guerra con Israele, che metterebbe a rischio il suo regime. Né l’intenzione di Netanyahu era quella di violare la linea rossa suprema, bensì di inasprire e prolungare il conflitto con Hamas. Semplicemente il premier israeliano non può permettersi che finisca. Ne va della sua libertà personale (prima o poi Netanyahu sarà processato e probabilmente condannato per malversazioni varie) ma ne va anche della stabilità di Israele (naturalmente degli ostaggi, abbandonati a se stessi, Netanyahu non si cura poi troppo).
Dallo Stato ebraico viene infatti la notizia più importante di questi giorni convulsi. Il 30 luglio alcuni estremisti di destra, fra cui parlamentari e ministri del Governo in carica, sono penetrati in due basi delle Forze armate per protestare contro l’arresto di otto soldati accusati di aver abusato di un prigioniero palestinese, sodomizzato e finito in ospedale. Uno dei diversi casi di analoghe torture cui alcuni carcerati palestinesi sarebbero sottoposti. Solo l’arrivo di rinforzi ha impedito che i manifestanti liberassero i soldati detenuti. Lo stesso capo delle Forze armate israeliane
(Idf), Herzi Halevi, è dovuto intervenire per calmare la crisi e condannare l’azione degli estremisti. Secondo lui, queste azioni «sono al limite dell’anarchia». Perfino Netanyahu è dovuto intervenire per ricordare che niente giustifica il tentativo di penetrare nelle basi militari. Ma alcuni dirigenti del Likud, il partito di «Bibi», hanno protestato contro l’iniziativa del procuratore militare di mettere sotto inchiesta gli otto soldati presunti torturatori. Quanto alla destra più estrema, il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha definito «guerrieri eroici» i militari sotto accusa, mentre Itamar Ben-Gvir, ministro per la Sicurezza nazionale, ha rincarato: «Giù le mani dai riservisti!». Drastico il commento del capo dell’opposizione, Yair Lapid: «Il Paese non è sull’orlo dell’abisso, è nell’abisso». L’intrusione violenta di parlamentari e ministri nelle due basi significa che «un pericoloso gruppo fascista minaccia l’esistenza dello Stato di Israele». Leggiamo la liquidazione di Shukr e Haniyeh anche su questo sfondo: Netanyahu non vuole sospendere la guerra esterna perché rischierebbe di scatenare la guerra civile.
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Istantanea da Teheran: iraniani con il ritratto del defunto leader politico di Hamas Haniyeh. (Keystone)
Si riapre il dossier del potere femminile
Prospettive ◆ Dagli Usa alla Gran Bretagna la scena politica si arricchisce di figure interessanti e di nuovi modelli di coppie
Cristina Marconi
First ladies, first gentlemen. È un momento in cui la scena politica si sta arricchendo di nuovi personaggi e soprattutto di un nuovo tipo di coppie. Se in America Melania Trump appare ormai disperatamente posticcia, con le sue mises impersonali e gli sguardi esasperati, l’arrivo di Kamala Harris non solo ha riaperto con ottimismo il dossier del potere femminile, ma si è anche portata dietro una figura nuova e insolita, ossia il marito-sostenitore Douglas Emhoff, che ha messo da parte il suo lavoro da un milione di dollari per seguire la carriera della moglie e che va dicendo cose normali e ancora straordinarie come questa: «Sostenere le donne in modo che possano portare avanti ruoli molto importanti è una cosa molto virile».
«Sostenere le donne in modo che possano portare avanti ruoli molto importanti è una cosa molto virile»
Nel frattempo a Londra è arrivata una nuova first lady bellissima e sorridente, che però si fa vedere poco in giro, non intende lasciare il suo lavoro e preferirebbe non dover traslocare a Downing Street, ma che al tempo stesso, in nome della sua famiglia, si infila vestiti perfetti e va a salutare le folle quando c’è bisogno, felice di essere accanto al marito Keir Starmer. E soprattutto consapevole di poter proteggere i suoi figli solo dando alla stampa, di tanto in tanto, un boccone più appetibile: se stessa.
Tutta questa armonia familiare, fatta di una grande complicità esibita, è sommamente presente anche in una coppia di tutt’altra matrice politica, uscita alla ribalta negli ultimi tempi,
ossia quella composta da J. D. Vance e da sua moglie Usha. Con i fili argentati nella capigliatura folta e scurissima, i tacchi comodi sotto il tubino impeccabile, l’avvocatessa 38enne spiccava in modo insolito nella platea di sostenitrici trumpiane, tutte curate fino all’eccesso, tra capelli cotonati, unghie laccate, trucchi teatrali e un uso molto liberale della chirurgia estetica. La moglie del più conservatore, la più «emancipata» dai diktat estetici: come interpretare questo fatto? Usha Chilukuri Vance è laureata a Yale, con un curriculum torreggiante, figlia di un ingegnere meccanico e di una biologa di origine indiana, gente motivata che ha puntato tutto sullo studio e che all’università, come il marito, ha subito l’influenza di Amy Chua, la professoressa cinese autrice del famoso Il ruggito della mamma tigre, la guru di chi crede che ai figli vada insegnato a vincere e basta. Coppia inseparabile, lui ha imparato a cucinare indiano, si mette l’abito tradizionale in certe occasioni, mentre lei, che era una democratica fino al 2014, sembra aver messo da parte le sue convinzioni. Ma com’è finita ad abbracciare una retorica anti-élite, misogina – suo marito ha definito Kamala Harris una «gattara senza figli» – e a lasciare il lavoro per concentrarsi sui figli e sulla carriera del marito?
Che il potere sia un progetto di coppia? Lei sembra animata da una tale sicurezza di sé da rappresentare comunque un nuovo tipo di donna, vedremo cosa ci riserva il futuro.
Lo stesso si potrebbe dire di Victoria Alexander, Lady Starmer, che però sembra aver deciso di non mettercela tutta per aiutare la carriera del marito: in campagna elettorale si è esposta pochissimo ed è difficile immaginarla mentre spiega quanto suo marito sia un tenerone, che guar-
da serie tv e prepara le torte, come spesso le first ladies si ritrovano a fare per umanizzare i consorti. Nel suo caso, però, less is more. Serena come appare, e per di più rappresentativa di un certo tipo di donna britannica middle class, non ha da sforzarsi molto per suscitare attenzione, ammirazione e molta curiosità. E in un’epoca di sovraesposizione, la decisione un po’ all’antica di farsi desiderare potrebbe funzionare bene, tanto più se c’è da vedersela con una stampa scandalistica feroce come quella del Regno Unito, che in passato ha già dimostrato di poter fare grandi danni quando l’interesse nei confronti di una persona si fa eccessivo. E quindi Vic, come la chiamano tutti, resta legata al suo quartiere di Kentish Town, al suo
lavoro nel servizio sanitario nazionale e alla difesa strenua del diritto dei due figli di avere un’adolescenza normale, al riparo dagli sguardi indiscreti. Della minore non si conosce neppure il nome, non esistono foto. In un mondo di oversharing non è poco.
Il Paese intanto ha trovato una sua nuova icona di stile in un momento in cui Kate Middleton sta portando avanti le sue cure. E il made in Britain ringrazia, visto che tutto quello che si mette la nuova first lady finisce sold out in poco tempo. Lei usa i vestiti senza farsi usare da loro, in modo da proiettare un’immagine colorata, giocosa e ottimista, meno ingessata di quella delle donne che l’hanno preceduta, decisamente borghese ma anche dinamica e alla mano.
L’indianità ritrovata di Kamala Harris
Il giorno dopo la vittoria del Labour ha assecondato la sua passione per le corse dei cavalli, nonostante il sapore elitario del passatempo, come a voler mettere le mani avanti: se volete criticarmi fatelo subito, io sono così e non cambierò.
La Gran Bretagna ha trovato una sua nuova icona di stile, Victoria Starmer, una first lady molto discreta
Conosce il gioco della politica da ben prima del marito, visto che era una leader del sindacato studentesco eletta con un programma moderato, convinta fin da giovane che la sinistra faccia male ad allontanarsi dalla politica mainstream, e ha fatto la volontaria per la campagna di Tony Blair negli anni Novanta, quando Keir Starmer era preso unicamente dalla sua carriera da avvocato. Sicuramente non agisce per leggerezza. Tornando negli Usa, la scelta di Joe Biden di non ricandidarsi ha aperto bruscamente la strada a un rinnovo generazionale, rinfrescante e benvenuto. Kamala Harris sembra brillare sotto una nuova luce e suo marito, che sarebbe il primo di religione ebraica alla Casa Bianca (così come Victoria Starmer è la prima a Downing Street) sta suscitando molta simpatia. Ex avvocato nel settore dello spettacolo, dal primo matrimonio ha avuto due figli che sono molto devoti a Kamala, c’è un calore particolare che circonda la nuova candidata democratica alla presidenza e che ha poco a che fare con l’immagine della gattara evocata da Vance. Sembra più la fiducia che dà il fatto di poter esibire un vero trofeo, sempre meno raro, al proprio fianco: un compagno femminista.
Stati Uniti ◆ I cittadini americani di origine indiana sono il gruppo asiatico più numeroso, ricco e istruito del Paese: i loro voti contano e la vicepresidente democratica, che punta alla Casa Bianca, lo sa
Francesca Marino
«Ma tu pensi di essere caduta da un albero di noci di cocco?». La frase, che è rapidamente diventata una specie di tormentone nei meme e nei contenuti video della campagna della neo-candidata alla presidenza degli Stati Uniti Kamala Harris, è uno dei «riferimenti strategici» al rinnovato, o meglio, al neonato amore di Kamala Devi Harris per le sue origini indiane. Il Tamil Nadu, lo Stato dell’India meridionale da cui proviene la famiglia della madre, è difatti uno dei maggiori produttori di palme da cocco dell’India e la frase è di quelle che mamme e nonne indiane adoperano volentieri. E Kamala, che si è sempre definita «donna di colore» convenientemente tralasciando le sue origini indiane a favore di «Black Lives Matter» sta difatti, negli ultimi due anni, alludendo sempre più spesso ai suoi ancestrali legami con la democrazia più grande del mondo.
Come quando lo scorso anno, durante un pranzo a Washington con Narendra Modi, ha confidato al premier indiano del suo profondo legame personale con l’India, che la candidata presidente avrebbe visitato ogni due anni da bambina e in cui però non
si reca da molti anni. Sarebbe stato il nonno di Chennai, durante lunghe passeggiate, a introdurre la piccola ai concetti di democrazia, libertà e uguaglianza, e le lezioni apprese dal nonno avrebbero ispirato in Kamala l’interesse per il servizio pubblico. Ma il ritrovato amore di Harris per la cultura e le origini materne nasconde in realtà, dicono i bene informati, una calcolata strategia politica. Secondo un censimento pubblicato lo scorso anno, difatti, i cittadini americani di origine indiana hanno recentemente superato i cittadini di origine cinese attestandosi come il gruppo asiatico non soltanto più numeroso ma più ricco e più istruito degli Stati Uniti: almeno il 10% dei fondatori di società hi-tech della Silicon Valley è indiano, come sono indiani di nascita o di seconda generazione i boss di Ibm, Alphabet-Google, Microsoft, Adobe e altre multinazionali. Nel 2021 Kamala Harris è stata la prima persona di origine indiana a ricoprire la carica di vicepresidente e le primarie del 2024 avevano in lizza due candidati indiano-americani: Nikki Haley e Vivek Ramaswamy. Ci sono inoltre cin-
que membri del Congresso di origine indiana, il cosiddetto «samosa caucus» (i samosa indiani sono dei fagottini ripieni di patate e spezie) e una quarantina di politici nelle amministrazioni locali. E negli ultimi anni i cittadini di origine indiana detengono anche, tra i gruppi di origine asiatica, il primato di affluenza alle urne. Per inciso, è indiana anche la moglie del candidato vicepresidente che corre assieme a Donald
Trump: Usha Vance che, a differenza di Harris, non ha mai glissato sulle sue origini e sul suo background culturale (vedi articolo sopra). La maggior parte degli indiani è arrivata negli Usa dopo il 1965, quando la legge sull’immigrazione era stata emendata eliminando le restrizioni che avevano per molti anni di fatto escluso asiatici e africani dal Paese. Ma il boom di migranti di origine in-
diana si è verificato soprattutto negli ultimi due decenni, quando le aziende americane del settore tecnologico hanno cominciato ad assumere un gran numero di ingegneri informatici e programmatori creando una «nuova» ondata di immigrati altamente qualificati che si sono aggiunti a coloro già presenti nel Paese per motivi di studio che, dopo la laurea, sono stati sponsorizzati dai datori di lavoro per ottenere un visto permanente e che cominciano a costituire un bacino di voti di cui tenere conto per qualunque partito politico.
Da qui, il ritrovato amore di Kamala per le origini indiane: perché, anche se tradizionalmente la comunità indiana tende a votare democratico, il risultato non è scontato. Secondo i sondaggi gli appartenenti alla diaspora indiana tendono oggi a qualificarsi come «indipendenti» e molti, delusi dalle politiche democratiche, sarebbero orientati a votare repubblicano senza lasciarsi influenzare dalla ritrovata «indianità» di Harris che in India non gode proprio di buona stampa. La corsa alla Casa Bianca d’altra parte, quella vera, è appena cominciata.
Keir e Victoria Starmer. (Keystone)
Kamala Harris e Narendra Modi a Washington nel 2023. (Keystone)
Da Jane Fonda a Pamela Reif
Il fitness è arrivato nel nostro Paese circa quarant’anni fa. Dalle fasce per la fronte a sauna e zumba: uno sguardo al passato in immagini
Testo: Pierre Wuthrich
Anni '80
Due celebrità danno il via al boom dello sport negli anni '80. Prima fra tutte Jane Fonda, che incoraggia il mondo intero a partecipare alle sue lezioni di aerobica in abiti aderenti e scaldamuscoli dai colori sgargianti. Sul grande schermo, Arnold Schwarzenegger, una vera e propria montagna di muscoli, diventa un modello per molti ragazzi che vogliono assomigliare a lui e si danno al bodybuilding. In questo periodo viene fondata Activ Fitness (vedasi riquadro informativo), che offre allenamenti cardio e della forza.
L’attrice Jane Fonda figura tra le pioniere del boom del fitness.
Anni '90
L’indoor cycling arriva in Svizzera negli anni ’90, ma inizialmente fa fatica ad affermarsi. Molti, infatti, non vedono l’utilità di pedalare al chiuso proprio nel nostro Paese, dove montagne e valli offrono un meraviglioso terreno d’allenamento. Nel corso degli anni, questa disciplina trova gradualmente il suo pubblico, ovvero appassionate e appassionati di sport che, spronati da un trainer, vogliono superare se stesse/i e partecipare a eventi di gruppo come le maratone di spinning.
All’inizio per molti andare in bicicletta sul posto e all’interno era insensato.
La zumba nasce tra la Colombia e gli Stati Uniti, arriva in Svizzera negli anni 2000 e riscuote rapidamente un grande successo, che dura tuttora. Gli esercizi coreografici, eseguiti in gruppo con in sottofondo una musica latina coinvolgente, garantiscono socievolezza e buon umore. Inoltre, la zumba fa bruciare molte calorie (circa 350 per 30 minuti). Allo stesso tempo, anche il pilates diventa sempre più popolare: le svizzere e gli svizzeri iniziano a imparare ad allenare i loro muscoli profondi e invisibili per ottenere una postura evidentemente migliore.
ATTUALITÀ
40 anni Activ Fitness
1984
Activ Fitness viene fondata nel 1984. Durante il weekend di lancio, solo tre persone vengono a testare il concetto sviluppato dal fondatore Armin Fach. Quarant’anni dopo, Activ Fitness, che fa parte della Migros dal 2007, conta più di 200’000 membri ed è leader del settore in Svizzera.
121
Ci sono 121 palestre Activ Fitness in tutte le regioni linguistiche del Paese.
140
Con i suoi dodici attrezzi sportivi, la prima palestra Activ Fitness trova posto nel magazzino di un negozio di mobili a Erlenbach (ZH). La sua superficie? Appena 140 m2, mentre le palestre più grandi oggi hanno una superficie di circa 2000 m2.
500
Ogni giorno si tengono nelle palestre oltre 500 corsi. I più popolari sono bodypump, bodytoning, zumba e pilates.
www.activfitness.ch/it/
Anni 2010
Il concetto di salute acquisisce importanza. Non ci si allena più solo per motivi estetici, ma anche per prevenire varie patologie. Pure le persone anziane iniziano a praticare l’allenamento della forza, che le mantiene in forma più a lungo e quindi indipendenti. Le sessioni di allenamento sono ora più brevi, ma più intense. È importante programmare delle pause tra l’allenamento cardio e quello della forza. Per fare il pieno di nuova energia, si ricorre sempre più alla sauna e all’hammam. Lo yoga diventa definitivamente una disciplina di massa. Le palestre si trasformano in centri benessere che le persone visitano anche per ritrovare se stesse.
Anni
2020
La pandemia da coronavirus accelera lo sviluppo di offerte di allenamento online; il fitness non è più legato a un luogo fisico. E se invece si svolge sul posto, deve trattarsi di una palestra nelle vicinanze del proprio domicilio o del luogo di lavoro. Se si va in vacanza, allora si prende parte a corsi a distanza. Le app rendono ancora più semplice frequentare le palestre. È possibile praticare facilmente un’ampia varietà di discipline sportive con diversi fornitori. Un’altra tendenza è il boom delle tecnologie volte a raccogliere dati sulle prestazioni personali. Sebbene alcuni di questi rilevamenti vengano ancora effettuati manualmente (spesso è necessario inserire gli esercizi svolti in un’app), il fitness del futuro sarà molto più interconnesso. In avvenire la raccolta e l’analisi dei dati sportivi saranno automatizzate.
Le persone anziane si allenano per restare in forma più a lungo.
Pamela Reif è una delle influencer di fitness più seguite
Serie tv che raccontano la politica
L’ultimo episodio della quarta stagione di The Boys, popolarissima serie tv prodotta da Amazon Studios e Sony Pictures Television Studios, avrebbe dovuto chiamarsi Corsa per l’assassinio. Poi, a poche ore dalla messa in onda internazionale a fine luglio, è stato diffuso un comunicato in cui si spiega che il titolo è cambiato, è diventato soltanto Episodio finale, e il motivo: «In questa ultima stagione ci sono episodi inventati di violenza politica che però potrebbero turbare qualche spettatore, soprattutto dopo i feriti e la tragica morte di un uomo avvenuti durante l’attentato all’ex presidente americano Donald Trump». Cosa succederebbe se una classe di supereroi emergesse oggi, tra spinte al profitto, influencer e potere della popolarità?
Gli autori della serie hanno quindi dovuto ribadire agli spettatori che una serie tv, basata peraltro su un fumetto, non c’entra con la realtà e che tutti si oppongono e condannano la violenza, anche politica.
In America si è parlato molto di questo comunicato, considerato di eccessiva precauzione: The Boys, infatti, attinge a piene mani per tutte e quattro le stagioni dalla politica americana e dalla polarizzazione delle
posizioni politiche odierne. La storia, ispirata a quella dei fumetti del 2006 di Garth Ennis e Darick Robertson, ruota tutta attorno a poche domande: cosa succederebbe se una classe di
supereroi emergesse oggi, nel mondo moderno, tra spinte al profitto, influencer e potere della popolarità? E come sarebbe il supereroe più potente di tutti? È proprio lui, Homelan-
der – in italiano Patriota – a rappresentare il personaggio più complesso e incredibilmente somigliante a Donald Trump. Homelander è il leader dell’élite di questi antieroi contemporanei. «È l’idolo a stelle e strisce, nichilista ed enormemente popolare dei Sette, una lega di supereroi a scopo di lucro prodotti attraverso la bioingegneria e le iniezioni di farmaci della Vought, una società fondata da uno scienziato nazista», ha scritto l’autorevole capo della critica televisiva del «New York Times», James Poniewozik. «Per il pubblico rappresenta la personificazione cesellata della virtù nazionale. Ma dietro le quinte è un bullo, un assassino, uno stupratore e, a partire dalla nuova stagione, forse l’imminente padrone dell’America». Il motivo delle scuse non richieste da parte dei produttori, infatti, riguarda il piano di Homelander che si sviluppa durante l’ultima stagione: prendersi la Casa Bianca attraverso le menzogne, la manipolazione del pubblico e omicidi mirati in un colpo di stato folle ed estremamente articolato. Nella serie, e in particolare in quest’ultima stagione appena uscita, i riferimenti al dibattito americano contemporaneo sono continui, per esempio nella scalata ai maggiori media dell’informazione (come «Fox News») e nella produzione di fake news che polarizzano l’opinione pubblica e la fanno diventare violenta. Homelander è sotto processo e tutti i suoi sostenitori lo difendono, accusando il sistema giudiziario di essere «corrotto».
Dopo l’attacco alle Torri gemelle del 2001 erano state diverse le fiction a parlare delle conseguenze dentro la società americana
A un certo punto il team dei supereroi «buoni» è accusato di essere a capo di una rete di pedofili, come nella nota teoria del complotto cosiddetta «del Pizzagate», che circola negli ambienti trumpiani e di Qanon sin dal 2016, e che – meglio della fiction – sostiene ancora oggi che diversi rappresentanti democratici siano in realtà parte di una élite globale
di pedofili e trafficanti di minori. In The Boys sono continui i rimandi a fatti realmente accaduti – come la ratifica dei risultati elettorali del 6 gennaio, che nel 2021 si è compiuta nonostante l’attacco dei manifestanti al Campidoglio americano – ed è forse anche questo il segreto del suo successo. Spiegare come può diventare lo scontro fra bene e male, se si traduce in uno scontro politico fra democratici e sostenitori di un sistema illiberale, come scrive Poniewozik. Solo che, dopo l’attentato contro Trump, agli autori deve essere sembrato tutto eccessivo, anche perché la serie è particolarmente violenta e splatter.
Non è la prima volta che una serie tv americana diventa talmente simile alla realtà da essere costretta a mettere dei confini, a spiegare al pubblico cosa sia reale e cosa no. Per esempio, dopo l’attacco alle Torri Gemelle del 2001, erano state diverse le fiction televisive a parlare delle conseguenze dentro la società americana e di chi tentava di tenerla al sicuro, come 24 e Homeland. Ma l’America di oggi è quella che fa i conti con Donald Trump, le teorie del complotto, le accuse contro il «virus della mentalità woke», una parola traducibile anche semplicemente come modernità e diritti. E sempre più spesso un certo tipo di trumpismo si sovrappone con la propaganda russa. In un popolare programma tv politico che va in onda su Rossija 1, di recente Vladimir Solovyov, conduttore considerato tra i più fidati di Vladimir Putin, ha ospitato diversi commentatori per parlare dello stato del Partito democratico americano.
L’America di oggi fa i conti con Donald Trump, le teorie del complotto, le accuse contro il «virus della mentalità woke»
A un certo punto, dopo diverse battute sull’età del presidente americano Joe Biden che aveva da poco annunciato la rinuncia alla sua ricandidatura, è intervenuto Andrey Sidorov, preside della facoltà di Relazioni internazionali all’Università statale di Mosca, che ha parlato della vicepresidente Kamala Harris con una frase che ha fatto il giro del mondo: «Kamala con il pulsante nucleare è peggio di una scimmia con una granata». Da quando si è fatta avanti l’attuale vicepresidente, in vista delle elezioni americane del prossimo novembre, la serie tv Veep, che è andata avanti dal 2012 al 2019, è tornata a essere di moda: parla di una vicepresidente incapace chiamata a correre le elezioni e del suo staff che fa i conti con la sua impreparazione. Il creatore della serie, David Mandel, ha dovuto dire chiaramente a «Vanity Fair»: «Capisco che le persone su internet non vedano l’ora di far passare la narrazione che Kamala Harris sia Selina, la protagonista del nostro show. Personalmente non lo accetto. È troppo semplicistico e non credo che sia divertente. Penso che lo stiano facendo per cercare di farla sembrare inferiore, e non mi piace». Intanto Kamala Harris avanza decisa: secondo un sondaggio dell’Associated Press, a fine luglio si era già assicurata il sostegno di un numero sufficiente di delegati democratici per
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Troppo piccoli per difendersi all’inferno
Migrazioni ◆ Le terribili storie di un ragazzino sudanese di 15 anni e un 17.enne della Guinea salvati in mare da un’Ong tedesca Angela Nocioni, foto e testo
Ha 15 anni, dal Sudan è partito da solo 5 anni fa. A 10 anni il papà gli ha messo in mano i soldi che aveva per dare a quel bambino, così sveglio, che parlava già inglese, la possibilità di cercare un futuro in Europa. Lo chiameremo W. (nella foto). Lui, di quel papà che l’ha lasciato partire verso nord, parla con la gratitudine di un adulto. È una notte di fine maggio, W. corre sul ponte della nave Humanity 1 (della Ong tedesca Sos Humanity) piena di naufraghi appena issati da gommoni alla deriva al largo di Tripoli. Lui, che fino a poco tempo prima era destinato a morte certa, ora corre, fa lo slalom tra le coperte grigie in cui sono avvolti i maschi adulti a poppa. Non ha sonno. Vuole parlare.
«Mia madre è finita in un campo profughi, l’ultima volta che sono riuscito a parlarle dalla Libia è stato 4 anni fa», dice. «La voglio andare a prendere, la voglio ritrovare, c’è qualcuno in Europa che mi può aiutare a trovarla? Voglio lavorare, mandarle soldi perché possa comprarsi l’acqua sennò lì non può bere e poi andarla a salvare. Poi insieme a lei voglio tornare in Sudan, salvare i miei fratelli, cercare il mio papà e salvare anche il Sudan. Nel frattempo io voglio lavorare in una nave che salva le persone in mezzo al mare, posso farlo? Avete visto come so tradurre in arabo dall’inglese? Serve qui un interprete non è vero?». Non sono passati nemmeno due giorni da quando W. è stato tirato su, disidratato e fradicio di combustibile e acqua di mare, dai soccorritori della Ong tedesca e lui questo chiede. Vuole lavorare.
«Sapevo che dovevo stare attento a non impazzire perché se vedono che impazzisci ti sparano o ti portano nel deserto»
L’inglese l’ha salvato nei campi libici dove è finito due volte. «Non mi hanno ucciso perché gli servivo per tradurre. I libici prendevano i prigionieri e li torturavano, poi chiamavano col telefono del prigioniero la famiglia per fargli sentire le urla, ma non sanno l’inglese e non sapevano dire nulla. Quindi gli servivo, facevo da interprete tra l’arabo e l’inglese». Questo ha visto lui. «Mi hanno messo in prigione quando mi hanno trovato in mare su un gommone. Io la seconda volta sapevo già tutto, sapevo che dovevo stare molto attento a non impazzire perché se vedono che impazzisci o ti sparano in testa oppure ti portano nel deserto e lì muori di sete. Allora io quando sentivo che non sopportavo più chiudevo gli occhi e pensavo, pensavo, pensavo così mi ricordavo che sapevo pensare e non impazzivo».
W. appena salito a bordo della Humanity 1 non ha capito subito che era salvo. S’è proposto subito di tradurre dall’arabo all’inglese, e mentre studiava la situazione si è preoccupato di far vedere cosa sapeva fare. «Al mondo le persone sono tanto diverse. Vedi le dita di questa mano?», domanda. Apre la mano e la mette sotto la luce arancione della lampada riscaldante accesa a poppa. «Le persone sono tutte diverse come le dita della mano, i libici quando ci hanno preso in mare ci hanno imprigionato, menato, mi davano un dito d’acqua sporca e poi ci tiravano un piatto per tutti. Io che sono più piccolo non mangiavo quasi mai. Voi mi avete dato subito tanta acqua, tutto il tè nero con lo zucchero che voglio, mi fate da
mangiare tre volte al giorno sui piatti puliti per tutti, mi avete dato questa tuta nuova, siete diversi». Provo a dire che quelli erano carcerieri e noi persone che lo hanno soccorso per aiutarlo. Mi interrompe: «Sì, io la differenza ora l’ho capita, ma che ne sapevo all’inizio chi eravate voi?».
Del Sudan non vuole raccontare.
Si capisce soltanto che la sua famiglia non era poverissima, probabilmente borghese, che anche i suoi parlano altre lingue oltre l’arabo e che nella città dove viveva erano molto temuti degli uomini che non si potevano nemmeno nominare e allora lui e i suoi amici
per riferirsi a loro, considerandoli forti, troppo forti, imbattibili, li chiamavano l’Arsenal, come la squadra di calcio. Seduto dietro W. c’è un ragazzo di 17 anni, non del Sudan, della Guinea. Fino a dieci giorni fa non sapeva cos’è il mare. Non l’aveva mai visto. Non sa cos’è l’Europa, non voleva nemmeno partire. Anche lui è solo. Non ha nessuno in Africa, non ha nessuno in Europa. L’unica persona che nomina è un ragazzino, anche lui minorenne, che stava accanto a lui nella barca alla deriva e che parla inglese.
Ci chiudiamo nella clinica di bordo: c’è lui con un asciugamano avvolto
Guerra, carestia e disperazione
Trascorso oltre un anno dall’inizio del conflitto in Sudan tra le Forze armate sudanesi e le Forze di supporto rapido, un gruppo paramilitare, la risposta della comunità internazionale continua a essere tristemente inadeguata nonostante il numero delle vittime civili sia in aumento in tutto il Paese. È quanto hanno dichiarato qualche mese fa Amnesty International, Sudan Democracy First Group e International Film Festival. «I combattimenti si stanno intensificando in tutto il Sudan. Sono stati uccisi oltre 14’700 civili, tanto in attacchi mirati quanto in bombardamenti indiscriminati (dati di aprile 2024)». Secondo Medici senza frontiere, il Paese sta affrontando una drammatica crisi umanitaria, con oltre
8,4 milioni di persone, circa il 16% della popolazione tra cui 2 milioni di bambini sotto i 5 anni, costretti a fuggire dentro il Paese oppure oltre frontiera, ed è sull’orlo di una carestia di massa. Anche in Guinea la situazione politica è instabile e a volte tesa – dice il nostro Dipartimentimento federale degli affari esteri. «Il 30 novembre e il 1° dicembre 2023, ci sono stati scontri armati nella capitale Bissau, che hanno causato vittime e feriti. In passato, il Paese è stato ripetutamente teatro di colpi di Stato e tentativi di rovesciamento del regime sanguinosi e incruenti. L’ultimo tentativo di colpo di Stato ha avuto luogo il 1° febbraio 2022». Gli sviluppi futuri sono incerti. / Red.
in testa che ogni tanto lascia scendere a coprirgli le lacrime e il suo amico con un tè caldo che nessuno berrà. I due ragazzi si siedono su una barella rigida al centro della stanza bianca, noi davanti a loro. Lui parla sempre a voce bassa, guarda solo gli occhi del ragazzino che traduce o le ciabatte ai suoi piedi. Solo alla fine, quando apriremo la porta di ferro per uscire sul ponte, alzerà gli occhi portandosi le mani sul cuore senza sorridere.
Morti i genitori in Guinea, sono rimasti lui, la sorellina e l’ultima nata di pochi mesi. Da soli. «Witches». Colpiti da una stregoneria, considerati tali perché orfani, perseguitati. L’unica via d’uscita era scappare. Scappano. Lui non sa quanti anni avesse, forse 6, forse meno, dice che nel cammino un ragazzo grande si innamora di sua sorella, si chiama Boubakar e parla bambara, è del Mali, le chiede di accompagnarlo in Libia, di andare lì insieme a vivere. Lei accetta, a condizione che vengano anche i fratelli. Boubakar dice di sì. Di quel lungo viaggio a piedi lui ricorda solo che la bambina piccola nel deserto è morta, che la sorella l’aveva in braccio, che non sapeva come allattarla. Lasciarla, «bisognava lasciarla e continuare a camminare».
La sua voce fa continue retromarce, moltiplica le pause, come se non volesse arrivare alla fine, come se avesse paura di arrivarci. Paura di sentirlo arrivare alla frase che uccide, ce ne saranno almeno dieci in un’ora di racconto, una discesa lenta in un dolore senza fine. Vengono presi e portati in un campo di ribelli in Algeria. Por-
tano via la sorella, dall’altra parte del campo. Lui la sente strillare, la sente gridare aiuto. Boubakar e lui sono prigionieri. «He said he was a child, so young, too young», a ogni frase il suo amico che traduce premette sempre queste parole: «Lui dice che era troppo piccolo». Lui la sentiva strillare, la voleva aiutare, «non poteva difenderla perché lui era così piccolo». Abbassa la testa, non vuole bere, non vuole fermarsi, vuole dire cos’è successo dopo. Racconta che rilasciano la sorella, che lei gli corre incontro, lui la vede e corre da lei «e quando l’abbraccia è pieno di sangue, non sa se è suo o della sorella, erano così piccoli». Li lasciano andare. Tutti e tre, lui, sua sorella e Boubakar. Lei muore. «Dice che non ci credeva che era morta, diceva che pensava che dormiva, ma gli occhi erano aperti». Lui e Boubakar arrivano insieme in Libia. Boubakar sa dipingere. Lavorano insieme come imbianchini. Dice che Boubakar lo portava con sé, lui gli stava accanto e gli apriva e chiudeva i barattoli della vernice. Quanti anni avevi quando sei arrivato in Libia? Lui non lo sa, forse 9, forse meno. «He grew up in Libya». È cresciuto lì. Con Boubakar che gli dava soldi da mettere da parte. Lui sapeva dove Boubakar nascondeva i suoi. Un giorno l’amico non torna. Lui aspetta, una notte, due notti. Chiede aiuto ad altri neri. Boubakar è stato preso ed è in carcere. Gli dicono quale. Chiede che qualcuno lo accompagni lì. Gli mostrano i fucili. Poi uno gli dice di portare soldi, che se li porta liberano il suo amico. Lui va a prenderli. Boubakar non tornerà mai. Gli dicono che è morto. Lui non sa dove andare. Rimane dov’è. Passano mesi, continua a imbiancare pareti. I soldi che guadagna li fa custodire a un negoziante sotto casa. Parla con una voce sempre più bassa. Le parole escono con impeto, come se gli bruciassero dentro. «Il negoziante muore e il fratello di lui gli ruba tutti i risparmi. Quando glieli chiede indietro mostra una pistola e dice: sei nero, se me li richiedi ti ammazzo, vattene». Un libico che viveva lì accanto gli fa una proposta: vieni da me e mi finisci questo lavoro, se lo fai bene ti faccio un regalo. Lui va e gli imbianca tutte le pareti. Il libico una sera gli dice: domani parti per l’Europa. Lo porta di notte vicino a una spiaggia, lo lascia dentro lo stanzone con altri e se ne va. Quando li fanno uscire per imbarcarli sul gommone lui torna indietro, in fondo alla fila, ha paura del mare, non l’ha mai vista tanta acqua, non vuole andare. «S’è seduto in mezzo, è sempre stato a testa bassa per non guardare». Quando in mezzo alle onde ha visto tutti piangere e gridare perché il motore era rotto dice che era sicuro di morire. «Poi quando è comparso un gommone e tutti dicevano “aiuto”, “la guardia libica”, lui ha sollevato gli gli occhi, ha visto quello grande con la grande barba e ha pensato che era Boubakar, che non era morto ed era venuto a prenderlo». Forse era Rocco Aiello, il capomissione della Humanity 1, in piedi sul gommone di salvataggio. È l’ultima sera prima dell’arrivo. Tutti stanno bevendo tè caldo, i ragazzini ballano. Lui no. È seduto su una panca, spalle al mare. Guarda serio, fa un cenno di saluto senza sorridere. È a ragazzi come lui che noi chiediamo di comportarsi nelle nostre città come ospiti discreti molto ben educati, di stanziarsi possibilmente lontano dalle nostre case, di parlare negli autobus solo a bassa voce. Per non disturbarci.
Aperitivo italiano
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Mozzarelline
Alfredo Classico o Migros Bio, per es. Alfredo Classico, 2 x 160 g, 4.– invece di 5.–, (100 g = 1.25)
3.30 Pomodori con erbe mediterranee Da Emilio, essiccati
125 g, (100 g = 2.64)
a partire da 2 pezzi 30%
Tutte le olive e tutti gli antipasti e gli hummus, Anna's Best per es. olive Diabolo, 150 g, 3.15 invece di 4.50, (100 g = 2.10)
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1.65
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Crodino 6 x 175 ml, (100 ml = 1.04)
GUSTO
Grissini
Tutt’altro che mediocri
Spesso per l’aperitivo i grissini vengono relegati in secondo piano. Con queste tre idee li trasformi in vere star
Testo: Dinah Leuenberger
Dip dip, hurrà! Servi con i grissini qualche dip insolito. Per esempio un vacherin Mont-d’Or cotto in precedenza nel forno.
Grissini al sambal oelek
Con la pasta per pizza, il sambal oelek e i crauti si possono preparare ottimi grissini. Perfetti da servire con una salsina di quark alle erbe.
Per un sapore più esotico, prova un dip a base di arachidi e coriandolo.
1
Prepara i grissini in casa e affina l’impasto.
Grissini alle cipolle
(Aperitivo per 4 persone)
2 paste per tarte flambée da 200 g 1 cucchiaio d’olio d´oliva 50 g di cipolle arrostite in vasetto
Scaldate il forno statico a 180 °C. Accomodate una sfoglia in una teglia foderata con carta da forno. Spennellate d’olio e distribuite le cipolle sulla pasta. Accomodate la seconda sfoglia sulla prima e schiacciate leggermente. Con un coltello affilato, ritagliate delle strisce di ca. 1 cm di larghezza per il lungo. Afferrate le due estremità di una striscia e torcete un paio di volte. Cuocete al centro del forno per 10-15 minuti.
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Rivesti i grissini con ingredienti deliziosi. Per esempio con provolone e prosciutto crudo. Sono insuperabili anche spalmati con ricotta montata, pistacchi tritati e mortadella. Buonissimi!
Grissini con provolone e crudo
Uno snack perfetto per l’aperitivo
Prodotti
Grissini Da Emilio 200 g, Fr. 4.95
Grissini al rosmarino Da Emilio
CULTURA
Al via il Film Festival di Locarno
Mercoledi 7 agosto si inaugura l’attesa 77esima edizione della kermesse, la prima che vede la nuova presidenza di Maja Hoffmann
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Un inedito Raphaël Brunschwig Il Managing Director del Locarno Film Festival in un’intervista si racconta e spiega come cambia la manifestazione nel dopo Solari
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Il fascino del deserto
Intervista al regista ginevrino Alexander O. Philippe che racconta ad Azione la sua passione per il genere western
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La rivoluzione leggiadra di Alexander Calder
Mostre ◆ Al grande scultore americano il Museo d’Arte della Svizzera italiana dedica un’imperdibile monografica
Alessia Brughera
L’arte di Alexander Calder costituisce uno degli esempi di maggior interesse di una vena innovatrice, libera e fantasiosa, capace di dar vita a creazioni che ancora oggi, a distanza di novant’anni da quando hanno visto la luce, rimangono tra le testimonianze più singolari in ambito scultoreo. Figura tra le più significative del secolo scorso, Calder, nato in Pennsylvania nel 1898, ha sovvertito il modo di percepire la scultura. Davvero profondo, difatti, è stato l’impatto che ha avuto sullo sviluppo del linguaggio plastico, tanto da essere considerato il «padre» di molte delle ricerche artistiche moderne e contemporanee.
Cosa è stato a rendere così rivoluzionarie le sue opere? Rispondiamo a questa domanda con un’altra domanda, quella che Calder si è posto negli anni Trenta del Novecento ragionando sulle potenzialità ancora inesplorate della scultura: «Perché non mettere in movimento le forme plastiche? Non mi riferisco a un semplice moto traslatore o rotatorio, ma a vari movimenti di natura, velocità ed estensione diverse combinati in modo da ottenere un insieme conseguente. Così come si possono comporre i colori e le forme, allo stesso modo si possono comporre i movimenti». Semplice e geniale. È così che introducendo il dinamismo in una forma d’arte statica come la scultura, Calder ne ha oltrepassato i confini tradizionali, ampliandola e aprendola alla dimensione temporale. «Se è vero che la scultura deve scolpire il movimento nell’immobilità, sarebbe sbagliato apparentare l’arte di Calder a quella dello scultore. Egli non suggerisce il movimento, lo capta», scriveva Jean-Paul Sartre. E continuava: «Grazie a materie inconsistenti e vili costruisce strane combinazioni. Sono risonatori, trappole, pendono all’estremità di uno spago come un ragno al termine del suo filo oppure si rannicchiano su un piedistallo, senza vita, ripiegati su sé stessi, falsamente addormentati; un soffio d’aria vagabondo vi rimane imprigionato, subito li anima, essi lo canalizzano e gli danno una forma fuggevole: un Mobile è nato». Sono proprio le sue sculture cinetiche chiamate mobiles, termine coniato da Marcel Duchamp, a incarnare questa rivoluzione. Si tratta di manufatti leggeri e colorati, dall’equilibrio calibratissimo, che instaurano un dialogo inedito con l’aria sfruttando gli effetti ambientali dell’atmosfera di cui rivelano il movimento. Queste creazioni, realizzate con i materiali più disparati, dal metallo alla corda al legno, sono allo stesso tempo invenzioni liriche e composizioni tecniche, quasi matematiche, i cui elementi sospesi e astratti si muovono e si bilanciano in un’armonia mutevo-
le. Leggiadri, ludici e ironici, i mobiles di Calder sono appesi in modo che il minimo spostamento di una parte provochi il moto delle altre, in una sorta di reazione a catena. Attivate anche dal più piccolo alito di vento, le loro movenze non sono mai caotiche ma sempre delicate e fluide. Calder approda a questi lavori attraverso un percorso che incomincia sin dalla sua giovane età, nato com’è in una famiglia di celebri artisti. Gli studi di ingegneria segnano in maniera indelebile il suo modus operandi, sebbene dopo la laurea lo stesso Calder affermi che questa disciplina non gli avrebbe mai permesso «di giocare abbastanza con l’ingegno». Da qui la scelta di diventare uno scultore. Nel 1926 arriva a Parigi, dove frequenta l’Académie de la Grande Chaumière. In questi anni è il Surrealismo ad avere un’influenza molto forte sugli artisti, gettando le basi di una nuova visione. Nel periodo parigino Calder stringe amicizia con Jean Arp, Marcel Duchamp, Fernand Léger e Joan Miró e inizia a creare il suo emblematico Cirque Calder, un’opera-spettacolo in miniatura, di ispirazione circense, composta da piccole sculture in movimento realizzate con filo metallico, spago, legno, stracci e cuoio. Una sorta di prologo dell’arte cinetica a cui avrebbe dato vita negli anni seguenti. Non è difficile per Calder conquistare così la stima del sofisticato mon-
do parigino con la sua spontaneità e il suo umorismo, qualità già tanto care a dadaisti e surrealisti. L’incontro poi con Piet Mondrian, nel 1930, è per lui fondamentale, una vera e propria folgorazione che lo porta ad aprirsi all’astrazione. Sono i molteplici esperimenti per sviluppare la scultura astratta ispirata dalle opere neoplastiche di Mondrian a condurlo infatti alle prime vere creazioni in movimento, azionate inizialmente per mezzo di manovelle e pulegge. Alla fine del 1931 prendono vita i più delicati lavori capaci di oscillare da sé grazie alle correnti d’aria, esposti l’anno seguente alla Galerie Vignon e ribattezzati appunto mobiles, per rimarcarne le proprietà cinetiche e l’irriducibilità a una forma precisa.
La mostra ospitata al Museo d’arte della Svizzera italiana, nella sede del LAC, omaggia il grande scultore americano presentando la più completa monografica a lui dedicata da un’istituzione pubblica elvetica nell’ultimo mezzo secolo. La rassegna è davvero di grande impatto, complice la scelta di allestire le opere in un ampio spazio senza pareti, così da regalare al visitatore una suggestiva panoramica delle creazioni esposte.
I lavori radunati a Lugano provengono da importanti collezioni pubbliche e private internazionali nonché dalla Calder Foundation di New York e documentano la produzione dell’ar-
tista dal 1931 al 1960, partendo cioè dalle sue prime astrazioni o sphériques per arrivare ai mobiles, agli stabiles, agli standing mobiles e alle constellations. In tutto sono più di trenta opere che le curatrici Carmen Giménez, esperta mondiale di Calder, e Ana Mingot Comenge hanno selezionato come significative per documentare le tappe di un percorso segnato dalla sperimentazione pionieristica e da un approccio all’arte fantasioso e giocoso. Tra le prime sculture che testimoniano l’adesione di Calder all’astrazione, lavori che lo stesso artista descrive come densités, sphériques, arcs e mouvements arrêtés, troviamo Croisière, del 1931, in cui i volumi curvilinei sono delineati da sottili fili metallici. Ecco poi alcuni dei suoi mobiles, capaci di afferrare e plasmare il movimento generato dal nostro, seppur delicato, passaggio accanto a loro. Eucalyptus ne è uno dei più noti e importanti (presentato per la prima volta al pubblico nel 1940 alla Pierre Matisse Gallery di New York) nonché tra i più rappresentativi della capacità dell’artista di ottenere quel senso di aerea leggerezza e insieme di potenza. Arc of Petals, dell’anno seguente, è un altro esempio di questi organismi metallici dalle forme quasi impalpabili che vivono a metà strada tra fragilità e solidità e che ammaliano per la loro sofisticata armonia.
Nella rassegna luganese sono presenti anche alcuni stabiles di Calder, come Funghi Neri, del 1957, opere il cui nome è stato coniato da Jean Arp per definirne la natura non cinetica, e una scelta di constellations, chiamate così da Marcel Duchamp e James Johnson Sweeney, sculture appese alla parete ad altezze inusuali realizzate negli anni Quaranta con fili metallici e legno poiché in quel periodo di guerra era difficile per l’artista reperire lastre di metallo.
Osservando i lavori di Calder ci piace appropriarci ancora delle parole di Sartre per descrivere le sensazioni provate: «Non si tratta di darvi un’occhiata superficiale; è necessario instaurare un rapporto e lasciare che il fascino faccia effetto. Allora l’immaginazione si compiace di queste forme pure che si scambiano, libere e regolate al tempo stesso. I movimenti delle opere mirano unicamente a piacere, a incantare i nostri occhi, eppure hanno un senso profondo e quasi metafisico».
Dove e quando Calder. Sculpting Time. Museo d’arte della Svizzera italiana – LAC Lugano. Fino al 6 ottobre 2024. Orari: ma-me-ve 11.00-18.00; gio 11.00-20.00; sa-do e festivi 10.00-18.00. www.masilugano.ch
Festival ◆ Uno sguardo critico sulla manifestazione che parte mercoledi
Nicola Mazzi
Diciamo la verità: dalla nuova presidentessa Maja Hoffmann tutti si aspettano un salto di qualità per la rassegna locarnese, perché – come si è spesso ripetuto – «ha molte conoscenze». Normale che noi, come il pubblico, ci attendavamo qualche grossa novità da questo primo anno del «suo» festival, soprattutto per la Piazza Grande. Magari star internazionali che arrivavano direttamente da Hollywood con il jet privato e qualche blockbuster proiettato davanti a 8mila persone. Ma probabilmente il cambio di passo è meno visibile e si manifesterà con calma. Giusto dare tempo al tempo. Il tappeto rosso sarà meno illuminato dai flash di quanto ci si aspettava. Del resto, non siamo né Venezia né tantomeno Cannes e neppure Berlino. Vero, ma lo star system fa parte del cinema, sin dai suoi primi anni, e anche a Locarno è un presupposto importante, o dovrebbe esserlo, della rassegna. Perciò attendiamo fiduciosi.
Anche perché, Jane Campion a parte, oltre all’assenza di star hollywoodiane, mancano quelle italiane. Salvo Luca Marinelli, che farà parte della giuria del concorso principale. Giusto però osservare che qualche personaggio di alto livello arriverà. A cominciare dal regista messicano premio Oscar Alfonso Cuarón e dalla regista neozelandese (anch’essa premiata con l’Oscar) Jane Campion, appunto. La manifestazione punta anche molto su Shah Rukh Khan (SRK), la star bollywoodiana più conosciuta in India. Per cui se da una parte potrà far arrivare parecchi turisti di quel Paese, dall’altra c’è il rischio che non siano molti gli svizzeri a far la fila per un selfie.
Ben rappresentata invece la compagine francese con l’arrivo, tra gli altri, di Irène Jacob, Mélanie Laurent e Guillaume Canet.
E allora per cosa si caratterizza
l’attuale edizione? Due tendenze sono state anticipate dal direttore Giona A. Nazzaro, durante la presentazione. Da un lato si è voluto riconoscere la vitalità del cinema svizzero, d’altro lato, il festival – come già successo negli ultimi anni sotto la sua direzione –continuerà a premiare i tecnici che nel cinema sono fondamentali. Ne consegue che, in Piazza Grande, saranno proiettate ben quattro opere nazionali, tra cui Reinas della ticinese Klaudia Reynicke e Sauvages, l’ultima animazione del vallesano Claude Barras che era stata presentata in anteprima a Cannes. Forse un record. Mentre sul fronte tecnico, quest’anno approderanno sulle rive del Verbano Stacy Sher (produttrice di Pulp Fiction) e il sound designer montatore e voice actor Ben Burtt, che lavorò su Guerre stellari e Indiana Jones
Fatte queste premesse, occorre comunque elogiare il programma messo in piedi dal direttore e dalla sua squadra. Il concorso principale vedrà la partecipazione di vecchie conoscenze come Wang Bing e Hong Sangsoo. Ma anche alcuni esordi che bisognerà scoprire come Salve Maria della spagnola Mar Crol, che ci parla di infanticidio, o ancora Sulla terra leggeri dell’italiana Sara Fgaier, che mostra la storia di una figlia non riconosciuta da un padre colpito da amnesia. C’è però anche molta attesa per i registi svizzeri Ramon e Silvan Zürcher che presentano il loro ultimo film sulle tensioni familiari.
Piuttosto accattivanti i titoli presentati fuori concorso. A cominciare da Marco Tullio Giordana (regista dell’acclamato La meglio gioventù), che arriva con il suo ultimo film: La vita accanto su una sceneggiatura di Marco Bellocchio. Un’opera ambientata tra gli anni Ottanta e il Duemila nella quale si raccontano le vicende di una influente famiglia vicentina sconvolta da un evento imprevedibi-
Ritratto di signora
Festival/2 ◆ Il Pardo d’onore a Jane Campion
Nicola Falcinella
le. Così come intriga il primo lavoro (Rita) dietro la macchina da presa della nota attrice Paz Vega (già musa di Pedro Almodóvar).
Resta molto interessante la retrospettiva di Locarno. Uno dei veri fiori all’occhiello della manifestazione e riconosciuta a livello internazionale come tra le migliori al mondo. Quest’anno sarà dedicata ai 100 anni della Columbia Pictures, una delle case di produzione più importanti. Saranno trasmessi al Gran Rex film di registi di genere meno noti come Max Nosseck, Seymour Friedman o William A. Seiter, e opere di autori più conosciuti come Howard Hawks, Frank Borzage, Fritz Lang e John Ford. Senza ovviamente dimenticare star come Rita Hayworth, Jean Arthur, Orson Wells, Rosalind Russell, Cary Grant, Boris Karloff e Richard Burton.
Concludiamo con un’altra annotazione che dovrebbe far riflettere. Il Locarno Film Festival è la più grande manifestazione culturale che si svolge nella Svizzera italiana. Eppure, la lingua italiana sembra, sempre più, accantonata. Lo abbiamo osservato nella conferenza stampa di presentazione del programma (svolta a Zurigo) e fatta in tedesco con traduzione simultanea in italiano (certo, il pomeriggio si è tenuta anche a Bellinzona, ma le carte erano già svelate). L’assenza dell’italiano si nota anche nei film proiettati in Piazza Grande dove i sottotitoli sono in inglese, tedesco o francese. Ricordiamo che il credito quadro votato dal Gran Consiglio ticinese nel 2020 (per il periodo 2021-2025) era stato aumentato da 2,8 a 3,4 milioni di franchi annuali, senza contare i sussidi dai vari Comuni e dagli enti turistici. Ben presto sarà perciò discusso il nuovo contributo pubblico cantonale. Forse, in quell’occasione la politica potrebbe chiedere una maggiore considerazione della lingua italiana.
Si racconta che negli anni 80 Jane Campion, regista emergente che aveva girato alcuni cortometraggi, come Peel vincitore della Palma d’oro a Cannes 1986, avesse visto a teatro una giovanissima Nicole Kidman restandone colpita tanto da mandarle un biglietto di incoraggiamento. L’attrice australiana sarebbe diventata in fretta la star che conosciamo e la regista neozelandese l’avrebbe chiamata qualche anno dopo per il ruolo da protagonista di Ritratto di signora (1996). La pellicola tratta dal romanzo di Henry James avrebbe dovuto costituire il passo della conferma per Campion, reduce dal successo planetario di Lezioni di piano, che l’aveva fatta diventare la prima donna a vincere la Palma d’oro a Cannes e la seconda, dopo Lina Wertmüller, a guadagnarsi la nomination quale migliore regista all’Oscar. Il film fu però accolto tiepidamente da pubblico e critica e diede avvio a una fase di alti e bassi della sua carriera. Jane Campion, che venerdì 16 sul palco della Piazza Grande di Locarno ritirerà il Pardo d’onore (la quarta donna dopo Kira Muratova, Agnès Varda e Kelly Reichardt), non può essere limitata né ai primati né al suo film più famoso, ancora affascinante, che sarà proiettato in seconda serata dopo la premiazione.
Figlia di un’attrice e un regista teatrale, studi in antropologia e belle arti a Sydney, la giovane inizia presto a girare cortometraggi e faticosamente riesce a entrare alla televisione australiana, dove realizza il primo lungometraggio, Le due amiche. L’esordio sul grande schermo arriva con Sweetie (1989), un dramma familiare presentato in concorso a Cannes, facendosi notare per i contenuti espliciti e provocatori e pure uno stile e una voce decisamente originali.
Già si delineano elementi ricorrenti del suo cinema: la malattia mentale, la disabilità, i corpi che sfuggono ai canoni consueti, le figure femminili insolite. Ancora più dirompente è Un angelo alla mia tavola (1990), vicenda biografica della poetessa sua compatriota Janet Frame, questo presentato alla Mostra di Venezia ottenendo il premio speciale della giuria e altri riconoscimenti, come il premio Elvira Notari intitolato alla napoletana pioniera del cinema italiano. Cresciuta in una famiglia povera, numerosa e segnata da diverse tragedie (le morti delle sorelle), Janet è riccia e rossa di capelli, piena di vita e sogna di fare l’insegnante finché a scuola scopre la poesia. Dopo una crisi, non più ritenuta adatta all’insegnamento, ricoverata in ospedale psichiatrico e sottoposta ad elettrochoc, riesce a evitare la lobotomia solo perché un suo libro pubblicato nel frattempo ha vinto un importante premio letterario. La scrittrice si troverà costretta a viaggiare in Europa per sfuggire alle convenzioni sociali e all’atmosfera opprimente, altra costante del cinema di
Campion. Lezioni di piano (1993) comincia da dove era finito il film precedente: Ada, musicista muta con una figlia, sbarca in Nuova Zelanda (indimenticabili le scene dei bagagli sulla battigia con la marea che sale e, ovviamente, il pianoforte sulla spiaggia) per sposare un uomo che non conosce, mentre Frame tornava in patria per provare a ricominciare. Lezioni di piano, arricchito dalla magnetica interpretazione di Holly Hunter e dalla presenza insieme selvaggia e gentile di Harvey Keitel, oltre che dalle musiche di Michael Nyman che hanno fatto scuola, è ormai un classico del melodramma e del triangolo amoroso: pur ambientato oltre un secolo fa è molto moderno e sofisticato nella realizzazione.
Altro dramma in costume è Ritratto di signora, elegante tanto da sembrare calligrafico, ma potente con la mano della Campion che, come le sue protagoniste ribelli e incapaci di stare dentro schemi imposti da altri, sa strappare i veli e i drappi al momento giusto: non ingannino l’attenzione nella ricostruzione e la cura formale.
I successivi Holy Smoke (1999) e In The Cut (2003), possono essere considerati insieme, sebbene molto diversi, per i risultati insoddisfacenti che indurranno la regista a diradare gli impegni. A riportarla al successo sarà Bright Star (2009) incentrato sulla vicenda del poeta romantico John Keats e il suo amore con Fanny Brawne. Un film elegante e sottilmente tormentato e nervoso, mai rassicurante che ne conferma la capacità di affrontare artisti non convenzionali e di parlare di poesia al cinema senza banalizzarla. Dopo una parentesi tv con la serie Top of the Lake, la neozelandese torna al cinema con Power of the Dog e ai premi importanti: miglior regista alla Mostra di Venezia e nomination all’Oscar. Un western crepuscolare ambientato nel Montana del 1925, che mette in discussione i ruoli maschili, parla di omosessualità e porta un pianoforte nel ranch, perché tutti i film di Jane Campion sono legati tra loro da fili plurimi che la rendono cineasta ancora più complessa e interessante, oltre che virtuosa, di quanto possano far pensare presi singolarmente.
Film Festival ◆ Raphaël Brunschwig spiega le nuove prospettive in armonia con le antiche energie «spirituali» di Locarno
Natascha Fioretti
Per fare certe cose devi avere i piedi saldamente appoggiati alle nuvole. Classe 1984, nato in Ticino da genitori svizzerotedeschi, arrivato al Locarno Film Festival nel 2013 per diventarne il Managing Director nel 2017, Raphaël Brunschwig (nella foto) in un’intervista apparsa su «Bilanz» è stato definito da Marco Solari «un leader lungimirante capace di tocchi di grandezza» che unisce in sè «le virtù del nord, dell’Europa centrale e del sud come pochi altri manager». Sorridente, accogliente, umile nel parlare di sè, pieno di elogi per le persone con le quali collabora, nel dopo Solari, Raphaël Brunschwig è sicuramente uno dei volti che meglio rappresentano il Festival in Ticino e oltre San Gottardo. Non solo, Brunschwig ha un altro atout ed è quello di conoscere bene il territorio nel quale vive e si muove. Diversi infatti, oltre a quello del Festival, i «cappelli» che indossa: presidente degli Eventi letterari Monte Verità, co-presidente di Swiss Top Events e membro del Consiglio della Fondazione Eranos. Non stupisce dunque che nel nostro incontro – prima di addentrarci nella nuova edizione festivaliera alle porte – siamo partiti dalla Locarno spirituale e mistica grazie all’articolo che Brunschiwg ha firmato qualche tempo fa sulla «Neue Zürcher Zeitung» in cui – tra le altre cose – parla di un Ticino che ha perso la sua anima più irrazionale e ne citiamo un passaggio: «Sono fermamente convinto che esista un’anima ticinese tanto diversa da quella italiana quanto da quella svizzero-tedesca. Penso al concetto di “anima” nel senso di C. G. Jung. Nel gergo della psicologia, questa parola descrive la capacità individuale o collettiva di entrare in contatto con dimensioni che sfuggono al pensiero logico». Con noi, invece, parla del libro di Károly Kerényi Dioniso. Archetipo della Vita indistruttibile – che, guarda caso, nell’edizione adelphiana riporta in copertina un antico mosaico raffigurante Dioniso a cavallo di un ghepardo, che molto ricorda il leopardo del Festival – e della mostra che questa settimana si inaugura al Museo Casa Rusca e cioè la retrospettiva dedicata a Olga Fröbe-Kapteyn (1881-1962), artista, mistica, attivista e fondatrice del centro Eranos. «Le cose più profonde della vita umana», avrebbe detto, «possono essere espresse solo visivamente (…)». E questo in un balzo leopardesco ci porta alla forza e alla poesia del Festival perché – come ci ricorda il sito citando Sergei Eisenstein – «il cinema è immagini che creano sentimenti che creano idee».
Il suo libro sul comodino? Dioniso di Kerényi, una lettura ispiratami dalla mostra Geranos di Riccardo Arena che c’è stata qualche tempo fa all’Elisarion.
Qui nel Locarnese si resta sempre collegati a queste antenne un po’ esoteriche…
Esoterico è una parola brutta, nel senso di distonica…
Ma no, è bella!
Sì, ma nell’accezione comune spesso assume una connotazione negativa, troppo facile.
Quanto sente queste energie qui a Locarno?
È innegabile che le cose successe a Locarno negli ultimi cento anni sono fuori dall’ordinario. In questi luoghi c’è stata una concentrazione di cercatori dell’essenziale che hanno prodotto storie eccezionali. Era proprio Kerényi che del Locarnese diceva: «È la perla più a nord del Mediterraneo».
Raphaël Brunschwig lei si sente un cercatore dell’essenziale?
Bisogna distinguere tra la funzione e l’individuo, anche se è innegabilmente bello quando le cose trovano un’unione sintonica. Io sono al servizio di una missione culturale e in questa veste è irrilevante quello che penso io. Nel senso invece di un hero’s journey, dell’eroe che si imbarca in un’avventura, dove il pubblico è protagonista, possiamo rispondere alla domanda chiave: a cosa serve il Festival? A capire chi siamo, è la mia risposta. Ed è l’esperienza a determinare chi siamo in relazione a ciò che viviamo e vediamo per poi discuterne, confrontarci secondo quelli che sono i nostri parametri anche esistenziali. Un luogo generativo come il Festival di Locarno mette in campo così tante storie con un’intensità talmente straordinaria che se fruito con apertura, curiosità e intelligenza può essere un elemento di questa ricerca dell’essenziale, pur essendo inevitabilmente rumoroso e con tutta l’estroversione che lo caratterizza.
Locarno Film Festival
La 77esima edizione del Locarno Film Festival si terrà dal 7 al 17 agosto 2024.
Martedi 6 agosto c’è la serata di Prefestival con la prima di Fiore mio (2024), il nuovo documentario dello scrittore Paolo Cognetti proiettato alle 21.15 in Piazza Grande. Come ormai da tradizione, nella prima giornata del Festival il 7 agosto al Palexpo (FEVI) alle 15.30 verrà proiettato il capolavoro del cinema muto – The Crowd (1928) di King Vidor – con musiche dal vivo esegui -
Questo dal punto di vista istituzionale. Nel privato invece? Raphaël nel privato è un eremita probabilmente, un eremita mancato, un aspirante eremita fallito miseramente su tutta la linea (ride).
Dicevamo, in apertura, dei tanti cappelli che indossa, il Festival naturalmente è quello principale ma ci sono anche la Fondazione Eranos, gli Eventi letterari Monte Verità e gli Swiss top events… Swiss Top Events è un bellissimo costrutto che posiziona la Svizzera nel mondo con delle eccellenze che vanno al di là dell’aspetto paesaggistico e pensiamo per esempio ad Art Basel, al Lucerne Festival e al Montreux Jazz Festival, per citarne solo tre, manifestazioni che nel loro ambito sono prime a livello mondiale. Far parte di questa realtà significa partecipare ad una piattaforma di scambio ed esperienze di crescita preziose. Gli Eventi letterari, che a suo tempo aveva voluto Solari di concerto con il Cantone e il Municipio di Ascona, come li ha definiti un CEO in Svizzera interna sono «la più sconosciuta tra le perle culturali svizzere». E ho accettato di farne parte perché credo che il Monte Verità meriti di risplendere e di mantenere viva la sua anima e la sua simbologia. Allora era un’alternativa al capitalismo e al comunismo, oggi, come direbbe Calasso, è «l’innominabile attuale». O, per dirla in altre parole, scontata la sconfitta parziale dei modelli che lì
te dall’Orchestra della Svizzera italiana (OSI).
Domenica 4 agosto alle 21.15 in Piazza Grande le famiglie e il pubblico più giovane del Locarno Film Festival avranno l’occasione di vedere sul grande schermo, sempre gratuitamente, la versione italiana di E.T. l’extra-terrestre di Steven Spielberg, che inaugurerà la selezione dei Locarno Kids Screenings.
Per il programma completo www.locarnofestival.ch
Dunque cosa sta avvenendo?
Da più parti e a più livelli, a partire dal Consiglio di Amministrazione,stiamo lavorando a un cambio culturale. Siamo tutti coinvolti in un lavoro che vuole assicurare una robustezza strutturale a questa organizzazione che vada al di là delle persone. È chiaro che le persone sono importanti ma noi stiamo passando da un modello dove le persone erano forse più importanti della struttura a un modello che include una struttura che è più importante delle persone per poi trovare idealmente una sintesi fra queste due visioni che possa assicurare la continuità e la solidità futura di questo meraviglioso progetto. Un progetto che, come qualsiasi altra istituzione culturale, è al contempo estremamente solido ed estremamente fragile. In tutto questo ora arriva la parte interessante del processo perché è il momento dell’incontro dei mondi e sono molto fiducioso che sarà positivo.
hanno cercato di implementare – e dico parziale perché alcuni si sono integrati nel nostro vivere quotidiano, sono entrati a far parte della nostra identità occidentale – oggi è necessario pensare quali futuri alternativi ci sono e per i quali valga la pena impegnarsi.
Abbiamo perso di vista l’essenza del nostro fare, la dimensione spirituale e irrazionale di quel modo di esistere caro all’utopia del Monte Verità?
L’utopia la cerchi, si avvicina, ma resta lontana. Non conta raggiungerla, importa la tensione che ci metti per andare in quella direzione. Se guardo al mio vissuto personale, c’è la parte adattata e c’è la parte selvaggia di qualcuno che comunque è cresciuto nella natura, fuori da tutto, nei boschi della Valcolla. In me c’è la costante ricerca dell’unione dei due mondi. E pensando anche al mio impegno nella Fondazione Eranos che, insieme al Museo Casa Rusca diretto da Sébastien Peter, nei prossimi giorni inaugura la mostra dedicata alla Fröbe (il cui percorso di iniziazione al femminile potrebbe essere visto come complementare e in contrapposizione al Libro rosso di C. G. Jung) mi piace pensarmi al servizio del futuro e della grande domanda su quei luoghi mitici. Vale a dire se il genius loci è ancora lì o se n’è andato da tempo, come dice qualcuno.
Entriamo nel merito del Festival. Lei è depositario di un passaggio particolare: ha dovuto traghettare la manifestazione dal vecchio al nuovo mantenendo la tradizione solariana e aprendo nuove piste. Pensiamo a quelle che aprirà la nuova presidente Maja Hoffmann. Quindi, che anno è stato? Fortunatamente i traghettatori solitari in questo mondo complesso non esistono più (sorride). Ovviamente è un lavoro di squadra fatto in particolare con il Vice-Presidente Luigi Pedrazzini, (siede nel Consiglio di amministrazione da tanti anni). Lui è una sorta di saggio locarnese, con esperienze molto importanti ora al servizio del Festival, che rappresenta anche più di me il garante della continuità.
La presidenza di Maja Hoffmann – che in primis ribadisce la vocazione internazionale del Festival –si muove dunque su altri binari rispetto a quella di Solari? È un privilegio poter lavorare con qualcuno che ha una tale apertura al mondo e una tale visione prospettica per certi versi molto lontana dalla nostra. Una visione che arricchisce un Festival che ha già un’anima internazionale e che nel concreto si traduce in nuove opportunità, nell’apertura di porte che sarebbe altrimenti difficile se non impossibile aprire… Tutto questo avendo alla base una condivisione e un rispetto dei valori culturali e dei principi del Festival come la libertà artistica, il coraggio di sperimentare: tutte cose di cui Maja Hoffmann può essere una eccellente garante.
In un’intervista uscita sulla «NZZ» in occasione della sua nomina lo scorso anno, Maja Hoffmann riguardo alle aspettative che Locarno ripone in lei nella veste di nuova presidente disse: «Sono un po’ troppe», mettendo poi in chiaro che il suo obiettivo è quello di portare soprattutto idee nuove. Da noi invece sin da subito si è posto l’accento sul suo potenziale nel portare nuove risorse finanziarie… Questo è un tema importante, è una cosa alla quale si sta lavorando e ci sono già i primi segnali incoraggianti. È chiaro che oggi rispetto al passato, in quest’epoca della complessità, nelle grandi aziende e nelle fondazioni raramente è una persona sola a decidere, ci sono linee guida strategiche da seguire e livelli da rispettare, e quindi tempi più lunghi. Anche se una persona conosce tutto il mondo non basta: bisogna incontrarsi, piacersi, entusiasmarsi, impegnarsi per uno stesso progetto e questo non accade in un giorno. È già stata annunciata la collaborazione con Bloomberg, una realtà enorme, e pochi giorni fa abbiamo annunciato un nuovo premio e il rafforzamento della collaborazione lo streamer internazionale MUBI. Penso possiamo ritenerci soddisfatti di questi primi risultati, a cui siamo giunti con il supporto della nuova presidenza e grazie al lavoro di tutta la squadra e che ci portano sempre più ad allineare aspettative e necessità.
Locarno Film Festival / Ti-Press
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Con la stagione calda è importante bere tanto e limitare le attività all’aperto nelle ore centrali della giornata. Maggiori informazioni su: www.ti.ch/calurasenzapaura
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Il fascino del deserto
Cinema ◆ La passione di Alexander O. Philippe per il genere western Alex Borg
Svizzero di nascita, Alexandre O. Philippe vive da anni negli Stati Uniti, ed è specializzato nella realizzazione di documentari sul cinema e la cultura popolare americana, cambiando punto di vista di film in film: 78/52, per esempio, parla di Psycho concentrandosi unicamente sulla celeberrima scena della doccia. In attesa di mostrare al mondo il suo prossimo progetto, incentrato sull’horror Non aprite quella porta , il regista ha deciso di portare al festival di Karlovy Vary in Repubblica Ceca (28 giugno – 6 luglio), di cui è un assiduo frequentatore, un suo film del 2021, The Taking, sull’iconografia dei paesaggi nel genere western. La proiezione è accompagnata da altri tre titoli, scelti insieme a Karel Och, direttore artistico della manifestazione, per approfondire le tematiche affrontate nel documentario.
Com’è nata l’idea di mettere insieme queste proiezioni?
Ci sono state diverse conversazioni con Karel, dopo che nel 2022 avevo portato al festival Lynch/Oz [sulla passione di David Lynch per Il mago di Oz di Victor Fleming, n.d.r.].
In quell’occasione furono proiettati anche il film di Fleming e Cuore selvaggio dello stesso Lynch, e la reazione del pubblico ci convinse a fare di nuovo qualcosa di simile, non solo quest’anno ma anche in futuro.
È anche un modo per permettere agli avventori di Karlovy Vary di recuperare The Taking. Esatto, perché tre anni fa non fu possibile presentarlo, nell’estate del 2021 non era ancora pronto. Se non erro la prima mondiale si tenne al London Film Festival, qualche mese dopo.
Come sono stati scelti gli altri film?
Ne abbiamo parlato a lungo, io e Karel. Sapevamo che doveva assolutamente esserci un film di John Ford, che è l’elemento principale del documentario, e volevamo mostrare qualcosa di meno noto e visto rispetto ai «soliti» Ombre rosse o Sentieri selvaggi. Amo molto Il massacro di Fort Apache, la performance di
Henry Fonda è magnifica, e il festival è riuscito a ottenere una copia in pellicola. Per Paris, Texas di Wim Wenders ha inciso la disponibilità della nuova copia restaurata, mentre per il terzo film esitavo tra Bagdad Café di Percy Adlon e Twentynine Palms di Bruno Dumont. Alla fine, abbiamo optato per quest’ultimo. In entrambi i casi, con il film di Wenders, sono dei punti di vista contemporanei sul deserto americano.
Nonché dei punti di vista europei – Wenders è tedesco, Dumont francese – che si contrappongono a quello più classico, statunitense, di Ford. Proprio così. Questo è coerente con la mia esperienza personale: ho vissuto per più di metà della mia vita negli Stati Uniti, e ho il passaporto americano, ma sono ancora, e rimango, svizzero e francese. Avrò sempre quello sguardo esterno, che accompagna tutte le mie opere. Ed è stata proprio la mia passione per il western a spingermi a viaggiare in quelle zone, la prima volta che sono venuto negli USA, a vent’anni.
«Ho il passaporto americano, ma sono ancora, e rimango, svizzero e francese. Avrò sempre quello sguardo esterno, che accompagna tutte le mie opere. Ed è stata proprio la mia passione per il western a spingermi a viaggiare»
Il suo rapporto con quei paesaggi è cambiato lavorando a The Taking? No, rimane sempre quel misto di fascino e paura. È un panorama magnifico, ma incute anche timore, soprattutto se stai guidando e sai che non troverai nulla per chilometri e chilometri. È un po’ lo stesso contrasto che c’è nei film, che sono passati dalla visione molto romantica di Ford a quella più parodistica degli spaghetti western, fino a quella più cupa dei decenni successivi. Se avessi una macchina del tempo, non credo che andrei a visitare quell’epoca, perché era piut-
tosto brutale, a differenza dell’immagine che ci propongono i classici del genere.
In questo periodo sta uscendo il dittico di Horizon, di e con Kevin Costner, che segna il ritorno del western classico sul grande schermo. E ci sono altri titoli recenti, come Logan o Mad Max, che esplorano tematiche western attraverso il filtro di altri generi. Perché, al netto del calo di popolarità del western in sé, i suoi elementi tipici mantengono il loro fascino?
C’è un fattore mitico e mitologico, l’immagine che l’America ha costruito di sé attraverso il cinema. C’è un contrasto intrigante tra ciò che si racconta e la realtà, ancora oggi come nel caso di figure come Donald Trump. Durante il mio primo viaggio in macchina nel deserto, nella California e nel Nevada, ricordo che a un certo punto, andando in salita, mi aspettavo che spuntasse la Monument Valley, che in realtà si trova nel Colorado. Solo che John Ford amava inquadrarla anche quando i suoi film erano ambientati da tutt’altra parte, e all’epoca non avevo accesso a internet per verificare queste cose. E poi c’è la componente legata ai personaggi, in particolare l’uomo d’onore che si batte per la giustizia, che è un’immagine molto cara al cinema classico americano. Il western, per certi versi, è proprio l’essenza del mito raccontato sullo schermo, della macchina hollywoodiana nel suo insieme. E sono molto curioso di vedere Horizon di Kevin Costner, ma sbaglio o saranno quattro film in totale?
Sì, ha completato i primi due, gli altri due li deve ancora girare. Allora aspetterò che siano usciti tutti e quattro, per godermi la saga completa.
Per chiudere, qual è il suo western moderno preferito?
Le tre sepolture, di e con Tommy Lee Jones. Per me è un capolavoro. So che lui non ama che lo si chiami un western, ma è come quando Danny Boyle dice che 28 giorni dopo non è un film di zombie. Lo è, fine della storia.
In fin della fiera
La Sbrisolona della Terza Età
Se per disgrazia dovessi morire, se proprio non potessi farne a meno, vorrei che l’evento si verificasse a Mantova, durante il Festival della Letteratura. Morire soffocato da un boccone di Sbrisolona e poi vedere l’effetto che fa. Subito si aprirebbe un bel dibattito fra gli organizzatori.
Già mi sembra di sentirli: un gruppo di amici propone di sospendere il festival in segno di lutto, altri, in buona fede sono contrari: «Siamo sicuri che lui per primo non vorrebbe». La discussione si allarga: «Fate in fretta voi a proporre: sospendiamo il Festival. Chi glielo dice a Jonathan Coe, a David Sedaris, a Olga Tokarczuk, a Valérie Perrin, a Mircea Cărtărescu che hanno percorso migliaia di chilometri per niente? E soprattutto chi glielo spiega a questi grandi scrittori di fama mondiale chi era Bruno Gambarotta?»
«Diamo uno sguardo a Google».
Voti d’aria
«Già fatto. C’è scritto che lui, in una recita estiva di Madama Butterfly ha ricoperto il ruolo del principe Yamadori perché il tenore aveva perso il treno. Non ha cantato, ma si è espresso a gesti, una soluzione molto apprezzata dal critico di una tivù locale. Inoltre, nel mondo del cinema è ricordato per la sua superba interpretazione del ruolo di Dio Onnipotente in un film dei fratelli Vanzina. Purtroppo, per ottenere il visto di censura, la sequenza è stata tagliata».
«C’è anche scritto che lui, nei primi anni del festival, ha promosso il “Movimento di Liberazione dalla Sbrisolona”».
«È stato un errore giovanile, una reazione al fatto che un vigile l’aveva multato perché l’aveva sorpreso a lasciare Mantova senza avere con sé la sbrisolona d’ordinanza».
«Non è un curriculum sufficien-
Congedo dai padri
Gianmarco Tamberi, detto Gimbo, recordman di salto in alto, per anni si era allenato con suo padre Marco. Poi lo ha licenziato e ha scelto un altro coach. Sulla simpatia estrosa di Tamberi (2) sono stati scritti, negli anni, articoli molto ispirati: io mi sono fatto l’idea che, pur essendo senza dubbio un grande atleta, Tamberi non sia un campione di simpatia: del resto le due cose raramente coincidono (vedi alla voce Djokovic, 3).
Licenziare il proprio padre non è facile, ma a volte è indispensabile: dipende quali sono le ragioni, se ci sono. «Non ne potevano più l’uno dell’altro», ha detto la moglie di Gimbo. Al contrario, licenziare i propri figli è impossibile. Vedi il caso di Nicola Turetta, il padre dell’assassino di Giulia Cecchettin, la ragazza veneta che mesi fa fu torturata, imbavagliata, pugnalata dal suo fidanzato. Si è saputo che, quando è andato a trova-
re Filippo Turetta in carcere, suo padre gli ha detto parole che nessuno, da fuori, potrebbe mai condividere: «Hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone, hai avuto un momento di debolezza. Non sei un terrorista. Devi farti forza. Non sei l’unico. Ci sono stati parecchi altri». Su alcune di queste negazioni ci sarebbe da obiettare: non sei «uno che ammazza le persone» se ammazzi la tua fidanzata con oltre settanta coltellate alla testa e al collo? Anche il declassare quella violenza brutale a semplice «qualcosa» e a un «momento di debolezza» è piuttosto discutibile. Il fatto che «parecchi altri» hanno commesso un delitto simile non è un’attenuante. Ma è discutibile soprattutto che un colloquio intimo tra padre e figlio, estraneo a qualunque interesse giudiziario, venga intercettato e divulgato dalle televisioni (1) e dai
A video spento
Il mistero Simenon
«Ho sempre avuto voglia di scrivere romanzi, come d’altronde tanta altra gente. C’è, si può dire, quasi un terzo dei giovani che si dicono che un giorno scriveranno per lo meno un romanzo. Ma per me era quasi una ricerca di me stesso. Ovvero, ciò che chiamo la ricerca dell’uomo è la ricerca di me stesso, dato che sono un uomo come gli altri. È proprio scrivendo romanzi che avevo l’impressione di avvicinarmi all’uomo. Perché, per creare il personaggio di un romanzo, bisogna entrare completamente nei suoi panni. Parlo del romanzo del subconscio. Perché classifico i romanzi in due categorie: ci sono i romanzi scritti con intelligenza, sensibilità, poesia ecc.; e ci sono i romanzi scritti con il subconscio, letteralmente».
Il brano è tratto dal libro Conversazioni con Simenon. A dialogare con Georges Simenon è Francis Lacassin, giornalista ed editor francese che nel 1969
te per giustificare la sospensione del festival».
«Si potrebbe ritardare di dieci minuti l’inizio delle conferenze»
«E il pubblico, che è già in attesa, cosa fa nel frattempo?»
«Potremmo distribuire pezzi di sbrisolona».
«Dopo quello che è successo chi avrebbe il coraggio di mangiarla?»
«Se non la mangiano peggio per loro. La portino a casa dai bambini dicendo loro, ve la manda Gambarotta. Per un singolo evento non possiamo sospendere la produzione di un prodotto che qui chiamano dolce e che rappresenta nel mondo la città di Mantova».
«Se almeno fra i tanti sponsor ci fosse un’impresa di pompe funebri…»
«Fra gli scrittori che devono ancora parlare ce n’è un paio che lui amava molto e che erano suoi amici. Si potrebbe, con il loro permesso, collocare sul palco, di fianco alla postazione, il
catafalco, in una muta ma significativa presenza».
«Non è male come idea. Per sdrammatizzare distribuiamo fra il pubblico dei dadolini di mortadella, ciascuno con il suo stuzzicadenti infilato per portarlo alla bocca senza sporcarsi le mani».
«Però la mortadella mette sete. Un bicchiere di vino lo vedrei bene, propongo un bianco di Custoza».
«Gambarotta però preferiva i rossi. Per il Lambrusco di Mantova aveva un’autentica venerazione.»
«Sta a vedere che siccome lui amava il nostro Lambrusco noi dobbiamo imporlo a tutti. È più democratico farli scegliere, bianco di Custoza o Lambrusco di Mantova.»
«E una scaglia di grana no? Il grana valorizza il vino, ne esalta i sapori».
«Dunque, ricapitoliamo. Quei due o tre scrittori che hanno avuto la disgrazia di essere amati da Gambarot-
ta dovranno svolgere il loro intervento avendo a fianco sulla predella il catafalco del loro amico e parlare davanti a un pubblico che degusta mortadella e grana e beve Custoza o Lambrusco». Fin qui gli amici. Ma non posso pretendere che tutti quelli che lavorano gratuitamente per questo festival che non ha eguali in Italia siano miei amici. Ci saranno anche quelli che prendono le distanze: «Anche lui, però. Non era più un bambino... L’avete visto al rinfresco dell’inaugurazione? Ha spazzolato via tutto, anche i fiori che decoravano il centro tavola. Si è giustificato dicendo che credeva fossero di pasta di mandorle. Stattene a casa, se sei a rischio di sbrisolona, dai spazio ai giovani!»
Una proposta metterà tutti d’accordo: «Diamo il suo nome a un nuovo tipo di sbrisolona, una variante morbida, composta di budino e panna cotta, la Sbrisolona della Terza Età».
giornali (1). Quel povero padre senza colpa ha dovuto fare atto di contrizione pubblica, esprimere la sua vergogna per le frasi dette: precisare che erano suggerite dall’angoscia che suo figlio volesse suicidarsi. La domanda è: si può continuare ad amare un figlio che ha commesso un’atrocità inenarrabile? Si può. E nessuno si permetta di interferire o di giudicare questo amore. Ricordo la dignità e il silenzio di Francesco De Nardo (6+), il padre di Erika, la ragazza di Novi Ligure che molti anni fa uccise la madre e il fratellino. Ma d’altra parte sarebbe sbagliato censurare papà Cecchettin, che invece ha preferito l’esternazione: avrà il diritto (che lui sente come un dovere) di raccontare il suo dolore, la sua storia e quella di sua figlia? Ci mancherebbe altro che non l’avesse. Libero poi ciascuno di noi, a seconda della sua sensibilità, di leggere o non leggere il suo libro.
Kafka scrisse una lettera al padre che non consegnò mai al destinatario (uscì postuma), ma questo non aggiunge e non toglie nulla alla eccezionalità di quel testo, in cui si sono riconosciute (e si riconoscono) generazioni di figli atterriti dall’autorità paterna, risentiti per la mancanza di tenerezza e di comprensione in cui sono cresciuti. Vi ricordate la sobrietà e la durezza di quella lettera? «Carissimo padre, recentemente mi hai chiesto per quale motivo sostengo di avere paura di te. Come al solito, non ho saputo darti una risposta, in parte appunto per la paura che mi incuti, in parte perché motivare questa paura richiederebbe troppi particolari…» (7+). Per misurare la distanza abissale che ci separa dall’inizio del secolo scorso, basti pensare che il padre di Kafka, se avesse avuto un figlio assassino, probabilmente non sarebbe mai andato a trovarlo
in carcere e, anche se lo avesse fatto, non avrebbe mai pronunciato le frasi di pietà e di angoscia che ha pronunciato il padre di Filippo Turetta. Da allora è cambiato il mondo anche perché si sono capovolti i rapporti tra genitori e figli, particolarmente con i padri. Diventati talmente «fragili» da scusare un figlio assassino. Oggi i padri hanno paura dei figli almeno quanto Kafka aveva paura di suo padre.
(Qualche settimana fa il «New York Times» ha eletto L’amica fragile di Elena Ferrante (5-) romanzo del secolo, anzi di questi primi 24 anni del secolo. Il verdetto, molto discusso, ha generato classifiche alternative. Oltre a L’anno del pensiero magico di Joan Didion, tra i romanzi migliori del secolo segnalerei uno degli ultimi capolavori di Philip Roth, Patrimonio, uscito nel 2007: un doloroso, atroce congedo, un addio alla figura del padre.
incontrò l’autore per una lunga intervista sulla sua produzione letteraria, e non solo. All’epoca Simenon aveva smesso di scrivere romanzi. Più passa il tempo, più cresce la stima letteraria per George Simenon. Non è solo l’autore di gialli, del commissario
Maigret: ormai molti suoi libri sono considerati alta letteratura, una delle produzioni più prodigiose del secolo scorso: Adelphi ha appena tradotto in italiano La porta, un’ implacabile discesa nella mente di un uomo dominato dalle sue ossessioni. Simenon non accettava di essere chiamato «uomo di lettere» e non amava la critica dei chierici. Non ha mai fatto parte di nessun circolo letterario. Certo, aveva le sue preferenze: Stevenson, Gogol’, Maupassant, gli scrittori americani della lost generation. Era ossessionato dal denaro, il solo mezzo che gli consentiva di vivere come desiderava, decidendo lui stesso nei minimi
dettagli dei suoi appetiti materiali e spirituali. Quando ci si occupa di Simenon, la prima cosa che colpisce sono i numeri. Impressionanti. Il suo travolgente lavoro ha generato più di 450 opere di narrativa (75 le inchieste del commissario Maigret) con oltre 117 romanzi di altro genere, 180 romanzi scritti con 37 pseudonimi prima di diventare il mitico Simenon, e infiniti articoli. Tradotti in circa 70 lingue e in oltre 40 Paesi si conta che i suoi libri abbiano venduto più di 700 milioni di copie e dato vita a moltissime versioni cinematografiche (60 solo le più importanti). Simenon amava, benché negasse, questa immagine di sé eccezionale, fuori dalla norma nella professione e nel privato. Se no, non avrebbe tanto insistito sulle diecimila e più donne possedute. Il più illustre dei suoi estimatori, nonché suo affezionato amico André Gide, si estasiava all’idea di tanto grandi
prodezze – letterarie e non – e diceva di lui «il mistero Simenon». Un autore estremamente prolifico, notoriamente uno scrittore di getto, ma la rapidità creativa ha un prezzo psicologico e fisico. Essere «in trance», governati dallo sforzo inventivo, determina un consumo di energie intellettuali e non solo. I libri di Simenon sono generalmente brevi (in una continua gara con sé stesso arriva a scriverli in 7 giorni), frutto di questa vena creativa irrefrenabile ma anche bulimica. Lo scrittore confessa ancora a Lacassin: «D’altronde scrivevo in uno stato di trance. Non dimentichi che finivo un capitolo di venti pagine in circa due ore, e che dopo avevo perso ottocento grammi. Abbiamo fatto l’esperimento con Teresa (la sua ultima fedele compagna, ndr): lei pesava i vestiti che avevo prima di darmeli. Perché avevo dei vestiti che mi servivano solo per scrivere, era quasi una superstizione: due ca-
micie sportive, una rossa e una scura a quadrettoni. Le avevo comprate a New York, e da allora ho sempre scritto tutti i miei romanzi con quelle camicie. Pesavano ottocento grammi in più dopo ogni seduta. Ottocento grammi persi con la traspirazione».
Nel 2003, a cento anni dalla nascita (era nato a Liegi nel 1903) i suoi romanzi sono entrati nella Pléiade, la più prestigiosa collana editoriale francese consacrandolo ufficialmente come grande scrittore. La famiglia, suo tema ricorrente, è chiave sociologica privilegiata per osservare i movimenti e le mutazioni della società e Simenon, nel suo più vasto orizzonte d’indagine incentrato sui «destini» umani, ritorna spesso sulle sue dinamiche, sia nei romanzi con protagonista il commissario Maigret sia nei suoi romans-romans, sempre con la sua precisione ficcante e il suo sublime sguardo disincantato.
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