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edizione 33
MONDO MIGROS Pagine 6 – 7
SOCIETÀ Pagina 5
Il fabbisogno di sonno varia da persona a persona e per migliorarlo basta seguire alcuni consigli
Quando l’escursionista incontra il filosofo: epifanie ai piedi della passerella del Sassariente
TEMPO LIBERO Pagina 13
Cosa succede in Bangladesh, dopo la rivolta degli studenti e le dimissioni della premier
ATTUALITÀ Pagina 23
La previdenza e il suo futuro
Due mostre da visitare negli spazi della Fondazione Arp nei giorni del Locarno Film Festival
CULTURA Pagina 29
Non
ci sono più i campioni di una volta
Prima che «Azione» andasse in stampa le Olimpiadi non si erano ancora concluse. Ma le sirene degli sciovinismi e dei nazionalismi erano già risuonate talmente forti e trite, che vorremmo congedarle con un po’ di leggerezza (il commento serio lo lasciamo ad Aldo Cazzullo a pag. 25). Facciamo finta che io sia un vecchio trombone, ma così vecchio da ricordare le 292 edizioni degli antichi giochi olimpici che si svolsero ogni 4 anni tra il 776 a.C. e il 393 d.C. Esordirei sentenziando che «non ci sono più gli atleti di una volta». Ai miei tempi, direi, gareggiavano nudi, chi incappava in una falsa partenza subiva punizioni corporali (altro che cartellini colorati) e l’unica regola valida nel pankration (un mix di lotta e pugilato) era niente morsi e niente colpi di sgorbia; quanto ai pugili, erano invitati a evitare di attaccare i genitali dell’avversario. Se poi succedeva, amen. Nota bene: le informazioni del me vecchio e rognoso proven-
gono da fonte degna: il sito del Comitato olimpico internazionale.
In compenso, non mi scandalizzerei per la querelle sulla pugile algerina Imane Khelif, al centro delle polemiche per gli alti livelli di testosterone, perché nel 588 a.C. successe un caso identico, ma in senso inverso: il pugile Pitagora di Samo, un tizio dai capelli particolarmente lunghi, si presentò per gareggiare nella sezione maschile, ma fu escluso per l’aspetto effeminato. Poi, non si sa come, partecipò alla gara maschile e vinse (pare, secondo un altro sito, che si trattasse del celebre matematico, ma su questo le nostre fonti divergono e quindi anche il trombone si tace).
Sosterrei a gran voce, esagerando, che la presenza delle donne ai giochi non è una novità, anche se nei tempi antichi le ragazze non potevano gareggiare né assistere alle prestazioni sportive. Tuttavia, nelle corse dei carri erano i proprietari
dei mezzi e non i cavalieri ad essere proclamati vincitori. E proprio in quanto proprietaria, la figlia del re di Sparta, Kyniska, vinse la corsa dei carri a quattro cavalli nel 396 a.C. e nel 392 a.C. Le cerimonie di apertura e chiusura francesi mi sembrerebbero tristi pensando che per gli antichi greci erano una festa apparentemente religiosa che offriva il pretesto agli abitanti del bacino mediterraneo per darsi alla crapula tra grigliate portentose. Si macellava un gran numero di mucche in onore di Zeus. Al banchetto partecipava tutto il popolo. Altro che finti baccanali sulla Senna con Dioniso color Puffo e le baccanti barbute sotto la pioggia. Ma soprattutto, rispetto alle star di allora, riterrei anche Pogacar nel ciclismo, Djokovic nel tennis e Simone Bile in ginnastica artistica campioncini sbiaditi. Persino il maggior vincente delle Olimpiadi moderne, il nuotatore statunitense Michael Phelps, protagonista di quattro
Olimpiadi tra il 2004 e il 2016, mi parrebbe un dilettante al cospetto del lottatore del VI secolo a.C. Milone da Crotone, per sei volte campione olimpico. Dicono fosse enorme. «Come parte del grande sacrificio (a Zeus durante i Giochi) – leggiamo sul sito del comitato olimpico – portava una mucca nel santuario sulla schiena, la uccideva» e poi se la mangiava tutta lui in un giorno. «Si dice che abbia bevuto nove litri di vino rosso in una volta sola (…). A 38-40 anni raggiunse la finale della sua settima Olimpiade. Dopo una lunga battaglia, si arrese stancamente al ventottenne Timasitheos. La folla scese in campo e portò Milone sulle spalle, con Timasitheos in testa a fare il tifo. Una fine appropriata: impigliato in un albero selvatico, dopo aver tentato di aprirne il tronco avvizzito a mani nude, Milone fu divorato dai lupi». Sarò anche un vecchio brontolone, ma di campioni così non ne nascono più.
Roberto Porta e Romina Borla Pagine 19 e 21 Freepik
Carlo Silini
Pasta e basta!
SOCIETÀ
La salute del Lago di Lugano non è ancora al top Luca Veronesi, capo dell’Ufficio della protezione delle acque del Dipartimento del territorio, spiega gli ultimi dati sul fosforo nel Ceresio, e la presenza dei cianobatteri
La travagliata storia del Ponte di Cevio Durante tutto l’Ottocento resistette a diverse piene straordinarie e devastanti grazie alla struttura di contenimento dell’erosione del suolo
Norme di igiene del sonno per dormire bene
Salute ◆ Semplici comportamenti favoriscono fisiologicamente un buon riposo notturno
Il sonno ha una serie di funzioni fondamentali che impattano sulla nostra salute: oltre a ripristinare le energie fisiche e rinforzare il sistema immunitario, contribuisce alle nostre prestazioni cognitive, permettendoci di disconnetterci dal mondo esterno e rigenerare in tal modo le capacità di attenzione, concentrazione e memoria. È luogo comune ritenere che dormire otto ore a notte sia ideale, ma il fabbisogno di sonno varia da persona a persona.
I neurologi specializzati nei disturbi del sonno, per gestirli e fare in modo che dormire diventi davvero rigenerante, sottolineano l’importanza della qualità del riposo senza focalizzarsi troppo sulla sua quantità. Ciononostante, l’insonnia è una condizione che affligge parecchie persone ed è noto a tutti che il primo passo per la sua cura sta nell’apprendere e mantenere una buona igiene del sonno. La quale è a sua volta influenzata da alcuni fattori ambientali e dal nostro stile di vita.
Mangiare o guardare la tv in camera da letto crea l’associazione tra cibo-video e zona notte, portandoci a non dormire
Specialisti e letteratura scientifica in toto documentano che la maggior parte delle persone che soffre di insonnia non rispetta le basilari norme di igiene del sonno e ciò porta purtroppo a cronicizzare il problema, se non addirittura a peggiorarlo. Se questo è il rovescio della medaglia, la buona notizia sta nel fatto che è possibile educare a dormire bene con una vera e propria tecnica applicata da chi si occupa di medicina del sonno nei protocolli di trattamento cognitivo-comportamentale dell’insonnia (Cognitive-Behavioral Therapy for Insomnia).
Le abitudini, anche quelle malsane, fanno parte della nostra vita quotidiana: «Tuttavia, quando ci troviamo a lottare contro le cattive abitudini che sembrano sfuggire al nostro controllo, può essere utile rivolgersi a specialisti che applicano tecniche psicologiche avanzate come l’Habit Reversal Training (HRT) per superare quelle che vorremmo abbandonare, anche nell’ambito dell’igiene del sonno». Così esordisce il professor Antonio Malgaroli, psichiatra e psicoterapeuta, la cui premessa ci porta dapprima ad analizzare i consigli da applicare per un buon sonno ristoratore.
Uno dei suggerimenti, ad esempio, concerne la buona regola di consumare i pasti regolarmente e non recarsi a letto se affamati, proprio perché la fame potrebbe disturbare il sonno. Oltre a evitare cibi pesanti o grassi che
possono causare un riflusso gastrico con risvegli notturni, è sconsigliabile pure la cattiva abitudine di mangiare a letto. Una consuetudine sbagliata che il nostro interlocutore contestualizza così: «Se mangiamo o guardiamo la televisione in camera, assoceremo il cibo o la televisione alla camera da letto e ben presto finiremo per non dormire. Questo perché il nostro cervello funziona per associazioni: quando siamo in quel luogo fisico lui sceglie secondo la sua associazione che, se sbagliata, non produrrà più la risposta adeguata allo stimolo: invece di “camera da letto-sonno”, assocerà “camera da letto-cibo o televisione” e la risposta allo stimolo non sarà quella di dormire, bensì quella di mangiare». Ed ecco servita l’insonnia. Le norme di igiene del sonno assumono quindi un significato molto importante e sono facilmente attuabili per mezzo di una serie di comportamenti adeguati (stimolo-risposta) che fisiologicamente favoriscono un buon sonno notturno. Bando alle abitudini di vita disfunzionali e a un ambiente non idoneo al sonno (la televisione in camera ne è un esempio), e avanti con abitudini sane associate dal nostro cervello a un riposo notturno adeguato. Ad esempio, per sentirsi riposati il giorno successivo, bisognerebbe dormire solo quanto è necessario; inoltre, non si deve trascorrere molto tempo a letto per non rendere il sonno frammentato e leggero, a favore di un sonno più continuativo e profondo. Svegliarsi ogni mattina sempre alla stessa ora favorisce una regolarità dell’orologio biologico: un allenamento per il nostro cervello su quando dormire e quando stare sveglio. Cercare di fare attività fisica regolare, tranne nelle ore precedenti l’orario di andare a dormire, favorisce altresì un sonno profondo. A questo proposito è interessante sapere che non sembra essere l’esercizio fisico di per sé a essere utile, ma piuttosto il concomitante aumento della temperatura corporea. Segreti di Pulcinella sono gli altri suggerimenti che tutti dovremmo riuscire a mettere in atto: assicurarsi che la temperatura della camera da letto sia confortevole (16°-23°); non consumare caffeina nelle sei ore prima di andare a letto; non portarsi i propri problemi a letto; non fumare perché può disturbare il sonno; mettere la sveglia in una posizione tale da evitare di vederla (guardare l’orologio può innescare preoccupazione e frustrazione che a loro volta potrebbero interferire con Morfeo); non bere troppo la sera per evitare risvegli notturni; non assumere alcolici e via dicendo.
Ad ogni modo, se il problema sta nel ristabilire le giuste abitudini e le associazioni adeguate stimolo-risposta del nostro cervello, l’approccio con
l’Habit Reversal Training evocato dal nostro interlocutore può davvero venire in aiuto. «Originariamente sviluppato per trattare il disturbo del tic cronico, è stato successivamente adattato per affrontare una vasta gamma di cattive abitudini, ivi compresa l’insonnia, e si basa su cinque componenti chiave». Così chiosa Malgaroli che parla di consapevolezza, sensazione sostitutiva, competizione, sostegno sociale e rinforzo: «Il primo passo è essere consapevoli del comportamento disfunzionale e indesiderato: bisogna identificare quando, dove e per-
ché di questa abitudine, e tenere un diario comportamentale che può essere di grande aiuto. Una volta identificato il momento in cui si sta per compiere l’abitudine indesiderata, bisogna sostituirla con un comportamento alternativo che soddisfi la stessa sensazione o bisogno». Lo specialista indica la «competizione» come «una fase che coinvolge la quantità delle volte che si riesce a resistere all’abitudine indesiderata». Una sorta di «sfida» con noi stessi può rendere infatti il processo più gratificante. Inoltre, coinvolgere amici o fa-
migliari nel processo di cambiamento può essere estremamente utile: «Condividere i propri obiettivi e progressi con qualcuno di fiducia può aumentare la motivazione e la responsabilità». Infine, il rinforzo positivo è fondamentale: «Proprio perché il nostro cervello funziona per associazioni e nel processo di stimolo-risposta sceglie ciò che gli è noto, dopo aver evitato con successo l’abitudine indesiderata, bisogna gratificarsi in qualche modo con un piccolo premio o semplicemente col riconoscimento personale del proprio successo».
Maria Grazia Buletti
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Pagine 8-9
Un sapore che conquista tutti
Attualità ◆ Impossibile immaginare una grigliata di carne senza le gustose costine. Questa settimana potete approfittare di un’offerta speciale sulle costine carré
Azione 22%
Pe gli amanti della carne, le costine di maiale sono un must di qualsiasi grigliata che si rispetti. In linea di massima, quando si parla di costine, bisogna distinguere tra tre tagli differenti, tutti ottenuti dal costato dell’animale. Le costine classiche sono ricavate dalla parte finale delle costole e risultano più lunghe e carnose. Le costine carré, conosciute anche con il termine anglosassone spare ribs, provengono dalla parte iniziale della lombata, sono più piccole e si distinguono per il basso contenuto di grasso e i tempi di cottura più brevi. Infine, troviamo ancora le puntine, ottenute dalla parte iniziale delle costole, che risultano più ricche di carne e grasso e più indicate per la cottura in umido.
Le costine sono amate da grandi e piccoli buongustai grazie al loro perfetto mix di aroma, consistenza, succosità e tenerezza. Senza dimenticare il delizioso sapore di fumo conferito dalla cottura alla brace. Per ottenere un risultato ottimale, devono naturalmente essere grigliate correttamente. Inoltre, l’utilizzo di marinate differenti, permette di accontentare i gusti più disparati.
Un condimento d’eccellenza
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Le costine sono ottime grigliate anche solo con un po’ di sale, pepe e rosmarino, ma se marinate prima con una deliziosa salsina o delle spezie si trasformano sempre un’invitante sorpresa per i commensali. A questo proposito esistono i cosiddetti rub secchi, composti da miscele di spezie ed erbe che vengono strofinati sulla carne prima di cuocerla; e i rub umidi, o marinate, composte da elementi acidi (vino, birra o succo di limone), grassi (olio) e aromi a base di spezie miste. In quest’ultimo caso, la carne andrebbe lasciata marinare per alcune ore prima di cuocerla. Per non coprire troppo il naturale sapore della carne, si consiglia tuttavia di non esagerare con i condimenti. Una marinata semplice e sempre apprezzata può per esempio essere composta da olio d’oliva, pepe nero appena macinato, sale, rosmarino, un cucchiaio di senape e un goccio di birra.
Le costine alla griglia andrebbero cotte a fuoco lento per ottenere un risultato ottimale, con la carne tenera, succosa e ben dorata che si stacca facilmente dall’osso. Dopo una prima breve scottata a fuoco vivo da entrambi i lati, alzare la griglia o abbassare la fiamma e proseguire la cottura lentamente finché la carne risulta ben cotta. Spennellare e girare regolarmente le costine. I tempi di cottura prevendono circa 1 ora per le costine carré, fino al 1 ora e mezza per le costine classiche.
Novità ◆ Un nuovo aceto balsamico di Modena I.G.P. dall’ottimo rapporto qualità-prezzo entra a far parte dell’assortimento di Migros Ticino
Prodotto con mosto di uve italiane di qualità e aceto di vino, totalmente naturale, senza caramello o conservanti di alcuni tipo, l’aceto balsamico di Modena I.G.P. «Antica Acetaia della Marchesa» si caratterizza per il suo sapore marcato e per la sua versatilità in molte ricette della cucina mediterranea, ma non solo.
Migros arricchisce il suo assortimento con un aceto balsamico di ottima qualità
È un balsamico di qualità, con una densità di circa 1,18, perfetto per l’utilizzo nella cucina di tutti i giorni. Dal sapore piacevolmente agrodolce, gradevolmente aromatico, dalla struttura ben equilibrata, è apprezzato non solo per condire le insalate, ma anche per insaporire e affinare verdure, risotti, paste, carni, formaggi e si abbina meravigliosamente anche alla frutta, al gelato e ai dessert.
Aceto balsamico di Modena I.G.P.
«Antica Acetaia della Marchesa» 250 ml Fr. 4.90
Giochi di società sul Ticino
Novità ◆ Nei reparti libri delle filiali Migros di S. Antonino, Agno, Locarno e Bellinzona sono stati introdotti alcuni interessanti giochi incentrati sul nostro cantone. Il divertimento è assicurato!
State cercando dei giochi di società unici, che assicurano divertimento per tutte le fasce d’età, da apprezzare in compagnia di famigliari e amici?
In questo caso non vi resta che recarvi al reparto libri dei principali negozi Migros, dove sono stati lanciati alcuni popolari giochi dedicati al nostro
Cantone, come pure alla Svizzera in generale. Tra le diverse proposte, vi segnaliamo per esempio il Monopoly, uno dei più classici e famosi giochi di società sulla contrattazione immobiliare, nelle edizioni dedicate alle città di Bellinzona, Lugano e Locarno. Della scelta fanno parte anche dei
giochi non solo spassosi, ma anche particolarmente istruttivi come «Tu sei della Svizzera» o «Sei del Ticino», con tanti quiz che mettono alla prova le conoscenze sul nostro Paese. Infine, non mancano nemmeno dei giochi di carte legati al territorio e diverse altre curiosità.
Attualità ◆ La filiale di via Besso a Massagno riapre dopo l’incendio di due settimane fa
I lavori di ripristino del Supermercato Migros Radio in via Besso a Massagno si stanno concludendo: mercoledì 14 agosto 2024 il gerente Dario Cellura e i suoi 15 collaboratori saranno pronti a dare nuovamente il benvenuto alla clientela. Come si ricorderà, lunedì 29 luglio attorno alla mezzanotte e mezza un incendio si è sviluppato nella zona delle casse della filiale, molto probabilmente causato dal cortocircuito di un frigorifero.
Fortunatamente l’incendio non ha comportato conseguenze per il personale e per gli inquilini dello stabile: la Cooperativa Migros Ticino se ne rallegra.
Malgrado il pronto intervento dei pompieri, allertati dall’allarme automatico, il fuoco anche se localizzato
ha generato un denso fumo che ha invaso tutti gli spazi della filiale, magazzini compresi, causando ingenti danni. In accordo con le autorità preposte è di conseguenza stato deciso lo smaltimento di tutta la merce presente nel punto vendita, non più idonea al consumo a causa della fuliggine. Immediato l’inizio dei lavori di ripristino, che oltre alla partecipazione di collaboratori della filiale e della Cooperativa Migros Ticino, hanno richiesto l’intervento di artigiani, ditte specializzate nella bonifica di locali, scansie, frigoriferi e di tutti gli apparecchi elettrici e informatici presenti nel punto vendita. Un ringraziamento alle aziende intervenute e ai collaboratori Migros che si sono fortemente impegnati per ripristinare la filiale in tempo record.
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Fosforo e cianobatteri, nodi gordiani del Ceresio
Ecosistema ◆ Si continua a registrare uno sviluppo abnorme di alghe microscopiche nel lago di Lugano, organismi autotrofi che, sedimentandosi, determinano un accentuato consumo di ossigeno
Raimondo Locatelli
Il lago di Lugano è… malato. Non certo da oggi. Basti considerare, a mo’ di esempio, che già all’inizio del Novecento le autorità cantonali – preoccupate a causa di una grave e generale mortalità fra i pesci – avevano commissionato studi a eminenti ricercatori svizzeri e stranieri, prendendo atto che «il Ceresio ha un solo defluente, la Tresa, di modo che la rinnovazione dell’acqua non è possibile che in misura assai limitata, e poiché a Lugano tutte le fognature si versano nel lago, l’acqua in vicinanza delle cloache deve essere molto inquinata e anche la temperatura elevata dell’acqua del lago nella stagione calda potrebbe avere un effetto dannoso sull’organismo sensibilissimo degli agoni…» (batteriologo prof. dr. O.E. Vogel).
Previsioni, in un certo senso, di un’esattezza sconcertante, eppure allora non si mosse un sol dito. Nella seconda metà del secolo scorso, fra il coro di proteste e denunce sul degrado delle acque del lago (accentuato inquinamento) in conseguenza della scarsa volontà politica al cospetto di un «immenso tappeto di alghe che ondeggia mollemente e da cui si leva un odore acre di cose marce» (Antonio Maspoli), spiccano due eventi iconici: il «funerale del Ceresio» con un nugolo di barche e striscioni a Ponte Tresa (7 novembre 1981) e – due giorni dopo, il 9 novembre, nell’aula del Gran Consiglio – il clamoroso appello di Paolo Poma che, brandendo una bottiglia di acqua sozza prelevata nel golfo della dogana malcantonese, rivolgeva all’autorità un ennesimo appello a favore della salvezza del lago di Lugano. Quegli episodi, ma pure altri ovviamente, hanno scosso profondamente le coscienze della gente ma anche dei nostri governanti, imprimendo un’azione significativa, che è peraltro tuttora in atto, a livello di depurazione e di protezione delle acque.
Sensibile carenza di ossigeno
Ma i mali endemici del Ceresio – ricordando che il bacino imbrifero nord è di modeste dimensioni rispetto al volume per cui il tempo teorico di ricambio risulta parecchio elevato (12,3 anni) – sono lì da vedere: infatti, il processo di eutrofizzazione (in atto dagli anni
Cinquanta!) ha provocato nelle acque profonde la scomparsa dell’ossigeno e l’aumento della densità salina. Fra le conseguenze più lampanti (drammatiche?), si registra ancora una sensibile presenza di fertilizzanti, in particolare il fosforo, che favorisce lo sviluppo abnorme di alghe microscopiche, le quali sedimentandosi determinano un accentuato consumo di ossigeno. Con la pesante conseguenza – nonostante i provvedimenti, in tempi recenti, nel conseguire una sensibile riduzione di apporti esterni di fosforo – che l’ossigenazione del Ceresio presenta dati tutt’altro che tranquillizzanti.
Secondo il rapporto 2020 sulle ricerche limnologiche, «i carichi esterni di fosforo sono in rialzo»
Secondo il rapporto 2020 sulle ricerche limnologiche, «i carichi esterni di fosforo (bacino nord con 18 tonnellate e bacino sud con 38,2 t) sono in rialzo e non ancora conformi agli obiettivi di risanamento. In entrambi i bacini del lago gli strati inferiori ai 50 metri rimangono permanentemente ipossici o anossici». Detto in parole più accessibili, l’ossigeno scarseggia e anzi a una determinata profondità è assente o comunque molto carente influendo sull’ecosistema lacustre e la sua biodiversità, mentre la presenza di fosforo determina una maggiore produzione di cianobatteri e di alghe.
L’anno scorso, come si ricorderà, ad agosto, in presenza di alte temperature, è balzato evidente un fenomeno piuttosto inquietante, ovvero in alcune zone (soprattutto a nord) si sono manifestate striature, anche ampie, di colore verde ma tendente al giallo ocra, colorazione anomala delle alghe provocata da cianobatteri. Una situazione tutto sommato sotto controllo, ma complessa. Con il rischio che in queste settimane di agosto, se continuerà il gran caldo, il copione si ripeta, magari a tinte ancora più fosche per la balneazione, la qualità delle acque, eccetera. Peggio di così!
Acque ricche di nutrienti
Illuminante, la relazione che Mauro Veronesi (capo dell’Ufficio della
protezione delle acque e dell’approvvigionamento idrico alla Divisione dell’ambiente al Dipartimento del territorio) ha tenuto in una recente seduta della Sottocommissione italo-svizzera per la pesca (Cispp) sulla necessità di un adeguamento degli obiettivi sul fosforo nel lago di Lugano. Da oltre 40 anni, osserva, il Ceresio è monitorato nell’ambito delle attività di ricerca promosse dalla Commissione internazionale per la protezione delle acque italo-svizzere (Cipais; www.cipais.org). Un lago, come peraltro osservato anche sopra, che soffre di eutrofizzazione, con effetti indesiderati sulla qualità e la fruibilità delle acque: in primis, la mancanza di ossigeno sul fondo, ma anche la presenza di sostanze ridotte indesiderate (solfuri, metano, ammo-
nio), fioriture, colorazione delle acque, eccetera. Nel 2023, i cianobatteri – noti non soltanto per l’effetto ottico della colorazione delle acque, ma anche poiché producono tossine in grado di causare irritazioni cutanee, oppure gastroenteriti e disturbi epatici nel caso di ingestione d’acqua – sono stati protagonisti di «vistose fioriture in entrambi i bacini del lago: si tratta di microorganismi che trovano le loro condizioni ideali di crescita quando la temperatura dell’acqua supera i 25°C e quando ai periodi di forte irraggiamento solare si alternano fasi temporalesche in grado di veicolare nutrienti dal dilavamento dei terreni e delle canalizzazioni fognarie a sistema misto».
Depuratori da potenziare ma…
Da dove arriva tutto questo fosforo? «Proviene principalmente – risponde Mauro Veronesi – dalle economie domestiche, le cui acque di scarico sono trattate negli impianti di depurazione delle acque (IDA). Il Dipartimento del territorio, da oltre vent’anni, impone a tali impianti dei limiti allo scarico molto più restrittivi rispetto a quanto prevede l’Ordinanza sulla protezione delle acque [OPAc; 0.2 mg P/L (ndr. mg P/L = milligrammi di fosforo per litro) invece di 0.8 mg P/L], proprio nell’intento di limitare gli apporti di fosforo a lago. Orbene, la misura dipartimentale con
limiti così restrittivi ha consentito il conseguimento di obiettivi di qualità per quanto concerne la concentrazione di fosforo nel Ceresio, fissata dalla Cipais a 30 µg P/L (µg P/L = microgrammi di fosforo per litro).
L’aumento di temperatura delle acque lacuali e gli inverni miti accentuano l’anossia di fondo
Questo traguardo non ha tuttavia migliorato in modo significativo la qualità delle acque del Ceresio: infatti, la produzione primaria rimane elevata (il doppio di quanto ci si propone), le fioriture sono purtroppo all’ordine del giorno e in profondità l’anossia è sempre presente (stabilmente nel bacino nord e stagionalmente in quello sud)». A questo riguardo, va sottolineato che «il progressivo aumento di temperatura delle acque dei laghi indotto dai mutamenti climatici agisce contro questa “cura dimagrante” a cui è sottoposto il lago, in quanto stimola il metabolismo e la capacità di alghe e cianobatteri di assimilare efficacemente il fosforo rimasto. Inoltre, gli inverni miti ostacolano il rimescolamento annuale della colonna d’acqua, accentuando l’anossia di fondo». Ecco perché, secondo Veronesi, è necessario ridurre ulteriormente la concentrazione del fosforo nel lago, abbassando il limite a 20 µg P/L. Questo obiettivo, precisa, «può essere teoricamente raggiunto riducendo i carichi totali di fosforo a 16 tP/a (ndr. tP/a = tonnellate di fosforo all’anno) sul bacino nord e a 21 tP/a sul bacino sud». In verità, i margini di manovra sul fronte della depurazione sono estremamente limitati, anche se si stanno ristrutturando e potenziando taluni impianti di depurazione acque (Ida) nell’intento soprattutto di attivare nuovi trattamenti per microinquinanti (da non confondere con le microplastiche), costituiti essenzialmente da metalli pesanti, residui di prodotti chimici e farmaceutici, pesticidi e via dicendo. In concreto, al depuratore di Bioggio nei prossimi 7-8 anni si spenderanno circa 75 milioni di franchi per il completo rinnovamento della linea acqua, dove verranno impiegati carboni attivi nel contesto della cosid-
detta «quinta fase», mentre per l’impianto di Pizzamiglio l’ampliamento (circa 45 milioni in 4 anni) si punta alla biofiltrazione e alla lotta dei microinquinanti per avere acque più depurate. Tali ampliamenti beneficeranno di importanti sussidi cantonali e federali. E tutto ciò in un momento in cui le ristrettezze finanziarie da parte del Cantone ma anche dei Comuni ventilano minacciosi tagli alle spese, lasciano non solo spazi sempre più risicati ma pongono anche seri interrogativi sulle priorità negli investimenti.
Alla cassa anche i Comuni
Ma non basta lo sforzo a livello di depuratori. Occorre pure chiamare in causa i singoli Comuni, in particolare quelli rivieraschi. Essi sono chiamati ad aumentare gli sforzi per separare
le reti delle canalizzazioni, costruire bacini per acque miste e adeguando i propri Piani generali di smaltimento delle acque (Pgs), spesso datati. Nel sistema misto confluiscono sia le acque luride domestiche sia quelle meteoriche: quando le piogge sono particolarmente intense e le canalizzazioni sono sovraccariche, si verificano degli sfioramenti di acque di scarico diluite direttamente nei ricettori (fiumi e laghi). La separazione di queste reti miste in condotte per acque luride e per acque meteoriche dedicate è molto onerosa (soprattutto nei centri abitati) e richiede lungo tempo per essere realizzata, ma consentirà di ridurre ulteriormente gli apporti di nutrienti al lago durante le forti piogge. Si stima infatti che il carico di fosforo proveniente dal sistema delle canalizzazioni miste costituisca circa il 25% del carico complessivo convogliato nel lago.
Limite da ridurre, e come!
E non è ancora tutto a proposito di fosforo, soggiunge il capo dell’Ufficio protezione acque e approvvigionamento idrico Mauro Veronesi riferendosi a una recente pubblicazione della Supsi, puntualizzando che la concentrazione di fosforo in grado di garantire una sufficiente ossigenazione per tutto l’anno dovrebbe essere di 12-14 µg P/L: «La concentrazione di 20 µg P/L costituisce, dunque, una tappa intermedia sulla via del risanamento del lago e non vi è da attendersi un miglioramento repentino della qualità delle acque con l’introduzione di questo nuovo limite. Parimenti, non vi è da aspettarsi una diminuzione significativa della biomassa algale, dello zooplancton e, di conseguenza, della produttività ittica. Il che significa, a mo’ di auspicio, che questo abbassamento del limite de-
ve spingere i Comuni in riva ai laghi a migliorare ulteriormente lo smaltimento delle acque sul proprio territorio».
Accesso all’acqua in sicurezza
Sempre in riferimento a pigmenti di alghe e fioriture di cianobatteri che incalzano e pesano addosso sempre più ai laghi, rendendoli minacciati e ponendo problemi non di poco conto dal profilo della salubrità delle acque di balneazione del Ceresio (mentre sinora il Verbano non è stato soggetto a questo fenomeno), i Dipartimenti della sanità-socialità e del territorio hanno messo in atto per quest’estate una campagna informativa per la sicurezza dei bagnanti, come pure una rete di monitoraggio per i due laghi da parte dell’Osservatorio ambientale della Svizzera italiana (Oasi).
Lo scopo è ampliare la sezione re-
lativa ai dati sulla qualità delle acque e integrare quelli relativi ai due bacini sublacuali raccolti in continuo e in tempo reale da boe limnologiche e da sonde automatiche (nei pressi di Porto Ronco per il Verbano e a Castagnola sul Ceresio).
Il dispositivo presente nel lago di Lugano dispone, in aggiunta, di una sonda collocata a 15 metri di profondità; inoltre, a complemento delle due piattaforme di misura, alcune sonde installate sui moli galleggianti situati in territorio di Riva San Vitale, Vico Morcote e Magliaso consentono di ampliare la rete di monitoraggio a costi contenuti. Infine, grazie a ulteriori miglioramenti adottati, si è creato un sistema di avviso tempestivo, monitorando così l’evoluzione in tempo reale, in particolare per quanto riguarda i fenomeni di fioritura algale e la presenza di cianobatteri, a vantaggio dell’accesso all’acqua in sicurezza.
Lago di Lugano visto dal San Salvatore. (Zuber Commonswiki)
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Il ponte di Cevio: un gigante con un piede d’argilla
Territorio ◆ Costruzione fondamentale per la valle, registrò il suo primo cedimento già il 17 agosto 1818, quando crollò la prima arcata, quasi giunta a compimento
* Michele Moretti, testo e foto
L’attraversamento della Maggia a Cevio, e per esso l’accesso alla Valle Rovana, ha costituito per secoli un problema cruciale per la viabilità valmaggese, risolto solo nei primi decenni dell’Ottocento. Testimonianze storiche di ponti precedenti sono scarse e insicure riguardo all’ubicazione, alla natura (di legno o di pietra) e alla durata (spesso effimera) dei manufatti. In mancanza di strutture stabili, si raggiungeva il capoluogo a guado, o servendosi di un precario traghetto a fune sotto alla frazione del Boschetto, o ancora risalendo la sponda sinistra fino a Bignasco per poi ridiscendere sul lato opposto. Pure lacunose sono le notizie intorno al primo progetto di un ponte in vivo a Cevio, avviato nei primi anni Dieci del XIX secolo, e ne è finora incerto il progettista, con tutta probabilità da identificare in Francesco Antonio Meschini (1762-1840) di Piazzogna, all’epoca ingegnere cantonale responsabile, ideatore ed esecutore di molti lavori pubblici in ambito stradale, soprattutto nel Sopraceneri (fra le sue opere più famose si segnalano la strada della Tremola tra Airolo e il passo del San Gottardo e il primo ponte sulla Maggia ad Ascona, a più riprese distrutto dalle alluvioni).
Ne parrebbe far fede un «compromeso» stipulato il 27 maggio 1814 tra «jl lustrisimo Sig. Consigliere Meschini» e un consorzio di ceviesi per «jl trasporto de sassi ocorevoli per il ponte di Cevio ciove da pietra pietra». Sull’importante cantiere operarono i validissimi e rinomati mastri muratori e scalpellini di Cevio, fin dal Cinquecento attivi e apprezzati anche all’estero sui cantieri di Valtellina, Chiavenna, Piemonte, Francia, Germania e forse anche Toscana, Sicilia e Sardegna. I conci che compongono le pile del ponte, finemente lavorati alla punta, recano incise delle lettere maiuscole, forse le iniziali dei loro artefici.
Una storia travagliata
Le carte conservate presso l’Archivio di Stato mostrano come la storia del ponte fu fin dall’inizio assai travagliata: il 17 agosto 1818 la prima arcata, quasi giunta a compimento, crollò per il cedimento delle centine di armatura; l’incidente provocò una vittima e quattordici feriti, di cui quattro gravi, a soccorso dei quali fu invocata la beneficenza pubblica; nel dicembre dello stesso anno cadde (forse, come ipotizzato da un perito, per sabotaggio doloso) anche la centinatura della seconda arcata. Ultimato da pochi anni poi, il 27 agosto 1834 «lo strabocchevole torrente» originato da uno «strepitoso uragano», distrutto quello di Foroglio e reso «barcollante e precario» quello di Prato, rompeva anche il ponte di Cevio: già in quell’occasione a cedere fu il pilone sul lato di Visletto, unitamente alle due arcate che vi convergevano e alla spalla sinistra. Subito realizzato un ponte provvisorio
di legno, l’immediato rifacimento fu affidato all’ingegner Domenico Fontana (omonimo dell’illustre predecessore ma di altro casato) – a Cevio negli stessi anni anche per l’erezione del grande riparo del Boschetto – che già a fine giugno del 1837 consegnava l’opera ricostruita.
Un’opera da Esposizione
Nel 1883 il Canton Ticino partecipò tramite il proprio Dipartimento delle pubbliche costruzioni alla prima Esposizione nazionale tenutasi a Zurigo, presentando alcune fra le più notevoli opere del genio civile realizzate sul suo territorio. Tra queste trovò menzione anche il ponte sulla Maggia a Cevio. Il rilievo di pianta e prospetto in scala 1:200 allora allestito mostra con dettagliata precisione tutte le componenti dell’impianto. Oltre alle più evidenti opere in elevazione (spalle, pile e arcate del ponte), il disegno evidenzia il minuzioso intervento di consolidamento del greto del fiume, allora realizzato su una vasta superficie a monte e a valle del ponte, finalizzato a difendere l’opera dall’azione erosiva delle acque. Tale intervento fu attuato attraverso una serie di pali conficcati nel fondo ghiaioso e collegati da forti travi trasversali. La potente intelaiatura lignea venne poi tamponata tramite una selciatura di grossi scaglioni posati di coltello e collocati in posizione longitudinale in modo da opporre la minore resistenza alla corrente; su alcune di queste pietre sono ancora visibili i segni delle cugnere, intagli praticati tramite subbia e mazzuolo nei grossi blocchi di pietra, entro i quali venivano inseriti dei cunei di legno poi innaffiati in modo che, gonfiandosi, ne provocavano lo spacco. Ancorato al fondo dalla fitta palificata, imbrigliato dal reticolo di travi e perfettamente connesso nei suoi elementi lapidei, il rizzadone (sistema di contenimento
Rilievo del ponte di Cevio presentato all’Esposizione nazionale di Zurigo del 1883; sotto: palo di fondazione munito di puntazza; in basso: risulta evidente il contrasto tra la compatta regolarità del rizzadone originale e la disordinata massicciata della recente colmatura.
dell’erosione) così formato costituiva un sottofondo di grande compattezza e solidità.
La prima ricostruzione
Resi attenti dall’esperienza maturata col primo crollo, fu proprio in occasione della ricostruzione che si prese a concentrare la massima attenzione all’accurata messa in opera della struttura di fondazione, da allora riconosciuta come la più esposta e cruciale dell’intero complesso.
Il capitolato d’opera allestito il 16 gennaio 1836 appare molto chiaro in
proposito: «Per assicurare maggiormente il ponte si farà una palificazione in triplice file di robuste colonne di legno rovere del diametro in punta di metri 0.30, e lunghe cadauna metri tre e armate con robuste punte di ferro a quattro orecchie e saranno cacciate sotto terra col martino a vento fino al livello delle acque magre; […] di poi vi si metteranno tre grosse bride di legno rovere al lungo delle tre file, con no. 22 tiranti di simil legno al traverso, che il tutto sarà assicurato alle colonne con grosse e sufficienti caviglie di ferro. Le dette colonne saranno piantate nella sola distanza di metri 0.30 l’una dall’altra, fra mezzo poi
alle tre file delle medesime si metteranno dei grossi macigni disposti più che sarà possibile in coltello bene serati fra mezzo alle colonne e briglie, che dipenderà moltissimo la durata del ponte, per conseguenza una tale operazione non sarà mai abbastanza raccomandata»: una lezione forse troppo presto dimenticata.
Piene, catastrofi e deviazioni
Durante tutto l’Ottocento il ponte subì l’offesa di numerose piene straordinarie, rese più frequenti e devastanti (queste sì catastrofi naturali provocate dall’azione dell’uomo) dal capillare disboscamento dei fianchi montani e dalla scriteriata pratica della flottazione del legname. Riparazioni puntuali furono quindi necessarie e urgenti a cadenza quasi annuale, sempre volte a ricucire e rinforzare la possente platea di fondazione. Anche se ripetutamente danneggiato, fintanto che si è ben manutenuto il vecchio rizzadone, questo si è dimostrato egregiamente efficace per quasi due secoli, superando anche la severa prova del 1978. In occasione di un recente intervento di riparazione della spalla destra del ponte e dell’argine che la precede, tuttavia, la necessità di deviare provvisoriamente il corso del fiume per poter eseguire i lavori ha comportato lo scavo di un canale nella parte sinistra dell’alveo e lo sradicamento di parte della struttura originale; al suo posto, al termine dei lavori, il greto è stato ricolmato con una massicciata di grossi blocchi.
Pur riconoscendo che al verificarsi dell’evento rovinoso possa aver contribuito anche l’azione dei tre pennelli posti a difesa del fianco destro del ponte, i quali deviando la corrente ne hanno concentrato la potenza distruttrice sul lato opposto, non si può escludere che il punto debole dell’intero impianto, il vero tallone d’Achille del ponte, sia da ricercare nella pavimentazione del greto del fiume realizzata a conclusione dei recenti lavori.
Stando alla documentazione fotografica, il pilastro non sembra essere crollato sotto la spinta frontale della corrente ma in seguito all’erosione del suo supporto basale. Il fatto poi che il ponte si sia fratturato sopra l’altro pilone e che l’arcata sia rimasta sostanzialmente intatta, potrebbe indicare che il cedimento non sia avvenuto repentinamente ma nel corso di un processo graduale. In ogni caso è giusto chiedersi come mai a soli due anni dalla loro messa in opera, alla prima forte sollecitazione i blocchi, ancorché voluminosi e pesanti, non hanno resistito alla furia dell’acqua; una volta scalzati, questa non ha più trovato ostacoli nello scavare alla base del pilone, facendolo sprofondare.
* Collaboratore scientifico per il Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona
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TEMPO LIBERO
È uno dei piatti forti della capitale lombarda Contrariamente a quanto si pensi, non è un taglio «invernale», o meglio, l’ossobuco alla milanese non è «pesante» quindi va benissimo anche nella stagione calda
Una passerella sul vuoto
Una tasca da parete fatta in casa Può trasformarsi anche in un piccolo vaso dentro cui deporre fiori o minuscole piantine che decoreranno la stanza nella quale saranno appesi come quadri
Tra il ludico e il dilettevole ◆ A volte una gita in montagna e un sentiero scosceso possono essere il punto di partenza per una filosofia di vita
Quando ero bambino, nelle vacanze estive trascorrevo con i miei cugini lunghi periodi in montagna, in una casa di vacanza all’entrata dei Monti di Motti, un piccolo agglomerato di case situato sopra Gordola a 1000 metri dal livello del mare, raggiungibile in automobile lungo una strada costruita negli anni della Prima guerra mondiale. Oltre a offrire un insperato ristoro dall’afa che imperversa in pianura, e la comodità di un grotto ben frequentato, Monti di Motti vanta un’invidiabile vista panoramica sulla Valle Verzasca, sul Piano di Magadino, sul Monte Tamaro e, in modo particolare, sul Lago Maggiore. Monti di Motti è anche il punto di partenza per una serie di escursioni: da quelle ai monti circostanti, relativamente poco impegnative, a tragitti più lunghi e esigenti come quello che porta alla Capanna Borgna (1919 m) o, ancora più su, al Pizzo Vogorno (2442 m).
Una destinazione piuttosto nota è il Sassariente che, con il suo cucuzzolo roccioso e la sua grande croce in acciaio a 1767 metri di altezza, svetta sopra il comune di Cugnasco.
Dai Monti di Motti la salita al Sassariente è sicuramente impegnativa, ma non proibitiva. Tuttavia l’ultimo tratto è piuttosto scosceso e, per giungere in vetta, occorre passare da un sistema di passerelle fissate alla roccia e, all’occorrenza, aiutarsi con le catene infisse alla parete per garantirsi una presa sicura. Ricordo ancora quando, all’età di dieci anni, con i cugini mi avventurai per la prima volta al Sassariente. Allora non sospettavo che la scalata alla vetta avrebbe comportato un passaggio così delicato, tanto più che all’epoca al posto delle passerelle c’erano appigli in metallo e corde piuttosto logore. Così, quando mi ritrovai nel punto in cui finiva il sentiero, e cominciavano gli appigli sulla roccia, mi bloccai. La vertigine del vuoto mi impediva di proseguire e, molto a malincuore, lasciai che i miei cugini vi si avventurassero senza di me. Non fu certo una decisione facile da prendere, e non ricordo bene quali emozioni rimuginai quel giorno, e neppure se quell’esperienza mi aveva, nei giorni successivi, causato sconforto o rammarico. Ma, a lungo andare, credo che quell’episodio non mi turbò molto, tanto che oggi lo considero un normale incidente di percorso accaduto nella mia infanzia. Con la progressiva uscita dall’infanzia, poi, i soggiorni estivi ai Monti di Motti si fecero più radi, e non ci fu più occasione per tornare al Sassariente. Se i ricordi non mi ingannano, fu solo diversi anni dopo, da adulto, che riprovai la salita, arrivando in cima senza troppi patemi d’animo. Ri-
cordo però che, nel lungo periodo che intercorse fra quella prima esperienza legata all’infanzia e il mio successivo approdo sulla vetta, ci fu un momento in cui ripensai a quella prima volta e all’arresto di fronte agli appigli in metallo.
L’idea di avere la vita sotto il nostro controllo, per quanto possa essere utile e importante è anche, in fondo, illusoria
Mi trovavo a Vienna, dove ho vissuto per un anno come studente Erasmus; comodamente installato su una poltrona di un caffè, stavo leggendo L’être et le néant (L’essere e il nulla) di Jean-Paul Sartre per un corso di filosofia che frequentavo all’università locale. C’è un passaggio, in quel voluminoso e densissimo saggio, in cui Sartre, per illustrare il senso di angoscia che ogni tanto si insinua nella trama della nostra esistenza pervadendo la nostra coscienza, fa riferimento all’esperienza di un escursionista. L’esempio mi riportò in qualche modo davanti alla
passerella: «La vertigine si manifesta con la paura» scrive Sartre. «Sono su un sentiero stretto senza parapetto, costeggiando un precipizio. Il precipizio mi appare come qualcosa da evitare; rappresenta un pericolo mortale. (…) posso scivolare su una roccia e cadere nell’abisso, la terra friabile del sentiero può cedere sotto i miei piedi». Sembra il racconto di un sogno, ma non lo è. Il passaggio fa riferimento alla paura del vuoto, piuttosto comune quando ci si espone a delle alture e, come in questo caso, si cammina su un sentiero stretto che richiede tutta la nostra attenzione. Simili situazioni sono relativamente frequenti in alta montagna e può capitare che, pur senza bloccarsi, lungo un sentiero ripido si avverta un principio di paura. Nella misura in cui invita alla prudenza, questo accenno di paura oltre che normale può essere anche salutare.
Ora però abbandoniamo la digressione per tornare a noi, ai nostri sentieri e alle nostre montagne, ai Monti di Motti, e al Sassariente. Nel frattempo ho la fortuna di potermi dedicare a fondo, durante l’estate,
a interessi quali la lettura, i viaggi e, appunto, la montagna. Non è quindi un caso se, negli ultimi anni, ho avuto modo di passare del tempo prezioso, fra maratone di lettura e passeggiate nei boschi, proprio ai Monti di Motti. Mi è capitato anche, un paio di volte, di salire sul Sassariente; anche di recente, quando nel primo pomeriggio di una giornata infrasettimanale mi sono avviato, calcolando i tempi necessari per andare e tornare in tutta tranquillità, lungo il sentiero che parte dai Monti di Motti.
Sul sentiero non ho incontrato nessuno: forse perché era un giorno infrasettimanale, o forse era il momento della giornata (spesso chi intraprende delle escursioni approfitta delle ore mattutine), ma quando arrivai ai piedi della vetta era come se, fra le molte impressioni, avvertivo anche un inedito senso di solitudine.
Per questo la salita mi sembrò particolarmente impegnativa sul piano psicologico, ma non solo: quella solitudine, così comune a chi affronta la montagna in solitaria, mi aveva reso vulnerabile, tanto che nell’avvicinarmi alle passerelle sospese per un attimo provai qualcosa di simile a quello
che avevo provavo quel giorno di tanti anni fa.
Questa volta però non mi arresi alla paura, non mi fermai, ma a posteriori mi resi conto di una cosa: che se su quella montagna ero salito tre o quattro volte negli ultimi dieci anni, quella poteva anche essere l’ultima volta. Non era colpa dell’accenno di paura, e non era neanche colpa della stanchezza accumulata lungo il sentiero. C’era dell’altro. Era come se quel senso di solitudine mi avesse reso consapevole che l’idea secondo cui la nostra vita, il nostro presente e il nostro futuro sono sotto il nostro controllo, per quanto possa essere utile e importante è anche, in fondo, illusoria. E che, forse, proprio per questo, non ero mai diventato completamente immune da quella paura che anni prima mi aveva impedito di continuare. Una presa di coscienza, una lucida consapevolezza: ecco cosa era successo. Era successo che l’escursionista aveva incrociato, sulla cima del Sassariente, il filosofo. E allora non era neanche tanto vero che quel pomeriggio d’estate, lungo quel tragitto, l’e-
scursionista era solo, che non c’erano altri viandanti.
Le passerelle del Sassariente. (LibriPres)
Sebastiano Caroni
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La perduta ricetta dell’ossobuco alla milanese
Gastronomia ◆ Servito con il risotto, è una delle somme glorie culinarie della città lombarda
Allan Bay
Ho controllato nell’archivio degli articoli scritti per «Azione» se avessi mai dato la ricetta per l’ossobuco e il risultato della ricerca mi ha del tutto sconcertato: non ne ho scritto mai! Oddio, nel 2017 avevo scritto del ragoût – o spezzatino che dir si voglia – di ossobuco, e una ricetta sempre a spezzatino nel lontano 2008. Ma incredibilmente non ho mai scritto in queste pagine la ricetta dell’ossobuco alla milanese, che è una delle somme glorie della mia città. Una vergogna! Anche più assurda dato che è il taglio del vitello che preferisco. Oggi rimedio. Nota bene, contrariamente a quanto si pensi, non è un taglio «invernale», o se preferite: l’ossobuco alla milanese non è «pesante» quindi va benissimo anche nella stagione calda.
L’ossobuco è un taglio di carne del bovino situato nel muscolo anteriore o posteriore, sopra il ginocchio. Quello ricavato dal posteriore è più tenero, mentre quello anteriore è più nervoso, dato che l’animale usa maggiormente la muscolatura delle zampe anteriori; quindi con le anteriori è meglio cuocerlo a spezzatino. Comprende una sezione d’osso particolarmente ricco di midollo, molto saporito ma delicato, che si mangia con il resto della carne, aiutandosi con un cucchiaino.
L’ossobuco è sia di manzo sia di vitello. Quello di manzo va benissimo, ma si cuoce solo a spezzatino ed è raro e difficile da trovare. Quello posteriore di vitello è il top. A essere precisini, il «miglior migliore» è quello tagliato a metà altezza del muscolo, più polposo e con un maggior contenuto di midollo all’interno. Ma questo lo sanno sostanzialmente solo i macellai e non sempre lo precisano… Di là delle esagerazioni, quello di vitello comprato da un bravo macellaio va sempre bene. Ricapitolando. A spezzatino si può/deve cucinare in umido, accompagnato da cipolla, funghi o an-
che pomodoro e pure da infinito altro. Mentre quello di vitello si cuoce a trancio intero.
Ecco la ricetta canonica. Ingredienti per 4 persone: 4 ossibuchi alti 4 centimetri, burro, concentrato di pomodoro, soffritto di cipolla, buccia di limone, aglio, prezzemolo tritato, brodo di vitello, vino bianco secco, farina bianca, sale, pepe.
Incidete i bordi degli ossibuchi, altrimenti i bordi si arricciano in cottura, infarinateli, eliminate la farina in eccesso e fateli rosolare in un tegame con 40 g di burro (ma se avete il burro chiarificato è meglio); 5 minuti per lato. Unite al fondo di cottura 1 o 2 cipolle mondate e tagliate a dadini, 1 bicchiere di vino bianco secco e 1 piccola punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua. Coprite e cuocete a fuoco basso per circa 1 ora e ½, più o meno (dipende dallo spessore e dall’animale), bagnando di tanto in tanto con poco brodo di vitello bollente, e rivoltando ogni tanto gli ossibuchi. A cottura, togliete gli ossibuchi dal fondo, teneteli in caldo; emulsionate il fondo con una noce di burro e aggiungeteci una manciata di prezzemolo tritato. Tritate 1 spicchio d’aglio e il giallo della buccia di mezzo limone non trattato, quindi mescolate il trito al fondo di cottura. Regolate di sale e di pepe. Disponete gli ossibuchi su piatti individuali, irrorateli col fondo e serviteli. Va da sé che l’accompagnamento classico è il risotto alla milanese.
Nella mia versione, insieme al vino aggiungo la cipolla tagliata a fettine ma anche sedano e carota tagliate a julienne ma anche abbondante prezzemolo e abbondante aglio a fettine (tutto all’inizio). Lo porto a cottura come indicato sopra e solo alla fine aggiungo scorza di limone tagliata a dadini. E accompagno con un buon purè di patate.
Una gentile lettrice chiede come fare la confettura di fragole. Ricordo che si chiamano marmellate quelle fatte con agrumi e zuccheri, confetture quelle fatte con tutti gli altri frutti e zucchero. Così la preparo io... Parto da una marinatura con lo zucchero: tecnica di cucina necessaria
Ballando coi gusti
Praline rocher
Oggi, due ricette di simpatici dolcetti, valide in tutte le stagioni.
Ingredienti per 20 praline: 120 g di nocciole tritate – 3 cucchiai di miele –2 cucchiai di zucchero a velo – 150 g di cioccolato fondente.
Mescolate le nocciole al miele e con l’aiuto di un cucchiaino formate dei mucchietti sulla placca rivestita di carta da forno. Cospargete di zucchero a velo e cuocete per 3 minuti circa o fino a che non si saranno caramellati. Raffreddate. Sciogliete il cioccolato e immergetevi i rocher, uno a uno, cercando di coprirli il più possibile. Posateli su una gratella coperta con carta da forno. Raffreddate e gustate.
per provocare la rottura delle tenaci pareti cellulari della frutta permettendo così di ridurre poi i tempi di cottura. Quindi mondo la frutta, la taglio a pezzetti, che poi metto in una ciotola ricoprendoli con la quantità di zucchero prevista dalla ricetta (circa 800 g per chilo di frutta, o poco meno). Dopo poche ore, la frutta sarà come appassita e parzialmente immersa nel suo succo: dopo 24 ore sarà del tutto immersa. La pectina – fondamentale addensante che si trova nella frutta – rilasciata durante questa macerazione, sarà a quel punto pronta ad agire e quindi una cottura di soli 20’ o poco più o poco meno
(dipende dalla frutta), sarà più che sufficiente ad addensare la confettura, per poi frullare col minipimer. A meno che non si usi della frutta naturalmente acida, e le fragole acide non sono, è bene aggiungere, all’inizio, il succo filtrato di 1 limone, perché la pectina solidifica meglio in ambiente acido. Infine, per ottenere una confettura ben densa, se la frutta non è troppo ricca di pectina o ricca di acqua, come per le fragole, è bene aggiungere il 20 o anche il 30 percento del peso della frutta di mela con la buccia tagliata a fettine, data la gran quantità di pectina in essa contenuta. Il sapore non cambia, la densità sì.
Thumbprint di cioccolato
Ingredienti per 36 pasticcini: 150 g di farina – 30 g di cacao – 90 g di burro – 110 g di zucchero di canna – 2 cucchiai di latte – 1 pizzico di sale –crema spalmabile al cioccolato.
I thumbprint (traduzione: impronta digitale) sono dei frollini al cacao che si fanno creando con il pollice un incavo da farcire. Mescolate il burro allo zucchero e aggiungete la farina setacciata con il lievito. Versate il latte e impastate. Dividete l’impasto in tre parti e dividete ogni parte in 12 pezzetti. Formate una pallina e schiacciatela con il pollice. Appoggiate i biscotti sulla placca foderata con carta da forno e fate raffreddare in frigorifero per almeno 6 ore. Trascorso il tempo cuocete a 200° per 10 minuti. Sfornate e raffreddate. Riempite l’incavo formato con crema spalmabile al cioccolato, sistemate in pirottini e servite.
Generato
Rustici quadri porta oggetti
Crea con noi ◆ Si appendono al muro ma non sono immagini: realizzare tasche da pareti, è un gioco da ragazzi
Giovanna Grimaldi Leoni
I legnetti levigati dal fiume e il cartone di recupero sono i materiali base utilizzati per creare queste decorazioni da parete, ideali per aggiungere un piccolo angolo verde alla vostra casa. Un progetto semplice che acquista carattere grazie alle stoffe che andrete a utilizzare e che potrete scegliere in base ai vostri gusti personali, in modo da abbinarle al vostro arredo.
Procedimento
Dal cartone di recupero ritagliate 2 rettangoli da 16x22 cm. Scegliete gli scampoli che volete utilizzare per il rivestimento e tagliateli della misura desiderata. Diluite la colla vinilica con poca acqua e applicatela sul cartone con un pennello piatto.
Adagiate sul cartone le stoffe, sovrapponendo sempre gli scampoli di qualche mm e lasciandoli fuoriuscire qualche centimetro dal bordo del cartone. Fate aderire bene utilizzando una spatola.
Girate il cartone e, sempre con la colla vinilica, risvoltate e fissate le eccedenze. In questo modo anche lo spessore del cartone sarà ben rifinito.
Lasciate asciugare.
Tasca uncinetto:
Per creare le tasche sui pannelli potete utilizzare tecniche diverse. Questo renderà l’insieme più interessante. Per la tasca all’uncinetto, utilizzate un filato beige un po’ rustico come della iuta, un cordino o dello spago. Montate le catenelle fino a raggiun-
Giochi e passatempi
Cruciverba
Forse non tutti sanno che Igor Stravinsky eseguiva ogni mattina una posizione yoga.
Come si chiamava? In cosa consisteva?
Troverai le risposte leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate.
(Frase: 9, 3, 9, 5, 5)
ORIZZONTALI
1. A ntica regione della Mesopotamia
7. Divinità induista
8. L e iniziali del conduttore Savino
9. Pronome personale
10. Un anagramma di gai
12. L’ovvero latino
14. Si ripetono nella confusione
16. Pallida rosa
18. Nome femminile
21. Recipiente bacchico
23. Una cricca di amici
24. Affiliate ad una setta
26. In meteorologia sollevamento orografico
28. In italiano e in tedesco
29. Fibra da sacco
31. Bagna Strasburgo
32. Parola amorevole
33. Metà della metà
VERTICALI
1. L e iniziali del comico Siani
2. Samuel per gli amici
3. Gabbia per polli
4. Due romani
5. Titolo di laurea abbreviato
6. Un Continente
10. Or diva trame nell’Olimpo
11. Osservata
13. Aspirazioni irrealizzabili
15. Accoglie l’implume
17. Conserva i carciofini
18. Valutazione Ambientale Strategica
19. Organi statali
20. Penne del primo dito dell’ala degli uccelli
22. A fin di bene…
25. Tasso Ufficiale di Sconto
27. Un comando perentorio
30. Arriva in testa
gere una larghezza di 12 cm e lavorate il rettangolo a punto basso, inserendo, se desiderate, una riga decorativa traforata a punto alto: 1 punto alto, 4cat, 1 punto alto saltando un punto della riga sottostante. Fissate la tasca al cartone utilizzano filo da ricamo in tinta e un ago cucendo piccoli punti lungo i lati laterali e inferiore.
Tasca cartone:
La tasca può essere realizzata anche in cartone rivestito utilizzando la stessa tecnica dei pannelli. Ritagliate un trapezio con la base maggiore di 12 cm e una base minore di 8 cm. Create lo spessore del vaso incollando una striscia di cartone larga 2 cm alla base e ai lati. Rivestite il vaso ottenuto con la stoffa e decoratelo a piacere, per esempio con del pizzo. Con la colla a caldo applicatelo sul pannello. Nella parte superiore dei pannelli, fate due fori e infilate un cordino. Utilizzatelo per legare i legnetti levigati. A seconda di dove appenderete le vostre decorazioni aggiungete un gancetto o un cordino.
Applicate la colla su tutto il retro del pannello e applicate un cartoncino bianco da 15x21 cm per rifinire il tutto. Applicare la colla su entrambi i lati del pannello vi permetterà anche di ottenere un pannello ben rigido che non si curverà.
Le vostre decorazioni sono pronte per accogliere piccole piante aeree o fiori recisi. Se, nella tasca a uncinetto vole-
Materiale
• Legnetti levigati da 20 cm
• 2 cartoni spessi da 16x22 cm
• 2 fogli bianchi da 15x21 cm
• Scampoli di stoffa in bianco e nero
• Colla vinilica e pennello piatto
• Colla a caldo
• Forbici, taglierino, foratrice
• Resti di pizzo
• Cordoncino beige e uncinetto
• Filo beige e ago
(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
te inserire una piccola pianta in vaso, ricordate di limitarvi a vaporizzarla con acqua o di aggiungere acqua solo dopo aver tolto il vaso dal pannello. Buon divertimento!
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito.
o
cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione,
intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie
esclusivamente
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
Soluzione della settimana precedente LO SAPEVI CHE… – La Francia è l’unico Paese occidentale dove si pratica…
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Viaggiatori d’Occidente
Bastone o carota per educare gli spostati?
Il turista è, per definizione, uno spostato, dal punto di vista fisico e psicologico. Infatti si trasferisce temporaneamente in un luogo dove non ha legami lavorativi né familiari. E poiché non conosce le regole condivise, è incline a commettere errori, gaffe: come chiedere alcol in un Paese musulmano, oppure entrare in un edificio religioso con un abito troppo succinto. Anche lasciare la giusta mancia può essere un rompicapo; in alcuni Paesi è quasi obbligatorio, in altri no. Ed è noto come nell’India tradizionale e rurale non si tocca il cibo o non si passano oggetti con la mano sinistra, impura perché utilizzata per l’igiene personale. In un viaggio (ben) organizzato è più facile evitare errori, anche perché è minore il contatto con i locali; e naturalmente un poco di preparazione aiuta, anche se oltre un certo limite queste situazioni, spiacevoli ma istruttive,
vanno forse accettate come parte inevitabile dell’esperienza del viaggio. Un tempo, il turista poteva contare su una larghissima comprensione. Ogni suo comportamento era scusato e gli si chiedeva soltanto una minima buona volontà. Ma nel tempo dell’Overtourism le regole d’ingaggio sono cambiate e gli abitanti reagiscono spesso con fastidio, a volte anche passando anche alle vie di fatto; per esempio a Barcellona dei manifestanti, al grido di Tourists go home!, li hanno bersagliati con pistole ad acqua. In altri casi i turisti sono stati severamente multati per aver consumato cibi e bevande in luoghi storici (Firenze) o per aver fatto il bagno nelle fontane monumentali (Roma). Molte destinazioni, poi, fissano un tetto al numero di visitatori e ben che vada, come nel caso di Venezia, tocca pagare un biglietto, quasi a ribadire che la loro presenza dà fastidio e dev’essere compensata col denaro.
Passeggiate svizzere
Il
bosco di Tamangur
Parto da S-charl, piccola frazione distantissima di Scuol non poi così lontana dal mio cognome e un tempo villaggio minerario: piombo e argento. Scorta d’acqua alla fontana più una sorsata guardando il cielo e via. A fianco della Clemgia che scorre spumosa percorrendo questa valle laterale che collega la Bassa Engadina con la Val Monastero. Molti in bici, diversi camminatori, tre pescatori a mosca. A un certo punto non incontro più nessuno e trovo scritto per la prima volta, sul cartello, il nome magico, tra l’esotico e il finnico, del bosco di cembri dove sono diretto. È il bosco di cembri più alto d’Europa e similitudine del romancio morente in una poesia di Peider Lansel intitolata proprio Tamangur (1923). Per una volta le cose sono andate per il verso giusto: il romancio, dal 1938 è lingua nazionale – e il God da Tamangur che sale fino a 2300 metri mi
sembra, a un primo sguardo, più vivo che mai. Grazie anche a Peider Lansel (1863-1943): poeta mezzo pisano perché nato a Pisa da genitori emigranti – droghieri – era originario di Sent dove passava tutte le estati e dove poi tornava a vivere con digressioni a Ginevra e una parentesi come console svizzero a Livorno. Oltre alla poesia-chiave per il destino di quel bosco e del romancio, ormai intrecciati a vita, si è battuto molto per salvare questa lingua retoromanza che a me sembra sempre molto buffa e fiabesca. Prima di perdermi tra i dschembers, preludio di cavalli al pascolo e fischi di marmotta: ne becco una, impettita, sull’attenti, accanto un’altra, impietrita; poi spariscono nello loro tane. Dentro Tamangur, verso l’ora del tè, mi tornano in mente gli ultimi versi in vallader della prima sestina di Lansel letti ieri notte e tradotti stamattina in viaggio: «Una schiera così non si trova
Sport in Azione
Da qualche tempo, tuttavia, una diversa filosofia sembra farsi strada, ovvero quella di premiare i comportamenti virtuosi piuttosto che sanzionare quelli inappropriati. Per esempio l’ufficio del turismo di Copenaghen promuove una variante del nostro Ticino Ticket, il pass gratuito che consente l’uso dei trasporti pubblici in tutto il Cantone. O ancora il progetto Malama Hawaii («Prendersi cura») ha coinvolto i visitatori in attività ambientali come la pulizia delle spiagge e la posa di alberi, in cambio di sconti fino al 15% sulle camere d’albergo. Hanno partecipato il 5% dei visitatori, per 1400 ore di servizio complessive.
Nella città canadese di Squamish, invece, si distribuiscono gratuitamente sacchetti di plastica rossi per la spazzatura. Chi riporta un sacchetto pieno di rifiuti, propri o altrui, riceve in cambio un caffè, una birra artigiana-
le o un cono gelato presso i locali affiliati all’iniziativa. E dunque la prima lezione sembrerebbe questa: non servono grandi ricompense, un gesto simbolico, unito alla soddisfazione personale, funziona ugualmente.
A Palau – un arcipelago della Micronesia – se dimostri di aver utilizzato creme solari che non danneggiano la barriera corallina ottieni in cambio esperienze particolari, per esempio l’accesso a una piantagione o a una casa di riunione maschile. In questo caso la ricompensa è di natura culturale, immateriale, ma sembra funzionare altrettanto bene, quanto meno con i viaggiatori più consapevoli. Certo, la vacanza, come il carnevale, è per definizione un tempo di maggiore libertà sino al limite della trasgressione, un momento di sperimentazione, di regole rilassate. Lasciati a sé stessi, i turisti tendono naturalmente a una certa indisciplina;
ma se coinvolti e motivati, se diventano parte di una narrazione positiva, adottano comportamenti più attenti. La dimensione del gioco – gamification – funziona molto bene: completare un percorso a tappe o risolvere enigmi può servire per indirizzare i flussi turistici verso attrazioni meno affollate.
Nelle più diverse forme, l’idea di motivare e premiare i turisti resta comunque solo una tappa verso il vero obiettivo, ovvero pensare i turisti come «cittadini temporanei», con precisi diritti e doveri nei confronti della comunità alla quale si uniscono. E quindi gli incentivi hanno senso in circostanze straordinarie e comunque per periodi limitati. Per esempio, se ragioniamo rigorosamente, anche i locali dovrebbero essere incentivati a usare i mezzi pubblici invece dell’auto privata. Oltre il bastone e la carota, c’è un’idea più moderna di turismo.
da nessuna parte / ultimo avanzo di un bosco, detto: Tamangur». Toponimo taumaturgico ripetuto come un mantra alla fine di ogni strofa che significa, secondo alcuni, «il rifugio del minatore», per altri «la baita del monaco» mentre c’è chi sostiene che God da Tamangur vorrebbe dire «il bosco là dietro» . Per me Tamangur mostra tutti i limiti della toponomastica e Tamangur vuole solo dire Tamangur. Cembreto-meraviglia dentro il quale cammino una fine pomeriggio d’agosto. Verde argenteo trafitto dalla luce, cortecce rossicce, radici contorte ultrasecolari, arabeschi di licheni sospesi, profumo resinoso-letargico, tronchi divelti come relitti. Vago con lo sguardo tra Pinus cembra ottocenteschi e alcuni di ottocento anni, passati attraverso chissà quante tempeste, metri di neve, valanghe, venti, frane, lampi. Qui vengono accolte le anime dei cacciatori, come il nonno del-
Chiasso, capitale mondiale del ciclismo…
Può suonare come una battuta. Chissà come reagirebbero a Sanremo o a Roubaix?
Comunque, nel titolo, c’è un pizzico di verità. Il borgo di confine, da anni, è sede di una delle più importanti agenzie di management in ambito ciclistico: la A&J All Sports, fondata nel 1997 dai fratelli Alex e Johnny Carera.
Al recente Tour de France la loro scuderia ha vinto 12 tappe su 21. Sei, con il fenomenale Tadej Pogačar. Non utilizzo il termine stupefacente poiché, con lui, stupore e meraviglia sono tutt’altro che occasionali, e soprattutto perché la parola riaccenderebbe le fantasie degli haters che hanno invaso il web con una valanga di dubbi, perplessità, accuse, sulle quali torneremo più avanti. A completare il trionfo di A&J sono giunte le tre vittorie di Biniam Girmay, il primo africano nero capace di imporsi in
tappe del Giro d’Italia, del Tour de Suisse, e della Grande Boucle, dove ha vestito la maglia verde di vincitore della classifica a punti. Un riconoscimento soffiato al belga Jasper Philipsen, pure trionfatore in tre frazioni e che, guarda caso, è pure un atleta A&J.
Vuoi più bene al papà o alla mamma? È l’interrogativo che mette in crisi i bambini. Johnny e Alex, bambini non lo sono più da parecchio tempo, ma me li immagino fremere quando, a 70 all’ora, Biniam e Jasper facevano a sportellate per la vittoria: «Siamo un po’ come i loro amici più grandi», confessa Alex. «In teoria, ai nostri atleti dovremmo offrire contratti di prestazione sportiva con i loro Team e con eventuali sponsor privati. In realtà, il più delle volte, ci occupiamo di tutto: assicurazioni, ingaggi a eventi, ricerca della casa, consulenza fiscale e giuridica, questioni relative al pas-
saporto o a permessi di vario genere». Questo accade poiché, dietro a quella che è a tutti gli effetti un’operazione commerciale, viene costruita una relazione fondata sulla reciproca fiducia. È un percorso che parte da lontano, da quando i nostri otto «scout» vanno a stanare i corridori in ogni angolo del globo per proporre loro il primo contratto. «È un’operazione molto delicata, che affidiamo a persone appartenenti al mondo del ciclismo, ma anche a quello giuridico. È fondamentale che genitori e ragazzi sentano di essere in buone mani».
Recentemente, purtroppo, è subentrata una nuova mansione: il lavoro capillare ed estenuante di dialogo, se necessario anche molto duro, con le migliaia di «odiatori» che invadono i social media. Se uno, come nel caso di Pogačar, domina la scena, scattano inevitabilmente le accuse di doping.
la bambina protagonista, assieme alla nonna, di un romanzo breve di Leta Semadeni intitolato anche Tamangur (2015). Un altro cantore di questo bosco estremo, esempio di tenacia, è Domenic Feuerstein, Der Arvenwald von Tamangur (1939): foto in biancoenero ritraggono questo mondo di alberi capovolti con radici in aria come zanne di mammut. Ritrovo, in giro, quell’aura totemica e primordiale dei tronchi di cembri morti da tempo. Persa la sembianza di cembro, lisci e color quasi d’avorio, diventano sculture. Altra vittima dell’aura di Tamangur è Not Vital, nel cui castello d’artista a Tarasp vi avevo portato quest’inverno dimenticando di raccontarvi che nella sala da pranzo, in un angolo, c’è, in piedi, un ramo pennellato di bianco e otto lettere alle estremità: con lo sguardo, saltellando da una lettera all’altra, potete unirle e comporre il nome di questo
luogo dove ora devo cercare un posto per accamparmi. Prima però, ecco il vero capolavoro: un pino cembro sopravvissuto al fulmine. Verso sera sbuco in una piccola radura, insperata, in corrispondenza del Piz Amalia. Monto la tenda verde cembro. Un capriolo mi guarda per cinque-sei secondi, poi scappa via abbaiando. Da queste parti girano anche lupi e orsi. A cena divoro un’insalata pantesca e vado a letto con le galline. Le vacche dell’Alp Astras invece non dormono ancora. Il tintinnabulo bovino dei campanacci, in lontananza, concilia il sonno. Se per l’odore del legno di cembro, talismano di tutto l’arco alpino, esistono studi riguardo l’effetto pacificante sulla psiche, nessuno dice niente sul dormire tra i cembri. Mi sveglio nel cuore della notte, metto fuori la testa –come un cucù – per un interludio di cielo stellato.
I signori nessuno si sostituiscono al medico, al fisiologo, al preparatore, per affermare, senza se e senza ma, che simili prestazioni sono oltre il limite umano.
Generalmente le squadre se ne infischiano. A loro preme che i corridori si preparino adeguatamente per ottenere buoni risultati. Alex Carera mi spiega invece che a loro queste malelingue danno molto fastidio, poiché ledono la professionalità di tutto l’ambiente. «Il nostro ufficio legale procede a effettuare degli screenshot e a contattare gli interessati, anche se capita che si tratti di profili falsi. Il più delle volte cancellano i post e presentano le loro scuse. In caso contrario procediamo con le querele».
Peccato che uno dei periodi più scoppiettanti, funambolici, spettacolari della storia del ciclismo venga infangato dalla cultura del sospetto, figlia di un passato torbido.
Peccato perché, dati alla mano, da parecchi anni, nella rete dell’antidoping sono stati pescati solo pochi pesciolini di terz’ordine. Nessun big. Il passaporto biologico e la reperibilità obbligatoria dalle 6 alle 22, si sono rivelati un potentissimo deterrente. C’è chi sospetta che nell’ambiente siano diventati più furbi. Sono invece convinto che siano diventati più prudenti, nella consapevolezza che un nuovo scandalo di dimensioni planetarie metterebbe in crisi un sistema che sta riuscendo a far dimenticare quanto di sporco c’era nel suo passato, attirando di conseguenza nuovi sponsor di caratura mondiale. Se poi emergerà che in realtà questi fenomeni volanti hanno scoperto nuove frontiere dell’inganno capaci di eludere i controlli, saremo i primi a farne ammenda e a occuparci d’altro. Ammesso che ci sia un «altro» privo di scheletri nell’armadio.
di Giancarlo Dionisio
di Oliver Scharpf
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ATTUALITÀ
Focus sulla Riforma delle casse pensioni Il 22 settembre si vota sul secondo pilastro. Quali cambiamenti si prospettano e il parere di Diana De Luca, esperta in materia di previdenza
Cos’accade in Bangladesh
Dalla rivolta degli studenti, iniziata in luglio, alle dimissioni della premier Sheikh Hasina, passando dall’ombra jihadista e dal ruolo degli Stati Uniti
Lo svarione miliardario dell’AVS
Berna ◆ Il calcolo errato delle uscite del primo pilastro mette in crisi il Governo e la politica tutta, specialmente il Partito socialista
Verso la fine dello scorso mese di luglio era scoppiato quello che sembrava essere il caso politico dell’estate svizzera, e cioè il duello a distanza tra il neo-consigliere federale Beat Jans e l’ex ministro Ueli Mauer. Oggetto del contendere: i negoziati in corso per rinnovare gli accordi bilaterali con l’Unione europea. Tema scabroso. Poi però la scorsa settimana, a riprova che la politica svizzera è capace anche di repentine climax ascendenti, la diatriba tra il socialista Jans e l’esponente dell’UDC Mauer è stata ampiamente superata da un altro argomento: gli errori di calcolo e le previsioni troppo pessimistiche sul futuro finanziario dell’AVS. Un pasticcio matematico mestamente comunicato martedì scorso dall’Ufas, Ufficio federale delle assicurazioni sociali. Nel concreto si tratta di uno svarione miliardario che per il periodo tra il 2027 e il 2033 ammonta complessivamente a ben 14 miliardi di franchi. Nel 2033, ad esempio, le uscite dell’AVS saranno inferiori al previsto, si spenderanno circa 4 miliardi in meno, una differenza del 6% rispetto a quanto stimato in un primo tempo.
Nel 2033, ad esempio, le uscite dell’AVS saranno inferiori al previsto, si spenderanno circa quattro miliardi in meno
Tutte cifre a nove zeri che ci dicono che il nostro primo pilastro è meno fragile rispetto a quanto pensato finora. Una correzione certamente vistosa e davvero imbarazzate per lo stesso Ufficio federale, in un contesto in cui i conti dell’AVS continueranno comunque a rimanere nelle cifre rosse. Il tema è politicamente scottante, perché c’è di mezzo il futuro dell’AVS ma anche perché negli ultimi due anni in questo ambito ci sono state due votazioni popolari di grande rilievo. Nel marzo scorso si è votato sull’iniziativa che ha portato all’introduzione di una tredicesima rendita pensionistica. Lo spettro delle cifre rosse non ha influito sull’esito del voto, ma ora si tratta di trovare il modo di finanziare questa ulteriore rendita, e Governo e Parlamento devono poterlo fare appoggiandosi su dati e previsioni affidabili.
Nel settembre del 2022, invece, le urne sancirono l’aumento dell’età di pensionamento a 65 anni anche per le donne. Una votazione che spaccò in due il Paese e che vide il fronte dei favorevoli imporsi di strettissima misura, con il 50,5% dei suffragi. Vi fu anche un «Röstigraben», visto che la Romandia e il Ticino si opposero a questa riforma. I dati e le cifre sullo stato di salute di questa assicurazione vecchiaia hanno caratterizza-
to anche quella campagna politica. Ora però risulta che quelle prospettive finanziarie erano sbagliate. Da qui le reazioni decisamente veementi in particolare del partito socialista e dell’Unione sindacale svizzera. Anche l’Ocst, l’Organizzazione cristiano sociale ticinese, ha espresso «sconcerto riguardo agli errori di calcolo» sul futuro dell’AVS. Per le donne socialiste la votazione di due anni fa è da annullare.
Dal canto loro mercoledì scorso i Verdi svizzeri hanno per primi deciso di presentare un ricorso contro l’esito di quello scrutinio, «alle donne è stato rubato un anno di rendite AVS», ha dichiarato Lisa Mazzone. Per la neo-presidente del partito ecologista non si può stare a guardare, si tratta ora «di difendere la democrazia». L’ultima parola spetta comunque al Tribunale federale, che in passato in casi simili si è mosso sempre in modo molto circospetto. Finora i giudici di Losanna hanno annullato una sola volta il risultato di una votazione popolare. Lo hanno fatto 2019 in relazione all’iniziativa lanciata dal Centro sulla «penalizzazio-
ne del matrimonio» in ambio fiscale. Il Tribunale ritenne che le informazioni trasmesse dal Consiglio federale su questo tema erano errate, con conseguenze dirette sull’esito del voto. Si trattava di cifre relative al numero di coppie che avrebbero beneficiato di quella modifica di legge: nei suoi documenti il Governo parlava di 80mila coppie, in realtà questo dato era molto più elevato, e arrivava a oltre 450mila.
È il Tribunale federale a decidere. Finora i giudici di Losanna hanno annullato una sola volta il risultato di un voto popolare
Da notare che anche in quel caso la votazione si giocò sul filo di lana, solo il 50,8% bocciò quell’iniziativa. Ma al di là dei ricorsi c’è da dire che questo errore di calcolo mette in imbarazzo anche il Dipartimento federale dell’interno, responsabile dell’Ufficio federale delle assicurazioni sociali. Non per nulla la consigliera federale Elisabeth Baume Schneider ha parla-
to di «un errore grave» e ha subito ordinato un’inchiesta esterna per chiarire quanto capitato. Per la ministra socialista si tratta di togliere al più presto le castagne dal fuoco, lei che è alla guida di questo Dipartimento da pochi mesi e che sul finire del 2023 aveva deciso a sorpresa di lasciare il suo primo incarico in Governo, quello al Dipartimento di giustizia in cui è rimasta per un anno soltanto. Ma l’intera vicenda getta ombre anche sull’operato di Alain Berset, che ha diretto quel Dipartimento tra il 2012 e l’anno scorso. A lui si deve anche la nomina dell’attuale direttore dell’Ufas, il vallesano Stéphane Rossini, in carica da cinque anni. Nato in Vallese nel 1963, in una famiglia di origini ticinesi, Rossini ha una lunga carriera politica alle spalle: per un quadriennio è stato vice-presidente del PS e per ben sedici anni ha fatto parte del Consiglio nazionale, Camera che ha anche presieduto, nel 2015. Insomma, stiamo parlando di un alto funzionario della Confederazione ma anche di una figura di spicco del Partito socialista. Visti così, gli errori di calcolo rischiano di pesare parecchio
anche sul PS, non per nulla il Partito liberale radicale ha reagito con un comunicato che porta questo titolo: «Caos al Dipartimento dell’interno», dipartimento in cui si assiste – citiamo – «a una débacle dei consiglieri federali socialisti».
Il PLR chiede ora «trasparenza totale» e anche l’intervento della Commissione della gestione, l’organo che in Parlamento ha il compito di controllare l’operato del Consiglio federale. Una cosa è chiara, attorno all’AVS va urgentemente ristabilita la fiducia, a beneficio della politica ma anche di tutto il Paese. Senza però dimenticare l’estrema complessità di questa materia, basti dire che il programma di calcolo utilizzato per le previsioni finanziarie dell’AVS è composto da ben 70mila righe di codice di programma. Un codice in cui, come hanno spiegato gli stessi responsabili dell’Ufas, è bastato l’inserimento di due formule matematiche errate per causare questo grande passo falso. Eh sì, dopo il Festival di Locarno, che ha inaugurato mercoledì scorso, Elisabeth Baume Schneider avrà di certo un gran bel daffare.
Attorno all’AVS va ristabilita la fiducia a beneficio di tutto il Paese. (Manfred Richter/Pixabay)
Roberto Porta
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La Riforma della cassa pensioni tra luci e ombre
Svizzera ◆ Il 22 settembre si vota sul secondo pilastro: quali cambiamenti si prospettano? Il parere dell’esperta Diana De Luca
Romina Borla
Lasciamo le polemiche legate all’AVS e guardiamo avanti. Il 22 settembre prossimo saremo chiamati a votare sulla Riforma della previdenza professionale (Riforma LPP) che si prefigge di «rafforzare il finanziamento del 2° pilastro» e «mantenere nel complesso il livello delle rendite» in un contesto economico caratterizzato dall’aumento della speranza di vita e dalla difficoltà nel generare rendimenti stabili a fronte di rischi di investimento contenuti. Un tema controverso e complesso, tanto più se si considera che sono in molti a non sapere esattamente come funziona il sistema previdenziale svizzero, basato su tre pilastri (AVS, previdenza professionale e privata). Iniziamo dalle misure principali previste dalla riforma; in seguito il parere di Diana De Luca, esperta in materia di previdenza, che il 29 agosto parteciperà a un dibattito sulla Riforma LPP a Lugano (leggi box).
La riforma in questione intende ridurre l’aliquota minima di conversione (che si applica alla parte obbligatoria della previdenza professionale, ovvero alle prestazioni minime LPP) dal 6,8 al 6%. «Parametro determinante per il calcolo della rendita di vecchiaia nel 2° pilastro – afferma l’Ufficio federale delle assicurazioni sociali (Ufas) – questa aliquota è espressa in percentuale dell’avere di previdenza disponibile al momento del pensionamento. Secondo le disposizioni legali vigenti è del 6,8% a 65 anni». Con un avere di previdenza di 100’000 franchi, ad esempio, applicando l’aliquota di conversione del 6,8% risulta una rendita annua di 6800 franchi (versata a vita).
Per impedire il più possibile la riduzione delle rendite future – continua l’Ufas – Consiglio federale e Parlamento hanno pensato ad alcune misure volte a compensare l’abbassamento dell’aliquota di conversione. In primo luogo l’aumento del salario assicurato e soggetto ai contributi, grazie alla flessibilizzazione della «deduzione di coordinamento». «Nel 2°
pilastro non è assicurato l’intero salario. Da quest’ultimo è infatti detratta (...) la cosiddetta deduzione di coordinamento, pari oggi a 25’725 franchi, indipendentemente dal salario e dal tasso di occupazione. (…) Invece di un importo fisso, la riforma prevede una futura deduzione pari al 20% del salario». La quota di salario assicurato che ne deriva risulterà così più alta, permettendo, nella maggior parte dei casi, un accumulo superiore di averi di risparmio nel 2° pilastro.
Misure compensative
È prevista anche una misura compensativa per le persone che rientrano nella «generazione di transizione»: prevede dei versamenti di un supplemento alla rendita che si declina a dipendenza della classe di età (anno di nascita) e dell’avere di vecchiaia accumulato. La Riforma LPP comporta anche la modifica della soglia di ingresso nel 2° pilastro – attualmente il salario minimo per un’affiliazione obbligatoria ammonta a 22’050 franchi; si vuole portare la soglia a 19’845 franchi – e la ridefinizione della scala contributiva che ora si articola su quattro categorie: dai 25 ai 34 anni viene prelevato un contributo di risparmio del 7%, dai 35 ai 44 anni il 10%, dai 45 ai 54 anni il 15% e dai 55 ai 65 anni il 18%. Un domani le categorie potrebbero essere semplificate e livellate: dai 25 ai 44 anni si applicherà il 9% e dai 45 fino all’età di riferimento il 14%.
L’Ufas sottolinea che questi cambiamenti dovrebbero «migliorare la previdenza per la vecchiaia delle persone con redditi modesti: in particolare le donne che adottano con maggior frequenza modelli di lavoro a tempo parziale, che presentano più contratti di lavoro simultaneamente o si assentano dal mondo del lavoro per periodi più o meno lunghi». Ma lo stesso ufficio ammette: «Non è tuttavia possibile stabilire con precisione e a livello generale gli effetti della riforma» e anche, le misure «potrebbero
comportare un aumento dei contributi per una parte dei lavoratori e dei loro datori di lavoro; di conseguenza il loro reddito disponibile diminuirebbe». Di sicuro «i lavoratori a tempo parziale e quelli con salari bassi dovranno versare contributi più elevati». Diamo la parola a Diana De Luca che parte da una considerazione: «L’attuale tasso di conversione è troppo alto se confrontato alla crescente longevità che sta mettendo sotto pressione le casse pensioni con periodi di finanziamento delle rendite più estesi. L’aliquota di conversione attuale implica un apporto stabile da parte del terzo contribuente (mercati finanziari) pari al 5%, performance non sempre raggiungibile con un profilo di rischio basso». La nostra interlocutrice evidenzia poi alcuni punti positivi della riforma: «Interessante l’idea di abbassare la soglia di ingresso per il 2° pilastro pilastro, importante barriera che esclude le categorie più modeste di lavoratrici e lavoratori. Grazie a questa modifica si stima che verranno incluse 70mila nuove figure professionali. Mentre l’aumento della parte del salario assicurato, grazie alla flessibilizzazione della deduzione di coordinamento, dovrebbe permettere a circa 30mila persone di assicurarsi meglio». Inoltre, per l’esperta, «la modifica della scala contributiva in base alle classi di età e il livellamento dei contributi di risparmio riducono il costo degli oneri sociali a carico dei datori di lavoro dei lavoratori over 55 anni. Aspetto che dovrebbe agevolare l’appetibilità di profili senior ». Passiamo alle criticità. «Se da un lato l’adeguamento dell’aliquota di conversione sgrava le casse pensioni che assicurano le prestazioni minime LPP – dice De Luca – dall’altro è fortemente criticato poiché diminuisce le rendite di vecchiaia, causando così un peggioramento delle condizioni finanziarie dei pensionati». C’è chi sostiene che la riforma in questione «non muta in maniera significativa la situazione previdenziale delle categorie che si vorrebbero invece sostenere,
in particolare le donne». Il finanziamento dei supplementi di rendita a favore della generazione di transizione, poi, rappresenta secondo l’intervistata un costo elevato a carico delle istituzioni di previdenza che hanno già oggi delle difficoltà nel loro equilibrio finanziario e nell’ottenimento di performance di investimento stabili.
De Luca conclude con le implicazioni di un tema molto dibattuto, quello che riguarda le fluttuazioni di mercato che causano degli scompensi nelle performances di investimento del patrimonio di previdenza che le casse pensioni impiegano per ottenere rendimenti aggiuntivi. «La situazione in questi ultimi anni è resa particolarmente volatile a causa dei differenti conflitti geopolitici e queste turbolenze finanziarie si riflettono direttamente nelle diverse classi di investimento che generano a loro volta delle fluttuazioni nel grado di copertura delle casse pensioni. Questa misura è molto importante e viene rilevata periodicamente, serve per va-
di un fondo di previdenza. A fronte di una remunerazione incerta da parte del cosiddetto “terzo contribuente” e di prospettive economiche di difficile previsione, le casse pensioni tendono ad accantonare una buona parte degli utili ottenuti dagli investimenti per proteggere il patrimonio di previdenza complessivo e assicurare gli impegni finanziari (rendite) nel tempo. Ciò comporta una minore distribuzione di utili agli assicurati attivi e quindi una attrattività relativa di una fondazione di previdenza rispetto a un’altra a dipendenza della politica di distribuzione attuata».
Il dibattito sulla Riforma LPP Giovedì 29 agosto, dalle 18, al Palazzo dei congressi di Lugano (Sala C). Partecipano all’evento – promosso dalla FAFTPlus –Diana De Luca, Cristina Maderni, deputata in Gran Consiglio, e la sindacalista Chiara Landi. Modera la giornalista Simona Cereghetti.
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Tutte le tastiere sono uguali? Purtroppo non è così. Al più tardi quando vorrai digitare una parola come «perché» con l’accento corretto, ti renderai conto di aver ordinato una tastiera tedesca.
Consiglio: assicurati che un prodotto sia conforme allo standard svizzero.
7. Taglia sbagliata
La camicetta è troppo larga, i jeans troppo corti, il casco da bici troppo grande: ordinare abbigliamento ed equipaggiamento sportivo della taglia giusta è una sfida, anche se si conoscono le misure esatte. Infatti, le taglie possono variare a seconda della marca o del paese.
Consiglio: confronta le tue misure corporee con i dati riportati nelle informazioni sul prodotto. In base al feedback della clientela o alla cronologia dei tuoi ordini, molti rivenditori online suggeriscono la taglia più adatta per la marca in questione.
Buono a sapersi
Che cosa succede ai resi di Digitec Galaxus?
Presso il rivenditore online Digitec Galaxus, che appartiene al Gruppo Migros, circa il due per cento di tutti gli ordini viene restituito. La merce nuova nella sua confezione originale viene rimessa immediatamente in magazzino. In caso di segni di apertura o di utilizzo, un team specializzato controlla la merce per individuare eventuali difetti e, se necessario, la rimette a nuovo. Viene poi rimessa in commercio con uno sconto come merce «usata e testata». I prodotti di scarso valore che non vale la pena di ricondizionare vengono donati da Digitec Galaxus a diversi partner. La merce fortemente danneggiata o consumata, invece, viene riciclata conformemente.
Il Mercato e la Piazza
Bilaterali III: la fuga in avanti di Beat Jans
Nel dicembre del 2023 il Consiglio federale ha presentato la sua bozza di mandato per la negoziazione dei Bilaterali III, il nuovo pacchetto di accordi della Svizzera con l’Europa. Le negoziazioni sono cominciate ufficialmente il 18 marzo di quest’anno. È ancora troppo presto per pronunciarsi su come stanno procedendo. Vi sono però segnali che fanno pensare che non stia andando tutto nel modo positivo che ci si attendeva. Uno di questi è l’articolo in favore dei Bilaterali III pubblicato dal consigliere federale Beat Jans sulla «Neue Zürcher Zeitung» del 23 luglio. La presa di posizione di Jans merita di essere letta perché cerca di spiegare quali sono gli argomenti che, soprattutto nella situazione di incertezza attuale, possono essere invocati a sostegno della rapida conclusione di accordi bilaterali con l’Ue. Si tratta essenzialmente di tre punti: rafforza-
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mento della sovranità nazionale, sicurezza del diritto e possibilità di accedere, senza impacci, sia all’offerta di manodopera qualificata sia ai progetti dell’Ue, in particolare a quelli che vengono portati avanti nel campo della ricerca scientifica.
Concludere accordi con l’Ue non significa perdere una parte della sovranità nazionale, afferma Jans. Nel mondo di oggi, così complesso e collegato, chiarire le relazioni con uno dei nostri maggiori partner deve esser visto, non come un indebolimento, ma come un rafforzamento della sovranità. Importante poi è stabilire, con il consenso delle parti, regole vincolanti per le relazioni tra la piccola Svizzera e il colosso europeo. La sicurezza del diritto è soprattutto nell’interesse del partner più piccolo. La necessità di avere regole chiare nei rapporti con l’Ue è anche rilevante nel campo economico. Per Jans non c’è
dubbio: la Svizzera trae molti vantaggi materiali dalle relazioni con l’Ue. A sostegno di questa opinione cita i risultati di uno studio della Fondazione di ricerca tedesca Bertelsmann, stando ai quali 7 delle 10 regioni europee che maggiormente profittano dell’Ue si trovano in Svizzera. Jans pensa ancora che la libera circolazione della manodopera vada mantenuta, nell’interesse della Svizzera che ha sempre più bisogno di lavoratori qualificati e non li può trovare, in seguito alla debolezza della sua demografia, se non nei Paesi dell’Ue. Dovesse la Svizzera bandire la libera circolazione della manodopera, dice Jans, i lavoratori di cui abbisogna la nostra economia verranno da altri Paesi e ci porranno problemi più grandi. Nonostante questi punti forti, la conclusione dell’accordo non sarà facile. C’è la questione di quale Corte sarà chiamata a decidere in caso di conflit-
ti tra la Svizzera e l’Ue. Jans precisa che, al contrario di quanto affermano i contrari agli accordi, in questi casi non sarà la Corte europea a decidere ma un tribunale arbitrale composto pariteticamente. Un altro scoglio difficile da superare è rappresentato dalla cosiddetta «assunzione dinamica» del diritto europeo da parte del nostro Paese. Jans spiega che assunzione dinamica non significa assunzione automatica e che questo meccanismo sarebbe applicato solo per quelle norme che concernono l’adesione al mercato interno europeo. E poi, aggiunge, la Svizzera, anche in questo caso, potrebbe sempre dire di no offrendo congrue misure di compensazione la cui portata sarebbe fissata, di nuovo, da un tribunale arbitrale. Le argomentazioni portate dal consigliere federale socialista a sostegno della necessità di accordi con l’Ue non sono nuove. Nuovo, per un consigliere
Tra l’ostinazione di Macron e la ferocia agonistica
Che mondo si è visto alle Olimpiadi di Parigi? Non si sono visti i russi. C’erano una quindicina di atleti, senza bandiera, senza inno, desiderosi più di passare inosservati che di lasciare tracce. Cina e Usa sono state le Nazioni che hanno vinto più medaglie. La star è stata Simone Biles, la più grande ginnasta di tutti i tempi, che a Parigi ha conquistato tre ori ma è stata battuta alla trave da Alice D’Amato, la prima italiana a vincere una medaglia d’oro olimpica. Sono andati molto bene anche gli atleti francesi, in particolare l’eroe nazionale Leon Marchand, grande nuotatore. Il caso più discusso è stato quello di Imane Khelif, pugile algerina. La questione sarebbe semplice: Imane è una donna con alti livelli di testosterone. Non era l’unica ai Giochi. Ha sempre gareggiato, fino a quando il presidente russo dell’Associazione internazionale della boxe Umar Kremlev – molto vicino a Pu-
tin – l’ha squalificata, alla vigilia della finale mondiale. Kremlev ha sostenuto che Khelif avesse imbrogliato sul proprio sesso. Il Comitato olimpico l’ha smentito: la squalifica sarebbe dovuta a livelli troppo alti di testosterone; ma Kremlev non ha mai reso noti i risultati del fantomatico test. Così il Cio ha ammesso Imane ai Giochi. Peccato che sia Putin sia Trump – due tra gli uomini più potenti e spregiudicati del mondo – abbiano sentenziato che Khelif è un uomo. Non è vero; ma all’ideologia e al potere della realtà non importa nulla.
L’idea di tenere le Olimpiadi in una dimensione urbana, trasformando Parigi in un grande campo di gioco, era geniale. Purtroppo l’organizzazione a volte approssimativa ha prodotto vari disagi agli atleti e ai tifosi; a cominciare dal pasticcio del nuoto nella Senna. Si è speso quasi un miliardo e mezzo di euro per restituire il fiume alla città,
Il presente come storia
renderlo balneabile, potervi tenere le gare di nuoto di resistenza; e poi ogni giorno si stava lì con la provetta in mano alla ricerca di batteri dai complicati nomi latini che potevano nuocere – e in qualche caso hanno nuociuto – alla salute degli atleti. L’ostinazione di Emmanuel Macron a voler tenere la cerimonia inaugurale in città ha creato gravi problemi ai parigini, senza dare in cambio vere emozioni a turisti e telespettatori. Il presidente francese è rimasto all’asciutto mentre i colleghi stranieri fuggivano o si beccavano la pioggia. Ha pronunciato la formula di apertura dei Giochi in fretta e in sussurri, per evitare i fischi che già si sentivano. Il regista della cerimonia, Thomas Jolly, aveva a disposizione il più bel palco del mondo: Parigi. L’ha sprecato con uno spettacolo troppo lungo, sfilacciato, a volte grottesco: Maria Antonietta con la testa in mano, l’ultima cena delle drag queen
1964: l’Expo della guerra fredda
Molti svizzero-italiani, almeno un paio di generazioni, ricordano ancora il viaggio che, sessant’anni fa, nella primavera-estate del 1964, li condusse all’Expo di Losanna, nell’area lacustre di Vidy. Era la quinta esposizione nazionale, di una serie iniziata nel secolo precedente, nel 1883 a Zurigo. Com’era consuetudine, l’iniziativa si proponeva di magnificare le conquiste della scienza e della tecnica, l’artigianato e l’industria, senza tuttavia dimenticare le tradizioni avite e i tratti che contraddistinguevano il paesaggio elvetico. C’erano la monorotaia e la teleferica; purtroppo, per ragioni di sicurezza, non era stato possibile mettere in acqua una delle attrazioni principali, il «mesoscafo» ideato dai Piccard, padre e figlio. Gli organizzatori avevano nominato architetto-capo il ticinese Alberto Camenzind, poi divenuto professore al Politecnico federale. Si era in piena guerra fredda.
Anzi, in una fase acuta del confronto Usa-Urss, dopo che nel 1962 le due super-potenze nucleari si erano ritrovate faccia a faccia nei mari intorno all’isola di Cuba. Allora, sul piano economico, la Svizzera stava attraversando un periodo di surriscaldamento («surchauffe»), con una parallela, forte crescita dell’immigrazione, soprattutto italiana. Un’ondata di indignazione si era riversata anche sul Dipartimento militare, che nella politica di armamento credeva di avere le mani libere. La decisione di acquistare dalla Francia un centinaio di cacciabombardieri Mirage senza informare adeguatamente il Parlamento fu all’origine di una lunga controversia che coinvolse anche lo Stato maggiore dell’esercito e alla fine lo stesso responsabile del Dipartimento Paul Chaudet. Ad alimentare il clima di tensione e di sfiducia reciproca contribuivano anche le ricorrenti rivendicazioni della mino-
ranza giurassiana nel Canton Berna. L’Expo del 1964 si voleva pacificatrice e «summa» delle differenze regionali, sotto il benevolo sguardo del collegio governativo centrale, presieduto, per quell’anno, dal democratico cristiano Ludwig von Moos. Provvedeva a rassicurare famiglie e scolaresche il padiglione dell’esercito, una costruzione aculeata, analoga a quella di un porcospino: un ridotto simbolo di volontà di difesa. Una presenza, quella delle forze armate, che allora impregnava larghi strati della società civile, dall’economia alla politica passando per l’organizzazione del tempo libero (società di ginnastica, di tiro, di canto) e le opportunità di carriera nelle grandi aziende e nelle banche. Sennonché, dietro le quinte, iniziava ad affiorare un certo scontento per un Paese che si stava calcificando in una sorta di aurea mediocritas. Di questo sottile malaise si fece interprete il giurista Max
federale, è forse il calore con il quale presenta le sue tesi a favore e cerca di smontare gli argomenti degli avversari degli accordi.
Ci si può chiedere perché Jans abbia deciso di intervenire pubblicamente nel dibattito sui Bilaterali III proprio in questo momento. È raro che i consiglieri federali si esprimano su argomenti che sono oggetto di trattative internazionali. Nell’articolo sulla «NZZ» egli non dà una spiegazione esplicita. Forse saranno le prossime settimane a chiarire il perché di questa fuga in avanti da parte del nostro magistrato. Intanto mercoledì scorso a Basilea si è tenuta, con la partecipazione di politici basilesi e delle regioni di frontiera francesi e tedesche, una manifestazione di sostegno alle trattative. Non dimentichiamo che sia Jans che un quarto delle esportazioni svizzere nell’Ue vengono da quella città.
Poi ha chiesto scusa e ha spiegato che non si riferiva ai Vangeli e neppure all’affresco di Leonardo da Vinci, ma al convivio degli dei. La cerimonia alla fine non era blasfema. Era brutta. E Notre-Dame, anziché essere valorizzata come cattedrale o almeno come scenario del meraviglioso romanzo d’amore Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, è stata trattata come un laboratorio di falegnameria, con un interminabile video dedicato ai restauri. L’unico vero brivido dell’inaugurazione l’ha suscitato la cantante canadese Céline Dion: la malattia ha segnato il suo volto ma non ha domato il suo spirito, né spento la sua voce. L’Inno all’amore, cantato dalla Tour Eiffel, ha risvegliato lo spirito di Edith Piaf. Tra i campioni che più mi hanno impressionato c’è Novak Djokovic. Ha conquistato l’unica vittoria che gli mancava, l’oro olimpico, a cui teneva moltissimo, visto il suo attaccamento
alla patria serba. A 37 anni ha battuto un avversario di 15 anni più giovane, Carlos Alcaraz, più forte fisicamente e forse anche tecnicamente. Ha giocato meglio i punti importanti, e ha azzeccato la tattica: accorciare gli scambi, aggredire Alcaraz. Ma ha vinto soprattutto perché è stato il più forte di testa e di anima. Dicono che non sia simpatico. Ma un campione non deve essere simpatico. I campioni simpatici o sono dei miracoli come Rafael Nadal, o sono costruiti, finti, gestiti (non sempre bene). Un campione sa essere cattivo, non nel senso di mettere le dita negli occhi all’avversario, ma per la ferocia agonistica, che non è il contrario della bontà d’animo e non è sinonimo di scorrettezza. Proprio quella ferocia agonistica che è mancata a diversi atleti europei; per esempio l’Italia ha il record dei quarti posti (e Giancarlo Dionisio prossimamente farà il punto sulle prestazioni degli svizzeri).
Imboden che riteneva ormai urgente e improcrastinabile una riforma totale della Costituzione. Critiche severe giunsero anche da alcuni intellettuali basilesi non allineati, secondo i quali l’Expo dava di sé un’immagine ingannevole, che non coglieva i fermenti che pur stavano agitando i movimenti giovanili, i partiti e i sindacati: «L’esposizione di Losanna – osservarono in Trugbild der Schweiz – restituisce un’immagine della Svizzera che è sostanzialmente co-determinata dal Governo federale e dalla sua amministrazione». Pure un’originale iniziativa, per quei tempi, come l’inchiesta Gulliver mirante a saggiare gli umori, i valori e gli orientamenti dei visitatori non incontrò il favore delle autorità, che preferì il manzoniano «troncare sopire» piuttosto che proporla alla libera discussione pubblica (in proposito si parlò di censura). Vero è che alcuni passag-
gi toccavano nervi scoperti, domande come: «A suo parere, quali sono i vantaggi del servizio militare e quali gli inconvenienti?»; «Perché le donne sono peggio pagate degli uomini?»; «A suo giudizio, perché lo svizzero sembra essere contrario al suffragio femminile? E personalmente, lei è favorevole o contrario?»; «Quale ruolo gioca la religione nella sua esistenza?». I risultati del sondaggio d’opinione furono ripresi due anni dopo, nel 1966, da un giovane sociologo francese, Luc Boltanski, che li utilizzò per redigere un saggio sui mutamenti in corso nella stratificazione sociale: contadini, impiegati, operai, il mondo della scienza. Le bonheur suisse (la felicità del titolo rimandava ad un’espressione coniata dagli illuministi francesi) apriva così una finestra sociologica su dinamiche e tendenze fino a quel momento volutamente ignorate o lasciate nell’ombra.
di Angelo Rossi
di Aldo Cazzullo
di Orazio Martinetti
Losanna
Pura bontà italiana
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La scrittrice, giornalista e conduttrice tv Daria Bignardi nel suo saggio Ogni prigione è un’isola racconta la sua esperienza nel mondo delle carceri e dei suoi incontri
Le avanguardie europee e le alleanze artistiche
Mostra ◆ L’amicizia e la collaborazione tra Jean Arp, Sophie Taeuber e Max Bill animano lo Spazio della Fondazione a Solduno
«L’arte concreta è quell’arte che nasce da mezzi e leggi proprie, senza alcun riferimento esteriore alla natura. La rappresentazione visiva si basa quindi su colore, forma, luce, movimento». Correva l’anno 1936 quando Max Bill (1908-1994) scrisse il suo testo programmatico Konkrete Gestaltung inserito nel catalogo della mostra Zeitprobleme in der Schweizer Malerei und Plastik che si tenne in quello stesso anno al Kunsthaus di Zurigo. In quel testo è contenuto questo passaggio che troviamo riprodotto anche nell’esposizione in corso allo Spazio espositivo della Fondazione Marguerite Arp.
Sono quelle alleanze e collaborazioni artistiche che negli anni Trenta del Novecento avanguardistico si crearono per difendere e promuovere il valore e l’importanza dell’arte non figurativa in tempi in cui da Parigi sulla scena artistica si irradiavano la forza, l’eloquenza e il fascino surrealista. E diedero vita ai movimenti non figurativi come Cercle et Carré e Abstraction-Création. Esponenti e fautori dell’arte non figurativa furono anche Jean Arp e Sophie Taeuber, il primo nel famoso testo programmatico Konkrete Kunst scrisse: «Non vogliamo imitare la natura. Non vogliamo riprodurre, vogliamo generare. Vogliamo generare come la pianta genera il suo frutto, e non copiare. Vogliamo produrre in modo immediato, non mediato. Poiché in quest’arte non c’è traccia di astrazione, la chiamiamo arte concreta».
Da Parigi a Zurigo
Simona Martinoli, curatrice della mostra allestita nella grande e unica sala dello Spazio espositivo in via alle Vigne 46, mi accompagna nella visita. Riuscire a creare un percorso in un unico grande spazio pone delle sfide ma come è stato per le due mostre precedenti – Sono nato in una nuvola e Viaggio in Oriente – anche in questo caso il colpo d’occhio rivela una grande forza narrativa e un’originalità compositiva. « Alleanze si concentra sugli anni 30 e 40 e soprattutto sull’amicizia e la collaborazione tra Jean Arp (1886-1996), Sophie Taeuber-Arp (1889-1943) e Max Bill (1908-1994)». Anche il colore viola scelto per lo sfondo delle pareti ha il suo impatto e la scelta non è casuale: «Non poteva essere un colore primario che è proprio ciò che distingue questi tre artisti rispetto, ad esempio, a un Mondrian dogmatico che usava solo i colori primari o solo le griglie ortogonali. Loro invece, Jean, Sophie e Bill, amavano spaziare». E l’ispirazione è venuta proprio da un lavoro di Max Bill dal titolo Ritmo orizzontale – verticale – diagonale del
1943. «Quando ho visto questo dipinto ho avuto l’idea per il colore, poi Jakob Bill ha determinato il numero di pantone e da qui siamo partiti». Il percorso inizia con la parete delle alleanze. «C’è una data importante –dice subito Simona Martinoli – e cioè il 1929. In quell’anno Jean e Sophie si stabiliscono definitivamente a Parigi nella casa progettata da lei mentre Max Bill torna dal Bauhaus di Dessau e si stabilisce a Zurigo. Dunque, in questo periodo particolarmente fecondo in cui gli artisti si impegnano in difesa dell’arte non figurativa, viene a crearsi un ponte tra Parigi e la Svizzera, Zurigo soprattutto. E i tre artisti e amici sono al centro di questo scambio. Era incredibile come riuscivano a creare e tessere relazioni, a mettere in contatto tra loro gli artisti ma anche i musei, le gallerie e i collezionisti. La casa di Jean e Sophie era diventata un luogo di ritrovo di artisti e galleristi, e tanti negli anni Trenta erano gli artisti svizzeri attratti da Parigi perché era lì che succedeva tutto. Di fondo i tre erano animati da una grande generosità, il loro intento era quello di promuovere e sostenere un po’ tutti».
Contesto storico complesso
Per comprendere l’evoluzione degli artisti non figurativi in Svizzera, in un contesto storico europeo sempre più complesso e drammatico, sono determinanti due mostre, entrambe al Kunsthaus di Zurigo. Zeitprobleme in der Schweizer Malerei und Plastik inaugurata da Leo Leuppi nel 1936 alla quale partecipano anche Jean, Sophie e Bill, è la prima ad esporre sotto lo stesso tetto un gruppo selezionato e rappresentativo di pittori e scultori svizzeri surrealisti, concreti e
astratti. «È un titolo che oggi sarebbe improponibile. La mostra raccoglieva tutte le correnti dell’arte moderna svizzera per cui c’erano sia i surrealisti che gli astratti geometrici, tutti, senza fare distinzione» E poi Allianz, Vereinigung, moderner Schweizer Künstler, la mostra organizzata da Leo Leuppi e Max Bill nel 1942. Entrambi facevano parte dell’associazione Allianz fondata nel 1937 che poi nel ‘41 diede vita alla casa editrice omonima diretta da Max Bill. «Una casa editrice che pubblicava grafica d’arte in una qualità notevolissima proprio con l’intento di diffondere l’arte dei propri membri e di renderla accessibile anche a chi non poteva permettersi una scultura o un dipinto» dice la curatrice che poi si sofferma sul nome: «È molto bello, emblematico per un gruppo impegnato a promuovere i propri membri e la loro arte attraverso delle mostre, per altro in un periodo storico così difficile. Pensiamo che nel 1937 a Monaco i nazisti organizzano l’esposizione Entartete Kunst. In questo contesto acquista ancora più spessore e rilevanza pensare che in Svizzera tutto questo era ancora possibile».
Opere in mostra
E se la prima parete ci offre una visione collettiva delle diverse voci e espressioni artistiche promosse da Jean, Sophie e Bill, con i manifesti, le grafiche e le litografie originali, la mostra prosegue dedicando uno spazio ad ogni artista: Jean Arp, Max Bill e Sophie Taeuber con le loro sculture (ad esempio quella in bronzo del 1932 di Jean Scultura da perdere nella foresta), i rilievi in legno, i disegni a matita, le tele a olio e i guazzi di Sophie, uno tra tutti la meravigliosa
Composizione in un cerchio (1938), già esposta in occasione della mostra sulle nuvole e poi ancora il famoso collage su cartoncino di Jean Arp, il Primo papier déchiré (1932) e l’olio su pannello di masonite di Max Bill Composizione figurativa del 1930. Un’opera che proviene dalla collezione privata di Chantal e Jakob Bill e che presenta un’altra particolarità di questa mostra come la curatrice ci spiega: «Nelle mostre precedenti abbiamo esposto opere provenienti dalla nostra collezione, in questa abbiamo fatto un’eccezione. Ci sono alcune opere che provengono dalla collezione privata Jakob e Chantal Bill, altre che provengono dalla loro omonima fondazione. Nel caso delle loro opere private – come Composizione figurativa – si tratta di tele che non hanno mai prestato. Sono dunque opere nuove, mai viste, dalle quali i coniugi Bill hanno fatto fatica a separarsi per via del grande legame affettivo».
Jean Arp e la letteratura «La mia ammirazione per la poesia di Breton, Péret, Éluard e altri è ciò che mi lega indissolubilmente al surrealismo», scrisse così Jean Arp che, come racconta Gian Franco Ragno, è stata una figura poliedrica e sfaccettata che amava tanto l’arte quanto la letteratura e in particolare la poesia. «Il surrealismo è uno dei temi più importanti e spesso si dimentica che in Arp c’è anche tanta letteratura e poesia. Abbiamo trovato tante dediche fatte da Paul Celan o Hermann Hesse. Straordinario è anche l’aspetto transgenerazionale che ne emerge; Jean Arp era un punto di riferimento per i suoi coetanei ma anche per i più giovani e non soltanto dal punto di vista artisti-
co ma anche poetico» continua Gian Franco Ragno che mi guida attraverso questa seconda piccola mostra dal titolo Le Surréalisme chez soi che definirei una chicca. È ospitata al piano terra della casa-atelier in omaggio alla conclusione della catalogazione della biblioteca storica della Fondazione Marguerite Arp di cui lui – storico dell’arte e bibliotecario – si è occupato. «Si potrebbe chiamare la biblioteca infinita, quando sembri di aver catalogato tutto, salta fuori qualcosa di nuovo» dice con un certo orgoglio per quei settemila titoli catalogati che comprendono le prime edizioni delle opere poetiche di Jean Arp ma anche edizioni rare e raccolte di importanti riviste di arte moderna che forniscono un profilo altamente specializzato dell’arte del XX secolo. «Ora possiamo dire di avere una piccola e preziosa biblioteca di storia dell’arte contemporanea virata sul periodo classico che altrove non c’è e che può contare su un bel numero di volumi». Il passaggio dalla ricerca alla collezione, infine, alla mostra è un attimo. Una mostra leggera allestita negli spazi di soggiorno e di studio di Jean e Marguerite che da un lato mette in mostra alcuni ritrovamenti e scoperte peculiari come i libri rari dedicati al surrealismo (vedi L’Exposition surréaliste d’Objets, 1936), o opere dello stesso Arp, di Max Ernst, Marcel Duchamp e altri amici artisti. Dall’altro mantiene l’identità e l’armonia di questo luogo famigliare.
Dicevamo che Le Surréalisme chez soi è una chicca, così come le diverse opere che propone. Ad esempio il capolavoro di Max Ernst Eve la seule qui nous reste, un’opera centrale del 1925 Particolare attenzione meritano i libri artistici di Jean Arp. «Arp fa una scelta delle sue letture preferite, prende i cataloghi e le letture amate e li ricopre con una carta da pacco che poi dipinge trasformando quello che è un oggetto d’uso in un oggetto artistico a metà tra una scultura e un quadro. Il libro scompare e le copertine sono una più bella dell’altra. Spesse volte c’è più di una copia dello stesso libro e l’insieme delle opere scelte è da studiare, ovviamente, da capire, o meglio, una pista da seguire per ricostruire la biblioteca ideale di Arp» conclude Gian Franco Ragno co-curatore anche della mostra con Simona Martinoli.
Dove e quando Casa-Atelier e Spazio espositivo, via alle Vigne 44-46, Solduno. In questa settimana del Film Festival di Locarno, dunque fino al 17 agosto, entrambe le mostre – Alleanze e Le Surréalisme chez soi sono aperte tutti i giorni dalle 14.00 alle 17.00. www.fondazionearp.ch
Roberto Pellegrini
Natascha Fioretti
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Come posso rimuovere le macchie?
È meglio lavare subito le macchie perché una volta asciugate sono difficili da rimuovere. Cospargi le macchie di grasso con un detergente a mano incolore finché il grasso non si scioglie. Spruzza del succo di limone sulle macchie di erba. Lava le macchie di caffè e di pomodoro con acqua e sapone. Assorbi le macchie di vino rosso con la carta per uso domestico, quindi tamponale con acqua gassata e trattale con il sapone di fiele. La biancheria con macchie di sangue va prima sciacquata con acqua fredda e poi immersa per diverse ore in una soluzione di acqua tiepida e detersivo contenente candeggina. In linea di principio, puoi anche spruzzare sulle macchie uno spray pretrattante e poi lavare la biancheria normalmente in lavatrice.
Di quanto detersivo ho davvero bisogno?
Dipende da quanto è sporca la biancheria e dalla durezza dell’acqua nel luogo in cui vivi. Il dosaggio corretto è sempre indicato sulla confezione del detersivo. In generale, l’acqua dura e lo sporco intenso richiedono più detersivo. Per conoscere la durezza o la dolcezza dell’acqua a casa tua, puoi rivolgerti al comune.
Quanto spesso devo fare il bucato?
Tutto ciò che indossi direttamente sulla pelle, come la biancheria intima, le calze e le magliette, deve essere lavato dopo ogni utilizzo. Ovviamente questo vale anche per l’abbigliamento sportivo. I reggiseni si possono lavare anche dopo averli indossati due o tre volte, lo stesso vale per i maglioni. I jeans vanno messi in lavatrice solo se sono davvero sporchi, perché sono molto sensibili. La biancheria da letto va messa in lavatrice ogni settimana (in estate) o ogni due settimane (in inverno) e gli asciugamani ogni settimana.
Bucato
Detersivo liquido
o in polvere: quando usarli?
Con che frequenza va fatto il bucato? E che temperatura è davvero necessaria? Ecco le domande e le risposte più importanti sul tema
Testo: Barbara Scherer
A che temperatura devo lavare il bucato?
Se sull’etichetta non c’è scritto altro, vale quanto segue: i tessuti resistenti come la biancheria da letto in cotone o gli asciugamani in spugna possono essere lavati a 60 gradi. Per la maggior parte degli indumenti sono sufficienti dai 30 ai 40 gradi. È consigliabile lavare i tessuti delicati come la seta o la lana a 20 gradi o al massimo a 30 gradi. L’ideale sarebbe lavare i jeans a mano, altrimenti in lavatrice a un massimo di 30 gradi. In alternativa, è possibile lavarli in lavatrice solo in acqua fredda.
Quando devo usare il detersivo in polvere, in capsule o liquido?
Dipende soprattutto dalle tue preferenze personali. I detergenti in polvere contengono spesso un decalcificante e sono quindi molto efficaci con l’acqua dura. In compenso, il detergente liquido si scioglie meglio a temperature basse. Le capsule di detersivo sono predosate e quindi facili da usare, ma costano di più.
Cosa fa un detersivo 1 for all?
L’idea alla base dei prodotti «1 for all» è che con essi puoi lavare possibilmente tutte le fibre, i colori e i materiali. Puoi quindi usarli anche per lavare la seta e la lana. Tuttavia, dovresti comunque dividere ogni bucato in colori chiari e scuri, in modo che i tessuti non si scoloriscano a vicenda.
Adolescenze tossiche
Film
Giorgia e
Festival
◆
Intervista a Saulė Bliuvaitė che a Locarno presenta Toxic
Muriel Del Don
Cosa significa crescere alla periferia di città industriali che si sono trasformate in deserti? Come fare per sopravvivere in un ambiente al contempo ostile e affascinante che non lascia spazio ai sogni? Nel suo primo potente lungometraggio, Toxic, selezionato nella Competizione internazionale del Locarno Film Festival, la giovane regista lituana Saulė Bliuvaitė (nella foto), diplomata all’Accademia lituana di musica e teatro, sceneggiatrice, regista e montatrice, risponde a queste domande attraverso la sua esperienza personale. Cresciuta nella stessa città ritratta nel film, la regista filma le sue protagoniste con il coraggio di chi non ha paura di nulla. La voglia di fuggire da una realtà soffocante che non offre più nulla nutre Marija e Kristina, le giovani protagoniste, spingendole a fare scelte rischiose come quella di frequentare una più che ambigua scuola locale di modelle dove un’altrettanto ambigua «direttrice» promette alle sue protette un futuro migliore. Qual è però il prezzo da pagare per realizzare il proprio sogno? Quali sono le insidie che si nascondono dietro un mestiere, quello di modella, che sembra troppo bello per essere vero? Attraverso la storia di adolescenti che vivono in ambienti tossici, attorniate dalla violenza, la giovane regista lituana ci mostra il lato oscuro dell’adolescenza. Osservando con attenzione i corpi dei suoi personaggi, Saulė Bliuvaitė ne esalta la bellezza, le apparenti imperfezioni che li rendono unici. Prima di essere presentato al Locarno Film Festival (proiezione il 15 agosto al Palexpo Fevi alle 14.00) abbiamo avuto l’occasione di discutere con Saulė Bliuvaitė sia della genesi del suo film, che del suo rapporto viscerale con il cinema e con la fragilità dell’adolescenza.
Abbiamo letto che lei condivide molte cose con la protagonista. Possiamo quindi parlare di un film parzialmente autobiografico? È difficile da dire, alcuni elementi sono di finzione mentre altri derivano da esperienze vissute in prima persona. La maggior parte delle scene sono state filmate nella mia città natale, nella zona dove sono cresciuta, in un universo che mi è molto famigliare. Come le protagoniste, anch’io nella mia adolescenza volevo diventare una modella. A quell’epoca, specialmente in Lituania, molte ragazze vedevano nelle agenzie di modelle l’occasione per viaggiare all’estero. Il contesto fuori controllo nel quale evolvono i personaggi è stato anche il mio. Non è facile quando hai tredici, quattordici anni sopravvivere in un ambiente del genere. Ho davvero cercato di mettere in scena tutte queste esperienze, queste emozioni, anche le più difficili e le più dure, il fatto di essere un’adolescente che evolve in un
mondo di adulti in cui tutti vogliono rubare un pezzo di te, approfittare dalla tua vulnerabilità. Sebbene la desolazione, la sensazione di pericolo palpabile contraddistinguano tutto il film, le protagoniste non perdono la loro ingenuità e come tutte le adolescenti e gli adolescenti, si innamorano, danno il loro primo bacio. Il film è anche una sorta di analisi, uno sguardo adulto a posteriori che faccio dell’adolescenza.
Dove ha trovato le sue attrici e come ha lavorato con loro?
È stato un processo molto lungo, c’è voluto tempo per conquistare la loro fiducia. Il casting è infatti durato più di tre anni. Una volta trovati i nostri attori e le nostre attrici abbiamo fatto alcuni workshops di gruppo per capire le dinamiche. Devo ammettere che è stato molto complesso trovare le protagoniste perché, in Lituania, non ci sono attori minorenni, solo dei «nuovi talenti» e io volevo trovare attori che avessero veramente tredici o quattordici anni. Come spesso accade, sarebbe stato molto più facile scegliere delle attrici più vecchie per interpretare delle adolescenti, ma io volevo captare la fragilità dell’adolescenza così com’è, il tentativo di apparire più grandi di quello che si è rimanendo però ancora bambini. Non è stato semplice fare interpretare a delle minorenni le scene di violenza. Abbiamo parlato del copione, ho cercato di spiegarglielo, abbiamo lavorato sull’improvvisazione, ci siamo prese il tempo di giocare e capire ciò che succede nel film. Per me era importante che non si affezionassero troppo ai personaggi.
Toxic è un film velenoso che ricorda universi cupi ma terribilmente affascinanti come quelli di Christiane F. (Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino) in cui l’infanzia sembra svanire in un batter d’occhio. Come regista dove va a cercare le sue ispirazioni? Ha menzionato uno dei film che mi hanno ispirato, ossia Christiane F., un film che ho visto molto tempo fa e nel quale, come dice lei, «l’infanzia sembra sparire in un batter d’occhio». Mi piace anche molto l’universo dark ma ironico di Harmory Korine, la sua stranezza, i suoi per-
Lo sport e il Ceroni
SmartTV ◆ Derive e virtù nel raccontare imprese Marco Züblin
Entrata
sonaggi strampalati. Sono appassionata di film che ritraggono le periferie americane, le vite ai margini. Mi piace la scrittrice messicana Fernanda Melchor che scrive storie oscure in cui si mescolano realismo magico e violenza. Adoro gli artisti che giocano con l’oscurità e creano opere d’arte bizzarre e uniche.
Nel suo film, che parla di aspiranti modelle, il corpo e il rapporto con esso non è per forza centrale. Può parlarci di quest’aspetto? Ogni personaggio ha una relazione molto personale con il proprio corpo, alcuni come la protagonista che zoppica, il ragazzo con un occhio di vetro o la nonna a cui tremano le mani, hanno delle fragilità. Nel film ho voluto riflettere sul fatto di potere o meno controllare il nostro corpo in modo che si conformi a determinati standard. Già durante i casting riflettevo su come ritrarre questi corpi e, piano piano, vedevo sempre più bellezza e unicità in ognuno di loro. Al contrario, l’apparente bellezza di tutte le ragazze che cercano di conformarsi agli standard del mondo della moda non mi interessa. Trovo molto più affascinante la diversità e volevo che questa si opponesse all’oscurità che traspare dal mondo della moda.
Toxic è il suo primo lungometraggio. È stato difficile produrlo?
Bisogna sapere che, in Lituania, abbiamo un sistema di fondi dedicato alle opere prime. Il 90% di tutti i fondi del film proviene da qui, dunque non abbiamo dovuto trovare degli investitori. In queste circostanze, i registi e le registe hanno la libertà di fare film senza preoccuparsi troppo di quanti lo vedranno e di quanti incassi farà. Concretamente, la parte più difficile è stata la produzione stessa perché i soldi messi a disposizione dal fondo non sono molti e bisogna fare molta attenzione a non sforare. D’altra parte questa ristrettezza di mezzi ci impone di riflettere con attenzione su come raccontare le nostre storie, su come creare i nostri universi. E si possono fare cose fantastiche anche con pochi mezzi e forse, se ce ne fossero di più, i film sarebbero diversi.
Qualche anima bella ha riesumato il concetto di «tregua olimpica» per postulare la sospensione delle ostilità al tempo dei Giochi. Inutile, gli ammazzamenti continuano, in barba a ogni arcaico costume e a ogni rinnovato appello. Che il certame agonistico possa calmare, altrove, qualche bollente spirito è ormai una illusione. Non solo: nella narrazione mediatica, la gara sportiva diventa – nei toni, nel lessico, nella drammaturgia del racconto – una sorta di conflitto giocato a colpi di atletica sopraffazione, di scontro che non fa prigionieri. Un surrogato multicolore di guerra che diventa ancora più straniante ora che c’è la guerra vera, con morti e feriti veri, con drammi che fanno perdere il sonno. Il linguaggio dello sport è linguaggio del conflitto, della lotta, soprattutto nelle telecronache, in cui la ricerca della vittoria è spesso raccontata nelle forme della distruzione del rivale, della sopraffazione e dell’annientamento.
Molto del fascino dello sport in tivù, e molta della repulsione che in alcuni di converso suscita, deriva da come lo si racconta
È giusto? Probabilmente no, ma forse non può essere molto diverso da così. Tutta questa narrazione si nutre non solo della consueta, ansiogena e conflittuale, modalità giornalistica con la quale ogni evento viene ormai descritto, ma anche della deriva iperfisica di taluni sport, primo tra tutti il calcio (si legga quanto di ottimo ha scritto Libano Zanolari su Naufraghi nel suo articolo Il calcio ricorda di essersi separato dal rugby nel 1863), in cui il vigore atletico e l’atteggiamento minaccioso rischiano di annichilire la dimensione artistico-tecnica del gesto. Tutto questo per dire che, almeno da chi lo descrive e lo commenta, si gradirebbe un lieve abbassamento dei toni, una limatura del lessico, una sordina alla retorica guerresca, un atteggiamento meno «tifoide», il modo tale
che un GP auto-moto, una partita di hockey, un incontro di calcio o una gara ciclistica non siano vissuti come roba da Orazi e Curiazi. E questo al netto di qualche esempio recente in positivo tra gli atleti (a caso: Filippo Macchi, Benedetta Pilato) che permette di riesumare valori antichi che tanto piacciono nello sport e che meriterebbero di essere vissuti anche da chi lo sport lo descrive, e da chi lo vive in poltrona.
Molto del fascino dello sport in tivù, e molta della repulsione che in alcuni di converso suscita, deriva da come lo si racconta. E qui voglio essere divisivo: da telespettatore non sempre attento, vedo però con la mestizia del naufrago e dell’orfano il momento in cui Armando Ceroni (nella foto) se ne andrà in pensione.
Come ben diceva quell’altro, da nostalgico vorrei «un podcast da 10 puntate di due ore l’una di Ceroni che commenta la vernice che si asciuga. Che non è mai stato il cosa ma il come»; appunto, il «come».
Ricordo le sue telecronache del ciclismo su pista ad un’altra edizione dei Giochi, in cui (mi) ha fatto digerire con grazia e competenza anche l’indigeribile; e le mitologiche dirette con Ferretti dal Giro e dal Tour, in cui con bella ironia ammobiliava tempi morti con spigolature di ogni genere (piace meno, anche per quanto detto sopra, la narrazione attuale un po’ retorica, da clash of the Titans). E poi, il calcio, la Champions e la Nazionale: i molti detrattori dell’Armando, che simmetricamente lo odiano con la stessa forza del nostro affetto, gli rimproverano di non parlare del gioco ma di «altro». Hanno una visione da radiocronaca della … telecronaca, come se non si vedesse quello che sta succedendo e occorra ancora descriverlo di fino. Ci mancherà, il Ceroni; come ci manca in generale, in questo mondo in cui lo stupidamente ovvio ci assedia e ci ferisce, qualche cosa di lieve e di ironico, una bella alzata di domestico ingegno, magari un po’ incongrua o non proprio in tema, ma che riesce a stupirci e, poi, a farci pensare.
alleAccanto terme Leukerbaddi
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«Ogni prigione è un’isola a sé»
Intervista ◆ La scrittrice, giornalista e conduttrice tv Daria Bignardi racconta la sua esperienza nel mondo delle carceri
Stefano Vastano
Ma, a pensarci bene, che senso diamo a tutte le libertà che ci godiamo ogni giorno? E soprattutto, che ne sappiamo della loro privazione, dello starsene rinchiusi giorno e notte in una minuscola cella? È per questo che ho letto con interesse il bel saggio che Daria Bignardi (nella foto) ha dedicato al problema, sempre più esplosivo, delle carceri in Italia: Ogni prigione è un’isola, di recente pubblicato da Mondadori.
Un libro in cui la giornalista e scrittrice racconta come nasce questa sua «curiosità» per l’istituzione-carcere. E, con l’obiettività e la verve della giornalista impegnata, racconta dei suoi incontri, all’interno di vari carceri, con ex terroristi o con ergastolani, con guardie penitenziarie o direttori di carceri. «Sin da bambina, inizia a dirci Bignardi, ero curiosa del carcere di via Piangipane a Ferrara, perché il maestro ci aveva raccontato che lì era stato rinchiuso Giorgio Bassani, per noi ferraresi il dio degli scrittori. E già allora mi chiedevo: ma com’è possibile, uno scrittore in carcere? A Milano poi da anni abito in via San Vittore. Per me dunque l’attrazione del carcere è cresciuta in modo spontaneo, ma posso assicurarti che c’è un mondo di persone – chi ci lavora, gli psicologi o i volontari – che quasi non riesce più a fare a meno del carcere».
Da anni, a Milano, Daria Bignardi abita nella via di San Vittore, dove dal lontano 1879, c’è uno dei penitenziari più famosi d’Italia. Penitenziario che conosce bene perché lei è un «articolo 78», una delle persone che promuove attività e sostegno per i detenuti
È da quest’altra prospettiva, più vicina ai problemi di chi in carcere è recluso o ci lavora, che nasce questo saggio di Bignardi spiazzante sin dal titolo. In che senso infatti il carcere è un’isola? «Per ognuno di noi, risponde lei, l’isola significa bellezza; io ad esempio appena posso torno a Linosa. Ma se vivi a lungo su un’isola, ti accorgi che ogni isola è anche una prigione. Nel titolo del libro ho un po’ giocato sul contrasto fra bellezza dell’isola e bruttezza del carce-
re. E sul fatto che ogni carcere è un’isola a sé». Un’isola sui generis, di cui ognuno di noi ha sicuramente paura, se non angoscia. Esiste sulla Terra un luogo più odiato del carcere? «In realtà, risponde Bignardi, da quelli che ne stanno fuori il carcere non è che sia così odiato. Anzi, molti amano che ci sia un posto dove “i cattivi”, fra virgolette, siano rinchiusi. Il carcere semmai è odiato da chi ci sta dentro, mentre il carcere “degli altri” è abbastanza amato. Tante persone ne hanno paura, persino ribrezzo. Altre invece ne hanno curiosità: io appartengo a quest’ultima categoria».
Da anni ormai, a Milano, Bignardi non solo abita nella via di San Vittore, lì dove, dal lontano 1879, c’è uno dei penitenziari più famosi d’Italia. Lei ha anche il permesso di entrarci a San Vittore perché è un «articolo 78», una delle persone cioè che promuove attività e sostegno per i detenuti, ed anche per questo conosce a fondo la realtà del sistema carcerario. «Oggi – spiega – stiamo sui 62 mila detenuti in Italia, ma i posti in carcere, esagerando, arriverebbero a 47 mila. La realtà è che se i detenuti nel 1990 erano la metà di oggi, i crimini come gli omicidi sono diminuiti radicalmente. Questo vuol dire che oggi dentro trovi una popolazione di piccoli delinquenti e spacciatori, che le carceri sono imbottite di malati e tossicodipendenti». E questa è solo la prima desolante «fotografia» di un sistema-carcere drasticamente «sovraffollato», per usare la parola così fredda con cui parliamo di penitenziari stracolmi di detenuti. Ma se proviamo ad immaginare il quotidiano di quelle celle «imbottite» di gente, «dobbiamo pensare al dolore, alla devastazione, continua Bignardi, al fatto che oggi in carcere si sta sempre peggio. A corpi ammassati in cella, ad una turca a mezzo metro dalla branda, vivere in situazioni di tortura fisica e psicologica». Questo significa il problema del «sovraffollamento». Ma non solo. «Se nelle nostre società ci sono sempre più poveri ed emarginati, anche la popolazione in carcere, continua Bignardi, sarà sempre più disgraziata. E stare sempre peggio “dentro” spinge sempre più persone a togliersi la vita». È l’altra e più cruenta realtà che purtroppo si registra sempre più di frequente in carcere: la tragedia dei suicidi in aumento.
«L’Italia nel 2022, scrive Bignardi
nel suo libro, ha avuto il maggior numero di suicidi di sempre: ottantacinque». E nei primi sei mesi di quest’anno i suicidi sono già stati 54. Insieme all’altro dramma delle rivolte, sempre più violente dei detenuti, e delle reazioni a loro volta sempre più brutali delle guardie. La rivolta al carcere di Sant’Anna a Modena, ad esempio, è costata la vita a tredici detenuti. Certo, nel mondo dei politici, «il carcere, dice pragmaticamente Bignardi, non interessa molto la politica, perché non porta voti e non smuove nessun voto». Ma al massimo spinge chi sta al potere a varare leggi sempre più repressive , come la Bossi-Fini sui migranti, e decreti che Bignardi definisce «leggi cargerogene». È con queste leggi infatti che le celle si riempiono sempre più di piccoli delinquenti, di spacciatori e tossicodipendenti. Per non parlare poi dei più recenti decreti repressivi con cui l’attuale governo a Roma sta inasprendo le pene «per reati, commenta Bignardi, compiuti da minorenni che finiscono così in carcere, quando un minorenne in carcere non dovrebbe mai entrarci». Ma il mondo del carcere, a guardarlo bene, non è solo un luogo di detenzione, ma, come ricorda Bignardi, «il carcere è una università del crimine».
Qui tocchiamo con mano il nervo più paradossale dell’istituto-carcere. E cioè le quote di recidivi, dei dete-
nuti che, scontata la pena, tornano poi a delinquere e quindi di nuovo in galera. «Il problema della recidiva, spiega Bignardi, è eclatante, parliamo del 70, anche del 75 per cento delle persone che in carcere ci rientrano, fra l’altro entro un anno o tempi brevissimi! Chi entra lì dentro una volta, quando poi esce inizia a delinquere in modo più professionale». Ed ecco il ciclo di quella paradossale spirale di violenza che si innesca in «isole carcerarie» che, al loro interno, alimentano forme di violenza e suicidi. E, all’esterno, riproducono altri crimini e delinquenza. Interessanti nel saggio anche le pagine in cui l’autrice racconta le visite in carcere allo scrittore e politico Adriano Sofri, il nonno di sua figlia Emilia. O le sue discussioni con Luigi Pagano, per anni direttore del carcere milanese di San Vittore. Il bello, e Bignardi ne parla ampiamente nel suo saggio, è che anche in Italia esistono rare «isole» in cui i detenuti accedono a corsi professionali, a programmi di reinserimento quindi che, una volta fuori, li aiutano a reinserirsi nella società.
Ne è un esempio il carcere di Bollate, «una realtà unica nel panorama delle nostre carceri, dice Bignardi, ed è quella che somiglia di più a ciò che il carcere dovrebbe essere secondo la nostra Costituzione. La loro cooperativa sociale Bee.4 altre menti è un Call center avanzato, un posto persi-
no bello e dove i detenuti sono formati a lavori qualificati». Non si tratta di utopie né di iniziative fini a sé stesse. Una volta attivati i programmi di qualificazione, la curva dei recidivi scende infatti al 20 per cento dei detenuti. È questa semplice realtà –più corsi di formazione, meno suicidi, meno recidivi e dunque carceri meno affollate – che porta Bignardi a dire che «così com’è il carcere è profondamente inutile, e ci fa perdere molto tempo e denaro». Peggio, così com’è oggi il carcere è un istituto non solo inutile, «ma un sistema profondamente classista. In carcere oggi trovi soprattutto chi ha meno mezzi, meno istruzione e più fragilità, e magari non parla la nostra lingua e non sa neanche dove si trova». Nel suo viaggio Bignardi ha incontrato guardie e direttori, psicologi e volontari che fanno bene il loro lavoro. Ma, conclude, «il mondo delle carceri e le sue norme non possono dipendere da alcuni eroi, con un senso dello Stato o della giustizia». Sì, le carceri sono isole nel nostro sistema sociale, ma isole che a quanto pare non funzionano. O solo come discariche sociali, per punire i più deboli. E riprodurre delinquenti sempre più professionali.
Bibliografia
Daria Bignardi, Ogni prigione è un’isola, Mondadori, Milano, 2024.
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