Azione 36 del 31 agosto 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio E se il rap non fosse poi così lontano dalla lirica? Al Caffè delle mamme si parla di una particolare sfida didattica

Ambiente e Benessere Lo psichiatra e psicoterapeuta Michele Mattia e il gastroenterologo Florian Bihl spiegano la stretta correlazione che esiste fra mente e tratto gastrointestinale

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 31 agosto 2020

Azione 36 Politica e Economia La Turchia di Erdoğan è il nuovo nemico di Gerusalemme

Cultura e Spettacoli Pubblicato per la prima volta in italiano Gli ebrei di Colonia del tedesco Wilhelm Jensen

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Un nuovo anno con la Scuola Club

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Svizzera-Cina, svolta in vista? di Peter Schiesser La Svizzera modificherà la sua posizione verso la Cina? Entro fine anno il ministro degli esteri Ignazio Cassis sottoporrà al Consiglio federale una nuova strategia, ma in un’intervista al «Sonntagsblick» del 2 agosto ha già lanciato alcuni segnali: ora che la Cina ha deviato dal cammino verso un’apertura dobbiamo difendere in modo più robusto i nostri interessi e i nostri valori, ha detto. Cassis poteva restare indifferente di fronte ad un peggioramento dello stato dei diritti umani (un milione di uiguri in campi di rieducazione) e di un crescente controllo sulla popolazione, anche ad Hong Kong ora, con la nuova legge sulla sicurezza nazionale in vigore dal 1. luglio? Le dichiarazioni fatte al giornale (riprese anche in Cina) danno indicazioni sulla sua posizione, non su quella del Consiglio federale, che affronterà il tema quando verrà presentata la nuova strategia. Di certo, hanno destato sorpresa al Dipartimento dell’economia pubblica di Guy Parmelin: la posizione del suo dipartimento, leggo sulla NZZ, è di tenere separate le questioni economiche (quindi l’accordo di libero scambio con Pechino) da quelle sul rispetto dei diritti umani

e dello stato di diritto. Non sappiamo se la nuova strategia che il Dipartimento di Cassis sta elaborando intenda mettere in discussione proprio questa dualità, ma senza dubbio è quanto sta chiedendo da tempo il partito socialista: secondo il consigliere nazionale Fabian Molina, la Cina ha una strategia chiara e vi subordina ogni mezzo, militare economico culturale, in Svizzera invece i dipartimenti federali e i 26 cantoni seguono ognuno una propria agenda. È quindi tempo di parlare con una voce sola e di definire una posizione coerente. Vedremo a fine anno che cosa dirà il Consiglio federale. Sarà una decisione sofferta, come sempre lo è quando sono in gioco interessi economici. Ma è lo stesso dilemma che sta vivendo l’Europa intera (anche con la Russia, Germania per prima): si è consapevoli che l’apertura cinese al capitalismo offre vantaggi economici all’Occidente, ma con il presidente a vita Xi Jinping la Cina ha rivelato al mondo le sue mire imperialiste, per cui ogni affare concluso con Pechino rafforza questo disegno. E gli Stati Uniti, in rotta di collisione con la Cina, stanno prendendo contromisure, l’esempio più lampante è l’ostracismo verso Huawei, leader mondiale nel 5 G. La strategia USA è chiara: la Cina è forte perché l’abbiamo resa forte noi,

accettando che rubasse know how tecnologico, tacendo di fronte al suo rude imperialismo e alle violazioni delle regole del commercio mondiale, ma possiamo ancora opporci ed evitare che la Cina diventi la prima potenza mondiale. E grazie alla politica di Donald Trump (bisogna ammetterlo) qualcosa sta succedendo. È poi così irresistibile la Cina? Junhua Zhang, dell’Istituto europeo di studi asiatici, analizza in un articolo sulla NZZ (25.8.20) le convinzioni dell’élite cinese: di superare presto gli Stati Uniti (economicamente), che la Cina come fabbrica del mondo è imprescindibile, che è tecnologicamente più avanti dell’Occidente, che la forza della Cina permette oggi di punire chi le si oppone. Vero solo in parte: se l’Occidente non permetterà più i furti tecnologici, se si opporrà con forza alle pressioni, se abbandonerà la Cina quale porto manufatturiero, la Cina non sarà più così forte. Trump e la pandemia hanno generato un processo di de-globalizzazione che penalizzerà Pechino: oggi numerose grandi aziende occidentali stanno spostando le loro linee di produzione in altri paesi asiatici o le riportano negli Stati Uniti (oggi la robotizzazione rende vantaggiosa la produzione anche in Occidente). Anche la Svizzera dovrà prendere atto di queste nuove condizioni.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 agosto 2020 • N. 36

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Attualità Migros

«Tutti i nostri corsi portano a te» Scuola Club di Migros Ticino Riparte un nuovo anno di formazione continua

La formazione assomiglia ad un grande giardino. Chi vi accede rischia sempre un po’ di smarrirsi per la vastità degli ambiti e la quantità dei percorsi possibili. «Tutti i nostri corsi portano a te» è lo slogan scelto quest’anno dalla Scuola Club di Migros Ticino per raccontare il suo rinnovato impegno nell’accompagnare ognuno a trovare la via più congeniale per arrivare felicemente a destinazione. Con questo spirito è stato progettato anche il nuovo programma 2020/21 che disegna, nei diversi settori, molteplici traiettorie formative ideate per rispondere in modo personalizzato alla complessità dei bisogni che oggi attraversano la vita di persone e imprese, il mercato del lavoro, la cultura e la società. Prosegue l’adozione convinta del linguaggio digitale, come già ampiamente sperimentato in questi mesi di distanziamento sociale. Non solo ciò ha consentito alla Scuola Club di allinearsi all’incredibile accelerazione dei processi di innovazione didattica che sempre più connoteranno l’azione formativa, ma anche ha costituito una formula efficace nel garantire sicurezza e protezione in tempi di Covid-19. Si diversificano così le modalità di apprendimento: alla Scuola Club si apprende in aula, online, e in modo blended, grazie alla crescente dimestichezza con la piattaforma Zoom che, con il nuovo corso Vieni, prova, insegna!, diventa una dotazione comune per i formatori presenti e futuri, e al percorso con certificato di formazione continua FSEA per diventare Formatore digitale, concepito per arricchire il ventaglio della strumentazione tecnologica a disposizione dei formatori e sostenere i processi riflessivi sulle trasformazioni in atto nel campo dell’apprendimento. L’attenzione al mondo digitale si completa con la proposta inedita di percorsi professionalizzanti nel campo dei social media, dal Social Media Marketing in azienda alla creazione e pianificazione di pagine e post su Facebook e Instagram.

Continua il supporto alla qualificazione dei percorsi professionali. Ancora più numerose sono quest’anno le proposte che garantiscono la certificazione delle competenze acquisite. Si parte dal business – con il Segretariato medico – per arrivare al mondo del fitness – con l’ultimo nato Istruttore Pilates e la possibilità di workshop di aggiornamento e di acquisizione dei crediti richiesti agli specialisti del settore. Inoltre, la rinnovata partnership con la celebre Joia Academy dello Chef Pietro Leemann introduce, per chi supererà positivamente l’esame del corso in Alta Cucina Vegetariana, la possibilità di concordare uno stage presso il ristorante stellato Joia di Milano. Cuore pulsante della Scuola Club, leader nazionale di settore, restano le lingue che si confermano dotazione imprescindibile per un buon posizionamento nel mercato del lavoro svizzero. Una competenza, quella linguistica, ampiamente supportata dalla Scuola Club Migros con mezzi sempre più innovativi. È il caso del corso di inglese con realtà aumentata Around the world in 5 days, uno stra-

ordinario viaggio basato sulla realtà virtuale messo a punto a livello nazionale in collaborazione con l’Università di Scienze Applicate dei Grigioni. Grazie all’adozione del visore (VR) sarà possibile perfezionare la conoscenza dell’inglese, viaggiando a occhi aperti pur rimanendo comodamente seduto in classe. La crescente attenzione per la salute ha portato la Scuola Club di Migros Ticino ad ampliare ancor più la sua offerta in due settori gettona-

Iscriviti subito! Scopri le novità sul nostro sito www.scuola-club.ch Oppure ritira i nostri elenchi corsi presso le nostre sedi ■ Bellinzona, Piazza R. Simen 8, Tel. 091 821 78 50 ■ Locarno, Via ai Saleggi 16, Tel. 091 821 77 10 ■ Lugano, Via Pretorio 15, Tel. 091 821 71 50 ■ Mendrisio, Via Praella 14, Tel. 091 821 75 60

tissimi: tutti in palestra con lo Spazio Pilates e il nuovo benessere in cucina. Da quest’anno aumentano le opportunità di godere dei benefici del Pilates grazie ad un potenziato «parco macchine» che vede l’introduzione delle Cadillac, oggi considerate l’attrezzo di elezione in questa disciplina. Luogo della creatività e del prendersi cura, la cucina resta uno degli spazi più amati della scuola: qui sarà possibile sperimentarsi con i nuovi corsi Dolci dal mondo e apprendere nuove ricette per preparare piatti sani e sostenibili senza penalizzare il gusto. Tra le lezioni apprese di questi tempi di Covid-19 c’è anche la riscoperta di passioni dimenticate, dal fai da te alla musica. Nel ventaglio delle opportunità offerte dalla Scuola Club ecco allora nuove proposte tematiche, quali i corsi di Armonica cromatica e di Ukulele, anche in modalità online. Il nuovo anno promette splendidi percorsi da vivere insieme. Accompagnati dalla Scuola Club, non ci sarà il pericolo di smarrirsi nel grande giardino della formazione.

Una bandana solidale Eventi Un’edizione

speciale per la Corsa della speranza 2020

La Corsa della speranza è una manifestazione che da vari anni vuole attirare l’attenzione del pubblico sul tema delle malattie tumorali. In questo senso, l’evento propone al pubblico un percorso cittadino attraverso le vie di Lugano che può essere inteso sia come corsa popolare che come camminata conviviale in compagnia. Per l’edizione 2020, segnata dalle misure di contenimento della pandemia da Covid-19, gli organizzatori hanno pensato ad una diversa impostazione della Corsa della speranza. Invece di camminare tutti insieme, i partecipanti potranno scegliere individualmente dei tragitti da percorrere. Indossando la bandana ufficiale (che è acquistabile sul sito web ufficiale www.corsadellasperanza.ch o nei tradizionali punti di vendita) e fotografandosi durante la propria camminata di solidarietà potranno poi inviare il proprio selfie «solidale» sui propri profili social e nella pagina web della Corsa. In questo modo la Corsa della speranza estenderà il suo percorso idealmente su tutto il territorio del cantone raggiungendo le località preferite dai partecipanti. Informazioni

www.corsadellasperanza.ch

Corsa della speranza, estate-autunno 2020, In tutto il cantone

Salvare cibo riducendo gli scarti

Too Good To Go In tutte le filiali di Migros Ticino è possibile prenotare generi alimentari invenduti a prezzo speciale Anche in situazioni particolari come quella che stiamo vivendo, Migros Ticino continua a lavorare per ridurre gli scarti alimentari, intensificando il suo impegno per il recupero dei generi alimentari invenduti. Grazie all’efficiente collaborazione con l’applicazione gratuita contro lo spreco alimentare Too Good To Go, siamo ora in grado di offrire in tutte le nostre filiali porzioni a sorpresa di alimenti invenduti a prezzo ridotto. Il contenuto delle «Magic Box» dipende da quali alimenti sono rimasti sugli scaffali dei negozi Migros Ticino. Tutti gli alimenti contenuti nelle porzioni sono di qualità impeccabile. Too Good To Go rappresenta un’integrazione importante al pluriennale impegno contro lo spreco alimentare della Cooperativa Migros Ticino, che da molti anni, oltre a mettere in vendita a prezzo scontato i prodotti prossimi alla scadenza applicando diversi livelli di riduzione, sostiene partner sociali come Tavolino magico, impegnati nella distribuzione gratuita degli alimenti in eccedenza alle persone meno abbienti. Con Too Good To Go, la Cooperativa

fa un ulteriore passo in avanti e anche i prodotti che non trovano altro impiego nonostante le misure già adottate, possono essere ora recuperati in modo sensato. Il funzionamento dell’applicazione Too Good To Go è semplicissimo: l’utente, dopo aver installato l’App gratuita, ordina e paga la «Magic Box» direttamente nell’App e la ritira

mezz’ora prima della chiusura nella filiale prescelta. Il punto di ritiro, Servizio clienti o cassa, è indicato sul profilo del punto vendita. Per i negozi alimentari di Migros Ticino l’app Too Good To Go consente all’utente di scegliere tra una porzione mista e una di frutta e verdura mentre per i due take away De Gustibus di Bellinzona e Lugano, che per ora partecipano a una fase di test, si possono trovare pizze, pasti caldi o un insieme di altri prodotti misti. Per il ritiro dell’ordine il cliente utilizza una propria borsa o sacco riutilizzabile, con l’obiettivo di diminuire il consumo di plastica ed essere maggiormente sostenibili. Grazie a questa applicazione gratuita, Too Good To Go connette ristoranti, supermercati, panetterie ecc. con gli utenti, per far sì che quest’ultimi possano salvare gli invenduti sotto forma di porzioni a sorpresa, chiamate «Magic Box». Gli utenti visualizzano sull’app i commercianti nei loro dintorni che hanno degli invenduti a disposizione e possono andare a recuperarli all’orario indicato. Tutti ci guadagnano: i commercianti, gli utenti e l’ambiente.

3 domande a Fiorenzo Comini, Business Developer di TGTG L’iniziativa ha una storia da startup di successo... Ce la riassume brevemente?

Più di ⅓ del cibo prodotto a livello mondiale viene sprecato. Convinti che tutto il cibo prodotto debba essere consumato, cinque studenti in Danimarca fondarono Too Good To Go nel 2015. Oggi siamo attivi in 14 paesi europei e da poco anche negli USA. L’avventura di Too Good To Go in Svizzera è cominciata invece nel giugno del 2018. Solo nel nostro paese l’app ha raggiunto 942’000 utenti iscritti e collabora con ben 2900 partner nel settore alimentare.

Oggi l’ambizione dell’azienda è di creare un vero movimento di idee.

Noi di Too Good To Go ci impegniamo ogni giorno per unire le forze nella lotta contro lo spreco alimentare. Solamente se siamo tutti uniti in questa lotta, possiamo effetti-

vamente avere un reale impatto. Lavoriamo per porre delle basi solide in questo senso operando: a livello di istruzione, collaborando con varie istituzioni scolastiche in Europa; a livello politico, sensibilizzando i consumatori insieme ad istituzioni governative; infine, in modo stretto con commerci, consumatori e attori nel settore alimentare.

Per quello che riguarda gli aspetti informatici, che oggi interessano molto, come è gestito il movimento dei dati?

Noi di TGTG ci atteniamo rigidamente alle linee della General Data Protection Regulation europea. Inoltre, importante aggiungere che i nostri server si trovano in Europa e che diamo una grande importanza al fatto che i protocolli di sicurezza, come pure la protezione dei dati relativi alle nostre offerte, siano sempre aggiornati.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 agosto 2020 • N. 36

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Società e Territorio Una villa italiana a Zurigo Casa Zentner è l’unico progetto realizzato fuori dall’Italia dall’architetto Carlo Scarpa: un volume curato da tre ricercatori Supsi ne documenta la storia

Supporto scolastico estivo «Studenti che aiutano studenti» - il motto che da dieci anni anima l’Associazione Mise piace anche al Decs pagina 8

Eliminare i brutti ricordi È ciò che promette una terapia sviluppata dallo psichiatra canadese Alain Brunet. Ma eliminare le esperienze dolorose è la via giusta per una vita felice? pagina 9

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Conoscere la musica che ascoltano i ragazzi è utile per capire il loro mondo, ma lo è anche avvicinarli a esperienze artistiche a loro sconosciute. (Marka)

Dal (t)rap alla lirica (e viceversa)

Il caffè delle mamme Far appassionare i giovani all’opera: la sfida didattica della pianista Cristina Bersanelli

Simona Ravizza «Ormai lo sappiamo: il genere musicale più vicino ai figli adolescenti, oggi molto di moda e che piace a tutti, è il (t)rap. Quello che spesso sfugge è che ci sono molte similitudini con la musica lirica del passato. Come il melodramma, anche il rap usa testi in rima, fa i conti con la rabbia e la voglia di denuncia, affronta temi forti nella vita delle persone come l’amore, la gelosia, il tradimento, il bullismo, il rapporto genitori-figli. I rapper parlano di emozioni, tragedie e dolori e, come Giuseppe Verdi nel Rigoletto, denunciano ingiustizie sociali miscelando parole, ritmo e musica. La passione per l’uno possiamo sfruttarla per appassionarli all’altro». È la convinzione della pianista Cristina Bersanelli, 46 anni, esperta di didattica e di opera lirica, considerata una vera autorità nella divulgazione musicale ai giovanissimi (nel 2017 ha vinto il prestigioso Premio Abbiati Siebaneck della critica musicale italiana e il Premio Internazionale Luigi Illica per l’innovazione culturale). Bersanelli è ospite de Il Caffè delle mamme in quanto insegnante di pianoforte di alcune delle nostre figlie e, come da tra-

dizione, ne approfittiamo per discutere degli ultimi suoi libri: Rigoletto a scuola, dalla lirica al rap, scritto con un’altra musicista, Paola Bertassi (ed. Curci, 2018) e Giuseppe Verdi, il cigno di Busseto (ed. Teatro Regio di Parma, maggio 2020). Entrambi sono in vendita anche online. L’obiettivo, trarre nuovi spunti utili per l’educazione musicale dei bambini, ma anche – e soprattutto – riflettere sulle innumerevoli possibilità di contaminazione tra il mondo degli adulti e quello degli adolescenti. L’abbiamo ripetuto più volte: conoscere la musica che ascoltano su Youtube con le cuffiette perennemente infilate nelle orecchie, le serie tv che guardano su Netflix o Amazon Video nell’epoca all you can watch, persino le influencer che seguono su Instagram, ebbene tutto ciò è utile per capire il loro mondo (senza giudicarlo). Possiamo però, di tanto in tanto, anche portarli in mondi artistici e culturali a loro sconosciuti. Per aprirli a nuovi orizzonti. E partire dal rap, per esempio, per far loro apprezzare l’opera lirica. La parola d’ordine è contaminazione. Verdi in versione rap. La sfida di Bersanelli, ideatrice anche del Concorso

Verdi Rap che si svolge al Teatro Regio di Parma dal 2017, è invitare i giovanissimi a raccontare a loro modo i melodrammi del musicista ottocentesco. I due mondi sono solo apparentemente lontani: pure il rap insegna la metrica e la sensibilità per i temi sociali e attuali. Così la Traviata diventa Pagami Alfredo del rapper Otis from Rigor Monkeez. È la storia della giovane cortigiana parigina Violetta Valéry, che per amore di Alfredo decide di abbandonare i lussi e le trasgressioni di Parigi e di trasferirsi in campagna per poi essere costretta dal padre di lui, Germont, a interrompere la convivenza e fingere di rivolere la vita di sfarzi precedente: Violetta, malata di tisi, è ormai in fin di vita quando Alfredo, venuto a sapere la verità, va a chiederle perdono per averla offesa pubblicamente nella convinzione di essere stato abbandonato. Al ritmo rap di Otis «Violetta è bella la pelle perla bianca e stanca / E sta con uno di cui conta solo il conto in banca / Rampollo ennesimo stampino della serie / Dice tutto è follia nel mondo ciò che non è piacere / Il fiore dell’amore nasce e muore, come le droghe / Realizzi cosa ti è successo solo all’Hangover / Alfredo non ha paura di far Game Over…»

La gelosia di Otello, fiero condottiero militare della Repubblica di Venezia, per l’amata Desdemona, che, a causa delle insinuazioni di Iago, viene sospettata di avere una relazione con Cassio in un vortice di fraintendimenti e incomprensioni preludio all’omicidio-suicidio finale, diventa E che gelo sia di Kabo: «Amore e violenza si sono mescolati / Dentro un litro di amarezza da mandare giù / La tenerezza che ci univa ci ha dimenticati / Nella trama di una storia che non vale più». E «la mia vita è una storia di vendetta», canta Kd One in Suona il mio piano nella testa che s’ispira al Rigoletto, gobbo buffone di corte, la cui figlia, Gilda, viene sedotta dal duca di Mantova, libertino e donnaiolo. Rigoletto giura di vendicarne l’onta. Ingaggia quindi un sicario, Sparafucile. Ma all’ultimo momento Gilda, ancora innamorata del duca, si sostituisce a lui e cade pugnalata in sua vece. A Il Caffè delle mamme l’abbiamo già sottolineato: i tormentoni delle canzoni (t)rap sono le droghe e la vita sgomitata, l’avercela fatta da soli e il riscatto, il sentirsi fighi, i tanti soldi, la guida di auto di lusso, lo sballo. La borsa è la

Chanel, ai piedi c’è Dior, la barca è a Saint-Tropez. Ma dalle canzoni emerge anche la necessità di rimanere se stessi nonostante il successo e di mantenere rapporti sinceri con gli amici con cui si è cresciuti. Adesso Bersanelli non solo ci aiuta a vedere nuove sfaccettature della musica che ascoltano i nostri figli, ma ci insegna anche come poterli contaminare: «Possiamo attraversare i due generi musicali – dice –. Lirica e rap possono andare a braccetto. Con, solo per citare il Rigoletto, gli amori contrastati, il bullismo dei cortigiani, la vita libertina del duca, la diversità fisica del buffone, il rapporto tra il padre e la figlia Gilda. Persino con la notte horror del rapimento della giovane». Osserva Otis: «Dicono che i rapper non sono melodici. Dicono che i rapper sparano parole a caso. E non si capisce gran parte di quello che rappano. Ma qui io vorrei sfatare questo mito». Dopotutto, ogni musica ha il suo tempo, ma è sempre tempo di musica. E quel che conta è appassionarsi e appassionare. In nome dell’educazione musicale. Con nuovi spunti che possono essere raccolti dai genitori, ma anche dalle scuole.


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Idee e acquisti per la settimana

Un primo autentico

Attualità La pasta alla carbonara è un piatto tipico della cucina romana. Questa settimana alla Migros trovate

gli ingredienti «originali» indispensabili per cucinarla, un prezzo particolarmente vantaggioso

Azione 25% Guanciale per 100 g Fr. 2.85 invece di 3.80 dall’1. al 7 settembre Nelle maggiori filiali

tipici imprescindibili, il guanciale e il pecorino romano. Mentre i formati di pasta utilizzati sono soprattutto gli spaghetti, ma anche penne e rigatoni. Il pecorino romano è un formaggio di latte di pecora a denominazione d’origine tra i più conosciuti al mondo. Le forme cilindriche possono pesare fino a 20 kg. Possiede una pasta dura, compatta, di colore bianco o paglierino, con sapore piccante. La stagionatura dura non meno di otto mesi. È prodotto esclusivamente nelle province di Roma, Viterbo, Sassari, Nuoro, Latina, Grosseto, Frosinone e Cagliari. Il guanciale, come indica il nome, è un taglio di carne del suino ottenuto da un unico pezzo tra la gola e la guancia dell’animale. Dopo essere stato salato, aromatizzato e leggermente affumicato, stagiona per almeno due mesi. Si

caratterizza per le evidenti venature di magro presenti all’interno del pregiato grasso. Spaghetti alla carbonara (per 4 persone) Rosolare in poco olio 150-200 g di guanciale tagliato a dadini per alcuni minuti finché sarà diventato croccante. In una ciotola mescolare bene 4 tuorli sbattuti, pepe, poco sale e 1 pugno di pecorino grattugiato. In un’ampia pentola con acqua salata in ebollizione cuocere al dente 500 g di spaghetti. Scolare, rimettere gli spaghetti nella pentola e saltarli brevemente con il guanciale e le uova sbattute finché quest’ultime si rapprendano appena. Servire già porzionati nei singoli piatti e guarnire con scaglie di pecorino a piacere.

Azione 30% Pecorino Romano DOP ca. 500 g, per 100 g Fr. 1.90 invece di 2.75 dall’1. al 7 settembre Nelle maggiori filiali

Flavia Leuenberger Ceppi

Tipica della cucina romana, la pasta alla carbonara è un primo piatto tanto gustoso quanto relativamente semplice da preparare. Esistono alcune teorie sulle origini della pietanza. Una di queste narra che, dopo la liberazione di Roma durante la Seconda Guerra Mondiale, la penuria di cibo era talmente elevata che i pochi generi alimentari disponibili erano quelli distribuiti dalle truppe militari alleate, di cui facevano parte uova in polvere e bacon. Qualche genio ebbe l’idea di mescolare questi ingredienti con la pasta e il risultato fu più che entusiasmante. Naturalmente negli anni successivi la ricetta non poté fare a meno di evolversi, con l’aggiunta di ingredienti più “nobili”, diventando di fatto un grande classico della cucina romanesca. La ricetta doc attuale richiede l’utilizzo di due ingredienti

Lasciatevi tentare! Gran Ragù Star Attualità Nagatsuki è il sushi protagonista

del mese di settembre

Novità Tre appetitosi condimenti sono entrati nell’assortimento

Sushi Nagatsuki 290 g Fr. 15.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Nigiri al tonno e gamberetti, HosoMaki al tonno, Chu-Maki al salmone affumicato e tonno sono le delizie che compongono il nostro sushi di settembre: il Nagatsuki. Per gustare al meglio questi freschissimi bocconcini della cucina giapponese si consiglia di togliere la confezione dal frigorifero almeno 15 minuti prima del consumo. Come

da tradizione, il sushi si consuma accompagnato da salsa piccante wasabi, zenzero marinato a lamelle e salsa di soia. Consiglio: immergete i sushi nella salsa di soia diluita con il wasabi e gustate lo zenzero tra un bocconcino e l’altro. In questo modo restituite alla vostra bocca un sapore neutro e siete pronti per apprezzare il successivo.

Fin dal 1948, anno di nascita dell’azienda e del lancio dell’iconico Dado, il marchio italiano Star è sinonimo di creatività, innovazione e buongusto in cucina. Una fama che non si smentisce nemmeno quando si parla del celebre sugo Gran Ragù Star, lanciato negli anni sessanta e oggi disponibile in diverse appetitose varianti. Tre di queste sono ottenibili nei

principali supermercati di Migros Ticino, nei gusti Polpette, Speck e Funghi Porcini. Per prepararli vengono selezionati solo i migliori ingredienti, come carne al 100% italiana di origine controllata, pomodoro e verdure fresche. La tradizionale cottura lenta conferisce loro il caratteristico sapore ricco e pieno. Senza conservanti e glutine. Correte a provarli.

Star Il Mio Gran Ragù con polpette 360 g Fr. 4.30 Star Il Mio Gran Ragù con speck 2 x 180 g Fr. 3.90 Star Il Mio Gran Ragù con funghi porcini 2 x 180 g Fr. 3.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros


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Idee e acquisti per la settimana

Peluche sostenibili Novità Nelle maggiori filiali Migros trovate

ora dei bellissimi peluche al 100% riciclati

Azione 20X Punti Cumulus fino al 7 settembre

Il nome Keel Toys è famoso in tutto il mondo per i suoi peluche di alta qualità dal design innovativo e accattivante. Come novità l’azienda inglese ha ora lanciato il marchio Keeleco, a base di materiali completamente riciclati. Questi peluche eco-compatibili sono realizzati al 100% con poliestere ottenuto da rifiuti di plastica e sono pronti per essere coccolati e amati da un nuovo piccolo amico. Anche i tradizionali occhi di vetro sono stati sostituiti da cotone ricamato

che regala un carattere del tutto speciale ai giocattoli, mentre il simbolo Keel è fatto di carta certificata FSC. Inoltre tutti i peluche sono prodotti in fabbriche dove sono garantite condizioni di lavoro eque e rispetto dell’ambiente. La famiglia di peluche riciclati Keeleco disponibile alla Migros è composta da simpatici animali di tutto il mondo, in diverse grandezze, a partire da Fr. 14.90, tra cui l’orsetto, il leone, il koala, lo scimpanzé, l’elefante, il gatto selvatico... Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Riflessi veneziani sulla collina del Dolder Pubblicazioni Confluisce in un volume lo studio di tre ricercatori Supsi su Casa Zentner di Carlo Scarpa

Elena Robert L’esclusiva collina del Dolder, sullo Züriberg, accoglie l’unico progetto dell’architetto Carlo Scarpa (19061978) realizzato fuori dall’Italia, Casa Zentner. Si direbbe un pezzo di Venezia trapiantato nella città sulla Limmat. Quando fu costruita, negli anni Sessanta, al posto di una villa del 1913 demolita e riedificata praticamente ex novo, la sua diversità ed estraneità rispetto al contesto Heimatstil del luogo era dichiarata, per linguaggio, forme e materiali. Un atto di coraggio dei committenti Savina e René Zentner: per l’epoca e le condizioni in cui si sviluppò il progetto, per la complessità del cantiere, in cui costruzione e revisione dei disegni procedettero in parallelo, l’operazione si rivelò una vera e propria sfida, conclusasi felicemente ma non senza difficoltà. La riservatezza dei proprietari e la destinazione privata dell’edificio hanno fatto sì che la microstoria di questa dimora rimanesse per lo più sconosciuta. Una recente e approfondita ricerca made in Ticino finanziata dal Fondo nazionale svizzero ne ha svelato la genesi e i contenuti. Il lavoro si è concretizzato tra il 2015 e il 2017, promosso dall’Istituto materiali e costruzioni e dal Laboratorio cultura visiva della Supsi e ha visto impegnati tre suoi ricercatori, Davide Fornari, Giacinta Jean e Roberta Martinis. Oggi un volume curato dagli autori (Carlo Scarpa. Casa Zentner a Zurigo: una villa italiana in Svizzera, ed. Electa) documenta per la prima volta la storia

della costruzione in tutti i suoi risvolti, sulla base di una ricca documentazione tra cui ottocento disegni di Scarpa e la fitta corrispondenza del proprietario, il tutto integrato da preziose fonti orali, come quella dell’architetto svizzero Theo Senn, che diresse i lavori o degli artigiani veneziani che furono attivi sul cantiere, o ancora di chi nella casa è cresciuto, come Edoardo Zentner, il figlio che l’ha ereditata. L’uscita della pubblicazione è stata anticipata lo scorso inverno a Trevano da una giornata di studio dedicata a nuove ricerche e a restauri recenti di opere dell’architetto, designer e accademico veneziano. Il tema della connessione tra ricerca storica e interventi di conservazione rimane quanto mai attuale proprio nei progetti di Scarpa, così speciali, articolati e delicati da restaurare, anche quando si può risalire alle competenze artigianali delle origini. A maggior ragione per Casa Zentner, che si connota come un’opera d’arte totale, sorprendente, unica, raffinata ma anche fragile per le particolarissime soluzioni adottate. Nella villa realizzata con estrema accuratezza sin nel minimo dettaglio, tutto infatti è personalizzato, compresi gran parte degli arredi fissi e mobili, inventariati e studiati anch’essi per la prima volta. L’accademico e critico di architettura Francesco Dal Co considera Casa Zentner il progetto tra i più conclusi e completi di Scarpa. La residenza è sempre stata abitata dai proprietari e non ha subìto modifiche nel tempo. È arrivata intatta e in buone condizioni fino a oggi. Rap-

Vista della facciata ovest dal giardino. (© Nicolas Polli)

presenta, anche per questi motivi, una testimonianza culturale e materiale di grande valore. Ora, a seguito dello studio di fattibilità del 2014 per un suo restauro delicato, firmato dall’architetto Ruggero Tropeano, si sta impostando un primo lotto di lavori. Una reciproca stima e amicizia ha sempre legato Carlo Scarpa e Savina Rizzi Masieri Zentner, tra le sue più assidue committenti fin dagli anni Cinquanta. Angelo Masieri, primo marito di Savina, scomparso prematuramente, fu allievo e collaboratore di Scarpa. Dopo il trasferimento a Zurigo di Savina e le nozze con l’ingegnere René Zentner, nascerà il progetto della villa sul Dolder, ideata e edificata tra il

1963 e il 1969. Scarpa vi si dedicò molto: l’impianto strutturale, l’attenzione alla funzionalità degli ambienti, l’accuratezza dei dettagli, la quantità e varietà di materiali impiegata, la loro diversa lavorazione, le soluzioni su misura adottate, con lo sguardo sempre rivolto a Venezia e ai suoi artigiani, fanno pensare, come evidenziato nel volume, a un approccio donativo del progettista nei confronti di Savina. Un esempio tra i tanti: nel muro di cinta un’apertura e una mensola rivestita di tessere di mosaico azzurre che al sole vibrano come riflessi d’acqua fu voluta da Scarpa per consentire allo sguardo di Savina di connettersi idealmente con l’amato paesaggio a sud. Theo Senn annota pro-

prio la straordinaria ricchezza di esperienze che si possono vivere nella casa. Il linguaggio di Casa Zentner è moderno senza essere razionale. È circondata da un muro di cinta discontinuo e articolato in cemento a vista. Si qualifica come una composizione sapiente di materiali e volumi, su quattro livelli, caratterizzata da coperture piane: chi transita in Aurorastrasse può rimanere colpito dalla torre dell’ascensore in cemento armato che attraversa centralmente la facciata alleggerita da un motivo decorativo verticale di tessere di mosaico. Il fronte sul lato opposto, nascosto agli sguardi, rivolto verso il giardino e il paesaggio, si presenta come un’alternanza di pieni e di vuoti, con pensiline e balconi sporgenti. Una villa lussuosa anche se fuori dal tempo, riconosce lo stesso Edoardo Zentner. Si pensi alla varietà e generosità dei soggiorni. L’interno è caratterizzato da un unico sistema spaziale, attraversato da ambienti che si dilatano o si contraggono, tra pavimenti lignei di essenze diverse, pareti e soffitti in stucchi veneziani traslucidi, nel quale Scarpa incastona anche elementi a sé stanti, come la sala da pranzo, i bagni, la scala che al primo piano diventa elicoidale, lo splendido mobile bar in legno che collega due soggiorni, un’architettura nell’architettura. Tra i numerosi pezzi unici che impreziosiscono la dimora c’è anche la prima opera che Scarpa realizzerà per l’industrial design, il tavolo Doge prodotto nel 1968 da Dino Gavina, che darà origine a tutta una serie di varianti successive. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 agosto 2020 • N. 36

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Società e Territorio

Studenti che aiutano studenti

Formazione Per la prima volta quest’anno la collaborazione tra il Decs e l’Associazione Mise ha reso possibile

l’offerta di un supporto scolastico mirato durante le settimane estive

Guido Grilli Prove di matrimonio nel campo delle lezioni di recupero. Unire le forze e promuovere collaborazioni tra ente pubblico e associazioni è possibile. Soprattutto se si sono condivisi una pandemia e un lungo periodo di scuola a distanza. È proprio per questa stessa ragione che, inevitabilmente, lo scorso anno scolastico ha procurato a molti studenti qualche lacuna in più. A dimostrazione che le sinergie possono mostrarsi vincenti, c’è la positiva esperienza comune appena conclusa in agosto, che ha visto la singolare cooperazione tra il Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport e l’ultra quindicennale Associazione Mise, nata nel 2006, senza scopo di lucro, la quale fa da ponte tra allievi che necessitano di un supporto scolastico e studenti universitari e liceali, a disposizione tutto l’anno per garantire degli incontri di studio nelle materie più «ostiche». In questa iniziativa il Cantone ha messo in campo le aule scolastiche, la stampa delle dispense e i docenti per coadiuvare le competenze di lungo corso dell’Associazione Mise. La sinergia ha dato luogo a settimane estive di supporto scolastico per gli studenti che frequentano le scuole medie superiori: licei e scuola cantonale di commercio. «Si è trattato di una prima prova di collaborazione che ha certamente dato buoni frutti», dichiara Davide Speziga, 38 anni, presidente e fondatore dell’Associazione Mise e docente di biologia al liceo di Bellinzona. «Il compito richiestoci dal Decs, forti della nostra esperienza, è stato quello di un sostegno allo studio. Il nostro sodalizio ha sempre dichiarato di non volersi sostituire alla scuola, anzi di porsi al suo servizio. All’inizio di luglio sono stato contattato dal capo della sezione dell’insegnamento medio superiore, Daniele Sartori, proprio per capire come potevamo organizzare dei corsi di sostegno nel Medio superiore. Noi, che eravamo già attivi da anni con i corsi estivi per gli allievi da inizio Medie ai primi anni del Medio superiore, abbiamo più o meno clonato la formula e quindi ad

Un sostegno allo studio per tornare in aula con più serenità. (Ti-Press)

agosto abbiamo in poco tempo esteso la proposta didattica, creando corsi settimanali di recupero ad hoc per studenti liceali e della scuola cantonale di commercio». «Studenti che aiutano studenti». Sono queste le poche, quanto essenziali parole che riassumono gli scopi dell’Associazione Mise. Il motto è presente nella home page del sodalizio all’indirizzo www.mise.ch. Ma qual è il consuntivo dell’esperienza di partenariato con il Decs? «Il bilancio è molto positivo. Abbiamo svolto i corsi a Bellinzona, Locarno, Lugano e Mendrisio, organizzati in sole tre settimane. In tre sedi i partecipanti hanno colmato tutti i posti a disposizione e ci sono state inoltre liste d’attesa. A causa del Coronavirus e delle necessarie distanze sociali abbiamo infatti dovuto limitare a 36 i posti a disposizione per ogni sede». La sinergia Mise-Cantone ha conosciuto vantaggi anche dal profilo finanziario per le famiglie. «La novità di quest’anno, con la collaborazione del Decs, è che il Cantone ha riconosciuto il 50% della spesa a favore delle famiglie». L’associazione aiuta anche gli al-

lievi delle Medie e delle Elementari? «Sì, abbiamo già da anni dei poli ad Acquarossa, Ambrì, Bellinzona, Lugano, dove offriamo settimane intere per alcune materie, matematica in primis, le scienze, in particolare fisica e chimica, tedesco e inglese. Quest’anno sono stati complessivamente circa 380 i partecipanti, distribuiti in tutto il Cantone. Proponiamo le stesse materie anche durante tutto l’anno scolastico. Circa un anno fa abbiamo aggiornato la piattaforma online, che mette in contatto studenti universitari e liceali, ossia i nostri collaboratori, con gli studenti più giovani per potersi incontrare. Per gli allievi delle Elementari il focus è soprattutto orientato al passaggio e all’ingresso nella scuola Media. Quanto alle Medie, oltre al passaggio verso il Medio superiore, la maggior parte delle richieste riguardano matematica, tedesco (le materie con i livelli) e l’italiano per allievi di famiglie di lingua madre straniera con difficoltà linguistiche». Sull’altro fronte dell’iniziativa ci sono gli universitari e i liceali di Mise che possono accumulare prime esperienze di insegnamento, oltre a raci-

molare qualche soldo per far quadrare il loro bilancio di studenti. «Indicativamente i collaboratori studenti di Mise richiedono alle famiglie per la preparazione del supporto e l’incontro 35 franchi. Dal canto nostro, grazie ad alcuni sponsor e donazioni, paghiamo il sito Internet e riversiamo la rimanenza nelle iscrizioni dei corsi estivi per abbassare la quota a carico dei partecipanti. Di modo che una famiglia va a pagare qualcosa come dai 7 ai 10 franchi all’ora di corso per figlio. Quelle impartite non sono lezioni canoniche, sono un supporto allo studio: l’attività è differenziata, si va al ritmo dello studente cercando di fargli superare gli ostacoli. La nostra associazione conta una sessantina di collaboratori. Il gruppo varia nel tempo; dopo due-tre anni di operatività, una volta al Master, i collaboratori abbandonano Mise, ma qualcuno rimane attivo nelle commissioni di lavoro del sodalizio». Da dove sorge il nome dell’associazione? «“Mise” non è un acronimo, bensì l’abbreviazione di “misericordioso”: ai tempi ero studente al Politecnico di Zurigo, avevo appena iniziato gli

studi in biochimica. Allora, con due compagni, uno dei quali mi affianca ancora oggi nella gestione dell’associazione, noi stessi eravamo aiutati da un professore del Politecnico, che avevamo soprannominato “misericordioso”. Da lì, forse per imitazione, tornando in Ticino, aiutavamo dei compagni più giovani agli studi liceali nelle materie scientifiche e pian piano le richieste sono aumentate e così abbiamo fondato l’associazione Mise. Quanto a me la vocazione di docente, dopo supplenze nel periodo degli studi nei licei e alle scuole Medie, si è compiuta. Mi sentivo più realizzato in aula che entrando in un laboratorio di biochimica». Conoscerà un seguito la convergenza tra la vostra associazione e il Decs? «Siamo ancora nel campo delle idee e delle ipotesi. Stileremo un bilancio. Sono dell’avviso che questa iniziativa andrebbe mantenuta nel tempo sia durante questo nuovo anno scolastico sia durante l’estate: sono gli studenti che hanno partecipato ai corsi che lo richiedono in primis. Magari con qualche supporto al sabato, come dopo scuola, come studio assistito. Quello che trovo interessante è che i docenti delle varie sedi scolastiche si sono riuniti per offrire qualcosa di condiviso. Provo a spiegarmi: ci sono normalmente nei licei dei piani di istituto, che sottostanno ai piani cantonali, ma ogni sede ha una certa libertà di manovra. In agosto, nell’offrire questi corsi nelle principali regioni del Cantone, l’idea è stata proprio quella di conseguire un’unità di materia: fornire gli stessi contenuti, quindi un dossier con esercizi uguali, uniformati per tutte le sedi: un primo risultato da affinare nel tempo. Abbiamo per questo avuto un momento di incontro tra i docenti delle varie sedi e gli studenti universitari dell’associazione. Abbiamo realizzato obiettivi comuni, sulla base del materiale che la nostra associazione aveva elaborato da dieci anni a questa parte e quello dei docenti. La nostra associazione non ha certo la pretesa di essere professionista, ma quanto siamo riusciti a raggiungere, insieme al Decs, lo trovo un grande valore aggiunto, che va a favore degli studenti e delle famiglie». Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio Un dolore non correttamente elaborato rischia di riemergere anche a distanza di molto tempo. (Marka)

Il ricordo del dolore

Psicologia Alain Brunet, docente di psichiatria canadese, ha sviluppato una terapia

che elimina dal cervello i brutti ricordi. Ma è la via giusta per una vita felice? Ne abbiamo parlato con Luigi Gianini, psicologo esperto in sofrologia

Alessandra Ostini Sutto Ogni persona, lungo il proprio cammino, incappa in esperienze negative e dolorose; se avessimo modo di cancellarle dalla nostra memoria, vivremmo una vita più felice? Per una risposta affermativa propende Alain Brunet, docente di psichiatria all’Università McGill di Montréal in Canada, che ha sviluppato una terapia che elimina dal cervello i brutti ricordi, agendo sul modo in cui la memoria archivia gli eventi passati. Prima di ogni seduta, il paziente assume un farmaco betabloccante e durante il colloquio con il terapeuta scrive il racconto del suo ricordo e lo legge poi ad alta voce. Sotto l’influenza del medicamento, che interferisce con la parte emozionale associata alla memoria a lungo termine, il ricordo viene registrato in modo diverso.

Spesso è dalle esperienze dolorose che prendiamo coscienza della nostra fragilità, possiamo diventare più empatici e impariamo ad affrontare una nuova difficoltà Un tentativo, quello del ricercatore canadese, che peraltro ben si iscrive nella tendenza dell’attuale società a non soffrire, testimoniata, per fare un esempio, dalla facilità con cui prendiamo un antidolorifico non appena abbiamo mal di testa oppure un tranquillante prima di un esame importante. Soffrire però serve. Pensiamo, per fare un discorso collettivo, alla pandemia Covid-19. Questa esperienza – in particolare quella relativa alla fase del lockdown – ci ha messo davanti alla nostra fragilità. E, una volta passata, diventerà solo un brutto ricordo, associato alla paura, alla restrizione della libertà, ed entrerà così a far parte della nostra storia, assieme agli altri vissuti

negativi, ma pure positivi, che la contraddistinguono. «Fare un discorso collettivo è difficile. Ognuno vive questa esperienza in modo soggettivo e i vissuti divergono anche a dipendenza delle condizioni di vita e del contesto in cui si vive e si è vissuto il lockdown», afferma Luigi Gianini, psicologo, specializzato in psicoterapia e in sofrologia clinica, prassi terapeutica che applica tecniche psicofisiche miranti il raggiungimento di una maggior coscienza di sé. «A livello trasversale, mi sento però di affermare che quello che ci resterà di questa esperienza è l’impressione che la vita può cambiare da un giorno all’altro. Ciò ci ha costretti a riflettere sul fatto che non tutto è scontato: quello che faccio oggi magari domani non lo potrò fare allo stesso modo. Riflessione che porta con sé la necessità di entrare in un’ottica accettativa», continua lo psicologo. Tutto ciò si fa sentire sicuramente in maniera più forte in una realtà come la nostra, che ci ha abituati ad un certo standard di benessere, rispetto ad altre, caratterizzate da una maggiore precarietà. «Abituati, in generale, ad avere le nostre certezze, con il Coronavirus siamo stati confrontati a delle incertezze, che peraltro perdurano, costringendoci ad una situazione di provvisorietà», aggiunge Gianini. Si tratta in ogni caso di insegnamenti che arricchiscono il nostro bagaglio e ampliano la nostra visione della vita. Parlando di ricordi, è doveroso fare una distinzione tra un fattore traumatico estremo, in cui la persona è confrontata ad un evento come un’aggressione, un incidente, una guerra o un rapimento, il quale continua a rinnovarsi nella sua memoria, generando quello che viene definito un «disturbo post traumatico da stress», e le più comuni esperienze dolorose, che tutti abbiamo vissuto e viviamo, semplicemente perché fanno parte dell’esistenza (un lutto, la fine di un amore, ecc…). Queste ultime non comportano per forza di cose dei vissuti negativi a lungo termine. Anzi, spesso è proprio da questi vissuti che prendiamo coscienza della nostra fragilità, possiamo diventare più em-

patici, impariamo a reagire di fronte ad una prossima esperienza dolorosa. Davanti ad un evento negativo, ognuno risponde infatti in base al proprio vissuto, che è costituito per forza di cose dai propri ricordi. Da questo punto di vista partire dal presupposto che si possa «far dimenticare qualsivoglia ricordo» nell’ottica di neutralizzare il dolore che ne consegue non avrebbe senso. «Il rovescio della medaglia di una vita troppo fortunata potrebbe essere quello di non predisporre delle basi sufficienti per far fronte alle difficoltà della vita» – commenta lo psicoterapeuta – difficoltà che a loro volta formano il carattere, creano delle risorse, dal momento che ci costringono a trovare delle strategie per la risoluzione dei problemi». I temi dolorosi della vita non vanno però banalizzati, ma piuttosto affrontati, in particolare perché possono essere responsabili di un malessere soggettivo. «Importante è non lasciare in sospeso quei segni – che possono essere l’inquietudine, l’ansia, degli stati depressivi, come pure dei dolori fisici – i quali riconducono ad un malessere che a sua volta può essere collegato ad un ricordo o all’emergere, nella quotidianità o nei sogni, di un’esperienza negativa che abbiamo vissuto, anche se non sempre tale legame risulta evidente», spiega Luigi Gianini, che ricorre sovente alla sofrologia clinica per lavorare su determinati aspetti che hanno a che fare col dolore. A tal proposito, va precisato che determinate tecniche, quali l’EMDR – protocollo specificatamente improntato sul trattamento di vissuti dolorosi – permettono pure di lavorare su aspetti post-traumatici all’interno dei quali il dolore costituisce una componente fondamentale di sofferenza esistenziale. Per questi motivi è importante che le esperienze negative vengano elaborate, se è il caso con l’aiuto di uno specialista. «Facciamo l’esempio di un lutto: di per sé non costituisce per forza di cose un trauma, ma può diventare tale se il dolore non viene elaborato e creare, anche a distanza di tempo, una sorta di malessere, uno stato depressivo prolungato – afferma lo psicoterapeuta – l’elabora-

zione, va precisato, non ci porta a cancellare il vissuto, ma a viverlo diversamente, in modo più accettante. Questo concetto si definisce resilienza». Ovviamente non tutte le esperienze negative esercitano uno stesso impatto. «Ciò dipende in parte dalla nostra capacità di resilienza, che ha una connotazione soggettiva, è legata cioè al nostro carattere e temperamento e alla nostra capacità di elaborare e di distanziarci dai vissuti», continua Gianini. Anche il fattore culturale e ambientale influenza la capacità di elaborazione delle esperienze di vita sgradevoli, traumatiche o dolorose. «Secondo la mia pratica, il rinforzo di cose nuove e positive – per esempio la formazione, il lavoro, il fatto di poter contare su una cerchia sociale e familiare solida e più in generale il fattore relazionale – permette di controbilanciare in modo molto efficace quelli che possono essere degli eventi passati negativi», aggiunge l’esperto, «per contro, una situazione personale caratterizzata da ulteriori difficoltà, può amplificare l’aspetto traumatico di esperienze vissute nel passato». A monte gioca comunque un ruolo la gravità dell’evento: «Se l’intensità dell’emozione che una situazione provoca è troppo forte, tanto da non riuscire a contrastare lo squilibrio creato da essa, si può verificare una mancata resilienza», spiega lo psicologo, «il rischio in questo caso è di trovarsi in difficoltà se confrontati con un’ulteriore situazione dalla stessa matrice di quella che è stata l’esperienza traumatica o dolorosa». Altro rischio è che questo dolore non correttamente elaborato riemerga poi, anche a distanza di tempo, sotto forma di malessere, psichico, ma anche fisico, come dicevamo prima. «A volte questi aspetti non appaiono in una prima fase dell’età adulta ma cominciano a disturbare in una successiva fase della vita, addirittura nella quarta età, quando, dopo aver passato una vita a correre, ci si comincia a fermare e si ha più tempo per pensare e per chinarsi sulla propria storia, fatta di ricordi, positivi e negativi», conclude Luigi Gianini.

Notizie in breve Una nuova formula per SwissSkills 2020 I campionati svizzeri delle professioni centralizzati «SwissSkills 2020», in programma come grande evento a Berna, a causa della pandemia di Covid-19 non potranno svolgersi nella loro forma originaria, tuttavia nelle prossime settimane e nei mesi autunnali, 29 associazioni professionali svolgeranno i propri campionati in ben 60 professioni. I nuovi «SwissSkills Championships» si svolgeranno in modo decentralizzato su tutto il territorio elvetico invece che nelle superfici di Bernexpo. La maggior parte avranno luogo durante la «settimana SwissSkills» – dall’8 al 13 settembre 2020 e coinvolgerà circa 700 partecipanti, di cui 18 provengono dalla Svizzera italiana. Grazie al format sostitutivo, realizzato con la collaborazione delle associazioni professionali e della Fondazione SwissSkills, viene così garantito lo svolgimento dei campionati svizzeri delle professioni anche nel 2020. Nonostante le condizioni straordinarie, questo offrirà alla formazione professionale svizzera un’importante esperienza per i giovani talenti nelle varie professioni. Sarà, infatti, l’occasione per ogni giovane partecipante di dimostrare le proprie capacità e promuovere l’eccellenza professionale. Informazioni: www.swiss-skills.ch Le SSS, un’importante opportunità Le scuole specializzate superiori (SSS) costituiscono un’importante via di certificazione di grado terziario per le persone titolari di un attestato federale di capacità (AFC). Quasi l’80% degli studenti che si iscrivono a una SSS ha conseguito un AFC e il 10% una maturità professionale (gli altri un diploma di scuola di cultura generale, una maturità specializzata o una maturità liceale). Queste scuole offrono inoltre la possibilità di far riconoscere competenze acquisite in precedenza, fatto che permette di portare a termine la formazione più rapidamente. Il 14% delle persone che si iscrivono a una SSS approfittano di tale opportunità. Queste scuole vantano alti tassi di successo, considerando che oltre l’80% degli iscritti si diploma; è quanto emerge da un recente studio realizzato dall’Ufficio federale di statistica (UST). I tassi di successo nelle SSS sono più alti per le donne (86%) e per gli Svizzeri nati in Svizzera (84%) nonché, per quanto riguarda le discipline di studio, nei campi «contabilità, marketing e segreteria» (94%) e «vendita all’ingrosso e al dettaglio» (93%). I tassi di successo diminuiscono invece con l’avanzare dell’età (75% a partire dai 30 anni, contro l’85% delle persone che hanno iniziato la formazione prima dei 22 anni). Lo studio dell’UST analizza infine il profilo sociodemografico degli studenti che si iscrivono alle scuole specializzate superiori che è simile a quello dei titolari di un AFC. Nonostante sia leggermente più frequente rispetto ai titolari di un AFC che le persone neoiscritte a una SSS abbiano un genitore con diploma di grado terziario (25 contro 43%), esse si distinguono dagli studenti di una scuola universitaria professionale (SUP), che nella maggior parte dei casi hanno un genitore con un diploma di grado terziario. Le SSS sono inoltre caratterizzate da una quota importante di immigrati di prima generazione (13%, senza contare le persone venute specificatamente a studiare in Svizzera, contro il 10% delle SUP).


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Società e Territorio Rubriche

Approdi e derive di Lina Bertola Imparare a sostare nel tempo «In educazione bisogna saper perdere tempo». Nel giorno di riapertura delle scuole mi piace richiamare questo pensiero di Jean Jacques Rousseau che accompagna la sua relazione educativa con il giovane Emilio, lontano dalla frenesia del mondo e a contatto con i ritmi della natura. Certo, il richiamo è rivolto al valore dell’educazione, a quel viaggio verso sé stessi, accompagnati da un Maestro, di cui la scuola rimane una straordinaria occasione. Di questo suo valore, dopo i tempi difficili appena trascorsi, siamo tutti, credo, un po’ più consapevoli. Per questo motivo l’inizio dell’anno scolastico, assieme al profumo di nuovo di quaderni gomme penne e colori, sembra offrirci oggi anche il profumo di una rinascita. Il monito di Rousseau è un invito a riflettere sul valore dell’educazione quando sappia condurci per mano a sostare nelle durate di un cammino intimo e personale: nella lentezza

del mio incontro con il mondo e con l’Altro; nella rapidità di un’improvvisa intuizione; nel tempo un po’ magico dell’incanto di una bellezza che colora di piacere l’esperienza della conoscenza; ma anche nel tempo creativo dell’ignoranza, nutrito dalla meraviglia e dal desiderio di capire. Ma l’educazione, nella sua dimensione riflessiva già indicata da Platone, ovvero l’educarsi, è un’esperienza personale che non si conclude quando, presto o tardi, ci si accomiata dalle atmosfere della scuola. Al contrario, l’educarsi può accompagnarci per tutta la vita. Che cosa significano allora per noi, oggi, le parole di Rousseau? Che cosa può indicare quel «perdere tempo» che risuona come un invito offerto al nostro vivere? Quale tempo dovremmo imparare a perdere, e perché? Sollecitata da questi interrogativi, mi vien da rivolgere lo sguardo al nostro attuale vissuto del tempo. In ogni epoca il senso dell’esistenza si è intrecciato

con una particolare percezione del tempo. Dal tempo ciclico degli antichi, al tempo dell’attesa del Cristianesimo, a quello del progresso della modernità, il nostro abitare dentro una sua rappresentazione simbolica condivisa ha sempre orientato il significato della vita. Oggi il nostro vivere nel cosiddetto tempo reale, tutto esibito sulla scena del mondo, simultaneo e frammentario, rischia di privarci di questa esperienza di senso, o perlomeno rischia di renderla sempre più difficile. Non si tratta però di demonizzare la velocità di continue accelerazioni che ci imprigionano nella morsa della fretta e nell’ansia di rispondere alle loro richieste. Ma nemmeno si tratta di incoraggiare o esaltare una lentezza che si propone sul mercato della vita come efficace antidoto, a cominciare dal mantra dello slow food. Questo perché, sulla superficie del tempo reale, lentezza e velocità sono temporalità private della loro essenza, senza contatto con il

dipanarsi, sempre singolare, della vita di ognuno. L’invito a perdere tempo potrebbe allora suggerirci di lasciar andare, per quanto possibile, ritmi e urgenze, ma anche lentezze, proposte e imposte dall’esterno, per ritrovarle in noi, nel ritmo del nostro vissuto. Lasciare andare, come un vuoto a perdere, il tempo che abbiamo, ma più spesso non abbiamo, per ricongiungerci con il tempo del nostro esserci e per ritrovare in noi la sua essenza. La sfida dell’educarsi che ci accompagna per tutta la vita potrebbe essere quella di riappropriarci di un tempo personale che riesca davvero ad esprimere la singolarità della nostra esperienza. Imparare a sostare nel tempo perché, come scrive il filosofo Eraclito in un suo bellissimo frammento giunto fino a noi, per quanto camminiamo nella vita, mai raggiungeremo i confini dell’anima. Vivere è stare, sostare nel tempo. Oggi sappiamo che il tempo appartiene al nostro cervello e sappia-

mo che cervello, coscienza e tempo sono inseparabili. Abbiamo coscienza della realtà nel tempo, come già aveva indicato, secoli prima delle attuali risposte scientifiche, la felice intuizione kantiana. Le parole di Rousseau risuonano dunque come un invito a lasciar andare un tempo che non tocca l’anima per ascoltare meglio la voce della sua presenza in noi, dove rapidità e lentezza si intrecciano e diventano valori autentici. La lentezza come tempo della riflessione, della solitudine che predispone all’incontro con l’altro, del silenzio che precede la parola, e del sacro, ovvero quel senso indifferenziato delle cose, che anticipa nella calma ogni nostra apertura possibile. La rapidità, invece, come tempo dell’intensità, nel gesto creativo, in quello della cura, e in ogni altro gesto che ci permetta di sentirci in movimento nella vita, cavalcando le sue piccole e grandi trascendenze.

al San Gottardo per via della favolosa ristrutturazione dell’Ospizio. Miller & Maranta, nel dicembre 2001, vincono il concorso, indetto dalla Fondazione Garbald diretta all’epoca da Hans Danuser, per il restauro e ampliamento di Villa Garbald più la costruzione di un centro seminari in giardino. Il Roccolo che andiamo a vedere adesso, uscendo dalla porta-finestra. A sorpresa è uscito il sole. Dalle finestre asimmetriche delle stanze per gli studenti nel moderno roccolo di Miller & Maranta – ricoperto di un impasto di beton e ghiaia della Maira o Mera e il cui tetto riprende il segmento del tetto di una legnaia vicina – entra tutta la bellezza bregagliotta che muta ogni minuto grazie alla bruma che avvolge i boschi e li svela man mano. A sprazzi appare la roccia in alto, sempre con un taglio di luce diversa, i tetti in piode, la selva castanile più vasta d’Europa che sale verso Soglio. Ogni finestra è un quadro. La caccia al paesaggio è aperta. L’altro gruppo adesso ammira il Roccolo dall’ultimo piano di Villa Garbald. Il cui corrimano di legno accarezzo ora, salendo le scale di

granito dove all’altezza di piedi e caviglie scorre un falso marmo astratto che ricorda il salame. Altre decorazioni sui soffitti, saltate fuori solo in occasione del restauro. A quanto pare, dicono gli esperti, non è opera di Semper, ma basta osservare uno strepitoso ramo di agrifoglio per discordare amatorialmente. Non credo che l’autore di Der Stil (1860) dove analizza con minuzia e grazia le decorazioni degli irochesi, la pacatezza di certi abbinamenti di colore, la simmetria delle foglie e l’euritmia dei rami, avrebbe lasciato qualcosa al caso. Le stanze con bagno per i professori non hanno niente da invidiare a uno storico hotel di lusso. L’ampio solaio aperto ai lati, dove è incominciata la rinascita di Villa Garbald e la sua vita attuale di centro seminari gestito dalla coppia belga Arnout & Siska, è, oltre la pergola, la gloria maggiore della casa. Oggi svolge la funzione di loggiato arioso e sereno. Mi siedo a un bel tavolo di legno e un pensiero va ad Augusto Garbald (1881-1931), il terzogenito morto – pare per problemi di alcol – in Brasile. I ricci, sui castagni, promettono bene.

informarci e confrontarci anche con letture complesse, con idee lontane dalle nostre. Troppo facile affidarci all’ultimo slogan o tweet solo perché rispecchia il nostro modo di pensare e poi meravigliarci se il mondo va a rotoli. Secondo il giornalista economico con un passato alla Bbc e all’emittente Channel 4, il capitalismo è finito e urge una nuova utopia. Se durante l’era liberista abbiamo imparato a sottometterci alle forze di mercato e ci siamo abituati a pensare che concetti come cittadinanza, moralità e capacità di agire fossero irrilevanti per il funzionamento del mondo, ora che il sistema del libero mercato è imploso ci viene presentato il conto. Constatiamo, da un lato, che la logica dell’egoismo, della gerarchia e del consumismo non funzionano più, dall’altro che la religione del mercato ha lasciato il posto a divinità più antiche come il razzismo, il nazionalismo, la

misoginia e la venerazione dei ladri al potere. Paul Mason ci dice che l’ideologia del libero mercato associata all’ascesa della tecnologia informatica è un mix esplosivo, l’anticamera di un antiumanesimo che si delinea come una triplice battaglia tra monopoli tecnologici, cittadini e Stato. Ci dice anche che dalla Silicon Valley alla sede centrale del Partito comunista cinese si è fatta strada l’idea che i valori umani non abbiano alcun fondamento, che l’umanità sia già finita, che non ci sia una base logica per privilegiare gli esseri umani rispetto alle macchine, che i diritti universali dell’uomo non abbiano alcun fondamento razionale. Per opporci in modo efficace abbiamo bisogno di una difesa radicale dell’essere umano. In cosa consiste, perché e in quale misura i monopoli tecnologici e gli algoritmi minino la qualità del nostro futuro lo vedremo nella prossima puntata.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf La Villa Garbald a Castasegna Sei pilastri, color salmone, della pergola di Villa Garbald, con il muro sottostante intonacato dello stesso colore ma più sbiadito-beige che costeggia la strada principale acciottolata, li scorgo dalla terrazza della pasticceria Salis gustando una torta di more. Costruita nel 1864 per Agostino Garbald (1828-1909), direttore doganale appassionato di apicoltura e meteorologia, e la moglie Johanna Garbald-Gredig in arte Silvia Andrea (1840-1935) – pseudonimo insipido che la penalizza un po’ visto che La Bregaglia (1901) è un Wanderbuch molto godibile – secondo i piani di Gottfried Semper (1803-1879). Famoso architetto tra le cui opere ci sono il Politecnico di Zurigo, il Burgtheater di Vienna, l’Opera di Dresda meglio nota persino come Semperoper. Avvicinandomi sotto un temporale alle tre meno qualcosa di un sabato verso la fine di agosto, a poco a poco la pergola mediterranea s’impone. Le diverse piante nei vasi di terracotta, sul granito tra un pilastro e l’altro, e l’odore di uva matura che pende con cura dal pergolato, danno l’impres-

sione che Villa Garbald (689 m) sia più viva che mai. Sepolto nel meraviglioso cimitero acattolico di Roma, ai piedi della piramide Cestia dove gironzolano colonie di gatti randagi accuditi come si deve, l’architetto di Amburgo, traendo spunto dagli schizzi nel suo taccuino di viaggio e ispirandosi anche forse molto dalla Gärtnerhaus (1829) di Schinkel nel parco Sanssouci a Potsdam, ha disegnato una casa rustica di campagna italiana di raffinata semplicità. Mai stato a Castasegna – grazioso villaggio della bassa Val Bregaglia al confine con l’Italia che contiene già nel toponimo l’antico castagneto incantato – Semper lascia un segno di qualcosa che non c’entra niente con il resto della valle senza però fare a pugni con niente. Vista la vicinanza con la dogana diventa una specie di preludio a un ipotetico viaggio fantasioso in Italia, tipo in Toscana, due secoli fa. Sulla soglia della casa con tetto spiovente dove l’ultimo dei Garbald – Andrea Garbald (1877-1958), fotografo – è vissuto fino alla morte, c’è Werner Ruinelli, una delle guide per la visita settimanale. Aspettando gli altri due

iscritti al tour in italiano, mentre l’altro gruppo germanofono è riunito in salotto e piove che Dio la manda, noto un gattino di terracotta niente male. È di Margherita Garbald (1880-1956), sorella di Andrea e assistente nel suo studio fotografico. La saga dei Garbald e la loro inconsueta casa, forse sarebbero caduti nell’oblìo – benché già nel 1955 una fondazione fosse stata creata da Andrea e Margherita – senza la scoperta in solaio, nel 1986, di molte tracce della loro straordinaria storia, per mano di Hans Danuser. Fotografo e artista di Coira classe 1953, capita qui per via della morosa – Brigitta – che in quegli anni vive a Villa Garbald. Finita, nel marzo 1999, sulla copertina della prestigiosa rivista «Du» attraverso la pergola in una fotografia di Andrea Garbald che ritrae l’anziana mamma Johanna, seduta all’ombra con Margherita e una domestica intente a tessere. Con la giovane coppia di milanesi engadinofili mai fermati in Bregaglia, incominciamo la visita dalla bellissima sala da pranzo, opera del duo di architetti basilesi già incontrati nelle nostre escursioni su

La società connessa di Natascha Fioretti Una difesa radicale dell’essere umano Come se non fosse già bastata una pandemia a sfilarci il tappeto da sotto i piedi – un tappeto che per ora abbiamo arrotolato e chiuso in cantina nell’attesa di capire se potrà tornarci utile di quel colore, di quella fattezza e di quella consistenza – ora stiamo entrando nel vivo della campagna elettorale americana. I toni, lo spirito e il tenore della conversazione politica durante la convention repubblicana della scorsa settimana non lasciano spazio a dubbi (non che ne avessimo, in verità). A partire dagli ospiti di punta sul palco, la simpatica coppia di coniugi bianchi McCloskey finiti sotto inchiesta per aver puntato due armi contro i manifestanti pacifici di Black Lives Matter che passavano davanti alla loro casa. Tenere le armi in pugno «contro quella folla selvaggia» ritengono sia un loro diritto, condannano invece «la mafia democratica alleata con i media» che li ha messi in

cattiva luce e ha cercato di distruggerli. Il grande maestro misogino dal ciuffo biondo, come se il covid, i morti e le fosse comuni a New York non ci fossero mai stati, non delude la sua platea «Vogliono rubare le elezioni. Se Biden fosse eletto, la Cina controllerà il Paese. L’unico modo in cui possono vincere è se le elezioni sono truccate». Se poi dagli Stati Uniti ci trasferiamo in Russia e al caso dell’attivista politico Navalny, ragioniamo sullo scioglimento della calotta polare artica o guardiamo ai roghi in California (che seguono quelli terribili della Siberia e dell’Australia), l’ansia sale (se non sale c’è qualcosa che non va) e ci dice con chiarezza che il tappeto possiamo anche dimenticarcelo e lasciarlo marcire in cantina. Piuttosto, se non vogliamo finirci anche noi in una cantina angusta e umida di cui qualcuno ha gettato via la chiave e l’unica finestra che abbiamo sul mondo

sono lo schermo del nostro pc e del nostro cellulare tenuti sotto stretta sorveglianza, dobbiamo attivarci. Per chi la vede così un ottimo spunto di ispirazione è l’ultimo saggio di Paul Mason, considerato uno dei pensatori di riferimento della nuova sinistra radicale, uscito quest’anno per il Saggiatore: Il futuro migliore. In difesa dell’essere umano. Manifesto per un ottimismo radicale. Vi dico subito che il futuro migliore non è dietro l’angolo, non basta un click, un like, l’ultima osannata dieta chetogenica per attivarlo. Vi dico anche che tutto questo ottimismo non l’ho percepito. Siamo così immersi nel nostro paludoso acquitrino che uscirne richiederà sacrificio, impegno e piccoli, grandi quotidiani atti di resistenza e di rivoluzione da parte di ciascuno di noi. Aggiungo, conoscenza approfondita di ciò che accade intorno a noi, perché è una nostra precisa responsabilità


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 agosto 2020 • N. 36

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Ambiente e Benessere In Ticino il bosco avanza Quali le conseguenze presenti e future su economia e attività umane?

Sarà il viaggio dei viaggi Il tempo vuoto creato dalla pandemia mondiale sta alimentando nei viaggiatori progetti sempre più ambiziosi

Non solo per i compiti Anche fiabe, aneddoti, proverbi, consigli, link legati all’ambiente, nel nuovo diario scolastico

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Un piacere da brivido Dolci granite al melone o anguria per rinfrescare questo caldo agosto solivo pagina 22

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Il cervello delle emozioni Simposio L’Intestino è il nostro secondo

cervello attraverso cui si relazionano cibo, psiche e flora intestinale; se ne parlerà mercoledì 9 settembre al LAC

Maria Grazia Buletti Una decisione presa «di pancia»: «viscerale» e perciò spontanea, inconsapevole, istintiva. Le «farfalle nello stomaco»: un nugolo di emozioni che fremono proprio lì, se ci innamoriamo, se viviamo un evento emotivo piacevole. Un certo «mal di pancia» se ci arrabbiamo, se siamo contrariati, ansiosi, sotto stress. Le emozioni positive, negative, semplici o complesse, influenzano il nostro comportamento spesso in modo più incisivo della volontà. Non possiamo decidere di essere felici, ma vuoi vedere che potremmo agire per provare ad esserlo il più possibile? Possiamo farlo proprio «di pancia»! Il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach nel 1862 scrisse L’uomo è ciò che mangia: «Egli pose il cibo all’origine della società, del pensiero, nella religione e persino nelle differenze culturali di classe, affermando che per “introdurre qualcosa nella tua testa e nel tuo cuore è necessario che tu abbia messo qualcosa nello stomaco”, dimostrando che il pensiero comincia proprio dalla pancia e poi arriva alla testa», così lo psichiatra e psicoterapeuta luganese Michele Mattia riassume la stretta correlazione che esiste fra mente e tratto gastrointestinale. Cosa d’altronde inconsciamente nota e socialmente in uso: non parliamo forse di invito a cena per discutere di affari o per un appuntamento galante? Al punto che si comincia finalmente a comprendere che l’intestino è il nostro secondo cervello, impegnato in una relazione bidirezionale con la mente. «I pensieri influenzano le funzioni intestinali e viceversa, l’intestino è in grado di agire sulla mente e quindi sul nostro comportamento e sulla nostra sensazione di benessere», afferma il gastroenterologo bellinzonese Florian Bihl spiegando che il nostro tratto gastrointestinale accoglie abitualmente un’enorme quantità di microrganismi (microbioma): una massa viva e brulicante che interagisce con le mucose e le strutture immunitarie, influenzando costantemente la nostra salute, compresa quella della mente. «Un sano equilibrio del microbioma dà una sensazione di benessere fisico: dello star bene dell’intestino ne beneficia quindi la mente, come è noto

dall’antichità secondo il detto Mens sana in corpore sano». Lo psichiatra Michele Mattia ricorda che sono ormai lontani i tempi in cui Cartesio separava drasticamente emozione e intelletto: «Le neuroscienze hanno percorso parecchia strada dagli anni Novanta, quando il neurologo Antonio Damasio confutava questa separazione, scrivendo il suo libro L’errore di Cartesio che sanciva di fatto il legame fra ragione e sentimento, fra cervello e pancia». Scopriamo che ci sono più neuroni nel tratto dell’apparato digerente che in qualsiasi organo del corpo umano. E che nell’intestino si produce la maggior parte della serotonina e gran parte della dopamina che circolano nel nostro organismo. «Oggi riemerge quella conoscenza più profonda radicata nella radice millenaria dei proverbi popolari: la conoscenza esperienziale del legame netto fra ciò che viviamo e ciò che sentiamo nel nostro corpo», afferma il dottor Mattia che però invita alla prudenza: «Malgrado la maggiore conoscenza dei neurotrasmettitori prodotti dall’intestino periferico, le nostre terapie devono ancora essere migliorate perché i farmaci agiscono ancora oggi su di esso come effetti collaterali, e dobbiamo ancora comprendere la vera azione sull’umore di dopamina e serotonina». La dimensione ritrovata mens et abdomen non deve dunque creare falsi miti secondo cui il microbioma può risolvere ogni problema: «Siamo in una fase interessante che permette di porre le basi scientifiche di quelle che erano conoscenze empiriche per poter meglio agire nella direzione: l’uomo è ciò che mangia». Ciò non toglie che, come afferma il gastroenterologo: «Il microbioma del nostro tratto digerente contiene un mondo: esso è individuale come le impronte digitali, e per questo ciascuno dovrà comprendere quale sia il suo equilibrio normale affinché ne possa beneficiare l’intero organismo». È facile comprendere che l’alimentazione può fare la differenza, ma che non esistono regimi alimentari universali proprio per l’unicità di ciascun microbioma: «È evidente che l’alimentazione può cambiare il microbioma, con conseguenze anche nella percezione del sistema nervoso intestinale e influenzando il nostro umore, la nostra

Il gastroenterologo Florian Bihl (a sinistra) e lo psichiatra e psicoterapeuta Michele Mattia (a destra). (Stefano Spinelli)

salute e la nostra sensazione di benessere psicofisico. Ma ciascuno dovrà riflettere su cosa potrà cambiare su se stesso, che faccia bene a lui e solo a lui». L’invito del dottor Bihl ad ascoltare se stessi è chiaro, così come lo è il fatto che qualsiasi tipo di regime alimentare può non funzionare universalmente: «Qualcuno può trarre beneficio da una dieta vegetariana, altri no, ad esempio. Però posso ascoltarmi e mangiare ciò che sento mi faccia bene, bere o non bere vino se sento di non gradirlo e via dicendo». Impossibile, al momento del nostro incontro, non fare cenno al flagello del Coronavirus: «Paradossalmente, la situazione creatasi obbliga a mangiare

meglio e più prodotti coltivati, alimenti del territorio cucinati con maggiore cura perché c’è più tempo: ciò migliora sensibilmente l’umore del nostro microbioma che di riflesso farà sentire meglio anche noi», dice il dottor Bihl che si augura che manterremo qualche buona abitudine alimentare anche in seguito. Risulta che dobbiamo trattare bene il nostro tratto digerente perché esso elabora e ci protegge da ciò che ingeriamo: «È un organo molto gentile, benefico, amico nostro, solo che merita di essere trattato bene badando a ciò che mettiamo in bocca per qualità e quantità di alimenti». Una regola, ripete, individuale: «Non c’è una dieta giusta per tutti o soluzioni condivise

e condivisibili perché ciascuno ha un proprio microbioma». L’intestino è davvero il nostro secondo cervello? Mercoledì 9 settembre si confronteranno sul tema medici e specialisti del settore nel Simposio a loro dedicato al LAC, Lugano Arte e Cultura. Per ora abbiamo capito che la pancia ha un ruolo importante per la nostra salute, conoscere il legame tra cervello e intestino significa conoscersi. Ciò comporta una visione olistica dell’essere umano, alla quale poi possiamo aggiungere, come in una buona ricetta di cucina, un pizzico di immaginazione perché, diceva Einstein: «La conoscenza è limitata, l’immaginazione abbraccia il mondo». E ci fa stare bene.


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Il bosco avanza in quota

Ecologia forestale Allo stesso tempo si espande anche in basso rioccupando dopo tanti secoli

il posto che gli compete

Alessandro Focarile Alle nostre latitudini, la vocazione naturale del territorio è il bosco, le cui caratteristiche e i suoi aspetti strutturali sono in funzione della quota, dell’esposizione, dell’idrografia, della natura fisica e chimica dei suoli d’impianto, del mesoclima, e dell’intervento dell’uomo. Il bosco è un composito consorzio di alberi, organismi complessi, che hanno – da specie a specie anche all’interno di ogni singola specie – una propria indole, un proprio comportamento, una differenziata capacità fisiologica di reazione ai fattori fisici e biologici, i quali possono esprimere aspetti positivi oppure negativi. «Un bosco non è solo un insieme di alberi, non è solo la somma degli alberi, degli arbusti e delle erbe. Non è nemmeno la somma della componente animale e di quella vegetale, e della roccia e del suolo su cui cresce. Un bosco è un organismo, complesso. È il risultato di azioni e reazioni, di alleanze e competizioni, di simbiosi e parassitismo. È un alternarsi di vita e di morte, di crescite e crolli» (Zovi, 2019). Nel canton Ticino siamo allietati dalla presenza di circa 50 specie differenti di alberi di impianto naturale, presenti dalla foce della Maggia (200 metri slm) ai 1900-2000 metri slm in Leventina e in Valle di Blenio. A questo contingente boschivo (conifere e frondiferi), che attualmente occupa più del 50 per cento della superficie cantonale, vanno aggiunte numerose e insolite specie esotiche introdotte dall’uomo in epoca più o meno recente. Si tratta di robinie (comprese le mimose), magnolie, ginkgo, liriodendri, paulownie, eucalipti, palme, ailanti, bagolari, ippocastani. Per non parlare della ricca vegetazione legnosa «da siepe»: laurocérosi, bossi, ligustri, crataegi e tuie. Per cause naturali (cambiamenti climatici in atto da diversi decenni), e soprattutto per cause umane (abbandono di prati, pascoli e coltivi) il bosco avanza in quota e in basso.

Sì, il bosco avanza in alto e in basso. Ma dove, secondo quali meccanismi, per quali cause, e con quali conseguenze? Assistiamo spesso al trasformarsi della sua composizione, espressione di un naturale dinamismo, un fenomeno a carattere permanente nel corso dei tempi, e non contingente. Il bosco avanza: è una espressione semplicistica e fuorviante, in quanto non prende in considerazione tutti gli aspetti di questo dinamismo, che è insito di ogni ecosistema naturale, e pertanto più difficile da indagare e da valutare. Il bosco avanza, ma sarebbe opportuno conoscere quali specie di alberi possono prendere il sopravvento su altri, quali hanno un carattere predisponente che si impone, quali si sostituiscono ad altre specie, oppure soccombono. È un fenomeno al quale assistiamo, comune su tutte le montagne europee: dai Pirenei alle Alpi, ai Carpazi e ai Balcani, con tempi e modalità geografiche legate ai vari territo-

In valle Vedeggio e nel Bellinzonese sui pascoli abbandonati da oltre 50 anni, si è insediata una rigogliosa boscaglia di betulle pioniere. (Needpix.com)

ri considerati, e al loro utilizzo da parte dell’uomo. Durante i recenti millenni, da 7mila anni da oggi, il bosco ticinese ha conosciuto sostanziali modifiche: sia per cause legate alle alterne vicende climatiche che si sono succedute, sia a causa dell’influenza sempre più marcante della presenza dell’uomo sul territorio. La documentazione raccolta in 450 località nelle torbiere alpine e prealpine, e costituita non solo di pollini, ma anche di resti lignei (interi tronchi), e pigne (stròbili) di conifere, testimonia la passata presenza arborea a quote oggi totalmente prive di alberi. Inoltre, anche l’attuale ritiro generalizzato dei ghiacciai sta rivelando altri reperti preziosi, che ampliano e convalidano le nostre conoscenze. In epoca storica, prima della progressiva e massiccia presenza umana nel mondo alpino, il limite superiore del bosco («tree-line») era più elevato di 200-400 metri rispetto alla situazione attuale. Questa è stata la diretta conseguenza di una capillare e ostinata distruzione con il fuoco del manto arboreo preesistente per ottenere sempre più ampi spazi da coltivare e sfruttare. Fino a un recente passato, nel canton Ticino il bosco occupava nelle regioni prealpine e alpine superfici di gran lunga minori rispetto ai tempi attuali. Inoltre, il bosco è stato penalizzato, sfruttato non razionalmente, e in molti casi totalmente distrutto. Il bosco era considerato una immensa e inesauribile miniera da sfruttare: lavoro e ragioni di vita grama per intere vallate alpine e prealpine. Ricordiamo l’epopea dei borradori della Valle Pontirone, delle «acque che portavano», dei «fili a sbalzo» introdotti dai boscaioli valtellinesi, delle donne che trasportavano a spalla i sacchi di carbone di legna a Luino e a Maccagno. Troppo spesso con risvolti alta-

mente negativi a carico delle comunità e del territorio: perdite di vite umane, frane, dissesti, alluvioni, patrimoni distrutti. Boschi che conoscevano l’incessante morso di un esercito di capre: 63’461 nel 1866, contro le 13’494 nel 1993 (statistiche federali). La cui presenza, il vago pascolo, ostacolava la rinnovazione del manto arboreo. Infine, l’altrettanto permanente e prolungato asporto della lettiera, protrattosi fino a un recente passato con il conseguente impoverimento organico dei suoli forestali. Ma boschi che non albergavano l’imponente popolamento attuale di ungulati selvatici: cervi e caprioli, circa 20mila capi, secondo le attuali statistiche cantonali. Un fenomeno nuovo, che preoccupa per la sua invasività, fenomeno che sta generando l’insorgere di molti problemi collaterali sconosciuti in passato: di carattere sanitario (proliferazione delle zecche), forestale (danni agli alberi e alla rinnovazione), agricolo (danni alle colture e ai vigneti), infortunistico (incidenti stradali provocati dall’investimento degli animali). Si può affermare che i danni provocati dalle capre siano stati sostituiti da quelli indotti dagli ungulati. Con il progressivo abbattimento del bosco in quota veniva a crearsi una intricata e complessa catena di cause ed effetti: fanciullette e ragazzine in età «pre-pastorizia», cioè non ancora in grado di accudire il bestiame al pascolo sui monti, erano impiegate per pulire i pascoli dall’invasione di rododendri, ginepri e ontani verdi. Pascoli sempre più estesi per poter vivere. Basti pensare che all’epoca di Lavizzari (1863) i rinomati e ubertosi pascoli della Valle Piora in Leventina erano caricati con un esercito di 466 bovini, contro i 250 capi nel 2010. L’eccessivo pascolo generava pro-

gressivamente la formazione di una cotica erbosa continua, essenzialmente costituita di dure graminacee rifiutate dal bestiame (Nardus, o erba cervina). Col tempo, e superata la soglia critica di 45° di inclinazione dei pendii, si creava un piano di scorrimento per la formazione delle valanghe, un fenomeno pressoché sconosciuto prima della «piccola era glaciale» protrattasi dal 1500 al 1860 circa. Possiamo schematizzare la sequenza temporale dei seguenti fenomeni: 1. abbattimento del bosco in quota; 2. formazione di aree pascolive scoperte; 3. carico eccessivo di bestiame; 4. formazione di praterie dominate da Nardus; 5. formazione di valanghe; 6. dove prima c’era il bosco: massiccio insediamento dell’ontano verde (Alnus viridis) i cui noduli radicali hanno la proprietà di fissare l’azoto; 7. arricchimento nutritizio del suolo, che predispone il ritorno del bosco in epoca attuale; 8. larici, pini cembri (abeti rossi dal basso) riprendono quota. Ed è così che il limite superiore degli alberi (tree-line) lentamente si innalza: il bosco avanza sulle Alpi. Merita, a tal proposito, accennare ad alcuni aspetti particolari. Nel Mendrisiotto, vaste radure sono state ricavate nel pre-esistente bosco di avornielli (Ostrya carpinifolia), noccioli, ontani e frassini per allevare qualche vacca. In valle Vedeggio e nel Bellinzonese (versante Nord) sui pascoli abbandonati da oltre cinquant’anni, si è insediata una rigogliosa boscaglia di betulle pioniere (foto). Nel Ticino centromeridionale, e con vistose infiltrazioni intravallive verso nord, una radicale trasformazione è stata realizzata – durante gli ultimi 1500 anni – attraverso la «domesticazione» del castagno, ottenuta con la sostituzione dei preesistenti boschi primari con dominanza di querce, olmi,

carpini, aceri, tigli e frassini. Attualmente, dopo la cessazione della plurisecolare «cultura del castagno», si assiste a una successione e trasformazione evolutiva, che preannunzia il ritorno del bosco primario, ma con assenza di querce. Con una accentuata prevaricazione su castagni spesso plurisecolari da parte di noccioli, ciliegi selvatici, betulle, aceri e frassini. Nella conca di Faido in Leventina, estese zone di prati da sfalcio abbandonate da decenni, vedono l’invasione di un bosco di aceri, ontani e frassini. Mettendo a confronto le foto fatte ai primi del Novecento con quelle attuali, ci si rende conto di quanto la situazione territoriale sia radicalmente mutata. Dove si trova ciò che l’uomo abbandona, torna il dominio della Natura. Ma i tempi e le modalità di questo ritorno costituiscono un problema nuovo, perché ci troviamo tecnicamente e culturalmente impreparati nella comprensione e nella gestione di problemi sconosciuti in passato. Sì, il bosco avanza in alto e in basso. Ma, dove, secondo quali meccanismi, per quali cause, e con quali conseguenze positive e negative presenti e future sull’economia e le attività umane? «Cent’anni bosco, cent’anni prato, e poi tutto tornerà come è stato», cantavano gli gnomi della Gran Montagna (Mario Rigoni Stern, Arboretum salvatico, 2003). Bibliografia

Ivo Ceschi, Il bosco del Cantone Ticino, Armando Dadò editore (Locarno 2004), 452 pp. Giorgio Vecchiano, La resilienza del bosco, Mondadori (Milano 2019), 203 pp. Peter Wohlleben, La saggezza degli alberi, Garzanti Milano 2017), 205 pp. Daniele Zovi, Alberi sapienti, antiche foreste, UTET (Torino 2018) 295 pp.


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Ambiente e Benessere

Volo senza destinazione?

Tra i campi di lavanda

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letture per viaggiare

Viaggiatori d’Occidente I veri esploratori del mondo costretti all’immobilità

Bussole Inviti a

«Tutto cominciò con un fortunato cambio del tempo. Io e mia moglie Jennie avevamo deciso di scappare dai rigori dell’estate inglese per trascorrere due idilliache settimane in Côte d’Azur, che, a quanto pare, gode di trecento giorni di sole l’anno. Non quell’anno però. Pioveva, tanto e spesso. Gli ombrelloni sulla spiaggia penzolavano come alberi fradici (…) Alla fine decidemmo di esplorare la Francia…».

Claudio Visentin Dopo la lunga pausa imposta dall’epidemia, tra i viaggiatori abituali si segnalano crisi di astinenza. Per venire in loro soccorso la compagnia Starlux Airlines ha messo in vendita biglietti per un volo senza destinazione (Flight to nowhere): si parte dal Taoyuan International Airport di Taiwan, si sorvolano le Filippine e poi si torna a casa tre ore dopo. I duecento posti disponibili sono stati rapidamente venduti. Gli organizzatori, stupiti della risposta positiva, hanno sottolineato che «il desiderio di esplorare il mondo rimane forte nonostante le restrizioni ai viaggi internazionali. I viaggiatori sentono la mancanza anche della più banale routine: mostrare il passaporto o raccogliere il proprio bagaglio dal nastro trasportatore all’arrivo». Esperienze simili sono offerte anche da Eva Air e China Airlines. Alcune compagnie di navigazione – HapagLloyd e TUI – offrono invece crociere senza scalo, anche di una settimana, interamente spesa a bordo, tornando poi al porto d’imbarco. Il numero di posti è ridotto per riconquistare la fiducia dei viaggiatori, dopo i casi di navi bloccate in quarantena la scorsa primavera. Ancora più interessante la storia di Imperfect Foods, creata per ridurre gli sprechi alimentari attraverso la raccolta e la vendita del cibo inutilizzato. La società ha ricevuto dalle compagnie aeree migliaia di vassoi sigillati con cracker, formaggio e frutta secca. In poco tempo ne ha venduto online sedicimila confezioni, evidentemente a nostalgici del volo. Altrettanto buone le vendite a domicilio di confezioni di popcorn in origine destinate ai cinema, per chi dal divano rimpiange il grande schermo. Ma per chi ha davvero viaggiato questi trucchetti non funzionano. Anzi proprio questo nostro tempo vuoto alimenta nei viaggiatori progetti sempre più ambiziosi, per il 2021 (gli ottimisti), per il 2022 (i pessimisti), per quando sarà (i fatalisti). E questa volta sarà il viaggio dei viaggi, il viaggio della vita: più lungo, più lento, più lontano. Gli organizzatori di viaggi hanno già notato un forte aumento nelle prenotazioni a lungo termine rispetto allo

Natalino Russo vuole tornare sugli immensi fiumi amazzonici (qui si trovava sul Rio Negro nell’Amazzonia brasiliana). (NR)

scorso anno. E fantasticare di viaggi futuri può essere anche un divertente gioco di società per amici e parenti. Per esempio, il sito Virtuoso Wanderlist (www.virtuoso.com/wanderlist) chiede a ciascun membro della potenziale comitiva dove vorrebbe andare, come, con quale budget, per fare cosa. Quindi combina le diverse indicazioni in uno o più programmi di viaggio. Ci sono due buone ragioni per fantasticare senza limiti di viaggi futuri. Per cominciare fa bene: «Immaginare qualcosa di positivo per il futuro, in particolare i viaggi, tiene occupata la mente, riduce lo stress e migliora il presente» sostiene Shevaun Neupert, professoressa di psicologia alla North Carolina State University (ma non serve un titolo accademico per capirlo). E tanto meglio quanto più i progetti, pur remoti, sono dettagliati e concreti (voli, coincidenze, alberghi, risorse ecc.). Inoltre, mai come ora le politiche di cancellazione sono generose e il rischio di perdere il proprio denaro è prossimo a zero. Muovendo da queste premesse, abbiamo chiesto ad alcuni tra i nostri collaboratori abituali quale grande viaggio hanno sognato nelle pieghe dell’epidemia. Solo il pittore Stefano Faravelli rifiuta la premessa: «Non ho mai progettato un viaggio se non a partire dal momento in cui, in un modo o in un altro, mi è stata offerta la possibilità di partire. Ritengo lo stato di attesa ricettiva (o se preferite di passiva disponibi-

lità) la condizione affinché il viaggio si manifesti». Paolo Brovelli invece vuole spingersi nella Siberia profonda: arrivare con la Transiberiana a Krasnojarsk e lì trasformare il viaggio orizzontale in verticale, scendendo in battello il fiume Enisej verso nord, fino a Noril’sk, dove sfocia nel mare di Kara. «Voglio mostrare che anche là dove crediamo non ci sia nulla, c’è sempre qualcosa: città, genti, altre vite». Anche Marco Moretti guarda verso la Russia: «Il mio grande sogno nel cassetto è la Kamchatka, ai confini del mondo. Ci penso da quando da bambino giocavo a Risiko. È una penisola grande come la Francia proiettata nel Mare di Bering, un selvaggio mosaico di ghiacciai, vulcani, fiumi e laghi dove i più giganteschi orsi bruni del Pianeta pescano salmoni rossi lungo il corso dei fiumi. È un viaggio difficile e costoso, spesso l’elicottero è il solo mezzo di trasporto disponibile, ma ce la farò: i sogni vanno realizzati». Natalino Russo vuole «tornare sugli immensi fiumi amazzonici, sulle orme dei grandi esploratori del Cinquecento. È su queste distese d’acqua che si sono concentrate le mie letture e le mie fantasticherie degli ultimi mesi». Sarà l’effetto della reclusione domestica, ma anche Paolo Ciampi guarda verso ampi spazi, questa volta del Canada, «lungo tutta la costa orientale, Nuova Scozia, Terranova e Labrador… Invece sono finito in un agriturismo

dei Monti Sibillini. Ma il prossimo anno ci riprovo!». Paolo Merlini si affiderà come sempre alle predilette corriere di linea, ma con un respiro europeo: «Col passar del tempo ho visto affiorare la voglia di un viaggio troppo a lungo rimandato e adesso so che, a Dio piacendo, nella primavera del 2022 partirò alla volta di Odessa. È già tutto pronto. So che alle 11.00 di un giovedì qualunque, sul piazzale dello stadio comunale nel mio paese, a metà della costa adriatica, aspetterò l’arrivo del bus. Quasi in punta di piedi salirò a bordo di questa corriera stravagante e cercherò il mio posto tra badanti dalla faccia triste e lavoratori stanchi ma felici di tornare a casa per le ferie. Sulle prime, un po’ infastiditi dell’intrusione nel loro habitat, nessuno si curerà di me ma poi, varcata la prima frontiera dopo Udine, i miei compagni di viaggio romperanno gli indugi e, offrendomi un biscotto, vorranno sapere il perché di questo mio viaggio... Il mio bus, secondo l’orario, arriverà a Odessa nel cuore della notte, quasi due giorni dopo la partenza». Infine, Guido Bosticco, invece di fare progetti, è semplicemente partito con la sua Royal Enfield, copia fedele delle storiche moto anglo-indiane. Quando l’impennata dei contagi gli ha sbarrato la via verso la Bulgaria, ha semplicemente cambiato programma puntando a nord verso la Polonia e Danzica, sino a toccare le sponde del Mar Baltico. Ci racconterà.

Con questo libro postumo – Peter Mayle è morto nel 2018 – si completa la trilogia aperta nel 1989 dal best seller Un anno in Provenza e continuata con Toujours Provence. L’esperienza di Mayle si è tradotta anche nel film Un’ottima annata (2006), diretto da Ridley Scott e interpretato da Russell Crowe. Alla fine degli anni Ottanta, quindici anni dopo essersi dedicato alla scrittura a tempo pieno lasciando un buon impiego nella pubblicità, Mayle con la moglie Jennie scopre per caso la Provenza e si trasferisce nel Luberon, un assolato angolo di questa terra spazzato dall’impetuoso soffio del Maestrale, con i suoi campi di lavanda, i paesi sulle colline, bistrot, piazze e mercati popolati da personaggi spesso stravaganti, ma al fondo generosi e disponibili. Qui i due inglesi scoprono una vita diversa, più lenta, conviviale, autentica e, dopo essere stati a lungo esotici forestieri, gradualmente diventano parte della comunità locale. Questa vicenda mostra bene l’importanza degli stranieri e come il loro sguardo dall’esterno sappia cogliere l’identità di un territorio anche meglio di chi ci vive da sempre. Oggi per il resto del mondo, e forse per i suoi stessi abitanti, la Provenza è quella raccontata da Mayle e questa narrazione si è tradotta anche in una straordinaria popolarità turistica, persino eccessiva a volte. Ma questa è un’altra storia. / CV Bibliografia

Peter Mayle, La mia Provenza. Venticinque indimenticabili anni nel Luberon, EDT, 2020, pp. 152, € 14. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 agosto 2020 • N. 36

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Ambiente e Benessere

Ogni giorno un pensiero all’ambiente Editoria La crisi climatica e l’ecologia al centro del 81° Diario scolastico della Svizzera italiana dell’IET,

con dodici storie vere raccontate come fiabe Elia Stampanoni A pochi giorni dall’inizio delle scuole serve premunirsi degli strumenti basilari, tra questi non può mancare il diario scolastico che accompagna gli studenti nel loro percorso educativo. Ebbene l’agenda pubblicata dall’Istituto editoriale ticinese (IET), quest’anno si è fatta «verde» dal momento che contiene anche storie, narrate come fiabe, aneddoti, proverbi, consigli, link ad associazioni e altri contenuti legati all’ambiente, alla crisi ambientale e all’ecologia. Il tema centrale dell’edizione 2020/2021, curata per i testi da Sara Groisman e per le illustrazioni da Juliane Roncoroni, è di fatto un argomento molto caldo di questi ultimi decenni, ossia per l’appunto il clima che cambia e la relativa emergenza climatica.

La pubblicazione contempla 168 pagine a colori, con 60 citazioni e 60 collegamenti a siti informativi molto utili Indirizzata principalmente ai ragazzi delle scuole medie e superiori della Svizzera italiana, ma anche ad altri studenti e, perché no, alle scuole elementari, la pubblicazione contempla 168 pagine a colori, dove, accanto ai canonici spazi dedicati alle incombenze puramente scolastiche, trovano posto 60 citazioni scritte ai bordi delle pagine e 60 collegamenti a siti dove ottenere informazioni utili o rimandi ad attività sportive, culturali o formative. Alcuni eventi sono pure inseriti in agenda, come per esempio il «Greenday» previsto il 26 settembre (una festa della sostenibilità nell’ambito della settimana europea per lo sviluppo sostenibile), il festival dedicato alla sostenibilità e al territorio pianificata dal 4 giugno del prossimo anno a Giubiasco oppure, ancora, la giornata mondiale dell’ambiente del giorno successivo. Ma a marcare i giorni e i mesi dell’anno scolastico 2020/2021 ci sono anche le 12 storie, vicende vere raccontate come fiabe, che hanno per protagonisti gli uomini, gli animali o l’ambiente. S’inizia con La nostra casa che

sta bruciando, un noto appello dell’attivista Greta Thunberg, la studentessa svedese che ha dato un grande impulso alle proteste giovanili, le quali hanno saputo portare il tema del clima nelle piazze, attirando l’attenzione di tutti o quasi. Ci sono poi i Guardiani della foresta dell’Amazzonia, L’isola degli oggetti perduti nell’Oceano Pacifico oppure la Madre degli alberi, l’ambientalista keniota Wangari Maathai, grazie alla cui attività si stima che siano stati piantati oltre 50 milioni d’alberi in Kenya. Maathai, biologa laureatasi presso l’Università di Pittsburgh, è stata la fondatrice nel 1977 del Green Belt Movement, un’organizzazione non governativa formata da donne provenienti da aree rurali. Già negli anni Novanta l’attivista africana intraprese una forte attività di sensibilizzazione verso i problemi ambientali, con particolare attenzione al disboscamento. Per il suo contributo a uno sviluppo sostenibile, ma anche alla democrazia e alla pace, fu insignita del premio Nobel per la pace nel 2004. Ambientata in Svizzera è invece la storia-favola del ghiacciaio dell’Aletsch, i cui abitanti pregavano un tempo perché non avanzasse e non danneggiasse i loro villaggi, mentre oggi si sfila per scongiurarne la scomparsa. Si resta in territorio elvetico, a Beznau, anche per affrontare il problema delle scorie nucleari che in questo caso saranno stoccate in futuro nella montagna in attesa del loro decadimento, previsto tra 1 milione di anni. La fiaba-racconto su Diébédo Francis Kéré spiega invece come, grazie alla costruzione di una scuola in Burkina Faso, l’architetto sia riuscito a ridare speranza e slancio al suo villaggio. Ci si sposta in Asia per narrare degli uomini-ape e in America per seguire le vicende di Rob Greenfield, che si è voluto immedesimare nelle abitudini del consumatore medio statunitense, scoprendo di aver prodotto 60 chilogrammi di rifiuti in un solo mese. Le ultime storie sono quelle di un frigorifero particolare, dei migranti climatici e degli incendi che hanno devastato l’Australia tra il 2019 e il 2020. I racconti, vicende vere e preoccupanti, sono tutte raccontate come fiabe, perché, come scritto nell’editoriale a

Così si presenta il nuovo diario di scuola; sul sito www.azione.ch si potranno vedere anche un paio di pagine interne. (Ksenja Mazzi)

cura di Sara Groisman, «Abbiamo così cercato di sottrarle all’attualità sfuggente delle notizie, trasformandole in piccoli quadri fuori dal tempo, e quindi sempre validi». Ma come si è ispirata l’autrice, che ha lavorato a stretto contatto con l’illustratrice Juliane Roncoroni, nella selezione degli argomenti e delle storie da raccontare? «L’editore ha scelto il tema, ma ci ha lasciato piena libertà. A partire dal mese di novembre dello scorso anno, assieme a Juliane, con cui già avevo lavorato per l’edizione precedente dell’agenda, ci siamo quindi incontrate regolarmente per decidere come impostare la pubblicazione. Volevamo raccontare delle storie vere e nella maggior parte relative a dei casi d’attualità, ma scostandoci dal formato della notizia: la fiaba ci è quindi parsa

una buona soluzione perché ci permetteva di riportare i fatti stilizzandoli, mettendone in evidenza gli aspetti che ci sembravano centrali. I soggetti scelti per le dodici storie (dodici come i mesi di un anno) sono quindi il frutto di notizie, ricordi, proposte di amici o ricerche. I temi rispecchiano pure una varietà geografica (con almeno una storia per ogni continente) ma anche un’eterogeneità del protagonista: dalla singola persona al gruppo, dall’animale al luogo o all’oggetto». Completano la pubblicazione, stampata in oltre 10mila copie, anche tre pagine con consigli ecologici che spaziano dal settore dell’abbigliamento, alla biodiversità, per affrontare infine anche l’interessante argomento dell’impatto energetico e ambientale derivante dall’utilizzo di internet e dei

social, dallo scrivere e-mail e da altre attività online. Tema corredato con qualche utile ed elementare indicazione per limitare i danni dell’inquinamento digitale. Un diario cartaceo che, secondo logica, ha considerato gli aspetti ecologici in fase di riproduzione, utilizzando carta al 100% riciclata e pure inchiostri a base di materie prime rinnovabili e privi di oli minerali. Particolare e rispettosa anche la copertina che, in carta erba, permette pure di risparmiare CO2 e ridurre il taglio degli alberi. L’agenda dell’IET, che nel periodo tra il 1995 e il 2018 era stata adottata dal Cantone quale quaderno scolastico per gli allievi delle Scuole medie, è giunta alla sua 81a edizione ed è disponibile anche nelle maggiori filiali di Migros Ticino.

Il nocciolo delle streghe

Mondoverde Non una stecca secca, ma un rigoglioso sempreverde ricco di fiori colorati Anita Negretti Ringrazio sempre Linneo che ha regalato un nome scientifico alle cose animate, specie alle piante. E lo ringrazio ancor di più quando mi vengono richieste piante utilizzando nomignoli e soprannomi popolari, come «gamba di donna nuda» per la

Lagerstroemia (anche noto come Lillà delle Indie) o «nocciolo delle streghe» per il loropetalo, chiara allusione alla bacchetta magica. Mai avrei associato un bastoncino secco e ricco di poteri stregati al bel Loropetalum, arbusto sempreverde dalle foglie color vinaccia e dalla ricchissima fioritura che sta spopolando in questi

Un esemplare di Loropetalum chinense rubrum. (Matsuoka Akihiro)

ultimi anni. In verità: il nome Loropetalum significa «petalo di lana» proprio per via della forma e della consistenza dei petali, che in giugno-luglio è così abbondante da trasformare l’intera pianta in un batuffolo rosa fucsia. La specie madre, Loropetalum chinense, ha origini asiatiche. Essa presenta un fusto principale che nel corso di pochi anni raggiunge i tre metri d’altezza, con una ricca vegetazione fin dalla base e foglie verde scuro con petali primaverili bianchi. Bella ma un po’ anonima, questa specie ha trovato fortuna grazie al lavoro di vivaisti e ibridatori che hanno ottenuto esemplari di Loropetalum dalle dimensioni più contenute, con foglie persistenti dalle cromature inusuali (rosa acceso, rosso cupo e viola) e fiori rosa brillante che sbocciano di continuo da giugno fino alla fine di ottobre. In grado di sopportare bene le temperature miti degli ultimi inverni (in caso di geli è bene mettere delle foglie secche alla base e un velo di tessuto non

tessuto sui rami), vanno coltivati al pieno sole o al massimo a mezz’ombra per poter ottenere fogliame dai colori intensi; al contrario, in un luogo ombreggiato produrrà pochi fiori e le foglie appariranno sbiadite. Della famiglia delle Hamamelidaceae, è parente molto stretto dell’Hamamelis, con il quale condivide la forma dei fiori, ma non l’intensa profumazione. Non ama terreni calcarei, quindi al momento dell’impianto in piena terra o in vaso vi consiglio di utilizzare terra leggermente acida, da tenere moderatamente bagnata. In vaso si consiglia di bagnarle 2-3 volte alla settimana, utilizzando materiale pacciamante come le scaglie di corteccia sopra alla terra che non solo risulta esteticamente bella, ma anche in grado di trattenere un poco di umidità nel vaso. Oltre alle foglie, che da sole basterebbero per convincerci a coltivarne almeno un esemplare in giardino per giocare con la cromia dei colori, vi sono

anche i fiori, che sono molto appariscenti: piccole stringhe lunghe e sottili dai colori bianchi, rosa o rossi e dall’aspetto vaporoso, riuniti in folti gruppi, danno luminosità alla pianta. Concimato in primavera e autunno con un preparato granulare per piante acide, non richiede particolari cure, specie se si decide di lasciarlo sviluppare in modo naturale con lievi potature solo per eliminare i rami secchi o rotti, lasciandogli assumere la sua forma leggera, ampia e vaporosa. Molte sono le varietà presenti in commercio, come la «Rubrum», con vegetazione porpora, fiori fucsia e una leggera nota di profumo; bella è anche la «Ever Red» dalle foglie quasi nere e dai fiori nastriformi color rubino. La varietà «Black Pearl», forse la preferita da chi desidera coltivarlo anche in vaso, ha invece foglie più piccole rispetto a tutte le altre specie, color rosso porpora molto scuro e un portamento fitto, raggiunge il metro e mezzo sia in altezza sia in larghezza.


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Ai margini della striscia d’asfalto

Ambiente e Benessere

Reportage Racconti dal Nord del Benin, dove vive l’Africa che riesce a emozionare

Fredy Franzoni, testo e foto Benin, un pezzo d’Africa che non manca di sorprendere. Già le formalità per entrare nel paese sono insolite per chi è abituato a frequentare il continente. Poco più di due click su internet e pochi minuti dopo si può stampare il visto. Anche le formalità doganali arrivando a Cotonou sono rapide. La nostra meta è Gogounou. 650 km da percorrere sulla striscia d’asfalto che unisce il sud con il nord. Una strada percorsa giorno e notte da pesanti camion, bus, camionette stracariche di gente e merci. In altri Paesi abbiamo conosciuto autisti che dovevano esibirsi in vere e proprie gimcane per evitare buche e tratti sterrati. Qui, tutto sommato, la striscia d’asfalto permette di mantenere una velocità di crociera più che soddisfacente, anche se non mancano scossoni improvvisi. Abituati in passato a laboriose trasferte su bus collettivi stretti tra passeggeri, montagne di bagagli e a volte anche animali, viaggiare sui bus della compagnia Baobab express è come sedersi in uno scompartimento di prima classe dei nostri treni. Sedili comodissimi, aria condizionata. Fermate regolari, anche in piena campagna dove uomini e donne, appena messi i piedi a terra, si separano in gruppi per espletare i propri bisogni fisiologici tra i campi di mais o di miglio. Ordinate aree di attesa laddove occorre cambiare bus e un servizio bagagli molto elementare, ma efficientissimo grazie a frotte di giovani, tutti con la maglietta gialla, colore della compagnia. Dodici ore di trasferta scorrono senza accorgersene. Fuori, oltre ai finestrini, il paesaggio è quasi sempre pianeggiante. Siamo ancora nella stagione delle piccole piogge e dunque tutti i campi sono verdi, rigogliosi. In alternativa si guardano i teleschermi che propongono a getto continuo delle video clip con gli ultimi successi della canzone africana, alternandoli con puntate di soporifere telenovelas che narrano storie d’amore, in cui gli uomini sono costantemente vittime delle perfidie e degli intrighi femminili. A distogliere gli occhi dagli schermi una voce improvvisa. È un venditore salito non si capisce bene dove, che con molta enfasi spiega gli effetti portentosi del contenuto di flaconi, sacchetti, scatolette che pesca da una sacca. Non c’è male o malattia che erbe, radici, polveri, sassi, unguenti, sciroppi non riescano a guarire. La gente ascolta. Solo uno si lamenta. «Ma lo lasci parlare, a me interessa…» replica una donna avvolta in un vistoso vestito. Almeno una decina di passeggeri si lasciano convincere. Il venditore si siede soddisfatto. Qualche ora dopo sarà il turno di un altro giovane, con altri rimedi miracolosi.

Sul sito www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica.

Il viaggio prosegue sulla striscia d’asfalto. Le ombre diventano sempre più lunghe, si avvicina la sera. Uomini, donne, bambini, vecchi che lungo la strada stanno tornando a casa dai lavori nei campi. Sugli spiazzi in terra battuta delle case, oramai in gran parte costruite con soli mattoni di terra fatti asciugare al sole, si accendono i primi fuochi. È bello veder scorrere dai finestrini questo mondo che si sta addormentando, sapendo che non potrà negare il buio della notte. Tra non molto la luce del giorno si spegnerà e rimarranno solo i bagliori dei fuochi e qualche raggio delle torce. Verrebbe voglia di fermare il bus e scendere per poter vivere i suoni della notte immersi nel buio assoluto. L’indomani i primi passi a Gogounou. Conta oltre 90mila abitanti, difficile però capacitarsene. Un’infinità di piccole dimore, spalmate nei campi coltivati. L’unico punto di riferimento è la striscia d’asfalto percorsa ieri. Tutte le altre strade sono in terra battuta rossiccia, che durante la stagione delle piogge si trasformano a tratti in pantani. Il mercato oggi è chiuso. Rimane il dedalo di viuzze che serpeggiano tra i ripiani costruiti con assi e legni di fortuna, coperti da lamiere in gran parte arrugginite. La gente ci guarda incuriosita. I bambini ci segnano a dito. Tra i più piccoli c’è anche chi corre in lacrime verso la mamma: la pelle bianca riesce ancora a spaventare. In queste regioni nei secoli passati i re locali facevano razzie di prigionieri che poi giù al sud, in riva al mare, vendevano ai coloni che li trasferivano di forza oltre l’Atlantico come

schiavi. Il salutarsi è normalità. Larghi sorrisi, cenni con le mani e l’augurio ripetuto infinite volte di «Bonne arrivée». Questa è l’Africa che riesce a emozionare! Un gruppo di donne si ferma. Una parla un poco di francese. Stanno andando verso i campi. Alcune portano sulla schiena i figli. Uno dorme, l’altro ci fissa con gli occhi sgranati. Ridono sorprese al nostro sì all’invito a seguirle. Lasciamo la strada sterrata per imboccare un sentiero. Dapprima solo arbusti, poi i primi appezzamenti coltivati: mais, fagioli, miglio. Qua e là ciuffi di pianticelle. «C’est pour préparer la sauce». Tutti i pasti sono accompagnati dalla sauce, il condimento in cui si cuoce la carne o, laddove se ne trova, il pesce. Infiniti, i sapori, grazie alle erbe, spesso selvatiche.

Si cammina in mezzo alle coltivazioni, non c’è più sentiero. C’è timore di rovinare le pianticelle, ancora basse in questa stagione. Si arriva su uno spiazzo. Alcune capanne. Per terra pannocchie di mais a seccare. Ci saluta una donna, la madre. Alla spicciolata arrivano i cinque figli. Vivono lì, completamente isolati, a vegliare sui campi per tutta la comunità. La ragazza ci conduce orgogliosa al suo campo. Strappa un fagiolo, apre il baccello. Parte dei fagioli sono rosicchiati da vermiciattoli. Il suo viso si scurisce. Non dice nulla ma capiamo che è preoccupata, l’annata rischia di andare persa. In lontananza si odono altre voci. Altre donne che stanno lavorando. Per noi è ora di rientrare sotto il sole diventato cocente.

La striscia d’asfalto sembra aspettarci. Attraversarla richiede prudenza e attenzione. Chi non ha bisogno di attraversarla, la ignora. Arriva il venerdì, giorno del mercato grande. Percorrerlo a fine giornata, quando la luce del giorno già si affievolisce, diventa un’esperienza unica. Sacchi di tela o di plastica che si riempiono della merce invenduta: stoffe, scatole di prodotti alimentari, zappe, verdure, frutta. Gesti ripetuti innumerevoli volte, ma sempre misurati. Domani appuntamento in un altro mercato e la merce potrà tornare a essere esposta, non va dunque rovinata. Sbucano i carrettieri per portare la merce sul ciglio della striscia d’asfalto, dove vecchie automobili sembrano inghiottire all’infinito scatole, sacchi, ceste e alla fine c’è ancora spazio per i passeggeri. Tanti giri di fune per fissare sul portapacchi tutto ciò che non trova spazio nel bagagliaio. Non sembrano esserci limiti a occhi inesperti. Operazioni fatte con determinazione, ma con estrema calma. Anche questi rituali che si rinnovano quotidianamente fino al momento in cui si entra sulla striscia d’asfalto che offre due sole alternative, o il sud, o il nord. Rimane un vecchio, rannicchiato contro il muro di una vecchia casa che confina con la striscia d’asfalto, che però lui ignora. Davanti a sé, una tela, una volta forse colorata. Sopra, teste di topi, rane disseccate, zampe di animaletti indefinibili, misture di polveri colorate, erbe, radici e cortecce. Sorride mostrando i soli due denti rimasti in bocca e con la mano invita a scegliere un prodotto. C’è imbarazzo di fronte a un mondo che si sa essere ricco di rituali. L’indomani il viaggio di ritorno sulla striscia d’asfalto. È subito nostalgia guardando il paesaggio che pare scorrere a ritroso allontanando sempre più le emozioni vissute. Entrando a Cotonou, il traffico delle grandi città. Tantissime le motociclette e si pensa al giorno in cui inevitabilmente gran parte dei motociclisti potrà permettersi di guidare un’automobile. Il sole è già calato. Il velo della notte scende rapidamente a queste latitudini. All’orizzonte sorge la luna, piena, luminosa, imponente. Qui in città è solo un disco luminoso nel cielo. Lassù al nord la immaginiamo come una grande lampada per addolcire il buio della notte. La striscia d’asfalto finisce davanti al mare.


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Ambiente e Benessere

Granita al melone

Migusto La ricetta della settimana

Bevanda estiva Ingredienti per 6 persone: 1 dl d’acqua · 50 g di zucchero · ½ mazzetto di melissa o di menta · 450 g di melone d’inverno, pesato mondato ad es. Galia, melone d’inverno o anguria · 1 limetta.

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1. Portate a ebollizione l’acqua con lo zucchero e la melissa. Lasciate raffreddare lo sciroppo e togliete la melissa. 2. Nel frattempo, tagliate a cubetti la polpa del melone. Spremete la limetta. Frullate la polpa del melone con il succo di limetta e mescolate la purea con lo sciroppo. 3. Versate tutto in un sacchetto per alimenti e sigillate bene. Mettete in congelatore per circa 3 ore, impastando il sacchetto ogni 30 minuti, finché la massa non ottiene una consistenza simile a quella della neve. 4. A piacere, servite con una fetta di melone e guarnite con melissa per accentuare la nota fresca della bevanda. Per una versione colorata, dividete lo sciroppo alle erbe in tre parti e frullate ognuna con 150 g di melone di tipo diverso. Preparazione: circa 20 minuti; congelamento: circa 3 ore. Per persona: circa 1 g di proteine, 0 g di grassi, 13 g di carboidrati, 60 kcal/250 kJ.

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sensibilità attorno agli esaltatori di sapidità Laura Botticelli Gentile Botticelli, ho sentito parlare molto male degli esaltatori di gusto «artificiali» (ne esistono di naturali?) come di sostanze che «stimolano» la comparsa di intolleranze alimentari varie. Possibile? / Ivan

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Gentile Ivan, intende forse gli esaltatori di sapidità? Quegli additivi utilizzati nel settore alimentare per migliorare le caratteristiche dei prodotti finiti con l’obiettivo di ottimizzare o potenziare il sapore degli alimenti? Negli anni passati ci si è praticamente accaniti su questo argomento, in particolare sul Glutammato Monosodico, il più conosciuto. Il glutammato monosodico (spiego di che cosa si tratta nel testo completo che si trova su www.azione.ch) aggiunto agli alimenti agisce come un esaltatore di sapori e aggiunge un quinto gusto (ricordiamo i canonici quattro: amaro, acido, salato, dolce), chiamato «umami», che è meglio descritto come un gusto salato, simile al brodo o alla carne. Normalmente viene aggiunto agli alimenti salati e trasformati come alimenti surgelati, miscele di spezie, zuppe in scatola e secche, condimenti per insalate e carni o prodotti a base di pesce. In alcuni paesi, come la Svizzera, è usato come condimento da tavolo, nel «nostro» Aromat per esempio. Il suo consumo è stato associato non solo a reazioni di ipersensibilità, note anche come «sindrome del ristorante cinese», ma anche a una maggiore sensibilità al dolore, a dermatite atopica fino alla cardiotossicità, epatotossicità, neurotossicità, infiammazione di basso grado, disordine metabolico, alterazioni premaligne, insieme a cambiamenti comportamentali e tanto altro ancora. Per capire quanto di vero ci fosse in

tutto ciò è stata fatta, nel 2019, una revisione della letteratura disponibile, da parte di un gruppo di ricercatori, con lo scopo di esaminare studi preclinici e studi clinici riguardanti gli innumerevoli presunti effetti avversi. L’analisi critica della letteratura esistente, stabilisce che molti degli effetti negativi sulla salute riportati al glutammato monosodico hanno poca rilevanza per l’esposizione umana cronica e sono poco informativi in quanto si basano su un eccessivo dosaggio che non soddisfa i livelli normalmente consumati nei prodotti alimentari. Hanno anche rilevato diversi difetti metodologici, che li hanno portati a concludere che questi studi accusatori hanno una rilevanza limitata. Per quel che concerne l’ipersensibilità o i collegamenti del suo utilizzo con una maggiore sensibilità al dolore e alla dermatite atopica hanno anch’essi dimostrato di avere poche prove a sostegno. Potrebbe esistere un’allergia a tale sostanza ma come a molte altre, quindi se ogni volta che una persona va a mangiare cinese soffre poi di male alla testa o sente un intorpidimento a livello del collo o una sensazione di costrizione al petto o altra sintomatologia è bene che faccia mente locale di tutto quello che ha consumato e ne discuta poi con il proprio medico di famiglia per capire se esiste una correlazione col glutammato monosodico oppure con altri allergeni (soia, eccetera) che magari ha ingerito quella sera. Informazioni

Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch


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Ambiente e Benessere

Gli equilibri instabili del ciclismo

Sport Organizzatori al gancio, squadre in crisi da fame: il dopo-lockdown rischia di appiedare uno sport

finanziariamente fragile Giancarlo Dionisio Che tristezza vedere Wout Van Aert tagliare il traguardo delle Strade Bianche, a Siena, in una Piazza del Campo deserta! Che dire poi del suo numero d’alta scuola, sette giorni più tardi, sul lungomare di Sanremo? Vogliamo parlare del drammatico tonfo di Remco Evenepoel, e del trionfo di Jakob Fuglsang nell’edizione ferragostana della tradizionale Classica delle foglie morte? Tre corse entusiasmanti, tre storie avvincenti, due vincitori, episodi da brivido, ma solo tre gatti ad assistere, a causa delle misure di sicurezza sanitaria emesse dal Consiglio dei Ministri italiano. Lungi da me l’idea di mettere in discussione l’operato del Premier Giuseppe Conte, ci mancherebbe. L’emergenza Covid-19 non è cessata, quindi non solo è giusto, ma è persino doveroso che le autorità politiche pensino alla salute della popolazione. Tuttavia, quanto sia importante la presenza del pubblico a bordo strada l’hanno sperimentato gli organizzatori del Mondiale di Aigle-Martigny (20-27 settembre), costretti a gettare la spugna, in virtù della decisione del Consiglio federale di protrarre fino al 30 settembre, il limite di 1000 spettatori per le grandi manifestazioni. Purtroppo, il persistere dello stato di allerta rischia di uccidere il ciclismo, sport notoriamente più povero rispetto al calcio e ad altre discipline. Qualcuno obietterà che in fondo, per assistere a una corsa – salvo rarissime eccezioni, come sui circuiti iridati o sulle tribune al traguardo – non si paga l’entrata, quindi, che ci siano 20 o 200mila spet-

I team costruiscono il 95% del loro budget grazie al sostegno degli sponsor, oggi assenti. (MaMa)

tatori, non dovrebbe modificare la situazione finanziaria. Vero, in parte! In realtà le 200mila persone che si assiepano a bordo strada, mangiano, bevono, dormono, acquistano magliette, cappellini, felpe, gadget, visitano città e regioni. In poche parole, creano un indotto non indifferente. Chi organizza le corse si aggrappa al sostegno degli sponsor, e spesso, fra i finanziatori, ci sono le strutture che si occupano di turismo. L’equazione è presto fatta: niente pubblico, niente turismo, di conseguenza, chiusura dei cordoni della borsa. Ciò significa che gli orga-

nizzatori, soprattutto quelli più piccoli, sono e saranno confrontati con un periodo estremamente critico, a rischio fallimento. Un ruolo fondamentale, in questa fase di incertezza, lo giocheranno le televisioni. A loro spetta il compito di alimentare l’interesse nei confronti del ciclismo. Producendo immagini sempre più spettacolari, facendo in modo che i loro commentatori possano raccontare storie epiche e seducenti. Tuttavia, le TV, se vorranno continuare a proporre le cronache dirette delle corse, dovranno sborsare il denaro per l’acquisto dei

diritti di diffusione. Cifre – va detto, inferiori rispetto a quelle del calcio o della Formula 1 – che andranno a finire nelle casse degli organizzatori più importanti, oppure delle Agenzie che furbescamente se li sono accaparrati, o ancora in quelle dell’Unione ciclistica internazionale (Uci), per quanto concerne i campionati Mondiali. Il giocattolo potrebbe non rompersi, se nel flusso di denaro fossero coinvolti anche i veri protagonisti del fenomeno-ciclismo, i corridori e le squadre. In realtà si tratta di una delle rare discipline professionistiche in cui

gli attori non percepiscono un solo centesimo per la diffusione delle immagini. I team costruiscono il 95% del loro budget grazie al sostegno degli sponsor, i quali, per le stesse ragioni espresse in precedenza, tendono ad abbandonare la barca prima che affondi. Che fare? Sul piano finanziario i margini sono ridottissimi. Possono essere limati alcuni salari elevati. Tuttavia, si sa, nel ciclismo non sono molti i corridori che entrano nell’ordine di grandezza dei milioni. Moltissimi pedalano, faticano e sudano col minimo sindacale. L’Uci potrebbe, anzi dovrebbe, ridurre il numero delle corse World Tour e soprattutto non obbligare le squadre, da un lato, a ingaggiare un numero così elevato di atleti, dall’altro, a partecipare a tutte le corse del calendario. Correre, con 2 o 3 contingenti diversi, magari uno in Italia, uno in Olanda, e uno in Polonia, significa viaggiare, alloggiare, mangiare, spendere parecchio denaro. Molte squadre non ce la fanno più a sottostare a questo regime. Qualcuno evoca timidamente lo spettro dello sciopero, per costringere gli altri partner a una condivisione più equa della torta. Il giorno in cui questa flebile voce dovesse farsi più decisa e stentorea, ne vedremo delle belle. Da un lato tutti sperano che l’emergenza Covid si affievolisca, e che si possa tornare alla normalità in tempi ragionevoli. Ad ogni modo, a prescindere dalla pandemia, che sta mettendo in croce soprattutto le squadre con mezzi ridotti, gli equilibri finanziari all’interno del mondo del ciclismo vanno assolutamente rivisti.

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Lo sapevi che il chow chow nella foto è l’unico cane… e di dove è originario? Trova il resto della frase e la risposta completando il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 3, 2, 6, 5 - 4)

ORIZZONTALI 1. Uccello rapace 6. Rischio, azzardo 7. Le iniziali di Lincoln 9. Tutt’altro che sommo 10. Vale in mezzo 11. Non lo dice il compiacente 12. Li evita l’avveduto 13. Cibo giornaliero 17. Abbreviazione di latitudine 18. Un fiore 19. Tutt’altro che mancini 20. Lago francese 21. Un albero nel frutteto 22. Le iniziali del conduttore Timperi 23. Spazio erboso 24. Le iniziali della Moric 25. Facilitare, agevolare 26. Prefisso che vuol dire muscolo

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

VERTICALI 1. Il secondo uomo 2. Albero d’alto fusto 3. Un vezzo da cicisbei 4. Preposizione 5. Sporadica 8. Anticlericalismo 10. Per intero 12. Era un ornamento sul tagliamare 13. Bassezza d’animo 14. Sdegnati 15. È ripetitivo 16. Le iniziali dell’attore Solenghi 17. Veloci, rapide 19. Amato in Inghilterra 21. Pubblico Registro Automobilistico 23. Simbolo chimico del platino 24. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Un chicco d’uva passeggiando si trova davanti un albero di fichi e chiede: «Mi fai passare?» – Il fico: «No!» Il chicco d’uva ripete: «Spostati!» Il fico: «Nooo!» Il chicco d’uva prende un bastone e glielo dà in testa… «Morale» risultante: FICO SECCO, UVA PASSA. P E S O O V I N O

A C I D A E D E N

L O O D C I O R A C I N U N A L E A F R A E R O

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Politica e Economia Le scelte di Putin Con l’avvelenamento di Navalny, il presidente russo lancia un segnale all’opposizione e una risposta alle proteste in Bielorussia pagina 27

In Europa le scuole riaprono Dopo il lungo lockdown primaverile la macchina dell’insegnamanto si rimette in moto. Con molte polemiche e tante apprensioni per il riaffacciarsi prepotente del Coronavirus

Convention repubblicana L’economia resta il migliore alleato di Trump anche dopo il cambio di politica monetaria della Fed

Si vota sull’aviazione Il 27 settembre saremo chiamati alle urne per accettare l’acquisto di moderni caccia militari

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La Turchia nuovo nemico di Israele

Nuove prospettive strategiche Secondo il capo del Mossad, Ankara agirebbe come una sorta di potenza selvaggia,

fuori dalle regole e sopra le righe. E molto più minacciosa dell’Iran

Lucio Caracciolo Israele considera oggi la Turchia come un pericolo maggiore dell’Iran. Almeno questo è il punto di vista del capo del Mossad, il celebre servizio di intelligence di Gerusalemme, Yossi Cohen, discusso durante sue recenti visite nel Golfo Arabo. Secondo Cohen, riportato dal «Times» e ripreso dai maggiori media, la Repubblica Islamica resta una minaccia seria, ma contenibile. La Turchia di Erdoğan (foto), invece, agirebbe come una sorta di potenza selvaggia, fuori dalle regole e sopra le righe. Ambiziosa, dotata di Forze armate formidabili, anche se relativamente isolata e con enormi debolezze sul fronte interno, a cominciare dalla devastata economia. Ironia vuole che Turchia e Iran siano stati, negli anni Cinquanta-Settanta del secolo scorso, i perni della cosiddetta «Alleanza della periferia»

costruita da Israele in funzione antiaraba. Si trattava di costruire un cerchio esterno di potenze amiche, se non altro perché anti-arabe, con cui tenere sotto pressione i paesi arabi che accerchiano lo Stato ebraico fin dalla nascita e che allora parevano in grado di metterne in questione l’esistenza. Finita con la fuga dello scià l’intesa Gerusalemme-Teheran, quella fra Israele e Turchia ha avuto fino ai primi anni di questo secolo una sua sostanza più o meno invisibile ma effettiva. In particolare, le Forze armate turche e quelle israeliane avevano stabilito un discreto grado di collaborazione. Per esempio, l’Aviazione di Israele usava lo spazio aereo turco per le sue esercitazioni. Anche le rispettive intelligence cooperavano, sia pur limitatamente. Il tutto con la benedizione americana. Quel mondo non c’è più. Con l’avvento e l’affermazione di Erdoğan e del suo partito islamista Akp, il quadro

interno turco, e conseguentemente la sua geopolitica, ha avviato un profondo cambiamento. In particolare dalla crisi di Gaza del 2009 in avanti le relazioni fra Ankara e Gerusalemme si sono irrimediabilmente deteriorate. Oggi la Turchia si erge a potenza protettrice dei palestinesi e marca il suo profilo musulmano. Erdoğan non si sente solo il successore dei sultani ottomani, ma anche dei califfi (ai tempi della Sublime Porta le due cariche coincidevano). Vuole insomma offrirsi come capofila dei maomettani, su scala possibilmente panislamica. La Turchia di oggi è una potenza revisionista. Negli ultimi anni questo suo profilo si è accentuato sia per intensità che per estensione. Ankara si rappresenta esplicitamente come «potenza globale», sommando le direttrici neo-ottomane, panturche e panislamiche. L’obiettivo è affermarsi grande potenza entro il 2023, centenario della

nascita della Repubblica Turca fondata da Atatürk. In questa prospettiva si possono valutare alcuni fatti recenti. Per esempio, il rifiuto del Trattato di Losanna che nel 1923 disegnava i confini della ridotta Turchia anatolica, residuo del glorioso impero sultanale. E il recupero contestuale del Patto Nazionale che tre anni prima disegnava il tentativo di recupero di territori mediorientali lungo la linea Antiochia-Aleppo-Mosul-Arbil-Kirkuk. Operazione già in corso, visto che una fascia importante di Siria settentrionale è sotto controllo turco. Ancora: i turchi sono tornati a Tripoli, per restarci, e hanno stabilito con il governetto locale un accordo che assegna alla Turchia una fascia enorme di Mar Mediterraneo, dalle coste anatoliche alle libiche. Di qui l’infiammarsi delle sempre tese relazioni con la Grecia, non più gestibili dagli Usa

via Nato, organizzazione che secondo Cohen «ha perso il suo magico tocco curativo». La teoria della «Patria blu», ovvero la trasformazione della Turchia da potenza terrestre a potenza anche marittima, garantisce che la crisi nel Mediterraneo orientale non si rivelerà un fuoco di paglia. Insomma, se oggi c’è una potenza avversaria davvero pericolosa per Israele, questa è la Turchia. Questo non significa che Gerusalemme allenterà la pressione su Teheran, d’intesa con gli americani e con arabo-sauditi ed emiratini. Sicuramente l’evolvere di questa nuova prospettiva strategica israeliana metterà alla prova gli Stati Uniti. Vorranno favorire o frenare la pulsione anti-turca di Israele, Stato fratello più che alleato, contro un Paese che resta, bene o male, socio dell’Alleanza Atlantica? Dopo le elezioni di novembre ne sapremo di più.


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Politica e Economia

Una strana coincidenza

Minsk/Mosca Il più eminente oppositore di Putin, Alexei Navalny, si trova ricoverato in Germania in condizioni

gravi, dopo che è stato avvelenato in Russia: è la risposta del Cremlino alle proteste in Bielorussia?

Anna Zafesova Un «paziente in coma»: è il modo in cui il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov chiama Alexey Navalny. Come il suo principale Vladimir Putin, evita di pronunciare il suo nome, e alla domanda diretta dei giornalisti risponde che chiama Navalny per quello che è. Non leader dell’opposizione a Putin. Non vittima di un avvelenamento. Paziente in coma. Sulle cause del quale Mosca si rifiuta di indagare: Peskov ha respinto la diagnosi di avvelenamento formulata dai medici dell’ospedale berlinese dove l’oppositore russo è stato ricoverato 48 ore dopo essersi sentito male a bordo di un aereo nei cieli siberiani. E «se fosse» avvelenamento, Peskov invita a chiedersi «qui prodest», un’allusione a quello che lo speaker della Duma Vyacheslav Volodin ha già chiarito, ordinando al Comitato sicurezza della camera bassa del parlamento russo un’indagine su eventuali «coinvolgimenti esteri» nella «malattia» di Navalny.

Una vera strategia russa sul dossier bielorusso non c’è ancora. Nel frattempo, il Cremlino sembra sostenere lo sforzo di Lukashenko di rimanere al potere Queste non sono le numerose e variopinte «indiscrezioni» che circolano nei talk show e sui social, o nelle interviste di analisti vicini al governo russo – che Navalny è stato avvelenato dalla Cia, dai suoi concorrenti nei ranghi dell’opposizione liberale, da se stesso per attirare l’attenzione – che stanno impiegando risorse immense per spiegare ai russi (ma anche agli occidentali sui social) che non contava nulla, che era un personaggio ormai in declino, e che la sua morte o la sua sparizione dalla scena politica poteva solo danneggiare Putin. Non sono gli scenari dietrologici su quale dei numerosi clan del «Putin collettivo», denunciati in questi anni da Navalny per corruzione – dal «cuoco di Putin» Evgeny Prigozhin alla sua ex guardia del corpo Valery Zolotov, ora al comando della Guardia nazionale, alle decine di oligarchi, ministri, governatori e cortigiani del Cremlino – avesse voluto eliminare l’uomo più scomodo della Russia, chiedendo o meno il per-

messo al leader supremo. Non sono i medici che l’hanno avuto in cura a Omsk – e che probabilmente gli hanno salvato la vita, insieme al pilota che ha deciso per l’atterraggio d’emergenza – costretti a farfugliare vaghe diagnosi di «disordine metabolico» imprecisato, mentre i loro uffici sono occupati da misteriosi personaggi in borghese dal portamento marziale. Questa è la posizione ufficiale del leader russo, espressa dal suo portavoce di fiducia. Nessun avvelenamento. Nessuna indagine. Gli auguriamo di ristabilirsi al più presto. Un autogol d’immagine che, in attesa delle abbastanza imminenti accuse e sanzioni della comunità internazionale, mette Putin ancora più in difficoltà. Anche perché i medici tedeschi non sono per il momento riusciti a rilevare la sostanza che ha quasi ucciso Navalny – e forse il ritardo con cui le autorità russe hanno accettato di trasferirlo in Germania, facendo aspettare l’aereo sanitario inviato da Berlino per più di 12 ore sulla pista del terminal di Omsk, era necessario proprio a farla sparire dal suo organismo – ma dagli effetti che ha prodotto sono certi di identificarla come «inibitore della acetilcolistenerasi», un termine ingombrante per veleni tra cui il gas nervino sarin e il Novichok con il quale è stato avvelenato nel 2018 a Salisbury l’ex agente russo Sergey Skripal. Una sostanza non di facile reperimento per un killer qualunque, un veleno già associato ai servizi russi. Chi ha cercato di uccidere Navalny non voleva soltanto toglierlo dalla circolazione, voleva lanciare un messaggio, e il direttore della sua Fondazione per la lotta alla corruzione Ivan Zhdanov non ha dubbi: «Solo Putin può aver dato l’autorizzazione a procedere». E solo Putin poteva dare l’autorizzazione a trasferire il «paziente in coma» in Germania, dopo le pressioni di Angela Merkel, Emmanuel Macron e altri leader europei. Un gesto diventato inevitabile dopo che la moglie dell’oppositore Yulia si è rivolta direttamente al presidente russo, scaricando su di lui la responsabilità della vita e della morte di suo marito. Indipendentemente dal mandante, per il Cremlino mettere Navalny fuori gioco e allontanarlo dalla Russia in questo momento era importante come mai prima. La protesta in Belarus – dove centinaia di migliaia di persone continuano a scendere in piazza contro i brogli elettorali del dittatore Alexandr Lukashenko, nonostante la violenta repressione della protesta – ha aperto uno scenario di crisi anche per Mosca. La gestione disastrosa dell’epi-

A San Pietroburgo manifestazione di supporto a Navalny dopo il probabile avvelenamento. (AFP)

demia di Covid-19 è stata l’ultima goccia che ha fatto riempire il vaso della pazienza dei bielorussi, dopo 26 anni di autocrazia, povertà, corruzione e follie di un dittatore che si fa riprendere mentre agita un mitra (senza caricatore) contro i manifestanti pacifici. E la ricetta di Navalny era proprio questa: denunce del potere in rete, unico spazio dove poteva sfuggire alla censura e richiesta di elezioni libere e oneste sostenuta da un movimento di piazza. È stata questa formula ad alimentare le proteste di Khabarovsk, nell’Estremo Oriente russo, dove il licenziamento del governatore inviso al Cremlino sta facendo scendere in piazza da ormai due mesi migliaia di persone, con slogan «Putin ladro» e «Putin vattene». Una piazza cui Navalny ha fornito leader, codici e metodi, e non è un caso che da qualche giorno scandisce anche «Putin, prenditi un tè, offriamo noi», alludendo al possibile modo in cui l’oppositore è stato avvelenato. Cartelli «Navalny, devi vivere!» si sono visti anche alle manifestazioni oceaniche di Minsk, alimentando la paura del Cremlino di una rivoluzione in piazza come quella che nel 2014 ha portato l’Ucraina sulla strada dell’Europa. La vera vincitrice delle elezioni bielorusse è stata Svetlana Tikhanovskaya,

la moglie del blogger Sergey Tikhanovsky che molti paragonano a Navalny. Costretta da Lukashenko a fuggire in Lituania, ha dichiarato al parlamento europeo che la rivolta dei suoi connazionali «non è filorussa o antirussa, è una rivoluzione democratica». E proprio questo ha spinto Mosca ad appoggiare Lukashenko, anche se malvolentieri: Putin non si fida dell’alleato bielorusso, che si è rifiutato di riunificare il suo Paese alla Russia e ha arrestato dei mercenari russi accusandoli di essere stati inviati da Mosca per rovesciarlo. Ora ha cambiato idea, e «parla soltanto con Putin», come dice la scrittrice premio Nobel Svetlana Alexievich, convocata dal regime alla magistratura per la sua adesione all’opposizione. Dalle cancellerie di Berlino e Bruxelles confermano che Lukashenko non risponde al telefono, mentre si sente quasi ogni giorno con Putin, incitandolo a un sostegno militare diretto al suo regime, con la denuncia di un’imminente invasione delle truppe polacche della Nato sul confine occidentale della Belarus. I rischi per Mosca a questo punto sono ovunque: lasciar perdere Lukashenko significa aprire una transizione democratica che porterebbe la Belarus più vicino al sistema dei valori europeo, sostenerlo significa rischia-

re uno scontro con il resto del mondo che la Russia potrebbe banalmente non reggere, né economicamente, né diplomaticamente. Un pericolo che parte del Cremlino sarebbe disposto a correre soltanto in cambio di un premio molto lauto, cioè l’annessione della Belarus. L’ultranazionalista Vladimir Zhirinovsky, che da anni anticipa i pensieri reconditi dei falchi russi, sostiene che il Paese verrà annesso dai russi entro la fine del 2020. Un Anschluss che potrebbe risollevare lo spirito di parte dei putiniani delusi, generando però lo scontento di 10 milioni di bielorussi. Se a questo scenario si aggiunge poi la probabile vittoria di Joe Biden a novembre, in un momento di crisi interna ed esterna la Russia si troverebbe anche con un presidente americano che già all’epoca dell’annessione della Crimea (come vice di Barack Obama) era per la linea dura contro Mosca, e ora sarà ancora più ansioso di dimostrare come, dopo Donald Trump, gli Usa torneranno a essere il faro della libertà nel mondo. In un momento come questo, anche una convalescenza lunga del leader dell’opposizione russa – e dalle prime caute ipotesi dei medici perfino nel migliore dei casi non si riprenderà facilmente – lo rende un problema in meno. O almeno così ha creduto qualcuno. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 agosto 2020 • N. 36

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Politica e Economia

L’Europa torna in aula

Settembre a scuola In quasi tutti i paesi si registra una tendenza

all’aumento dei contagi, ma questo non intacca la determinazione dei governi a permettere un avvio regolare del nuovo anno scolastico

Il Pakistan sta perdendo Ryadh?

Querelle Nel tentativo di forzare la mano

all’Arabia Saudita sul Kashmir, Islamabad rischia di rovinare le relazioni con l’alleato Francesca Marino

Back to school a Corringham, Essex, contea inglese. (AFP)

Alfredo Venturi La riapertura delle scuole, dice Boris Johnson, è vitale e del resto i rischi per i bambini sono minimi. Dunque rimanere a casa per eccesso di cautela sarebbe la soluzione di gran lunga peggiore. Dopo il lungo lockdown primaverile Londra rinunciò a riaprire le aule prima delle vacanze estive come originariamente si era previsto, ma ora il primo ministro britannico riassume in termini relativamente ottimistici l’opinione prevalente in Europa. Lo fa alla vigilia della ripartenza in Inghilterra e nel Galles, mentre in Scozia e NordIrlanda le lezioni sono già ricominciate. Naturalmente anche nel Regno Unito si osservano le misure precauzionali a cominciare dal distanziamento fra i banchi, ciò che ha imposto la ricerca di nuovi spazi. In quasi tutti i Paesi d’Europa si registra da alcuni giorni una tendenza all’aumento dei casi di contagio, ma questo non intacca la determinazione dei governi a permettere un avvio regolare del nuovo anno scolastico. Anche perché li ha relativamente tranquillizzati uno studio recente del Centro europeo per il controllo delle malattie che ha analizzato la situazione nei Paesi in cui le lezioni sono riprese già da alcune settimane. Da questa ricerca emerge che la riapertura delle scuole non incide in modo significativo sulla diffusione dei contagi. Infatti se è vero che i piccoli possono portare a casa l’eventuale contagio, è altrettanto vero che la trasmissione del virus da bambino a bambino è molto rara. I risultati dello studio appaiono in contrasto con le notizie provenienti dalla Germania, dove dopo due settimane dalla riapertura delle scuole si registrano alcune centinaia di contagi che si addebitano proprio alla ripresa delle attività didattiche. A Berlino, dove sono attive oltre ottocento scuole, ne sono state chiuse d’autorità una quarantina. La situazione è poco chiara, anche perché nella Repubblica Federale l’istruzione è materia di competenza dei singoli Länder. Ci sono dunque sedici approcci diversi alla gestione dei problemi connessi con il Covid-19. Ben determinata a proporre un coordina-

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

mento centrale, la cancelliera Angela Merkel ha convocato un vertice con i rappresentanti regionali, gelosissimi delle loro prerogative. Nel più popoloso fra i Länder tedeschi, il Nordreno-Westfalia, le rigorose misure imposte dal governo locale vengono duramente contestate dal personale della scuola. Per esempio non si accetta il fatto che gli scolari debbano portare la mascherina non soltanto nelle pause ma anche durante le lezioni, quando siedono ai loro banchi, dunque a distanza di sicurezza gli uni dagli altri. Indicano gli esempi della Danimarca e della Norvegia, dove la situazione viene gestita con un approccio molto più flessibile. Si critica inoltre la tendenza a scaricare sui capi d’istituto ogni responsabilità nella gestione della pandemia. Polemiche e rimpalli di responsabilità anche in altre parti della Germania. Una delle ragioni del contendere, in tutti i Paesi d’Europa, riguarda i possibili effetti collaterali della mascherina, che viene prescritta quasi dappertutto con l’eccezione dei bambini più piccoli. In Francia il ministro dell’Educazione nazionale Jean-Michel Blanquer ha annunciato che sarà obbligatoria a partire dagli undici anni d’età. Il ministro precisa che le protezioni facciali per i docenti saranno fornite dalla scuola, mentre gli alunni dovranno portarsele da casa. Nel Paese si confrontano due posizioni inconciliabili. Da una parte c’è chi approva la decisione ministeriale, compresa l’esenzione per i bambini più piccoli che sono, anche se non si sa perché, meno «contaminanti», e del resto poco propensi a un uso disciplinato della mascherina. Dall’altra chi propone di eliminare la misura anche per gli alunni più grandi, argomentando che tapparsi la bocca genera insicurezza, presenta il compagno di scuola come possibile untore, ostacola una corretta respirazione, impedisce la percezione di quelle mimiche del viso e della bocca che sono parte integrante della comunicazione. Anche in Spagna, uno fra i Paesi più duramente colpiti dalla recrudescenza pandemica dei giorni scorsi, la prospettiva del rientro scolastico è dominata dalla consueta dialettica fra lo

Stato centrale e le autonomie regionali. Isabel Celaá, ministra dell’Educazione, cerca di garantire un minimo di coordinamento, ancora una volta mediando fra chi vorrebbe misure flessibili che facilitino l’attività didattica e chi al contrario privilegia la prevenzione a costo d’imporre maggiori sacrifici. Nel caso spagnolo molto dipenderà dall’evoluzione della pandemia nei prossimi giorni: la ripresa normale delle lezioni è prevista fra la prima e la terza settimana di settembre. Il quattordici settembre è la data prevista per la ripresa scolastica in Italia, che sarà preceduta di due settimane dall’avvio delle prove di recupero degli apprendimenti nell’anno scolastico precedente, sconvolto dalla pandemia e parzialmente salvato dalla didattica a distanza. La ministra Lucia Azzolina ostenta sicurezza ma alcuni nodi sono irrisolti. Mentre si approssima l’avvio delle lezioni ci sono ancora molte incertezze sull’organizzazione del rientro. La principale riguarda i trasporti. Una fra le norme dettate dall’emergenza impone la distanza interpersonale di un metro sui mezzi di trasporto pubblico. Fatti i dovuti calcoli, si arriva alla conclusione che il rispetto letterale di questa norma renderebbe impossibile portare a scuola in orario tutti gli alunni. Si è pensato a varie soluzioni, come l’allestimento di pannelli divisori sui mezzi, o lo scaglionamento dell’ora d’inizio delle lezioni in modo da alleggerire il carico di passeggeri spalmandolo su tempi più lunghi. Ma queste misure sono impraticabili in pochi giorni, e come al solito ci si è mossi in ritardo. Una riunione a Palazzo Chigi non ha risolto la questione: il governo prende tempo mentre i rappresentanti delle regioni suggeriscono che l’accesso ai mezzi pubblici sia garantito dalla protezione individuale, cioè dalla mascherina, piuttosto che dalla distanza. Chiedono anche che le mascherine, previste per gli alunni dai sei anni in su, si possano togliere durante le lezioni se c’è lo spazio di un metro fra un banco e l’altro. Ovviamente si tratta di banchi individuali, ma sono stati ordinati all’ultimo momento e a metà settembre difficilmente saranno tutti pronti.

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«Il Pakistan non può più aspettare... Rispettosamente rammento ancora una volta all’Oic (Organization of the Islamic Cooperation) che noi ci aspettiamo un meeting dei ministri degli Esteri appartenenti ai paesi membri dell’organizzazione. Se non potete farlo, sarò costretto a chiedere al primo ministro Imran Khan di indire un meeting dei paesi islamici pronti a stare al nostro fianco per quanto riguarda la questione del Kashmir». A parlare così, durante un talk-show televisivo, era il ministro degli Esteri pakistano Shah Mahmud Qureshi che, con una esternazione senza precedenti, mandava in frantumi un decennale protocollo di rapporti tra il Pakistan e il «grande fratello» saudita e dava l’avvio a una serie di speculazioni sull’assetto o ri-assetto geopolitico della regione. I sauditi, a dire la verità, non hanno preso bene l’appello di Qureshi che è stato visto come un vero e proprio «sgarro» da parte degli storici «fratelli minori» e, come rappresaglia immediata, si sono affrettati a richiedere la subitanea restituzione di un prestito da un miliardo di dollari rinegoziato appena sei mesi fa. Islamabad, messa alle strette, ha chiesto la somma in prestito ai cinesi e ha ripagato il debito. Che però, tanto per mettere in chiaro le cose, è soltanto una goccia nel mare dei sei e più miliardi di dollari di debito che Islamabad ha con l’Arabia Saudita. Nel corso degli anni, l’alleanza tra sauditi e Islamabad è stata difatti un postulato più o meno indiscutibile. Tra i due paesi esiste da sempre una intricata rete di relazioni finanziarie e militari. Per Ryadh il controllo più o meno remoto sul Pakistan è di fondamentale importanza strategica, visto che confina per circa novecento chilometri con l’Iran. E che Islamabad è l’unico Stato musulmano a possedere la bomba atomica e l’esercito musulmano più grande e meglio attrezzato (soprattutto grazie all’Occidente) del mondo. Il Pakistan ha sempre garantito aiuto a Ryadh e ha addestrato le truppe saudite. Ryadh, in cambio, ha ovviamente aperto i cordoni della borsa finanziando abbondantemente Islamabad e garantendo forniture di petrolio a prezzi stracciati. Ha finanziato anche il programma nucleare pakistano: direttamente, ma anche volando in soccorso di Islamabad all’epoca delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti all’indomani dei test nucleari. E ospita, perdipiù, migliaia di lavoratori pakistani. Così, forti degli storici legami, qualche giorno dopo la gaffe di Qureshi volavano a Ryadh il capo dell’eserci-

to, il generale Qamar Javed Bajwa, e il comandante dell’ISI, il luogotenente generale Faeez Hameed: ufficialmente per discutere di cooperazione militare con le loro controparti saudite, in realtà per cercare di ricomporre la frattura creata dal loro ministro degli Esteri. Mohammad bin Salman, però, il «fratello saudita» a cui Imran Khan aveva fatto da autista personale durante il suo ultimo, trionfale, viaggio a Islamabad, si è detto troppo impegnato per riceverli. Non solo: MbS ha anche invitato il Pakistan, a mezzo stampa, a «ridimensionare» i suoi rapporti con la Cina e a «lasciar perdere i cinesi» smettendo di sostenerli nelle scaramucce, militari e non, ai confini con l’India. Pare anche che i sauditi abbiano intimato a Islamabad di non sostenere la Cina riguardo a progetti di investimento per circa 400 miliardi di dollari in Iran. Il Ministero degli esteri pakistano ha prontamente smentito, ma nessuno gli ha creduto. A quanto pare, non soltanto le scuse di Bajwa e Hameed non sono state accettate, ma la rinnovata proposta di un concilio dei paesi arabi sul Kashmir è caduta ancora una volta nel vuoto. Risultato: non soltanto Qureshi, come molti pensavano, non ha perso il posto. Ma, al ritorno in patria dei generali scornati, è prontamente volato a Beijing per incontrare il suo omologo cinese Wang Yi. La Cina è difatti ormai l’unico paese, assieme alla Turchia islamizzata e dittatoriale di Erdogan, che si dichiara pronto a difendere a spada tratta l’amicizia «profonda come il mare e alta come l’Himalaya» con i generali pakistani. Perché il mondo cambia, l’economia è una priorità assoluta e le alleanza si basano su questa e non su vetuste questioni di principio. Per cui non soltanto i sauditi sembrano privilegiare i legami economici stretti con l’India e l’alleanza con gli Usa nell’osteggiare l’Iran, ma anche gli Emirati Arabi, con cui Islamabad ha cercato di far fronte comune contro i sauditi, hanno «tradito» la causa firmando un accordo che normalizza le relazioni con Israele. Se si ignora la causa palestinese, ha dichiarato Imran Khan, «saremo presto costretti ad abbandonare ogni rivendicazione sul Kashmir». E questo, per Islamabad, è inaccettabile. Ed è inaccettabile anche per Pechino, che di un pezzo di Kashmir si è appropriata e che cerca di occupare pezzi di territorio indiano per facilitare la Belt and Road Initiative. Ma a questo punto il Pakistan, dicono in molti, rischia di fare la fine del vaso di coccio tra superpotenze, e di finire in frantumi prima, molto prima che la bandiera del dragone sventoli anche su Islamabad e non soltanto su Gwadar.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 agosto 2020 • N. 36

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Politica e Economia

Il vento dell’economia

Convention repubblicana La rivoluzione monetaria varata dalla Fed contro la depressione economica da lockdown

proprio in coincidenza con l’ultima serata del video-evento repubblicano potrebbe dare un aiuto al governo in carica Federico Rampini Nascita di una dinastia: quanti oratori avevano il cognome Trump, nella convention repubblicana! Dopo i Kennedy, i Bush e i Clinton (lasciamo stare i cugini Roosevelt), l’era dei social media e del reality tv ha una nuova famiglia reale. Importanza di una regia affidata a professionisti dello spettacolo televisivo: c’è stato un sapiente dosaggio di messaggi rivolti alle donne e alle minoranze di colore. Melania ha interpretato in modo magistrale il rapporto del popolo di destra con il suo presidente: non è necessario approvarne il carattere e la personalità, bisogna guardare oltre. «Che ti piaccia o no, sai sempre cosa pensa», questa frase della First Lady rende omaggio a una spontaneità selvaggia del marito, che ha liberato mezza America dai tabù del politically correct. «Instancabile», «non si fermerà finché non avrà trovato soluzioni» per il Covid (vaccino) e per la crisi economica. L’economia rimane – bisogna ricordarlo – il terreno sul quale una maggioranza di americani pensa che Trump sia più affidabile di Joe Biden. Mike Pompeo porta al suo attivo una politica estera aggressiva ma non guerrafondaia. Il trumpismo nella sua dimensione globale «ha garantito la pace»: in effetti questo presidente a differenza dei suoi tre predecessori non ha iniziato nuove guerre. E con i suoi metodi stravaganti ha perfino incassato la fine dei test nucleari in Corea del Nord. Chi si ferma al linguaggio di Trump e chi fa propaganda nel campo avverso lo scambia per un imperialista, ma lui appartiene ad una tradizione molto più antica della destra americana, l’isolazionismo, che è una cosa ben diversa. Infine, i metodi duri con gli alleati pagano: se dopo il Regno Unito anche l’Italia si piegherà all’embargo contro Huawei sul 5G, il fronte di resistenza all’espansione della Cina sarà diventato ancora più vasto. Lo scherno di tanti commentatori ignora la lezione di Melania: chi si adegua a un matrimonio di convenienza, ne ha il suo tornaconto. È il modo in cui una parte degli americani vive il suo rapporto con Trump. La rimonta del presidente nei sondaggi dice che tutto è ancora possibile. «Non permetterò i saccheggi, gli incendi, le violenze, l’anarchia per le strade d’America. Ho mandato la Guardia Nazionale a Kenosha, Wisconsin, per imporre la legge e l’ordine!» Donald Trump ha chiuso la convention repubblicana su un terreno ideale. Le immagini di una nazione nel caos fanno per lui. Anche se una parte delle emergenze nazionali è dovuta alla pandemia (mal gestita dal governo, ma in declino da settimane), e un’altra evoca il cambiamento climatico (uragano in Louisiana e Texas, incendi in California), quel che conta è il disordine sociale.

Donald e Melania Trump alla fine della terza notte repubblicana di Baltimora nel Maryland. (AFP)

L’ultima tragedia che ha appiccato il fuoco del risentimento razziale, a Kenosha, è accaduta proprio nello Stato che i democratici avevano scelto per la loro convention poi diventata virtuale: il Wisconsin è una preda ambita, cruciale, per i voti del collegio elettorale che può spostare in una casella blu o rossa il 3 novembre. Gli scontri violenti possono fare rieleggere Trump? Non importa se a scatenarli sia stata ancora una volta il comportamento della polizia che ha sparato a un nero paralizzandolo; non importa se in seguito alle proteste un giovane presunto suprematista bianco abbia a sua volta ucciso. Il fatto è che il governatore del Wisconsin deve chiedere aiuto alla Casa Bianca per riprendere il controllo e riportare l’ordine in quella città. «Dovrebbero fare lo stesso a Portland!» ammonisce Trump. Portland nell’Oregon è diventata il simbolo di una protesta anti-razzista di Black Lives Matter che è sfuggita di mano, ha creato delle zone proibite di fatto alle forze dell’ordine, dei ghetti dove si sono allargate le gang, moltiplicando i reati. Se si aggiungono altri episodi recenti come i saccheggi di Chicago, e la recrudescenza di criminalità in molte metropoli americane (da New York a Minneapolis), il clima può favorire chi sta dalla parte della legge anche quando il braccio che la fa rispettare è violento e contestato. «De-fund the police», lo slogan lanciato nei cortei dopo l’uccisione di George Floyd, si è trasformato in un

boomerang: diversi sindaci di sinistra (inclusi Bill de Blasio a New York ed Eric Garcetti a Los Angeles) hanno davvero tagliato i fondi alla polizia. Il risultato è preoccupante, per l’impennata dei reati. Joe Biden e Kamala Harris hanno preso le distanze da quello slogan della frangia più radicale, ma Trump martella il messaggio che quei due «sono burattini manovrati dagli estremisti». Il precedente delle due vittorie del repubblicano Richard Nixon nel 1968 e nel 1972, in un’America sconvolta dalle proteste e dalla guerriglia urbana, è nella mente di tutti. Un timore aleggia tra i democratici: che la rimonta di Trump nei sondaggi configuri uno scenario simile alla «sorpresa» del 2016. In effetti la media dei sondaggi dice questo: benché Biden mantenga un vantaggio, il suo margine si sta assottigliando. Quasi tutte le rilevazioni degli ultimi giorni – e in modo particolare quelle che riguardano gli Stati in bilico – indicano una rimonta del presidente. Il quadro è perfetto per una finale da thriller, pieno d’incertezza fino all’ultimo. La questione razziale si è rivelata un’arma a doppio taglio negli ultimi mesi. L’ampiezza delle manifestazioni di protesta dopo la barbara esecuzione di Floyd da parte di un poliziotto di Minneapolis, aveva fatto parlare di una svolta, una presa di coscienza nazionale, uno spostamento di opinione pubblica. Col passare del tempo non è chiaro se questo sia il risultato finale.

Il prevalere delle frange radicali nelle piazze, l’irruzione delle gang, gli episodi di razzie multiple nei negozi, ha spaventato anche un pezzo di middle class afroamericana (di sicuro i commercianti). E comunque l’elettorato resta composto per il 70% di bianchi. Già nel 2016 il messaggio martellante di Hillary Clinton sulla coalizione arcobaleno di tutte le minoranze – etniche o sessuali – aveva sortito l’effetto di ricompattare la maggioranza silenziosa nel campo avverso. Poiché l’economia resta un terreno favorevole a Trump, un bilancio della sua convention deve includere un appoggio ricevuto dall’esterno, quello della banca centrale, proprio in coincidenza con l’ultima serata del video-evento repubblicano. Contro la depressione economica da lockdown il presidente della Federal Reserve ha varato una rivoluzione monetaria che fa impallidire perfino le terapie-shock varate dopo il 2008. L’inflazione non è più un nemico, anzi. «Il vero problema è un’inflazione troppo bassa». Ogni mezzo va usato per rianimare un’economia agonizzante. La data del 27 agosto 2020 segna una svolta come ce ne sono poche nel mondo dei banchieri centrali: l’ultimo precedente di tale rilievo è il «Whatever It Takes» di Mario Draghi che salvò l’Eurozona dalla disintegrazione. Stavolta viene cancellata un’ortodossia monetaria che risale alla fine degli anni Settanta, al monetarismo di Milton Friedman e alla sua applicazione

da parte del presidente della Fed Paul Volcker. La banca centrale più potente del mondo rinnega uno dei suoi obiettivi sacri cioè la lotta all’inflazione. Perché in questo contesto è anacronistica e dannosa. Il risultato finale, vuol dire tassi zero o sottozero e liquidità abbondante a perdita d’occhio, per un orizzonte temporale molto lungo. Powell conta sull’effetto annuncio delle sue parole, le aspettative degli investitori devono incorporare questa prospettiva di una politica monetaria iper-espansiva, di un costo del denaro ai minimi storici, per molto tempo. La pandemia, i lockdown, hanno datto una botta tremenda alla crescita globale. Con limitatissime eccezioni – forse la Cina – il mondo è in recessione. I numeri immediati sono talmente brutti (un terzo di Pil americano perso in un trimestre) da far gridare alla depressione. Rischiamo un «decennio perduto» come furono gli anni Trenta del secolo scorso. Ecco perché la politica monetaria deve cambiare le sue premesse. La Fed aveva già sperimentato terapie d’urto dopo la crisi sistemica del 2008-2009: tassi a zero e quantitative easing, cioè migliaia di miliardi di liquidità gettati nell’economia acquistando titoli sui mercati. La cura d’urto funzionò e fece scuola. Ora Powell sente l’urgenza di fare di più perché questa crisi è già peggiore del 2008. Fermo restando l’uso dei tassi zero o sottozero, e altre dosi massicce di quantitative easing, la banca centrale vuole agire in modo profondo e durevole sulle aspettative di lungo termine. Il messaggio che lancia ai mercati è che i tassi resteranno bassissimi e la liquidità rimarrà sovrabbondante fino a quando l’inflazione non sarà risorta in modo chiaro, visibile, oltre il 2%. E se rimane sotto, si cercherà di spingerla al di là di quel target. Tutti gli operatori economici – banchieri e imprenditori, consumatori e risparmiatori – ne trarranno delle conseguenze. Le famiglie americane ne ricavano un aumento di reddito disponibile quasi immediato sotto forma di riduzione dei ratei sui mutui casa e sulle carte di credito. Il governo federale può continuare a fare manovre di spesa pubblica in deficit, finanziandosi a costi irrisori. Le imprese possono emettere bond pagando interessi minimi. La Borsa non può che gioire. Le chance di rielezione di Donald Trump ne ricevono un aiuto. Va esclusa una volontà deliberata della Fed di intervenire nel gioco elettorale. Il voto unanime con cui è stata approvata la svolta di Powell include molti membri democratici del suo Board. La Fed adempie a un compito istituzionale: sostenere la crescita e l’occupazione. Se un sostegno così deciso alla ripresa aiuterà il governo in carica, amen. L’effetto collaterale sui sondaggi non può influenzare la banca centrale né in un senso né nell’altro. Ma un effetto probabilmente ci sarà. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Nuovi aerei per sostituire gli F/A 18 Votazioni federali Il 27 settembre gli elettori dovranno pronunciarsi sul credito

per l’acquisto di aerei da combattimento in dotazione all’esercito svizzero

Alessandro Carli Sulla richiesta d’acquisto di nuovi aerei da combattimento, fautori e contrari si trovano su posizioni ideologiche inconciliabili. È uno scontro che si ripete puntualmente da anni. Il 27 settembre prossimo è in gioco un credito di 6 miliardi di franchi per l’acquisto di un numero imprecisato di caccia, destinati ad «assicurare la missione di difesa dell’esercito» e «garantire la protezione della popolazione». Una necessità imprescindibile per gli uni, un lusso inutile e una priorità sbagliata per gli altri. Il Gruppo per una Svizzera senza Esercito (GSsE), il Partito socialista e i Verdi hanno impugnato il referendum.

Il costo dei velivoli è fissato in sei miliardi ma non si sa ancora per quali modelli saranno utilizzati Il progetto d’acquisto sembra incontrare i favori di una solida maggioranza. Secondo il primo sondaggio dell’istituto di ricerca gfs.bern, effettuato per conto della SSR, se si fosse votato nella prima metà di agosto, il 58% degli interrogati sarebbe stato sicuramente o tendenzialmente favorevole, il 29% contrario o piuttosto contrario, con un 3% di indecisi. Stando a un precedente sondaggio del gruppo Tamedia, solo il 50% degli interrogati era favorevole e il 47% contrario. La tendenza ad approvare il decreto sugli aerei si starebbe dunque consolidando. Sei anni dopo la bocciatura alle urne (53,4% di no) dell’acquisto di 22 caccia svedesi Gripen, per una spesa di 3,1 miliardi, i cittadini sono nuovamente chiamati a pronunciarsi sull’acquisto di nuovi aerei da combattimento per confermare così la volontà della Svizzera di continuare a proteggere autonomamente i propri cieli. Stavolta, però, gli elettori non devono decidere su un velivolo specifico, bensì su un decreto che riguarda una decisione programmatica e un limite di spesa per i nuovi velivoli. Ciò che ha portato i fautori del referendum a parlare di «assegno in bianco» al quale, evidentemente, si oppongono. Ogni Paese neutrale e sovrano possiede le proprie forze aeree, le quali includono aerei da combattimento funzionali. I velivoli attuali sono in servizio dal 1978 e dal 1996. I loro margini di operatività si esauriranno fra il 2025 e il 2030. I 26 F-5 Tiger in dotazio-

La sinistra, i Verdi e gli antimilitaristi chiedono di rinunciare e destinare la spesa a scopi sociali; il Dipartimento della difesa invece la ritiene indispensabile. Nella foto: ingegneri della Ruag di Emmen al lavoro per la manutenzione di un F/A 18. (Keystone)

ne alle nostre forze aeree hanno già 40 anni e sono ora sfruttati solo per scopo di addestramento. I 30 F/A-18, operativi dagli anni Novanta, possono invece essere impiegati per qualsiasi funzione di polizia e di difesa aerea, sebbene la loro manutenzione sia sempre più complessa e costosa. Con il trascorrere degli anni, diminuisce la probabilità che possano tener testa a caccia moderni. Oltre al suo ruolo di difesa, in tempo di pace l’aviazione militare svolge anche compiti di controllo e fornisce servizi di assistenza, proprio come la polizia a terra. Le forze aeree garantiscono la sicurezza durante le conferenze e aiutano gli aerei in difficoltà. Solo sostituendo la flotta attuale, obsoleta, si potrà continuare a garantire la protezione della popolazione, sottolineano il Consiglio federale e la maggioranza del parlamento. Se il popolo respingerà l’acquisto di nuovi velivoli, dal 2030 la Svizzera non avrà più una copertura aerea e non sarà più in grado di adempiere il mandato di difesa dell’esercito. Si tratta dunque di procedere al rinnovo complessivo della flotta. Il de-

Non è la prima volta Già in passato gli svizzeri sono stati chiamati a pronunciarsi sugli aerei da combattimento. Nel maggio del 2014 hanno respinto con il 53,4% dei voti l’acquisto per 3,126 miliardi di franchi di 22 Gripen svedesi, per sostituire gli apparecchi attuali. Allora, la destra non era riuscita a convincere, in nome della sicurezza, della necessità di completare la flotta di F/A-18, dopo la messa in pensione di 54 Tiger. C’era pure stata polemica sulla scelta del velivolo svedese a scapito del Rafale e dell’Eurofighter. Perciò, il Consiglio federale ha ora deciso di limitare il voto del 27 settembre al solo credito da stanziare. Dopo la bocciatura del Gripen, il parlamento

ha prolungato la durata d’impiego degli F/A-18, aumentandola da 5000 a 6000 ore per velivolo fino al 2030. Nel 1993, l’acquisto degli F/A-18 per 3,5 miliardi di franchi venne accolto con una maggioranza del 57,3%. Nel contempo fu respinta l’iniziativa popolare del GSsE «Per una Svizzera senza nuovi aerei da combattimento» che voleva impedire ogni rinnovo dell’aviazione militare fino al 2000. Nel 2008, l’iniziativa popolare di Franz Weber «Contro il rumore degli aerei da combattimento a reazione nelle zone turistiche» (Vallese e Oberland bernese) venne respinta dal 68,1% dei votanti.

creto sottoposto al cittadino fissa in 6 miliardi di franchi il volume finanziario massimo. Berna garantisce che sia l’acquisto che il funzionamento dei nuovi aerei saranno finanziati esclusivamente con il budget ordinario dell’esercito e sarà ripartito, rispettivamente, su 10 e 30-40 anni. Non ci sono crediti supplementari o speciali, né altri settori sostenuti dallo Stato vedranno i loro fondi diminuire a causa di questa spesa. Il decreto in votazione prevede che l’acquisto dei velivoli sia coordinato con quello parallelo di un sistema per la difesa terra-aria a lunga gittata. Se il decreto fosse accolto, la scelta del modello e del numero di aerei da acquistare spetterebbe poi al Governo. Il processo d’acquisto richiederà circa un decennio. I nuovi aerei saranno dunque operativi verso il 2030, in concomitanza con la messa fuori servizio degli ultimi F/A-18. Il decreto regola anche la questione delle commesse che il produttore dei nuovi aerei dovrà assegnare alla Svizzera nella misura del 60% del prezzo d’acquisto. Quindi, il Consiglio federale dovrà ripartire le commesse, per quanto possibile, nella misura del 65% alla Svizzera tedesca, del 30% alla Romandia e del 5% alla Svizzera italiana. La scelta del velivolo non è ancora stata fatta. Quattro i caccia che potrebbero essere presi in considerazione: il Rafale del francese Dassault, l’Eurofighter dell’europeo Airbus e i due aviogetti americani, il Super Hornet di Boeing e l’F-35A di Lockheed-Martin. I promotori del referendum, come già altre volte quando erano in gioco temi militari, contestano l’entità della spesa. Essi sono convinti che l’onere complessivo di una flotta di aerei da combattimento, almeno secondo i loro esperti, ammonti al quadruplo del prezzo di acquisto, ossia a 24 miliardi di franchi (18 miliardi secondo il Dipartimento federale della difesa). Una cifra avanzata pur non conoscendo né il numero di aerei, né quale velivolo verrà acquistato.

Nel contempo, gli avversari deplorano però che i cittadini siano chiamati a pronunciarsi sulla spesa senza conoscere, appunto, i particolari dell’acquisto. Per questo parlano di un assegno in bianco di 6 miliardi. Il denaro speso per i nuovi aerei da combattimento – affermano – mancherà in altri campi come l’educazione, la salute, la sicurezza pubblica, il sociale o la cultura. Si tratta pure di un’argomentazione che la sinistra e i Verdi estraggono puntualmente dal cilindro ogni volta che si parla di spese militari. Gli oppositori rammentano poi che oggi bisogna essere preparati ad affrontare ben altre minacce realistiche come le situazioni di emergenza, le catastrofi, i ciberattacchi, le pandemie o cambiamenti climatici. A loro modo di vedere, occorre prendere in considerazione i principi della politica di sicurezza. Orbene, essi sono convinti che moderni aerei da combattimento siano inutili e superati. Per i sostenitori di una Svizzera senza esercito (GSsE), il servizio di polizia aerea può essere assicurato dagli attuali F/A-18. Socialisti e Verdi sarebbero al massimo disposti, per una piccola parte dei costi, ad acquistare un velivolo d’addestramento, che potrebbe assumere pure una parte dei compiti di sorveglianza. I fautori del referendum non negano che la Svizzera abbia bisogno di un servizio di polizia aerea, ma aerei da combattimento pesanti «non sono in grado di proteggerci da buona parte delle minacce attuali». Essi rimproverano al Consiglio federale di non aver esaminato seriamente possibili alternative, come l’acquisto di aerei da combattimento leggeri che hanno il pregio di essere meno costosi, più ecologici e meno rumorosi. Ciò che invece il Consiglio federale ha fatto, respingendo tutte le alternative possibili, come aerei da addestramento, elicotteri o droni. Tutti sono classificati dal Dipartimento della difesa come inadatti per assicurare la

missione della polizia aerea, siccome non possono volare né abbastanza in alto, né abbastanza velocemente. Inoltre, non dispongono dell’armamento e dell’equipaggiamento necessari per intervenire a titolo di polizia o di difesa aerea. Per la ministra della difesa Viola Amherd, l’acquisto di aerei da combattimento leggeri meno costosi – come proposto dal PS – è inutile per garantire il servizio di polizia dei cieli e ancora meno per proteggere la Svizzera in caso di crisi. L’aviazione interviene se un aereo si trova in una situazione critica o se non rispetta le regole. Quando Ginevra ospita una conferenza internazionale sulla pace, i caccia dell’esercito sono permanentemente in volo. Prima donna a dirigere il Dipartimento federale della difesa (DDPS) Viola Amherd ha recentemente fatto valere anche in Ticino la necessità di acquistare nuovi aerei da combattimento. Rispondendo a coloro che sostengono che costosi aerei non sono necessari, ha dichiarato che non «sappiamo come sarà la prossima crisi e quale sarà la situazione internazionale dopo il 2030, ma sappiamo in che stato si trovano le nostre forze aeree». Inoltre, è assodato che avremo sempre a che fare con una grande varietà di minacce, per motivi di instabilità. La situazione attuale mostra proprio quanto siano instabili alcune regioni del mondo. Anche in futuro l’esercito dovrà quindi proteggere la popolazione da minacce e pericoli di vario genere, tra cui anche gli attacchi aerei. Per farlo, dovrà disporre di un equipaggiamento e di mezzi moderni, che proteggano anche lo spazio aereo. Obiettare che all’orizzonte non ci siano pericoli o minacce è da irresponsabili. La rinuncia alla sicurezza fornita da un’efficiente copertura aerea può essere interpretata soltanto come un ennesimo malcelato tentativo di abolire l’esercito in Svizzera. Ma allora diciamolo a chiare lettere.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 agosto 2020 • N. 36

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Politica e Economia

Perché si annullò la votazione

Fiscalità Chiarito il motivo dell’errore che ha prodotto la cancellazione della votazione popolare del 28 febbraio 2016

contro gli svantaggi fiscali delle coppie sposate

Ignazio Bonoli Nell’aprile del 2019, per la prima volta nella storia della Confederazione, il Tribunale federale annullava la votazione federale del 28 febbraio 2016 sull’iniziativa del PPD per il matrimonio e la famiglia e contro gli svantaggi fiscali per le coppie sposate. Un primo ricorso rivolto verso i Cantoni non ebbe seguito, ma poi il Tribunale federale dichiarava nullo il voto del 2016, a causa di una errata informazione ai cittadini circa il numero di coppie sposate che sarebbero state penalizzate dall’attuale legge fiscale. Il testo del libretto ufficiale per la votazione parlava, infatti, di circa 80’000 coppie, invece delle circa 450’000 con doppio reddito. Il Tribunale federale riteneva sufficiente questo grossolano errore per chiedere una ripetizione della votazione, tenuto anche conto del fatto che il risultato era molto tirato (50,8% di contrari contro 49,2% di favorevoli) e che 15 Cantoni avevano constatato un risultato favorevole all’iniziativa. Se torniamo a parlare del tema, lo facciamo per due motivi: da un lato perché l’Amministrazione federale delle contribuzioni, in un rapporto, spiega il perché del grossolano errore, dall’altro perché nel frattempo sono sorte altre complicazioni circa il testo dell’iniziativa. Già nel giugno del 2018, il Consiglio federale correggeva le precedenti

Non 80mila bensì 454mila sono le coppie sposate penalizzate dall’attuale sistema fiscale. (Keystone)

stime, valutando in 454’000 le coppie sposate, svantaggiate dalle attuali leggi fiscali. Un numero quindi nettamente superiore a quello citato, ma anche superiore a quello delle coppie che sarebbero state favorite, cioè circa 370’000 allora stimate. Ai giudici federali, il Consiglio federale giustificava la massiccia correzione con due motivi: un cambiamento del metodo di valutazione e un aggiornamento dei dati stessi. Infatti, la valutazione di 80’000 coppie sposate si basava sui dati del 2001. Motivi che al Tribunale federale non parevano sufficienti a giustificare l’errore. La diatriba riapriva anche il discorso politico. Tant’è che il PPD dichiarava lo scorso febbraio di ritirare l’iniziativa, ma di lanciarne un’altra. Si trattava, infatti, di definire meglio il concetto di matrimonio, o di limitarsi a dire degli svan-

taggi dovuti al fatto di essere sposati. La pandemia del Covid-19, sospendeva il dibattito anche in questo caso, come in alcuni altri. Le Camere ne hanno approfittato per lasciare il tema per qualche tempo ancora nel cassetto. Lo stesso PPD non ha ancora deciso quale strada prendere per presentare un progetto senza le pecche di quello precedente. In ogni caso dovrà cambiare la definizione stretta di matrimonio, allargandola ad altre forme di convivenza, che possono, come ricordavamo nel nostro articolo su «Azione» del 27.5.19, essere discriminate anche in altri campi, per esempio l’AVS. Nel frattempo, l’avvicinarsi della votazione federale (27.09.20) sugli assegni per i figli ha gettato un nuovo sasso nello stagno del fisco per le famiglie. Anche qui – a partire da un modesto assegno per le famiglie in

cui entrambi i genitori lavorano – si è giunti a un generale aumento delle deduzioni fiscali per l’imposta federale. Qualcuno le definisce deduzioni per i ricchi, poiché il 45% delle famiglie non paga nemmeno l’imposta federale, non raggiungendo il minimo imponibile, mentre ne beneficerebbero anche le famiglie che non affidano a terzi la cura dei figli. Alla Confederazione costerebbe però 380 milioni di franchi all’anno. Qui si apre anche un discorso sul costo di queste operazioni per le finanze federali e sulla loro efficacia. Accanto alle minori entrate di imposte c’è il rischio di una scarsa efficacia. La maggior parte delle famiglie potrebbe contare su un alleggerimento di 350 franchi all’anno. Il livello massimo di 910 franchi andrebbe a beneficio di chi ha un reddito di oltre 110’000 franchi (con

due figli). È anche questo uno degli effetti della rapida progressione dell’imposta federale che colpisce soprattutto i redditi più alti, che con le quote AVS contribuiscono anche a una forte ridistribuzione del reddito. In sostanza, questi continui adeguamenti di tipo sociale rendono spesso difficili le riforme più profonde. Ma – per tornare al tema citato all’inizio – le cause dell’errore sono parecchie. In primo luogo, l’essersi basati sulle stime 2001 non aggiornandole. Quindi, anche i campioni esaminati sono stati troppo piccoli. Infine, il rapporto è stato affidato a un solo dipendente, senza ulteriori controlli. Questa sembra inoltre una regola generale nell’ambito dei processi di riforme fiscali. La cosa, però, può sorprendere se si considera l’enorme posta in gioco in parecchie riforme, tanto più che un rapporto del controllo interno segnalava già nel 2018 queste anomalie. L’amministrazione delle contribuzioni ha provveduto a correggere la prassi e sembra che il progetto dell’aumento delle deduzioni per figli sia stato sottoposto ai nuovi controlli. Questo non risolve però ancora il problema degli effetti collaterali, come si può vedere proprio nel tema sottoposto a votazione in settembre. In campo fiscale, i dati più precisi sono presso i cantoni, che eseguono anche la tassazione per l’imposta federale. Un loro maggiore coinvolgimento sarebbe auspicabile. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 agosto 2020 • N. 36

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Politica e Economia

Sotto il segno delle elezioni presidenziali La consulenza della Banca Migros

Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

Il 3 novembre gli Stati Uniti eleggeranno il loro 46º Presidente. Chi vincerà? Donald Trump o Joe Biden? Guardando indietro, la storia sembra favorire il Presidente in carica nella competizione elettorale. Dal 1932 quasi tre quarti degli inquilini della Casa Bianca sono stati rieletti. Attualmente, il democratico Biden è in netto vantaggio nei sondaggi nazionali. Ma novembre è ancora molto lontano. Le elezioni e le campagne elettorali sono sempre in evoluzione, con cambi di direzione e punti di svolta anche in tempi normali. La tensione dunque rimarrà. La congiuntura statunitense ha un forte impatto sull’esito delle elezioni presidenziali. Quando l’economia a stelle e strisce era in recessione uno o due anni prima delle elezioni, nella maggior parte dei casi lo sfidante è riuscito a battere il Presidente in carica. Senza recessione nel corso del mandato, dal 1932 tutti i Presidenti in carica sono riusciti a conquistare la rielezione. Da questo punto di vista, le prospettive elettorali di Trump sono cupe, tanto più che la sua amministrazione non è stata convincente neanche in fatto di gestione della crisi durante la pandemia di Coronavirus e i disordini sociali.

Il mercato azionario statunitense preferisce un Congresso diviso (Periodo 1950 − 2019) 18 % 16 % 14 % 12 % 10 % 8% 6% 4% 2% 0% Congresso repubblicano

Congresso democratico

Rendimento annuo medio dell’indice S&P 500

Anche la ripartizione dei seggi al Senato e la composizione della Camera dei Rappresentanti sono importanti. È qui che si decide se e in che misura il Presidente può tradurre in realtà la sua agenda. I sondaggi per le elezioni al

Congresso diviso

Crescita media annua del PIL

Congresso favoriscono attualmente i democratici. In termini storici, il mercato azionario statunitense se la cava tendenzialmente meglio con un Congresso diviso. Dal 1950, il rendimento medio annuo dell’indice S&P 500 con

Fonte: LPL Financial

Thomas Pentsy

un Congresso diviso è stato del 17,2%. Tuttavia, se i democratici controllavano la Camera dei Rappresentanti e il Senato, l’economia ha ottenuto i risultati migliori con una crescita del PIL del 3,3% all’anno. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Verso una Svizzera di 10 milioni di abitanti? Da quando nella politica è rinato il nazionalismo, ossia dalla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo, circola in Svizzera lo spettro della popolazione di 10 milioni di abitanti. Di fronte alla prospettiva di perdere una votazione che, per certi aspetti, potrebbe rivelarsi decisiva, nelle scorse settimane, mentre buona parte della popolazione si godeva le vacanze estive, l’UDC l’ha rimesso in circolazione. Quel che pochi sanno è che questo spaventapasseri non è per nulla nuovo. La prospettiva di una Svizzera con 10 milioni di abitanti è nata infatti verso la fine dei tre decenni di forte crescita economica e demografica del secondo dopoguerra mondiale. Era stata avanzata per svegliare le autorità, farle uscire dal letargo nel quale erano cadute all’indomani della guerra, e spronarle non a risparmiare e a rimborsare debiti, ma ad investire in opere di infrastruttura diventate

necessarie, in seguito allo sviluppo delle attività economiche e all’aumento della popolazione. La rete autostradale e quella delle stazioni di depurazione delle acque residuali possono essere indicati come esempi di questo ritardo infrastrutturale che andava eliminato. La previsione di una Svizzera con 10 milioni di abitanti, nel 2000, era contenuta in un rapporto interno che il prof. Francesco Kneschaurek aveva elaborato per il gruppo di esperti che stava preparando, proprio alla fine degli anni Sessanta, i concetti direttori per la pianificazione del territorio nazionale. Kneschaurek ha sempre negato, in seguito, di avere prodotto una previsione di questo tipo, precisando invece che i 10 milioni potevano essere considerati come una variante massima, o una specie di esempio didattico molto ipotetico di che cosa poteva capitare, negli ultimi trent’anni del ventesimo secolo, in

materia di sviluppo demografico. Molti politici, però, considerarono questa ipotesi, quando fu resa pubblica da qualche ben informato, come se fosse verità stampata, ragione per cui negli anni Settanta si polemizzò a lungo intorno a questa cifra e questo per due ragioni. In primo luogo perché molti comuni, alla periferia dei grandi agglomerati urbani, che, nel decennio precedente erano cresciuti velocemente, utilizzarono l’ipotesi dei dieci milioni di abitanti per giustificare tutta una serie di investimenti in infrastruttura che, per finire, ossia quando l’aumento di popolazione atteso non si manifestò, li portarono all’orlo della catastrofe finanziaria. In secondo luogo perché il partito di Schwarzenbach realizzò rapidamente come si poteva trasformare questa ipotesi in una minaccia incombente da agitare davanti agli occhi degli elettori, in occasione delle campagne

anti-stranieri da lui promosse. Come tutti sanno, nel 2000, in Svizzera risiedevano non 10 milioni, ma 7,3 milioni di abitanti. Oggi, 20 anni più tardi, abbiamo fatto un bel passo avanti verso i 10 milioni, in quanto la popolazione residente ha raggiunto gli 8 milioni e mezzo. Estrapolando, alla maniera di Kneschaurek, si può stimare che verso il 2050, se le tendenze demografiche dovessero continuare, la popolazione residente potrebbe arrivare a 10 milioni di abitanti. Apriti cielo! Per chi combatte la libera circolazione questo limite è la porta dell’inferno perché significa carenza di alloggi, affitti alti, costi sociali provocati dalla circolazione di automobili e da altre immissioni, spesa sociale in continuo aumento, ecc. Che cosa rispondere a chi minaccia la fine del mondo se la popolazione del nostro paese dovesse arrivare ai 10

milioni? In primo luogo che da diversi anni la popolazione della Svizzera ristagna, quella del Ticino è addirittura in diminuzione. In secondo luogo che, se ci guardiamo in giro, in Europa troviamo Stati come l’Olanda e il Belgio che già hanno superato questa soglia senza che i loro abitanti abbiano dovuto strapparsi le vesti. Altri Stati, come l’Austria e l’Ungheria si stanno avvicinando alla stessa pure senza grossi traumi. E non è che tutti questi Stati dispongano di superfici più ampie di quelle della Svizzera. Se, per misurare i problemi creati dallo sviluppo demografico, prendiamo la densità invece che la dimensione demografica ci accorgiamo che Olanda e Belgio possiedono densità di popolazione largamente superiori a quelle della Svizzera. Questi paesi dimostrano che è possibile gestire i problemi della crescita. Da loro perciò non abbiamo che da imparare.

mai trovato il bandolo della matassa, il tono e le parole giuste. E i denari in arrivo dall’Europa mettono in difficoltà un antieuropeista convinto come lui. L’opinione pubblica ha apprezzato di più le mosse del presidente della Regione Veneto Luca Zaia, che si avvia a una rielezione trionfale (ma non sembra avere ambizioni nazionali). Per quanto l’Italia sia oggi messa meno peggio di altri Paesi europei, l’atmosfera resta di attesa. E un pessimismo strisciante aggrava le previsioni per un autunno che si annuncia molto difficile sul piano sociale ed economico. Ovviamente, il negazionismo non ha aiutato. Una pandemia tira fuori il carattere di un popolo, spesso nel bene ma talora pure nel male. Purtroppo un popolo di individualisti tende a pensare: siccome io non ho il virus, il virus non esiste. Come se tutte le cose del vasto mondo dovessero essere riferite al proprio ego. Un discorso a parte va fatto per le scuole. Tuttora non si sa se riapriranno

o meno: non c’è spazio per il distanziamento tra gli scolari. Qualcuno ha ricordato che dopo la Seconda guerra mondiale l’Italia si era ritrovata quasi senza scuole. Doppi e tripli turni erano la norma. Molti bambini arrivavano dalla campagna a piedi, con un pezzo di legno sotto braccio per accendere il fuoco. A complicare ulteriormente le cose, l’Italia del dopoguerra era un Paese che di bambini ne faceva molti; perché credeva in se stesso e nel futuro. Ancora negli anni Settanta, quando erano piccoli gli italiani della mia generazione, c’erano i doppi turni: per un trimestre si andava a scuola il pomeriggio. Non era una tragedia. Capisco che per gli studenti, in particolare per quelli delle elementari, la pandemia possa essere stata un trauma. All’inevitabile sollievo dei primi giorni – «la scuola è chiusa!» – è seguito un periodo un po’ alienante, spesso dominato dai social e dai videogames. Andare a scuola significa anche imparare a convivere, a condivi-

dere, a crescere insieme. E l’insegnante non può essere solo un’immagine sul computer. Per questo tutti noi europei abbiamo bisogno, a cominciare dai nostri figli e nipoti, che le scuole riaprano. Non sarà facile riaprirle in sicurezza. Ma senza piagnistei, e rispettando le regole, si può fare. Lo psicodramma collettivo cui si assiste in Italia non aiuta. Aiuterebbe un minimo di collaborazione tra ministero, presidi, sindacati. L’idea dei doppi turni non è peregrina. E se servono soldi, per i termoscanner e il resto, si usino quelli del Mes. L’Europa infatti ha attivato una linea di credito praticamente senza interessi, a patto che le risorse siano spese per rafforzare la sanità, prevenire il contagio, frenare la pandemia. Per motivi ideologici il governo finora ha detto no. Ma, se la situazione diventerà ancora più grave, forse pure i Cinque Stelle si convinceranno che del Mes non si può fare a meno.

più verso sud, verso l’Italia, ma verso nord, nei collegi e nelle università della Svizzera centrale. Le biografie sono eloquenti, a partire dalle esperienze europee di Pioda. Vennero poi Giuseppe Motta, Enrico Celio, Giuseppe Lepori, Nello Celio, Flavio Cotti, Ignazio Cassis. Osservando i loro iter scolastici, notiamo che tutti frequentarono istituti e accademie d’oltralpe non solo per arricchire il loro bagaglio linguistico, ma anche per impadronirsi degli stili di vita nordici (abitudini, tradizioni, codici comportamentali). È dunque facile immaginare quale montagna linguistica debba scalare il deputato alle prime armi che arrivi a Berna dalle sponde del Lemano o dalla Svizzera italiana, non tanto nelle aule parlamentari, quanto nelle commissioni e nei conversari più o meno privati che anticipano e accompagnano i lavori. E gli ostacoli aumentano qualora si nutrano ambizioni di carriera all’interno dei gruppi e dei partiti. Prendiamo il caso di Marco Chiesa, il neopresidente dell’Unione

democratica di centro. Chiesa padroneggia il francese, ma con il tedesco zoppica. All’indomani del lancio della campagna a sostegno dell’iniziativa per un’immigrazione moderata, il cronista della NZZ ha puntualmente rilevato questa insufficienza: «Chiesa ha svolto il suo intervento esclusivamente in italiano. Al momento delle domande, un giornalista gli ha chiesto se potesse riassumere gli argomenti principali in tedesco. A quel punto è risultato chiaro ciò che Chiesa stesso ammette: per poter sostenere un contraddittorio politico, dovrà migliorare il suo tedesco». L’ostacolo da sormontare non è di poco conto, soprattutto in un partito come l’Udc, formazione che ha fatto del radicamento socio-territoriale la sua garrula bandiera. In tale contesto, il dialetto occupa una casella fondamentale ed irrinunciabile, bastione eretto a contrasto dell’odiato gergo della casta politica. L’iconografia che esprime è tutta rossocrociata, il patrimonio storico da cui trae linfa risale

all’epoca della «difesa spirituale», agli anni cioè della massima esaltazione dei «valori svizzeri», identificati con la ruralità, la semplicità dei costumi, l’autodeterminazione, la collaborazione interclassista. Nelle bacheche demo-centriste non devono mancare il ritratto del generale Guisan, le medaglie vinte alle gare di tiro, le foto in grigioverde. Per contro sono considerati disvalori il cosmopolitismo, il multiculturalismo, ogni fattore allogeno potenzialmente corruttore delle usanze e della religione dei padri, e naturalmente gli intellettuali non allineati, bersaglio polemico costante delle campagne Udc. Chiesa dovrà dunque trovare il modo di far breccia in questa mentalità, per avvicinarsi alla gente («bi de Lüt») come uno di loro, senza insistere troppo sulle particolarità locali, sui bisogni e le sensibilità delle minoranze. Dovrà insomma farsi largo in una comunità di militanti che ha fatto dello «Stammtisch» il suo centro di gravità politica. Bella impresa.

In&outlet di Aldo Cazzullo Covid, non si parla d’altro Ci eravamo illusi. Avevamo pensato che il caldo avrebbe spazzato via il virus. Non è andata così. La pandemia è ricominciata. In Spagna, in Francia. Anche in Germania. Negli Stati Uniti e in America Latina (dov’è inverno) non ha mai mollato la presa, e potrebbe rivelarsi decisiva alle prossime presidenziali Usa del 3 novembre, quando Trump potrebbe pagare il conto dei molti errori commessi. In Italia i numeri dei nuovi contagi, per quanto in aumento, sono meno allarmanti. La maggior parte dei positivi sono giovani, spesso asintomatici, quasi mai bisognosi di ricovero. Ma la discussione pubblica è accesa. Non si parla d’altro. La destra mette sotto accusa il governo. E il governo mette sotto accusa i negazionisti che rifiutano la mascherina e il distanziamento. A me pare che quest’estate il governo – in particolare su iniziativa del ministro della Salute, Roberto Speranza – abbia fatto bene a prendere alcuni provvedimenti prudenziali, tipo ri-

pristinare il distanziamento sui treni e chiudere le discoteche; è stato semmai sbagliato riaprirle. Lasciare autonomia di scelta alle Regioni ha creato confusione e inutili rischi, divenuti realtà soprattutto in Sardegna. Resta un dato: fare un tampone è tuttora troppo difficile. È più semplice fare un test sierologico, che però non dice molto: se l’esito è positivo, occorre comunque il tampone; e la trafila burocratica, tra burocrazie sanitarie e medici di famiglia, resta complicata. Per quanto riguarda i negazionisti, appariva chiaro che l’ostentato rifiuto della mascherina fosse un gesto irresponsabile; tanto quanto scagliarsi contro accorgimenti inevitabili per quanto fastidiosi come fossero soprusi antidemocratici. In particolare Matteo Salvini ha tentato di cavalcare l’insofferenza per la mascherina, salvo poi dare l’impressione di tornare sui propri passi. La Lega resta il primo partito nei sondaggi; ma nella peggior crisi del dopoguerra il suo leader pare non aver

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Le lingue che portano a Berna Politica nazionale e conoscenza delle lingue: ogni eletto a Berna, sia francofono che italofono, si ritrova a fare i conti con lo scoglio del tedesco. O meglio: con la «diglossia», termine della sociolinguistica che sta a significare la compresenza di due codici con funzioni diverse; da una parte lo «Schwyzertüütsch», con tutte le sue varianti locali, dall’altro l’«Hochdeutsch» o «Schriftdeutsch». Situazione non rara, anzi comune nelle molte regioni che ancora conservano e coltivano un robusto substrato dialettale. Ma chi ha avuto modo, per studio o per lavoro, di frequentare le comunità d’oltralpe, capisce subito qual è la peculiarità elvetica. Qui la parlata dialettale – per alcuni, «lo svizzero» – non rimane confinato nella sfera familiare o nel colloquio informale, come di norma accade: no, assume dignità di lingua anche nell’amministrazione, negli uffici, nella comunicazione pubblica, persino nelle accademie. Non conosce, se non per sfumature, barriere di ceto o di

genere. È sulla bocca di tutti, operai ed avvocati, contadini e professori universitari, banchieri e giornalisti. Nessuno sfugge alla malia della «Mundart»: segno distintivo inconfondibile, marcatore dell’identità elvetica come nessun altro. Non è una novità. C’è da credere che la questione turbasse il sonno anche dei magistrati ticinesi che dalla metà dell’Ottocento in poi ebbero la ventura di far parte del «Bundesrat», l’esecutivo centrale. Si sa, come testimoniano le lettere, che il primo di questa galleria di personaggi illustri, Stefano Franscini, penò parecchio nelle stanze del Consiglio federale per capire e farsi capire, avendo trascorso i suoi anni di studio a Milano. Più a loro agio invece i successori, in un’epoca in cui la Confederazione iniziava a lasciarsi alle spalle il «Kantönligeist» precedente per costruire/rafforzare l’«esprit suisse», la consapevolezza di essere parte di un’unica famiglia, se non proprio di un’unica nazione. Di qui l’inversione di rotta dei percorsi formativi, non


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 agosto 2020 • N. 36

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Idee e acquisti per la settimana

Camembert al forno con uva Ingredienti per 4 persone 150 g d’uva, ad es. rosé e bianca 50 g di olive scure, ad es. Kalamata 40 g di noci miste, ad es. nocciole, noci, noci pecan 4 rametti di timo 1 cucchiaio di burro presa di chiodi di garofano macinati 1 3 cucchiai di miele 1 camembert di ca. 250 g 1 baguette fleur de sel pepe Preparazione 1. Scaldate il forno a 200 °C. Dividete gli acini d’uva in due. Schiacciate le olive con il fondo di una tazza, dimezzatele e privatele del nocciolo. Tritate grossolanamente le noci. Sfogliate la metà del timo e mettete da parte il resto. Fate fondere il burro e rosolatevi le noci, l’uva, le olive, le foglie di timo e i chiodi di garofano macinati. Incorporate il miele e lasciate sobbollire per 2-3 minuti.

Renzo Gaio sa esattamente da dove proviene l’uva da tavola disponibile alla Migros: ha già visitato molti regioni di coltivazione.

«Clima molto caldo e secco»

2. Disponete il camembert in una pirofila e guarnite con una buona parte della miscela di uva e noci. Fate cuocere al centro del forno per ca. 10 minuti. Tagliate la baguette a fette e tostatele in un tostapane o su una teglia in forno. Cospargete il camembert con fleur de sel e pepe, decoratelo con il resto del timo e servitelo caldo con il pane tostato e il resto della miscela di uva e noci. Consigli utili Ideale con patate bollite nella buccia. Per un pasto principale, raddoppiate le quantità. I chiodi di garofano interi possono essere ridotti in polvere pestandoli in un mortaio. A piacimento, potete presentare il piatto con grappoli d’uva. Tempo di preparazione ca. 15 minuti + ca. 10 minuti cottura Vegetariano Costo:

Principianti

economico

Per persona ca. 22 g proteine, 27 g grassi, 49 g carboidrati, 2200 kJ/520 kcal

L’uva da tavola necessita di condizioni speciali per crescere bene. L’addetto Migros agli acquisti Renzo Gaio ci parla dell’offerta attuale, della qualità e della raccolta Testo Claudia Schmidt, Foto Roger Hofstetter

Quanto dura la stagione principale dell’uva da tavola?

Da agosto a novembre offriamo un ampio assortimento di uva europea. Quali uve da tavola si trovano alla Migros?

Attualmente, a seconda della regione, sono disponibili fino a dodici varietà di uva: bianca, rossa e rosé, con e senza semi, da coltivazione biologica. Come viene raccolta?

Tutta a mano. Sono raccolti solo i frutti maturi, poiché l’uva non matura più una volta colta. Particolarmente apprezzata è l’uva Italia. Cosa la rende così speciale?

È molto aromatica. Quest’uva tonda possiede un delicato sapore moscato. Anche la pellicola leggermente biancastra che la ricopre è segno di qualità: la cosiddetta pruina mantiene l’uva fresca più a lungo.

L’uva Italia è ottenibile anche in qualità Sélection. Cosa cambia rispetto alla convenzionale?

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Cultura e Spettacoli La famiglia invece del set La straordinaria figura di Brigitte Helm, attrice di grande successo nella Berlino degli Anni 20 e 30, che scelse di vivere in Ticino pagina 41

Monte Verità diventa un set È una storia talmente affascinante, quella del Monte più celebre del Ticino, da diventare presto una produzione cinematografica

La versatilità della danza A Ginevra un festival in cui si celebra il connubio di danza e arti plastiche

pagina 45

pagina 47 Veduta della città di Monaco intorno al 1850, con il porto e la Stapelhaus davanti alla Chiesa dei Santi Pietro e Maria. (Keystone)

La vera natura della peste

Pubblicazioni Pandemia e antisemitismo al centro dell’opera di Wilhelm Jensen

tradotta per la prima volta in italiano Luigi Forte La biblioteca delle pandemie registra nuovi arrivi. Accanto al Decameron di Boccaccio con la terribile immagine della peste fiorentina e alle pagine manzoniane dei Promessi sposi che rievocano l’epidemia milanese del 1630. Mentre a tenerci un po’ più allegri ci pensano i sonetti in dialetto romanesco del Belli, Er collera mòribbus, sul morbo che colpi l’Italia nella prima metà dell’Ottocento. Tutti volumi da tempo in catalogo come, altrove, La peste di Camus o Il castello di Kafka che suggeriscono al nostro presente di solitudine e dolore la disperante attesa di un futuro. Ma a leggere l’incalzante testo di Wilhelm Jensen, Gli ebrei di Colonia. Romanzo del Medioevo tedesco, proposto per la prima volta in italiano a cura di Claudio Salone da Robin edizioni, l’orizzonte si rabbuia di fronte a una duplice tragedia: la Morte Nera, cioè la peste, e l’antisemitismo. Gli eventi si svolgono intorno alla metà del Trecento ma è la percezione del presente che echeggia da lontano nel libro. Jensen, figlio illegittimo del borgomastro di Heiligenhafen, una cittadina vicino a Kiel dove nacque nel 1837, ha certo in mente le epidemie che devastarono il Vecchio Continente al tempo della sua infanzia e oltre fino al 1866. Tre anni dopo pub-

blicava la sua intensa storia di distruzione e amore con al centro il vecchio saggio ebreo Kaleb. Lo scrittore aveva alle spalle studi di medicina e una laurea in filosofia. Visse per un certo tempo fra Monaco e Stoccarda per poi trasferirsi definitivamente con la numerosa famiglia nel capoluogo bavarese. Fu redattore e direttore di giornali e autore prolifico, nell’ambito del realismo tedesco, di romanzi e drammi soprattutto storici. Era un intellettuale ben inserito negli ambienti letterari dell’epoca, ma il suo nome viene ricordato ancora oggi soprattutto per l’interesse che Freud mostrò verso la sua novella gotica Gradiva del 1903 che gli era stata segnalata dall’amico Jung. Era la storia di un giovane archeologo che scopre in un museo il bassorilievo di una fanciulla che cammina e ne viene colpito a tal punto da lasciarsi andare a vagheggiamenti e fantasie oniriche. Lo studioso ne fu talmente affascinato da dedicargli nel 1907 il saggio Il delirio e i sogni nella Gradiva di Wilhelm Jensen, in cui per la prima volta prendeva coscienza della profonda affinità fra psicoanalisi e arte nella prospettiva dell’inconscio. Una dimensione tuttavia abbastanza marginale nelle pagine dello scrittore, anche se la sua indole malinconica e la profonda sensibilità per l’indagine dei

processi psicologici talvolta proiettano sui suoi protagonisti miraggi e visioni, come nel caso della giovane e splendida ebrea Tamar, figlia di Kaleb. A dire il vero Jensen amava piuttosto la tradizione illuminista e detestava la mentalità piccolo borghese e l’antisemitismo. Era estraneo a qualsiasi confessione religiosa e sosteneva il Kulturkampf, cioè la lotta del progresso liberale contro ogni forma di oscurantismo. Insomma, un tedesco sui generis nell’atmosfera nazionalista del Secondo Reich, in cui l’odio verso gli ebrei non era affatto scomparso e la barbarie – come si legge nella prefazione alla seconda edizione del romanzo – «ancora alberga nei cuori». Fin da giovane non nascose il suo sdegno verso la brutalità che attraverso i secoli aveva moltiplicato «per mille la vergogna e l’umiliazione scesa sul nome tedesco». E lo proietta sulla scena drammatica del suo romanzo, dove la peste si sta diffondendo in modo subdolo con l’alito, i gesti di amore e amicizia, i baci e le strette di mano. Ne ha sentore fin dall’inizio il giovane Hellem di ritorno a Colonia dopo sette anni di assenza, che alle porte della città viene assalito dalle locuste e sente stormire nell’aria qualcosa di spettrale e invisibile. Lo attendono nel Ghetto il vecchio e ricco Kaleb, che egli chiama padre ma è in realtà lo zio, sua

moglie Lea e la loro bella figlia Tamar. Ma ben presto in preda ai terribili sintomi del morbo Hellem fugge dai familiari trascinandosi a fatica per la città dei cristiani finché perde conoscenza. Attorno a lui ruotano gli altri personaggi in una drammatica atmosfera che sembra riflessa nel dipinto coperto da un panno di seta che Kaleb ha appeso alla parete: case incendiate, saccheggi, corpi sfigurati o inceneriti. E su un lato lo splendido viso di una fanciulla che cerca invano di difendersi dall’assalto di uomini vogliosi. È una sorta di preannuncio della vicenda romanzesca in cui spiccano anche figure generose come il medico ebreo Thubal che assiste il malato, la giovane Sybille, a cui un tempo Hellem salvò la vita, che lei ricambia ora con il suo aiuto, il vigoroso maestro d’ascia Franz disposto a portare in salvo l’intera famiglia con la sua barca o il padre di Hellem, l’ebreo Isaschar, fratello di Kaleb, macchiatosi anni prima di una grave colpa e ripudiato dalla famiglia, che si riscatterà con la propria morte per salvare i parenti più cari. Sullo sfondo il profondo affetto di Tamar e Hellem, appena lambito da una sfumatura incestuosa, che sfocerà in sincero amore. Certo poi non mancano i violenti come il conte Honfried, seduttore di mestiere e nemico della nascente borghesia, che aizza i più bassi istinti della folla semi-

nando odio contro gli ebrei. Non esita per altro ad accusare ingiustamente Kaleb e Hellem di fronte al Consiglio di aver avvelenato i pozzi della città per annientare i cristiani. Il giovane Jensen ama l’intreccio melodrammatico, predilige atmosfere e immagini notturne, stigmatizza le tendenze antigiudaiche della chiesa cattolica più retriva, ricama sul tema dell’erotismo, ma soprattutto costruisce una narrazione vigorosa che a distanza di un secolo e mezzo non ha perso nulla del suo inquietante fascino. Soprattutto quando si scatena il pogrom e il Ghetto va a fuoco mentre una folla rabbiosa distrugge ogni cosa. Ma ormai la famiglia del patriarca Kaleb è già in viaggio sul Reno verso Rotterdam e poi oltre ancora verso le terre di Polonia e Lituania dove regna il saggio re Casimiro e dove con gli anni sorgerà la grande comunità degli ebrei ashkenaziti. Dalla santa città di Colonia Jensen ha dato vita a un epico esodo verso la speranza, pur consapevole di quanto effimera essa fosse. Bibliografia

Wilhelm Jensen, Gli ebrei di Colonia. Romanzo del Medioevo tedesco, edizione italiana a cura di Claudio Salone, Robin Edizioni.


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Cultura e Spettacoli

Brigitte Helm, uno splendido enigma Personaggi Da Metropolis ad Ascona: l’incredibile epopea di Brigitte Helm, destinata suo malgrado

al ruolo più iconico del cinema mondiale – e a una felice fuga in Ticino

Benedicta Froelich Forse non molti giovani cinefili di oggi sono in grado di apprezzarne del tutto il valore intrinseco, ma nessuno può negare come l’opera forse più importante della cinematografia mondiale (tra le prime ad avviare l’epoca dei grandi kolossal, ben prima che ci pensasse Hollywood) sia un film muto di produzione tedesca, risalente nientemeno che al 1927; film la cui eccezionale protagonista – la giovanissima Brigitte Helm, grande orgoglio del cinema di Weimar – avrebbe finito per legare indissolubilmente il proprio nome al canton Ticino.

Una volta trasferitasi con il marito in Ticino, non volle mai più sentire parlare della propria carriera Nata come Brigitte Eva Gisela Schittenhelm a Berlino nel 1906 o 1908 (la data è incerta), la futura diva venne spinta alla carriera attoriale dalla madre, la quale convinse Thea von Harbou, moglie del grande regista Fritz Lang, a concederle un’audizione. Fu così che l’ancora adolescente Brigitte, la quale in realtà sognava una carriera da astronoma, esordì cimentandosi in una delle parti più complesse e iconiche mai viste sul grande schermo: il duplice ruolo della virginale leader proletaria Maria e del suo dissoluto alter-ego robotico nel meraviglioso Metropolis di Lang, eccelsa allegoria della lotta di classe arricchita da toni intimisti e metafisici. Erano quelli gli anni trionfali della Universum-Film Aktiengesellschaft (UFA), in cui il cinema tedesco sfornava capolavori del calibro de Il gabinetto del Dottor Caligari e Nosferatu; e grazie all’eccellenza assoluta della sua prima prova d’attrice

L’attrice tedesca in un’immagine del 1933. (Keystone)

– perfetta combinazione tra i dettami estetici dello stile espressionista e le sfumature teatrali più moderne – l’eterea Brigitte vide spalancarsi davanti a sé le porte dello stardom: tra il 1927 e il ’35 interpretò quasi una trentina di film, sia muti che sonori, passando senza sforzo dal dramma al musical, dalla commedia al film storico. Tuttavia, i tempi stavano cambiando, e gli anni ruggenti della Repubblica di Weimar erano ormai giunti al crepuscolo; l’ascesa del nazismo costringeva sempre più artisti a rivalutare la propria carriera e posizione ideologica, e nel frattempo Brigitte aveva anche altri problemi – su tutti, l’amore per la guida spericolata, che la portò a rimanere coinvolta in più di un incidente automobilistico. A detta di alcuni, sarebbe stato proprio l’odiato Hitler a correre in suo aiuto: intenzionato a salvare da una prigionia troppo

prolungata la protagonista del suo film preferito, avrebbe fatto in modo che le accuse relative a un incidente particolarmente grave venissero archiviate. Ma nemmeno questo bastò a riconciliare la Helm con la realtà quotidiana di un Paese in cui ogni singolo aspetto dell’industria cinematografica era ormai sotto il pieno controllo del Reich, e le libertà artistiche apparivano inesistenti quanto quelle individuali. Oppressa dai troppi ruoli-cliché e film inadeguati che gli studios le imponevano, Brigitte finì per fare causa alla UFA (perdendo), e per rifiutare parti di alto profilo come quella di protagonista ne L’angelo azzurro, poi assegnato alla rivale Marlene Dietrich; ma, a differenza di molti connazionali, si rifiutò di emigrare a Hollywood, dove era stata considerata per La sposa di Frankenstein. La Helm stava infatti per compiere una scelta cruciale: le sue

seconde nozze con l’industriale Hugo Kunheim, di origini ebraiche, le avrebbero fornito l’occasione di cui necessitava per sfuggire al regime. Così, nel 1936 Brigitte, Hugo e il neonato primogenito Pieter lasciarono la Germania: e fu proprio in Ticino che trovarono infine rifugio, per la precisione a Porto Ronco (Ascona), dove, negli anni, l’artista sarebbe divenuta madre di altri tre figli e avrebbe dedicato la propria vita al solo mestiere di moglie – trovando, nella nuova routine da casalinga, la piena realizzazione delle proprie aspirazioni. In effetti, la possibilità di una nuova vita altrove sembra aver «liberato» Brigitte da quella carriera sempre percepita come una costrizione; e fa un certo effetto notare come il suo talento per la recitazione non abbia, per lei, mai costituito alcun motivo di orgoglio. Anzi, nei lunghi decenni trascorsi in Ticino,

Brigitte si sarebbe sempre categoricamente rifiutata di rievocare la propria attività di attrice nella Berlino dei magici anni 20 e 30, tanto che nessuno dei giornalisti avventuratisi ad Ascona per intervistarla riuscì mai a ottenere da lei una sola parola al riguardo; tempo dopo, Pieter rivelò che, se mai avesse permesso a un reporter di avvicinarsi, sarebbe stato senz’altro diseredato – e probabilmente non si trattava di un’esagerazione. «Per quanto mi riguarda, preferirei occuparmi della casa e dei figli», aveva un tempo dichiarato la Helm, riferendosi con l’abituale sdegno al mestiere di attrice e quasi prefigurando la propria scelta futura. Scelta che, lungi dal costituire un sacrificio, per lei rappresentava piuttosto un’orgogliosa presa di posizione – l’atto di voltare le spalle a una vita «brillante» per rifugiarsi nella normalità apparentemente più ritrita e tradizionale, quasi a voler sparire nell’ombra di un cliché ben stabilito. Del resto, doveva esserci qualcosa di davvero attraente nella quiete e semplicità dello stile di vita ticinese, dato che anche Gustav Fröhlich, partner maschile di Brigitte in Metropolis, si sarebbe ritirato a vita privata a pochi chilometri di distanza, a Brissago. Come lui, la Helm riuscì così a ottenere la privacy e tranquillità che bramava, e la prova ne è la sua sparizione pressoché totale dai rotocalchi internazionali; la grande attrice riapparve soltanto nel 1978, nel cortometraggio Wie im Traum, primo film dopo oltre quarant’anni di assenza dalle scene. Per il resto, a parte le sortite con Hugo a Monaco di Baviera, la sua esistenza si consumò soprattutto tra gli idilliaci paesaggi del Lago Maggiore, dove si spense nel 1996, silenziosamente e senza neppure un ultimo inchino al suo pubblico. Ancora oggi riposa nel cimitero di Ascona, lontana dai riflettori – e continua a rappresentare uno splendido, incomprensibile enigma per ogni amante del cinema.

Di amori e di chiacchiere

Pubblicazioni La coscienza degli animali nell’ultimo libro

dello psicologo Angelo Tartabini; tra facoltà del linguaggio e capacità cognitive degli scimpanzé Stefano Vassere «A questo punto allora dobbiamo chiederci che cosa sia veramente successo e che cosa ci abbia resi “superiori”, rispetto al resto del mondo animale e degli altri Ominidi. Le cause potrebbero essere diverse, ma quel che è certo è che la cultura è stata certamente un fattore determinante, più dell’ingrandimento del nostro cervello, della stazione eretta e persino del linguaggio articolato». Se gli animali abbiano una cultura o almeno una coscienza è argomento perno dell’ultimo libro dello psicologo Angelo Tartabini, La coscienza degli animali. Il volume è subito sdoganato da una prefazione di Edoardo Boncinelli, vera e propria star della genetica e delle sue implicazioni filosofiche, il quale si preoccupa di concedere al mondo animale (agli scimpanzé in modo particolare) parecchie espressioni di una seppur semplice e rudimentale coscienza: alcuni comportamenti osservabili dichiarerebbero infatti l’altruismo, l’empatia, la vergogna, la morale sociale. All’elenco boncinelliano si potrebbe aggiungere per esempio anche il senso della morte, la consapevolezza del fatto che la vita ha una

sua fine; nel suo bel libro dedicato alla comunicazione degli animali, il biologo statunitense Carl Safina descrive il lutto degli elefanti, che letteralmente piangono quando un esemplare del loro branco muore, e dopo avere tentato di sollevarlo coprono il compagno perduto con rametti. Su un punto, Boncinelli sembra comunque definitivo: «l’unica vera differenza significativa è per me l’uso del linguaggio». Snodo centrale del libro di Tartabini è quindi il capitolo dedicato al linguaggio e a quanto questa abilità dell’uomo ne espliciti una coscienza superiore. Si tratta di vedere se la comunicazione degli animali che sanno comunicare meno peggio, segnatamente talune scimmie, condivida con quella dell’uomo la propensione alla collaborazione, il desiderio reciproco tra gli interlocutori di passarsi delle informazioni. La posizione eretta e la conseguente liberata abilità gesticolatoria avrebbero sviluppato in pieno le capacità comunicative e quindi linguistiche dell’uomo, con i loro segni e i loro significati, poi passati al canale fonico-articolatorio solo in un secondo momento. Prima si parlava con le mani e con i gesti, insomma, poi gli stessi se-

gni hanno trovato uno sbocco sonoro. Gli scimpanzé non dispongono evidentemente di tutto il corredo, ma un po’ lo apprendono. È il caso di Kanzi, scimpanzé femmina, che facendo leva su uno stato di coscienza accettabile, riuscì negli anni Novanta del Novecento a imparare una cinquantina di gestiparola e a combinarli in piccoli atti linguistici. Tra questi ultimi anche osservazioni sull’esperimento stesso cui il ricercatore l’aveva sottoposta: come dire, so che cosa stai facendo con me e più o meno quali sono i tuoi intenti. Libri che non hanno paura di esplorare senza riserve territori avanzati del proprio dominio di ricerca come questo hanno spesso immagini curiose. Qui, l’avvicinamento tra il comportamento umano e quello degli scimpanzé nani, i bonobo; per rispondere a una delle esigenze primarie su cui si fonda il linguaggio animale, la ricerca di un partner per la riproduzione (con annessi e connessi più o meno piacevoli), sembra che i maschi di queste scimmie si presentino al cospetto della femmina con un dono per renderla docilmente arrendevole; «nel caso specifico un pezzo di canna da zucchero di cui vanno ghiottissimi».

Motivo di fascino e di indagine: quale consapevolezza hanno gli animali?

Analogamente l’uomo; con gioielli e profumi naturalmente, ma anche con il linguaggio verbale e tutto quanto possa costruire una certa loquacità: gesti, posture, agitare delle mani, quello che lo psicologo evoluzionista Geoffrey Miller chiama «una sorta di coda di pavone in cui i colori, la forma, la bellezza e la dimensione enorme della coda vengono sostituiti nell’uomo dalle parole, dal lessico, dalla rima,

dalla prosodia, dalla semantica, da tutto quello che nascondiamo dietro di loro». La chiacchiera per rimorchiare, in parole povere. Bibliografia

Angelo Tartabini, La coscienza degli animali. Uomini, scimmie e altri animali a confronto, Sesto San Giovanni, Mimesis, 2020.


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Idee e acquisti per la settimana

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Cultura e Spettacoli

Monte Verità, le origini

Cinema Sono entrate nel vivo le riprese della produzione Monte Verità, in cui si ripercorre

l’affascinante storia di un luogo fuori da qualsiasi schema Nicola Falcinella L’attrice tedesca Julia Jentsch, nota per Sophie Scholl, si affaccia alla veranda della Casa centrale del Monte Verità e si guarda attorno pensosa, nei panni della fondatrice Ida Hofmann. Sembra di essere tornati indietro di più di cent’anni, nel grande prato di Aurigeno, in Valle Maggia, dove si sta girando un film intitolato proprio Monte Verità e dove è stato ricostruito l’edificio. Il regista Stefan Jäger fa ripetere più volte la scena, poi, dopo una pausa, effettua una ripresa simile con la protagonista, l’austriaca Maresi Riegner. Intanto si preparano le comparse, sul set arrivano due asinelli, gli altri attori provano una scena nell’orto. Tutto appare come se fossimo nel 1906, l’anno in cui è ambientata la pellicola, l’unico anacronismo è costituito dalle mascherine che le comparse e gli attori indossano fino al ciak e che tutta la troupe indossa costantemente. Le regole anti Covid-19 sono molto strette e rispettate sul set. Tutti hanno effettuato un tampone preventivo e ne faranno uno alla settimana per l’intera lavorazione. «Paradossalmente il Covid-19 presenta anche aspetti positivi, commenta il regista, abbiamo avuto più tempo per preparare il film. Inoltre la troupe è più calma e rilassata rispetto al solito, ci sono meno frenesia e meno pressione». Al centro della storia c’è un personaggio di fantasia, Hanna Leitner, una giovane moglie e madre che scappa da Vienna, dal suo mondo borghese e dal marito, per arrivare ad Ascona. Nella natura e nella comunità di Monte Verità ritroverà sé stessa e scoprirà la passione per la fotografia, trovandosi di fronte a un nuovo dilemma. Il film è una coproduzione tra Svizzera, Germania e Austria e conta su un budget di sei milioni di franchi. Insieme a 40 & Climbing, terzo lungometraggio del-

la ticinese basata a Londra, Bindu de Stoppani – con nel cast Euridice Axen, Elena di Cioccio e Anna Ferzetti – che si sta girando in val di Blenio e val Bedretto richiamando l’interesse della stampa specializzata internazionale, fa del Ticino un centro di produzione importante nel momento di ripresa dell’attività dopo l’interruzione per il coronavirus. «Siamo molto contenti e orgogliosi per questi progetti – dichiara Nadia Dresti, direttrice della Ticino Film Commission, la quale sostiene le produzioni – che sono tra i maggiori da quando esiste la nostra Film Commission». La protagonista di Monte Verità Maresi Riegner non è molto nota fuori dall’Austria, ma ha all’attivo diversi lavori come Egon Schiele (2016), nel quale interpretava la sorella dell’artista, Gerti. In un cast di primo piano ci sono volti noti quali Max Hubacher, già protagonista di Der Hauptmann (2017), che interpreta il dottor Otto Gross, e Joel Basman, trentenne zurighese con un’intensa carriera anche internazionale, nelle vesti dello scrittore Hermann Hesse. «L’idea del film è nata circa sei anni fa – racconta Jäger, che parla un ottimo italiano – quando una scrittrice che conoscevo mi ha presentato una storia. Sapeva che ero interessato a un soggetto sulla storia del Monte Verità, un’esperienza che avevo conosciuto da giovane e mi aveva sempre colpito, per le sue tante implicazioni e per il rapporto dei suoi ospiti con la natura». «La scrittura ha avuto un lungo sviluppo – prosegue Jäger, regista di diversi lungometraggi quali Der grosse Sommer o Horizon Beautiful – all’inizio la storia aveva una struttura molto classica, ma è cambiata e ora ha un impianto moderno e ci sono tante donne protagoniste. L’unico personaggio inventato è la protagonista Hanna, gli altri sono tutti realmente esistiti, come Hesse o Isadora Duncan. Ci siamo immaginati questa

Simona Sala

Fedeli al passato: per le riprese sono state ricostruite alcune abitazioni.

donna, madre di due figlie e ammalata, che scappa da Vienna e dal marito, arrivando ad Ascona. Il marito le dice che non sarà mai una fotografa perché è una donna, pur essendo anch’egli un fotografo. La donna incontra il dottor Gross, si stabilisce al Monte Verità e diventa la fotografa del gruppo. Dovrà poi decidere che fare e si troverà davanti a un dilemma molto attuale». «Ci siamo documentati molto grazie agli archivi della Fondazione, abbiamo visto circa 600 vecchie foto, siamo stati più volte al Monte Verità per farci ispirare dal luogo – aggiunge ancora il regista – Ida Hofmann è stata un’eroina dell’emancipazione delle donne, ha portato avanti un pensiero di libertà per il quale puoi essere chiunque liberamente. Qui erano in

anticipo sui tempi, avevano già capito che ci deve essere un’armonia tra natura ed esseri umani». La troupe gira per tre settimane in diverse zone del Locarnese, principalmente ad Aurigeno dove, oltre alla Casa centrale, sono state ricostruite tre «capanne aria-luce» sul modello originale. «La produzione crea un indotto importante per la regione, con settantacinque persone che alloggiano in zona per queste settimane, e venti ticinesi occupati a vario titolo. Il set è anche un esempio di sostenibilità e mobilità lenta grazie alla collaborazione del Dipartimento del territorio, dei comuni di Maggia, Losone e Ascona, dell’Ente regionale di sviluppo e dell’Ente turistico Lago Maggiore», conclude Nadia Dresti.

Musica Etienne Reymond ha rinunciato a una programmazione parziale, e regala

agli amanti della musica un programma imperdibile costellato di grandi nomi

Dopo il tormento del lockdown, l’estasi di poter tornare a riascoltare la musica del vivo, e nella sua massima espressione. Anche perché nel nome di Skriabin, che all’estasi dedicò un poema sinfonico, si aprirà il 21 settembre la nuova stagione di Lugano Musica; di Skriabin e di chi della musica russa è divenuto icona mondiale: Valerij Gergiev, mitica guida del Mariinskij Teatr di San Pietroburgo, che per l’occasione dirigerà la sua orchestra nella sinfonia Italiana di Mendelssohn e suo figlio Abisal nel Concerto per pianoforte op. 20 di Skriabin. «L’idea originaria era di proporre l’Evgenij Onegin di Ciajkovskij in forma di concerto, ma con le misure di distanziamento anche sul palco dettate dalla pandemia abbiamo optato per un programma diverso» rivela il direttore artistico Etienne Reymond, che però dovrebbe poter contare sulla possibilità, accordata da Berna alle istituzioni musicali elvetiche, di poter aprire le sale fino a mille posti anche al 100% col pubblico dotato di mascherina. Nonostante all’orizzonte sanitario rimangano minacciose le nubi di una possibile seconda ondata del Covid-19, Reymond non ha voluto preparare una programmazione parziale; al contrario proietta fino a giugno una sfolgorante costellazione degli astri più luminosi

Grazie a Etienne Reymond una stagione invidiabile. (luganomusica.ch)

del concertismo mondiale. Proseguendo nel cartellone sinfonico, ci si imbatte (24 ottobre) nella Tonhalle-Orchester Zürich, che l’estone Paavo Järvi dirigerà nel Trisagion del connazionale Arvo Pärt e nel Secondo concerto per pianoforte di Chopin, solista la poetica e raffinata Maria João Pires. «I due nomi oggi più rappresentativi della musica classica in Italia», come Reymond definisce Riccardo Muti e Maurizio Pollini, approderanno al LAC il 22 novembre, per l’ultimo dei 27 concerti dedicati da Mozart al pianoforte; «Attingendo da Mercadante, Martucci,

Netflix Lost Girls,

una scomparsa inquietante

L’estasi del ritorno delle sette note Enrico Parola

Quando una madre vuole la verità

Mascagni e un giovane Puccini, Muti vi affiancherà pagine orchestrali del 900 italiano, capitolo poco noto ma che sa svelare tesori nascosti», sottolinea il direttore artistico, «perché uno dei due fil rouge di quest’anno è proprio il Novecento: un secolo, soprattutto per gli anni più recenti, che musicalmente fa ancora paura a molti, ma che credo possa rivelarsi molto interessante e bello se visto nell’interezza e varietà delle esperienze stilistiche ed estetiche che lo percorsero. Emblematico di questo è il programma che impaginerà Daniil Trifonov: un viaggio attraverso Prokof ’ev, Bartók, Copland, Messiaen, Ligeti, Stockhausen, Adams e Corigliano che mostrerà la rapida evoluzione della scrittura pianistica lungo il secolo scorso». Il geniale musicista russo si esibirà il 1° marzo, coronando una teoria di grandi pianisti che annovera a ottobre Kit Armstrong e a dicembre Andras Schiff, impegnato in Bach, Beethoven, Haydn e Schubert, i suoi quattro autori prediletti. Se il lockdown ha impedito i grandi festeggiamenti per i 250 anni dalla nascita di Beethoven, gli ultimi mesi del 2020 offrono la possibilità di recuperare il tempo perduto: il 14 dicembre Giovanni Antonini guiderà la Kammerorchester Basel nella Quinta sinfonia e nel Terzo concerto per pianoforte (solista Bertrand Chamayou) del genio di Bonn; un evento, pensando alla travolgente integrale

beethoveniana, che Antonini ha inciso con l’orchestra di Basilea ispirandosi ai principi dell’esecuzione storicamente informata. Oltre ai pianisti, Lugano potrà applaudire due tra le violiniste più celebrate al mondo, tra l’altro nei concerti-monumento della letteratura per archetto: l’8 marzo Janine Jansen sarà accompagnata in Brahms da Philippe Jordan a capo del Concertgebouw di Amsterdam, otto giorni dopo Isabelle Faust affronterà Beethoven con Robin Ticciati e la Deutsches Symphonie-Orchester Berlin. Ormai appuntamento tradizionale che calamita su Lugano le attenzioni di tutto il mondo musicale, a Pasqua tornerà l’Orchestra Mozart, con Daniele Gatti che ha preso il testimone di Bernard Haitink; tra i capolavori in programma il Triplo concerto di Beethoven e la sinfonia Praga di Mozart. «L’altro fil rouge, se vogliamo antitetico a quello sul 900, è dedicato al Barocco» prosegue Reymond, che ha coinvolto soprattutto le glorie locali: «Il 13 novembre il nostro Luca Pianca porterà alcune Cantate bachiane, cui sta dedicando un ciclo alla Konzerthaus di Vienna: infatti a fianco dell’Ensemble Claudiana ci saranno i Wiener Sängerknaben; a novembre i Barocchisti di Diego Fasolis, mentre da Basilea arriverà ad aprile La Cetra, col grande controtenore Andreas Scholl».

La vicenda ricorda quella narrata in Tre manifesti a Ebbing. Missouri (e chissà quante altre, anche in cronache più vicine a noi) con la brava Frances McDormand: di nuovo una madre che cerca la propria figlia, di nuovo una madre che si scontra con le autorità, ree di non dare la dovuta importanza alla scomparsa, con tutta probabilità di natura criminale, di una giovane donna. Mari Gilbert (interpretata da un’autentica e intensa Amy Ryan) forse non è propriamente una madre esemplare, si arrabatta come può per rimanere a galla economicamente e non disdegna, più spesso di quanto in realtà vorrebbe, l’aiuto finanziario della figlia maggiore Shannan, nonostante le fonti economiche di quest’ultima non siano del tutto chiare. Un giorno però la figlia non si presenta come accordato per cena e scompare. Mari capisce subito che qualcosa non torna, ma la polizia non sembra dello stesso avviso, anche perché, in fondo, la ragazza non era altro che una miserabile squillo. Quantité négligeable, insomma. La madre non molla, però, perché come giustamente afferma, ogni ragazza scomparsa non può essere definita solamente per le proprie attività più o meno lecite, ma è prima di tutto figlia, e forse anche sorella e madre. E dunque meritevole di essere cercata alla stregua di qualsiasi cittadino. Grazie a tenacia e ostinazione, e con il supporto di altre famiglie, sottoposte allo stesso supplizio di indifferenza da parte delle autorità, la donna (che è esistita realmente, poiché il film si basa su una storia vera) riesce a fare pressioni a sufficienza affinché si inizino le ricerche della scomparsa, ma in modo serio. Il risultato è agghiacciante: sulla spiaggia di Gilgo Beach, Long Island, le ruspe rinvengono una serie di resti appartenuti ad altre ragazze scomparse, tutte attive nel campo della prostituzione. Un grosso caso che nel 2010 scosse gli Stati Uniti, di fronte al quale la polizia non poteva più fare finta di nulla, e cui si aggiunsero con il tempo altri cadaveri rinvenuti in spiaggia, tutti imputabili allo stesso assassino, denominato il killer di Long Island, e fino ad oggi a piede libero. Il cinema da sempre si china, attingendone a piene mani, sulla cronaca, specie se nera. Ma il pregio di questo film è di mettere in luce (e ciò viene fatto attraverso una scelta di colori scuri, smorzati) l’angoscia che contrassegna ogni attesa non giustificata e la timida speranza che corre sempre su un doppio filo, poiché da una parte ogni parente desidera la verità, al contempo rifiutandola. Il risultato, sullo sfondo di un serial killer che lavora in grande stile, è un film intimo e delicato, meritevole di non lasciarsi andare a smancerie e di lavorare piuttosto sulle sfumature e sulle ambiguità, come quelle magnificamente interpretate dal bravo Gabriel Byrne, per l’occasione ispettore di polizia poco decisionista.

Amy Ryan è la protagonista del film di Liz Garbus.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 agosto 2020 • N. 36

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Cultura e Spettacoli

Voglio vederti danzare

Festival Dance First. Think Later, quando danza contemporanea e arti plastiche si fondono Muriel Del Don La danza e l’arte contemporanea sono da sempre due forme espressive che si nutrono e alimentano mutualmente malgrado funzionino, vengano prodotte e messe in scena in modi molto diversi. Ormai da secoli gli artisti cercano di catturare i corpi in movimento attraverso la tela, la scultura o più recentemente l’installazione e la performance: a partire dal Discobolo (V secolo a.C.), passando per il celeberrimo L’homme qui marche di Giacometti (1960) o ancora le performance video di Bruce Nauman, fino ad arrivare a Tino Sehgal che ha basato tutta la sua produzione artistica sulla creazione di coreografie per musei. Nel ventesimo secolo molte sono le collaborazioni tra coreografi e artisti visivi: Simone Forti e Robert Morris o Andy Warhol e Merce Cunningham (Rain Forest) negli anni 1960, Pina Bausch e Peter Pabst (Les oeillets de l’espoir) negli anni Ottanta, fino ad arrivare, per esempio, alle più recenti e fruttuose collaborazioni tra il coreografo bulgaro Ivo Dimchev e il monumento dell’arte contemporanea Franz West (I-ON e X-ON) o quella della sempre sorprendente coreografa francese Mathilde Monnnier con il pittore Dominique Figarella (Soapéra, 2010). Nella creazione di queste opere volutamente ibride e pluridisciplinari, l’artista plastico non è mai un semplice collaboratore del coreografo, ma un vero e proprio co-autore della coreografia e della scenografia. Cosciente dell’impatto che

quest’ultima può avere sul pubblico e sulla coreografia stessa, l’artista viene letteralmente inglobato nel processo creativo. Oggigiorno, il legame indissolubile tra queste due forme espressive è oggetto di numerose mostre in musei, spazi d’arte e festival in tutto il mondo, tra queste: Danser sa vie-Art et danse de 1900 à nos jours al Centre Pompidou di Parigi (2011-2012), Judson Dance Theater-The Work Is Never Done al MoMA di New York (2018-2019), Lucina Child/Sol Lewitt alla galleria Ropac di Parigi o ancora Simone Forti alla Kunsthaus Baselland per rimanere nei confini del nostro paese. Numerosi curatori si sono interessati al soggetto e coreografi famosi, tra i quali la radicalissima Anne Teresa de Keersmaeker (Work/Travail/Arbeid al Wiels di Bruxelles nel 2015), hanno preso d’assalto i musei con progetti creati proprio per questi luoghi. I corpi, concreti e tangibili dei ballerini diventano un tutt’uno con lo spazio espositivo, lo arricchiscono e complessificano permettendo al pubblico di vivere un’esperienza unica e destabilizzante. Il progetto artistico si iscrive giustamente in questa corrente prefiggendosi di evidenziare i legami tra queste due forme espressive attraverso una selezione di artisti che lavorano principalmente nel campo dell’arte contemporanea, della danza o di entrambe le discipline. Come affermato dal curatore della mostra Olivier Kaeser «il progetto si prefigge lo scopo di riunire i pubblici rispettivi dell’arte contemporanea, della danza e della performance, nonché un pubblico più ampio inte-

Marinella Senatore, disegno della serie It’s time to go back to street, 2019. (© DR)

ressato alla cultura contemporanea». Fino al 13 settembre Le Commun di Ginevra, in collaborazione con la Maison des arts du Grütli, il Musée d’art et d’histoire, il MAMCO, l’ADC (Association pour la danse contemporaine), il Festival La Bâtie e il sempre controcorrente Cinéma Spoutnik (Usine), accoglierà questo progetto sorprendente, pluri e transdisciplinare che mette sotto i riflettori opere create negli ultimi vent’anni. Il titolo del progetto è ispirato da una citazione di Samuel Beckett (En attendant Godot) diventata con il passare del tempo uno slogan che si può ritrovare su magliette, poster e cartoline postali. I curatori della mostra sono stati colpiti dal contrasto tra l’uso po-

polare che si è fatto di questa citazione e il suo contesto originale, nonché dal legame tra «Dance» e «Think». La danza può essere in effetti vista come un’attività popolare e festiva ma anche come un’arte rigorosa e considerata da molti elitaria, gesto di ribellione e rivendicazione o al contrario come mezzo per creare un’identità comune. Insomma, all’interno di questi molteplici significati il corpo umano si pone al centro di una riflessione che va ben al di là della performance fisica diventando vettore di trasformazione politica, identitaria, sociale e di genere. Per ventitré giorni il pubblico può così scoprire 22 artisti provenienti da 11 paesi, tra i quali sette svizzeri: Ale-

xandra Bachzetsis & Julia Born con il loro video This Side Up, Pauline Boudry & Renate Lorenz che con Salomania ricostituiscono la «danza dei sette veli» del film muto Salomé (1923) di Alla Nazimova, Marie-Caroline Hominal che esporrà per la prima volta le sue opere inedite, La Ribot con un’installazione/ performance/danza che darà il via a un ciclo di ricerca che durerà tre anni (Pièce distinguée no.54), Olivier Mosset & Jacob Kassay con un’installazione creata appositamente per la mostra, Samuel Pajand che metterà in scena la sua prima opera e Gregory Stauffer, presente con la première della sua nuova coreografia Sitting. Tra le opere nuove o create appositamente per l’occasione ritroviamo la performance Clockwork degli artisti statunitensi Gerard&Kelly al MAMCO, una versione inedita per due performer di Re-collection di Alexandra Pirici al Musée d’art et d’histoire, il nuovo progetto dell’artista, poeta e coreografo italiano basato a Parigi Alex Cecchetti che si interessa alle gonne Dervish, una serie fotografica intitolata Self Unfinished creata a partire da una coreografia di Xavier le Roy, un video dell’artista tedesca Melanie Manchot e ovviamente l’attesissima Parade Genève di Marinella Senatore nelle strade di Ginevra. Dove e quando

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