edizione
MONDO MIGROS
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SOCIETÀ
Intervista a Francesca Coin che nel suo ultimo libro analizza la tendenza delle Grandi dimissioni
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Bouldering, uno sport che richiede tenacia e la voglia di mettere alla prova il proprio corpo
TEMPO LIBERO Pagina 17
Il bilancio sull’attuazione dell’Agenda 2023 sulla sostenibilità dell’Onu è deludente. Cosa fare?
ATTUALITÀ Pagina 27
Dalla prima Costituzione a oggi
I cattivi seminatori
Carlo Silini
Da cattolico laicamente critico, negli ultimi giorni mi arrovello. Mi chiedo come sia possibile che la stessa religione, istituzione, gigantesca realtà materiale-spirituale che chiamiamo Chiesa cattolica possa avere generato nel corso di due millenni di storia il meglio e il peggio dell’umanità: Francesco d’Assisi con la sua poetica adesione a «sorella povertà» e un Papa libertino e malato di potere come Alessandro VI, il dottissimo Tommaso d’Aquino e il feroce Torquemada, i parroci che strappano dalle grinfie della malavita i «picciotti» e i preti pedofili. Già: gli ecclesiastici che hanno «sposato» a un certo punto della propria esistenza la scelta di vivere per il bene del prossimo seguendo l’esempio di un Signore che predicava amore e giustizia e per questa ragione è stato crocifisso. Invece sono stati loro a crocifiggere troppi innocenti sulla croce della vergogna e dell’abuso, dimenticando, anzi rovesciando i pilastri fondanti della lo-
ro missione; amore e giustizia, appunto. Com’è possibile questa dicotomia morale? Questa vertiginosa spaccatura dentro le anime di chi dovrebbe curarle, le anime, confortarle, aprire loro gli orizzonti dell’eterno e della felicità, la promessa più ardita e profonda che nessuna religione laica possa garantire?
Oggi in Svizzera (ne parla Bernardelli a pag. 29), ieri in Francia l’altro ieri in America e domani chissà dove, tra le parabole ecclesiali contemporanee, purtroppo, continua a ripetersi quella dei cattivi seminatori. Diventa sempre più difficile per i nostri preti, la maggioranza dei quali con le mani e la coscienza pulite, salire all’altare e predicare la via della redenzione dai pulpiti opachi di una nomea indegna. No, non li invidio quei preti che da oggi in avanti (o da anni) non osano dare una carezza a un bambino per timore di essere considerati «uno di quelli là». E invece sono solo giovanotti o signori in cotta o clergyman
che organizzano tornei sui campetti dell’oratorio e guidano fiaccolate sempre meno frequentate verso cappelle e santuari locali. Ma invidio ancor meno quelli che fino ad oggi sono stati i grandi dimenticati di questa laida storia: i ragazzini, le ragazzine, gli adulti abusati all’ombra di un centro parrocchiale, negli scantinati di un collegio religioso o nei dormitori di un seminario. Per loro questo non è un giorno di gloria, al massimo è l’inizio di un doloroso cammino verso il riconoscimento di un’onta vissuta col timore di parlare, di non essere creduti, di avere in un qualche modo incoraggiato i propri assalitori. Bene che ora siano considerati vittime innocenti e che possano denunciare i propri abusatori. Troppo tardi per restituirgli la leggerezza e la felicità rubate. Certo, ci rallegriamo per quella che sembra essere una decisa svolta verso la trasparenza, sorretta dalla Chiesa stessa, dal Papa in persona che ha più volte
CULTURA Pagina 41
Vittoria Matarrese, direttrice di Bally Foundation, racconta i suoi progetti per Villa Heleneum
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espresso profonda «vergogna» e ribadito la politica della «tolleranza zero» nei confronti di quei «ministri sacri che dovrebbero essere le persone più degne».
Ma per chiudere il cerchio della giustizia – divina o umana che sia – occorre che la Chiesa faccia un ulteriore passo al di là dei mea culpa e delle commissioni interne d’inchiesta. Occorre che i crimini (così si chiamano) dei suoi membri vengano subito gestiti da una magistratura laica ed esterna. Solo così si possono evitare gli insabbiamenti, i «sì, però…» che fanno sparire i documenti d’accusa e le testimonianze scomode per la Chiesa. Quanto sono credibili i giudici che giudicano sé stessi (lo penso anche per i tribunali militari)? Lo scandalo di oggi non sono solo gli abusi, ma gli occhi chiusi su di essi e una concezione della «misericordia» nei confronti dei «peccatori» che a volte rasenta la complicità e dimentica sempre le vittime.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 18 settembre 2023 Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 San t’Antonino
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Roberto Porta
Camion Migros, sulle ali della nostalgia
Speciale 90esimo ◆ In occasione dei festeggiamenti per l’anniversario di Migros Ticino, il camion di vendita partirà per un tour che attraverserà Ticino e Mesolcina
Simona Sala
Fra le idee innovative e lungimiranti del fondatore di Migros Gottlieb Duttweiler vi è stata sicuramente anche quella dei leggendari camion di vendita, la cui storia prende il via nel 1925 con i primi cinque automezzi. I camion rivestono un ruolo molteplice, sono prima di tutto dei negozi ambulanti, ma anche un efficace strumento pubblicitario e aggregativo. In Ticino gli autocarri (che all’inizio erano 3) cominciarono a circolare 8 anni più tardi, nel 1933. In un’epoca in cui la rete dei mezzi pubblici non assomigliava lontanamente a quella attuale, poiché molto meno sviluppata, si offriva così a tutta la popolazione in modo capillare un servizio che con il passare degli anni si è trasformato in un punto di riferimento, soprattutto per chi abitava nelle zone più discoste. Nel 1983, anno di massima espansione, i camion Migros in Ticino erano 11. La fortunata avventura si concluse all’inizio del nuovo millennio, nel 2002: nel frattempo erano nate diverse nuove filiali Migros e l’era digitale cominciava ad avere un ruolo sempre più importante sulla vita di tutti i giorni. E questo anche nel campo della vendita al dettaglio.
L’importanza del Nostalgia
Tour è dimostrata anche dalle sei dirette radiofoniche previste
su Rete Uno
Al fine di offrire ai propri clienti un’occasione aggregativa in nome di vecchie esperienze e ricordi, nonché per festeggiare l’importante traguardo dei 90 anni di Migros Ticino, il 21 settembre prenderà il via il cosiddetto «Nostalgia Tour», una sei-giorni durante la quale un camion vendita della Migros farà 24 tappe in Ticino e Moesano. Vista e considerata la straordinarietà di questa operazione, so-
Programma delle tappe
Giovedì 21 settembre
no in programma sei dirette radiofoniche su Rete Uno con la trasmissione Album di famiglia di Fabrizio Casati. Come ci ha spiegato Dario Tondi, Responsabile Sales Promotions & Sponsoring di Migros Ticino, nonché organizzatore dell’iniziativa, «L’idea di questo revival è nata all’interno dell’azienda come parte della celebrazione del 90esimo anniversario e per omaggiare la nostra tradizione di servizio alle comunità ticinesi. Questa iniziativa ha visto il restauro completo di un vecchio camion vendita, che in passato veniva utilizzato per raggiungere le valli e portare i prodotti diret-
Migros Mendrisio, Campagna Adorna, ore 8.00–9.00
Riva San Vitale Piazzale a Lago, ore 9.30–10.30
Rovio Piazza Fontana, ore 11.00–12.00
Arogno Piazza San Rocch, ore 12.30–14.00
Melide Via alla Bola, ore 14.30–15.00
Venerdì 22 settembre
Migros Pregassona, ore 8.00–9.00
Sonvico Piazzale comunale, ore 10.00–11.00
Cimadera Piazza di giro, ore 11.30–12.30
Bogno Piazzale nel nucleo, ore 13.00–14.00
Tesserete Via Fraschina, ore 14.30–15.00
Sabato 23 settembre
Prima della partenza:
RINFRESCO OFFERTO
presso Migros Centro Agno, dalle ore 9.00 fino alle 11.00
Caslano Piazza Chiesa, ore 11.30–12.30
Novaggio Piazza F. Ferrer, ore 13.00–14.00
Mugena Parcheggio comunale, ore 14.30–15.30
StraLugano ore 16.00
Molto più di un automezzo
Se in Ticino tra pochi giorni si potrà inaugurare il Nostalgia Tour, è anzitutto grazie al fatto che Migros Ticino ancora possiede un esemplare di camion vendita NAW Mercedes (anno di fabbricazione 1989), e ciò è a sua volta merito del responsabile dei servizi logistici e del garage della sede aziendale di Sant’Antonino, Andrea Skory. «È vero, quando si è deciso di eliminare il servizio all’inizio degli anni 2000 anche questo automezzo, così come tutti gli altri nel resto della Svizzera, era destinato alla rottamazione. Io però ho deciso di fare di testa mia, sono riuscito a nasconderlo sul sedime della Migros, e ne ho organizzato la ristrutturazione».
tamente nelle case dei nostri clienti. Fra gli obiettivi vi è quello di onorare la nostra storia e il nostro legame con le comunità locali, oltre alla connessione emotiva: la nostalgia è un sentimento potente, e vogliamo creare un’esperienza che risvegli ricordi e sentimenti positivi nei nostri clienti, legati al camion vendita e alla nostra azienda. Attraverso questa operazione creiamo un’opportunità per celebrare la nostra storia, per coinvolgere la popolazione del Ticino e del Moesano, promuovendo il nostro marchio e i nostri prodotti. Desideriamo che questa iniziativa lasci un’impron-
Giovedì 28 settembre
Migros Biasca, ore 8.00–9.00
Malvaglia Piazza d’armi, ore 10.00–11.00
Marolta Via Giuseppe Martinoli, ore 11.30–12.30
Ponto Valentino Via Traversa, ore 13.00–14.00
Olivone Piazza d’armi, ore 14.30–15.30
Venerdì 29 settembre
Migros Locarno, ore 8.00–9.00
Auressio Paese, ore 9.30–10.30
Loco Paese, ore 11.00–12.00
Russo Paese, ore 12.30–14.00
Crana Piazza, ore 14.30–15.00
Sabato 30 settembre
Prima della partenza:
RINFRESCO OFFERTO presso Migros Centro S. Antonino, dalle ore 9.00 fino alle 11.00
Lumino Via Bertè, ore 11.30–12.30
San Vittore Posteggio Palestra com., ore 13.00–14.00
Mesocco Ex Stazione, ore 14.30–15.30
San Bernardino Ex Albergo Ravizza, ore 16.00–17.00
Attenzione: il programma e l’itinerario potrebbero subire variazioni. Trovate tutti gli aggiornamenti su migrosticino.ch
ta duratura nei cuori dei nostri clienti, che, oggi come ieri, serviamo fornendo loro beni e servizi con il miglior rapporto qualità-prezzo e contribuendo al benessere del tessuto economico e sociale dell’intera regione». Si partirà come detto giovedì 21 settembre alle ore 8:00 alla Migros Mendrisio Campagna Adorna, per la prima delle 24 tappe previste (vedi box), e si concluderà il 30, partendo da Sant’Antonino alla volta del Moesano con un ospite d’eccezione come Noè Ponti. Un’organizzazione certosina, pianificata nei minimi dettagli; racconta Dario Tondi: «Organizzare un tour di questo genere è un impegno significativo e richiede una pianificazione accurata e la collaborazione con diverse istituzioni. Abbiamo dovuto richiedere permessi comunali per l’occupazione di spazi pubblici e di circolazione, pianificare il percorso del tour (tenendo conto di eventuali modifiche geologiche o stradali) e non da ultimo la comunicazione e il coinvolgimento della comunità, che non poteva escludere gli istituti scolastici. Siamo grati a tutti coloro che in un modo o nell’altro hanno contribuito all’organizzazione dell’evento».
Si tratterà di un momento di incontro imperdibile perché in nome dei vecchi tempi, e in occasione del quale sono previste sorprese e attività, conclude Dario Tondi «naturalmente non ci siamo dimenticati dei bambini. Saranno difatti loro gli ideatori del prossimo logo e nome del nostro camion. La realizzazione della vincitrice o del vincitore verrà applicata direttamente sul camion. Per partecipare basta ritirare fogli e matite colorate in omaggio direttamente sul Camion in circolazione per il Nostalgia Tour». A questo punto non ci resta che dire: buona nostalgia a tutti!
All’atto pratico ciò ha comportato 800 ore di lavori eseguiti per lo più grazie a un programma di reinserimento lavorativo di un meccanico dopo grave malattia: è stato infatti lui a dedicarsi alla ristrutturazione dell’automezzo che all’attivo ha circa 252’000 km. «Alla fine», conclude Skory, «i lavori esterni sono costati “solamente” 65’000 franchi, ma con il senno di poi ne è valsa la pena per tutti, anche per chi inizialmente non era favorevole. Il camion piace a tutti, poiché offre una testimonianza del nostro passato. E oggi, grazie a questa operazione, possiamo fare circolare il camion sulle strade del Ticino e festeggiare così la storia della nostra azienda».
Che il camion destinato alle vendite di Migros fosse molto più di un automezzo, ce lo conferma anche uno degli ex autisti, Fabio Ferrarese, in servizio fino al 2002, anno in cui l’offerta fu sospesa. Il suo volto si illumina quando gli parliamo della vita a bordo del camion: «Posso affermare senza esitazioni che è stato il periodo professionalmente più felice della mia vita. Quando ho preso servizio mi sono reso conto che quello era il lavoro ideale per me. La possibilità di percorrere tutto il Ticino in modo capillare, entrando in contatto con la gente, scoprendo luoghi e mentalità diversi tra di loro è stata estremamente arricchente».
Oltre al servizio che il camion offriva, il contatto umano sembra a tutti gli effetti rappresentare l’aspetto fondamentale, rimpianto da entrambe le parti, dipendenti e clienti, racconta infatti ancora Ferrarese, «C’erano fiducia e affetto, a volte c’erano delle sciure che ci attendevano alla fermata per portarci la colazione, anche se non dovevano fare la spesa; altre volte qualcuno ci lasciava un sacchetto contenente solo la lista della spesa e i soldi, e pensavamo a tutto noi. Altri ancora invitavano me e la commessa che mi accompagnava a casa loro a pranzo. Un’esperienza che per me è stata veramente indimenticabile», conclude Ferrarese, con un briciolo di… nostalgia.
2 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 18 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS ●
Il responsabile dei servizi logistici e del garage della sede Andrea Skory (dietro) insieme a Dario Tondi, responsabile Sales Promotions & Sponsoring di Migros Ticino, con il camion Migros che sarà protagonista del Nostalgia Tour. (Oleg Magni)
Corsi d’acqua da preservare
Il riconoscimento Perla d’Acqua PLUS promuove la valorizzazione dei fiumi e dei loro ecosistemi
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Giornalismo al femminile
Terza e ultima puntata della serie che abbiamo dedicato alla presenza e al ruolo delle donne nei media
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Ascona-Locarno Run
Il 14 e 15 ottobre torna l’appuntamento autunnale per gli appassionati di podismo
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I carburanti sintetici Nuovi progetti per la produzione di e-Fuel sono stati presentati all’IAA Mobility di Monaco
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La ricerca di un migliore equilibrio tra vita e lavoro
Tempi moderni ◆ Sempre più persone, stanche o insoddisfatte della propria occupazione, si licenziano. Il fenomeno è affrontato da Francesca Coin, sociologa e docente alla SUPSI, nel suo libro intitolato Le grandi dimissioni
Si dovrebbe lavorare per vivere, e non il contrario. Eppure il lavoro è diventato sempre più totalizzante: erode il tempo che dovrebbe essere dedicato agli affetti e alle passioni, con stipendi e contratti non idonei all’impegno e agli sforzi richiesti. Ma c’è chi si ribella a questa situazione. Sempre più persone, infatti, lasciano impieghi faticosi, usuranti e sottopagati. Un fenomeno che si è consolidato durante la pandemia: i mesi di lockdown sono stati un momento di riflessione comune. Gruppi di lavoratori si sono organizzati per licenziarsi collettivamente in diversi settori. Le cause e le opportunità di questa situazione sono state analizzate in un libro appena pubblicato, intitolato Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi). L’autrice è Francesca Coin, sociologa e docente alla SUPSI.
La pandemia ha portato a una disaffezione al lavoro e milioni di persone in tutto il mondo hanno lasciato volontariamente il proprio impiego
Francesca Coin, cosa sono le Grandi dimissioni?
Per Grandi dimissioni si intende una disaffezione al lavoro che ha portato milioni di persone, in tutto il mondo, a lasciare volontariamente il proprio impiego al termine della pandemia. Questo fenomeno si è palesato anzitutto negli Stati Uniti, dove ben 48 milioni di lavoratori hanno deciso di licenziarsi nel solo 2021.
Il fenomeno è internazionale. In quali Paesi è più consistente?
Questo fenomeno ha assunto forme diverse in base ai Paesi. In Cina, la disaffezione si è espressa con il movimento di protesta Tang ping (sdraiarsi) che nasce come resistenza culturale al 996, un sistema nel quale si deve lavorare dalle nove di mattina alle ventuno, per sei giorni alla settimana. La protesta è stata seguita da un altro movimento, Let it rot (lascialo marcire). Secondo Let it rot, un sistema che costringe intere generazioni a rimanere chine sulla scrivania per anni, per educarle al lavoro e alla competizione, e poi le abbandona alla disoccupazione, non funziona. Partecipare a un meccanismo del genere, che consuma la gente e poi la pianta in asso, relegandola ai margini della società, non ha senso. In India, il rapporto The Great X dell’agenzia di reclutamento Michael Page, pubblicato nel giugno 2022, avvisava che l’86 per cento dei lavoratori di tutti i settori, di ogni età e
di qualunque livello aveva in mente di dimettersi nei sei mesi successivi. Sempre la stessa ricerca, indicava che il 61 per cento dei dipendenti era disposto ad accettare un salario più basso in cambio di un migliore equilibrio tra vita e lavoro. In diversi Paesi, dalla pandemia in poi, si è diffusa una controcultura che mette in discussione l’etica del lavoro e l’obbligo al lavoro salariato. Dopo anni in cui il mondo ha decantato le virtù dell’efficienza e della competizione, da più parti emerge l’urgenza culturale di liberare il tempo dal lavoro e di trovare un modo meno tossico e inquinante di produrre e consumare sul pianeta.
Lei scrive che le Grandi dimissioni sono uno «sciopero generale non dichiarato». Cosa intende?
Ho mutuato l’espressione da Robert Reich, ex Segretario del lavoro durante l’amministrazione Clinton. In un articolo sul «Guardian», Reich si domandava se l’elevato numero di dimissioni a cui stavamo assistendo non fosse una sorta di sciopero gene-
rale non dichiarato: un modo disorganizzato per sottrarsi alle condizioni di lavoro esistenti. Reich vedeva una relazione tra gli scioperi e le fughe dal lavoro che si stavano diffondendo negli Stati Uniti. Dopo un anno e mezzo di pandemia, scriveva Reich, la domanda di lavoro era aumentata fortemente, ma l’offerta era diminuita. Sul mercato c’era un alto numero di posti vacanti per i quali non si riusciva a trovare personale. E non si tratta di carenza di manodopera Mancano stipendi e tutele adeguate, servizi pubblici per l’infanzia, un salario minimo, il congedo di paternità obbligatorio, il riconoscimento economico, professionale e sociale nei luoghi di lavoro. Senza queste protezioni la classe lavoratrice non tornerà a lavorare, ha aggiunto Reich. E aveva ragione.
Come fanno a vivere le persone che si licenziano?
Dobbiamo chiederci come vivono le persone che non si dimettono. Nel libro riporto il caso di un’insegnante statunitense che lavora a tempo
pieno e la sera consegna pizze perché non riesce a sopravvivere con un solo stipendio. E si domanda come possano fare le persone in situazioni simili alla sua. È una domanda che ci interroga tutti. Da anni si parla di lavoro povero, nei servizi, nel settore del commercio e ricettivo-ristorativo, i più colpiti dalla carenza di personale a livello internazionale. In questi comparti le paghe sono, spesso, così basse da diventare un disincentivo: la contropartita economica è insufficiente per giustificare i sacrifici di chi lavora.
Quali sono le soluzioni possibili per migliorare il mercato del lavoro?
Le soluzioni sono moltissime e, in diversi casi, convenienti per le aziende per le quali il reclutamento e la formazione del personale rappresentano un costo. A seconda del settore, ci sono diversi tipi di soluzioni: aumentare gli organici, ridotti all’osso da troppi anni di tagli; consentire una maggiore possibilità di programmare i propri turni; introdur-
re il lavoro da remoto; alzare i salari; migliorare le promozioni di carriera; ridurre l’orario a parità di retribuzione; introdurre il congedo genitoriale paritario e nuovi servizi per l’infanzia. Il giornalista ticinese Francesco Bonsaver ha osservato, in un articolo recente pubblicato su «Area», che alcune di queste riforme sono già state introdotte anche in Svizzera. Bonsaver ha raccontato come l’ospedale di Wetzikon, lo scorso anno, abbia contrastato l’alto tasso di abbandoni riducendo la settimana lavorativa da 42 a 37,8 ore. È una soluzione che costa meno di reclutare personale temporaneo. Un imprenditore del Canton Friburgo, a sua volta, ha deciso di abbassare le serrande del negozio il giorno con minor fatturato, il giovedì, per offrire la settimana lavorativa di quattro giorni a parità di paga ai suoi attuali e futuri collaboratori. Sono piccoli cambiamenti che consentono di attrarre personale, di aumentare la produttività e di dare continuità al processo produttivo. E non sono fantascienza: sono possibili.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 18 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
SOCIETÀ
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Voglia di sapori autunnali
Attualità ◆ Alla Migros sono arrivate le specialità a base di selvaggina. Nel fine settimana potrete approfittare dell’offerta speciale a metà prezzo sull’entrecôte di cervo
La ricetta
Entrecôte di cervo in crosta di castagne
Ingredienti per 4 persone
• 4 entrecôte di cervo da 140 g
• 2 cucchiai d’olio d’oliva all’aglio e al peperoncino
• 75 g di castagne surgelate, scongelate prima dell’uso o fresche
• 1½ cucchiai di zucchero
• ¼ di mazzetto di erbe miste, ad es. rosmarino, timo
• 1 spicchio d’aglio
• 35 g di pangrattato
• 40 g di burro, morbido
• 1 presa di cannella sale pepe
Come procedere
La carne di cervo occupa un posto d’onore tra le pietanze di cacciagione. Oltre a possedere un sapore delicato, aromatico e gradevole, è molto tenera, contiene pochi grassi e si caratterizza per il buon apporto di proteine. Le proprietà della carne di cervo sono paragonabili a quelle del capriolo. I tagli particolarmente apprezzati del cervo sono l’entrecôte, le fettine e il filetto, parti che si prestano per le cotture brevi e possono essere servite rosate all’interno. Tagli un po’ più grassi come l’arrosto sono invece ideali per le cotture lunghe. La spalla di cervo è
invece indicata per la preparazione di spezzatini, arrosti o il classico salmì.
Una scelta variegata
Alla Migros attualmente ce n’è davvero per tutti gusti in fatto di pietanze di selvaggina. La scelta annovera gustosi piatti pronti da portare in tavola in pochi minuti come salmì di cervo e capriolo oppure numerose specialità fresche disponibili nel vostro reparto carne di fiducia, nella fattispecie salmì di cervo o capriolo crudi, arrosto di
cervo, fettine di cervo e capriolo, tartare e carpaccio di cervo, sella di capriolo (su ordinazione), entrecôte e filetto di cervo. Per quanto riguarda la salumeria vi proponiamo la luganighetta di cervo, i salametti di cervo, capriolo e cinghiale, la carne secca di cervo e diversi paté o terrine di selvaggina. Oltre alla carne fresca e alla salumeria, trovate naturalmente anche i contorni che non possono mai mancare per accompagnare la selvaggina, come cavolo rosso, spätzli, cavoletti di Bruxelles, funghi, castagne e molto altro.
Azione
50% Entrecôte di cervo per 100 g, in self-service Fr 3.90 Invece di 7.90
dal 22.9 al 23.9.2023
Per la crosta tritate grossolanamente le castagne. Fate caramellare lo zucchero in una padella antiaderente finché assume un colore ambrato. Unite le castagne e fatele caramellare brevemente. Distribuite le castagne su un foglio di carta da forno e lasciate raffreddare. Mettete nel tritatutto le erbe, l’aglio, le castagne e tritate. Aggiungete il pangrattato e il burro. Lavorate il tutto fino a ottenere una massa formata da tante briciole. Condite con la cannella, sale e pepe. Scaldate il forno statico a 120 °C. Condite le entrecôte con sale e pepe. Rosolate la carne nell’olio da entrambi i lati per ca. 2 minuti. Togliete la carne dalla padella e accomodatela in una teglia foderata con carta da forno. Distribuite l’impasto per la crosta sulla carne e premetelo leggermente. Cuocete le entrecôte nella parte superiore del forno per ca. 15 minuti, azionando il grill durante gli ultimi 5 minuti di cottura.
Trucco impeccabile e intenso con Deborah Milano
Novità ◆ Il celebre marchio italiano di cosmetica presenta due nuovi mascara a base di ingredienti di origine vegetale
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I corsi d’acqua, perle della Svizzera
Ambiente ◆ Il marchio Perla d’Acqua PLUS contraddistingue ruscelli e fiumi di particolare valore, come il Beverin e il Chamuera, i primi ad aver ottenuto il riconoscimento
Elia Stampanoni
Valorizzare i corsi d’acqua più pregiati con un marchio, questo l’intento del label Perla d’Acqua PLUS, lanciato nel 2021 dall’associazione Perle d’Acqua e oggi in piena espansione. Una distinzione sviluppata con la collaborazione di diversi partner e destinata a ruscelli e fiumi o anche «solo» a tratti di essi; ambienti acquatici di particolare valore o che hanno le possibilità di acquisire queste caratteristiche, impegnandosi attivamente nella conservazione dei loro preziosi ecosistemi e sviluppando nel contempo una strategia di sviluppo.
Tre i punti cardini del riconoscimento: il coinvolgimento a livello locale, il mantenimento o il miglioramento dello stato delle acque e il rafforzamento delle specie e degli spazi di vita.
I primi ad avere ricevuto l’attestazione sono stati due fiumi dell’Engadina. Nel giugno del 2021 è stato certificato il Beverin, un torrente che, a eccezione di un breve tratto, scende selvatico e incontaminato dalle sue sorgenti fino alla confluenza con l’Inn. Fino alla galleria dell’Albula è completamente naturale e scorre liberamente senza alcuna correzione da parte dell’uomo, una caratteristica davvero rara, come indicato sul sito dell’Associazione Perle d’Acqua. Circondato da paesaggi golenali e paludi, è pertanto l’ambiente ideale per numerose specie animali e vegetali, ottemperando quindi a uno dei criteri basilari del marchio. Un riconoscimento capace di coinvolgere l’intera regione, la popolazione e il turismo, che ritrovano nel label «un segnale forte per la protezione della natura».
Il Chamuera, che si trova a pochi chilometri di distanza, a La Punt Chamues-ch, ha invece ricevuto il marchio nell’ottobre del 2021, grazie all’impegno profuso per la conservazione del torrente di montagna Ova Chamuera, il quale comprende un’ampia rete di torrenti, particolarmente tranquilla e isolata. Prima di gettarsi pure esso nell’Inn, è caratterizzato anche da gole, pareti rocciose e tratti ramificati dalla presenza di banchi di ghiaia. La valle è percorribile da una comoda rete pedestre e ciclabile, almeno fino all’Alpe Prünella, lungo la quale assaporare il gelido torrente e il territorio a esso collegato.
Per ottenere la certificazione Per-
la d’Acqua PLUS, i corsi d’acqua devono soddisfare due criteri principali: essere in uno stato «sostanzialmente naturale» e proporre un piano di sviluppo con il quale preservare le condizioni e migliorarle. Essere in uno stato «sostanzialmente naturale» significa in pratica soddisfare alcune caratteristiche che l’Associazione ha cercato di riassumere con dei parametri che fossero facilmente verificabili da un organismo indipendente.
Ne sono scaturiti 13 punti, che spaziano dalla qualità dell’acqua alla vegetazione ripuale (canneti, giuncheti, vegetazioni golenali e biocenosi forestali) oppure anche ai prelievi e ai deflussi (nessun tratto deve avere dei deflussi residuali da centrali idroelettriche o deflussi discontinui). Il tratto dev’essere inoltre di almeno due chilometri e devono essere assenti, o presenti in misura limitata, degli ostacoli artificiali quali dighe o canalizzazioni (al massimo 5% del tratto, nessun interramento, nessun tratto artificiale o non naturale). Vengono pure considerati gli aspetti legati all’ecomorfologia e allo spazio dedicato al corso d’acqua.
Il piano di sviluppo definisce invece come salvaguardare e ottimizzare i fiumi, implementando parallelamente misure di sensibilizzazione, informazione, educazione e ricerca. Interventi e iniziative che non coinvolgono solo l’area certificata, ma anche tutte le parti interessate, come i residenti, i pescatori, gli agricoltori, gli appas-
sionati di sport acquatici o le associazioni per la tutela della natura. Il 19 agosto a Bever è per esempio stata organizzata una giornata di studio lungo il Beverin, con otto postazioni tematiche.
Detto che i corsi d’acqua sono un valore aggiunto per l’uomo e la natura, in quanto ambienti preziosi e ricchi di biodiversità, il marchio Perla d’Acqua PLUS vuole essere un’opportunità anche per la popolazione e le regioni. Infatti, oltre a rafforzare e promuovere ecosistemi diversificati, un fiume naturale o per lo meno con delle caratteristiche di pregio, diventa un luogo d’attrazione pure a livello turistico, migliorando contemporaneamente la qualità di vita degli abitanti e contribuendo alla protezione dai pericoli naturali e all’approvvigionamento d’acqua potabile.
Il label, come indicato nella documentazione di presentazione, è uno strumento volontario e in continua evoluzione, grazie al quale si vuole garantire che lo stato delle acque non venga compromesso e sia anzi ulteriormente migliorato dove necessario. Fattori che portano all’avvio di nuovi progetti e alla sensibilizzazione delle persone sul valore dei corpi idrici. Fiumi o torrenti selvatici e ricchi di biodiversità sono infatti diventati estremamente rari in Svizzera, dove la maggior parte è stata rettificata, canalizzata o frammentata da dighe e sbarramenti. «Oggi la crisi climatica e quella della biodiversità si
manifestano in modo particolarmente evidente nei nostri corsi d’acqua: questi ambienti sono i più minacciati in Svizzera, pur essendo allo stesso tempo estremamente importanti. Le zone golenali, per esempio, possono fornire un luogo di vita all’80% di tutte le specie animali e vegetali presenti in Svizzera e il 10% delle nostre specie dipende totalmente da esse. Dal 1850 è scomparso circa il 70% delle zone golenali», cita l’associazione Perle d’Acqua. Facile intuire come dei corsi d’acqua con delle date caratteristiche possano diventare degli strumenti per mitigare i cambiamenti climatici e per la salvaguardia della biodiversità.
Il periodo di certificazione è di cinque anni, al termine dei quali vengono valutati gli obiettivi raggiunti, con la proposta di un’estensione del riconoscimento e ulteriori sviluppi.
Nel 2023 l’Associazione Perle d’Acqua, insieme al WWF, ha proposto a 10 nuovi comuni rivieraschi la certificazione dei loro corsi d’acqua. Tra di essi anche il tratto superiore del (o della) Breggia, il segmento che da Erbonne arriva fin nel cuore del Parco delle Gole della Breggia, lungo il quale il fiume contribuisce in partico-
Benvenuti in Migros Ticino
lar modo a creare le condizioni ideali per una flora e fauna particolarmente ricche, con anche numerose specie protette o in via di estinzione.
Il Breggia, un fiume di 12 km complessivi, nasce in Italia, tra il Monte Generoso e il Monte d’Orimento, a un’altitudine di 1’389 metri in località Barco dei Montoni. Entra poi in territorio elvetico nei pressi di Erbonne, per attraversare la Valle di Muggio scorrendo tra i comuni di Castel San Pietro e Breggia fino a Vacallo e rientrare in Italia a Maslianico, per gettarsi infine nel lago di Como. Assieme al Breggia, i cui comuni coinvolti di Castel San Pietro e Breggia hanno già deciso di aderire, anche i corsi d’acqua di Areuabach (GR), Chärstelenbach (UR), Emme (BE), Glütschbach (BE), Morge (VS), Nozon (VD), Printse (VS), Rotbach (LU) e Talent (VD) sono dei potenziali candidati ritenuti idonei alla certificazione, almeno in alcuni dei loro tratti. L’avvio ufficiale delle attività e una cerimonia per la nomina del fiume Breggia a candidato Perla d’acqua PLUS sono previsti per l’autunno, a cui seguirà in primavera una celebrazione per la consegna del label ai comuni interessati.
La Cooperativa regionale ha accolto con entusiasmo a Sant’Antonino 29 nuove leve. Si arricchisce la squadra di apprendisti della Cooperativa regionale Migros Ticino: sono ora ben 55 e svolgono molteplici preziose funzioni. Ci sono ragazzi impiegati del commercio al dettaglio, in filiale, altri impiegati di commercio, in ammini -
strazione, nonché impiegati di logistica, conducenti e meccanici di veicoli pesanti e, non da ultimo, presso i centri ACTIV FITNESS, operatori della promozione della salute e benessere. Migros Ticino ringrazia le famiglie per la fiducia e si congratula con i nuovi assunti mandando loro un grande «in bocca al lupo» per il futuro.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 18 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ Annuncio pubblicitario
Il fiume Chamuera scorre in Engadina. (E. Stampanoni)
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Ruoli in redazione
Giornalismo al femminile – 3 ◆ Dal racconto del Covid ai settori human interest, le donne nei
Enrico Morresi
Le cifre della presenza delle donne nel giornalismo, oggetto del secondo articolo, non dicono tutto. Il femminismo radicale rivendica una parità che per ora rimane un obiettivo di medio se non di lungo termine. Ma vi è un aspetto della realtà mediatica che già oggi «aggira» quel tipo di giudizio materiale, spostando il discorso verso l’etica della comunicazione. A suggerirmi di approfondire questo tipo di lettura è un libricino scritto su incarico del Consiglio degli anziani del Canton Ticino, il tema: la qualità del rapporto con le persone anziane durante la pandemia Questo tipo di rapporto ha un nome: si chiama « cura» e tocca una sfera al di qua (o al di là, come si preferisce) della salute fisica o mentale dei soggetti. Nell’esperienza vissuta durante la pandemia, tale cura è stata prestata in aperto e dichiarato contrasto con l’infelice prescrizione fatta agli anziani di «scomparire». Nel libro citato, motivazioni e azioni intraprese sono descritte con una sorta di pudore: come paresse eccessivo investire subito il piano etico, e «dir molto» sia uguale a «far poco». E, soprattutto, si evita di assegnarne il merito alla
componente femminile della società.
L’interrogativo resta aperto, come sul fatto che le autrici predominano nettamente nelle tematiche dei media genericamente definibili «di cura»: come la salute, l’educazione, l’etica dei comportamenti. Può darsi – e il movimento femminista ha ragione quando sostiene questa tesi – che alle donne, venute tardi al giornalismo, quegli spazi siano stati assegnati semplicemente perché non occupati dagli uomini, come la politica, l’economia, la scienza. Si continua a riservare alle donne spazi residuali, meno di un terzo del totale, come dimostrato dalle ricerche descritte nel secondo articolo. Il fenomeno va seguito con molta attenzione anche quando si cerca di compensare questo squilibrio, come accade lodevolmente alla SSR. Nel giornalismo ogni esagerazione è di danno. Il più largo spazio che nei servizi di attualità della televisione pubblica si fa, per esempio, alla medicina e al tempo che fa, per sé è una buona cosa. Ma vi è un rischio – certamente non voluto – quello di un giornalismo ansiogeno, che dei temi ambientali o dei comportamenti a rischio per la salute fa un soggetto troppo insistito. Il rischio è minore nella stampa scritta, dove conta meno l’attualità immediata, si può far spazio a sfumature e coltivare l’equilibrio.
Non interessa, qui, fare il tifo per questo o quello, ma approfondire il senso di una mutazione in atto sostanzialmente positiva. Della «cura» come pratica di vita l’autrice più conosciuta tra quelle che hanno introdotto il termine è Martha Nussbaum (1947). Sia lei sia altre autrici rifiutano di incollarlo addosso al sesso femminile, puramente e semplicemente. Una di loro, Carol Gilligan, teorizza al massimo una propensione maschile verso un’etica legata alla norma universale, quella femminile invece più attenta alle persone. Poiché la «cura» si esercita con una pratica, il
Viale dei ciliegi
Will Gmehling L’inaspettata eredità della famiglia Bukowski
La Nuova frontiera Junior (Da 9 anni)
«Eravamo seduti nella sala d’aspetto: mamma, Katinka, Robbie e io», ecco l’incipit di questo romanzo, molto esemplificativo, e non solo perché ci presenta da subito i personaggi (l’io narrante, l’adolescente Alf, i suoi fratelli minori, la mamma, manca solo il papà che comunque apparirà poche righe dopo), ma anche perché ci offre, sin da quella comunissima sala d’aspetto del dentista, il contesto di grande quotidianità della storia. Una quotidianità tuttavia mai banale, segnata dalle personali vicende dei vari membri della famiglia, anch’essa non banale (ma c’è una famiglia che lo è?), che certo non nuota nell’oro, che deve far fronte a vari problemi, non ultimo quello relativo al piccolo Robbie, il quale ogni tanto sembra vivere in un mondo tutto suo (ma è davvero un problema?), e che affronta tutto senza drammi (anche se a volte con molta fatica) e soprattutto con tanto amore, rispetto e otti-
piano concettuale non è quello che per noi importa di più, ma può essere il luogo dove far convenire esperienze complementari, come l’«etica del riconoscimento», descritta da Lucio Cortella in un suo saggio recentissimo. Ciò che il soggetto coglie nell’altro è infatti «il desiderio di essere riconosciuto, e poi, inseparabilmente, rispettato nella sua autonomia».
A parte gli esempi descritti nel libricino sull’esperienza del Covid citato all’inizio, vi sono altri segni di interesse per la «cura» rilevabili nel mondo dei media più in generale? Conosco poco il mondo dei social networks ma apprezzo la possibilità che offrono di un rapporto «personale» con l’interlocutore. Anche nei media tradizionali mi pare di notare una maggiore attenzione per alcune patologie (l’isolamento dei giovani, la violenza coniugale, gli stupefacenti), la cura delle quali esige un impegno che va oltre la pura fattualità medico-psicologica. Tutto grazie alle donne-giornaliste? Non necessariamente. Ma dovrei almeno spiegarmi perché, cinquant’anni fa, queste tematiche non interessavano i giornali, oppure vi mantenevano una posizione laterale e subordinata (la «pagina della donna»).
Un’ultima osservazione. Questo tipo di attenzione può fare da contrappeso alla quantità dei dati serviti ogni giorno sul desk delle redazioni. L’apertura alle tematiche «di cura» deve perciò essere incoraggiata. Bisogna rafforzare i settori di human interest Obiettivo a media scadenza rimanga naturalmente l’estensione alle donne di tutti i settori redazionali, dalla politica alla scienza, allo sport, alla religione. Ma subito dopo va riconosciuto che le tematiche identificabili come «cura» sono un progresso e un guadagno sociale, come la pandemia ha dimostrato.
Fine – Le puntate precedenti sono uscite sui numeri del 14.8 e del 11.9.2023
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Sprint autunnali
Ascona-Locarno Run ◆ Una corsa per tutti
Raccontano soddisfatti gli organizzatori che l’edizione del 2022 ha fatto registrare un aumento del 30% dei partecipanti rispetto al 2019. Un segnale positivo non solo per la manifestazione, ma anche della crescente passione dei ticinesi per la corsa, attività salutare che in occasioni come quella dell’imminente Ascona-Locarno Run offre anche imperdibili momenti aggregativi.
Gli appassionati non potranno dunque fare a meno di salutare con piacere la nuova edizione della manifestazione (siamo all’ottava), prevista i prossimi 14 e 15 ottobre in Piazza Grande a Locarno. Il programma ricalca quello delle ultime due edizioni, con il sabato pomeriggio dedicato alla
Concorso
«Azione» mette in palio 5 iscrizioni per una gara a scelta all’interno dell’Ascona-Locarno Run. Per partecipare all’estrazione inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Ascona-Locarno Run») indicando dati personali, data di nascita e e-mail entro domenica 8 ottobre 2022. I vincitori riceveranno un link dove potersi iscrivere personalmente.
mismo. Il fatto che sia un adolescente a raccontare le vicende rafforza la dimensione umoristica e fresca della narrazione, che prende le mosse sì da un’inaspettata eredità, ma che poi racconta ben altro. Del resto il titolo che l’autore tedesco Will Gmehling, nato a Brema nel 1957, ha dato al romanzo, non allude all’eredità, bensì al locale di vendita alimentari, giornali e angolo bar-ristoro, che i genitori di Alf decidono di rilevare e aprire, con l’aiuto dei loro tre ragazzi, e che diventerà il cuore pulsante della varia umanità del quartiere. Quel
locale sarà la «Bottega di via Elser», Das Elser-Eck del titolo. Sottotitolo: Die Bukowskis machen weiter, infatti questo romanzo è la seconda, attesa, avventura della famiglia Bukowski; la prima, intitolata La straordinaria estate della famiglia Bukowski, aveva vinto il Deutscher Jugendliteraturpreis 2020. Tra l’altro Elser è Georg Elser, oppositore del nazismo, che nel ’39 ideò un attentato a Hitler e fu poi arrestato e fucilato a Dachau. Alf non lo sapeva, lo scopre grazie al nome della via, quindi anche la Storia con la esse maiuscola entra in questa storia, che pur conducendoci «solo» in piccole vicende quotidiane – il primo bacio, i giri in bici, la piscina, la palestra di pugilato in cui si allena Alf, le stoffe e il cucito amati dalla creativa e volitiva Katinka, la fissazione scientifica per la luna del piccolo Robbie – ci dice tanto delle emozioni profonde che tutti, ogni giorno, proviamo. Grandi interrogativi, gioie, malinconie. Intorno ai Bukowski, in questa cittadina della provincia tedesca, si muovono anche molti altri personaggi, ognuno alle prese con il fardello della propria esistenza, da portare certo con
qualche sforzo ma anche, sempre, con un sorriso.
Maria Gianola
Torno a prenderti
Gribaudo (Da 18 mesi)
Forse la prima cosa che la scuola insegna, soprattutto quando «scuola» significa asilo nido, o scuola dell’infanzia, è il distacco. Distacco dalle figure affettive principali, dai propri punti di riferimento, ma anche, letteralmente, dalla mano della mamma, che bisogna imparare a lasciare, per andare alla scoperta di nuove cose, nella certezza, però, di ritrovarla più tardi.
Kids Run e alla 5 km Sunset Run, e la domenica mattina alla 10 km Run, alla 21 km Half Marathon e alla 10 km Walking & Nordic Walking. La manifestazione ospiterà anche i Campionati Svizzeri di mezza maratona 2023 e vedrà l’assegnazione dei titoli del campione ticinese assoluto della mezzamaratona e della 10 km di corsa su strada.
Anche quest’anno, oltre ai ricordi e alla magnifica sensazione di avere fatto qualcosa di bello, ma soprattutto di importante per il benessere psicofisico, alle e ai partecipanti sarà data la possibilità di serbare un ricordo indelebile della giornata, grazie alle foto e al video personale che Migros e SportX realizzeranno durante la giornata (visibile 24h dopo la corsa sul sito www.migros-impuls.ch/corse-popolari). E infine, ma non per importanza, affinché la corsa sia green, atlete e atleti potranno raggiungere gratuitamente Locarno da tutta la Svizzera con i mezzi di trasporto pubblici grazie allo Swiss Runners Ticket.
Dove e quando Ascona-Locarno Run. Locarno, 14-15 ottobre 2023. Per info, iscrizioni e scontistica www.ascona-locarno-run.ch
Su questo fondamentale aspetto rassicurante e fortificante si costruiscono alcuni primissimi albi per elaborare il distacco. A più tardi, di Jeanne Ashbé (Babalibri), resta un intramontabile classico del genere, perfetto ancor oggi, a trent’anni di distanza. Nello stesso filone troviamo questo recente cartonato di Gribaudo, scritto e illustrato dall’autrice veneta Maria Gianola, che parte proprio dalle mani di bimbo e mamma, vicine, intrecciate, e poi separate, e infatti con le sue manine all’asilo il bimbo farà tante cose in autonomia. Ma non ci sono solo le mani, perché a ogni pagina la narrazione e le immagini portano a concentrarsi su una parte del corpo, giocando sulla separazione dalla simbiosi con la mamma, e sullo sviluppo della percezione di sé, pur mantenendo ben salda la relazione («Piede mio, piede tuo / I tuoi passi vicini, so che ci sei»; «Occhi miei, occhi tuoi / Cucù non ti vedo! So che ci sei»…). Così, anche quando la mamma non sarà fisicamente presente, il bimbo potrà dire «so che ci sei», aspettandola fiducioso alla fine della giornata, «perché so che il tuo abbraccio non mi ha lasciato solo nemmeno un secondo».
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 18 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 11 SOCIETÀ
Immagine dall’edizione 2022 della corsa. (Garbani)
di Letizia Bolzani
media prediligono alcuni temi o vi ci sono relegate?
Unsplash
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Il futuro dei carburanti sintetici
Motori ◆ All’IAA di Monaco di Baviera è stato presentato un impianto per l’estrazione di CO2 con la «cattura diretta dell’aria» per la produzione di e-Fuel
Mario Alberto Cucchi
Da tempo si parla di effetto serra. Il surriscaldamento globale è un problema evidente. Le mezze stagioni stanno sparendo e stiamo imparando a convivere con fenomeni atmosferici che senz’altro avevano poco a che fare con le nostre latitudini. Il problema era stato intuito da analisti e specialisti già anni fa ma non era ancora tangibile e sotto gli occhi di tutti come oggi. D’altra parte un solo grado in più a livello mondiale può provocare veri e propri disastri e l’anidride carbonica (CO2) è fra i gas che contribuiscono a intrappolare il calore del sole e gli impediscono di disperdersi nello spazio. L’attività umana contribuisce al suo accumulo e aumenta di conseguenza il riscaldamento globale.
L’eFuel è un carburante «carbon neutral» prodotto combinando chimicamente idrogeno e anidride carbonica
Proprio per questo motivo costruttori automobilistici e governi stanno operando un cambiamento tecnologico nel mondo della mobilità per ridurre l’impatto ecologico delle quattroruote e non solo. In questi giorni a Monaco di Baviera, in Germania, si è tenuto lo IAA (www.iaa-mobility.com),
una manifestazione dedicata a presentare al mondo le novità di prodotto e lo stato dell’arte della mobilità.
«What will move us next » ovvero «che cosa ci muoverà prossimamente» è lo slogan dell’edizione 2023. Proprio da Monaco arriva una soluzione possibile per la riduzione del CO2. Porsche, insieme a Volkswagen Group Innovation, alla società specializzata in e-Fuel HIF Global e a MAN Energy Solutions sta valutando la possibilità di integrare un impianto per l’estrazione di CO2 con la «cattura diretta dall’aria» (DAC) all’interno del sito pilota di produzione e-Fuel in Cile. Ma cosa sono gli e-Fuel? Si tratta di carburanti sintetici «carbon neutral» che potrebbero «salvare» le auto a benzina che sembrano destinate a estinguersi entro il 2035, anno in cui la normativa europea imporrà la vendita di auto nuove solo a zero emissioni. Ecco allora un carburante che viene prodotto combinando chimicamente idrogeno che viene ottenuto per elettrolisi dall’acqua e anidride carbonica. Attenzione però, affinché i carburanti sintetici siano davvero a zero emissioni di CO2 occorre che tutto il processo di produzione dell’idrogeno e dell’anidride carbonica avvenga tramite fonti di energia rinnovabili come quella solare, eolica, geotermica, idrica o dalle maree. E così si avrebbe l’energia elettrica
«pulita» necessaria per la produzione dell’idrogeno.
Porsche ha trovato il modo di ottenere CO2 estraendolo dall’aria. Come? Per estrarre il CO2 dall’atmosfera, prima di tutto l’aria ambientale viene depurata dalle particelle di sporco di grandi dimensioni e convogliata verso una sorta di materiale filtrante simile a un ciottolo. Il CO2 che vi si deposita viene quindi estratto dal materiale e raccolto in forma altamente purificata
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in appositi serbatoi per essere successivamente utilizzato come materia prima. L’acqua, un potenziale sottoprodotto, viene drenata. Poi nell’utilizzo dell’e-Fuel nei motori a combustione interna verrebbe riemessa la stessa quantità di CO2 legata alla creazione del carburante stesso. «Per rallentare il riscaldamento globale è essenziale ridurre le emissioni ed eliminare il CO2 dall’atmosfera», ha dichiarato
Michael Steiner, Membro del Con-
siglio di Amministrazione con delega per la Ricerca e lo Sviluppo di Porsche AG. «Secondo noi, la DAC è una nuova tecnologia molto importante per il futuro, per l’estrazione di energia e, in particolare, per il clima», ha aggiunto Barbara Frenkel, Membro del Consiglio di Amministrazione responsabile degli Approvvigionamenti di Porsche. «Il CO2 pura può essere utilizzata per i processi industriali oppure stoccata permanentemente nel terreno».
L’elettricità per il sistema di filtraggio potrebbe essere generata presso il sito pilota di e-Fuel di Haru Oni con le pale eoliche, quindi da una fonte rinnovabile. Il calore necessario potrebbe essere fornito dal processo di generazione dell’idrogeno dello stabilimento di e-Fuel. Nella fase pilota dello stabilimento è prevista una produzione di e-Fuel fino a 130.000 litri all’anno. Inizialmente, il carburante sarà utilizzato nei cosiddetti «progetti faro», ad esempio nella Porsche Mobil 1 Supercup e nei Porsche Experience Center. Il sud del Cile garantisce le condizioni ideali per la produzione di e-Fuel, grazie alla presenza di forti venti che soffiano per circa 270 giorni all’anno e che consentono il funzionamento a pieno regime delle turbine eoliche. Porsche ha già investito oltre 100 milioni di dollari nello sviluppo e nella produzione di e-Fuel.
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Approdi e derive
Il sentire del corpo nei giorni di canicola
Quando queste righe saranno pubblicate probabilmente ce ne saremo già dimenticati. Ci saremo già dimenticati dei disagi sopportati, chi più chi meno, durante i lunghi giorni di canicola livello 4. Ho pensato così di affrettarmi a scrivere, ancora in presa diretta, alcune considerazioni che queste giornate esagerate hanno suscitato in me. Eccomi dunque al computer, al buio, con il piccolo ventilatore da scrivania in verità poco performante, pronta ad affrontare quello che si spera sia davvero l’ultimo giorno di caldo infernale. Questo racconto live, ancora in piena emergenza canicola, spero riesca a evocare ciò che abbiamo sperimentato in questi giorni. Lasciamo parlare dunque l’esperienza, perché la percezione della natura, e dei suoi volti inospitali, l’abbiamo vissuta in prima persona con il sudore ingestibile e tra le nebbie di una disarmante spossatezza: non abbiamo avuto bisogno di pensarla o di rielaborarla a partire
Terre Rare
dalle notizie che arrivano dal mondo. Direttamente nei cali di pressione o in improvvise tachicardie abbiamo percepito la nostra appartenenza alla natura, il nostro essere corpo vivente, corpo che vive, nella totale assenza di differenza tra il nostro respiro e l’aria caldissima, tra la pelle e il sole che la avvolge, tra il passo incerto e stanco e la salita che lo attende. In questa assenza di differenza l’inospitalità dell’ambiente si è potuta manifestare come una condizione che riguarda anche noi, che è anche, forse soprattutto nostra: è stata un invito a interrogarci sul nostro modo di stare al mondo, e questo grazie alla potenza del sentire che precede ogni discussione e ogni teoria attorno al cambiamento climatico o attorno a cause ed effetti del cosiddetto antropocene.
Secondo MeteoSuisse domani pioverà, ci saranno temporali anche violenti che riporteranno un po’ di frescura e tutti saremo sollevati. Eppure
la forza del sentire, anche quando ci mette in difficoltà, o forse soprattutto in quei momenti, non andrebbe rimossa alla prima occasione piacevole ma, al contrario, andrebbe custodita in noi ed ascoltata a lungo, e bene. A me pare infatti che anche il sentire di queste giornate sia riuscito a farci cogliere, attraverso il nostro intimo vissuto, un aspetto a volte trascurato di noi stessi che potrebbe nutrire di nuovi significati il nostro pensiero. L’esperienza di sentire fin dentro il corpo la nostra appartenenza all’ambiente, l’intensa quanto faticosa percezione di un’intima condivisione dei ritmi del vivere con la natura che abitiamo, ha potuto rivelarsi come un’apertura a una sensibilità ecologica originaria, più radicale, forse anche più autentica proprio perché nutrita da questa intensa esperienza. Diciamo grazie, allora, alla canicola per averci offerto la possibilità di riconoscere sulla nostra pelle un di più di
Barriere architettoniche e barriere digitali
Una circolare ufficiale dell’amministrazione comunale ci informa, più o meno in questi termini, che: «A partire da lunedì prossimo la fermata dell’autobus XY, in prossimità della vostra abitazione sarà soppressa temporaneamente, per permetterne l’adeguamento alle norme di accesso ai disabili. Ci scusiamo per l’inconveniente». Proprio nello stesso pomeriggio, dopo aver trovato quella comunicazione nella propria buca delle lettere, chi scrive ha accettato di dare una mano nel disbrigo delle pratiche burocratiche a una simpatica signora ultraottantenne. Ne abbiamo già parlato in molte occasioni. Appare sempre più chiaro, soprattutto a chi ha contatto quotidiano con persone anziane, quanto le nuove tecnologie rappresentino un grosso ostacolo per chi voglia mantenere un minimo di autonomia nelle faccende amministrative personali.
Dopo aver mostrato alla signora (per l’ennesima volta) il metodo di accesso al sistema di gestione online del proprio conto corrente, la sua reazione spontanea e accorata, «Non ce la farò mai a capire come funziona…», è veramente commovente. Intendiamoci: come gran parte della popolazione «anziana» la nostra amica è dotata da anni di computer, legge la posta elettronica, usa uno smartphone, sa mandare messaggi e fotografie con Whatsapp. Non è un’analfabeta digitale assoluta, e sospettiamo che oggi nessuno possa davvero più permettersi di esserlo. Il punto sembra un altro: i servizi informatici che ognuno di noi oggi deve adattarsi a usare (pensiamo solo alla nuova procedura per la compilazione della dichiarazione delle imposte) sono progettati in modo del tutto anodino, che verrebbe voglia di definire anzi totalmente anarchico, senza nes-
Le parole dei figli
Catfishing
«È uno/a che fa catfishing!». Nel gergo dei ragazzi della Gen Z il termine è utilizzato per schernire chi dal vivo è diverso da come appare sui social.
È l’estensione che le Parole dei figli fanno di un vocabolo che originariamente sta a indicare chi, sempre sui social, si crea una falsa identità fingendosi un’altra persona allo scopo di ingannare, prendere in giro, umiliare.
La traduzione letterale dall’inglese è pesce-gatto: l’aneddoto preso dal documentario Catfish dei registi Henry Joost e Ariel Schulman (Usa, 2010) è che i pescatori erano soliti mettere il pesce-gatto con il merluzzo che trasportavano vivo nelle spedizioni a lungo raggio per mantenerlo attivo e vigile fino all’arrivo e, dunque, di qualità migliore (che vuol dire più buono da mangiare). La tesi – distorta – che sostiene uno dei protagonisti del film è che chi fa il pesce-gatto
mantiene la vita degli altri più fresca e interessante. La trama ruota intorno a Nev, fotografo 24enne di base a New York, che viene contattato su MySpace da Abby, una bambina di 8 anni delle aree rurali del Michigan, appassionata di pittura, con il desiderio di dipingere una delle sue fotografie. Quando Nev riceve il dipinto inizia un’amicizia e una corrispondenza con la famiglia di Abby che sfocia in una cyber-storia d’amore con l’attraente sorella maggiore di Abby, Megan, musicista e modella. In realtà Megan non esiste e dietro c’è la madre di Abby, Angela, che si prende gioco di Nev. Se non c’è dubbio che gli adolescenti vadano messi in guardia dal rischio di finire vittime di questo tipo di attività ingannevole, la mia preoccupazione è rivolta soprattutto al fenomeno che si nasconde dietro il dire: «È uno/a che fa catfishing!». Sono, in-
di Lina Bertola
senso rispetto alle consuete parole con cui raccontiamo la natura e le attuali emergenze climatiche e ambientali. Il sentire del corpo può infatti offrirci una preziosa occasione per andare oltre nella comprensione. Quell’assenza di differenza vissuta in prima persona potrebbe essere stata un’occasione per andare oltre i limiti del nostro sguardo sempre autoreferenziale verso la natura: oltre l’approccio antropocentrico che sembra proprio invincibile, anche quando appare liberato da ogni esercizio aggressivo del suo potere.
I movimenti ecologisti sono portatori di una rinnovata e convinta consapevolezza della nostra appartenenza alla natura, ci rendono sempre più consapevoli dell’intreccio di legami che fanno della natura una dimora comune. Tuttavia, dalle proposte scientifiche per affrontare il cambiamento climatico o i problemi energetici, o ancora dalle preoccupazioni per la salvaguardia delle specie, emerge co-
me l’antropocentrismo, seppur modificato rispetto a quello che ha ridotto il mondo a una risorsa da sfruttare, resosi più consapevole dei propri limiti e delle proprie fragilità, resti pur sempre all’origine delle nostre preoccupazioni per l’ambiente: per il nostro ambiente. Sottotraccia rimane il linguaggio dell’avere che orienta il pensiero di noi stessi e della natura: abbiamo un corpo, abbiamo un ambiente da rispettare. Poi per fortuna ci sono occasioni, magari anche poco gradite, che ci fanno sentire che siamo corpo vivente, che siamo natura. E ci permettono di avvicinarci un po’ di più a quel rinnovato conosci te stesso che interroga con urgenza il significato della nostra umanità.
Comprendere che questo significato è radicato nel nostro essere corpo vivente può avere straordinarie ricadute etiche, non solo nel rapporto con la natura, ma anche nella umana condivisone del mondo.
sun rispetto per i propri utilizzatori. Abbiamo parlato molte volte del problema e non si tratta qui di alzare il solito inutile e rancoroso lamento da pagina delle lettere al direttore. Si tratta piuttosto di porlo in termini di convivenza civile e di tutela delle minoranze. Ci prendiamo cura delle barriere architettoniche del mondo reale? Bene, allora bisognerà che iniziamo anche a occuparci seriamente delle barriere architettoniche digitali. Di fatto, vista con l’occhio un po’ scafato di chi conosce il retroscena della progettazione di prodotti informatici, la realtà è che là fuori regna il caos più totale. Il «basta che funzioni» di alleniana memoria è la regola assoluta, ci sembra. Si costruiscono architetture frutto di logiche del tutto illogiche e per quanto si senta parlare spesso di test di usabilità e di attenzione all’esperien-
za dell’utente, ogni piattaforma digitale a cui dobbiamo necessariamente accedere è un incubo in cui siamo lasciati totalmente allo sbaraglio. Non è un mondo per vecchi: i giovani, se ci fate caso, sono più pragmatici di noi. Si lanciano nell’esperienza con lo spirito di scoperta. È come se avessero incorporato nel loro modo di interagire con la galassia digitale una sorta di fatalismo: in qualche modo ce la faremo. Oppure è l’abilità nel risolvere gli enigmi dei videogiochi che li ha allenati a gestire l’incertezza.
Una delle barriere più significative che ci è capitato di incontrare negli ultimi giorni è quella del QR-Code. Il quadratino bianco e nero, che tutti hanno imparato a conoscere grazie al nuovo sistema di cedole postali, sembra essere diventato la soluzione a tutti i problemi. Lo trovate ovunque: nei musei al posto delle didasca-
di Simona Ravizza
lie dei quadri, nei ristoranti al posto del menu, sul telefono al posto dei biglietti del treno. Sembra che sia usato da tutti e che funzioni perfettamente. Posso assicurarvi che almeno dieci persone nella mia cerchia di conoscenze (e non si tratta solamente di persone anziane) non ha la più pallida idea di cosa sia, a cosa serva e come funzioni. A tutti questi utenti digitali occorrerebbe un supplemento di spiegazione, ma chi e come dovrebbe fornirglielo?
Per chiudere questa riflessione un po’ accorata, per nulla originale ma molto sentita, occorre purtroppo rendersi conto che tra le politiche di formazione, l’alfabetizzazione digitale pare davvero negletta. C’è molto da fare ma, nonostante alcune lodevoli iniziative messe in atto da associazioni di anziani, non si sa bene come. L’unica soluzione, per ora, è rimboccarsi le maniche.
fatti, convinta che poche Parole dei figli siano in grado di fotografare l’epoca in cui vivono gli adolescenti come catfishing. Oggi, inutile nascondercelo, il primo contatto tra due adolescenti avviene di frequente su Instagram o su TikTok. Lì dove la vita è in vetrina e la popolarità, come abbiamo più volte raccontato anche a Il Caffè delle mamme, si misura a colpi di follower e like. In questo contesto la FOMO, ossia la paura di essere esclusi (dall’acronimo inglese di Fear Of Missing Out), è una sensazione che penetra nella carne viva portando angoscia e senso di inadeguatezza. Le stories di Instagram o i video su TikTok consentono di avere un report quotidiano delle vite altrui: ciò vuol dire un continuo controllo dei social e dello smartphone dove ognuno vuol giocare la propria parte per non sentirsi escluso. E i social permettono di
giocare anche barando: più i nostri figli stanno su Instagram e TikTok, ormai lo sappiamo, più manipolano gli scatti che li ritraggono utilizzando i filtri messi a disposizione per migliorare l’aspetto fisico. Dunque: il timore di essere esclusi porta gli adolescenti a voler essere anche loro sempre in vetrina e per starci modificano la propria immagine per piacersi di più. Ricordiamo che l’immagine digitale consente con poche mosse un favoloso makeover virtuale. Fino a renderci quasi irriconoscibili. A questo punto l’immagine di sé che può avere suscitato l’interesse di qualcuno non corrisponde a quella in carne e ossa. Disastro per entrambi: all’ hype dell’incontro segue la fregatura. Con conseguente messa all’indice: «È uno/a che fa catfishing!». Scherno. Derisione. Pubblica umiliazione. Conoscersi di persona e piacersi
diventa un’impresa ancora più ardua, quella di fare nascere un amore fuori da uno schermo del cellulare. Ecco, fermiamoci un attimo a riflettere: il catfishing, che si intreccia con la FOMO e l’uso dei filtri per crush (innamoramenti) sempre più virtuali, è l’emblema di quanto i social stiano complicando le relazioni dei nostri figli. Con ricadute importanti sulla considerazione di sé e l’autostima. Il problema non è tanto, a mio avviso, che non puoi mai sapere chi si nasconde dietro una relazione nata virtualmente. La questione spaventosa è cosa ti porta a fare il desiderio di piacere in quella vetrina, e l’umiliazione che puoi provare poi nell’incontro dal vivo. Con l’autostima già bassa che finisce irrimediabilmente sotto i piedi e tutto quel che ne consegue. Neanche Cyrano dopotutto ha fatto una bella fine.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 18 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 15 SOCIETÀ / RUBRICHE ◆ ●
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di Alessandro Zanoli
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Storie dalla Calanca
Un itinerario impegnativo, quello che porta alla Marscia d’Aión, ma indimenticabile per i suoi paesaggi e per le storie che vi si scoprono
Pagine 18-19
Un piatto facile e salutare Fagiolini con pancetta e pistacchi, da gustare da soli o come ottimo accompagnamento per riso o polenta
Pagina 22
Alla guida dell’esercito dei Pikmin Con il videogame Pikmin 4, Nintendo invita i giocatori a guidare nuovamente un esercito di simpatiche creaturine
Pagina 23
Aggrappati a un sasso per risolvere un «problema»
Adrenalina ◆ Appesi come ragni ai massi. A volte pure a testa in giù. E senza nemmeno quella rete di sicurezza costituta dalla corda agganciata al moschettone
Nel bouldering, a parare l’eventuale caduta è un «semplice» materasso. O, nella migliore delle ipotesi – e quando la complessità del «problema» da risolvere (perché è così che tecnicamente vengono definiti i macigni da «domare» in questo sport) supera un certo coefficiente di difficoltà – uno «spotter » pronto a entrare in azione quando una presa viene meno.
Per il resto, come detto, i boulderisti gran parte del loro tempo lo trascorrono… appesi al macigno. Nato negli anni Settanta oltre Manica (non a caso gran parte dei suoi termini tecnici sono in inglese), il bouldering ha via via preso piede un po’ in tutto il mondo. Anche alle nostre latitudini, al punto che proprio in Ticino vi sono alcune delle «mecche» di questo sport, in particolare a Brione Verzasca, Chironico e Cresciano, e, allargando il campo ai Grigioni, la regione di Ferrera. In palestra, invece, in Ticino lo si può praticare a Giubiasco (Alpha Boulder) e Taverne (Evolution Climbing Center).
La disciplina sportiva del bouldering è nata negli anni Settanta oltre Manica per poi diffondersi in tutto il mondo: a colloquio con l’esperto
sud tirolese Jacopo Larcher
Ma che cos’è di preciso il bouldering, e come lo si pratica? Ad aprirci le porte di questa particolare attività, sorta di… fratello minore dell’arrampicata classica, è Jacopo Larcher. Lui, il bouldering lo conosce bene, avendolo praticato per parecchi anni ai massimi livelli, vincendo fra l’altro il titolo italiano nel 2010. Nelle montagne, in quella porzione di Alto Adige dove è più facile ritrovarsi un’imbracatura addosso che qualsiasi altro indumento sportivo, Jacopo ci è nato. «Ad… aprirmi la via è stato mio padre, grande amante della montagna. Così, a dieci anni mi sono ritrovato in palestra per un corso di arrampicata: a propormelo era appunto stato lui, senza peraltro tanta convinzione sul fatto che mi sarebbe piaciuto. Non a caso, prima di provare con l’arrampicata mi ero cimentato in una marea di altri sport, ma senza che scoccasse la vera scintilla di passione per questo o quello. Con l’arrampicata, invece, è stato diverso: è stato amore a prima vista. Quando nasci e cresci a Bolzano, la montagna in un modo o nell’altro te la porti dentro, e il corso ha portato alla luce la mia passione per questo sport, che fin da piccolo guardavo con trasporto».
Veniamo al bouldering : cos’è e co-
sa lo distingue dall’arrampicata classica? «È la disciplina che maggiormente si avvicina all’essenza più pura di questo sport, quella che riesce a mettere davvero in primo piano l’aspetto atletico di chi la pratica. E, soprattutto, non necessita di grandi attrezzature: bastano un paio di scarpette, un materasso per parare i colpi in caso di cadute e poco altro. Niente imbracatura, corda o moschettoni…». Ma è anche quella che richiede lo sforzo istantaneo maggiore: l’energia spesa da un arrampicatore classico per uno «strappo» di una ventina di metri è la medesima che necessita un boulderista per risolvere un «problema» di 7-8 metri, in un paio di minuti. «I passaggi sono molto più corti: in genere, per risolvere un «problema» sono sufficienti pochi movimenti (8-10), ma ben calcolati. Ne consegue anche una maggiore concentrazione di adrenalina che ti scorre nelle vene». Per essere un buon boulderista, serve più forza o più agilità?
«La giusta combinazione delle due cose. Ed è proprio questa caratteristica ad affascinarmi: la capacità di portare all’estremo il movimento, dove per la riuscita occorre trovare l’equilibrio perfetto tra agilità, coordinazione e tecnica. Senza dimenticare l’abilità di «leggere» il «problema»: più sei bravo a decifrarlo, prima trovi la chiave per risolverlo. Poi, però, devi anche avere i mezzi, ossia le doti fisiche, per venirne a capo…». E quali sono allora le caratteristiche fisiche imprescindibili per ambire a distinguersi in questo sport? «Di requisiti fondamentali non ve ne sono, anche se chiaramente chi ha una corporatura più esile parte leggermente avvantaggiato. Forza esplosiva e coordinazione, a ogni buon conto, sono qualità che non devono mai mancare».
È più pericoloso dell’arrampicata classica? «Non direi, anche se è vero che quando lo si pratica all’aperto, e dunque su sassi naturali, affrontando certi passaggi delicati magari situati un po’ in quota, il rischio di farsi male effettivamente c’è. Ma questo vale anche per l’arrampicata classica: sotto questo aspetto, adottando tutti gli accorgimenti necessari in materia di sicurezza, bouldering e arrampicata classica si equivalgono. Poi, quando si raggiungono certe quote, in particolare affrontando massi particolarmente alti (detti anche «highball»), il bouldering si avvicina quasi di più all’arrampicata libera, senza corda, alzando sensibilmente il tasso di rischio».
Cosa ha rappresentato per te il titolo vinto nel 2010? «Usando una metafora, direi che è stato come risolve-
re un «problema» del bouldering : ho trovato la mia via d’uscita. Alle gare ci sono approdato da giovanissimo, un po’ perché cercavo compagni con cui condividere questa mia passione, visto che spesse volte in palestra mi ritrovavo da solo, non essendoci molti coetanei dediti all’arrampicata. Dopo anni di competizioni avevo bisogno di prendermi un timeout, in modo da poter vivere la mia passione
per l’arrampicata nel modo più naturale possibile. Il titolo ha facilitato la mia scelta: a Modena, dove è andata in scena la competizione, è come se il cerchio si fosse chiuso…».
Da un amore per la montagna a un amore… sbocciato in montagna, visto che proprio la passione comune per il bouldering ha fatto sì che tra Jacopo e Barbara Zangerl, altro nome assai noto nel mondo dell’arrampica-
ta, scoccasse la scintilla affettiva: «Ci siamo conosciuti al Melloblocco, un evento di bouldering in Val Masino. Ora spesso arrampichiamo assieme: trovarti in parete con il tuo partner anche nella vita con… i piedi a terra facilita molte cose. A volte ci intendiamo anche senza troppe parole. Ma a casa no, non parliamo solo di rocce: per fortuna riusciamo anche a staccare».
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 18 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 17
Jacopo Larcher mentre fa bouldering. (Willaunders Red Bull Content Pool)
Moreno Invernizzi
La Marscia d’Aión, un incantevole
Itinerari ◆ Un’escursione impegnativa anche per la calura sulle montagne della Val Calanca alla scoperta di un’antica cava di pietra ollare che
Romano Venziani; testo e foto
A vederlo dalla cima del Nomnom, è come se la montagna avesse preso una brutta botta procurandosi un bernoccolo colossale. Un bel bernoccolo, oblungo e di un colore strano, quasi alieno a quel mondo di pietre e pascoli.
Emerge poco sotto il filo di cresta, proprio lì, ai piedi di un enorme ghiaione scivolato giù dal Piz de Groven nella sua lenta e incontenibile disgregazione.
M’incuriosisce, quell’anomalia geologica, e voglio darle un’occhiata da vicino.
Lassù, oltre i duemilacinquecento metri di quota c’è un panettone roccioso decisamente insolito
Potrei andarci ora, seguendo il lungo crinale erboso fino alla Cima d’Aión, per poi abbassarmi verso la Bocchetta di Groven e da lì tagliare obliquamente il pendio fatto a gradoni paralleli di Aión de Sora. Sarebbe la soluzione migliore, più breve e meno faticosa. Ma per oggi ho altri programmi e metto a tacere la mia curiosità.
Fa caldo, il giorno in cui finalmente mi metto in marcia. Il famigerato isoterma di zero gradi svolazza ad altitudini inconcepibili e l’afa spadroneggia anche sulle montagne della valle Calanca. È una di quelle giorna-
te da spaparanzarsi in riva a un fiume o a un lago, oppure mettersi a mollo nelle fresche e dolci acque di una pozza di un torrente alpino.
E invece, eccomi qui, ad arrampicarmi, sudato, sul ripido sentiero che da Selma sale verso l’alpe di Aión Vec. Solo perché, lassù, oltre i duemilatrecento metri di quota, c’è un panettone roccioso, decisamente insolito, almeno per le sue dimensioni, che ha attirato la mia attenzione.
Per risparmiare una manciata di isoipse, parto da Bersach, un bel maggengo raggiungibile con la strada forestale che collega Cauco con Braggio.
Mi trovo subito immerso in un bo-
sco di alte conifere, la cui lunga ombra del mattino, trafitta qua e là da subitanee sciabolate di sole, mi regala un po’ di refrigerio. Non dev’esserci passata molta gente, negli ultimi tempi, su questo sentiero, a giudicare dal proliferare di ragnatele, che lo attraversano sospese ai rami degli abeti. Una trama di sottilissimi fili, brillanti come di luce propria, su cui si dondolano grossi ragni neri in attesa delle loro prede.
All’improvviso, il bosco si apre su una piccola radura. Erba alta punteggiata qua e là di fiori delicati, i ruderi di una cascina, un luccichio d’acqua tra il verde, una sorgente raccolta in
un minuscolo pozzo squadrato. È l’alpe di Stabgel o Stabiel.
Rimane ben poco del pascolo, preso d’assalto dalla vegetazione arborea, che ne erode i margini e lo sta fagocitando assieme alle sue rovine. Alberelli di larice in avanscoperta spuntano già in mezzo al prato; il loro destino sembra ormai segnato.
Continuo a salire nel bosco, che si è fatto meno fitto, più arioso, sebbene il sentiero sembri sprofondare tra cespugli di rododendro e intricati ciuffi di mirtilli.
Raggiungo la Motta del Perdül, una giogaia da dove la vista si allarga su uno splendido paesaggio. Vedo in
lontananza le montagne della Calanca interna, la vallata del Rià d’Aión e, su un terrazzo del versante opposto, l’alpe omonimo, da dove passerò scendendo, con le due cascine ristrutturate ai piedi di una parete rocciosa. In alto, il vasto anfiteatro dove mi sto dirigendo.
Una breve discesa mi porta all’alpe d’Aión vecc. A ciò che ne rimane, almeno. Dei vecchi cascinali, infatti, non ci sono che rovine instabili, ridotte a un perimetro di sassi squadrati, alto poche spanne, addossato a macigni monumentali.
Avverto una malinconia diffusa nell’atmosfera di questo luogo silen-
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I ruderi dell’alpe di Aión vec.
Peter, il pastore volontario a guardia delle capre.
museo a cielo aperto
che oggi è una sorta di cantiere archeologico o di museo del territorio che racconta un’operosità d’altri tempi
culturale delle zone di montagna. I responsabili e i volontari, che si alternano ogni estate, hanno riattato le due cascine con l’aiuto dei forestali della Calanca, del comune di Santa Maria, proprietario dell’alpe, di alcuni artigiani del posto e dei cacciatori locali, recuperando inoltre sentieri e ponti e ripulendo i pascoli altrimenti votati all’abbandono.
È di poche parole, Peter, così lo lascio lì alle sue capre e riprendo a salire cercando di indovinare i passaggi per superare i gradoni di roccia.
È un anfiteatro straordinario quello di Aión de Sora, ne ammiro l’ampiezza, l’alternarsi della pietra e dell’erba, i rivoli d’acqua coronati di fiori che lo rallegrano, i ritagli di neve vecchia, che ingombrano i canaloni del Piz de Groven. C’è qualcosa che si muove in uno di essi, lassù. Sono due giovani camosci che si divertono con balzi e scivolate. In mezzo a un ghiaione sonnecchia uno stambecco, vedendomi si allontana quatto quatto.
All’improvviso, eccolo lì il bernoccolo che un giorno avevo visto dall’alto. Mastodontico, spennellato di colori indistinti, con riflessi di piombo, ampie macchie di rosso, striature grigio scuro e sbavature di bianco gessoso, come se l’orogenesi si fosse divertita a inventarsi una bizzarria cromatica tutta sua.
Una storia che dura da quattro
millenni
zioso, come se l’aria stessa si fosse fatta più densa di significati e riflessioni. Non è la prima volta che mi succede, quando penso alla fine che hanno fatto i sacrifici, le fatiche e le privazioni della gente che su queste terre alte ha vissuto e lavorato, generazioni dopo generazioni, sfidando fulmini e burroni, per guadagnarsi un po’ di pane e companatico. E mi viene anche un po’ di magone pensando che il fine della mia fatica è invece solo appagamento e piacere e…un pizzico di curiosità. Mi mancano ormai poco più di trecento metri di dislivello e già intravedo lassù la mia destinazione. Salgo fiutando il terreno, perché, al di sopra di una corona di giovani larici, non
Itinerario
Partenza Bersach (1331 mslm)
Arrivo Marscia d’Aiòn (2322 mslm)
Dislivello 991 m
Lunghezza del percorso con il ritorno ca. 12 km
Tempo di percorrenza calcolare 8-10 ore con la discesa, comprese le pause.
Difficoltà T2
Dislivello in discesa 1107 m
Il bel maggengo di Bersach, sopra Selma (oggi comune di Calanca) è raggiungibile con la strada forestale che collega Cauco a Braggio. L’accesso è però limitato e soggetto ad autorizzazione, da richiedere alla Cancelleria comunale.
Passando dall’Alp Stabgel (1790 mslm) si arriva alla Motta del Perdül
c’è più traccia di sentiero. Dopo aver attraversato il solco profondo di un torrente per evitare un ammasso rabbioso di pietre, mi ritrovo su ampi pascoli dove bruca, scampanellando, un gregge di capre.
Sono duecento e le porto su ogni giorno dall’Alpe d’Aión – mi dice il pastore che le tiene d’occhio. Si chiama Peter, è germanico ed è qui come volontario per un paio di settimane.
L’alpeggio è tornato a vivere nel 2019 su iniziativa del «Bergwaldprojekt», un’associazione fondata nell’87 a Trin, nel canton Grigioni, con lo scopo di promuovere la conservazione, la manutenzione e la protezione della foresta e del paesaggio
(2003 mslm) e da lì si raggiunge l’Alp d’Aión vec (1967 mslm), ancora un ultimo sforzo, su un pendio senza sentiero e si arriva a destinazione.
Il percorso, se si eccettua il tratto tra l’Alp d’Aión vec e la Marscia d’Aión, è segnalato in bianco-rosso. Si tratta comunque di un itinerario impegnativo, lungo e ripido, su un sentiero a volte sconnesso, che scompare nell’ultimo tratto, per cui bisogna avere capacità d’orientamento e una buona condizione fisica.
Si può ritornare dallo stesso percorso o, meglio ancora, scendere dal versante opposto della valle, passando da Aión vec, Alp d’Aión (1’836 mslm), Pian Conca (1’414 mslm), La Motta. (1’379 mslm), Sisielma (1’215 mslm).
È l’enorme affioramento di pietra ollare della Marscia d’Aión. Il sito, patrimonio culturale di Cauco, è un esempio estremamente interessante di cava a cielo aperto, sfruttata fino a circa duecento anni fa e ora diventata una sorta di cantiere archeologico o di museo nel territorio, grazie al quale si possono trovare risposte a molte domande e toccare con mano un’attività un tempo direi quasi fiorente in molti angoli dell’arco alpino.
C’è un anfratto, ai piedi della roccia, forse creato dall’estrazione del minerale, e sulle pareti scopro alcune scritte. Nomi, iniziali, date, PG 1886, DBSA 1917, MI 05, BERTO 8.7.20, incise probabilmente quando la cava era già stata abbandonata. Altre, più antiche ed erose irrimediabilmente dagli agenti atmosferici, sono ormai indecifrabili.
Su un’ampia superficie del giacimento si leggono chiaramente i segni dei ciapón, i grossi blocchi di pietra estratti, che venivano poi lavorati giù al piano per farne recipienti vari, i cosiddetti laveggi (vedi articolo a lato). Alcuni, già sbozzati, sono ancora saldati alla roccia, mentre lì vicino, nell’erba e tra i detriti, ce ne sono altri, simili a rozze pietre da curling, pronti per essere portati a valle con grande fatica e modellati al tornio. Chissà perché sono rimasti lì? Sembra quasi che l’abbandono della cava sia avvenuto in modo repentino, come se un fatto improvviso o un sortilegio ne avesse decretato la fine.
L’interrogativo rimane senza risposta. Forse un giorno emergerà dalle carte polverose di un archivio, mentre qui, in questo luogo straordinario a due spanne dal cielo, si possono solo ammirare i ciapón adagiati sul prato, muti testimoni di un’operosità d’altri tempi, che non va assolutamente dimenticata.
Informazioni Su ww.azione.ch si trovano l’itinerario e una galleria fotografica.
Ci sono poche rivoluzioni nella storia della pietra ollare. E dire che, la sua, dura da quattro millenni o forse più. Estratta e scolpita all’origine con attrezzi rudimentali, bisogna aspettare l’inizio della nostra era per salutare l’introduzione del tornio. D’allora in poi, al di là di qualche affinamento della tecnica, la sua lavorazione è rimasta immutata. Fino al 1800, quando ormai inizia il declino.
La pietra ollare, o steatite, diffusa su buona parte dell’arco alpino, è una roccia metamorfica, morbida, facilmente lavorabile, che assorbe rapidamente il calore, lo accumula e lo restituisce lentamente. Una sorta di pietra magica, adatta, per queste sue caratteristiche, alla fabbricazione di numerosi manufatti d’uso quotidiano, come le pentole, i cosiddetti lavécc, o laveggi, che venivano utilizzati per la cottura degli alimenti, le olle, in cui si conservavano le scorte per la cucina, coppe e bicchieri o, ancora, le pigne, le stufe di sasso.
Era un’abilità che aveva dell’incredibile quella dell’artigiano. Lavorava con gesti misurati, precisi, delicati. Accompagnando e guidando l’opera dello scalpello, che lentamente penetrava nel cuore della pietra. Sarebbe bastato un sussulto, un attimo di distrazione per rovinare irrimediabilmente l’oggetto tornito, anzi, gli oggetti, perché da un unico ciapón, si ricavavano diversi recipienti a mo’ di matrioska.
In epoca remota, uno dei principali centri di lavorazione della pietra ollare, già citato da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia (77 d.C.), è la Valtellina e, in particolare, Piuro, i cui prodotti erano conosciuti in tutt’Europa. La «pietra verde di Chiavenna» fece la fortuna di quel villaggio, fino a quando, il 4 settembre 1618, un’immane frana lo seppellì con i suoi duemila abitanti. Altri ripresero, con minor successo, quest’attività artigianale, su cui calerà, da metà dell’Ottocento, il velo dell’oblìo1) Nella Svizzera italiana, erano attivi centri di lavorazione della pietra ollare in Val Bregaglia, nelle vallate del Sopraceneri, in Mesolcina, in particolare a Soazza 2), e in Val Calanca, a Cauco e a Rossa, dove la famiglia De Giacomi, fin dai primi decenni del 1700, controllava la produzione e lo smercio
dei laveggi in tutta la regione e in alta Italia, impiegando anche laveggiai chiavennaschi.
In valle esistevano altri giacimenti di pietra ollare, a Rossa, Braggio e Arvigo, e c’erano torni alimentati dall’acqua del fiume a Cauco, ma è quell’enorme bernoccolo montano della Marscia d’Aión a perpetuare il ricordo di un’attività e, in qualche modo, di un’imprenditorialità, che hanno permesso alla gente di qui di integrare le scarse possibilità di sfruttamento economico del territorio.
La grande cava a cielo aperto intanto rimane lì, immobile, a veder passare le stagioni di questo straordinario paesaggio alpino. Chi la vuol scoprire, la deve conquistare, e lo deve fare solo a costo di una faticosa salita. Meglio così, perché la lontananza è buona custode, ne preserva l’integrità e assicura il perpetuarsi di un ricordo tangibile di competenze e abilità d’altri tempi.
Ma come conciliarne la conoscenza e, al contempo, la protezione? È necessario «garantire un approccio rispettoso a questo oggetto», mi ripete Giulia Pedrazzi, vicedirettrice del Parco Val Calanca. Come per il Sass de la Scritüra (vedi «Azione» del 9 gennaio 2023), «il nostro modo di intendere gite ed escursioni deve innanzitutto garantire la sicurezza e la tutela delle zone sensibili, per questo motivo una delle misure che adotteremo è quella di proporre gite che siano accompagnate e allo stesso tempo a numero chiuso».
Nel recente passato si è ventilata l’idea di un sentiero tematico sulla pietra ollare, tra Cauco e Soazza, ma «è stata abbandonata, mi conferma l’archeologa Maruska Federici-Schenardi, direttrice dell’Archivio regionale Calanca, sperando in una sua rinascita».
Note
1) Dal 1988, Roberto Lucchinetti, chiavennasco, ha ripreso la lavorazione della pietra ollare, restaurando il vecchio laboratorio di Prosto di Piuro, dove l’ultimo laveggiaio della valle aveva svolto la sua attività fino al 1866. (https://www.pietraollare.com)
2) Paolo Mantovani, I laveggiai di Soazza, Società per la ricerca sulla cultura grigione, Coira, 1992.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 18 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 19
La conca della Marscia d’Aión vista dalla cima del Nomnom.
Tutto è rimasto come se la cava fosse stata abbandonata all’improvviso.
Le scritte visibili sono successive all’abbandono della cava.
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Ricetta della settimana - Fagiolini con pancetta e pistacchi
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Ingredienti
Ingredienti per 4 persone
800 g di fagiolini verdi e gialli
sale
2 scalogni
10 fette di pancetta
1 spicchio d’aglio
½ limone
6 c d’olio d’oliva
pepe
5 c di pistacchi tostati e salati
¼ di mazzetto di santoreggia
o di timo
40 g di parmigiano
Preparazione
1. Lessate i fagiolini in abbondante acqua salata per circa 10 minuti poi scolateli.
2. Tritate gli scalogni.
3. Rosolate le fette di pancetta senza aggiungere altro grasso, finché diventano belle croccanti, poi fatele sgocciolare su carta da cucina. Nella stessa padella fate soffriggere gli scalogni.
4. Spremete l’aglio e aggiungetelo, poi unite i fagiolini e la scorza di limone grattugiata finemente.
5. Spremete il limone e aggiungete il succo e l’olio. Condite con sale e pepe.
6. Tritate i pistacchi e la santoreggia e distribuiteli sui fagiolini. Sbriciolate la pancetta sui fagiolini e condite con il parmigiano grattugiato.
Consigli utili: Ottimo con una porzione di riso, polenta saltata o semplicemente con pane.
Preparazione: circa 30 minuti.
Per persona: 17 g di proteine, 32 g di grassi, 13 g di carboidrati, 440 kcal
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di
Le creature a forma di cipolla di Pikmin 4
Videogiochi ◆ È uscito il quarto episodio della singolare saga Nintendo in compagnia dei simpatici Pikmin
Davide Canavesi
Nintendo ha fatto della sua particolarità un vero e proprio marchio di fabbrica. I nipponici da decenni oramai producono titoli che si discostano da quello che è l’approccio occidentale, spesso composto da esperienze che hanno nel realismo uno dei loro punti chiave. Pikmin è forse uno degli esempi più lampanti di produzioni Nintendo, sebbene ce ne siano altre, con questo approccio diverso e, in ultima analisi, divertente.
Un’esperienza ludica che si discosta dallo spiccato realismo che è un po’ il marchio di fabbrica dell’approccio occidentale
Pikmin 4 rappresenta il quarto episodio di questa particolare serie di giochi di Nintendo, in cui le protagoniste sono bizzarre creature simili a cipolle. Si tratta di un gioco di strategia in tempo reale il cui obiettivo è quello di guidare un esercito di creature, chiamate per l’appunto Pikmin, in varie attività: esplorazione, costruzione, battaglie contro grandi nemici e ricerca di tesori. Creata da Shigeru Miyamoto, Pikmin è sicuramente una delle serie più interessanti prodotte da Nintendo, sebbene meno conosciuta rispetto ad altri giochi come Super Mario a causa del suo gameplay complesso.
La trama riporta la storia di una
squadra di soccorso inviata sulla Terra per salvare il capitano Olimar, protagonista dei primi due giochi della serie. Tuttavia, la squadra naufraga e si disperde, spingendo il giocatore a impersonare una giovane recluta aliena della squadra di salvataggio. In questa entusiasmante missione di salvataggio, il giocatore non affronterà la sfida da solo. Lungo il suo cammino, avrà l’opportunità di incontrare i Pikmin: creature buffe e affascinanti che combinano caratteristiche sia animali sia vegetali, simili a cipolle, e che risponderanno ai comandi del protagonista. Dopo aver individuato l’astronave naufragata appartenuta alla squadra di soccorso, il protagonista inizierà a scoprire, grazie alle informazioni fornite dal capitano e dal responsabile delle comunicazioni del gruppo, che è necessario raccogliere energia luminosa dai tesori dispersi nelle varie mappe di gioco. Questa preziosa energia è essenziale per potenziare le capacità dell’astronave, consentendole di raggiungere nuove destinazioni e, cosa più importante, di essere effettivamente riparata. Di conseguenza, il protagonista si ritroverà a esplorare una serie di ambientazioni diverse, comprese enigmatiche caverne sotterranee, e sarà chiamato ad affrontare perfino altri esseri spaziali.
Il gameplay di Pikmin 4 è simile a quello del gioco di strategia, in cui
Giochi e passatempi
Cruciverba
La suocera di Carlo si presenta alla sua porta con la valigia in mano e sorridendo dice: «Sono venuta a stare da voi finché non vi stuferete di me!» E lui con un bel sorriso risponde… Lo scoprirai a cruciverba risolto, leggendo nelle caselle evidenziate.
(Frase: 5, 2, 3, 5, 3, 2, 5)
ORIZZONTALI
1. Essere convinto di qualcosa
7. Tre sorelle
8. Gamba in inglese
9. Pronome personale
10. Strato esterno della Terra
11. Libri scolastici
12. Espone opere d’arte
13. Prete ortodosso
17. Piccola quantità di bevanda
18. Lo può essere la lingua…
19. Si dice tra amici
20. Parte della pistola
basi della squadra di soccorso, mentre le caverne sono dungeon su diversi piani con sfide uniche, tra cui esplorazioni notturne che aggiungono una componente di strategia. Le mappe e le caverne aggiungono profondità al gioco e la presenza di personaggi non giocanti offre missioni secondarie. Per questo motivo, Pikmin 4 offre una campagna più lunga rispetto ai suoi predecessori, con una durata di circa 20-25 ore.
21. È in tedesco
22. Piede a Londra
23. Le iniziali del conduttore Insinna
24. È un taglio
VERTICALI
1. Dentro un baccello
2. Raggi in poesia
3. Vocali in greco
4. Profeta biblico
5. Violazione della legge
6. Il terzo uomo
i Pikmin vengono guidati attraverso diverse attività dal giocatore. Gli esserini hanno abilità diverse a seconda del loro colore, e il giocatore può portarne solo tre tipi alla volta durante l’esplorazione. Una nuova aggiunta è Occin, un cane soccorritore che aiuta nell’esplorazione, trasportando i Pikmin sulla sua schiena e affrontando i nemici. Un aspetto distintivo è la possibilità di controllare Occin in modo indipendente. Il cane può affrontare da solo i nemici al posto dei Pikmin, oppure esplorare zone della mappa inaccessibili al
giocatore. Questa meccanica rende il gioco più dinamico e meno complesso rispetto ai capitoli precedenti, limitando in parte la necessità di esplorare minuziosamente il territorio e la necessità di una pianificazione strategica per superare le diverse zone. Le capacità di Occin possono essere potenziate accumulando punti ottenuti durante l’esplorazione delle caverne, aggiungendo un elemento di progressione interessante e coinvolgente. La struttura del gioco è divisa in diverse zone: la mappa principale che funge da «hub» e ospita le
In conclusione, Pikmin 4 è un titolo di qualità, fedele alla tradizione di Nintendo ed è un titolo che richiede di essere giocato e apprezzato, anche se le sue meccaniche possono essere piuttosto ostiche da comprendere per i neofiti. Apprezzabili le nuove aggiunte, come le caverne e il cagnolone Occin che espandono le possibilità in quello che è già un gioco zeppo di cose da fare. Peccato che rispetto al capitolo precedente la modalità multigiocatore collaborativa sia stata rimossa, rendendo questo Pikmin 4 un’esperienza ludica per una sola persona. Pur introducendo nuove meccaniche, questo nuovo gioco mantiene l’essenza della serie. Il nuovo approccio più orientato al gioco di ruolo e al genere «platform» rende l’esplorazione coinvolgente e appassionante. In definitiva, Pikmin 4 è un must per i fan della saga e per tutti coloro che stanno cercando qualcosa di un po’ diverso da giocare sulla propria Nintendo Switch.
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Soluzione della settimana precedente LO SAPEVI CHE… – La più antica università europea si trova: A BOLOGNA – Si chiama: ALMA MATER
10. Si specifica sui documenti
11. Chiusi, intasati
12. Mesi parigini
13. In geometria formano una linea
14. Precede il two
15. Le iniziali del pittore Gauguin
16. Aquila inglese
17. Labile traccia
18. Confina con la Cina
20. Preposizione articolata
22. Le iniziali del dirigente
Confalonieri
23. Le iniziali dell’attore Nero
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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ATTUALITÀ
L’urgenza di una svolta
Il bilancio sull’attuazione dell’Agenda 2030 sulla sostenibilità dell’Onu è deludente. Cosa fare?
Pagina 27
Le scuse non bastano
Il Rapporto su abusi e violenze in seno alla Chiesa cattolica e la cattiva gestione delle denunce
Pagina 29
Non è tutto rose e fiori
In Italia l’alleanza tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini fa acqua. Quali sono i punti di frizione
Pagina 31
Il tortuoso cammino della democrazia
Marocco in ginocchio
Ripercorriamo la storia di un Paese devastato dal sisma. L’Africa araboberbera piange anche per la Libia
Pagina 37
Svizzera ◆ Sono passati 175 anni da quando si votò sulla prima Costituzione e si svolsero le prime elezioni federali. Cittadine e cittadini sono chiamati alle urne anche quest’anno, il 22 ottobre, e dovranno orientarsi tra una moltitudine di liste e congiunzioni
A guardar bene anche la nostra democrazia diretta ha avuto la sua «prima volta». E da allora sono trascorsi ben 175 anni. In quell’occasione, era il 12 settembre del 1848, si trattava di votare sulla prima Costituzione federale, testo che avrebbe sancito la nascita di quella che oggi chiamiamo la Svizzera moderna. Fu una votazione popolare ben diversa da quelle che conosciamo oggi. A cominciare dal fatto che le donne non poterono esprimersi, si dovette per questo aspettare un bel po’ di tempo, fino al 1971. Ma ci furono anche altre singolarità, anche perché nel nostro Paese c’erano ancora da ricucire le ferite lasciate dalla guerra civile del Sonderbund, che si era combattuta nel novembre del 1847. Quella prima chiamata alle urne non fu organizzata in tutti i 22 Cantoni elvetici di allora, solo 16 di loro lo fecero. Lucerna era tra i Cantoni usciti sconfitti da quell’ultimo conflitto combattuto su suolo svizzero e nel giorno di quella prima votazione popolare non mancò certo di originalità. Per poter approvare l’atto di nascita del nostro Paese, al voto dei favorevoli venne aggiunto anche il numero di chi aveva scelto di astenersi. Nel Canton Friburgo votò solo il Gran Consiglio, nei Grigioni ci si affidò a dei comitati speciali, i cittadini non furono chiamati alle urne. Si votò in giorni diversi. In Ticino si andò alle urne il 3 settembre e il 68% dei cittadini di allora si schierò contro la Costituzione, un «no» minoritario a livello nazionale. Glarona fu uno dei Cantoni che convocò una Landsgemeinde, con un risultato decisamente insindacabile: il 100% dei presenti si disse favorevole alla nuova «Magna charta». Si potrebbe pensare che nessuno osò alzare il proprio braccio per dire di no.
La Svizzera democratica e federale che conosciamo oggi nacque così. Forse è bene ricordarlo, soprattutto in un anno elettorale come questo: la democrazia va vista come un cammino, un susseguirsi di continui affinamenti. Basti ricordare che nel 1874 venne poi introdotto il diritto al referendum e che dal 1891 venne aggiunta anche l’opzione dell’iniziativa popolare. I due pilastri della nostra democrazia semi-diretta. Tornando a quel 1848 va detto che in quell’autunno si svolsero anche le prime elezioni federali. C’erano da scegliere i deputati del nuovo Parlamento, che poi nominarono anche i primi sette membri del Consiglio federale. Una doppia elezione che avvenne tra il mese di ottobre e di novembre di quell’anno, con poche settimane di tempo per dar vita alla prima campagna elettorale del nostro Paese. Senza contare che contemporaneamente c’era anche da dar forma all’Amministrazione federale,
con i suoi sette dipartimenti, lo stesso numero di oggi. Pochi ci pensano, ma in quel 1848 si andò davvero di corsa, trovando spazi, uffici e sale di riunione in diversi edifici del centro storico di Berna. Palazzo federale andava ancora costruito, verrà inaugurato soltanto nel 1902.
Da quest’anno candidati e partiti dovranno dichiarare l’origine dei fondi con i quali hanno finanziato la loro campagna elettorale
Tra gli eletti di allora vi fu anche Stefano Franscini, di Bodio, il primo consigliere federale italofono, padre della scuola pubblica in Ticino. In Governo a Berna si impegnò, tra l’altro, per la fondazione del Politecnico federale di Zurigo e dell’Ufficio federale di statistica. E a proposito di numeri chissà cosa potrebbe pensare Franscini guardando alle elezioni federali di quest’anno. Una corsa verso Berna che sta battendo tutti i primati, statisticamente parlando. Saranno quasi 6000 i candidati che ambisco-
no ad uno dei 246 posti della Camere federali. Quattro anni fa erano 4660, già allora una cifra da record. Ma a moltiplicarsi è anche il numero di liste e congiunzioni. In Ticino le liste sono ben 33, comprese le sotto-liste. A quella del partito principale si possono aggiungere a volontà altre squadre, con l’intento di accrescere la propria visibilità e quindi anche il numero di voti incassati dal partito principale. Il Centro, per esempio, presenta la lista Più voce ai pensionati. I Verdi e il Forum alternativo, rimanendo nella stessa fascia di età, fanno scendere in campo I Sempreverdi, mentre l’Udc gioca anche la carta degli Agrari Il Plr lancia anche una lista tematica, chiamata Libertà, energia e ambiente Nel Canton Berna dove le liste sono 39. Pure qui si dà spazio ai pensionati, con una lista del Centro chiamata Best agers, in inglese, per buona pace delle nostre lingue nazionali. I Verdi liberali dal canto loro presentano la lista Creative e Creativi mentre gli evangelici schierano anche le Kmu, sigla che sta per piccole e medie imprese. Nel Canton Zurigo, ultima tappa di nostro questo piccolo
giro elettorale della Svizzera, le liste sono ben 44. Diversi partiti fanno leva anche sui cosiddetti secondos, cittadini naturalizzati di seconda generazione. Per la prima volta anche l’Udc presenta una lista di questo tipo. A sinistra si guarda invece anche alle minoranze sessuali, con liste composte pure da persone queer ed esplicitamente denominate in questo modo. C’è anche una lista dei sans-papiers e pure una degli imprenditori etici. Insomma il cammino democratico del nostro Paese è arrivato anche a questo, con sfoggio di una certa fantasia nel tentativo di contendersi un po’ di gloria federale. Tutto regolare e tutto nel rispetto delle norme in materia.
Tra poche settimane noi cittadini riceveremo le buste con il materiale elettorale e di sicuro saranno molto voluminose. Nel consultarle dovremo dar prova di pazienza, con un triplo effetto possibile: ci sarà chi se le guarderà per bene, chi si limiterà alle liste dei principali partiti e chi invece farà di questo malloppo una delle tante possibili scuse per non recarsi alle urne il prossimo 22 di ottobre. Inutile negarlo, questo rischio c’è. Nel 175esi-
Materiale elettorale destinato alla regione di Oberaargau, Canton Berna. (Keystone)
mo anniversario della prima Costituzione della Svizzera moderna, c’è però anche una novità di peso nella corsa verso Palazzo federale. Da quest’anno i candidati e i loro partiti dovranno dar prova di trasparenza e dichiarare l’origine dei fondi con i quali hanno finanziato la loro campagna elettorale. E questo nel rispetto di una nuova normativa varata dal Parlamento nel 2021.
Le cifre relative a questi finanziamenti saranno pubblicate sul sito del Controllo federale delle finanze, che vigila sui conti della Confederazione. Un esercizio non sempre facile visto che le campagne dei partiti e dei candidati a volte si sovrappongono e risulta complicato definire con precisione gli importi spesi dagli uni e dagli altri. Senza contare che ogni partito ha una sede centrale a livello nazionale e poi diverse sezioni cantonali, con contabilità separate. Nei vari segretariati di partito c’è chi teme «forti mal di testa» nel far di conto. In ogni caso queste saranno le elezioni federali più trasparenti della nostra storia. Sì, la democrazia è davvero un processo sempre in cammino.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 18 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 25
Roberto Porta
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Agenda 2030: sistema da rivoluzionare
Sviluppo sostenibile ◆ Il bilancio sull’attuazione dell’ambizioso programma di azione dell’Onu è deludente. Quali cambiamenti si rendono necessari? Come può la Svizzera agire in maniera più coerente e responsabile? Intervista all’esperto Peter Messerli
Luca Beti
Nel settembre 2015 la Svizzera, insieme ad altri 192 Paesi membri dell’Onu, ha adottato l’Agenda 2030. Questa rappresenta una sorta di bussola per orientarsi verso lo sviluppo sostenibile e per affrontare le grandi sfide del pianeta, quali la povertà estrema, i cambiamenti climatici o il degrado ambientale, sia a livello nazionale sia internazionale. La strada per costruire un mondo migliore è indicata da 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (la lotta alla povertà e alla fame; la promozione della salute, dell’istruzione di qualità, della parità di genere; l’accessibilità all’acqua pulita, ai servizi igienico-sanitari, all’energia pulita ecc.) e da 169 sotto-obiettivi. In occasione della 78esima Assemblea generale dell’Onu (che entra nel vivo il 19 settembre con il Dibattito generale) si fa il punto sullo stato di attuazione dell’Agenda 2030 a metà percorso. «Il bilancio è deludente», afferma Peter Messerli, professore di sviluppo sostenibile all’Università di Berna e direttore della Wyss Academy for Nature.
«Anche la Svizzera non sta facendo abbastanza. Da un lato manchiamo di coerenza politica e dall’altro tendiamo a ignorare il fatto che siamo un Paese globalizzato. Quando parliamo di aiuti pubblici allo sviluppo agiamo come se stessimo facendo un favore al resto del mondo invece di riconoscere la nostra profonda interdipendenza».
Con l’Agenda 2030 la comunità internazionale si è presa l’impegno di creare un mondo migliore e di non «lasciare indietro nessuno». A che punto siamo al giro di boa?
Prima di tutto voglio ricordare che il 2015 è stato un anno molto speciale. Si sono tenute tre importanti conferenze: quella sul clima di Parigi, quella sul finanziamento dello sviluppo ad Addis Abeba e infine, in autunno, quella sull’Agenda 2030 a New York. C’era aria di cambiamento e la volontà di creare un mondo migliore e più giusto. Si respirava un’atmosfera piena di contagioso ed euforico ottimismo. Se guardiamo ai risultati raggiunti da allora, il bilancio è deludente e non soddisfa certo le attese. Il rapporto intermedio del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, fa il quadro della situazione e ci ricorda che siamo sulla buona strada solo per il 12% degli obiettivi. Per la metà si sono registrati dei progressi che sono però insufficienti per raggiungere il traguardo. A deludere è soprattutto l’ultimo dato, ossia che per oltre il 30% degli obiettivi non si registrano miglioramenti: si marcia sul posto o addirittura si fanno passi indietro rispetto al 2015. Quando è stato stilato il primo rapporto globale sullo sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, di cui sono stato coautore nel
2019, il quadro era migliore. Come ha fatto ora il segretario generale dell’Onu, anche noi abbiamo suonato l’allarme perché eravamo in preoccupante ritardo.
Non è certo il risultato che ci si aspettava di trovare a metà del percorso. E ora? Come affrontare una situazione tanto allarmante?
Tutti concordiamo sul fatto che il risultato è insufficiente. Ma dobbiamo anche ricordarci cos’è l’Agenda 2030. È un quadro d’orientamento per la comunità internazionale, una sorta di bussola per lo sviluppo sostenibile. Indica la rotta da seguire per raggiungere il traguardo: un mondo migliore e più giusto. Il fatto che stiamo procedendo più lentamente rispetto al piano previsto non significa che dobbiamo buttare via la bussola. Nel 2023, in un’epoca in cui si registra una crescente fragilità del multilateralismo, questa bussola, questa visione è fondamentale per riuscire a mantenere la rotta.
Il traguardo è lontano e il tempo per raggiungerlo sempre meno… È vero, siamo ancora lontani, ma non dobbiamo dimenticare i progressi ottenuti. Fino al 2019 si sono registrati miglioramenti, ad esempio per quanto riguarda la riduzione della povertà, la scolarizzazione o il tasso di mortalità infantile. Negli ultimi tre anni la pandemia e la guerra di aggressione contro l’Ucraina da parte della Russia hanno ulteriormente rallentato l’attuazione dell’Agenda 2030, annullando molti progressi degli anni precedenti. In Perù, ad esempio, la crisi causata dal Covid-19 ha fatto scivolare nella povertà un milione di peruviani e peruviane. L’Ucraina e la Russia producono insieme circa un terzo dell’offerta mondiale di grano. Un Paese come l’Egitto dipende per oltre l’85% dai cereali di questi due Stati. A causa del taglio delle forniture sono aumentati i prezzi, la povertà, la fame.
A questo punto possiamo dire che l’Agenda 2030 è ormai fallita?
No, l’Agenda 2030 non è fallita. Il problema è la sua attuazione. È indebolita dalla mancanza di volontà politica dei singoli Stati di cooperare a livello multilaterale. Le Nazioni non intendono fissare regole del gioco che valgono a livello globale. È qui che la comunità internazionale fallisce. Voglio inoltre sottolineare un altro aspetto. Sappiamo che dobbiamo fare qualcosa contro il cambiamento climatico, la povertà, la fame e per salvaguardare la biodiversità. Ma quando, in Svizzera o in Amazzonia, si deve passare dalle parole ai fatti, ci si rende conto che la protezione ambientale potrebbe avere ripercussioni negative, ad esempio sui posti di lavo-
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)
ro, e viceversa lo sviluppo economico, come l’allevamento di bestiame, sulla natura. La difficoltà principale consiste nel valutare e risolvere con attenzione questi conflitti di interesse al fine di trovare, insieme alle parti interessate, soluzioni innovative che permettano di raggiungere gli obiettivi stabiliti. Questa incapacità sta paralizzando l’attuazione dell’Agenda 2030 ed è il problema più significativo.
A metà percorso verso il 2030, la comunità internazionale e i singoli Stati riusciranno a dare una svolta decisiva all’attuazione dell’Agenda 2030?
Questo cambio di direzione è difficile e non so se riusciremo davvero a invertire rotta. Tuttavia non abbiamo alternative perché più aspettiamo, più elevato sarà il costo da sostenere e più gravi saranno le conseguenze. Per dare realmente una svolta a questo processo dobbiamo stabilire due priorità. Prima di tutto non possiamo più limitarci a combattere i problemi in maniera isolata: il clima, la povertà, la disuguaglianza. Ci comportiamo come vigili del fuoco o come una madre che dà l’aspirina al figlio quando ha mal di testa. Dovremmo invece concentrarci sulle cause profonde dei problemi. E queste cause sono radicate nel nostro sistema: nel modo in cui ci alimentiamo, ci muoviamo e produciamo energia. Può sembrare presuntuoso, ma è essenziale avere il coraggio di trasformare questo sistema. In secondo luogo, e lo sottolineo in qualità di scienziato, urge un cambiamento. Non basta mettere un mattoncino sopra l’altro. La vera sfida è accelerare il cambiamento e
rafforzare le diverse leve del sistema in modo che si rafforzino reciprocamente. Ad esempio un’innovazione economica dovrebbe generare benefici ambientali che, a loro volta, migliorino le condizioni di vita della società. L’obiettivo è identificare queste leve per innescare una spirale virtuosa. Per illustrare la forza del cambiamento esponenziale, immaginate di fare venti passi della stessa lunghezza per attraversare una stanza. Se invece raddoppiate la lunghezza di ogni passo, dopo 13 passi raggiungerete New York e dopo 19 sarete sulla Luna.
Concretamente, quali decisioni della comunità internazionale potrebbero avere un impatto significativo sull’attuazione dell’Agenda 2030?
Secondo me ci sono quattro principali leve per modificare questi sistemi: commercio e finanza, governance, ovvero «le regole del gioco», comportamento individuale, e infine, scienza e tecnologia. Ognuna di queste leve può costituire parte del problema o della soluzione. Prendiamo ad esempio la necessità di trasformare il sistema finanziario. A causa della pandemia, l’indebitamento è cresciuto a tal punto che, in numerosi Paesi, il pagamento degli interessi sul debito supera l’ammontare degli aiuti pubblici allo sviluppo internazionale che ricevono. Invece di saldare gli interessi, questi soldi potrebbero essere impiegati per perseguire gli obiettivi dell’Agenda 2030. Un altro esempio riguarda il trasferimento di utili e l’evasione fiscale. I Paesi in via di sviluppo spostano ogni anno circa 80 miliardi di euro verso i paradi-
si fiscali. La somma che finisce in Svizzera è circa venti volte superiore a quanto la Confederazione investe nella cooperazione internazionale. E ci sono altri esempi grotteschi: attualmente i sussidi globali a favore delle energie fossili raggiungono circa un miliardo di dollari. Specialmente nel contesto attuale di cambiamenti geopolitici, i Governi sostengono l’uso di combustibili fossili invece di impiegare questi fondi per lo sviluppo delle energie rinnovabili e a favore della sostenibilità.
In questi giorni a New York si terrà l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, durante la quale si parlerà anche dell’Agenda 2030. Quali risultati si aspetta? Sinceramente non mi aspetto molto dato che attualmente il multilateralismo è in grave difficoltà. Tuttavia mi auguro un rinnovato impegno a favore del cambiamento sistemico che ho illustrato in precedenza. Prendiamo come esempio il Global Food Summit del 2021 che si è tenuto a Roma: l’attenzione non è stata focalizzata su singoli obiettivi come l’eliminazione della fame o della povertà, ma su come i vari Paesi possano trasformare i propri sistemi alimentari in maniera sostenibile. Durante la conferenza si è discusso del ruolo degli stakeholder, del settore privato e dei Governi. Ad esempio la Svizzera è rientrata dal vertice con l’impegno di riformare il proprio sistema alimentare. È questo tipo di approccio strategico che trovo promettente e che spero venga applicato in altri settori, come l’economia circolare, la transizione energetica e lo sviluppo urbano.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 18 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 27 azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch
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Simona Sala
Ecco quali sono in dettaglio i 17 obiettivi dell’Agenda 2023. (Onu)
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Chiesa cattolica e abusi: «Si continua a insabbiare»
Sono un migliaio, precisamente 1002, i casi di abuso e di violenza sessuale documentati nel contesto della Chiesa cattolica svizzera dal 1950 ai nostri giorni. Ma con la convinzione che si tratti solo della punta dell’iceberg. Perché, insieme, emerge un atteggiamento che vedeva le accuse «sistematicamente nascoste o banalizzate». E tuttora ben poco sembrerebbe cambiato. È la fotografia sconcertante emersa settimana scorsa con la presentazione del Rapporto sul progetto pilota per la storia degli abusi sessuali nel contesto della Chiesa cattolica, realizzato da un team di ricercatori dell’Università di Zurigo (guidato da Monika Dommann e Marietta Meier) su mandato della stessa Conferenza dei vescovi svizzeri. Un’indagine indipendente, andata avanti per un anno negli archivi delle diocesi elvetiche, da cui è emerso uno spaccato delle dimensioni del fenomeno ma anche della leggerezza con cui troppo a lungo questo problema è stato affrontato dai vertici della Chiesa cattolica.
Sono stati accertati i casi di 510 persone accusate (quasi tutti uomini, in buona parte sacerdoti) e 921 vittime (nel 74% dei casi minorenni). Non solo numeri, ovviamente, ma storie drammaticamente concrete. Come quella di Adriana (nome di fantasia) di origine italiana, del Cantone di Neuchâtel, cresciuta in una famiglia molto devota e devastata all’età di 9 anni, negli anni Ottanta, da «toccamenti molto inappropriati da parte del prete». Né lei né sua madre osarono sporgere denuncia, ma altri sì. «È sempre stato scagionato da qualsiasi illecito», ha anche fatto una «brillante carriera», ha raccontato in una testimonianza pubblicata sul sito della Chiesa cattolica svizzera. Aggiungendo: «Non riuscivo, e non riesco ancora oggi, a fidarmi pienamente delle persone, soprattutto degli uomini. Ho tentato il suicidio, ho attraversato una fase di autodistruzione».
Sono stati accertati i casi di 510 persone accusate (in buona parte sacerdoti) e 921 vittime (nel 74% dei casi minorenni)
Il quadro è evidentemente molto grave. Ma a renderlo ancora più pesante è il fatto che – poche ore prima della pubblicazione di questo Rapporto – è emersa anche la notizia di un’indagine vaticana in corso, che chiama in causa non il passato, ma la gestione attuale delle denunce nelle diocesi svizzere. A renderla nota è stato il «SonntagsBlick», spiegando che a farla scattare è stato proprio un sacerdote della Chiesa cattolica svizzera, Nicholas Betticher, già vicario generale della diocesi di Losanna, Ginevra e Friburgo ai tempi del vescovo Bernard Genoud. A essere chiamati in causa con l’accusa di aver commesso abusi sono un componente della Conferenza episcopale e tre sacerdoti, ma nella sua lettera Betticher fa i nomi anche di altri vescovi svizzeri – in carica ed emeriti – che avrebbero insabbiato alcuni casi.
A partire dalla lettera, già a giugno il Vaticano ha affidato un’indagine preliminare sulla vicenda al vescovo di Coira, mons. Joseph Bonnemain (lo stesso presule che aveva commissionato lo studio all’Università di Zurigo), mentre i casi di abuso citati nella lettera sono stati segnalati ai procura-
tori competenti, come previsto dalle norme stabilite da Papa Francesco. Adesso che la vicenda è venuta allo scoperto, però, Betticher – in un’intervista rilasciata sempre al sito internet della Chiesa cattolica svizzera – ha spiegato le ragioni del suo gesto, sostenendo che tuttora nelle diocesi sarebbe diffuso un atteggiamento che mira più a insabbiare lo scandalo che a offrire giustizia alle vittime.
«Anche oggi – ha dichiarato Betticher – quando ci sono commissioni (per la prevenzione degli abusi sessuali e la raccolta delle denunce, ndr.), si fa ben poco. Si limitano a trasmettere i casi che vengono segnalati al pubblico ministero. E quando quest’ultimo dichiara che il caso è prescritto, viene comunque archiviato nelle diocesi. Eppure il diritto canonico consente di revocare la prescrizione. Perché non lo si fa? Perché così potremmo scoprire verità che non vogliamo sapere. È un tipo di occultamento che viene fatto consapevolmente», conclude l’ex vicario della diocesi di Losanna, Ginevra e Friburgo. «E che non posso più accettare».
In tutta la vicenda un capitolo specifico riguarda anche il Canton Ticino: in apparenza, dai dati raccolti dall’Università di Zurigo, risulterebbe poco toccato nel numero di casi accertati. Ma a influenzare il quadro probabilmente è stato un altro fatto grave emerso: negli archivi della diocesi di Lugano vi sono state distruzioni di documenti che potrebbero averne eliminato tracce. Le ricercatrici hanno trovato prova di un’operazione di questo tipo in una lettera scritta nel 1997 dall’allora vicario generale Oliviero Bernasconi, in cui si racconta che negli ultimi mesi di vita il vescovo Eugenio Corecco avrebbe chiesto a un sacerdote di eliminare gli scritti conservati nel suo ufficio privato riguardanti i preti. Interpellato nell’ambito dell’indagine, il collaboratore in questione riferisce di non aver distrutto documenti riguardanti casi di abuso, sostenendo che quelli sarebbero stati conservati nell’archivio segreto della diocesi. In un altro scritto del 1999, però, un altro sacerdote riferisce all’allora vescovo Giuseppe Torti di aver fatto quanto gli era stato chiesto e cioè di aver distrutto – secondo lui «per misericordia» – della documentazione riguardante i preti in un
arco temporale di un secolo. Questo aspetto spinoso è stato affrontato in un’apposita conferenza stampa, convocata dalla diocesi di Lugano il 13 settembre, alla presenza dell’amministratore apostolico mons. Alain de Raemy e dal suo delegato
mons. Nicola Zanini. È stato riconosciuto che – pur ammettendo il diritto canonico alla distruzione di documenti dagli archivi – viene richiesta comunque la creazione di un registro di quanto eliminato, cosa che in questo caso non venne fatta e lascia dun-
que aperti i sospetti. L’incontro con la stampa è stato inoltre l’occasione per riferire che la commissione locale di esperti sugli abusi sessuali – istituita dal vescovo Pier Giacomo Grampa nel 2009, ma di fatto convocata solo dal suo successore Valerio Lazzeri nel 2016 – ha ricevuto in questi anni la segnalazione di appena 5 vittime «che sono state accolte e ascoltate con attenzione», ha precisato la diocesi.
Anche in questo caso, però, la convinzione diffusa è che quelle reali anche a Lugano siano molte di più. È stato lo stesso vescovo De Raemy a riconoscerlo: «Non bastano semplici scuse per superare questo passato su cui non si può e non si deve mettere una pietra sopra», ha dichiarato. «Non possiamo non metterci davanti alla grande sofferenza di chi ha subito questo trattamento dalla Chiesa. È un dovere di giustizia verso le vittime rimaste sole con la loro indescrivibile sofferenza». Per questo motivo il vescovo ha annunciato che visiterà ogni vicariato della diocesi mettendosi personalmente a disposizione di chi desideri denunciare violenze subite, in qualsiasi periodo, e che ora trova la forza di raccontare. «Per chi invece non volesse più avere a che fare con la Chiesa, e si capisce – ha aggiunto – lo invito a rivolgersi al Servizio per l’aiuto alle vittime di reati del Cantone».
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Vaticano ◆ Accanto allo sconcertante Rapporto reso noto la settimana scorsa, un’indagine chiama in causa la gestione attuale delle denunce nelle diocesi cattoliche svizzere. In Ticino si parla di distruzione di documenti di archivio al tempo del vescovo Torti
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Non è tutto rose e fiori
Italia ◆ L’alleanza tra Meloni e Salvini fa acqua. Ecco i punti di frizione
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Potesse muoversi da una capitale straniera all’altra, la poliglotta Meloni (nella foto insieme a Salvini) volerebbe nei consensi, con l’eccezione forse di Parigi. Invece le tocca misurarsi sullo sdrucciolevole terreno di casa, dove il rischio di scivolare cresce di giorno in giorno. E a darle pensieri non è l’evanescente Schlein, rappresentante di un’opposizione così innocua da rasentare l’autolesionismo, bensì i due alleati di Governo, Salvini e Tajani, pronti a ogni trabocchetto nel terrore di essere ingoiati dall’infernale macchina elettorale del presidente del Consiglio (il maschile lo pretende lei). Il punto d’arrivo sono infatti le elezioni europee della prossima primavera, quando Fratelli d’Italia (FdI) conta sia di superare il 30%, erodendo consensi proprio a Lega e a Forza Italia, sia di approdare nel nuovo Governo dell’Ue.
Ma già l’autunno si annuncia infido. Malgrado la cancellazione del Superbonus edilizio, risoltosi in una mezza truffa, e del Reddito di cittadinanza, che invece è servito nonostante gli imbrogli, mancano i soldi per ridurre le tasse. La manovra di bilancio si annuncia dunque sparagnina, lontana dalle promesse dei mesi scorsi, bisognosa di essere supportata togliendo i finanziamenti ad altre iniziative. E qui ci sarà il cozzo con la Lega. Meloni, infatti, vorrebbe risparmiare con il rinvio dell’autonomia regionale, della riforma pensionistica, del Ponte sullo
Stretto. Cioè, le tre battaglie identitarie di Salvini, al quale resterebbe solo il bacetto con la propria bella sul red carpet del festival cinematografico di Venezia. Un po’ poco per chi doveva rimandare gli immigranti a casa loro, bloccare le navi delle Ong, decidere il nome del capo dello Stato, rilanciare le infrastrutture, trasformare l’Italia in una Nazione federale, varare la tax flat.
Lo sbugiardato difensore della razza si trova pure escluso dalla cabina di regia sui flussi dei richiedenti asilo, da sempre il suo argomento preferito. Assieme a lui è stato accantonato anche il ministro dell’Interno Piantedosi, che ha continuato a comportarsi da capo di gabinetto di Salvini, dal quale era stato imposto nel prestigioso ruolo. Le conseguenze sono sotto gli occhi tutti. In otto mesi sono sbarcati oltre 100 mila sventurati, il doppio rispetto a un anno addietro, quasi il triplo degli anni nei quali Salvini sbraitava contro i Governi incapaci, a suo dire, di affrontare l’emergenza. Della gestione adesso dovrà occuparsi il sottosegretario alla presidenza del consiglio Mantovano, un ex magistrato moderato, di cui Meloni si fida tantissimo. Lo aspetta una prova rabbrividente: gli accordi con i libici sono oramai carta straccia; quelli con la Tunisia vengono addirittura boicottati dallo stesso presidente Saied. Gli scogli sono numerosi: disciplinare gli arrivi; evitare altre stragi
in mare tipo quella di Cutro, nell’anno in corso ci sono già 2mila morti nel Mediterraneo; ricavare la manodopera necessaria per le imprese italiane e si parla di circa 500mila addetti.
Le rivalse di Salvini sono state tanto plateali quanto prive di sostanza. Ha difeso con energia un bislacco generale, Vannacci, che ha autopubblicato un libro disgustosamente razzista: nel proclamarsi discendente da Giulio Cesare, di cui ignora l’accentuata bisessualità, si pronuncia contro gli omosessuali, contro gli italiani dalla pelle scura, contro il mondo LGBTQI. Opinioni tali da indurre il ministro della Difesa, Crosetto, che di FdI è stato uno dei fondatori insieme con Meloni, a destituire il generale. Salvini gli ha subito fatto sapere di essere pronto ad accoglierlo a braccia spalancate nella Lega e di volerlo candidare alle Europee. Meloni pubblicamente non ha aperto bocca, ma in privato ha accusato l’alleato di slealtà. Lo stesso comportamento Salvini l’ha tenuto con l’ex ministro ed ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, un ex potente della destra nostalgica, che ha avuto qualche guaio con la giustizia. Porte aperte nel convincimento che Alemanno, con un passato anche in FdI, possa portare voti dal bacino elettorale meloniano. Il banco di prova più impegnativo saranno i poveri. Secondo l’ultimo rapporto Censis sono oltre 5’600’000. Diventano 10 milioni con
quelli che non raggiungono fine mese. Rappresentano quasi il 17% dell’intera popolazione italiana. In questa massa coloro che hanno perso il lavoro; piccoli commercianti e artigiani che hanno dovuto chiudere bottega; le persone impiegate nel sommerso prive di particolari sussidi, di aiuti pubblici e senza risparmi da impiegare; i salariati a tempo determinato o con attività colpite dalla crisi legata ai costi dell’energia e agli effetti del cambiamento climatico, come dimostra anche il caso dell’Emilia-Romagna. Tra i 2’100’000 ricorrenti all’assistenza sociale per mangiare almeno una volta al giorno 630mila hanno meno di 15 anni; 356mila più di 65 anni. Per chi lo percepiva, il reddito di cittadinanza rappresentava l’ultima difesa dalla fame. Purtroppo il Governo non lo ha validamente sostituito, anzi discute sul salario minimo in un Paese dove regnano il nero, lo sfruttamento e l’evasione fiscale (100 miliardi l’anno).
Incombono l’inflazione e soprattutto la crisi demografica, però il chiodo fisso del centrodestra rimane
la contesa elettorale del 2024. Per la prima volta le Europee sono equiparate alle elezioni nazionali. FdI e Lega si giocano i futuri rapporti, mentre Forza Italia rischia addirittura di sparire. Morto Berlusconi, è stata affidata all’evanescente Tajani, che da ministro degli Esteri ha appena combinato il pasticcio di Roma: il presunto incontro segreto fra i due parigrado d’Israele e della Libia ufficiale ha scatenato una rivolta a Tripoli e polemiche violentissime a Tel Aviv. Un terzo dei parlamentari forzisti è tentato dalla Lega, un terzo da FdI e l’ultimo terzo non sa a quale santo votarsi. Meloni se li coccola per impedire che si rivolgano alle formazioni centriste di Calenda, di Renzi e le creino grattacapi al Senato, dove la maggioranza ha margini ristretti. Loro si consentono qualche raro distinguo. Hanno alzato la voce solo per la finta tassazione degli extra profitti bancari. Gli eredi di Berlusconi temevano di perdere i cospicui dividendi in arrivo da Banca Mediolanum e i dipendenti in Parlamento si sono subito adoperati.
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Le perdite involontarie di urina
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Facciamo caso alla nostra vescica più volte al giorno, puntualmente ogni volta che sentiamo il bisogno di svuotarla. È molto elastica e può contenere un litro abbondante di urina. Ma una donna su tre e un uomo su dieci ha a che fare con una vescica debole. Questo può portare a un fastidioso gocciolamento o addirittura a un improvviso e forte bisogno di urinare. È sempre importante consultare un medico perché le ragioni sono molto diverse. Se la causa è nota, esistono buone opzioni di trattamento. Inoltre, i prodotti speciali per l’igiene aiutano nella vita di tutti i giorni.
Incontinenza da sforzo
L’incontinenza da sforzo è la perdita involontaria di urina quando la pressione nell’addome aumenta. È il caso, ad esempio, dello stress fisico.
La perdita di urina può essere
molto lieve, con poche gocce, ma può anche verificarsi una perdita di urina nel flusso. In genere, chi ne soffre non avverte in anticipo lo stimolo a urinare. Le cause dell’incontinenza da sforzo risiedono solitamente nell’indebolimento dei muscoli del pavimento pelvico. Ciò può verificarsi a causa dell’età, ma anche a seguito di lesioni o operazioni. Per le donne più comunemente colpite da questa forma di incontinenza, questo fenomeno è spesso anche una conseguenza della gravidanza e del parto.
Incontinenza da urgenza Con l’incontinenza da urgenza, chi ne è affetto avverte ripetutamente uno stimolo improvviso ed eccessivamente forte a urinare, anche se la vescica non è ancora piena. Spesso non fanno in tempo ad andare in bagno. L’urina esce a fiotti. Questo improvviso stimolo a urinare può verificarsi molto frequentemente, a volte anche più volte all’ora. La causa: la vescica non riesce più a immagazzinare abbastanza urina e quindi invia al cervello il segnale «vescica piena» anche se ne viene prodotta solo una piccola quantità. Il risultato è uno stimolo improvviso e a malapena sopprimibile a urinare, che può portare a una minzione involontaria.
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In questa variante, la vescica non riesce più a svuotarsi correttamente a causa di un’ostruzione (prostata ingrossata, prolasso uterino o fibromi) o di un danno nervoso e rimane eccessivamente piena per lungo tempo. Di conseguenza, si verifica uno sgocciolamento permanente di urina, come un rubinetto che perde.
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● Mangiare sano
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Quando riprenderà a scorrere la linfa vitale?
Marocco ◆ Ripercorriamo la storia di un Paese in ginocchio dopo il sisma. Intanto l’Africa arabo-berbera piange anche per la Libia
Alfredo Venturi
Per una trentina di secondi la sera dell’8 settembre la terra ha tremato nel Marocco attorno a Marrakech, la più maestosa fra le città imperiali che la storia ha allineato nel cuore del Paese. Un’intensità paurosa, più di sette gradi Richter. Trenta secondi e un mondo è crollato, uno stesso crudele destino si è accanito contro i celebri monumenti civili e religiosi e i poveri villaggi delle montagne circostanti fatti di materiali polverizzati dalla scossa. Cifre incerte e drammaticamente protese verso l’alto nel computo delle vittime: 2500, 3000 (settimana scorsa), chissà quante alla fine. Migliaia di sopravvissuti faticosamente estratti dalle rovine assieme ai resti di quelli che non ce l’hanno fatta. E una folla di turisti strappati all’incanto di un luogo carico di storia e di cultura. Mentre le squadre di soccorso frugano nel disastro per salvare i salvabili si delinea l’oscura prospettiva di un futuro enigmatico: ci si chiede quando riprenderà a scorrere la linfa vitale fin qui alimentata da quel patrimonio d’arte e di civiltà.
Quello che può considerarsi uno fra i terremoti più disastrosi consegnati alla storia ha colpito un Paese che nel contesto febbricitante dell’Africa settentrionale cerca di mostrare al mondo una relativa stabilità. È retto da una delle più antiche fra le monarchie superstiti, da circa cinque secoli siede sul trono la dinastia alawide
che vanta una diretta discendenza dal Profeta. Il sovrano è strettamente connesso con il potere religioso, non a caso porta il titolo di Comandante dei credenti. Questa posizione è insidiata dal radicalismo islamico che serpeggia anche in Marocco, nonostante la versione liberaleggiante e moderna della tradizione musulmana che prevale nel Paese grazie al sufismo.
L’esperienza coloniale ha per così dire soltanto sfiorato il Marocco, è stata quasi un incidente di percorso lungo la sua storia pluricentenaria. Accadde nella prima metà del Novecento, quando l’antico sultanato arabo e berbero conteso dalle potenze europee ebbe per alcuni decenni lo status di protettorato francese. Reciso quel legame, incompatibile con un orgoglio nazionale fondato su secoli di storia, il Marocco si è liberato nel 1956 da ogni limite alla piena indipendenza e ha ripreso fra mille difficoltà il suo cammino di Stato sovrano.
Tre anni prima l’ultimo sultano Mohamed V, dopo aver subito l’esilio in Madagascar per avere incoraggiato l’Istiqlal (Partito dell’indipendenza, che intendeva anticipare i tempi verso la transizione alla piena sovranità) era tornato sul trono assumendo il titolo di re, poi trasmesso al figlio Hassan II e al nipote attualmente in carica, Mohamed VI. Entrambi attenti alle pulsioni verso la modernità ben presenti nella società marocchina, ma
anche sfidati da una persistente crisi economica e sociale. Le restrizioni imposte dal Fondo monetario per garantire gli aiuti al dissestato bilancio statale portarono a sollevazioni popolari duramente represse. Negli anni di Hassan II il Marocco era un Paese irto di contraddizioni. Dominava a corte il generale Mohamed Oufkir, braccio destro del re e per un certo periodo ministro dell’Interno e della Difesa. Era solito usare con estrema disinvoltura i suoi estesi poteri. Oufkir è l’uomo che probabilmente fu all’origine della misteriosa scomparsa a Parigi del politico dissidente
Mehdi Ben Barka. È l’uomo che si mise in testa di abbattere l’aereo che trasportava il leader libico Gheddafi, ma fu proprio un ordine del re a dissuaderlo dall’impresa. Alla fine tradì il suo sovrano facendo sparare sul suo aereo. Finì con un plateale suicidio nel palazzo reale di Rabat, dopo aver tentato invano di farsi ricevere dalla sua vittima designata.
Al momento della successione al trono l’attuale re Mohamed V ereditò dal padre Hassan un Paese ai ferri corti con l’Algeria. Oggetto del contendere, al di là del fossato ideologico, il fatto che Algeri sosteneva il Fronte
Polisario contro le mire marocchine sul Sahara occidentale ricchissimo di fosfati. Ancora oggi un muro fortificato e invalicabile, la più lunga fra le barriere che oltre trent’anni dopo la riunificazione di Berlino continuano a sfigurare il mondo, separa i territori contesi del Sahara.
La rivalità fra le due massime potenze del Maghreb si riflette anche sulle cronache successive al disastroso terremoto. All’offerta di soccorsi proveniente da Algeri, il Governo marocchino non ha risposto, limitandosi in una prima fase ad accettare i soli aiuti provenienti dal Regno Unito, dalla Spagna, dal Qatar e dagli Emirati Arabi Uniti. Anche la disponibilità manifestata da Parigi, che era pronta a inviare uomini e materiali per affiancare i soccorsi nelle aree terremotate, è caduta in un imbarazzante vuoto diplomatico.
Intanto l’Africa arabo-berbera piange altre vittime di disastri naturali: mentre si scava fra le macerie di Marrakech arrivano dalla Libia notizie di morte per una volta slegate dalla guerra civile che imperversa nel Paese: una inconsueta tempesta tropicale, che una volta ancora chiama in causa la degenerazione climatica, ha fatto crollare due dighe a monte di Derna. La Libia desertica e assetata travolta dalle acque! Il bilancio è incerto: si parla di decine di migliaia di persone uccise dall’inondazione.
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L’Anello del Nibelungo al Theater Basel
L’apertura della stagione a Basilea nella Sala Grande del Teatro è stato un evento per la città che vede tornare a splendere sul Reno l’oro della Tetralogia wagneriana
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Gli artisti sono filosofi contemporanei
Intervista ◆ Vittoria Matarrese ci racconta spirito e progetti per la nuova Villa Heleneum
Lungo quel tratto di lago che da Castagnola porta a Gandria, la Fondazione Bally ha aperto lo scorso aprile la sua nuova sede luganese. Fortemente voluta dal CEO della casa di moda svizzera, Nicolas Girotto, la fondazione che ha trovato casa presso Villa Heleneum è diretta da Vittoria Matarrese (nella foto) che per dodici anni è stata a capo della sezione di arti performative del Palais de Tokyo, il museo di arte contemporanea della città di Parigi. In un’intervista con lei scopriamo di più sul progetto luganese.
Com’è iniziata la sua esperienza con la Fondazione Bally?
Per caso, quando Nicolas Girotto cercava qualcuno per dirigere la fondazione. Dopo questo incontro, si è capito che potevamo fare qualcosa insieme. Quando ti si propone un progetto così incredibile non puoi esitare un attimo. Una fondazione, come una pagina bianca, in cui tutto è da scrivere, non è un’occasione che capita mille volte in una vita. In più, su un paesaggio così bello. È stato per me un colpo di fulmine e ho subito realizzato che dovevo aprire una fondazione e al contempo pensare a una prima mostra. Quando ho cominciato a riflettere sui temi possibili, il paesaggio è stato un elemento preponderante, perché il mio rapporto con questo luogo è essenzialmente legato alla natura che lo circonda, al modo in cui la villa è stata concepita. Quindi è nata una riflessione sul lago che circonda la villa. Da subito l’ho percepito come un passaggio interiore, poiché credo che susciti una forma di introspezione molto profonda. Un lac inconnu, il titolo della mostra che si potrà visitare ancora fino al 24 settembre, è una frase di Proust che voleva definire il subconscio, indicandolo proprio come le acque di un lago sconosciuto. Quindi ho stabilito questo legame fra paesaggio esterno e un paesaggio più intimo e personale. L’idea poi è stata che ogni artista rispondesse in maniera personale a questa sollecitazione. Quindi i paesaggi che sono presentati sono tanti e variamente articolati. È così che ha avuto inizio l’avventura alla Fondazione Bally.
Villa Heleneum ha una storia particolare. Quale rapporto state provando a costruire con questo luogo?
A volere la villa è stata la ballerina tedesca, Hélène Bieber, che lavorava in Francia ma risiedeva in Svizzera. Stiamo provando a ricostruire il puzzle della sua vicenda. Era un personaggio haut en couleurs, pittoresco. Lei aveva voglia di creare qui un luogo dove ricevere artisti e intellettuali, una specie di salotto culturale. L’idea è di rispettare l’anima del luogo,
cioè di ricevere, di dare e di offrire cultura nel rispetto dell’architettura del luogo. L’architetto tedesco Hugo Dunkel, incaricato dalla Bieber di realizzare l’edificio, fu molto bravo: all’epoca la tecnica per avere delle aperture sull’esterno così grandi non era molto sviluppata. Lui, invece, ha pensato a una struttura dei soffitti con inserimento di travi in metallo per poter avere finestre molto ampie, facendo poi abbassare tutte le ringhiere per garantire la vista migliore possibile sul panorama. È una dimora completamente rivolta verso il paesaggio, pensata per il paesaggio, con una suite di saloni uno di seguito all’altro.
Che anni erano? So che qualche luganese ricorda ancora di avere incontrato la proprietaria. La villa viene costruita fra il 1930 e il 1934, prendendo a modello il Petit
Trianon di Versailles. Lei in realtà ne approfitterà pochissimo, considerato che la guerra porterà molte persone a lasciare Lugano e la Svizzera. Si presentava ai suoi ospiti con mise di grande effetto, una specie di Eleonora Duse. Secondo me c’era anche un tentativo di emulare la situazione che si era andata a creare al Monte Verità, dove soggiornava la grande ballerina Isadora Duncan. Paradossalmente in quegli anni ci fu un’ondata fortissima di libertà culturale, che sarebbe ritornata solo negli anni Settanta. Nel mezzo tutto si richiuse su sé stesso, all’insegna del rigore. Ma prima si era andata a definire una sorta di specificità ticinese, con luoghi di questo genere, grazie soprattutto alla presenza degli artisti che vi confluivano da fuori. Mi piacerebbe tanto seguire la falsa riga di queste esperienze e creare un luogo davvero ospitale per artisti e pubblico, dove si possa riflettere sull’arte contemporanea.
Il mito del Ticino terra d’artisti si scontra però spesso con il contesto locale, che non per forza recepisce questi impulsi. Spesso questi artisti dovevano e devono lottare per integrarsi con il territorio… Questo è sempre il problema dei territori in cui vi è una grande borghesia che certo ammira gli artisti, ma pur sempre da lontano. Perché è difficile vivere e seguire il quotidiano degli artisti, che hanno idee e modi di vivere fuori dall’ordinario. Quindi si finisce spesso per non capir-
li. Spero che effettivamente la Villa Heleneum possa fare da tramite tra un territorio classico e una proposta un po’ più audace. Perché effettivamente ci sono diversi centri d’arte sul territorio, ma si tratta in prevalenza di realtà istituzionali. L’idea per noi è di andare a lavorare su ambiti che siano meno istituzionalizzati, avendo libertà di proporre attività che non sempre sono possibili nel pubblico. Io vengo dal mondo delle istituzioni pubbliche, dove so essere necessario rispettare certi criteri. Qui invece possiamo sperimentare cose diverse.
Fatta la prima mostra avete già in mente una programmazione?
È un po’ complicato pensare a tutto allo stesso tempo, al programma delle attività e all’organizzazione della Fondazione ma sto già preparando le prossime due mostre. L’idea iniziale era di averne due all’anno: un group show da inaugurare in primavera e un solo show in autunno, quindi una mostra più introspettiva per l’inverno e qualcosa di più semplice e collettivo per l’estate. Per l’autunno alle porte stiamo preparando un’esposizione con un’artista saudita, Sara Brahim che vive negli Stati Uniti. Credo molto in lei: siamo i primi a offrirle una mostra personale in Europa e forse nel mondo.
Che cosa le piace del suo lavoro?
Sara Brahim viene dalla danza per poi abbracciare le arti visive. Ma la sua provenienza è ancora ben riconoscibile: c’è in lei qualcosa di mol-
to particolare, seppur così giovane è un’artista con un’immensa spiritualità. Poi mi piaceva questo clin d’oeil a Hélène Bieber grazie al legame con la danza. In primavera mi piacerebbe invece proporre una riflessione più sostenuta sull’ecologia, sulla natura, magari integrando anche altri territori della città oltre a Villa Heleneum. Si potrebbe tracciare una sorta di percorso di approfondimento nella natura attraverso la sguardo degli artisti. Nel contempo stiamo creando una serie di programmi paralleli, come talk, manifestazioni, atelier per le scuole, da svolgersi a partire dall’autunno.
Per il futuro su cosa le piacerebbe lavorare?
È proprio il contesto che mi interessa: già di base non volevo una fondazione senza radici, perché credo che i luoghi meno interessanti al mondo siano quelli con mostre che potresti vedere identiche a New York, a Tokyo o in qualsiasi altro paese. L’idea è proprio quella di mettere radici, di ragionare entro una geografia, quindi lavorare sul lago, la montagna, la natura, il contesto storico e culturale, la spiritualità che questo luogo sa suscitare e il suo passato. Il tutto calato in un contesto contemporaneo: vorrei invitare artisti in residenza, per farli lavorare su tematiche che esistono solo qui. Loro, gli artisti, sono i filosofi contemporanei, persone che ci aiutano a guardare e ad analizzare il mondo con occhi nuovi.
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Mel O'Callaghan, Respire, Respire (2019), tra le opere in mostra fino al 24 settembre a Villa Heleneum.
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La musica, reticolo di percorsi
Concerti ◆ Etienne Reymond racconta la nuova stagione di LuganoMusica
Enrico Parola
Per il direttore artistico Etienne Reymond, il programma di Lugano Musica va sfogliato come un libro di storia. Non per asseverare il teorema «classica = passato, vecchio, inattuale», cui ovviamente è contrario, ma perché «guardando retrospettivamente i nove anni di vita del Festival –inaugurato nell’autunno 2015 assieme al LAC – non ci siamo mai sottratti a un compito essenziale: rispondere alle domande che la storia musicale pone. Quando è iniziata la storia della musica? Da quale momento e in quale modo il fare musica è diventato parte integrante della cultura umana? E poi tutte le conseguenti domande sui singoli compositori e sulle loro opere, sulle epoche, gli stili, i linguaggi, i generi che hanno caratterizzato nei secoli l’evolversi della musica, la sua concezione e la sua fruizione. Ovvio, se per “inizio della cultura musicale” si intendono i messaggi sonori che nella preistoria venivano inviati con tamburi di pelle o flautini d’osso, ammetto che non ci siamo spinti così in là. Ma se, come fanno tanti, ne leghiamo l’inizio alla notazione dei suoni – una scrittura consapevole di sé e del proprio significato poetico-stilistico – possiamo dire di aver preso le mosse da quel dodicesimo secolo in cui vissero Lenoninus e Perotinus, spingendoci poi costantemente fino al nostro presente».
I due giganti attorno a cui orbita la girandola di direttori, orchestre e solisti attesa sul palco del LAC, a partire da questa sera, sono Bach e Beethoven
Per Reymond anche la stagione 20232024 «rinnova questo dialettico e trasversale rapporto con la storia della musica, in un abbraccio di quasi quattro secoli che dal 1692, quando Henry Purcell scrisse The Fairy Queen, arriva fino ai giorni nostri»; specificando una peculiarità del cartellone: «Come ogni vicenda umana, anche quella della cultura musicale non è una linea retta, ma piuttosto un reticolo di percorsi che si incrociano e si allontanano. Così il nuovo cartellone offre alcune linee tematiche e di contenuto che coabitano – a volte in parallelo, a volte sovrapponendosi – creando relazioni fertili e virtuose». I due giganti attorno a cui orbita la girandola di direttori, orchestre e solisti attesa sul palco del LAC a partire da questa sera sono Bach e Beethoven, a ognuno dei quali sarà dedicato un ciclo di quattro conferenze tenute da musicologi come Giuseppe Clericetti e Fabio Sartorelli. Il nome di Beethoven ricorre in otto programmi, in nove quello del sommo Johann Sebastian, a iniziare dall’Offerta musicale e due Concerti per clavicembalo accostati da Ton Koopman e l’Amsterdam Baroque Orchestra, eccellenze mon-
Metodo e territorio
In memoriam ◆ Un ricordo di Ottavio Lurati
Stefano Vassere
Di Ottavio Lurati, che ci ha lasciati qualche giorno fa, e della sua opera di docente universitario e di ricercatore, è bene ricordare un paio di qualità. Dapprima il merito di avere avviato, presto e insieme a pochi altri, studi moderni nell’ambito dell’indagine sulle lingue e sui dialetti, in prospettiva certamente dialettologica e storica, ma anche e con maggiore vigore di metodo sociolinguistico. Erano anni nei quali l’esame dei sistemi linguistici calati nel contesto della società, già discretamente maturo nel mondo anglosassone, muoveva in quello panitaliano solo malfermi passi; e però furono anche epoche nelle quali, grazie a due opere fondanti come Dialetto e italiano regionale nella Svizzera italiana dello stesso Lurati del 1976 e Lingua matrigna di Sandro Bianconi del 1980, la realtà di studi a noi più prossima si impose per strumenti di indubbia efficacia, che fecero scuola in tutta Italia, specie nel settore della lessicologia regionale.
e Giacomo Devoto, e più tardi Tullio De Mauro e Luca Serianni, per restare alle personalità più prossime. Prendendo avvio da quell’età della disciplina, Lurati seppe sviluppare un suo metodo, che esercitò con profitto in vari ambiti della materia: dalla lessicologia all’etimologia, all’onomastica e alla toponomastica, alla fraseologia, allo studio delle parole nuove. Tutti terreni che praticò con un piede nella tradizione dell’indagine archivistica e documentaria e un altro già accreditato nei territori del sondaggio sul campo, prima dialettologico e poi decisamente sociolinguistico.
diali dell’interpretazione non solo bachiana ma in generale del barocco.
Accanto a grandi classici come le Suite per violoncello affidate a Julia Hagen, il Capriccio sopra la lontananza del fratello dilettissimo che apre la monografia impaginata dal cembalista Stefano Molardi, o la Johannes-Passion scolpita da Diego Fasolis con i suoi Barocchisti e il coro della RSI, spiccano alcune proposte curiose come le Variazioni Goldberg trascritte per duo di chitarre da Thibaut Garcia e Antoine Morinière (nella foto), oppure l’Arte della fuga affidata al quartetto Casals e il Bach to Beatles immaginato al pianoforte da Antonio Ballista. Altre pagine compaiono nei recital pianistici di Andras Schiff i Gile Bae, che l’accosterà alla Sonata op. 31 n. 3 di Beethoven. Altre quattro Sonate, tra cui la Patetica e la Waldstein, verranno antologizzate da Rudolph Buchbinder, virtuoso che ha legato la sua lunga carriera al genio di Bonn: non solo ha eseguito decine di volte tutte e 32 le Sonate, ma è arrivato anche ad eseguire tutti i cinque concerti per pianoforte e orchestra in una sola giornata.
A Lugano a maggio risuonerà l’ultimo e più famoso, l’Imperatore: per l’occasione Emmanuel Ax sarà accompagnato da Vladimir Jurowski e la Bayerisches Staatsorchester. Nel concerto inaugurale di giovedì 21 settembre Daniele Gatti e l’Orchestra Mozart accosteranno la quarta e la quinta sinfonia, mentre la settima sarà affrontata da Charles Dutoit sul po-
dio della European Philharmonic of Switzerland. Come sottolinea Reymond, il cartellone è un reticolo dove i percorsi si intrecciano continuamente: se Bach e Beethoven caratterizzano quindici serate, gli stessi interpreti – direttori, orchestre, solisti – ampliano la storia «suonata» quest’anno da LuganoMusica. Dutoit accompagnerà Martha Argerich in uno dei suoi concerti più amati e frequentati, quello di Schumann, e aprirà la serata con Le tombeau de Couperin di Ravel, autore cui si dedicheranno Riccardo Chailly e la Filarmonica della Scala con Une barque sur l’océan e le due suite da Daphnis et Chloé, intervallate da Et expecto resurrectionem di Messiaen, uno degli autori prediletti dal maestro milanese e compositore che porta il cartellone verso i linguaggi più recenti. Fin dalle prime edizioni Reymond ha voluto offrire saggi delle più recenti frontiere raggiunte dai linguaggi musicali, anche con brani appositamente commissionati; «Quest’anno celebriamo anche due ricorrenze: i cent’anni dalla nascita di György Ligeti, con il LuganoMusica Ensemble e l’Ensemble 900 presente del Conservatorio della Svizzera italiana, e gli ottanta dalla nascita del compositore luganese Francesco Hoch, dedicatario di un concerto monografico».
Informazioni
Per tutte le info sulla programmazione: www.luganomusica.ch
Il carattere precoce e per molti aspetti in anticipo degli studi sulla Svizzera italiana, soprattutto sull’emergere delle varietà regionali dell’italiano marcate nei suoni e nelle parole; la tensione continua tra i due codici egemoni, il dialetto/i dialetti da una parte e l’italiano dall’altra; il ruolo del tessuto sociale nel determinare i fenomeni linguistici; questo stesso ruolo nel dominio geografico svizzero, ulteriormente condizionato dal convivere delle sue comunità linguistiche. Sono direzioni di ricerca oggi molto praticate, che ci paiono scontate, ma che allora dichiararono un indubbio carattere pionieristico.
Ottavio Lurati fu poi anche, per anagrafe, una figura di mediazione e di testimonianza, cresciuta in una tradizione di studi gloriosa e che annoverò gran parte dei nomi migliori della linguistica del Novecento, che si sviluppò poi alla luce di nuove acquisizioni nel periodo a cavallo tra il secolo scorso e quello presente: Walther von Wartburg, Bruno Migliorini
Da quest’ultimo aspetto, dalla frequentazione della lingua calata nel contesto sociale, da questa linguistica che si occupa di «come parla la gente sul terreno», egli trasse poi uno dei suoi benefici più importanti, che diventò ben presto una sua qualità: la collaborazione con referenti locali e la sua proficua messa a frutto. Molti lavori di Lurati (nella valle Bedretto, nella valle Verzasca, a Biasca e nella valle Pontirone, altrove) devono gran parte della loro base documentaria a un lavoro partecipato tra lo studioso e una voce locale; una non comune lealtà dell’accademico, che vede l’approdo in volume puntualmente firmato insieme.
Per finire, è prorio quest’ultima attitudine, che non si può che definire l’espressione di una esplicita generosità d’animo, a richiamare un altro tratto di Ottavio Lurati, questa volta decisamente personale. Ottavio Lurati era anche fornito di una buona dose di abilità empatica, nell’attività di ricerca e nel rapporto interpersonale; un’autentica ricca personalità, capace di notevoli dimostrazioni di cordialità e di amicizia; un accademico riconosciuto che non si risparmiava per esempio nel manifestare esplicitamente l’apprezzamento dell’opera altrui, qualità decisamente non comune negli ambienti della ricerca. Anche in questa sua veste, Ottavio Lurati mancherà alla comunità dei linguisti.
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Quel che sapeva Brunilde
Opera ◆ Dopo quarant’anni torna sulla scena Der Ring des Nibelungen di Richard Wagner
Sabrina Faller
È stata una vera e propria festa l’apertura della stagione a Basilea nella Sala Grande (Grosse Bühne) del Teatro e un evento per la città, che vede tornare a splendere sulle rive del suo Reno l’oro della Tetralogia wagneriana. Das Rheingold , andato in scena il 9 settembre con repliche previste fino al 6 ottobre e una ripresa a giugno, ha convinto un pubblico da sempre abituato a letture innovative dei classici e dunque aperto a sguardi non convenzionali e non tradizionali.
Tutta la vicenda è osservata dal punto di vista di Brunilde, figlia di Wotan e futura sposa di Sigfrido, figura chiave di una saga familiare che lei stessa racconta, utilizzando la narrazione in prosa. Fin dall’inizio del dramma, anzi, prima ancora dell’inizio del celebre preludio, Brunilde è in scena e racconta, fisicamente presente, la voce registrata: buona soluzione, in quanto non turba l’atmosfera del dramma in musica, ma la amplia senza immergerci dentro uno spettacolo in prosa.
Durante lo svolgersi del dramma in musica, Brunilde torna a farsi sentire con il suo racconto attraverso brevi interventi parlati
Il dramma inizia dunque dalla fine, dopo Götterdämmerung, dopo che il Walhalla è andato in fiamme. La valchiria si appresta a raccontare come siamo arrivati a questo. Racconta di Wotan, il patriarca, e dei suoi rapporti con i familiari, in particolare del suo affetto per il piccolo Sigfrido, colto nel giorno della festa per il suo quinto compleanno. Il passaggio dal racconto alla musica è morbido e il Vorspiel ci pone di fronte a una casata turbolenta, i cui membri manifestano un’inquietudine solo parzialmente repressa. Wotan mostra a Sigfrido come è accaduto che il nibelungo Alberich rubasse l’oro dal fon-
do del Reno alle tre Ondine che lo custodivano, e gli insegna a uccidere il drago con una spada giocattolo. Poiché si rivolge a un bambino, i personaggi – le tre ondine – sono evocati attraverso i pupazzi di un teatrino per burattini, ma anche «interpretati» sul palcoscenico centrale da grandi marionette ad asta mosse in scena a vista, mentre il nano ladro è un enorme rospo dai movimenti pachidermici. Le cantanti seguono le marionette, mentre la voce di Alberich proviene da una sezione laterale del palco, soluzione problematica, data la gamma di passioni che il nano dovrebbe esprimere e che trova difficoltà a manifestarsi nello sdoppiamento fra voce cantante e rospo claudicante. Durante lo svolgersi del dramma in musica, Brunilde torna a farsi sentire con il suo racconto attraverso brevi interventi parlati – sempre registrati – che evidenziano il deteriorarsi dei rapporti tra i vari personaggi, mettendo in pausa l’opera senza stravolgerla.
La scena è unica e caratterizzata da elementi che ritroveremo nei successivi tasselli della Tetralogia: in primo piano un tavolo al quale siedono Wotan, la molto borghese moglie Fricka, i bambini (compare anche una Brunilde ragazzina come ci mostra la foto), gli impulsivi e battaglieri fratelli Donner e Froh, i giganti Fasolt e Fafner con la loro infelicissima preda Freia perennemente in lacrime. Dietro il tavolo, sul palcoscenico a sinistra, una imponente casa di famiglia, il Walhalla, dentro il quale Wotan e i suoi entreranno alla fine del Rheingold, dopo aver aperto gli ombrelli sotto una pioggia immaginaria. A destra del palcoscenico un albero al quale è appesa un’altalena, e davanti all’albero un buco nel terreno da cui entrano ed escono i Nibelunghi. Altri elementi fantastici invadono la scena al momento opportuno.
C’è il grande drago di cartone, di cui si vedono sbucare dalle quinte la testa con bocca fiammeggiante e la coda arricciata, e il rospetto in versio-
Fare la cosa giusta
ne mignon, cioè l’espediente grazie al quale Loge e Wotan riescono ad intrappolare Alberich.
Un’atmosfera fantastica, a tratti di puro divertimento, avvolge il dramma. Ma Brunilde non dimentica mai di ricordarci che stiamo assistendo al declino di una dinastia divina e di un’epoca. E non mancano eventi tragici e risolutivi come la morte di Freia, che porta via con sé il dono dell’eterna giovinezza coltivata con le mele
Quando la povertà mostra il suo volto
Leggete la storia di Shokirjon: caritas.ch/shokirjon
base, ovvero il punto di vista di Brunilde, non è una novità, anzi è stata al centro di un noto allestimento del Ring per il Royal Danish Theatre nel 2006, a firma del regista danese Kasper Holten.
Una notevolissima
Sinfonieorchester
Basel è diretta da Jonathan Nott che le imprime un andamento narrativo ideale
È un Ring molto teatrale questo di Basilea, in cui tutto il cast è impegnatissimo a far valere le proprie doti interpretative, a cominciare dalla qui muta (almeno nel senso del canto) Brunilde di Trine Moller per continuare con la tracotanza di un Wotan impellicciato, irascibile e molto nouveau riche, interpretato dal basso baritono canadese Nathan Berg, o un Loge giallovestito, ironico e scoppiettante, i cui recitativi suonano naturali come il parlare quotidiano, nei panni del tenore Michael Laurentz. Mime è una specie di Geppetto collodiano interpretato da Karl-Heinz Brandt, mentre Alberich, quando non è rospo, ha le fattezze del basso baritono irlandese Andrew Murphy. La voce di Fricka, la mezzosoprano Solenn’ Lavanant Linke, ci ricorda che qui non si recita soltanto, ma si canta pure.
d’oro in favore degli dei. Gli dei invecchiano, ed è questo il primo segno di avvicinamento alla fine della loro era. La messinscena dell’intero Ring è del sovrintendente e direttore artistico dell’Opera (il teatro ha anche una sezione Balletto e una sezione Prosa, con due sale ad hoc, Kleine Bühne e Schauspiel) Benedikt von Peter, coadiuvato alla regia da Caterina Cianfarini, già sua collaboratrice al Teatro di Lucerna. L’idea di
Una notevolissima Sinfonieorchester Basel è diretta da Jonathan Nott che le imprime un andamento narrativo ideale per un allestimento del genere, non privo di un piacevole, fiabesco incanto. A Stephan Q. Eberhard si devono le affascinanti marionette e tutto ciò che riguarda il teatro di figura. E mentre proseguono le repliche di Das Rheingold, approda a Theater Basel anche Die Walküre, in scena dal 16 settembre fino al 7 ottobre, con ripresa prevista nel giugno 2024 per entrambi. Dovremo invece attendere fino all’autunno 2024 per Siegfried e Götterdämmerung
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 18 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 46
Shokirjon Shamirov, 60 anni, Tagikistan, fa fronte alla crisi climatica con metodi di coltivazione innovativi.
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In fin della fiera
«Questa è troppo una storia malata!»
Ho percorso un breve tratto di una ferrovia locale con un gruppo di studenti che avevano occupato tutti i sedili del vagone dove mi trovavo, viaggiatore solitario fino a un momento prima, e non ho potuto fare a meno di ascoltare le loro parole, non dirette ai compagni presenti ma nel microfono dei rispettivi cellulari. Ho ascoltato per la prima volta un’espressione che mi ha colpito; uno dei ragazzi ha ripetuto più volte al suo corrispondente: «Questa è troppo una storia malata!».
A me le storie piacciono, non posso fare a meno di domandarmi: le storie si ammalano? Se una storia può avere la febbre, in quale parte deve essere infilato il termometro per misurargliela? Nell’incipit? Nell’epifania?
E poi: tra le tante specializzazioni sanitarie esiste quella che cura le storie malate? In assenza di precedenti e di una letteratura medica, possiamo fare solo delle ipotesi.
Pop Cult
Proviamo con una storia conosciuta da tutti, Cenerentola, e vediamo da quali morbi può essere stata infettata. Quando la nostra protagonista sente rintoccare i dodici colpi che annunciano la mezzanotte, sa che deve fuggire dal palazzo del Principe perché l’incantesimo cesserà. Lei scappa, lui la insegue senza raggiungerla ma trova su un gradino della scala una scarpetta che Cenerentola ha perso e non avrà pace finché non sarà riuscito a trovare la ragazza col piede giusto. Fin qui la storia scoppia di salute. In quella malata il Principe inciampa in cima allo scalone, rotola giù per tutti i gradini, si fracassa un bel po’ di ossa e devono ricoverarlo in traumatologia dove viene accudito da un’infermiera che di scarpe porta chi dice il 45 chi il 46, ma è tanto una brava ragazza e poi ha un bel sorriso. Stando coricato, il Principe vede l’infermiera solo dalla vita in su e quando finalmente potrà alzarsi e contemplarla tutta
Il paradosso del cosplayer
Si è da poco svolta a Nagoya, in Giappone, una manifestazione che da tempo richiama grande attenzione all’interno di un ambito giovanile per certi versi quantomeno settario: si tratta di The World Cosplay Summit, campionato internazionale dedicato esclusivamente ai cosplayer – un evento che riflette l’incredibile diffusione di un’attività (il cosplay, appunto) sviluppatasi nei Paesi orientali, e poi gradualmente diffusasi in tutto il mondo dalla fine degli anni 70, quando veniva semplicemente definita come il desiderio di vestirsi – o meglio, travestirsi – in modo da assomigliare in tutto e per tutto ai propri personaggi preferiti (solitamente appartenenti al mondo dei manga e degli anime, ovvero dei fumetti e cartoni animati giapponesi).
Quest’hobby in stile «carnevalesco», in cui giovanissimi appassionati (so-
Xenia
intera, con quei piedoni e quei polpacci pelosi e tozzi come colonne romaniche, la frittata è bell’e che fatta, il fascino della ragazza evapora. Tra l’altro il Principe è anche offeso con Cenerentola perché lei non si è neanche girata a guardare cosa succedeva quando ha sentito i tonfi prodotti da Sua Altezza rotolando giù dalle scale, ignora che lei non poteva perdere neanche un minuto se voleva salvare l’incantesimo.
Siccome il Principe è piuttosto robusto (è severamente vietato collegare l’aggettivo «obeso» a un membro di Casa Reale), cadendo ha schiacciato la scarpetta persa da Cenerentola riducendola a una frittella. Il suo ciambellano l’ha ritrovata e gliel’ha portata in ospedale la prima volta che è andato a fargli visita, pensando di fargli un piacere. Non è un segreto di Stato la notizia che Sua Altezza è un feticista e va pazzo per le donne con i piedi piccoli. Il Principe tiene fra le
di Bruno Gambarotta
mani e contempla a lungo quella sorta di pizza mormorando, fra sé e sé: «Dovevo essere ubriaco quando mi sono messo a correre dietro a quella squinzia». Un malanno ancora più grave colpisce le storie quando ambiscono a diventare evento mediatico, con milioni di follower. Un trionfo di Cenerentola sulle sorellastre preparato con indiscrezioni, annunci e conferenze stampa, non può non suscitare l’istinto della caccia nella concorrenza e la voglia di scoprire cosa c’è dietro. Chi paga tutte le spese? La carrozza, i quattro cavalli, il vestito, l’affitto del palazzo e della cucina? Per quanto riguarda il noleggio del Principe, se ne trovano sul mercato di quelli disposti a farlo gratis, pur di guadagnare un po’ di notorietà. Però bisogna fornire loro il corredo, la divisa, lo spadino, le decorazioni. Ma quando tutto è pronto per dare
di Benedicta Froelich
il via, bisogna far fronte a un evento imprevisto. Il Principe, anche se noleggiato a basso prezzo in una stagione di saldi, è un vero Principe. Come tale ha l’odorato raffinato e pretende che la ragazza che farà Cenerentola indossi le famose scarpine all’ultimo istante prima che Lui ne raccolga una e se la porti al naso per aspirarne voluttuosamente il profumo. Cenerentola pianta un colossale capriccio, s’impunta, vuole indossare le scarpine fin dall’inizio. Cosa c’è dietro? È presto detto: una nota marca di scarpine da fiaba ha foraggiato di nascosto la ragazza perché fin dall’inizio facesse vedere bene le scarpette tenendo in vista il marchio. La concorrenza si trova uno scoop servito su un piatto d’argento. Svelato il trucco, Cenerentola è costretta ad auto sospendersi.
Quando una storia si ammala in quel modo è irrecuperabile, non resta che sopprimerla.
prattutto tra i quindici e trent’anni, ma non solo) investono notevoli quantità di tempo e denaro nel tentativo di rendere i loro costumi il più fedele possibile a quelli dei propri beniamini, ha oggi subìto una drastica mutazione: con l’avvento dell’epoca dei social network, quella dei cosplayer si è presto tramutata in una vera e propria setta, che, animata dalle proprie regole, esigenze ed etica, ha ormai travalicato qualsiasi confine geografico e culturale per trasformarsi da moda in stile di vita. Alla stregua di una religione pop, è divenuta per molti un’occupazione a tutti gli effetti, al punto da assorbire gran parte delle energie di chi la pratica.
Così, laddove una volta si usava «vestirsi» soltanto in occasione di rare fiere del fumetto o altri eventi particolari, oggi l’attività del cosplay è molto più pervasiva, soprattutto a cau-
Stanislawa, straniera e sola
Espellere uno straniero indesiderato non è mai stato facile. Serve un motivo, o almeno un pretesto. E nemmeno un decreto è sufficiente. Gli stranieri hanno la pretesa di appellarsi ai tribunali, di opporre resistenza. Dicono che la loro vita è ormai qui. Vogliono restare, perfino in condizioni degradanti. Gli italiani ci sono riusciti quasi solo in tempo di guerra. Ma sempre – come oggi – solo se le autorità del Paese di provenienza collaborano. Così è capitato alla sventurata
Stanislawa W.
Stanislawa, figlia di Joseph e Kamila, nata nel 1892, è «un’artista teatrale polacca». Viene denunciata nel luglio del 1915, quando dalla tournée in Sicilia torna a Roma, in una pensioncina dietro Fontana di Trevi, dove alloggiano altre giovani straniere che gravitano fra café chantants, palcoscenici e studi cinematografici. Vive in Italia da anni. È una ballerina.
Gli italiani la ritengono suddita tedesca mentre lei «si spaccia» come russa (ma forse non mente: gran parte della Polonia è annessa all’Impero zarista). L’accusano di cercare di ottenere «segreti militari» dagli ufficiali italiani che attira. Il Ministero chiede la sua espulsione. In realtà Stanislawa è l’amante di un tenente molisano della Fanteria, che quando può la mantiene (l’ultimo vaglia è di 400 lire). Giovanni F. non si lascia intimidire: trascorrono due settimane di vacanze ad Anzio, poi lui torna in servizio e lei affronta il processo. A dicembre la condannano a tre mesi di reclusione. Stanislawa fa appello. Lascia la pensione, in cui è ormai sgradita, e si trasferisce a via Sistina. Ha ancora dei risparmi. Quando il tenente F. ottiene un congedo per motivi di salute si rivedono. Pranzano insieme al ristorante. Una spia della Questura li segue. La
sa del fatto che la moderna cultura dell’immagine non è semplicemente parte integrante del mondo dei social, ma anche di un universo quotidiano in cui le parole contano sempre meno e il potere evocativo sembra risiedere esclusivamente nello stimolo visivo; tanto che alcuni YouTuber e cosiddetti influencer si identificano a tal punto con il loro travestimento preferito da presentarsi ai propri follower in quella veste, divenendo così vere e proprie personalità virtuali. Del resto, anche alle nostre latitudini le convention dedicate al fenomeno non mancano: su tutte, la Zurich Pop Con, che, con una certa lungimiranza, si presenta come festival dedicato «al gaming, al cosplay e alla cultura pop» – lasciando intendere che le tre cose sono ormai intrinsecamente legate tra loro, all’interno di quell’universo giovanile in costante mutamento nel quale,
dall’adolescenza in poi, i nostri ragazzi s’immergono. In realtà, il fenomeno risulta intrigante non solo da un punto di vista culturale, ma anche psicologico, in quanto sembra attingere direttamente alla passione per il camuffamento e la dissimulazione che da sempre contraddistingue il mondo online, e che oggi si è fatta più presente che mai; in altre parole, il desiderio di vestire altri panni (e, nel mentre, occultare sé stessi) è divenuto l’effettiva priorità, quasi a voler nascondere, o comunque trascurare, il lato più «banale» e quotidiano dell’esistenza. La scelta di abbigliarsi a immagine e somiglianza degli eroi pop di quest’epoca rappresenta così l’identificazione con l’unico mondo nel quale i ragazzi di oggi si riconoscano, e a cui sentano di appartenere – quello della cultura popolare. Un mondo che, nel-
la sua accezione giovanile, è intriso di tematiche fortemente attuali quali la fluidità gender, il ritorno del femminismo e le sfide legate alla salute mentale; spunti che, in effetti, trovano ampia possibilità di espressione nell’attività del cosplayer, in grado di mutare forma e aspetto a proprio piacimento.
Forse, proprio in questo risiede il fascino di un simile hobby: nella possibilità di incarnare, e diventare simbolo stesso, di qualsiasi causa o scopo si ritenga degno di essere rappresentato – divenendo, in un certo senso, la versione moderna (e depoliticizzata) di un più tradizionale manifestante dei tempi andati. Come a suggerire che il salto generazionale abbia oggi portato a una nuova sorta di consapevolezza sociale – meno dogmatica e più individualista, forse, ma, comunque, a tutti gli effetti legittima e vitale.
straniera «non dà luogo a rimarchi». Nel mese di febbraio del 1916 viene assolta per insufficienza di prove. Non sussistono elementi per la sua espulsione. Ma di cosa vive, per undici mesi, quando il tenente torna in guerra e lei resta in una città ostile? Si arrangia come può. Poi Giovanni, gravemente ferito al fronte, viene mandato in convalescenza all’ospedale dell’Addolorata, nella capitale. Lei va a trovarlo ogni giorno. Lo promuovono capitano. Stanislawa prende in affitto un appartamento, dove lui trascorre tutti i pomeriggi. Non sa che gli agenti riferiscono che la sera, quando il capitano di fanteria F. se n’è andato, lei esce da sola. Sta fuori tra le 21 e le 24. Insomma, frequenta altri ufficiali, si fa vedere con loro in pubblici ritrovi e coi «proventi delle sue relazioni intime» si paga l’affitto. Il fatto che parli l’italiano è un’aggravante. Un ufficiale riferisce i suoi discorsi: Stanislawa de-
nigra il nostro esercito. Racconta che alle famiglie dicono che i loro figli sono morti in combattimento, mentre sono stati fucilati per diserzione.
La sua «equivoca condotta morale» dà luogo a «sospetti di natura politica». Nel maggio del 1917 si propone il suo internamento in Sardegna.
Ma non è abbastanza. Il 24 giugno il Ministero predispone l’espulsione. Un agente in borghese la accompagnerà a Voghera, dove sosterà 30 giorni. La precede un fonogramma con i connotati. Età 25 anni, statura regolare, capelli biondi, fronte alta, sopracciglia castane, occhi celesti, naso regolare, bocca piccola, mento tondo, viso ovale scarno, colorito roseo, vestita elegantemente.
Il 6 agosto 1917 viene avviata a Como, per essere accompagnata alla frontiera, in esecuzione dell’ordinanza di espulsione. Senonché l’ufficio di P.S. dello scalo ferroviario di Como la tro-
va in possesso di documenti compromettenti e la arresta per spionaggio. Stanislawa finisce in carcere. Ci resta fino al 27 marzo del 1918, quando il Tribunale Militare di Roma la assolve di nuovo dall’imputazione di tradimento per insufficienza di indizi. Ma non è libera. Il 17 aprile viene disposta la traduzione sull’isola di Ventotene, in internamento.
Riesce a tornare a Roma solo nel giugno del 1919. Si ferma all’hotel Tunnel. Nel frattempo il mondo è cambiato: la guerra è finita, suo padre è morto, il capitano è sparito, la Polonia è uno stato indipendente. Le autorità cercano di accordarsi col Comitato nazionale polacco affinché si accolli il suo rimpatrio. E così avviene. La mettono su un treno che – via Trento e Innsbruck – la riporterà in Polonia. Stanislawa viene espulsa nell’agosto del 1919. L’unica sua colpa provata: essere una donna – straniera, sola.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 18 settembre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 47 CULTURA / RUBRICHE ◆ ●
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al processo di confezionamento sottovuoto, la carne precotta risulta
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