Azione 40 del 1 ottobre 2018

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 1 ottobre 2018

Azione 40 Società e Territorio Visita a Mesoraca, il paese da cui provengono quasi tutti i calabresi che vivono in Ticino

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Ambiente e Benessere La cura della postura è un fattore molto importante nella crescita dei bambini; ne parliamo con due fisioterapisti e con una pediatra

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Politica e Economia Nel suo discorso all’ONU Trump ha ribadito i punti fermi della sua strategia sovranista

Cultura e Spettacoli Auguri di buon compleanno a Jacopo Robusti, detto il Tintoretto

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di Mara Zanetti Maestrani pagina 8

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La Greina in una mostra

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Un addio tira l’altro di Peter Schiesser Se 8 anni possono bastare, soprattutto se non si è un animale politico, 12 possono essere abbastanza anche se la propria carriera è stata una lunga catena di successi: Johann Schneider-Ammann, l’imprenditore prestato alla politica si ritira dal Consiglio federale a fine anno, per trasformarsi in «nonno attivo». Con la flemma del bernese dell’Emmental, Schneider-Ammann non ha certo brillato per eloquenza, per dimestichezza con i media, da tempo i giornali d’Oltralpe ravvisavano una stanchezza crescente, si è però congedato con una punta d’ironia: «sto bene e sono sveglio» (in allusione ai colpi di sonno che lo assalivano durante sedute e visite di Stato). Lascia i riflettori che non ha mai amato e quel mondo politico dove imperversano intrighi e sospetti, «sono rimasto me stesso» ha concluso con soddisfazione. Tutto il contrario Doris Leuthard, che i riflettori li ha amati, ha saputo sfruttarli per trasmettere fiducia e simpatia, capitalizzando una credibilità politica che le ha permesso di vincere 16 delle 18 votazioni popolari riguardanti il suo dipartimento. E non erano votazioni facili: «energia 2020» (preceduta dalla decisione di

abbandonare gradualmente l’energia atomica, dopo il disastro di Fukushima del 2011), la seconda galleria autostradale sotto il San Gottardo, l’iniziativa No Billag, vittorie frutto dell’impegno personale della Leuthard e della credibilità di cui gode fra i cittadini. Neppure Johann Schneider-Ammann è stato un cattivo consigliere federale, come ministro dell’economia pubblica ha fatto quel che ci si aspetta da un liberale radicale: intervenire il meno possibile sull’economia e garantire le migliori condizioni quadro perché possa svilupparsi il più liberamente possibile. Ha messo il focus soprattutto sugli accordi commerciali con paesi terzi, in particolare quello del 2014 con la Cina, fedele al suo motto di creare «jobs, jobs, jobs». Per lo stesso motivo ha avuto a cuore la formazione duale, l’innovazione digitale e scientifica, i rapporti con l’Unione europea. Tuttavia, l’assenza di carisma politico, forse anche una certa ingenuità, l’hanno ostacolato più volte: l’incapacità di creare alleanze e di agire tatticamente l’hanno posto spesso in minoranza in governo e in parlamento, l’hanno portato a duri scontri con gli agricoltori e quest’estate, complice Cassis, con i sindacati (sulle misure di accompagnamento della libera circolazione).

Entrambi si ritireranno dal Consiglio federale a fine anno, durante la sessione di dicembre ci sarà dunque una doppia elezione. Se per la successione a Doris Leuthard non si intravvede ancora nel PPD un chiaro favorito, per quella di Johann Schneider-Ammann un nome brilla sopra a tutti: Karin Keller-Sutter, presidente del Consiglio degli Stati e già consigliera di Stato sangallese. Da più parti, nel PLR e fuori, si vuole una donna, la Svizzera orientale chiede di essere di nuovo rappresentata nel Consiglio federale, e Karin Keller-Sutter sembra la candidata più indicata. Tuttavia, non è ancora detto che voglia ricandidarsi, dopo che nel 2010 – battuta da SchneiderAmmann – dichiarò di non voler concorrere una seconda volta per il governo. Siccome in dicembre si procederà prima all’elezione del successore della Leuthard, se venisse eletta una donna PPD, l’Assemblea federale potrebbe preferirgli un uomo, inoltre oggi KellerSutter non gode più del favore dell’UDC, mentre è più gradita a PS e Verdi per la sua capacità di forgiare compromessi in campo sociale. Se martedì scorso, al momento dell’annuncio delle dimissioni di Schneider-Ammann, l’elezione di Keller-Sutter sembrava scontata, da giovedì, con il ritiro della Leuthard, i giochi si sono riaperti.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Società e Territorio Mindfulness per genitori Un libro di Valeria Giordano spiega ai genitori come liberarsi dall’ansia

La Greina in mostra Il Museo della Valle di Blenio di Lottigna indaga l’altipiano da più punti di vista

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A due passi Con le sue passeggiate Oliver Scharpf ci accompagna a Bognanco per bere le acque minerali ma soprattutto ammirare il dancing Rubino

Notizie brevi

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Credere all’istinto

Psicologia Il «pensiero di pancia» non è un

salto nel vuoto o un azzardo, ma una forma di intelligenza, una modalità complessa di uso della mente. Nuovi studi suggeriscono che dovremmo dargli più credito

Una città a metà

Una veduta di Mesoraca sulle pendici della Sila. (J. Marti, gallery fotografica su www.azione.ch)

Reportage Visita a Mesoraca, il paese da cui provengono (quasi) tutti i calabresi in Ticino.

Diviso tra chi è rimasto e chi se ne è andato per sempre

Jonas Marti

Stefania Prandi In alcuni momenti è importante lasciarsi guidare dall’istinto. Lo sanno bene i campioni sportivi, i musicisti, gli attori, gli artisti, che quando entrano in azione, per mantenere fluidità, concentrazione e ispirazione, devono «sospendere il giudizio». La capacità di entrare nel «flusso», nel pensiero di pancia, serve a tutti, anche nella vita quotidiana, come spiegano una serie di recenti ricerche condotte in Germania, negli Stati Uniti e in Australia. Se osserviamo il contenuto della mente troppo da vicino, infatti, rischiamo di perdere l’orientamento, bloccandoci, lasciandoci sopraffare dal rimuginìo. Secondo Gerd Gigerenzer, psicologo sociale, direttore dell’Harding Center all’Istituto Max Planck di Berlino, quando si agisce senza pensare troppo, seguendo la regola del «vai con la tua prima sensazione migliore e ignora tutto il resto», si hanno prestazioni più soddisfacenti. L’intuito, infatti, non è un salto nel vuoto o un azzardo, ma è una forma di intelligenza, una modalità complessa di uso della mente: non si può smettere di pensare se non si è già pensato prima. Prendiamo il caso di una cantante di opera alla Scala: ha alle spalle anni di disciplina, esercizi, prove, e non può permettersi di focalizzarsi su come migliorare la tecnica mentre si trova sul palco. Lì deve solo eseguire, dare il meglio di sé. Oppure, consideriamo una grande tennista come Serena Williams: non può essere timorosa mentre è in campo, facendosi sopraffare dalle paure, ma deve solo concentrarsi sul gioco. Claude Steele, psicologo sociale e professore emerito all’Università di Stanford, ha studiato gli effetti dell’ansia sulla performance, giungendo alla conclusione che per imparare a sospendere il pensiero bisogna cercare di proteggersi dall’auto-analisi. Più si sale con l’età, più si diventa svegli, più bisogna programmare il cervello a non perdersi troppo.

Dovremmo dare maggiore credito alla nostra pancia. Una ricerca dell’Università statale della Florida, condotta da Linda Rinaman, docente di Psicologia e Neuroscienze, sostiene che i messaggi che vengono mandati al cervello dalla nostra pancia hanno un’influenza potente su emozioni, umore e decisioni, e servono per farci scegliere certe situazioni (più favorevoli) a discapito di altre. Lo studio, pubblicato sulla rivista «Physiology» e firmato anche da James Maniscalco, ricercatore dell’Università dell’Illinois di Chicago, fornisce una comprensione scientifica di come funziona il nostro istinto. Come spiega Linda Rinaman, «pancia e cervello sono costantemente collegati da un nervo vago. È un sistema esteso a due direzioni che connette il cervello al tratto gastrointestinale, che ha un’area con una superficie enorme e molti “sensori”. Il tratto gastrointestinale è oltre cento volte più ampio della superficie della pelle e manda molti più segnali al cervello di ogni altro organo del sistema nel corpo». Joel Pearson, professore di Neuroscienze cognitive all’Università di New South Wales (Sydney), ha cercato di misurare il modo in cui usiamo l’intuito per prendere decisioni. Di recente il suo laboratorio ha condotto un esperimento con il quale sono stati analizzati i comportamenti di un gruppo di studenti, che sono stati sottoposti alla vista di una serie di immagini subliminali con forte impatto emotivo che li «guidavano» mentre completavano un test al computer. Le immagini erano velocissime e non venivano registrate a livello conscio, ma hanno contribuito comunque a migliorare la prestazione. Questo perché quando le nostre sensazioni inconsce e le emozioni vengono combinate con le informazioni consce, siamo in grado di prendere decisioni migliori. L’intuito è stato studiato a lungo, da Aristotele a Carl Jung, ai manuali di management e finanza. Chi deve prendere decisioni importanti velocemente

Li vedi ovunque salendo la strada polverosa. Sono accanto agli eucalipti solitari, affastellati sulla collina, sospesi sui dirupi. Interi palazzi incompiuti, scheletri di calcestruzzo e nudi mattoni rossi: ai piani inferiori ondeggiano le ghirlande di panni stesi ad asciugare, sopra ci sono gli appartamenti vuoti, senza vetri alle finestre, vuoti involucri che aspettano di essere riempiti. Sono le case costruite dai primi emigrati di Mesoraca con i primi guadagni della diaspora. Avevano lasciato interi piani incompiuti per i figli, con la certezza che un giorno sarebbero tornati a finirli. Non sono mai tornati. Sono rimasti su al Nord. A Lavena Ponte Tresa, comune gemellato; in Svizzera, tra Lugano e Bellinzona. Donne, uomini e bambini. Che oggi costituiscono una vera e propria seconda Mesoraca: in Calabria ne vivono 6500. In Ticino sono 5mila.

Dagli anni 50 in poi Mesoraca ha visto la sua popolazione migrare verso il Nord e il paese invecchia anno dopo anno Tenere un diario è un buon modo per mantenere il contatto con la propria «pancia» e bilanciare ragione e istinto. (Marka)

e senza avere – in apparenza – abbastanza elementi su cui basarsi è obbligato ad agire in modo istintuale. Secondo il Search Inside Yourself Leadership Institute, nato all’interno di Google da un team di esperti di mindfulness, neuroscienze e intelligenza emozionale, il nostro istinto può migliorare, se allenato, e peggiorare quando siamo giù di morale, depressi oppure arrabbiati. In un esperimento è stato chiesto a un campione di persone di studiare diversi gruppi di parole, alcuni dei quali collegati tra loro. Chi aveva l’umore più stabile è stato capace di distinguere velocemente le parole correlate, anche senza conoscerne il significato, commenta Carina Remmers, psicologa clinica alla Free University di Berlino

che ha guidato lo studio. Le persone depresse, invece, hanno dimostrato incertezza facendo fatica a credere alle proprie decisioni. I ricercatori hanno ripetuto il compito, sostituendo le immagini alle parole, e le persone depresse non hanno avuto gli stessi problemi. La differenza tra questi due risultati probabilmente è dovuta al fatto che da un lato c’era un compito verbale e dall’altro visivo: quando ci sono state di mezzo le parole è iniziata la «ruminazione mentale». Perdere la capacità di restare connessi con la propria «pancia» può diventare un problema. La giornalista Judi Ketteler ha raccontato, in un articolo pubblicato lo scorso luglio su «The New York Times», che intorno ai qua-

rant’anni il suo intuito è andato in tilt. Come le è stato detto da alcuni esperti, può succedere, andando avanti con gli anni, di sviluppare motivazioni conflittuali e di non riuscire a bilanciare le contraddizioni. L’approccio per uscire dall’impasse è quello di cercare di entrare di nuovo in contatto con il proprio sé reale. Un buon modo è quello di tenere un diario. Sembra un suggerimento banale, ma come sottolinea Francis P. Cholle, autore di The Intuitive Compass: Why the Best Decisions Balance Reason and Instinct (La bussola intuitiva: perché le decisioni migliori bilanciano ragione e istinto), «scrivere pensieri e sensazioni, anche se si crede di avere poco da dire, aiuta la mente non conscia a rivelarsi».

Mesoraca, arroccata sulle boscose pendici della Sila tra due ripide gole che scendono verso il mare, è una città spezzata a metà tra chi se ne è andato e chi è rimasto. Sono passati decenni e generazioni, ma basta indugiare nel negozio di alimentari della piazza, sotto i rosari di peperoncini, e pronunciare la parola «Ticino» per scorgere negli occhi un barlume di nostalgia e di fierezza; il dolore degli addii, l’orgoglio del riscatto. «Pensi che cosa poteva significare per un padre di famiglia andarsene e lasciare tutto», dice Giuseppe Stirparo, assessore di Mesoraca, unico della famiglia rimasto in Calabria, tre fratelli tra Lamone, Cadempino e Ponte Tresa, i genitori vissuti quasi trent’anni a Bioggio. «Andare verso l’ignoto, in un altro paese, quando le compagnie aeree

low cost non c’erano ancora, quando non c’era nemmeno ancora l’autostrada, e dalla Calabria alla Svizzera una lettera ci poteva mettere anche quindici giorni ad andare e tornare». Erano gli anni 50, la gente fuggiva da una terra che non aveva più pane da dare ai suoi figli. Sull’onda del passaparola si tentava la fortuna altrove, al Nord. Gli emigrati dei villaggi vicini sono rimasti in Italia. Ma i mesorachesi no. Loro hanno osato andare più in là, oltre il confine, in Svizzera, dove a Chiasso «ti facevano la visita sanitaria prima di entrare» ma a Lugano «ti aspettavano in stazione e appena scendevi dal treno ti assumevano». Una grande opportunità potere lavorare nella Svizzera italiana: essere all’estero, ma continuare a parlare italiano. I primi mesorachesi, eredi degli antichi pastori e boscaioli della Sila, cominciarono nel settore agricolo. Poi esplose il boom economico e diventarono muratori. Storie difficili, fatte di lontananza, di notti trascorse a dormire in baracche di trenta persone, di schiene piegate e camicie madide. Poi infine il riscatto sociale. Offuscato però da alcuni fatti di cronaca nera e giudiziaria che hanno macchiato il nome di Mesoraca e hanno contribuito a creare in Ticino una cattiva fama difficile da sfatare. Ma negli spogli corridoi del Comune – la targhetta all’entrata «qui la ’ndrangheta non entra» e la foto di Falcone e Borsellino appesa a una parete – non ci stanno a essere bollati come criminali. «Abbiamo dato tanto alla Svizzera», attacca appena ci vede il popolarissimo sindaco Armando Foresta. «Nel tempo siamo riusciti a diventare medici, professori, addirittura politici. Se il vostro paese è cresciuto, è anche grazie alla nostra collaborazione». È una storia antica quella di Mesoraca, lo si vede bene scendendo gli stretti vicoli pietrosi del centro storico. Mesoraca ha avuto un papa, San Zosimo. Mesoraca ha avuto la consueta sfilata di dominatori mediterranei: Greci, Romani, Bizantini, Saraceni, Spagnoli. E quasi sempre, come tutta la Calabria, feudalesimo e latifon-

do. Per molti e troppi secoli ha subito il potere dei signorotti locali. Tanta terra per loro, quasi niente per gli altri. Una miseria, origine dell’odierno squilibrio. L’antica e prepotente ricchezza di questi grandi proprietari terrieri è ancora scolpita negli stemmi dei palazzi nobiliari, aleggia nelle oscure corti che si intravvedono sbirciando dai portoni di legno. Mesoraca fu una città importante. Almeno abbastanza da potersi permettere di chiamare scultori per abbellire le sue chiese. Tra di loro – premonitore gioco del destino – anche un certo Antonello Gaggini: suo padre, Domenico, era partito da Bissone per mettersi al servizio della raffinata corte aragonese di Palermo. Una migrazione al contrario, cinquecento anni fa, quando erano i ticinesi a mettersi il sacco in spalla ed emigrare. La sua Madonna delle Grazie, scolpita nel marmo bianco di Carrara, dal 1504 domina dall’altare il Santuario del SS. Ecce Homo. Il complesso religioso è custodito con silenziosa dedizione da Fra Giuseppe, un piccolo francescano vestito col saio che ci accoglie all’ombra del chiostro. «Gli emigrati attingono alle loro radici attraverso la devozione al santissimo Ecce Homo. Per sposarsi molti vengono proprio qui. Quest’anno abbiamo celebrato una ventina di matrimoni, da Lugano, Bellinzona, Ponte Tresa. Con l’autorizzazione della Curia di Lugano». E poi, ogni sette anni, la grande festa, con la statua lignea di Cristo in processione, quando «c’è proprio la folla di emigrati che rientrano». Dal terrazzo davanti alla bianca facciata della chiesa in certe giornate capita di vedere anche il mare. Si vede tutta la pianura del Marchesato, con i nudi campi di grano color ocra sotto il sole di fine estate, e i declivi puntellati di ulivi. Come migliaia di emigrati ogni anno, anche quest’estate è tornato in paese Maurizio Cortese. A Bellinzona da una vita, da venti anni è presidente dell’Associazione Mesorachesi in Ticino, che promuove la cultura e la gastronomia calabresi, e fa da ponte tra gli emigrati e le istituzioni di Mesora-

ca. Sorseggiando latte di mandorla ci presenta entusiasta i molti eventi che sta organizzando in Svizzera, dalla sagra del merluzzo che si è tenuta il 15 settembre a Sementina, alla rappresentazione teatrale in dialetto mesorachese prevista per dicembre a Manno. «Siamo una comunità molto unita. Dal Ticino possiamo addirittura dire la nostra sui lavori pubblici che si eseguono a Mesoraca. C’è un costante e strettissimo rapporto tra noi, residenti in Svizzera, e chi è rimasto qui». Una grande famiglia allargata, dalle Alpi allo Ionio. Gli autobus fanno su e giù, dai veicoli targati Ticino arrivano colpi di clacson per salutare un amico. Gli emigrati non dimenticano Mesoraca. E Mesoraca non dimentica i suoi esuli. Al margine del paese, accanto a un cartello su cui campeggia la scritta rossa «si vende vino, si fanno zanzariere su misura», c’è il frantoio di Vincenzo Castagnino. Anche sua sorella abita in Svizzera. Ogni anno una paletta di bidoni pieni di olio d’oliva attraversa l’Italia e arriva al confine di Ponte Tresa, dove viene consegnata agli emigrati mesorachesi. L’olio d’oliva, insieme al tipico pane cotto nel forno a legna e alle castagne abbondantissime, è più di una risorsa: è una ragione d’orgoglio, sapore della propria terra lontana. Ma a Mesoraca tutti lo sanno: i palazzi vuoti non si riempiranno mai più. Il paese sta invecchiando anno dopo anno, spogliato di intere generazioni. «Continuiamo a diminuire» lamenta l’assessore Giuseppe Stirparo. Negli anni 80 i residenti erano quasi diecimila. Oggi poco più della metà. E le nuove generazioni, nonostante l’enorme sforzo degli amministratori locali, continuano a fuggire portandosi dietro i loro sogni. E guardando sempre e ancora alla Svizzera. «Il fenomeno dell’emigrazione è la piaga di tutto il Sud: continuiamo a perdere la risorsa più importante, i giovani, il futuro. Ma non ci rassegniamo, non ci rassegneremo mai. Giorno dopo giorno continuiamo a combattere, affinché nessuno in futuro debba mai più lasciare la propria terra».

Premio Möbius Multimedia Ventidue anni di Möbius: la rassegna luganese dedicata alle nuove tecnologie e alla comunicazione digitale proporrà al LAC di Lugano (Sala 1) i prossimi 5 e 6 ottobre la sua consueta serie di conferenze e di approfondimenti di alto livello. Il tema scelto per l’edizione di quest’anno è «Digitale e ambiente». Sotto la direzione di Alessio Petralli, la Fondazione Möbius di Lugano si appresta quindi come tradizione ad assegnare i premi Möbius ad alcuni progetti che si fondano sulle nuove tecnologie: nell’ambito indicato dal tema generale saranno presentati i tre progetti finalisti, ASAR, un radar ad apertura sintetica e metodologia di misura per il monitoraggio di frane, pendii scoscesi e manufatti; Beepro, un sistema remoto che permette all’apicoltore di monitorare lo stato di un’arnia e di sorvegliare le proprie api e Next Park, programma per cercare parcheggio e trovarlo facilmente. Come di consueto saranno presentati anche il Premio per il prodotto innovativo in tema di editoria in transizione e Möbius Giovani, dedicato alla comunicazione virale, gestito in collaborazione con il corso di comunicazione visiva della SUPSI. I momenti di discussione saranno affidati al dibattito di venerdì 5 ottobre (ore 18.00) tra Alessandro Curioni e Bruno Oberle, Tecnologie digitali al servizio dell’ambiente e in seguito all’«umanista informatico» Gino Roncaglia. Nel pomeriggio di sabato 6 invece, dalle 14.30 alle 16.30, toccherà a Moreno Celio, Andreas Kipar, Pippo Gianoni e Luca De Biase affrontare, nei rispettivi contributi, il tema guida dell’edizione 2018. Ah, l’amore! Sarà l’amore e la sessualità il tema di un ciclo di conferenze gratuite organizzate dalla Società ticinese di scienze naturali e da L’ideatorio dell’USI. Incontrarsi, corteggiarsi, sedursi, amarsi e riprodursi sono attività importanti che richiedono cura nella selezione del proprio partner. Le mille strategie riproduttive del mondo animale ci fanno capire la centralità di questa rivoluzione biologica: la sessualità. Senza di essa il mondo sarebbe meno profumato, meno colorato, più silenzioso. Anche noi uomini e donne non smettiamo di innamorarci e il nostro corpo porta i segni di una lunga storia evolutiva. Il ciclo di incontri inizierà domani 2 ottobre (20.30, Auditorio dell’USI) con la conferenza «Riproduciamoci! Dall’animale agli umani» della biologa Claudia Bordese e dell’antropologa Sara Hejaz che si inoltreranno nella nostra storia evolutiva: siamo esseri viventi che sanno non solo riprodursi ma anche amarsi. Quali sono le parole giuste per parlare di sessualità e amore ai bambini? Lo psicoterapeuta Alberto Pellai e la psicopedagogista Barbara Tamborini ne parleranno il 22 ottobre nella conferenza «Mamma, papà, che cos’è l’amore?». Il 6 novembre invece sarà la volta del tema della diversità: la neuropsicologa Daniela Ovadia e il medico Francesco Bianchi-Demicheli analizzeranno in che cosa uomini e donne sono diversi. Il ciclo terminerà il 29 novembre al Cinema Lux di Massagno dove la filosofa Francesca Rigotti e l’evoluzionista Telmo Pievani parleranno della figura del maschio. Informazioni: www.stsn.ch; www.ideatorio.usi.ch


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Società e Territorio Mindfulness per genitori Un libro di Valeria Giordano spiega ai genitori come liberarsi dall’ansia

La Greina in mostra Il Museo della Valle di Blenio di Lottigna indaga l’altipiano da più punti di vista

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A due passi Con le sue passeggiate Oliver Scharpf ci accompagna a Bognanco per bere le acque minerali ma soprattutto ammirare il dancing Rubino

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Credere all’istinto

Psicologia Il «pensiero di pancia» non è un

salto nel vuoto o un azzardo, ma una forma di intelligenza, una modalità complessa di uso della mente. Nuovi studi suggeriscono che dovremmo dargli più credito

Una città a metà

Una veduta di Mesoraca sulle pendici della Sila. (J. Marti, gallery fotografica su www.azione.ch)

Reportage Visita a Mesoraca, il paese da cui provengono (quasi) tutti i calabresi in Ticino.

Diviso tra chi è rimasto e chi se ne è andato per sempre

Jonas Marti

Stefania Prandi In alcuni momenti è importante lasciarsi guidare dall’istinto. Lo sanno bene i campioni sportivi, i musicisti, gli attori, gli artisti, che quando entrano in azione, per mantenere fluidità, concentrazione e ispirazione, devono «sospendere il giudizio». La capacità di entrare nel «flusso», nel pensiero di pancia, serve a tutti, anche nella vita quotidiana, come spiegano una serie di recenti ricerche condotte in Germania, negli Stati Uniti e in Australia. Se osserviamo il contenuto della mente troppo da vicino, infatti, rischiamo di perdere l’orientamento, bloccandoci, lasciandoci sopraffare dal rimuginìo. Secondo Gerd Gigerenzer, psicologo sociale, direttore dell’Harding Center all’Istituto Max Planck di Berlino, quando si agisce senza pensare troppo, seguendo la regola del «vai con la tua prima sensazione migliore e ignora tutto il resto», si hanno prestazioni più soddisfacenti. L’intuito, infatti, non è un salto nel vuoto o un azzardo, ma è una forma di intelligenza, una modalità complessa di uso della mente: non si può smettere di pensare se non si è già pensato prima. Prendiamo il caso di una cantante di opera alla Scala: ha alle spalle anni di disciplina, esercizi, prove, e non può permettersi di focalizzarsi su come migliorare la tecnica mentre si trova sul palco. Lì deve solo eseguire, dare il meglio di sé. Oppure, consideriamo una grande tennista come Serena Williams: non può essere timorosa mentre è in campo, facendosi sopraffare dalle paure, ma deve solo concentrarsi sul gioco. Claude Steele, psicologo sociale e professore emerito all’Università di Stanford, ha studiato gli effetti dell’ansia sulla performance, giungendo alla conclusione che per imparare a sospendere il pensiero bisogna cercare di proteggersi dall’auto-analisi. Più si sale con l’età, più si diventa svegli, più bisogna programmare il cervello a non perdersi troppo.

Dovremmo dare maggiore credito alla nostra pancia. Una ricerca dell’Università statale della Florida, condotta da Linda Rinaman, docente di Psicologia e Neuroscienze, sostiene che i messaggi che vengono mandati al cervello dalla nostra pancia hanno un’influenza potente su emozioni, umore e decisioni, e servono per farci scegliere certe situazioni (più favorevoli) a discapito di altre. Lo studio, pubblicato sulla rivista «Physiology» e firmato anche da James Maniscalco, ricercatore dell’Università dell’Illinois di Chicago, fornisce una comprensione scientifica di come funziona il nostro istinto. Come spiega Linda Rinaman, «pancia e cervello sono costantemente collegati da un nervo vago. È un sistema esteso a due direzioni che connette il cervello al tratto gastrointestinale, che ha un’area con una superficie enorme e molti “sensori”. Il tratto gastrointestinale è oltre cento volte più ampio della superficie della pelle e manda molti più segnali al cervello di ogni altro organo del sistema nel corpo». Joel Pearson, professore di Neuroscienze cognitive all’Università di New South Wales (Sydney), ha cercato di misurare il modo in cui usiamo l’intuito per prendere decisioni. Di recente il suo laboratorio ha condotto un esperimento con il quale sono stati analizzati i comportamenti di un gruppo di studenti, che sono stati sottoposti alla vista di una serie di immagini subliminali con forte impatto emotivo che li «guidavano» mentre completavano un test al computer. Le immagini erano velocissime e non venivano registrate a livello conscio, ma hanno contribuito comunque a migliorare la prestazione. Questo perché quando le nostre sensazioni inconsce e le emozioni vengono combinate con le informazioni consce, siamo in grado di prendere decisioni migliori. L’intuito è stato studiato a lungo, da Aristotele a Carl Jung, ai manuali di management e finanza. Chi deve prendere decisioni importanti velocemente

Li vedi ovunque salendo la strada polverosa. Sono accanto agli eucalipti solitari, affastellati sulla collina, sospesi sui dirupi. Interi palazzi incompiuti, scheletri di calcestruzzo e nudi mattoni rossi: ai piani inferiori ondeggiano le ghirlande di panni stesi ad asciugare, sopra ci sono gli appartamenti vuoti, senza vetri alle finestre, vuoti involucri che aspettano di essere riempiti. Sono le case costruite dai primi emigrati di Mesoraca con i primi guadagni della diaspora. Avevano lasciato interi piani incompiuti per i figli, con la certezza che un giorno sarebbero tornati a finirli. Non sono mai tornati. Sono rimasti su al Nord. A Lavena Ponte Tresa, comune gemellato; in Svizzera, tra Lugano e Bellinzona. Donne, uomini e bambini. Che oggi costituiscono una vera e propria seconda Mesoraca: in Calabria ne vivono 6500. In Ticino sono 5mila.

Dagli anni 50 in poi Mesoraca ha visto la sua popolazione migrare verso il Nord e il paese invecchia anno dopo anno Tenere un diario è un buon modo per mantenere il contatto con la propria «pancia» e bilanciare ragione e istinto. (Marka)

e senza avere – in apparenza – abbastanza elementi su cui basarsi è obbligato ad agire in modo istintuale. Secondo il Search Inside Yourself Leadership Institute, nato all’interno di Google da un team di esperti di mindfulness, neuroscienze e intelligenza emozionale, il nostro istinto può migliorare, se allenato, e peggiorare quando siamo giù di morale, depressi oppure arrabbiati. In un esperimento è stato chiesto a un campione di persone di studiare diversi gruppi di parole, alcuni dei quali collegati tra loro. Chi aveva l’umore più stabile è stato capace di distinguere velocemente le parole correlate, anche senza conoscerne il significato, commenta Carina Remmers, psicologa clinica alla Free University di Berlino

che ha guidato lo studio. Le persone depresse, invece, hanno dimostrato incertezza facendo fatica a credere alle proprie decisioni. I ricercatori hanno ripetuto il compito, sostituendo le immagini alle parole, e le persone depresse non hanno avuto gli stessi problemi. La differenza tra questi due risultati probabilmente è dovuta al fatto che da un lato c’era un compito verbale e dall’altro visivo: quando ci sono state di mezzo le parole è iniziata la «ruminazione mentale». Perdere la capacità di restare connessi con la propria «pancia» può diventare un problema. La giornalista Judi Ketteler ha raccontato, in un articolo pubblicato lo scorso luglio su «The New York Times», che intorno ai qua-

rant’anni il suo intuito è andato in tilt. Come le è stato detto da alcuni esperti, può succedere, andando avanti con gli anni, di sviluppare motivazioni conflittuali e di non riuscire a bilanciare le contraddizioni. L’approccio per uscire dall’impasse è quello di cercare di entrare di nuovo in contatto con il proprio sé reale. Un buon modo è quello di tenere un diario. Sembra un suggerimento banale, ma come sottolinea Francis P. Cholle, autore di The Intuitive Compass: Why the Best Decisions Balance Reason and Instinct (La bussola intuitiva: perché le decisioni migliori bilanciano ragione e istinto), «scrivere pensieri e sensazioni, anche se si crede di avere poco da dire, aiuta la mente non conscia a rivelarsi».

Mesoraca, arroccata sulle boscose pendici della Sila tra due ripide gole che scendono verso il mare, è una città spezzata a metà tra chi se ne è andato e chi è rimasto. Sono passati decenni e generazioni, ma basta indugiare nel negozio di alimentari della piazza, sotto i rosari di peperoncini, e pronunciare la parola «Ticino» per scorgere negli occhi un barlume di nostalgia e di fierezza; il dolore degli addii, l’orgoglio del riscatto. «Pensi che cosa poteva significare per un padre di famiglia andarsene e lasciare tutto», dice Giuseppe Stirparo, assessore di Mesoraca, unico della famiglia rimasto in Calabria, tre fratelli tra Lamone, Cadempino e Ponte Tresa, i genitori vissuti quasi trent’anni a Bioggio. «Andare verso l’ignoto, in un altro paese, quando le compagnie aeree

low cost non c’erano ancora, quando non c’era nemmeno ancora l’autostrada, e dalla Calabria alla Svizzera una lettera ci poteva mettere anche quindici giorni ad andare e tornare». Erano gli anni 50, la gente fuggiva da una terra che non aveva più pane da dare ai suoi figli. Sull’onda del passaparola si tentava la fortuna altrove, al Nord. Gli emigrati dei villaggi vicini sono rimasti in Italia. Ma i mesorachesi no. Loro hanno osato andare più in là, oltre il confine, in Svizzera, dove a Chiasso «ti facevano la visita sanitaria prima di entrare» ma a Lugano «ti aspettavano in stazione e appena scendevi dal treno ti assumevano». Una grande opportunità potere lavorare nella Svizzera italiana: essere all’estero, ma continuare a parlare italiano. I primi mesorachesi, eredi degli antichi pastori e boscaioli della Sila, cominciarono nel settore agricolo. Poi esplose il boom economico e diventarono muratori. Storie difficili, fatte di lontananza, di notti trascorse a dormire in baracche di trenta persone, di schiene piegate e camicie madide. Poi infine il riscatto sociale. Offuscato però da alcuni fatti di cronaca nera e giudiziaria che hanno macchiato il nome di Mesoraca e hanno contribuito a creare in Ticino una cattiva fama difficile da sfatare. Ma negli spogli corridoi del Comune – la targhetta all’entrata «qui la ’ndrangheta non entra» e la foto di Falcone e Borsellino appesa a una parete – non ci stanno a essere bollati come criminali. «Abbiamo dato tanto alla Svizzera», attacca appena ci vede il popolarissimo sindaco Armando Foresta. «Nel tempo siamo riusciti a diventare medici, professori, addirittura politici. Se il vostro paese è cresciuto, è anche grazie alla nostra collaborazione». È una storia antica quella di Mesoraca, lo si vede bene scendendo gli stretti vicoli pietrosi del centro storico. Mesoraca ha avuto un papa, San Zosimo. Mesoraca ha avuto la consueta sfilata di dominatori mediterranei: Greci, Romani, Bizantini, Saraceni, Spagnoli. E quasi sempre, come tutta la Calabria, feudalesimo e latifon-

do. Per molti e troppi secoli ha subito il potere dei signorotti locali. Tanta terra per loro, quasi niente per gli altri. Una miseria, origine dell’odierno squilibrio. L’antica e prepotente ricchezza di questi grandi proprietari terrieri è ancora scolpita negli stemmi dei palazzi nobiliari, aleggia nelle oscure corti che si intravvedono sbirciando dai portoni di legno. Mesoraca fu una città importante. Almeno abbastanza da potersi permettere di chiamare scultori per abbellire le sue chiese. Tra di loro – premonitore gioco del destino – anche un certo Antonello Gaggini: suo padre, Domenico, era partito da Bissone per mettersi al servizio della raffinata corte aragonese di Palermo. Una migrazione al contrario, cinquecento anni fa, quando erano i ticinesi a mettersi il sacco in spalla ed emigrare. La sua Madonna delle Grazie, scolpita nel marmo bianco di Carrara, dal 1504 domina dall’altare il Santuario del SS. Ecce Homo. Il complesso religioso è custodito con silenziosa dedizione da Fra Giuseppe, un piccolo francescano vestito col saio che ci accoglie all’ombra del chiostro. «Gli emigrati attingono alle loro radici attraverso la devozione al santissimo Ecce Homo. Per sposarsi molti vengono proprio qui. Quest’anno abbiamo celebrato una ventina di matrimoni, da Lugano, Bellinzona, Ponte Tresa. Con l’autorizzazione della Curia di Lugano». E poi, ogni sette anni, la grande festa, con la statua lignea di Cristo in processione, quando «c’è proprio la folla di emigrati che rientrano». Dal terrazzo davanti alla bianca facciata della chiesa in certe giornate capita di vedere anche il mare. Si vede tutta la pianura del Marchesato, con i nudi campi di grano color ocra sotto il sole di fine estate, e i declivi puntellati di ulivi. Come migliaia di emigrati ogni anno, anche quest’estate è tornato in paese Maurizio Cortese. A Bellinzona da una vita, da venti anni è presidente dell’Associazione Mesorachesi in Ticino, che promuove la cultura e la gastronomia calabresi, e fa da ponte tra gli emigrati e le istituzioni di Mesora-

ca. Sorseggiando latte di mandorla ci presenta entusiasta i molti eventi che sta organizzando in Svizzera, dalla sagra del merluzzo che si è tenuta il 15 settembre a Sementina, alla rappresentazione teatrale in dialetto mesorachese prevista per dicembre a Manno. «Siamo una comunità molto unita. Dal Ticino possiamo addirittura dire la nostra sui lavori pubblici che si eseguono a Mesoraca. C’è un costante e strettissimo rapporto tra noi, residenti in Svizzera, e chi è rimasto qui». Una grande famiglia allargata, dalle Alpi allo Ionio. Gli autobus fanno su e giù, dai veicoli targati Ticino arrivano colpi di clacson per salutare un amico. Gli emigrati non dimenticano Mesoraca. E Mesoraca non dimentica i suoi esuli. Al margine del paese, accanto a un cartello su cui campeggia la scritta rossa «si vende vino, si fanno zanzariere su misura», c’è il frantoio di Vincenzo Castagnino. Anche sua sorella abita in Svizzera. Ogni anno una paletta di bidoni pieni di olio d’oliva attraversa l’Italia e arriva al confine di Ponte Tresa, dove viene consegnata agli emigrati mesorachesi. L’olio d’oliva, insieme al tipico pane cotto nel forno a legna e alle castagne abbondantissime, è più di una risorsa: è una ragione d’orgoglio, sapore della propria terra lontana. Ma a Mesoraca tutti lo sanno: i palazzi vuoti non si riempiranno mai più. Il paese sta invecchiando anno dopo anno, spogliato di intere generazioni. «Continuiamo a diminuire» lamenta l’assessore Giuseppe Stirparo. Negli anni 80 i residenti erano quasi diecimila. Oggi poco più della metà. E le nuove generazioni, nonostante l’enorme sforzo degli amministratori locali, continuano a fuggire portandosi dietro i loro sogni. E guardando sempre e ancora alla Svizzera. «Il fenomeno dell’emigrazione è la piaga di tutto il Sud: continuiamo a perdere la risorsa più importante, i giovani, il futuro. Ma non ci rassegniamo, non ci rassegneremo mai. Giorno dopo giorno continuiamo a combattere, affinché nessuno in futuro debba mai più lasciare la propria terra».

Premio Möbius Multimedia Ventidue anni di Möbius: la rassegna luganese dedicata alle nuove tecnologie e alla comunicazione digitale proporrà al LAC di Lugano (Sala 1) i prossimi 5 e 6 ottobre la sua consueta serie di conferenze e di approfondimenti di alto livello. Il tema scelto per l’edizione di quest’anno è «Digitale e ambiente». Sotto la direzione di Alessio Petralli, la Fondazione Möbius di Lugano si appresta quindi come tradizione ad assegnare i premi Möbius ad alcuni progetti che si fondano sulle nuove tecnologie: nell’ambito indicato dal tema generale saranno presentati i tre progetti finalisti, ASAR, un radar ad apertura sintetica e metodologia di misura per il monitoraggio di frane, pendii scoscesi e manufatti; Beepro, un sistema remoto che permette all’apicoltore di monitorare lo stato di un’arnia e di sorvegliare le proprie api e Next Park, programma per cercare parcheggio e trovarlo facilmente. Come di consueto saranno presentati anche il Premio per il prodotto innovativo in tema di editoria in transizione e Möbius Giovani, dedicato alla comunicazione virale, gestito in collaborazione con il corso di comunicazione visiva della SUPSI. I momenti di discussione saranno affidati al dibattito di venerdì 5 ottobre (ore 18.00) tra Alessandro Curioni e Bruno Oberle, Tecnologie digitali al servizio dell’ambiente e in seguito all’«umanista informatico» Gino Roncaglia. Nel pomeriggio di sabato 6 invece, dalle 14.30 alle 16.30, toccherà a Moreno Celio, Andreas Kipar, Pippo Gianoni e Luca De Biase affrontare, nei rispettivi contributi, il tema guida dell’edizione 2018. Ah, l’amore! Sarà l’amore e la sessualità il tema di un ciclo di conferenze gratuite organizzate dalla Società ticinese di scienze naturali e da L’ideatorio dell’USI. Incontrarsi, corteggiarsi, sedursi, amarsi e riprodursi sono attività importanti che richiedono cura nella selezione del proprio partner. Le mille strategie riproduttive del mondo animale ci fanno capire la centralità di questa rivoluzione biologica: la sessualità. Senza di essa il mondo sarebbe meno profumato, meno colorato, più silenzioso. Anche noi uomini e donne non smettiamo di innamorarci e il nostro corpo porta i segni di una lunga storia evolutiva. Il ciclo di incontri inizierà domani 2 ottobre (20.30, Auditorio dell’USI) con la conferenza «Riproduciamoci! Dall’animale agli umani» della biologa Claudia Bordese e dell’antropologa Sara Hejaz che si inoltreranno nella nostra storia evolutiva: siamo esseri viventi che sanno non solo riprodursi ma anche amarsi. Quali sono le parole giuste per parlare di sessualità e amore ai bambini? Lo psicoterapeuta Alberto Pellai e la psicopedagogista Barbara Tamborini ne parleranno il 22 ottobre nella conferenza «Mamma, papà, che cos’è l’amore?». Il 6 novembre invece sarà la volta del tema della diversità: la neuropsicologa Daniela Ovadia e il medico Francesco Bianchi-Demicheli analizzeranno in che cosa uomini e donne sono diversi. Il ciclo terminerà il 29 novembre al Cinema Lux di Massagno dove la filosofa Francesca Rigotti e l’evoluzionista Telmo Pievani parleranno della figura del maschio. Informazioni: www.stsn.ch; www.ideatorio.usi.ch


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Società e Territorio

I genitori perfetti

Il caffè delle mamme Un libro di Valentina Giordano spiega ai genitori come liberarsi dall’ansia attraverso

la mindfulness e accompagnare con consapevolezza i figli nella loro crescita Simona Ravizza Ci risiamo e bisogna trovare il modo per cavarsela al meglio. Con la ripresa della vita di sempre da genitore – felicemente ma faticosamente incastrata tra il riavvio della scuola e le attività sportive dei bambini che ci costringono a diventare dei taxi; le giornate di lavoro e le corse al supermercato; i pranzi/ cene da preparare in una lotta perenne contro l’orologio; le richieste di attenzione e gli eterni sensi di colpa che non danno pace – al Caffè delle mamme per sopravvivere ci aggrappiamo alla tendenza del momento: la mindfulness. Il suo significato letterale è consapevolezza. Tecnicamente è una pratica di meditazione che – da definizione di uno dei suoi pionieri, il biologo e scrittore statunitense Jon Kabat-Zinn – spinge a concentrarci sul momento presente in modo non giudicante per fronteggiare stress e ansia. In senso più allargato è un modo di (imparare a) vivere con noi stessi e nella relazione con i nostri figli. L’argomento è legato all’uscita del saggio I genitori perfetti non esistono. Il titolo (ed. Sperling & Kupfer, aprile 2018), vuole già riappacificarci con la nostra esistenza. L’autrice è Valentina Giordano, Mindfulness teacher, formata al Center for Mindfulness della University of Massachusetts Medical School di Jon Kabat-Zinn: «Non si è mai pronti abbastanza per avere figli: non ci sono corsi in grado di dare alcuna preparazione, ed essere genitori

Tutti i giorni concedetevi almeno un intenso abbraccio con i vostri figli. (Pixabay)

è una sorta di laboratorio in cui prima si fa esperienza e poi si impara – scrive Valentina Giordano –. È fondamentale avere fiducia in se stessi e accettare in anticipo l’inevitabilità degli errori, considerandoli come un’occasione di crescita e non come un ostacolo alla felicità». La lezione che possiamo trarre dal libro, dove nel sottotitolo s’azzarda una promessa impegnativa Mindfulness, per mamme e papà liberi dall’ansia e per bambini felici sono: 1) i genitori devono fare pace con le proprie imperfezioni; 2) i figli ci amano, verosimilmente, pur con i nostri difetti; 3) bisogna prenderci il tempo – ed è la sfida più importan-

te – di accompagnarli nella crescita con consapevolezza, presenza costante e senza giudicare. L’invito è a leggere e a rileggere una frase: «Andiamo già molto bene così come siamo». «Dove state correndo in questo momento? – chiede Giordano –. Concedetevi una pausa. Fermatevi e tornate qui. Connettetevi con voi stessi, con i vostri figli, con ciò che amate, con quanto è vero per il vostro cuore. Fermatevi ogni volta che vi sembra di non avere il tempo di fermarvi, perché quello è il momento in cui ne avete più bisogno. Fermatevi quando siete in dubbio, ascoltatevi e scegliete la vostra direzione. Se non sapete qual

Azione

Monte Generoso Tante offerte speciali

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vivere l’avventura del viaggio a bordo del trenino a cremagliera attraverso l’incanto del bosco più una ghiotta merenda. L’offerta che include treno più piatto del giorno al Ristorante selfservice a 54 franchi per gli adulti e a 34 per i ragazzi dai 6 ai 15 anni è, invece, valida tutti i giorni. Dal lunedì al venerdì le aziende e i professionisti che desiderano stupire i loro clienti, possono organizzare un business lunch al Ristorante gourmet Fiore di pietra, il più panoramico di tutto il Ticino, con un’offerta davvero unica: 59 franchi (trenino + amusebouche, piatto del giorno, dessert e caffè). Le offerte speciali unite allo spettacolo pirotecnico del foliage colorato di giallo, rosso e arancione nella stagione autunnale appena cominciata fanno del Monte Generoso un’escursione imperdibile. Si parte da Capolago, a pochi passi dalla stazione ferroviaria, con il trenino a cremagliera che si arrampica per 9 chilometri. Oltre 800 tipi di piante, varietà di uccelli e camosci. Rocce a picco che si aprono sul Lago di Lugano e sulle catene alpine da un lato e le valli punteggiate di Nevère dall’altro. Appena scesi dal treno, salite sulla terrazza al quinto piano ad ammirare il panorama a 360 gradi: vi sembrerà di volare, parola di Mario Botta! Informazioni

Ferrovia Monte Generoso SA, Via Lüera, 1 - 6825 Capolago. www.montegeneroso.ch Tel. +41 (0)91 630 51 11

i propri bambini ed è fatta di ascolto, assenza di giudizi, pazienza e abbracci. «Almeno una volta al giorno concedetevi un abbraccio con i vostri figli che abbia l’intensità di una meditazione. Siate accurati, non abbracciateli distrattamente – è l’invito di Valentina Giordano –. Siate presenti a questo momento, sentite il calore del loro corpo tra le vostre braccia, inspirate l’odore della loro pelle, i loro sogni e la loro energia, ed espirate amore, gentilezza e ciò che di più profondo c’è nel vostro cuore. Non esiste luogo più bello al mondo che tra le braccia di chi amiamo: in un abbraccio siamo al posto giusto al momento giusto. Protetti, accolti, amati, connessi». Ricorda Kohn: «C’è una distinzione sostanziale: quella tra l’amare i figli per quello che fanno e amarli per quello che sono. L’amore del primo tipo è condizionato, ovvero deve essere conquistato dal bambino attraverso un comportamento da noi considerato consono o adeguandosi ai nostri standard. L’amore del secondo tipo è incondizionato: non dipende da come si comporta il bambino, dalla sua riuscita, dall’educazione o altro. La mia intenzione è difendere il principio dell’amore incondizionato. E non conta che siamo noi a credere di amarli incondizionatamente, ma che siano loro a sentirsi amati in questo modo». Il che vuole dire coccolarli e raccontare la fiaba della sera anche dopo che ci hanno fatto infuriare. Con consapevolezza. Tendenza mindfulness. Annuncio pubblicitario

Il Fiore vi aspetta in vetta La risposta all’antico dilemma se un viaggio vale per la sua meta o per il viaggio stesso, nel caso del Monte Generoso è presto detto. Entrambi valgono e sono ricchi di fascino! Soprattutto se a rispondere è un ticinese o addirittura un momò, un abitante del Mendrisiotto, del quale il Monte Generoso è sicuramente un emblema e una summa fra tradizione, cultura, legame con l’ambiente e racconti tramandati da padre in figlio. «La costruzione del Fiore di pietra siglato dall’architetto Mario Botta, figlio del Mendrisiotto, ha rafforzato questo legame tra gli abitanti e il loro territorio», afferma Lorenz Brügger, direttore da un paio di settimane della Ferrovia Monte Generoso. Un tributo agli anni giovanili, quando saliva ad ammirare l’alba che silenziosa avvolgeva la regione, il cantone e la vicina Italia. «Per questo motivo i ticinesi non possono perdere l’abitudine di trascorrere le giornate in vetta al Monte Generoso e senza timore dei cambiamenti, devono potersi riappropriare del luogo a cui sono intimamente e ancestralmente legati», prosegue Brügger. La Ferrovia Monte Generoso ha creato, quindi, dei pacchetti ad hoc per tutti. Dal 28 settembre sino al 6 gennaio 2019, ultimo giorno prima della pausa invernale, il martedì alle ore 13.25 gli over 60 possono salire in vetta e sorseggiare una bevanda calda con una fetta di torta attorniati da un paesaggio mozzafiato a soli 29 franchi. Con un costo complessivo di 54 franchi sono le famiglie (sino a 4 persone, 2 adulti e 2 ragazzi) che mercoledì pomeriggio dalle ore 13.25 possono

è, concedetevi di non avere tutte le risposte. Fermatevi, ogni tanto, e sperimentate la leggerezza di non dover essere qualcuno». Alfie Kohn, educatore molto noto negli Stati Uniti, autore di Amarli senza se e senza ma (ed. Il Leone verde, 2010), manuale pilastro della letteratura sulla genitorialità, ammette: «Mi è capitato di provare sollievo all’idea che, nonostante tutti gli errori commessi (e che continuo a commettere) da genitore, i miei figli staranno comunque bene per il semplice fatto di amarli. Dopo tutto l’amore lenisce ogni ferita. Amare significa non dover mai dire mi dispiace di aver perso la calma in cucina, stamattina». Non illudiamoci, però, in un’autoassoluzione di massa. La serie televisiva francese Fais pas ci, fais pas ça, un successo di 7 stagioni di France 2 e format ripreso da Rai 1 con Come fai sbagli (marzo 2016), racconta la vita quotidiana di due famiglie vicine, i Bouley e i Lepic, con metodi di educazione letteralmente opposti. Denis e Valérie Bouley hanno costruito una famiglia mista e rifiutano il modello autoritario dei loro genitori. Renaud e Fabienne Lepic sono per una severa educazione. Ma i problemi con la crescita dei figli ci sono in un caso e nell’altro. A riprova che la ricetta magica da famiglia del Mulino bianco è difficile da trovare. Ma, ancora una volta dopo la lettura de I genitori perfetti non esistono, a Il caffè delle mamme si rafforza la convinzione che c’è una direzione giusta da seguire con

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Società e Territorio

La sinfonia della Greina

Mostre Il Museo della Valle di Blenio di Lottigna indaga le diverse sfaccettature dell’altipiano attraverso lo sguardo

degli alpigiani, degli scienziati, degli artisti e degli alpinisti

Mara Zanetti Maestrani «Una perla rara delle nostre Alpi, il regno dell’essenzialità», così ama descrivere la Greina, l’affascinante altipiano tra il Ticino e i Grigioni, il ricercatore e docente alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) Cristian Scapozza, nato e cresciuto a Olivone e in parte pure… in Greina. Sì, perché a questa meraviglia della natura, a questa perla, egli ha dedicato tantissime ore di esplorazione, ricerca, frequentazione, perlustrazione. Un forte attaccamento al suo territorio, tanto da far nascere in lui l’idea di creare una mostra dedicata esclusivamente a questo magnifico altipiano. Nel marzo di quest’anno, Scapozza è stato nominato curatore del Museo della Valle di Blenio a Lottigna, subentrando a Patrizia Pusterla-Cambin che ha svolto questa funzione per ben 25 anni, seguendo a sua volta le orme del padre Gastone. La mostra sulla Greina è così presto diventata realtà. Ma perché una mostra proprio su una regione già ampiamente conosciuta – protetta a livello federale – per i suoi pregi naturalistici? Quale tipo di esposizione si addice a questo pressoché unico altipiano alpino e quale ne mette in risalto aspetti magari ancora poco noti ai più? Chi ha avuto l’occasione di camminare in Greina, conosce il suo fascino e sa di cosa parliamo. È una regione che sa sorprendere, e qui il discorso si fa personale. Entra nel cuore di ognuno di noi. Anche nel mio. Io ne apprezzo il silenzio. Un silenzio che non mi stanca mai. Che difficilmente trovo altrove e che mi dà pace e serenità. Mi piace la Greina per i suoi colori, specie in autunno, e per i contrasti di roccia e di montagne che attorniano i sentieri e le pianure. Dal nero «lavagna» degli scisti argillosi del Pizzo Corói al bianco fria-

L’altipiano della Greina è una zona protetta a livello federale. (Zanetti Maestrani)

bile della dolomia e ai suoi affioramenti che sembrano dei «totem» puntati dritti al cielo; dalla durezza degli gneiss delle cime rocciose e appuntite del Piz Valdraus, del Piz Gaglianera e del Piz Vial, fino ai dolci motti erbosi e alla sinuosità del corso d’acqua verso i pascoli e le paludi dell’Alpe di Motterascio e la vicina Capanna Michela del CAS. Molte note diverse tra loro, per forza e tonalità, che messe assieme formano la maestosa sinfonia della Greina. Un invito alla contemplazione, all’osservazione e all’ascolto della Natura nella sua totalità. Meglio se in solitudine; che solitudine non è, perché dopo un po’ ci si sente davvero parte del Tutto. Ecco, forse, il fascino incantevole degli spazi della Greina sta proprio qui. Ma queste immagini, che restano impresse nella memoria e nel cuore del camminatore ancor prima che nello

scatto fotografico, sono conosciute o comunque fruibili da chiunque frequenti la Greina. Ognuno a modo suo. Secondo la propria sensibilità. Cristian Scapozza, che di professione è geografo-geomorfologo, ha voluto presentare al pubblico una mostra che andasse oltre a tutto questo. Non che lo cancellasse, ci mancherebbe! Ma che, tenendone conto, andasse più in profondità nella conoscenza di questa regione. Allora la mostra, visibile al Museo della Valle di Blenio a Lottigna ancora fino al 4 di novembre e poi ancora nel 2019 da Pasqua in poi, cerca di presentare al pubblico degli aspetti forse più scientifici, ma non per questo meno affascinanti. Inaugurata con successo nell’aprile scorso, «La Greina» presenta così su un intero piano del museo e in altri spazi, le mille sfaccettature di questo

altipiano, grazie in particolare – e qui sta una delle peculiarità dell’esposizione – alle visioni degli alpigiani che l’hanno vissuta (con l’esposizione di documenti di diritto di pascolo, di transumanza ancora oggi praticata, ecc), a quelle degli scienziati che l’hanno studiata, ma anche – e questa è un’altra particolarità – degli artisti e degli alpinisti che l’hanno frequentata negli ultimi tre secoli. Un accento particolare, ad esempio, è posto proprio sulle relazioni tra la ricerca scientifica e l’arte, discipline che potrebbero apparire di primo acchito in antitesi ma che sulla Greina hanno trovato un forte legame nel corso del tempo. Basti pensare alle rappresentazioni di Hans Conrad Escher von der Linth (1767-1823) e dell’architetto e artista di origini scozzesi Bryan Cyril Thurston (classe 1933) che ha tra l’altro esposto

alcune delle sue opere all’Atelier Titta Ratti di Malvaglia, la scorsa primavera, sempre nell’ambito delle manifestazioni collaterali alla mostra di Lottigna. Oltre ai dipinti degli artisti e al loro legame con rocce, ghiacciai e paesaggi della Greina, altri due punti forti della mostra sono un cortometraggio inedito realizzato da Giovanni Casari appositamente per questa occasione e un modello tridimensionale della regione della Greina sul quale è possibile scoprire diversi aspetti come l’evoluzione dei ghiacciai dall’ultima glaciazione, 25’000 anni fa, fino al loro importante ritiro negli ultimi decenni. È anche possibile visionare i progetti di bacini idroelettrici che si sono succeduti nel corso di parte del Novecento e le principali zone protette e tanto altro ancora. Il visitatore non deve aspettarsi un’esposizione «facile» (ossia più vicina alle personali sensazioni ed emozioni) un’esposizione magari fotografica con immagini delle meraviglie naturalistiche e paesaggistiche della Greina. No, non si tratta di questo. La mostra allestita è sì più impegnativa, ma – e qui, crediamo, ne sta il pregio – va più in profondità, mirando all’essenza vera di questo territorio alpino così particolare e unico. Ricordiamo che un’altra mostra in Valle di Blenio concorre a far meglio conoscere la Greina, si tratta dell’esposizione di dipinti di autori vari allestita negli spazi interni della Casa comunale di Blenio a Olivone (visibile fino al 4 novembre, durante gli orari d’apertura della cancelleria). Informazioni

«La Greina», Museo della Valle di Blenio, Lottigna, fino al 4 novembre (in seguito riaprirà dal 14 aprile 2019), orari: ma-do 14.00-17.30, lunedì chiuso. www.museodiblenio.vallediblenio.ch

Uno spazio vivo per il teatro e il turismo

Ex Ostello di Figino La Fondazione Claudia Lombardi vuole ridare vita alla struttura e creare

una residenza artistica che sappia accogliere anche i turisti Roberta Nicolò Stimolare la crescita di giovani talenti, ma anche costruire un centro di produzione artistica che sappia intercettare i bisogni del territorio e offrire al Ticino una nuova occasione di crescita anche sul fronte economico. Questo è uno degli scopi della Fondazione Claudia Lombardi per il teatro, realtà nata dall’amore della sua fondatrice per la drammaturgia e che desidera dare voce e sostegno anche alle idee di un Ticino giovane e con qualcosa da dire.

Le espressioni culturali sono una parte importante dell’identità di un territorio e offrono occasione per leggere desideri, bisogni e sensibilità della società nella quale viviamo. I luoghi fanno da cornice e sono elementi fondamentali per raccontare storie. Anche le storie di casa nostra. Ed è proprio il valore della storia e dei luoghi quello che ha spinto Claudia Lombardi, Presidente dell’omonima Fondazione, a scegliere come casa per il suo progetto l’ex ostello della gioventù di Figino. Un edificio di grande

L’edificio verrà ristrutturato e risanato internamente. (Tipress)

valore che dice molto della ricchezza e dell’accoglienza del nostro cantone. Una struttura che, come altre, ha negli anni acquistato un significato «altro» diventando simbolo. Villa Branca e La Romantica a Melide, il vecchio Sanatorio di Agra, il Palace di Lugano. Il loro destino è metafora di un Ticino in bilico tra passato e presente, specchio di una società che sta cercando, forse, una nuova identità nella quale riconoscersi. Diverse le sorti, diversi i racconti. Oggi, l’ex Ostello di Figino, si appresta a diventare segno di un pensiero moderno che vuole coniugare cultura e imprenditorialità. «La cultura in generale, e il teatro in particolare, sono linfa vitale per il territorio – spiega la Presidente Claudia Lombardi – un territorio che vive la cultura in prima persona è un territorio ricco, fertile e aperto. Ritenevo importante creare qualche cosa che non fosse istituzionale e che potesse diventare un punto di riferimento per i giovani artisti che iniziano una carriera da professionisti. Un’occasione per dare loro alcuni strumenti concreti utili alla crescita, non solo artistica, ma anche organizzativa. Il teatro è la mia grande passione e il Ticino la mia terra. Sono due elementi molto importanti della mia vita: non potrei immaginare di vivere altrove e men che

meno senza teatro, per questo ho dato avvio alla Fondazione e per questo mi serviva un luogo adatto dove poter fattivamente sviluppare il progetto. L’ex ostello della gioventù di Figino è il posto ideale per poter dare una “casa” a un centro di creazione e residenza artistica. Una struttura centenaria dove si respira storia. Un valore per il nostro territorio». Investire nei giovani per dare spinta al futuro. Salvaguardare un edificio antico, ma con un’ottica nuova. Un progetto articolato, quello della Fondazione Claudia Lombardi per il teatro, che intende mettere in campo un connubio tra arte, cultura e turismo in un’ottica di sviluppo del territorio. Uno spazio dove poter toccare con mano la creatività e il fermento culturale presente in Ticino e non solo, offrendo al turista che sceglie il Ticino come meta un’occasione unica. «La struttura dell’ex ostello verrà ristrutturata e risanata internamente, ma è nostra ferma intenzione mantenere l’aspetto esteriore originale. La mia etica personale è orientata verso la preservazione di quanto di bello già esiste sul territorio e questa casa, con la ristrutturazione, vivrà una seconda vita. Nell’edificio principale verrà creata la struttura ricettiva con la formula garni, ovvero alloggio e prima cola-

zione, che ospiterà turisti, viaggiatori, congressisti e passanti durante la stagione che va da Pasqua a fine ottobre. Nella cascina adiacente, invece, verranno realizzate sale multifunzionali, che potranno essere utilizzate per seminari, conferenze, convegni, ma anche come sale prove per artisti di diverse discipline. Ci sarà posto per tutti ma certamente daremo precedenza al teatro. Da novembre a Pasqua saranno essenzialmente ospitati artisti in residenza che verranno da noi per lavorare ai propri progetti. La struttura sarà aperta tutto l’anno. Sicuramente la presenza di turisti non esclude quella degli artisti e viceversa. Un modo per mettere in relazione, accolti in un unico spazio, viaggiatori e cultura. È nostro desiderio creare una residenza multilingue che s’integri con il territorio. L’obiettivo, ora, è di progettare il centro nei minimi dettagli affinché possa essere qualcosa di bello per tutti. Che possa essere utile per il territorio e necessario per il teatro. Non abbiamo ancora trovato un nome per la nostra nuova casa, ma stiamo pensando di indire un concorso affinché la gente ci aiuti a trovarlo: perché questa vuole essere la casa di tutti, uno spazio vivo dove accadono cose belle. Un luogo di incontro tra le arti e le genti. Un’oasi di bellezza nel cuore del Ticino» conclude Lombardi.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Professioni a rischio La rivoluzione tecnologica che caratterizza il nostro tempo mette a rischio di scomparsa molte professioni: i computer eseguono compiti amministrativi e burocratici e le banche riducono progressivamente il personale dipendente; si sviluppano progetti per rendere sempre più efficienti i robot giardinieri e quelli addetti alle pulizie domestiche; in Giappone sono già attivi dei robot-infermieri, e anche gli interventi chirurgici saranno sempre più affidati a macchine appositamente programmate. Insomma, chi lavorerà nel prossimo futuro? Quali mestieri sopravviveranno? La notizia, apparsa di recente, che a Chiasso si procederà alla costruzione di un bordello di «alto standing» m’induce a pensare che ci sia almeno una professione che non sembra a rischio: il «mestiere più antico del mondo» avrà forse ancora un futuro. È pur vero che, quasi contemporaneamente, i quotidiani riportavano

anche una notizia contrastante: una piccola organizzazione femminile ha avanzato la richiesta di introdurre un divieto della prostituzione rendendola illegale; ma altre organizzazioni – tra la quali la sezione elvetica di Terre des Femmes – si sono dette contrarie a un simile divieto. Insomma, come accade da millenni, la prostituzione crea conflitti di opinione. È curioso come questo antichissimo mestiere abbia avuto esaltatori e detrattori in continuazione. Nell’antichità esisteva addirittura una prostituzione sacra: nei templi babilonesi, assiri, in quello greco di Corinto, si praticavano periodicamente riti sessuali allo scopo di garantire la fertilità o di celebrare le nozze tra la Terra e il Cielo: anche donne abitualmente caste si concedevano in un contesto sacro. Ad Atene, accanto alle «pornai» – le poverette che vendevano semplicemente le loro prestazioni sessuali – c’erano le

«etere», donne colte e raffinate che allietavano i simposi anche con danze e musica. A Roma, soprattutto nel periodo imperiale, i bordelli proliferavano. Venivano chiamati «lupanari», perché in latino il termine “lupa”, in senso figurato, indicava appunto la donna dedita alla prostituzione: sicché, quando Mussolini ribattezzò gli Italiani «figli della lupa» non si rese conto di commettere una gaffe madornale… Si potrebbe pensare che l’avvento del cristianesimo abbia condotto ad una drastica condanna della prostituzione, ma le cose non stanno così: già Sant’Agostino manifestava una certa indulgenza verso le prostitute perché grazie a loro era possibile evitare il peggio, cioè che uomini libidinosi abusassero di donne «oneste» (vergini, vedove o, peggio ancora, donne maritate). Non a caso nella Roma papale il numero delle donne dedite al meretricio era sovrabbondante.

Nel libro I segreti di Roma Corrado Augias ha scritto: «La grande abbondanza di preti, soldati, avventurieri, pellegrini, tutti ufficialmente celibi o privi di compagnia femminile, faceva sì che le prostitute affluissero in massa da ogni dove, certe di un buon investimento». Forse Nietzsche non aveva tutti i torti quando scriveva questo aforisma: «Il cristianesimo fece bere a Eros il veleno: in realtà egli non ne morì, ma degenerò in vizio». Altri tempi? È possibile che i rivolgimenti del secolo scorso e quelli in atto incidano anche sulla prostituzione. L’emergere del femminismo, la «liberazione sessuale» del Sessantotto hanno modificato profondamente la morale tradizionale: le inibizioni e i divieti morali che un tempo sembravano ovvi, le distinzioni fra lecito e illecito si sono illanguidite o estinte; una recentissima indagine delle Università di Zurigo e di Losanna informa che tra i giovani, in media,

il primo rapporto sessuale avviene poco prima dei 17 anni. Ma risulta anche, da altre indagini, che una percentuale molto elevata di ragazzi avvia i primi contatti in rete e talvolta consuma al cellulare i primi rapporti. Insomma, anche il sesso sembra avviato a percorrere la via del virtuale (non del virtuoso!). Per fortuna, tra gli adolescenti che praticano il sesso ancora nel modo tradizionale la grande maggioranza ricorre a misure di protezione: l’educazione fornita a scuola – almeno quella sessuale – a quanto pare funziona. Nel suo studio sugli Usi postmoderni del sesso, il sociologo Bauman sostiene che l’erotismo postmoderno, privo di lacci e catene, è certamente libero di contrarre e sciogliere qualsiasi rapporto, ma è anche facile preda di forze di mercato pronte a sfruttarne i poteri di seduzione. Se Bauman ha ragione, il futuro della prostituzione dipende allora solo dalla pubblicità.

al viale avvisto il vecchio padiglione Rubino e un po’ mi risolleva con la sua struttura ottagonale di legno bianco che rispecchia lo stupore di quando l’ho visto in foto. È stato chiamato così in onore di Ernesto Rubino (1869-1927): industriale biellese dell’acciaio che è stato presidente della società Acque e Terme dal 1919 alla morte. Il suo nome, identico al prezioso minerale, è legato anche a un’automobile da montagna fallimentare. Ma prima di entrare nel dancing Rubino, come è stato ribattezzato negli anni del liscio imperante, svolto a sinistra nel padiglione Carlo Angela. Medico condotto per qualche anno qui, eroe antifascista, e papà del soporifero divulgatore scientifico televisivo Piero, superato in noia mortale solo dal figlio paleontologo Alberto. Soffitti altissimi, tante sedie e tavolini da trattoria, ben pulito e in ordine, vuoto. Qui in fondo ci si serve delle tre fonti : Ausonia, San Lorenzo, e Gaudenziana. La Gaudenziana «stimola la diuresi ed è indicata nelle malattie

renali e delle vie urinarie. Si consiglia di bere un bicchiere in un sorso solo e stando seduti». Così per sport, mi siedo e ne bevo d’un fiato un bicchiere. La San Lorenzo ha un’azione terapeutica su intestino, fegato, vie biliari e pancreas e si consiglia di berla solo al mattino a digiuno. Mi dedico allora esclusivamente alla rinomata Ausonia che inoltre «va bevuta sorseggiando e passeggiando». E via allora, vagabondo bevendo Ausonia. Fuori le solite sedie e tavolini di plastica bianca deprimenti e gerani striminziti. Lo scorcio del nuovo complesso termale è atroce, un’accozzaglia di stili senza stile. La piscina è da incubo, perdipiù rovina la vista del delizioso dancing Rubino disegnato negli anni venti dall’architetto senese Fulvio Rocchiggiani (1868-1947). Il frizzante frontone d’entrata è in stile chalet, il resto orchestrato a graticcio con vetrate spaziose. La cupola a vetri colorati è coronata da un parafulmine a pon pon. Alle spalle, pinete digradanti. Verso l’ora di pranzo a settembre

inoltrato, butto così un occhio dentro il dancing Rubino di Bognanco (663 m). Piange un po’ il cuore: hanno tappato lo spazio della cupola con delle assi. Una palla da discoteca è lì appesa. In agosto hanno fatto diverse serate danzanti con Lando Landi, una con il Duo Arcobaleno, e c’è stata anche la quarantottesima edizione della gara di torte. Nonostante tutto, da fuori, è ancora in gran forma. Starei ore a guardare le losanghe di legno che s’incrociano in cerchi. Del resto il liberty prealpino del Rubino, tra declino idropinico e alluvioni varie, è l’unica vera traccia grandiosa rimasta della gloria perduta di Bognanco Fonti. Quando c’erano quattordici alberghi, un cinema teatro, tennis, sale biliardo, fontane zampillanti fino al cielo, opere, operette, boogie-woogie indemoniati, vestiti a pois, bicchieri di vetro. Un irriducibile bevitore di acqua gazosa si dirige a stento, barcollando in bermuda a fiori, verso il padiglione Angela. Il Bogna, qui sotto a fianco, scorre immutabile.

gigante, vivremo più a lungo e ci sentiremo eterni. Nel 2040 avremo sacrificato l’autonomia, la libertà e la capacità di analisi in nome della comodità e del comfort. Nel nuovo mondo digitale con tutti i suoi sensori di sorveglianza e le digital cloud non ci sarà più posto per l’uomo dell’Illuminismo. Non sapremo più cosa farcene della capacità di giudizio e di discernimento perché gli algoritmi e quelli cui appartengono ci conoscono meglio di noi stessi. Oggi la rivoluzione digitale è penetrata in tutti gli spazi del nostro vivere sociale, luoghi fisici e relazionali, e il mondo è uscito dai binari. E se non interveniamo al più presto per noi si mette male. Parola di Richard David Precht, classe 1964, filosofo e scrittore tedesco, un dottorato su Robert Musil, una rubrica su temi digitali sul settimanale «die Zeit» e una trasmissione televisiva sulla rete pubblica ZDF. Il suo saggio Jäger, Hirten, Kritiker (Cacciatori, pastori e

critici) si divide in due parti: una prima dedicata alla distopia del capitalismo della Silicon Valley e alla retrotopia del nostro tempo, una seconda, più ottimista, dedicata ad una nuova utopia. A proposito della prima parte, Richard David Precht ci avverte che di questo passo diventeremo uomini senza qualità, schiavi delle macchine e della tecnologia. Ci dice «ai tecnocrati e agli speculatori finanziari non è mai importato nulla dell’essere umano. Perché dovremmo lasciare il nostro destino nelle loro mani?». E punta il dito contro i politici che ci governano perché non sono all’altezza, sono senza visioni e incapaci di porre un freno allo strapotere digitale. Se un tempo avevamo politici carismatici capaci di disegnare il futuro oggi siamo in mano a degli idraulici in grado soltanto di mettere delle pezze ai problemi contingenti. Ma, niente paura, Richard David Precht nutre ancora qualche speranza: non perdetevi la prossima puntata.

A due passi di Oliver Scharpf Il dancing Rubino di Bognanco Fedora è l’opera che inaugura, nel luglio 1926, il nuovo padiglione liberty a Bognanco. Località discosta dell’Ossola il cui nome, a quei tempi, lo si poteva leggere per le strade del Greenwich Village di New York. A grandi lettere, sul manifesto pubblicitario della Fonte Ausonia. Ma la vera storia delle acque minerali di Bognanco inizia una giornata dell’estate 1863. Quando la giovane Felicita Pellanda della Possa, pascolando la sua unica capra scopre per caso, non lontano dalle rive del Bogna, una sorgente d’acqua frizzante. Don Fedele Tichelli, parroco appassionato di scienze naturali, ne riempie un fiasco etichettandola come «acqua gazosa di Bognanco» e la fa analizzare da un chimico vallesano. Il responso del dottor Brauns di Sion è entusiasta, definendola, oltre che di tipo minerale alcalino-ferruginosa acidula, «un tesoro ignorato per troppo tempo». E così dunque, come dice il titolo di un valzer composto da Giuseppe Menozzi per l’inaugurazione in grande stile del Kursaal nell’estate 1894: Tutti

a Bognanco. Nessuno a Bognanco, a parte me che accompagnato da una canzone dei Verve alla radio, scendo dal minibus salito su a tutta birra da Domodossola per la contorsionista Val Bognanco. Il Grande Albergo Milano è in rovina, una marea di imposte chiuse di altri alberghi idropinici, nessun bar, ristoranti niente, c’è solo un negozietto di alimentari di quelli ancora con le liane pelose all’entrata. Sulla strada mi scolo un chinotto e contemplo lo sfacelo spirituale emanato dagli edifici trascurati. Harabolos Melenos c’è scritto all’altezza del committente, sul cartello di un cantiere arenato a proposito della ristrutturazione dell’ex hotel-ristorante Centrale : è l’imprenditore greco che da anni tenta il rilancio dopo il fiasco del discusso manager laziale Ciarrapico. Scendo degli scalini e un vecchio ippocastano rincuora un attimo, poi l’entrata alle fonti è così di cattivo gusto che leva ogni possibilità al benessere. Sulla sinistra lo stabilimento per imbottigliare l’acqua. In fondo

La società connessa di Natascha Fioretti L’uomo del 2040 sarà un senzatetto digitale Nel 2040 Mark Zuckerberg sarà il presidente degli Stati Uniti. Google, Apple, Facebook e Amazon, che oggi hanno un valore di mercato di alcuni miliardi di dollari, nel 2040 arriveranno a 50 miliardi. Vivremo nell’era

Richard David Precht. (Wikimedia)

dell’assoluta sorveglianza, avremo più affinità con le macchine e i computer che con la natura e gli animali. Il pensiero, i sentimenti e gli interessi umani, che per il filosofo e il politico Edmund Burke nel 18. secolo costituivano i capisaldi della convivenza sociale e politica, non conteranno più nulla. Le persone avranno perso la percezione del loro corpo, l’istinto biologico, la trascendenza non sarà più di questo mondo. L’uomo dell’anno 2040 è un senzatetto digitale fatto di bits e bytes che si sente a casa ovunque ma non è a casa da nessuna parte. Internet sarà lontano da quel luogo democratico che aveva promesso di diventare agli esordi e sarà invece un monopolio nelle mani di pochi giganti dell’industria che di noi sapranno tutto e scambieranno i nostri dati con i servizi segreti del nostro paese: gli americani Google, Apple, Facebook e Amazon, i cinesi Baidu, Alibaba e Tencent e i russi Mail.

Ru Group e Yandex. «Sappiamo dove sei. Sappiamo dove sei stato, Sappiamo più o meno a che cosa pensi» disse Eric Schmidt, top manager di Google, già nel 2011. Figurarci dove saremo arrivati tra trent’anni... Il mondo dei geek e dei nerd, come in una bolla, si muoverà tra enormi uffici dal design di grido con scrivanie ellittiche e creative, studi fitness, serre, mentre fuori il mondo continua la sua lotta contro i flussi migratori, il cambiamento climatico, la scarsità di risorse, la fame nel mondo… Non saremo più persone o cittadini ma clienti, utenti o consumatori e saremo egoisti, impazienti e pigri. Saremo alla costante ricerca dell’esperienza ottimale, ogni sforzo orientato alla miglior resa al minor prezzo possibile. La nostra vita non ruoterà più intorno all’importanza dell’essere ma del design più responsive cioè in grado di rispondere con più efficienza e velocità alle nostre esigenze e richieste. La medicina genetica avrà fatto passi da


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Ambiente e Benessere Le rocce e la vegetazione Le differenze geologiche nei terreni delle nostre Alpi creano un diverso manto vegetale pagina 19

Il fiore di Achille L’Achillea millefoglio è una delle piante più diffuse nei nostri prati ed ha molte proprietà terapeutiche

Viaggi ed ecologia I mutamenti climatici ci inducono a ripensare le modalità del turismo

Tempo di derby È uno dei momenti più attesi della stagione di hockey: vale la pena di viverlo bene

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Schiena dritta, spalle aperte Apparato locomotore Il depistaggio precoce

delle problematiche di crescita e sviluppo è la chiave per una corretta prevenzione

Maria Grazia Buletti Scoliosi, ipercifosi, iperlordosi: sono tutti termini medici che corrispondono a delle problematiche dell’apparato locomotore (nello specifico della colonna vertebrale) che possono manifestarsi durante la crescita. Questi disturbi possono insorgere in una fascia d’età molto sensibile, quella che va dai 6 ai 18 anni. Se non affrontati adeguatamente potrebbero peggiorare in età adulta, con conseguenze di postura inadeguata, movimenti difficoltosi e dolori cronicizzati. «Un esempio tra i tanti può essere dato dalla scoliosi, un’alterazione della normale curvatura della colonna vertebrale dorsale o lombare, più frequente nel sesso femminile e con tendenza al peggioramento (se non viene individuata precocemente) a causa del progressivo sviluppo scheletrico negli anni», conferma la pediatra Patrizia Tessiatore alla quale chiediamo qualche esempio concreto e le relative conseguenze nel tempo. Sulla stessa linea sono i fisioterapisti Mirco Bianchi e Luca Milesi, rispettivamente titolare della Fisioterapia Il Centro di Locarno e Bellinzona e responsabile del settore di valutazione, prevenzione e terapia «FisioKids». Anch’essi situano fra gli 8 e i 18 anni la fase delicata della crescita di un giovane, periodo durante il quale eventuali anomalie possono («e dovrebbero») essere individuate precocemente attraverso una valutazione anatomica e di postura del ragazzo o della ragazza. Dal canto suo, la pediatra conferma: «Il depistaggio precoce di queste molteplici problematiche che potrebbero presentarsi fa giustamente parte dei controlli periodici di crescita che competono al pediatra». Il medico di riferimento dovrebbe perciò effettuare un cosiddetto screening ortopedico durante tre momenti essenziali: «Alla nascita, con il depistaggio di displasia congenita dell’anca, piede torto, torcicollo, tibia curva congenita e disrafismi. Poi nella seconda infanzia, al momento dell’acquisizione della postura eretta e della marcia su due piedi, con l’obiettivo di verificare difetti persistenti di deambulazione, piede piatto e cavo, deviazioni assiali e torsionali, dismetrie. Infine, in epoca preadolescenziale, per depistare anomalie della colonna come scoliosi e cifosi». Anche la dottoressa Tessiatore individua nell’età adolescenziale il momento in cui il pediatra deve verificare se ci si trovi dinanzi ad anomalie «di or-

dine posturale» o a «effettive alterazioni strutturali», in modo da coinvolgere adeguatamente lo specialista ortopedico pediatrico e le altre figure professionali come il fisioterapista e il tecnico ortopedico, ad esempio. La prevenzione rimane da sempre lo strumento più importante ed efficace che permette di evitare l’evolversi di molte delle patologie a carico della colonna vertebrale dei giovani. La dottoressa Tessiatore ne riassume così la presa a carico: «Pediatra, famiglia e istituzioni hanno il dovere di offrire modelli positivi di approccio al problema e i moderni mezzi di comunicazione possono senz’altro essere un valido strumento per veicolare queste informazioni». La problematica è nota da tempo: di fatto, per rispondere alle necessità di porre rimedio al numero elevato di allievi che allora presentavano gravi problemi alla schiena, negli anni 70 nasceva un Servizio cantonale di ginnastica correttiva che aveva visto la luce per volontà dell’Ordine dei medici del canton Ticino. Il Servizio fu smantellato agli inizi degli anni 2000, quando si demandò ai docenti di educazione fisica il compito di educare al portamento nell’ambito scolastico. «Oggi rimane comunque il bisogno di individuare precocemente l’eventuale insorgenza di queste patologie durante la crescita, anche alla luce dell’aumento delle problematiche di obesità nei ragazzi e l’uso costante di smartphone e tablet che li portano ad assumere una postura curva», afferma Mirco Bianchi, che pone nuovamente l’accento tanto sulla prevenzione quanto sulla presa a carico multidisciplinare dei ragazzi di questa fascia d’età. E la pediatra pone altri spunti di seria riflessione: «Dobbiamo combattere l’eccessiva sedentarietà di oggigiorno, regolando lo smodato uso fino alla dipendenza di smartphone, tablet, tv e computer. Uso che affligge pure le fasce più giovani della popolazione e che rappresenta attualmente il fattore di rischio preponderante per lo sviluppo di patologie a carico dell’apparato muscolo-scheletrico, schiena e collo in primis». Dal canto suo, Luca Milesi è fisioterapista specializzato nello specifico programma di prevenzione e accompagnamento dei ragazzi che presentano una di queste problematiche e porta ad esempio la valutazione che egli esegue per ciascun caso, a sostegno del depistaggio e della presa a carico multidisciplinare di cui ci ha parlato la pe-

Mirco Bianchi e Luca Milesi. (V. Cammarata)

diatra: «In presenza del genitore (che va sempre responsabilizzato dal primo approccio fino all’eventuale accompagnamento rieducativo), la nostra valutazione consiste nel misurare schiena, forza, coordinazione ed equilibrio dei ragazzi. Raccolti tutti questi dati, nostro compito è quello di informare il medico attraverso un rapporto dettagliato, ponendo così le basi per una rete di presa a carico lungo tutto l’arco di tempo dell’accompagnamento, al cui centro stanno il giovane, la sua crescita e il suo regolare percorso con fisioterapeuta, pediatra e naturalmente famiglia». A proposito dell’ambito famigliare, Bianchi spiega l’importanza della presenza attiva dei genitori: «Integrandoli, possiamo ricavare parecchie informazioni utili alla corretta presa a carico del giovane: sapremo se il bambino è in sovrappeso, se ha abitudini non corrette a casa, se dorme sempre

sulla schiena… Tutte informazioni preziose che i genitori sapranno fornirci e confermarci, mentre il bambino stesso andrà responsabilizzato nella problematica che presenta, potrà decidere la presenza o meno del genitore e, nel percorso di accompagnamento post valutazione, riuscirà a prendere coscienza del suo corpo, correggere postura, coordinazione, equilibrio e sentirsi più sicuro di sé». Secondo i fisioterapisti, in una presa a carico che accompagni la crescita corretta e restituisca al ragazzo un benessere psicofisico adeguato, le valutazioni andranno ripetute e verificate a cadenza regolare, dopo 3, 6 e 12 mesi dall’inizio, sviluppando un rapporto di fiducia in cui il giovane o la giovane saranno parte attiva, acquisteranno maggiore consapevolezza e fiducia in un corpo che crescerà armonioso, con postura e apparato muscolo-scheletrico

sani. «Non dimentichiamo che l’attività sportiva e il gioco all’aria aperta dovrebbero essere parte integrante delle attività quotidiane di bimbi e giovani, mentre la sedentarietà va assolutamente evitata», conclude la pediatra Patrizia Tessiatore.

Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista con Mirco Bianchi.


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Ambiente e Benessere

Crêpes di castagne ai fichi

Migusto La ricetta della settimana

Dessert o merenda Ingredienti per 4 persone: 30 g di burro · 80 g di farina · 1 presa di sale · 2 dl di

latte · 100 g di purea di castagne surgelata, scongelata prima dell’uso · 4 uova · burro per cuocere · 8 fichi · sciroppo d’acero, per guarnire.

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

1. Fate sciogliere il burro. Versate la farina e il sale in una scodella. Mescolate il latte con la purea di castagne e incorporatela alla farina, mescolando fino a ottenere una massa liscia. Incorporate le uova e il burro fuso. Lasciate riposare la pastella per ca. 15 minuti. 2. Scaldate il forno a 60 °C. Fate fondere poco burro in un’ampia padella antiaderente. Versatevi un piccolo mestolo di pastella e distribuitela sul fondo della padella inclinandola. Dorate la crêpe da entrambi i lati a fuoco medio. Per persona preparate allo stesso modo due crêpes e tenetele in caldo in forno. Tagliate i fichi a spicchi e serviteli con le crêpes e lo sciroppo di acero. Preparazione: circa 25 minuti + riposo ca. 15 min. Per persona: circa 12 g di proteine, 17 g di grassi, 47 g di carboidrati,

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Ambiente e Benessere

I fiori sono differenti se le rocce sono diverse Biologia S truttura e chimismo dei suoli originano la diversificazione della flora

Alessandro Focarile La storia geologica delle Alpi, la sua complessità, e la presenza di numerosi tipi di rocce acide (gneiss, graniti, scisti, porfidi e serpentini) e di rocce carbonatiche (calcari, dolomie, gessi e, in parte, i calcescisti) sono all’origine della ricca flora che possiamo ammirare fino alle più alte quote durante le escursioni alpine. E questo, grazie ai differenti tipi di suoli che derivano da questa notevole varietà di rocce (litologia): sia per dissoluzione chimica delle rocce carbonatiche, sia per la disgregazione e frantumazione (le rocce acide). Nel corso dei millenni si è lentamente insediata e prospera tuttora una flora altrettanto differenziata, multiforme e colorata. Dodici specie di piante con fiori sono state osservate oltre i 4000 metri nelle Alpi Bernesi, sul Cervino e nel massiccio del Monte Rosa. Il record di altitudine è detenuto dal ranuncolo dei ghiacciai (Ranunculus glacialis) osservato poco sotto la vetta del Finsteraarhorn a 4272 metri slm. Una cinquantina di specie è nota tra 3500 e 3900 metri slm sulle massime vette del «tetto d’Europa». Si tratta di piante con fiori, dunque organismi molto evoluti, e caratterizzati da una notevole complessità biologica. Ma, vegetali primitivi, molto più semplici per struttura come i licheni e i muschi sono stati osservati fino sulla vetta della Punta Dufour (Monte Rosa) a 4638 metri slm, clamorosa evidenza del fatto che la vita vegetale macroscopica non conosce ostacoli per insediarsi fino alle quote più elevate non solo nell’Eurasia, ma anche nelle Americhe. I rigori del clima alto-alpino, evidenziati da una accentuata radiazione solare accompagnata con un aumento dei raggi ultravioletti (UV), luminosità e ventosità, forti scarti termici, e da una altrettanto notevole siccità atmosferica, sono tutti fattori fisici selettivi all’origine di una serie di adattamenti fisiologici che consentono la vita anche in condizioni estreme sopra la superficie del suolo e delle rocce, e delle loro fessure – per esempio le piante a cuscinetto nonostante il corto periodo vegetativo. Sotto il manto nevoso, che può perdurare durante 9-10 mesi all’anno, è assicurata la continuità (seppure rallentata) delle funzioni vitali. Inoltre, le temperature non sono tali da ostacolare la vita. Si può dire che il vegetale ha più da temere durante la corta stagione estiva quando è fuori terra, che non durante la lunga stagione invernale. Questa flora alpina ha origini molto antiche, e la sua provenienza è altrettanto arcaica, quando le terre emerse avevano una configurazione geografica completamente diversa rispetto a quella attuale, Una flora che, grazie a recenti studi, mostra significativi segnali di una differente collocazione in funzione dell’altitudine, sotto la spinta di un contingente floristico di più basse altitudini a seguito dei cambiamenti climatici ormai in atto da diversi decenni. Specie borea-

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Il laghetto dei Corti, a 2181 metri di altitudine, in alta Valle Malvaglia. (Alessandro Focarile)

Oreina melanocephala. (Alessandro Focarile)

Oreina melancholica. (Alessandro Focarile)

li giunte da Nord, specie asiatiche di clima temperato come la stella alpina (Leontopodium alpinum) e molte altre sono giunte da quell’enorme serbatoio di vita vegetale (e animale) costituito dalle alte terre, dal Tibet, dall’Asia centrale, dal Caucaso e dall’Anatolia. È sufficiente osservare una carta geografica a piccola scala per rendersi conto di quali enormi territori di milioni di chilometri quadrati incombono ad Oriente fino all’Oceano Pacifico, e quanto la nostra Europa sia una ben modesta entità geografica in confronto a quello che si estende verso Est. Nel cuore delle Alpi Lepontine, formate e dominate da imponenti affioramenti di rocce silicee, principal-

mente gneiss, esistono diverse «isole» di rocce carbonatiche. Sono montagne che anche l’occhio del profano riesce a distinguere a causa del loro biancheggiare, che si perde entro vaste distese grigiastre. La zona del Campolungo sui due versanti tra la Valle Maggia e la Leventina, l’alta Val Piora, la zona del Pizzo Forca nell’alta Valle Malvaglia (Valle Blenio). E, proprio su quest’ultima montagna merita dilungarsi, perché ha un valore emblematico del fenomeno litologico, per il suo isolamento e per le sue peculiarità floristiche. L’apertura (anno 2000) della Capanna Quarnei posta a 2107 metri slm. nel maestoso bacino iniziale dell’alta Valle Malvaglia, facilita l’accesso e lo

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

studio di un settore alpino del massimo interesse naturalistico. Territorio che, finora, era rimasto pressoché sconosciuto e negletto a causa delle concrete difficoltà logistiche e di soggiorno. Il Pizzo Forca 2583 metri slm. è chiaramente individuabile ad Ovest della Capanna Quarnei. Il biancore della montagna contrasta con le oscure masse gneissiche delle cime contigue: a Nord verso i contrafforti dell’Adula, verso Sud la cresta degradante alla Cima di Piancabella ed al Simano che domina Acquarossa. Dall’Alpe Quarnei, sotto la Capanna, il sentiero si inerpica ripidamente per superare l’antica morena. È un ammasso di sfasciumi di vario calibro, già ricoperto da una rigogliosa vegetazione erbacea ed arbustiva tipica dei suoli silicei, con molto rododendro (Rhododendron ferrugineum). Superata la morena, il pendio diventa più blando, e un piccolo ripiano glaciale racchiude il Laghetto dei Corti, a 2181 metri slm. Si punta verso il dominante Pizzo Forca all’inizio del vallone. In corrispondenza di un visibile «ometto» di sassi ammonticchiati, entriamo nella zona calcarea. Se osserviamo con attenzione, notiamo che in poche decine di metri il suolo, è più chiaro (se esposto), molto scuro e nerastro tra le chiazze di vegetazione. Quest’ultimo è tale per l’accumulo di humus, assorbe più calore grazie alla sua colorazione, e trattiene maggiore umidità a causa della sua struttura più minuta. Marcato ed evidente è pure il cambiamento della flora: i gialli ranuncoli sono sostituiti dai densi

tappeti del camedrio alpino (Dryas octopetala), con le sue brillanti e lucide foglie, dalla stella alpina (Leontopodium alpinum, Edelweiss), inoltre, dalle ampie corolle rosso-vino dell’astro alpino (Aster alpinus), ed i rotondeggianti capolini della globularia. Tutto vivacizza il variopinto e differente quadro. Sono piante «calcicole» e la loro modesta statura (3-5 centimetri) indica che qui la neve perdura a lungo. Più in alto (2500 metri) siamo alla base del Pizzo Forca: un’ampia e biancheggiante colata di detriti (ganna) fascia la base della parete. Pare essere priva di vita, ma tra i massi ombreggiati spicca il brillante giallo del doronico dei macereti (Doronicum grandiflorum), con le foglie spesso mangiucchiate dalle larve e dagli adulti di un bel coleottero di un nero intenso (Oreina melancholica). Ed è interessante ricordare che sono note due specie di doronici: una su carbonati (Doronicum grandiflorum) con il suo coleottero nero. Un’altra (Doronicum clusii) su rocce silicee. Quest’ultima nutre la specie di coleottero sorella di Oreina: O. melanocephala, che si distingue per il suo colore di un bel rosso-corallo. È un significativo esempio di «vicarianza alimentare» (=sostituzione), sia a livello vegetale, sia a quello animale. Esso testimonia la netta separazione biologica su rocce completamente differenti, instaurata in micro-ambienti che occupano le stesse aree geografiche. Ma il cammino evolutivo di queste comunità di piante ed insetti è stato lungo e complesso, quanto la venerabile età delle Alpi.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Ambiente e Benessere

Achillea, medicina dell’antichità

Fitoterapia Omero racconta di come fosse usata quale pianta terapeutica già durante le guerre troiane Eliana Bernasconi L’Achillea millefolium, della famiglia delle Asteraceae, fiorisce da maggio a settembre nei prati aridi di montagna e collina, lungo i ruscelli, nei fossi, ovunque, sparsa a capriccio dal vento. Impossibile non notarla. A volte può diventare infestante: può raggiungere i 40cm in altezza. Ha un fusto slanciato e duro. Sembra fragile, invece è fortissima. I fiori dalla caratteristica forma a ombrello hanno delicate gradazioni, dal bianco pallido al bianco rosato che sfuma nel lilla, e a volte, raramente, nel violetto. Possiede un profumo particolare, acuto e amarognolo. Come indica il suo nome, le foglie crescono alternate sul fusto. Sono lunghe e presentano una lamina frastagliata in mille piccolissime foglioline, ottime cotte in zuppe di verdura, minestre e frittate, o crude nelle insalate. I nomi volgari della pianta sono molti, vedremo perché: è detta «Stagna sangue», «Erba dei crociati», «Erba militare», «Erba dei tagli», «Erba dei somari». Raccogliamo oggi la stessa erba che l’eroe omerico Achille, cui deve il nome, usava durante la guerra di Troia per guarire le ferite del suo compagno, dietro suggerimento del Centauro Chirone, suo maestro in medicina, ispirato da Afrodite della quale godeva la protezione. L’Achillea era apprezzata anche dai Celti, che ne consideravano la raccolta come un rito religioso. Durante le crociate i combattenti portavano con loro foglie essiccate di millefoglio, dai forti poteri cicatrizzanti. E poteva forse

mancare Ildegarda di Bingen, l’illuminata monaca del Medioevo che ormai conosciamo? Così scriveva: «Il millefoglio è un po’ caldo e secco e ha forze particolari e buone per le ferite. Infatti se per disgrazia un uomo è stato ferito si lavi la ferita con vino e sul panno che sta sopra fasci leggermente del millefoglio caldo, bollito moderatamente nell’acqua e successivamente moderatamente strizzato, ed esso toglie alla ferita il marcio e le ulcere e guarisce, e si faccia spesso così finché necessiti, ma chi sia stato ferito da spiedi o ha ricevuto una ferita all’interno del corpo, polverizzi questo millefoglio e beva quella polvere nel vino caldo finché non sarà guarito». All’alba del terzo millennio potrebbe questa pianta avere perso tante virtù? Accostiamola quindi con grande rispetto: le sommità fiorite si raccolgono da giugno a settembre, si seccano all’ombra e si conservano in barattoli o scatole di cartone. Dal punto di vista dell’analisi chimica la pianta è ricca, complessa e continuamente studiata. Sono stati identificati centinaia di composti: l’essenza contiene ad esempio canfora, eucaliptolo, cineolo, limonene, resina amara, tannini e molti altri acidi organici. È inoltre ricca di composti dalle proprietà antiossidanti, presenti nel regno vegetale, nella frutta e nella verdura, che hanno la funzione di difendere la pianta. L’Achillea ha proprietà rimineralizzanti e vaso dilatatorie, cura mani e piedi freddi: per uso esterno è antisettica, la tintura madre ha proprietà antiinfiammatorie, antispasmodiche, emostatiche, ipotensive.

È molto diffusa nei nostri prati e facilmente riconoscibile. (Wikimedia)

Non sono noti effetti collaterali, se usata secondo le indicazioni (non dimentichiamo mai che le erbe non sono prive di pericolo solo perché naturali), si sconsiglia ad esempio la sua assunzione durante la gravidanza e l’allattamento a causa delle sue proprietà emmenagoghe (cioè di favorire le mestruazioni). Nella medicina popolare l’infuso della pianta fiorita era ritenuto digestivo e antispastico intestinale. Il decotto di Achillea, iperico e lichene d’Islanda era bevuto contro

la bronchite, mentre contro la tosse si preparava un infuso di fiori di Achillea, tussillaggine e tiglio. Per cicatrizzare le ferite, trattare ragadi e emorroidi si applicava un impiastro preparato riducendo in poltiglia erbe e fiori freschi. Nelle campagne non era usata solo per le qualità medicinali, ma anche perché aveva la proprietà di conservare il vino: si metteva infatti un sacchetto di semi di Achillea nella botte. L’Imperatore e indovino cinese Fu Hi raccomandava di costruire le 50

bacchette divinatorie per ottenere gli esagrammi dei responsi dell’I-Ching (il celebre Libro delle Mutazioni usato in Cina per prevedere il benessere pubblico e gli affari di Stato) usando i forti steli dell’Achillea. Bibliografia

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Ambiente e Benessere

Sotto questo sole

Kerouac è datato?

il cambiamento climatico

letture per viaggiare

Bussole I nviti a

Viaggiatori d’Occidente Un turismo più consapevole può rallentare

Claudio Visentin «Un’estate senza fine» (Endless Summer). Così negli anni Cinquanta del Novecento i surfisti descrivevano la loro vita ideale: lunghi viaggi intorno al mondo puntando sempre verso oriente, rincorrendo il sole e l’onda perfetta. Quel sogno però potrebbe presto diventare un incubo a causa del cambiamento climatico. L’estate 2018 è stata davvero infinita, ma nel senso peggiore del termine. Infatti è stata una delle più calde di sempre (0,77 gradi in più rispetto alla media del ventesimo secolo), in buona compagnia di quasi tutti gli ultimi anni. Già prima dell’estate si sono accumulati segni inquietanti. Una recente ricerca dell’Università di Ginevra, basata su immagini satellitari, ha mostrato quanto si stia riducendo la neve nel nostro Paese: in poco più di un decennio oltre tremila chilometri quadrati di manto nevoso si sono sciolti, un quinto del totale. Tra le conseguenze – e forse non è neppure la più importante – il turismo degli sport invernali potrebbe scomparire proprio nel Paese dove fu inventato. È un mondo sottosopra. Quest’anno le temperature invernali nell’Artico sono state le più alte mai registrate: in due giorni di febbraio ha fatto più caldo al Polo nord che a Zurigo… Al tempo stesso secondo «Nature», una delle più autorevoli riviste scientifiche del mondo, la corrente del Golfo sta rallentando; la sua velocità è la più bassa degli ultimi milleseicento anni e questo riduce il suo effetto nel mitigare la rigidità del clima nordeuropeo. Potrebbe andare peggio? Sì. Il riscaldamento globale potrebbe non essere un processo graduale e ordinato; varcata una soglia critica (che non conosciamo) il cambiamento potrebbe accelerare e diventare improvviso e radicale. La storia della Terra del resto è costellata di epoche dal clima estremo, con conseguenti estinzioni di massa. Fermiamoci qui per adesso. Del resto, anche se spesso preferiamo voltare la faccia dall’altra parte, la situazione è ben conosciuta, soprattutto a chi viaggia spesso. David Goodrich ha studiato il clima per tutta la vita alla National Oceanic and Atmospheric Administration americana. Dopo la pensione è partito per un viaggio in bicicletta attraverso gli Stati Uniti per rendersi conto sul campo del cambia-

«Sarà stato un anno fa: una di quelle discussioni che di tanto in tanto si avviano su Facebook con amici che il lavoro, piuttosto che una vocazione al nomadismo, ha portato lontano. Giusto il tempo di pubblicare la foto di un ostello con un’intera parete occupata da un ritratto di Kerouac, più le lettere di un titolo che da sempre è assai più di un titolo: On the Road… “A essere onesti, l’ho riletto” aveva commentato l’amico “non ci crederai, ma è maledettamente datato. Una noia” . “Quasi quasi ti credo. E non so se provarci anch’io” . “Non lo fare. Sembrava tanto trasgressivo, invece è roba da liceale del fine settimana. Risparmiati il dolore…” »

Le foreste del Cameron Pass, nel Colorado, sono decimate dagli incendi. (fs. usda.gov)

mento in corso, specie dopo il ritiro dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015 imposto da Donald Trump. Quasi ogni tappa dell’itinerario ha mostrato segni inequivocabili: nel Cameron Pass (Colorado) le verdi foreste sono ridotte a una distesa di alberi grigi dopo devastanti incendi (sempre più frequenti e violenti), mentre grazie al caldo gli insetti divoratori del legno si riproducono a una velocità doppia del normale. L’intensità e la forza distruttiva degli uragani sono aumentate e il mare divora le coste. Nel Glacier National Park (Montana) i ghiacciai più piccoli potrebbero scomparire già nei prossimi dieci anni e i galli cedroni fanno il nido sempre più in alto. Il solo segno di ottimismo è la diffusione crescente di fonti di energia rinnovabili, sole o vento. Il viaggio insomma ci strappa dalla nostra stanza con aria condizionata dove possiamo cullarci nell’illusione che si tratti solo di eventi eccezionali e quasi ci costringe a renderci conto davvero della situazione. Purtroppo però proprio i viaggi sono a loro volta parte del problema. Il turismo potrà sembrare leggero e svagato, ma in realtà è la terza attività economica mondiale dopo la chimica e il petrolio, davanti a colossi come l’automobile o l’industria alimentare. Si capisce facilmente come il suo impatto climatico sia considerevole. Nel 2017 gli arrivi sono saliti alla quota record di un mi-

liardo e trecentoventitré milioni (+7 per cento rispetto al 2017); la proiezione al 2030 raggiunge un miliardo e ottocento milioni, naturalmente con una quota crescente di cinesi. E parliamo solo di turismo internazionale, poiché il turismo interno ai diversi Paesi è molte volte maggiore. Poco più della metà dei viaggiatori internazionali si muove per svago. I viaggi di lavoro per esempio sono soltanto il 13 per cento del totale (dati UNWTO 2016). La maggior parte dei viaggi internazionali avviene in aereo (55 per cento) o su gomma (39 per cento), solo il 2 per cento utilizza il treno. Quando in una notte d’estate, distesi nell’erba, vedete il cielo solcato dalle scie degli aerei, sappiate che uno su due trasporta turisti. Viaggiamo troppo. Nell’inedito scenario dell’iperturismo, sospinto anche dalle compagnie low cost e dalle nuove tecnologie, i viaggi sono diventati sempre più brevi e frequenti. Andiamo a Barcellona anche solo per prendere un caffè, come un tempo si guidava sino al mare per noia in una notte d’estate. Ma in questo modo lasciamo dietro di noi un pesante fardello di CO2, liberata nell’atmosfera proprio nel momento peggiore. Per cambiamenti veri, per invertire la tendenza, occorreranno scelte drastiche e coraggiose. Ma intanto sin da ora una prima soluzione è comunque a portata di mano: viaggiare meno

ma più a lungo, tornando a un modello «classico» di vacanza. Dopo tutto la cultura del viaggio contemporanea, grazie a una nuova capacità di osservazione, ha promosso il turismo di prossimità, al limite anche soltanto nei dintorni di casa. Alternando la riscoperta del proprio territorio e delle regioni vicine a pochi, lunghi viaggi internazionali nei luoghi ai quali siamo veramente interessati, senza preoccuparci troppo delle mode, possiamo sin da ora ridurre di molto il nostro impatto ambientale. E questo senza nulla togliere al piacere di viaggiare, vedere, conoscere, anzi liberandoci dall’infelice condizione, caratteristica del turismo contemporaneo massificato, di distruggere i luoghi che più amiamo.

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Il viaggio on the road è forse il primo al quale dovremo rinunciare a causa del cambiamento climatico. E dunque niente più scorrerie lungo i rettilinei infiniti delle strade americane, allineando il ritmo dei pensieri al rumore del motore. Niente più divagazioni, incontri casuali in motel improbabili, rari momenti di illuminazione alternati alla depressione. Di quella forma di viaggio Jack Kerouac è stato il cantore con il suo libro On the Road, pubblicato nel 1957. Mentre l’America bianca e ricca, uscita vincitrice dalla Seconda guerra mondiale, imboccava spensierata la via del consumismo, un piccolo gruppo di giovani – la Beat Generation – rompeva gli schemi e le regole con la più semplice e immediata delle rivolte: partire. «Schiodate i chiavistelli dalle porte! Anzi schiodate le porte stesse dai cardini!» aveva scritto il poeta Walt Whitman, padre nobile di quella generazione ribelle. Il libro di Kerouac ebbe un successo straordinario, ma quanto quel modo di viaggiare è ancora nostro, ancora attuale? Insomma Kerouac è datato? Abbastanza, secondo me. Meno di quanto potrebbe sembrare, secondo Paolo Ciampi, nell’intelligente introduzione a questa antologia assai curata. Il giudizio finale a voi, lettori. Bibliografia

Paolo Ciampi, Jack Kerouac. The Man on the Road , Edizioni Clichy, 2018, pp.160, € 7,90.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Benvenuti a Derbylandia

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Sportivamente Con due squadre in poche decine di km, il Ticino è una sorta di paese della cuccagna. 1

Ma non sempre c’è da divertirsi

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Giochi

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Momento concitato di un derby nella scorsa stagione. (CdT - Gonnella)

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Concedetemelo: sono momenti da pelle d’oca a prescindere dal credo hockeistico che hai tatuato sulla pelle. Domani sera alla Resega, anzi, alla Cornèr Arena, torna il derby, il primo 7 nuova stagione. E il Ticino divendella ta Derbylandia, una sorta di paese delle 2 2 squadre 3 meraviglie , con di National League, a sud e a nord del Monteceneri, capaci 1 di creare un clima 9 da far impallidire il Röstigraben. Ci fanno e ci faranno vibrare, cantare, 1 discutere nei9bar, ma purtroppo qualcuno si sentirà legittimato a compiere atti di cieca violenza. 6 Visto 8 che la maggioranza delle 7 tifoserie è sana perché non concludere invece la serata tutti insieme davanti a una birretta, rievocando i momenti più spettacolari9 del match e magari 3 anche quelli 6 controversi, come quel gol annullato all’Ambrì Piotta o quell’espulsione dub1 bia rifilata a Bertaggia quando il Lugano era in doppia superiorità numerica? In fondo si tratterebbe solo di relativizzare la portata dell’evento. Si tratta di un semplice partita di hockey su ghiaccio che, al di là della gioia del momento, non modificherà di una virgola la nostra esistenza. Se abbiamo problemi in casa o 7 sul lavoro, non sarà una doppietta di Lapierre o di D’Agostini a risolverli. 2 Lasciamo che siano i giocatori a prendersi a spallate, e qualche volta, a 4 Si dice che faccia 3 parte del giocazzotti. co, tant’è che alla fine si incrociano a centro pista 9 per5stringersi 2 la mano e magari per abbracciarsi. Inoltre, date le esigue dimensioni 8 del Ticino, non escludo che a volte i nostri eroi si incontrino anche per bere un bicchiere. Perché non 1 già da doprovare ad imitarli, magari mani sera?

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N. 35 DIFFICILE

lavoro fa, se è sposato, se ha figli, le si chiede la fede hockeistica. Nessuno si sognerebbe di picchiare a sangue un individuo perché è insegnante, ferroviere, scalpellino o impiegato. E neppure gli metterebbe addosso le mani in virtù della sua condizione di coniugato, fidanzato, single o vedovo. Per il semplice abbinamento di colori invece sì! Se sei «Piotto» o «Corvo», ti potrebbe tranquillamente arrivare una legnata tra capo e collo, così, senza un motivo, o, per lo meno, io faccio fatica ad individuarne. Il tifo, ben inteso, non mi scandalizza: è gioia, passione, emozione,

condivisione di uno spettacolo, festa. cessiva, la curva nord bianconera cantò Riesco, entro certi limiti, persi- per quasi 60’ «O che bel3castello, 9 marno a capire e a giustificare la violenza condirondirondello». Trovo che sia staverbale, purché non offenda e umili la ta la risposta più geniale che si potesse 6 persona. Mi piace il vigore creativo, che dare: non offendeva nessuno, ma feriva fa rosicare, che ti porta a pensare: acci- l’orgoglio della tifoseria avversaria. E 5 denti questa volta l’hanno pensata dav- che dire del crescendo rossiniano della vero bella! curva sud biancoblu quando comincia Giochi per “Azione” - Settembre 2018 Ricordo, alcuni anni fa, una di- adStefania intonare:Sargentini «Che bello 8 è, quando esco 7 chiarazione di Roland Von Mentlen, di casa, per andare alla pista...», oppu(N. 33 -allenatore Furetto potpotta - AlcePiotta, bramisce) allora dell’Ambri il re il «non mollare mai» recitato quasi 1quale 2 3 4 5 6 play 7 dopo un derby di off 8perso F U come C un O mantra R Edalla N Nord A T nel O 2006, 9dai suoi alla Valascia 10 disse: «Comince- quando il Lugano ribaltò la serie dei I T O P A R E O T 4 remo da domani a smontare il13 castello quarti di finale e volò verso la conqui11 12 D I P A S T O S I bianconero». Durante la 16partita suc- sta del titolo svizzero. 14 15

Giochi per2 “Azione” - Ottobre 7 6 Stefania Sargentini Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il 2 cruciverba 7 17

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O L F A T I L O T B O L I R A R I U S A N Z TN. 33 I FACILE E L

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T O C A T A L U C E R MSUDOKU I PER AZIONE - SETTEMBRE 2018 E C E

e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 3 8 (N. 37 - Duecentottantaquattro) 25

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Schema

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5 6 9 4 Soluzione: 4 P2 R E Scoprire i 3 R3 E O 7 9 numeri corretti 5U 8M da inserire nelle A G caselle colorate. O D I P A 8 7 9 1 S T C U R 1 E S O N D 9 2 6 S A R T A R A R I 5O

N. 1 336 DGENI U N2 5E6 S 6A 4T S E E 9N L E V O 6 5 A A 7 S P

S A N N. 34 MEDIO E Q U (N. 35 - “... se vuoi inizio con quelle in croato” 23 7 S E5 R N1 V OA 2U M I N E S S M I 27 2 1 9 L O A I O BN IC1C O N E R E D I 29 8L A S E QT U 6 EA V 4 6 23

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(N. 34 - ... prestagli le tue scarpe)

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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ORIZZONTALI 1. Si formano nel deserto 5. Le iniziali di un Simone cantante 7. L’avrebbe amata Bacco 9. Andate alla latina 10. Un colpo all’uscio 11. In italiano e in tedesco 12. Idonea 13. Degna di venerazione 17. Componente dell’aria 18. Giusti, equilibrati 19. I ricchi più poveri 20. Simbolo chimico del sodio 21. Del cittadino 24. I primi rudimenti 26. Logore, consumate 27. Pronome personale

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N. 34 MEDIO

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Cruciverba Per scoprire quante sono le colonne di piazza San Pietro a Roma, risolvi il cruciverba e leggi le lettere evidenziate. (Parola: 21)

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Giancarlo Dionisio Nella vita siamo chiamati a schierarci sin dalla prima infanzia. Vuoi più bene al papà o alla mamma? Uomo Ragno o Superman? Milan o Juventus? Lugano o Ambrì Piotta? Tutto ciò molto prima che si riesca a percepire il senso dell’esistenza, con tutti i suoi bivi fondamentali: studio o lavoro, matrimonio o convivenza, religiosità o ateismo, destra o sinistra. In Ticino il più delle volte ci troviamo di fronte al Bivio per antonomasia, quello che ti fa vibrare, sognare, cantare, esultare, soffrire, piangere: Ambrì o Lugano? Scusate, per par condicio propongo anche l’altra variante: Lugano o Ambrì Piotta. Dal colore dell’interlocutore, bianconero o biancoblu, si capisce se ci troviamo di fronte ad una brava persona o ad un losco figuro, che dico, ad un nemico. Le cronache di fine 800 narrano di randellate tra Liberali e Conservatori, di famiglie che non si parlavano in virtù degli opposti orientamenti politici, di matrimoni misti che non potevano neppure essere immaginati. Oggi, in politica, le bastonate hanno traslocato sui social media, trasformate in tweet e post. Fanno meno male dal punto di vista fisico, ma hanno una forza deflagrante che può provocare una sofferenza maggiore. Anche lo sport non disdegna la parola scritta, tuttavia ha saputo mantenere un sano rapporto diretto tra gli interlocutori. Da noi, essere bianconero o biancoblu pare essere una condizione imprescindibile. Quando si incontra una nuova persona, prima ancora di chiederle che

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4 GA 6LIE 9N M 7 E E S E M 9 C P 4 H I 2I E

I T 1 T O T A 9 I A O R I I V 3C L2 Z O 6 E IL I 9O97 D 8 IO L EL O

1 3 S7 C 3 4 8 1 2 7 9 6 5 7 4 8 O1 7T9 6E3 C 5 2 A 9 6 1 5 8 2 4 3 7 E7 12 5 84T 6 O 3 8 C 9 1 4 8 3 7 9 1 5 2 6 A T T A 8 3 7 2 1 4 6 5 9 8 4 A56 391Z24 38O758 69T 13 O 7 2 7 3 5 V A R I 9 6 4 7 3 8 2 5 21 I 7 5L1 9E 4 2 6 T 3 8 3 2 8 1 6 5 9 7 74 S8 7E5 4 2 3T 1 U 6 9 5 2 2 9 3 6 8 1 5 4 7 A R C O 1 4 6 5 7 9 8 2 3 9

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F L I N I 6 E 5 1 7 2 9 4 3 8 6 I 9 C 3A R M C R A 6 9 1I P O 6 3 9 8 5 7 4 1 2 Soluzione della settimana precedente I ADALLA T O MALESIA O S – In Malesia per4salutarsi 8 SALUTO 2 8 2si incrociano 3 1 6 le7braccia… 9 5 UN

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19. Prefisso di parola composta (N. 38 - ... giapponese, che significa aereo la rana porta fortuna)

28. Un mobile 29. È fatto come una... volta

1 2 3 VERTICALI 1. Essenza divina 2. Lo9è il cibo fritto 10 3. Il padre di Sem e Cam 4. Le iniziali di Torricelli 12 13 5. Un famoso Gerry 6. Albero tropicale 8. Uno Scola regista15 12. Pianta decorativa sempreverde 13. Il senato francese 17 18 14. Porto principale della Giordania 15. È nudo a Monte Carlo 16. Uno 20 scatto del bilanciere 17. Opinione a Parigi

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22. Bagna Strasburgo 4 23. Possessivo 5 6 7 8 frase: … SUL TORACE PRENDENDOSI LE SPALLE CON LE MANI. (N. 36 - ... sul torace prendendosi le spalle Resto con ledella mani) N. 35 DIFFICILE 25. 105 romani 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 3 9S U O L E 7T A L O R A 27. Le iniziali del cantante Cutugno 3 9 1 6 5 8 7 2 4 11

G I G A P O L I P O R E E UO6 N2NI COE P I R S4 8E6 2 3 7U 9 5L 1 A M I vincitori14 5 E4 N O 3 D E B B I O 2 7 5 4 1 9 3 6 8 TAI RO O F E R R I A E L R E 8 7 9 5 2 5 2 4I 3 8 6 7 1A9 G O N E D O T T A S A Vincitori del 16concorso Cruciverba 8 1 2 3 7 8 4 6 9 5 LNI L EC S T A A P A NI su «Azione 38», del 17.09.2018 P 4 1 9 5K4 3 I 6 2E 1 V 8 7 S. Meneghelli, M. Orsoni, A. Perotti L L E C C I B O N D 19 2 7 6 5 4 2 9 7 1 8 3 6 Vincitori del concorso Sudoku C I E G A O M E L I A TE N RI2 M A M 7M A C O R T E su «Azione 38», del 17.09.2018 6 1 8 5 2 3 4 7 9 A R T E 21 C. Cattaneo, G. Corti 3S D R8 A I O O A S NI O I R EF O7 3 9 8 4 6 5 1 2 N. 36 GENI 22 23 I premi, cinque carte regalo Migros Partecipazione online: inserire la luzione, corredata da nome, cognome, è possibile un pagamento in contanti 6N 9 O 7 4 6 I vincitori 9 2 5saranno 3 1 avvertiti 7 8 I partecipante RdeveA dei T del valore di 50 franchi, saranno sor- soluzione del cruciverba o del sudoku 4 indirizzo, email del premi. 24 tra i partecipanti25 teggiati che avranno nell’apposito formulario pubblicato essere spedita per iscritto. 1 a8 «Redazione Azione, 3 7 Il5 nome 9 1dei8vincitori 2 6 sarà 4 fatto pervenire la soluzione corretta sulla pagina del sito. Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». pubblicato su «Azione». Partecipazione I U C E N T1 8 2 4 6 7 9 5 3 1 entro il venerdì seguente la pubblica- Partecipazione postale: la lettera o Non si intratterrà corrispondenza sui riservata esclusivamente a lettori che 26 3 legali8sono escluse. Non 7 2in Svizzera. 4 5 3 9 8 1 6 zione del gioco. la cartolina postale che riporti la so- concorsi. Le vie risiedono L I P A S I 9 7 3 5 8 9 1 6 7 2 4 3 5 11

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M per il Magico autunno.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Politica e Economia Terrore in Iran L’attacco durante una parata militare ad Ahvaz è un colpo al cuore del potere degli ayatollah

Sfida all’ordine costituito I populismi nazionalistici alla Trump e alla Salvini mettono in questione la democrazia rappresentativa pagina 29

Un astro offuscato Un viaggio pagato dall’emiro ad Abu Dhabi e un corollario di menzogne mettono in difficoltà Pierre Maudet

Come salvare le pensioni Solo una minoranza accetta l’innalzamento dell’età di pensionamento

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Un patriota, non un globalista

La reazione di Trump all’ilarità suscitata da una sua vanitosa dichiarazione durante l’assemblea generale dell’ONU. (Keystone)

USA Il discorso del presidente americano alle Nazione Unite ha confermato i temi della sua strategia Federico Rampini «Non mi aspettavo questa reazione, ma è ok». Donald Trump incassa così la risata spontanea con cui altri leader hanno reagito alla sua vanteria. Pochi attimi prima, parlando al Palazzo di Vetro, lui aveva detto: «La mia Amministrazione ha realizzato in meno di due anni più cose di quasi tutte quelle che l’avevano preceduta». I media Usa sono balzati sull’incidente, per ricordare che quand’era candidato Trump accusava Barack Obama di «farsi ridere dietro dal mondo intero». Sia consentita qui una parentesi sui media americani: hanno relegato il summit mondiale dell’Onu a evento secondario, rispetto alla politica interna (cioè il processo pubblico al giudice Brett Kavanaugh, candidato di Trump alla Corte suprema). Visto il suo provincialismo, la stampa liberal «si merita» il presidente che ha. Il secondo intervento di questo presidente all’assemblea generale delle Nazioni Unite (la 73esima dalla nascita dell’organizzazione) è stato un inno al sovranismo, sulla stessa lunghezza d’onda di quello pronunciato un anno fa. Scritto dai due ideologhi più radicali del neo-nazionalismo alla Casa Bianca, John Bolton e Stephen Miller, il discorso

di Trump ha ribadito orgogliosamente i temi America First: «Noi non cederemo mai la sovranità americana ad una burocrazia globale che non è stata eletta e non rende conto a nessuno. Rigettiamo l’ideologia del globalismo. Abbracciamo la dottrina del patriottismo». Trump si è dilungato sulle conseguenze nel commercio internazionale. Proprio il giorno prima erano entrati in vigore i suoi dazi contro 200 miliardi di importazioni cinesi, e il presidente ne ha difeso la logica: «Non permetteremo più che i nostri lavoratori siano danneggiati, che le nostre imprese siano defraudate, che la nostra ricchezza sia saccheggiata. L’America non deve chiedere scusa a nessuno se protegge i propri cittadini. L’intero sistema del commercio globale ha un disperato bisogno di cambiamento. Nella World Trade Organization furono ammesse nazioni che violano i principi di quell’organizzazione». Ricordando di avere appena firmato un accordo bilaterale con la Corea del Sud sulla liberalizzazione degli scambi, Trump ha difeso la necessità di un commercio «equo e reciproco». Ha detto di avere «rispetto e amicizia per il presidente cinese Xi Jinping» (il grande assente con Putin, all’assemblea di quest’anno), ma di non poter tollerare «le distorsioni di mercato e i metodi

dei cinesi negli affari». Un duro attacco lo ha riservato anche ai paesi dell’Opec, per via del recente rialzo del petrolio: «Stanno derubando il resto del mondo, quei prezzi sono orribili». Ha colpito il diverso trattamento riservato a due avversari tradizionali, Iran e Corea del Nord. Evidentemente affezionato al bilancio del proprio vertice con Kim Jong un (tenutosi a luglio a Singapore), Trump ha rivendicato il progresso rispetto a un anno fa: «I missili non volano più, i test nucleari si sono fermati, alcune basi militari vengono smantellate. Vorrei ringraziare il presidente Kim per il suo coraggio e i passi che ha intrapreso, anche se rimane molto da fare». L’anno scorso a quest’epoca, al Palazzo di Vetro Trump aveva definito Kim «l’ometto razzo in una missione suicida». Ben altro il tono verso Teheran. «Dittatura corrotta, usa i soldi dell’accordo nucleare per seminare distruzione e morte in tutto il Medio Oriente. Non rispettano la sovranità dei loro vicini». Però in occasione di quest’assemblea a New York il governo iraniano ha incassato un successo prezioso. La responsabile della politica estera europea, Federica Mogherini, ha annunciato col ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif un accordo per consentire

le relazioni economiche. Si tratta di uno «strumento speciale» che gestirà i pagamenti di petrolio iraniano importato in Europa, e «assicurerà gli operatori economici europei che fanno legittimi affari con l’Iran». Cioè uno scudo per proteggere le imprese Ue dalle sanzioni americane. «Sfortunatamente abbiamo scoperto che la Cina sta cercando d’interferire nella nostra prossima elezione, contro la mia Amministrazione». Al suo intervento numero due, dopo il discorso in assemblea Trump dirige i lavori del Consiglio di sicurezza Onu. Ne approfitta per lanciare un’accusa grave. «Non vogliono che io e il mio partito vinciamo, perché sono il primo presidente a sfidare la Cina sul commercio. E stiamo vincendo quella sfida, la stiamo vincendo a tutti i livelli». Si riferisce a un tipo d’ingerenza diverso rispetto a quello «made in Russia» che lo favorì nel 2016 contro Hillary Clinton. I cinesi non sono accusati – almeno per il momento – di manipolare le notizie e i social media dissimulando la propria identità. L’interferenza di cui parla Trump avviene in modo abbastanza trasparente. Si tratta dei contro-dazi che la Cina sta applicando su prodotti americani, per rappresaglia dopo che Trump ha colpito 200 miliardi d’im-

portazioni cinesi. Pechino ha preso di mira dei prodotti – per esempio derrate agroalimentari – che fanno capo alle constituency del partito repubblicano. Tenta dunque di concentrare il danno su alcune categorie di elettori, per indurli a disertare i candidati repubblicani il 6 novembre, quando si rinnova la Camera e un terzo del Senato. Trump rinfaccia ai cinesi una pratica per la verità abbastanza consueta, nelle ripicche commerciali si cerca sempre di calcolare anche l’effetto politico di un dazio (gli europei lo hanno fatto colpendo la marca di moto Harley Davidson). L’accusa di Trump conferma che in questo momento la Cina è uno dei suoi bersagli favoriti. Le tensioni tra le due superpotenze si stanno allargando alla sfera militare. Il governo cinese ha negato il permesso ad una nave militare Usa di attraccare nel porto di Hong Kong, un accesso che in tempi normali veniva accordato senza difficoltà. Trump non ha assegnato importanza alla decisione di creare uno «scudo» legale che protegga le aziende Ue dalle nuove sanzioni americane, e consenta di operare in Iran. «Andrà tutto bene con gli europei», ha commentato il presidente confermando che le nuove sanzioni Usa contro Teheran «saranno durissime».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Politica e Economia

Un colpo al cuore

Fra i libri di Paolo A. Dossena

Iran L’attacco ad Ahvaz, nella regione a maggioranza araba della Persia, è uno schiaffo

ai guardiani della rivoluzione e ai leader del Paese - Ignoti i mandanti della strage

Marcella Emiliani Erano le 9 e mezza del mattino, sabato 22 settembre, ad Ahvaz, capoluogo della provincia iraniana del Khuzestan e, come in altre città, si festeggiava la Giornata delle Forze armate. Mentre i vari corpi sfilavano davanti al palco delle autorità quattro uomini in divisa da pasdaran (i guardiani della rivoluzione) hanno cominciato a sparare coi kalashnikov sulla folla per puntare poi verso le autorità ed essere immediatamente freddati. Tre sono morti subito, uno più tardi in ospedale. Erano comunque riusciti ad uccidere 24 persone e provocare una cinquantina di feriti tra civili e militari. Insomma una strage che è costata la vita – oltre che a donne e bambini – a guardiani della rivoluzione, a basiji (miliziani volontari) e a normali soldati. Pasdaran e basiji sono le forze d’elite iraniane incaricate della sicurezza interna dell’Iran e dell’esportazione della sua rivoluzione in Medio Oriente e nel mondo, e il 22 settembre è soprattutto la loro festa perché sono nati e cresciuti «nel fuoco del martirio» – come diceva il defunto Khomeini – durante la guerra Iran-Iraq scatenata da Saddam Hussein proprio quel giorno del 1980. Iniziò così la prima Guerra del Golfo che durò ben otto anni dal 1980 al 1988, causando la morte di almeno un milione di persone.

Nel Khuzestan è concentrato il 90% del petrolio e il 60% del gas iraniano, ma la regione resta la più povera Nel Khuzestan, che allora si chiamava ancora Arabistan, i combattimenti furono particolarmente sanguinosi e le distruzioni devastanti visto che nella regione è concentrata la maggior parte dei campi petroliferi iraniani. Il petrolio, cioè, in Iran si trova nell’unica regione a maggioranza araba, non persiana, e l’arabo Saddam contava sul fatto che gli arabi iraniani insorgessero contro il regime khomeinista per abbatterlo, ma dovette ricredersi. Gli arabi iraniani, infatti, non presero le armi contro i loro connazionali persiani e combatterono al loro fianco contro gli iracheni. Nonostante questo, Teheran li ha sempre considerati cittadini di serie B e li ha discriminati dal punto vista sia politico che economico tant’è che il Khuzestan, pur galleggiando sul 90% del greggio e il 60% del gas iraniano, è tutt’oggi una delle province più sottosviluppate del paese, ha percentuali di disoccupazione superiori alla media nazionale e i suoi abitanti sono discriminati nell’accesso alle cariche pubbliche e all’esercito. Non meraviglia, dunque, che soprattutto dal volgere del millennio ad oggi nella provincia si siano moltiplicate le proteste contro il governo centrale organizzate da movimenti vari che si propongono non solo di ottenere pari opportunità politiche ed economiche per la minoranza araba, ma anche di difendere il suo patrimonio culturale e l’integrità del suo ambiante minacciato dall’inquinamento delle industrie petrolchimiche. Ma il vero turning point per questi movimenti di protesta detti ahvazi (da Ahvaz, il capoluogo della provincia) è stata nel 2003 l’Operazione Iraqi Freedom con cui gli Stati Uniti di George W.Bush hanno abbattuto la dittatura di Saddam Hussein in Iraq. Da allora, attraverso i contatti che avevano con il

Soldati e spettatori della parata militare cercano scampo durante l’attacco costato la vita a 24 persone. (Keystone)

partito Ba’ath iracheno, diversi arabi iraniani avrebbero raggiunto i jihadisti nel vicino Iraq e assieme a loro avrebbero compiuto attentati in Iran. Di tutto questo il regime iraniano non ama parlare ma è seriamente preoccupato di questo legame tra i jihadisti iracheni (al Qaeda prima, Isis dopo) e gli arabi di casa sua, ma non solo gli arabi. Anche senza riandare agli attacchi al Parlamento iraniano e al Mausoleo di Khomeini del 7 giugno 2017 rivendicati dal Califfato, il 20 luglio scorso 10 guardiani della rivoluzione sono stati uccisi nel villaggio di Dari, distretto di Marivan, nel nord-ovest del Kurdistan iraniano. Tutte le «periferie» dell’Iran rappresentano una spina nel fianco di Teheran: dai curdi ai baluchi, dagli arabi ai sunniti in generale (e l’Isis ricordiamolo è sunnita), tutte le volte che il centro – cioè il potere persiano-sciita installato nella capitale – si indebolisce, le minoranze etniche o religiose stanziate sui confini si fanno sentire a suon di bombe o kalashnikov. Ed è anche vero che tutti i nemici dell’Iran hanno sempre provato a strumentalizzarle, ma non è detto che ci siano riusciti. In altre parole al regime e ai pasdaran fa comodo pensare che dietro ai dissidenti di casa propria ci sia «la triade diabolica Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati arabi» perché questo fornisce loro – come a Bashar al-Assad in Siria – la giustificazione per annientare qualsiasi opposizione interna. Ma il dissenso in Iran è ormai generalizzato ed ha un intero rosario di ragioni politico-economiche: la discriminazione sistematica delle suddette minoranze, la totale mancanza di democrazia reale, la povertà dilagante dovuta alle avventure «imperiali» del regime, alla crisi economica e alle sanzioni americane presenti e future («il terrorismo economico» come lo ha definito il presidente Rouhani all’Assemblea generale dell’Onu il 23 settembre); infine l’usura di una rivoluzione che ormai mostra la corda da troppo tempo e spinge la popolazione, specie quella giovanile, a protestare nelle piazze. In quest’ottica, l’attentato del 22 settembre ad Ahvaz va visto innanzitutto come un colpo durissimo al

cuore del sistema, al pilastro su cui si basa oggi la sicurezza dell’Iran, ovvero il corpo dei pasdaran che rispondono direttamente alla Guida della rivoluzione, l’ayatollah Khamenei, diventati la stampella (i «badanti» armati o addirittura i burattinai) del clero al potere e anche la punta di diamante della creazione del nuovo impero persiano in Medio Oriente come testimonia il loro operato in Iraq, Siria, Libano e Yemen. La sparatoria di Ahvaz ha mostrato tutta la loro vulnerabilità ad azioni di guerriglia suicide e questo li ha resi letteralmente furiosi (e pericolosi). Come il presidente Rouhani e la Guida della Rivoluzione Khamenei, hanno promesso sfracelli contro «i terroristi in azione ad Ahvaz» ed hanno immediatamente puntato il dito contro «il movimento al-Ahwaziya» che è un’organizzazione-ombrello di diversi gruppi separatisti del Khuzestan. Vero, falso? Difficile dirlo. Lo stesso sabato 22 settembre sono arrivate due rivendicazioni, la prima dell’Isis molto generica e imprecisa, e una seconda da parte di un individuo che si è presentato come portavoce della Resistenza nazionale di Ahvaz sul canale satellitare Iran International che trasmette da Londra. L’individuo in questione ci ha tenuto a precisare che «l’attacco aveva come obiettivi legittimi i militari». Altri due movimenti, già noti, si sono invece affrettati ad emettere comunicati in cui negavano completamente ogni responsabilità nell’accaduto: il Fronte popolare e democratico degli arabi d’Ahvaz e il Movimento arabo di lotta per la liberazione di Ahvaz. Già il 24 settembre il Ministero degli Interni rendeva noto di aver individuato «il nascondiglio dei terroristi» e di averne arrestati 22, oltre ad aver sequestrato «esplosivi, materiali militari e strumenti di comunicazione». Sul sito del Ministero venivano poi pubblicati nomi e foto degli attentatori individuati come Ayad Mansouri, Fouad Mansouri, Ahmad Mansouri, Javad Sari e Hassan Darvichi, appartenenti dunque ad un’unica famiglia di fratelli, cugini con un cognato, Darvichi. Ma la cosa interessante è il linguaggio usato per definire gli autori dell’attacco di Ahvaz: takfiristi. Takfir per l’Islam è

l’apostasia, l’impurità assolutamente inaccettabile, ma sia sunniti che sciiti adoperano il termine quando si accusano l’un l’altro di essere settari. In Iran in particolare vengono definiti takfiristi i miliziani dell’Isis ma anche i wahhabiti, cioè i sauditi, e non a caso i terroristi di cui sarebbe stato scoperto il nascondiglio apparterrebbero «a gruppi separatisti takfiristi sostenuti da paesi arabi reazionari». Tradotto, il tutto sta a significare: sunniti apostati sostenuti dall’Arabia Saudita e dagli Emirati. In altre parole Teheran sembra voler accreditare la versione dei fatti che mescola la pista separatista e quella jihadista di marca saudita. Ricordiamo che sia l’Arabia Saudita che gli Emirati hanno ripudiato e condannato sia al-Qaeda che l’Isis, ma questo agli ayatollah poco importa. Per loro dietro il complotto che vorrebbe rovesciare il regime iraniano ci sono per definizione Stati Uniti, Israele, Arabia Saudita ed Emirati. Per quel che li riguarda comunque il presidente Rouhani, l’ayatollah Khamenei e i generali dei pasdaran non hanno mai nominato espressamente Arabia Saudita ed Emirati, mentre non hanno avuto difficoltà ad accusare apertamente gli Usa e lo Stato ebraico. Tutto questo riflette molto bene la drammatica percezione del proprio isolamento avvertita dall’establishment iraniano dall’8 maggio scorso quando Trump è uscito dall’Accordo sul nucleare dell’Iran. Da quel momento col ritorno delle sanzioni e le manovre del presidente Usa per influenzare le politiche petrolifere dell’Opec a tutto danno del paese degli ayatollah, l’andamento dell’economia è sceso in picchiata, Rouhani è stato messo alla gogna in parlamento dagli ultraconservatori e dopo i disordini in Kurdistan del mese di luglio, il 22 settembre è arrivato anche l’attacco nel Khuzestan. Poco consola la buona volontà dell’impotente Europa a trovare una nuova via per aggirare le sanzioni americane. Che gli Stati Uniti vogliano la rovina degli ayatollah è ormai certo, ma è altrettanto certo che il regime non potrà cavarsela solo gridando al complotto esterno. I suoi errori e i suoi peccati cominciano ad essere davvero troppi.

Franco Cardini, Il Sultano e lo Zar, Salerno editrice, 2018 Dalla fine del XVII secolo il destino del mondo si gioca in una vasta regione orientale. Dal Turkestan occidentale (le cinque repubbliche dell’ex Asia centrale sovietica) al Medio Oriente (Asia occidentale) un trend storico secolare è stato interrotto dagli USA. Vediamo come. Tutto comincia, racconta Franco Cardini, quando l’Impero romanogermanico firma con gli Ottomani la pace di Karlowitz (1699). Nello stesso momento, la Russia comincia la sua marcia verso il Mar Nero, entrando in urto con il Sultano, e non con l’imperatore asburgico, che con la pace di Karlowitz ha rovesciato la tendenza dei secoli precedenti (gli ottomani, dalla caduta di Costantinopoli, 1453, puntavano su Vienna). Ed eccoci al 2011, quando le rivolte arabe raggiungono la Siria, che diventa il campo di battaglia tra gli imperi. La Gran Bretagna è stata rimpiazzata nella grande regione orientale dagli Stati Uniti, che guida una coalizione che include Francia, Regno Unito, Turchia, Israele e sunniti. Dall’altra parte c’è Mosca, che assiste il governo regolare siriano, membro dell’ONU, ma bombardato un po’ da tutti senza mandato ONU. Schierandosi con Damasco, La Russia prosegue la secolare rivalità con l’ex impero ottomano. E alleandosi con gli Stati sciiti (Siria, Iran, Iraq) prosegue la sua amicizia con la Persia, considerata da sempre la naturale avversaria della Turchia. Ereditando il ruolo di Londra, inizialmente anche Washington prosegue un’antica traiettoria storica. Per raggiungere i propri fini, la Gran Bretagna non aveva forse sobillato il sultano del Negev, capo politico della setta radicale sunnita wahhabita? Allo stesso modo, l’ISIS, apparso in Siria nel 2014, è stato sconfitto solo «quando non serviva più». Serviva agli Emirati sunniti e wahhabiti del Golfo, alleati degli USA e di Israele, per «portar avanti la loro offensiva antisciita e antiiraniana». Una vera e propria «archeologia del terrorismo», che spiega un filone storico inaugurato da Londra nel XVIII secolo. Quindi finora le cose sono andate come sempre: la Russia, in marcia vero i mari caldi dal XVII secolo, è «naturalmente» ostile alla Turchia e amica dell’Iran (e quindi degli Stati sciiti: Iraq e Siria); Turchia, anglosassoni e Israele sono (dai tempi di Kemal Atatürk) grandi amici; sunniti e sciiti si odiano; l’estremismo religioso (ieri i wahhabiti, oggi l’ISIS) viene manipolato per ragioni politiche. Poi succede qualcosa di straordinario, che scardina questo trend secolare. Secondo Franco Cardini, «si ha l’impressione che, magari contro tutte le regole della geopolitica, i guai combinati dalla diplomazia statunitense dall’11 settembre in poi siano riusciti a compier miracoli: dall’avvicinamento della Russia alla Cina a quello della Cina all’India, a quello tra Iraq e Iran, a quelli – storicamente paradossali – fra Turchia e Russia e fra Turchia e Iran, fino a svolte per la verità ancora difficili da valutare nella politica tradizionalmente filoamericana di paesi come il Qatar e il Pakistan». In questo quadro manca un attore: quell’impero romano-germanico che avrebbe potuto reincarnarsi nell’Unione Europea, che resta purtroppo, scrive Franco Cardini, «disunita e non autorevole».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Politica e Economia

I toni della «nuova» politica

Analisi N ell’attuale crisi della democrazia rappresentativa si fa largo un populismo di stampo nazionalistico con

accenti duri, in un contesto in cui il cittadino va spesso a votare senza un’adeguata base di conoscenza dei problemi

Alfredo Venturi La tentazione spesso è forte, ma bisogna andarci piano con le condanne senza appello degli «ismi» che affollano le cronache politiche. La storia insegna per esempio che il populismo, oggi al centro di un’attenzione internazionale non di rado critica, ha molte facce, e secondo Francis Fukuyama non è sempre necessariamente un fenomeno deteriore. Il politologo americano che celebrò prematuramente la fine della storia dopo la caduta del muro di Berlino e il collasso dell’Unione Sovietica, ricorda in una recente intervista al «Corriere della Sera» che è esistito anche un populismo costruttivo. Per esempio ebbe caratteri populistici la rivolta delle tredici colonie britanniche d’America, contro la burocrazia tributaria di Londra e la soggezione coloniale, che portò alla nascita degli Stati Uniti. Quasi due secoli più tardi un’impronta populistica animerà le politiche anti-crisi del presidente Franklin Delano Roosevelt che salveranno l’America dalla voragine della grande depressione. Il fenomeno si è affacciato alla ribalta della storia con modalità assai disparate. Dal bonapartismo plebiscitario dei due imperatori francesi al populismo russo che creò le premesse della rivoluzione, dal peronismo dei descamisados argentini al bolivarismo del venezuelano Hugo Chávez, fino a un populismo di destra che facilmente sconfina nel nazionalismo. Cioè in un’altra controversa categoria politica che per quanto screditata dalle tragiche esperienze del Novecento può anche realizzarsi in una versione liberale, non aggressiva, autorevole senza essere autoritaria. Siamo di fronte a formule della politica che si prestano alle interpretazioni più diverse. Compresa quella strettamente letterale, che nel caso del populismo viene orgogliosamente sbandierata per depurare il termine da ogni connotazione negativa. Populismo? Ben venga, se significa stare dalla parte del popolo... E così apparentemente il cerchio si chiude, perché proprio il popolo è il protagonista almeno etimologico della democrazia.

C’è chi propone, come il filosofo statunitense Jason Brennan, un passaggio dal governo del popolo a quello di chi possiede la conoscenza: una epistocrazia Viviamo una stagione storica in cui la continua capitolazione di vecchi schemi ci porta a riconsiderare i fondamenti che parevano inattaccabili della cultura politica. È proprio la democrazia rappresentativa a essere messa in discussione. Il filosofo americano Jason Brennan sostiene che la cognizione di causa dell’elettore medio è così scarsa da mettere in forse la tenuta dei valori democratici. In un saggio lucidamente polemico, Contro la democrazia, propone il passaggio dal governo del popolo a quello di chi possiede la conoscenza: l’«epistocrazia», così la chiama ricorrendo una volta ancora all’eloquente lessico greco. Siamo evidentemente nel campo delle provocazioni o in quello delle utopie: chi dovrebbe scegliere i votanti consapevoli? Con quale legittimazione? Sono domande imbarazzanti ma in fondo non servono risposte, perché della propo-

Donald Trump incarna un populismo diverso da quello cavalcato da Roosevelt e dalle rivolte delle 13 colonie britanniche d’America. (Keystone)

sta di Brennan quel che conta è la capacità di far riflettere sul fatto che la maggior parte dei cittadini va a votare con un grave difetto di conoscenza, e questo compromette il peso di quella saggezza popolare che dovrebbe animare l’assetto democratico. Un altro fra i tanti studiosi che si avvicendano al capezzale della politica, lo storico belga David Van Reybrouck, propone addirittura che si rinunci alla ormai vuota liturgia del voto e che si distribuiscano per sorteggio i ruoli nelle amministrazioni e nei governi. Esattamente come si è soliti fare, in molti ordinamenti giudiziari, per la nomina delle giurie popolari. Ora, se è vero che la parte essenziale della gestione del potere è la distribuzione imperativa delle funzioni in una data società, è evidente che affidando questa distribuzione al caso, sia pure all’interno di gruppi di persone che si saranno rese disponibili dimostrando la propria capacità e la propria integrità, si decreterebbe senz’altro la fine della politica così come siamo abituati a considerarla. Del resto la proposta di Van Reybrouck non è certo caduta nel vuoto: per esempio in Italia l’ha fatta propria Beppe Grillo, l’attore comico fondatore del Movimento cinque stelle che oggi fra mille difficoltà condivide il governo del paese. Se il voto produce la «casta», non è meglio ricorrere al caso? Anche se le risposte sono discutibili, le ragioni di questo terremoto nel pensiero politico sono oggettivamente plausibili. Al fondo di tutto c’è un malessere profondo, che si registra più o meno in tutti i paesi occidentali, una diffusa delusione, una sorda ostilità nei confronti dei governi, dei programmi inattuati, delle promesse mancate. È precisamente questo il brodo di coltura dei populismi. Lo stesso Fukuyama trova del tutto comprensibile la rivolta contro le deludenti élite, anche se considera assolutamente sbagliate le risposte date dai nuovi capi che il fenomeno ha proiettato al potere, dall’americano Donald Trump agli europei Viktor Orban e Matteo Salvini. Il protezionismo e la xenofo-

bia infatti, argomenta l’autore della Fine della storia, sono rimedi peggiori del male che dovrebbero curare. Così come lo è un risorgente nazionalismo negatore di valori che erano dati per scontati, che tende per esempio ad ostacolare fino ad annullare, complici le molte crisi da quella finanziaria a quella migratoria, i progressi fin qui compiuti in materia d’integrazione europea. Il problema è ulteriormente complicato dal fatto che quella che si vorrebbe in qualche modo rinnovare a questo punto non è più una democrazia, semmai un’oligarchia, secondo la teoria del sociologo inglese Colin Crouch. Infatti, qualunque cosa decidano gli elettori più o meno consapevoli di quello che fanno, le formali strutture democratiche sono ormai stabilmente dominate da detentori del potere reale che si chiamano lobbies, o poteri forti: le grandi multinazionali, l’intreccio degli interessi che nel mondo globalizzato non conoscono frontiere. Sono loro che disponendo di inesauribili risorse finanziarie, controllando i mezzi di comunicazione e usando disinvoltamente gli ambigui meccanismi della rete, esercitano un’influenza pressante sui processi decisionali. Lo fanno mirando a due bersagli: da una parte la massa degli elettori così sensibili ai pregiudizi e facile preda delle fake news (e questo è indiscutibilmente un punto a favore della proposta di Van Reybrouck), dall’altra i governanti. Determinando in questo modo i caratteri di quella che Crouch chiama «post-democrazia». Tutto questo è percepito abbastanza chiaramente dall’opinione pubblica, e per quanto digiuno di politologia l’elettore medio, già turbato dalle crisi economiche e finanziarie, dall’approfondirsi del baratro fra i pochi detentori della ricchezza e i molti avviati alla povertà, dal vacuo esibizionismo dei politici, da un fenomeno migratorio che gli viene prospettato come potenzialmente catastrofico, dalla visibile paralisi del progresso sociale, insomma da un domani che

non potrebbe essere più oscuro, al momento del voto si comporta di conseguenza. Sceglie chi alza i toni incarnando la protesta, promuovendo la rivolta contro la classe politica e le sue colpevoli manchevolezze. Ecco perché il federalismo elettorale americano nonostante un voto popolare minoritario manda Trump alla Casa Bianca, mentre i «sovranisti» europei sognano il grande colpo alle elezioni

del maggio 2019: conquistare la maggioranza al parlamento di Strasburgo e distruggere dall’interno ciò che resta dell’Unione, colpevole di non sapersi affrancare dall’immagine di fredda e invadente burocrazia che da tempo mortifica le istituzioni di Bruxelles. E così una furente coalizione di populisti e nazionalisti manderebbe in frantumi il grandioso progetto degli Stati Uniti d’Europa. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Politica e Economia

Fine di una carriera brillante? Ginevra Il consigliere di Stato Pierre Maudet, che l’anno scorso si candidò per il Consiglio federale, è sotto

inchiesta per accettazione di vantaggi in relazione ad un viaggio ad Abu Dhabi pagato dalla famiglia reale

Marzio Rigonalli

Nel canton Vaud, un altro consigliere di Stato liberale radicale, Pascal Broulis, è sotto la lente per dei viaggi in Russia Oggi, l’immagine di Pierre Maudet si è offuscata. Il consigliere di Stato è al centro dei dibattiti politici e privati, che segnano le giornate all’estremità del Lago Lemano, per un viaggio all’estero e per le sue conseguenze. Che cosa è successo? Alla fine di novembre del 2015, Maudet compì un viaggio ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, con la moglie, i loro tre figli, il suo capo di gabinetto ed un uomo d’affari, con l’obiettivo di assistere al Gran premio di Formula Uno, l’ultima prova della stagione automobilistica 2015. Il viaggio durò quattro giorni e i partecipanti vennero ospitati in un albergo di lusso. Le spese del viaggio ammontarono ad alcune decine di migliaia di franchi e vennero assunte dalla famiglia reale di Abu Dhabi. Alcuni mesi dopo, un giornalista venne a conoscenza del viaggio ed avviò un’indagine. Pose numerose domande a Pierre Maudet, in particolare gli chiese se il viaggio era ufficiale o privato e da chi era stato pagato. Il consigliere di Stato dette risposte poco convincenti. Parlò di un viaggio privato, pagato da lui stesso, ma più tardi si contraddisse, sostenendo che la spesa era stata assunta da alcuni suoi amici, amatori della Formula Uno. Più tardi ancora, Maudet dette altre versioni ed evocò un finanziatore vicino alla famiglia reale. Le ipotesi e le smentite si alternarono nella stampa ginevrina e la politica s’impossessò della vicenda. Anche la magistratura s’interessò al viaggio di Maudet. Avviò un’inchiesta e, lo scorso 30 agosto, il procuratore pubblico diffuse un comunicato in cui affermava che il viaggio era avvenuto su invito del principe erede dell’emirato e che le spese erano state assunte dalla casa reale dell’emirato. Il comunicato aggiungeva che persone e società attive a Ginevra nel settore immobiliare erano state coinvolte nell’organizzazione del viaggio. Il comunicato del Ministero pubblico aprì la porta ad una serie di decisioni che privarono il consigliere di Stato di una buona parte del suo potere

Pierre Maudet è stato costretto a rinunciare a molto del suo potere esecutivo . (Keystone)

politico. Pierre Maudet ha così dovuto rinunciare alla presidenza del governo cantonale, nonché al dossier della polizia ed a quello dell’aeroporto. Il Gran Consiglio gli ha tolto l’immunità, consentendo all’autorità giudiziaria di estendere la sua inchiesta per verificare se c’è stata accettazione di vantaggi. Infine, il consigliere di Stato ha dovuto abbandonare anche la presidenza della Conferenza dei direttori cantonali di giustizia e polizia, una carica che occupava dall’aprile scorso e che è stata affidata ad interim all’argoviese Urs Hofmann. Tutte queste rinunce, volontarie od imposte, hanno un carattere provvisorio e la loro conferma, o il loro annullamento, dipenderanno in gran parte dai risultati che emergeranno dall’inchiesta giudiziaria. Pierre Maudet è ormai al centro della più importante crisi politica ginevrina degli ultimi decenni e la sua posizione appare sempre più insostenibile. A Ginevra, un consigliere di Stato può accettare regali soltanto di piccola entità, per un valore non superiore ai 100 franchi. Il suo viaggio ad Abu Dhabi va ben oltre e rimangono vari punti interrogativi su persone e società in qualche modo legate all’organizzazione del viaggio. Per di più, le sue ripetute bugie e le sue parziali ammissioni gli hanno fatto perdere la fiducia dei suoi colleghi di governo, dei membri del Gran Consiglio e, probabilmente, anche di una buona parte degli elettori che l’avevano appoggiato. In questa situazione, lo sbocco più logico, già invocato da più parti, dovrebbero essere le dimissioni di Maudet. La decisione è grave e soltanto lui può prenderla, poiché a Ginevra i membri del governo cantonale non possono venir revocati. Agirà in questa direzione? È difficile rispondere. La sua personalità e la sua indole combattiva inducono a pensare ch’egli lotterà ancora con determinazione, fin quando riuscirà ad intravvedere una via d’uscita. Le dimissioni costituirebbero verosimilmente la fine della sua carriera politica. Un caso analogo a quello di Ginevra, ma apparentemente meno grave, è emerso anche nel canton Vaud. Un’inchiesta preliminare è in corso nei confronti del consigliere di Stato Pascal Broulis, capo del dipartimento delle finanze e delle relazioni esterne, per un certo numero di viaggi compiuti in Russia. I viaggi potrebbero essere stati finanziati da Frederik Paulsen, un uomo d’affari, proprietario dell’azienda Ferring Pharmaceuticals di SaintPrex, uno dei leader mondiali nella

lotta contro l’infertilità. Paulsen è uno dei principali contribuenti del cantone, con il quale vanta un accordo fiscale, ed è anche il console onorario della Russia. Ad uno di questi viaggi avrebbe partecipato anche la consigliera agli Stati socialista Géraldine Savary. I risultati dell’inchiesta preliminare diranno se gli accertamenti potranno

essere archiviati, o se invece dovranno essere allargati ed approfonditi. Il caso Maudet soprattutto, ed in parte anche il caso Broulis, offrono lo spunto per almeno due riflessioni. La prima riguarda i professionisti della politica eletti dal popolo o da un’autorità che ne ha il potere. Nel loro lavoro quotidiano i politici sono alle prese

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Ancora pochi mesi or sono, Pierre Maudet veniva visto come un politico brillante, giovane e dinamico, per certi versi paragonabile al presidente francese Emmanuel Macron. Molti lo ritenevano il numero uno del governo e della politica del canton Ginevra, e ravvisavano in lui una delle stelle più brillanti del Partito liberale radicale, destinata ad avere un destino nazionale, ricco di traguardi e di successi. Un’immagine, dunque, più che positiva che si fondava sulla personalità di Maudet e sulle sue capacità, nonché sui consensi che riusciva ad ottenere sulla scena politica, come per esempio all’ultima elezione in Consiglio federale, il 20 settembre 2017. Pur non avendo un ruolo di primo piano nella politica federale, Maudet venne votato da ben 90 membri dell’Assemblea federale, contro i 125 che elessero Ignazio Cassis. Oppure, altro esempio, lo scorso 15 aprile, alle elezioni cantonali, quando fu l’unico consigliere di Stato uscente ad essere rieletto già al primo turno e concorse al successo del suo partito che, in Gran Consiglio, guadagnò quattro seggi.

con svariate forme di lobbismo, che raramente coincidono con la difesa dell’interesse generale. In certi casi, la tentazione di accettare un possibile vantaggio personale è forte e può essere vinta soltanto con la rettitudine del singolo e con la sua consapevolezza del bene comune e degli argini che vanno posti all’esercizio di una funzione pubblica. Un aiuto in questa direzione potrebbe venire da regole più severe, che prescrivano una maggiore trasparenza ed un maggiore rigore nelle pene previste. La seconda riflessione concerne il partito liberale radicale. È facile immaginarci lo scandalo nazionale che sarebbe scoppiato se un anno fa Pierre Maudet, uno dei tre candidati proposti dal partito, fosse stato eletto consigliere federale. Non fu così e tanti oggi tirano un sospiro di sollievo. Ma restiamo in Romandia. Siamo ad un anno dalle elezioni federali e, grazie all’evoluzione della popolazione, i cantoni di Ginevra e Vaud potranno inviare al Consiglio nazionale un deputato in più. La posta in gioco nei due principali cantoni romandi diventa dunque ancora più importante e la battaglia elettorale s’annuncia sin d’ora molto vivace. Il PLR vi si prepara, cercando di emarginare le due inchieste e d’impedire che si ripercuotano negativamente sulla sua immagine e sul suo elettorato. Il futuro ci dirà con quali risultati concreti.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Politica e Economia

Le rendite AVS diminuiranno? I timori della popolazione

Previdenza Un’inchiesta condotta dalla Axa Investment Managers mostra che l’83% degli assicurati non immagina

rendite inferiori e il 70% rifiuta un aumento dell’età di pensionamento per garantire le rendite

Ignazio Bonoli I timori di non più godere in futuro di rendite adeguate nel pensionamento sono sempre molto diffusi in Svizzera. Ciononostante le riforme che dovrebbero garantire pensioni di vecchiaia almeno al livello di quelle attuali faticano ad avanzare. Eppure i maggiori problemi del sistema attuale sono conosciuti da tempo: l’aumento della speranza di vita, tassi di interesse troppo bassi e numero calante di giovani che possano finanziare un numero crescente di pensionati. Ma quali misure correttive sarebbero necessarie e quali sarebbero attualmente accettabili dalla popolazione elvetica?

Secondo il sondaggio Axa, tre quarti degli intervistati preferirebbero che si favorisse il risparmio volontario individuale con incentivi fiscali Secondo l’inchiesta annuale condotta dalla società Axa Investment Managers per valutare la posizione della popolazione svizzera rispetto alla previdenza professionale tra 700 assicurati, l’83% non riesce a immaginare di ricevere rendite inferiori alle attuali, mentre il 70% rifiuta un eventuale aumento dell’età di pensionamento, con l’unico scopo di garantire le rendite che vengono versate oggi. A fine luglio anche un’inchiesta dell’istituto lucernese di ricerche Gfs prevedeva un leggero cambiamento

L’AVS è un tema che scalda perennemente gli animi . (Keystone)

di opinioni sul tema delle rendite di pensione. È in occasione di questa inchiesta che si è verificata una leggera maggioranza a favore dell’età di pensionamento delle donne da 64 a 65 anni. Inoltre, una leggera maggioranza degli intervistati ha detto di poter rendersi conto della necessità di un aumento dell’età di pensionamento. Sono questi anche i due presupposti (il primo perfino urgente) della prossima riforma del sistema di pen-

sionamento, tanto per l’AVS, quanto per la previdenza professionale. Ma proprio su questi temi il popolo svizzero si è già pronunciato più volte in modo negativo. Per contro, l’inchiesta dell’Axa ha messo in evidenza che gli intervistati preferirebbero, quali misure politiche di correzione, il risparmio volontario individuale, favorito da incentivi fiscali. L’81% degli intervistati si è detto favorevole a misure di questo tipo.

Dal canto suo, l’Associazione svizzera della previdenza ha lanciato nel dibattito l’idea di rendere il più agevole possibile il versamento di fondi nel pilastro 3a, concedendo la possibilità di ricuperare versamenti eventualmente dimenticati in passato. In questo senso, in occasione dell’inchiesta Axa, i tre quarti degli intervistati erano favorevoli alla possibilità di effettuare versamenti per la previdenza professionale, anche prima del

compimento del 25esimo anno, come prevede la legge attuale. Sempre la stessa inchiesta ha potuto stabilire che il 77% degli intervistati si interessano a fondo del tema delle esigenze e delle possibili conseguenze della riforma della previdenza vecchiaia. Tuttavia si è anche potuto verificare che il 18% non sa presso quale cassa pensione sono assicurati. Il numero – un po’ preoccupante – è tuttavia in calo, poiché nel 2017 era il 20% e nel 2016 il 27%. Per quanto concerne l’investimento dei capitali di vecchiaia, i tre quarti degli intervistati desiderano che le casse pensioni pongano sempre in primo piano la sicurezza. Solo il 36% privilegia invece il rendimento. Quasi i due terzi privilegiano l’investimento in società socialmente responsabili, anche se in questo caso le rendite possono risultare inferiori. Sempre nel campo dell’investimento dei capitali a disposizione, i favori degli assicurati vanno chiaramente all’investimento immobiliare, con il 52%. Gli intervistati pensano probabilmente di garantire una maggiore sicurezza alla propria cassa pensione. Solo il 10% privilegia l’investimento in titoli obbligazionari, il 12% quello in azioni e il 13% quello in valori alternativi. In questi ultimi casi, la motivazione principale della prudenza era l’insicurezza e il rischio dell’investimento. Molti intervistati ammettono che anche nell’immobiliare si possono perdere soldi, ricordando anche la crisi immobiliare in Svizzera negli anni Novanta e la saturazione che, attualmente, stanno conoscendo alcune regioni. Se però i tassi di interesse continuano a rimanere bassi, anche i prezzi dell’immobiliare continueranno a muoversi su buoni livelli.

Cosa succede con la propria previdenza in caso di perdita dell’impiego? La consulenza della Banca Migros Jeannette Schaller

Jeannette Schaller è responsabile della pianificazione finanziaria alla Banca Migros

A chiunque può capitare di perdere il lavoro. E quando ciò succede, tutto accade molto in fretta. Questo vale in particolare anche per la cassa pensione: una volta disdetto il rapporto di lavoro essa vi assicura contro i rischi di decesso e invalidità solo per 30 giorni. Potete continuare a tutelarvi dai suddetti rischi annunciandovi rispettivamente presso il vostro URC o l’Assicurazione contro la disoccupazione (AD). Ulteriori vantaggi di una notifica: dalle indennità giornaliere di disoccupazione vengono pagati i vostri contributi AVS in modo da evitare lacune di copertura nell’AVS e il percepimento delle indennità giornaliere vi consente di effettuare versamenti nel pilastro 3a. Tuttavia, non è possibile continuare la cassa pensione. Il denaro risparmiato, il cosiddetto capitale di libero passaggio, deve essere versato sul conto di libero passaggio di una banca o nella polizza di libero passaggio di una assicurazione. Se non si comunica alla cassa pensione la destinazione del denaro, questo verrà automaticamente trasferito alla Fondazione istituto collettore LLP. La situazione previdenziale è particolarmente complessa se si diventa

A volte conviene far ricorso alla disoccupazione anziché accettare un prepensionamento. (Keystone)

disoccupati qualche anno prima della normale età AVS. Molte casse pensioni prevedono infatti la possibilità di un pensionamento anticipato, ad esempio a partire dai 58 o 60 anni. Se, dopo aver raggiunto questo limite, rimanete disoccupati per motivi economici, potete richiedere un’indennità giornaliere di disoccupazione ridotta, in aggiunta

al pensionamento anticipato. Inoltre, in caso di pensionamento forzato può essere versata un’indennità di licenziamento, a seconda del datore di lavoro. E se in caso di pensionamento forzato non viene offerta un’indennità di licenziamento generosa? In questo caso, a seconda delle vostre opportunità sul mercato del lavoro, può essere

vantaggioso rinunciare alla pensione anticipata e annunciarsi presso l’URC per ricevere un’indennità di disoccupazione completa e integrale. Informazioni

Ulteriori informazioni su blog.bancamigros.ch


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Politica e Economia

Quantitative easing: che rimane dell’inflazione?

Finanza Come una qualsiasi «bolla», che si sposta da un polo all’altro, il rialzo dei prezzi è lungi dall’essere

un ricordo del passato

Edoardo Beretta Discutere di «inflazione» in tempi recenti si può fare attraverso due canali: con il primo semplicemente rinviando all’andamento del livello dei prezzi di consumo (nullo in certe Nazioni, che risentano anche delle recenti pressioni deflazionistiche), mentre con il secondo coinvolgendo una visione più «a tutto tondo». Per intenderci: gli uffici nazionali di statistica calcolano generalmente l’eventuale rialzo dei prezzi avvalendosi di un «paniere» di beni e servizi di largo consumo, le cui componenti sono «pesate» (cioè «ponderate») per la loro incidenza di spesa. Se durante le crisi la «frenata» dell’economia coinvolge anche l’usuale crescita dei prezzi, sono in tanti nell’establishment ad avere lungamente atteso una sostenuta ripresa degli stessi a fronte delle massicce iniezioni di liquidità operate negli ultimi anni da parte delle principali banche centrali a sostegno dei relativi sistemi economici. Basti pensare che la Fed americana e BCE hanno rispettivamente immesso più di 4.000 miliardi di dollari statunitensi1 e di 2.000 miliardi di Euro2 (da, almeno in parte, riassorbirsi gradualmente). Stando agli indicatori statistici più comuni, nessun «balzo» significativo è (ancora) occorso sui principali mercati interni dei beni di consumo: tutto ciò ha lasciato da un lato sconcertati i detrattori delle politiche monetarie fin lì adottate (in quanto descritte come «inflazionistiche») e dall’altro ha dato man forte agli istituti bancari centrali, che si sono sentiti confortati nella giustezza del loro agire. Resta, dunque, da domandarsi dove sia rimasta la «bolla inflazionistica» ‒ come paventata dai più ‒ a fronte dell’«annacquamento» della ricchezza reale su volumi monetari crescenti. Una prima risposta a tale interrogativo affonda le proprie radici nel passato quando per «inflazione» ancora si intendeva ‒ per citare, ad esempio, il fondatore della scuola monetarista di Chicago Milton Friedman (1963) ‒ un «fenomeno sempre ed ovunque di natura monetaria». Concretamente, quindi, la cosiddetta «inflazione» (che nel significato odierno si limita ad indicare il solo rialzo dei prezzi, sebbene esso non sia necessariamente ascrivi-

L’andamento dell’Indice dei Prezzi Immobiliari (IPI) e dell’Indice dei Prezzi al Consumo (IPC), 2007-2017 (2015 = 100) raffrontato al credito domestico concesso dal settore finanziario, 2007-2017 (% PIL)3

2007

2009

2011

2013

2015

Variaz. IPI

Variaz. IPC

Variaz. del credito domestico fornito dal settore finanziario, (% PIL)

2017

IPI

IPC

IPI

IPC

IPI

IPC

IPI

IPC

IPI

IPC

IPI

IPC

Area Euro

101,99

88,63

100,53

91,80

102,30

95,81

98,07

99,54

100

100

107,48

101,78

+5,49

+13,15

+13,87

Francia

100,70

89,52

95,33

92,44

105,71

96,20

103,11

99,31

100

100

104,32

101,47

+3,62

+11,95

+17,9

Germania

81,20

89,5

83

92,1

89,80

95,5

95,50

99,1

100

100

110,20

102,1

+29

+12,6

+13,28

Irlanda

162,81

96,4

122,49

97,8

87,86

97,4

76,99

99,7

100

100

119,18

100,1

-43,63

+3,7

-135

Italia

-

87,3

-

91,1

117,20

95,3

107,40

99,7

100

100

98,80

101,3

-

+14

+45,83

Portogallo

-

90,39

106,54

91,95

102,09

96,54

93,09

99,65

100

100

117,02

102,20

-

+11,81

-3,61

Regno Unito

93,59

81,8

81,43

86,6

84,84

93,4

87,37

98,5

100

100

111,98

103,4

+18,39

+21,6

-5,77

Spagna

148,79

88,75

136,97

92,19

124,27

96,94

96,24

100,83

100

100

111,10

101,69

-37,69

+12,94

-12,4

Unione Europea

101,14

86,65

97,29

90,71

98,60

95,74

95,64

99,47

100

100

108,80

101,97

+7,66

+15,32

+9,68

Elaborazione di Edoardo Beretta sulla base di http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=prc_hicp_aind&lang=de, http://appsso.eurostat.ec.europa. eu/nui/show.do?dataset=prc_hpi_a&lang=de e https://data.worldbank.org/indicator/FS.AST.DOMS.GD.ZS?view=chart.

bile a cause monetarie) non è per forza rilevata dagli indici dei prezzi al consumo nella sua complessità. Ad esempio, nelle Nazioni post-industriali il rialzo del costo della vita ‒ a differenza dei Paesi emergenti ‒ tende sempre meno a ricadere sui beni di prima necessità, per il cui acquisto solo i bassi redditi (meno tipici per tali società) impegnano una quota elevata dei loro introiti mensili. Per di più, si potrebbe discutere sulle stesse modalità di rilevamento statistico, poiché il «paniere di consumo» sovente attribuisce un peso ponderale elevato alla componente tecnologica: quest’ultima ‒ se negli Anni Novanta avrebbe comportato un rialzo dell’indice ‒ è ora sempre più soggetta a prezzi in rapido decremento (perlomeno, dopo la fase di lancio sul mercato), che a loro volta ben si prestano ad «addolcire»

eventuali trend al rialzo per altre voci di spesa quotidiana. Per non parlare poi di come parti del settore produttivo siano ormai dedite alla cosiddetta shrinkflation, cioè alla riduzione della quantità di un bene di consumo (shrinkage) a parità di prezzo di vendita o all’abbassamento della qualità delle componenti così da risparmiare in termini di costi di produzione. Così facendo, l’indice statistico viene «bluffato» e non fa registrare alcuna variazione. Ma, del resto, è la stessa letteratura economica a narrare di tale fenomeno allorquando si passò dalle monete nazionali all’Euro nel lontano 2002. L’eventuale rischiosità post-crisi è, quindi, sempre meno rintracciabile nei mercati legati ai beni e servizi «tradizionali», bensì in due macrosettori: quello finanziario (con tutte le sue

sfaccettature in termini di tipologie di strumenti fino a sconfinare in quello delle materie prime, su cui molte attività finanziarie appunto poggiano) ed immobiliare. Vuole forse dire che ci si dovrà nell’immediato attendere rialzi dei prezzi degli strumenti finanziari (quali, ad esempio, dei titoli azionari) oltre che delle proprietà immobiliari? Anche ma, più in generale ancora, sarà da attendersi una variabilità data dal fatto che ciascuna «bolla» (che sia finanziaria o meno) si muova da un punto all’altro dell’economia, comportando nel punto di partenza un «vuoto» (con conseguente rallentamento dei prezzi o decremento dei valori economici) ed al punto di arrivo un eccesso di liquidità (con conseguente aumento dei prezzi). Naturalmente, alla stregua di ogni

«bolla d’aria», la variabilità può anche presentare trend poco chiari, cioè potenzialmente suddividendosi fra i diversi settori economici. Se l’indice dei prezzi al consumo dovrà continuare ad essere utilizzato quale base di decision making, abbisognerà di un necessario adeguamento così da non temere di abbracciare una dimensione più ampia e contemplare l’impatto della tassazione indiretta o di altri aumenti nell’opera di monitoraggio dell’economia. Note

1. http://www.trend-online.com/prp/ fed-qe-anniversario 2. http://www.investireoggi.it/ obbligazioni/bce-acquistati-quasi2-000-miliardi-di-euro-dalliniziodel-quantitative-easing Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La banca ticinese dalla nascita alla prima maturità Scrivendo, nel 1812, della situazione patrimoniale della popolazione ticinese, il canonico Paolo Ghiringhelli affermava: «Non vi sono latifondisti, né grandi capitalisti: v’è solo mediocrità e miseria». Un inventario della ricchezza, fatto in termini lapidari, che mette in evidenza quanto i capitali fossero rari nel Cantone e quanto modesto dovesse essere, in quei tempi, il risparmio. Difficile , in quelle condizioni, far nascere una banca. 40 anni più tardi, nelle sue Verità ai ticinesi, Stefano Franscini doveva tentare la prima stima del loro patrimonio. Stando alle sue intuizioni, a metà Ottocento, il patrimonio dei ticinesi avrebbe dovuto comporsi di 70 milioni di beni immobili e 48 milioni di beni mobili. Ora, dunque, c’erano le premesse non solo per creare un’imposta sulla sostanza, ma anche per aprire gli sportelli di una banca. All’inizio degli anni Sessanta

dell’Ottocento, nasceva così il primo istituto bancario (fino ad allora era esistita solo una cassa di risparmio) del Cantone, la Banca Cantonale Ticinese che, purtroppo, doveva essere travolta nel grande crack delle banche sopracenerine del 1914. Di come il settore bancario sia faticosamente nato e si sia sviluppato in Ticino, dagli anni Sessanta dell’Ottocento fino all’inizio della seconda guerra mondiale, ci parla Pietro Nosetti nella sua ponderosa tesi di dottorato appena pubblicata (Le secteur bancaire tessinois, Origines, crises et transformations,1861-1939). Quella di Nosetti è un accuratissima analisi che viene a colmare una lacuna nella storia economica del Ticino. Finora, infatti, le banche ticinesi, nonostante la loro importanza economica, e nonostante le avventurose vicende che ne hanno marcato l’espansione, da metà Ottocento a oggi, non avevano dato origine a un grosso

filone di ricerche. Chi avesse cercato informazioni avrebbe dovuto rifarsi alla vecchissima, ma sempre valida tesi di dottorato di Carlo Kronauer (che quest’anno festeggia il centenario di apparizione), a quella, pure stagionata, di Virginio Mazzolini (1944), come pure ad alcune altre tesi che trattavano dell’espansione di singoli istituti. La nuova pubblicazione fa invece l’istoriato del settore bancario, scavando negli archivi delle banche per ricostruirne l’evoluzione fino al termine della grande crisi economica degli anni Trenta del Novecento. La storia delle banche di Nosetti è divisa in tre parti. La prima ne considera l’evoluzione dall’inizio dell’Ottocento fino al crack del 1914, comparandolo con quanto stava succedendo nel resto della Svizzera e in Italia. È un po’ la storia dell’infanzia della banca ticinese. La terza parte continua l’istoriato dell’andamento del settore bancario

durante il periodo della prima guerra mondiale e in quello tra le due guerre. Per l’autore questo è il periodo della maturità. Tra questi due periodi, si inserisce la seconda parte che è dedicata alla storia del crack bancario del 1914. Ovviamente la storia dell’espansione del sistema bancario non si riduce solo a una raccolta di statistiche sull’evoluzione della cifra di bilancio complessiva, sull’evoluzione dell’impiego, del numero degli istituti o del numero di filiali, sportelli, agenzie e rappresentanze. Nosetti ha esaminato tutte le operazioni delle singole banche, l’importanza e la provenienza della clientela, la composizione del management e le sue qualifiche. Ha cercato poi di valutare quale sia stato l’apporto delle banche allo sviluppo dell’economia ticinese. La sua analisi è originale non solo per il dettaglio e la completezza dell’informazione, ma anche per i giudizi sui rapporti delle banche

con l’evoluzione dell’agricoltura , dell’industria, del mercato ipotecario e del turismo, sul ritardo economico del Ticino, sull’apporto delle rimesse degli emigrati al risparmio cantonale, nonché sull’importanza, allora, di quello che diventerà, nel secondo dopoguerra, il cordone ombelicale della banca ticinese, ossia il rapporto con l’Italia. Essa viene a completare, in modo magistrale, una serie di ricerche storiche sulle infrastrutture di trasporto, sulla legislazione di protezione del lavoro, sull’evoluzione della produzione di energia elettrica, sui rapporti con Berna, sulla politica di sostegno e sviluppo dell’economia, apparsi negli ultimi anni. Gli stessi si sono concentrati sul periodo della belle époque e su quello tra le due guerre mondiali, consentendoci così di capire meglio perché lo sviluppo secolare, in Ticino, si è fatto, parafrasando Lenin, con due passi in avanti e uno indietro.

la conferenza, una mozione che non esclude questa possibilità. Corbyn non vuole ribaltare il 2016: si sa che lui troppo europeista non lo è mai stato. Vuole però negoziare con Bruxelles, cioè prendere in mano il governo e reimpostare le linee guida delle trattative. È per questo che dice che il «no deal», l’assenza di un accordo, è «un disastro nazionale», oltre che il fallimento di due anni di diplomazia, cui sono state dedicate buona parte delle risorse del Regno. È per questo che, tra referendum ed elezioni, il Labour preferisce di gran lunga la seconda opzione. È anche per questo che dice che il Labour voterà contro l’accordo dei Chequers del governo di Theresa May, che è l’unica opzione onnicomprensiva per ora sul tavolo ma che pare ormai defunta: non lo vuole nessuno, questo piano. Non lo vuole l’Europa, non lo vogliono i falchi della Brexit, e non lo vuole il Labour. Come possa sopravvivere non si sa, probabilmente non lo farà. Corbyn offre come alternativa la possibilità di negoziare un accordo che protegga i lavoratori inglesi e mantenga l’unione

doganale con l’Unione europea: in questo caso, il Labour starà con il governo. Ma è un’ipotesi remota, e soprattutto: non c’è tempo. In realtà il tempo è poco anche per un voto, che sia un referendum o, come spera Corbyn, un’elezione. Accordarsi sul quesito referendario pare quasi impossibile; per le elezioni in realtà si può andare più di fretta, ma prima deve crollare il negoziato con Bruxelles, poi deve crollare l’esito del negoziato in Parlamento e poi bisogna decidere che fare. C’è anche il termine stabilito dall’articolo 50 – che ha aperto le trattative – che scade il 29 marzo del 2019: revocare l’articolo 50 si può per via parlamentare, ma equivale a ribaltare la Brexit. Che ne sarebbe allora della volontà popolare espressa nel 2016? Il Labour può permettersi di non rispondere a troppe domande: è comunque all’opposizione. Per i Tory invece la faccenda è più complicata. Si apre ora la conferenza del partito al governo a Manchester e si sa già che si starà a guardare se e come la May riesce a sopravvivere

indenne ai continui attacchi fratricidi che ormai sono quotidiani. Un leader alternativo non c’è, e questa è stata la sua ancora di salvataggio finora, ma se non c’è nemmeno un piano condiviso per la Brexit, ormai allo scadere del tempo, diventa per la May difficile dare garanzie per il futuro. La May non vuole né un nuovo referendum né nuove elezioni, punta a portare a casa un accordo con Bruxelles, anche se pare anche lei spazientita. Ma quel che sfugge è che non soltanto l’ipotesi di non accordo è terrificante in termini pratici, ma è anche una minaccia per l’Europa stessa. Se il peso commerciale del Regno Unito dovesse spostarsi verso l’America, dove Trump è sempre stato abbastanza condiscendente nei confronti della Brexit, potrebbe inasprirsi ulteriormente il rapporto con l’Unione europea, che già non è idilliaco. E le conseguenze per gli europei, che oggi tengono il punto sulla Brexit perché non vogliono incentivare altre illusioni di uscite, potrebbero essere a quel pesanti: un blocco anglo-americano contro l’Europa è difficile da contrastare.

un giovane intellettuale tedesco, Karl Marx, allora esule a Bruxelles, polemista vigoroso. Lo scritto, anonimo e pubblicato in tedesco sotto il titolo Manifest der kommunistischen Partei, uscì a Londra nel febbraio del 1848 dai torchi di due diverse stamperie: Burghard e Hirschfeld. L’edizione Burghard contava 23 pagine, l’edizione Hirschfeld 24 (diventate 30 nelle edizioni successive). Un libro smilzo ma dal contenuto esplosivo. Marx, con l’aiuto dell’amico Engels, aveva gettato le basi di un socialismo reale, scientifico, e non più utopistico com’era nei voti dei precursori. Nel frattempo anche la Confederazione si era proposta di sanare le ferite aperte dal breve ma lacerante scontro armato del «Sonderbund». Il 12 settembre del 1848 si dava una nuova Costituzione «allo scopo di rassodare la lega dei Confederati» formata da ventidue cantoni sovrani. Il Ticino la respinse, per ragioni più pratiche (politica daziaria) che ideali, ma ormai la rotta era tracciata: un

cammino verso un maggiore accentramento di compiti e funzioni nella nuova capitale o «città federale» (Berna), un’assemblea legislativa bicamerale (Consiglio nazionale e Consiglio degli Stati), un esecutivo (Consiglio federale) composto di sette membri. Sebbene la tradizionale denominazione restasse in uso (confederazione), di fatto la Svizzera si apprestava ad assumere i tratti di uno Stato federale. Tutto questo accadeva 170 anni fa, ma di questa ricorrenza – è vero, non tonda – si è parlato poco in queste settimane. Eppure il nostro ordinamento moderno nacque in quell’anno denso di avvenimenti. Lo storico Rolf Holenstein ha recentemente trascritto e raccolto in volume i verbali che alcuni delegati alla Costituente convocata a Berna, nel Rathaus zum Äusseren Stand, redigevano come promemoria all’indirizzo dei rispettivi governi cantonali, per informarli dell’andamento dei lavori ma anche per ricevere consigli. Nessuno

finora aveva intrapreso un’opera simile. Ne è uscito un librone di un migliaio di pagine, Stunde Null. Die Neuerfindung der Schweiz im Jahr 1848 (Ora zero. La reinvenzione della Svizzera nell’anno 1948), in cui è possibile osservare, seduta dopo seduta, progressi e resistenze, proposte e revisioni di un’assemblea chiamata a lasciarsi alle spalle anni burrascosi, ancora segnati da sospetti e profonde fratture (cattolici/protestanti, città/campagne, vecchi e nuovi cantoni). Occorreva bilanciare i poteri, fare in modo che una parte, quella urbana, non schiacciasse sistematicamente le minoranze rurali o periferiche. Alla fine la soluzione migliore fu individuata nel bicameralismo d’ispirazione americana: due camere paritarie, l’una espressione del popolo, l’altra dei cantoni. Nel mese di novembre i due consessi riuniti elessero il primo esecutivo centrale («Bundesrat») della nuova Svizzera liberale, un collegio in cui figurava anche il ticinese Stefano Franscini.

Affari Esteri di Paola Peduzzi I sogni del Labour La conferenza annuale del Labour inglese si è chiusa questa settimana con una speranza: andare presto a votare. Il leader, Jeremy Corbyn, si prepara a un’investitura da primo ministro ormai da tempo, e anche se i sondaggi dicono che lo scontro con i Tory è alla pari – con questi Tory ridotti ai minimi termini è ancora più allarmante il pareggio – i laburisti sono certi: manca poco e saremo di nuovo al potere. Si tratta di creare l’oc-

casione, e ovviamente l’occasione madre è la Brexit, perché il negoziato con Bruxelles sta andando male e a un certo punto la parola potrebbe ritornare agli elettori. Una parte di Labour sogna un nuovo referendum e a Liverpool, dove si è tenuta la conferenza, ci sono state manifestazioni e incontri animati dal People’s vote, un movimento che aveva poche chance di emergere nella cacofonia anti Brexit e che invece si è imposto come voce unitaria per portare il paese a riconsiderare l’uscita dall’Europa. I dettagli in questo caso sono rilevanti. Il People’s vote vuole che tra le opzioni presentate agli elettori in un referendum ci sia anche quella del remain. Cioè gli inglesi devono avere la possibilità di dire: ci siamo sbagliati, abbiamo cambiato idea, vogliamo rimanere in Europa. Si tratta cioè di fermare la Brexit, invertire il suo corso, annullare l’esito referendario del 2016. Non tutto il Labour però è d’accordo su questa opzione e di certo non lo è Corbyn, che si è tenuto abilmente lontano dalla questione, nonostante sia stata votata, durante

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Un Quarantotto da ricordare Manifestazioni, comizi, barricate, strade e piazze occupate. E poi cannonate sulla folla, esecuzioni, esilio. Il 1848 fu un anno di rivolte, da Parigi (epicentro delle sommosse) a Berlino, da Budapest a Vienna, da Milano a Napoli, a Palermo. Operai, plebei e artigiani reclamarono a gran voce la repubblica, l’introduzione del diritto al lavoro, il suffragio universale (maschile); in Germania e in Italia, paesi divisi in tanti principati e granducati, prese forza il progetto dell’unificazione nazionale, e quindi della guerra contro le dinastie che il congresso di Vienna del 1815 aveva rimesso in sella (periodo detto della Restaurazione). L’anno non ebbe un esito felice. L’ordine fu riportato in tutte le principali città investite dalla bufera rivoluzionaria. Anche gli austriaci si ripresero Milano dopo cinque giorni di combattimenti. Carlo Cattaneo, rifugiatosi prima a Parigi e poi a Lugano, ne stese un primo bilancio nel volume L’insurrection de

Milan en 1848, riedito in italiano l’anno successivo sotto il titolo Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra (Tipografia della Svizzera italiana): un bilancio amaro, il suo, che tuttavia si chiudeva con parole di speranza: «il principio della nazionalità, provocato e ingigantito dalla stessa oppressione militare che anela a distruggerlo, dissolverà i fortuiti imperii dell’Europa orientale; e li tramuterà in federazioni di popoli liberi. Avremo pace vera, quando avremo li Stati Uniti d’Europa». I moti del 1848 percorsero il continente come una lingua di fuoco, portando alla ribalta soggetti politici stanchi del vecchio assetto monarchico: patrioti, repubblicani, democratici, socialisti. E anche leghe che si autodefinivano comuniste, gruppi giudicati sovversivi e perciò costretti ad operare nella clandestinità. Il passaggio dalla lega al partito fu deciso dal «Bund der Kommunisten» nel dicembre del 1847. L’incarico di stenderne il manifesto fu affidato ad


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Cultura e Spettacoli Un uomo di parola Un Papa unico nel suo genere e soprattutto autentico quello ritratto da Wim Wenders

La gradualità di Pitschen A Porza, nella suggestiva sede museale di Villa Pia, sono esposte le opere più recenti dell’artista tedesco Adriano Pitschen

Per la pace dell’anima L’apertura della Filanda a Mendrisio spinge ad alcune riflessioni sulle biblioteche pagina 41

Le lezioni di Nabokov Esce per i tipi di Adelphi Lezioni di letteratura del grande scrittore Vladimir Nabokov

pagina 40

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Un compleanno da non perdere Mostre Tintoretto a Venezia

nel cinquecentenario della nascita

Gianluigi Bellei Nel cinquecentenario della nascita Venezia dedica al suo Jacopo Robusti detto Tintoretto una serie di mostre. L’atto di morte di Tintoretto è datato 31 maggio 1594 e qui viene specificata l’età: 75 anni. Ne deriva perciò che è nato intorno al 1518-1519. La storia della famiglia di Jacopo è raccontata in una fantasiosa Genealogia de la casa de Tintoretto. Qui si legge che due bresciani, i fratelli Battista e Antonio Comin, si erano uniti alle truppe veneziane contro le forze imperiali durante l’assedio di Padova del 1509. I Comin hanno combattuto con così grande vigore da essere chiamati «Robusti». Battista, uno dei fratelli e padre di Jacopo, si era trasferito a Venezia dove aveva aperto una tintoria: da qui il soprannome dell’artista. A quel tempo, in città la popolazione era divisa in tre ordini: i patrizi, i cittadini e i popolari. I cittadini erano gli originari di Venezia e avevano il diritto di esercitare il commercio e di entrare nella pubblica amministrazione. Battista non era nobile, né ovviamente cittadino. Carlo Ridolfi ne Le vite dei Tintoretti del 1994 sostiene che Jacopo in età matura vestiva la toga veneta, quella nera che i patrizi indossavano per andare a palazzo Ducale, in conseguenza del matrimonio e non «per appartenenza all’appropriata classe sociale». Giorgio Vasari scrive di lui come «stravagante, capriccioso, presto e risoluto, et il più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura». Quando redige le Vite, Tintoretto ha già dipinto diversi capolavori tanto che Vasari non lo può ignorare. Nonostante questo specifica con disprezzo che «ha lavorato a caso e senza disegno, quasi mostrando che quest’arte è una baia». Vasari ritiene infatti che il colore usato dai veneziani non sia altro che una «gruccia per mascherare la scarsa abilità nel disegno». In realtà anche Pietro Aretino lo critica per la rapidità nel dipingere. Il commediografo Andrea Calmo nel Rimanente de le piacevole et ingeniose littere del 1548 lo descrive come un «granelo de pevere» (pepe) che «zigolando col penelo, fe una fegura retrata dal natural, in meza hora». Sempre nello stesso anno esce a Venezia il Dialogo di pittura di Paolo Pino che nell’annosa controversia tra il primato del disegno e quello del colore trova la sintesi. Il dialogo si svolge fra il pittore veneziano Lauro e il collega toscano Fabio e si risolve nell’accettazione di entrambi del fatto che «se Tiziano e Michiel

Angelo fussero un corpo solo, over al disegno di Michel Angelo aggiontovi il colore di Tiziano, se gli potrebbe dir lo dio della pittura, sì come parimenti sono ancora dèi propri, e chi tiene altra operazione è eretico fetidissimo». È del 1545/1546 Venere e Marte sorpresi da Vulcano nel quale Tintoretto cerca di fondere il disegno di Michelangelo e il colorito di Tiziano in un dipinto straordinariamente «sensuoso» che gioca sulle superfici specchianti. Ma è proprio del 1548 la straordinaria tela del Miracolo dello schiavo nel quale Tintoretto propone una storia che è la fusione di vari episodi in un «tracimante dinamismo», come scrivono in catalogo i curatori della mostra a Palazzo Ducale Robert Echols e Frederick Ilchman, che segna una svolta nell’arte del periodo: «il denudamento dello schiavo, il fallimento di ogni tortura in seguito all’intervento di San Marco, lo stupore del padrone e, infine, la conversione di quest’ultimo». Il dipinto procura subito grande fama al pittore che da allora fa incetta di commissioni. Tante, troppe, il che giustifica in parte la fretta delle esecuzioni. Ma i suoi dipinti non sono certo frutto dell’improvvisazione. Per realizzarli, come altri pittori, crea da solo piccoli ambienti dentro i quali colloca figure in cera o in creta rivestite di stoffa sulle quali posiziona delle luci artificiali per poi realizzare i disegni. Il suo stile pittorico, secondo i curatori della mostra veneziana, è fondato su tre fattori: l’energia che gli ha permesso di dipingere con rapidità, composizioni piene di muscolose figure in movimento e infine l’impegno per la produzione di arte sacra. Per questo la sua opera «è pervasa da una forte solidarietà nei confronti del povero e dell’oppresso in armonia con la missione delle istituzioni caritatevoli che furono i suoi committenti più importanti». Organizzare una mostra monografica su Tintoretto fuori da Venezia è sempre un problema soprattutto per la sua vocazione a dipingere grandi tele. Ma anche perché le opere più importanti sono quasi tutte a Venezia. L’ultima retrospettiva esauriente è datata 1937. Una mostra comunque controversa, questa di Ca’ Pesaro, sia per le opere di scarsa qualità che per le grandi tele, come Il ritrovamento del corpo di San Marco proveniente dalla Pinacoteca di Brera, arrotolate e rimontate due volte. Da allora le mostre si sono concentrate su di un singolo aspetto della sua arte, come per esempio quella del 1994 alle Gallerie dell’Accademia

Flagellazione di Cristo, tardi anni settanta del Cinquecento. (Collezioni d’arte del castello di Praga)

riguardante i ritratti. Per contro le panoramiche dedicate all’arte veneziana, come The Genius of Venice del 1984 a Londra e Le siècle de Titien del 1993 a Parigi, mettevano in primo piano gli altri artisti lasciando in ombra Tintoretto. Nel 2007 il Museo Nacional del Prado a Madrid inverte la tendenza realizzando la prima importante retrospettiva dopo quella del 1937. Da questo progetto e dai seguenti studi è sorto l’evento odierno che consiste in due mostre principali con altre di contorno. Le Gallerie dell’Accademia presentano i lavori del periodo giovanile dal 1538 al 1548 e Palazzo Ducale le opere della maturità. A Palazzo Mocenigo troviamo La Venezia di Tintoretto con i costumi dell’epoca; alla Scuola Grande di San Marco Arte, fede e medicina nella Venezia di Tintoretto con documenti d’archivio, manoscritti, codici miniati, incisioni, tele, pergamene. Infine gli itinerari tintorettiani in città: una qua-

rantina di chiese, musei e biblioteche in una sorta di permanente mostra diffusa tra i quali citiamo unicamente la Scuola Grande di San Rocco alla quale l’artista ha lavorato per vent’anni dal 1564. Le due mostre principali possono vantare prestiti eccezionali dai principali musei di tutto il mondo. Il prossimo anno, dal 10 marzo al 7 luglio, una parte di questi lavori sarà trasferita alla National Gallery of Art di Washington. Tutto il percorso è da seguire, opera per opera. Citiamo solo i due autoritratti che aprono e chiudono le esposizioni. Quello del 1546/47, proveniente dal Philadelphia Museum of Art, nel quale l’artista appare con gli occhi penetranti che sprigionano la forza della personalità e l’impazienza giovanile. L’aspetto è volutamente trascurato, diversamente dagli autoritratti di Tiziano che si rappresenta con le vesti opulente e la doppia catena d’oro. Poi

quello del 1588, proveniente dal Musée du Louvre di Parigi nel quale ci osserva con lo sguardo fisso nel vuoto come un vecchio «che contempla con fredda desolazione la sua mortalità». Ottimo l’allestimento come le luci, soprattutto a Palazzo Ducale. Ottimo anche il catalogo, sempre quello di Palazzo Ducale, strumento di consultazione e di aggiornamento con la bibliografia e l’indice dei nomi e dei luoghi. Buon compleanno, quindi, Jacopo! Dove e quando

Tintoretto, 1519-1594. A cura di Robert Echols, Frederick Ilchman, Palazzo Ducale. Il giovane Tintoretto. A cura di Roberta Battaglia, Paola Marini, Vittoria Romani, Gallerie dell’Accademia, Venezia. Fino al 6 gennaio 2019. Cataloghi Marsilio. www.palazzoducale. visitmuve.it, www.mostratintoretto.it


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Cultura e Spettacoli

Cevoli, il segreto del suo successo Incontri A colloquio con il celebre comico italiano che da qualche anno porta in tournée spettacoli

che trattano di temi storici, politici e religiosi

Enrico Parola Chi si è affermato tra il grande pubblico come un improbabile assessore romagnolo che dal palco di Zelig parodiava i vizi della politica italiana può affrontare i vertici della cultura e della storia umana, può proporsi in spettacoli seri? La risposta è sì, ovviamente. Il caso più eclatante è quello di Roberto Benigni che da Johnny Stecchino s’è reinventato padre amorevole ai tempi dei lager con La vita è bella e soprattutto cantore della Divina Commedia, arrivando addirittura a fermare il Festival di Sanremo recitando sul palco dell’Ariston il 33esimo Canto del Paradiso. Nel suo piccolo (è meno famoso del collega toscano e soprattutto raggiunge a stento il metro e sessanta) Paolo Cevoli ha percorso la stessa parabola: l’assessore Palmiro Cangini nonché, altro fortunato ruolo che ha portato a Zelig, «Imperatore dei maiali» Teddy Casadei, da qualche anno porta su e giù per l’Italia spettacoli che trattano di Mussolini e Michelangelo, dell’Ultima Cena di Cristo e dell’Antico Testamento. «Ma secondo una mia prospettiva: raccontare grandi storie dal punto di vista di gente piccola. L’Ultima Cena è ripercorsa da Simplicio Marone, un cuoco romagnolo che ha importato la piadina dagli ebrei a Roma, Mussolini dal suo sosia, Michelangelo da Cencio Donati, garzone tartaglione che, facendo casini nella bottega, involontariamente dà all’artista le idee migliori. La Bibbia... beh, qui le storie sono tante e così le voci. Il volume è enorme ma è forte: pensi che all’inizio Dio dice agli uomini di moltiplicarsi, non di addizionarsi, quindi è un invito esplicito a…» Tra «gnocche» e «patacche» (dal dizionario romagnolo: belle donne e poco di buono) scorrono le imprese di Davide e l’invidia di Caino, «sempre affrontati a modo mio: i temi e gli spunti

Paolo Cevoli durante uno spettacolo. (Marka)

sono seri, ma li racconto cercando di far ridere. Un po’ perché l’ho sempre fatto, dalle elementari all’università, studente di Giurisprudenza a Bologna; un po’ perché l’ho imparato da mio padre e da Chesterton: è possibile affrontare tutto con leggerezza. Quando arrivò don Giorgio per l’estrema unzione mio babbo, che sarebbe morto un’ora e mezza dopo, gli fece una battuta, e poi un’altra; Chesterton diceva che gli angeli volano perché si prendono alla leggera. Per me la vita è una commedia perché ho la speranza che alla fine tutto s’aggiusti, che ci possano essere complicazioni, dolori, problemi, ma poi ci sarà un lieto fine». Per esprimere compiutamente il concetto in romagnolo («Sa qual è la differenza tecnica tra l’Emilia e la Romagna? È che quando chiedi da bere in

Emilia ti danno un bicchiere d’acqua, in Romagna ti danno il vino») Cevoli, non rinunciando alla sintassi improbabile dell’assessore Cangini, conia il neologismo «ignorantezza». Che, come recita il suo personale vocabolario, significa testualmente: «L’ignorantezza è quella cosa che tu magari non capisci ancora bene, c’hai un barlume, come quando ti sposi e non hai ben presente che cosa ti aspetta: il marito, la moglie, i figli… dici: vedremo, dai, che… Ecco, l’ignorantezza è quella cosa che ti permette di dire: in fondo la vita è positiva, c’è qualcosa che non dipende da te e riusciremo a cavarcela». Per Cevoli l’«ignorantezza» non è un copione imparato ma esperienza personale: «Sono figlio di albergatori, mamma faceva la cuoca e papà lo showman, come si usava una volta. Io ho de-

buttato nella sala della pensione Cinzia, zero stelle; altro che frigobar in camera, era già buono che avessimo il frigo: è passato il signore che dava le stelle e disse che faceva fatica a darne una, quindi ha lasciato perdere. Comunque io crescendo lì ho iniziato a lavorare sin da piccolo. Sono nato in mezzo ai clienti e quindi il senso del servire l’ho avuto fin da bambino». È ricordando queste umili origini oltre che osservando, durante un viaggio in Palestina, le griglie lungo le sponde del lago di Tiberiade («ho pensato: chissà se Gesù ne aveva una così quando, risorto, aspetta i discepoli sulla riva? Chissà che grigliata divina si saranno mangiati») che ha compiuto il primo passo verso temi biblici, con La penultima cena, vista dalla prospettiva di Simplicio Marone, «cuoco ignorantissimo che non ha capito

nulla di Gesù, ma dopo averne visti i miracoli lo rincorre per farlo suo socio. Il tutto comincia con le Nozze di Cana: il padre della sposa gli dà pochi soldi e ovviamente il vino finisce, va a comprarne altro ma intanto Gesù ha tramutato l’acqua in vino e quindi Simplicio, quando torna con le otri, rimane fregato e indebitato. Poi stipula con Giuda un contratto per fare il catering quando Gesù raduna le folle: va a prendere pane e pesci, arriva e Gesù ha moltiplicato quel poco che avevano e la folla è sazia. Ci rimane male, ma il senso romagnolo degli affari gli fa capire che sarebbe il socio perfetto per far soldi». Seppur avesse praticato l’arte del far ridere fin da bambino, Cevoli non pensava di diventare attor comico di professione: «Nel 1990 a Bologna c’era il concorso “La zanzara d’oro”, vi partecipai più per scommessa che per reale convinzione; c’erano Antonio Albanese, Fabio De Luigi, Diego Parassole e tanti altri. Mi vide Maurizio Costanzo, che mi invitò varie volte nella sua trasmissione; poi Gino e Michele mi coinvolsero nella loro Su la testa con Paolo Rossi, ma qui decisi di non andare perché avevo il mio lavoro nel campo della ristorazione. Ci fu un primo treno che mi disse “vieni a fare il patacca in tv”, ma non vi salii». Il secondo treno, quello su cui Cevoli è salito, fermava all’ambitissima stazione di Zelig. Era il 2002, anno di grazia per l’assessore Palmiro Cangini e l’«Imperatore dei maiali» Teddy Casadei. Un successo incredibile. «Il successo è una cosa inaspettata, bella, tutti ti conoscono e ti vogliono bene; mi stupisce l’affetto che la gente ti dimostra per strada perché vai nelle loro case a portare un po’ di spensieratezza, di divertimento. Il successo si costruisce con talento, lavoro, capacità di relazione e, come diceva il grande Arrigo Sacchi, il fattore C».

In Vaticano, come una vertigine

Incontri A colloquio con il regista Wim Wenders, che ha impiegato quattro anni per realizzare un documentario

sulla carismatica figura di Papa Francesco Blanche Greco «I miei film non esprimono le mie opinioni. Non avevo opinioni di sorta sui musicisti dell’Avana di Buena Vista Social Club, volevo solo mostrare la bellezza del loro lavoro; come pure di quello di Pina Bausch. M’interessava la bellezza e l’orribile realtà delle fotografie di Sebastião Salgado e nel caso di Papa Francesco, la verità delle sue parole si fa strada da sola, io mi limito a rendergli giustizia, facendo sì che il suo discorso arrivi nel modo più diretto possibile al pubblico». Ci ha detto Wim

Wenders, serio, categorico, nell’intervista che gli abbiamo fatto qualche giorno fa a Roma dove ha presentato, il suo: Papa Francesco – Un Uomo di Parola, un documentario che lo ha impegnato per quasi quattro anni, che è già stato presentato fuori concorso al Festival di Cannes e a quello di Venezia, e che è già uscito in Svizzera, ma che arriva in Italia mentre le vicende del Vaticano, le questioni irrisolte della fronda potente e riottosa della Curia Romana con il Papa, dilagano sui giornali e fanno notizia. Wenders abitualmente così gentile e ironico con i giornalisti, con i

Wim Wenders accanto al poster del suo nuovo film in una foto scattata recentemente a Roma. (Keystone)

quali, di solito, ama conversare e divagare, stavolta è apparso teso e allo stesso tempo voglioso di raccontare quanto questo film-documentario sia stato per lui, intellettuale raffinato, regista famoso solito alle sfide, un vero rebus intimo e personale. «Se un regista ha per le mani una storia e accanto a sé uno, o più produttori; si deve attenere a dei criteri, a delle linee guida prestabilite, oltre alla volontà di mettersi al servizio della storia e renderla al suo meglio. In questo caso ho ricevuto un invito dal Vaticano con la possibilità di fare un film su Papa Francesco, e, ai miei timori (sono protestante e professionalmente profondamente indipendente), hanno risposto aprendomi gli archivi Vaticani, per consultarli come meglio credessi; mi hanno dato il final cut e nessuna indicazione». Questa enorme apertura e questo silenzio da parte del Vaticano, hanno creato una sorta di vertigine nella quale Wenders per un certo periodo si è dibattuto cercando appigli: come raccontare Papa Francesco? Come aprirgli la strada verso il pubblico? Da dove cominciare? Come riprenderlo in un filmato che non vuole essere un reportage e neppure un film? Sino alla scelta di girare le interviste-incontro con Papa Francesco che guarda il pubblico, occhi negli occhi, «con quello sguardo di chi non ha paura» che ha impressionato Wenders sin

dal primo momento, uno sguardo che il film coglie spesso, diretto, intenso anche nelle immagini dei vari filmati dei suoi viaggi. «Penso che oggi Lui dica ciò che nessun politico si prende la responsabilità di dire, dall’emigrazione al consumismo; dalla povertà all’ecologia; dagli abusi sessuali al futuro della Chiesa; perché Lui guarda all’umanità nel suo insieme, e credo che la sua guerra sia la più importante che si stia combattendo sul pianeta», ha chiosato Wenders, «Non volevo fare un film che esprimesse un’opinione, quindi questo non è un film su Papa Francesco, ma con Lui e non sono io che parlo di Lui, bensì è Lui che si rivolge al pubblico». Se adesso Wenders dichiara di essere finalmente «in pace con il suo film», arrivare a questo punto non è stato semplice come ci ha raccontato lui stesso: «Papa Francesco quando ci siamo incontrati in una delle prime interviste mi ha detto con sincerità: “Io non conosco i suoi film, ma ho fiducia in lei.” Ma quando alla fine delle riprese mi sono ritrovato con otto ore d’interviste con il Papa, diverse centinaia di ore di materiale girato durante i suoi viaggi in tutto il mondo, il film su San Francesco che avevo girato ad Assisi (importante perché questo è l’unico Papa della Storia della Chiesa ad aver scelto il nome di questo santo riformatore e rivoluzionario), mi sono reso conto che avrei potuto montare

almeno cento film. Ma io potevo farne uno solo, e neppure molto lungo, appena di un’ora e mezzo. A quel punto ho dovuto fermarmi, e ci ho messo un bel po’ prima di trovare la forma più giusta, per un film in cui Papa Francesco potesse raccontare tutto ciò che gli stava a cuore. Un flusso di pensieri e di parole senza ripetizioni e senza barriere». Un flusso accompagnato dalle musiche di Laurent Petitgand, dalla voce della cantante argentina Mercedes Sosa e che finisce con una canzone di Patti Smith «perché volevo la voce di una donna dopo tante voci maschili e Patti Smith aveva suonato per il Papa, anzi c’era una storia che, nella mia testa la legava a lui», ci ha raccontato Wim Wenders abbozzando un sorriso, «Patti Smith era stata ad Assisi nel 2012, ospite dello stesso monastero in cui sono stato io, mentre giravo il film su San Francesco. L’occasione era stata una conferenza per la pace e lei aveva dato un concerto e aveva parlato con i frati, e, durante una cena con loro, una sera, gli aveva detto: “Voi non ve lo aspettate, ma il prossimo Papa si chiamerà Francesco.” Tutti avevano riso e avevano brindato alle gentili sciocchezze di una cantante americana che non sapeva che un Papa che assumesse quel nome era un evento impossibile. Mi sono ricordato di questa storia, che lei stessa mi aveva raccontato, e le ho chiesto di essere nel film con una canzone».


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Cultura e Spettacoli

La vitalità delle forme

Mostre Il Museo Villa Pia a Porza dedica una mostra alla produzione più recente di Adriano Pitschen

Alessia Brughera Sono trascorsi otto anni dalla mostra personale che il Museo d’arte di Mendrisio ha dedicato ad Adriano Pitschen. Nessun’altra esposizione del pittore luganese ha avuto luogo dal 2010, non certo perché siano mancate le occasioni ma piuttosto per un’esigenza dell’artista stesso, che da sempre procede nel suo lavoro con minuziosa gradualità, requisito assolutamente indispensabile all’elaborazione e allo sviluppo del suo linguaggio.

Fin dagli anni Settanta Pitschen guarda soprattutto a maestri francesi come Chardin, Bonnard e Cézanne Solo adesso, per lui, è arrivato il momento di proporre gli esiti maturati in questo lasso di tempo, che vanno a costituire una nuova tappa del suo percorso contrassegnato fin dagli esordi da un alto grado di consapevolezza e da una costanza d’intenti che appartiene davvero solo a pochi artisti. Le opere più recenti di Pitschen – tra dipinti a olio, pastelli, acquarelli e incisioni – sono raccolte nelle sale del Museo Villa Pia, in quella che per la sede espositiva di Porza è la prima rassegna intitolata a un pittore. La scelta di presentare i lavori di questo artista

trova la sua ragion d’essere nelle affinità con la pratica di Erich Lindenberg, nome a cui Villa Pia è strettamente legata in quanto luogo deputato allo studio del suo lascito attraverso una Fondazione. Ad accomunare le due figure, seppur aperte a differenti suggestioni (provenienti per Pitschen principalmente dall’ambito francese e per Lindenberg dall’arte nordica), è l’estrema cura della composizione pittorica che avviene per mezzo della meticolosa trattazione della superficie. È per entrambi una sorta di dedizione senza riserve per l’atto del dipingere, sorretto dalla ricerca dell’armonia di tutti gli elementi in gioco e volto a creare opere in cui lo spazio vive di eleganti equilibri e la luce emerge dagli accostamenti cromatici e dalla modulazione delle forme. Benché a fare da spartiacque sia la mostra mendrisiense, tra i lavori di Pitschen esposti a Porza troviamo un pastello datato 1994 dal titolo Composizione solare, scelto a testimonianza di come la pittura dell’artista si muova da decenni in una precisa direzione, esplorando con persistenza i medesimi principi: in quest’opera, difatti, si scorgono già quelle sagome tondeggianti ridotte all’essenziale, qui ancora dai contorni poco definiti e ottenute lasciando scoperta la superficie del foglio, che sono la componente chiave del suo discorso pittorico. Complici i numerosi soggiorni a Parigi, Pitschen guarda fin dagli anni Settanta ai maestri francesi, Chardin

Adriano Pitschen, Composizione schiacciata grigia, 2016.

su tutti, considerato lo «scienziato del colore e dell’armonia», ma anche Corot, Bonnard e Cézanne, per trarre preziosi insegnamenti dalle loro opere. L’artista riconosce fin da subito nei profili mutuati dal cerchio, tanto cari proprio a Chardin, il mezzo più efficace per riflettere sul rapporto tra spazio e forma. Pitschen arriva così a cogliere la realtà che lo circonda nella sua dimensione curvilinea, a estrapolare l’elemento circolare per trasfigurarlo in puro costituente compositivo: «Ho iniziato dagli oggetti persistentemente presenti davanti a noi e che tocchiamo spesso, come ad esempio un bicchiere o una ciotola; si è trattato di sentirli non più legati alla loro funzione, ma come potenziali assoluti che possono diveni-

re forme neutre», afferma. Ecco allora che nelle tele di Pitschen si attua un vero e proprio passaggio dall’oggetto alla forma, una traduzione del dato reale in un dato mentale: corpi sferici variamente interpretabili come ovuli, bolle, cellule, molecole e così via, a richiamare sempre un’idea di origine, di principio, abitano i lavori dell’artista affiorando dall’estensione monocromatica per accostarsi l’uno all’altro in misurate cadenze. Nelle opere esposte a Porza il controllo che Pitschen attua su ogni elemento del dipinto si fa ancora più evidente; frutto di un’intuizione continua, è un controllo che conduce l’artista a «ripercorrere millimetricamente

lo spazio in cui tutto deve divenire pregnante e presente». Se prima le piccole forme curvilinee fluttuavano più liberamente sulla tela, nei dipinti degli ultimi anni generano ritmi più serrati e ordinati, fuse come sono da un’energia sottile da cui emerge rafforzato l’equilibrio delle dinamiche interne alla superficie pittorica. Pitschen sembra procedere per sottrazione, giungendo a un’immediatezza e a una semplicità che rendono manifesto l’accurato lavoro di sintesi maturato nel tempo attraverso la capacità di sfruttare al massimo le potenzialità del colore e della luce. Il fondo e la forma interagiscono tra loro fin quasi a divenire una cosa sola, le tinte si fanno compatte e decise, la materia diviene leggera e lo spazio armonioso. In queste tele in cui la lentezza e la cura nel dipingere permettono di penetrare nelle trame della pittura stessa, dinamismo e vibrazione coesistono con essenzialità e rigore, dando modo a Pitschen di «cercare di ottenere delle opere che abbiano in superficie tutto ciò che deve esserci: piena luce e potenziale cromatico assoluto, per tentare continuamente di giungere a delle immagini che possano vivere per conto loro». Dove e quando

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Cultura e Spettacoli

Di libri e di biblioteche

Lettura Ai nostri giorni la biblioteca può ancora essere definita un luogo di cura dell’anima?

Elio Marinoni In margine alla recente inaugurazione del Centro culturale «La Filanda», con la nuova sede della Biblioteca cantonale di Mendrisio, propongo di seguito qualche spunto di riflessione sul tema dei libri e delle biblioteche. Bene hanno fatto i responsabili a mantenere l’antica denominazione «La Filanda», non solo perché ai mendrisiensi di tradizione il nome evoca memorie storiche e spesso familiari; ma anche perché con l’insediamento della biblioteca l’edificio – dopo l’esperienza della grande distribuzione e lo stato di sostanziale abbandono degli ultimi anni – recupera una continuità simbolica con la sua destinazione originaria, nel senso che vegetale è la materia prima di cui sono fatti i libri: il papiro in origine, gli stracci più recentemente, la cellulosa da metà Ottocento. Di papiro erano appunto fatti – prima che subentrasse l’uso della pergamena di origine animale – i rotoli (volumina in latino, da cui il nostro «volumi») dei più antichi libri. Il primo a mettere a disposizione una raccolta di testi per la lettura pubblica sarebbe stato, al dire dell’erudito Aulo Gellio (Notti attiche, VII, 17), il tiranno ateniese Pisistrato (VI sec. a.C.); ma la «madre di tutte le biblioteche» è giustamente considerata la biblioteca di Alessandria d’Egitto, fondata agl’inizi del III sec. a.C. da Tolemeo I Soter e ampliata dai successivi sovrani tolemaici. Lo storico siciliano Diodoro, vissuto nell’età di Augusto, ci fornisce nel

La Filanda di Mendrisio, una moderna biblioteca. (Chiara Zocchetti / CdT)

I libro della sua opera Biblioteca storica un’ampia descrizione delle istituzioni culturali (Museo e Biblioteca) fondate ad Alessandria dai Tolemei, basata su una visita personale e sull’autorità di Ecateo, storico greco del III sec. a.C. Ebbene, Diodoro ci dice che sopra l’ingresso della biblioteca era stata posta la scritta Psyches iatreion, ossia «luogo di cura dell’anima» (Canfora) o addirittura «ospedale dell’anima», accentuando la metafora medica che sta alla sua base, risalente al dualismo anima/corpo di tradizione soprattutto platonica, ma ampiamente condiviso da peripatetici e stoici.

Può ancora, la biblioteca dei nostri giorni, essere definita un luogo di cura dell’anima? E i libri ne costituiscono i medicinali? I segnali che giungono dal «mondo esterno» sono a mio avviso contrastanti: da un lato le fiere del libro e i festival di letteratura attirano un pubblico sempre più numeroso, e sempre più successo hanno le iniziative editoriali che propongono il libro come gadget, venduto come complemento di un quotidiano o di un periodico; dall’altro, a tutto ciò non sembra corrispondere affatto un aumento dell’abitudine alla lettura e il libro, soprattutto il caro e vec-

chio libro cartaceo, appare a taluni come un oggetto ormai desueto («Ma c’è ancora qualcuno che legge libri?», mi è capitato di origliare proprio durante la cerimonia d’inaugurazione della Filanda). Anche qui, tuttavia, niente di nuovo. Già Seneca denuncia lo squilibrio tra il numero dei libri acquistati e messi in bella mostra negli scaffali dai ricchi romani del tempo e il numero di quelli effettivamente letti: «A che pro libri innumerevoli e collezioni, se in tutta la vita il padrone riesce a stento a leggerne i titoli?». E denuncia: «per molti, che ignorano anche l’istruzione ele-

mentare, i libri non sono strumenti di studio, ma arredi per le sale da pranzo», in quanto «al giorno d’oggi, tra bagni e terme, anche una biblioteca ben decorata è un indispensabile ornamento della casa». Di qui l’ammonimento: «ci si procurino libri quanto basta, e non per ostentazione» (Seneca, La tranquillità dell’animo, 9, 4-5 e 7). Per Seneca, insomma, anche nel campo della lettura e degli studi deve valere il principio della giusta misura: «Troppi libri appesantiscono il discente, invece di istruirlo; ed è molto meglio consacrarsi a pochi autori, che vagabondare fra molti» (op. cit., 9, 4. Considerazioni simili anche nella seconda delle Lettere a Lucilio, §§ 1-3). Quanto alla più volte annunciata imminente fine del libro cartaceo, appare sempre più evidente che si tratta di false profezie. Sia perché è ormai assodato che pure i supporti elettronici sono deperibili, forse addirittura più del libro; sia perché, paradossalmente, il libro è di più agevole lettura. Insomma, per dirla con Umberto Eco, che non era certo un passatista: «Se ci fosse un black out abbastanza duraturo non potrei più usare alcuna memoria elettronica. Se pur avessi registrato nella mia memoria elettronica tutto il Don Chisciotte, non potrei leggerlo alla luce di una candela, su un’amaca, in barca, nella vasca da bagno, in altalena, mentre un libro mi consente di farlo anche nelle condizioni più disagiate» (U. Eco, Sulla labilità dei supporti, in Pape Satàn Aleppe, La nave di Teseo, Milano 2016, p. 353). Annuncio pubblicitario

KKK tragicomico di Spike Lee, Palma d’argento a Cannes Fabio Fumagalli *** BlacKKKlansman, di Spike Lee, con

John David Washington, Adam Driver, Laura Harrier, Topher Grace (USA 2018) Dopo una decina d’anni di quasi anonimato Spike Lee è risorto: il suo BlacKKKlansman introduce neri ed ebrei con noncurante e a tratti spassosa lucidità, fino all’interno della stupidità razzista del Ku Klux Klan di Colorado Springs; per non arrendersi nemmeno nell’anticamera delle stanze di Trump. Che Spike Lee non si sia mai tirato indietro di fronte alle problematiche razziali lo sapevamo. Ma qui il regista sessantenne sembra aver ritrovato molta della sua arte tutta particolare, scivolando con estrema naturalezza dai toni comici a quelli seri, per non dire tragici. S’ispira all’autenticità di un fatto clamorosamente accaduto: quello di Ron Stallworth, poliziotto afroamericano al quale riuscì l’impresa stupefacente, alla fine degli anni Settanta, d’infiltrarsi nel Ku Klux Klan degli addetti al linciaggio e alla nota tradizione razzista e antisemita. Grazie anche alla collaborazione di un collega: bianco ma ebreo… Giocando con scioltezza sul suo thriller, che da semi-ridanciano si fa altamente significativo, al regista riesce di riprendere quanto di profetico aveva iniziato mirabilmente nel 1989 con Do The Right Thing. Si appoggia, come

Adam Driver e John David in una scena del film di Spike Lee. (youtube)

spesso gli è riuscito, su un uso dei suoni spettacolare, sul dilagare di musiche e risonanze ambientali, sugli accenti della parlata; a cominciare da quella dei protagonisti, Adam Driver, il compare bianco, e John David, figlio di Denzel Washington. Il risultato? Da un cinema di talento, ma tutto basato sull’istinto, si passa a un altro, ragionato, che provoca la riflessione, in quanto iscritto nella storia delle genti. Spike Lee si diverte parlandoci del passato, talvolta senza andare troppo per il sottile (dopotutto siamo nell’epoca dei Trump), ma si rivolge soprattutto all’America di oggi, specchiandosi in quella, assai meno godibile, del feroce e stolto nazionalismo. Mostrandoci Alec Baldwin quando imita ferocemente il presidente nel corso della celebre emissione televisiva Saturday Night Live. Non tutto coincide, nella caricatura di certi accostamenti. Ma, quasi l’avevamo dimenticato, la forza di Lee risiede proprio nell’impeto, nella rabbia, nella volontà di persuasione del suo cinema. Come quando il film si fa esplicitamente più politico, quasi brutale. Con le immagini di una pellicola cara da sempre ai membri del KKK, Nascita di una nazione (1915) di Griffith, che si confondono sul viso dell’oratore David Duke. Nascono allora, in montaggio parallelo, le splendide immagini del racconto del novantenne Harry Belafonte (il primo fra gli attori ad aver lottato per i diritti civili) ai giovani attivisti neri: egli aveva infatti assistito al linciaggio del martire Jesse Washington, torturato e assassinato nel 1916. Le risate del film si spengono con le immagini della strage di Charlottesville dell’agosto 2017 e il ritratto di Heather Heyer, vittima a trent’anni, mentre partecipava al corteo antirazzista. Il presidente degli Stati Uniti non aveva condannato i colpevoli.

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Cultura e Spettacoli

Raccontare la storia fra le righe della propria biografia

In scena Al LAC ha preso il via la 27esima edizione del Festival Internazionale del Teatro: a inaugurarla

lo spettacolo Avevo un bel pallone rosso di Angela Demattè

Giorgio Thoeni Si è inaugurata sul palco del LAC la 27esima edizione del Festival Internazionale del Teatro (FIT) con Avevo un bel pallone rosso, atto unico di Angela Demattè incentrato sulla figura di Margherita (Mara) Càgol, fra i fondatori della prima cellula delle Brigate Rosse con Renato Curcio, suo marito. Lo spettacolo, oltre a ricordare il 50esimo dal Sessantotto, si inserisce perfettamente nella tematica «rivoluzionaria» scelta dai curatori della rassegna: rivoluzioni piccole o grandi, episodi che hanno lasciato segni profondi, come nel caso della lotta armata in Italia, ma che prendono avvio da biografie o autobiografie incanalandosi in una drammaturgia che vede al centro l’individuo, come ci ricorda Paola Tripoli, direttrice artistica del Festival. Una prospettiva che peraltro ha a lungo alimentato anche la ricerca della storiografia sociale. Avevo un bel pallone rosso ora è stato riallestito per il FIT (sette anni dopo il suo debutto a Trento) con la regia di Carmelo Rifici. In scena troviamo Francesca Porrini nel ruolo di Margherita (originariamente ricoperto dalla Demattè) e Andrea Castelli in quello del padre. Per la messa in scena Rifici si è avvalso di alcuni dei protagonisti della LIS Factory, progetto di Luganoin-

Scena che mette in luce produzioni e coproduzioni di cui fanno parte anche realtà artistiche del nostro territorio. In questo caso troviamo Alan Alpenfelt come assistente alla regia, Zeno Gabaglio per le musiche (Canzone di Don Backy compresa, 1968) e Roberto Mucchiut per i video. L’originalità della scrittura di Angela Demattè per Avevo un bel pallone rosso (Premio scenario 2015), consiste principalmente nella limpida forza con cui fa emergere pagine di umanità sofferta attraverso il dialogo fra padre e figlia utilizzando la carnalità del dialetto (trentino nella fattispecie) contrapposta a interventi in lingua che cadenzano lo scambio come una mannaia (pari all’asciutto cinismo dei comunicati brigatisti). La ribellione di Mara è nella cronaca del suo graduale abbandono dei valori della sua originaria civiltà contadina di forte impronta cattolica a favore della pratica rivoluzionaria che fa da sfondo all’amore per il suo compagno, in antitesi con lo scontro generazionale con il padre. Ne esce una biografia emblematica, un processo che porterà alla lotta armata contro il capitalismo e i suoi simboli, in cui «colpirne uno per colpire tutti» diventa lo slogan di una lunga e buia stagione. La regia di Rifici è sobria, attenta all’efficacia dei dialoghi, pieni di rimandi cromatici in bianco e nero, pari

La regia di Avevo un bel pallone rosso è di Carmelo Rifici e Alan Alpenfelt.

alle immagini di cortei e scontri diffuse da un vecchio televisore, o alla gigantografia di Lenin proiettata sulla parete – che diventerà anche il primo piano del padre che si strugge sul destino della figlia. Un particolare che rimanda alla lezione di Milo Rau sull’ineluttabile ruolo dei video nella scena contemporanea. Nel confronto dialettico emerge l’umanità teatrale di uno straordinario Andrea Castelli, in scena con Francesca Porrini nel difficile compito di restituirci – con ancora qualche incertezza

– la complessa personalità di Mara. Il tutto per uno spettacolo che racconta ferite ancora aperte e avvolte da inquietanti echi d’attualità sociale. Un titolo enigmatico per una performance originale

EXP: je voudrais commencer par sauter è il secondo spettacolo che ha avuto il compito di aprire le porte del FIT al pubblico che, anche quest’anno, non vuole mancare ai numerosi appuntamenti proposti dalla rassegna luganese

che si concluderà il 7 ottobre. Così è stato anche per chi ha voluto vedere Francesca Sproccati al Teatrostudio del LAC in una performance coreografica da lei concepita con la collaborazione drammaturgia di Elena Boillat, entrambe in scena con Benjamin Burger. Ma chi si attendeva una vera e propria coreografia ha dovuto ricredersi: la Sproccati si è lanciata in una sperimentazione interessante e coraggiosa attorno al concetto di tempo. Un ardire filosofico sul concetto di Tempus fugit (per parafrasare Virgilio), su un’entità difficile da catturare e che oggi ci impone una riflessione su quel senso di assenza che agisce sullo stato di benessere intimo e collettivo, sulla capacità di misurare ciò che facciamo o che vogliamo fare. È il senso di questa performance dove i movimenti, liberati dai corpi saltellanti a ritmo ossessivo, o in preda a rotazioni dervishi, sono pochi e rarefatti, lentissimi, quasi come per una sublimazione estatica, fra i variopinti frammenti di gommapiuma, in una cornice condivisa con il pubblico, distribuito nello spazio scenico e libero di muoversi e di sistemarsi dove meglio crede, fra ceppi d’alberi e cuscini. E dove i suoni e i corpi cercano lo spazio nel trascorrere inesorabile del tempo: EXP in definitiva è un metaspettacolo contemplativo che ha il pregio di non lasciare indifferenti.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Cultura e Spettacoli

Quel brivido tra le scapole

Pubblicazioni Adelphi ripropone le Lezioni di letteratura del grande Vladimir Nabokov: una lettura

imprescindibile per chiunque sia seriamente innamorato dei libri Mariarosa Mancuso Lo scriviamo senza timore che qualcuno alzi la mano e dica «no, ma neppure per idea» (in tal caso, siamo disposti a un contraddittorio che potrebbe fare l’alba, come quando in Parlamento si fa ostruzionismo). Le Lezioni di letteratura di Vladimir Nabokov sono il più bel libro mai scritto sui romanzi: un modo di raccontarli, di apprezzarli, di gustarli, di smontarli e di rimontarli che non aveva precedenti e purtroppo non ha avuto imitatori. Pari, su un altro terreno, al modo che aveva Rainer Werner Fassbinder di parlare dei suoi film prediletti, i melodrammi girati da Douglas Sirk. Vladimir Nabokov negli anni 50 del Novecento insegnava alla Cornell University – un lavoro che non gli piaceva, interrotto quando il successo – anche economico – di Lolita gli consentì di farne a meno. Diceva di sé «Penso come un genio, scrivo come uno scrittore brillante, parlo come un bambino»: conoscendo il suo punto debole si scriveva le lezioni. Della timidezza, rimane traccia in qualche intervista televisiva: lo scrittore spunta da una muraglia di libri, servono a nascondere che sta leggendo dai suoi foglietti. «La letteratura è nata il giorno in cui un ragazzino, correndo nella valle di Neanderthal, gridò “al lupo al lupo” ma non c’era nessun lupo dietro di lui». Nabokov sgrombra subito il

A caccia di particolari: Vladimir Nabokov in una foto scattata da Horst Tappe in Svizzera nel 1971. (Keystone)

campo dagli equivoci. La letteratura nasce dall’immaginazione e non va confusa con la realtà. Molto probabilmente il ragazzo fu espulso dalla tribù, come pericoloso provocatore, ma aveva inventato qualcosa che prima

non c’era (serve per difendersi da tutti gli scrittori che fanno autofiction, e invece di raccontare il lupo – che comunque un certo interesse lo ha, anche quando è vero – parlano del proprio ombelico).

La magnifica invenzione, allora come oggi, ha un solo scopo: procurare un brivido tra le scapole. Avete letto giusto: «procurare un brivido tra le scapole». Non deve mandare messaggi, non deve cambiare il mondo, non deve spronare le masse alla rivoluzione, non deve farci diventare persone migliori. Se Nabokov sapesse che oggi la sua Lolita è a rischio di censura, uscirebbe dalla tomba per farci a pezzettini. Con lo stesso piglio con cui apriva le lezioni dicendo: «È vietato parlare, mangiare, fumare, lavorare a maglia e per carità, prendete appunti». Alla fine del corso la prova d’esame, qualche domanda è riportata alla fine del libro. Per esempio: «Parlate dell’uso della congiunzione “e” in Flaubert» oppure «A Emma Bovary, i laghi di montagna piacevano con o senza una barchetta solitaria?». Chi non ama la letteratura, legge le domande d’esame e pensa: «Ma che mania per dettagli, non possiamo parlare di cose più serie, magari la frustrazione della povera Emma che vive in provincia con un marito che non ama e anela alla libertà?» Non sono dettagli, sono la differenza tra un bravo scrittore e un cattivo scrittore. E tra un bravo lettore e un lettore distratto. «Accarezzate i particolari», diceva Vladimir Nabokov ai suoi studenti, soprattutto a quelli che alzavano la mano e parlavano di «istanze» (oggi uno come lui non potrebbe insegnare in nessuna università degli Stati Uniti, e anche fuori non avrebbe vita facile).

Quanto a Madame Bovary, avrebbe fatto meglio a scegliere meglio i romanzi da leggere – evitando di far confusione tra realtà e letteratura, finendo poi malissimo. «Solo ai bambini si può perdonare di identificarsi con i personaggi di un romanzo, o di divertirsi con i libri di avventura scritti male». Esattamente quel che fa Emma, in buona compagnia con i corteggiatori che si sceglie, per esempio Léon: «Io amo soprattutto i poeti. I versi mi sembrano più ricchi di sentimento della prosa, e muovono più facilmente alle lacrime». Una frase così funziona come un vaccino e dura tutta la vita, contro tutti quelli convinti che la poesia sia superiore alla prosa. Gli altri romanzi scelti da Nabokov per le Lezioni di letteratura – da poco in libreria nella nuova traduzione Adelphi – sono Mansfield Park di Jane Austen, Casa desolata di Charles Dickens, Lo strano caso del dottor Jekyll e Mister Hyde di Robert Louis Stevenson, Dalla parte di Swann di Marcel Proust, Ulisse di James Joyce (più o meno, in ordine di difficoltà). Una miniera di osservazioni intelligenti e sorprendenti, che fanno morire d’invidia la moglie di John Updike, una delle fortunate allieve. C’è anche Kafka, con La metamorfosi. Vladimir Nabokov disegna l’identikit del presunto scarafaggio, e da entomologo dilettante scopre che qualcosa non torna. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Vita da soubrette «Vai a una festa?», ha domandato mio nipote Enea, notando che mi ero tirato a lucido. «No, vado a intervistare una soubrette». «Cos’è?» Era la dea che incarnava i nostri sogni proibiti quando eravamo adolescenti, vorrei dirgli, ma lui, 25enne, non capirebbe. Per spiegarmi apro il DIR, il Dizionario Italiano Ragionato, alla voce «soubrette»: «Nella commedia francese, la classica servetta, in genere vivace e petulante. Nel teatro italiano, in particolare nella rivista musicale, giovane prima attrice, ballerina e cantante». Per noi studenti era l’avanspettacolo, interi pomeriggi trascorsi in locali dove ancora si poteva fumare, affollati di soldati in libera uscita, nei quali la proiezione del film era alternata al varietà, con il capo comico, il corpo di ballo, l’equilibrista o il giocoliere o l’illusionista e infine Lei, una bellezza statuaria, con abiti succinti ricchi di piume. Cantava, ballava, recitava brevi scenette facendo da spalla al comico. Lo spettacolo si concludeva con la «passe-

rella», che tutti gli artisti eseguivano su una pedana protesa verso la platea, con un pubblico osannante alle ballerine che lanciavano le gambe verso l’alto. Federico Fellini ha rievocato magistralmente quel genere di spettacolo in più di un film. Una famosa soubrette era stata Milly, al secolo Caterina Mignone, che si esibiva a Torino nel 1927. Nei primi giorni del mese di marzo Milly lasciò Torino e Cesare Pavese le indirizzò a Roma una lettera, rimasta senza risposta. Le parole di Pavese rappresentano bene i nostri pensieri adolescenziali: «Io non sono che un comunissimo studente di 19 anni e lei è lontana, tanto lontana. Come avrei potuto avvicinarla, qua in Torino? Sempre in compagnia la trovavo e sarebbe stato ridicolo. Del resto, anche se avessi potuto incontrarla sola, sarei stato confuso nel numero dei soliti “cacciatori” e tutto sarebbe finito». Il giovane Cesare non poteva saperlo, ma in quella stagione, per un mese intero nel suo camerino ospitò durante gli spettacoli il principe

ereditario Umberto di Savoia che aveva l’abitudine di regalare alle signore che frequentava un portasigarette d’oro con le sue iniziali. Per mettere a tacere le voci che iniziavano a circolare, casa Savoia procurò a Milly una scrittura che la portò negli Stati Uniti. Sarebbe ritornata in Italia solo nel dopoguerra, iniziando una nuova carriera, grazie a Giorgio Strehler che le affidò il ruolo di «Jenny delle spelonche» in una memorabile edizione dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht al Piccolo di Milano e ad Antonello Falqui, che la volle ospite fissa come cantante nel varietà Studio Uno del sabato sera. Cesare Pavese inviò a Milly una seconda lettera, nella notte del Natale 1927 (un fatto che certifica che la solitudine non l’ha mai abbandonato). Scrive, tra l’altro: «Ho una tale tempesta nel cuore che se Lei sapesse, avrebbe paura». Inutile precisare che anche questa seconda missiva non ebbe risposta. Intervistata nel dopoguerra a questo proposito, Milly spiegò che a quel tempo riceveva una

grande quantità di lettere e che, se avesse immaginato cosa sarebbe diventato quel ragazzo che le dichiarava il suo amore, avrebbe di sicuro risposto. Da giovane sono stato un appassionato lettore di Pavese, al punto di farmi regalare un paio di occhiali da vista senza averne bisogno, per cercare di assomigliargli fisicamente, ma non ho mai pensato di scrivere a una soubrette, lo giuro. Invece ora vado a conoscerne una, grazie alla presentazione di un amico. Milly era nata ad Alessandria nel 1905, aveva tre anni più di Pavese, questa che sta per ricevermi è una mia coetanea, abbiamo entrambi 81 anni. Sul citofono è scritto Wilma Zavattaro ma in arte era Wilma Zavart. Le pareti del suo appartamento sono tappezzate da manifesti e da fotografie che la ritraggono in tutto il suo splendore, bionda, statuaria, burrosa, sorridente, coperta di lustrini, in una parola regale. Mentirei se dicessi che me la ricordo e lei per fortuna non me lo domanda. La memoria conserva solo il nome dei capi

comici. Non ha rimpianti Wilma mentre rievoca a mio favore i retroscena della vita della soubrette. Una carriera iniziata quasi per caso, lei 14 enne allieva della scuola di ballo del teatro Regio di Torino chiamata da una sorella più grande a sostituire una ballerina. Proseguita con Macario che pretende di cambiarle il nome in Wilma Dilanda. Proseguita a Milano e poi a Napoli, con impresari che talvolta tagliavano la corda dimenticandosi di pagare anche i conti dell’albergo. In compenso una fatica disumana, due recite al giorno, tre la domenica e la mattina impegnata a provare perché il copione cambiava ogni settimana. È un genere di spettacolo al tramonto e per le soubrette che non riescono ad approdare negli studi televisivi l’unica alternativa sono gli spogliarelli. Non fa per lei. Nella notte del capodanno del ’67, Wilma, mentre si trova in viaggio sull’autostrada fra Roma e Napoli decide di dare un taglio netto. Senza rimpianti. Inizia un’altra vita.

potrebbe giocarti brutti scherzi. E Tom: Oh Lizabeth, non sei solo una splendida amante, ma anche una grande donna, tuttavia devo chiederti di andare a riposare perché non dormi da due giorni, non devi pretendere troppo da te stessa, sai che è un tuo difetto non delegare mai. Mandiamo John in sala operatoria: ehi John, supera le tue perplessità, sei perfettamente all’altezza di questo intervento che ha una bassissima possibilità di riuscita, ma nessuno se la prenderà con te. Oppure, nella sede di una squadra che si occupa di rapimenti vediamo Callie, rivale di Terry nella lotta per la promozione a capo nonché per la conquista del cuore del bel sergente, che si preoccupa perché Terry non è ancora arrivata in ufficio. Terry arriva trafelata, hanno rapito il suo vicino di casa, che guarda un po’ è anche suo amante. Callie scatena la squadra investigativa, dicendo: Voi sapete che io non posso soffrire Terry, ma ora dobbiamo liberare il suo vicino di casa

a cui tiene tanto, tu Rick che sai essere un amico vai a consolarla, tu Elton che sei senza paura vieni con me e andiamo a trovare i rapitori, basta che non mi mettiate accanto Terry che piagnucola che non la sopporterei. Seguono scene di inaudita violenza, il vicino muore cadendo dall’elicottero nel tentativo di calarsi con una cima per fuggire dai cattivi e Callie infine dice a Terry che le spiace ma comunque la moglie del vicino l’avrebbe ucciso lo stesso, e non senza ragione, perché tutti sanno che erano amanti e non si fa. In sostanza, personaggi che nella vita reale sarebbero minimamente alfabetizzati, che si presentano nella fiction con una vita morale quantomeno fragile, parlano poi con la preparazione e la chiarezza di uno psicologo che è anche un amico sincero. È come se le parole dette quando ci si guarda negli occhi o quando si devono prendere decisioni fungessero da didascalie: ora qui si vede una persona gelosa che non si fa influenzare

da tale sentire, fa quello che deve fare e rimprovera all’oggetto della gelosia – sua collega – un comportamento poco adeguato. Sottinteso: imparate, così si fa. Quando nessuno sapeva leggere, gli affreschi e i mosaici erano accompagnati dai tituli, brevi scritte in cui si precisava chi era rappresentato e spesso anche in quale circostanza. Ma come, non sapevano leggere e si aggiungevano dei testi? Certo, perché in uno stato di ignoranza non si sanno leggere nemmeno le immagini, quindi era utile che quell’uno su mille che sapeva interpretare i segni alfabetici indicasse i nomi e gli atti dei personaggi rappresentati e magari ne approfittasse per esortare a seguirne l’esempio. Oggi noi sappiamo leggere, ma forse ci manca ancora la capacità di interpretare ciò che vediamo sullo schermo. Però, piuttosto che farci guidare dalle improbabili didascalie degli sceneggiatori, non sarebbe meglio capire come diventare alfabetizzati anche sulle immagini tv?

equilibro tra chiarezza e complessità: in forma di lettere rivolte al «caro lettore», la neuroscienziata spiega come e perché gli strumenti digitali incidono in quel capolavoro di adattabilità che è il cervello umano. Ciò che si guadagna e ciò che si perde: da una parte l’accesso universale al sapere, dall’altra il pensiero critico e l’immaginazione creativa. Difficile scegliere, ma è inevitabile: l’eccesso indistinto richiede criteri di scelta che solo una buona formazione può darti. E la formazione non può che provenire dalla scuola. I genitori del tempo che fu dicevano: non parlare mentre mangi. Il principio per cui bisognava fare una cosa per volta si è trasformato nella libertà di fare tante cose insieme. «Mentre» è diventata la congiunzione del nostro tempo: mangio mentre guardo, guardo mentre chatto, chatto mentre parlo, parlo mentre leggo, leggo mentre gioco, gioco mentre rispondo, rispondo mentre chatto, chatto mentre studio, studio mentre clicco, clicco mentre parlo,

eccetera, in tutte le possibili, infinite, combinazioni. L’unica attività che non permette di fare altro è dormire, ma non è escluso che tra poco si possa chattare anche dormendo. Non sono un nativo digitale, ma mentre scrivevo i paragrafi precedenti di questo articolo ho risposto a una decina di mail, a cinque whatsapp (una con video) e a un paio di telefonate, pur essendo fermo alla mia scrivania da un bel po’. Come può fare la scuola a imporre la concentrazione su un argomento (e uno solo) se il ragazzino, sin quasi dalla culla, è abituato a un’attenzione parziale distribuita in contemporanea su una molteplicità enorme di cose? «Non c’è il tempo, o l’impulso, per alimentare l’attività di un “occhio tranquillo”, e ancora meno per alimentare la memoria di quanto abbiamo raccolto», scrive la Wolf. Bella immagine, l’occhio tranquillo. Osservando i nostri figli cosiddetti nativi digitali, quasi mai vediamo occhi tranquilli, perché i loro occhi sono per metà spenti (fissi

su un videogioco), per metà mobili o impazziti come palline da tennis. La tranquillità intesa in senso classico, cioè la tranquillità vigile e riflessiva, è rara. Tutto ciò, avverte la Wolf, non può non avere conseguenze nel cervello. Pur considerando che i nostri figli e nipoti e bisnipoti faranno tesoro (nei modi più imprevedibili e si spera pure vantaggiosi) della cultura digitale, c’è una conoscenza che si può acquisire soltanto con la lettura «tranquilla» e profonda, l’unica attività in grado di attivare connessioni cerebrali fondamentali per la nostra capacità di pensiero. Non solo. La lettura di un racconto o di un romanzo, come avverte Martha Nussbaum in Coltivare l’umanità, ci cambia anche sul piano morale, permettendoci di vivere la vita di qualcun altro. Dunque, l’ultima raccomandazione della neuroscienziata è: «Investire nell’insegnamento della lettura per tutto il percorso scolastico». Con il doppio risultato di tranquillizzare l’occhio e coltivare umanità.

Postille filosofiche di Maria Bettetini Psicologia seriale Non so se sia una questione di continente, di lingua, di cultura. Ma tutte le volte che seguo una serie televisiva americana, cioè prodotta negli Stati Uniti, rimango perplessa. Non per la trama o i fatti, che naturalmente devono subire forzature per seguire il ritmo della fiction, ma per un altro aspetto: tutti i personaggi soffrono di parresìa, di totale libertà di parola. Non che siano tutti buoni, anzi, tradiscono, picchiano, uccidono e mentono, anche. Ma, davanti all’amico o al parente, dicono quello che pensano della propria come dell’altrui situazione esistenziale. E in genere non subiscono nemmeno conseguenze negative da questo loro agire, se vengono traditi o abbandonati non è per quello che hanno detto, ma per mille altri motivi. Si assiste quindi, seguendo una serie televisiva, a un paradosso: nei fatti la vita viene presentata come un succedersi di avvenimenti catastrofici e spesso cruenti, quando non mortali, però i protagonisti non risultano

turbati nella loro integrità relazionale. Cerchiamo un esempio: spesso le serie sono ambientate in qualche sezione della polizia oppure in ospedale, luoghi sanguinari già di per sé. Spesso poi gli stessi investigatori o gli stessi medici sono coinvolti, vuoi perché il cattivo se la prende con loro, vuoi perché proprio loro, o una persona a loro cara, si ammala o incorre in un incidente. Quindi, nel nostro ipotetico esempio, immaginiamo Tom, cardiochirurgo, che vede arrivare dal pronto soccorso la moglie all’ottavo mese di gravidanza colpita da infarto, mentre un camion investiva lei e la figlioletta di tre anni, autistica. Tom si spaventa, piange, si offre per intervenire in prima persona. Ma la sua collega cardiochirurga, che è la sua amante, gli dice: No, Tom, ora quello che importa è la felicità della tua famiglia, opererò io tua moglie e John si occuperà di sapere dove è finita tua figlia, tu sei troppo coinvolto, e poi sai che l’emotività – che peraltro fa di te un uomo così sensibile –

Voti d’aria di Paolo Di Stefano L’occhio tranquillo Confondere tutto con tutto è uno dei vizi peggiori del nostro tempo. Alcuni saggi recenti lo confermano. La confusione e l’eccesso disorientante sono una nuova forma di censura. È quel che sostiene lo storico israeliano Yuval Noah Harari nelle sue 21 lezioni per il XXI secolo (Bompiani,5+): «In un mondo alluvionato da informazioni irrilevanti, la lucidità è potere. La censura non opera bloccando il flusso di informazioni, ma inondando le persone di disinformazione e distrazioni». La disinformazione confonde il vero e il falso, il bello e il brutto, l’alto e il basso, la competenza e l’ignoranza, l’eleganza e la volgarità, il gusto e il disgusto, la sinistra e la destra, l’equilibrio e l’arbitrarietà, il rigore e la sciatteria, l’originale e il convenzionale, la letteratura e la Trivialliteratur, i capolavori dell’arte e le opere commerciali. «Grande è il disordine sotto il cielo» scrive Gino Roncaglia nel suo nuovo saggio L’età della frammentazione (Laterza, 5+), dove ci si chiede se le

nuove generazioni riusciranno, come le precedenti, a costruire una loro «età delle cattedrali», fatta di contenuti complessi. E in che modo la scuola e la lettura possano aiutare questo sviluppo. Se tutto contribuisce a distrarci, la scuola dovrebbe aiutare i giovani a correggere la tendenza alla dispersione e guidarli nell’enorme quantità di risorse disponibili in rete. Selezionare è il verbo chiave, distinguere il grano dal loglio, cioè eliminare le erbacce. È per questo che all’inizio dell’anno scolastico dà un certo sollievo vedere tra le mani degli studenti un libro di testo cartaceo, da sfogliare alla vecchia maniera, nella convinzione che la forma-libro presenta vantaggi cognitivi, possibilità di concentrazione, di attenzione e di memoria che i tablet multimediali non garantiscono. Terzo consiglio di lettura saggistico è un libro di Maryanne Wolf, Lettore, vieni a casa (Vita e Pensiero). Sarebbe un 6 tondo se non fosse troppo puntato sugli Stati Uniti, ma il 5½ premia l’ammirevole


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Vai col bio!

Attualità Lo sapevate che la Migros può vantare un assortimento di ben duemila prodotti

biologici certificati? Una gamma sempre più apprezzata di cui Migros amplia costantemente l’offerta. Scegliere bio vuol dire amare la natura a tutto tondo, privilegiando prodotti ottenuti in modo rispettoso dell’ambiente, delle risorse naturali e degli animali. Vi presentiamo alcuni prodotti bio particolarmente gettonati dalla clientela

Prodotto artigianalmente con 100% di soia biologica ticinese dalla tigusto SA di Cugnasco. Molto versatile, il tofu nostrano è ideale per la preparazione di ricette della cucina tradizionale, asiatica, dietetica, vegetariana e vegana. Tofu bio nostrano al kg Fr. 18.90

Gli «Öv nostràn bio» provengono dall’azienda agricola Gigi’s Ranch di Bironico. Le 1500 galline ovaiole dispongono di molto spazio dove muoversi e possono razzolare liberamente all’aperto. L’alimentazione è costituita da specifici mangimi certificati bio senza soia. Uova bio nostrane 6 pezzi Fr. 5.20

Morbida dentro, croccante fuori e dall’aroma inconfondibile: impossibile resistere a tanta bontà. I sei panini di cui è composta si possono dividere facilmente con le mani. Perfetta per accompagnare ogni pasto quotidiano, sia dolce che salato. Corona del sole bio 360 g Fr. 3.10

Chi acquista le banane biologiche Max Havelaar sostiene e aiuta a migliorare le condizioni di vita dei piccoli agricoltori dei paesi emergenti e in via di sviluppo, come pure a promuovere la protezione delle risorse naturali e dell’agricoltura biologica in questi paesi. Banane bio Max Havelaar al kg Fr. 3.–

L’ingrediente indispensabile per piatti sfiziosi. I salmoni bio vengono allevati in spazi molto ampi che si ispirano il più possibile al loro ambiente naturale e sono alimentati esclusivamente con cibo biologico certificato.

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Attualità I prodotti biologici vegani e vegetariani firmati Macondo

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Da sempre sensibile alle abitudini alimentari più variegate, Migros offre nel suo assortimento anche una vasta scelta di gustosi prodotti vegani e vegetariani dedicati non solo a chi segue un regime alimentare privo di prodotti di origine animale, ma anche a coloro che amano variare di tanto in tanto la loro alimentazione. Tra questi citiamo quelli del marchio Macondo. Questa piccola azienda ticinese è presente sugli scaffali di Migros Ticino con tre appetitosi e nutrienti prodotti 100% vegani: il burger ai ceci, gli steaks di seitan e lo spezzatino di seitan. «I nostri prodotti sono preparati artigianalmente in Ticino con ingredienti biologici di prima scelta, privilegiando quelli di provenienza locale», spiega la responsabile dell’azienda Johanna Sanz. «Seguiamo ricette casalinghe, utilizzando metodi che mirano a valorizzare sia gli aspetti nutritivi sia ecologici durante tutto il processo produttivo. Tutti i prodotti sono di alto tenore proteico, privi di additivi e conservanti, con pochi grassi e facili da preparare: basta seguire le indicazioni riportate sull’imballaggio e dar libero sfogo alla propria fantasia e creatività».

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Con il suo sapore intenso, il pane nostrano fa bella figura servito per esempio insieme a formaggi stagionati, prosciutto crudo, carne secca, oppure accompagnando una fumante zuppa e altre specialità della cucina autunnale. Lanciato sul mercato oltre dieci anni fa, il pane nostrano ha riscosso fin da subito un grande successo presso la clientela di Migros Ticino. Le quattro micche di cui è composto sono formate a mano dai panettieri della Jowa. La sua forma è quella classica del pane alla ticinese ed è facilmente porzionabile con le mani. La farina bigia utilizzata per il Pan Nostran permette di ottenere un impasto particolarmente elastico con una componente integrale. La trasformazione dei cereali coltivati in Ticino è affidata alla pluriennale esperienza del Mulino Maroggia.

Da anni impegnata per il benessere dei nostri animali domestici, anche quest’anno per la Giornata Mondiale degli Animali del 4 ottobre Migros propone alla propria clientela un’atti-

vità di raccolta di alimenti e accessori da devolvere in favore di un’associazione attiva nella protezione degli animali. Coloro che lo vorranno, giovedì 4 ottobre alla Migros potranno fare le proprie donazioni a Casa Orizzonti di Prosito (www.casaorizzonti.ch). L’associazione si occupa di accudire e riabilitare animali vittime di maltrattamenti e abbandoni. Gli articoli raccolti serviranno a sostenere l’attività di Casa Orizzonti, aiutandola ad offrire una vita dignitosa alle molte creature ospiti della struttura. Gli alimenti e gli accessori per i nostri amici animali saranno raccolti durante tutta la giornata di giovedì nei negozi Migros di Agno, S. Antonino, Taverne, Serfontana, Locarno, Pregassona, Biasca, ArbedoCastione, Solduno, Lugano e Grancia. Grazie fin d’ora per il tuo importante sostegno.


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Idee e acquisti per la settimana

Caffè

Come al bar

Le specialità internazionali a base di caffè sono molto apprezzate anche tra le mura di casa. Markus Krysmanski, barista presso l’azienda di torrefazione della Migros, ci mostra come vengono preparate e ci svela i suoi trucchi Testo Claudia Schmidt, Foto Claudia Linsi, Paolo Dutto

Flat white La bevanda calda che ha conquistato il mondo ha origine in Australia e Nuova Zelanda e ricorda il Café au lait. A differenza del latte macchiato non ha stratificazioni e il flat white contiene una schiuma di latte più liquida. Mischiare un doppio ristretto – preparato per esempio con Caruso Oro – al latte in rapporto 1 a 4.

Americano È diventato celebre grazie agli americani, i quali considerano troppo forte il caffè espresso italiano e a cui piace quindi allungarlo con l’acqua. Per preparare un americano si serve un espresso, preparato per esempio con l’Exquisito Intenso, con l’aggiunta di acqua calda in rapporto 1 a 3.

Espresso Per preparare un espresso sono necessari circa 60 chicchi di caffè o da sette a nove grammi di caffè macinato. Per una quantità di 30 millilitri il tempo di estrazione dalla macchina è compreso tra i 25 e i 30 secondi.

Espresso macchiato Macchiato significa «sporcato», dunque l’espresso macchiato è un caffè corto con appena una piccola aggiunta di schiuma di latte.

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Cappuccino Il cappuccino perfetto è composto da un terzo rispettivamente di latte, caffè espresso e schiuma di latte. In una tazza grande si prepara l’espresso, poi si aggiunge il latte, quindi la sua morbida schiuma. La schiuma si presta a essere decorata con disegni e forme, ciò che viene definito latte art.

Foto Claudia Linsi, Styling Miriam Vieli Goll

Latte macchiato Si mettono circa 150 millilitri di latte caldo in un bicchiere alto. Si aggiunge quindi un espresso forte, facendo in modo che non si mischi troppo con il latte. La bibita è pronta aggiungendo uno spesso strato di schiuma di latte.

Lungo Crema Delizio 48 capsule* Fr. 19.80 Nelle maggiori filiali

Markus Krysmanski

«Il latte non deve diventare troppo caldo»

Markus Krysmanski è un collaboratore del reparto ricerca e sviluppo di Delica e un grande esperto di caffè.

Markus Krysmanski, come barista lei calibra la macchina del caffè, sceglie il grado di macinazione e arresta il flusso quando prepara un espresso. Quale il motivo? Tramite il grado di macinazione posso per esempio influenzare il tempo necessario all’acqua per estrarre la bevanda. Se l’estrazione del caffè dura oltre il necessario può contenere troppe sostanze

amare. Se il caffè scorre troppo veloce può facilmente diventare acido. In entrambi i casi l’espresso non risulta armonico. Controllare tutto ciò è compito del barista professionista. Come si prepara una perfetta schiuma di latte? Con l’erogatore del vapore e il bricco in metallo si può avere una buona influenza sul modo in cui si forma la schiuma. Per un latte macchiato la schiuma

deve essere più densa di quella per un cappuccino. Il latte non deve diventare tropo caldo, quindi non deve superare i 68 gradi. A proposito, anche le bevande a base di soia si prestano per la preparazione della schiuma. Come si separano gli strati nel latte macchiato? Si versa l’espresso nel latte molto lentamente, se necessario con l’aiuto di un cucchiaio.

UTZ è sinonimo di coltivazione sostenibile per caffè, cacao, tè e nocciole. Offre nel contempo migliori opportunità agli agricoltori e alle loro famiglie, così come al nostro ambiente.

Café Royal Espresso chicchi interi 500 g Fr. 8.90

Esquisito macinato 500 g** Fr. 7.70 **Azione 40% su tutti i caffè Exquisito in chicchi e macinati, 500 g e 1 kg dal 2 all’8 ottobre


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Idee e acquisti per la settimana

Caffè

Come al bar

Le specialità internazionali a base di caffè sono molto apprezzate anche tra le mura di casa. Markus Krysmanski, barista presso l’azienda di torrefazione della Migros, ci mostra come vengono preparate e ci svela i suoi trucchi Testo Claudia Schmidt, Foto Claudia Linsi, Paolo Dutto

Flat white La bevanda calda che ha conquistato il mondo ha origine in Australia e Nuova Zelanda e ricorda il Café au lait. A differenza del latte macchiato non ha stratificazioni e il flat white contiene una schiuma di latte più liquida. Mischiare un doppio ristretto – preparato per esempio con Caruso Oro – al latte in rapporto 1 a 4.

Americano È diventato celebre grazie agli americani, i quali considerano troppo forte il caffè espresso italiano e a cui piace quindi allungarlo con l’acqua. Per preparare un americano si serve un espresso, preparato per esempio con l’Exquisito Intenso, con l’aggiunta di acqua calda in rapporto 1 a 3.

Espresso Per preparare un espresso sono necessari circa 60 chicchi di caffè o da sette a nove grammi di caffè macinato. Per una quantità di 30 millilitri il tempo di estrazione dalla macchina è compreso tra i 25 e i 30 secondi.

Espresso macchiato Macchiato significa «sporcato», dunque l’espresso macchiato è un caffè corto con appena una piccola aggiunta di schiuma di latte.

Espresso Classico Delizio 48 capsule* Fr. 19.80 *Azione Su tutte le capsule Delizio nella confezione da 48, a partire da 2 pezzi Fr. 3.– di riduzione dal 2 all’8 ottobre

Cappuccino Il cappuccino perfetto è composto da un terzo rispettivamente di latte, caffè espresso e schiuma di latte. In una tazza grande si prepara l’espresso, poi si aggiunge il latte, quindi la sua morbida schiuma. La schiuma si presta a essere decorata con disegni e forme, ciò che viene definito latte art.

Foto Claudia Linsi, Styling Miriam Vieli Goll

Latte macchiato Si mettono circa 150 millilitri di latte caldo in un bicchiere alto. Si aggiunge quindi un espresso forte, facendo in modo che non si mischi troppo con il latte. La bibita è pronta aggiungendo uno spesso strato di schiuma di latte.

Lungo Crema Delizio 48 capsule* Fr. 19.80 Nelle maggiori filiali

Markus Krysmanski

«Il latte non deve diventare troppo caldo»

Markus Krysmanski è un collaboratore del reparto ricerca e sviluppo di Delica e un grande esperto di caffè.

Markus Krysmanski, come barista lei calibra la macchina del caffè, sceglie il grado di macinazione e arresta il flusso quando prepara un espresso. Quale il motivo? Tramite il grado di macinazione posso per esempio influenzare il tempo necessario all’acqua per estrarre la bevanda. Se l’estrazione del caffè dura oltre il necessario può contenere troppe sostanze

amare. Se il caffè scorre troppo veloce può facilmente diventare acido. In entrambi i casi l’espresso non risulta armonico. Controllare tutto ciò è compito del barista professionista. Come si prepara una perfetta schiuma di latte? Con l’erogatore del vapore e il bricco in metallo si può avere una buona influenza sul modo in cui si forma la schiuma. Per un latte macchiato la schiuma

deve essere più densa di quella per un cappuccino. Il latte non deve diventare tropo caldo, quindi non deve superare i 68 gradi. A proposito, anche le bevande a base di soia si prestano per la preparazione della schiuma. Come si separano gli strati nel latte macchiato? Si versa l’espresso nel latte molto lentamente, se necessario con l’aiuto di un cucchiaio.

UTZ è sinonimo di coltivazione sostenibile per caffè, cacao, tè e nocciole. Offre nel contempo migliori opportunità agli agricoltori e alle loro famiglie, così come al nostro ambiente.

Café Royal Espresso chicchi interi 500 g Fr. 8.90

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Idee e acquisti per la settimana

Certificazione

Qualità garantita

Alnatura

Squisiti stuzzichini bio Le creme e le alternative alla carne di Alnatura possono essere utilizzate con creatività. Per l’aperitivo si prestano per esempio per preparare delle tartine senza carne Testo Melanie Michael, Foto e Styling Claudia Linsi, Ricette Philipp Wagner

Tartine con avocado

Preparare i bastoncini di verdura in forno, seguendo le indicazioni presenti sulla confezione. Poco prima della fine del tempo di cottura tostare brevemente nel forno anche le fette di pane. Poi cospargerle di crema da spalmare con paprica e anacardi e coprire con le fette di avocado. Aggiungere i bastoncini di verdura tagliati. Cospargere di semi di melograno.

Tartine con salame vegano

Arrostire senza grassi le fette di pane in una bistecchiera. Spalmare con il dal di lenticchie. Coprire con foglie di lattuga romana, salame vegano Alnatura e aggiungere dei ravanelli. Cospargere di cipolla rosolata.

Bio come principio Tutti gli ingredienti agricoli dei prodotti Alnatura provengono da coltivazioni biologiche, e non solo il minimo del 95 percento prescritto dalla legge. Molti prodotti Alnatura riportano anche il sigillo di una delle associazioni biologiche Bioland, Demeter o Naturland. Queste associazioni sono considerate le custodi dell’agricoltura biologica, le cui linee guida sono più ampie e severe rispetto alle normative legali. In qualità di pioniere nel settore bio, Alnatura può vantare un’esperienza di oltre 30 anni nella produzione di prodotti biologici. Controlli regolari Gli agricoltori e i produttori bio, così come Alnatura stessa, vengono regolarmente sottoposti a controlli, che comprendono analisi continue per la ricerca di tracce di pesticidi, metalli pesanti e altre sostanze nocive.

Tartine con verdure

Arrostire le fette di pane e spalmarle con la crema di melanzane. Coprire con fettine di zucchine grigliate. Guarnire con olive spezzettate e pomodori secchi.

Tartine con fichi e noci

Arrostire le fette di pane e spalmarle la crema con ceci e zenzero. Ricoprire con fettine di fichi e cospargere con noci di pecan. Aggiungere del formaggio erborinato sbriciolato e della menta spezzettata.

Tartine con pomodori multicolore

Arrostire le fette di pane e spalmare la crema di pomodoro alla toscana. Aggiungere fettine di pomodori di vari colori. Condire con sale e pepe e cospargere di origano. Aggiungere qualche goccia di olio di oliva.

al nat ura.ch Alnatura è il marchio bio per uno stile di vita responsabile al passo con i tempi. Vengono utilizzati solo ingredienti di alta qualità e davvero indispensabili.

*Nelle maggiori filiali

Salame vegano Alnatura 100 g Fr. 2.90

Hamburger alla mediterranea Alnatura 175 g Fr. 2.65

Crema da spalmare con ceci e zenzero Alnatura 120 g* Fr. 1.95

Crema con paprica e anacardi Alnatura 120 g* Fr. 1.95

Crema da spalmare alla toscana Alnatura 180 g Fr. 2.40

Crema da spalmare con melanzane Alnatura 180 g Fr. 2.40

Dal di lenticchie Alnatura 115 g Fr. 1.80

Bastoncini di verdure Alnatura surgelati, 300 g* Fr. 3.90

L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi.


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Alnatura

Squisiti stuzzichini bio Le creme e le alternative alla carne di Alnatura possono essere utilizzate con creatività. Per l’aperitivo si prestano per esempio per preparare delle tartine senza carne Testo Melanie Michael, Foto e Styling Claudia Linsi, Ricette Philipp Wagner

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Tartine con salame vegano

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Tartine con verdure

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Tartine con fichi e noci

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2.20 invece di 3.70 Pere Conférence Svizzera, al kg

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2.30 invece di 2.90

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20% Tutti i succhi freschi bio refrigerati per es. succo d'arancia, 75 cl, 2.70 invece di 3.40

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1.25 invece di 1.60 Appenzeller dolce in self-service, per 100 g

Ambri Caseificio prodotto in Ticino, in self-service, per 100 g

20% Pasta fresca ripiena Garofalo in confezione doppia per es. Ricotta e Spinaci, 2 x 250 g, 9.40 invece di 11.80

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20% Snack vegetariani Anna’s Best in conf. da 2 per es. spring rolls, 2 x 210 g, 6.80 invece di 8.60


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 1 ottobre 2018 • N. 40

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Idee e acquisti per la settimana

Extra Fit & Well

Colazione all’insegna della leggerezza Per molte persone fare colazione è un irrinunciabile rituale mattutino. Se alcuni amano gustarsi un müesli, altri preferiscono invece pane e marmellata. Migros offre una vasta selezione di confetture. Anche per coloro che vogliono rinunciare a zucchero cristallizzato e a molte calorie la scelta non manca: i prodotti di Extra Fit & Well hanno il 35 per cento in meno di calorie rispetto alle confetture convenzionali e un contenuto di frutta del 60 per cento. Questo vale anche per l’edizione limitata alle arance amare. Le deliziose confetture sono dolcificate con fruttosio, mentre la variante alle arance contiene in aggiunta un dolcificante a base di foglie di stevia.

Extra Fit & Well Arance amare* 365 g Fr. 2.50

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Il coperchio Easy Open facilita l’apertura e la chiusura dei vasetti di confettura, anche per l’edizione limitata arance amare.

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Idee e acquisti per la settimana

Migros Bio

Bontà bio dal forno

Dove c’è scritto bio, è bio anche dentro. Anche per il pollo bio della Migros: proviene da aziende certificate che producono secondo i criteri di Bio Suisse. Alette, cosce superiori e inferiori sono ideali per preparare una semplice ricetta al forno Polli bio

Testo Melanie Michael, Ricetta Philipp Wagner Foto e Styling Claudia Linsi

Da allevamento rispettoso degli animali Il pollo venduto sotto il marchio Migros-Bio proviene principalmente dalla Svizzera. I polli bio nelle fattorie vengono allevati in piccoli gruppi, secondo le linee direttive di Bio Suisse. Qui possono uscire regolarmente al pascolo, ciò che contribuisce a rendere la carne particolarmente tenera e con un basso tenore di grassi. Questo allevamento rispettoso della specie viene controllato regolarmente da organi indipendenti. I polli si cibano, tra le altre cose, di vermi, erba e foraggio bio. Maggiori informazioni: www.migros.ch/bio

*Nelle maggiori filiali

Teglia di pollo con melanzane Un piatto gustoso, leggero e facile da preparare: cosce e alette di pollo cotte al forno con melanzane, pomodori e cipolle. Ingredienti per 4 persone 1 kg di pezzi di pollo, ad es. cosce superiori e inferiori e ali sale pepe 1 cucchiaio di harissa 2 melanzane 8 spicchi d’aglio 200 g di pomodori cherry 2 cipolle rosse 1 limone 4 cucchiai d’olio d’oliva

Preparazione Scaldate il forno a 180 °C. Sciacquate i pezzi di pollo e asciugateli tamponandoli con carta da cucina. Conditeli con sale e pepe e sfregateli con l’harissa. Tagliate le melanzane a cubetti. Schiacciate leggermente gli spicchi d’aglio. Dimezzate alcuni pomodori cherry. Tagliate le cipolle e il limone in otto parti. Distribuite tutto su una teglia da forno e irrorate d’olio. Cuocete al centro del forno per ca. 30-40 minuti, finché il pollo è cotto. Dopo la cottura spremete gli spicchietti di limone. Servite con cuscus.

Suggerimento L’harissa è una pasta di spezie piccanti. Adattate le dosi al vostro gusto personale.

Gli agricoltori bio lavorano in armonia con la natura. Si prendono cura di animali, piante, suolo e acqua.

Tempo di preparazione Preparazione ca. 15 min + cottura in forno ca. 30 min.

Migros-Bio Petto di pollo per 100 g Fr. 5.20

Migros-Bio Cosce superiori di pollo* per 100 g Fr. 2.30

Migros-Bio Cosce inferiori di pollo* per 100 g Fr. 2.40

Migros-Bio Alette di pollo* 100 g Fr. 2.20

Migros-Bio Pollo intero* al kg Fr. 18.50

Con il suo impegno per la sostenibilità Migros è da generazioni in anticipo sui tempi.


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Suggerimento L’harissa è una pasta di spezie piccanti. Adattate le dosi al vostro gusto personale.

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Idee e acquisti per la settimana

M-Classic

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Quando si parte per un’escursione, l’equipaggiamento standard comprende il coltellino tascabile, la cartina geografica e le provviste. I sandwich sono pratici: si preparano velocemente e si ripongono facilmente nel sacco da montagna. Le fette toast & sandwich di M-Classic, tostate o meno, sono particolarmente adatte per preparare gli spuntini da consumare durante le scampagnate. Alla confezione doppia sono ora accluse le carte per il gioco del quartetto. In tal modo si può partire alla scoperta delle capanne svizzere prevedendo giocose chiacchierate.

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Con le provviste e il gioco del quartetto, tutto è pronto per la scampagnata autunnale e per la serata in capanna.

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I cereali TerraSuisse provengono da agricoltura svizzera sostenibile, che promuove la creazione di spazi vitali per piante e animali selvatici e che rinuncia all’uso di diverse sostanze chimiche ausiliarie.

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Idee e acquisti per la settimana

Actilife

Iniziare la giornata con energia Ad alcuni per colazione basta una bibita alla frutta. Benissimo, se questa è sufficiente fino al successivo spuntino, come è il caso del nuovo Green Kick. Grazie ai semi di chia macinati e alle fibre degli agrumi contenuti, la rinfrescante bibita con succo di frutta di arance, kiwi e limette è infatti ricca di fibre alimentari, che hanno un effetto saziante. La bevanda contiene anche zinco e manganese, oligoelementi essenziali per l’uomo. Sono parti costitutive degli enzimi e nell’organismo hanno molteplici funzioni, tra le altre anche per quanto riguarda il sistema immunitario.

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