Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio TikTok per i giovani sta diventando un canale di informazione sull’attualità
Ambiente e Benessere Il mal di schiena, un problema comune; ce ne parla il reumatologo Nicola Keller, presidente della Lega ticinese contro il reumatismo
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 28 settembre 2020
Azione 40 Politica e Economia La Cina e gli Stati Uniti sempre ai ferri corti a causa del problema di Taiwan
Cultura e Spettacoli Richard Wagner trascorse un periodo in Svizzera, paese di cui apprezzava la natura
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di Didier Ruef pagina 11
Didier Ruef
Inclusione a passo di danza
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C’è voglia di mazurke di Alessandro Zanoli La musica sta cambiando, sembra. Si colgono segnali di nostalgia, che assecondano un bisogno di semplicità e di ritorno alla tradizione. L’ultima notizia in ordine di tempo, che colpisce, ci segnala la rinascita del gruppo Cantiamo Sottovoce. Credo che in molti ne ricordino la simpatica presenza all’interno delle trasmissioni radiofoniche RSI dedicate alla cultura popolare (anzi, forse bisognerebbe formulare la frase a rovescio: sono pochi quelli che l’hanno dimenticata). La loro formula vincente era mantenere repertorio e stile all’incrocio tra la ricerca etnografica vera e propria e la voglia divertire più allegramente conviviale. Il risultato era un understatement veramente piacevole, tanto che chi scrive ha visto le loro musicassette usate per rilassare e far addormentare i bambini alla sera. Una sicura e solida voglia di fare musica «alla moda vegia» viene anche dal ritorno d’interesse per la musica da bandella. Grazie a una bellissima pubblicazione curata da Aldo Sandmeier, Note di bandella. Percorsi nel patrimonio musicale della Svizzera italiana
si scopre che proprio questo è un filone unico a livello nazionale, e che anzi ci contraddistingue nel panorama della musica folk svizzera. La «Bandella chilometro zero» di Emanuele Delucchi, che continua questo percorso, può contare sulla solidissima preparazione dei suoi membri ma su un altrettanto solido desiderio di mantenere vivo un repertorio tanto negletto e sottovalutato in epoca recente, ma la cui piacevole funzione sociale merita di essere mantenuta. Una iniziativa sicuramente di respiro più ampio ma con un’ambizione non molto diversa è stata presentata nel corso del recente Festival del Cinema di Venezia. La regista ed editrice Nicoletta Sgarbi ha proposto qui un lungometraggio molto curioso e vivace, Extraliscio – punk da balera, dedicato, appunto, al mondo del «liscio». Si tratta di un film che, per dirla con una battuta, vorrebbe situarsi all’interno della cinematografia italiana come un Blues Brothers alla romagnola. La sua trama infatti descrive la nascita di una band musicale all’apparenza del tutto anomala. Da un lato alcune vecchie glorie della scena che potremmo chiamare del «folk da ballo», musicisti
di carriera che hanno militato nelle principali formazioni tra cui quella storica dei Casadei. Dall’altra alcuni giovani musicisti che appartengono invece al mondo del rock più sanguigno e fracassone dell’hinterland bolognese. All’incrocio tra folk e punk si scopre un analogo desiderio di arrivare al cuore delle persone con canzoni «pop» nel senso più sincero e umano del termine. Il film si rivela molto piacevole dal punto di vista strettamente musicale anche grazie all’intervento di star quali Jovanotti, Elio e altri ancora che hanno fornito al repertorio della band alcuni pezzi davvero validi (pare sia in preparazione il disco che conterrà questa originale colonna sonora). Assolutamente di rilievo è poi il ruolo interpretato dal «nostro» Ermanno Cavazzoni, che funge da narratore e da storico del liscio, e che, a detta della stessa Sgarbi, è stato uno degli ideatori di tutto il progetto. Resta da chiedersi il perché di tutti questi segnali di ritorno al passato: al termine della proiezione veneziana il coro spontaneo dei musicisti invitati all’anteprima ha intonato un Romagna mia a squarciagola, sfidando ogni timore per il Covid. Chissà, forse il senso è anche un po’ quello.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 settembre 2020 • N. 40
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Attualità Migros
Una nomina di prestigio
FCM Nadia Bregoli eletta dai rappresentanti delle 10 cooperative regionali
quale membro dell’ufficio di presidenza dell’Assemblea dei delegati
L’assemblea dei delegati della Federazione delle cooperative Migros (FCM) si è riunita lo scorso 5 settembre a Zurigo, per il periodo 2020-2024. Nel corso dell’incontro, i 111 delegati hanno eletto tra l’altro i nuovi membri dell’ufficio dell’Assemblea dei delegati: una di loro è la ticinese Nadia Bregoli. Membro della Direzione generale SUPSI con la funzione di Direttrice della Formazione continua, è madre di due figli e vive a Morbio Inferiore. La sua esperienza professionale nel marketing, nel management di organizzazioni e nel business coaching si è sviluppata e maturata nei settori del commercio internazionale, del commercio al dettaglio, dei servizi, della pubblica amministrazione e della formazione accademica e professionale.
La sua nomina nazionale è un unicum nella storia di Migros Ticino: sente il peso della responsabilità?
In primo piano vi è la responsabilità di promuovere i valori di un grande visionario, quale è stato Gottlieb Duttweiler che ha reso Migros un’impresa unica nel suo genere. Coniugando la dimensione del profitto economico con quella del benessere sociale, culturale e ambientale, Duttweiler è stato un pioniere della sostenibilità e di un modo nuovo di interpretare e vivere il mercato. Per la nostra cooperativa regionale sarà un vantaggio avere una sua rappresentante in un gremio nazionale?
Una rappresentanza ottimale della diversità regionali nei vari organi in cui si articola la complessa struttura di Migros è una premessa indispensabile per una coesione solida e un buon funzionamento aziendale. La diversità attraverso l’aggregazione delle differenze porta ricchezza, è una vera forza e motore di sviluppo. Essere presenti anche nell’Ufficio dell’Assemblea nazionale dei delegati ci permetterà inoltre di far sentire ancora più vicini alla realtà del gruppo anche la voce dei clienti della nostra cooperativa e di far vivere loro in modo più diretto i temi del cambiamento di cui sono protagonisti e ispiratori.
Signora Bregoli, da quanti anni fa parte del Consiglio di Cooperativa di Migros Ticino e qual è stato il suo ruolo in questo consesso negli ultimi anni?
Da cinque anni. Il mio ruolo è stato duplice. Da una parte partecipare con gli altri membri alla formazione delle opinioni e delle decisioni sui grandi temi che la CMT ha affrontato e con altri sei colleghi rappresentare Migros Ticino all’Assemblea nazionale dei delegati. Dall’altra parte essere attiva nella relazione con i collaboratori che incontro quando vado a fare la spesa. Ho sempre avuto un forte legame con Migros, nato già al tempo dei miei studi universitari e che mi ha portato a specializzarmi nel commercio al dettaglio e a percorre una parte della mia esperienza professionale a Migros Ticino. Quali sono i temi che le stanno maggiormente a cuore? C’è un settore specifico che la interessa in modo particolare?
Il mondo del commercio al dettaglio è ricco di stimoli. Un supermercato non è solo un luogo di acquisti ma è anche uno spaccato della società, un luogo d’innovazione e di creatività, un mon-
Quali sono le sfide future che vede nel futuro di Migros?
Fa parte del Consiglio di cooperativa di Migros Ticino dal 2015. (S. Spinelli)
do ricco di idee e di vitalità anche nella capacità di stare al passo con l’evoluzione tecnologica e della digitalizzazione. Tutti stimoli questi che Migros trasforma quotidianamente in sfide da affrontare con la dovuta consapevolezza delle proprie responsabilità. Quello che mi appassiona è la visione sostenibile del cambiamento che Mi-
gros sta realizzando e che passa dalla promozione del benessere delle persone attraverso i prodotti e le prestazioni messe a disposizione. In parallelo anche la valorizzazione della nostra comunità di consumatori attraverso forme innovative di partecipazione che rafforzino il senso di appartenenza e l’esperienza di acquisto.
Migros ha già intrapreso numerosi progetti per adattarsi all’ambiente che cambia e alle esigenze dei suoi clienti. Fra le sfide prioritarie tracciate vi sono una governance moderna che armonizzi la dimensione federativa con l’agilità di decisione e realizzazione in una struttura complessa e diversificata. Tra i campi d’azione importanti vi sono la sostenibilità, la digitalizzazione, la focalizzazione su un sempre miglior rapporto tra prezzo e qualità, la fiducia dei clienti nella raccolta e nell’utilizzo dei dati e non da ultimo la salute e il benessere.
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Migros News Assegnato il premio Travellers’ Choice 2020 di Tripadvisor La Ferrovia Monte Generoso SA è stata premiata quale Travellers’ Choice 2020 per le attrazioni turistiche. Il Monte Generoso entra così a far parte del 10% delle migliori attrazioni di tutto il mondo. «I vincitori dei Travellers’ Choice Awards 2020 dovrebbero essere orgogliosi di questo prestigioso riconoscimento», ha affermato Kanika Soni, Chief Commercial Officer di Tripadvisor. «Sebbene sia stato un anno impegnativo per i viaggi e l’ospitalità, vogliamo celebrare i risultati dei nostri partner. I vincitori del premio sono amati per il loro servizio e qualità eccezionali. Non solo questi vincitori sono ben meritevoli, ma sono anche una grande fonte di ispirazione per i viaggiatori». Una corsa per veri sportivi: Generoso Trail
Dopo la prima emozionante edizione del 20 ottobre 2019, Generoso Trail torna con la sua seconda edizione la domenica 25 ottobre 2020. Immersa quasi interamente nel bosco, la Generoso Trail è un’affascinante corsa in salita che conduce dal centro di Mendrisio alla vetta del Monte Generoso, a quota 1704 metri. Per raggiungere il traguardo occorre affrontare un percorso di 10 km con un dislivello positivo di ben 1350 metri. La corsa è aperta a tutti gli appassionati che hanno compiuto 15 anni. A causa delle limitazioni connesse alla pandemia da Covid, il numero dei concorrenti è stato limitato a 300. Le iscrizioni sono possibili fino al 30 settembre. Dopo tale data verranno solo accettate iscrizioni sul luogo (se posti disponibili) al costo di 65.– CHF a persona. Info: www.generosotrail.ch
I prossimi appuntamenti con Forum elle Riprende l’attività dell’organizzazione femminile di Migros. È stato presentato in questi giorni il nuovo programma, che si apre il 2 ottobre 2020 con un’originale Oktoberfest in vetta al Monte Generoso. In seguito, il 24 ottobre, è previsto il primo degli incontri con personalità ticinesi di spicco. A pochi mesi dall’inizio della crisi che ha colpito tutto il mondo del turismo a causa del Covid- 19, Angelo Trotta si racconta alle socie di Forum elle sulle virtù e i difetti del turismo ticinese. Trotta ha assunto la direzione di Ticino Turismo il 1 luglio 2019. Dopo la laurea in economia all’Università di San Gallo ha ricoperto importanti ruoli dirigenziali alla testa di Gruppi internazionali in Svizzera, Italia, Francia, Brasile, Germania e Spagna. L’incontro (posti limitati!) è aperto anche ad amiche e simpatizzanti, e si concluderà con il tradizionale aperitivo offerto ai presenti. Iscrizioni entro giovedì, 15.10.20. Contatti: simona.guenzani@forumelle.ch - tel. 091 923 82 02. Tutte le informazioni sulle attività sono pubblicate su: forum-elle.ch.
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Società e Territorio Le faggete antiche La faggeta della Riserva forestale delle Valli di Lodano, Busai e Soladino è candidata a diventare Patrimonio dell’UNESCO
Un libro per MOPS Un volume ripercorre l’esperienza artistica e sociale del gruppo MOPS_DanceSyndrome di Locarno pagina 11
Il futuro della Fonte La Fondazione festeggia i 40 anni di attività e guarda al futuro con il progetto della nuova casa a Neggio pagina 13
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Giovani, l’informazione è su TikTok
TikTok è il social con la più rapida crescita di utenti mai registrata finora. (Keystone)
Il caffè delle mamme L’app più amata dagli adolescenti è diventata uno dei canali di informazione sull’attualità
preferiti dai nostri figli e ora è al centro dell’interesse anche dei mass media tradizionali Simona Ravizza
TikTok lo conosciamo come l’app in cui i teenager ballano, fanno finta di cantare e guardano videocomedy, sulla scia di Musical.ly (inglobata nell’agosto 2018). In questi giorni è d’attualità la guerra che gli ha dichiarato il presidente Usa Donald Trump che accusa il Partito cinese di sfruttare il social, creato dal colosso Internet di Pechino ByteDance, di censura, manipolazione e propaganda, anche grazie alla profilazione dei dati. Quello che a Il caffè delle mamme non avremmo mai detto è che TikTok, a oggi 800 milioni di utenti al mese a livello mondiale con la più rapida crescita di user mai vista finora, è uno dei canali privilegiati di informazione dei nostri figli sull’attualità e di sensibilizzazione contro le discriminazioni. La generazione Z (ossia per chi è nato dopo il 1996) lì non cerca solo clip musicali, meme e challenge (le famose sfide con il rilancio di video), ma segue le vicende di cronaca, conosce la politica, e s’appassiona alla causa Lgbt, al Black Lives Matter, fino alla lotta contro il bullismo. La domanda, allora, sorge spontanea: è possibile che noi ci ritroviamo figli più consapevoli e informati grazie anche a una app contro cui battagliamo tutto il tempo a
colpi di frasi del tipo: «Se non ti stacchi da lì salti la cena!»? Per rispondere, dopo essere stata un pomeriggio a guardare insieme a Clotilde, mia figlia 12enne, i video che scarica, ho interpellato la mia amica social media editor Alice Scaglioni (che, anche visti i suoi 25 anni, mi sembra in linea con i teenager) e Mariagrazia Fanchi, docente di Scienze della comunicazione e dello spettacolo dell’Università Cattolica di Milano, una carriera dedicata allo studio dei processi sociali e storici di fruizione dei prodotti mediali, con particolare riguardo ai pubblici giovani. La scoperta è sorprendente. Chi mai avrebbe potuto dire di avere figli più attenti a temi importanti grazie a TikToK? «È l’app più amata dalla Generazione Z e ora anche i mass media tradizionali devono imparare a farci i conti per riuscire a raggiungere i giovanissimi» dice Scaglioni. «Tra i primi a farlo, il team social del “Washington Post”, che ha aperto un account TikTok unendo sketch divertenti a pillole di attualità. Una modalità che gioca molto sull’ironia degli americani e che da noi forse non troverebbe spazio. Ma vi sono anche altri esempi, come Bbc Radio 1, il canale della Bbc che racconta le star della musica, le novità del panorama
e i grandi successi delle classifiche, o Usa Today, che alterna meme e video divertenti a resoconti della campagna elettorale americana, con cartelli di spiegazione e contestualizzazione del video, o, ancora, ARD con brevi video del Tagesschau. Non è un giornale, ma insiste sulla divulgazione di contenuti, l’account del World Economic Forum, che racconta le sue ricerche e le ultime novità nel mondo in tema di energia pulita, emergenza climatica e coronavirus. Il giornale tecnologico “Wired” poi dispensa consigli legati alle nuove piattaforme, racconta le biografie dei grandi inventori del passato e fa il punto sulle novità in arrivo. In Italia Fanpage è una delle testate più attive su TikTok. Spesso sono video-selfie di giornalisti della redazione che spiegano in prima persona (e mettendoci il volto, che è una delle cose che i giovanissimi apprezzano di più) una notizia o un fatto di giornata. Dall’omicidio di Paola a Caivano, fino all’esplosione a Beirut. Ma non solo: ci sono anche brevi pillole di rimedio alle fake news, che fanno debunking su notizie false che circolano sul web, o ancora istruzioni per l’uso su temi vari, come le regole per il rientro a scuola in sicurezza. Non mancano le interviste, da Boss Doms alla ministra della Pubblica istruzio-
ne Lucia Azzolina, o gli anniversari, come quello recente dell’11 settembre: più il feed con le notizie video è vario, più è facile catturare l’attenzione di un pubblico vasto e variegato come quello dei giovanissimi. Recentemente anche Dataroom, il canale di video-inchieste di Milena Gabanelli, è sbarcato su TikTok: anche in questo caso, video-pillole che riprendono l’inchiesta del giorno e la spiegano in 1 minuto». In attesa che i mass media tradizionali si muovano in modo più massiccio, i giovani si affidano ai video dei loro coetanei che con gli sketch rilanciano – interpretandole – le notizie che più li toccano. Un esempio è Oblioo, oltre 210mila follower e 12,5 milioni di like, che dietro le sue spalle mostra e/o legge notizie d’attualità e le commenta: il candidato politico leghista con la passione del Duce al centro di un’inchiesta di droga e prostituzione lo spinge a ripetere come un mantra: «No, vabbè!»; la preside di un liceo di Roma che vieta le minigonne alle ragazze perché a qualche prof potrebbe cascare l’occhio, gli fa dire: «È ovvio che a scuola non vai vestito come in discoteca, ci sta la critica di portare rispetto del luogo in cui ci si trova, ma dire alle ragazzine così… Cara preside, sono i tuoi prof a essere dei pedofili e dovresti but-
tare loro fuori dalla scuola»; e ancora denuncia le fake news e posta video che celebrano la prima femminista dell’America Latina Ivana Inés de la Cruz. Gli esempi si possono moltiplicare. Dal 18 giugno 2020 c’è l’hashtag #imparacontiktok: oggi il tag ufficiale conta già oltre 225 milioni di visualizzazioni ed è tra i più popolari dell’ultimo periodo. Rich Waterworth, TikTok general manager Ue, azzarda: «Vorremmo che le persone arrivassero su TikTok non solo per il divertimento, ma per imparare». La professoressa Fanchi spiega: «L’obiettivo è trasformarlo in un’enciclopedia visiva, con un’operazione simile a Wikipedia. Anche per fornire notizie, il tono usato è ironico, con voce ritmata e sfondo musicale. Con un linguaggio spesso dissacrante, molto vicino ai giovanissimi che sempre di più lo prediligono anche come luogo di informazione. Il rischio che arrivino ai nostri figli informazioni manipolate? Il fatto che sia il primo social di successo con una matrice non occidentale deve sicuramente farci tenere aperti gli occhi, ma dobbiamo anche avere fiducia nei nostri figli che sono più accorti e smaliziati di quanto possiamo immaginarci e sanno riconoscere ciò che è autentico». A Il caffè delle mamme non resta che prenderne atto.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 settembre 2020 • N. 40
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Società e Territorio
Una faggeta per l’UNESCO
Escursioni Alla scoperta della Riserva forestale delle Valli di Lodano, Busai e Soladino,
con la faggeta candidata a diventare Patrimonio mondiale dell’UNESCO
Integrazione Le
culture si incontrano nei giardini solidali
Elia Stampanoni A inizio 2020 è stata ufficialmente depositata presso il Centro del Patrimonio mondiale dell’UNESCO la candidatura per aggiungere dei nuovi boschi di faggio nel bene materiale dell’UNESCO «Faggete antiche e primarie dei Carpazi e altre regioni d’Europa», un tipo di foresta che dal 2007 è inserita nella lista con una serie rappresentativa di luoghi relativamente indisturbati dalle attività umane. La nuova candidatura, coordinata dalla Svizzera, coinvolge dieci nazioni e interessa pure la vasta faggeta inclusa nella Riserva forestale delle Valli di Lodano, Busai e Soladino. Se la proposta sarà accettata dal Comitato del Patrimonio mondiale, le «Faggete antiche» potranno così contare 108 oggetti differenti distribuiti in venti Paesi. Oltre alla faggeta valmaggese, il dossier allestito e promosso dall’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM) in collaborazione con i Cantoni, contempla per la Svizzera anche la riserva di Bettlachstock nel canton Soletta. Una possibilità per scoprire e visitare quest’area è di percorrere uno dei quattro itinerari proposti nella Valle di Lodano nell’ambito di un progetto strettamente correlato all’istituzione della citata riserva forestale. I tragitti, scelti anche per le preziose componenti naturali e per le significative testimonianze d’attività antropiche, seguono sentieri escursionistici di montagna con segnaletica bianco-rosso-bianco e, grazie agli interventi effettuati nell’ambito del progetto Riserva forestale, si presentano tuttora in buono stato. Il primo itinerario, il più corto e più «facile», si sviluppa su circa sette chilometri con un dislivello di quasi 800 metri. La partenza è, come anche per le altre più impegnative varianti, dal suggestivo borgo di Lodano, a 341 metri d’altitudine. Dopo essere transitati tra le case in pietra del paese, le indicazioni guidano il visitatore lungo la campagna, lambendo vigneti terrazzati e altri paesaggi tipicamente rurali. Presto il sentiero si stacca dal fondovalle e sale rapidamente verso il maggengo di Soláda, immersi in un bosco prevalentemente di castagni e betulle. Un cartello segna quindi l’entrata nelle Riserva forestale della Valle di Lodano, invitando a un comportamento responsabile. Tra sassi e gradoni la gita raggiunge altri monti e prati, portando ad alcuni punti panoramici. Per esempio a Solà, da dove, dopo aver avvistato i primi faggi, si continua lungo un saliscendi
Nell’orto spunta l’amicizia
La Riserva forestale valmaggese è stata istituita nel 2010. (E.Stampanoni)
impegnativo per raggiungere la località di Castèll. Ed è proprio in questo tratto che si penetra in una parte della faggeta, riuscendo quindi ad avere un assaggio della più ampia zona candidata quale patrimonio dell’UNESCO, complessivamente 807 ettari (414 nelle riserva di Lodano e 393 in quella delle valli Busai e Soladino) distribuiti tra i 500 e i 1’600 metri d’altitudine: «Con l’itinerario uno si entra nella parte inferiore della faggeta; i faggi più antichi sono spesso fuori sentiero o lungo gli altri itinerari, ma già con questa bella gita, comunque impegnativa e da affrontare con la dovuta preparazione e un adeguato equipaggiamento, si riesce ad avere una prima interessante entrata in materia», racconta Christian Ferrari, coordinatore dell’Antenna Vallemaggia, la quale ha fornito il sostegno locale al progetto di candidatura congiuntamente ai Patriziati di Lodano, Someo e Giumaglio, al Comune di Maggia, al Centro natura Vallemaggia, all’Associazione dei Comuni di Vallemaggia e alla Fondazione Vallemaggia Territorio Vivo. Nella faggeta spiccano in effetti alcuni imponenti alberi che, con le loro chiome, garantiscono ombra e frescura, offrendo un sottosuolo praticamente sgombero da altri tipi di alberi. Il faggio è d’altronde una pianta estremamente intollerante nei confronti di altre specie e dà quindi spesso origine ad associazioni forestali dove esso risulta dominante e dove solo poche altre piante riescono a sopravvivere (per esempio aceri, tigli e querce, ma comunque con un numero limitato d’individui). Questa capacità dominante del
faggio si rinforza con l’altitudine e le faggete sono considerate un esempio eccezionale dell’evoluzione ecologica e biologica postglaciale di ecosistemi terrestri. Un’evoluzione che ha caratterizzato un intero continente, come indica il comunicato stampa del Dipartimento del territorio che, con l’Antenna Vallemaggia, ha contribuito all’allestimento della candidatura: «Dalla fine dell’ultima glaciazione, il faggio si è infatti diffuso praticamente in tutta Europa partendo da alcuni rifugi isolati nel sud e sud-est. Il successo dell’espansione di questa specie dipende dalla sua capacità d’adattarsi a una molteplicità di condizioni climatiche, geografiche e fisiche». Quali sono i prossimi passi per l’accettazione o meno della candidatura della faggeta nel Patrimonio mondiale dell’UNESCO? «L’usuale iter prevede in particolare una valutazione degli esperti dell’IUCN (Unione internazionale per la conservazione della natura), che dovranno valutare le 37 aree forestali contenute nel fascicolo di candidatura. In base a questo preavviso, il Comitato del Patrimonio mondiale prenderà in seguito a sua volta la decisione finale, attesa nei prossimi anni», spiega Christian Ferrari. In Vallemaggia la missione di valutazione da parte dell’esperto dell’IUCN, incaricata dall’UNESCO, è avvenuta dal 15 al 17 settembre scorsi. Le opportunità che giungerebbero dall’entrata del bosco valmaggese tra le Faggete antiche e primarie dei Carpazi e altre regioni d’Europa sono diverse: «Poter interagire con altri 19 Stati europei su svariati temi, come per esempio
la ricerca scientifica nel contesto degli ecosistemi delle faggete oppure la sensibilizzazione del valore di questi ecosistemi. Ma anche la possibilità di creare valore aggiunto su scala regionale, grazie alla visibilità che un marchio simile può portare», commenta il coordinatore dell’Antenna Vallemaggia. Tornando all’itinerario di Lodano, oltrepassata la faggeta esso scende rapidamente verso il villaggio, dove scoprire altre attrazioni paesaggistiche e lasciando anche la Riserva forestale della Valle di Lodano, che comprende un’area boscata complessiva di 766 ettari. Su questa vasta superficie vige un vincolo di protezione per 50 anni, ossia la foresta viene lasciata integralmente all’evoluzione naturale, proteggendola dall’intervento umano e rinunciando a qualsiasi utilizzazione forestale. «Dopo un periodo di tempo sufficientemente lungo s’ottiene così uno stato prossimo a quello del bosco primario, la cui struttura e la cui composizione sono esclusivamente date dalle condizioni naturali», conclude Christian Ferrari, pure presidente del Patriziato di Lodano, promotore della sua istituzione, avvenuta nel 2010 ed estesa nel 2016. La riserva delle Valli Busai e Soladino, istituita nel 2020 su impulso dei patriziati di Someo e Giumaglio, si è poi unita a quella di Lodano per la candidatura congiunta all’UNESCO (dossier che per la parte ticinese è stato affidato dall’UFAM all’ingegnere forestale Raffaele Sartori), sostenuta pure dall’Organizzazione turistica Lago Maggiore e Valli.
Sono attualmente in corso a livello nazionale una serie di progetti che utilizzano l’orticultura come momento di conoscenza reciproca e di integrazione fra appartenenti a varie comunità di immigrati in Svizzera. Organizzate dall’Aiuto delle Chiese evangeliche svizzere (ACES) con il sostegno del Percento culturale Migros nazionale, queste attività permettono il contatto interculturale e si prefiggono di facilitare l’integrazione sociale, sollecitando inoltre il miglioramento delle conoscenze linguistiche dei partecipanti. I progetti, che sono attivi nella Svizzera romanda e in quella tedesca, riuniscono rappresentanti di varie comunità, mettendo loro a disposizione appezzamenti di terreno in cui coltivare le proprie specialità tradizionali. In questo modo verdure della gastronomia turca si trovano a crescere affiancate ad altre provenienti dall’Afghanistan o dall’Eritrea, dallo Sri Lanka, dall’Iran. Ne nascono di conseguenza scambi culturali impensati, condivisioni di momenti di svago e di riflessione che contribuiscono ad avvicinare persone molto spesso isolate nei loro nuclei familiari di appartenenza. Gli scambi verbali avvengono naturalmente nella lingua locale, tedesco o francese, a seconda della regione, e permettono alle persone di sperimentare concretamente una forma di comunicazione che favorisce l’integrazione e anche l’autoaiuto. Il progetto trova sbocco poi in momenti di «Racconti al caffè» (netzwerkerzaehlcafe.ch/fr) e in spazi speciali per genitori con bambini piccoli (conTAKT-infanzia.ch). Informazioni su: percento-culturale.ch.
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Idee e acquisti per la settimana
Formaggi campioni del mondo
Attualità Nelle principali filiali Migros
trovate per un periodo limitato 5 formaggi vincitori dell’ultima edizione dei World Cheese Awards. Sono attualmente tutti in vendita a un prezzo particolarmente vantaggioso
Azione 20% sui 5 formaggi World Cheese Awards fino al 10.10
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5 Sono in vendita anche alla Migros cinque degli 84 formaggi premiati con la prestigiosa medaglia Super Gold agli ultimi World Cheese Awards. Questa competizione internazionale, da oltre 30 anni vede sfidarsi i migliori produttori di formaggio del pianeta. I cinque incoronati provengono da Svizzera, Spagna, Italia e Inghilterra.
tura: ecco il biglietto da visita dell’inglese Oak Smoked Cheddar 3 . Questo cheddar viene fatto affumicare su legno di quercia, procedimento che gli conferisce il suo particolare sapore nocciolato, rotondo, con una leggera nota piccante. Da gustare con del pane leggermente tostato e frutta quale uva, pere e mele.
Il Davoser Rahmkäse 1 è un prodotto della latteria di Davos. È un formaggio a pasta semidura di latte vaccino di montagna e panna, stagionato 3-4 mesi. Si caratterizza per il suo aroma dolce e la consistenza cremosa. È ideale per piccoli spuntini o come formaggio da dessert.
Infine, ecco due specialità provenienti dalla vicina Italia: il Taleggio DOP 4 e il Pecorino Vecchio 5 . Il taleggio è un formaggio a pasta molle di latte di vacca, stagionato almeno 1 mese. Leggermente filante, possiede un colore bianco paglierino con crosta rossastra. Il suo aroma è tipicamente dolce e cremoso, con delicate sfumature. Si apprezza come dessert o con insalate amare quali radicchio e rucola o spalmato su bruschette. A base di latte di pecora, il pecorino vecchio stagionato 6 mesi si distingue per la sua consistenza dura e il gusto forte e aromatico, con una leggera nota dolciastra. È una delizia servito come antipasto o grattugiato sulla pasta. Con questi formaggi l’autunno non è mai stato tanto gustoso!
Dalla Spagna arriva il Queso Sierra Sur 2 , un formaggio alla panna semiduro di latte di capra, affinato 2 mesi. Possiede una pasta bianca è una consistenza morbida e cremosa. Al gusto è dolce, fresco, con una nota di erbe aromatiche. È ottimo accompagnato da olive, noci, frutta e pane casereccio. Pasta dura, a base di latte di mucca trequarti grasso e 18 mesi di stagiona-
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La regina dell’autunno
Attualità Nei nostri maggiori supermercati
è disponibile al momento un’ampia scelta di zucche per le vostre ricette autunnali Dalla Potimarron alla Moscata di Provenza, dalla Mandarin alla Acorn, passando per la Spaghetti fino alla Butternut e alla Kabocha: nei reparti verdura Migros il colorato e multiforme assortimento di zucche commestibili è in grado in accontentare anche i buongustai più esigenti. Alcune varietà sono ottenibili anche in qualità biologica. Originaria dell’America centrale, dove sembra fosse già conosciuta nel 7000 a.C., la zucca è uno degli ortaggi principe della stagione autunnale. Oggi se ne conoscono più di 800 varietà. Grazie alla sua versatilità è ottima da sola o come base per zuppe, risotti, gnocchi, torte e marmellate. Anche cruda in insalata o come carpaccio la zucca di trasforma in un contorno semplice, leggero e saporito. Contiene pochissime calorie, solo 19 kcal per etto, ed è ricca d’acqua. Uno degli elementi di cui è ricca è il betacarotene, di elevato valore nutritivo, che viene trasformato dal corpo in vitamina A, essenziale per la crescita, la vista e la pelle. La zucca è inoltre di facile di-
gestione, a condizione che venga preparata con l’aggiunta di pochi grassi. Un modo semplice e gustoso per apprezzare la zucca è per esempio quello di cucinarla al forno. Ecco una sfiziosa idea pronta in pochi minuti: tagliate a fette la polpa di una zucca priva di semi e scorza e lasciatele qualche minuto in acqua salata. Scolate le fette e mettetele su una teglia imburrata, cospargendole di parmigiano, sale, pepe e qualche fiocchetto di burro. Cuocete nel forno ben caldo per una mezzoretta. È ottima da sola o come contorno per piatti di carne. Presso i reparti sono a disposizione della clientela anche dei ricettari Migusto con diverse idee culinarie prettamente autunnali. A proposito: nei supermercati Migros di S. Antonino, Serfontana e Agno, attualmente potete ammirare una zucca gigante Atlantic Giant, una varietà che può anche raggiungere un peso di 250 kg e oltre. Accanto ad essa sono esposti altri tipi di questo ortaggio come pure numerosi accessori e decorazioni a tema.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 settembre 2020 • N. 40
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Iscrivetevi subito su: www.multivan.ch Versatile e dinamico: la famiglia Schneider si è mostrata veramente entusiasta dell’esperienza vissuta a bordo del VW Multivan.
Nuove libertà insieme
Il VW Multivan 6.1 è l’ideale per godersi nuovi spazi e libertà. Sfruttate questa occasione unica: iscrivetevi su www.multivan.ch ai TestDays di 24h con il Multivan 6.1 e scoprite più da vicino il versatile tuttofare nonché pratico amico di famiglia. «I bambini non stanno più nella pelle da giorni. Non hanno fatto altro che immaginare possibili itinerari per il nostro viaggio avventura di 24 ore», spiega Elena mentre mette in moto il VW Multivan 6.1. Il VW per famiglie e coppie dinamiche si presenta non meno versatile del piano di viaggio della famiglia Schneider per le 24 ore di avventura che si prospettano a bordo del Multivan. «Da tempo che volevamo andare al parco avventura di Kloten. È praticamente dietro casa, ma non ci siamo mai stati», ammette la trentaseienne. «Proseguiremo poi per il castello di Kyburg, per accontentare gli amanti dei cavalieri, e più tardi ci sposteremo verso il fiume Töss per un bagno e una pausa picnic. Come vedete, il programma è ricco.»
La famiglia fantastica già da tempo sull’idea di comprare un’auto più grande che semplifichi la vita quotidiana dei quattro componenti. Ma, prima di fare il passo verso un’auto familiare più spaziosa, ha deciso di testare minuziosamente il VW Multivan 6.1. «Per farlo, un giro di prova di 24 ore è l’ideale», pensa papà Nik. Si parte all’azione! La prima tappa è il parco avventura di Zurigo. Attrezzatura da arrampicata indossata in un batter d’occhio ed ecco che i bambini, con fare spericolato, si arrampicano già da un ramo all’altro. Dopo la tappa all’avventura nel parco, Nik stiva qualcosa nel bagagliaio del bus Volkswagen, con spazio di carico da 4300 litri, e chiede: «Ma questa valigia?!» Elena ribatte sorridendo: «Lasciala lì, è una sorpresa!»
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Che si tratti di un’esperienza adrenalinica in un parco avventura, di una visita al castello di Kyburg o di una serata romantica in coppia, il Multivan è il compagno ideale per ogni situazione. Questa spaziosa auto familiare offre moltissimo posto restando comunque un veicolo maneggevole.
Partecipare è semplice: Iscrivetevi ai TestDays gratuiti di 24 ore con il Multivan 6.1 su www.multivan.ch. Potrete conoscere meglio i vantaggi dell’ultima generazione dell’amico delle famiglie Volkswagen nella vostra vita quotidiana, e magari anche imparare ad apprezzarli! La famiglia Schneider l’ha già provato, ne è entusiasta e ora non vuole più rinunciare al comfort, allo spazio e alla sicurezza del VW Multivan 6.1. Per informazioni e iscrizioni: www.multivan.ch
La famiglia ha passato più tempo nel parco di quanto previsto. Con il sistema di infotainment perfettamente connesso, infatti, cerca rapidamente sull’ampio display la strada più veloce verso Kyburg. Così i fan del Medioevo saranno contenti. Mamma Elena è soddisfatta mentre percorrono in salita la strada a curve da Kemptthal. «Il Multivan è davvero maneggevole e agile. Persino in curva ci si diverte e i bambini, dietro, sono a loro agio – meglio di così non si può! Poi, la visuale a 360° è geniale, grazie alla seduta rialzata e ai numerosi finestrini». Dopo una visita al Museo del castello di Kyburg, la famiglia Schneider riparte alla volta del Töss. «È fantastica anche la versatilità degli interni. I sedili comodamente spostabili grazie al sistema con guide e i sedili singoli girevoli sono davvero pratici», aggiunge Elena.
«Se è brutto tempo, si può giocare a Uno sul tavolo da campeggio». Gli Schneider però sono fortunati e un tempo da favola accompagna giochi e grigliate. Quando ripartono, Noah, di 10 anni, attira l’attenzione su un altro punto a favore del VW. Come se niente fosse apre la grande porta scorrevole e afferma: «Il bus VW dentro è così spazioso che posso starci in piedi senza problemi». Dopo una giornata movimentata, Nik guida rilassato verso Zurigo: «Mi piace la silenziosità del motore diesel e, soprattutto, il modo in cui si abbina perfettamente al cambio automatico», afferma il quarantaduenne. «Un highlight a tutti gli effetti è la regolazione automatica della distanza per mantenere sempre la distanza di sicurezza». Anziché dirigersi verso casa, Elena pilota il marito verso la Glatttal, dove abitano i nonni. Emma e il fratello, ancora dentro, spiegano con fierezza i dettagli dell’elegante
Multivan, con le luci a LED e il frontale marcato, mentre Elena tira fuori dal bagagliaio la valigia ed esclama raggiante: «Sorpresa! Stanotte i bambini dormono qui! Così possiamo goderci una serata romantica. Il Multivan è così spazioso che sono riuscita a portare non solo tutti i peluche dei bambini, ma anche qualcosa di elegante per noi due».
Papà Nik è sorpreso ma anche contento di concludere in bellezza il viaggio avventura di 24 ore a bordo del VW a misura di famiglia. I due partono alla volta di Winterthur, dove trovano subito parcheggio. «Davvero pratico e funzionale», nota Nik. «Non ero sicuro di riuscire a maneggiare bene sin dal primo momento un’auto lunga quasi cinque metri». E invece il sette posti, disponibile su richiesta anche con
otto sedili, convince non solo per la maneggevolezza ma anche per il grande comfort, l’equipaggiamento di sicurezza completo e i moderni sistemi di assistenza alla guida. Poco dopo i due si dirigono mano nella mano, come due fidanzatini, verso il centro storico per un drink. Al momento di ordinare, Elena esclama sorridente: «Per me un ‹Virgin Hugo›, perché dopo voglio guidare di nuovo il Multivan!»
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 settembre 2020 • N. 40
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Società e Territorio
La sindrome della danza
Pubblicazioni Il gruppo MOPS_DanceSyndrome di Locarno ripercorre attraverso un libro i suoi dodici anni
di produzioni coreografiche con artisti diversamente abili
Didier Ruef, testo e foto Amedea è seduta al tavolo e sta scrivendo una lunga poesia. «La danza delle punte di matita. La danza degli ombrelloni. La danza delle stelle. La danza della pace. La danza del respiro. La danza dell’anima»: senza alzare gli occhi, immersa nei suoi pensieri, fissa sulla carta i suoi sentimenti verso la danza, attività che pratica da dodici anni con la compagnia MOPS_DanceSyndrome di Locarno.
MOPS è una realtà artistica e sociale indipendente, un esempio unico di cultura inclusiva I componenti della troupe, giovani adulti tra i 18 e i 35 anni affetti dalla sindrome di Down, si danno appuntamento ogni mercoledì e giovedì al secondo piano di un edificio dall’aria informale, non lontano da Piazza Grande, nell’atelier del Teatro dei Fauni per imparare, ripetere e creare nuovi spettacoli (naturalmente per ora le prove non si svolgono in presenza e la nuova coreografia è rimasta ferma a causa della pandemia). Forse i giovani danzatori di questa compagnia unica nel suo genere non sanno che nella mitologia romana i Fauni erano le giocose divinità dei boschi, cui erano consacrati il pino e l’olivo. Poco importa: Amedea, Gaia, Elisabetta, Simone e Vinzenz si ritrovano per la gioia di muoversi e stare assieme. L’avventura del MOPS è nata nel 2005 da un incontro fortuito tra Ela Franscella, un’artista multidisciplinare, e Simone, un giovane trisomico che all’epoca aveva 19 anni. Racconta Ela Franscella: «L’ho incontrato durante uno stage di danza e movimento che dirigevo a Locarno. Vedendo Simone ballare, ho pensato che fosse la persona ideale per incarnare la mia ricerca
La compagnia è formata da Amedea, Gaia, Elisabetta, Simone e Vinzenz; un’ampia galleria fotografica si trova su www. azione.ch (Didier Ruef)
di arte oggettiva, una forma artistica capace di rivolgersi direttamente al pubblico, alla sua sensibilità, indipendentemente dalla sua soggettività e dalla cultura di provenienza. La danza è il mezzo di comunicazione perfetto allo scopo, perché crea delle connessioni che vanno al di là delle parole». Ci sono voluti tre anni e mezzo di maturazione prima che MOPS_DanceSyndrome vedesse la luce nel 2008. È stato Simone a ispirare il nome. Infatti, a causa dei suoi lunghi riccioli castani, aveva soprannominato Ela «mocio», come lo spazzolone per i pavimenti. «Mops» non è altro che la traduzione inglese. Ela Franscella ha fatto proprie queste quattro lettere come parola chiave e vettore di significati che ruotano
attorno al mondo della danza: come lo spazzolone a frange pulisce il pavimento assorbendo i liquidi e il materiale che vi si trovano, così il ballerino spazza via la sua quotidianità per far posto alle sue emozioni impregnandosi dell’ambiente circostante e adattando il movimento alla coreografia e alla musica. Nel corso degli anni, MOPS è diventato il punto fermo del senso della vita di Ela Franscella. Vi si dedica anima e corpo, gestisce quotidianamente i mille problemi della compagnia e la guida verso nuovi orizzonti, in una perpetua evoluzione creativa. Ela Franscella ha sviluppato una metodologia il cui punto di partenza è l’ascolto del corpo, la percezione della sfera intima e dello stato d’animo dei danzatori, la conoscenza delle loro capacità fisiche e la conseguente libertà dei movimenti. «I ballerini del MOPS sono sempre nel “qui e ora”. Come chiunque altro, sanno cogliere l’attimo e viverlo così intensamente da trasmetterlo nella sua integralità emozionale durante le ripetizioni e gli spettacoli». Sotto lo sguardo e la guida della fondatrice le figure, a ognuna delle quali i danzatori hanno assegnato un nome specifico e caratterizzante, si incatenano andando a formare una coreografica ricca di gesti simbolici. Questo lavoro di movimento, di comunicazione corporea, di fluire del gesto e dell’emozione si combina con tematiche, partorendo un’opera creativa. Dietro le quinte degli spettacoli, Ela Franscella ha elaborato una metodologia che si richiama alla tecnica, agli oggetti e alla scrittura. Ogni danzatore, ad esempio, riceve un quaderno personale dove tiene il suo «diario di danza», annotando commenti e sensazioni. Può descrivere le figure e disegnare le sequenze da ballare, così come le nozioni che ha approfondito di anatomia umana, anche queste parte del percorso di formazione del danzatore MOPS. Ora tutto questo è racchiuso nel volume MOPS_DanceSyndrome - Arte, cultura e società curato da Ela Franscella e da Alessandro Pontremoli in collaborazione con il DAMS-Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo dell’Università degli Studi di Torino. L’approccio originale e sincero di Ela Franscella ha ottenuto una serie di premi e riconoscimenti, che vanno
dal sostegno di Pro Helvetia e del suo equivalente britannico British Council a quello del Cantone con il Premio Pro Ticino 2018. L’8 ottobre 2019, i MOPS si sono esibiti nella Sala dei passi perduti di Palazzo federale su invito di Marina Carobbio, all’epoca presidente del Consiglio nazionale. Il gruppo di danzatori, composto da Amedea Aloisi, Elisabetta Montobbio, Gaia Mereu e Simone Lunardi, aveva presentato l’ultima produzione intitolata Choreus Numinis. La compagnia ha già all’attivo una decina di produzioni coreografiche originali e si esibisce anche nei circuiti di danza professionali, dove lavora su un piano di parità con le compagnie composte da danzatori non portatori di handicap. MOPS_DanceSyndrome
partecipa anche a festival internazionali, si esibisce in Svizzera e all’estero ed è associata a compagnie di danza professioniste svizzere e straniere. L’associazione ha inoltre realizzato diversi cortometraggi artistici, diretti da Ela Franscella e interpretati dai ballerini del MOPS_DanceSyndrome, che sono stati proiettati in festival internazionali. Nel suo diario, Amedea ha continuato a scrivere: «La danza del silenzio. La danza della speranza. La danza ti entra nel cuore. La danza ti apre l’universo». Ela non saprebbe esprimersi meglio. Informazioni
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Società e Territorio
La Fonte guarda al futuro
Socialità La Fondazione impegnata da sempre a favore delle persone adulte con disabilità festeggia i 40 anni
di attività e rinnova la sua sede di Neggio
Stefania Hubmann Sarà un edificio sobrio e funzionale con spazi flessibili in cui gli utenti della Fondazione La Fonte potranno muoversi in sicurezza con la massima libertà possibile. La nuova casa con occupazione Fonte 3 sorgerà a Neggio nei prossimi tre anni al posto degli stabili occupati attualmente. Di questi, solo la storica Villa Soldati, bene architettonico protetto a livello locale, rimarrà al suo posto; i suoi spazi saranno liberati al termine dei lavori. Il grande sedime di proprietà della Fondazione Giuseppe Soldati ospiterà anche un’area di incontro e svago aperta alla comunità di Neggio. Con l’approvazione da parte del Gran Consiglio di un credito di quasi 5 milioni di franchi, il progetto, il cui investimento complessivo è di poco superiore agli 11 milioni, può ora entrare nella fase esecutiva. La casa Fonte 3 ospita 21 utenti in prevalenza fra i 50 e i 65 anni, di cui solo 5 trascorrono la giornata in centri diurni esterni gestiti dalla medesima Fondazione o da altri enti con scopi analoghi. La maggior parte dei residenti rimane a Neggio, dove vengono proposte sull’arco della settimana una quindicina di attività. Fonte 3 è infatti una casa con occupazione inserita in una rete di otto strutture che accompagnano 150 persone adulte con disabilità cognitive, fisiche, sensoriali o con disturbi psichici. Oltre a Neggio, si contano altre due residenze abitative, a Lugano e Agno. In quest’ultimo Comune ha inoltre sede un centro diurno e un laboratorio multidisciplinare, mentre ulteriori opportunità lavorative sono offerte nell’azienda agricola protetta di Vaglio, in un laboratorio di panetteriapasticceria e nei suoi due punti vendita con snack bar a Lugano e alla SUPSI di Manno. Pure presente nella regione una rete di appartamenti protetti. A Neggio si stanno liberando due dei tre stabili che saranno abbattuti per far posto al nuovo edificio. Gli uffici amministrativi della Fondazione sono già stati trasferiti a Lugano, in posizione più centrale rispetto all’insieme delle strutture, mentre le scuole elementari sono state spostate ad Agno.
La proprietà collinare, che abbiamo visitato nelle scorse settimane, vede infatti attorno alla parte posteriore dell’antica dimora della famiglia Soldati un insieme eterogeneo di costruzioni: scuola elementare, palestra, convitto (parte principale della Fonte 3). Quest’ultimo rimarrà aperto durante i lavori per evitare il trasferimento degli utenti e verrà demolito quando sarà agibile la nuova sede. «La casa è aperta dal 1986, per cui gli ospiti hanno sviluppato con questo luogo un legame emotivo profondo», spiega il direttore della Fondazione La Fonte, Matteo Innocenti. «Anche se gli edifici sono collegati fra loro, l’insieme si rivela sempre più inadatto alla vita e all’accompagnamento di utenti che con il passare degli anni necessitano un’accresciuta assistenza. Vanno inoltre menzionati gli alti costi di gestione e i sempre più ricorrenti onerosi interventi di manutenzione degli edifici ormai datati». Il nuovo progetto, firmato dall’architetto Emanuele Saurwein, risponde quindi alle attuali esigenze di presa in carico di queste persone e alla sfida di continuare a sostenerle nel processo di invecchiamento. Con la Fondazione Giuseppe Soldati è stato raggiunto un accordo per un diritto di superficie di 60 anni. Quali sono la visione e le caratteristiche della nuova sede? Risponde il direttore: «Si tratta di un edificio a tre livelli accogliente e luminoso che valorizza la dimensione del benessere, minimizzando il carattere istituzionale e facilitando le relazioni sociali come pure la condivisione delle esperienze. Nell’insieme offre quindi un ambiente di vita più simile a una casa. Il pianterreno ospita i locali tecnici e quelli per le attività comuni, dagli atelier alle terapie, dalla sala multifunzionale al porticato aperto sul giardino. Ai livelli superiori trovano posto due appartamenti per piano, ognuno con una piccola cucina per le attività legate a questo ambito. Oltre a garantire sicurezza e facilità di movimento agli utenti, il nuovo edificio assicura spazi flessibili che facilitano l’accompagnamento nel tempo delle persone con disabilità. Notiamo già oggi difficoltà di deambulazione, l’insorgere di disturbi legati all’orienta-
Rendering del progetto della futura casa Fonte 3.
mento e più in generale una progressiva diminuzione delle capacità». Rilevante, infine, la sistemazione esterna con un’area dedicata allo svago che vuole anche essere punto d’incontro con la popolazione locale grazie alla presenza di un passaggio pedonale. Questo contatto con la comunità compenserà la perdita della presenza della scuola elementare. Molto apprezzata dagli utenti che necessitano un ambiente di vita tranquillo, la casa Fonte 3 è gestita da un team di 25-30 operatori suddiviso in due gruppi di lavoro che si occupano rispettivamente dell’aspetto residenziale e di quello occupazionale. Si tratta di assicurare agli utenti sull’arco della giornata una varietà di stimoli che tenga in considerazione interessi e capacità dei singoli. Le attività spaziano dal campo artistico a quello ludico, dalla cucina al movimento. Nella nuova casa i posti per le persone disabili potranno essere au-
mentati di tre unità. Grazie alla suddivisione in quattro piccole unità abitative, sarà possibile creare un’atmosfera più familiare e attuare una composizione più omogenea dei rispettivi gruppi. Dal punto di vista finanziario, l’ingente investimento sarà coperto dal contributo cantonale nella misura di 4’832’100 franchi. Ciò corrisponde al 70% della spesa riconosciuta finanziabile secondo la Legge sull’integrazione sociale e professionale degli invalidi (LISPI). L’attività della Fondazione La Fonte è in parte finanziata dal Cantone sulla base di un contratto di prestazione. Tramite mezzi propri, crediti e un’operazione di raccolta fondi mirata (in fase di avvio) la Fondazione provvederà a coprire il restante fabbisogno per la nuova costruzione, pari a circa 6 milioni e 300mila franchi. Alla sua guida da quattro anni, Matteo Innocenti si è dedicato a realizzare «la nuova visione
della Fonte insieme al personale e agli utenti, nel rispetto della sostenibilità finanziaria delle attività svolte». Nel messaggio governativo approvato dal Gran Consiglio si evidenzia come tutte le attività della Fondazione La Fonte siano riconosciute nella Pianificazione 2019-2022 delle strutture e dei servizi per invalidi adulti. Più precisamente si stima per tale periodo in tutto il Canton Ticino un fabbisogno di 160 nuovi posti, di cui 70 con presa a carico diurna, 10 notturna e 80 diurna e notturna. Posti che interesseranno soprattutto una casistica psichica e intellettiva. Con il nuovo progetto la Fondazione La Fonte, che festeggia nel 2020 40 anni di impegno a favore delle persone disabili adulte, si prepara ad affrontare le sfide del futuro, caratterizzato dall’aumento della speranza di vita dei suoi utenti con conseguente crescita dei loro bisogni assistenziali. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio Rubriche
Approdi e derive di Lina Bertola Il corpo che siamo Non solo informatica e non solo inglese: in questo inizio di autunno sono davvero molte le offerte di corsi di danza, dal tango alla salsa, dall’hip hop alla danza del ventre. Queste proposte sembrano voler rispondere al bisogno di un contatto con il proprio corpo diverso dalle consuete percezioni che ne abbiamo. La danza ci offre esperienze diverse, ad esempio, da quelle che alimentano gli sguardi della medicina su un corpo indagato, misurato e curato, sempre diviso tra salute e malattia. Capita a volte che questo corpo non sappia davvero parlare di noi: a volte ci sentiamo male, davvero male, senza riscontro medico di alcuna patologia, oppure, al contrario, stiamo davvero bene eppure «soffriamo», senza sentirlo, di una brutta malattia. Le cosiddette diagnosi precoci sono l’ultima frontiera di una medicina che accoglie il corpo indagato e lo trasferisce in un altrove che sta sempre un po’ da un’altra parte rispetto al nostro
esserci e al nostro sentimento della vita. Poi c’è un’altra esperienza del corpo che abita sempre di più il nostro sentimento del vivere, ovvero l’esperienza di un corpo esibito che vuole esistere ed essere accolto e apprezzato, inseguendo immagini di bellezza disegnate, e presto cancellate, sulla superficie del tempo. Non dobbiamo lasciarci trarre in inganno dalla grande attenzione che gli viene oggi riservata e che ne offre una rappresentazione molto diversa da quella di un corpo limite o di un corpo mancante. La cultura dell’esibizione attribuisce all’apparire del corpo un grande valore identitario: mi mostro affinché gli altri possano guardarmi e nei loro sguardi io possa trovare la certezza di esistere, di essere qui. Eppure questo corpo curato, potenziato ed esibito, in realtà non si è affatto liberato dalle gabbie simboliche in cui è stato fin qui pensato. C’è ancora sempre un io che lo pensa, che se ne occupa, che lo cura e soprattutto che
lo controlla. Per quanto valorizzato ed enfatizzato nella sua presenza, il corpo rimane in silenzio. In simili esperienze c’è sempre un silenzio paradossale del corpo. È il silenzio del corpo che siamo. Immaginiamo un’incursione dentro una videochiamata tra amiche. Ho mal di testa, esordisce la prima, mi sa che oggi sono stata troppo al computer. Anch’io ho qualche problema, risponde l’altra, ho le vertigini e ho la nausea, ho fatto una gita in barca nel pomeriggio e c’era mare brutto. Dal suo letto, spunta la voce della terza amica: purtroppo, ho l’influenza, e non potrò andare a ballare stasera. Nel corpo però, e per fortuna, non abbiamo solo problemi. La prima è comunque felice perché dopo la cura dimagrante si ritrova ad avere un corpo bellissimo; l’altra, che fa la stilista, lo è altrettanto: ha molto successo ed è molto orgogliosa quando le dicono che ha mani di fata. La terza, che ama tanto ballare, sarà a sua volta soddisfatta di
possedere un corpo sempre attraversato dalla musica. In racconti come questi ciascuno di noi potrebbe riconoscersi. In effetti la nostra esperienza, nelle diverse situazioni, piacevoli o dolorose che siano, si esprime con parole e discorsi che raccontano il corpo come qualcosa di cui siamo in possesso: abbiamo un corpo, abbiamo a che fare con un corpo. Questa rappresentazione del corpo è un simbolo culturale molto potente in cui si esprime una visione del mondo e della vita. Fin dall’antichità il corpo è stato perlopiù separato da un sé, da un io identificato e pensato come anima o come ragione. Gli effetti di queste radici culturali sono visibili ancora oggi in una razionalità che continua a voler tenere sotto controllo le emozioni e i sentimenti che risuonano nel corpo senziente. La danza si offre allora come una postura diversa nei confronti della vita in cui
percepire quel sentimento di completezza, di presenza a noi stessi, sempre più infragilito nei mille frammenti delle nostre giornate, e in cui sperimentare il legame inscindibile tra corpo e anima. Non penso al danzare del danzatore che si esibisce sul palcoscenico, penso al danzare di ognuno di noi come gesto primordiale, originario e libero da ogni codice di senso. Stamattina ho ballato, come spesso mi accade, nel silenzio e nella solitudine della mia stanza. Ora, davanti allo schermo, cerco di nutrire le parole che scivolano sulla pagina con quel vissuto sempre così straordinario: con l’esperienza di un corpo che sa condurti al di là del corpo stesso a intravedere l’essenza del tuo esserci. Danzando sei movimento senza voler andare da nessuna parte, sei nel fluire della vita senza uno scopo ulteriore. Sei finalmente corpo, voce autentica dell’anima e sua intima dimora.
fa. Credendomi di colpo un camoscio, magicamente, come in un videogame, m’inerpico su verso i Bagni Vecchi. Compare qualche Pinus sylvestris subsp. Engadinensis e incontro una fontanina color ruggine incorniciata dal verde di una pianta tipo trifoglio. È la sorgente di San Carlo (1370 m) o fonte degli occhi: mi lavo dunque gli occhi e ne trangugio una sorsata. I Bagni Vecchi (1420 m), composti dall’ala dell’ex hotel Belvedere e dalla fortezza medievale, sono a strapiombo. Il connubio tra vasca panoramica azzurra in pietra e la chiesetta di San Martino, è colpo di fulmine. Accappatoio al volo e giù, a mollo in questa vasca in cima alla Valtellina. Distanti alcuni chilometri da Bormio, i Bagni di Bormio costituiscono località a sé, sul territorio di Premadio, frazione del comune Valdidentro. Alle spalle troneggia maestosa la dolomia, illuminata dall’ultimo sole, del Monte Reit. È dalle fratture alle sue falde che scaturisce quest’acqua curativa. «Mica cippalippa» dice uno a proposito del suocero. Schiacciando il bottone verde scatta l’effetto jacuzzi che azzera, ben-
ché ci sia poca gente, tutte le chiacchiere superflue. La presenza della chiesetta, come alle terme di Andeer, sacralizza ulteriormente il bagno. Spoglia, umile, la chiesetta di San Martino, la cui esistenza è documentata prima del 1201, è un po’ il cardine dell’Hospitium balneorum gestito un tempo dai monaci e oggi dal gruppo QC – acronimo di Quadrio Curzio-Terme che prima del covid stava per sbarcare a New York. Del resto, prima ancora c’era un tempio dedicato a una divinità celtica delle acque, equiparato ad Apollo, noto come Bormo. Ci passo accanto ora, zampettando a piedi nudi e decifrando frammenti minimi di affreschi quattrocenteschi. Dietro l’angolo, proprio a fianco della chiesa, ai piedi della vigna che si arrampica sulla facciata felicemente stonacata, c’è la vasca dell’Arciduchessa con dentro una ragazza. Una tinozza enorme, nella quale sgorga la sorgente Arciduchessa, dedicata all’arciduchessa d’Austria in visita qui nel 1590. Entro nei bagni romani ed è un tuffo mistico nel tempo. A mollo tra queste antiche mura scrostate, si tocca forse il culmine dei Bagni
di Bormio. Non è stato toccato niente, bellezza brut, naturale, senza interferenze. Due le vasche, divise da un muro con apertura a mezzaluna e due piccoli altri fori rettangolari. Mi sposto nella seconda, con soffitto a volte, chiamata vasca di Cassiodoro. Storico romano che in una lettera del 565, indirizzata al re ostrogoto Teodato, vantava le virtù terapeutiche delle acque bormiensi. L’aria della sera impregnata dai boschi di conifere, inquadrati da una finestra, entra a intrecciarsi con l’odore delle particelle fangose in sospensione. All’imbrunire, una coppia di camosci bruca l’erba qui sotto la piscina dove faccio l’ultimo bagno. Trovandosi nel Parco nazionale dello Stelvio, non hanno nessun timore. Con calma e grazia balzano poi giù nel burrone. Dalle otto alle dieci del mattino le terme sono riservate agli ospiti delle trentasei camere. Alle otto in punto, nell’aria frescolina del mattino, non c’è anima viva. M’immergo nei bagni romani con il vapore acqueo che sale e penso alla sorgente quasi inaccessibile, inutilizzata da sempre, chiamata Nibelunghi.
e specifica quali sono le sue regole «non si possono amplificare o alterare le conversazioni attraverso l’uso di account multipli. Questo include coordinare o ricompensare terzi coinvolti in un impegno artificiale anche se le persone coinvolte usano soltanto un account». Dicono bene Guido Bosticco e Giovanni Battista Magnoli Bocchi quando nel loro volume uscito per Guerini Next Come i social hanno ucciso la comunicazione spiegano che Facebook e gli altri non sono più soltanto luoghi per la comunicazione personale ma spazi per la comunicazione professionale, aziendale, politica e istituzionale. Il saggio, cofirmato anche da altri autori, ci mette in guardia dai rischi che la visione di un mondo comunicazione-centrico porti con sé soprattutto se ci accontentiamo di vivere nell’universo social considerandolo come luogo eletto della comunicazione:
«Da ciò discendono errori madornali, valutazioni scorrette e grandi gaffe, ma discendono anche una miriade di sotto-saperi che paiono innovativi e non lo sono». Il fatto è che tendiamo a ragionare per conferme secondo il meccanismo del confirmation bias, ci muoviamo all’interno della nostra zona di comfort, delle opinioni e delle idee in cui maggiormente ci riconosciamo. «A tutti noi piace chiuderci in quelle che sono state definite echo chamber» camere virtuali in cui risuona l’eco di ciò che vogliamo sentirci dire. I social sono costruiti su misura per noi, intercettano i nostri umori, fanno leva sulla nostra emotività artificiale e chi conosce queste dinamiche le sfrutta per mettere a segno il proprio messaggio. Per invertire la rotta non ci resta che ripensare il nostro rapporto, costruire un nuovo paradigma di comunicazione e riappropriarci in maniera virtuosa degli spazi digitali.
A due passi di Oliver Scharpf I Bagni di Bormio Un pomeriggio di fine settembre, verso le cinque, mi metto a mollo nella pozza di Leonardo. L’acqua termale, proveniente dalla sorgente Cinglaccia (1280 m) situata qui vicino, sgorga da un tubo attorno ai trentasette gradi e scroscia sul collo di un ragazzo del posto, a mollo con due suoi amici che condividono con me le terme libere di Bormio. Una pozza tra i sassi, sulla riva sinistra dell’Adda che scorre ancora infantile qui a fianco, battezzata in onore di Leonardo da Vinci per via dei bagni di Bormio citati nel Codice Atlantico (1478-1518). E proprio per studiare il corso dell’Adda, nel 1493, per conto di Ludovico il Moro, Leonardo viene qui in visita da queste parti. Pozza Leonardo da Vinci c’è scritto, in corsivo colorato stile hippy, su un tubo arrugginito in disuso. Sull’altro tubo, sotto, rivoli d’acqua escono dai tagli fatti apposta, perdite vincenti che accolgo sul collo. Per contrasto, appena fuori, piedi nell’Adda color azzurro glaciale: torrente guadabile però già chiamato fiume che sarà l’emissario del Lario (domanda classica da cruciverba). Se prima ho fatto il giro della Lüzzina
per trovare la pozza di Leonardo, perdendomi nel lariceto a ridosso dei Bagni Nuovi con il grand hotel del 1836 rosa panna, ora in compenso, orientandomi un po’, lascio il sentiero e salgo su a naso nel bosco. Sbuco in un prato dove c’è un bell’edificio in rovina, lì s’imbottigliava la Pliniana, acqua minerale che scaturisce non lontano. Ritrovato il sentiero, passo su un ponticello di legno accanto alla cascata Cassiodora, calda, sulle cui rocce c’è una Madonnina in plastica azzurra e bianca stile Lourdes. La grotta, del 1908, che protegge la fonte Pliniana (1340 m) – dedicata a Plinio il Vecchio che però nella sua Naturalis historia non cita di preciso Bormio e le sue acque come si vuole far credere – ricorda alcune rocaille di certi giardini di ex ville diventati parchi cittadini. Sottovetro si vede la fonte, il cui nome è inciso su una targa di pietra fintamente sorretta da un pezzo di colonna dorica, scendere nella roccia. La raccolgo nelle mani messe a coppa e la bevo d’un fiato. Ottima, trentotto gradi, altissimo contenuto di silice che non ho nessuna idea per cosa serva ma mi dico che male non
La società connessa di Natascha Fioretti Social, difficile decidere a cosa credere Nella campagna per le elezioni presidenziali del 2016 le fabbriche di troll – più di 150 siti – attive nel produrre e diffondere fake news per favorire la candidatura di Donald Trump erano in Macedonia. Idem a giugno quando Facebook bannò il sito di estrema destra Natural News reo di diffondere teorie cospirazioniste sul coronavirus. Ora, nella campagna elettorale in corso, qualcuno si è fatto più furbo e ha creato una fabbrica di troll fatta in casa che opera più o meno alla luce del sole. Lo scoop è del «Washington Post». Un tweet dice che i numeri del coronavirus sono stati intenzionalmente gonfiati ed è difficile decidere a cosa credere. Un altro invita a non credere al Dr. Fauci. Un commento su Fb sostiene che il voto per posta froderà le elezioni. Sono soltanto alcuni dei messaggi partiti dagli account di giovani profili in Arizona, uno degli stati contesi, che apparentemente esprimevano
le loro opinioni in sostegno del Presidente Trump. In verità i post sono il prodotto di una campagna tentacolare e segreta che elude i paletti messi in campo dai social network per limitare la disinformazione e non ripetere lo stesso errore della campagna del 2016. Chi sono questi giovani? Sono degli adolescenti, alcuni di loro minorenni, assoldati e pagati dalla Turning Point Action per diffondere messaggi per conto dell’azienda. Tramite i loro account personali questi giovani hanno creato una campagna ad arte che nulla invidia alle dinamiche spam e al linguaggio caro ai bot e ai troll. Secondo Graham Brookie, direttore dell’Atlantic Council’s Digital Forensic Research Lab, questa scoperta è allarmante perché ci dice che la proporzione e i danni di questa disinformazione domestica sono enormi. Dal canto suo il leader di Turning Point Action, il ventiseienne Charlie Kirk, sostiene che qualsiasi
comparazione dell’operato della sua organizzazione con la fabbricazione di troll sia una grande inesattezza. Come si muovono i ragazzi, quali sono le istruzioni che ricevono? Copiano il linguaggio e i contenuti da un documento condiviso online. Postano le stesse righe un numero limitato di volte per evadere il rilevamento automatico da parte delle aziende tecnologiche. Ma non si muovono soltanto online. Quella che si definisce essere la più grande associazione di giovani attivisti d’America rivendica la sua presenza nei campus di oltre duemila college e scuole superiori. Ha anche una «Professor Watchlist» disegnata per tracciare chi in classe «discrimina studenti conservativi, promuove valori anti-americani e fa propaganda di sinistra». Trump loda il movimento e lo definisce un caso senza precedenti nella storia della nazione. Twitter intanto rimuove una ventina di account
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 settembre 2020 • N. 40
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Ambiente e Benessere Turismo sempre in crisi La prevalente distruzione di ricchezza si accompagna a cambiamenti e nuovi progetti
Un gigante di 15 millimetri Italaphaenops, lo straordinario coleottero cavernicolo
Gustosissimi involtini Preparati con il prosciutto crudo, vanno serviti con un profumato sugo di capperi
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Un ticinese ai mondiali Tra i convocati in Giappone per i campionati di parkour del 2021 anche Kevin Delcò
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Mal di schiena & reumatismi Medicina Ancora molti i luoghi comuni
nei confronti delle persone colpite da malattie reumatiche
Maria Grazia Buletti «Le malattie reumatiche hanno numerosi volti ma un comun denominatore: la vita di chi ne soffre è caratterizzata da dolori e limitazioni», così la Lega svizzera contro il reumatismo accende nuovamente i riflettori su queste patologie, ancora oggi al centro di pregiudizi che vanno a colpire proprio le persone che ne soffrono. «Questo aggiunge sofferenza alla sofferenza, perché quando parliamo di reumatismi non stiamo parlando di “doloretti”, ma di una seria patologia cronica che può colpire a tutte le età», afferma il reumatologo Nicola Keller, presidente della Lega ticinese contro il reumatismo che pure promuove la nuova campagna della Lega svizzera Io e la mia malattia reumatica. Sensibilizzazione rivolta alla popolazione per fare luce sull’ampio ventaglio di persone che sono colpite da questa patologia dalla miriade di forme differenti. «Le malattie reumatiche includono circa 200 quadri clinici differenti, e chiunque può esserne colpito per il fatto che queste patologie, come detto, non fanno distinzione di età», spiega il reumatologo che ne evidenzia pure i «numerosi volti» e i relativi progressi della medicina. Fa riflettere l’odierna situazione delle persone che si confrontano quotidianamente con una di queste malattie: «Quarant’anni fa non era raro vedere le deformazioni delle articolazioni dei malati reumatici; oggi non è più così perché i progressi della medicina hanno fatto sì che le malattie reumatiche siano diventate sempre più invisibili». Il rovescio della medaglia sta nel fatto che proprio per questo, a livello sociale, è peggiorata la situazione nella comprensione di chi si confronta quotidianamente con una di queste malattie: «L’evoluzione della reumatologia ha portato a un significativo miglioramento della qualità di vita dei pazienti; d’altro canto proprio questo può diventare una difficoltà per molte persone colpite, costringendole a doversi giustificare continuamente sia nell’ambiente famigliare che in quello lavorativo, anche ora, durante l’emergenza coronavirus». La campagna di sensibilizzazione in atto vuole pure raccontare le rinun-
ce, i pregiudizi, la stigmatizzazione e i dolori articolari che le persone ammalate devono affrontare tutti i giorni: «Molteplici sono le limitazioni quotidiane: non risparmiano neppure i giovani che si trovano a curarsi per una di queste malattie». Fra le patologie reumatiche ne emerge una apparentemente molto comune e generalizzata: il mal di schiena. È così frequente che pure i famosi Peanuts e Mafalda si sono scomodati con vignette ironiche ma assai veritiere, come Lucy che afferma: «Non raccolgo le provocazioni perché mi fa male la schiena», Mafalda che dice: «Ti accorgi che stai invecchiando quando i colpi della strega iniziano a superare quelli di fulmine», e il mitico Snoopy: «Ho la schiena bloccata ma non ricordo il PIN». Battute spiritose a parte, Keller ne sottolinea il carattere molto comune e frequente: «Circa l’80 per cento degli adulti soffre di mal di schiena una o più volte nel corso della propria vita, spesso provocato e aggravato da cattive abitudini come la vita sedentaria, il lavoro d’ufficio in posizione a lungo seduta e altre attività che non favoriscono un sano movimento. Questo già in età giovanile, penalizzando la crescita del sistema muscolo-scheletrico che ne risulterà non abbastanza formato e strutturato». Se ne deduce che in genere il mal di schiena, non essendo riconducibile a una causa precisa, è innocuo e aspecifico: «Nella maggior parte dei casi, si risolve nel giro di qualche settimana, ma può tuttavia assumere un carattere ricorrente e provocare disturbi cronici e limitazioni». Parlando del restante 15 percento circa dei casi che presentano invece una causa specifica, Keller afferma: «Ad esempio l’ernia discale (quando una parte del disco intervertebrale fuoriesce e preme su un nervo), in cui il dolore si può diffondere fino ai piedi, causando paralisi. Poi, più raramente, il mal di schiena può essere ascritto a infiammazioni degli organi interni come pleura, pancreas, stomaco e intestino, al morbo di Bechterew e ad altre forme di reumatismo infiammatorio, così come a disturbi del metabolismo, infezioni e fratture vertebrali dovute a osteoporosi».
Il reumatologo Nicola Keller, presidente della Lega ticinese contro il reumatismo . (Stefano Spinelli)
Con il reumatologo, focalizziamo dunque l’importanza dell’informazione su questa comune patologia: «Sarà pure una malattia banale che però non va banalizzata, soprattutto se tende a cronicizzare o se presenta segni particolari riconducibili ad altre malattie (fratture vertebrali, tumori della colonna vertebrale, patologie degli organi interni causanti compressioni delle strutture nervose, malattie infiammatorie del rachide): non sono frequenti, ma devono essere valutate per escluderle quando siamo dinanzi al mal di schiena cronico». All’inizio è importante rivolgersi al proprio medico di famiglia che valuterà la situazione e solo se il mal di schiena persiste oltre le quattro-sei settimane, il medico consiglia di effettuare ulteriori esami ad appannaggio di specialisti in ortopedia o reumatologia: «Bisogna
dire che gli esami radiologici vanno eseguiti solo se indicati nel singolo caso, perché la diagnostica per immagini è poco significativa per la maggior parte dei mal di schiena. Radiografie, TAC ed eventualmente risonanza magnetica mostrano le alterazioni degenerative visibili (come ernia del disco o fenomeni di usura e calcificazione della colonna vertebrale) che però non sono per forza associate al mal di schiena. Se si sospetta la presenza di un’affezione degli organi interni o della colonna è necessario svolgere esami del sangue e altre analisi». Arriviamo alla chiave di lettura che permetterebbe di evitare il mal di schiena: è la prevenzione che consta semplicemente nel corretto e costante movimento: «Muoversi è la migliore strategia per prevenire il mal di schiena acuto o cronico: restare attivi e praticare quotidianamente un’adeguata
attività fisica, allungarsi e stirarsi sulla propria sedia d’ufficio di tanto in tanto, salire le scale e fare passeggiate. Si tratta di rafforzare i muscoli della schiena che, se indeboliti o sottoposti a un carico eccessivo, si contraggono». Lo specialista mette però in guardia che non basta allenare solo i muscoli della schiena: «Dobbiamo pensare anche a quelli del pavimento pelvico, addominali e il diaframma, con attenzione a una geometria muscolare equilibrata dove tutto sia rafforzato in armonia». La camminata a passo veloce, gli sport di resistenza come il nordic walking o il nuoto aiutano anch’essi a rafforzare e a mantenere flessibile la nostra schiena: «Le Leghe cantonali contro il reumatismo offrono corsi specifici di allenamenti idonei» conclude il reumatologo che invita dunque caldamente a prevenire invece di curare.
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Ambiente e Benessere
L’eco dell’estate
Come ai tempi di Marco Polo
Viaggiatori d’Occidente Perché non prolungare la stagione turistica in risposta alla crisi?
Bussole Inviti a
letture per viaggiare
Claudio Visentin L’arrivo di settembre tradizionalmente segna la fine delle vacanze: i bambini si trasformano in alunni, gli eroi da spiaggia in oscuri impiegati. Certo l’autunno è tempo di escursioni e da qualche tempo si praticano forme raffinate di turismo, come il foliage, ovvero il viaggio per ammirare il colore cangiante delle foglie degli alberi in questa stagione, dal verde al giallo alle diverse gradazioni di rosso. I luoghi d’elezione del foliage sono la costa occidentale degli Stati Uniti, le foreste canadesi e i boschi del Giappone, ma questa abitudine si è rapidamente diffusa in Europa. Anche il turismo del vino ha il suo picco naturale al tempo della vendemmia. Si tratta comunque pur sempre di nicchie, di numeri limitati, seppure crescenti. Quest’anno invece, complice l’epidemia, l’intero calendario dei viaggi sembra slittare in avanti.
Questa tendenza è già evidente negli Stati Uniti. Anche lì la stagione estiva è partita molto in ritardo e sotto il segno dell’incertezza, ma adesso molti sembrano interessati a continuare. Secondo una ricerca della società di marketing MMGY Global, il 61 per cento di 1200 americani adulti intervistati intende prendersi una vacanza nei prossimi mesi, morbo permettendo. Dopo tutto, in passato il ritorno a casa era imposto dalla ripresa della scuola e del lavoro in ufficio. Oggi però lavoro e studi ripartono spesso in forme parziali e se si deve studiare e lavorare da remoto, perché non farlo da un luogo più gradevole? I grandi alberghi americani offrono condizioni straordinarie a chi intende restare a lungo. Per esempio Cape May, nella punta meridionale del New Jersey, affacciata sulla baia del Delaware, è considerata la prima stazione balneare americana. Ricostruita in un
pxhere
E se il tempo peggiora? La risposta potrebbe venire dalla Norvegia e dall’idea di friluftsliv, traducibile come «vivere all’aria aperta» che per alcuni è un vero e proprio stile di vita più che occasione per trascorrere tempo libero
«È l’alba e Pardin esce a pescare. Non è che ci siano tante alternative. È il suo mestiere. Da solo, come sempre. Ma preferisce così. È ancora distratto dall’eclissi solare che il giorno prima ha offuscato l’arcipelago indonesiano di Sulawesi. Ha ventun anni, tuttavia si sente già adulto. Per questo oggi si è spinto così lontano, tra le acque dell’isola di Banggai. Sta fissando sovrappensiero il mare, quando qualcosa richiama la sua attenzione tra il luccichio della superficie…».
impareggiabile stile vittoriano dopo il terribile incendio del 1876, ha conquistato l’alta società di New York e Filadelfia. Ora con poco più di quattromila dollari si può prendere la chiave di una stanza il 3 gennaio 2021 e restituirla solo il 1. aprile. Spazi attrezzati per il lavoro si alternano ad aule di studio per i ragazzi, con insegnanti di sostegno specializzati nelle diverse materie, il wi-fi è potenziato ovunque. È così possibile lavorare o studiare in simultanea durante il giorno e dedicare il tardo pomeriggio a bagni e passeggiate. Quasi ovunque i prezzi restano bassi e le offerte si moltiplicano perché i tradizionali turisti autunnali, pensionati con buone risorse, preferiscono restare a casa in quanto più esposti al Covid-19. Cambia lo schema stagionale, cambia lo schema settimanale. Certo qualcuno continua ancora a partire per il week end, quasi per un riflesso condizionato, ma altri con maggiore flessibilità lavorativa esplorano i giorni da lunedì a giovedì, meno affollati e più convenienti. Da noi la situazione è diversa (per esempio le scuole) ma tutto cambia molto rapidamente e comunque l’arrivo di turisti dai cantoni settentrionali resta consistente. Anche qui dunque un prolungamento della stagione potrebbe essere una carta da giocare. E se il tempo peggiora? La risposta
potrebbe venire dalla Norvegia e dall’idea di friluftsliv, traducibile come «vita all’aria aperta». «Friluftsliv è più di una semplice attività, è uno stile di vita» sostiene convinto Lasse Heimdal, appassionato a questa pratica; «È legato alla nostra cultura e all’identità norvegese». Con l’attrezzatura giusta e soprattutto un atteggiamento mentale positivo si può star fuori con qualunque temperatura. Non servono grandi imprese, basta un picnic invernale, una lunga passeggiata con gli amici e il cane o una pedalata. In norvegese c’è persino una parola specifica, utepils, per indicare una birra bevuta all’aperto. Anche una bambina di neanche cinque anni, Mina, potrebbe spiegarvi cosa sia Friluftsliv; alla sua giovane età ha già dormito in una tenda nei campi per oltre trecento giorni e insieme al padre Alexander Read ha vinto il prestigioso Norwegian Wilderness Award 2019 per le loro attività all’aperto. Bisogna intendersi bene. Queste novità non sono ancora segni d’uscita dalla crisi. Gli alberghi in qualche modo si sono sostenuti col turismo nazionale, ma chi opera nel lungo raggio ha il fiato corto: compagnie aeree, Tour Operator e agenzie di viaggio hanno pochi clienti e, se anche ne avessero di più, non avrebbero comunque prodotti da offrire loro, finché la minaccia di quarantena pende al rientro dall’este-
ro. I tentativi di creare alleanze (Travel Bubbles) tra Paesi allo stesso livello di contagio, per evitare test o quarantene, hanno dato risultati controversi. Il programma della Commissione Europea Re-Open EU doveva garantire la mobilità nell’area di Schengen, ma la crescita dei contagi in Spagna, Francia e Grecia ha spinto a rialzare le barriere. Ecco perché, per fare solo un esempio, l’amministratore delegato di British Airways ha sottolineato con forza: «Stiamo ancora combattendo per sopravvivere», lamentando perdite per venti milioni di sterline al giorno. E racconta che un anno fa di questi tempi un milione di passeggeri a settimana volavano con British Airways, ora sono meno di duecentomila. Anche le crociere, il fiore all’occhiello del turismo organizzato, faticano a riguadagnare la fiducia dei loro clienti storici. Molti fallimenti (e molti licenziamenti) sono stati rimandati ma il momento della resa dei conti si avvicina, se la situazione non tornerà normale entro la primavera 2021. La crisi del turismo insomma continua ad avvitarsi su sé stessa, ma la prevalente distruzione di ricchezza si accompagna ora anche a cambiamenti e nuovi progetti. Per questo, parafrasando un celebre discorso di Winston Churchill, potremmo dire che «Non è la fine. Non è neanche il principio della fine. Ma è, forse, la fine del principio».
Comincia così la prima delle tante storie curiose, drammatiche o divertenti, raccolte dal giornalista Carlo Pizzati nel suo sforzo (riuscito) di raccontare l’Asia contemporanea. Tra i diversi Paesi descritti, riserva un ampio spazio all’India, dove abita da oltre dieci anni avendo sposato una donna di Madras/Chennai. C’è dunque una conoscenza di prima mano dei luoghi, ma soprattutto uno sforzo sincero di riconoscere e mettere in discussione gli stereotipi sull’oriente formatisi coi testi antichi, il colonialismo, il giornalismo e la letteratura. Senza nulla togliere ai loro meriti, autori classici come Kipling o E.M. Forster sono meno utili di un tempo per comprendere l’Asia di oggi; e l’India di Gandhi ha solo qualche legame con quella contemporanea. Molto è cambiato nell’ultimo mezzo secolo e l’autore preferisce tenere d’occhio altri orizzonti: religione, ambiente, diritti civili e tecnologia, intrecciati tra loro in forme ricche di incognite. Ma alla fine lo sguardo si volge verso noi stessi, perché capire l’identità asiatica richiede una riflessione su cosa voglia dire essere occidentali, su quel che siamo diventati e su quanto abbiamo acquisito o perduto strada facendo. Questo aspetto è davvero rimasto come ai tempi di Marco Polo: oggi come allora, la diversità ci sfida e ci interroga. / CV Bibliografia
Carlo Pizzati, La tigre e il drone. Il continente indiano tra divinità e robot, rivoluzioni e crisi climatiche, Marsilio, pp.448, € 20. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Uno sguardo sul Grand Canyon Bio-reportage Movimenti tettonici, storia e leggende di uno dei parchi nazionali più famosi d’America
la cui formazione è ancora oggetto di studio dei geologi
Simona Dalla Valle, testo e foto Circa due miliardi di anni or sono, con la formazione di rocce ignee e metamorfiche, ebbe inizio il processo di formazione del Grand Canyon. Attraverso la successiva azione della tettonica a placche l’intera regione si alzò progressivamente formando l’altopiano del Colorado. A partire da appena cinque-sei milioni di anni or sono, il fiume Colorado scolpì il suo percorso e l’ulteriore erosione dei torrenti affluenti portò all’allargamento del canyon. Il Kaibab Limestone, formazione calcarea che corrisponde oggi allo strato più alto di roccia del Grand Canyon, raggiunge in alcuni punti i 2700 metri di altitudine. All’interno di questo calcare giallastro sono stati trovati fossili di squali, pesci, coralli, brachiopodi, briozoi, crinoidi e spugne, a testimonianza del fatto che la sua formazione è avvenuta in un oceano poco profondo e caldo. 245 milioni di anni or sono, l’Arizona giaceva infatti vicino all’Equatore e la regione era ricoperta da un mare limpido e caldo, profondo non più di un centinaio di metri. Ma come hanno fatto queste rocce dei fondali marini a raggiungere altezze così elevate? Fu proprio l’azione della tettonica a placche a
sollevarle, ma il modo in cui tale sollevamento è avvenuto è singolare perché esso si accompagna solitamente anche a un certo grado di deformazione. Com’è successo, per esempio, alle rocce che compongono le Montagne Rocciose. Le rocce dell’altopiano del Colorado, tuttavia, sono state sollevate in modo «piatto». Come e perché il sollevamento sia avvenuto in questo modo è tuttora oggetto di indagine e due sono le ipotesi attualmente considerate più attendibili. La prima si basa sulla teoria del basso angolo di subduzione (shallow-angle subduction), cioè l’angolo che una zolla in subduzione forma con la superficie della Terra. Quando questo angolo è normale si formano vulcani attivi, mentre quando è ridotto i blocchi di crosta vengono sollevati lungo la faglia inversa. La seconda ipotesi è quella di un sollevamento continuo dovuto ad aggiustamenti isostatici (uplift through isostacy). Le pareti del Grand Canyon sono formate da quasi quaranta strati di roccia, la maggior parte dei quali è esposta lungo i quasi 450 km di lunghezza del Canyon, offrendo dunque l’opportunità di studiare l’evoluzione geologica del luogo. Per migliaia di anni la zona fu abitata da gruppi di nativi americani che costruirono insediamenti all’interno
Dettaglio della stratificazione. La roccia si è sollevata mantenendosi orizzontale, senza deformazioni.
delle numerose grotte del canyon. Il popolo dei Pueblo considerava il Grand Canyon (in lingua Hopi: Ongtupqa) un luogo sacro e vi si recava in pellegrinaggio. Il primo europeo a visitare la zona fu García López de Cárdenas, un esploratore spagnolo; membro della spedizione di Francisco Vásquez de Coronado del 1540, condusse un gruppo da Cibola, nella terra degli Zuñi all’interno dello stato del New Mexico, alla ricerca del fiume menzionato dagli Hopi. Dopo un viaggio di venti giorni, fu il primo uomo bianco a vedere il fiume Colorado e il Grand Canyon. Il presidente Theodore Roosevelt, appassionato di natura, lottò per la conservazione della zona del Grand Canyon, ma la strada per renderlo il 15esimo parco nazionale fu molto lunga. L’allora senatore Benjamin Harrison fra il 1882 e il 1886 provò a introdurre, senza successo, delle leggi per qualificarlo come parco nazionale. Il Grand Canyon National Park Act, tuttora considerato un documento importante per gli ambientalisti, fu firmato dal presidente Woodrow Wilson nel 1919 e il National Park Service, istituito nel 1916, assunse l’amministrazione del parco. Il fascino del Grand Canyon, oltre che all’unicità dei suoi vasti paesaggi e alla complessità della sua storia, è legato a figure iconiche come quella dell’ambientalista Martin Litton, la cui storia è raccontata in un documentario prodotto da National Geographic nel 2016. Tra i primi uomini a navigare il fiume Colorado nel 1955, Litton passò la vita a combattere ingegneri, industrie estrattive e agenzie federali in difesa dei paesaggi naturali e si oppose strenuamente alla costruzione di diverse dighe sul fiume Colorado. Anche quelli di Jessie e Glen Hyde sono nomi tristemente associati al luogo. In luna di miele al Grand Canyon nel 1928, di questa coppia giovane e affiatata che percorse a piedi il Bright Angel Trail fino al South Rim e proseguì a bordo di un’imbarcazione, si perse in seguito ogni traccia. Grazie a una ricerca approfondita, finanziata in gran parte dal
A destra una vista sul South Rim. In alto l’alba da Mather Point, sul South Rim. Una più ampia galleria fotografica si trova su www. azione.ch.
padre di Glen, la barca fu recuperata. Era completamente vuota, e i corpi dei giovani non furono mai ritrovati. Persino gli animali hanno alimentato il mito del Grand Canyon: in pochi sanno che nel parco si trova la scultura di un asino a grandezza naturale, il naso ormai lucido a causa delle migliaia di mani che ogni anno lo toccano in cerca di un guizzo di fortuna. La statua si trova nell’atrio del Grand Canyon Lodge, costruito a quasi 2500 metri di altezza sul North Rim. La storia dell’animale rappresentato dalla scultura, l’asino Brighty, fu al centro di un’aspra controversia tra chi sosteneva che gli asini selvatici fossero una parte preziosa della storia di Canyon e chi li considerava creature da sterminare. Nativi dell’Africa, i burros (asini selvatici) furono portati in America nel 1500 dagli
spagnoli. Alla fine del 1800, i cercatori del Canyon li usavano come bestie da soma, compagni e portafortuna. Ma la loro esistenza ibrida – non del tutto selvaggia, ma nemmeno sufficientemente addomesticata perché fossero utili all’uomo – si rivelò un problema quando il servizio del parco decise all’inizio del XX secolo di riportare il Canyon allo stato originario di splendore precolombiano. Invece di trasferirli, nel 1924 i ranger iniziarono a cacciare seriamente gli asini e in soli sette anni furono abbattuti quasi 1500 esemplari. La caccia proseguì fino a quando Brighty of the Grand Canyon, un libro per bambini del 1953 – e l’omonimo film del 1967, il regista del quale commissionò la statua tuttora esistente – aiutarono a mobilitare una campagna per salvare gli esemplari rimanenti.
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Ambiente e Benessere
Strani insetti e le loro storie
Entomologia Inabissati in grotte profonde centinaia di metri si trovano veri fossili viventi adattatisi alla vita
sottoterra dopo milioni di anni di incessante evoluzione Alessandro Focarile Grotte-caverne orizzontali, pozzi-abissi verticali, fiumi e laghi sono gli aspetti più vistosi del carsismo sotterraneo, fenomeno che si concretizza grazie alla presenza di rocce calcaree. Nel corso del tempo, che può durare da milioni di anni, tutti questi ambienti sono stati colonizzati da una ricca ed eterogenea fauna di insetti e altri invertebrati con una unica eccezione in Europa, dove vive nelle grotte della Slovenia un anfibio privo di occhi (Proteus coecus). Il fattore fisico dominante in tutto questo mondo sotterraneo è la permanente assenza di luci, accompagnata da una notevole stabilità dell’aria, e la costante temperatura nel corso dell’anno: generalmente bassa da noi nelle regioni alpine e prealpine: da 3°C a 6°C. Da 16°C a 20°C nelle regioni tropicali. La mancanza di luce ha comportato, nel corso di lunghissimi processi evolutivi, la progressiva perdita della vista, compensata con aumento delle facoltà tattili dell’animaletto coinvolto. La colorazione è il risultato di una ossidazione chimica non possibile in assenza di luce. Dunque, un vero coleottero cavernicolo nel nostro caso, è privo di occhi, ha zampe e antenne molto allungati, e di colore biancastro o gialliccio (depigmentato). Sui Monti Lessini veronesi (Veneto, Italia), la Spluga della Preta si apre a 1480 metri slm, uno dei più profondi pozzi-
1. Italaphaenops dimaioi. 2. Un altro coleottero cavernicolo ultra-evoluto: Italodytes stammeri localizzato in alcune grotte della Puglia e della Lucania. (Alessandro Focarile)
1
abisso attualmente conosciuti a livello mondiale. Durante gli anni 1960-1963, e dopo una serie di perigliose esplorazioni e tentativi, grazie agli sforzi congiunti di diversi Gruppi Grotte italiani, venne raggiunta la profondità massima di -885 metri. Lo speleologo torinese Marziano Di Maio (nessun rapporto con l’attuale uomo politico italiano) osservò a 510 metri di profondità «alcuni grandi
2
formiconi gialli». Un esemplare venne raccolto e inviato in studio al professor Gian Maria Ghidini, entomologo specializzato dell’Università di Pavia. In realtà, non si trattava di una «formica» bensì del più grande e vistoso coleottero cavernicolo ultra-evoluto: un vero fossile vivente, dopo milioni di anni di incessante evoluzione nella vita sottoterra. Battezzato dal professor Ghidini con il nome di Italaphaenops dimaioi in
onore dello scopritore, il nome generico voleva richiamare le affinità morfologiche di aspetto dello straordinario insetto con gli Aphaenops conosciuti di alcune grotte dei Pirenei. Negli anni successivi furono raccolti pochi altri esemplari anche in due pozzi-abisso prossimi alla Spluga della Preta. Italaphaenops dimaioi è uno straordinario coleottero cavernicolo, un gigante con i suoi quindici millimetri
di lunghezza: con le antenne e le zampe interamente distese è in grado di esplorare un raggio di cinque centimetri di territorio. È un accanito predatore di minuscoli gamberetti molto comuni nell’antro a varie profondità, e percorre incessantemente il reticolo di fessure che costituiscono il sistema carsico dei Monti Lessini veronesi. Il suo aspetto è quello di un tipico insetto cavernicolo ultra-specializzato alla vita sotterranea: ha un colore gialliccio, per mancanza di pigmenti (depigmentato), è privo di occhi, ha antenne e zampe molto allungate che esaltano le sue facoltà tattili, e poderose mandibole da efficiente predatore. Secondo Casale & Vigna-Taglianti (1975), l’antenato di Italaphaenops doveva essere un progenitore vagante tra le foreste che ricoprivano i Monti Lessini allora emersi da un mare poco profondo, circa 35-40 milioni di anni or sono, nell’Eocene, la stessa epoca geologica di quando il Mare Baltico faceva galleggiare la famosa resina fossile Ambra, con i suoi preziosi reperti animali e vegetali giunti fino a noi. I «formiconi gialli» sono tuttora fonte di molti «perché? e quando?». Bibliografia
A. Casale & A. Vigna Taglianti. Note su Italaphaenops dimaioi, Ghidini, 1964 (Coleoptera Carabidae). Bollettino Museo Civico Storia Naturale Verona (1975, 11-293-314) Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 settembre 2020 • N. 40
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Ambiente e Benessere
Carboidrati serali, sì o no? Nutrizionista Bene una pasta integrale
con verdure, no invece al dolcetto dopo cena Laura Botticelli
Un melograno nel frutteto
Mondoverde Buoni da mangiare, senza dubbio, ma anche molto
belli e colorati da guardare Anita Negretti Da fiore o da frutto, i Punica granatum sono piante di origine asiatica e vengono coltivati da centinaia di anni lungo tutte le coste del Mediterraneo. Dalla corteccia chiara e rugosa, hanno lunghi rami, che spesso si trasformano in spine, foglie caduche di un bel verde vivace, in grado di cambiare colore virando sulle calde sfumature dell’arancio verso la fine di settembre, prima di cadere. Lanceolate e fitte, le foglie del melograno si fanno attendere fino alla fine di aprile prima di ricomparire, e spesso questa loro pigrizia fa sembrare le piante morte e secche all’inizio della primavera, con il rischio di farsi sradicare dal proprietario che si convince di doverle sostituire. Da maggio in avanti è un susseguirsi di boccioli e fioriture: piccoli bottoni cerosi e arancioni, dalla forma allungata, continuano ad aprirsi liberando i petali sottili, cinque od otto a seconda della varietà, increspati e allegramente colorati di arancio finemente bordato di bianco. Ai fiori, che sbocciano fino ai primi di settembre, seguono i frutti che altro non sono che delle bacche, dette balauste, dalle dimensioni medio grosse in
base al tipo di melograno coltivato. A maturazione autunnale, questi frutti sono sia decorativi, sia ottimi da mangiare nei melograni da frutta. Innumerevoli le ricette. Cuochi sopraffini negli ultimi anni hanno reintrodotto nei loro menu piatti con semi, gelatine e succhi di melagrana, ma noi amanti delle piante apprezziamo maggiormente l’arbusto nella sua interezza che il singolo frutto! Quindi, dopo aver scelto – in seguito a una prima ricerca – le specie o varietà migliori, o che più ci piacciono, cerchiamo una zona del giardino in pieno sole, lontana dall’ombra per evitare l’attacco di funghi o sgraditi insetti. Rustico quanto basta per sopportare bene le calde e afose estati e i freddi inverni dell’Insubria, il melograno gradisce essere piantato in terreni ben drenati; se invece vorrete coltivarlo in vaso, ricordate che necessita di lievi irrigazioni e potature scarse della chioma. Lo si può trovare coltivato ad arbusto, quindi con ramificazioni fin dalla base oppure ad alberello, con il primo metro, metro e mezzo libero dai rami secondari e con il tronco singolo sormontato da una bella e ricca chioma a ombrello. Dalla crescita lenta, impiega molti anni per raggiungere il massimo
sviluppo, che nella specie madre è di cinque-sette metri, mentre la varietà P. granatum «Nana», non supera il metro d’altezza, mantenendo tutte le caratteristiche del genere. Tra le varietà in commercio, mi è stata suggerita da un entusiasta amante di piante la «Wonderful One», che dopo averne messa a dimora una nel suo giardino e aver raccolto fin dai primi anni grandi melograni dall’intenso color rosso con grani rubino, si è messo a regalare non solo i frutti, ma anche le piante di Punica granatum in questa variante agli amici che guardavano meravigliati la sua bella e vigorosa pianta. Altre belle varietà sono «Parfianka», che raggiunge il metro e mezzo di altezza e ha grani dolci e teneri; «Lagrellei» in grado di svilupparsi fino ai quattro metri d’altezza e ha un portamento molto elegante specie nelle piante più vecchie e ricche di ramificazioni, ritorti dal sole e dal vento. I numerosi fiori della varietà «Legrellei» sono ricchissimi di petali dal color arancio e bianco, a cui seguono pochi frutti e dalla dimensione ridotta, essendo una pianta selezionata a scopo decorativo. I melograni producono molti polloni alla base che vanno levàti per non togliere vigoria alla pianta principale.
Gentile Michela, purtroppo i «poveri» carboidrati sono sempre usati come capro espiatorio dei chili di troppo e ci sono mode dove addirittura vengono banditi del tutto (tipo dieta chetogenica, eccetera). I carboidrati sono la fonte di energia preferita dal nostro corpo. Quando mangiamo più carboidrati di quelli di cui il nostro corpo ha bisogno come carburante, parte dello zucchero in eccesso può convertirsi in glicogeno. Il glicogeno è una forma di immagazzinamento di energia nel fegato e nei muscoli. I muscoli sono il deposito secondario, che si riempie solo quando il fegato ha raggiunto la sua capacità di immagazzinamento. Il glicogeno muscolare è infatti disponibile esclusivamente per l’uso da parte del tessuto muscolare mentre il glicogeno epatico può viaggiare in altri tessuti secondo necessità. L’immagazzinamento avviene grazie all’insulina, che è un ormone secreto dal pancreas quando i livelli di zucchero nel sangue sono troppo alti. L’insulina interagisce con il fegato, i muscoli e le cellule adipose, «dicendo» loro di accettare il glucosio in arrivo. Se l’assunzione supera la quantità necessaria per riempire il fegato e il tessuto muscolare, il fegato convertirà i carboidrati in eccesso in glucosio e li rilascerà nel flusso sanguigno. A questo punto, l’insulina rilasciata dal pancreas segnalerà
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Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch
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Gentile Laura, spesso si sente dire che la sera sarebbe meglio evitare carboidrati perché poi si va a letto e non si bruciano, per cui diventano grassi… ma è proprio così? / Michela
alle cellule adipose di assorbire il glucosio in eccesso e di conservarlo per un uso futuro. Partiamo dal presupposto che l’aumento o la riduzione del tessuto adiposo sono dati soprattutto dal bilancio energetico: in termini calorici, se mangio più di quanto consumo, ingrasso, e se mangio meno dimagrisco. Quindi è vero, i carboidrati possono convertirsi in grassi, ma appunto solo se in eccesso. Qual è l’eccesso? I carboidrati dovrebbero essere il nutriente più abbondante della dieta, apportando il 45-60% dell’energia giornaliera. Meglio preferire quelli integrali, che hanno un impatto ridotto sulla glicemia, e limitare invece gli zuccheri semplici, come il saccarosio o il fruttosio. Quindi, per rispondere alla sua interessante domanda: sì a una cena a base di pasta integrale con verdure, no invece al dolcetto dopo cena. Se si segue un’alimentazione mediterranea e si ascolta il proprio senso di sazietà si eviterà di accumulare chili di troppo. Concettualmente, quello che favorisce o meno lo sviluppo del tessuto adiposo non è quindi tanto l’origine della caloria, ma la caloria in sé. Idealmente, anche un esubero di proteine, alla sera, potrebbe portare a ingrassare. …Sì, dopo cena un frutto va comunque sempre bene!
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 settembre 2020 • N. 40
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Involtini con sugo ai capperi Secondo piatto Ingredienti per 4 persone: ½ mazzetto d’erbe aromatiche, ad esempio prezzemolo
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
· 60 g di capperi · 1 cipolla · 12 fettine di lonza di maiale di circa 40 g ciascuna · pepe · 2 c di concentrato di pomodoro · 12 fette di prosciutto crudo · 2 c d’olio d’oliva · 400 g di pomodori pelati tritati in scatola · 400 g di pomodori datterini.
1. Tritate grossolanamente le erbe e i capperi. Unite la cipolla tritata finemente. 2. Battete leggermente la carne. Conditela con pepe. Spalmate il concentrato di pomodoro su un lato delle fette di carne. 3. Disponete una fetta di prosciutto e un po’ di massa ai capperi su ogni fetta di carne e arrotolate ben stretto. Fissate gli involtini con degli stuzzicadenti. 4. Scaldate l’olio in una padella ampia. Rosolate gli involtini tutt’intorno per circa 3 minuti, poi toglieteli dalla padella. 5. Versate in padella il resto della massa di capperi. Aggiungete i pelati tritati e lasciate sobbollire per circa 10 minuti. Unite i pomodori datterini, tagliati a metà per il lungo. 6. Rimettete gli involtini nella padella. Insaporite con pepe e fate sobbollire a fuoco basso per circa 3 minuti. Accompagnate gli involtini a piacere con un risotto. Preparazione: circa 40 minuti. Per persona: circa 45 g di proteine, 17 g di grassi, 12 g di carboidrati, 390 kcal/
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 settembre 2020 • N. 40
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Ambiente e Benessere
La corretta via del parkour
Disciplina sportiva Kevin Delcò spiega la filosofia di un’attività giovanile che ha poco da spartire con i video
di youtube, ma molto da dare anche a livello agonistico
Ma in Ticino esistono gare o competizioni di parkour?
Guido Grilli Su Youtube li si può veder volare nei loro vertiginosi salti da un palazzo all’altro con, sotto, l’assoluto vuoto. Acrobazie, superamento di ostacoli architettonici, scalinate, ringhiere. È questa la versione proibita, «decisamente da evitare», di parkour. Poi, vi è invece la disciplina sportiva vera e propria, affermatasi internazionalmente lo scorso anno, con una sua precisa filosofia ed etica e che l’anno prossimo in Giappone conoscerà il suo primo campionato del mondo a squadre. Due diverse concezioni di praticare questa singolare attività atletica, che in Ticino annovera, per ognuna delle varianti, un migliaio di adepti. Kevin Delcò, 30 anni, bellinzonese, tra i primi in Ticino ad essersi appassionato di parkour e uno dei maggiori cultori – appartiene alla nazionale svizzera che nel 2021 avrà l’onore di disputare i mondiali a Hiroshima - ci guida nell’universo di questa attività atletica. Monitore di una delle diverse scuole presenti nel Cantone, «Scuola Parkour», aperta nel 2014 e che propone corsi in palestra a Lugano, Bellinzona e Locarno, annovera un centinaio di allievi, giovani dai 7 ai 14 anni.
Finora no. Se ne svolgono invece in Svizzera interna, in Italia, Francia, Germania, e un po’ dappertutto in Europa. Il contest di Parkour, in realtà – molti confondono – non contempla salti mortali, ma semplicemente prevede una partenza da un punto A e l’arrivo a un punto B nel minor tempo possibile e nel modo più efficace. Esistono molte tecniche, tra cui la «rotolata» che consiste in una «caduta« per caricare o sfruttare l’energia che si accumula durante un salto. In diverse realtà europee esistono vere e proprie palestre omologate per il parkour. Nelle palestre scolastiche che affitto per gli allenamenti con i ragazzi sono invece io a dover ogni volta costruire dei percorsi, servendomi degli attrezzi da ginnastica. Come si svolge un allenamento tipo?
Innanzitutto all’inizio dell’allenamento, della durata complessiva di un’ora e mezzo, tutti aiutano a portare fuori e a disporre gli attrezzi e gli ostacoli. Poi ci sono la corsa e lo stretching. A inizio stagione si svolgono in particolare gli esercizi per imparare a cadere, poi, man mano, a superare i diversi tipi di ostacolo e, più avanti ancora, si svolgono le «speedrun», gare di velocità. Personalmente possiedo un preciso programma che si sviluppa sull’intero anno, affinché gli allievi raggiungano un preciso livello e obiettivi.
Come si può definire questa singolare attività?
Il parkour è diventato a tutti gli effetti una disciplina sportiva a livello federale lo scorso marzo, grazie alla Federazione internazionale di ginnastica (Fig) che l’ha integrata come sua ottava disciplina. Lo scorso aprile a Hiroshima avrebbero dovuto svolgersi i mondiali, rinviati a causa della pandemia all’anno prossimo, in data ancora da stabilire. Il parkour è stato concepito sin dalle sue origini a scopo di necessità: andrebbe infatti utilizzato soltanto se la tua vita è in pericolo. Questa è in sintesi la sua filosofia. Poi, nel tempo, in molti hanno iniziato a realizzare video su Youtube delle loro performance: saltare dai tetti per dimostrazione e per sfida. Un modo di intendere il parkour che si allontana dalla filosofia del suo fondatore, il francese David Belle, che ha creato questa disciplina nel 2008. Io ho iniziato a praticare parkour in quello stesso anno, in cui è stata sancita la sua nascita. Ma già nel 2006, d’istinto, mi cimentavo in questa attività con gli amici, ci trovavamo ogni week end e ogni mercoledì pomeriggio. Amavamo saltare gli ostacoli. L’attività poi è dunque diventata seria.
Nel 2014, visto che era uno sport abbastanza rischioso dal momento che veniva svolto all’esterno, sul cemento, ho pensato di dare l’opportunità a molti ragazzi di effettuare parkour in tutta sicurezza e così ho aperto la scuola. La prima sede è stata a Gorduno, con una cinquantina di iscritti, ragazzi dagli 8 ai 14 anni, che ho poi suddiviso in due categorie, la prima dai 7 ai 10 e la seconda dagli 11 anni in su, con un allenamento settimanale. Poi ha preso piede, e ora ho due sedi a Lugano, due a Locarno e due a Bellinzona, riaperte da questo mese di settembre dopo la chiusura imposta dalla pandemia lo scorso marzo.
Abbastanza per farne un mestiere?
La mia professione principale è quella di fotografo, ho uno studio di fotografia e video. Posso comunque dire che il parkour è la mia seconda attività preponderante.
Per svolgerla «ci vuole un fisico bestiale», come canta Luca Carboni?
No, in realtà non devi avere i muscoli,
ma imparare a muoverti in modo giusto e ad allenare la tecnica e il fiato.
Quanto ore vanno dedicate al parkour?
Io mi alleno ogni tanto con i bambini e i ragazzi, durante i corsi, altrimenti individualmente un’ora al giorno. All’esterno continuo poi una mia specialità, percorrere gli scalini sulle mani, che nel 2014 in Cina mi è valso il Guinness.
In arte, si chiama Kevin Minds. Un preciso significato, che la traduzione dall’inglese restituisce in «menti».
Esatto. Infatti, il parkour richiede soprattutto testa, mente.
Occorre un diploma per impartire lezioni di parkour in palestra?
Un G+S in questa disciplina non esiste. Comunque io ho conseguito il G+S Sport per bambini, estremamente utile per sapere come comportarsi con questa fascia di età e per sapere come disporre gli attrezzi in sicurezza.
Per chi non lo conosce a fondo, parkour, all’apparenza sembrereb-
be uno di quegli sport a rischio e pericolosi. È così?
La mia scuola ha adottato precise regole. Chi dei miei allievi non le rispetta – ma finora non è mai accaduto – viene espulso. All’esterno non sono ammessi salti, esibizioni o prove di bravura, se non con il consenso dei genitori dei ragazzi; oltretutto chi si prodiga in evoluzioni nelle zone private rischia una denuncia dai proprietari per violazione di domicilio. La mia vuole essere un’etica, una filosofia, alla pari di quanto avviene in altre discipline, come la kickbox o le arti marziali, che non vanno assolutamente utilizzate al di fuori della palestra. Parkour significa anche compiere un’attività secondo le proprie capacità, sfruttando una miriade di tecniche, da quelle per incanalare le giuste energie a quelle per ottenere maggiore spinta. Il parkour richiede soprattutto la conoscenza di sé: si svolgono movimenti in base alle proprie capacità e al proprio corpo. Non occorre, per intenderci, essere palestrati. È uno sport adatto a tutti.
Qual è l’etimologia di parkour?
Il nome deriva da «parcour», con la «c», che significa percorso. Per renderlo un nome internazionale, la «c» è stata sostituita con la «k». Opera del fondatore, David Belle, che fra l’altro dovrei poter conoscere di persona ai prossimi mondiali in Giappone. E ora nell’orizzonte, oltre al suo impegno di monitore, c’è quello agonistico, più precisamente un mondiale.
Esatto. Siamo quattro i convocati, due per ogni categoria. La mia è la «speedrun», che rappresenta il parkour vero e proprio, che consiste nella sfida da un punto A a un punto B nel minor tempo. C’è poi il «freestyle» che in realtà si tratta di «freerun», di corsa libera e contempla i salti mortali. In questa categoria si viene giudicati un po’ come avviene per lo sci o lo snowboard acrobatici, ossia in base a tecnica, difficoltà, fluidità e creatività. Insomma, a breve il parkour si appresta a conoscere i riflettori internazionali. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Stare male e far finta di niente
Sport Fulvio Sulmoni, 15 anni da professionista nel calcio elvetico, è uscito di scena. In un racconto-testimonianza
parla di luci, ombre, e sofferenza
Giancarlo Dionisio Ci sono episodi, nella vita di un essere umano, che sembrano manifestarsi come una sorta di karma. Ti si presentano misteriosamente davanti agli occhi e all’anima, e contribuiscono a tracciare i contorni e i confini della tua personalità. Molti anni fa, un ragazzino che aveva lasciato l’hockey su ghiaccio per abbracciare il calcio, fu chiamato a un raduno della Selezione Svizzera Under 15. Nei giorni precedenti l’incontro, quel ragazzino fece strepiti, puntò i piedi, recalcitrò. Non ne voleva sapere di recarsi a Huttwil, per confrontarsi con altri giovani provenienti da tutto il paese.
Si intitola Piacere di averti conosciuto il libro a firma di Fulvio Sulmoni: tutto il ricavato andrà in beneficenza Il meraviglioso gioco da campetto o da cortile, quello improvvisato allo sfinimento con gli amici del paese, si stava trasformando in pressione. I genitori lo convinsero. La notte precedente la partenza non chiuse occhio, e pregò tutti i santi del paradiso affinché non fosse scelto per la Nazionale. Così fu. Durante il viaggio di ritorno, nonostante la stanchezza, il sorriso non lo abbandonò neppure per un solo secondo. Probabilmente, in quei giorni, Fulvio Sulmoni non sapeva ancora che avrebbe avuto una relazione conflit-
Fulvio Sulmoni, ex difensore del Lugano. (Keystone)
tuale con il mondo del calcio. Ma forse, istintivamente, lo sentiva. A volte, nello sport di punta, essere troppo sensibile è uno svantaggio. Meglio chiudere un occhio e mezzo, ibernare testa, anima, cuore e tirare avanti. Gli anni successivi, fino alla primavera scorsa, quando aveva annunciato di essere giunto al capolinea, complice anche una forma tumorale che sta curando con successo, non sono stati un calvario, ma neppure un Eldorado fatto di milioni, gioie e soddisfazioni. Li ha vissuti piuttosto male, Fulvio. Per aver incontrato troppe figure pro-
fessionali preparate tecnicamente, ma tragicamente prive di empatia e di intelligenza emotiva. Allenatori, dirigenti, direttori sportivi, agenti, procuratori, solo alcune eccezioni escono con un buon voto nel racconto dell’ex difensore centrale del Lugano. Dalla lettura delle sue riflessioni si intuisce che in lui non alberga nessun desiderio di vendetta. Non c’è traccia di acredine. Non ci sono sassolini da estrarre dalla scarpette chiodate. Come in ogni situazione, anche nel mondo del pallone ci sono luci ed emozioni positive, che emergono nel
volume Piacere di averti conosciuto, da pochi giorni nelle librerie del Cantone. «La mia è stata una carriera mediocre. Sono molto orgoglioso della mia carriera. Ho vissuto anche momenti felici e raggiunto discreti risultati personali». Tuttavia, Fulvio si rammarica del fatto che il gioco più bello del mondo sia stato trasformato in un circo, in cui il prestigio e le mire di ricchezza del singolo, prevalgono sugli interessi della collettività. Nulla di nuovo, certamente. Ci sono molti altri ambiti, e non solo sportivi, in cui accadono eventi che eti-
camente non girano per il verso giusto. Sulmoni li descrive, li mette a nudo, li condanna. Lo fa senza spocchia e senza presunzione. Desidera solamente mettere in guardia chi, ragazzino o genitore che sia, si appresta a scalare le ripide pendici del pianeta calcio. «Studiate, ragazzi», suggerisce Fulvio Sulmoni. E raccomanda a tutti di prevedere un piano B, una sorta di paracadute, poiché non tutti potranno diventare dei Leo Messi o dei CR7. La selezione è spietata, si rischia di provare molta sofferenza , da non confondere con la sana fatica che aiuta a crescere. Potrete imbattervi in persone che vi faranno credere di essere al vostro fianco, ma che in realtà hanno l’obiettivo prioritario di curare i loro interessi. Disposti, qualora fosse necessario, a farvi fuori. Se qualcuno pensasse che la pubblicazione del volume è una facile e bieca operazione per approfittare di uno strascico della popolarità conquistata da calciatore, e di fare cassetta, si sbaglia. Ogni singolo franco proveniente dalla vendita, verrà versato a due fondazioni che si occupano di sostenere bambini vittime di bullismo, oppure, che stanno lottando contro il cancro. Fulvio Sulmoni conosce quest’ultimo argomento. D’altro canto il suo «coming out», a poche settimane da quello della ginnasta Lisa Rusconi, funge da monito. Lo sport d’élite dispensa gioia ed emozioni, ma chi traccia le sue linee quadro, e soprattutto chi si occupa di bambini, non deve sottovalutare la salute psicofisica di chi lo pratica. «Sudare serenamente» potrebbe essere il motto di chi scende in campo.
Giochi
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Sai perché i pipistrelli non camminano? Perché hanno… Trova il resto della frase a cruciverba ultimato leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 3, 4, 9, 6, 5)
ORIZZONTALI 1. Una consonante 3. Ha denti d’acciaio 7. Misura catastale 9. Oasi del Fezzan 10. Danneggiati, offesi 12. Un articolo 13. Pianta aromatica 15. Preposizione francese 16. Spaccare in due 22. Le iniziali del compositore Respighi 24. È andato... fuori uso 25. Nel ramo e nel tronco 26. Le iniziali del cantante Pelù 28. Due di spade 30. Prefisso che vuol dire vino 32. Relativo all’opera del vento 35. Li curano i contadini 37. Sono degli attaccabrighe 38. Desinenza verbale VERTICALI 1. Ricevimento mondano 2. Nome femminile 4. Iniziali della cantante il cui nome è al 2 verticale 5. Avverbio di tempo 6. Raccoglie carte geografiche 8. Un animale nella fattoria 11. Se ci... capovolgete 14. Le iniziali dell’attore Fantastichini 17. Pronome poetico 18. Presente per le feste... 19. Le iniziali del Ronnie di radio e tv 20. Isole del Tirreno 21. Eccesso nei prefissi 23. Capo arabo 27. Avverbio di tempo 29. Risonanza 31. Le figlie di Zeus 33. Lusso... fuori uso 34. Bocca in latino 36. Il cuore del contrito
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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Soluzione della settimana precedente
TRA CONIUGI – Sono in ritardo fai bollire l’acqua e butta il dado poi ti richiamo». «Allora…?» Risposta del marito: «CARA È USCITO SEI, CHE FACCIO?». C U R C U M A
A L B I N O
M O R T R A O T N A T I D O S E R S C A L T R I T O I D E E
R A S C P O D U N E R O S E I A L O U E C S C I
E’ S A R I E T A O E C T G H I F I O E A P C O V I O V I A F A S C I A
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Politica e Economia Un «sì» storico in Italia Il referendum per la riduzione dei parlamentari confermato dalle urne: tutti cantano vittoria
Due gatte da pelare per Boris La Brexit e il Covid stanno mettendo a dura prova il governo britannico che sembra non riuscire a gestirli pagina 33
Cos’era il Piano Marshall È invocato ogni volta che si presenta una situazione di crisi ma in realtà è poco conosciuto pagina 39
Imposta preventiva Si torna a discutere di un tema caro al Consiglio federale, non altrettanto alle Camere
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Aria di guerra su Formosa
Conflitto Cina-Usa Nella regione del Mare Cinese si concentra la rivalità tra due superpotenze,
ognuna volta a difendere la sua supremazia: Taiwan nel frattempo è pronta ed armata Lucio Caracciolo Taiwan misura la temperatura dello scontro Usa-Cina. Oggi il barometro segnala tempesta in formazione al largo dell’isola che chiamavamo Formosa. Per Pechino, provincia ribelle che entro massimo il 2049 deve tornare a casa, con le buone o con le cattive. Per Washington, spina nel fianco della Cina comunista, da sostenere e armare contro le mire di Xi Jinping. E da accompagnare gradualmente verso la piena e dichiarata indipendenza. Così a formare, insieme ad altre Cine da ricavare scavando nel corpo della Repubblica Popolare, una famiglia di entità siniche deboli e filoamericane. Perché Taiwan è così importante? Si osservi la sua collocazione geografica. L’isola, con i suoi arcipelaghi minori, tra cui alcuni a un tiro di schioppo dalle coste della Repubblica
Popolare, è spartiacque naturale delle rotte strategiche che collegano l’Estremo Oriente all’Europa e quindi alle Americhe. Quelle stesse rotte cui nel 1941 gli Stati Uniti vollero applicare un blocco navale che avrebbe strangolato il Giappone. E che spinse quindi il Sol Levante a scatenare l’attacco a Pearl Harbour con cui si suicidò, consegnandosi all’impero americano. La Cina di Xi non vuole fare la stessa fine. Il compromesso elaborato dalle diplomazie cinese e americana si basa sul principio della «Cina unica»: esiste un solo Stato cinese. Dove Pechino intende se stessa, Taipei (capitale di Taiwan) idem. Ambiguità che ha permesso alle due Cine di convivere e di stringere forti e proficui legami commerciali. Ora questo equilibrio è entrato in crisi. L’acuirsi del duello fra Stati Uniti e Cina lo sta destabilizzando. Non passa giorno senza che Pe-
chino minacci Taipei di rappresaglie «intollerabili» se continuerà ad accentuare il suo profilo indipendentista, sobillata da Washington. Mentre dalla Casa Bianca partono bordate contro il nefando regime di Xi, oppressore del popolo cinese e minaccioso eversore dell’ordine nello Stretto di Formosa. E nel mondo. La Cina sta accelerando la militarizzazione del Mar Cinese Orientale e di quello Meridionale, a cavallo dei quali si trova Taiwan. Lo scopo è di farne un mare interno, trampolino di lancio verso gli oceani. I suoi Caraibi, con Taiwan nei panni di Portorico. Premessa del controllo di quei mari, come gli Usa gestiscono il Golfo del Messico. Senza l’esportazione, in gran parte lungo le vie marittime, l’economia cinese deperisce. E con essa la legittimità della dinastia rossa. Nelle ultime settimane sia gli
americani che i cinesi hanno svolto esercitazioni aeronavali in quelle acque contestate. Il rischio di un incidente, scintilla dal quale potrebbe scaturire un incendio bellico, cresce ogni giorno di più. Il Giappone è particolarmente preoccupato dalla prospettiva di una guerra per accidente, visto che è il massimo alleato regionale degli Usa e la Cina è suo primo partner commerciale. Infatti a Tokyo si accelera il riarmo. Tutti sanno, poi, che il Giappone impiegherebbe solo un paio di mesi per dotarsi di un arsenale atomico. Nei laboratori strategici cinesi, americani e giapponesi, come degli altri paesi dell’area, da tempo si studiano i piani di guerra. Non sarebbe insomma un conflitto così accidentale, se mai scoppiasse. Cinesi e americani vorrebbero contenerlo nei limiti di una «guerra del litorale», negli arcipe-
laghi e nelle isole del Mar Cinese Meridionale e di quello Orientale. Ma si sa, le guerre cominciano in un modo ed involvono verso scenari imprevedibili. Le ripercussioni della tensione sino-americana stanno già facendosi sentire ovunque, Europa compresa. Finora investono l’economia e la tecnologia. Ma non è affatto escluso che in caso di guerra aperta attorno a Taiwan sia coinvolta anche la Nato. Il suo segretario generale Jen Stoltenberg ne enfatizza il ruolo «globale». Ormai il Patto Atlantico è proiettato quasi ovunque, secondo gli interessi del suo socio principale, gli Stati Uniti. Alcuni Stati membri, in primo luogo Francia e Regno Unito, si stanno attrezzando in vista di un impegno aero-navale nell’Indo-Pacifico. Le premesse per una guerra ci sono quasi tutte. Soprattutto, sarà davvero difficile limitarla. Nel tempo e nello spazio.
Care piante, tutte in padella! V-Love: per un’alimentazione variegata, a base vegetale.
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Politica e Economia
Vincono tutti tranne Salvini
Italia Dalla recente tornata elettorale risulta ridimensionata la figura dell’ex vicepremier
mentre gli altri leader cantano, ognuno a modo suo, vittoria
Alfredo Venturi Sarà contento Umberto Bossi, che fondò la Lega nel culto paganeggiante del prato di Pontida e delle sorgenti del Po, l’uomo che esorcizzava le paure del Nord gridando «Roma ladrona» e invitando gli italiani a fare un uso non esattamente protocollare della loro bandiera nazionale. Sarà contento il vecchio leader padano, ora che gli elettori hanno riproposto la Lega nell’originaria versione territoriale e identitaria, sconfessando il dirottamento verso obiettivi unitari che era stato imposto da Matteo Salvini. Il risultato elettorale del 20 e 21 settembre parla chiaro: la linea di Salvini, che nell’intento di conquistare il Paese intero aveva sostituito il tricolore alle insegne padane, il rosario e il crocifisso all’ampolla con le sacre acque che sgorgano sul Monviso, ne è uscita fortemente ridimensionata.
Il risultato uscito dalle urne suscita discussioni in particolare nelle file dei Cinquestelle, movimento in apparente crisi di identità
Dopo il voto Giuseppe Conte vede allontanarsi il rischio di una caduta del governo. (Keystone)
L’elettorato leghista ha invece premiato le posizioni di Luca Zaia, il governatore che è stato plebiscitariamente confermato nella carica all’insegna del «più Veneto» e «più autonomia». Non a caso proprio nella laguna veneziana veniva versata l’acqua attinta alla mitica sorgente alpina secondo il rito bossiano. La Lega territoriale ha dunque sconfitto la Lega nazionale. La lenta discesa delle fortune di Salvini, che s’iniziò oltre un anno fa quando l’allora ministro dell’interno decise di lasciare il governo giallo-verde e puntare direttamente alla presidenza del consiglio, sembra dunque aver toccato il fondo. Certo la Lega è tutt’altro che morta, basti pensare allo spettacolare risultato di Zaia, ma non è più la «sua» Lega. Inoltre dalla destra incalzano sempre più Salvini i suoi insidiosi alleati, i Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, questo sì di carattere tipicamente nazionale e nazionalista. Alla soddisfazione del leghismo delle regioni e della tradizione si accompagna quella del Partito democratico. Siamo la prima forza politica italiana, annunciava la sera del voto un gongolante Nicola Zingaretti, il segretario del Pd. Evidentemente temeva
il peggio, in particolare temeva che la destra potesse conquistare la nevralgica roccaforte rossa, la Regione Toscana. Temeva uno spietato verdetto, cinque a uno, cioè la sconfitta in cinque delle sei regioni a statuto ordinario in cui si votava. Non è andata così: l’esito finale è stato un pareggio, tre a tre. Il partito di Zingaretti ha conservato non soltanto la guida della Toscana ma anche quella della Puglia, confermando lo scontato controllo della Campania. Ha perduto soltanto le Marche, mentre nelle altre due regioni chiamate al voto, il Veneto di Zaia e la Liguria di Giovanni Toti, non c’era partita considerate le forti posizioni locali del centrodestra. Il 20 settembre, fin qui noto soprattutto per il completamento dell’unità italiana con la breccia di Porta Pia del 1870, la presa di Roma e la sconfitta del papato temporalista, quest’anno è stato un election day, come si usa dire ogni volta che i cittadini sono chiamati a esprimersi su materie disparate e dunque si concentrano i voti in un’unica tornata elettorale. Stavolta si votava, oltre che per rinnovare i sei governi regionali, più quello della Valle d’Aosta a statuto speciale e una quantità di amministrazioni comu-
nali, anche per confermare o bocciare una riforma costituzionale che riduce drasticamente il numero dei deputati e dei senatori, rispettivamente da 630 a 400, da 315 a 200. Ebbene, oltre due terzi degli elettori hanno detto sì, il taglio dei parlamentari è stato avallato a furor di popolo e così festeggiano anche i Cinquestelle, paladini di una riforma che da molte parti viene tacciata di populismo e demagogia ma che evidentemente piace molto all’italiano medio. Il sì è stato trasversale rispetto ai partiti, rispecchiando la larga maggioranza con cui la riforma fu varata in parlamento. Ma quella dei Cinquestelle è una festa fortemente limitata dagli altri risultati della giornata. L’esito del referendum viene considerato dai grillini un grande successo, addirittura un’impresa storica secondo il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Tale da consolare almeno un poco i Cinquestelle dopo una prestazione elettorale non proprio esaltante: Alessandro Di Battista, il più critico fra i suoi rappresentanti, parla senz’altro di disfatta. Sostiene che non è il momento di parlare di alleanze, ma di affrontare la più grave crisi identitaria che abbia mai investito il Movimento. Avevamo pro-
posto un sogno nel quale avevano creduto in tanti, dice Di Battista, che ora non ci credono più. In effetti i grillini sono precipitati al dieci per cento, loro che a suo tempo navigavano ben sopra il trenta. Rischiamo di sparire, dice un’altra voce critica nel Movimento, quella di Barbara Lezzi I grillini hanno perduto voti perfino al Sud, dove le loro politiche assistenzialistiche, come il contestatissimo reddito di cittadinanza, avevano finora guadagnato al Movimento un ampio consenso. Per questo nella base dei Cìnquestelle c’è maretta, e l’attuale reggente Vito Crimi annaspa fra incalzanti proteste, l’affondo di Di Battista, richieste di chiarimenti e di congressi. Intanto il padre nobile Beppe Grillo rilancia il mito della democrazia diretta basata sulle nuove tecnologie, cioè sulla piattaforma Rousseau della Casaleggio associati. Sono andato una volta ancora a votare con una matita, dentro una cabina, dice sconsolato il comico prestato alla politica: sono cose che non concepisco più. Il voto digitale, ecco la soluzione imposta dalla modernità. Fatto sta che il ridimensionamento grillino, contrapposto alla buona prestazione del Partito democratico, anche se il voto referendario e regio-
QAnon emerge nell’ottobre del 2017, tramite la message board 4chan, teorizzando «l’esistenza di un’organizzazione segreta globale di pedofili gestita dalle élite politiche e finanziarie liberali» con «il coinvolgimento di entità del cosiddetto stato profondo» (deep state). QAnon mescola alcuni elementi reali e molti, troppi elementi inventati. Gli elementi reali riguardano lo scandalo del pedofilo Jeffrey Epstein, morto in carcere in circostanze non chiare. Altrettanto reali sono i legami di Epstein con Israele, con Bill Clinton e il principe Andrea d’Inghilterra. In particolare, Clinton e il principe hanno effettivamente volato sul famoso «Lolita Express», il gigantesco aeroplano personale del pedofilo. Da questi frammenti reali, si passa a una rappresentazione grottescamente dettagliata,
con tutto il partito democratico USA, aiutato da Hollywood e dall’élite globalista, che rapisce, tortura, stupra e divora i bambini nel corso di riti satanici all’insegna del cannibalismo. Ed ecco come nasce questa teoria cospirativa: «Il nome QAnon si riferisce alla più alta autorizzazione d’accesso disponibile al Dipartimento dell’Energia del governo statunitense per l’accesso alle informazioni sulle armi nucleari. Un utente di 4chan, chiamato Q, che diceva di avere questo accesso, cominciò a inviare, con relativa frequenza, messaggi sibillini, spesso sotto forma di indovinelli. Questi messaggi divennero poi materiale d’ipotesi e di studio per la vasta comunità di 4chan, che elaborava collettivamente i post di Q». Da questa elaborazione emerge la teoria cospirativa sull’élite dei pedo-
nale non ha ovviamente alterato i rapporti di forza parlamentari modifica vistosamente gli equilibri politici all’interno della maggioranza che sorregge il governo Conte. Anche perché un altro componente dell’alleanza, Italia viva, il partito di fuorusciti democratici fondato e guidato dall’ex capo del governo e del partito Matteo Renzi, non ha incontrato il consenso che si aspettava, nemmeno nella natia Toscana. Gli elettori hanno assegnato ai renziani un peso ridotto, dunque un ruolo marginale. Non a caso dunque il Partito democratico chiede un’azione di governo più incisiva che affronti i molti nodi della ripartenza dopo la crisi economica innescata dalla pandemia, evoca un rimpasto che tenga conto della ritrovata forza del Pd. eventualmente la nomina di Zingaretti vicepresidente accanto a Giuseppe Conte. Ma quest’ultimo, comprensibilmente euforico dopo un risultato che rafforza il suo governo, esclude la prospettiva di un rimpasto. Il Pd si dice pronto a eliminare i controversi decreti sicurezza tanto cari a Salvini, ereditati dal primo governo Conte. Considera persino la possibilità di un ricorso al Mes, il Fondo europeo salva-Stati da sempre inviso ai Cinquestelle. Dovrebbe finanziare, come prevedono del resto le condizioni stabilite a Bruxelles, gli investimenti nel sistema sanitario di cui la pandemia ha evidenziato le lacune. Comunque vada, il governo giallo-rosso è insomma destinato a essere un po’ meno giallo e un po’ più rosso. La nuova situazione emersa dal voto autorizza Conte a dormire sonni tranquilli. É vero che la destra, in particolare Giorgia Meloni galvanizzata dall’ottimo risultato dei suoi Fratelli d’Italia, chiede che vengano sciolte le camere e dunque si vada al voto, argomentando che essendo stata ritoccata la Costituzione questo parlamento è giuridicamente fuori fase. Ma è altrettanto vero che le resistenze sui banchi della Camera e del Senato si prevedono fortissime, perché nella prossima legislatura i posti a disposizione saranno molti meno e dunque la rielezione più difficile. Gli italiani sanno benissimo quanto i parlamentari siano affettuosamente legati ai loro seggi. In particolare i Cinquestelle, che a causa dello straordinario successo elettorale del 2018 sono presenti nelle Camere in una misura di gran lunga superiore al consenso di cui godono oggi nel Paese. Per questo Conte può ragionevolmente dichiararsi fiducioso che il suo governo durerà fino alla scadenza naturale della legislatura, cioè fino al marzo del 2023.
Fra i libri di Paolo A. Dossena GABRieLe COseNTiNO, Social Media and Post-Truth World Order: The Global Dynamics of Disinformation, Springer, 2020 Chi è QAnon? Forse un fenomeno, forse una persona, forse un gruppo. Sviluppatosi negli Stati Uniti durante la pandemia, QAnon ha raggiunto Gran Bretagna ed Europa, dove è apparso tra le masse che protestano contro vaccini e «dittatura del Corona». Secondo Gabriele Cosentino, QAnon sarebbe una teoria cospirativa nata «da una miscela di subculture internet e argomenti di interesse globale». QAnon incarnerebbere «l’ethos anti-establishment» delle comunità internet. Le teorie cospirative nascono infatti «come una serie di miti, simboli e codici sviluppati dagli utenti di 4chan», una piattaforma virtuale, «all’interno
di una rete globale di etnonazionalisti razziali bianchi». Il saggio esplora quindi la trasformazione di internet in un campo di battaglia.
fili liberal e l’esaltazione di Donald Trump come salvatore degli americani. Da allora questa interpretazione è un fenomeno di massa, con navigatori internet che vanno ai comizi di Trump con magliette col logo QAnon. La cosa più interessante è che questa massa di persone vede QAnon anche come un videogame su un’immaginaria realtà alternativa, e infatti una delle caratteristiche subculturali di 4chan è il videogioco. Q ogni tanto riappare sulla piattaforma con i suoi messaggi criptici e lascia enigmi, compiti (task) da risolvere. In questo modo il gruppo dei credenti si allarga in attesa delle task virtuali e della natura giocosa di Q. Il saggio, consigliatissimo, analizza un fenomeno che ormai riguarda anche la Svizzera, dove è appena apparso un gruppo QAnon Schweiz su Facebook.
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Politica e Economia
Covid e Brexit, la doppia minaccia Gran Bretagna Il premier inglese Johnson confrontato
con un compito arduo che incombe sul Regno Unito
Il ministro in guerra contro i blasfemi Pakistan Stigmatizzando «Charlie Hebdo»,
Qureshi accusa la Francia di islamofobia Francesca Marino
Cristina Marconi Boris Johnson non ha l’aria di sapere quello che sta facendo. Al contrario: l’inquilino di Downing Street non è mai apparso così fragile e vulnerabile come in questi giorni in cui, per la prima volta in meno di un anno, dal partito conservatore e dalla stampa un tempo amica si stanno sollevando tante voci contrarie e critiche rispetto alla linea del premier. La più decisa è stata quella di Theresa May, che ha definito «spregiudicata e irresponsabile» l’azione di chi, attraverso il disegno di legge sul mercato interno, sta cercando di venir meno agli obblighi sottoscritti l’anno scorso nell’accordo sulla Brexit, quello con cui Boris Johnson ha vinto le elezioni. «È una violazione della legge internazionale», ha dichiarato la May, suggerendo che forse «il governo non aveva capito cosa andava firmando con l’accordo di recesso». Addirittura l’avvocatessa superstar Amal Clooney si è dimessa dal suo ruolo di inviato britannico per la libertà di stampa per via di un disegno di legge definito «deplorevole». In materia di Coronavirus, la cosa non va meglio: la comunicazione è stata contraddittoria e caotica, i contagi hanno superato i 6mila al giorno e il premier non ha saputo fare altro che suggerire che la colpa sia dei suoi concittadini, definendoli «amanti della libertà», come se gli altri fossero abituati alle dittature, e quindi poco inclini a seguire le regole. Boris è stato eletto con un compito preciso, ossia quello di far passare quell’enorme mal di testa della Brexit, con le sue fastidiose complessità e i dissapori con cui da cinque anni ha infestato la società britannica, e di ridurlo a qualcosa di comprensibile e facile da chiudere. Il suo piglio giocherellone, invece di preoccupare, era considerato un vantaggio. Solo che l’ottimismo del premier è si è incagliato nella sua stessa strategia, invero inaugurata dalla retorica vacua e efficace di Nigel Farage secondo cui l’unica Brexit pura è quella netta e, di fatto, suicida. Di semplificazione in semplificazione, Johnson non si è accorto che stava facendo il passo più lungo della gamba e che, con il decreto legge sul mercato interno contenente alcune misure in contrasto con quanto stabilito nell’accordo di recesso siglato alla fine del 2019 con l’Unione europea, non solo stava facendo infuriare Bruxelles ma stava mettendo a disagio anche una parte dei Tories. Va bene la lotta contro il leviatano europeo, ma la parola data è qualcosa di sacro per un britannico e soprattutto, almeno idealmente, per un conservatore. Col risultato che il disegno di legge è stato discretamente messo da parte per qualche settimana per lasciare lo spazio ai negoziati con Michel Barnier di raggiungere un eventuale, seppur magro, risultato. Il governo non sembra sempre condividere la sacralità della parola data: a ogni messaggio sul Covid è seguita una smentita, un dubbio, un tentennamento. Come quello sul sistema di «test, track and trace», ossia di tracciamento dei casi, che doveva essere «il migliore
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Sono state introdotte nuove misure per arginare l’epidemia. (Keystone)
del mondo» e portare il Regno Unito in salvo e che invece, secondo quanto dichiarato da Johnson la settimana scorsa, in fondo «ha poco o nulla a che fare con la diffusione o la trasmissione della malattia». Nel corso dell’estate, nel paese ha prevalso la spensieratezza tra i cittadini, che non hanno esercitato molta cautela, né tanto meno sono stati esortati a farlo. E nella prima metà di settembre i politici hanno fatto di tutto per incoraggiare la gente a tornare in ufficio e a consumare caffè e panini delle grandi catene di ristorazione veloce, a uscire la sera e a spendere nei ristoranti anche grazie ai bonus governativi. Salvo poi, davanti a un’avanzata dei contagi più che preoccupante, tornare rapidamente a chiedere di lavorare da casa e chiudere i pub e i ristoranti alle 10 come unica, insufficiente misura per bloccare il Covid. Questa pandemia sta mettendo a dura prova tutti i leader del mondo, ma Boris è riuscito a inanellare più errori di quanto il paese sembra pronto a tollerare, soprattutto in mancanza di aspetti positivi in grado di compensare. Fisicamente appare provato dal coronavirus contratto a fine marzo e persone a lui vicine ammettono che ha «giorni buoni e giorni cattivi». Ad ogni modo ha perso il suo smalto e anche i giornali amici, come lo «Spectator» di cui è stato direttore, si chiedono «Dov’è Boris». Il «Times» di Rupert Murdoch ha pubblicato un articolo in cui lo si descrive depresso, deluso dal lavoro che aveva sognato per una vita, preoccupato per il ridimensionamento della sua situazione economica e dalla necessità di provvedere a sei figli, incapace con sole 150mila sterline all’anno (molto meno di quanto guadagnasse da deputato, editorialista e conferenziere) di poter assumere una tata per il piccolo Wilfred e anche un po’ in affanno dietro alle esigenze di una compagna giovane e poco rassicurante come Carrie Symonds. Tutto è stato smentito, ma l’articolo ha aggiunto un tassello a un puzzle che vede Boris particolarmente fuori forma, sia in Parlamento che a casa. A rendere la situazione più incandescente c’è il fatto che, per la prima volta dal 2014, i Tories hanno un’opposizione degna di questo nome. Sir Keir Starmer, figlio della working class che si
è guadagnato il titolo per i servizi resi come procuratore capo, dopo una brillante carriera da avvocato difensore dei diritti umani, ha lanciato un attacco frontale al premier durante la conferenza dei laburisti e, dopo mesi di silenzio, ha cominciato a far sentire la pressione di un avversario competente, presentabile, moderato, che una maggioranza di britannici vedrebbero bene a Downing Street e che nei sondaggi ha portato il partito quasi allo stesso livello dei Tories, 37% contro 40%. Inoltre secondo Ipsos Mori da un punto di vista personale la gara è già vinta: il 44% pensa che Starmer sia un «leader capace», contro il 37% a favore di Boris. L’atteggiamento generale, anche tra i conservatori, è quello di lasciare che Boris Johnson porti a casa la sua missione, ossia la Brexit, un capitolo su cui nessuno vuole tornare e che anche Starmer ha accettato come inevitabile e anzi, a questo punto, auspicabile. Per questo motivo tutti sanno che la coppia Johnson-Dominic Cummings, a cui nessuno ha perdonato di aver violato le regole del lockdown ai tempi in cui tutto il paese era a casa, deve rimanere intoccabile per un po’. Ma con l’economia in crisi, il cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak che si sta mettendo in luce positivamente con la sua gestione della situazione e il bisogno di affidarsi a mani più salde per una crisi come il Covid di cui non si vede la fine, la posizione di Boris è più fragile del previsto. Anche il suo discorso alla nazione per annunciare le nuove misure restrittive – che non corrispondono certo a un lockdown e sono in realtà molto blande – è riuscito a sembrare sia insufficiente che illiberale. C’è chi ci ha visto un’interferenza eccessiva nella vita delle persone e chi invece ha pensato solo che andranno riviste presto. Addirittura la leader scozzese Nicola Sturgeon ha preferito seguire i suoi consulenti scientifici e proibire le visite in case di altre persone, mentre gli stessi advisor di Downing Street osservavano che bisognerà fare presto ben altro. Lasciando l’ex potentissimo Boris a fare la figura del re travicello che imita i toni del suo eroe Churchill senza averne i contenuti né la capacità decisionale né, tantomeno, il seguito.
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La bandiera francese bruciata in piazza, la richiesta (umoristica, visto lo stato dell’economia) di interrompere i legami commerciali e diplomatici con la Francia e di espellere dal Pakistan l’ambasciatore francese. Il tutto condito da «pacifici» cartelli con scritte come «La decapitazione è la punizione per i blasfemi», «Morte alla Francia» o «Smettela di abbaiare, cani francesi». È la cronaca di una giornata di ordinaria follia in Pakistan dove, in tutte le maggiori città del paese, si sono tenute «pacifiche e democratiche» manifestazioni di protesta contro la decisione del settimanale francese «Charlie Hebdo» di ripubblicare, in occasione dell’inizio del processo ai jihadi che nel 2015 hanno massacrato metà della redazione, le famose vignette raffiguranti il profeta Mohammed. Una scelta coraggiosa, sostenuta anche apertamente dal presidente Macron che nel suo discorso in occasione della festa della Repubblica ha dichiarato che: «In questo momento, la vera battaglia da combattere è quella per il laicismo». La decisione di «Charlie Hebdo», passata largamente sotto silenzio in tutto il mondo arabo, ha avuto risonanza soltanto in Pakistan, praticamente. Dove il Tehrik-i-Labbaik Pakistan, un gruppo integralista di estrema destra, ha portato in piazza centinaia di persone. Il gruppo, tanto per capirsi, è lo stesso che si oppone a ogni emendamento della famigerata legge sulla blasfemia: la legge prevede difatti la morte per chiunque sia accusato di blasfemia, ed è ormai largamente adoperata anche e soprattutto per liberarsi da vicini scomodi o oppositori politici. Si tratta dello stesso gruppo che faceva piovere petali di rose sull’assassino dell’ex-governatore del Punjab Salman Taseer, colpevole di osteggiare la legge sulla blasfemia e di fare campagna per il rilascio di Asia Bibi ingiustamente accusata, e che ha trasformato la tomba dell’assassino di cui sopra nel santuario di un martire. I membri dell’organizzazione sono inoltre noti per eseguire sommarie esecuzioni nei confronti di «blasfemi» vari, e sono politicamente così forti da costringere il premier Imran Khan a revocare la nomina a consulente del governo dell’economista Atif Mian perchè di confessione Ahmadya. Questa accolita di apologisti del terrorismo o di terroristi veri e propri è stata sostenuta dall’ineffabile ministro degli esteri Shah Mehmood Qureshi: che, lungi dal condannare le minacce di morte e il rogo delle bandiere, è an-
dato alla radio a nazionale a dichiarare in diretta che le caricature urtano i sentimenti di milioni di musulmani e che nessuna condanna «può essere sufficiente» per i colpevoli. Aggiungendo: «Assistiamo a un aumento di islamofobia, razzismo e xenofobia in tutto il mondo e il Pakistan lo sta sottolineando in tutte le sedi possibili». Evidentemente, per Qureshi e il governo di cui fa parte, razzismo e xenofobia funzionano soltanto a senso unico. Così come l’islamofobia, visto che nella repubblica islamica del Pakistan le minoranze più perseguitate sono proprio quelle musulmane: sciiti, Ahmadya e via declinando. A Qureshi e ai suoi accoliti sfugge completamente un concetto di base: che, al contrario del Pakistan, la Francia, così come l’Europa in generale, è un paese laico. Gli sfugge il fatto che si può condividere o meno l’umorismo di bassa lega di «Charlie Hebdo», peraltro assolutamente trans-religioso, ma che invece è condiviso da tutti un principio non negoziabile in ogni democrazia: la libertà d’espressione. La stessa libertà di espressione di cui il premier Imran Khan si propone come paladino affannandosi a ripetere che: «La stampa in Pakistan è più libera che in Inghilterra». Secondo Reporters Sans Frontieres, però, dall’inizio del mandato di Khan, accusato di essere manovrato dall’esercito, il controllo sui media è diventato totale. Soltanto nell’ultimo anno sono stati ammazzati quattro giornalisti, e la lista di quelli che sono stati prelevati per qualche giorno, torturati e rilasciati è ormai troppo lunga anche per fare notizia. Alcuni riescono a scappare all’estero, anche se ormai non sono al sicuro neanche in Europa, gli altri preferiscono cambiare mestiere o accontentarsi di passare le informazioni approvate dal governo. Che qualche giorno fa ha emanato una legge, l’ennesima, che «libera» ancora di più la già liberissima stampa locale. Dalla settimana scorsa, in Pakistan, non è più possibile criticare in alcun modo l’esercito o uno dei suoi membri, che sia in servizio o in pensione. Media e social media dovranno attenersi alle nuove regole, pena la galera o peggio. Il provvedimento è mirato a fare piazza pulita una volta per tutte non soltanto delle critiche di stampo politico al regime in corso, ma anche e soprattutto delle accuse di corruzione e nepotismo nei confronti di generali e colonnelli, che hanno ormai saldamente in mano una buona metà del business edilizio nel paese, più altri commerci altamente lucrativi.
Il ministro degli esteri pakistano Shah Mehmood Qureshi. (AFP) Tiratura 101’634 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
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Politica e Economia
Il mito del Piano Marshall
Storie di rinascita – 4. parte Nel secondo dopoguerra l’America decise di varare l’European Recovery Program,
segnando la storia del Vecchio continente con un’iniziativa d’aiuto alla ricostruzione
Federico Rampini Roma città aperta, Sciuscià, Ladri di biciclette: bisogna rivedere i grandi film del nostro neorealismo, per avere un’idea della povertà nel dopoguerra. Alla fine del conflitto il tenore di vita degli italiani precipita al livello più basso dal 1870. La dieta alimentare che fino al 1939 era stata in media di 2.500 calorie al giorno, cade a 1.800 calorie. Un maestro di scuola così «fortunato» da poter cumulare il suo stipendio e una pensione da invalido di guerra, arriva a guadagnare 350 lire al giorno: ma dodici uova costano 216 lire e si portano via i due terzi del suo reddito. L’indice dei prezzi al consumo si è moltiplicato cinquanta volte. E la condizione italiana non è anomala. In Baviera i treni che trasportano carbone arrivano a destinazione semivuoti: lungo il percorso vengono assaltati e saccheggiati da bande di disperati, per rubare di che riscaldarsi a casa. Delle squadre di medici americani fermano i cittadini tedeschi per strada per pesarli, talmente li vedono denutriti. A Berlino i medici chiedono alle autorità di occupazione di autorizzare gli aborti: le donne non sono in grado di portare a termine le gravidanze, tantomeno di allattare i neonati, nel loro stato di debolezza. Non è migliore la situazione nella potenza europea vincitrice, la Gran Bretagna. Per gli inglesi la situazione nell’immediato dopoguerra è peggiore che durante il conflitto. Durante l’inverno gelido del 1946-47 bisogna paracadutare in emergenza pacchi di cibo su villaggi isolati i cui abitanti rischiano di morire di fame. I razionamenti a Londra sono spietati: anche patate e cavoli si acquistano in quantità ridotte, con la tessera rilasciata dal governo. «È impossibile – dice il ministro degli Esteri Ernest Bevin nell’agosto del 1947 – pretendere che la gente lavori e produca senza mangiare, questa è la brutale verità». Sul magazine «The New Yorker» la giornalista americana Mollie Panter-Downes scrive: «Eccetto la mancanza di bombardamenti, per gli abitanti di Londra è come se la guerra non fosse finita. Di notte la città sembra sempre in attesa del nemico». L’elettricità manca continuamente, i blackout sono quotidiani, per mancanza di carbone. Dall’altra parte dell’Atlantico i bambini americani fanno collette nelle scuole per mandare ai loro coetanei europei i pacchi CARE: zucchero, farina, sapone. È su questa Europa – almeno sulla sua metà occidentale – che sta per arrivare la salvezza, come manna dal cielo: gli aiuti americani del Piano Marshall. La storia del Piano Marshall è talmente importante che continua ad apparire nel nostro linguaggio quotidiano tre quarti di secolo dopo. Ne parliamo anche se siamo nati dopo, perché fa parte di una memoria collettiva «ereditata». Di fronte a una grave crisi economica è normale sentir dire ancora oggi che «c’è bisogno di un Piano Marshall».
Un occhio particolare fu rivolto alla Germania, per evitare gli errori dei primo dopoguerra. (Keystone)
Nel 2020, quando gli Stati membri dell’Eurozona hanno trovato un accordo per lanciare il Recovery Fund e ricostruire le economie devastate da pandemia e lockdown, i paragoni con quel programma di aiuti sono stati frequenti. Eppure molti ignorano la vera storia del Piano Marshall – come nacque e perché; quanto fu grosso in termini monetari; quale fu il suo impatto finale. I fatti si perdono nella notte dei tempi, a quanto pare. «Piano Marshall» è diventato uno slogan, un’etichetta da riciclare continuamente. Eppure i dettagli di quella storia sono importanti, e ricchi di insegnamenti per noi. L’Europa non sarebbe come la conosciamo, senza il Piano Marshall. È difficile trovare nella storia altri esempi di un progetto di aiuti così ben amministrato e così efficace, forse con la sola eccezione della occupazione-ricostruzione del Giappone (ma con metodi molto diversi).
Pochi conoscono la reale portata di quell’impegno che fu meno ingente di quanto si pensi Eppure il totale dei finanziamenti che l’America versò all’Europa è meno immenso di quanto si creda. Nelle intenzioni originarie il Piano Marshall doveva costare al contribuente americano 17 miliardi di dollari di allora; alla fine ne furono spesi di meno, 13 miliardi in quattro anni dal 1948 al 1950. Aggiornati ai valori monetari di oggi, e alla dimensione che hanno raggiunto le nostre economie, ecco un’idea delle proporzioni reali. All’America quel programma di aiuti costa un decimo del suo
intero bilancio federale: non è poco ma non è neppure uno sforzo gigantesco. È modesto se lo si paragona alla spesa bellica sostenuta fino a tre anni prima: il Piano Marshall o European Recovery Program (questo il suo nome ufficiale, abbreviato in ERP) costa solo il 5% del riarmo americano nella seconda guerra mondiale. Le dimensioni degli aiuti sono limitate perfino in proporzione alla ricchezza dei paesi riceventi: quei capitali americani nel momento in cui vengono versati valgono il 2,5% del Pil annuo delle nazioni europee beneficiate. Per una nazione tra le più povere, l’Italia, forse il Piano Marshall arriva ad aggiungere in quattro anni l’11% del Pil. Ma per fare un paragone con l’attualità, il Recovery Fund approvato dall’Unione europea durante la pandemia del 2020 muoverebbe fondi pari al 20% del Pil. Eppure alla conclusione del Piano Marshall, in soli quattro anni la produzione industriale ha fatto un balzo del 64%. La rinascita dell’Europa è cominciata. Da lì hanno inizio i «miracoli» tedesco, francese e italiano della ricostruzione post-bellica. Un boom economico, certo, ma anche l’inizio di una rinascita psicologica e morale, per paesi marchiati dall’infamia dei nazifascismi (Germania e Italia) o da una umiliante débacle militare seguita dal collaborazionismo col nemico (Francia). Tante storie di successo che qualcuno oggi considera irripetibili. Com’è possibile aver ottenuto risultati così spettacolari con una spesa che non dissangua il contribuente americano, non sfascia gli equilibri di bilancio, non lascia in eredità montagne di debito pubblico da ripagare nelle generazioni successive? Un altro mistero da chiarire è quello della «popolarità a scoppio ritardato». In America l’importanza del Piano Marshall non viene capita subito dall’opinione pubblica e una parte della classe
politica lo osteggia. In Europa viene circondato di sospetti, soprattutto da parte di quelle forze di sinistra che fanno riferimento all’Unione sovietica. Nel clima della guerra fredda che sta iniziando proprio allora, è facile accusare gli americani di usare l’ERP per condizionare e manipolare gli europei, costringendoli a importare il «modello capitalista»: all’epoca questa diventa la linea di Josef Stalin, e convince tanti europei, non solo i comunisti. È solo col passare degli anni, o dei decenni, che attorno al Piano Marshall si è creata un’aureola radiosa. I suoi risultati benefici si sono visti meglio col passare del tempo. Anche confrontandoli con i risultati della ricetta alternativa, applicata dall’Unione sovietica nella metà d’Europa sotto il suo dominio. Ma non è solo sul piano economico che bisogna rileggere il trionfo del Piano Marshall. Il suo ideatore, del resto, non è un economista. George Marshall è un militare, poi diventato segretario di Stato del presidente democratico Harry Truman. Come capo di stato maggiore nella seconda guerra mondiale, Marshall si è coperto di gloria. Il suo prestigio è ai massimi, quando accetta un incarico civile nell’esecutivo, e spende tutta la sua credibilità per questa missione strategica: evitare che gli Stati Uniti ripetano gli errori dell’altro dopoguerra. Woodrow Wilson, il democratico progressista che aveva trascinato un’America riluttante a intervenire tardivamente nella prima guerra mondiale, al termine non era riuscito a convincere il suo paese a esercitare un ruolo globale. L’America non aveva impedito – nella pace di Versailles, 1919 – quelle clausole vessatorie contro la Germania che avrebbero alimentato il revanscismo e il nazismo. Fallita la gestione della vittoria, gli americani si erano ritirati nell’isolazionismo.
Marshall, assecondato da Truman, progetta un secondo dopoguerra diverso. Non vuole ripetere l’errore di umiliare la Germania, dissanguarla con richieste di risarcimenti eccessivi che finiranno per resuscitare il vittimismo e il nazionalismo. Poi è convinto che l’America debba aiutare l’Europa a unire le proprie forze, in un nuovo ordine pacifico che includa la Germania stessa. È il grande progetto che lancia in un discorso all’università di Harvard il 5 giugno 1947. Diventerà legge, approvata dal Congresso in tempi rapidi, all’inizio dell’anno seguente. L’ERP è solo in parte un figlio della guerra fredda. Certo, il premier inglese Winston Churchill ha già coniato l’espressione «cortina di ferro», per descrivere la progressiva separazione del Continente in due blocchi. Ma all’inizio gli americani offrono i loro aiuti finanziari a tutti. I governi di Polonia e Cecoslovacchia si dicono interessati a riceverli. È un diktat del leader sovietico Stalin che glielo impedisce. Poi la situazione a Est precipita, con il golpe comunista a Praga il messaggio di Stalin è chiaro: i paesi prima liberati e poi occupati dall’Armata rossa non sono sovrani, non hanno libertà nelle scelte di politica estera o nel sistema economico da adottare. In Europa occidentale, il successo di Marshall ha più spiegazioni. La velocità degli aiuti: 11 giorni dopo il voto del Congresso che approva l’ERP, già partono dai porti americani le prime navi cariche di grano dirette a Bordeaux, Genova e Rotterdam. Il controllo sulle spese: la gestione dei finanziamenti americani viene affidata a un’authority efficiente nell’impedire sprechi e corruzione. Infine la «condizionalità»: Marshall è chiaro sul fatto che l’America aiuta gli europei solo se questi si aiutano fra loro. Il meccanismo dei finanziamenti a fondo perduto prevede che siano versati in dollari per favorire la ripresa del commercio tra i paesi del Continente. Grazie alla pressione di Washington, l’ultimo anno del Piano Marshall coincide con l’annuncio di un altro progetto: il Piano Schuman crea la Comunità del Carbone e dell’Acciaio (Ceca): il primo embrione di quel che diventerà l’Unione europea. Letture
Greg Behrman, The Most Noble Adventure, Free Press. Elizabeth Borgwardt, A New Deal for the World, Harvard University Press. Luigi Einaudi, Scritti economici, storici e civili, I Meridiani Mondadori. Tony Judt, Postwar. Europa 1945-2005, Laterza. Ian Kershaw, All’inferno e ritorno, Laterza. Nicolaus Mills, Winning the Peace, John Wiley. Alan Milward, The Reconstruction of Western Europe, University of California Press. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Torna in discussione la soppressione dell’imposta preventiva Fiscalità Il messaggio del Consiglio federale ha ancora suscitato pareri divergenti. In particolare si vorrebbe
sopprimere l’imposta anche sui dividendi, mentre il governo vuole mantenere il principio della tassazione alla fonte
Ignazio Bonoli Dura ormai da parecchio tempo (e sembra perfino destinato a prolungarsi) il periodo in cui i depositi a risparmio presso istituti finanziari non rendono quasi più niente e anche la quota esente da imposta è stata aumentata. Il Consiglio federale sembra seriamente intenzionato proprio a riprendere il discorso sull’abolizione dell’imposta preventiva. Ormai entrata nella tradizione del sistema federale svizzero, questa imposta è prelevata alla fonte dagli stessi istituti finanziari nella misura del 35% dei redditi generati dai depositi. Dichiarando però questi redditi nella normale dichiarazione fiscale, questa imposta può essere recuperata. Essa si applica però anche sui dividendi, su vincite a lotterie e su alcuni tipi di assicurazione. Sono essenzialmente queste applicazioni che da tempo sollevano critiche, soprattutto per le persone giuridiche e per residenti all’estero. Per questo anche gli economisti che consigliano il governo chiedono da tempo la sua soppressione, considerandola un ostacolo al buon funzionamento della piazza finanziaria svizzera. Si constata infatti che, nonostante la buona reputazione internazionale della piazza finanziaria, molte emissioni di prestiti vengono
effettuate all’estero, anche da parte di grandi gruppi operanti in Svizzera. E questo appunto per evitare le complicazioni dell’imposta preventiva elvetica. Oltre a ciò, alcuni studiosi dell’economia hanno calcolato che il perdurare di questa imposta provoca la perdita di importanti posti di lavoro qualificati nei settori finanziari delle grandi imprese. I costi di questa situazione, compresi gli effetti indiretti, vengono stimati fra i 300 e i 600 milioni di franchi per l’economia svizzera. Per questo, fonti solitamente bene informate dicono che il Consiglio federale voglia ancora una volta avviare il discorso sulla soppressione dell’imposta preventiva. Finora però non si è ancora giunti a un progetto che possa ottenere una maggioranza in Parlamento e anche a livello popolare. La stessa fine sembra minacciare anche il messaggio che il Consiglio federale ha posto in consultazione la scorsa primavera, proprio durante il periodo della pandemia da Covid 19. Il Consiglio federale aveva proposto la soppressione dell’imposta sulla maggior parte dei redditi da interessi per le persone giuridiche e per gli investitori stranieri. Nel frattempo voleva però anche eliminare l’anomalia per cui i redditi realizzati all’estero da soggetti fiscali svizzeri non sono soggetti
La misura comporterebbe minori entrate nell’ordine dei 160/170 milioni. (Wikipedia)
al 35% di imposta preventiva. Questa imposta alla fonte sarebbe stata pagata dal debitore dell’imposta (generalmente una banca), sempre con la deduzione alla fonte. Il ramo finanziario dell’economia si è detto d’accordo sul principio della soppressione dell’imposta, ma contrario alla forma proposta. L’Associazione dei banchieri teme un aumento di costi per le banche di almeno 500 milioni di
franchi all’anno, nonché 50 milioni di spese amministrative. I costi potrebbero così essere superiori al previsto gettito della nuova imposta. Secondo gli studi allestiti dalla KPMG per la Confederazione, il permanere di un’imposta alla fonte sui redditi da interessi, nella odierna situazione di bassi tassi e trasparenza fiscale, non avrebbe senso. Lo stesso governo ha preso atto delle parziali
opposizioni al progetto e adottato il principio secondo cui, con l’eccezione di interessi su conti bancari svizzeri, in futuro non verranno più applicate imposte alla fonte su redditi da interessi. Rimane come finora la tassazione dei dividendi. Con la rinuncia all’imposta alla fonte si sopprimono, per la maggior parte degli interessi, le complicazioni per la definizione da parte del settore bancario. I critici temono ora un aumento dei casi esenti da imposta. Paradossalmente questi casi potrebbero essere combattuti con l’obbligo alle banche di annunciarli, il che equivale alla combattutissima soppressione del segreto bancario fiscale per la Svizzera. Solo nella prima metà del 2021 si saprà quale decisione avrà preso il Consiglio federale. Al livello attuale, la soppressione parziale dell’imposta preventiva potrebbe provocare per la Confederazione minori entrate per 160 / 170 milioni, probabilmente compensati da una ripresa degli affari favorita dalla riforma. Non si sa ancora se il Consiglio federale vorrà proporre anche una soppressione della tassa sulle transazioni in borsa di obbligazioni svizzere. Un passo che migliorerebbe il mercato dei capitali, con minori entrate per la Confederazione di circa 50 milioni di franchi all’anno. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 settembre 2020 • N. 40
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Che cosa sono diventati gli scenari di ieri ? Da qualche settimana sto preparando il mio ennesimo trasloco. Passerò da una casa che mi offriva ampi spazi per depositare documenti, libri e rapporti, a un appartamento con più o meno la metà della superficie abitabile di prima, il che mi obbliga a eliminare almeno la metà della carta accumulata in questi ultimi cinquant’anni. Ed è facendo questa selezione che ho ritrovato una serie di numeri della rivista «Territoires 2020», che la Datar (la famosa delegazione francese per la pianificazione del territorio e l’azione regionale) aveva pubblicato, all’inizio di questo secolo per animare il dibattito sul futuro dello sviluppo del territorio. Sfogliando questi numeri, la mia attenzione è stata attratta in particolare da un articolo di Guy Baudelle, allora professore di urbanistica all’università di Reims, nel quale venivano presentati 5 scenari per l’Europa del 2020. Mi sono detto che una verifica delle anticipazioni di Baudelle
e del suo gruppo di ricercatori, alla scadenza del periodo di previsione, poteva essere interessante anche per i lettori di «Azione». I cinque scenari in questione sono stati costruiti partendo da quelli che Baudelle e i suoi collaboratori definivano – vent’anni fa è bene sottolinearlo – i 4 sotto-sistemi principali in grado di influire sullo sviluppo dell’Unione europea. Si trattava in primo luogo della frontiera dell’Unione, ossia, andando per le spicce, del numero di membri che la stessa avrebbe avuto nel 2020. Il secondo sotto-sistema importante era il modo di governanza, vale a dire in quale direzione si sarebbe evoluto il grado di integrazione dell’Unione: verso una concentrazione delle competenze a Bruxelles oppure verso il federalismo? Il terzo sotto-sistema riguardava in particolare la politica di pianificazione territoriale e formulava varianti rispetto alla distribuzione delle competenze in materia di sviluppo territoriale. L’ultimo
sottosistema riguardava le differenze di sviluppo tra le diverse regioni europee. L’evoluzione dei primi due decenni del nuovo secolo avrebbe rafforzato le differenze e fatto nascere un’Europa a due velocità, oppure si sarebbe riusciti a conseguire un riequilibrio dei livelli di sviluppo regionali? Per ognuno di questi sottosistemi il gruppo di Baudelle aveva elaborato diversi scenari (dai 4 ai 6). Combinando infine questi scenari si erano ottenuti 9 scenari principali per il futuro territoriale dell’Unione europea. Di questi 4 furono scartati perché la loro realizzazione era poco probabile. Nei 5 scenari ritenuti, le questioni poste dallo sviluppo probabile dei 4 sotto-sistemi vennero interpretate nel modo che segue. Nel primo scenario denominato «la fortezza europea» il numero dei paesi membri restava fissato a 15. Per gli autori della ricerca questo scenario pur essendo possibile (nel 2002) non era certamente desiderabile. Negli altri 4
scenari il numero dei paesi membri era quello di oggi: 27. Nel secondo scenario, denominato «l’Europa frammentata» l’ampliamento del numero dei paesi membri avveniva in modo poco controllato il che, in definitiva, avrebbe contribuito a mantenere lo scarto tra centro e periferia. Il terzo scenario , quello dell’«Europa estrapolata» anticipava uno sviluppo in grandi assi metropolitani che portava avanti le tendenze manifestatesi nei tre ultimi decenni del ventesimo secolo. Per gli autori degli scenari si trattava di un’Europa non soddisfacente e insoddisfatta che avrebbe raccolto sempre meno consensi. Il quarto scenario era quello dell’«Europa delle cooperazioni non egualitarie» che avrebbe rafforzato livelli di governo extra-nazionali e indebolito gli Stati membri facendo aumentare nel contempo le differenze tra le regioni. Veniva infine l’«Europa policentrica» che, per il gruppo di Baudelle, sarebbe
stato lo scenario migliore perché promuoveva la convergenza economica e evitava una concentrazione del potere a livello europeo. A venti anni di distanza possiamo dire che lo sviluppo reale, nonostante le crisi, ha seguito, abbastanza da vicino, lo scenario tendenziale, ossia quello dell’Europa estrapolata. Si è realizzata anche l’anticipazione dei futurologhi della Datar, stando alla quale la continuazione delle tendenze avrebbe fatto aumentare il numero degli insoddisfatti in Europa. L’eterno contrasto tra il desiderabile e il fattibile si è quindi manifestato anche nel caso di questi scenari. Ai lettori interesserà, da ultimo, apprendere che il primo degli scenari scartati da Baudelle e dai suoi si chiamava l’«Europa persa» e anticipava la decomposizione dell’Unione per il ritiro di paesi membri e il ritorno in forza degli Stati nazionali. Ricordiamo che fu scartato perché, secondo i ricercatori, aveva poche probabilità di realizzarsi.
stra troverà candidati civici, in cui anche cattolici e moderati si riconoscano, potrà vincere anche in Toscana o nelle grandi città. Questo voto ha confermato che gli italiani amano scegliere una persona, più che un partito. La lista Zaia ha il triplo di voti della Lega; in Liguria la prima forza è quella di Toti, che nel resto del Paese non esiste. Sarebbe una buona ragione in più per tornare ai collegi uninominali. C’è una legge elettorale che ha funzionato, e porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica. Basterebbe un provvedimento di una riga per ripristinare il Mattarellum. Invece i partiti preparano il ritorno al proporzionale. In particolare quelli della maggioranza, Pd e Cinque Stelle, che preferiscono allearsi dopo il voto; se lo facessero prima, entrambi perderebbero elettori. La vittoria del Sì al referendum sulla riduzione dei parlamentari (da 945 a 600) era inevitabile, forse anche giusto. Deputati e senatori sono troppi. Ma il problema resterà fino a quando saranno nominati dai capipartito, anziché eletti
dai cittadini. È vero che in Francia e nel Regno Unito la Camera bassa (l’unica che conta) ha più o meno i seggi che resteranno in Italia: 575 l’Assemblea Nazionale a Parigi, 650 la Camera dei Comuni a Londra. Ma tutti i deputati hanno vinto un collegio uninominale. Rappresentano una comunità di circa centomila elettori, che conoscono il loro eletto, possono controllarlo, riconfermarlo, oppure mandarlo a casa. Alla fine, la spallata al governo non è riuscita. Il centrodestra è – secondo la mia sensazione – maggioritario nel Paese, ma politicamente resta debole. Il punto è che il centrodestra si è presentato alle ultime elezioni politiche (marzo 2018) unito, ma subito dopo si è diviso in tre. La Lega ha fatto un governo con i 5 Stelle; Fratelli d’Italia è rimasta fuori ma ha seguito l’esperimento populista con un’attenzione talora ai confini della simpatia; Forza Italia è andata decisamente all’opposizione. Del resto è impossibile essere alleati nello stesso tempo con la Merkel e con Marine Le Pen, dialogare con l’Euro-
pa e perseguire il sogno sovranista. La Lega alle Europee 2019 ha colto un successo clamoroso. Poi la pandemia ha sconvolto il quadro. L’immigrazione, su cui Salvini aveva impostato la sua propaganda digitale e il suo dialogo con gli italiani, è apparso un problema meno importante. La polemica contro l’Europa ha perso mordente dopo l’accordo su Mes e Recovery Fund. La Lega ha dato l’impressione di perdere il bandolo. La gestione della Regione Lombardia non è stata all’altezza dell’emergenza. Salvini ha tentato di cavalcare la rivolta contro la mascherina (poi per fortuna si è fermato). Ora, alle regionali, un sentimento misto tra il sollievo per il passato e la paura per l’avvenire ha indotto gli elettori a riconfermare gli uscenti (con l’eccezione delle Marche). Tuttavia questo non va confuso con una vittoria della maggioranza Pd-5 Stelle, che è ancora tutta da costruire (la vittoria ma, verrebbe da dire, pure l’alleanza). Il vero banco di prova del governo sarà la gestione degli aiuti europei.
Ma ecco il rovescio della medaglia, il lato meno luminoso: il confinamento che si trasforma in crescente solitudine, la distanza che scava fossati tra le persone. Il lavoro a domicilio o agile («smart») può anche funzionare sul breve periodo, o in caso di emergenza, ma se esercitato in modo continuativo diventa una gabbia, un luogo dell’asocialità in cui il dialogo avviene solo attraverso la mediazione di uno schermo. Non tutti riescono a reggere questo distacco dall’universo lavorativo con i suoi riti e la sua rete relazionale, anche se alcune categorie già operano in questa modalità. Si pensi inoltre a quell’agenzia di socializzazione per eccellenza che è la scuola, ai rapporti che si instaurano tra gli alunni e tra gli alunni e il docente: un sistema di relazioni complesso, che nelle sue implicazioni psico-sociali va ben oltre l’insegnamento, gli esercizi, le verifiche, il voto. La tecnologia ha certamente rappresentato un’ancora di salvezza nelle fasi critiche dell’epide-
mia, ma pensare di elevare la didattica a distanza (DAD) a metodo universale è impensabile: potrà dare anche risultati utili sul piano dell’apprendimento, ma non sul lato emotivo degli allievi, che proprio negli anni delicati dell’infanzia e dell’adolescenza sperimentano la bellezza dell’incontro con l’altro, i primi sussulti sentimentali, stringendo spesso con i compagni di classe amicizie destinate a durare tutta la vita. Per chi abita nelle valli dell’alto Ticino, o nei villaggi discosti, la DAD si tradurrebbe in un doppio isolamento. L’era digitale in cui siamo entrati negli ultimi anni è carica di promesse. Assicura, come un tempo le ideologie salvifiche, una sorta di paradiso in terra, in cui il lavoro non sarà più sinonimo di calvario, ma un’attività flessibile, decentrata, quasi ludica. Quante volte la pubblicità ha proposto casalinghe sorridenti impegnate al computer con in braccio il pargolo… La realtà, come si è visto, è ben diversa, e proprio le donne hanno dovuto in questi mesi
sobbarcarsi il doppio fardello di madre e lavoratrice tra le pareti domestiche, senza pause ed orari. Ancora una volta si è potuto toccare con mano l’ambivalenza della tecno-scienza: un cammino che non è mai unidirezionale e che non produce solo dipendenti felici in un clima di eterna vacanza. Al netto della retorica, sempre abbondante in questi casi, bisognerà monitorare attentamente l’impatto che le nuove tecnologie avranno sulle diverse fasce della popolazione, colte nella loro quotidianità: i giovani, gli impiegati statali e parastatali, gli indipendenti, gli anziani (segregati due volte: dai malanni della vecchiaia e dai lunghi mesi d’incolpevole reclusione). Sempre più il digitale ci sta trascinando in una sorta di «Wunderkammer», una stanza delle meraviglie in cui però domina la spersonalizzazione dei rapporti; sempre più (Aristotele ci perdoni) ci sta insomma trasformando in «animali asociali», monadi al servizio di poteri lontani, freddi e invisibili.
In&outlet di Aldo Cazzullo La spallata non è riuscita Ricorderò per sempre la notte dell’8 novembre di quattro anni fa. Nessuno pensava che Donald Trump potesse vincere. Neppure Donald Trump. E lo stesso era accaduto per la Brexit. E per l’exploit dei Cinque Stelle, sia alle politiche del 2013 sia a quelle del 2018. Da tempo ormai le elezioni si decidono negli ultimi giorni, se non nelle ultime ore; quando si crea una tendenza che i sondaggi non colgono, o addirittura fraintendono. Ad esempio, le ultime rilevazioni in Emilia-Romagna (regionali 2019) e in Toscana (scorso week-end) davano in testa la Lega, che invece ha perso nettamente. Questo succede perché da tempo – in tutto il mondo – il voto è fluido, le appartenenze si sono sgretolate, crescono gli indecisi e l’influenza dei social. Questa volta in Italia il voto ha stabilizzato. Sia quello delle regionali, sia quello sul taglio dei parlamentari. Gli elettori sono spaventati. Un po’ tutti noi europei abbiamo superato la prova più dura della nostra vita, e percepiamo che purtroppo non è finita qui. Un presiden-
te di Regione che sbaglia una mossa può provocare guai e lutti. Pugliesi e campani hanno riconfermato ampiamente due governatori di sinistra – ma apprezzati soprattutto a destra; veneti e liguri hanno fatto lo stesso. In Toscana non c’era un uscente da riconfermare; ma c’era un sistema che, per quanto un po’ arrugginito, ha tenuto. Anche per questo lo sbiadito candidato Eugenio Giani ha prevalso sull’arrembante leghista Susanna Ceccardi, sconfitta anche nella sua cittadina in provincia di Pisa, Cascina (si pronuncia con l’accento sulla prima a). Non parlerei di sconfitta della destra italiana. E aspetterei a dare Matteo Salvini per finito. Certo, il leader leghista dovrebbe aver capito che dove il suo partito è più debole – nelle Regioni un tempo rosse, ma anche nelle grandi città – non può sperare di vincere con candidature dal profilo ideologico così marcato. Mentre Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno dovuto prendere atto che l’appeal di personaggi del passato, eredi di antichi leader non è irresistibile. Quando la de-
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti L’avvento dell’animale asociale Tra qualche anno, c’è da scommetterci, le facoltà di lettere delle università proporranno seminari sulla «letteratura della pandemia»: diari, testimonianze, riflessioni, scenari, previsioni. Il virus ha provocato disastri e lutti, ma non ha fiaccato la vena creativa di romanzieri e saggisti; anzi, li ha perfino spronati, permettendo loro di raccogliere le idee in tutta tranquillità, al riparo da tentazioni e distrazioni. Vedremo se da tali atmosfere cenobitiche uscirà in futuro qualche capolavoro, destinato a rimanere nelle antologie. Nel frattempo la pandemia ha modificato il nostro paesaggio visivo e le nostre abitudini. La dotazione abituale di ognuno (chiavi, telefonino, occhiali) si è arricchita di un accessorio che si riteneva patrimonio esclusivo dei popoli asiatici: la mascherina. Ora accompagna la nostra vita come una seconda pelle in varie fogge. Mascherine chirurgiche perlopiù, appese all’orecchio, arrotolate al gomito, abbassate a gorgiera… «sempre sull’uomo» (e sulla donna).
Ma nel catalogo delle raccomandazioni antivirus figurano anche altri due provvedimenti fondamentali: il distanziamento e l’igiene personale. Misure probabilmente meno sgradite della fastidiosa e sudatissima mascherina; anzi, agli occhi di molti, persino benvenute. Tenere le distanze in un microcosmo parentale e lavorativo ch’era andato concedendosi eccessive vicinanze e confidenze può non dispiacere, soprattutto quando c’è di mezzo uno squilibrio gerarchico. Anche le raccomandazioni igieniche sono da considerare salutari. Finalmente – questo perlomeno l’augurio – avremo cucine di ristoranti e pizzerie più linde, gabinetti pubblici meno lerci, mani lavate accuratamente con acqua e sapone, come prescrivevano i vecchi trattati di economia domestica: «l’acqua, come l’aria e la luce, è uno degli agenti indispensabili di salute, di nettezza, quasi di dignità morale...», osservava Erminia Macerati nel suo Casa nostra (Istituto Editoriale Ticinese, 1931).
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Cultura e Spettacoli Stefan George e il Ticino Anche il poeta Stefan George, pur sognando una «nuova Germania» visse in Ticino: continua il nostro viaggio alla scoperta dei grandi personaggi che scesero a Sud
Il trionfo di Godunov All’Opernhaus di Zurigo uno spettacolo entusiasmante nel rispetto delle norme in vigore
Genio e sregolatezza Cellini fu indubbiamente un genio, ma si distinse anche per i suoi comportamenti negativi
Uteri in affitto La fabbrica, romanzo distopico di Joanne Ramos, mette sotto la lente le maternità surrogate
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Wagner e la Svizzera
Personaggi Nell’opera del compositore
tedesco la Svizzera è più presente per gli aspetti naturalistici che non per quelli culturali
Carlo Piccardi Nella storia degli ultimi due secoli la Svizzera fu rifugio a più riprese di personalità e artisti perseguitati. Se la scena musicale svizzera fa parte dell’internazionalità è sicuramente dovuto anche agli apporti venuti dall’attività in loco di tali personaggi. Per molti (Max Ettinger, Wladimir Vogel, Will Eisenmann, Sándor Veress e altri) il nostro paese fu la destinazione ultima. Per altri fu un passaggio per altre destinazioni, oppure una parentesi in attesa del ritorno in patria. Cos’abbia rappresentato questa circostanza è quasi inutile dirlo. Il musicologo Antoine-Élisée Cherbuliez, interrogandosi nel 1932 (in Die Schweiz in der deutschen Musikgeschichte) sul problema generale dell’interscambio musicale tra la Svizzera e i paesi vicini, stilò una specie di bilancio commerciale che dava come risultato 75 nomi di musicisti esportati contro 200 importati. Probabilmente la dipendenza svizzera dall’estero in campo musicale è superiore a quella verificabile in altre discipline. Limitiamoci tuttavia ai rifugiati, a coloro che in seguito rientrarono nella loro patria, per stabilire non solo ciò che essi diedero al nostro paese ma anche ciò che ne ricavarono e in seguito trasferirono altrove. È un aspetto poco considerato, anche perché non si tratta di risultati vistosi, bensì di aspetti da cogliere tra le righe di un discorso globale. Il caso più tipico è quello rappresentato da Richard Wagner che soggiornò stabilmente a Zurigo tra il 1849 e il 1858. Le date dicono tutto. Nei precedenti anni di Dresda, dove la sua fama si era affermata con Il vascello fantasma, egli si era orientato verso ideali libertari. Giunto il ’48 che lo vide pronunciare un discorso sospetto dal titolo «Come conciliare le tendenze repubblicane con la libertà», ciò fu sufficiente a procurargli un mandato d’ar-
resto, benché non avesse partecipato direttamente alla sollevazione armata. Cosa guadagnò Zurigo dal musicista in fuga lo sappiamo. Egli diresse a più riprese numerose rappresentazioni all’Opernhaus, fu presente nei circoli letterari borghesi dove declamava i versi dell’Anello dei Nibelunghi che andava componendo, così come le pagine di Opera e dramma, cioè la sua teoria del Gesamtkunstwerk allora ancora lontana dal realizzarsi. Si legò a famiglie importanti quali i Wesendonck, animando la vita cittadina con altri intellettuali fuorusciti. Cosa gli diede Zurigo? Apparentemente poco, anche se un suo scritto del 1851 (Ein Theater in Zürich) sulla base della conoscenza dell’intensa attività corale locale e degli esiti epici del modello di teatro patriottico (il Festspiel) propugnava la soppressione del teatro tradizionale, residuo della concezione cortigiana che non ha più senso nella logica dell’assetto repubblicano dello stato. In quel teatro di massa era quindi colta la premessa della sua opera d’arte totale. A dire il vero la Svizzera è presente nell’opera di Wagner più come natura che come cultura. Lo rivelano le pagine della sua autobiografia che ci descrivono le lunghe camminate nella Svizzera centrale e addirittura la pratica dello sci, come mezzo di vagabondaggio nell’affascinante paesaggio vergine. Lo attirava in particolare la montagna scoscesa, per cui con grande coraggio affrontò escursioni in alta quota, sui ghiacciai, ecc., attraversando nei due sensi le Alpi. Gustose sono le sue descrizioni dell’arrosto di marmotta in Val Formazza e del suo passaggio a Lugano, «dove, secondo i miei progetti di viaggio, dovevo fermarmi alquanto. Qui soffrii un caldo intollerabile; nemmeno i bagni nel lago, che pareva in fiamme, non portavano alcun giovamento. In un maestoso edificio, che d’inverno ospitava il governo del Can-
Richard Wagner insieme alla moglie Cosima e al figlio Siegfried. (Keystone)
ton Ticino, ma d’estate serviva d’albergo, fui splendidamente alloggiato, astrazion fatta dal suo lurido mobilio, tra cui figurava pure il famoso “pensatoio” delle Nuvole di Aristofane». Il paesaggio alpino, che già intravvedeva da lontano a Zurigo, gli si rivelò dunque nella sua fisica dimensione e nel suo mistero, di rapporti che modificavano la normale percezione della realtà. Non è fuori luogo quindi riportare a questa esperienza non tanto la concezione stessa della Tetralogia, nella sua grandiosità, quanto la dilatazione temporale dello sviluppo drammatico e sicuramente le atmo-
sfere programmaticamente derivate dallo sconvolgente preludio de L’oro del Reno, non a caso iniziato a Zurigo. Il mi bemolle tenuto in pianissimo vi attraversa infatti lo spazio acustico come la linea dell’orizzonte che si apre davanti all’occhio d’aquila che plana sulle cime dei monti, sul quale si staglia la figurazione basata sulle note fondamentali dell’accordo in cui si alternano otto corni. Nella sua autobiografia Wagner non fa cenno al corno delle alpi, che tuttavia deve aver incontrato nelle sue peregrinazioni. Non è possibile tuttavia non ammetterne l’allusione davan-
ti a una soluzione musicale tutta protesa a tracciare i termini di uno spazio sconfinato sboccante sul canto di Woglinde («Weia! Waga!») che marca l’inizio dell’azione mitica che, nell’apparente slancio vocale da jodel, blocca ancora estatico l’orecchio nell’evocazione del paesaggio alpino. Il Reno, nervatura del grande affresco, è inteso da Wagner come referente di brumose saghe nordiche, si sa; ma sappiamo anche che nasce sulle nostre Alpi, in una natura meno mitica e meno contaminata da ideologiche interpretazioni. Di ciò, n el fluente discorso wagneriano, rimase certamente più di un barlume.
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Cultura e Spettacoli
Stefan George, il santo laico
Personaggi Esilio ticinese: ovvero, come l’anelito verso una «nuova Germania» condusse il grande poeta
Stefan George a finire i suoi giorni proprio in Svizzera
Benedicta Froelich Per quanto da sempre identificato con le emozioni più nobili e alte, a volte perfino il mondo della poesia sa essere, paradossalmente, piuttosto «borghese». Anche tra i letterati valgono infatti le medesime regole che affliggono altri, più prosaici ambiti – tra cui la necessità di conformarsi a tacite convenzioni: su tutte, la semplicità e accessibilità dell’opera. E qualora il desiderio d’indipendenza personale vinca su tale direttiva, il ribelle di turno è destinato a vedersi surclassare, nella memoria collettiva, da colleghi più «innocui» o facilmente classificabili.
Per George la parola non era un mero strumento al servizio della realtà, ma una creazione a sé stante Questo spiegherebbe perché, oggi, un autore-simbolo della poesia di lingua tedesca come Stefan George (classe 1868, originario di Büdesheim) venga raramente menzionato al di fuori dell’ambito strettamente letterario o intellettuale; e forse il suo rapporto da sempre controverso con la madrepatria potrebbe costituire ulteriore motivazione per tale dimenticanza. Di fatto, l’eccentrico Stefan, proveniente da una famiglia borghese senza grilli per la testa, non riuscì mai a concepire l’idea di un’esistenza ristretta al solo territorio germanico; e fin da ragazzo, seppe sviluppare una concezione quasi religiosa della parola scritta, intesa come espressione metaforica dell’essere, e quindi disgiunta da qualsiasi implicazione sociale o psicologica. Ciò lo avrebbe condotto, non appena terminati gli studi, a vagabondare attraverso l’Europa, frequentando personaggi quali Stéphane Mallarmé e Hugo von Hofmannsthal, e curando con successo più di una rivista letteraria, fino alla nascita dei suoi rivoluzionari lavori poetici (l’opera prima, Hymnen,
Da destra: Stefan George insieme ai fratelli Berthold e Claus von Stauffenberg. (Keystone)
risale al 1890). Non solo: imparati da autodidatta sia l’inglese e il norvegese sia l’italiano, George, già esperto francofono, avrebbe affiancato all’attività poetica anche quella di traduttore, firmando le versioni in lingua tedesca di Baudelaire, Ibsen, Rimbaud, D’Annunzio e perfino Shakespeare e Dante. Ma il fascino ammaliante di Stefan George si deve anche alla sua personalità, affine a quella di un «santo laico» e, allo stesso tempo, di un greco dei tempi di Eschilo, interamente votato alla poesia. Lungi dal rispondere allo stereotipo del timido intellettuale d’epoca romantica, era infatti dotato di un carattere carismatico e accentratore, tanto da riunire intorno a sé una cerchia di devoti discepoli (denominata George-Kreis), composta da intellettuali di vaglia che guarda-
vano a lui come a un vero e proprio Maestro. Una sorta di «setta» dalle tensioni mistiche, in cui la dedizione verso una visione idealizzata e intellettualizzata della Germania (Geheimes Deutschland) era il fine ultimo, e dove la parola non costituiva più mero strumento al servizio della realtà, ma diveniva piuttosto creazione a sé stante, evocazione ed espressione elementale della vita stessa dell’anima; qui si praticava anche il cosiddetto Maximin-Erlebnis – «il culto di Maximin», poeta sedicenne morto precocemente e a tal punto idealizzato dal Maestro da farne una sorta di «santo patrono» per i fedelissimi del GeorgeKreis. Nel frattempo, grazie a opere quali Der siebente Ring (1907), Stefan era divenuto un punto di riferimento per molti intellettuali europei – non-
ché, ahimé, per i membri del partito estremista NSDAP, prima incarnazione del Nazionalsocialismo, i quali si sarebbero appropriati delle tematiche «eroiche» della sua poetica. Davvero ironico, se si pensa che l’ultimo lavoro di George, dall’ingannevole titolo di Das neue Reich, citava con affetto la figura dell’amato seguace Berthold von Stauffenberg – il quale, insieme al più noto fratello Claus, avrebbe poi pianificato il celebre attentato al Führer noto come «Operazione Valchiria» (1944); in effetti, molti tra i cospiratori di allora avevano fatto parte del George-Kreis, da essi stessi considerato principale ispirazione per il loro gesto di opposizione al Nazismo. Del resto, quella di Stefan è stata una vita da vero anticonformista, intento a sfidare le convenzioni in modo
discreto, quasi silenzioso, senza mai attirare l’attenzione su di sé e con una riservatezza al limite dell’anonimato – tratti che hanno contraddistinto un’esistenza perlopiù nomade, in cui il celibato giocava un ruolo essenziale. George non ebbe mai una casa propria, preferendo affidarsi all’ospitalità degli amici e spostarsi da un’abitazione all’altra, da un Paese all’altro – e forse, in fondo, da una dimensione esistenziale all’altra; anche per questo, non stupisce che nel ’33, alla presa del potere da parte del regime nazista, egli abbia immediatamente voltato le spalle alla patria e alla fama e al rispetto che laggiù si era guadagnato, per fare rotta verso la Svizzera. Dall’alto del suo status di vate nazionale, il poeta si era infatti visto offrire (per volontà nientemeno che del famigerato Joseph Goebbels) la presidenza della nuova Accademia delle Arti; e una simile, immediata e sprezzante reazione rappresentò il supremo trionfo dell’orgogliosa indipendenza morale e intellettuale di George – il quale non si guardò più indietro, decidendo di rimanere a Minusio (dove si era ritirato, dietro consiglio del suo medico, già nel 1931, affittando la casa nota con il nome di «Molino dell’Orso»). E fu proprio qui che l’illustre esule spirò, piuttosto improvvisamente, il 4 dicembre 1933. Nonostante la sua permanenza nel nostro Cantone sia stata relativamente breve, Stefan George avrebbe tuttavia lasciato al Ticino imperitura memoria di sé, essendo infine stato sepolto proprio in territorio locarnese: ancora oggi, la sua tomba è visitabile presso il cimitero di Minusio. Ma per tutti coloro che condividono l’opinione del grande Gottfried Benn (secondo il quale «George fu il più grandioso fenomeno d’incrocio e irradiazione che la storia intellettuale tedesca abbia mai visto»), il fiero e attempato poeta delle solenni foto d’epoca rimane tuttora il solo a essere stato in grado di unire davvero l’antico «destino tedesco» alla presa di coscienza della grande rivoluzione occidentale novecentesca. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 settembre 2020 • N. 40
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Cultura e Spettacoli
Un Boris Godunov eccezionale in tutti i sensi Opera In scena a Zurigo fino al 20 ottobre nel rispetto di tutte le norme di distanziamento
Marinella Polli Proporre in tempo di pandemia un Boris Godunov, ossia un’opera di forte impatto teatrale, sia musicalmente che scenicamente, per giunta un’opera che esige una grande orchestra e dove l’onnipresente coro è personaggio, denota coraggio. L’Opernhaus questo coraggio ce l’ha e apre la nuova stagione con l’opera di Mussorgsky (libretto del compositore da Puskin). Lo fa, adottando misure eccezionali, concernenti sia il pubblico sia orchestra e coro. Il primo occupa 900 dei 1150 posti disponibili, deve portare la mascherina e rinunciare all’aperitivo nelle pause. Parola d’ordine: contact tracing, e alla cassa vengono richiesti i dati personali. Orchestra e coro si trovano «fuori le mura», ossia nelle sale prove della vicina Kreuzplatz, ma il pubblico li ascolta live via cavo in fibra ottica. I musicisti, separati l’uno dall’altro dal plexiglas, si producono sotto la guida di Kirill Karabits. Monitor, altoparlanti e microfoni sono disseminati un po’ dappertutto. Una soluzione inedita e, circa il suono dell’orchestra, l’interazione con il coro e con i cantanti in palcoscenico, dà risultati al di là di ogni previsione. Meglio che a Verona o a Bregenz. Ciò, grazie ai tecnici del suono e, soprattutto, ad un’intensa Philarmonia Zürich diretta dal Maestro Karabits che dà una lettura lucida e accurata della for-
Johannes Martin Kränzle nei panni del Gesuita. (Monika Rittershaus)
midabile partitura. Si è optato per la prima versione del 1869, con l’aggiunta dell’atto polacco, e della scena di Kromy. Buona e incisiva anche la sonorità del coro (Chor der Oper Zürich, Chorzuzüger, SoprAlti der Oper Zürich) preparato da Ernst Raffelsberger. Notevole l’apporto del regista tedesco-australiano Barrie Kosky: bandite le numerose scene di massa, Kosky opta per un’impostazione surrealistica,
alla Borges, ma ad un tempo essenziale e molto efficace. Dappertutto libri che raccontano fatti, storie e la storia; libri che, aprendosi e richiudendosi, parlano davvero. Al pubblico e a uno studente, il quale, insieme a loro, fa quasi da coro, da voce interiore del popolo russo e di tutti i popoli, diventando poi il Folle in Cristo, una sorta di folle scespiriano che vede molto al di là delle cose e del tempo.
La scenografia di Rufus Didwiszus (costumi: Klaus Bruns) asseconda Kosky: una biblioteca labirintica, tutti gli elementi scenografici in oro per l’atto polacco, sui toni del grigio per gli altri, una gigantesca campana che fungerà poi da tomba, dello Zar, dei libri, e di tutte le storie vere o false. Davvero grandioso Michael Volle, al suo debutto come Boris Godunov. Un baritono, più che un basso-bari-
tono, e certo non un basso. Di forte carisma sin dalla sua entrata in scena, Volle ha una voce splendida; volume e timbro si adattano in modo naturale all’evoluzione del personaggio: possente, monumentale, demoniaco, tiranno, poi tenero, sensibile, fragile, tormentato, delirante. In preda a incubi, ossessioni e allucinazioni, cadrà abbattuto dal peso della colpa e battuto da sé stesso. Volle dimostra qui la sua capacità di immedesimazione, è Boris Godunov, semplicemente. Insuperabile per mimica e mobilità anche Spencer Lang, onnipresente nel ruolo di studente e poi del folle; alla fine dell’opera, anche vocalmente. Un’altra interpretazione di spessore drammatico è quella di Oksana Volkova, la principessa Marina Mnišek: credibile in ciascuna delle molte sfaccettature del suo ruolo. Grande anche Johannes Martin Kränzle nei panni del gesuita Rangoni, ottimo il piccolo Cajetan Dessloch nel ruolo di Fjodor, il figlio di Boris, e bravi anche Edgaras Montvidas come falso Dimitri, Brindley Sherratt nel ruolo del monaco Pimen e il resto del cast. Applausi generosi per tutti, in particolare per Volle. Dove e quando
Boris Godunov, Zurigo, Opernhaus. Prossime date: 9, 16, 20 ottobre 2020. www.opernhaus.ch Annuncio pubblicitario
Dialoghi sovrapposti
Mostre L’opera calcografica di Donatello
Laurenti alla Biblioteca Salita dei Frati Fra le strutture che hanno riaperto i battenti raccogliendo la sfida di una rinnovata programmazione e riprendendo dunque la propria attività espositiva, vi è anche quella suggestiva della Biblioteca Salita dei Frati, situata nel cuore della città di Lugano. Protagonista di una mostra inaugurata lo scorso cinque settembre è il giovane (classe 1983) artista originario di Locarno Donatello Laurenti, che per l’occasione ha deciso di esprimersi grazie al supporto della tecnica della calcografia. Non nuovo all’esperienza espositiva (ha all’attivo anche mostre collettive di pittura e di fotografia in Ticino e a Zurigo), Laurenti ha in questo ambito deciso di intraprendere un percorso di sperimentazione dove in qualche modo «der Weg ist das Ziel» (il viaggio è la destinazione). La sua opera calcografica, cui si dedica dal
2016, anno in cui aderì al gruppo di incisori «Uovo del gallo», è infatti pervasa e attraversata da un fil rouge che potremmo definire di infinità. Si riconoscono in questi lavori i numerosi cambiamenti di rotta avvenuti durante la loro realizzazione, i ripensamenti e le correzioni di quello che si rivela un universo estetico tuttora in fieri. E proprio la mancanza di finitezza, di un progetto dettagliato, unita alle sovrapposizioni, alle macchie e agli intrecci, ci restituiscono un senso di sincerità, di capacità di mettersi a nudo davanti allo spettatore. Quello di Laurenti (diploma in pittura all’Accademia di Belle Arti di Como e formazione come restauratore) si trasforma a questo punto anche in un dialogo continuo con sé stesso, con le proprie indecisioni e le proprie scelte. Laurenti non si nasconde quando sbaglia, quando commette un errore tecnico, ma lo espone quasi a testimonianza del raggiungimento di una nuova tappa del percorso e del discorso intrapreso, con sé stesso e con il mondo. Il viavai dialogico, vivace e dai tratti inattesi, è particolarmente presente nella cartella Frantumazioni, realizzata nell’atelier calcografico di Gianstefano Galli a Novazzano nel 2018, dove tre incisioni di Laurenti si accompagnano in modo sapiente a cinque poesie di Ugo Petrini. Dove e quando
Laurenti, Ipergea Carsica, 2019
Incisioni di Donatello Laurenti, Biblioteca Salita dei Frati (Salita dei Frati 4A), Lugano. Orari: me-gio-ve 14.00-18.00; sabato 9.00-12.00. Fino al 10 ottobre 2020. www.aaa-ticino.ch
Per il Dipartimento Vendita, presso gli uffici amministrativi della Centrale di S. Antonino, cerchiamo una o un
Responsabile settore gastronomia (posizione di Quadro) Data d’inizio Da concordare Mansioni – Coinvolgimento nella realizzazione delle strategie della ristorazione – Controllo e sviluppo dei processi di trasformazione, produzione merce e vendita – Responsabilità di progetti legati alla ristorazione – Gestione e negoziazione con fornitori – Supervisione del laboratorio di produzione pasticceria (gestione personale e budget) – Partecipazione a riunioni di allineamento / coordinazione interna (anche oltre Gottardo) Requisiti – Diploma SSS di Scuola Superiore Alberghiera o Maestria Federale nella Ristorazione o titolo superiore attinente – Ottima conoscenza della lingua tedesca (parlata e scritta) – Esperienza di almeno 5 anni maturata in posizioni manageriali nella ristorazione collettiva (mense – ospedali – università) – Facilità nell’uso dei principali sistemi e applicativi informatici – Esperienza nell’ambito del Marketing Management e la conoscenza della lingua francese costituiranno requisiti preferenziali Competenze personali – Spiccate capacità organizzative, dinamismo e spirito d’iniziativa – Attitudine al lavoro in team e buone doti comunicative Offriamo – Prestazioni sociali all’avanguardia – Ambiente di lavoro aperto e dinamico Saranno prese in considerazione solo le candidature con i requisiti corrispondenti al profilo indicato e complete dei documenti richiesti. Le persone interessate sono invitate a compilare la loro candidatura in forma elettronica, collegandosi al sito www.migrosticino.ch (sezione «Lavora con noi»), includendo la scansione dei certificati d’uso.
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Contorno Per 4 persone 300 g 150 g 2 cucchiai 200 g 100 g ½ cucchiai
di funghi misti di cavolo rosso d’olio d’oliva pepe di crème fraîche di ribes d’aneto
Pasta di farina 1 cucchiaino di sale 20 g di lievito fresco 2 dl d’acqua tiepida 1 cucchiaio d’olio d’oliva farina per spianare la pasta 320 g
1 h 47 min
Preparazione Per la pasta, mescolate il sale con la farina. Sciogliete il lievito nell’acqua e unitelo alla farina assieme all’olio. Lavorate l’impasto fino a renderlo liscio e omogeneo, quindi copritelo e lasciatelo lievitare in un luogo caldo per ca. 1 ora, finché il volume sarà raddoppiato.
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Scaldate il forno ventilato a 240 °C. Tagliate i funghi a fettine e il cavolo a striscioline. Unite i funghi al cavolo e condite il tutto con olio e un pizzico di sale e pepe. Dimezzate la pasta e spianate le due metà sul piano di lavoro leggermente infarinato, in sfoglie spesse ca. 3 mm. Accomodate su due teglie rivestite di carta da forno. Spalmate la crème fraîche sulle basi di pasta. Distribuitevi sopra la miscela di funghi e cavolo rosso. Cuocete le tarte flambée nel forno per 15-17 minuti finché diventano croccanti. Togliete dal forno, guarnite con i ribes e l’aneto e servite subito. Tutti i funghi freschi per es. champignon marroni, Svizzera, vaschetta da 250 g
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Idee e acquisti per la settimana
Un gelato particolare La prima bevanda a base di fave di cacao era una sorta di beverone aspro, che gli aztechi chiamavano «Xocolatl» (acqua amara). Con il Crème d’Or Xocolatl l’azienda Midor della Migros vuole rendere omaggio a questa nobile bevanda, lanciando una nuova varietà di gelato in edizione limitata: un gelato al cioccolato e panna con finissime schegge di cioccolato fondente artigianale, affinato con cannella e un tocco di chiodi di garofano. Il cioccolato viene prodotto secondo una ricetta tradizionale e aggiunto al gelato ancora liquido.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 settembre 2020 • N. 40
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Cultura e Spettacoli
Controverso Cellini Trattati/7 Benvenuto Cellini fu orafo, scultore e scrittore
Affrontare le sfide partendo dall’arte
Pubblicazioni L’Accademia Teatro Dimitri
dà alle stampe Raccontare le migrazioni
Gianluigi Bellei Benvenuto Cellini (Firenze 1500 – 1571) è uno dei maggiori orafi di tutti i tempi. Lavora dapprima a Roma poi si trasferisce alla reggia di Francesco I a Fontainebleau dal 1540 al 1545. Qui realizza la celebre Saliera in oro e smalto, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Commissionata dal re Francesco I di Francia consiste di due elementi separati per contenere il sale e il pepe. Il sale, estratto dal mare, è rappresentato da Nettuno con il tridente e il pepe, generato dalla terra, da Anfitrite con una cornucopia. L’opera richiede mille monete d’oro per essere realizzata. L’artista inizia in seguito a lavorare come scultore eseguendo il monumentale bronzo che rappresenta Diana oggi al Louvre. Ritorna a Firenze e fonde il Perseo per la Loggia dei Lanzi, numerose statue e il busto colossale di Cosimo I. Giorgio Vasari nelle Vite lo descrive «animoso, fiero, vivace, prontissimo e terribilissimo». In effetti la sua vita è particolarmente tribolata. A parte il periodo dal 1558 al 1560 durante il quale prende gli ordini minori per poi farseli togliere per sposare la sua governante Piera de’ Parigi nel 1565, per il resto il suo è un curriculum vagamente «criminale». Incappa nella giustizia almeno quattro volte e per due finisce in carcere. Viene accusato, forse a torto, di essere scappato con il tesoro papale durante il Sacco di Roma del 1527. Nel 1532 ferisce due uomini in una rissa, nel 1534 uccide l’orafo Pompeo de Capitaneis suo rivale, e infine nel 1557 viene incolpato di sodomia per un fatto accaduto cinque anni prima. Secondo Rudolf e Margot Wittkower, Cellini non è affatto «quell’eccezione che si immagina» come si evince dagli archivi di polizia. Il suo resta un caso eclatante perché è raccontato nella Vita di Benvenuto di M.° Giovanni Cellini fiorentino scritta per lui medesimo in Firenze. Vincenzio Borghini in una lettera al Vasari del 14 luglio 1564 lo definisce «pazzo spacciato» e in effetti è personaggio controverso. Partecipa alla disputa sul primato delle arti organizzato dallo storico e filologo fiorentino Benedetto Varchi nel 1547. Varchi chiede un parere scritto a diversi artisti. Rispondono Tribolo, Pontormo, Bronzino, Michelangelo, Tasso, Francesco da
Giorgio Thoeni
Una vita tribolata. (Wikipedia)
Sangallo e, appunto, Cellini. La sua lettera del 28 gennaio 1547 è sicuramente la più gustosa, scritta in vernacolo fiorentino. Il primato, a suo avviso, va alla scultura perché è «maggiore sette volte» della pittura e perché una statua deve avere otto vedute. «La differenza, scrive, che è dalla scultura alla pittura è tanta quanto è dalla ombra e la cosa che fa l’ombra». Fra il 1565 e il 1567 si dedica a un Trattato dell’Oreficeria e a un Trattato della scultura stampati nel 1568. Secondo lui il disegno dipende dalla scultura dato che esso «è l’ombra del rilievo» e il rilievo è il padre di tutti i disegni. Ma il suo scritto più singolare è la Vita redatto tra il 1558 e il 1566. Il codice originale si trova alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. Un racconto fantasmagorico, onirico, tutto incentrato sull’apologia di se stesso. Francesco De Sanctis nella Storia della letteratura italiana scrive: «è divoto come una pinzochera, e superstizioso come un brigante. Non ha ombra di senso morale, non discernimento del bene e del male… bugiardo, millantatore, audace, sfacciato, pettegolo, dissoluto, soverchiatore…». Per
Cellini l’artista è al di sopra della legge e può fare qualsiasi cosa. Mirabili le pagine dedicate al Sacco di Roma dalle quali si evince che Cellini ha combattuto in prima persona a fianco del papa Clemente VII della famiglia Medici. Ma le più famose sono sicuramente quelle dedicate alla fusione del Perseo. Una sorta di corpo a corpo con le avversità e gli elementi naturali nel quale Cellini appare come un eroe. Una lotta contro il fuoco che minaccia di far crollare il tetto, il vento, la pioggia, «tanto più che la mia forte valitudine di conplessione non potette resistere, di sorte che e’ mi saltò una febbra efimera addosso, la maggiore che inmaginar si possa al mondo, per la qual cosa io fui sforzato andarmi a gittare nel letto». Bruno Maier nelle note all’autobiografia sostiene che questo episodio è sicuramente il più bello di tutto il libro e forse più bello in «senso assoluto della medesima statua compiuta».
La crisi dei rifugiati ma, più in generale, i processi legati alla migrazione sono fra gli argomenti prevalenti nei discorsi di tipo sociale. Le sfide che vi sono connesse vengono ancora percepite come una minaccia, spesso dimenticando che la Svizzera è ormai da tempo una società di migrazione con una crescita demografica che ha come corollario la diversità culturale. Un aspetto che oltre a essere parte del tessuto sociale è un valore per lo sviluppo di sensibilità condivise. Anche il mondo del teatro si nutre di un costante confronto con la diversità. Attraverso spettacoli allusivi, o che vi fanno esplicito riferimento oppure con opere di repertorio rilette con il filtro dell’attualità. Da quando l’Accademia di Verscio è affiliata alla SUPSI abbiamo assistito a un aumento di progetti di ricerca (settore diretto da Demis Quadri) volti all’approfondimento di realtà sensibili in una prospettiva di interscambio o inclusione, mondi
Bibliografia
Edizione di riferimento (dalla mia biblioteca): Benvenuto Cellini, Vita, Milano, Rizzoli, 1954.
Un progetto in due volumi.
soggetti a forme di emarginazione o tematiche sensibili (migranti, anziani, Alzheimer, autismo, handicap, violenza, razzismo…) affrontate nella prospettiva di un coinvolgimento allargato attraverso il teatro. Progetti che possono sfociare nella pubblicazione di saggi accompagnati da esperienze concrete alimentate da un approccio di comunicazione interculturale. Un esempio recente è costituito da Raccontare le migrazioni, due volumi pubblicati lo scorso febbraio dall’Accademia Teatro Dimitri curati da Ruth Hungerbühler e Veronica Provenzale con l’intento di «sviluppare un percorso di pedagogia teatrale per le scuole volto a promuovere le competenze interculturali di allievi e docenti unendo la ricerca sociologica e storica al lavoro teatrale». Il primo volume fornisce contributi per uno sguardo oggettivo e aggiornato per contestualizzare la migrazione in rapporto al territorio con saggi di Marco Marcacci (flussi migratori), Veronica Provenzale (migranti della cultura), Paola Solcà (eterogeneità dei flussi migratori in Ticino), Ruth Hungertbühler e Victoria Franco Grütter (storie di immigranti) e ancora Grütter (migrazioni e media). Il secondo illustra il laboratorio svolto durante un anno scolastico con allievi di tre classi elementari e di una scuola media utilizzando diverse pratiche teatrali sul tema delle migrazioni. Un gruppo di artisti e pedagoghi – Lianca Pandolfini, Andrea Valdinocci, Kate Weinrieb e Hans Henning Wulf – hanno raccontato l’avventura didattica lavorando con storie degli allievi, parte dei quali con un passato migratorio. I due volumi raccolti in cofanetto (accademiadimitri@supsi. ch, frs 28.–) sono un ulteriore tassello di un mosaico creativo nella sperimentazione di linguaggi, un ponte fra le arti e la società che parte dalla periferia dei centri e delle capitali della cultura utilizzando il teatro come mezzo di cambiamento e rivendicazione.
Ma è si oppure no?
La lingua batte «O sì, o no… o meno»? Qual è la formula corretta? Il tema è oggetto di discussione fra gli esperti.
Tuttavia, se vogliamo fare bella figura, cerchiamo di non farci tentare dall’opzione meno elegante Laila Meroni Petrantoni «Oh cielo, bisogna prendersi le proprie responsabilità! O è bianco, o è nero. Non si può rifugiarsi sempre dietro ai grigi… O è sì, o è no. Il comodo o meno non esiste!». Era categorico quel mio docente di italiano: a noi allievi aveva proibito l’unione fra la congiunzione disgiuntiva o e il meno avverbiale. Quindi frasi come non so se verrò o meno erano decisamente bandite. Bollate come illogiche. Praticamente odiate. E a ben pensarci quel meno messo lì dopo la o ha un certo sapore di molle inferiorità, più che di ferma negazione. Insomma, ci è stato insegnato a non confondere una palla di cannone con una mezza cartuccia. Sull’uso della locuzione o meno equivalente a o no sono state condotte lunghissime discussioni fra gli esperti della lingua italiana; come spesso accade nelle dispute lessicali, la con-
Siamo poi sicuri di come si dice? O meno? (Keystone)
clusione pare non essere né univoca né definitiva. Studiando la questione e imbattendoci non di rado in svariati scambi di vedute tra voci autorevoli in materia, sembra anzitutto che o meno sia davvero poco presente nella tradizione letteraria. Per contro risulta esse-
re piuttosto di uso comune nella lingua parlata, e proprio per questo molte fonti competenti sconsigliano o addirittura mettono all’indice quella relazione pericolosa fra o e meno: si potrebbe quasi dire che questo meno avverbiale dopo la disgiuntiva giochi il ruolo di intru-
so furbetto – o terzo incomodo – in un matrimonio felice e collaudato fra o e no. Meglio non cadere in tentazione, meglio scegliere (non solo nello scritto) la formula decisamente più elegante. Si è tentato comunque di giustificare l’impiccione scavando nell’antenato della lingua italiana: si cita ad esempio lo storico dizionario di Nicolò Tommaseo, che ricordava come il latino minus preceduto da sin valesse «no». Tutto ciò non ha comunque portato nel tempo a una assoluta accettazione dell’espressione o meno. Personalmente faccio valere tutt’oggi la dritta del nostro buon insegnante, anche se autorevoli nomi ben radicati nell’Olimpo della linguistica chiudono volentieri un occhio. A volte vien da chiedersi se lasciar correre sia un trucco per giustificare certe sbandate veniali, un po’ come accondiscendere ai capricci di un bimbo viziato. Per dare solidità alla mia scelta
personale, mi piace pure far notare come sostituire la congiunzione semplice con la sua forma rafforzata oppure faccia inceppare il meccanismo. I dubbiosi provino ad attuare questo scambio e a mantenere il nostro famigerato meno: direste non so se verrò oppure meno? Di recente mi sono ritrovata a riflettere in famiglia su queste stramberie dell’italiano, sentendomi infine suggerire la salomonica soluzione: «quanti problemi vi fate! In fondo non serve sempre aggiungere questi benedetti o no e o meno. Togliamoli e buonanotte». Già, forse troppo spesso ci piace abbondare, rischiando però di inciampare: basterebbero dei semplici ci chiediamo se sia all’altezza, avvertici se sarà possibile raggiungerlo, eccetera. Ci sono comunque casi in cui rinunciare all’alternativa non è possibile (piaccia o no), tuttavia optare per la soluzione riconosciuta come più corretta evita di far infuriare i puristi. O no?
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Cultura e Spettacoli
L’ossessione del nostro corpo
Pubblicazioni La giovane Jennifer Guerra si china su alcuni aspetti complicati legati all’essere donne
Laura Marzi Le bambine sembrano femministe per istinto: dichiarano la superiorità del genere femminile e sono tendenzialmente separatiste, poi interviene lo sviluppo sessuale, la competizione, la famigerata invidia fra donne e tutto quasi irrimediabilmente cambia. Non sempre, però. Jennifer Guerra, autrice de Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà edizioni Tlon, ha 25 anni e ha scritto un manuale che dovrebbe stare sul comodino delle ragazze, e delle donne perché no. Si tratta di un testo informativo con una bibliografia completa, che spazia da alcuni capisaldi quale il Manifesto di Rivolta Femminile, comprendendo anche testi contemporanei e meno conosciuti di economiste e scienziate, come Mariana Mazzucato e Gayle Sulik. È sotto gli occhi di tutti che la questione di genere stia diventando un tema «cool» ed è indubbiamente un bene. Esiste, però, un’urgenza politica e sociale nelle lotte femministe che non è stata ancora risolta e che riguarda aspetti molteplici e diversi della nostra vita. Jennifer Guerra ne propone un quadro esaustivo che compone con un linguaggio chiaro e mai superficiale. A partire dal sempre verde tema dell’«habitual body monitoring», Guerra descrive come la pubblicità sfrutti l’ossessione per l’aspetto, che il patriarcato ci ha inculcato e quanto sia invalidante per la vita delle donne, tutte. Ognuna
conosce l’impulso potentissimo di controllare il corpo delle altre che passano e di confrontarlo col proprio, per effettuare paragoni rassicuranti o al contrario autolesionisti. Per questa spinta che abbiamo di monitorare il nostro come il corpo delle altre donne, la pubblicità sceglie di utilizzare immagini di forme femminili: non lo fa solo perché i maschi fissando le curve perfette della modella si fissano anche nella mente la marca di quel dato silicone. Infatti, il corpo femminile è utilizzato anche per vendere prodotti che hanno come bacino di acquirenti le donne, che ugualmente, ma per ragioni diverse, sono portate a concentrarsi sulla ragazza bellissima che usa quel tipo di strisce depilatorie. Il controllo dei difetti del nostro corpo avviene, scrive Guerra, anche durante i rapporti sessuali, ostacolando ovviamente il raggiungimento dell’orgasmo. A causa delle svariate forme di controllo che il patriarcato impone al corpo delle donne, che stiamo imparando a conoscere e che bisogna continuare a nominare, il sangue mestruale è ancora un vero tabù. E non solo perché le pubblicità si fondano sulla rimozione della specificità di «quei giorni», ma anche perché è crescente, scrive Guerra, il numero delle donne che sceglie di assumere terapie ormonali al solo scopo di eliminare il mestruo dalla loro esistenza, con conseguenze cliniche temibili e su cui le ricerche sono ancora troppo poche, ovviamente. Si tratta di informazioni, queste,
L’italiana Jennifer Guerra. (Lavinia Paolini)
è vero, che si potrebbero trovare effettuando ricerche neanche troppo accurate sul tema: il merito di questo saggio non sta infatti nei dati, che pure sono sempre interessanti quando derivano da fonti autorevoli quali quelle citate da Guerra. È la prospettiva dell’autrice che fa la differenza. Guerra si interroga su questioni fondanti del femminismo: per esempio il pink washing ormai di-
lagante che se garantisce il vantaggio di liberare le femministe dal pregiudizio che le descrive streghe, pelose e aggressive, sta però costringendo la lotta politica all’interno di standard estetici e di decoro, del tutto controproducenti: «ha contribuito a diffondere un’idea di femminismo socialmente accettabile». Un altro rischio che Guerra evidenzia con lucidità e chiarezza è il mito della donna
forte che deriva direttamente da quello della donna in carriera degli anni 80, capace di tutto: dare il meglio al lavoro, in famiglia, per curare la propria bellezza… Si tratta di un inganno che non si è affatto estinto, basti pensare alle numerose narrazioni che vengono proposte su donne mitiche, eccezionali, eroiche e rispetto alle quali l’autrice ribadisce il sacrosanto diritto a essere delle persone fragili o delle donne normali. Un elemento critico riscontrato è la dichiarazione per cui: «il transfemminismo è l’unica lotta che ha senso combattere oggi». In questa sezione del testo Guerra si schiera giustamente contro coloro che negano i diritti delle donne trans, le discriminano, rifiutano la loro inclusione nelle lotte femministe. Sono posizioni pericolose, ingiuste e l’autrice lo ribadisce, ma purtroppo insieme al transfemminismo esistono ancora altre questioni tragiche e urgenti per cui ha senso lottare oggi. Guerra riporta come in Italia ci siano 1,2 centri antiviolenza ogni 100.000 donne e che il 37% delle donne non dispone di un reddito proprio che renderebbe possibile sottrarsi davvero a una situazione di abuso domestico. Leggendo questo testo di lotte femministe se ne trovano eccome e l’autrice sa anche far venire la voglia di combatterle. Bibliografia
Jennifer Guerra, Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà, Edizioni Tlon, pp. 152. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Stefano Simoncelli è nato a Cesenatico nel 1950. (Foto Dino Ignani)
La fabbrica dei nascituri
Letteratura Un romanzo distopico
sulle derive della maternità surrogata Federica Alziati
Parlare con chi non c’è Poesia Nel nuovo libro di poesie di Stefano Simoncelli ritroviamo
tutta la forza immaginifica della poesia, capace di creare nuovi mondi
Guido Monti Stefano Simoncelli torna a pubblicare sempre per peQuod dopo l’ultimo libro Residence Cielo del 2018, una nuova raccolta dal titolo molto significativo A beneficio degli assenti (pp.140 euro 15) che riassume davvero l’idea di scrittura di questo mirabile autore già notato alle sue origini da alcuni tra i più grandi del secondo novecento come Siciliano, Raboni e Fortini; ebbene questo autore ha composto per molta parte della sua lunga storia poetica, che inizia nel 1981 con Via dei Platani, dei breviari sì, ma laici e proprio richiamando il titolo di questo libro, a beneficio degli scomparsi.
Quelle di Simoncelli sono microstorie che riescono ad annullare la distanza tra gli estremi Nei versi piani e semplici mai semplicistici, affiorano delle micro-storie che come un pendolo oscillano tra il veridico e l’onirico; stralci di memorie che sembrano appartenere per forza e profondità non più al singolo ma aduna intera collettività. Appaiono nelle otto sezioni, figure portatrici non solo di una idea di tempo e luogo lontana ma anche per converso di una simbologia che si allunga su ogni possibile futuro dell’autore stesso: «Faceva caldo. Troppo caldo./ “Portami una birra ghiacciata,/aiutami, sto morendo di sete”// ho sbiascicato a mia moglie/…//Era andata via di corsa/e non è mai più ritornata./Chissà dove sarà a quest’ora.// Chissà in che posto mi aspetta./Forse in un chiosco sul mare,/su un terrazzo tra le rondini/…». Ecco, tutti gli scomparsi – e questo è il punto di forza della storia in versi di Simoncelli – percorrono una
traiettoria circolare, sembrano difatti provenire dall’antro di Euridice e col loro carico di mistero inespresso si rendono di lì appena visibili; accennano a gesti familiari, un poco riconoscibili, avendo dell’aspetto di un tempo qualche carattere, tornano poco dopo nella cavità nera da dove sono venuti. E certo l’autore in questi lunghi anni, ha annotato con dovizia di particolari nel suo taccuino tutte le ombre che di lì vi uscivano ed entravano, ma ciò che ha davvero rimischiato le carte in questo libro, è proprio l’esser egli stesso divenuto una quasi ombra, per una grave malattia, un richiedente asilo a quel mondo che non è più dei vivi. Un Orfeo alla cerca nel ciglio dell’abisso dei perduti, proprio partendo da quel letto in cui a lungo si è trovato in stato di incoscienza e da dove si è avvicinato come non mai, a coloro di cui tanto negli anni ci aveva parlato: «Mi ritornano in mente senza un motivo/inspiegabili appassimenti di gemme,/mandorli e ciliegi da poco fioriti/distrutti da misteriose galaverne primaverili/e gli immacolati fazzolettini di fiandra/dove mia moglie nascondeva il dolore». Come dicevo all’inizio, queste microstorie, oscillando sempre più velocemente, annullano la distanza tra gli estremi e allora tutto è al momento verosimile e onirico; le relazioni con i cari, sembrano dilatarsi in uno spazio conosciuto e sconosciuto al tempo e l’autore in questo è maestro: tracce di incontri come taluni luoghi, paiono in qualche modo altri da come li si vissero, magari per un particolare non coincidente, che dà estraneità a un quadro che poteva risultare familiare. L’io del poeta trovandosi nel libro in questo stato di coscienza alterata, sembra divenire sempre più punto di attrazione per tutte le ombre amorevoli, ma eccolo tornare alla vita sensibile, riacquistare forze, facoltà. Era destino che Simoncelli rimanesse tra i mortali, per poter continuare a scrivere quel verso che com-
pone ogni suo libro fatto di lancinanti incontri, sguardi atoni colorati solo a tratti della loro origine. L’autore torna a suggerire in questa raccolta verità scomode: il tempo dei morti e quello dei vivi paiono incontrarsi talvolta in zone neutre, limbi, come accennavo, talvolta riconoscibili per pochi attimi; tutto in questa scrittura è in trasformazione, persino gli affetti si riaccendono talvolta dentro amarissime constatazioni: «…/…Era gennaio,/il giorno del mio compleanno,//e amavo perdutamente qualcuno che ho cancellato,/ma sento che mi si siede accanto//e prega sottovoce o in silenzio/certe notti in cui sogno/che sono morto». Le visioni opache talvolta chiare, come sospese nel verso, sono l’oggetto per sempre nuove narrazioni e storie. In quest’ultima raccolta è percepibile, come nelle altre d’altronde, la forza immaginifica della vera poesia, che crea mondi adiacenti al nostro, finestre temporali che su questo a intermittenza si aprono e chiudono e dove i lettori devono esser lesti a infilarsi. E saremmo davvero intellettualmente più poveri, se non ci accorgessimo e non dessimo forza nei nostri giorni, a ciò che tanta parte della più alta poesia scrive e riscrive da sempre e che tutti gli uomini di buona volontà dovrebbero, ognuno con propri mezzi e attitudini, seguire: il dialogo ininterrotto con i morti, unico a restituire dignità alla nostra vita, che non può che specchiarsi nel suo svolgersi in loro, in loro rimirarsi, per poter procedere limpida: «Solo una volta posso dire/che sono stato felice./Ero in treno,//di notte, nella tratta/che va da Bologna a Firenze./Si può pensare che stessi sognando//ma sono sicuro che non dormivo/e avevo visto mia madre/che mi sorrideva//dal finestrino».
Ogni questione sensibile merita di essere affrontata con rispetto e delicatezza direttamente proporzionali alla sua complessità. In questo, la letteratura gode di un singolare privilegio: la possibilità di trasfigurare la realtà e le sue problematiche, dando forma a contesti immaginari e personaggi d’invenzione, in modo da contemplare gli interrogativi di ieri e di oggi da una distanza salutare, senza restare prigioniera delle inquietudini presenti o affrettarsi a scagliare la prima pietra contro i presunti colpevoli. È quel che accade, in modo molto evidente, nella fortunata tradizione del romanzo distopico, che descrive scenari futuri o alternativi in cui ideologie, conflitti e drammi reali vengono rispecchiati e deformati all’eccesso, in modo da rivelare tutto il loro potenziale negativo. Ai lettori verrà senz’altro alla mente l’esempio di 1984, capolavoro di George Orwell del 1949, in cui si immagina la sete di controllo assoluto dei regimi totalitari novecenteschi potenziata all’estremo da raffinati mezzi tecnologici. Va da sé che quanto più la narrativa distopica sa adombrare il volto del presente, pur rimodellandolo, tanto più ne guadagna in efficacia. Il romanzo d’esordio di Joanne Ramos, autrice statunitense di origini filippine, si inserisce di diritto in questa tradizione, conseguendone gli obiettivi con una fortunata combinazione di grazia e incisività. In questo caso, la realtà parallela, tratteggiata con limitate licenze poetiche sullo sfondo della campagna newyorkese, è un contesto in cui la mercificazione della maternità surrogata ha ormai raggiunto un livello industriale. Golden Oaks è una lussuosa clinica immersa in un paesaggio naturale idillico, dotata di ogni possibile confort materiale o gadget tecnologico per garantire il benessere delle Ospiti che vi trascorrono i mesi della gravidanza. Sono a disposizione palestre per praticare yoga e la dieta è scrupolosamente calibrata. Ma le Ospiti, selezionate e controllate con attenzione maniacale, sono identificate con numeri progressivi e portano in grembo i figli delle Clienti, a loro volta classificati secondo il potere d’acquisto della madre biologica. A Golden Oaks si nasce in serie e di serie, esattamente come in una fabbrica. A differenza di una normale catena di montaggio, però, al processo (ri) produttivo concorrono in modo eccezionale le esistenze e le motivazioni, estremamente diverse fra loro, di chi gravita attorno a Golden Oaks come Cliente, Ospite, dirigente o semplice lavoratore. Si deve alle identità sfaccettate e complesse dei personaggi lo scenario chiaroscurale del romanzo, che evita una netta, immediata demarcazione tra abuso e innocenza, e legittima
Bibliografia
Stefano Simoncelli, A beneficio degli assenti, Ancona, PeQuod, 2020
Un libro che pone molti quesiti.
il dispiegarsi della vicenda e il progredire della riflessione che ne deriva. C’è Jane, docile e spaventata Ospite filippina, che accetta il contratto per offrire un futuro migliore alla sua bambina di pochi mesi: una delle tante passate dall’accudire al mettere al mondo i figli degli altri per tirar grandi i propri. C’è Reagan, giovane americana che aderisce al programma per puro idealismo, convinta di contribuire a realizzare un desiderio di maternità che altrimenti resterebbe insoddisfatto. C’è anche la sua amica Lisa, totalmente disillusa nei confronti di Golden Oaks e decisa soltanto a sfruttare i vantaggi economici del suo accordo, che prevede un pacchetto di tre figli in tre anni. E poi c’è Mae, che dirige la clinica con abilità manipolatoria e assenza di scrupoli mentre progetta il suo matrimonio e il futuro della sua famiglia. Ci sono Clienti premurose, ed altre totalmente assenti, sostituite da figuranti. Ci sono personalità dominanti e altre soggiogate, e ci sono i nascituri, inevitabilmente considerati come una merce di scambio dalle une e dalle altre. Non ci sono interrogativi espliciti né risposte dirette, mancano concessioni al patetismo e sfoggi di retorica, persino nel finale. Joanne Ramos restituisce piuttosto immagini, scene che s’impongono per il loro nitore e costringono alla riflessione. In una di queste, Reagan è sottoposta a un’ecografia tridimensionale, ma, per quanto provi ad allungarsi, dal lettino su cui è sdraiata non riesce a vedere lo schermo dell’ecografo, rivolto verso un computer per permettere alla madre biologica di seguire l’esame in streaming. Un’altra descrive un servizio fotografico destinato a immortalare i primi due figli dei Clienti mentre «interagiscono […] con la pancia nuda di Lisa», che darà alla luce il terzo fratello. Spetta al lettore interrogarsi sulla verosimiglianza di tali scene, e su ciò che, per lo meno nella finzione romanzesca, le rende credibili. A partire dalla distorsione del linguaggio, che traduce la provvisorietà del ruolo materno dei surrogati con la definizione “Ospite” e mette al riparo le madri dietro la maschera di “Clienti”; o dagli slogan di cui si serve la direttrice della clinica, che assicura alle proprie dipendenti che i genitori biologici sono «persone che stanno cambiando il mondo», anche se in alcuni casi si tratta semplicemente di una modella non disposta a prendere peso. Tocca alle donne e alla società intera domandarsi quanto di tutto questo potrebbe davvero accadere e quanto stia già accadendo; dove abbiamo rivolto lo sguardo mentre succedeva e a quali slogan abbiamo prestato l’orecchio. Bibliografia
Joanne Ramos, La fabbrica, Ponte alle Grazie, 2020
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