Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 8 ottobre 2018
Azione 41 -71 ping M shop ne 45–50 / 67 i alle pag
Società e Territorio A Cavigliano c’è un luogo dove scoprire la magia del legno
Ambiente e Benessere La Statistica Ticinese dell’Ambiente e delle Risorse naturali studia l’attuale situazione ambientale
Politica e Economia La situazione per giornalisti e attivisti in Pakistan è sempre più difficile
Cultura e Spettacoli Topolino, il capostipite della numerosa famiglia Disney, festeggia 90 anni
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di Patrizia Cappelletti pagina 15
L.Elio
Il cuoco filosofo
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Tempo di riflessioni di Simona Sala Senza scomodare grandi nomi del mondo dello spettacolo come Asia Argento (co-fondatrice del movimento #MeToo, ora balzata tristemente agli onori della cronaca per ben altra vicenda), Jean-Claude Arnault (marito della giurata del Premio Nobel per la letteratura Katarina Frostenson, condannato a due anni di carcere per stupro) o Ronaldo (accusato di stupro), il sessismo, comprese le sue più esecrabili derive, fa parte – volenti o nolenti – anche della nostra quotidianità. La settimana scorsa il tabloid «Blick» riportava la notizia del giovane Gil Wenger che, durante un viaggio in treno, non era riuscito a rimanere zitto di fronte alle esternazioni sessiste del suo casuale compagno di sedile. Questi, chiacchierando al telefono a voce più alta del dovuto con un collega di lavoro, consigliava di assumere una certa Signora Winkler (donna presumibilmente non più giovanissima, poiché definita non «a rischio gravidanza») in una posizione dove non avrebbe potuto fare danni: ciò avrebbe permesso di salvare le quote rosa aziendali. Gil Wenger si è palesato al suo compagno di viaggio con un messaggio scritto che lasciava ben poco spazio all’im-
maginazione: «Le quote rosa sarebbero necessarie già solo per evitare che uomini ributtanti come te assumessero posizioni dirigenziali». Se da un lato parte della stampa e molte donne hanno esultato, identificando in Wenger il loro eroe del giorno, basta leggere i commenti dei lettori per capire che il sessismo non solo esiste, ma viene costantemente alimentato: decine di uomini stizziti e astiosi si sono scagliati contro il povero Wenger, e in seguito contro tutta la popolazione di sesso femminile, accusata di approfittare ormai ad oltranza dell’«alta congiuntura» di cui godrebbe il femminismo in questo periodo. E in Ticino? Rispetto a quanto se ne parla Oltre Gottardo e in gran parte del mondo, l’argomento gode meno dei favori dell’opinione pubblica, e quando, anche timidamente, si cerca di affrontarlo, le reazioni sono spesso biliose e poco proporzionali ai toni degli articoli di partenza. È accaduto recentemente quando qualcuno si è chiesto come fosse possibile che su mille strade del Cantone intestate a personaggi illustri, solamente quindici portassero nomi di donne. In fondo di rappresentanti del sesso debole (come ancora molti lo vorrebbero) che hanno segnato le nostre epoche anche pubblicamente (cioè lontane dai fornelli e dai figli) ce ne sarebbero molte,
ma di avviso diverso erano i commenti dei lettori. Nel 2017 un film svizzero è stato premiato al Festival di Tribeca, NY. In L’ordine divino (secondo il quale i ruoli di donna e uomo sarebbero diversi e prestabiliti da un ordine più alto e non sindacabile) si ripercorre la storia a tratti vergognosa del nostro Paese che, a lungo cieco e sordo di fronte alla consapevolezza che i diritti delle donne non sono altro che diritti umani, ha loro concesso il voto solamente nel 1971, (in Appenzello si dovette attendere il 1990). Ed è proprio riguardando la brillante pellicola di Petra Volpe che la consapevolezza si fa ancora più dolorosa: le stesse frasi che venivano sibilate o urlate alle manifestanti di allora, appaiono oggi sui post di molti uomini e di alcune donne che credono di essersi emancipate proprio dalla necessità di un discorso di genere, ma sui generis. «Alta congiuntura» per il femminismo? Se così fosse davvero l’Ufficio federale di statistica non avrebbe annunciato che nel 2017 le differenze salariali tra uomo e donna nel settore pubblico (la situazione nel settore privato non è meglio, ma in costante miglioramento) stagnano da anni in una deprecabile percentuale del 16,6%. Davvero la questione femminile non è degna di una riflessione?
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 ottobre 2018 • N. 41
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Attualità Migros
M In cucina con Joia
Corsi La Scuola Club di Migros Ticino e la Joia Academy di Pietro Leemann lanciano il nuovo Corso di formazione
professionalizzante in cucina vegetariana Oggi il mondo del cibo è attraversato da cambiamenti epocali legati all’emergere di nuovi gusti, sensibilità e valori. In particolare, l’accresciuta consapevolezza rispetto agli impatti delle nostre scelte di consumo e un diffuso desiderio di uno stile di vita più sano ha alzato l’asticella dell’attenzione rispetto a cosa e come mangiamo. Così, abitudini alimentari fino a pochi decenni fa considerate solo di nicchia sono diventate parte integrante della dieta di fasce sempre più ampie di popolazione. È questo il caso, ad esempio, della cucina vegetariana. Inevitabilmente, però, se cambia la domanda, muta, a cascata, anche l’offerta: attorno a noi sempre più numerosi sono i ristoratori e gli albergatori che decidono di ampliare i loro menù per accontentare una clientela varia, esigente e consapevole. Da qui la necessità di integrare i percorsi formativi tradizionali con una preparazione specialistica, in grado di fornire ai professionisti del settore le conoscenze e competenze giuste per accompagnare questa trasformazione. Risponde pienamente a questo obiettivo, il nuovo corso di formazione in ambito vegetariano che la Scuola Club di Migros Ticino lancia in collaborazione con la Joia Academy, istituto indipendente fondato dal maestro Pietro Leemann, primo chef stellato vegetariano e oggi un punto di riferimento riconosciuto a livello internazionale per la cucina vegetariana gourmet. Il corso – che replica la proposta di successo ormai consolidata della Joia Academy – si struttura in 11 lezioni per un totale di 55 ore-lezione. Destinata a professionisti del settore e a coloro che hanno conseguito diplomi in ambito culinario, la proposta vedrà anche la presenza dello chef Sauro Ricci, Chief Executive e Diret-
Formazione professionalizzante di 1mo livello con Joia Academy Dal 5 novembre 2018 al 20 maggio 2019 11 incontri di lunedì / Fr. 2500.– Orario: 10.00 - 14.50 Scuola Club Migros Ticino, sede di Lugano (via Pretorio 15) Contenuti: • Gli ingredienti della cucina vegetariana e la pratica sui tagli delle verdure • I fondi, le basi e zuppe • Le salse salate e dolci • La cottura delle verdure • Cereali e le loro declinazioni • Le proteine e la loro autoproduzione • La pasta con e senza glutine • Le basi della panificazione con la pasta madre e il pane senza glutine • I fermentati e le loro applicazioni • La cucina macrobiotica in chiave gourmet • Le basi della pasticceria vegan
Pietro Leeman, Chef stellato vegetariano. (L. Elio)
tore didattico della Joia Academy accanto agli altri Chef del ristorante stellato Joia di Milano. Durante il percorso – che incomincerà il 5 novembre – verranno approfonditi numerosi argomenti: dalla pasta con e senza glutine alle proteine, dalla cotture delle verdure alla cucina macrobiotica, fino alle basi della pasticceria vegan. Si tratta di un’occasione davvero unica per acquisire, fianco a fianco con grandi professionisti del settore, una formazione specialistica in ambito vegetariano.
Iscrizioni e informazioni: 091 821 71 50 scuolaclub.lugano@migrosticino.ch www.scuola-club.ch
Per donne con idee e curiosità
FORUM elle Riprende l’attività autunno-inverno del Club
di Migros dedicato ai temi al femminile
È stato pubblicato negli scorsi giorni il programma da ottobre 2018 a fine gennaio 2019 di FORUM elle Ticino, l’organizzazione femminile di Migros attiva anche nel nostro cantone e coordinata da Gaby Malacrida. L’agenda delle attività contiene come sempre un ampio ventaglio di proposte, che vanno dall’intrattenimento puro (partecipazione a spettacoli teatrali e passeggiate) a momenti di incontro con personaggi pubblici, visite guidate ad
esposizioni e molto altro. Le presentazioni specifiche di ognuno degli appuntamenti è pubblicata online sul sito ufficiale dell’organizzazione, www. forum-elle.ch, nella rubrica dedicata alla Sezione Ticino. Ricordiamo che, per iscriversi ad alcuni degli eventi organizzati in esclusiva da Forum elle Ticino, sarà necessario, anche in futuro, spedire alla segretaria Simona Guenzani, il tagliando debitamente compilato uni-
tamente alla quota d’iscrizione di CHF 10.–, (solo quando specificato nella locandina). La quota d’adesione verrà rimborsata, sotto forma di carta regalo Migros/Forum elle, a tutte le socie che parteciperanno, nel corso dell’anno, a un minimo di 5 eventi. Per tutte coloro che parteciperanno a un numero superiore verrà rimborsato il valore corrispettivo, sempre sotto forma di carta regalo Migros/Forum elle (5 eventi = CHF 50.–; 7 eventi = CHF 70.–, ecc.).
Il Programma
Mercoledì 21 novembre, 14.30 Visita Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino
Giovedì 17 gennaio 2019, 18.00 Suitenhotel Parco Paradiso Fare shopping con lo...psicologo Incontro con Antonella Marzo Cantarelli
Martedì 9 ottobre, 17.30 Suitenhotel Parco Paradiso – Lugano Paradiso Incontro con Loretta Dalpozzo, giornalista, regista e produttrice Mercoledì 10 ottobre, 14.30 Giovedì 25 ottobre, 14.30 MASILugano (LAC) Magritte – La Ligne de Vie Venerdì 16 novembre, 20.45 Teatro Sociale Bellinzona Notte di follia
Giovedì 29 novembre, 14.30 Ristorante La Perla S. Antonino Incontro con Franca Canevascini Domenica 9 dicembre, 16.00 LuganoInscena – Sala Teatro LAC Gardi Hutter – Gaia Gaudi Giovedì 13 dicembre, 14.30 Visita alla JOWA di Sant’Antonino
Domenica 27 gennaio 2019 LuganoInscena – Sala Teatro LAC GREASE – il musical Tutti gli incontri ed eventi sono aperti ad amiche/amici o simpatizzanti. Maggiori informazioni nelle locandine, scaricabili anche online all’indirizzo www. forum-elle.ch, rubrica Ticino, incluso formulario d’adesione.
La regista e giornalista sarà ospite della prima serata della stagione. (rsi.ch)
Incontro con Loretta Dalpozzo Una giornalista e produttrice ticinese che dagli schermi della RSI ci regala ha proposto importanti interviste (tra cui quella con Roger Federer, dopo la sua ultima vittoria storica agli Australian Open). Loretta, nata e cresciuta a Mendrisio, ha conseguito un master in giornalismo e letteratura italiana all’Università di Losanna. Dopo un soggiorno di 7 anni a Londra, in cui ha intrapreso la sua carriera televi-
siva, si è trasferita a Singapore dove vive con la famiglia. Ha realizzato centinaia di servizi per il telegiornale e decine di approfondimenti in 17 paesi diversi paesi. Insieme a Michèle Volonté ha recentemente prodotto e diretto un documentario sull’architetto Mario Botta. L’incontro, aperto a socie e simpatizzanti, si concluderà con un aperitivo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 ottobre 2018 • N. 41
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Società e Territorio Avere autostima Fiducia nelle proprie capacità e consapevolezza del proprio valore, ma anche accettazione delle debolezze: l’autostima va coltivata fin dall’infanzia pagina 5
Tutti in bici Con la votazione del 23 settembre la bicicletta entra nella Costituzione svizzera, ora spetta a Cantoni e Comuni promuovere le ciclopiste
Donne valorose Nel suo ultimo libro Serena Dandini ripercorre la vita di trentaquattro donne forti, intraprendenti e controcorrente pagina 6
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Conoscere il legno
Artigianato Una vecchia tornitura a
Cavigliano è stata trasformata in un piccolo museo del legno ideato da Roberto Barboni
Nicola Mazzi «Un luogo per scoprire la magia del legno in Ticino, un laboratorio di tornitura dove ammirare come le mani di un esperto artigiano fanno nascere i frutti del legno, uno spazio dedicato alla materia più amata e usata dall’uomo per imparare a distinguerne le diverse specie». Così recita il volantino che Roberto Barboni distribuisce ai visitatori che vanno a trovarlo nel suo piccolo museo a Cavigliano. Un progetto nato qualche anno fa e che è diventato realtà nel mese di maggio. Una vecchia torneria nelle Terre di Pedemonte trasformata in un piccolo centro del legno, dove poter scoprire le proprietà di questo antico materiale. L’ideatore dello spazio espositivo ci illustra da dove è nata l’idea e che cosa propone. «Il progetto è iniziato una decina di anni fa, quando ho lasciato la precedente professione e mi sono dedicato alla mia passione: l’artigianato del legno. Un’attività che ho sempre praticato come hobby fin da ragazzo e che oggi, con soddisfazione, è diventata la mia professione a tempo pieno». Un sogno partito da una piccola cantina e che poi si è ampliato in un garage. Ma il passo più importante Barboni lo ha fatto grazie all’eredità della stalla che oggi è diventata il museo. «All’inizio abbiamo sviluppato l’atelier di tornitura che si trova al piano terra e negli anni seguenti, con mia moglie, ho ristrutturato anche il primo piano, il fienile. Uno spazio che ho dedicato al legno in tutte le sue forme». «L’atelier al piano terra e lo spazio espositivo - evidenzia - vogliono essere un luogo in cui gli interessati e i curiosi possano venire e scoprire tutta la lavorazione della filiera: dal pezzo di legno all’oggetto artigianale. Infatti la particolarità della tornitura è proprio
il fatto che si può trasformare un anonimo ceppo in un magnifico oggetto», dice con orgoglio e con la sicurezza di un mestiere che conosce bene. Con Roberto Barboni scopriamo il locale adibito a museo. «Abbiamo cercato di creare una logica, un percorso e lo abbiamo diviso in quattro diversi settori. Una parte è dedicata alle creazioni artistiche con opere provenienti da diversi parti del mondo. Uno spazio che rispecchia le diverse sensibilità delle trasformazioni del legno in opere decorative-artistiche. Una seconda parte museale è invece più etnografica. In questo angolo sono presenti oggetti antichi legati al territorio come un carretto, una vecchia culla in legno e strumenti che erano d’uso quotidiano solo pochi decenni or sono. Una terza parte è didattica. In questi anni in cui ho frequentato i mercatini della regione, mi sono accorto che in molti hanno perso la conoscenza di questo materiale. Così ho deciso di esporre alcune specie di legno presenti sul nostro territorio, ma non solo. Un’ultima parte è dedicata ai souvenir: proponiamo oggetti in legno realizzati da alcuni artigiani della regione. Dalla ciotola, alla penna, fino a lavorati più tradizionali come i mestoli». I tipi di legno usati nell’artigianato (e sono parecchi come si possono scoprire nel piccolo museo) variano a dipendenza dei desideri dei clienti e dall’estro di chi li produce. «Tengo a precisare che utilizzo soprattutto legname autoctono, ma posso anche servirmi di materiale estero per creare oggetti particolari e che richiedono un colore diverso. Sono gli alberi da frutto i legni più interessanti nella produzione artigianale, in quanto hanno bellissimi disegni creati dalle venature: penso per esempio all’acero, al noce o al ciliegio».
Roberto Barboni nell’atelier al piano terra del museo del legno di Cavigliano. (N. Mazzi)
Ma non tutto è rose e fiori nella filiera bosco-legno. Come rileva lo stesso Barboni uno dei problemi nella Svizzera italiana è la mancanza di una cultura di questo materiale. Soprattutto a livello industriale e commerciale. «È una risorsa che dovrebbe essere meglio sfruttata. Negli ultimi anni abbiamo dei piccoli segnali di ripresa grazie a progetti legati al teleriscaldamento, ma c’è ancora molto lavoro da fare sia nell’artigianato sia nell’edilizia. Certo, uno dei problemi dei nostri boschi è l’accesso al legname e i costi fissi alti. Ma si potrebbe fare sicuramente di più. Faccio un piccolo esempio per farmi capire: quando tagliano alberi importanti, come è successo di recente a Lugano e a Locarno, non chiedono mai a noi artigiani se possiamo ritirarli. Finiscono al macero o magari sono destinati al cippato. Ed è
un peccato perché noi potremmo valorizzarli, dare una seconda vita a piante che hanno una storia alle spalle». Un altro aspetto critico è la mancanza di aiuti economici agli artigiani e, da un paio di anni, l’assenza di una vera e propria fiera cantonale. «Il settore sta conoscendo un periodo difficile, anche perché gli incentivi sono terminati. Trovo inoltre che sia un vero peccato non riuscire a organizzare un’esposizione cantonale, un momento importante per tutti noi. Personalmente ho cercato di riattivarla (n.d.r.: il nostro interlocutore è presidente dell’associazione ar-ti), ma senza aiuti pubblici è impossibile, i costi sono troppo elevati». Anche per queste ragioni Barboni ha voluto creare un nuovo punto di riferimento per il settore. «È un posto
dove si promuovono gli artigiani e le loro creazioni. Inoltre l’ho ideato perché desidero che le persone capiscano la differenza tra il nostro lavoro e il bricolage. Tengo a precisare che non ho nulla contro chi si diletta nel fai da te, ma l’artigianato è un’altra cosa. Noi abbiamo una preparazione e una conoscenza, oltre a una tecnica realizzativa, più professionale». E conclude con una definizione del suo lavoro: «L’artigiano è colui che realizza un oggetto partendo dalla materia prima, con macchinari semplici o a mano e che cura tutte le fasi della realizzazione del prodotto». Un lavoro, una passione, che può diventare anche una forma d’arte. Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 ottobre 2018 • N. 41
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Società e Territorio
Consapevoli del proprio valore
Psicologia Avere una buona autostima significa apprezzare i propri punti di forza, avere fiducia nelle proprie
capacità ma anche accettare le proprie debolezze. Ne parliamo con lo psicologo Renzo Rossin
Alessandra Ostini Sutto Sono molte le persone che convivono col sentimento di non sentirsi mai abbastanza, di dover costantemente essere qualcosa di più, di altro, di meglio. Che hanno, detto in altre parole, una bassa stima di sé. Il livello di autostima è il risultato della relazione tra due elementi, il sé reale e il sé ideale. Il primo corrisponde a ciò che realmente siamo, il secondo a come vorremmo essere. Maggiore è la discrepanza tra le esperienze che viviamo e le nostre aspettative rispetto ad esse, minore sarà la stima di noi stessi, e viceversa. Avere un’alta autostima non è però soltanto sinonimo – come si può essere portati a pensare – di sicurezza di sé, forza caratteriale, prestanza fisica, con conseguenze quali affermazione sociale ed efficienza.
Durante l’infanzia è fondamentale che gli adulti aiutino il bambino a percepire ciò che di bello ha in sé Avere un’alta autostima significa anche avere consapevolezza del proprio valore, apprezzando i propri punti di forza e accettando le proprie debolezze. Un atteggiamento che si traduce in un’apertura all’ambiente, un’autonomia e una fiducia nelle proprie capacità maggiori. Le persone con un’alta stima di sé dimostrano, infatti, una maggiore perseveranza nel raggiungere un obiettivo e sono in genere più propense a relativizzare un insuccesso. Una bassa stima di sé, per contro, può condurre ad una ridotta partecipazione e ad uno scarso entusiasmo. Riconoscendo esclusivamente le proprie debolezze, i soggetti in questione si arrendono più facilmente, soprattutto se incontrano delle difficoltà o sentono un parere contrario al loro. Il cosiddetto «specchio sociale» è proprio uno degli elementi alla base dell’autovalutazione: mediante le opinioni comunicate da altri considerati significativi, noi ci autodefiniamo. Ulteriori elementi sono il confronto sociale e l’auto-osservazione. Percezione prettamente soggettiva, l’autostima muta nel tempo e si forma molto precocemente. «I bambini appena nati non sanno niente di sé stessi e del mondo e ricavano
Rafforzare l’autostima fin dall’infanzia aiuta durante l’adolescenza quando i ragazzi scoprono nuovi aspetti di sé. (Marka)
queste informazioni da chi si prende cura di loro, dal loro atteggiamento, dal loro sguardo, dal modo in cui si relazionano fisicamente – afferma Renzo Rossin, psicologo clinico, specializzato in psicosintesi educativa – questi elementi sono già decisivi per far sentire il piccolo amato o, al contrario, fargli percepire che c’è qualcosa che non va in lui. Anche se non c’è ancora la capacità di giudicarsi, il sentimento di sé comincia molto presto». Quando il bambino poi inizia ad uscire dalla famiglia, con la scolarizzazione, l’atteggiamento delle figure significative esterne acquista importanza. «Gli insegnanti, per esempio, possono far sentire di maggiore o minore valore il bambino, il suo comportamento, la sua intelligenza, il suo modo di relazionarsi agli altri. Molto importanti sono ovviamente gli amici e i compagni», continua Rossin, che opera come psicologo clinico e counselor nel suo studio di Milano e come formatore presso alcune organizzazioni pubbliche e private. I giudizi interni ripetono spesso quello che abbiamo sentito dire su di
noi: «Si tratta di percezioni formatesi nel passato e spesso neppure coscienti. Come delle voci registrate, in famiglia e a scuola, che ci portano a comportarci sempre nello stesso modo, quasi a seguire un copione – continua lo psicologo – nel mio lavoro mi confronto spesso con persone che hanno dei comportamenti limitanti perché continuano ad essere condizionate da giudizi ricevuti in passato. Il lavoro psicologico serve proprio ad acquisire una maggiore conoscenza e consapevolezza di sé e ad usare meglio le proprie risorse». Conoscenza di sé che sta alla base di una buona autostima, che non è quindi un obiettivo da raggiungere, ma piuttosto qualcosa che si attualizza nel momento in cui «torniamo a casa», prendiamo cioè contatto con il nostro io più profondo. Avere un’alta autostima non significa quindi che non ci sentiamo più fragili o mai completamente a nostro agio: significa che accettiamo il nostro limite. «Dentro ad ognuno di noi c’è un Ulisse che vuole andare oltre i confini, ma in realtà è dentro i confini che costruiamo qualunque cosa. Le relazioni interpersonali, da cui dipende
molto la qualità della stima di se stessi, sono un aprire questi confini agli altri» spiega Renzo Rossin. «Il confine è un concetto molto prezioso dal punto di vista educativo. Ci sono tanti giochi proprio sull’autostima in cui si fanno degli esercizi specifici sul confine». Secondo lo psicologo – che ha insegnato in vari ordini di scuola e in scuole di psicoterapia e counseling – per rafforzare l’autostima la scuola può fare tantissimo: «È fondamentale che gli adulti aiutino il bambino a percepire ciò che di bello ha in sé, attraverso esercizi espressivi, giochi di ruolo, ecc. Perché diventi “autostima”, e cioè “giudizio dato verso di sé da se stessi”, occorre infatti che vi sia una consapevolezza, che passa attraverso una serie di esperienze educative le quali rendono possibile al piccolo di conoscersi». Questo darà i suoi frutti anche durante l’adolescenza, quando i ragazzi, confrontati a grandi cambiamenti, entrano in contatto con aspetti nuovi di sé. Ciò può generare un disorientamento, che li porta alla continua ricerca di conferme sociali e di nuovi modelli con cui confrontarsi. È in particolare
il «gruppo dei pari» ad acquistare un ruolo importante nella costruzione della propria identità. Dall’altra parte il ragazzo deve però mantenere la consapevolezza di quello che dentro di sé lo rende unico, soprattutto in una realtà come quella virtuale in cui si interagisce con numerose persone contemporaneamente. Su smartphone e tablet, ciascuno rappresenta se stesso attraverso selfie, commenti, immagini e video, facendo diventare di conseguenza gli altri un pubblico. Se si ricevono e commenti positivi, il senso di autoefficacia è accresciuto ma quando un semplice gesto come quello cliccare su «Mi piace» non viene effettuato, il rischio è che questo venga vissuto come un rifiuto, con ripercussioni sulla stima di sé. «Sant’Agostino diceva “la felicità non è avere tutto quello che si vuole ma volere tutto quello che si ha”. Un assunto che purtroppo non è attuale in una società dove si vuole sempre di più, quando in realtà non è quello che rende più felici – commenta Rossin – imparare a onorare l’esistente e poi cercare ciò che è desiderabile al di là di ciò che c’è, è un processo educativo che richiede una gradualità e una presenza preparata, benevola, incoraggiante da parte dell’adulto». Se questo non è avvenuto in modo adeguato, a scuola o in famiglia, la lacuna può, se del caso, essere colmata da un intervento psicoterapeutico: «Quello che previene è, ovviamente, la migliore delle medicine; come diceva una collega “se arriva in tempo è educazione, se arriva tardi è terapia”», continua Rossin, che ha lavorato come formatore per l’Alta Scuola Pedagogica della Svizzera Italiana e che attualmente collabora con la SUPSI e tiene, da quasi 30 anni, dei corsi di psicosintesi presso il centro Alchemilla di Balerna. La Psicosintesi è una corrente psicologica che si basa sull’insegnamento di Roberto Assaggioli, il quale è stato allievo diretto di Freud e amico di Jung: «La psicosintesi può essere sicuramente d’aiuto per il tema che stiamo trattando. Essa parte da un presupposto della psicologia umanistica che considera l’essere umano come portatore di potenzialità specifiche che possono essere identificate e valorizzate – spiega Rossin, che è pure co-fondatore della Società Europea di Ecopsicologia – si tratta quindi di un modo per conoscersi, che valorizza l’auto-esplorazione, l’autoascolto, anche attraverso l’immaginario e attraverso atti di raccoglimento e meditazione».
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Maria Gripe, I figli del mastro vetraio, Iperborea, da 9 anni. Una bottega di vetraio, due giovani sposi e i loro bambini. Comincia in atmosfere domestiche e quotidiane questo romanzo di grande forza simbolica, che poi conduce il lettore in terre fantastiche, dove una Sovrana si ammala perché non ha più nulla da desiderare, dove un Sovrano per guarirla le porta due bambini, dove aleggia l’inquietudine di strani e intensi personaggi. Uscito nel 1964 in Svezia, dalla fervida penna di Maria Gripe (1923-2007) e illustrato dal marito Harald, I figli del mastro vetraio
torna ora a disposizione dei lettori di lingua italiana (era uscito da Mondadori trent’anni fa), grazie all’editore Iperborea e alla sua bella collana per ragazzi I Miniborei (una vera collana, progettata con un disegno editoriale, con l’evidente intento di selezionare libri di qualità e farne traduzioni – come questa di Laura Cangemi – di altrettanta qualità). Il lettore è ammaliato da questa storia, la quale sotto la levità di una fiaba fa trasparire temi archetipici, che affondano nel patrimonio mitico di tutti noi. La prima scena ci presenta la famigliola di Alberto, il mastro vetraio. I vetri di Alberto sono bellissimi ma il suo bimbo già intuisce «che ciò che è più bello» è anche «più fragile». Una fragilità che avverte anche Sofia, la mamma, tormentata dal senso di colpa per aver detto in un momento di stanchezza che i bambini le erano di impiccio: «Non pensava affatto quello che aveva detto – nessuna mamma può pensarlo – e si pentì subito. Pro-
prio lei che era così orgogliosa e contenta dei suoi figli! L’aveva detto solo perché gli insidiosi pensieri che le frullavano in testa avevano preso per un attimo il sopravvento». La fragilità di ognuno di noi, l’impossibilità di proteggere appieno chi amiamo, ma soprattutto il saper vedere e accettare le luci e le ombre del nostro animo, sono solo alcune delle chiavi di questo romanzo. Ce ne sono molte di più: c’è ad esempio, come dicevamo, una Sovrana depressa (o ancor meglio: «senza desideri») e c’è una vecchia misteriosa e saggia con un corvo ancora più saggio. Più saggio perché ha due occhi speciali, uno per vedere «la luce, la gioia di vivere, i pensieri allegri, il bene». L’altro per vedere «le ombre e il dolore». Solo così, solo integrando le ombre, si può davvero sconfiggere il male. Le paroline magiche, collana «Piccini Picciò», De Agostini, da 18 mesi.
È un librotto quadrato semplicissimo, senza pretese. Eppure può avere un suo senso preciso nell’essere proposto a bimbi che iniziano a scoprire il linguaggio e le relazioni sociali. In contesti in cui ogni bambino può identificarsi, i personaggi si salutano, dicono grazie, per favore, prego, scusa, e tutte quelle esclamazioni o espressioni di cortesia che dovrebbero, al di là di ogni moralismo, stare alla base di ogni comportamento quotidiano. Perché la cortesia non è una mera formalità, è un riconoscere l’altro. Riconoscimento e riconoscenza:
due termini che fondano la nostra esistenza. Il mio io si esprime nel riconoscimento dell’altro da me. Il mio io assume il fatto che non tutto gli è dovuto. Spesso ai bambini viene concesso di non salutare, di non ringraziare, di non entrare con rispetto nelle vite degli altri, perché si sa sono bambini. Ma è proprio perché sono bambini che andrebbe loro offerta – con leggerezza e senza pedanteria – l’opportunità di comprendere l’importanza del rivolgersi al mondo con gentilezza. E questi personaggi, disegnati dall’illustratrice e grafica bolognese Beatrice Tinarelli ne sono un simpatico esempio. Tanto più che i loro dialoghi non si limitano alle citate formule di cortesia, ma vanno più a fondo, e più al cuore degli interlocutori. C’è ad esempio la solidarietà e la condivisione: Posso aiutarti?, chiede una bimba a un’altra bimba; o l’espressione di un affetto, Ti voglio bene! dice un bimbo abbracciando la nonna.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 ottobre 2018 • N. 41
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Società e Territorio
Viva la bici
Mobilità Il popolo svizzero ha accettato di dare rilievo costituzionale alla bicicletta. Un fatto storico, ora, però,
Cantoni e Comuni devono promuovere le ciclopiste e il Ticino è in ritardo Fabio Dozio Pedala, pedala, pedala, alla fine la bicicletta ce l’ha fatta: è riconosciuta dalla Costituzione svizzera. Si è inserita all’articolo 88 prescrivendo che «La Confederazione emana principi sulle reti di sentieri, percorsi pedonali e vie ciclabili. Può sostenere e coordinare provvedimenti dei Cantoni e di terzi per la realizzazione e la manutenzione di tali reti, nonché per informare sulle medesime». C’è voluto qualche anno: il primo tentativo di sfondare nella carta la bici lo fece nel 1977, ma il Consiglio degli Stati, allora, bloccò le sue ambizioni. È poi stata lanciata un’iniziativa popolare per far vincere alla bicicletta una gara storica dal profilo politico. L’iniziativa «Per la promozione delle vie ciclabili e dei sentieri e percorsi pedonali» prevedeva che il Consiglio federale fosse obbligato a promuovere le ciclopiste. Il controprogetto, che è stato approvato il 23 settembre, attenua l’obbligo trasformandolo in possibilità. Il risultato è stato chiaro: 73,6% di favorevoli, nessun Cantone contrario. Il Ticino, con il 75% di sì, ha superato di misura il risultato nazionale. Il Cantone più «filobici» è Vaud, 86%. In Ticino è curioso il risultato di Corippo, dove il 100% dei votanti (quattro!) ha approvato il controprogetto in un comune dove muoversi in bicicletta è praticamente impossibile. Ora toccherà al Parlamento definire una legge per applicare l’articolo costituzionale. Uno dei punti cruciali cui i politici non potranno sottrarsi è la sicurezza stradale. La mobilità ciclistica è infatti l’unico ambito in cui, dall’anno duemila, il numero dei feriti e dei morti a causa di incidenti è aumentato, mentre il numero degli automobilisti feriti o deceduti si è ridotto del 34%, quello dei ciclisti è cresciuto di oltre il 27%. Le bici elettriche possono avere una parte di responsabilità, perché purtroppo, a volte, ciclisti inesperti non sono in grado di guidare con sicurezza i mezzi che possono raggiungere velocità ragguardevoli. L’80% degli spostamenti in bus o in tram e il 50% di quelli in automobile non supera i cinque chilometri. Il potenziale di sviluppo della mobilità ciclabile è enorme. Le statistiche rivelano che in Svizzera solo l’8% della popolazione circola regolarmente in bici. In Danimarca il 23% e nei Paesi bassi il 36%.
La mobilità ciclistica deve approfittare dei Programmi d’agglomerato. (Keystone)
Attualmente le biciclette in circolazione nel nostro Paese sono circa 4 milioni. Nel 2017 ne sono state vendute circa 330mila, il 4,2% in più rispetto all’anno prima. La bici elettrica rappresenta un successo di vendita, il 16,3% in più da un anno all’altro. «Quello che ci vuole è più sicurezza – afferma determinato Rocco Cattaneo, ex ciclista professionista e ora consigliere nazionale – più vie ciclabili sicure e in generale una migliore ed efficace segnaletica. Ci sono ancora troppi incidenti mortali di ciclisti sulle strade». Secondo lei che impatto avrà il nuovo articolo costituzionale? «L’impatto non sarà purtroppo miracoloso. – spiega Cattaneo – Per ora, visto il risultato del voto, si constata però che a livello popolare si desidera avere più sicurezza quando ci si muove in bicicletta. E ciò aiuta sicuramente moltissimo a sensibilizzare le nostre autorità. Il fatto che le vie ciclabili ottengono nello stesso articolo costituzionale il medesimo livello di importanza dei percorsi pedonali è storico per la bicicletta. Le viene riconosciuta la giusta dimensione e un grande potenziale di sviluppo come mezzo di trasporto efficiente, salutare, ecologico e come vero motore per il promovimento del turismo. Il compito principale di sviluppare vie ciclabili sicure rimane come finora ai Cantoni e ai Comuni. Con il modificato articolo costituzionale, Berna potrà promuovere, coordinare e incentivare lo sviluppo di vie ciclabili così come lo sta facendo e in modo sussidiario da più
decenni con i percorsi pedonali». Marco Vitali, anche lui ex corridore e presidente di Pro Velo Ticino aggiunge: «Sotto l’ombrello della Costituzione possono però essere ad esempio approvate leggi che tutelano maggiormente i ciclisti, ma soprattutto si può mirare a rafforzare le voci di investimento che nella realizzazione delle infrastrutture sono riferite alla mobilità dolce. Per quest’ultima, nei primi due Programmi d’agglomerato erano già stati investiti, per intenderci, oltre 670 milioni». Il Ticino non è certo all’avanguardia, anzi, è in netto ritardo, anche se fin dal 1988 il concetto di ciclopista è ancorato alla legge. Il presidente di Pro Velo, l’associazione che promuove la diffusione della bici, Marco Vitali, stima un ritardo di una ventina di anni. «La rincorsa del Ticino agli altri cantoni intensamente urbanizzati – spiega Vitali – era stata inizialmente ritardata e frenata da leggi cantonali che, in materia di mobilità ciclabile, conferivano le competenze di intervento soprattutto ai comuni. A questi spesso mancavano le competenze tecniche o la volontà politica: difficile anche pretendere, d’altra parte, investimenti nei casi in cui – e si trattava della maggioranza – i percorsi ciclabili non servivano prioritariamente i centri d’interesse comunali, ma erano di interesse regionale o cantonale. Con le competenze assunte dal Cantone le questioni rimangono ovviamente aperte: sia per l’importante ritardo accumulato
nel tempo, sia perché confrontati con comuni come Lugano che negli ultimi vent’anni non hanno fatto i compiti, sia perché i molti progetti infrastrutturali hanno tempistiche di realizzazione che Pro Velo Ticino considera in molti casi inaccettabili». Offrire nuovi percorsi ciclabili è importante, ma non basta. I tempi di realizzazione a volte sono troppo lunghi. Per esempio la ciclopista sul ponte di Melide, prevista dal Gran Consiglio fin dal 2001, è stata completata nel 2016, malgrado non vi fossero ricorsi contro il progetto. «Il Dipartimento del territorio, – sostiene Vitali – per quanto riguarda i progetti infrastrutturali, si è sicuramente attivato. Il problema è che la bicicletta, quando si tratta di passare alla fase realizzativa, è sempre in fondo alle priorità». A fine agosto il Municipio di Lugano ha licenziato all’attenzione del Consiglio comunale un messaggio con la richiesta di 6,2 milioni di franchi per le ciclopiste del piano dello Scairolo. Nella regione è in funzione la ciclopista sulla vecchia linea del tram tra Canobbio e Tesserete e nuovi tracciati sono previsti a Bioggio. Un’altra pista è già in funzione sull’altra vecchia linea del tram, quella della Lugano-Dino, che va ancora sistemata nella parte più a valle. Gli ostacoli maggiori per il ciclista sono le strade cantonali e comunali: pavimentazioni sconnesse, spazi ridotti, velocità troppo elevate. Rocco Cattaneo ha lanciato l’i-
dea di creare un’autostrada ciclabile fra Melide e Lugano, dove oggi c’è una strada che i ciclisti considerano a rischio. «Tra i comuni c’è una grande differenza nell’approccio. – sottolinea Marco Vitali – Un importante fattore di omogeneizzazione sono i Programmi d’agglomerato, ampiamente finanziati dalla Confederazione. Al loro interno la mobilità ciclistica può finalmente trovare l’attenzione che merita. Il fatto che il contributo della Confederazione sia assicurato in modo proporzionale anche all’attenzione prestata alla mobilità dolce, è una premessa per una notevole spinta al miglioramento. Purtroppo anche qui c’è però da segnalare un’importante nota negativa: al territorio che ha più bisogno di interventi, il Luganese, questo contributo, come sappiamo, è stato negato. Dopo che il PAL 2 era già stato penalizzato da un contributo ridotto, il PAL 3, il programma di terza generazione, è stato infatti addirittura bocciato». «In un confronto intercantonale siamo sicuramente in ritardo. – afferma sconsolato Rocco Cattaneo – Il Cantone da solo però non può fare tutto e anche i Comuni devono fare la loro parte. Nel Sopraceneri sono stati realizzati parecchi progetti e le Città di Bellinzona e Locarno si stanno attivando molto in favore della mobilià ciclabile. Nel Sottoceneri c’è ancora molto da fare e mi sembra di percepire ancora poca volontà politica per fare decollare i molti progetti che ancora si trovano solo sulla carta. Peccato perché proprio in questo contesto la bici potrebbe avere positivi effetti sul traffico pendolare. Occorre avere ancora pazienza». Eppure in Svizzera ci sono città virtuose ed esemplari per quanto riguarda la mobilità lenta. Per esempio Burgdorf, nel Canton Berna, ha vinto per la terza volta di seguito il premio «Città a misura di bicicletta» della Pro Velo. La cittadina di 16200 abitanti ha lanciato nel 1996 il programma decennale «Città modello per pedoni e bici» che doveva portare a una drastica riduzione del traffico motorizzato, e quindi dell’inquinamento, a vantaggio della mobilità lenta. Lo spunto è stato il progetto Energia 2000 della Confederazione. Aziende, istituzioni comunali e associazioni del traffico hanno concordato misure condivise che sono sfociate in 22 progetti. Privilegiare e creare zone d’incontro: questo l’obiettivo più significativo di tutta l’operazione.
Trumpie, Nelly e le altre
Pubblicazioni Serena Dandini racconta la vita di donne intraprendenti per «fare giustizia dell’amnesia collettiva»
Natascha Fioretti Trentaquattro donne e altrettante rose compilano il catalogo valoroso di Serena Dandini uscito per Mondadori che, citando Saffo, parte da un assunto: «Qualcuno io dico, si ricorderà di noi nel futuro». Speriamo, nel frattempo vi dico che il libro si legge bene, le quattro pagine, o quasi, dedicata ad ogni donna valorosa sono snelle, agili, mentre la scrittura è semplice, quasi parlata, adatta per un ampio pubblico. Serena Dandini dice chiaramente nella sua prefazione di non avere lo scopo di «fare giustizia dell’amnesia collettiva» che fino ad oggi ha caratterizzato il nostro sapere ma solo darci «un assaggio» di un’epopea sommersa e fornire dei modelli virtuosi alle giovani generazioni a corto di esempi edificanti. «Il catalogo delle donne valorose» è una buona idea fatta di assaggi
Il libro raccoglie 34 storie di donne.
ognuno condito con una citazione, un’illustrazione con collage di Andrea Pistacchi e una rosa creata da ibridatori e ibridatrici «che con molta più lungimiranza di storici e accademici
hanno deciso di rendere immortali le loro eroine». Prima di addentrarci nel catalogo un avviso ai naviganti: per donne valorose qui si intendono «donne intraprendenti spesso perseguitate o felicemente controcorrente, che hanno osato ribaltare un destino che stava loro stretto e con passione e coraggio hanno tracciato nuovi sentieri». Sono donne di ogni epoca e paese, di diversa estrazione sociale e professione, e di ognuna vale la pena leggerne la storia. Molte, devo ammettere, non le conoscevo, sono state una sorpresa e mi hanno appassionata. Personalmente sono rimasta colpita dalle vite di Josephine Bakker, Nelly Blie, Olympe de Gouges, Emma Goldmann, Alice Guy, Wangari Muta Maathai e Sophie Scholl. Non riuscirò a raccontarvele tutte, ne scelgo due, per le altre dovete leggere il libro.
Josephine Bakker, detta Trumpie, la rosa a lei dedicata è la velvet flame è stata una donna straordinaria per diversi motivi. Nativa del Missouri, di estrazione sociale molto umile, a 13 anni all’insaputa della madre si presenta al Boxer Washington Theater per un provino. Sarà l’inizio dell’ascesa di quella che la stampa europea più tardi chiamerà «la Venere Nera che ha stregato Baudelaire» visto che sceglierà Parigi come città d’adozione prendendo la cittadinanza francese nel 1937. Josephine Bakker, cantante e danzatrice di successo, di origine meticcia afroamericana e amerinda degli Appalachi, era bella, spiritosa, aveva talento, grinta e una grande joie di vivre. Ma anche grande coraggio nel battersi per i diritti della sua gente e per i valori in cui credeva. Durante la Seconda guerra mondiale, approfittando del lasciapassare di cui godeva, trasportava di nascosto, mettendoli tra gli spartiti
d’orchestra e le fodere del cappotto, documenti vitali per la resistenza. Nelly Blie invece è stata la prima giornalista donna a entrare al Pittsburgh Dispatch. Più in generale è stata la prima giornalista investigativa a inaugurare il giornalismo sotto copertura. Il suo vero nome era Elizabeth Cochran e tutto ebbe inizio da una lettera critica che scrisse al giornale sotto pseudonimo. Lonely Orphan Girl, cosi si era firmata, in una lettera dallo stile intelligente e sincero si lamentava per l’editoriale sessista di Erasmus Wilson dal titolo «What Girls Are Good for» (A cosa servono le ragazze). Secondo le donne dovevano rimanere a casa a badare alla famiglia e a fare i mestieri, altro che cercare lavoro. In verità di lettere di protesta al giornale ne arrivarono molte ma quella di Lonely Orphan Girl colpì nel segno anche perché il direttore era convinto che a scriverla fosse stato un uomo.
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Cornetto e cappuccino Erano almeno tre giorni che sulla tolda della Sultana, la galea ammiraglia, i comandanti della flotta ottomana osservavano le manovre delle navi cristiane che avevano in buona sostanza bloccato l’imboccatura della profonda baia di Efpaktos – Inebahti in turco, Lèpanto per i marinai veneziani ed Echinadi (o Curzolari) per il resto del mondo. Quello che preoccupava non era tanto il fatto di trovarsi in pratica imbottigliati nel profondo di una baia senza apparente via di scampo. A quello svantaggio apparente avrebbero senza dubbio ovviato i venti mattinieri. Venti di terra che avrebbero messo il vento in poppa alle navi ottomane: armate a vela latina avrebbero goduto per il regime dei venti del vantaggio di potersi portare sempre e comunque sopravvento alle navi cristiane. E da qui, come insegna la storia delle battaglie navali fino alla fine dell’età della vela, scaricare i cannoni di prua e di poppa con veloci manovre di vela e di remi. Queste, per contro, sarebbero state intrigate a cambiare costantemente bordo per far fronte al fuoco ottomano da prua come da poppa senza esporre le
fragili murate delle galee sottili (così il nome delle galee da guerra veneziane) al fuoco nemico con l’aggiunta di un vento contrario che avrebbe costretto i cristiani a condurre tutte le manovre a forza di remi e per giunta in spazi ristrettissimi dove il rischio di collisione era altissimo. Dunque: dal punto di vista logistico tutto faceva pensare che la giornata sarebbe stata vinta se soltanto… Inshallah. Ma Muezzinzade Alì, Kapudan Pasha (Grande Ammiraglio) della flotta ottomana, non si sentiva sicuro. Figlio di un modesto muezzin che aveva scalato i ranghi della nomenclatura ai tempi di Selim II, austero ed ascetico adepto della confraternita Sufi, ben sapeva come la fortuna fosse come il vento: amica ora per poi divenire il boia. E così, assieme a Mehmet Shoraq – il terribile corsaro noto come Scirocco, comandante del corno destro dello schieramento ottomano e da Ulug Alì Occialì, alias Giovanni Galeni, il corsaro rinnegato di Trecastella in Calabria dalla fama di implacabile al quale era affidato il corno sinistro, aveva scrutato per ore ed ore le manovre della squadra cristiana. A
preoccuparlo non erano tanto le forze convenzionali: se gli infedeli avevano il doppio dei cannoni, gli Ottomani erano in vantaggio per numero di combattenti e numero di galee, e la battaglia sarebbe sicuramente stata risolta all’arma bianca. Pertanto i numeri erano a favore. Però, però: non convincevano l’astuto Kapudan Pasha certi giganteschi navigli di un tipo mai visto solcare i mari in numero di sei – due per ciascun «corno» dello schieramento cristiano, che erano stati faticosamente messi in posizione dopo innumerevoli sforzi ed ancorati ad un miglio avanti la flotta nemica ad una buona distanza gli uni dagli altri. Battevano lo stendardo veneziano, e Alì Pasha sapeva per esperienza che di quei cani infedeli dei veneziani non ci si poteva fidare – né nella mercatura né tantomeno in guerra. Altissime di bordo tanto da rendere l’abbordaggio impossibile tanto per gli assalitori quanto per i difensori, troppo alte anche perché il tiro dei cannoni di prua e di poppa montati dalle galee di entrambe gli schieramenti potesse essere efficace, stavano lì, inchiodate fra i due schieramenti nel buio totale della
notte e in un silenzio altrettanto cupo: a quale trucco si apprestavano i nemici eterni della Sublime Porta? La mattina del 7 ottobre 1571 il vento di terra che avrebbe portato la flotta ottomana di gran carriera a ridosso dei cristiani si levò tardi. Quando finalmente le galee si misero alla via, grida e fanfare accompagnarono lo scatto: la vittoria era quasi certa, e già i cristiani faticavano a tenere le prue contro il vento contrario per non essere sbandati. Le galee turche cominciarono a sfilare lungo le fiancate dei bestioni galleggianti: di colpo i loro fianchi si aprirono, e dalle portelle spalancate 36 cannoni – 18 per murata – cominciarono a vomitare palle incatenate di grosso calibro addosso alle galee ottomane tanto da dritta quanto da sinistra, fuoco poi coadiuvato da un numero imprecisato di pezzi d’artiglieria minore e dalla fucileria di archibugieri. Fu un massacro senza precedenti: Francesco Dundo, il Procuratore della Serenissima che aveva il comando dell’arma segreta, rivendicò per le sue galeazze l’affondamento di almeno 70 legni sui 350 circa che componevano la flotta turca.
Le galeazze, che qualcuno definì «castelli in mare da non essere da umana forza vinti», erano le prime navi da guerra mediterranee a poter sparare bordate dai fianchi e non solo da poppa o da prua. Ideali dunque per il combattimento ravvicinato e non solo per la guerra da corsa, a Lepanto fecero schegge dei legni ottomani mano a mano che questi sfilavano loro lungo i fianchi. Quando allora attorno a mezzogiorno il vento cambiò a favore dei cristiani lo sconforto ormai serpeggiava fra i combattenti turchi. La Sultana fu abbordata dalle galee toscane Capitana e Grifona. Alì Kapudan Pasha, il figlio devoto dell’umile muezzin, morì combattendo. Venne decapitato pur contro il volere di Don Giovanni d’Austria, comandante supremo della coalizione cristiana: la sua testa fu issata in cima all’albero maestro dell’ammiraglia spagnola. Il giorno era perso per la scimitarra dell’Islam. Di quella giornata ci restano le brioches a forma di corno (i «cornetti») che – si dice – furono serviti alla festa della Vittoria in segno di dileggio per la Mezzaluna. Buona colazione?
sentono autorizzati a esprimere le loro emozioni e a porre le loro domande. La reazione al lutto è sempre personale, segue modi e tempi diversi, per cui potrà capitare che un nipote si disperi e l’altro sembri insensibile e distratto. Ma non colpevolizzatelo, i meccanismi con cui la psiche si difende dalla disperazione derivano dall’inconscio, non sono intenzionali e, se li condanniamo rischiamo solo di indurre una persona a fingere e mentire. Favorite piuttosto la partecipazione dei bambini ai riti del commiato perché li convinceranno della realtà dell’evento e li aiuteranno a compiere gesti positivi come posare un fiore sulla tomba, accendere un lumicino dinanzi alla foto, programmare una visita al cimitero. Ricordate che la morte dei nonni fa parte della vita e va inscritta nella storia di famiglia per cui, a tempo debito, sfogliate insieme l’Album delle foto raccontando le vicende, belle e brutte, evocate da quelle immagini. Il ciclo delle generazioni infrange l’angoscia del «mai più»
e offre una prospettiva di fiducia e di speranza. Accade infine che il bambino incontri persone che negano l’esistenza dell’«aldilà». Ma, anche per chi crede nell’immortalità, può essere un’occasione per ammettere che non tutti hanno le stesse idee e spiegare che, in ogni caso, la persona cara non è perduta per sempre in quanto continuerà a vivere nei nostri cuori, nei nostri pensieri, nei nostri ricordi dove sarà una presenza indelebile. Tra le poesie della mia infanzia ne ritrovo una che evoca proprio questa dimensione di perennità: «Ci sarai sempre nonnina ti pare, non penserai di potertene andare?». «Non me ne vado, stanne sicura. Resto col bene che eterno dura».
l’enorme mosaico del nostro passato. È un’operazione in cui si corre il rischio di perdersi, inseguendo l’obiettivo illusorio di un background illustre, spesso da inventare. Grazie ai mezzi informatici, ormai si possono costruire alberi genealogici lusinghieri, con tanto di relativi stemmi. Anche, in quest’ambito, un tempo riservato agli specialisti, si assiste all’avanzata del fai da te. Sta di fatto che la genealogia si democratizza, mettiamola così, e ha ormai creato un mercato, che funziona, e un hobby, che va di moda. Un fenomeno che sarebbe troppo facile liquidare con l’ironia. Certo, rappresenta un aspetto di quel culto di sé, di cui i social sono l’indizio più evidente, con effetti in bilico fra ingenuità ed esibizionismo. Qui, però, c’è dell’altro. Questa ricerca dei propri antenati rivela un bisogno di appartenenza, di un punto fermo, delle
famose radici in cui si rispecchia lo spirito di un’epoca, ripiegata sul passato e impaurita dal futuro. Non sempre, tuttavia, questo viaggio a ritroso nel tempo, contribuisce alla nostra sicurezza, cosiddetta identitaria, per usare un brutto neologismo d’obbligo. Anzi, può riservare sorprese imbarazzanti. Come raccontava Maurizio Stefanini sul «Foglio», l’albero genealogico, attraverso le sue infinite ramificazioni, gli ha fatto scoprire di essere «una miscela». Il prodotto di componenti italiane, nordafricane, greche, ebraiche, e via enumerando apporti che arrivano da lontano. C’è di che allarmare Salvini e compagni. E, per quel che mi concerne, ho rinunciato alla ricerca sui miei antenati quando venni a sapere che uno zio d’America, da parte credo materna, non solo non aveva fatto fortuna, ma si era cacciato nei guai.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La morte, ne parlo con mio figlio Gentile Silvia, nostro figlio Luciano, di 6 anni, è un bambino particolarmente sensibile e qualche giorno fa ha chiesto: «nonna tu sei vecchia, quando morirai?». Per fortuna mia madre gli ha risposto senza scomporsi: «Certo un giorno morirò, come tutti. Ma non adesso». Luciano ci è sembrato soddisfatto di quella risposta. Purtroppo in questi giorni il padre di mia moglie, il nonno materno, sta affrontando la fase terminale di un male inesorabile. Luciano gli è particolarmente affezionato e temiamo che la sua morte possa costituire un trauma per il bambino. Come prepararlo all’evento? Dobbiamo parlargliene sin da ora o è meglio attendere che si verifichi? / Genitori in ansia Cari genitori, la vostra preoccupazione vi fa onore perché contrasta con la tentazione di credere che i bambini non capiscano, non s’interessino, non vogliano sapere niente delle questioni decisive. Ma, come non mi stanco di ripetere,
i bambini respirano l’atmosfera della loro famiglia, vedono e ascoltano anche quando sembrano distratti. Sicuramente Luciano avrà captato con le sensibili antenne dell’età la vostra ansia, i vostri timori. Ed è giusto tenerlo al corrente, senza troppi particolari, della malattia e del ricovero ospedaliero del nonno e, se la situazione lo permette, che vada qualche volta a trovarlo. Vi è altrimenti il rischio che la fantasia sia più spaventosa della realtà. Ma prepararlo alla scomparsa che sta per accadere non significa tenere una conferenza sulla morte e sul lutto, meglio rispondere alle sue domande quando le esprimerà. I nostri bambini incontrano precocemente la morte nelle favole, nei film e nei cartoni animati, dove si presenta spesso come reversibile. Però di solito, a sei anni, sanno che la morte è per sempre. Tuttavia tra sapere e comprendere c’è molta differenza e può succedere che chiedano: «ma quando viene il nonno?». Anche noi adulti possiamo ingannarci e cedere per un attimo all’illusione di un
ritorno impossibile. Ma è solo un attimo perché subito la ragione impone le sue ragioni. Quando il decesso è vicino possiamo preparare i bambini dicendo: «il nonno è peggiorato e i medici non possono più guarirlo, tra poco morirà» e infine: «è successo, il nonno è morto». In quei frangenti possiamo aiutare il piccolo a superare lo shock rievocando le varie fasi della malattia. Attenti però a non dire «è scomparso» perché chi va può sempre tornare. Mentre si pronunciano queste difficili parole, meglio abbracciare il bambino, carezzarlo dolcemente e disporsi ad ascoltarlo. L’importante è evitare di bloccare le nostre emozioni. Se non ci concediamo di soffrire sarà il corpo a esprimere, ammalandosi, i pensieri che la mente ha scacciato dal suo perimetro. È perciò opportuno non nascondere il dolore, concedersi di piangere, di essere tristi. Date parole al ricordo e al rimpianto - perché solo così i bambini si
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Le storie, non sempre, fanno la storia È partita bene la nuova stagione di «Storie». Con «1918 fuga dalla Russia», i realizzatori della docufiction, proposta recentemente dalla TSI, avevano a disposizione un caso per così dire ideale. Quando, cioè, una vicenda familiare coincide con un evento della grande storia. Questa volta, si tratta addirittura della rivoluzione bolscevica che, nel febbraio del 1917, coinvolse una piccola collettività di persone che, più politicamente estranee e innocenti, non potevano essere. Appartenevano alla «Colonia italo-svizzera San Nicola» fondata a Piatigorsk, Caucaso, nel 1896 da un agronomo ticinese, sul terreno preso in affitto da un principe russo. Ora quest’emigrante, partito da Morcote, con il proposito di «introdurre tecniche di lavoro moderne per l’allevamento del bestiame, la coltura della vite e degli alberi da frutto», si
chiamava Michele Raggi: un nome che ci è ben noto. È quello di un pediatra luganese, suo pronipote, che incuriosito della figura dell’intraprendente bisnonno, decise di ritrovarne le tracce, sulla scorta di un prezioso diario. Dal 22 marzo 1918 al 25 gennaio 1919, Raggi aveva annotato su foglietti, poi nascosti all’interno del suo bastone, gli avvenimenti sempre più tragici di cui era testimone e, infine, vittima, tanto da costringerlo a un’avventurosa fuga. Fu questo documento a indurre il giovane Raggi a proseguire in una ricerca, destinata via via ad allargarsi. L’episodio del suo antenato s’inseriva, infatti, nel fenomeno migratorio che, sino a un secolo fa vedeva i ticinesi dalla parte di chi, l’ospitalità, la deve chiedere. Maturò così l’idea di un libro per far conoscere, appunto, le due facce di un evento che
avrebbe diviso il mondo, come non mai. Nel 1995, pubblicato da Dadò, usciva il volume, scritto a quattro mani, da Michele Raggi e dallo storico Giorgio Cheda: Dalla Russia senz’amore. Il titolo, che si rifaceva a un episodio della serie 007, non mancò di suscitare qualche malumore, fra i nostalgici del muro da poco abbattuto, poco inclini al sorriso. Succede, insomma, e lo conferma il caso Raggi, che un destino individuale assuma le dimensioni e il significato di un’esperienza in grado di meritare l’attenzione collettiva. E, quindi, si giustifica l’impegno dei discendenti per recuperare le impronte lasciate da antenati, protagonisti o testimoni di avvenimenti rilevanti. Da queste ricerche, paragonabili per certi versi agli scavi archeologici, emergono frammenti che vanno a completare
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Ambiente e Benessere Quasi un carnevale funebre Ad Oaxaca in Messico si celebra uno dei Dìas de los Muertos più celebri, oggi diventato patrimonio dell’Unesco
Il «Mondial de la Moto» Per il salone di Parigi non più solo automobili, ma anche due ruote
pagina 13
La cucina campana Piatti di semplice frugalità e sontuosa sovrabbondanza si affiancano e si contrappongono pagina 18
pagina 16
Il codice del cavallo Sara Maffi spiega i segnali vocali degli equini e i significati che anche noi possiamo interpretare
pagina 21
Un volo panoramico sul Cantone
Statistica Come stanno i nostri fiumi?
E la qualità dell’aria quanto è cambiata negli ultimi anni? I boschi sono sani? STAR fa il punto della situazione
Marco Martucci Metà della superficie cantonale è coperta da bosco, nel 2016 in Ticino si contavano 638 veicoli ogni mille abitanti, ai ghiacciai ticinesi restano pochi decenni di vita. Lo leggiamo in STAR, acronimo di «Statistica Ticinese dell’Ambiente e delle Risorse naturali», un documento pubblicato ogni quattro anni dall’Ufficio di statistica (Ustat) e dalla Sezione della protezione dell’aria, dell’acqua e del suolo (Spaas) in collaborazione con i competenti servizi cantonali. Quella del 2017, è la terza, la più recente e attuale edizione di STAR e, rispetto alla precedente del 2013, oltre agli aggiornamenti, contiene quattro nuovi capitoli, uno sulla biodiversità e tre dedicati all’acqua, complessivamente 24 schede tematiche. La parola statistica può far venire in mente un arido elenco di cifre e di grafici. In effetti, cifre, dati misurati e grafici abbondano: sono garanzia di oggettività e scientificità. Ma in STAR non mancano spiegazioni e riferimenti; taglio didattico e lettura avvincente invitano alla riflessione e all’approfondimento. Ecco qualche esempio, anche curioso e sorprendente, trovato sfogliando qua e là la cinquantina di pagine corredate di numerose illustrazioni. All’acqua, risorsa naturale sempre più preziosa, è riservato ampio spazio. Dal suo monitoraggio quantitativo e qualitativo scopriamo che in Ticino, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le precipitazioni sono superiori alla media svizzera ma, fra il 1901 e il 2000 la loro diminuzione, unita all’aumento della temperatura, ha portato a una riduzione di circa 0,6 km3 del volume di nevai, ghiacciai, falde acquifere e laghi naturali e artificiali. La qualità dei fiumi è molto buona nel
Sopraceneri e discreta nel Sottoceneri; ottima la qualità delle acque nelle spiagge dei nostri due grandi laghi. La nostra acqua potabile, il cui consumo è in diminuzione da tempo, proviene in gran parte da sorgenti e da falde. Abbiamo 27 impianti di depurazione che, nel 2016, hanno trattato oltre 55 milioni di metri cubi d’acqua. Altra importantissima risorsa naturale, forse meno evidente, è il suolo. Le minacce al nostro suolo vengono in primo luogo dall’edificazione. In circa un quarto di secolo le superfici d’insediamento sono aumentate di quasi il 22%, soprattutto a spese dei terreni agricoli. Altre minacce sono l’erosione, il compattamento e il degrado chimico, come la presenza di rame nel suolo dei vigneti, la cui concentrazione è comunque in gran parte sotto il valore di guardia. Invisibile ma indispensabile è l’aria. Nel 2016 i tre inquinanti diossido di azoto, ozono e polveri fini hanno di nuovo superato i limiti, soprattutto nelle zone urbane. Curioso il caso dell’ozono, che ha fatto registrare una diminuzione rispetto al 2015, dovuta anche a un’estate meno calda e soleggiata della precedente. Il clima, anche da noi, sta comunque cambiando, come evidenziato dall’analisi di MeteoSvizzera che, per il Ticino, segnala: una chiara diminuzione dei giorni di gelo, un netto aumento di giorni estivi e tropicali a bassa e media quota, il rialzo dell’isoterma di zero gradi durante tutto l’anno e una decisa diminuzione delle nevicate. Negli ultimi quattro decenni la temperatura media è aumentata di 1-1,5°C; a Lugano, rispetto agli anni Ottanta, l’aumento è stato di ben 1,6°C. Si riscaldano anche laghi e fiumi: rispetto al 1976, l’acqua del Cassarate è più calda di oltre due gradi e mezzo. Una nuova scheda tematica
Panorama sul nostro territorio dalla vetta del Monte Ferraro, nel Malcantone, a quota 1494 metri. (Marco Martucci)
riguarda la biodiversità, per la cui salvaguardia è essenziale tutelare gli spazi vitali: a questo mira il sistema delle aree protette che comprende fra l’altro cinque zone palustri d’importanza nazionale. Le specie endemiche, presenti soltanto in Ticino, sono 151, fra cui la rana di Lataste. Altre specie, decisamente meno gradite, sono le alloctone invasive, come l’ambrosia, pianta altamente allergenica e la «zanzara tigre», ancora assente nella statistica del 2013. Con 91 diversi tipi di bosco, le nostre foreste sono ben diversificate: le specie arboree più abbondanti sono l’abete rosso, il faggio, il castagno e il larice. Il bosco ticinese produce circa mezzo milione di metri cubi di legno all’anno e nel 2016 ne sono stati tagliati circa 92mila, in gran parte destinati alla produzione di energia. Il bosco è spazio vitale, luogo di svago per la popolazione, fornisce anche prodotti come funghi, bacche, miele e castagne e protegge dai pericoli naturali. STAR non trascura la presenza
umana con tutte le sue attività. Un terzo delle 354’375 persone che abitavano in Ticino nel 2016 – 44’160 in più rispetto al 2000 – risiedeva in una delle quattro più popolose città del Cantone. La sola Lugano ospita il 18 % della popolazione cantonale e l’agglomerato urbano più del 40%. Nove occupati su dieci sono pendolari. Sono oltre 140mila le persone che si spostano per lavoro. Molte in automobile e infatti in Ticino il tasso di motorizzazione è superiore alla media nazionale ma anche con i trasporti pubblici come con la rete TILO che nel 2016 ha trasportato 9,8 milioni di passeggeri. Legata al traffico, ma non soltanto, è l’energia, il cui consumo, fra il 2000 e il 2015, è aumentato di quasi il 12%, in linea con l’aumento della popolazione del 13,5%. Quasi due terzi di questa energia è di origine fossile. D’altronde, il Ticino è, dopo Vallese e Grigioni, il terzo produttore di energia idroelettrica a livello nazionale. Persone e traffico producono però anche rifiuti, rumore e inquinamento
luminoso. Nel 2016 sono stati prodotti circa 2,4 milioni di tonnellate di rifiuti, in gran parte dal settore edile. I rifiuti urbani ammontano a circa 300mila tonnellate. Le più importanti fonti di rumore, concentrate nei fondovalle dove peraltro vive quasi tutta la popolazione, sono il traffico stradale, le ferrovie, il traffico aereo e i poligoni di tiro. Circa il 20% degli edifici e il 35% della popolazione sono esposti a rumore eccessivo e si stima che oltre 400 km di strade siano fonicamente da risanare. Se volete ammirare la volta celeste piena di stelle è meglio allontanarsi dalla «Y» formata da Locarno, Bellinzona, Lugano e Chiasso. Le emissioni luminose prodotte dai nostri centri urbani – anche se la metropoli milanese ha il suo impatto – raggiungono distanze di oltre venti chilometri. Informazioni:
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Ambiente e Benessere
Altari con offerte e decorazioni. (S. Dalla Vale)
Oaxaca nei giorni delle calaveras
Reportage Le celebrazioni del Día de los Muertos tra rituali e parodie inneggianti alla vita
Simona Dalla Valle Un viso sorridente, incorniciato da un vistoso cappello di piume di struzzo, mi osserva di soppiatto da un manifesto a un angolo di strada. Non è il volto di una donna, o meglio, è ciò che ne rimane: siamo a Oaxaca, nel cuore del Messico, e quella raffigurata sui poster appesi a vetrine di negozi e bancarelle di artigianato con altari e pan de muertos non è altro che una delle innumerevoli rappresentazioni della Calavera Catrina (dallo spagnolo, letteralmente: «Cranio Catrina»). L’iconografica immagine della calavera garbancera (il teschio venditore di ceci) creato dal caricaturista José Guadalupe Posada intorno al 1913 è ormai entrato a far parte dei cliché sul Messico insieme a tacos e sombreri. I teschi di Posada, ispirati alla vita borghese e alla dittatura, assumono una forma di caricatura satirica e politica, e la Catrina – questo il nome attribuito in seguito al teschio da Diego Rivera – che raffigura lo scheletro di una donna messicana adornato da lussuosi vestiti «europei», si pone come una critica verso l’imitazione degli abiti e delle abitudini delle classi sociali più agiate. Ma la Catrina ed El Catrín – il suo equivalente maschile – simboleggiano molto di più: ballano, passeggiano, si divertono insieme, rappresentano il piacere e la voglia di vivere del popolo messicano nonostante la consapevolezza della morte. Questo è un tema di difficile comprensione soprattutto nei paesi europei e nordamericani, dove la morte è una sorta di tabù contemporaneo, qualcosa di innominabile, da nascondere e dimenticare. Alla base dell’atteggiamento positivo di fronte alla mortalità vi sono da un lato la cosmogonia e il concetto di inframundo dei popoli preispanici, e dall’altro l’innesto della cultura catto-
Una «Calavera Catrina». (S. Dalla Valle)
lica con il giorno dei morti e quello di ognissanti. Il momento della morte ha assunto connotazioni positive fin dai tempi degli Aztechi in quanto annunciatrice di una condizione migliore, celebrata in antichità con sacrifici in onore della dea della terra e della vita Coatlicue, rappresentata figurativamente con una maschera della morte. In Messico la morte è celebrata in modo unico e speciale, al punto che il Giorno dei Morti è diventato un patrimonio orale e immateriale dell’umanità riconosciuto dall’UNESCO. I cimiteri, detti pantheon, sono il miglior punto di partenza per celebrare il Día de los Muertos: il Pantheon San Miguel, nella zona centrale della capitale, di recente chiuso al pubblico in seguito ai terremoti del 2017, luogo per eccellenza per assistere alle veglie organizzate dalle famiglie locali, tra i fiori colorati di cempasúchil, il profumo di incenso o copal e la luce delle candele e delle lampade a olio di ricino, che tingono di giallo il grigio delle cripte e delle tombe. A mezz’ora dal centro di Oaxaca si trova
Maschere tradizionali nella sfilata del 1 novembre. (S. Dalla Valle)
il pantheon di Xoxocotlán, un altro dei punti chiave di questa celebrazione. A partire dall’evangelizzazione di Oaxaca portata avanti dai frati domenicani Gonzalo Lucero e Bernardino de Minaya, a capo di innumerevoli missionari civilizzatori, sono state fissate le date del 1 e 2 novembre per celebrare tutti i fedeli defunti, traendo ispirazione dal culto dei morti già esistente tra le popolazioni indigene. La celebrazione dei Muertos inizia già a metà ottobre con la disposizione dei prodotti su un altare in segno di offerta. Fin dai primi giorni si installano le decorazioni di fiori dagli odori e colori caratteristici, quindi inizia l’arrivo delle persone in lutto. Si possono trovare prodotti tipici di stagione come il mole negro, i dolci di zucca e i nicuatole, i frutti tejocote, il tutto accompagnato da cioccolato e pan de muertos. Queste prelibatezze sono utilizzate per decorare gli «altari dei morti» in onore di coloro che sono già partiti dal mondo terreno. Gli altari dei morti sono posizionati nelle case dei parenti o sulle tombe all’interno dei cimiteri, e variano secondo le tradizioni di ogni re-
gione. Tutto ciò che il defunto amava in vita è ricordato durante la preparazione dell’altare e l’offerta viene preparata con cura il mattino del 31 ottobre. Questi altari sono solitamente posizionati su un tavolo rivestito da una tovaglia, un lenzuolo bianco o carta traforata; sulle gambe anteriori del tavolo sono legate canne da zucchero fino a formare un arco trionfale. Il primo di novembre è il giorno in cui si «portano i morti», l’usanza è infatti quella di offrire ai parenti e agli amici della famiglia un assaggio dei piatti che fanno parte dell’offerta a chi non c’è più. Questo è anche il giorno della celebrazione dei i «piccoli angeli», coloro che sono morti da bambini. Il 2 novembre a essere celebrati saranno gli adulti. Una volta posizionato l’altare, nessuno può toccare nulla. Gli ospiti principali sono i morti e saranno loro a dare il via alla festa; al loro ritorno negli inferi il cibo e le offerte saranno distribuite ai familiari. A nord del centro, nel quartiere Xochimilco, le famiglie aprono le loro porte a compaesani e turisti mostrando con orgoglio altari e decorazioni, men-
tre nella piazza antistante il Templo de Santo Tomas si svolgono degustazioni di pane e cioccolata di fronte a concerti e rappresentazioni teatrali a opera di artisti locali. Un’altra delle esperienze imperdibili in occasione del giorno dei morti è il rituale delle comparsas. Al ritmo di chirimías, tromboni e tamburi, i quartieri e le strade principali della città sono invase da un’impressionante gara di costumi tradizionali. Allontanandosi dal centro storico, nella città di San Agustín Etla, a 20 minuti da Oaxaca, si svolge lo spettacolo delle Muerteadas, formate da gruppi di persone con costumi e caratterizzazioni di personaggi archetipici come la morte, la Catrina, il diavolo, la donna che piange, il vecchio, la vedova… a queste si aggiungono figure comuni come il fornaio, il tortillero, il macellaio della comunità, i funzionari pubblici. In queste giornate di commemorazione il gioco e la parodia invadono ogni parte della vita quotidiana, e che cos’è se non un modo di accettare gioiosamente una predestinazione che non risparmia nessuno?
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Ambiente e Benessere
Mont-Dauphin, il forte dei mille venti Viaggi Una tappa storica lungo un percorso alternativo per la Provenza
Domenico Scarano Ci sono quelli che partono con lo scopo di arrivare a destinazione e quelli per cui il viaggio fa parte della vacanza, e come tale va vissuto. Solitamente per questo tipo di viaggiatore la scelta di percorsi alternativi rispetto alle direttrici classiche può essere un buon viatico che aiuta a iniziare al meglio la propria avventura. Per raggiungere la Francia del Sud, una valida alternativa è quella di varcare il confine tra Italia e Francia attraverso il passo del Monginevro. Da Briançon attraverso la N94 si raggiunge Gap e in seguito la N85 scivola verso Sisteron.
Lo spostamento dei confini tra Italia e Francia del 1713 lo rese inutile a scopo di difesa e così si è conservato Il percorso offre un piacevole e graduale avvicinamento alla Francia del meridione, con il paesaggio che sfuma da quello tipico alpino del dipartimento HautesAlpes a quello assolato con le case in pietra e le persiane color pastello dei dipartimenti più a sud. Lungo la strada, che segue il corso del fiume Durance, sono molti i luoghi di interesse che possono meritare una tappa. Uno dei più pittoreschi tra questi è sicuramente Mont-Dauphin, che si trova a poco più di 30 km a sud di Briançon. Si tratta di un villaggio fortificato che dall’alto di un rilievo chiamato dai mille venti, domina la valle sottostante dove il fiume Guil confluisce nella Durance. La piazzaforte di Mont-Dauphin fu creata dall’ingegnere Vauban su ordine del re Luigi XIV, preoccupato dalle continue invasioni dell’esercito sabaudo. I lavori furono terminati nel 1700, ma già nel 1713 perse la sua utilità militare a seguito del trattato di Utrecht, che decretò lo spostamento dei confini italiani allontanandoli di fatto dalla roccaforte. Questo impedì lo sviluppo della città come previsto dal suo ideatore. Essa rimase incompiuta, insieme alla chiesa di Saint-Louis. Il villaggio quindi non ha subito assedi, e le sue mura, i bastioni, le caserme e i fossati sono perfettamente conservati. L’unico fatto d’armi: un bombardamento italiano del 1940 che privò di un’ala
L’accesso alla piazzaforte. (D. Scarano)
l’edificio dell’arsenale. In questo insolito villaggio-fortezza vivono 170 abitanti, uno dei più piccoli comuni di Francia. Dal 2008 è iscritto dall’UNESCO al Patrimonio dell’umanità. L’accesso avviene per mezzo di una grande porta raggiungibile da un ponte che passa sopra il fossato. Non sono molte le strade del borgo, la maggior parte delle quali digradano in sentieri che si perdono tra piccole collinette intorno al centro abitato e che ne fanno luoghi perfetti di scorribande di bambini. Percorrendo il perimetro delle mura è possibile perdersi a guardare il bel paesaggio sottostante, che da qualsiasi punto è incantevole. Da uno di questi
La lunetta di Arçon, una postazione avanzata. (D. Scarano)
scorci il fotografo italiano Gabriele Basilico (1944-2013) ha scattato una delle fotografie per un lavoro sulla Durance del 1992. Alla reception-libreria si possono acquistare i biglietti per visitare l’interno degli edifici storici: il padiglione dell’orologio, quello degli ufficiali, la polveriera, l’arsenale, le caserme, i sotterranei le fortificazioni e il giardino dei tempi del Marchese di Vauban. Ad orari prestabiliti partono visite guidate. È strana la sensazione che si prova a gironzolare per le strade dove si alternano semplici case private a edifici nati con funzioni militare e che ora hanno un’aria così innocua da sembra-
Vista sulla Durance. (D. Scarano)
re elementi di un grande parco giochi. Durante la nostra visita non ci ha mai lasciato la sensazione che questo sia il posto giusto dove vivere la propria fanciullezza, la posizione precisa delle coordinate spazio-temporali stabilite al tempo della nostra infanzia. A tratti sembra di trovarsi sul set de La guerra dei bottoni, e che da un momento all’altro una masnada di ragazzini urlanti possano comparire da dietro una montagnetta. Una capanna costruita su di un albero conferma le nostre sensazioni. Diverse sono le offerte proposte nei dintorni di Mont-Dauphin. Dalle escursioni al forte di Briançon, al meraviglioso castello di Château-
Queyras, dall’abbazia di Boscodon alla cattedrale di Embrun. Per quanto riguarda gli sport, è una regione che offre molto durante tutto l’anno. In inverno le vicine stazioni sciistiche offrono sci-alpino, sci di fondo, e ciaspolate. Mentre nel periodo estivo sono trekking, mountain-bike, canoakayak, rafting e ciclismo su strada gli sport che attirano migliaia di appassionati. In particolare va ricordato che le falesie di Mont-Dauphin sono equipaggiate per l’arrampicata. Quindi che sia una tappa sulla strada per il sud Provenzale, o che sia la meta per un lungo fine settimana, Mont-Dauphin merita una visita.
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Ambiente e Benessere
Cucina, insegna, ama Personaggi Intervista a Pietro Leemann, chef stellato esperto in cucina vegetariana e creatore della Joia Academy
Patrizia Cappelletti Primo chef vegetariano stellato, Pietro Leemann si è conquistato negli anni una grande notorietà per il suo valore in campo gastronomico, come pure per il suo impegno nella sensibilizzazione, formazione e produzione culturale a favore di una alimentazione buona e sana. Suo intento è quello di rendere le persone sempre più consapevoli rispetto alle scelte legate al cibo. È stato Chef Ambassador di Expo Milano 2015. Consulente di aziende alimentari, tiene corsi e conferenze a livello internazionale ed è autore di numerosi libri. Chef Leemann, l’anno prossimo il suo ristorante Joia, a Milano, festeggerà 30 anni. In tre decenni il mondo dell’alta cucina è cambiato, anche grazie a Lei.
Dall’apertura del Joia abbiamo fatto molte esperienze. Allora la cucina vegetariana gourmet non esisteva. Noi abbiamo creata, inventando soluzioni e modi di fare che non c’erano… È questa consapevolezza di essere in qualche modo dei pionieri che l’ha spinta a fondare, accanto al ristorante, anche una scuola?
I motivi che hanno portato alla nascita della Joia Academy sono principalmente due. Il primo è che sempre più persone si stanno avvicinando al mondo vegetariano e vegano, un universo che ha precise prerogative e che non solo richiede la conoscenza delle tecniche, ma anche di contenuti. Servono competenze rispetto a come si cucina, ma anche, ad esempio, rispetto a quale alimentazione può essere sostitutiva. Ci siamo accorti che spesso mancano gli strumenti. Con Joia Academy vogliamo offrire un sostegno concreto a queste persone. Il secondo movente è il desiderio di diffondere conoscenza, di divulgare. Questa è una dimensione che per me è sempre stata molto importante e che si è realizzata anzitutto attraverso i libri che pubblico regolarmente. Avevo però anche un’altra esigenza: quella di avere uno spazio diverso di relazione, pratico, diretto, concreto. Da qui l’idea di una scuola.
Una scuola che incarna i principi e i fondamenti della sua idea di cucina, dove la buona alimentazione si inserisce all’interno della ricerca di un benessere più ampio. In questo senso frequentare la Joia Academy significa ben più che apprendere delle tecniche…
Joia Academy è anche un luogo di riflessione e di confronto. Chi arriva da noi porta sempre con sé un proprio bagaglio e la scuola facilita l’incontro e lo scambio. A ciò si aggiunge anche la possibilità di approfondire le motivazioni che portano le persone ad essere vegetariane e che sono sicuramente un’ottima risposta a un preciso tempo storico in cui sono in atto cambiamenti profondi. Sappiamo un po’ tutti che la cucina vegetariana fa bene, alle persone e al mondo, ma spesso alla base di questa decisione c’è una precisa scelta filosofica. Chi diventa vegetariano o cambia dieta ci arriva dopo un percorso che è bene i cuochi conoscano
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
«Relazione privilegiata». (Lucio Elio)
e poiché il cibo è un elemento fondamentale della nostra vita, cambiare alimentazione significa mettersi veramente in gioco.
Oggi cosa rappresenta la Joia Academy nel panorama della formazione culinaria? Resta un’eccezione e o sta facendo letteralmente scuola?
Mi ha fatto molto piacere apprendere che la Joia Academy è stata inserita nella lista delle 8 migliori scuole di cucina di Milano. Poiché tutte le altre scuole sono onnivore, questo riconoscimento è per noi doppiamente importante. Sicuramente la Joia Academy è diventata un punto di riferimento per il mondo della cucina vegetariana. A seguito di un recente articolo sulla mia esperienza pubblicato in Francia, un gastronomo francese molto conosciuto mi ha scritto esprimendo il desiderio di fare uno stage da noi. Credo che Joia Academy sia ormai riconosciuta come «la» scuola vegetariana per eccellenza. Non siamo gli unici, ovviamente, ci sono altre scuole di formazione nel campo dell’alimentazione vegetariana, ma la caratteristica del Joia è che da noi si fa alta cucina. A proposito, come il mondo degli chef risponde a queste trasformazioni? Cosa vede dal Suo osservatorio privilegiato?
La società sta cambiando. Stiamo diventando più riflessivi, sia a livello individuale che collettivo. Oggi prendiamo più facilmente posizione sui temi che ci stanno a cuore. In questo l’alimentazione non fa eccezione. Chi va al ristorante spesso domanda piatti vegetariani ed è importante che il cuoco sappia accogliere questa richiesta; sappia cucinare, ma ancor prima sia consapevole di cosa parla il suo ospite. Dall’altra parte anche gli stessi cuochi Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
stanno trasformando questo mondo. Qualche giorno fa ero al Salone del gusto, a Torino. Alcuni cuochi mi hanno riconosciuto e avvicinato: avevano preparato piatti creativi con verdure DOP, piatti vegetariani… Oggi credo che i cuochi siano contenti di cucinare vegetariano. È indubbio che ci sia un cambiamento in atto.
Preparando professionisti qualificati, anche Joia Academy contribuisce a modificare stili di vita, motivazioni e sensibilità…
Questa è la mia missione. Diventare vegetariano mi ha cambiato in positivo la vita e mi piace l’idea che questo possa accadere anche ad altre persone. All’interno della società, la Joia Academy è una proposta per una trasformazione positiva. Se più ristoranti, se più chef cucineranno piatti vegetariani, più l’ospite potrà goderne. Anche una persona onnivora una sera può avere voglia di mangiare un piatto vegetariano. È sempre più importante in un menù saper proporre un piatto vegetariano bello e buono.
Agli inizi di novembre partirà un corso professionalizzante in collaborazione con la Joia Academy in Ticino con la Scuola Club di Migros Ticino. Cosa spinge questo suo ritorno in Ticino?
Io sono sempre molto legato al Ticino dove trascorro alcuni giorni della settimana. Quando sono in Ticino mi sento a casa. In Svizzera c’è una buona sensibilità al mondo vegetariano, anche grazie alla mia persona che negli anni è diventata sempre più conosciuta. Dunque, più che un ritorno, questo corso alla Scuola Club di Migros Ticino è in continuità con la mia vita e conferma ancor più questa mia vicinanza al Ticino. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
È nato a Locarno, nel 1961. (Lucio Elio) Perché ha scelto la Scuola Club come partner privilegiato a cui affidare tutto il valore e la conoscenza che ha creato in questi anni?
corso specialistico lanciato assieme, vogliamo avviare un dialogo con i professionisti. Parliamo di un corso di livello alto che colma un vuoto nella formazione attuale dei cuochi. Grazie a questa importante collaborazione abbiamo ora la possibilità di rispondere a questa mancanza e accompagnare con consapevolezza questa grande trasformazione.
Tiratura 102’022 copie
Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch
Per come io l’ho vissuta, la Scuola Club di Migros Ticino è una realtà che si impegna a fare cultura e condividerla con le persone. Non è una realtà elitaria. È aperta a tutti e questo a me piace moltissimo. Con questo
Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Ambiente e Benessere
A Parigi sfilano anche le due ruote
Motori La rassegna francese dedicata alle novità automobilistiche, e da quest’anno non solo, registra alcune defezioni
ma è sempre un appuntamento di prestigio – dal 4 al 14 di ottobre
Mario Alberto Cucchi Mondial de l’auto di Parigi. Così si chiama l’esposizione francese che oggi spegne 120 candeline. La sua prima edizione è datata 1898, ciò che lo rende il Salone dell’auto più antico d’Europa. Si tiene con cadenza biennale e da sempre è uno dei salotti buoni del mondo a quattro ruote. Nell’edizione del 2016 ha registrato oltre un milione di visitatori. Aperto al pubblico dal 4 al 14 di ottobre, quest’anno il Salone di Parigi (www.mondial-paris.com) cambia pelle. Non sono più protagoniste solo le auto, ma anche le motociclette con il «Mondial de la Moto» che occupa un intero padiglione della fiera, il numero 3. Non solo, tra le novità nei pavillon parigini anche due nuove aree tematiche: «Mondial de la Mobilitè» e il «Mondial Tech». La prima riunisce assieme ad auto e moto anche biciclette, autobus e camion. In pratica tutto ciò che si muove su strada, con un attenzione particolare all’innovazione tecnologica guardando al futuro e alle tendenze che trasformeranno le nostre abitudini di spostamento. Il padiglione 7.3 dedicato invece al «Mondial Tech» mette insieme produttori di auto e giganti della tecnologia, nonché interessanti start up. Le premesse per un successo ci sono tutte, sebbene si registrino pesanti defezioni da parte dei numerosi costruttori automobilistici che
a Parigi quest’anno non ci sono: da Volkswagen a Ford, da Volvo a Nissan, Opel, Mazda, Infiniti, Mitsubishi e Subaru. Assente anche Fiat Chrysler Automobile con i marchi Alfa Romeo, Fiat, Lancia, Jeep e Abarth. Presenti invece i brand del superlusso italiano: Maserati e Ferrari. Ci sono anche i costruttori tedeschi: Audi, BMW, Mercedes e Porsche. Ovviamente presenti le case automobilistiche francesi Citroen, Renault e Peugeot oltre a molte altre come Jaguar, Land Rover, Hyundai, Honda, Toyota, Lexus. Però questa volta si vede più il vuoto del pieno, lasciano a bocca aperta più le assenze delle presenze. Perché non ci sono tutti? Va detto che si tratta di una tendenza globale. Basti pensare che a fine settembre in Italia è stato comunicato l’annullamento del prossimo Motor Show di Bologna. Non solo una questione di costi, ma di strategia. Per le Case automobilistiche oggi sono più allettanti dal punto di vista commerciale Saloni che si svolgono in Paesi in cui il mercato è in una forte fase di sviluppo, ad esempio Cina, India, Thailandia. Ma un giro a Parigi vale la pena farlo anche quest’anno. Gli appassionati di automobili trovano infatti pane per i loro denti nonostante le assenze. Tra le anteprime mondiali le Ferrari Monza SP1 ed SP2. Due barchette rispettivamente monoposto e biposto, che rientrano nell’ambito dei progetti speciali della
Tra le anteprime mondiali che saranno presentate a Parigi, anche la Ferrari Monza SP1.
Casa di Maranello. Sogni a parte, tra le novità più attese ci sono la nuova BMW Serie 3 giunta alla settima generazione e la nuova Audi A1 Sportback. Mercedes presenta invece la nuova Classe B. Gli amanti dei Suv a Parigi
possono vedere la nuova Mercedes GLE e la BMW X5 entrambe con motorizzazioni ibride nonché le elettriche Mercedes EQC ed Audi e-tron. Ma anche il piccolo Suv del Gruppo PSA: la DS 3 Crossback. Addirittu-
ra tre le anteprime mondiali per Peugeot in uno stand di 2mila mq: la 508 sw, la gamma di motori ibrida plug-in benzina e il prototipo e-Legend. Insomma tantissime novità. Nonostante tutto, Parigi è sempre una buona idea. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Tra il frugale e il sontuoso In questi anni abbiamo parlato di tante cucine regionali italiane e di tanti paesi del mondo, ma mai di quella della Campania. Piatti di semplice frugalità e sontuosa sovrabbondanza si affiancano e si contrappongono nella cucina campana, in particolare in quella napoletana, erede dei fasti della corte borbonica. Influssi francesi, spagnoli, normanni, greci e bizantini si fondono indissolubilmente tra di loro, mescolandosi ai prodotti ortofrutticoli, vero e proprio vanto della regione insieme all’assortimento di pesce.
Protagonisti indiscussi del mercato ortofrutticolo di questa regione sono i pomodori utili per guarnire la pizza, ma anche alla base di tanti sughi Protagonisti indiscussi del mercato ortofrutticolo sono i pomodori – approdati qui piuttosto tardi, solo nella seconda metà dell’Ottocento – cui si affiancano peperoni, broccoli, carciofi e scarole. Utilizzati per guarnire la pizza, piatto simbolo della gastronomia campana e napoletana in particolare, sono alla base anche dei tanti sughi destinati alla pasta, altro emblema della regione. Cucinati rapidamente o stufati a fuoco lento con la carne, si trasformano in condimenti squisiti; se poi il sugo è arricchito con la carne, la pasta diventa un piatto unico. Molto apprezzati anche gli ortaggi ripieni; oltre ai peperoni, si usa per esempio farcire la scarola con un gustoso ripieno di olive, acciughe, capperi, pinoli e aglio. Una simile combinazione insaporisce i polpi alla Posillipo, mentre quelli alla Luciana sono cotti con peperoncino e pomodoro.
Piatti semplici, quindi, ma non per questo meno saporiti, da consumare quotidianamente, a differenza delle complesse ed elaborate pietanze che serbano memoria della cucina di corte e che sono oggi riservate ai giorni di festa. L’esempio migliore è offerto dalle infinite ricette fatte con gli spaghetti o con altri formati di pasta. Ma anche dal sartù di riso, un ricco timballo composto da una farcia (pancetta, piselli, salsiccia, fegatini, funghi, mozzarella, prosciutto), da polpettine di carne trita e parmigiano, e da riso condito con ragù alla napoletana (carne di maiale o manzo, lardo, verdure aromatiche, pomodori). Ampio spazio trovano anche i latticini di bufala o di vacca, a cominciare dalle ben note mozzarelle, protagoniste della pizza, di piatti come gli spaghetti alla caprese, o racchiuse tra due fette di pane e fritte per finire in carrozza. Ma non di sola mozzarella vivono i campani: ecco allora la scamorza, il caciocavallo, il provolone, il burrino. Fuori del capoluogo, si segnalano i torroni e in un’area influenzata dalla cucina pugliese – un influsso rilevabile, per esempio, nel consumo di orecchiette, sconosciuta a Napoli; anche il casertano si difende bene, con la pasta lardiata, preparata con il lardo, e gli Ziti ripieni, farciti con salame, uova, cipolle e caciocavallo; a Salerno si prepara invece il Viccillo, una ciambella salata con uova sode, mozzarella e salame. Tra i dolci ricordiamo la pastiera napoletana, tipica del periodo pasquale, le sfogliatelle ripiene di ricotta e canditi, e gli struffoli. E poi c’è la pizza. Piatto popolare da sempre, non era «riconosciuto» come tale dalla critica gastronomica. Al punto che quando il sommo Pellegrino Artusi, vate della cucina dell’Italia Unita, va a Napoli, non la vede, proprio non la cita nell’ultima edizione del suo libro, che comprende piatti di tutte le regioni. Chiama pizza un dolce che ancora esiste con questo nome, ma è un piatto storico semi sconosciuto, oggi.
CSF (come si fa)
pxhere
Allan Bay
pxhere
Gastronomia Un viaggio culinario nella terra campana e in particolare per scoprire la cucina napoletana
Parliamo di canapè: un piatto un po’ vecchio stile che oggi, purtroppo, molti non conoscono. È una preparazione gastronomica per antipasti o buffet freddi. Più grandi di una comune tartina, sono costituiti da una fetta di pane privata della crosta e guarnita variamente, calda o fredda (nel primo caso sono assimilabili a dei crostini). I canapè freddi sono solitamente preparati con pancarré tagliato
in due triangoli, lasciato indurire per circa un’ora e spalmato con burro o maionese. Se il burro è aromatizzato con gamberi, acciughe, senape o altro non sono previste guarnizioni; se invece viene servito al naturale, si può scegliere di arricchire la guarnizione con salmone affumicato, bottarga, salumi, caviale, fegato grasso e così via. La maionese si accosta invece con crostacei lessati, uova, verdura cruda (in genere lattuga) o cotta (per esempio piselli o asparagi), olive nere o verdi, petto di pollo cotto. Si possono usare anche gelatine o creme con formaggi misti, come gorgonzola o mascarpone. Una variante molto apprezzata è costituita da pane spalmato di burro e bordato con maionese, guarnito con pesci affumicati come tonno, storione, spada o trota. Il pancarré può essere
sostituito da pane integrale o di segale; in questi casi, si utilizza il burro guarnito con speck o pesci marinati (anguilla, sgombro o aringa). In ogni caso, i canapè devono essere preparati appena prima di essere serviti. Vediamo come si fanno. Canapè di pesce. Ingredienti per 4 persone. Saltate 300 g di ritagli di qualsiasi pesce con un filo d’olio per 1’, poi scolate. Unite nella padella 1 peperone giallo mondato e tagliato a juliénne, saltate per 2’, poi legate con una punta di concentrato di pomodoro stemperato in poca acqua e cuocete ancora per 1’. Levate, fate intiepidire e mescolatelo ai pesci, regolate di sale e di pepe. Servite su triangoli di pancarrè fatti come indicato sopra. Al posto del pesce potete mettere straccetti di qualsiasi carne.
Ballando coi gusti Oggi vi propongo due sughi veramente universali: metteteli su qualsiasi amido, dalla pasta al riso, dalla polenta alle patate ecc.
Sugo al tonno
Sugo di ricotta e asparagi
Ingredienti per 4 persone: 150 g di tonno sott’olio ben scolato · 2 acciughe sott’olio ·
Ingredienti per 4 persone: 500 g di asparagi · sia crudi sia decongelati · 2 uova · 200 g di ricotta · formaggio grattugiato · olio di oliva · sale e pepe
40 g di olive nere denocciolate · 20 g di capperi sott’aceto · 1 piccola cipolla · 1 spicchio di aglio · prezzemolo · olio di oliva · sale e pepe
Mondate e sbucciate lo spicchio di aglio e la cipolla, scolate e strizzate i capperi e tritate il tutto insieme alle acciughe. In un tegamino soffriggete il trito con olio, poi scolate e fate intiepidire. Sminuzzate il tonno e mettetelo in una ciotola; aggiungete il soffritto e le olive spezzettate e mescolate. Regolate di sale e di pepe e profumate con il prezzemolo tritato.
Preparate le due uova sode, raffreddatele e sgusciatele. Stemperate in una ciotola la ricotta con una forchetta, aggiungendo pochissima acqua calda, sino a ottenere una salsa liscia. Mondate gli asparagi eliminando la parte di gambo più dura. Lessate le punte in poca acqua bollente leggermente salata. Dopo 10 minuti circa scolatele e tagliatele a pezzi. Rosolate le punte degli asparagi in una padella con un filo di olio; levate, fate intiepidire. Se gli asparagi sono decongelati, basta rosolare le punte con poco olio e farle intiepidire. Unite gli asparagi alla ricotta. Aggiungete sale, pepe e i tuorli delle uova sode sbriciolati, mescolate.
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Ambiente e Benessere
La Castiglia e León, una terra di vitigni selezionati
Scelto per voi
Bacco Giramondo Tra le quattro regioni che vantano la Denominación de Origen spicca
la Ribera del Duero per importanza e qualità
Davide Comoli La Castiglia e León è il nocciolo storico della Spagna: le capitali delle otto provincie costituiscono «l’autonomia» di queste regioni, tutte legate alla riconquista della Spagna. Prima di essere unita sotto il regno di Alfonso VI nel XI secolo, la Castiglia e León erano dei regni indipendenti. A dare il via al processo di unificazione della Spagna fu il matrimonio, nel 1469, tra Isabella di Castiglia e l’erede del trono d’Aragona. Attraversando sette delle otto provincie, il fiume Duero influenza con la sua geologia e microclima. Quattro sono i D.O. locali: la Ribera del Duero (Douro in portoghese), Rueda, Cigales e Toro. Prima della recente esplosione dei vini della Ribera del Duero, seguita poi da quelli del Toro, oggi molto conosciuti ed esportati, i vini locali erano riservati a tre categorie locali: la nobiltà castigliana, gli ecclesiastici delle sedi vescovili e gli intellettuali della famosa Università di Salamanca. La Ribera del Duero, è senz’altro
la più importante D.O. della valle del Duero e della Castiglia e León. A metà del XIX sec., il marchese de Riscal e il marchese de Murrieta, portarono in questa zona terricci e vitigni provenienti dalle zone del Bordeaux. La stessa cosa fu fatta a Valbuena, villaggio nei pressi di Valladolid. Bisogna infatti sapere che quest’area di produzione, si estende per più di 110 km, attraversa quattro provincie, l’85% dei vigneti si trova nella provincia di Burgos, anche se le numerose bodegas appartengono a quella di Valladolid. La Denominación de Origen fu creata nel 1982. Ribera del Duero è sinonimo di qualità che si declina nei seguenti vini: Vega Sicilia, Pingus, Pesquera. Sono tutti prodotti che negli ultimi due decenni sono riusciti a spuntare prezzi da capogiro in tutto il mondo offrendo una qualità che è quasi unica. I vini rossi hanno colori scuri e profondi, meravigliosi sentori di frutta rossa, vellutati tannini e invecchiano bene. I vitigni autorizzati sono: la Tinta del Pais (Tempranillo) che è il vitigno dominante, poi c’è la Grenache, il Cabernet Sauvignon, il Merlot e il Malbec,
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Uno scorcio della Ribera del Duero. (pexels.com)
Le Masserie Torcuddia Salice Salentino DOC Riserva
per i vini rossi, mentre l’Albillo è il vitigno per i bianchi. Lo stile dei vini è molto influenzato dalle scelte del legno usato per le barriques: a volte viene utilizzata quercia americana (che cede più tannini), altre volte legno del Massiccio Centrale francese. I 15mila ettari vitati della Ribera del Duero (80% rossi) non sono tutti situati lungo le sponde del fiume omonimo, ma anche sui pianori circostanti, dove le migliori parcelle, rivolte a sud discendono verso il fiume. La Rueda, ha una solo D.O., che è destinata a un vino bianco, prodotto con un vitigno poco usato in Spagna, il Verdejo. I quasi 9mila ettari al nord del Duero sino a Valladolid, passando nei pressi di Avila e di Segovia, sono dunque più della metà coltivati a Verdejo, ma troviamo anche tra i vitigni a bacca bianca il Viura (Macabeo), Sauvignon Blanc e un po’ di Palomino. Le bellissime vecchie cantine scavate nella falesia che corrono per chilometri di tunnel, servono spesso a stoccare il «Rueda espumoso», dove invecchia per almeno 9 mesi sui suoi lieviti e deve essere prodotto con almeno il 75% di Verdejo. La forza di questo vino sta nel suo bouquet più floreale che fruttato, sottolineato da nuances dolce-amaro e speziate che ricordano molto erbe selvatiche. Ricco di estratto, questo vino lascia delle lacrime sul bicchiere, non a indicare un forte grado alcolico, ma morbidezza e qualità. Nel Cigales, che ha ricevuto la D.O. nel 1991, oltre a vini rossi e bianchi con vitigni sopracitati, si producono da secoli degli eccellenti vini rosati. Il Tempranillo (assai promettente), ma usato ancora all’80% per i vini rosati, viene sovente torchiato insieme a
dei vitigni bianchi, per produrre i vini style joven. I vini del Toro, possenti e alcolici, sono stati per secoli i vini serviti alla tavola dei professori dell’Università di Salamanca, fondata nel 1215. Il vitigno principe, cioè il Tempranillo, che qui chiamano Tinta de Toro, dà dei vini che senza problemi superano il 14% vol., ed è forse per questo che è apprezzato da più di 800 anni. Dopo l’attribuzione della D.O. nel 1987, i procedimenti di vinificazione sono molto migliorati. Nella nostra prima visita in questa zona negli anni Settanta, avevamo trovato sistemi di produzione piuttosto primitivi. Bierzo ha ottenuto la D.O. nel 1989, la sua capitale è la città mineraria di Ponferrada (siamo in Galizia). Questa zona si trova in una vallata protetta dai venti atlantici ai confini della D.O. Valdeorras che si trova sulla sponda opposta del fiume Sil. I vigneti del Bierzo si trovano a un’altitudine che va dai 500 ai 650 m sul livello del mare e il suo sottosuolo è costituito da materiale alluvionale nella parte bassa, mentre in altura è l’ardesia che la fa da padrona. Le piogge atlantiche e il sole castigliano fanno della vallata di Bierzo uno dei luoghi più fertili della Spagna. Qui troviamo soprattutto vitigni a bacca bianca come il Doña Blanca e il Godello; il vitigno rosso dominante è la Mencia. Tutti i vini rossi D.O. prodotti in questa zona, devono contenere almeno il 75% di quest’uva. Prodotto con uve che crescono su vitigni centenari, la Mencia dona ai vini aromi delicati di frutti rossi, fini, nervosi, molto freschi d’acidità e un caratteristico sentore minerale, sono normalmente commercializzati con il nome di: «vino joven».
Senzaniente Pecorino
Rifiutando o limitando tutte (o quasi) le sostanze artificiali sia in vigna sia in cantina, è sorto da qualche anno il movimento dei «vini naturali», anche se l’aggettivo «naturale» è al centro di molte polemiche e controversie. Il «Senzaniente» è un vino prodotto con il vitigno Pecorino, varietà che matura presto e ama i siti collinari, freschi. La ragione del nome che condivide quello dell’omonimo formaggio rimane incerta, ma si pensa che si possa riferire ai movimenti stagionali delle greggi e dei pastori dell’Abruzzo. Affiliata alla Vinnatur, l’Azienda Agricola Marina Palusci produce questo vino utilizzando processi naturali e fonti energetiche innovative, diminuendo così l’impatto ambientale dovuto all’utilizzo di sostanze chimiche. Il vino inoltre fermenta spontaneamente con i solo lieviti indigeni, è prodotto senza l’impiego di alcun additivo, imbottigliato senza filtrazione né stabilizzazione e soprattutto senza l’aggiunta di solfiti, il che è ottimo per la nostra salute, e in particolare per le allergie che questi prodotti possono provocare. Dal bel colore giallo paglierino leggermente ambrato, è un vino dalla gustosa acidità, con profumi di mela renetta e ginestra, il nostro Pecorino è ottimo con gli antipasti sia di mare sia di terra, ma da provare anche con piatti di pasta molto conditi. / DC
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Italia, 75 cl pizza, formaggio a pasta dura, Grotta Rossa grigliate Carignano Votate ora!del Sulcis DOC
2013, Puglia, Italia, 6 x 75 cl
Rating della clientela:
2013, Puglia, Zuppa, carne rossa, verdure,
Negroamaro 2013, Puglia, Italia, 6 x 75 cl Zuppa, carne rossa, verdure, Rating4–5 della clientela: anni pasta, piatti a base di funghi Negroamaro Zuppa, carne rossa, verdure, pasta, piatti a base di funghi 4–5 anni Negroamaro
50% 29.85 50% 29.85 50% 4–5 anni
invece di 59.70
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la concorrenza *Confronto con invece di 59.70 5.– a bottiglia invece di 9.95
2017, Pays d’Oc IGP, Francia, 6 x 75 cl
2017, Vaud, Svizzera, 6 x 70 cl
2017, Vaud, da aperitivo, pesce d’acqua dolce, Stuzzichini Svizzera, x 70 cl a pasta dura, tofu ecc.,6formaggio formaggio a pasta molle
Chasselas 2017, Vaud, Stuzzichini pesce d’acqua dolce, Svizzera, 6 x da 70 aperitivo, cl tofu ecc., formaggio a pasta dura, 1–3 anni Votate ora! a pasta molle formaggio Chasselas da aperitivo, pesce d’acqua dolce, Stuzzichini tofu ecc., formaggio a pasta dura, formaggio 1–3 anni a pasta molle Chasselas
2017, Pays d’Oc IGP, Tofu ecc., verdure, antipasti, Francia, 6 x 75 cl tapas, ratatouille Rating della clientela:
Grenache, 2017, PaysCinsault d’Oc IGP, Francia, 6 x 75 cl Tofu ecc., verdure, antipasti, Rating1–3 della clientela: anni tapas, ratatouille Grenache, Cinsault Tofu ecc., verdure, antipasti, tapas, ratatouille 1–3 anni Grenache, Cinsault
Grotta Rossa Carignano del Sulcis DOC 2016, Sardegna, Italia, 75 cl
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Carignan 2016, Sardegna, Pesce salata, pasta, Italia, d’acqua 75 cl pizza, formaggio a pasta dura, 1–4 anni Votate ora! grigliate Carignan Pesce d’acqua salata, pasta, pizza, formaggio a pasta dura, grigliate 1–4 anni Carignan
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Ambiente e Benessere
Te lo dico con la coda
Mondoanimale Per comunicare con i suoi simili e con noi, il cavallo usa un linguaggio paraverbale
che possiamo imparare a conoscere
Ogni linguaggio è definito come un insieme non casuale di segni (che chiamiamo «codice») conosciuto da tutti i membri di una comunità. Ciascun segno ha sempre il medesimo significato (o una sua sfumatura pure comunemente nota) e viene dunque interpretato da tutti gli individui in modo identico. Ciò ci permette di intenderci quando parliamo, ad esempio. Quando vogliamo farci capire da persone che parlano un’altra lingua rispetto alla nostra, non ci resta che imparare la loro lingua (o loro la nostra) e sopperire alle eventuali lacune attraverso un linguaggio non verbale che potrebbe essere, ad esempio, aiutarci attraverso la gestualità, la mimica facciale o il linguaggio corporeo in senso lato. Per comunicare dobbiamo intenderci e per intenderci dobbiamo comunicare su uno stesso piano, con simili o identici codici. Lo stesso meccanismo si consuma fra le altre specie animali. Per analogia, anche i cavalli, dunque, hanno un loro linguaggio che utilizzano per comunicare con i loro simili. Comprenderlo, per noi umani, significa avere le fondamenta per creare un rapporto il più empatico possibile fra uomo e cavallo. La domesticazione del cavallo da parte dell’uomo è antica di millenni. Malgrado ciò, ancora oggi lo studio approfondito dei codici comunicativi di questi magnifici animali è sempre in grande evoluzione, e sempre più risposte soddisfano le domande su cosa significa quando il cavallo muove la coda, sulle ragioni che impongono di spazzolarla sempre con cura, su cosa voglia comunicarci con il movimento rapido delle sue
Giochi Cruciverba Lo sapevi che nella cultura …? Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 10, 2, 4, 5, 7)
orecchie, su cosa ci possiamo aspettare analizza e dà una spiegazione a tutta la quando arrotonda la groppa o quando si gamma di linguaggi messi in opera dal erige sulle gambe posteriori rampando cavallo, passando anche per i segnali e dimostrando tutta la sua potenza. Per chimici («Flehmen, ossia arricciano il non parlare dei differenti nitriti, sbruffi, labbro superiore per identificare odori soffi e gridi acuti che certamente sono sociali o la presenza di feromoni») che compresi nel suo codice comunicativo sappiamo essere prodotti ed eliminati che da sempre vogliamo codificare per attraverso secrezioni cutanee, saliva ed poterci rapportare in modo bilaterale. espirazione, oltre che con le vie tipiche «In quanto animali sociali, i cadi urina e feci. valli vivono in gruppi e, attraverso la Poi abbiamo i «rituali di intimidacomunicazione, stabiliscono la gerarzione» e gli strilli equini, che assumochia di dominanza fra gli individui», no importanza quando il cavallo deve così esordisce la veterinaria Sara Maffi, comunicare da lontano: «Quelli più dell’Università degli Studi di Milano, farilevanti sono nitriti, brontolio, grida, cendo riferimento alla sua tesi di laurea sbruffi, gemiti, ruggiti e strilli». Tutin Scienze e tecnologie delle produzioni ti assumono uno o più significati dati animali. Specializzata in interazione uodalla circostanza: «Un saluto fiduciomo-animale, la dottoressa parte dall’osso sarà dato attraverso un nitrito più o servazione del codice comunicativo meno forte, una minaccia di aggressiointerspecifico tra i cavalli stessi, per poi ne verrà espressa attraverso un grido estenderlo al significato con cui il loro acuto e così via». linguaggio para-verbale vuole «dire» In questo modo giungiamo alla qualcosa pure a noi esseri umani. orecchie: «Se sono puntate in avanti, in dei loro occhi sono molto significati- certezza che la coda del cavallo è pure «Quando due cavalli estranei,1 se- 2 genere è attento,5 interessato e ve: in particolare, diversi sguardi sono un mezzo comunicativo assai impor3 il cavallo 4 6 parati per lungo tempo, si incontrano, curioso. Può però pure essere preoccu- usati dagli stalloni per valorizzarsi tra i tante. Quando la agita vuole dirci che si salutano avvicinando i musi recipro- pato per qualcosa e focalizzare l’origine membri del gruppo». E veniamo ai co- qualcosa lo infastidisce e può essere 7 camente, narice contro narice. Inoltre, del suo problema 8con la posizione dei siddetti segni posturali, definiti come pure il preludio a un eventuale calcio. possono emettere segnali vocali». Ri- padiglioni auricolari. Se sono divaricate forme comunicative molto evidenti La coda è di fatto un vero e proprio 9 10 può essere che stia tuali tramite i quali essi si identificano agli angoli della testa, che ci aiutano a interpretarne l’umore: strumento che permette al cavallo di e si presentano, un po’ come se noi ci semplicemente dormendo. Se le orec- «Un collo teso, con orecchie appiattite scacciare insetti, di esprimere il suo diincontrassimo a un evento pubblico chie sono leggermente all’indietro, il ca- e testa inclinata di lato è chiaro segno niego e protegge pure i suoi organi geni11 e 12 SUDOKU PER AZIONE - SETTEMBRE 2018 ci presentassimo: «Sono Pinco Pallino, vallo potrebbe esprimere rabbia e quan- di minaccia. Quando un cavallo si pre- tali dallo sporco. Quest’ultima funziopiacere di conoscerla». do vengono abbassate ben aderenti alla para a scalciare, invece, arrotonda leg- ne implica una grande pulizia da parte 13 14 15 16 17 N. germente 33 FACILE Più ci si addentra nel racconto della testa, allora esso è molto aggressivo». la schiena e alza uno solo o dell’uomo, non solo dei crini, ma pure Schema Soluzione ricerca di Sara Maffi, più si viene rapiti I vari segnali facciali e le diverse entrambi gli arti posteriori». della radice della coda (la parte carnosa 18 19 dagli esempi pratici che riporta, e più ci posizioni di tutto il corpo assumono che1 la 3tendenza a del tronco), 2 5 per 6 evitargli 9 4 di 8 soffrire 7 1 di3fa5 Oggi 6 9 sappiamo 4 pare di imparare per davvero la lingua in generale una grande importanza nel scalciare è soprattutto prerogativa del- stidiosi pruriti. Quindi il cavallo ha una 3 4 8 1 2 7 9 6 5 4 2 6 equina.20 Scopriamo che i cavalli cavallo; spesso sono segni impercettila giumenta, mentre i maschi in genere coda non solo per vanità, ma che gli ser21 comu22 23 7 9 6 5 2 4 An8 7 9 3 frontalmente 4 nicano tramite segnali acustici, chimi- bili come il dilatarsi delle froge e la ten- 1 aggrediscono mostran- ve per1difendersi e per3 comunicare. ci, tattili e visivi. Questi ultimi sono i sione del muso. Perciò anche lo sguardo 9 do i denti e mordendo, rampando o che con l’essere umano. Sta quindi a noi 9 6 1 5 8 2 4 3 7 5 8 7 24 25 26 27 più importanti e chiari e riguardano le può essere tagliente: «Le espressioni impennandosi. La dottoressa Maffi imparare a interpretarne il linguaggio.
Giochi per “Azione” - Ottobre 20 Stefania Sargentini MGB
Maria Grazia Buletti
(N. 37 - Duecentottantaquattro)
D U N E S C E N O T E C A I T E T O C T O A T T A S A N T A A Z O T O E Q U I A V A R I N A C I V I L E T 6 3 U 8 A B C 9 L I S 7E2 5 4 T 29 4 8 3 7 9 1 5 8 7 9 1 T A V O L O Vinci una delle 3 carte regalo1da 50 con il8Acruciverba 3 7R 2 C 1 4O 6 6 5franchi 9
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ORIZZONTALI 1. Strumento musicale medievale 4. Anomala escrescenza tessutale 9. È singolare! 10. Restituite 11. Due in aula 12. Sono nel caos 13. Sporadiche 14. Li gode chi può... 15. Sono anche di vestiario 16. Capitale dell’Ucraina 17. Si intreccia con l’ordito 19. Residenza e seguito del sovrano 20. Lungo gli uadi 21. Un Dario attore 22. Anagramma del 2 verticale 23. Topo francese 24. Tra i primi è l’ultima e tra gli ultimi la
prima 25. Monetina dello zio Sam 26. Enzima che 1 2 effettua 3 l’idrolisi dei grassi
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
25 cinque carte regalo 26 Migros I premi, del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati 29tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
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T2 R A M A 3 ODIFFICILE A S I F N. 35 3 9 7 2 N6 O I R A 2 8 5 4 3 I U C E N 8 7 9 5 2 7 L8 I P A S 6
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Scoprire 2 1i 3 numeri corretti da inserire nelle 6 8 caselle colorate.
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SUDOKU 2 3 7 6 1 PER 8 4 A 9 2 da 506 franchi 4 con il sudoku e una delle 2 carte regalo 6 1 4 8 5 9 3 7 2 5 7 2 giapponese, la rana porta fortuna) N. 37 FACILE N. 34 MEDIO 4 5 6 7 8 Sudoku 3 8 O 2 5 1 G 7I G A P Schema O 9 L6 4 I 7 P 10
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16. Lo è chi è fuori combattimento 2 7 6 5 4 2 9 7 1 8 18. L’attore Bova Giochi per “Azione” - Ottobre 2018 2 7 6 1 8 5 2 3 4 Soluzione della settimana precedente 4 19. Lo5 sono molti cibi sulla nostra tavola Stefania–Sargentini 3 8 TURISTICHE 9 a8Roma 4 6 5 21. Chiedono autografi CURIOSITÁ Le colonne di piazza7San3Pietro sono: 7 VERTICALI 23. Satellite di Saturno e… cattiva DUECENTOTTANTAQUATTRO (N. 37 - Duecentottantaquattro) 6 7 N. 36 GENI 1. Servono a tirar ganci... 25. Le iniziali dell’attrice Pandolfi 1 2 3 4 5 6 2. Allevò Bacco 4 6 9 4 6 9 2 5 3 1 D U 7N E 3 S C 8 7 8 3. Rendono gelosa Elsa… 9 1 8E N O T E C A 3 7 5 9 1 8 2 4. Nel frutteto 9 10 6 5 9 1 1 8 2 4 6 7 9 T O C I T E 5. Spinto... 10 11 11 12 6. Articolo 3 T 8O 7 2 4 5 3 9 8 A T T1 A 7 13 14 15 16 17 7. Il «Michelangelo» francese Vincitori del concorso Cruciverba 9 7 3 5 8 9 1 6 7 2 4 S A N T A A Z O T O 12 13 14 15 16 17 8. Verdi anche se mature 18 su «Azione 39», del 19 24.09.2018 62 5 38 1 8 4 7 E Q U I A V 2A R I3 10. Si coltiva nell’orto R. Ghiotti, P. Borsa, F. Reverdito 20 21 22 23 2 6 7 18 19 20 21 2 4 6 3 9 1 5 13. D’estate si coprono e d’inverno si Vincitori del concorso Sudoku N A C I V I L E T 24 25 26 8 spogliano su «Azione 39», del 24.09.2018 27 9 A 8B C 5L I 2S E 9 3 85 7 4 5 46 T U 14. Davanti a «line» nell’aviolinea inglese 28 P. Bianchini, C. Urriani 29 22 23 24 T A V O L 3O 4 A R C O 15. Combinazioni, coincidenze 4 5 1 7 8 82 6 3
N. 38 MEDIO
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1 2 R A G U G I 4 U N A G E L 77 8 6 4 M N G I R L I vincitori 5 3 1 6 A T E N E O 3 5 M E N O G E S S O9 2 8 7 E S S I A I R I N2 1 4 9 S T O O S C A R C (N. 38 - ... giapponese, la ranala porta fortuna) 27 28inserire Partecipazione online: luzione, corredata da nome, cognome, è possibile un pagamento contanti 2inI avvertiti TIA GO LI I deve TP6 O A O 5Rsaranno soluzione del cruciverba o del sudoku indirizzo, partecipante dei premi. I vincitori G Gemail A del P nell’apposito30 formulario pubblicato essere spedita a «Redazione Azione, per iscritto. Il nome dei vincitori sarà U N O C.P. R E 6901 S ELugano». U L pubblicato 2 A 1 su «Azione». 9A sulla pagina del sito. Concorsi, 6315,E Partecipazione A N G L D I T A O R A corrispondenza R E A sui G I riservata esclusivamente a lettori che Partecipazione postale: la lettera o Non si intratterrà 1
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15 la cartolina postale che 16 riporti la so-
concorsi. Le vie legali sono escluse. Non
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 ottobre 2018 • N. 41
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Politica e Economia Addio al vecchio Nafta Stati Uniti, Canada e Messico hanno raggiunto un nuovo accordo sul commercio del Nord America
La Dancing Queen di Birmingham Nel suo discorso d’apertura del congresso del Partito conservatore, la premier britannica Theresa May riguadagna consensi ballando sulle note degli Abba
Reportage da Lesbo Emergenza umanitaria nel campo profughi greco, ponte tra la vicina Turchia e l’Europa
Diritto di successione Allo studio le nuove norme che attualizzeranno una legislazione ormai superata dai tempi
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AFPOP
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La democrazia apparente
Pakistan Il controllo dei militari e dei servizi sull’informazione è sempre più stringente in tutto il Paese.
Viene esercitato su giornalisti e attivisti che sono accusati di blasfemia e attività contro lo stato Francesca Marino «È stata presentata a Quetta una denuncia a mio carico per attività contro lo Stato. La ragione è che sono stato a Ginevra per incontrare rappresentanti delle Nazioni Unite che lavorano sulla scomparsa di migliaia di persone. Ho consegnato una lista delle persone scomparse in Balochistan e ho informato le Nazioni Unite delle violazioni dei diritti umani compiute quotidianamente nella regione da segmenti dello Stato pakistano». A parlare così è Mama Qadeer Baloch, un piccolo grande uomo di settantasei anni che nel 2014, assieme ad altri cittadini balochi, ha camminato per circa duemilacinquecento chilometri, da Quetta a Islamabad attraverso tutto il Pakistan, per denunciare la scomparsa di migliaia di persone a opera dei servizi segreti e delle forze armate pakistane. Prelevate da casa, dalla strada o dal lavoro e mai più tornate. La denuncia per attività contro lo Stato, parente stretta dell’accusa di tradimento, è ormai diventata un classico dell’intimidazione. Non soltanto per gli attivisti, almeno per quelli più in vista che è difficile fare sparire nel nulla, ma anche e soprattutto per i giornalisti.
L’ultimo in ordine di tempo è stato Cyril Almeida, una delle firme più prestigiose del quotidiano «The Dawn». Il suo nome è stato messo sulla «no fly list», la lista dei cittadini a cui è vietato lasciare il Paese, ed è coinvolto per «attività contro lo stato» in una causa contro l’ex-premier Nawaz Sharif. Almeida è colpevole di avere intervistato Sharif e riportato fedelmente le sue parole: al momento è libero su cauzione. «The Dawn», quotidiano fondato dal padre della patria Ali Jinnah, nel periodo elettorale spariva letteralmente nel tragitto dalla tipografia alle edicole. A essere intimidita con accuse di attività contro lo Stato e con tentativi di farla apparire al soldo degli indiani è stata anche la giornalista e blogger Gul Bukhari, prelevata qualche mese fa dai soliti loschi figuri e rilasciata dopo qualche ora. A causa di una vera e propria campagna mediatica volta a farla apparire al soldo dell’India, la docente universitaria e analista militare Ayesha Siddiqa è stata costretta a lasciare il Paese. Così come Taha Siddiqi, altra firma di «The Dawn», sfuggito a stento a un tentativo di rapimento. La lista dei giornalisti rimasti vittima di attentati e costretti a emigrare o a vivere sotto scorta è lunga e spazia
da nomi prestigiosi come quelli di Raza Rumi o Hamid Mir a decine di giornalisti locali meno famosi ma altrettanto coraggiosi. La lista di coloro che sono rimasti e che non riescono più a fare il proprio lavoro è ancora più lunga. Così come la lista di coloro che si sono quietamente dimessi da direttore o caporedattore e si sono dati all’insegnamento o scrivono ormai soltanto di temi «neutri». Secondo l’ultimo rapporto della Commission for Protection of Journalists, difatti, la situazione della stampa e dei media in Pakistan è ormai più che allarmante e si manifesta in modi sempre più insidiosi e difficili da combattere. Il numero dei giornalisti uccisi, rispetto agli ultimi anni drasticamente calato, è vero, ma non è una notizia buona quanto sembra. Perché lo stato adopera altri sistemi, meno vistosi, per intimidire i rappresentanti della stampa e dei media. In un certo senso, seguendo la stessa strategia adoperata per gestire il potere politico: democrazia apparente, controllata a stretto giro dai militari. L’elezione di Imran Khan, telecomandato dai generali, e il fantasma della libertà di espressione sono due facce della stessa medaglia. La manipolazione dei media, durante la campagna elettorale, ha rag-
giunto vette eccelse, che facevano il paio soltanto con liste elettorali e voti truccati. «Penso che il numero dei giornalisti uccisi sia diminuito perché è diminuita, rispetto a cinque-sei anni fa, la resistenza dei media» sostiene il fondatore di Media Matters for Democracy Asad Baig «E questo perché è stato instaurato sui media in questione un controllo capillare. Che impone chiaramente le cose che si possono o non si possono dire e quali sono i confini da non superare. Non soltanto per i giornalisti, ma anche per gli editori». La spada di Damocle che pende sempre più sinistra sulle teste di giornalisti ed editori è l’accusa di blasfemia o per l’appunto, quella di attività contro lo stato. Accuse che possono portare dritti in galera per anni e anni o, addirittura, alla condanna a morte. Così, sempre secondo il rapporto della Cpj, un buon settanta per cento dei giornalisti ormai si autocensura perché si sente più al sicuro. Nei mesi scorsi avvenimenti di grande rilevanza come le proteste dei Pashtun sono stati a malapena riportate da giornali e televisioni nazionali. Parlare di Balochistan, a meno che non si tratti di riportare veline passate dai militari o di lodare i progressi del China
Pakistan Economic Corridor, è fuori discussione. D’altra parte la regione è sigillata, e l’accesso è negato sia ai giornalisti che ai membri delle Commissioni delle Nazioni Unite. Ma il controllo di militari e servizi segreti sull’informazione è ormai sempre più stringente e riguarda tutto il Paese: quando non bastano intimidazioni e minacce, si interviene alla radice. I canali televisivi vengono oscurati, le frequenze cambiate di continuo. I giornalisti che continuano a esercitare una parvenza di spirito critico o che si ostinano a raccontare ciò che accade, subiscono strane irruzioni dentro casa, come l’analista militare Marvi Sirmed a cui sono stati rubati soltanto computer e hard disk. Oppure, vedono le loro collaborazioni a quotidiani e settimanali interrotte: è successo a Mir Mohammed Ali Talpur, rispettato opinionista ed eroe della lotta in Balochistan, e più di recente a Mosharaf Zaidi e a Babar Sattar del quotidiano The News. Giornalisti e corrispondenti stranieri, se vogliono rimanere nel paese, sono costretti ad adeguarsi pena l’espulsione o peggio. La democrazia in Pakistan, come ben sanno i cittadini, può essere cento volte peggio della dittatura. Forse dovremmo cominciare a rifletterci.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 ottobre 2018 • N. 41
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Politica e Economia
Nuovo accordo sul commercio Addio al Nafta S tati Uniti, Canada e Messico hanno raggiunto un’intesa sul libero scambio per il Nord America.
Denominato Usmca, sostituirà il vecchio trattato che risaliva al 1994 e si tradurrà in mercati più liberi equi e forti
Federico Rampini Il pioniere dei trattati di libero scambio non c’è più. Le picconate che Donald Trump sta sferrando alla globalizzazione, cominciano a intaccarne i pilastri. Il Nafta che nel 1994 creò il grande mercato unico Usa-Canada-Messico, è stato a lungo uno di questi pilastri. Nel bene e nel male. Servì da apri-pista e da modello per altri trattati di liberalizzazione degli scambi e degli investimenti. Divenne anche il bersaglio prediletto per molti anti-global, che all’origine erano numerosi soprattutto a sinistra. La galassia di organizzazioni e di movimenti che contestarono il vertice della World Trade Organization a Seattle nel 1999 (dai sindacati operai agli ambientalisti), avevano fatto le prove negli anni precedenti criticando gli effetti del Nafta sui salari, sull’occupazione, sull’ambiente. Poi i temi anti-global sono stati recuperati dal sovranismo di destra. Con Trump, si passa all’azione. O meglio, alla distruzione. Il Nafta lascia il passo al suo successore: Us-Mexico-Canada Agreement (Usmca). Il brutto acronimo serve a sottolineare la svolta, la fine di un’epoca. L’accordo raggiunto tra l’Amministrazione Trump e il governo Trudeau ha evitato il trauma di un trattato solo bilaterale Usa-Messico che avrebbe isolato il Canada. L’atmosfera è euforica, Wall Street ha festeggiato, nel trionfo Donald Trump si rivela magnanime, celebra «un successo per i nostri tre Paesi». Ma la modestia, così inabituale per il personaggio, stavolta è fuori luogo: ha vinto lui. La sua tattica negoziale spregiudicata e perfino brutale ha dato i risultati che sperava; tra i beneficiari delle nuove regole ci sono gli agricoltori Usa e soprattutto l’industria automobilistica di Detroit. L’esito del lungo braccio di ferro coi canadesi s’impone all’attenzione di Pechino e Bruxelles: sul commercio internazionale l’Amministrazione Trump è un osso duro, guai a chi la sottovaluta. Tra le novità più rilevanti del nuovo trattato c’è una regola «di sinistra», nettamente favorevole ai sindacati operai: l’imposizione di un salario minimo nell’industria automobilistica. Questo penalizza soprattutto il Messico, che durante il periodo del Nafta ha visto il suo commercio bilaterale con il vicino settentrionale passare da un leggero disavanzo ad un attivo di 68 miliardi di dollari l’anno scorso: grazie soprattutto alle delocalizzazioni di fabbriche (le «maquiladoras»), spesso effettuate da multinazionali Usa per sfruttare il minor costo del lavoro al di là del confine meridionale. Il Canada da parte sua ha già livelli salariali simili agli Stati Uniti, le sue concessioni sono state soprattutto a favore dei prodotti lattiero-caseari made in Usa. Da parte di Washington l’unica concessione significativa per giungere all’accordo è stato il riconoscimento dell’autorità dei tribunali che devono decidere in caso di contenzioso:
L’accordo raggiunto tra l’Amministrazione Trump e il governo Trudeau ha evitato il trauma di un trattato solo bilaterale UsaMessico che avrebbe isolato il Canada. (AFP)
per principio Trump era contrario perché ogni giurisdizione sovranazionale gli appare una violazione della sovranità degliUsa; ha finito tuttavia con accettarlo per convincere i canadesi. Il nuovo trattato non entra in vigore subito, prima deve essere ratificato dai rispettivi Parlamenti e di questi il più difficile è il Congresso di Washington. Quando il trattato Usmca approderà sulla collina del Campidoglio, si sarà già insediato il nuovo Congresso uscito dall’elezione del 6 novembre. Se i democratici avranno riconquistato la maggioranza, molto dipenderà da loro. Tuttavia è difficile che i parlamentari democratici – soprattutto quelli degli Stati industriali – arrivino a sabotare un accordo commerciale che soddisfa le rivendicazioni dei sindacati. Già si è espresso qualche esponente della sinistra radicale anti-global con apprezzamenti verso le nuove regole ottenute da Trump. Durante questa campagna elettorale i candidati democratici non attaccano Trump sui negoziati commerciali, per paura di inimicarsi la propria base. Tra i dettagli dell’accordo, due clausole favoriscono le case automobilistiche di Detroit (Ford, Gm, Fca). La prima impone che per essere importate senza dazi le automobili abbiano almeno il 75% di componenti fabbricate in Nordamerica. Questo penalizza soprattutto alcuni produttori stranieri (Nissan, Volkswagen) che usano percentuali superiori di componenti fabbricati in altri paesi latinoamericani o asiatici a costi inferiori. L’altra regola impone che il 40% dei componenti di un veicolo siano prodotti da operai che
guadagnino almeno 16 dollari all’ora. Il governo messicano stima che attualmente il 32% degli autoveicoli fabbricati sul suo territorio non soddisfano questi criteri. Il nuovo trattato quindi può accelerare un movimento di rimpatrio o ri-localizzazione almeno parziale di produzioni a Nord del Rio Grande/Rio Bravo. L’aver piegato le resistenze, prima messicane e poi canadesi, renderà l’Amministrazione Trump riluttante a fare concessioni sugli altri tavoli dei negoziati in corso, che riguardano soprattutto la Cina e l’Unione europea. Sul Vecchio continente incombe la minaccia di un superdazio del 25% che colpirebbe soprattutto le importazioni dal Giappone (Toyota) e dalla Germania (Volkswagen, Mercedes, Bmw). In totale si tratta del 22% di tutte le auto vendute negli Stati Uniti. In quanto alla Cina, si moltiplicano i segnali di un rallentamento della sua crescita, a conferma che la sua capacità di parare i colpi rispondendo a Trump con le rappresaglie ha dei limiti. Il presidente sovranista, eletto grazie ai voti decisivi di una classe operaia che si è sentita tradita e impoverita dalla globalizzazione, su questo terreno mantiene le promesse. A conferma che i suoi avversari hanno un potere contrattuale ridotto, è interessante osservare quanto «piace» il dollaro al governo cinese. Infatti si susseguono le maxi-emissioni di bond in dollari da parte del Tesoro di Pechino: 3 miliardi in un solo mese, ed è già la seconda quest’anno. I Treasury Bond cinesi sono emessi con tagli decennali e trentennali. Rappresentano un segnale di fiducia – tutt’altro che sconta-
to – verso la moneta degli Stati Uniti. Anzitutto perché arrivano nel mezzo della furiosa contesa commerciale tra i due Paesi. E poi perché un decennio fa, all’epoca della grande crisi, la Cina proclamava apertamente la sua intenzione di scalzare la supremazia planetaria del dollaro, denunciandola come una fonte di instabilità. Acqua passata. Xi Jinping ha dovuto arrendersi all’evidenza: la leadership del dollaro per adesso non ha alternative, anzi come effetto della crisi del 2008 si è perfino rafforzata perché il mondo intero ha usato la Federal Reserve come prestatore di ultima istanza. Per valutare come Trump arriva alle elezioni di mid-term sul fronte economico, alla sua vittoria sul Nafta bisogna aggiungere un’altra notizia maturata negli stessi giorni. È l’annuncio di Amazon che alza d’un sol colpo del 50% il salario minimo dei suoi dipendenti meno pagati, a 15 dollari l’ora. Questo vale per tutti i lavoratori di basso rango, 250.000 a tempo pieno, più i 100.000 assunti a part-time o contratti stagionali. Molti sono addetti alla logistica, come i depositi delle merci o le consegne. È un’ottima notizia, che viene dal numero uno del commercio digitale e da una delle aziende più capitalizzate del mondo; conferma la buona salute dell’economia americana e il recupero di potere contrattuale dei lavoratori. Ma è anche un gesto tardivo e parziale, un’operazione di relazioni pubbliche per un’azienda contestata per il trattamento della forza lavoro… e il cui fondatore è un avversario implacabile di Trump, nonché editore del giornale d’opposizione «The Washington Post». Il padrone
sarà un progressista, ma i suoi dipendenti rimangono abbastanza poveri: la busta paga media di un dipendente Amazon è di 28.446 dollari lordi, da confrontare con la soglia della povertà a 22.000. Per un’azienda «regina di Borsa», che ha superato i mille miliardi di dollari di capitalizzazione, non sono dati esaltanti. Più che un gesto di magnanimità, la mossa di Amazon conferma una nuova tendenza. Dopo un lungo periodo – che ebbe inizio negli anni ’80 – in cui la condizione dei lavoratori è andata deteriorandosi, il potere contrattuale era indebolito, i redditi in declino come potere d’acquisto, negli ultimi mesi c’è un’inversione di tendenza. Le normative ancora stentano a riconoscerlo. Ma le aziende che devono reclutare hanno interesse a prenderne atto. Il salario minimo federale negli Stati Uniti è di 7,25 dollari l’ora. È fermo dal 2009. Non è passata la proposta di legge di Bernie Sanders per alzarlo a 15 dollari. Se avesse seguito sia l’inflazione sia gli aumenti di produttività, dovrebbe essere già a 18,50 dollari l’ora. Numerosi Stati Usa in realtà hanno dei salari minimi superiori. California e New York, ad esempio (che sono due dei tre Stati più ricchi e popolosi) hanno alzato il loro a 15 dollari orari, cioè il livello che ora viene concesso da Amazon. Bezos non è all’avanguardia. Altre aziende, più piccole e meno ricche di Amazon, hanno alzato i loro minimo a 15 dollari: il caso più noto la Walt Disney ha concesso l’aumento al personale dei suoi parchi attrazione ad agosto. Infine è utile paragonare le condizioni della «nuova classe operaia» – di cui fanno parte certamente i fattorini di Amazon – con quelli dei colletti blu tradizionali. Un metalmeccanico di Detroit già adesso guadagna più di un dipendente di Amazon; eppure Gm Ford e Fca sono dei nani in confronto, valgono una frazione della sua quotazione in Borsa. Il gesto di Amazon è indicativo della buona salute del mercato del lavoro. È più una conseguenza che un giocare d’anticipo: ormai siamo vicini al pieno impiego, la manodopera scarseggia, chi cerca un lavoro anche poco qualificato può permettersi di scegliere. È un boom dal quale Trump cercherà di trarre vantaggi elettorali tra un mese. Federico Rampini a Lugano
Nell’ambito di un Forum organizzato dalla Fondazione IBSA di Lugano in collaborazione con l’Ideatorio della Svizzera italiana sul tema delle migrazioni, Federico Rampini parlerà dell’impatto economico della manodopera straniera dalla questione irlandese di Karl Marx (1870) a Brexit/Trump. La conferenza avrà luogo sabato 13 ottobre all’auditorium USI di Lugano a partire dalle 10. Ingresso libero. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 ottobre 2018 • N. 41
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Politica e Economia
I morti viventi dell’isola di Lesbo
Grecia Emergenza umanitaria nel campo
profughi di Moria, ponte tra la vicina Turchia e l’Europa
AFPOC
Luisa Betti Dakli
Brexit dance a Birmingham Congresso Tory All’indomani del durissimo attacco di Boris Johnson
al suo piano per l’uscita dall’Ue, Theresa May ha lanciato un appello all’unità del partito ribadendo che non ci sarà un secondo referendum Cristina Marconi Come se fosse avvenuta in tempo di pace, la conferenza dei Tories a Birmingham si è chiusa con l’immagine di Theresa May (foto) che ballava su Dancing Queen degli Abba e sfoggiava le sue mosse robotiche diventate famose durante il suo viaggio in Kenya, prima di iniziare un discorso centrista e positivo, ironico e personale in cui ha annunciato, tra le altre cose, la fine dell’austerity economica. La Brexit è rimasta sullo sfondo, la May ne ha parlato dopo circa 20 minuti dall’inizio ed è stata solo uno degli argomenti su cui ha risposto in modo duro, anche se senza mai citarlo per nome, a Boris Johnson, il suo ex ministro che nelle passate settimane ha usato ogni mezzo per attaccarla violentemente. La convention, che si temeva sarebbe stata un mattatoio politico, si è rivelata invece una buona occasione per la premier per fare quello che sa fare meglio, ossia prendere tempo, e dare un messaggio chiaro ai suoi avversari, a partire dall’eterno complottatore Johnson al leader dell’opposizione, il sessantanovenne socialista Jeremy Corbyn: il mio percorso sarà pure accidentato, ma intanto io sono ancora qui, mentre voi ancora non siete arrivati da nessuna parte. E sì che rimanere in sella dopo quello che è avvenuto appena un anno fa, ossia quel discorso funestato da una tosse paralizzante, da un disturbatore che le ha allungato un modulo per la dichiarazione dei redditi e dal crollo delle lettere dello slogan sullo sfondo non è stato facile. Un politico con meno nerbo della May sarebbe sceso dal palco in quell’occasione, o avrebbe finito col soccombere dopo uno dei mille attacchi, dimissioni, voltafaccia a cui la premier è stata soggetta negli ultimi dodici mesi. Boris, che continua a riempire le sale anche quando parla a un evento a margine dei lavori, ha detto che il suo piano per la Brexit è «disturbato», «pazzoide», e via insultando, ma non ha saputo indicare un’alternativa e ha suggerito di sostenere la May a condizione che torni a quanto detto a Lancaster House il 17 gennaio del 2017, ossia quando i negoziati con Bruxelles non erano ancora iniziati seriamente e il principio di realtà non aveva fatto ancora capolino nell’arena politica britannica. La premier non ha neppure fatto allusione a questa possibilità, così come non ha mai citato per nome il piano dei Chequers, quello presentato a luglio e che ha fatto infuriare tutti da Londra a Bruxelles, al quale però resta attaccata perché è l’unico in grado di risolvere la
questione che le sta più a cuore al momento, ossia l’equilibrio geopolitico dell’Irlanda e l’integrità del Regno Unito. La May ha fatto presente come l’unica soluzione sia «un accordo di libero scambio che permetta un commercio senza barriere dei beni» e che protegga «la nostra preziosa unione». Un risultato impossibile da garantire «con un semplice accordo di libero scambio, neanche usando le ultimissime tecnologie», ha spiegato la premier riferendosi all’idea di un accordo «super Canada» vagheggiata da Johnson senza mai scendere nei dettagli pratici. La May ha detto che «non tradiremo il risultato del referendum e non spaccheremo il Paese e si è detta fortemente contraria a un secondo voto, che danneggerebbe la fiducia nella democrazia britannica. Se, come ritengono in molti, il Regno Unito della Brexit è come il Titanic che si avvicina al disastro, Theresa May continua a essere l’unica ad aver ascoltato le spiegazioni sull’iceberg e a sapere dove si trova. Non ha cambiato rotta, e questa forse è la sua principale colpa, però continua ad essere la sola che sull’Unione europea è andata oltre gli slogan e ha fatto i conti con i problemi reali, anche se i leader europei non glielo riconoscono del tutto: il piano dei Chequers non piace neppure a loro, che lo definiscono «impraticabile». C’è stato un non so che di aria da campagna elettorale, in queste settimane di conferenze politiche. La May ha molto apertamente parlato agli elettori laburisti moderati, a quelli che non si riconoscono nella leadership di Jeremy Corbyn, definita una «tragedia nazionale» per lo scandalo sull’antisemitismo e che non sopportano il clima di odio che si è creato nel partito. Nei giorni passati la premier aveva annunciato l’intenzione di organizzare un grande festival della Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord nel 2022, poco prima delle prossime elezioni fissate in calendario, per mostrare al mondo l’innovazione e le capacità del Paese dopo la Brexit, sul modello di quanto avvenuto in occasione delle Olimpiadi del 2012. O della grande esposizione organizzata dalla regina Vittoria nel 1851, ma con un costo di 120 milioni di sterline a carico dei contribuenti. Boris, da parte sua, ha calato le carte e ha parlato da aspirante premier, anche se non ha voluto sfidare apertamente la May. La sua soluzione al problema assai tecnico dell’Irlanda è visionaria e massimalista, ma non necessariamente utile a dirimere la questione: vuole costruire un ponte tra la Gran Bretagna e l’isola celtica, secondo quanto spiegato
in un’intervista. Ha cercato di descrivere quello che sarebbe il Paese da lui guidato, tra finanziamenti all’NHS senza aumenti fiscali, giocando su quella che è la sua carta principale, ossia l’ironia e la capacità di far sognare. Da qui la scelta della May di accennare due passi di danza e tornare ai toni che l’avevano portata nella primavera del 2017, poco prima della scellerata decisione di fare le elezioni anticipate, a livelli di gradimento altissimi. Poco prima dell’appuntamento di Birmingham, la May ha calato un’altra carta importante, ossia la stretta sull’immigrazione europea, promettendo che dopo la Brexit i cittadini comunitari saranno trattati alla stregua di tutti gli altri e che verrà messo in atto un sistema che servirà a fare in modo che solo i lavoratori qualificati abbiano accesso al Paese, con la possibilità di attuare delle misure speciali di «mobilità» per permettere a settori come l’agroalimentare di avvalersi di manodopera a basso costo per periodi brevi. «Penso che la gente sentirà la differenza perché per la prima volta da vari decenni a questa parte sarà il governo britannico a decidere chi potrà venire nel Paese», ha spiegato la premier, che dai tempi in cui era all’Home Office ha la reputazione di essere una intransigente in materia di immigrazione e che ha anche annunciato un aumento della tassazione per gli stranieri che vogliono comprare immobili nel Regno Unito, spiegando che i proventi andranno ad aiutare i senzatetto. Che tutto questo sarà sufficiente a tenerla in sella per altro tempo, non è dato saperlo. Tra le varie voci incontrollabili che circolavano prima della conferenza c’era quella secondo cui la May avrebbe annunciato la data delle sue dimissioni per garantirsi una certa tranquillità nella fase finale del negoziato con Bruxelles e scongiurare l’ipotesi di un «no deal» che, sebbene non si possa escludere, piace solo a un manipolo di Brexiteers estremisti. L’ipotesi di elezioni anticipate piace invece al laburista Corbyn ed è molto apprezzata anche da chi pensa che sia l’unica strada per fare chiarezza in uno scenario politico molto confuso. Nella mattinata di mercoledì scorso, all’incirca all’ora in cui Theresa May doveva iniziare a parlare, è uscita la notizia che un deputato euroscettico, James Duddridge, avesse consegnato una lettera di sfiducia a Sir Graham Brady. Sembrava l’inizio di un accoltellamento, poi la May ha azzeccato il tono del discorso e ha vinto lei. Godendosi un momento irreale da leader normale, che non ha un problema grave come la Brexit davanti a sé.
«Welcome to prison» (Benvenuti in prigione) è la scritta sul muro che circonda Moria, il campo profughi sull’isola greca di Lesbo, dove oltre 9.000 persone vivono in uno spazio per 3.100, e dove bambini di 10 anni tentano il suicidio. «C’è stato un aumento di minori affetti da intensi attacchi di panico, pensieri suicidi e tentativi di togliersi la vita», racconta Alessandro Barberio, psichiatra di Medici senza frontiere (MSF) che opera nella clinica di Mitilene: il medico, specializzato nella gestione di emergenze, ha dichiarato che Lesbo gli ricorda un «manicomio d’altri tempi». Qui Mahmoud, a 12 anni, ha tentato due volte di impiccarsi e i bambini non accompagnati, che per la legge ellenica possono essere trattenuti per 25 giorni in attesa di una collocazione, compiono atti di autolesionismo, come tagli sulle braccia o sul corpo, per la disperazione dopo essere stati segregati per mesi nell’inferno di Moria. «Il campo è pericoloso specialmente per i bambini. Ogni giorno trattiamo condizioni relative all’igiene come vomito, diarrea, infezioni della pelle e altre malattie infettive, per poi rimandare i piccoli nelle stesse condizioni di vita ad alto rischio: un mix – dice Declan Barry, coordinatore medico di MSF – che rappresenta una tempesta perfetta per la salute e il benessere dei bambini». Il centro d’accoglienza di Moria è nato nel 2015 ed è la prima porta verso l’Europa per chi scappa dalla guerra, un transito dove i rifugiati dovrebbero trascorre pochi giorni ma che, con l’accordo tra Unione Europea e Turchia del 2016, si è trasformato in una «prigione». Un hotspot dove vengono valutate le domande dei richiedenti asilo che saranno espulsi nel caso non abbiano i requisiti per essere trasferiti sulla terraferma: rispediti in Turchia (dove rischiano di finire in prigione) o nel paese di provenienza se viene valutato come non pericoloso. Ma i tempi per avere una risposta alla richiesta, che il più delle volte viene rifiutata, sono lunghissimi con attese di mesi, a volte anni, e anche i «soggetti vulnerabili» (disabili, minori non accompagnati, donne incinte, vittime di stupro o tortura, persone affette da gravi disturbi, ecc.), non sempre sono riconosciuti e trasferiti in tempi rapidi. Una fermata forzata in condizioni disumane che crea un sovraffollamento, ora piombato nel caos, in nome della politica di contenimento dell’UE e in beffa alla Convenzione di Ginevra che dovrebbe proteggere dal rimpatrio chi ha motivo di temere di essere perseguitato. «La maggior parte arriva con sintomi tra cui allucinazioni, agitazione, confusione, disorientamento, forti spinte suicide – aggiunge Barberio – in quanto molti sono vittime di tortura o violenza sessuale, e soffrono di disturbi da stress post-traumatico per cui quando arrivano qui, dove vengono bloccati anche per molto tempo, i sin-
Interi nuclei famigliari guardano al futuro con incertezza dopo esser fuggiti da guerra e violenze. (HRW)
tomi esplodono», creando una percentuale elevata di persone affette da malattie mentali. L’hotspot, che era una base militare, è su una collina con container pensati per 5 o 6 persone, che oggi ospitano fino a 25 persone. Protetta da un muro, filo spinato e grandi cancelli chiusi con lucchetti, Moria è controllata da poliziotti che registrano entrate e uscite, come in un carcere. Al suo interno c’è un bagno ogni 72 persone e una doccia ogni 84, l’acqua è solo fredda e i rubinetti sono attivi per 30-40 minuti 3 volte al giorno con migliaia di persone che si accalcano per raccogliere la poca acqua in bottiglie. Le docce e i servizi igienici emanano un odore così forte che è impossibile usarli e le docce sono piene di feci umane: per questo spesso i bambini vengono lavati nudi all’esterno e rimangono intirizziti per il freddo, mentre le donne evitano di andarci per le numerose aggressioni fisiche, sessuale e verbali che subiscono da uomini che girano fuori dalle loro latrine. Il campo però non finisce qui perché a causa del sovraffollamento molti si accampano all’esterno delle mura. Olive Grove è una tendopoli senza elettricità, senza acqua né servizi né angoli cottura, dove in inverno, quando piove, il freddo e il fango invadono le tende. Eppure stare qui per Yasser, che vive con la famiglia e la moglie incinta, è più dignitoso: «Ogni notte nel campo ci sono risse – dice Yasser a HRW – e per le donne e i bambini è molto pericoloso vivere lì». Le donne e le ragazze intrappolate a Moria sono spesso costrette a dividere le tende e i container con uomini mettendo a rischio la loro incolumità, ed è stato l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) a esprimere forti preoccupazioni dichiarando che nelle isole greche le donne e i bambini rifugiati affrontano un rischio elevato di aggressioni e violenza sessuale nelle strutture di accoglienza. Come Cynthia che a 18 anni è stata aggredita più volte da un richiedente asilo perché non indossava abiti islamici: «Una volta mi ha spinto contro un albero per la gola – racconta – ma io non l’ho segnalato perché ho paura che se lo denuncio e viene rimproverato, i suoi amici mi faranno del male». Un enorme centro di detenzione, quello delle isole greche davanti alla Turchia (Lesbo, Chios, Samos, Leros e Kos), dove 20mila persone fuggite da Siria, Afghanistan, Iraq, Sudan e Congo si ammassano in situazioni disumane aspettando di raggiungere l’Europa, spesso invano. La famiglia Al Salih, scappata dalla Siria di notte sotto i bombardamenti e l’ISIS, è arrivata a piedi in Turchia riuscendo a superare il confine dopo tre mesi e 20 tentativi, e ad attraversare il mare dopo un mese e 10 respingimenti, per poi arrivare a Moria con il rischio di essere rispediti indietro. «È stato molto brutto arrivare qui – ha detto il capo famiglia – sarebbe stato meglio morire in Siria».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 ottobre 2018 • N. 41
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Politica e Economia
In consultazione il nuovo diritto ereditario svizzero
Il grande Jackpot dei formaggi
Successione Il Consiglio federale
vuole aggiornare la legislazione con una miglior flessibilità, a vantaggio di chi fa testamento e anche per le necessità delle aziende famigliari Ignazio Bonoli Il Consiglio federale ha deciso di riformare il diritto ereditario. Annunciando l’intenzione del governo, la responsabile del Dipartimento di giustizia Simonetta Sommaruga ha subito precisato che non si tratta di una riforma completa, ma piuttosto dell’adeguamento di alcuni punti importanti. Uno dei punti centrali della revisione sarà comunque quello di concedere maggiori libertà a coloro che vogliono lasciare un’eredità. Il diritto ereditario odierno è nato circa cento anni fa, ma nel frattempo il matrimonio ha perso in pratica la sua posizione di monopolio. Oggi, infatti, il coniuge superstite, o - in caso di mancanza di eredi diretti – anche i genitori hanno diritto a una parte di eredità: la cosiddetta legittima. Negli ultimi cento anni, questa struttura è cambiata di poco, mentre la società alla quale si applica è cambiata parecchio. Accanto al matrimonio ci sono, infatti, alcune altre forme di famiglia. Inoltre a partire dal novecento – la speranza di vita alla nascita è quasi raddoppiata, passando da 49 a 85 anni per le donne e da 46 a 81 anni per gli uomini. Questo significa che talvolta gli eredi sono essi stessi pensionati al momento di ereditare. Oggi, appunto, per concedere maggiori libertà a chi lascia un’eredità, il Consiglio federale vuole ridurre della metà la «legittima», cioè quella parte di eredità per la quale chi fa testamento (il testatore) non può decidere. Così, anche per i figli, la cui legittima concerne oggi i tre quarti dell’eredità, se il defunto non ha un coniuge o un partner registrato, verrà ridotta alla metà. In effetti, con l’introduzione dell’AVS e l’obbligatorietà della cassa pensione, l’eredità ha perso gran parte della sua funzione di istituto di previdenza per gli eredi. Lo scrive il Consiglio federale nel suo messaggio, aggiungendo che la «legittima» svizzera è oggi molto alta nel confronto internazionale. Il progetto di riforma concede invece più spazio al proprietario per disporre dei propri beni a favore, per esempio, della moglie o dei nipoti: la decisione del Consiglio federale risponde ad alcuni atti parlamentari che
chiedevano la parificazione delle coppie in concubinato con quelle sposate, seguendo una prassi pragmatica. Il governo affronta anche il problema della successione nelle aziende famigliari, riducendo la parte legittima nelle eredità. Con questa apertura si aumenta la flessibilità per i proprietari di piccole e medie aziende nel garantire la successione nell’impresa. Infine, con un atto separato, intende apportare altre semplificazioni al diritto odierno, ponendolo in consultazione fino alla fine dell’anno. Come detto, lo scopo principale della riforma è quello di concedere maggiori libertà a chi lascia un’eredità. Sotto questo aspetto sarebbe forse stato più opportuno ridurre anche la legittima della moglie (o del marito). Tuttavia, l’idea ha già incontrato parecchie opposizioni, per cui il diritto non è stato modificato in questo caso. Bisogna comunque tener conto di una lunga tradizione del concetto di famiglia in Svizzera, il che tende a privilegiare in ogni caso il nucleo famigliare come tale. Nel caso di minori, di fatto si pensa comunque a un sostegno per il partner sopravvissuto. Comunque anche gli altri tipi di unioni possono approfittare della maggiore libertà come nella legittima dei figli. In realtà due terzi della popolazione svizzera hanno ereditato o prevedono di ereditare. Anche se ha perso molto della sua originale funzione di istituto di previdenza, l’importanza economica del diritto ereditario è tutt’altro che trascurabile. Il volume annuale delle eredità è, infatti, stimato in 63 miliardi di franchi, quindi persino superiore ai risparmi delle famiglie. Il che sottolinea ancora una volta la grande importanza che il diritto ereditario riveste ancora in Svizzera. Se da un lato la flessibilizzazione risponde alle esigenze dei tempi cambiati, dall’altro il piccolo passo proposto tiene conto dei fattori tradizionali ed in parte anche emotivi che dominano questa scena. Più oltre si sarebbero incontrate difficoltà, mentre la revisione moderata ci avvicina alle medie europee, ma conserva un ruolo fondamentale al concetto di famiglia e serve ad evitare un gran numero di conflitti, che spesso sorgono in questi casi.
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Pro e contro di una tassa sullo zucchero e i grassi Che l’obesità sia diventata, anche in Svizzera, un problema preoccupante non lo nega di sicuro nessuno. Quasi la metà della popolazione adulta (43%) ha un indice di massa corporea superiore a 25. In altre parole pesa troppo. Tra l’altro anche l’autore di questo articolo. Il mio indice di massa corporea è superiore a 25; per ritrovare il giusto peso dovrei perdere 4 chili, un’impresa che so di non essere in grado di portare a termine. Non penso di essere solo ad arrivare a questa conclusione. Forse è anche per questo che in Svizzera si sta sviluppando il dibattito attorno alla possibilità di introdurre una tassa sullo zucchero e sui grassi. Mi spiego: le persone che dovrebbero perdere peso e non si sentono in grado di farlo, potrebbero essere del parere che l’imposizione di
una tassa sullo zucchero e sui grassi potrebbe aiutarli a ridurre il consumo di prodotti che inducono l’obesità. In effetti però, questa opinione sembra sia, per il momento, largamente minoritaria. Lo dimostrano i risultati dell’inchiesta che viene condotta, a livello nazionale, dal 2014, dall’associazione dei produttori di acque minerali e soft-drink. Anche la più recente di queste indagini ha messo in evidenza che il 70% degli svizzeri sono contrari a una nuova tassa sui prodotti alimentari che contengono zucchero, grasso o sale in eccesso. Gli avversari di una tassa sullo zucchero e sui grassi sostengono che, in una società liberale come la nostra, il consumatore deve rimanere sovrano. Deve essere addirittura libero di decidere, se così lo desidera, di consumare prodotti che
possono essere nocivi per la sua salute. I sostenitori della tassa controbattono affermando che i costi generati dall’obesità sono sopportati solo nella misura del 30% dall’obeso. Per il resto è la società che deve assumersi la spesa. Siamo quindi in presenza, anche nel caso dell’obesità, di un tipico costo sociale che non viene sopportato da chi lo provoca (obeso o produttori di beni alimentari con troppo zucchero e troppo grasso) ma, in buona parte, dalla comunità. E questo conduce a scelte poco efficienti sia in materia di produzione che in materia di consumi. A nessuno sfuggirà qui l’analogia con il caso del tabacco. Nel giro di un paio di decenni i fumatori sono diventati – afferma scherzosamente lo scrittore tedesco Andreas Altmann – la minoranza più perseguitata del
mondo. Più perseguitata, intendiamoci, soprattutto dal fisco. Gli obesi potrebbero diventarlo dopodomani. Perché, nonostante l’opposizione attuale dei consumatori, l’imposizione di una tassa sullo zucchero e sui grassi potrebbe avere conseguenze positive. Come nel caso delle sigarette, o della benzina, una tassa sulle bevande zuccherate farebbe aumentare il loro prezzo e, di conseguenza, diminuire il loro consumo. È anche possibile, sempre come nel caso delle sigarette, o della benzina, che ulteriori aumenti di questa tassa potrebbero fare diminuire più che proporzionalmente il consumo dei prodotti tassati. Dipende dall’elasticità di prezzo della domanda di questi prodotti. Da parte degli avversari si sostiene che, siccome la domanda è abbastanza rigida, i consu-
matori potrebbero sostituire il consumo dei prodotti con troppo zucchero o troppi grassi con altri prodotti anche più nocivi alla salute. Inoltre, sostengono sempre gli oppositori, una tassa su prodotti con troppo zucchero o con troppi grassi colpirebbe maggiormente i consumatori con bassi livelli di reddito che i ricchi. Contro queste critiche chi sostiene l’utilità della tassa argomenta asserendo che gli effetti della tassa dipenderanno sia dal modo nel quale verrà imposta, sia da quel che lo Stato potrebbe fare con i mezzi che la stessa gli metterà a disposizione. Come si è detto il dibattito sui costi dell’obesità e sui mezzi per ridurli è appena all’inizio. Non pensiamo però di essere cattivi profeti prevedendo che ci accompagnerà ancora per diversi anni.
ripartire l’economia; si spende per comprare consenso. E questo è sbagliato due volte. Perché così si fa nuovo debito improduttivo; che dovrà essere ripagato in futuro con nuove tasse, nuovi sacrifici, nuovi effetti depressivi sull’economia. Nessun Paese al mondo diminuisce l’età pensionabile. La Russia di Putin, modello dichiarato di Salvini, l’ha appena aumentata di cinque anni. Quando si parla di vite operaie occorrono sempre rispetto e cautela. Giusto intervenire per i lavori usuranti, per temperare alcuni eccessi della riforma. Ma l’Italia spende già troppo in pensioni, e troppo poco nella scuola, nella formazione, nell’avviamento al lavoro. Non parliamo poi del reddito di cittadinanza, bel modo di chiamare i vecchi sussidi di democristiana memoria. Il tutto poi viene raccontato con un linguaggio ridicolo – «la Manovra del Popolo» – che pare una satira della rivoluzione francese. E annunciato al suddetto popolo dal balcone: un simbolo che sarebbe meglio lasciare
fuori dalla vita democratica di un Paese serio. Certo, parlare di fascismo è ridicolo. L’ascesa delle nuove destre populiste è il tema del momento; ma resto convinto che leggerle con le categorie del secolo scorso non aiuti a capire. Mi ha colpito semmai quello che ha scritto Flavia Perina sulla «Stampa»: «Le giovani destre sovraniste archiviano i complessi di inferiorità democratica dei loro padri e nonni, ossessionati dall’ansia di smentire ogni possibile connivenza con modelli autoritari, securitari, xenofobi, in una parola fascistoidi. Tanto la vecchia destra era ansiosa di mostrarsi buona cittadina del perimetro costituzionale, tanto la nuova non sente questa necessità, anzi gioca col cattivismo, e cerca consenso evocando nel dialogo con gli elettori un radicalismo intollerante che va persino oltre le sue azioni, spesso più caute di quel che le parole fanno credere». Non si potrebbe dire meglio: a parole la destra populista fa la faccia feroce; ma i testi legislativi che produce e firma devono comunque fare i conti con la
realtà, compresa la Costituzione. Non a caso il celebre e famigerato «decreto sicurezza», annunciato da Salvini come un giro di vite e denunciato dall’opposizione come un attentato ai diritti umani, nella realtà rappresenta semplicemente alcune misuretampone. Destinate a influire più sulla percezione dei cittadini che sulla loro vita quotidiana. Il punto è che Salvini sembra più a suo agio quando parla di migranti e sicurezza, rispetto a quando parla di economia e crescita. Il reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia dei suoi alleati a cinque stelle, lo imbarazza un po’, perché non è gradito ai suoi elettori del Nord. La strategia di Salvini è indirizzata alle elezioni europee del maggio 2019, quando spera di sovvertire l’alleanza tra popolari e socialisti che ha retto finora l’Europa, sostituendola con una nuova intesa tra popolari e populisti. Ma fino a quando a Bruxelles comanda Juncker e a Berlino la Merkel andare allo scontro anche personale non conviene a Salvini, e tanto meno all’Italia.
visto la partecipazione anche del Cardiocentro – ovviamente incentrata sull’importanza dell’alimentazione per la salute e in particolare per il cuore –, mentre al Padiglione Conza, trasformato in «Villaggio del gusto», c’era uno stand dell’Università della Svizzera Italiana. L’incontro fra il nostro ateneo e una rassegna promozionale della città, oltretutto dedicata essenzialmente a gastronomia e turismo, anche se evento «minore» rispetto ad altre iniziative, merita rilievo come ulteriore segno che la cultura può essere uno utile strumento per conferire valore aggiunto anche alle manifestazioni popolari. Ad esempio, proprio in un opuscolo dell’Usi, tra altre riflessioni sul rapporto fra cultura, cibo e arte culinaria, i visitatori trovavano una breve dissertazione dedicata alla storia del risotto incentrata sullo zafferano, «che non è solo l’elemento determinante del piatto più caratteristico della cucina tipica lombardo-ticinese, ma è anche custode di parecchie tracce della nostra identità che superano i
confini e attraversano lingue, culture e religioni». Tutto o quasi parte dal colore dello zafferano: la parola derivata infatti dall’arabo «za’faran» che significa «giallo» e che, spiega l’opuscolo dell’Usi, oltre a essere il colore del nostro risotto e a garantirne il sapore caratteristico, riesce a rievocare quasi quotidianamente «il lungo viaggio fatto di scambi e commistioni che rende difficile distinguere un “noi” da un “loro”, raccontando la sfaccettatura complessa della nostra identità». Del resto il risotto, una delle pietanze più umili della nostra cucina, è anche una sorta di testimone di come l’arte culinaria non sia confinata ai libri di cucina o limitata alle pur preziose penne di esperti cuochi o gastronomi, ma sia un tema che ha interessato anche ricercatori culturali e scrittori. Una conferma la si trova in un libro edito da Mimesis, Destini della patria. Arti e tecniche del risotto dorato di Gianfranco Marrone, vera e propria tesi scientifica applicata alla preparazione del risotto. Coautore (con A. Gianni-
trapani) di un ancor più impegnativo La cucina del senso. Gusto, significazione, testualità, per «santificare» il risotto Marrone prende tre ricette classiche di Pellegrino Artusi e le fa interpretare, esaminare e commentare da un grande chef (Carlo Cracco) e da un grande gastronomo (Allan Bay che i lettori di «Azione» conoscono). In una lunga dissertazione l’autore approda poi ad argomentazioni ed a spiegazioni scientifiche di quello che definisce l’algoritmo della preparazione del risotto. Manca ancora l’elemento culturale? Arriva con la mitica ricetta del risotto di Carlo Emilio Gadda, riportata nella versione intitolata Risotto patrio, che in avvio recita: «L’approntamento di un buon risotto alla milanese domanda riso di qualità, come il tipo Vialone (...) Burro, quantum sufficit, non più, ve ne prego; non deve far bagna, o intingolo sozzo: deve untare ogni chicco, non an-negarlo...». Un testo che Italo Calvino annoverava fra le cose migliori dello scrittore lombardo, a conferma che cultura e cucina... si amalgamano.
In&outlet di Aldo Cazzullo Comprare il consenso Il governo più pazzo del mondo, quello italiano, ha partorito la manovra più pazza del mondo. Non mi indigno affatto per la scelta di aumentare il deficit. La priorità in questo momento non è ridurre il debito pubblico, per quanto ingente;
è far ripartire l’economia. Qualsiasi parametro calcolato sul pil sarà sempre deludente, fino a quando il pil non riprenderà a crescere in modo robusto. Ma qui non si è deciso di sfidare l’Europa in nome della crescita, bensì dell’assistenza. Non si spende per far
Matteo Salvini. (Marka)
Zig-Zag di Ovidio Biffi Il gusto vien mangiando Ho avvertito emozione vedendo a Lugano, sia pure fermo in una piazzetta, uno dei vecchi camion-vendita di Migros Ticino adibito a... distributore di gusti. Ben attrezzato per questo suo servizio d’eccezione, figurava tra le tantissime proposte della rassegna «Lugano città del gusto» svoltasi per una decina di giorni sulle rive del Ceresio. Altra emozione, ancor più personale, un appuntamento in apertura della rassegna con i produttori di un gin e di un’amaro della valle di Muggio, quattro giovani che si sono fatti conoscere (grazie anche all’intraprendenza vulcanica dell’avv. Nacaroglu, uno del quartetto) da Ibiza sino alle corti di Muzzano, dai bar trendy di Zurigo sino a quelli di Ginza Street a Tokio. Eh sì, le «start up» possono essere avviate anche allevando bacche e erbe medicinali o facendo gocciolare gli alambicchi. Come già detto erano tante, forse troppe, le iniziative della rassegna nazionale che ogni anno sceglie una città (nel 2019 si sposta a Montreux)
in cui celebrare e promuovere il gusto, il senso del nutrimento che possiamo coltivare non solo degustando, ma anche imparando a scegliere i prodotti, a cucinare e a mangiare sano. L’evento, avendo tutti i crismi per essere un’attrazione della città, era atteso come richiamo turistico di fine estate, un po’ come si riesce a fare con la vendemmia in autunno. Nonostante l’eccellenza della preparazione e della promozione, l’offerta debordante deve aver frenato la partecipazione di tanti che si sono forse sentiti un po’ frastornati dalla fitta ragnatela di appuntamenti e dalla miriade di «momenti del gusto» che gli organizzatori hanno saputo inscenare. A bocce ferme, e visto l’impegno, rimane la speranza che l’esperienza diventi spunto per futuri eventi legati sempre al richiamo del gusto (proprio in contemporanea alla «kermesse» luganese a Torino Slow Food organizzava un «Terra Madre Salone del Gusto»: impensabile un gemellaggio o qualche forma di collaborazione?). La rassegna di Lugano ha tra l’altro
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 ottobre 2018 • N. 41
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Cultura e Spettacoli Un Frescobaldi svizzero Il prestigioso premio che unisce vino e arte quest’anno ha scelto la Svizzera come paese ospite
Il FIT all’altezza delle aspettative È andata in scena la 27esima edizione del Festival Internazionale del Teatro con spettacoli stimolanti e che spesso hanno registrato il tutto esaurito
Nuovo album per De Finti Intervista al pianista ticinese che sta per pubblicare il secondo disco con il suo quartetto pagina 40
Una storia della grafica Prende il via questa settimana una serie sulla nascita e sullo sviluppo delle arti grafiche
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Da 90 anni con noi
Anniversari Mickey Mouse, o Topolino,
mitica invenzione di Walt Disney, da quasi un secolo fa parte del nostro patrimonio culturale
Luciana Caglio Nell’ufficio dell’agenzia pubblicitaria dei fratelli Roy e Walt Disney, a Kansas City, i topi erano di casa. Uno si permetteva addirittura di arrampicarsi sulla scrivania di Walt, che l’aveva preso in simpatia, come una sorta di mascotte. Sarebbe diventato il suo portafortuna, ispirandogli un personaggio destinato a un successo mondiale straordinario. Dall’incontro fra quel roditore, solitamente sgradito, e Disney, che sperimentava l’animazione cinematografica, doveva nascere proprio Mickey Mouse. Fu poi Ub Iwerks, disegnatore di grande talento e intuito, a crearne la fisionomia definitiva: «Corpo a pera, gambe sottili, testa importante, grandi orecchie, naso all’insù, calzoncini rossi, guanti bianchi, scarpe gialle». Diversamente dalle figure fisse sulle pagine, che fino ad allora avevano illustrato le favole, adesso si tratta di un personaggio in grado di muoversi, come vuole una promettente forma di spettacolo che si chiama «sound cartoon», disegni animati sonori. E, appunto, nell’accoppiata azione-suono, Disney trova ciò che gli serve per dare pienamente vita ai suoi cortometraggi. Dopo due tentativi muti, mai presentati in pubblico, ecco che, il 18 novembre 1928, sullo schermo del Colony Theatre di Broadway si proietta Steamboat Willie: dura sei minuti e racconta le avventure di Mickey Mouse sfruttando le opportunità della sincronizzazione. È una primizia che, se testimonia il progresso tecnologico, soprattutto consacra la popolarità, anzi il fenomeno di Topolino. Con lui si è aperto un filone cinematografico e poi editoriale, incentrato sul capostipite degli animali antropomorfi: parlano, si comportano, pensano come gli umani. Ne sono, insomma, uno specchio e una caricatura. Rispetto ad altri loro celebri precursori, tipo il lupo di Cappuccetto Rosso, non si rivolgono soltanto ai bambini, con intenti educativi. Topolino, invece, diverte gli adulti, e, addirittura, attraverso le sue prerogative, le sue scelte, i suoi tic si presta a continui riferimenti
con il nostro vissuto. Il fatto di essere nato e cresciuto negli USA, attraverso la fantasia e l’intraprendenza tipica degli immigrati (i Disney erano di origine irlandese) ha lasciato un’impronta ben visibile in Mickey Mouse. Rappresenta il «self-mademan» benpensante, arrivista, conformista, il prototipo dell’americano medio, per non dire mediocre, che comunque, ce la farà. Con simili connotati e propositi, non poteva piacere a tutti. Anche il fortunatissimo Topolino, a suo modo, ha avuto la vita difficile. Innanzi tutto, per motivi politici, ciò che va tutto a suo favore. Nell’Europa degli anni 30, questo tipico prodotto yankee dovette fare i conti con le censure dei regimi dittatoriali, di destra e di sinistra, allora al potere. Fu vietato in URSS e nei paesi satelliti. Per vie traverse, i fumetti di Mickey Mouse riuscivano, però, a superare la cortina di ferro, ispirando artisti locali. In Cecoslovacchia, nel 1954, il vignettista Zdenek Miler inventò Krtek, una piccola talpa allusivamente irriverente nei confronti del potere. Nell’Italia fascista, Topolino avrebbe goduto, a quanto pare, le personali simpatie di Mussolini, tanto che la casa editrice Nerbini e poi la Mondadori, in un primo tempo, poterono pubblicare il settimanale intestato al popolare eroe disneyano. Finché il regime decise di italianizzarlo. Topolino diventa Tuffolino, e con questo nome finisce nel dimenticatoio. Nella Germania nazista, ufficialmente Mickey Mouse fu messo al bando quale esempio di «un degenerato idiota danzante». Ma stando alle recenti rivelazioni del filosofo Hans Ulrich Gumbrecht, Hitler aveva «una bizzarra predilezione» per Biancaneve, nella versione Disney. Nel dopoguerra, cadute le dittature e, infine, crollato il muro di Berlino, Topolino trova nuovi avversari negli ambienti dell’intellighènzia progressista e antiamericana. Sembra proprio incarnare il detestabile piccolo borghese, egoista, rispettoso delle regole, fedele alla moglie Minnie, e irremissibile giustizialista con il nemico di sempre, Pietro Gambadilegno, farabutto per
Mickey Mouse raffigurato su un manifesto nel 1931. (Keystone)
eccellenza. Anche negli USA, l’ondata revisionista non risparmia Mickey Mouse, simbolo di un ingannevole perbenismo e, con lui, nel mirino delle critiche e dei sospetti c’è ovviamente Disney. «Altro che affabile sorriso, è la smorfia di un razzista, misogino, fanatico»: così lo definisce Peter Stephan Jungk, autore nel 1993 della commedia The Perfect American, musicata da Philip Glass. Un titolo ironico per denunciare le ambiguità ideologiche e morali che accompagnano le scalate al successo. E, nella carriera dell’inventore di Topolino, l’aspetto tecnologico e commerciale ha, più volte, avuto il sopravvento sullo slancio creativo e innovativo. L’apertura del primo «Disneyland», nel 1955 a Los Angeles, fu vista come una pericolosa sbandata verso il «kitsch». L’antropologo Marc Augé doveva varare, in pro-
posito, la storica definizione di «non luogo». Insomma, una fama e un potere d’attrazione sembrano avviate al declino. Ma le cose non andarono così. Mentre nei confronti di Disney, i biografi si contraddicono, e lo danno per fascista o rooseveltiano, per tirchio o generoso, nei confronti delle sue creature, Topolino in testa, un pubblico, sempre più allargato, non ha dubbi. Fatto sta che, adesso, in occasione del suo novantesimo compleanno, quest’icona ha ottenuto testimonianze di simpatia, di gratitudine, di rivalutazione ad ampio raggio, se non unanimi. Non si tratta di ricordare una figura che appartiene al passato. Si festeggia, invece, uno che è sempre con noi, in piena forma. La rievocazione ci sta riservando sorprese. In Italia si scopre che Cesare Pavese l’aveva apprezzato come tradut-
tore dall’inglese delle strisce disneyane, e fra gli estimatori di Mickey Mouse , figurano Gianni Rodari, Federico Fellini, Umberto Eco. Per non parlare, poi, dei veri e propri specialisti del ramo, com’è stato Oreste del Buono, e com’è, adesso, Giulio Giorello, docente di filosofia della scienza alla Statale di Milano. Dai suoi studi, condotti con la passione di un culto, emerge un Topolino multiforme: «Nostalgico del passato e proteso verso il futuro, ribelle e conservatore». Come dire, un tipo che ci assomiglia, più che mai, in questo momento di confusione. Insomma, una volta ancora, la fantasia viene in soccorso alla realtà. Mickey Mouse, Minnie, Pluto, Pippo, Orazio, Clarabella e gli altri abitanti di Topolinia animano una nuova mitologia, necessaria al nostro bisogno di compagnia e di evasione.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 ottobre 2018 • N. 41
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Cultura e Spettacoli
Deliziosi connubi
Arte L’attuale edizione del Premio Frescobaldi, che stimola e valorizza le sinergie tra arte e vino, quest’anno vede
protagoniste anche due artiste svizzere Ada Cattaneo Arte e vino costituiscono da sempre un connubio felice, che ha assunto molteplici forme attraverso la storia. Le rappresentazioni della coltivazione della vite e del prodotto dei suoi frutti è nota da tempi remotissimi. Dal Secondo dopoguerra, invece, l’intervento degli artisti assume una forma nuova. Sarà perché i produttori di vino più blasonati amano circondarsi di opere d’arte o sarà invece perché sono spesso gli artisti ad essere dei bons vivants. Fatto sta che queste frequentazioni hanno sortito risultati interessanti. Un primo contatto documentato fra questi due mondi – arti visive e produzione vinicola – è la serie di etichette per il bordeaux Château Mouton Rotschild realizzate, in maniera sistematica a partire dal 1945, da autori come Salvador Dalí (vendemmia 1958), Pablo Picasso (1973), per arrivare più di recente a Lucian Freud (2006) e Anish Kapoor (2009). A tutt’oggi la collezione rimane una pietra miliare, molto apprezzata dai collezionisti del settore, e ha fatto scuola per quanto riguarda la scelta di coinvolgere artisti anche celebri per impreziosire la veste del prodotto. Un’altra tipologia di «interferenza artistica», sempre più intensiva a partire dagli anni Ottanta, è la realizzazione di opere espressamente ideate per i vigneti o per le cantine vinicole. In questo senso, Piemonte e Toscana, detengono il primato per frequenza e qualità degli interventi, fra i quali vale la pena citare almeno un paio di casi. Forse alcuni fra i lettori ricordano di avere intravisto, fra i filari di Barolo, la sgargiante cappella (usata in passato come rimessa per i trattori) decorata da Sol Lewitt e David Tremlett per la famiglia Ceretto in località La Morra. Scendendo più a sud, durante la visita alla tenuta del Castello di Ama, nel Chianti, si possono invece incontrare alcuni fra i più rilevanti artisti degli ultimi anni, da Louise Bourgeois a Daniel Buren, ai quali sono stati commissionati interventi site specific a partire dal 1999. Un’altra declinazione del connubio fra arte e vino è quella di costituire una collezione di opere (talvolta anche realizzate ad hoc) da collocare presso tenute vitivinicole. In Ticino un esempio su questa linea è la raccolta d’arte di Mario Matasci, dell’omonima casa vinicola, a Tenero, con opere rilevanti
Una suggestiva veduta di Castel Giocondo.
in particolare nell’ambito dell’Espressionismo tedesco. In questi casi non si tratta di opere disposte direttamente nella natura, ma di veri e propri percorsi espositivi per i quali vengono realizzate architetture apposite o si scelgono spazi storici già esistenti. Nei migliori dei casi le collezioni sono strutturate per essere in dialogo con il territorio circostante. Napa Valley e Francia contano molti di questi esempi. Un caso emblematico sono le campagne fotografiche dedicate alle tenute Lafite Rothschild commissionate a grandi autori – Richard Avedon, Elliott Erwitt, Irving Penn, … – da Eric de Rotschild a partire dagli anni Novanta. Ritornando in Toscana, un’altra zona di interesse è quella di Montalcino, dove ogni più piccolo podere è coltivato a vite e dove non ci si stanca mai di discutere se sia superiore il Chianti o il Brunello. Qui, dal 2012, la famiglia Frescobaldi ha deciso di ospitare presso la tenuta di Castel Giocondo la collezione «Artisti per Frescobaldi», costituita tramite un premio biennale d’arte, nel quale ogni edizione è dedicata a una nazione diversa. Il 2018 vede proprio la Svizzera come protagonista principale. Tiziana Frescobaldi, ideatrice del premio, spiega: «Il progetto è nato qualche anno fa, in questo momento complesso che tutti stiamo vivendo a livello culturale. Abbiamo cominciato a pensare a qualcosa che servisse ad interpre-
tare la nostra realtà produttiva, quella del vino. Poi abbiamo deciso di concentrarci sulla tenuta di Castel Giocondo, una delle nostre tenute principali, in una terra nuova, cioè con pochi episodi di unione fra arte e vino. Una terra così nota e celebrata, ma anche remota, non particolarmente ricca a livello culturale, fatta eccezione per alcune altre aziende». Sempre a Montalcino, per esempio, si trova il Castello di Romitorio, di proprietà di uno dei principali pittori italiani del secondo Novecento, l’esponente della Transavanguardia Sandro Chia, impegnato nella produzione di Brunello (etichette comprese) già dagli anni Ottanta e protagonista di una mostra personale a Casa Rusca a Locarno aperta fino al 6 gennaio 2019. Il premio Frescobaldi coinvolge tre artisti per ogni edizione: due artisti provenienti dal paese ospite e uno dall’Italia. Gli artisti trascorrono un periodo a Castel Giocondo, dove hanno modo di seguire la produzione del vino, oltre che di scoprire la tenuta e il territorio circostante. Seguono vari mesi, in cui viene lasciato loro il tempo per la realizzazione dell’opera, che sarà poi esposta in un museo. Quest’anno si tratta della Galleria d’Arte Moderna di Milano. A seguito della premiazione, le opere vengono riunite a Castel Giocondo, dove sono allestite in permanenza. Tiziana Frescobaldi, riguardo alla natura delle opere, racconta: «Non sono
opere site specific, non sono studiate per essere in un punto preciso della tenuta. Ma, negli anni, vanno gradualmente a costituire una collezione ispirata al territorio che le ospita. Abbiamo evitato di accumulare opere solo in base ai nostri gusti collezionistici, per favorire invece il legame con il territorio: tutto nasce da una visita, da una memoria del luogo ed è interessante vedere cosa gli artisti abbiano ricavato da un’area che per noi è prevalentemente un luogo di lavoro, di produzione. Ne abbiamo una concezione di coltivatori, ma diventa per noi vitale leggere la terra secondo lo sguardo dell’artista». Gli invitati si possono definire «a metà carriera»: sono fra i 30 e i 45 anni e hanno già mostre importanti al loro attivo, ma non entrano ancora nella categoria degli autori storicizzati. Sono presenti sulla scena dell’arte contemporanea, pur non essendo ancora di fama consolidata. La scelta è quindi quella di favorire un momento che può essere determinante e nodale nel loro percorso artistico, quando è conclusa la possibilità di ricevere borse di studio o premi per giovani autori, ma allo stesso tempo non si può ancora contare su una fama assodata e su un parterre di collezionisti. Una commissione di esperti indica gli artisti da invitare, privilegiando nomi che stiano attraversando un periodo creativo particolarmente interessante e abbiano voglia di misurarsi con
questa specifica identità territoriale. Inoltre devono essere disposti a confrontarsi con la committenza, secondo una formula molto diffusa nell’arte del passato, ma spesso invisa agli autori del presente. Ancora Tiziana Frescobaldi racconta le ragioni che hanno motivato la scelta della Svizzera quale paese centrale per l’edizione 2018: «Si tratta di un paese importante e molto vivace dal punto di vista dell’arte, dove gli autori hanno grandi opportunità. È un paese vicino a noi, seppure molto diverso. Un paese chiave per l’arte contemporanea. Perciò abbiamo selezionato due artiste, entrambe di origine romanda, anche se molto diverse fra loro». La più giovane è Claudia Comte, nata nel 1983 a Grancy, nel Canton Vaud, dove continua a vivere e lavorare, trascorrendo però lunghi periodo anche a Berlino. Una sua installazione – Now I Won – troneggiava su Messeplatz durante l’edizione 2017 di Art Basel e comprendeva una colossale scritta in legno, oltre che una serie di attrazioni a pagamento, i cui proventi sono stati destinati a Pro Natura. Arrivata a Montalcino, ha chiesto informazioni e dettagli a tutti i tecnici dell’azienda per comprendere il luogo, i metodi di coltivazione vitivinicola e la procedura per la vinificazione, seguendo tutta la fase cruciale della vendemmia. La seconda artista è Sonia Kacem, nata nel 1985 a Ginevra, dove tuttora vive. È arrivata a Castel Giocondo in luglio, quando i colori sono particolarmente intensi e si è appassionata soprattutto al rapporto fra la terra e la vite, fra i vigneti e il paesaggio. Il suo lavoro si basa prevalentemente su materiali di riutilizzo, ricercando però un’estetica sobria ed essenziale che spesso cita il minimalismo degli anni Settanta. Il terzo autore è lo scultore italiano Francesco Arena, la cui opera verte principalmente su un’analisi critica della storia degli ultimi decenni, realizzando opere che si concentrano su fatti tragici mai adeguatamente chiariti. A partire dal 26 ottobre le opere realizzate saranno visibili al pubblico presso la Galleria d’Arte Moderna a Milano, dove una giuria composta da storici dell’arte nominerà il vincitore. In seguito la collezione Frescobaldi sarà visibile gratuitamente, su prenotazione, per coloro che avranno modo di fare una gita in Toscana.
L’uomo e le parole
Pubblicazioni Il linguaggio nella prospettiva della neurobiologia, nel breve e schietto libro di Lamberto Maffei Stefano Vassere «Le parole sono la mia memoria, la mia narrazione: io sono fatto di parole, magari silenziose; quel poco che so, sono parole, stringhe di eventi che ritornano nella loro sequenza non solo grammaticale e sintattica, ma nella logica razionale e irrazionale del ricordo, e mi rifanno il mondo e mi rinarrano». La neurobiologia attenta al linguaggio vive certamente la sua stagione più florida. Grazie a strumentistiche scoperte qualche anno fa che permettono di letteralmente vedere il cervello mentre fa delle cose, produce frasi, genera pensieri, questa disciplina finisce per allargarsi un po’ e sondare in lungo e in largo la facoltà suprema che ci distingue dagli animali e fa di noi essere pensanti e sofferenti. Questo nuovo Elogio della parola, del neurobiologo normalista già presidente dell’Accademia dei Lincei Lamberto Maffei, ha il procedere affermativo
Neurobiologia sempre più centrale.
e sicuro e pacificatorio di gran parte della saggistica scientifica divulgativa, o meglio di un genere di letteratura civile e democratica dove scienziati sensibili ai fatti culturali mettono a dispo-
sizione il loro sapere per raccontarci un po’ come va il mondo. Il quadro si apre con la vicenda dell’affabulatrice Shahrazad, che salva se stessa e tutte le vergini sue sorelle esercitando il potere della parola e non lasciando requie al sultano, vincendo con le parole l’ingiustizia e la crudeltà del tiranno. E chiude il cerchio con la terapia contro il declino cognitivo che consiste nell’incoraggiare la produzione, anche esuberante, di parole e frasi: far parlare con brio e abbondanza per evitare la demenza senile, quasi che le parole fungessero da stimolante per il metabolismo e un vitalizzante afflusso di ossigeno al cervello. In mezzo, la vicenda della parola, quella biologica appunto, ma anche quella pedagogica, che va coltivata e sviluppata avendo cura di trasmetterla con rigore e dignità; la parola dei sapienti e quella sfatta e algida dei codici della globalizzazione e della nuova comunicazione digitale. Questo genere di approccio scientifico sul linguaggio ha pure profondi
sondaggi temporali di grande fascino; la scoperta di crani antichi, l’analisi di posture in tombe della notte dei tempi, fino all’osservazione di oggetti e strumenti reperiti accanto agli scheletri, concedono speculazioni di sicura seduzione. Siamo ai confini tra biologia, antropologia, medicina e molte altre discipline quando indaghiamo sul fatto che se la nascita della competenza sintattica si data presumibilmente attorno a 50’000 anni fa, la dotazione dei nostri apparati fonatori e nervosi che «preparano» la competenza linguistica sarebbe molto più antica, e ebbe luogo «in un punto imprecisato dell’Africa orientale, all’incirca dai 100’000 ai 50’000 anni fa». Certo è che Maffei cede un po’ a qualche divagazione: l’immancabile ruolo dell’inglese, lo smartphone a scuola, il linguaggio dell’arte, la differenza tra vedere e guardare ecc. Ma questo genere saggistico è certamente impareggiabile quando, come spesso capita ai suoi autori, richiama per brevi
cenni maestri e modelli: qui le parole così commoventi nella loro glaciale precisione di Lev Vygotskij, «il Mozart degli psicologi», e del suo capolavoro Pensiero e linguaggio: «Il pensiero dà significato alla parola che senza significato sarebbe un suono vuoto. Il pensiero potrebbe essere paragonato a una nuvola incombente che rovescia una pioggia di parole». La competenza linguistica qualifica l’uomo rispetto all’animale e lo rende capace di civiltà, poesia, dolore e di tante altre zavorre culturali. Dell’autore di questo libro dice il grande linguista Luca Serianni nella presentazione: «l’ascoltatore o il lettore sono abituati a un suo stile inconfondibile: leggero senza essere mai corrivo e non di rado imprevedibilmente ironico». Ecco: è così. Bibliografia
Lamberto Maffei, Elogio della parola, Bologna, il Mulino, 2018.
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Cultura e Spettacoli
La collaudata liturgia del FIT
Teatro Il Festival Internazionale del Teatro (FIT) anche quest’anno non ha disatteso i suoi numerosi seguaci;
al LAC di Lugano invece va in scena Donka. Una lettera a Checov
Giorgio Thoeni Va da sé che è impossibile render conto di ogni spettacolo. Andiamo infatti in pagina con un parziale rendiconto di quanto abbiamo potuto vedere e apprezzare. Ma ci basta per affermare che anche questa edizione del Festival Internazionale del Teatro (FIT), grazie alla qualità delle sue proposte, si è spesso meritata il tutto esaurito sugli appuntamenti che ha proposto in cartellone nelle varie sale del circuito luganese dedicato alla rassegna. Dobbiamo però fare delle scelte su quanto visto nella seconda tranche iniziando con Cappuccetto Rosso al Teatro Foce nella messa in scena della compagnia pugliese La luna nel letto diretta da Michelangelo Campanale, progetto nato per l’Associazione Tra il dire e il fare di Ruvo di Puglia (Bari). Campanale, nel curare la drammaturgia, ha scelto una linea originale, evitando l’incedere tradizionale di una fiaba che non ha più bisogno di essere raccontata. Egli esplora l’effetto sorpresa sui personaggi grazie a un’iconografia colorata con costumi e luci per danzatori-acrobati eccellenti (Claudia Cavalli, Erica Di Carlo, Francesco Lacatena, Marco Curci e Roberto Vitelli) accanto a suggestive invenzioni coreografiche (Vito Cassano) ed effetti con videoproiezioni (Leandro Summo). Uno spettacolo inserito nella sezione «Young and Kids», ma destinato a tut-
Daria Deflorian in Quasi niente. (fitfestival.ch /Claudia Pajewski)
ti, e che in sala si è rivelato essere una continua fonte di sorprese per l’empatia efficace, la capacità di saper giocare con semplicità con le immagini, la bravura interpretativa e un pizzico di magia teatrale. Quello dei bambini (e ce n’erano) è il pubblico più difficile, ma questo Cappuccetto Rosso ha subito conquistato la loro fiducia.
Fra le altre occasioni degne di nota certamente va segnalato un ulteriore appuntamento con la danza contemporanea visto dalla tribuna allestita sul palco ridotto del LAC con This Is My Last Dance, duetto ispirato a Finale di partita di Samuel Beckett di e con Tabea Martin e Simona Bertozzi, un progetto fra l’altro sostenuto dal Percento cul-
turale di Migros Ticino. L’incontro fra la danzatrice e coreografa svizzera con la performer italiana può definirsi un progetto esistenziale. Sulla pedana del nudo palcoscenico, i movimenti delle due artiste si snodano a turno, si uniscono, si raccontano, si riannodano, si rincorrono, si toccano, si lasciano, parlano… nella continua constatazione allusiva di una fine imminente. Non conta l’età o la capacità di resistere alla fatica di sostenere una danza esigente, a tratti ossessiva, con puntate ironiche e clownesche. I due personaggi vivono la consapevolezza della fine di una parabola nell’agitato silenzio di corpi espressivi, nell’assordante ritmo esplosivo di un’apoteosi senza sentimento: bravissime. Il terzo e ultimo spettacolo di cui vogliamo brevemente parlare è quello che probabilmente tutti attendevano, quasi come una collaudata liturgia del FIT con il ritorno di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. Quasi niente è il loro nuovo spettacolo, realizzato con la collaborazione di Francesco Alberici: la conferma di uno fra i più originali e innovativi filoni creativi della scena italiana. Lo spettacolo è una sorta di dialogo con il film Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni. Nonostante il titolo, questo lavoro è molto di più di Quasi niente. Si srotola da una riflessione sulle parole svelando le età di tre donne e due uomini. Cinque personaggi in scena, ma che in realtà diventano due entità protagoniste confrontate con il tempo,
gli oggetti, i ricordi del quotidiano teatralizzato per assecondare la commedia della vita, e in cui le scene del film fanno da bordone al personaggio di Giuliana, la protagonista del romanzo di Buzzati (nel film Monica Vitti) che sulla scena assume tre sembianze; la timida trentenne (la brava e soave Francesca Cuttica), la caustica quarantenne (la superpremiata bravura di Monica Piseddu) e la «quasi» sessantenne (l’eccellente rassegnazione di Daria Deflorian), mentre gli uomini (Antonio Tagliarini e l’attore performer Benno Steinegger) raccontano due diversità, un fragile, specchio dell’essere maschile, a confronto con la disperata forza dell’entità femminile. Quasi niente si illumina di efficacia drammaturgica, in tono minore l’allestimento. Ma stiamo comunque parlando di eccellenza. Sul palco del LAC ritorna Cechov
C’è maretta fra la direzione artistica del LAC (Rifici e Gagnon) e la Compagnia di Daniele Finzi Pasca. La storia la conosciamo. Dopo essere stata covata per mesi si è trasformata in un contenzioso dai toni aspri da cui è lecito attendersi qualche sorpresa. Nel frattempo the show must go on perché sul grande palco del LAC va in scena Donka. Una lettera a Cechov, spettacolo che ha debuttato nel gennaio del 2010 al Théâtre de Vidy di Losanna e che, dopo un restyling, approda finalmente a Lugano per otto sere, dal 9 al 16 ottobre. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
La «fusion fredda» è riuscita
Incontri A colloquio con il pianista ticinese Lorenzo De Finti che ha appena pubblicato
il suo nuovo album Love Unknown
Alessandro Zanoli In un mondo musicale in cui i gruppi capitanati da un pianista sono sempre più presenti (e a volte tutti un po’ simili) urge la necessità di smarcarsi dai modelli, in particolare di quelle band nordeuropee che hanno fornito tanti esempi di successo e sembrano dettare legge. In questo contesto prosegue l’opera di «smontaggio» del linguaggio jazz e l’avvicinamento all’espressività classica di Lorenzo De Finti, pianista ticinese dalle grandi capacità. Il suo nuovo disco Love Unknown continua la ricerca che già caratterizzava il suo lavoro precedente, We live Here. E di nuovo colpiscono l’ascoltatore il suono curatissimo e la volontà di rispettare e mettere in risalto la personalità di ognuno dei partner nel suo quartetto. Love Unknown propone una scaletta di brani intensamente lavorati e «pensati», in cui il lavoro di composizione è preciso e solido: un disegno nato sulla carta da musica più che dalle «improvvisazioni compositive» praticate spesso dai gruppi jazz moderni. De Finti, mi permetta di etichettare il suo nuovo lavoro come un album di «cool fusion». L’anima fusion è una caratteristica della sua personalità musicale. La conoscevamo dal suo disco Colors of Life e dai concerti con cui l’ha presentato in Ticino (tra l’altro anche a Estival) ed è conservata nell’impianto ritmico dei nuovi brani, ma la parte armo-
voce molto originale, il pianoforte è sempre alla ricerca di soluzioni melodiche non usuali.
nica e melodica è invece fredda, lineare e astratta. Che ne pensa?
Beh, è affascinante come definizione, se pensiamo poi a quel tentativo fallito di reazione chimica che cercava di realizzare un processo fisico...(ride). Sono parzialmente d’accordo, in particolare per il primo brano, The Vortex of the Angel, ma non tanto per Lied Ohne Worte, dove in fondo siamo ai confini tra jazz e musica classica. Chiaramente molte delle ispirazioni per il mio lavoro di compositore le traggo da Esbjorn Svensson, con l’uso del contrabbasso distorto, di atmosfere aperte. Posso dirle che il disco originariamente doveva uscire per l’ECM, quindi il sound generale è calibrato per l’estetica caratteristica di quell’etichetta. Poi una serie di problemi con Eicher hanno fatto cambiare la casa discografica. Ma nonostante ciò abbiamo deciso di mantenere quella direzione algida, acustica, anche se ci siamo poi un po’ liberati dalla matrice, introducendo alcuni passaggi quasi rock. Un album pensato a tavolino o nato in gruppo, da improvvisazioni?
Il disco è stato composto a quattro mani da Stefano Dall’Ora, il bassista, e da me. Siamo arrivati in sala d’incisione con le parti scritte, poi naturalmente è subentrata la libertà e l’intelligenza dei nostri partner (Gendrikson Mena Diaz alla tromba e Marco Castiglioni alla batteria) che possono intervenire e cambiare quello che si può cambiare. Per esempio nel secondo brano, The Day I Will See you Again, la parte
L’album è stato composto da De Finti e Stefano dall’Ora. (lorenzodefinti.com)
iniziale, il dialogo tra il pianoforte e la tromba è tutta completamente scritta, mentre l’assolo del contrabbasso e del pianoforte sono completamente improvvisati. Insomma, è un’alternanza di parti scritte e di parti libere. Queste ultime comunque sono abbastanza ben inquadrate. Anche nel brano centrale, la mini suite Return to Quarakosh, dedicata al massacro perpetrato dall’Isis in un villaggio iracheno, la parte centrale con assolo di batteria e di tromba è completamente libera, mentre l’inizio e la fine sono composti.
Il brano è una reazione d’impulso a una situazione drammatica e inac-
cettabile dal punto di vista dei diritti umani, un grido di indignazione. Ma il vostro è un disco concept?
Diversamente da We Live Here, l’album è nato più liberamente. Si tratta di brani singoli che però adesso abbiamo messo in ordine e sono diventati a loro volta una piccola suite (un’idea tra l’altro che ci aveva dato Eicher). Dal vivo la suoneremo come una suite: è una sfida per l’ascoltatore ma anche per noi perché è un grande impegno. Ma è bellissimo quando riesci a catturare l’ascoltatore che rimane attento per un’ora e ti segue.
Si sente che state lavorando sul suono del gruppo... la tromba ha una
È una cosa su cui lavoriamo tutti, è come dover imparare un linguaggio nuovo. Pur rispettando chi suona il jazz degli standards, ci sembra inutile suonare cose già fatte. Posto che suonare qualcosa di nuovo è difficile, forse impossibile, e che le novità attuali saranno forse riconosciute fra dieci anni, la nostra ricerca del sound di gruppo è costante. Abbiamo la fortuna di avere molte date a livello internazionale e questo ci aiuta a consolidare il lavoro. Quello di noi che fa più fatica è forse il trombettista, che parte da una tradizione musicale molto diversa. È un virtuoso cubano, ma ha saputo calarsi nella mentalità tutto sommato scandinava della nostra musica. In fondo è stata una mia scommessa. Io sapevo che sarebbe stato in grado di farlo: è stato come mettere un attaccante nel ruolo di difensore... Eicher quando lo ha sentito ha detto che suona come Kenny Wheeler. Con le nostre indicazioni si è calato il meglio possibile in questo mondo e io sono molto contento. Il disco uscirà venerdì 12 ottobre per Losen Records e, grande onore, sarà presentato dal vivo al Nasjonal Jazzscene di Oslo, da cui il concerto sarà proposto in diretta streaming. Il 14 ottobre saremo all’Elisarion di Minusio, alle 17.00, ma lì suoneremo le musiche dell’album precedente. La presentazione in Ticino di Love Unknown è prevista per il 7 dicembre a Jazz in Bess, Lugano. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Una grafica in mutamento
Storia della grafica - Prima parte Inizia con questo contributo un percorso di ricognizione in una disciplina
che è anche un’arte e che da molti anni rappresenta un fiore all’occhiello del nostro Paese
Orio Galli La mia generazione ha vissuto sull’arco della seconda metà del Novecento un incredibile passaggio epocale. Quello dal «duro» (hard) al «morbido» (soft) o, se preferite, dall’analogico al digitale (o numerico che dir si voglia). Tutto ciò dopo che per circa mezzo millennio (caratteri mobili di Gutemberg, 1450 circa) nel campo delle «arti grafiche» nulla o quasi era mutato fino circa agli anni Cinquanta. Perciò mi sono detto che forse anche una testimonianza come la mia avrebbe potuto essere di un certo interesse storico. In questa puntata cercherò dunque di iniziare a raccontare la grafica, anche perché quella che ho imparato e praticato io per più di mezzo secolo di vita (Orio Galli – 50 anni di graphic design, Poncioni, 2015), è ormai morta da circa un ventennio. O, perlomeno, è entrata in «catalessi» da quando l’uso sempre più diffuso del computer (completato poi dall’arrivo di internet) ha preso il sopravvento sulla manualità. Insomma, con quel digitale che ha ormai in gran parte cambiato non solo il modo di progettare e di realizzare qualsiasi cosa, ma addirittura di guardare e vedere la realtà che ci circonda. Sconvolgendo pure il modo di riflettere, sentire, amare, pensare… e con ciò modificando tutta la nostra vita. Io mi limiterò al solo ambito della comunicazione. E, nel caso particolare, a quella di tipo plastico-visivo; e solo a quella statica (non cinetica) e bidimensionale, sebbene oggi stia sempre più prendendo piede la multimedialità. Per cominciare qualche spiegazione sul significato di alcuni termini. Anche perché «grafica» e «grafico» possono voler dire cose diverse.
Dove tutto ebbe inizio: Johann Gutenberg (1400-1468) legge delle prove mentre il suo assistente si occupa della pressa – da un bassorilievo sulla tomba di Gutenberg. (Keystone)
Per «grafica» può innanzi tutto intendersi l’opera grafica o, meglio ancora, calcografica, legata a un artista disegnatore, pittore o incisore. Trattasi normalmente d’immagini eseguite con tecniche e su supporti diversi (punta secca, acquatinta, acquaforte, xilografia, litografia, serigrafia…). Lavori riportati poi da una matrice in legno o metallo quasi sempre su carte speciali. Con riproduzioni tirate
(stampate) a mano in non molti esemplari: solitamente da poche decine a un centinaio di copie, singolarmente numerate e firmate dall’artista. Opere soprattutto realizzate in bianco e nero. Più raramente in due o più passaggi/colori. Come si può ben capire ci troviamo di fronte a un tema vastissimo, da una storia millenaria. Riguardo a questo argomento è fondamentale il libro dello svizzero Felix Brunner:
Manuel de la gravure, Arthur Niggli, 1962. Per «industria grafica» si definisce invece tutta quell’attività che si occupa di stampati commerciali, dal biglietto da visita alle gigantografie, dall’etichetta al francobollo, dalla t-shirt al manifesto stradale, dal libro al giornale, dal depliant all’imballaggio. Immagini bidimensionali, e soprattutto realizzate su supporti cartacei. Anche se
recentemente comincia a farsi strada la stampa tridimensionale, 3D. Con la denominazione di «grafico» vengono pure definiti quegli schemi-diagrammi atti a rappresentare sotto varie forme (con sviluppi orizzontali, circolari, ortogonali…) rilevamenti di dati statistici di varia natura (economici, sociologici, linguistici…). Interessante come in questo campo vada da non molto affermandosi una nuova professione: quella dell’information designer. Si osservino al proposito le intriganti grandi tavole realizzate su diversi temi scientifici che appaiono settimanalmente nell’inserto La lettura del «Corriere della Sera». Ma veniamo a ciò che maggiormente ci interessa. Con «grafica», e «grafico», ci si riferisce o, almeno, ci si riferiva fino a non molto tempo fa, anche all’attività legata alla progettazione di ogni forma visiva che normalmente viene poi realizzata dall’industria grafica in serie. Il grafico è comunque colui che si occupa principalmente della progettazione (schizzi, maquette…) e dei disegni definitivi (esecutivi) pronti per la riproduzione. Una professione questa chiamata oggi anche graphic designer (disegnatore grafico) per distinguerla da altri designer (di oggetti, abbigliamento, macchine, mobili…), così come da infografico o da web designer, professionisti che nacquero a fine Novecento quando il computer sostituì in gran parte il lavoro umano. Si tratta comunque di attività basate sulla progettazione di qualcosa che verrà successivamente prodotto con delle macchine in serie. Tutto l’opposto dell’artigiano che esegue ogni singolo pezzo, almeno in parte, a mano. (Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibiltà tecnica,1936).
Hozier, valeva la pena di aspettarlo
Musica Dopo un lungo periodo di silenzio l’irlandese Hozier ritorna ai suoi fan con Nina cried Power,
un EP con quattro ottime tracce Benedicta Froelich A volte, anche se non troppo spesso, capita di imbattersi in esordienti che, appena approdati sulla scena pop-rock internazionale, si rivelano veri e propri «colpi di fulmine», capaci di toccare corde cruciali nel cuore degli ascoltatori e guadagnarsi così un posto speciale nell’immaginario collettivo. Il ventottenne irlandese Hozier sembra costituire un perfetto modello di tale tipologia: catapultato nell’olimpo del successo pressoché immediato da un
singolo indimenticabile quale l’inquietante Take Me to Church (2013), si è infatti presto distinto grazie a un album d’esordio di grande fascino e potenza, caratterizzato da una sapiente mistura tra folk, blues-rock e gospel – il tutto condito da liriche intrise di una curiosa, personale combinazione di etereo misticismo e concreto (oltreché ben più terreno) vitalismo. Tuttavia, chi sperava che, dopo un simile debutto, Hozier si buttasse anima e corpo nella mischia discografica, magari cercando di trarre più vantaggi
Quattro brani che fanno da apripista per un prossimo album.
possibile dall’insperato riscontro ottenuto, è rimasto deluso: infatti, a parte il (peraltro notevole) Better Love – brano inciso nel 2016 per la colonna sonora dell’ennesimo film hollywoodiano dedicato alla leggenda di Tarzan – il nostro si è, in realtà, trincerato dietro un ostinato silenzio, dal quale è infine riemerso appena pochi giorni fa, a distanza di ben quattro anni dall’album d’esordio (l’eponimo Hozier). Ma il tanto atteso ritorno non ha preso la forma di un CD completo, bensì di un cosiddetto EP – termine che sta per «extended play», e si rifà ai bei tempi del vinile, in cui gli artisti desiderosi di offrire un «assaggio» delle loro capacità incidevano un disco di breve durata, a metà strada tra un 45 giri e un LP vero e proprio; proprio ciò che, del resto, lo stesso Hozier ha fatto nel 2014, quando il suo disco d’esordio è stato preceduto dall’EP From Eden. Così, questo nuovo Nina Cried Power contiene appena quattro tracce, a fungere nuovamente da apripista per un secondo CD in arrivo; ma, a onore di Hozier, bisogna dire che questi pochi brani sono davvero valsi la lunga attesa. Lo dimostra subito il trascinante Shrike, pezzo semplicemente magistrale nella sua fusione tra lo stile peculiare del suo autore (si vedano gli struggenti arpeggi di chitarra che enfatizzano e accompagnano il finale di ogni strofa) e l’ipnotica, striscian-
te malinconia che ne pervade il testo e l’atmosfera – in una sorta di affresco del più represso e inconfessabile dolore esistenziale, irrimediabile quanto commovente. Esattamente il tipo di esercizio di stile che Hozier ci ha insegnato ad aspettarci da lui: coinvolgente, a tratti perfino straziante, ma senza mai scadere nel melenso o nell’enfatico. E, di fatto, la prova rappresentata da Nina Cried Power non potrà che deliziare i fan dell’artista irlandese e confermarne lo status di cantautore di grande respiro, le cui capacità trascendono la giovane età. Anche perché, Shrike a parte, Hozier sorprende ancor di più con la travolgente title track Nina Cried Power, il cui titolo rimanda a una figurasimbolo dell’emancipazione artistica afroamericana quale la grande vocalist Nina Simone – in un sentito omaggio alle leggende della musica al femminile e alle loro lotte per ottenere il rispetto e la «potenza» di cui il titolo parla, liberandosi dalle catene della supposta superiorità maschile al fine di brillare davvero come artiste e persone. Non solo: il brano – una cavalcata rockblues dalla potenza dirompente – si avvale anche della voce ancor oggi ineguagliabile della quasi ottuagenaria (e leggendaria) Mavis Staples, icona degli Staple Singers. E se l’altro pezzo veloce presente nell’EP – Moment’s Silence (Common Tongue) – si colloca sulla
medesima linea stilistica del brano che dà il titolo all’album, sul versante opposto troviamo invece le atmosfere suadenti della ballata NFWMB, il cui titolo altro non è che l’acronimo di «Nothing Fucks With My Baby», frase evidentemente ritenuta troppo sboccata per un album di diffusione commerciale (il quale, nonostante tale cautela, si è comunque guadagnato la temuta dicitura «explicit» sotto il titolo); così, anche se, per certi versi, NFWMB riserva meno sorprese – essendo definibile come il classico lento «à la Hozier», carico di trattenuta, ma palpabile sensualità e vibranti ammiccamenti – resta comunque uno sforzo di gran classe, in linea con l’intero EP. Del resto, nonostante la brevità, Nina Cried Power riesce davvero a infondere una sensazione di appagamento nell’ascoltatore: e se si considera come il cantautorato folk inglese non stia esattamente vivendo uno dei suoi momenti migliori, il fatto che un giovane quale Hozier sia in grado di mantenere appieno le speranze del proprio esordio – e, con un po’di fortuna, magari superarle, nei molti anni di lavoro che ancora lo attendono – è decisamente consolante. Soprattutto per l’ampio pubblico di appassionati che, alla stregua di chi scrive, sperano sempre in un futuro rinnovo generazionale per la vecchia scuola folk-rock di un tempo.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 ottobre 2018 • N. 41
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Cultura e Spettacoli
La «scuola» russa dei burattini
Quinta edizione di MusicArte
Enza Di Santo
Tre magnifiche cornici ospitano il 20, 21 e 27 ottobre la rassegna dedicata alla musica classica, barocca e contemporanea, con l’intento di avvicinare quella parte di pubblico curiosa, alla quale la bellezza di questa forma d’arte è ancora sconosciuta. La violoncellista e docente di violoncello al Conservatorio della Svizzera Italiana, Silvia Longauerová, il cui obiettivo è trasmettere ai suoi allievi il piacere e la passione per la musica e per il proprio strumento, ha fondato questo festival per promuovere i momenti musicali, ma anche l’arte in ogni sua espressione. Musicisti talentuosi, che nonostante la loro giovane età, portano sul palco abilità e esperienza in grado di suscitare emozioni e catturare l’attenzione anche di esperti conoscitori della musica. L’apertura di questa edizione si terrà sabato 20 ottobre al Collegio Papio di Ascona alle ore 20.00 con i concerti per pianoforte e orchestra intitolati «Oriente e Occidente». Il Percento Culturale di Migros Ticino, sostiene per la prima volta come sponsor questo appuntamento con la grande musica e offre ai lettori di «Azione» 5 coppie di biglietti per assistere all’esecuzione del Concerto per pianoforte n.2 - After Lewis and Clark del compositore contemporaneo Philip Glass, e il Concerto per pianoforte n.2 in fa maggiore opera 102 di Dmitrij Šostakovič. Al pianoforte Mischa Kozłowski accompagnato dall’Orchestra da Camera di Lugano e diretto da Stefano Bazzi. Il secondo appuntamento «Violino solo dal barocco al contemporaneo» di domenica 21 ottobre alle 17.00 all’Hotel Giardino di Ascona, sarà eseguito dalla violinista Francesca Bonaita sotto forma di recital il cui fil rouge ripercorre le sonate dei maggio-
Concorso 1 Torna il Festival Internazionale delle Marionette
Torna il teatro delle marionette, dei burattini, dei fantocci e soprattutto, come ogni anno, della fantasia. La conduzione artistica del Festival Internazionale delle Marionette di Lugano, alla 36esima edizione è affidata sin dagli esordi al suo ideatore Michel Poletti. Dal 13 ottobre al 4 novembre il Teatro Foce di Lugano, farà brillare gli occhi di spettatori piccini, attraverso la magia dell’immaginazione degli spettacoli proposti. 40 tra attori, cantastorie, marionettisti e musicisti, di 15 compagnie teatrali internazionali animeranno i racconti e le avventure che daranno vita ai 280 burattini e pupazzi. Forse può apparire banale, eppure questo Festival ogni anno trasporta i bambini in mondi fantastici e fiabeschi aprendoli alla creatività, e riporta gli adulti a quello stato infantile in cui ogni scoperta è un attimo di stupore. Tanto peso hanno fantasia e creatività, che quest’anno la Compagnia ha creato un nuovo Festival Internazionale nel Canton Vaud. Anche questa edizione del Festival Internazionale delle Marionette è sostenuta dal Percento culturale di Migros Ticino che offre ai lettori di «Azione» alcuni ingressi gratuiti per due dei molti stupendi spettacoli in cartellone. Il grande teatrino di Tartinovski, che si terrà al Teatro Foce sabato 20 ottobre, alle ore 15.00 è uno di questi. La Compagnia Musicateatro mette in scena una commedia-evento originale, in cui Michel Poletti rievoca i suoi 50 anni di teatro, e il suo maestro, Vladimir Alexandrovich Tartinovsky. La vicenda narrata si svolge nel Museo dei pupazzi, dietro le quinte dei teatrini, dove in attesa del Maestro, il guardiano pasticcione ma entusiasta fa rivivere i capolavori del suo repertorio, fra marionette esotiche, personaggi della
Una delle più caratteristiche marionette di Viktor Antonov. (www.palco.ch)
Commedia dell’arte e anche il Coniglio Bianco di Alice. Uno spettacolo originale e divertente, rivolto a tutti, a partire dai 5 anni. In questo spettacolo il maestro russo Tartinovski, interpreterà se stesso. Domenica 28 ottobre alle ore 16.00 un altro grande maestro russo, animerà il Teatro Foce. Circo sui fili, spettacolo da non perdere, adatto a bambini dai 3 anni, del maestro delle marionette a filo, Viktor Antonov è ispirato al mondo del circo e del cabaret. Molti sorprendenti personaggi saranno protagonisti di questo viaggio nella fantasia, tra scimmie in bicicletta, cammelli volanti, un mago trasformista e un ti-
mido clown. Antonov proveniente da San Pietroburgo, è stato per un lungo periodo titolare della cattedra di marionette dell’Accademia di Teatro e Cinematografia della sua città e dal 1993 si esibisce in tutto il mondo come solista. Tutta la rassegna è un assoluto sogno, tra re bruchi che mangiano l’erba, omini di gomma per poemi visivi, circo, giochi di ombre, fiabe di piccole paure, case di gnomi, musicanti e molto altro. Per poter partecipare all’estrazione dei biglietti gratuiti basta seguire le semplici indicazioni riportate sul sito internet www.azione.ch/concorsi.
Concorso 2 La nuova veste della musica
classica nella rassegna asconese
ri compositori della storia barocca e contemporanea, da Bach a Paganini, passando da Eugène Ysaÿe fino ad arrivare a Giorgio Colombo Taccani. La chiusura di sabato 27 si svolgerà alla Chiesa di San Lorenzo di Losone alle ore 20.00. Il quartetto d’archi Intime Voci composto da Ekaterina Györik-Valiulina, Maria Grazia Corino, Martino Laffranchini e Nicola Raffaello Tallone si esibirà in Langsamer Satz per quartetto d’archi di Anton Webern e nel Quartetto in sol maggiore Nr. 15 di Franz Schubert. Il programma dettagliato e altre informazioni sono disponibili sul sito internet www.musicarte.ch. Per partecipare all’estrazione dei biglietti per la prima serata «Oriente e Occidente» di MusicArte Festival Ascona basta seguire le indicazioni sul sito wwww.azione.ch/concorsi
Mischa Kozlowski in una foto di Maksymilian Rigamonti. (www. mischakozlowski.com)
Breve storia di una colpa millenaria Recensioni Una risposta commovente agli Schwarze Hefte di Martin Heidegger
Pietro Montorfani Giuseppe Curonici, autore che si è fatto conoscere in questa veste soltanto in età avanzata, ha recentemente pubblicato il suo quarto romanzo, apparso a Locarno da Dadò dopo una fortunata triade edita a Novara da Interlinea tra il 2002 e il 2012 (da L’interruzione del Parsifal dopo il primo atto, Premio Bagutta Opera Prima, a Nell’isola distante, fino a L’incendio della montagna blu). Come era accaduto in passato, anche in questo caso Curonici condensa nel titolo un intero immaginario, di più, la partitura retorica e morale su cui la storia si regge: nella Fine precoce del giovane D.S. c’è tutto il poco (o molto) che succede nel libro, cioè nient’altro che il consumarsi brevissimo e insensato di un’esistenza il cui destino era già inscritto nel nome del protagonista. Dietro la sigla D.S. stanno infatti un nome e un cognome che più ebrei non potrebbero essere: «Daniele» e «Sichem», un giovane economista un po’ introverso, che «si occupava di denaro senza essere né avido né egoista». Se le parole hanno un peso, Curonici le seleziona con grandissima attenzione, per sgravare Daniele da qualunque stereotipo o colpa potenziale; a parte naturalmente il «peccato originale» della sua origine razziale, uno scandalo che da
Chagall sulla copertina del nuovo libro di Curonici.
quattromila anni – ma con un tremendo apice nel Novecento – non ha ancora esaurito la sua azione nefasta: «Da qualche parte nel tempo era avvenuta una malvagità collettiva, di una tale vastità che era impossibile a un ragazzo capacitarsene con pensiero lucido. Sei
milioni di persone erano state assassinate». Il tema, si capisce, è dei più delicati, come sempre quando si torni ad affrontare la questione dell’antisemitismo, trattata da Curonici in termini prima di tutto filosofici e culturali. A fare da
numi tutelari a questo denso libretto sono infatti, assieme a una fitta rete di riferimenti a Kant, a Celan, a Sant’Agostino, il Camus del capolavoro (citato in esergo: «Il bacillo della peste non muore mai») e la grande lezione di Primo Levi («È avvenuto, quindi può accadere di nuovo»), di cui nel testo non compare mai la citazione esplicita, ma torna continuamente la parafrasi: «Non poter essere sicuri di niente. La paura. Se una cosa è capitata, vuol dire che è possibile, che può tornare» (p. 17), «Non serve dire che l’acqua passata non macina più, l’acqua non è passata» (p. 125). Davvero l’esempio di Se questo è un uomo aleggia tra le pagine, nonostante l’ambientazione contemporanea della storia, tra Zurigo, Roma e la Lombardia, in un mondo di imprenditori senza scrupoli e di agguati nell’ombra. I lettori scopriranno da soli la trama, che in fondo conta poco perché la colpa non è tanto dei «cattivi» del libro, i trafficanti d’armi che farneticano di complotti sionisti e spionaggio aziendale, quanto di tutti noi, perché siamo tutti immersi in una società che ha da sempre, con l’altro, un rapporto conflittuale: «Il piacere di mentire e disprezzare te lo trovi accanto al tavolino del bar, nella smorfia disgustata di una signora al supermercato o nello sguardo di un uomo importante dalla sua scrivania, oppure
nel volto melenso di un professore che a scuola per non avere storie tace la verità ai ragazzi». E ancora: «Una persona incontra qualcuno in strada. Lo saluta. L’altro non risponde al saluto. Un evento proprio minimo, ma è l’inizio, ti pare? Considerare gli altri uno zero». A rischio di eccedere nell’esplicitazione delle proprie tesi, Curonici punta sulla chiarezza di dettato, aprendo sovente nel libro – comunque di impianto narrativo – brevi parentesi di natura filosofica sulla nostra percezione del tempo e dello spazio, sul misterioso scorrere dell’esistenza o ancora sul nostro rapporto, non censurabile, con una dimensione ultraterrena. Non mancano, infine, i riferimenti alla contemporaneità, se vero che il libro si chiude con una commovente lettera postuma di Daniele, dopo la sua «fine precoce», nientemeno che a Martin Heidegger, di cui nel 2015 sono stati resi pubblici gli Schwarze Hefte. In questa «Lettera nell’al di là da un ebreo morto a un nazista morto» si condensa tutta la provocazione e l’insensatezza di quanto è successo nel cuore più tragico del Novecento. Bibliografia
Giuseppe Curonici, Fine precoce del giovane D.S. Armando Dadò 2018, 144 pagine.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 ottobre 2018 • N. 41
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Idee e acquisti per la settimana
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shopping Zucche bio: la natura a casa propria
Attualità Gli ortaggi Migros-Bio di produzione svizzera crescono in armonia con la natura
senza l’impiego di sostanze artificiali. Acquistandoli si fa qualcosa per sé e per l’ambiente. Adesso è il momento delle gustose zucche biologiche, vere bombe di vitamine e sali minerali Hokkaido o Potimarron Facile da cucinare, bella e dall’aroma che ricorda le castagne: questa è la carta d’identità della zucca Potimarron o Hokkaido. È un ortaggio perfetto per preparare gratin, zuppe, gnocchi, risotti e dessert, ed è amata in modo particolare dai bambini. Di piccola taglia, possiede una buccia dal colore rosso mattone è una polpa soda giallo-arancio. Può essere consumata con la buccia. Al kg Fr. 5.90
Butternut La Butternut è una zucca molto saporita, il cui gusto ricorda la nocciola. È apprezzata anche perché è adatta a essere farcita e gratinata in forno, per esempio, con della carne macinata. La sua buccia sottile è commestibile, ma può essere eliminata facilmente con un pelapatate. Si conserva bene per più settimane ed è ottima anche consumata cruda in un’insalata autunnale oppure per preparare vellutate e zuppe. Al kg Fr. 4.90 Hit dal 9 al 15 ottobre
Moscata di Provenza nostrana
Vellutata di zucca con salvia croccante
Coltivata dall’Orticola Locarnini di Sementina, azienda attiva da oltre vent’anni nella produzione biologica, la zucca Moscata di Provenza si contraddistingue per il suo delicato sapore che ricorda lievemente la noce moscata. Ha una buccia coriacea che andrebbe eliminata prima di essere cucinata. L’aroma della zucca si sposa davvero bene con il peperoncino e lo zenzero. È apprezzata per la preparazione di zuppe, minestre, dolci, marmellate o composte. Al kg, affettata Fr. 6.–
Preparazione Sbucciare la zucca (p.es. delle varietà Butternut, Moscata o Hokkaido) e tagliarla a piccoli cubetti di ca. 1 cm. Farla appassire nell’olio insieme ad una cipolla tritata finemente per 5 minuti, bagnarla con del brodo di verdura fino a coprire completamente il tutto. Cuocere con il coperchio per una trentina di minuti e, poco prima di togliere la zucca dal fuoco, aggiungere un po’ di panna. Frullare il tutto con un frullatore a immersione e condire con sale, pepe e, a piacimento, tabasco. Servire la vellutata guarnita con delle foglie croccanti di salvia rosolate brevemente nel burro.
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Idee e acquisti per la settimana
Ecco il «Bidü’»
Novità È arrivato il vero burro di montagna 100% ticinese. A produrlo per Migros Ticino
è il Caseificio Dimostrativo del Gottardo SA di Airolo. Incontro con il suo direttore, Alessandro Corti
Signor Corti, cosa fa il Caseificio Dimostrativo del Gottardo? Bidü’ Burro ticinese di montagna 150 g Fr. 3.70 In vendita stagionalmente nelle maggiori filiali Migros
La nostra è una struttura polivalente, il cui settore forte è ovviamente la produzione di genuini formaggi ticinesi, ma possediamo anche un ristorante e un negozio per la vendita diretta. Il caseificio, da qui il suo nome, è appunto dimostrativo, ovvero permette ai visitatori di vedere la produzione del formaggio. Inoltre diversi dei nostri prodotti sono venduti anche nei negozi di Migros Ticino. Quali sono le caratteristiche del nuovo burro nostrano, «Bidü’» nel dialetto airolese?
Il burro nostrano è prodotto artigianalmente con panna dell’alto Ticino e porta con sé tutti i sapori e gli aromi della flora delle nostre montagne. Resta dunque un prodotto unico, grazie alla materia prima di altissima qualità come, appunto, il latte del territorio. Il latte utilizzato proviene da allevamenti bovini che si estendono dall’alta Valle di Blenio fino alle cime della Leventina. Dal momento che la materia prima è 100% ticinese, il «Bidü’» sarà un prodotto stagionale, perché durante l’estate le mucche saranno sugli alpeggi per la produzione del formaggio d’alpe. Il burro «Bidü’» si presenta in un caratteristico imballaggio da 150 grammi con tanto di sigillo di qualità in metallo. Come si valorizza al meglio questo prodotto così genuino?
È un burro dal sapore dolce e fresco, pertanto sarebbe un peccato usarlo per la cottura in padella. Per assaporarne appieno i suoi delicati aromi andrebbe consumato freddo, oppure anche per mantecare un buon risotto.
Nuove piadine biologiche vegane Gli amanti della nota specialità romagnola saranno felici di sapere che da Migros Ticino sono appena arrivate due «alternative» alla più classica piada a base di farina di grano tenero: la piadina ai Grani Antichi e quella al Farro firmate Artigianpiada. Pronte in padella in due minuti, sono entrambe leggere e digeribili, vegan ok e sono preparate con ingredienti di produzione biologica certificata. La piadina ai Grani Antichi nasce attraverso la miscelazione di due cereali presenti nel mondo agricolo da tempi lontanissimi: il grano duro Senatore Cappelli, coltivato in Italia fin dagli inizi del 1900, e il grano Tumminia, il più antico in Sicilia, un grano di crusca altamente proteico. Questo connubio permette di ottenere un prodotto dal sapore particolare, ricco, con un piacevole retrogusto di mandorla. L’altra piada è invece realizzata al 100% con farina di farro coltivato in Italia e si caratterizza per il suo sapore unico. Si ritiene che il farro sia il più antico dei grani oggi sopravvissuti. Già i Romani usavano preparare delle pagnotte di farro per le proprie truppe. Esistono tre varietà di farro, il monococcum, il dicoccum e la spelta, quest’ultima è la più idonea alla panificazione. Il farro è un cerale molto resistente, che cresce con facilità anche in terreni poveri, presentando meno calorie, meno grassi e un minor indice glicemico rispetto al grano duro e al grano tenero. Inoltre, contiene molte fibre, come pure potassio, magnesio e ferro.
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Idee e acquisti per la settimana
I sapori dell’autunno
*Azione 30% sull’entrecôte di cervo
Attualità La selvaggina, regina della tavola
dal 9 al 15 ottobre
autunnale. Che ne direste questa settimana di concedervi una gustosa entrecôte di cervo?
e pepare 4 belle entrecôte di ca. 200 g l’una. Spalmare leggermente la carne con della confettura di arance amare e avvolgerla con delle fette di pancetta da arrostire. Cuocere la carne in padella a fuoco vivo da entrambi i lati per ca. 2 minuti. Trasferire le fette di carne sopra una teglia antiaderente e cuocere in forno per ca. 15 minuti. Servire subito accompagnandole per esempio da spätzli, tagliatelle, fagiolini verdi, castagne o funghi.
migusto.ch
Tenera, succosa e dall’aroma inconfondibile: per le sue qualità, la carne di cervo è tra le più apprezzate dai consumatori che amano la selvaggina. La carne di cervo venduta nel nostro paese proviene principalmente dalla Nuova Zelanda, dove gli animali vengono allevati praticamente allo stato brado in grandi territori immersi nella natura. Questa carne possiede un tipico sapore marcato e contiene pochi grassi. Alla Migros sono disponibili sia i tagli indicati per brevi cotture, da servire ancora rosa all’interno, ossia l’entrecôte, il filetto, i medaglioni, le fettine e i racks; sia quelli da cuocere a lungo come spezzatino, salmì e arrosto; oppure anche salumi sopraffini quali carne secca e salametti. Infine, che ne direste di cimentarvi in una semplice ma gustosa ricetta a base di entrecôte di cervo? Scaldare il forno a 120°. Per quattro persone salare
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Idee e acquisti per la settimana
Vincete un E-Bike
Migros-Bio-Svizzera
Una porzione di Svizzera nel piatto
Affinché possiate scoprire la Svizzera, non solo dal punto di vista culinario, ma anche in modo più attivo, Migros sorteggia sei E-Bike. Partecipazione: inserire il codice di vincita presente sulle confezioni dei prodotti Migros-BioSvizzera nella Migros-App o su migros.ch/bio/code
Tutti i prodotti con il marchio Migros-Bio-Svizzera sono certificati nel nostro Paese in base alle linee guida di Bio Suisse. Si può assaporare, nei nuovi prodotti di salumeria, molta Svizzera e qualità biologica Testo Melanie Michael; Foto e Styling Claudia Linsi
I prodotti bio svizzeri dell’assortimento Migros provengono da aziende agricole certificate secondo le severe direttive di Bio Suisse. L’associazione fondata nel 1981 è sinonimo di prodotti ottenuti nel rispetto della natura e dell’ambiente. Siccome per Migros gioca un ruolo importante, oltre a una produzione sostenibile, anche la regionalità, nell’assortimento sono presenti anche prodotti ottenibili solo a livello locale. Per esempio, la carne secca vallesana e la pancetta alle erbe sono disponibili solo nelle regioni della Svizzera occidentale. In questo modo vengono sostenute le aziende locali e i bisogni della clientela del posto.
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Salame Migros-Bio per 100 g Fr. 5.40
Degustazioni Il 12 e 13.10 si possono assaggiare prodotti bio e Alnatura in 50 filiali Migros. www.migros.ch/bio
Prosciutto alle erbe Migros-Bio per 100 g Fr. 5.15
I prodotti Migros-Bio-Svizzera si rifanno alle direttive di Bio Suisse per materie prime e prodotti non lavorati di origine svizzera. Prestate attenzione a questo logo.
Con il suo impegno per la sostenibilità Migros è da generazioni in anticipo sui tempi.
Dadini di pancetta Migros-Bio per 110 g Fr. 3.70
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Idee e acquisti per la settimana
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Idee e acquisti per la settimana
Anna’s Best
Croccanti e tenere tentazioni
Azione 20X Punti Cumulus sulla pasta per crostate al burro e sulla pasta sfoglia al burro Anna’s Best fino al 15 ottobre
Foto e Styling Claudia Linsi
La pasta sfoglia e la pasta per crostate con il burro sono particolarmente gustose. La pasta per crostate al burro e la pasta sfoglia al burro di Anna’s Best sono da sempre prodotte con burro svizzero e non contengono olio di palma. Ora entrambe le paste pronte sono inoltre realizzate con farina TerraSuisse, una vera innovazione sul mercato svizzero. Ingredienti eccellenti e gusto pieno, ciò che rende divertente preparare manicaretti al forno.
Pasta per crostate al burro Anna’s Best 300 g Fr. 2.90
Pasta sfoglia al burro Anna’s Best 280 g Fr. 3.30
Srotolare la pasta sfoglia al burro. Mescolare separatamente sia il pesto rosso che il pesto genovese con mandorle tritate. Spalmare la metà sinistra della pasta con il pesto rosso, la metà destra con il pesto di basilico. Arrotolare la pasta sfoglia e tagliarla a fette spesse 1 centimetro. Cuocere per 15 minuti nel formo preriscaldato a 200° C, girando una volta nel corso della cottura. Lasciare raffreddare e infilare gli spiedini in legno.
Azione conf. da 2
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Tutti i detersivi Total a partire da 2 pezzi, 50% di riduzione, offerta valida fino al 15.10.2018
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8.– invece di 16.– Marroni Francia, in conf. da 1 kg
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4.30 invece di 6.20 Filetto dorsale di salmone Norvegia, per 100 g, valido fino al 13.10.2018
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5.60 invece di 8.– Entrecôte di cervo Nuova Zelanda, al banco a servizio, per 100 g
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6.95 invece di 13.90 Prosciutto crudo dei Grigioni surchoix in conf. speciale Svizzera, 202 g
CONSIGLIO BRATWURST E INSALATA
In alternativa al rösti, per accompagnare il bratwurst di vitello consigliamo un’insalata autunnale con gallinacci e uva rossa, servita con un dressing leggero a base di olio di vinaccioli. Trovate la ricetta su migusto.ch/ consigli
40%
6.60 invece di 11.– Bratwurst di vitello TerraSuisse in conf. da 2 2 x 2 pezzi, 560 g
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15.90 invece di 23.10 Salmone affumicato bio in conf. speciale d’allevamento, Norvegia, 260 g
25%
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4.30 invece di 6.20 Filetto dorsale di salmone Norvegia, per 100 g, valido fino al 13.10.2018
30%
5.60 invece di 8.– Entrecôte di cervo Nuova Zelanda, al banco a servizio, per 100 g
50%
6.95 invece di 13.90 Prosciutto crudo dei Grigioni surchoix in conf. speciale Svizzera, 202 g
CONSIGLIO BRATWURST E INSALATA
In alternativa al rösti, per accompagnare il bratwurst di vitello consigliamo un’insalata autunnale con gallinacci e uva rossa, servita con un dressing leggero a base di olio di vinaccioli. Trovate la ricetta su migusto.ch/ consigli
40%
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 ottobre 2018 • N. 41
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Idee e acquisti per la settimana
Activeplex Shampoo 250 ml Fr. 4.50
Activeplex Balsamo 250 ml Fr. 4.50
I am
Cura completa per capelli tinti Activeplex Siero 100 ml Fr. 7.90
Foto Getty Images
Una bella colorazione conferisce ai capelli un certo fascino. Tuttavia l’utilizzo regolare delle tinte strapazza particolarmente i capelli. Affinché essi rimangano comunque sani, è necessario affidarsi a un trattamento intensivo. Ideale per una cura casalinga è la linea curativa I am Professional Activeplex, che contiene uno speciale complesso «Bonding» con proteine dei piselli in grado di sigillare e risanare i legami spezzati dai trattamenti chimici.
Activeplex Cura intensiva 250 ml Fr. 7.90
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 ottobre 2018 • N. 41
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Idee e acquisti per la settimana
Total
I consigli della maga delle macchie
I professionisti del bucato
«Meglio non strofinare» Il team Lanzrein: Adrian (54), Giulio (3) e Susanne (42) danno intrepidamente l’assalto alla montagna di biancheria.
Per un anno le famiglie Lanzrein e Good si sono cimentate in diverse discipline legate all’arte del bucato. La separazione dei capi da lavare è stata la loro ultima e decisiva sfida Foto Paolo Dutto
Hanno dieci minuti di tempo per suddividere la montagna di capi da lavare in quattro differenti mucchi e per ognuno scegliere almeno un detersivo adatto per il ciclo di bucato. La prima a cimentarsi nel compito è la famiglia Good, poi è il turno della famiglia Lanzrein, che parte in quarta. Mira Sacchi, professionista del bucato ed esperta di ogni sorta di macchia presso MIFA, industria propria della Migros, osserva e prende le sue annotazioni. Annuisce ripetutamente in accordo con quanto osserva. Nel corso dell’anno i membri delle famiglie
Lanzrein e Good sono diventati veri esperti del bucato. Si sono già cimentati in un quiz sulle loro conoscenze della materia, in una gara contro le macchie e per finire hanno dimostrato di avere un’ottima capacità nel dosare correttamente il detersivo. La famiglia Good è in vantaggio con il punteggio di 2 a 1. Vista la sorprendente capacità con cui i Lanzrein dimostrano di saper smistare la biancheria e la decisione con cui separano i colori, l’ultimo round va a loro. La grande sfida del bucato si conclude quindi con un pareggio
Mira Scacchi (61) di Niederdorf, BL, è assistente di laboratorio alla MIFA, azienda propria della Migros.
Il team Good: Stephanie (42), Fabio (10), Sophia (7), Jürg (47) e Olivia (9) ce la mettono tutta nel separare il bucato.
*Azione 50% sui detersivi per il bucato Total a partire dall’acquisto di 2 prodotti, esclusi gli smacchiatori e gli additivi per il bucato Total dal 9 al 15 ottobre
Un detersivo completo in polvere putò essere utilizzato per tutti i capi di abbigliamento?
No, questo è un frequente malinteso. Il detersivo completo in polvere contiene sempre uno sbiancante. È quindi adatto per i capi bianchi e chiari, come camicie, pantaloni, magliette o biancheria da cucina, ma non per i capi colorati, che altrimenti dopo ripetuti lavaggi sbiadirebbero. Quale il modo corretto di trattare le macchie?
Per fare in modo che le macchie non si imprimano nei tessuti devono sempre essere trattate prima del lavaggio. Le macchie di salsa d’arrosto e sangue vanno pretrattate con acqua saponata fredda. Le macchie di caffè, vino rosso, pomodoro e bacche vanno subito lavate. È quindi consigliato lasciare per una notte in ammollo in un’apposita soluzione, quindi lavare. Nel caso di macchie di grasso, spruzzare uno smacchiatore pretrattante spray prima del lavaggio. In cosa consiste esattamente la soluzione per l’ammollo?
La soluzione contiene detersivo, Oxi Booster e acqua. Per capi d’abbigliamento bianchi e chiari utilizzare un detersivo completo in polvere, Oxi Booster White e acqua. Nel caso di vestiti colorati, impiegare una soluzione composta da un detersivo liquido o in polvere per capi colorati con Oxi Booster Color e acqua.
soluzione, oppure di utilizzare quest’ultima direttamente per il ciclo di lavaggio. Il meglio è utilizzare detersivo completo in polvere combinato con Total Oxi Booster White. Come si lava la biancheria da letto chiara o colorata?
Consiglio di lavarla con un detersivo per capi colorati a una temperatura tra i 40 e i 60 gradi. In tal modo le squame di pelle rimaste nella biancheria si sciolgono e i colori non si stingono. Total Express Black è adatto solo per i tessuti neri?
È adatto per i tessuti neri e scuri che non sono eccessivamente sporchi e per i quali è quindi sufficiente un programma di lavaggio corto. Si raccomanda inoltre di non lavare il bucato scuro a temperature troppo alte, altrimenti il colore sbiadisce rapidamente. Quanto è importante la separazione per colore del bucato?
I capi colorati la prima volta andrebbero lavati separatamente. In generale si consiglia di lavare assieme i colori simili, per esempio rosso, viola e rosa fucsia, separatamente dai capi blu, neri o marroni. I tessuti possono perdere colore anche dopo numerosi lavaggi.
E quali i trucchi da utilizzare per la biancheria da letto bianca ma ormai ingrigita? Total Express Black 1,32 l Fr. 8.45* invece 16.90
Total 1 for All 2l Fr. 8.45* invece 16.90
Total Acqua Stop impermeabilizzante 250 ml Fr. 9.80
Total Oxi Booster Color 1 kg Fr. 12.90
Total Color Pulver 2,475 kg Fr. 7.95* invece di 15.90
Total Oxi Booster White 1 kg Fr. 12.90
Total Classic Pulver 2,475 kg Fr. 7.95* invece di 15.90
In questi casi o è stato utilizzato un quantitativo insufficiente di lisciva, oppure, inavvertitamente, qualcosa di scuro è finito nel bucato. In entrambi i casi si raccomanda di lasciare le lenzuola in ammollo per alcune ore nell’apposita
M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche i detersivi per bucato Total.
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I consigli della maga delle macchie
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«Meglio non strofinare» Il team Lanzrein: Adrian (54), Giulio (3) e Susanne (42) danno intrepidamente l’assalto alla montagna di biancheria.
Per un anno le famiglie Lanzrein e Good si sono cimentate in diverse discipline legate all’arte del bucato. La separazione dei capi da lavare è stata la loro ultima e decisiva sfida Foto Paolo Dutto
Hanno dieci minuti di tempo per suddividere la montagna di capi da lavare in quattro differenti mucchi e per ognuno scegliere almeno un detersivo adatto per il ciclo di bucato. La prima a cimentarsi nel compito è la famiglia Good, poi è il turno della famiglia Lanzrein, che parte in quarta. Mira Sacchi, professionista del bucato ed esperta di ogni sorta di macchia presso MIFA, industria propria della Migros, osserva e prende le sue annotazioni. Annuisce ripetutamente in accordo con quanto osserva. Nel corso dell’anno i membri delle famiglie
Lanzrein e Good sono diventati veri esperti del bucato. Si sono già cimentati in un quiz sulle loro conoscenze della materia, in una gara contro le macchie e per finire hanno dimostrato di avere un’ottima capacità nel dosare correttamente il detersivo. La famiglia Good è in vantaggio con il punteggio di 2 a 1. Vista la sorprendente capacità con cui i Lanzrein dimostrano di saper smistare la biancheria e la decisione con cui separano i colori, l’ultimo round va a loro. La grande sfida del bucato si conclude quindi con un pareggio
Mira Scacchi (61) di Niederdorf, BL, è assistente di laboratorio alla MIFA, azienda propria della Migros.
Il team Good: Stephanie (42), Fabio (10), Sophia (7), Jürg (47) e Olivia (9) ce la mettono tutta nel separare il bucato.
*Azione 50% sui detersivi per il bucato Total a partire dall’acquisto di 2 prodotti, esclusi gli smacchiatori e gli additivi per il bucato Total dal 9 al 15 ottobre
Un detersivo completo in polvere putò essere utilizzato per tutti i capi di abbigliamento?
No, questo è un frequente malinteso. Il detersivo completo in polvere contiene sempre uno sbiancante. È quindi adatto per i capi bianchi e chiari, come camicie, pantaloni, magliette o biancheria da cucina, ma non per i capi colorati, che altrimenti dopo ripetuti lavaggi sbiadirebbero. Quale il modo corretto di trattare le macchie?
Per fare in modo che le macchie non si imprimano nei tessuti devono sempre essere trattate prima del lavaggio. Le macchie di salsa d’arrosto e sangue vanno pretrattate con acqua saponata fredda. Le macchie di caffè, vino rosso, pomodoro e bacche vanno subito lavate. È quindi consigliato lasciare per una notte in ammollo in un’apposita soluzione, quindi lavare. Nel caso di macchie di grasso, spruzzare uno smacchiatore pretrattante spray prima del lavaggio. In cosa consiste esattamente la soluzione per l’ammollo?
La soluzione contiene detersivo, Oxi Booster e acqua. Per capi d’abbigliamento bianchi e chiari utilizzare un detersivo completo in polvere, Oxi Booster White e acqua. Nel caso di vestiti colorati, impiegare una soluzione composta da un detersivo liquido o in polvere per capi colorati con Oxi Booster Color e acqua.
soluzione, oppure di utilizzare quest’ultima direttamente per il ciclo di lavaggio. Il meglio è utilizzare detersivo completo in polvere combinato con Total Oxi Booster White. Come si lava la biancheria da letto chiara o colorata?
Consiglio di lavarla con un detersivo per capi colorati a una temperatura tra i 40 e i 60 gradi. In tal modo le squame di pelle rimaste nella biancheria si sciolgono e i colori non si stingono. Total Express Black è adatto solo per i tessuti neri?
È adatto per i tessuti neri e scuri che non sono eccessivamente sporchi e per i quali è quindi sufficiente un programma di lavaggio corto. Si raccomanda inoltre di non lavare il bucato scuro a temperature troppo alte, altrimenti il colore sbiadisce rapidamente. Quanto è importante la separazione per colore del bucato?
I capi colorati la prima volta andrebbero lavati separatamente. In generale si consiglia di lavare assieme i colori simili, per esempio rosso, viola e rosa fucsia, separatamente dai capi blu, neri o marroni. I tessuti possono perdere colore anche dopo numerosi lavaggi.
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Idee e acquisti per la settimana
Buono a sapersi
Secure
Dati e cause
Per mantenere una vita attiva!
In Svizzera soffrono di incontinenza urinaria circa 500’000 persone. Ed è alto il numero di casi non segnalati. Sebbene l’incontinenza non sia ormai più un argomento tabù, molte persone non ne parlano volentieri. Sarebbe tuttavia importante farlo, dal momento che è possibile trovare aiuto: con i giusti prodotti le persone interessate possono rimanere attive e il loro stile di vita mantenersi inalterato. Le cause dell’incontinenza urinaria sono molteplici. In caso di incontinenza da sforzo fisico, un colpo di tosse, uno starnuto o una risata possono portare a perdite involontarie. Questa forma colpisce soprattutto le donne. Il motivo potrebbe essere una debolezza dei tessuti connettivi e della muscolatura, per esempio come conseguenza di un parto. La forma più comune negli uomini è l’incontinenza da rigurgito, causata da un restringimento dell’uretra, che può comportare una congestione della vescica, che a sua volta può causare un eccessivo allungamento del muscolo vescicale, con conseguente fuoriuscita costante di gocce di urina.
Voglia di fare una passeggiata in città, un giro in bicicletta o un po’ di jogging? L’importante è avere fiducia e mantenersi attivi: le perdite indesiderate di urina non devono limitare la voglia di fare. La biancheria igienica Secure della Migros è di aiuto. Indossandola la sensazione si differenzia di poco rispetto alla biancheria convenzionale. Le mutande a pantaloncino sono realizzate in materiale morbido e si adattano perfettamente al corpo. Il nucleo altamente assorbente elimina gli odori in modo affidabile. Indipendentemente da ciò che si fa, ci si può sentire sicuri e protetti.
Essere attivi nonostante la vescica debole – nessun problema con i pants di Secure.
Maggiori informazioni, in tedesco, presso Schweizerische Gesellschaft für Blasenschwäche: 044 994 74 30 o www.inkontinex.ch
Ora su iMpuls
Foto Getty Images
Esercizi per il pavimento pelvico Si fa così: • apri Discover nell’app Migros • scansiona questa pagina • scopri di più sull’argomento migrosimpuls.ch/incontinenza
Secure pull-up pants ultra taglia M, FSC, 12 pezzi Fr. 13.80
Secure pull-up pants ultra taglia L, FSC, 10 pezzi Fr. 12.60
Secure pull-up pants plus taglia M, FSC, 14 pezzi Fr. 21.50
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Patate Bintje o Laura Svizzera, sacco da 15 kg
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Aglio rosa Spagna, 200 g
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OFFERTE VALIDE FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK.
M per il Magico autunno.