Azione 41 del 5 ottobre 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Salute mentale: la psicologa tedesca Kristina Fisser nel suo ultimo libro affronta il concetto di «normalità»

Ambiente e Benessere Approfondiamo la conoscenza di una molecola molto importante, il diossido di carbonio, cioè il famigerato CO2

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 5 ottobre 2020

Azione 41 Politica e Economia Si riaccende la guerra fra Armenia e Azerbaigian

Cultura e Spettacoli Balene per la città di Lugano grazie al duo d’artisti Nevercrew

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AFP

Duello senza esclusione di colpi

di Raineri e Rampini p.27 e 29

Via un ostacolo, arriva il prossimo di Peter Schiesser L’orizzonte delle relazioni fra la Svizzera e l’Unione europea si rasserena? Momentaneamente sì. Ma superato un ostacolo, si presenta il prossimo: l’accordo quadro istituzionale, negoziato nel 2018. Il Consiglio federale non l’ha ancora ratificato, chiede precisazioni su tre punti: in materia salariale, di aiuti statali (in particolare alle banche cantonali), sulle direttive UE sulla cittadinanza. Il 27 settembre, il segnale in favore della via bilaterale è stato netto. Il 61,7 per cento dei votanti ha respinto l’iniziativa dell’UDC per l’abolizione della libera circolazione, mettendo fine all’anomalia sorta dopo la votazione sull’iniziativa dell’UDC contro l’immigrazione di massa e la conseguente legge di applicazione votata dalle Camere federali nel dicembre 2016. l’Iniziativa, approvata dal 50,2 per cento dei votanti il 9 febbraio 2014, prevedeva di rinegoziare l’accordo sulla libera circolazione e l’introduzione di tetti massimi di lavoratori stranieri, la legge di applicazione votata dal parlamento non ne ha tenuto conto e ha introdotto solo una preferenza light per gli indigeni. D’altronde, il Tribunale federale aveva ritenuto

preminenti gli accordi internazionali sul diritto nazionale, in questo caso quello sulla libera circolazione. Sei anni fa si giocò molto sull’ambiguità, poiché la disdetta della libera circolazione non era espressamente menzionata, e i fautori dell’iniziativa erano riusciti a convincere la maggioranza che gli altri accordi con l’Unione europea non erano davvero in pericolo. Oggi, probabilmente anche per una scarsa inclinazione a correre ulteriori rischi in tempi di pandemia, una netta maggioranza ha preferito non danneggiare le relazioni con l’UE. Persino in Ticino, uno dei 4 quattro cantoni che ha accolto l’iniziativa, il consenso non è andato oltre il 53,1 percento (era del 68,2 nel 2014). Questa volta la maggioranza ha capito che in gioco c’erano tutti gli accordi del primo pacchetto e forse anche del secondo, e ha ritenuto eccessive le possibile conseguenze. Sia chiaro: i problemi che genera la libera circolazione vanno risolti o mitigati. La pandemia ci ha indicato che in Svizzera il sistema sanitario deve molto ai frontalieri, ma ciò deve servire anche da stimolo a creare più possibilità di formazione per i medici come pure miglioramenti salariali per il personale di cura. Questo vale in molti ambiti. Allo stesso tempo ci sono ancora molte risorse umane,

soprattutto donne, che si possono motivare ad entrare nel mondo del lavoro, servono però opportunità formative e facilitazioni, affinché la rivendicazione «prima i nostri» combaci con le richieste del mondo del lavoro reale. Allo stesso tempo, è bene ricordare che per la via bilaterale il sì del 27 settembre è soltanto un salvagente. Ora bisognerà decidere se consolidare questi accordi bilaterali o se lasciare che avvizziscano. Dipenderà da come andrà a finire con l’accordo istituzionale. Ancora in ottobre il Consiglio federale chiarirà la sua strategia, intanto partiti e associazioni stanno già prendendo posizione. E il quadro è di un diffuso scetticismo. Non solo sui tre punti citati sopra, ma anche su aspetti di sovranità (la preminenza della Corte di giustizia europea in caso di divergenze sull’attuazione degli accordi). Il presidente del PPD Gerhard Pfister non ha esitato a dichiarare morto «perché mai vissuto» l’accordo istituzionale. Finora la Commissione europea ha detto che l’accordo non può essere rinegoziato, al massimo precisato. Ma dopo il segnale del popolo svizzero verso Bruxelles e le opposizioni che l’attuale accordo suscita, è davvero impossibile che l’UE non possa fare un passo verso la Svizzera?


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 ottobre 2020 • N. 41

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Attualità Migros

A ciascuno il suo Pilates

Benessere L’investimento nella salute della Scuola Club di Migros Ticino

Impegnamoci insieme

Concorsi Tante

idee stimolanti dagli apprendisti Migros Negli ultimi anni la salute ha scalato velocemente molte posizioni nella graduatoria delle priorità personali e collettive. Alla custodia di questo bene prezioso si dedicano tempo e risorse ma non sempre con gli effetti attesi. Da qui la ricerca di soluzioni in grado di rispondere alle tante e differenti domande di benessere. Tra le proposte che per efficacia e accessibilità stanno suscitato maggior interesse c’è il Pilates, una disciplina sulla quale la Scuola Club di Migros Ticino investe da tempo in modo significativo. Le novità di quest’anno vedono il potenziamento del parco macchine e la diversificazione dell’offerta con il neonato percorso di Istruttore Pilates Matwork.

I corsi sono adatti a tutte le esigenze e sono frequentati da manager, professionisti del movimento, sportivi d’élite, persone in fase di riabilitazione «Tutti possono beneficiare delle molteplici potenzialità del Pilates» ci racconta Stefania Crivellaro, formatrice alla Scuola Club: «Ogni movimento è pensato per alleggerire le articolazioni e sgravare la struttura portante a livello muscolo–scheletrico dalle sue peggiori nemiche: la gravità e la sedentarietà. I nostri corsi sono frequentati da persone diverse: dal manager alla ballerina, dallo sportivo d’élite a chi ha bisogno i proseguire i benefici ottenuti da fisioterapia e riabilitazione, altri ancora vogliono prevenire. Con il Pilates, anche chi non ha mai praticato alcuna attività riesce in poco tempo non solo a

«Come possiamo rendere il nostro mondo un luogo migliore?»: in risposta a questa domanda 453 apprendisti delle dieci cooperative regionali e di numerose aziende della Comunità Migros hanno presentato le proprie idee. Integrazione, sostenibilità, impegno nel volontariato o esperienze da condividere: le complessive 133 idee pervenute per l’iniziativa dedicata agli apprendisti «Impegniamoci tutti insieme. Per il mondo di domani» sono tanto eterogenee quanto gli apprendisti stessi. Tra tutte le idee, una commissione di esperti composta da rappresentanti della Comunità Migros ha scelto le dodici migliori. In una seconda fase, una giuria composta da membri della Direzione generale, da responsabili delle cooperative e da altri rappresentanti della Comunità ha nominato i tre team finalisti.

vedere il suo fisico comportarsi in modo nuovo, più armonico e reattivo, ma anche a sentirlo di più e questo produce grande soddisfazione». Grazie ad un ampliato parco macchine aumentano in modo significativo le possibilità di accesso a questa disciplina. «Ci sono famiglie intere che frequentano i nostri corsi di Pilates!» conferma Stefania. «Abbiamo ridisegnato lo spazio e il tempo dedicato a questa disciplina così da garantire anche un corretto distanziamento sociale. Niente è stato lasciato al caso nell’organizzazione». Le nuove Cadillac, attrezzature specifiche per la pratica degli esercizi, consentono di arricchirne enorme-

mente la gamma e dunque l’efficacia dell’azione. Inoltre, la loro particolare struttura permette di avvicinarsi al Pilates anche a persone che, per età o particolari condizioni fisiche, necessitano di lavorare da sedute. «Questo significa maggiore accessibilità» spiega Stefania Crivellaro: «Lo stesso macchinario può essere utilizzato sia per il recupero graduale di movimenti sia per aumentare le performance, ad esempio nel caso di uno sportivo che vuole chiedere di più a sé stesso». Alla Scuola Club è possibile frequentare anche il percorso formativo di Istruttore Pilates Matwork dedicato a professionisti del settore e a grandi appassionati di questa disciplina.

«La logica del Pilates» conclude Stefania Crivellaro «è semplice ma trasformativa: il dolore è la ruggine, il movimento è la cura. Il nostro obiettivo come Scuola Club è chiaro: garantire il più possibile a tutti la pratica di questa attività che ha ampiamente dimostrato di saper migliorare la qualità della nostra vita». Corsi Pilates

Serata informativa «Istruttore Pilates Matwork». Lunedì 19 ottobre alle 19.00. Sede di Lugano. Prenota subito il tuo posto allo 091 821 71 50. Scopri la nostra offerta completa sul sito www.scuola-club.ch

Idee per l’autunno e l’inverno 2020 Forum elle È stato pubblicato il programma per le prossime attività

dell’organizzazione femminile di Migros Un occhio sull’attualità e un altro sul tempo libero trascorso in compagnia e in modo «intelligente». Il nuovo programma di appuntamenti imbastito dall’organizzazione femminile di Migros si propone anche in questa seconda parte del 2020 di offrire alle sue socie una serie di momenti di incontro che sfruttino al massimo le risorse culturali e di intrattenimento offerte dal territorio della Svizzera italiana.

Tenendo fede al mandato che l’organizzazione si è data ormai oltre 60 anni fa, sotto gli auspici della consorte del fondatore di Migros, Adele Duttweiler, Forum elle continua nel suo lavoro di diffusione della cultura mantenendo i principi originali che facevano parte del disegno originale della cooperativa. Oggi, Forum elle conta poco meno di 10’000 socie divise tra in sedici sezioni a livello nazionale, presenti in tutti i cantoni.

I prossimi appuntamenti Giovedì, 22 ottobre 2020, 17.30 Suitenhotel Parco Paradiso. Lugano Paradiso Virtù e difetti del turismo ticinese. Incontro con Angelo Trotta, direttore di Ticino Turismo Giovedì, 5 novembre, pomeriggio Visita al Santuario della Madonna del Sasso Giovedì, 19 novembre 2020, pomeriggio Visita al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto Giovedì, 3 dicembre 2020, pomeriggio Visita al Caseificio Dimostrativo del Gottardo di Airolo

Venerdì, 11 dicembre 2020, 20.45 Teatro Sociale Bellinzona: Romeo e Giulietta Giovedì, 14 gennaio 2021, pomeriggio Visita alla Pinacoteca Züst Rancate Dentro i palazzi – uno sguardo sul collezionismo privato nella Lugano del Sette e Ottocento: le quadrerie Riva Informazioni importanti

Tutti i dettagli sugli appuntamenti, incluso i costi e gli orari, sono presenti nelle singole locandine sono pubblicati nel programma online su forum-elle.ch/it/sektionen/ticino Gli incontri sono aperti ad amiche/ amici e/o simpatizzanti

La presidente della sezione ticinese, Gaby Malacrida, ha quindi elaborato il calendario degli appuntamenti previsti fino al 14 gennaio del 2021. Occorre dire che l’attività della prima parte dell’anno è stata condizionata (e non poteva essere altrimenti) dalla diffusione della pandemia da Covid-19. Gli scorsi mesi hanno visto dapprima cancellare, poi ripristinare alcuni appuntamenti, sempre in considerazione delle necessità legate al distanziamento sociale. In questo senso si può affermare che la partecipazione delle socie è stata sempre assidua. Anche per le future scadenze le normative vigenti sono state tenute in stretta considerazione, con l’obiettivo di garantire la massima sicurezza. La preparazione del programma per i prossimi mesi è stata piuttosto laboriosa, tenuto conto che la situazione attuale non consente di abbassare la guardia, nella speranza che le misure messe in atto quotidianamente consentano di migliorare la qualità di vita in un futuro non molto lontano. Per quello che riguarda gli appuntamenti previsti, come sempre il punto di riferimento fondamentale è il sito web ufficiale www.forum-elle.ch, nella sua sezione specifica in lingua italiana, dedicata alla sezione ticinese (forum-elle.ch/it/sektionen/ticino). Qui è pubblicato un riassunto degli eventi previsti, che potrà fungere da prezioso calendario.

Angelo Trotta sarà al Parco Paradiso il 22 ottobre, ore 17.30.

Il prossimo appuntamento è un incontro con il direttore di Ticino Turismo Angelo Trotta, che si terrà il 22 ottobre al Suitenhotel Parco Paradiso di Paradiso. Trotta ha assunto la direzione di Ticino Turismo il 1 luglio 2019. A pochi mesi dall’inizio della crisi che ha colpito tutto il mondo del turismo a causa del Covid-19, Trotta parlerà di virtù e i difetti del turismo ticinese. Iscrizioni entro giovedì 15.10.20. Per informazioni: simona.guenzani@ forum-elle.ch - tel. 091/9238202.

Il gruppo che si è imposto nel concorso di idee.

I «Top 3», provenienti da Denner, da Chocolat Frey e dalla Federazione delle cooperative Migros, hanno presentato dal vivo le proprie idee nella grande finale. Il pubblico, composto da collaboratori Migros, ha decretato la vittoria dell’idea «Green-M» dei quattro apprendisti di Denner. La loro idea propone l’ulteriore sviluppo del sistema Cumulus, che consentirà ai clienti Migros, quando acquistano prodotti stagionali, regionali e/o bio, di ricevere in omaggio punti Green-M che potranno poi donare per progetti sociali. L’idea vincitrice verrà ulteriormente sviluppata internamente da Migros fino a diventare realtà. Il team vincitore riceverà un premio di Fr. 1000.–. Il concorso ha permesso ai giovani di vivere direttamente l’impegno volontario di Migros a favore della società. Tale impegno prende corpo nel Percento culturale Migros, nel fondo di sostegno Engagement Migros e nel Fondo di sviluppo Migros. Nel 2019 Migros ha investito complessivamente 136,9 milioni di franchi nella società perpetuando così gli ideali del suo fondatore Gottlieb Duttweiler. D’altro canto, ogni anno il Gruppo Migros offre 1500 posti di apprendistato in oltre 60 diverse professioni. Oltre al fatto che gli apprendisti beneficiano di sei settimane di ferie e di numerose altre agevolazioni come la partecipazione ai corsi delle Scuole Club Migros e l’accesso ai Fitnesspark Migros, nella Comunità Migros la loro forza di innovazione viene mobilitata da progetti interni. La piattaforma delle idee

migipedia.migros.ch/it/engagiert Formazione professionale Migros

migros-gruppe.jobs/it/opportunita-dicarriera/formazione-professionale


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 ottobre 2020 • N. 41

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Società e Territorio Le badanti oggi Il lavoro delle collaboratrici e dei collaboratori familiari si sta sempre più professionalizzando e regolamentando

Ambiente: un progetto da ragazze Una guida, un sito e degli atelier avvicinano le giovani ai diversi percorsi formativi nel settore ambientale, promuovendo la parità di genere pagina 8

Bibliocabine, che passione! La pagina Instagram «Cultura a spasso Ticino» ha mappato un fenomeno diffuso su tutto il territorio

Videogiochi Super Mario compie 35 anni: una collezione ripropone tre classiche avventure

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Da vicino nessuno è normale

Psicologia Secondo la psicologa tedesca

Stefania Prandi «È normale non essere normali». Con questa premessa la psicologa tedesca Kristina Fisser affronta le sedute con i pazienti che riceve nel suo studio privato. Da anni segue persone con ansia, dipendenze, disturbi ossessivo-compulsivi e depressione post partum. Ha deciso di raccontare il suo approccio in un libro appena pubblicato in italiano, scritto con la collaborazione dell’autrice Carina Heer, e intitolato Da vicino nessuno è normale. Paranoie quotidiane e psicotrucchi per uscirne vincenti (Feltrinelli). Nel testo si legge: «Chi più e chi meno, tutti noi qualche “problemino” ce l’abbiamo. E il confine con il patologico, spesso, è sottile». Per chiarire meglio il concetto, Fisser analizza casi di persone che sembrano in bilico tra «normalità» e «squilibrio». Uno degli esempi riguarda Pietro, che si annoia sul posto di lavoro. Da tre anni non ha mai abbastanza da fare e non sa come dirlo ai superiori, gli sembra che ormai sia troppo tardi per esporsi. Quando siede alla scrivania con lo sguardo perso, la testa gli si riempie pensieri negativi e immagina di lanciarsi dalla finestra. Ha parlato con i colleghi della situazione, ma loro non capiscono, gli dicono che dovrebbe essere contento di non avere ritmi frenetici. Giuliano, invece, pur essendo sposato, vuole dormire da solo. La moglie non lo disturba nel sonno, non russa né si muove in continuazione, soltanto a lui piace riposare per conto proprio. Lei, però, sostiene che se si ama una persona si vuole condividere il letto e gli dice che dovrebbe andare da uno psicologo a farsi aiutare. Claudia vive un lutto da cinque anni, da quando ha

perso il marito Tommaso in un incidente. Era presente al momento della tragedia e non ha potuto fare nulla per aiutarlo. Da allora, ha cresciuto da sola i due figli. A volte va a camminare nel bosco e urla alle piante tutto il suo dolore per la mancanza di Tommaso. E se può, trascorre la domenica nel letto a piangere. Fisser si chiede: Pietro, Giuliano e Claudia, hanno comportamenti «anormali» che vanno «curati»? In realtà, risponde, il concetto di «normalità» non serve per riuscire a capire come funziona la psiche umana. Si tratta di un’idea che porta a considerare la maggior parte dell’umanità a rischio follia, mentre invece non è esattamente così. Spiega: «Sono dell’opinione che anche se si supera un certo limite, non si dovrebbe subito pensare a un comportamento patologico, sempre a condizione che la cosa non arrechi danno ad altri e che il diretto interessato sia consapevole delle eventuali conseguenze». Patologizzare tutto non è sensato: atteggiamenti e comportamenti, anche se apparentemente non canonici, in fondo lo sono abbastanza. «Dolori, sofferenze, dispiaceri e le varie fisime di ogni giorno fanno parte della vita; oggi sembriamo essercene un po’ dimenticati». Quindi, considerando i casi concreti, Pietro potrebbe essere sull’orlo di una depressione ma cercando un altro posto di lavoro potrebbe uscire da solo dall’impasse in cui si trova. Giuliano, a sua volta, dovrebbe capire se la moglie ha voglia di «liberarsi dell’aspettativa convenzionale che due coniugi debbano per forza condividere lo stesso letto». E Claudia «può tranquillamente piangere, anche a distanza di anni, la scomparsa del marito», quello è il posto che

Keystone

Kristina Fisser, quando pensiamo alla salute mentale dovremmo abbandonare l’idea di «normalità» perché, chi più e chi meno, tutti abbiamo qualche «problemino». E il confine con il patologico, spesso, è sottile

lei concede al proprio dolore. Finché riesce a riemergere ogni volta dal lutto, non deve per forza superare la cosa una volta per tutte. In generale, gestire le emozioni è un compito piuttosto difficile all’interno della nostra società, soprattutto per quanto riguarda quelle «negative», che vengono stigmatizzate e represse. «Dobbiamo reimparare a provare le emozioni. Dobbiamo percepire quello che sentiamo», suggerisce Fisser. Ciò non significa agire impulsivamente in ogni occasione, ma riconoscere e accettare le cosiddette emozioni primarie (chiamate anche di base) e cioè paura, rabbia, disgusto, gioia, sorpresa e tristezza. Per esercitarsi a definire in modo più esatto quello che si sente, mettendo ordine al caos interiore, si può tenere un diario, nel quale scrivere cosa si è provato in determinati momenti.

Non serve per forza compilarlo la sera: l’ideale è trovare, durante la giornata, qualche minuto per confrontarsi con la propria sfera emotiva per riuscire, col tempo, a esternarla senza farsi sopraffare. Secondo una ricerca pubblicata sull’American Journal of Physical Anthropology, quando si pensa all’equilibrio mentale sarebbe opportuno considerare che certi disturbi come ansia, depressione e sindrome da stress post-traumatico sono spesso «risposte alle avversità piuttosto che squilibri chimici». Stando allo studio degli antropologi Kristen L. Syme e Edward H. Hagen, i sistemi di difesa della mente si attivano in situazioni di pericolo per ridurre al minimo il danno. In questo senso, l’ansia è una preoccupazione che serve per evitare un pericolo. La depressione può essere intesa come un «dolore fisico» che aiuta a focalizzarsi

sugli eventi avversi per cercare di mitigare il loro impatto ed evitare di incorrere, nel futuro, negli stessi problemi. Per quando si è giù di corda, per capire se è necessario l’aiuto di un professionista, la psicoterapeuta tedesca Rosemarie Piontek, autrice del libro Mut zur Veränderung (Il coraggio di cambiare), pubblicato da Balance Buch Medien, ha stilato un formulario. «Non si tratta di domande in grado di sostituire una consulenza o una terapia. In ogni caso, ecco le principali: fatico a svolgere il mio lavoro quotidiano?; mi preoccupo di ogni cosa e sono molto ansioso?; soffro di disturbi fisici?; mi sento spesso aggressivo, colmo di odio, nervoso o sono estremamente intollerante?; ho pensieri suicidi?; questa condizione dura da più di tre mesi? Più risposte affermative si danno, più è probabile che sia necessaria una psicoterapia».


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Migros Ticino


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 ottobre 2020 • N. 41

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Società e Territorio

C’era una volta la badante

Cure a domicilio Il lavoro delle collaboratrici e dei collaboratori familiari si sta sempre più professionalizzando

e regolamentando a beneficio dei lavoratori ma anche degli anziani e delle famiglie

Sara Rossi Guidicelli C’era una volta la badante, quella che trovavi tu da solo, chiedendo al prete, a uno sportello per immigrati, a un’amica. C’era una volta la badante, quella che non sapevi come farle il contratto, non sapevi se fidarti né se a parole vi capivate. C’erano una volta quei contratti, e ci sono ancora, in cui qualcuno è sfruttato, in cui non si sa come calcolare le ore notturne, le pause, gli alimenti, la stanza, le pulizie. C’era e in parte c’è ancora un grande caos. Ma le cose piano piano stanno cambiando. Si sta sciogliendo soprattutto la domanda: di quale mestiere stiamo parlando? Di un mestiere normale, che faremmo io e te, quindi calcolato con vacanze, stipendio, orari e picchetti riconosciuti? O di una condizione particolare, rivolta esclusivamente a stranieri disperati, per cui ci si fa un favore reciproco «tu vieni a vivere a casa mia e in cambio badi a me»?

Tra i progetti in corso di sperimentazione quello di Abad, Assistenza e cure a domicilio bellinzonese, offre un servizio di collaborazione familiare di massimo 4 ore al giorno Per anni è stato così: la badante veniva da un paese disagiato e aveva bisogno di lavoro e alloggio insieme. Era disposta a quasi tutto. A discrezione della famiglia che la impiegava si rispettavano gli orari oppure no. «Ci pagano, quindi pensano di averci comprate», mi hanno detto varie volte. Poi ci si è accorti che questa non è la strada, che non si può sperare in un popolo affamato disposto a vivere a casa dei nostri anziani, che quel rapporto di bisogno reciproco va trasformato in una professione. Con l’affetto e la dedizione di ogni mestiere di cura, ma regolato e solido, per la sicurezza di tutti, badati e badanti. E così, anche in Ticino ci sono nuove realtà che tutelano l’anziano, il malato e il suo assistente, e non solo: in questo modo si apre il lavoro a tutte le persone con una formazione e un’inclinazione specifica e non più solo con un «passaporto specifico». Interpellato l’Ufficio cantonale degli anziani e delle cure a domicilio, ci risponde Chiara Gulfi, che segue la «questione badanti» da una decina d’anni, da quando cioè il fenomeno ha cominciato a emergere anche in Ticino. «I ticinesi vogliono restare a casa loro, quindi noi come Cantone dobbiamo promuovere la permanenza dell’anziano a domicilio finché può. Crediamo sia importante fare in modo che il lavoro della collaboratrice famigliare sia integrato in una presa a carico professionale; per questo di recente abbiamo avviato con il Sacd (Servizio di assistenza e cura a domicilio) di Mendrisiotto e Basso Ceresio e Abad

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Il mestiere di badante sta cambiando a vantaggio di tutti i lavoratori del settore della cura. (Marka)

del Bellinzonese una sperimentazione in cui il servizio di interesse pubblico impiega lui stesso la collaboratrice famigliare. Tra un anno circa tireremo un bilancio, per capire se funziona, come va proseguito e se è da ampliare. Guardiamo ai costi, certo, e ipotizziamo che fino ad alcune ore al giorno di bisogno, per un anziano sia più vantaggioso rimanere al proprio domicilio: abbiamo un occhio di riguardo anche per i familiari curanti e sappiamo che per sollevarli un po’ dai loro oneri ci vuole qualcosa di più che unicamente il passaggio degli infermieri e degli operatori sanitari». Roberto Mora, direttore di Abad (Assistenza e cure a domicilio bellinzonese) spiega che alla base sta una riflessione sociale: «Dobbiamo chiederci quale visione abbiamo per le persone di terza e quarta età e quali siano le loro esigenze. Io credo che valorizzare la casa, la comunità, la vita, sia la strada giusta; è ciò che succedeva una volta, quando l’anziano restava in famiglia, e che adesso richiede un aiuto professionale in più. La casa per anziani dovrebbe diventare una libera scelta. Credo che non si debba scegliere tra la sicurezza di una struttura e il calore di casa propria: quello che noi cerchiamo di fare è dare sicurezza e calore insieme». Abad offre questo servizio di collaborazione familiare di massimo quattro ore al giorno in via sperimentale. Per il momento ha a disposizione sei collaboratrici familiari che si occupano ognuna di alcuni utenti con esigenze maggiori rispetto all’aiuto infermieristico delle cure a domicilio. Mora sottolinea che lo scopo principale è la possibilità di permanenza a casa con i seguenti vantaggi: «la famiglia

evita le complicazioni amministrative che comporta il diventare datore di lavoro: stipulare un contratto, pagare gli oneri sociali e le assicurazioni, garantire un’indennità in caso di malattia e così via. In secondo luogo garantiamo professionalità e formazione della persona che è inserita in un sistema integrato di cura: a seconda dei bisogni organizziamo e gestiamo insieme l’aiuto a domicilio dell’infermiera, della badante, dell’operatore sociosanitario e così via. Terzo, noi possiamo sostituire la collaboratrice se si ammala o quando è in vacanza e mediamo con la famiglia in caso di discussioni». Come detto, oltre che per l’utente e l’impiegato, i benefici vanno anche a vantaggio di tutti i lavoratori del settore della cura, perché si apre per loro un nuovo mestiere che prima non avrebbero mai fatto (non sono molti i ticinesi ad acconsentire di andare a vivere da qualcuno per sei giorni su sette in cambio di un salario di 4000 franchi). Badanti autoctoni, si sa, cominciano a esistere, ma nessuno è disposto a lavorare con il classico contratto 24/24 7/7 con due ore di pausa al giorno e la domenica libera. Il mestiere del collaboratore famigliare inizia a conciliarsi con l’idea che anche il badante abbia una vita e una famiglia propria. «Io ho lavorato da sola, cioè con contratti privati per sette anni e mezzo», ci racconta una signora ticinese che qui chiameremo Flora. Dopo la maternità, quando ha deciso di rientrare nel mondo del lavoro Flora ha fatto aiuto cuoca e pulizie in un albergo e infine è arrivata al lavoro di badante. Per sette anni e mezzo tutto bene, poi... «Poi mi hanno maltrattata. Sarebbe un mestiere bellissimo, ma se non hai una struttura che ti copre le

spalle sei alla mercé di chi ti impiega, può andarti bene o può andarti male. Sono arrivata a lavorare tre giorni e tre notti di fila senza mai un minuto libero, dormendo meno di dieci ore in totale. Non sapevo nemmeno come lasciare solo per cinque minuti il signore a cui badavo per andare in bagno, perché era ingestibile. Quando provavo a chiedere aiuto alla famiglia, spiegando la situazione, i figli mi umiliavano, mi trattavano come una bugiarda e sminuivano i miei appelli. Mi sentivo una nullità». Flora aveva scoperto che il mestiere di badante le piaceva moltissimo e non intendeva mollare; si era sentita utile e brava «per la prima volta dopo tanto tempo». Alla fine ha trovato BeeCare, una società privata di Spitex e assistenza a domicilio, che offre ai privati anche un servizio di «badanti». «Qui guadagno meno di quando ero da sola, ma il fatto di far parte di una ditta mi fa sentire più protetta. Se c’è qualcosa che non va, non ho paura di perdere il lavoro, ma ho qualcuno che mi spalleggia, che si occupa di dire di no se mi chiedono mansioni in più o di discutere insieme dei problemi. Noi dobbiamo fare attenzione, perché lavoriamo con gente nel bisogno più assoluto e alcuni di loro diventano egoisti e cercano di sfruttarci. Se sei parte di una società e il contratto finisce, ti trovano un nuovo lavoro, non sei per strada. È molto meglio». BeeCare è stata fondata nel 2016 da un gruppo di esperti aziendali, tra cui Tommaso Gianella, che ha lavorato a lungo nelle risorse umane; dopo anni di gestione aziendale era entrato in contatto con il mondo delle cure a domicilio: «Avevo visto che in questo settore una delle difficoltà sta nel conciliare buone condizioni di lavoro e

soddisfazione delle esigenze dell’utente. C’è una solitudine nella figura della badante che affronta da sola un lavoro molto importante e delicato e c’è spesso solitudine intorno alla famiglia, o addirittura alla singola persona. C’è bisogno di un ascolto profondo di entrambe le parti per trovare la soluzione migliore ed è quello che cerchiamo di offrire con il nostro servizio». Gianella e i suoi colleghi, oltre al personale curante dello Spitex, dispongono di una cinquantina di donne e una decina di uomini che lavorano a domicilio come badanti; ci sono famiglie che hanno bisogno di una presenza per un pomeriggio a settimana e altri che necessitano di tre persone per coprire un 24/24 7/7, per qualche settimana o anni... «Curiamo la relazione oltre che la parte organizzativa dei turni. Non si tratta solo di fornire una persona, ma di seguire un bisogno che muta e che è preciso e individuale. Il nostro personale è fidato e garantiamo noi per loro, così come ci prendiamo cura di lui perché ne siamo responsabili. Ci è capitato per esempio di dover trovare soluzioni alternative, perché alcune famiglie avrebbero fatto “dormire” la badante su una poltrona o in una brandina in corridoio; sono casi in cui la badante da sola non osa quasi mai imporre i suoi diritti, mentre noi creiamo un contesto professionale in cui la cura possa svolgersi al meglio con beneficio di tutti». Tutti include anche la popolazione in generale: infatti due terzi dei badanti impiegati dalla società sono residenti e tra questi ci sono molti ex disoccupati, soprattutto persone che hanno perso il lavoro intorno ai 55-60 anni e sentivano la vocazione di reintegrarsi nel mondo della cura.

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

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Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 ottobre 2020 • N. 41

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Idee e acquisti per la settimana

È tempo di fare scorte

Attualità Le mele e le patate svizzere adatte alla

conservazione sono ora disponibili alla tua Migros

Con l’arrivo dell’autunno torna anche il momento giusto per fare provvista di quei prodotti ortofrutticoli da consumare durante l’inverno. Prodotti che si prestano bene ad una conservazione prolungata, disponibili in grandi confezioni fino a 10 o 15 kg e offerti attualmente ad un prezzo particolarmente vantaggioso. Le mele autunnali adatte allo stoccaggio sono Golden Delicious, Starking, Boskoop e Gala; mentre per quanto riguarda le patate troverete le varietà Charlotte, Bintje e Laura. Per stuzzicare la fantasia degli appassionati di cucina, in questa pagina vi proponiamo la ricetta di un grande classico della pasticceria francese: la torta di mele «tarte tatin». Consigli per la conservazione

Le mele, nelle maggior parte dei casi, si conservano bene almeno fino a gennaio. Andrebbero tuttavia tenute ad una temperatura compresa tra i 5 e 12 °C, con un’umidità elevata e una buona ventilazione. I luoghi ideali sono una cantina buia, il garage o il balcone. In questi due ultimi casi è importante proteggere i frutti dal freddo, dal gelo e dalla pioggia, per esempio con l’ausilio di un telo. Le patate si conservano per diversi mesi in un luogo fresco e buio. È importante notare che se la temperatura è inferiore ai 4 °C l’amido si trasforma in zucchero e rende le patate piuttosto dolciastre. D’altro canto, sopra i 10 °C i tuberi cominciano a germogliare e avvizzire. Infine, se esposte troppo alla luce, le patate possono diventare verdi e non devono più essere consumate.

Tarte Tatin Ingredienti per 4 persone, per 1 tortiera di ca. 30 cm Ø 250 g di pasta sfoglia farina per spianare la pasta 120 g di zucchero 3 mele, ad es.Gala, Braeburn 20 g di burro double crème della Gruyère Preparazione 1. Scaldate il forno ad aria ventilata a 200 °C. Spianate la pasta su un po’ di farina in una sfoglia della grandezza della tortiera. Bucherellate il fondo più volte con una forchetta. Disponete la pasta su carta da cucina e mettete in frigo. Spargete lo zucchero sul fondo della tortiera e fatelo caramellare al centro del forno per ca. 10 minuti. Nel frattempo tagliate le mele a fette spesse 1 cm. Sfornate

la tortiera, distribuite il burro a pezzetti sullo zucchero poi accomodate le mele nella tortiera. 2. Distribuite la pasta sulle mele. Togliete la carta da forno e ripiegate il bordo della pasta all’interno dello stampo. Cuocete la tarte al centro del forno per ca. 20 minuti. Sfornate e lasciate riposare brevemente la torta, poi con cautela capovolgetela su un piatto. Servitela tiepida con la doppia panna.

Il mondo Garofalo Attualità La marca italiana premium

Azione 20% su tutto l’assortimento di pasta fresca Garofalo dal 6 al 12.10

I tortellini al prosciutto crudo sono solo una delle oltre dieci specialità di pasta fresca Garofalo in vendita alla Migros.

Garofalo è in vendita anche sotto forma di diverse tipologie di succulenta pasta fresca

A Gragnano, nella storica valle dei Mulini a sud di Napoli, la tradizione pastaia vanta una storia di oltre 500 anni. Grazie ad un clima ideale per la produzione ed essiccazione, la località divenne ben presto la culla di molti pastifici. Qui, il pastificio Garofalo ricevette oltre 200 anni fa la concessione per la produzione e la vendita esclusiva di «Pasta di buona fattura». Da allora Garofalo è sinonimo di prodotti di alta qualità. Oggi come un tempo la pasta è prodotta con la migliore semola di grano duro. Dall’esperienza dei pastai Garofalo nel ramo della pasta secca, qualche anno fa è nata una linea di pasta fresca di qualità superiore, facile da prepara-

re, realizzata con ingredienti accuratamente selezionati, che permette di portare in tavola piatti ricchi di gusto, anche solo con l’aggiunta di un filo di buon olio. I diversi formati rappresentano autentiche esperienze culinarie, fatte da pochi ingredienti naturali sapientemente combinati tra loro. La gamma, disponibile nei supermercati di Migros Ticino in oltre dieci varianti, si declina in pasta fresca (trofie, orecchiette, lasagne) e pasta fresca ripiena (girasoli bolognese, girasoli limone, girasoli funghi; ravioli ricotta spinaci, ravioli speck, ravioli basilico, ravioli carciofi, ravioli zucca; tortellini prosciutto crudo; quadrucci al brasato e saccottini al formaggio).


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Idee e acquisti per la settimana

Pane cotto su pietra in edizione limitata

Twister Pane ai semi di zucca dal forno a pietra 400 g Fr. 3.30

I fan dei pani speciali hanno di che essere felici: fino a metà dicembre al reparto pane dei supermercati Migros troveranno il prelibato Twister ai semi di zucca cotto su pietra. Questo pane intrecciato a mano dalla caratteristica forma allungata è prodotto con cereali svizzeri TerraSuisse coltivati nel rispetto dell’ambiente. È arricchito con appetitosi semi di zucca, sia sulla croc-

cante crosta che incorporati nella pasta, che contribuiscono al particolare sapore nocciolato del prodotto finale. Altro segno distintivo di questa specialità dal forno a pietra è il lungo tempo di lievitazione dell’impasto, particolarità che permette di mantenere il pane fresco più a lungo e di conferirgli il suo aroma pieno. Non vi resta che provarlo.

Ricarica per Handy

L’amato detersivo per rigovernare Handy della Migros è ora ottenibile anche nel sacchetto di ricarica. La «morbida» confezione contiene 1,5 litri di prodotto e sostituisce due flaconi di Handy, ciò che corrisponde a ben il 75% in meno di rifiuti. Il detersivo può essere ovviamente anche travasato dal sacchetto in un altro dispenser, grazie al pratico beccuccio dosatore. Handy è un autentico prodotto di culto per uno svizzero su due, basti pensare che ogni anno ne vengono venduti mediamente oltre 4 milioni di flaconi. Prodotto di punta dell’azienda del gruppo Migros Mibelle Group, pulisce e fa brillare bicchieri, piatti e posate fin dal 1958. Il caratteristico design arancione è rimasto praticamente invariato da oltre sessant’anni. Delicatamente profumato e altamente biodegradabile, non danneggia le mani. Annuncio pubblicitario


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Società e Territorio

Ragazze professioniste dell’ambiente Formazione Un progetto interdipartimentale vuole avvicinare le ragazze ai diversi percorsi formativi

e professionali nel settore ambientale

rispetto ad altri lavori. Si tratterà più avanti di coinvolgere anche le aziende dei settori dell’economia ambientale. Pandemia permettendo, il progetto «Ambiente: un mestiere da ragazze» approderà con uno stand a Espoprofessioni in programma dal 22 al 27 marzo 2021.

Guido Grilli «Cominciare. Si tratta solo di cominciare» – dice Pepita Vera Conforti, esperta della formazione continua e antenna per le pari opportunità della Divisione della formazione professionale del Decs. Parliamo di un mondo del lavoro in pieno sviluppo e promettente, in cui edificare il proprio futuro professionale – l’ambiente – un settore lavorativo, tuttavia, ancora di dominio maschile. È di poche settimane fa la presentazione in Ticino di un progetto interdipartimentale che si prefigge di abbattere alcuni stereotipi, intitolato «Ambiente: un mestiere da ragazze» e frutto di una sinergia tra Decs, l’aggiunta al direttore della divisione dell’ambiente, Katia Balemi e la delegata per le pari opportunità, Rachele Santoro. L’obiettivo? Far meglio conoscere alle e ai giovani i diversi percorsi formativi e le possibilità di lavoro nel settore ambientale, promuovendo in particolare la parità di genere nelle scelte formative e professionali. Come? Attraverso atelier, diffondendo nelle scuole e negli uffici d’orientamento professionale l’opuscolo ricco di informazioni, Le professioni dell’ambiente. Una guida nella giungla della scelta formativa e professionale appena tradotto in italiano e dando impulso al sito web che veicola il progetto. I dati parlano chiaro. Negli ambiti professionali del verde, dell’ecologia, della gestione del patrimonio territoriale, dal 2000 al 2017 in Svizzera, ha conosciuto un aumento del 95% di addetti attivi nel settore ambientale: si è passati da

L’opuscolo dell’iniziativa.

Sempre nell’obiettivo di superare gli stereotipi, non dovremmo agire anche a livello linguistico e coniugare le professioni in modo finalmente paritario?

Giardiniera al lavoro nel Parco la Grange a Ginevra. (Keystone)

80mila a 156mila. Ma le ragazze rimangono in netta minoranza. Basti un dato: in Svizzera su 1066 contratti per giardinieri, 810 sono stipulati da uomini (il 76%). Si cominciano comunque ad avvertire cambiamenti. Un esempio incoraggiante: il Ticino ha da poco conosciuto la prima riciclatrice, attiva in un’azienda del Luganese, la ventenne Diana Dias Serrano. Pepita Vera Conforti, quali sono i maggiori ostacoli per convincere il gentil sesso della bontà delle proposte lavorative nel settore dell’ambiente?

Si conosce poco quello che offre questo ambito professionale, sia a partire dalla formazione professionale di base sia poi delle possibilità di carriera che il sistema di formazione svizzero offre. Ulteriore aspetto, «il gentil sesso», racchiude tutto un mondo di luoghi comuni e stereotipi che vanno ad agire sull’idea di sé e quindi anche sul proprio immaginario. Veicola concetti come, «un po’ più debole», «bella presenza», «non disturba», «è gentile», tutte caratteristiche che sembrano non in linea con scelte atipiche. Talvolta le scelte che assecondano una passione personale, sono fatte dalle ragazze in una età un po’ più adulta, spesso come seconda formazione. I genitori hanno

un ruolo fondamentale nella scelta della professione, nel momento in cui consigliano, supportano le figlie nel garantire loro un contesto sicuro, conosciuto, talvolta senza rendersi conto che vengono ricalcate attese sociali ancora stereotipate. Quindi è importante far capire dapprima che ci sono tante possibilità; l’impegno per l’ambiente interessa i settori più disparati, che non si limitano unicamente alla protezione della natura e del paesaggio, ma riguardano l’efficienza energetica, le energie rinnovabili, l’economia sostenibile, l’edilizia sostenibile, molti contesti nuovi che professionalmente hanno un futuro.

Gli stereotipi sono presenti nella società, nei media, nella famiglia che possiede un forte ascendente sulle scelte professionali dei figli, ma appare determinante anche il ruolo degli imprenditori, dei datori di lavoro, al momento scegliere se assumere un ragazzo o una ragazza...

Diciamo che fino a una decina di anni fa, spesso le aziende quando mettevano a disposizione un posto di tirocinio, indicavano anche la preferenza del sesso dell’apprendista. Evidentemente oggi la Legge parità lo impedisce perché rappresenta una chiara discriminazione. Ma un conto è la legge scritta e un altro conto sono le reali pratiche

adottate. Se io mi ritrovo con una ragazza in un contesto professionale tipicamente maschile vuol dire che devo essere attento al tipo di linguaggio che metto in campo, avere – a dipendenza della professione – anche degli spogliatoi per le ragazze, un approccio idoneo. Aspetti certamente superabili ma che talora possono rappresentare ancora un freno. Di buon esempio sono i cosiddetti role model, testimonianze femminili di chi svolge una professione nell’ambito dell’ambiente. Ne ospitiamo alcune sul sito web. Sono testimonianze che mostrano che si può, che è fattibile, che esistono soluzioni praticabili per cambiare mentalità. Uno degli editori dell’opuscolo è l’organizzazione delle professioniste attive nell’ambito dell’ambiente, che hanno appunto l’obiettivo di far conoscere questo tipo di professioni alle donne e alle ragazze e ricoprono un ruolo di sostegno. A chi è rivolto l’opuscolo?

Lo promuoviamo alla Città dei mestieri, negli uffici di orientamento, alle scuole Medie. L’idea è anche quella di creare occasioni di incontro nelle scuole con atelier pratici affinché le ragazze, ma anche i ragazzi, possano conoscere le professioni contemplate nel settore dell’ambiente, le quali, ci rendiamo sempre più conto, possono garantire un futuro professionale piuttosto solido

È questa una battaglia che dal punto di vista personale promuovo nei media da quando ero presidente della Commissione consultiva per le pari opportunità tra i sessi. Il linguaggio crea mondi, crea legittimità, partecipazione. Quando si è iniziato a dire sindaca sembrava suonar male, ma la verità è che si è abituati a declinare il sostantivo solo al maschile perché fino al 1969 solo gli uomini potevano accedere alla carica. Certi ruoli, certe professioni dobbiamo imparare a declinarli anche al femminile, quindi: giardiniera, istallatrice di impianti sanitari, selvicoltrice, riciclatrice, ingegnera ambientale, eccetera. Perché adesso le donne che assumono questo ruolo ci sono. E dunque dobbiamo dare atto di una realtà che si è modificata, e le regole della lingua italiana lo permettono senza problemi. Eppure, ci sono settori professionali in cui le differenze di genere sono state da lungo tempo superate. Si pensi alla ristorazione. Perché invece in molte professioni permane il dominio maschile?

Ci sono tutta una serie di professioni, nell’ambito commerciale o della vendita, in cui non vi sono differenze. Credo ci sia anche una spiegazione economica se pensiamo che dagli anni 60 l’esplosione del settore terziario e dei servizi necessitava di personale e le donne erano manodopera disponibile, c’è però anche un’altra spiegazione aggiuntiva in quanto si tratta di professioni che riguardano il prendersi cura dell’altro, a forte contenuto relazionale e il «gentil sesso» sembrava il più adatto. Oggi nessun datore di lavoro dirà che non vuole una ragazza. Forse si tratta solo di cominciare, vederne anche il vantaggio che potrebbe portare alle aziende stesse. Non sono però ingenua, sono consapevole che è indispensabile che a questa apertura siano accompagnate politiche familiari che garantiscano a uomini e donne maggiore conciliabilità.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Cori Doerrfeld, Ascolta, Il Castoro. Da 3 anni. Fammi trovare un bambino che ascolta/come un curioso scoiattolo attento: subito echeggiano nella memoria questi endecasillabi di Bruno Tognolini, aprendo Ascolta, albo appena uscito dell’autrice americana Cori Doerrfeld. Solo che qui il bambino protagonista è ascoltato, con generosa, silenziosa, surreale, empatia, da un coniglio. E l’ascolto di cui si tratta non è un ascolto, per quanto apprezzabile, finalizzato alla fruizione di qualcosa (nel caso della poesia di Tognolini, l’ascolto di una fiaba). No, qui l’ascolto è gratuito, è un dono di sé e del proprio tempo, è un esserci, totalmente, per qualcuno. Più precisamente: per lenire il dolore di qualcuno, quando non ci sono altri modi per eliminarlo, questo dolore. L’autrice ha dichiarato in un’intervista di essersi ispirata al senso di impotenza provato cercando di offrire conforto ad amici che subivano dolori devastanti, e di aver capito che «a volte non c’è nulla che possiamo dire o fare, possia-

mo solo starcene lì con le orecchie ben aperte pronti ad ascoltare». In questo caso il dolore non è certo devastante, ma è uno di quei disagi quotidiani in cui ogni bambino può rispecchiarsi: al piccolo Timmy accade di veder distrutta la costruzione di mattoncini che con tanta dedizione e impegno ha realizzato. (Tra l’altro, in linea con l’efficace surrealismo della storia, giocato su un «naturale» dialogo bambinoanimali, la costruzione viene distrutta

da uno stormo di uccelli). Insomma, Timmy è molto triste, ed ecco avvicendarsi una serie di animali dispensatori di consigli: parliamone, grida la tua rabbia, ridici su, fa finta che non sia successo nulla, eccetera. Ma «Timmy non ha voglia di fare niente con nessuno». Proprio così. Timmy non ha voglia di fare qualcosa. Ma solo di essere lì, con la sua tristezza. E di essere lì con qualcuno che la condivida. All’inizio soltanto standogli accanto, in silenzio, magari nel calore di un abbraccio. E poi, quando verrà il momento, offrendo il suo ascolto. Sarà il coniglio (animale non a caso dalle orecchie lunghe) a fare tutto questo. A restare lì con lui «per tutto il tempo». Sembra poco, ma è un dono grandissimo. Un dono che ridarà a Timmy il desiderio di costruire qualcosa di nuovo. Rob Hodgson, Le volpi e il bosco, Zoolibri. Da 4 anni. A proposito di conigli, ecco una storia divertente e baldanzosa che rovescia ogni stereotipo: le volpi sono tutt’al-

tro che astute e i conigli sono tutt’altro che paurosi. Come già nel precedente Il lupo e la caverna, il giovane artista inglese Rob Hodgson si diverte a ridimensionare la tracotanza dei predatori: là il lupo, che scoprirà a sue spese che la «piccola creatura» nascosta nella caverna non è proprio «piccola»; qui tre volpi (Volpe Lunga, Volpe Piccola e Volpe Tonda) che vedranno misera-

mente fallire la loro caccia al coniglio, perché i deliziosi coniglietti sono ben più temibili di ciò che sembrano. Sarà divertente per i piccoli lettori seguire nella loro caccia le volpi imbranate, perché questo è il tipico albo in cui le illustrazioni disattendono il testo, con ironiche, umoristiche contraddizioni. Laddove il testo dice ad esempio: le volpi «cercavano sotto i campi di carote. “Nessun coniglio qua sotto” diceva Volpe Piccola (...) E cercavano nell’orto delle zucche. “Ci sono solo zucche in questo orto di zucche”...» le immagini mostrano invece tre conigli (simmetricamente uno Piccolo, uno Lungo e uno Tondo) sgranocchiare tranquillamente carote, o rilassarsi nell’orto di zucche. Ma quelle zuccone di volpi non li vedono! E, man mano che la storia procede, i bambini potranno con soddisfazione accorgersi di ciò che invece non notano le volpi, fino al meritato contrappasso finale! Una storia che fa ridere, che rovescia i luoghi comuni e che acuisce lo spirito di osservazione.


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Società e Territorio

Storie in cabina

Ticino Bibliocabine, audiocabine inclusive, bibliocasette: la pagina

Instagram «Cultura a spasso Ticino» ha mappato un fenomeno diffuso su tutto il territorio

Romina Borla Nell’epoca degli smartphone le cabine telefoniche si sono trasformate. La fantasia dei britannici si è ad esempio scatenata. Un paio d’anni fa la British Telecom aveva infatti lanciato il progetto Adopt a kiosk scheme: per il costo simbolico di una sterlina chiunque poteva accaparrarsi la tipica cabina rosso fuoco, a patto di mantenerla in buono stato. Così ne sono state adottate diverse migliaia per essere usate in vario modo: come elemento decorativo in giardino o ripostiglio per gli attrezzi, come negozi e bar in miniatura. Altre si sono dotate di defibrillatori oppure bancomat. Qualcuno ha pensato di convertire le cabine in punti di riferimento per i turisti, minuscole gallerie d’arte o bibliocabine (spazi pubblici dove ognuno può portare libri e prenderne altri gratis). Quest’ultima variante ha fatto furore anche in Ticino, promossa da Comuni, associazioni e privati. Apparsa attorno al 2011, si è diffusa in modo capillare soprattutto a partire dal 2018, quando è caduto l’obbligo di mettere a disposizione un telefono pubblico a pagamento in ogni centro abitato. Ma quante sono attualmente? La pagina Instagram «Cultura a spasso Ticino» – attiva da inizio 2019 e seguita da quasi 1.900 utenti – ne ha finora «recensite» e fotografate 117. L’ideatrice e sociologa Martina Gamboni

spiega che il dato comprende anche le bibliocasette: piccole librerie gratuite dalla forma base di una bucalettere, spesso nate su iniziativa privata. «Se ne trovano di fantasiose, ad esempio ne spiccano una rosa fluorescente sul Piano di Magadino e una ispirata alle pompe di benzina della Route 66 a Muralto». L’idea di creare una sorta di mappa di bibliocabine e bibliocasette è nata dalla comunità che ruota attorno a «Cultura a spasso Ticino», una pagina creata per condividere il piacere delle esperienze culturali a 360 gradi. «Ho postato l’immagine della bibliocabina che incontro quotidianamente e si è scatenato l’entusiasmo: gli utenti hanno cominciato a segnalare le loro e chiedere dove potevano trovarne altre». La bibliocabina, insomma, ha conquistato gli internauti e non solo. «È un’iniziativa di successo per una serie di fattori», sottolinea. «Non si tratta solo dello scambio di libri usati. Queste strutture di prossimità rappresentano uno spazio d’incontro tra le persone, un luogo di aggregazione della comunità locale. A metà settembre, ad esempio, l’Associazione quartiere Rusca e Saleggi ha organizzato una festa attorno alla sua bibliocabina con storie, musica e merenda». Gamboni sottolinea inoltre come ad essere vincente sia anche il concetto di sorpresa: «La struttura non mi offrirà il libro che cerco – questo è il ruolo delle biblioteche istituzionali o delle librerie –

ma un’opera che mi stupirà, consigliatami da uno sconosciuto lettore». Purtroppo non tutti capiscono e apprezzano il valore dell’iniziativa. Ad esempio ignoti hanno di recente dato fuoco ad una graziosa bibliocasetta di Cadro. Nessun atto di vandalismo si è invece registrato nei confronti delle 5 bibliocabine gestite da Amiche e amici della Filanda di Mendrisio. «Però notiamo una certa noncuranza», afferma l’associazione. «I volontari che se ne occupano le trovano spesso disordinate, specie i ripiani dei bambini: libri per terra, ammucchiati male, rovinati. Anche lo scambio non funziona sempre. Siamo spesso noi a dover rifornire le strutture di libri». Il gruppo di interesse sottolinea come la bibliocabina sia un luogo di condivisione: «È importante che ognuno se ne prenda cura». Si unisce all’appello anche Luca Patocchi, ex direttore della Galleria Gottardo di Lugano. Lui è stato un pioniere in questo campo, inaugurando nel 2011 a Breganzona la prima delle due bibliocabine che gestisce vicino alla Posta (pagando un affitto simbolico al Gigante giallo). «Alcuni utenti lasciano borse ricolme per terra: libri e riviste di ogni genere – anche pornografiche – enciclopedie, vecchie guide turistiche ecc. A me tocca ordinare e portare il materiale in eccedenza a casa oppure in discarica». In ogni caso un certo disordine al nostro interlo-

La colorata bibliocabina di Vacallo. (CulturaA SpassoTicino

cutore piace: «Adoro le librerie traboccanti, nelle quali bisogna frugare e dove talvolta si trovano veri e propri tesori. Le mie bibliocabine sono così, libere e colorate, di proprietà della comunità». Una comunità variegata per età, estrazione sociale e nazionalità. Sono pensate per attirare diverse tipologie di utenti anche le 4 bibliocabine della cooperativa Baobab di Bellinzona, la quale propone progetti in favore di minori e famiglie in difficoltà. Quella in Piazza Governo nelle prossime settimane si trasformerà in audiocabina, grazie al supporto tecnico di ATED-Ticino. Alzando la cornetta si potranno infatti ascoltare favole e racconti in lingue differenti (italiano, tigrino, arabo, turco ecc.). «Ci ispiriamo all’esperienza dell’au-

diocabina di Serravalle dell’associazione Libera il libro», spiega la coordinatrice della cooperativa, Elena Toppi Conelli. «La speranza è di avvicinare le persone alle storie, alla lettura come veicolo d’inclusione e di conoscenza di altre culture». Mentre le altre bibliocabine presenti in Città verranno rinnovate entro metà ottobre dagli impiegati del programma d’inserimento nel mercato del lavoro che frequentano l’Atelier 93. Inoltre, fa presente l’intervistata, «stiamo cercando collaborazioni con le scuole e con altri progetti mirati al sostegno di adolescenti in difficoltà per sfruttare l’attività di manutenzione delle bibliocabine come mezzo di integrazione e trampolino di lancio verso una progettualità che in alcuni ragazzi fatica ad emergere». Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Una collezione storica

Videogiochi 3D All-Stars è una riedizione di tre classiche avventure di Super Mario, che quest’anno compie 35 anni

Il 2020 è un anno importante per Nintendo, non solo la compagnia nipponica compie ben 131 anni di attività ininterrotta ma la sua mascotte ne compie ben trentacinque. Stiamo parlando ovviamente di Super Mario, l’eroe di innumerevoli videogiochi che hanno accompagnato una generazione intera di giocatori. Per festeggiare questo importante anniversario, la software house di Kyoto ha deciso di pubblicare una collezione di tre delle avventure più amate dell’idraulico italiano: Super Mario 3D All-Stars. Si tratta di una compilation che comprende Super Mario 64 (uscito originariamente nel 1997 su Nintendo 64), Super Mario Sunshine (originariamente uscito su Gamecube nel 2002) e Super Mario Galaxy, titolo del 2007 pubblicato per Wii. Una collezione di tre giochi che comprende tre dei titoli in 3D più amati dal pubblico e che possiamo ora giocare sulla console ibrida Nintendo Switch. I tre giochi sono stati ottimizzati per essere giocati su Switch anche se da un punto di vista dell’adattamento linguistico, Super Mario 64, come il titolo originale, non contiene la lingua italiana. I giochi quindi non sono stati modificati rispetto alle edizioni originali, in particolar modo non presentano migliorie grafiche o sonore. Nintendo ha però modificato un po’ i controlli in modo che si adattino ai Joy-con della nuova console Switch. In particolar modo molte delle mosse di Mario in

© Nintendo of Europe

Davide Canavesi

Galaxy sono accessibili tramite la pressione di un tasto e non con i controlli di movimento originari, sebbene nulla ci impedisca di usare quelli di Switch se usiamo un gamepad compatibile. Nintendo ha scelto di aggiungere a questa curiosa collezione anche le colonne sonore dei tre giochi, accessibili tramite il menu principale della collezione. Si tratta di oltre 150 tracce musicali di ottima qualità, in particolar modo quelle tratte da Mario Galaxy e composte da Mahito Yokota, ampiamente riconosciute come tra le migliori mai usate nella serie.

Super Mario 64 è forse il titolo più storicamente significativo incluso in Super Mario 3D All-Stars perché ha segnato il passaggio della serie dalle due alle tre dimensioni. Un titolo che, al palato raffinato dei giocatori moderni potrà sembrare piuttosto primitivo ma che di fatto ha posto alcune delle basi del design di avventure in 3D. Dal movimento del personaggio alla gestione della telecamera, come pianificare l’azione e come disegnare i livelli è stato tutto un processo di scoperta e invenzione che si è tenuto a metà degli anni 90. Mario 64 è stato tra i primi giochi di

questo genere a toccare tutti i tasti giusti, proponendo un’avventura appassionate e molto variata. Un peccato forse che Nintendo abbia incluso in questa collezione la versione per Nintendo 64 e non la riedizione per Nintendo DS che conteneva, oltre ad altri personaggi, anche livelli bonus. Ad ogni buon conto, chiunque dovrebbe provare il capostipite delle avventure in tre dimensioni di Super Mario, se non per il piacere di scoprire o riscoprire un titolo iconico, almeno per riconoscerne l’importanza storica nel medium videogioco. Super Mario Sunshine è un’avventura scanzonata in cui Mario affronta i suoi nemici a suon di pistole d’acqua. Il gioco uscito su Gamecube è stato modificato nei controlli per meglio adattarsi a Switch. È anche l’unico titolo di questa collezione a non essere mai stato riedito dopo la pubblicazione originale. Questo significa che fino ad oggi l’unico modo per rigiocare a questo apprezzatissimo titolo era o sulla console Gamecube originale oppure tramite emulazione, un metodo illegale che viola i diritti d’autore della software house nipponica. Sunshine fu un titolo che fece marcia indietro rispetto all’enorme libertà offerta da Mario 64 proponendo al giocatore diverse missioni ben definite in un mondo tridimensionale. Inoltre è un gioco dalla doppia natura: da un lato è un gioco sorprendentemente accessibile anche ai neofiti che troveranno divertente e stimolante esplorare Delfinia e le varie ambientazioni insulari ma dall’altro offre anche

sfide parecchio ostiche e un pochino frustranti. Super Mario Galaxy è il titolo cronologicamente più vicino al 2020 e anche quello più stuzzicante. In questo gioco Mario dovrà esplorare diversi pianeti, che possono essere di diversa taglia e avere diverse conformazioni. Spesso e volentieri ci ritroveremo a passeggiare su pianetini minuscoli, stando magari a testa in giù oppure in posizioni strane. Galaxy è forse il titolo più difficile da digerire inizialmente proprio perché non si accontenta di proporre un mondo tridimensionale in cui il pavimento rimane sempre il pavimento ma sovverte spesso e volentieri la nostra nozione di sopra e sotto. Il design dei livelli è incredibilmente ispirato, fantasioso e inatteso e rende questo capitolo uno dei più intriganti mai pubblicati. Per concludere Super Mario 3D All-Stars è una collezione interessante per ogni fan di Super Mario. Offre un modo moderno per rigiocare a titoli del passato ed è un buon modo per far avvicinare un pubblico più giovane a quelli che sono, di fatto, parte della storia e della cultura del videogioco. L’unica pecca è che, per motivi incomprensibili, Nintendo ha deciso di pubblicare il gioco in edizione fisica per un periodo limitato nel tempo. Per questo motivo, trovare il gioco nei negozi è più difficile di quanto dovrebbe. Fortunatamente è possibile anche acquistarlo sullo shop digitale della console Switch ma per i collezionisti l’edizione fisica ci pare d’obbligo. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Cinquecentomila squali Achtung! Achtung! Ci risiamo: i media, web in testa, sono nuovamente invasi dai Selachimorphi, vulgo Squali. Spuntano dappertutto. Sono per ogni dove. In cielo, in terra e in ogni luogo. Dappertutto fuorché dove dovrebbero starsene per la comodità di tutti, compresi loro stessi. L’ultimo a stanarli dal profondo degli abissi dove son sempre in agguato è stato il Coronavirus (e chi altri potrebbe essere il protagonista del serial dell’orrore che ci accompagna fra pipistrelli e pangolini ormai da mesi?). Occorre spiegarsi: non c’è stato nemmeno il tempo di digerire la notizia garantita dell’OMS secondo la quale i morti per CV19 hanno superato il milione che le è sbucata alle spalle, a tradimento –come una sorta di contrappasso – la news che occorrerebbero cinquecentomila squali per produrre abbastanza vaccino per salvare l’umanità dal morbo. Covid contro gli Squali in una sfida mortale che ha per palio l’intera umanità? Wow, che brivido, che frisson! Succede infatti che uno degli ingredienti necessari a produrre almeno

certi tipi di vaccino sia un certo olio prodotto dal fegato degli squali che altro non può chiamarsi se non squalene. Un colosso farmaceutico britannico già lo utilizza per produrre vaccino influenzale, al ritmo di tremila squali per tonnellata di squalene (senza che peraltro si diano indicazioni sulle taglie dei chiamiamoli donatori che – come sappiamo – vanno dalle poche decine di centimetri del Gattuccio ai

metri fitti dello squalo balena – ma tant’è). Sulla base di questi dati l’associazione ambientalista Alleati degli Squali (ha sede in California, dove altro?) ha calcolato che se ogni abitante del pianeta dovesse ricevere una dose di vaccino gli squali necessari sarebbero 250’000. Se poi, come sembra plausibile, la dose dovesse essere ripetuta, il contributo selachimorfico salirebbe a cinquecentomila. Questo calcolo «ammazza uno per salvarne due» non tiene peraltro conto del fatto che una versione di sintesi dello squalene possa essere ricavata dalla canna da zucchero fermentata, così come postillano a piccoli caratteri e danno fatto gli articoli sulla strage corredati da foto terroristiche di carcasse di squali decapitati allineati a mò di sardine pronte ad essere inscatolate. Ma la sete di notizie squalificanti non si accontenta certo di questo. I media, si sa, sono voraci e hanno bisogno di carne fresca. Non appena pubblicata la notizia di cui sopra è seguita a rimorchio la notizia secondo la quale Malta ha scomodato il ministro della Cultu-

ra per chiedere al governo britannico la restituzione di un dente di squalo fossile che Sir David Attenborough, l’ormai mitico, inossidabile naturalista, ha regalato al principino George. Il dente sarebbe patrimonio storico nazionale e come tale heritage del popolo isolano. Poco importa che denti di Megalodonte (che peraltro, e ben gli sta, si estinse perché predato dagli altri squali – anche questa gira sul web) si possono acquistare a chilate e senza sbancarsi sulla stessa medesima rete. Insomma, basta una nuotatina nel web, attenti a non farsi sorprendere, per imbattersi in titoli del tipo: «Squalo attacca il marito in acqua (e dove altro poteva attaccarlo? Mentre si lavava i denti!?). Donna incinta si tuffa e gli salva la vita (al marito, s’intende)» (Florida). «Catturata femmina di squalo bianco incinta di 14 cuccioli» (Taiwan). L’articolo prosegue con l’ennesima tirata contro i cinesi mangiasquali. «Ci sono squali bianchi nel Mediterraneo?». Domanda sempre attuale anche se ogni tre per quattro si segnalano avvistamenti del bestione del tipo «Avvistato squalo bianco

vicino ad una barca ad otto miglia da Lampedusa». La notizia fa un figurone fra le no news del tipo «cane morde uomo». Notizia sarebbe se fosse stato avvistato nell’acquasantiera della chiesa parrocchiale o – vivaddio – a otto miglia dalla barca, evviva la vista del Nostromo. E avanti di questo passo fino allo sfinimento. L’ultimo, grandioso frutto di una furia mediatica alla canna del gas, l’offerta a portata di clic: «Incontra da vicino un grande squalo bianco in 3D a grandezza naturale». Attendiamo di vedere se scatenerà la corsa all’acquisto di schermi PC formato cinemascope. «Tanta voglia di paura»: così il Vostro Altropologo di riferimento molte puntate fa a proposito dell’infantilizzazione della cultura pop, globale e di massa, ormai connessa alla realtà realmente reale solo per mezzo delle protesi mediatiche. A quelle righe faccio ora riferimento, divertito e sconfortato. Altro era la «credulità» innocente e creativa della cultura popolare d’antan. Questa qui, la cultura pop intendo, è irrimediabilmente squalificata.

masse conformarsi a terribili dittature. In un clima diverso, Peter Schiesser, si interroga sull’inquietante presenza del cosiddetto «negazionismo», un atteggiamento minoritario ma sintomo del serpeggiare nella collettività di forme di paranoia. Non si tratta, secondo lo psicoanalista Luigi Zoja, di una follia psichiatrica ma della presenza, in ciascuno di noi, della tentazione di sfuggire alla solitudine e all’insicurezza rifugiandosi sotto le bandiere del pensiero assoluto, insofferente del dubbio, della critica e della ricerca, pronto a promettere salvezza per tutti. Un meccanismo di difesa individuale che, in periodi di crisi, tende a dilagare in forme collettive. Cosa c’entra tutto ciò, vi chiederete, con i dilemmi della signora Maria? Ce lo spiega sorridendo Diego nella gag di Antonio che, non sapendo perché va ogni giorno a fare il bagno a Caprino, preferisce vendere il motoscafo piutto-

sto che interrogarsi sulle motivazione della sue azioni. Noi vi scorgiamo un tentativo di emergere dal gruppo, di farsi ammirare, di mostrare a se stesso e agli altri di essere il migliore. Ma lui non lo sa e non lo vuole sapere. Temendo di riconoscere i suoi desideri e di assumersi la responsabilità di realizzarli, preferisce tornare tra gli amici del bar, proprio quelli che voleva lasciare indietro. Anche la signora Maria ha paura della libertà che ha conquistato con un gesto di ribellione ma che ora le chiede di trovare senso e ragione. La libertà da, dice Fromm, deve trasformarsi in libertà di diventare se stessi.

romanzieri, filosofi, artisti ci regalerà la pandemia? C’è di che preoccupare una giornalista, alle prese con una possibile valanga d’inviti a recensioni di libri e a inaugurazioni di mostre. Ironie a parte, sta di fatto che anche la solitudine comporta rischi. Non mancano in proposito seri avvertimenti. Dalla solitudine al solipsismo, letteralmente «solo su se stesso», cioè ripiegamento e autocompiacimento, il passo è breve. Lanciava quest’allarme, fra altri, Thomas Bernhard, scrittore austriaco di multiforme talento, rievocato, lo scorso anno in un convegno a Milano, nel trentennale della morte. Gli spetta anche il merito di aver usato la parola «escapismo»(dall’inglese escapism), per definire lo spontaneo bisogno di fuggire dalla realtà, rifugiandosi nella leggendaria isola felice. Smaltita, però, l’euforia liberatoria, in un luogo dove

nessuno ti conosce, si fa sentire il bisogno del ritorno fra chi ti conosce e con cui si scambiano sentimenti, opinioni, esperienze sul filo della reciprocità. Pro o contro la solitudine? Meglio soli che male accompagnati, per dirla con un proverbio popolare o, «l’inferno sono gli altri», per citare Sartre, la solitudine rimane un tema dibattuto, che divide sul piano pratico e su quello ideologico. Così sino al gennaio 2020, da quando anche la solitudine non è più quella che era. Per via, paradossalmente, di un’incognita, un virus che chissà da dove arriva e quando se ne andrà. Intanto sta esercitando un influsso subdolo sui detentori del potere. Compresi quelli che governano le nostre democrazie, costretti a fare la voce grossa, a imporre disciplina, a limitare le libertà. C’è il rischio che ci prendano gusto, e l’emergenza diventi permanente.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Il buon uso della libertà Buongiorno Silvia, mi permetto questo tono confidenziale perché la leggo da tanto tempo ed in genere condivido le sue analisi; se invece la considera un’arrogante interferenza, beh, anche le mail-box hanno un cestino dei «bit stracci». Prima ho letto l’articolo di Peter Schiesser «Segnali di paranoia collettiva» e poi la lettera della sig.ra Maria; da pinguino ignorante quale mi ritengo nella lettera vedo un qualche aggancio con quanto descritto da Schiesser, ma è solo una mia opinione, mentre l’ultima frase della sig.ra Maria: «che cosa me ne faccio della mia libertà?» m’ha fatto tornare in mete una vecchissima gag da bar che le riporto. Nel gruppo degli amici storici del bar c’è anche Antonio che un giorno annuncia d’aver comprato un super motoscafo e che per provarlo aveva percorso la tratta Lugano-Caprino in 15 minuti; coro di meraviglia degli amici per la

performance. Il giorno dopo all’aperitivo arriva Antonio tutto raggiate con la notizia che «oggi a Caprino ci sono andato in 13 minuti». Altro coro di oh, e così per altri giorni sempre con una prestazione migliore del motoscafo. Oramai gli amici ogni volta che arriva Antonio gli chiedono in quanto tempo ha raggiunto Caprino fino a quando Antonio dà la notizia d’aver venduto il motoscafo; alla domanda stupita degli amici del perché della vendita Antonio rispose: «Ma mi dite che c’andavo a fare tutti i giorni a Caprino?». Come vede il punto cui è arrivata la sig. ra Maria è noto da abbastanza tempo da venir inserito in una gag da bar. Con i migliori saluti. Cordialità. / Diego Ma no, caro Diego, non considero certo la sua lettera un’arrogante interferenza per tre ragioni: perché permette di riaprire il

dibattito sul buon uso della libertà; di riprendere l’editoriale di Peter Schiesser, «Segnali di paranoia collettiva» che considero profondo e pertinente e infine perché ci aiuta a sorridere delle difficoltà del nostro tempo. Per chi non ha avuto modo di leggere i due scritti citati da Diego (pubblicati entrambi sul n. 37 del 7 settembre 2020) o li avesse dimenticati, provo a riassumerli brevemente. La signora Maria, esasperata dalla convivenza forzata indotta dal lockdown, al grido di BASTA!, aveva preso la decisione di andarsene di casa lasciando al marito i due figli adolescenti. Ma ora, rimasta sola, presa dall’angoscia di un futuro tutto da inventare si chiede: «che cosa ne me faccio della mia libertà?». È un interrogativo che si era già posto lo psicoanalista Eric Fromm nel libro Fuga dalla libertà, scritto nel 1941, nel mezzo di un conflitto mondiale e di un secolo che aveva visto le

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Quando la solitudine non è più una scelta Spie della quotidianità, le parole cambiano significato e valore, a seconda dei tempi. E la pandemia ha accelerato il ritmo di un’incessante e naturale evoluzione. Proprio solitudine ne è un esempio fra i più rivelatori e radicali. Oggi sta a indicare una limitazione, imposta a tutela del bene comune. Mentre, fino a ieri, esprimeva una scelta di libertà individuale: isolarsi in cerca del proprio benessere. Negli ultimi decenni era diventata persino una forma di snobismo, che ha contraddistinto le abitudini di viaggiatori e vacanzieri, impegnati a scovare mete e itinerari al riparo dalla folla, e quindi dalla promiscuità e dal bailamme. Reazione, del resto, legittima nei confronti del turismo di massa che, sfociando nell’«overtourism», aveva reso per così dire infrequentabili le località tradizionalmente più attraenti. Comprensibile, quindi, da parte

di chi già le conosceva, il rifiuto di visitarle. In verità, le immagini e le notizie che, nell’estate 2019, arrivavano da Venezia, Barcellona, Dubrovnik e, in Svizzera, da Lucerna erano quanto mai dissuasive. Persino i diretti interessati in loco, commercianti, ristoratori, albergatori, responsabili di mezzi di trasporto denunciavano uno stato d’emergenza: il troppo che storpia, insomma. Ora, è bastato un anno, e che anno, per rovesciare la situazione. Quel silenzio, quella tranquillità, quel vuoto non sono più uno sfizio individuale, riservato a pochi, bensì un guaio collettivo che implica il dovere della rinuncia, da accettare nostro malgrado. Non tutti, però, hanno vissuto la nuova solitudine obbligatoria come una restrizione mortificante, abbinata, nei mesi del lockdown, alla sedentarietà forzata. Vi si sono adeguati, agevol-

mente, per senso civico e morale, e non solo. Infatti, sono riusciti ad apprezzare i vantaggi, addirittura i piaceri, di una quotidianità all’insegna del «fare a meno». Cioè, una tendenza a evitare eccessi consumistici, che era già nell’aria, favorita dal successo politico dei verdi. Ma per i campioni della rinuncia dell’era Covid, il concetto «fare a meno» si è allargato, superando le disposizioni delle autorità, destinate a limitare l’afflusso agli stadi, alle sale da concerto, ai teatri, possibili focolai di contagio. Come succede agli integralisti, loro vanno oltre evitando contatti umani elementari e spontanei: incontri con amici, colleghi, coinquilini. E, ovviamente, astensione assoluta da viaggi e vacanze. Si assiste a una sorta di puritanesimo da eremita: unica compagna di vita la solitudine che, a quanto pare, dovrebbe favorire la creatività. Quanti


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 ottobre 2020 • N. 41

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Ambiente e Benessere Le spine amate dalle donne Non sono quelle delle rose ma dei lamponi e in fitoterapia aiutano durante la menopausa

Clio a «ricarica gratis» Diventa elettrica ma con una motorizzazione innovativa tutta ibrida

La viticoltura della Calabria Sotto l’aspetto ampelografico una regione estremamente ricca di varietà locali e tradizionali pagina 23

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Un sito per il mondo canino Nasce in Ticino la pagina web www.mondocaneticino.ch per fornire utili informazioni

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Formula chimica CO2 Scienza Una sostanza famigerata,

pur essendo essenziale per la vita sulla Terra; vale la pena di conoscerla meglio

Marco Martucci, testo e foto Se c’è una sostanza che può ambire al titolo di «sostanza dell’anno» o perfino del secolo o del millennio, questa è il diossido di carbonio, noto anche come anidride carbonica, formula chimica CO2. In pochi anni, dai libri di chimica è entrata nell’arena politica, nell’economia e nella finanza e nelle conversazioni d’ogni giorno: legge sul CO2, decarbonizzazione, mutamenti climatici. Il CO2 non gode di molta simpatia. Eppure, il CO2 è essenziale per la vita sulla Terra, noi compresi: una buona ragione per conoscerlo un po’ più da vicino. Il tema è vastissimo e s’impone una scelta fra i tanti argomenti, fatti e curiosità. Il nome, per cominciare: evitiamo di chiamarlo «anidride carbonica». Anidridi erano chiamati gli ossidi che, messi in acqua, danno un acido. Il che per il CO2 è vero ma, nella chimica moderna, anidride ha un altro significato. Secondo le regole, in vigore ormai da decenni, della IUPAC, l’Unione internazionale di chimica pura e applicata, il nome corretto è diossido di carbonio e la sua formula chimica è con il numero «2» scritto in piccolo, a destra e un po’ sotto la riga e dunque non CO2. Potranno sembrare pignolerie ma, nella scienza e nella tecnica, e non solo, con i nomi è meglio non fare confusione. Il diossido di carbonio fu descritto la prima volta intorno al 1640 dal medico fiammingo Jean Baptiste van Helmont che lo ottenne bruciando della legna e lo chiamò «gas silvestre». Più o meno un secolo dopo, il medico scozzese Joseph Black scoprì che si poteva ottenere il gas silvestre versando un acido sul calcare e lo chiamò «aria fissa», perché si poteva «fissare» dentro un solido, in questo caso una roccia. Anche scaldando il calcare ad alte temperature, come nei forni da calce, si ottiene la calce viva per l’edilizia e si libera diossido di carbonio. Una ventina d’anni dopo, il chimico inglese Joseph Priestley, scopritore, fra l’altro, dell’ossigeno, fece passare aria fissa dentro acqua e, per questo, è considerato l’inventore delle «bollicine». Le bibite gassate, dall’acqua alla birra, dalle aranciate allo spumante, contengono CO2. Si scioglie bene in acqua, cui conferisce una leggera acidità: acido carbonico. Questo delle bevande frizzanti è solo uno dei tanti usi del

CO2. Può essere aggiunto alla bibita da bombole sotto pressione oppure essere già presente nell’acqua alla sorgente oppure ancora può essersi formato attraverso la fermentazione. È il «ribollir dei tini» di carducciana memoria. Ma il CO2 ha tante altre applicazioni: negli estintori e come raffreddante, il «ghiaccio secco». Dentro bombole sotto forti pressioni, il diossido di carbonio diventa liquido. Aprendo il rubinetto della bombola, a pressione normale ritorna gas, assorbendo calore e producendo un freddo sufficiente a congelarlo. Però, a differenza del ghiaccio d’acqua, il ghiaccio di diossido di carbonio, chiamato anche «neve carbonica», a circa 80 gradi sotto zero, non bagna perché si trasforma direttamente in gas: si dice che «sublima». Più denso (in parole povere ma meno corrette, diremmo «più pesante») dell’aria, il CO2 tende a stratificarsi in basso, il che può diventare pericoloso. Non è un gas velenoso, non come il monossido di carbonio CO, ma, al di sopra di una certa concentrazione, diventa asfissiante e può dunque essere mortale. Dove si può, è importante arieggiare! Altrimenti, come nei sottomarini e nei veicoli spaziali, lo si assorbe con apposite sostanze. È un gas praticamente inodore, incolore, invisibile e strati di CO2 sul pavimento della cantina dove il mosto fermenta o dentro miniere e grotte hanno già provocato la morte. In passato, i minatori portavano in miniera un canarino in gabbia, che segnalava la presenza di gas asfissiante. Due esempi ancora più curiosi si trovano in Italia e in Africa. A Rapolano Terme in provincia di Siena c’è una dolina, una sorta di «cratere» di origine carsica, da cui fuoriesce diossido di carbonio, uno dei più grandi giacimenti di questo gas al mondo. La dolina, sul cui fondo si deposita il CO2, può diventare una trappola mortale e, per questo, è circondata da un alto muro. Nella notte del 21 agosto 1986, in Camerun, dal fondo del lago vulcanico Nyos emerse di botto un’immensa quantità di CO2 che provocò la morte di 3500 capi di bestiame e di 1700 persone fino a diversi chilometri di distanza. Il CO2 in natura è presente nell’atmosfera in piccolissima quantità, che sta aumentando a causa delle attività umane, ha superato da qualche anno lo

Cellule di foglia ingrandite al microscopio: si notano i minuscoli e numerosi verdi cloroplasti dentro le cellule. È qui che avviene la fotosintesi. Ogni cloroplasto (sono quei «pallini» verdi dentro le cellule della foglia) misura 5 micrometri, cioè 5 milionesimi di metro, circa 15 volte più sottili di un capello.

0.04 per cento e, con il cosiddetto effetto serra, protegge, insieme ad altri gas, la Terra dal freddo dello spazio esterno ma produce, se ce n’è troppo, il riscaldamento globale che si vuole evitare. È una minima percentuale dell’aria ma è fondamentale: la vita sulla Terra si basa sui composti del carbonio, come proteine, grassi, carboidrati, acidi nucleici e l’unica fonte di carbonio a disposizione della vita è proprio quella piccola «impurità» dell’aria. Il carbonio entra dall’atmosfera negli esseri viventi attraverso una reazione chimica che potremmo definire geniale, la fotosintesi clorofilliana. Spiegato in modo molto semplice, le piante, attraverso le foglie, assorbono il CO2 dall’aria o, se vivono in acqua, dal mare, dai laghi e dai fiumi, lo uniscono all’acqua e, grazie alla luce e con

l’intervento della clorofilla, fabbricano gli zuccheri e poi le altre sostanze per la vita, emettendo, quasi un rifiuto, l’ossigeno. Poiché il nostro Pianeta non dispone di un rifornimento di materie prime dallo spazio esterno, il carbonio viene riciclato. Uno dei meccanismi è proprio l’inverso della fotosintesi, la respirazione, altra reazione chimica «geniale», che produce energia per la vita, consuma zuccheri e ossigeno e rimette in circolo acqua e diossido di carbonio. Il CO2 ritorna all’atmosfera anche attraverso la morte e la decomposizione, le fermentazioni, gli incendi di foreste e l’uso della legna come combustibile. Una buona parte di CO2 va a finire negli oceani e altro carbonio è fissato negli alberi, nella torba del sottosuolo e, da milioni di anni, nei giacimen-

ti di carbone, gas naturale e petrolio, i «combustibili fossili». Il loro uso sta facendo salire in modo preoccupante il livello di CO2 atmosferico, aumentando l’effetto serra. Non poco diossido di carbonio finisce dentro le conchiglie e nelle rocce sedimentarie, come dolomia e calcare e la Terra lo emette attraverso sorgenti ed eruzioni vulcaniche. Il ciclo del carbonio fra atmosfera e biosfera mette a disposizione questo elemento che costruisce ogni forma di vita e, poiché gli atomi di carbonio sono sempre gli stessi da miliardi di anni, da quando esiste la Terra, non è escluso che, dentro di noi, ci sia qualche atomo di carbonio appartenuto a un dinosauro, a un albero, a un nostro antenato o a qualche personaggio storico. Anche questo è il fascino del CO2!


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Ambiente e Benessere

Il frutto del bosco che ama le donne Eliana Bernasconi Il lampone, nome scientifico Rubus idaeus L., della famiglia delle Rosaceae, è un arbusto perenne spinoso parente stretto del diffusissimo Rovo, Rubus sp. che nelle siepi, nei boschetti o ai margini dei sentieri di campagna ci regala le sue tenere e scurissime more. Oggi largamente coltivato su vasta scala, il lampone cresce nelle zone collinari subalpine, in luoghi sassosi e freschi, ai margini dei boschi preferibilmente di faggio e abete. Fiorisce da maggio a giugno, e suoi i frutti si raccolgono in estate e inizio autunno.

Il macerato glicolico di lampone trova applicazione nelle sindromi premestruali, o nelle mestruazioni dolorose Dioscoride, medico e botanico greco nella Roma imperiale di Nerone, consigliava i fiori di lampone impastati con miele per combattere le infiammazioni oculari e, per uso interno, il decotto di fiori e foglie per curare stomaco e herpes zoster (fuoco di Sant’Antonio). Del lampone, in fitoterapia si utilizzano foglie, fiori, frutti, gemme e giovani getti, raccolti da giugno ad agosto. Le foglie si fanno essiccare al sole e si conservano in scatole di cartone o sacchetti di tela. Nella medicina popolare l’infuso di foglie era usato contro la diarrea, mentre il decotto serve per gargarismi e sciacqui nelle infiammazioni di bocca e gola. Proseguendo, l’infuso di fiori (8 per cento) si usa per impacchi contro le infiammazioni cutanee e in compresse (3 per cento) per impacchi sugli occhi arrossati. Ma la vera vocazione del Lampone, ci spiega il dottor Gabriele Peroni, è quella di essere l’amico fedele delle donne, che prende per mano e accompagna lungo tutto il corso della vita, dall’infanzia alla vecchiaia. Nel ricco fitocomplesso di questa pianta troviamo infatti

gli isoflavoni, preziosi ormoni vegetali. Quando nella donna scatta il misterioso orologio biologico, l’ipofisi, piccola ghiandola che regola gli ormoni di tutto il corpo, smette di rilasciare ordini alle ovaie che sospendono la loro funzione, si sbilancia con questo l’equilibrio ormonale basato sulla regolare alternanza di estrogeni e progestinici. Possono allora prodursi in modalità variabili, irregolarità mestruali, sospensione del ciclo, imbarazzanti e improvvise vampate di calore e sudorazioni eccessive, palpitazioni, ansia, sbalzi di umore, insonnia, stanchezza, senso di vuoto esistenziale. Non è una regola che ciò si verifichi, e la menopausa non è ovviamente una malattia, ma un sereno passaggio evolutivo verso una nuova fase della vita: alcuni ne hanno addirittura parlato come di una seconda giovinezza della donna. Quando i sintomi sopraelencati sono davvero forti e fastidiosi, a fianco della terapia ormonale offerta dalla medicina classica abbiamo l’alternativa delle cure erboristiche. Il macerato glicolico di lampone trova applicazione nelle sindromi premestruali, o nelle mestruazioni dolorose, nell’amenorrea (mancanza di mestruazioni), nella premenopausa, in tutti i disturbi della menopausa, nelle mastopatie, e a conferma di ciò esiste uno studio tedesco condotto su donne in post menopausa che ne rende conto ampiamente. Alcune infertilità femminili sono state risolte con trattamenti a base di macerato glicolico di lampone; assunto con regolarità durante il delicato periodo della gravidanza, poi, riduce il rischio di squilibri ormonali e contrazioni uterine indesiderate. In passato veniva infatti consigliato alle donne gravide per scongiurare l’aborto; e in particolare, l’estratto di foglie e gemme è consigliato negli ultimi mesi di gravidanza per tonificare i muscoli dell’utero e migliorare le contrazioni. Mentre il decotto di foglie secondo alcuni aiuta in caso di ritenzione idrica. Per chi volesse approfondire il potere curativo della natura esistono altre erbe o piante per tutti questi disturbi e per ripristinare l’equilibrio naturale, ne

Bff

Fitoterapia Il lampone fa bene agli occhi e all’intestino, ma è soprattutto ricco di preziosi ormoni vegetali

citiamo alcune, in primis la salvia; pianta sacra ai romani, nel suo ricchissimo fitocomplesso racchiude sostanze fitoestrogene (ricercatori britannici hanno recentemente dimostrato che aumenta anche le capacità mnemoniche): si raccomanda enorme prudenza nei confronti del suo olio essenziale, potenzialmente molto pericoloso se assunto in dosi sbagliate (non somministrarlo assolutamente in gravidanza). Contro la sudorazione sono di grande aiuto gli infusi, i decotti, gli estratti di tintura madre. Ascoltiamo Ildegarda di Bingen: «La salvia è di natura calda e secca più per via del calore del sole che per l’umidità della terra, è utile contro le linfe malate, perché le secca; cruda o cotta è ottima da mangiare perché scaccia queste linfe». Era considerata erba miracolosa nell’antica Scuola medica di Salerno perché salva i nervi e assicura una lunga e serena vecchiaia: dicevano infatti: «Cur moriatur homo cui Salvia crescit in horto?» («perché muore l’uomo nel cui orto cresce la salvia?»).

Un’alternativa preziosa è data anche dalla radice di cimicifuga: in infuso, decotto, unguento, è usata da sempre dai nativi americani per guarire reumatismi, infezioni della gola, bronchiti, disturbi nervosi e uterini; cura i sintomi della menopausa perché contiene isoflavoni. Vi è poi il Trifolium pratense o Trifoglio rosso, dal colore dei suoi fiori: cresce in zona collinare e prealpina, ha foglie ricche di proteine che prima della fioritura si possono aggiungere con moderazione alle insalate, e contiene particolari flavonoidi che combattono i sintomi della menopausa agendo sui recettori degli estrogeni. Vi è poi il trifoglio fibrino, che cresce solo in prossimità dell’acqua: per motivi analoghi al precedente è ritenuto efficace nei trattamenti dei disturbi mestruali. Dall’Asia proviene invece Angelica Sinensis (Dong Quai), rimedio popolare nella medicina cinese, che agisce con doppio effetto riequilibrando il livello degli estrogeni, e agendo come un calmante nervoso, come la Verbena offici-

nalis, pianta erbacea perenne che cresce nei luoghi incolti. E come non nominare la famosa Maca Peruviana, o Maca delle Ande, arbusto del Sudamerica le cui bacche erano usate da sempre dai nativi? Ha un fitocomplesso ricchissimo, un’altissima concentrazione di antiossidanti, agisce su donne e uomini rialzando la libido. Per concludere vi è ancora la soia, ricca di estrogeni, di un particolare tipo di fitoestrogeni denominati isoflavoni che sono ormoni simili a un estrogeno prodotto dalle ovaie. La soia è diffusa in tutto il mondo, contiene principi attivi che agiscono su sintomi come vampate di calore, emotività, secchezza e tiene a bada l’osteoporosi. Bigliografia

Thomas Schwitter, Piante utili - In Ticino e nell’Italia alpina e prealpina, Salvioni Edizioni. Gabriele Peroni, Trattato di Fitoterapia Driope, Nuova Ipsa editrice.

Un nome da musa molto fortunato

Motori La Clio è diventata un vero e proprio best seller della Renault che, non contenta, con la versione

E-Tech Full Hybrid punta a democratizzare l’uso delle auto ibride Mario Alberto Cucchi Se leggiamo Clio, tutti pensiamo al nome di un’auto, alla francese Renault. Pochi sanno che questo è il nome della prima delle nove muse greche. Questa parola proviene dal verbo κλείω (si legge kleio) che in greco significa «rendere famoso» o «celebrare». Ed è stato proprio così: Clio, si è rivelato essere un nome di grande fortuna per la compatta francese, che è diventata un vero best seller. Dal suo debutto nel 1990 sino ad oggi ne sono state vendute ben 15 milioni di unità. Ora Renault per «celebrarla» parla di democratizzazione, l’innovazione diventa per tutti. Renault rende accessibile su Clio la nuova motorizzazione E-Tech Full Hybrid, sintesi del know-how e dell’esperienza di Renault nei veicoli elettrici e in Formula 1. Quali sono i punti di contatto tra la tecnologia utilizzata nei Gran Premi e quella per le strade di tutti i giorni? Il sistema di recupero dell’energia e il suo riutilizzo, nonché l’adozione di una trasmissione automatica Multi-mode, una novità assoluta per i veicoli di serie. Non un motore termico elettrificato, ma una motorizzazione innovativa pensata ibrida in ogni suo componen-

La Clio ha venduto 15 milioni di unità dal 1990 a oggi senza mai perdere occasione di rinnovarsi.

te. E le prestazioni? La potenza di 140 cavalli è frutto dell’abbinamento di tre propulsori che lavorano insieme gestiti dall’elettronica. Clio ibrida si avvale infatti di un motore a benzina 4 cilindri 1.6 aspirato e di due motori elettrici. Sul funzionamento della parte

elettrificata, va detto che quello principale è deputato alla motricità, l’altro funge da starter e da rigeneratore di energia. In poche parole, Clio percorre sempre i primi metri in modalità zero emissioni utilizzando questo propulsore senza sollecitare il motore termico. Il

suo compito è poi quello di ricaricare le batterie come un vero e proprio generatore di energia. Il concetto di E-Tech è la cosiddetta «ricarica gratis». In città la vettura promette di marciare all’80% a zero emissioni, con la batteria che si ricarica

da sola nelle fasi di decelerazione. Il risparmio in termini di consumi di benzina è stimato nel 40%. L’auto può raggiungere una velocità massima di ben 75 km/h in modalità completamente elettrica, 180 km/h con il termico. Buona l’accelerazione: da 0 a 50 km/h in 3,9 secondi e da 80 a 120 km/h in 6,9. Il consumo medio è di 4,3 litri ogni 100 km. Il livello di emissioni è pari a 96 grammi di C02. Insomma, questa Clio non ha la spina e quindi non è un ibrido plug-in, non si può ricaricare nel garage di casa, oppure presso le colonnine, ma ciononostante è in grado di viaggiare in modalità totalmente elettrica. Ideale probabilmente per chi usa l’auto prevalentemente nel percorso casa ufficio e non ha la possibilità di ricaricare spesso l’auto e quindi di comprare un mezzo esclusivamente elettrico o plug-in. E le batterie? Sono da 1,2 kWh e hanno una durata di vita di circa 10 anni. Il Gruppo Renault le recupera al 100% alla fine della prima vita. Come per i veicoli totalmente elettrici anche gli accumulatori dei veicoli ibridi giunti a fine vita sono sistematicamente raccolti per essere riciclati. L’ambiente ringrazia. Il prezzo di Clio E-Tech? A partire da 24’200 franchi.


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Idee e acquisti per la settimana

Dolci saluti dalla Svizzera Quando diventa più difficile incontrarsi con gli amici e i parenti che vivono all’estero, è sempre un piacere trovare nella buca delle lettere un piccolo pensiero sotto forma di cioccolato svizzero. Migros propone un ampio assortimento di cioccolato di qualità firmato Chocolat Frey – tavolette, palline e truffes –, molti dei quali al momento sono offerti ad un prezzo particolarmente vantaggioso.

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Consiglio

Affinché i saluti «cioccolatosi» arrivino intatti a destinazione, dovrebbero essere protetti dalle alte temperature. Il polistirolo (sagex), per esempio, isola bene e può essere utilizzato più volte. Anche della carta da imballaggio stropicciata è isolante. Chi invia del cioccolato in paesi più caldi, per evitare che sia esposto troppo a lungo al calore, dovrebbe considerare l’invio espresso. Infine, informarsi sulle norme doganali del paese di destinazione e preparare il pacco di conseguenza.


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Ambiente e Benessere

Il ricordo della panzanella Ho sempre amato i piatti ricchi e complessi. Non che non mi piaccia, che dire, un (meraviglioso) filetto di Angus Beef del Nebraska cotto alla griglia o una (meravigliosa) aragosta della Sardegna lessata – anche se poi mi concentro su quali e come sono le salse di accompagnamento. Però mi piace da un lato cucinare piatti ricchi di ingredienti e dall’altro scoprire come uno chef lavora: cosa che nei piatti semplici, basati sull’eccellenza della materia prima e basta, non si vede.

Gli ingredienti di questa insalata? Pane secco, pomodori, cipollotti e cipolle rosse, basilico, sedano e cetriolo Poi, come in tutte le regole, ci sono le eccezioni. Esistono infatti dei piatti «perfetti» dove la bontà è basata su ingredienti semplici straordinari. Non che siano tantissimi questi piatti, ma esistono. Uno di questi è la panzanella. Semplice e perfetta, forse è la più grande delle preparazioni a base di pane avanzato. Quindi un ingrediente dominate, come il pane, che più magico non si può: trovarne uno buono è una cosa di grande difficoltà. L’origine è toscana, senza alcun dubbio, sicuramente antica, ultra popolare e semplicissima: stava nell’uso di bagnare il pane vecchio e rinsecchito per renderlo molle e mescolarlo alle verdure. Il Boccaccio parla di un «pan lavato» e un’altra testimonianza della panzanella è nelle rime cinquecentesche del Bronzino: «Chi vuol trapassar sopra le stelle, en’tinga il pane e mangia a tirapelle, un’insalata di cipolle trite, colla porcellana e i citriuoli»… Da piccolo ne ho mangiati quintali. I miei avevano una casa a ridosso della spiaggia di Marina di Campo,

all’Isola d’Elba, dove ho passato le mie vacanze estive in un’epoca eroica, quando era difficile da raggiungere, quando c’erano pochi turisti: un sogno. La cucina della casa, la seguiva la signora Elis, factotum estiva, nata, cresciuta e sempre rimasta a Marina di Campo. A pranzo il piatto standard era una panzanella, fatta a volte col pane a volte con le classiche gallette da marinaio. Le verdure erano del suo orto. D’accordo, forse non sono del tutto obbiettivo, ma quel ricordo è uno dei più forti ricordi di cibo della mia vita. Poi, post Elba, quando le vacanze sono diventate viaggi in giro per il mondo, passai anni senza più mangiarla, un po’ per il ricordo un po’ per caso, molto perché è un piatto spaventosamente difficile da preparare, data la difficoltà di trovare le materie prime adeguate. A Milano, a casa, non l’ho mai fatta. Quando, ma avviene solo in Toscana, la incontro di nuovo, festeggio. Anche se ovviamente quella della Elis era la migliore. E veniamo dunque alla ricetta (gli ingredienti sono per quattro persone). Cercate il pane più buono possibile e fatelo seccare a temperatura ambiente. Per i pomodori, idem: ma ricordate di non metterli mai in frigorifero e di farli maturare a temperatura ambiente fino a quando saranno dolci e morbidi. Tagliate a pezzi 300 g di pane secco, ammollatelo in acqua fredda e strizzatelo. Tagliate a dadini 6 pomodori maturi. Mondate e affettate 2 cipolle rosse, anche i cipollotti vanno bene. Mondate e spezzettate con le mani le foglie di 1 mazzetto di basilico. Mondate 2 gambi di sedano con foglie e tagliateli a julienne. Tagliate a fette 1 cetriolo, sciacquatelo, asciugatelo e tagliatelo a julienne. Raccogliete tutti gli ingredienti in un’insalatiera e unite un cucchiaino di semi di finocchio. Condite con un’emulsione di 4 cucchiai di olio, 4 cucchiai di aceto non troppo forte, sale e pepe appena macinato. Mescolate e lasciate insaporire per circa 1 ora al fresco.

CSF (come si fa)

pixabay.com

Allan Bay

mealmakeovermoms

Gastronomia Semplice e perfetta, forse è la più grande delle preparazioni a base di pane avanzato

Vediamo come si fanno tre ricette a base dell’amato stoccafisso. Stoccafisso alla ligure (ingredienti per 4 persone). Preparate 600 g di stoccafisso già ammollato e cuocetelo per 2 ore. Scolatelo e spezzettatelo. Mettetelo in una casseruola e mescolatelo con 400 g di patate sbucciate e tagliate a dadi. Coprite a filo di brodo vegetale o acqua e lasciate sobbollire fino a quando il pesce e le patate saranno

teneri e tutta l’acqua sarà stata assorbita. Tritate 1 spicchio d’aglio con un mazzo di prezzemolo, lavato e asciugato, e pestate 10 gherigli di noce fino a ridurli in polvere. Aggiungete questo trito al pesce, mescolate bene, Regolate di sale e di pepe, irrorate con poco olio e servite. Stoccafisso brand de cujun. (Per 4 persone). È una tradizione ligure, il nome, molto immaginifico sembra essere una liberissima del francese brandade (che è un’emulsione di baccalà). Lessate per 2 ore 600 g di stoccafisso già ammollato. Unite 4 patate intere e sbucciate, cuocete per 30’. Nel frattempo, tritate finemente 2 spicchi di aglio e una manciata di prezzemolo, che andrete ad amalgamare con 1 bicchiere scarso di olio. Scolate lo stoccafisso, pulitelo e spezzettatelo, quindi taglia-

te a fette le patate. Condite infine con l’olio aromatizzato e servite lo stoccafisso sia caldo sia freddo. Stoccafisso alla livornese. (Per 4 persone). In una casseruola con un filo di olio, cuocete 400 g di cipolle affettate per 10’, 300 g di dadolata di pomodori e un pezzetto di peperoncino. Regolate di sale e di pepe e unite 600 g di stoccafisso già ammollato e pulito, tagliato a pezzi piuttosto grandi e cosparso con la buccia grattugiata di mezzo limone. Cuocete per 1 ora e 30’, unendo poca acqua bollente quando necessario. Unite 5 patate sbucciate e tagliate a pezzi e proseguite la cottura a fuoco basso per circa 30’, mescolando di tanto in tanto. Versate infine 1 bicchierino di vino liquoroso, cuocete per altri 10’ e lasciate riposare al caldo per 5’ prima di servire il pesce.

Ballando coi gusti Oggi due gustose preparazioni a base di pesce. Veramente, più facili non si può.

Cernia alle olive

Pagelli ai porri

Ingredienti per 4 persone: 4 grossi filetti di cernia · 30 olive nere denocciolate · 2 pomodori · capperi sotto sale · 2 spicchi di aglio · 1 foglia di alloro · 1 peperoncino piccante fresco · prezzemolo · vino bianco · olio di oliva · sale

Ingredienti per 4 persone: 4 pagelli medi · uva passa · 2 porri · 1 carota · vino

Lavate e asciugate i filetti; salateli leggermente fuori, quindi metteteli in una teglia da forno unta di olio. Arricchite con i pomodori tagliati a cubetti, le olive (se volete tritatele, altrimenti divise a metà o intere), una manciatina di capperi dissalati, l’alloro e il peperoncino tagliato a filetti. Bagnate il tutto con il vino e unite con un filo di olio e un pizzico di sale. Cuocete in forno a 180° per 20 minuti o poco più. Sfornate i filetti, disponeteli sui piatti di servizio, irrorateli con il fondo di cottura e servite.

bianco secco · brodo di pesce · 1 foglia di alloro · uva passa olio di oliva · sale e pepe

Pulite, lavate i pagelli. Metteteli in un tegame con 1 bicchiere di vino, o porri (meno la parte verde) tagliati sottili, la carota tagliata sottile, l’alloro, qualche grano di pepe e sale. Portate a bollore e cuocete a bassa temperatura per 20 minuti, unendo poco brodo se necessario. Levate i pagelli, teneteli in caldo. Eliminate l’alloro, frullate il fondo di cottura, rimettete al fuoco, fate addensare, legate con poco olio e unite 1 manciata di uva ammollata, scolata e strizzata. Regolate di sale. Irrorate i pagelli con la salsa calda e servite.


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Idee e acquisti per la settimana

L’autunno arriva in un batter d’occhio

Nella frenesia della vita quotidiana è talvolta difficile godersi le stagioni. Le nuove pietanze a base di zucca di Anna’s Best offrono l’opportunità di deliziarsi con i piaceri dell’autunno senza grandi fatiche È sufficiente riscaldarli e sono pronti: tanto è facile la preparazione di questi due nuovi menu autunnali di Anna’s Best, gustosi e di stagione e per questo perfetti nei momenti in cui il tempo a disposizione è poco. Lo sminuzzato di pollo in salsa ai funghi porcini con

purea di zucca e il quinotto di verdure con zucca e mais portano in tavola i gusti dell’autunno. E siccome la loro preparazione è rapida e pratica, resta il tempo per fare una bella passeggiata, circondati dagli smaglianti colori delle foglie autunnali.

Per un aroma profumato

Per conferire uno stuzzicante aroma, spargere alcune foglioline fresche di timo sulla purea di zucca.


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Per un aspetto fresco

Per ottenere una accattivante combinazione, tagliare a strisce sottili alcune foglie fresche di cicorino rosso, mescolare con un condimento composto da olio, aceto, sale e pepe, infine disporre sul quinotto.

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Ambiente e Benessere

Enotria, «terra del vino»

Bacco Giramondo La viticoltura in Calabria vanta sistemi di coltivazione molteplici, segno di un comparto

viticolo in forte evoluzione Davide Comoli Per la sua particolare collocazione geografica, la Calabria è circondata dal mare per gran parte del perimetro: il Mar Tirreno e lo Ionio ne bagnano le coste, che salgono rapidamente in altitudine e plasmano un territorio in gran parte collinoso e montuoso. Il massiccio del Pollino, situato in prevalenza in Basilicata, giunge fino in territorio calabrese, che annovera anche l’Aspromonte, l’Altopiano della Sila e la Catena Costiera. Il vigneto calabrese si estende per circa 11’500 ettari, dove i vitigni a bacca nera rappresentano circa il 75% della produzione. Sotto l’aspetto ampelografico la viticoltura della Calabria si presenta estremamente ricca di varietà locali e tradizionali: questo patrimonio, considerato spesso una risorsa secondaria, oggi è oggetto di attenzioni da parte dei produttori, spesso realtà di piccola e media estensione viticola. Il clima calabrese è molto diverso tra i versanti ionico e quello tirrenico; si passa velocemente scendendo verso le coste, dal clima continentale con le sue importanti escursioni termiche, a un clima mediterraneo, dove lo scirocco e la tramontana spirano tra secolari alberi di ulivo, cedro e bergamotto, che crescono in mezzo a vestigia millenarie. La collina e la pianura asciutta sono il palcoscenico ideale per la viticoltura, qui i terreni vanno dal medio impasto e tendenzialmente sciolto al

tipo calcareo/argilloso, presente soprattutto nelle aree collinari della zona ionica. In generale prevalgono varietà a frutto nero,: questo si traduce in una predominanza di produzione dei vini rossi sui bianchi. Il vitigno principe è il Gaglioppo, seguito dal Magliocco, la Marsigliana Nera, il Nerello Mascalese, la Prunesta, il Sangiovese e l’Alicante, oltre ai soliti Merlot, Syrah e Cabernet. In numero minore sono le curiosità bianche, il Greco di Bianco, il Montonico, il Guardavalle e il Pecorello Bianco, con interferenze esterne come il Sauvignon e lo Chardonnay. Anche i sistemi di allevamento sono molteplici, segno di un comparto viticolo in forte evoluzione: non troviamo più quindi il solo sistema ad alberello basso. Abitata anticamente da genti di stirpe ligure-iberica, la Calabria fu successivamente sede di una fiorente civiltà originata dalla migrazione greca che vi si diresse a partire dal VIII sec. a.C. Il principe arcade Enòtro fu il fondatore (secondo Pausania) di Enotria, la prima colonia greca sulla sponda italiana dello Ionio. In seguito a questi avvenimenti, i Greci chiamarono la penisola italiana con il nome di Enotria «terra di vino». Difatti nella mitologia greca le Oinotrope (dal greco Oinótropoi), erano tre sorelle, Spermo «seme», Oino «vino» e Elais «ulivo», cui Dioniso aveva dato il potere di trasformare l’acqua in vino. I vini calabresi vantano dunque un illustre passato. Il Cirò, i vini di Crotone e quelli di Capo Rizzuto, giunsero al

massimo della celebrità quando vennero offerti come dono a coloro che si erano distinti nelle competizioni dei giochi di Olimpia. I ricchi ateniesi, oltre al già citato Cirò, prediligevano molto i vini della terra calabra che all’epoca prendevano il nome dei luoghi in cui erano prodotti come il Sibaris, il Cosentia, il Regium e il Tempsa. Oscurati dai vini laziali e campani, i vini calabri ebbero un rinnovato periodo fortunato fra il Medioevo e il tardo Rinascimento. Essendo di alta gradazione grazie al clima e resistenti ai viaggi, venivano imbarcati a Tropea e inviati a Livorno, Genova, Barcellona, Valencia, ma soprattutto nei porti del nord Europa, come Londra e Bruges, dove deliziavano le mense dei nobili e ricchi mercanti. Complessi fattori storici e geografici hanno poi ostacolato in passato l’armonico sviluppo della vitivinicoltura calabrese. Da fanalino di coda qual era una ventina di anni or sono, però, oggi la vitivinicoltura di questa regione, grazie agli studi illuminati sul patrimonio ampelografico locale di alcuni produttori, ha cambiato volto ai vitigni della tradizione vinificati in purezza, assistiamo all’impiego di vitigni internazionali che, usati insieme alle uve locali, danno vini molto accattivanti, da bere con la cucina prevalente di terra, insaporita dalla dolce cipolla rossa di Tropea e dalla piccantezza del peperoncino. Appena lasciata la Basilicata scendendo lo stivale e oltrepassato il Mas-

Grappoli di Gaglioppo, uno dei più importanti vitigni autoctoni a bacca rossa della Calabria. (Fabio Ingrosso)

siccio del Pollino, troviamo la zona di produzione più estesa della Calabria: siamo nel Cosentino, dove la viticoltura ha in parte recuperato le fasce collinari. La D.O.C. Terre di Cosenza, raggruppa sette sottozone: qui ultimamente è stato rivalutato un vecchio vitigno locale, il Magliocco; generalmente vinificato in purezza, regala vini dal grande potenziale evolutivo, grazie al suo corpo, morbidezza e tannicità, ottimo con un filetto di manzo scottato con cipolle rosse caramellate. In questa zona troviamo pure nella Valle dell’Esaro e sulle colline di Crati, vini rossi leggeri e rosati, ma anche freschi e profumati vini bianchi, prodotti con il Greco di Bianco e la Guarnaccia, da bere giovani. Lungo il corso del Savuto confine naturale tra le province di Cosenza e Lamezia, l’Arvino (così viene chiamato il Magliocco dolce), affiancato dal Gaglioppo e il Greco Nero, regala vini dal colore rubino intenso, con sfumature viola che al naso ricordano arbusti mediterranei ed erbe aromatiche, ideale per arrosti importanti e formaggi stagionati. E prima di lasciare le terre Cosentine, fate un salto nel villaggio di Saracena, dove con il Moscatello appassito e mosto ridotto di Guarnaccia e Malvasia, vi sarà possibile leccarvi i baffi con il poco celebre Passito, da abbinare alla locale torta di noci. In provincia di Crotone sul versante ionico della regione, entriamo nel regno del Gaglioppo (l’antico Kremisi). Le rese più basse e le nuove tecnologie hanno fatto dei vini di Cirò un prodotto più facile da bere. Ottimi i rossi se abbinati allo spezzatino con patate e piselli; da non sottovalutare anche i rosati prodotti dallo stesso vitigno, da bere con pomodori, zucchine, melanzane ripiene. In provincia di Reggio Calabria, nella D.O.C. Bivongi, i «blend» ottenuti da uve locali come la Nocera e il Greco Nero con vitigni internazionali, donano vini che danno il meglio dopo qualche anno d’affinamento. È comunque la Locride la terra dei vini rari: dai declivi dell’Aspromonte che scendono verso lo Ionio, troviamo il vitigno Montonico, che ci regala vini dolci. Ma è il Greco Bianco di Bianco, che sa dare un vino dolce quasi introvabile. I pochi grappoli appassiscono al sole e regalano vini amabili dal profumo di zagara, bergamotto, albicocca e miele. Grande vino per la frutta secca e dolcetti di mandorla e fichi, vera gemma (antica) dell’enologia.

Scelto per voi

Molina

È soprattutto grazie al favonio, che i vini prodotti nella Bündner Rheintal raggiungono un livello qualitativo molto alto, come ad esempio il vino che oggi vi proponiamo: il Molina, prodotto dalla storica cantina Cottinelli a Malans (Grigioni). Questo è un vino particolare, ottenuto da uve che crescono in luoghi privilegiati, vendemmiate con una vendemmia tardiva e fermentate separatamente. I nuovi vitigni di Cabernet Cubin, Cabernet Dorio, Cabernet Dorsa, Diolinoir, Gamaret, Merlot, Regent e Zweigelt, saranno elevate in barriques (in parte nuove) per 15 mesi. Questo assemblaggio, di cui la «maison» è particolarmente fiera, si presenta con un colore rubino intenso; frutti rossi come ribes, mirtilli, more, con un sottofondo di spezie, portano al naso profumi del bosco, caldo, dai tannini morbidi. Il Molina è un vino molto equilibrato e armonico, il finale è lungo e chiude con potenza un’avvolgente nota fruttata. Lo consigliamo vivamente con i piatti stagionali di cacciagione. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 29.50 Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Il primo impegno per un’adozione

Mondoanimale Informarsi e conoscere per una maggior consapevolezza è la base fondamentale prima di comperare

e soprattutto adottare un cane

Maria Grazia Buletti «A prima vista, l’adozione di un cane può sembrare un atto di buona volontà e generosità assolutamente condivisibili. Non dimentichiamo che i cani offerti in adozione (in particolare se trovatelli di origine sconosciuta), per quanto possano apparire innocui o bisognosi di affetto è possibile celino gravi problematiche. Innanzitutto, cani con un passato di maltrattamento presentano molto sovente dei problemi di comportamento che li rendono difficilmente gestibili e, in taluni casi, addirittura pericolosi. Ancora più importante: cani dal passato o dall’origine sconosciuti possono essere affetti da malattie varie (fra cui la più pericolosa è la rabbia) o da altre malattie trasmissibili alle persone». Secondo l’Ufficio del veterinario cantonale, comprare o adottare a scatola chiusa non è quindi la migliore soluzione. Non lo è nemmeno affidarsi all’emozione di una fotografia di un cane che si trova chissà dove, in chissà quale nazione o paese: le raccomandazioni sull’adozione di un amico a quattro zampe sono chiare e invitano sempre alla riflessione, alla prudenza, alla coscienza, a un ventaglio di valutazioni che abbracciano pure la salute e, da ultimo ma non ultimo, alla consapevolezza che non si tratta di una cosa, di un pacco, di un gioco, perché parliamo pur sempre di adottare un essere vivente che dovrebbe stare con noi almeno un decennio o poco più. Sulla salute, ad esempio, ci si sofferma sulla rabbia, una malattia virale trasmissibile all’uomo della quale oggi conosciamo più il nome che il signifi-

cato e la vera portata: «Tutti gli animali domestici e selvatici ne possono essere colpiti, mentre la trasmissione all’uomo avviene attraverso il morso e la contaminazione di ferite o di piccole lesioni cutanee con la saliva di animali infetti». Il perché della puntualizzazione su questa specifica malattia risiede nel fatto che la Svizzera, dal 1998-1999, è un paese esente da rabbia: «Oggi il rischio maggiore di introduzione è causato dall’importazione illegale di cani o altri animali da compagnia da paesi a rischio». Dunque, la rabbia è diffusa a livello mondiale in quasi tutti i continenti e questo fa ben comprendere l’invito dell’USAV e del Cantone all’estrema prudenza nell’importare un cane (ma pure gatti, furetti e altri animali) da paesi esteri, con la raccomandazione di osservare scrupolosamente le prescrizioni vigenti per non incappare nel rischio di introdurre nuovamente la rabbia nel nostro Paese. Non sono solo i canali ufficiali, come l’Ufficio federale della sicurezza alimentare e veterinaria (Usav) e l’Ufficio del veterinario cantonale, a riportare queste indicazioni da prendere in seria considerazione prima di fare qualche passo avventato, ingenuo o sconsiderato (magari dettato semplicemente dal cuore) verso l’adozione o l’acquisto di un cane. È recente la messa online di un sito locale molto interessante: www. mondocaneticino.ch che desidera raggruppare una serie di informazioni per coloro i quali si avvicinano proprio al mondo canino. «L’idea è nata dal fatto che non esisteva nel nostro Cantone una fonte di informazioni attinenti ai cani e consultabili su un’unica piat-

Jeanette Ruedi, appassionata di cani e co-amministratrice del sito www.mondocaneticino.ch

taforma», racconta l’amministratrice Jeanette Ruedi da noi raggiunta che, insieme alla sua omologa Paola Müller ha ideato, approntato e gestisce questo portale. «Tutte le informazioni contenute ruotano attorno al mondo dei cani, sono per i cani e vogliono essere d’aiuto ai proprietari», spiega la nostra interlocutrice che ne elenca alcune informazioni essenziali, nello specifico su acquisti e adozioni, confermando la serietà dei criteri di verifica di ciascuna informazione prima di essere riportata sul sito: «Buonsenso e lunga esperienza, anche e soprattutto sul campo, ci permettono di offrire un servizio che si rifà pure alla legislazione vigente, in modo che chi cerca qualcosa, chi desidera ri-

volgersi a un servizio, chi programma un acquisto o un’adozione, può trovare indicazioni verificate, serie e certe, ivi compresi gli obblighi legali che vincolano qualsiasi passo». Su adozioni e acquisti è categorica: «Ci si può trovare dinanzi a un allevatore serio, o a fabbriche di cuccioli». Con la miriade di associazioni che si occupano di cani e di cuccioli vale lo stesso discorso: «Ve ne sono di quelle serie e certificate, e c’è chi vi lucra senza pietà. Bisogna fare attenzione e soprattutto bisogna andare a visitare la struttura prescelta, conoscere le persone che ci lavorano e conoscere il cane personalmente, non fidandosi delle fotografie che girano un po’ ovunque e che fanno leva sul

buon cuore e sulla compassione. Prima di intraprendere qualsiasi passo bisogna inoltre conoscere le norme legali che regolano l’acquisto, l’importazione e l’adozione di un cane». Sulle verifiche delle informazioni riportate da www.mondocaneticino. ch Jeanette è categorica e ribadisce: «Per ciò che riguarda la voce Adozioni e Acquisto, che ricorda le più elementari regole di adozione, verifichiamo la serietà dell’allevatore e quella dell’Associazione, ribadendo l’importanza di conoscere l’animale prima di portarlo a casa. Ciò significa andare a trovarlo qualche volta in precedenza ed è a tutto vantaggio del benessere dell’animale stesso e della persona adottante: chi vuole adottare deve imperativamente conoscere!». Conoscere significa pure consapevolezza ed essere informati sulle norme legali cantonali vigenti in materia di cani: «In Ticino, in base all’Articolo 14 della legge sui cani, è prevista ad esempio una lista di razze la cui detenzione è soggetta all’obbligo di autorizzazione». Tutto confermato dall’Ufficio del veterinario cantonale che ne ricorda inoltre gli esami da superare insieme, conduttore e cane, e l’obbligo di conduzione individuale dei cani adulti appartenenti a queste razze nei luoghi accessibili al pubblico. Perché la compagnia di un amico a quattro zampe sia un’esperienza gratificante e bella per entrambi, non bisogna mai dimenticare tutte queste indicazioni che, in definitiva, chiedono «solo» di non comprare mai a scatola chiusa, di informarsi adeguatamente e di accogliere un cane con tutti i crismi e la dignità che merita.

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Cosa mettono sulle mani gli arrampicatori e perché? Trova le risposte risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 9 - 3, 10, 2, 5)

ORIZZONTALI 1. Vino dolce liquoroso 6. Fu amata da Vasco de Gama 7. Preposizione 9. Essenza cosmica nella filosofia cinese 10. Leandro morì per raggiungerla 11. Precedono la «T» 12. Prodi 13. Un anagramma di presa 17. Composto derivato dall’ammoniaca 18. Comodità 19. Lievi soffi 20. Pronome dimostrativo 21. Verbo per agricoltori 23. Le iniziali del cantante Ramazzotti 24. Le iniziali della Parietti 25. Il Montecchi di Shakespeare 27. Imposte indirette 28. Prendono per la gola

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

VERTICALI 1. Copricapo vescovile 2. Anatra latina 3. L’attore Gullotta 4. Le iniziali dell’attore Siani 5. Uccelli d’acqua 8. È auspicabile ammazzarla 10. Arrossamento della cute 12. Nobile musulmano 13. Concordia sociale 14. Fuga di Maometto dalla Mecca a Medina 15. Scorre... perfido 16. Suona se manca una... 17. Arredo del camino 19. Diede i natali al Petrarca (Sigla) 21. Operaie pungenti 22. Legge francese 24. Le iniziali dello scrittore Camilleri 26. Le iniziali del giornalista Mentana Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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Soluzione della settimana precedente

CONOSCERE I PIPISTRELLI – I pipistrelli non camminano perché hanno… Resto della frase: … GLI ARTI INFERIORI TROPPO CORTI

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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 ottobre 2020 • N. 41

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Politica e Economia Casa Bianca: primo dibattito Il duello in tv fra Trump e lo sfidante Biden ho toccato i livelli più bassi del confronto politico pagina 29

Venti di guerra nel Caucaso Quella che poteva sembrare l’ennesima schermaglia locale fra azeri e armeni, sta assumendo le sembianze di una guerra su vasta scala attirando potenze regionali e internazionali con interessi militari ed energetici

Quanto costa la quarantena Le disposizioni di chiusura per chi rientra da viaggi all’estero hanno impatto sul Pil nazionale

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I repubblicani prendono le distanze Trump contestato Per due volte in pochi

giorni il Partito rompe con il proprio leader condannando la sua ambiguità sui suprematisti bianchi e il suo rifiuto di dire che accetterà in modo pacifico l’esito del voto

Daniele Raineri Il primo dibattito in tv fra il presidente americano Donald Trump e il suo sfidante democratico Joe Biden è stato un caos inguardabile, senza argomentazioni e senza spiegazioni sui prossimi quattro anni degli Stati Uniti, fatto soltanto di interruzioni continue. Su twitter circola questa definizione: è stato come vedere un denial of system attack, che sarebbe uno di quegli attacchi informatici nei quali gli hacker bombardano di richieste un sito fino a quando quello cede sotto il peso dei segnali e collassa. Soltanto che in quel caso a cedere eravamo tutti noi che avremmo voluto guardare il dibattito. È una definizione efficace. Dal caos del dibattito però è venuto fuori un passaggio molto significativo, quando per l’ennesima volta Trump si è trovato a dover rispondere a una domanda sui suprematisti bianchi. Come si sa il presidente è accusato di corteggiare la destra estrema, quel vasto assortimento di gruppi e gruppuscoli fascistoidi che tra le altre cose predica il ritorno alle leggi razziali – erano in vigore nel sud del paese fino agli anni Settanta – e vorrebbe imporre con forza il dominio dei bianchi sul resto delle tante etnie che popolano gli Stati Uniti. Trump non ha mai fatto molto per sbarazzarsi di quelle accuse. Dopo gli scontri a Charlottesville del 2017, dove un razzista appartenente a un gruppo della alt-right si lanciò in macchina contro alcuni manifestanti e uccise una donna, disse che c’era «brava gente» in entrambi gli schieramenti e la cosa fece saltare i nervi a molti. Del resto lo stesso slogan «Make America Great Again» può essere let-

to come un’allusione ai tempi in cui la superiorità dei bianchi americani era indiscussa e stabilita dalla legge. Così, quando hanno chiesto a Trump di condannare i suprematisti bianchi, lui ha svicolato e ha chiesto «Quali?». Quando gli hanno detto, a mo’ di esempio, i Proud Boys, ha dato la risposta che è diventata il tema della nottata: «Ai Proud Boys dico: state fermi e tenetevi pronti». I Proud Boys sono una delle fazioni più celebri di quel vasto assortimento di gruppi menzionato prima, coinvolta in molti disordini, particolarmente abile nella propaganda e con un certo gusto per le parate appariscenti. Mercoledì uno di loro è stato arrestato a Portland, in Oregon, perché aveva puntato un’arma da fuoco contro una manifestazione. Ora, ci sono tanti modi in cui un presidente degli Stati Uniti può prendere le distanze da un gruppo di picchiatori di destra, ma dire «state fermi e tenetevi pronti» non è tra quelli. «Stand down and stand by» sono verbi che si usano in ambito militare. Un comandante che sta dando ordini ai suoi uomini può dire «stand down» e «stand by», non un politico (immaginarsi se Biden avesse detto che i black bloc devono «tenersi pronti» cosa sarebbe successo). Com’era lecito aspettarsi, la serata è diventata un trionfo sui social media per i Proud Boys, che hanno subito aggiunto al loro logo le parole «Stand down – Stand by», come se si sentissero investiti del nuovo ruolo di guardia pretoriana di Trump. E ieri sul loro sito c’era già la maglietta con il motto «Standing by», in vendita a trenta dollari. Tanto più che questi gruppuscoli vivono nel mito di una formidabile resa dei conti che un

«Make America Great Again» può essere letto come un’allusione ai tempi in cui la superiorità dei bianchi era indiscussa. (AFP)

giorno verrà, quando finalmente potranno coprirsi di gloria e punire in modi orrendi i loro avversari. Sui loro forum non fanno altro che parlare di questo scontro futuro, che alcuni chiamano «the day of rope», espressione molto lugubre che letteralmente vuol dire «il giorno della corda» e si riferisce alla corda per impiccare i neri. Sentir dire al presidente «tenetevi pronti» è stata una legittimazione dei loro sogni e molto probabilmente farà arrivare loro molte nuove reclute. Che dovranno sottomettersi alle regole bizzarre previste dai loro riti d’iniziazione, come non mastubarsi più di una volta al mese, farsi fare un tatuaggio e partecipare a una rissa. «Vi dirò: qualcuno deve fare qualcosa riguardo gli antifa e la sinistra», ha aggiunto Trump. In pratica un’investitura, in vista di altre manifestazioni e proteste contro il presidente. Il giorno

dopo il dibattito molti nel Partito repubblicano hanno preso le distanze dall’uscita di Trump, perché temono che allontani molti elettori del centro – e a novembre non ci sono soltanto le elezioni per il presidente, si vota anche per il Senato. È la seconda volta in due settimane che il Partito rompe con il proprio leader. La settimana scorsa l’aveva fatto per condannare l’ambiguità di Trump, che rifiuta di dire che accetterà in modo pacifico l’esito del voto. È straniante anche doverlo scrivere, ma ormai da un mese negli Stati Uniti si dibatte sulla possibilità che in caso di sconfitta Trump – nell’intermezzo temporale tra il voto del 4 novembre e il giuramento del 20 gennaio – non conceda la vittoria a Biden, dichiari il voto illegittimo e resti al potere. È fantapolitica e gli basterebbe smentire questa ipotesi con poche parole – ma non lo fa. Il perno di questa strategia del caos,

temono molti analisti, sarà contestare in modo esasperato tutte le votazioni stato per stato e resistere alle proteste che verranno. Ci sono molte chance che questa volta le elezioni presidenziali siano molto più caotiche che nel passato e che il vincitore non sarà dichiarato entro poche ore, come avveniva di solito. È possibile che tra ritardi e malfunzionamenti che molti già mettono in conto (basta considerare che una percentuale record di americani voterà per posta) il nome del nuovo presidente degli Stati Uniti sarà dichiarato soltanto dopo molti giorni di incertezza e che ci saranno molte polemiche. E il caos prevedibile fin da adesso si lega al fatto che Trump strizza l’occhio alle milizie. In quel contesto teso, con la possibilità che ci siano enormi manifestazioni contro il presidente, qualche trumpiano che abbia voglia di menare le mani potrebbe diventare utile.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 ottobre 2020 • N. 41

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Politica e Economia

Un dibattito da brivido

Trump-Biden Il primo confronto fra il presidente in carica e lo sfidante democratico si è trasformato in un gioco

al massacro. Scontro aperto anche sulla nomina del giudice alla Corte suprema Amy Coney Barrett Federico Rampini Visto l’orrendo spettacolo del primo duello televisivo fra Donald Trump e Joe Biden, in campo democratico è circolata un’idea estrema: cancellare gli altri due. Un gesto per delegittimare il presidente e negargli altre occasioni per quel genere di «wrestling». Probabilmente non se ne farà nulla perché i democratici devono valutare il rischio che Trump dileggi Biden come un vile pusillanime. Quell’idea però la dice lunga sul clima infernale di quest’ultimo mese (scarso) della campagna. Trump ha scelto la strategia della rissa nella speranza di rimontare nei sondaggi. Ha trasformato il duello tv in un gioco al massacro. Si è comportato come chi non ha più nulla da perdere. Il primo incontro diretto fra il presidente e Joe Biden è stato uno spettacolo penoso. Caotico, rissoso, a base di attacchi personali e perfino di insulti. Una gara a chi urla più forte (e ce n’è uno che urlava sempre più forte). Uno scontro a base di disprezzo, delegittimazione, scherno. Lo sfidante democratico ha definito Trump «un pagliaccio» e «il peggior presidente che l’America abbia mai avuto». Trump ha detto dell’ex senatore ed ex vicepresidente di Barack Obama che «non ha mai fatto niente in 47 anni». Si fatica a ricordare chi ha dato del bugiardo e chi dello stupido all’altro. La più antica liberaldemocrazia della storia, quella che un tempo soleva chiamarsi «la guida del mondo libero», è in una delle fasi tristi della sua storia. L’unica conseguenza positiva per il campo democratico da una serata così avvilente: poiché Trump ha spesso fatto allusioni pesanti alla presunta senilità di Biden, il 77enne ha sfoderato aggressività, è stato più energico delle aspettative. Ma nella gara dei decibel, della prepotenza, dell’interruzione aggressiva, Trump ha vinto e Biden forse ha sbagliato a tentare di competere sullo stesso terreno. Il duello è apparso talmente sguaiato, che la stessa commissione bipartisan incaricata di organizzarlo ha annunciato di dover rivedere le regole per i prossimi, se ci saranno. I sondaggi assegnano una vittoria ai punti al candidato democratico, ma hanno scarso significato. Nel 2016 assegnavano tutti i match ai punti a Hillary Clinton. L’unica consolazione dopo uno spettacolo così deprimente è sapere che sposta pochi voti, ammesso che ne sposti. Forse non aveva alternative, ma Biden ha scelto di dimenticare il consiglio che diede quattro anni fa Michelle Obama: «Quando loro scendono in basso, dobbiamo volare alto» (traduzione elegante di un antico detto americano: «Non metterti a lottare con un maiale, perché finirete tutt’e due nel fango, ma lui ci trova gusto»). È sconcertante che il presidente sia così poco presidenziale ma nessuno più si stupisce che Trump sia Trump. Di certo fa campagna come un outsider, in svantaggio e quindi costretto a usare le mine anti-uomo proibite dalle convenzioni. Sui contenuti politici della sfida

Dopo questo duello così sguaiato si dovranno rivedere le regole per i prossimi, se ci saranno. (AFP)

c’è poco da dire: Biden ha denunciato la pessima gestione della pandemia da parte del governo, Trump lo ha accusato di voler strangolare l’economia. Si sono divisi secondo linee di demarcazione prevedibili sul cambiamento climatico e sul razzismo. Trump non ha fatto nulla per placare i timori sulla sua indisponibilità ad accettare una sconfitta. Ai suoi elettori ha raccomandato di «rimanere vigilanti sui brogli». Questo alimenta l’ansia su quel che accadrà dalla sera del 3 novembre in poi, tanto più se l’attesa per milioni di schede spedite per posta dovesse protrarsi molto. È lecito temere un’elezione contestata, con un presidente che disconosce milioni di voti, cerca di invalidarli con ricorsi legali a raffica, magari sperando di risalire fino alla Corte suprema; e col rischio che la contesa scaldi le piazze. Sposterà dei voti cruciali la rivelazione sulle tasse di Trump? In undici degli ultimi diciotto anni non ne ha pagate. Nel 2016 e nel 2017, se l’è cavata con 750 dollari per l’anno intero. Lo scoop sulle tasse del presidente è del «New York Times». «Fake news!» accusa il presidente. Il dossier del quotidiano è dettagliato, ha fonti autorevoli, tra queste con ogni probabilità la magistratura e l’Internal Revenue Service (Irs, l’Agenzia federale delle Entrate), dove procede un’indagine fiscale il cui esito potrebbe essere rovinoso per le finanze di Trump. Il contenzioso può costargli 100 milioni. Trump per anni ha pagato tasse consistenti che si è poi fatto restituire integralmente con varie giustificazioni, e su quei maxi-rimborsi sono in corso accertamenti e contestazioni. Ma saranno gli elettori a pronunciarsi prima che quella vertenza col fisco arrivi a conclusione. È l’impatto sul voto, la questione più immediata. Le carte del «New York Times» fanno luce

su un mistero su cui i media si arrovellano dal 2016. Durante la campagna 2016 i democratici e i media tentarono di inchiodare Trump, sottolineando come lui sia il primo candidato dai tempi di Richard Nixon a rifiutarsi di pubblicare le dichiarazioni dei redditi. Nel 2016 i sospetti puntavano in due direzioni: o Trump voleva nascondere di pagare poco o nulla al fisco; oppure di essere sull’orlo del fallimento. O infine una combinazione di tutt’e due. Le carte del «New York Times» sembrano avallare la terza ipotesi. Dietro i maxi-rimborsi richiesti e ottenuti dal fisco ci sarebbe una situazione debitoria pesante, al limite della sostenibilità: 420 milioni di debiti in scadenza. Già quattro anni fa circolava l’idea che lui avesse lanciato la propria candidatura per salvarsi da una situazione finanziaria fragile, usando una passerella di visibilità per rilanciare il proprio marchio e magari creare un suo network televisivo. In gioco c’è un elemento chiave della sua credibilità: lui si è sempre presentato agli elettori come un brillante imprenditore, l’immagine non regge se è sommerso dai debiti e incassa rimborsi d’imposte fino ad azzerare ogni tributo. Perché credere che sarà capace di guarire l’America dalla recessione? L’unico terreno sul quale ancora riscuote una leggera maggioranza di consensi è il governo dell’economia. Il partito democratico ha realizzato uno spot televisivo in cui paragona l’assegno da 750 dollari – la tassa annua pagata dal presidente – al carico fiscale che grava sull’americano medio, operaio o middle class. Alla gara per la Casa Bianca ora se ne aggiunge un’altra: la corsa al cronometro per nominare la nuova giudice costituzionale, in una Corte suprema

che potrebbe a sua volta scegliere il futuro presidente. Donald Trump ha puntato su Amy Coney Barrett: 48 anni, cattolica conservatrice del profondo Sud (Louisiana), sette figli, telegenica e brillante. La maggioranza repubblicana al Senato deve riuscire in un exploit, ratificare la nomina del presidente in tempi record: potrebbe cominciare le audizioni dopo il 10 ottobre. Se i repubblicani fanno quadrato attorno a lei, hanno una maggioranza 53 a 47 che garantisce la nomina. Se la Barrett occupa il seggio rimasto vacante dopo la morte della decana Ruth Bader Ginsburg, femminista e molto progressista, il massimo tribunale americano avrà una maggioranza ancor più spostata a destra: sei giudici repubblicani contro tre democratici. È uno squilibrio che potrà rivelarsi determinante per intervenire su temi importanti come la politica dell’immigrazione, la riforma sanitaria, o perfino rimettere in discussione l’aborto. Ancora prima, questa Corte suprema potrebbe essere chiamata a dirimere l’elezione stessa del presidente. Una guerriglia di ricorsi sui conteggi delle schede, dai tribunali locali potrebbe risalire fino alla magistratura costituzionale. È proprio la nuova nomina quella che può «blindare» una superiorità insormontabile della destra. La competenza della Barrett viene riconosciuta dagli avversari. Però il suo orientamento ideologico è chiaro. Appena laureata si formò come assistente di Antonin Scalia, il giudice costituzionale ultra-conservatore scomparso nel 2016. Lei è anti-abortista, difende il diritto alle armi, ha preso posizione in favore di alcuni provvedimenti anti-immigrazione di Trump. Prima ancora di mettere sotto esame la Barrett, il fuoco di sbarramento dei democratici solleva una questione

di principio: gli elettori stanno per decidere chi sarà presidente degli Stati Uniti, bisogna aspettare il loro verdetto, e lasciare che sia il nuovo capo dell’esecutivo a esercitare una prerogativa così delicata come la nomina alla Corte. Fu con questo argomento, ricorda la sinistra, che nel 2016 i repubblicani bloccarono una nomina di Barack Obama quando mancavano ben nove mesi al voto. La destra ribalta il suo precedente del 2016 con la forza dei voti: chi ha la maggioranza prevale e riscrive le regole. I due campi devono valutare l’impatto che questo scontro sulla Corte avrà sugli elettori. L’elettorato repubblicano può compattarsi; la base religiosa – cattolici conservatori e protestanti evangelici – ha sempre assegnato un’importanza enorme alle nomine di giudici. Questo spiega perché perfino i repubblicani più ostili a Trump – come il senatore Mitt Romney che votò in favore del suo impeachment – si stanno allineando al «colpo di mano». La sinistra spera che le donne si mobilitino per il diritto all’interruzione di gravidanza. Biden finora tiene un profilo cauto, forse per non rompere con il mondo cattolico a cui è legato. L’ex vicepresidente di Barack Obama ha escluso gli scenari più conflittuali: per esempio la minaccia di alterare la composizione della Corte in caso di vittoria alle legislative. «Pack the Court», imbottire il tribunale di nuove nomine allargando il numero di giudici, fu la soluzione estrema tentata da Franklin Roosevelt di fronte a una Corte conservatrice che gli bocciava le riforme del New Deal. Però quell’assalto fu sventato dal Congresso. Tutto dipende dai rapporti di forze al Congresso dopo il 3 novembre, e lo scontro sulle istituzioni fa salire alle stelle la posta in gioco di quel voto. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 ottobre 2020 • N. 41

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Politica e Economia

Una guerra dimenticata Genesi di un terrorista ma non troppo Nagorno-Karabakh Questa annosa disputa nel Caucaso vede

sempre di più il coinvolgimento di Turchia e Russia

Parigi Ali Hassan voleva colpire ancora

«Charlie Hebdo» per le vignette su Maometto Francesca Marino

Francesca Mannocchi Una disputa territoriale lunga trent’anni nella regione del Caucaso si è riaccesa nelle ultime settimane. La quantità di armi mobilitate e gli interessi degli attori esterni lasciano temere che lo scontro tra Azerbaigian e Armenia sul NagornoKarabakh possa diventare un conflitto esteso, assai diverso dagli scontri a bassa intensità che li hanno visti fronteggiarsi per tre decenni. «Siamo a un passo da una guerra su vasta scala», ha detto Olesya Vartanyan dell’International Crisis Group. Lo scontro tra azeri e armeni è uno dei conflitti più antichi del mondo. Il Nagorno-Karabakh è un territorio montuoso del Caucaso meridionale, la regione è internazionalmente riconosciuta come parte dell’Azerbaigian ma è controllata di fatto da gruppi armeni e cristiani. Si dichiarò indipendente nel 1988 sotto la protezione dell’Armenia. L’autoproclamata indipendenza generò una guerra violenta – dal 1992 al 1994 – costata la vita a trentamila persone, una guerra che ha costretto più di un milione di persone ad abbandonare le proprie case: gli azeri sono fuggiti dall’Armenia e dal Nagorno-Karabakh e gli armeni hanno abbandonato l’Azerbaigian. Ancora oggi la regione del Nagorno-Karabakh si considera stato indipendente, non essendo però riconosciuta da nessun paese al mondo (nemmeno dall’alleato armeno). Nonostante il cessate il fuoco del 1994, con le mediazioni del Gruppo di Minsk dell’Osce, Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Russia, Francia e Stati Uniti), negli anni si sono susseguiti combattimenti periodici, gli ultimi nel 2012 e la guerra di quattro giorni nell’aprile del 2016. Il cessate il fuoco del 1994 non ha risolto il conflitto, non essendo mai stato firmato alcun accordo di pace, l’ha piuttosto congelato lungo il confine, nella zona nota come linea di contatto. L’Azerbaigian ha più volte manifestato l’intenzione di voler riconquistare la regione, e le maggiori potenze coinvolte – in particolare la Russia che vende armi sia agli azeri che all’Armenia – hanno costantemente cercato una negoziazione che evitasse l’escalation militare. Stavolta, però, lo scenario sta assumendo contorni più preoccupanti, il presidente dell’Azerbaigian, Aliyev, e il primo ministro armeno Pashinyan hanno ordinato una mobilitazione dei riservisti, sia alcune aree azere sia l’Armenia e il Nagorno-Karabakh hanno dichiarato la legge marziale, in base alla quale i militari assumono le funzioni del governo civile e entrambi hanno dichiarato la mobilitazione militare totale. Il 29 settembre scorso si è riunito d’emergenza il consiglio di sicurezza dell’Onu, esprimendo sostegno all’appello del Segretario Generale Antonio Guterres di «fermare immediatamente i combattimenti e tornare a negoziati significativi e senza ritardi». Ma quella che poteva sembrare l’ennesima schermaglia all’interno di una guerra locale, sta assumendo le sembianze di una guerra su vasta scala attirando con allarmante vigore potenze regionali e internazionali con interessi militari ed energetici nel Caucaso meridionale. In particolare la Turchia, storicamente alleata con l’Azerbaigian. Dall’inizio dei combattimenti, la settimana scorsa, il presidente Erdogan non ha perso occasione per dichiarare il sostegno a Baku: «L’Armenia ha dimostrato ancora una volta di essere la più grande minaccia alla pace e alla tranquillità nella regione, come sempre, la nazione turca sta con i suoi fratelli azeri

Propaganda militare e chiesa armena in una città dell’enclave del NK. Altre foto di Didier Ruef possono essere viste sul sito www.azione.ch. (Didier Ruef)

con tutti i suoi mezzi» ha detto Erdogan, esortando il mondo a schierarsi con gli azeri nella «battaglia contro l’invasione e la crudeltà» si legge inoltre in un comunicato ufficiale. La strategia turca pare essere la stessa già messa in atto nel nord della Siria e nella recente guerra di Tripoli, secondo il Syrian Observatory for Human Rights, un gruppo di monitoraggio con sede a Londra, la Turchia avrebbe trasferito 300 combattenti mercenari siriani in Azerbaijan. Accusa respinta da turchi e azeri. La Turchia era già scesa in campo due mesi fa, a luglio, dopo le prime schermaglie militari tra azeri e armeni, che anticipavano il conflitto di queste ore, organizzando un training militare terrestre e aereo in Azerbaigan per due settimane. Anche Mosca è impegnata in queste ore in un’esercitazione militare: KavKaz 2020 (Caucaso 2020). Secondo i media russi, l’esercitazione – che si svolgerà nel distretto militare meridionale della Russia, dalla Crimea al Mar Caspio a est – coinvolgerà ottantamila soldati, non solo russi ma provenienti anche da Armenia, Bielorussia, Cina, Iran, Myanmar e Pakistan. Imponente anche il numero di mezzi: 250 carri armati, 500 corazzati da trasporto truppe, 200 pezzi di artiglieria e navi delle marine russa e iraniana. Appare chiaro che nonostante le dichiarazioni ufficiali con cui chiede un cessate il fuoco immediato e colloqui per stabilizzare la situazione, Mosca mandi un chiaro messaggio agli azeri, ovvero che ritenga il Caucaso meridionale sotto la sua naturale sfera di influenza. Perciò mostra e dimostra di avere gli uomini e i mezzi per difenderla. In occasione di KavKaz 2020, 1500 truppe russe e armene si eserciteranno non lontano dal confine con l’Azerbaijan. Luke Coffey, direttore del Douglas and Sarah Allison Center for Foreign Policy, presso l’Heritage Foundation, sottolinea che dopo che la Russia ha rifornito di armi l’Armenia lo scorso luglio, Baku abbia assunto un approccio più duro verso Mosca: «L’Azerbaigian ha anche recentemente negato l’accesso al suo spazio aereo per gli aerei dell’aeronautica russa di ritorno dalla Siria. Questo tipo di rifiuto è qualcosa a cui il Cremlino non è abituato nei suoi consueti rapporti con l’Azerbaigian». La Russia è però in una situazione delicata e particolarmente vulnerabile: vendendo armi a entrambe la parti in conflitto ha, almeno sulla carta, interesse a una soluzione diplomatica, ha in più un accordo di mutua difesa con l’Armenia, sarebbe tenuta cioè a intervenire nel caso l’Armenia venisse attaccata direttamente. Al momento gli scontri sarebbero circoscritti al Nagorno-Karabakh ma il governo armeno sostiene – cercando il supporto militare – di aver ricevuto bombardamenti sul proprio territorio. «Qualsiasi passo russo potrebbe

essere considerato da entrambe le parti come non amichevole e questa è una situazione piuttosto difficile, ecco perché la Russia cerca di avviare un nuovo ciclo di negoziati», ha detto Stanislav Pritchin, ricercatore presso il Center for Central Asia and Caucasus Studies all’Istituto di Studi Orientali di Mosca. Quello che è chiaro è che il conflitto in NagornoKarabakh proietti l’antagonismo tra la Russia e la Turchia in uno scenario simile a quello siriano e libico.Antagonisti, rivali, ma non del tutto nemici. Turchia e Russia hanno infatti, in questi anni, mantenuto rapporti commerciali, stretto accordi sul gas naturale e la Turchia ha acquistato missili antiaerei dalla Russia. Per comprendere a pieno l’interesse delle due grandi potenze nel Caucaso è sufficiente osservare la mappa. A ovest i turchi, a sud l’Iran, a nord la Russia e le riserve di idrocarburi del Caspio che transitano nel Caucaso. Le parole d’ordine, come in numerosi conflitti che vedono protagoniste Russia e Turchia tornano a essere: gas e petrolio. Ed è anche il motivo per cui è allarmata la comunità internazionale: il Nagorno-Karabakh funge da corridoio per gli oleodotti che portano petrolio e gas ai mercati mondiali. È una regione di importanza internazionale, soprattutto negli ultimi 25 anni, per gli oleodotti e i gasdotti che la attraversano; e parte dei disordini deriva da un disimpegno americano. L’Europa ha tutto l’interesse nel tornare protagonista e nell’evitare l’escalation per salvaguardare il fragile equilibrio congelato della guerra del NagornoKarabakh, perché spera che l’Azerbaigan sia in futuro il Paese di transito delle risorse energetiche dall’Asia Centrale direttamente all’Europa. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, l’Azerbaigian ha cercato di esportare il proprio petrolio e gas senza fare affidamento sugli oleodotti russi. Ha attirato investitori occidentali, installando una serie di oleodotti e gasdotti che gli hanno permesso di trasportare la sua energia dal Mar Caspio ai mercati internazionali. Baku è diventata una città più simile alle capitali del Golfo che a una metropoli ex sovietica. E questo è uno dei motivi che hanno attratto investitori turchi negli ultimi decenni e una delle ragioni, dunque, del coinvolgimento di Ankara nel conflitto. Un gasdotto in particolare, completato lo scorso novembre, si estende attraverso la Turchia, e dovrebbe sollevare l’Europa dalla dipendenza dal gas russo. A lungo termine, l’Azerbaigian potrebbe diventare un paese di transito per il trasporto di risorse energetiche dall’Asia centrale all’Europa. Resta solo da capire quanto sia determinato Erdogan a riempire i vuoti di Stati Uniti e Europa e a capitalizzare l’impegno militare, esattamente come ha fatto in Siria e in Libia.

Era un ragazzo gentile, dicono i vicini. Di quelli che aiutano le vecchiette a portare le buste della spesa e passano gran parte del loro tempo da soli in compagnia del loro cellulare. La polizia lo conosceva perché lo aveva fermato un paio di volte in compagnia di un grosso cacciavite e di un coltello. Lo conosceva anche l’ufficio immigrati, che non gli aveva fatto poi tante domande quando era arrivato in Francia dichiarando di essere nato a Islamabad, di essere minorenne e di chiamarsi Ali Hassan. O Hassan Ali, dipende dall’interlocutore e dai giorni. Al ragazzo era in ogni caso stata garantita la protezione umanitaria che d’ufficio si garantisce ai minorenni, così aveva potuto raggiungere i fratelli e i cugini che erano già residenti a Parigi. Nei tre anni passati in Francia, Hassan non ha imparato una parola di francese nonostante si tengano corsi gratuiti di lingua per gli immigrati. E non aveva un occupazione, nonostante, specie per i minorenni, si tengano corsi di orientamento e di avviamento al lavoro. Hassan preferiva vivere di sussidi pubblici e passare il suo tempo sui social media chattando con gli amici in Pakistan. Sui social media ha appreso dell’esistenza delle vignette di «Charlie Hebdo», a causa delle quali era stata massacrata nel 2015 più di metà della redazione del giornale. Sui social media ha ascoltato gli appelli di predicatori e politici contro i kafir, gli infedeli, che oltraggiano i musulmani e la loro religione. Sui social media ha visto le dimostrazioni in Pakistan contro la ripubblicazione delle suddette vignette all’inizio del processo contro alcuni degli assassini del 2015. Ha visto i cartelli che invocavano «morte agli infedeli», «morte alla Francia». Ha ascoltato il ministro degli Esteri pakistano Qureshi sostenere via radio nazionale i dimostranti che invocavano «morte» bruciando bandiere francesi, e ha deciso. Ha preso un machete, ha telefonato al padre dicendogli che «Dio mi ha scelto, mi ha assegnato il compito di ammazzare i blasfemi». Ha registrato un video in cui, tra lacrime di commozione, annuncia la sue decisione di vendicare l’onore del Profeta e di ammazzare i kafir e in cui dedica una qalma (un canto religioso) all’imam integralista Ilyas Qadri. Per inciso, nel video, dichiara per la prima volta la sua identità reale: Zayed Hassan Mahmud di Mandi Bahauddin, nel Punjab pakistano. Poi esce, si reca al vecchio indirizzo di «Charlie Hebdo», che nel frattempo è stato trasferito in una località segreta. Trova due persone che fumano una sigaretta davanti al portone, le attacca a sangue freddo. La polizia lo arresta quasi immediatamente, e più tardi arresta altri sei pakistani per complicità.

L’edizione del giornale con la ripubblicazione delle vignette. (AFP)

Due giorni dopo il padre di Hassan rilascia un’intervista al canale news online Naya Pakistan: «Ho il cuore che straripa di felicità» dichiara. Aggiungendo: «Sono pronto a sacrificare tutti e sei i miei figli per difendere l’onore del Profeta». Dal governo pakistano, non arriva alcun commento ufficiale di condanna per l’accaduto. Eppure, e sono stati in molti a pensarlo, Imran Khan, Qureshi e tutto il governo sono direttamente responsabili per l’accaduto. Sono responsabili di incitamento all’odio, sono responsabili di avere permesso e sostenuto jihadi e assassini comuni che in piazza invocavano la morte di cittadini francesi. Sono responsabili di avere permesso, per l’ennesima volta, che si bruciassero in piazza bandiere di un Paese amico e che si invocasse la decapitazione dei suoi cittadini. Mentre Imran Khan e lo stesso Qureshi accusavano l’occidente di «islamofobia» alle Nazioni Unite, Hassan massacrava due francesi colpevoli soltanto di essere, per l’appunto, francesi. È interessante notare che l’ambasciata pakistana, come da copione, non collabora in alcun modo con gli inquirenti, così come non collabora all’identificazione dei cittadini pakistani che arrivano in Europa senza documenti e dichiarando false generalità. Così come sono interessanti le reazioni a Islamabad e dintorni. La narrativa è questa: «Charlie Hebdo» ha provocato coscientemente il mondo musulmano ripubblicando le vignette incriminate. Quindi, la reazione era prevedibile. Il concetto di secolarismo è, ovviamente, del tutto estraneo ai cittadini della repubblica islamica del Pakistan. Il concetto che in Francia non esistono musulmani o cristiani ma soltanto cittadini, obbligati ad obbedire alle stesse leggi laiche, è difficile da cogliere anche per le menti più illuminate. Il Pakistan domanda rispetto per la propria religione e per la propria cultura, ma non è disposto a garantire lo stesso rispetto: nemmeno ai propri cittadini di religione musulmana, regolarmente massacrati perché sciiti o ahmadya. La blasfemia, la deriva religiosa sempre più integralista e oscurantista del Paese (appena ieri un giudice di Lahore ha sentenziato che una donna ha bisogno del permesso del marito per viaggiare) è un modo, un ottimo modo, per gettare fumo negli occhi della gente e indurla a non occuparsi dei veri problemi. Della ormai totale mancanza di libertà d’espressione, dei cittadini torturati e scomparsi, dell’economia allo sfascio. La blasfemia e la crociata contro i kafir sono, in ultima analisi, la versione in salsa pakistana delle brioche di Marie Antoinette: una regina di Francia, ironia del caso. I generali pakistani, però, farebbero bene a leggere un paio di libri di storia: per capire cosa succede ai governanti quando il popolo si stanca di mangiare brioche.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 ottobre 2020 • N. 41

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Politica e Economia

Affari «in quarantena»

Lockdown Quanto più perdura la pandemia, tanto più l’obbligo di auto-isolamento rischia di compromettere l’economia Persone da Paesi a rischio in quarantena e PIL reale svizzero «immobilizzato» (24.07.2020 – 09.09.2020) 60’000’000

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Durante i lockdown per SARS-CoV-19 si è da più parti sottolineato come ragioni di convenienza economica non potessero essere anteposte a quelle di opportunità sanitaria. Su questo non vi può essere margine di discussione, avendo la salvaguardia della salute individuale e pubblica sempre la priorità. Il protrarsi della pandemia (di commercializzazione di vaccini si parla ancora troppo poco, sebbene come scrivevo in «Azione 30» del 2020, la presente non sia una «nuova normalità» quanto piuttosto solo un’«anormalità» su cui non ci si può adagiare) impone però una riflessione su come meglio conciliare aspetti economici. Ciò nella consapevolezza che: 1) ragioni sanitarie abbiano la priorità e 2) la situazione economica globale del 2020 e di gran parte del 2021 sia ormai compromessa con previsioni (ottimistiche) di decrescita globale da parte del FMI pari ad almeno il –4,9% nell’anno corrente. Se ho già argomentato in «Azione 27» del 2020 che lo smartworking sia stata la vera (ri)scoperta da non accantonare a crisi finita, si sta profilando un nuovo trend che mal si concilia con tentativi di attenuazione del crollo economico: l’imposizione di periodi di quarantena obbligatoria nel passaggio (o rientro) da una nazione ad un’altra. Ha fatto discutere la decisione del Regno Unito di stralciare la Francia dalle nazioni di provenienza esonerate dall’obbligo di auto-isolamento. Per-

tanto, l’arrivo in esso prevede oggigiorno l’impossibilità di abbandonare il luogo di soggiorno (ad esempio, la propria residenza, ma anche l’albergo di permanenza etc.) per 14 giorni, a meno che non si provenga da un elenco di Paesi in costante aggiornamento. Inutile dire che la Francia intenda ora fare altrettanto, approccio che ricorda le misure ritorsive tipiche delle guerre commerciali, ma anche i raffreddamenti nei rapporti geopolitici. Anche in Svizzera la situazione non pare dissimile, avendo il Consiglio federale introdotto dal 6 luglio 2020 l’obbligo di quarantena (indipendentemente dall’effettivo stato di salute) per 10 giorni per chi entri nel territorio da determinate nazioni e regioni a rischio. Se si esaminano i dati (che escludono i passeggeri in transito sul territorio elvetico che abbiano soggiornato in una delle nazioni o regioni a rischio per meno di 24 ore) del 19 agosto 2020, vi erano ben 21’546 persone in quarantena dopo l’entrata in Svizzera. Ipotizzando (per eccesso) che si tratti di individui in età lavorativa ed occupati e considerando che il PIL reale pro capite svizzero corrispondeva nel 2018 a 80’986 CHF1, si sta parlando di circa 47’806’147 CHF2 di PIL svizzero immobilizzato per il periodo complessivo di quarantena. Se per la macroeconomia rossocrociata tale ammontare (ora diminuito per i minori rientri dall’estero) può sembrare relativamente significativo, esso è suscettibile di forti incrementi qualora altri Paesi dovessero essere

24.7.2020

Edoardo Beretta

Persone da Paesi a rischio in quarantena PIL reale svizzero «immobilizzato»

Elaborazione propria sulla base di www.polizeiticker.ch.

inclusi (sebbene si siano recentemente smentiti automatismi una volta sforato dai parametri, correndo così ai ripari dal cul-de-sac in cui l’approccio di cui sopra può sfociare). Inoltre, se è vero che il datore di lavoro continuerebbe a remunerare il lavoratore inviato per motivi professionali in regioni a rischio oppure se fosse possibile praticare il telelavoro, vi sono casistiche (limitate) in cui esiste il diritto a indennità per perdita di guadagno a carico all’AVS. Rimane poi da verificare come regolarsi nel caso che vi siano professionalità non praticabili da remoto.

Utile nel caso svizzero (dove «un risultato negativo del test non esenta dall’obbligo di quarantena e non ne riduce la durata»3) potrebbe essere l’approccio tedesco (ma anche italiano), in base a cui i viaggiatori da luoghi a rischio sono obbligati a sottoporsi a test rapidi. Lo scopo è accelerare il rientro alla normalità lavorativa ed evitare di «quarantenare» migliaia di persone potenzialmente non contagiate. L’obbligo di effettuazione di tampone (cioè di test PCR che individua un’infezione acuta da Coronavirus) presso un laboratorio svizzero – a carico, però,

del viaggiatore al fine di evitare comportamenti di moral hazard, cioè di esposizione ingiustificata al rischio – trasmesso alle autorità sanitarie entro un certo numero di ore dall’arrivo, potrebbe essere una soluzione praticabile e già praticata. Perché qualsiasi forma di quarantena se evitabile è veleno per l’economia. In particolare, quella parte non digitalizzata e più fragile, in quanto il viaggiatore-consumatore sarebbe impossibilitato a lasciare il domicilio. Se sull’(in)opportunità di viaggi non necessari in regioni a rischio si può discutere, tale libera scelta non deve ricadere sulla collettività nel suo complesso. In una situazione mondialmente riconosciuta quale complessa sono piccole gocce: tuttavia, come si dice, «tanti pochi fanno assai». Note

1) http://www.bfs.admin.ch/bfs.de/ home/statistiken/querschnittsthemen/wohlfahrtsmessung/alle-indikatoren/wirtschaft/reales-bip-pro-kopf. assetdetail.9486254.html. 2) Tale stima deriva dal PIL reale pro capite svizzero (2018) giornaliero pari a circa 221,63 CHF. moltiplicato per i 10 giorni di quarantena obbligatoria oltre che per le persone (21.546) sottoposte a tale misura preventiva. 3) http://www.bag.admin.ch/bag/ it/home/krankheiten/ausbruecheepidemien-pandemien/aktuelleausbrueche-epidemien/novel-cov/ empfehlungen-fuer-reisende/quarantaene-einreisende.html. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi In attesa della supermaxibanca Nel corso delle ultime settimane nei corridoi dei palazzi che si affacciano sulla Paradeplatz, che di solito sono silenziosissimi, si sono sentite mille voci sui possibili piani di fusione del presidente del consiglio di amministrazione di UBS, Axel Weber. Dapprima il nostro «gnomo», che prima di arrivare in Svizzera, è stato per anni l’uomo forte della banca nazionale

tedesca, sembrava deciso ad acquistare il Credito svizzero, che continua ad essere la seconda banca per dimensione del nostro paese. Qualche giorno dopo, invece, sembrava aver cambiato strategia perché dirigeva i suoi appetiti verso la Deutsche Bank, una delle grandi banche tedesche. Le voci di corridoio sono, sinora, rimaste tali. Dalle banche interessate non è venuta

Paradeplatz, foto d’archivio.

nessuna informazione che potesse chiarire se le manovre annunciate dai giornali fossero o meno in atto. Non è venuta però nemmeno una smentita, ragione per cui molti addetti ai lavori stanno pensando che qualcosa stia effettivamente bollendo in pentola. Vediamo dapprima di renderci conto della portata di queste possibili fusioni. Le tre banche UBS, Credit Suisse e Deutsche Bank appartengono al Gotha delle banche europee. Nella classifica delle banche europee per importanza degli attivi dello scorso anno la Deutsche Bank figurava al quinto posto con attivi per 1350 miliardi, l’UBS all’undicesimo con attivi per 850 e il Credito svizzero al sedicesimo con 680 miliardi di franchi. Come si vede le banche di cui si sta parlando sono pesci grossi. Dovesse UBS riuscire nel suo intento diventerebbe una delle prime cinque banche in Europa. Se si dovesse fare la fusione con la Deutsche Bank la nuova banca capeggerebbe

addirittura la classifica delle banche europee. Che una fusione tra banche di grosse dimensioni possa essere possibile, di questi tempi, lo provano le notizie che, dall’inizio del mese di settembre vengono dalla Spagna dove sembra che Bankia e Caixa vogliano convolare a nozze per creare una nuova grande banca con 650 miliardi di cifra di bilancio. Più difficile è invece capire perché in piena pandemia la fusione tra giganti del settore bancario possa essere ridiventata un argomento di attualità. Da Paradeplatz, come si è già ricordato, non è venuta finora nessuna spiegazione ufficiale in proposito. Da parte degli specialisti del settore si afferma invece che, attualmente, le banche stanno attraversando un periodo difficile per due ragioni: in primo luogo, perché i tassi di interesse sono bassissimi e non accennano a riprendersi e, in secondo luogo, perché devono fare accantonamenti speciali per compensare le perdite subite durante il

lockdown di questa primavera. Di qui l’esigenza di comprimere i costi che fa diventare attrattiva l’alternativa della fusione. D’altra parte in una situazione di bassi tassi di interesse come è quella attuale, le fusioni rappresentano l’unica possibilità per far crescere la cifra di bilancio e questo anche nel caso delle grandi banche. Le proposte di Axel Weber non sono quindi campate in aria. Il pericolo è che dalle fusioni prospettate – in particolare da quella con la Deutsche Bank –nasca un colosso dai piedi di argilla. Ricordiamo però che, dopo la crisi del 2008, le autorità svizzere si sono dotate di una legge «too big to fail» che è orientata a impedire il fallimento di istituti finanziari quando sono rilevanti per il sistema. La legge prevede regole particolari per la stabilizzazione, il risanamento o la liquidazione che, nel caso specifico, dovrebbero agire da freno nei confronti dei piani di fusione tra banche di grande dimensione.

alcuni principi fondamentali, l’Europa smette di essere generosa. Budapest e Varsavia hanno iniziato a mettersi di traverso, bloccando la cosiddetta «decisione sulle risorse proprie» che serve ad alzare il tetto del bilancio europeo pluriennale (2021-27) creando le garanzie per raccogliere risorse che finanzino il Recovery fund del post Covid. La Germania, che ha la presidenza di turno dell’Ue, ha fatto una proposta di compromesso in cui le condizioni per sospendere i fondi sono meno rigide e viene introdotto un «freno di emergenza» che consente a un paese minacciato di sanzioni di rivolgersi al Consiglio europeo, congelando la sospensione dei fondi. La Germania deve trovare un equilibrio tra i tempi di implementazione del Recovery fund (tempi urgenti) e il rispetto delle regole della convivenza. La sua proposta è stata pensata con questo obiettivo: è stata votata da 18 paesi e bocciata da 9,

due sono Ungheria e Polonia che considerano le misure troppo dure; sette sono i cosiddetti paesi «frugali» che considerano le misure troppo deboli. Quindi di fatto la proposta tedesca non ha funzionato: non c’è un accordo, e si possono utilizzare dei veti che possono sia ritardare il Recovery fund sia allentare la pressione sui paesi che violano lo stato di diritto. Divisioni e debolezze sono, al contrario, l’obiettivo di Orbán, che si sente talmente forte che ha anche chiesto le dimissioni della commissaria europea per Valori e trasparenza e vicepresidente, Vera Jourová, che in un’intervista allo «Spiegel» ha detto: «A Orbán piace dire che sta costruendo una democrazia illiberale. Io direi che sta costruendo una democrazia malata». Budapest ha chiesto le dimissioni direttamente a Ursula von der Leyen che le ha respinte e anzi ha ribadito – assieme ad altri – la propria solida-

rietà alla commissaria. Ma mentre le regole si sfilacciano, mentre l’urgenza economica sembra più importante del rispetto delle regole democratiche, il fatto che Orbán abbia fatto un’azione tanto esplicita rappresenta bene il nuovo rapporto di potere che si sta instaurando tra l’Ue e i suoi stati «ribelli». Le conseguenze non riguardano solo Ungheria e Polonia: se si sgarra e non ci sono conseguenze, altri paesi o leader avranno la tentazione di seguire questo esempio di ostilità. Per quanto possa sembrare strano, viste le continue polemiche sui social e la propaganda, l’unica delusione per Orbán non è venuta dall’Ue ma da Twitter, che ha sospeso l’account del governo di Budapest. La reazione è stata durissima: il portavoce del governo ha detto che anche i «giganti della tecnologia» vogliono farla finita «con le opinioni differenti». A guardarci bene, vale anche per l’Ungheria.

imposti dalle moderne tecnologie, ma riguarda anche la difesa di un’esistenza «normale» (tra virgolette, perché ammetto che la mia normalità possa essere diversa da quella di altri consimili), in particolare di certi valori come la privacy o la sicurezza, evocate quasi ogni giorno perché stanno scomparendo ma che paradossalmente trovano sempre meno difensori. Terzo. Ancora una volta mi spingo a stigmatizzare quella che io ho più volte descritto come tattica ricattatoria, sempre la medesima e anche sempre più penalizzante per le persone anziane e per quegli utenti che alla necessità di poter avere un telefono devono abbinare la difficoltà ad accollarsi altre gabelle mensili. Tattica attuata facendo ricorso ancora una volta allo stesso strumento: l’abolizione del servizio di messaggi (SMS). Era servita per imporre l’acquisto di un cellulare a chi aveva solo il telefono fisso, ora viene usata per obbligare chi ha i 2G a passare nuovi tipi di cellulare (ovviamente «smart», al prezzo di X

centinaia di franchi e con la sottoscrizione di abbonamenti mensile che attenuano il salasso solo in teoria). In realtà gli spostamenti della messaggistica funzionano come una sorta di pesca a strascico che non contempla solo la telefonia: migliaia di «matusa tecnologici» vengono rastrellati, con obblighi e pagamenti sempre più coercitivi agevolati da digitalizzazione e informatica, anche verso il paradiso dei servizi finanziari. Quarto. Figli, nipoti e amici, a cui espongo la vicenda suggeriscono miti consigli e di procedere al cambio di cellulare, preoccupati di futuri problemi di comunicazione più che del mio guerreggiare ormai in retroguardia. Provo a ribadire che la mia non è «opposizione cieca al progresso, ma opposizione al progresso cieco», ma mi accorgo di approdare al donchisciottesco. Saranno comunque parole di Miguel de Cervantes a consolarmi: «Ritirarsi non è scappare, e restare non è un’azione saggia, quando c’è più ragione di temere che di sperare».

Affari Esteri di Paola Peduzzi Viktor Orbán e la Ue ai ferri corti Donald Tusk, presidente del Partito popolare europeo, l’ha ammesso: Fidesz, il partito del primo ministro ungherese Viktor Orbán, non sarà espulso, continuerà a far parte della famiglia, non ci sono i numeri né la volontà politica di mandare via questo parente. Formalmente ora Fidesz è sospeso, la discussione sul da farsi va avanti da molto tempo e l’urgenza iniziale – l’assenza di compatibilità ideologica, l’introduzione di misure considerate illiberali in Ungheria, le procedure aperte sulla violazione dell’articolo 7 sul rispetto dello stato di diritto – è andata via via evaporando, lasciando spazio ad altre emergenze e a una certa rassegnazione. Tusk, che è l’ex presidente del Consiglio europeo e leader di un partito polacco liberale, è stato per molto tempo rigido sulla questione Orbán e anche da quando ha preso la guida del Ppe ha voluto più volte ribadire che una soluzione di questo scontro era necessaria, e

rivelatrice. Ma nonostante il gruppo di saggi istituito per decidere, nonostante le tante accuse interne ai popolari e le molte indiscrezioni uscite sui rapporti tremendi tra il premier ungherese e i suoi colleghi, Orbán ha vinto la sua battaglia. Non se ne farà nulla, può restare dove sta. Anzi, potrà addirittura prendersi il lusso di essere lui a dire: insieme a voi non ci sto più. Questa è soltanto l’ultima delle vittorie di Orbán. Ne ha ottenuta un’altra in questi stessi giorni, molto più importante: ha ricattato l’Unione europea e l’Unione europea si è lasciata ricattare, e ha fatto concessioni. L’Ungheria, assieme alla Polonia, ha bloccato il meccanismo che era stato introdotto a luglio nel negoziato europeo sui fondi da stanziare per il post Covid: di fatto si voleva vincolare l’erogazione di soldi al rispetto delle regole dello stato di diritto, secondo una logica semplice che prevede che se non si rispettano

Zig-Zag di Ovidio Biffi «Smart» i cellulari e chi li controlla Squilla il cellulare. Cosa strana, visto che il numero è noto al massimo a dieci persone consapevoli che lo usiamo soprattutto per... caricarne le batterie (ormai introvabili: c’è ancora un sito su internet per acquistarle, con recapiti solo in Italia!). Usiamo una «prepagata» Budget di 60 fr. iniziali e dopo oltre 10 anni, senza altri versamenti, grazie a bonus in voga qualche anno fa e nonostante telefonate di arrivi e partenze in decine di città estere (anche dalla Thailandia), oggi sul conto abbiamo ancora 47 franchetti. Inutile dire che è un modello antico, di quelli che non ne costruiscono più. Lo squillo era per un SMS che ci comunicava che a fine anno il nostro cellulare non sarà più abilitato a ricevere e spedire... SMS, cioè messaggi. Scontato l’invito a voler approfittare di un nuovo e più performante modello. Roba normale, direte. Ma a poche primavere dagli 80, certi obblighi pesano come macigni, soprattutto quando comportano l’uso di nuove tecnologie. Di conseguenza squillo e messaggio di ultimatum

suggeriscono anche alcune considerazioni. Primo. L’etimo di «cellulare» deriva da «cellula» che in latino significa cameretta, scompartimento. Basta questo riferimento per correre subito con la mente al carcere, o quantomeno al controllo. L’enciclopedia Treccani dice che «cellula» si usa ormai solo nelle costruzioni navali, per indicare «ognuno dei piccoli scompartimenti nei quali è diviso il doppio fondo delle navi a scafo metallico, per ripartire l’acqua di zavorra e altri carichi liquidi, e per limitare l’estensione dell’allagamento interno in caso di falla d’acqua». Immaginando il cervello umano come scafo di milioni o miliardi di «imbarcazioni», non è difficile approdare a liquidi o zavorre digitali «ripartiti» da miliardi di cellulari per agevolare usi e controlli più o meno leciti. Quello che in altri paesi viene definito «smartphone», cioè uno strumento di comunicazione intelligente, proprio per la sua struttura cellulare può tramutarsi in strumento di controllo: non esiste

ostacolo se chi ha in mano le leve delle scelte (o esegue ordini o costrizioni aziendali, politici o criminali) decide di controllare quanto oggi le moderne tecnologie consentono. Un esercizio assai pericoloso se potrà continuare a beneficiare, oltre che della sudditanza psicologica della stragrande maggioranza degli utenti, anche dell’avallo quasi automatico di sistemi politici e istituzioni «bisognosi» di controlli e sorveglianza che solitamente riguardano rispetto di leggi, concorrenza commerciale, misure di sicurezza eccetera, ma che possono arrivare a perseguire interessi diversi da quelli pubblici. Secondo. Come in tanti altri casi, la colpa finisce per ricadere su chi, pensando al futuro e alla necessità di non perdere contatti, invece di comportarsi da utente simile a migliaia di altri concittadini, resiste e si impegna perché sull’altare del progresso non vengano sacrificate anche esperienze e certezze del passato. È una responsabilità che non pratico solo per i cambiamenti


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Idee e acquisti per la settimana

«Solo una mascherina che è comoda da indossare è anche sicura»

Quando in tempo di pandemia bocca e naso devono quotidianamente rimanere coperti, molti optano per una mascherina in tessuto, spesso per motivi legati alla sostenibilità. Ma quanto protegge in realtà una mascherina in tessuto? A cosa bisogna prestare attenzione quando la si acquista? E come la si lava? A queste domande risponde l’esperta Nathalie Moravetz Intervista: Silvia Schütz

Nathalie Moravetz è responsabile di laboratorio per il settore prodotti non alimentari presso lo Swiss Quality Testing Services (SQTS) di Migros, dove vengono tra l’altro testate le mascherine di tessuto.

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Nathalie Moravetz, le mascherine in tessuto proteggono altrettanto efficacemente di quelle chirurgiche o FFP?

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Le cosiddette Community Mask, vale a dire le mascherine in tessuto, possono avere un certo effetto protettivo. Costituiscono una barriera fisica e, se indossate correttamente e realizzate con i materiali adeguati, riducono la diffusione delle gocce più grandi, denominate aerosol. In generale riceviamo mascherine in tessuto di ottima qualità, realizzate con materiali innovativi e conformi sotto tutti i punti di vista alle raccomandazioni della Swiss National Covid-19 Science Task Force*. È molto probabile che le mascherine FFP certificate offrano una protezione superiore rispetto a quelle in tessuto, mentre quelle chirurgiche monouso siano più

igieniche nel loro uso quotidiano, dal momento che dopo l’utilizzo possono essere gettate. A cosa bisogna prestare attenzione quando si acquista una mascherina in tessuto?

Dovrebbero essere rispettare le raccomandazioni della Task Force. In aggiunta agli aspetti legati alla sicurezza, è necessario trovare una mascherina che risulti comoda da indossare e che sia adatta per noi. Perché alla fine solo una mascherina che è comoda da indossare è anche sicura. Non è invece ottimale dal punto di vista igienico quando una mascherina deve essere continuamente toccata per essere risistemata sul viso. Come si indossa correttamente una mascherina?

Deve essere indossata in modo che copra bocca e naso. Se portata sotto il mento non serve a nulla. Se non si copre il naso, tanto vale non utilizzarla. Non è inoltre consigliato portare la stessa mascherina per più giorni. Le mani devono essere lavate o disinfettate prima di indossarla e quando la si toglie è poi necessario rispettare le norme igieniche. Migros dispone di un proprio laboratorio chiamato Swiss Quality Testing Services, in breve STQS, dove lei lavora in qualità di responsabile di reparto. Di cosa vi occupate esattamente?

Delle mascherine testiamo il grado di protezione dagli spruzzi d’acqua e verifichiamo quanto bene si riesce a respirare. Infine l’aspetto più importante: verifichiamo la capacità di ritenzione


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delle particelle, che dovrebbe essere di almeno il 70 per cento. Laviamo inoltre dieci volte le mascherine ed effettuiamo un test relativo al comfort nell’indossarla. Attribuiamo un marchio STQS alle Community Mask da noi testate e che sono risultate conformi ai requisiti. Come riconoscere una mascherina in tessuto sicura?

Come consumatore mi assicurerei che la mascherina in tessuto sia stata testata. Ci sono mascherine monostrato in materiali speciali che soddisfano tutti i requisiti; ci sono tuttavia anche mascherine dotate di filtri che non sono altrettanto valide perché non possono essere lavate e si restringono. Ciò dipende soprattutto dalla composizione dei materiali. Le mascherine possono essere testate nel nostro laboratorio. È

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consigliabile acquistare le mascherine in tessuto da un rivenditore di cui si ha fiducia. Come lavare una mascherina in tessuto?

Quando è stata indossata a lungo o se si è inumidita con la respirazione, la mascherina andrebbe sostituita e quindi lavata con del detersivo ad almeno 60 gradi. Ci sono anche speciali modelli in tessuto per i quali valgono particolari indicazioni di lavaggio. Occorre inoltre tenere conto del numero massimo di cicli di lavaggio possibili. Si sconsiglia inoltre di stirarle a caldo, poiché il virus si elimina in modo più sicuro grazie alla combinazione di calore e tensioattivi del detersivo. Il lavaggio a secco è infine sconsigliato, poiché i prodotti chimici utilizzati verrebbero poi inalati.

* Swiss National Covid-19 Science Task Force consiglia le autorità nell’ambito dell’attuale crisi legata al Covid-19. Offre una consulenza scientifica indipendente e informa il pubblico in merito alle scoperte più attuali.

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** Queste mascherine sono testate da STQS e sono conformi alle raccomandazioni della Swiss National Covid-19 Science Task Force.


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Cultura e Spettacoli Arte in mostra Paolo Mazzuchelli e Renzo Ferrari illuminano l’autunno espositivo ticinese con due imperdibili mostre

Federico il Grande L’USI di Lugano ha organizzato una giornata per sondare il rapporto di Fellini con la letteratura

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Una mucca leggendaria 50 anni or sono usciva Atom Heart Mother, disco dei Pink Floyd destinato a divenire cult

Il ritorno della scena Non solo FIT quest’autunno, ma tutta una serie di iniziative per ridare linfa al settore

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Una balena per riflettere Street art A colloquio con Christian

Rebecchi e Paolo Togni, in arte Nevercrew

Ada Cattaneo Christian Rebecchi e Pablo Togni lavorano insieme sin dagli anni Novanta. Oggi non è insolito scoprire la loro firma – Nevercrew – su alcuni dei dipinti murali che si affacciano sulle strade ticinesi. Ma in realtà anche la loro fama internazionale è consolidata: Russia, Stati Uniti, India, Nuova Zelanda e molti altri paesi ospitano oggi i loro lavori. Forse è proprio il continuo confronto che caratterizza il processo creativo di un duo. Lavorare in coppia può significare la capacità di coltivare un costante e felice dualismo. Nel loro caso, per esempio, la formazione accademica convive con la scelta di dedicarsi a forme d’arte non convenzionali. I loro soggetti, poi, sono scelti per esprimere lo scontro fra natura e artificio, fra uomo e ambiente. Nella Svizzera italiana hanno contribuito molto alla diffusione della street art. Ha certo influito anche il fortunato momento di passaggio in cui l’arte urbana si è trasformata da gesto creativo ai margini della legalità a forma espressiva apprezzata dalla collettività e sempre più inserita nel sistema dell’arte. L’occasione per incontrarli è data dalla presentazione di una loro opera apparsa alcune settimane fa in Viale Stefano Franscini a Lugano. Cominciamo dall’opera che avete appena realizzato a Lugano: cosa racconta?

L’opera realizzata per Arte Urbana Lugano nel contesto di Longlake si intitola Close up. Generalmente preferiamo evitare di spiegare in modo troppo dettagliato il messaggio specifico di ogni nostro lavoro. Da una parte perché riteniamo molto importante l’apporto personale di ognuno nel leggerlo e nel percepirlo e, secondariamente, perché anche per noi, per quanto vi sia una linea concettuale dominante, l’opera non si conclude in una lettura unica. Nel nostro percorso portiamo avanti una riflessione sul rapporto tra uomo e natura in diverse direzioni. Riteniamo che questo rapporto sia emblematico sotto diversi aspetti: c’è ovviamente la crisi ambientale di per sé, che è una tematica fondamentale e un’urgenza che riguarda tutti, conseguenza di politiche di sfruttamento e appropriazione, di una visione globale incentrata princi-

palmente sul guadagno. Ci sono poi tante derivazioni che riguardano l’impostazione della società stessa: i sistemi «artificiali», che l’uomo ha costruito allontanandosi proprio dalla natura e dalla sua natura e che lo portano ad accettare in modo contorto la distruzione della stessa natura di cui fa parte.

Il vostro lavoro ha avuto una forte evoluzione in questi anni. Da dove siete partiti per arrivare al vostro approccio odierno?

Le nostre prime collaborazioni «ufficiali», a metà degli anni Novanta, riguardavano immagini per vinili e mix-tapes di gruppi hip-hop, la cui cultura era allora molto presente nella nostra regione. La cultura dei graffiti ha quindi dato lo stimolo per iniziare a realizzare lavori murali. Il nostro primo stile, dunque, si è formato con le tecniche, le attitudini, i contesti e le superfici del writing, portandoci presto per necessità comunicative all’uso di composizioni orizzontali in cui abbinavamo soggetti e ambientazioni diverse con un approccio vicino al fumetto, tra il grafico, il cartoon ed il tridimensionale, che completavamo con citazioni o frasi di nostra concezione. Con il tempo abbiamo sentito il bisogno di estremizzare maggiormente la fisicità dei soggetti, e abbiamo iniziato a lavorare ancora di più sulla tridimensionalità tramite l’inserimento di effetti «trompe-l’oeil» nelle nostre composizioni, dati dalla pittura di superfici di materiali diversi come la roccia, l’acqua, il ghiaccio, il tessuto, la carta, il metallo, ecc. In questo stesso periodo, per enfatizzare la differenza spaziale, abbiamo iniziato a utilizzare anche la tecnica dello stencil. Avete conseguito una formazione accademica o il vostro percorso è stato da autodidatti?

Tra il 2000 ed il 2005 abbiamo frequentato l’Accademia di Brera a Milano, dove abbiamo avuto modo sia di approfondire diversi aspetti del nostro percorso sia di sperimentare, continuando a dipingere, ma sviluppando maggiormente anche il lavoro scultoreo e su tela. Dal 2009 abbiamo rifinito ulteriormente tutti gli elementi, rafforzando l’interazione con lo spazio fisico e il contesto. Qui si può dire che sia iniziato veramente il percorso concettuale che stiamo portando avanti ancora oggi, tramite la progressiva

Close up, la grande opera luganese dei Nevercrew. (Ti-Press)

definizione di un archivio di elementi e una sorta di «alfabeto» personale. Di questo archivio e alfabeto sono gradualmente entrati a far parte diversi elementi, divenendo ricorrenti, che tuttora usiamo per il valore iconografico e per i contenuti intrinseci che vi riconosciamo. Uno tra questi è ad esempio la balena che, tra le tante cose, è per noi al contempo rappresentativo sia del contesto naturale e ambientale nel suo insieme, sia di quello che è stato, e tuttora è, il suo rapporto con l’uomo e di riflesso il rapporto dell’uomo con la natura.

Come considerate l’istituzionalizzazione della street art?

Sotto il cappello della «street art» esistono davvero migliaia di artisti con approcci, tematiche, ideali e attitudini differenti. Questo da una parte rende più facile il fatto di abbinare la parola «street art» a ogni cosa, ma allo stesso tempo rende anche difficile delimitarla e «intrappolarla» davvero. L’interesse del mercato per gli artisti urbani è

spesso volontà di guadagnare, ma allo stesso tempo è un indicatore della presenza globale dell’arte urbana, della sua potenza comunicativa e di un genuino interesse del pubblico. Questo interesse si traduce poi anche in maggiori opportunità di espressione per gli artisti, maggiore disponibilità dagli enti e, di conseguenza, maggiore approfondimento e maggiore interesse. Nel nostro caso non sentiamo minata la nostra libertà espressiva. Per quanto ci riguarda l’attenzione principale è sul nostro lavoro. Per noi è importante portare avanti il nostro progetto e le nostre tematiche e per questo cerchiamo di lavorare in contesti in cui l’interesse comune è lo stesso e in cui la situazione non vada direttamente in contrasto con i nostri valori artistici e personali. Negli anni abbiamo dovuto rinunciare a tante proposte e ci è anche capitato di interpretare male alcune situazioni, ma allo stesso tempo abbiamo trovato tante persone e tante organizzazioni con cui collaborare

ottimamente e in cui abbiamo trovato stimoli e opportunità per esprimerci pienamente.

Quale ruolo può ricoprire la street art in Ticino? Secondo voi potrebbe avere un influsso positivo sulla scena artistica della Svizzera italiana?

Difficile rispondere. La varietà degli artisti urbani è impossibile da delineare in modo univoco. Quello che possiamo dire è che negli anni abbiamo lavorato in diverse città del mondo in cui la street art si è diffusa molto bene e abbiamo visto come questa partecipi a rafforzare il legame degli abitanti con i luoghi e con l’area urbana. Ogni opera diventa un nuovo punto di riferimento, un elemento affettivo, lo sfondo di scene di vita quotidiana e le persone la vivono e la usano a modo loro. C’è poi la componente dell’ispirazione, che può andare dal semplice piacere visivo o emotivo, fino allo stimolare riflessioni, al far scoprire qualcosa di nuovo sul luogo stesso, e quindi ad accendere pensieri e desideri.


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Cultura e Spettacoli

La tenacia della sperimentazione Mostre/1 Il Museo d’arte della Svizzera italiana dedica una mostra a Paolo Mazzuchelli

Alessia Brughera Non è facile ricondurre la pratica artistica di Paolo Mazzuchelli a un contesto specifico. Certo nelle sue opere si possono trovare molti richiami a diversi movimenti, testimonianza della continua ricerca di stimoli che ha caratterizzato, sin dagli esordi, il suo cammino, ma ciò che emerge chiaramente dal lavoro del pittore ticinese è la capacità di rielaborare in maniera personale le suggestioni provenienti da molteplici ambiti, fuse in un linguaggio plasmato con costanza nel corso dei decenni, in cui, come l’artista stesso afferma «si sono sempre contrapposti periodi di studio e di disciplina a periodi di libertà creativa primigenia». È così che, strada facendo, Mazzuchelli ha nutrito la sua arte raccogliendo e reinterpretando quelle sollecitazioni, visive e intellettuali, che percepiva più affini al proprio sentire. Ecco allora il suo avvicinarsi, soprattutto a inizio percorso, al clima espressionista e alle indagini dell’Informale, il suo occhieggiare l’universo dadaista, mutuandone l’utilizzo della scrittura come preziosa compagna dell’atto creativo, il suo accostarsi allo spirito surrealista, esplorando i territori della psiche e dell’inconscio, e il suo spingersi verso la Performance Art, sorretto da una visione multidisciplinare del proprio lavoro che gli ha permesso di approdare a esiti sempre nuovi. Ed ecco ancora il suo intridere la pittura degli impulsi derivanti dalla musica e dalla letteratura, arricchendo le proprie opere con le sensazioni che le letture di Ibsen, di Brecht, di Kafka, di Strindberg o degli autori della Beat Generation accendevano nella sua mente. A sviluppare la cifra stilistica di Mazzuchelli è stato il confronto con le opere di molti artisti contemporanei, a partire da quei due disegni a carbone di Jean Corty appesi alle pareti di casa che fin da piccolo osservava con interesse, apprezzandone il segno vi-

PAM Paolo Mazzuchelli. Rhinoceros, 1990-1991. (Collezione privata)

goroso di stampo nordico. Negli anni milanesi all’Accademia di Brera, poi, il pittore ticinese scopre maestri quali Chaïm Soutine e Louis Soutter così come il movimento CO.BR.A, gruppo che rappresenta una tappa importante dell’Espressionismo astratto europeo. Fondamentale, inoltre, il lavoro degli artisti che nella metà degli anni Ottanta ha modo di conoscere a Zurigo, come quello degli esponenti dell’Azionismo Viennese Hermann Nitsch e Günter Brus, che tanto influenzerà la produzione di Mazzuchelli dirigendola verso la dimensione performativa. Il cinquantennale percorso creativo di Paolo Mazzuchelli, detto PAM, viene documentato in tutte le sue fasi salienti dalla mostra ospitata fino alla fine di marzo al Museo d’arte della Svizzera italiana a Lugano, una rassegna che pre-

senta al pubblico una nutrita selezione di opere realizzate dagli anni Settanta a oggi. L’allestimento, a cui l’artista stesso ha preso parte, si avvale di un centinaio di lavori (molti dei quali di grande formato) esposti in un itinerario che al criterio cronologico sostituisce quello tematico, andando così a rispecchiare nel modo migliore la traiettoria artistica di Mazzuchelli, da sempre contraddistinta dall’inesausta rivisitazione di soggetti, tecniche e modalità espressive. Non è un caso, infatti, che le peculiarità dell’arte più matura di Mazzuchelli si trovino già nelle opere dei primi anni Ottanta, in cui il segno nero, traccia dell’inconscio e di un’urgenza creativa selvaggia, si accompagna a una gestualità inquieta a cui l’artista affida la capacità di cogliere le ambiguità del reale. Attraverso la pittura, il disegno e l’in-

cisione Mazzuchelli ha dato vita a una produzione all’insegna del progressivo sovrapporsi di elementi e dell’incessante aggiornamento del linguaggio, in un procedere poco lineare che non si evolve per tappe a sé stanti ma per continui ritorni dettati da nuove connessioni e considerazioni. Tra i lavori più significativi esposti a Lugano ci sono Rhinoceros e Lophophora williamsii, due disegni a china di grandi dimensioni realizzati agli inizi degli anni Novanta, periodo in cui Mazzuchelli elabora le sue figurazioni a partire dalle impronte lasciate sul foglio dal corpo umano, impreziosendo poi l’immagine con l’inserimento della scrittura, ad attestare il suo bisogno di comunicare anche con la parola per razionalizzare l’istintività del processo di creazione.

Di particolare interesse è l’opera omaggio a due grandi maestri del passato, Goya e Gauguin, dal titolo Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, datata 2002, una stampa policroma monumentale rappresentativa degli anni in cui l’incisione assume grande rilievo nel percorso dell’artista ticinese, consentendogli tra l’altro di riconquistare il colore. Tanti ancora i lavori in cui si coglie il profondo legame di Mazzuchelli con la natura, rinsaldato nel tempo anche grazie alla frequentazione della Valle Malvaglia e delle Bolle di Magadino, dove il solitario contatto con il mondo vegetale e animale ha permesso al pittore di scoprire quelle forme dell’universo che non ha esitato a trasferire nella sua arte. Nella serie dei Giardini immaginari del 2013, ad esempio, dagli impasti di terra colorata, gesso e cenere nascono piccoli inni al creato e ai suoi aspetti più arcani. A fare eco ai misteri della natura c’è infine l’enigmaticità dell’esistenza umana, altro tema pregnante nell’opera di Mazzuchelli. L’individuo ritorna più volte a essere protagonista della sua ricerca, sottoposto ogni volta a una nuova indagine. Nei lavori più recenti, come ben evidenziato in mostra soprattutto dai disegni che chiudono l’itinerario espositivo, proliferano corpi ammassati l’uno contro l’altro, creature che l’artista accumula sulla superficie obbligandole a torsioni innaturali e trascinandole in dinamismi vorticosi. È con essi che Mazzuchelli, ancora oggi, prosegue la sua tenace riflessione sull’uomo, sempre alla scoperta di «una ragione plausibile alla nostra presenza sulla terra». Dove e quando

PAM Paolo Mazzuchelli. Tra le ciglia. Museo d’arte della Svizzera italiana, Lugano. Fino al 28 marzo 2021. Orari: l’orario di apertura è consultabile direttamente sul sito del Museo. www.masilugano.ch

Il Covid secondo Renzo Ferrari

Mostre/2 La Galleria La Colomba di Viganello ospita le opere che l’artista ticinese ha realizzato durante il lockdown Luciana Caglio S’intitola Corona Diary la mostra che, alla galleria Colomba di Viganello, propone le opere, una sessantina, create, o rivedute, dall’artista durante la clausura. Un’esperienza, però, non subita passivamente. Renzo Ferrari, facendo di necessità virtù, ha saputo ridare vita e significati a un tempo in apparenza fermo, vuoto e silenzioso. Se n’è, insomma, appropriato per restituirlo al pubblico, suo insostituibile interlocutore, attraverso visioni che, proprio adesso, assumono altre dimensioni,

Renzo Ferrari, Pollution, 2020, olio su tela.

anche storiche e morali. Affidandosi al linguaggio dei colori, delle luci, dei tratti forti o sfumati, l’artista lancia un messaggio di conoscenza e consapevolezza. Per dire che paure, sofferenze, rinunce, pestilenze e virus compresi, da sempre appartengono alla condizione umana. Insomma una materia di riflessione non calata dall’alto, anzi a volte venata dall’ironia, che Ferrari ha ricavato captando gli stimoli di una quotidianità diversa. Tutto ciò attraverso un intenso impegno di rielaborazione, di cui ci ha fatto partecipi. Come ci racconta.

Renzo Ferrari, lei ama definirsi un artista che lavora sul filo della cronaca, incuriosito dalla molteplicità di eventi, luoghi, situazioni che la pandemia ha bloccato e uniformato sul piano mondiale. Come ha reagito a questa condizione di isolamento e di privazione?

La cronaca, in realtà, non è bloccata. Certo, il Covid ha avuto la priorità sul piano mediatico mondiale, imponendo poi limitazioni pesanti sul piano privato. Ma l’isolamento ha sviluppato nuove forme di comunicazione, attraverso Facebook e altri messaggi elettronici in cui si coglieva il bisogno di parlarsi e raccontarsi. Ora raccontare è, appunto, il ruolo che spetta alle arti, nelle sue tante espressioni. Una necessità che la solitudine può persino favorire. Si pensi a Emily Dickinson, poetessa volontariamente reclusa. Per quel che mi concerne, ho cercato di ottenere dal «lockdown» una sollecitazione ad approfondire il legame con il passato, rivisitando sia i maestri del Rinascimento sia pittori moderni, per esempio Egon Schiele. La storia, proprio attraverso la pittura, documenta sofferenze e mali più grandi di noi, che hanno segnato ogni epoca. E mi sono reso conto quanto sia presente la figura del diavolo, simbolo d’incessanti minacce, le antiche pestilenze e, per la generazione dei nostri padri e nonni, la «spagnola». La pittura e la letteratura ne offrono chiare testimonianze rendendo visibili le sofferenze.

Questo rapporto fra realtà vissuta e rappresentazione pittorica ha trovato interpreti nell’arte contemporanea: che ne pensa?

Oggi, nel pubblico si avverte un certo disamore per opere a volte indecifrabili. Bisogna, ovviamente, evitare le generalizzazioni. Sta di fatto che l’epoca ha favorito anche la faciloneria. C’è ormai spazio per tutti, anche per chi non conosce le esigenze del mestiere. Qual è, allora, il ruolo della critica?

La critica è utile, stabilisce dei canoni che, ovviamente, cambiano seguendo l’evoluzione dei tempi, dei gusti, del concetto di bellezza. Ai critici si deve molto: Roberto Longhi ha fatto riscoprire il Serodine. D’altro canto, possono rappresentare un potere, una moda di cui l’artista, in cerca di successo, rischia di diventare succube.

A proposito di successo, quanto conta per lei il consenso della critica e del pubblico?

È naturale, e non solo per noi artisti, cercare il successo, e quindi esprimere pubblicamente, con una mostra. Mostra vuol dire mostrarsi! Ma l’essenziale è poter esprimersi. E la pandemia me ne ha offerto un’occasione del tutto insolita. Sul piano personale il Ferrari patito della libertà, attirato da un mondo, senza barriere, esplorato in tanti viaggi, mosso dal piacere per le diversità, come ha affrontato inevitabili rinunce?

Ho avuto il privilegio, rispetto ad altri, di trovare un’arma di difesa nel lavoro: una forma di catarsi liberatoria. Certo, mi mancano i viaggi, anche se, vorrei precisare, non condividevo la smania di andare per andare. Ho molto apprezzato il cambiamento d’ambiente totale, come avviene a New York o a Londra, metropoli da visitare e rivisitare, per capirle e raccontarle. Il contesto urbano, con i suoi simboli, mi affascina. E qui apro una parentesi sul caso di Lugano, città in cui è mancata la sensibilità per conservare. Sono scomparse, e continuano a scomparire, le case borghesi, che avevano un disegno «probo», sostituite da un cemento armato plateale. Con ciò, persino, in pieno lockdown, l’isolamento non ha significato un ripiegamento su sé stessi, il pericolo di cedere all’autocompiacimento. Non lavoro per me stesso: un quadro è fatto per essere guardato dagli altri. Ma altri da tenere distanti, come vuole una regola sanitaria del momento: lei la rispetta?

La rispetto al pari delle altre destinate al bene comune, anche se, come per ogni disposizione ufficiale, c’è il rischio che diventi un esercizio di potere. Dove e quando

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Cultura e Spettacoli

Fellini e gli scrittori

Convegni Si è tenuta a Lugano, sotto gli auspici dell’USI, una giornata di studio dedicata

al centenario del grande regista italiano Alessandro Zanoli Si perdoni il preambolo, che ci pare però opportuno. Ai lettori più giovani sembrerà un fatto impossibile, ma per noi ragazzi degli anni 70 ogni nuovo film di Fellini era un evento importante, pari all’uscita di un disco dei Pink Floyd (si veda l’articolo di Enza Di Santo a p.47) o dell’ultimo libro di Marquez. Il cinema di Fellini faceva parte in quegli anni d’un immaginario visivo ma anche intellettuale, in cui si incastonavano un insieme di conoscenze e informazioni: la riflessione storica e poetica sul passato in Amarcord; il rapporto con la sessualità maschile e il suo immaginario in Casanova; il confronto con le istanze sociali e politiche in Prova d’Orchestra e con quelle femministe nella Città delle donne. C’era poi la polemica con la realtà del mondo dello spettacolo televisivo commerciale ne L’intervista o in Ginger e Fred. Insomma, grazie a Fellini e nonostante il suo modo di raccontare favolistico, enigmatico, si discuteva e ci si orientava sui dibattiti importanti in corso nella quotidianità. Raccontiamo tutto questo perché l’impressione è che nelle giovani generazioni il valore dell’opera felliniana si sia un po’ perso, forse anche a causa di una sua musealizzazione. Nell’epoca del cinema fatto con i supereroi, poi, quella poetica allusiva e raffinata è probabilmente fuori dal gusto comune. Molto bene ha fatto quindi l’Istituto degli studi italiani dell’USI, in colla-

Sulla locandina una frase che Fellini ha attribuito a Leopardi, ma che lui non ha mai detto.

borazione con la Divisione e congressi ed eventi della Città di Lugano, ad organizzare lo scorso 26 settembre un’occasione di riflessione pubblica sull’opera del regista riminese, in un anno che segna il centenario della sua nascita. Il taglio dato alla manifestazione, viste le premesse, cioè gli organizzatori, non poteva che essere principalmente letterario e ha indagato l’opera del Maestro ricercandone i collegamenti, i contatti e le reciproche influenze con il mondo della letteratura. Anche se

Fellini ha spesso dichiarato di considerare come i mondi creativi del film e del libro appartenessero a realtà indipendenti l’una dall’altra, è pur vero che nell’elaborazione del suo cinema erano presenti moltissime suggestioni letterarie. E d’altro canto sono poi numerosi gli scrittori che hanno collaborato con lui nella stesura delle sue sceneggiature, a cominciare da Tonino Guerra, Ennio Flaiano, Pier Paolo Pasolini, Tullio Pinelli, Zanzotto, Cavazzoni. La giornata di studio, insomma,

ha cercato di sondare l’opera di Fellini con una prospezione approfondita in cui gli autori di riferimento principali si sono rivelati Dante e Kafka. Il primo per una caratteristica comune nelle opere felliniane, che vede spesso suoi personaggi inoltrarsi in un mondo «altro», fantasmatico, ultraterreno. Un interesse testimoniato anche da vari testi e interviste e che si ritrova, ad esempio, nel Viaggio di G. Mastorna, film mai realizzato che è una sorta di summa della sua immaginazione visionaria.

Per quanto riguarda Kafka, invece, è stato ricordato come a un certo punto della sua attività Fellini avesse pensato di girare un film dedicato al romanzo America, e come del resto fosse da lui molto sentito il tema del giudizio contenuto nel Processo (pare anzi che le ultime parole raccolte sul suo letto di morte fossero citazioni da quest’opera: «Come può un uomo essere colpevole?»). Di Dante, Kafka e del Mastorna nel corso della mattina si sono occupati con il loro contributo in particolare Corrado Bologna e Valeria Galbiati. Giacomo Jori e Marco Maggi, nella loro indagine, hanno invece toccato ambiti della poesia novecentesca, soffermandosi Jori sul proficuo sodalizio tra il regista riminese e il poeta veneziano Andrea Zanzotto (che ha trovato uno sbocco efficacissimo e di grande forza espressiva nella realizzazione del Casanova); Maggi, partendo da una ricerca approfondita sul concetto di Dolce vita, è riuscito invece a trovare un suggestivo e inatteso collegamento tra il lavoro di Fellini e la poesia di Guido Gozzano e Vittorio Sereni. Prima di concludersi con la proiezione del film La voce della luna, la giornata ha proposto un incontro in cui Maria Cristina Lasagni e Stefano Prandi hanno dialogato con lo scrittore Ermanno Cavazzoni. Un momento particolarmente emozionante, per la possibilità di incontrare un testimone diretto di quel progetto (di cui è stato ispiratore e sceneggiatore) e di quella poetica. Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

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Oltre ai classici cetriolini e cipolline sottaceto, anche funghi, pancetta e prosciutto sono ideali da servire con la raclette. Al posto delle patate da provare sono anche fettine di pane, spätzli, medaglioni di rösti, cavolfiore, broccoli, frittelle di patate o fette di polenta. Resteranno sorpresi anche i più tradizionalisti.

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Cultura e Spettacoli

La mucca e i Pink Floyd

Anniversario 50 anni fa, la pubblicazione di Atom Heart Mother ha riportato la band sulla terra conducendola

verso il prog sinfonico

Enza Di Santo Spaziale e indefinito, sono gli aggettivi che si addicono al rock dei Pink Floyd dopo l’abbandono di Syd Barrett. Incerti tentativi hanno caratterizzato il sound della formazione Gilmour, Walters, Wright e Mason fino al 10 ottobre del 1970, quando, con la pubblicazione del quinto album in studio, lasciano lo space rock e la psichedelia barrettiana, tornano con i piedi per terra e si aprono alle sonorità del progressive sinfonico che cominciava a insediarsi nel panorama musicale. L’uscita di Atom Heart Mother, di sole 5 tracce in 51 minuti circa, ha definito l’impronta distintiva della band britannica, lanciando il disco al primo posto della classifica del Regno Unito. Sebbene i Pink Floyd abbiano rinnegato il valore del «disco della mucca» definendolo «un mucchio di spazzatura» (David Gilmour), i numeri delle vendite dicono il contrario: disco di platino in Italia, d’oro in Austria, Germania, Regno Unito e USA. Per la band, Atom Heart Mother è stato un progetto molto ambizioso, distante e atipico, ma se i 50 anni di questo album possono considerarsi una ricorrenza, va dato merito al compositore scozzese Ron Geesin. Con il suo determinante intervento sulla prima traccia, ha allontanato i Pink Floyd dal dimenticatoio al quale sarebbero stati destinati dopo Ummagumma, quarto album al limite dell’ascoltabilità per alcuni e capolavoro per molti altri, ma che non ha

Una mucca che ormai è un mito.

raggiunto una posizione davvero soddisfacente. Tra il 1969 e il 1970, i Pink Floyd ancora non avevano le idee chiare e neppure sapevano leggere la musica, ad eccezione di Wright, ma volevano arrivare in cima. Gilmour, con la partecipazione di tutto il gruppo, aveva ideato e registrato un riff per fiati, Theme from an Imaginary Western, immaginando una lunga cavalcata ispirandosi a C’era una volta il West di Ennio Morricone. Geesin, per colmare le mancanze di quelle incisioni, districò i nastri dal caos sonoro in cui si trovavano, compose e arrangiò nuove partiture per orchestra e coro di voci. La rifinitura

in 6 movimenti, con tratti calmi e forti, dà vita alla suite di circa 24 minuti che avrebbe occupato l’intero lato A del disco. Registrata all’inizio dell’estate negli studi di Abbay Road con il coinvolgimento del direttore di coro John Alldis e della BBC Pops Orchestra. La lunga title track, presentata il 27 giugno del ’70 al Blues & Progressive Music Festival di Bath, rimane senza un titolo definitivo fino all’esibizione in radio del 16 luglio da John Peel (del quale si è scritto su «Azione» N. 36 del 2 settembre 2019). Per caso, in questa occasione, quella che Geesin chiamava Epic, viene presentata come Atom Heart Mother, per via di un articolo letto da Walters

sull’«Evening Standard», che parlava di una donna incinta alla quale era stato applicato un pacemaker con batteria atomica. Se il lato A di questo 33 giri, è un epico racconto sonoro in cui la maestosità dell’orchestra e l’eleganza delle voci corali incontrano assoli di strumenti elettrici e suoni ambientali, creando una deviazione sul percorso dei Pink Floyd e avvicinandoli a quello che sarà The Dark Side Of The Moon, la facciata B rispetta una certa coerenza con l’album precedente, presentando tre brani scritti interpretati individualmente e una suite breve collettiva. L’arpeggio di chitarra acustica in If di Roger Walters, apre il lato B del disco e si ritrova l’impostazione dell’omonima poesia di Kipling, ma rispetto a quest’ultima, la serie di se di Walters non è il consiglio di un padre a suo figlio, bensì una presa di coscienza, una personale introspezione. Differente, con la sua chiusura elettrica, è la ballata cantata da David Gilmour, che rievoca con una certa malinconia la sua infanzia. In Fat Old Sun si ritrovano temi ricorrenti nella produzione pinkfloydiana, come l’idillio, la fanciullezza e lo scontro con il mondo adulto, ma anche l’utilizzo di suoni ambientali come quello delle campane. Summer ’68 è il contributo pop psichedelico di Richard Wright, che racconta sua esperienza dell’estate del 1968, tra rivoluzioni studentesche e amori fugaci. Alan’s Psychedelic Breakfast, mini-

suite in tre movimenti, è il trait d’union tra il passato rappresentato da Ummagumma (Alan Styles è uno dei due uomini sul retro del disco) e il presente espresso attraverso le novità progsinfoniche. Confusa e apparentemente incompleta, questa colazione psichedelica avrebbe meritato più riguardo: il mix di suoni «trovati», la conclusione barocca e la tastiera di Wright potevano diventare una lunga suite, anziché arrancare verso il termine del solco come un tappabuchi. La madre con il cuore atomico assume il significato di ritorno sulla Terra, intensificato dal periodo storico e dalla copertina, che non riporta né titolo né nomi. Ma cosa simboleggia la mucca? In realtà la fotografia della frisona Lulubelle III al pascolo, non è stata scelta per esprimere il concetto di ritorno alla natura, sebbene l’assonanza in inglese tra terra e cuore lo suggerisca, ma piuttosto è stata un’alternativa inattesa e poco costosa, tra le proposte dallo studio grafico Hipgnosis tra le quali c’era anche il tuffatore utilizzato per I Wish You Were Here. I Pink Floyd non volevano ci fossero legami tra il contenuto e le immagini. Nella sua naturalezza, lo scatto di Storm Thorgerson della mucca, aveva quel carattere geniale, unico e riconoscibile. Fuori dagli schemi rock di quei tempi, è una delle copertine che restano impresse nell’immaginario collettivo, e prova la potenza artistica ed espressiva del progressive rock, che va oltre il microsolco. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

SYN, stimoli inattesi ed elegia della natura In scena Entrato nel vivo anche il FIT, che ha proposto Rame

di Lorena Dozio

Si fa presto a dire codice a barre Fotografia Fino all’8 novembre il Fiore

di Pietra ospita una mostra di Matteo Fieni Giovanni Medolago

Giorgio Thoeni L’arte contemporanea induce sempre più a rivedere molti dei concetti settoriali che spesso ingabbiano una produzione, categorizzandola in definizioni limitanti. Sulle nuove tecniche in relazione alla società di massa già riflettevano Benjamin e Adorno mentre, qualche anno più tardi, Stockhausen trovava spunti composititivi dalle pennellate di Kandinskij. Pensieri, colori e suoni che hanno rivoluzionato la tradizione ponendo le basi per nuovi scenari. Forma e contenuto sono sempre alla ricerca di nuovi traguardi. Lo sanno bene coloro i quali esplorano nuovi linguaggi nella loro dimensione digitale e multimediale, tra video e fotografia. Fra gli esempi recenti si colloca SYN, opera audiovisiva di Roberto Mucchiut reduce da pochi giorni dal suo debutto nella stanza dell’osservazione al Planetario dell’Ideatorio di Cadro, luogo ideale per la conoscenza ma anche per la scoperta. SYN è un viaggio immersivo, un invito per il cervello e i sensi ad accogliere stimoli inaspettati, incompleti o ambigui, come osservando un’opera d’arte astratta. Nell’ambito delle neuroscienze vengono studiati come meccanismi che chiamano al coinvolgimento dello spettatore. Mucchiut, all’attivo di diverse esperienze teatrali, ben conosce questi processi. Gli stessi sui quali ha creato un’architettura di sensazioni attraverso meticolose definizioni tecnologiche e lunghi appostamenti audiovisivi. SYN è un’elegia della natura e degli elementi. Per venti minuti gli spettatori seduti in poltrona, si lasciano guidare dalle immagini e dai suoni come sdraiati sull’erba, fra alberi che vediamo con una visione a 360 gradi, un’immagine schiacciata ai lati come per effetto di un obiettivo fish-eye. La fotografia insegna con le sue metamorfosi e il colore vira sul bianco e nero accompagnato dal respiro accelerato di un time-lapse, battiti di palpebre su note di un pianoforte. Un mi-

Un momento di Rame, spettacolo di Lorena Dozio.

nimalismo che dal verde clorofilliano si amalgama in un groviglio terroso fino a diventare uno sciame d’insetti, pigmenti con cui disegnare emozioni o navigare verso una teatralità intima. Pochi minuti per ripensare alla natura, alla sua bellezza e fragilità. E come nell’occhio di un telescopio, dalla sommità di un passo alpino lo sguardo si proietta infine sopra le nuvole mentre si allontana la piccola sfera colorata del nostro pianeta. SYN riprenderà il 17 ottobre a cadenza mensile fino a giugno. La danza inaugura la 29esima edizione del FIT

Il Festival Internazionale del Teatro è tornato in scena con il debutto di Rame di Lorena Dozio. A conclusione del triennio di residenza al LAC dal quale sono nati spettacoli come Otholites e il solo Dazzle, con Rame la

coreografa e danzatrice chiude un ciclo dedicato al visibile e all’invisibile, alla trasformazione, temi che hanno accompagnato la sua ricerca. Elegante e raffinato, a tratti persino volatile e misterioso, Rame conferma le qualità dell’artista e la sua sensibilità intellettuale con un’ora di sviluppo coreografico dalla dinamica apparentemente semplice ma estremamente elaborata e in un crescendo avvolgente. Fra il barocco musicale di Vivaldi e i suoi richiami elettronici si compongono delicate tessere in un gioco di movimenti in continua costruzione su un grande origami. Lorena Dozio in scena con Daphne Koutsafti e Ana Christina Velasquez hanno ampiamente meritato i ripetuti applausi del numeroso pubblico presente sul palco del LAC. Il FIT prosegue fino all’11 ottobre (fitfestival.ch).

Matteo Fieni nasce nel 1976 a Tremona, ultimo pargolo di una famiglia numerosa (cinque fratelli e una sorella). Ricorda d’aver trascorso un’infanzia piena di scoperte: gli atelier di alcuni artisti, i racconti di formibabili lettori/affabulatori, le Cave di Arzo, la casa di una coppia di fotoreporter. Ce n’era d’avanzo per soddisfare la crescente curiosità di un ragazzo che alla fine sceglie la fotografia quale strumento funzionale per compiere altre scoperte e del quale armarsi per tuffarsi in sempre nuove ricerche. «L’arte secondo me non è decorazione, bensì provocazione. L’arte deve essere irruenza/ prepotenza e contemporaneamente restare semplice ed effimera. Sa incuriosire, deve far immaginare, può far sognare. L’arte è una giornata di sole, è la bellezza della vita! Quindi più riesci a carpirla e maggiormente riesci a illuminare, a comunicare, a trasportare le persone in un’altra dimensione». Così dichiarava dopo essersi aggiudicato lo Swiss Photo Award 2012 grazie al lavoro Good Morning, Lugano. Ormai da qualche anno, la sua attenzione è rivolta al quel «codice a barre» che irrompe quotidianamente nelle nostre vite. Si intitola appunto Barcode la sua mostra, offerta nel Fiore di Pietra sul Monte Generoso. Una serie di immagini stampate su vetro,

realizzate dalla Crystalexe di Rancate e sulle quali Fieni è poi intervenuto per staccarsi dalla mera memèsi di un luogo concreto e preciso (scorci parigini, la Banhofstrasse zurighese) per giungere a una trasfigurazione del codice a barre. Un lavoro che rimanda al concetto di «inconscio ottico» caro a Franco Vaccari e in particolare al volume di quest’ultimo: Le tracce occultate. Storie di codici a barre e di sciamani. Matteo Fieni si è tuttavia spinto ben oltre: la sua ricerca – spiega – parte addirittura da Tito Caio Lucrezio e quella sua versione dell’epicureismo (cara stavolta a Giacomo Leopardi), passa da Dostoevskij (»Ri/ancorare il senso di bellezza») e sfocia nell’ucronia: un nessun tempo che si affianca al nessuno spazio dell’utopia. «C’è un’analogia formale – spiega ancora Fieni – tra i motivi grafici adottati dal barcode e i motivi fotografici che si possono ottenere attraverso un processo meccanico. C’è un costante rimodellamento tra domanda e offerta, un flusso di dati sempre più veloce e dinamico, ciò rende il presente più distante dal reale, ed è impossibile da fermare». Matteo Fieni è viceversa riuscito a fermare nel tempo e nello spazio delle immagini che affascinano, anche per gli accostamenti cromatici e – dulcis in fundo – per quelle tracce d’arcano che le permeano.

Barcode è organizzata con il sostegno del Percento culturale di Migros Ticino.

Essere dentro la letteratura

Narrativa Grovigli e rivoli per una lettura stimolante: il nuovo romanzo di Tommaso Soldini è anche sfida

Yari Bernasconi Ci sono libri più necessari di altri, anche se ogni autore difenderà sempre la propria, personalissima – dunque indiscutibile – necessità. I libri, però, fortunatamente, hanno una vita che va ben al di là di chi li realizza, e rispetto a chi scrive sono quasi sempre più ricchi e profondi. Così, quando un libro combatte, tentando a tutti i costi di muoversi fra le maglie di una realtà e dei suoi abitanti, sgomitando per venirne a galla, sbattendo ripetutamente contro gli spigoli, ebbene: quel libro acquisisce presto una certa indipendenza, comincia a racchiudere non una ma più voci, e diventa forse più necessario di altri. Il romanzo L’inguaribile di Tommaso Soldini, uscito all’inizio dell’anno per Marcos y Marcos, non smette di combattere un solo istante. Ogni pagina è destinata a scontrarsi contro gli strati di un mondo frastagliato e poco prevedibile, costruito sfacciatamente in un futuro vicinissimo (202425) che tanto sa di presente alternativo. E proprio per questo sollecita

Un groviglio di idee e spunti.

– quando non provoca – il lettore, che presto si trova invischiato fra le fitte maglie narrative, costretto a prendere posizione e a fare i conti con la propria coscienza. Inutile girarci intorno, il li-

bro non può lasciare indifferenti: o ci si sporca le mani, o si esce sconfitti. Il protagonista è Michele Incassa, giornalista d’inchiesta dai metodi creativi e apparentemente poco consoni, che viene lasciato dalla moglie Gemma nelle prime pagine del libro, al culmine di una scena vertiginosa ed emblematica: durante la lettura serale alle due figlie, in quel bozzolo d’intimità familiare che sembra inscalfibile, i personaggi raccontati dai genitori diventano degli alter ego per un regolamento di conti definitivo. Incassa – e per tutto il libro non ci si potrà dimenticare che nomina sunt omina, anche a costo di perdere delle lettere per strada, come succede alle iniziali dei luoghi – si trova dunque solo, per motivi che fatica a comprendere o digerire, finché una donna con un cappello rosseggiante entra nello swinger club La Petite Princesse, e lui non può che partire al suo inseguimento. Sotto quel cappello, infatti, sembrerebbe celarsi Gemma («si era fatta riconoscere apposta», secondo lui). Il romanzo si dipana allora in più rivoli narrativi, dalle esperienze oniriche del club

alle avances della collega di lavoro Giorgia, e ancora – soprattutto – alle ricerche giornalistiche su un caso giudiziario legato a tale Roby Ratter, nota personalità con inclinazioni neonaziste che viene arrestato per aver tentato di uccidere un amico dopo averlo truffato per anni. La ricostruzione minuziosamente fantasiosa che Michele Incassa riesce a proporre del «caso Ratter» è forse la più esplicita dimostrazione di come L’inguaribile offra una visione complessa e profonda del paradossale rapporto fra realtà e finzione, o addirittura verità e finzione. Non più bovarismo (e del resto come non riconoscere incastrato nel nome di Gemma anche quello ingombrante della signora Bovary), ma un mondo in cui l’ibridazione fra i diversi piani è già data per acquisita. La finzione non è soltanto nutrimento per la realtà: la finzione è realtà. Come quando, ed è già successo a tutti, ci si accorge «che il cervello, in alcuni magici casi, smette di credersi causa della realtà». Una scommessa naturalmente ambiziosa poiché disturbante, per il lettore e

per gli stessi personaggi del romanzo, eppure specchio di un’esigenza a dir poco stringente, veicolata formalmente da una sarabanda di invenzioni linguistiche e sintattiche, flussi nevrotici di citazioni più o meno dotte, o ancora una serie ossessiva di note a piè di pagina che come rivoli narrativi aprono e a loro volta richiudono altre storie. Un romanzo «inevitabilmente» eccessivo, verrebbe da dire, di una densità stilistica e tematica che ricorda – al di là del riferimento dichiarato a David Foster Wallace – alcune esperienze del cosiddetto «realismo isterico», espressione coniata da James Wood in un saggio sullo splendido Denti bianchi di Zadie Smith. Certo si tratta di un’esperienza immersiva e dalla franchezza cristallina: la letteratura non è un accessorio. Ed essere dentro la letteratura, pur con i suoi rischi e le sue derive, significa essere dentro la vita. Dove e quando

Tommaso Soldini, L’inguaribile, Milano, Marcos Y Marcos, 2020


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Idee e acquisti per la settimana

Pulire i denti proteggendo lo smalto I prodotti per la cura di denti e bocca Candida soddisfano le più recenti scoperte scientifiche. Da 70 anni l’innovativa linea di prodotti Migros per la cura dei denti copre praticamente tutte le esigenze. Ci sono dentifrici per denti particolarmente sensibili, così come quelli per uno sbiancamento delicato. Il coefficiente di abrasività RDA aiuta a trovare il giusto prodotto. La misurazione è standardizzata ed effettuata da un ente indipendente. RDA è l’abbreviazione di Relative

Dentin Abrasion. Con il valore RDA si misura l’abrasività. Per fare ciò un dentifricio viene messo a confronto con un prodotto standard il cui valore è 100. Candida White Diamond è delicato e ha un valore basso, 30, ed è quindi adatto anche per i denti sensibili.

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I dentifrici contengono ingredienti sia duri che morbidi per lo smalto e per le gengive. Per la composizione di un dentifricio è decisivo considerare quali esigenze deve soddisfare. I dentifrici per denti sensibili al dolore contengono un’alta percentuale di ingredienti morbidi, di conseguenza un valore RDA basso. Nel caso di Candida Sensitive è 20, un valore molto basso.

Tartaro e macchie dei denti sono spesso da attribuire al consumo frequente di tè o caffè, o ancora al fumo. Richiedono una pulizia intensiva e specifica. I dentifrici appositamente sviluppati per prevenire la formazione di tartaro hanno un RDA di alto valore, nel caso di Candida Anti Tartaro di 115. Candida Anti Tartaro 75 ml Fr. 3.30

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Il lettore di contatori A proposito dell’esame di maturità. Per chi si diplomava da perito industriale nei primi anni 50 c’erano due strade possibili in attesa del posto sicuro: vendere assicurazioni contro il furto o fare per tre mesi il letturista del gas. La mia carriera di assicuratore è finita quando ho esaurito la cerchia dei parenti che per pietà mi avevano sottoscritto le polizze. Il mio compagno Felice aveva scelto la seconda opzione. Raccomandava agli amici: «Per favore non dite a mia mamma che io vado in giro nelle case a leggere i numeri sui contatori delle centraline del gas, lei crede che io faccio il letturista. Cioè lo faccio veramente ma lei pensa che sia un’altra cosa. Succhia questa parola di cui ignora il significato come se fosse una caramella. È il lavoro giusto per te, dice, da piccolo ti è sempre piaciuto leggere. L’ha subito detto alla vicina e lei: meno male che Felice non deve andare in giro nelle case a prendere i numeri dei contatori del gas. Quelli sono esposti a tutte le tentazioni, bisogna

essere dei santi per non cadere nel peccato. Ha presente la signora Margherita, quella cicciona con i capelli color carota, della tintoria qui di fronte? Quando arriva l’uomo del gas a prendere i numeri, prima lei lo fa entrare poi chiude a chiave la porta sulla quale appende il cartello del torno subito. Torno subito lo dici a tua sorella, brutta maiala porca. Capace che passano anche venti minuti prima che tolga il cartello e faccia uscire il suo ganzo del gas che si sta ancora allacciando i pantaloni. Devo riconoscere che quest’idea che si fa la gente del nostro lavoro è abbastanza diffusa. Mio zio diceva: beato te, chissà quante casalinghe in calore ti porteranno in camera da letto a leggere il loro contatore. Anche i miei amici dell’oratorio la pensano così. Danno il via a una serie di racconti a luci rosse, tutti riportati da uno che li aveva ascoltati da un altro e questo a sua volta da un altro in una catena senza fine. E vai con la casalinga che ti apre la porta in baby doll, ti prende per mano,

ti trascina in camera da letto e inizia a spogliarti. Sono tutte fantasie malate. A me finora non è mai capitato, piuttosto ho trovato delle casalinghe che se arrivo all’ora di pranzo e se sono meridionali, mi costringono a sedere a tavola con loro. Pallido di carnagione come sono e mingherlino è probabile che, come direbbe uno psicologo della mutua, queste mie caratteristiche scatenino in queste matrone l’istinto materno. La prima volta è successo con una famiglia di sardi: sei stato fortunato, oggi abbiamo una specialità che trovi solo da noi, la pecora bollita. L’ha portata ieri nostro nipote dalla Barbagia. Come ha fatto? ho domandato, l’ha portata viva? Si sono messi a ridere, prima l’ha macellata e ha messo i pezzi nella valigia. Non me la sono sentita di dire che tendenzialmente sarei vegetariano. Mi hanno fatto sedere a capotavola e mi hanno servito la parte più pregiata di quella povera bestia, la testa. Mangia per primi gli occhi, mi hanno imposto, sono una

prelibatezza. E poi le guance, la lingua, il cervello. Per giorni e notti ho creduto di sentire provenire dal mio stomaco dei belati di una pecora che chiedeva aiuto. Come sai, sono astemio: potrei avere un po’ d’acqua? Ho chiesto. Ma quale acqua! Mi hanno riempito il bicchiere di Cannonau. A tavola con noi c’era anche Efisio, il vicino di pianerottolo. Anche lui sardo, pratica un simpatico hobby, distilla in casa il mirto, per fabbricare un amaro tipico della sua isola. Ne prepara trentadue tipi diversi, dai vicini ne ha portati solo sei tipi diversi e per non offenderlo ho dovuto assaggiarli tutti. Da quella casa sono uscito barcollando, non giurerei di aver preso i numeri giusti dal contatore di quella casa e di quelli visitati nel pomeriggio. Tornato a casa ho subito informato mia madre: questa sera non ceno, non ho appetito. Apriti cielo! Ecco, io mi sacrifico a prepararti il passato di verdure, la tua bella minestrina e tu preferisci andare in giro a mangiare quelle porcherie di focacce

fritte nell’olio di macchina! Lì per lì mi sono inventato una balla: un collega ha portato in ufficio degli involtini cucinati da sua moglie. Ah, sì, com’erano? Buoni, direi. Com’erano fatti volevo sapere. Mi sono ricordato di averli visti nella vetrina di una gastronomia: avvolti nelle foglie di cavolo c’erano degli impasti di pane olive carciofi pomodori secchi, uova sode. Fatti dare la ricetta dal tuo collega voglio provare a farli. Visto com’è andata, userò anche stasera la medesima scusa devo solo ricordarmi di andare davanti alla vetrina della gastronomia per farmi venire qualche idea. In una famiglia calabrese mi hanno offerto una loro specialità che non avevo mai sentito nominare. La chiamano ’nduja, una pasta di salame crudo e piccante da spalmare sulle fette di pane tostato. Chiamarlo salame non rende l’idea, sarebbe meglio dire una pasta di peperoncino con tracce di salame crudo. Mi sembra ancora di sentir friggere le radici dei miei capelli».

lavoro. E non era vero. E non sarebbe stato vero mai più. A un tratto questa condizione di essere povera le parve solida e definitiva come una gabbia di ferro. Le sbarre si facevano sempre più strette. Salì in casa. Aveva ancora tre ore di tempo per piangere, poi sarebbe tornata a casa la figlia e con i figli bisogna esibire equilibrio, pace e potere d’acquisto. Si era mai resa conto, nel corso della sua infanzia, dei problemi economici della sua famiglia? Eppure non erano certo ricchi. Suo padre era un professore di scuola media e sua madre, dopo il promettente esordio come miss Lombardia, si era ritirata in casa, aveva rifiutato di monetizzare la sua bellezza, per non mettersi contro tre uomini verso cui nutriva un sacrosanto rispetto e una ostinata dipendenza: il padre ispettore di polizia, il fratello poliziotto e campione di karate , il fidanzato, professore di matematica. Pensò che era

inutile telefonarle. Che cosa avrebbe potuto dirle? Non ho concluso niente nella vita? Le avrebbe sentito ripetere : torna a Bergamo. Perché Bergamo era «casa» e Roma, per sua madre, era soltanto una serie ininterrotta di terrazze dove sfavillavano quelli che ce l’avevano fatta e un intrico di corridoi dove arrancavano quelli che aspiravano ad essere invitati sulle terrazze. Certo che le avrebbe dato dei soldi, se glieli avesse chiesti. I suoi piccoli risparmi, frutto di una frugalità nevrotica. Ma poteva chiederglieli? E poi: che cosa avrebbero risolto? Che cosa avevano risolto i 500 euro del signor Von Arnim? Niente, anche se questa sera avrebbe preparato una cena di gala, con il pesce e i funghi. Per lei e per Sara, perché Tom... proprio mentre stava formulando questo pensiero triste, sentì la chiave girare nella toppa. Tom era lì, si era tagliato i capelli, aveva una giacca nuova e le porgeva un mazzo di rose bianche. (Continua)

Quaderno a quadretti di Lidia Ravera Le nuove povertà/11 Prese la busta guardandosi attorno, come se temesse di essere vista mentre faceva qualcosa di illegale. La palpeggiò vergognosa, cercando di immaginare il contenuto, imponendosi di non sperare che ci fossero altre banconote. Era una speranza volgare, che non poteva permettersi. Piena di rimproveri per sé stessa, uscì e si incamminò verso il bar. Sedette fuori, alzò il viso verso il vento fresco, chiuse gli occhi, e sporse il mento, come aspettando un bacio. Poi aprì la busta: c’era un biglietto da visita. Il nome stampato era Paolo Von Arnim, l’indirizzo era Via Giulia 26, 00186 Roma. Non c’era un indirizzo di posta elettronica, né un sito, né una professione o un titolo. In un margine, scritte a mano, poche parole: «Caso mai volesse scrivermi una lettera severa, abito a questo indirizzo». Si sentì smascherata. Provò il registro dell’irritazione: brutto vecchio ficcanaso che ne sai di quello che voglio fare io? Si alzò dal tavolino del bar, abbando-

nando il biglietto da visita sul piattino , fra le briciole del cornetto al miele, per dimostrare a sé stessa che era davvero arrabbiata con il suo benefattore. Naturalmente stava mentendo a sé stessa, il che, come sapeva bene, è assai più rischioso che mentire agli altri. Andò dritta al mercato e comprò proprio dai banchi in cui aveva preso l’abitudine di farsi regalare mazzi di merce sfinita dal sole, alle due di pomeriggio. Fece la spesa alle 10 del mattino, come chi ha i soldi per pagare e fu frizzante e allegra e ricevette i complimenti dei suoi ammiratori con il sorriso distratto delle attrici famose. «Ti hanno presa per un film?», chiese Mimmo, il marocchino del banco del pesce, mentre Betta pagava senza fare un piega tre tranci di spada. « Oh beh, è soltanto una pubblicità», disse, «ma pagano bene». Mimmo le aggiunse mezzo chilo di gamberetti «Questi li offro io per festeggiare». Le rimase in faccia quel sorriso da

beniamina degli dei fino al negozio di alimentari sotto casa. Entrò. C’era il padre, alla cassa, non il figlio che la favoriva sempre. In un altro momento sarebbe uscita precipitosamente in strada per non dover subire i suoi sarcasmi minacciosi, ma in tasca aveva ancora 300 euro, quindi rifilò al vecchio uno sguardo oltraggiato e chiese di pagare il conto, con un tono aggressivo, come se fosse colpa del negozio se aveva accumulato un debito che temeva drammatico. L’uomo incassò i tre biglietti da cento euro senza dire una parola. Il resto erano 3 euro. Betta si avvicinò al banco , guardò le pagnotte , arricciò il naso e uscì dicendo: «Ma quando imparate a fare le baguette? Ci vuole una laurea alla Sorbona?» Aveva voglia di piangere. Non le restava più niente. Ed era stata così cretina da dire al pescivendolo che aveva trovato un

A video spento di Aldo Grasso Elogio del televisore, grande vittima della televisione Qui si parla di televisori, non di televisione. Qui si parla di rituali di visione, non di programmi. C’è stato un periodo, settant’anni fa, in cui le famiglie più abbienti, in possesso di un televisore, tenevano corte bandita (storicamente, l’unica parentesi umana nella vita di condominio), i bar erano affollati fino all’inverosimile per seguire una partita di calcio, i cinema vampirizzati dalla tv, le strade deserte, tutti i televisori accesi per vivere in diretta l’avventura della conoscenza. Adesso il televisore si presenta sottile, quasi invisibile, sempre più simile a un computer per funzionalità e convergenza. Adesso i giovani guardano quella che convenzionalmente continuiamo a chiamare televisione su altri device, sul computer o sul telefonino. Ma quale processo storico ha condotto, alla metà degli anni Cinquanta, allo stabilizzarsi di una cultura di visione pienamente domestica? In che modo la televisione si è trasformata da attrazione pubblica e collettiva in un mezzo di comunicazione saldamente intrecciato

all’ideale di domesticità? Quali metafore hanno accompagnato l’ingresso della tv in casa, tra focolare e finestra, bardo e occhio potenziato? Qual è stato il ruolo del servizio pubblico nel guidare questo processo? La strada è meno scontata e naturale di quanto si potrebbe pensare: in un periodo di grande fermento, in cui si poteva solo intuire che cosa fosse la televisione, anche i modi di guardarla venivano sperimentati attraverso un sistema di «prova ed errore». Abbandonato in qualche generosa pagina di quei wish shop che sono gli atlanti del design, ammassato nei negozi di elettrodomestici, confuso in una candida e smaltata indiscriminazione fra frigoriferi e lavatrici, l’apparecchio televisivo non ha mai goduto di attenzioni specifiche. Solo qualche frettolosa definizione: scatola magica, nuovo focolare domestico (dove però il «focolare» ben presto stinge in «focolaio»), vincolo familiare fisico, assassino della conversazione domestica (ma quale? ma quando?), oggetto

«assoluto» del disegno industriale, strumento di comunicazione. Il televisore è da sempre una vetrina vuota: «vasto assortimento all’interno». Le devastazioni prodotte da molti tristi connubi fra arte e industria, la snobistica volgarità di certi arredatori, gli apprensivi epitaffi sulla scomparsa dell’oralità, non dovrebbero tuttavia far dimenticare che l’apparecchio televisivo è pur sempre oggetto della scienza esatta e luogo di elezione di ogni fantasia, nei suoi aspetti morfologici e nei suoi sviluppi molteplici: eppure quanti confondono ancora il mezzo con il messaggio! Il televisore è il padrone di casa, la televisione solo l’invitata. Senza televisore non c’è televisione: i fantasmi, le realtà in diretta e i mondi rovesciati alla fin fine sigillano sempre il loro caleidoscopio entro l’ordine immutabile dell’apparecchio televisivo. Quando si dice che la televisione è una finestra sul mondo si dovrebbe aver maggiore considerazione per la finestra stessa. Due avvenimenti hanno strappato la casa, l’abitazione, dall’ordine del

naturale per sospingerla nell’artificiale, nelle lande del virtuale: i disegni degli architetti e l’avvento del televisore. «Il capomastro, il costruttore, ricevettero così un tutore. Il capomastro sapeva costruire soltanto case: nello stile del suo tempo. Ma chi poteva costruire in qualsiasi stile del passato, chi aveva perduto ogni legame con il proprio tempo, costui, sradicato e distorto, divenne il dominatore, lui, l’architetto» (Adolf Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, 1972). Quando non si costruiscono più le case in funzione di nessi concreti (il corso del sole, la vicinanza di un fiume, ecc.) in quel momento, sotto la spinta della «creazione artistica» dell’architetto, ha inizio l’epoca del virtuale, del possibile. La casa diventa un’invenzione fra molte altre: un’invenzione dalle pareti mobili, un teatro casalingo, un fondale per viaggi attorno alle camere (cfr. Witold Rybczynski, Casa. Breve storia di un’idea, Viking Press, New York, 1986). E, un giorno, la casa accoglie fra le sue suppellettili un televisore. Da ogget-

to di passatempo e di arredamento, il televisore diventa ben presto un sottile sabotatore delle più consolidate «filosofie dell’arredamento». Senza stile, senza stili, senza legami con lo spirito dell’epoca il televisore diventa il vero centro della casa. Dove si insedia il televisore? Naturalmente, nel punto più indifeso della casa: il soggiorno. Quando la media borghesia scopre la casa e la sua importanza come segno di prestigio, cominciano a consumarsi i nuovi riti proposti dalle riviste femminili. E il punto centrale diventa il soggiorno, quello che i genitori tenevano sempre chiuso. È in questo luogo che la casa da rifugio diventa palcoscenico: delle manie degli architetti, della goffaggine e delle rappresentazioni «sociali» degli inquilini, del predominio del televisore. Il televisore ha mutato ogni casa nella casa dello Specchio. Il televisore è ancora oggi la porta di ingresso nella realtà virtuale, è il dissolvimento delle pareti domestiche verso paesaggi mutevoli, verso spiragli inattesi.


Settimane del caffè: Assaggialo ora e approfittane! 6.10 – 12.10.2020

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Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. Offerte valide solo dal 6.10 al 12.10.2020, fino a esaurimento dello stock


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Carne macinata di manzo Svizzera/Germania, confezione da 2 x 500 g / 1 kg

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Pesce e frutti di mare

Dai tesori di Nettuno

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Filetti di trota affumicati d'allevamento, Danimarca, 3 x 100 g

CONSIGLIO DEGLI ESPERTI

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Filetto dorsale di merluzzo con mandorle e pistacchi pesca, Pacifico, in vaschetta per la cottura al forno, 360 g

Bistecche di manzo TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g

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Filetto di maiale TerraSuisse in self-service, per 100 g

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Se le cozze crude sono aperte o danneggiate non vanno utilizzate perché potrebbero essere andate a male. Non sei sicuro se una cozza è aperta? Batti sul guscio con un cucchiaio. Se si chiude può essere in seguito lavata e cucinata. Le cozze che dopo la cottura rimangono chiuse non vanno consumate.

Sushi Wrap Cocktail Shrimp d'allevamento, Vietnam, in self-service, 240 g

Tutto l’assortimento di filetti di pesce fresco (esclusi articoli già in azione), per es. Filetto di passera, MSC, Atlantico nordorientale, per 100 g, valido fino al 10.10.2020

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Cozze M-Classic, MSC d'allevamento, Olanda, in conf. speciale, 2 kg

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Formaggi e latticini

Classici e novità

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Caseificio Blenio prodotto in Ticino, a libero servizio, imballato, per 100 g

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Appenzeller surchoix confezionato, per 100 g

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Crème dessert M-Classic in conf. da 6 per es. cioccolato, 6 x 125 g

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Formaggella Cremosa prodotta in Ticino, a libero servizio, per 100 g


Pane e prodotti da forno

CONSIGLIO DEGLI ESPERTI

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Emmentaler e Le Gruyère grattugiati 2 x 120 g

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3 consigli per una fondue perfetta: se è troppo liquida aggiungere al formaggio fuso un po' di fecola di mais sciolta nel vino o nel kirsch. Se è troppo densa aggiungere un po' di vino bianco mescolando bene. Se la fondue si scompone si può rimediare aggiungendo un mix di fecola di mais, vino bianco e di succo di limone che vanno inglobati con una frusta.

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Pide con sucuk 160 g

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duta libe ra!

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Pasta di spelta per pizza Anna's Best 400 g

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Ribasso permanente Fondue con carne dei Grigioni 600 g

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Pasta per crostate M-Classic 300 g

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Dolce e salato

Il nostro lato cioccolatoso

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2.75 finora 2.95

Zampe d'orso 380 g


Bevande

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Scorta

Approfittane subito e non perderti il gusto

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per es. tortellini prosciutto crudo, 250 g

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Asia Noodles vegetable Knorr 65 g

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Tutta la pasta fresca Garofalo

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a partire da 2 pezzi

20% Sugo di pomodoro al basilico Agnesi

Tutte le minestre Bon Chef per es. tempestina, 80 g, 1.20 invece di 1.50

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Tortellini al prosciutto crudo M-Classic 250 g

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Miele in vasetto da 550 g o in flacone squeezer da 500 g

Datteri e fichi Sun Queen, secchi per es. datteri, 300 g, 2.20 invece di 2.80

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Tutte le confetture e le gelatine Extra in vasetto e in bustina

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