Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXX 16 ottobre 2017
Azione 42 M sh alle p opping agin e 41 -48 /
Società e Territorio Il lungo cammino del nuovo acquedotto del Mendrisiotto sembra arrivato a una svolta
Ambiente e Benessere Il primario di nefrologia dell’Ospedale regionale di Lugano, Carlo Schönholzer, ci parla delle terapie sostitutive renali, emodialisi compresa
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Politica e Economia L’innalzamento dell’età di pensionamento sarà inevitabile, ma con adeguati accorgimenti
Cultura e Spettacoli A Palazzo Reale di Milano una imperdibile mostra con venti capolavori di Caravaggio
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di Caracciolo, Lurati e Vargas Llosa pagine 21 e 22
Keystone
La partita Barcellona-Madrid
Un duello che cambierà la Spagna di Peter Schiesser Sarà una settimana esplosiva, questa in Spagna, con l’attivazione dell’articolo 155 della Costituzione, oppure da parte catalana il President Puigdemont farà marcia indietro, magari sospendendo a tempo indeterminato la dichiarazione d’indipendenza proclamata l’11 ottobre? Il governo di Mariano Rajoy, con il sostengo dei socialisti di Pedro Sanchez (PP e PSOE sono i due maggiori partiti), ha posto un doppio ultimatum a Carles Puigdemont: entro le 10 di stamane dovrà dire se la dichiarazione di indipendenza della Catalogna è confermata o meno, in caso di mancata risposta Madrid darà a Barcellona tempo fino alle 10 di giovedì 19 per farlo. Dopodiché la Catalogna verrebbe commissariata e alcuni servizi essenziali della Generalitat catalana controllati dal potere centrale; sarebbero inoltre indette nuove elezioni per il parlamento regionale. Teoricamente, Rajoy potrebbe persino far imprigionare Puigdemont, in virtù dell’articolo 155, ma una mossa del genere avrebbe conseguenze devastanti, creando un divario incolmabile fra la Catalogna e il resto della Spagna.
Il capo del governo catalano Puigdemont si è messo con le spalle al muro con la grottesca mossa di dichiarare l’indipendenza e di sospenderla pochi minuti dopo. A meno di non perdere la faccia, non può più accontentarsi di una maggiore autonomia per la Catalogna: il dado è tratto. Ora bisogna vedere chi vorrà seguirlo, capire quanto compatto è il fronte indipendentista. Il capo del governo spagnolo Rajoy, di concerto con il presidente socialista Sanchez, ha brandito il bastone ma anche la carota: verrà creata una commissione incaricata di rivedere la Costituzione spagnola per ampliare l’autonomia delle regioni. È una mano tesa a quei catalani che non si sentono rispettati nella loro diversità. Qualcuno potrebbe cogliere questo ramoscello d’ulivo, qualcun altro potrebbe accettarlo perché teme le conseguenze catastrofiche di una precipitosa indipendenza. C’è senza dubbio un grosso senso di incertezza in Catalogna, oggi. Decine di imprese se ne sono già andate nei mesi precedenti il referendum del 1. ottobre, ma ora la fuga accelera, e se la terza banca spagnola, la Caixa, e prima di essa il Banco de Sabadell (quinto in Spagna e secondo in Catalogna) spostano le loro sedi, l’immagine di una Catalogna «regione economica di successo» subisce un duro
colpo. Perché uscire dalla Spagna significa uscire anche dall’Unione europea, e banche ed aziende questo non possono permetterselo. Questo significa che Barcellona può restare forte e ricca solo se inserita nella rete di relazioni (economiche, istituzionali, culturali) che la legano alla Spagna e attraverso di essa al resto del mondo. Ma saranno riflessioni razionali come queste a guidare i dirigenti e la popolazione catalani? Quando le passioni nazionaliste, da una parte e dall’altra, si trasformano in aperte manifestazioni di intolleranza e odio, è più difficile sperare in una soluzione negoziata e condivisa (vedi Lucio Caracciolo e Gabriele Lurati alle pagine 21 e 22). Comunque vada a finire, la partita ardita che Carles Puigdemont e le forze che lo sostengono stanno giocando, inciderà profondamente sulla storia della Spagna. Se il Presidente della Generalitat catalana è un politico che ama scherzare con il fuoco, sull’altro fronte abbiamo un primo ministro e un re che non hanno intenzione di riconoscere le pretese degli indipendentisti, ciò che ingarbuglia ancor di più la matassa. Nel 1981 re Juan Carlos unì il paese salvando la neonata democrazia spagnola opponendosi ai militari golpisti, suo figlio Felipe non dimostra per ora la medesima stoffa.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Società e Territorio Libri e famiglia Come far innamorare i bambini della lettura: intervista a Carla Ida Salviati
I conflitti nel team di lavoro Non sempre i rapporti tra colleghi sono sereni e proficui, ne abbiamo parlato con alcuni coach
TEDxLugano La quarta edizione dell’evento si è svolta al LAC e ha indagato le professioni del futuro; intervista all’organizzatore Sergali Adilbekov
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Regalami una storia
Famiglia Libri per accompagnare i bambini nel mondo dei libri: intervista a Carla Ida Salviati
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Letizia Bolzani
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Il progetto prevede la messa in rete degli acquedotti distrettuali e la creazione di una stazione di pompaggio a Riva San Vitale per usufruire delle acque del Ceresio. (Ti-Press)
Garantire l’acqua
Mendrisiotto Se ne parla da più di quarant’anni, solo ora il progetto dell’acquedotto a lago ha subito un accelerazione Roberto Porta Lungaggini, campanilismi, proclami mai concretizzati e timori di salti nel vuoto, anche finanziari. C’è un po’ di tutto questo nella storia ormai quarantennale del cosiddetto «acquedotto a lago» del Mendrisiotto. Un progetto rimasto finora sempre lì, a galleggiare a metà del guado. Sempre e solo sulla carta. Da un paio di anni c’è stata però un’accelerazione, forse decisiva, per dare maggiore concretezza a questa opera. Ma dopo decenni di stallo si può davvero pensare ad un cambio di marcia? Ci risponde Marco Romano, presidente della delegazione consortile dell’Acquedotto Regionale del Mendrisiotto (ARM). «Rispetto al passato oggi possiamo certamente essere più fiduciosi. Prima di tutto perché attorno a questo progetto è stato creato un consorzio, un’istituzione riconosciuta che impegna formalmente i comuni del distretto. Questo consorzio si basa su uno statuto ben preciso che prevede la messa in rete degli acquedotti distrettuali e la creazione di una stazione di pompaggio a Riva San Vitale per poter usufruire delle acque del Ceresio». Il progetto rientra nel Piano cantonale per l’approvvigionamento idrico che per il nuovo acquedotto del Mendrisiotto prevede un cammino in tre tappe: dapprima la messa in rete, su
scala distrettuale, delle fonti idriche considerate ancora utilizzabili, in un secondo momento il ricorso all’acqua del lago e infine il potenziamento dell’intera struttura. Se inizialmente si pensava di procedere alla realizzazione di queste tappe con un percorso scaglionato nel tempo, dalla scorsa primavera le indicazioni giunte dalle autorità cantonali dicono che le tre tappe vanno compiute e ultimate in rapida successione pianificando l’insieme del progetto contemporaneamente. In altri termini c’è da rivedere la tempistica di tutto il progetto. Un’accelerazione dovuta al fatto che, dice l’amministrazione cantonale, le risorse idriche a disposizione del distretto non sono sufficienti per rispondere alle esigenze della popolazione e degli operatori economici. E questo in caso di siccità prolungata o di incidenti, come quello che ha messo fuori uso definitivamente il cosiddetto «pozzo Polenta» di Morbio Inferiore, la falda freatica vittima di un inquinamento da idrocarburi nel 2008. «Il pozzo Polenta era una delle fonti più importanti del Basso Mendrisiotto – fa notare Marco Romano – Ma ci sono altre situazioni in cui le acque del distretto si trovano a rischio inquinamento. Basta un incidente, un inquinamento anche di piccole dimensioni, e ci ritroviamo con le spalle al muro. Non saremmo più in grado di
fornire acqua alla nostra popolazione, l’acquedotto a lago serve proprio per poter far fronte a queste situazioni di alto rischio». Da qui l’esigenza di accelerare la realizzazione dell’intera opera. «Per questo vogliamo riuscire a convincere i comuni del distretto a unire le forze perché dalle verifiche fatte non c’è acqua per tutti, non solo nell’ipotesi di un inquinamento ma anche per i periodi di siccità, che rischiano di farsi sempre più frequenti, come del resto si è visto nel corso degli ultimi anni». Il consorzio dell’ARM vuole ora andare definitivamente oltre le rivalità campanilistiche che in questi decenni hanno spesso minato l’intero progetto, in un distretto che si è diviso tra i comuni che dispongono di acqua in abbondanza, contrari ad investire in un acquedotto regionale, e quelli che devono invece confrontarsi con situazioni di difficoltà idriche e che hanno sempre sostenuto il ricorso all’acqua del lago. In un contesto in cui negli anni chi gestiva il territorio ha spesso permesso l’insediamento di infrastrutture e zone industriali proprio a ridosso delle falde freatiche, veri e propri laghi sotterranei protetti dalla legge federale. Al di là degli errori del passato, il nodo da sciogliere ora è anche e soprattutto finanziario. L’investimento per la realizzazione del nuovo acquedotto distrettuale è stimato attorno ai 50 milioni di franchi. I costi
andranno suddivisi su tutti i comuni del distretto, sostenuti da un forte intervento da parte del Cantone. Da notare inoltre che un’eventuale accelerazione del progetto porterebbe con sé anche un contributo finanziario in arrivo dall’Ufficio federale delle strade (Ustra) e probabilmente anche dalle FFS. Il momento appare dunque propizio per questo progetto dalla portata generazionale, anche se nel distretto momò non mancano resistenze e voci critiche. Tra queste in particolare quelle dei Verdi che sul tema hanno tra l’altro presentato un atto parlamentare al governo ticinese, firmato dalla granconsigliera Claudia Crivelli Barella. «Nei consigli comunali del Mendrisiotto noi Verdi siamo sempre stati scettici nei confronti della realizzazione di un acquedotto a lago perché secondo noi in questo modo non si affronta il problema alla radice. Prima di cercare una nuova fonte occorrerebbe riuscire a gestire meglio gli acquedotti del distretto e a promuovere un uso più parsimonioso dell’acqua. Se guardiamo a Mendrisio, ad esempio, la situazione adesso è migliorata ma fino a qualche anno fa le tubature della città erano tra le peggiori del canton Ticino, per le perdite di acqua che subivano». Insomma a detta dei Verdi si dovrebbe dapprima favorire una gestione più oculata delle risorse idriche, seguendo l’esempio di
quanto fatto dal comune di Gordola, che attraverso la lotta agli sprechi e la messa in sicurezza delle proprie fonti, è riuscito a evitare di costruire «un pozzo di captazione dai costi plurimilionari», per far uso dell’acqua del lago Verbano. Nella sua interpellanza la deputata Crivelli Barella ha posto al governo una serie di domande, che riguardano anche i consumi di acqua. «Vi è una tendenza alla diminuzione?», si chiede l’esponente dei Verdi che vuole anche capire se nell’intero distretto ci si stia davvero operando per «diminuire perdite e sprechi». Il Consiglio di Stato ha risposto lo scorso 11 ottobre, con un’articolata presa di posizione in cui si legge che «il contenimento delle perdite (per altro già in atto da parte dei maggiori distributori e che dovrà essere perseguito permanentemente) e la riduzione dei consumi non saranno sufficienti a garantire un approvvigionamento quantitativamente sicuro». Per il governo, come del resto anche per il consorzio ARM, «la nuova captazione a lago, che integrerà il complesso sistema esistente, è quindi necessaria a breve termine, senza attendere l’ultimazione del collegamento delle reti». Resta da capire se il Mendrisiotto vorrà davvero muoversi compatto per realizzare un proprio acquedotto regionale. Si troverà quell’unità di intenti che finora è mancata?
Le storie fanno bene. E non (non solo) perché impari nuove parole e nuove cose, ma proprio perché ti fanno stare bene: ti aiutano a crescere, ti fanno capire meglio chi sei, ti offrono uno specchio dove vedere riflesse le tue emozioni. Aprono nuovi sentieri nel tuo immaginario, ti rendono capace di idee nuove e strade non ancora percorse. Leggere o ascoltare una storia è poi anche, anzi prima di tutto, un piacere, fatto della scintillante gratuità di tutto ciò che, in fondo, dà senso alla vita. Naturalmente, però, occorre sceglierla bene, la storia. A maggior ragione se abbiamo la responsabilità di accompagnare i bambini in questa scelta: un libro «sbagliato» (perché di scarsa qualità o perché semplicemente inadatto in quel momento) può raffreddare la nascita di una passione, e il criterio del libro autorevole, del grande classico, o di ciò che piaceva a noi da piccoli può non essere sempre efficace. Per aiutare gli adulti (genitori, nonni, insegnanti, bibliotecari, animatori culturali) nelle scelte e nelle modalità di lettura per l’infanzia, l’editoria attuale offre molti saggi, tra cui alcune proposte che vorremmo farvi. Cominciamo da colei che da più di vent’anni – sin da quel meraviglioso Leggere ad alta voce, pubblicato da Mondadori nel 1996 – ci offre saggi che si pongono ogni volta come punti di riferimento imprescindibili: Rita Valentino Merletti. Per le sue pubblicazioni rimandiamo al sito www. ritavalentino.it e tra i suoi recenti libri in collaborazione con altri autori citiamo almeno Leggimi forte (Salani), scritto con Bruno Tognolini e Nati sotto il segno dei libri (Idest), scritto con Luigi Paladin. Molto utile e ben documentata è la guida di Laura Ogna, Leggere in famiglia (Editrice La Scuola), che conduce con competenza alla scoperta della letteratura per l’infanzia, sottolineando come sia importante che l’adulto si metta in gioco in prima persona, senza cercare ricette bell’e pronte. Non si può non segnalare con forza, inoltre, quel bellissimo e troppo dimenticato libro del grande Giuseppe Pontremoli (19552004), Elogio delle azioni spregevoli (L’Ancora del Mediterraneo), dove quell’ironico «spregevoli» si riferiva al raccontar storie, «che non servono a niente e non sono neanche vere» come diceva l’educatore dickensiano Grandgrind in Tempi difficili. Pon-
tremoli ci offre pagine di profondo e coinvolgente amore per la lettura con i bambini, arricchite da citazioni splendide, come quella di David Grossman da Che tu sia per me il coltello: «Almeno una volta al giorno qualcuno solleva la testa dalla pila dei libri e mi si avvicina. Dovresti vedere il suo sorriso mentre mi mostra quello che aveva cercato per anni! Quasi sempre si tratta di un libro che aveva letto durante l’infanzia, probabilmente questa è la sola cosa in grado di accendere una scintilla negli occhi della gente». Accendere una scintilla. Questo ci porta dritti all’ultimo saggio, in ordine di uscita, il recente Il primo libro non si scorda mai, di Carla Ida Salviati (Giunti). Con il sottotitolo Storie e idee per innamorarsi della lettura tra 5 e 11 anni, l’autrice, esperta di lettura, di scuola, di storia dell’editoria, mette a fuoco un’età precisa, quella in cui la lettura diventa un’attività (anche) personale. Un’età alla quale è molto importante offrire libri che non spengano quella scintilla. Le abbiamo rivolto alcune domande, cominciando dalle motivazioni alla base di questo libro: «Ogni libro, si sa, ha origini varie e plurime. Prima di tutto mi ha stimolato la presenza sul mercato della collana Album d’infanzia di Giunti, un’opportunità per riaprire un dialogo con gli adulti impegnati nella crescita dei bambini. Insegnanti, bibliotecari, famiglie: ma anche editori, librai. Questa collana esce per un grande editore, celeberrimo nella letteratura giovanile. Inoltre è divulgativa, seppure rigorosamente diretta da Grazia Gotti». Signora Salviati, come suscitare il piacere della lettura nei bambini? Quali errori evitare? Di cosa tenere conto?
È molto difficile rispondere. Io non ho una ricetta, e penso che non l’abbia nessuno. Sappiamo però alcune cose: che i piccolissimi sono spesso affascinati dai libri: ergo, bisogna stampare libri davvero attraenti e «giusti» per loro. Ma non è affatto detto che così avvenga nella generalità dei casi. A mano a mano che i bambini crescono, poi, hanno sempre più bisogno di storie, e non solo di fiction ma anche di testi sulla natura o sulla società: però non è questo il settore dove troviamo offerte editoriali in quantità. Inoltre conosciamo l’efficacia della lettura ad alta voce: è il modo migliore per proporre, accompagnare, aiutare a penetrare i testi.
Nonostante l’abitudine alle nuove tecnologie i bambini sono ancora assetati di storie: basta entrare in una biblioteca. (Marka) È cambiato negli anni l’atteggiamento del bambino lettore?
Tutti osservano che i nostri ragazzi – parliamo qui della fascia che ho voluto considerare nel mio saggio (5-11), una fascia bizzarra, che non rientra nei canoni consueti – hanno scarsa capacità di concentrazione, avvezzi come sono alle emozionanti esposizioni alle tecnologie. Però, se si entra a scuola o in biblioteca durante il momento della lettura, lì troviamo il bambino eterno di cui parlava Rodari, quello che di storie è assetato, ed è sempre lo stesso bambino… Come si è evoluta l’idea dell’infanzia nelle storie ad essa dedicate?
L’idea d’infanzia cambia in relazione ai mutamenti sociali. Per molto tempo la preoccupazione degli adulti è stata concentrata sui «contenuti»: quali valori partecipa un certo racconto, quanto è utile… Oggi la parte più avanzata della critica pone l’obiettivo sul linguaggio, sul rapporto testo/immagine, sulla capacità di aderire all’immaginario dei lettori, sulla qualità letteraria. Si tratta
però di una critica minoritaria. Tra gli adulti resta diffusa l’idea che un libro debba essere «istruttivo» secondo canoni ancora assai tradizionali: quando si parla di bambini, la maggioranza si sente rassicurata da prodotti editoriali tradizionali.
L’editoria oggi tiene sufficientemente in considerazione la fascia d’età 5-11?
Il settore ragazzi costituisce un terreno fertilissimo per l’editoria sperimentale. Però vedo più coraggio nelle collane per i più piccoli. Nella «strana» fascia d’età a cui ho dedicato il mio saggio è centrale l’impatto con la scuola, e lì la creatività editoriale tende a ridursi vistosamente. Ma io ho scelto di dedicarmi a questa fascia proprio perché la ritengo nevralgica: vi si giocano i destini del lettore e della lettura.
Come si possono integrare con l’esperienza di lettura dei libri cartacei le esperienze contemporanee di fruizione tecnologica?
In questo campo vedo cose interessantissime. A parte piccoli editori che speri-
mentano libri con app o che stimolano la «lettura aumentata», conosco scuole che costruiscono appassionati gruppi di lettura a distanza, gare, premi, tutti giocati tra siti e prodotti multimediali. Poi molti insegnanti mi parlano con entusiasmo degli audiolibri, un aiuto essenziale per i ragazzi con serie difficoltà o di madrelingua non italiana.
Qual è il suo «primo libro» del cuore?
Questa è la domanda con cui finiscono le presentazioni de Il primo libro non si scorda mai, in tutta Italia! Certo il titolo induce il quesito, e poi il pubblico si scatena, ciascuno pensa al suo primo… Per quanto mi riguarda debbo andare lontanissimo nel tempo, un libro grande e davvero meraviglioso. Mi innamorai di quelli che oggi chiamo gli «aspetti formali»: copertina rigida con un magnifico gallo multicolore, dorso in tela, taglio delle pagine dorato… Mi sembrava una scatola preziosa, e lo era: le fiabe dei Grimm, in edizione Hoepli. Me lo lessero; poi me lo lessi da sola a lungo, moltissime volte. La rilettura è il sale della lettura.
La società connessa di Natascha Fioretti Se vuoi conoscere la mia storia mettiti le mie scarpe Da secoli i musei ci raccontano delle storie attraverso gli oggetti, i manufatti, le opere d’arte che espongono. Da dove vengono, a chi appartenevano, chi sono quelle persone ritratte nel quadro, di quale materiale è fatta quella scultura, sono solo alcune delle domande che ci poniamo camminando tra i corridoi e le sale dei musei. Ognuno ha qualcosa di speciale da raccontare, ogni museo promette di farti vivere delle esperienze magiche, profonde, importanti, una volta varcata la soglia. E cosa c’è, in effetti, di più bello, in un tiepido giorno d’autunno, del sentirsi avvolto dalle mura esperienziali di un museo e dalle sue storie mentre fuori piove e tutto scorre. È un po’ come cercare rifugio, pace, creare
una sorta di interruzione da quel flusso frenetico della nostra vita quotidiana, come entrare in una casa per la prima volta e lasciarsi sorprendere dal suo arredamento, dai suoi profumi, dalle storie, appunto, che ogni piccolo angolo è in grado di raccontarci. Le storie costruiscono ponti tra le persone, tra le epoche e i luoghi, uniscono ed emozionano. E la loro magia, il loro effetto non dura solo la visita di un museo ma, grazie alle potenzialità delle nuove forme di racconto multimediali, perdura e va oltre. A me per la prima volta è capitato a Berlino. Sono stata investita da un treno in corsa a piena velocità per l’intensità, la forza e la dimensione tragica del racconto visitando il Museo Ebraico di Berlino e quello di Checkpoint Charlie, uno dei simboli finali della Guerra Fredda.
Forse perché le storie che raccontano sono prima di tutto storie umane recenti, storie che in un certo qual modo ci riguardano e toccano tutti. Quale emozione, quale rabbia nel vedere le foto di chi ai tempi della DDR ha perso la vita tentando invano di attraversare il muro, quale vuoto nel mettere piede in quella stanza vuota e fredda del museo di Daniel Liebeskind con quelle migliaia di volti di ferro urlanti a terra. Si chiama architettura emozionale e qui risiede la chiave del museo contemporaneo, nel saper suscitare emozioni in chi lo visita. Prova ad emozionarci immergendoci nel destino altrui una mostra dell’Empathy Museum dal titolo A mile in my shoes, una realtà itinerante a livello internazionale. «Un miglio nelle mie scarpe», riprende il proverbio dei na-
tivi d’America: «Non giudicare mai un uomo se prima non hai camminato per un miglio nei suoi mocassini». In pratica i visitatori sono invitati ad entrare in una gigantesca scatola e ad infilarsi ai piedi un paio di scarpe. Ci sono i sandali di Christine Brown, che in un file audio racconta la depressione della figlia Kathleen, gli stivali di gomma di Karen Lang che ha perso una figlia, le scarpe da tennis di un rifugiato siriano, quelle con il tacco di una prostituta, gli anfibi di un veterano di guerra... Si possono indossare tutte, camminarci mentre si ascolta la voce e la storia di chi le ha indossate. Ogni storia copre un diverso aspetto della vita umana esplorando emozioni e stati d’animo causati dall’esperienza della perdita, del dolore, della speranza e dell’amore conducendo il visita-
tore attraverso un viaggio empatico e fisico. Cosa si prova ad essere stato in prigione, ad essere un bambino cresciuto a Teheran? Il museo dell’empatia ci aiuta a scoprirlo attraverso una serie di progetti che si concentrano sulla partecipazione, lo storytelling e il dialogo, aiutandoci a vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri, ad esplorare come l’empatia sia in grado, non solo di trasformare le nostre relazioni personali, ma anche di cambiare il nostro atteggiamento di fronte alle questioni globali come la migrazione, il pregiudizio, il conflitto e l’ineguaglianza. Il progetto, partito nel 2015, conta oltre 150 storie e altrettante paia di scarpe. Per saperne di più, ascoltare alcune storie o partecipare proponendo la vostra, andate qui: www.empathymuseum.com.
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Società e Territorio Libri e famiglia Come far innamorare i bambini della lettura: intervista a Carla Ida Salviati
I conflitti nel team di lavoro Non sempre i rapporti tra colleghi sono sereni e proficui, ne abbiamo parlato con alcuni coach
TEDxLugano La quarta edizione dell’evento si è svolta al LAC e ha indagato le professioni del futuro; intervista all’organizzatore Sergali Adilbekov
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Famiglia Libri per accompagnare i bambini nel mondo dei libri: intervista a Carla Ida Salviati
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Il progetto prevede la messa in rete degli acquedotti distrettuali e la creazione di una stazione di pompaggio a Riva San Vitale per usufruire delle acque del Ceresio. (Ti-Press)
Garantire l’acqua
Mendrisiotto Se ne parla da più di quarant’anni, solo ora il progetto dell’acquedotto a lago ha subito un accelerazione Roberto Porta Lungaggini, campanilismi, proclami mai concretizzati e timori di salti nel vuoto, anche finanziari. C’è un po’ di tutto questo nella storia ormai quarantennale del cosiddetto «acquedotto a lago» del Mendrisiotto. Un progetto rimasto finora sempre lì, a galleggiare a metà del guado. Sempre e solo sulla carta. Da un paio di anni c’è stata però un’accelerazione, forse decisiva, per dare maggiore concretezza a questa opera. Ma dopo decenni di stallo si può davvero pensare ad un cambio di marcia? Ci risponde Marco Romano, presidente della delegazione consortile dell’Acquedotto Regionale del Mendrisiotto (ARM). «Rispetto al passato oggi possiamo certamente essere più fiduciosi. Prima di tutto perché attorno a questo progetto è stato creato un consorzio, un’istituzione riconosciuta che impegna formalmente i comuni del distretto. Questo consorzio si basa su uno statuto ben preciso che prevede la messa in rete degli acquedotti distrettuali e la creazione di una stazione di pompaggio a Riva San Vitale per poter usufruire delle acque del Ceresio». Il progetto rientra nel Piano cantonale per l’approvvigionamento idrico che per il nuovo acquedotto del Mendrisiotto prevede un cammino in tre tappe: dapprima la messa in rete, su
scala distrettuale, delle fonti idriche considerate ancora utilizzabili, in un secondo momento il ricorso all’acqua del lago e infine il potenziamento dell’intera struttura. Se inizialmente si pensava di procedere alla realizzazione di queste tappe con un percorso scaglionato nel tempo, dalla scorsa primavera le indicazioni giunte dalle autorità cantonali dicono che le tre tappe vanno compiute e ultimate in rapida successione pianificando l’insieme del progetto contemporaneamente. In altri termini c’è da rivedere la tempistica di tutto il progetto. Un’accelerazione dovuta al fatto che, dice l’amministrazione cantonale, le risorse idriche a disposizione del distretto non sono sufficienti per rispondere alle esigenze della popolazione e degli operatori economici. E questo in caso di siccità prolungata o di incidenti, come quello che ha messo fuori uso definitivamente il cosiddetto «pozzo Polenta» di Morbio Inferiore, la falda freatica vittima di un inquinamento da idrocarburi nel 2008. «Il pozzo Polenta era una delle fonti più importanti del Basso Mendrisiotto – fa notare Marco Romano – Ma ci sono altre situazioni in cui le acque del distretto si trovano a rischio inquinamento. Basta un incidente, un inquinamento anche di piccole dimensioni, e ci ritroviamo con le spalle al muro. Non saremmo più in grado di
fornire acqua alla nostra popolazione, l’acquedotto a lago serve proprio per poter far fronte a queste situazioni di alto rischio». Da qui l’esigenza di accelerare la realizzazione dell’intera opera. «Per questo vogliamo riuscire a convincere i comuni del distretto a unire le forze perché dalle verifiche fatte non c’è acqua per tutti, non solo nell’ipotesi di un inquinamento ma anche per i periodi di siccità, che rischiano di farsi sempre più frequenti, come del resto si è visto nel corso degli ultimi anni». Il consorzio dell’ARM vuole ora andare definitivamente oltre le rivalità campanilistiche che in questi decenni hanno spesso minato l’intero progetto, in un distretto che si è diviso tra i comuni che dispongono di acqua in abbondanza, contrari ad investire in un acquedotto regionale, e quelli che devono invece confrontarsi con situazioni di difficoltà idriche e che hanno sempre sostenuto il ricorso all’acqua del lago. In un contesto in cui negli anni chi gestiva il territorio ha spesso permesso l’insediamento di infrastrutture e zone industriali proprio a ridosso delle falde freatiche, veri e propri laghi sotterranei protetti dalla legge federale. Al di là degli errori del passato, il nodo da sciogliere ora è anche e soprattutto finanziario. L’investimento per la realizzazione del nuovo acquedotto distrettuale è stimato attorno ai 50 milioni di franchi. I costi
andranno suddivisi su tutti i comuni del distretto, sostenuti da un forte intervento da parte del Cantone. Da notare inoltre che un’eventuale accelerazione del progetto porterebbe con sé anche un contributo finanziario in arrivo dall’Ufficio federale delle strade (Ustra) e probabilmente anche dalle FFS. Il momento appare dunque propizio per questo progetto dalla portata generazionale, anche se nel distretto momò non mancano resistenze e voci critiche. Tra queste in particolare quelle dei Verdi che sul tema hanno tra l’altro presentato un atto parlamentare al governo ticinese, firmato dalla granconsigliera Claudia Crivelli Barella. «Nei consigli comunali del Mendrisiotto noi Verdi siamo sempre stati scettici nei confronti della realizzazione di un acquedotto a lago perché secondo noi in questo modo non si affronta il problema alla radice. Prima di cercare una nuova fonte occorrerebbe riuscire a gestire meglio gli acquedotti del distretto e a promuovere un uso più parsimonioso dell’acqua. Se guardiamo a Mendrisio, ad esempio, la situazione adesso è migliorata ma fino a qualche anno fa le tubature della città erano tra le peggiori del canton Ticino, per le perdite di acqua che subivano». Insomma a detta dei Verdi si dovrebbe dapprima favorire una gestione più oculata delle risorse idriche, seguendo l’esempio di
quanto fatto dal comune di Gordola, che attraverso la lotta agli sprechi e la messa in sicurezza delle proprie fonti, è riuscito a evitare di costruire «un pozzo di captazione dai costi plurimilionari», per far uso dell’acqua del lago Verbano. Nella sua interpellanza la deputata Crivelli Barella ha posto al governo una serie di domande, che riguardano anche i consumi di acqua. «Vi è una tendenza alla diminuzione?», si chiede l’esponente dei Verdi che vuole anche capire se nell’intero distretto ci si stia davvero operando per «diminuire perdite e sprechi». Il Consiglio di Stato ha risposto lo scorso 11 ottobre, con un’articolata presa di posizione in cui si legge che «il contenimento delle perdite (per altro già in atto da parte dei maggiori distributori e che dovrà essere perseguito permanentemente) e la riduzione dei consumi non saranno sufficienti a garantire un approvvigionamento quantitativamente sicuro». Per il governo, come del resto anche per il consorzio ARM, «la nuova captazione a lago, che integrerà il complesso sistema esistente, è quindi necessaria a breve termine, senza attendere l’ultimazione del collegamento delle reti». Resta da capire se il Mendrisiotto vorrà davvero muoversi compatto per realizzare un proprio acquedotto regionale. Si troverà quell’unità di intenti che finora è mancata?
Le storie fanno bene. E non (non solo) perché impari nuove parole e nuove cose, ma proprio perché ti fanno stare bene: ti aiutano a crescere, ti fanno capire meglio chi sei, ti offrono uno specchio dove vedere riflesse le tue emozioni. Aprono nuovi sentieri nel tuo immaginario, ti rendono capace di idee nuove e strade non ancora percorse. Leggere o ascoltare una storia è poi anche, anzi prima di tutto, un piacere, fatto della scintillante gratuità di tutto ciò che, in fondo, dà senso alla vita. Naturalmente, però, occorre sceglierla bene, la storia. A maggior ragione se abbiamo la responsabilità di accompagnare i bambini in questa scelta: un libro «sbagliato» (perché di scarsa qualità o perché semplicemente inadatto in quel momento) può raffreddare la nascita di una passione, e il criterio del libro autorevole, del grande classico, o di ciò che piaceva a noi da piccoli può non essere sempre efficace. Per aiutare gli adulti (genitori, nonni, insegnanti, bibliotecari, animatori culturali) nelle scelte e nelle modalità di lettura per l’infanzia, l’editoria attuale offre molti saggi, tra cui alcune proposte che vorremmo farvi. Cominciamo da colei che da più di vent’anni – sin da quel meraviglioso Leggere ad alta voce, pubblicato da Mondadori nel 1996 – ci offre saggi che si pongono ogni volta come punti di riferimento imprescindibili: Rita Valentino Merletti. Per le sue pubblicazioni rimandiamo al sito www. ritavalentino.it e tra i suoi recenti libri in collaborazione con altri autori citiamo almeno Leggimi forte (Salani), scritto con Bruno Tognolini e Nati sotto il segno dei libri (Idest), scritto con Luigi Paladin. Molto utile e ben documentata è la guida di Laura Ogna, Leggere in famiglia (Editrice La Scuola), che conduce con competenza alla scoperta della letteratura per l’infanzia, sottolineando come sia importante che l’adulto si metta in gioco in prima persona, senza cercare ricette bell’e pronte. Non si può non segnalare con forza, inoltre, quel bellissimo e troppo dimenticato libro del grande Giuseppe Pontremoli (19552004), Elogio delle azioni spregevoli (L’Ancora del Mediterraneo), dove quell’ironico «spregevoli» si riferiva al raccontar storie, «che non servono a niente e non sono neanche vere» come diceva l’educatore dickensiano Grandgrind in Tempi difficili. Pon-
tremoli ci offre pagine di profondo e coinvolgente amore per la lettura con i bambini, arricchite da citazioni splendide, come quella di David Grossman da Che tu sia per me il coltello: «Almeno una volta al giorno qualcuno solleva la testa dalla pila dei libri e mi si avvicina. Dovresti vedere il suo sorriso mentre mi mostra quello che aveva cercato per anni! Quasi sempre si tratta di un libro che aveva letto durante l’infanzia, probabilmente questa è la sola cosa in grado di accendere una scintilla negli occhi della gente». Accendere una scintilla. Questo ci porta dritti all’ultimo saggio, in ordine di uscita, il recente Il primo libro non si scorda mai, di Carla Ida Salviati (Giunti). Con il sottotitolo Storie e idee per innamorarsi della lettura tra 5 e 11 anni, l’autrice, esperta di lettura, di scuola, di storia dell’editoria, mette a fuoco un’età precisa, quella in cui la lettura diventa un’attività (anche) personale. Un’età alla quale è molto importante offrire libri che non spengano quella scintilla. Le abbiamo rivolto alcune domande, cominciando dalle motivazioni alla base di questo libro: «Ogni libro, si sa, ha origini varie e plurime. Prima di tutto mi ha stimolato la presenza sul mercato della collana Album d’infanzia di Giunti, un’opportunità per riaprire un dialogo con gli adulti impegnati nella crescita dei bambini. Insegnanti, bibliotecari, famiglie: ma anche editori, librai. Questa collana esce per un grande editore, celeberrimo nella letteratura giovanile. Inoltre è divulgativa, seppure rigorosamente diretta da Grazia Gotti». Signora Salviati, come suscitare il piacere della lettura nei bambini? Quali errori evitare? Di cosa tenere conto?
È molto difficile rispondere. Io non ho una ricetta, e penso che non l’abbia nessuno. Sappiamo però alcune cose: che i piccolissimi sono spesso affascinati dai libri: ergo, bisogna stampare libri davvero attraenti e «giusti» per loro. Ma non è affatto detto che così avvenga nella generalità dei casi. A mano a mano che i bambini crescono, poi, hanno sempre più bisogno di storie, e non solo di fiction ma anche di testi sulla natura o sulla società: però non è questo il settore dove troviamo offerte editoriali in quantità. Inoltre conosciamo l’efficacia della lettura ad alta voce: è il modo migliore per proporre, accompagnare, aiutare a penetrare i testi.
Nonostante l’abitudine alle nuove tecnologie i bambini sono ancora assetati di storie: basta entrare in una biblioteca. (Marka) È cambiato negli anni l’atteggiamento del bambino lettore?
Tutti osservano che i nostri ragazzi – parliamo qui della fascia che ho voluto considerare nel mio saggio (5-11), una fascia bizzarra, che non rientra nei canoni consueti – hanno scarsa capacità di concentrazione, avvezzi come sono alle emozionanti esposizioni alle tecnologie. Però, se si entra a scuola o in biblioteca durante il momento della lettura, lì troviamo il bambino eterno di cui parlava Rodari, quello che di storie è assetato, ed è sempre lo stesso bambino… Come si è evoluta l’idea dell’infanzia nelle storie ad essa dedicate?
L’idea d’infanzia cambia in relazione ai mutamenti sociali. Per molto tempo la preoccupazione degli adulti è stata concentrata sui «contenuti»: quali valori partecipa un certo racconto, quanto è utile… Oggi la parte più avanzata della critica pone l’obiettivo sul linguaggio, sul rapporto testo/immagine, sulla capacità di aderire all’immaginario dei lettori, sulla qualità letteraria. Si tratta
però di una critica minoritaria. Tra gli adulti resta diffusa l’idea che un libro debba essere «istruttivo» secondo canoni ancora assai tradizionali: quando si parla di bambini, la maggioranza si sente rassicurata da prodotti editoriali tradizionali.
L’editoria oggi tiene sufficientemente in considerazione la fascia d’età 5-11?
Il settore ragazzi costituisce un terreno fertilissimo per l’editoria sperimentale. Però vedo più coraggio nelle collane per i più piccoli. Nella «strana» fascia d’età a cui ho dedicato il mio saggio è centrale l’impatto con la scuola, e lì la creatività editoriale tende a ridursi vistosamente. Ma io ho scelto di dedicarmi a questa fascia proprio perché la ritengo nevralgica: vi si giocano i destini del lettore e della lettura.
Come si possono integrare con l’esperienza di lettura dei libri cartacei le esperienze contemporanee di fruizione tecnologica?
In questo campo vedo cose interessantissime. A parte piccoli editori che speri-
mentano libri con app o che stimolano la «lettura aumentata», conosco scuole che costruiscono appassionati gruppi di lettura a distanza, gare, premi, tutti giocati tra siti e prodotti multimediali. Poi molti insegnanti mi parlano con entusiasmo degli audiolibri, un aiuto essenziale per i ragazzi con serie difficoltà o di madrelingua non italiana.
Qual è il suo «primo libro» del cuore?
Questa è la domanda con cui finiscono le presentazioni de Il primo libro non si scorda mai, in tutta Italia! Certo il titolo induce il quesito, e poi il pubblico si scatena, ciascuno pensa al suo primo… Per quanto mi riguarda debbo andare lontanissimo nel tempo, un libro grande e davvero meraviglioso. Mi innamorai di quelli che oggi chiamo gli «aspetti formali»: copertina rigida con un magnifico gallo multicolore, dorso in tela, taglio delle pagine dorato… Mi sembrava una scatola preziosa, e lo era: le fiabe dei Grimm, in edizione Hoepli. Me lo lessero; poi me lo lessi da sola a lungo, moltissime volte. La rilettura è il sale della lettura.
La società connessa di Natascha Fioretti Se vuoi conoscere la mia storia mettiti le mie scarpe Da secoli i musei ci raccontano delle storie attraverso gli oggetti, i manufatti, le opere d’arte che espongono. Da dove vengono, a chi appartenevano, chi sono quelle persone ritratte nel quadro, di quale materiale è fatta quella scultura, sono solo alcune delle domande che ci poniamo camminando tra i corridoi e le sale dei musei. Ognuno ha qualcosa di speciale da raccontare, ogni museo promette di farti vivere delle esperienze magiche, profonde, importanti, una volta varcata la soglia. E cosa c’è, in effetti, di più bello, in un tiepido giorno d’autunno, del sentirsi avvolto dalle mura esperienziali di un museo e dalle sue storie mentre fuori piove e tutto scorre. È un po’ come cercare rifugio, pace, creare
una sorta di interruzione da quel flusso frenetico della nostra vita quotidiana, come entrare in una casa per la prima volta e lasciarsi sorprendere dal suo arredamento, dai suoi profumi, dalle storie, appunto, che ogni piccolo angolo è in grado di raccontarci. Le storie costruiscono ponti tra le persone, tra le epoche e i luoghi, uniscono ed emozionano. E la loro magia, il loro effetto non dura solo la visita di un museo ma, grazie alle potenzialità delle nuove forme di racconto multimediali, perdura e va oltre. A me per la prima volta è capitato a Berlino. Sono stata investita da un treno in corsa a piena velocità per l’intensità, la forza e la dimensione tragica del racconto visitando il Museo Ebraico di Berlino e quello di Checkpoint Charlie, uno dei simboli finali della Guerra Fredda.
Forse perché le storie che raccontano sono prima di tutto storie umane recenti, storie che in un certo qual modo ci riguardano e toccano tutti. Quale emozione, quale rabbia nel vedere le foto di chi ai tempi della DDR ha perso la vita tentando invano di attraversare il muro, quale vuoto nel mettere piede in quella stanza vuota e fredda del museo di Daniel Liebeskind con quelle migliaia di volti di ferro urlanti a terra. Si chiama architettura emozionale e qui risiede la chiave del museo contemporaneo, nel saper suscitare emozioni in chi lo visita. Prova ad emozionarci immergendoci nel destino altrui una mostra dell’Empathy Museum dal titolo A mile in my shoes, una realtà itinerante a livello internazionale. «Un miglio nelle mie scarpe», riprende il proverbio dei na-
tivi d’America: «Non giudicare mai un uomo se prima non hai camminato per un miglio nei suoi mocassini». In pratica i visitatori sono invitati ad entrare in una gigantesca scatola e ad infilarsi ai piedi un paio di scarpe. Ci sono i sandali di Christine Brown, che in un file audio racconta la depressione della figlia Kathleen, gli stivali di gomma di Karen Lang che ha perso una figlia, le scarpe da tennis di un rifugiato siriano, quelle con il tacco di una prostituta, gli anfibi di un veterano di guerra... Si possono indossare tutte, camminarci mentre si ascolta la voce e la storia di chi le ha indossate. Ogni storia copre un diverso aspetto della vita umana esplorando emozioni e stati d’animo causati dall’esperienza della perdita, del dolore, della speranza e dell’amore conducendo il visita-
tore attraverso un viaggio empatico e fisico. Cosa si prova ad essere stato in prigione, ad essere un bambino cresciuto a Teheran? Il museo dell’empatia ci aiuta a scoprirlo attraverso una serie di progetti che si concentrano sulla partecipazione, lo storytelling e il dialogo, aiutandoci a vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri, ad esplorare come l’empatia sia in grado, non solo di trasformare le nostre relazioni personali, ma anche di cambiare il nostro atteggiamento di fronte alle questioni globali come la migrazione, il pregiudizio, il conflitto e l’ineguaglianza. Il progetto, partito nel 2015, conta oltre 150 storie e altrettante paia di scarpe. Per saperne di più, ascoltare alcune storie o partecipare proponendo la vostra, andate qui: www.empathymuseum.com.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Società e Territorio
Se nel team nascono problemi
Lavoro N on sempre i rapporti tra colleghi sono sereni e proficui, abbiamo chiesto ad alcuni coach
quali sono le situazioni critiche e come affrontarle Paola Bernasconi Sempre più spesso, in ogni settore, si lavora in team: decisioni condivise, tempo trascorso assieme e, inevitabilmente, anche incomprensioni e problemi. Per la psicologa del lavoro Raffaella Delcò, troppo spesso il tema viene banalizzato: «un eventuale conflitto ha una grande incidenza sul benessere. È provato che lavorare in un ambiente degradato può portare a un livello di stress molto elevato e dunque anche a conseguenze serie, come abbassamento della prestazione, assenteismo, sviluppo di piccole malattie, perdita di concentrazione e memoria, isolamento, depressione. E i problemi si riscontrano sia dove si sta troppo tempo a contatto coi colleghi, anche al di fuori dall’ambito lavorativo, sia nei casi in cui ci si frequenta solo in ambienti professionali».
È umano che il collaboratore con maggiore esperienza voglia imporsi, ma questo atteggiamento può creare contrapposizioni Ma come nascono i conflitti? Abbiamo interpellato diversi esperti, coach, che cercano di aiutare a mantenere un ambiente lavorativo sereno: si tratta di Chantal Gilardini Linder, una Professional Caoch che opera presso la 360 Coach Academy, di Guido De Carli, Business ed Executive Coach, di Alessandro Galli, NLP Coach e Trainer della ACG Coaching e di Paola Brumana, Executive Coach e Spiritual Mentor presso iovalgo. «I conflitti nascono nella maggior parte dei casi a seguito di una comunicazione inefficace, con valori, bisogni e motivazioni non espressi o espressi in maniera non appropriata», ci dice Chantal Gilardini Linder. Le problematiche si riscontrano in tutte le categorie lavorative. Tutti possono lavorare in team? Per Delcò sì, «anche se qualcuno ne ha più
bisogno di altri. Servono autostima sufficiente per esporre le proprie idee e dunque se stessi, capacità di ascoltare gli altri, di accettare le loro opinioni e di portare avanti decisioni non condivise». Difficile, per i nostri interlocutori, determinare se vi siano più problemi fra collaboratori dello stesso sesso oppure no. Diverso è certamente il modo di viverli, per De Carli, «le contrapposizioni fra uomini sono più egoistiche, nascono da dinamiche di potere, interferenze di settore. Fra donne sono di carattere più sottile e personale, e il risentimento dura più a lungo». Solo Gilardini Linder si sbilancia: «si riscontrano maggiori problemi quando i team sono di un solo genere, invece quando nei team ci sono entrambi i generi c’è molto più equilibrio». Come costruire, dunque, un team vincente? La psicologa non ha dubbi, «sono una promotrice della diversità, di età, di sesso, di provenienze e esperienze professionali e formative: ciò crea ricchezza e mette al riparo dal decidere sempre nello stesso modo, dal farci trovare impreparati al cambiamento. Il mondo del lavoro è complesso e nella complessità non funziona la linearità». «Competenze troppo specializzate, strutture funzionali rigide e team troppo specializzati sono un ostacolo all’innovazione, che non può che nascere da un dialogo aperto e un confronto di esperienze. In questo, strutture composte da team focalizzati non sulla singola e ripetitiva attività ma collaborativamente e cooperativamente sull’obiettivo finale possono essere la chiave per una produzione di valore», ritiene Galli, sottolineando, però, che non esiste una ricetta. Per De Carli, «tendenzialmente è umano che il collaboratore con maggiore esperienza voglia imporsi, e farlo con dei millennials che hanno tutte altre vedute e non temono l’autorità può creare delle contrapposizioni», ma anche per lui un mix aiuta l’innovazione. Per quanto riguarda le età e le capacità, per Gilardini Linder «un collaboratore high performer può sostenere, motivare, far crescere un low performer e viceversa un low performer può compensare la
Nella maggior parte dei casi i conflitti tra colleghi nascono a seguito di una comunicazione inefficace. (Pixabay)
visione dell’high performer contestualizzandola e mostrando aspetti inediti, sempre col giusto equilibrio». Per tutti i nostri interlocutori, fondamentale è il ruolo del capo: tocca a lui mediare, trovare soluzioni. Come? Per De Carli, il pugno duro è l’ultima ratio, «serve un dialogo continuativo». Rigida Delcò sul tema, «un capo ha il dovere di intervenire, nel caso accettare anche lui le critiche, ma assolutamente non deve permettere comportamenti discriminatori o dove si perdono di vista i valori fondamentali». «Alle persone non piace sentirsi dire cosa fare dalla mattina alla sera senza possibilità di replica, si sentono insoddisfatte, demotivate, infelici. La leadership (che include certamente anche la capacità di delega) è quindi fondamentale affinché si mantenga un ambiente stimolante e produttivo. Purtroppo e troppo spesso succede che un capo, un manager e un leader siano cose molto diverse», constata Galli. «Col capo nascono molto spesso conflitti, specialmente quando egli
non merita quella posizione, si sente minato e in pericolo, ha paura, non ascolta i bisogni e non osserva i segnali che gli arrivano. Va anche detto che molto spesso un capo è solo e spesso è più facile criticare che comprendere chi sta al vertice. Una dinamica simile a quella che avviene in famiglia fra figli e genitori…», osserva Paola Brumana. Da quante persone deve essere composto un team, per funzionare? Per tutti, non conta il numero ma l’approccio, mentre Galli spiega che secondo studi recenti una squadra ottimale è formata dalle 5 alle 12 persone. Quando non si riescono a gestire i conflitti nati in ambito lavorativo, intervengono figure esterne. Come agisce un coach? Spesso, nella nostra cultura, a differenza di quanto avviene nei paesi anglosassoni, in incognito, ovvero incontrandosi con la persona che aiuta senza che in azienda nessuno sappia di chi si tratta per non far sentire la persona sotto tutela. Spesso, partecipa a riunioni e a momenti di incontro fra i dipendenti,
presentandosi però come un consulente esterno, oppure, più sovente, incontra il suo «allievo» in luoghi neutri. Il lavoro consiste nel simulare le situazioni nelle quali l’assistito deve migliorare, nel capire come poterle vivere in modo diverso e a suo vantaggio: «Insegniamo a applicare i concetti di cui parliamo, per esempio, quello di leadership, alla persona interessata. Ma essa deve capire che non è in punizione e che anzi l’azienda sta investendo su di lui», precisa De Carli. Il quale, come consiglio finale per migliorare il clima, parla di «feedback positivi: non conta solo il cosa si dice ma il come». Per Brumana, basilare è «creare un ambiente di lavoro in cui regnino la fiducia, il supporto, la gratitudine, l’apprezzamento, la gioia per il risultato positivo dell’altro, l’altruismo, la bontà, la generosità, il dialogo, l’onestà e la trasparenza», mentre Gilardini Linder insiste sulla necessità «di sviluppare la comunicazione: in seguito consiglierei di approfondire le diverse tecniche e stili di leadership», fattori per cui un coach può essere molto utile. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Società e Territorio
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Migros news
Intervista La quarta edizione di TEDxLugano incentrata sulle professioni del futuro
Riprende Forum Elle
è stata un successo, ne abbiamo parlato con il curatore Sergali Adilbekov Stefania Hubmann Guardare alle professioni del futuro con l’attenzione rivolta sì all’enorme potenziale offerto dal progresso tecnologico, ma senza trascurare l’aspetto umano, poiché la vera forza sta nel massimizzare il risultato sfruttando il meglio dell’uno e dell’altro. È questo l’approccio proposto dalla quarta edizione di TEDxLugano, conferenza internazionale il cui spirito è la condivisione di «idee che meritano di essere diffuse». Con oltre 700 partecipanti riuniti al LAC lo scorso 9 settembre, l’edizione luganese di TED (Technology, Entertainment, Design) si è affermata come la più grande mai realizzata in Svizzera. L’organizzazione non-profit, nata nel 1984 negli Stati Uniti, è oggi molto diffusa e numerosi sono gli eventi regionali organizzati in modo indipendente e riconoscibili dalla x che precede la località dove si svolgono. Caratteristica di TED è la capacità di riunire relatori di levatura internazionale chiamati a presentare le loro innovative proposte in un discorso di soli 18 minuti in seguito disponibile online (per Lugano vedi a breve www.tedxlugano.com). L’edizione luganese 2017, intitolata Professions of the Future e svoltasi come sempre in inglese, è stata animata da 11 relatori e 3 artisti. Anche il contributo di questi ultimi è stato in sintonia con il tema della giornata e improntato all’uso delle nuove tecnologie. Esperti mondiali di diversi settori – dalla matematica alla robotica, dall’informatica al marketing, dall’architettura alla cultura aziendale – hanno ampliato l’orizzonte del rapporto uomo-tecnologie anche al di là dell’ambito professionale. Abbiamo esplorato questo orizzonte con l’aiuto del curatore Sergali Adilbekov, che ci ha pure spiegato il grande lavoro dietro le quinte della conferenza, assicurato da un team di circa venti volontari. Residente in Ticino e attivo nel settore bancario, Sergali Adilbekov ha promosso TEDxLugano quattro anni fa e ne cura tuttora l’organizzazione. Signor Adilbekov, iniziamo dai numeri. L’edizione 2017 di TEDxLugano si è distinta per il successo di pubblico.
Sì, abbiamo vinto la sfida di trasferire l’evento dall’auditorium della Franklin University al teatro del LAC. Dall’edizione 2016 il numero dei partecipanti è più che raddoppiato e credo che possiamo ancora crescere. Lo dimostrano l’interesse del pubblico e il sostegno degli sponsor, fra i quali la Città di Lugano, sostegno determinante visto
L’associazione femminile di Migros propone alle sue iscritte e ai simpatizzanti un programma ricco di attività per il periodo ottobre-febbraio 2018, cercando come sempre di suscitare interesse attorno all’attualità e offrendo momenti di svago come viaggi e partecipazione a spettacoli teatrali:
Henrique Jorge durante il suo Talk sul palco del LAC. (Creative Digital)
che siamo un’organizzazione nonprofit. Non bisogna dimenticare che un biglietto per la conferenza TED annuale (quest’anno a Vancouver) costa 10mila dollari. Noi offriamo contenuti il cui livello è molto vicino all’originale, sebbene con una dimensione più locale per meno di cento franchi. Accogliamo personalità di fama internazionale con l’unico obiettivo di diffondere nuove idee, favorire la discussione e creare contatti. Per la prima volta quest’anno abbiamo organizzato con TED, un workshop internazionale di aggiornamento per i curatori. Il Ticino si è rivelato un luogo di ritrovo strategico. Come è nato il progetto di organizzare TEDxLugano?
TED ha aperto la possibilità di organizzare conferenze indipendenti sotto il suo marchio nel 2009. Nel 2013 mi sono accorto che in Ticino la maggior parte dei residenti, inclusi gli stranieri, non conosceva la manifestazione. Ho quindi deciso di inoltrare una richiesta a TED a New York. Dopo aver organizzato quattro conferenze annuali ritengo che abbiamo ancora un grande potenziale di crescita. Desideriamo inoltre valutare se introdurre la versione in italiano dei TED Talks per essere più vicini alla comunità locale come avviene ad esempio in Italia. È pure importante sottolineare che la conferenza rappresenta il culmine di un lavoro esteso su tutto l’arco dell’anno durante il quale organizziamo altri dodici eventi finalizzati a facilitare il networking fra i partecipanti. Il loro obiettivo è imparare e condividere, per cui contatti e scambi sono continui. Quest’anno siamo molto soddisfatti anche perché abbiamo avuto un’importante partecipazione delle altre comunità TED presenti in Svizzera. Alcune presentazioni sono state
prettamente tecniche, altre hanno invece evidenziato il ruolo essenziale dell’aspetto umano. Cosa può dire al riguardo?
Abbiamo volutamente scelto relatori che si bilanciano, perché entrambe le prospettive sono importanti per il futuro. Ad esempio la presentazione di Anna Valente, responsabile del Laboratorio di Automazione, Robotica e Macchine alla SUPSI, è incentrata su «Harsh Robotics», i robot che sono in grado di riconfigurarsi per svolgere compiti complessi in ambienti difficili al posto degli operatori. Forse non tutti riescono a capire i dettagli tecnici del suo Talk ma il messaggio è che dobbiamo comunque prepararci a questo futuro nel quale macchine e robot svolgeranno le attività troppo rischiose per l’uomo. Parte invece da un approccio filosofico, parlando di poesia nel business, Fateme Banishoeib, consulente strategica per team e organizzazioni alla ricerca del cambiamento e poetessa. Il business del futuro sarà sicuramente caratterizzato dal ruolo preponderante delle tecnologie, ma ciò non esclude l’importanza degli esseri umani, dell’arte e della poesia. In fondo, pur partendo da punti di vista opposti, il messaggio delle due relatrici va nella medesima direzione. Già il titolo «Challenging the impossible» indica che il Talk di Henrique Jorge è uno di quelli che si spinge molto avanti in quanto al ruolo delle tecnologie nel futuro. Come e perché l’ha scelto?
Premetto che la selezione degli speaker avviene da parte del curatore assieme ad altri due membri del team e si svolge attraverso due canali, la richiesta esterna e su invito. Per l’edizione 2017 abbiamo ricevuto oltre 150 richieste, fra le quali ne abbiamo selezionate una decina. Il por-
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toghese Jorge è stato contattato da noi e siamo fieri che abbia accolto l’invito, perché riteniamo la sua idea di immortalità digitale centrale rispetto alla discussione sulle prospettive del futuro. Il suo progetto di controparte virtuale dell’essere umano – che apprende attraverso l’utilizzo e rimane nel sistema interagendo con il mondo come l’utente anche quando questi è assente – è ancora in fase di sviluppo, ma sicuramente ci obbliga a confrontarci con nuove dimensioni. Per quanto riguarda la composizione del programma vorrei precisare che teniamo conto di diversi equilibri: il già citato rapporto fra approccio tecnico e umanistico, la presenza femminile e maschile e lo spazio da accordare a temi come design, architettura, sport o medicina, argomenti di vario genere che possono interessare la realtà regionale. All’interno del programma trova uno spazio privilegiato anche l’arte con performance pure all’avanguardia.
Non bisogna immaginare TED solo come una conferenza tecnologica o legata a questioni professionali. In realtà si tratta di un evento a 360 gradi che include quindi anche l’espressione artistica. Quest’ultima è oltremodo importante perché rappresenta ciò che sentiamo. In ogni TEDxLugano abbiamo incluso due o tre performer con esibizioni presentate nella zona comune. Quest’anno tre artisti hanno mostrato come la tecnologia possa favorire nuove forme d’arte. Il musicista svizzero Gionata Zanetta ha messo a punto un software attraverso il quale le parole delle sue canzoni si trasformano in immagini; il russo Alexey Sergienko ha realizzato «ritratti emozionali» delle persone; infine Han Sessions ha creato ricordi della giornata riproducendoli su cartoline distribuite al pubblico. Ci sembra che lo sguardo rivolto alle professioni del futuro possa essere in parte riassunto dall’intervento della statunitense Dorie Clark, per la quale bisogna puntare su una «portfolio career».
Personalmente sono d’accordo con la visione di Dorie Clark secondo cui diversificare i flussi di reddito significa nuove competenze, entrate e opzioni di vita. Io stesso ho seguito diverse carriere in settori come quello degli idrocarburi, del business industriale ed ora della banca. In questo modo ho acquisito un’esperienza globale che mi permette di essere utile in qualsiasi funzione manageriale. Il futuro professionale è ancora strettamente legato al futuro delle relazioni umane e TED rappresenta un’esperienza interessante anche da questo punto di vista. Ciò vale sia per i partecipanti, sia per gli organizzatori. Il gruppo di volontari viene ricostituito di anno in anno, il team è dinamico e motivato; gli interessati sono invitati a contattarci. Informazioni
www.TEDxLugano.com
Ecco il programma: Me 18 ottobre – ore 16.00 Suitenhotel Parco Paradiso – Lugano Paradiso «4 chiacchiere con Carla Norghauer…». Me 15 novembre – ore 18.00 Suitenhotel Parco Paradiso – Lugano Paradiso. Monica Piffaretti presenta Rossa è la neve. Do 19 novembre – ore 13.00 Musical Flashdance – Teatro Nazionale, Milano. Trasferta in torpedone. Sa/Do 2-3 dicembre Mercatini di Natale Riccione e Bologna. Sa 2 dicembre – giornata intera Gita alla Glasi di Hergiswil. In treno dal Ticino. Gio 7 dicembre – mattino Visita agli studi di Radio3i e Teleticino. Gio 18 gennaio 2018 – ore 16.30 Hotel Ristorante Pestalozzi – Lugano. Novecento: il secolo delle donne. Conferenza di Yvonne Pesenti Salazar. Ma 30 gennaio 2018 – sera Piccoli crimini coniugali – Teatro Sociale Bellinzona Ve 2 febbraio 2018 – ore 18.00 Suitenhotel Parco Paradiso – Lugano Paradiso. Come mi vesto negli «Anta» – Incontro con Antonella Marzo Cantarelli. Sa 24 febbraio 2018, part. ore 13.00 Musical Mary Poppins – Teatro Nazionale, Milano. Come di consueto gli incontri organizzati a livello locale sono soggetti a una quota di iscrizione di 10.–. Sul sito www.forum-elle.ch sono disponibili tutti i dettagli delle attività, comprese le trasferte, organizzate in collaborazione con Dream Travels di Biasca.
Concorsi di Azione Su www.azione.ch/concorsi in palio biglietti gratuiti per le manifestazioni sostenute dal Percento culturale di Migros Ticino ■ Ghisla Art Collection, Locarno, Domenica 22 ottobre 2017, ore 14.30. Il signore che voleva dimenticare tutto Rappresentazione teatrale-musicaledi e con Francesco Mariotta. Uno spettacolo per bambini dai 4 anni www.ghisla-art.ch ■ Teatro San Materno, Ascona, Domenica 22 ottobre 2017, ore 17.00. Carne / densità Spettacolo con Michel Raji, danzatore coresofo (danza-soffio) e Pierre Blanchut, percussionista www.teatrosanmaterno.ch In collaborazione con
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Sempre sull’orlo Ultimamente alcuni avvenimenti mi hanno richiamato alla memoria due episodi di un passato abbastanza recente, curiosamente simili e ugualmente inquietanti. Ottobre 1962. È in atto la crisi missilistica di Cuba: USA e URSS si minacciano a vicenda. Il tentativo statunitense d’invasione della Baia dei Porci era fallito l’anno prima, e Cuba aveva chiesto alla Russia di piazzare sull’isola missili con testate nucleari per impedire altri tentativi d’attacco e per intimidire l’avversario. E così fu fatto. Ma nell’ottobre del ’62, due ufficiali di comando a bordo del sottomarino russo B-59, armato di missili con testata atomica, decidono di lanciare un missile contro la flottiglia americana che naviga in superficie. Per fortuna, il capitano Vasili Arkhipov si oppone, e la disastrosa operazione è abbandonata. Contemporaneamente, a Okinawa, in Giappone, il comandante statunitense William Bassett ricevet-
te l’ordine di lanciare contro l’URSS quattro missili atomici, ma non volle dargli seguito, avvertendo che qualcosa non quadrava: in effetti, il maggiore che aveva dato arbitrariamente quest’ordine fu poi processato e condannato. 6 settembre 1983. Sui radar del sistema di preallarme sovietico appare improvvisamente il segnale di un missile intercontinentale americano lanciato contro l’URSS. Il protocollo di difesa antiatomica dell’Unione Sovietica prescriveva, in tal caso, un contrattacco immediato; ma il comandante russo Stanislav Petrov fu colto dal dubbio che si trattasse di un errore del sistema e rinviò la decisione, rischiando per questo la corte marziale. La sua prudenza salvò il mondo da un conflitto atomico. Due episodi, dunque, in cui l’umanità fu sull’orlo della catastrofe; due situazioni in cui uomini di buon senso e di salda responsabilità morale impedirono la distruzione del mondo. I nomi di Arkhi-
pov, Bassett e Petrov sono quasi dimenticati, mentre meriterebbero imperitura memoria, anche per rammentare a tutti che dalla ragionevolezza, dalla prudenza e dalla moralità di ciascuno dipende ogni speranza di futuro. Pensavo a questi episodi passati leggendo gli scambi di insulti e di sfide che i capi di due nazioni – Trump e Kim Jong-un – si lanciano l’un l’altro ultimamente. Comincia la provocazione il coreano, lanciando missili con sconsiderata arroganza; Trump allora, all’Assemblea dell’ONU, lo definisce un Madman, un pazzo «che verrà messo alla prova come mai prima d’ora». Al che, Kim ribatte: «Trump è un folle rimbambito che pagherà cara la minaccia di totale distruzione del nostro paese». Trump reagisce deridendo il coreano e definendolo «un piccolo uomo-razzo» che gioca col fuoco. Insomma, oltre alle minacce reciproche, ciascuno dei due accusa l’altro
di essere pazzo. Ed è questo che desta maggiore preoccupazione: se fosse vero? La ragionevolezza pone dei freni, ma la follia li scardina. Nessun uomo dotato di buon senso scatenerebbe oggi una guerra atomica, sapendo bene che non potrebbe uscirne vincitore, perché la distruzione sarebbe reciproca; ma la pazzia non si arresta di fronte a questa banale consapevolezza. Nel 1300 Dino Compagni ricordava con rimpianto le guerre del passato, nelle quali si uccideva poco: in Europa la polvere da sparo non era ancora stata utilizzata. Ma poi, appunto nel XIV secolo, si costruirono i primi cannoni; poi vennero gli schioppi e da lì in avanti fu un progresso continuo – almeno nel numero dei morti ammazzati. Günther Anders, che nel 1954 fu cofondatore del movimento antinucleare, ricordava il giorno in cui la bomba atomica fu sganciata sopra Hiroshima con queste parole: «Il 6 agosto rappre-
sentava il giorno zero di un nuovo computo del tempo: il giorno a partire dal quale l’umanità era irreparabilmente in grado di autodistruggersi». Non credo si possa mettere in dubbio l’attendibilità di questa nuova cronologia; e direi che se dopo la seconda guerra mondiale è subentrato, almeno per l’Occidente, il più lungo periodo di pace di tutta la storia, questo non è ascrivibile ad un miglioramento della natura umana, ma al prevalere della paura. Quanto all’aggressività dell’uomo, per ora ha trovato il modo di manifestarsi in altre forme meno cruente: Friedrich Dürrenmatt, una trentina d’anni fa, giudicava che «quel che ci sta venendo incontro è una guerra economica, la guerra dello smercio ad ogni costo». Insomma, è difficile non pensare a quanto scriveva Jules Michelet nel 1830, subito dopo la Rivoluzione di Luglio: «Con il mondo è iniziata una lotta che deve finire col mondo».
simili ai crocus ma mortali, il volo di una coppia di falchi pellegrini, l’alpe diroccata di Sella, l’anomalo paesino di Erbonne in lontananza, mazze di tamburo nell’erba, foglie di faggi solitari che incominciano ad arrossarsi, larici episodici, ceppi di confine, strappi ripidi da fare umili passo per passo, arrivo mezzo morto all’inizio dei paradisiaci pascoli sommitali. Laggiù emerge delicato dalla bruma, l’alpe Génor. Forse, tra tutte le mie peregrinazioni in Ticino e dintorni, uno degli scorci più estatici che abbia mai visto. Rimarrei qui seduto per ore, ma c’è ancora una mezzoretta buona per la stazione del Generoso. Zampettando sull’erba giallo paglierino del crinale però è quasi sogno e la fatica svanisce. Incomincia l’aria-champagne. In cima, di mazze di tamburo ce n’è una marea e le raccolgo per cena. Impanate sono ottime e non ho mai capito perché tanti le lascino lì. Altro mistero è come mai il patriziato di Rovio si sia bevuto la storiella della marchesa, a meno che
non sia stato invischiato nella copertura spionistica interbellica. Saluto le capre e tiro dritto verso la vetta dove ritrovo il genere umano chiacchierone. Il panorama non è neanche da dire: dagli appennini emiliani alle alpi innevate al gran completo con una menzione speciale al Monte Rosa. Ed eccola là la casa della matta (1693 m), sulla cima del Baraghetto, in pieno sole. Una casamatta da manuale, in cemento con una finestra vuota. Mimetizzata tra i torrioni stratificati di calcare selcifero lombardo che ha duecento milioni di anni e il manto erboso, da qui si vede benissimo. Non la si noterebbe quasi neanche però, senza la copertura di una volta a botte in alluminio posata nel 2010 in elicottero. Dopo decenni di abbandono è stata infatti ristrutturata per mano dell’architetto Marco Conza e oggi è un deposito per il Club Alpino Svizzero e il Club Alpino Italiano. Un bunker acrobatico favoleggiato dalla marchesa Nobili-Vitelleschi come «luogo di riposo e tranquillità necessa-
rio per gli studi di filosofia religiosa». Io solo a mettere fuori il naso da lì morirei di vertigini, ma sfido chiunque a trovare riposo e tranquillità sopra quello strapiombo. La cosa più pazzesca però di questo ipotetico arrocco dal mondo tra quelle rocce cubiste contenenti gusci di molluschi marini è che, secondo le meticolose ricerche di Graziano Papa, la marchesa sembra essere esistita veramente. Morta all’ospedale civico di Lugano, passa gli ultimi anni della sua vita in un due locali in via Carona venticinque a Paradiso. Parlava italiano con un accento e il suo grande amore mancato è stato Gandhi. È andata persino in India a trovarlo ma è stata respinta. La si vedeva spesso ai tavoli verdi del compianto casinò di Campione, oltre che al Münger di via Geretta. Una cameriera in pensione mi ha detto che andava matta per i vermicelles con meringhe e panna. Raccontava a volte di Ostenda, da bambina: la spiaggia sconfinata, il rosa dello zucchero filato, l’odore del mare calmo, cose così.
tende a uno scetticismo, ormai doveroso. I cittadini si sentono sollecitati, anzi autorizzati, a non lasciarsi imbrogliare, dimostrandosi accorti e diffidenti nei confronti dei cosiddetti centri di potere, politico, economico, scientifico, culturale che siano. Con conseguenze a loro volta allarmanti. Si sta, vistosamente, allargando il divario fra i dati forniti dall’Ufficio federale di statistica, dalla Seco, dalla Polizia cantonale, dalla Camera di commercio, persino dai sindacati, e i comuni cittadini, sempre più propensi a dubitare della veridicità di informazioni rassicuranti. È il caso, in particolare, delle cifre concernenti la disoccupazione, il dumping salariale e, non da ultimo, la criminalità. Smentite sul piano del vissuto quotidiano. Dove si respirano ben altri umori, un senso di precarietà, di disagio, di paura che sfocia nel rimpianto. Quel «si stava meglio una volta» non è più soltanto un modo di dire, ma ha alimentato una vera e propria cultura della nostalgia
che, riabilitando il passato, condanna il presente e oscura il futuro. Al di là di un’evidente irrazionalità, la tendenza è contagiosa, e cresce grazie al sostegno dei media che, nella diffusione di notizie inquietanti in vista di prossime sciagure, ci sguazzano. Ma su questo fronte si assiste, negli ultimi tempi, a un ripensamento. Si potrebbe definire la sfida dell’ottimismo. Non si propone, figurarsi, di abbellire la realtà, passando sotto silenzio guai, sofferenze, minacce, bensì di rinunciare al sensazionalismo, destinato ad appagare quell’inconfessabile curiosità, che ci cova dentro, per gli aspetti negativi della vita pubblica e privata. Precisando, però, che delitti, guerre, violenze, se fanno, ovviamente, notizia, non sono un’invenzione attuale. Anzi, una volta era peggio. È un’operazione giornalistica che vede impegnate testate importanti. A cominciare dalla «Neue Zürcher Zeitung», che ha dedicato il suo mensile di settembre alle «Buone notizie»: rompendo un
tabù professionale, meritano di fare notizia. E, in queste pagine, compaiono dati che raccontano un mondo, spesso ignorato, «che va meglio, anche se non tutto va bene». Si apprende, così, che oggi su 100 bambini, 86 frequentano la scuola, mentre, nel 1820 erano 17. Sempre in quell’anno, una persona su 100 viveva in un paese democratico, oggi sono 56. E via enumerando cifre eloquenti, in cui credere. Alla stessa esigenza ha risposto il «Corriere della Sera» che, da fine settembre, pubblica il supplemento «Buone notizie, l’impresa del bene», dedicato alle storie e alla creatività del cosiddetto Terzo settore, dove operano volontari, fondazioni, imprese sociali. Aprendo una parentesi, questo supplemento, al pari degli altri allegati a questo quotidiano, non arriva in Ticino. Ma, per concludere, non va dimenticato che il catastrofismo è diventato un’arma abilmente sfruttata da movimenti e partiti populisti, che decantano un ritorno ai bei tempi che furono.
A due passi di Oliver Scharpf La casa della matta a Rovio Sul Generoso, arroccata tra le torri di roccia calcarea sedimentaria, c’è una casa. Da lontano sembra una delle inaccessibili case dei pagani in Valle di Blenio. È la Casa della Marchesa, meglio nota a Rovio come la ca’ da la mata: la casa della matta. Si racconta che la marchesa Carla Nobili Vitelleschi, residente a Roma, per via di studi filosofico-religiosi alla fine degli anni trenta si sia rifugiata lassù, in località Baraghetto. Improbabile come storia visto che il posto è impervio pure per i camosci e lì uno studioso tedesco, di fulmini però, è morto cadendo giù dal dirupo. Eppure questa storia apparentemente da bar è confermata dall’avvocato ambientalista Graziano Papa – nel testo intitolato Dalla cima leggere e pensare il panorama e pubblicato nel libro La scoperta del Generoso (2011) – che scova, per quella cengia inospitale, un regolare contratto di superficie tra la marchesa e il patriziato di Rovio. Abbastanza impossibile salire da Rovio per un non alpinista con le vertigini, un po’
da scansafatiche il trenino a cremagliera da Capolago, parto da Scudellate. In cima alla Valle di Muggio. Così, verso le nove di un mattino a metà ottobre, bevo un caffè fuori dall’Osteria Manciana. Se vi capita buttate un occhio anche dentro, c’è un negozietto fermo agli anni quaranta dove avvisto vasi di porcini essiccati, polenta del mulino di Bruzella, formaggini nascosti dietro la retina di un’antica dispensa, l’autocollante delle sigarette Gallant a forma di ragazza scosciata con gonnellina da tennista anni settanta che attraverso una nuvoletta fumettistica afferma: «infiammatevi!». Chiaro già in partenza, vedendola in foto, che la casa della matta è una casamatta: un bunker. E la marchesa una spia o un prestanome. La mulattiera inizia alle spalle del cimitero ed entra nel bosco all’altezza della cappella di Sant’Antonio. Qui il sentiero per il Generoso sale subito di petto. In un’ora e mezza, tra faggete scoscese, il roccolo Merì, il violetto inatteso dei colchici d’autunno molto
Mode e modi di Luciana Caglio Buone notizie: ma chi ci crede? «Tutto va per il meglio»: proprio così s’intitolava l’intervista con lo storico svedese Johan Norberg, pubblicata sul «Tages Anzeiger», non a caso il 25 dicembre scorso. Conteneva un messaggio su misura per la festività, che confermava la fama del personaggio, considerato «il più grande ottimista del mondo». Rivolgendosi ai lettori svizzeri, spiegava i motivi che giustificano
Johan Norberg. (Wikimedia)
questa rosea visione delle cose, non campata in aria, basata invece su dati di fatto inconfutabili. E li enumerava: cresce incessantemente la longevità, cala la mortalità infantile anche nel Terzo mondo, si allarga l’accesso all’istruzione e alla cultura, diminuisce la criminalità, in Europa dimezzata rispetto al 1990, si allenta anche la morsa della miseria estrema, da cui, precisava Norberg, «escono, in Africa e in Asia, cento persone ogni minuto». Per poi concludere: «Mai come oggi così tante persone sono in grado di godere i vantaggi del benessere e della libertà. Tutto ciò grazie alla scienza, alla tecnologia, all’intraprendenza individuale che, nei paesi democratici, funzionano». Ma, proprio in questi stessi paesi, compreso il nostro, funziona anche lo spirito critico, che non ha certo risparmiato lo storico svedese. Le sue esternazioni, giudicate addirittura blasfeme, sembravano negare, persino rovesciare, convinzioni, oggi sempre più diffuse e radicate in un’opinione pubblica che
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Ambiente e Benessere Un draghetto portentoso Le stupefacenti risorse del tritone alpino, piccolo e simpatico anfibio europeo
L’impatto economico delle api Un nuovo studio stima le perdite in cui incorrerebbe l’agricoltura svizzera se dovessero scomparire gli insetti impollinatori
A colpi di remi sui canali Storia e segreti della gondola, simbolo della Venezia storica e turistica
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Adottate un gonfiabile! Inseparabili amici durante le ferie al mare, finiscono per essere abbandonati. L’Hipotels Gran Playa di Palma di Maiorca invita i turisti ad adottarne uno
Il tritone alpino: un drago in miniatura Mondo sommerso O ltre a essere un animale affascinante è persino un pioniere della medicina rigenerativa
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Quanta vita può contenere al suo interno un semplice acquitrino, uno stagno, un biotopo? Un microcosmo liquido, un’infinità di uova, di larve, di anfibi, in perfetto equilibrio fra loro e il loro ambiente. Cercando molto bene, potremmo anche scovare gli elusivi tritoni, che solitamente se ne stanno ben nascosti fra la vegetazione acquatica.
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L’insufficienza renale cronica
I tritoni e le salamandre sono in grado di ricostruire ogni organo del proprio corpo andato distrutto
Medicina La terapia sostitutiva renale
comprende un ventaglio di possibilità terapeutiche tra le quali l’emodialisi
Maria Grazia Buletti «Nel 2000 la mia insufficienza renale mi ha portato per la prima volta a dovermi sottoporre all’emodialisi. Poi, nel 2002 mi sono sottoposto a un trapianto di rene che è durato fino al 2013, quando sono ritornato all’emodialisi a cui tutt’oggi mi sottopongo per quattro ore, tre volte alla settimana». Incontriamo il signor Levon Manukyan all’Ospedale Regionale di Lugano (Orl), nel nuovo reparto di emodialisi che lo accoglie insieme ad altri pazienti. Come egli stesso ci ha raccontato, vi si reca tre mattine ogni settimana per quella che è una terapia sostitutiva della funzionalità renale criticamente ridotta, trattamento senza il quale non gli sarebbe possibile sopravvivere. «La natura è molto generosa e ci ha dato due reni proprio come misura di sicurezza funzionale; essi sono organi vitali con il compito di filtrare il sangue per mantenerlo pulito dalle scorie del metabolismo. Producono inoltre ormoni necessari a garantire ossa forti e sangue sano. Se cessano di funzionare si assiste a un accumulo di sostanze di scarto che diventano tossiche. Ma solo quando la loro funzione si avvicina al 10% si rende necessaria quella che noi chiamiamo una terapia sostitutiva renale», esordisce il primario di nefrologia dell’Orl Carlo Schönholzer che vanta una trentennale esperienza nel campo specifico e sottolinea che il 10% è solo indicativo e non un limite assoluto: «Noi non dializziamo per cifre, ma consideriamo ciascun paziente nella sua storia personale relativamente ai suoi disturbi». Disturbi come stanchezza, inappetenza, meno voglia di mangiare proteine, nausea… «Disturbi che, sorprendentemente, il paziente non manifesta fino al momento in cui la
Videointervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista con il primario di nefrologia dell’Orl Carlo Schönholzer.
funzionalità renale scende al 20% o persino meno, ma che si acutizzano attorno al 10%. È a quel punto che cominciano i problemi maggiori. E allora si considera, come dicevamo, una terapia renale sostitutiva» spiega Schönholzer. Le statistiche nordamericane (e questo vale anche per la Svizzera) mostrano che l’insufficienza renale cronica colpisce un 10% della popolazione adulta. Si tratta però di una malattia degli anziani, in quanto dai 70 agli 80 anni essa sale al 20/30%, anche se poi solo una piccola parte di questi pazienti ha una progressione fino ad essere dialisi-richiedente». Si tratta pur sempre di una malattia cronica «della quale possiamo rallentare la progressione, ma anche questo discorso è molto individuale da paziente a paziente» spiega il nefrologo. Egli descrive come relativamente rara l’eventualità che l’insufficienza renale sia dovuta a una malattia renale vera e propria: può colpire persone giovani e più anziane, ma molto più spesso si tratta di un danno renale come conseguenza di altre patologie primarie quali l’ipertensione arteriosa, diabete e fumo. Per evitare la necessità di sottoporsi a dialisi, la terapia consiste in farmaci, una dieta con consumo limitato di proteine animali e di sale, e nella sospensione del fumo di sigarette, tutto con lo scopo di ritardare la progressione della malattia. Di insufficienza renale non si guarisce, ma un approccio multidisciplinare consente di accompagnare il paziente nelle cure, garantendogli la possibilità di usufruire di diversi servizi complementari tra cui il dietista, sostegno psicologico, assistenti sociali e quant’altro. In quanto alla presa a carico nefrologica: «La terapia renale sostitutiva può essere l’emodialisi, la dialisi peritoneale (ndr: il processo di depurazione del sangue avviene all’interno dell’organismo sfruttando come membrana dializzante il peritoneo) o un eventuale trapianto renale». Il dottor Schönholzer ribadisce la volontà di offrire a ciascun paziente soluzioni personalizzate: «Può trattarsi dell’emodialisi all’Ospedale, nel nostro nuovo reparto, ma anche a domicilio, emodialisi in casa per anziani (a Lugano, a Casa Serena, disponiamo di un centro di emodialisi, unico in Svizzera), dialisi peritoneale che il paziente può fare a domicilio, assistita o autonomamente. Fino al trapianto per il quale annunciamo la persona su una lista d’attesa e lo accompagniamo lungo l’iter di preparazione».
L’Ichthyosaura alpestris, comunemente noto come tritone alpino, è un piccolo anfibio, una specie montana che normalmente vive nelle zone collinari e montuose europee, prevalentemente ad altitudini comprese tra 500 e 2000 m/ slm. Essendo robusto, riesce a popolare anche zone umide sopra la fascia alpina, oltre i 2500 m. Il maschio non supera i nove centimetri di lunghezza, coda compresa, e nel periodo riproduttivo si trasforma in modo strabiliante: la coda si allarga a bandiera; il dorso si orna di una vistosa cresta dai margini frastagliati che lo rende simile a un drago in miniatura; il ventre color ocra/arancione maculato intensifica la colorazione; la sottile linea blu scuro che separa il dorso dal ventre si ampia e crea una larga fascia turchese punteggiata di nero. La femmina è di dimensioni maggiori del compagno (può raggiungere i 12 cm di lunghezza) e ha una colorazione meno appariscente; il manto è uniforme variabile dal beige/marrone al verdognolo/nero, con il ventre color arancione pallido ed è priva sia della cresta dorsale, sia della fascia longitudinale. Nel periodo dell’accoppiamento, che va da aprile a giugno, il tritone alpino popola acque stagnanti o con lentissimo deflusso, e ricche di rigogliosa vegetazione subacquea, come torbiere, stagni, abbeveratoi, ove si nutre di macroinvertebrati acquatici, di uova e larve di altri anfibi; mostra pure una
tendenza al cannibalismo, cibandosi anche di giovani della propria specie. Per il resto dell’anno si nasconde solitamente in tronchi marcescenti, sotto pietre o in piccole fessure, dalle quali esce nelle ore notturne delle giornate più umide per nutrirsi di insetti e invertebrati. Terminato il periodo degli amori, il bellissimo drago in miniatura si trasforma nuovamente e veste livree dai colori più tenui, bruni; la pelle si ispessisce, diventa più ruvida e idrorepellente, perde i colori iridescenti e scompare la cresta dorsale. Le parate nuziali dei maschi sono un vero e proprio spettacolo della natura, che vede questi piccoli draghi acquatici compiere movimenti rituali che hanno come obiettivo quello di stimolare la femmina prescelta all’accoppiamento, con segnali odorosi (feromoni) e visivi.
Recentemente i tritoni sono balzati agli onori della cronaca per una caratteristica che sembrerebbe essere unica nel regno animale: una doppia capacità di rigenerazione di organi, tessuti e arti, che spalanca nuovi percorsi di ricerca nel campo della medicina rigenerativa, cioè quella branca innovativa che studia come riparare organi adulti danneggiati restituendo loro le funzioni e le strutture originarie degli organi sani. Lo studio, pubblicato sulla rivista «Nature Communications», è stato condotto da Chikafumi Chiba, dell’università giapponese di Tsukuba, e da Panagiotis Tsonis, dell’università americana di Dayton. I tritoni e le salamandre sono in grado di ricostruire ogni organo del proprio corpo andato distrutto, sia durante la loro fase larvale, sia durante la vita adulta, mentre nell’uomo e negli altri vertebrati adulti gli organi non si
rigenerano e sono pertanto soggetti sia alle malattie degenerative, sia alla totale perdita in caso di incidenti o malattie gravi. L’arto di un tritone, tranne la dimensione e la forma, non differisce molto da quello umano: è composto principalmente da pelle, derma, scheletro osseo, muscoli, legamenti, tendini, nervi e vasi sanguigni. Una grande quantità di cellule chiamate fibroblasti contribuiscono a creare la forma dell’arto. Tuttavia i tritoni e le salamandre adulti riescono a rigenerare un arto andato perduto, a prescindere da quante volte e in quale punto esso venga amputato; alcuni anfibi, come le rane, allo stadio larvale (girini) riescono a rigenerare gli organi, ma ne diventano incapaci in età adulta; tutti gli altri vertebrati ne sono incapaci. Alcuni mammiferi allo stadio embrionale riescono a rigenerare alcuni tessuti degli
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Levon Manukyan nel reparto di emodialisi e il primario di nefrologia dell’OrL, Carlo Schönholzer. (Vincenzo Cammarata)
Nel 2018 il reparto di Emodialisi dell’OrL raggiungerà i 50 anni di attività; pratica 15mila trattamenti di emodialisi all’anno per un centinaio di pazienti fra ambulanti e degenti, e quest’anno è stato completamente rinnovato e offre, oltre al trattamento con tecnologie avanzate, sicurezza e confort per tutti i pazienti. Non dobbiamo dimenticare che queste persone vi trascorrono gran parte del loro tempo e che il trattamento non è sempre facile da sostenere. Personale ben formato e specializzato, conoscenza reciproca approfondita nell’accompagnamento di ciascun paziente, spazi di lavoro confortevoli e sicuri fanno la differenza. Ritornando alla testimonianza del signor Manukyan, egli ci confida le difficoltà di accettazione iniziali di
questa condizione, correlate al fatto di dipendere così strettamente da una macchina senza la quale, detto da lui: «non sarei sopravvissuto». Facendosi portavoce anche dei suoi compagni di stanza, egli afferma: «Oggi ho imparato a vivere questa condizione in modo più rilassato e nella stanza dove mi sottopongo a emodialisi siamo un gruppo di tre pazienti: chiacchieriamo, disponiamo di un tablet che ci permette di trascorrere il tempo in modo variato, leggiamo e ci affidiamo al personale infermieristico che oramai è un po’ la nostra seconda famiglia». Fondamentale il rapporto di conoscenza e relazionale che si instaura tra pazienti e curanti: «La paziente che più a lungo ha fatto l’emodialisi da noi ha iniziato all’epoca della pietra», sor-
ride il nefrologo raccontandoci che questa signora fece emodialisi per più di trent’anni. «Stiamo però curando anche un paziente che è stato trapiantato 32 anni fa e ci occupiamo di parecchi pazienti trapiantati più di 25 anni fa. Siamo contenti di questo centro di emodialisi e siamo altresì molto favoraevoli a incentivare i trattamenti a domicilio o in casa per anziani» conclude il dottor Schöhnholzer. Dal canto suo, il nostro paziente ci regala una saggia riflessione: «Quando ci rendiamo conto che la nostra vita di pazienti dializzati dipende da questa macchina, lo accettiamo e ci abituiamo e questo ci permette di viverla in modo meno pesante. In fondo, qualsiasi difficoltà bisogna affrontarla con un po’ di coraggio».
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
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arti, ma perdono questa capacità innata ben prima di nascere. La primissima risposta dei mammiferi conseguente all’amputazione di un arto non è molto diversa, sia che si tratti di tritoni, sia che si tratti di persone. Tuttavia i tessuti dei mammiferi proseguono creando una serie di impulsi rigenerativi errati che terminano con una cicatrice, mentre quelli dei tritoni e delle salamandre ricostruiscono l’arto amputato. I ricercatori hanno anche scoperto che l’abilità ricostruttiva dei tritoni è diversa da quella delle salamandre. Alcuni embrioni di tritone sono stati fatti sviluppare fino allo stadio di larva (tre mesi), altri fino all’età adulta (16 mesi) e a tutti è stato rimosso un arto. Monitorando la ricrescita dei tessuti, grazie a una proteina fluorescente, è stato scoperto che le larve e gli adulti hanno meccanismi di rigenerazione diversi. Nel tritone in fase larvale i nuovi tessuti sono nati a partire da cellule staminali progenitrici dei muscoli, delle quali esiste ancora una nutrita scorta in quella età, che però si assottiglia notevolmente dopo la metamorfosi. Negli esemplari adulti invece vengono attivate le cellule (adulte) delle fibre muscolo-scheletriche, le quali regrediscono temporaneamente a uno stato meno differenziato e si moltiplicano creando cellule che successivamente si differenziano e si tramutano nei componenti dell’arto mancante. I mammiferi non sono in grado di rigenerare un arto amputato perché i processi rigenerativi hanno perso efficienza. Tuttavia riusciamo ad attivarli: nel processo di guarigione, in base al tipo di ferita, la funzionalità nel punto del taglio viene ripristinata entro alcune settimane. Nella zona dell’amputazione chiamata blastema, si formano delle cellule che derivano dal de-differenziamento di tessuti, le quali sono in grado di retrocedere a uno stadio antecedente. L’incapacità di sollecitare la formazione del blastema è uno degli elementi che ci differenzia dalle specie animali che rigenerano. Nella zona dell’amputazione si forma una sorta di tappo di chiusura che isola la ferita; questo coagulo è formato da uno strato di cellule epidermiche ed è la condizione essenziale per la formazione del blastema. Se si blocca con una garza la ferita e si impedisce alle cellule di ricoprire la zona dell’amputazione, il blastema non si forma. Subito dopo la formazione dello strato di cellule epidermiche, avvengono tutti i meccanismi di dedifferenziamento. Sono state avanzate tre teorie principali per spiegare la formazione del blastema; tutte e tre si basano sul fatto che le cellule differenziate retrocedono a uno stadio antecedente, si de-differenziano. Queste recenti scoperte e l’impulso dato alla ricerca nel campo della medicina rigenerativa fanno ben sperare per il futuro di persone soggette a malattie degenerative, a quelle colpite da infarto miocardico, ai grandi ustionati, a tutti coloro che subiscono traumi. Grazie allo studio dei draghi in miniatura. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Ambiente e Benessere Un draghetto portentoso Le stupefacenti risorse del tritone alpino, piccolo e simpatico anfibio europeo
L’impatto economico delle api Un nuovo studio stima le perdite in cui incorrerebbe l’agricoltura svizzera se dovessero scomparire gli insetti impollinatori
A colpi di remi sui canali Storia e segreti della gondola, simbolo della Venezia storica e turistica
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Adottate un gonfiabile! Inseparabili amici durante le ferie al mare, finiscono per essere abbandonati. L’Hipotels Gran Playa di Palma di Maiorca invita i turisti ad adottarne uno
Il tritone alpino: un drago in miniatura Mondo sommerso O ltre a essere un animale affascinante è persino un pioniere della medicina rigenerativa
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Sabrina Belloni, foto di Franco Banfi
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Quanta vita può contenere al suo interno un semplice acquitrino, uno stagno, un biotopo? Un microcosmo liquido, un’infinità di uova, di larve, di anfibi, in perfetto equilibrio fra loro e il loro ambiente. Cercando molto bene, potremmo anche scovare gli elusivi tritoni, che solitamente se ne stanno ben nascosti fra la vegetazione acquatica.
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L’insufficienza renale cronica
I tritoni e le salamandre sono in grado di ricostruire ogni organo del proprio corpo andato distrutto
Medicina La terapia sostitutiva renale
comprende un ventaglio di possibilità terapeutiche tra le quali l’emodialisi
Maria Grazia Buletti «Nel 2000 la mia insufficienza renale mi ha portato per la prima volta a dovermi sottoporre all’emodialisi. Poi, nel 2002 mi sono sottoposto a un trapianto di rene che è durato fino al 2013, quando sono ritornato all’emodialisi a cui tutt’oggi mi sottopongo per quattro ore, tre volte alla settimana». Incontriamo il signor Levon Manukyan all’Ospedale Regionale di Lugano (Orl), nel nuovo reparto di emodialisi che lo accoglie insieme ad altri pazienti. Come egli stesso ci ha raccontato, vi si reca tre mattine ogni settimana per quella che è una terapia sostitutiva della funzionalità renale criticamente ridotta, trattamento senza il quale non gli sarebbe possibile sopravvivere. «La natura è molto generosa e ci ha dato due reni proprio come misura di sicurezza funzionale; essi sono organi vitali con il compito di filtrare il sangue per mantenerlo pulito dalle scorie del metabolismo. Producono inoltre ormoni necessari a garantire ossa forti e sangue sano. Se cessano di funzionare si assiste a un accumulo di sostanze di scarto che diventano tossiche. Ma solo quando la loro funzione si avvicina al 10% si rende necessaria quella che noi chiamiamo una terapia sostitutiva renale», esordisce il primario di nefrologia dell’Orl Carlo Schönholzer che vanta una trentennale esperienza nel campo specifico e sottolinea che il 10% è solo indicativo e non un limite assoluto: «Noi non dializziamo per cifre, ma consideriamo ciascun paziente nella sua storia personale relativamente ai suoi disturbi». Disturbi come stanchezza, inappetenza, meno voglia di mangiare proteine, nausea… «Disturbi che, sorprendentemente, il paziente non manifesta fino al momento in cui la
Videointervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista con il primario di nefrologia dell’Orl Carlo Schönholzer.
funzionalità renale scende al 20% o persino meno, ma che si acutizzano attorno al 10%. È a quel punto che cominciano i problemi maggiori. E allora si considera, come dicevamo, una terapia renale sostitutiva» spiega Schönholzer. Le statistiche nordamericane (e questo vale anche per la Svizzera) mostrano che l’insufficienza renale cronica colpisce un 10% della popolazione adulta. Si tratta però di una malattia degli anziani, in quanto dai 70 agli 80 anni essa sale al 20/30%, anche se poi solo una piccola parte di questi pazienti ha una progressione fino ad essere dialisi-richiedente». Si tratta pur sempre di una malattia cronica «della quale possiamo rallentare la progressione, ma anche questo discorso è molto individuale da paziente a paziente» spiega il nefrologo. Egli descrive come relativamente rara l’eventualità che l’insufficienza renale sia dovuta a una malattia renale vera e propria: può colpire persone giovani e più anziane, ma molto più spesso si tratta di un danno renale come conseguenza di altre patologie primarie quali l’ipertensione arteriosa, diabete e fumo. Per evitare la necessità di sottoporsi a dialisi, la terapia consiste in farmaci, una dieta con consumo limitato di proteine animali e di sale, e nella sospensione del fumo di sigarette, tutto con lo scopo di ritardare la progressione della malattia. Di insufficienza renale non si guarisce, ma un approccio multidisciplinare consente di accompagnare il paziente nelle cure, garantendogli la possibilità di usufruire di diversi servizi complementari tra cui il dietista, sostegno psicologico, assistenti sociali e quant’altro. In quanto alla presa a carico nefrologica: «La terapia renale sostitutiva può essere l’emodialisi, la dialisi peritoneale (ndr: il processo di depurazione del sangue avviene all’interno dell’organismo sfruttando come membrana dializzante il peritoneo) o un eventuale trapianto renale». Il dottor Schönholzer ribadisce la volontà di offrire a ciascun paziente soluzioni personalizzate: «Può trattarsi dell’emodialisi all’Ospedale, nel nostro nuovo reparto, ma anche a domicilio, emodialisi in casa per anziani (a Lugano, a Casa Serena, disponiamo di un centro di emodialisi, unico in Svizzera), dialisi peritoneale che il paziente può fare a domicilio, assistita o autonomamente. Fino al trapianto per il quale annunciamo la persona su una lista d’attesa e lo accompagniamo lungo l’iter di preparazione».
L’Ichthyosaura alpestris, comunemente noto come tritone alpino, è un piccolo anfibio, una specie montana che normalmente vive nelle zone collinari e montuose europee, prevalentemente ad altitudini comprese tra 500 e 2000 m/ slm. Essendo robusto, riesce a popolare anche zone umide sopra la fascia alpina, oltre i 2500 m. Il maschio non supera i nove centimetri di lunghezza, coda compresa, e nel periodo riproduttivo si trasforma in modo strabiliante: la coda si allarga a bandiera; il dorso si orna di una vistosa cresta dai margini frastagliati che lo rende simile a un drago in miniatura; il ventre color ocra/arancione maculato intensifica la colorazione; la sottile linea blu scuro che separa il dorso dal ventre si ampia e crea una larga fascia turchese punteggiata di nero. La femmina è di dimensioni maggiori del compagno (può raggiungere i 12 cm di lunghezza) e ha una colorazione meno appariscente; il manto è uniforme variabile dal beige/marrone al verdognolo/nero, con il ventre color arancione pallido ed è priva sia della cresta dorsale, sia della fascia longitudinale. Nel periodo dell’accoppiamento, che va da aprile a giugno, il tritone alpino popola acque stagnanti o con lentissimo deflusso, e ricche di rigogliosa vegetazione subacquea, come torbiere, stagni, abbeveratoi, ove si nutre di macroinvertebrati acquatici, di uova e larve di altri anfibi; mostra pure una
tendenza al cannibalismo, cibandosi anche di giovani della propria specie. Per il resto dell’anno si nasconde solitamente in tronchi marcescenti, sotto pietre o in piccole fessure, dalle quali esce nelle ore notturne delle giornate più umide per nutrirsi di insetti e invertebrati. Terminato il periodo degli amori, il bellissimo drago in miniatura si trasforma nuovamente e veste livree dai colori più tenui, bruni; la pelle si ispessisce, diventa più ruvida e idrorepellente, perde i colori iridescenti e scompare la cresta dorsale. Le parate nuziali dei maschi sono un vero e proprio spettacolo della natura, che vede questi piccoli draghi acquatici compiere movimenti rituali che hanno come obiettivo quello di stimolare la femmina prescelta all’accoppiamento, con segnali odorosi (feromoni) e visivi.
Recentemente i tritoni sono balzati agli onori della cronaca per una caratteristica che sembrerebbe essere unica nel regno animale: una doppia capacità di rigenerazione di organi, tessuti e arti, che spalanca nuovi percorsi di ricerca nel campo della medicina rigenerativa, cioè quella branca innovativa che studia come riparare organi adulti danneggiati restituendo loro le funzioni e le strutture originarie degli organi sani. Lo studio, pubblicato sulla rivista «Nature Communications», è stato condotto da Chikafumi Chiba, dell’università giapponese di Tsukuba, e da Panagiotis Tsonis, dell’università americana di Dayton. I tritoni e le salamandre sono in grado di ricostruire ogni organo del proprio corpo andato distrutto, sia durante la loro fase larvale, sia durante la vita adulta, mentre nell’uomo e negli altri vertebrati adulti gli organi non si
rigenerano e sono pertanto soggetti sia alle malattie degenerative, sia alla totale perdita in caso di incidenti o malattie gravi. L’arto di un tritone, tranne la dimensione e la forma, non differisce molto da quello umano: è composto principalmente da pelle, derma, scheletro osseo, muscoli, legamenti, tendini, nervi e vasi sanguigni. Una grande quantità di cellule chiamate fibroblasti contribuiscono a creare la forma dell’arto. Tuttavia i tritoni e le salamandre adulti riescono a rigenerare un arto andato perduto, a prescindere da quante volte e in quale punto esso venga amputato; alcuni anfibi, come le rane, allo stadio larvale (girini) riescono a rigenerare gli organi, ma ne diventano incapaci in età adulta; tutti gli altri vertebrati ne sono incapaci. Alcuni mammiferi allo stadio embrionale riescono a rigenerare alcuni tessuti degli
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questa condizione, correlate al fatto di dipendere così strettamente da una macchina senza la quale, detto da lui: «non sarei sopravvissuto». Facendosi portavoce anche dei suoi compagni di stanza, egli afferma: «Oggi ho imparato a vivere questa condizione in modo più rilassato e nella stanza dove mi sottopongo a emodialisi siamo un gruppo di tre pazienti: chiacchieriamo, disponiamo di un tablet che ci permette di trascorrere il tempo in modo variato, leggiamo e ci affidiamo al personale infermieristico che oramai è un po’ la nostra seconda famiglia». Fondamentale il rapporto di conoscenza e relazionale che si instaura tra pazienti e curanti: «La paziente che più a lungo ha fatto l’emodialisi da noi ha iniziato all’epoca della pietra», sor-
ride il nefrologo raccontandoci che questa signora fece emodialisi per più di trent’anni. «Stiamo però curando anche un paziente che è stato trapiantato 32 anni fa e ci occupiamo di parecchi pazienti trapiantati più di 25 anni fa. Siamo contenti di questo centro di emodialisi e siamo altresì molto favoraevoli a incentivare i trattamenti a domicilio o in casa per anziani» conclude il dottor Schöhnholzer. Dal canto suo, il nostro paziente ci regala una saggia riflessione: «Quando ci rendiamo conto che la nostra vita di pazienti dializzati dipende da questa macchina, lo accettiamo e ci abituiamo e questo ci permette di viverla in modo meno pesante. In fondo, qualsiasi difficoltà bisogna affrontarla con un po’ di coraggio».
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Ambiente e Benessere
Ambiente e Benessere
Il valore degli insetti impollinatori
Ricerca Agroscope ha aggiornato lo studio del 2005 concernente l’impatto economico dell’impollinazione
per l’agricoltura in Svizzera
Daniele Besomi Tempo fa avevamo illustrato in un articolo per «Azione» i problemi teorici e pratici insiti nella questione del valore degli insetti impollinatori in generale, e delle api mellifere in particolare (Quanto vale il volo di un’ape, «Azione 15», del 7 aprile 2014). Uno dei metodi di stima discussi in quell’articolo è stato recentemente applicato dai ricercatori di Agroscope per valutare il contributo degli insetti impollinatori all’agricoltura svizzera, aggiornando così parzialmente l’unico studio sul tema (pubblicato da altri ricercatori di Agroscope) che datava 2005. Nello studio precedente si consideravano unicamente i frutti e le bacche, che sono impollinati in modo preponderante (80%) da insetti impollinatori. Il contributo delle api all’agricoltura veniva stimato attribuendo alle api l’80% del valore di mercato della produzione di frutta e bacche in Svizzera: dei 335 milioni ricavati dalla vendita di questi prodotti in Svizzera nel 2002, se ne attribuivano 271 alle api; questo corrispondeva a 1260 franchi in media per le circa 200mila arnie attive in Svizzera nel corso di quell’anno. In assenza di un mercato dell’impollinazione come quello presente negli Stati Uniti, dove gli apicoltori affittano le proprie arnie a frutticoltori e orticoltori in cambio di tariffe specifiche, in Svizzera l’apicoltore per questa prestazione delle sue api non incassa nulla. L’apicoltore riceve però un par-
Ape mellifera che trasporta polline da un fiore di Dente di leone all’altro, in un prato da foraggio. (Daniele Besomi)
ziale beneficio in termini di accresciuta produzione di miele e di raccolto di polline che serve allo sviluppo delle api (e che potrebbe anche essere commercializzato). Il valore medio per arnia della produzione di miele e altri prodotti delle api in quell’anno è stato di 258 franchi,
una parte dei quali erano dunque attribuibili all’agricoltura: molto meno, comunque, di quanto le api contribuiscono alla produzione di frutta. La nuova valutazione si concentra unicamente sul contributo degli insetti impollinatori all’agricoltura e non si
preoccupa dunque della remunerazione dell’apicoltore. In secondo luogo non distingue le api dagli altri insetti impollinatori: è ormai noto che l’ape mellifera contribuisce in modo determinante per certe colture mentre altri raccolti dipendono piuttosto da altri insetti (in buona
parte anch’essi, come l’ape mellifera, appartenenti alla grande famiglia degli Apoidei, che in Svizzera conta circa 400 specie), tanto che si può stimare che in media le api sono responsabili solo di metà dell’impollinazione. In particolare, l’ape domestica è scarsamente attiva nei giorni più freddi e in caso di leggera pioggia, mentre alcune api selvatiche (soprattutto i bombi) lavorano anche in condizioni più proibitive, e sono dunque particolarmente importanti per le fioriture precoci – gli alberi da frutta, in particolare. In terzo luogo, il terzo studio considera uno spettro più ampio di prodotti agricoli: non solo bacche e frutta, ma anche colza, girasoli e i principali ortaggi. Continua però a trascurare l’impollinazione delle piante selvatiche, che tuttavia non sono un dettaglio irrilevante. In particolare anche parte delle erbe dei prati sono impollinate dagli insetti, ed è dunque grazie a loro che vi è quella diversità qualitativa nei pascoli che sta alla base della ricchezza della nostra gamma di formaggi. Lo studio tralascia anche, per mancanza di dati, alcune superfici coltivate a verdure. Il risultato che si ottiene è dunque sottostimato, ma ci dà un’idea della perdita minima in cui incorrerebbe l’agricoltura se dovessero scomparire gli insetti impollinatori. La procedura adottata è essenzialmente la medesima dello studio precedente, seppure più dettagliata. Il metodo è codificato in una guida a cura
della FAO. Il presupposto è che, senza insetti impollinatori, le piante a fiore avrebbero un rendimento minore, in qualità e quantità. Naturalmente non tutte le piante hanno lo stesso grado di dipendenza dagli impollinatori: per alcune sono essenziali, per altre poco significativi, in una misura di cui sono già state fatte delle stime. Gli autori iniziano elencando i principali prodotti agricoli commerciali coltivati in Svizzera; a ciascuno di essi attribuiscono, sulla base di studi esistenti, un grado di dipendenza dall’impollinazione da parte degli insetti, espresso in una percentuale che indica di quanto diminuirebbe il rendimento senza insetti impollinatori; per ciascuno si calcola il valore commerciale; e di questo valore si attribuisce agli insetti la percentuale corrispondente; infine, si calcola il totale. I risultati sono riportati nella
tabella sottostante, dalla quale risulta che il valore totale degli insetti impollinatori per l’agricoltura è di 342 milioni di franchi, con un ampio margine di incertezza incluso in una forchetta tra 205 e 479 milioni. Se vogliamo proiettare il nuovo risultato sull’ape mellifera (come è stato fatto nel primo studio ma non nel secondo) possiamo provare ad attribuirle la responsabilità circa della metà delle impollinazioni – anche se gli autori dello studio, prudentemente, sottolineano la difficoltà del fare ipotesi precise, per cui si astengono dal formularne. In tal caso le si potrebbe attribuire un contributo di circa 170 milioni di franchi che, ripartiti sulle circa 160mila arnie presenti nel paese nel 2014, porta a poco più di 1000 franchi ad arnia. Questa cifra è minore dei 1260 franchi calcolati nello studio precedente, nonostante tenga
Importanza Diminuzione Prezzo Produzione Valore degli impollinatori media della ai produttori 2014 dell’impollinazione resa in assenza 2014 (=prezzo di insetti x no. tonnellate impollinatori x importanza %) Fr./ton. Tonnellate Milioni di Fr. Mele significativa 65% 1004 231’343 150,97 Albicocche significativa 65% 2561 10’621 17,68 Pere significativa 65% 1202 48’570 37,95 Piselli debole 5% 1009 10’729 0,54 Fragole significativa 65% 6110 10’906 16,66 Cocomeri significativa 65% 1670 12’953 14,06 Lamponi significativa 65% 11’775 2920 22,35 Cassis modesta 25% 4768 470 0,56 Ciliege significativa 65% 3257 13’148 27,83 Kiwi essenziale 95% 2480 501 1,18 Zucchine essenziale 95% 1530 11’632 16,91 65% 1430 10’266 9,54 Prugne significativa Cotogne significativa 65% 1202 635 0,50 Colza modesta 25% 752 93’945 17,66 Girasole modesta 25% 792 9730 1,93 Ribes modesta 25% 4768 71 0,08 Pomodori debole 5% 2310 45’052 5,20 Totale 341,61
conto di un numero più ampio di colture, perché si riconosce un’importanza maggiore agli altri insetti impollinatori. Lo studio si sofferma anche sull’abbondanza di api rispetto alla superficie agricola occupata da piante delle specie elencate nella tabella precedente (il 5% della superficie agricola totale, che include non solo coltivazioni di cereali e altre colture impollinate dal vento, ma anche prati e pascoli). Il calcolo è effettuato comune per comune, e il risultato è riportato nella mappa. Verde scuro indica le zone in cui vi è una buona copertura, verde chiaro indica una copertura sufficiente, nei comuni arancioni vi è appena la copertura minima, mentre nelle zone in rosso non vi sono sufficienti api mellifere per impollinare tutte le colture). La carta mostra che mentre la Svizzera centrale e meridionale ha api mellifere in abbondanza rispetto ai bisogni agricoli, la fascia più a nord – dal Lago di Costanza al Vallese passando per l’altipiano occidentale – è invece al limite o addirittura non è coperta da un numero sufficiente di colonie di api. In Ticino la presenza di api è ottima per gli scopi agricoli, con l’eccezione di pochi comuni. Con un’arnia ogni due ettari, il nostro cantone è infatti il più densamente popolato di api rispetto alla superficie agricola utile, dopo Basilea Città. Una seconda mappa, che non riproduciamo, evidenzia le superfici coltivate con piante che abbisognano di insetti per l’impollinazione. Il confronto con la prima cartina mostra che le zone dove scarseggiano le api sono quelle che più ne avrebbero bisogno. Gli autori dello studio attribuiscono ciò al fatto che sono sempre meno gli agricoltori che detengono anche qualche arnia, cosa che una volta era molto comune. Questa spiegazione non mi sembra del tutto convincente. Se fosse conveniente tenere api nelle zone con
Grado di copertura di api mellifere delle superfici agricole che abbisognano di insetti impollinatori, per comune. Il minimo necessario (arancione) è stimato tra 1.6 e 4.2 arnie per ettaro, la sufficienza è tra 4.2 e 8.2 arnie per ettaro. Colonie di api per ettaro di superficie entomofila: rosso: insufficiente; arancio: minima; verde chiaro: sufficiente; verde scuro: buono.
molte piante da frutta (il Vallese, per esempio), gli apicoltori lo farebbero, tanto più che i frutticoltori hanno interesse a permettere agli apicoltori di installarsi nei pressi dei frutteti. Se non viene fatto, ci deve essere qualche altro problema legato proprio a quelle zone: si può forse congetturare la scarsità di altri raccolti, che sia a causa della conformazione del territorio o di un eccessivamente intenso uso del territorio da parte dell’agricoltura, o magari l’uso eccessivo di pesticidi in quelle aree. Gli autori concludono osservando che la scarsità di api mellifere nelle zone che hanno bisogno di impollinatori suggerisce che è necessario facilitare quanto più possibile l’insediamento di api selvatiche, fornendo loro opportuni siti di nidificazione e fonti di cibo anche per il resto della stagione, al di là di quel paio di settimane di fioritura delle colture. Tuttavia non sono disponibili dati sufficientemente precisi per identificare con certezza le zone problematiche
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(i dati per comune potrebbero essere ingannevoli per quelli grandi in cui le api sono su un lato e le colture che abbisognano di loro sono sull’altro, oltre il raggio di azione delle api), per valutare se la scarsità di api comporti effettivamente delle perdite di rendimento nelle zone rosse della cartina, ed eventualmente per formulare dei piani d’azione concreti. È senz’altro auspicabile che vengano condotti nuovi studi in questo senso e che vengano pubblicate ubicazione e consistenza degli apiari: se c’è un incentivo che può indurre ad agire concretamente per la protezione di specie vulnerabili, come lo sono molte api selvatiche, è proprio quello finanziario.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Ambiente e Benessere
Ambiente e Benessere
Il valore degli insetti impollinatori
Ricerca Agroscope ha aggiornato lo studio del 2005 concernente l’impatto economico dell’impollinazione
per l’agricoltura in Svizzera
Daniele Besomi Tempo fa avevamo illustrato in un articolo per «Azione» i problemi teorici e pratici insiti nella questione del valore degli insetti impollinatori in generale, e delle api mellifere in particolare (Quanto vale il volo di un’ape, «Azione 15», del 7 aprile 2014). Uno dei metodi di stima discussi in quell’articolo è stato recentemente applicato dai ricercatori di Agroscope per valutare il contributo degli insetti impollinatori all’agricoltura svizzera, aggiornando così parzialmente l’unico studio sul tema (pubblicato da altri ricercatori di Agroscope) che datava 2005. Nello studio precedente si consideravano unicamente i frutti e le bacche, che sono impollinati in modo preponderante (80%) da insetti impollinatori. Il contributo delle api all’agricoltura veniva stimato attribuendo alle api l’80% del valore di mercato della produzione di frutta e bacche in Svizzera: dei 335 milioni ricavati dalla vendita di questi prodotti in Svizzera nel 2002, se ne attribuivano 271 alle api; questo corrispondeva a 1260 franchi in media per le circa 200mila arnie attive in Svizzera nel corso di quell’anno. In assenza di un mercato dell’impollinazione come quello presente negli Stati Uniti, dove gli apicoltori affittano le proprie arnie a frutticoltori e orticoltori in cambio di tariffe specifiche, in Svizzera l’apicoltore per questa prestazione delle sue api non incassa nulla. L’apicoltore riceve però un par-
Ape mellifera che trasporta polline da un fiore di Dente di leone all’altro, in un prato da foraggio. (Daniele Besomi)
ziale beneficio in termini di accresciuta produzione di miele e di raccolto di polline che serve allo sviluppo delle api (e che potrebbe anche essere commercializzato). Il valore medio per arnia della produzione di miele e altri prodotti delle api in quell’anno è stato di 258 franchi,
una parte dei quali erano dunque attribuibili all’agricoltura: molto meno, comunque, di quanto le api contribuiscono alla produzione di frutta. La nuova valutazione si concentra unicamente sul contributo degli insetti impollinatori all’agricoltura e non si
preoccupa dunque della remunerazione dell’apicoltore. In secondo luogo non distingue le api dagli altri insetti impollinatori: è ormai noto che l’ape mellifera contribuisce in modo determinante per certe colture mentre altri raccolti dipendono piuttosto da altri insetti (in buona
parte anch’essi, come l’ape mellifera, appartenenti alla grande famiglia degli Apoidei, che in Svizzera conta circa 400 specie), tanto che si può stimare che in media le api sono responsabili solo di metà dell’impollinazione. In particolare, l’ape domestica è scarsamente attiva nei giorni più freddi e in caso di leggera pioggia, mentre alcune api selvatiche (soprattutto i bombi) lavorano anche in condizioni più proibitive, e sono dunque particolarmente importanti per le fioriture precoci – gli alberi da frutta, in particolare. In terzo luogo, il terzo studio considera uno spettro più ampio di prodotti agricoli: non solo bacche e frutta, ma anche colza, girasoli e i principali ortaggi. Continua però a trascurare l’impollinazione delle piante selvatiche, che tuttavia non sono un dettaglio irrilevante. In particolare anche parte delle erbe dei prati sono impollinate dagli insetti, ed è dunque grazie a loro che vi è quella diversità qualitativa nei pascoli che sta alla base della ricchezza della nostra gamma di formaggi. Lo studio tralascia anche, per mancanza di dati, alcune superfici coltivate a verdure. Il risultato che si ottiene è dunque sottostimato, ma ci dà un’idea della perdita minima in cui incorrerebbe l’agricoltura se dovessero scomparire gli insetti impollinatori. La procedura adottata è essenzialmente la medesima dello studio precedente, seppure più dettagliata. Il metodo è codificato in una guida a cura
della FAO. Il presupposto è che, senza insetti impollinatori, le piante a fiore avrebbero un rendimento minore, in qualità e quantità. Naturalmente non tutte le piante hanno lo stesso grado di dipendenza dagli impollinatori: per alcune sono essenziali, per altre poco significativi, in una misura di cui sono già state fatte delle stime. Gli autori iniziano elencando i principali prodotti agricoli commerciali coltivati in Svizzera; a ciascuno di essi attribuiscono, sulla base di studi esistenti, un grado di dipendenza dall’impollinazione da parte degli insetti, espresso in una percentuale che indica di quanto diminuirebbe il rendimento senza insetti impollinatori; per ciascuno si calcola il valore commerciale; e di questo valore si attribuisce agli insetti la percentuale corrispondente; infine, si calcola il totale. I risultati sono riportati nella
tabella sottostante, dalla quale risulta che il valore totale degli insetti impollinatori per l’agricoltura è di 342 milioni di franchi, con un ampio margine di incertezza incluso in una forchetta tra 205 e 479 milioni. Se vogliamo proiettare il nuovo risultato sull’ape mellifera (come è stato fatto nel primo studio ma non nel secondo) possiamo provare ad attribuirle la responsabilità circa della metà delle impollinazioni – anche se gli autori dello studio, prudentemente, sottolineano la difficoltà del fare ipotesi precise, per cui si astengono dal formularne. In tal caso le si potrebbe attribuire un contributo di circa 170 milioni di franchi che, ripartiti sulle circa 160mila arnie presenti nel paese nel 2014, porta a poco più di 1000 franchi ad arnia. Questa cifra è minore dei 1260 franchi calcolati nello studio precedente, nonostante tenga
Importanza Diminuzione Prezzo Produzione Valore degli impollinatori media della ai produttori 2014 dell’impollinazione resa in assenza 2014 (=prezzo di insetti x no. tonnellate impollinatori x importanza %) Fr./ton. Tonnellate Milioni di Fr. Mele significativa 65% 1004 231’343 150,97 Albicocche significativa 65% 2561 10’621 17,68 Pere significativa 65% 1202 48’570 37,95 Piselli debole 5% 1009 10’729 0,54 Fragole significativa 65% 6110 10’906 16,66 Cocomeri significativa 65% 1670 12’953 14,06 Lamponi significativa 65% 11’775 2920 22,35 Cassis modesta 25% 4768 470 0,56 Ciliege significativa 65% 3257 13’148 27,83 Kiwi essenziale 95% 2480 501 1,18 Zucchine essenziale 95% 1530 11’632 16,91 65% 1430 10’266 9,54 Prugne significativa Cotogne significativa 65% 1202 635 0,50 Colza modesta 25% 752 93’945 17,66 Girasole modesta 25% 792 9730 1,93 Ribes modesta 25% 4768 71 0,08 Pomodori debole 5% 2310 45’052 5,20 Totale 341,61
conto di un numero più ampio di colture, perché si riconosce un’importanza maggiore agli altri insetti impollinatori. Lo studio si sofferma anche sull’abbondanza di api rispetto alla superficie agricola occupata da piante delle specie elencate nella tabella precedente (il 5% della superficie agricola totale, che include non solo coltivazioni di cereali e altre colture impollinate dal vento, ma anche prati e pascoli). Il calcolo è effettuato comune per comune, e il risultato è riportato nella mappa. Verde scuro indica le zone in cui vi è una buona copertura, verde chiaro indica una copertura sufficiente, nei comuni arancioni vi è appena la copertura minima, mentre nelle zone in rosso non vi sono sufficienti api mellifere per impollinare tutte le colture). La carta mostra che mentre la Svizzera centrale e meridionale ha api mellifere in abbondanza rispetto ai bisogni agricoli, la fascia più a nord – dal Lago di Costanza al Vallese passando per l’altipiano occidentale – è invece al limite o addirittura non è coperta da un numero sufficiente di colonie di api. In Ticino la presenza di api è ottima per gli scopi agricoli, con l’eccezione di pochi comuni. Con un’arnia ogni due ettari, il nostro cantone è infatti il più densamente popolato di api rispetto alla superficie agricola utile, dopo Basilea Città. Una seconda mappa, che non riproduciamo, evidenzia le superfici coltivate con piante che abbisognano di insetti per l’impollinazione. Il confronto con la prima cartina mostra che le zone dove scarseggiano le api sono quelle che più ne avrebbero bisogno. Gli autori dello studio attribuiscono ciò al fatto che sono sempre meno gli agricoltori che detengono anche qualche arnia, cosa che una volta era molto comune. Questa spiegazione non mi sembra del tutto convincente. Se fosse conveniente tenere api nelle zone con
Grado di copertura di api mellifere delle superfici agricole che abbisognano di insetti impollinatori, per comune. Il minimo necessario (arancione) è stimato tra 1.6 e 4.2 arnie per ettaro, la sufficienza è tra 4.2 e 8.2 arnie per ettaro. Colonie di api per ettaro di superficie entomofila: rosso: insufficiente; arancio: minima; verde chiaro: sufficiente; verde scuro: buono.
molte piante da frutta (il Vallese, per esempio), gli apicoltori lo farebbero, tanto più che i frutticoltori hanno interesse a permettere agli apicoltori di installarsi nei pressi dei frutteti. Se non viene fatto, ci deve essere qualche altro problema legato proprio a quelle zone: si può forse congetturare la scarsità di altri raccolti, che sia a causa della conformazione del territorio o di un eccessivamente intenso uso del territorio da parte dell’agricoltura, o magari l’uso eccessivo di pesticidi in quelle aree. Gli autori concludono osservando che la scarsità di api mellifere nelle zone che hanno bisogno di impollinatori suggerisce che è necessario facilitare quanto più possibile l’insediamento di api selvatiche, fornendo loro opportuni siti di nidificazione e fonti di cibo anche per il resto della stagione, al di là di quel paio di settimane di fioritura delle colture. Tuttavia non sono disponibili dati sufficientemente precisi per identificare con certezza le zone problematiche
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Ambiente e Benessere
In viaggio sulla Laguna
Reportage Storia e curiosità sul mezzo di trasporto per eccellenza
della Laguna veneziana, dalle origini ai metodi di costruzione, fino ai giorni nostri
Simona Dalla Valle, testo e foto «Chi non deve reprimere un brivido fugace, una segreta timidezza e angoscia, quando sale per la prima volta o dopo lunga dissuetudine su una gondola veneziana? La singolare imbarcazione, tramandata tale e quale dai tempi delle ballate e così inusitatamente nera come di tutti gli oggetti di questo mondo sono soltanto le bare, fa pensare a tacite e criminose avventure fra lo sciacquio notturno dei canali, e ancor più alla morte stessa, a feretri, a tenebrose esequie, all’ultimo silenzioso viaggio» (Thomas Mann). Tra le maggiori attrazioni veneziane ci sono senz’altro le gondole, imbarcazioni tradizionali che da secoli solcano le acque della Laguna. La maggior parte degli spostamenti avviene via acqua e i veneziani inventarono una serie di piccole barche adatte a tutte le esigenze della vita tra i canali e con uno speciale modo di vogare, chiamato oggi alla veneta (consiste nel vogare in piedi verso avanti). Pupparini, sandoli, sciopòni non sono che alcune barche tipiche della tradizione lagunare veneziana, molto diverse per forma e funzione, la più celebre della quali, la gondola, è ancora oggi costruita interamente a mano dai pochi maestri artigiani ancora in attività. E cerchiamo dunque di conoscerle un po’ meglio. Le gondole richiedono ben otto tipi di legno: rovere, abete, olmo, ciliegio, larice, noce, tiglio e mogano. Il ferro di prua della gondola – detto anche pettine, con la sua forma a «S» e i sette «denti» – simboleggia il Canal Grande, i sei sestieri di Venezia e l’isola della Giudecca; mentre la forcola, il punto d’appoggio del remo dalla tipica forma ricurva, è costruita da un unico quarto di legno di noce, pero o ciliegio. L’elegante forma della gondola è
adatta alla navigazione sui canali, grazie a una serie di accorgimenti che vengono adottati nella sua costruzione. Come tutte le barche lagunari anch’essa ha il fondo piatto, in modo da poter galleggiare in pochissima acqua; alcuni rii veneziani non sono profondi che una decina di centimetri. La caratteristica più importante della gondola è l’asimmetria: la chiglia infatti non è rettilinea ma curva verso destra, in modo tale che la gondola galleggi inclinandosi. Ciò permette di controbilanciare la spinta dell’unico remo che tenderebbe a portarla verso sinistra. La gondola è costruita «su misura» per il gondoliere, la curvatura infatti è strettamente collegata al suo peso e alla sua altezza.
Le gondole richiedono ben otto tipi di legno: rovere, abete, olmo, ciliegio, larice, noce, tiglio e mogano Queste imbarcazioni sono costruite e riparate nello squero, il tipico cantiere veneziano il cui nome deriva dal termine squara, la squadra, strumento di lavoro fondamentale per i maestri d’ascia. Nell’ambito cittadino sopravvivono oggi soltanto sei squeri propriamente detti: tre a Dorsoduro, due alla Giudecca e uno a Castello, e tra essi lo squero Vecio, attivo dal XII secolo nel sestiere Cannaregio, e dal 1972 proprietà di Assicurazioni Generali, sopravvive come cantiere privato dedicato esclusivamente alla manutenzione delle barche. La più antica testimonianza dello squero è un dipinto di Canaletto risalente al 1731. Gli squeri sono caratterizzati da un piano inclinato verso il canale
o il rio per la messa a secco e il varo delle barche. Alle spalle del piano è presente una costruzione in legno, la tesa, la quale costituisce al contempo la zona di lavoro vera e propria, al riparo dalle intemperie, e il deposito degli attrezzi. Tipicamente, le abitazioni contigue o il piano superiore dello squero fungono anche da abitazione del proprietario o del capomastro. Diversi squeri hanno la forma tipica delle case di montagna, e la ragione di ciò è dovuta al luogo di provenienza del legno e degli squerarioli. Il legno raggiungeva infatti Venezia dalla montagna a bordo di chiatte che scorrevano nel Piave, e molti carpentieri si trasferirono in Laguna allo scopo di costruire le barche che servivano ai veneziani nella vita di tutti i giorni. Queste persone portarono con loro parte della loro terra e della loro cultura, dando origine alle strane architetture degli squeri buffamente contrastanti con l’architettura veneziana che li circonda. Se nel XII secolo i canali di Venezia erano solcati da circa 10mila gondole, attualmente ve ne sono solo circa 350, ma quella del gondoliere è ancora una professione ambita, tramandata di padre in figlio. I gondolieri di un tempo erano al servizio di un padrone e godevano di uno stipendio fisso, talvolta anche di un alloggio; conoscevano i segreti della casa padronale ed erano molto fedeli. Al giorno d’oggi, forti dell’immagine tradizionale che vede la gondola come uno dei simboli di Venezia, i gondolieri sono uomini di grande carisma, astuti e gentili, parlatori instancabili, ma anche collerici e vociosi. Attaccati alla gondola e alla Laguna, amanti del bel vivere e lavoratori instancabili, secondo il Goldoni i gondolieri erano i veri amanti di Venezia, pronti a lottare contro chi parlasse male della loro città. Questa impulsività sembra in contrasto con la calma dei gesti di chi si muove con grazia e lentezza alla guida della propria imbarcazione. Venezia, da sempre ricca grazie ai commerci e all’assenza di guerre interne o carestie, è stata proprio a causa di questo benessere, teatro di provvedimenti singolari. Poiché tale ricchezza aveva portato ai veneziani un eccessivo esibizionismo di generi di lusso, nel
1514 si pensò di istituire un consiglio di Savi, i «Provveditori alle Pompe», responsabili della sorveglianza sull’applicazione delle leggi suntuarie. Ma questo non fu sufficiente, poiché gli addetti al rispetto di tali leggi erano spesso derisi e colpiti con arance marce. Le nobildonne veneziane spendevano cifre elevate per abbigliamento e acconciature: chiome elaborate, scollature audaci e tacchi alti oltre a collane e gioielli vistosi. Il lusso della gondola è sempre più assimilabile a quello della casa e delle vesti, tanto che nel 1609 il Governo fu costretto a proibire «…li felzi da barca di seda, di sagia e de panno, li cordoni e li fiocchi di seda, le pez-
ze di renso schiette, ò a opera, con merli, ò senza…». Queste leggi colpivano anche lo sfarzo dei gondolieri, i quali furono costretti ad abbandonare i fastosi abiti in seta con ricami in oro e argento e i cappelli in velluto nero, e iniziarono a indossare giacche e camicie colorate e calze rigate. Una versione rivisitata di queste leggi, del 2014, invita i gondolieri a vestirsi con pantaloni scuri senza tasche, scarpe nere chiuse, marinara bianca o a righe se in estate, scura in inverno. Assolutamente vietato l’uso del telefonino durante la guida, e proibito l’uso di alcool e droghe. O tempora, o mores.
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Ambiente e Benessere
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Pasargade, e proseguimento per Isfahan. Martedì 10 aprile / mercoledì 11 aprile – Due giornate dedicate alla visita di una delle città più belle del Medio Oriente. Giovedì 12 aprile – Partenza in bus per Tehran. Sosta lungo il percorso al villaggio di Natanz . Visita della bella cittadina di Kashan per concludere a Tehran. Venerdì 13 aprile – Partenza per il Gilan per salire sulle montagne dell’Alamut. Arrivo a Qazvin. Sabato 14 aprile – Visita della città. Partenza per Zanjan e sosta lungo il tragitto a Sultanieh.
Domenica 15 aprile – Partenza alla volta del grandioso sito di Takht e Soleiman. Proseguimento per Ardabil. Lunedì 16 aprile – Breve visita di Ardabil e del mausoleo di Safi Al Din. Proseguimento verso il confine azero e proseguimento per Baku, la capitale dell’Azerbaijan. Martedì 17 aprile – Alla scoperta della città: visita di «Icheri Sheher». Proseguimento per la penisola di Absheron. Proseguimento verso la Moschea Mirovsum Aga. Sosta a Yanar Dag. Rientro a Baku. Mercoledì 18 aprile – Nella notte, partenza con volo per Milano e rientro in Ticino in torpedone.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Ambiente e Benessere
Mozzarelline con melanzane grigliate
Migusto La ricetta della settimana
Primo piatto
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
Ingredienti per 4 persone: 2 melanzane di 270 g ciascuna · sale · pepe · mezzo cucchiaino di paprica dolce · 2 spicchi d’aglio · 4 cucchiai d’olio di colza HOLL · 4 pomodori carnosi di ca. 100 g ciascuno · 1 limone · 3 cucchiai d’aceto di vino bianco · 1 cucchiaio di semi di sesamo · 6 cucchiai d’olio d’oliva · 20 g di rucola · 250 g di mozzarelline di bufala.
1. Tagliate le melanzane per il lungo a fette sottili. Salatele e lasciatele riposare per qualche minuto. Asciugatele con carta da cucina, giratele e lasciatele riposare alcuni minuti. Asciugatele ancora con carta da cucina. Condite le fette con sale, pepe e paprica. Unite l’aglio schiacciato e spennellatele uniformemente con olio di colza. Grigliatele brevemente a fuoco medio da entrambi i lati. 2. Nel frattempo, tagliate i pomodori a fettine sottili. Spremete il limone e mescolate il succo con l’aceto, i semi di sesamo e l’olio d’oliva. Condite la vinaigrette con sale e pepe. Mettete qualche foglia di rucola da parte, tritate il resto finemente e aggiungetelo alla vinaigrette. Sistemate le fette di pomodoro e le mozzarelline su un letto di melanzane e irrorate con la vinaigrette. Guarnite con le foglie di rucola messe da parte. Preparazione: circa 40 minuti. Per porzione: circa 16 g di proteine, 37 g di grassi, 13 g di carboidrati,
450 kcal/1850 kJ.
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2 Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Unicorno, coccodrillo o fenicottero? 3
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Viaggiatori d’Occidente A Palma di Maiorca si può adottare un gonfiabile abbandonato 6
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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4 -1Ottobre 2017 Giochi per “Azione” Stefania Sargentini 6 8 3
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(N. 41 - ... un parco con alberi e ori) 1
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gonfiabili (#inflatable) sono oltre duecentomila… 11 Misteri delle vacanze. Mi sono sempre chiesto chi progetta questi og12 alcune forme sono pregetti e perché ferite ad altre: quest’anno andavano per 17la maggiore i gonfiabili a forma di ciambella (eventualmente con un morso), la fetta di pizza, gli unicorni dalla 19 criniera multicolore, i coccodrilli ver-20 di, i fenicotteri rosa e l’immancabile paperella gialla. Per il prossimo anno i 21 22 vacanzieri orientano invece le loro preferenze sui dragoni: sarà l’effetto di Tro24 no di spade?
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Si sa però che gli amori estivi finiscono là dove sono cominciati. E così, al termine della vacanza, solo il 28% dei turisti porta a casa il compagno di tan13dopo14 16 La te avventure, averlo 15 sgonfiato. maggior parte dei gonfiabili finisce invece18tra i rifiuti, solo qualcuno in ottime condizioni viene riportato al negozio di nascosto per essere nuovamente messo in vendita. I limiti di peso del bagaglio a mano sui voli delle compagnie low cost hanno forse un loro ruolo, ma 23 certo tanta ingratitudine verso i propri fedeli compagni di giochi spezza il cuore. Bene ha fatto dunque un grande
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P U N 9G 3 E R E8 1 A V I P A N N. 35 DIFFICILE R l’Hipotels A Gran Playa C diO E albergo, Pal- D ma di Maiorca, a creare un rifugio per gonfiabili O abbandonati, C doveOi nuoviPtu- I A risti potranno adottarli. Naturalmente 6 8 è anche un’astuta trovata pubblicitaria Cdi séU N Eriu-4 O A L per far parlare (puntualmente scita, a giudicare dal numero di articoli pubblicati F sulla E stampa R internazionale, I E F R A incluso questo che state leggendo), ma in fondo fa parte del gioco. E daTbambini? T Sì eO I N I Cose no. A giudi- P care dalle foto pubblicate in rete, sono soprattutto gli adulti a cavalcare con T O I 2 dopo F6 I L I orgoglio i propri lucidi gonfiabili, averli scelti e comprati. Perché in fondo 5 O S T 3 R U M8 E1 N
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B A T E R S E T 2I
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba 8 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi conPER il sudoku SUDOKU 2017 (N. 42 - ... morì per le ferite riportate in battaglia) N. 33 FACILE 5 9AZIONE - SETTEMBRE 1 1
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26. Li emette l’asino 27. L’impronta del passato... VERTICALI 1. Detto scherzoso o pungente 2. 7 orizzontale in poesia 1 colpisce 2 la legge 3 4 3. Le 4. Arriva in testa 5. Funesto, luttuoso 7 6. Tutt’altro che mesti 10. Si paga a scadenza fissa 12.8L’attore Rubini 13. Aiuto in poesia 14. Invocate dai pagani 15.10 Persona irascibile 16. Pronome personale 17.12 Un Blanc... in pasticceria 13
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Scoprire i 3 2 6 5 7 9 4 numeri corretti da inserire nelle 7 2 caselle colorate. 3 7 1 2
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Soluzione
O P E249 82R69 57E376 T R 3 E35 79 14 83F 41 4 4 3 8 7 5 6 9 5 7 6 8 T E S A 6 3 1 6 2 4 5 5 6 1 6 5 A 3D2 9I T O M8 4E3 2S9 2 7 N. 34 MEDIO 1 I E R P O4 8R3 9T7 7 2 I 3 1 6 2 4 5 1 9 8 T9 E O D 8 I N7 29G5 8O6 3 7 9 2 4 7 4 5 8 6 A4 1 S T E N T8 4 I 17 3 99 5 2 6 7 1 6 8 3 4 R A G L I O R 6 2 7 2 5 75 1 3
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ORIZZONTALI 1. Un Gianni cantante 7. Lavori artistici 8. Sei volte in diciotto 9. In posizione intermedia 11. In Inghilterra ha una sua ora 12. Fiume della Germania 13. Accesso, entrata 17. Opposti al 6 verticale 18. Domani lo dirò di oggi 19. Permette l’accesso 20. Il Teocoli della tv 21. Cane selvatico australiano 23. Privazioni, patimenti 25. Simbolo chimico dell’oro
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la vita di spiaggia (e per estensione la piscina) altro non è che una consapevole regressione all’infanzia. Nello spazio ben delimitato della spiaggia ognuno di noi torna bambino: costruisce castelli di sabbia e piste per gare con le biglie con le foto dei ciclisti, ricopre di sabbia un amico, corre per tuffarsi in mare e poi si abbandona a giochi in acqua (schizzi, tuffi, fare il morto). La durata limitata della vacanza – imposta dalla fine delle ferie e spesso certificata dalla data impressa sul biglietto di ritorno – permette questa regressione perché la limita a un luogo (la spiaggia) e a un tempo ben definito. È questo il significato profondo di buona parte del turismo? Proviamo a immaginarlo come una ribellione rispetto alla vita quotidiana, una sorta di carnevale dove le regole sono ribaltate: oziare invece di lavorare, spendere invece di guadagnare, stare nudi anziché vestiti, la ricerca del piacere invece del dovere, al posto dell’etichetta una maggiore libertà e informalità nei rapporti con gli altri. E come nel caso del carnevale, molto può essere consentito se lo stravolgimento dei rapporti non è permanente, se non intacca 3 i veri rapporti9di forza. Anzi, al ritorno dalle vacanze risulta più facile e quasi naturale rientrare nei ranghi, 7 2 4 dopo aver sperimentato un’altra vita possibile ma senza la fatica di farsi carico 6propria 2 libertà. 7 ogni giorno della Anche per questo forse, da qualche parte nel fondo 9della mente,7sentiamo che i nostri gonfiabili non possono tornare a casa 1 con noi: perché sarebbero inutili o peggio ci ricorderebbero, quasi con rimprovero, quello spazio di un’e3 siamo stati di nuovo bamstate quando bini felici.
Schema
Cruciverba Anche se alcune statue lo smentiscono, sono in molti a credere che in quelle equestri, se il cavallo ha una zampa anteriore alzata, significa che il cavaliere… Completa la frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 4, 3, 2, 6, 9, 2, 9)
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N. 34 MEDIO
Hoteles.com
La fine dell’estate al mare è sempre velata di tristezza. I turisti, incolonnati in lunghe file di auto, tornano in città, dove li attendono le preoccupazioni della vita quotidiana. Le spiagge si svuotano. I bagnini chiudono gli ombrelloni, piegano le sdraio e ripensano con nostalgia all’animazione dei mesi passati. Desideri e allegria vengono messi da parte in attesa della prossima estate. Del resto il mare d’inverno mette solo tristezza, anche nelle canzoni. «A Rimini la spiaggia com’è vuota, quasi inutile di marzo, deserta dell’estate, in ogni simbolo imbecille e vacanziera» canta Francesco Guccini (Inutile). E Rimini di Fabrizio De André non è molto più allegra: «Teresa parla poco, ha labbra screpolate, mi indica un amore perso a Rimini d’estate». Sulla spiaggia e nelle stanze d’albergo restano pochi oggetti dimenticati: crema abbronzante, occhiali da sole, riviste... Tra gli oggetti più comunemente abbandonati al termine delle vacanze ci sono invece i materassini e altri gonfiabili. Il loro numero è considerevole. Un’ampia ricerca, realizzata da OnePoll for Hotels.com, ha mostrato che quasi la metà dei turisti inglesi compra un gonfiabile in vacanza. Se pensate che solo a Maiorca, la principale isola delle Baleari, i turisti inglesi sono stati oltre due milioni nel 2016, i conti sono presto fatti. Ancora dalla ricerca apprendiamo che col proprio gonfiabile si gioca parecchio, in media per sei ore e cinquantadue minuti alla settimana. Basta guardare i profili Instagram del resto dove le foto di momenti felici in piscina o in spiaggia coi
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Claudio Visentin
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19. Alberi resinosi 21. Preposizione articolata dei piùcon piccoli (N.22. 41Il- dolore ... un parco alberi e ori) 24. Sigla di notiziari TV 1 2 3 4 5 6 25. Le iniziali dell’attrice Mastronardi
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1 “Azione” 8 3 6 1 8 5 2 9 7 4 3 Giochi per - Ottobre 2017 Soluzione della settimana precedente 9 3Stefania Sargentini 8 1 2 9 3 4 6 8 7 1 2 5 IL LAGO CHE SCOMPARE – Il lago austriaco Grüner See d’inverno scompare trasformandosi in: … UN PARCO CON ALBERI E FIORI. N. 35 DIFFICILE
(N. 43 - Ra esia, è il più grande al mondo ) 5
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3 E R U N G 8 2 A V I 7 P 6 A 4 C O D C O P 9I 1 O C U N E 6 3 E R I E 1 T3 T O 8 P O I F I 5 T 9 R U S
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6 8 9 7 2 5 3 1 4 R A F F 7I C A 3 5 4 1 9 6 2 8 7 5 4 3 2 6 9 8 7 1 A L A R LEB A S Vincitori del concorso Cruciverba 7 9 8 5 1 4 6 2 3 9 su «Azione 40», del 2.10.2017 2 2 1 6 8 3 7 4 5 9 `C.Canevascini,A.Lozza,L.Bernardazzi F F I L A A2 T EE` S 4 3 7 6 8 1 5 9 2 E I R Vincitori del concorso Sudoku 11 su «Azione 40», del 2.10.2017 8 S E 9 6 1 4 5 2 7 3 8 TF A O I L O W. Chiesa, A. Delmuè 8 2 5 9 7 3 1 4 6 O N T I 14 15 GENI IN. 36S P R E L I E V I 42 - ... morì per online: le ferite riportate I premi, cinque carte regalo Migros (N. Partecipazione inserire lain battaglia) luzione, corredata da nome, cognome, è possibile un pagamento in contanti 8 9 3 2 16 8 1I vincitori 7 5 9saranno 4 3 avvertiti 2 6 del valore di 50 franchi, saranno sor- soluzione del cruciverba o del sudoku indirizzo, email del partecipante dei premi. ` ` ´ D I´Nper iscritto. Ospedita3 Ma «Redazione SO R UA NAzione, Ideve I6 5 Il9 nome T teggiati tra i partecipanti che avranno nell’apposito formulario pubblicato essere dei vincitori sarà 3 7 2 1 4 G 8 fatto pervenire la soluzione corretta sulla pagina del sito. Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». pubblicato su «Azione». Partecipazione O P E R E L 4 8 7 5 17 18 19 4 3 2 6 1 8 7 5 9 entro il venerdì seguente la pubblica- Partecipazione postale: la lettera o Non si intratterrà esclusivamente E N9 F D RsuiA Ariservata R T6ARcorrispondenza R5 4 E6 3 aA2lettori9 Lche 7 8 1 zione del gioco. la cartolina postale che riporti la so- concorsi.5Le vie legali sono escluse. Non risiedono in Svizzera. 9
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Politica e Economia Le ragioni del sì Come si è arrivati al braccio di ferro che oppone Madrid a Barcellona?
Quelli che dicono no Lo scrittore premio Nobel Vargas Llosa ha pronunciato un discorso infuocato durante la manifestazione unionista a Barcellona contro quella che lui definisce la congiura indipendentista
I pretendenti al trono Gli aspiranti a Downing Street sono numerosi ma Theresa May per ora resta ferma al suo posto
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Keystone
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Uighuri perseguitati Nella regione autonoma cinese dello Xinjiang Pechino usa indiscriminatamente il pugno di ferro per combattere l’estremismo islamico
Una rivoluzione non dichiarata
Catalogna Madrid accusa i catalani indipendentisti di violare la Costituzione. Tuttavia nessuno Stato è mai nato
senza violarla o senza violare le altre leggi fondamentali dello Stato da cui intendeva separarsi
Lucio Caracciolo Fra poco tempo sapremo se ed eventualmente come la Catalogna sarà una repubblica indipendente oppure resterà una regione più o meno autonoma del Regno di Spagna. Dopo la dichiarazione di «indipendenza sospesa», letta da Carles Puigdemont davanti al parlamento catalano, e gli otto giorni concessigli in replica da Mariano Rajoy per chiarire se di indipendenza o meno si tratta (e nel primo caso, per revocarla), lo scontro sarà comunque inevitabile. L’ombra dell’articolo 155 della Costituzione spagnola incombe sulla Catalogna, che da regione autonoma verrebbe declassata a territorio commissariato da Madrid. È molto difficile immaginare che indipendenza o commissariamento possano determinarsi in via del tutto pacifica. Probabilmente non ci sarà una seconda guerra civile in Spagna, ma il rischio di violenze e dure repressioni, forse anche di attentati terroristici, è elevato. Sarà bene ricordare qual è la posta in gioco. La Spagna è un grande paese europeo, con una storia, una cultura e uno stile di vita noti in tutto il mondo. Se dovesse spezzarsi, perdendo la sua regione – ma per i catalani è nazione –
più ricca, centro economico e finanziario del Paese, non sarebbe più Spagna. Contemporaneamente, la Catalogna si autoescluderebbe dall’Unione Europea e dall’euro, producendo una situazione non prevista e quindi non codificata in alcun trattato. Le regole europee valgono per gli Stati, non per parti di essi. Infine, e non per ultimo, la Catalogna sarebbe altrettanto automaticamente fuori dalla Nato. Con ogni probabilità, questa nuova repubblica indipendente sarebbe neutrale. Per la prima volta nella sua storia, l’Alleanza Atlantica a guida americana, costituita nel 1949 per consentire all’Occidente di affrontare unito la minaccia sovietica, perderebbe un pezzo. Prima ancora dell’Unione Europea, che deve ancora formalizzare il Brexit. Alcuni considerano che la secessione della Catalogna potrebbe addirittura innescare un effetto domino, riaccendendo più o meno radicati separatismi: dalle Fiandre alla Scozia o alla Corsica, fino al Veneto o ad altre regioni italiane. Non è affatto scontato che ciò avvenga immediatamente, ma certo il caso catalano creerebbe un precedente incoraggiante per i secessionisti. All’interno stesso della Spagna, il faticoso equilibrio delle autonomie potrebbe essere scon-
volto dalla secessione catalana, riattizzando incendi ad oggi sedati. A cominciare dal Paese Basco. Questo elenco disegna le proporzioni straordinarie della partita in gioco. E mette ancora più in evidenza la scarsa incisività non solo delle istituzioni comunitarie – per quel poco che valgono – ma persino dei principali partner europei, che in pubblico hanno taciuto o si sono limitati a un appoggio di principio al governo di Madrid in nome della legalità costituzionale, mentre in privato, attraverso il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, hanno fatto sapere a Puigdemont di non approvare il suo anelito indipendentista. Con questo tocchiamo un aspetto decisivo della crisi fra Barcellona e Madrid. Quest’ultima accusa i catalani indipendentisti di violare la Costituzione. Vero. Il fatto è però che nessuno Stato è mai nato senza violare la Costituzione o le altre leggi fondamentali dello Stato da cui intendeva separarsi. Sono gli Stati che producono le Costituzioni, non viceversa. Come potrebbe la Catalogna diventare indipendente nel rispetto della Costituzione spagnola? Forse che le colonie americane si sono ribellate alla Corona nel rispetto dell’autorità del re
inglese? O l’Italia si è unita preservando le leggi degli Stati preunitari assorbiti dal Piemonte? Conviene chiamare le cose con il loro nome: il tentativo di secessione della Catalogna è una rivoluzione non dichiarata, e per ora solo abbozzata. Tentativo forse non appoggiato dalla maggioranza dei catalani, o forse sì: il referendum del 1. ottobre, nel quale il 90% dei catalani votanti si è espresso a favore dell’indipendenza, ha segnato la partecipazione di quattro elettori su dieci, anche a causa della violenta repressione della polizia spagnola. Ma da quando in qua le rivoluzioni si fanno a colpi di maggioranza? Per restare agli Stati Uniti, qualcuno può sostenere che i coloni ribelli fossero maggioritari fra i sudditi di Sua Maestà stanziati in quei territori? I bolscevichi erano la maggioranza in Russia? O forse gli italiani che votarono in plebisciti piuttosto raffazzonati l’adesione a casa Savoia erano la più parte degli abitanti della Penisola? Ci siamo disabituati a identificare le cose con il loro nome. Così i catalani indipendentisti fanno la rivoluzione in nome di una legge votata dal loro parlamento ma bocciata da Madrid, mentre il governo Rajoy li minaccia e reprime,
domani forse con la forza militare, in nome della Costituzione del Regno di Spagna dalla quale i catalani secessionisti intendono distaccarsi. Un aspetto tutt’altro che secondario della contesa è il carattere istituzionale dello Stato. La Spagna è e a quanto pare intende rimanere una monarchia. La Catalogna intende fondarsi come repubblica. Queste opposte opzioni affondano le loro radici nella storia e principalmente nella guerra civile del 1936-1939. Non si tratta di forma, ma di sostanza e di memoria storica. L’infelice discorso con cui Filippo VI (foto) ha voluto schierare la Corona con il governo, trattando i catalani da ribelli, ha contribuito ad allargare il fossato fra la maggior parte della Spagna e la regione/ nazione di Catalogna. Su tutto, domina la sconfitta della politica. I leader di entrambi i campi, che attraversano e spaccano la stessa Catalogna, si sono rivelati apprendisti stregoni. Ma quando la politica muore, rinasce la violenza. La Spagna ne ha una memoria viva e relativamente recente. Si può sperare che questo basti a riportare sulla via del compromesso chi ha finora pilotato lo scontro? Si può. Ma non ci scommetteremmo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Politica e Economia
Perché tanta voglia di indipendenza? Spagna La gestione della questione catalana fatta dal governo di Mariano Rajoy è una delle cause principali
Gabriele Lurati Mancanza di rispetto. Questa è la prima risposta che danno i catalani che hanno sposato la causa indipendentista, quando nelle inchieste demoscopiche viene posto loro la domanda del perché si siano radicalizzati. Questa voglia di secessionismo, condivisa da persone che mai in passato avevano avuto idee separatiste, riassume molto bene lo stato d’animo di frustrazione, rabbia e umiliazione che ha vissuto buona parte dei 7,5 milioni di abitanti della Catalogna negli ultimi anni fino alla brutale repressione della polizia del 1. ottobre che ha aggravato ulteriormente la situazione. Dalla signora benestante dell’alta borghesia barcellonese passando ai contadini della provincia di Girona, fino ai figli dei «charnegos» (gli immigrati provenienti da altre regioni della Spagna che andarono a cercar lavoro nella prospera Catalogna negli anni 70-80), una massa eterogenea di catalani diversi per età e classe sociale si è convertita da tempo alla causa indipendentista. I dati d’altronde lo confermano. Secondo un sondaggio d’opinione condotto nel 2006 solo il 14% della popolazione catalana si dichiarava a favore dell’indipendenza, nel 2011 erano il 25% e oggi sono circa il 50%. Il secessionismo, pur essendo stato un movimento presente storicamente in Catalogna già nel secolo scorso che portò anche alla proclamazione della breve esperienza della Repubblica catalana nel 1934, numericamente è sempre stato minoritario. Quali sono dunque le cause che in soli 10 anni hanno portato alla situazione attuale, esacerbando gli animi di molti catalani una volta moderati? Fondamentalmente gli analisti individuano due ragioni principali: una di tipo politico e l’altra più legata all’emotività ed ai sentimenti. L’atteggiamento ostinatamente intransigente e anti-catalano avuto dal Partito popolare (Pp) di Mariano Rajoy (nella foto, a sinistra con Carles Puigdemont) in questi anni è senza dubbio la prima causa dell’attuale conflitto tra Barcellona e Madrid. Il detonatore è stato il ricorso presentato alla Corte Costituzionale dal Pp che portò alla sostanziale abolizione dello Statuto di autonomia catalano nel 2010, che rico-
nosceva la Catalogna come «nazione». In seguito, una volta arrivato al potere nel 2011, il governo di Rajoy non ha fatto nulla per affrontare la questione catalana, negandosi a qualsiasi tipo di dialogo con Barcellona. Ma non solo, l’esecutivo di Madrid è andato oltre compiendo varie operazioni al limite della legalità per cercare di screditare il governo catalano. Due di particolare trascendenza e gravità vedono tuttora coinvolto l’ex ministro spagnolo dell’Interno Fernández Díaz, accusato di avere creato una struttura parallela alla polizia di Stato per poter interferire nella situazione politica catalana. In particolare l’ex ministro avrebbe usato questa «polizia politica» per cercare prove di presunta corruzione contro dirigenti dei due maggiori partiti indipendentisti (PDCAT ed Esquerra Republicana). Lo stesso Fernández Díaz si era già distinto in passato per aver accusato senza prove l’ex presidente della Generalitat (il governo catalano) Artur Mas di avere dei conti bancari in paradisi fiscali durante la campagna elettorale per le elezioni catalane del 2012. Quelle stesse elezioni furono anche quelle della «svolta indipendentista» di Artur Mas e del suo partito. Quest’ultimi hanno anche loro buona parte di responsabilità dello scontro frontale tra Barcellona e Madrid. L’ex presidente dell’esecutivo catalano, l’uomo che realmente tira le fila del partito dietro l’attuale presidente della Generalitat Carles Puigdemont, non era mai stato secessionista, così come il suo partito PDCAT, che fino ad allora era considerato «nazionalista catalano moderato». Tuttavia la crisi economica obbligò Artur Mas a una serie di tagli della spesa pubblica in ambito sociale e vari casi di corruzione colpirono il suo partito, così Mas decise strategicamente di salire sul carro dell’independentismo nel 2012, formando una coalizione di governo con la sinistra repubblicana di ERC. Più quindi per ragioni di politica interna catalana (il PDCAT cercava in questo modo di nascondere le proprie magagne) che per vera convinzione, si formò quindi una bizzarra coalizione di governo formata da un partito di centro-destra borghese e uno di sinistra, che tuttora governa la Catalogna con il nome di «Junts pel sì» (con l’appoggio decisivo dei 6 membri degli an-
tisistema della CUP). Quest’alleanza si formò con l’obiettivo di ambire alla creazione di un nuovo Stato catalano, contribuendo in questo modo a far crescere in maniera sostanziale le idee del nazionalismo indipendentista. A partire dal 2012 cominciò di conseguenza a prendere piede in Catalogna l’idea della separazione dalla Spagna come soluzione ai problemi economico-sociali della regione e si assistette alle prime manifestazioni di massa in favore della causa secessionista, che sfociarono poi nel referendum consultivo del 2014 (posteriormente dichiarato illegale dal Tribunale costituzionale e che ha portato ad una condanna pecuniaria di più di 5 milioni di euro contro Artur Mas e la sua attuale inabilitazione dalle cariche pubbliche per due anni) fino a quello recente del drammatico e già storico 1. ottobre 2017. Inoltre da anni imperversa in Catalogna una retorica che tende a diffondere il concetto semplicistico secondo il quale «la Spagna ci ruba». Questo slogan, sentito in molti bar di Barcellona e usato politicamente dai fautori della causa secessionista grazie anche al controllo del canale televisivo regionale TV3, è uno dei capisaldi della propaganda indipendentista e tende a sottolineare il fatto che una delle regioni più ricche di Spagna (produce il 22% del PIL spagnolo, pari a quello del Portogallo) riceva molto meno dallo Stato centralista spagnolo di quello che la Catalogna versa nelle casse di Madrid. La questione economica, molto dibattuta anche tra gli esperti con dati e cifre che vengono manipolate a seconda dell’appartenenza politica, ha svolto senz’altro una parte importante nella nascita dei sentimenti secessionisti ma non è la principale. È soprattutto l’assenza di una risposta data dal Governo di Rajoy alle rivendicazioni catalane che chiedevano una maggiore autonomia (sul modello basco), la vera causa del proliferare dei sentimenti indipendentisti, così come il clamoroso rifiuto del premier spagnolo di ricevere Artur Mas nel 2014 per affrontare questi temi. Frustrazione e rabbia sono andati crescendo anno dopo anno e hanno spinto tantissimi catalani a protestare per le strade di Barcellona, stufi del fatto che il governo di Rajoy facesse finta
Keystone
dell’aumento del secessionismo di Barcellona in questi ultimi anni
di non sentire le istanze e le ragioni di milioni di persone (basti pensare che la richiesta dello svolgimento di un referendum sull’indipendenza è richiesto dall’80% dei catalani, quindi anche da quelli che sono contrari alla separazione da Madrid, ma che vogliono semplicemente poter votare). Inoltre i catalani percepiscono disprezzo e ostilità crescente da parte del resto della Spagna, come confermato da studi sul nazionalismo e anche da fatti concreti. A fine settembre la partenza degli agenti della Guardia Civil mandati in Catalogna dal governo di Madrid per cercare di impedire lo svolgimento del referendum è stato accompagnato da applausi e cori da stadio da parte di migliaia di persone scese in strada in varie città spagnole al grido di «Andate a prenderli». Nella regione di Barcellona è quindi molto diffusa la sensazione che il resto del Paese odi la Catalogna e che, soprattutto, si sia mancato di rispetto nei loro confronti. È difficile dar torto a questa tesi, visto l’atteggiamento sprezzante mantenuto dal governo di Mariano Rajoy in tutti questi anni. Si è assistito a tutta una serie di azioni e dichiarazioni incendiarie da parte di membri del governo Rajoy o di alti dirigenti del Partito popolare, supportati anche da una campagna mediatica «spagnolista» schierata all’unisono anche contro la sola ipotesi della celebrazione di un referendum concordato in Catalogna. Così si sono
sentite frasi come quelle del ministro dell’Istruzione di Madrid che diceva che bisognava «spagnolizzare» i bambini catalani fino alla più recente del portavoce del Pp che ha affermato che l’attuale Presidente della Generalitat «Carles Puigdemont potrebbe fare la fine di Companys», riferendosi al capo del governo catalano che nel 1934 proclamò la secessione, fu arrestato e poi fucilato dalla dittatura franchista. Non da ultimo l’intervento del re Felipe VI che, invece di chetare gli animi e promuovere il dialogo tra le parti, ha preferito appoggiare le decisioni prese da Rajoy senza stigmatizzare le violenze successe durante il referendum, ha aizzato ancor di più lo spirito antimonarchico e repubblicano presente storicamente in Catalogna. Ciononostante il Presidente della Generalitat Carles Puigdemont, vistosi sull’orlo del precipizio in virtù delle pressioni internazionali che gli sconsigliavano una dichiarazione unilaterale di indipendenza e a seguito anche della decisione di molte grandi aziende catalane di trasferire le loro sedi fuori dalla regione, ha optato per una decisione intermedia ai limiti del surreale. Ha dichiarato l’indipendenza per subito sospenderla poco dopo, aprendo le porte a un dialogo con Madrid. Una commedia che solo un atteggiamento veramente ponderato del governo di Mariano Rajoy può evitare di trasformarla in tragedia.
Battiamoci contro la congiura indipendentista
Discorso Lo scrittore peruviano, premio Nobel per la Letteratura, ha pronunciato parole di fuoco sul palco
della grande manifestazione unionista dell’8 ottobre a Barcellona che qui riportiamo integralmente Mario Vargas Llosa «Cari amici. Tutti popoli della storia hanno vissuto momenti in cui la ragione viene spazzata dalla passione. È vero che la passione può essere generosa e altruista quando ispira la lotta alla povertà e alla disoccupazione. Ma la passione può essere pericolosa e distruttiva quando muove il fanatismo e il razzismo. E la peggiore di tutte, quella che ha causato le peggiori stragi nella storia, è la passione nazionalista. Religione laica, eredità deplorevole del peggiore romanticismo. Il nazionalismo ha riempito la storia d’Europa, del mondo e della Spagna, di guerra, sangue e morti. Da qualche tempo il nazionalismo sta scatenando il caos anche in Catalogna. In questa domenica soleggiata di ottobre siamo qui per fermarlo, per fermare le devastazione dell’indipendentismo e del nazionalismo. Migliaia di donne e uomini da tutta la Spagna e dal Perù si sono uniti ai catalani per esprimere loro solidarietà e condividere
la battaglia per la libertà e contro la congiura indipendentista. Sono catalani democratici, non sono traditori, non considerano l’avversario il loro nemico, non imbrattano le loro porte e non distruggono le loro finestre. Sono catalani che credono nella democrazia, nella libertà, nello Stato di diritto, nella Costituzione.
Vargas Llosa al microfono durante la manifestazione unionista. (Keystone)
Siamo armati di idee, ragioni e della profonda convinzione che la democrazia spagnola è ben impiantata e deve rimanere. Nessuna congiura indipendentista la potrà distruggere. Noi non vogliamo che le banche e le aziende abbandonino la Catalogna come se fosse una città del Medio Evo invasa dalla peste. Non vogliamo che i risparmiatori catalani ritirino i loro risparmi perché non hanno più fiducia nel futuro della Catalogna. Vogliamo invece che i capitali e le imprese vengano in Catalogna affinché torni ad essere, come già in passato, la capitale industriale, locomotiva di benessere e sviluppo economico. E vogliamo che la Catalogna torni anche ad essere la capitale culturale della Spagna, come era quando io sono venuto a vivere qui, anni che ricordo con grande nostalgia. Erano gli ultimi anni del franchismo. La dittatura era ormai sfilacciata e faceva acqua da tutte le parti. Nessuna città spagnola, ad eccezione di Barcellona, aveva approfittato di questi spiragli di libertà per rivolger-
si al mondo e importare dal mondo le migliori idee di libertà, i libri migliori, i grandi successi dell’avanguardia. Ecco perché gli spagnoli sono venuti a Barcellona. Perché qui si respirava già l’aria dell’Europa: quella della democrazia e della libertà. In Catalogna si sono incontrati scrittori spagnoli e latinoamericani dopo aver girato la schiena alla guerra civile. Da tutta l’America Latina ho visto arrivare a Barcellona ragazzi e ragazze con aspirazioni artistiche e letterarie, perché è qui che dovevano venire se volevano avere successo nel mondo delle arti e della letteratura. Sono venuti a Barcellona, come noi e la generazione che ci ha preceduto siamo andati a Parigi. Vogliamo che Barcellona, la Catalogna, torni ad essere la capitale culturale della Spagna. Cari amici. La Spagna è un Paese antico. La Catalogna è un Paese antico. 500 anni fa le loro storie si sono riunite e si sono unite alle storie di baschi, galiziani, estremegni, andalusi ecc. per creare
la società multiculturale e multilinguistica che è la Spagna. Adesso, da 40 anni, oltre al ricordo di un passato grandioso e a volte tragico, la Spagna è una terra di libertà e di legalità. L’indipendentismo non lo distruggerà. Ci vuole molto di più di una congiura indipendentista dei signori Puigdemont e Junqueras e Forcadell, per distruggere quanto è stato costruito in 500 anni di storia. Non lo permetteremo. Qui ci sono cittadini pacifici che credono nella convivenza e nella libertà. Facciamo vedere alla minoranza di questi separatisti che la Spagna è un Paese moderno che ha abbracciato la libertà e non vi rinuncerà per una congiura indipendentista che vuole retrocederlo al rango di un paese terzomondista. La manifestazione di oggi è la dimostrazione meravigliosa di coloro che a Barcellona, in Catalogna e nel resto della Spagna si battono per la democrazia, la legalità e la libertà. Viva la libertà! Viva la Catalogna! Viva la Spagna!»
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Politica e Economia
Trono di Brexit
Londra Non mancano i pretendenti di Downing Street ma in questa fase delicata in cui non si riesce
a concretizzare la Brexit tutti pensano che Theresa May debba stare al suo posto. Anche se la sua leadership non è né forte né stabile
Cristina Marconi Quello di Downing Street è un trono che nessuno vuole. O per lo meno non ora. I pretendenti in teoria non mancano, anzi abbondano, ma in questa fase storica, con la Brexit ancora in altissimo mare non solo da un punto di vista negoziale ma anche meramente ideologico, la maggioranza continua a pensare che tutto sommato le mani sfortunate ma non dissennate di Theresa May continuino ad essere la soluzione migliore per superare la situazione e aspettare che passi il lungo inverno della confusione. Dopo una serie strabiliante di sventure iniziate in primavera – cinque attentati terroristici, un’elezione andata malissimo, una gestione a dir poco legnosa della tragedia enorme della Grenfell Tower, un discorso che doveva servire al rilancio ed è finito con lo slogan sullo sfondo che cadeva lettera per lettera – sono in pochi a Londra a pensare che la premier abbia ancora un futuro davanti a sé. La sua leadership è ormai ben lontana dall’essere «forte e stabile» come prometteva, e l’unico vero asso nella manica della May è quella di essere l’esatto contrario della «donna tremendamente difficile» che sperava di essere: se resterà a Downing Street ancora per un po’ è proprio perché è la più calma in circolazione. Solo che non tutti sono d’accordo con la linea attendista e alcuni vorrebbero che andasse via subito per evitare che il partito, i cui membri hanno 72 anni in media, si dissolva e muoia per mancanza di linfa e di energie nuove, travolto da un risultato del referendum che è come l’abbraccio di un «white walker»: ha costretto tutti i politici a trasformarsi in brexiters.
La figura più interessante è Ruth Davidson, leader dei Tories scozzesi che guarda al futuro più che alle lacerazioni del passato L’uomo che la odia più apertamente è l’ex cancelliere George Osborne, uno che ha detto di volerla vedere fatta a pezzi nel suo frigo e che tutte le sere sulle pagine del quotidiano gratis «Evening Standard» racconta ai londinesi che rientrano stanchi verso casa quanto il partito meriti di meglio. E infatti ci sarebbe anche la sua mano dietro al tentativo di golpe, abbozzato e fallito in poche ore, di Gary Shapps e Ed Vaizey, due deputati che hanno dichiarato apertamente quello che tutti sapevano, ossia che tra i Tories si parla ormai apertamente di mandare a casa la May. Solo che delle 48 firme necessarie per chiedere al comitato 1922, quello che si occupa delle questioni interne al partito, ce ne sarebbero per ora solo una trentina. Tutti gli altri circa trecento
La premier britannica Theresa May e la leader conservatrice scozzese Ruth Davidson. (AFP)
deputati sono ancora indecisi su come procedere. Anche per quello più motivato di tutti ad un cambio della guardia: Boris Johnson, che da mesi sta disseminando trappole e trabocchetti sul percorso della May, deve calcolare bene le sue prossime mosse. Anche perché a furia di tradimenti il suo seguito si è, come dire, un po’ eroso. Per mesi Boris ha oscillato costantemente tra l’incoronazione e il licenziamento. Da una parte è indubbiamente carismatico e quando parla o scrive la gente lo ascolta e lo capisce, soprattutto quando tuona che «il leone britannico deve essere lasciato ruggire» durante una conferenza mesta, specchio di un Paese che sta vedendo l’economia indebolirsi, le banche e le istituzioni finanziarie scappare una ad una e deve confrontarsi con una Bruxelles tutt’altro che impressionata dalla capacità negoziale del team londinese. Dall’altra la serie di marachelle da bambino dispettoso che vuole mettere alla prova la pazienza e l’autorità dei genitori è stata un po’ troppo lunga e quando la settimana scorsa ha detto che la città libica di Sirte può diventare come Dubai, «basta che rimuova i cadaveri dalle strade», in molti hanno detto basta e chiesto alla May di cacciarlo. Lei non lo ha escluso, anche se il sospetto è che lui non aspetti altro: anche se nel partito lo odiano, il suo punto di forza è la carica energica e ottimistica che prima o poi bisognerà dare alla
Brexit, sempre che si decida di portarla avanti. Boris dà ai britannici un’immagine molto vincente e questo prima o poi potrebbe tornargli utile. E lui lo sa. Anche Johnson però ormai ha perso smalto anche nella categoria «bizarre» nella quale ambisce da sempre a collocarsi. A soppiantarlo nel cuore dei rari giovani conservatori è stato Jacob Rees-Mogg, un uomo così ottocentesco nelle idee e nello stile da essere quasi eccentrico. Brexiter di ferro, contrario all’aborto anche nei casi di stupro, parla come un gentiluomo d’altri tempi e dice cose datate e vintage che divertono e piacciono a chi crede nell’eccezionalità del Regno Unito. Ma nessuno lo prende davvero sul serio, mentre nella categoria dei cinquantenni si sta facendo notare per il suo profilo istituzionale il ministro degli Interni Amber Rudd, una che sembra giocare lo stesso gioco di Theresa May negli ultimi giorni di David Cameron: l’unica persona che non ha bevuto e che può guidare dopo la festa. La Rudd ha assunto il guru australiano della strategia politica Lynton Crosby, artefice di molte vittorie ma anche di fragorose sconfitte come quella della stessa May alle elezioni-lampo, e questo dimostra che qualche ambizione ce l’ha. Il suo principale punto debole è di aver votato «remain» al referendum, anche se nell’ultimo anno e mezzo si è riposizionata con una serie di dichia-
razioni più da falco che da colomba, e di essere sorella di uno dei personaggi chiave del tentativo di mitigare o addirittura evitare l’uscita dalla Ue, il potentissimo Roland Rudd. E poi ci sono i giovani, tra cui spicca l’unica persona che dia un senso di futuro ad un partito esangue: Ruth Davidson, la formidabile leader dei Tories scozzesi, energica trentottenne gay, lucida, dalla battuta pronta, ottimista, europeista, attenta al sociale, una che fa discorsi travolgenti come quelli di Johnson ma con tutt’altra sostanza e che piace a tutti. I suoi punti deboli sono due: il primo, il più evidente, è che non è eletta a Westminster – dove però ha portato ben tredici deputati, un numero enorme per i Tories – e che bisognerà aspettare delle elezioni suppletive per poterla candidare eventualmente. Il secondo è che tutte le sue belle qualità, compresa quella di essere una delle poche a difendere il «remain» in maniera schietta e aperta, non possono essere sprecate in un contesto in cui il partito è ancora attraversato da una faida tra euroscettici e liberali talmente profonda che piuttosto che fare concessioni a Bruxelles si preferisce immaginare il suicidio economico e chiedere al cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond di accantonare fondi per far fronte allo scenario del «no deal», del mancato accordo. Quello, perfetta-
mente evitabile, in cui si viene divorati dai dazi commerciali e dalle mille conseguenze che gli eurofobi non vogliono neanche contemplare. Che il Regno Unito sia pronto per un vero leader o preferisca continuare sulla scia di una reggenza come quella della May, o del profilo tecnico che potrebbe sostituirla a un certo punto – il ministro per la Brexit David Davis o lo stesso Hammond, che però è accusato di non affrontare l’uscita dalla Ue con la necessaria verve – si vedrà nei prossimi mesi, quando l’economia continuerà a dare i suoi segnali sinistri e notizie come quella di Bombardier e dei suoi dazi del 300% sulle importazioni negli Stati Uniti porteranno ad un bagno di realtà. Nel frattempo Jeremy Corbyn continua ad avanzare nei sondaggi e secondo alcuni avrebbe addirittura cinque punti di vantaggio. L’indecisione potrebbe essere una zona di conforto, con la May che per tutti i suoi errori è finita a fare lo scudo umano del suo partito a Bruxelles. Ma tra un accoltellamento e una trama sotterranea, che la premier sta usando per prendere tempo e recuperare fiato, c’è il problema di un partito che manca di un progetto e di una visione concreta per un paese seduto davanti ad un bivio e indeciso su dove andare dalla mattina del 24 giugno del 2016, quando ha votato per una parola, Brexit, di cui non conosceva il significato. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Pugno duro di Pechino contro l’Islam
Xinjiang Migliaia di uighuri e altre minoranze etniche musulmane sono detenuti in campi di rieducazione secondo
una politica volta a contrastare l’estremismo islamico nella regione autonoma della Repubblica popolare cinese
Beniamino Natale Le autorità cinesi li chiamano «centri per la formazione professionale». Però ci si entra, come ha dichiarato un testimone ai reporter di Radio Free Asia (RFA), «in manette e con un cappuccio nero sulla testa». Secondo l’emittente, che è finanziata dalle autorità statunitensi, almeno due «centri» che si trovano nella Regione autonoma Uighura dello Xinjiang, nel nordovest della Cina, sono in realtà dei campi di «rieducazione». Nella sola contea di Yining esistono almeno cinque di questi campi, secondo i testimoni. Tursun Qadir, che insegna in uno dei campi, ha raccontato che «in ogni classe ci sono dalle 30 alle 50 persone, e ritengo che in tutta la contea ci siano almeno 1500 persone che seguono il programma di rieducazione». La maggioranza di loro – secondo l’insegnante – sono «ex-criminali o sospetti», tra cui alcuni di coloro che hanno scontato anni di reclusione in seguito alla ribellione contro il governo cinese di 20 anni fa. La rivolta, iniziata dopo l’esecuzione di trenta indipendentisti, scoppiò nel febbraio 1997. Altri, aggiunge Qadir, vengono portati nei «centri», «perché hanno partecipato ad attività religiose», per esempio «mandando i loro figli a scuole religiose clandestine». Un altro insegnante ha raccontato a RFA che il campo n.4 della contea all’inizio era chiamato «Centro per l’addestramento dei cittadini alle leggi e ai regolamenti». In seguito, il nome è stato cambiato in «Centro per sviluppare capacità per intraprendere una carriera professionale». «Ovviamente, la ragione del cambiamento del nome è che si vuole evitare di dare una cattiva impressione», ha aggiunto il testimone. Nei campi, ha denunciato l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch (HRW), il tempo di permanenza dei «rieducandi» viene deciso dalle locali autorità di polizia. «Agli studenti non è consentito lasciare i campi fino a quando non hanno completato il programma ma la sua durata non è chiara – i regolamenti affermano semplicemente che termina quando “è stato raggiunto un livello soddisfacente”» conferma
Uighuri passano davanti a una moschea a Urumqi, dove c’è una forte presenza di soldati e forze di polizia . (AFP)
uno dei testimoni ascoltati da RFA. La denuncia dell’esistenza di decine di questi campi è solo l’ultima di una serie di notizie che indicano che nel territorio si è raggiunto il punto di non ritorno. Lo Xinjiang è un vasto territorio che comprende la catena montuosa del Kunlun e il deserto del Taklamakan. È ricco di materie prime e si trova in una posizione di grande importanza strategica, dato che confina con le repubbliche musulmane dell’Asia Centrale oltreché con India, Pakistan e Afghanistan. Nei decenni passati, la regione – che i nazionalisti locali chiamano Turkestan dell’Est – è stata meta di milioni di emigranti da altre province della Cina: oggi gli immigrati sono circa 10 milioni; gli uighuri – nativi della regione, turcofoni e musulmani – sono 9 milioni mentre circa un altro milione di abitanti è composto da altre minoranze come i kirghizi e i khazaki. Dal 2009, quando circa 200 persone furono uccise in pogrom contro gli
immigrati cinesi a Urumqi, la capitale della provincia, lo Xinjiang è isolato dal resto della Cina e del mondo. Spesso Internet viene bloccata e le visite di giornalisti e diplomatici non sono consentite. Alla fine del 2015 Ursula Gauthier, corrispondente del settimanale francese «Nouvelle Observateur», è stata esplusa dalla Cina per aver cercato di raccogliere informazioni di prima mano nella regione. Un’eccezione è stata fatta, sempre nel 2015, per George Osborne, allora ministro delle Finanze nel governo britannico guidato da David Cameron, che ha visitato Urumqi senza far alcun cenno alla situazione umanitaria. A partire dalle violenze di Urumqi, migliaia di uighuri sono stati condannati a pene detentive e decine sono stati mandati davanti ai plotoni di esecuzione. Tra gli osservatori c’è consenso sul valutare che negli ultimi anni la Cina – pur rimanendo il Paese con il maggior numero di esecuzioni del mondo, circa due-tremila nel 2016 – abbia fortemen-
te contenuto il numero della condanne a morte. L’unica regione nella quale sono aumentate è lo Xinjiang, dove sono decine ogni anno (il numero esatto non si può conoscere perché Pechino lo considera un segreto di Stato). La situazione è peggiorata da quando a capo del partito comunista della regione è stato nominato Chen Quanguo, un «duro» in ascesa nella gerarchia comunista che già si è distinto per il «pugno duro» usato come leader del partito nel Tibet. Tra le altre iniziative repressive, Chen ha ordinato il sequestro di tutte le copie del Corano, il libro sacro dell’Islam, e dei tappetini che i musulmani usano per le preghiere. Il sequestro vale non solo per le famiglie uighure, ma anche per quelle appartenenti ad altre minoranze etniche. «Quasi tutte le famiglie possiedono un Corano e alcuni tappetini per la preghiera», ha commentato Dilxat Raxit, portavoce dell’organizzazione «storica» della diaspora uighura, il World Uyghur Congress. Notizie di sequestri di questo tipo, ha
aggiunto Raxit, sono venute da numerose località tra cui Kashgar e Hotan, due centri della cultura uighura. Spesso le pene sono sproporzionate ai reati imputati ai detenuti uighuri. Una giovane donna di Kashgar, Horigul Nasir, è stata condannata a dieci anni di reclusione – secondo la testimonianza del fratello – per aver detto ad un’amica che non portare il velo è «un peccato». Il caso più eclatante è quello di Ilham Tohti, professore all’Università delle Minoranze di Pechino, condannato tre anni fa all’ergastolo sulla base di articoli che aveva scritto e di lezioni che aveva tenuto ai suoi studenti. In occasione del terzo anniversario della sua condanna – che gli è stata inflitta nel settembre del 2014 – un gruppo di esuli uighuri basato in Germania, la Ilham Tohti Inititive, ha ricordato che il professore, lungi dall’essere un estremista, «promuoveva il dialogo tra la comunità maggioritaria dei cinesi han e quella uighura» e che era «specificamente contrario al secessionismo». Tohti, ha proseguito il gruppo, «nonostante quello che stabilisce la legge cinese, non gode del suo diritto a visite regolari ed è tenuto di fatto segregato». Ai suoi avvocati è stato impedito di presentare il ricorso in appello. Il professore ha ricevuto nel 2014 il premio «Barbara Goldsmith» dal centro americano del PEN e, nel 2016, il premio «Martin Ennals» per i difensori dei diritti umani. L’eliminazione dalla scena di Tohti e di altri uighuri moderati e promotori del dialogo con la maggioranza cinese ha favorito il ricorso alla violenza da parte di gruppi di disperati. Un percorso – l’eliminazione delle voci moderate – che si è verificata già in altre situazioni in Asia e che ha favorito l’emergere di gruppi violenti legati all’internazionale islamica del terrore. I casi più evidenti sono quelli dei musulmani del Kashmir indiano e quello dei Rohingya in Birmania. Negli ultimi anni Pechino ha più volte affermato che «migliaia» di uighuri sono stati reclutati dallo Stato Islamico, o Isis, in Siria e in Iraq ma finora non sono state trovate prove sufficienti a confermare questa tesi. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
L’inevitabile aumento dell’età di pensionamento
Assicurazioni sociali Secondo due esperti friburghesi, l’invecchiamento della popolazione richiama la necessità
di aumentare gli anni di attività lavorativa. Con adeguati incentivi si potrebbero superare gli ostacoli che hanno fatto cadere la recente proposta di riforma «Previdenza 2020» Ignazio Bonoli Si è detto e scritto molto sul risultato (per certi versi sorprendente) del voto contrario del popolo e anche dei cantoni (per il finanziamento tramite l’IVA) alla riforma «Previdenza 2020», il tema più importante di questa legislatura. Premettiamo che su un aspetto – sicuramente primordiale – della riforma sono tutti d’accordo e cioè sulla sua necessità. Anche in questo caso i motivi di fondo sono noti da tempo: principalmente l’invecchiamento della popolazione e quindi il numero sempre più ridotto di coloro che pagano i contributi (le persone attive) rispetto a coloro che ricevono le rendite (i pensionati). Dalle prese di posizione seguite al voto popolare negativo, si può notare la volontà di dedicarsi in primo luogo alla revisione dell’AVS, che dovrebbe avvenire entro il 2019. C’è però ancora un grosso ostacolo da superare: l’aumento dell’età di pensionamento. Un primo approccio è stato fatto con l’aumento dell’età di pensionamento delle donne a 65 anni, che è però uno dei motivi del no popolare. Sul piano tecnico e visto l’aumento della speranza di vita (80,1 anni per gli uomini e 84,5 anni per le donne) questo passo non può più essere rimandato a lungo. Questa necessità è stata più volte
ricordata anche da tutti gli esperti del settore. Tra questi, il professor Reiner Eichenberger, con la sua assistente Ann Barbara Bauer, un mese prima della votazione, hanno pubblicato un’ampia analisi della situazione, partendo dall’assunto secondo cui l’AVS si potrebbe salvare soltanto con un aumento dei contributi e/o una riduzione delle rendite, oppure con un aumento sensibile dell’età di pensionamento. Quest’ultima soluzione, per altro già prevista da parecchi paesi, è la migliore, soprattutto se all’AVS verrà attribuito il ruolo di fattore chiave di tutto il sistema previdenziale. Ammesso il principio, resta da risolvere il problema del come fare. I due esperti vedono due possibilità: o un aumento generalizzato dell’età di pensionamento, o un’ampia flessibilizzazione con scelte individualizzate. La prima soluzione incontrerebbe certamente ancora molte opposizioni, ma anche per la seconda non esistono ancora modelli abbastanza attrattivi per i lavoratori. Oggi chi continua a lavorare dopo l’età di pensionamento, senza rinunciare alla rendita, si vede aumentare le imposte da pagare. Chi invece rimanda la percezione della rendita può correre rischi finanziari. Non solo, ma invece di contribuire a finanziare l’AVS, versa più sol-
L’invecchiamento della popolazione non è un male, occorre saperlo affrontare e sfruttare nei dovuti modi. (Keystone)
di alle casse pubbliche, che li usano per altri scopi. La proposta è quindi quella di flessibilizzare l’età di pensionamento, accompagnata da incentivi al lavoro, da un lato, e dall’altro da prelievi che vadano tutti a beneficio dell’AVS. Oggi, infatti, il sistema praticato non è attrattivo per due motivi: è favorevole solo a chi ha la possibilità di vivere a lungo, ma poi chi lavora più a lungo non ha sempre la necessità di una rendita più elevata. Si dovrebbero perciò ridurre i contributi prima del pen-
sionamento (per esempio dai 55 anni), dato che si percepirà un numero di rendite minore, a causa dell’aumento degli anni di lavoro e si pagherà altrettanti contributi in più. Anzi, se i contributi dei datori di lavoro nei due pilastri rimangono quelli attuali, quelli dei lavoratori potrebbero perfino essere soppressi, il che sarebbe un grosso incentivo a rimandare il pensionamento. Un altro tema scottante va visto nel fatto che le imposte pagate dalle persone anziane sono in genere elevate, tanto più
che il limite massimo delle rendite li fa diventare quasi prelievi fiscali. L’incentivo potrebbe consistere in una forte riduzione delle aliquote per chi lavora dopo il pensionamento. L’aumento del reddito disponibile per l’anziano potrebbe permettere ai datori di lavoro di studiare appositi modelli per i lavoratori anziani. L’effetto macro-economico (più consumi, più investimenti, più risparmi e anche più imposte) potrebbe essere notevole. Ma proprio questo effetto potrebbe portare maggiori entrate allo Stato, che a sua volta potrebbe contribuire meglio a finanziare la previdenza. I due esperti concludono perciò che l’invecchiamento della popolazione non è in sé un male, bisogna soltanto saperlo utilizzare nei dovuti modi. Questo comunque non permetterà di evitare di aumentare l’età di pensionamento delle donne, né di non ridurre il tasso di conversione delle casse pensioni*. Ma – secondo i due esperti citati – i vantaggi del sistema superano gli svantaggi e si potrebbe cominciare ad applicarlo proprio con l’aumento dell’età di pensionamento delle donne. Nota
* Del problema ci occuperemo in un prossimo articolo.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Politica e Economia
Le strategie dei dividendi combinano il meglio di due mondi diversi
Le azioni con distribuzioni costanti dei dividendi battono il mercato
200
La consulenza della Banca Migros 150 Christoph Sax
100non si intravede la fine Per il momento di quest’epoca di interessi bassi. Nelle ultime riunioni la Banca centrale europea e la Banca nazionale svizzera non Le azioni con distribuzioni costanti dei dividendi battono il mercato hanno mostrato 50alcuna urgenza di au200 mentare i tassi di riferimento. Mentre le banche centrali hanno ridotto i tassi 150 d’interesse e i rendimenti delle obbligazioni negli ultimi anni, i rendimenti 100 0 dei dividendi – ovvero le distribuzioni 50 versate agli azionisti in percentuale della quotazione dei titoli – sono conti0 nuamente saliti. Nel frattempo diversi titoli azionari-50 svizzeri hanno raggiunto -50 il 4% e oltre; i primi della classe sono -100 Le azioni Swiss Re e Zurich, che si avvicinano statunitensi con addirittura al 6%. una distribuzione I dividendi costantemente elevati -100 costante dei sono senz’altro un punto a favore, ma è S&P 500 Dividend Aristocrats Total Return Index S&P 500 Index dividendi rispetto anche determinante che la quotazione S&P500 500Dividend DividendAristocrats AristocratsTotal TotalReturn ReturnIndex Index S&P 500 Index Index S&P S&P 500 all’indice S&P rimanga il più stabile possibile, proprio 500 dell’intero come per un’obbligazione. Molte somercato cietà che distribuiscono regolarmente americano. dividendi elevati registrano fluttuaLedeiazioni con una distribuzione costante dei dividendi rispetto zioni prezzi inferioristatunitensi alla media. Si tratta tipicamente di società con una scono fluttuazioni dei prezzi più elevate I titoli con dividendi elevati non danno pitalizzazione di mercato superiore a 3 forte posizione sul mercato in settori delle seconde. Tuttavia, grazie alla loro prova di una buona tenuta solo nelle miliardi di dollari e che negli ultimi 25 poco dipendenti dalla congiuntura, il solida situazione finanziaria, società fasi negative per le borse, ma offrono anni hanno continuamente aumentato che assicura una redditività superiore come Nestlé o Swisscom presentano anche nel lungo termine migliori i propri dividendi. Negli ultimi dieci alla media, cash flow stabili e bilanci generalmente una migliore tenuta in opportunità rispetto alla media in anni queste azioni si sono apprezzate solidi. una fase negativa rispetto al mercato nel termini di aumento delle quotazioni. del 182% reinvestendo tutte le distriLe azioni con dividendi elevati non sono suo insieme. Inoltre, i dividendi elevati Lo dimostra l’indice S&P 500 Dividend buzioni. È un risultato molto superiore tuttavia sostituti perfetti delle obbligaaiutano a compensare eventuali flessioni Aristocrats, comprendente tutti i titoli a quello raggiunto dall’indice di borsa zioni, poiché, com’è noto, le prime subidei prezzi nel caso di un ribasso. dello S&P 500 che registrano una caS&P 500. Fonte: Bloomberg
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Christoph Sax è capo economista della Banca Migros
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Le azioni con distribuzioni costanti dei dividendi battono il mercato
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Dall’uomo economico all’essere umano Il premio Nobel di economia è stato assegnato, quest’anno, al prof. Richard H. Thaler della Business School dell’Università di Chicago. Thaler insegna scienze del comportamento e economia. Si interessa dunque al modo di comportarsi degli agenti economici. Per i lettori che non sono specialisti, preciso che la sua ricerca non fa parte di quello che si usa definire il «mainstream» dell’economia, ossia la scuola neo-liberale. Soprattutto perché il Nobel di quest’anno rifiuta di accettare l’ipotesi della piena razionalità nel comportamento degli agenti economici sulla quale si basano le deduzioni della teoria microeconomica tradizionale. Detto questo, per gettare maggior luce sulla sua ricerca, è utile continuare con una citazione. La traggo da un libro di un altro premio Nobel di economia, che lavora nello stesso solco di ricerche nel quale opera il prof. Thaler. Si tratta del libro Pensieri lenti e veloci dello psicologo israeliano Daniel Kahneman che ha ricevuto il premio Nobel di economia
nel 2002. L’autore di questo libro scrive, avviando un capitolo nel quale considera il problema di come si prende una decisione, che, all’inizio degli anni Settanta dello scorso secolo, gli era capitata sotto gli occhi la seguente definizione fatta dal professore di economia svizzero Bruno Frey: «L’agente economico è razionale e egoista, e i suoi gusti non cambiano». Kahnemann afferma che questa definizione, che è sicuramente condivisa da una larga maggioranza degli economisti tradizionali, lo lasciò stupefatto. Fino ad allora, nonostante il suo interesse per i problemi economici, egli non si era infatti accorto che economisti e psicologi operassero in due mondi intellettuali completamente diversi. Per uno psicologo è evidente che le persone non sono completamente razionali, né completamente egoiste, ma qualcosa di molto meno stabile. Per gli economisti, invece, no. Kahneman conclude ricordando che le due discipline sembravano studiare due specie completamente differenti, quelle che lo
specialista in comportamento economico Richard Thaler battezzerà come gli econi e gli umani. La differenza tra gli individui di queste due specie è che gli umani possono fare errori e, di solito, continuano a farne nelle loro decisioni, mentre gli econi per definizione non ne fanno mai. L’econe di Richard Thaler è, forse non è nemmeno necessario precisarlo, il fratello, se non addirittura il sosia o il clone dell’uomo economico, vale a dire, nella definizione di Frey, dell’agente economico razionale. Da circa una quarantina di anni, psicologi e economisti del comportamento stanno cercando di costruire un ponte tra questo Idealtyp, che sottende praticamente tutta la microeconomia (ossia la teoria che spiega come consumatori e produttori si comportano sui mercati) e l’uomo e la donna normali, ossia il consumatore e il produttore come possiamo essere voi ed io, cari lettori. Noi, forse, tentiamo di comportarci in modo razionale ma, in molti casi, prendiamo decisioni affidandoci al nostro intuito e ai nostri
sentimenti, o fidandoci dei vaghi consigli di qualche amico, piuttosto che considerando freddamente il risultato del conto dei costi e dei benefici possibilmente derivanti dalla decisione stessa. Insomma, ricercatori come Kahneman e Thaler non escludono di partenza che l’agente economico possa adottare comportamenti non razionali e quindi sbagliarsi nella sua presa di decisioni. Dopo di che, però, i due premi Nobel di economia sono andati alla ricerca delle ragioni di questi comportamenti non appropriati per suggerire misure con le quali si potrebbe ridurre il numero delle decisioni sbagliate. Questo obiettivo comune è stato però da loro perseguito seguendo due piste di ricerca completamente diverse. Kahneman ha indagato sul come gli essere umani, quando prendono decisioni economiche, arrivano a concepire le loro decisioni. Semplificando al massimo quello che può essere considerato il nocciolo della sua ricerca, questo psicologo reputa che le decisioni sbagliate sono quasi sempre frutto di
reazioni troppo rapide (che definisce pensiero rapido) e che la qualità delle decisioni economiche ci guadagnerebbe molto se gli agenti si prendessero un tempo di riflessione superiore prima di decidere (pensiero lento). Thaler, invece, da buon economista, reputa che sarebbe più facile evitare comportamenti sbagliati se qualcuno, per esempio lo Stato, introducesse incentivi per persuadere gli agenti economici a comportarsi in modo razionale. L’assegnazione del premio Nobel di economia al prof. Thaler – come la precedente attribuzione al prof. Kahneman – non ha fatto felici gli economisti tradizionali. Il loro capostipite in Svizzera, prof. Silvio Borner, non ha aspettato a reagire in modo fortemente negativo. In una lettera alla «Neue Zürcher Zeitung» ha addirittura dichiarato che, se avesse saputo di questa assegnazione, Friedrich August von Hayeck, uno dei piloni del pensiero economico tradizionale, avrebbe di sicuro rinviato al mittente il premio Nobel da lui ricevuto nel 1974.
fratello di Lino, ras del movimento del suo predecessore Raffaele Lombardo (condannato in appello a due anni di carcere per voto di scambio; in primo grado aveva preso sei anni e otto mesi per concorso esterno in associazione mafiosa). Ma all’ultimo minuto, scrive il «Giornale di Sicilia», Carmelo Leanza ci ha ripensato. Crocetta si è allora messo alla trafelata ricerca di un altro Leanza, e ha trovato Antonio, figlio di un assessore socialista degli anni 90. In tutto questo, le liste devono ancora passare l’esame dell’Antimafia, che indaga su almeno venti casi sospetti, tra cui si distingue Antonello Rizza di Forza Italia: 4 processi, 22 capi di imputazione. Un tale degrado morale si spiega in due modi. La condizione di privilegio di cui godono i deputati regionali, tradizionalmente generosi con se stessi, che si fissano adeguate ricompense destinate spesso a rivelarsi soltanto un minimo garantito, un acconto sul grosso degli introiti: la politica come prosecuzione
degli affari con altri mezzi. E la sottomissione di centinaia di migliaia di siciliani, che campano di lavori precari, vivono di sussidi, abitano case abusive, vengono insomma scientemente tenuti in condizione di dipendenza dalla politica: il diritto diventa favore. L’alternanza tra destra e sinistra non ha cambiato nulla. L’onestà personale di Nello Musumeci, in testa ai sondaggi, non è in discussione; ma non c’è da stupirsi che sia tallonato dal candidato antisistema, Giancarlo Cancellieri. I Cinque Stelle, con la loro consueta gragnuola di No, difficilmente sarebbero la soluzione per lo sviluppo; ma la speranza di molti siciliani è che riescano a catalizzare le energie e la rabbia della comunità. È il caso di ricordare che non stiamo parlando di una landa desolata e senza speranza, ma di un’isola senza confronti al mondo per patrimonio naturale e artistico, con teatri greci più belli che in Grecia, mosaici bizantini più belli che a Bisanzio (commoven-
te la cappella Palatina restaurata), oltretutto in pieno boom turistico nonostante la storica carenza di infrastrutture e di voli diretti con il Nord Europa. Ero a Palermo nei giorni scorsi. Giorni pieni di sole e vento, in cui i siciliani hanno raccolto un cadavere all’Arenella, a Palermo – il quinto da marzo –, contato due parricidi a Barrafranca, Enna, e a Pedara, Catania. Mai come oggi la sensazione è che l’enorme potenziale di crescita economica e culturale rischi di essere bruciato nella fornace del malcostume e dell’autodistruzione. E viene un brivido nel pensare – come ci ha insegnato la grande letteratura da Verga a Camilleri passando per Pirandello, Sciascia, Tomasi di Lampedusa – che la storia della Sicilia parla di tutti quanti gli italiani. E credo che anche gli svizzeri siano consapevoli che i siciliani presi uno per uno sono capaci di grandi imprese; ma tutti insieme non sono ancora riusciti a far decollare la loro terra.
Da un punto di vista politico (in senso lato), l’ingresso nell’«infosfera» – la definizione è di Luciano Floridi – sta frantumando la categoria di «opinione pubblica» come si è andata configurando dall’Illuminismo in poi, con la diffusione delle gazzette e la nascita dei circoli di lettura. Nel corso dell’Ottocento, ogni partito o movimento intenzionato ad occupare un determinato spazio fondava un giornale o una rivista, intesa come bandiera e megafono della piattaforma programmatica. Il Ticino non fece eccezione; anzi, cavalcò il mondo della carta stampata con trasporto, un entusiasmo sfrenato che spesso degenerava nella faziosità smaccata con esiti infausti. Emilio Motta scrisse alla fine del secolo che «la stampa che dovrebbe essere una scuola d’educazione civile e morale, un mezzo d’incitamento a nobili propositi, da noi non lo è». E Alfredo Pioda, al tornante del secolo, aggiungeva che ognuno s’era
fatto poligrafo, profondendo enormi energie in battibecchi da pollaio: «La stragrande maggioranza degli scrittori ticinesi sono scrittori d’occasione, testi sparpagliati un po’ ovunque, almanacchi, riviste, gazzette, opuscoli…», mille rivoli in cui le forze migliori del paese finivano per confluire in uno stagno. La vena pubblicistica rimase iperattiva per tutto il Novecento, fino al termine della guerra fredda. Poi la temperatura è scesa di colpo, complici il mutamento della società (migrazioni, mobilità, urbanizzazione) e il rimescolamento della scala dei valori. Le principali famiglie partitiche (liberali, conservatori, socialisti) hanno dovuto fare i conti con l’emersione dell’«elettore d’opinione», una figura volatile, non più legata alla «fede dei padri» e alle relative liturgie. Di conseguenza anche la stampa di partito ha imboccato il viale del tramonto. Agli occhi di molti fu un passaggio
inevitabile: troppi quotidiani, troppi sprechi, troppe parole spese in baruffe ridicole. Ma con la scomparsa degli «organi di…» venne meno anche la cultura politica, i canali propedeutici forniti dai seminari interni, gli agganci con le ideologie che avevano orientato le scelte delle generazioni precedenti. Oggi l’opinione pubblica appare destrutturata, priva di collanti. La tecnologia che ciascuno porta con sé come una seconda pelle favorisce cavalcate nella Rete prodigiose ma isolate. Per un verso questa nuova tappa nella comunicazione sociale ricorda la «folla solitaria» descritta dal sociologo americano David Riesman negli anni 50, una società in cui ciascun individuo rimane chiuso nel suo orizzonte mentale pur vivendo confuso con gli altri. Intrecciare nessi e legami per costruire un progetto comune sembra essere l’ultima preoccupazione della folla solitaria.
In&outlet di Aldo Cazzullo Sicilia docet In Sicilia si vota il 5 novembre, in Italia ancora non si sa. Di solito si dice che quello che accade in Sicilia accadrà dopo nel resto d’Italia. Se così fosse, le elezioni politiche di inizio 2018 rischiano di segnare un tempo degradato per la vita pubblica. La presentazione delle liste per le regionali siciliane è stata uno spettacolo imbarazzante. Quattordici deputati (sull’isola dell’autonomia dire «consigliere regionale» è troppo poco) che sostenevano la sinistra si candideranno con la destra. Passano dall’ex comunista Crocetta all’ex missino Musumeci. In realtà, restano sempre sullo stesso posto: la poltrona. Alcuni rivelano una tecnica da contorsionisti. Totò Lentini era nel centrosinistra, è passato al centrodestra, ma a Palermo è tornato nel centrosinistra per appoggiare Orlando, e ora in Regione ri-ritorna nel centrodestra. Alessandro Porto, presidente del gruppo «Con Enzo Bianco» al Comune di Catania, si candida nelle liste di Silvio Berlusconi.
Sono in teoria 76 mila i voti di preferenza che si spostano. Questo perché si presume che i clienti seguano i loro patroni, indipendentemente dal programma e dai valori. Che la classe dirigente non abbia molta stima dei compatrioti lo si vede da altri dettagli. Forza Italia ha perso Vincenzo Figuccia, passato all’Udc, ma ha messo in lista Onofrio Figuccia «detto Vincenzo»: qualcuno che lo vota per sbaglio ci sarà. Figuccia quello vero è furibondo. Gaetano Armao, leader mancato, non si candida, ma il suo movimento Siciliani Indignati schiera con Forza Italia il teologo Pietro Garonna «detto Armao». Il penoso spettacolo coinvolge ovviamente la sinistra, nella parte di attrice non protagonista. Tutti contro tutti – Fava contro Micari, Orlando contro Crocetta – in una faida che non ha la nobiltà della tragedia, ma la fatuità della farsa. Il governatore non ricandidato – per disperazione – aveva annunciato l’ingaggio di Carmelo Leanza,
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti L’opinione pubblica in frantumi Proliferano gli incontri sull’informazione, sul suo ruolo in una società pluralistica, sul senso del monopolio radiotelevisivo. L’anno prossimo il popolo dovrà esprimersi sull’iniziativa «No Billag», alla quale il governo non ha opposto un controprogetto. Il quadro in cui tutto questo s’inserisce sta mutando rapidamente. Molti concorrenti del monopolio pubblico non nascondono l’ambizione di contare di più, di strappare quote di mercato alla Ssr, pur usufruendo anch’essi di una frazione del canone. Altri affermano che della «televisione di Stato» fanno volentieri a meno, preferendo la Rai e i canali commerciali di Mediaset; altri ancora cercano alternative nelle offerte a pagamento o nella grande rete. L’attacco, insomma, è concentrico. Il canone annuale, senza dubbio, è elevato, oltre 450 fanchi per radio e televisione. Per una famiglia del ceto medioinferiore è una bella cifra. Ma che cos’è
successo nella stessa famiglia nelle relazioni comunicative con l’esterno? È successo che la dotazione tecnologica è cresciuta a dismisura. Ora perfino i pischelli delle elementari maneggiano telefonini intelligenti dell’ultima generazione, mini-computer portatili in grado di raggiungere ogni angolo del pianeta. Aggeggi sofisticati, in cui la tastiera per la telefonata è solo una delle tante funzioni possibili, e nemmeno la più importante. Sono protesi ormai considerate irrinunciabili, l’interfaccia con il mondo dei giochi, delle immagini, della musica, della condivisione. La scena degli alunni seduti negli scuolabus è eloquente: nessuno più chiacchiera con il compagno, tutti fissano il piccolo schermo, le cuffiette nelle orecchie. Naturalmente tutto questo ha un costo notevole, che va ad aggiungersi al canone; tariffe spesso sottovalutate, perché per la (presunta) felicità dei figli si fa questo ed altro.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Cultura e Spettacoli Un omaggio a Chuck Avrebbe presto compiuti 91 colui che fu uno dei re del Rock and Roll
Di mani invisibili, di grandi paure Nel suo ultimo libro la scrittrice italiana Simona Vinci racconta i suoi timori e le angosce più intime pagina 35
Vedere col cuore A colloquio con Silvio Soldini, che nel suo nuovo film dà visibilità al mondo dei ciechi pagina 38
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Il ritorno di Blade Runner Atteso spasmodicamente per anni, il sequel del mitico Blade Runner è tutt’altro che deludente
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Una mostra di indagine e ricerca
Mostre Caravaggio a Palazzo Reale
di Milano Gianluigi Bellei
Ci sono artisti così inflazionati nel panorama delle mostre che a volte fanno venire un po’ l’allergia da sovraesposizione. Uno di questi è sicuramente Picasso, onnipresente sia per il richiamo del nome sia perché ha distribuito la sua innumerevole produzione agli altrettanto numerosi figli, mogli, eccetera, che la vogliono far fruttare. Ci sono poi artisti di forte impatto e richiamo che per ragioni di scarsa produzione pittorica non sono particolarmente presenti. Uno di questi è sicuramente Caravaggio. Storica l’esposizione del 1951 a Milano curata da Roberto Longhi con un comitato composto, fra gli altri, da Carlo Ludovico Ragghianti, Walter Friedlander, Giulio Carlo Argan, Rodolfo Pallucchini e Lionello Venturi. In quell’occasione sono state esposte 193 opere delle quali 61 del Caravaggio fra copie e attribuzioni. Quella data fa da spartiacque per la querelle, spesso furiosa, riguardante la datazione dei dipinti, soprattutto quelli della Cappella Contarelli per San Luigi dei Francesi a Roma che segna il confine fra le opere giovanili e quelle dell’età matura. La datazione ora viene fissata tra il 1599 e il 1600 e di nuovo nel 1602. Nel 2009 Rossella Vodret presenta un volume con l’opera completa dell’artista. In questo caso i dipinti, diciamo certi, risultano sessantacinque. L’anno seguente, in occasione del quarto centenario della morte, alle Scuderie del Quirinale di Roma sempre la Vodret cura un’esposizione basilare che cerca di fare il punto sulla vita e le opere del Caravaggio («Azione», 19 aprile 2010). Due le novità secondo la curatrice: gli studi d’archivio e quelli sulla tecnica esecutiva. Senza dimenticare quelli sulla datazione dei dipinti che ruotano attorno all’arrivo di Caravaggio a Roma. Prima del 2010 si riteneva che l’arrivo a Roma fosse stato nel luglio 1592. Dopo il 2010 e la consultazione di nuovi documenti d’archivio, la data viene posticipata al 1596. Quattro anni, dal 1596 al 1600, durante i quali bisognava inserire le opere giovanili. Nel 2017 Riccardo Gandolfi presenta nell’ambito di una giornata di studi alla Sapienza di Roma un manoscritto inedito di Gaspare Celio datato 1614 che contiene una biografia dell’artista e ci aiuta a meglio comprendere quegli anni. Utilizzando anche questi recentissimi studi prende avvio l’attuale esposizione di Palazzo Reale a Milano, sempre curata da Rossella Vodret, che
presenta venti opere di Caravaggio. Ovviamente nessun grande capolavoro come quelli della Cappella Contarelli e di Santa Maria del Popolo o magari le enormi tele dell’ultimo strepitoso periodo come la Resurrezione di Lazzaro e l’Adorazione dei pastori ricoverati a Messina. Alcuni erano presenti nella mostra Caravaggio: l’ultimo tempo 1606-1610 al Museo di Capodimonte di Napoli del 2004. Ma d’altronde è impensabile che venga prestata, per esempio, la tela Le sette opere della misericordia della chiesa del Pio Monte della Misericordia di Napoli dato che è il principale motivo di visita. La mostra milanese da una parte approfondisce la ricerca documentaria e dall’altra scandaglia la tecnica esecutiva tramite indagini diagnostiche su 13 tele; altre 20 sono state studiate durante la precedente mostra romana. Tre sono i motivi per andare a vedere l’esposizione. Il primo riguarda le 20 opere esposte che coprono tutto l’arco temporale della vita di Caravaggio, dal Riposo durante la fuga in Egitto del 1597 al Martirio di sant’Orsola del 1610. Il secondo consiste appunto nella ricerca che svela alcune vicende della vita di questo personaggio dal «cervello stravagantissimo», così inquieto, intemperante, moderno. A Roma, per esempio, l’11 luglio 1597, durante l’interrogatorio di Pietropaolo Pellegrini, da parte del Tribunale criminale del Governatore, riguardante il furto di un mantello trovato da Caravaggio scopriamo che Pellegrini, cercando di spiegare chi è Caravaggio, dice che dal parlare «tengo sia milanese», meglio «lombardo, perché lui parla alla lombarda». Poi il 26 agosto 1605 la proprietaria del suo appartamento, tale Prudenzia Bruni, fa sequestrare i mobili e gli effetti personali dell’artista perché da sei mesi non paga l’affitto. Il notaio Lutius Marchetti annota tutto. Leggiamo così che ha pochissime cose: dei vestiti stracciati, 2 piatti ma 11 bicchieri, 3 pugnali, 2 orecchini, 1 scudo a specchio (tutto materiale che troviamo raffigurato nei suoi dipinti) e, soprattutto, 12 libri. Tanti! Sfortunatamente i titoli non sono menzionati. Spostando la data di arrivo a Roma nel 1596 rimane un periodo, fra il 1592 e appunto il 1596, del quale non si sa nulla. Quattro anni. Molti per un’avventura durata così poco: Caravaggio muore il 18 luglio 1610 dopo essere nato a Milano il 29 settembre 1571. Questi anni sono in parte coperti dal nuovo manoscritto di Gaspare Celio intito-
Michelangelo Merisi da Caravaggio, Flagellazione, 1607. (Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli, proprietà FEC, Ministero dell’Interno)
lato Vite degli artisti. Celio scrive di un delitto commesso ai danni di un amico. Tra il 1617 e il 1621 Giulio Mancini fa alcune Considerazioni sulla pittura e a tale riguardo annota: «Fece delitto. Puttana scherzo et gentilhuomo scherzo» – che sembra voler indicare un goliardata finita male – ma soprattutto «fu prigion un anno»: il che può spiegare il vuoto di quel periodo. Il terzo motivo riguarda le analisi eseguite sulle opere che in mostra sono adattate per il grande pubblico sintetizzando le caratteristiche tecniche di ciascun dipinto per vedere che cosa c’è dietro la pellicola pittorica e per capirne l’evoluzione. La svolta della sua tecnica è data dalla realizzazione della Cappella Contarelli nel 1600. In quell’occasione deve dipingere due grandi tele in un anno e quindi elaborare un sistema per velocizzarne l’esecuzione. Trova la quadratura dipingen-
do il fondo – che con gli anni diventa sempre più scuro sino a risultare nero – di un solo colore, il più vicino possibile al risultato finale. Quindi pittura solo le parti chiare delle figure e le mezzetinte. Man mano che il fondo diventa nero aumentano le possibilità di non vedere più i segni del pennello utilizzati per realizzare i contorni delle figure. Nascono le incisioni che altro non sono se non veloci solchi apposti con uno stilo sull’imprimitura ancora fresca per delineare i segni principali del volto o dei panneggi. In mostra i dipinti sono posizionati al centro della sala. Sul retro uno schermo visualizza le rispettive riflettografie e radiografie e le posizioni delle incisioni. I video però sono forse troppo veloci per poterne apprezzare il contenuto. In soccorso viene il prezioso catalogo che contiene anche un e-book con tutte le informazioni: dalle indagini svolte sul
dipinto al supporto utilizzato, dagli strati preparatori al disegno e all’abbozzo fino agli strati pittorici e alla bibliografia, per finire con la storia conservativa, i vari interventi di restauro eseguiti nel tempo e le relative immagini esplicative. Questo per ogni dipinto. Una mostra tutta da gustare e un doppio catalogo tutto da leggere. Ottimo l’allestimento; buona l’illuminazione. Attenzione: il Martirio di sant’Orsola verrà ritirato dalla mostra il 27 novembre, mentre Giuditta che taglia la testa di Oloferne il 10 dicembre. Dove e quando
Dentro Caravaggio, Palazzo Reale, Milano. A cura di Rossella Vodret. Fino al 28 gennaio. Catalogo Skira, euro 46. Audioguida compresa nel prezzo del biglietto. www.caravaggiomilano.it
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Cultura e Spettacoli
Cultura e Spettacoli
Prima di tutti, Chuck
Bolero per mosche, granchi e uova mentre Amleto brilla per assenza
In memoriam U n omaggio al percorso artistico del mitico chitarrista
a pochi mesi dalla scomparsa
Pubblicazioni Un bel saggio sulla storia
della tecnica fotografica, dalla sofferta ricerca di un’invenzione alla cultura contemporanea
In scena Al Teatro San Materno Tiziana Arnaboldi porta avanti i suoi lungimiranti progetti, mentre al Festival
Internazionale del Teatro il performer basilese Boris Nikitin ha presentato un Amleto molto personale
Giorgio Thoeni L’inconfondibile fantasia di Tiziana Arnaboldi e la trascinante empatia di Riccardo Blumer costituiscono il tandem che ha inaugurato recentemente la stagione del Teatro San Materno di Ascona. Il solco tracciato dalla direzione sul palcoscenico della storica sala
costruita per Charlotte Bara ha iniziato da oltre un paio di anni ad alimentare un costante interesse attorno al progetto di mettere in relazione la danza contemporanea con altre discipline artistiche. Il tema questa volta scelto da Arnaboldi per aprire il cartellone ruotava intorno a La sedia come metafora
La sedia come metafora dell’uomo è andato in scena al Teatro San Materno.
dell’uomo. Potrà apparire bizzarro ma in realtà attorno a questo oggetto, ormai ritenuto indispensabile dalla cultura occidentale, è possibile creare molteplici ragionamenti e dimostrare altrettante evidenze spesso ignorate. La danza ad esempio può svilupparsi sul concetto di sedia come «protesi», il prolungamento del corpo attorno a un punto fisso dove si concentrano tutte le forze da declinarsi in un’andata e ritorno che sfida la gravità; imparando così ad abbandonare il corpo al disequilibrio e a scoprirne la bellezza. Sulle note del Bolero di Ravel, la coreografa asconese ha così creato per i suoi danzatori un ricamo intenso e gioioso, una corsa in cui l’ipnotico motivo agisce su movimenti che solo a tratti lasciano intravedere il leggendario affresco di Béjart, cedendo subito il passo a nuove invenzioni compositive per il collettivo. Una sala piena ha accolto con attenzione, divertimento e ammirazione lo spettacolo offerto dai danzatori, gli ottimi Francesca Ugolini, Francesco Colaleo, Maxime Freixas e Faustino Blanchut. Alla danza ha fatto eco l’appassionante performance di Riccardo Blumer. Architetto e designer (una sua se-
dia è esposta al MoMA di New York), Blumer dirige l’Accademia di Architettura di Mendrisio dove è anche ricercatore dei processi cognitivi e creativi. Una «specialità» didattica sulla quale non ha lasciato dubbi, offrendo esempi sorprendenti per la loro disarmante semplicità che dimostrano come la materia presente in natura offra soluzioni ai problemi più complessi. Ecco così lo scienziato invadere il palco con sei valigie da cui estrarre decine di marchingegni utili al ragionamento: sugli occhi delle mosche, delle allodole, delle galline e dei granchi, sui colori ma anche sul peso dell’aria e sulla robustezza di un guscio d’uovo che, nonostante la sua vuota fragilità, prima di rompersi riesce a sopportare una pressione fino a 40 chili. La serie di insolite concatenazioni sperimentali, spiegate come una favola per bambini, dimostra l’inutilità dell’arte quando non è controbilanciata dalla sete di conoscenza – entrambe le discipline vano coltivate. Un momento di divertente e appassionante genialità. Il prossimo appuntamento al San Materno sarà il 22 ottobre (alle 17.00) con Carne/Densità: danza e soffio con Michel Raji e Pierre Blanchut.
Enza Di Santo
La malattia del Principe
Un momento di alta scrittura teatrale contemporanea per un’intensa interpretazione. È il nostro ultimo appunto sul Festival Internazionale del Teatro appena concluso, durante il quale il palco del LAC si è nuovamente trasformato in spazio scenico per ospitare Hamlet del regista basilese Boris Nikitin. Uno spettacolo che non lascia indifferenti. Forse è meglio parlare di una trance recitativa sull’identità di Julian Meding, musicista e performer, protagonista di un monologo giocato sulla falsariga di un Amleto dei nostri tempi, drag queen di un queer cabaret androgino. Il Principe di Danimarca non appare mai, non pretende di essere, ma manifesta il suo non essere come sublimazione di una follia malata nella visione del mondo come sorta di delirio autobiografico. Il tutto accompagnato da un quartetto musicale barocco. Una provocazione intelligente e sottile, perfetta per i codici registici di Nikitin con un teatro che vive nella rappresentazione del corpo fragile e nella presenza magnetica di Meding, antieroe per una sera.
Dal sud della Svizzera al mondo
Mostre Sei artisti ticinesi espongono a Rapperswil-Jona nell’ambito della collettiva Schena da vedro Marinella Polli Schena da Vedro, attualmente in corso negli spaziosi locali della Kunst(Zeug) Haus di Rapperswil-Jona, è una significativa e rappresentativa mostra che assembla in modo davvero esemplare diverse opere (fotografie, video, installazioni, oggetti e disegni) di Valentina Pini, Nina Haab, Aglaia Haritz, Gian Paolo Minelli e Aldo Mozzini. Viene degnamente completata da collage e oggetti provenienti dalla collezione della fondazione dello stesso museo, firmati da uno dei nostri più famosi artisti, Flavio Paolucci. Artisti ticinesi, dunque, nonché artisti che il Ticino lo hanno magari lasciato, ma continuano a identificarsi con il nostro cantone: questo è per esempio il caso di Aldo Mozzini che vive ora a Zurigo. Dell’artista che nel 2012
ha vinto lo Swiss Art Award e nel 2014 un riconoscimento della Fondazione Cultura di UBS, si possono ammirare a Rapperswil-Jona due suggestive installazioni: Grottino 03 e Dogana 03, nonché un video e alcuni disegni. Tra l’altro, il titolo Schena da vedro, eloquente per lo meno per orecchie ticinesi, lo si deve a lui che in alcune sue serigrafie utilizza espressioni in dialetto ticinese: «lifrocc» è un’altra di queste parole. Pare che Mozzini se lo fosse sentito dire personalmente quando aveva annunciato la sua decisione di diventare artista. Di particolare interesse anche l’opera di Aglaia Haritz, ritornata in Ticino due anni fa e ora attiva nel Gambarogno. Bellissimi i suoi ricami su tessuto, sorta di espressivi pittogrammi con messaggio politico o sociale, e i lavori creati collaborando per anni al progetto Embroiderers of Actuality insieme con Abdelaziz Zerrou,
Aldo Mozzini, Grottino 03, 2004.
e il convincente Madonne Palestinesi. Oltremodo espressivi anche installazioni e video di Nina Haab, ginevrina di adozione e nota per le sue opere multimediali, e le gigantografie (provenienti dalla Fondazione Svizzera per la Fotografia di Winterthur) di Gian Paolo Minelli. Quest’ultimo artista fa la spola fra Chiasso e Buenos Aires, ricercando i suoi temi nel vibrante e poliedrico paesaggio urbano ricco di contrasti e contraddizioni. Valentina Pini, che pure vive a Zurigo, è presente alla Kunst(Zeug)haus con lavori fotografici e un video. La mostra viene come detto completata da opere di Flavio Paolucci, artista famoso anche fuori dei confini ticinesi che vive a Biasca dove è tuttora attivo. È davvero gratificante, e per gli occhi e per lo spirito, percorrere un itinerario espositivo piacevole quanto una rappresentazione
teatrale, ma, pure ricco di profondi stimoli e suggestioni. Si è infatti al cospetto di una mostra collettiva di enorme rilevanza che sedimenta note memorie culturali e che altresì invita a conoscere l’affascinante mondo di artisti, i quali, esplorando le possibilità espressive dei più svariati materiali, quali legno, tessili, carta o altro, si confrontano peraltro con la propria arte, vita e, soprattutto, identità. Dove e quando
Schena da Vedro, Rapperswil, Kunst(zeug)Haus. Fino al 29 ottobre 2017. Orari: ma-ve 14.00-18.00; do 11.00-18. Mercoledì 18 ottobre alle 18.30 è prevista una visita guidata con Aldo Mozzini e Peter Stohler, direttore del Kunst(Zeug)Haus. www.kunstzeughaus.ch
Charles Edward Anderson Berry, Chuck, ha segnato una parte della storia della musica contribuendo alla creazione del rock&roll, diventando fonte d’ispirazione per i musicisti venuti dopo e simbolo di un cambiamento concettuale. A marzo questa star del rock&roll si è spenta. Nato a St. Louis il 18 ottobre del 1926, quest’anno avrebbe compiuto 91 anni e come celebrare questa ricorrenza se non attraverso alcune sue hit? Inserito nella lista dei 100 migliori chitarristi di sempre e in quella dei 100 migliori artisti, omaggiato in Pulp Fiction di Tarantino (You Never Can Tell, copiato dai Beach Boys, Sweet Little Sixteen, spunto, si fa per dire, per Surfin’ Usa), è stato una fonte d’ispirazione per i musicisti venuti dopo. E come dimenticare il film Ritorno al Futuro, in cui il personaggio Martin Mc Fly (Michael J.Fox) interpreta Johnny B. Goode facendo il «passo dell’anatra», il Duck Walk, ripreso anche da Angus Young degli AC/DC? Berry si è esibito alla Casa Bianca ed è ricordato nella prima edizione della «Rock & Roll Hall of Fame», tenutasi nel 1986. Una vita spericolata tra donne e galera e una musica dalla formula semplice: adolescenti, ragazze, automobili veloci, rivoluzione in atto e naturalmente rock&roll. Nel 1955 l’America viveva un cambiamento in cui si sentiva la spinta del «mito americano», ma nel contempo non riusciva a slegarsi dai retaggi culturali coloniali: il razzismo era un sentimento vivo e complesso. A maggio, una vera e propria bomba esplose nello scenario musicale di un’epoca in cui i bianchi facevano musica per i bianchi e i neri per i neri. Chuck Berry era un uomo di colore che, invece di suonare blues, si era inventato una miscela esplosiva unendo country, hillbilly, jumpblues, hot jazz, boogie e swing, la cui miccia era la sua chitarra elettrica. Maybellene, fu il primo singolo che definì i tratti del rock&roll come nuovo genere, elevando la chitarra elettrica a strumento principale e indispensabile. Chuck era appena diventato la nuova star della Chess Records, dov’era approdato nel 1955 dopo aver conosciuto il grande bluesman Muddy Waters, mentre lavorava a St. Louis in un salone di parrucchiere. Leonard Chess, cofondatore dell’etichetta insieme al fratello Phil, chiese a Chuck di suonare country anziché blues, strano per un ragazzo di colore, ma «A Leonard Chess non importava niente del colore della pelle. Per
Stefano Vassere
Chuck Berry durante un’esibizione a Las Vegas nel 1972. (Keystone)
lui contava solo il colore dei soldi. Se riuscivi a guadagnare tanto da ricoprirti di verdoni, allora non saresti stato più un ragazzo ebreo o un ragazzo negro, ma solo un uomo con la Cadillac» (Cit. Willy Dixon tratta dal film Cadillac Records). E fu proprio così! Pare che il titolo Maybellene, sia stata una trovata di Leonard Chess, che trovò sul pavimento dello studio il mascara di una nota marca cosmetica. Brano ispirato al groove di Ida Red, scalò come un fulmine le classifiche radiofoniche arrivando al primo posto, merito anche di dj come Alan Fred che lo trasmettevano ad oltranza. Stessa sorte per Rock Around The Clock, pubblicata un paio di mesi dopo: rimase in vetta per due mesi grazie allo scandalo causato dal film Blackboard Jungle. Chuck Berry, aveva capito cosa voleva il pubblico e riusciva a farlo ballare. L’uscita di Roll Over Beethoven, il 16 aprile del 1956, divenne immediatamente un fenomeno culturale. Fu l’istantanea dello spirito e dell’eccitazione del rock&roll, il «manifesto» del cambiamento concettuale che supera le barriere di un’intera generazione. Un omaggio alla sorella Lucy che occupava per ore il pianoforte di casa per studiare gli spartiti di Beethoven e Tchaikovsky, facendo impazzire Chuck. Una risposta alla musica classica dal riff geniale e graffiante su un ritmo incalzante. Tanto questo pezzo ha segnato la storia che, nel 1977, accanto a Beethoven, è stato spedito nello spazio con la sonda Voyager 1. «Se volete dare un altro nome al rock&roll, chiamatelo Chuck Berry» affermò John Lennon. Infatti nel 1957
uscì l’emblema: Rock & Roll Music, incarnazione stessa di Chuck. Con uno sfrenato ritmo di rumba, Chuck riusciva a scuotere le persone, raccontando nel dettaglio l’emozione per ciò che suonava. Divenne cover di molti altri artisti e raggiunse le alte posizioni della classifica di «Billboard». Johnny B. Goode uscì nell’aprile del 1958 quando Chuck era ormai la vera macchina da soldi della Chess Records, che già vantava grandi nomi come Etta James, Little Water, Howlin’ Wolf e Bo Diddley. Il brano narra la storia di un ragazzo di campagna, che con la sua chitarra riesce a farsi strada. Non sa né leggere né scrivere bene, ma nel più classico mito americano, diventa una celebrità del rock&roll. È la prima hit a parlare di fama e divismo, e come confessò Chuck a «Rolling Stone», ha un che di autobiografico, con beneficio di licenza poetica. Infatti, a differenza di Johnny, Chuck non veniva dalla Louisiana, ma da un sobborgo di St. Louis in Missouri. Sapeva scrivere e leggere molto bene, era intelligente, acuto, sdolcinato e dalla lingua tagliente. Con le parole ci sapeva davvero fare, tanto che Elvis Presley, all’epoca sempre in cima alle classifiche tallonato da Chuck, affermò «Vorrei essere capace di esprimermi come fa Chuck Berry»; già, perché a differenza di Elvis Re del rock&roll, i brani li scriveva lui stesso. L’America era divisa, tanto che cambiò «colored boy could play» in «country boy», per paura che il suo Johnny di colore non venisse trasmesso in radio. Questa è la perfetta espressione artistica di Chuck Berry e del suo ritmo trascinante che corre come un’auto veloce.
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«La fotografia non trovò all’inizio grandi resistenze, talmente grande era il suo fascino, se non la preoccupazione dei pittori, che vennero però in parte tranquillizzati quando si precisò, come fece a Venezia Giovanni Minotto sul finire del 1839, che il dagherrotipo “ha tutto meno il colore”». Certa storia delle scienze seduce raccontando di invenzioni nate per caso, non di rado cercando altro: la penicillina, gli sms, la pasta con i broccoli, la lista potrebbe non finire mai. Su un fronte decisamente opposto c’è l’invenzione della fotografia. Il fotografo e storico della fotografia Italo Zannier ne racconta il travaglio in un suo luminoso saggio dal titolo La lanterna della fotografia. Dall’invisibile all’ignoto, appena uscito nella graficamente molto elegante collana dei Delfini per l’editrice La nave di Teseo. Suprema pratica estetica nata da un indovinato matrimonio tra la fisica della luce e la chimica dei materiali, la scoperta fu cercata a lungo e per molti anni, come si conviene alle idee destinate a durare; la paternità fu reclamata da questo e da quello, il termine post quem fu anticipato di secoli e secoli. Come dire: non l’ha scoperta il tale, prima c’era stato il talaltro che con meno clamore già faceva quei miracoli ecc. Dalle speculazioni tardo-seicentesche sulle proprietà del fosforo, alla camera oscura di Giovan Battista Della Porta, fino alla paternità attribuita a un medievale frate del Monte Athos, da cui lo stesso Daguerre avrebbe trafugato, secondo tesi bislacca, un antico manoscritto.
Certo è che a chi vada riconosciuto il primato del procedimento tecnico importa poco, anche se forse sarebbe meglio dire che la storia di questo rincorrersi di ipotesi e rivendicazioni denota pesantemente la posta in palio: l’ansiosa importanza scientifica e insieme culturale del nuovo prodotto. Conviene fermarci sul fatto che la fotografia come fenomeno culturale, questo è fuori di dubbio, ha una sua data e un suo padrino: il 1839 e Louis Daguerre, che (di nuovo non è un caso) fece insieme l’artista, il chimico e il fisico. Il libro di Italo Zannier (a essere un esperto di onomastica si potrebbe aprire un mondo di riflessioni socioculturali su quel prenome così peninsulare e quel cognome così friulano) ha poi l’incedere della ormai mitica sociologia dei media, à la Marshall McLuhan, per dire. Ai suoi tempi, la novità della fotografia si staglia su un affollato fondale di altre scoperte sorelle: quella dell’elettricità, quella dei trasporti su rotaia, quella sorellissima dell’illuminazione pubblica, il telefono, le macchine per scrivere e per tessere. Similmente a tutte queste, la fotografia spiazza la realtà sociale e culturale dell’epoca, illumina sguardi e città, piega certezze precedenti, cambia in concreto l’uomo, la donna e il mondo abitato. La luce artificiale diventa un «nuovo alito luminoso», il nostro nuovo Sole, e ha insieme l’utilità devastante dell’innovazione tecnica e l’estetica sognante della nuova prospettiva culturale. Tecnica e cultura continueranno a darsi il braccio nei decenni successivi, e fino all’oggi quella tensione non è risolta: come sempre, si sa tutto della sua chimica, della sua fisica, della sua tecnologia; il mistero insoluto e prezioso della sua essenza la rende ancora oggi culturalmente incerta. Adeguata cadenza cronologicamente finale è apparecchiata per la fotografia come fenomeno contemporaneo e digitale, quella diffusa universalmente dal telefonino smart e che Zannier chiama «fotofania», «o foto-apparizione, la tecnica attuale per cui le immagini vivono sul cellulare o nel computer, ma cessano di esistere appena lo strumento si spegne, se non vengono stampate su un supporto materiale». Ha ottantacinque anni, Italo Zannier, ma scrive un libro molto bello e moderno su quella misteriosa nuova luce, che ancora si ostina davanti ai nostri occhi. Annuncio pubblicitario
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Prima di tutti, Chuck
Bolero per mosche, granchi e uova mentre Amleto brilla per assenza
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a pochi mesi dalla scomparsa
Pubblicazioni Un bel saggio sulla storia
della tecnica fotografica, dalla sofferta ricerca di un’invenzione alla cultura contemporanea
In scena Al Teatro San Materno Tiziana Arnaboldi porta avanti i suoi lungimiranti progetti, mentre al Festival
Internazionale del Teatro il performer basilese Boris Nikitin ha presentato un Amleto molto personale
Giorgio Thoeni L’inconfondibile fantasia di Tiziana Arnaboldi e la trascinante empatia di Riccardo Blumer costituiscono il tandem che ha inaugurato recentemente la stagione del Teatro San Materno di Ascona. Il solco tracciato dalla direzione sul palcoscenico della storica sala
costruita per Charlotte Bara ha iniziato da oltre un paio di anni ad alimentare un costante interesse attorno al progetto di mettere in relazione la danza contemporanea con altre discipline artistiche. Il tema questa volta scelto da Arnaboldi per aprire il cartellone ruotava intorno a La sedia come metafora
La sedia come metafora dell’uomo è andato in scena al Teatro San Materno.
dell’uomo. Potrà apparire bizzarro ma in realtà attorno a questo oggetto, ormai ritenuto indispensabile dalla cultura occidentale, è possibile creare molteplici ragionamenti e dimostrare altrettante evidenze spesso ignorate. La danza ad esempio può svilupparsi sul concetto di sedia come «protesi», il prolungamento del corpo attorno a un punto fisso dove si concentrano tutte le forze da declinarsi in un’andata e ritorno che sfida la gravità; imparando così ad abbandonare il corpo al disequilibrio e a scoprirne la bellezza. Sulle note del Bolero di Ravel, la coreografa asconese ha così creato per i suoi danzatori un ricamo intenso e gioioso, una corsa in cui l’ipnotico motivo agisce su movimenti che solo a tratti lasciano intravedere il leggendario affresco di Béjart, cedendo subito il passo a nuove invenzioni compositive per il collettivo. Una sala piena ha accolto con attenzione, divertimento e ammirazione lo spettacolo offerto dai danzatori, gli ottimi Francesca Ugolini, Francesco Colaleo, Maxime Freixas e Faustino Blanchut. Alla danza ha fatto eco l’appassionante performance di Riccardo Blumer. Architetto e designer (una sua se-
dia è esposta al MoMA di New York), Blumer dirige l’Accademia di Architettura di Mendrisio dove è anche ricercatore dei processi cognitivi e creativi. Una «specialità» didattica sulla quale non ha lasciato dubbi, offrendo esempi sorprendenti per la loro disarmante semplicità che dimostrano come la materia presente in natura offra soluzioni ai problemi più complessi. Ecco così lo scienziato invadere il palco con sei valigie da cui estrarre decine di marchingegni utili al ragionamento: sugli occhi delle mosche, delle allodole, delle galline e dei granchi, sui colori ma anche sul peso dell’aria e sulla robustezza di un guscio d’uovo che, nonostante la sua vuota fragilità, prima di rompersi riesce a sopportare una pressione fino a 40 chili. La serie di insolite concatenazioni sperimentali, spiegate come una favola per bambini, dimostra l’inutilità dell’arte quando non è controbilanciata dalla sete di conoscenza – entrambe le discipline vano coltivate. Un momento di divertente e appassionante genialità. Il prossimo appuntamento al San Materno sarà il 22 ottobre (alle 17.00) con Carne/Densità: danza e soffio con Michel Raji e Pierre Blanchut.
Enza Di Santo
La malattia del Principe
Un momento di alta scrittura teatrale contemporanea per un’intensa interpretazione. È il nostro ultimo appunto sul Festival Internazionale del Teatro appena concluso, durante il quale il palco del LAC si è nuovamente trasformato in spazio scenico per ospitare Hamlet del regista basilese Boris Nikitin. Uno spettacolo che non lascia indifferenti. Forse è meglio parlare di una trance recitativa sull’identità di Julian Meding, musicista e performer, protagonista di un monologo giocato sulla falsariga di un Amleto dei nostri tempi, drag queen di un queer cabaret androgino. Il Principe di Danimarca non appare mai, non pretende di essere, ma manifesta il suo non essere come sublimazione di una follia malata nella visione del mondo come sorta di delirio autobiografico. Il tutto accompagnato da un quartetto musicale barocco. Una provocazione intelligente e sottile, perfetta per i codici registici di Nikitin con un teatro che vive nella rappresentazione del corpo fragile e nella presenza magnetica di Meding, antieroe per una sera.
Dal sud della Svizzera al mondo
Mostre Sei artisti ticinesi espongono a Rapperswil-Jona nell’ambito della collettiva Schena da vedro Marinella Polli Schena da Vedro, attualmente in corso negli spaziosi locali della Kunst(Zeug) Haus di Rapperswil-Jona, è una significativa e rappresentativa mostra che assembla in modo davvero esemplare diverse opere (fotografie, video, installazioni, oggetti e disegni) di Valentina Pini, Nina Haab, Aglaia Haritz, Gian Paolo Minelli e Aldo Mozzini. Viene degnamente completata da collage e oggetti provenienti dalla collezione della fondazione dello stesso museo, firmati da uno dei nostri più famosi artisti, Flavio Paolucci. Artisti ticinesi, dunque, nonché artisti che il Ticino lo hanno magari lasciato, ma continuano a identificarsi con il nostro cantone: questo è per esempio il caso di Aldo Mozzini che vive ora a Zurigo. Dell’artista che nel 2012
ha vinto lo Swiss Art Award e nel 2014 un riconoscimento della Fondazione Cultura di UBS, si possono ammirare a Rapperswil-Jona due suggestive installazioni: Grottino 03 e Dogana 03, nonché un video e alcuni disegni. Tra l’altro, il titolo Schena da vedro, eloquente per lo meno per orecchie ticinesi, lo si deve a lui che in alcune sue serigrafie utilizza espressioni in dialetto ticinese: «lifrocc» è un’altra di queste parole. Pare che Mozzini se lo fosse sentito dire personalmente quando aveva annunciato la sua decisione di diventare artista. Di particolare interesse anche l’opera di Aglaia Haritz, ritornata in Ticino due anni fa e ora attiva nel Gambarogno. Bellissimi i suoi ricami su tessuto, sorta di espressivi pittogrammi con messaggio politico o sociale, e i lavori creati collaborando per anni al progetto Embroiderers of Actuality insieme con Abdelaziz Zerrou,
Aldo Mozzini, Grottino 03, 2004.
e il convincente Madonne Palestinesi. Oltremodo espressivi anche installazioni e video di Nina Haab, ginevrina di adozione e nota per le sue opere multimediali, e le gigantografie (provenienti dalla Fondazione Svizzera per la Fotografia di Winterthur) di Gian Paolo Minelli. Quest’ultimo artista fa la spola fra Chiasso e Buenos Aires, ricercando i suoi temi nel vibrante e poliedrico paesaggio urbano ricco di contrasti e contraddizioni. Valentina Pini, che pure vive a Zurigo, è presente alla Kunst(Zeug)haus con lavori fotografici e un video. La mostra viene come detto completata da opere di Flavio Paolucci, artista famoso anche fuori dei confini ticinesi che vive a Biasca dove è tuttora attivo. È davvero gratificante, e per gli occhi e per lo spirito, percorrere un itinerario espositivo piacevole quanto una rappresentazione
teatrale, ma, pure ricco di profondi stimoli e suggestioni. Si è infatti al cospetto di una mostra collettiva di enorme rilevanza che sedimenta note memorie culturali e che altresì invita a conoscere l’affascinante mondo di artisti, i quali, esplorando le possibilità espressive dei più svariati materiali, quali legno, tessili, carta o altro, si confrontano peraltro con la propria arte, vita e, soprattutto, identità. Dove e quando
Schena da Vedro, Rapperswil, Kunst(zeug)Haus. Fino al 29 ottobre 2017. Orari: ma-ve 14.00-18.00; do 11.00-18. Mercoledì 18 ottobre alle 18.30 è prevista una visita guidata con Aldo Mozzini e Peter Stohler, direttore del Kunst(Zeug)Haus. www.kunstzeughaus.ch
Charles Edward Anderson Berry, Chuck, ha segnato una parte della storia della musica contribuendo alla creazione del rock&roll, diventando fonte d’ispirazione per i musicisti venuti dopo e simbolo di un cambiamento concettuale. A marzo questa star del rock&roll si è spenta. Nato a St. Louis il 18 ottobre del 1926, quest’anno avrebbe compiuto 91 anni e come celebrare questa ricorrenza se non attraverso alcune sue hit? Inserito nella lista dei 100 migliori chitarristi di sempre e in quella dei 100 migliori artisti, omaggiato in Pulp Fiction di Tarantino (You Never Can Tell, copiato dai Beach Boys, Sweet Little Sixteen, spunto, si fa per dire, per Surfin’ Usa), è stato una fonte d’ispirazione per i musicisti venuti dopo. E come dimenticare il film Ritorno al Futuro, in cui il personaggio Martin Mc Fly (Michael J.Fox) interpreta Johnny B. Goode facendo il «passo dell’anatra», il Duck Walk, ripreso anche da Angus Young degli AC/DC? Berry si è esibito alla Casa Bianca ed è ricordato nella prima edizione della «Rock & Roll Hall of Fame», tenutasi nel 1986. Una vita spericolata tra donne e galera e una musica dalla formula semplice: adolescenti, ragazze, automobili veloci, rivoluzione in atto e naturalmente rock&roll. Nel 1955 l’America viveva un cambiamento in cui si sentiva la spinta del «mito americano», ma nel contempo non riusciva a slegarsi dai retaggi culturali coloniali: il razzismo era un sentimento vivo e complesso. A maggio, una vera e propria bomba esplose nello scenario musicale di un’epoca in cui i bianchi facevano musica per i bianchi e i neri per i neri. Chuck Berry era un uomo di colore che, invece di suonare blues, si era inventato una miscela esplosiva unendo country, hillbilly, jumpblues, hot jazz, boogie e swing, la cui miccia era la sua chitarra elettrica. Maybellene, fu il primo singolo che definì i tratti del rock&roll come nuovo genere, elevando la chitarra elettrica a strumento principale e indispensabile. Chuck era appena diventato la nuova star della Chess Records, dov’era approdato nel 1955 dopo aver conosciuto il grande bluesman Muddy Waters, mentre lavorava a St. Louis in un salone di parrucchiere. Leonard Chess, cofondatore dell’etichetta insieme al fratello Phil, chiese a Chuck di suonare country anziché blues, strano per un ragazzo di colore, ma «A Leonard Chess non importava niente del colore della pelle. Per
Stefano Vassere
Chuck Berry durante un’esibizione a Las Vegas nel 1972. (Keystone)
lui contava solo il colore dei soldi. Se riuscivi a guadagnare tanto da ricoprirti di verdoni, allora non saresti stato più un ragazzo ebreo o un ragazzo negro, ma solo un uomo con la Cadillac» (Cit. Willy Dixon tratta dal film Cadillac Records). E fu proprio così! Pare che il titolo Maybellene, sia stata una trovata di Leonard Chess, che trovò sul pavimento dello studio il mascara di una nota marca cosmetica. Brano ispirato al groove di Ida Red, scalò come un fulmine le classifiche radiofoniche arrivando al primo posto, merito anche di dj come Alan Fred che lo trasmettevano ad oltranza. Stessa sorte per Rock Around The Clock, pubblicata un paio di mesi dopo: rimase in vetta per due mesi grazie allo scandalo causato dal film Blackboard Jungle. Chuck Berry, aveva capito cosa voleva il pubblico e riusciva a farlo ballare. L’uscita di Roll Over Beethoven, il 16 aprile del 1956, divenne immediatamente un fenomeno culturale. Fu l’istantanea dello spirito e dell’eccitazione del rock&roll, il «manifesto» del cambiamento concettuale che supera le barriere di un’intera generazione. Un omaggio alla sorella Lucy che occupava per ore il pianoforte di casa per studiare gli spartiti di Beethoven e Tchaikovsky, facendo impazzire Chuck. Una risposta alla musica classica dal riff geniale e graffiante su un ritmo incalzante. Tanto questo pezzo ha segnato la storia che, nel 1977, accanto a Beethoven, è stato spedito nello spazio con la sonda Voyager 1. «Se volete dare un altro nome al rock&roll, chiamatelo Chuck Berry» affermò John Lennon. Infatti nel 1957
uscì l’emblema: Rock & Roll Music, incarnazione stessa di Chuck. Con uno sfrenato ritmo di rumba, Chuck riusciva a scuotere le persone, raccontando nel dettaglio l’emozione per ciò che suonava. Divenne cover di molti altri artisti e raggiunse le alte posizioni della classifica di «Billboard». Johnny B. Goode uscì nell’aprile del 1958 quando Chuck era ormai la vera macchina da soldi della Chess Records, che già vantava grandi nomi come Etta James, Little Water, Howlin’ Wolf e Bo Diddley. Il brano narra la storia di un ragazzo di campagna, che con la sua chitarra riesce a farsi strada. Non sa né leggere né scrivere bene, ma nel più classico mito americano, diventa una celebrità del rock&roll. È la prima hit a parlare di fama e divismo, e come confessò Chuck a «Rolling Stone», ha un che di autobiografico, con beneficio di licenza poetica. Infatti, a differenza di Johnny, Chuck non veniva dalla Louisiana, ma da un sobborgo di St. Louis in Missouri. Sapeva scrivere e leggere molto bene, era intelligente, acuto, sdolcinato e dalla lingua tagliente. Con le parole ci sapeva davvero fare, tanto che Elvis Presley, all’epoca sempre in cima alle classifiche tallonato da Chuck, affermò «Vorrei essere capace di esprimermi come fa Chuck Berry»; già, perché a differenza di Elvis Re del rock&roll, i brani li scriveva lui stesso. L’America era divisa, tanto che cambiò «colored boy could play» in «country boy», per paura che il suo Johnny di colore non venisse trasmesso in radio. Questa è la perfetta espressione artistica di Chuck Berry e del suo ritmo trascinante che corre come un’auto veloce.
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«La fotografia non trovò all’inizio grandi resistenze, talmente grande era il suo fascino, se non la preoccupazione dei pittori, che vennero però in parte tranquillizzati quando si precisò, come fece a Venezia Giovanni Minotto sul finire del 1839, che il dagherrotipo “ha tutto meno il colore”». Certa storia delle scienze seduce raccontando di invenzioni nate per caso, non di rado cercando altro: la penicillina, gli sms, la pasta con i broccoli, la lista potrebbe non finire mai. Su un fronte decisamente opposto c’è l’invenzione della fotografia. Il fotografo e storico della fotografia Italo Zannier ne racconta il travaglio in un suo luminoso saggio dal titolo La lanterna della fotografia. Dall’invisibile all’ignoto, appena uscito nella graficamente molto elegante collana dei Delfini per l’editrice La nave di Teseo. Suprema pratica estetica nata da un indovinato matrimonio tra la fisica della luce e la chimica dei materiali, la scoperta fu cercata a lungo e per molti anni, come si conviene alle idee destinate a durare; la paternità fu reclamata da questo e da quello, il termine post quem fu anticipato di secoli e secoli. Come dire: non l’ha scoperta il tale, prima c’era stato il talaltro che con meno clamore già faceva quei miracoli ecc. Dalle speculazioni tardo-seicentesche sulle proprietà del fosforo, alla camera oscura di Giovan Battista Della Porta, fino alla paternità attribuita a un medievale frate del Monte Athos, da cui lo stesso Daguerre avrebbe trafugato, secondo tesi bislacca, un antico manoscritto.
Certo è che a chi vada riconosciuto il primato del procedimento tecnico importa poco, anche se forse sarebbe meglio dire che la storia di questo rincorrersi di ipotesi e rivendicazioni denota pesantemente la posta in palio: l’ansiosa importanza scientifica e insieme culturale del nuovo prodotto. Conviene fermarci sul fatto che la fotografia come fenomeno culturale, questo è fuori di dubbio, ha una sua data e un suo padrino: il 1839 e Louis Daguerre, che (di nuovo non è un caso) fece insieme l’artista, il chimico e il fisico. Il libro di Italo Zannier (a essere un esperto di onomastica si potrebbe aprire un mondo di riflessioni socioculturali su quel prenome così peninsulare e quel cognome così friulano) ha poi l’incedere della ormai mitica sociologia dei media, à la Marshall McLuhan, per dire. Ai suoi tempi, la novità della fotografia si staglia su un affollato fondale di altre scoperte sorelle: quella dell’elettricità, quella dei trasporti su rotaia, quella sorellissima dell’illuminazione pubblica, il telefono, le macchine per scrivere e per tessere. Similmente a tutte queste, la fotografia spiazza la realtà sociale e culturale dell’epoca, illumina sguardi e città, piega certezze precedenti, cambia in concreto l’uomo, la donna e il mondo abitato. La luce artificiale diventa un «nuovo alito luminoso», il nostro nuovo Sole, e ha insieme l’utilità devastante dell’innovazione tecnica e l’estetica sognante della nuova prospettiva culturale. Tecnica e cultura continueranno a darsi il braccio nei decenni successivi, e fino all’oggi quella tensione non è risolta: come sempre, si sa tutto della sua chimica, della sua fisica, della sua tecnologia; il mistero insoluto e prezioso della sua essenza la rende ancora oggi culturalmente incerta. Adeguata cadenza cronologicamente finale è apparecchiata per la fotografia come fenomeno contemporaneo e digitale, quella diffusa universalmente dal telefonino smart e che Zannier chiama «fotofania», «o foto-apparizione, la tecnica attuale per cui le immagini vivono sul cellulare o nel computer, ma cessano di esistere appena lo strumento si spegne, se non vengono stampate su un supporto materiale». Ha ottantacinque anni, Italo Zannier, ma scrive un libro molto bello e moderno su quella misteriosa nuova luce, che ancora si ostina davanti ai nostri occhi. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
I fantasmi di Simona Vinci
Pubblicazioni Come molti autori e registi prima di lei, anche la brava narratrice italiana è riuscita
a dare una forma e un colore alle proprie paure e alla depressione
Mariarosa Mancuso La prima cosa che colpisce – in Parla, mia paura di Simona Vinci, titolo da prendersi alla lettera – sono le immagini cinematografiche. In Madre!, l’ultimo film di Darren Aronofski presentato alla Mostra di Venezia, vediamo una grande casa appena risistemata dopo un incendio da Jennifer Lawrence (che la abita assieme allo scrittore in crisi Javier Bardem, se no che film d’autore sarebbe?). Il legno del parquet trasuda sangue, anche se viene coperto dai tappeti. Simona Vinci scrive (meglio sarebbe dire «confessa»): «Vedevo l’impronta di piccole mani e piedi insanguinati apparire sull’intonaco come se la parete essudasse». In Repulsion di Roman Polanski la reclusa Catherine Deneuve vede mani che uscivano dalle pareti per afferrarla. Simona Vinci scrive, a proposito della stessa casa con le impronte dei piedini insanguinati: «Lungo le scale, quando salivo e scendevo per andare da un piano all’altro, c’erano mani che mi sfioravano e qualcuno che mi soffiava sul viso con dolcezza». In It di Stephen King – il romanzo prima del film e della serie, non è spoiler perché sta nelle librerie dagli anni 80, colpa vostra se non l’avete ancora letto, e del resto sapere che la Karenina si butta sotto il treno non rovina la lettura di Tolstoj – c’è un gigantesco ragno. Ancora Simona Vinci, dal suo libro dei sogni: «Il sogno ricorrente: la Ragna, mio talismano personale. L’in-
In un atto di onestà e coraggio Simona Vinci parla delle proprie paure. (youtube)
carnazione della mia paura. Gli occhi della Ragna, perché è chiaro che era una femmina, erano gialli e scintillanti. Consapevoli e impietosi, privi di sentimento». Di passaggio, entrano Gus Van Sant e il suo film La foresta dei sogni, ambientato a Aokigahara, la foresta dei suicidi giapponese. E Fight Club – romanzo di Chuck Palahniuk e film di David Fincher: per l’anticamera del chirurgo plastico che Simona Vinci visita regolarmente, osservando gli altri pazienti in attesa, e paragonandoli a un gruppo di supporto.
Colpisce la convergenza con il cinema, ma non li abbiamo elencati per sminuire il libro. Al contrario: uno dopo l’altro, gli esempi mostrano la bravura dei registi, e la sincerità con cui Simona Vinci racconta i suoi dolori, la sua depressione, le sue allucinazioni. Perfino un tentativo di suicidio – aveva preparato la corda, per l’arrivo anticipato della coinquilina la nascose e finse di dormire vestita e truccata. Mostrano un nucleo – che osiamo definire «originario» – di paure e di immagini terrorizzanti. Lo sa bene chi le ha provate, ma-
gari credendosi l’unico ad avere simili crisi o attacchi di panico. Chi non le ha provate è fortunato, ma deve sapere che non sono state inventate dai registi dei film horror. Né dai registi che come Ingmar Bergman accennano – per esperienza diretta, anche loro – all’«ora del lupo». Dal film con lo stesso titolo: «È l’ora in cui molta gente muore e molti bambini nascono, quando il sonno è più profondo. E quando gli incubi ci assalgono, e se restiamo svegli abbiamo paura». Simona Vinci è stata coraggiosa. Ha seguito l’esempio di William Styron
in Un’oscurità trasparente, di Ottiero Ottieri nei suoi versi e nei romanzi, di Matt Haig in Ragioni per continuare a vivere. Su un versante più teorico e letterario, vale la pena di ricuperare il bellissimo libro di Al Alvarez dedicato al suicidio di Sylvia Plath (che mise la testa nel forno) e di Virginia Woolf (che entrò nel fiume con le pietre nella tasche) e di molti altri: Il dio selvaggio, appena ripubblicato da Odoya. Mon coeur mis à nu: secondo Charles Baudelaire era l’unico progetto serio in materia di letteratura. Simona Vinci tiene fede all’impegno, rievocando gli anni peggiori della sua vita, e poi racconta com’è riuscita a tenere a bada la bestia nera. Un chirurgo plastico e una psicoanalista. Un uomo e una donna. Uno che si occupava del corpo e l’altra della mente. La casa in città risultava ostile – e passeggiare a Bologna, con i portici, faceva stare ancor più male. Il giardino no, era un angolo di salvezza: Simona Vinci scrive delle piante e dei fiori come se fosse stata graziata. Forse è vero che non si guarisce mai del tutto. Ma Simona Vinci continua a scrivere – in La prima verità, un’isola manicomio in Grecia dove venivano ricoverati malati psichiatrici e dissidenti, accennava già alla scintilla autobiografica da cui il libro era nato. E ha avuto un figlio, che accudisce con qualche tocco di originalità: «Ogni volta che temevo di non farcela, posavo il bambino urlante nella culla e accendevo l’aspirapolvere. Quel suono lo calmava e calmava me». Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Emozionarsi senza guardare
Incontri A colloquio con Silvio Soldini, che nel suo nuovo film Il colore nascosto delle cose
si confronta con il delicato tema della cecità Nicola Falcinella Emma (Valeria Golino) è rimasta cieca a 16 anni, ma è come se vedesse. Teo (Adriano Giannini) ha la vista, ma vive ottenebrato dal lavoro e da continue avventure con donne diverse. I due, che si incontrano durante un «dialogo al buio» e si ritrovano e si innamorano, sono i protagonisti de Il colore nascosto delle cose, il nuovo film di Silvio Soldini. Una bella e delicata commedia drammatica presentata fuori concorso alla Mostra di Venezia e ora al Cinema Lux di Massagno, al Teatro di Mendrisio, al Cinema Otello di Ascona e, da giovedì, al Cinema Forum di Bellinzona. Ne abbiamo parlato con il regista. Silvio Soldini, il film è uscito in Italia da un mese e sta andando bene. Significa che c’è ancora spazio per il cinema d’autore?
Vuol dire che la gente non vuole solo vedere commediacce! È difficile capire come e perché il pubblico scelga di vedere un film. E perché difficilmente vada a vedere i film d’autore nel primo fine settimana di programmazione, che è quello fondamentale. Su questo film si è lavorato bene e si è fatta una bella promozione. Il titolo incuriosisce come speravo e poi fra gli attori vi sono nomi noti e di richiamo come Valeria Golino. E il pubblico è arrivato subito. Oggi le pellicole non resistono molto, tranne nelle grandi città, perché escono in continuazione nuovi
titoli. Nel 2000 il mio Pane e tulipani uscì in Italia in dodici sale, che sono pochissime, ma ci fu il passaparola, il film, crebbe ed ebbe un largo successo. Oggi non potrebbe accadere, sarebbe spazzato via subito.
Se guardiamo alla sua produzione, la possiamo dividere tra un Soldini drammatico e asciutto e un Soldini da commedia leggera. Il colore nascosto delle cose è un punto d’incontro tra questi due percorsi?
Sì, è così. Questa è anche una commedia, ma più realistica delle altre. Non volevo fare un «drammone» sulla cecità, ma volevo che il personaggio cieco avesse una sua leggerezza, per questo l’ho affiancato a un’amica ancora più ironica. Cinque anni fa, realizzando il documentario Per altri occhi, in cui seguivo dieci ipovedenti che facevano cose particolari, scoprii un mondo. Mi accorsi che avevo un’idea lontana dalla loro realtà e sentii di dovere fare un film di finzione. Il colore nascosto delle cose è dunque figlio di quel progetto.
Totalmente. Alcune di quelle persone mi hanno fatto da consulenti in fase di soggetto e sceneggiatura. Alcune, soprattutto le donne, hanno aiutato Valeria Golino. Lei infatti ha lavorato sul personaggio guardandole, ascoltandole e osservandole nelle faccende domestiche. Valeria ha seguito anche un corso di orientamento e mobilità per ciechi, perché esiste una tecnica particolare per usare il bastone, attraversare la città o organizzarsi la casa da soli. Non
ci pensiamo, ma un cieco per essere autonomo deve lavorare il doppio di chi ci vede.
Il film inizia con l’esperienza sensoriale al buio. Quanto sono importanti queste cose?
Lo sono molto. A Milano e Genova ci sono le iniziative del dialogo nel buio. Sono molto interessanti anche le cene al buio: si entra in ristoranti senza illuminazione, con camerieri ciechi e magari anche cuochi ciechi, ci si siede con persone che non si conoscono e non si possono vedere. Bisogna immaginare, usare gli altri sensi. Ti rendi conto di quanto la vista influisca sugli incontri. La vista pregiudica molto. Dal suo precedente film di finzione, Il comandante e la cicogna, sono passati alcuni anni. Nel frattempo ha realizzato alcuni documentari. Sono serviti, diciamo, per una ripartenza?
Il documentario è uno strumento di conoscenza bellissimo, permette di scoprire e raccontare mondi che non si conoscono. Ne avevo fatti altri in precedenza, ma è vero che in questo periodo mi ci sono dedicato con assiduità. Sulla cecità ho fatto anche Un albero indiano, realizzato durante un viaggio in India di due settimane con uno di loro, un’altra esperienza molto intensa. È la prima volta che da un documentario mi nasce l’idea per un film di finzione, altre volte avevo solo preso spunto per un personaggio. A un certo punto Teo guarda il film di Luigi Comencini, E ciò al lunedì
Adriano Giannini e Valeria Golino in una scena del film di Soldini. mattina (1959), nel quale un impiegato decide un giorno di non andare al lavoro e si prende del tempo per sé. È legato a ciò che gli accade?
Devo ammettere che quel film non l’ho mai visto e se c’è un’analogia è casuale. Cercavo una scena di un vecchio film nel quale si sentisse un rumore continuo ma non si capisse cosa stesse succedendo. Un po’ il contrario della mia scena iniziale, nella quale non si vede ma si sente.
Il film è per lo più girato in formato 4:3, ma in alcuni momenti le immagini si allargano.
Il cambio di formato ha a che fare con la visione e con i sentimenti, mi piaceva farlo in modo quasi subliminale, non enfatizzato come ho visto in un paio di opere. La prima volta che si apre lo schermo è quando i due sono nel bosco e parlano, e lui entra nel tempo di lei. Credo porti emozioni. Il formato in questo caso è un respiro, si respira con i protagonisti. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Blade e gli altri
L’aut aut di Eminem ai suoi fan
l’inizio di stagione
Parliamone Il rapper
Filmselezione U n nuovo, immenso Blade Runner e Silvio Soldini impreziosiscono
Fabio Fumagalli ***(*) Blade Runner 2049, di Denis Villeneuve, con Ryan Gosling, Harrison Ford, Jared Leto, (Stati Uniti 2017)
In epoca non proprio idealista come l’attuale, quella di Blade Runner 2049 rappresenta, prima di ogni altra cosa, una sfida ardita. «Mi è stata proposta, non avrei mai osato avere quest’idea». A dirlo è il canadese Denis Villeneuve, autore ormai grande di Prisoners, Sicario e Arrival . Ha avuto il coraggio di dare un seguito all’originale di Ridley Scott, del quale esistono sette messe a punto, divenuto oggi uno degli oggetti di culto da portare sull’isola deserta. Realizzato nel 1981, il Blade Runner originale si svolgeva nel 2019. Così l’avevamo accolto: «Il protagonista Harrison Ford è una replica dei Bogart, dei Cagney; investigatori privati ormai in pensione, ma costretti da un avvenimento eccezionale a ritornare in attività. Lo sfondo, il tono è invece da fantascienza: ma moderata, ancorata al ricordo dell’epoca del noir. Una Los Angeles del 2019: che permette a Ridley Scott effetti speciali tradizionali, piccole astronavi, gadget elettronici. Il tutto in un universo che ancora ci appartiene, taxi aerei, le città satellite che si perdono con le loro luci nel cielo, la metropoli sottostante non molto dissimile dalle Chinatown attuali. Così, quando il nostro cacciatore di “replicanti” (...) si mette a cacciare le sue prede, lo fa nelle vie affollate da venditori ambulanti, fra passanti che circolano
contro Trump con l’ombrello aperto, tra ragazzini non molto dissimili, sotto le loro vesti eccentriche, dai nostri». Nel Blade Runner 2049 di Villeneuve accade il contrario. Il seguito della vicenda, sempre ispirata ai romanzi di Philip K. Dick, affonda ormai in un universo post-apocalittico, fra scheletri di grattacieli appena intravisti attraverso la foschia dell’inquinamento radioattivo, con un’umanità quasi interamente evacuata verso pianeti vivibili. Filmata dall’immenso Roger Deakins (autore dell’opera dei Coen) la vicenda non è sempre evidente, ma si dipana meravigliosamente grazie alla scenografia e a un’ambientazione sbalorditiva. A Villeneuve riesce l’impossibile: la fedeltà all’approccio di Ridley Scott (comunque a disposizione dietro le quinte), ma attraverso il cammino opposto, personale, di un blockbuster solo in apparenza, con una narrazione che invita alla contemplazione e alla riflessione. Che ricorre all’azione quasi per obbligo, coinvolgendo lo spettatore in un progressivo processo ipnotico. L’agente di polizia K (un melanconico Ryan Gosling, di memorabile adeguatezza) dovrà ritrovare l’anziano blade runner scomparso da trent’anni; al quale Harrison Ford apporta non solo il proprio profilo ormai mitico, ma una componente umana che sembrava ormai scomparsa. Sarà lui a commuoverci, cosa non evidente in questo genere di operazione: fondendo alla sua, di icona, quelle di Sinatra, Elvis e Marylin.
La locandina del nuovo Blade Runner.
**(*) Il colore nascosto delle cose, di Silvio Soldini, con Valeria Golino, Adriano Giannini (Italia 2017)
Un film sulla cecità Silvio Soldini l’aveva già fatto nel 2013, Per altri occhi. Un documentario, nel quale il regista introduceva una sequenza completamente buia, invasa dai soli suoni: per obbligarci ad uscire dal ruolo di spettatori, per farci partecipi, vagamente, di come ci si sente dalla «loro» parte. L’esperienza viene ripetuta in questo lungometraggio, conservando intatto, in un contesto inventato con la fida Doriana Leondeff e l’altro sceneggiatore Davide Lantieri, tutto il proprio impatto emotivo e per certi versi esplicativo.
Simona Sala
È d’altronde da sempre uno dei segreti dell’autore quello di costruire (anche nell’oscurità totale) mosaici pudici, ma di grande sensibilità e leggerezza, vibranti ragnatele di legami simmetrici fra i personaggi. La storia è quella dell’agente pubblicitario Teo (Adriano Giannini, cui l’intimità registica di Soldini regala il ruolo più significativo) e del suo incontro con Emma: uno scontro curioso e laborioso, lontano (come tutto il film) da ogni pietismo, impegnativo. Poiché Emma è sì privata della vista dall’adolescenza, ma è comunque un’osteopata divorziata sulle sue. Una Valeria Golino ruvida come la sua voce, splendida come il suo personaggio.
Certo, non è la prima volta. Sono molte le celebrità statunitensi che hanno protestato contro il presidente, dal giocatore di football americano Colin Kaepernick, che si rifiuta di cantare l’inno allo stadio, a Madonna, che partecipa alla marcia delle donne. Eminem però, geniale mago degli eccessi, ha voluto andare oltre, e il video andato in onda la scorsa settimana, che lo vede in felpa e cappuccio in un autosilo circondato dai suoi, tutti rigorosamente nigga, è diventato subito virale, dando nuovo fiato alla protesta. Il suo sfogo, declamato rigorosamente in freestyle (senza musica) è un moderno poema rispettoso dei canoni classici, in cui l’odio e la rabbia verso l’establishment diventano una questione personale, tanto che alla fine Marshall ordina ai suoi fan di fare una scelta «And any fan of mine (...) I’m drawing in the sand a line: you’re either for or against». Il messaggio è chiaro, o con Trump o con Eminem. E intanto si aspetta il (solito) tweet di risposta...
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta La religione d’impresa può più del Vangelo Tanto per cambiare, mi sono messo nei guai da solo. Una premessa: non sono credente ma accompagno mia moglie a Messa tutte le domeniche per non lasciarla andare sola e per ascoltare le letture e il commento del Vangelo. Al momento della comunione resto seduto nel banco e non mi accosto all’eucarestia. Sono trascorsi tanti anni da quando andavo a scuola ma ricordo ancora una nota dell’Inferno di Dante curato da Natalino Sapegno. Citava Benvenuto, uno dei primi commentatori della Divina Commedia che, nel suo comprensibile latino medievale, definiva Farinata degli Uberti: «Imitator Epicuri, non credebat esse alium mundum nisi istum; unde omnibus modis studebat excellere in ista vita brevi, quia non sperabat aliam meliorem». Senza possedere un grammo del coraggio di Farinata, mi sono ritrovato in questa definizione. L’altra domenica, al termine della Messa, mi si è avvicinato don Luca, il giovane vice parroco, sacerdote da dieci anni e direttore spi-
rituale degli studenti universitari ospiti di una residenza prossima alla nostra chiesa. Mi ha chiesto di andare una sera a conversare con i suoi giovani assistiti. Tema: i dilemmi etici che deve affrontare un seguace del Vangelo nell’ambiente lavorativo. Potevo sciorinare lì in chiesa la definizione latina di Farinata? Ho accettato e da quel momento sono costretto a ripensare in questa chiave la mia esperienza lavorativa, svolta quasi interamente in Rai. Aperto un cassetto della scrivania, ho iniziato a pescare tra i tanti foglietti di appunti presi durante le mie disordinate letture e buttati lì pensando che prima o poi possano tornarmi utili. Il primo riguarda il duca Vittorio Amedeo II di Savoia che ebbe il merito di portare a Torino da Messina l’abate architetto Filippo Juvarra, geniale artefice della città barocca. Un suo ministro disse di lui: «La condizione essenziale con questo principe è di sembrargli inferiori». Una regola sempre valida, già illustrata poco prima, nel 1641, dall’au-
reo trattato La dissimulazione onesta di Torquato Accetto. Tanto più in una azienda come la Rai nella quale i direttori sono sovente designati dai partiti, in base alla fedeltà e non alle competenze. Inoltre in Italia prospera il capitalismo famigliare, dove al vertice delle imprese si trovano collocati senza merito i figli e i nipoti dei geniali fondatori. I neo assunti, colti e preparati, dovranno stare attenti a non fare ombra ai superiori. Persino nel colloquio di assunzione non bisogna dimostrarsi troppo preparati, se chi esamina i candidati è poi quello che sarà il loro capo. Primo dilemma: il consiglio di dissimulare la propria competenza per sopravvivere in un’organizzazione complessa è coerente con gli insegnamenti del Vangelo? Forse sì, ma siamo solo all’inizio. I nostri giovani ricchi di talento e di competenze sono stati assunti, hanno fatto carriera e ora hanno dei sottoposti. Ecco un altro foglietto di appunti, presi dalla recensione di un libro che mi propongo di comprare e leggere. Scritto
dal filosofo canadese Alain Deneault, ha come titolo La mediocrazia, ovvero il governo dei mediocri, nel quale l’imperativo principe è «stare al gioco», in altre parole, rispettare le regole non scritte di quella che l’autore definisce la «Corporate Religion», la religione d’impresa, più forte di ogni altra. Faccio esempi relativi alla mia esperienza lavorativa. Si deve organizzare un nuovo programma televisivo, un talk show imperniato sugli ospiti; bisogna allestire una redazione composta di giovani collaboratori da assumere a tempo determinato. Si presentano in molti e una signorina vince la selezione per un’unica ragione, appartiene a una famiglia ben inserita nella società, con una fitta rete di frequentazioni, così potremo chiederle di invitare ospiti del suo giro. Altro caso: per uno sceneggiato si devono scegliere gli attori. Se fra i personaggi ci sono anche dei minori, si dovrà trovare un ruolo per un’attrice trentenne, a discapito di altre più brave di lei. La ragione? Per scritturare un minore
le pratiche sono lunghe e onerose, ma il marito dell’attrice prescelta, per il ruolo che svolge negli uffici che rilasciano i permessi, è in grado di facilitarle. Ancora un caso. Sono il produttore esecutivo di uno sceneggiato, Accadde ad Ankara, ambientato in quella città durante la seconda guerra mondiale. Per gli esterni costa troppo andare in Turchia, in Liguria i quartieri della Bordighera alta si prestano magnificamente alla bisogna, basterà mettere qualche cartello in turco. Un delegato della troupe va a trattare con l’albergatore: «Se veniamo in trenta e stiamo qui una settimana quale sconto ci fa?». «Il 20%». «Bene, ma lo sconto deve farlo a noi, non alla Rai. Le fatture devono essere a prezzo pieno». Cosa faccio? Mi dissocio e vado a stare in un altro albergo? Per riuscire a rispettare il piano di produzione mi conviene essere connivente con la troupe. Per questa volta vince la religione d’impresa, il Vangelo lo ascolteremo domenica prossima in chiesa.
artisti poco graditi. Questo significa tra le altre due cose: che si ritiene la presente come l’epoca tra tutte migliore e che la si considera indipendente da tutto ciò che l’ha preceduta. Due errori gravi, che gravissime conseguenze possono portare. Il primo, oltre alla sferzata di superficiale ottimismo, lede la capacità di autocritica non tanto del singolo cittadino, quanto piuttosto dei governi, certi di avere sempre scelto un meglio quasi inevitabile, necessario. Il secondo errore porta non solo a non studiare più la storia, ma anche a non volerne trarre degli insegnamenti. È chiaro che per noi oggi sia profondamente sbagliato imprigionare, derubare, uccidere delle popolazioni praticamente disarmate, come lo è possedere schiavi, che tra l’altro tali sarebbero solo in virtù del colore della pelle, e in genere non vediamo nemmeno di buon occhio l’alleanza coi Nazisti, le leggi razziali, la guerra di conquista. Ma, innanzitutto, se siamo così fortunati da non dover assistere a
queste violazioni della libertà e dei diritti dell’uomo, è anche grazie a chi le ha combattute. Ci furono dei Gesuiti che denunciarono i soprusi nelle Americhe, alcuni Nordisti che non combatterono solo il potere dei latifondisti del Sud, ma anche la schiavitù. Poi sul contributo degli Alleati e sulla Resistenza non occorre dir niente, cinema e letteratura ne parlano in continuazione. Dovrei apprezzarlo, no? Finalmente un aspetto della Storia che non è dimenticato, una produzione artistica costruita proprio «per non dimenticare», come si dice correttamente. Non mi basta, nemmeno in questo caso posso essere soddisfatta. Espongo le mie ragioni: temo che tutto questo parlare solo di un preciso momento storico in abbastanza precisi punti geografici, oltre ad avere il merito, che riconosco assolutamente, di non far dimenticare gli orrori, tutto questo abbia anche il demerito di semplificare la storia e nascondere il presente. Se il «male assoluto» è tutto in quei dodici
anni di nazismo, ventitré di fascismo, orrendi per carità, gli anni successivi e il nostro presente dovrebbero essere se non paradisiaci almeno liberi dal Male con la maiuscola. E questo mi sembra oggettivamente difficile da credere. Non riesco a vedere la positività di Hiroshima, dei pogrom di Stalin, delle torture e morti inflitte da Pinochet e Pol Pot, per dire i primi nomi che vengono alla mente. Non che qualcuno non ci abbia provato, inconsapevolmente influenzato dall’hegelismo che vuole necessario ogni momento del farsi dello Spirito, dal marxismo che applica tale necessità al raggiungimento della dittatura del proletariato (a sua volta solo mezzo per il raggiungimento della felicità di essere tutti uguali e senza padroni). Ma io non gli ho creduto. Come non credo a tutti i monumenti che in terra ispanica e portoghese inneggiano a Cristobal Colón, nato a Barcellona. Non era un «grande italiano» che con tre caravelle intrepido salpò?
libri. Esempio seguito nel Novecento da Ernest Hemingway, che girovagando per il mondo non rinunciava mai al baule-biblioteca: una versione personalizzata, con ripiani e un vano per la macchina da scrivere, gliela fornì nientemeno che Gaston Louis Vuitton (5+ alla generosità del maestro delle borse). Per chi non ama i grandi viaggi e vuole sfruttare ogni millimetro del suo appartamento, torna utile il cosiddetto modello-Leopardi, quello che possiamo ammirare nella casa del poeta a Recanati, dove papà Monaldo (6– al suo pragmatismo) decise semplicemente di impiantare mensole ovunque, da angolo ad angolo e dal pavimento al soffitto, senza tanti fronzoli. Geometria alla Mondrian. Una soluzione non comodissima è quella adottata dal famoso stilista Karl Lagerfeld (2 di scoraggiamento a eventuali imitatori) che nel suo appartamento parigino decise di sistemare i suoi 60 mila libri in orizzontale, cioè compressi di piatto uno sull’altro, in modo da renderne im-
possibile l’estrazione. Gli inconvenienti possono essere anche più gravi. Per chi avesse problemi di labirintite da libro e non riuscisse a raccapezzarsi nella confusione e nell’eccesso, Borsani espone vantaggi e svantaggi dei vari ordinamenti: alfabetico per autore, cronologico, per argomento, per collane, per patrie o lingue. Senza mai dimenticare i pericoli più seri. Racconta Borsani che un suo amico, che viveva in una casa d’epoca, ebbe l’insana idea di tirar su una libreria come parete divisoria di un ampio locale: sicché il pavimento che si reggeva su travi di legno cominciò a imbarcarsi minacciando lo sfondamento. Per fortuna i vicini del piano di sotto (6+ alla tempestività) sentendo qualcosa scricchiolare sulle loro teste fecero intervenire i pompieri un po’ prima della catastrofe. Qualcosa di simile accadde anche alla citata signora Shaunna Raycraft (1–), che nel 2011 acquistò per 823 dollari la modica quantità di 350 mila volumi da un’anziana vedova determinata a consegnare alle
fiamme l’indomabile patrimonio librario del marito defunto. Shaunna fu alle prese con il trasloco per ben nove mesi dovendo anche comperare una casetta di legno senza fondamenta per ospitare quella immensa massa cartacea, finché il marito (6+++) decise di abbandonare il tetto coniugale con sotto la moglie (con tre figli) e quella sterminata biblioteca. Risultato: quando la casa prese a collassare, anche l’ostinazione della forsennata bibliomane canadese dovette rassegnarsi al falò. (A proposito, come reagire di fronte all’ospite importuno che, gettando uno sguardo sorpreso sulla tua libreria stracolma di decine di migliaia di libri, ti chiede: «Li ha letti tutti?». Umberto Eco consigliava di scegliere lì per lì fra tre possibili risposte: A. «Non ne ho letto nessuno, altrimenti perché li terrei qui?»; B. «Di più, signore, molti di più»; C. «No, quelli che ho già letto li tengo nel mio studio in università, questi sono quelli che devo leggere entro la settimana prossima»).
Postille filosofiche di Maria Bettetini Attenti alla damnatio memoriae Scrivo nel giorno in cui, per tradizione, si festeggia la scoperta dell’America. A scuola si disegnavano le caravelle e si cantava «Cristoforo Colombo, grande italiano, con tre caravelle intrepido salpò», mentre mia sorella piccola fino a un’età non proprio infantile insisteva nel cantare «intrepido sarpon». Misteri della psiche e della beata libertà dei bambini. Ma quest’anno c’è poco da festeggiare: negli Stati Uniti il presidente si è appropriato della leggendaria figura, imponendo il ripristino del Columbus’ Day, la festosa e un po’ mafiosa parata italoamericana che era stata abolita in nome delle vittime indigene della scoperta delle Americhe. È un momento così, gli Stati del Sud hanno abbattuto le statue commemorative degli eroi Sudisti, come se solo i Nordisti fossero buoni e contrari alla schiavitù. Si sa che lo stesso Lincoln la abolì, dichiarando contestualmente che non si doveva mettere in dubbio la superiorità della razza bianca su quella nera. Il «New Yorker», poi, ha
detto che l’Italia dovrebbe eliminare le troppe tracce del Fascismo. Sarebbe un po’ laborioso, ma perché no: la Stazione Centrale di Milano è anche brutta, il Palazzo di Giustizia ha i corridoi stretti, si potrebbero abbattere. Vedo più difficile riportare l’acqua nelle paludi pontine, ma con un sistema di autopompe forse si potrebbe ricreare anche l’ambiente favorevole allo sviluppo delle zanzare anofeli, anch’esse creature di Dio, come la farfalletta della vispa Teresa. Perché per il resto fatico a trovare busti di Mussolini in giro per il Paese, escluso l’emporio clandestino di Predappio, dove è nato ed è sepolto, vegliato con costanza degna di miglior causa da giovanotti nostalgici. Clandestino, l’emporio dei ricordi del Ventennio, perché come è noto in Italia è la legge a vietare qualsiasi forma di «apologia del fascismo». Dunque da varie parti si chiede la cancellazione totale del passato, la damnatio memoriae che a Roma colpiva spesso gli imperatori appena morti, o i generali traditori, o gli
Voti d’aria di Paolo Di Stefano La pazienza del pavimento Come venivano collocati i 50 mila volumi della famosa biblioteca di Umberto Eco? Che cos’è «l’ordine geologico» di Roberto Calasso, lo scrittore ed editore di Adelphi? E come ha fatto la signora Shaunna Raycraft a raccogliere in casa 350 mila libri? Giuseppe Pontiggia si chiedeva giustamente se ci fosse qualcosa di più folle della furia di accatastare libri: lui ne aveva in casa (e in una «garçonnière» acquistata ad hoc) circa 40 mila, in parte collocati su scaffali appesi al soffitto dei corridoi, che chiamava «Galleria aerea». Un altro pazzo bibliomane è Ambrogio Borsani, scrittore per ragazzi, autore di numerosi racconti di viaggio e fondatore della rivista di storia del libro «Wuz» (6–). Ora la sua passione folle per il libro (di carta, ovvio) è diventata un libro su follia e disciplina nelle biblioteche di casa (L’arte di governare la carta, Editrice Bibliografica). Un labirinto tra libri, biblioteche, bibliomania, bibliofilia. Furore è la parola esatta. Anatole France confessò di non resistere alla tenta-
zione di acquistare qualcosa ogni volta che si avvicinava a una bancarella. Ma aggiungeva tristemente: «Al rientro, devo affrontare le grida della governante, che mi accusa di sfondare tutte le tasche e di riempire la casa di cartacce fatte apposta per attirare i topi» (4 – alla governante). Borsani fa un passo oltre e si mette nei panni del libro: immagina come si possa sentire un nuovo arrivato in una casa grondante di suoi simili con cumuli di volumi impilati sul pavimento, in un caos studiato, esibito o semplice frutto di casualità. Niente di così grondante nelle biblioteche private del passato: Francesco Petrarca possedeva qualche centinaio di codici da cui non voleva però separarsi, al punto da organizzare, nei suoi numerosi viaggi, carovane di cavalli carichi di volumi (6 d’incoraggiamento ai cavalli). Sappiamo che anche François Rabelais, oltre un secolo dopo Petrarca, aveva l’abitudine di accompagnarsi, nei suoi vagabondaggi, con una cassapanca portatile colma di
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Idee e acquisti per la settimana
shopping Il cachi, una delizia di stagione Attualità Grazie al suo intenso colore arancione, il cachi
Azione 40% sui cachi Loto di Romagna, Italia confezione da 700 g Fr. 2.90 invece di 4.90 dal 17 al 23 ottobre
porta una ventata di vivacità nella nostra cucina
Origini
Originario della Cina centrale e orientale, dove la pianta è conosciuta anche come «diospito» o «loto», il cachi venne introdotto in Occidente dapprima negli Stati Uniti e, alla fine del diciannovesimo secolo, anche in Europa, prima in Francia e successivamente in Italia. Pregi
Con il suo bel colore arancione – tonalità simbolo della gioia di vivere e dell’ottimismo – e il suo sapore zuccherino il cachi è una tentazione a cui in autunno è difficile resistere. Ma i suoi benefici non si fermano certo qui. Il colorito del cachi è dovuto alla ricchezza di betacarotene, sostanza che il corpo trasforma nell’importante vitamina A, utile nel mantenere sani occhi, pelle e mucose. Il cachi è anche una buona fonte di vitamina C, contribuendo così a rafforzare le nostre difese immunitarie contro le infezioni e possiede un alto tenore di fibre. Consumo
Keystone
Mentre il cachi mela (come Persimon o Sharon) può essere consumato appena raccolto, la varietà Loto di Romagna deve essere ben matura per gustarne appieno le qualità organolettiche e per evitare la sgradevole sensazione di «allappamento» al palato del frutto acerbo. Il momento giusto per farlo è quando la buccia del cachi è di colore arancione vivo e diventa quasi trasparente, come se stesse per rompersi. Il cachi Loto di Romagna ancora duro può essere fatto maturare a temperatura ambiente a casa tenendolo vicino alle mele: l’etilene contenuto in quest’ultime accelera infatti il processo di maturazione. Utilizzo
Il cachi è una vera delizia al naturale, ma può essere utilizzato per preparare altre fantastiche ricette, anche salate, oppure abbinandolo a yogurt, panna o gelato alla vaniglia. È inoltre ottimo sotto forma di marmellata, chutney o mousse. Cosa ne direste un irresistibile dessert come una crema ai cachi? Per ca. due persone prendete due cachi sodi, sbucciateli e tagliateli a dadini piccoli. Tenete da parte qualche dado per la decorazione finale. Frullate i restanti insieme a 150 g di ricotta alla panna, mezza bustina di zucchero vanigliato e un cucchiaio di miele. Distribuire la crema nei bicchieri, decorare con i dadini di cachi rimasti e servire. A piacimento cospargere con un po’ di cannella.
Cachi Loto di Romagna Pianta diffusa anche alle nostre latitudini, il cachi Loto di Romagna si caratterizza per la sua forma tondeggiante, l’intenso colore arancio-giallo, la buccia molto sottile e la polpa dolcissima, gelatinosa, da gustare con un cucchiaio.
Cachi Persimon Possiede una polpa soda e compatta, molto zuccherina. Al contrario del cachi Loto di Romagna, si può consumare appena colto. È senza semi e facile da affettare. Si mangia come le mele, a piacimento con o senza buccia.
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Idee e acquisti per la settimana
Gli iogurt nostrani del momento Attualità Tutti i sapori dell’autunno sono racchiusi negli apprezzati iogurt di montagna
Flavia Leuenberger Ceppi
ai cachi e alle castagne
I frutti dell’autunno per eccellenza? Le castagne e i cachi naturalmente. Queste delizie stagionali sono tuttavia una vera delicatezza anche nello iogurt, come lo dimostra il successo dei vellutati iogurt nostrani ai due gusti. Come tutta la quindicina di aromi presenti sugli scaffali di Migros Ticino, anche gli iogurt di montagna ai cachi e alle castagne sono prodotti artigianalmente ad Airolo dalla dinamica azienda Agroval SA. Il latte utilizzato proviene esclusivamente da una decina di piccoli allevatori dell’Alta Leventina che alimentano le proprie mucche con erba fresca o fieno di montagna non insilato. I cachi utilizzati sono coltivati presso il Demanio agricolo cantonale di Gudo. Una volta raccolti, passano alla Sandro Vanini SA di Rivera, la quale con metodi tradizionali si occupa di trasformare i frutti arancioni in una cremosa marmellata che permetta di soddisfare le necessità di produzione dello iogurtificio Agroval SA. Un’altra autentica golosità è lo iogurt alle castagne. Questa specialità viene arricchita con finissimi pezzetti di marron glacé, anch’essi provenienti dalla Sandro Vanini SA, azienda che per le sue castagne glassate è rinomata in tutto il mondo. Iogurt ai cachi 180 g Fr. –.95* invece di 1.05 Iogurt alle castagne 180 g Fr. –.95* invece di 1.05 *Azione valida dal 17 al 23.10
i Airolo. groval SA d A o ci ifi rt u Lo iog
1,5 tonnellate di alimenti in favore degli animali
Lo scorso 4 ottobre, in occasione della Giornata Mondiale degli Animali, Migros Ticino ha organizzato in alcune filiali una raccolta di articoli per animali in collaborazione con l’Associazione Amici Animali Ticino (AAT). Durante tutta la giornata la clientela Migros ha avuto la possibilità di donare alimenti e accessori da destinare a colonie feline presenti sul nostro territorio, come
pure a gatti e cani in stallo presso l’AAT e ad altri volontari impegnati attivamente per il benessere degli animali. Grazie alla generosità di moltissime persone la campagna è stata un successo, tanto che sono state raccolte qualcosa come 1,5 tonnellate di merce. In parte anche Migros ha partecipato alla donazione. Ringraziamo tutti i clienti per questi importanti contributi.
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Idee e acquisti per la settimana
Da 14 anni con «Sapori e Saperi» Attualità Migros Ticino dal 2003 è partner della nota rassegna sui prodotti
agroalimentari ticinesi prevista per il prossimo fine settimana
Da venerdì 20 a domenica 22 ottobre, presso il Mercato Coperto di Giubiasco, si terrà la 16esima edizione di «Sapori e Saperi», il tradizionale appuntamento autunnale sulle specialità più rappresentative del nostro territorio. L’evento, a ingresso gratuito, sarà un occasione imperdibile per tutti coloro che desiderano scoprire la ricchezza dei prodotti tipici ticinesi e la loro provenienza. La fiera resterà aperta il venerdì dalle ore 14.00 alle 21.00, sabato dalle 10.00 alle 21.00 e domenica dalle 10.00 alle 19.00. Migros Ticino, in qualità di sponsor principale, sarà presente alla rassegna con il suo stand dedicato ai prodotti dei «Nostrani del Ticino», le genuine specialità provenienti esclusivamente da aziende ticinesi e presenti sugli
scaffali dei supermercati Migros con un assortimento di oltre 300 tipicità. I visitatori dello stand potranno non solo scoprire le ultimissime novità della gamma – dai burri speziati al latte biologico all’olio di girasole, dal peperoncino essiccato alle uova bio – ma anche lasciarsi tentare da degustazioni di prelibatezze della nostra tradizione. Ci sarà naturalmente la possibilità di poterne acquistare alcune direttamente in loco. Tra gli altri interessantissimi appuntamenti della rassegna, segnaliamo ancora la presenza di alcune classi scolastiche il venerdì pomeriggio e la creazione di un’ «Isola del Gusto» dove rinomati chef prepareranno deliziose e fantasiose degustazioni con i prodotti agroalimentari locali. Da non perdere poi i coinvolgenti intrattenimenti curati da noti conduttori della RSI. Non va dimenticato, infine, che quest’anno ricorre l’80esimo di fondazione della Federazione Ortofrutticola Ticinese (FOFT), anniversario che merita una particolare attenzione. Non mancate all’appuntamento!
David Schnell Photography
Lo stand di Migros Ticino durante una delle scorse edizioni.
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Idee e acquisti per la settimana
M-Classic
Un toast per tutte le situazioni
I soffici pani da toast M-Classic sono una bontà sia tostati sia freschi.
Una croccante fetta di pane tostato spalmata di burro, marmellata, crema di nocciole o miele è da sempre il modo migliore per iniziare la giornata con il buonumore. Questo pane a colazione non può proprio mancare. Il pane da toast M-Classic è delizioso anche fresco trasformato in un fantastico sandwich farcito, magari con formaggio fresco, salmone o prosciutto. Come amano fare gli inglesi durante l’Afternoon Tea, potete servire piccoli tramezzini imbottiti per accompagnare il tè delle cinque. Come novità ora tutte le varietà di pane da toast MClassic sono prive di conservanti.
I prodotti TerraSuisse provengono da un’agricoltura svizzera sostenibile. Le materie prime sono prodotte da contadini che danno grande importanza al benessere degli animali e al rispetto della natura.
Parte di
M-Classic TerraSuisse Toast & Sandwich 620 g Azione Fr. 1.50* invece di 2.30 *Azione fino al 23 ottobre
M-Classic TerraSuisse Toast Soleil 500 g Azione Fr. 1.60* invece di 2.40
M-Classic TerraSuisse Toast 6 Cereali 250 g Fr. 2.40
Con il suo impegno per la sostenibilità Migros è da generazioni in anticipo sui tempi.
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Idee e acquisti per la settimana
Barbara Janker
«Ne approfitta l’uomo e l’ambiente»
Frutti di mare
Prelibatezze certificate Dall’autunno 2016 la Migros offre esclusivamente pesci e frutti di mare d’origine sostenibile, come ad esempio le confezioni di gamberi Costa. I prodotti ittici provengono da un allevamento certificato «ASC» dell’Honduras, in America Centrale
Sgusciati e precotti: i Pacific Prawns surgelati di Costa possono essere mangiati caldi o freddi. Si possono riscaldare brevemente in padella e condire semplicemente con peperoncino o una salsa all’aglio o alle erbe aromatiche.
Testo/Intervista: Angela Obrist
Barbara Janker è Commercial marketing manager dell’Aquaculture Stewardship Council (ASC).
Questi crostacei hanno una corazza sottile e antenne lunghe in media tra 6 e 10 centimetri. Crudi hanno un colore grigiastro, ma una volta cotti assumono una colorazione che va dal rosa pallido all’arancione.
I gamberi sono una ricercata prelibatezza in tutto il mondo. E vengono chiamati in tanti modi: gamberi, gamberetti, gamberoni o anche con termini stranieri come crevettes, gambas o shrimps. In commercio si trovano gamberi con o senza testa, con o senza guscio, crudi, surgelati o precotti.
Che incidenza hanno oggi pesci e frutti di mare d’allevamento sul mercato ittico mondiale? Già oggi più della metà dei pesci mangiati in tutto il mondo proviene da allevamento ittico, la cosiddetta acquacoltura. Secondo gli esperti, questa quota salirà ulteriormente, ciò che potrebbe anche rappresentare un vantaggio. Infatti, il pesce è la più grande fonte di proteine animali, di gran lunga più della carne di pollo, maiale o manzo. Gli allevamenti ittici possono avere anche alcuni svantaggi. Quali sono? Se gli acquacoltori non operano con la dovuta attenzione, si verificano effetti negativi come l’inquinamento delle acque, la distruzione degli ecosistemi o cattive condizioni di lavoro. Con i suoi criteri trasparenti l’etichetta «ASC» contrasta queste problematiche.
I gamberi utilizzati da Costa provengono da un allevamento dell’Honduras certificato «ASC». Allevamento, pesca e lavorazione dei crostacei rispettano severi criteri riguardanti la protezione dell’ambiente e le condizioni di lavoro (cfr. intervista).
I Pacific Prawns di Costa sono ideali per innumerevoli piatti, come ad esempio un esotico curry, un Nasi goreng indonesiano o una Paella spagnola. Sono molto gustosi anche in insalata o come cocktail di gamberetti.
Cosa distingue i gamberi d’allevamento certificato «ASC»? La nostra lista di requisiti contempla sia direttive ecologiche che sociali, che vanno a beneficio sia dell’uomo che dell’ambiente. Ad esempio, l’azienda ittica non può insediarsi all’interno di ecosistemi sensibili, come le foreste di mangrovie. L’impiego di antibiotici è proibito. In più, l’allevamento non può usare sostanze chimiche non strettamente necessarie e deve assicurarsi che il mangime provenga da fonti assolutamente responsabili. Quali sono i criteri sociali? Le aziende certificate «ASC» offrono ai loro collaboratori un buon posto di lavoro e prestano attenzione ai bisogni delle comunità della zona. Inoltre, si prendono cura della qualità dell’acqua, proteggono gli habitat dei pesci selvatici e garantiscono che la popolazione locale abbia accesso a questi siti di pesca. E quali sono i benefici per la fauna d’allevamento? Le aziende certificate sono attente alla salute dei gamberi e si assicurano che ci sia il minor numero possibile di fattori di stress. Ciò, ad esempio, significa che gli animali abbiano sufficiente spazio di movimento nell’acqua e abbastanza ossigeno.
*nelle maggiori filiali Migros
Il marchio ASC (Aquaculture Stewardship Council) certifica pesci e frutti di mare provenienti da allevamento responsabile, che garantisce il rispetto degli animali e condizioni di lavoro eque.
Parte di
Nel suo impegno a favore della sostenibilità, la Migros è da generazioni in anticipo sui tempi.
Costa Pacific Prawns, ASC, sgusciati e precotti, surgelati 400 g Fr. 13.80
Costa Pacific Prawns, ASC, sgusciati e precotti in confezione speciale, surgelati 800 g Azione Fr. 19.30 invece di 27.60 30% di sconto dal 17 al 23 ottobre, fino a esaurimento scorte
Costa Gamberi con salsa chili, ASC, surgelati 200 g* Fr. 7.50
Costa Pacific Prawns con salsa alle erbe mediterranee, ASC, surgelati 400 g* Fr. 11.40
Costa Frutti di Mare Premium, surgelati 500 g Fr. 10.50
Costa Gamberi con salsa all’aglio, ASC, surgelati 200 g* Fr. 7.50
Come viene verificato il rispetto dei criteri «ASC»? Gli allevamenti sono controllati da esperti indipendenti. Una squadra diretta da un osservatore di grande esperienza valuta l’azienda sul posto, eseguendo analisi e interrogando i collaboratori. La verifica viene annunciata pubblicamente, affinché anche gli estranei e i Comuni interessati possano fornire la loro opinione. Il rapporto con i risultati si può consultare sul sito www.asc-aqua.org. MM
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Barbara Janker
«Ne approfitta l’uomo e l’ambiente»
Frutti di mare
Prelibatezze certificate Dall’autunno 2016 la Migros offre esclusivamente pesci e frutti di mare d’origine sostenibile, come ad esempio le confezioni di gamberi Costa. I prodotti ittici provengono da un allevamento certificato «ASC» dell’Honduras, in America Centrale
Sgusciati e precotti: i Pacific Prawns surgelati di Costa possono essere mangiati caldi o freddi. Si possono riscaldare brevemente in padella e condire semplicemente con peperoncino o una salsa all’aglio o alle erbe aromatiche.
Testo/Intervista: Angela Obrist
Barbara Janker è Commercial marketing manager dell’Aquaculture Stewardship Council (ASC).
Questi crostacei hanno una corazza sottile e antenne lunghe in media tra 6 e 10 centimetri. Crudi hanno un colore grigiastro, ma una volta cotti assumono una colorazione che va dal rosa pallido all’arancione.
I gamberi sono una ricercata prelibatezza in tutto il mondo. E vengono chiamati in tanti modi: gamberi, gamberetti, gamberoni o anche con termini stranieri come crevettes, gambas o shrimps. In commercio si trovano gamberi con o senza testa, con o senza guscio, crudi, surgelati o precotti.
Che incidenza hanno oggi pesci e frutti di mare d’allevamento sul mercato ittico mondiale? Già oggi più della metà dei pesci mangiati in tutto il mondo proviene da allevamento ittico, la cosiddetta acquacoltura. Secondo gli esperti, questa quota salirà ulteriormente, ciò che potrebbe anche rappresentare un vantaggio. Infatti, il pesce è la più grande fonte di proteine animali, di gran lunga più della carne di pollo, maiale o manzo. Gli allevamenti ittici possono avere anche alcuni svantaggi. Quali sono? Se gli acquacoltori non operano con la dovuta attenzione, si verificano effetti negativi come l’inquinamento delle acque, la distruzione degli ecosistemi o cattive condizioni di lavoro. Con i suoi criteri trasparenti l’etichetta «ASC» contrasta queste problematiche.
I gamberi utilizzati da Costa provengono da un allevamento dell’Honduras certificato «ASC». Allevamento, pesca e lavorazione dei crostacei rispettano severi criteri riguardanti la protezione dell’ambiente e le condizioni di lavoro (cfr. intervista).
I Pacific Prawns di Costa sono ideali per innumerevoli piatti, come ad esempio un esotico curry, un Nasi goreng indonesiano o una Paella spagnola. Sono molto gustosi anche in insalata o come cocktail di gamberetti.
Cosa distingue i gamberi d’allevamento certificato «ASC»? La nostra lista di requisiti contempla sia direttive ecologiche che sociali, che vanno a beneficio sia dell’uomo che dell’ambiente. Ad esempio, l’azienda ittica non può insediarsi all’interno di ecosistemi sensibili, come le foreste di mangrovie. L’impiego di antibiotici è proibito. In più, l’allevamento non può usare sostanze chimiche non strettamente necessarie e deve assicurarsi che il mangime provenga da fonti assolutamente responsabili. Quali sono i criteri sociali? Le aziende certificate «ASC» offrono ai loro collaboratori un buon posto di lavoro e prestano attenzione ai bisogni delle comunità della zona. Inoltre, si prendono cura della qualità dell’acqua, proteggono gli habitat dei pesci selvatici e garantiscono che la popolazione locale abbia accesso a questi siti di pesca. E quali sono i benefici per la fauna d’allevamento? Le aziende certificate sono attente alla salute dei gamberi e si assicurano che ci sia il minor numero possibile di fattori di stress. Ciò, ad esempio, significa che gli animali abbiano sufficiente spazio di movimento nell’acqua e abbastanza ossigeno.
*nelle maggiori filiali Migros
Il marchio ASC (Aquaculture Stewardship Council) certifica pesci e frutti di mare provenienti da allevamento responsabile, che garantisce il rispetto degli animali e condizioni di lavoro eque.
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Nel suo impegno a favore della sostenibilità, la Migros è da generazioni in anticipo sui tempi.
Costa Pacific Prawns, ASC, sgusciati e precotti, surgelati 400 g Fr. 13.80
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Costa Gamberi con salsa chili, ASC, surgelati 200 g* Fr. 7.50
Costa Pacific Prawns con salsa alle erbe mediterranee, ASC, surgelati 400 g* Fr. 11.40
Costa Frutti di Mare Premium, surgelati 500 g Fr. 10.50
Costa Gamberi con salsa all’aglio, ASC, surgelati 200 g* Fr. 7.50
Come viene verificato il rispetto dei criteri «ASC»? Gli allevamenti sono controllati da esperti indipendenti. Una squadra diretta da un osservatore di grande esperienza valuta l’azienda sul posto, eseguendo analisi e interrogando i collaboratori. La verifica viene annunciata pubblicamente, affinché anche gli estranei e i Comuni interessati possano fornire la loro opinione. Il rapporto con i risultati si può consultare sul sito www.asc-aqua.org. MM
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Idee e acquisti per la settimana
Anna’s Best
Due classici in versione vegana
Azione Punti Cumulus moltiplicati per 20 sui due nuovi piatti di pasta Anna’s Best fino al 23 ottobre
Per la sua linea Vegi, Anna’s Best propone due nuovi piatti di pasta con salsa di pomodoro, certificati Bio e vegani. Gli spaghetti alla bolognese hanno lo stesso sapore di quelli tradizionali con la carne macinata, benché siano prodotti con la soia. Le olive nere, invece, portano il sapore del Mediterraneo nel sugo degli spaghetti alla napoletana. I due piatti si riscaldano in un attimo e sono molto pratici per la pausa di mezzogiorno in ufficio. Grazie alla pellicola di separazione tra la pasta e il sugo, gli spaghetti restano al dente.
Il V-Label dell’Unione vegetariana europea (EVU) certifica prodotti adatti ad un’alimentazione vegetariana e vegana. Tutti gli ingredienti e gli additivi sono vegetariani o vegani.
Anna’s Best Bio Vegi Spaghetti Napoli 370 g Fr. 5.50
Anna’s Best Bio Vegi Spaghetti Bolognese 370 g Fr. 5.50
Nel 1957 la televisione britannica BBC trasmise un Pesce d’aprile davvero straordinario: il servizio mostrava la raccolta degli spaghetti a Lugano. La pasta pendeva dagli alberi e dopo la raccolta veniva stesa ad essiccare al sole. Molti spettatori abboccarono e contattarono la BBC per sapere dove si potevano comprare i semi. I responsabili avevano ideato lo scherzo proprio durante una cena a base di spaghetti. Però non si è mai saputo se fossero vegani. www.youtube.com («Spaghetti-Harvest»)
Gli agricoltori Bio lavorano in armonia con la natura. Trattano con rispetto gli animali e le piante, il suolo e l’acqua.
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20% Maionese, Thomynaise e senape dolce Thomy in conf. da 2 per es. maionese à la française, 2 x 265 g, 4.– invece di 5.–
55% Batterie di pentole Titan e Deluxe della marca Cucina & Tavola per es. padella a bordo alto Titan, Ø 28 cm, indicata anche per i fornelli a induzione, il pezzo, 31.05 invece di 69.–, offerta valida fino al 30.10.2017
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12.30 invece di 24.75 Branches Classic Frey in conf. da 50, UTZ 50 x 27 g
20% Tutti i biscotti in sacchetto Midor (prodotti Tradition esclusi), per es. zampe d’orso, 380 g, 2.35 invece di 2.95
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–.60
di riduzione l’una Tutti i biscotti Tradition a partire da 2 confezioni, –.60 di riduzione l’una, per es. Cremisso, 175 g, 2.90 invece di 3.50
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Tutte le salse Bon Chef liquide e in bustina a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione
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Tonno M-Classic in conf. da 8 sott’olio o in acqua, per es. in olio di soia, 8 x 155 g, 11.40 invece di 15.20
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Pesce, carne e pollame Tutte le gallette di riso e di mais (Alnatura escluse), a partire da 2 pezzi 20% Prosciutto crudo San Daniele, Italia, al banco a servizio, per 100 g, 6.80 invece di 8.50 20% Cordon bleu di maiale, Svizzera, al banco a servizio, per 100 g, 2.20 invece di 2.75 20%
Pane e latticini
Brodo Knorr in conf. da 2, 2 x 160 g, 5.90 Hit Peanuts M&M’s, 250 g + 10% di contenuto in più, 275 g, 3.20 Hit Ragusa o Torino in confezioni multiple, per es. Torino al latte in conf. da 5, 5 x 23 g, 3.50 30x PUNTI Panfino in conf. speciale, allo speck o agli spinaci, surgelato, per es. agli spinaci, 2 x 235 g, 4.55 invece di 7.60 40% Pacific Prawns Costa in conf. speciale, ASC, surgelati, 800 g, 19.30 invece di 27.60 30%
Mini biberli, ripieni, 634 g, 6.60 Hit
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Tutti i tipi di Orangina in conf. da 6, 6 x 50 cl, regular, rossa e zero, per es. regular, 4.95 invece di 6.60 25% Tutto l’assortimento Chop Stick, Namaste India e Al Fez, per es. Sambal Oelek Chop Stick, 100 g, 1.35 invece di 1.70 20%
Uva bianca senza semi, Grecia, vaschetta da 500 g, 1.95 invece di 2.90 30%
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Ovomaltine in polvere in conf. speciale, 2 x 1 kg, 22.85 invece di 30.50 25%
Toast & Sandwich da 620 g e Toast Soleil da 500 g M-Classic, TerraSuisse, per es. Toast & Sandwich, 620 g, 1.50 invece di 2.30 33%
Tutte le pantofole e le ciabatte con plantare anatomico (escl. SportXX), per es. pantofole da donna, rosa, n. 39, 13.85 invece di 19.80 30% **
Tutto l’assortimento di frutta secca e noci (prodotti sfusi, Alnatura e Sélection esclusi), per es. albicocche secche Sun Queen, 200 g, 3.10 invece di 3.90 20%
Novità
Tutti i legumi secchi, i cereali in chicchi, la polenta nonché la polenta bramata M-Classic, per es. lenticchie, 500 g, 1.75 invece di 2.20 20% Sottotovaglia Gastro, 110 x 240 cm, il pezzo, 19.80 Novità **
Aceto di vino alle erbe aromatiche Kressi Chirat, 1 l, 2.35 invece di 2.95 20%
Gel doccia Water Melon Fanjo, Limited Edition, 300 ml, 2.60 Novità **
Ovomaltine Crunchy Cream in conf. da 2, 2 x 400 g, 6.70 invece di 8.40 20%
Deodorante roll-on Pure & Soft I am, 50 ml, 1.95 Novità **
Tutti i tipi di spezie Le Chef, a partire da 2 pezzi, 1.– di riduzione l’uno, per es. bouquet di pepe, 56 g, 4.50 invece di 5.50
Crème Caramel Fleur de Sel Sélection, 2 x 100 g, 3.60 Novità ** Yogurt alla ciliegia Excellence, Special Edition, 150 g, –.95 Novità **
Popcorn e Pom-Bär in confezioni multiple, per es. popcorn Jimmy’s salati, in conf. da 6, 6 x 18 g, 2.50 Hit
Tom Kha Gai Anna’s Best, 300 ml, 4.40 Novità ** Omino di panpepato, 100 g, 3.40 Novità ** Farmer Soft Choc alle castagne, Limited Edition, 192 g, 4.60 Novità **
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Altre offerte. Frutta e verdura
Cake Salvatore, 300 g, 4.40 invece di 5.50 20% Pane Passione Nostrano, 420 g, 3.– invece di 3.80 20%
Altri alimenti
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Set di biancheria intima da uomo Warm Up John Adams nera, taglie S–XL, per es. tg. M, il pezzo
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Calzini o gambaletti da donna Ellen Amber in conf. da 20 disponibili in nero o cognac, per es. gambaletti, cognac, one size
Pesce, carne e pollame Tutte le gallette di riso e di mais (Alnatura escluse), a partire da 2 pezzi 20% Prosciutto crudo San Daniele, Italia, al banco a servizio, per 100 g, 6.80 invece di 8.50 20% Cordon bleu di maiale, Svizzera, al banco a servizio, per 100 g, 2.20 invece di 2.75 20%
Pane e latticini
Brodo Knorr in conf. da 2, 2 x 160 g, 5.90 Hit Peanuts M&M’s, 250 g + 10% di contenuto in più, 275 g, 3.20 Hit Ragusa o Torino in confezioni multiple, per es. Torino al latte in conf. da 5, 5 x 23 g, 3.50 30x PUNTI Panfino in conf. speciale, allo speck o agli spinaci, surgelato, per es. agli spinaci, 2 x 235 g, 4.55 invece di 7.60 40% Pacific Prawns Costa in conf. speciale, ASC, surgelati, 800 g, 19.30 invece di 27.60 30%
Mini biberli, ripieni, 634 g, 6.60 Hit
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a Una porzione ex tr di proteine e fibre alimentari.
3.90 Zuppa di fagioli kidney Anna’s Best 300 ml
Confettura senza semi né pezzetti.
2.90 Favorit Satin arancia-mango-maracuja 235 g
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6.90 Lampadina LED M-Classic Pin, 25 watt, G9, il pezzo
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Idee e acquisti per la settimana
Fondue
Pronta in un battibaleno La fondue di formaggio delle alpi si prepara in pochissimo tempo e in modo semplice perché tutti gli ingredienti, tra cui anche aromi e vino, sono già aggiunti alla miscela di formaggio. È sufficiente strofinare il caquelon con uno spicchio d’aglio, aggiungere la miscela di fondue e lasciar cuocere lentamente a fuoco moderato. Poco prima di servire, con l’ausilio di una frusta rendere cremoso il composto e aromatizzare a piacere con un po’ di pepe, noce moscata o paprica.
Fondue di formaggio delle alpi 600 g, 2 porzioni Fr. 16.90
Consiglio Perché non raffinare la vostra fondue con del tartufo estivo oppure, oltre al pane, servirla anche con pere fresche, ananas o patate?
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Idee e acquisti per la settimana
Cartoleria
Giornate ben organizzate
Con le pratiche agende e i calendari per le scadenze, le persone attive mantengono il controllo delle loro giornate di lavoro. Il design vario nell’assortimento dei prodotti di cancelleria permette ad ogni persona di trovare il modo migliore per organizzare l’anno nuovo
Il marchio FSC (Forest Stewardship Council) indica prodotti che derivano da coltivazione responsabile delle foreste, con attenzione rivolta all’uomo e alla natura. Parte di
Con il suo impegno per l’ambiente Migros è da generazioni in anticipo sui tempi.
Anche nell’epoca digitale un’agenda cartacea è uno strumento di lavoro affidabile. Tutto vi trova posto: date di compleanni, scadenze e appunti di ogni genere. Alla creatività non è posto nessun limite. Nell’assortimento di cartoleria si può trovare il calendario adatto a ogni necessità: in formato alto o largo, con la suddivisione per giorno o per settimana, in un design più appariscente o più discreto.
*Disponibili in diversi colori e disegni
Papeteria Agenda A7 Mini Piano settimanale* Fr. 5.30
Papeteria Agenda A6 Basic Piano settimanale* Fr. 7.90
Papeteria Agenda A6 Design Piano settimanale* Fr. 8.50
Papeteria Agenda A5 Piano giornalilero* Fr. 9.80
Papeteria Agenda A5 DIY Piano settimanale* Fr. 12.80
Papeteria Agenda A5 Wiro Piano settimanale* Fr. 13.80
Papeteria Agenda Larga Print Piano settimanale* Fr. 7.90
Papeteria Agenda orizzontale Piano giornaliero* Fr. 6.90
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Idee e acquisti per la settimana
Cartoleria
Giornate ben organizzate
Con le pratiche agende e i calendari per le scadenze, le persone attive mantengono il controllo delle loro giornate di lavoro. Il design vario nell’assortimento dei prodotti di cancelleria permette ad ogni persona di trovare il modo migliore per organizzare l’anno nuovo
Il marchio FSC (Forest Stewardship Council) indica prodotti che derivano da coltivazione responsabile delle foreste, con attenzione rivolta all’uomo e alla natura. Parte di
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Idee e acquisti per la settimana
Azione 30%
John Adams Piumino da uomo Colori: petrolio, ardesia, blu marine, nero, taglie S–XXL* Fr. 48.30 invece di 69.–
su tutto l’assortimento di abbigliamento per uomo e donna escluse cinture, borse, calze, biancheria intima e SportXX dal 17 al 23.10
John Adams Piumino da uomo Colori: blue acciaio, grigio, antracite, oliva, taglie S–XXL* Fr. 48.30 invece di 69.–
Ellen Amber Piumino da donna Colori: ghiaccio, antracite, prugna, petrolio, nero, taglie S–XXL* Fr. 48.30 invece di 69.– Ellen Amber e John Adams
Calde e leggere come una piuma
Le giacche di Ellen Amber e John Adams sono imbottite con piume di produzione sostenibile e tengono molto caldo nonostante siano leggerissime. Ora sono disponibili in nuovi colori alla moda
I piumini non solo tengono un bel caldo, ma sono anche belli. Inoltre si possono arrotolare e comprimere nei loro sacchetti. Qualcosa di molto pratico da portarsi in giro. Le giacche sono disponibili in diversi colori alla moda e nei giorni più freddi si possono indossare anche sotto il cappotto. L’imbottitura è composta di piume d’alta qualità prodotte in modo sostenibile, che isolano ottimamente. Le giacche sono facili da curare e possono essere lavate, possibilmente con un detersivo speciale per piume. Inoltre, si dovrebbero mettere nell’asciugatrice assieme a diverse palline da tennis, che impediscono che le piume si appiccichino tra loro, mantenendo così inalterato il volume delle giacche. MM
Test Jacqueline Vinzelberg; Foto Juventino Mateo Leon
Ellen Amber Piumino da donna Colori: petrolio, salvia, blue notte, celeste, taglie S–XXL* Fr. 48.30 invece di 69.–
* Nelle maggiori filiali Migros
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Idee e acquisti per la settimana
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I piumini non solo tengono un bel caldo, ma sono anche belli. Inoltre si possono arrotolare e comprimere nei loro sacchetti. Qualcosa di molto pratico da portarsi in giro. Le giacche sono disponibili in diversi colori alla moda e nei giorni più freddi si possono indossare anche sotto il cappotto. L’imbottitura è composta di piume d’alta qualità prodotte in modo sostenibile, che isolano ottimamente. Le giacche sono facili da curare e possono essere lavate, possibilmente con un detersivo speciale per piume. Inoltre, si dovrebbero mettere nell’asciugatrice assieme a diverse palline da tennis, che impediscono che le piume si appiccichino tra loro, mantenendo così inalterato il volume delle giacche. MM
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 ottobre 2017 • N. 42
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Idee e acquisti per la settimana
Excellence
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Gli yogurt di Excellence sono conosciuti e apprezzati per la loro consistenza cremosa e per la grande quantità di frutta. A renderli tanto golosi è il finissimo yogurt al naturale che ricopre delle irresistibili composte di frutta dal sapore intenso e fresco. Durante la stagione invernale l’assortimento si completa con una deliziosa Special Edition alle ciliegie. È disponibile sugli scaffali del reparto refrigerati solamente da ottobre a marzo.
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sugli Excellence Joghurt dal 17 al 30.10
Excellence Joghurt Special Edition Ciliegia 150 g Fr. –.95 Nelle maggiori filiali Annuncio pubblicitario
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Minimo d’acquisto CHF 6.–
*Candeline, dischi, decorazioni, ecc. acquistate in filiale).
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Caffé espresso/espresso macchiato 2x1
Minimo d’acquisto 15.–
Caffé espresso escluso.
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