Anche gli uomini devono prendersi cura della propria salute sessuale, ne parliamo col dottor Paolo Broggini
Il Regno Unito ha chiuso l’ultima centrale termoelettrica a carbone e continua la sua transizione green
ATTUALITÀ Pagina 17
Richard Pryor, noto per essere il più grande stand-up comedian americano, anticipò il woke
CULTURA Pagina 25
Israele-Onu, cresce la tensione
Oltre i quattromila metri, il Gran Paradiso: reportage da una scalata sulla più alta vetta d’Italia
TEMPO LIBERO Pagine 42-43
Una pace più lontana che mai
«Pace non è volersi bene, come pensano in molti. Pace è già non ammazzarsi, semplicemente ignorarsi, facendo finta di nulla», disse una volta lo scrittore israeliano Amos Oz, quando confrontato con la allora precaria (nel frattempo esplosa) situazione del suo Paese. «Per essere in pace non è necessario guardarsi negli occhi, ci si può scaldare anche sedendosi schiena contro schiena, un po’ come, qui in Svizzera, facciamo tra regioni linguistiche diverse», aveva invece affermato lo scrittore zurighese Adolf Muschg. Forse quello che i due intellettuali intendevano, è che la pace si regge su un equilibrio talmente precario che non è il caso di caricarla né da una parte né dall’altra, perché poi, come dimostrano i fatti della vita, le cose non vanno mai come invece ce le si aspetta.
Queste affermazioni risalgono a un paio di decenni fa, e rilette con gli occhi di oggi, ma soprattutto con la consapevolezza di quanto sta avvenendo nemmeno poi tanto distante da noi, hanno ormai quasi il sapore di un’amara utopia. Così come, in fondo, c’è un senso di amarezza anche nel Premio Nobel per la Pace di quest’an-
no, conferito all’organizzazione giapponese Nihon Hidankyō, composta dai quei superstiti di Hiroshima e di Nagasaki che nell’agosto del 1945 furono folgorati dal pikadon (pika in giapponese è il lampo, don il tuono), l’esplosione nucleare che ne avrebbe segnato le vite per sempre. Come ha sottolineato il Comitato del Premio Nobel, il fatto che negli ultimi 80 anni non siano state utilizzate armi atomiche è incoraggiante, e da ricondursi in parte anche agli «sforzi straordinari di Nihon Hidankyo, e di altri rappresentanti degli Hibakusha», ossia i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki, «che hanno contribuito in grande misura alla creazione del tabù nucleare. È perciò allarmante che oggi questo tabù contro l’uso di armi nucleari si trovi sotto pressione». Da qualche tempo il cosiddetto «tabù nucleare» è davvero sotto pressione, e su più fronti, perché se da una parte dall’Iran alla Russia, passando per la Corea del Nord, uomini accomunati da una stessa sete di potere sostituiscono potenziali trattative con l’inventario delle proprie armi nucleari, dall’altra anche in Svizzera, anche dopo un lungo processo portato a termine dalla ex consigliera fe-
derale Doris Leuthard, si torna a parlare di nucleare, seppur in campo energetico. In un’epoca che dovrebbe essere impostata sulla transizione green da tempo, e dove molti, pur non avendo vissuto guerre, ricordano Chernobyl, è dunque saltato un grande tabù. Sul tavolo delle discussioni è ritornata l’idea della centrale atomica come sorta di panacea, in barba al pericolo – a oggi tutt’altro che scongiurato – della guerra, che con il nucleare può impattare in qualsiasi momento, come ha più volte quasi timidamente cercato di ricordare l’AIEA (International Atomic Energy Agency) riguardo a Zaporizhzhia.
Forse dobbiamo entrare in un’ottica di equilibri nuovi (per non dire assurdi, o inesistenti), del tutto diversi da ciò che abbiamo visto e vissuto alla fine del secolo scorso; e questo non solo in campo bellico o energetico: le regole stanno inesorabil-
mente cambiando, e allo stesso tempo nulla sembra scuoterci più di tanto. Il rischio, però, è che per ogni tabù che salta, ne salterà un altro, e in questo gioco al rialzo, dove ora è coinvolto quasi con disinvoltura il nucleare, a diventare tabù sarà sempre più la pace stessa.
Lo ha ricordato bene Domenico Quirco sulla «Stampa», quando, al netto di tutto il dovuto rispetto per Nihon Hidankyō, afferma che «è contro questa Guerra normale e globale a cui ci stiamo abituando e rassegnando, contro questa Guerra giusta, giustificata, auspicata come nuova igiene del mondo, nostalgia di barbarie, che i cinque giurati di Oslo avrebbero dovuto lanciare un urlo furioso, un esplicito stato di accusa». Un Nobel per la Pace sotto forma di urlo avrebbe sicuramente fatto più rumore. Ma ne siamo poi così certi?
Federico Rampini Pagina 15
Simona Sala
Fondazione Diamante e Migros Ticino, un sodalizio che dura da 35 anni
Info Migros ◆ Era il 1989 quando iniziava una collaborazione cresciuta con gli anni
35 anni rappresentano un traguardo importante, nel nostro caso i tre decenni e mezzo di collaborazione tra la Fondazione Diamante, impegnata da sempre nel sostegno e nell’accompagnamento di persone adulte disabili sia nell’ambito lavorativo sia in quello abitativo, e Migros Ticino. Abbiamo incontrato l’educatrice sociale Karolina Sokala e Stefania Daini, responsabile del laboratorio sito nella Centrale di Sant’Antonino, per illustrarci le sfide e i traguardi raggiunti in questo positivo sodalizio.
Come è nata la collaborazione?
Il laboratorio integrato Migros, inizialmente chiamato il «gruppo integrato», ha preso vita nell’anno 1989 grazie alla collaborazione tra la Fondazione Diamante e la Cooperativa Migros Ticino. Inizialmente si trattava di un piccolo gruppo di persone che, affiancato da un operatore, si occupava di compiti legati alla pulizia dei veicoli e di alcuni lavori nel magazzino dei coloniali e nel reparto frutta e verdura. Questo nella sede di S. Antonino.
In quali settori siete attivi?
Oggi una dozzina di collaboratori a beneficio di una rendita dell’Assicurazione invalidità del laboratorio operano in diversi reparti dell’azienda, sia all’interno della centrale a S. Antonino, sia negli spazi esterni. L’organizzazione del laboratorio permette di offrire compiti di vario grado di complessità e in spazi diversi. Poiché la nostra presenza non si limita a un solo settore, possiamo affermare di essere ben inseriti in questo articolato contesto, o meglio, in più microcontesti con le loro spe-
cificità, le loro regole, i loro processi e il personale. Per esempio, all’ecocentro si prendono in consegna i materiali di scarto, soprattutto quelli riciclabili, che vengono poi smaltiti in appositi container. Nel reparto logistica ci si occupa principalmente dello smistamento delle casse per il trasporto merce, e nel garage del lavaggio dei camion. All’interno della centrale amministrativa, ci si occupa della sistemazione delle isole ecologiche – dove viene separato il materiale riciclabile dai rifiuti urbani – e dello smistamento e della consegna della corrispondenza. Fra le molteplici attività svolte dai collaboratori della Fondazione Diamante, vi sono anche la vuotatura dei cestini (una cinquantina), il riordino dei carrelli per la spesa, dei cestini e dei trolley all’interno della filiale della Cooperativa Migros sempre a Sant’Antonino, e la pulizia dei parcheggi. Inoltre, a Locarno un collaboratore è inserito in filiale e si occupa dell’esposizione della merce. Siamo anche attivi in alcuni progetti specifici, come la preparazione dei «Cesti Nostrani» su ordinazione online, oppure quelli nei negozi Migros in Ticino durante il periodo natalizio.
I feedback come sono?
Buoni e stimolanti, perché questo «laboratorio diffuso» è capace di rispondere alle esigenze della Cooperativa Migros così come alle aspettative dei collaboratori della Fondazione di affrontare un percorso lavorativo con più compiti dalle svariate difficoltà.
L’anniversario è anche occasione per delineare nuovi progetti? Per l’anno prossimo le idee e i pro-
getti non mancano, per poterli implementare con successo devono essere ponderati e considerate le specificità del contesto, le esigenze della Cooperativa, della Fondazione e dei suoi singoli collaboratori. Dunque, si deve pensare alle diverse esigenze, alle risorse, alle possibili difficoltà. Non dobbiamo però dimenticare anche la specificità della Fondazione che con i suoi laboratori è un’impresa sociale che combina la produzione di beni e servizi con la promozione di percorsi socio-lavorativi inclusivi di persone a beneficio di una rendita AI. Oggi, le mansioni e i compiti affidatici ci permettono di articolare positivamente queste due complementari dimensioni, restando sempre aperti a nuove sfide e opportunità.
Quali saranno le sfide dei prossimi anni? Il laboratorio, come il contesto in cui opera, è sempre più confrontato con sfide, grandi o piccole, legate all’evoluzione del mercato, della Cooperativa Migros e delle esigenze di accompagnamento. Questo necessita capacità di adattamento e flessibilità. Il contesto dinamico e mutevole è la sfida più complessa anche per il nostro laboratorio – per operatori e collaboratori a beneficio di una rendita dell’AI e necessita di creatività, perseveranza e dialogo con tutte le persone che operano in Migros: una collaborazione quella tra la FD e Migros che costituisce un’opportunità inclusiva significativa e importante. Dal nostro punto di vista, sarebbe auspicabile continuare a col-
laborare alla promozione di contesti lavorativi aperti e flessibili in modo da valorizzare tutte le persone coinvolte in questo prezioso progetto socio-lavorativo.
Individuare le abilità delle persone vuol dire anche aumentarne l’autostima, dando un senso diverso all’esistenza.
Ogni persona dà un proprio significato alle situazioni in cui si trova e alle esperienze lavorative che vive quotidianamente. Per qualcuno è utile avere una giornata strutturata da vari impegni, per altri l’aspetto più rassicurante e valorizzante è dato dalle relazioni significative sviluppatesi con l’uno o l’altro collega. Comunque, l’obiettivo del laboratorio è dare la possibilità di avere un impiego, un’opportunità per sviluppare o riallenare diverse competenze professionali, per promuovere formazioni necessarie nel settore della logistica e della vendita (competenze tecniche, organizzative, comunicative e relazionali). Infine è importante sottolineare che le abilità e l’impegno dimostrate dai collaboratori sono dispiegate per svolgere attività necessarie e utili da parte di collaboratori a beneficio di una rendita con attenzione e buoni risultati qualitativi.
Con quale spirito affronterete i prossimi 35 anni di collaborazione? Malgrado le sfide, anche economiche, non siano indifferenti, oggi in Ticino siamo positivi e guardiamo al futuro cercando di rinnovare sempre i nostri interventi e i nostri compiti e questo in partenariato con Cooperativa Migros Ticino e speriamo, con sempre più aziende in Ticino./Si.Sa.
ACTIV FITNESS, 10 anni e nessuna voglia di fermarsi
Info Migros ◆ La catena più performante di centri fitness della Svizzera festeggia i suoi primi 10 anni in Ticino: un bilancio ottimo e molti progetti per il futuro
Sono ormai dieci anni che ACTIV FITNESS è diventata una presenza fissa (e diffusa sempre più capillarmente) sul nostro territorio. E non è un caso, poiché negli statuti Migros è ancorato l’impegno costante ed esplicito nella promozione della salute della popolazione attraverso tutta una serie di iniziative. La fortunata «avventura» di ACTIV FITNESS in Ticino è iniziata nel 2014 su iniziativa della Cooperativa Migros Ticino. A questo grande successo hanno fatto seguito le palestre di Lugano (2015), Bellinzona (2016), Mendrisio (2018), Vezia (2019) e Giubiasco (2022). La fase di espansione però non è ancora terminata, sono infat-
ti pianificate tre nuove aperture nel 2025: in ordine di tempo, Riazzino, Biasca e Serfontana, che permetteranno di coprire tutto il territorio del Cantone.
Le palestre ACTIV FITNESS possono vantare al proprio interno personale altamente qualificato sempre presente, attrezzatura all’avanguardia per l’allenamento di forza, resistenza, mobilità, agilità, e benessere psicofisico generale. Grazie all’importanze affluenza, i centri sono anche un luogo privilegiato di aggregazione e per stringere nuove amicizie. In ogni centro si trova inoltre un’ampia scelta di corsi di gruppo con le discipline più disparate (dal body pump allo zumba, passando per pilates, body toning, GAG, vital-fit, postural, kettlebell, ecc.), nonché una zona wellness (sauna, bagno turco o bio-sauna) e uno spazio bambini con sorveglianza. Oggi, a livello nazionale, ACTIV FITNESS è presente con oltre 121 sedi, rappresentando così l’unico offerente con centri fitness in tutte e tre le regioni linguistiche del Paese, oltre ad essere la catena di centri fitness con il più grande numero
di soci di tutta la Svizzera. ACTIV FITNESS gode della certificazione Qualitop (e dunque chi si iscrive può richiedere un contributo ai
I centri ACTIV FITNESS vi aspettano il 26 ottobre per l’Open Day.
Per festeggiare insieme
Fra le iniziative previste per celebrare questo ragguardevole traguardo, segnaliamo l’imperdibile Open Day previsto sabato 26 ottobre, durante il quale sarà possibile visitare gratuitamente tutte le palestre ACTIV FITNESS in Ticino, così da conoscere al meglio i servizi offerti. Si potrà partecipare ai corsi di gruppo così come praticare un allenamento individuale (previa prenotazione anticipata), al fine di capire le modalità di allenamento più congeniali alle proprie esigenze. Chi deciderà poi di stipulare un abbonamento annuale con uno dei centri fitness (garantendosi così l’accessibilità in tutte le palestre ACTIV FITNESS della Svizzera della rispettiva categoria), potrà godere di uno sconto-giubileo di 100 CHF. L’Open Day sarà occasione per partecipare al concorso ACTIV FITNESS che metterà in palio 6 abbonamenti annuali, uno per ognuna delle sedi ticinesi.
costi dell’abbonamento da parte di molte casse malati) e può vantare i massimi standard di igiene in tutti i suoi centri.
Tra i vari compiti di cui si occupa la FD c’è anche la pulizia dei camion.
(Didier Ruef)
SOCIETÀ
Allenare le emozioni in famiglia
Un ciclo di incontri alla Libreria del Tempo di Savosa rimette l’emotività al centro del rapporto tra genitori e figli
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La violenza è contagiosa?
Lo studioso svizzero Nidesh Lawtoo riflette sugli effetti di film e videogiochi violenti partendo dalle idee degli antichi filosofi greci
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«Men’s health»: maschio curati!
Corippo guarda al futuro
Il progetto di Albergo diffuso è ormai una realtà, ma la rinascita del piccolo villaggio rimane una sfida culturale
Salute ◆ Come la donna, l’uomo deve prendersi cura della propria salute sessuale a tutte le età
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«Adolescenza, età adulta ed età matura: tre fasi della vita in cui l’uomo ha il dovere di verificare la sua salute, anche quella sessuale, perché ogni età ha proprie peculiarità, in termini di desideri, esigenze, salute e prevenzione delle malattie legate alla sfera maschile». A parlare è l’urologo e andrologo Paolo Broggini che ribadisce fermamente l’importanza di mantenere un faro puntato anche sulla sessualità, la sfera solitamente più segreta della nostra vita. Un ambito nel quale, chiosa lo specialista: «Per quanto attiene all’uomo c’è quasi tutto da fare perché i fatti dimostrano come il maschio sia “geneticamente” poco incline alla prevenzione». A supporto di ciò, parla dello studio del profilo psicologico dell’uomo, la cui percentuale propensa a curarsi della propria salute sessuale è molto limitata: «Quasi assente nei giovani, nell’età adulta va ancora peggio perché l’uomo è tutto assorbito dalla propria carriera e non ha tempo “per queste cose”, mentre migliora finalmente nella terza età, complice il timore della malattia o della morte». Un atteggiamento sostanzialmente da subito diverso da quello della donna: «Dalla prima mestruazione, per prevenzione e cure periodiche le ragazze sono in genere accompagnate dal ginecologo di famiglia da un genitore. Ma i ragazzi? Purtroppo no: basti pensare che i maschi effettuano visite di prevenzione cinque volte meno delle loro coetanee. Per non parlare di quanto sia poco nota a giovani e meno giovani la figura dell’andrologo (lo specialista della sessualità maschile, ndr.)». Eppure l’OMS ha da tempo sancito la centralità della salute sessuale nell’ottica di un benessere globale della persona, invitando all’impegno di sensibilizzazione (delle famiglie e dei ragazzi) verso l’alfabetizzazione della sfera inerente la salute maschile e le relazioni intime. Quindi non pensiamo solo a Movember, il «mese coi baffi» dedicato all’importanza della prevenzione nell’ambito delle patologie maschili, e non solo al tumore prostatico e altre malattie della sfera urogenitale maschile, la cui insorgenza può però manifestarsi anche in giovane età: «Bisogna chinarsi su ogni fase della vita maschile perché ciascuna presenta le proprie necessità e merita la giusta attenzione e la migliore cura. Questo, a partire dalla prevenzione perché “prevenire permette di curare meglio”. Pare un luogo comune, e invece pensiamo già solo a quanto può incidere positivamente mantenersi in salute (non solo per la presa a carico ma anche in termini di spesa sanitaria) o trovare una patologia a uno stadio precoce, rispetto al dover curare un tumore che si trova a uno stadio già avanzato». Broggini invita a coltivare da subito quella che definisce «la spesso lati-
tante etica della salute del maschio», la cui pratica induce verso una migliore qualità di vita, compresa quella della sfera sessuale.
L’OMS invita a una maggiore alfabetizzazione della sfera inerente la salute maschile e le relazioni intime
Così invita ogni ragazzo, uomo adulto e uomo maturo, nel corso della propria vita, a sottoporsi a una semplice visita uro-andrologica come atto di semplice prevenzione in base alle fasce d’età che, ribadiamo, presentano necessità diverse. A cominciare da una semplice visita uro-andrologica verso i 14 anni: «È l’età pre-puberale in cui l’uomo raggiunge la maturità sessuale.
L’apparato maschile, complesso e sofisticato organo multifunzionale, subisce una fase di maturazione proprio durante la pubertà (dai 9 ai 14 anni).
Contemporaneamente, in questo periodo delicato della propria vita, il giovane ragazzo inizia a subire una serie di impulsi mediatici, sociali e relazionali che vanno a formare autostima e personalità». Sono le premesse con cui
il medico invita a riflettere sugli impulsi dei media, «spesso corrotti da un messaggio foriero che sublima la soddisfazione del giovane con un ideale di sessualità vincente, esclusiva, superdotata». Ne nasce un senso di inadeguatezza non corrispondente a una sessualità «sana», che per il giovane può comportare numerose difficoltà nel relazionarsi con la propria sessualità e con la/il partner, sino a sfociare nella dismorfofobia: «Una situazione di disagio psichico derivante da un falso convincimento di avere genitali di piccole dimensioni». Broggini spiega come questo può essere colto, chiarito e smascherato da una semplice visita andrologica. E non solo: «A questa et la valutazione andrologica accerta tre aspetti fondamentali: raggiungimento della maturità sessuale, problematiche funzionali (ad esempio fimosi, testicoli ritenuti, varicocele), aspetti della sessualità (oltre a dismorfofobia, eiaculazione precoce e disfunzione erettile)». La prima visita andrologica è come un primo passo per evitare di generare problemi, falsi miti e pregiudizi insorgenti dalla mancanza di rassicurazione del ragazzo sulla sua raggiunta maturità sessuale e sulla sua «normalità».
E veniamo all’uomo adulto: «Spesso così stressato che, anche in questo ambito, pensa di non avere tempo da dedicare alla cura di sé. Allora, bisogna creare nella sua mentalità una sorta di “comfort zone” dove inculcare l’etica del dedicarsi alla propria salute, nel rispetto del proprio corpo e nella prevenzione», proprio come fa la donna. E sarebbe sufficiente una valutazione dallo specialista una volta all’anno: «Una visita urologica per individuare potenziali problematiche urologiche (prostata, calcolosi), e valutare la parte sessuologica (disfunzione erettile e calo della libido). Basti pensare che la calcolosi (non sempre sintomatica) colpisce il 30% delle persone e la colica renale rappresenta il primo accesso più frequente al Pronto soccorso urologico». Emerge l’importanza della prevenzione: «In questo caso, una semplice ecografia permette di capire se c’è questo deficit metabolico renale». Per quanto riguarda la prostata, la visita periodica aiuta a individuare i primi problemi già attorno ai 30 anni: «Infiammazioni croniche (pensiamo all’aumento delle malattie sessualmente trasmissibili come, ad esempio, ureaplasma e chlamidia, HPV nel giovane di 25-30 anni); ver-
so i 50-60 anni l’ipertrofia della prostata con relativi problemi di minzione frequente, e il cancro alla prostata che potrebbe insorgere nel 16 per cento degli uomini. Senza tralasciare altri ambiti tumorali dell’età adulta e matura». E arriviamo alla cosiddetta età matura evocata ogni anno a novembre, mese dedicato alla salute maschile. Pensiamo al tumore prostatico, il più comune negli uomini (rappresenta il 30 per cento dei tumori maschili) che in Svizzera è la terza causa di morte cancro-specifica maschile ed è responsabile di circa 1400 decessi all’anno, anche se fortunatamente oltre il 60 per cento dei pazienti riesce a sconfiggerlo definitivamente: «Servono però una diagnosi precoce e l’identificazione del rischio di insorgenza, come pure delle forme più aggressive». La visita uro-andrologica, a quest’età, contempla una presa a carico globale: «Un tempo nell’uomo in età decadevano libido e disfunzione erettile (fino al 50% degli over 70) mentre oggi, che la salute e la qualità di vita sono sensibilmente migliori rispetto al passato, grazie ai progressi della medicina l’uomo maturo rivendica a giusta ragione il diritto di mantenere pure un’attività sessuale soddisfacente per la coppia».
Novembre è il mese dedicato alla prevenzione del tumore alla prostata e delle malattie urogenitali maschili. (Freepik.com)
Maria Grazia Buletti
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Prelibatezza svizzera dal 1969
Attualità ◆ Il saporito formaggio da raclette Raccard della Migros quest’anno festeggia i 55 anni di esistenza Alcune curiosità su questa marca leader nel mercato svizzero
Azione 20%
Introdotta sul mercato nel 1969, Raccard è oggi diventata la marca da formaggio da raclette più popolare in Svizzera. Se agli inizi se ne vendevano appena 15’000 kg all’anno, oggi le vendite annuali superano largamente i 3 mio di kg.
L’assortimento iniziale Raccard comprendeva solamente la varietà nature a fette e i pezzi interi in blocco. Nel corso degli anni la gamma viene ampliata con diverse golose varianti aromatizzate, che riscontrano ben presto un buon successo presso i consumatori. Oggi la scelta include una decina di tipologie, come Raccard porcini, peperoncino Espelette, pepe, paprica, affumicato, chorizo e, come novità, finocchio. La linea base di formaggio Raccard è stagionata 4-5 mesi, mentre Raccard Surchoix può vantare di una stagionatura fino a 7 mesi.
Su tutto l’assortimento di formaggio Raccard a fette aromatizzato e gusti assortiti, a partire da 2
Raccard è il nome francese dei piccoli fienili o granai di legno costruiti su delle basi di pietra che costellano le alpi vallesane, Cantone dove la raclette è regina e una specialità per antonomasia. Per la sua marca premium di formaggio da raclette, Migros ha scelto questo nome nel 1969. Nel primo logo il nome Raccard era scritto con lettere dalla forma tondeggiante, che ben rappresentava tutta la cremosità del formaggio.
Gli accompagnamenti ideali
Per alcuni la raclette è stata scoperta nella Svizzera primordiale dai primi confederati, per altri invece nasce in Vallese, secondo un documento dell’anno 1574. Sta di fatto che la parola «raclette» (dal verso francese «racler», in italiano raschiare) è apparsa per la prima volta nel 1909 in una canzone popolare del vallesano Oscar Perollaz.
Al giorno d’oggi esistono vari modi per preparare la raclette. Originariamente le mezze forme di raclette venivano poste a fondere direttamente vicino al fuoco e raschiate nel piatto. Gli apparecchi elettrici fanno la loro apparizione negli anni Cinquanta e Migros lancia il grill elettrico Raccard negli anni Settanta, una specie di tostapane in cui il formaggio cola direttamente sul piatto posto sotto l’apparecchio. Sempre negli anni Settanta vengono lanciati sul mercato gli apparecchi elettrici che possono accogliere delle mezze forme e dei quarti di forma, come anche gli ormai diffusissimi fornelli con i pentolini monoporzione e placca grill superiore per cuocere i complementi di verdure e carne. Negli anni Duemila si diffonde il rechaud «romantico» che funziona senza corrente elettrica per preparare la raclette ovunque si desideri, dove il formaggio viene preparato con l’ausilio di candele poste sotto il pentolino. Nel 2014 l’azienda casearia Mifroma del gruppo Migros ha stabilito il guinness dei primati con il più lungo forno da raclette al mondo, con un apparecchio a candele di ben 100 metri. Infine, esistono anche dei pentolini specifici adattati per la griglia, perfetti per preparare il proprio piatto preferito anche in estate.
Oltre alle classiche patate lesse con
armonizza ed esalta al meglio la sapidità del formaggio fuso. Tra le moltissime proposte presenti sugli scaffali di Migros Ticino, vi consigliamo per
firma Ponti. Infine, sono naturalmente imprescindibili i tipici cetriolini e cipolline sottaceto Condy di produzione svizzera.
Cipollette all’aceto balsamico Peperlizia 220 g Fr. 3.40
Cetrioli alle erbette Condy 520 g Fr. 5.90
Funghi porcini in olio Dama 200 g Fr. 13.60 Carciofini in olio Dama 300 g Fr. 9.30
Ortoghiotto Peperlizia 330 g Fr. 5.30
Per vegan lovers
Novità ◆ Tre nuove bontà V-Love vanno ad arricchire l’assortimento vegano Migros
Wing, Pops e Sweet Potato Puffs: questi sono i tre nuovi prodotti appena entrati a far parte dell’ampia gamma vegana della marca propria V-Love. Disponibili nel frigo degli articoli convenience dei principali supermercati, sono tutti a base di proteine vegetali (frumento, soia, piselli e patate dolci) e si preparano in pochi minuti riscaldandoli sia in forno sia in padella.
La marca V-Love della Migros è sinonimo di alimentazione vegana o vegetariana gustosa e variegata, dedicata non solo a chi segue una dieta vegetale equilibrata, ma anche a coloro che desiderano scoprire nuovi sapori o variare il proprio menu quotidiano. I prodotti sono tutti certificati con il marchio V (V-Label) per un’alimentazione vegana o vegetariana. Le ricette sono state sviluppate a partire da ingredienti di prima scelta. Oltre alle tre new entry, V-Love alla Migros propone oltre cento prodotti in ogni settore alimentare e l’assortimento è costantemente in evoluzione.
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V-Love Wings
V-Love Pops
V-Love Sweet Potato Puffs 190 g Fr. 4.50
In vendita
nelle maggiori filiali Migros
Autunno, tempo di torte salate
Il genitore allenatore emotivo
Famiglia ◆ Un ciclo di incontri alla Libreria del Tempo di Savosa riporta le emozioni al centro del rapporto tra genitori e figli
Stefania Hubmann
Un albo sulle emozioni, un altro sulla rabbia o ancora uno sulla ribellione, tutti destinati a bambini piccoli, ai quali aggiungere un libro sull’educazione emotiva per i genitori, una guida per «sopravvivere a un figlio adolescente» e altri titoli dello stesso tenore. Le crescenti richieste di questi volumi, soprattutto da parte di mamme, hanno spinto la Libreria del Tempo di Savosa (www.lalibreriadeltempo.com) a organizzare per la prima volta il corso «Intelligenza emotiva famiglia», una serie di incontri animati dal formatore di adulti Salvatore Benvenuto. Discussioni e condivisione delle proprie esperienze hanno quale punto di partenza il libro dello psicologo statunitense John Gottman Intelligenza emotiva per un figlio che promuove il concetto di «genitore allenatore». Riportare le emozioni al centro del nucleo familiare (fra genitori e figli ma pure all’interno della coppia) permette di instaurare relazioni più serene e costruttive. Iniziato a metà settembre, il corso si protrarrà per una decina di incontri, dedicati ai rispettivi capitoli del libro. Sandra Zollinger della Libreria del Tempo e Salvatore Benvenuto spiegano i benefici di questo approccio in particolare di fronte al problema numero uno dei genitori nella nostra società: i social media.
Gli incontri sono momenti di condivisione che partono dal libro Intelligenza emotiva per un figlio di John Gottman
Ancora una volta il mondo digitale è al centro del dibattito. Non a caso in libreria sono disponibili nuovi titoli, come Genitori social ai tempi di tik tok e onlyfans e La generazione ansiosa, che si affiancano ai testi di Daniel Goleman e Alberto Pellai, due figure di riferimento, assieme a Gottman, sull’intelligenza emotiva applicata al contesto familiare. Nella Libreria del Tempo – un nome che riflette lo spirito del negozio – Sandra Zollinger, la collega Giuditta Bizzini e l’apprendista Gioia li propongono rispondendo all’interesse in prevalenza delle clienti e prendendosi il tempo di discutere con loro. Di recente è stata ricavata una sala accogliente e discreta che favorisce le conversazioni, oltre ad ospitare eventi come l’attuale formazione. «Quest’ultima – spiega Sandra Zollinger – è partita con un gruppetto di mamme che sono però riuscite a coinvolgere anche i rispettivi mariti, attesi per il secondo incontro. Siamo in numero limitato proprio per poter dar voce alle esperienze e ai problemi di tutti i partecipanti».
Non sempre i genitori sono pronti a mettersi in discussione quando si tratta dell’educazione dei propri figli, ma in realtà gli incontri non si soffermano sui possibili «errori» di mamme e papà, quanto piuttosto sulle soluzioni alternative per instaurare una relazione diversa con i figli. Così si esprime Salvatore Benvenuto che da anni si occupa di questa tematica. Aggiunge il formatore: «I genitori tendono a riprodurre inconsapevolmente il modello che hanno vissuto da bambini, ma il contesto è cambiato e tutti sono di fronte a nuove sfide, fra le quali spicca quella digitale». Per instaurare una buona rela-
zione con i figli l’essenziale non risiede nel non sbagliare mai, perché ciò è impossibile, ma nel saper riparare l’errore commesso. Ancora Benvenuto: «Gottman identifica diversi tipi di genitore, mostrando come il genitore allenatore emotivo riesca, in caso di contrasto, a spiegare al figlio o alla figlia ciò che vive, essendo consapevole delle proprie emozioni e di quelle altrui. In questo modo mostra che anche i genitori hanno il diritto di sbagliare. Riprendere la discussione quando si è tutti più calmi è ad esempio una buona strategia per evitare di inasprire lo scontro imponendo punizioni controproducenti. Quando si è arrabbiati non si dovrebbero prendere decisioni delle quali poi pentirsi in seguito. Fondamentali per crescere un figlio o una figlia che sappia prendere consapevolezza dei propri sentimenti sono da un lato i primi anni di vita (fino a 8/9 anni) e dall’altro il contesto familiare nel quale si trascorre questo tempo». Di qui il valido contributo anche per i bambini di letture come quelle citate in apertura. Il nostro interlocutore constata inoltre come anche la scuola si stia muovendo in questa direzione ma l’educazione principale avviene in famiglia con i genitori che fungono da esempio tramite i loro comportamenti. Ciò vale quindi anche per l’impiego degli strumenti digitali e di conseguenza dei social media. I due intervistati concordano nell’affermare che i social media, nati o perlomeno presentati all’inizio come mezzi per collegare le persone, sono oggi potenti strumenti di controllo sociale e di pubblicità i cui benefici ricadono sui loro promotori. Per Salvatore Benvenuto è necessario che siano innanzitutto i genitori a essere coscienti dei limiti degli strumenti tecnologici, «attraverso i quali il contatto avviene utilizzano solo due sensi (vista e udito), mentre l’incontro fisico li contempla tutti. Nella comunicazione in presenza si vive infatti l’altra persona a tutto tondo. Non si può però modificare l’attuale contesto nel quale cresce la generazione dei più piccoli, quindi sono le mamme e i papà che devono cambiare il loro comportamento individuale ed educativo». Il genitore allenatore emotivo è tale quando ha capito il modello educativo con il quale è cresciuto e riesce ad
Giovani e rabbia
Conferenze ◆ Intervista allo psicoterapeuta Alfio Maggiolini, ospite alla SUPSI di Manno
Guido Grilli
Il titolo del libro dice già molto, ma non tutto: Pieni di rabbia. Comportamenti trasgressivi e bisogni evolutivi degli adolescenti. Ne è autore Alfio Maggiolini, psicoterapeuta italiano tra i fondatori dell’istituto milanese il Minotauro e che il 19 novembre alle 17.30 sarà ospite alla SUPSI di Manno di un ciclo di conferenze pubbliche a ingresso gratuito sul disagio adolescenziale, rivolto principalmente a professionisti del settore, insegnanti e genitori.
Dottor Maggiolini, come stanno i giovani dal suo osservatorio?
fosse questo, significherebbe un eccesso di dipendenza e di prudenza.
Qual è dunque il segnale d’allarme?
andare oltre (se necessario) per guidare i figli nella crescita, permettendo loro di sviluppare ed esprimere ciò che provano. Un altro esempio citato dal formatore riguarda l’offesa subita dal genitore a causa di una risposta o un gesto dei figli. «Non bisogna concentrare l’attenzione solo sulla risposta o sul gesto sbagliato, ma cercare di capire quali sono le loro emozioni in queste circostanze. È necessario essere consapevoli che la reazione del genitore determina ciò che accade in seguito dal punto di vista delle azioni e della relazione fra le due parti». Gottman riassume i comportamenti dei genitori di fronte alle emozioni dei bambini in quattro categorie.
Così li riassume Salvatore Benvenuto: «Il genitore noncurante sminuisce, ignora o sottovaluta le emozioni dei figli, mentre è censore quando critica l’espressione dei sentimenti negativi e può arrivare a punire i figli per queste manifestazioni. Accetta invece le emozioni dimostrandosi empatico il genitore lassista che però non riesce a imporre loro una guida con relative limitazioni. Il genitore allenatore accetta le emozioni del bambino fissando dei limiti ad alcuni comportamenti e offrendogli un esempio concreto su come regolare i propri sentimenti».
Dopo due incontri introduttivi sull’intelligenza emotiva, la formazione entrerà nel vivo dei singoli temi tenendo in considerazione quanto emergerà dai racconti dei partecipanti. Madri e padri hanno visioni diverse sull’importanza dell’emotività in famiglia? Come trovare il proprio ruolo in modo da vivere relazioni serene? Come ridurre l’ansia di fronte a difficoltà che si pensa di non riuscire a gestire? Gli interrogativi dei genitori sono molteplici e il confronto delle esperienze personali con la guida di un formatore favorisce la consapevolezza e la possibilità di intraprendere nuovi percorsi. Nel corso saranno affrontati nell’ottica di Gottman aspetti quali i benefici dell’allenamento emotivo, la valutazione del proprio stile di genitori, le fasi-chiave di questo tipo di allenamento, le strategie per svilupparlo, la salute emozionale dei figli in momenti delicati come la separazione e il divorzio, il ruolo cruciale del padre e l’allenamento emotivo rispetto alle diverse fasi della crescita.
Gli adolescenti in generale negli ultimi anni stanno manifestando più segnali di disagio rispetto al passato. Una delle ipotesi è che probabilmente il Covid, creando una situazione di blocco delle esperienze, ha prodotto per tutti situazioni di maggiore disagio e in modo rilevante per gli adolescenti, perché vivono un’età in cui il bisogno di esperienze è maggiore che non per gli adulti. Gettando invece uno sguardo temporale più ampio, degli ultimi 20 anni, i giovani stanno mostrando complessivamente dei modelli d’ansia superiore: sono dunque più preoccupati, con vissuti di esclusione e difficoltà a costruire la propria identità. Una delle supposizioni è che Internet possa avere un effetto. Se il web da una parte allarga le possibilità di contatto col gruppo dei pari virtuale, dall’altra preclude le relazioni dirette. Internet lavora molto sull’idea del sentirsi inclusi, esclusi, sul confronto con gli altri che possono essere più potenti. Questa dinamica può rimandare a vissuti di esclusione e quindi a maggiori difficoltà nella costruzione dell’identità sociale. Inoltre per molti giovani il futuro e le risorse per poter costruire il proprio avvenire e la propria autonomia, sono aspetti più precari di quanto non avvenisse in passato.
Affrontiamo il tema della rabbia, che tra l’altro lei nel suo libro connota anche in termini positivi. Perché nell’adolescente e nel giovane adulto si manifestano sentimenti e azioni di rabbia?
Una certa propensione all’aggressività negli adolescenti è positiva perché serve allo sviluppo. Il fatto che alcuni giovani mettano in atto comportamenti a rischio, che si mostrino qualche volta un po’ impulsivi, che abbiano un po’ il desiderio di opporsi alle regole degli adulti, non è sempre un aspetto negativo. Perché se non ci
L’allarme deve scattare quando queste manifestazioni fisiologiche si trasformano in difficoltà e che, dunque, anziché favorire lo sviluppo del giovane, creano un blocco. Parlo di adolescenti particolarmente violenti e impulsivi, che si mettono in pericolo. E ciò può dipendere da molte variabili: di personalità, vale a dire con storie o esperienze infantili negative; familiari, ossia che non hanno una famiglia sufficientemente solida o con scarse risorse economiche e che avvertono dunque differenze con i coetanei privilegiati; e sociali, che si traducono cioè in vissuti di esclusione.
Molti genitori confrontati con il periodo dell’adolescenza sono in difficoltà. Dove risiedono i maggiori ostacoli e quali tipi di aiuti esistono? È importante non aderire immediatamente al presupposto che l’obiettivo principale sia di controllare e attenuare la rabbia dell’adolescente, come se si trattasse di gestire le manifestazioni di questo disagio. Dal momento che la rabbia rappresenta una reazione a qualche cosa, ed è spesso l’espressione di una difficoltà a crescere e a realizzare i propri bisogni evolutivi, alcuni di loro la manifestano diventando tristi, altri si rinchiudono e si vergognano e altri ancora si arrabbiano. Quindi un aiuto che si può dare ai genitori è di capire di che cosa la rabbia sia espressione. Quali sono cioè le motivazioni di fondo. Qualche volta è facile capirlo, altre volte no. Prima di tutto perché gli adolescenti stessi non ne conoscono bene i motivi veri. Occorre dunque compiere uno sforzo di riflessione per risalire dapprima alle ragioni alla base di queste reazioni emotive e cercare di decodificarle. Il secondo aspetto è di capire che il problema dipende un po’ anche dal contesto in cui vive l’adolescente; mentre altri genitori (o gli attori dell’ambiente di vita allargato) dovranno invece porsi domande su di sé e chiedersi se stiano o meno regolando bene certi bisogni dei figli. La domanda di fondo è capire qual è il bisogno evolutivo bloccato alla base di certi comportamenti sintomatici. A questo punto si potranno finalmente trovare soluzioni e orientare l’adolescente a prendere nuove decisioni sulla sua vita.
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Che effetto hanno film e videogiochi violenti?
L’intervista ◆ Partendo dalle riflessioni degli antichi filosofi greci e risalendo fino alla contemporaneità, lo studioso svizzero Nidesh Lawtoo ha pubblicato due volumi per capire se la visione di questo tipo di intrattenimenti generi imitazione o catarsi
Carlo Silini
«Fingere» la violenza, rappresentarla per esempio nel mondo virtuale dei film o dei videogiochi senza metterla in atto nella realtà, può scatenare effetti violenti in chi vi assiste? Oppure la sua rappresentazione ha un effetto catartico? Lo svizzero Nidesh Lawtoo, filosofo e professore ordinario di letteratura e cultura moderna all’Università di Leida, in Olanda, quest’anno ha pubblicato per Mimesis edizioni i due saggi Violenza e catarsi. L’inconscio edipico. volume 1 e Violenza e contagio. L’inconscio mimetico, volume 2. Di cosa si tratta? L’abbiamo intervistato.
Prof. Lawtoo, come nascono questi libri?
L’idea è nata negli Stati Uniti, dove vivevo all’epoca e dove la violenza, anche le uccisioni di massa, succedono spesso. Un giorno accompagno mio figlio di quattro anni a scuola ma la scuola è chiusa. Torno a casa e riceviamo alcune e-mail rendendoci conto che un bambino di quattro anni, nella classe parallela di mio figlio, è stato ucciso: aveva trovato un’arma da fuoco carica a casa e probabilmente se l’era puntata addosso. Partito il colpo, è morto.
Uno shock.
Sì. E ho riflettuto sui cartoni animati dove si vedono personaggi tipo Bugs Bunny che si puntano una pistola al corpo. Si sparano alla testa ma l’effetto è divertente. Ho scoperto che c’è un dibattito accademico su questo. Se un bimbo trova un’arma carica in casa non ha necessariamente la capacità di distinguere tra finzione e realtà. Se ha visto il gesto in televisione e l’ha fatto ridere, il rischio di ripeterlo è reale.
Dai cartoni animati è passato ai film e ai videogiochi.
Esatto. Mi sono ristretto al tema, già molto largo, degli effetti della violenza mediatica sugli spettatori. Nel secolo scorso il dibattito concerneva soprattutto i film ed ora si è spostato verso i videogiochi.
Un tema è cruciale pensando ai ragazzi.
Anche per gli adulti. Viviamo in un’epoca digitale e i media si ramificano su Internet. Siamo tutti vulnerabili alle rappresentazioni di violenza. I videogiochi aggiungono una dimensione partecipativa: si preme il grilletto. Ciò accentua l’identificazione con l’aggressore, un fenomeno che lego al concetto antico di mimesi visto che siamo esseri imitativi o mimetici.
Dobbiamo temere le conseguenze della rappresentazione mediatica della violenza?
Già all’inizio della filosofia Platone e Aristotele ne discutevano. Ci sono due ipotesi: si possono avere effetti contagiosi, affettivi, quasi patologici, come sosteneva Platone. Oppure uno spettacolo tragico può generare ciò che Aristotele chiamava la «catarsi», un termine che si traduce spesso sbrigativamente con «purificazione» o «purgazione». Si parla spesso di contagio e catarsi senza sapere da dove vengono questi concetti. Sono molto difficili da tradurre in un linguaggio contemporaneo, ma le neuroscienze ci aiutano a capire come funziona il contagio mimetico.
Alla fine di queste ricerche lei cosa dice?
Il dibattito resta complesso, le ipotesi sono legate a due visioni diverse dell’inconscio. Una è legata al «metodo catartico» che Sigmund Freud sviluppò più di un secolo fa: cioè l’idea che la catarsi è da capire in modo terapeutico, come una valvola di sfogo di affetti violenti. Freud riprende un’interpretazione medica sviluppata da uno zio di sua moglie, Jakob Bernays, specialista di Aristotele. Poi la sostiene tramite la sua lettura del caso di Edipo Re, che discuteva già Aristotele. Edipo viene cacciato dalla città di Tebe, visto che si rende conto di avere ucciso suo padre e sposato sua madre. L’identificazione dello spettatore con il personaggio tragico genera, secondo Freud, una purificazione, uno sfogo delle emozioni patologiche o «edipiche».
Condivide questa visione?
Studiare la storia di questa ipotesi medica mi ha lasciato dubbioso. La maggior parte dei filologi contemporanei pensa che la catarsi per Aristotele non avesse nessuna connotazione medica. Gli spettatori di tragedie come Edipo re non avevano «complessi» e non erano malati. La catarsi aveva probabilmente qualcosa a che vedere con un’emozione di tipo estetico.
Un approccio non terapeutico, ma legato al gusto estetico, diciamo. Esatto. Per Aristotele la tragedia deve essere costruita in un modo tale che l’eroe parta da una posizione di superiorità. E poi, attraverso un cambiamento di sorte, viene – nel caso di Edipo – espulso dalla città. C’è un ribaltamento del protagonista che nella struttura del mito e del racconto genera l’effetto di catarsi della pietà e della paura. Ci identifichiamo nel personaggio, ci emozioniamo per il suo tragico destino perché noi, spettatori, non soffriamo veramente, abbiamo una sensazione (estetica viene da aisthēsi, sensazione) paradossalmente piacevole. Nell’ipotesi del contagio, il meccanismo è più chiaro e sembra dar ragione a Platone. Per le neuroscienze la semplice osservazione di espressioni facciali e di gesti altrui attiva nel cervello gli stessi meccanismi. Nel caso di un’espressione facciale violenta, a livello neuronale, si attivano gli stessi meccanismi violenti, che possono pure essere piacevoli.
Vedi la violenza e scatta pari pari la violenza?
Il fatto che i neuroni specchio si attivino non significa che rispondiamo automaticamente alla rappresentazione di violenza con un gesto violento. Non si può stabilire causalità diretta. Gli studiosi hanno notato una correlazione tra i bambini che guardano o giocano videogiochi violenti e hanno comportamenti violenti. Ma una correlazione non è la stessa cosa di una causazione. Correlation is not causation. Ci sono tanti altri fattori in gioco, l’educazione in primis, e poi la facilità o difficoltà nel procurarsi delle armi che è il problema principale negli Usa. Ma il fatto che si è stabilito una correlazione tra vedere delle immagini violente, giocare dei giochi violenti e i comportamenti violenti, è già preoccupante.
In un momento storico intriso di violenza come quello che stiamo vi-
vendo, anche la semplice comunicazione nei Tg può spingerci ad atteggiamenti più violenti?
Effettivamente la violenza è molto presente nei media e nel mondo. Il fatto che sia molto presente nelle rappresentazioni può incitare a un comportamento violento. Viene normalizzata. Per questo occorre la contestualizzazione delle ragioni che portano alla guerra. Un buon Tg, approfondimento, o l’educazione stessa,
forniscono strumenti per sviluppare uno sguardo critico. Purtroppo le immagini circolano in modo velocissimo sui social senza contesto, tramite algoritmi che conoscono le nostre preferenze.
Più favole a lieto fine che Iliade e Odissea, potremmo dire?
Per Platone sì, ma ai miei figli ho letto pure versioni illustrate dell’Odissea, che adorano! I problemi oggi
sono passati su altri media che Platone neppure sognava. Devo però dire che ai suoi tempi l’Iliade non veniva solo raccontata ma rappresentata a teatro, messa in scena davanti a folle che arrivavano a 20’000 persone. Il mito della caverna illustra il potere di questi spettacoli di incatenare gli spettatori. I media cambiano, ma il problema rimane ambivalente a dipendenza dei contenuti. Visto che la correlazione ancora una volta non è causazione, non è che se noi guardiamo solo dei film con comportamenti empatici e gentili sviluppiamo un comportamento necessariamente gentile. Ma se la mia ipotesi è corretta, un’influenza c’è.
È un fatto che l’industria cinematografica e quella dei videogiochi puntano di più sulla violenza. La violenza vende. Nell’Illuminismo abbiamo sviluppato quest’idea di Homo sapiens, di Homo razionale, ma se ci guardiamo nello specchio io vedo spesso l’Homo mimeticus. Le industrie della cinematografia e dei videogiochi capitalizzano sul fatto che siamo attratti da spettacoli violenti, forse proprio perché sono «solo» rappresentazioni. Il videogame ci permette di avvicinarci al male, all’eccitazione della violenza. Rimanendo però a distanza di sicurezza.
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Monteforno, un’epopea di casa nostra
Pubblicazioni ◆ A trent’anni dalla chiusura dell’acciaieria di Bodio, un libro racconta le storie di immigrazione, lavoro, fatica e solidarietà di chi nella fabbrica ha lavorato per anni
Barbara Manzoni
«Il primo impatto con la Monteforno? C’era vento e fumo e non ci vedevamo l’uno con l’altro. Ero al laminatoio. La mattina ci davano una mascherina, dopo un’ora la tiravi via ed era già nera. Eravamo tutti italiani e pensavamo sempre alla stessa cosa, almeno noi arrivati da poco: cosa ho lasciato e cosa ho qua». La storia di Antonio, ex operaio, arrivato dalla Sicilia a Bodio negli anni ’60, è una delle tante voci che risuonano nel libro della giornalista Sara Rossi Guidicelli intitolato Quaderno della Monteforno, da poco pubblicato dall’Istituto Editoriale Ticinese.
Per chi è nato in Ticino prima degli anni ’90 la storia dell’acciaieria di Bodio fa parte di quel patrimonio condiviso di ricordi che si inseguono, dalla fabbrica di successo con il primato dell’acciaio più resistente alle lotte degli operai per farla sopravvivere quando ormai la Von Roll, che l’aveva acquisita pochi anni prima, già aveva deciso di chiuderla, nel 1994. Sono trascorsi 30 anni da quella chiusura e della Monteforno ancora si parla e si scrive, nonostante si sia già scritto, studiato, documentato e raccontato tanto. Il perché lo chiediamo all’autrice che ci spiega che ad averla mossa è stato un interesse personale: «Da quando lavoro per la “Rivista 3Valli”, e sono ormai dieci anni, ho sem-
pre percepito la storia della Monteforno come qualcosa di presente, mi sono resa conto che in qualsiasi intervista o incontro che mi capitava di avere per lavoro, prima o poi tutti finivano e finiscono col parlarmi dell’acciaieria. Tutti ricordano un prima e un dopo, è uno spartiacque imprescindibile nella vita di tutti gli abitanti della Leventina, non solo di quelli che vi erano impiegati e degli operai, ma proprio di tutti». L’idea iniziale, continua Sara Rossi Guidicelli, era quella di portare la storia della Monteforno a teatro, «pensavo a uno spettacolo che mettesse in scena questa epopea di casa nostra e mi sono messa alla ricerca, taccuino alla mano, di quel materiale umano, di quelle emozioni di cui la scena si nutre». E quel taccuino è ora diventato un libro o meglio un quaderno, non certo un rigoroso studio storico ma appunti di viaggio e di scoperta, un reportage umano, per usare una definizione suggerita dall’autrice stessa, che racconta di lavoro, di fatiche, di immigrazione, di famiglie, di morti, di solidarietà, di lotte sindacali, di industria e di territorio. Detto per inciso, nel frattempo l’idea di uno spettacolo non è stata accantonata, è probabilmente musica di un futuro non troppo lontano.
Nel quaderno, che ha come sottotitolo Un racconto di fabbrica, troviamo
in effetti tanto «materiale umano», anche di quello che a volte rimane sottotraccia, come ad esempio le voci delle mogli degli operai, incredule di fronte alla decisione della chiusura della fabbrica che confidano: «E lì abbiamo pensato a tutte quelle sorelle, quei genitori, quelle amiche lasciate al paese. Tutti i Natali in cui non siamo scese, i matrimoni a cui non abbiamo partecipato, il dialetto che non parlano i nostri figli. Abbiamo pensato a come ci guardano quando torniamo là, come se fossimo cafone, e a come ci guardano qua, che ci chiamano terrone. A quanto abbiamo dovuto spingere i no-
esclusi
Operaio al lavoro, le fotografie pubblicate nel libro sono state scattate nel 1963 da due ragazzi del ginnasio di Lugano per l’Expo 64 (Claudio Abächerli e Gianni Corridori).
stri figli per farli diventare uguali agli altri». E si trovano anche i ricordi dei figli di quei padri che vedevano pochissimo perché troppo impegnati tra turni (spesso doppi) in fabbrica e spossatezza nel dopolavoro, ma raccontano che in fabbrica per Natale a loro era dedicata una festa con regali che all’epoca ci si poteva solo sognare. E poi c’è tutta l’umanità intorno che si era organizzata nel coro Scam (che esiste ancora e ha accompagnato l’autrice in una presentazione che si è tenuta settimana scorsa a Bironico) o nel Circolo culturale sardo Coghinas, anch’esso dopo 40 anni ancora vivo e vitale. Sul-
lo sfondo la parabola della fabbrica, un molosso che nel suo momento di massimo splendore occupava 990 persone, e che Sara Rossi Guidicelli interpreta come paradigmatica dell’industrializzazione in Europa.
E cosa rimane allora di questa epopea di casa nostra? La Bassa Leventina sembra ancora cercare una sua nuova e forte identità, in passato centro industriale del Ticino ora si trova a doversi reinventare e lo sta facendo una volta di più in questi anni, dopo che le FFS hanno scartato l’ipotesi di trasferire le Officine proprio nell’ex Monteforno. Quel che resta allora –suggerisce l’autrice – sono le persone, i loro legami, la loro storia che è diventata la nostra storia, parte imprescindibile del nostro tessuto sociale.
Bibliografia e incontri Sara Rossi Guidicelli, Quaderno della Monteforno. Un racconto di fabbrica, iet, Bellinzona 2024. Domenica 17 novembre, Filanda di Mendrisio, 10.30, l’autrice presenta il libro insieme a Nino Carboni, ex gruista della Monteforno e segretario del Circolo culturale sardo Coghinas. Venerdì 22 novembre, Bibliomedia Svizzera italiana, Biasca, Sara Rossi Guidicelli dialoga con Olmo Cerri, regista (20.00).
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Con l’Albergo diffuso Corippo guarda al futuro
Territorio ◆ Fino al 2020 era il comune svizzero con meno residenti, difficile ripopolarlo, così anni fa è stato lanciato un progetto di accoglienza turistica che ha preso forma e ha permesso al villaggio di rinascere
Fabio Dozio
Corippo è morto, viva Corippo. Il paese è quasi disabitato, ma l’Albergo diffuso rappresenta il futuro: una sfida esemplare per una valle discosta come la Verzasca. Era il comune con meno abitanti della Svizzera fino al 2020, anno in cui è diventato frazione di Verzasca, frutto dell’aggregazione. Nel 1850 aveva quasi trecento abitanti, nel duemila 22 e oggi tredici. Il paesino abbarbicato sul lato destro della valle si è salvato dalla decadenza annunciata grazie all’intervento di Cantone e Confederazione che, con il Comune, nel 1975 hanno costituito una Fondazione, nata grazie allo stimolo dell’Anno europeo del patrimonio architettonico, indetto dal Consiglio d’Europa. Già nel 1980, il presidente della Fondazione, l’allora consigliere di Stato Fulvio Caccia, spiegava che l’obiettivo dell’«esperimento Corippo» non era di creare un paese museo, «un pericolo presente alla Fondazione fin dall’inizio», ma di garantire investimenti per opere infrastrutturali, fra le quali l’acquedotto e i posteggi, che potessero permettere a famiglie di tornare a vivere nel comune.
Quell’obiettivo è fallito. Ripopolare Corippo non è stato possibile. Quindi la Fondazione ha impiegato qualche decennio per rimettersi in moto, finché nel 2006 è partita l’idea di Albergo diffuso e nel 2014 il Gran Consiglio ha approvato il nuovo credito per sostenere l’operazione di rilancio del comune.
Dalla Carnia alla Verzasca
Vale la pena di accennare alle origini del concetto di Albergo diffuso perché riguarda una personalità che è stata attiva in Svizzera per tanti anni: Leonardo Zanier, sindacalista, educatore, poeta in dialetto friulano e intellettuale prolifico. Zanier fu promotore in Carnia, sua terra d’origine, fin dal 1978, dell’Albergo diffuso che aveva l’obiettivo di recuperare a fini turistici case e borghi ristrutturati a seguito del terremoto del 1975. Al programma di riconversione e sviluppo delle abitazioni partecipò anche la compagna di vita di Leo, Flora Ruchat, una delle intelligenze più vive dell’architettura ticinese e svizzera.
Finalmente nel 2022 l’Albergo diffuso di Corippo è diventato realtà. Due giovani, Jeremy Gehring e Désirée Voitle, hanno accettato la sfida di vivere a Corippo per gestire l’albergo e il ristorante di qualità che rappresenta il centro vitale della struttura. La piazza del villaggio è la hall dell’hotel, le stradine i corridoi; le camere, una decina, sono distribuite in diversi rustici riattati con cura minimalista. Jeremy ha lavorato in ristoranti stellati prima di approdare a Corippo per «trasformare ciò che la natura ci offre in una cucina generosa e gourmet che va dritta al cuore». Désirée ha un diploma in gestione alberghiera e si occupa della ricezione e delle camere.
È pensabile e fattibile rilanciare Corippo a scopi turistici? Non c’è il rischio di musealizzare? «Più che di rilancio, mi sembra si debba parlare di uso, di quale uso o nuovo uso fare di patrimoni della civiltà rurale ormai tramontata come quello di Corippo», ci spiega il filosofo Raffaele Scolari. «Il turismo costituisce senz’altro un’opportunità, anzi, in termini economici appare come l’unica possibilità di sviluppo, ma cela alcune insidie, fra cui la museificazione o, peggio, la disneylandizzazione e quindi la cancellazione della “storia viva”, ossia della storia che può ancora parlarci e interrogarci a prescindere dalle nostre origini. L’Albergo diffuso è da considerare come un primo passo, come un mezzo in vista di un fine, che non è solo economico ma anche o soprattutto culturale. Rendere fruibili località come Corippo è un processo che richiede molta attenzione e impegno. Occorre creare occasioni “intelligenti” per andare a Corippo, ossia momenti di approfondimento e di conoscenza del passato, ma pure di riflessione sul presente, sull’inarrestabile consumo e banalizzazione dei territori in cui viviamo. In questo non vi è niente di elitario: il consiglio di fondazione ha elaborato un piano di attività che comprende eventi rivolti al cosiddetto grande pubblico, programmi di attività per le scuole e incontri di approfondimento, gli “Incontri di Corippo”. Altre attività sono pensabili, per esempio seminari e giornate di ricerca concordate con scuole superiori e università».
«Non credo che ci sia il rischio di musealizzare – ci dice l’architetto Edy Quaglia, progettista dell’Albergo diffuso – lo scopo turistico si deve allargare a proposte concrete. L’esecuzione
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)
Simona Sala
Barbara Manzoni
Manuela Mazzi
Romina Borla Ivan Leoni
della prima fase ha posto l’obiettivo di valorizzare l’esistente nella sua integrità evitando di creare un museo. Una strada percorribile, oltre a quella del soggiorno, può essere quella seminariale legata alle diverse forme dell’arte, come fotografia, ceramica, letteratura, eccetera, valorizzando gli spazi abitati e il territorio circonstante. Non bisogna dimenticare che al centro del progetto vi è il paesaggio».
Una nuova utopia del territorio «Che cosa cerchiamo quando andiamo in luoghi come Corippo?», si chiede Scolari. «La nostalgia esprime un anelito per qualcosa che è andato perduto, il dolore per qualcosa di cui sentiamo la mancanza; ma facilmente si trasforma in un sentimento regressivo, in una idealizzazione di un passato che in realtà era tutt’altro che idilliaco. Chi va a Corippo vede un grumo di edifici aggrappati a una gobba della montagna, realizzati con materiali poveri, ma aventi una qualità urbana che non troviamo mai o quasi mai negli insediamenti realizzati ai nostri giorni. Non che le “soluzioni urbane” di Corippo possano e debbano essere riprodotte oggi, nondimeno dai modi di stare assieme, di fare comunità di cui essi danno prova, qualcosa possiamo imparare o quantomeno da essi possiamo trarre ispirazione per riflettere sui territori del presente e impegnarci per riqualificarli. In questo senso luoghi come Corippo potrebbero essere assunti come luoghi della nuova utopia del territorio».
Che fare del patrimonio architettonico della nostra tramontata civiltà rurale? «Vorrei citare – precisa Quaglia – un passaggio della relazione del progetto: “oggi di fronte alla bellezza dei nostri luoghi, può darsi che nessuno
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89
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si chieda come sia stato possibile per la nostra contemporaneità aver perso con essi ogni rapporto? Per ricominciare bisogna realizzare nuove condizioni in cui il passato può di nuovo diventare materiale per il vostro presente”. In aggiunta a questa riflessione, non bisogna dimenticare che l’essere contemporanei del proprio tempo è condizione primaria e irrinunciabile del nostro mestiere e che il passato ne rappresenta invece l’eredità culturale. Un passato che custodisce tutto quello che possediamo e che ci appartiene, al punto da diventare la nostra vera pietra di paragone». Samantha Bourgoin, portavoce della Fondazione Corippo, vice presidente dei Verdi Svizzeri, è stata direttrice del progetto di Parco Naturale del Locarnese. In base a queste esperienze, quale ritiene che sia il fattore più importante per garantire un futuro alle valli periferiche? «Le nostre valli sono apprezzate per il loro paesaggio, la bellezza del patrimonio costruito caratteristico, la biodiversità, la calma e il clima ancora piacevole d’estate. Lontano dalla frenesia dei centri urbani ma comunque accessibili, esse ci permettono di immergerci in un mondo più autentico e vicino alla natura. Lo Stato dovrebbe fornire maggiori mezzi ai Comuni e agli agricoltori di montagna per prendersi cura di queste testimonianze del passato che sono veri gioielli che ci collegano all’essenziale, all’anima che ha modellato il nostro territorio. Anima che ancora oggi è capace di esercitare il suo fascino come dimostra l’esempio di Corippo. Oggi, la metà dei suoi abitanti è costituita dalla famiglia che gestisce l’albergo diffuso. Ieri sera, l’albergo era completo, e accoglieva persone provenienti da tutto il mondo. Un parco, come lo dimostrano le varie realtà che ho visitato, offrirebbe certamente i mezzi ideali
per valorizzare questi territori offrendo posti di lavoro, in chiave naturalistica, nella catena del valore aggiunto dei prodotti locali, nell’offerta di turismo dolce, però devono essere gli abitanti a volerlo».
Le valli hanno un potenziale che va liberato
L’Albergo diffuso è un esperimento che rientra nei progetti di sviluppo della valle, promossi dalla Fondazione Verzasca, coordinata da Alessandro Speziali, presidente del partito liberale radicale. Si è occupato intensamente in questi ultimi anni del rilancio e della promozione della valle. «Il bilancio è molto buono, – ci dice – soprattutto se guardo ai progetti messi in cantiere e a quelli realizzati, che sono circa una trentina. Un nuovo sistema di mobilità, il rilancio del marchio d’origine, spazi coworking, eventi e rassegne sulle quattro stagioni, supporti digitali per gli allevatori, l’arrivo di un punto vendita e, naturalmente, l’Albergo diffuso di Corippo, per citarne alcuni. Ogni progetto che promuoviamo è molto ancorato al territorio, coinvolgendo i Comuni, i Patriziati, le associazioni e la cittadinanza per calibrare al meglio le iniziative. È così che il Masterplan diventa uno strumento condiviso, capace di essere permeabile agli stimoli e alle critiche costruttive. Inoltre, curando l’equilibrio tra progetti turistici e progetti per residenti, il grado di accettazione sale». Il coinvolgimento della popolazione è un aspetto qualificante delle politiche che riguardano le nostre periferie. Abbiamo assistito, ancora recentemente, dopo i disastri dovuti al maltempo, a voci che propongono di lasciar morire alcune zone nelle periferie alpine, perché costerebbe troppo salvarle. Cosa si aspetta Alessandro Speziali dalle istituzioni politiche? «Quanto al Cantone e alla Confederazione, gli strumenti di sostegno finanziario ai progetti non mancano: occorre però poter contare su una collaborazione più fluida e coerente, meno burocratica e rigida. Le valli hanno un vero e concreto potenziale: va liberato».
Negli anni 80 il progetto di ripopolare Corippo non ha funzionato. Si è puntato sulle opere infrastrutturali, ma non è bastato. Fulvio Caccia, allora presidente della Fondazione, affermava nel 1980: «L’operazione Corippo è un esperimento dal quale trarre indicazioni importanti e utili per una politica che riguarda le regioni di montagna. Ma non possiamo assolutamente prendere in considerazione in questo momento la ripetizione dell’esperimento in altri comuni ticinesi». A quasi 50 anni di distanza, la scommessa è stata vinta, anche se con un’altra destinazione per il villaggio. C’è da augurarsi che la ripetizione dell’esperimento di Albergo diffuso possa diventare realtà anche in altri comuni periferici.
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La Fondazione Corippo non si rivolge solo al turismo, organizza anche incontri di animazione culturale, eventi legati al territorio, attività con le scuole. (Keystone)
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Israele-Onu, un antagonismo crescente
Medio Oriente ◆ Cerchiamo di capire gli attacchi israeliani al contingente Unifil. Le reazioni all’uccisione del leader di Hamas
L’uccisione di Sinwar, capo militare di Hamas e regista della strage del 7 ottobre 2023, è l’ennesimo colpo di scena con cui Israele ha rovesciato in proprio favore un situazione di estrema difficoltà. Nei giorni precedenti all’eliminazione di Sinwar, le forze armate israeliane erano finite nuovamente sotto accusa per i loro molteplici attacchi al contingente Onu-Unifil in Libano. L’eliminazione del nemico pubblico numero uno ha fatto passare in secondo piano la questione Unifil. Anche se potrebbe tornare a calamitare attenzione in futuro.
Di fronte alla morte di Sinwar gli anti-israeliani evocheranno lo spargimento di sangue innocente che l’ha preceduta, riferendosi a ciò che negli ultimi dodici mesi ha subito la popolazione civile a Gaza, poi anche (sia pure su scala minore) in Cisgiordania e in Libano. Perché Israele non ha perseguito da subito un «colpo chirurgico» che eliminasse Sinwar e i suoi sicari uno per uno, risparmiando gli innocenti? Se Idf (l’abbreviazione di Israel Defence Forces) e Mossad sono così efficienti, perché per un anno hanno sparato nel mucchio?
Un’altra reazione si può riassumere in: missione compiuta, voltiamo pagina. L’uccisione di Sinwar è il giusto castigo per un criminale, la cui sopravvivenza avrebbe comportato una costante minaccia per Israele e per la sua popolazione. Bisogna celebrare questo successo, ma subito dopo bisogna trarne le conseguenze giuste: ora deve fermarsi l’offensiva militare su Gaza, è finalmente possibile un cessate-il-fuoco, una ripresa dei negoziati per la liberazione degli ostaggi. A cui dovrà seguire l’instaurazione di un’autorità di governo locale, palestinese e con il sostegno del mondo arabo. Quindi il passaggio ancora successivo: pianificare la ricostruzione di Gaza, il ritorno degli sfollati, un futuro umano e civile, con garanzie di pace e sicurezza da ambo le parti. È la linea americana ed europea.
A Tel Aviv il premier (e non solo lui) può dare una sua interpretazione di segno molto diverso. «Se avessimo dato retta agli inviti alla moderazione che cominciarono a pioverci addosso già 24 ore dopo il massacro del 7 ottobre – così possono pensare Netanyahu, il suo ministro della Difesa Gantz e altri israeliani – avremmo concesso a Hamas una tregua, che Sinwar avrebbe usato per riorganizzarsi e tramare nuovi attacchi mortali. Pochi al di fuori di Israele hanno capito che abbiamo a che fare con dei nemici spietati, irriducibili, votati al nostro sterminio». Da questa interpretazione può derivare un’altra conseguenza: che Israele non sarà al sicuro finché non avrà regolato i conti con nemici perfino più potenti di Hamas: Hezbollah, e l’Iran. La psi-
cosi d’assedio in Israele è reale, in questo contesto si situa anche la sua posizione verso l’Onu, organizzazione che considera dominata da nemici. Un’occhiata a una carta geografica e demografica, per mettere a confronto la minuscola dimensione dello Stato d’Israele con le vaste aree territoriali e popolazioni controllate dai nemici che hanno giurato la sua distruzione e lo sterminio degli ebrei (Iran più Iraq sciita più Siria più Libano meridionale più Yemen), spiega la sindrome «Davide contro Golia». Il Davide israeliano in realtà è una superpotenza economica, tecnologica e militare, in confronto ai paesi molto meno avanzati che vogliono ridurlo in cenere. È curioso che in taluni ambienti ci sia più comprensione verso Putin quando descrive come «accerchiata» la mastodontica Russia – la Nazione più gigantesca del pianeta – di quante ne riscuota Israele. Colpa di Netanyahu, senza dubbio, e delle tante nefandezze che lo hanno isolato nel mondo. Però una lucida analisi geopolitica consiglia di prestare attenzione al punto di vista israeliano, se non altro per prevedere le prossime mosse.
Nel caso specifico dell’attacco a Unifil, le forze armate israeliane (Israel Defense Forces, abbreviato in Idf) hanno spiegato che Hezbollah opera nelle immediate vicinanze. Facendosi scudo della missione Onu per garantirsi impunità, da lì continua a scagliare ogni giorno missili verso il territorio israeliano, dove 60’000 persone (arabi inclusi) hanno dovuto essere evacuate da un anno. Il modus operandi di Hezbollah non è diverso da quello di Hamas: questi eserciti calpestano a loro volta la legalità internazionale, usano civili innocenti come scudi, piazzano le loro basi militari o rampe di lancio missilistiche incollate a ospedali, scuole, abitazioni, moschee, e missioni Onu. Così innanzitutto ostacolano e complicano l’azione dell’Idf; poi se gli israeliani li colpiscono finiscono sotto processo per atti criminali. È una logica spietata, ma sta funzionando.
La vicenda Unifil è solo l’ultimo episodio del crescente antagonismo fra Israele e l’Onu. Lo Stato israeliano è stato più volte condannato per gli insediamenti illegali di coloni in Cisgiordania e nella parte orientale
di Gerusalemme; diverse risoluzioni Onu impongono una ritirata da quegli insediamenti. Netanyahu e altri dirigenti israeliani sono imputati per genocidio e crimini di guerra di fronte a un tribunale delle Nazioni Unite. Ogni volta che al Palazzo di Vetro di New York l’assemblea generale discute e vota sulla questione israelo-palestinese, l’isolamento di Tel Aviv è evidente. Per molti questa è la prova lampante che Israele ha torto.
I missili dall’Iran
Il punto di vista israeliano è diametralmente opposto. Netanyahu, anche se non rappresenta l’opinione di tutto il suo popolo, raccoglie però ampi consensi quando denuncia l’antisemitismo dilagante in molti discorsi tenuti alle Nazioni Unite. Il suo ministro degli Esteri, Israel Katz, ha denunciato come aberrante il fatto che il segretario generale Onu António Guterres abbia condannato l’escalation israeliana ma non il recente diluvio di missili dall’Iran. Ad alimentare i sospetti di Tel Aviv ha
contribuito la vicenda dell’Unrwa, l’agenzia Onu per l’assistenza umanitaria ai rifugiati palestinesi: da anni gli israeliani segnalavano la sua infiltrazione da parte di Hamas a Gaza, ma l’Onu ha chiuso gli occhi fino alla strage del 7 ottobre 2023 e anche dopo. Molto tardivamente, l’Unrwa ha espulso dai ranghi del suo organico stipendiato dei militanti di Hamas, alcuni dei quali avevano partecipato attivamente alla strage. Dopo una riprovazione iniziale, la maggioranza dei paesi occidentali hanno ripreso a canalizzare i loro aiuti umanitari attraverso l’Unrwa, nonostante i suoi legami con Hamas non siano stati recisi del tutto.
L’attacco all’Unifil si situa in questo contesto, in cui Israele considera l’Onu come un’organizzazione dominata da forze ostili, in grado di piegare i principi della legalità internazionale ai loro calcoli d’interesse geopolitico. Donde il sospetto, o la certezza dell’Idf, che Unifil abbia «tollerato» degli insediamenti militari di Hezbollah nelle vicinanze delle sue basi, in una zona che avrebbe dovuto essere smilitarizzata e non lo è affatto.
Veicoli della Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite (United Nations Interim Force in Lebanon o Unifil). (Keystone)
Federico Rampini
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Regno Unito: carbone addio
Gran Bretagna ◆ Chiusa l’ultima centrale basata sull’inquinante fonte di energia, il Paese continua sulla strada della transizione green
Fine di un’era: dopo 142 anni di dipendenza dal carburante fossile il Regno Unito ha chiuso l’ultima centrale termoelettrica a carbone, diventando così la prima grande potenza economica ad eliminare la controversa ed inquinante fonte di energia. L’unico impianto attivo rimasto a Ratcliffe-on-Soar vicino a Nottingham operativo dal 1967 ha infatti serrato definitivamente i battenti.
La dismissione ha una valenza simbolica, non solo poiché segna un passo decisivo nel cammino globale verso la decarbonizzazione, ma anche perché proprio la Gran Bretagna aveva avviato la produzione di energia attraverso la combustione di carburanti fossili, con l’inaugurazione nel 1882 a Londra della prima centrale elettrica a carbone al mondo costruita dall’inventore Thomas Edison. Holborn Viaduct – questo il suo nome – aveva portato la luce nelle strade della capitale. Da quel momento fino alla metà del secolo scorso circa quasi tutta l’elettricità del Paese venne generata a carbone. Il carbone era inoltre la principale materia prima durante la Rivoluzione industriale, partita proprio dall’Inghilterra. Serviva come combustibile per la produzione di calore e dunque di vapore per mettere in moto motori. Era usato inoltre per il riscaldamento delle abitazioni. Indubbio dunque il suo ruolo nel grande smog di Londra, la nube di nebbia e inquinamento causata dalla combustione di carburanti fossili che alimentava le fabbriche e riscaldava le case, calatasi sulla città nel 1952 provocando la morte di migliaia di residenti. L’autunno di quell’anno era stato molto freddo, con nevicate in buona parte del Regno. Per fronteggiare il freddo eccezionale i londinesi tenevano perennemente accese le stufe, che all’epoca nel Regno Unito erano prevalentemente a carbone. La stessa parola smog fu inventata nel 1905 dal dottor Harold Antoine des Voeux per descrivere la soffocante aria londinese, fondendo smoke (il fumo prodotto dalle fabbriche e dalle case) e fog, la nebbia. La combustione del carbone è tossica perché sprigiona nell’atmosfera elevatissime emissioni di anidri-
de carbonica, principale responsabile di gas serra, oltre che altre sostanze nocive come mercurio, cromo, arsenico e ossidi di zolfo. Pertanto la progressiva presa di coscienza del grave inquinamento da esso causato ha dato inizio a partire dai primi anni Novanta ad un graduale abbandono del minerale e alla sua lenta sostituzione con il gas, anche se il carbone ha continuato a rimanere un componente chiave della rete elettrica britannica per i due decenni successivi. Basti pensare che fino al 2012 il fossile generava ancora il 39% dell’energia complessiva, mentre nel 2010 solo il 7% derivava da fonti rinnovabili.
Crescita delle rinnovabili
Un punto di svolta lo aveva sicuramente impresso nel 2015 il ministro britannico dell’Energia, Amber Rudd, annunciando il piano di porre fine una volta per tutte all’utilizzo del carbone entro 10 anni. Il traguardo non solo è stato rispettato, ma persino anticipato al 2024 grazie alla crescita esponenziale delle rinnovabili che nella prima metà di quest’anno sono arrivate a fornire oltre il 50% dell’energia del Paese. Tuttavia fonti rinnovabili come il sole ed il vento, essendo per loro natura intermittenti, non sono sufficienti per garantire la stabilità delle forniture elettriche. Una tecnologia cruciale in questo senso è rappresentata dalle batterie, purché la loro produzione diventi più sostenibile ed economica. Perché questo accada occorre che il Regno Unito non dipenda più dalla Cina per la produzione di batterie, e importi a questo scopo forza lavoro qualificata.
La Gran Bretagna si è prefissa l’arduo obiettivo di azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050. Per raggiungerlo, oltre a dire addio al carbone come già fatto, dovrà anche quintuplicare gli impianti eolici e fotovoltaici e potenziare la produzione di energia nucleare entro il 2035. Tuttavia si stanno profilando alcuni ostacoli lungo la strada. Sulla scia del conflitto in corso sul fronte russo-ucraino, il precedente Governo lo scorso anno aveva deliberato la
La rivincita del sud
Eurozona ◆ Grecia, Spagna e Portogallo sono diventate «locomotive economiche»
Angela Nocioni
concessione decisamente poco green di 100 licenze per l’estrazione di gas e petrolio nel Mare del Nord allo scopo di ridurre la dipendenza del Regno dalle importazioni da «Paesi ostili». Secondo dati riportati dalla BBC, inoltre, il riscaldamento degli edifici continua ad essere responsabile di circa il 17% delle emissioni di gas serra nel Paese. Per contrastare questo problema il Governo di Rishi Sunak aveva assunto l’impegno di installare 600mila pompe di calore all’anno entro il 2028 per sostituire i boiler a gas, ma il piano si sta rivelando di difficile realizzazione e inoltre avrebbe dovuto essere accompagnato dalla necessaria e complementare introduzione di requisiti obbligatori di efficienza energetica per le abitazioni, che alla fine è stata accantonata.
Per quanto riguarda il settore dei trasporti (esclusi shipping ed aviazione), che da solo genera quasi un quarto delle emissioni ed è dunque il più inquinante, il divieto di vendere veicoli a benzina o diesel in Gran Bretagna è stato posticipato dal 2030 al 2035. Comunque c’è una nota positiva: secondo i dati forniti dal Climate Change Committee (CCC), organo consultivo indipendente di Whitehall, la vendita di automobili elettriche ha registrato un’impennata. Se nel 2019 rappresentavano solo il 2% dei veicoli venduti, la percentuale nel 2023 è salita al 16,5%, grazie al notevole aumento delle colonnine di rifornimento. La strada della transizione green imboccata dal Regno Unito, seppure con qualche intoppo, pertanto sta cominciando a dare alcuni frutti. Seppure il Paese continui ad utilizzare il carbone per la manifattura dell’acciaio, che produce il 2% delle emissioni del Regno, l’addio all’elettricità generata dal fossile potrebbe indurre altre grandi economie a fare altrettanto. Attualmente sono pochi i Paesi sviluppati che hanno voltato le spalle al minerale. Fra questi l’Islanda, la Svezia, la Norvegia e la Svizzera. Cina, India e Stati Uniti restano i maggiori consumatori al mondo di carbone, seguiti dalla Germania che ancora produce circa un quarto della propria energia attraverso la combustione del fossile.
«La rivincita economica dell’Europa del sud». Lo ha scritto di recente il quotidiano francese «Le Monde» che così ha titolato un lungo articolo dove si legge: «I Paesi meridionali, simbolo della crisi dell’Eurozona una decina di anni fa, sono diventati le locomotive della regione». La Spagna dovrebbe conoscere una crescita del 2,7% quest’anno e la Grecia del 2,2%. «Il Portogallo rallenta, ma il suo ritmo resta superiore alla media della zona euro, almeno +1,7% nel 2024». «Le Monde» parla di rivincita perché confronta questi dati con quelli previsti per le due grandi economie europee, Francia e Germania. «L’economia tedesca stagna da due anni – scrive – mentre il Pil della Francia non dovrebbe crescere oltre l’1,1% quest’anno». In parte, sostiene il quotidiano, si tratta dell’effetto ripresa dopo il crollo del decennio precedente (ad esempio la disoccupazione spagnola, che era del 27%, è stata riassorbita ma resta comunque all’11%). In ogni caso il miglioramento, cominciato prima della pandemia, si è accelerato con la fine dei lockdown. Tra fattori che spiegano questa tendenza c’è – sempre secondo il media francese – l’eccellente salute del turismo, ma anche riforme talvolta dolorose (austerità, deregolamentazione dei mercati del lavoro) e gli aiuti dell’Europa: «I Paesi del sud stanno gradualmente ricevendo i fondi del prestito congiunto di 750 miliardi di euro concordato nel 2020». «Le Monde» include anche l’Italia nel suo sguardo piacevolmente sorpreso sul sud Europa, ma i dati annunciati in Parlamento la seconda settimana di ottobre dal ministro italiano dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, sembrano contraddire il quotidiano. Il ministro italiano ha infatti dichiarato: «La recente revisione delle stime trimestrali annuali da parte dell’Istat, pur elevando di molto il livello del Pil sia in termini nominali che reali, hanno comportato una correzione meccanica al ribasso della crescita acquisita per il 2024 che rende più difficile il conseguimento di una variazione annuale del Pil reale dell’1% per l’anno in corso». L’opposizione al Governo Meloni ha letto queste informazioni come l’ammissione data da fonte autorevole della stagnazione dell’economia italiana. Giorgetti ha parlato anche del deficit dell’Italia. «L’impegno nell’adozione di riforme consentirà di estendere da quattro a sette anni il periodo di aggiustamento del Piano di bilancio. La trattativa è ancora in corso», ha detto. «Il Governo ritiene di poter conseguire, pur adottando un profilo di aggiustamento coerente in media con quello
stimato dalla Commissione, una riduzione del rapporto tra indebitamento netto e il Pil più rapida e tale da portare l’Italia al di fuori della procedura di deficit eccessivo a partire dal 2027. Al percorso di correzione strutturale individuato lungo i sette anni di aggiustamento corrisponde un tasso di crescita medio annuo della spesa netta pari a 1,5%, che è in linea con quello della traiettoria di riferimento della Commissione». A molti analisti questi segnali sono suonati come l’ammissione di un’economia con il freno tirato, a differenza di quella di altri Paesi dell’Europa meridionale.
Il ruolo del turismo
Una accelerazione dei dati economici delle economie del sud d’Europa, soprattutto di quelli relativi al turismo, era già stata registrata dal «Financial Times o FT» che ha scritto: «Negli ultimi anni le maggiori economie del sud Europa hanno fatto meglio in termini di crescita rispetto alla Germania, tradizionalmente la locomotiva dell’area euro». E ancora: «Messe assieme, dal 2017 a oggi Italia, Spagna, Portogallo e Grecia hanno aumentato di 200 miliardi di euro i loro Pil aggregati – un valore che equivale grossomodo all’intera economia del Portogallo – laddove nello stesso periodo il Pil della Germania è aumentato di 85 miliardi di euro». L’articolo della rivista è basato sui dati della società di consulenze Capital Economics. Questo divario risentirebbe molto – secondo gli analisti – anche dalla crisi causata da lockdown e restrizioni imposte a causa del Covid. L’economia tedesca si è ripresa a malapena solo adesso e, nell’ultimo periodo, il suo settore manifatturiero ha pesantemente sofferto per gli aumenti dei prezzi dell’energia, legati alla guerra in Ucraina e alle sanzioni contro la Russia. Le economie del sud Europa, invece, affacciate sul Mediterraneo, hanno ottenuto una spinta supplementare dalla ripresa del turismo post pandemia. Il miglioramento delle performance delle economie «periferiche», secondo il «FT», spiega in parte anche come la Bce sia riuscita a mantenere l’unità del direttorio su una linea così risoluta e restrittiva contro l’alta inflazione. Ricordiamo che l’inflazione sta costantemente diminuendo. L’Eurostat, ovvero l’ufficio statistico dell’Ue, ha annunciato che il tasso di inflazione annuo dell’area euro è stato rivisto al ribasso per il mese di settembre 2024, attestandosi all’1,7%, in calo rispetto al 2,2% di agosto e alla prima lettura, pari all’1,8%. Un anno fa il tasso di inflazione era del 4,3%.
Il premier spagnolo Pedro Sanchez. La Spagna dovrebbe conoscere una crescita del 2,7% quest’anno. (Keystone)
Barbara Gallino
La centrale a carbone di Ratcliffe-on-Soar a Nottingham: l’ultima a chiudere i battenti. (Keystone)
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La difesa della normalità ucraina e le mire dello zar
L’intervista ◆ Lo storico Karl Schlögel: Putin mette insieme elementi fra loro eterogenei con l’unico obiettivo di restare al potere
Stefano Vastano
«Se vogliamo capire la Russia di oggi, la guerra scatenata dal presidente Vladimir Putin – il 24 febbraio del 2022 con l’invasione dell’Ucraina – e le ossessioni dello zar del Cremlino, dobbiamo prima di tutto cambiare le nostre categorie mentali». Così esordisce il professor Karl Schlögel, uno dei più rinomati esperti di storia russa e dell’Europa dell’est in questa intervista che abbiamo realizzato a Berlino.
Professor Schlögel, di recente è tornato a Kiev. Come ha trovato la situazione?
È incredibile come l’Ucraina continui a lottare per la propria dignità. Ero andato lì per capire se la loro causa fosse ormai persa, avevo infatti dei dubbi, soprattutto a causa dell’umore che regna in Germania. E sono invece tornato fiducioso e persuaso che avrebbero continuato a resistere. Ciò che più mi ha colpito a Charkiv è stata la difesa ostinata della normalità. La metropolitana funziona, le scuole sono aperte, i parchi curati. Una donna mi ha persino detto: «I nostri giardini a Charkiv sono più curati di quelli a Berlino».
Proviamo a entrare nella mente di Putin. Cosa prova lo Zar del Cremlino quando su una carta geografica vede disegnata l’Ucraina?
Lui non ha mai accettato che l’era dell’impero sovietico sia finita, da qui il suo odio per l’Ucraina. No, Putin non vuole lasciare l’Ucraina alla sua autonomia. Ma l’Ucraina altro non esige che esser lasciata in pace e rimettere in ordine il Paese. Per gli ucraini è in gioco l’esigenza di esprimersi e viaggiare liberamente, di continuare in pace la vita di tutti i giorni e di dire addio all’era sovietica. E ciò che l’Ucraina ha oggi di fatto raggiunto, ossia trovare la strada per uscire dall’impero sovietico, la Russia deve ancora raggiungerlo.
D’altronde, per decenni, la storia politica e storiografia dell’Europa orientale è stata letta a parti-
re da Mosca, dai miti dell’Unione Sovietica…
Si potrebbe in effetti dire che l’intera storiografia dell’Europa dell’est, almeno fino all’89, era orientata a Mosca. Dall’angolazione moscovita l’Ucraina non appariva che come un «punto vuoto» nella storia della Russia. Purtroppo vedo che ancora oggi questa prospettiva deformata vale per molti, per tanti esponenti della sinistra estrema, specie di quella tedesca.
Si riferisce a Sahra Wagenknecht e al suo nuovo partito di estrema sinistra BSW?
Sì, anche per Wagenknecht nella storia, politica e cultura esistono solo i tedeschi e i russi. Ritengo scandaloso che ci sia voluta questa atroce guerra per far scoprire, a noi europei, un Paese grande come l’Ucraina, il più grande territorio al centro d’Europa, una Nazione con una sua storia e 40 milioni di abitanti.
Dobbiamo quindi cambiare il nostro modo di leggere la storia se vogliamo comprendere il conflitto in corso?
Sì, abbiamo bisogno di una nuova mappatura mentale dell’est e di affrontare un processo culturale per uscire dalla prospettiva russo-centrica entro cui, nell’Europa dell’est, esiste solo la Russia. Nella generazione dei miei genitori si parlava della guerra tedesca «contro la Russia». Ma quella nazista è stata una guerra contro tutti i popoli dell’ex Unione Sovietica, e i principali campi di battaglia sono stati proprio la Bielorussia e l’Ucraina. È lì che sono stati commessi i crimini più gravi. Sì, sono convinto che questa Ucraina che ora si difende e non si arrende, farà in modo che questo Paese non scompaia più dai nostri radar e mappe mentali.
Abbiamo parlato degli «abbagli» pro-Putin dell’estrema sinistra, ma anche la nuova destra sovranista, da Trump negli Stati Uniti a Salvini, Orban e Marine Le Pen in Francia, risente il fascino irresi-
stibile dell’uomo forte che comanda al Cremlino da 25 anni… Per un politico come Orban, il fatto che l’Ucraina si affermi come Stato moderno, aperto e democratico, sarebbe una minaccia alla cosiddetta «identità» della Nazione ungherese. Come Putin anche Orban non vuole il risveglio dell’Ucraina in un mondo diverso all’est, più aperto all’Europa e alle libertà. Putin, ancor prima dell’invasione in Crimea, ha di fatto soffocato nelle città russe ogni movimento democratico, eliminato chi chiedeva più libertà e uno stato di diritto. Oggi lui si richiama agli zar Nicola I e Alessandro III, alla trinità del popolo, della fede e dello Stato. Soprattutto a uno Stato forte e prepotente. Anche se il fenomeno Putin va molto al di là di queste tradizioni storiche.
Può spiegarci meglio questo punto?
Oggi dobbiamo riuscire ad accet-
tare tutta la complessità del «putinismo», che non è un’ideologia in sé chiusa e compatta. Putin prende semplicemente tutto ciò che gli serve per mantenersi al potere, mettendo insieme elementi fra loro eterogenei. Alla sua corte, oltre agli elementi della tradizione zarista, ci sono ancora vari aspetti che ricordano o simulano i riti e miti dello stalinismo, come vediamo nelle parate del 9 maggio per celebrare la «Grande guerra patriottica».
Senza dimenticare il continuo flirt di Putin con la chiesa ortodossa… Esatto. Alla sua corte hanno appreso tutte le arti del potere, dalle più spudorate «fake news» alla più abietta violenza con cui si perseguitano i dissidenti. Ma al contempo ci sono le scene in cui lo zar si esibisce alle funzioni religiose, per presentarsi poi nelle vesti del condottiero stalinista o a un ricevimento con gli attori di Hollywood.
Questo mix inaudito di passato antimoderno e di elementi postmoderni è la grande sfida analitica per comprendere il fenomeno Putin e la sua Russia post-sovietica nel 21. secolo. Una Russia neo-imperiale, tecnologica e radicalmente cinica, se pensiamo al modo in cui i tg russi raccontano la guerra. Certo, nella Russia così avanzata tecnologicamente di Putin dobbiamo sottolineare non solo il ritorno alle più brutali pratiche della tortura nelle carceri. Non solo l’uccisione mirata dei dissidenti, ma anche una deleteria propaganda mostrata 24 ore al giorno dalla tv russa. Si resta allibiti davanti alle celebrazioni dei membri della Soldateska, dei soldati che compiono massacri come le stragi di Bukhara e poi ricevono una medaglia al ricevimento di Capodanno. Nemmeno Goebbels aveva mai osato tanto con i suoi sgherri!
Voglio trasferire il mio conto privato a un’altra banca. Come devo procedere?
La consulenza della Banca Migros ◆ Anzitutto occorre pianificare tutto tempestivamente per rispettare il termine di preavviso
Trasferire il conto privato vale denaro contante. La scelta giusta si traduce infatti in commissioni più basse e tassi d’interesse più elevati. Cambiare banca non è poi così complicato; tuttavia, perché il passaggio avvenga senza intoppi, è bene tenere conto di alcune cose, che riassumiamo nei cinque punti seguenti.
1. Verificare le condizioni di prelievo dell’attuale conto privato. Presso alcune banche, se si desidera ritirare tutto l’avere (o un importo consistente) in un’unica volta, occorre rispettare un termine di preavviso, in caso contrario si incorre in una commissione di prelievo. È quindi consigliabile pianificare tempestivamente il trasferimento per rispettare le eventuali scadenze.
2. Aprire un conto privato presso un’al-
tra banca. Nella scelta dell’offerta bisogna fare attenzione anche ai costi: oltre alle commissioni mensili o annuali per la tenuta del conto, possono essere previste ad esempio spese per i bonifici o per i servizi aggiuntivi come gli estratti conto in formato cartaceo. La Banca Migros non addebita commissioni per la tenuta del conto e, all’apertura, si riceve gratuitamente una carta Visa Debit.
3. Informare il datore di lavoro, il locatore, l’ufficio delle imposte o eventuali fornitori di prestazioni della nuova relazione bancaria. Attenzione: potrebbero servire alcune settimane prima che la modifica sia implementata ovunque. Oltre a ciò, è necessario reindirizzare tutti gli ordini permanenti e gli addebiti diretti sul nuovo conto, in
modo da continuare a pagare puntualmente tutte le fatture.
4. Controllare il traffico dei pagamenti su entrambi i conti privati. Accertarsi poi che lo stipendio, la rendita o altre prestazioni vengano versate sul nuovo conto privato e che i pagamenti ricorrenti (affitto, cassa malati, abbonamenti ecc.) vengano addebitati sul nuovo conto privato. Bisogna verificare infine che vi siano fondi sufficienti sul vecchio conto per coprire i pagamenti o le commissioni in sospeso.
5. Disdire il vecchio conto privato non appena tutti i pagamenti sono stati effettuati o reindirizzati al nuovo conto. Consigliamo di pianificare un periodo transitorio di qualche settimana durante il quale sul conto della banca precedente non devo-
no più esserci movimenti. In questo modo si evita di dimenticare pagamenti importanti. A questo punto si può comunicare alla banca precedente l’intenzione di chiudere il conto privato. Alcune banche richiedono una commissione per la chiusura.
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Alla corte di Putin, oltre agli elementi della tradizione zarista, ci sono ancora vari aspetti che ricordano o simulano i riti e miti dello stalinismo ma non solo. (Keystone)
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Il finanziamento di strade e ferrovie
Istantanee sui trasporti ◆ Uno sguardo in prospettiva storica in attesa della votazione federale del prossimo 24 novembre Riccardo De Gottardi
Il referendum promosso dall’Associazione traffico e ambiente contro il Decreto federale che stanzia un credito di circa 5 miliardi di franchi per l’ampliamento delle strade nazionali (su cui voteremo il prossimo 24 novembre), ripropone il tema del ruolo dei diversi mezzi di trasporto e del loro coordinamento. Il sistema di finanziamento è l’elemento centrale del loro sviluppo. È quindi utile ripercorrere per sommi capi l’evoluzione delle modalità di finanziamento dell’infrastruttura stradale e di quella ferroviaria a partire dal secondo dopoguerra. Il grafico ci mostra i volumi di investimento destinati alle reti stradali (di competenza federale, cantonale, comunale) e a quella ferroviaria (prevalentemente di competenza federale).
Due elementi balzano all’occhio. Il primo consiste nell’incremento complessivo dell’impegno della Confederazione, dei Cantoni e dei Comuni, passato da circa 230 milioni di franchi nel 1950 a ben 9,1 miliardi nel 2020. A partire dal 1960 esso riflette il ragguardevole sforzo per dotarsi di un sistema di trasporto performante. Il secondo elemento è dato dal passaggio dall’impegno concentrato essenzialmente sul potenziamento dell’infrastruttura stradale fino al 1980 a una più equilibrata ripartizione, in cui anche alla ferrovia è stato riconosciuta una funzione di rilievo. Il percorso del riequilibrio è stato lungo. Il sistema di finanziamen-
to delle strade ha conosciuto una riforma radicale con la pianificazione e la progressiva realizzazione delle strade nazionali. A questo scopo, nel 1960 è stata disegnata la rete delle infrastrutture da realizzare ed è stato instaurato un finanziamento specifico per garantirne la costruzione. Attraverso il prelievo di un dazio di base sui carburanti e di un sopraddazio (oggi ridenominati imposta rispettivamente supplemento d’imposta sugli oli minerali) si sono così rese disponibili risorse vincolate per alimentare il cosiddetto «Finanziamento speciale per il traffico stradale» (FSTS). In questo modo si è creata una base che ha assicurato a lungo termine i mezzi per portare avanti con continuità un rilevante impegno tecnico e un compito strategico per lo sviluppo del Paese. Il finanziamento delle ferrovie ha inizialmente conosciuto ben altre logiche. A lungo gli investimenti per l’infrastruttura sono infatti stati di stretta competenza delle imprese di trasporto, le quali, alle prese a partire dal secondo dopoguerra con la progressiva concorrenza stradale e confrontate agli obblighi (e ai costi) del servizio pubblico, non sono più state in grado di generare fondi sufficienti per l’ammodernamento dei loro impianti e tantomeno per la loro estensione. Nonostante gli aiuti puntuali resi possibili dalla Legge sulle ferrovie approvata nel 1957 parecchie linee regionali sono state infatti
dismesse negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Il bilancio delle FFS è stato a sua volta ripetutamente risanato con interventi puntuali della Confederazione.
A partire dagli anni Ottanta si è assistito a un riorientamento. In una situazione di grave crisi finanziaria e di attrattività del sistema ferroviario si è infatti affermato il riconoscimento delle sue effettive potenzialità. Il rilancio è scattato nel 1987 con il varo del progetto «Ferrovia 2000» e, nel 1992, con la decisione per la costruzione delle «Nuove trasversali ferroviarie alpine». Inizialmente il loro finanziamento era ancora fragile. Riposava infatti sulla concessione di crediti da parte della Confederazione. Rapidamente ci si rese tuttavia conto che il loro rimborso sarebbe stato impossibile e che occorreva un sistema garante di sicurezza e continuità. Attraverso un lungo percorso parlamentare e diverse votazioni popolari, si è giunti così, nel 1998, alla costituzione di un fondo specifico. Esso beneficiava di risorse vincolate, aveva carattere temporaneo ed era destinato solo ad alcune nuove grandi opere. Nel 2016 si è poi giunti a una soluzione definitiva, che ha previsto un fondo a tempo indeterminato per tutti i progetti di ampliamento e anche per la manutenzione e la conservazione della rete (Fondo per l’infrastruttura ferroviaria). Il finanziamento del sistema dei trasporti è stato in seguito ulterior-
Investimenti nelle infrastrutture
stradali e ferroviarie in Svizzera (in milioni di franchi)
strada ferrovia
19501960197019801990200020102020
mente potenziato. A partire dal 2006 è stato compiuto un primo passo disponendo risorse specifiche a tempo determinato da allocare al sostegno della mobilità negli agglomerati (Programmi di agglomerato). Un secondo passo è giunto nel 2020 con l’attivazione di un nuovo fondo (FOSTRA) volto, da un lato, a rafforzare il sostegno alle strade nazionali (a complemento dell’esistente FST) e, dall’altro, a dare continuità all’impegno a favore del traffico d’agglomerato.
Oggi strada e ferrovia beneficiano dunque di sistemi di finanziamento più o meno analoghi nella loro meccanica e, su questa base, sono periodicamente elaborati programmi di in-
vestimento specifici per sviluppare le rispettive reti. Esiste dunque un effettivo coordinamento tra lo sviluppo delle infrastrutture stradali e ferroviarie? Oggi sembra prevalere una corsa tra i tre Uffici federali competenti (strade, trasporti e sviluppo territoriale) a spendere tutto quanto i rispettivi fondi mettono a disposizione. È sostenibile la promozione di infrastrutture parallele con compiti analoghi? È forse giunto il momento di dar vita a un unico fondo di finanziamento che permetta la definizione di chiare priorità intermodali. Il voto del 24 novembre potrebbe essere l’occasione per verificarne la fattibilità.
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Il Mercato e la Piazza
La pianificazione territoriale serve a qualcosa?
In Svizzera la pianificazione del territorio è una creazione degli anni Settanta dello scorso secolo. Prima di allora, specie nelle città, si erano concepiti piani urbanistici soprattutto per tener conto delle conseguenze di nuove infrastrutture di trasporto, però avevano raramente carattere vincolante. A partire dalla fine degli anni Settanta l’entrata in vigore della legge federale sulla pianificazione del territorio ha obbligato tutti i Comuni della Svizzera a un piano regolatore che definiva, in maniera vincolante, dove si poteva costruire e dove no. Uno degli effetti collaterali di questa legge è stato di dotare la Svizzera di una statistica delle superfici che prima non esisteva. Così oggi sappiamo quanti ettari di terreno vengono annualmente trasformati in superfici di insediamento e quanti invece vengono sottratti alle attività dell’agricoltura per essere devoluti alla costruzione. L’Ufficio federale del-
Affari Esteri
lo sviluppo territoriale ha di recente pubblicato uno studio per informare sulle tendenze in atto nell’uso del territorio. Dallo stesso apprendiamo che tra il 1985 e il 2018 la superficie di insediamento e quella boschiva sono aumentate mentre la superficie agricola è diminuita. Infine la superficie improduttiva dovrebbe essere restata più o meno costante anche se, in seguito all’abbandono di molti pascoli, in tendenza è cresciuta. Al centro dell’interesse degli addetti ai lavori –come promotori immobiliari e pianificatori del territorio – c’è il conflitto tra la superficie di insediamento e la superficie agricola. Siccome il territorio nazionale è quello che è, è anche inevitabile che, in particolare nelle localizzazioni urbane, se la superficie d’insediamento aumenta, la superficie agricola tenderà a diminuire. Prati, campi, vigneti, orti e frutteti lasceranno il posto a cemento e asfalto. È per evitare questo conflit-
to o almeno per attenuarlo che, negli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo, Confederazione, Cantoni e Comuni si sono dotati degli strumenti della pianificazione del territorio come i piani direttori e i piani regolatori.
Confrontati con l’evoluzione dei diversi usi del suolo la prima domanda che ci si può porre oggi è: ma la pianificazione del territorio è servita a qualcosa? A livello nazionale la risposta degli esperti è generalmente negativa e questo perché, come abbiamo visto, la superficie agricola ha continuato a diminuire mentre quella edificata a crescere. Questo giudizio è secondo noi un po’ troppo semplice. In effetti se confrontiamo i tassi di variazione negli usi del suolo del periodo 1972-1997 con quelli del periodo successivo, ci accorgiamo che nell’evoluzione delle tendenze per i due tipi di uso del suolo è intervenuto un notevole colpo di freno. Lo pos-
Stati Uniti: le strategie di Harris e Trump
Martedì 5 novembre gli elettori statunitensi sono chiamati a scegliere il loro nuovo o la loro nuova presidente. I sondaggi indicano un pareggio, si muovono leggermente da settimane e dentro il margine di errore. Alla sua terza candidatura per il Partito repubblicano, Donald Trump è molto competitivo, nonostante porti con sé una retorica eversiva che ha già trovato la sua espressione nell’attacco al palazzo del Campidoglio del 6 gennaio 2021. Quel che qualche anno fa sembrava un’impermeabilità dell’ex presidente a qualsiasi inciampo che avrebbe stroncato la carriera a chiunque, ora si può definire «normalizzazione». Trump con le sue bugie, le sue accuse, i suoi insulti, le sue proposte fantasiose è diventato normale. Gli elettori sostengono di aver imparato a fare la tara a quel che dice; sanno che, per dire, gli immigrati da Haiti non mangiano i gatti dei vicini, ma l’idea sottostante, cioè la regolamen-
Zig-Zag
tazione degli ingressi, è giusta, quindi lo votano. Questa normalizzazione ha avuto un effetto esaltante sul candidato repubblicano, che ha levato anche i pochi freni rimasti e si è messo a esplicitare il fatto che, se dovesse perdere, la colpa sarebbe dei nuovi brogli elettorali e che quindi si sta preparando a una transizione belligerante del potere. L’esaltazione riguarda anche la strategia scelta in queste ultime settimane: grandi comizi in Stati non in bilico e anzi solidamente democratici, come la California o l’appuntamento del 27 ottobre al Madison Square Garden di New York, in modo da avere risonanza a livello nazionale. Trump è convinto che, in una situazione di pareggio, sia questa la tattica più efficace. Kamala Harris, che ha ridato vita alla campagna elettorale del Partito democratico, di fronte alla normalizzazione del suo avversario ha deciso di diventare più precisa e aggressiva nel contestare le
bugie e l’opacità di Trump e di visitare ogni circoscrizione contendibile negli Stati considerati in bilico, in particolare la Pennsylvania, lo Stato che chi vuole arrivare alla Casa Bianca non può perdere. Poiché questa elezione verrà decisa da pochi milioni di persone, Harris cerca di andare tra gli indecisi, organizza piccoli comizi molto calorosi nelle città considerate decisive. La candidata dei democratici sta incontrando grandi difficoltà in particolare tra le minoranze afroamericane e ispaniche. Ha recuperato rispetto ai numeri che aveva Joe Biden ma non abbastanza: nelle elezioni del 2016 il voto dei neri è andato per il 92% a Hillary Clinton, con solo un 7% per Trump; nel 2020 il 90% dei neri ha votato per Biden, con Trump al 9%; secondo una rilevazione recente Harris vincerebbe il voto degli afroamericani 78 a 15%. Questo vuol dire che una parte del voto si è trasferita ver-
Uno stimolo per darsi una smossa
Mi sa che qualche libro, forse perché stufo o insofferente della collocazione assegnatagli in una biblioteca, o magari perché insofferente dei suoi vicini di destra e di sinistra, abbia la capacità di cercarsi una più consona sistemazione. Il sospetto mi è nato dopo aver avuto fra le mani un libro – che non stavo cercando – apertosi su pagine che subito mi hanno colpito, tanto da spingermi a metterlo non più nel settore dei racconti, ma in quello della saggistica. Autore e libro beneficiari recenti di una simile «promozione» sono Giuseppe Pontiggia e il suo Prima persona, una tavolozza straordinaria di aforismi e narrazioni proposta una ventina di anni fa con una caratteristica che da sempre prediligo: essere leggibile, e godibile anche, senza seguire un ordine. L’argomento trattato dallo scrittore comasco collimava
perfettamente con una riflessione fatta poche ore prima riguardo a un tic diventato ormai una sorta di «tormentone» che mi scatta autonomamente e temo possa essere fastidioso per chi mi sente. Provo a chiarire. L’età, la sedentarietà e altre contingenze a poco a poco stanno moltiplicando i momenti di silenzio, specialmente nella seconda parte della giornata. Così ogni tanto, minimo due o tre volte ogni giorno, mi sfugge un «Ma sì…» che fa scattare anche un immediato riflesso pavloviano: con gli occhi vado a cercare quelli di mia moglie, o di chi è presente in quel momento. Non solo. Fa scattare anche un resoconto di quante volte durante il giorno ho già detto e ripetuto quel «Ma sì…». Se è la prima si sorride; oltre, mi limito ad alzare due o tre dita a mo’ di sottolineatura che in qualche modo funziona
di Angelo Rossi
siamo dimostrare, per esempio, con i dati relativi ai tassi annuali di variazione per i due tipi di uso del territorio in Canton Ticino. Nel periodo 1972-1997, quando la pianificazione del territorio era ancora alle sue prime prove, la superficie agricola ha segnato in Ticino un tasso di diminuzione annuale pari al 4%, mentre la superficie edificata è aumentata a un tasso annuale pari al 2%. Nel periodo successivo, cioè dal 1997 al 2018, i tassi di variazione annuale si sono ridotti. Per la superficie agricola la perdita annuale è stata pari allo 0,7% e la superficie edificata è aumentata a un tasso annuale pari allo 0,7%. Secondo noi il colpo di freno nell’evoluzione di questi due usi del suolo deve essere attribuito in parte significativa all’introduzione dei piani regolatori che hanno limitato le superfici edificabili.
Costatiamo così che, mentre nel primo periodo, vale a dire l’ultimo quar-
to del secolo scorso, il tasso annuale di variazione della superficie d’insediamento è stato pari a quasi il doppio del tasso di crescita della popolazione residente, nel periodo successivo, vale a dire i primi due decenni di questo secolo, i due tassi annuali sono stati quasi uguali: ovvero 0,6% per la popolazione e 0,7% per la superficie di insediamento.
Questo significa che nel primo periodo accanto alla crescita demografica sono intervenuti altri fattori a gonfiare la domanda di superfici d’insediamento. Tra questi di sicuro la domanda per residenze secondarie. Da ultimo osserviamo che l’aumento della superficie d’insediamento rappresenta solo il 7,7% della diminuzione della superficie agricola. Questo perché nel Canton Ticino la diminuzione della superficie agricola è stata dovuta per il 73,3% all’aumento della superficie boschiva e per il 14,8% alla crescita della superficie improduttiva.
so Trump e si tratta in particolare di giovani uomini. Un’altra tendenza è proprio questa: una divisione di genere ben più spiccata rispetto agli altri anni, per cui gli uomini votano l’uomo e le donne votano la donna. Barack Obama, l’ex presidente che ha appena iniziato il suo tour a sostegno di Harris, si è rivolto direttamente ai «fratelli» neri: non siate sessisti, non fatevi illudere da chi si pone come un uomo forte… Parole precise, segno di preoccupazione. Per quanto riguarda i latinos (ispanici) una delle richieste principali riguarda il controllo dell’immigrazione e della criminalità, e per questo Trump si sta rafforzando. Nel 2016 Clinton aveva vinto 6828% contro Trump; nel 2020 Biden si era imposto 62-36% e, secondo recenti rilevazioni, Harris è avanti 5637%: anche in questo caso un grande rischio negli Stati in bilico con una forte presenza ispanica, come l’Arizona e il Nevada. Proprio come accade
per i black, sono soprattutto gli uomini a indicare la propensione a votare per Trump, e rappresentano proprio quel fenomeno di normalizzazione che ha consentito all’ex presidente di restare nella corsa dentro al suo partito e di fronte all’elettorato. Gli elettori ispanici sono d’accordo sulla linea dura di Trump e, tra quelli che sono negli Usa da qualche generazione, cresce il consenso per la deportazione degli immigrati illegali (che sono per la maggior parte latinos) proposta dall’ex presidente. Durante l’intervista con Charlamagne tha God, popolarissimo tra i giovani afroamericani, Harris ha messo insieme le sue strategie utilizzando anche le indicazioni di Obama e ha detto: Trump è un autocrate, si mostra forte ma è fragile e ha bisogno di minacce e imbrogli per sentirsi solido. Soprattutto: non si prenderà cura di voi, cerca solo il potere e lo fa mentendo, e no, questo non è normale.
anche come scusa per la ripetizione. Girando attorno a quel tic, dai dizionari non solo ho avuto conferma che il mio «Ma sì…» ha la funzione di porre domande su come potrà evolvere la situazione, ma ho anche scoperto può essere scritto con un «Massì» e soprattutto che è un avverbio. E dire che io l’avevo etichettato come interiezione, parificandola a certe locuzioni improprie o secondarie che è sempre più facile trovare in tanti articoli di giornale (oltre ai tanti e diffusi «Vabbé», su un noto foglio sportivo italiano ho trovato un commento disseminato di micidiali «Pota», la parola dialettale bergamasca, con cui l’autore sperava di dimostrare la sua partecipazione al successo della Atalanta in Champions League!). E mi sbagliavo perché avevo iniziato a collegare il mio «Ma sì…» con l’interiezione evocata da Pon-
tiggia per descrivere quest’«incontro zen» avvenuto ad Acireale tra il 1881 e il 1882: un convoglio ferroviario che trasporta Giuseppe Garibaldi si ferma alla stazione della città siciliana, proprio di fronte all’Hotel delle Terme, residenza temporanea di Richard Wagner; sentendo il vociare della folla, il compositore scende in strada e chiede al direttore dell’albergo chi è quel vecchio che viene acclamato. Così prosegue Pontiggia: «Il direttore dell’albergo gli risponde che è l’eroe dei due mondi. Wagner dice: “Ah!”. A sua volta Garibaldi, vedendo dal treno quella figura venerabile in vestaglia, chiede chi sia. Gli viene risposto che è l’inventore della musica dell’avvenire. Garibaldi dice “Ah!”. Nessuno dei due si muove. Il treno riparte». Poche righe dopo Pontiggia annota che l’interiezione più arcaica aveva suggel-
lato l’incontro di due personaggi epocali e aggiunge: «Viene così risparmiata ai posteri ogni frase memorabile e ci si limita a un lascito esemplarmente alieno da ogni volontà dimostrativa (“Ah!”), da ogni entusiasmo edificante (“Ah!”), da ogni irrinunciabile impegno, compito o missione (“Ah!”)». Pontiggia conclude ricordando che secondo alcuni grammatici «Ah!» è una frase «che ne contiene così tante da diventare alla fine la più ricca e la più completa». Questo rafforza l’impressione che anche il mio «Ma sì…» possa diventare interiezione visto che non pone domande su come potrà evolvere la situazione, ma cerca solo di interrompere una quotidianità ormai dominata dal torpore. Anzi: non escludo che quel «Ma sì…», in fondo, possa diventare stimolo per darmi una smossa.
di Paola Peduzzi
di Ovidio Biffi
CULTURA
Una lotta culturale condivisa
Diversi gli stimoli lanciati dal FIT soprattutto in difesa della democrazia e della libertà
Il ritorno del divino
Nel suo album più recente Wild God, Nick Cave ci propone un incredulo senso di rinascita
L’incontro tra diverse arti
La commistione di più sfere creative fu al centro della ricerca autoriale di Nanda Vigo
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Richard Pryor, da provocatore a profeta
In gita con Jonas Marti Ritorna la Storia infinita del giornalista ticinese: per celebrarla, «Azione» invita a una passeggiata
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Vite da ridere (o quasi) ◆ Un’esistenza estrema, una carriera fulminante, un declino drammatico, ma anche una parabola che gli permise di anticipare di decenni (e in maniera sana) l’attuale movimento woke
Conoscere più da vicino la vita e il contributo artistico del grande comedian afroamericano Richard Pryor diventa attività preziosa soprattutto per riflettere sull’ideologia woke che oggi imperversa. Maschilista, violento e padre snaturato: possibile che questa ideologia, nella sua migliore accezione – ovvero la consapevolezza del razzismo e sessismo endemico della società americana – possa aver mosso i primi passi proprio grazie alla sua parabola stilistica sul palco?
Come uomo e artista è stato sicuramente figlio del suo tempo e, soprattutto, del suo ambiente… e che ambientino! Nasce nel 1940 in un bordello della periferia nera di Peoria, Illinois, di cui la madre e la nonna sono tenutarie. È il frutto di un rapporto occasionale della madre con un ex pugile, neppure a dirlo gestore anch’egli di bordelli e bar. Richard trascorre infanzia e giovinezza sotto quel tetto, tra il via vai dei clienti e un’umanità derelitta. La sua «infanzia» finisce ufficialmente a 14 anni, con l’addio alla scuola che avviene dopo aver minacciato di picchiare un insegnante. Seguono lavoretti più o meno leciti e il servizio militare in Germania, che passa quasi interamente in cella dopo aver accoltellato un commilitone bianco per un non meglio precisato scambio di vedute in tema razziale. Tornato a Peoria, abbraccia con entusiasmo tutto ciò che la sua città ha previsto per i suoi figli neri, ovvero figli naturali (ndr: anche detti illegittimi, cioè nati fuori dal matrimonio), rapporti occasionali e tossicodipendenza. Ancora un violento alterco, questa volta con il padre, lo costringe a cambiare aria, finendo per girare l’America con un gruppo di artisti itineranti. La folgorazione avviene in Canada, quando sfogliando la rivista «Newsweek», si imbatte in un articolo su una stella in ascesa, il comedian afroamericano Bill Cosby. Richard vuole diventare come lui, una star affermata, ricca e rispettata. Considerando che oggi Cosby è tra i più famigerati predatori sessuali – alla luce di decine di denunce sopraggiunte decenni più tardi – è paradossale come, invece, Cosby sia stato il primo comedian nero apprezzato dal pubblico bianco: ben vestito, educato e con un senso dell’umorismo perfettamente calibrato sulla borghesia bianca dei primi anni Sessanta. Il «primo» Pryor, pertanto, non va molto per il sottile e parte a spron battuto scimmiottando il più illustre collega. La scelta lo premia, aiutandolo a conquistare velocemente le luci della ribalta. Pryor, però, è insoddisfatto: artisticamente sta girando a vuoto. Con una vita privata nella morsa di cause per alimenti, figli na-
turali e droga, il crollo arriva proprio a Las Vegas e direttamente sul palco: «Chi è che sta guardando questa gente, Rich? Non lo sapevo, perché non sapevo chi fosse Richard Pryor. E in quel lampo d’introspezione ho un vero crollo nervoso. […] Con un lampo d’ispirazione, finalmente riesco a dire qualcosa alla sala gremita: “Che cazzo ci faccio io qui?” Poi mi giro e lascio il palco».
Bandito per sempre da Las Vegas, decide di liberarsi una volta per tutte della sua immagine fasulla. Ispirato anche dalla comicità di Lenny Bruce, torna a Los Angeles e comincia a frequentare il club del comico nero Redd Foxx (relativamente conosciuto anche da noi grazie alla scalcagnata sitcom «Sanford & Son»): davanti a un pubblico nero – in un periodo in cui, usando le parole di Pryor, stanno facendo fuori «tutti i buoni» da Malcolm X a Martin Luther King, fino a John e Robert Kennedy – Pryor ricostruisce un proprio punto di vista originale, anche politico, aiutato tra gli altri dall’incontro con Miles Davis che, purtroppo, diventerà pure suo compagno di festini.
Ma anche questa sua parentesi losangelina non dura molto: diventato ancora padre, reagisce a suo modo. Scappa a Berkeley: «Fu il periodo più libero della mia vita. Berkeley era un circo di idee entusiasmanti, estreme, pittoresche, militanti. Droghe. Hippie. Pantere Nere. Proteste contro la guerra. Sperimentazione. Musica, teatro, poesia. Ero come un parafulmine. Assorbivo briciole di questo e di quello, mentre disegnavo il mio personale percorso inesplorato». Travolto da tutto questo, anche le sue esibizioni diventano più sperimentali: a volte sul palco intona solo versi animaleschi, altre volte decide di ripetere una sola parola, solitamente una parolaccia, ma declinandola in 57 intonazioni diverse. Quel che è importante in questo nostro racconto è che proprio qui si appropria della parola «negro». Pryor la sdogana e, tornato a Los Angeles, la usa per la prima volta davanti a una platea mista. Sul palco stavolta non sale più un emulo di Bill Cosby, ma il vero Richard Pryor, che fa battute sullo sballarsi, sul farsi l’amica della moglie e sui bianchi conservatori che vanno a caccia di donne nei
ghetti neri. Scarta tabù su tabù come fossero caramelle, e il pubblico, dopo un momento di spaesamento, risponde entusiasta. Neri e bianchi fanno a gara per mettersi in coda ai suoi spettacoli, gli album dei suoi monologhi vanno a ruba e anche il cinema comincia a interessarsi a lui. Ma la fama di artista «inaffidabile» non è graditissima agli Studios e così, nonostante performance sublimi come quella ne La signora del Blues accanto a Diana Ross, il Pryor cinematografico galleggerà sempre tra le pellicole della blaxploitation (ndr: da black, nero, ed exploitation, sfruttamento) e commediole innocue, come quelle in coppia con Gene Wilder. Proprio alla vigilia del grande successo al botteghino di Nessuno ci può fermare (1980) arriva, però, un’importante svolta nello stile di Pryor dal vivo, figlia di un episodio che gli accade di ritorno dal suo primo viaggio in Africa: «Seduto nella hall dell’albergo, una voce mi fa: “Che cosa vedi? Guardati attorno. Vedi per caso dei negri?” Rispondo: “No”. E la vocina: “Lo sai perché? Perché non ce ne sono” . Ero lì da tre settimane
e non avevo mai pronunciato quella parola. E, amici, al pensiero iniziai a piangere…».
In quel momento Pryor capisce il potere insito nelle parole. Comprende, cioè, che nonostante avesse deciso di sdoganare la parola «nigger » proprio per «liberarsi» e aiutare a liberare la testa del suo popolo, allo stesso tempo aveva finito per «ingabbiare» sia sé stesso sia i suoi fratelli e sorelle. È forse il primissimo vagito di un movimento woke ante litteram: del resto, prima di tornare in auge più recentemente con le proteste di Black Lives Matter, il termine woke è stato usato inizialmente proprio dalla comunità afroamericana con significato di «stare all’erta» rispetto a un pericolo.
Fortunatamente Pryor si è fermato lì, continuando a essere un comedian graffiante e urticante. Quella che è diventata l’ideologia woke di oggi è arrivata, invece, ad alimentare anche derive estremiste come la cancel culture. Derive con le quali Pryor ci avrebbe fatto sicuramente divertire, disintegrandole sul palco… in 57 modi diversi.
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Leonardo Rodriguez
Carlo Amatetti
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Democrazia, libertà e attivismo
Spettacoli ◆ Al Festival Internazionale del Teatro, che si è da poco concluso a Lugano, sono emersi temi anche delicati, messi però in scena con coerenza estetica
Giorgio Thoeni
Una rassegna di spettacoli, quando è costruita con un certo criterio, è sempre un piacevole luogo di incontri e scoperte. Ma soprattutto è palestra di riflessioni. Come la 33esima edizione del FIT, il Festival Internazionale del Teatro e della scena contemporanea, che si è conclusa a Lugano negli spazi del LAC e che, anche questa volta, non ha deluso le aspettative richiamando un considerevole numero di spettatori a ogni appuntamento.
Si è trattato di un pubblico variegato, fra giovani e meno giovani, famiglie, addetti ai lavori e semplici curiosi, una massa critica che ha dato al FIT quella dimensione che una manifestazione di questo tipo si attende. Certamente, uno degli aspetti che hanno accompagnato questa edizione è il cappello tematico che la direttrice artistica Paola Tripoli ha voluto assegnarle: Esercizi di libertà. Democrazia e diritti: tra semplificazione e nuovi ismi Assai aperto dunque nella sua totalità, ma quantomai attuale. E, nonostante l’abbandono di una dichiarata linea di genere voluta per le precedenti edizioni, poi abbandonata per limiti dettati dall’offerta, con gli spettacoli più aderenti al tema editoriale a farla da padrone quest’anno sono state tuttavia ancora e soprattutto le donne. Con la loro sensibilità, la loro forza, la determinazione e il coraggio, hanno
proposto in diversi casi un teatro che ha affrontato temi anche delicati senza troppe circonvoluzioni ideologiche bensì con coerenza estetica, un pragmatismo che lasciava all’argomento la possibilità di essere smembrato e accolto nell’universo di un segno distintivo con la giusta dimensione di autorialità.
Un esercizio di libertà che spesso ha rivelato il suo posto nell’ambito di un attivismo necessario e coinvolgente attorno a soggetti tutt’altro che superficiali. Come ad esempio l’aborto, una realtà dapprima consentita e poi negata nella Polonia di oggi che l’artista Gosia Wdowik ha portato sulla scena con She was a friend of someone else Un’arte civile, dunque, in cui lo spettacolo non è solamente un luogo dell’arte dove l’estetismo è padrone, ma si tramuta in un’esperienza che attraversa il pubblico, lo stimola, lo attanaglia, immergendolo in questioni cruciali.
Come nella libera riscrittura del mito di Medea a opera del Teatro dei Borgia di Barletta e interpretato da Elena Cotugno (premio Maschere del Teatro 2021 e due volte finalista Premio UBU), uno spettacolo di cui firma la drammaturgia con Fabrizio Sinisi. Ma è giusto chiamarlo spettacolo quando in realtà è una fotografia dalla cruda nitidezza di una tragedia che si consuma ovunque e ogni gior-
no? È il racconto di una donna rumena emigrata in Italia, prigioniera della schiavitù sessuale, costretta cioè a prostituirsi per sopravvivere, oppressa da un moderno Giasone, ma pronta al sacrificio dei propri figli per difendere la sua autodeterminazione e il diritto di esistere come donna. Una libertà negata e declinata, ma denunciata da un teatro sociale e grazie a una straordinaria attrice.
Tecnologia e arte sono invece a confronto in Seer con Tamara Gvozdenovic, artista indipendente, danzatrice e coreografa serba con base a Bruxelles. Sulla scena, la troviamo alle prese con una performance immersiva dove la metafora sportiva diventa gradualmente una gabbia di impulsi programmati a cui è quasi impossibile sottrarsi. Un’assaggio di IA forse da temere.
L’originale costruzione drammaturgica di Angela Demattè per L’estasi della lotta di Carlotta Viscovo punta il dito sul rapporto fra donne e arte in un intreccio biografico fra lei e la scultrice Camille Claudel. Da un lato la soffocante sudditanza maschilista di Rodin e seguaci, dall’altro l’esperienza vissuta di un’attrice in lotta per i diritti suoi e di un intero settore professionale duramente penalizzato da un frustrante opportunismo sindacale.
Un’altra artista di rilievo nel pano-
rama del FIT che abbiamo imparato a conoscere anche nel corso di passate edizioni è Elena Boillat. Con il debutto della sua Partiturazero, già finalista di Premio e ospite di diverse residenze in Svizzera e in Ticino, la giovane performer ha mostrato un’intrigante personalità con una sequenza misuratissima creata attorno al respiro – materia primaria della sua ricerca – unita al suono di una voce che, come per un elogio della lentezza, costruisce con movimenti quasi impercettibili del corpo in una partitura musicale aperta a significati più profondi. Un’esperienza meditativa molto singolare, incisiva, di un’artista che si è fatta apprezzare per tenacia e libertà creativa. Insomma, sono stati diversi gli stimoli lanciati dal FIT nel segno di una lotta culturale condivisa, soprattutto per la difesa della democrazia e della libertà. Un’urgenza testimoniata anche dal regista svizzero Milo Rau in un articolo pubblicato recentemente da «Le Monde» quando scrive: «Le nostre armi sono i nostri teatri, i nostri musei, le nostre feste di quartiere, le nostre università, le nostre feste culturali e popolari. Le nostre armi sono anche i nostri ricordi e le nostre speranze, in altre parole la società in tutta la sua diversità».
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Il senso recondito del dolore
Musica ◆ Uno sguardo all’ultimo capolavoro di Nick Cave, attualmente impegnato in una tournée attraverso l’Europa
Benedicta Froelich
Sebbene sia naturale, per l’essere umano, temere il dolore – e, soprattutto, quella forma particolarmente lacerante di dolore che deriva dall’incontro con la morte – non si può negare come gli equilibri di una mente molto sensibile possano essere non solo influenzati, ma del tutto alterati e sbilanciati dall’esperienza di una sofferenza emotiva acuta; il che, nel caso di un artista, conduce inevitabilmente a tentare di sublimare tale dolore attraverso il proprio istinto creativo, ricercando una qualche forma di catarsi nell’arte.
Ciononostante, si può dire che ben pochi artisti siano riusciti a far brillare quella che W. B. Yeats chiamava «una terribile bellezza» con il medesimo, abbagliante fulgore di cui il cantautore australiano Nick Cave è stato capace da otto anni a questa parte – da quando, cioè, convive con un innominato ma onnipresente fantasma, che da dietro le quinte regge su di sé l’intera impalcatura degli ultimi quattro album: lo spirito di Arthur, figlio quindicenne del cantante, scomparso nel 2015 per un tragico incidente. Una disgrazia alla quale ha fatto seguito, nel 2022, un’altra morte improvvisa: quella di Jethro Lazenby, primogenito di Nick, morto a soli 31 anni dopo una lunga serie di problemi psichici.
Ecco quindi che Cave, da artista impavido e intimista qual è sempre stato, ha trovato in sé la forza di sopravvivere a tali catastrofi tramite un coraggioso processo di confronto con il dolore, che lo ha visto ammanta-
re la sua musica di una profonda coltre metafisica, dapprima in Skeleton Tree (2016), e poi in Ghosteen (2019) – quest’ultimo un dolente, eppure luminoso affresco del mondo interiore di un uomo impegnato a restituire un senso al proprio sé nel tentativo d’innalzarsi sopra il rimpianto.
Oggi, il nuovo Wild God, ancora una volta inciso con la fedele band dei Bad Seeds, sembra costituire il capitolo conclusivo di questo lungo «viaggio al termine del lutto»; infatti, laddove Ghosteen ci aveva presentato suggestioni oniriche e ammantate di una sacralità quasi rituale, Wild God rappresenta un parziale ritorno al Cave più caustico e inquieto degli anni duemila, qui alle prese con una serie di brani a cavallo tra disillusi inni urbani (a base di sonorità elettroniche, cadenzate dal ritmo spietato della drum machine), e ariose orchestrazioni con tanto di sezioni d’archi e cori quasi mistici, in una combinazione estremamente evocativa e coinvolgente.
La particolare atmosfera che pervade quest’album è, del resto, evidente fin dalla traccia di apertura, la sognante Song of the Lake, in cui Cave rispolvera in maniera magistrale quello stile di recitativo da sempre a lui caro, e che in questo disco si fa particolarmente presente; allo stesso tempo, l’artista s’imbarca in un gioco di autocitazioni che, lungo tutto il CD, riprende molteplici linee melodiche di brani del passato, arricchendo le liriche di riferimenti a lavori precedenti; tanto che il fan più sma-
liziato non avrà problemi a orientarsi in questa magistrale serie di scatole cinesi (si vedano gli arguti riferimenti all’album Push the Sky Away, risalente al 2013, presenti nella title-track). Non solo: basta prestare attenzione ai testi per rendersi conto di come la costante presenza del divino faccia di Wild God quasi un concept album già a partire dal suo titolo, Dio selvaggio E se ogni brano del disco cita esplicitamente i poteri superiori, Nick sembra qui combattuto tra l’idea di una divinità pagana, a tratti imprevedibile e vendicativa (come nella già citata title-track e nell’ipnotico lento Conversion), e l’entità di matrice cristiana, benevola e compassionevole, che appare invece nei toccanti ma surreali Long Dark Night e Frogs – e, soprattutto, nell’ossessiva ballata Joy: quasi
una versione moderna dell’apparizione dei fantasmi natalizi nel celeberrimo Christmas Carol di Dickens, in cui il linguaggio vagamente d’altri tempi incornicia l’ennesimo incontro straziante con il grande assente, ovvero il giovane Arthur («un fantasma in enormi scarpe da ginnastica, stelle ridenti attorno alla testa (…). / Si sedette sul mio letto, questo ragazzo fiammeggiante / e disse: abbiamo tutti provato troppo dolore, ora è il momento della gioia»).
Questo sentimento d’incredula rinascita rivive in pezzi strazianti, eppure intrisi di speranza, quali l’epico Final Rescue Attempt («e io ti amerò per sempre»), e O Wow O Wow (How Wonderful She Is), per poi raggiungere la massima apoteosi nel trionfante brano conclusivo del CD, As The Wa-
ters Cover the Sea – a tutti gli effetti un pezzo gospel vibrante e ottimista, che sembra offrire a Cave una sorta di cesura con il passato, quasi un anelito a un possibile futuro.
E in effetti, Wild God appare come una confessione: laddove Skeleton Tree, Ghosteen e il più recente Carnage (firmato in coppia con Warren Ellis nel 2021) offrivano un’istantanea dei moti interiori di Cave, accompagnandolo lungo le varie fasi del lutto e della sua elaborazione, quest’opera propone un autore dotato di una nuova consapevolezza, impegnato a riconquistare quel senso di appartenenza al mondo che, in fondo, non lo aveva mai del tutto abbandonato – e con il quale si è ripetutamente confrontato nella fase più recente della sua carriera.
In un certo senso, oggi Wild God rende la metamorfosi completa: sebbene Cave non possa mai più tornare a essere quello di un tempo, poiché il passato lo ha per sempre segnato e consumato, la sua anima ha infine accolto dentro di sé un dolore così grande da poterla potenzialmente annientare. E se queste dieci tracce rappresentano ben più del ritratto di un sofferto percorso di personale emancipazione dalla crudeltà del dolore, come ascoltatori noi non possiamo che essere grati a Nick Cave per essere riuscito, ancora una volta, a dar voce a quanto, per la maggior parte dei comuni mortali, può definirsi quasi indicibile – e a nobilitarlo tramite la propria poetica; il che, in fondo, costituisce la misura più autentica di un vero, grande artista.
Migliora lo stato della letteratura italiana all’estero
Fiera ◆ Alla Buchmesse di Francoforte è emerso che negli ultimi vent’anni il numero delle opere italofone tradotte è quadruplicato
Vittoria Vardanega
Per arrivare in America c’è ancora molto da fare, ma in Europa la traduzione della letteratura italiana va molto meglio: più verso la Spagna che non verso la Germania, dove per ora arrivano solo opere che mettono in pagina l’Italia stereotipata.
Si è conclusa ieri, domenica, la Buchmesse di Francoforte, ovvero la fiera del libro più grande al mondo: un incontro fondamentale per gli addetti ai lavori, un’occasione per favorire l’interscambio letterario tra Paesi e anche un’importante vetrina per la letteratura italiana all’estero. Soprattutto perché l’Italia è tornata ospite d’onore, questa volta con il motto «Radici nel futuro». Non accadeva dall’edizione del 1988.
In un calendario fitto di eventi, la diffusione internazionale della letteratura italiana è stata uno dei temi centrali della programmazione ad essa dedicata. A partire dai dati presentati dall’Associazione italiana editori: nel 2023 i diritti di 7838 titoli italiani sono stati venduti a editori stranieri, una cifra quadruplicata rispetto al 2001 (quando erano solo 1800), e che cresce più velocemente rispetto ai libri stranieri acquisiti dagli editori italiani. Si tratta soprattutto di saggistica (31%), libri per bambini e ragazzi (30%) e narrativa (25%). Seguono religione, manualistica, fumetti e libri d’arte.
Quali sono le caratteristiche che rendono un libro italiano più facilmente «esportabile» o che ne deter-
minano il successo all’estero? «L’enfasi sull’italianità rende un titolo internazionale dal punto di vista del mercato. Interessano le storie radicate nel territorio italiano o addirittura regionale», afferma Beatrice Masini, scrittrice ed editor Bompiani. «È una tendenza particolarmente pronunciata nella narrativa per adulti, meno per bambini e ragazzi, i cui titoli sono molto apprezzati fuori dai confini, a volte ancora prima (o di più) che in Italia».
La letteratura italiana tradotta all’estero tradizionalmente appartiene al genere dei gialli o delle saghe familiari, con storie fortemente legate al contesto locale. Non a caso gli esempi citati più spesso nel corso della fiera sono Camilleri e Ferrante, che con l’Amica Geniale ha raggiunto un successo planetario sia di pubblico sia di critica, tanto che – com’è noto – il «New York Times» ha eletto il primo volume della tetralogia a miglior libro del XXI secolo finora.
Stefano Mauri, del Gruppo editoriale Mauri Spagnol, ha notato come alcuni titoli possano addirittura funzionare meglio all’estero che in Italia, proprio perché permettono di immergersi nell’atmosfera e nella cultura italiana. Concorda, Linus Guggenberger, della casa editrice tedesca Wagenbach: «I titoli che soddisfano un “desiderio di Sud”, abbastanza diffuso in Germania, hanno successo», afferma. «I lettori sono attratti da libri che ripropongono un’immagine
dell’Italia un po’ stereotipata, arcaica e neorealista, in linea con le loro aspettative». «Lo stereotipo non è per forza negativo», commenta Michael Reynolds della statunitense Europa Editions. «Si può assecondare l’interesse iniziale, come un punto di partenza, una base su cui poi costruire un interesse più vasto nella letteratura italiana». Il successo di Ferrante, ad esempio, ha permesso di riscoprire anche
È questa l’immagine scelta per rappresentare alla Buchmesse la letteratura italiana. A Francoforte, anche una delegazione di poeti ticinesi, che hanno avuto modo di presentare le proprie opere o proporre ulteriori riflessioni.
Il Convegno annuale «Dall’italiano al mondo» è stato istituito proprio per facilitare questo tipo di interscambio, e oggi conta una rete di 400 traduttori e traduttrici in una quarantina di Paesi. Alcuni di loro erano presenti a Francoforte, dove è stata presentata una selezione di titoli italiani non ancora pubblicati all’estero.
L’Italia poi promuove le traduzioni dall’italiano con due programmi di contributi erogati dal Ministero degli Affari Esteri e dal Centro per il libro e la lettura (CEPELL), un ente autonomo del Ministero della Cultura. La promozione, soprattutto nel caso del CEPELL, si concentra su lingue meno diffuse, per permettere alla letteratura italiana di raggiungere nuovi Paesi. Oggi la destinazione principale dei titoli italiani è l’Europa (66% nel 2023), seguita dall’Asia (15%), mentre solo il 4% arriva nel grande mercato del Nord America, non per una mancanza di interesse dei lettori, commenta Porter Anderson di Publishing Perspectives, ma perché pochi editori statunitensi sanno leggere in italiano, e di conseguenza pubblicano pochi titoli. I libri sono tradotti maggiormente in spagnolo (13%), cinese (1o%), francese (8%) e inglese (7%).
autrici del passato come Elsa Morante e Alba de Céspedes. Traduttori e traduttrici in questo hanno un ruolo fondamentale, contribuendo a far sì che a raggiungere il mercato estero siano anche libri appartenenti a generi di nicchia, che difficilmente arrivano ai canali tradizionali. «Chi traduce letteratura svolge sempre di più anche le funzioni di agente e scout», racconta Monica Malatesta, della MalaTesta Agency. «I traduttori spesso inviano proposte alle case editrici della lingua di destinazione, fornendo una scheda di valutazione e un estratto già tradotto. È un investimento personale senza garanzia, ma se la proposta viene accettata di solito si ottiene l’incarico».
A. Troubridge
Per un briciolo di simpatica paura
In giro senza caffeina?
Sembrano mostriciattoli ma sono delle scatolette in cui custodire segretamente le caramelle; tutto fatto a mano per festeggiare durante la tradizionale notte di Halloween
Un incidente che non doveva capitare
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Disgrazie come quella subita dalla ciclista svizzera Muriel Furrer non dovrebbero più ripetersi; occorre aumentare il livello di sicurezza nello sport, al di là dello spettacolo
Inchino alla Madonnina sotto la forza del vento
Alpinismo ◆ Il Gran Paradiso, montagna più alta d’Italia, è accessibile a chiunque abbia un minimo di pratica, ma attenzione a non sottovalutare il suo respiro
Tutto gusto. Nulla da nascondere.
Un mix dolce-salato di noci e cioccolato con un pizzico di sale marino.
È la montagna più alta della vicina Penisola. Parlo del Gran Paradiso, noto per essere l’unico massiccio montuoso che supera i 4mila metri a trovarsi interamente in territorio italiano. Le sue diramazioni secondarie danno vita a ben cinque valli: Val di Cogne, Valsavarenche, Val di Rhêmes, Valle dell’Orco e Val Soana. A seguito di tale ricchezza, sono numerose anche le vie d’accesso. Io ho scelto la più gettonata, ossia quella che passa dalla Valsavarenche.
Giungo in località di Pont, sede di uno spettacolare campeggio, scelto da molti alpinisti come «campo base» da cui far partire l’attacco alla vetta del Gran Paradiso (4061 m). Considerando i fatti accaduti in seguito rimpiango di non avere preso con me la tenda che non ho mai acquistato. La decisione di pernottare in un rifugio mi sembra una mancanza di immaginazione, una pigra valutazione allo scopo di risparmiare la modica
quota di 700 m. Dopotutto godevo di un ottimo acclimamento acquisito in Valfurva, durante la scalata del Gran Zebrù.
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Mi metto in cammino per compiere l’avvicinamento. Il sentiero che conduce fino al rifugio Vittorio Emanuele III è colmo di escursionisti. Molti di loro ambiscono a toccare la Madonnina situata in vetta e sono condotti da una guida esperta. Il traffico di persone cresce gradualmente fino al rifugio, dove c’è un continuo viavai di «pellegrini». Perché in verità di questo si tratta. Ne testimonia il fatto che la stragrande maggioranza, me compreso, non toccherà mai la vetta situata qualche metro più in alto, che sta una quarantina di metri più in là della statua, ed è più impegnativa da raggiungere. Certo, il vero traguardo è indubbiamente la statua della Beata Vergine di color bianco candido, e di sedersi su quelle rocce per godere il
panorama che spazia sulla catena alpina, ma i desideri non vengono sempre esauditi. Il mio pernottamento non è tra quelli che si possano ritenere riusciti. A causa di una forte affluenza, circa 250 persone, vengo alloggiato in un container con altri quattro individui di cui non saprò mai il nome. Come scoprirò in seguito, si trattava di un gruppo di sordomuti che hanno dovuto rinunciare alla scalata a causa del malore di un membro della cordata. Il poveraccio si è alzato più volte, tutta la notte, per rimettere la cena servita qualche ora prima. Dubito che soffrisse del mal di quota, trovandoci a soli 2700 mslm. Con molta probabilità il malcapitato si è procurato una congestione, a causa dei forti venti freddi provenienti da nord-ovest. Intendiamoci, non ho penato per la fatica nel prendere sonno – il mio riposo ideale per mantenere un ottimo equilibrio mentale consiste nel
concentrarmi sul respiro dormendo giusto un paio di ore – no, la frustrazione è nata dal dispiacere di non poterlo aiutare in alcun modo. Non avevo con me nessun medicinale e, cercarlo di notte, sarebbe sta-
to un’impresa difficile da realizzare. Alle 02.00 decido di alzarmi e di partire verso il traguardo. Non tutti i mali vengono per nuocere e quello del mio compagno di stanza mi farà evitare la folla di gente in prossimità
Jacek Pulawski, testo e foto
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Nanda Vigo, maestra della luce
Biografia d’artista ◆ Donna libera e dal carattere forte, con la sua visione globale dell’arte è stata una delle protagoniste della scena creativa internazionale
Alessia Brughera
Nanda Vigo è stata una delle figure più avanguardistiche della scena artistica italiana e internazionale. Scomparsa nel 2020 all’età di ottantaquattro anni, nella sua lunga carriera ha fatto di sperimentazione ed esplorazione delle potenzialità dei diversi linguaggi il perno attorno a cui far ruotare la propria ricerca. L’approccio della Vigo alla creazione è sempre stato multiforme e cosmopolita, capace di connettere arte, architettura e design secondo una visione personalissima incentrata sul legame tra luce, spazio e forma.
Chi ha avuto la fortuna di conoscere Nanda Vigo, la descrive come una donna dal carattere non facile, talvolta ruvida e fin troppo schietta, rovescio della medaglia del suo temperamento deciso, della sua risolutezza e della sua caparbietà: «Sono nata in una cultura dominata dagli uomini», raccontava. «Non c’era altro modo: o sviluppavi un personaggio forte o niente. E io l’ho sviluppato per amore del mio lavoro».
La sua idea dell’arte come incontro tra diverse sfere creative è già ben radicata in lei sin dagli esordi. Dopo la laurea al Politecnico di Losanna, la Vigo approda alla fine degli anni Cinquanta in Arizona per fare esperienza con il grande architetto Frank Lloyd Wright. A deluderla, però, è proprio l’iperspecializzazione americana, molto distante dalla sua inclinazione allo stretto dialogo tra le discipline.
Secondo Nanda Vigo, che la indagava da sempre, la luce va seguita senza opporre resistenza, poiché non potrà che illuminarci
Quando ritorna a Milano, sua città natale, la Vigo capisce che non deve andare tanto lontano per trovare il terreno più fertile per la sua indagine: l’unicità del contesto culturale del capoluogo meneghino degli anni Sessanta, infatti, brulicante di creatività, è lo scenario ideale per accogliere quella concezione sfaccettata e versatile dell’arte che ha sempre contraddistinto il suo lavoro.
Del talentuoso circolo milanese che la accoglie fanno parte maestri quali Lucio Fontana, Enrico Castellani e Piero Manzoni, quest’ultimo suo compagno fino alla prematura morte nel 1963. Fontana la presenta anche al gruppo Zero, collettivo transnazionale fondato in Germania con cui la Vigo condivide parte della sua ricerca, nel segno di una nozione dell’arte più allargata che si avvale dell’applicazione di procedimenti inediti mediati dalla scienza e dalla tecnica.
Il costante interesse per i nuovi linguaggi spinge l’artista italiana a intraprendere numerosi progetti di prim’ordine volti alla valorizzazione dell’arte (sua è la curatela della leggen-
daria mostra «ZERO Avantgarde» del 1965, allestita nello studio di Lucio Fontana) e a intessere collaborazioni con molti dei personaggi più significativi del panorama contemporaneo. Le opere della Vigo sono tutte accomunate da un’essenzialità di elementi e di segni che le rende tanto semplici quanto potenti nel comunicare attraverso un alfabeto fatto di forme primarie e di luce. Senza mai interrompere l’attività prettamente artistica, difatti, la Vigo si dedica alla progettazione nel campo dell’architettura e del design, realizzando strutture abitative e oggetti che riprendono in scala diversa le medesime sperimentazioni. È così che in ogni sua creazione si ritrova una sorta di piacevolezza ludica che si accompagna a un simbolismo spirituale, abilmente fusi tra loro per restituire un’idea di leggerezza e di libertà totali.
Componente peculiare della sua variegata produzione è il medium luminoso. La Vigo, nel corso di sessant’anni di carriera, ha affinato la propria padronanza della luce con l’obiettivo di trattenerla andando oltre la sua immaterialità. «La luce va seguita senza opporre resistenza. Non potrà che illuminarci», sosteneva. Quello che le interessa è indagarne la relazione con lo spazio e gli effetti di rifrazione e di straniamento che può attivare, in un raffinato gioco di coinvolgimento sensoriale dello spettatore. Da qui la predilezione per materiali industriali come vetri smerigliati, specchi, acciaio e alluminio, in grado di riflettere e smaterializzare i raggi luminosi, e per le monocromie del bianco, del blu, del giallo e del nero, capaci di vivificare la presenza della luce. Quanto per la Vigo la luce sia stata la struttura portante del suo concetto
Ritratto di Nanda Vigo per la copertina di Domus, 1985. (Foto: Gabriele
di «arte totale» lo hanno testimoniato le mostre che negli anni hanno omaggiato il suo poliedrico e pionieristico lavoro, come quella allestita nel 2023 al Museo Comunale d’Arte di Ascona, che citiamo, nonostante sia ormai chiusa da più di un anno, perché risulta essere la prima retrospettiva in territorio elvetico dedicata all’artista; una rassegna che ha avuto il merito di ripercorrerne il prolifico cammino creativo attraverso un suggestivo allestimento tematico pensato per coinvolgere il visitatore a livello intellettuale ed emotivo.
Nel suo legare senza soluzione di continuità arte, architettura e design, la Vigo, infatti, ha sempre concepito i propri lavori quali filtri visivi della realtà in cui siamo immersi, dandoci la possibilità di essere partecipi di un nuovo modo di intendere il rapporto tra spazio e materia, intensificandone
e spingendone la percezione oltre i limiti del concreto.
In quest’ottica non stupisce che le opere più rappresentative della produzione artistica della Vigo siano i Cronotopi, considerati a buon diritto l’incarnazione della quintessenza del suo modo di intendere l’arte: una situazione esistenziale che consenta di vivere esperienze trascendenti, andando oltre il tangibile per riuscire a intuire una realtà più alta, una sintonia universale. Nati come semplici strutture quadrangolari di metallo in cui sono inserite lastre di vetro che filtrano i raggi luminosi, i Cronotopi (termine preso in prestito dalla scienza e formato dalle parole greche krónos e tópos) si sono evoluti diventando veri e propri spazi immersivi fatti di specchi, neon e materiali traslucidi in cui sperimentare un ambiente totalizzante caratterizzato da una luce pura. Queste opere, così come le altre elaborate negli anni dalla Vigo, ci ricordano che l’arte è sempre stata da lei considerata uno strumento per connettere l’uomo a una dimensione più mistica e contemplativa, un portale per andare incontro all’Assoluto.
I Cronotopi, strutture quadrangolari di metallo, sono l’incarnazione della quintessenza del modo di Vigo di intendere l’arte
Emblematici del piglio radicale e innovativo dell’artista sono altresì i lavori nell’ambito della progettazione architettonica. Ci basti qui citare la residenza Lo scarabeo sotto la foglia, realizzata insieme a Gio Ponti, per cui la Vigo elabora gli interni sotto forma di un ambiente monocromo rivestito di piastrelle e di ecopelliccia grigia, e la Zero House a Milano, un’abitazione con i muri di vetro satinato in cui un sistema di luci al neon altera la percezione dello spazio.
Anche le creazioni nel campo del design non smentiscono l’estrema ricercatezza e l’attitudine alla novità d’intenti del modus operandi della Vigo. Tanti sono i pezzi da lei ideati che sono diventati vere e proprie icone. È il caso, ad esempio, della lampada Golden Gate, concepita nel 1969, il cui led, ai tempi non ancora in commercio, venne acquistato direttamente presso la NASA dall’artista, o della poltroncina Due Più, un oggetto dall’estetica sorprendente ed enigmatica, con una fisionomia unica conferita dall’utilizzo di due rulli che paiono sospesi nel vuoto.
Nella sua ricerca fluida, libera da dogmi e sostenuta dall’insopprimibile ambizione di sfidare l’inedito, la Vigo ci ha regalato una visione dell’arte olistica, capace di travalicare lo spazio e il tempo della contingenza per raggiungere i territori dell’infinito.
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GUSTO
Zucche
Zucca Butternut
La zucca Butternut non è popolare solo per le sue dimensioni e la sua forma compatta, ma anche per il suo sapore particolarmente delicato. Non c’è da meravigliarsi, visto che appartiene alla famiglia delle zucche muschiate, nome che indica la loro piacevole fragranza e il loro sapore. Questo tipo di zucca è particolarmente adatto per essere farcito e gratinato. Anche se commestibile, la buccia della zucca Butternut andrebbe comunque rimossa, perché è dura e cuoce solo lentamente. E non dimenticare che i semi tostati sono un ottimo snack.
Come impiegare
i vari tipi di zucca
La zucca migliore per preparare una vellutata e quella più adatta per realizzare le decorazioni di Halloween: ecco una panoramica delle varietà più popolari.
Testo: Claudia Schmidt
Zucca muschiata
Un magnifico esemplare di zucca. Le grandi zucche aromatiche possono essere conservate a lungo e sono molto versatili: dai gratin alle zuppe, dalle vellutate ai dolci, la zucca muschiata può essere impiegata in qualsiasi ricetta. Il suo sapore viene valorizzato in maniera particolare nel risotto. Date le sue dimensioni, viene spesso venduta a spicchi. Se intera, questa imponente zucca si conserva per diversi mesi fino all’anno nuovo. Gli spicchi dovrebbero essere consumati entro cinque giorni.
Sombra
La zucca Sombra viene dal Giappone. Come molte varietà giapponesi, è di colore grigio-verde. All’interno è però di un arancione brillante, che mette in evidenza la sua parentela con la piccola e molto amata zucca Hokkaido, pur essendo più grande di quest’ultima. Nonostante le dimensioni, la sua buccia è così sottile che può essere mangiata e si cuoce altrettanto rapidamente della polpa, un vantaggio rispetto ad altre zucche grandi. La varietà Sombra è disponibile alla Migros solo per poche settimane.
Zucca Hokkaido
La zucca Hokkaido, nota anche come zucca castagna, è relativamente piccola e non serve una carriola per portarsela a casa. È molto amata per la sua buccia sottile che cuoce insieme alla polpa. Il suo bel colore vivace è particolarmente adatto a curry, torte e zuppe, ma anche per dare un tocco in più a verdure miste al forno e purè. È facile da conservare. Una volta tagliata, questa zucca dovrebbe essere consumata rapidamente entro cinque giorni.
Zucca da intaglio
Più è grande, meglio è! Almeno ad Halloween, quando le zucche giganti vengono intagliate per realizzare mostri feroci. Le zucche da intaglio sono relativamente alte e si prestano particolarmente bene per questo uso. Tuttavia, a livello culinario sono piuttosto mediocri, spesso a causa delle loro dimensioni. Gli avanzi degli intagli possono comunque essere frullati e utilizzati per le zuppe. Attenzione: non lesinare sul condimento! Per scavare queste zucche sono adatti non solo i cucchiai, ma anche i porzionatori per gelato. Per l’intaglio utilizza coltelli affilati o un apposito set con diversi strumenti.
Zucca spaghetti
Questa zucca è più strettamente imparentata con le zucchine che con le altre zucche. Non si conserva quindi a lungo come la maggior parte delle zucche invernali. I lunghi fili al suo interno sono commestibili: si possono preparare come gli spaghetti e cuociono in pochi minuti. Spesso la zucca viene tagliata a metà e cotta in forno in modo tale che gli spaghetti possano essere estratti in tutta semplicità. Vengono serviti con varie salse o gratinati con il formaggio. Le zucche spaghetti sono disponibili alla Migros e in alcune filiali per un periodo limitato.
Ricette
Affinché il mostriciattolo riesca bene
Dalle zuppe ai pickles
Idee golose per piatti a base di zucca (nella foto mousse di zucca con cavolo riccio) le trovi su Migusto. Scopri di più:
Ceci n’est pas un carrello
TV ◆ Sulla RSI riparte oggi la Storia infinita con Jonas Marti; nella nuova edizione anche la storia del primo supermercato Migros
Ida Moresco
Che a Jonas Marti piaccia scavare nel passato alla ricerca di quell’aneddoto che non tutti conoscono, è chiaro non solo dalla pubblicazione della curiosa e fortunata «guida» Lugano la bella sconosciuta (giunta alla quarta edizione, Fontana Edizioni), poi diventata anche un gioco da tavola, ma anche dal programma divulgativo La storia infinita (RSI), già alla terza stagione. Con il piglio spontaneo ed entusiasta che lo contraddistingue, il giornalista-divulgatore spiega come nella nuova stagione accompagnerà spettatrici e spettatori in un viaggio di cinque puntate (a partire da oggi, lunedì 21 ottobre, per cinque lunedì alle 20.40 su Rsi La 1) che attraverserà le Alpi svizzere, ripercorrerà il periodo della Seconda guerra mondiale, offrirà un excursus culinario storico tutto ticinese, si occuperà di miti e leggende e narrerà il percorso che ha portato il Ticino a fare parte della Svizzera. La novità di quest’anno è rappresentata dal fatto che le trasmissioni saranno puntualmente anticipate da una serie di interventi su Rete Due, ogni domenica alle 18.45.
In fondo, quella della Storia infinita è nata un poco come una scommessa: era dagli anni settanta che in prima serata la RSI non metteva in cartellone la Storia, e secondo Marti, forse il successo raccolto (oltre a essere stato certamente favorito da divulgatori come Angela padre e figlio o
Alessandro Barbero, ma anche confermato, in tempi più recenti, dal Festival luganese Echi di storia, andato in scena per la prima volta in giugno) è testimonianza di come il pubblico capisca quanto la nostra storia, sicuramente anche per la posizione strategica della Svizzera, per quanto «minore», faccia a tutti gli effetti parte della grande storia. Quando gli si parla dei suoi percorsi, che lo portano a saltabeccare qua e là lungo una linea temporale che può, a un certo punto, intrecciarsi, o ritornare indietro (per-
A spasso con Jonas Marti
Jonas Marti sarà una guida d’eccezione per la passeggiata organizzata dalla redazione del settimanale «Azione» sabato 9 novembre (14.0016.00; 16 novembre in caso di brutto tempo) nel cuore della città di Lugano. Il giornalista ticinese accompagnerà il suo pubblico alla scoperta di aneddoti poco conosciuti ma molto curiosi che sapranno restituire un’immagine diversa della città sul Ceresio. Attenzione, i posti sono limitati e la prenotazione obbligatoria. Costo a persona (con cuffiette) 33 CHF. Per iscriversi mandare una mail con i vostri dati a giochi@azione.ch entro domenica 3 novembre 2024.
Riti e officianti
TV ◆ Sull’approdo di Amadeus alla Nove
Marco Züblin
Ci sono ben poche cose più rassicuranti dei riti, e non solo per le anime semplici. A maggior ragione se anche l’officiante è percepito – per inveterata consuetudine – come un parente, un amico. Discovery, volendo scardinare l’egemonia Rai, ha arruolato anche il mite e placido Amadeus; segue Fazio e Crozza, protagonisti di un successo che è figlio di format e di officianti senza eguali in Italia, oltre che per la presenza di un pubblico fedele. Anche con un celebrante stranoto, e con un format collaudato (qui Chissà chi è – in Rai era I soliti ignoti – LaNove, prime time, quotidiana), vincere la battaglia degli ascolti è arduo, ma non impossibile se si riscoprono le virtù rare della pazienza e della tenacia; Amadeus (nella foto) ci prova anche rinnovando la mitologica Corrida. Eroe minimo dell’universo nazional popolare, è il genero che tutte le ottantenni vorrebbero, un po’ limitato ma tanto cortese e prevedibile; tutto gli si perdona, anche un pizzico di ipocrisia; il personaggio è stato costruito negli anni con sapienza e perfetta conoscenza delle attese del pubblico di riferimento. La conduzione TV è in Italia un affare riservato a pochi, se ne accorgono coloro (mal gliene incolse a Insegno, al netto di un pregiudizio negativo su certe sue frequentazioni, e a Cattelan, tra gli altri) che tentano di rompere l’oligopolio della sacra triade Scotti-Conti-Amadeus. Sembra però che, almeno tra il pubblico generalista, il rito dominante rimanga piuttosto quello dell’accesso automatico alla rete amica e mamma; e qui Rai1 sembra ancora avere davanti a sé qualche tempo di requie,
ché proprio questo fa la storia), Marti parla della propria curiosità, «di quel magnifico labirinto di storie nascoste, incastrate l’una dentro l’altra, cui si cerca di dare un senso, mantenendo in ogni momento un rigore storico, ma allo stesso tempo cercando di essere coinvolgenti e di intrattenere». È in questo modo, cioè raccontando magari un piccolo aneddoto all’apparenza insignificante, che si crea l’aggancio con la grande storia, ma anche, per noi contemporanei, l’opportunità di un dialogo con chi ci ha preceduto per capire che in realtà siamo parte di un flusso di umanità, o «un grande mosaico di umanità», per dirla con le parole di Jonas Marti, che sostiene anche come «per chi voglia vivere pienamente la propria vita da individuo e da cittadino della nostra epoca, la storia assume un senso importante». Un aspetto, però, che non può essere relegato in secondo piano, soprattutto quando si è fatto della divulgazione il proprio mestiere, è quello della narrazione. Non solo quanto si racconta deve avere un senso, essere coerente e accertato (in ossequio alle fonti), ma deve essere raccontato bene, tenendo sempre conto dell’audience (che sia visibile, in un tour guidato, o meno, come in televisione): «alla fine racconto delle storie; e a chi non piacciono? La bellezza, la magia, la follia, in qualche modo anche quella della storia umana, sono lì davanti
Il giornalistadivulgatore
Jonas Marti farà da guida a lettrici e lettori di «Azione» il 9 novembre. (RSI/Loreta Daulte)
a noi, pronte a sorprenderci e a meravigliarci». Storie, tanto per citarne un paio, come quella dei poveri condannati a morte un tempo costretti a passare da Piazza Riforma, per poi venire traslati a Capo San Martino per l’impiccagione – da cui, ancora oggi, la Forca di San Martino – o quella delle sfortunate operaie del Mendrisiotto, impiegate alla filanda di Lugano, ma impossibilitate a recarsi al lavoro a causa del vaiolo.
La Migros nella storia
Uno svelamento continuo quello di Marti, arricchito da qualche colpo di scena, che nella nuova edizione della
Dettol Diffondi
non certo per meriti suoi e del suo palinsesto, ma appunto per l’inerzia del pubblico che alla fine conta, perché è quello che ancora guarda il mondo attraverso lo schermo della televisione, più interessato a qualche chiacchiera fatua, alla vita del vip, alle soap e a qualche quiz. (L’informazione è altra cosa, e qui la Rai fatica parecchio, non solo per la concorrenza diretta (La7 e la solita Nove) ma per le modalità ormai diverse con le quali il pubblico del TG conosce la cronaca e l’attualità.) Guardare i ricchi e famosi, tifare per coloro che aspirano a diventarlo per interposto concorso a premi, lacrimare su sanguinosi fatti di cronaca o sulle vicende di famiglie; la televisione serve, ora come allora, anche a guardare attraverso il buco della serratura la vita degli altri, vip o vittime che siano. Quindi, il rito che sembra funzionare davvero non è né quello del format né quello dell’officiante, ma quello dell’inerzia del pubblico nella scelta della rete. Vediamo se LaNove saprà vincere la sua scommessa, quella di educare il pubblico a una visione alternativa alla Rai.
Storia infinita toccherà anche la Migros. Nella puntata del 4 novembre, infatti, dal titolo La storia della Svizzera italiana attraverso il cibo, Jonas Marti esaminerà il rapporto di svizzere e svizzeri con il cibo dopo l’arrivo del primo supermercato, aperto da Migros a Zurigo nel 1948. Se oggi è scontato prendere in mano un carrello della spesa e spingerlo lungo gli scaffali del supermercato, grazie alla puntata dedicata al cibo, anche il suddetto carrello smetterà di essere tale e, grazie alla verve di Jonas Marti, e ai collegamenti che riesce a creare, diventerà qualcosa d’altro, magari proprio quella macchina passepartout necessaria a compiere i migliori viaggi nel tempo.
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GUSTO
Pipe al formaggio
Ingredienti per 4 persone
spicchi d’aglio di prezzemolo cucchiaio d’amido di mais di miscela di formaggio per di panna di spinaci
Lessate la pasta al dente in abbondante acqua salata per ca. 8 minuti. Nel frattempo, affettate l’aglio, tritate il prezzemolo e tagliate ad anelli sottili il cipollotto. In una padella mescolate l’aglio con l’amido di mais, la miscela per fondue e la panna. Scaldate a fuoco basso, mescolando di tanto in tanto, finché il formaggio si scioglie e la salsa diventa cremosa. Scolate la pasta e mescolatela con la salsa di formaggio e gli spinaci. Guarnite con il prezzemolo e il cipollotto, condite con pepe e servite subito.
Portiamo in tavola cinque piatti deliziosi ed economici con le marche Migros
Dinah Leuenberger
Ricetta
Currywurst
Affettata e servita con una salsa al curry fatta in casa, la bratwurst si trasforma in un piatto culto della tradizione berlinese: la currywurst.
Cotoletta di zucca croccante
La cotoletta c’è anche in versione vegetariana: basta impanare fettine di zucca e infornarle. Per accompagnarle, una deliziosa maionese all’arancia.
Pizza ai carciofi e alla rucola
Pizza vegetariana: carciofi e rucola, salsa di pomodoro e mozzarella ed eccola pronta da guarnire con l’erbetta verde e saporita una volta sfornata.
Ricetta
Crema di carote e zenzero
Ingredienti per 4 persone
1 cipolla
800 g di carote
20 g di zenzero
2 cucchiai d’olio di colza o di sesamo
8 dl di brodo di verdura
1 dl di succo d’arancia sale pepe
2 cucchiai di semi di sesamo tostati
1 rametto di coriandolo
4 cucchiai di panna acidula semigrassa
Chips di zenzero
180 g di zenzero
1 cucchiaino d’amido di mais
2 dl d’olio di colza HOLL
1. Tritate la cipolla e tagliate le carote a fette. Pelate lo zenzero e grattugialo grossolanamente. Soffriggete tutto nell’olio, poi bagnate con il brodo. Mettete il coperchio e lasciate sobbollire per ca. 30 minuti. Aggiungete il succo d’arancia e riducete gli ingredienti in purea con un frullatore a immersione. Condite con sale e pepe.
2. Tostate i semi di sesamo in una padella antiaderente senza aggiungere grassi, finché prendono colore. Toglieteli dalla padella e metteteli da parte. Staccate le foglie di coriandolo dai rametti.
3. Per le chips di zenzero, pelate il rizoma e tagliatelo a fettine sottili con una mandolina, poi mescolatele con l’amido di mais. Scaldate l’olio in un tegamino e friggete lo zenzero poco alla volta, finché si dora. Estraetelo e fatelo sgocciolare su carta da cucina. Prima di servirla, guarnite la crema con la panna acidula, i semi di sesamo, il coriandolo e le chips di zenzero.
Succo di arancia Annas Best* 1 l, Fr. 3.95
Ketchup M-Classic* 500 ml, Fr. 1.85
Mozzarella Alfredo* 150 g, Fr. 1.65
Maionese M-Classic*
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Le mele biologiche fresche sono uno spuntino pratico e naturale. Apportano all'organismo preziose sostanze naturali per una vita quotidiana ricca di vitalità.
PROLE CROCCANTE
Cambio di prospettiva: un melo biologico racconta la sua vita. La storia si svolge in un ambiente naturale entusiasmante.
«In autunno sono felice di poter finalmente cedere le mie mele e liberarmi di un grande peso. Saluto la mia prole croccante, ricca di sostanze nutrienti e priva di additivi chimici di sintesi. Nel mio meleto vigono infatti le severe direttive Bio Suisse. Bisognerebbe collaborare maggiormente con la natura. Così i filari di fiori coltivati apposta possono ospitare numerosi insetti. Le api selvatiche, ad esempio, sono importanti per l’impollinazione dei fiori in primavera. E che benedizione quando le coccinelle mi svolazzano intorno liberandomi dai fastidiosi afidi!
Uccelli invece di chimica
Qualche fila di alberi più lontano c’è una siepe di piante autoctone. Da lì si alzano in volo uccelli ghiotti di carpocapse del melo, le cui larve danneggerebbero i miei frutti. La natura sa
regolarsi da sé. Ed è proprio così che funziona l’agricoltura biologica.
Concimare con la composta
La natura non è un’oasi di benessere: le malattie fungine come la ticchiolatura sono sempre in agguato. Per fortuna ho un corredo genetico capace di affrontare bene queste minacce. La frutticoltura biologica usa varietà il più possibile robuste, ovviamente senza ricorrere all’ingegneria genetica. Solo quando non c’è altra soluzione, mi fanno una doccia di fitosanitari organici per facilitarmi la vita. Per crescere bene, le mie mele hanno bisogno di acqua e nutrienti. Un suolo bello verde e regolarmente concimato con letame o composta è una manna. Oggi sempre di più vengono utilizzate le tecnologie moderne come i sensori e i sistemi d’irrigazione. Così le mie mele biologiche si conservano al meglio e fanno bella figura sugli scaffali dei negozi».
Le mele bio con la Gemma sono in vendita nella tua filiale Migros al prezzo attuale del giorno.
Silenzio, parla Agnesi.
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MINIPIC: LA SPINTA IN PIÙ PER LE TUE AVVENTURE!
Minipic si dà allo sport: da quest’anno minipic sostiene un team di undici atleti svizzeri, in linea con il nuovo motto: «minipic ti dà la spinta giusta!»
Che si tratti di scalare vette, fare escursioni nelle foreste o raggiungere nuovi obiettivi di rendimento durante l’allenamento, a volte si ha bisogno di uno spuntino per avere la spinta giusta. È proprio a questo che serve minipic! L’iconico snack dei Grigioni a base di carne è da decenni il segreto per una carica di energia in più.
«minipic ti dà la spinta giusta» e lo fa ovunque
Anche le atlete e gli atleti del team minipic si affidano alla spinta in più di minipic. Grazie alle
sue pratiche dimensioni, questo snack è il compagno perfetto durante un’escursione in montagna o in palestra. minipic entra in qualsiasi zaino e resta delizioso anche a temperatura ambiente: l’ideale fuori casa.
Il team minipic è composto da atleti professionisti che devono poter contare sulle proprie prestazioni, minipic è sempre al loro fianco. Vuoi sentirti anche tu come i professionisti? Allora gusta subito il tuo minipic e senti che spinta ti dà!
Per saperne di più su minipic, sul team minipic e sulle deliziose ricette, consulta i nostri canali social media, o visita il sito minipic.ch.
TEMPO LIBERO
Per un briciolo di simpatica paura
Sembrano mostriciattoli ma sono delle scatolette in cui custodire segretamente le caramelle; tutto fatto a mano per festeggiare durante la tradizionale notte di Halloween
Un incidente che non doveva capitare
Disgrazie come quella subita dalla ciclista svizzera Muriel
Furrer non dovrebbero più ripetersi; occorre aumentare il livello di sicurezza nello sport, al di là dello spettacolo
Inchino alla Madonnina sotto la forza del vento
Alpinismo ◆ Il Gran Paradiso, montagna più alta d’Italia, è accessibile a chiunque abbia un minimo di pratica, ma attenzione a non sottovalutare il suo respiro
È la montagna più alta della vicina Penisola. Parlo del Gran Paradiso, noto per essere l’unico massiccio montuoso che supera i 4mila metri a trovarsi interamente in territorio italiano. Le sue diramazioni secondarie danno vita a ben cinque valli: Val di Cogne, Valsavarenche, Val di Rhêmes, Valle dell’Orco e Val Soana. A seguito di tale ricchezza, sono numerose anche le vie d’accesso. Io ho scelto la più gettonata, ossia quella che passa dalla Valsavarenche.
Giungo in località di Pont, sede di uno spettacolare campeggio, scelto da molti alpinisti come «campo base» da cui far partire l’attacco alla vetta del Gran Paradiso (4061 m). Considerando i fatti accaduti in seguito rimpiango di non avere preso con me la tenda che non ho mai acquistato. La decisione di pernottare in un rifugio mi sembra una mancanza di immaginazione, una pigra valutazione allo scopo di risparmiare la modica
quota di 700 m. Dopotutto godevo di un ottimo acclimamento acquisito in Valfurva, durante la scalata del Gran Zebrù.
Mi metto in cammino per compiere l’avvicinamento. Il sentiero che conduce fino al rifugio Vittorio Emanuele III è colmo di escursionisti. Molti di loro ambiscono a toccare la Madonnina situata in vetta e sono condotti da una guida esperta. Il traffico di persone cresce gradualmente fino al rifugio, dove c’è un continuo viavai di «pellegrini». Perché in verità di questo si tratta. Ne testimonia il fatto che la stragrande maggioranza, me compreso, non toccherà mai la vetta situata qualche metro più in alto, che sta una quarantina di metri più in là della statua, ed è più impegnativa da raggiungere. Certo, il vero traguardo è indubbiamente la statua della Beata Vergine di color bianco candido, e di sedersi su quelle rocce per godere il
panorama che spazia sulla catena alpina, ma i desideri non vengono sempre esauditi. Il mio pernottamento non è tra quelli che si possano ritenere riusciti. A causa di una forte affluenza, circa 250 persone, vengo alloggiato in un container con altri quattro individui di cui non saprò mai il nome. Come scoprirò in seguito, si trattava di un gruppo di sordomuti che hanno dovuto rinunciare alla scalata a causa del malore di un membro della cordata. Il poveraccio si è alzato più volte, tutta la notte, per rimettere la cena servita qualche ora prima. Dubito che soffrisse del mal di quota, trovandoci a soli 2700 mslm. Con molta probabilità il malcapitato si è procurato una congestione, a causa dei forti venti freddi provenienti da nord-ovest. Intendiamoci, non ho penato per la fatica nel prendere sonno – il mio riposo ideale per mantenere un ottimo equilibrio mentale consiste nel
concentrarmi sul respiro dormendo giusto un paio di ore – no, la frustrazione è nata dal dispiacere di non poterlo aiutare in alcun modo. Non avevo con me nessun medicinale e, cercarlo di notte, sarebbe sta-
to un’impresa difficile da realizzare. Alle 02.00 decido di alzarmi e di partire verso il traguardo. Non tutti i mali vengono per nuocere e quello del mio compagno di stanza mi farà evitare la folla di gente in prossimità
Jacek Pulawski, testo e foto
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della vetta. Sono il primo a partire dal rifugio e mi spingo verso una morena formata da grossi blocchi di pietra che conducono sul ghiacciaio. Il percorso è fastidioso e bisogna prestare attenzione a dove si poggiano i piedi, prima di giungere sull’autostrada di ghiaccio dove appronto i ramponi. Il vento ha portato via le nuvole, abbassando così di qualche grado la temperatura, un fattore determinante per consolidare il manto nevoso. Procedo lungo il ghiacciaio, in piena notte, osservando le stelle e la Via Lattea. L’assenza d’inquinamento luminoso esalta la sfera celeste in un modo che non vedevo dai tempi del servizio militare. Quella volta ci trovavamo in cima al San Gottardo per un’esercitazione di Compagnia.
Dopo poche ore mi ritrovo sulla famosa schiena d’Asino, dove vengo raggiunto da Michele, un arrampicatore di Lecco partito dal Vittorio Emanuele. Il suo passo è costante e deciso. Al posto del casco indossa un vecchio cappello da alpino. Si ferma a pochi metri da me per montare i ramponi. Scambiamo due parole, i nostri volti si dipingono di soddisfazione. Alla vetta mancano 400 metri di dislivello, ma sappiamo di poterci arrivare con largo vantaggio sulla folla che è ben distaccata da noi.
Va detto che il Gran Paradiso non è una scalata difficile. Ha le caratteristiche di una sfacchinata interminabile, ma il tratto finale si presenta sotto forma di un’affilata cresta che, in caso di forte traffico, diventerebbe molto scocciante. Con Michele ci diamo appuntamento in cima. A poche centinaia di metri mi imbatto in tre alpinisti che rinunciano a proseguire. Chiunque sia mai entrato in un negozio di montagna può capire l’elevato costo dei capi da abbigliamento che vestono. A loro parere la velocità del vento sulla Becca di Moncorvé, il tratto più esposto, è tale che dovrei considerare seriamente il mio ritiro. Non è una notizia della quale vado entusiasta. Di Michele non vedo più nemmeno la sagoma. Decido di alleggerire i vestiti. Invece di una t-shirt termica, indosso un capo meno spesso a maniche lunghe, mentre un leggero guscio antivento fino alle ginocchia prende il posto del pile sintetico e la giacca termica. Due soli strati per fronteggiare l’ostacolo che ha respinto i miei «compagni» partiti da un altro rifugio. Entrare nel corridoio del vento in transizione sulla Becca provoca in me delle sensazioni miste. Mi accascio sul ghiacciaio e infilo la piccozza per una ventina di centimetri. Chiudo gli occhi e cerco di adattarmi al nuovo ambiente, di comprendere l’intensità della corrente d’aria. Un esercizio che consiglio a tutti i «delinquenti di montagna». Lassù, al cospetto della montagna, siamo insignificanti. Non abbiamo nessun potere di influenzare gli eventi decisi dal Creatore, che ci parla anche attraverso la natura. La chiave per decifrare quell’impressionante potenza è l’umiltà. La montagna non è un mostro che dobbiamo sconfiggere, bensì un’esperienza metafisica dalla quale impariamo a scoprire noi stessi per trovare la serenità. Dopo un paio di minuti decido di proseguire il mio cammino sempre più lento a causa della quota di 3800 m. C’ è un vento forte, freddo e rumoroso, ma soffia in direzione della vetta e, stringendo i denti, può essere usato a proprio vantaggio. Oltretutto venivo dall’esperienza molto più brutale vissuta sul ghiacciaio dell’Adula. Sicuramente una prova che ha influenzato la mia successiva decisione.
A poche decine di metri dalla Madonnina incontro un alpinista canadese, anche lui senza casco. Sta cominciando la discesa a passo di corsa. Si ferma davanti a me urlando di gioia in inglese: «In vetta non c’è un fi-
lo di vento, fa caldo e ci sono rimasto per venti minuti». Da quel che ho capito è partito verso la 01.00 di notte dal campeggio di Pont. Il suo sorriso e i suoi lunghi capelli strapazzati dal vento la raccontano tutta. Per lui 20
km e 2100 m di dislivello compiuti in un tempo che faccio fatica a concepire. È il primo «delinquente solitario» ad abbracciare la statua, seguito da Michele, più preoccupato per il cappello da alpino del padre, guida alpina, che delle avverse circostanze serviteci sulla Becca di Moncorvé. Arrivo alle 07.49: sono il terzo solitario, tuttavia partito con un vantaggio abissale rispetto agli altri due. Lassù incontro Michele. Seduto di fianco a uno sperone di roccia si gode il panorama mozzafiato offerto dall’assenza di nuvole. Il Monte Bianco è l’unico ad averne agganciata una. 500 m più in basso si vedono le cordate, la cui disposizione ricorda delle formazioni militari prima di una battaglia. Aspettano il cessare del vento prima di mettersi in moto. Tra di loro ci sono persone che salgono in cerca d’acclimatamento per le sfide più importanti. Altri si affidano a una guida per provare l’ebbrezza dei 4000 m. Al-
tri ancora lo fanno per sentirsi liberi. In compagnia dell’arzillo arrampicatore di Lecco intraprendo la via del ritorno. Procedendo con un passo veloce, talvolta correndo, incrociamo i team di cordata intravvisti dalla vetta. Siamo in netta opposizione rispetto a quello che vediamo. Proseguiamo verso il rifugio ricordando la nostra scalata. Identificata con la lettera «F» dalle riviste specializzate in materia, la via normale per il Gran Paradiso, 4061 mslm, è un itinerario facile. Al contrario dell’opinione comune la si può intraprendere in solitaria. La via in stagione è ben tracciata e sul percorso si incontrano molti escursionisti pronti ad aiutarvi e farsi seguire. Una bella passeggiata sul ghiacciaio che io e Michele abbiamo il piacere di consigliarvi.
Informazioni
Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
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Porta caramelle mostruosi
Crea con noi ◆ Un accessorio spaventoso e originale da portare con voi alla serata di Halloween
Giovanna Grimaldi Leoni
Halloween è alle porte: quale modo migliore per festeggiare se non creando dei porta caramelle mostruosi e divertenti? In questo tutorial, vi guideremo passo dopo passo nella realizzazione di simpatiche scatolette decorate a tema, perfette per raccogliere dolcetti e caramelle. Semplici da realizzare, saranno un’aggiunta spaventosa e originale alla vostra serata di Halloween, coinvolgendo anche i più piccoli in un’attività creativa.
Procedimento
Preparazione delle scatolette:
Pulite accuratamente le confezioni di tonno, rimuovendo tutte le etichette. Lavate le scatolette con acqua e sapone e lasciatele asciugare. Utilizzate la carta vetrata per levigare bene il bordo così da evitare eventuali tagli.
Rivestimento:
Ritagliate una striscia di cartoncino colorato di 4 cm x 29 cm e un cerchio di 8,3 cm di diametro per ciascun personaggio. Il coperchio deve restare ben rigido, se il cartoncino utilizzato non lo è a sufficienza rinforzatelo con un secondo strato.
Colori da utilizzare:
Pipistrello e Ragno: nero
Zucca: arancio
Frankenstein: verde Fantasma: bianco
Incollate la striscia attorno alla scatoletta con la colla a caldo o del biadesivo.
Creazione dei personaggi:
Ragno: incollate gli occhi di due diverse dimensioni sul cerchio nero e disegnate un ampio sorriso rosso. Create le 8 zampe piegando per ognu-
Giochi e passatempi
Cruciverba Il numero 8 …
scopri il resto della frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate.
(Frase: 11, 2, 12, 2, 6)
na 12 cm di pulisci pipa come in fotografia. Incollate l’estremità al fondo della scatoletta.
Fantasma: ritagliate il corpo dal cartoncino bianco. Incollate la scatoletta sul corpo e create il viso, aggiungendo occhi e bocca in gomma crepla nera.
Avvolgete un pulisci pipa attorno alla scatoletta e modellatelo per simulare braccia e le mani.
Frankenstein: disegnate la cicatrice sul cartoncino verde. Aggiungete occhietti semovibili, uno dei quali dovrà essere incollato all’interno di un tappo di bottiglia. Ritagliate e incollate la bocca e aggiungete le viti in gomma crepla che sporgono ai lati della testa, incollandone l’estremità sul retro del cerchio.
Pipistrello: incollate gli occhietti, disegnate una bocca con denti aguzzi e aggiungete sopracciglia di gomma crepla o cartoncino rosso. Ritagliate ali e orecchie dalla gomma crepla e con stuzzicadenti incidete delle striature, quindi incollatele al profilo della scatoletta.
Zucca: ritagliate le parti del volto e del cappello dalla Gomma crepla nera. Incollate tutto sul cerchio, aggiungendo dettagli con il pennarello bianco e un piccolo ragnetto che pende dal cappello.
Finito di realizzare i personaggi scelti, tagliate per ognuno una linguetta di gomma crepla nera di 1 cm x 6 cm. Incollate un’estremità all’interno della scatoletta e l’altra sul retro del cerchio, centralmente nella parte alta del volto. Questo permetterà di aprire e chiudere il portacaramelle.
Inserite un po’ di carta crespa all’interno delle scatolette e completate con caramelle colorate.
I vostri porta caramelle mostruosi sono pronti per rendere la serata di
Materiale
• Confezioni vuote di tonno (diametro 8,3 cm, se differente adattare le misure del cartamodello)
• C arta vetrata fine per ferro/alluminio
• C artoncini colorati (nero, arancio, verde, bianco, rosso, viola)
• Occhietti semovibili
• Gomma crepla nera
• Colla a caldo
• Pennarelli acrilici rosso e bianco
• Forbici, taglierino
• Righello
• Stampante per cartamodello
(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
Halloween ancora più spaventosa e divertente! Buon divertimento!
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle
ORIZZONTALI
1. Valutazione dei beni economici
e la loro rendita
6. Frequenta le bische
7. Le iniziali del noto Elkann
9. Un anagramma di gai
10. Avverbio di luogo
11. Ci... seguono in cucina
12. Noto re shakespeariano
13. Unito, compatto
17. Ingrediente di molti dolci
18. Il noto Greggio
19. Giardini d’inverno
20. Tuo a Parigi
21. Carme funebre
23. Preposizione
24. Questo a Parigi
25. Fiume albanese
27. Più versano più guadagnano
28. Si beve molto fredda
VERTICALI
1. Pregiato legno
2. Una storia come
Il Signore degli Anelli
3. Prefisso che viene dopo il «bi»
4. Satellite di Giove
5. Ungere
8. Una moneta
10. Lo Steve George fra i migliori centrocampisti inglesi
12. Sporchissimo
13. Classi sociali
14. Ripara la Terra dai raggi ultravioletti
15. Uno in tedesco, ma senza fine
16. Due volte in sospeso
17. Il celebre Hur
19. Termine da tennisti
21. Preposizione
22. Acido desossiribonucleico
24. Le iniziali dell’attrice Theron
26. Due lettere di Vicky
Soluzione della settimana precedente IL LINGUAGGIO DEGLI ANIMALI – Coniglio, allodola, gabbiano. Nell’ordine i versi risultanti: ZIGA TRILLA, GARRISCE
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato
cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P.
intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
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Viaggiatori d’Occidente
L’ultimo sguardo sul mondo
Blink, il recente documentario prodotto da «National Geographic» in collaborazione con Disney, racconta la storia di una famiglia canadese. Edith Lemay e Sébastien Pelletier scoprono che una rara malattia genetica (la retinite pigmentosa) cambierà irrimediabilmente la vita di tre dei loro quattro figli. Nel giro di qualche anno Laurent (5 anni), Colin (7 anni) e Mia (11 anni) perderanno progressivamente la vista. Solo Leo (9 anni) è sano. I due genitori decidono allora di sospendere la vita quotidiana, divisa tra scuole e lavoro, per portare i figli nei luoghi più belli del mondo. Strada facendo i bambini potranno accumulare nella memoria immagini e ricordi, prima che il buio scenda sui loro occhi. E così nel 2022 hanno viaggiato per un anno attraverso Africa e Asia, accompagnati per 76 giorni dai cameraman. La famiglia ha attraversato in tre me-
si l’Africa meridionale da costa a costa. Poi hanno cavalcato i cammelli in Egitto, hanno volato in mongolfiera all’alba nel cielo della Cappadocia in Turchia, hanno attraversato in furgone le steppe della Mongolia, alloggiando nelle iurte e mangiando montone bollito; hanno nuotato tra le tartarughe nelle isole Gili in Indonesia. Dopo numerose altre avventure sono infine tornati verso casa attraverso il Borneo malese, la Thailandia, la Cambogia e il Vietnam. I figli hanno avuto larga voce in capitolo nelle scelte e spesso hanno preferito momenti di vita quotidiana, dal mercato ai giochi di strada, rispetto ai più celebrati siti Unesco. Inoltre il viaggio non è servito solo a collezionare immagini di bellezza; alla prova del mondo, i bambini hanno imparato anche a cavarsela da soli in situazioni difficili e a fronteggiare gli imprevisti, inevitabili e sempre
Cammino per Milano
più frequenti quando la loro vista diminuirà. Non da ultimo, sempre nelle intenzioni dei genitori, la vista di quanta parte della popolazione mondiale vive nella povertà e tra mille difficoltà può aiutare i figli a relativizzare e collocare nella giusta prospettiva la propria personale disgrazia: «Voglio che guardino la loro vita – ha detto la madre – e vedano cosa c’è di buono e di bello, al di là del loro problema». La storia raccontata in Blink è ovviamente commovente, ma mette in gioco anche diversi aspetti cruciali legati al viaggio. Per esempio ci ricorda di guardare (letteralmente) ogni giorno come se fosse l’ultimo; ci aiuta a elaborare un’idea personale (e non banalmente turistica) di bellezza; ci interroga su quali esperienze e luoghi, vicini e lontani, siano veramente fondamentali per la nostra vita. Strada facendo ho scoperto altre sto-
Il marmo tempesta della Montecatini
In via Turati mi perdo nel movimentatissimo marmo della Montecatini. È il rivestimento di tutto il palazzo a pianta di H rastremata, in marmo apuano tagliato controverso, verdastro con tonalità ingrigite dallo smog e lampi azzurrognoli marini. «È un palazzo costruito con acqua rappresa» scrive Alberto Savinio in Ascolto il tuo cuore, città (1944). Incredibile libro-guida che incrocerà di certo ancora il nostro gironzolare per le strade di Milano. Apparso nel settembre 1938, sede allora degli uffici avanguardistici dell’azienda – oggi dissolta – nata nel 1888 sfruttando in origine le miniere di rame a Montecatini Val di Cecina, è progettato da Gio Ponti (1891-1979). Architetto e designer milanese suona forse riduttivo per il fondatore di «Domus», autore del Pirellone, chiese, tessuti, lampadari, sedie, cucchiai, cessi. Magari meglio quasi nume tutelare di questa
città, talmente osannato a volte che rischia di fare la muffa ma il cui nome mi è rimasto luminosamente impresso salendo le scale della Rai in corso Sempione. Per via di quel favoloso corrimano ininterrotto in legno, sospeso sulla superficie in mosaico bianco a quadratini – e al contempo infilato nel mezzo come arioso corrimano-sandwich – mentre con i miei compagni della scuola d’arte drammatica Paolo Grassi, andavo a registrare i radiodrammi.
L’acquaticità del primo palazzo della Montecatini, per distinguerlo dal secondo palazzo costruito anni dopo, là, dall’altra parte della strada, si rivela anche a Curzio Malaparte che ci aggiunge un tocco autunnale: sfogliando le pagine della rivista «Aria d’Italia» nel maggio 1940, qualcuno poteva imbattersi in un pezzo intitolato Un palazzo d’acqua e di foglie. La natura eterea, oltre che per le finestre
Sport in Azione
Lunga e diritta correva la strada
Quella di Muriel Furrer non correva diritta. Una curva, una delle tante sul percorso del Mondiale di ciclismo di Zurigo. Una distrazione. Forse. Non lo sapremo mai. La bicicletta della diciottenne ciclista svizzera scivola sul bagnato. Schizza fuori strada. L’impatto contro un albero è violentissimo. Muriel rimane stesa a terra. A lungo. Per più di un’ora. Attorno non c’è anima viva. Era un tratto in cui i corridori viaggiano a tutta velocità. Per il pubblico non è interessante piazzarsi proprio lì. Ci si accorge della sua assenza solo al termine della corsa, quando la fotocellula non dà nessun segnale del passaggio della ragazza sulla linea del traguardo. Scatta l’emergenza. La trovano. Le prestano i primi soccorsi. La trasportano all’ospedale. La operano per un gravissimo trauma cranico. Invano. Il suo cuore cesserà di battere il pomeriggio del giorno seguente. Una
morte assurda. Inaccettabile, per chi segue il ciclismo e lo sport con passione ed entusiasmo. Immaginiamoci per i suoi cari. Una morte che solleva una serie di interrogativi. Non per fare accademia. Per evitare che fatti del genere si ripetano. Oppure per fare che si ripetano il meno possibile, dato che quando corri a grande velocità in sella a sette chili di carbonio, il rischio zero non esiste. A un mese dalla sua morte, il primo interrogativo che continua a frullarmi in testa è quello delle radioline. Gli amanti dello spettacolo a ogni costo predicano la loro abolizione. «I corridori gareggiano come dei robot telecomandati. Senza auricolari oserebbero di più, le corse sarebbero più scoppiettanti». Corridori e direttori sportivi replicano che le radioline servono non a ingabbiare la corsa, ma a comunicare agli atleti ostacoli e imprevisti sul tracciato.
rie simili. Per esempio quella di Amy Hiss Davis, un’altra madre canadese; il figlio sta perdendo l’udito e la donna vuole che senta i suoni più belli di questo nostro pianeta finché è possibile. Ma quali sono? Il canto degli uccelli, certo, ma poi? E in questo caso ha senso viaggiare per ascoltare rumori esotici? Anche qui una vicenda particolare apre a domande e riflessioni più ampie. Ho pensato poi che forse stiamo diventando tutti ciechi di fronte a un mondo che sta scomparendo a causa della continua crescita della popolazione e del cambiamento climatico. Questa acuta e dolorosa percezione ha ispirato anche una nuova categoria di viaggio: «Prima che scompaiano». Le mete? «Rough Guide» ha stilato un primo elenco con luoghi come la foresta amazzonica in Brasile, il Parco nazionale dei ghiacciai in Montana, le isole Galápagos, il bacino del
Congo, le nevi del Kilimangiaro in Tanzania, le Maldive, la foresta pluviale del Madagascar, la grande barriera corallina in Australia, la tundra dell’Alaska; e rattrista trovare nell’elenco anche i nostri ghiacciai. Con una motivazione affine altri viaggiano ricercando le ultime tribù che ancora vivono a stretto contatto con la natura. Il progetto più conosciuto (e discusso) è quello del fotografo Jimmy Nelson: «Before They Pass Away». Nelson ha cercato di documentare i costumi e le tradizioni delle comunità indigene prima della loro inclusione nel mondo globale. Queste ultime sono forme di viaggio inquietanti, con diversi lati oscuri, forse accettabili se si legano a un percorso di consapevolezza nei confronti di quello che stiamo perdendo e delle possibili soluzioni per mitigare il danno; per aprire gli occhi insomma.
a filo con gli infissi in alluminio, di questo palazzo che incrocia via Moscova e si sviluppa per gran parte anche lì, è data dal marmo speciale le cui venature sono un mare in tempesta in pieno cuore di Milano. Invenzione di Gio Ponti che sfama ogni volta il mio sguardo irrequieto. Tagliato controverso alla venatura, per ottenere l’effetto tempesta, questo marmo cipollino apuano, a seguire tutte le direzioni delle sue ondate verdognole-grigioazzurre, fa girare la testa. Non ci fa caso il personaggio principale di La vita agra (1962), alter ego di Luciano Bianciardi al cui nome sono affezionato dai primi anni del liceo, inizio anni novanta, per via della traduzione di Tropico del Cancro. La sua missione segreta a Milano è proprio far saltare in aria «il torracchione di vetro e di cemento», identificabile con il secondo palazzo Montecatini, sempre di Gio Ponti, pronto
nel 1951 ma rivestito di un più comune marmo nuvolato. Il torracchione da far saltare in aria, leitmotiv del libro, assieme agli altri tre palazzi (i tre corpi di fabbrica del primo palazzo Montecatini) per vendicare i quarantatré minatori morti il quattro maggio 1954. Per un’esplosione di grisù a Ribolla, vicino a Grosseto, dove nasce Luciano Bianciardi che ritroveremo anche lui di certo attraverso questo libro duro e divertente – trasposto in un film nel 1964 dove il torracchione è la Torre Galfa – esplorando i posti apparsi tra le sue pagine come il Jamaica e la Braidense. In una pagina di Amate l’architettura (1957) viene dichiarata la paternità del marmo battezzato da Gio Ponti stesso: «Fate tagliare i massi controverso inventerete nuovi marmi come ho inventato “il tempesta” per la Montecatini». Da poi consigli sulla disposizione non costrut-
tiva ma mettendo la vena in diagonale ed ecco svelata un’altra ragione di attrazione per questa tempesta di marmo estratto dal versante lucchese delle Alpi Apuane. Dietro questo delirio-meraviglia di marmo c’è dunque una partitura precisa per ottenere più movimento possibile. Vado su e giù per via Turati come un indemoniato, all’imbrunire di una domenica di ottobre, cercando onde accentuate da capogiro, sulle lastre di questo magnifico marmo controvena. La Ca’ de gorgonzoeula la chiamavano un tempo, certi vecchi milanesi. Oltre la strada, nelle vetrine illuminate di un negozio chiuso, luccicano di nero laccato, i pianoforti a coda Steinway. Acqua marina riscaldata a ventisette gradi ci dovrebbe essere, adesso, nella piscina irregolare di Gio Ponti, disegnata per le ninfe, all’hotel Royal di Sanremo. Un tuffo fuori stagione, stanotte, sono tentato.
L’Unione Ciclistica Internazionale (UCI), ha ceduto alle pressioni dei fautori dello Show. Da alcuni anni il Mondiale si corre a naso, a sensazioni, senza i suggerimenti tattici delle ammiraglie. Gran belle gare, non c’è dubbio. Pensate alle ultime tre edizioni vinte da Evenepoel, Van der Poel e Pogacar. Puro godimento. C’è tuttavia il rovescio della medaglia. Che ne sarebbe stato di Muriel se ci fossero state le radioline? Ha perso subito i sensi? Avrebbe avuto un attimo di lucidità per lanciare un allarme? Non lo sapremo mai. Nel dubbio, Signori amanti dello spettacolo, io mi dico «radioline tutta la vita». C’è un secondo aspetto che mi tormenta. Perché non c’era un addetto alla sicurezza nel punto in cui Muriel ha perso il controllo della bicicletta? Eravamo a un Mondiale, in un tratto in discesa, in prossimità di una curva, sul bagnato. Una dimenticanza? Op-
pure questioni di budget? In entrambi i casi c’è da indignarsi. Il pensiero corre a Gino Mäder, vittima lo scorso anno di un incidente mortale al Tour de Suisse mentre scendeva dall’Albula senza che telecamere o testimoni oculari potessero farci capire la dinamica. Stesso paese: la Svizzera. Stessa organizzazione: quella del Tour de Suisse. E se per Gino il termine fatalità mi si ripropone come un mantra, data l’oggettiva difficoltà nel monitorare un percorso in linea di 211 km, a Zurigo non c’erano attenuanti. Un circuito di 27 km avrebbe dovuto avere un osservatore in ogni punto critico. Forse che il compenso a dieci, venti o trenta persone in più avrebbe fatto sballare il budget della manifestazione? Dubito. E se anche fosse, chi se ne frega? Non sapremo mai se, in caso di un intervento immediato, Muriel sarebbe sopravvissuta. Sappiamo però che
è rimasta a lungo sola, stesa a terra, esanime, senza che nessuno le portasse un gesto o una parola di conforto. Sono i corridori a pagare un prezzo altissimo. Ne sono consapevoli. Per questa ragione si stanno organizzando, con il sostegno delle proprie squadre, affinché venga creato un pool di specialisti che si chini con serietà sul tema sicurezza. E sono persino disposti loro stessi a stanziare un budget, per implementare tutti gli accorgimenti che possano ridurre il rischio. Sappiamo, noi come loro, che la ria sorte è in agguato ovunque. Si può morire scivolando banalmente in casa, sfracellandosi poiché qualcosa non ha funzionato nella tuta alare, o anche perché il copertoncino della bici non ha tenuto in quella maledettissima curva in discesa sul bagnato. Tuttavia, storie tristi come quelle di Muriel Furrer non dovrebbero più ripetersi.
di Claudio Visentin
di Oliver Scharpf
di Giancarlo Dionisio
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Clementine Spagna, rete da 2 kg, (100 g = 0.23) 24%
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Migros Ticino
Già viene l’acquolina: specialità di selvaggina
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3.20 invece di 4.–
Spezzatino di vitello IP-SUISSE in conf. speciale, per 100 g 20%
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Entrecôte di manzo Black Angus M-Classic Uruguay, in conf. speciale, 2 pezzi, per 100 g 40%
Wienerli M-Classic Svizzera, 5 x 4 pezzi, 1 kg, (100 g = 0.96)
4.75 invece di 5.95
Bratwurst Migros Bio Svizzera, 2 pezzi, 280 g, in self-service, (100 g = 1.70) 20%
Il colore della carne di selvaggina è così scuro perché gli animali che vivono in natura si muovono molto e in libertà ogni giorno. Ciò sollecita maggiormente i muscoli e migliora la circolazione sanguigna rispetto a quanto accade negli animali da allevamento. Inoltre, la selvaggina non viene macellata ma abbattuta, con conseguente minor perdita di sangue dalla carne.
37%
11.95
invece di 19.–
Salmone affumicato Migros Bio d'allevamento, Norvegia, 2 x 100 g, (100 g = 5.98)
9.95
Gamberetti cotti Migros Bio d'allevamento, Ecuador, in conf. speciale, 240 g, (100 g = 4.15) 34%
invece di 15.15
Salmone in diverse varianti
Best of Salmon Mix 205 g, (100 g = 3.88) 20%
7.95
invece di 9.95
12.50
invece di 18.–
Filetti di salmone con pelle Migros Bio d'allevamento, Norvegia, in conf. speciale, 300 g, (100 g = 4.17) 30%
Una fonte di proteine buona e naturale
3.95
Filetti di tonno M-Classic pesca, Oceano Indiano occidentale, per 100 g, in self-service 30%
invece di 5.70
1.40
Ostriche n. 2 ASC, al banco d'allevamento, Mar Nero/Mar Mediterraneo, il pezzo 20%
invece di 1.75
Formaggi e latticini
C’è profumo di formaggio nell’aria
Stagionato 4 mesi
La paprica conferisce a questo formaggio un tocco di dolcezza
a partire da 2 pezzi 20%
Formaggio per raclette a fette aromatizzato e gusti assortiti, Raccard disponibile in diversi gusti (al naturale escl.), per es. gusti assortiti, IP-SUISSE, 900 g, 18.80 invece di 23.50, prodotto confezionato, (100 g = 2.09)
Tutti i formaggi Sélection per es. Fondue, l'Etivaz e Vacherin Fribourgeois AOP, 400 g, 13.20 invece di 16.50, (100 g = 3.30) 20%
Con pepe in grani per un piccantinogusto
Con un sentore di aglio
2.20
Formaggella della Leventina per 100 g, al banco 20%
invece di 2.80
Tutti i formaggi Da Emilio e Piave DOP per es. Grana Padano Da Emilio, in blocco, per 100 g, 1.90 invece di 2.25, prodotto confezionato 15%
Migros Ticino
2.10
Il nostro pane della settimana: i semi di zucca, cosparsi sulla crosta e incorporati nella mollica, donano a questo Twister un particolare sentore di noci. La disponibilità di questo pane è solo stagionale.
3.30 Twister con semi di zucca dal forno di pietra IP-SUISSE
Limited Edition, 400 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.83)
Berliner con ripieno di crema in conf. speciale, 4 pezzi, 400 g, (100 g = 1.25) 28%
5.–invece di 7.–
Con un delicato ripieno di crema e una spolverata di zucchero a velo 4.50
Con ganache al cioccolato e glasse di diversi colori
6.90
634 g, prodotto confezionato, (100 g = 1.09) 21%
Mini-biberli ripieni
invece di 8.75
2.95
Mini muffin Petit Bonheur
cioccolato o caramello salato, 240 g, prodotto confezionato, (100 g = 1.23)
Sforna, sforna... i biscotti!
Tutti i tipi di pasta per biscotti per es. pasta per milanesini al burro Anna's Best, blocco, 500 g, 3.75 invece di 4.70, (100 g = 0.75) 20%
Evviva, è arrivata la stagione dei biscotti! Per chi impasta e sforna per diletto o per mestiere
Tutte le confetture Fruits Suisses e Satin, Belle Journée per es. Fruits Suisses ai frutti di bosco, IP-SUISSE, 350 g, 3.40 invece di 4.85, (100 g = 0.97) a partire da 2 pezzi 30%
bianca M-Classic, IP-SUISSE 4 x 1 kg, (100 g = 0.15)
Tutto l'assortimento Pâtissier per es. zucchero vanigliato, 4 x 10 g, 2.95 invece di 3.70, (10 g = 0.74)
8.50 Crema di pistacchio Sélection 200 g, (100 g = 4.25)
Il mattino ha
Kellogg's Special K Classic e Red Berries, Chocos o Tresor, per es. Special K Classic, 2 x 600 g, 9.50 invece di 11.90, (100 g = 0.79)
Kit Kat Cereal Nestlé 330 g, (100 g = 1.32)
Ora anche per la colazione
Tutto l'assortimento di omogeneizzati Alnatura per bebè e bambini piccoli per es. verdure e patate dolci Demeter, 190 g, –.95 invece di 1.60, (100 g = 0.50)
Quinoa e amaranto soffiati, Migros Bio, aha!, Fairtrade 125 g, per es. quinoa soffiata, 3.95, (100 g = 3.16)
Tutte le capsule Café Royal incl. CoffeeB (confezioni Big Pack CoffeeB escluse), per es. Lungo, 10 capsule, 3.40 invece di 4.50, (100 g = 6.36)
senza caffeina
5.30 Espresso Decaffeinato Delizio 12 capsule, (100 g = 7.36)
Con aromi naturali e olio di cannella
Chai Latte e Matcha Latte, V-Love 10 x 13 g, per es. Chai Latte, 4.90, (100 g = 3.77)
Tutti i caffè istantanei (prodotti Nescafé e Starbucks esclusi), per es. Voncoré Cafino, 200 g, 6.20 invece di 7.70, (100 g = 3.08)
Espresso Roast Starbucks 36 capsule, (100 g = 8.39)
Bevanda al cacao Nesquik 1 kg, (100 g = 0.93)
20x CUMULUS
7.95
Lungo Forte o Espresso Forte, CoffeeB 18 sfere, Big Pack, (1 pz. = 0.44)
Tutte le salse per arrosto per es. Knorr, in tubetto, 150 g, 3.40 invece di 4.20, (100 g = 2.24)
conf. da 2 33%
Pommes noisettes o crocchette di rösti, M-Classic prodotto surgelato, per es. pommes noisettes, 2 x 600 g, 6.60 invece di 9.90, (100 g = 0.55)
Tutto l'assortimento di olio d'oliva Monini per es. Classico, 1 litro, 14.80 invece di 18.50, (100 ml = 1.48) 20%
conf. da 4 25%
14.–
invece di 18.80
conf. da 2 30%
Rio Mare disponibile in diverse varietà e in confezioni multiple, per es. tonno all'olio di oliva, 4 x 104 g, (100 g = 3.37)
8.30
invece di 11.90
Sofficini M-Classic prodotti surgelati, al formaggio, agli spinaci o ai funghi, 2 x 8 pezzi, 960 g, (100 g = 0.86)
a partire da 2 pezzi
Bontà per quel languorino...
Barretta energetica a base vegetale con 20 grammi di proteine
Barretta a base vegetale Fudge Brownie Chiefs 55 g, (10 g = 0.59)
CUMULUS
Involtini
Per veri golosoni
DA BRIVIDO
margherita o al burro, M-Classic per es. biscotti margherita, 3 x 210 g, 3.90 invece di 5.85, (100 g = 0.62)
i biscotti Tradition per es. Petit Gâteau al limone, 150 g, 3.60 invece di 4.20, (100 g = 2.40) –.60 di riduzione
Fresche e dissetanti Bevande
Per una pelle liscia e profumata e un sorriso smagliante
Prodotti per l'igiene orale Candida in confezioni multiple, per es. collutorio Parodin, 2 x 400 ml, 6.75 invece di 9.–, (100 ml = 0.85)
Prodotti per la rasatura Gillette Venus in confezioni multiple o speciali, per es. lame di ricambio Smooth, 8 pezzi, 21.50 invece di 27.–, (1 pz. = 2.69)
8.95 invece di 11.20 Rasoi usa e getta Gillette Blue II in conf. speciale, 20 pezzi, (1 pz. = 0.45) 20%
Tutto l'assortimento Candida (confezioni multiple e da viaggio escluse), per es. dentifricio Multicare 7 in 1, 75 ml, 2.90 invece di 3.85, (100 ml = 3.87)
Tutti i rasoi Gillette e Gillette Venus (esclusi lame di ricambio, rasoi usa e getta e conf. multiple), per es. Rasoio Gillette Labs, il pezzo, 9.95 invece di 19.90 50% Carta igienica o salviettine umide, Tempo in confezioni multiple o speciali, per es. Deluxe, FSC®, 24 rotoli, 15.90 invece di 26.55
usa e getta Gillette Simply Venus in conf. speciale, 8 pezzi, (1 pz. = 0.73)
Creme per le mani I am, Garnier, Nivea o Le Petit Marseillais per es. balsamo per mani e unghie I am, 2 x 100 ml, 5.55 invece di 7.40, (100 ml = 2.78)
Creme per le mani Neutrogena non profumate, profumate o ad assorbimento rapido, per es. non profumata, 2 x 50 ml, 6.95 invece di 9.30, (10 ml = 0.70)
Prodotti per la doccia Kneipp Breve pausa, Delicato come una rosa, Cura invernale, 200 ml, in vendita nelle maggiori filiali, (100 ml = 2.48)
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Olio per la pelle Embrace Life Kneipp 100 ml, in vendita nelle maggiori filiali
5.50 Shampoo I am Natural Cosmetics Antigrasso o idratazione, 250 ml, (100 ml = 2.20)
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Spray per la memoria e la concentrazione Kneipp
30 ml, in vendita nelle maggiori filiali, (100 ml = 33.17)
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Spray buonanotte alla valeriana Kneipp
8.95
40 pezzi, (1 pz. = 0.22) 20x CUMULUS
Mini compresse 800 Pure Tetesept valeriana
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Tetesept Calcio 600 + D3 + K 20 stick, in vendita nelle maggiori filiali, (1 pz. = 0.35)
6.95 Crema riparatrice contro le screpolature Kneipp 50 ml, (10 ml = 1.39) 20x CUMULUS
Tetesept Magnesio 335 forte Compresse 32 pezzi, in vendita nelle maggiori filiali, (1 pz. = 0.19)
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Compresse da masticare Tetesept bruciore di stomaco acuto
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Per i muscoli e i nervi Arricchite con vitamina D3 per rafforzare il sistema immunitario
Tutto l'assortimento di reggiseni, biancheria intima e per la notte da donna (prodotti Hit esclusi), per es. top bianco Essentials, in cotone biologico, il pezzo, 10.75 invece di 17.95
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