Azione 44 del 28 ottobre 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio L’importanza della fiducia nella relazione educativa: intervista a Domenico Barrilà

Ambiente e Benessere Giovedì 7 novembre all’Auditorium dell’USI a Lugano avrà luogo un simposio sulle sfide delle neuroscienze nella società di oggi; il direttore del Neurocentro della Svizzera italiana, Alain Kaelin, ci anticipa alcuni contenuti

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 28 ottobre 2019

Azione 44 Politica e Economia La Cina sta soffrendo. La sfida con gli Usa e il rallentamento dell’economia ne mettono in evidenza i limiti strutturali

Cultura e Spettacoli A Palazzo Ducale di Venezia, negli appartamenti del Doge, si celebra l’arte fiamminga

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La fabbrica delle giostre

Luigi Baldelli

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Una nuova concordanza in tono verde? di Peter Schiesser È l’alba di una nuova era a Palazzo federale. Con il trionfo ecologista, l’avanzata di donne e giovani, le perdite di tutti i partiti di governo ma soprattutto l’indebolimento dei poli di destra e sinistra (UDC e PS), le elezioni federali del 20 ottobre segnano un punto di svolta (per i dettagli, Marzio Rigonalli a pagina 34). Chi ritiene che l’onda verde si esaurirà quando verrà meno l’effetto Greta non considera a sufficienza che alla base del risultato delle elezioni federali c’è un movimento tettonico che investe una vasta parte della società, oggi più sensibile ai temi ecologici e aperta a cambiamenti sociali. Un’analisi pubblicata in settembre dalla «Neue Zürcher Zeitung» sulle posizioni socio-politiche di tutti i candidati alle Federali lo aveva evidenziato, l’analisi delle posizioni degli eletti lo conferma: in molti temi di valenza sociale anche i candidati del centro e persino della destra si sono spostati verso sinistra, a favore di un’apertura socialliberale (per esempio sul diritto all’adozione per le coppie omosessuali, la liberalizzazione della canapa, il sostegno ad una tassa sul CO2, il voto agli stranieri).

Balza quindi subito all’occhio che la composizione partitica del Consiglio federale non corrisponde più alle forze presenti in parlamento, i quattro partiti di governo rappresentano oggi solo il 70 per cento dell’elettorato. Logico che dovesse risuonare la rivendicazione di un posto in Consiglio federale per i Verdi, anche in considerazione del fatto che con i Verdi liberali l’area ecologista è ancora più ampia. E giusto sarebbe che i Verdi ci tentassero, in dicembre, per misurare quali alleanze possono crearsi alle Camere. Tuttavia, la stessa presidente Regula Rytz, pur sottolineando che la composizione del governo non rispecchia più il paese, non sembra per ora andar al di là di una rivendicazione piuttosto tiepida. In effetti, per il bene della stabilità politica svizzera è importante che i Verdi (e i Verdi liberali) confermino il risultato alle prossime elezioni federali e nel frattempo in quelle cantonali. Ad ascoltare politici e commentatori, i Verdi dovrebbero giusto armarsi ancora un po’ di pazienza. Ma al più tardi fra quattro anni i partiti dovranno trovare un’alternativa alla «Formula magica» di governo. Se oggi i tre maggiori partiti di governo hanno 2 seggi ciascuno e il quarto uno solo, questa formula non funziona più di fronte all’evidenza che fra Verdi, PS, PLR e PPD

ci sono oggi meno di 6 punti percentuali (eppure PS e PLR hanno due seggi, il PPD uno e i Verdi nessuno). Se è vero che al PLR potrebbe essere tolto un seggio (e qui sarebbe Ignazio Cassis a pagarne le spese), è altrettanto vero che non si giustificherebbero due seggi per il PS se la distanza fra questi due partiti è di soli 1,3 punti percentuali. Un’alternativa sarebbe di fare entrare in Consiglio federale i Verdi ma anche i Verdi liberali e togliere un seggio sia al PS sia al PLR. Se ne riparlerà. E ora, come lavorerà il Parlamento? Vista la frammentazione politica, è auspicabile che le forze politiche, in primis i vincitori delle elezioni, diano prova di una volontà e di una capacità di formare ampie alleanze tematiche. Questo faciliterebbe il dialogo fra le due Camere e permetterebbe di trovare delle maggioranze anche in votazione popolare. Essendosi indeboliti i partiti più polarizzanti (UDC e PS), c’è la possibilità di ritrovare una maggiore concordanza; anche se i Verdi sono posizionati a sinistra, hanno spesso dimostrato di essere aperti a compromessi. Se la vittoria ecologista porterà a riforme concrete e condivise, fra quattro anni se ne raccoglieranno i frutti, e si spalancheranno anche le porte del Consiglio federale.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Società e Territorio Vita da webstar Il caffè delle mamme incontra Valeria Vedovatti, sedicenne di Banco di Bedigliora famosa per i suoi vlog su You Tube

L’eredità di Bernhard Peyer Cent’anni fa scoccò la scintilla da cui nacque la moderna ricerca paleontologica in Ticino

Passeggiate svizzere Oliver Scharpf ci accompagna alla scoperta delle terme libere di Combioula in Val d’Hérens

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Nel futuro digitale con responsabilità Pubblicazioni Julian Nida-Rümelin, noto

filosofo tedesco, e Nathalie Weidenfeld, esperta di cinema di fantascienza, hanno scritto Umanesimo digitale, un saggio per orientarsi nell’era dell’intelligenza artificiale

Stefania Prandi Julian Nida-Rümelin, tra i più noti filosofi tedeschi viventi, e Nathalie Weidenfeld, studiosa ed esperta di cinema di fantascienza, hanno scritto Umanesimo digitale, appena pubblicato in italiano da Franco Angeli. Il saggio – ha vinto il Premio Bruno Kreisky nel 2018 come miglior libro politico dell’anno – è una bussola filosofica tascabile per orientarsi nell’era dell’intelligenza artificiale. Nel testo riflessioni teoriche si alternano a citazioni di film distopici e fantascientifici come Matrix, Ex Machina, Blade Runner, Metropolis, Minority Report, 2001: Odissea nello spazio. Julian Nida-Rümelin e Nathalie Weidenfeld, ci date la vostra definizione di umanesimo digitale?

L’umanesimo digitale che proponiamo è un’utopia, qualcosa a cui tendere. Innanzitutto, è un modo di pensare che richiede di prendere congedo dal paradigma della macchina. Né la natura nel suo insieme né l’uomo possono essere considerati come delle macchine. Il mondo non è un orologio e l’uomo non è un automa. In secondo luogo, va considerato che le macchine possono espandere e migliorare la capacità umana sia nell’azione sia nella creatività. Possono essere utilizzate nello sviluppo umano tanto a fin di bene quanto in cattiva fede. Di sicuro non possono sostituire la responsabilità umana, sia quella individuale sia quella culturale e collettiva della società. Paradossalmente tanto la responsabilità individuale quanto quella collettiva vengono amplificate, non diminuite né marginalizzate, dall’utilizzo delle macchine digitali. Le nuove possibilità dell’interazione attraverso le tecniche digitali rappresentano sfide a cui l’essere umano razionale non si può sottrarre delegando le decisioni

a sistemi autonomi, siano essi robot umanoidi oppure software capaci di auto-apprendimento.

Perché serve un umanesimo digitale?

Abbiamo bisogno di nuove prospettive complesse dal punto di vista etico e teorico per interpretare il presente e il futuro. Non possiamo pensare di cogliere le implicazioni del reale utilizzando sistemi binari di pensiero. L’umanesimo digitale è favorevole alla tecnologia. Sostiene l’applicazione di tutte le tecniche digitali per il miglioramento della condizione umana e la conservazione dei sistemi ecologici – anche in considerazione degli interessi vitali delle generazioni future. Allo stesso tempo, tuttavia, si oppone nettamente alle tendenze di fuga e di delega per il futuro conferite a uno sviluppo tecnologico inteso come autosufficiente. Un’utopia pragmatica dell’umanesimo digitale fa proprio il principio di realtà. L’esperienza umana non è l’interpretazione dei dati sensibili, ma si basa su una comprensione di fatti empirici e normativi. Senza intenzioni non si può avere nessuna esperienza genuina, né etica né empirica. Le macchine non hanno intenzionalità. Non imparano nulla, anche se sono in grado di simulare percezione e comportamento. La diffusione dell’impiego dell’intelligenza artificiale pone una serie di nuove domande. Ve ne faccio qualcuna. I robot pensano davvero? Possono provare sentimenti? Ci ruberanno il lavoro?

L’umanesimo digitale non attribuisce proprietà mentali alla simulazione del comportamento umano. Piuttosto, affina i criteri di riconoscimento della responsabilità umana in considerazione della disponibilità di nuova tecnologia digitale. Secondo questo approccio filosofico, noi esseri umani non possiamo trasferire le nostre scelte alla presunta autonomia delle mac-

Secondo gli autori le macchine e il digitale non possono sostituire la responsabilità umana, individuale e collettiva. (Marka)

chine digitali. L’idea che i computer o i robot abbiano una personalità, o che comunque un giorno la possano acquisire, dovrebbe essere definitivamente messa da parte come una proiezione (in senso psicoanalitico) regressiva. È la ricaduta nell’animismo delle culture dell’Età della pietra. L’attribuzione di un’anima ad alberi, corsi d’acqua e alle sagome delle nuvole può essere paragonata allo stesso meccanismo con cui attribuiamo un’anima ai computer oppure ai robot. Se si ragiona così, non si fa altro che mitigare il peso della solitudine e delle scelte che affligge l’unica specie del pianeta, rappresentata da noi essere umani, capace di trasformazione nell’epoca dell’Antropocene.

L’umanesimo digitale ha una visione ottimista del futuro. Secondo voi non c’è ragione per essere ango-

sciati rispetto alle conseguenze della diffusione della tecnologia. In che modo possiamo evitare gli scenari peggiori?

Crediamo che sia necessario che gli esseri umani abbiano il controllo delle infrastrutture, delle comunicazioni e delle interazioni digitali. Se ciò non è possibile su scala mondiale, queste infrastrutture devono essere garantite mediante trattati multilaterali, preferibilmente sotto gli auspici delle Nazioni Unite. Non si può accettare che gli interessi commerciali di Google, Facebook e delle altre grandi aziende del settore blocchino lo sviluppo di infrastrutture neutrali di comunicazione e di interazione digitali. L’immenso aumento delle possibilità di informarsi con uno sforzo minimo e in modo affidabile, le diverse opzioni di formare comu-

nità e perseguire obiettivi comuni, le nuove opportunità di comunicazione attraverso i confini culturali potrebbero essere condizioni ideali per uno sviluppo umano e democratico in tutte le regioni del mondo. Potrebbero dare un contributo significativo all’autodeterminazione individuale e politica e realizzare l’ideale illuministico di una cittadinanza informata e responsabile, sia a livello nazionale sia internazionale. L’educazione individuale e collettiva dovrà focalizzarsi sul giudizio indipendente e sul potenziamento delle capacità decisionali. Precisazione

L’intervista è stata rivista e modificata dalla giornalista per esigenze di chiarezza testuale.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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La fiducia che educa

Tutti insieme per smettere di fumare

a Bellinzona, dove ha parlato di fiducia nella relazione educativa. Lo abbiamo intervistato

Stopgether Il

Psicologia Lo psicoterapeuta Domenico Barrilà è stato ospite al Festival dell’educazione

Alessandra Ostini Sutto «Il modo migliore per scoprire se ci si può fidare di qualcuno è dargli fiducia», scriveva Ernest Hemingway. Questa risorsa preziosa sta infatti alla base delle relazioni umane, oltre ad essere un «motore» in grado di generare motivazione e, di conseguenza, produttività e creatività. La fiducia è stata al centro della quarta edizione del Festival dell’educazione, svoltosi qualche settimana fa a Bellinzona. Tra i relatori dell’evento promosso dal Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport (DECS), Domenico Barrilà (psicoterapeuta e analista adleriano) ha tenuto una conferenza sulla fiducia nella relazione educativa. Impegnato da oltre trent’anni nell’attività clinica in Lombardia, Barrilà è attivo pure nello sviluppo di progetti compatibili con una psicologia vicina ai cittadini. Collabora con alcune testate nazionali e dirige due collane editoriali da lui ideate. È autore di una ventina di titoli, diversi dei quali tradotti all’estero. Tra quelli più recenti segnaliamo Quello che non vedo di mio figlio. Un nuovo sguardo per intervenire senza tirare a indovinare (Feltrinelli 2017) e I superconnessi. Come la tecnologia influenza le menti dei nostri ragazzi e il nostro rapporto con loro (Feltrinelli 2018). Incuriositi dal tema proposto a Bellinzona, gli abbiamo posto qualche domanda sulla relazione educativa, sia all’interno della scuola che della famiglia, e sul ruolo della fiducia. Domenico Barrilà, nella relazione educativa, tra insegnante ed allievo, qual è attualmente il modello dominante?

Non credo esista un modello dominante e per essere sinceri non vedo neppure un modello. Forse, semplicemente, mi auguro non esista, perché le posizioni ideologiche, le fissità del passato, oggi tendono a creare solo distanza tra adulti, bambini e ragazzi. Occorre una plasticità che noi grandi non siamo ancora in grado di produrre, saranno i più giovani a spingerci in quella direzione. Non ci sono alternative.

Oggi bambini e ragazzi si muovono in un ambiente virtuale, che si smaterializza sempre più e che determina paesaggi interiori sconosciuti a molti genitori In quale direzione sta dunque evolvendo il rapporto tra le generazioni?

La continuità tra le generazioni si è in qualche modo spezzata. Lo spazio naturale che fino a un paio di decenni fa esisteva tra adulti e minori si è dilatato in proporzioni che erano inimmaginabili. La tendenza, in realtà, era già in atto. La differenza è che ora bambini e ragazzi si muovono in un ambiente che si smaterializza sempre più, virtualizzandosi e determinando paesaggi interiori originali, sconosciuti a molti genitori.

Quali sono le ripercussioni sul piano educativo?

Per la prima volta nella storia dell’e-

una relazione di fiducia è l’effetto di comportamenti coerenti e convinzioni chiare. (Marka)

ducazione, il grado di preparazione di bambini e ragazzi, almeno per quanto riguarda le nuove tecnologie, è più alto, rispetto a quello degli adulti. Da un lato quindi i giovani sono in grado di contribuire a rendere più competenti i propri educatori, contagiandoli con le novità di cui sono impregnati, dall’altro chi educa, nel modo di farlo, deve tenere conto di avere di fronte degli interlocutori assai più competenti di come era abituato a immaginarli. Questo, comunque, comporta un guadagno per tutti.

Fatte queste premesse, come devono comportarsi, concretamente, genitori ed insegnanti?

Potremmo definire l’educazione, la trasmissione testimoniale di una visione della vita, dove il termine «testimoniale» ci dice che i ragazzi sono influenzati dal comportamento dei genitori, solo in minima parte da ciò che essi dicono. Ad esempio, uno dei mantra di oggi è quello di educare all’uso consapevole degli oggetti digitali; un’intenzione certamente lodevole, ma per un genitore o un insegnante la possibilità di incidere sul rapporto con le nuove tecnologie passa attraverso il modo in cui loro stessi si pongono nei confronti di esse. Difficile dire a un figlio di staccare la testa dallo Smartphone, se suo padre, per esempio, ne fa un uso poco esemplare. L’ambiente gioca un ruolo determinante nella costruzione dei modelli educativi, quindi il valore del vecchio esempio non è mai tramontato. Al di là di quello familiare, come è mutato l’ambiente in cui i ragazzi sono immersi con l’avvento delle nuove tecnologie?

In questi ultimi anni, quell’ambiente che immaginiamo solido, tridimensionale, è diventato qualcosa di completamente diverso. Il terreno di gioco si è allargato enormemente, poiché l’ambiente virtuale è potenzialmente sconfinato. Un educatore non può occupare spazi di tali dimensioni. Esercitare un controllo sul tragitto scuola-casa oppure sugli amici che frequenta un ragazzo,

significa pattugliare un teatro dalle dimensioni certe o comunque ragionevoli. Diverso è tentare di tenere sotto controllo un universo pieno di materia oscura. Il rapporto di fiducia va quindi costruito a monte, considerando che non siamo onnipotenti e non possiamo passare le giornate a spiare. Come va coltivata la fiducia?

La fiducia non si coltiva con delle tecniche speciali. La sua esistenza è l’effetto di comportamenti coerenti, di convinzioni chiare. Non basta dire a un figlio che abbiamo fiducia in lui, si tratta di creare le condizioni perché lui senta che le cose stanno davvero così. Ciò non si verifica, per esempio, se parliamo di fiducia ma poi controlliamo il cellulare tutte le volte che lo lascia incustodito. A scuola, qual è il ruolo della fiducia nella relazione educativa?

Nel rapporto educativo fiducia fa rima con incoraggiamento. Un ragazzo che sente fiducia sincera, genuina, nei suoi confronti, penserà di meritarla e questo lo indurrà a comportarsi di conseguenza. Diversamente, se si sente ingaggiato in una sorta di rapporto poliziesco, vivrà la sensazione di non meritare fiducia, che avrà pure le sue conseguenze. Ogni essere umano tende infatti a comportarsi secondo il giudizio che sente aleggiare nei suoi confronti. Cambia il discorso se si considera il contesto familiare?

Vale lo stesso ragionamento, con l’aggravante che se un ragazzo trova normale preventivare un qualche conflitto di interessi con i suoi insegnanti, dalla famiglia si aspetta sostegno e fiducia, spontaneamente. Sia a scuola che a casa ci si scontra ad un certo punto con un ostacolo fisiologico, la conflittualità nel rapporto tra adolescente ed adulto…

Non saprei se esista il paradiso terrestre, ma mi dichiaro certo che la famiglia non sia tenuta a somigliargli. Parlare di un gruppo umano, composto da individui dalle personalità non sovrapponibili, come la famiglia, significa per conseguenza logica parlare

di conflittualità, che è il motore del suo sviluppo. Ed è proprio in tali situazioni che i genitori diventano preziosissimi, perché in questo preludio alla vita sociale allargata – questo è la famiglia – gli scontri servono a regolare lo spazio di ciascuno, a definire il proprio pensiero, i propri diritti. Ad affinare, in sintesi, la propria vocazione sociale.

Lei è uno psicoterapeuta e analista adleriano; che relazione ha questo tipo di approccio con il tema di cui ci stiamo occupando?

Alfred Adler costruisce il suo sistema psicologico tra due sponde, il sentimento sociale e la volontà di potenza. Egli parte dalla natura sociale dell’essere umano, che è la vera causa di tutti i suoi progressi e fa coincidere la normalità con la capacità di aderire a tale destino. Un bambino e un ragazzo sani sono in genere dei buoni cooperatori; un criterio semplice che ci dice molto dei nostri figli. Ecco perché controllare gli oggetti digitali serve a poco, molto meglio interrogare gli insegnanti su come i nostri figli si comportano coi loro simili. Una domanda fondamentale, la cui risposta può essere efficace come una diagnosi competente. Se un ragazzo usa con moderazione i social network ma non riesce a integrarsi con i propri simili, è certamente messo peggio di uno che li usa con frequenza ma rispetta gli altri ed è attento ai loro interessi.

programma collettivo inizierà a novembre su Facebook

Insieme, si è più forti! È con questo motto che il 20 settembre scorso è stato lanciato su Facebook il primo programma collettivo nazionale per l’abbandono del fumo. Stopgether, creato dalle Leghe polmonari cantonali e da Promotion santé Valais, invita i fumatori svizzeri a unirsi a un gruppo sul social network per smettere di fumare tutti insieme durante il mese di novembre. Ispirato a programmi simili che hanno avuto successo in Francia, Inghilterra e Svizzera romanda, Stopgether è un programma digitale gratuito per liberarsi dal tabagismo, proposto per due mesi e mezzo in tutta la Svizzera. Il programma si articola in 3 fasi: la fase di reclutamento e preparazione in ottobre, il mese dell’abbandono del fumo in novembre e due settimane di consolidamento fino a metà dicembre. In questo modo Stopgether supporta coloro che vogliono smettere di fumare aumentando le possibilità di riuscirci. Oltre al sostegno degli altri membri del gruppo, i partecipanti beneficiano di varie pubblicazioni quotidiane (per ogni regione linguistica): infografiche, consigli, incoraggiamenti, mini-concorsi, ecc., il tutto sotto la supervisione di un team di community manager in grado di offrire assistenza 7 giorni su 7 dalle 6 di mattina a mezzanotte e di incoraggiare i partecipanti a mantenere il loro impegno. Analogamente, la Linea stop-tabacco offre una consulenza telefonica personalizzata in una decina di lingue, basta chiamare lo 0848 000 181 (dalle 10.00 alle 20.00). Per la prima volta, inoltre, una campagna di prevenzione del tabagismo si avvale del contributo di noti influencer. Sei personalità svizzere si impegnano a sostenere il programma, due di loro smetteranno di fumare a novembre, gli altri sosterranno l’iniziativa con parole e azioni di sensibilizzazione nella loro comunità. Molti altri strumenti sono disponibili su stopgether.ch e sulla piattaforma nazionale stopsmoking.ch, realizzata in collaborazione con l’Associazione svizzera per la prevenzione del tabagismo, la Lega svizzera contro il cancro, le Leghe polmonari cantonali e Promotion santé Valais, con il sostegno finanziario del Fondo di prevenzione del tabagismo.

In conclusione, come vede in prospettiva le nuove generazioni?

Il protagonismo delle nuove generazioni riguardo a temi che noi adulti abbiamo lasciato incustoditi mi fa dire che forse siamo di fronte ad una svolta culturale potente, di cui loro sono gli artefici. Mi commuove sapere che reclamano il diritto di difendere la terra che ci ospita, un diritto che noi per troppo tempo abbiamo dimenticato di esercitare, permettendo la sofferenza di un’infinità di esseri viventi, dagli umani che muoiono di fame e di sete fino agli animali che sopprimiamo, spesso crudelmente. Sì, c’è davvero il rischio che ci facciano vergognare.

i cartelloni della campagna hanno invaso le città svizzere. (stopgether.ch)


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Idee e acquisti per la settimana

Cotto d’Alta Qualità

Specialità Il prosciutto cotto italiano Lenti promette momenti di puro piacere Azione 30%

Preparato secondo una ricetta tradizionale che si tramanda da quasi un secolo, il prosciutto cotto «Alta Qualità» Lenti è prodotto con materie prime accuratamente selezionate. A cominciare dalle cosce fresche di suini di media pezzatura nati, allevati e macellati in Italia; per poi passare all’utilizzo di preziose spezie, erbe aromatiche e buon Marsala mescolati con sapienza e attenzione per creare delle miscele esclusive per aromatizzare le carni durante la cottura, che conferiscono al prosciutto il suo caratteristico sapore delicato e profumo pronunciato. Durante il processo produttivo ancora oggi il disosso, la legatura e lo stampaggio vengono effettuati manualmente da esperti salumieri. La cottura a vapore viene eseguita molto lentamente, al fine di preservare l’essenza degli aromi fino al cuore del prosciutto. Il risultato è un prosciutto

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che risulta incredibilmente morbido al palato, grazie al perfetto rapporto tra grasso e parte magra. Con la sua dolcezza e aromaticità è ottimo da servire in ogni occasione, dagli antipasti ai primi, dagli snack fino ai panini imbottiti più variegati. Infine, il prosciutto Lenti saprà soddisfare i gusti proprio di tutti, dal momento che è esente da glutine, lattosio e caseinati, OGM, polifosfati e glutammato aggiunti.

Pesce sostenibile

Attualità Tutte le orate fresche dell’assortimento Migros sono

ora certificate ASC

Buone notizie per tutti coloro che sono particolarmente attenti all’aspetto ecologico e sociale dei prodotti acquistati. Da subito tutte le orate reali fresche disponibili presso i reparti pesce di Migros Ticino sono certificate con il marchio internazionale ASC (Aquaculture Stewardship Council). Ciò significa che i pesci provengono da allevamenti greci che devono sottostare a severi criteri di sostenibilità. Tra i punti più importanti figurano per esempio la provenienza sostenibile dei mangimi, una buona qualità dell’acqua che favorisca il benessere dei pesci, il preservamento della biodiversità

nelle regioni di provenienza del pesce, condizioni di lavoro eque per i lavoratori delle aziende e sicurezza sul posto di lavoro. Il rispetto delle normative viene garantito attraverso verifiche regolari da parte di organi di controllo indipendenti. L’orata reale è un pesce apprezzato che si caratterizza per la sua carne soda, bianca e dal sapore molto delicato. Inoltre è povera di lische. Il nome deriva dal fatto che possiede una striscia color oro molto brillante che forma una specie di corno tra gli occhi. Il suo corpo è ovale, con dorso grigio-bluastro e fianchi giallo-argentei. In cuci-

na l’orata è eccellente grigliata, cotta al forno, stufata o arrostita in padella. Una preparazione molto gettonata dai buongustai è l’orata intera in crosta di sale. Le orate ottenibili presso il reparto pesce Migros sono vendute già eviscerate, ma non squamate. Su richiesta i nostri specialisti del pesce effettuano la squamatura per voi. Quest’ultimi sono pure a vostra disposizione per consigliarvi le ricette più appetitose che sappiano valorizzare al meglio le rinomate caratteristiche di questo pesce molto diffuso nella cucina mediterranea.

Per la tutela dell’ambiente Attualità Dal 1. gennaio 2020 Migros estende l’applicazione

Con lo scopo di ridurre ulteriormente i rifiuti di plastica, in futuro non si pagheranno solo i sacchetti di plastica disponibili alle casse dei supermercati, bensì anche quelli che finora erano distribuiti gratuitamente nei negozi specializzati Migros e negli esercizi di ristorazione. Migros metterà in atto questa nuova misura già dal 1. gennaio 2020. Grazie all’introduzione della tassa sui sacchetti monouso in plastica nei supermercati, Migros è riuscita a ridurre il loro uso dell’83%. Con il nuovo anno verrà applicata una tassa anche per i sacchetti riutilizzabili riciclati, che finora erano gratuiti.

La nuova misura vale per i negozi specializzati Migros, quali SportXX, melectronics, Do It + Garden, Micasa, nonché le imprese commerciali come Ex Libris e Digitec Galaxus. A seconda delle dimensioni, i sacchetti di plastica costeranno da 5 a 50 centesimi. Inoltre, anche presso i ristoranti, i take away e i De Gustibus Migros non verranno più consegnati sacchetti di plastica gratuiti. Questa misura si basa sulla decisione presa dal settore del commercio al dettaglio di estendere l’attuale accordo di settore, in vigore dal 2016 e relativo ai sacchetti di plastica usa e getta, anche

a quelli riutilizzabili (v. comunicato stampa di IG Detailhandel e di Swiss Retail Federation del 23.10.2019). Visto l’enorme successo conseguito con l’introduzione della tassa sui sacchetti di plastica usa e getta, la Migros, insieme al settore del commercio al dettaglio svizzero, continua in modo coerente a percorrere la via intrapresa. La Migros è convinta che mettendo in atto rapidamente questo accordo volontario di settore sia possibile ridurre il consumo di plastica: la clientela può ancora scegliere liberamente di ricorrere ai sacchetti di plastica, ma viene motivata a riutilizzarli.

Tresol Group/Däwis Pulga

della tassa sui sacchetti di plastica ai negozi specializzati e alla ristorazione


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Idee e acquisti per la settimana

Finestre dell’avvento Il periodo dell’Avvento è alle porte. Ti piace la creatività? Abbiamo in serbo per te due idee per il bricolage che potrai modificare e abbellire a piacimento. Ti auguriamo tanto successo!

idea per il bricolage 1 Grado di difficoltà: facile, fino a 45 minuti Materiale • Carta velina (diversi colori, ad es. bianco e rosso) • Forbici • Colla in stick • Penna a sfera

Fase 1 Stampa dapprima il modello scaricabile sotto famigros.ch/vetrofania-dell-avvento e ritaglia le aree bianche della boccia natalizia.

Fase 2 Ritaglia le parti da utilizzare per coprire gli spazi vuoti. Scegli diversi fogli colorati e, aiutandoti con il modello, ritaglia le forme adatte. Ritagliando le forme, prevedi un bordo per applicare la colla e per incollare le strisce di carta colorata sul retro del modello nella fase successiva.

Fase 3 Completa la vetrofania. Incolla a tale scopo le strisce di carta colorata sul retro del modello.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Fase 1 Stampa i modelli (li trovi sotto famigros.ch/ finestra-dell-avvento) nelle dimensioni desiderate su della carta bianca. Stampa invece la luna su un foglio trasparente.

idea per il bricolage 2 Grado di difficoltà: medio, fino a 2 ore

Materiale • Carta spessa bianca e nera • Lucido trasparente per stampante laser A4 • Carta trasparente bianca e gialla • Taglierino • Righello in metallo • Colla in stick • Punzonatrice • Portarotolo

Fase 2 Ritaglia i motivi.

Fase 3 Incolla dietro alle finestre, ai numeri e alla luna la carta gialla trasparente.

Fase 4 Ritaglia gli elementi inferiori a mano.

Fase 5 Crea delle stelline utilizzando la punzonatrice con l’apposito motivo.

Per i numeri delle finestre, combina semplicemente le cifre e trasferiscile sulla stella grande. La luna può essere stampata anche su della carta gialla. Se non hai la punzonatrice a portata di mano, ritaglia semplicemente la stella dalla carta nera. Chi preferisce le decorazioni colorate può sostituire il foglio bianco di base con della carta colorata trasparente. Consigli e astuzie

Fotos: Patrizia Furrer

Fase 6 Taglia un pezzo di carta bianca trasparente grande come la finestra e distribuiscici sopra i motivi. Fissali con la colla. Incolla il tuo capolavoro alla finestra con il nastro adesivo.

Matrice da scaricare e istruzioni complete: famigros.ch/finestra-dell-avvento famigros.ch/vetrofania-dell-avvento Altri consigli di bricolage famigros.ch/bricolage


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Società e Territorio

«Se puoi sognarlo puoi farlo» Il caffè delle mamme Incontro con Valeria Vedovatti,

webstar cresciuta a Banco di Bedigliora Simona Ravizza «Nulla mi dava soddisfazione tranne una cosa: registrare video». Con vlog postati su YouTube dalla sua cameretta di Banco, frazione di Bedigliora, è riuscita a diventare una webstar seguita da oltre mezzo milione di adolescenti. Al motto: «Se puoi sognarlo puoi farlo». Il Caffè delle mamme incontra Valeria Vedovatti, 16 anni compiuti il 15 gennaio, alla libreria Mondadori di piazza Duomo a Milano poco prima del firmacopie del suo primo libro, un fotoromanzo dal titolo Come stai? (ed. Rizzoli). Sotto le finestre migliaia di ragazzine in fila dietro le transenne non smettono di urlare «Vale, Vale!». Inevitabilmente al seguito c’è mia figlia Clotilde con la migliore amica Greta, 11 anni d’emozione per uno dei giorni definiti più belli della loro vita (meglio non farsi troppe domande). Pantaloni bordeaux a zampa, top bianco che lascia scoperta la pancia, viso con il trucco appena accennato e capelli lunghi sciolti, Valeria interrompe più volte l’intervista perché dall’emozione non riesce a trattenere le lacrime. La mia consapevolezza: per conoscere i nostri figli non si possono snobbare i loro idoli. Il saluto ai fan è sempre «Buonsalve!». Il suo mondo è dentro il cellulare dove 420mila follower seguono i vlog del sabato alle 18 su YouTube, 511mila i post

quotidiani su Instagram e 477mila le clip musicali mimate su Tiktok. Eppure Valeria lo smartphone l’ha dimenticato a casa (un appartamento di Milano dove si è trasferita a vivere con una coinquilina a inizio settembre): «Sono sbadata e maldestra» esordisce con «Azione», mentre supplica la mamma Gabi di andare a recuperarglielo. «Ma forse è anche questa la chiave del mio successo. In un mondo che ambisce alla perfezione io mi presento per come sono». Il 17 settembre per l’uscita del libro si è lanciata con il Bungee jumping, esperienza ovviamente video documentata. «Ho preso alla lettera il termine lancio», sorride Valeria ancora incredula per quello che le sta succedendo: «Ho aperto il mio canale Youtube il 12 luglio 2017 dicendo che avrei voluto condividere con chi mi avrebbe seguito i disagi che non mancano mai e i momenti belli della mia vita. Ho iniziato a fare video per passione perché mi rende felice, con l’obiettivo di strappare qualche sorriso». Lo scorso marzo è stata premiata a Los Angeles nella categoria «Nuova star preferita» ai Kids’ Choice Awards 2019, una manifestazione organizzata dalle rete televisiva Nickelodeon. La sua forza è essere considerata, in gergo giovanile, una disagiata. Così il Caffè delle mamme capisce perché le nostre figlie si sentono rappresentate

da Valeria che dice: «Insieme abbiamo creato qualcosa di immenso. La nostra famiglia». Nei video la 16enne condivide i suoi stati d’animo che sono anche i loro: l’insicurezza che abbatte, la paura del giudizio degli altri che frena, il sentirsi persi che vuol dire non essere capiti da nessuno, il bisogno di un rifugio nella Rete, la voglia di credere sempre e comunque nei propri sogni: «Il mio scopo» ripete la giovane webstar «è quello, tramite le mie esperienze, di aiutarvi e di farvi sentire capiti». Le frasi d’incitamento sono frequenti: «Ognuno di noi è un guerriero. Ognuno di noi ogni giorno lotta contro le proprie insicurezze e difficoltà. E noi siamo una famiglia di guerrieri»; «Credete sempre in voi stessi, nei vostri sogni»; «Voliamo sempre più in alto». Ai firmacopie del libro l’invito è di disegnarsi strisce di rossetto sulle guance: «Facciamoci notare, spacchiamo tutto». Il titolo del libro Come stai? è evocativo: «Eh sì, te lo chiedo per davvero» dice Valeria ai suoi amici virtuali. «Io ho sempre risposto bene alla domanda anche quando passavo la notte a piangere sotto le coperte. Ora rispondo bene senza mentire, perché ho voi al mio fianco». Così l’unione tra la webstar e le nostre figlie è compiuta. E loro ne hanno bisogno: «Dietro ogni traguardo c’è una nuova partenza» è l’incitamento di Valeria. «Dietro ogni risultato c’è un’al-

la copertina del libro di Valeria Vedovatti presentato in settembre a Milano.

tra sfida. Finché sei vivo, sentiti vivo. Vai avanti anche quando tutti si aspettano che lasci perdere». La protagonista del libro è Gioia (alter ego della Vedovatti), 15 anni, apparentemente allegra e solare, in realtà troppo impegnata ad assecondare gli altri per rispondere davvero alla domanda «Come stai?». In equilibrio su un asse o appesa alle parallele alla ricerca di una vittoria, come fa durante le gare di ginnastica artistica, Gioia impara a trovare se stessa tra delusioni amorose, tradimenti delle amiche ed emancipazione dalla famiglia. Paura, rabbia, invidia, solitudine, gelosia, vergogna: «Tutto serve, tutto ci forma, tutto fa parte di

noi e della nostra vita». Nel fotoromanzo Alex, che pratica il parkour e va per la propria strada senza curarsi delle apparenze sembrando un po’ strano, domanda a Gioia: «È quello il tuo sogno?». Alla risposta «Sì. Credo proprio di sì», rilancia: «Allora inseguilo. Perché se non lo fai ti inseguirà lui per sempre sotto forma di incubo». Riflessione della protagonista: «Io ci ho messo anni e anni a capirlo ma adesso, finalmente, ho smesso di inseguire un desiderio che non era mio e posso dedicarmi ai miei sogni. Quelli veri». Dopotutto, riflettiamo al Caffè delle mamme, è un invito che possiamo condividere. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Società e Territorio

Peyer e la montagna dei sauri

Paleontologia Cent’anni fa scoccò la scintilla da cui nacque la moderna ricerca scientifica in Ticino.

Grazie a una pomata antisettica e alla dedizione di Bernhard Peyer

Rudolf Stockar Il 6 settembre 1919 Lugano vide aprirsi quella che Arnoldo Bettelini definì la più grande manifestazione intellettuale che si fosse mai tenuta in Canton Ticino: il 100° congresso della Società Elvetica di Scienze Naturali. Come presidente dell’anno, davanti a 300 studiosi tenne un discorso inaugurale dai contenuti ancor oggi quanto mai attuali. Definisce il paesaggio «bene pubblico, la cui deturpazione costituisce un danno collettivo». Perora la causa della creazione di «un vero e proprio Museo Ticinese», che mostrasse non solo «le rarità peregrine della nostra fauna e della nostra flora» ma anche «il ricchissimo mondo paleontologico che ha arricchito tante straniere collezioni». Si dilunga sugli «scisti bituminosi di Meride, contenti i primi vertebrati, ventuno specie di pesci e tre di rettili, fra i quali il famoso Mixosaurus Cornaliano che Stoppani ha definito il più bel fossile in Lombardia». Nella grande sala di Palazzo Civico, un uomo ascoltava questi ultimi passaggi con particolare interesse. Nato il 25 luglio 1885, figlio di un fabbricante di tessili, Bernhard Peyer era giunto a Lugano quale rappresentante della sezione sciaffusana della Società. Padroneggiava diverse lingue, compreso il latino e il greco antico, e recitare Omero in originale era uno dei suoi passatempi preferiti. Un gradito retaggio di quegli studi umanistici cui i genitori lo avevano dapprima avvia-

to. Peyer era però altrettanto a suo agio all’aperto e sviluppò presto interesse per le scienze naturali. Aveva studiato a Tübingen e Monaco, per giungere infine a Zurigo dove, solo l’anno precedente, ottenne l’abilitazione alla docenza di anatomia comparata e paleontologia. Non conosceva gli «scisti bituminosi di Meride», sapeva però che nella vicina Besano gli italiani avevano portato alla luce quei fossili spettacolari citati da Bettelini. Non so quanto della sua mente rimase effettivamente libero per seguire le conferenze dei giorni successivi che si aprirono con «La struttura degli atomi» per concludersi con «Il bonificamento del Piano di Magadino». Fatto è che al termine del congresso si diresse immediatamente a Meride e più precisamente a Spinirolo, dove la fabbrica della «Società Anonima Miniere scisti bituminosi di Meride e Besano» sfruttava rocce triassiche provenienti dalle miniere di Tre Fontane a Serpiano. Gli impianti erano frutto della visione di un conte e chimico milanese che vi inaugurò l’attività estrattiva nel 1907. Sottoposti a distillazione, gli scisti bituminosi fornivano un olio greggio che veniva poi distillato producendo il «Saurolo», ammonio solfoittiolato con un contenuto di zolfo fino al 17%. Un prezioso antisettico e antinfiammatorio usato per una serie di affezioni cutanee che spaziavano dagli eczemi ai dolori articolari e alle contusioni. Nel cortile della fabbrica, Peyer si trova dinanzi un gigantesco mucchio di scisti, scaricati dal carro proveniente dalle

lo stabilimento di Spinirolo, ora convertito a fattoria con attività di pet-therapy. Settembre 2019, cent’anni dopo la prima visita di b. Peyer. (R. Stockar)

miniere ma non ancora frammentati per entrare nei distillatori. Con il consenso della direzione li esamina e vi scopre il fossile dell’arto anteriore di un Mixosaurus, il rettile dal corpo di pesce e muso di delfino citato da Bettelini. Si spostò quindi nella discarica di Tre Fontane, trovandovi altri fossili. Come lui in seguito ammise, questi reperti non gli lasciarono più pace. Negli anni seguenti progetta uno scavo sul Monte San Giorgio che rende concreto nel 1924, grazie alla donazione di mille franchi da parte della Fondazione Georges e Antoine Claraz. Dapprima

tenta invano di estrarre i fossili dalle miniere usando piccole cariche di esplosivo. Poi apprende di uno scavo a cielo aperto in Valporina, sul fianco sud del monte, abbandonato dalla società mineraria già prima della Grande Guerra. Vi comincia a scavare «in condizioni primitive», estraendo grandi lastre grazie all’aiuto di due minatori di Porto Ceresio. Fu un successo strepitoso: oltre a esemplari completi di Mixosaurus, emerse anche il fossile di una specie sconosciuta di Cyamodus, piccolo rettile marino corazzato. Scavi e scoperte

si accumularono nel ventennio seguente, in cui Peyer divenne professore ordinario di paleontologia e anatomia comparata, oltre che direttore del Museo di Zoologia dell’Università di Zurigo. In oltre 120 pubblicazioni presentò generi e specie nuovi di rettili marini, in alcuni casi esemplari unici di animali impensabili e in seguito mai più rinvenuti. Alessandro Fossati scrisse che «prima di lui numerosi altri studiosi si erano chinati sulla natura ticinese. Si è però trattato di personaggi isolati, non di rado appassionati autodidatti che dedicavano a quest’attività il loro tempo libero. Con Peyer inizia un altro tipo d’investigazione: pianificata, frutto di programmi pluriennali precisi (…). In altre parole, con Peyer inizia anche in Ticino la ricerca scientifica moderna». Oggi, passando davanti alla ciminiera di Spinirolo, tuttora esistente anche se da tempo spenta, sono riconoscente a foruncoli, eczemi e a chi scoprì questo trattamento per curarli. Il paesaggio sfuma nel bianco e nero di cent’anni fa, un uomo magro, con gli occhiali tondi e i baffi a coprirgli le labbra, è chino su un mucchio di lastre scure. I suoi occhi pieni di meraviglia percorrono i paesaggi in esse racchiusi. Lo aspettava un compito immenso, avrebbe dovuto formare persone, progettare laboratori, inventarsi da zero la ricerca paleontologica. Avrebbe avuto bisogno di entusiasmo, ostinazione e fortuna. Ebbe tutto ciò. E ci regalò la montagna dei sauri. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La via di fuga La notizia è recente: a Ginevra una donna di 86 anni si è rivolta a un medico di Exit, l’organizzazione di assistenza al suicidio, perché l’aiutasse a morire. La donna non era malata: era disperata. Il marito, con il quale era sposata da più di sessant’anni, stava per morire e lei ha chiesto di poter morire con lui. Il medico le ha fornito il farmaco letale. Ovviamente, esistono pareri divergenti sul gesto del medico di Exit, che si può comunque considerare come un atto di pietà verso una condizione di sofferenza spirituale che avrebbe condannato una donna – già avanti negli anni – a consumare in una disperata solitudine gli avanzi della vita. L’evoluzione della mentalità nel corso dei secoli ha quasi capovolto gli antichi pregiudizi sul suicidio: nel mondo classico della Grecia di Platone e Aristotele il suicidio veniva considerato un reato contro gli Dèi o contro la comunità. Naturalmente, si trattava di un reato

che non poteva più essere punito, se non simbolicamente: così, nell’Atene del V secolo la mano del suicida veniva sepolta lontano dal corpo. Però, stranamente, l’infanticidio – qualora il bambino nascesse gracile o deforme – veniva giustificato da Platone e da Aristotele come una misura di igiene sociale. Contava dunque la comunità, l’individuo non aveva autonomia. Con l’imporsi del cristianesimo fu la Chiesa a dettare le norme: la scomunica dei suicidi fu sancita dal Concilio di Toledo nel 693 e ancora nel 1917 il Codice di diritto canonico vietava loro la sepoltura. Solo la versione del Codice del 1983, successiva al concilio Vaticano II, soppresse le sanzioni precedenti. L’età moderna ha dunque fatto prevalere il principio che la vita appartiene all’individuo, non alla comunità o a un’istituzione religiosa. Oggi questa pare la soluzione più tollerante e più giusta, la più rispettosa dell’indivi-

duo e della sua libertà. È in forza di questo riconoscimento della libertà individuale che il giurista Carl Stooss, considerato il padre del Codice penale svizzero, sostenne che colui che si suicida non merita una punizione, bensì la nostra compassione: la legislazione elvetica, infatti, risulta essere particolarmente liberale non solo nei confronti di chi sceglie il suicidio, ma anche di chi presta aiuto a una persona che voglia suicidarsi. La compassione, dunque, costituisce il criterio etico atto a guidare il giudizio e il comportamento nei confronti di chi soffre; ma, come sempre, nessun principio etico va assolutizzato. Se l’imperativo morale assolutamente prevalente fosse quello di non fare soffrire e di annullare il dolore, allora non si dovrebbero più mettere al mondo figli: perché, come scriveva il Leopardi, «nasce l’uomo a fatica, / ed è rischio di morte il nascimento. / Prova pena

e tormento / per prima cosa; e in sul principio stesso / la madre e il genitore / il prende a consolar dell’esser nato». O addirittura – secondo un caustico aforisma del passato – il più grande benefattore dell’umanità sarebbe chi trovasse il modo di procurarne una rapida e definitiva estinzione. Alleviare la sofferenza fa comunque parte della deontologia medica, e quando il deperimento fisico diventa irreversibile e quel che resta della vita può essere solo una dolorosa agonia si può capire che un medico si presti all’eutanasia: nel 2018 Exit ha accompagnato alla morte, in Svizzera, 905 persone. Ma il dolore non è solo quello fisico (che oggi è controllabile grazie ai farmaci), ma anche, e forse soprattutto, quello spirituale. Basta pensare al numero dei suicidi giovanili: dati statistici di una ventina d’anni fa individuavano nel suicidio la seconda

causa di morte al di sotto dei 21 anni, dopo gli incidenti stradali. Nello stesso periodo la Svizzera figurava tra i primi cinque Paesi europei con il più alto tasso di suicidi tra i giovani. Le cause? Un fallimento nella formazione scolastica, il sentirsi inferiori ai compagni, la perdita di autostima, la mancanza di affetti, la solitudine: tutte sofferenze spirituali che quando diventano insopportabili esasperano quella tendenza all’autodistruzione che negli adolescenti spesso è presente. Forse, se la solitudine non fosse così diffusa nel nostro mondo, molti giovani vivrebbero meglio; nella società di oggi l’individuo ha acquistato una libertà che prima non aveva, si è svincolato dai lacci della comunità dominante, ma così facendo ha anche perso il senso di appartenenza a una comunità. Libertà e solitudine oggi procedono assieme: talvolta, verso una definitiva via di fuga.

strizzo gli occhi beato. Il tentativo di Isaac de Rivaz (1752-1828), inventore del primo motore a combustione interna alimentato da gas idrogeno, di estrarre dei sali da queste sorgenti a inizio Ottocento, sfuma perché finisce i fondi per terminare di scavare la galleria; ostruita tra l’altro nel 1963 per via dello straripamento disastroso di un laghetto alpino. Naufraga anche il progetto termale nato a fine anni ottanta, riguardo a queste fonti menzionate per la prima volta in un manoscritto del Cinquecento – una cinquantina secondo un inventario di Janine Flück dell’Università di Neuchâtel, ottantuno tra i venticinque e ventinove gradi dicono altri – situate al confine tra il comune di St-Martin e quello di Hérémence. Mentre quest’estate in luglio la notizia non da prima pagina: i due comuni, non potendo stabilire con precisione quante sgorgano in un territorio e quante nell’altro, suddividono in parti uguali il profitto e danno in concessione alla società La Foncière de la Dixence SA, le acque di Combiuola.

L’idea è portarle su a 1750 metri di altitudine dove stanno costruendo un complesso termale – hotel, appartamenti, chalet di lusso, bla bla bla – vicino alla stazione sciistica di Les Collons. Intanto fatico a uscire dalla sulfurea vasca di sassi. Faccio uno sforzo ed esco rapido solo per estrarre dallo zaino una bottiglietta di limonata speciale, poi ritorno a mollo. La Mortuacienne, limonata impareggiabile prodotta dal 1921 a Morteau, paesino della FrancheComté a una decina di chilometri dal confine svizzero. Meno dolce di una gazosa, rinfresca le idee schiarite già in parte dalle diaboliche acque benefiche. Piedi nella Borgne ora, per contrasto. Picnic a base di panino jambon-brie, caffè-cowboy, nussgipfel. Un quartetto di giovani con cani arriva mentre parto. Ritorno da un altro percorso, un sentiero nel bosco, molto più lungo e tutto in piedi. A Evolène, la sera, in una camera scricchiolante anni trenta dell’hotel Ermitage, come Noodles in C’era una volta in America (1984) o le galline, vado a letto presto.

che usiamo per parlare del riscaldamento globale». Lara Helmut, responsabile del settore salute, scienza e ambiente del «Washington Post» dice che al «Post» non hanno ancora adottato nuove linee guida in materia ma l’iniziativa del «Guardian» sarebbe già circolata tra le redazioni e si sta pensando a qualcosa di simile. Dunque in tempi di tagli, calo della pubblicità e della qualità, aumento della concentrazione mediatica, è bello vedere che un certo tipo di giornalismo ancora esiste e vuole fare la sua parte nel riconoscere nell’emergenza climatica la questione determinante del nostro tempo. Notare che secondo il centro di ricerca no profit Media Matters for America il network ABC ha seguito più il royal baby Archie in una settimana che la crisi climatica in un anno. Ma avere anche solo una

testata internazionle che promette ai suoi lettori di investigare con accuratezza e in profondità, libera da interessi commerciali o politici di sorta perché i problemi da affrontare sono sistemici e un cambiamento sociale urge subito, è già un primo passo nella direzione giusta. Gli altri dovranno solo prendere esempio e farebbero bene a farlo anche testate più piccole, testate locali, anche quelle svizzere visto il risultato delle ultime elezioni. Altra cosa importante, la testata inglese nel suo impegno per il clima promuoverà un giornalismo indipendente e non catastrofista, un giornalismo che racconta anche l’impegno virtuoso di individui o intere comunità, storie che possano infondere speranza. Solo un dibattito, un’informazione accurata e onesta può aiutarci a scongiurare il peggio.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Le terme libere di Combioula La fermata decisa è La Combaz, qualche chilometro prima del villaggio di Euseigne, in Val d’Hérens. Sopra Sion, punto di partenza in ogni caso dove prendo la posta delle undici e cinquanta. Scendo così a La Combaz, sulla strada, prima del tunnel. Nessun cartello indicativo né niente, solo la stradina prevista a sinistra che scende serpeggiando. Già dopo un paio di curve, mi sembra di essere su un altro pianeta. Le piramidi di Euseigne, a portata di sguardo, non finiscono di stupire. A bocca aperta, incollato al finestrino, mi avevano già lasciato quest’estate passandoci via due volte, in occasione del viaggio ad Arolla per la passeggiata al lago blu. Ma averle qui davanti agli occhi camminando, queste guglie moreniche chiarissime con in testa un enorme masso scuro di gneiss o serpentinite come cappello in equilibrio precario, meravigliano ancora di più. Eppure, non ci sono solo queste piramidi di terra – curiosità geologica classificata monumento naturale d’importanza nazionale chiamata

anche camini delle fate come quelli famosi in Cappadocia – a creare lo smarrimento ragionevole che colpisce ogni tanto i camminatori. Contribuisce pure, lassù in cima, lo scintillare accecante della Dent Blanche innevata. La non meno magnetica montagna nuda conosciuta come la Maya, torreggiante sopra St-Martin, sul versante opposto. Il canto mediterraneo delle cicale. La luce vallesana tipica, spietata, cruda, arida, predatrice al punto da non lasciarti scampo e mi ricorda sempre quella provenzale. Il colpo di grazia però, per perdermi del tutto in questo paesaggio, forse me lo danno lassù a Mase, tra gli chalet di larice imbrunito dal sole, le macchioline sparse di rosso estatico scaturito dalle foglie dei ciliegi selvatici. Una macchina si ferma per darmi un passaggio, grazie per il pensiero ma neanche per idea: per niente al mondo rinuncerei adesso a uno solo dei miei passi. Mucche nere razza Hérens pascolano, due combattono. Dopo una ventina di minuti buoni, una strada sterrata porta verso la

Borgne, il cui suono edificante si sente solo ora. Uno chalet chiamato Renaissance mi sembra di buon auspicio. Il cartello dice che siamo arrivati in località Combiuola, indicando tredici altre destinazioni possibili – tra le quali mi colpiscono Ossona e Marguerona – in tre diverse direzioni. Nessuna indicazione per le terme selvagge che dovrebbero essere a fianco del fiume che supero sopra un ponte di legno. Un sentiero entra in una boscaglia e sbuca accanto alla Borgne che scorre senza troppo impeto, color azzurro ghiaccio. Un bacino rotondo dalla trasparenza più tropicale, circoscritto da sassi rossastri, si fa notare. Uno più piccolo accoglie l’acqua che fuoriesce tra quei sassi rosso ruggine. In un attimo mi metto il costume e m’immergo nel bacino più grande delle terme libere di Combioula (693 m). Dove da secoli l’acqua solforosa sgorga da una feritoia nella roccia a ventisette gradi. Lo scenario autunnale attorno è come avvolto da un pulviscolo d’oro. Trovo una posizione con il sole d’ottobre in faccia e

La società connessa di Natascha Fioretti Se il giornalismo scende in campo per il clima Come ho scritto più volte in questa rubrica le testate che oggi non solo producono un giornalismo di qualità ma sono anche in grado di crearsi attorno una comunità appassionata e fedele di lettori sono quelle che onorano l’intelligenza di chi legge e si informa sulle sue pagine. Tra questi c’è sicuramente il «Guardian» che seguo da sempre con interesse ma in modo in particolare da quando al suo timone c’è una donna. Katharine Viner, direttrice del «Guardian», nelle scorse settimane ha annunciato l’impegno della testata nella lotta contro il cambiamento climatico, pardon, si dice contro il surriscaldamento globale. La testata inglese, infatti, nel fare la promessa che non si tirerà indietro dinanzi a questa importante sfida – ma le darà tutto lo spazio e l’importanza che meri-

ta – ha elaborato un glossario che indica quali parole, quale linguaggio utilizzare per parlare correttamente del tema che interessa e tocca da vicino l’opinione pubblica. Lo abbiamo constatato anche durante le nostre ultime elezioni, la questione ambientale per i cittadini è importante. E come dice il redattore del «Guardian» Paul Chadwick «l’urgenza della crisi climatica necessita di un nuovo tipo di linguaggio che la sappia descrivere». Il glossario, che in pochi giorni ha fatto il giro della Rete e delle redazioni, invita a utilizzare l’espressione «emergenza climatica» o «crisi climatica» e non «cambiamento climatico» perché quest’ultimo non riflette la serietà della situazione, la portata dell’impatto. Invita anche ad utilizzare «negazionisti del clima» o «negazionisti delle scienze del clima»

anziché «scettici» che si usa per coloro che ricercano la verità mentre gli scettici del clima negano l’evidenza. Altra raccomandazione, utilizzare «surriscaldamento globale» e non «riscaldamento globale», il primo è più accurato anche da un punto di vista scientifico. «Vogliamo assicurarci di essere scientificamente precisi e di promuovere una comunicazione chiara con i nostri lettori» dice la direttrice «l’espressione “cambiamento climatico” ha una connotazione passiva e vagamente gentile mentre gli scienziati ci stanno dicendo che siamo a un passo da una catastrofe umanitaria». Il glossario ha già fatto il giro delle redazioni di altre testate come ad esempio l’emittente pubblica canadese CBC il cui manager ha detto «il recente cambio di stile del “Guardian” ci impone di rivedere il linguaggio


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Idee e acquisti per la settimana

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Ambiente e Benessere Raccoglitore o pastore? Esiste una dieta basata sul gruppo sanguigno, la sua efficacia non è però dimostrata

Biscotti di pasta frolla Burro, zucchero, uova e farina, gli ingredienti principali per la ricetta base degli Spritz

Per rispetto agli aborigeni La sacra montagna australiana, Uluru, dal 26 ottobre 2019, non può più essere scalata

pagina 26

Non solo gloria A Vienna, Kipchoge ha infranto un record storico della maratona rendendo felici i suoi sponsor pagina 29

pagina 27

pagina 23

Le sfide delle neuroscienze nella società

Medicina Dieci anni di Neurocentro Ticino:

lo sviluppo di sinergie tra attività clinica, ricerca e formazione

Maria Grazia Buletti Nel 2012 secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) il 50 per cento delle disabilità nel mondo era dovuta a problemi di tipo neurologico. Oggi si stima che in Europa più di 220 milioni di persone ne sono colpite. Ne è prova che non esiste altra disciplina che si stia sviluppando così rapidamente come la neurologia. Parliamo di cefalee (guidano la lista dei disturbi neurologici più comuni), disturbi del sonno, ictus e demenza. L’incidenza di molte delle malattie riconducibili a questo ambito (come ictus, demenza o Parkinson) aumenta con l’invecchiamento della popolazione. Tendenza progressiva che determina anche la rilevanza dell’impatto socio-economico generato dalle patologie neurologiche. L’aumento della speranza di vita è tipicamente accompagnato da un aumento delle malattie degenerative a carico del sistema nervoso centrale e rende fondamentale la ricerca clinica e sperimentale già molto attiva nell’ambito delle neuroscienze. Passato, presente e futuro dell’evoluzione delle malattie neurologiche, del loro impatto socio-economico, della prevenzione, insieme ai progressi della ricerca neuro scientifica, costituiranno l’ampio tema del Simposio Sfide delle neuroscienze nella società che avrà luogo giovedì 7 novembre 2019 (dalle 16.00 alle 18.30 all’Auditorium dell’USI a Lugano). Organizzato dal Neurocentro della Svizzera italiana, che sottolinea il decennale della sua istituzione da parte dell’Ente Ospedaliero Cantonale, vedrà fra gli esimi relatori il suo direttore medico e scientifico professor Alain Kaelin con cui affrontiamo i temi salienti che caratterizzano le neuroscienze e le malattie neurologiche per contrastare le quali scopriremo che tempismo, diagnosi precoce, evoluzione terapeutica (con la multidisciplinarietà e l’interdisciplinarietà), ricerca e, non da ultimo la prevenzione, sono gli alleati principali. «Dobbiamo innanzitutto puntualizzare che le malattie neurologiche non riguardano unicamente la popolazione anziana, ma il loro ampio spettro può abbracciare ogni periodo della vita:

pensiamo alle malattie genetiche rare che spesso toccano il sistema nervoso e i muscoli del bambino, l’emicrania del giovane adulto il cui impatto sociale è ampio ma sottostimato, l’epilessia o la sclerosi multipla, malattia infiammatoria che può colpire giovani adulti, senza dimenticare quelle patologie internistiche croniche che non possiamo considerare direttamente neurologiche, ma che nella loro evoluzione andranno a intaccare il sistema nervoso. Ad esempio, il paziente diabetico potrebbe prima o poi sviluppare una polineuropatia». Evidenziando l’ampio spettro in cui si collocano le patologie neurologiche, il professor Kaelin dimostra che l’impatto di ciascuna dipenderà pure dall’età e dal tipo specifico di malattia: «A livello ospedaliero e ambulatoriale le malattie degli anziani avranno un peso economico sostanziale: una vera sfida per la sanità». La buona notizia sta nel fatto che «in pochi anni abbiamo consolidato una struttura sanitaria d’eccellenza nella Svizzera italiana che oggi sa dispensare cure multidisciplinari di alto livello al pari di un ospedale universitario». Kaelin ci ricorda come trent’anni fa la medicina neurologica poteva già diagnosticare tante malattie neurologiche per le quali però non disponeva di risposte terapeutiche efficaci e sicure: «Oggi, i pazienti del Neurocentro beneficiano delle sinergie create fra clinica, tecnologia medica e ricerca, i cui sviluppi sono evidenziati nelle diagnosi precise e nelle tempestive terapie salvavita». Egli porta ad esempio la presa a carico nello Stroke Center dei pazienti colpiti da ictus per i quali fattore tempo e terapie permettono di salvare la loro vita conservandone un’alta qualità, ma non solo: «Il Neurocentro è oggi anche performante nei trattamenti all’avanguardia per malati affetti da tumori cerebrali, demenze, epilessia, morbo di Parkinson, sclerosi multipla, traumi cranici e patologie spinali degenerative e questo approccio neurologico moderno permette di diminuire anche l’impatto sociale di queste patologie». Abbracciando branche della medicina con impatto neurologico, e proponendo terapie neurologiche specifiche,

il direttore medico e scientifico del Neurocentro della Svizzera italiana, professor alain Kaelin. (Stefano Spinelli)

la neurologia è oggi una medicina altamente specializzata senza netti confini. Un esempio è «l’esplosione della medicina del sonno» per la quale ci si potrebbe chiedere se la neurologia non stia evidenziandone la condizione: «È un dubbio pertinente al quale rispondiamo innanzitutto che la neurologia non crea malattie che non esistono, ma vuole trattare la gente che soffre, senza enfatizzarne tutti i disturbi». Non bisogna sottovalutare, come un tempo, i disagi legati al cattivo sonno che innescano una indubbia ricaduta socio-economica: «Pensiamo alle persone che, dormendo male, poi sono sonnolente al lavoro, distratte, stanche e non produttive. Per analogia abbiamo le persone affette da emicrania, la cui qualità di vita personale e sociale è davvero compromessa, come pure la loro produttività lavorativa».

Dicevamo che le neuroscienze e la neurologia abbracciano sempre più un ampio ventaglio di patologie forse un tempo sottovalutate, ma per le quali oggi, oltre all’impatto di sofferenza individuale, è riconosciuto pure l’impatto sociale. Certo, questo genera costi sanitari maggiori che potrebbero però essere più contenuti se il trend strizzasse maggiormente l’occhio alla prevenzione ancora troppo sottovalutata, malgrado che pure nel campo neurologico se ne sia compreso il grande impatto positivo: «La neurologia si concentra da 100 anni sulla diagnosi e da 30 anni sulle terapie, ma nella prevenzione deve ancora darsi da fare. Abbiamo però compreso che, pure per le patologie neurologiche, promuovere uno stile di vita sano vale tanto quanto nelle malattie cardiovascolari». Si torna dunque

a parlare di movimento, alimentazione corretta, e dei fattori di rischio come fumo e alcol: «Si è scoperto che, per citare un esempio, lo stile di vita sano permette di invecchiare meglio e diminuire il rischio di contrarre l’Alzheimer: si è compreso che l’attività fisica e il movimento, proteggono non soltanto dalla demenza senile, ma anche per la malattia di Parkinson». Il vecchio adagio Mens sana in corpore sano, dunque, viene riconfermato. Rimane essenziale comunque la ricerca: «Apre enormi orizzonti e, alla ricerca clinica e biologica, dovremmo affiancare maggiormente anche quella epidemiologica e l’osservazione sistematica dei pazienti con malattie non ancora trattabili. Questo per scoprire nuove relazioni, perché come diceva Pasteur: il caso aiuta soltanto lo spirito preparato».


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Ambiente e Benessere

Dieta del gruppo sanguigno

La nutrizionista La teoria di D’Adamo

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per gli esperti è un’assurdità

Gentile Jessica, la dieta del gruppo sanguigno è stata ideata dal naturopata Peter D’Adamo. La sua teoria si basa sull’idea che ogni gruppo sanguigno ha il suo marcatore antigene unico (una sostanza che il corpo riconosce come essere estraneo) e che questo marcatore reagisce male con alcuni alimenti, causandoci diversi potenziali problemi di salute. Inoltre ritiene che i livelli di acidità dello stomaco e degli enzimi digestivi siano collegati al gruppo sanguigno. Quindi seguendo una dieta progettata specificamente per il proprio gruppo sanguigno, il nostro corpo digerisce e assorbe il cibo in modo più efficiente, con il risultato che si perde peso, si hanno più energie e si prevengono le malattie. Alla base di tutto quindi ci sarebbe la conoscenza storica dell’epoca in cui ha origine il proprio gruppo sanguigno. In tal modo si può risalire al sistema di vita dei nostri antenati e ci si adegua alle loro abitudini. Mi permetto di elencare i principali pilastri di questa teoria. Gruppo sanguigno A: l’origine di questo gruppo risalirebbe al paleolitico (due milioni di anni or sono), epoca in cui l’uomo si nutriva di fonti vegetali, il consiglio è quindi di seguire un’alimentazione vegetariana. Se hai questo gruppo dovrai seguire una dieta senza carne a base di frutta e verdura, fagioli e legumi e cereali integrali, meglio se tutto di origine biologica e fresca, perché – sostiene D’Adamo – le persone col sangue di tipo A hanno un sistema immunitario sensibile. Gruppo sanguigno B: le sue prime tracce sarebbero riconducibili al neolitico (10mila anni or sono), periodo in cui l’uomo era dedito al nomadismo e iniziava a trarre nutrimento dagli animali. Il gruppo B deve quindi evitare mais, frumento, grano saraceno, lenticchie, pomodori, arachidi, semi di sesamo e

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Gentile Laura, ho letto la precedente risposta sulla dieta di proteine. Cosa pensa invece della teoria secondo cui a dipendenza del gruppo sanguigno si potrebbe stabilire ciò che il nostro corpo richiede di più: chi è del gruppo A, ad esempio, sarebbe predisposto a digerire meglio le verdure, chi del gruppo 0 invece, dovrebbe alimentarsi di carne. Avevo letto qualcosa del genere su un libro trovato a casa di un’amica, ma poi non ho mai approfondito. Grazie per una risposta. / Jessica

pollo. Via libera a verdure verdi, uova, alcune carni e latticini a basso contenuto di grassi. Gruppo sanguigno 0: esso dovrebbe appartenere ai nostri antenati cacciatori-raccoglitori presenti attorno al 50’000 a.C. Secondo la teoria di D’Adamo essi sono sopravvissuti e hanno prosperato con una dieta ad alto contenuto proteico a base di carne. Quindi il gruppo 0 avrà bisogno di una dieta ad alto contenuto proteico basata su carne magra, pollame, pesce e verdure, sarà invece povera di cereali, fagioli e latticini. Inoltre D’Adamo raccomanda anche vari integratori per aiutare a combattere i problemi allo stomaco o altro che secondo lui le persone con tipo 0 tendono ad avere. Gruppo sanguigno AB: di più recente scoperta, deve concentrarsi su tofu, frutti di mare, latticini e verdure verdi. Per D’Adamo le persone con questo gruppo tendono ad avere problemi di acidità quindi devono evitare caffeina, alcol e salumi affumicati. Cosa penso di tutto quanto scritto sopra? Mi allineo senza troppe esitazioni a quanto condiviso dalla maggior parte degli esperti di medicina e di nutrizione: la teoria di D’Adamo non è altro che un’assurdità. Dietro questi consigli e indicazioni non vi è alcuna evidenza scientifica, ma solo supposizioni, più o meno arbitrarie. Non esiste alcuna ricerca scientifica seria che dimostri effettivamente che questa dieta può aiutare nella digestione o dare più energia. Se la segui, puoi perdere effettivamente del peso, ma per il semplice fatto che la maggior parte dei gruppi devono eliminare i cibi trasformati e i carboidrati semplici, che sono misure sufficienti da sole nel dimagrimento e sono indipendenti dal sangue. La dieta può essere molto noiosa e se devi comprare anche i suoi integratori rischia di diventare cara. Le consiglio infine di non credere alle diete che si basano sull’eliminazione di un gruppo alimentare piuttosto che altri e, soprattutto, di affidarsi a dei professionisti medici o dietisti.

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Idee e acquisti per la settimana

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tentazione vegana

In occasione della giornata mondiale vegan vengono puntualmente proposte due novità Cornatur. L’Apéro Mix Viva si compone di bocconi di cavolfiore e cocco, cavolo e fagioli neri, che portano buonumore in tavola in occasione di ogni aperitivo vegetariano. Mentre a chi assaggia i medaglioni Viva è subito chiaro il motivo per cui il dolce e piccante vegetale è giustamente oggetto di riscoperta. Entrambe le varietà di Cornatur piacciono non solo a vegetariani e vegani, ma anche ai buongustai, che talvolta rinunciano con piacere alla carne. A favore di un’alimentazione variegata e di nuovi piaceri per il palato.

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Suggerimento Salsa tahina: mescolare bene 7 cucchiai di tahina con 5 cucchiai di acqua, 1 cucchiaio di una miscela di spezie orientali, il succo di mezzo lime e 1 cucchiaio di passata di pomodoro. Salare e condire con salsa di peperoncino. Cospargere di semi di sesamo. Salsa al mango: sbucciare 1 mango e togliere il seme. Tagliare a dadini mezzo frutto e frullare il resto. Tritare finemente 1 piccola cipolla rossa, 1 peperoncino e un po’ di coriandolo o di prezzemolo con i gambi. Mescolare con il mango e condire con il succo di mezzo lime.

Novità Apéro Mix Cornatur Viva 210 g* Fr. 4.95 *Nelle maggiori filiali


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Ambiente e Benessere

Spritz, biscotti classici di pasta frolla montata

Migusto La ricetta della settimana

Dessert Ingredienti per 32 pezzi: 200 g di burro, morbido · 150 g di zucchero · 2 uova · 340 g di farina · 1 bustina di glassa per dolci scura.

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

1. Con uno sbattitore elettrico, lavorate a spuma il burro e lo zucchero per circa 5 minuti. Incorporate prima le uova, una dopo l’altra, poi la farina, poco per volta. Mettete la pasta in una tasca da pasticciere con beccuccio a stella numero 14. Formate diversi biscotti su una teglia foderata con carta da forno. Fate riposare i biscotti in frigo per almeno 30 minuti. 2. Scaldate il forno a 190 °C. Cuocete i biscotti al centro del forno per circa 12 minuti. Sfornate e lasciate raffreddare. 3. Immergete la confezione di glassa nell’acqua appena sobbollente per circa 5 minuti e schiacciatela qua e là tra le dita. Versate la glassa in una scodella. A piacere, immergete i biscotti nella glassa. Fate asciugare su carta da forno. Preparazione: circa 30 minuti + refrigerazione circa 30 minuti + cottura in for-

no circa 12 minuti + raffreddamento ed essiccazione circa 12 minuti.

Per pezzo: circa 2 g di proteine, 7 g di grassi, 14 g di carboidrati, 130 kcal/550 kJ.

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Ambiente e Benessere

La montagna proibita

Raccontare il viaggio

il simbolo dell’Australia

laboratorio con Scuola Club Migros Lugano

Viaggiatori d’Occidente Dal 26 ottobre non è più possibile salire in cima a Uluru,

Corso Un nuovo

Claudio Visentin Pochi giorni fa gli ultimi turisti sono saliti su Uluru (in inglese Ayers Rock), il gigantesco monolite rossastro di arenaria al centro dell’Australia, nel lembo meridionale del Territorio del Nord. Si arriva con un breve volo da Alice Springs, la città più vicina, a 450 chilometri; chi ha più tempo prende l’autobus attraversando in cinque ore lo sconfinato Outback e la boscaglia (Bush) di eucalipti. Verso la fine del viaggio, sull’orizzonte, compare la sagoma color ocra di Uluru: una formazione rocciosa alta solo 348 metri, ma in larga parte nascosta nel sottosuolo, con una circonferenza di circa dieci chilometri, vecchia almeno trecento milioni di anni. Si viene qui soprattutto per ammirare il massiccio all’alba e al tramonto, quando la roccia cambia continuamente colore al mutare della luce. Altri preferiscono invece salire in cima per ammirare il panorama intorno seguendo un sentiero attrezzato; ci vuole un’ora, con qualche pericolo se il sole batte o per la roccia scivolosa. La comunità Anangu (significa «gente») abita da sempre questa zona e da tempo gli aborigeni chiedono alle «formiche» (così chiamano i turisti) di non calpestare il sacro suolo. Uluru infatti è la più importante testimonianza del Tempo del sogno (Dreamtime), quando il mondo era indifferenziato. Gigantesche creature totemiche in forma d’animali percorsero allora la terra cacciando e danzando, creando con il loro passaggio montagne, fiumi, praterie. In uno dei suoi libri più conosciuti, Le vie dei canti (The Songlines, 1987, in italiano per Adelphi) Bruce Chatwin mostrò come questi miti della creazione fossero stati tramandati in forma di canti, al tempo stesso descrizione del percorso di una creatura ancestrale e mappa di un territorio. Alla fine del Tempo del sogno ciascuna creatura si insediò in un luogo, prendendo la forma di un elemento naturale. In particolare a Uluru vive lo spirito di Tatji, la Lucertola rossa delle pianure. A Uluru, Tatji lanciò il suo boomerang nella roccia senza più riuscire a ritrovarlo nonostante tutti i tentativi, testimo-

Raccontare un viaggio ci permette di rivivere i momenti più importanti, quelli che resteranno, di dare ordine ai nostri ricordi, soprattutto di condividerli con altri. Ma non è facile. Molte volte, quando ci mettiamo alla prova, ci accorgiamo di destare noia piuttosto che interesse. Per questo abbiamo creato un laboratorio unico nel suo genere perché dedicato all’arte di viaggiare. Attraverso una vivace e informale discussione guidata toccheremo diversi punti: come progettare un viaggio interessante, come prendere appunti strada facendo, come rielaborare quanto visto dopo il ritorno a casa, come trasformare la nostra esperienza in un prodotto giornalistico… L’insegnante è Claudio Visentin, il fondatore della Scuola del Viaggio (www.scuoladelviaggio.it), conduttore radiofonico per Rete Due, docente universitario USI e curatore della nostra rubrica «Viaggiatori d’Occidente». La scrittura è il filo conduttore del laboratorio (combinata con la fotografia nel reportage) con esercizi divertenti, adatti ai principianti al pari di chi ha già qualche esperienza di scrittura. È il corso perfetto per chi vuole imparare a raccontare le proprie avventure in forme coinvolgenti e appassionanti.

uno dei momenti in cui è più bello osservare uluru è al tramonto o all’alba. (Sharyn Carr)

niati dai numerosi buchi rotondi sulla superficie. Alla fine la lucertola rossa morì in una caverna di Uluru e alcuni grossi macigni sarebbero i resti del suo corpo.

so del sacro non si accontenta di buone percentuali: dal 26 ottobre 2019 dunque l’ascesa è proibita per tutti. Il primo effetto del nuovo provvedimento è stato paradossale. L’idea di non poter più scalare The Rock in questa vita ha attirato migliaia di turisti, esaurendo per mesi l’offerta degli alberghi della zona. Una fila ininterrotta si è dipanata lungo il fianco del massiccio roccioso come un gigantesco serpente. Su Twitter si sono levate diverse voci di protesta contro il provvedimento. Qualcuno ha scritto: «Sono nato in Australia, Uluru fa parte della mia cultura e tradizione quanto quella di chiunque altro, ma io non vieto nessun luogo dicendo che è sacro o qualcosa del genere». Ovviamente gli si potrebbe rispondere che il sentimento religioso degli aborigeni è antico e consolidato generazione dopo generazione, insomma non è un capriccio. Tanto più ricordando che gli antenati degli australiani hanno sottratto la terra ai nativi con la forza, aprendo una crisi d’identità ancora lontana dalla sua so-

L’idea di non poter più salire su The Rock ha attirato migliaia di turisti che hanno voluto scalarla prima del blocco Nel 1985 il governo australiano ha restituito Uluru agli aborigeni, sanando uno dei troppi torti loro inflitti in solo due secoli di storia di questo continente. La comunità ha subito chiesto ai turisti di non salire sulla vetta per rispetto alle credenze degli aborigeni. Per qualche tempo però ci si è affidati alla persuasione, esponendo dei cartelli dissuasori. Molti hanno accolto l’invito e il numero di chi ha continuato a salire è sceso dal 70 al 20 per cento. Ma il sen-

luzione. Ad Alice Springs per esempio è facile vedere gli aborigeni vagare per la strada scalzi e ubriachi. Una domanda retorica più volte ripetuta è stata: «Perché le persone vi danno fastidio? Cos’hanno di sbagliato?». Niente, naturalmente. Ma anche senza scalare Uluru le attività non mancano: passeggiate in cammello, tour in Segway intorno alla base, percorsi a piedi, in bicicletta o in moto, persino paracadutismo, oltre a diversi eventi artistici e culturali. Anzi, come ha sottolineato il direttore generale del Parco nazionale di Uluru, Michael Misso, proprio la chiusura della salita potrebbe aiutare a mettere meglio a fuoco l’autentico significato di un luogo incluso nella celebre Lista del patrimonio mondiale dell’Unesco. Altri critici hanno previsto una grossa perdita di guadagni causata da questo divieto: «Gli aborigeni stanno sparandosi sui piedi!». Ma così non è stato: da quando non si può più salire le prenotazioni dei visitatori non sono scese.

Informazioni

Il laboratorio si svolgerà sabato 16 novembre 2019, ore 9.00-12.00 e 13.0016.00, presso la Scuola Club Migros Lugano, via Pretorio 15. Il costo dell’iscrizione è di Fr. 144.– (con uno sconto del 10% a chi porterà o citerà «Azione» al momento dell’iscrizione). Il corso è a numero chiuso (massimo 12 partecipanti, in ordine d’iscrizione sino a esaurimento dei posti disponibili). È possibile iscriversi presso la segreteria della Scuola Club Migros Lugano, per telefono (091 821 71 50), via posta elettronica (scuolaclub.lugano@migrosticino.ch) o direttamente sul sito internet (www.scuola-club.ch). Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Ambiente e Benessere

Storie di straordinaria follia

Sport Un record, che non è un record. Il keniano Eliud Kipchoge ha abbattuto il muro delle due ore

nella maratona. Per la gloria, e non solo

energetico, lo stesso che dallo scorso maggio sostiene il team ciclistico di Froome, Thomas e Bernal. Così come da un colosso dell’abbigliamento sportivo, che aveva già sostenuto una manifestazione simile il 6 maggio del 2017 nell’autodromo di Monza. In quella circostanza Kipchoge aveva fallito l’obiettivo per 25’’. A Vienna, le lepri hanno preso il via con una canotta nera, mentre l’eroe keniano era in bianco. Tutte le casacche rispettavano una linea sobria con il nome della multinazionale del petrolio sul petto, e la mitologica virgoletta all’altezza del cuore. Credo che anche la IAAF, pur non riconoscendo il record, abbia guardato all’evento con soddisfazione. L’atletica mondiale è alla ricerca di personaggi e di storie che possano compensare l’uscita di scena dell’unico vero fenomeno mediatico dell’ultimo decennio: Fulmine Usain Bolt. Non so se questa sia la via giusta. A me ha ricordato la fabbrica di Tempi moderni di Charlie Chaplin, in cui, come del resto accade nella realtà industriale, è la macchina a imporre il ritmo all’essere umano. Mi restano tuttavia una consolazione e una certezza. Kipchoge è un campione vero. Un campione di serietà e di longevità. Non a caso, nel lontano 2003 a Parigi, si era laureato campione mondiale dei 5000 metri, quando non aveva ancora compiuto 19 anni. Non a caso è il campione olimpico in carica della maratona. Non a caso è il detentore del record mondiale sulla distanza: 2 ore, 1 minuto, 39 secondi, corsi il 16 settembre del 2018, a Berlino, in un contesto in cui si sono affrontati, diciamo così, migliaia di «umani».

Giancarlo Dionisio Provate a correre su una comoda pista di atletica, dandovi un ritmo regolare. Contate bene nella vostra testa: uno, due, uno, due… Sono certo che inconsciamente, il meccanismo perfetto che mette in relazione mente e fisico, piano piano, comincerebbe ad avere un calo di regime. Magari dopo uno o due minuti, forse più tardi. Dipende dalla vostra condizione fisica. Provate invece a svolgere lo stesso esercizio con un ritmo che vi viene dall’esterno, da una macchina che non sgarra neppure di una frazione infinitesimale di secondo. Sono convinto che riuscireste a mantenerlo più a lungo. Azzardo: per tre, quattro minuti, forse di più, se avete la tempra del combattente, e siete disposti a farvi del male. Tuttavia voi non siete delle macchine. Il vostro corpo tenderà a difendersi, quindi manterrà il ritmo suggerito dalla macchina, ma inconsciamente accorcerà la falcata. Da ultimo immaginatevi la stessa situazione con un’ulteriore variante. Davanti a voi, su dei binari, corrono dei fantocci che viaggiano in modo regolare, programmati per il conseguimento di un determinato riscontro cronometrico. Ebbene, scommetto che, grazie allo spirito di emulazione, anche il vostro rendimento ne otterrebbe un beneficio. Così si sono svolti i fatti lo scorso 12 ottobre al Prater di Vienna, quando Eliud Kipchoge ha infranto per la prima volta il muro delle 2 ore. Il 35enne keniano ha percorso i 42 km e 195 metri della maratona in 1 ora, 59 minuti e 40 secondi. Ciò significa 2’50 al km, a una media oraria di 21 km e 156 metri. Pazzesco!

il keniano eliud Kipchoge. (Denis Barthel)

La IAAF, Federazione Internazionale di atletica, non riconoscerà questa prestazione stratosferica come nuovo primato mondiale, poiché ottenuta in condizioni anomale. Kipchoge ha potuto beneficiare di 41 lepri, suddivise in più gruppi, che gli hanno garantito il ritmo ideale per firmare l’impresa. C’erano lepri iper-illustri, come i fortissimi amici Bernard Lagat ed Eric Kiptanui, lo svizzero Julien Wanders, recordman europeo della mezza maratona, lo statunitense Matt Centrowitz, oro ai Giochi Olimpici di Rio de Janeiro sui 1500 metri, i tre formidabili fratelli norvegesi Henrik, Filip e Jakob Ingebrigtsen.

Insomma, Kipchoge è stato pilotato da uomini di fondo, e di mezzofondo, che si sono alternati ad arte, secondo una tabella prestabilita. Certo, non si deve sottovalutare il fatto che in definitiva il ritmo imposto dalle lepri andava seguito, e in questo Eliud Kipchoge è stato impeccabile. Qualcuno obietterà che anche nei normali meeting di atletica ci sono le lepri, ciò nonostante gli eventuali record ottenuti vengono omologati. Vero. Tuttavia, in quelle circostanze, il numero delle lepri è ridotto all’osso. Inoltre, dettaglio tutt’altro che insignificante, in pista ci sono anche gli avversari, che lottano

per la vittoria, che spezzano il ritmo, che dettano coordinate tattiche non necessariamente tese al conseguimento di un primato. In sostanza è gara vera, così non è stato al Prater di Vienna. Allora è lecito chiedersi: perché tanta fatica? Da un lato posso immaginare la smania del protagonista di proiettarsi ulteriormente nella storia dell’atletica. Tutti coloro che abbattono muri emblematici vengono ricordati più a lungo. D’altro canto è facile intravedere una robusta operazione di marketing. L’evento viennese è stato sponsorizzato da un importantissimo marchio britannico attivo nell’ambito

Giochi

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ORIZZONTALI 1. La sua capitale è La Valletta 5. Gioia di mare 9. Dagli Urali al Giappone 10. Stato dell’America meridionale 11. È suo in Inghilterra 12. Un anagramma di seri 13. Il settentrione d’Italia... 14. Si adatta alle circostanze 16. I termini del problema 19. Audace 20. Grave, importante 21. Vulcano Siciliano 23. Due di quattro 24. Satellite di Saturno 25. Un possessivo plurale 26. Torna se ora non c’è... 27. Il cereale che si sgrana 28. Si segna su un registro VERTICALI 1. Avverbio di tempo 2. Un tipo di vendita 3. Capitale del Portogallo 4. I confini della Tunisia 5. A volte si trova davanti a Giove... 6. Un vivo... successo 7. Al centro dell’interruttore 8. Avversione rancorosa 10. Quello XII fu l’ultimo... 12. Una storia lasciata a metà 13. Andati per Cicerone 15. Isabella per gli amici 17. Le iniziali dell’attore Roncato 18. Evidente, sicura 20. Messa all’aria 22. Stimolatore utilizzato nella terapia del dolore (Sigla) 23. Domanda per gioco... 25. Il famoso Silvestro 27. Pronome personale

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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L’AFORISMA – Frase di Madre Teresa di Calcutta: «Ci sono persone così povere che l’unica…» Resto della frase: «…COSA CHE HANNO, SONO I SOLDI».

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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Politica e Economia Nuove sfide Fra Usa e Cina assisteremo certamente a tregue, ma sempre nell’ambito di un duro confronto

Il Cile rivive l’incubo Lo spettro del regime militare di Augusto Pinochet torna ad aleggiare sul Paese dopo l’introduzione del coprifuoco. La rabbia del popolo causata dalle disuguaglianze sociali è stata sedata dalle forze dell’ordine

Trionfo ecologista Verdi, Verdi liberali e le donne sono i vincitori delle Federali, UDC, PS e PLR i perdenti

Troppi debiti privati La forte diminuzione dei tassi d’interessi invoglia a ricorrere ai crediti privati, ciò che comporta però dei rischi pagina 35

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pagina 34 a Hong Kong la guerriglia urbana è vista da Xi come una grande fonte di instabilità strutturale (AFP)

Pechino, allarme rosso

Nuova crisi globale? In questo clima di rallentamento economico, di sfida con gli Stati Uniti e di fragilità

geopolitiche interne, nessuno fra i potenti di Pechino può dormire sonni tranquilli. Ma anche l’Occidente trema Di Lucio Caracciolo La Cina sta soffrendo. La sfida con gli Stati Uniti d’America ne mette in evidenza i limiti strutturali. Dopo quasi mezzo secolo di crescita vertiginosa dell’economia, con tassi annui dichiarati intorno al 9-10%, quest’anno il pil aumenterà al massimo del 6%. Ma sono cifre ufficiali. Gli esperti stranieri più ottimisti calcolano un +4,5%, i più severi addirittura indicano l’1,5-2%. Se poi consideriamo che la crescita del prodotto interno lordo è sempre dipesa e continua a dipendere per una parte sostanziale dagli investimenti pubblici nelle infrastrutture – in sostanza: il governo decide di quanto far salire il pil – si capisce perché la Repubblica Popolare sia entrata, com’era inevitabile, in una fase di (molto relativa) riduzione dello slancio che ha portato un Paese di un miliardo e 400 milioni di abitanti ad avvicinare il volume dell’economia statunitense. Preparando e preannunciando il sorpasso. Fra le cause del rallentamento della crescita, la guerra commerciale con gli

Stati Uniti. Dazi, sanzioni, interdizioni che colpiscono seriamente l’Impero del Centro, nel contesto di una secca riduzione della crescita globale che per alcuni potrebbe preludere a un’altra recessione. In America e non solo. Fra le ragioni che hanno portato il presidente Xi Jinping a lanciare nel 2013 il progetto delle «nuove vie della seta» («Una cintura una via», nella dizione ufficiale), spicca la volontà di ridurre il dislivello fra le ricche e moderne Cine dell’Est affacciate sull’Oceano e quelle, assai meno sviluppate, dell’Ovest. Dopo lo slancio dei primi anni, sembra che questa iniziativa, che intendeva aprire nuovi mercati alla Cina e smaltire una quota della sovrapproduzione di acciaio e di altri materiali e merci prodotte in eccesso, stia subendo qualche contraccolpo. Non solo per la reazione americana o per il crescente timore di alcuni paesi, fra cui l’Italia, di aprire le porte non solo ai commerci ma anche all’influenza politica e alle strutture dell’intelligence cinese. È dentro la Cina che si manifestano resistenze impreviste quanto corpose.

Le obiezioni interne sono di diverso ordine. La prima è che, contrariamente alle intenzioni di Xi Jinping, finora gli investimenti nel grandioso progetto non stanno beneficiando le aree più povere e instabili del Paese, ma quelle già privilegiate. C’è un forte dislivello strutturale fra le merci che vanno e vengono dai colossali porti della Repubblica Popolare (sette dei dieci più grandi al mondo sono infatti cinesi) e quelle che possono essere trasportate lungo le rotte terrestri, stradali o ferroviarie. Ma la geografia è implacabile: le regioni interne oggetto dell’attenzione «delle nuove vie della seta» non dispongono dell’affaccio sul mare. Se lo debbono semmai guadagnare con percorsi difficili e strategicamente delicati, quali il corridoio sino-pakistano, che sbocca sul porto di Gwadar, ancora in via di completamento. La piattaforma terrestre del progetto cui Xi Jinping ha affidato una parte rilevante del suo futuro politico è il Xinjiang. Regione autonoma del Nord-Ovest, enorme quanto instabile. Qui vive un’irrequieta popolazione

uigura, di lingua turchesca e religione musulmana, non perfettamente assimilata da Pechino, malgrado i «campi di rieducazione» e gli investimenti infrastrutturali. Ma quello che per Ankara si chiama Turkestan Orientale non decolla. Le rotte ferroviarie via Asia centrale o Russia sono insufficienti, e anche quando raggiungessero il pieno regime non potrebbero tenere il passo con i grandi porti del Sud-Est, finestre della Cina sul mondo (caso Hong Kong a parte). C’è poi la tendenza dei governi regionali a muoversi per conto loro, senza troppo seguire le indicazioni del centro. In un sistema così accentrato come quello di Pechino, con Xi Jinping nucleo non solo simbolico del potere, questo significa accentuare le inevitabili partite politiche fra potentati e feudatari domestici. Infine, in questo clima piuttosto depressivo e incerto, il segretario generale/presidente ha dovuto accantonare i suoi progetti di privatizzazione di alcune delle più importanti imprese di Stato, conglomerati di potere politi-

co ed economico in mano alla nomenclatura più corrotta. Non è proprio il momento, questo, per un braccio di ferro di dimensioni colossali fra gruppi di potere, che metterebbe a dura prova i delicati equilibri interni al sistema cinese. Il rallentamento dell’economia ha immediate ripercussioni sociali e politiche. La legittimazione del potere del Partito comunista non verte certo sui princìpi ideologici che ancora professa, in nome di un «socialismo dalle caratteristiche cinesi». Si fonda semmai sulla capacità del sistema di salvare dalla povertà – fino agli anni Cinquanta del Novecento dalla morte per fame – milioni e milioni di compatrioti. E di aprire le porte del benessere e di un certo grado di consumi alle classi medie. L’andamento del ciclo economico incide dunque sulla stabilità del potere politico. In questo clima di sfida con gli Stati Uniti e di fragilità geopolitiche interne, esposte dalla guerriglia urbana a Hong Kong, nessuno fra i potenti di Pechino dorme sonni tranquilli. Tantomeno Xi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Politica e Economia

Usa-Cina, la nuova guerra fredda

Mercati La globalizzazione come si è costruita nell’ultimo trentennio è un capitolo di storia che si sta chiudendo.

Quel che conta nell’ambito del duro contenzioso commerciale Trump-Xi è che ogni tregua sarà solo una pausa

Federico Rampini Tira una brutta aria sull’economia mondiale e soprattutto sul commercio estero, ad ascoltare i massimi esperti: dal Fondo monetario in giù. Tutta colpa della guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, nessuno sembra prendere sul serio l’ultima tregua. Salvo che i mercati finanziari Usa sprizzano ottimismo: come si spiega? Altri temi all’orizzonte: chi si candida a «sostituire la Cina» come piattaforma di produzione a basso costo? Quanto resta importante il mercato cinese? Si avvera o meno la «re-industrializzazione» dell’America promessa da Donald Trump? E quali conseguenze comincia ad avere per l’Europa il nuovo bi-polarismo, la logica della guerra fredda?

Alcuni segnali come la vicenda della General Motors indicano che la strategia di Trump contro la Cina non ha funzionato Recessione in vista, dunque. O forse no: dipende da chi ascoltiamo. Nei paesi sviluppati parliamo di recessione quando il Pil infila due trimestri consecutivi di segno negativo. A livello globale vige un criterio diverso, visto che i paesi emergenti hanno bisogno di crescere di più, il Fondo monetario internazionale decreta una «recessione mondiale» quando la crescita scende sotto il 2,5% annuo. Ci stiamo avvicinando, se sono esatte le previsioni del Fmi che ha rivisto al ribasso il suo scenario 2020, tagliando la stima di crescita dal 3,4% al 3%. La nuova direttrice del Fmi ha citato il poeta russo Alexander Pushkin: «La brezza autunnale sta già gelando la strada». Il colpevole del rallentamento lo indica la World Trade Organization (Wto): è il commercio mondiale che ha smesso di fare da motore trainante, quest’anno crescerà meno del Pil mondiale, appena l’1,2%. È il mondo «post-globalizzazione» in cui dobbiamo attrezzarci a sopravvivere: nel trentennio che abbiamo alle spalle, la costante liberalizzazione degli scambi, le aperture delle frontiere, avevano consentito al commercio estero di essere la forza propulsiva della crescita. Tra le ricadute «aziendali» segnalo la sorte di FedEx, gigante mondiale del-

la logistica, oggi in difficoltà proprio perché non ha visto venire la «seconda guerra fredda», quella che oppone Usa e Cina. Alcuni suoi concorrenti come Ups hanno scommesso sul mercato domestico e su Amazon, per adesso con risultati migliori. In controtendenza con questi scenari macro-economici, i mercati finanziari non sembrano prevedere una recessione. Negli Stati Uniti l’indice azionario Standard&Poor’s 500 è in rialzo del 20% dall’inizio dell’anno; in rialzo pure le quotazioni dei bond. Questi rialzi «gemelli», che appaiano il mercato del reddito fisso e quello azionario, sono eventi rari: l’ultimo accadde nel 1995. In salita dall’inizio dell’anno anche il petrolio (+17%) e l’oro (+16%). Altro che recessione! C’è chi pensa che questi rincari siano l’ultima follia prima di un crac: lo hedge fund Lansdowne Partner parla di «prezzi dei bond idioti» e prevede un calo delle azioni tecnologiche. C’è chi attribuisce i rialzi alla politica monetaria che ha ripreso a gonfiare il mondo di liquidità. In questi giorni la Federal Reserve dovrebbe tagliare nuovamente i tassi; i rendimenti negativi su alcuni bond europei non rilanciano la crescita reale ma forse alimentano quella finanziaria. Sul fronte delle guerre commerciali, Trump ha rinviato quell’aumento nei dazi che doveva scattare il 15 ottobre, e avrebbe portato dal 25% al 30% le tasse doganali su prodotti cinesi per un valore di 250 miliardi di dollari all’anno. Ha motivato il suo gesto col fatto che il governo cinese gli avrebbe promesso di acquistare dai 40 ai 50 miliardi di derrate agricole americane all’anno. Trump alimenta speranze di un accordo più sostanziale quando lui e il presidente cinese Xi Jinping s’incontreranno al summit Apec a Santiago del Cile (15-17 novembre). Per adesso mancano molti tasselli. Non è chiaro se Trump voglia sospendere anche i nuovi dazi del 15% fissati per dicembre e che colpirebbero altri 150 miliardi di beni cinesi all’anno. Tantomeno vi sono segnali che voglia togliere i dazi già in vigore su 360 miliardi annui d’importazioni. E queste sono richieste qualificanti per i cinesi. I quali, a loro volta, avrebbero fatto delle concessioni molto generiche e poco verificabili su altri dossier cruciali: dalla politica valutaria ai trasferimenti «obbligati» di tecnologie (per le imprese che investono in Cina), alla tutela della proprietà intellettuale delle aziende straniere. Che Pechino aumenti le sue importazioni di prodotti

agricoli, in fondo, più che una concessione a Trump è una necessità. L’epidemia di febbre suina ha devastato gli allevamenti cinesi; la Repubblica Popolare ha bisogno di aumentare gli acquisti dall’estero sia per la carne di maiale sia per i sostituti come manzo e agnello. Altri terreni di frizione tra le due superpotenze sono politici. Il Congresso Usa minaccia sanzioni commerciali contro Hong Kong per la repressione delle proteste. E gli arresti di cittadini Usa in Cina diffondono il timore che stia diventando pericoloso viaggiare in quel Paese. La promessa di Trump, «Make America Great Again», faceva sognare alla classe operaia americana un futuro di re-industrializzazione. I dazi dovrebbero riportare le fabbriche negli Stati Uniti, compensando gli svantaggi competitivi. Un dubbio viene suscitato dalla vertenza semi-conclusa alla General Motors. Gli aumenti salariali ci sono, ma per ottenerli il sindacato dei metalmeccanici (United Auto Workers) ha dovuto accettare chiusure di fabbriche tra cui un grosso impianto a Lordstown in Ohio. Problematico per Trump perché colpisce proprio quel Midwest che fu decisivo nell’elezione del 2016. Trump ha preferito visitare un modello positivo in Texas: l’inaugurazione di una nuova fabbrica di borse Louis Vuitton. Era presente tutto lo stato maggiore di Lvmh dalla Francia, guidato dal fondatore e azionista del colosso della moda e del lusso, Bernard Arnault. Il presidente Usa era accom-

pagnato dalla figlia Ivanka. Visto da Trump: Vuitton che produce in America è la prova vivente che si può invertire il flusso delle delocalizzazioni, re-industrializzare un paese ricco, con il giusto mix di sgravi fiscali, deregulation, e protezionismo. In tema di guerra tecnologica: malgrado siano messe al bando dall’Amministrazione Trump perché sospettate di essere utilizzabili da Pechino a fini di spionaggio, miriadi di videocamere cinesi sono tuttora installate in zone strategiche, incluse molte basi militari americane; il fatto è che non esistono prodotti sostitutivi made in Usa. Possiamo dunque «fare a meno della Cina»? Secondo uno studio del Credit Suisse, per la prima volta nella storia ci sono più ricchi in Cina che negli Stati Uniti. Cento milioni di cinesi appartengono alla fascia del 10% dei più ricchi nel mondo, contro 99 milioni di americani. Una notizia da collegare con il continuo aumento degli acquisti di prodotti di lusso: secondo una ricerca del gruppo Bain dal 2010 ad oggi gli acquirenti cinesi hanno raddoppiato il loro peso sul mercato mondiale del lusso, e oggi valgono un terzo di tutto il fatturato mondiale del settore. I ricchi cinesi non sembrano aver rallentato i loro acquisti in quest’epoca di pessimismo legato ai dazi (fa eccezione il mercato del lusso di Hong Kong, in pesante crisi per ovvie ragioni), né per effetto della campagna anti-corruzione di Xi Jinping. Non tutti i marchi occidentali del lusso ne beneficiano. Un’analisi

dell’«Economist» sui bilanci del settore mette tra i vincitori Lvmh, tra i perdenti Hugo Boss, Prada, Tod’s. Altre 20 aziende cinesi sono finite nella lista nera del Dipartimento del Commercio Usa e non potranno acquistare tecnologia made in Usa (hardware, software). Sono soprattutto aziende di punta in alcuni settori dell’intelligenza artificiale: biometrica e riconoscimento facciale, video-sorveglianza. Grande Fratello digitale, insomma. Questo embargo è la conseguenza di un allarme americano per il sorpasso cinese in alcune tecnologie strategiche. Può rallentare l’avanzata della Cina, ma può anche accelerarla, costringendola a diventare autosufficiente in alcuni componenti come i semiconduttori. Che cosa fanno le multinazionali che vogliono attrezzarsi a sopravvivere nella «seconda guerra fredda»? Tra le strategie adottate c’è una revisione delle catene produttive e logistiche. Conviene produrre in Cina per il mercato cinese, ma non per rivendere su quello americano. Una ricerca della banca Standard Chartered indica che stanno migliorando i potenziali di crescita di molti paesi del sud-est asiatico – in cima Vietnam Indonesia Thailandia – e una delle ragioni è la loro appetibilità come mini-alternative alla Cina. Ci vuole tempo però perché raggiungano la stessa efficienza, per esempio nelle infrastrutture. Tra i beneficiati potrebbero esserci anche paesi africani come Etiopia Kenya e Costa d’Avorio. La «ridislocazione» del commercio globale continuerà, sostiene Standard Chartered, anche a prescindere da quel che accadrà nei rapporti Usa-Cina. Intanto l’Italia è anch’essa una «posta in gioco» nella nuova contesa bi-polare tra Stati Uniti e Cina. I porti sono già parzialmente controllati dai cinesi (la Cosco ha il 49% di VoltriGenova, in società con la danese Maersk). Ancora più vigorosa è l’avanzata dell’altra Asia: la Port Authority di Singapore rafforza il suo controllo sul sistema ligure, è l’azionista dei due terminal «solo container». È proprio una logica da guerra fredda quella che spinge ad accaparrarsi le banchine: una garanzia qualora in futuro dovessimo assistere a nuove forme di embargo, restrizioni, sanzioni destinate a colpire questa o quella potenza commerciale. Genova (foto) e Trieste saranno due prede ambite nella nuova guerra fredda, così come ai tempi della sfida UsaUrss le «linee rosse» attraversarono Berlino, Vienna, Helsinki. Annuncio pubblicitario


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Politica e Economia

L’incubo della dittatura Le giostre del Po Reportage Nel Polesine, al confine

Cile Per la prima volta dopo 30 anni, dai tempi di Pinochet,

il governo è stato costretto a dichiarare il coprifuoco a causa delle violente manifestazioni contro il carovita

fra Veneto e Lombardia, è fiorita l’industria del divertimento che esporta giostre in tutto il mondo Luigi Baldelli

la protesta degli incappucciati è stata innescata dall’aumento dei prezzi della metro. (AFP)

Angela Nocioni Bicarbonato nei fazzoletti per non essere asfissiati dai gas lacrimogeni e succo di limone per proteggere gli occhi. Non sembrerebbe esattamente il kit di navigati professionisti della guerriglia urbana con ricca logistica e capillare organizzazione alle spalle, come ha sostenuto dopo i primi giorni della rivolta cilena il presidente cileno Sebastian Piñera. Eppure è questo il contenuto base degli zainetti dei ragazzini (adolescenti in gran parte) che hanno messo a ferro e fuoco Santiago e Valparaiso. Contro di loro sono schierati novemila soldati a difesa del coprifuoco dichiarato dal governo. È la prima volta dalla fine della dittatura militare che in Cile si riesuma la dichiarazione del coprifuoco, considerata finora intollerabile per i mostri che evoca e per la forza di intimidazione che esercita. Tutti i governi che si sono succeduti dal 1990 ad oggi si sono guardati bene dall’usarla anche di fronte a problemi seri di ordine pubblico. Dire coprifuoco in Cile è come dire Augusto Pinochet. E non è il massimo della disponibilità alla soluzione politica, tantomeno al dialogo, far aleggiare sulla testa di chi protesta, violentemente e non, il fantasma di un dittatore che ha saputo tenere in scacco nel terrore il Paese durante (e anche dopo) i diciassette anni terribili del suo regime. Il coprifuoco non pare nemmeno essere utile a disinnescare la protesta. Al contrario. Considerato dai più una provocazione, una sfida, una dimostrazione di cecità politica, ha convinto molti a rimanere in strada sfidando le pallottole. Le manifestazioni continuano. Sia quelle pacifiche, sia quelle violente. Anche nei quartieri residenziali è scesa gente in strada negli ultimi giorni. Persino a Los Condes, zona benestante di Santiago dove vivono per lo più dirigenti d’aziende straniere e medio alta borghesia locale, una pacifica riunione in strada di residenti è stata dispersa con spari in aria della polizia. Raccontano da lì che l’altro giorno tre colf asserragliate dietro uno dei portoni a specchio di un condominio di lusso de Los Condes commentavano sorprese in un sussurro: «Finalmente non sparano solo a casa nostra». È questa l’altra faccia della rabbia sociale, della separatezza, dell’illusorietà del «modello cileno» che garantisce sì una crescita del 2,5% anche quest’anno, ma che la lascia godere soltanto a pochi

fortunati sorretti dal lavoro sottopagato e senza garanzie di tutti gli altri. Piñera, dopo quattro notti di coprifuoco, deve aver capito che doveva cambiare passo. E intanto ha cambiato tono. Ha pubblicamente ammesso che «ci sono problemi che si vanno trascinando da tanto tempo» ed è arrivato a chiedere «scusa per questa assenza di visione». Che non è frase da poco. Ha poi annunciato un pacchetto di emergenza di un milione di euro che prevede un salario minimo garantito di 450 euro per chi lavora ad orario completo e una imposta per rendite superiori ai diecimila euro al mese. Il caro prezzi, per ora, è sospeso. Quando chiudiamo questa edizione sono almeno 15 i morti accertati nella rivolta di strada che sta infiammando il Cile, 1333 detenuti dichiarati e 88 feriti da arma da fuoco. La Cut, il principale sindacato nazionale, ha dichiarato una giornata di sciopero generale alla quale ha aderito la stragrande maggioranza dei lavoratori. La protesta che ha messo a soqquadro Santiango, innescata dall’aumento del biglietto della metropolitana è partita dagli studenti dell’Instituto nacional José Miguel Carrera, la scuola secondaria più antica e prestigiosa del Cile, si è estesa come un incendio a tutto il Paese. Il coprifuoco riguarda al momento nove regioni. Le lezioni nelle scuole e nelle università sono sospese. La metropolitana della capitale, con cui si spostano 3 milioni di persone quotidianamente, è chiusa. Funziona solo una linea. L’aumento del costo della metro sarà revocato, ma l’annuncio non è stato sufficiente a placare gli animi perché l’aumento del prezzo del biglietto è stato solo la miccia della rivolta. Si protesta contro il caro vita, contro l’alto indebitamento a cui è costretto il cileno medio, soprattutto se giovane, soprattutto se ambisce a frequentare un’università. Julieta Nassau, inviata a Santiago del giornale conservatore argentino «La Nacion», riporta in un suo articolo alcuni voci dalla piazza. Tra cui questa: «Ho 28 anni e fino a 40 anni dovrò pagare i costi dei miei studi universitari. Guadagno 300 mila pesos e 80 mila servono per pagare il debito contratto per finanziarmi gli studi. Duecentomila li spendo per la casa. Il resto per i trasporti e per vivere. Ci vivo due settimane». Secondo uno studio della Fondazione Sol, 11 milioni dei 18 milioni di

cileni sono indebitati. Secondo dati della Università cattolica negli ultimi dieci anni il costo di un’abitazione è salito addirittura del 150%, i salari invece del 25%. Secondo le cifre del Ministero cileno dello sviluppo sociale le entrate del 10% più ricco della popolazione sono di 40 volte più alte di quelle del 10% più povero. La metà dei cileni guadagna meno di 400mila pesos al mese, circa 550 euro e gli affitti a Santiago sono alle stelle, difficile trovare un appartamento che costi meno di 300mila pesos. Il sistema sanitario pubblico è caro e pessimo. Quello privato inaccessibile. Lo stesso vale per l’educazione. All’università si può accedere solo indebitando se stessi e le proprie famiglie per decenni. Il sistema pensionistico, interamente in mano a fondi privati, è quello ideato da Pinochet. Le pensioni sono bassissime. Esistono due grandi classi sociali: i benestanti, l’alta borghesia, chi vive di rendite professionali e familiari. E la classe lavoratrice che arranca, è strozzata dai debiti e non arriva a fine mese. Difficile parlare di modello economico di successo con queste cifre. Il successo di chi? Il punto interrogativo si legge in faccia anche ai meno scettici in questi giorni a Santiago. Insieme al disorientamento si estende anche la sfiducia nelle istituzioni e nel valore del diritto di voto, la conquista del quale è costata non poco sangue in Cile. Oltre la metà degli aventi diritto non si presenta alle urne. Da questa sacca enorme di malcontento e dalle periferie stanche, affamate, disilluse e molto giovani per età media degli abitanti, viene buona parte dell’esercito di incappucciati che sta assaltando supermercati, dando fuoco a stazioni della metro, distruggendo quel che trova al suo passaggio. Anche il grattacielo dell’Enel a Santiago è stato arso qualche notte fa. Sebastian Piñera ha dichiarato in conferenza stampa: «Siamo in guerra» Frase non felicissima nel mezzo di una crisi la cui gestione è ormai sfuggita di mano anche all’esercito. Gli ha risposto il ministro della Difesa, il generale Iturriaga, quello ai cui comandi stanno i soldati schierati. «Non sono in guerra con nessuno, io». La pessima gestione politica della crisi si è riflessa anche nelle piazze finanziarie. Bloomberg ha calcolato che dopo il tonfo del 4,6% della Borsa di Santiago e il deprezzamento di oltre due punti del peso cileno sul dollaro, si sono volatizzati 7,8 miliardi di dollari.

Bisogna arrivare sull’argine sinistro del Po, in provincia di Rovigo, in quella terra del Polesine al confine tra Veneto e Lombardia, per scoprire una realtà poco conosciuta. È qui, in una striscia di terra piatta, umida e piena di zanzare, che si trova il polo delle giostre, dove fabbriche e officine fanno incontrare il mondo dei sogni con quello della realtà. Il cuore di questo distretto del gioco è Bergantino, un paese di circa 2.500 anime, famoso nel mondo per la produzione di qualità delle sue giostre, esportate in tutti i parchi divertimenti dall’America all’Australia, dal Sud Africa al Giappone. Ma come è possibile che in un paese agricolo si sia sviluppata l’industria delle giostre? Bisogna fare un passo indietro e tornare al periodo tra le due guerre mondiali, negli anni 20, per trovare le origini di questa eccellenza italiana e le radici di una storia che ha il sapore di favola. Erano anni di grave crisi economica in tutta l’Italia, ma soprattutto qui, nel Polesine che viveva solo di agricoltura, la crisi era ancora più forte. Un giorno del 1929, due amici, due meccanici di biciclette, Umberto Bacchiega e Umberto Favalli videro ad una fiera una giostra, esattamente un’autopista, portata da Milano. Increduli osservavano la gente che accorreva per fare un giro su quelle automobiline elettriche pagando in contanti. E così decisero di costruirne una, mettendo insieme gli ingredienti dell’inventiva, della genialità e della creatività, insieme a un debito contratto con la banca. Sono loro i pionieri delle giostre. Nel 1929 alla fiera di San Giorgio a Bergantino, nella piazza principale, presentarono la creatura, la loro autopista. Fu un successo, replicato pochi giorni dopo alla fiera di Novellara. È da questa intuizione che ebbe inizio prima l’attività imprenditoriale di possedere una giostra da portare nelle fiere e poi la produzione delle stesse. Un business che coinvolse anche i paesi limitrofi, come Melara e Calzo. Negli anni 50 erano più di cento le famiglie proprietarie di una giostra. Ma possedere una giostra voleva dire anche saperla costruire o riparare. E così nacquero le prime officine. Ed oggi, in questo territorio, ci sono più di 60 aziende legate alla costruzione delle giostre, facendo di quest’area un centro internazionale all’avanguardia nella produzione di attrazioni da Luna Park. «Noi vendiamo emozioni», mi dice Lino, ingegnere alla Guarnieri, storica officina che costruisce giostre dal 1977. «Non è facile far divertire gli altri, ma per riuscirci, mettiamo in campo la nostra inventiva, estro e precisione da orologiai per creare quelle che io chiamo opere d’arte», continua ancora Lino, mostrandomi le foto delle loro attrazioni nei vari luna park sparsi nel mondo. Perché qui la giostra è un elemento molto signi-

ficativo anche a livello economico. La costruzione di queste macchine per il divertimento è la spina dorsale dell’economia di queste terre. Una lingua di 20 km, ricca, in una area, povera di tutto. «Perché i brigantinesi sono creativi, vulcanici e non hanno nulla da condividere con la mentalità “povera” del Polesine», mi spiega la Signora Floriana, amministratore della Lamborghini, altra storica industria delle giostre, agitando il suo caschetto di capelli rossi seduta dietro alla scrivania, mentre dall’altra parte del muro arrivano i rumori delle macchine che stanno lavorando per costruire la struttura metallica della nuova giostra di cavalli destinata alla Polonia. Le officine meccaniche che costruiscono dalle «semplici» giostre con cavalli a dondolo, alle enormi macchine divertimenti o alle ruote panoramiche che raggiungono anche i 60 metri di diametro, hanno portato il benessere, tolto la disoccupazione: «Perché, vede» continua Floriana «oltre alle officine, ci sono i disegnatori, chi lavora la vetroresina, chi monta le luci o chi costruisce i caravan per i giostrai. Tutto il mondo viene qui a comprare, si fidano di noi. Un bel giro d’affari, mi creda». E basta percorrere i 20 km che separano Calzo da Melara, passando per Bergantino, lungo una striscia d’asfalto con ai lati pioppi e cascine e un orizzonte piatto davanti, inoltrarsi nelle zone industriali, per vedere capannoni con insegne dai nomi e colori che richiamano i giochi del luna park dove all’interno si costruiscono le strutture in metallo per ruote panoramiche o attrazioni dai nomi strani come star tower, tagadà, crazy raft, booster etc etc. Altri dove si lavora la resina e si stampano seggiolini, pupazzi, cavalli. O altri magazzini specializzati nella colorazione degli stampi. Piccole officine alle periferie dei paesi per la realizzazione di impianti luci. In questo girovagare finisco al capannone di Massimo, un disegnatore, intento a verniciare con l’aerografo una giostra di tre piani: «È vero, mi dice tra uno spruzzo di vernice e l’altro, questa è una terra che non offre molto. Questo territorio è sempre stato una zona di confine, emarginato socialmente ed economicamente. Ma abbiamo tirato fuori la parte positiva da questa situazione, sviluppando e potenziando iniziativa e intraprendenza. È nel nostro Dna». Sicuramente lo era nel Dna di Albino Protti, nato a Bergantino nel 1910, meccanico e appassionato di volo, un genio ed il vero capostipite delle giostre moderne, che nel 1951 brevettò e costruì la prima giostra ad aerei volanti, utilizzando anche pezzi d’aerei e carri armati della Seconda guerra mondiale, simile a quelle che ancora si vedono nei parchi divertimenti. Un acume, un ingegno e inventiva di cui era a conoscenza anche il famoso Walt Disney e che aveva espresso il desiderio di incontrare Protti durante un suo viaggio in Italia.

l’intera galleria fotografica può essere visionata online su www.azione.ch. (Baldelli)


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Politica e Economia

La Svizzera si tinge di verde

Elezioni federali 2019 Con la marcata crescita delle formazioni ecologiste, il forte aumento

del numero di donne e deputati giovani, il calo dei voti per i poli rappresentati da UDC e PS, il parlamento svizzero cambia decisamente volto, aprendo nuove prospettive Marzio Rigonalli I risultati delle elezioni federali hanno offerto novità tali da non essere facilmente conciliabili con la tradizione elvetica dei piccoli passi e dei piccoli mutamenti. Novità che hanno suscitato molto entusiasmo ed una buona dose di ottimismo nel futuro tra i promotori del cambiamento, nonché una quantità analoga di delusioni tra coloro che speravano di ritrovarsi confrontati, la sera del 20 ottobre, soltanto con piccole modifiche allo statu quo politico. Il nuovo Consiglio nazionale è emerso molto più verde di quello precedente. I verdi ed i verdi liberali, due partiti diversi, ma uniti nella lotta per la preservazione dell’ambiente, hanno guadagnato ben 26 seggi, 17 i primi e 9 i secondi. Un’ avanzata impressionante, che era stata prevista soltanto in parte e che non ha precedenti nella storia delle elezioni federali. Accanto a questa crescita è emerso anche l’aumento del numero delle donne che saranno presenti sui banchi della camera del popolo. Saranno 85, pari al 42,5%, una percentuale nettamente superiore a quella dell’ultima legislatura, dove la presenza femminile raggiungeva il 32%. Si è ancora lontani dalla parità, ma un passo importante è stato compiuto verso questo obiettivo. Infine, le statistiche mostrano che l’età media dei futuri consiglieri nazionali si situa sotto i 50 anni ed è inferiore a quella registrata nelle ultime sei legislature. Sono novità importanti che consentono a molti di guardare al futuro con maggiore fiducia nella politica e di ipotizzare un parlamento più incisivo del precedente nelle scelte che dovranno essere affrontate. È un trend che sembra delinearsi anche nella camera dei cantoni, seppur il processo elettorale non sia stato ancora ultimato. Dei 46 deputati che formano il consiglio degli Stati, soltanto 24 sono già stati eletti e tra questi anche i due rappresentanti del canton Grigioni, gli uscenti Stefan Engler (PPD) e Martin Schmid (PLR). 22 senatori devono ancora essere eletti e qui spiccano i nomi di numerose personalità tutt’ora in competizione. È così per il canton Ticino e per altri cantoni come Ginevra, Vaud, Friburgo e Berna. Nel corso del mese di novembre assisteremo a numerosi secondi turni elettorali, il cui esito, in parecchi casi, appare ancora incerto. Oltre al nuovo venticello che soffia sul palazzo federale, i risultati elettorali del consiglio nazionale evidenziano anche alcuni importanti cambiamenti. Ne citiamo tre, cominciando dai partiti di governo. I quattro partiti hanno perso seggi e voti. L’UDC è la formazione maggiormente colpita: ha perso 12 seggi ed il 3,8% dei voti. Rimane però, e di gran lunga, con il 25,6%, il primo partito nazionale. Il PS ha lasciato sul campo 4 seggi ed il 2% dei voti, scendendo al 16,8%. Ha subito una perdita chiaramente superiore alle previsioni. Anche il PLR ha perso 4 seggi e l’1,3% dei voti. Conferma il terzo posto con il 15,1%, ma il risultato è ben lontano dall’obiettivo dichiarato dalla presidente Petra Gössi di voler superare il partito socialista. Il PPD, infine, segna la perdita più contenuta con 2 seggi e uno 0,2% dei

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

la sorpresa e la gioia della presidente dei Verdi regula rytz e dei suoi simpatizzanti di fronte ai risultati elettorali. (Keystone)

voti. Prima del 20 ottobre, le previsioni erano molto pessimistiche sul futuro di questo partito. Gli scenari delineati ipotizzavano perfino perdite che gli avrebbero impedito di raggiungere il 10%. Ciò non è successo. Con l’11,4% il PPD ha perso un posto nella graduatoria dei partiti; è superato dai verdi che hanno raggiunto il 13,2%, ma rimane l’ago della bilancia nella formazione delle future maggioranze parlamentari. La perdita di consensi dei partiti di governo evidenzia una lontananza tra il Consiglio federale eletto nelle legislature passate ed il nuovo parlamento eletto una settimana fa. Un distacco sicuramente non allarmante, ma che non può essere né taciuto né sottovalutato. Il secondo importante cambiamento riguarda l’equilibrio politico in seno al consiglio nazionale. Nella scorsa legislatura, l’UDC ed il PLR, con l’appoggio della Lega, detenevano la maggioranza con 101 seggi su 200. Era una maggioranza forse più teorica che reale, perché non è riuscita a dare alla politica federale una svolta di centro-destra, ma costituiva pur sempre un’importante ipoteca in molte discussioni e di fronte a vari temi. Oggi questa maggioranza non c’è più; c’è stata invece una spinta significativa verso sinistra. La ricerca di soluzioni dovrà comunque avvenire, come in passato, attraverso maggioranze che varieranno secondo i dossier che verranno affrontati. Il terzo ed ultimo cambiamento riguarda lo squilibrio tra la maggioranza del Consiglio federale e quella delle due Camere. UDC e PLR detengono 4 dei 7 seggi del governo federale. I due partiti di centro-destra non hanno però la

maggioranza né nel consiglio nazionale né nel consiglio degli Stati. Si può senz’altro sostenere che il sistema politico svizzero consente questi squilibri e che non è la prima volta che succede. Resta comunque aperta la questione della migliore rappresentanza popolare possibile che gli organi eletti devono garantire. Che cosa succederà ora? Nelle prossime settimane la questione centrale sarà probabilmente la formazione del Consiglio federale. Dal 1959 è in vigore la formula magica che prevede di assegnare due seggi ai tre principali partiti ed un seggio al quarto partito. Questa formula ha funzionato per decenni, fin quando la forza elettorale dei partiti non registrò importanti variazioni. A partire dalla fine del secolo scorso, con la progressiva avanzata dell’UDC, la formula magica subì un primo aggiustamento. Nel 2003 venne eletto un secondo consigliere federale UDC, Christoph Blocher, e non venne rieletta Ruth Metzler, consigliera federale PPD. Quattro anni dopo seguì la non rielezione di Blocher e la nomina di Eveline Widmer-Schlumpf, diventata poi bandiera del PBD. Nel 2015, con l’elezione del vodese Guy Parmelin, la formula magica ritrovò il suo assetto iniziale. Oggi, però, il quadro politico è molto diverso rispetto al secolo scorso. Dietro all’UDC, primo partito largamente in testa, ci sono ben quattro formazioni, PS, PLR, verdi e PPD, racchiuse in poco più di 5 punti percentuali. La formula magica vorrebbe che il quinto partito, in questo caso il PPD, fosse escluso dal governo, ma i popolari democratici sono presenti con la signora Viola Amherd e la tradizione vuole che

un cambiamento nella composizione del governo avvenga quando un consigliere federale si dimette e quando il partito che vuole entrare nell’esecutivo riesce a confermare la sua forza almeno in un’elezione successiva. Le condizioni per un cambiamento non sono quindi favorevoli. I verdi hanno già chiesto di poter far parte del governo. La loro richiesta, però, finora è stata appoggiata soltanto dal PS. Gli altri partiti si distanziano e non vogliono certo favorire un cambiamento che in futuro potrebbe rivoltarsi contro di loro. È quindi probabile che per vedere un consigliere federale verde bisognerà attendere ancora un po’ di tempo, forse altri quattro anni. Con l’inizio della nuova legislatura, diventeranno attuali numerosi interrogativi riguardanti in particolare i cambiamenti climatici, i costi della salute, la riforma delle pensioni ed i nostri rapporti con l’Europa. Come cambierà la nostra vita quotidiana? Quali tasse, quali divieti, quali limiti ai consumi ed alla mobilità verranno decisi? Quali misure verranno adottate per contenere i costi della salute? Quali rassicurazioni verranno date a coloro che aspirano alla pensione? Quale sarà il futuro degli accordi bilaterali con l’UE? Sono domande che saranno al centro dei lavori delle nuove camere e sarà interessante vedere se verranno affrontate in un modo analogo a quello dell’ultima legislatura, oppure con maggiore determinazione e con più coraggio. Ovviamente, nella consapevolezza che un’intesa tra le due Camere non è mai facile da raggiungere e che l’ultima parola spetta pur sempre ai cittadini, grazie al referendum.

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Un risultato che viene da lontano Elezioni 2019 Perché

UDC e PS perdono e le donne vincono

Tante sorprese come il 20 ottobre si sono viste raramente nelle elezioni federali: i partiti verdi che raddoppiano i consensi (e ancor più la rappresentanza parlamentare), in taluni cantoni conquistano la maggioranza, partiti che inaspettatamente perdono e altri che resistono, deputati navigati non riconfermati, una forte crescita del numero di donne in parlamento (Zugo e Obwaldo mandano per la prima volta al Nazionale una deputata, Uri ha la sua prima consigliera agli Stati). Ma queste sorprese non sono calate dall’alto, hanno un’origine, positiva in alcuni casi, negativa in altri. Cominciamo dai perdenti. L’effetto Greta ha senz’altro punito l’UDC (non in Ticino, però), che dell’ambiente non ha mai fatto una priorità, mentre quattro anni fa era stata protagonista di un exploit sull’onda dell’emergenza migranti e sicurezza. In una campagna elettorale in cui non è riuscita a determinare i temi in agenda, non ha saputo motivare come in passato i suoi elettori a recarsi alle urne. Resta di gran lunga il primo partito, ma se continuerà a restare isolata e non incline a compromessi, l’erosione potrebbe proseguire. Il Partito socialista di Christian Levrat si risveglia con il peggiore risultato in 100 anni. Se l’area di sinistra si è rafforzata grazie ai successi dei Verdi, mentre il PS ha perso voti e seggi, significa che nell’elettorato c’è il desiderio di un’altra sinistra, quella meglio rappresentata dai Verdi. Se poi il PS perde voti e seggi a vantaggio dei Verdi liberali (che rubano voti anche al PLR), può voler dire che chi è scontento della politica europea meno europeista, più appiattita sulle posizioni sindacali, sceglie altri lidi. E non è neppure un caso che a Zurigo i Verdi liberali abbiano conquistato sei seggi (il PS 7): nei mesi scorsi avevano annunciato il passaggio dal PS ai Verdi liberali gli ex consiglieri nazionali zurighesi Chantal Galladé e Daniel Frei, lamentando che nel PS l’ala liberal-sociale era tenuta in sempre minore considerazione. L’operazione Helvetia ruft! Invece ha funzionato benissimo: dopo l’Operazione Libero (co-fondata da lei cinque anni fa, fondamentale per la mobilitazione al voto contro l’iniziativa dell’UDC per l’espulsione dei criminali stranieri, bocciata nel 2016), Flavia Kleiner ha lanciato questa iniziativa per motivare le donne di tutti i partiti a candidarsi alle Federali, ottenendo che sulle liste il 40 per cento fossero donne e quelle elette al Nazionale ben il 42,5 per cento. Flavia Kleiner è l’espressione dei nuovi giovani: impegnati in politica, capaci di far rete e mobilitare i coetanei, ma non solo. / PS

Flavia Kleiner, Helvetia ruft! (Keystone) Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Politica e Economia

L’indebitamento privato in Svizzera continua a crescere Tendenze La diminuzione dei tassi di interesse, che si è estesa anche al piccolo credito,

favorisce l’aumento dell’indebitamento delle famiglie Ignazio Bonoli La forte diminuzione dei tassi di interesse, in alcuni casi scesi anche sotto lo zero, agevola il finanziamento anche per i vari istituti che operano nel cosiddetto «piccolo credito». Lo scorso anno, secondo i dati pubblicati dalla Centrale per l’informazione sul credito, che riunisce quasi tutti gli operatori del settore, sono stati concessi crediti al consumo per 7,6 miliardi di franchi (vedi anche Angelo Rossi a pag. 37). Rispetto all’anno precedente si constata una crescita del 6%. La ripresa segue un periodo in cui si era registrata una forte compressione. Infatti, dopo la crisi finanziaria, il numero di crediti al consumo concessi in Svizzera era sceso di circa un terzo. Probabilmente a causa della previsione di un rallentamento dell’economia, le famiglie svizzere avevano preferito contenere le loro posizioni debitorie. Ma il ritorno a tassi di crescita importanti nel settore ha certamente contribuito, verso la metà del 2016, alla diminuzione dal 15% al 10%, decisa dal Consiglio federale, del tasso massimo applicabile ai crediti al consumo. La decisione, del resto conseguenza dell’ampia tendenza al ribasso dei tassi di interesse, ha provocato una certa crisi in tutto il settore. L’attore principale, la Cembra Money Bank, ha dovuto procedere a una riqualificazione di tutto

il suo portafoglio, mentre altri istituti hanno dovuto chiudere alcune filiali e diminuire il personale. Nel contempo è però aumentata la concorrenza di nuove forme di finanziamento anche attraverso piattaforme digitali. Secondo il professor Andreas Dietrich, dell’Università di Lucerna, il volume attuale di crediti offerti dalle nuove piattaforme digitali avrebbe già raggiunto i 57 milioni di franchi. Anche questo nuovo mercato viene comunque dominato in primo luogo dalla Cembra Money Bank, con una quota del 33%, seguita dalla filiale del Credit Suisse «Bank-now» e dalla Banca Migros. Evidentemente questo ritorno in massa delle famiglie svizzere verso il credito al consumo è favorito dall’attrattiva esercitata dal livello basso dei tassi di interesse. Molti privati – accanto agli istituzionali – sono stati indotti a indebitarsi a livelli piuttosto alti e per scadenze abbastanza lunghe. Il clima adatto è stato inoltre rafforzato dalle previsioni che l’attuale situazione dei mercati dei capitali si prolungherà per almeno 10 o 20 anni. Sul fronte dei fornitori di credito, la situazione è pure molto favorevole. Il rifinanziamento può avvenire a livelli molto bassi, per cui il margine sugli interessi varia fra il 6 e il 7%. La concorrenza, come detto, è piuttosto intensa, ma – a detta degli operatori – i casi di insolvenza sono limitati.

l’indebitamento privato è un problema riconosciuto e da non sottovalutare. Qui una campagna della CSP, il Centro sociale protestante romando. (Keystone)

Secondo l’Ufficio federale di statistica, il numero di economie domestiche private in ritardo con i pagamenti per i crediti non immobiliari sarebbe limitato al solo 2,5% del totale. In confronto, le casse malati registrano il 7,3% di ritardi nel pagamento dei premi e il fisco il 9,9% di ritardi nel pagamento delle imposte. Gli operatori del piccolo credito devono tener conto, nelle loro decisioni, del minimo esistenziale, dedotte le imposte e altri impegni finanziari ricorrenti del debitore. Sul rimanente esigo-

no il rimborso del prestito in 36 mesi. Ma, secondo il direttore della consulenza sui debiti, non tutti gli istituti di credito si attengono a queste regole e concedono crediti che poi metteranno in difficoltà finanziarie il debitore. Il credito al consumo, sotto forme che vanno dal piccolo credito al leasing, alla carta di credito o di debito, comporta circa la metà dei casi di insolvenza. In molti casi, una situazione finanziaria già difficile viene peggiorata con l’assunzione di un piccolo credito a tassi ancora elevati. Tuttavia, secondo gli istituti di cre-

dito, l’indebitamento di consumo in Svizzera non è preoccupante poiché, globalmente, comporta soltanto l’1% del PIL. A trascinare questo indicatore sono invece le ipoteche, concesse finora con grande facilità. Una recente indagine ha messo in evidenza che comunque, almeno una volta, l’85% degli Svizzeri ha ottenuto un credito, un prestito privato o un’altra forma di finanziamento. L’evoluzione generale, compreso l’auto-leasing, il credito contante o di consumo, indica dal 2004 un aumento del 60%, cioè da 15 a 23 miliardi di franchi. Particolarmente evidente la crescita del «leasing», le cui somme sono raddoppiate negli ultimi 14 anni. In pratica, la metà delle automobili nuove in Svizzera è acquistata tramite leasing. Anche in questo campo molto è dovuto alle facilitazioni aggiunte al basso tasso di interesse. Benché sostenibile, la situazione provoca qualche preoccupazione, soprattutto nel credito ipotecario. Qui la crescita è impressionante e il rischio di insolvenza in caso di rallentamento dell’economia è alto. Già tra il 2013 e il 2017 la quota di debitori in ritardo con i pagamenti è salita dal 15,3% al 16,5%. Anche il credito, in Svizzera apprezzato, per la propria casa rischia di trovarsi coinvolto in un crollo generale del settore immobiliare per eccesso di offerta, soprattutto se confrontato con una domanda che si ferma. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi L’indebitamento dei privati aumenta L’indebitamento dei privati in Svizzera sta aumentando. È una delle conseguenze poco gradite dei tassi di interesse bassi. Quando il denaro costa poco la tentazione di indebitarsi si rafforza. Stando alla Centrale per le informazioni sul credito, nel 2018 i crediti al consumo pendenti in Svizzera ammontavano a 76 miliardi di franchi, con un aumento pari al 6% rispetto all’anno precedente. I debiti per beni di consumo sono dunque aumentati a un tasso praticamente doppio del tasso di crescita nominale del Pil nazionale. Dal 2004 l’aggregato di questi crediti (leasing di automobili, crediti a contanti e crediti al consumo) sarebbe aumentato del 60%, mentre il Pil nominale, nello stesso periodo di tempo, non è aumentato che del 40,6%. A facilitare questa crescita è stato in primo luogo,

il miglioramento delle prospettive economiche a medio termine. Negli anni successivi alla crisi del 2008/2009 il credito al consumo si era ridotto, nel nostro paese, di quasi un terzo. Il ritrovamento di un tasso di crescita del Pil nominale superiore all’1% annuo ha probabilmente influenzato in positivo le aspettative non solo degli investitori ma anche quelle dei consumatori di beni durevoli. Un secondo fattore che ha favorito lo sviluppo del credito al consumo è stata la riduzione, intervenuta nel 2016, del tasso di interesse massimo per questi tipi di credito dal 15 al 10%. Sull’espansione del credito al consumo ha influito anche l’apparizione di nuove forme di finanziamento come le piattaforme Crowd Lending. Sui vantaggi e gli svantaggi dell’indebitamento per crediti al consumo si

economie domestiche che non riescono a pagare gli interessi dovuti. In effetti, la statistica federale prova che solo il 2,5% delle economie domestiche accusa ritardi nel pagamento degli interessi di questi crediti, mentre per cespiti di spesa obbligatori, come per esempio i premi di cassa malati o le imposte, la quota delle economie domestiche con ritardo nei pagamenti è nettamente superiore al 5%, (in Ticino il 6,4% per i premi di cassa malati e addirittura il 10,3% per le imposte). Preoccupa comunque che la quota delle economie domestiche con almeno un ritardo nei pagamenti continui ad aumentare. Questa tendenza indica che, indipendentemente dal livello di indebitamento raggiunto sin qui, a livello nazionale come a livello cantonale, molte economie domestiche hanno problemi nell’amministrazione

delle proprie risorse. Stando ai risultati dell’indagine sui redditi e sulle condizioni di vita delle economie domestiche del 2013, l’ultima disponibile, il 9,1% delle economie domestiche interpellate in Svizzera riconoscevano che per loro era molto difficile tenere sotto controllo il loro budget. In Ticino, questa percentuale saliva addirittura al 17,5%. E questo nonostante le economie domestiche ticinesi, più di quelle delle altre regioni del paese, fossero quelle che più si sforzavano di risparmiare e quelle che meno effettuavano acquisti di un certo valore impulsivamente. Il loro difficile rapporto con il denaro deve essere attribuito al fatto che le famiglie ticinesi erano purtroppo anche quelle che disponevano del reddito disponibile più basso: quasi il 30% in meno della media nazionale.

dimenticato. Ma i soldati americani, che hanno seguito gli ordini (negli ordini erano previsti anche bombardamenti sulle proprie postazioni, per non lasciare alcuna arma a disposizione di chi arriverà), hanno voluto dare il loro saluto ai curdi, con cui hanno lavorato per anni: il simbolo curdo sulla divisa americana significava proprio questo, siamo con voi anche se ci hanno detto di abbandonarvi. La seconda immagine è quella di Bashar al-Assad, presidente siriano, nella provincia di Idlib, martedì scorso, rifugio per decine di migliaia di militanti e civili che hanno abbandonato le loro case in altre zone della Siria occidentale, liberate dal governo e dai suoi alleati. Circondato da generali e soldati, Assad è andato nella cittadina di Hobeit, che è stata riconquistata dal regime – con l’aiuto della Russia e dell’Iran – a fine agosto. Da allora in questa zona della regione di Idlib è in vigore un (fragile) cessate il fuoco, dopo che per sei mesi le forze siriane, con i soliti alleati (da solo l’esercito siriano non potrebbe riconquistare nulla), hanno bombardato senza sosta questa regione per riportarla sotto il controllo di Damasco. A Hobeit, Assad ha detto che il presidente turco,

Recep Tayyip Erdogan, è un «ladro», che sta occupando terre che non sono sue: il rais voleva farsi notare da Erdogan e ancor più dal presidente russo, Vladimir Putin, che si sono accordati su un piano di spartizione della Siria senza di lui. Ma il ritorno di Assad a Idlib, quella foto con lui che guarda mappe e piani assieme ai suoi soldati, racconta molto di più di una partita geopolitica precipitata a causa di una decisione sciagurata dell’America. La guerra in Siria è iniziata nel 2011, secondo i dati del 2018 5,7 milioni di siriani sono scappati dal loro Paese; 6,1 milioni vivono ancora in Siria ma non nelle loro case: sono sfollati nel loro stesso Paese (che conta 18 milioni di abitanti). La cifra dei morti è ferma al dato del 2015: 400 mila, secondo le Nazioni Unite. Poi il conteggio ufficiale si è interrotto, e questo non è un dettaglio: il senso delle guerre e della loro gravità spesso viene sintetizzato dal numero delle vittime. È un dato non completo ovviamente, ma è rilevante, ancor più se, come in questo caso, il dittatore decide di usare armi brutali contro i propri stessi cittadini (per non parlare di quel che avviene nelle carceri: un report di questa settimana individua 72

metodi di torture utilizzati dai carcerieri siriani contro prigionieri siriani, e risparmio ulteriori dettagli). Tra queste armi ci sono anche quelle chimiche, che costituivano una linea rossa invalicabile che pure è stata superata senza che ci fosse una reazione proporzionata. Ma alla Siria non è dato nemmeno il conteggio aggiornato dei suoi morti, forse perché così ci possiamo illudere che il regime ne abbia ammazzati di meno. Il presidente Trump ha definito il rais siriano «animal Assad» in uno di quei suoi moti emotivi che sono diventati la cifra della politica estera americana, ma dopo aver bombardato una pista d’atterraggio vuota non ha fatto nulla a livello diplomatico per contenere Assad e i suoi alleati. Anzi, nell’ultima, tragica giravolta ha restituito loro la Siria, piegata da quasi nove anni di guerra, spartita secondo aree di influenza che hanno tutto a che fare con i paesi stranieri e nulla con il futuro del popolo siriano. Due immagini, e una storia straziante: l’«animal» ora può andare in zone fino a poche settimane fa inaccessibili; nessun altro si sente più al sicuro, né chi combatte né chi scappa.

che ancora non conosceva il concetto moderno di Stato». Il ’69 (sul piano cantonale) e il ’71 (sul piano nazionale) impressero un’accelerazione ad un processo di emancipazione dai vincoli patriarcali in corso da tempo sotto la crosta della società; segnò una tappa fondamentale lungo il cammino che anno dopo anno permise alle donne di forare il «soffitto di cristallo» che le teneva prigioniere. Un percorso lungo, faticoso ma ormai inarrestabile, che uno studioso americano, Ronald Inglehart, riassunse nella formula di «rivoluzione silenziosa». Ma raggiunta la parità in fatto di diritti politici, rimaneva da conquistare la piena uguaglianza nel campo delle retribuzioni, sancita dalla Costituzione (articolo 8, paragrafo 3: «Uomo e donna hanno diritto a un salario uguale per un lavoro di uguale valore») ma ancora ampiamente disattesa dalle imprese e perfino dall’amministrazione statale.

Anno mirabile per l’altra metà del cielo, il 1969 fu invece infausto per le sorti del territorio. Alcuni mesi prima infatti, il 20 aprile, una larga maggioranza di cittadini aveva affossato la Legge urbanistica, voluta dal governo e dal Gran consiglio per finalmente arginare la galoppante speculazione fondiaria ma osteggiata dal fronte degli interessi organizzati. Un anno dunque cerniera, il ’69, nella cui arena politica confluirono istanze opposte, aperture e chiusure, radicate resistenze e slanci progressisti, una fase che – anche sulla spinta della contestazione studentesca in atto in Europa e negli Stati Uniti – finì per determinare uno scontro generazionale all’interno dei partiti storici e una dolorosa scissione nel campo socialista (nascita del Partito socialista autonomo). La questione del suffragio non era comunque centrale per alcuni settori della sinistra extra-parlamentare; anzi, molti – seguendo uno slogan del

movimento maoista, ripreso e diffuso da Sartre – ritenevano che le elezioni fossero una trappola per gonzi («élections, piège à cons»), e quindi non degne di figurare in un programma rivoluzionario… Cinquant’anni dopo parrebbe venuto il momento di estendere il voto ai sedicenni, al fine di controbilanciare lo strapotere degli anziani, sempre più numerosi. La discussione, filtrata dall’Italia, non accalora gli animi più di tanto. Finora solo Glarona ha osato compiere questo passo. A nostro parere sarebbe più utile, e più giusto, concedere questo diritto agli stranieri che sono presenti sul territorio nazionale da ben oltre sedici anni, lavorando e pagando le tasse. A Neuchâtel è possibile sia nei singoli comuni che nel cantone. Ma per ora tutto tace su questo fronte; non è un argomento popolare (viva la democrazia, ma non per tutti), e i partiti lo evitano per tema di perdere consensi.

discute da molto tempo. L’argomentazione dei contrari è che a fare debiti sono normalmente i ceti più poveri della popolazione che, con una pubblicità molto insistente, vengono spesso indotti a fare spese inutili ed eccessive privandosi magari di una parte del necessario per comperare un bene di lusso. L’argomento delle banche specializzate e delle altre organizzazioni finanziatrici a favore di questo tipo di credito è che lo stesso è molto remunerativo (in Svizzera si parla di rendite del 6-7% annuali) e che, tutto sommato, le perdite per crediti rimasti impagati sono abbastanza contenute. Ciò significa che i finanziatori procedono sempre con i piedi piombo concedendo i crediti tenendo conto delle disponibilità finanziarie effettive del debitore. Lo prova la quota relativamente bassa di

Affari Esteri di Paola Peduzzi Due immagini che parlano da sole Ci sono due immagini, tra le tante e strazianti che arrivano dal nord della Siria, che raccontano quel che sta avvenendo in questi giorni in quel pezzo di terra che dal 2011 a oggi ha conosciuto ogni genere di tragedia: la brutalità dello Stato islamico, le bombe del regime siriano e della Russia, la fuga. La prima immagine è quella di un soldato americano su un carro armato, mentre sta lasciando le postazioni presidiate finora dalle forze statunitensi: sul braccio ha il simbolo dell’esercito curdo, divisione femminile, quella delle combattenti coraggiose e fiere che hanno cacciato

via lo Stato islamico dalla Siria. Gli americani hanno dovuto lasciare le basi in fretta, dopo che il presidente Trump ha dato alla Turchia il via libera a un’invasione che si chiama «Risorsa di pace» e che ha portato la guerra contro i curdi, i nemici del regime turco. I curdi, che sono stati i boots on the ground della lotta allo Stato islamico per tutto l’occidente che di soldati ne vuole mandare pochi e lo fa comunque controvoglia, hanno tirato pietre ai mezzi americani: dicono che questo tradimento difficilmente sarà perdonato, di certo non potrà essere

il presidente siriano al-assad immortalato a idlib. (AFP)

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Piccoli uomini, grandi donne Il suffragio femminile fu «concesso» in Ticino cinquant’anni fa, il 19 ottobre, dalla popolazione maschile. Concedere, quasi fosse un buffetto paterno, un gesto di benevolenza, non un frutto di una ben precisa concezione dei diritti politici e civili con validità «erga omnes», ossia per tutti, uomini e donne una volta raggiunta la maggiore età. A rileggere oggi le motivazioni dei contrari vien da sorridere, un sorriso, per la verità, un po’ amaro. Ma allora la disputa teneva banco nei bar e nelle redazioni dei giornali. Naturalmente erano pochi coloro che si opponevano per inveterata misoginia; i più paventavano guasti irreparabili per l’intera collettività, la corruzione della morale, l’erosione dei valori tradizionali. Rifiutare il diritto di voto, insomma, voleva dire salvare la donna stessa dai miasmi della politica, una pratica che non si confaceva al gentil sesso, fatta di intrallazzi, manovre me-

schine, invidie, brutte parole. Meglio non farsi contagiare; meglio dedicarsi al marito e all’educazione della prole, questa sì meritoria, e alle attività di volontariato. All’estero naturalmente prevalevano incredulità e sarcasmo. La Svizzera, paese modello, agli occhi di molti «la più antica democrazia del mondo», ancora escludeva la metà dell’elettorato dalle urne, al pari di un qualsiasi staterello dell’Africa nera. Negli anni Sessanta un acuto osservatore, lo storico Herbert Lüthy, qualificò la Confederazione come il paese più arcaico dell’Occidente: «determinati tratti della sua mentalità e delle sue istituzioni risulterebbero più comprensibili ad un congolese (per il quale la tribù e il villaggio coincidono con il mondo) che ad un vicino appartenente alla Repubblica francese una e indivisibile; il fatto è che le strutture fondamentali di questo paese risalgono ad un’epoca


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Una cura delicata per i capelli

Mamma Yvonne e la figlia Carmen testano due linee di prodotti per la cura dei capelli della marca Ultra Doux di Garnier. Entrambe le linee contengono sostanze naturali che si prendono cura dei capelli: una miele, l’altra latte di avena. Di seguito si può scoprire cosa è loro piaciuto in particolare

Da tempo il latte di avena ha dato buona prova di sé nel prendersi cura con delicatezza della pelle. È l’ideale per lenire il cuoio capelluto sensibile. Garnier Ultra Doux ha sviluppato la linea «delicatezza d’avena», che contiene ingredienti di origine naturale ed è prodotta da un’azienda che si impegna in favore di uno sviluppo sostenibile.

Tesori di miele

La linea «tesori di miele» offre il meglio dell’alveare: miele, propoli e pappa reale sono l’ideale per riparare e rinforzare i capelli sollecitati e fragili. I capelli vengono intensamente nutriti. Se smaltite nel modo appropriato, le confezioni di shampoo e balsamo sono inoltre riciclabili al 100 percento.

Bilder: Micha Freutel; Styling: Jenny Tschuggmell; H&M: Michele Anderhub

Delicatezza d’avena


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Yvonne Imholz

Carmen Imholz

Come si prende cura dei suoi capelli? Per me i capelli sono importanti. Per questo attribuisco molta importanza alla loro cura. Oltre allo shampoo e al balsamo, applico regolarmente una maschera per capelli.

Lei è una parrucchiera qualificata ed è attiva nell’ambito della moda. Quali le caratteristiche che deve soddisfare un prodotto per la cura? (Ride) Sono difficile quando si tratta di cosmetici. Uso quotidianamente shampoo e balsamo perché faccio molto sport. E dal momento che al lavoro devo apparire sempre al meglio, ogni due settimane applico una maschera intensiva.

(66), Weinigen

Ha provato la linea «tesori di miele». Qual è la sua conclusione? Lo shampoo fa una bella schiuma, rende i capelli vaporosi e ha una piacevole fragranza. Come ha sentito i capelli dopo il lavaggio? Morbidi e vellutati, i capelli erano da subito facili da pettinare. Farmi la piega con spazzola e asciugacapelli è risultato facile. Si sente la fragranza del miele? Durante il lavaggio il profumo del miele si è piacevolmente diffuso in tutto il bagno. E lo shampoo ha lasciato una gradevole fragranza

(31), Zurigo

sui capelli. Non so se chi mi è vicino lo ha percepito come odore di miele. Ciò che mi ha maggiormente convinta è la lucentezza dei capelli. E per me è particolarmente importante che i capelli non risultino eccessivamente piatti. Consiglierebbe questi prodotti? Sicuramente! Consiglio sia lo shampoo che la maschera al miele a tutte le persone che hanno capelli secchi, fragili o tinti. Questo è anche il motivo per cui continuerò a curare i miei capelli con la linea al miele.

Ha provato la linea al latte di avena. In cosa si differenzia dai prodotti che utilizza abitualmente? Ho particolarmente apprezzato lo shampoo. Conferisce ai capelli una tenuta e una leggerezza il cui effetto si avvicina a quello dei prodotti professionali, malgrado non lo sia. È stato piacevole lavare i capelli? Lava molto bene e fa una bella schiuma. Su capelli e cuoio capelluto ha un effetto piacevole, leggero e morbido. Al termine i capelli sono risultati estremamente facili da pettinare.

Quindi è soddisfatta? I capelli sono molto leggeri e hanno una bella lucentezza. Passarci le mani è piacevole. E non è una cosa scontata per chi ha i capelli lunghi, biondi e secchi. Il suo consiglio? Lo shampoo lo raccomando a chi desidera capelli morbidi. A chi ha i capelli lunghi anche il balsamo e la maschera. Per chi come me ha tanti capelli e in più lunghi, questa linea è perfetta. La linea al latte d’avena troverà ancora spazio nel suo bagno? Sicuramente l’acquisterò di nuovo, per alternare i prodotti con cui mi prendo cura dei capelli.

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Cultura e Spettacoli Il professor Vecchioni Abbiamo incontrato il cantautore milanese Roberto Vecchioni, presto in concerto a Lugano pagina 43

Frankenstein e tutti gli altri Dibattiti, letture sceniche, proiezioni e concerti: l’edizione 2019 di PiazzaParola è riuscita a soddisfare tutti i gusti

A Reims per riflettere In scena al Piccolo di Milano lo spettacolo Ritorno a Reims dal testo di Didier Eribon

Il bacio poetico Piero Salabè ha dato alle stampe la sua prima raccolta di poesie con un intervento di Magris

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pagina 46

pagina 47 Jan Cossiers 1600-1671 L’allegria compagnia (I cinque sensi) (dopo il 1650). (Collezione privata, Anversa)

Una vera esplosione artistica Mostre Molti gli accenni alla musica in un’impressionante esposizione veneziana

Giovanni Gavazzeni Un prologo musicale di grande suggestione nella Basilica di San Marco a Venezia ha dato il suo augurio alla mostra Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa e da altre collezioni fiamminghe, che rimarrà aperta ai visitatori in Palazzo Ducale, negli appartamenti del Doge, fino a marzo del 2020. Il concerto della Cappella Marciana diretta da Marco Gemmani, incentrato sulla musica del fiammingo Adrian Willaert, era un tassello fondamentale per sottolineare i contatti fra Venezia e le Fiandre (soprattutto con la città di Anversa), i cui abili mercanti si scambiavano tessuti, arazzi, spezie, dipinti. Nell’Europa del XVI secolo anche i musicisti erano considerati similmente preziosi dai loro padroni. Così alcuni potevano approfittare delle relazioni commerciali (e politiche) per fare carriera: una calata in Italia del re di Francia, Francesco I, consentì a un giovane musicista fiammingo istrui-

to a Parigi, Adrian Willaert, di entrare al servizio della grande famiglia Este a Ferrara, mecenati e musicofili con pochi eguali a quei tempi. La fama di «Adriano cantore» crebbe tanto, che il doge di Venezia, Andrea Gritti, lo nominò nel 1527 maestro di cappella della Basilica di San Marco. Nei quasi trentacinque anni sulla cattedra di San Marco, Willaert diede fondazione a uno stile nuovo: una polifonia «mossa», sensibile al testo e ai suoi accenti. Magistero che fece scuola: Willaert è infatti il fondatore della scuola musicale veneziana. Il fiammingo divise il coro marciano ai due lati dell’altare di San Marco, così che i due gruppi separati (quelli che divennero i «cori spezzati») potessero dialogare, fondersi o dividersi in un fastoso stile «antifonale». Una sala della mostra Da Tiziano a Rubens è dedicata a documenti e pregiate edizioni musicali del musicista fiammingo che ha rappresentato un innesto fondamentale nei legami fittissimi fra

Venezia e le Fiandre. Infatti la mostra veneziana curata dal direttore della Rubenshuis, Ben van Beneden, non solamente è rivelatrice dei ben noti legami fra Rubens e la pittura veneziana, non soltanto mostra alcune opere di Tiziano e Tintoretto che da Venezia andarono ad arricchire le collezioni dei mercanti del Nord (come il meraviglioso Angelo annuncia il martirio a Santa Caterina d’Alessandria, che appartenne alla rockstar David Bowie, ora in prestito al Museo della Casa Rubens di Anversa), ma offre una panoramica dell’esplosione artistica che accompagnò l’ascesa della capitale sulle rive della Schelda. L’esibizione della ricchezza, titolo di un succoso articolo di Timothy de Paepe nel catalogo della mostra, ci illustra le ragioni di alcuni primati di Aversa nel Seicento. Un diarista inglese che descrisse le sue giornate ad Anversa nel 1641 e «visitò le chiese e le ditte commerciali, salì sulla torre della cattedrale, restò estasiato di fronte ai dipinti di Rubens nella Chiesa dei

Gesuiti e acquistò i libri famosi degli editori Plantin-Moretus», ci immerge in quel tempo d’oro per le arti visive e applicate. Il visitatore ricevette anche l’invito dal mercante Gaspar Duarte (un ebreo sfuggito all’Inquisizione portoghese) a visitare la sua casa, «arredata come quella di un principe». «Vi erano esposti in bella mostra mobili costosi, spesse tappezzerie, libri di ogni genere di argomento, spartiti a stampa o manoscritti e, alle pareti, dipinti di maestri italiani e fiamminghi, da Tiziano a Tintoretto a Rubens e Van Dyck». Gaspar e le tre figlie offrirono a Evelyn un concerto di «musica rara, vocale e strumentale» eseguita con uno strumento, tra gli altri, che apparteneva alla famiglia dei clavicembali e dei virginali». Anversa vantava nella famiglia Ruckers-Couchet i maggiori costruttori del virginale che si diffuse fra le famiglie dei mercanti di tutt’Europa e del Nuovo Mondo. Accanto agli strumenti fiorì, come a Venezia con i grandi editori Gardano e Petrucci, un’editoria

musicale, opera della celeberrima Officina Plantiniana, forse la più grande casa editrice dei suoi tempi. Perfino nelle celebri nature morte fiamminghe Venezia faceva capolino attraverso la virtuosistica raffigurazione del vetro. I documentati trasferimenti di mastri vetrai veneziani al Nord (Anversa, Liegi e Bruxelles) sono testimoniati dagli stupendi bicchieri à la façon de Venise che comparvero nelle nature morte. Percorrere le stanze del Doge, ammirando quadri, bozzetti e disegni, libri e spartiti, virginali e cornetti, è un’esperienza «principesca», simile a quella che compì il visitatore inglese nella dimora del mercante Duarte. Dove e quando

Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa e da altre collezioni fiamminghe, Venezia, Palazzo Ducale – Appartamento del Doge. Orario: tutti giorni 8.30-19.00. Fino al 1. marzo 2020. palazzoducale.visitmuve.it


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Cultura e Spettacoli

Ragazzi, che fiuto!

Mostre Una doppia esposizione a Losanna racconta la storia controversa degli odori

Marco Horat Quella allestita al Musée de la main di Losanna non è una mostra semplicemente da visitare, bensì da vivere in prima persona, mettendo in gioco le proprie convinzioni in fatto di odori, gradevoli o sgradevoli che siano. Si intitola Che fiuto! ed è nata dalla collaborazione tra l’istituzione losannese legata al Chuv, il Mudac – Museo del design e delle arti applicate contemporanee – e il Centro delle scienze affettive dell’Università di Ginevra. Dopo aver trattato il senso del tatto in una precedente mostra, è ora la volta dell’olfatto. Scopo dell’operazione è mettere in scena il rapporto tra odori e sentimenti, fornendo ai ricercatori romandi nuovo materiale per le loro analisi interdisciplinari, come pure di esplorare a 360 gradi l’universo olfattivo umano e animale. Ne è nato un percorso interattivo che alterna vetrine, schermi e oggetti a postazioni audio e video che richiedono la partecipazione dei visitatori, chiamati a confrontarsi con i loro sentimenti, ma anche con le loro esperienze e i pregiudizi in materia di buoni e cattivi odori. Il tema è affascinante quanto complesso con risvolti che toccano la filosofia, la storia, la psicologia, la medicina, la sociologia, la politica, l’arte e altro ancora. Ne è testimonianza uno straordinario saggio dello storico francese Alain Corbin intitolato Storia sociale degli odori – XVIII e XIX secolo, edito anni fa da Mondadori con

gli spazi del Musée de la main a losanna. (Musée de la main)

un’introduzione di Piero Camporesi; un libro che potrebbe fare da supporto alla mostra losannese, accanto ad altri lavori – per venire in particolare a realtà più vicine a noi – tipo Propre en ordre di Geneviève Heller, una ricerca che analizza le strategie messe in campo nel nostro paese verso la metà dell’800 per fare della Svizzera il paese della pulizia per antonomasia. Afrori e profumi, corpo e anima, bestialità e umanità, povertà e benessere, sporcizia e pulizia, lavoro e ozio, malattia e salute, morte e

vita, inferno e paradiso sono gli estremi entro i quali si articola il discorso legato alla nostra percezione degli odori, mutevole a seconda dei periodi storici e delle inclinazioni culturali. Nelle epoche antiche, da Roma fino al tardo Medioevo si conviveva generalmente con la puzza e i miasmi dovuti alla sporcizia, agli escrementi e ai liquami vari che infestavano soprattutto l’ambiente cittadino, nonché alla presenza di cimiteri all’interno delle zone abitate. Il concetto di igiene personale e di

salute pubblica era una conquista di là da venire almeno nella nostra cultura e per secoli ci si è preoccupati piuttosto di coprire la puzza usando profumi e bruciando aromi. Oggi viviamo in quello che alcuni hanno definito «silenzio olfattivo», circondati come siamo da prodotti che ci dovrebbero mettere al riparo dagli aborriti cattivi odori corporali e non: deodoranti di tutti i tipi, lozioni e profumi, prodotti per la casa e via dicendo. La mostra, oltre a suggerire temi e

riflessioni su questi e altri argomenti, vuole confrontarci però anche con le nostre esperienze quotidiane, riservandoci delle sorprese che ci fanno capire come l’approccio a questo tema sia in rapporto con la psiche e l’appartenenza a una certa cultura. Faccio una serie di esempi: quando succhiamo una caramella tappandoci il naso e scopriamo che non siamo in grado di riconoscerne il gusto; quando annusiamo due barattoli dove sono contenuti in uno dei calzini sporchi e nell’altro una busta di parmigiano reggiano e ci viene spontaneo dire che il primo è un odore sgradevole, l’altro appetitoso, mentre si tratta esattamente dello stesso odore. Ancora quando siamo invitati a descrivere con le parole, o a disegnare su un foglio, un certo profumo e ci scopriamo incapaci: o quando abbiniamo dei volti su uno schermo a degli odori più o meno piacevoli che influenzano il nostro giudizio circa la simpatia che proviamo per quelle persone. Odori che dunque ci attraggono o ci respingono oppure che suscitano ricordi d’infanzia e ad esempio aiutano i malati di Alzheimer a ricordare, come testimonia un toccante filmato in mostra. Dove e quando

Quel flair, odeurs et sentiments, Musée de la main; Nez à nez, parfumeurs contemporains, Mudac, Losanna. Fino al 23 febbraio 2020. lausanne-musees.ch; mudac.ch Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Cultura e Spettacoli

La meravigliosa fatica

Cinquanta anni di ECM

7 novembre sarà al Palacongressi di Lugano con il suo Infinito Tour

con Trovesi&Coscia e il Joe Lovano Trio il 9 novembre a Besso

Intervista A colloquio con il cantautore milanese Roberto Vecchioni, che il prossimo

Alessandro Zanoli Ci sono stati momenti nella storia della musica italiana che tributavano grande successo ai cantautori. Lei e i suoi colleghi eravate molto ascoltati ma soprattutto i vostri lavori erano sottoposti a un esame critico fortemente ideologico. I tempi di E spararono al cantautore, per intenderci. Oggi una cosa simile è impensabile. Come ricorda quell’epoca? Con nostalgia o sollievo?

Ogni corrente artistica corrisponde a una particolare situazione sociale ed esistenziale. Gli anni Sessanta-Settanta sono stati di pionierismo e rinascita: la canzone d’autore indagava il presente a 360° e viveva di proteste e speranze dove la sostanza tematica era forte e le forme letterariamente alte. Oggi la comunicazione musicale salta a piè pari la melodia e spara a mitraglia «parole-faro» con finalità distruttive tramite sconcerto e rabbia. Ho nostalgia, e tanta, della completezza semantica e dell’emotività intelligente di De André, Guccini, Dalla; ma non tutto nelle nuove leve è circostanziale e stereotipato. C’è del buono. Certo si trattava di un momento molto particolare, in cui pareva che le persone fossero molto attente al significato dei testi, al loro impatto sulla vita di ogni giorno. Secondo lei, Luci a San Siro la capiscono, oggi, i ragazzi?

Sì e no. I ragazzi cestinano tutto ciò che ai loro occhi pare sentimentalismo e

Concorso «Azione» mette in palio tra i suoi lettori alcune coppie di biglietti per il concerto di Roberto Vecchioni di giovedì 7 novembre al Palacongressi di Lugano (ore 20.30). Per partecipare seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/ concorsi. Buona fortuna!

Ha insegnato greco, latino, italiano e storia in vari licei e all’università. (O. Toscani)

retorica. Vanno al sodo, ma si lasciano fregare dalla prima parziale impressione, scartano ciò che non capiscono subito, non operano il salto fra il particolare e l’universale. Le loro emozioni vengono da frammenti sconnessi di messaggio (forti, a volte), diffidano della parola «amore», tranne in casi particolari. La mia canzone nella domanda fa eccezione. C’è chi la considera un piagnisteo retorico, ma c’è pure (la maggioranza) chi entra in quello spazio e ne sente l’autenticità.

La sua carriera è stata molto particolare, e si è mossa su due piani, quello musicale e quello dell’insegnamento, tra palco e cattedra. Come riusciva a conciliare i due ruoli? Ci sono stati momenti di contatto tra le due esperienze, magari di conflitto, oppure di sinergia? Ai suoi allievi faceva ascoltare le sue canzoni?

No, ai miei studenti non facevo ascoltare canzoni, lo faccio ora che tengo un corso sulla musica d’autore all’Università di Pavia. Insegnare da una parte e cantare dall’altra non portano però alla schizofrenia, perché pur in forma

differente c’è un denominatore comune e cioè l’uomo, quello dell’Umanesimo. In aula sono «servo di scena», non parlo di me, ma della meravigliosa fatica che hanno fatto la parola e l’arte per arrivare fino a noi e darci difese e speranze. Sul palco io questa fatica la vivo invece in prima persona e canto come è nata in me perché possa continuare negli altri.

In quegli anni pareva esistere una fortissima distinzione tra musica «pop» e musica impegnata (penso ad esempio nella sua stessa esperienza di cantautore e di autore per i Nuovi Angeli – bellissime canzoni, tra l’altro). Oggi sembra che una cosa del genere non esista più, si è tutto uniformato. È un bene o un male?

Sì, sono distinzioni inutili. Si è capito, e io ho capito, che la differenza tra bella e brutta canzone sta nel «vero», nella sincerità della testimonianza. Questo «vero» poi può essere letterariamente alto o più mediato, poco cambia. Insomma il contesto può essere «complesso» o «semplice», ma mai, per carità, «facile». Il «semplice» è sintesi, chiarezza, evidenza emotiva (poesia

greca, trovatori). Il «facile» è inganno più o meno subdolo, gioco su facili slogan, è un approfittarsi delle debolezze sentimentali.

Recentemente Francesco De Gregori ha pubblicato un album in cui rende omaggio a Bob Dylan, un tributo che svela una sua passione (nemmeno troppo sorprendente) musicale e poetica. Facciamo finta che lei a Lugano voglia proporre un omaggio del genere: a chi sarebbe dedicato?

Certamente a Leonard Cohen, poeta immenso e musicista raffinato. In Cohen convivono complessità e semplicità in maniera così immediata che il «difficile» diventa miracolosamente e meravigliosamente intellegibile: ci senti dentro chiarissimo lo sforzo e l’orgoglio di essere uomo, la tempesta dei dubbi e la serenità dell’incoerenza. Non per niente De André lo adorava.

le eCM Session sono sostenute dal Percento culturale di Migros ticino.

In concerto Il 7 novembre al LAC (20.30) l’Orchestra della Svizzera italiana incontra

la solista indiana Anoushka Shankar eseguendo la sua Suite from Reflection

Probabilmente l’accostamento spiazzerà assai più gli avventori dell’Orchestra della Svizzera Italiana che i seguaci del sitar. Perché certo, leggendo la locandina del concerto che l’Osi ha in programma il 7 novembre non si può trattenere un moto di sorpresa: Markus Poschner, che ha abituato il pubblico luganese alle sue interpretazioni del grande repertorio tanto appassionate per temperamento quanto chirurgiche per concertazione, parte da un grande classico del Novecento, la suite dal balletto di Stravinskij L’uccello di fuoco, ma poi vi accosta Suite from Reflection di Anoushka Shankar e Manu Delago, dove compaiono come strumenti solisti il sitar e l’handpan. Già, proprio lo strumento più iconico della musica indiana, una sorta di liuto orientale dove la melodia viene ottenuta pizzicando tre corde, con le altre a fare da accompagnamento armonico. La fama planetaria del sitar si deve al padre di Anoushka, Ravi Shankar: col suo strumento fu protagonista nel 1969 a Woodstock, e già due anni prima aveva partecipato al festival di Monterey; e fu l’insegnante di George Harri-

son: il chitarrista dei Beatles lo inserì nell’album Rubber Soul, suonandolo in Norwegian Wood. Ovviamente l’esempio della band britannica fu contagioso e il sitar prestò il suo timbro inconfondibile anche ai Rolling Stones (Paint It Black), agli Yes e in tempi più recenti ai Metallica (Wherever I May Roam) e agli Oasis (To Be Where There’s Life). Se erano conciliabili le sonorità elettriche del rock e del metal, lo furono

È figlia e allieva del grande ravi.

ancor più quelle sinfoniche delle orchestre: Zubin Mehta, commissionò a Ravi un concerto per sitar e orchestra da eseguire assieme ai Berliner Philharmoniker; ne uscì una pagina splendida che la stessa Anoushka ha suonato alla Philharmonie berlinese. Zubin è il nome anche di suo figlio, scelto proprio in onore di Mehta: «Dieci anni fa mi incontrai a Delhi con un regista, Joe Wright, che voleva girare un film dal titolo Estate indiana. Della pellicola non se ne fece nulla, ma da quella cena nacque per noi qualcos’altro: ci siamo sposati ed è nato Zubin» racconta Anoushka, che ha avuto come insegnante il padre: «Mi regalò un sitar in miniatura quando avevo sette anni, ma non fu un colpo di fulmine: è uno strumento insidioso, per nulla semplice a livello tecnico; ma ero tenace, mi applicai e ne riuscii a capire la meccanica e le capacità espressive». Con la musica cambiò il rapporto padre-figlia: «Lui divenne il mio guru, il mio idolo artistico, e io per lui non ero semplicemente la figlia, ma l’allieva prediletta cui poteva davvero consegnare un’eredità musicale». Padre e figlia suonarono assieme in pubblico da quando Anoushka era una

Bisogna ormai essere jazzofili che vanno ormai oltre la sessantina per ricordare il momento in cui quei dischi entrarono sul mercato. Il loro tratto caratteristico era senza dubbio la grafica lineare e minimalista, spesso costituita da una semplice foto in copertina, nel centro della superficie, incorniciata da uno sfondo monocromatico (altrettanto spesso bianco). Il titolo dell’LP, il nome della band, poi, erano tracciati a mano, a penna o a matita, come su un blocco d’appunti. In barba a tutte le variopinte ed elaboratissime costruzioni grafiche «psichedelic-pop» che andavano per la maggiore i quegli anni, i dischi della ECM iniziavano a distinguersi, a imporre la loro estetica, già dal primo sguardo. La sostanza che li rendeva diversi dagli altri era però, naturalmente, la musica che contenevano. Un sound pulito, cristallino, senza sbavature, in cui assaporare con attenzione e meraviglia i lavori di alcuni giovani musicisti, quelli che avrebbero poi imposto la loro personalità musicale sul jazz di fine 900. Keith Jarrett, Pat Metheny, sono i primi che vengono in mente ma la lista è infinita e comprende il gotha dei «maestri», da ogni angolo del mondo, seguendo l’ispirazione e l’intuito di Manfred Eicher, guru e «Deus ex machina»

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Jazz Serata speciale

teenager fino a pochi mesi prima della morte di Ravi, avvenuta nel dicembre 2012. Come le capita periodicamente, quando viene chiamata come solista nei Concerti scritti da Ravi, a Lugano si troverà sul palco con un’orchestra; un’esperienza che considera «sempre elettrizzante: essere avvolta da così tanti strumenti, sfidare una potenza sonora che potrebbe spazzarmi via e che invece può creare un equilibrio sì delicato ma inaudito e bellissimo, mi stimola tantissimo». Ulteriore suggestione, una commistione non solo timbrica ma anche etnica: solista accanto a lei sarà Manu Delago con l’handpan, uno strumento ideato solo dodici anni fa come rivisitazione dell’hang, idiofono formato da due semisfere appiattite in acciaio, dal diametro di circa mezzo metro, che è stato creato non in qualche Paese orientale, ma in Svizzera, nel 2000. Concorso

«Azione» mette in palio tra i suoi lettori alcune coppie di biglietti per il concerto dell’OSI. Per partecipare seguire le istruzioni nella pagina www.azione.ch/concorsi

di ECM. I casi della vita vogliono che una decina d’anni fa il discografico tedesco scoprisse quanto le caratteristiche sonore dell’Auditorium RSI di Besso fossero affini alle sue concezioni di estetica dell’incisione. Ecco dunque che proprio a Lugano molti altri grandi della storia del jazz sono venuti a registrare i loro lavori per Eicher. Da quando questa collaborazione RSI-ECM è nata, Paolo Keller ci propone ogni anno, all’interno della sua rassegna «Tra jazz e nuove musiche», un piccolo campionario dei migliori. Quest’anno tocca al celeberrimo duo italiano di Gianni Coscia & Pierluigi Trovesi, poesia assoluta fatta musica, e all’altrettanto straordinario trio «sperimentale» di Joe Lovano con Marilyn Crispell al piano e Carmen Castaldi alla batteria. Saranno due concertievento, che segnano un traguardo unico a livello mondiale. /AZ

Concorso «Azione» mette in palio tra i suoi lettori alcune coppie di biglietti gratuiti per la serata ECM Special Session di sabato 9 novembre all’Auditorium RSI di Lugano-Besso (ore 20.30). Per partecipare seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Cultura e Spettacoli

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Festival Quest’anno a PiazzaParola ci si è chinati sulla figura

di Frankenstein e della sua autrice, Mary Shelley Natascha Fioretti

Tra le parole di grandi scrittori, giornalisti, professori, scienziati, l’immagine cinematografica, la musica creata ad hoc da Zeno Gabaglio e la lettura scenica irriverente di Margherita Saltamacchia e Christian Zatta, Piazzaparola in questa sua nona edizione ha confermato il successo della sua formula: partire dalla riscoperta di un classico per riflettere a tutto campo sulle questioni cruciali del presente attraverso diversi linguaggi e da diverse angolazioni. Al pubblico piace, numerosa è stata l’affluenza, perché il messaggio è chiaro e al contempo polivalente, soprattutto, va in profondità. Come si è visto nelle cinque giornate della manifestazione, riscoprire un classico significa in prima istanza fedeltà e omaggio al testo. In questo è stata particolarmente brava Nadia Fusini, una delle massime angliste italiane e autrice della prefazione dell’edizione di Frankenstein uscita lo scorso anno da Neri Pozza per il centenario dell’opera. Ascoltarla è stato come assistere a una magistrale lezione universitaria, una di quelle nelle quali ti appassioni sin dalla prima parola, sin da quella prima semplice domanda: chi è Mary Shelley? Per raccontare il primo, il più agghiacciante romanzo storico mai scritto, così pieno di echi miltonici ma anche anticipatore di accordi nuovi alla Pope e alla Melville, la prima cosa da fare è conoscere il contesto nel quale l’opera e la sua autrice si muovono. L’autrice di Frankenstein è figlia della femminista e intellettuale Mary Wollstonecraft, impegnata in prima linea della lotta per i diritti civili, e del filosofo e illuminista radicale William Godwin. «Segnata dalla morte della madre, grazie al padre Mary Shelley entra presto in contatto con una comunità di intellettuali, liberi pensatori, non conformisti per tradizione; una nuova generazione che si interroga sulla politica, sull’etica, sull’estetica, sul senso del bene, del bello, del piacere, e del dolore con la stessa partecipe emozione con cui appunto vivono, con curiosità trasgressiva. A tale scuola viene allevata Mary» racconta Nadia Fusini. Saranno proprio il suo anticonformismo, il suo non riconoscere le convenzioni sociali a farla perseverare nel suo amore per il già sposato poeta

l’attrice Margherita Saltamacchia.

Percy B. Shelley – «non era facile essere poeti allora c’era la ricchezza delle menti ma anche la miseria» – che ha avuto un ruolo importante nella creazione di Frankenstein quella notte a Villa Diodati. Fu in quella notte del 16 giugno del 1816 sulle rive del Lago Lemano che la visione della spaventosa creatura e il tentativo umano di imitare l’atto della creazione del mondo, tra veglia e sonno, si presenta all’autrice attraverso vividissime immagini. In chiusura Nadia Fusini evidenzia come la creatura e il mostro condividano la metafora ossessiva della nascita inscritta nella traumatica esperienza di Mary che sin da subito ha conosciuto la contiguità di vita e di morte: «dare la vita è anche dare la morte». Grande novità di quest’anno a PiazzaParola è stata la lettura scenica di venerdì sera, una performance emozionante che ha coniugato la lettura potente di Margherita Saltamacchia e la musica elettronica di Christian Zatta. Un connubio esplosivo che ha mostrato una grande intesa pur essendo una prima collaborazione assoluta. Lei è un’attrice nota nel panorama ticinese, spesso sul palco del Teatro Sociale di Bellinzona, lui un giovane chitarrista molto promettente che ha studiato e collaborato con alcuni dei migliori musicisti jazz della scena internazionale. «Al nostro primo incontro in luglio pensavo che avremmo bevuto un caffè e ci saremmo conosciuti, Christian invece si è presentato già con una partitura ben composta» dice Margherita

che non perde tempo a entrare nel vivo del progetto «il lavoro parte dalla prefazione che Mary Shelley scrisse nel 1831 per la terza edizione dell’opera. All’epoca aveva 40 anni e quello che aveva vissuto sino a quel momento era una cosa pazzesca: aveva perso due figli, un marito, aveva scritto e riscritto più volte Frankenstein e ora, in questo scritto, fa il bilancio della sua vita. Ed è incredibile quello che pensa di sé, dice “non ero mai l’eroina dei miei racconti. La mia vita mi sembrava una faccenda troppo banale”». E invece ci ha donato un grande capolavoro che sin da subito ha ispirato molto anche il giovane Christian: «mi è sembrato più facile comporre perché l’ispirazione era già lì, l’ho semplicemente tradotta in musica lasciandomi trascinare di pancia e scrivendo tre temi per le figure principali: Mary Shelley, la creatura e lo scienziato Viktor Frankenstein». A proposito di temi e di atmosfere il musicista ci dice che per Viktor «il tema principale è la tristezza, la malinconia e la solitudine». Nella sua musica c’è anche tanta improvvisazione, suoni vicini al jazz si mescolano ad altri vicini al rock e sono così in sintonia con la performance dell’attrice da dare l’idea che sul palco ci sia un altro attore. In questa meravigliosa lettura scenica dal titolo Frankenstein, ritratto d’autrice, un progetto nato per PiazzaParola e sostenuto dal Teatro Sociale di Bellinzona, la musica di Christian Zatta si fa personaggio mentre Margherita Saltamacchia è Mary Shelley attraverso i personaggi del romanzo.

Il dramma dello zoo di vetro Teatro Il testo di TennesseeWilliams in scena al LAC

per la regia di Leonardo Lisi il 4 e 5 novembre prossimi

Biglietti in palio «Azione» offre ai suoi lettori alcuni biglietti gratuiti per partecipare allo spettacolo Lo zoo di vetro nella serata di martedì 5 novembre (ore 20.30) al LAC di Lugano. Per partecipare seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!

spettatori. Sin dal loro debutto nel 1944, i protagonisti del dramma di Tennessee Williams sono diventati quasi proverbiali, e la loro storia ha stimolato la creatività di registi teatrali e cinematografici. Una nuova versione della pièce di cui sono protagonisti, Lo zoo di vetro, sarà proposta al LAC di Lugano il 4 e 5 novembre prossimi, ore 20.30, in un adattamento con la regia di Leonardo Lidi. Gli attori in scena saranno, in ordine alfabetico, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Mario Pirrello e Anahì Traversi. Leonardo Lidi si misura con questo importante classico teatrale dopo aver recitato in Santa Estasi di Antonio Latella, e dopo aver messo in scena Spettri di Ibsen alla Biennale Teatro.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Cultura e Spettacoli

Se la sinistra si sposta a destra, che fare? In scena Ritorno a Reims, il saggio di Eribon e lo spettacolo

di Ostermeier

Una moderna Commedia dell’Arte

Teatro Una piccola realtà dalla grande storia

fra ombre di crisi e successi

Giovanni Fattorini

Giorgio Thoeni

Quando il ventenne Didier Eribon lascia la nativa Reims per Parigi, lo fa non soltanto per proseguire gli studi di filosofia presso un’università – la Sorbona – più prestigiosa di quella della città in cui vive, ma anche, o forse soprattutto, per poter vivere liberamente la propria omosessualità, e allontanarsi da un ambiente sociale e familiare che gli è diventato insopportabile. In particolare, vuole prendere le distanze dal padre: un operaio di fede comunista, omofobo, «stupido e violento», per il quale nutre «odio e disgusto». Per quasi trent’anni, dopo la laurea, Eribon non fa più ritorno a Reims, mantenendo un legame «il più tenue possibile» con la sua famiglia: una cartolina in occasione di un viaggio all’estero, una o due telefonate alla madre ogni tre mesi. In quest’arco di tempo diventa un sociologo e un filosofo di fama internazionale, scrivendo libri in cui analizza i meccanismi della dominazione, le forme di inferiorizzazione e di assoggettamento. Un suo libro del 1999, Réflexions sur la question gay, è considerato un testo imprescindibile nell’ambito degli studi gay, lesbici e queer. L’abbandono della provincia, la vita nella metropoli, il distacco dall’ambiente operaio, lo studio assiduo e la carriera universitaria, la frequentazione di persone di estrazione sociale molto diversa dalla sua, ne hanno fatto «un transfuga di classe», che si vergogna delle proprie origini. Poco dopo la mezzanotte del 31 dicembre 2005 telefona alla madre per farle gli auguri, e viene a sapere che il padre è morto mezz’ora prima, nella clinica per malati di Alzheimer dove era ricoverato da tempo. Il giorno dopo il funerale (al quale non partecipa), Eribon si reca a Muizon, la borgata a venti minuti di macchina da Reims, dove i genitori hanno vissuto negli ultimi vent’anni. Rivede dopo tanto tempo la madre e parla a lungo con lei: del passato di entrambi, del padre, dei fratelli, di altri familiari. Tornato a Parigi, è sempre più ossessionato da una domanda: «Perché io che ho attribuito tanta importanza al sentimento della vergogna nei processi di assoggettamento e di soggettivazione, non [ho] scritto quasi nulla sulla vergogna sociale? […] La riformulo in questo modo: mi

Il Teatro Dimitri di Verscio pare stia vivendo una stagione difficile. Almeno stando alle voci che si sono rincorse recentemente. E pensare che proprio su queste pagine, neanche un anno e mezzo fa, salutavamo l’ingresso di David Dimitri alla direzione della programmazione. Non conosciamo ancora le ragioni dell’impasse, sta di fatto che alcune persone operanti nello staff sono state in breve tempo silurate dal direttore, che è anche presidente della Fondazione che gestisce il Teatro, il Museo del Clown e il ristorante. Il terrore corre sul filo, si direbbe, parafrasando il titolo di un celebre film degli anni Trenta alludendo alla specialità dell’artista centovallino famoso per il suo circo one-man-show e per la sua maestrìa funambolica. Ora però l’acrobazia più urgente è quella di riuscire a portare avanti il cartellone a fronte di problemi legati anche a una gestione che assomiglia sempre più a una saga familiare.

un momento dello spettacolo, proposto al Piccolo di Milano. (© Masiar Pasquali)

è stato più facile scrivere sulla vergogna sessuale che sulla vergogna sociale». Una domanda e una constatazione da cui sgorgano, pochi giorni dopo il colloquio con la madre, le prime pagine di Ritorno a Reims (Retour à Reims): un avvincente saggio (scritto nel 2008 e pubblicato nel 2009) in cui si intrecciano racconto autobiografico e lucide riflessioni sulle divisioni sociali e sulle ragioni per cui, a partire dagli anni Ottanta, la classe operaia francese che si sentiva rappresentata dal Partito comunista si è progressivamente spostata a destra, arrivando in parte a votare, come hanno fatto il padre e la madre dell’autore, il Fronte Nazionale. Intenzionato a trasporre sulla scena il saggio di Eribon, Thomas Ostermeier, regista e direttore della Schaubühne di Berlino, ha progettato uno spettacolo variabile nella lingua e nella parte centrale, a seconda della nazione europea dove viene proposto e nella quale si registra una crescita allarmante della destra populista. Dopo quelle di Manchester, Berlino e Parigi, ecco dunque la messinscena con attori italiani prodotta dal Piccolo Teatro di Milano e dalla Fondazione Romaeuropa. Le tre parti che compongono lo spettacolo (la drammaturgia è di Florian Borchmeyer) sono ambientate in uno studio di registrazione. Nella prima, sedendo davanti a un microfono, Sonia Bergamasco è la voce fuori campo di un documentario, proiettato su uno schermo sospeso al centro del-

la scena, che illustra con immagini in parte di repertorio alcuni momenti e luoghi della vita di Eribon (fra gli altri: il viaggio di ritorno a Reims; la partecipazione al programma televisivo Apostrophes; un frammento di colloquio con la madre, quella vera, pochi mesi prima della sua morte). Sonia Bergamasco legge alcune pagine di Ritorno a Reims, come farà anche nella terza parte, che vuole essere una riflessione più ampia sull’evoluzione della società francese degli ultimi decenni. La parte centrale dello spettacolo è un dialogo tra Sonia, il regista Rosario (Rosario Lisma) e il tecnico del suono afro-italiano Tommy (Tommy Kuti), che nella finzione e nella realtà è anche un rapper. I tre «chiedono a se stessi e si domandano l’un l’altro cosa stiano facendo concretamente», in quanto attori e artisti, «per arrestare la deriva a destra del proprio paese» (parole di Ostermeier). A fronte della qualità del testo di Eribon, la pochezza di questo dialogo (tutto scritto: non ci sono battute improvvisate) mi ha gettato in uno sconforto aggravato dal pensiero di un teatro dove è sempre più scarsa l’immaginazione e sempre più invadente il didattismo. Per concludere: leggete il saggio di Eribon. In traduzione italiana, l’ha pubblicato Bompiani nel 2017.

Piccoli capolavori da scoprire

Si dice che il Monte Ceneri sia la montagna più alta del mondo. Un paradosso che resiste se confrontato con lo scarso interesse dei sottocenerini nel valicare il passo per vedere gli spettacoli proposti a Verscio. Tranne rare eccezioni. Certo, lo spazio di quella scena è spesso occupato dal teatro di movimento, ma

ciò non significa che quel genere non riveli opere di pregio. Come la rivisitazione de Il Maestro e Margherita di Bulgakov proposto dalla Compagnia Bluff con in scena Heike Mählen, David Labanca, Fabrizio Pestilli (autore e regista) e le musiche di Antonio Ghezzani. La rilettura del classico russo offre ai tre attori una piattaforma che dà vita a 12 personaggi in una giostra di vorticosi cambi d’identità, movimenti acrobatici, dialoghi esilaranti e siparietti musicali. Una sorta di Commedia dell’Arte in versione moderna di grande efficacia nel rispetto del romanzo con al centro il diabolico Woland. Uno spettacolo che non lascia tregua e che trascina lunghi e meritati applausi ai tre esausti ed eccellenti interpreti. Vogliamo concludere con Champagne!, spettacolo nato come Variété, tradizionale esperienza corale creata ogni anno per gli studenti dell’Accademia. La regia della recente edizione è stata affidata a Marjolaine Minot, parigina, regista, attrice, autrice nonché lei stessa ex allieva brillantemente diplomatasi nel 2007. Sulla falsariga di una festa di fine anno, i facoltosi invitati danno vita a una grottesca satira sul lusso. Un gioiellino che mette a frutto la bravura di 14 interpreti, studenti del terzo e ultimo anno, per due ore di un’affiatata esibizione su musiche di Dario Miranda. Dopo il sold out di Verscio, Champagne! è approdato a San Pietroburgo, Reinach e Stoccarda.

Dove e quando

Milano, Piccolo Teatro Studio Melato, fino al 16 novembre.

Heike Mählen, David labanca e Fabrizio Pestilli in Il maestro e Margherita. Annuncio pubblicitario


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 28 ottobre 2019 • N. 44

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Cultura e Spettacoli

Il niente che ci rende umani

Poesia Piero Salabè ha dato alle stampe la sua prima raccolta lirica dal titolo Un bel niente

Tommaso Naccari

il bacio, gioia dei sensi e tema ricorrente in Salabè.(Keystone)

magnifica illusione, subito però fermata dalla fredda e dura cogitazione priva di retorica di Salabè, che non lascia scampo prima che a sé stesso, al lettore: «…// fuori gli errori schierati / in attesa- / le vite pronte a crollare, / i prevedibili destini, / l’odio sicuro // finché si baciano / di falso o vero amore / nulla ha presa //…». Tutti possiamo coltivare, constata il poeta, solo il margine dell’altro e la presa metaforica si innesca ancora una volta su qualcosa non di astratto ma di fisico, il dito, sentito come propaggine estrema e finestra della storia di ogni identità; ecco in quella regione dell’altro sembriamo sostare e cercare con ostinazione, lo spazio di una minima comunione: «…// soggiorno felice nel / tuo margine, nella tua / unghia // il tuo resto è così lontano / luminoso / arcano //…». E certo, l’altro tema molto cercato ma in stretto rapporto con questo della distanza tra i viventi, è quello del rapporto tra parola e poesia, che qui si carica di nuovi significati, quando lo scrittore proprio riprendendo le regioni della pelle, dà alla parola l’immagine come di

una cuticola che a grattarla non si arriva alla poesia, che invece risiede in uno stato del succedere continuo, dove l’uomo vorrebbe arrivare con gli strumenti però perituri e spuntati della linguistica. Bacio e lingua, ribadisce Salabè, sono illusioni dell’uomo, costruzioni che con lui finiranno e comunque le parole che dicono, molte volte allontanano davvero dalla verità quasi sviandoci con le loro belle etichette di significato: «non la parola / fine // è la fine // e men che mai / la vera fine, il muto / scordare // ma lì nel letto bianco / da fare e rifare // nel fiore in fiore //…». Anche se di loro si ribadisce, non si può fare a meno; sono il nostro supporto, la nostra costruzione mentale, le stampelle senza le quali non avremmo camminato neppure quel poco. E allora ecco lo sforzo impossibile, che si rafforza nel libro: ricucirsi in poche vere parole e allontanarsi almeno dalle tante inutili, che passato il genio di Montale, citato in verso, si rivestono di facile inutile parlato. E forse con l’inconoscibile vita ricoperta di veli, va a braccetto anche la poesia scritta in inglese The Unknown Poet (Il poe-

ta sconosciuto), con l’archeologia del suo spirito sepolta tra le carte riposte nei cassetti, custodi di un sogno svolto in versi ma solo sogno appunto, come tutti i vaneggiamenti antropocentrici dell’uomo. Quella di Salabè, in questo libro che Magris acutamente definisce in bandella traversato da «…metafore di una originalità sorgiva…» è una riflessione a tutto tondo sull’uomo, sul suo cammino in solitaria e senza sponde, che i più rifiutano di pensare perché troppo abissale per potervi costruire la pur breve progettualità umana. E l’ultima breve poesia, con i suoi molteplici rimandi, prende atto proprio della voragine ontologica in cui l’uomo si trova da sempre e per paradosso forse incita a vivere profondamente l’unico spazio che gli è dato, quasi sciolto dalla costruzione temporale, l’attimo: «le parole / sono poco / più del nulla // ma anche il nulla / ricorda / è cosa fasulla». Bibliografia

Piero Salabè, Il bel niente, La Nave di Teseo, Milano, 2019.

Per sempre bambine

Editoria Nel suo primo libro la ex Non è la Rai Miriana Trevisan

racconta il destino di molte ragazze che tentano la via del successo

Laura Marzi La donna bonsai è un titolo evocativo, racconta la perfezione costretta, tutta a vantaggio di chi guarda: il bonsai non ha la dignità dell’albero, la sua potenza, sembra più un soprammobile. Si chiama così il romanzo di Miriana Trevisan, volto noto della TV di vent’anni fa, di quel programma di cui si è detto e scritto molto: Non è la Rai. Il testo arriva dopo la partecipazione attiva e coraggiosa di Trevisan al #MeToo, che le è costata una denuncia per diffamazione accolta dal giudice per le indagini preliminari che l’ha rinviata a giudizio. Leggendo i primi capitoli si deduce che la scelta della soubrette di scrivere sia stata dettata dal bisogno di testimoniare la propria innocenza alla pagina bianca, che non ha pregiudizi. L’innocenza della ragazzina che inconsapevolmente entrò in quel circo che nel romanzo non si chiama Non è la Rai, ma L’America. Nei primi capitoli, infatti, la protagonista Virginia è davvero una ragazza acqua e sapone come chi di noi guardava il programma – ed eravamo in tanti – ricorda Miriana. E poi mora. Ci sono riferimenti, infatti, alle sfide tra ragazze bionde e brune così importanti non solo per quel programma, ma più in generale per la televisione italiana: basti pensare a tante edizioni di Sanremo. Date le somiglianze, quindi, tra Virginia e l’autrice e dando per scontato il carattere autobiografico del testo, dopo qualche pagina ci si

Questo nuovo sound Il bello

dell’instant album

Guido Monti Piero Salabè, germanista e ispanista, traduttore e già collaboratore tra gli altri del settimanale «Die Zeit» esce col suo primo libro di poesia dal titolo Il bel niente, prefato da Claudio Magris e già alla prima lettura, un’inquietudine profonda dilaga tra le pagine; difatti il verso spezzato e spaziato di Salabè, con le sue parole aguzze, scocca frecce acuminate che incrinano quella patina di luoghi comuni che l’uomo da sempre poggia su tanta parte della sua esistenza. Ecco quindi una fitta serie di poesie proprio sulla questione amorosa e più precipuamente su quel momento che la fa scoccare: il bacio. Ma qui il poeta apre un mondo, che non pertiene solo alla questione relazionale tout court ma a quella molto più ampia del senso, se senso può averne, dell’esistenza: «bucano il tempo / i baci / respirano attraverso / la cucitura // sapore d’eterno / in terra nemica / nel tempo piccolo / quello grande / scompare //...». È ricca la significazione metaforica che si dispiega in molte poesie e ci accorgiamo come alla prima lettura, l’apertura di significato sia appena iniziata e solo dopo un secondo passaggio, ecco parlare i doppi fondi, le istanze plurime, che ogni parola ha in sé e nella relazione con l’altra. E proprio il bacio, che potremmo pensare appartenere al tempo della luce e comunque a uno stato di grazia, si trasforma per converso, col suo pertugio d’accesso, la bocca, nell’antro ammaliatore della sibilla dal quale si è irrimediabilmente attratti. E lo sfiorarsi del labbro appunto, non è il bel toccarsi d’anime novelle ma solo gioia dei sensi; è come giocare in due sull’uscio comune di un bel giardino sconfinato, nel quale mai però si arriverà e tanto profonda è l’alterità degli amanti che mai l’uno riuscirà a sentire la consonanza degli armonici dell’altro. Ci si illude e il bacio è la porta di una

Hube, Ford e Lucci e il vero rap

domanda perché Trevisan abbia scelto di creare l’alter ego di Virginia, invece di raccontare in prima persona, di assumere il corpo della sua protagonista. La risposta è inaspettata. La storia di Virginia che assomigliava tanto a Miriana si conclude dopo qualche capitolo, lasciando spazio a una certa Anastasia. Il suo vero nome è Maria, proviene da un paesino di provincia del sud Italia e vuole riscattare la povertà in cui vive con la madre e il fratello, a seguito dell’abbandono del padre. È anche lei innocente, quindi, ma in modo del tutto diverso da Virginia, che non si è mai compromessa. Anastasia accetta le regole del gioco, di «stringere relazioni», comincia da un’orgia e continua sulla via della prostituzione e della tossicodipendenza in cambio di abiti, droga e denaro. Poi il racconto prosegue con Sonia, giornalista, donna di talento e potere, entrambi vanificati da una relazione matrimoniale con un uomo orrendo: un carnefice. E infine Beatrice, che pur lavorando in un ambito dello spettacolo molto diverso dalla televisione, ha pagato – e tanto – le conseguenze della violenza maschile sulla sua carriera. Al lettore a cui Trevisan si rivolge nei ringraziamenti questo collage di storie inaspettate fa sicuramente l’effetto dello spaesamento. Si capisce alla fine che l’autrice desiderava rappresentare le vittime come monadi, per raccontare che l’isolamento, la famigerata mancanza di solidarietà fra donne, è una condizione fondamentale per il perpe-

tuarsi di violenza e ingiustizia. Si resta in ogni caso interdetti. Il libro è interamente costruito sull’innocenza delle vittime, che hanno un profilo solo tratteggiato, non sono personaggi, ma pezzi di un puzzle volto a rappresentare il mostro. Sia l’innocenza, però, che la condizione di vittima, sono due aspetti che il pensiero critico femminista ha cercato di scardinare, non già per dare colpe alle donne, ma per liberarle da uno schema di passività. Lo spaesamento non nasce però da questo apparente conflitto tra Trevisan e il femminismo, ma dal fatto che il #MeToo è stata la denuncia contro un potere così gretto e bestiale che rende davvero le donne vittime innocenti. Anche per questo il movimento ha generato un corto circuito così potente: ragazze che decidono di lavorare con la propria immagine – attrici, ballerine o soubrette che siano – rivendicano un’innocenza che nel patriarcato è riservata alle donne che ignorano il proprio corpo, almeno fino a quando esso non partecipa della procreazione. Sembra impossibile che sia ancora così, eppure l’opinione dilagante rispetto al #MeToo è stata che quelle donne se la andavano a cercare, avevano una colpa: voler lavorare usando il corpo, sfruttandone bellezza e sensualità. In questi mesi la Harvard Business Review ha pubblicato la ricerca condotta da un gruppo di studio dell’università di Houston, guidato dalla docente

Leanne Atwater, che a partire da questionari somministrati a centinaia di uomini e donne tra il 2018 e il 2019 ha portato a conclusioni inquietanti. I risultati di questi test mostrerebbero che a seguito del #MeToo sia le donne che gli uomini sono più restii ad assumere ragazze attraenti e il 27% degli intervistati ammette di evitare adesso incontri e riunioni con colleghe, o viaggi di lavoro. Il bonsai è l’emblema del ridimensionamento. Nel testo di Miriana Trevisan il titolo racconta bene degli imperativi categorici ancora in vigore: se vuoi essere bella devi restare piccola, se vuoi essere innocente non devi essere visibile. In questo periodo, però, fortunatamente sta avendo seguito il progetto Plant-for-the-Planet: sarebbe bello se le battaglie contro la violenza sulle donne avessero lo stesso successo, se assomigliassero a longeve, magnifiche querce.

Da anni si sente dire che il vero rap non esiste più. Che autotune e 808 ormai hanno demolito tutto quanto, che ormai tutto prenderà una deriva che porterà sempre più ad avere una miriade di Nuela – il rapper di carote che per un breve periodo ha spopolato all’edizione di quest’anno di X Factor – e sempre meno rap come lo abbiamo conosciuto fino a una decina di anni fa in Italia. Beh, se qualcuno dovesse davvero dirvi una cosa del genere, ricordatevi di dirgli che è una castroneria: il rap vero esiste ancora, se lo sai cercare. Nelle ultime settimane nelle mie cuffie ha girato in loop un bel disco rap: UNABOMBER. Di Hube, Ford e Lucci. UNABOMBER è un instant album, come in Italia accade sempre troppo poco, mentre dischi del genere sono quasi all’ordine del giorno in America. Ed è un album bellissimo perché, oltre che contenere rime, incastri e contenuti, è un disco che sa essere politico senza rompere i co... o risultare paraculo – un po’ come fece Coez con Costole Rotte e non è un caso che l’estrazione sia la stessa, questo disco tanto quanto quello dell’autore di Non Erano Fiori è infatti figlio dei Brokenspeakers, un gruppo che ha fatto la storia del rap romano – è un album che sa non prendersi troppo sul serio, pur essendo decisamente serio. Ci sono termini, come knowledge o incastri, che subito fanno pensare alla noia all’ascoltatore medio del rap del 2019, ma UNABOMBER e la noia non sanno neanche di esistere nello stesso mondo. È un instant album anche nella durata, all’incirca una mezz’ora di ascolto, realizzato da Lucci e da Hube – che ha una storia pazzesca anche a livello di writing romano, come chi ha comprato la deluxe edition di La Musica Non C’è saprà, visto che il booklet conteneva un racconto molto forte del rapper. Se non bastasse la storia di UNABOMBER è anche una delle storie più interessanti di tutto quel mondo tristemente affascinante dei folli che compiono gesti da folli, quindi l’ascolto di un buon disco rap, oltre che gasarvi con le rime, potrebbe anche portarvi a guardare serie o documentari su una pagina di storia americana che ha un forte riflesso sulla storia italiana, avendone una sua versione. Nonostante chi scrive sia il fan numero uno di 808 e autotune, nonostante nel 2009 Jay-Z si augurasse la morte di chiunque suonasse come una suoneria del cellulare, un disco del genere è necessario, per rimettere le cose al proprio posto, farci dire «sì, tutto bello, ma…». Purtroppo c’è l’idea che certe sonorità siano da chiusura mentale, ma il risultato unico è che la chiusura mentale sia sbilanciata dal lato opposto. Il bello di questo genere è che avrà sempre qualcosa da dire e sempre potrà stupirci. UNABOMBER ci stupisce, eccome.

Bibliografia

Miriana Trevisan, La donna bonsai, Milano, Baldini&Castoldi, 2019.

uNaboMber di Hube, Ford78 e lucci: da ascoltare.


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