Azione 44 del 28 ottobre 2024

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Di quanto può scendere la Migros?

Tanto quanto i discount.

Frutta e verdura a prezzo basso permanente.

edizione 44

MONDO MIGROS

Pagine 4 / 6 – 7

SOCIETÀ Pagina 5

L’insoddisfazione è un sentimento che mina il nostro benessere, ma a volte non è negativo

La storia non sempre idilliaca delle «Repubbliche sorelle», ovvero Svizzera e Stati Uniti

ATTUALITÀ Pagina 15

L’uomo raccontato: una serie di podcast si china sul ruolo del maschio nella società di oggi

CULTURA Pagina 21

Nell’oltremundo messicano

Leo McCrea racconta la passione per il nuoto e la gioia provata sul podio delle Paralimpiadi

TEMPO LIBERO Pagina 33

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Il «fuoco amico» nella Chiesa cattolica

Piccole tempeste si abbattono sulla Chiesa cattolica. Il Papa è preso di mira per le sue chiusure al diaconato femminile e le bordate contro l’aborto e chi lo pratica. Il vescovo di Lugano è caduto in una strana spirale mediatica che lo contesta nascondendosi.

Di Papa Francesco si è già detto tutto: è carismatico, simpatico, vicino alla gente e al contempo di grande intelletto, attento alle vittime di conflitti ed emarginazioni, migranti in primis. Cantore solitario della pace contro le dominanti sinfonie guerresche, è forse il Papa più politico degli ultimi decenni: un leader mondiale assoluto della solidarietà. Progressista sul piano sociale, resta rigidamente conservatore su quello della dottrina cattolica. Lo si può adorare per alcuni aspetti e contestare per molti altri, ma esercita il proprio magistero in modo credibile, al di là delle manifestazioni di insofferenza nei suoi confronti, che nascono soprattutto in

ambienti ostili cattolici, tra correnti opposte e sempre agguerrite per ottenere una fetta di potere ecclesiale.

Anche il vescovo di Lugano Alain de Raemy è vittima di fuoco amico. Difficile spiegare diversamente le oscure contestazioni che lo hanno investito. Affabile e disposto al dialogo, porta in sé il «peccato originale» di non essere ticinese, «colpa» che alcuni non gli perdonano. Non è una semplice questione di «primanostrismo» cattolico (che non avrebbe senso in una religione votata all’accoglienza di chiunque), c’è di mezzo una norma ecclesiale che impone per Lugano la scelta di un vescovo ressortissant tessinois che potremmo tradurre come originario del Ticino. Il suo è perciò un mandato ad interim, finché il nunzio apostolico non scioglierà questo nodo giuridico. Ma, nel frattempo, il suo ministero è più che legittimo e la sua disposizione d’animo è apparsa inizialmente preziosa in una realtà ecclesia-

le divisa tra movimentisti e non movimentisti. Anche lui, però, ha dovuto affrontare la magagna oggi più pesante per la Chiesa cattolica: un paio di casi di pedofilia nel clero a lui sottoposto (uno in Romandia e uno in Ticino). Le chiese svizzere hanno esaminato il suo operato senza ravvisarvi colpevolezze. Tuttavia, molti gli rimproverano di aver lasciato esercitare per mesi il proprio ministero a un prete di cui già sapeva che era sospettato di abusi prima dell’arresto. Alain de Raemy ha però spiegato di avere più volte discusso di questo problema con la Magistratura a cui aveva segnalato il caso. Ma non ha potuto rimuovere il sospettato dal suo incarico né cambiare i suoi programmi per non metterlo in allerta, col pericolo che inquinasse le prove e vanificasse le indagini.

Il peggio è stata una lettera anonima contro di lui in cui si parlava di un’atmosfera di «terrore e corruzione», e si sosteneva che le decisioni su

nomine, trasferimenti e gestione interna sarebbero state in mano a una «cricca ristretta che si muove in modo arbitrario e poco chiaro». «Sento di rappresentare una cinquantina tra preti e laici della Diocesi», spiegava l’ignoto estensore della missiva. Ora, una lettera anonima può contenere verità e/o menzogne, ma resta un documento non verificabile e perciò andrebbe semplicemente cestinata. Soprattutto se pretende di rappresentare decine di persone: un’autocertificazione troppo comoda e sospetta. Cinquanta preti e laici in Diocesi che ce l’hanno col proprio vescovo? Perché non si fanno serenamente avanti a volto scoperto? Un ultimo dettaglio sconcertante è che a dare visibilità a questo metodo di delegittimazione ci si sono messi dei media laici e indipendenti, che normalmente una lettera del genere la affiderebbero al tritadocumenti. La Chiesa cattolica non ne esce bene, ma neppure quei media ci fanno una bella figura.

Enrico Martino Pagina
Enrico Martino
Carlo Silini

«Non dovrebbe più esserci motivo per scegliere i discount»

Info Migros ◆ Migros sta adeguando i prezzi a quelli dei discount. Da oggi frutta e verdura sono più convenienti; l’anno prossimo seguiranno più di 1000 prodotti convenience. Peter Diethelm, direttore di Migros Supermercati SA, illustra i suoi piani

Migros abbassa i prezzi. Perché? Molte persone in Svizzera devono lottare contro l’aumento del costo della vita. I costi di cassa malati, energia, alloggio e molto altro stanno mettendo a dura prova il budget e sono in cima alle preoccupazioni dichiarate della popolazione. Da sempre Migros mira a offrire il miglior rapporto qualità-prezzo. Il nostro impegno per migliorare i prezzi e i servizi per la nostra clientela è costante. Ora però vogliamo compiere un ulteriore passo avanti.

Cioè?

Dal 28 ottobre abbiamo iniziato ad abbassare molti prezzi nel settore della frutta e verdura, allineandoli a quelli dei discount. Attualmente sono più di sessanta i prodotti a prezzo basso, a dipendenza delle dimensioni delle filiali. Ne seguiranno più di un centinaio. Ancora quest’anno inizieremo anche a ridurre i prezzi di molti prodotti di carne, pesce, pane e articoli convenience. Questa misura riguarda la maggior parte dei prodotti di uso quotidiano. L’anno prossimo offriremo oltre mille prodotti a prezzo basso.

Al momento si tratta di 60 prodotti. La clientela se ne accorgerà?

Ciò che conta per ogni cliente è l’effetto sul proprio carrello della spesa. Per questo motivo riduciamo il prezzo di prodotti d’uso quotidiano come

cetrioli, insalata, pomodori, carote, patate, mele, pere, limoni e molto altro. Il ribasso di prezzo riguarda frutta e verdura di ogni categoria di prezzo, da M-Budget a Bio. Il nostro obiettivo è chiaro: tutti devono trarne vantaggio e non dovrebbe più esserci motivo per scegliere i discount, soprattutto perché non proponiamo solo prezzi concorrenziali, ma anche un assortimento molto più ricco di prodotti e servizi e siamo raggiungibili grazie a molti più punti vendita.

Perché non ribassare tutti i prodotti contemporaneamente?

Nel settore della frutta e della verdura vi sono grandi differenze stagionali e l’assortimento non è sempre disponibile per intero. Ad esempio, i mandarini si vendono solo in inverno, e le pesche noci solo in estate. Nel corso del prossimo anno potremo così ribassare il prezzo di sempre nuovi prodotti.

Come si riconoscono i prezzi bassi nelle filiali?

Nelle filiali i prodotti con prezzi allineati ai discount sono evidenziati in modo chiaro con la scritta «Prezzo basso». Dalla fine di ottobre informeremo regolarmente la clientela riguardo ai ribassi di prezzo attraverso diversi canali, ad esempio su «Azione», su migros.ch e nell’app.

Cosa succede se all’improvviso que-

sti prodotti diventano più economici nei discount?

Se il discount abbassa i prezzi in modo permanente, ridurremo anche noi i prezzi dei prodotti contrassegnati con il prezzo basso. Per semplificare, rinunciamo però a prezzi non arrotondati come Fr. 1.99, proponendo gli articoli in questione a Fr. 2. Grazie alla carta Cumulus e alla distribuzione dei buoni Cumulus, il prezzo finale risulterà comunque inferiore a Fr. 1.99.

Migros sta diventando un discount? No! Migros è e rimane un dettagliante con un assortimento completo e molte marche proprie uniche, nonché con il più grande assortimento regionale del Paese – in Ticino con il marchio «I Nostrani del Ticino» – e una vasta scelta di prodotti freschi. Inoltre in molte filiali la nostra clientela viene servita al banco di carne, pesce e formaggio da collaboratori altamente qualificati e motivati. Nei panifici della casa esperti del ramo producono ogni giorno pane fresco mettendoci tanta passione. Grazie alla linea M-Budget proponiamo da tempo un assortimento completo di prodotti a prezzo basso. Per prima cosa, integreremo ora questa categoria di prezzo con prodotti del settore frutta e verdura. Così alla Migros sarà sempre possibile trovare la scelta migliore e nel contempo molti articoli a prezzo basso.

Questi ribassi di prezzo sono una reazione alla concorrenza?

La missione principale di Migros è sempre stata quella di proporre i migliori prodotti al miglior prezzo, indipendentemente da ciò che fa la concorrenza. Continueremo a sostenere questo obiettivo senza riserve.

Gli agricoltori saranno quindi pagati meno per i loro prodotti?

No, i ribassi di prezzo sono resi possibili da un incremento dell’efficienza all’interno di Migros. Come ho spiegato quando Migros Supermercati SA è stata avviata, questo è uno dei criteri con cui misuriamo il nostro lavoro: Migros deve snellire la sua attività di supermercato e ciò deve essere percepito dalla clientela sotto forma di servizi migliori e prezzi più bassi. Indipendentemente da questi ribassi

di prezzo, continueremo a negoziare i nostri prezzi, con fermezza, ma sempre in modo equo.

E ora cosa accadrà?

Abbiamo già iniziato ad applicare i ribassi di prezzo per frutta e verdura e ancora quest’anno seguiranno altri assortimenti. A medio e lungo termine prevediamo anche di migliorare sensibilmente l’esperienza di acquisto della nostra clientela. Entro il 2030 investiremo quindi ulteriori 500 milioni nel ribasso dei prezzi e due miliardi di franchi nella nostra rete di filiali.

In concreto cosa significa?

Stiamo aprendo 140 nuove filiali in tutta la Svizzera, di cui potranno beneficiare in modo diretto 200’000 economie domestiche: Migros sarà così il supermercato a loro più vicino. Molte di queste nuove filiali avranno una superficie più ridotta, ma saranno in grado di offrire comunque un vasto assortimento di prodotti freschi e regionali.

Sono previsti anche investimenti nelle filiali già esistenti? Sì, entro il 2030 provvederemo a rinnovare 350 filiali Migros già esistenti in tutta la Svizzera, modernizzandole completamente. La nostra clientela potrà così vivere un’esperienza di acquisto unica, con il miglior rapporto qualità-prezzo.

2,5 miliardi di franchi per prezzi più bassi e nuove filiali

Info Migros ◆ Migros riduce i prezzi di oltre 1000 prodotti d’uso quotidiano, rafforza le marche proprie e apre 140 nuovi supermercati

Christian Dorer

Migros sta vivendo la più grande trasformazione degli ultimi decenni. L’impresa vende i negozi in perdita e ormai inadatti al fine di tornare a concentrarsi sui supermercati, rimanendo così fedele ai principi del fondatore di Migros Gottlieb Duttweiler: Migros offre prodotti di alta qualità a prezzi interessanti. Per questo motivo il 1° gennaio 2024 è stata fondata la società Migros Supermercati SA. La nuova strategia si sta concretizzando, con vantaggi tangibili per la clientela. «La trasformazione del Gruppo Migros è in corso. Ora la nostra clientela può raccogliere i primi frutti», afferma Ursula Nold, Presidente

Di Guido Rast*

In media, ogni abitante della Svizzera dista poco meno di otto chilometri dal supermercato Migros più vicino. Questo dato è stato calcolato recentemente da uno scienziato del Politecnico di Losanna. Un gioco di numeri, verrebbe da dire, ma che dimostra quanto la nostra rete di quasi 700 negozi raggiunga la popolazione. Ed è un dato destinato a migliorare ulteriormente, poiché Migros ha deciso di aprire 140 nuovi negozi nei prossimi cinque anni. Ma la sola vicinanza geografica non basta; Migros deve anche essere vicina alle esigenze della popolazione. Una delle maggiori preoccupazioni è l’au -

dell’Amministrazione della Federazione delle cooperative Migros FMC. «Alla Migros la gente continuerà ad avere di più per i propri soldi anche in futuro», ha spiegato ai media durante un incontro locale a Zurigo.

1. Prezzi bassi per più di 1000 prodotti d’uso quotidiano

Quest’anno e il prossimo Migros intende ribassare in tutta la Svizzera i prezzi di oltre 1000 prodotti d’uso quotidiano particolarmente popolari, allineandoli a quelli dei discount. Si comincia oggi, lunedì, con 60

mento del costo della vita, e per questo stiamo abbassando i prezzi con effetto immediato. Si inizia con la frutta e la verdura, nel 2025 seguiranno altri assortimenti di prodotti. Potete leggere i dettagli nell’intervista con Peter Diethelm, Direttore di Migros Supermercati SA. Migros è sempre più vicina e più economica, pur rimanendo fedele a sé stessa e ai suoi clienti: stiamo rafforzando anche i nostri marchi più popolari e gli assortimenti regionali. Prestazioni elevate a un prezzo contenuto.

* Presidente Cda Migros Supermercati SA e direttore della Cooperativa Migros Lucerna.

prodotti dall’assortimento di frutta e verdura. Saranno disponibili da subito a prezzo basso ed evidenziati nelle filiali con un adesivo giallo. A questi si aggiungono azioni allettanti sui prodotti più richiesti. Entrambe le misure contribuiscono a rendere sensibilmente più economico il carrello della spesa alla Migros. Nei prossimi cinque anni Migros investirà 500 milioni di franchi unicamente per abbassare i prezzi. Mario Irminger, Presidente della Direzione generale FMC, spiega come ciò sia possibile: «Anzitutto, separandoci dalle attività in perdita abbiamo ricavato dei mezzi che andranno a vantaggio della clientela dei supermercati. In secondo luogo, accettiamo consapevolmente di guadagnare meno a livello di Gruppo; come cooperativa, Migros non mira a massimizzare il profitto. Terzo, sfruttiamo i vantaggi in termini di efficienza e di costi derivanti da una più stretta collaborazione di tutto il Gruppo Migros». I ribassi dei prezzi non andranno esplicitamente a scapito degli agricoltori e dei produttori.

2. Più marche proprie con un ottimo rapporto qualità-prezzo Migros vanta con orgoglio oltre 200 marche proprie. Sono amate, a volte addirittura cult, e fanno parte del DNA di Migros. In futuro esse riacquisteranno maggior peso e occuperanno una posizione più importante

nelle filiali. «Aumenteremo la percentuale di prodotti di marche proprie nelle filiali Migros e investiremo in modo mirato sui loro prezzi e sulla qualità», afferma Guido Rast, Presidente del Consiglio di Amministrazione di Migros Supermercati SA.

3. Più prodotti freschi e regionali

Migros ottimizza la sua catena di prodotti freschi, dal produttore alla filiale. La clientela può così contare sempre su frutta, verdura e pane della migliore qualità, dall’apertura fino alla chiusura del negozio. Migros non è forte solo nei prodotti freschi, ma vanta la più stretta rete con i produttori regionali e promuove questi partenariati. «In futuro la clientela otterrà di più per il proprio denaro, non solo in termini di quantità nel carrello della spesa, ma anche di qualità», afferma Peter

Diethelm, CEO di Migros Supermercati SA.

4. Migros apre 140 nuove filiali

Nei prossimi cinque anni Migros investirà complessivamente due miliardi di franchi in nuove filiali più moderne. È prevista l’apertura di 140 nuovi punti vendita, per lo più piccole filiali M, in aree dove la popolazione è in rapida crescita. Ciò significa che Migros sarà il supermercato più vicino per altre 200’000 economie domestiche. Entro il 2030 la rete di filiali Migros, comprese le filiali VOI e quelle dei partner Migros, passerà dalle quasi 790 unità di oggi a circa 930.

5. Migros modernizza 350 filiali

Entro il 2030 Migros rinnoverà e amplierà in parte 350 supermercati. Questi avranno così un aspetto più fresco e uno store concept più moderno al fine di migliorare l’esperienza di acquisto della clientela.

Grazie a tutte queste iniziative Migros potrà modernizzare e semplificare il proprio core business all’interno della struttura cooperativa. Migros è e rimane in ottima salute finanziaria. Nel 2025 Migros festeggerà 100 anni e contribuirà in forma più moderna e fresca che mai a garantire la qualità di vita della sua clientela e della società.

Peter Diethelm, direttore della Migros Supermercati SA. (Mirco Ries)
Cara lettrice, caro lettore

SOCIETÀ

In auto, attenti agli animali selvatici

Le giornate si accorciano e gli animali selvatici possono uscire allo scoperto durante le ore di traffico intenso: preveniamo gli incidenti

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Insetti fossili, l’unicità del San Giorgio Recenti scavi hanno portato alla scoperta di uno straordinario giacimento, tra gli esemplari si trovano anche specie finora sconosciute

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Il caffè dei genitori

Allo psicopedagogista Stefano Rossi abbiamo chiesto alcuni consigli su come accompagnare i figli nel labirinto dell’adolescenza

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L’insoddisfazione che ci spinge al progresso

Scienza e psicologia ◆ La spiacevole sensazione che tutti hanno di non essere o non aver fatto abbastanza non sempre è negativa

Che si sia una persona che cerca di dare il meglio in tutto ciò che fa, oppure una che si impegna a lavorare su sé stessa con l’intento di raggiungere maggiori equilibrio e consapevolezza, capita di sentire dentro di sé quella spiacevole sensazione di non essere o non aver fatto abbastanza. Questo perché in tutti noi esiste una predisposizione all’insoddisfazione, che non è una questione connessa al presente, ma attraversa piuttosto l’intera vicenda umana. Un tema – quello della tensione verso «qualcosa in più» – a cui il genetista Edoardo Boncinelli e il filosofo Marco Furio Ferrario hanno dedicato un interessante saggio, L’animale inquieto, uscito quest’anno per i tipi de Il Saggiatore. Diversamente dalla comune percezione, secondo cui prevale una connotazione negativa, alla scontentezza la scienza attribuisce più merito che demerito, considerandola una spinta, innata ed ancestrale, che ha mosso l’umanità verso progresso e cambiamento e questo a partire da quando la nostra specie si è dovuta ritagliare il proprio posto sul pianeta fino alle conquiste dei tempi più recenti.

La scienza considera la scontentezza come uno stimolo a superare i propri limiti, la psicologia si occupa invece del possibile impatto negativo sul benessere e sull’autostima

Nonostante questa visione diciamo «più ampia», nella quotidianità l’insoddisfazione – che possiamo provare rispetto a diversi aspetti della vita, quali la professione, le relazioni, la salute, il nostro stesso modo di essere in un dato momento – porta a sentirsi scontenti, impotenti, delusi e frustrati e viene pertanto vissuta come qualcosa, che, di fatto, può avere un impatto negativo sul proprio benessere. Si tratta di un sentimento complesso, che ognuno vive e percepisce in modo diverso. «L’insoddisfazione di sé e di ciò che si ha o si fa può dipendere da fattori individuali come la personalità, l’autostima, l’esperienza infantile, ma anche da fattori ambientali come il contesto socio-culturale e le relazioni interpersonali – spiega la psicologa e psicoterapeuta Vanessa Romelli –essa può essere inoltre vista come una discrepanza tra l’esperienza attuale e l’immagine ideale di sé o dell’ambiente, che l’individuo ha costruito attraverso le proprie esperienze e relazioni interpersonali».

Per quel che riguarda le influenze date dal contesto, i social media, mostrando una rappresentazione ideale della vita altrui, contribuiscono a creare aspettative irrealistiche e favorire la comparazione sociale che possono

a loro volta alimentare l’insoddisfazione personale. «Con le tecnologie di cui disponiamo, siamo bombardati di informazioni, cui possiamo accedere in modo estremamente semplice, il che rende molto facile il confronto. Spesso però senza filtri né profili “costruiti” per forza di cose ne usciamo “perdenti”: ci sarà sempre qualcuno più di successo, più bello, più ricco,… rendendoci molto difficile il compito di apprezzare il giusto valore di quello che abbiamo e spingendoci a volere altro o di più, anche se talvolta quell`“altro” non è realistico o realizzabile – commenta Romelli, che è pure sessuologa clinica e terapeuta EMDR – inoltre i social network possono portare ad una dipendenza da like e dal giudizio degli altri, amplificando l’importanza data all’opinione altrui sulla propria vita. I valori imposti dalla cultura possono quindi influenzare il modo in cui l’individuo si orienta nei confronti della vita e della propria identità, portandolo così ad aspirazioni e decisioni dettate da altri o dai social, talvolta in linea con i propri desideri e le proprie necessità, talvolta invece portandolo a costruirsi una re-

altà ed un sé non coerente con i propri valori e obiettivi personali». La comparazione continua con gli altri che, ci dice Vanessa Romelli, risponde di per sé ad un bisogno di appartenenza e accettazione, è ulteriormente sollecitata dal fatto di vivere in una società della prestazione, nella quale l’insoddisfazione può essere pure amplificata dalla pressione sociale di raggiungere risultati sempre migliori.

Ma, per fortuna, la sensazione di «non essere mai abbastanza» di cui stiamo parlando, può essere – come dicevamo – pure una spinta motivazionale per cercare di migliorarsi e superare i propri limiti, riguardo alla quale ne L’animale inquieto si legge: «Gli esseri umani non chiedono tanto, chiedono di più. In quel “di più” si annida la ragione profonda della tipica inquietudine umana, alla perenne ricerca di qualcosa di ulteriore». «Importante è imparare a gestire questa inquietudine per evitare di cadere in un circolo di insoddisfazione costante e promuovere la serenità, un certo equilibrio e un certo sentimento di benessere – commenta la psicote-

rapeuta – personalmente, direi che è bene avere sempre dei piccoli e grandi obiettivi nella propria vita per evitare di “rimanere sul posto” ed è altrettanto importante saper riconoscere il raggiungimento degli stessi e saper godere del presente e di ciò che si è e si ha». Per sfruttare le potenzialità insite nel senso di insoddisfazione e fare in modo che, invece di essere motivo di sfiducia e infelicità, esso diventi una risorsa, è inoltre fondamentale essere il più consapevoli possibile ed accettare se stessi e le proprie imperfezioni. «Bisogna evitare l’auto-critica eccessiva e ossessiva ed utilizzare gli spunti utili per una crescita verso il miglioramento, il tutto sempre nell’accettazione e nel rispetto di sé», afferma Vanessa Romelli. Per fare ciò, può rivelarsi utile il sostegno di una persona esterna che permetta di mettere in prospettiva le cose. «Se si decide di rivolgersi a un professionista, in un approccio costruttivista come il mio, lo psicoterapeuta può essere d’aiuto nell’identificare le aspettative e gli schemi di pensiero che possono aver contribuito all’insoddisfazione e nel trovare modi più adattivi per affron-

tare la situazione – continua l’esperta – per esempio, invece di colpevolizzarsi o giudicarsi per i propri difetti e le proprie lacune, il paziente può imparare a riconoscerli come parte della sua esperienza e a concentrarsi sugli aspetti positivi della sua vita e della sua personalità. Inoltre, la psicoterapia costruttivista può incoraggiare il paziente a rafforzare le proprie competenze di resilienza e adattamento, ad esempio utilizzando tecniche di mindfulness, meditazione o ristrutturazione cognitiva».

Insomma, per fare in modo di massimizzare i vantaggi dell’insoddisfazione, minimizzandone gli svantaggi, è bene imparare a concentrarsi su sé stessi e sulla propria vita interiore, così da riuscire a stare nel presente e a tornare a vivere attimo per attimo come quando si era bambini. Con questo stato d’animo sarà più facile considerare l’insoddisfazione come il segnale che qualcosa non sta funzionando nella propria vita e cogliere il momento per darsi la possibilità per cercare nuove soluzioni, che siano più consapevoli e pongano l’attenzione su ciò che conta davvero.

Alessandra Ostini Sutto

Un tripudio di colori

Attualità ◆ I crisantemi sono il fiore simbolo per la commemorazione dei defunti, ma sono molto amati anche per la loro bellezza e varietà di colori

I premiati del concorso OBI

Attualità ◆ Negli scorsi giorni sono stati estratti i vincitori del concorso indetto in occasione delle settimane di sconti OBI

Dalla metà di settembre a metà ottobre il Centro OBI di S. Antonino ha organizzato quattro settimane di iniziative e offerte sensazionali per celebrare non solo l’arrivo della nuova stagione, ma anche per sottolineare ancora una volta il venticinquesimo anniversario di OBI Svizzera, festeggiato quest’anno in grande stile. Tra le diverse attività in programma, è stato lanciato anche un grande concorso che metteva in palio tre ambiti premi. Di seguito i fortunati vincitori, con cui ci congratuliamo.

1° PREMIO GRILL A GAS del valore di 1099.–Igor Protic di Savosa

2° PREMIO E-SCOOTER del valore di 879.–Ivo Fiori di Bellinzona

3° PREMIO TRAPANO del valore di 279.–Fosco Arizzoli di Ascona

Crisantemi diversi colori e grandezze, in vaso, a partire da Fr. 4.95

In vendita nei reparti fiori Migros e Do it + Garden

I crisantemi fioriscono in autunno, tra settembre e novembre, quando invece molti altri fiori vanno in letargo, preparandosi ad affrontare l’inverno. Le bellissime fioriture tardive di questi fiori rallegrano le giornate in questa stagione di transizione, aggiungendo un raffinato tocco di colore e vitalità nei giardini o sui balconi delle nostre case.

Sono disponibili decine e decine di varietà di crisantemo. Uno dei tipi più diffusi di questa pianta originaria della Cina e del Giappone è sicuramente il crisantemo multiflora, che si distingue per la sua fioritura abbondante e rigogliosa, i colori vivaci e la forma sferica. Può raggiungere un’altezza di 80 centimetri. La tonalità più gettonata è certamente il giallo, ma esistono anche in diversi altri colori, come il bianco, il rosso, l’arancione, il rosa e il viola.

I crisantemi in generale sono facili da curare e piuttosto resistenti al vento, alla pioggia e al freddo, ma per poter gioire a lungo e ogni anno dei bellissimi fiori è bene prestare attenzione ad alcuni accorgimenti. È consigliabile posizionarli in un luogo soleggiato o a mezz’ombra, con almeno sei ore di luce al giorno. Non mantenere la pianta troppo umida per evitare ristagni d’acqua che andrebbero a rovinare le radici. Togliere i fiori avvizziti in modo che gli altri e quelli nuovi possano svilupparsi al meglio. Potare la pianta in primavera e al termine della fioritura per mantenere la pianta in salute e la forma regolare. Il terreno dovrebbe essere ricco di sostanze organiche e ben drenato. Utilizzare per esempio un concime per fiori bio naturale, ricco di sostanze nutritive e in grado di favorire la formazione di humus. I crisantemi coltivati in giardino andrebbero protetti in inverno per mezzo di una pacciamatura o con un telo protettivo. L’eventuale presenza di parassiti o malattie può essere trattata con insetticidi o fungicidi ecologici, come quelli proposti dall’ampia linea Migros Bio Garden.

Christoph Löhrer, gerente di OBI S. Antonino (a destra), consegna il primo premio al vincitore Igor Protic. (Flavia Leuenberger)

È arrivato il nuovo calendario dei Nostrani del Ticino!

Attualità ◆ Il tradizionale calendario da parete 2025 è disponibile gratuitamente da subito nella tua filiale Migros, fino a esaurimento delle scorte. Non lasciartelo sfuggire!

Come consuetudine da ormai quasi un ventennio, in questo periodo dell’anno la clientela Migros ha la possibilità di ricevere in omaggio nella propria filiale il pratico e utile calendario da parete dedicato ai prodotti regionali dei Nostrani del Ticino, specialità oggetto quest’anno di un restyling globale e sempre più presenti sugli scaffali nella nuova confezione raffigurante il caratteristico logo che rappresenta il simbolo del bacio e del sorriso.

Novembre2025

Questa ambita pubblicazione ti accompagnerà per dodici mesi con le sue coinvolgenti illustrazioni che evocano altrettanti apprezzati prodotti del territorio, con tanto di filastrocca a tema, tra cui per esempio il formaggio d’Alpe, gli iogurt di montagna, le uova biologiche, la gazosa, i pomodori, le fragole, il miele… Alcune di queste illustrazioni sono state anche riprese sul packaging del prodotto.

Porta a casa il nuovo calendario dei Nostrani e lasciati sorprendere mese dopo mese dalla nostra promessa di offrirti ogni giorno solo il meglio delle esperienze gustative legate al nostro bellissimo territorio.

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Prevenire gli incidenti con animali selvatici

Mondoanimale ◆ Le giornate si accorciano e i selvatici possono uscire allo scoperto nei momenti di maggiore traffico

In Svizzera, ogni anno quasi 21mila animali selvatici di medie e grandi dimensioni muoiono a causa di un incidente stradale; tra questi vi sono oltre ottomila cervi. Sono i dati forniti dall’associazione dei docenti di scuola guida L-Drive Svizzera che, per quanto attiene alla selvaggina cosiddetta «cacciabile» come cervo, capriolo, cinghiale, volpe, tasso e martora, sottolinea: «Durante la stagione della caccia, in autunno, gli animali possono attraversare le strade al volo, mentre in inverno i cervi e altri animali selvatici leccano il sale sparso sul fondo stradale». E questo vale anche per le specie animali protette come lince, lupo e rapaci. Inoltre, poiché le giornate sono più corte, aumenta il rischio di incontrare animali crepuscolari e notturni. «Anche il guidatore più attento può incappare in un incidente di questo genere». A chi dovesse malauguratamente trovarsi in questa situazione, si ricorda che la legge impone di avvisare immediatamente la polizia: «La mancata notifica alla polizia è perseguibile penalmente».

In linea di massima, le statistiche delle compagnie assicurative sulle probabilità di collisione con un animale selvatico convergono, ma non sono uguali in tutte le regioni svizzere. AXA, ad esempio, riferisce che «gli automobilisti devono prestare particolare attenzione nei cantoni di Giura, Friburgo, Grigioni, Turgovia

e Vaud, dove il rischio è fino a sette volte più elevato che in altre zone del Paese». Per quanto riguarda il nostro Cantone, nel 2023 la statistica della Polizia Cantonale riporta: «Nell’ultimo decennio sono circa 430 all’anno gli incidenti che coinvolgono animali selvatici; di questi, dai 4 ai 10 casi sfociano in ferimenti, mentre gli altri comportano solo danni materiali». Fortunatamente pare che il fenomeno non sia in aumento, probabilmente anche per il fatto che, oltre alla consueta segnaletica a indicare le zone di passaggio degli animali selvatici, il Cantone è intervenuto con alcune misure preventive. Come l’installazione di un sistema di segnaletica luminosa in alcune tratte di strada cantonale «critiche», ad esempio nei comuni di Serravalle e Claro. Inoltre, alcuni accorgimenti da parte degli automobilisti permettono di evitare questo tipo di incidente. Ad esempio, suggerisce sempre AXA: «Prendere sul serio i cartelli stradali di pericolo di attraversamento di animali; guidare con cautela su strade di campagna e vicino ai boschi; se possibile, accendere gli abbaglianti per individuare tempestivamente eventuali animali sulla carreggiata». E se si avvista un animale sul ciglio della strada: «Frenare, abbassare i fari e, se non si allontanasse, suonare il clacson».

A proposito di avvertimenti acustici, molto originale e interessante un’i-

niziativa che viene dall’Umbria, dove i cacciatori hanno messo a punto e stanno installando in prossimità delle strade una serie di dissuasori sonori atti a prevenire le collisioni dei selvatici con le automobili: si tratta di spari rumorosi che non uccidono nessuno, ma il cui rumore ha lo scopo di far scappare cinghiali e caprioli, evitando loro di essere travolti. È quanto riportato da un articolo pubblicato a settembre sulla rivista «Petme.it» che elogia l’esempio virtuoso di Città della Pieve, in provincia di Perugia, dove si è installato l’ottavo dissuasore lungo la strada denominata «Fondovalle», sulla quale cinghiali e caprioli rappresentano un pericolo costante per gli auto-

mobilisti e per sé stessi. I dispositivi in questione sono quelli previsti dal progetto Life Strade: «Attraverso avvisi sonori simili a battitori di una battuta di caccia o ai richiami del lupo, il dissuasore favorisce lo spostamento degli animali dalla carreggiata; nello stesso tempo, un segnale luminoso allerta gli automobilisti del pericolo». L’emissione di segnali luminosi e sonori si attiva individuando l’arrivo dei veicoli fino a 500 metri di distanza ed è in grado di stabilirne la velocità. «Inoltre, il sistema è dotato di sensori termici che marcano la presenza di animali a bordo strada, in seguito a cui si attiva una segnalazione luminosa che avvisa l’auto in transito». Se l’automobilista

non riduce la velocità «entra in funzione un sistema di dissuasione acustica che fa allontanare l’animale, riproducendo il suono di una battuta di caccia al cinghiale».

Secondo il biologo Federico Tettamanti da noi interpellato, «in Ticino i passaggi faunistici risolvono egregiamente il problema, e non solo per gli ungulati, ma ne possono beneficiare tutti gli altri animali selvatici (ad esempio i pipistrelli e gli anfibi) che vi si incanalano restando in sicurezza». Egli parla del passaggio faunistico di Sigirino (in funzione da tempo), e ricorda che è in previsione la costruzione di uno analogo a San Vittore, in Mesolcina. «Se da un lato risolvono il problema, d’altro sono molto costosi. Ma ne vale la pena», chiosa Tettamanti che ne ribadisce l’efficacia, accennando a un futuro in cui, come in Giappone già avviene, «si potrebbero usare sostanze odorose per distanziare questi selvatici dalle strade». L’efficacia dell’uso di repellenti olfattivi è stata provata da un recente studio scientifico appena pubblicato su «Science Direct». La ricerca è basata su dati delle carcasse, con l’approccio Prima-Dopo-Controllo-Impatto. Incoraggianti le conclusioni: «I repellenti dovrebbero ridurre il numero di carcasse del 68 per cento; mentre un’efficienza ancora più elevata è stata riscontrata per le prime sette settimane dopo l’installazione (78%)».

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Gli insetti di pietra del San Giorgio

Paleontologia ◆ Recenti scavi hanno portato alla scoperta di un giacimento di insetti fossili unico al mondo

I recenti scavi eseguiti dal Museo cantonale di storia naturale sul Monte San Giorgio hanno portato alla luce un’eccezionale fauna fossile a insetti. La località, denominata VM 12 si trova in Val Mara, toponimo che si riferisce alla gola del Torrente Gaggiolo presso il nucleo di Meride. Come ci ricorda Giulio Cattaneo, già curatore del Museo di arte sacra di Meride, il nome individua una valle «amara», inospitale e profondamente incisa dalle acque del torrente. Qui affiora la parte sommitale, quindi più giovane del Calcare di Meride, che il geologo Alfred Senn, esattamente 100 anni fa, nel 1924 battezzò col nome di Kalkschieferzone, «zona degli scisti calcarei». La roccia si suddivide, infatti, in strati particolarmente sottili, formando un libro spesso 120 metri nei cui «fogli» è scritta la storia della Terra e, grazie ai fossili, della vita. Una storia che, in base alla datazione radiometrica di ceneri vulcaniche incluse nei calcari, risale a 239,5 milioni di anni fa. Si tratta di uno stadio cronologico che i geologi chiamano Ladinico, parte superiore del Triassico Medio.

La straordinaria collezione composta da 248 esemplari fornirà la descrizione di decine di specie nuove per la scienza

I primi fossili della Kalkschieferzone furono scoperti nel 1936 ma solo nel 1998, grazie agli scavi condotti in collaborazione con l’Università di Milano, venne alla luce il primo insetto fossile del Monte patrimonio UNESCO. Battezzato Tintorina meridensis è un’effimera, nome che evoca la brevità della vita nello stadio adulto di quest’ordine di insetti. Seguirono poi sporadici ritrovamenti non solo nella Kalkschieferzone ma anche in strati più antichi. Nel 2019 il numero di insetti fossili raggiungeva i 25 esemplari, tra cui specie nuove per la scienza come il tisanuro Gigamachilis triassicus, la cimice Archetingis ladinica, il coleottero Praedodromeus sangiorgensis e il monura Dasyleptus triassicus Il nuovo giacimento VM12, individuato nel 2020 e sfruttato fino al 2023, ha permesso di incrementare in modo esponenziale il numero dei ritrovamenti, la cui densità e diversità si sono rivelate uniche al mondo. Su una superficie di soli 9 m² e uno spesso-

re di 150 cm sono infatti emersi 248 esemplari. Frutto di un esame estremamente dettagliato dei «fogli» di roccia scura alla ricerca di reperti di dimensioni prevalentemente comprese tra 1 e 5 mm.

La diversità è impressionante. Gli insetti fossili sono attribuiti a ben 13 ordini differenti. Insetti ametaboli (a crescita diretta senza metamorfosi, come i Monura simili a quelli che troviamo in casa e chiamiamo informalmente «pesciolini d’argento») si affiancano a insetti emimetaboli (a metamorfosi incompleta, come le libellule, con larve e adulti che occupano ambienti diversi, acquatici e terrestri) e a insetti olometaboli (a metamorfosi completa, come ditteri e coleotteri). Insetti predatori

coesistono con insetti detritivori e insetti fitofagi (erbivori). I resti di insetti terrestri riposano ora a fianco di insetti di acqua dolce.

In comune hanno tutti una conservazione eccezionale. Si tratta di resti completi, ancora articolati, che preservano dettagli come le faccette degli occhi composti, le sottili venature delle ali o la segmentazione delle antenne. Questa completezza fa pensare a un trasporto breve dal luogo di vita (terraferma o acque dolci) a quello di deposito e «sepoltura», costituito dalla laguna tropicale dove si stavano depositando i fanghi destinati a diventare il Calcare di Meride. La notevole biodiversità parla di un ecosistema costiero differenziato e articolato. E la stes-

sa laguna, periodicamente sommersa dalle piene dei fiumi, stava progressivamente rubando la scena al mare tropicale che per tre milioni di anni aveva dominato la regione. L’eccezionale capacità del Monte San Giorgio di conservare i fossili dei grandi rettili, nota da oltre un secolo, sta assumendo una connotazione nuova e altrettanto stimolante. Gli insetti appartengono, infatti, agli ecosistemi continentali, preservati nel registro fossile solo in condizioni eccezionali.

I 248 esemplari, suddivisi in 13 ordini, appartengono ai Monura, un gruppo estinto di insetti apterigoti, ovvero privi di ali, Odonati (libellule), Blattodei (blatte), Tisanotteri (letteralmente «con le ali a fiocco»), Emitteri (cimici), Psocodei, Imenotteri (dotati di 2 paia di ali e oggi rappresentati da api, vespe e formiche), Neurotteridi, Coleotteri, Tricotteri, Amphiesmenopteri, Mecotteri (con la tipica testa allungata a forma di proboscide) e Ditteri (come le attuali mosche e zanzare, dotate di un solo paio di ali).

74 esemplari appartengono ai Monura, con Dasyleptus triassicus che occupava probabilmente le nicchie costiere. I fossili hanno dimensioni da 1 a 29 mm e permettono pertanto per la prima volta di seguire lo sviluppo durante la crescita di questi animali. Seguono per diffusione i Ditteri (56 esemplari), rappresentati da diverse specie di Nematoceri adulti, con sottili antenne segmentate e la tipica conformazione delle zanzare. In alcuni casi sono presenti delle strutture circolari che aderiscono alla parte terminale dell’addome. Potrebbe trattarsi di spore vegetali e in tal caso si tratterebbe della testimonianza più antica di trasporto di spore da parte di ditteri, aprendo nuove ipotesi sull’impollinazione. In ogni caso il giacimento del Monte San Giorgio si caratterizza come il più importante al mondo per quanto riguarda i Ditteri sia per conservazione sia per diversità. Il sito che deteneva sinora il primato, quello francese del Grès à Voltzia, comprende infatti solo ali isolate o individui immaturi.

I Coleotteri (37 esemplari, di lunghezza compresa tra 1 e 7 mm), caratterizzati dal primo paio di ali trasformato in elitre, comprendono diverse forme terrestri e acquatiche, con le zampe posteriori trasformate in strutture natatorie. Uno dei Neurotteridi rinvenuti (7 esemplari tra 2 e 6 mm

dotati di fini ali membranose) ha già ricevuto l’appellativo di genere e specie nuovi, con il nome Merithone laetitiae. La blatta rinvenuta è straordinaria per il fatto di conservare l’ooteca, un involucro contenente una ventina di uova. Eccezionale è pure il rinvenimento di due esemplari di Imenotteri, uno maschile e uno femminile, lunghi 8 mm, appartenenti a un genere e specie nuovi, battezzati Magnicapitixyela dilettae. Il nome del genere deriva dal latino magnus (grande) e caput (testa), riferendosi alla testa particolarmente grande. Nella femmina è evidente l’ovopositore. Si tratta degli esemplari di vespe più antichi sinora rinvenuti al mondo e degli unici ritrovamenti in Europa.

Sebbene il lavoro ora pubblicato su «Communications biology» rappresenti solo un primo report del materiale emerso dal giacimento, appare evidente che siamo di fronte a una straordinaria collezione, depositata al Museo cantonale di storia naturale, il cui studio fornirà la descrizione di decine di specie nuove per la scienza. Soltanto per i risultati sinora emersi, il Monte San Giorgio si situa da oggi tra i 9 giacimenti a insetti fossili più importanti per il periodo Triassico. I suoi reperti permettono di retrodatare la comparsa di famiglie di insetti e di postdatare l’estinzione di altri. A sua volta questo consente di affermare che l’estinzione di massa avvenuta alla fine del Paleozoico (251,9 milioni di anni fa) fu sì la più catastrofica mai verificatasi ma ebbe un effetto limitato sugli insetti che già 12 milioni di anni dopo, nel Ladinico del Monte San Giorgio, mostravano di essere in parte sopravvissuti e comunque in piena ripresa e diversificazione.

Bibliografia

Montagna M., Magoga G., Stockar R. et al. The contribution of the Middle Triassic fossil assemblage of Monte San Giorgio to insect evolution. Commun Biol 7, 1023 (2024). www.doi. org/10.1038/s42003-024-06678-5

Montagna M., Magoga G. & Magnani F. The Middle Triassic palaeontomofauna of Monte San Giorgio with the description of Merithone laetitiae (†Permithonidae) gen. et sp. nov.. Swiss J Palaeontol 143, 17 (2024). www.doi. org/10.1186/s13358-024-00317-6

Magnicapitixyela dilettae maschio, 8 mm, © Museo cantonale di storia naturale. (F. Magnani)
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Magnicapitixyela dilettae femmina con ovopositore, 8 mm, © Museo cantonale di storia naturale. (F. Magnani)

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Nel labirinto dell’adolescenza

Il caffè dei genitori ◆ Lo psicopedagogista Stefano Rossi spiega che cosa vuol dire essere un genitore-floricoltore rispetto a un genitore-scultore e dà qualche consiglio per accompagnare i figli nella crescita

Che genitori siamo? E soprattutto che genitori vorremmo essere? Ormai da anni ce ne dicono di tutti i colori (e spesso a ragione!): ci sono i genitori-spazzaneve pronti a rimuovere ogni possibile ostacolo dalla strada dei figli anziché dare loro la possibilità di imparare a camminare arrangiandosi un po’; i genitori-elicottero che sorvolano perennemente sopra la testa per provvedere ai bisogni più svariati; i genitori-pavone che si compiacciono rispecchiandosi nella prole. E la lista può continuare. Definizioni che ben fotografano i nostri difetti di genitori boomer, a rischio di far crescere una generazione di rammolliti, sdraiati oppure con l’ansia a mille, ma definizioni che sinceramente adesso ci hanno anche un po’ stufato! Invitiamo invece a Il caffè dei genitori Stefano Rossi, psicopedagogista scolastico e conferenziere italiano tra i più amati, per capire che tipologia di genitori ci piacerebbe davvero essere al di fuori dei cliché. Il dibattito è aperto. In modo costruttivo. Nessun giudizio. A confronto «genitori-scultori» contro «genitori-floricoltori». Chi sono?

Ecco la descrizione degli uni e degli altri che fa Stefano Rossi, autore tra l’altro di Lezioni d’amore per un figlio. Accompagnare i ragazzi nei labirinti dell’adolescenza (ed. Feltrinelli, agosto 2023): «Il genitore-scultore persegue l’immagine del figlio perfetto che vorrebbe e cerca di scolpirlo con il proprio scalpello in modo da farlo crescere secondo i propri canoni di perfezione –spiega ad «Azione» Rossi –. Mentre il genitore-floricoltore ha la mano più delicata come il coltivatore di fiori: non ha un’immagine idealistica del figlio, ma dopo avere gettato il seme lo aiuta a crescere amandolo per quello che è». In estrema sintesi possiamo dire che il «genitore-scultore» cerca di instillare nel figlio le proprie ambizioni («mette dentro»); al contrario il «genitore-floricoltore» cerca di fare emergere i desideri del figlio, non i suoi («tira fuori»). Ora, messa così la questione, a Il

caffè dei genitori siamo tutti pronti a sostenere che vorremmo essere floricoltori. E probabilmente siamo pronti ad autoconvincerci che già lo siamo. Il problema è che è tutt’altro che facile! Vediamo quali sono i possibili comportamenti da adottare e i principali ostacoli da superare:

Uno. Smettiamola con la cultura del risultato e con il desiderio di avere figli-medaglia d’oro e non più come un tempo bravi ragazzi: «Quella dei figli che devono brillare è una pedagogia infernale, che porta nel cuore di bambini e adolescenti l’ossessione per il risultato, la perfezione e la medaglia – sottolinea Rossi –. L’ossessione per la luce alimenta il buco nero dell’ansia e della paura di fallire». L’appello di Rossi è allora quello di insegnare ai figli non ad amare il successo, ma ad avere amore e rispetto per sé stessi: «Spiegate loro che siamo luce e ombra,

che possiamo gioire per le conquiste, ma dobbiamo accettare le inevitabili cadute, che fanno parte del percorso». Due. Amare i figli in modo incondizionato indipendentemente dai risultati vuol dire anche non dare mai per scontato i risultati positivi e non mortificarli davanti a quelli negativi altrimenti diventiamo quelli che Rossi definisce genitori-medusa, dal nome di uno dei mostri della mitologia greca, la figlia delle divinità delle acque Forco e Ceto. Il potere di Medusa, una delle tre gorgoni, è di pietrificare chiunque incrocia il suo sguardo. «Nel cuore degli adolescenti di ieri c’era soprattutto il senso di colpa con cui confrontarsi se non erano abbastanza bravi ragazzi – rimarca Rossi –. Invece gli adolescenti di oggi provano fatica emotiva che si traduce in un grande senso di inadeguatezza, per il non riuscire a stare al passo, per la paura di

fallire, di non esser abbastanza. I genitori devono tenerne conto e non infierire». Conseguenza: «Il sarcasmo, le critiche e il disprezzo negli occhi dell’adulto diventano melma, che si appiccica con il suo putridume in tutti gli interstizi dell’anima». Tre. Il requisito indispensabile, siamo convinti a Il caffè dei genitori, è la pazienza, la stessa che ci vuole anche per annaffiare e curare il proprio fiore. Per farlo sbocciare per quello che è: «La pazienza e la fiducia nei confronti del figlio diventano il vento sotto le sue ali». E per avere pazienza dobbiamo superare lo shock dell’incredulità: «Dov’è finito il mio bambino? Che cosa ne hai fatto?». Trattenere la rabbia: «Come ti permetti di trattarmi così, dopo tutto l’amore che ti ho dato?». Evitare il buio della disperazione: «Non so più che cosa fare con te». Lasciare perdere lo spettro del senso

di colpa: «Forse è tutta colpa mia…». Quattro. Rossi scrive quel che a Il caffè dei genitori pensiamo: Mio figlio è un casino è il titolo di un altro suo libro, Il ringhio del neo-adolescente è un suo modo di dire che è già diventato il nostro! Oltre la pazienza allora ci vuole anche empatia: «E quella di un genitore deve saper crescere insieme al figlio. Mentre il bambino necessita di empatia-vicinanza; l’adolescente, il cui compito è quello di salpare per il mare aperto, necessita di un’empatia più evoluta: l’empatia-distanza». Ecco qui, allora, un altro modello di genitore che è meglio evitare, quello del genitore-incombente: «Un genitore insistente, opprimente, intrusivo e al contempo inarrestabile, che impedisce al figlio di separarsi evolutivamente. Senza rendersene conto, il genitore-incombente, con la sua iper-presenza, riduce in macerie tutti gli sforzi evolutivi del figlio. Una preghiera che se non ascoltata si tramuterà in una dichiarazione di guerra». Cinque. Da genitori non dobbiamo proiettare il nostro narcisismo sui figli ma piuttosto essere capaci di metterci in discussione: «Invece di spegnervi in una nostalgia depressiva per il bambino che non c’è più – ci consiglia Rossi –, dovrete aprirvi alla nostalgia-speranza della stella nascente del giovane uomo e della giovane donna che sta cercando di nascere di fronte a voi». Consoliamoci anche! Nel nostro (faticoso) cammino per cercare di essere genitori floricoltori dobbiamo essere consapevoli che se nostro figlio alterna la postura accigliata del pensatore di Rodin a grida degne dell’urlo di Munch… va tutto bene: «Lui e voi siete entrati nel mare aperto della sua adolescenza. Vostro figlio è stupendamente e faticosamente normale», ci rassicura Rossi che aggiunge: «Il genitore perfetto nella nostra galassia mai si è palesato e mai si paleserà: ma un genitore che ci prova, che tenta di comprendere l’enigma del figlio, è già un buon risultato!». Evviva.

La pazienza e la fiducia nei confronti del figlio diventano «il vento sotto le sue ali». (Freepik.com)
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L’altropologo

Così parlò il Mullah

Al momento di preparare la prossima campagna di ricerche sui culti tradizionali del Nord del Ghana, al vostro Altropologo di fiducia è venuto alla mente un episodio occorsogli ormai quarant’anni orsono. Ero arrivato al villaggio di Gindaabol nel primo pomeriggio dopo una traversata in moto su una pista infernale che mi aveva impegnato per cinque ore. Sulla rotta per giungere ad un altro villaggio dove si sarebbe tenuto un funerale importante che volevo documentare intendevo fermarmi per la notte. Individuata la sezione del villaggio abitata dal clan del quale ero affiliato onorario mi era stata assegnata una stanza e lì mi ero sdraiato sulla stuoia senza nemmeno appendere la zanzariera. Esausto mi ero subito addormentato. Neanche mezz’ora e viene a chiamarmi il catechista locale della missione romano cattolica dell’area – l’unico che parlasse un po’ d’inglese – a dirmi che ero desiderato da un altro ospite forestiero del villaggio.

In quella parte del mondo vi è – o forse vi era, se ne vedono ormai pochi – una classe di mullah, membri ovvero del clero di basso rango musulmano sunnita storico, che si guadagna da vivere andando di villaggio in villaggio vendendo amuleti, erbe medicinali, piccola mercanzia e quant’altro. Ricordo solo il caldo bestiale di quel pomeriggio e le imprecazioni per il sonno interrotto: rifiutarsi? Impossibile. Nelle successive tre ore mi trovai sottoposto a una sorta di interrogatorio da Santa Inquisizione da parte di Yakubu su cosa sia da intendere «per voi Cristiani questa storia della Trinità». Il buon Mullah sparava a raffica domande che il buon catechista stentava a capire e ancor più a tradurre: l’Altropologo si trovò presto in teologico stato confusionale. «Se Dio è Uno come può essere Tre – come dite voi!? Se uno è Uno, Uno non può essere Tre». L’Altropologo: «Ma sai, emmhh…Una Sostanza, Tre Persone… San Tommaso

La stanza del dialogo

d’Aquino, il Concilio di Nicea…»: il catechista mi guardava con gli occhi fuori dalla testa e avrei dato metà della mia laurea in antropologia per capire cosa/come stesse traducendo. Yakubu incalzava e non mollava: accanimento teologico. Capii solo che non funzionava affatto cercare di spiegare e che fosse meglio lasciar perdere alla prima opportunità. Mi ero ributtato sulla stuoia, sfinito: «Spiegare cosa, poi?!». Improvvisamente l’abisso del dubbio si spalancò davanti. «Già: spiegare cosa?! Fosse, fosse mai che Yakubu avesse ragione? Uno non può essere Tre – certo non dal punto di vista di un mercante…». Poi mi addormentai.

Nel 1531 Michele Serveto aveva pubblicato il De Trinitatis Erroribus Libri VII, un’opera monumentale nella quale affermava senza se e senza ma: «…non una sola parola si trova in tutta la Scrittura né riguardo alla Trinità, né sulle persone, né sull’essenza, né sull’unità della sostanza e della natura dei vari

Le contraddizioni della maternità

Cara Silvia, sono neomamma di un bambino splendido che abbiamo accolto con tanto amore. Siamo giovani e tutto è avvenuto così in fretta che non ho avuto il tempo di riflettere. Molti giorni resto sola (mio marito è spesso via per lavoro) e in quei momenti mi rendo conto che la sua nascita ha cambiato radicalmente la mia vita. E, complice la malinconia del puerperio, mi volgo indietro a rievocare gli ultimi mesi. Non avendo bisogno di guadagnare e volendo seguire mio figlio, mi sono licenziata dal lavoro, che mi piaceva tanto. Si parla sempre di Nidi, non sento però nessuno che discuta sul fare i genitori in un mondo in cui non è previsto il tempo per farlo. Il parto è stato molto diverso da quanto raccontano sorridenti le neomamme su Instagram. Per non parlare poi dell’allattamento. Un incubo. Ma non voglio dilungarmi perché mio figlio mi ripaga di tutto. Tuttavia, le chiedo, non sarebbe meglio se le ragazze fossero più preparate ad affrontare la maternità, consapevoli di quanto costi?/ Luciana

Sì, sarebbe meglio soprattutto se servisse a chiedere alla società, rivolta al successo e al denaro, di prendere in maggior considerazione la maternità. Non credo che anche i neo padri, si trovino in una situazione ideale. Spesso le esigenze del lavoro e della carriera non tengono conto della dedizione che richiedono i figli. E, quando emergono le difficoltà dell’adolescenza, vorrebbero tornare indietro e imparare a fare il padre dedicando più tempo alla famiglia. Ma non sempre è possibile recuperare il tempo perduto. In confronto alle generazioni precedenti, le donne attuali godono di maggior benessere, di cure migliori, di considerazione e opportunità. Eppure assistiamo al paradosso della denatalità, al problema dell’inverno demografico. Il rimedio sembra consistere in aiuti economici e sociali. Ma la sua lettera dimostra che non basta, che esistono anche altre carenze nell’impresa di diventare mamma: l’impreparazione, la mancata ri-

La nutrizionista

flessione sulla consapevolezza delle contraddizioni della gravidanza, del parto e dell’allattamento, la solitudine, il rimpianto della vita lavorativa. Che fare? Integrare le necessità concrete con una cultura della maternità. Predisporre consultori che integrino l’assistenza medica con quella psicologica, stare accanto alle madri che, col primo figlio, devono reimpostare radicalmente il loro modo di vita. Per secoli questo tema è stato al centro della produzione artistica religiosa: templi, santuari, statue, dipinti sono stati dedicati alla Maternità della Madonna. In famiglia, il filo delle generazioni trasmetteva da nonna, madre, figlia, nipote l’esperienza viva e diretta del divenire madri. Le adolescenti ricevevano così immagini, pensieri, parole per predisporsi alla maternità. Ora le nostre ragazzine hanno tutt’altro per la testa: lo studio, l’autonomia, il lavoro, la carriera, il divertimento. Il loro corpo, che non ha mai provato le sensazioni e le emozioni suscita-

esseri divini». Nato a Villanueva de Sigena (Spagna) nel 1511 da famiglia di antiche origini ebraiche, Miguel Serveto de Villanueva, allora ventenne, sarebbe poi diventato umanista eclettico: matematico, astronomo, meteorologo e geografo è oggi ricordato soprattutto come pioniere della medicina pneumologica e cardiologica. La sua fu una brillante carriera accademica, un cursus honorum che lo portò a vario titolo sulle cattedre universitarie di mezza Europa, laddove Basilea, Ginevra e Strasburgo svettavano come luoghi di libero dibattito e aperto confronto nei circoli intellettuali dove maturavano i fondamentali della Riforma. Serveto fu presto bollato come Unitariano, ovvero fra coloro che sostenevano la natura/sostanza unica, suprema e inscindibile di Dio. Revival in qualche modo di una corrente carsica che aveva avuto (e avrà) fortune alterne nel Monofisismo, nell’Arianesimo e altre variazioni sul tema di un Monoteismo

radicale e senza compromessi erede della tradizione rabbinica poi sviluppata dall’Islam. L’Unitarismo di Serveto fu dal primo momento condannato da Lutero, da Melantone e da Bucero – ma anche, ovviamente, da Erasmo da Rotterdam (che si rifiutò di riceverlo) e dall’Inquisizione. Ciò non bastò a Serveto per ritrattare: illusosi che Calvino fosse in qualche modo se non favorevole almeno non ostile alle sue idee pensò che Ginevra fosse una sorta di hub di tolleranza dove potersi rifugiare. Aveva calcolato male: lo stesso Calvino ad un certo punto venne coinvolto nel marasma dal «caso Serveto» e venne a contestargli ben 28 articoli di eresia in diciassette lettere alle autorità ginevrine. Serveto fu bruciato a Ginevra su un rogo alimentato dai suoi libri il 27 ottobre 1553. La sua fine mise in crisi l’idea che il Cristianesimo della Riforma potesse essere più tollerante della versione romana, come poi avrebbero dimostrato i fatti.

te dal tenere tra le braccia un neonato, non avverte neppure la pulsione istintuale. Alcune non sentono bisogno di mettere al mondo un bambino, altre ne avvertono il desiderio quando l’orologio biologico segna l’ultimo minuto. Non possiamo dimenticare che, dinnanzi al progetto femminile di autorealizzazione, si aprono due strade: il lavoro e la maternità. Nessuna obbligatoria, nessuna gratuita. È sempre possibile scegliere una delle due, come stai facendo tu, accettando momenti di solitudine e di sconforto, oppure perseguirle entrambe. Il doppio impegno comporta un surplus di stanchezza, difficoltà nei confronti del marito e dei figli, sensi di inadeguatezza. Eppure molte donne che nel loro ambito hanno raggiunto i vertici del successo, dichiarano che la maternità è stata l’esperienza più importante e più felice. L’ideale sarebbe modulare gli impegni femminili secondo le fasi della vita. Offrire alle più giovani precoci opportunità lavorative, permettere al-

Vegani, sì, ma solo se seguiti da un professionista

Buongiorno Laura, mia madre è prossima alla pensione e sta pensando di diventare vegana: ha iniziato nel corso degli anni a non mangiare più salumi per il colesterolo, ha smesso poi con la carne per una questione etica, poi ha tolto il pesce per paura dell’inquinamento e ora sta pensando di lasciare anche i latticini e le uova sempre per motivi di etica o ambientali… io sono un po’ preoccupata perché temo possa perdere peso e avere problemi di salute. Al momento non ha patologie. Desidero avere un suo parere in qualità di dietista. La ringrazio e saluto cordialmente. / Mara

Buongiorno Mara, una dieta vegana interdice il consumo di tutti i prodotti di origine animale (carne, salumi, pesce, uova, latte e derivati, miele) e si basa quindi sul con-

sumo esclusivo di cereali, legumi, semi, noci, oli vegetali e frutta. Chi la intraprende lo fa per questioni di salute o per forti convinzioni etiche e/o ambientali. Queste ultime mi sembrano siano alla base anche della scelta di diventare vegana di sua madre. La dieta vegana ha i suoi benefici, è stato dimostrato che aiuta a ridurre il rischio di malattie cardiache e cardiovascolari essendo povera di grassi saturi e colesterolo (presenti maggiormente in carne, salumi e latticini) rispetto a un’alimentazione «normale». Un altro effetto positivo dimostrato è che migliora i livelli di zucchero nel sangue grazie al maggior consumo di verdure, legumi e cereali integrali. Le diete ricche di fibre sono associate pure a un minor rischio di stitichezza e problemi legati al colon. La ricerca sug-

gerisce inoltre che una dieta ricca di frutta e verdura può ridurre il rischio di alcuni tipi di cancro. I vegani consumano una varietà di alimenti vegetali che contengono antiossidanti e fitonutrienti protettivi. Cosa ne penso? Come dietista rispetto molto la sua decisione, è uno stile di vita fattibile ma mi preoccupa un po’ la «leggerezza» con la quale sta affrontando il cambiamento. Chi segue una dieta vegana può perdere del peso poiché gli alimenti a base vegetale sono in genere naturalmente più poveri di calorie e grassi saturi inoltre smettere improvvisamente di mangiare alimenti di origine animale senza una guida può anche essere pericoloso per la salute. Si tratta di un’alimentazione, sì, sana, ma fortemente restrittiva e può essere difficile assumere sempre le giu-

ste quantità di proteine e gli adeguati apporti di altri nutrienti. Una revisione sistemica del 2021 ha rilevato infatti che una dieta vegana può essere collegata a un ridotto apporto di vitamine B2, B12 e D, oltre a niacina (vitamina B3), iodio, zinco, calcio, potassio e selenio. Ognuno di questi nutrienti ha un ruolo vitale da svolgere nel corpo e, se carente, può portare a conseguenze per la salute, come un aumento del rischio di anemia, fratture ossee, sarcopenia (perdita graduale di massa muscolare, forza e funzione) e depressione. Dovrebbe accompagnare sua madre da una dietista o da un medico nutrizionista in modo che possa essere istruita e messa a conoscenza degli alimenti chiave che dovrebbero essere combinati insieme e prioritari per soddisfare

le madri di bambini piccoli di ridurre l’impegno extradomestico e a quelle mature, se lo desiderano, di mettere a frutto la loro esperienza anche dopo l’età della pensione. Questo programma, denominato «retravailler», permetterebbe di risolvere le contraddizioni. Spesso invece accade il contrario. Come vedi, per tante ragioni, sarebbe bene per le persone e la società affrontare la questione materna nella sua complessità, darle l’importanza che merita. Grazie della tua lettera coraggiosa e sofferta, spero incentivi altre testimonianze e mi auguro che, dopo il gelo dell’inverno, finalmente fiorisca la primavera demografica.

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a info@azione.ch (oggetto «La stanza del dialogo»)

sufficientemente queste assunzioni di nutrienti; per analizzare la sua dieta, per vedere se ha bisogno eventualmente di integratori per prevenire eventuali carenze nutrizionali se si fa fatica a ottenere questi nutrienti solo attraverso il cibo, e per capire se copre anche i suoi fabbisogni energetici in modo che possa mantenere il peso e le forze. Per concludere, e spero di aiutarvi a risolvere la questione, accetti che sua madre diventi vegana ma la convinca che può farlo solo se lei viene seguita da un professionista, vietato il «fai da te».

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Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a info@azione.ch (oggetto «La nutrizionista»)

di Laura Botticelli
di Silvia Vegetti Finzi

La giusta decorazione per ogni tavola

ATTUALITÀ

Elezioni Usa: lo sprint finale

La corsa alla Casa Bianca vede Harris e Trump in una situazione di sostanziale parità. Quali sono i temi su cui si gioca la partita?

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L’era dei cessate-il-fuoco

Le guerre si trascinano per decenni, fra alti e bassi, senza che si riesca a intravvedere qualcosa che assomigli a uno stabile assetto pacifico

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Reportage dal Libano

Il «Paese dei cedri» non riesce a distaccarsi dal suo passato scomodo mentre gli attacchi israeliani si intensificano

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«Repubbliche sorelle» non sempre allineate

Svizzera / Usa ◆ Fu il bernese Vautravers a usare per la prima volta l’espressione «Sister Republics» accostando i due Paesi che condividevano un medesimo pensiero filosofico e politico. I due Stati hanno poi sviluppato un rapporto non certo alla pari

L’incipit questa volta lo affidiamo ad un testo che ha fatto la storia, e che ci arriva dalla costa est degli Stati Uniti (che a breve sceglieranno il/la loro nuovo/a presidente, leggi articolo a pag. 17). «Noi riteniamo che sono per loro stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la vita, la libertà, e il perseguimento della felicità». Questo è uno dei passaggi iniziali della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, il testo che ha portato alla nascita di quel Paese, era il 4 luglio del 1776. Parole scritte dalla cosiddetta «Commissione dei cinque», composta dai padri fondatori degli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti hanno più volte imposto alla Svizzera di piegarsi al loro volere, vedi fine del segreto bancario

Tra loro c’era anche Benjamin Franklin, una delle figure più illuminate di quel periodo storico, perlomeno dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Fu proprio Franklin a ricevere, qualche tempo dopo quello storico 4 luglio, una lettera da uno studioso ed erudito bernese, tale Jean-Rodolphe Vautravers. In quella missiva fu lo stesso Vautravers a usare per la prima volta l’espressione «Sister Republics», «Repubbliche sorelle», accostando in questo modo il cammino di questi due Paesi, gli Stati Uniti e la Confederazione elvetica di allora. Una definizione che nacque dalla condivisione di un medesimo pensiero filosofico e politico. In quel periodo molti rivoluzionari americani si rifacevano anche alle idee di filosofi e politici svizzeri, personaggi di spicco dell’Illuminismo di casa nostra, come ad esempio il ginevrino Jean-Jacques Burlamaqui, un giurista e professore universitario, la cui fama non è però riuscita ad arrivare fino ai giorni nostri, messa in ombra da un altro Jean-Jacques che di cognome faceva Rousseau, il cui pensiero, basato su concetti simili, è invece ancora sulla breccia. D’altro canto non va dimenticato che in quel periodo c’era anche una «sorellanza» di natura religiosa, molti dei capifila della rivoluzione americana erano protestanti e avevano fatto propri i principi espressi da Calvino a Ginevra e da Zwingli a Zurigo. Tra noi e loro, tra la Svizzera di allora e gli Stati Uniti, nacque così questo stretto grado di parentela, che dura ormai da quasi 250 anni. Un sentirsi «sorelle» che tra corsi e ricorsi della Storia si concretizzò anche in terra elvetica quando

nel 1848 prese forma il moderno Stato federale svizzero, così come lo conosciamo oggi. Nel febbraio di quell’anno i Padri fondatori del nostro Paese si riunirono a Berna in quella che venne chiamata la «Commissione di revisione», per definire la prima Costituzione della Svizzera moderna. Essa ebbe anche il compito di forgiare le istituzioni che ancora oggi reggono il nostro Paese, e per farlo si ispirò in parte proprio al modello statunitense. Nacque così il sistema bicamerale, con il Consiglio nazionale e il Consiglio degli Stati, che ricalcano i meccanismi istituzionali della Camera dei rappresentanti e del Senato americani. Un Parlamento eletto dai cittadini e che opera anche nel rispetto dei principi federalisti che accomunano le due «Repubbliche sorelle». E questo con il sigillo dei principi liberali e illuministi che avevano portato alla nascita degli Stati Uniti e che in quel momento vengono per così dire «reimportati» in Svizzera, come ha scritto di recente lo storico Sacha Zala, in un articolo pubblicato dal periodico «Nzz Geschichte». Zala individua proprio nel 1848 il momento in cui l’espressione «Sisters Republic» prende definitivamente piede.

«Da allora – scrive questo professore di storia all’università di Berna – politici e diplomatici non si stancano di rifarsi, quando l’occasione lo richiede, a questo rapporto di sorellanza tra le due Repubbliche».

Il potere Usa si fece sentire anche sulla questione degli averi ebraici depositati nei forzieri elvetici durante la Seconda guerra mondiale

Fin qui in grandi linee quanto ci dice la storia, se la guardiamo dai cancelletti di partenza, dagli albori di questi due Paesi. Due Stati che hanno poi sviluppato un rapporto non certo alla pari, con Washington che ha facilmente assunto il ruolo «di sorella maggiore». Basti guardare a quanto capitato dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi, con gli Stati Uniti che hanno più volte imposto al nostro Paese di piegarsi al loro volere. E spesso di mezzo c’erano questioni di natura finanziaria. La fine del segreto bancario elvetico è forse stato l’emblema principale di questo rapporto di forza, con gli Stati Uniti, e la comunità internazionale, che hanno imposto al nostro Pa-

ese di rendere trasparenti, perlomeno per i clienti stranieri, la gestione degli averi depositati nelle banche svizzere. E qui val la pena ricordare alcune espressioni usate dai parlamentari elvetici in occasione del dibattito sul cosiddetto «accordo Facta», la legge americana che prescrive l’invio, anche dalla Svizzera, di informazioni bancarie alle autorità fiscali degli Stati Uniti. Era il 2014 e a Berna, in Parlamento, si erano sentite frasi di questo tipo «Dobbiamo ingoiare questo rospo», «Non abbiamo scelta, possiamo solo scegliere tra la peste e il colera». Era la fine del segreto bancario, la «sorella maggiore» aveva imposto la sua legge. Da allora quasi nessuno nel nostro Paese ha osato far notare a Washington che alcuni Stati a stelle e strisce – come il Delaware o il Nevada – sono tuttora dei paradisi fiscali, tra i maggiori al mondo. Il potere statunitense si fece sentire anche sulla questione degli averi ebraici depositati nei forzieri svizzeri durante la Seconda guerra mondiale. Negli anni 90 del secolo scorso, il Congresso ebraico mondiale ma anche le autorità USA, misero costantemente sotto pressione il nostro Paese e la sua piazza finanziaria, costringen-

do le banche elvetiche a stanziare 1,8 miliardi di franchi per regolare tutte le questioni legate ai fondi in giacenza. Una vicenda che portò la Svizzera a dover analizzare criticamente il ruolo avuto nel corso della Seconda guerra mondiale. Non tutto però è una questione di rapporti di forza, e qui val la pena ricordare che, dal punto di vista diplomatico, il nostro Paese rappresenta gli Stati Uniti in Iran e che un ruolo simile lo ha assunto fino al 2015 anche a Cuba. In altri termini, quando Washington non riesce a dialogare con altri Stati, a volte chiama in causa la «sorellina elvetica». Un’ultima nota di natura commerciale, in questi ultimi anni gli scambi tra i due Paesi vanno a gonfie vele, a tal punto che gli Stati Uniti sono diventati nel 2023 il principale mercato di esportazioni di prodotti svizzeri all’estero. Con un punto dolente, come fa notare la Seco, la segretaria di Stato dell’economia: «Gli Stati Uniti sono il partner commerciale più importante con il quale la Svizzera non ha ancora concluso un accordo di libero scambio». Un’intesa a cui Berna anela da tempo ma che non si intravvede all’orizzonte, tra «sisters» può capitare di non vederla allo stesso modo…

Roberto Porta

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Elezioni americane: la resa dei conti

L’analisi

◆ La corsa alla Casa Bianca vede Harris e Trump in una situazione di sostanziale parità e quindi di estrema incertezza. Quali sono i temi su cui si gioca la partita?

Oltre venti milioni di americani hanno già votato recandosi negli appositi seggi elettorali già aperti perché abilitati ad accogliere il voto anticipato; oppure votando per corrispondenza. Ma non sappiamo per chi. Nei sondaggi il vento è cambiato, dopo un periodo favorevole a Kamala Harris c’è stata una risalita di Donald Trump. Sono percentuali modeste, non sconvolgono una situazione di sostanziale parità e quindi di estrema incertezza. «The Economist», che ha un suo modello previsionale basato su indicatori diversi dai tradizionali sondaggi, è passato dal favorire Harris al segno opposto. Mark Penn, che fu a lungo un sondaggista democratico nonché consigliere di Bill e Hillary Clinton, oggi sostiene che Trump è più credibile sui tre terreni che contano cioè inflazione (economia), immigrazione, ordine pubblico e criminalità. Restano tante incognite quali: lo scenario di ricorsi e contestazioni post-scrutinio; la possibilità che un partito conquisti la Casa Bianca ma non la maggioranza al Congresso per cui avremmo una presidenza dimezzata.

Al cambio di segno nei sondaggi corrisponde un nuovo tono nella campagna Harris. La vicepresidente all’inizio aveva impostato una campagna positiva, ottimista: si era detta la candidata della «gioia», si era presentata come portatrice di cambiamento, aveva promesso di rilanciare il «sogno americano» di una società ricca di opportunità per tutti. Ora il tema dominante è diventato la minaccia che corre la democrazia americana, Trump è stato definito apertamente un fascista o aspirante dittatore. Definire Trump un fascista può sembrare legittimo, visto il disprezzo per la democrazia che lui mostrò il 6 gennaio 2021. Ma per collocare l’accusa di fascismo in una giusta prospettiva, è utile leggere un editoriale del «Wall Street Journal». È un quotidiano schierato a destra ma rappresenta l’anima tradizionale del partito repubblicano, non quella at-

tuale. Ha una linea conservatrice, liberista e anti-trumpiana. Per esempio, si è sempre opposto a Trump su tre temi qualificanti: immigrazione, dazi, Putin-Ucraina. Ecco alcuni estratti dell’editoriale.

«Diamo per scontato che ci sono molte ragioni per temere un ritorno di Trump al Governo. Il suo linguaggio è spesso volgare e divisivo. I suoi elogi a personaggi come Vladimir Putin e Xi Jinping sono offensivi. Il suo tentativo di ribaltare il risultato elettorale nel 2020 fu sciagurato. Il nostro giornale aveva indicato di preferire ogni altro candidato repubblicano al posto suo. Ma nonostante tutto ha vinto la nomination per la terza volta, avrebbe vinto contro Biden, è in parità con Harris. Forse decine di milioni di americani sono favorevoli a un colpo di Stato fascista? La verità è che la maggioranza degli americani non crede ai meme sul fascismo, e ha delle buone ragioni. La prima è nella storia del primo mandato Trump. Fu ostacolato dai contropoteri e bilanciamenti del sistema istituzionale americano. L’opposizione, la stampa, la burocrazia federale contrastavano i suoi atti, e lo farebbero anche in futuro».

In quanto alle minacce di Trump di usare la polizia e perfino le forze armate contro i propri oppositori, il «WSJ» ricorda che lui ha precisato di riferirsi agli estremisti che ricorrono alla violenza di piazza. «Qualsiasi intenzione lui abbia – prosegue l’editoriale –dovrà vedersela con gli ostacoli insiti nelle istituzioni americane. Gli stessi giudici da lui nominati respinsero le sue accuse sui brogli elettorali, e i repubblicani bloccarono i suoi tentativi di sovvertire il risultato. Noi abbiamo fiducia che la Corte suprema, le forze armate, il Congresso, impediranno qualsiasi attentato alla Costituzione». Quindi il giornale torna sulle ragioni per cui la maggior parte degli americani non considerano Trump una minaccia unica contro la democrazia: «Perché hanno visto i democrati-

ci calpestare ogni sorta di regole pur di sconfiggerlo». L’editoriale ricorda la bufala del Russiagate nel 2016, un castello di menzogne fabbricate dallo staff di Hillary Clinton. I tentativi di far fuori Trump attraverso i processi, con il procuratore generale di New York che fece la sua campagna elettorale «promettendo di trovare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di incriminarlo». «È stato sovvertito così un principio fondamentale della giustizia americana. I democratici dicono esplicitamente di voler compromettere l’indipendenza della Corte suprema imponendole nuove regole. Vogliono abolire la maggioranza qualificata nelle votazioni al Senato: questa secondo noi è una minaccia alla Costituzione più grave di qualsiasi cosa Trump sia in grado di fare». La conclusione: «La paura del fascismo sarebbe più credibile se i democratici non abusassero del potere. Se perdono quest’elezione contro Trump, visti i suoi difetti, non sarà perché lui è un aspirante Mussolini. La ragione sarà il bilancio del governo Biden-Harris».

Non occorre concordare con il «Wall Street Journal». Ma la lettura di

questo editoriale serve a capire perché un’America anti-trumpiana osserva con fastidio la retorica antifascista. C’è un elefante nella stanza: la situazione delle finanze pubbliche in degrado, il tema ignorato da entrambe i candidati. Eppure il rapporto deficit/Pil negli Stati Uniti viaggia verso il 7%, un livello che sarebbe intollerabile nell’Unione europea. Il debito/Pil è al 100%. Certo il Tesoro di Washington ha il privilegio «imperiale» di stampare una moneta che tutti vogliono. E l’economia reale scoppia di salute, una copertina dell’«Economist» l’ha definita «oggetto d’invidia da parte del mondo». Tant’è, sia Harris sia Trump promettono cose che costeranno care, in termini di nuovo deficit o nuove tasse, ma l’opacità dei conti domina. Su due altri fronti le cose sono più chiare: protezionismo e immigrazione. I dazi sono un tema in cui le conseguenze sull’Europa possono essere profonde. I democratici si sono spostati verso le posizioni di Trump. Condannarono nel 2017 i suoi dazi sulle importazioni cinesi; una volta al potere li hanno aumentati. Il protezionismo ormai è bipartisan. Però le distanze tra Har-

Voglio investire denaro in borsa Come funziona un deposito?

ris e Trump ci sono. L’ex presidente repubblicano minaccia dazi su tutti, non solo sulla Cina. La vicepresidente democratica sarebbe più gentile con gli alleati.

In quanto alla politica migratoria: la sinistra ha cavalcato a lungo delle ideologie radicali, vedi i programmi «no border» di Alexandria Ocasio Cortez che includevano l’eliminazione della polizia di frontiera. Harris quattro anni fa era allineata su quegli slogan e voleva depenalizzare il reato d’immigrazione clandestina. Oggi Harris ha fatto dietrofront anche su questo terreno. La stessa base democratica percepisce l’immigrazione clandestina come un fenomeno dannoso e destabilizzante. Harris ne prende atto e promette una politica dura di controllo alle frontiere. Questa non preclude che l’America continui ad assorbire stranieri: a condizione che rispettino le modalità legali per ottenere il permesso di soggiorno, e quindi con un controllo sui flussi, sulla loro composizione, sul tipo di forza lavoro che viene ammessa. È molto diverso da quello che abbiamo visto accadere alla frontiera negli ultimi anni.

La consulenza della Banca Migros ◆ Il «contenitore» in cui vengono custoditi titoli come azioni, obbligazioni o quote di fondi si può gestire in tre modi diversi: con l’autogestione, con la gestione patrimoniale da parte di esperti o con una forma mista

Il deposito è un contenitore in cui vengono custoditi titoli come azioni, obbligazioni o quote di fondi. Costituisce l’infrastruttura necessaria per negoziare tali titoli, ossia per acquistarli o venderli. Le transazioni vengono gestite tramite il deposito e le singole posizioni sono costantemente aggiornate. Le operazioni di compravendita possono essere comodamente effettuate e monitorate da casa o in viaggio. I proventi derivanti dai titoli, come gli interessi e i dividendi, vengono accreditati sul conto collegato al deposito. Si può gestire un deposito in tre modi: con l’autogestione, con la gestione patrimoniale da parte di esperti o con una forma mista tra le due opzioni. Optando per l’autogestione si prendono tutte le decisioni d’investimento in piena autonomia. Si selezionano i titoli da inserire nel proprio deposito e

si segue attivamente il loro andamento. Occorre quindi tenersi aggiornati sui cambiamenti del mercato al fine di

prendere decisioni d’investimento ottimali. Osservare il mercato richiede molto tempo: quante più azioni singole si possiedono, tanto più tempo servirà per monitorare il proprio deposito. Con la gestione professionale, invece, si affidano le operazioni d’investimento a gestori di fondi o a consulenti finanziari che selezionano i titoli in base alle specifiche esigenze ed elaborano una strategia d’investimento in linea con la propensione al rischio e la capacità di rischio individuali. Questi, inoltre, monitorano regolarmente il deposito e lo adeguano all’evoluzione delle condizioni del mercato.

È indispensabile confrontare le condizioni

Chi opta per la forma mista è per-

sonalmente responsabile della composizione e della gestione degli investimenti nel proprio deposito, ma si avvale occasionalmente di conoscenze specialistiche e, ad esempio, consulta gli elenchi di raccomandazioni per investimenti interessanti e idee d’investimento o parla con dei consulenti.

La scelta dell’opzione migliore dipende quindi da quanto tempo e lavoro si intende dedicare alla gestione del deposito. Attenzione: i servizi di consulenza e di gestione sono quasi sempre a pagamento. A queste spese si applicano altre commissioni, come ad esempio i diritti di custodia annuali o mensili. L’importo esatto dipende dal volume del deposito, ossia dal valore complessivo delle azioni e delle quote dei fondi nel deposito. Inoltre, fatta eccezione per la ge-

stione professionale, la compravendita di titoli è soggetta al pagamento di una commissione che può essere un importo fisso per ogni transazione o una percentuale fissa del volume della transazione. Ecco perché, prima di aprire un deposito, conviene confrontare tutte le condizioni.

Come aprire un deposito presso la BANCA MIGROS Qui si trovano maggiori informazioni sul deposito della Banca Migros:

Pubblicità di un servizio finanziario ai sensi della LSerFi.
Angélique Schweizer, consulente alla clientela presso la Banca Migros ed esperta in tematiche d’investimento.
Sia Harris (a sinistra) sia Trump trascurano il tema delle finanze pubbliche in degrado. (Keystone)

I cessate-il-fuoco al posto della pace

Prospettive ◆ Le guerre si trascinano per decenni, fra alti e bassi, senza che si riesca a intravvedere qualcosa che assomigli a uno stabile assetto pacifico. Casi emblematici: il conflitto Russia-Ucraina e quello tra israeliani e palestinesi

Se Tolstoj fosse stato nostro contemporaneo non avrebbe scritto Guerra e pace. La caratteristica del nostro tempo consiste nella perdita di senso di entrambi i termini. Si uccide e si viene uccisi, talvolta si smette di sparare e spesso si riprende. Ma nel primo caso non è guerra, nel secondo non è pace. Almeno non nel senso che finora tali parole avevano acquisito. Vediamo. C’era una volta la guerra. Intesa come scoppio violento di ostilità fra due o più soggetti geopolitici. Fra Stati o dentro gli Stati (bellum civile). Queste esplosioni di ferocia collettiva non erano di norma fini a sé stesse. I soggetti perseguivano obiettivi specifici. Si combattevano per degli oggetti – essenzialmente territori dove esercitare il proprio potere, o negarlo ad altri – e/o poste immateriali, come religioni e ideologie. Oggi gli stessi protagonisti delle dispute belliche di rado hanno ben chiaro perché si battono. Non esiste quasi più il cosiddetto end state, lo scopo finale. Né esistono surrogazioni vaghe, imprecise, mutevoli. Sicché risulta difficile stabilire chi abbia vinto, chi perso. Soprattutto, la vittoria delle armi di rado corrisponde al raggiungimento di una pace più favorevole rispetto a quella che si ruppe con l’avvio dei combattimenti. Per conseguenza, c’era una volta la pace. Oggi ci sono le

sospensioni delle ostilità, più o meno provvisorie, spesso incomplete. Se Tolstoj fosse con noi avrebbe scritto un trattato sulle tregue. Viviamo l’epoca dei cessate-il-fuoco, quando va bene. I conflitti si possono trascinare per decenni, fra alti e bassi, fasi di furia e di raffreddamento, senza che si riesca a intravvedere qualcosa che assomigli a uno stabile assetto pacifico. Latitano di conseguenza i trattati di pace. Si negozia al massimo su modi e tempi delle tregue, sempre revocabili. Dalla razionalità alla nevrosi.

Due esempi che oggi ci tormentano. La guerra fra Russia e Ucraina ha almeno un secolo di storia. È la classica crisi fra un Impero in decomposizione e una Nazione in formazione che cerca di autodeterminarsi. Scontro tanto più micidiale in quanto investe due popoli simili per storia, lingua e cultura, anche se ciascuno – specie la Nazione in fieri – fa di tutto per distinguersi e celebrarsi come diverso anzi opposto. Narcisismo delle piccole differenze. Tutto è cominciato con la prima guerra mondiale, quando i tedeschi vittoriosi sul fronte orientale favoriscono la nascita nel 191718 di uno staterello ucraino, di fatto loro protettorato. Questione di mesi, e il crollo del Secondo Reich, seguito dalla guerra civile russa con forte partecipazione internazionale, riporta

quell’embrione di Ucraina sotto Mosca. A disposizione dei bolscevichi invece che dello zar. Scenario simile si dipinge nella Seconda guerra mondiale, con il ritorno dei tedeschi, stavolta in veste nazista, la conseguente riapparizione del nazionalismo ucraino in armi e la rivincita sovietica. Con relativa repressione della resistenza ucraina, attiva fino a metà degli anni Cinquanta. La guerra attuale, quando sarà sospesa, non vedrà la fine della reciproca ostilità. Quindi non confini definiti e stabili. Assisteremo probabilmente all’annessione di fatto di alcune province ucraine alla Russia, non riconosciute dall’Occidente e da gran parte degli altri Stati. Ad accentuare lo iato fra situazioni di fatto e di diritto, tipiche dell’assenza di una vera pace. In attesa del prossimo round, fra qualche anno o decennio. Ancora più macroscopico l’esempio mediorientale. In particolare, la guerra fra Israele e palestinesi. I cui prodromi risalgono ancora una volta ai primi dello scorso secolo, con il ritorno in Terra Santa di una crescente popolazione ebraica e il rifiuto arabo di accettare questa realtà. Dopo decenni di guerre brevi tutte risolte con il trionfo di Israele – salvo il pareggio della guerra contro Hezbollah, in Libano, nel 2006. Ora assistiamo a una fase acuta dello scontro, dai toni apo-

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calittici. Israeliani e palestinesi si sentono in pericolo esistenziale. Ciascuno contando su potenti alleati, non esattamente disposti a dissanguarsi per i rispettivi clienti. È il caso di Stati Uniti e Iran. Il sangue ebraico versato il 7 ottobre 2023 e quello arabo-palestinese dovuto alla reazione israeliana segnalano l’incrudimento del conflitto secolare fra due popoli rassegnati a combattersi a tempo indefinito. Negandosi reciprocamente lo statuto di umanità. Il tutto aggravato dalla ma-

nipolazione delle religioni a scopo di mobilitazione bellica.

Mentre scriviamo la guerra sembra fuori controllo. Un giorno non vicino verrà sospesa, almeno su alcuni dei sette fronti dove oggi si combatte. A meno del collasso di Israele o dei suoi nemici. Di sicuro ci vorranno generazioni prima che la carica di odio reciproco possa essere stemperata. Il racconto delle atrocità del nemico sarà trasmesso di padre in figlio. E in nipote.

Insieme alla guerra e alla pace, pare scomparsa l’arte della diplomazia. Del compromesso negoziato. Approccio razionale sommerso dalle propagande e dalle manipolazioni eccitate dai media, specie se (a)sociali. Il confine fra realtà e falsificazione è sempre incerto, adattabile alle esigenze dei contendenti. La stessa parola «pace» è fuori moda, mentre «guerra» è termine ossessivo. Difficile immaginare come spezzare questo circuito perverso. Il primo passo sarebbe riconoscersi reciprocamente come avversari che appartengono alla stessa specie. C’era una volta l’umanità. Ora il nemico è animale da sopprimere. Così la pace è impossibile. Non è invidiabile l’èra dei cessate-il-fuoco, quando sai che prima o poi qualcuno il fuoco lo riattizzerà. Non rassegnarsi a questa terribile moda è l’urgenza del momento.

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L’impossibile rinascita del Libano

Reportage da Beirut ◆ Il «Paese dei cedri» fa i conti con il suo passato scomodo mentre gli attacchi israeliani si intensificano

Paola Nurnberg, testo e fotografie

Al controllo passaporti non c’è praticamente nessuno. In fila ci sono unicamente i pochi passeggeri del nostro volo da Milano. Ormai l’aeroporto Rafic Hariri di Beirut è collegato solo grazie alla compagnia di bandiera libanese, che vola nonostante i ripetuti attacchi israeliani sulla città, che si sono intensificati dalla metà di ottobre rispetto all’inizio dell’operazione contro Hezbollah, il braccio armato degli sciiti in Libano, lo scorso settembre.

Dal sud del Libano, pesantemente bombardato perché roccaforte delle milizie del «partito di Dio» (questo il significato di Hezbollah), le attività si sono spostate man mano anche nella Valle della Beqaa, quella che porta verso la Siria, e nella vicina Baalbek, dove ci sono meravigliose rovine e i resti archeologici di epoca romana, anche questa una zona considerata ora particolarmente a rischio per la sua concentrazione di sostenitori del gruppo sciita.

Dopo l’esplosione di un silos al porto il 4 agosto 2020 – che ha causato la morte di oltre 200 persone – Beirut non si è più ripresa

Il piccolo Libano, grande più o meno come la Svizzera, è così ridiventato in poche settimane una delle zone più tormentate del Medio Oriente. E cresce il timore che nel Paese possa scoppiare ancora una nuova guerra civile, con conseguenze imprevedibili per la sua fragilità economica, politica e sociale. Dopo l’esplosione di un silos al porto di Beirut il 4 agosto del 2020, dove erano immagazzinate tonnellate di nitrato di ammonio, la città non si è più ripresa. Oltre 200 i morti, migliaia i feriti e almeno 250 mila le abitazioni distrutte. Una tragedia sulla quale si erano riversati da subito poche certezze e molti dubbi (c’erano davvero solo sostanze per fertilizzanti o era un deposito di Hezbollah? È stato Israele a colpire?). Uno dei pochi dati sicuri: la fuga, ancora una volta, di migliaia di libanesi verso altri Paesi, verso ipotesi di normalità. Il risultato? La città si è svuotata, ha visto chiudere negozi, uno dopo l’altro, come attività, ristoranti, alberghi, mentre centinaia di appartamenti del centro sono da allora rimasti sfitti e chiusi.

Conosciamo il Libano dal 2003, da quando cioè cominciava a credere di potersi allargare al turismo europeo e ospitava per questo una piccola fiera del turismo alla quale erano invitati giornalisti e professionisti del settore. Nonostante la presenza dei segni delle violenze che avevano insanguinato le sue strade – c’erano edifici coi muri crivellati e palazzi che portavano i segni della guerra civile (1975-90) – il Paese sperava di poter finalmente usare le sue ricchezze artistiche e il suo patrimonio culturale per attirare a sé i vicini europei, per tornare ciò che era prima della guerra civile. Con un tessuto sociale quasi per metà cristiano

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(prima del conflitto i cristiani erano di più) e per metà musulmano, sia sunniti che sciiti, a cui si aggiungono quote minori di drusi e altri gruppi religiosi, questa Nazione avrebbe potuto rappresentare un esempio di convivenza in tutto il Medio Oriente. Questa mescolanza, varietà che rende caratteristico il Libano, allo stesso tempo lo costringe a restare intrappolato nei suoi stessi simboli, ai quali torna ad aggrapparsi nei momenti di crisi, probabilmente nella convinzione di poter rinsaldare la propria identità, minacciata da un presente senza equilibrio. Così è facile trovare ovunque – nelle strade di Beirut – immagini e murales delle icone politiche e religiose del passato, tutte accompagnate da destini tragici, e ancora viste come idoli. Dal leader cristiano delle forze libanesi Bashir Gemayel, eletto presidente nel 1982 e mai entrato in carica perché ammazzato prima di poterlo fare, all’ex premier sunnita Rafic Hariri, a cui sono dedicati monumenti naziona-

li e una statua vicino al lungomare che ricorda il punto in cui fu fatta esplodere la sua auto nel 2005, fino al leader sciita di Hezbollah Hassan Nasrallah, ucciso di recente da un blitz israeliano. Ogni immagine ricorda il destino tumultuoso del Paese. Paese che fatica a liberarsi del peso dei ricordi, perché incapace di svincolarsi dai protagonisti di ieri, alcuni dei quali ancora attivi nella vita politica odierna. Le istituzioni, ostaggio dei giochi di potere, e la frustrazione del popolo hanno fortemente indebolito il cosiddetto «Paese dei cedri», che ha sì più volte provato a risollevarsi e rinascere, perché credeva in sé stesso, ma poi non ce l’ha fatta. Almeno non completamente. O perché scoppiavano guerre con Israele, come quella del 2006, o perché nel frattempo i libanesi che hanno potuto farlo si sono costruiti una vita all’estero, facilitati anche dal «trilinguismo». A differenza di altre nazioni mediorientali infatti i libanesi, oltre all’arabo, che è la lingua ufficiale, par-

lano spesso correntemente anche l’inglese e il francese. Specialmente coloro che appartengono alle fasce più privilegiate e istruite della popolazione ne approfittano espatriando verso Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Emirati Arabi. Destinazioni dove il peso della politica non complica la vita come qui, e non la strozza con le sue pretese di fedeltà ideologiche o religiose. Ha cambiato volto anche la Corniche di Beirut, la passeggiata sul lungomare solitamente affollata la sera nelle stagioni più calde, dove molte famiglie coi bambini piccoli approfittano del fresco mentre intorno scorre la vita di lusso in ristoranti e night occidentali frequentati da ricchi stranieri e libanesi. Ma questo era prima. Ora ci sono moltissime tende improvvisate che ospitano gli sfollati dal sud. Un milione quelli che si sono riversati in altre zone del Libano, e soprattutto nella capitale. Tante famiglie, quelle con maggiori disponibilità economi-

che, hanno trovato posto negli alberghi del centro e dei quartieri più sicuri, o in centri messi a disposizione per loro, ma chi non dispone di sufficienti mezzi è costretto a vivere in auto cariche di materassi, coperte, abiti, e di quel poco che si è potuto portare via, scappando dai bombardamenti israeliani. Stanno lì da settimane ormai, mentre gente del posto porta loro cibo, acqua e qualche bene di conforto, ma restano comunque abbandonati a loro stessi. Una situazione che esaspera gli animi di molti libanesi, già messi a dura prova negli anni passati del gran numero di rifugiati siriani, che si erano riversati qui subito dopo lo scoppio della guerra nella confinante Siria. Le organizzazioni non governative e l’Unhcr, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati, sta prendendo contatto con loro, ma il tutto avviene con con estrema difficoltà, perché tra molti serpeggia il timore che in mezzo agli sfollati ci siano sostenitori e miliziani di Hezbollah.

Le vite a metà dei bambini rifugiati, tra bombe e speranza

«Sahafi!», ovvero «Giornalista!». Mi giro, richiamata dalle voci squillanti di alcuni bambini che giocano a calcio nel cortile di una scuola a Zouk Mikael, un distretto cristiano a nord di Beirut. In realtà avevo provato a fotografarli poco prima ma si erano girati facendomi un cenno con la mano, lasciandomi intendere che non volevano essere ripresi, quindi me ne stavo andando. «Ci fai il video mentre tiriamo in porta?». Stavolta mi parlano in inglese. Prendo il cellulare, filmo e faccio le foto, e loro giocano con ancora più foga. È un momento davvero normale, penso, le loro voci sono al-

Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)

Simona Sala

Barbara Manzoni

Manuela Mazzi

Romina Borla

Ivan Leoni

legre, l’energia che li muove incredibile. Non è la prima volta che vedo i più «fragili», ossia i bambini, vivere la condizione dello sfollato e del rifugiato. Hanno risorse che gli adulti non hanno. Sono convinta, ma non ne ho le prove, che sia perché loro, a differenza dei grandi, conservano la speranza. Non pensano al domani e sanno vivere il momento. E quel momento, in quel cortile, è solo puro gioco.

Quando mi raggiunge Josiane Khalil, la prima sindaca di Zouk Mikael, nonché una delle otto donne sindache di tutto il Libano, mi racconta di aver messo a disposizione

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la scuola per le persone in fuga. Ora ospita una ventina di famiglie, in tutto un’ottantina di persone. La scuola però da allora è rimasta chiusa e ha sospeso tutte le lezioni e questo sta creando non pochi problemi, dato che circa 200 allievi sono stati costretti a rinunciare allo studio chissà fino a quando. Tra questi anche diversi bambini siriani che qui hanno potuto ricominciare una vita nonostante la condizione di rifugiati. «Cosa possiamo fare?», dice Josiane Khalil, aggiungendo subito dopo, «non possiamo fare proprio niente».

«Vogliamo la pace per continuare la nostra vita normalmente ma la

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situazione è questa», spiega ancora. «L’alternativa per gli studenti sarebbe quella di andare nelle scuole private, ma sono famiglie che non possono permetterselo».

Tutto intorno si vedono scatoloni pieni di vestiti, mentre giovanissimi volontari della Caritas fanno giocare i bambini, gonfiano palloncini e fanno dei disegni con loro. Ma si tratta di un equilibrio precario, secondo Josiane Khalil, che afferma di essere stata minacciata da alcuni gruppi che pretendevano ospitasse più famiglie mentre lei ha dovuto dire di no, dal momento che in tutta la scuola ci sono appena tre bagni.

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La scuola di Zouk Mikael, un distretto cristiano a nord di Beirut, che accoglie una ventina di famiglie rifugiate.
Bandiera sciita sventola nel luogo di un attacco israeliano a un bunker di Hezbollah di fronte all’ospedale Rafic Hariri, a sud di Beirut.

Calendario dell’Avvento da riempire

CULTURA

Cinema: il ruolo del produttore

Qual è il denominatore comune che ha segnato il destino di colossal come Joker Folie à Deux, Megalopolis e Horizon: An American Saga?

L’uomo da ripensare

Alla ricerca dell’origine

Si intitola Gli artigli di Dio, il romanzo d’esordio della locarnese Wanda Luban, pubblicato da Alter Ego Edizioni, nella collana Specchi

Podcast ◆ Sono sempre più frequenti i collettivi maschili che riconoscono l’urgenza di un cambio di paradigma

Ultimamente, nei miei feed social, compaiono sempre più frequentemente post che trattano questioni femministe da una prospettiva maschile. Forse è l’algoritmo, ma sembra che stiano nascendo come funghi gruppi di uomini, spesso con nomi autoironici – Mica Macho o Maschile plurale, solo per citarne un paio – che si interrogano su come affrontare le questioni di genere anche dal punto di vista del gruppo sociale privilegiato.

Può sembrare un paradosso, ma è abbastanza chiaro che anche noi che ci identifichiamo come uomini (uomini cisgender per la precisione, ovvero persone la cui identità di genere coincide con il sesso assegnato alla nascita), pur beneficiando dei vantaggi evidenti di una società patriarcale, siamo comunque costretti in ruoli spesso scomodi e che generano molti malesseri e disagi. Questa prospettiva rappresenta una novità significativa: fino a ora, il tema era soprattutto affrontato da gruppi di donne femministe o all’interno della comunità LGBTQ+.

Anche gli uomini possono beneficiare di una società femminista, ma devono necessariamente ripensare alla mascolinità

Il ricercatore ticinese Yari Carbonetti, nel suo saggio Decostruire il maschile, scrive: «Appartenere a un gruppo privilegiato non significa per forza essere vincitori». E ancora: la scrittrice afroamericana bell hooks (che desidera che il suo nome venga scritto in minuscolo per sottolineare quanto la causa che portava avanti fosse più importante rispetto alla sua persona) scriveva: «La pratica femminista dell’autocoscienza è uno strumento essenziale per gli uomini. I maschi di tutte le età hanno bisogno di ambienti in cui la loro resistenza al sessismo sia espressa e valorizzata».

La visione di questi gruppi è chiara: è necessario in particolare decostruire due punti di vista problematici dell’idea tradizionale di femminismo: è scorretto pensare che gli uomini non possano beneficiare di una società femminista, ed è impossibile per gli uomini godere di questi vantaggi senza un profondo ripensamento della mascolinità e senza rinunciare ai privilegi attuali. Nelle società patriarcali, anche molti uomini soffrono di specifiche problematiche legate al genere: il modello di uomo «invulnerabile, dominante e anaffettivo» provoca tassi di suicidio più elevati, malessere psicologico e comportamenti malsani e rischiosi che mettono a repentaglio la propria salute. Privilegi e disagi maschili vanno di pari passo.

Molti dei podcast presentati in questo articolo risentono di una certa «artigianalità»: appare chiaro che sono realizzati con mezzi scarsi e senza una grande pianificazione editoriale, ma che partono piuttosto da un’urgenza comunicativa. Per esempio Un podcast per maschi di «Osservatorio Maschile», collettivo che si fonda su basi femministe per approcciare le pluralità maschili, parte dalla convinzione che ci sia una grande urgenza di confrontarsi con nuove forme di maschilità emergenti. Il podcast, registrato con mezzi di fortuna, dedica la sua prima puntata proprio alle strategie necessarie a mettere in piedi un gruppo di dialogo e autocoscienza maschile. Cosa non facile in una società che ci ha abituati, almeno per quanto riguarda noi maschi, a non parlare delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti. In questo frangente anche solo la semplice domanda: «Come stai?» può assumere un va-

lore completamente altro ed essere la base per la costruzione di dinamiche profondamente diverse. Gli studenti e le studentesse della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa hanno dato vita, tramite un progetto didattico, a Mai dire maschi, un podcast che presenta interviste a scrittori, pensatori e altre figure pubbliche che raccontano i vari modi di essere uomini, lottando contro stereotipi, violenza e discriminazioni. Nei primi episodi, attraverso anche l’incontro con l’attivista Andrea Colamedici, si mette l’accento sulla necessità di decostruire il patriarcato: «Tutti gli uomini sono nati nel patriarcato, un sistema culturale in cui esiste l’aspettativa performativa maschile; non è una colpa, ma occorre riconoscerne un elemento sistemico». Agli uomini è richiesto un impegno concreto: è un lavoro faticoso, che mette in discussione questioni profonde e richiede di ripensarsi, di mettere in crisi i propri principi e la

propria modalità di rapportarsi con il mondo. Tuttavia, è anche un percorso arricchente: «Riconoscere e risolvere i problemi del sistema di potere in cui si vive è un dovere civile che cresce in proporzione ai propri privilegi». Questo percorso deve essere affrontato collettivamente, coinvolgendo anche chi si identifica come donna e tutte le collettività marginalizzate. Nel caso in cui poi si sia donna e, contemporaneamente, parte di altri gruppi discriminati, si parla di femminismo intersezionale, poiché le discriminazioni derivano non solo dal genere, ma anche dalla classe, dal colore della pelle, dalla religione e da altri fattori. Tutti gli uomini – voci maschili si raccontano per cambiare è il titolo del podcast di Irene Facheris. È un mosaico di voci, raccolte, selezionate e montate dall’autrice, che costruisce un coro di storie ed esperienze maschili. In ogni puntata, l’autrice lancia ai suoi interlocutori una domanda

generale, per esempio: «Racconta la prima volta che ti sei accorto di essere un maschio. Quali sono stati i tuoi primi modelli maschili? Quando ti sei accorto che esistevano altri generi?». Successivamente, l’autrice elabora le risposte raccolte tra decine di uomini per estrarne dei pattern ricorrenti, fare delle riflessioni teoriche e cercare di fare una sintesi. Partendo dalle testimonianze, propone spunti di riflessione all’insegna del motto: «Se il problema è sistemico, la soluzione deve essere collettiva», che è anche il sottotitolo del progetto.

Le numerose proposte presenti in rete convergono nella creazione di un discorso articolato che poi sfocia nella vita reale

Più mainstream e pensato per un pubblico ampio è invece il podcast, ammiccante sin dal titolo, Cazzi Nostri, prodotto da Radio Deejay e sponsorizzato da una nota marca di preservativi. Condotto da Diego Passoni e dall’urologo web-star Nicola Macchioni, ogni puntata affronta, con la complicità di un ospite di richiamo, un tema dedicato all’identità sessuale maschile: pornografia, dimensioni dei genitali, desiderio, piacere anale, circoncisione e omosessualità. Pur evitando le questioni politiche e con un certo compiacimento verso l’ospite di puntata, il podcast rimane comunque un discorso franco e divertente su tematiche non trattate spesso dai media generalisti.

Infine, segnalo Amare Parole, progetto che non nasce da un gruppo di autocoscienza maschile, ma dal lavoro e dagli studi della sociolinguista Vera Gheno, recente ospite della rassegna letteraria «Libri in libertà» a Grono. Per il Post, l’autrice riflette con un podcast che esce ogni domenica mattina, sull’evoluzione del linguaggio e sui rapporti tra lingua, cultura e società. Attraverso proposte di uso di un «linguaggio ampio» Vera Gheno ragiona, episodio dopo episodio, su come poter includere, usando le parole giuste, tutte le diversità: non solo quelle di genere, ma anche religiose, territoriali e legate alla disabilità.

Questa è solo una selezione delle tante proposte sul tema presenti in rete da ascoltarsi con interesse e che vanno a formare un discorso articolato che parte dalle piattaforme online e che sfocia nella vita reale, per cercare di costruire un dialogo fra maschi, in cui sia possibile parlare di questioni importanti e intime (per esempio paternità, affettività, salute sessuale e violenza), senza ricalcare le dinamiche da spogliatoio.

L’immagine scelta per il podcast Mai dire maschi (realizzato nella Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa), con interviste a scrittori e pensatori che raccontano i vari modi di essere uomini.
Olmo Cerri
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Quale antidoto contro la megalomania dei registi?

Cinema ◆ L’assenza di un produttore segna il destino di colossal come Joker Folie à Deux, Megalopolis e Horizon: An American Saga

Esiste un filo rosso che lega Megalopolis e Joker Folie à Deux. Due film molto attesi e che si possono vedere nelle sale in queste settimane. Ma anche due pellicole che non stanno ottenendo il successo sperato; né di pubblico né di critica.

Il legame tra loro è dato dalla figura del produttore: un ruolo poco noto al pubblico, ma essenziale nella buona riuscita di un film. È colui che coordina l’intero progetto, lo indirizza ed è una sorta di mediatore tra il regista e i finanziatori, tra l’autore e il pubblico. I bravi produttori sono pragmatici, conoscono il mercato e il gusto degli spettatori ma sono pure dei fini cinefili.

In entrambi i casi si sente questa mancanza. Francis Ford Coppola ha detto di aver voluto fare tutto da solo, investendo in Megalopolis i propri capitali (ben 120 milioni di dollari) e lavorando al film da quattro decenni. Certamente è il suo lavoro più personale, ma in questo delirio d’onnipo-

tenza ha perso di vista gli spettatori. Ha realizzato un’opera mastodontica e smisurata che non è arrivata al pubblico, ha infastidito e annoiato. Anche Todd Phillips ha avuto problemi di produzione. Al regista la Warner Bros ha infatti concesso una grande autonomia sull’intero montaggio, inoltre lui non ha voluto effettuare test screening (le proiezioni di prova che si svolgono per capire l’apprezzamento del pubblico), che le major organizzano soprattutto con i film ad alto budget – si parla di ben 200 milioni di dollari –in modo da avere riscontri immediati e cambiarlo prima di lanciarlo nelle sale. Anche la mancanza di Bradley Cooper tra i produttori (accreditato nel primo film e che oltre a essere attore e regista ha il fiuto commerciale) è un segnale importante dell’assenza di un contraddittorio, o almeno di una voce diversa da quella del regista. Se in aggiunta, facciamo un passo indietro di un paio di mesi, anche un altro atteso film, presentato a Cannes

e uscito questa estate, ha fatto flop per lo stesso motivo. Si tratta di Horizon:

An American Saga. Un film diretto e prodotto da Kevin Costner. Un western che vuole rimettere in sella l’attore di Balla coi lupi e in auge un genere ormai lontano nel tempo. Come Coppola, anche Costner ha investito del suo e si è autoprodotto, scommettendo ben 100 milioni di dollari.

Si sa, i registi e i produttori sono sempre stati come cane e gatto. Spesso e volentieri i primi si sono lamentati dell’ingerenza nel loro lavoro di queste figure che devono tenere sotto controllo i costi, ma anche la vendibilità di un film. L’equilibrio giusto è difficile da trovare, perché l’estro artistico del regista spinge da una parte, mentre quello concreto del produttore dall’altra. Nei casi analizzati i difetti sono abbastanza evidenti e sono da imputare, in buona parte, alla mancanza di un controllore e all’euforia e megalomania degli autori.

Megalopolis è l’esempio più lam-

Giger, da Coira a Torino

Mostra cinematografica ◆ Due esposizioni commemorano il decennale della morte dell’artista grigionese

Non solo Alien. Se il film di Ridley Scott del 1979, dando inizio a una popolare e duratura saga – l’ultimo capitolo, Romulus, è giunto nelle sale durante l’estate – fece conoscere al mondo la creatività di Hans Ruedi (H.R. come si firmava) Giger, l’opera dell’artista grigionese non può essere limitata al lavoro che lo rese celebre.

Il decennale della sua morte (avvenuta il 12 maggio 2014 in seguito a una caduta) è stato l’occasione per una serie di iniziative anche per una rilettura della sua importanza e del suo ruolo di grande artista degli ultimi decenni del Novecento.

Giger, nato a Coira il 5 febbraio 1940, fu fin dagli anni Sessanta interprete e anticipatore di temi che si manifestarono solo più tardi, nonché influente sulla fantascienza successiva. Poco noto è il mediometraggio Swiss Made 2069 (1968) realizzato con il coetaneo Fredi M. Murer, un altro destinato a diventare grande (Pardo d’oro 1985, per il capolavoro Höhenfeuer), con il sottotitolo intrigante «o dove i futurologi e gli archeologi si stringono la mano». Il filmato, avanguardi-

stica combinazione di documentario e fantascienza, è facilmente ritracciabile in Youtube e mette in mostra alcune opere di Giger (come la Macchina del parto) tra le scenografie. Disegnatore tecnico e designer di formazione, con solide conoscenze della storia dell’arte, l’artista ha sfruttato queste abilità anche nell’uso di nuovi materiali e della tecnica dell’aerografia, fino a concepire il «biomeccanico», commistione di biologico e metallico che lo avvicina ad altri esponenti del simbolismo e del surrealismo. In particolare si possono trovare sintonie con lo scrittore britannico J. G. Ballard (La mostra delle atrocità, Crash e L’impero del sole), del resto Giger era fin da giovanissimo un avido lettore di fantascienza.

Alle origini dell’artista grigionese appartengono la sensazione di paura e di mistero e pure la passione per l’antico Egitto nata da ragazzo, quando ogni domenica mattina si recava al Museo Retico a visitare la mummia di Ta-di-Isis, che lo influenzò profondamente. La casa di famiglia divenne luogo di sperimentazioni che rivela-

pante di una mancanza di limiti. Il film parla di Cesar Catilina (Adam Driver), un architetto di New Rome, che ha un piano utopistico per ricostruire la città, distrutta da una catastrofe. Il regista vuole mischiare l’Impero Romano e un mondo nuovo, l’antichità e un futuro utopico. Ma Coppola non riesce nell’intento e straborda: nei dialoghi prolissi e didascalici, nelle scenografie ricostruite al computer, ma mai davvero coinvolgenti e con una trama incomprensibile, slegata e illogica. Joker Folie à Deux non funziona per altre ragioni, al di là della mancanza di un produttore. Iniziamo col dire che il primo Joker, in origine, non era stato realizzato per avere un sequel. È un’opera a sé stante che apre e si chiude con una sua coerenza interna. Invece, il grande successo ottenuto ha portato la casa di produzione a insistere affinché il regista e l’attore principale tornassero sul set, solo che a quel punto i due hanno elaborato il nuovo film in modo diverso dal primo. Infatti, il protagonista non è più Joker, ma l’uomo dietro la maschera, Arthur Fleck. Lo seguiamo nelle sue giornate, dentro un carcere di massima sicurezza, dove cerchiamo di capirne le turbe psichiche e dove proviamo a comprendere le ragioni della sua trasformazione. Tuttavia, questa ricerca interiore non viene mai fatta davvero, non si scava mai a fondo nella sua mente e nel suo passato. E anche l’inserimento di un personaggio come Harley Quinn (Lady Gaga) non aiuta in questo percorso conoscitivo. Anzi, la sua partecipazione e la volontà del regista di inserire dei momenti musicali dove lei diventa la protagonista, sono controproducenti. Spezzano il ritmo del film, spostano il focus da lui a lei e, in sostanza, oltre a creare confusione, non aggiungono quasi nulla all’idea principale e cioè

quella di capire chi è l’uomo che si dipinge da Joker. Nell’ultimo lavoro di Costner, sono due i problemi che hanno afflitto Horizon: An American Saga e che hanno l’origine nella mancanza di una linea precisa e chiara. Anzitutto il formato; il progetto si compone infatti di quattro film della durata di oltre dieci ore. In altre parole, non è costruito come una serie e neppure come un classico film, lasciando lo spettatore spaesato. Ma ancora più importante è la mal riuscita costruzione delle linee narrative. L’opera di Costner – ambientata nel 1859, un paio di anni prima della Guerra Civile – segue tre storie in parallelo, con molti personaggi ai quali lo spettatore non riesce ad affezionarsi (almeno questa è l’impressione dopo il primo capitolo, l’unico finora passato in sala). Se l’intento è lodevole, è però anche molto ambizioso: vuoi per la durata, vuoi per il gran numero di personaggi che la macchina da presa deve seguire nella loro evoluzione. Per la sua grandeur ricorda La conquista del West (1962). Allora furono oltre una ventina, le star che vi parteciparono, ma quel film, seppur abbastanza lungo, fu diviso in episodi (oggi potrebbe tranquillamente trasformarsi in una mini-serie) e alla direzione furono chiamati ben quattro registi. Ma soprattutto qui i personaggi erano credibili e risolti in poche battute e la trama lineare e semplice, nella quale seguivamo le vicissitudini di una famiglia di coloni lungo alcuni decenni. Il tutto fu realizzato sotto l’occhio vigile della MGM. In Horizon, invece, la sceneggiatura, sempre di Costner, non è così efficace e risulta frammentaria e slegata.

Tre esempi concreti di opere molto attese ma che non hanno funzionato. Nel delicato equilibrio di forza tra regista e produttore ha vinto il primo. E, non sempre, è buona cosa.

rono un talento, tanto che alcuni suoi lavori furono pubblicati sulla rivista scolastica «Sprachrohr». La sua città natale gli ha dedicato l’«Anno Giger a Coira» che si conclude con la mostra al Bünder Kunstmuseum dal titolo HR Giger – Gli anni di Coira: resterà aperta fino al 24 novembre, e include le foto originali della recente pubblicazione HR Giger. I primi anni di Charly Bieler. In aggiunta, Coira Turismo propone una visita guidata della città nei luoghi legati alla vita e all’opera di Giger: la scultura Torso con cranio lungo, detta Alien, posta di fronte al Museo d’arte, la targa commemorativa sulla casa di famiglia nella Storchengasse dove i genitori avevano la farmacia, la piazza a lui intitolata con l’imponente fontana della cicogna dotata di ventun lastre di alluminio con un motivo biomeccanico. Oltre al Centro Kalchbühl che ospita il Giger Bar da lui disegnato (versione ridotta di quello progettato per New York) e dove era prevista pure la Fontana dello Zodiaco, che ora l’associazione Pro HR Giger intende realizzare nel centro cittadino.

Altra città, altro spazio espositivo. Molto importante e ricca è la mostra Beyond Alien: HR Giger curata da Marco Witzig, il massimo esperto dell’artista, al Mastio della Cittadella di Torino e aperta fino al 16 febbraio 2025. Un’esposizione sorprendente per quantità di opere e allestimento e che apre scenari nuovi sull’importanza di Giger, anticipatore per temi e stile, e punto di incontro dell’arte alta e della cultura pop che stava nascendo. Un universo oscuro che spaventa e affascina (l’ispirazione per la bocca di Alien furono le labbra di Michelle Pfeiffer), con una visione nuova anche dell’erotismo, dell’amore, della nascita e della riproduzione, che spesso attingeva anche dall’autobiografia, come il suicidio della prima moglie, l’attrice svizzera Li Tobler.

A Torino sono esposti quadri, sculture e altre opere come le copertine di dischi che realizzò per vari artisti e i lavori preparatori per pellicole mai realizzate come Dune di Alejandro Jodorowski; tra questi, un trono e un tavolo, che hanno influenzato i film successivi. E ci si accorge che nell’immaginario che ci siamo costruiti attraverso i media c’è più Giger di quel che pensiamo.

Dove e quando

HR Giger. Gli anni di Coira, Coira, Bünder Kunstmuseum; fino al 24 novembre 2024. Orari: ma-do 10.00-17:00; gio 10.00-20.00. Beyond Alien: H.R. Giger, Torino, Museo Mastio della Cittadella; fino al 16 febbraio 2025. Orari: lu-ve: 9.30-19.30; sa-do: 9.30-20.30.

Mastio della Cittadella, Torino
Una scena tratta da Megalopolis (© 2024 American Zoetrope)

ENERGIZZANTI

Deodorante

Protezione

Il nido delle cose al fianco di una Tigre

Editoria ◆ Nel romanzo d’esordio di Wanda Luban, intitolato Gli artigli di Dio, l’autrice locarnese guida i lettori alla ricerca dell’origine, attingendo da un forte immaginario che ammicca al realismo magico

Manuela Mazzi

«Da poteva esprimere tre desideri. Chiese di conoscere l’origine della Coca-Cola, della libertà e della morte». Se è un libro di formazione, lo è in modo diverso da come lo si intende di solito. Nel romanzo d’esordio della locarnese Wanda Luban, intitolato Gli artigli di Dio (Alterego Edizioni; in libreria dal 12 settembre), il viaggio della scoperta non passa attraverso la classica sperimentazione della vita di un adolescente che – superate le prove, commessi gli errori, violate le regole, conosciuto il sesso – si fa adulto. No. In queste pagine la protagonista affronta un viaggio di conoscenza attraverso la ricerca delle proprie origini, per ritrovare un punto fermo su cui poggiare i piedi dopo aver volteggiato tra le proprie storie famigliari, quasi in un andirivieni disorientante. Ma è anche un viaggio spirituale, che trascende l’origine individuale per farla risalire a quella primordiale. Un modo per trovare il proprio posto in un tempo e in un luogo. E non da ultimo anche una magica elaborazione di un lutto importante, come solo una bambina potrebbe essere in grado di affrontare. Da, nome della ragazzina protagonista di quella che viene definita una fiaba per adulti, è miope, tuttavia si rifiuta di ammetterlo e di conseguenza non usa gli occhiali. Preferisce rimanere in quel mondo offuscato che le permette di vivere realtà immaginifiche che crea da sé. Un mondo la cui ambientazione terrena si muove nel nostro territorio, ma non solo. La storia, come un manto tessuto con una sorta di cordone ombelicale, avvolge i cieli e le terre, dal passato al presente

A tenerla legata alla terra, alla concretezza, è Nonno Pietro, che con lei interagisce con complicità. Si capisce che dev’essere sempre stato lui il punto fermo di Da, anche perché la protagonista non può contare sulla sorella, e i compagni sono più eterei dei suoi amici immaginari, mentre i genitori non capiscono o non accettano l’«ostinazione» a rimanere nel proprio mondo. Il nonno si limita ad amarla, almeno fino al giorno in cui scompare. Morto il nonno, il mondo di Da si capovolge. A sostenerla in quella che potrebbe essere l’elaborazione del lutto, e a farle da guida nella ricerca delle origini per permetterle di ritrovare il suo posto in questa vita, si manifesta una tigre siberiana che la bambina chiamerà Surava, e la quale a sua volta la battezzerà, per l’appunto, Da. Un battesimo vero e proprio, la cui cerimonia è data dall’intera narrazione, un lungo (se il tempo scorresse normalmente) rituale battesimale: come dire che, se hai un nome, sai chi sei, e se sai chi sei, sai qual è il tuo posto.

«Ogni cosa ha un’origine, ma noi abbiamo perduto il filo…», per citare il signor Kahn, tra gli incontri più interessanti.

La tigre – a salti e rimbalzi – accompagnerà Da e noi lettori attraverso una sorta di olfatto astrale che le permette di conoscere la vita delle persone che incontra su su fino ai loro antenati, e di viaggiare nel tempo in una sorta di trance ipnotica venendo risucchiata dentro un albero. Si passerà dalla Siberia alla Francia, da un sarto a un macellaio, da un gatto alle farfalle. Ogni racconto porta con sé il tema della ca-

sa, dell’esilio, della perdita di identità, laddove l’identità viene intesa come luogo in cui stare. Allo stesso tempo viene tessuto con una sorta di cordone ombelicale un ampio manto, un tappeto privo di confini che avvolge non solo i territori, orizzontalmente, ma anche i cieli e le terre, dal passato al presente, così come unisce gli uomini e gli animali, i parenti e gli sconosciuti, ricreando un’unica traccia dell’origine delle origini, non solo della famiglia di Da, ma di tutti e tutto. Un’identità che fa risalire l’appartenenza di ogni singolo a un «mondo», a un’origine sola. Così la Tigre siberiana, spirito guida di Da, arriverà alla conclusione del viaggio integrandosi completamente nella bambina, che – giunta alla fine della ricerca – diventa un «intero», matura, e si risolve accettando di far parte del mondo, e quindi di mettersi gli occhiali, ora che potrà affrontarlo con una nuova consapevolezza. Tra gli incontri, non mancano personaggi molto suggestivi, come l’uomodonna, la signora dei tappeti o lo sciamano del mausoleo.

Questo romanzo ci ha ricordato anche un’altra opera: Don Ponzio Capodoglio di Giorgio Pressburger (Marsilio editore). Perché entrambi adottano il registro della «fiaba», della narrazione simbolica, ed entrambi mettono in scena una ricerca, la ricerca dei loro protagonisti che hanno una storia diversa ma molto simile e legami con più territori del mondo, prevalentemente dell’est ma non solo; Pressburger cerca, parla d’identità, Luban, dell’origine. Pressburger si avvale della lingua come elemento d’indagine, Luban della «casa». Entrambi fanno risalire identità e origine a un’unica identità e a un’unica origine. Tuttavia i loro immaginari sono del tutto diversi. Gli artigli di Dio è inevitabilmente zeppo di simbolismi, psicomagie, allegorie, spiritualità, ma anche di immagini più materiche, di luoghi e storie che si rifanno alla grande Storia, di riferimenti a tradizioni e culture e a popoli che si sono fatti viaggiatori, venendo da altrove e, nel nostro caso, stabilendosi in Svizzera. A dispetto di quanto si potrebbe temere, però – grazie una buona struttura – non disorientano i salti temporali e spaziali che la tigre fa, anche perché il romanzo introduce sin da subito lo sguardo con cui stiamo osservando il

mondo di Da: come lei, siamo miopi e ci facciamo aiutare da una guida. Così che siamo pronti a ritrovarci in un luogo dai contorni non definiti, in locali dalle pareti offuscate, e sappiamo che avvicinandoci a una di queste potremo vedere una fotografia con la

sua storia, e spostandoci dall’altro lato vedremo un altro quadro, senza poter mai avere una visuale d’insieme completamente a fuoco. Ma Surava è una guida fantastica e non ci lascia sbattere conto gli spigoli. Ciononostante, Gli artigli di Dio ri-

chiede una lettura lenta. Che non è da confondersi con un libro lento. Anzi. Proprio perché le immagini si rincorrono a gran velocità con dei vuoti di spiegazione che generano anche ulteriori minuscoli salti nelle scene stesse, è fondamentale lasciare che le immagini abbiano il tempo di comporsi davanti ai nostri occhi. Una lettura trasversale di questo libro, per dire, non avrebbe alcun senso. Immagini, s’è detto ma anche profumi e odori. Perché questo è un libro che, come capita anche in natura, ha sostituto un senso, quello della realtà, con un altro, quello dell’olfatto.

A simboleggiare l’origine, come detto, qui è la casa, e nello specifico le case, contenitori di mondi magici e di storie, la terra natia, la foresta, il guscio, il nido, la tana, la betulla, il tappeto che fa da cuccia, il mausoleo, la perdita della casa, la soffitta e, una su tutte, la chiocciola, che più di così… «Le parole sono intenzioni. Si stendono ad asciugare fuori. Estendono i loro arti in ogni direzione, arpionano pesci volanti, come quando la madre di Da le si sedette di fronte, dicendole: ascoltami».

Bibliografia

Wanda Luban, Gli artigli di Dio, Alterego Edizioni, Viterbo, settembre 2024.

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In fin della fiera

Da tutta la vita all’ascolto di una radio

C’è sempre stata una radio nel mio orizzonte di vita. La prima non ha mai funzionato: era una a galena, costruita per me da zio Ettore che, dopo molti tentativi, convinto di aver trovato la sintonia, m’infilava le cuffie e io dovevo fingere di captare qualcosa. Poi fu la volta di una Marelli, la più economica. Era il 1944 e mio padre, tornato a casa dalla guerra, alle 10 di sera si metteva in ascolto del colonnello Stevens. A sette anni, da lettore precoce, leggevo a voce alta insegne dei negozi, manifesti, avvisi. Un giorno, ero con mia nonna dalle parti della stazione, vedo all’opera tre giovani: due tengono contro il muro un grande foglio di compensato mentre il terzo intinge il pennello nel barattolo della vernice nera e lo passa rapidamente su tutta la superficie. Tolto il foglio si scoprono un teschio con le tibie incrociate e una scritta che mi affretto a leggere: «Morte a chi ascolta Radio Londra». Tiro per il

Voti d’aria

braccio mia nonna ed eccitato le dico: «Mio papà l’ascolta!». Uno dei tre sente, si volta e scambia un lungo sguardo con lei prima di allontanarsi. Da quella radio Marelli usciva anche tanta musica leggera con le orchestre di Angelini, Barzizza, Trovaioli e relativi cantanti (Otto, il Trio Lescano, Bonino). Per la delizia di zia Emma, sorella non ancora ventenne di mia madre, la nonna organizzava piccole feste in casa, invitando amici del quartiere. Alle 18 iniziava il coprifuoco ma le nostre case, nel vecchio ghetto, erano collegate da corridoi sotterranei, anche gli ebrei un tempo non potevano uscire di casa dopo il tramonto. I vetri delle finestre erano ricoperti dalla carta da zucchero. Gli addetti alla contraerea multavano chi teneva accese luci che avrebbero potuto segnalare la nostra presenza ai piloti dei bombardieri che non vedevano l’ora di punire chi si permetteva di ascoltare canzonette.

L’odio che dilaga

I pedoni odiano i ciclisti, i ciclisti odiano i pedoni, gli automobilisti odiano ciclisti e pedoni, ciclisti e pedoni odiano gli automobilisti e i motociclisti, i motociclisti odiano tutti gli altri. Se poi si pensa che il ciclista può essere ciclista la domenica, pedone il sabato e automobilista negli altri giorni, è paradossale ma inevitabile che ognuno finisca per odiare in primo luogo sé stesso. Un ciclista parigino, ventisettenne, la scorsa settimana è stato investito volontariamente e ucciso da un automobilista che viaggiava a bordo di un Suv. I due avevano litigato perché il Suv aveva invaso la pista ciclabile percorrendola per circa duecento metri. È finita molto male. Si avverte nell’aria un odio diffuso: i genitori odiano gli insegnanti, che ricambiano di tutto cuore. I pazienti odiano i medici, al punto da aggredirli se pensano di non essere stati curati come si deve. I poli-

tici odiano i giudici che li accusano di avere sbagliato o di avere infranto la legge, i magistrati odiano i politici che invadono i loro territori. (-1 a tutti gli odiatori su strada). L’odio è il sentimento prevalente nei social. Qualche settimana fa, questa rubrica si stupiva della rabbia montante nella società. Era una puntata di moderato ottimismo (4+): oggi la stessa rubrica non si stupisce dell’odio. Vivo a Milano da oltre trent’anni, viaggio in metrò quasi quotidianamente dal ’92: è passato senza conseguenze il tempo dei vu’ cumprà; dei mendicanti mutilati della guerra in Bosnia, che si muovevano sulle braccia; delle donne e dei bambini rom che ti stavano addosso; degli ultrà scalmanati che tornavano (e ancora tornano) ubriachi di birra da San Siro. Ma solo qualche giorno fa, per la prima volta, mi è capitato di assistere, a due passi di distan-

A video spento

Un anno dopo la fine della guerra entra in casa nostra un totem da soggiorno, una grande Philips in radica e bachelite, 5 valvole e l’occhio magico per regolare la sintonia. Mio padre è l’unico autorizzato ad accenderla e spegnerla. Mi ritrovo nella scena di «Radio Days». Nel dopoguerra fioriscono per me le radiocronache sportive. Dal 30 giugno al 25 luglio del 1948 si corre il Tour de France, vinto da Bartali che nelle ultime tappe recupera un ritardo di quasi 20 minuti. Ma il 14 luglio c’è l’attentato a Togliatti, uno studente gli spara senza ucciderlo quando esce da Montecitorio. Dicono che Bartali sia stato aiutato a vincere il Tour per allentare la tensione. Vengo esortato ad ascoltare le cronache dalla Francia al massimo volume e con le finestre aperte. Gli operai che stanno rifacendo il manto stradale sotto casa si fermano per ascoltare le fasi finali delle tappe. Un’altra data fa per me da spartiacque.

Sono quasi le 8 di sera del 4 maggio 1949, sono seduto sul gradino fuori dal negozio di mia madre parrucchiera, in attesa che chiuda per salire in casa e cenare. Una sua cliente, la signora Basso, irrompe nel negozio e con voce alterata annuncia: «La radio ha detto che è morto il Torino». È una notizia incredibile, ma se «l’ha detto la radio» non può che essere vera. Ecco. Negli anni dell’adolescenza e anche dopo, avevi la meglio nelle feroci discussioni con i compagni se eri in grado di suggellare la tua versione dei fatti con la frase «l’ha detto la radio». Guai a tradire questa mission. La televisione è un rito sciamanico ma la radio è stata ed è ancora una religione laica. Con i suoi officianti: i degni successori di Arnoldo Foà, Ubaldo Lay, Sergio Zavoli, Nando Martellini e tanti altri.

Ricordo con gratitudine le 80 puntate del Viaggio in Italia di Guido Piovene che hanno aperto grandi orizzonti

a un ragazzo che non aveva ancora mai viaggiato. E le opere liriche, ascoltate seguendo i versi dei libretti, senza dover vedere una soprano di 120 chili che muore tisica. Avevo 14 anni e, dopo la terza media, mi accingevo a fare il pendolare fra Asti e Torino per frequentare l’Istituto Tecnico G.B. Bodoni e mio padre mi portò un giorno nella metropoli per spiegarmi il percorso e il tram fra stazione e scuola. C’è qualche posto dove vorresti andare? Mi domanda. Non avevo dubbi: via Arsenale 21, la sede di Radio Rai, citata ogni giorno. Era un portone come tanti altri in un palazzo di uffici, la sede legale. Ho poi scoperto dov’erano gli studi, in un palazzo rosso accanto alla Mole. Ma mai avrei potuto immaginare che un giorno avrei messo piede là dentro e mi sarei seduto in uno studio con un microfono davanti alla bocca, oppure in regia. Che Guglielmo Marconi, se può, mi perdoni.

za, a un litigio spaventoso (spaventoso per me e per tutti i passeggeri) tra un ventenne molto robusto e una piccola donna sui trent’anni molto atletica e muscolosa che si lamentava di qualche cosa e nella furia crescente, urlando insulti, ha cominciato a sferrare un primo, un secondo e un terzo calcio al ragazzo, con una violenza impressionante che finora avevo apprezzato (1) solo, ma raramente, al cinema in certi film giapponesi di arti marziali. Non credevo ai miei occhi, e per evitare di essere travolto da quella furia ho finto di essere arrivato e sono sceso alla prima stazione per rientrare in un altro vagone.

A Verona, nei pressi della stazione, un immigrato maliano aggredisce i vigili e tenta di accoltellare un poliziotto. Un agente spara e lo uccide. La magistratura indaga sulla eventuale condotta colposa, ma il ministro ultracat-

L’oblio per l’«insignificanza dell’origine»

Cartelli in Italia contro Liliana Segre, additata come «agente sionista», in Austria Herbert Kickl vince le elezioni e si definisce «cancelliere del popolo», appellativo con cui era definito Adolf Hitler, in Germania è boom dell’estrema destra: l’AfD vince le elezioni regionali in Turingia e avanza anche in Sassonia. Cosa sta succedendo? Svaniti nel nulla i documenti scritti e visivi, i drammi narrati dai sopravvissuti, i «mai più», le gite scolastiche ad Auschwitz? Nell’arco di due o tre generazioni, l’orrore del nazifascismo, dei totalitarismi in genere, è solo una cartolina sbiadita.

Il rapporto fra memoria e oblio è uno dei nessi più inestricabili e complessi che la storia della cultura abbia tramandato: nelle teche, tutto sembra parlare a favore delle testimonianze ma spesso l’oblio si ribella e trasforma nell’arco di due generazioni il retaggio etico della memoria in dimenticanza. Dimenticare non è solo una strategia

politica, è anche un problema antropologico, come scrive Milan Kundera: «La maggior parte della gente si inganna con una duplice fede errata: crede nella memoria eterna (delle persone, delle cose, delle azioni, dei popoli) e nella riparabilità (di azioni, errori, peccati, ingiustizie). Sono entrambi fedi false». E scorrendo ancora le pagine de Lo scherzo: «Ogni cosa sarà dimenticata e a nulla sarà posto rimedio. Il ruolo della riparazione sarà assunto dall’oblio. Nessuno rimedierà alle ingiustizie commesse ma tutte le ingiustizie saranno dimenticate». Quando i sopravvissuti dei campi di concentramento sono tornati a casa, per anni non hanno parlato della loro terribile esperienza, come se l’orrore fosse troppo grande per essere raccontato. Poi, poco per volta, sono diventati testimoni dell’atrocità e dell’abisso in cui l’uomo a volte è capace di precipitare; adesso se ne stanno andando. Chi manterrà viva quella memoria?

Il filosofo francese Paul Ricœur (19132005) ha dedicato un’ampia e articolata riflessione a questi problemi. Il suo contributo consiste nell’aver messo a fuoco la fondamentale relazione intercorrente tra memoria e racconto (La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003). Dietro a quelle che chiama le «malattie» della memoria, egli riconosce l’azione paralizzante esercitata dalla «ossessione del proprio passato». Da una parte, ci sono coloro che rimangono bloccati dal ricordo delle ferite patite in un tempo più o meno lontano. Dall’altra parte, c’è chi, per fuggire davanti al ricordo angosciante del passato, cerca rifugio nell’oblio. Ma gli altri, quelli che hanno saputo dopo, quelli che oggi dimenticano l’orrore dell’Olocausto? Se tempo e memoria costruiscono la civiltà e ne scandiscono le azioni, fin dalle origini c’è un movimento opposto che tenta di sospendere, di sottrarre ogni gesto alla sua funzione. Secon-

tolico Salvini (-1) non aspetta l’esito dell’indagine ed esulta con delicatezza da ultrà (poco cattolico): «Con tutto il rispetto, l’assalitore non ci mancherà». Domanda: con tutto il rispetto, a chi mancheranno gli sproloqui del ministro Salvini quando finalmente non avranno l’eco mediatica che non hanno mai meritato? Fatto sta che la sproporzione tra le cause e gli effetti lascia spesso senza parole. Due ristoratori (cinesi), a Milano, reagiscono all’uomo che cerca di rubare un plico di gratta-e-vinci, inseguendolo e uccidendolo con almeno venti colpi di forbice (-20 agli assassini). Essendo il rapitore un italiano, Salvini non ha detto che, con tutto il rispetto, non ci mancherà. Odio? Ci sono casi e casi. Bisogna distinguere, perché a volte l’odio non può destare meraviglia. Si prenda un altro esempio di sproporzione. Come fa un operaio di Stellantis (ex Fiat ed

ex tutto), magari in cassa integrazione, a non odiare l’amministratore delegato Carlos Tavares, sapendo che nel 2023 ha guadagnato 23,47 milioni di euro, mentre il colosso automobilistico andava a rotoli (almeno per gli operai minacciati di licenziamento): seimila posti di lavoro persi in Europa e Tavares (voto: – 23,47) viene premiato per le sue scelte sbagliate, incassando quanto incasserebbero mille lavoratori se non fossero stati licenziati. Perché meravigliarsi dell’odio che dilaga quando si fa di tutto per farlo dilagare? Perché meravigliarsi se tra poveri e ricchi, tra colti e incolti (anche questo accade), tra Russia e Ucraina, per non dire tra Israele e Palestina cresce e crescerà il baratro dell’odio? Odio e amo, scriveva il poeta diversi secoli fa. La due cose da tempo non vanno più insieme se non nei bigliettini dei Baci Perugina (6).

do la sapienza greca, il «seggio della memoria» e il «seggio dell’oblio» sono due posizioni parimenti iniziatiche e la sopraffazione dell’una sull’altra causa dissesti, turba preziosi equilibri. Ci sono giorni in cui la bilancia sembra pendere a favore dell’oblio, per almeno due motivi. Il primo è che si fa strada l’idea che in alcuni casi un colpo di spugna sulle responsabilità di chi ha causato tragedie e ingiustizie sia la soluzione migliore. Che per abbandonare la conflittualità e consentire di dare vita a una società fondata su un sentimento unitario e non più rivendicativo, sia necessaria una dose di oblio. Per esempio in Italia, il 22 giugno 1946, con un’amnistia nota con il nome del ministro della Giustizia e segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti, il governo di unità nazionale De Gasperi sceglie di esercitare il potere di clemenza per i crimini del fascismo e della Repubblica sociale italiana. A soli quattordici mesi dal-

la fine della II guerra mondiale, con un provvedimento che non ha eguali negli altri Paesi europei, i vincitori danno pertanto forma legislativa alla rinuncia all’uso della persecuzione penale nei confronti dei vinti e delle loro terribili gesta fratricide. Il secondo è che l’incessante cascata di informazioni generi una duplicazione continua della realtà da creare una fatale confusione tra il «vero» e il «falso». La sovrabbondanza di informazione e di conoscenza non genera più cesure, tagli, pause. L’indistinguibilità è l’unico carattere dei media e, in particolare, di Internet: il senso della comunicazione si annichilisce – si oblia – per l’«insignificanza dell’origine», precipitata ormai nella notte dei tempi. C’è un eccesso di circolazione, di liquidità dei segni. Il troppo da vedere è assenza, è vuoto. La ricaduta inesausta delle immagini è acqua del Lethe (il fiume dell’oblio) che avanza, senza che nessuno la invochi, la desideri.

di Paolo Di Stefano
di Aldo Grasso

GUSTO

Ricette terrificanti

Una volta all’anno, qui mostriamo cose «raccapriccianti» da servire ad Halloween per far sentire tutti disgustati e spaventati

Testo: Dinah Leuenberger

Wienerli mummia per Halloween

Piatto principale per 4 persone

1 carota piccola

½ zucchina piccola

1 pasta per pizza rettangolare già spianata da 580 g

1 oliva nera

8 wienerli

1 cucchiaio di maionese

1. Prepara gli ingredienti

Scalda il forno statico a 200 °C.

Con il pelapatate, taglia la carota e la zucchina a striscioline sottili. Taglia la pasta per pizza per il lungo a strisce larghe circa 1,5 cm. Per ogni mummia, taglia 2 quadratini di oliva per creare le pupille.

2. Avvolgi le mummie

Avvolgi una striscia di pasta per pizza a un’estremità del wienerli a mo’ di turbante, tirando e attorcigliando un po’ la pasta. Sotto il «turbante» lascia un po’ di spazio per gli occhi. Arrotola attorno a ogni wienerli circa 6 striscioline di verdure e fissale subito con una striscia di pasta, avvolgendola in senso obliquo dall’alto verso il basso. Avvolgi una seconda striscia di pasta dal basso verso l’alto nella direzione opposta. Accomoda le mummie in una teglia rivestita di carta da forno, con la parte rimasta scoperta rivolta verso l’alto.

3. Cuoci e rifinisci le mummie

Cuoci le mummie al centro del forno per circa 20 minuti. Toglile dal forno e lasciale raffreddare leggermente sulla teglia. Per creare gli occhi, su ciascun wienerli disegna due punti con la maionese nella parte rimasta scoperta. Disponi al centro di ogni occhio un quadratino di oliva. Servi i wienerli subito.

CONSIGLIO Servi con senape, ketchup o maionese come «balsamo conservante per le mummie». Si accompagna bene con verdure crude o insalata.

Ricetta

Biscotti fantasma all’arancia

Ricoperti di glassa bianca e nera, questi frollini al burro, aromatizzati all’arancia e a forma di fantasmino, faranno tremare di paura tutti i golosoni.

Alla ricetta

Guanti usa e getta Miobrill 100 pezzi Fr. 8.90

Toast fantasma

Pane per toast con crema alla nocciola e cioccolato, burro d’arachidi o marmellata e banane a forma di fantasma per una merenda spaventosamente golosa.

Alla ricetta

Bowl dell’orrore

Una «mano» insanguinata e ghiacciata fatta di sciroppo di lamponi, precedentemente congelato in un guanto usa e getta, galleggia in acqua aromatizzata: brividi garantiti.

Alla ricetta

Occhi di mostro al formaggio

Ingredienti per 4 persone

4 mini Babybel un poco di colorante alimentare rosa

2 olive nere snocciolate un poco un po’ di ketchup ca. 80 g d’uva verde

1. Elimina la carta e la cera dai formaggini. Versa un pochino di colorante in una scodellina e con l’aiuto di uno stuzzicadenti disegna delle vene partendo dal centro. Da ogni oliva taglia 2 fettine e sistema una rondella al centro di ogni formaggino. Riempi il centro delle rondelle con il ketchup.

2. Elimina i semi dagli acini d’uva e tritali con un coltello. Trasferisci gli acini in un colino e lasciali sgocciolare un po’. Versa gli acini tritati in scodelline e sistemaci sopra i formaggini a forma d’occhio.

Vassoio di frutta di Halloween

Ingredienti per 8 persone

1 busta di glassa bianca per dolci

2 banane ca. 30 g occhi di zucchero per guarnire

30 g di cetriolo, la parte verde 4 clementine o mandarini

4 kiwi

100 g d’alchechengi

2 pere piccole

150 g di mirtilli

200 g d’uva senza semi, ad es. miscela bianca e nera

Scalda la glassa come indicato sulla confezione. Dimezza le banane per il lungo e accomodale su carta da forno. Ricopri le mezze banane con delle linee di glassa a mo’ di bende e guarnisci ogni mezza banana con 1–2 occhi di zucchero. Lascia indurire la glassa. Priva il cetriolo dei semi e taglialo in 4 bastoncini. Sbuccia le clementine lasciandole intere, poi inserisci al centro di ognuna un pezzetto di cetriolo a mo’ di «picciolo della zucca». Pela i kiwi a metà e incolla su ognuno 2 occhi di zucchero con un po’ di glassa. Libera la metà degli alchechengi dalle foglie poi tagliali a metà, per il resto spingi le foglie indietro senza però staccarle dai frutti. Dividi le pere a metà e decora ognuna con 2 occhi di zucchero fissati con della glassa. Incolla gli occhi rimasti sui mirtilli e sull’uva. Accomoda tutti frutti su un vassoio.

Ricetta
Ricetta
Più ricette per Halloween
Occhi di zucchero Pâtissier 8 g Fr. 2.40

Più caffè, più gusto.

TEMPO LIBERO

El dia de los muertos in Messico Secondo gli indigeni P’urhépecha, una porta d’accesso all’Inframundo sarebbe nascosta tra gli anfratti dell’isola di Janitzio

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Ravioloni alla toscana

Gli gnudi, variante regionale di ripieno senza pasta, sono preparati con la ricotta e serviti con funghi, barbabietola e burro alla salvia

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Due bracciate con Leo McCrea

Scende in campo EA Sports FC 25

Partite più dinamiche e strategiche, grazie alla principale novità nel gameplay che associa i calciatori a specifici ruoli tattici reali

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Altri campioni ◆ Lo svizzero-britannico affetto da nanismo ci racconta la sua recente vittoria paralimpica

C’era anche Leo McCrea tra gli oltre quattromila atleti e atlete nella parata sui Champs-Elysées, che ha dato inizio ai Giochi Paralimpici 2024. Dodici giorni ricchi di emozioni e aspettative. E un unico desiderio, quello di portare a casa un pezzo di Torre Eiffel. E così è stato. Abbiamo incontrato lo svizzero-britannico al suo rientro in patria, dove abbiamo avuto il tempo per farci raccontare la sua vittoria, e la sua storia.

Chi è Leo McCrea?

Sono nato il 9 novembre 2003 a Londra, in Inghilterra. Attualmente mi divido tra Poole, a Bournemouth, e Pully, in Svizzera, dove vive la mia famiglia allargata. Sono un nuotatore paralimpico, uno studente di Management dello sport all’Università di Bournemouth e un atleta della Bournemouth Collegiate School Academy. Provengo da una famiglia che ha sempre appoggiato il mio amore per lo sport, e soprattutto durante il mio viaggio verso i Giochi Paralimpici di Parigi 2024, sono stato particolarmente sostenuto.

Un po’ svizzero, un po’ britannico…

Sì, ho la fortuna di avere la doppia nazionalità britannica e svizzera. Rappresentare la Svizzera a livello internazionale, soprattutto nel nuoto, è stato un onore. Vincere la prima medaglia d’oro nei 100 metri rana nella categoria SB5 a livello paralimpico è qualcosa che non dimenticherò mai. Mi sento privilegiato a portare con me entrambe le nazionalità in tutto ciò che faccio.

Qual è il suo rapporto con lo sport in generale?

Lo sport è sempre stato al centro della mia vita. Fin da piccolo ho praticato molti sport. Il calcio è sempre stato una mia grande passione, ma il nuoto è diventato la mia vocazione. Per me lo sport non è solo competizione, è uno stile di vita, un modo per mettermi alla prova e spingermi sempre oltre. Il lavoro di squadra, la disciplina e la gioia che lo sport mi dà sono ciò che mi mantiene motivato ogni giorno, sia in piscina sia nella vita di tutti i giorni.

Quando ha iniziato a nuotare?

Avevo circa dieci anni quando ho iniziato a farlo seriamente. All’inizio era un modo per mantenermi attivo e competere con me stesso. Man mano che mi impegnavo mi sono reso conto di avere un vero talento. Il nuoto mi ha dato la libertà di eccellere e di sfidare i miei limiti, cosa che ho sempre amato. È uno sport potente perché combina forza fisica e concentrazione mentale, e questo mi

ha attirato. Più mi allenavo, più me ne innamoravo e ben presto è diventato il mio sport principale.

Parliamo della sua disabilità.

Ho l’acondroplasia, una forma di nanismo, e per me è semplicemente una parte di ciò che sono. Ha segnato il mio percorso nello sport, ma non l’ho mai vista come una barriera. Anzi, ha alimentato ancora di più il mio desiderio di successo. Ho imparato ad adattare l’allenamento alle esigenze del mio corpo e mi spingo

costantemente oltre i limiti del possibile. Il mio obiettivo è sempre stato quello di dimostrare che il proprio potenziale non è limitato dalla disabilità, ma è definito dalla determinazione e dalla mentalità.

Come è strutturato il suo allenamento?

Il mio allenamento è intenso ma incredibilmente gratificante. Mi concentro molto sulla tecnica e sull’efficienza in acqua, data la mia categoria nella classifica SB5/S6. Sebbene il

mio allenamento includa molti degli stessi elementi di altri nuotatori di alto livello – lavoro di forza, resistenza e agilità – devo adattare alcuni esercizi per soddisfare le esigenze specifiche del mio corpo. Lavoro con allenatori specializzati nel para-nuoto per assicurarmi che il programma faccia emergere il meglio di me, mantenendo l’equilibrio e prevenendo le lesioni. La flessibilità e il lavoro sul «core» sono fondamentali per me, e faccio anche molta preparazione mentale per rimanere concentrato durante le gare importanti.

Nuoto paralimpico. Quali sono le diverse categorie?

Le categorie del nuoto paralimpico si basano sulle disabilità fisiche degli atleti. Ad esempio, la categoria SB5, in cui gareggio io, è riservata ai nuotatori con disabilità fisiche che influiscono sulla capacità di nuotare a rana, mentre la classificazione S6 riguarda i nuotatori con disabilità fisiche che influiscono sullo stile libero, sul dorso e delfino. L’obiettivo di queste categorie è quello di livellare il campo di gioco in modo che gli atleti possano competere con altri che abbiano abilità simili. In questo modo si garantisce una competizione equa e si permette agli atleti come me di dimostrare le proprie capacità al massimo livello.

Tutto il mondo è stato colpito dal nuotatore brasiliano Gabrielzinho, privo sia delle braccia sia delle gambe. Come fa a essere così veloce? Gabrielzinho è un fenomeno nel mondo del para-nuoto. La sua velo-

cità deriva da una combinazione di incredibile talento, dedizione e moltissimo lavoro. La cosa sorprendente di atleti come lui è che trovano il modo di massimizzare ogni parte del loro movimento. Può avere dei limiti, come tutti i para-atleti, ma ha lavorato instancabilmente per assicurarsi che ogni «bracciata» sia il più potente ed efficiente possibile. Credo che il suo successo sia un esempio perfetto di come la determinazione e la concentrazione possano fare una grande differenza.

Ci parli della sua avventura a Parigi.

Parigi mi ha cambiato la vita! Salire sul podio come prima medaglia d’oro della Svizzera nel nuoto alle Paralimpiadi è stato surreale. Il viaggio per arrivarci è stato duro – allenamenti intensi, sacrifici e pressione –ma in quel momento tutto ha avuto un senso. Vincere l’oro non è stata solo una vittoria personale; mi sono sentito come se stessi rappresentando tutti coloro che hanno creduto in me, dimostrando che tutto è possibile con il duro lavoro. Gareggiare a Parigi è stato indimenticabile e sto ancora elaborando il significato di tutto questo. Mi ha sicuramente ispirato a puntare ancora più in alto.

Quali sono i suoi obiettivi per il futuro?

Per quanto riguarda lo sport, il mio prossimo grande obiettivo sono i Campionati mondiali di nuoto paralimpico del 2025 a Singapore. Voglio non solo difendere i miei titoli, ma anche conquistare nuovi record mondiali. Oltre a questo, mi propongo di continuare a ottenere successi alle Paralimpiadi e alle competizioni più importanti, e voglio lasciare un’eredità duratura in questo sport. Dal punto di vista professionale, sto lavorando per una carriera nella gestione dello sport. Sono particolarmente interessato all’intersezione tra sport e marketing, applicato anche al mondo della disabilità.

La nostra chiacchierata sta per concludersi… Vorrei ancora aggiungere e sottolineare quanto sono grato per il sostegno che ho ricevuto dalla mia famiglia, dai miei allenatori e dai miei fan. È stata una corsa pazzesca dopo la vittoria dell’oro, ma è solo l’inizio. Sono entusiasta di ciò che verrà e non vedo l’ora di continuare a superare i miei limiti dentro e fuori dalla piscina.

Leo McCrea mi mostra ancora la sua medaglia d’oro. E mi indica con fierezza il pezzo di Torre Eiffel contenuto al suo interno prima di congedarsi.

Davide Bogiani
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Quando si aprono le porte dell’Inframundo

Reportage ◆ In Messico el dia de los muertos si adatta alla globalizzazione delle anime perdute, tranne che a Huautla de Jimenez

Enrico Martino, testo e foto

Per incontrare le anime bisogna aspettare la notte di fine ottobre e arrancare su uno sgangherato pick-up lungo una pista che pare piuttosto un rosario di cantinas da cui l’autista cerca di buttar fuori passeggeri con un tasso alcolico ormai incontrollabile. Dal buio che avvolge il grappolo di case di Chicotla, filtra il suono straniante di un violino, poi senza uno straccio di preavviso una porta si spalanca su un uragano di luci, suoni e facce mostruose. Sono gli huehuentones, maschere inquietanti che ballano al suono lento degli archi mentre i bambini li sbirciano con gli occhi sgranati, nascosti dietro una tenda. Non si sa mai cosa può succedere con i messaggeri dell’Inframundo, il tenebroso mondo sotterraneo preispanico che per secoli conquistadores e inquisitori hanno invano tentato di contrastare.

Una porta d’accesso all’Inframundo sarebbe nascosta tra gli anfratti dell’isola di Janitzio, sul lago di Pátzcuaro nello Stato di Michoacán

Tornano ogni anno per raccontare storie, ma la vera ragione del loro lungo e faticoso viaggio dall’Aldilà è mediare conflitti familiari e sociali, generalmente con successo, perché è molto più complicato mandare al diavolo chi arriva dall’Altro Mondo che un vicino ficcanaso. Gli huehuentones un tempo si materializzavano indisturbati solo tra queste montagne della Sierra Madre che sembrano un puzzle in progress di nuvole e pioggia, ma tra loro si aggirano sempre più spesso streghe di Halloween, Frankenstein e mostri dei fumetti giapponesi, una globalizzazione delle anime che tra le tombe aggrappate a una collina del cimitero di Huautla de Jimenez va in scena a mezzanotte del 31 ottobre, quando una salva di botti rimbomba attraverso le vallate annunciando il ritorno dei defunti.

«Mira el primero a velar es el pinche gringo» («guarda, il primo ad accendere le candele è il fottuto gringo») sghignazza un ceffo della policia municipal Sguardi sospettosi, battute a mezza voce, ma col passare delle ore svanisco anch’io dentro questo mare di candele da cui affiorano solo volti evanescenti. Un’atmosfera da riunione di famiglia che i morti assaporano golosamente prima di tornarsene nell’Inframundo, donne si scambiano confidenze, emigrati chicanos scolano l’ultima cerveza ascoltando con gli occhi umidi il canto triste degli huehuentones prima di tornare al nord, nel paese dei gringos, qualche adolescente guarda compunto la tomba del nonno al ritmo di rap che filtra dagli auricolari.

Così, quell’unica volta all’anno in cui una folla di anime si dirige verso casa per respirare profumi e sapori della vita di un tempo, i parenti le festeggiano con fiori colorati, dolcetti, e tutto quello che un tempo le faceva felici. Ogni sperduto angolo del Messico si trasforma in un’orgia surrealista, è San Valentino, la Festa della Mamma, Halloween, i vivi e i morti tutti insieme, tra piramidi di calaveras, i crani di zucchero filato, bare di cioccolato su cui il nome dell’amata

viene scritto con delicati colori pastello, scheletri di carta, di legno, di plastica e di ogni materiale umanamente concepibile.

La festa de el dia de los muertos è una tradizione così profonda e radicata da essere stata dichiarata dall’UNESCO «Capolavoro dell’Orale e intangibile Patrimonio dell’Umanità» ma a Huautla de Jimenez, in cima a una strada che sembra non finire mai, probabilmente neanche lo sanno. Sulla piazza del mercato cani fa-

melici si aggirano tra manifesti slabbrati di vecchie campagne elettorali e utensili da cucina che gruppi di mazateche (ndr: società nativa americana) guardano cupidamente. Sullo sfondo, solo il giallo quasi fosforescente del tiringuini-tzitziqui – il «Fiore dei morti» azteco che riesce a bucare persino il velo di pioggia – ricorda che siamo alla vigilia del Dia de Muertos

A Huautla de Jimenez i dolcetti i morti se li sognano, al massimo possono sperare in qualche pan de las

animas, ma andrà bene lo stesso perché anche loro sanno che è difficile sfangarla per tutti su queste montagne dove l’unico effimero momento di gloria si è consumato ai tempi della «rivoluzione psichedelica», quando la celebre sciamana Maria Sabina rivelò al mondo degli altri, il nostro, il potere degli hongos, i funghi allucinogeni. Oggi queste montagne di nebbie e immagini quasi illusorie sono forse l’ultimo rifugio di un Dia de Muertos che giù a valle, a Oaxaca, si è ormai trasformato in una fiesta mobile di teatrali processioni di zombie e calaveras pronti a offrire un bicchiere di mezcàl a chiunque, turisti o anime perdute.

Tutta un’altra storia rispetto alle atmosfere che aleggiavano fino a pochi anni fa sul lago di Pátzcuaro nello Stato di Michoacán, il «luogo dell’oscurità» dove, secondo gli indigeni P’urhépecha, una porta d’accesso all’Inframundo sarebbe nascosta tra gli anfratti dell’isola di Janitzio che in autunno la nebbia avvolge come un’ovatta scura.

Per attraversare il lago, avevo così seguito un corteo di ombre silenziose e infagottate in vecchie coperte, dirette verso una lancia carica di trombe e violini. Senza una parola sono stato accettato a bordo dell’Esmeralda con il suo motore asmatico che arrancava in un nulla grigio-acciaio fino a quando l’isola si era materializzata come un fantasma sospeso su matasse d’alghe galleggianti. I p’urhépechas avevano attaccato una delle loro musiche struggenti mentre una micidiale raffica di petardi annunciava Kejtzitakua zapicheri, la cerimonia in ricordo dei bambini morti nel corso dell’anno. Le prime luci dell’aurora avevano illuminato le ofrendas davanti alle piccole tombe, giocattoli, dolcetti e piccoli animali su archi in legno ricoperti di fiori simili a gigantesche farfalle, mentre amiche e parenti lasciavano cadere con infinita dolcezza petali di fiori sui capelli delle madri. Oggi invece a Janitzio forse persino le anime preferiscono restarsene nell’Inframundo per non essere travolte da cori di ubriachi e lamentosi ululati di orchestrine di mariachis di quart’ordine. Sembra la fine di un mondo impregnato di tradizioni antichissime, eppure il miracolo arriva lo stesso, e lo fa un istante prima dell’alba, quando solo un mare di candele illumina un surreale banchetto di ofrendas e i volti senza tempo delle p’urhépechas impegnate in un incessante sussurrare che sembra uno stormire di fronde. Ogni tanto qualcuna raddrizza una candela che sembra crollare, anche lei travolta dalla fatica, parlano con i loro morti le donne p’urhépechas, raccontano storie di famiglia, magari chiedono come si vive a Cumichùcuaro, la regione più profonda dell’Inframundo, o che tipi sono Uitzume il Cane d’acqua e Ucumo il Roditore che regnano sul mondo dei morti.

L’alba arriva troppo rapida e le silhouette nere dei vulcani che sembrano galleggiare sul blu profondo del lago emergono dalla notte mentre le famiglie abbandonano, rapide e silenziose, fiori spezzati e mozziconi di candele, le ultime tracce di una lunga trance collettiva. «La morte è come un fiore – racconta un canto p’urhépecha – è come la farfalla, è solo volare. Morire è solo un gran sogno».

Informazioni

Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

Michoacón, lago di Patzcuaro. L’isola di Janitzio è considerata dal popolo P’urhépecha una delle porte di accesso all’Inframundo; sotto: per arrivare a Oaxaca, Huautla de Jiménez, e celebrare el Dia de los Muertos molte famiglie di emigranti affrontano un lungo viaggio dagli Stati Uniti; in basso da sinistra a destra: le tradizionali maschere di teschi per il Giorno dei Morti. Nelle città i festeggiamenti a volte sono irriverenti; a Huautla de Jiménez, per le celebrazioni del Giorno dei Morti, gli indiani Mazatechi puliscono le tombe del cimitero.

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Gnudi con funghi saltati e burro alla salvia

● Ingredienti

Piatto principale

Ingredienti per 4 persone

400 g di ricotta

60 g di parmigiano grattugiato fresco

2 tuorli

40 g di farina

¼ di limone

sale

pepe

noce moscata

150 g circa di semola di grano duro

200 g pomodori datterini

3 spicchi d’aglio

200 g di funghi misti, ad es. porcini e champignon

4 c d’olio d’oliva

50 g di burro

3 rametti di salvia

20 g circa di parmigiano

Preparazione

1. In una scodella versate la ricotta, il parmigiano, il tuorlo e la farina. Grattugiate un po’ di scorza di limone. Condite con sale, pepe e noce moscata. Quindi mescolate fino a ottenere un composto omogeneo. Lasciatelo riposare per 20 minuti.

2. Cospargete il fondo di un vassoio con un po’ di semola. Con la massa di ricotta formate delle quenelle di circa 25 g ciascuna, aiutandovi con due cucchiai, poi passatele nella semola rimasta. Modellate delle palline, adagiatele sul vassoio e cospargetele di semola. Fatele riposare in frigo per circa 10 ore senza coprirle.

3. Poco prima di servire, dimezzate i pomodori. Tagliate i funghi a fette spesse, l’aglio a fettine sottili. Rosolate le fettine d’aglio in un po’ d’olio. Aggiungete i funghi e fateli rosolare brevemente. Unite i pomodori e continuate la cottura ancora per qualche minuto. Condite con sale e pepe.

4. Fate fondere il burro in un tegame ampio. Rosolate le foglie di salvia finché diventano croccanti.

5. Nel frattempo, liberate gli gnudi dall’eccesso di semola e lessateli in acqua salata che freme appena per circa 3 minuti.

6. Aggiungete circa 2 cucchiai d’acqua di cottura al burro e salvia. Estraete gli gnudi con una schiumarola e trasferiteli nel tegame con cura. Condite bene facendoli saltare in padella. Serviteli con i funghi e i pomodori. Completate con il parmigiano a scaglie grosse. Consigli utili

Gnudo deriva dal toscano e significa nudo, in quanto questa varietà di ravioli è preparata solo con il ripieno, senza la sfoglia di pasta che lo avvolge. A seconda della consistenza della ricotta, l’impasto può risultare più o meno molle. Se risulta troppo molle aggiungete ancora un po’ semola.

Preparazione: circa 30 minuti; riposo: 12 ore

Per persona: 25 g di proteine, 43 g di grassi, 42 g di carboidrati, 660 kcal

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Il calcio di domani, uguale a ieri ma sempre bello

Videogiochi ◆ EA Sports FC 25 scende nuovamente in campo per una nuova stagione «ricca di miglioramenti», forse Kevin

Per ogni appassionato di calcio e videogiochi che si rispetti, settembre è il mese dell’anno che porta l’inizio della stagione calcistica e l’uscita del nuovo prodotto targato Electronic Arts; ogni fan della serie è curioso di vedere il nuovo overall della propria squadra e dei giocatori preferiti rispetto all’anno precedente. Un’aspettativa che solo importanti cambiamenti possono soddisfare; e dunque, quanto è cambiato almeno il gioco? Ve lo diciamo subito senza troppi giri di parole, pochissimo!

Il videogame presenta gli stessi menù e le stesse modalità di gioco, tranne che per «Volta», divenuta «Rush», di cui parleremo a breve. Rimane anche invariato il comparto tecnico e, non da ultimo, persino la grafica è identica, dandoci l’impressione di giocare ancora a EA Sports FC 24. Eppure… qualche novità a differenziare questo titolo, c’è.

La principale novità nel gameplay è data dall’introduzione del sistema FC IQ, che associa i calciatori a specifici ruoli tattici basati su dati reali, rendendo ogni partita dinamica e più strategica, tanto da orientare così il titolo verso un approccio più realistico rispetto al suo predecessore. FC IQ introduce fino a cinquanta ruoli specifici per i giocatori in campo, che vengono influenzati nel comportamento sia quando sono in possesso di palla sia durante il loro riposizionamento

in campo. I ruoli dei giocatori si aggiornano poi in base alle loro prestazioni, aumentando fluidità e coerenza del gameplay nell’andamento delle performance in campionato; contesto che permette una personalizzazione tattica senza precedenti.

E poi ci sono Rush & Clubs: una delle novità principali che più ci ha colpiti e divertiti, è la modalità «Rush» al posto di «Volta». Non stravolge completamente quello che era: proprio come quest’ultimo, infatti, anche «Rush» porta partite di 5 contro 5 in campi di dimensioni ridotte. Ha però un ritmo di gioco rapido e frenetico, e offre un’alternativa più arcade (ndr: modalità più spensierata) rispetto al gameplay simulativo principale.

EA quest’anno è stata molto lungimirante nell’estendere «Rush» anche nelle modalità Ultimate Team, Carriera e Clubs, dando così l’opportunità di sfruttarla a prescindere dalla modalità che si preferisce giocare.

L’introduzione di «Rush» nel «Clubs» ha veramente dato una rinfrescata a una modalità ormai statica e dimenticata, visto che negli ultimi anni è l’unica a non aver mai ricevuto un miglioramento. Ora finalmente se dovessimo trovarci insieme ad altri 3 o 4 amici, potremmo semplicemente giocare senza dover per forza controllare anche dei «bot» (giocatori virtuali).

«Rush» non è però l’unica miglioria introdotta nei «Clubs». La

Giochi e passatempi

Cruciverba

Una signora al salumiere: «Scusi, ma il prosciutto lo vorrei più spesso» Troverai la risposta del salumiere leggendo a cruciverba ultimato le lettere evidenziate.

(Frase: 2, 4, 5, 5, 6, 5, 1, 6)

ORIZZONTALI

1. D ifferenti, diversi

4. La secerne il fegato

7. Nell’indice e nell’anulare

8. Può esserlo la tensione

10. Ruotano nell’armadio

12. Vale a dire…

14. Una regione italiana

16. Antonio De Curtis

17. Decima il bestiame

18. Preposizione

19. Soprabito invernale

20. Pronome personale

21. Due vocali

22. Fanno tagli precisi

23. Un gigante in strada

24. Lo desidera l’ingordo

25. Tempo inglese

26. Digiuno prolungato

28. Lavora senza essere pagato

29. Famosa schiava biblica

30. Terminano dove iniziano

31. Le iniziali del pittore Rosai

32. Un Franco attore

33. Mammifero africano e asiatico

VERTICALI

1. Stradine di campagna

2. Un tipo di treccine

3. Ciascuna delle due ossa del bacino

4. L e iniziali del cantante

Antonacci

5. Il padre di Ulisse

6. Il Morricone musicista

7. Colpo che sfiora la rete a tennis

casa canadese ha notevolmente migliorato anche l’editor dei personaggi, aggiungendo nuove ricompense che permetteranno di far crescere il club sbloccando il bonus applicabile ai propri giocatori virtuali. Anche la modalità carriera ha subito un rinfrescante aggiornamento, vedendosi arricchita di nuove funzionalità come i Live Start Points,

che permettono di rivivere eventi reali delle stagioni calcistiche. Troviamo poi la gradita possibilità di gestire squadre femminili in alcuni dei maggiori campionati del mondo. La gestione della rosa, con il nuovo sistema tattico migliorato, e la possibilità di scoprire nuovi talenti in oltre 160 Paesi, arricchiscono ulteriormente l’esperienza gestionale.

La più famosa e lucrativa modalità di EA Sports FC 25 non ha invece ricevuto nessun miglioramento degno di nota: nell’Ultimate Team è solamente stata introdotta una gestione migliorata delle carte doppie e le «Evoluzioni» sono state rese più accessibili, permettendo a più giocatori di migliorare i propri calciatori. Per il resto, è la medesima modalità dell’anno scorso. Lo stesso vale per il comparto tecnico: nessun miglioramento dal punto di vista visivo, forse anche perché vanta già una grafica da rendere ogni singola partita uno spettacolo per gli occhi, grazie a stadi, volti dei giocatori e spettatori veramente super realistici. Anche le musiche di gioco sono sempre di alto livello, con una colonna sonora da invidiare.

EA Sports FC 25 è dunque un gioco che porta avanti il lascito di FC 24, migliorandolo in termini di realismo, tattiche e varietà di gioco. Le innovazioni nel gameplay, come il sistema FC IQ, insieme a nuove modalità come «Rush», rendono il gioco divertente sia per i fan della simulazione calcistica pura sia per quelli in cerca di un’esperienza più casual. Tuttavia, a parte quanto appena sopra descritto, e un leggero cambiamento del gameplay, non abbiamo trovato nulla di nuovo, sebbene EA Sports FC 25 si confermi come un’evoluzione solida e appagante del noto videogioco. Voto 7/10

9. Sono in fin di vita

11. Nome femminile

13. Signora a Trastevere

14. Crea tante espressioni

15. Lo è «La vedova allegra»

17. Nome femminile

19. Penare, soffrire

20. Un attore singolare

22. Stato africano

23. Ossa delle gambe

24. Tasso Effettivo Globale

25. Sacri nell’antico Egitto

27. Nuclei Armati Rivoluzionari

28. Fanno rima con ma…

30. Nel golf e nel pattinaggio

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina

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cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione,

intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un

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Tutta la carne per fondue chinoise Finest, IP-SUISSE prodotto surgelato, per es. manzo, 450 g, 20.95 invece di 29.95, (100 g = 4.66) 30%

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Dadini di pancetta Migros Bio Svizzera, 2 x 60 g, in self-service, (100 g = 2.46) 25%

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Fleischkäse affettato finemente IP-SUISSE in conf. speciale, per 100 g 25%

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Mordi e gusta

Il nostro pane della settimana: un aromatico pane semibianco con fiocchi di patate. Le noci gli conferiscono un carattere inconfondibile.

Torta Foresta Nera M-Classic Ø 16 cm, 500 g, prodotto confezionato, (100 g = 1.20) 24%

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3.50 Iced Carrot Cake 2 pezzi, 130 g, prodotto confezionato, (100 g = 2.69)

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Pane di patate chiaro con noci, IP-SUISSE

350 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.83)

Fatto a mano con ottima pasta lievitata

2.20 Cinnamon Bun 85 g, in vendita sfusa, disponibile nelle maggiori filiali, (100 g = 2.59) 20x CUMULUS

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Branches Eimalzin 50 x 25 g, (100 g = 1.24)

Tavolette di cioccolato Frey, 100 g (prodotti Sélection, Suprême, M-Classic e confezioni multiple esclusi), per es. al latte finissimo, 1.80 invece di 2.20 a partire da 3 pezzi 20%

Con design natalizio

18.85

invece di 20.95

Palline Lindt Lindor in design natalizio al latte, assortite o noir, 500 g, per es. al latte, (100 g = 3.77) 10%

20x CUMULUS

Truffes assortiti Frey 2 x 256 g, (100 g = 3.59) conf. da 2 20%

18.40

invece di 23.–

Cioccolatini Merry Christmas e Connaisseur, Lindt per es. Cioccolatini Merry Christmas, 175 g, 12.95, (100 g = 7.40)

20x CUMULUS

3.50

Tavoletta di cioccolato al latte Finn a forma di cuore Frey 93 g, (10 g = 0.38)

Per il prossimo brindisi

–.60 di riduzione

Tutto l'assortimento Blévita per es. al sesamo, 295 g, 2.70 invece di 3.30, (100 g = 0.92)

Salatini da aperitivo Party Crackers, Pizza Crackers o Sticks, in confezioni speciali, per es. Pizza Crackers, 450 g, 7.40 invece di 9.30, (100 g = 1.64) 20%

a partire da 2 pezzi 20%

Tutto l'assortimento Happy Hour prodotto surgelato, per es. cornetti al prosciutto M-Classic, 4.80 invece di 6.80, (100 g = 0.94)

Noci di anacardi, gherigli di noci o noci miste, Sun Queen in conf. speciale, per es. noci di anacardi, 500 g, 7.– invece di 8.75, (100 g = 1.40) 20%

Tutti i tipi di Pringles disponibili in diversi formati e varietà, per es. Original, 185 g, 2.65 invece di 3.30, (100 g = 1.43)

Cotte a fuoco lento con la buccia

20x CUMULUS Novità

4.95 Chips Tyrrells Sea Salted, Sea Salt & Cider Vinegar o Sweet Chilli & Red Pepper, 150 g, (100 g = 3.30)

a partire da 2 pezzi
a partire da 2 pezzi

Bevande fruttate e frizzanti

Ben curati Bellezza

LO SAPEVI?

Massaggiarsi regolarmente con il rullo di quarzo rosa stimola il flusso linfatico. Il liquido accumulato, che causa ad esempio il gonfiore agli occhi, viene drenato. L'effetto decongestionante rende i contorni più definiti.

Inoltre il massaggio favorisce anche la circolazione sanguigna, lasciando la carnagione bella rosea.

Prodotti per la cura dei capelli Nivea balsamo Hyaluron o shampoo Blonde Silver, per

Siero Nivea Derma Skin Clear 30 ml, (10 ml = 5.82)

pelli sensibili

Latte per il corpo o balsamo pH Balance per es. latte per il corpo, 250 ml, (100 ml = 1.98)

Saponi per le mani Baylis & Harding Neroli Sands o Cherry Temptation, 400 ml, in vendita nelle maggiori filiali, (100 ml = 1.63)

Per districare i capelli e massaggiare il cuoio capelluto Si assumono senza acqua

20%

Deodoranti e prodotti per la doccia, Axe in confezioni multiple, per es. Deo Spray Africa, 2 x 150 ml, 7.90 invece di 9.90, (100 ml = 2.63)

Prodotti per lo styling Taft per es. spray per capelli Ultra, 2 x 250 ml, 6.45 invece di 8.60, (100 ml = 1.29) conf. da 2 25%

a partire da 2 pezzi 25%

Tutto l'assortimento Actilife per es. magnesio, 20 compresse effervescenti, 4.50 invece di 5.95, (1 pz. = 0.22)

conf. da 2 20%

Deodoranti Rexona per es. Roll-on Cobalt Dry 72h, 2 x 50 ml, 5.60 invece di 7.–, (100 ml = 5.60)

25%

Deodoranti e prodotti per la doccia, Nivea o Nivea Men in confezioni multiple, per es. Deo Dry Impact Roll-on, 2 x 50 ml, 5.90 invece di 7.90, (100 ml = 5.90)

conf. da 2 25%

Prodotti per la cura dei capelli Syoss, Gliss o Got2b per es. Syoss Volume, 2 x 440 ml, 6.75 invece di 9.–, (100 ml = 0.77)

a partire da 2 pezzi 25%

Tutto l'assortimento Sanactiv per es. spray nasale all’acqua di mare con mentolo, 20 ml, 3.75 invece di 4.95, (10 ml = 1.86)

a partire da 2 pezzi 25%

Tutto l'assortimento Sante, Urtekram e Hej Organic per es. dentifricio Vitamina B12 bio Sante, 75 ml, 5.95 invece di 7.90, (100 ml = 7.89)

Tutto l'assortimento Secure (confezioni multiple e sacchetti igienici esclusi), per es. Normal Plus, FSC®, 12 pezzi, 5.40 invece di 7.20 a partire da 2 pezzi 25%

conf. da 2
conf. da 2

9.95

Due pagine belle pulite, profumate e altro

Per un'atmosfera natalizia

5.95 Candela profumata in vaso di vetro Vanilla o Spiced Berry, il pezzo

5.–

invece di 7.50

Borse regalo Paper & Co. in polipropilene, con chiusure, 11,5 x 19 cm, 3 x 10 pezzi

7.95 Set di carta regalo Paper & Co., FSC® disponibile in color oro, argento o rosso, 3 pezzi, il set

3.95 Set di biglietti natalizi di Paper & Co., FSC® buste incl., 11 x 17 cm, con diversi motivi, 10 pezzi, il set

Consiglio: da colorare e offrire con un regalo fatto in casa

5.95 Set di sacchetti regalo Paper & Co., FSC® 26 x 33 x 13 cm, disponibile in oro e argento, 3 pezzi, il set

3.95

Nastri per pacchi regalo Paper & Co. disponibili in color oro, argento o rosso

8.95

Sacchetti di carta Paper & Co., FSC® 21 x 18 x 8 cm, 12 pezzi

7.95 Accendigas Flexy

Prezzi imbattibili del weekend

30%

3.95

invece di 5.70

Carré d'agnello M-Classic per 100 g, in self-service, offerta valida dal 31.10 al 3.11.2024

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Fol Epi a fette Classic o Légère, in conf. speciale, per es. Classic, 462 g, 7.50 invece di 10.75, (100 g = 1.62), offerta valida dal 31.10 al 3.11.2024

Tutto l'assortimento L'Oréal Paris (confezioni da viaggio e confezioni multiple escluse), per es. mascara Volume Million Lashes Panorama nero, il pezzo, 12.50 invece di 24.95, offerta valida dal 31.10 al 3.11.2024 a partire da 2 pezzi 50%

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