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3 Casco da sci e da snowboard Alpina Maroi, tg. 53–61 cm, 169.–
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5 Casco da sci e da snowboard con visiera Head Radar Visor, 249.– 4618.987
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2 Casco da sci e da snowboard Uvex
8 Sci On Piste da donna Völkl Flair 75 con
9 Sci On Piste da donna Rossignol Nova 10 TI con attacchi Xpress 11 GW, lunghezza: 153–167 cm, 749.– 4643.064 10 Scarpone
da sci da uomo Nordica Speedmachine 100, n. 26.5–30.5, 359.– 4954.665 11 Scarpone da sci da uomo Head Vector RS 120S, n. 26.5–30.5, 449.– 4954.673 12 Scarpone da sci da donna Tecnica Mach 1 MV 95, n. 23.5–26.5, 389.– 4954.683 13 Scarpone da sci da donna Rossignol Alltrack Pro 80, n. 24.5–27.5, 349.– 4954.672
Nelle nostre filiali o su sportxx.ch/sport-invernali
Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Un progetto di divulgazione scientifica curato da USI e SUPSI esplora la storia, la vita quotidiana e le infrastrutture del wireless
Ambiente e Benessere Quattrocento anni di ghiaccio: quali sono state le conseguenze della «piccola era glaciale» sulla vita umana e naturale?
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 4 novembre 2019
Azione 45 Politica e Economia C’è una ragione di fondo che accomuna tutte le proteste di piazza nel mondo?
Cultura e Spettacoli Al Palacongressi di Lugano Christian de Sica racconta la sua carriera, tra cinema e musica
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Keystone
Scivolando sul Canal de Midi
di Andrea Bocconi pagina 21
Lo spettro di Weimar di Peter Schiesser Improvvisamente, ma forse non inaspettatamente, sulla Germania è calato lo spettro dell’ingovernabilità. Le elezioni nel Land della Turingia hanno portato a condizioni... weimariane (e Weimar si trova appunto in Turingia): i partiti al governo a Berlino, CDU e SPD, raggiungono insieme solo il 30 per cento dei voti, per la CDU, che dal 33,5 crolla al 21,8 per cento, è la tredicesima sconfitta in tre anni, la SPD non può già più considerarsi un partito di massa con il suo 8,2 per cento (meno 4,2), La Cdu scivola al terzo posto, superata dalla formazione di estrema destra Aktion für Deutschland (AfD) che riesce a raddoppiare il suo risultato, da 10,6 a 23,5 per cento (nonostante o grazie al suo leader locale, il neo-nazista Björn Höcke). Grande vincitrice è Die Linke, il partito post-comunista nato sulle ceneri della SED tedesco-orientale, che diventa il primo partito, con 31 per cento dei voti (più 2,8), una vittoria unanimamente attribuita alla popolarità del suo leader e primo ministro del Land, Bodo Ramelow. Il problema ora è che questo Land non è più in grado di esprimere una coalizione di governo che abbia una maggioranza in parlamen-
to: Die Linke, SPD e Verdi non hanno più i numeri per governare, un’alleanza fra CDU, SPD, Verdi e FDP neppure; siccome la CDU si rifiuta di coalizzarsi con die Linke e nessun partito intende allearsi con l’AfD, di fatto un eventuale governo di minoranza avrebbe le mani legate su gran parte del lavoro politico. Se consideriamo che queste perdite arrivano nel solco di quelle subite in Sassonia, dove CDU, SPD (anche lì sotto l’8 per cento) ma anche die Linke (che non aveva un Ramelow da vantare) hanno perso massicciamente, si può immaginare quale clima vige a Berlino nelle segreterie di CDU e SPD. L’ennesimo risultato negativo della CDU spinge gli oppositori della presidente Annegret Kramp-Karrenbauer a chiederne le dimissioni, o perlomeno a rinunciare al cancellierato, quando si sarà ritirata Angela Merkel. La temperatura della situazione interna al partito si potrà misurare a fine novembre a Lipsia, al Congresso del partito. Si coglie comunque un’urgenza di ridefinire l’orientamento della CDU (in tema ambientale e di migrazione, in particolare) e quindi di chiedersi se abbia ancora senso portare avanti la Grosse Koalition con la SPD, che tanti voti sta costando da anni a entrambi i partiti. Se lo chiede anche la SPD, che a inizio dicembre
deciderà formalmente se andare avanti a governare con Angela Merkel fino alla fine della legislatura, nel 2021. Ma l’alternativa alla Grosse Koalition quale sarebbe? Come in Turingia, anche a Berlino mancano i numeri per maggioranze diverse. Il fatto che AfD rubi voti a CDU, SPD, die Linke e Verdi, mette in pericolo la stabilità del paese, che, lo ricordiamo, è il motore dell’Unione europea. Nonostante sia chiaro che la AfD abbia una contaminazione neo-nazista, guadagna ovunque voti, ciò che rivela la pericolosità del malessere di strati importanti della società, in particolare in una Germania che solo da qualche decennio era riuscita a scrollarsi di dosso il passato nazista. Una tendenza non solo tedesca, tuttavia: la registriamo anche in Francia, in Italia, in Ungheria. Il dopo-Merkel si preannuncia difficile. Se poi consideriamo che in Italia Matteo Salvini sta preparando la sua marcia (di ritorno) su Roma, primeggiando alle regionali in Umbria (dove si squagliano i 5 Stelle), che dalle prossime elezioni potrebbe uscire una Spagna ancora poco governabile, mentre in Francia occorrerà vedere che cosa succederà alle presidenziali del 2022, lo scenario che si prospetta per importanti Stati europei e per l’Unione europea è preoccupante.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 novembre 2019 • N. 45
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Attualità Migros
Organizzare la salute è anche una sfida formativa
Scuola Club Migros Ticino Sono in partenza nuovi moduli per profili amministrativi
«Secondo uno studio del Credito svizzero di alcuni anni fa, nel 2030 la sanità sarà probabilmente il maggiore datore di lavoro in Svizzera. Se ci sarà necessità di professionisti della salute, ci sarà anche bisogno di figure amministrative preparate e professionali» racconta Maria Grazia Mele, formatrice alla Scuola Club di Migros Ticino, da 25 anni professionista in ambito sanitario. Ci troviamo all’interno di una grande transizione demografica che vedrà mutare profondamente il volto della popolazione e le sue domande di vita buona. Tutto questo andrà inevitabilmente ad impattare sulla tipologia di servizi offerti, sui modelli organizzativi adottati, su ruoli e professioni con l’emergere di nuovi bisogni formativi, anche in campo amministrativo. «Pensiamo all’innovazione tecnologica, ad esempio alla cartella sanitaria» continua Maria Grazia «il mondo del lavoro ha da tempo abbandonato il modello dell’impiegato esecutore per sviluppare un profilo di professionista capace, nel suo agire, di attivare tutte le competenze necessarie. Si lavorerà sempre più in contesti interprofessionali dove tutte le figure coinvolte nel processo di cura collaborano attiva-
mente e dove le conoscenze, anche amministrative, devono essere allineate. Tutto il personale giocherà sempre più un ruolo determinante».
I corsi in programma Conoscere la sanità nella pratica quotidiana
La protezione dei dati nella pratica del segretariato medico
Mercoledì 25 marzo 2020, dalle 09.00 alle 18.00, Fr. 240.– Sede di Lugano
Mercoledì 6 maggio 2020, Dalle 09.00 alle 13.00, Fr. 120.– Sede di Lugano
La comunicazione assertiva con il paziente
www.scuola-club.ch Bellinzona 091 821 78 50 Locarno 091 821 77 10 Lugano 091 821 71 50 Mendrisio 091 821 75 60
Giovedì 23 aprile 2020, dalle 09.00 alle 18.00, Fr. 240.– Sede di Lugano
Maria Grazia sa di cosa parla. Una consolidata conoscenza del contesto sanitario e un impegno crescente nel campo della formazione le consentono di rispondere ai mutamenti della domanda sanitaria con una proposta inedita, concentrata ed efficace, ora in partenza alla Scuola Club. I nuovi moduli sono un prosieguo del corso base di Segretariato medico avviato con successo lo scorso anno dalla Scuola Club, e ora riproposto, dove i partecipanti sono interessati ad approfondire tematiche legate ad un’area professionale in grande evoluzione, soprattutto per quanto riguarda il profilo dei collaboratori all’interno di studi privati. «Questa nuova offerta vuole essere molto pratica, con un linguaggio comprensibile e immediatamente applicabile al contesto. Si tratterà in modo
semplice del sistema sanitario svizzero, dalla gestione della cartella sanitaria alla protezione dei dati. Risponderemo alla domanda: dove posso reperire le informazioni utili alla mia attività? Parleremo anche della comunicazione con il paziente secondo il modello assertivo, anche qui partendo dalla pratica. Nella formazione ci saranno esempi tratti dall’agire quotidiano. Il mio orientamento quale formatrice è quello di beneficiare di un modello legato alle esperienze dei partecipanti e con l’apporto di nuove conoscenze invitare gli stessi ad una professionalizzazione del proprio profilo, migliorando attitudini, capacità e conoscenze» puntualizza Mele. I nuovi moduli tematici si propongono di contribuire allo sviluppo di un profilo professionale dell’ambito sani-
tario capace di muoversi tra colleghi e professionisti con consapevolezza e competenza. «Il personale amministrativo attivo presso i segretariati medici di ospedali, cliniche e studi medici necessita di conoscenze sempre aggiornate legate ai diversi contesti professionali. Inoltre non dobbiamo dimenticare che il contesto sanitario tratta dati sensibilissimi e si confronta con persone sofferenti e bisognose di attenzione. Infine, vi sono limiti definiti da leggi e regolamenti che vanno conosciuti e applicati. Parliamo di un ambito sottoposto a trasformazioni continue che richiede persone in costante aggiornamento» conclude Maria Grazia Mele. «Siamo confrontati con sfide e innovazioni epocali ed è responsabilità di ognuno di noi mantenere vivo il proprio know-how».
Bellinzona ama il tango
Eventi Un fine settimana dedicato ad una delle forme di danza più affascinanti L’associazione Eventos Tango, che si impegna a promuovere la cultura e il ballo del Tango Argentino con corsi, incontri e manifestazioni, ha creato un Comitato Organizzativo con il quale festeggiare un importante anniversario. Nel 2019 ricorrono infatti i 25 anni dall’apertura della prima scuola di tango nel nostro cantone. I festeggiamenti, naturalmente a ritmo di musica argentina, daranno vita a una manifestazione dal titolo «Tango Sì, Quiero», che occuperà il finesettimana tra il 21 e il 24 novembre. «Sì Quiero» è in spagnolo la forma canonica usata nella cerimonia di matrimonio: in questo caso esprime con ironia il desiderio di rinnovare l’amore per il Tango. Il programma è molto articolato e propone vari momenti, tra cui una mostra d’arte all’Ospedale regionale di Locarno, uno spettacolo di tango al Teatro Sociale di Bellinzona e un concerto con un’orchestra internazionale, seguito da una «milonga di gala» (serata di ballo) con show di grandi maestri internazionali e musica live. I direttori artistici del-
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Il 23 novembre l’orchestra Silencio tango, diretta da Roger Helou, presenterà un concerto riproponendo la forma dell’orchestra classica del tango argentino in voga negli anni 50. Durante la manifestazione sono previsti anche workshop (iscrizioni su www.tangosiquiero.ch/corsi): in particolare il 22, 23 e 24, Fausto Carpino e Stephanie Fesneau animeranno un seminario di tango, ritmica, pause e melodie, per poi partecipare allo show di sabato con gli altri maestri. Informazioni di dettaglio sulla manifestazione e sui workshop sono pubblicate sul sito www.tangosiquiero.ch. Programma
Fausto Carpino e Stephanie Fesneau.
la manifestazione sono Adriana Juri e Vincenzo Muollo, già titolari della scuola 1881 Tango Academy di Bellinzona, nonché ballerini professionisti. Il 22 novembre sarà proposto al
Sociale di Bellinzona lo spettacolo «En Tus Ojos», che fonde la danza e il tango in un unico linguaggio per raccontare la storia di Astor Piazzolla e della sua musica.
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Venerdì 8 novembre ■ EOC La Carità di Locarno, ore 18.00, mostra d’arte con opere originali di Adam Fonti e Giulia Fonti. ■ Teatro Paravento, Locarno, ore 20.00, Milonga del los mil colores. Tiratura 101’634 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Giovedì 21 novembre ■ Le Cap St. Martin Club, Lugano, ore 21.00, milonga di apertura e presentazioni delle principali scuole ticinesi. Venerdì 22 novembre ■ Teatro Sociale, Bellinzona, ore 20.30, spettacolo di tango En Tus Ojos della compagnia Naturalis Labor. ■ Ciossetto di Sementina, ore 21.30, milonga e ronda con gli artisti. Sabato 23 novembre ■ Showroom Mercedes di Giubiasco, ore 20.30, concerto di tango dell’orchestra Silencio Tango. Ore 22.00, milonga di gala con musica live e show dei maestri internazionali. Domenica 24 novembre ■ La Fabbrica, Losone, ore 17.30, milonga Tardecita mi amor. Ore 19.00, asado argentino. In collaborazione con
Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 novembre 2019 • N. 45
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Società e Territorio Un’impresa al femminile La Residenza Emmy di Loreto compie 60 anni e ancora oggi è una delle poche cooperative di abitazione esistenti in Ticino
Nella Città dei mestieri Prenderà il via a gennaio a Bellinzona il progetto che mette in rete tutte le informazioni e gli attori che riguardano il mondo del lavoro pagina 11
Trasporto pubblico Il Cantone ha annunciato un investimento di oltre 460 milioni nei prossimi quattro anni, una buona parte servirà per assumere 250 nuovi conducenti di bus pagina 13
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I fili nascosti del wireless
Tecnologia Alla scoperta di storia, uso
e infrastrutture delle connessioni quotidiane attraverso un progetto di divulgazione scientifica di USI e SUPSI
Stefania Hubmann Sono ormai migliaia i gesti quotidiani che si compiono utilizzando con naturalezza le tecnologie senza fili definite con il termine wireless. Esso ha però una lunga storia e un lato materiale più ingombrante di quanto si sia indotti a credere da espressioni quali lo stesso wireless o cloud (nuvola) riferito allo spazio di archiviazione personale. A rendere visibile l’invisibile ci ha pensato il progetto congiunto di USI e SUPSI Decoding Wireless, un’iniziativa di comunicazione scientifica che ha interessato la scorsa estate le città di Lugano e Locarno. Ad attirare l’attenzione dei passanti sono state vivaci installazioni gialle e rosse pensate per un’esperienza immersiva alla scoperta del wireless. Un’esperienza assai diversificata e così concepita per ampliare il ventaglio dei potenziali interessati. Benché il progetto divulgativo sia ormai giunto al termine, i suoi contenuti rimangono consultabili sul sito www.decodingwireless.ch, mentre il concetto è replicabile grazie ad un apposito manuale on line disponibile da inizio dicembre. «Con Decoding Wireless l’università è uscita dai suoi spazi per un incontro diretto con la società su un tema di grande attualità al quale abbiamo dedicato vari anni di studi», spiega il prof. Gabriele Balbi, vice direttore dell’Istituto di media e giornalismo (IMeG) dell’USI, responsabile del progetto unitamente al prof. Jean-Pierre Candeloro, quest’ultimo alla guida del Laboratorio di cultura visiva della SUPSI. Il viaggio pubblico alla scoperta del mondo della comunicazione senza fili è stato, infatti, finanziato dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica attraverso la sezione Agorà che si occupa proprio di promuovere il dialogo fra comunità scientifica e collettività. Gli studi menzionati dal prof. Balbi riguardano il progetto di ricerca «Inventing European Wireless», che ha indagato la dimensione storica del wireless e che si è svolto all’USI dal 2014 al 2018. Cosa emerge da questa ricerca e
soprattutto dove conduce il viaggio di Decoding Wireless? Risponde il prof. Balbi: «Attraverso le installazioni, un magazine cartaceo, passeggiate urbane ed eventi mirati a Lugano e Locarno, abbiamo esplorato tre dimensioni del wireless: la storia, la vita quotidiana e le infrastrutture. Il primo è un viaggio nel tempo che risale alla fine dell’Ottocento con la prima trasmissione wireless in genere attribuita a Guglielmo Marconi. Si tratta quindi di una storia lunga, ricca di avvenimenti e momenti di svolta, alcuni dei quali poco conosciuti. Una storia composta da avvenimenti sia di portata mondiale, sia specifici della realtà svizzera o locale, come la filodiffusione (detta radiotelefono) che all’inizio degli anni Trenta ha permesso di ascoltare nella Svizzera italiana i programmi radio via filo telefonico». Da ricordare che il termine wireless nel corso del tempo è stato impiegato per varie tecnologie, tra cui radio, televisione, internet e telefonia mobile. Non va confuso con altre sigle (vedi Wi-Fi) legate a forme specifiche di questo tipo di connessione. Grazie a Decoding Wireless si può inoltre acquisire consapevolezza riguardo all’uso del wireless nella vita quotidiana. Esso ci accompagna infatti senza sosta lungo l’intero arco della giornata. Se smartphone e tastiere sono esempi riconoscibili, altri apparecchi come il forno a microonde e il bancomat (che pure usano tecnologie senza fili) tendiamo a dimenticarli, perché sono così integrati nelle abitudini da passare inosservati. Per richiamare l’attenzione sul tempo trascorso immersi nella rete senza fili, il progetto ha inserito nei due eventi cittadini – organizzati a Lugano in Piazza Indipendenza in concomitanza con il Longlake Festival e a Locarno nei pressi della rotonda di Piazza Castello durante il Film Festival – le panchine della «No Wi-Fi Zone». Cosa succede quando non abbiamo accesso alle reti wireless? Come cambia la nostra esperienza quotidiana? Cosa possiamo fare senza wireless? Sono interrogativi sollevati dal progetto in questo ambito e sottoposti all’at-
Le installazioni del progetto curato da USI e SUPSI sono state ospitate a Lugano e Locarno. (decodingwireless.ch)
tenzione del pubblico. Anche indossare le cuffie wireless messe a disposizione per ascoltare programmi radiofonici del passato o per ballare senza che la musica si diffonda nell’ambiente sono esperienze che modificano le percezioni e inducono alla riflessione. Prosegue Gabriele Balbi: «Le passeggiate urbane sulle tracce del wireless sono state una delle proposte più stimolanti non solo per il pubblico ma anche per noi che le abbiamo guidate. Identificare le infrastrutture non visibili e confrontarsi con l’influenza del wireless sui nostri comportamenti, ad esempio osservando i passanti che interagiscono con strumenti senza fili, sono esperienze che hanno avuto un ottimo riscontro da parte dei partecipanti, favorendo quell’interazione fra mondo accademico e società auspicata dai progetti Agorà». Se pensiamo, infine, che il wireless sia etereo, leggero, quasi immateriale, commettiamo un enorme errore, pron-
tamente corretto dal progetto divulgativo di USI e SUPSI. Decoding Wireless evidenzia infatti anche la presenza delle infrastrutture indispensabili al funzionamento del wireless. Apparecchi, cavi, server, antenne, sono in realtà piuttosto ingombranti, senza dimenticare che i dispositivi contribuiscono ad accrescere la spazzatura digitale. Ogni anno, ad esempio, nel mondo vengono venduti oltre un miliardo di smartphone di cui la maggior parte sostituiti entro pochi mesi. Le ricerche in numerose istituzioni – dalla Fondazione e Museo Guglielmo Marconi all’archivio PTT, dal Museo della comunicazione di Berna a quello della radio, sul Monte Ceneri, alla RSI – hanno permesso di svelare anche al pubblico i lati nascosti delle tecnologie senza fili. Un viaggio compiuto fra passato e presente, fra dati impressionanti e aneddoti, fra attualità e riflessione. «L’obiettivo – osserva in conclusione Gabriele Balbi – era di offrire un acces-
so rapido e ludico alle informazioni, affinché la tecnologia che usiamo ogni giorno non sia data per scontata, perché in realtà è frutto di un progresso sviluppatosi per oltre un secolo. Uno dei punti di forza del progetto è sicuramente la varietà delle esperienze proposte, varietà che permette di raggiungere un pubblico diversificato». Nel frattempo altri importanti archivi attendono i ricercatori dell’USI guidati dal prof. Balbi. Sono quelli del CERN (Organizzazione europea per la ricerca nucleare) di Ginevra per la prima volta accessibili per uno studio sulla nascita, lo sviluppo e la diffusione del World Wide Web, tecnologia creata per esigenze interne al centro di ricerca e divenuta dirompente a livello globale. Anche in questo caso un progetto divulgativo Agorà risulterebbe di grande interesse. Informazioni
www.decodingwireless.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 novembre 2019 • N. 45
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Idee e acquisti per la settimana
Qualità e freschezza tutta locale
Novità Tre nuovi irresistibili formaggi freschi vanno ad arricchire la gamma
dei prodotti regionali di Migros Ticino
Crema di latte 125 g Fr. 2.95 Stracciatella 125 g Fr. 3.50 Formaggini ticinesi 200 g Fr. 3.95
Freschi, cremosi e a base di 100% latte vaccino ticinese. Stiamo parlando di tre nuovi formaggi freschi entrati da poco a far parte dell’assortimento Migros, la Crema di latte, la Stracciatella e i Formaggini Ticinesi. Tutte e tre le specialità sono prodotte artigianalmente dal Caseificio Ticino di Rivera con l’impiego di latte pastorizzato e si caratterizzano per il loro aroma pieno e delicato. I formaggini ticinesi figurano tra i formaggi freschi più amati dai consumatori. Sono particolarmente apprezzati durante la bella stagione, ma non solo, conditi anche solo con un filo d’olio, sale, pepe e accompagnati da pane scuro e da una croccante insalata. Si possono anche utilizzare come ripieno di rotolini di verdura, per arricchire un aperitivo oppure nelle paste e sulla pizza. Una cremosa prelibatezza è la stracciatella, un latticino le cui origini vanno ricercate nella bellissima e assolata Puglia. La specialità è composta dalla mozzarella sfilacciata con l’aggiunta di panna che costituisce il ripieno della burrata. Possiede un sapore delicato, dolce, che rammenta quello del latte fresco appena munto. Si gusta così com’è, senza condimenti, su pane abbrustolito, ma può essere utilizzata
Pollo svizzero, che bontà!
Attualità Il pollame di qualità Optigal per i vostri piatti più sfiziosi
Grazie alla sua versatilità e sapidità il pollame offre un’infinità di possibilità culinarie, e questo senza spendere molto. Il marchio Optigal della Migros è da oltre 50 anni sinonimo di polli di prima qualità, allevati nel rispetto del loro benessere, perlopiù in aziende agricole a gestione famigliare. Gli animali vivono in ampi pollai ed hanno la possibilità di accedere ad un’area esterna. L’alimentazione è costituita da mangimi puramente vegetale. Sugli scaffali dei supermercati Migros è disponibile un ampio assortimento di prodotti a base di pollame fresco firmati Optigal. Accanto al succoso pollo intero sempre molto gettonato dai buongustai, la selezione annovera pure parti particolarmente ambite quali cosce, alette, scaloppine, filettini, sminuzzato, petti, come pure diverse specialità di salumeria e prodotti pronti al consumo. La carne di pollo, oltre ad essere gustosa e facile da cucinare, risulta anche particolarmente povera di grassi e colesterolo, ma in compenso ricca di vitamine, proteine e sali minerali.
anche per preparare primi piatti di pasta tipici, come le orecchiette, oppure accostata a prosciutto crudo, verdure, marmellata di fichi o come contorno di arrosti e cacciagione. La crema di latte è un prodotto tanto semplice quanto gustoso che conquisterà i palati di grandi e piccini. È prodotta portando il latte con l’aggiunta di acido citrico alla temperatura di 85 gradi. Una volta ottenuto l’affioramento, la massa solidificata che si forma sulla superficie viene separata dal resto e lasciata raffreddare. È ideale per preparare dessert, salse o da gustare tale quale al cucchiaio. Per una deliziosa e sana merenda spalmare la crema di latte su fette di pane tostato e servire guarnendo con miele o scaglie di cioccolato. Il Caseificio Ticino
Con l’obiettivo di proporre ai consumatori le migliori specialità della tradizione italiana e locale, ma con l’utilizzo di solo latte di provenienza ticinese, nel 2016 nasce a Rivera il Caseificio Ticino SA su iniziativa di Roberto Matarrese. Cura, qualità e passione sono i segreti del successo ottenuto dell’azienda in soli tre anni di attività. Dai classici della tradizione
ticinese fino alle prelibatezze del Sud Italia, tutte le specialità sono prodotte artigianalmente con latte a chilometro zero e senza l’impiego di conservanti o agenti chimici. Consigli culinari
La crema di latte e la stracciatella sono ingredienti ideali per preparare ricette originali in ogni stagione dell’anno. Da provare assolutamente sono per esempio le crepes al salmone e crema di latte: per 8 crepes servono 250 g di farina, 3 uova, 500 ml di latte, burro qb, 200 g di salmone affumicato, 125 g di crema di latte e qualche cappero e finocchietto. Per la pastella miscelare bene con una frusta l’uovo, il latte e la farina. Dopo aver riposato 30 minuti, cuocere la pastella in una padella antiaderente fino a formare le crepes. Guarnire quest’ultime con la crema di latte, il salmone affumicato e ripiegarle a metà o in quattro. Decorare le crepes con i capperi e il finocchietto e servire subito. Altra appetitosa ricetta è il risotto agli spinaci con stracciatella. Ingredienti per 4 persone: 400 di riso, 250 g di stracciatella, 400 g di spinaci, 1 cipolla, vino bianco secco, 1 noce di burro, brodo vegetale, olio EVO, sale e pepe qb. Soffriggere la cipolla tritata, quindi far tostare il riso e sfumare con il vino bianco. Cuocere lentamente aggiungendo man mano il brodo e il sale. Separatamente, in una pentola, scottare gli spinaci con un filo d’olio e quindi frullarli per creare una crema vellutata. A cottura ultimata del riso aggiungere la crema di spinaci e mantecare con una noce di burro. Impiattare il riso e cospargervi sopra la stracciatella e un filo di olio.
Sushi del mese
Attualità A novembre un’altra specialità
asiatica disponibile per un periodo limitato nelle maggiori filiali Migros
Shimotsuki Sushi 290 g Fr. 15.90
Azione 20%
su tutto l’assortimento di polleria fresca Optigal dal 5 all’11.11
Gli affezionati della cucina del paese del sol levante alla Migros trovano ogni mese una delizia differente, che va ad aggiungersi all’ampio assortimento di sushi già disponibile normalmente nei maggiori supermercati del Ticino. A novembre lasciatevi tentare dal Shimotsuki, una variopinta preparazione di sushi composta da nigiri al salmone crudo, hoso-maki ai cetrioli e chumaki California Ebi Roll e Chicken Mexico Roll. Naturalmente, come da buona tradizione, nella vaschetta sono inclusi i classici condimenti wasabi,
salsa di soia e lamelle di zenzero. Infine ricordiamo che, all’interno delle filiali Migros di Locarno e S. Antonino, è presente il Sushi Corner, uno spazio dove degli specialisti di cucina orientale preparano sul posto quotidianamente una vasta selezione di irresistibili bocconcini, come pure insalate, snack e menu vari. Il personale dei Sushi Corner è stato formato dalla Sushi Mania, azienda attiva da quasi un ventennio nel settore della gastronomia giapponese e delle specialità asiatiche che produce per le Migros di tutta la Svizzera.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 novembre 2019 • N. 45
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Idee e acquisti per la settimana
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 novembre 2019 • N. 45
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Società e Territorio
Abitare bene nella terza età
Cooperativa di abitazione La Residenza Emmy di Loreto compie 60 anni, nata da un progetto pionieristico
tutto al femminile è ancora oggi una delle poche cooperative di abitazione esistenti in Ticino
Romina Borla I capelli bianchi non le hanno tolto un briciolo di fascino, anzi, e nemmeno le preoccupazioni. Maria sorride. Ha voglia di festeggiare il suo primo anno nella Residenza Emmy, una struttura composta da una ventina di appartamenti a pigione moderata destinati a persone autosufficienti in età AVS e gestita da una cooperativa, tutta al femminile, fondata 60 anni fa. Finché lavorava, vivere da sola non era un problema ma, una volta in pensione, le cose si sono complicate. «Difficile arrivare a fine mese», confessa. Così, appena si è liberato un monolocale a Lugano-Loreto, ci si è trasferita. Marie-José Gianini, che fa parte del consiglio di amministrazione della casa e ogni mercoledì si dedica all’animazione, taglia la torta di mele mentre l’infermiera Alice prepara i caffè. C’è un via vai chiassoso di gente nella sala comune al piano terreno. Angela, la custode, non si ferma: «Il lavoro mi aspetta». Ma un sorriso ce lo lascia. L’umorismo di Felicita è contagioso. La signora ci racconta del suo passato nel settore alberghiero, del suo odio per le faccende domestiche e di un film francese, In viaggio con Jacqueline. «Che non è una bella donna ma una mucca algerina», precisa. Duska è invece di poche parole. È arrivata da poco nella residenza e forse deve ancora ambientarsi. Mangia il dolce e si ritira subito. Poi c’è Arna:
Era il 1959 quando un gruppo di donne fondò la Società Cooperativa «Casa per persone anziane» che nel 1972 inaugurò la Residenza Emmy. (Ti-Press)
ciuffo al vento, unghie interminabili e sgargianti. Si lamenta con voce tonante di un disguido riguardante la struttura. «È il nostro peperino», spiega Marie-
José. «Dice le cose in modo poco diplomatico ma è un tesoro e – indicando dei centrini – ha le mani d’oro». Intanto Brigitte, ex parrucchiera, ripercorre il
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suo passato a Zurigo e i suoi tormentati amori. Se ne va gesticolando con la sua gentilezza e il maglione glitterato. «La residenza si è aperta anche agli uomini – ci informa Marie-José – Ma loro partecipano meno alle attività comuni, sono spesso di poche parole. Uomini, appunto…». Ne incontriamo uno al volo, Antonio, un 73enne attivissimo nel volontariato. «In un normale condominio c’è distanza – afferma – Specie se sei solo ti senti a volte escluso. Qui siamo tutti sulla stessa barca. Ci si conosce, ci si può aiutare. Certo, la convivenza non sempre è facile». «A volte le solitudini si scontrano – continua Marie-Josè – Gli ospiti hanno i loro problemi e forse anche vissuti difficili alle spalle. Questi a tratti emergono senza chiedere il permesso. Ma noi tutte del consiglio ci adoperiamo per offrire sostegno, creare serenità ed armonia». La Residenza Emmy – spiega – è un progetto pionieristico nato dall’entusiasmo di un gruppo di donne luganesi provenienti da diverse associazioni femminili (tra cui l’Associazione cooperatrici Migros), allora molto impegnate anche nella lotta per la concessione del diritto di voto. Queste signore – 60 anni fa – hanno fondato la Società cooperativa «Casa per persone anziane», una cooperativa d’abitazione destinata ad anziani bisognosi, soprattutto donne sole. Erano infatti loro (e lo sono ancora) ad avere maggiori problemi economici in età avanzata. Dopo diverse traversie, nel 1972 la cooperativa è riuscita a inaugurare la residenza a Lugano-Loreto, in via Adamini. L’edificio è stato progettato dall’architetto Gianfranco Rossi su un terreno concesso dalla Città in diritto di superficie con vincolo di restituzione nel 2030, rinnovato fino al 2055 dal Consiglio comunale nel 2013. «La nostra è una delle poche cooperative di abitazione esistenti in Ticino», dice Cristina Zanini Barzaghi, dal 2012 presidente del CdA della Residenza Emmy (chiamata così in ricordo di Emma Degoli, tra le promotrici dell’impresa). «Ed è un po’ speciale. Le donne della cooperativa non si limitavano infatti ad una amministrazione tradizionale della casa, ma intendevano la gestione come un’assistenza personalizzata agli inquilini». Un’assistenza che prevedeva supporto nel momento del bisogno e l’organizzazione del tempo libero, con un enorme im-
pegno personale a titolo gratuito. «Lo spirito originario è andato purtroppo perduto negli anni 90 – spiega l’intervistata – e la gestione della casa si è gradualmente accentrata nelle mani di alcune». A causa di una gestione poco oculata delle risorse e alle incombenti necessità di ristrutturazione, la cooperativa si è trovata all’inizio del nuovo millennio sull’orlo della bancarotta. «Il 2012 è stato l’anno della svolta. Renata Raggi-Scala, allora presidente della Federazione ticinese delle associazioni femminili, ha dato l’impulso per rinnovare completamente il CdA, con l’obiettivo di dare un futuro alla Residenza Emmy, per rispetto delle fondatrici e perché la struttura è necessaria anche per la Città: gli appartamenti economici erano (e restano) scarsi. Così, dopo il risanamento dei conti, sono stati effettuati alcuni lavori di ristrutturazione, ripristinata la sala comune e riattivati dei momenti di socializzazione». Oggi, come allora, la struttura va avanti grazie all’impegno di donne provenienti da ambiti diversi. Ma la presidente – che lavora come ingegnere ed è attiva in politica – è consapevole che il volontariato nella forma praticata in passato non è un modello per il futuro. «Le donne non riescono più ad investire tante energie in tali progetti perché spesso lavorano anche fuori casa. Di conseguenza il modo di lavorare del consiglio della cooperativa dovrà essere riconsiderato. Le donne, che hanno sempre assunto la responsabilità sociale, continueranno a farlo, solo in modo diverso». Prima di andarcene veniamo trascinati da Felicita nel suo bilocale: qualche mobile antico, molti libri e dipinti a lei cari. Il suo gatto Penny ci guarda curioso dal letto. «Per ora sono qui e sto bene – dice –. In futuro non so. Speriamo di non finire in paradiso, sai che noia…». Il 9 novembre, dalle 14.30, nella Casa anziani La Piazzetta in via Loreto 17, a Lugano, si terrà l’evento per festeggiare i 60 anni della Società cooperativa Residenza Emmy , i 50 anni del diritto di voto alle donne in Ticino e i 100 anni delle Cooperative d’abitazione svizzera. In tale occasione verrà presentata La Residenza Emmy: storia di un’impresa femminile, ristampa ampliata del libro omonimo di Karin Stefanski (Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino).
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Società e Territorio
Una finestra sul mondo del lavoro
Professioni A gennaio aprirà a Bellinzona la Città dei mestieri. Un progetto che mette in rete tutte le informazioni
e gli attori che riguardano l’orientamento, la formazione, la riqualifica e la ricerca di impiego
Fabio Dozio Il lavoro stanca, ma è forse difficile farne a meno. C’è chi ha preconizzato la fine del lavoro, ma per ora resiste, anche se cambia e si trasforma. Dal prossimo gennaio in Ticino sarà più facile osservare il lavoro in tutte le sue sfaccettature e trovare un impiego. Verrà infatti inaugurata la Città dei mestieri, uno spazio aperto a tutti coloro che vogliono lavorare, perfezionarsi o riqualificarsi, orientarsi nel mercato del lavoro o conoscere l’apprendistato. Si tratta di uno spazio particolare, una via di mezzo tra un ufficio, un’esposizione, una rete di contatti, che avrà sede in un palazzo a due passi dalla stazione di Bellinzona, dove ogni cittadino potrà recarsi per essere aiutato a diventare in modo più significativo attore della propria vita professionale. Si offrirà una consulenza individuale, un centro di documentazione, uno spazio eventi, incontri con aziende, conferenze, risorse multimediali sui temi dei mestieri e delle strategie di collocamento. Non ci saranno gli ostacoli burocratici dei classici uffici dell’amministrazione, ma sarà uno spazio d’incontro trasparente per ricevere informazioni e, possibilmente, facilitare la ricerca di un posto di lavoro. Ecco la filosofia che sta alla base di questa nuova proposta, che si sintetizza in tre termini: libertà, gratuità, anonimato. «La Città dei mestieri – ha detto il consigliere di Stato Manuele Bertoli, direttore del Dipartimento che gestisce la struttura – vuole rispondere al bisogno crescente di orientamento e supporto di giovani e adulti chiamati a muoversi in un mondo del lavoro che cambia. È un progetto che si fonda sulla capacità degli attori pubblici e privati di lavorare assieme per l’obiettivo di un Ticino competitivo, perché capace di valorizzare il suo capitale umano, ma anche socialmente coeso, dove nessuno sia lasciato indietro». Si aboliscono le barriere tra il cittadino e i vari uffici che si occupano di lavoro; orientamento, collocamento, sindacato, aziende. Alla Città dei mestieri si accede senza appuntamento e si ha la garanzia che venga rispettato l’anonimato. Se un giovane o un adulto vuole cambiare attività, può andare lì e
informarsi, curiosare, farsi un’idea di quali alternative potrebbe scoprire. «È uno spazio costituito di tre componenti – ci spiega Furio Bednarz, Capo Ufficio della formazione continua e dell’innovazione – Uno sportello per l’accoglienza e la consulenza, dove avvengono i colloqui. Il centro di documentazione, luogo fisico con disponibilità di computer, per scrivere una lettera e documenti cartacei da consultare, insomma, un piccolo ufficio attrezzato. Infine, uno spazio per gli eventi con 40/50 posti. Se un’azienda vuole venire da noi per presentare le sue opportunità di lavoro, è benvenuta. Avremo un fitto programma di eventi che sarà una sicura attrazione. Saremo una finestra aperta sul mondo del lavoro, sulle professioni e sulla formazione». La Città dei mestieri sarà organizzata in quattro aree. Orientarsi: informazione sui diversi percorsi formativi, incontri tra giovani alla ricerca di un posto di tirocinio e aziende interessate all’assunzione di apprendisti, contatti con Uffici regionali di orientamento scolastico e professionale. Vivere l’apprendistato: informazioni sulle procedure di assunzione e sulle condizioni quadro del contratto. Diritti e doveri dell’apprendista. Sostegno nella transizione del mondo del lavoro. Trovare lavoro: è un mondo in continua evoluzione e quindi si offrono strumenti per la ricerca dell’impiego e per l’autoimprenditorialità. Si organizzano incontri fra datori di lavoro e persone in cerca d’impiego. Per cercare un lavoro adatto ai propri bisogni, alle proprie competenze e ai propri desideri. Perfezionarsi e riqualificarsi: Non è mai troppo tardi per formarsi. Completare la formazione di base, proseguire con specializzazioni, oppure approfondire con la formazione continua per trovare il percorso adatto a ognuno. «Le consulenze saranno molto brevi, – osserva Sara Grignola Mammoli, collaboratrice scientifica della Divisione della formazione professionale – ci rivolgiamo ai giovani, alle persone in fase di transizione, alle donne dopo la maternità, che non sanno bene come muoversi e vogliono avere un contatto, senza impegno, per ricevere informazioni e alcune dritte per poi indirizzarsi verso i datori di lavoro. Se per qualcuno
La sede della Città dei mestieri è lo stabile ex Felix in viale Stazione. (www.ti.ch/decs)
è necessario l’orientatore, lo si manda lì. Oppure agli Uffici regionali di collocamento. Il vantaggio della Città dei mestieri per chi cerca lavoro è di poter offrire diversi interlocutori: il consulente del personale, l’esperto di formazione superiore. Si potranno organizzare appuntamenti dove l’utente potrà chiedere aiuto per scrivere una candidatura. Ci saranno piccoli atelier per imparare a presentarsi o prepararsi per un colloquio di lavoro». La Città dei mestieri è un servizio pubblico per i cittadini, ma sarà a disposizione anche delle aziende. «Puntiamo molto a coinvolgere aziende che possono avere difficoltà di reclutamen-
to di certe figure professionali – spiega Furio Bednarz – Posso fare un esempio recente: un’azienda metalmeccanica vuole assumere un responsabile meccatronico e sta facendo ricerche da due anni sia in Svizzera che all’estero. In questo caso la Città dei mestieri può organizzare un evento con l’intervento dell’azienda per pubblicizzare l’offerta di lavoro». A metà ottobre si è riunito per la prima volta il Comitato Guida che avrà il compito di assicurare il governo strategico del nuovo servizio. Il Comitato è composto da rappresentanti dei dipartimenti cantonali coinvolti e dalle principali organizzazioni professiona-
li e sindacali. Il Consiglio di Stato ha nominato il parlamentare Nicola Pini alla presidenza del Comitato: «Fondamentale – ha detto Pini – sarà proprio il ruolo di imprese e organizzazioni del mondo del lavoro, alle quali offriamo non solo una piattaforma di scambio tra domanda e offerta di lavoro, ma anche un luogo dove portare i loro bisogni in termini di competenze, contribuire a orientare chi è alla ricerca di un impiego o di una formazione e infine trovare risposte adeguate ai fabbisogni di manodopera». I promotori della Città stimano che possano essere coinvolti circa 5mila utenti all’anno. A Ginevra, dove la struttura è nata dieci anni fa, sono più di 30mila le persone che frequentano la Cité des métiers in un anno. In Ticino ci sono secondo gli ultimi dati 4273 disoccupati annunciati agli Uffici. Secondo le stime ILO, che si basano su sondaggi a campione, i disoccupati potrebbero essere 10mila. 5mila senza lavoro, non registrati. Potrebbe essere questo un bacino importante di persone che frequentano la Città dei mestieri, che non richiede iscrizione e non etichetta l’utente come disoccupato. Per aprirsi verso l’esterno sarà importante usufruire delle reti sociali e di internet. A questo scopo la struttura ha una collaboratrice che si occuperà del multimedia, ma verranno utilizzati anche i canali informativi dei partner aziendali o sindacali. «Una grossa sfida per la Città dei mestieri – sottolinea Sara Grignola – sarà abbinare il livello comunicativo a quello istituzionale. Siamo un servizio dell’amministrazione cantonale, ma dobbiamo inventare modalità di comunicazione e approcci diversi rispetto a quelle classiche istituzionali e burocratiche». La Città dei mestieri è un progetto per il presente, ma che guarda al futuro. «Da tempo immemore – ha detto lo storico Yuval Noah Harari – la vita si divide in due fasi: un periodo di apprendimento seguito da un periodo di lavoro (…) Nel 2040 però questo modello tradizionale diventerà obsoleto e gli esseri umani riusciranno a stare a galla solo continuando a imparare per tutta la vita, reinventandosi anche a 50 anni».
A teatro da piccoli per diventare grandi spettatori
Minispettacoli Riprende la rassegna di Minusio dedicata al teatro per l’infanzia, con il suo ricco programma
di proposte. Su «Azione» biglietti omaggio in palio L’educazione al teatro si impara da bambini. È l’opinione di molti educatori e degli stessi attori. La rassegna Minispettacoli, che va in scena al Teatro Don Bosco di Minusio, raggiunge quest’anno la sua ventunesima edizione ed ha contribuito sicuramente ad avvicinare alle scene schiere di bambini che oggi sono diventati adulti. Come ogni anno il cartellone spicca per la scelta di spettacoli caratterizzati da vari stili. Si va dal teatro di narrazione alla clowneria e al teatro d’attore: i modi per coinvolgere il pubblico più giovane passano attraverso trovate vivaci e stimolanti che esplorano il mondo fiabesco e vogliono coinvolgerlo e conquistarlo. Il primo minispettacolo di questa nuova stagione 2019-2020 si intitola Storia d’amore ed alberi, una pièce di teatro di narrazione adatto ai bambini dai 6 anni (e agli adulti di tutte le età). Proposto dalla compagnia Inti tales di Brindisi si terrà il prossimo 10 nvembre alle ore 16.00.
La storia che racconta è quella di un uomo timido dal passo da pinguino. L’uomo entra in sala e si aggira nello spazio con una valigia recuperata chissà dove. Sembra tenero, e fa venire voglia di ascoltarlo, ma chi è? Quando la sala è ormai piena, si ferma, guarda i bambini, tira un grosso sospiro e final-
mente comincia a raccontare... del suo strano mestiere di angelo custode e dei suoi strampalati clienti, come ad esempio quell’uomo che un giorno in una terra lontana si mise a piantare alberi. Storia d’amore e di alberi, infatti, è liberamente ispirato al romanzo di Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi, un piccololibro del 1980 diventato nel tempo un libro simbolo per la difesa della natura e l’impegno civile, un messaggio d’amore per l’albero e il suo valore universale. Come ogni anno i lettori di «Azione» potranno contare su varie coppie di biglietti gratuiti che permetteranno loro di assistere alle rappresentazionia Minusio. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni sulla pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona Fortuna! In collaborazione con
Il calendario 2019-2020 10 novembre 2019, ore 16.00. Storia d’amore ed alberi di Francesco Niccolini e con Luigi D’Elia – Inti Tales, Brindisi. Teatro di narrazione, dai 6 anni. 17 novembre 2019, ore 17.00, Palazzo dei Congressi – Muralto Kanu = Amore con Bintou Ouattara, musica dal vivo Daouda Diabate kora, gangan, voce, Kadi Coulibaly bara, cale – basse, voce – Compagnia Piccoli idilli, Merate. In occasione della Giornata dei diritti dei bambini. Teatro d’attore, dai 5 anni. 8 dicembre 2019, ore 16.00. La Regina delle Nevi di e con Monica Morini, musiche dal vivo Gaetano Nenna, regia Bernardino Bonzani – Teatro dell’Orsa, Reggio Emilia. Teatro di narrazione, dai 4 anni. 12 gennaio 2020, ore 16.00.
Bù! di e con Claudio Milani. Teatro d’attore, dai 3 anni. 9 febbraio 2020, ore 16.00. Sotto la tenda, vi racconto il mio Marocco di e con Abderrahim El Hadiri «Abdul», regia Mario Gumina – Cicogne teatro, Brescia. Teatro di narrazione, dai 5 anni. 15 marzo 2020, ore 16.00. Libero? di e con Andreas Manz e Bernard Stöckli. Compagnia Due, Verscio. Teatro clownesco, dai 4 anni. Informazioni
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Società e Territorio
Cosa farò da grande? Guiderò il bus Trasporto pubblico Abbiamo partecipato a una giornata informativa per l’assunzione di 250 conducenti,
entro il 2020, per tre aziende di trasporti ticinesi. Il Cantone spenderà oltre 460 milioni nei prossimi quattro anni per potenziare collegamenti e frequenze orarie
Mauro Giacometti È una mattinata uggiosa di ottobre. Nella sala riunioni della sede delle FART, Ferrovie Autolinee Regionali Ticinesi, una ventina di disoccupati, tra i 30 e i 60 anni, assistono alla prima infarinatura su un lavoro che potrà dare una svolta alla loro vita professionale, in questo momento non proprio esaltante: formarsi per diventare autista di bus. Tra loro Carlo, 52 anni, magazziniere lasciato a casa dopo vent’anni per ristrutturazione aziendale. Lui, come gli altri convocati al primo colloquio dall’azienda di trasporti locarnese, mandato direttamente dal suo collocatore, spera che tra un anno, se tutto andrà per il verso giusto, uscirà dalla disoccupazione, timbrerà il cartellino delle presenze aziendali, indosserà la divisa blu e si metterà alla guida di un bus di linea. «Probabilmente sarete gli ultimi autisti assunti. Tra 10 o 20 anni bus e treni non avranno più bisogno di essere guidati da un uomo (o una donna)», dice uno dei relatori tanto per rompere il ghiaccio e incoraggiare la «pattuglia» di candidati conducenti. Tra loro anche Andrea, 35 anni, metalcostruttore anch’egli lasciato a casa, ma per far posto ad un frontaliere. «Non ho mai guidato un bus, al massimo un furgone con una dozzina di posti per accompagnare mia figlia e le sue colleghe alle gare di pattinaggio», spiega al suo vicino, Sergio. Lui ha 55 anni ed è avvantaggiato rispetto agli altri, guida già degli scuola bus, ma punta ad un salto di qualità e soprattutto ad uno stipendio più sostanzioso da portare a casa: «Ho due figlie da mandare all’università». Carlo, Andrea, Sergio e gli altri aspiranti autisti nella sala riunioni delle FART fanno parte del plotone di conducenti di bus che saranno assunti in Ticino entro un anno, giusto in tempo per entrare in corsa in quella che da molti è definito il terzo pilastro della dorsale della mobilità in Ticino (dopo la galleria ferroviaria del San Gottardo – seguita da AlpTranst – e quella autostradale, con il secondo tunnel all’orizzonte), vale a dire l’entrata in esercizio della galleria di base del Ceneri e il conseguente sviluppo della rete TILO e del trasporto regionale su gomma. Nelle scorse settimane il Governo ha infatti licenziato un messaggio che stanzia un credito quadro di oltre 460 milioni di franchi, in quattro anni, per il potenziamento del trasporto pubbli-
In concomitanza con l’entrata in esercizio della galleria di base del Ceneri la rete di bus regionale sarà adattata e ampliata su tutto il territorio cantonale. (Ti-Press)
co cantonale. E tre aziende di trasporti ticinesi, FART, Autopostale e TPL (Trasporti Pubblici Luganesi) avranno a disposizione una buona fetta di questi investimenti da destinare all’assunzione di nuovo personale. Si stimano in 250/300 i nuovi posti di lavoro entro dicembre 2020, quando appunto entrerà in esercizio la galleria ferroviaria del Monte Ceneri. «L’apertura della galleria di base segnerà un nuovo inizio e una rivoluzione per il trasporto pubblico in Ticino – ha sottolineato il direttore del Dipartimento del territorio Claudio Zali presentando il messaggio, che comunque dovrà passare al vaglio del Parlamento –. Grazie alle nuove infrastrutture previste verrà messo in atto un importante potenziamento dell’offerta di trasporto pubblico, sia ferroviaria che su gomma, volto ad offrire alla popolazione e ai visitatori del Canton Ticino una rete di trasporto capillare, frequente e attrattiva». Non solo il Cantone, anche i Comuni, direttamente o attraverso le varie Commissioni regionali dei trasporti, saranno chiamati a contribuire per incrementare collegamenti e orari di servizio, oltre alle infrastrutture (pensiline, terminal, pannelli informativi), mentre l’acquisto di nuove flotte di mezzi sarà a carico delle aziende di trasporti regionali che continueranno ad operare su mandato pubblico.
Per quanto riguarda il trasporto su gomma, nel messaggio di stanziamento del credito poi si specifica che la rete di bus regionale è stata analizzata e sarà adattata o ampliata su tutto il territorio cantonale per rispondere al meglio alle mutate condizioni quadro date dal potenziamento della rete ferroviaria regionale (TILO) con l’obiettivo di creare un’offerta completa e così incentivare ulteriormente l’utilizzo del trasporto pubblico. Le linee principali hanno in genere una cadenza di 30 minuti su tutto l’arco della giornata tra le 6 del mattino e le otto di sera, dal lunedì alla domenica; alla sera il servizio è generalmente assicurato fino alla mezzanotte con una cadenza inferiore, in molti casi oraria. Sulle linee secondarie l’orario sarà invece potenziato in modo differenziato tenendo conto della domanda e delle specifiche esigenze nel comparto di riferimento. In genere, da ogni località periferica sarà possibile raggiungere il polo di riferimento entro le 6 del mattino (e gli altri agglomerati del cantone entro le sette) e sarà possibile rientrare al proprio domicilio partendo dal polo di riferimento a mezzanotte (verso zone più periferiche alle otto di sera). «Finora e giustamente s’è pensato più ai turisti che ai residenti – ha spiegato ancora Zali – ma l’obiettivo di questa
rivoluzione è di rendere attrattivo il trasporto pubblico anche fuori dagli agglomerati e nelle valli, in modo che aumentando l’offerta e gli orari di fruizione dei bus sempre più gente lasci a casa l’auto per i propri spostamenti. Solo incrementando l’utenza – ha poi concluso Zali presentando il credito quadro – si potrà economicamente sostenere e giustificare questi importanti investimenti pubblici». Le nuove opportunità d’impiego si offrono prima di tutto a chi è disoccupato, considerando che la formazione per ottenere la licenza di condurre di tipo D costa sui 15’000 franchi e chi è iscritto all’Ufficio collocamento verrà rimborsato. D’altra parte i requisiti richiesti non sono inarrivabili: la patente di tipo B (è quella delle auto, ce l’hanno tutti), un certificato di buona salute, il casellario giudiziario intonso e anche quello della circolazione senza peccati gravi. Chi s’è macchiato di un ritiro patente per aver superato i limiti di velocità o quelli per il consumo di alcol al volante può mettersi il cuore in pace e rinunciare a diventare un conducente di bus o treno regionale. Il percorso formativo, invece, è piuttosto impegnativo. A cominciare dal test d’ingresso, con prove numeriche, confronti di immagini, domande di cultura generale e soprattutto frasi da
tradurre in tre lingue non proprio alla portata di tutti. «Non preoccupatevi, è come rispondere ai quiz della “Settimana enigmistica”», spiega il relatore. Ma dalle reazioni della platea di aspiranti conducenti si alza qualche mugugno. In seguito si passa al colloquio individuale, superato il quale incombono prove più impegnative. Un test di destrezza a Camorino, quindi 52 lezioni con un maestro di scuola guida specializzato da effettuarsi in otto mesi, oltre ad un esame teorico anch’esso da non fallire. Ma prima di arrivarci, non manca il test di guida: cinque prove pratiche, all’inizio della formazione pratica, per capire se i candidati-conducenti saranno in grado di domare questi «bisonti della strada», con passeggeri a bordo, attraverso il caotico traffico cittadino o le strette viuzze di montagna. «È chiaro che se al primo o secondo test un aspirante conducente farà fuori una fiancata del proprio mezzo è meglio che cambi i suoi orizzonti professionali», sottolinea il relatore nella sala riunioni delle FART. E a queste parole, l’entusiasmo iniziale della ventina di disoccupati e futuri autisti di bus si smorza un pochettino. Del resto, alla fine, non tutti potranno indossare la divisa blu d’ordinanza e girare la chiave d’accensione dell’autobus: forse di «highlander del volante» ne rimarrà solo uno.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Telmo Pievani-Andrea Vico, Piante in viaggio, Editoriale Scienza. Da 9 anni È un racconto ma è soprattutto un piacevolissimo libro scientifico, o meglio è un libro scientifico divulgativo in forma di narrazione, secondo la migliore tradizione della casa editrice triestina Editoriale Scienza. Il tema, non frequente nei libri per ragazzi, è legato alla produzione vegetale, ossia all’interazione uomo-piante. La storia dell’agricoltura, quali piante ci nutrono, e quali loro parti, come ne eliminiamo l’eventuale tossicità, o le «domestichiamo» selezionandole nel corso della loro lunga evoluzione, l’importanza dei semi, le varietà di cereali, i legumi, le spezie, e soprattutto i viaggi che ha compiuto nel corso della storia tutto ciò che ci arriva sul tavolo. Non pensiamo ai prodotti ovviamente esotici, come la banana, o il caffè, o il cioccolato, ma a quelli che hanno un’aria molto «di casa nostra», eppure... Le mele, ad esempio. Vengo-
no dalle nostre campagne, certo, ma il progenitore del melo (Malus domestica) viene dalle regioni montuose tra il Kazakistan e la Cina, e le mele sono state domesticate in Cina tra il secondo e il terzo millennio prima di Cristo. Così anche per il pomodoro, che viene dalle Americhe, prima che dall’orto dietro casa. Moltissime altre piante sono «migranti», perché, come si dice nel libro, le piante hanno radici ma si spostano molto! Il filo narrativo, su cui agganciare le tante informazioni scientifiche, racconta di una giornata al mercato di un nonno e della sua nipotina. Il nonno è
biologo, sa tante cose, ma molte altre vengono integrate dalle persone che incontrano tra le bancarelle: per lo più venditori di varie regioni culturali e geografiche, che porteranno la giovane Giulia a organizzare una cena «planetaria», con tanto di ricette a fine volume. Un libro interessante, realizzato in collaborazione con l’Università di Padova e con il suo orto botanico (il più antico orto universitario al mondo) e scritto da Telmo Pievani, evoluzionista e docente di Filosofia delle scienze biologiche all’Università di Padova, e Andrea Vico, giornalista scientifico. Arne Svingen, La ballata del naso rotto, La Nuova Frontiera Junior. Da 11 anni Giusto per inquadrare il contesto: Bart ha tredici anni, vive in una casa popolare (sulle cui scale può capitare di incontrare disperati e borderline), ha una mamma obesa, incline all’alcol e forse depressa che si ripromette
ogni giorno di trovarsi un lavoro stabile ma fa quello che può, il papà non l’ha mai visto (anche se vorrebbe tanto trovarlo), a scuola non è proprio collocato tra il peggio degli sfigati ma di certo neanche tra quelli popolari, e frequenta (su precisa richiesta della mamma) una palestra di boxe, sport che non ama particolarmente e in cui non eccelle. Ce ne sarebbe abbastanza per mettere al tappeto anche il più forte dei temperamenti, ma non Bart. Lui (che deve il suo nome ai Simpson, serie amata dalla madre, troppo spesso spiaggiata sul divano) ha una pacata energia interiore che, unita a
un coraggioso ottimismo, lo rende un piccolo eroe del quotidiano. La scala del caseggiato è indecorosa, sporca com’è e piena di siringhe e rifiuti? Lui affigge un cartello in cui propone una giornata di collaborazione condominiale per ripulirla. Gli stracciano il cartello? Lui non si arrende e lo appende di nuovo. Dei compagni di scuola bulli lo prendono in giro? Lui resiste e non cede. Oltre alla sua forza interiore gli sono d’aiuto l’amicizia con Ada, una sua coetanea di ben diversa estrazione sociale ma in grado di capirlo (anche se non sa tenere i segreti), la presenza discreta della nonna e la grande passione per la musica lirica. Una passione che Bart ha sempre tenuto nascosta, ma che finalmente «tirerà fuori»: anzi, è proprio a quel letterale e simbolico «tirare fuori» la voce (voce narrativa dell’io narrante e voce cantante) che si dovrà la svolta del romanzo, con il riscatto del suo protagonista, che diventa grande. Una storia norvegese di crescita e di resistenza.
Publireportage: In forma al volante con più di 70 anni
IN FORMA AL VOLANTE CON PIÙ DI 70 ANNI Guidate un’auto e avete più di 70 anni? Rallegratevi: da quest’anno la visita medica periodica per i conducenti è obbligatoria soltanto a partire dai 75 anni. Finora il limite era di 70 anni. Per essere bene in forma e guidare un’auto in modo sicuro fino a quel controllo, è importante che vi assumiate le vostre responsabilità nella circolazione stradale. In questo vi aiuta la campagna di prevenzione Routinier 70+ con consigli utili, esercizi, autocontrolli e uno stand fieristico interattivo.
«Il 90 percento di ciò che accade nel traffico stradale viene percepito attraverso gli occhi. Grazie ai miei occhiali vedo ancora lontano.»
Potete fare molto per essere in forma al volante Andare in montagna per un’escursione, visitare gli amici o fare la spesa – l’auto vi rende indipendenti anche se avete più di 70 anni e vi garantisce una qualità di vita elevata. Perciò vale la pena di fare attivamente qualcosa a questo riguardo. Nella terza età l’acuità visiva e l’udito calano. Anche le capacità motorie diminuiscono lentamente. Inoltre la capacità di reazione rallenta. Sono tutti fattori importanti per guidare un’auto. Però per fortuna ci sono molte contromisure da prendere per continuare a guidare l’auto in modo sicuro. Allenatevi con www.routinier70plus.ch La campagna Routinier 70+ vi offre un aiuto eccellente. È focalizzata sui conducenti come voi, che hanno compiuto 70 anni. Vi insegna in modo semplice e comprensibile con quali esercizi e test di autocontrollo potete mantenervi in forma al volante, allenare il corpo e la mente e rinfrescare le vostre nozioni teoriche. Pertanto Routinier 70+ offre un contributo importante affinché restiate mobili in tutta sicurezza. Che ne dite di iniziare subito con l’allenamento? – Ne vale sicuramente la pena! Gli obiettivi di Routinier 70+ La campagna vi aiuta con delicatezza ad assumervi la vostra responsabilità personale nella circolazione stradale. Inoltre Routinier 70+ vi informa sui rischi della circolazione stradale e le alternative della mobilità. Ma grazie a esercizi e test semplici la campagna vi motiva soprattutto a diventare subito attivi, in modo da poter guardare con fiducia all’esame medico a 75 anni. Buon divertimento! Tutte le informazioni su: www.routinier70plus.ch
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Che grazie allo stato di salute sempre migliore dei settantenni il limite per la visita medica per i conducenti sia stato innalzato di 5 anni è un fatto positivo. Congratulazioni! Però questo significa simultaneamente che adesso avete la responsabilità di mantenervi in forma per la guida fino alla visita medica a 75 anni. Ne vale anche la pena se fate qualche gita in auto con i vostri nipotini. Quanto meglio guidate, tanto maggiore la sicurezza con cui circolate e tanto più bella diventa la giornata passata insieme. La guida sicura si basa su un apprendimento e una formazione continua durante tutta la vita. È importante, perché il traffico stradale diventa sempre più fitto e i segnali e le leggi cambiano.
Vi prego di inviarmi materiale informativo supplementare: ____ es. Autovalutazione della capacità di guida (Art.-Nr. 100I) ____ es. Opuscolo Routinier 70+ (Art.-Nr. 300I) Ritagliare il tagliando e inviarlo a: Campagna Routinier 70+ Casella postale CH-3000 Berna 13
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 novembre 2019 • N. 45
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Brexit antelitteram Di tutta la diabolica faccenda tre fatti solo sono certi: il primo che è che gli inglesi non ne possono più; il secondo è che i britannici ne possono ancor meno ed il terzo è che il resto d’Europa ne ha piene le –. In materia di Brexit, scrivono i corrispondenti d’oltremanica del vostro Altropologo preferito, gli Inglesi in quanto tali sono ormai all’esasperazione per un processo che dura da più di tre anni senza che se ne veda la fine, procrastinazione dopo rinvio e sospensione dopo voto contrario per poi riproporre la stessa minestra riscaldata per vedersela rimandare in cucina con maledizioni per il cuoco. Il pubblico è esausto, l’audience comincia ad abbandonare la sala e tutti fischiano. Il problema è che non si capisce se lo facciano alla maniera dei concerti pop (inventati dai britannici) dove fischiare significa approvare o – appunto ahinoi – alla maniera dell’Opera Europea dover fischiare significa… fischiare. Insomma, il caos regna sovrano e quell’«Order! Order!» del povero Bercow – che tanto più somiglia ormai al Bertleby lo Scrivano di Melville che avrebbe
«preferito di no» ma gli toccava, suona ormai come una sorta di Kyrie Eleison. Si è giunti addirittura ad una situazione per la quale la «sindrome da Brexit» è stata riconosciuta da alcune autorevoli associazioni di medici del lavoro come una forma particolare di depressione che affligge i giovani stock brokers della City per non saper più dovecomeperché investire. E per fortuna, mi scriveva un amico antico che conosce bene l’Italia, la sua storia e la sua cultura, per fortuna che l’arroganza (per altri la nonchalance e per gli ottimisti l’aplomb) degli inglesi (dicasi: inglesi – poi vedremo il perché) è tale da non contemplare «la bella figura» fra le virtù morali perché altrimenti sarebbe veramente grama. In effetti come in affetti, per l’Altropologo che ha vissuto dopo tutto i venticinque anni migliori in quel cuore pensante e pulsante dell’Inghilterra che è Cambridge, rimane lo stupore e la meraviglia dello spettacolo del Parlamento più antico del Continente e forse del mondo moderno che, giorno dopo giorno, propone al resto del mondo un’immagine che sbanda fra l’esercizio di una democrazia
suicida subalterna al Voto (lo sanno tutti ormai che la Brexit sarebbe un disastro) e l’irresponsabile imposizione, al limite dell’arroganza, di un’attesa senza fine per il resto del Continente. Le mattane protezioniste di Trump? La guerra in Siria? La questione curda? L’emergenza libica? I rifugiati? L’immigrazione? Intanto attendete che noi si decida cosa vogliamo fare da grandi poi… Il tutto mentre la stampa conservatrice resuscita la cultura dell’«Isola Contro Tutti» e lo spirito del Blitz che permise agli Inglesi di stringere la cinghia e resistere a Hitler: «Voi avete vinto la Coppa, noi abbiamo vinto la Guerra»: la peana di vittoria che i tifosi inglesi intonano ogniqualvolta la nazionale di calcio affronta la Germania (e perde) certifica di quello spirito revanscista che abbiamo visto risollevare la brutta testa durante la guerra delle Falkland. Ogniqualvolta ovvero la consapevolezza di star per fare qualcosa di moralmente riprovevole, cerca nel mito nazionale della resistenza al Male Assoluto contro tutto e contro tutti la foglia di fico giustificatoria da presentare alla Storia.
Si diceva gli Inglesi per non dire i Britannici. È infatti del tutto probabile che la fine dell’Europa Unita porti con se anche la fine del Regno Unito. Così come è successo in tutta Europa negli ultimi quarant’anni, la prospettiva di un’Europa plurale ed unita ha fatto crescere la coesione delle minoranze – nazionali e non – in tutto il Continente. Catalani, Baschi, Asturiani, Fiamminghi, Gallesi, Frisoni, Scozzesi, Bretoni, Cornici, Gallesi… la lista è lunga. Per tutti l’Europa ha significato il nuovo orizzonte sul quale riposizionare una riscoperta identità in senso progressista, ben oltre e contro l’angustia politica e la miseria morale del Sovranismo che oggi sembra vincente. Ricordo come negli anni Ottanta del secolo scorso si accese un dibattito su chi fossero gli Inglesi proprio nel momento in cui Gallesi, Scozzesi, Cornici e Irlandesi non-unionisti (fra i quali, si badi, tanti protestanti) affermavano la loro identità nel quadro di un’Europa unita e federale. Fu proprio allora che prese forza il National Front, nato negli anni 60 e rimasto fino ad allora al livello di
tante pinte di birra consumate al pub sotto casa. In cosa potesse consistere il nazionalismo inglese al di là di quello rimase sempre un mistero. Tanto che, come tutti i movimenti sovranisti di ieri e di oggi, presto non altro trovò di che abbeverarsi se non alle pintacce confuse e avvelenate di un nazifascismo postmoderno re-ideologizzato. Il contrario speculare della promozione delle identità particolari, ovvero. Il 5 novembre 1606 le guardie del Re arrestarono al seguito di una soffiata Guy/Guido Fawkes mentre faceva la guardia alle polveri che avrebbero dovuto far esplodere il Parlamento inglese e dare inizio ad una rivolta per mettere fine alla leadership monarchica della Chiesa Inglese e riportare il gregge sotto Roma. Il papista Guy Fawkes fu torturato e confessò i nomi dei suoi complici. Il 31 gennaio, mentre saliva il patibolo, tentò la fuga e cadde, rompendosi il collo. Si risparmiò così l’infamia si essere decollato, annegato e squartato. Tutti gli anni, in Inghilterra, si celebra Guy Fawkes Night con spettacoli pirotecnici.
È quello, cara Gabriella, che ti sta accadendo. Divenuta a tua volta mamma, hai cercato di non ripetere l’atteggiamento indifferente e crudele di tua madre, riversando tutto l’amore possibile sulla figlia. Come sono solita ripetere, è il modo migliore per interrompere la catena del disamore e ricevere indirettamente ciò che ci è stato negato direttamente. Una possibilità che smentisce il pregiudizio secondo cui chi non è stato amato non saprà mai amare anzi, spesso è vero il contrario! Ora la figlia si è sposata, è uscita di casa e, sul vuoto dell’assenza, riaffiorano i ricordi con il loro carico di emozioni rimosse. È soprattutto la vita non vissuta che chiede di essere ripensata, elaborata, compresa e rimessa al posto che le spetta. Il mio suggerimento, cara amica, è di far emergere i ricordi e scrivere la tua autobiografia. È il modo migliore per mettere ordine e dar senso al pulviscolo degli eventi. Mettersi nei panni degli altri, guardarli con empatia, comprendere le loro ragioni e, per quanto possibile, giustificarli
e perdonarli aiuta a far pace con se stessi. È quanto ho cercato di fare scrivendo Il bambino della notte, l’autobiografia che mi ha riconsegnato una mamma diversa rispetto ai miei ricordi, più comprensibile, più amabile. Riconciliarsi con le persone più importanti della nostra vita è il modo migliore per guardare il futuro con occhi più positivi. Apprezzo la tua intenzione di «donare tutto ai più bisognosi» ma rifletti bene su quello che fai, non deve essere un atteggiamento polemico, contro qualcuno, ma un gesto d’amore verso te stessa oltre che verso gli altri. La tua crisi, credimi, non è demenza senile, ma una delle tante sfide che la vita ci pone prima di affidarci alla memoria degli altri.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Madri e figlie Carissima Silvia, ho bisogno di un suo parere. Ho 67 anni e sono in pensione ma questa situazione non mi va bene. Avendo sempre lavorato come insegnante ora mi sento vuota e inutile. Da un po’ di tempo sento crescere un rancore sempre più forte verso mia madre morta sei anni fa. Mi tornano in mente le sue cattiverie verso di me bambina: mai una carezza, mai un bacio, mai una parola dolce ma solo rimproveri e confronti con le mie amiche sempre più brave di me. Anche tante critiche: come sei vestita male oggi, che brutti orecchini e via dicendo. Io l’ho sempre accettata così com’era ma ora sento rancore e rabbia. Perché proprio adesso? Mia figlia si è sposata da poco e io l’ho subissata di complimenti di baci, di tutto l’amore che potevo. Per il mio matrimonio neanche due parole di augurio: era troppo presa dal suo amante invitato contro la mia volontà. Mia madre era vedova. Sono così rabbiosa che non vado più al cimitero e non la vorrei rivedere nell’aldilà. C’è un’altra cosa che non capisco di me: sono entrata in una fase francescana. Non ho più
bisogno di nulla: abiti, gioielli, lusso. Ma sento l’esigenza di donare ai più bisognosi e questo mi fa stare bene. Vorrei che anche mio marito fosse come me ma lui spende e spande senza neppure consultarmi e questo mi fa imbestialire. Amo alla follia mia figlia ma mi piacerebbe ritirarmi in un monastero vestita di un solo saio. Demenza senile? Crisi? Mi scuso per lo sfogo ma avevo bisogno di condividere questo travaglio che ho nel cuore. / Gabriella Cara Gabriella, dopo la pensione ci troviamo tutti ad affrontare il compito di reimpostare la vita con nuove priorità, con nuovi obiettivi. E spesso questa condizione, apparentemente felice, provoca un senso di disorientamento che ci induce ad agire contemporaneamente e affrettatamente su più fronti. Nel tuo caso poi, dopo il matrimonio della vostra unica figlia, rimasta sola con tuo marito, ti sei trovata a dover ridefinire anche il rapporto di coppia. Il risultato mi sembra una grande stanchezza, che si rivela nel desiderio di in-
dossare un saio, chiuderti in convento, lasciare il mondo. In questo momento, in cui i consumi eccessivi stanno minacciando l’equilibrio ambientale, va benissimo pronunciare voti di povertà ma questa decisione non ti autorizza a condannare tuo marito. Probabilmente è sempre stato così e forse, sino a poco fa, hai accettato senza protestare il suo stile di vita. Non è giusto che chi opera scelte esistenziali impegnative e profonde le rivolga polemicamente contro chi non le condivide. Ci vuole calma per elaborare una posizione di rinnovamento radicale che ci confronta col passato e, di conseguenza, con il presente e con il futuro. Durante l’infanzia sei stata profondamente delusa da tua madre e, per difendere il tuo diritto a crescere, a diventare grande, hai evitato di cadere nella trappola del rancore. Capita spesso, e con buone ragioni, che i bambini preferiscano ignorare il disamore dei genitori per sottrarsi a un conflitto che considerano perdente. Il costo però è di lasciare in sospeso emozioni che, espulse dalla porta, tenteranno di rientrare dalla finestra.
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Calabresi: un’autobiografia insolita Il 10 febbraio scorso, Mario Calabresi, da tre anni direttore di «Repubblica», viene licenziato in tronco, per motivi rimasti ignoti. Ospite in TV di «Otto e mezzo», l’editore Carlo De Benedetti spiega la sua decisione alludendo, vagamente, a divergenze e tirature in calo. Nulla di più. Di certo non contribuisce a chiarire i retroscena della vicenda neppure il libro, fresco di stampa, La mattina dopo (Mondadori), in cui lo stesso Calabresi affronta il tema del licenziamento, a modo suo: non come una conclusione ma un inizio. È un esempio di resilienza, hanno commentato i recensori, con un neologismo che definisce, appunto, la capacità di assorbire un colpo ricavandone energia. Da queste pagine esce un
messaggio di alto tenore morale, in un linguaggio privo di enfasi. È bene accolto dalla critica e dai lettori, tanto da diventare un bestseller del momento. Insomma ha fatto centro, pur evitando di appagare la curiosità, suscitata da un fatto di cronaca chiacchierato. Anche oltre frontiera. L’imprenditore De Benedetti è italo-svizzero, risiede sovente a Lugano, circondato dalla maliziosa ammirazione che spetta a un «grand patron». Figura nell’elenco dei 300 più facoltosi della Confederazione, pubblicato nell’edizione, copertina dorata, di dicembre della rivista «Finanz». E adesso che farai? È la domanda con cui Calabresi si è trovato alle prese, per la prima volta in una carriera che gli aveva assicurato continuità nel lavoro, punto centrale delle sue
giornate. Adesso, si apre un vuoto tutto da riempire. Lui non perde tempo in recriminazioni e amarezze: niente vittimismo. Ne coglie l’aspetto di una lezione di vita: con gli incidenti si deve imparare a fare i conti, ricostruendo una possibile normalità. Di cui poco si sa. Le cronache registrano le storie di infortuni, che fanno notizia, soprattutto se concernono personaggi in vista. Minor risalto si dà alle storie di recuperi, che avvengono in una silenziosa privacy. Per il giornalista, ora senza contratto ma sempre curioso, è il momento di andare a scovarli. Lo fa, «la mattina dopo», volando a Madrid per incontrare Roberto Toscano, ex-diplomatico e editorialista: carriera interrotta da due ictus. «Guardare com’è riuscito a rimettersi in piedi è
un vaccino contro la depressione». Sarà, poi, la volta di altri sopravvissuti alla malasorte, decisi a farcela: il nuotatore Manuel Bortuzzo, 19 anni, colpito da un proiettile vagante, una sera a Ostia. O Daniela De Blasis, medaglia d’argento ai campionati di canottaggio, che ha perso l’uso delle gambe in un incidente stradale. O Yavuz Baydar, giornalista e scrittore costretto a scappare dalla Turchia, dove ha lasciato carriera, affetti, casa. Tutto da ricostruire: ma da profugo. In questi destini, distrutti e ricomposti, Calabresi si riconosce. Anche lui ha bisogno di punti fermi, cui aggrapparsi. A cominciare dal più semplice: la ricerca delle radici familiari, come conferma di appartenenza. Per arrivare, in un crescendo emotivo,
all’incontro con Giorgio Pietrostefani: «Condannato per aver organizzato l’omicidio di mio padre», nel 1972. Con pudore, si astiene dal riferire cosa si siano detti. Osserva soltanto: «Era una cosa da fare, per mettere ordine e fare i conti il passato». Al di là del caso di cronaca attuale, che l’ha motivato, questo libro ha il merito anche letterario: riabilita l’autobiografia, dando senso e giustificazione a un genere sempre più inflazionato. È un contagio esibizionista che non risparmia neppure la Svizzera, soppiantando un tradizionale riserbo. Un paio di settimane fa, la «Sonntagszeitung» illustrava, non senza ironia, il fenomeno «Mein Leben, mein Buch» («la mia vita, il mio libro»). Da considerare però un nuovo diritto democratico.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 novembre 2019 • N. 45
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Ambiente e Benessere Il multimediale si fa auto Tesla con Model 3 punta sui tempi di ricarica delle batterie e su accessori audio e video
Viaggio sul Canal du Midi Duecentoquaranta chilometri tra Tolosa e il Mediterraneo a bordo di una houseboat, gigantesco camper acquatico pagina 21
Quando Bacco dà il meglio Il Médoc, penisola della Gironda, è di certo la zona più conosciuta al mondo per l’alto livello del vino della sua terra
Coppie a sei zampe Il Ticino è al di sopra della media nazionale con l’amore per gli animali domestici
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La storia narrata dai ghiacciai Glaciologia Dall’optimum termico
fino alla piccola glaciazione – Seconda parte Alessandro Focarile Si parla di surriscaldamento ed effetto serra, eppure faceva più caldo dopo l’optimum termico dell’era romana, che ha visto il culmine e la decadenza romana, nonché alcuni episodi di recrudescenza climatica (Göschenen, cantone Uri), nel Quattrocento dopo Cristo. Verso l’Ottocento dopo Cristo ha inizio un periodo favorevole per l’esistenza umana: l’optimum termico medievale che sarebbe durato ben seicento anni, fino al 1400. La temperatura è prossima ai 16°C. I Vikinghi raggiungono con Erik il Rosso nell’852 le coste della Groenlandia sud-orientale, battezzata terra verde, insediandovisi per oltre cinquecento anni. Le cavallette, favorite da un clima caldo e siccitoso invadono l’Europa provocando carestie ed epidemie. II popolo Walser di origine bavarese occupa lentamente e pacificamente le valli intorno al Monte Rosa sui due versanti, spingendosi fino alla Valle Formazza e a Bosco Gurin. Favoriti dai signori feudatari dell’epoca, da monasteri e abbazie proprietari di quelle alte terre, i Walser praticano un’agricoltura «eroica», scoprendo e attivando nuove tecniche colturali e la pastorizia sedentaria, che consentono la vita permanente in altitudine. Quest’epoca climaticamente favorevole all’uomo in montagna necessita la progettazione e realizzazione di canali di irrigazione, spesso vere opere d’arte di ingegneria idraulica. Le bisses nel Vallese, e i rus in Valle d’Aosta captano dai torrenti glaciali l’acqua addotta che, spesso dopo decine di chilometri, serve a irrigare gli aridi versanti a valle esposti al sole, territori coltivati a cereali, o prati da sfalcio. L’altitudine di queste prese d’acqua è in funzione della quota delle bocche dei ghiacciai e, variando tale quota nel corso del tempo, si hanno preziose testimonianze sul progresso e regresso dei ghiacciai. Altri aspetti favorevoli, che si concretizzano durante l’optimum termico medievale, sono rappresentati dall’innalzamento della vita animale e vegetale, e soprattutto del bosco, di 300-500 metri superiore all’attuale. Una situazione che si ripete, dopo diversi secoli, ai nostri giorni, essendo stato documentato (2005) il peregrinare degli stambecchi fino a 2800 metri al limite inferiore della calotta glaciale, sul Basodino e di marmotte sulla vetta a 3471 metri dove ricercavano i resti di cibo abbandonati dagli alpinisti (informazione di Giovanni Kappenberger).
Per quanto riguarda il limite del bosco, numerosi sono i ritrovamenti di tronchi di albero (pino cembro, soprattutto) ributtati dai ghiacciai verso valle. Sia nel gruppo del Monte Rosa, sia al Monviso nelle Alpi Cozie piemontesi. Testimonianze di un limite del bosco a quote superiori di 300-500 metri di quelle attuali (Montérin 1938). Due pernici, una tometta e un litro di olio di noce, all’epoca, sono la decima dei valdostani di Valtournanche (ai piedi del Cervino) al vescovo di Sion nel Vallese. Per onorare il loro debito verso la Chiesa, devono valicare in processione il Colle del Teòdulo (3371 metri) e senza scendere a Praborna (Zermatt) sorpassano per una buona mulattiera il Colle d’Hèrens (3480 metri) per portarsi a Sion. Dal Colle del Teòdulo, allora sgombro di ghiaccio, transitano spesso carovane di 25-30 muli e molto bestiame, ricordando che in quell’epoca è di minori dimensioni rispetto a quelle di oggi (autentiche «fabbriche di latte»!). Inoltre, attraverso il Teòdulo transitano uomini e mercanzie provenienti da Gressoney, la valle dei mercanti (Krämertal) (Mònterin, 1938). Durante lunghi decenni, gli alti valichi alpini diventano sede di attivi traffici di uomini, animali e idee. L’optimum termico medievale perdura dall’800 al 1400 ed è un lungo periodo di relativo benessere nelle Alpi. I ghiacciai sono lontani, e limitati all’alta montagna oltre i 3500 metri di quota. Nelle Alpi occidentali la temperatura raggiunge quasi 16°C. Una situazione ambientale che conosceremo tra qualche decennio, quando i ghiacciai alpini saranno quasi completamene scomparsi. In tempi successivi (dopo il 1400-1500), quelle che sono ubertose praterie alpine sul Rutor, nelle Alpi Graie valdostane, vengono lentamente ricoperte da un maestoso ghiacciaio a mantello. Durante un periodo di particolare sviluppo, l’apparato glaciale costruisce un imponente sbarramento morenico che delimita un lago. Il reiterato crollo di questa diga provoca lo svuotamento rovinoso dello stesso, portando distruzioni e morti fino ad Aosta. (Un’analoga catastrofe si produce al ghiacciaio del Glétroz nelle Alpi Pennine vallesane nel 1560, e l’onda d’urto distrugge Martigny, nel Vallese). Nel corso del 1400 avvengono quattro episodi di capitale importanza per i popoli dell’Europa occidentale. Dapprima si ha una sequela di epidemie di peste di origine orientale, che dimezza la popolazione. Poi la cultura europea beneficia dell’invenzione
Il ghiacciaio del Rodano ai piedi del passo della Furka tra il 1890 e il 1905, così si mostrava alla fine della piccola glaciazione.
Il Rodano oggi: la foto è stata scattata il 15 agosto 2019. (MaMa)
della stampa con caratteri mobili (Gutenberg 1420-1498). La caduta di Costantinopoli ad opera degli Ottomani nel 1453 segna la fine dell’Impero Romano d’Oriente. Infine, la (ri-)scoperta dell’America nel 1492 ad opera di Cristoforo Colombo. Grandiosi avvenimenti che ebbero un’influenza decisiva sulla storia dell’Europa occidentale. Durante questo secolo si formavano le prime avvisaglie di quell’altro imponente fenomeno climatico: la «piccola era glaciale» durato fino al 1860 sulle Alpi. «Le stagioni si raffreddano rapidamente, e l’avanzata dei ghiacciai, spettacolare e disastrosa, coinvolge tutto il mondo alpino. Nel 1575 un contadino di Saint-Gérvais in Savoia ai piedi del Monte Bianco, convocato al Tribunale di Chamonix, definisce il villaggio un luogo coperto dai ghiacci, i campi sono completamente spazzati via e il grano è trasportato dal vento nei boschi e sui ghiacciai… Le valli, un tempo ric-
che di pascoli, furono sepolte dalla sabbia e dal ghiaccio». (Camanni 2017). Quali sono i risultati che la piccola era glaciale, durata 400 anni, ha comportato per la vita umana e naturale? L’abbandono dei traffici alpini attraverso gli alti colli, l’abbandono della pastorizia alle quote più elevate, i rapporti umani da una valle all’altra, regresso del limite superiore del bosco, scomparsa della flora e della fauna nelle aree coperte dall’avanzamento dei ghiacciai. Nell’arco di 25mila anni, al culmine della massima glaciazione del Würm, si sono succedute otto fasi alterne di avanzata e di ritiro dei ghiacciai, quale conseguenza di imponenti e spesso duraturi cambiamenti climatici (e non «variazioni»!) di origine cosmica, e di origine antropogenica in epoca recente, dopo il 1700, causata dall’uomo, alterando drasticamente i cicli naturali, le caratteristiche ambientali, la diversità biologica, il destino dello stesso uomo.
Avremo un drastico ridimensionamento delle aspettative economiche e finanziarie originate dalla produzione dell’energia elettrica e dall’esercizio degli sport invernali. Bibliografia
Paul Ascot, La storia del clima. Donzelli, (Roma), 2016, 223 pp. Enrico Camanni, Storia delle Alpi. Edizioni della Meridiana (Pordenone), 2017, 349. Umberto Monterin, Il clima sulle Alpi ha mutato in epoca storica? Consiglio Nazionale delle Ricerche (Roma), 1938, pp. 309-358. Museo Regionale di Scienze Naturali, Le variazioni climatiche succedutesi negli ultimi 11mila anni nelle Alpi occidentali, (Torino), 1990. Michael McCormick & Paul Mayeski, Why 536 was «the worst year to be alive», Antiquity 10, 2018.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 novembre 2019 • N. 45
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Ambiente e Benessere
Si chiama GigaFactory3 e colonizzerà la Cina
Motori La produzione del Model 3 di Tesla per il mercato orientale avverrà in uno stabilimento di Shanghai
e prevede la produzione di mezzo milione di auto
Mario Alberto Cucchi L’espansione di Tesla continua: parte in questi giorni la produzione di Model 3 anche a Shanghai, in Cina. Si chiama GigaFactory3 ed è lo stabilimento dal quale usciranno le vetture di Elon Musk destinate ai mercati orientali a partire da fine 2019. Si stima una produzione di mezzo milione di auto destinate al mercato cinese. In Svizzera da qualche mese può già capitare di imbattersi in una Model 3 le cui consegne sono cominciate proprio nel 2019. Lo scorso mese di Marzo con 1094 vetture consegnate ai clienti è stata l’auto più venduta sul territorio della Confederazione. Un’auto in continua evoluzione. Proprio in questi giorni è stato, infatti, rilasciato dalla Casa Costruttrice americana l’ultimo aggiornamento software. Alla pari di come si fa con i computer e i palmari. L’ultimo software, «V 10», implementa in auto tra le altre cose il Tesla Theater con accesso a YouTube e Netflix. Ecco che sul grande display centrale da 15” si guardano i film in auto come seduti sul divano di casa e anche meglio. Lo abbiamo testato e va detto: l’audio è davvero strepitoso. L’effetto cinema è sorprendente e i bassi fanno vibrare anche i sedili. Ovviamente il sistema non è utilizzabile in movimento ma solo da fermi. Con il nuovo software arriva anche il Caraoke
Il nuovo modello 3 della Tesla.
per cantare tutti assieme appassionatamente, un nuovo videogioco chiamato Cuphead, un sistema denominato joe mode dedicato alla sicurezza e alcune applicazioni chiamate I’m feeling Lucky per il navigatore satellitare. Insomma tutto dedicato all’aspetto multimediale. Ma perché? Gli ingegneri Tesla hanno capito in anticipo che il tempo necessario alle ricariche poteva diventare un aspetto decisamente negativo e allora ci han-
no lavorato su rendendo l’esperienza a bordo piacevole anche in sosta. Molti utenti, infatti, aspettano spesso in auto collegati alla colonnina elettrica mentre questa procede a ricaricare il veicolo. Grazie ai nuovi accessori virtuali possono sfruttare questo tempo per rilassarsi oppure per lavorare utilizzando il grande display connesso alla rete. Allo stesso modo, i bambini, ameranno la sosta che permetterà loro di giocare con il sistema di bordo.
Ciononostante, i tempi di ricarica possono essere anche decisamente ridotti. Se connessi a una colonnina V3 Supercharging, bastano infatti cinque minuti per assicurarsi un’autonomia di 120 chilometri. Per caricare la batteria, sempre con un supercharger, sino all’80 per cento sono necessari tra i 30 e i 40 minuti. A quel punto l’auto può percorrere anche 400 chilometri. Tempi che si dilatano di molto, però, utilizzando colonnine a 11 kW, ancor
di più se si usa una presa di corrente del garage di casa. Basta fare i conti: il pacco batterie della versione long range ha una capacità di 74 kWh. Dopo aver percorso con Tesla Model 3 un migliaio di chilometri possiamo dirlo con certezza, l’autonomia varia e di molto in funzione dell’utilizzo. I 530 chilometri in ciclo wltp che prevede una velocità media di 46,5 km/h non sono una chimera, ma una vera sfida. Per farli va mantenuta una velocità di crociera davvero bassa, molto inferiore ai limiti di velocità. Viaggiando in autostrada, a velocità di codice diventa davvero difficile anche percorrerne solo 400. Ma con Tesla vengono in soccorso l’ampia rete di Supercharger in cui, come già detto, basta davvero poco per ricaricare le batterie. I prezzi? A partire da 44’900 franchi per il modello a trazione posteriore standard range che ha un’autonomia di 409 chilometri in ciclo wltp e scatta da ferma a cento orari in soli 5,6 secondi. La più costosa della gamma è invece il modello performance dual motor a trazione integrale che ha un’autonomia di 530 chilometri sempre in ciclo wltp e scatta da ferma a cento orari in soli 3,4 secondi. La velocità massima? Da fuoriserie: 261 chilometri orari. Un vero bolide elettrico che si può comprare a 59’990 franchi svizzeri. Annuncio pubblicitario
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Fabrizio Magnani
Ambiente e Benessere
Marinai d’acqua dolce
Viaggiatori d’Occidente In navigazione con una Houseboat lungo il Canal du Midi Le istruzioni aumentano a dismisura, protraendosi fino a cena e anche dopo. Più mi rassicura e più mi sento inquieto. Potrò chiamarlo anche in viaggio, se avrò qualche problema, qualche dubbio, così mi dice. Il suo «Fammi sapere come va» mi ricorda le richieste della mamma: «Telefona quando sei atterrato». Non si sa mai. Il viaggio verso il porto di partenza è un incubo: ai francesi piace interrompere il flusso del traffico con frequenti caselli; Bouchon (tappo) dicono i cartelli rossi dell’autostrada, lo impariamo subito. Arriviamo al porticciolo di Argens-Minervoise appena in tempo per ritirare la barca.
La barca qui descritta pronta per la partenza. (Fabrizio Magnani)
Quando feci un cammino con gli asini, il corso da asinaio durò una mattina intera, e non fu sufficiente. Qui un giovanotto stanco ci fa la lezione di scuola guida in soli venti minuti, teoria e pratica. D’altronde oggi ha già consegnato ventuno imbarcazioni e non vede l’ora di andare a casa. Mi mette al timone per una breve uscita di dieci minuti, sufficiente per sbattere due volte contro i muri dello stretto passaggio. Ci dev’essere abituato, perché non fa una piega. Io aspetto che si arrivi a parlare delle terribili chiuse, ben centotre, necessarie per superare centonovanta metri di dislivello lungo il percorso. Come le supererò? Il mio istruttore è pragmatico e sintetico: «Sono troppe cose da sapere, non ve le ricordereste, guardate come fanno gli altri». Partiamo al mattino, in una bella giornata di sole. Siamo quattro donne e tre uomini in barca, come nel famoso romanzo umoristico di Jerome K. Jerome. In effetti come marinai facciamo abbastanza ridere ma d’altronde non è facile. Immaginate che per andare in città invece della vostra macchina vi diano un autobus di quattordici metri: le strade vi sembreranno strette. E il timone non è un volante. La barca comincia le curve in ritardo e con ritardo si raddrizza. Vira di poppa, con una deriva da calcolare; ha i suoi tempi. C’è un’elica di prua che aiuta le manovre, ma l’istruttore se l’è dimenticata. La scopriremo dopo due giorni e innumerevoli collisioni con le mura delle
Fabrizio Magnani
Il Canal du Midi è un capolavoro dell’ingegneria civile francese del Seicento. Corre per duecentoquaranta chilometri tra Tolosa e il Mediterraneo, è largo una ventina di metri, profondo due. In origine serviva a trasportare il grano senza passare per lo Stretto di Gibilterra, ma negli ultimi decenni è utilizzato piuttosto per canottaggio, pesca o ciclismo. Inoltre si può risalirlo con una houseboat, una specie di gigantesco camper acquatico. Proprio questa è la mia proposta e, contro ogni aspettativa, le due famiglie, perfino i figli, l’accettano subito nominandomi capitano all’unanimità (con la mia prudente astensione). Mia moglie Francesca individua la barca giusta per noi: otto posti letto, due bagni, salotto e cucina. Quattordici metri galleggianti. Dal momento che non si affronta il mare aperto, non è richiesta nessuna patente nautica; chiunque può guidare – pardon, portare – la barca. Ottimo, dal momento che le mie precedenti esperienze si limitano a qualche breve uscita in mare, ospite in una barca d’altri; di mio al massimo ho remato con uno di quei pattini che ti affittano a ore in Versilia. Tutto facile, a parole. Ma quando mi arriva il manuale del capitano mi sorge subito qualche perplessità: sono davvero parecchie le cose da sapere (e da saper fare). E prima bisogna imparare il vocabolario marinaresco: poppa
e prua, pompe di sentina, cime (e non funi) da cazzare e lascare, bitte, ormeggi (guai a chiamarli parcheggi!). Ma non si scappa: se si vuol fare i marinai, bisogna curare anche lo stile. Ci sono poi alcuni disegnini poco rassicuranti, per esempio il mezzomarinaio (non è un nano) per allontanare la barca dalle pareti delle chiuse; va impugnato nella maniera giusta, altrimenti puoi cascare nel canale o sfondarti qualche costola. Ci sono anche le istruzioni legali in caso d’incidenti: altro che constatazione amichevole, non bisogna ammettere nulla! Una visita pomeridiana all’amico Leonardo, espertissimo di barche e di houseboat, peggiora solo la situazione.
Fabrizio Magnani
Andrea Bocconi
chiuse; i parabordi con noi lavorano. La seconda chiusa si conferma chiusa di nome e di fatto, almeno per noi: sbattiamo forte. Poi in qualche modo passiamo e ormeggiamo in un grazioso porto, Homs. Per fortuna c’è un ristorante col buon vino delle regione. Nessuno ci farà l’alcol test. La mia prima notte da capitano è tormentata. Francesca mi fa una psicoterapia antiansia d’emergenza e siccome è brava al mattino ripiglio il comando; d’altronde nessuno desidera sostituirmi e provare l’ebrezza della guida. L’alzaia è stata trasformata in una pista ciclabile, invidio i ciclisti che pedaleranno per tutta la lunghezza del canale. Anche noi abbiamo le biciclette a bordo, ma solo per brevi esplorazioni dei dintorni durante le soste. Poi, protetto dalla buonanima di qualche antenato marinaio, lentamente miglioro. Avanziamo tranquilli tra i magnifici filari di platani, vediamo campagne e piccoli borghi. Impariamo a entrare nelle chiuse insieme ad altre due houseboat: è come parcheggiare tre camion in un fazzoletto. L’equipaggio funziona a meraviglia. Tommaso e Fabrizio saltano a riva, Alma e Martina legano le cime con nodi perfetti, Amina provvede alla cambusa, Francesca oltre alla terapia di supporto al pilota fa di tutto. La paura ritorna quando in una curva del canale incrociamo una chiatta di trenta metri, ma ormai sappiamo manovrare. Scivolare sull’acqua a cinque nodi permette di essere rilassati e concentrati allo stesso tempo. La bellezza tutto intorno è un nutrimento, la mente entra in uno stato meditativo a occhi aperti, siamo tutti tranquilli e anche più buoni. Quando ormeggiamo a Carcassonne registriamo sensazioni contrastanti. Da un lato ci fa piacere scendere a terra, passeggiare lungo la duplice cerchia di mura, persino andare al cinema; eppure ci sentiamo un po’ straniti, specie quando la permanenza si prolunga per un guasto alla pompa di sentina (proprio quella che avevo studiato male). Nell’ultimo porticciolo dove lasciamo la barca faccio uno spettacolare ormeggio a marcia indietro tra altre due. Peccato che sia finito proprio ora che avevo imparato. Ma progettiamo già altre navigazioni; pare che quella nella laguna veneta sia magnifica.
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Ambiente e Benessere
La vita nella ghiaia del Médoc
Scelto per voi
Bacco giramondo La penisola del dipartimento francese della Gironda
è tra le più note al mondo per la qualità dei suoi vini Davide Comoli Il Médoc è una banda costiera larga circa dieci chilometri che s’allunga per circa ottanta chilometri da Bordeaux all’Atlantico. La zona sicuramente più conosciuta a livello mondiale per la grande qualità dei suoi vini. Il Médoc ha saputo creare infatti uno stile di vinificazione molto apprezzato e possiamo tranquillamente dire anche «copiato in tutto il mondo». I vigneti occupano una fascia territoriale che va dai tre ai cinque chilometri e termina a nord nei pressi del villaggio di Vensac; le sue vigne godono di un clima relativamente umido e caldo, ben soleggiato e con dei microclimi unici. Il terreno povero, permeabile e pieno di ciottoli, permette alle radici della vite di scendere molto in profondità (a volte fino a dodici metri) così da assorbire tutti gli elementi indispensabili per un ottimale sviluppo. I circa 16’500 ettari sono quasi esclusivamente dedicati alla coltivazione di vitigni a bacca nera e sono: il Cabernet Sauvignon, il Merlot, il Cabernet Franc, il Petit Verdot, il Malbec e il Camenère.
Prima del XVIII sec. era il Médoc, nome che deriva da: «media aquae», una zona semi paludosa, nella quale si poteva arrivare quasi esclusivamente con un’imbarcazione. Con l’arrivo degli Olandesi, specialisti come sappiamo nel bonificare terreni, la nobiltà bordolese incominciò a impiantare dei vigneti sul piatto terreno ciottoloso. Subito si capì quale fosse il terreno migliore, la parte nord, il Médoc e la parte più a sud, l’Haut-Médoc, Questa separazione è in vigore ancora ai giorni nostri, e fu solo dopo il XVIII sec. che l’Haut-Médoc, il cui confine termina nel comune di Saint-Seurin-de-Cadourne, cominciò a imporsi per la produzione di vini eccezionali. Solo un terzo della produzione proviene dal Médoc, il terreno qui non permette di ottenere vini con molta struttura né complessità come quelli dell’Haut-Médoc, e non possiedono nemmeno l’altitudine per poter invecchiare. Sono comunque vini piacevoli, ma da bersi giovani. Situazione molto differente quella che troviamo più a sud, è qui che si incontrano i più celebri «crus classés» e le «appellations régionales» più pre-
Così si presenta il terroir del Médoc. (Patrick Janicek)
stigiose come: Saint-Estèphe, Pauillac, Saint-Julien, Listrac, Moulis e Margaux. Osservando attentamente una mappa del Médoc, si nota che i vigneti si concentrano soprattutto al limitare dell’estuario della Gironda. E proprio accanto al fiume, come viene attestato dalla concentrazione dei crus classés, che si trovano i migliori terroirs di ghiaie dei Pirenei su un substrato argillo-calcareo. Questa combinazione ha due vantaggi certi: un drenaggio ottimale delle piogge di primavera e autunno e il riflesso del calore solare diurno durante la notte verso i grappoli, che continuano a maturare lentamente. Per tale ragione le viti vengono allevate basse, in modo che restino vicino a questi ciottoli caldi. Il Médoc, l’Haut-Médoc e le varie «appellations communales» sono la patria del celebre vitigno rosso del Bordolese, il Cabernet Sauvignon. Vitigno di tarda maturazione, sa adattarsi a tutte le condizioni climatiche e geologiche, in più le sue radici che con forza penetrano in profondità tra i ciottoli, permettono di produrre vini molto complessi e di qualità eccezionali. Questo vitigno robusto, ha bisogno di molto sole per maturare, altrimenti ci troveremo di fronte a vini con il gusto erbaceo troppo marcato, il classico (non proprio) piacevole peperone verde e in certe annate si possono trovare vini dai tannini duri e amari, che mancheranno d’armonia invecchiando. I piccoli acini a buccia spessa sono di fatto ricchi di tannini, questo richiede un grande e superlativo lavoro agli enologi per equilibrare le loro cuvées. Gli altri cinque vitigni sopracitati entrano in quantità e proporzioni differenti nelle cuvées. Naturalmente i vini in cui il Cabernet Sauvignon è dominante, necessitano di un invecchiamento più lungo, per dare modo al bouquet e all’equilibrio di schiudersi. In ogni caso nei più famosi Château del Médoc, il Cabernet Sauvignon è il re incontrastato e s’illumina di tutta quella che i francesi chiamano: «Gran-
deur». La grande forza del Bordolese sta nel suo «classement viticole», voluto da Napoleone III per l’Exposition Universelle a Parigi, il 16 settembre 1855. Questa classifica tiene però solo conto della regione del Médoc, di Ch. Haut-Brion nelle Graves e dei vini liquorosi di Sauternes e Barsac. I vini prodotti sulla Rive-Droite della Dordogna non furono tenuti in conto, ma questa è un’altra storia. Percorrendo la D2 in direzione sud di Bordeaux, colpisce il forte contrasto fra l’opulenza dei grandi Châteaux e la modestia delle basse casette dei tanti villaggi che punteggiano la strada, e immancabilmente la nostra memoria ritorna alle grandi risate fatte in molti viaggi con gli amici ticinesi e soprattutto con uno speciale ricordo a Fabio, scomparso da qualche anno. È d’obbligo fermarsi a provare i vini di Saint-Estèphe, con il loro gusto pronunciato, forse per la proporzione maggiore di Merlot. I vini di Pauillac, piccolo comune un po’ più a sud del primo, che costeggia la Gironda, godono di una fama molto prestigiosa già dai tempi di Luigi XV. Il suolo molto vario dà ai vini di Ch. Lafite una finezza atipica per i vini di Pauillac. Abbiamo provato questo nettare abbinandolo al famoso piatto locale, il gigot d’agneau. I vini del suo vicino Saint-Julien hanno un po’ meno corpo, ma è incredibile la loro armonia e l’equilibrio ineguagliabile; sono forse i vini più moderni del Médoc. Margaux, Listrac e Moulis, sono i tre comuni più a sud dell’Haut-Médoc. Il suolo composto da sabbia, ciottoli e argilla, costituisce il tipico terreno della zona: les graves. L’appellation Margaux, che raggruppa i comuni di Arsac, Labarde, Cantenac, Issan e Soussans, con i suoi 400 ettari vitati è la più grande superficie viticola del Médoc. I vini di Margaux sono considerati come i più fini e dal bouquet più intenso, mai troppo pesanti e molto eleganti. Ottimo quello di stasera con il nostro piatto di quaglie con il risotto.
Winkl «Sauvignon Blanc»
Nella sottozona di Terlano o Terlaner (BZ), affiancata da Nalles e Andriano, le radici delle viti devono scavare a fondo nell’arido terreno per raggiungere il nutrimento vitale che è all’origine del carattere minerale di questo straordinario «Sauvignon Blanc». Regina incontrastata per la produzione vinicola della zona è la Cantina Terlan. Il «Winkl» viene vinificato in purezza e si presenta a noi con un bouquet di rara complessità, a voler dimostrare che questo vitigno non solo per aromi varietali e erbacei, ma con il giusto rapporto del terroir e la mano di un esperto enologo, può dare sensazioni molto più complesse e fini. Tutto questo già lo si percepisce all’olfatto dove ai profumi fruttati/ floreali si intersecano aromi di pietra, spezie dolci e camomilla. Una freschezza avvolgente ci stupisce al palato che sopporta una ragguardevole persistenza gusto olfattiva. Il 2017 è un vino piacevolmente nervoso, ma dalla grande capacità d’invecchiamento. Un risotto con cappesante è il suo abbinamento ideale, delizioso lo abbiamo provato con un’ombrina alle olive taggiasche ed erbe fini. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 25.–. Annuncio pubblicitario
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In salmì o alla calabrese
Ambiente e Benessere
Pur amando appassionatamente la carne bovina e pure quella suina, non disdegno di certo le altre carni, soprattutto della cacciagione. Quindi oggi vi parlo delle beccacce. La beccaccia è un uccello dal lungo becco, come lascia intuire il nome, e dal piumaggio mimetico, cioè di color castano con fasce e macchie grigie e nere. Il nome in francese è bécasse des bois e in tedesco Waldschnepfe. Vive nel sottobosco e migra in inverno, stanziandosi nelle regioni centromeridionali della penisola italiana e degli altri paesi.
Come quasi tutti gli animali con carni nere richiede, prima d’ogni altra cosa, una lunga frollatura È molto apprezzato per le carni. Come quasi tutti gli animali con carni nere richiede, prima d’ogni altra cosa, una lunga frollatura: da uno a tre giorni se l’animale sarà arrostito; da quattro a sette, se verrà preparato in salmì o trasformato in pâté. Prima della frollatura, l’uccello non deve essere né spiumato né privato delle frattaglie; queste ultime, molto pregiate, sono in genere gustate su crostini. Solo in un secondo momento viene spiumato e pulito con una pezzuola; se deve essere arrostito, gli vengono inoltre fissate le cosce, e la testa non viene rimossa. La cottura in forno deve essere limitata (massimo 20 minuti) per evitare che le carni si asciughino troppo. Ecco un paio di amate ricette. Beccacce in salmì. Ingredienti per 4 persone. Tritate 2 scalogni con 30 g di pancetta, un pizzico di timo e uno di maggiorana. In una casseruola rosolate con una noce di burro 2 beccacce pulite, tagliate in quarti e infarinate leggermente. Sfumatele con un
bicchierino di Porto bianco sobbollito per 3 minuti, poi bagnatele con un mestolo di brodo di pollo bollente, aggiungete il trito, 4 bacche di ginepro schiacciate e cuocete per circa 10 minuti. Aggiungete le frattaglie tritate delle beccacce. Regolate di sale e di pepe, mescolate e lasciate insaporire per 2 minuti. Scolate i pezzi di carne, teneteli in caldo, fate restringere il fondo di cottura per altri 2 minuti e frullate. Servite i pezzi di beccaccia su fette di polenta abbrustolite e irrorate con il fondo di cottura. Beccaccia alla calabrese. Per 4 persone. Tenendo da parte le frattaglie, pulite 2 beccacce, poi mettete all’interno di ciascuna 1 spicchio di aglio e 1 foglia di alloro. Bardate il petto delle beccacce con fette di pancetta e rosolatele in una casseruola con un filo d’olio. Sfumate con un bicchierino di vino bianco sobbollito per 3 minuti. Unite 4 cucchiai di soffritto di cipolla e cuocete a fuoco medio per circa 7 minuti. Tritate le frattaglie pulite con un cucchiaino di capperi dissalati e rosolate il trito in una padellina con un filo d’olio per 2 minuti, mescolandolo di continuo. Tagliate le beccacce a metà per il lungo, tenendo da parte le fettine di pancetta e spalmate il trito di frattaglie su fette di pane abbrustolite. Adagiate le mezze beccacce e la pancetta sulle fette di pane, irrorate con il fondo di cottura e servite. Simile è il beccaccino, che è un piccolo uccello con piumaggio bianco a fasce e macchie rosse, becco lungo, zampe verdi. Vive e nidifica nei prati, nelle paludi e nelle risaie ed è molto apprezzato per la squisitezza delle carni, soprattutto in autunno, quando ingrassa in vista dell’inverno. I beccaccini si cucinano come le beccacce – ma non è necessaria alcuna frollatura – dimezzando i tempi di cottura. Di solito si preparano arrosto, dando la preferenza agli esemplari giovani, riconoscibili dalle zampe morbide, dal piumino sotto le ali e dalle penne maestre appuntite.
CSF (come si fa)
Eglin Af
Allan Bay
Ma.Ma.
Gastronomia Tra le carni di cacciagione, non solo ungulati ma anche beccacce
La Berliner Hühnerfrikassee è uno dei più celebri piatti berlinesi e tedeschi. Ricco e sontuoso. È un piatto di lunga preparazione, tipico quindi più dei ristoranti che della cucina casalinga. Se però una volta lo si volesse preparare, è sì lungo ma non complicato. Vediamo come si fa. La ricetta che segue è calcolata con gli ingredienti per 8 persone. Pulite un pollo da 1,8 kg e mettetelo in una
pentola con una carota, una cipolla, un mazzetto guarnito e pepe in grani. Coprite a filo di acqua fredda, portate al bollore e cuocete dolcemente per 1 ora e 30 minuti. Quando il pollo è cotto, scolatelo, spellatelo, trinciatelo a pezzi e tenetelo al caldo. Pulite 12 gamberoni conservandone il guscio e il capotorace, cuoceteli a vapore per 1 minuto, quindi teneteli in caldo. Con gli scarti e le canoniche verdure da brodo preparate un fondo molto ristretto, filtratelo più volte attraverso una mussola e incorporate 100 g di burro. Realizzate delle polpettine grosse come una nocciola con burro, gamberetti cotti e frullati, 2 uova, pangrattato, erbe fini tritate, una cipolla tritata finemente, un pizzico di noce moscata, sale e pepe. Mondate 150 g di piccoli champignon. Pulite
una piccola lingua salmistrata e 100 g di animelle di vitello. Cuocete insieme nella pentola con il brodo di pollo la lingua, le animelle, i funghi e le polpettine di gamberetti per 5 minuti. Nel frattempo preparate una salsa con un roux chiaro, 1 litro di fondo di pollo, 1 bicchierino di vino bianco secco sobbollito per 3 minuti, la scorza non trattata di mezzo limone e qualche acciuga dissalata. Fate ridurre di 2 terzi, quindi unite 3 tuorli, il succo filtrato di un limone e mescolate con una frusta sino a ottenere una salsa omogenea. Trinciate la lingua e le animelle in piccoli pezzi e uniteli alla salsa insieme alle polpettine e ai funghi. Disponete il pollo sul piatto da portata, ricoprite con salsa arricchita molto calda, decorate con le code dei gamberoni e una manciata di capperi dissalati e tritati.
Ballando coi gusti Oggi due spaghetti. Quelli al ragù rosso sono esecrati dai puristi: pazienza, piacciono a tutti. Gli altri piacciono a tutti, anche ai puristi.
Spaghetti al ragù rosso
Spaghetti al tartufo nero
Ingredienti per 4 persone: 320 g di spaghetti · 200 g di carne a piacere · 150 g di polpapronta di pomodoro · concentrato di pomodoro · formaggio grana · soffritto di cipolle · sedano · carote · aglio · vino bianco secco · olio di oliva · sale e peperoncino.
Ingredienti per 4 persone: 320 g di spaghetti · 150 g di tartufo nero · 4 acciughe sott’olio · 2 spicchi di aglio · olio di oliva · sale.
Sminuzzate la carne con un pesante coltello da cucina, mettetela in una casseruola con un allegro giro di olio e 1 spicchio di aglio mondato e leggermente schiacciato, quindi rosolate per 3’, poi sfumate con 1 bicchierino di vino sobbollito per 3’. Unite 4 cucchiai di soffritto, la polpapronta e 1 punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua e cuocete a fuoco dolcissimo per 1 ora – o più a piacer vostro – unendo poca acqua bollente quando necessario, poi regolate di sale, di peperoncino. Cuocete la pasta, scolatela al dente, calatela nella casseruola e saltatela a fuoco vivo per 2’ unendo un poco dell’acqua di cottura. Servitela col grana grattugiato.
Pulite il tartufo, strofinandolo con un panno umido, grattugiatelo, tenendone da parte 4 lamelle per guarnire. Tritate le acciughe ben scolate e l’aglio. Fate scaldare 1 allegro giro di olio in una padella, stemperate l’aglio e le acciughe, spegnete, aggiungete il tartufo grattugiato e mescolate. Salate e pepate, scolate e tenete da parte, al caldo. Cuocete la pasta, scolatela al dente, calatela nella casseruola e saltatela a fuoco vivo per 2’ unendo un poco di olio e un poco dell’acqua di cottura. Spegnete, aggiungete la salsa al tartufo e mescolate bene. Guarnite con le lamelle di tartufo tenute da parte e servite.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 novembre 2019 • N. 45
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Ambiente e Benessere
Educazione del binomio cane-proprietario
Mondoanimale In Ticino aumentano i cani per abitante, ma pure le morsicature
Maria Grazia Buletti Il nostro cantone è al di sopra della media nazionale con l’amore per gli animali domestici: Il 35 per cento dei ticinesi dichiara di avere almeno un cane o un gatto, mentre la media nazionale è del 28,5 per cento. Inoltre, stando alle cifre della banca dati Amicus (anagrafe canina), la popolazione di cani in Ticino è in costante crescita ed è passata da 25’677 del 2009 a quasi 31’000 di quest’anno. Questi dati dell’Ufficio cantonale di statistica ci permettono di affermare che, con un cane ogni 11,5 abitanti, il Ticino si situa al quinto posto per popolazione canina e al secondo per numero di cani per abitante. Meglio di noi fa solamente il Giura, dove un abitante su otto possiede un quadrupede. Numeri che ci fanno certamente onore per la dedizione e l’affetto che riserviamo al migliore amico dell’uomo, ma che vanno completati con altre cifre raccolte dalle autorità cantonali. Cifre che dicono come in dieci anni proprio da noi i casi di morsicature di cani sono quasi duplicate, passando da una media di 155 a una di 230 all’anno. L’unico dato in controtendenza concerne il 2018, quando le morsicature segnalate ai danni di esseri umani o di altri cani sono state l’11 per cento in meno rispetto all’anno precedente. Questo risultato positivo non compensa però l’aumento degli anni precedenti e ancora non permette di valutare se si tratta di una naturale fluttuazione o di un’inversione di tendenza.
I dati statistici del Dipartimento sanità e socialità tracciano dunque un quadro della situazione che dà adito a qualche domanda circa la relazione fra aumento delle morsicature e aumento della popolazione canina, strizzando l’occhio all’analisi dell’andamento che è seguito dopo l’introduzione della nuova legge ticinese sui cani. Considerando che, nello stesso lasso di tempo, l’aumento della popolazione canina è soltanto del 20 per cento, non si può dedurre che il raddoppio delle morsicature sia imputabile a esso. Analizzando i dati delle morsicature si osserva che i due anni successivi all’introduzione della nuova legge ticinese sui cani sono stati paradossalmente tra i più negativi, con incrementi del 28 e del 18 per cento nelle segnalazioni di morsi canini. È però ipotizzabile il fatto che con la nuova legge ticinese le segnalazioni siano semplicemente aumentate. Certo è che se da un lato il nostro crescente amore per gli animali domestici è innegabile e sempre più persone decidono di adottare un cane, d’altra parte le statistiche inequivocabili ci obbligano a chiederci se conosciamo ancora a sufficienza questi animali oppure se a questo punto dovremmo avere l’umiltà di riconsiderare il nostro modo di rapportarci, per ricollocarci al loro fianco in maniera equilibrata. Abbiamo chiesto alla presidente della Federazione Cinofila Ticinese, Jsabel Balestra, se oggi abbiamo ancora sufficiente conoscenza del cane e della sua natura o se è verosimile che sia andata in parte perduta nel tempo:
Giochi Cruciverba Tra moglie e marito: «Caro hai visto quell’ubriaco? Dieci anni fa mi ha chiesto di sposarlo e io ho detto di no!». Trova la risposta del marito risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 3, 7, 6, 9)
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«Buonsenso, educazione, rispetto delle regole di convivenza sociale, conoscenza ed empatia verso il cane che scegliamo di adottare e comprensione per le differenti sensibilità della gente nei suoi confronti: questi sono in sintesi i punti importanti da considerare per far sì che il clima di convivenza non si deteriori, permettendo così di salvaguardare la dignità dell’animale che, in quanto tale, ha diritto di non essere snaturato e di essere educato in modo che si collochi nella società adeguatamente alle sue attitudini», esordisce la nostra interlocutrice che perciò ribadisce la grande utilità dei corsi OPAn per detentori di cani. «Questi corsi sono stati recente-
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mente abrogati per i detentori di cani che non figurano sulla lista delle 30 razze soggette a restrizione, ma ciò non diminuisce la loro grande utilità per il proprietario e per l’animale stesso». A questo proposito, la Federazione cinofila ticinese (www.fcti.ch) propone il corso Cittadino a 4 zampe (C4Z): «Siamo convinti della nostra offerta, che cerchiamo di adeguare e attualizzare, sempre attenti all’evoluzione che ci permette di offrire il meglio possibile a cane e proprietario». Balestra stigmatizza così il comportamento di alcuni proprietari irresponsabili e ribadisce che la scelta di adottare un cane e la valutazione della razza più idonea in
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26. Ampia, vasta 28. Traboccante 29. Una famiglia latina 30. Un Emanuele partigiano e storico italiano 31. Granelli di roccia 32. È un raggio per saldature VERTICALI 2. In coppia con Gretel 3. Campi mitologici dell’oltretomba 4. Un’educatrice 5. Identica nei gemelli 7. Provare ostilità 8. Gira attorno a un’asse I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
C H E Scoprire iA 3 L numeri corretti da inserire nelle A colorate. N I caselle E S S R E I A L T A E S T G E G H I
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Soluzione:
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
Jsabel Balestra e il suo Brian.
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku (N. 44 - “Che fortuna! Ancora festeggia!”)
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ORIZZONTALI 1. Tranquille, silenziose 6. Bucare 11. Lo era l’Ippogrifo 12. Quella più alta d’Europa si chiama Pilat 13. La Ribeiro garibaldina 14. Onda rapida e vistosa 16. Pronome personale 17. Alla finestra per sicurezza 18. Li mettevano alla gogna 19. Vive con le sorelle 20. Santa... in Argentina 21. Le iniziali di Lincoln 22. Aspre 23. Così... pregando 24. Povere di sentimenti 25. Il Burrasca di un famoso giornalino
relazione al contesto famigliare restano passi essenziali prima di lanciarsi in una bella avventura senza brutte sorprese: «Farsi consigliare da persone esperte sulla scelta dell’esemplare più idoneo, insieme al quale poi seguire un corso, permette di acquisire le conoscenze necessarie alla convivenza pacifica, perché aiuta a comprendere la natura e le esigenze specifiche del cane, dunque di rispettarle. Questo mette certamente meglio al riparo da messaggi ambivalenti recepiti male dall’animale che potrebbero sfociare in qualche fatto increscioso». Nel decalogo del buon proprietario, Jsabel Balestra mette il rispetto dei detentori di cani per chi un cane non ce l’ha e invita a evitare che il proprio cane salti addosso alle persone, tenendolo al guinzaglio a passeggio anche se si trova in golena o in altri luoghi di passaggio: «Urlare “il mio cane non fa niente, vuole solo giocare” dimostra solo incompetenza e il fatto che non si sa richiamare il proprio animale». Infine, la nostra esperta conclude con un altro importante punto: «Insegnerei ai genitori di bambini che non possiedono cani di non trasmettere loro la paura dei cani, insegnando loro nel contempo di chiedere sempre il permesso al proprietario prima di accarezzarne uno». Poche regole che, se seguite da tutti, potrebbero portare a una diminuzione di quelle reazioni dei cani che, spesso, sono dovute proprio alla mancanza di una corretta comunicazione dell’uomo verso questo magnifico suo amico a quattro zampe.
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9. Imposta... che non si paga 10. Topo francese 13. Ventilate 14. Raggiro ingannevole 15. Separa i continenti 17. Punto di riferimento 19. Frazionati 20. Hanno lingue... roventi 22. Vi si svolgevano antiche gare 23. Granai 24. Non li conforta la fede 25. Tra la bocca e l’orecchio 27. Sghignazzare al principio 28. Dispari nella corale Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
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UNA LEZIONE DI SAGGEZZA – «La goccia scava la pietra non per la sua forza…» Resto della frase: … MA PER LA SUA COSTANZA.
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 novembre 2019 • N. 45
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Politica e Economia Spagna domenica al voto Clima politico incerto e surriscaldato con una estrema destra in crescita
Nuove aperture nella Chiesa Pur trattandosi, quello appena concluso, di un Sinodo sull’Amazzonia, è chiaro che la portata delle decisioni papali riguarderà la chiesa universale
Finisce l’era di Supermario Mario Draghi, l’uomo che salvò l’Euro, passa il timone della BCE a Christine Lagarde
Insegnare a spendere I consigli della Banca Migros per i giovani su come gestire le finanze pagina 34
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Un mondo in piazza
L’anno delle proteste Esiste un filo comune
fra le rivolte di Hong Kong, Catalogna, Libano e Cile? I cinesi pensano di sì e teorizzano un contagio globale, una sorta di effetto imitativo
Federico Rampini Da Hong Kong al Libano, dalla Catalonia al Cile, basta guardare un notiziario tv per essere bombardati d’immagini che si assomigliano: cortei, proteste, talora violenze, avvengono quasi in sumiltanea sotto latitudini diverse. Colpisce il numero, e la coincidenza temporale. Spesso un elemento comune è la partecipazione giovanile. Anche se le cause scatenanti sono locali, e talvolta molto diverse tra loro, è inevitabile porsi delle domande. C’è qualche ragione di fondo che accomuna tutte queste proteste? Il 2019 sarà ricordato come uno di quegli anni-chiave (il 1956, il 1968, il 1989) in cui il mondo intero sembrò esplodere? Curiosamente, tra coloro che teorizzano il «contagio globale» ci sono i dirigenti della Cina. Sui media governativi di Pechino è apparsa questa curiosa teoria: l’Occidente avrebbe sostenuto, sobillato, aizzato ed orchestrato le proteste giovanili a Hong Kong, salvo poi ritrovarsi con un effetto-boomerang a casa propria, per una sorta di riflesso imitativo. Vetrine infrante a Barcellona e Santiago del Cile, per via del suddetto contagio. In realtà quella è una tesi di comodo che rientra nel tentativo di Xi Jinping di demonizzare i manifestanti di Hong Kong. I quali in prima istanza lanciarono il loro movimento di protesta per questioni di libertà e diritti civili (la scintilla iniziale fu una legge che avrebbe consentito l’estradizione da Hong Kong alla Cina, cioè da uno Stato di diritto ad un nonStato di diritto). La scarsa attendibilità di Xi Jinping su Hong Kong non deve tuttavia escludere la ricerca di tratti comuni. Anche a Barcellona sono in gioco questioni di libertà e diritti – quella di rivendicare un’indipendenza vietata dalla Costituzione spagnola. Inoltre sullo sfondo agiscono anche dei temi economico sociali. Il governo cinese non ha del tutto torto quando ricorda che dietro la rabbia dei
giovani di Hong Kong c’è il carovita, l’esplosione dei fitti, in una città dove i tycoon della speculazione immobiliare dettano legge; e per i giovani neolaureati il mercato del lavoro è avaro di opportunità anche a causa della concorrenza dalla Cina continentale. Se cerchiamo le cause di fondo, forse è opportuno allargare lo sguardo non solo su più continenti ma anche verso un arco temporale più lungo. È possibile che queste proteste siano una recrudescenza di ribellioni iniziate con la crisi del 20082009: Occupy Wall Street, il Tea Party in America; le primavere arabe. Rabbia e risentimento provocate da diseguaglianze sociali, stagnazione economica, con l’aggiunta della corruzione (tema che si declina sia nel mondo arabo sia negli Stati Uniti dove altre forme di «corruzione del gioco democratico» vengono attribuite alle lobby del denaro). I gilet gialli francesi possono sembrare un’anomalia ma rientrano nella stessa categoria: ceto medio impoverito che si ribella contro una carbon tax percepita come élitaria, voluta dai ricchi ambientalisti che vivono nel centro di Parigi, contro i pendolari che devono usare l’automobile tutti i giorni. Lo storico inglese Nial Ferguson aggiunge un tocco generazionale: diseguaglianze e stagnazione economica infieriscono su quei giovani che hanno titoli di studio poco appetibili sul mercato del lavoro, la nuova disoccupazione o sottoccupazione giovanile di massa, il mondo del precariato. Se questa spiegazione regge, è altrettanto vero che finora nessuno ha trovato la risposta vincente. In questo senso è emblematica la situazione dell’America latina. Il ritorno dei peronisti al governo in Argentina avviene mentre l’intera America latina ha provato tutte le ricette, e consuma tutti i fallimenti. Nell’ordine: è in crisi il modello ultra-liberista in Cile; è fallito il neo-liberismo centrista e moderato di Macri in Argentina; è un disastro il socialismo in salsa venezuelana o boliviana; perde colpi an-
Giovani in piazza a Hong Kong manifestano contro il disegno di legge sull’estradizione. (AFP)
che il populismo di sinistra in Messico (sono perfino ripresi i flussi di migranti messicani verso gli Usa). Né è brillante la performance del populismo di destra (Brasile, Bolsonaro). Meglio non parlare del Centramerica... In ciascuno di questi casi si possono trovare spiegazioni specifiche. Il Cile ha un’economia dinamica e relativamente efficiente ma dai tempi in cui il generale golpista Pinochet ingaggiò i «Chicago boys» di Milton Friedman ha avuto una crescita all’insegna delle diseguaglianze. L’Argentina sembra incapace di uscire dalla spirale del debito pubblico, e il ritorno dei peronisti non fa che consacrare la dipendenza dall’assistenzialismo statale. Il Messico dimostra che a prescindere dalle ricette economiche conta uno Stato di diritto capace di dare certezze. In tutta l’America latina, con rare eccezioni, la corruzione resta a livelli di guardia, forse i casi peggiori sono pro-
prio i socialismi reali: dal clan Castro a Chavez-Maduro, le sinistre di governo allevano clientele rapaci e l’industria di Stato diventa una mangiatoia riservata ad alcune constituency. E tuttavia inseguire le ragioni specifiche di ogni disastro lascia inappagati. È possibile che «niente funzioni»? Un’altra causa di queste crisi è trasversale e accomuna modelli diversissimi tra loro: è la fine del «ciclo cinese». Molte di quelle economie furono trainate nel ventennio aureo della globalizzazione dalla domanda cinese di materie prime: dal rame cileno alla carne argentina alla soia e legname brasiliano. Negli anni del massimo boom cinese fu evidente la cinghia di trasmissione che collegava, per esempio, l’evoluzione nelle abitudini alimentari del ceto medio di Pechino e Shanghai (più carne, più zuccheri, caffè) e la crescita nell’export dal Sud
America verso l’Asia. Quella fase di liberalizzazione degli scambi era poi stata «irrorata di dollari» dalla Federal Reserve, che aveva consentito credito facile in tutti i paesi dell’area dollaro. Oggi il quadro è cambiato. La Cina continua a crescere ma a tassi di velocità in netto rallentamento; anche i suoi investimenti esteri stanno diventando più selettivi. La Fed pompa meno liquidità di una volta. Il Messico sembrava un’eccezione perché è l’alternativa alla Cina per quelle multinazionali Usa in cerca di manodopera a buon mercato esente da dazi. Ma il rallentamento della crescita americana, insieme con gli ultimi exploit dei narcos, hanno riaperto quella valvola dell’emigrazione che è il segnale inconfutabile di debolezza dell’economia messicana. E quando il vento gira, naturalmente, s’innescano anche le fughe di capitali verso beni rifugio, dollaro Usa in testa.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 novembre 2019 • N. 45
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Politica e Economia Le generali di domenica saranno il banco di prova per il premier Pedro Sànchez. (AFP)
Cono Sur: due paesi due destini
Argentina e Uruguay Ritorno del peronismo
di sinistra a Buenos Aires. E ballottaggio a Montevideo Angela Nocioni
Fine dello stallo politico?
Spagna al voto Gli spagnoli tornano alle urne dopo la sentenza
contro i leader indipendentisti catalani. L’esito è incerto mentre l’estrema destra di Vox cresce nei sondaggi e potrebbe diventare il terzo partito
Gabriele Lurati Un clima da campagna elettorale permanente che persiste da quattro anni. In questo contesto ormai cronicizzato fatto di mozioni di sfiducia, investiture mancate ed elezioni che si susseguono senza tregua (l’ultima solo sei mesi fa), 37 milioni di elettori si esprimeranno domenica in un voto che sarà il banco di prova per le ambizioni del premier socialista Pedro Sánchez. Il primo ministro, che durante l’estate non è riuscito a formare un governo portando il Paese di nuovo alle urne, si gioca molto del suo futuro politico. Queste elezioni, dal risultato incerto e che vivranno i giorni decisivi in questa ultima settimana, hanno avuto come epicentro due grandi temi: la questione catalana e l’esumazione della salma del dittatore Franco. La dura sentenza contro i leader indipendentisti catalani che ha causato manifestazioni violente e incidenti per la strade di Barcellona ha determinato le strategie dei vari partiti. Se per la maggioranza dei catalani (indipendentisti ma anche unionisti) il verdetto che ha condannato a una dozzina di anni di carcere ciascuno dei sette leader politici separatisti è sembrato sproporzionato, nel resto di Spagna la percezione è stata l’esatto contrario. Il 51% degli spagnoli considera infatti giusta la sentenza per sedizione contro i responsabili del referendum secessionista dell’autunno 2017 mentre un 22% (principalmente proveniente dai partiti di destra) la ritiene fin troppo mite. E questa presunta indulgenza della magistratura con i separatisti catalani è stata cavalcata in campagna elettorale dal nuovo partito di estrema destra Vox, che molto probabilmente sarà il grande beneficiario politico di questa sentenza. Alcuni sondaggi indicano infatti il partito di Santiago Abascal in forte ascesa e terzo in intenzioni di voto (otterrebbe il 12%, dietro i socialisti al 28% e i popolari con il 22%). Questo partito reazionario, centralista e anticatalanista è favorevole al commissariamento immediato della Catalogna e all’incarcerazione del suo attuale presidente Quim Torra. Vox si alimenta dagli scontri di piazza che sono avvenuti in Catalogna e dall’incapacità dei partiti politici nel risolvere la questione catalana, auspicando una mano ancora più dura contro i secessionisti. Questi neofranchisti, un mix di populismo xenofobo e autoritarismo, fanno particolarmente breccia nella Spagna rurale
e starebbero traendo un vantaggio politico anche dalla decisione di spostare i resti del dittatore Franco dal mausoleo del Valle de los Caídos, cosa ritenuta come un affronto dai molti nostalgici del franchismo. Di tutt’altro avviso è stato il premier socialista Pedro Sánchez che ha deciso di realizzare l’operazione di riesumazione del caudillo in piena campagna elettorale. Una decisione che è stata criticata da tutti i partiti perché ritenuta «elettoralista» e presa ai fini di ricompattare i votanti del Psoe e di ingraziarsi le simpatie dell’elettorato di sinistra proprio quando i sondaggi lo davano in calo. Sánchez spera anche in questo modo di ritagliarsi il suo posto nei libri di storia di Spagna, passando come il presidente che ha messo fine a un anacronismo democratico, quello di avere un mausoleo dedicato a un dittatore, in cui convivevano i resti di decine di migliaia di vittime di Franco accanto al suo carnefice. Purtroppo per Sánchez però il giudizio che daranno gli elettori spagnoli nelle urne sarà prevalentemente orientato al presente e sulla sua gestione della crisi catalana. Il premier è stato attaccato dai due fronti. Dagli indipendentisti per aver indurito negli ultimi tempi il suo discorso ed essersi dimostrato inflessibile con i catalani nella difesa della gestione dell’ordine pubblico. In questo senso è stato emblematico il suo viaggio a Barcellona, fatto per andare a visitare in ospedale esclusivamente i poliziotti feriti negli scontri (ma nessuno dei manifestanti), mentre evitava di incontrarsi con Quim Torra e nemmeno rispondeva alle chiamate telefoniche dello stesso presidente della Generalitat. Sull’altro fronte, per le opposizioni della Destra tripartita di Partito popolare, Ciudadanos e Vox, il comportamento del primo ministro sarebbe stato fin troppo tollerante con le manifestazioni di piazza, gli scontri, i sabotaggi continui alle infrastrutture catalane promossi dalle nuove entità apolitiche nate in Catalogna come i sedicenti CdR (Comitati per la difesa della Repubblica) e dalla piattaforma digitale Tsunami Democràtic. Nella regione di Barcellona si sta sfiorando il caos istituzionale. L’indipendentismo è diviso al suo interno circa la nuova strategia da adottare dopo la sentenza: la Sinistra repubblicana è più cauta mentre il partito dell’incendiario Presidente della Generalitat Torra, che ha faticato a stigmatizzare gli estremismi violenti della piazza, vuole puntare a un nuovo referendum di secessione.
In Catalogna si assiste ad una paralisi nella vita quotidiana delle persone: scioperi a singhiozzo, università chiuse in segno di protesta, metropolitane e autostrade bloccate sono diventate ormai la normalità. In una regione spaccata a metà tra indipendentisti e unionisti, sono cresciute a dismisura frustrazione politica e rabbia. Gli uni per non essere riusciti a ottenere l’indipendenza che politici demagogici avevano promesso (a partire dall’ex presidente Carles Puigdemont, tuttora «esiliato» in Belgio); gli altri perché devono subire questa situazione di tensione permanente fatta di duri scontri e disordine pubblico. In questo ambiente diventato adesso rovente non solo politicamente, le iniziali aspettative di Pedro Sánchez di uscire rafforzato da queste nuove elezioni sembrano essere vanificate dai risultati degli ultimi sondaggi. Stando alle previsioni, il Psoe semplicemente manterrebbe la stessa rappresentazione politica che aveva nell’ultimo Parlamento (123 seggi su un totale di 350 deputati). Una forte ripresa del Partito popolare di Pablo Casado è data per scontata (otterrebbe un centinaio di seggi) dopo il minimo storico di 66 deputati dell’aprile scorso, rimanendo il secondo partito. Le indagini demoscopiche prevedono un crollo dei liberali di Ciudadanos al 9% (penalizzato dai movimenti politicamente ondivaghi del suo leader Albert Rivera) e una lotta per il terzo posto tra l’estrema destra di Vox e la sinistra radicale di Unidas Podemos, dati entrambi al 12%. Dalle costole di quest’ultimo partito è nato un altro movimento della sinistra, denominato Más País, una nuova piattaforma politica fondata dall’ex numero due di Podemos Íñigo Errejón, ma che otterrebbe solo il 4% e una mezza dozzina di voti, non sufficienti a formare un esecutivo guidato da Sánchez e appoggiato dalle sinistre. La divisione tra il blocco progressista (Psoe, Unidas Podemos e Más País) e quello della Destra tripartita (Pp, Ciudadanos e Vox) sarebbe minima: 44% contro 43%. Un ristretto numero di seggi potrebbe quindi determinare la contesa elettorale in un senso o nell’altro. È anche possibile però che nessuno di questi schieramenti riesca a ottenere la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. A quel punto i voti degli indipendentisti catalani o dei nazionalisti baschi risulterebbero imprescindibili ma difficilmente integrabili in alleanze parlamentari. Insomma nuove elezioni per un probabile nulla di fatto.
Stravince il peronismo redivivo in Argentina. La coalizione di centro sinistra Frente Amplio al governo in Uruguay registra invece una frenata, pur arrivando al primo posto al primo turno. Questi sono i risultati non scontati della giornata elettorale per le presidenziali che il 27 ottobre hanno ridisegnato gli equilibri politici dei due vicini del Cono Sur. A Buenos Aires, il neoperonista radicale Alberto Fernandez e la sua vice, l’ex presidente Cristina Kirchner che in realtà è il suo capo politico, hanno disarcionato con il 48% dei voti il presidente in carica, il liberal di destra Mauricio Macri, fermo al 40%. Non ci sarà bisogno di ballottaggio. Fernandez è già presidente. Vittoria clamorosa del kirchnerismo, quindi, anche se Macri non è stato completamente spazzato via dal voto popolare come a un certo punto della campagna elettorale aveva temuto. Sarà comunque lui il leader dell’opposizione. A Montevideo il Frente Amplio ha vinto con il 39% dei voti, ma si sente così tanto il fiato sul collo della destra di Luis Lacalle Pou, candidato del Partido nacional con il 28,6%, che considera il risultato una mezza sconfitta. Lo sfidante di destra ha infatti buone possibilità al ballottaggio del 24 novembre di vincere se riuscirà a far convergere su di sé tutti i voti degli elettori stufi del governo in carica. A guidare il Frente amplio – al potere ormai da quindici anni ed orfano della grande spendibilità politica del suo vecchio leader, l’ex presidente Pepe Mujica – è Daniel Martinez, ex sindaco di Montevideo. Martinez ha un margine di manovra assai ridotto rispetto al suo avversario. Difficile per lui raccogliere più consensi di quanti ne abbia già ottenuti al primo turno essendo il candidato di una coalizione che già raccoglie tutto ciò che esiste nell’area di centrosinistra in Uruguay. Complicato per lui conquistare nuovi interlocutori. Diversa partita si gioca invece Lacalle Pou. Lui può puntare a inglobare i voti del Partido colorado, vecchia alternativa al Partido nacional nello spettro dell’area conservatrice uruguaiana. E soprattutto può provare a far convergere su di sé i voti andati a Cabildo abierto, una formazione appena nata, inventata dal nulla dall’ex comandante dell’esercito Guido Manini Rios, destituito dall’incarico dal presidente Tabaré Vazquez per dichiarazioni sulla dittatura militare che tenne in scacco il paese dal 1973 al 1984. Cabildo abierto è la sorpresa amara di queste elezioni. È apertamente di estrema destra, ha un linguaggio violento e xenofobo. È stata votata da un uruguaiano su dieci. Ago della bilancia potrebbe essere la scelta di campo del Partido colorado. Il suo leader, Ernesto Talvi, economista, ha fatto subito una dichiarazione di voto esplicita a favore di Lacalle Pou e ha detto che si metterà a lavorare perché il
Raggianti dopo la vittoria Cristina Kirchner con il neoeletto presidente Fernandez. (AFP)
Partido nacional vinca al ballottaggio. Si era negato durante la campagna elettorale a una eventuale collaborazione con Cabildo abierto, mostrava di avere una sorta di pregiudiziale ideologica verso una destra così estrema lasciando intendere di non voler uscire dai confini di una destra fortemente conservatrice, ma comunque democratica. Ma poi è andato ammorbidendosi nei confronti dell’ex comandante dell’esercito, ha lasciato capire che se ci sarà bisogno dei suoi voti potrebbe accettare di andare a prenderli. Per questo il Frente amplio trema. Guido Manini Rios si sente già al governo, ha detto ai suoi di votare per Lacalle Pou e ha fatto sapere di esser disposto ad accordarsi sia con il Partido nacional che con il Partido colorado sia sui temi della politica economica che sulla politica di sicurezza. Cercherà quindi di vendere al prezzo massimo il suo pacchetto di voti, che non è esiguo. Il ballottaggio sarà uno scontro molto evidente tra due modelli di società opposti, l’appartenenza ideologica a due mondi contrapposti dei due candidati non potrebbe essere più chiara. Da notare che nel giorno del primo turno in Uruguay si votava anche una proposta presentata dai settori più conservatori del Partido nacional che chiedevano una riforma costituzionale fortemente repressiva per il governo dell’ordine pubblico. La piattaforma costituita per presentarla agli elettori è stata chiamata «Vivere senza paura», la campagna elettorale per sostenerla è stata svolta in realtà soffiando sulle peggiori paure del cittadino medio alimentando la percezione di emergenze sicurezza di ogni tipo. Si chiedeva di introdurre nell’ordinamento uruguaiano l’ergastolo (il fine pena: «mai», non è contemplato dalla legislazione attuale) e la creazione di un corpo di Guardia nazionale con membri delle forze armate. La proposta non è passata, non ha raggiunto il 50%. In Argentina, invece, il risultato più clamoroso, ancor più della sconfitta al primo turno di Maurico Macri per mano del tandem Fernandez-Kirchner, è stato il risultato brillante dell’ex ministro dell’Economia Axel Kicillof che ha conquistato la strategica poltrona di governatore della provincia di Buenos Aires. Kicillof ha battuto «por goleada», come dice lui, la governatrice uscente Maria Eugenia Vidal, sostenuta da Macri. Ha superato il 51%. La candidatura di Kicillof, da sempre pupillo di Cristina Kirchner – amico caro del primogenito di Cristina, Massimo Kirchner che è il capo della formazione La Campora, il gruppo di peronisti più radicali, caratterizzati da un linguaggio violento, modi piuttosto spicci, quelli a cui spesso vengono affidate le operazioni politicamente più aggressive – era stata di per sé una guerra a parte dentro il peronismo. Cristina Kirchner ha scelto Kicillof e l’ha imposto proprio per chiarire subito dentro il suo litigiosissimo partito chi comanda e chi sceglie le persone da mettere nei posti di potere.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 novembre 2019 • N. 45
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Politica e Economia
Una crepa nel muro del celibato
Sinodo per l’Amazzonia Durante la penultima giornata della riunione mondiale dei vescovi è stata approvata
una proposta per permettere il sacerdozio agli uomini sposati nelle zone isolate e sperdute
La possibilità dell’ordinazione sacerdotale per uomini sposati. Insieme all’idea di riconoscere espressamente un ruolo di coordinatrice di comunità per le donne nella chiesa. Senza escludere la possibilità di una Messa su misura per gli indios, con gesti e parole che raccontino la teologia cattolica utilizzando le categorie e i miti delle popolazioni locali. Hanno davvero il sapore di una rivoluzione per la Chiesa di Roma alcune delle idee contenute nel Documento finale del Sinodo dei vescovi conclusosi nei giorni scorsi in Vaticano. Era un appuntamento molto atteso quest’assemblea sull’Amazzonia. Annunciata a sorpresa da Papa Francesco due anni fa, il suo cammino di preparazione era iniziato nel gennaio 2018 da Puerto Maldonado, nella regione peruviana della grande foresta; quella dove il verde degli alberi ha da tempo lasciato il posto alla terra rossa dei cercatori d’oro e dalle miniere illegali. Già lì Bergoglio aveva voluto incontrare i rappresentanti dei 390 popoli indigeni dell’Amazzonia denunciando di fronte al mondo come il loro futuro non sia mai stato tanto minacciato quanto lo è oggi. E da allora – nei nove diversi Paesi latino-americani attraversati dalla foresta – era partita una fase di ascolto, con assemblee organizzate dalle chiese locali persino nelle zone più remote. Incontri scanditi dal ritornello sulle colpe di un sistema economico che guarda all’ultimo grande polmone verde del mondo come a un mero serbatoio di materie prime dal quale attingere senza fine, senza alcuna forma di tutela per le popolazioni dell’Amazzonia. Idee indigeste per il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, che in questi mesi non ha mancato di ripetere che la gestione della foresta sarebbe rimasta «una questione interna». A Roma ci si attendeva, dunque, uno scontro principalmente sulla questione ecologica. Ed effettivamente i rappresenti dei popoli indigeni giunti in Vaticano insieme a 185 tra vescovi ed esperti invitati dal Papa a prendere parte al Sinodo non hanno mancato di denunciare le distruzioni messe in
AFP
Giorgio Bernardelli
atto da società che spesso e volentieri arrivano anche a uccidere chi difende la terra e i diritti delle popolazioni locali. Eppure la «conversione verde» e la denuncia dei «peccati ecologici» sono stati in fondo la parte meno tormentata di questo Sinodo. Perché chi specula sull’Amazzonia preferisce derubricare questo tipo di denunce a un temporale che passa in fretta, come in fondo è successo quest’estate con la piaga degli incendi. Spenti i riflettori torna sempre molto in fretta quella quiete che è l’habitat migliore per l’inerzia delle leggi di un mercato globale assetato di risorse a basso prezzo che continua inesorabilmente a premere in favore di una sfruttamento senza soste. Sarebbe dunque scivolato probabilmente via dietro a qualche tocco di colore questo Sinodo se non fosse che papa Francesco sull’Amazzonia aveva in mente anche molto altro. Perché dietro alla questione ecologica oggi anche per la Chiesa cattolica c’è un vero e proprio cambio di paradigma. Ama dire che dalle periferie il mondo si vede meglio, papa Bergoglio. E non stupisce che proprio il Sinodo della «scelta preferenziale per le popolazioni indigene» abbia dato una picconata ad alcune delle regole più rigide del cattolicesimo romano.
La crepa nella questione del celibato del clero, ad esempio, è maturata a partire dalla constatazione di una contraddizione evidente: la fede cattolica che i missionari annunciano agli indios dell’Amazzonia dice anche lì, come ovunque, che partecipare alla Messa domenicale è il gesto più importante nella vita di un cristiano. Solo che quando nella foresta i preti sono appena una manciata mentre i villaggi sono tanti e distano tra loro ore di barca o di canoa come si fa? Oggi questi cristiani di fatto possono partecipare all’Eucaristia appena una o due volte all’anno. E allora – ci si è chiesto – non varrebbe la pena di tornare all’origine delle comunità cristiane, quando a presiedere il rito era molto semplicemente l’anziano (in greco presbitero) della comunità, il quale il più delle volte aveva moglie e figli? Tanto più che nella stessa Chiesa cattolica esistono riti orientali dove è già così: i sacerdoti di queste comunità sono sposati come quelli delle Chiese ortodosse. Questo tema dei cosiddetti «viri probati» è pero solo un aspetto. Essendo pochi i preti in Amazzonia, ad esempio, capita spesso che le comunità siano affidate anche a suore o laiche che diventano il punto di riferimento per la comunità. Alla domenica, quando il prete
non c’è, sono queste donne a riunire i fedeli e perlomeno a leggere e commentare il brano di Vangelo del giorno. Al Sinodo una di loro ha raccontato di essersi trovata davanti a una persona che stava morendo e voleva confessare i suoi peccati. «Che cosa potevo fare – ha commentato – se non ascoltarla e affidarla alla misericordia di Dio?». La riapertura della riflessione sulla possibilità di conferire il diaconato alle donne, alla fine, è nata dalla constatazione di ciò che in Amazzonia esiste già. E per una ragione che non è solo contingente, ma ha a che fare anche con un modo di pensare il proprio essere Chiesa maturato in contesti di machismo imperante. In fondo è proprio questo lo stile di papa Francesco: farsi scudo con chi è debole e apparentemente insignificante per scardinare tradizioni che sembravano immutabili. Del resto gli stessi numeri parlano chiaro: cattolico è sempre meno sinonimo di occidentale; il volto latino-americano di questo Pontificato è un chiaro segno dei tempi. Pur con tutte le sue contraddizioni: la Chiesa cattolica in Brasile oggi non è più quella degli anni della teologia della liberazione. Si trova a fare i conti con la concorrenza sempre più aggressiva di quei movimenti pentecostali che si ispirano alla
teologia della prosperità, cioè all’idea che la ricchezza sia una benedizione divina. Scegliendo i popoli dell’Amazzonia e portandoli in San Pietro, nel cuore della cristianità, la Chiesa di Francesco fa dunque controcultura. Dice che ripartire dai poveri e dai dimenticati del mondo non è uno slogan assistenzialista ma una disponibilità a cambiare prima di tutto il proprio modo di essere. Si è respirato di nuovo il vento del Concilio Vaticano II a Roma durante il Sinodo per l’Amazzonia. Un’apertura nei confronti dell’altro capace di andare anche oltre le stesse barriere religiose, per chiedersi se persino in quella spiritualità che i popoli dell’Amazzonia hanno custodito nelle loro foreste non può esserci uno sguardo inedito sul mistero di Dio prezioso anche per la Chiesa cattolica. Alla fine è proprio questo ciò che ha scandalizzato di più il mondo tradizionalista: non tanto l’idea che ci sia una foresta da preservare, ma che la Pachamama – la Madre Terra delle popolazioni andine – per un cristiano possa essere un «seme del Verbo», un’immagine che rivela un volto del rapporto tra Dio e il creato. Ha aperto un cantiere papa Francesco con il Sinodo per l’Amazzonia; in qualche modo ha rotto gli indugi imprimendo un’accelerazione al cammino della Chiesa cattolica. Se – come appare probabile – confermerà nel suo documento di sintesi le novità emerse dal Sinodo, comincerà dai villaggi della foresta un nuovo modo di essere Chiesa. Meno ingessato dentro regole figlie di un certo contesto storico e geografico, e più aperto invece all’idea che con la società anche una comunità cristiana può cambiare. E questo non per piegarsi alle mode del momento, ma per rendere davvero vicino il Vangelo di Gesù alle donne e agli uomini del proprio tempo. Si tratta di una sfida a viso aperto a chi ha trasformato il cattolicesimo in una difesa a oltranza di un mondo che non esiste più. C’è chi lo accusa senza troppe diplomazie di eresia e punta tutto sul prossimo conclave. Lui da parte sua ridisegna il collegio cardinalizio. Consapevole che la partita andrà avanti anche dopo Bergoglio.
Decapitato il califfato islamico
Operazione Kayla Mueller Gli Usa hanno eliminato al-Baghdadi con il contributo di quei
AFP
curdi che Trump aveva abbandonato al loro destino in balia delle truppe turche d’invasione
Marcella Emiliani Un banale paio di boxer bianchi è stato fatale ad Abu Bakr al-Baghdadi, l’uomo che volle farsi califfo. Un commando di incursori curdi e americani sarebbe riuscito a penetrare nel compound del lider maximo dell’Isis a pochi chilometri dal villaggio di Barisha, non lontano da Idlib nei pressi del confine tra Siria e Turchia. Avrebbe quindi recuperato le fatidiche mutande da cui sarebbe stato estratto il dna del loro proprietario che sarebbe risultato, appunto, il capo in testa della feroce organizzazione terroristica islamica. Questo avrebbe di lì a poco permesso alla Delta Force statunitense di intervenire il 27 ottobre in loco,
braccare al-Baghdadi, intrappolarlo in uno dei tunnel approntati per la fuga in cui si sarebbe poi fatto esplodere, uccidendo tre dei suoi figli che aveva portato con sé. Il racconto dei retroscena del blitz americano è stato fatto al «New York Times» da Mazlum Abdi, il guerrigliero curdo incaricato di spiare il nascondiglio del sedicente califfo, racconto che il quotidiano ha pubblicato il 28 ottobre successivo. In pratica i curdi ancora una volta si sono rivelati alleati leali ed efficienti degli Stati Uniti persino dopo che Trump (foto) li ha abbandonati al loro destino in balia delle truppe turche d’invasione, decidendo di ritirare il contingente Usa dal Rojava, l’ormai ex Kurdistan autonomo della Siria. Tutto ancora da chiarire il ruolo giocato nell’intera vicenda dall’esercito della Turchia che sebbene abbia ufficialmente varcato il confine solo il 9 ottobre scorso, in realtà direttamente – con i propri contingenti già in loco – e indirettamente – attraverso le organizzazioni «ribelli» siriane che combattono ancora Bashar al-Assad, il Libero esercito di Siria in testa, avrebbe dovuto garantire la sicurezza e il cessa-
te il fuoco nell’intera provincia di Idlib assieme alla Russia e all’Iran, con l’appendice non trascurabile degli Hezbollah libanesi. Nella medesima provincia, ricordiamo, si sono concentrate tutte le organizzazioni che ancora si oppongono in armi al dittatore di Damasco, ma anche il fior fiore di terroristi islamici come appunto i jihadisti dell’Isis e di quello che fino al 2016 era il braccio armato di al-Qaeda in Siria, il Fronte al-Nusra che sull’onda delle sconfitte subite ha cambiato nome più volte, si è fuso con altre organizzazioni armate e oggi si chiama Hay’at Tahrir al-Sham alias Organizzazione per la liberazione del Levante e continua ad essere guidato da Muhammad al-Julani, ancora latitante. L’area di Barisha, in particolare, fino al 27 ottobre scorso, si riteneva controllato proprio dall’Organizzazione per la liberazione del Levante che dovrebbe essere arci-nemica dell’Isis e invece, ospitava addirittura il suo capo, il califfo in persona, corredato da mogli e figli. All’appello mancava solo una delle consorti, catturata lo scorso anno dai guerriglieri curdi; moglie risultata – a quanto pare – preziosa nel rivelare
loro dettagli utili a individuare fin dal marzo di quest’anno il nascondiglio di al-Baghdadi. Rimane invece ancora oscuro se tra l’ex Fronte al-Nusra e l’Isis sia avvenuta una riappacificazione magari con la mediazione di Ayman al-Zawahiri, l’attuale leader di al-Qaeda. Sul web comunque i seguaci alQaeda hanno festeggiato da parte loro la morte del capo dell’Isis. Coi toni trionfalistici che gli sono consueti, ha festeggiato l’avvenimento anche Trump che, assieme a mezzo governo statunitense, ha seguito, «bella come un film», l’operazione su Barisha, chiamata in codice «Kayla Mueller» dal nome della ragazza americana presa in ostaggio dall’Isis nel 2013 mentre aiutava Medici senza frontiere in un ospedale di Aleppo e poi uccisa nel 2015. Tralasciando i commenti poco pietosi sulla mancanza di coraggio di al-Baghdadi, quello che maggiormente interessava al presidente americano era sottolineare come «l’eliminazione di bin Laden è stata importante, ma quella di al-Baghdadi lo è di più», augurandosi in poche parole che come il blitz americano su Abbottabad in Pakistan del 2 maggio 2011 ha eli-
minato il creatore di al-Qaeda e spianato la via alla rielezione di Obama, così l’operazione su Barisha sarà foriera della sua rielezione nel 2020. Certo, l’eliminazione del califfo è stato un grosso colpo mediatico-propagandistico per lui, ma da sola non basterà verosimilmente a garantirgli un secondo mandato. Come non sarà sufficiente a sbaragliare l’Isis che, imbestialita, magari non subito, certamente cercherà di reagire con maggior ferocia. Abu Bakr al-Baghdadi, infatti, non è stato solo un capo carismatico come Osama bin Laden, ma a differenza di lui non si è limitato a vagheggiare un califfato islamico, lo ha costruito davvero su un territorio grande più o meno come la Gran Bretagna. Inoltre, sempre a differenza di bin Laden, ha formato emiri in grado di governare il territorio conquistato in armi e di mantenere la struttura statuale che vi era stata costruita reperendo in loco fonti autonome di finanziamento. Tanto basta per creare un nuovo mito islamico. I suoi successori, insomma, esistono già e stanno covando la prossima trasformazione della gorgone jihadista.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 novembre 2019 • N. 45
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Politica e Economia
Finisce l’era Draghi
Politica europea L’uomo che salvò l’Euro lascia la guida della Banca Centrale Europea dopo otto anni.
Una presidenza che ha condizionato anche il franco svizzero
Marzio Minoli «Whatever it takes». Qualsiasi cosa sia necessaria. Queste sono le parole che saranno ricordate quando si penserà a Mario Draghi nelle vesti di Presidente della Banca Centrale Europea. Il 72enne ex alto dirigente di Goldman Sachs prima ed ex Governatore della Banca d’Italia dopo, il 31 ottobre ha lasciato il suo incarico, dopo otto anni di Presidenza. Le parole che salvarono l’euro le pronunciò il 26 luglio 2012. Erano momenti difficili per la moneta unica, la sopravvivenza della quale rischiava di essere messa in discussione con i mercati spaventati dai paesi sovraindebitati, Grecia in primis, ma anche Spagna, Portogallo, Italia e Irlanda, i famosi paesi denominati PIGS. Per calmare le acque bastarono quelle famose parole. Mario Draghi non fece nulla di particolare, almeno all’inizio. Ma tornò la fiducia e l’euro si salvò dal collasso. Solo qualche anno dopo, nel gennaio del 2015, le parole non bastarono più e di fronte a paesi sempre più indebitati, Draghi utilizzò quello che venne definito un «bazooka», ovvero acquisto di titoli di Stato per 1000 miliardi di euro per sostenere i paesi in difficoltà, mantenendo i tassi d’interesse bassi. Ma anche per rifornire le banche dell’Eurozona di molta liquidità con l’intenzione di immetterla nell’economia reale dandola a industrie e famiglie,
per sostenere produzione e consumi. Fu l’inizio del cosiddetto «Quantitative Easing». Una mossa annunciata, che toccò anche la Svizzera, costringendo la Banca Nazionale Svizzera ha rinunciare ad avere un cambio minimo tra euro e franco di 1 e 20. Infatti, dal settembre 2011 la BNS aveva deciso di fissare questa soglia minima, in quanto la divisa svizzera era diventata un bene rifugio e in molti la volevano nei loro portafogli. Un problema però, perché in questo modo il franco si era rafforzato, mettendo in difficoltà l’industria di esportazione. La BNS resse fino al 15 gennaio 2015, quando appunto, di fronte all’imminente inizio dell’acquisto di titoli da parte di Draghi, e relativo grosso flusso di euro sul mercato, non riuscì più a mantenere il franco svizzero entro livelli accettabili per l’economia svizzera. Molti euro sul mercato significavano un indebolimento della moneta e la continua ricerca di beni rifugio da parte degli investitori. E il franco svizzero era uno di questi beni. Ma i mercati finanziari sono troppo forti per poterli «combattere». La BNS avrebbe dovuto vendere miliardi e miliardi di franchi per garantire l’1 e 20, riempiendo i suoi forzieri di euro. Un’operazione impossibile da sostenere a lungo termine. Mario Draghi può essere considerato un eroe? Per molti, ma non per tutti. Il banchiere italiano, con la sua politica dei tassi bassi, venne messo
«Whatever it takes» fu la frase di Mario Draghi, qui con Christine Lagarde, che impedì il crollo dell’Euro. (Keystone)
sotto accusa da alcuni paesi del Nord Europa, considerati virtuosi. Addirittura, in Germania si arrivò a paragonare Draghi al Conte Dracula, questo in quanto gli interessi negativi avrebbero «succhiato» i risparmi dei cittadini tedeschi per aiutare i paesi del Sud del continente, giudicati «spendaccioni». E si andò oltre: la Banca Centrale Europa fu citata davanti alla Corte Costituzionale tedesca. Ma mentre i cittadini tedeschi si lamentavano, il governo vedeva di buon occhio la BCE e l’euro. Infatti, le esportazioni tedesche crescevano, grazie al fatto che il marco non esisteva più e non c’era pe-
ricolo di un apprezzamento eccessivo (quello che invece successe in Svizzera) che avrebbe penalizzato le esportazioni. Discorso inverso per i paesi del Sud, come l’Italia, che non potevano più svalutare le proprie valute per rimanere competitivi. Una presidenza controversa quindi. Ma quale bilancio si può fare, in generale, degli otto anni di presidenza di Mario Draghi alla Banca Centrale Europea? Tutto sommato positivo. Detto del salvataggio dell’Euro giudicato dallo stesso Draghi «irreversibile», anche dal punto di vista economico i risultati ci sono stati. Il mercato del lavoro per esempio è migliorato, e di
molto, con una disoccupazione ai minimi da circa un decennio. D’altra parte, però non è stato in grado di portare l’inflazione ai livelli auspicati, quindi vicino al 2%, e anche la crescita economica non si è rivelata stabile, tanto che nel luglio di quest’anno, la BCE ha dovuto ricominciare ad acquistare titoli di Stato per aumentare la liquidità. Ma in questo ultimo caso, a parziale giustificazione di Draghi, bisogna anche dire che SuperMario, come spesso è stato definito, ha più volte spronato i governi a mettere in atto misure per sostenere l’economia dell’Eurozona, soprattutto quei paesi che hanno margine per poter effettuare investimenti importanti. Dopo Mario Draghi arriva Christine Lagarde, ex-direttrice del Fondo Monetario Internazionale. Ma soprattutto Christine Lagarde ha occupato diverse poltrone in qualità di Ministro in Francia, tra il 2005 e il 2011. Una figura quindi politica che ne sostituisce una più economica. Cosa cambierà alla guida della BCE? Al momento sembra che si proseguirà nel segno della continuità, anche se alcune banche centrali europee, tedesca e francese in testa, stanno già facendo pressioni affinché venga ammorbidita la politica dei tassi negativi. L’impressione è che Christine Lagarde, pur continuando sulla falsa riga di Draghi, sarà più disposta al dialogo in questo senso. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 novembre 2019 • N. 45
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Politica e Economia
Spendere soldi non è un gioco da ragazzi Consigli per i giovani Con il primo stipendio arrivano anche
i primi obblighi e le prime grosse discussioni. Per riuscire a tenere sotto controllo le finanze già in giovane età, bisogna saper parlare apertamente di soldi e imparare a porsi un budget
Benita Vogel Da buona gaudente, la ragazza riceve in regalo un telefonino. Fantastico! Solo che adesso deve pagarsi un abbonamento. La maniaca del multimediale perde il lavoro. Che sfortuna! Non entrano più soldi. Il personaggio fa parte di un gioco di carte sul tema del denaro: «Ciao Cash» dovrebbe illustrare a bambini e adolescenti le opportunità e le insidie dei soldi. «Il gioco permette di mettere alla prova e in discussione il proprio comportamento d’acquisto e di consumo», spiega Nadine Kaufmann. L’esperta è responsabile della prevenzione presso il servizio di consulenza sui debiti della regione Argovia-Soletta e gioca sempre a «Ciao Cash» durante i seminari che impartisce agli alunni delle superiori. «A volte i giovani non sono ancora in grado di stimare il costo della vita». Molti di loro si sorprendono che l’affitto possa rappresentare anche un terzo del salario. Affinché il debutto nell’indipendenza riesca anche sotto il profilo delle finanze, è importante parlarne apertamente. «I soldi non dovrebbero essere un tabù nelle famiglie», sottolinea Kaufmann. Altrimenti diventerebbe difficile sviluppare un senso realistico del costo della vita.
Ecco i principali punti da rispettare per iniziare ad essere indipendenti: 1. All’inizio c’è il budget
Per poter pianificare oculatamente è indispensabile avere una panoramica delle entrate e delle uscite. «I giovani spendono una parte considerevole della loro paghetta in scarpe e vestiti», afferma Nadine Kaufmann. E per questa voce si fa presto a sborsare anche 200 franchi al mese. A seconda dell’importo della paga di apprendista o della paghetta da studente, l’organizzazione mantello «Budget consigli Svizzera» raccomanda di calcolare tra gli 80 e i 100 franchi mensili per scarpe e vestiti. Una voce di spesa alquanto cospicua è rappresentata dai costi per i trasporti pubblici, la bicicletta o lo scooter. Anche i premi della cassa malati rappresentano una spesa fissa, nel caso in cui l’accordo in famiglia sia di pagarli tutti o in parte da sé. La regola d’oro: a partire da uno stipendio di apprendista di 700 franchi al mese, i giovani dovrebbero pagarsi una parte dei premi da sé. Il tema vitto e alloggio dà spesso adito a discussioni. «Se i ragazzi vivono in casa, i genitori possono richiedere ai figli un contributo adeguato», spiega
Andrea Schmid, presidente di Budget consigli Svizzera. L’importo dipende dall’entità del salario e da quali voci di spesa include. «Il costo del cibo è la dimostrazione pratica di quanto costi la vita», afferma la consulente per il budget. E i giovani sono propensi ad accettare che devono dare qualcosa in casa. Naturalmente è anche importante calcolare un budget sufficiente per gli hobby e il tempo libero. «A volte i giovani non sono coscienti dei soldi che spendono in piccolezze», afferma Nadine Kaufmann. Perciò, durante due o tre mesi, vale la pena annotarsi, o inserire in una specifica app come «Budget CH», quanto si spende in bibite, kebab o dolciumi e poi decidere se è tutto necessario (v. Consigli per risparmiare). E non bisognerebbe dimenticare di mettere qualcosa da parte, come ad esempio i soldi per le fatture del medico o dell’oculista. Altrettanto dicasi per le rate delle imposte, che scattano a partire dal 18° compleanno. Inoltre, il budget dovrebbe essere verificato e aggiornato con regolarità. 2. Pensare al risparmio
Spesso i giovani sognano la prima casa, le vacanze o un’auto propria. Ciò signi-
fica: dover risparmiare, ma non sempre è possibile per ogni budget. 3. Evitare i debiti
Spesso, fatalità come un incidente provocano un indebitamento eccessivo. Possono esserne cause anche la disoccupazione, lo shopping come attività ricreativa o la pressione del gruppo di dover avere sempre l’ultima novità. Naturalmente, un indebitamento può anche essere favorito dalla mancanza di competenza finanziaria, per esempio se a casa e a scuola non si parla mai di soldi oppure se non si è avuta l’opportunità di avere una paghetta per esercitarsi a gestire i soldi. È fondamentale parlare di even-
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verrà arrotondato automaticamente verso i successivi 1, 2, 5, 10 o 20 franchi. La differenza dell’arrotondamento sarà accreditata sul vostro conto privato o di risparmio. A seconda della frequenza dei pagamenti con la Maestro e dell’entità dell’arrotondamento, in pochi anni i vostri risparmi potrebbero raggiungere un importo a quattro cifre. In alternativa è possibile accreditare i soldi dei risparmi da arrotondamento su un piano di risparmio in fondi Free25. Questo tipo di piani è adatto
tuali debiti e chiedere aiuto il più presto possibile. «Chi a fine mese è regolarmente in rosso dovrebbe chiedere sostegno ai genitori o a un servizio di consulenza qualificato», conclude Nadine Kaufmann. Maggiori informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 novembre 2019 • N. 45
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La Pfister a un imprenditore austriaco Da quando i processi di integrazione economica sono in atto, ossia da almeno una quarantina di anni, sono frequenti le notizie di acquisti e vendite di ditte svizzere da parte di società straniere. Qualche volta, attorno a questa o a quella vendita, a questo o quell’acquisto, nasce anche la polemica. Questo capita in particolare quando la ditta che viene acquistata o venduta è conosciuta in tutto il paese come è stato, un paio di settimane con la cessione della Pfister. Questa ditta era stata fondata nel 1882 a Basilea e si era sviluppata in continuità, nel secolo successivo, con insediamenti di filiali in tutte le zone urbane importanti del paese (Zurigo, Berna, Basilea, Losanna, Ginevra, S. Gallo) e anche in Ticino. Negli anni Sessanta, Settanta del secolo scorso Pfister era certamente la ditta più importante sul mercato svizzero dei mobili. Poi arrivò Ikea non solo a farle concorrenza ma, di
fatto, a trasformare completamente il mercato. Non più negozi nei centri delle maggiori città, ma grandi superfici di vendita nei comuni dell’agglomerato, in prossimità delle uscite autostradali. Per la vendita dei mobili non era più importante la vetrina in centro, ma l’accesso al deposito del negozio con l’automobile, in periferia. Dopo il ritiro dagli affari del figlio del fondatore Fritz Gottlieb, verso la metà degli anni Sessanta, la Pfister passò nelle mani di manager che non facevano più parte della famiglia. Le azioni della stessa passarono a una fondazione il cui scopo era di mantenere la ditta indipendente e di assicurare il benessere dei collaboratori. Nella storia della ditta si afferma che, di fatto, con la creazione della fondazione, la famiglia Pfister fece dono dell’azienda ai collaboratori. La fondazione tuttavia continuava a sorvegliare l’andamento degli affari preoccupan-
dosi che si rispettasse il suo scopo e che la condotta degli stessi fosse ispirata dallo «spirito Pfister». Dall’inizio di questo secolo, con il continuo sviluppo delle vendite per internet e l’arrivo sul mercato di nuove aziende, tra le quali anche il gigante austriaco XXXLutz, la concorrenza è diventata sempre più forte. Pfister ha cercato di resistere alla stessa con una strategia di attacco, acquistando diverse ditte svizzere, attive soprattutto sul mercato svizzerotedesco, tra le quali la più conosciuta era la ditta Hubacher di Rothrist, ossia della località dove XXXLutz aveva creato la sua prima filiale in Svizzera. A Rothrist, dunque, Pfister e XXXLutz sono diventati vicini di casa. Ma le acquisizioni sembrano non siano bastate a rilanciare il fatturato di Pfister che, nel corso degli ultimi anni, ha cominciato a segnare il passo. Dal 2015 Pfister non pubblica più la sua cifra d’affari e
questo è certamente un cattivo segno. Nonostante la brutta piega che stavano prendendo i suoi affari, Pfister non poteva però essere venduta. Lo scopo della fondazione che ne deteneva le azioni era chiaro: la ditta doveva restare indipendente. Finalmente quest’anno il consiglio di fondazione ha proceduto a una modifica dello scopo per consentire per l’appunto la vendita dell’azienda. Un paio di settimane fa, infine, c’è stato il passaggio di proprietà. La holding della Pfister diventa così parte dell’impero XXXLutz. I dipendenti non sono stati dimenticati: riceveranno 1000 franchi per ogni anno di anzianità nella ditta. Per dare un’idea delle dimensioni ricorderemo che Pfister, che opera solo in Svizzera, occupa circa 1800 persone, mentre XXXLutz, attivo in 13 paesi con 197 filiali, ne occupa circa 22’000. Stando alle dichiarazioni fatte in occasione dell’acquisto, XXXLutz assicurerebbe
il posto di lavoro a tutti i dipendenti della Pfister. L’obiettivo degli austriaci è di diventare il leader sul mercato svizzero dei mobili. Per far questo dovrebbero però non solo fermare la tendenza alla perdita di fatturato della Pfister, ma, addirittura, raddoppiarne le vendite che, attualmente, stagnano attorno ai 600 milioni di franchi. Solo così potrebbero superare Ikea che, attualmente, in Svizzera, realizza un fatturato annuo di 1100 milioni. Siccome la dimensione del mercato dei mobili in Svizzera è quella che è, la strategia del nuovo gruppo XXXLutz/ Pfister sarà quella di incentivare le vendite della Pfister ma anche quella, purtroppo, di sottrarre quote di mercato ai concorrenti più piccoli come Micasa, Conforama, Lipo. È quindi probabile che l’ondata di acquisizioni nel mercato dei mobili svizzero non sia ancora terminata.
più forte, appunto la Lega. Ma il partito democratico nasce con e per il maggioritario. I padri fondatori, da Prodi a Veltroni, sono contro il proporzionale; e lo stesso Zingaretti ha fatto una professione di fede contro la frammentazione e i partitini. In queste condizioni, portare a casa una riforma così delicata, con Di Maio che fatica a controllare i gruppi parlamentari, sarà davvero difficile. La vera questione però riguarda l’economia. Il Paese è fermo: crescita zero, sia economica sia demografica. Il governo Conte bis è nato in fretta ma è partito piano. Troppo. Discussioni sulle merendine. Una spy-story che prima viene chiarita meglio è, a cominciare dai sospetti incrociati tra Conte e Renzi di aver usato i servizi segreti pro e contro Trump. Una manovra poco ambiziosa, da ordinaria amministrazione. E segnali di freddezza tra leader e leaderini; come se la bussola della vita pubblica continuassero a essere gli interessi
personali, gli stessi che hanno portato alla coalizione giallorossa. Quando Salvini ha rotto l’alleanza aprendo la crisi di agosto, tutto lasciava credere che le elezioni sarebbero state inevitabili. Il primo a scartare è stato il più interessato a evitare il voto, Matteo Renzi, proponendo – proprio lui, il nemico dei 5 Stelle – un «esecutivo istituzionale» che su 5 Stelle e Pd si sarebbe dovuto inevitabilmente reggere. Il secondo è stato Beppe Grillo, liquidando Renzi come «avvoltoio tentatore» ma di fatto benedicendo il suo disegno. A quel punto Zingaretti ha realizzato di non poter lasciare che la situazione precipitasse verso la scontata vittoria di Salvini. Anche in questa circostanza, il Pd si è proposto come partito «di sistema». Poco importa, dal punto di vista dei suoi dirigenti, se supera il 40% o crolla sotto il 20: noi – ragionano – siamo gli unici che l’Europa considera affidabili, siamo gli interlocutori
naturali di Merkel e Macron; già il nostro ritorno al governo tranquillizza i mercati e gli alleati. Il che, a guardare lo spread e i toni flautati di Bruxelles, potrebbe anche rivelarsi vero. Ma non basta. Non basta a un Paese sull’orlo della recessione, da cui continuano ad andarsene troppi giovani diplomati e laureati a spese dei contribuenti, e in cui continuano ad arrivare troppi disperati facile preda del crimine organizzato o degli affaristi in nero. Piaccia o no, la questione migratoria continua a essere in testa alle preoccupazioni degli italiani, come quella della sicurezza, che all’immigrazione incontrollata viene – a torto o a ragione – collegata. E su questo terreno Salvini è imbattibile. Per questo il futuro – a meno di clamorosi colpi di scena – gli appartiene. Nella speranza che non si lasci incantare dalle sirene sovraniste e apra gli occhi: contro Berlino e contro Bruxelles non si può governare.
cittadini meno abbienti, soprattutto agli anziani, visto che la rinuncia al contante obbliga tutti a disporre di strumenti come smartphone e pc che hanno costi notevoli o rate mensili non indifferenti. (Apro una parentesi per una domanda: esiste una base giuridica «chiara e esplicita» per queste imposizioni contro bollette e contante che ci ritroviamo tra capo e collo senza sapere chi le stabilisce?). L’esempio più recente della pericolosità di questo andamento l’ha offerto il sempre più giulivo governo di coalizione al potere in Italia. Sventolando il mantra della lotta all’evasione fiscale, l’esecutivo Conte 2 ha varato un apposito decreto per garantire alle asfittiche casse statali nuove entrate, realizzate non tanto a spese di evasori ancora da identificare, ma limitando l’uso di denaro contante e comminando multe a chi non usa carte di credito. Scetticismo e faide interne per ora bloccano l’applicazione del decreto. Nel frattempo la volontà politica di combattere evasione e attività in nero
(dai proventi della mafia sino ai cibi «streetfood») viene mediatizzata con obbrobriose sceneggiate di populismo giudiziario, giustificate con quel «Chi non ha niente da nascondere, non ha nulla da temere» che anche Hitler usava per legalizzare i controlli di massa. Che la corsa all’adozione delle carte di credito nasconda altre finalità è dimostrato dal fatto che laddove la fiscalità funziona e l’uso del contante resta predominante – ad esempio in Germania o in Giappone – l’evasione risulta assai minore rispetto ai paesi che invece accettano di limitare l’uso del denaro fisico e non accettano di porre un argine alla guerra ideologica e strumentale al contante. Cresce anche il sospetto che dietro all’alibi della caccia agli evasori i governi, dimenticando cause e colpe delle ultime crisi, stiano in realtà favorendo ancora una volta le istituzioni finanziarie. «Il pianeta bancario è a corto di terre vergini» scriveva oltre dieci anni fa su «la Repubblica» il filosofo Zigmunt Bauman, proprio per dare un senso
all’avanzata del denaro di plastica. Ed è assai probabile che gli istituti di credito e gli operatori del settore cerchino di assicurarsi un ruolo primario in una futura «cashless society», ovviamente immaginandola come una sorta di bandita di caccia privata, ora che la manna del «quantitative easing» (QE, cioè l’aumento della moneta in circolazione elargito dalle banche centrali) sta per cessare. Guardando a quanto avviene oggi nelle terre vergini di Bauman, gli esperti ricordano che, mentre il contante garantisce una liquidazione immediata della transazione e anche l’immutabilità della stessa, con le nuove tecnologie di pagamento il denaro non passa di mano in mano, la transazione resta sospesa per dei tempi tecnici (necessari a bonifici, accrediti delle carte di credito, addebiti di commissioni ecc. ecc.) e questi consentono ad algoritmi e ad altri strumenti sofisticati di utilizzare i dati per finalità diverse o manipolazioni. Dev’essere in quei tempi morti che nasce anche la mia paranoia...
In&outlet di Aldo Cazzullo Perché Salvini è imbattibile L’Umbria non è l’Ohio d’Italia, non è lo Stato o meglio la Regione decisiva per le sorti della nazione; però non c’è dubbio che domenica scorsa qualcosa di importante sia accaduto. In tanti, forse in troppi, avevano dato Matteo Salvini per finito. E in effetti quest’estate il leader della Lega aveva sbagliato tutto. Ci si attendeva che su di lui, una volta lasciato il Ministero dell’Interno, sarebbe caduta una pioggia di guai giudiziari, a cominciare dall’inchiesta sulle tangenti chieste da un suo uomo a interlocutori russi all’hotel Metropol di Mosca. Ma in questo momento Salvini ha ancora il consenso di molti italiani. I risultati umbri sono impressionanti: in una regione in cui fino a qualche anno fa era assente, la Lega ha sfiorato il 40 per cento, nonostante la candidata presidente avesse presentato una propria lista. Certo, gli scandali che hanno affondato la precedente giunta di sinistra hanno senz’altro influito. Ma il voto umbro aveva oggettiva-
mente una valenza nazionale. Per la prima volta il partito democratico e il movimento Cinque Stelle presentavano una candidatura comune. Il risultato è stato disastroso. Il Pd è arretrato, sia pure di poco, rispetto alle elezioni Europee del maggio scorso. I grillini hanno dimezzato i voti. All’evidenza, il loro elettorato di destra, o comunque di protesta, li ha abbandonati a favore di Salvini. Renzi è rimasto a guardare. E ora teorizza che il governo è più forte, perché tutti hanno capito che non c’è alternativa: o si va avanti sino alla fine della legislatura, o si consegna l’Italia alla Lega con il voto anticipato. Ma non è così semplice. Visto che con il sistema maggioritario l’alleanza giallorossa non ha funzionato, Renzi, Conte e Di Maio spingeranno per una riforma elettorale in senso proporzionale, che non li costringa ad allearsi prima del voto e disinneschi l’effetto trascinante che i collegi uninominali avrebbero per il partito
Zig-Zag di Ovidio Biffi Terre vergini e tempi morti Sto cercando di sfuggire a un assedio che ogni giorno progredisce e aumenta la sua forza. Il nemico a cui cerco di resistere (lo so, mi guadagnerò l’etichetta di paranoico) è la messa al bando del denaro contante. Sono infatti convinto che con il denaro digitale e con manovre globalizzate l’industria finanziaria stia cercando di influenzare la gestione dell’M1, cioè della liquidità primaria, del circolante, del denaro contante. Da noi è la Banca nazionale che la controlla, così come controlla anche la moneta scritturale che però, dal momento che viene creata e gestita dagli istituti finanziari privati con prestiti o altre forme di credito, sfiora vette di pericolosità impossibili da tenere sotto controllo, come da tempo denuncia con scarso successo anche il Fondo monetario internazionale: «Circolano 34mila miliardi di titoli a tasso negativo» si leggeva nel suo Global Financial Stability Report di ottobre. Gli esperti spiegano questa bulimìa come effetto collaterale degli interventi delle Ban-
che centrali per sostenere un’economia globale in rallentamento, spinti fino ai tassi negativi di deposito, varati «per convincere il cavallo a bere e a tornare a correre». La pericolosità non sembra preoccupare governi e autorità monetarie, per nulla allarmati dalla crescita di un fenomeno i cui effetti collaterali potrebbero arrivare a condizionare la loro capacità di gestire e controllare il denaro scritturale. Da profano arrivo a immaginare che l’industria finanziaria stia complottando per arrivare all’abolizione del contante proprio perché incoraggiata da questo atteggiamento inattivo e, soppiantando il denaro con le carte di credito e i pagamenti o prelievi online, avrebbe via libera per servizi che applicano (spesso sui due fronti: sia su chi paga che su chi virtualmente incassa) commissioni, abbonamenti annuali e soprattutto tassi elevati sul credito. Ho già avuto modo di segnalare di sguincio che, anche da noi, questo andazzo sta comminando gabelle ai
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Cultura e Spettacoli Gesù nel rap Kanye West pubblica un album dai contenuti fortemente religiosi, Jesus is King
Chistian racconta De Sica Al Palacongressi di Lugano, l’attore e showman italiano porterà sul palco la sua storia il prossimo 27 novembre
Poesia di Andrea Bianchetti L’autore ticinese pubblica un nuovo volumetto, Gratosoglio, per le edizioni Sottoscala
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La Russia del dopo muro La Biennale dell’immagine di Chiasso propone gli scatti dell’ucraino Boris Mikhailov pagina 41
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Un’artista straordinaria e selvatica
Mostre Natalja Gončarova a Palazzo Strozzi
di Firenze
Gianluigi Bellei «Disprezziamo e stigmatizziamo i lacchè dell’arte e tutti quelli che si muovono su uno sfondo di arte – vecchia o nuova – occupandosi dei loro volgari commerci. Le persone semplici e oneste sono più vicine a noi di quei gusci vuoti che rimangono attaccati all’arte moderna come mosche al miele». Così scrivevano nel 1913 nel loro Manifesto del Raggismo Natalja Sergeevna Gončarova e Michail Fëdorovič Larionov. Il Raggismo è una tendenza artistica che coniuga il cromatismo dei fauves, la scomposizione del cubismo, la luce e il colore dell’orfismo, il dinamismo futurista e lo spiritualismo di Kandinskij in una sorta di movimento incrociato di raggi luminosi che si irradiano in tutte le direzioni. «Una creazione di forme nuove il cui significato ed espressione dipendono soltanto dal grado di forza della tonalità e dalla posizione occupata da questa in relazione alle altre tonalità». In Russia sono anni frenetici, tumultuosi, pieni di movimenti artistici che nascono e magari muoiono subito dopo. Ma sono anche gli anni d’oro dell’arte femminile. Le donne si prendono un posto di primo piano all’interno dei vari movimenti, probabilmente solo come avviene in quegli stessi anni nel Bauhaus. Ne citiamo alcune: Ljubov Popova, esponente dell’astrattismo; Olga Rosanova sostenitrice del Futurismo e del Suprematismo; Varvara Stepanova, esponente del Produttivismo; Aleksandra Aleksandrovna Grigorovich Ekster, astrattista e poi Elena Guro, Nadežda Udaltsova e, naturalmente, la più famosa Natalja Gončarova (Negayevo, 1881 – Parigi, 1962), compagna d’arte e di vita di Michail Larionov. Proprio a lei Palazzo Strozzi a Firenze dedica un’intensa retrospettiva. La seconda esposizione monografica europea dopo quella del 1995 al Centre Georges Pompidou di Parigi. Attraverso un ampio ventaglio di opere scopriamo così che l’artista non è solo una fondatrice del Raggismo, ma la creatrice di un mondo composito e sfaccettato. Larionov, il compagno di tutta la vita, nel 1913 scrive per lei di «tuttismo», per rendere l’idea di un’arte non gerarchica e aperta. Ilia Zdanevich nello stesso anno tiene due conferenze per spiegare
il «tuttismo» della Gončarova. Un viaggio nel tempo e nello spazio alla ricerca della «forma ultima dell’arte aldilà di stile o individualità, geografia o storia, dell’aspetto artistico o di quello decorativo». Gli stessi Larionov e Gončarova sottolineano che «ogni stile è adatto come espressione della nostra arte, quelli di ieri e quelli di oggi, per esempio Cubismo, Futurismo, Orfismo e la loro sintesi, il Raggismo, per il quale l’arte del passato, così come la vita, è un oggetto di osservazione». E in effetti tutta la sua produzione è particolarmente variegata e stimolante. In un altalenante viaggio fra stili e modi differenti. Donna provocatoria, Gončarova si destreggia fra l’opulenza di una vita agiata e la tradizione contadina russa. Ardengo Soffici, che la incontra a Parigi nel 1914, la descrive come una «giovane di grande ingegno, non bella, gradevolissima, alta, vestita alla diavola, indolente, silenziosa, misteriosa, russa in toto». Nel 1910 tiene la prima personale di un solo giorno alla Società di Libera Estetica di Mosca. In quest’occasione viene accusata e processata per oscenità e pornografia a causa dei suoi nudi di donna (all’epoca solo gli uomini possono dipingere donne nude; come solo gli uomini possono ritrarre dei soggetti religiosi). Il 1913 è l’anno del suo maggiore successo. Tutto comincia il 14 settembre quando un’auto arriva all’angolo di Neglinnaya Kuznetsky Most, il quartiere alla moda di Mosca. Scendono un gruppo di artisti con i volti dipinti di geroglifici. I giorni successivi la stampa descrive la Gončarova come leader dei futuristi. I dettami stilistici sono più o meno questi: gli uomini devono avere le gambe nude, la barba a metà, il papillon di traverso; le donne il seno nudo. La performance è il preludio della grande mostra che si terrà due settimane dopo al Salone artistico in via Bolshaya Dmitrovka. Lo spazio espositivo più grande di tutta Mosca. Gončarova espone circa ottocento opere di tutti i tipi: schizzi per il teatro, disegni per tessuti e tappezzerie, pitture religiose e contadine. Il vernissage è un successo, «sale affollate, pubblico bohémien», personalità futuriste con giacche color arancio e garofani intrecciati nei capelli.
Natalia Gončarova con il «trucco di base per un’artista del teatro futurista», 1913. (Mosca, Galleria Statale Tretyakov)
Dodicimila persone visitarono la mostra. L’artista vende 31 opere per un totale di 5000 rubli. In quel periodo un operaio guadagnava 25 rubli al mese, un infermiere 80-100 rubli. È la prima monografica di un artista d’avanguardia. L’allestitore è ovviamente Larionov; il primo a credere nelle sue possibilità. «Hai occhio per il colore, ma ti impegni sulla forma. Apri gli occhi ai tuoi stessi occhi», le disse al loro primo incontro. L’anno dopo si trasferiranno a Parigi. Lo scoppio della Prima guerra mondiale li costringerà a ritornare a Mosca e Larionov verrà arruolato. Ferito al fronte è congedato. Nel 1916 ritorneranno a Parigi. Dopo un viaggio in Italia e Svizzera nel 1919 rientrano a Parigi dove vi abitano per tutta la vita. Chi li volesse incontrare idealmente può recarsi al ristorante Le Petit Saint-
Benoît dove consumavano quasi tutti i loro pasti. Nel 1938 ottengono la cittadinanza francese. Nel 1955 si sposano. Gončarova muore nel sonno nel 1962. Due anni dopo la segue il suo amato Michail che nel frattempo ha sposato Alexandra Tomilina per affidarle la loro volontà ereditaria. Nonostante che dopo la Rivoluzione d’Ottobre non siano più rientrati in Russia il loro cuore è sempre rimasto legato alla madre patria e infatti lasciano i loro lavori ai musei russi. La Galleria Tretyakov di Mosca, fondamentale per i prestiti, detiene 413 quadri e 6924 opere su carta della Gončarova. La mostra fiorentina è divisa in otto sezioni con opere basilari del suo percorso artistico come la scandalosa Modella del 1909-1910, gli Evangelisti del 19011 e il Ciclista del 1913. Qui il volto serio dell’uomo contrasta con
i tratti irregolari del selciato che danno la sensazione della velocità, come le gambe e il corpo del personaggio moltiplicate per rendere visibile il dinamismo. I numeri e le lettere in cirillico ricordano la sua formazione cubista. Bella mostra, ottima illuminazione, bel catalogo con anche l’indice dei nomi e delle cose. L’esposizione è organizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi assieme all’Ateneum Art Museum di Helsinki e alla Tate Modern di Londra. Dove e quando
Natalja Gončarova. Una donna e le avanguardie, tra Gauguin, Matisse e Picasso. Palazzo Strozzi, Firenze. Fino al 12 gennaio 2020. Tutti i giorni: 10.00-20.00, Giovedì 10.00-23.00. www.palazzostrozzi.org
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Cultura e Spettacoli
Il re del rap? È Gesù
La voce di Chicago (e di Chico)
prendono il sopravvento nei suoi testi
Jazz Da Chiasso,
CD Il nuovo album di Kanye West segna un momento di svolta in cui i contenuti religiosi
il 16/11, un tributo allaWindy City
Tommaso Naccari Se vi avessero detto che un disco rap sarà anche uno di quei dischi che vi farà riscoprire la fede in Dio, be’, non ci avreste mai creduto fino a qualche tempo fa. Poi, all’improvviso, è arrivato Kanye che dal ritenersi Dio ha deciso di elogiare quello che a tratti è il suo mentore a tratti – a questo punto – suo figlio: Jesus. Jesus is King è l’ultimo disco di Kanye West, un disco arrivato dopo un anno molto tormentato per Kanye, che va dall’appoggio a Donald Trump ai colpi di testa più vari, passando per interviste controverse e date di pubblicazione posticipate più e più volte. È un disco breve – per fortuna – in un’epoca in cui la soglia di attenzione si è abbassata notevolmente, ma di rimando tutti sembrano essere colti da un’improvvisa necessità di vomitare discorsi chilometrici solo per il gusto di dimostrare di saper stare al centro dell’attenzione a lungo, senza riuscirci il più delle volte. Ventisette minuti, per molti dei quali Kanye non è neppure presente, che riportano il rapper di Chicago – anche se definirlo rapper ormai è limitante – al centro della pista, o per meglio dire sull’altare del rap mondiale. Ventisette minuti in cui Kanye si permette di fare quello che gli pare e piace, dal rimettere insieme i Clipse – gruppo storico di Pusha T e suo fratello all’epoca prodotto da Pharrell – o di scrivere testi che per l’83 per cento parlano esclusivamente di religione, un argomento che non sembra essere il più appealing del mondo al momento Eppure Kanye è tornato ed è il rapper più appealing del momento. Nonostante appunto il disco abbia numerosi difetti: mister West da David Letterman ci aveva promesso una ricerca e un’attenzione sulla parola che a conti fatti non esiste in Jesus is King, disco sì dal linguaggio estremamente po-
West durante uno spettacolo in Spagna per MTV. (Keystone)
sitivo, ma anche dal linguaggio molto elementare, di certo non ricercato, aulico o inarrivabile. Il secondo e ultimo difetto è il fatto che il disco – proprio perché si chiama Jesus is King dà l’impressione di essere registrato in una Chiesa, forse quella era la volontà, anche se quella Chiesa sembra la cantina in cui da anni avete nascosto il divano che non avete il coraggio di buttare. Jesus is King è in definitva un album in cui Kanye recupera tutto quello che è il suo passato che diventa futuro: da Yeezus ai Clip senza perdersi le polemiche da Twitter, il suo habitat naturale. Ovviamente ci sono molti «ma» prima dell’ascolto. Se non si è americani, si capiscono poco le simpatie per Donald Trump, o la passione per il mondo ecclesiastico, che nell’Occidente del Vecchio Mondo è qualcosa di vetusto e abbandonato. Ascoltare un disco che è un’omelia di Kanye non vuol dire convertirsi al Cristianesimo e ab-
bandonare ogni possibilità di lucidità. Kanye è una persona problematico. Non è un gioco per la promo, non è un modo contorto di fare hype. È bipolare, e probabilmente non solo, spesso non prende i farmaci e si vede. Eppure la sua musica, seppur da una cornice non attuale, riesce a essere un esempio. Di recente è uscito un disco simile, quello di Chance The Rapper, che a differenza dell’ultimo di Kanye, però, è autoriferito, fuori focus, inutilmente prolisso, complicato nel suo voler essere sofisticato pur parlando di un qualcosa che è estremamente terreno pur avendo velleità ultraterrene. Jesus is King del colossal ha solo i credits, probabilmente non è un disco che – come fino a Yeezus ha sempre fatto un disco di Kanye – spariglierà le carte sul tavolo da gioco del rap. Eppure è un disco che spariglierà le carte sul tavolo da gioco della vita di Kanye – che ormai trascende generi e etichette – ed è probabil-
mente tornato ad avere un viaggio che si concentra sulla sua musica piuttosto che su di sé. Certo, ci sono ancora i mille drop del merchandising volutamente trash, ritardi infiniti nella pubblicazione, eppure alla fine Jesus Is King è uscito e ha vinto la musica, come sempre. Se avete ventisette minuti, che non sono grazie a dio un’ora, mettetevi le migliori cuffie che avete, nel posto più luminoso della vostra casa o del vostro ufficio e immergetevi nel viaggio di Kanye West. Probabilmente non condividerete tutto quello che dice, è difficile farlo, ma capirete il viaggio e sarete delle persone migliori. Perché alla fine, al di là di tutte le polemiche, Kanye West rimane uno degli artisti più interessanti della nostra generazione, uno di quelli che i nostri figli o nipoti studieranno sui libri di scuola, rimpiangendo di non averlo vissuto in prima persona.
Non è una fiaba di Natale
Balletto All’Opernhaus di Zurigo in prima svizzera La piccola fiammiferaia di Christian
Spuck sull’omonima «musica con immagini» di Helmut Lachenmann Marinella Polli
Gli esperti e gli amanti della danza assidui dell’Opernhaus hanno attualmente occasione di vedere «Das Mädchen mit den Schwefelhölzern» («La Piccola Fiammiferaia»), uno straordinario balletto sull’omonima composizione di Helmut Lachenmann, nato a Stoccarda nel 1935 e forse la figura forse più radicale fra quei compositori tedeschi nati dopo Stockhausen. In questo lavoro, ispirato alla popolarissima fiaba di Hans Christian Andersen, varato ad Amburgo nel 1997, e da lui stesso definito «musica con immagini», Lachenmann rielabora la tragica storia della bambina che muore per strada dopo aver cercato di riscaldarsi alla fiamma dei fiammiferi che non era riuscita a vendere. La complessa partitura restituisce con aspri e duri toni il freddo, quello sociale soprattutto, della solitudine esistenziale e dell’indifferenza generale che nella notte di San Silvestro causeranno la morte per congelamento di una piccola venditrice di fiammiferi. Anche il balletto proposto presentemente dal coreografo Christian Spuck, direttore del Ballett Zürich, contiene ovviamente tutti questi espliciti elementi di critica sociale. Si viene letteralmente rapiti da una seque-
Un momento dello spettacolo. (G. Batardon)
la di immagini coreografiche di grande intensità, estremamente toccanti e di enorme impatto, tuttavia più astrazione che una vera e propria narrazione, questa di Spuck; atmosfere, percezioni, allusioni, sensazioni, e poi le visioni: quelle che la piccola ha quando accende i fiammiferi. Sino alla visione ultima, finale, quando la bimba vede la nonna morta che la porterà con sé in cielo abbracciandola stretta. Nella musica di Lachenmann, eseguita da un organico orchestrale e vocale, il testo di Andersen viene rappresentato in una pregnante partitura di suoni frammentati, sonorità di tipo elettroacustico, fonemi,
rumori, respiri, schiocchi di lingua, fischi, fruscii, stridii, sfregamenti, sibili, percussioni, battiti, schianti, scoppi, crepiti, tra cui il ricorrente «zac» di accensione del fiammifero; suoni generati dalle voci e dagli strumenti usati tradizionalmente o in vari altri modi. Alla metafora della bambina che attraverso la fiamma vive momenti di felicità prima e una possibilità di salvezza poi viene giustapposto già nella partitura un testo da una lettera contro il capitalismo di Gudrun Ensslin, che aveva appiccato il fuoco ad un grande magazzino di Francoforte, e morta in carcere forse suicida. Spuck mostra la terrorista
della RAF in scena e in filmati di quegli anni. Un altro inserimento molto interessante operato dal compositore tedesco è «Zwei Gefühle», un testo dal Codex Arundel di Leonardo da Vinci. Spuck fa entrare in scena lo stesso Lachenmann che lo legge spezzandone le parole in modo da renderlo quasi incomprensibile. Davvero eccezionale la prestazione dei ballerini: la piccola fiammiferaia Michelle Willems e il suo doppio Emma Antropubos, ma anche tutti gli altri sono bravissimi, ballerini e ballerine nei panni dei personaggi grotteschi di tutta una società che si muove, gesticola e agisce ignorando la tragedia che si sta compiendo. E danzano negli spazi grigio antracite creati da Rufus Didwiszus e nei costumi ora semplici ora ingegnosi di Emma Ryott. Grande prestazione anche quella della Philarmonia Zürich diretta da Matthias Hermann, dei Basler Madrigalisten e dei soprano Alina Adamski e Yuko Kakuta, alcuni in scena altri nel pubblico. Tutti sono in grado di esprimere la tensione e la raffinata ricerca timbrica della partitura. Dove e quando
Fino al 14 novembre e poi la stagione prossima.
La geografia del jazz, negli USA, è molto più che una semplice mappa territoriale. Parlare di New York, di Kansas City, di San Francisco, per non dire di New Orleans, significa richiamare alla mente specifiche e ben definite varianti stilistiche, con una loro tradizione e un loro posto preciso nella storia della musica neroamericana. In questo swingante panorama brilla di luce propria la città di Chicago. Per la storia della comunità nera la capitale del Michigan ha esercitato fin dai tempi passati un’attrazione molto speciale. È stata infatti meta della fuga di molti schiavi del Sud, che cercavano nel Nord degli Stati Uniti la possibilità di emanciparsi, di vedere riconosciuti i propri diritti. Non a caso la Windy City ha costituito l’incubatore di nuove forme di espressione musicale: in qualche modo ha raccolto l’eredità del blues che gli immigrati del sud portavano con sé
Nato nel 1949, viene da una famiglia di musicisti. (rsi.ch/jazz)
e ha trasformato un repertorio acustico e rurale, malinconico, nel sanguigno «blues di Chicago», che è elettrico, urbano e graffiante. Anche nell’ambito più propriamente jazz Chicago ha giocato un suo ruolo. Negli anni della contestazione e della presa di coscienza della comunità neroamericana, si è creato proprio qui un movimento culturale d’avanguardia, che esplorava nuove modalità espressive e di collettivizzazione artistica. Il suo laboratorio fondamentale era l’AACM (Association for the Advancement of Creative Musicians), nucleo operativo da cui sono poi diffusi nel mondo artisti come l’Art Ensemble of Chicago, Anthony Braxton, John DeJohnette, Wadada Leo Smith... ...E Chico Freeman. Cresciuto in una famiglia di musicisti (è figlio di Von Freeman) Chico ha percorso una carriera eccezionale ed esemplare, fondendo le sonorità più moderne con quelle della tradizione. Nello spettacolo che porterà a Chiasso il prossimo 16 novembre, ore 21.00, questo innesto di stilemi sarà ancora più evidente. Freeman proporrà infatti un programma denominato Voices of Chicago, in cui il suo sassofono dialogherà con una formazione Gospel. Sarà un occasione eccezionale di entrare in contatto con la vera (e vivente) storia del jazz. /AZ
Biglietti a concorso «Azione» offre ai propri lettori la possibilità di aggiudicarsi biglietti gratuiti per il concerto di Chico Freeman and the Voices of Chicago. Per partecipare seguire le istruzioni nella pagina web www.azione.ch/ concorsi. Buona Fortuna!
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Cultura e Spettacoli
«Non mi dicono sei bravo, ma ti voglio bene»
In scena Christian de Sica al Palacongressi il prossimo 27 novembre con uno spettacolo musicale
che ripercorre la sua vita e la sua carriera
Essere figlio di uno dei più grandi registi della storia del cinema, aver vissuto in un famiglia in cui gli ospiti in casa potevano essere Ava Gardner, Charlie Chaplin, Montgomery Clift o Sophia Loren, se non Frank Sinatra, aver intrapreso una carriera nel mondo dello spettacolo che dura ormai da 50 anni. Non dev’essere una cosa qualsiasi,
Biglietti in palio e a prezzo speciale «Azione» offre ai suoi lettori alcune coppie di biglietti gratuiti per assistere allo spettacolo Christian racconta Christian De Sica, previsto il 27 novembre 2019 al Palacongressi di Lugano (ore 20.30). Per partecipare al concorso seguire le istruzioni sulla pagina www.azione.ch/concorsi. Oltre a ciò, sarà possibile ottenere uno sconto speciale di 15 franchi sull’acquisto dei biglietti tramite il portale online www.biglietteria. ch. Per ottenerlo inserire il codice – LDFZMW – al momento dell’acquisto. Sconto valido dal 4 novembre ore 08.00 al 21 novembre ore 23.59. Buona fortuna!
chiamarsi Christian De Sica: eppure l’attore italiano sembra in grado di diffondere attorno a sé, in ogni situazione, quella sua simpatia che lo rende uno dei beniamini del pubblico. La domanda che l’attore italiano si sente rivolgere più spesso è proprio legata ai suoi rapporto con il padre e al modo in cui Vittorio De Sica aveva accettato l’idea che suo figlio diventasse attore. Christian, in realtà, precisa che la sua scelta iniziale era stata quella di diventare cantante e showman. Lo spettacolo che ora porta nei teatri italiani è una sorta di chiacchierata con il pubblico che ripercorre la sua esperienza, cinematografica e musicale. Non soltanto un resoconto di «retroscena» quanto piuttosto un confronto tra quello che De Sica, in quanto persona, ha potuto vivere nei panni dell’artista. In questo senso, il titolo Christian racconta Christian De Sica, vuole proprio rendere l’idea di un racconto costruito con un taglio che va dal personale al professionale. Per la precisione si tratterà di un concerto intervallato da racconti e la scelta stessa dei brani sarà legata agli episodi vissuti dall’attore italiano. «Cantare è l’unica cosa che so fare bene» ha affermato e per questa sua fatica teatrale ha costituito un repertorio che attraversa varie epoche e luoghi
Un beniamino del pubblico con tante storie da raccontare. (Marka)
della canzone italiana. Saranno brani dal repertorio degli anni 50, canzoni di Gorni Kramer e Giovanni d’Anzi, brani di Frank Sinatra, canzoni napoletane, francesi e altre ancora. Per quello che riguarda i suoi racconti, non mancheranno naturalmente i ricordi di personaggi come Alberto Sordi, Carlo Verdone, senza trascurare
il suo grande successo ottenuto nei film girati con i Vanzina. È in questo ambito dello spettacolo che De Sica sembra riconosciuto oggi dal grande pubblico, specialmente di giovani spettatori. «I giovani mi dimostrano un attaccamento affettuoso» ha dichiarato in una recente intervista. «Sembra che mi prendano come uno zio simpatico, e non mi
dicono “sei bravo”, ma “ti voglio bene”. È una cosa incredibile, rara». Un amico di famiglia: ecco forse il ruolo particolare che Christian De Sica ricopre nel mondo dello spettacolo e nel cinema. E al Palacongressi potremo incontrarlo e ascoltare dal vivo i suoi divertenti racconti. / Red. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Uno sguardo di gratitudine nella propria storia familiare Recensioni Andrea Bianchetti firma un notevole racconto in versi
Pietro Montorfani L’ultima raccolta poetica di Andrea Bianchetti non può non sorprendere chi conosca le precedenti prove apparse tra il 2007 e il 2013, da Sparami amore di cera a Estreme visioni di bianco, pubblicate a Viganello da «Alla chiara fonte», fino alle più recenti Carneficine (ANA Edizioni). L’enfant terrible della poesia svizzera di lingua italiana, capace come pochi altri di infilare immagini pulp e surreali come tante matrioske di un universo allucinato, riesce con Gratosoglio a incanalare la medesima energia linguistica in un racconto in versi estremamente limpido, pulito, lineare, senza per questo scendere a compromessi (il rischio, in casi simili, è quello di una deriva cronachistica e sociologizzante), anzi mantenendo intatta la freschezza stilistica che sempre gli è stata riconosciuta, e con essa un sentimento genuino di poesia pura. Gratosoglio è davvero, sin nella struttura tripartita in un prima (192566), un durante (1966-78) e un dopo (1978-2019), un libro assai ben concepito, frutto di un lavoro attento di cesello, non più un cantiere aperto come alcuni dei titoli precedenti bensì un minuscolo cristallo in sé conchiuso, tutto stretto attorno al quartiere milanese cui il libro si ispira. È la storia di una famiglia che attraversa dapprima la seconda guerra mondiale, poi il boom degli anni Sessanta, infine una lenta e malinconica vecchiaia, e che tra piccoli e grandi drammi quotidiani consegna la propria esperienza nelle mani stesse dell’autore, nipote dei protagonisti. Non sarà forse voluto, ma l’aggettivo «grato» suggerito dalla to-
È nato a Milano nel 1984 e vive a Sorengo.
ponomastica (gratum solium, un luogo dove è bello stare) mi pare sia la migliore chiave d’accesso all’anima del libro, costruito come un percorso di gratitudine, di bellezza riconosciuta anche nel poco, a partire dalla propria storia familiare.
La vita di Gianna e Renzo si dipana sotto gli occhi dei lettori con una calma dettata dalle loro parole, in un racconto quasi in presa diretta, senza patemi né ansie, nel quale i fatti si sommano ai fatti a scapito di qualsiasi retorica, anche quando si toccano
temi cruciali della storia novecentesca: «Non è vero che gridavano / Viva l’Italia quando feriti / perdevano liquidi nella neve. / [...] gridavano: / Mamma, mamma, mamma». Se la poesia è anche – cosa di cui spesso la si accusa – decidere quando andare a capo, An-
drea Bianchetti lo sa fare con maestria, evita scelte stucchevoli e si serve della lingua, persino della sua disposizione spaziale sulla pagina, con il solo scopo di conferire dignità e credibilità ai propri personaggi: «La Gianna va alla porta. / Il Renzo la segue un po’ zoppicante. / Sulla soglia una bambina / di dodici o tredici anni, / con le guance rigate / come le prime mele, acerbe, / nelle giornate piovose». In un libro che apertamente dialoga con la tradizione poetica novecentesca, soprattutto lombarda, a fatica si troverebbe un’unica fonte ispiratrice: certo il Bertolucci della Capanna indiana, ma anche il milanese Giudici o il romano Bellezza, citato in esergo («di chi possiede, e nel possedere è posseduto»), tutti indimenticati cantori del quotidiano. Il verso di Bianchetti, che pure non disdegna le misure lunghe e lunghissime di un Pagliarani (l’affresco milanese di La ragazza Carla è forse l’archetipo più prossimo a Gratosoglio), rimane agile come quello ungarettiano, ma del giovane Ungaretti non accoglie l’indeterminatezza semantica né la sua cupa Weltanschauung: al celebre (e terribile) «la morte / si sconta / vivendo» risponde un più lieve «A Gratosoglio si sconta / quel che resta della vita». La vita che rimane e la poesia che la celebra: ecco la scelta di campo coraggiosa di questo piccolo, importante libro di versi, stampato molto bene dalle Edizioni Sottoscala di Bellinzona. Bibliografia
Andrea Bianchetti, Gratosoglio, Edizioni Sottoscala 2019, 118 pagine.
Donne e nomi
Questioni di genere Tematiche femminili nei nomi propri e nei contributi dell’ultimo volume
della «Rivista italiana di onomastica» Stefano Vassere «La Régie autonome des transports parisiens, ricorda che l’artista Silvia Radelli nel 2014 era andata molto più lontano con la sua opera Le Métroféminin, presentando una mappa alternativa con tutte le 302 stazioni metropolitane parigine caratterizzate da nomi di donne celebri». Non si esagera definendo la «Rivista italiana di onomastica», diretta da venticinque anni dal linguista romano Enzo Caffarelli, una delle migliori riviste linguistiche in assoluto del panorama italiano. Da un quarto di secolo, da quella fucina escono infatti due poderosi volumi all’anno con articoli, recensioni, segnalazioni, rassegne di congressi e iniziative editoriali, elenchi, repertori, curiosità, voci; insomma, l’universo mondo dello studio dei nomi propri, in Italia e ovunque. Proprio per sua vocazione, occupandosi con il lessico della «buccia» della lingua e del sistema, capita che da lì si peschi spesso al confine con l’analisi del costume culturale; fenomeni della società che volentieri si spalmano sui nomi di persona e di luogo, i quali finiscono per portarne evidenti e non banali tracce. E un fenomeno di costume e quasi di cultura politica per eccellenza in questi anni è certamente quello legato al delicato settore dei rapporti tra lingua e genere, intesi in senso lato e in varie declinazioni. Così all’insegna di
un titolo apparentemente allontanante come Femminili plurali e deonimici maschili capita di leggere un testo in verità molto divertente e istruttivo sull’uso al femminile di nomi comuni derivati da nomi propri famosi, tipo Cicerone («Ci ha fatto da Cicerone»), Mecenate, Anfitrione e Mentore. La morfologia di questi nomi è (la fa forse un po’ facile certa linguistica antisessista e morfologicamente molto perentoria e tranchante) veramente piuttosto ardua e imprevedibile: che si fa? Facciamo finire tutto in –a come si conviene alle raccomandazioni più assolute? Ci dicono per esempio certi vocabolari che cicerona (come medica) è percepito come ironico ed è quindi poco rispettoso. E certo non sappiamo come metterla con il poco probabile mecenata. Mecenatessa? (Tutte queste forme sono rigettate in primis dall’evidentemente maschilista correttore di questo stesso word processor). Le soluzioni morfologiche più coraggiose sconfinano quasi nella fraseologia; qui, non dovrebbero offendere nessuno formazioni come fare da cicerone perché il soggetto può essere sia maschile che femminile. Però si vorrà essere lontani da esponenti più determinati/e di quella linguistica così impegnata quando a qualcuno verrà in mente (anzi a qualche sciagurato è venuto in mente) di risolvere tutto proponendo la qualifica femminilizzante in gonnella; da apporre, certo con incauta superficialità, a tutte le denominazioni maschili in questione: Cicerone in gon-
nella, Anfitrione in gonnella, Dongiovanni in gonnella e forse (ma lì saremo volentieri a infinita distanza dai nostri interlocutori destinatari) dottore in gonnella, avvocato in gonnella, ingegnere in gonnella. Per fortuna, viene da dire, l’ultimo numero della «Rivista» porta anche abbondanti nuove notizie riguardo a un altro settore di qualche scontro tradizionale tra generi: l’odonomastica, i sistemi di nomi di vie e piazze. All’insegna di Altri passi avanti per l’odonimia femminile si snocciolano le perle di un successo, almeno stradale, sempre più crescente: una strada un ponte e sei rotatorie intestate a donne a Mestre; la ridenominazione tutta al femminile dei doppioni di un nuovo comune nel Torinese; un’intera serie di nomi dedicati alle Madri della Repubblica vicino a Firenze; un parco per Elsa Morante e un tratto di ex linea ferroviaria in onore della nobile lombarda quattrocentesca Antonia da Barignano a Rimini; e ancora, un largo intestato a Berta di Lotaringia (863-925) a Lucca. Infine, a Parigi, una consultazione in Internet per denominare due nuove stazioni della metropolitana: lì, davanti a tutti e in dirittura d’arrivo, stanno per ora la cantante Barbara e la musicista Nina Simone. Bibliografia
«Rivista italiana di onomastica», anno 25, numero 2, 2019.
Nina Simone: forse una stazione del Metro avrà il suo nome. (Wikipedia)
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Cultura e Spettacoli
La Russia dopo il crollo del Muro Biennale dell’Immagine Esposte allo Spazio Officina di Chiasso le fotografie di Boris Mikhailov,
uno dei più conosciuti artisti a livello mondiale
Gian Franco Ragno Un’esposizione inedita di un grande artista fotografo riconosciuto a livello mondiale: difficile chiedere di più alla esposizione principale alla Spazio Officina per l’undicesima Biennale dell’Immagine di Chiasso. L’autore, Boris Mikhailov, è conosciuto in tutto il mondo per aver esposto sui principali palchi della scena artistica internazionale (Stedelijk Museum di Amsterdam, Moma di New York e molti altri) e, in una brevissima sintesi, si può dire che più di chiunque altro abbia testimoniato il disgregamento della società sovietica dopo il crollo del Muro di Berlino, avvenuto esattamente trent’anni fa. Nato nel 1938 a Charkiv, oggi seconda città dell’Ucraina ma al tempo Unione Sovietica, Mikhailov dopo la sua formazione di ingegnere missilistico lavora nel settore ma al contempo frequenta gli ambienti dell’avanguardia artistica russa – tra cui l’artista concettualista Illja Kabakov. Attraverso una fotografia scabra, a tratti brutale, senza apparente ricerca tecnica, l’artista ucraino riprende con spirito grottesco, prima le contraddizioni, poi i drammi derivanti il crollo dell’Impero: si rivolge spesso al mondo dei diseredati, ai senza tetto, esplorando e tematizzando temi quale sesso, autodistruzione e povertà – raggiungendo, come detto, dopo il crollo del muro, un vasto pubblico. L’esposizione allo Spazio Officina,
Uno dei dittici che fanno parte della serie Temptation of Death.
seguita nel suo svolgimento dal giovane curatore italiano Francesco Zanot, presenta solo una parte del vasto progetto dell’artista, ventiquattro delle circa centocinquanta previste, e prende il titolo di Temptation of Death. La serie sviluppa in dittici, così da rapportare direttamente un’immagine all’altra, secondo criteri non sempre leggibili con immediatezza. L’artista lavora sempre con parte delle sue immagini
già utilizzate in altri progetti, o in parte scartate. Ma, nonostante l’oscillazione tra nuovo e antico, nonostante il rimescolamento delle sue carte si nota una chiave di lettura dominante: essa è la prevalenza del thanatos, l’impulso alla morte di freudiana memoria, rispetto a quel tanto eros – disperato, osceno, senza grazia né sentimento – che tanto aveva dominato i suoi cicli precedente, come la notissima serie di Case History.
Ciò è certificato anche da quello che può essere considerato un centro gravitazionale della serie, raccolte intorno al crematorio di Kiev, simbolo di una grandezza totalitaria dell’impero sovietico oggi in stato di abbandono. Un luogo dove la natura riprende il sopravvento sull’opera dell’uomo, le sue ideologie e l’esercizio del potere. Come afferma Zanot nella sua presentazione, si tratta di un lavoro «profondamente spirituale», con il frequente
ricorso a pose, riferimenti e iconografia che rimanda ad idea di sacro: un ritorno all’idea di entità superiore in netto contrasto con la corruzione terrena. Lasciandoci alle spalle l’artista ucraino, vorrei proporre un’ulteriore considerazione a margine della manifestazione nel suo insieme, che quest’anno vede la presenza anche di altri artisti nei negozi attualmente senza attività nella cittadina. E questa considerazione riguarda il destino di tante immagine viste ed esposte. Se è vero che Chiasso appare – ogni due anni, d’autunno – invasa da immagini, è lecito domandarsi anche quale sia il destino ultimo di tanta fotografia. Cosa rimane sul territorio di questa epifania, come precipitato di un impegno così importante da parte dell’associazione omonima, privati e pubblico? Manca ancora un ultimo passo per concludere una parabola: se in qualche forma si potesse trovare il modo di far entrare una piccola selezione di queste immagini in una collezione (penso soprattutto ai giovani autori), si potrebbe certificare e coronare definitivamente un impegno profuso ormai da più di vent’anni, e che ha per centro la piccola ma vitale città di confine. Dove e quando
Boris Mikhailov. Temptation of Death. Spazio Officina, fino al 8.12.2019. Nell’ambito della Biennale dell’Immagine, www.biennaleimmagine.ch Annuncio pubblicitario
Vi aspettavamo
Downton Abbey Arriva anche nelle sale
ticinesi il sequel della fortunata serie TV Nicola Mazzi In principio fu Gosford Park (2001). Uno degli ultimi film di Robert Altman, sceneggiato da Lord Julian Fellowes (che per l’occasione ricevette l’Oscar). Lo stesso che ha poi ideato la fortunata serie TV Downton Abbey, andata in onda per sei stagioni, dal 2010 al 2015. E ora, sui grandi schermi della Svizzera italiana, è arrivato il film; una sorta di sequel dell’ultima stagione della serie. Siamo nel 1927 quando un evento sconvolge la quiete della famiglia Crawley: il conte di Grantham, (Hugh Bonneville), riceve una lettera da Buckingham Palace, nella quale gli viene comunicato che Re Giorgio V e la famiglia reale faranno visita alla dimora. Una notizia che scombussola il quieto vivere della casata e che rappresenta la miccia narrativa per infiammare i vari eventi del film. Come nella serie TV (l’ultima di successo andata in onda appunto sulle televisioni prima dell’arrivo di Netflix e delle altre piattaforme online) la forza del film è data dalla scrittura di Fellowes, rafforzata dalla continuità alla regia di Michael Engler (uno che ama usare la macchina da presa come se stesse danzando). È lui a dare il ritmo attraverso battute sagaci e intrighi che si sovrappongono. È lui a disfare e a comporre i fili narrativi delle varie vicende che si alternano e che spaziano dai piani alti (i grandi salotti luminosi dove la famiglia Crawley prende il tè), a quelli bassi (gli scantinati bui e angusti in cui la servitù prepara le cene regali). Il film, così come la saga televisiva, è ambientato in un momento storico particolare. Un’epoca di svolte epocali a livello sociale come la Prima Guerra Mondiale, l’indipendenza irlandese e l’ascesa del fascismo. Su tutti però c’è
Novità
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La locandina del film.
il tramonto dell’aristocrazia inglese, rappresentato nel film da alcuni discorsi di Lady Mary (la figlia del conte di Grantham e discendente della casata), la quale si chiede se vale la pena continuare a sostenere tale sistema. Sarà lei il vero Gattopardo di quell’epoca. È lei che dovrà cambiare tutto affinché nulla muti (il riferimento al film di Visconti si esplicita ancora meglio nel grande ballo finale). E non si può terminare l’articolo se non tessendo gli elogi di uno dei personaggi più riusciti della saga e del film: la sarcastica Lady Violet (Maggie Smith, la contessa madre attaccata alle tradizioni più di tutti gli altri). E se nella serie la ricordiamo per battute fulminanti come: «Non ho mai insultato nessuno. Semplicemente li descrivo con accuratezza», nel film si ripete così: «Io non litigo. Spiego». E a sottolinearne l’efficacia anche l’espressività facciale di Maggie Smith, una delle protagonista pure del film di Altman: perché in principio fu Gosford Park.
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta In nome del vino Esce la versione 2020 di «Slow Wine» (Slow Food Editore) la bibbia dedicata agli amanti del vino: È al suo decimo anno di vita e i suoi curatori, Giancarlo Gariglio e Fabio Giavedoni, nell’Introduzione registrano lo spostamento del suo baricentro. In principio al centro della guida c’erano il vino e la cantina, gli enologi erano le star. Ora, grazie alla mutata sensibilità sulla salute della Terra, vengono prima la vigna e «il valore salvifico del vignaiolo custode della fertilità del suolo, poi magari anche il sentore di ciliegia e fragola dentro il bicchiere». Le sue 1120 pagine contengono i resoconti delle visite e le recensioni dei vini delle 1967 cantine censite ad opera di una folta schiera di collaboratori, ordinate su 20 regioni, dalla Valle d’Aosta alla Sardegna. Ogni pagina è suddivisa in due colonne e ogni colonna è dedicata a una cantina, con tutti i dati per poterla reperire, più l’estensione in ettari vitati e il numero di bottiglie prodotte. Il testo è diviso in tre parti: Vita, Vigne, Vini. La
«Vita» contiene in sintesi la storia dell’azienda e più sovente della famiglia che conduce la cantina. Da queste righe sale un delicato profumo di realismo socialista, sembra di leggere «Terra dissodata» di Sciolókhov. È inevitabile trattandosi di narrare storie vincenti. Esempio: «Quella dei fratelli Marco e Vittorio Adriano è la storia di una famiglia contadina che ha rifiutato di abbandonare la terra quando valeva poco o niente e tutti scappavano verso la città e le campagne». Uno schema che ritorna sovente è il ritorno alla terra dei nonni dopo una parentesi di insulsa vita cittadina. La seconda parte, «Vigne», descrive in poche righe e in una prosa limpida il teatro naturale dove maturano le uve. Citiamo le vigne di Carema, già cantate da Mario Soldati: «Il vigneto di Carema è un capolavoro di architettura rurale, un mosaico di piccole terrazze scavate nella roccia, dotate di pilastri in pietra che sorreggono le pergole di nebbiolo». La terza parte è dedicata ai «Vini»,
descritti per ogni singola etichetta, con il numero di bottiglie prodotte e il prezzo alla fonte. I caratteri azzurri segnalano la presenza di un Vino Quotidiano, quelli rossi segnalano la presenza di un Grande Vino. Quest’ultimo si guadagna una descrizione più distesa. Il Valle Isarco Sylvaner 2018 è «caratterizzato da una sapidità incisiva, che rende il palato terso e lungamente saporito; il naso è fine e profuma di frutta tropicale. Beverino e succoso, ma senza cedere in mollezze superflue». Per quanta scienza si applichi alla cantina, c’è sempre, per fortuna, una componente alchemica nella trasformazione dell’uva in vino, che ne spiega il fascino e la variabilità di stagione in stagione. Prendiamo l’esempio dei tannini, composti vegetali, solubili, amari, astringenti, fondamentali soprattutto nei rossi. Qui, nelle schede di ciascun vino, di volta in volta i tannini sono vibranti, vivaci, levigati, cesellati, eleganti, ancora rigidi, da limare, spigolosi, riottosi, ruvidi ma scalpitanti. Quanto
alle etichette, la fantasia non ha freni: a Lucera abbiamo un «Mordi il politico», in Toscana uno ««Scapigliato», in Emilia un «Dosaggio Zero La Prima Volta», in Calabria «Spiriti Ebbri», in Sicilia «Firri Firri», in Piemonte «Ovada Tre Passi Avanti» e «Ovada Tre Passi Indietro», il timorasso «Ti Voglio Bene 2018», a Gavi un «Carica l’Asino» che è un bianco «per un sorso non impegnativo». Uno dei tanti pregi di «Slow Wine» risiede nella segnalazione di nicchie di pregio, come quella del «Torchiato di Fregona», in Veneto, dove sette vignaioli realizzano questo vino con i vitigni glera, boschera e verdiso. I grappoli selezionati e staccati dalle piante, vengono fatti appassire su tralicci e poi pigiati in torchi manuali nella settimana di Pasqua. Il mosto è affinato per 24 mesi e poi in bottiglia per almeno 5 mesi. Leggi e hai la tentazione di correre a provarlo. Questa guida contiene tanti libri in un solo volume. Uno di questi libri è composto dalle introduzioni ai venti capitoli, dove, regione per
regione, si fa il punto sullo stato dell’arte, in un comparto dove l’Italia è seconda nel mondo dopo la Francia. Senza tacere sulle criticità, come l’invasione della glera in Veneto destinata a diventare prosecco, l’abbandono dei vigneti nelle Cinque Terre, il Piemonte che non può vivere di sola Langa, l’inaffidabilità del Lazio. Nella classifica delle regioni viene primo il Piemonte con 41 cantine, seconda la Toscana con 27, terzo il Veneto con 18 e il primato nella produzione. Marcel Proust aveva le madelaines per richiamare la memoria; noi, grazie a Slow Wine, ne abbiamo a disposizione qualche centinaio. Basta evocare il nome: Amarone, Primitivo, Cannonau, Barolo, Timorasso... per ricordare quando e dove li abbiamo provati per la prima volta e ritrovare quelle emozioni. Con l’intenso desiderio di sperimentarne di nuove, per esempio assaggiando il Capichera 2017 che «profuma di elicriso e di ginestra». Se solo sapessi cos’è l’elicriso...
effetto collaterale. Dunque dal premio ho avuto cinquemila euro, per essere stato nella cinquina vincente; se avessi vinto anche il premio finale, altri cinquemila; che fanno in totale diecimila euro. Mi scuso con gli altri candidati, tutti eccellenti, ma essendo stato io il principale martire, caduto sul campo, il premio supplementare mi spettava per puro senso di giustizia. Non dico un monumento, come ai caduti della prima guerra mondiale. Non so se gli altri candidati hanno avuto dei danni che possano legalmente accampare: episodi convulsivi, alitosi, foruncolosi, rigurgito acido, trombosi … ci sono stati casi di trombosi? arresti cardiaci? Non mi è arrivata la notizia all’orecchio, nessuno ha esibito un attestato medico o il certificato del pronto soccorso. Quindi, tirando le somme, se avessi avuto i diecimila euro, avendone io spesi per l’operazione tredicimila, me ne toccavano ancora tremila. Ma non ho vinto, e quindi (tredicimila meno cinquemila) me ne
toccherebbero ancora ottomila: cosa vogliamo fare? – ho scritto ai promotori del premio, cioè alla Confindustria Veneta. Me li potreste dare a rate, scalarli dal premio dei prossimi anni; magari vi faccio uno sconto, perché in effetti sto meglio di prima, e adesso posso mangiare e bere a volontà, anche grappa e grappini accompagnati da polenta e salsiccia. Quindi vedete voi – ho scritto, – è una questione di coscienza. Anche se da parte mia ringrazierò sempre Confindustria Veneta e Campiello per l’intervento riuscitissimo alla prostata … grazie! Ho scritto per posta elettronica. Non mi hanno risposto; non sono interessati. O mi credono sulla parola. Quindi alla fine, va beh – ho detto – facciamo così: siamo pari. Voi ci guadagnate, ma anch’io ci ho guadagnato in salute. Arrivederci – ho scritto, – meglio però che non torni in gara una seconda volta; ci sono altri organi interni che possono restare compromessi. E comunque grazie, grazie di cuore.
«al di là, molto al di là dei confini della democrazia nell’accezione storica del termine». Si era compiuta allora quella che Raboni con evidente sarcasmo chiamava la «rivoluzione culturale italiana». Si è compiuta oggi quella che possiamo battezzare come rivoluzione culturale globale. Ciò detto, è chiaro, si possono esprimere pareri pro e contro lo stesso Raboni a proposito dei suoi giudizi. Che però avevano il pregio di non essere mai improvvisati o «ideologici». Per esempio, quello su Giovannino Guareschi, preso a bandiera dai critici di destra come scrittore pregiudizialmente (e per presunti motivi, appunto, ideologici) discriminato dai «comunisti». Scrive Raboni confessando di averlo sempre detestato sin da ragazzo: «a rendermelo irrimediabilmente estraneo non erano le sue idee, ma il suo modo di esprimerle; non il suo anticomunismo, ma il suo stile. Detestavo, e continuo a detestare, la sua rozzezza, il suo semplicismo, il suo umorismo goliardico, la sua scrittura
impastata di salame cotto e di cattivo Lambrusco, il suo manovrare storie e personaggi con la brutalità di un burattinaio avvinazzato, il suo ridurre l’immaginazione a una sottospecie della propaganda e la realtà drammatica di una nazione e di un’epoca a una rissa fra macchiette, a una farsa paesana». Viceversa, un critico sempre inequivocabilmente schierato a sinistra come Raboni ama alla follia la «tragica grandezza» di uno scrittore sempre inequivocabilmente ritenuto di destra estrema come Louis-Ferdinand Céline. In letteratura, si sa, lo schieramento politico non conta nulla e l’impegno civile non basta. Tantomeno basta dissentire dalle opinioni di uno scrittore per ritenerlo una nullità. Per questo l’unica critica possibile è quella capace di dire dei libri (degli spettacoli, dei concerti, dei film) che contano, «in modo pacato, disteso e motivato, tutto il male – ma anche, quando è il caso, tutto il bene – che è giusto e utile dirne». Questo è il suo compito civile, questo è il suo dovere verso i lettori.
Un mondo storto di Ermanno Cavazzoni L’effetto medicinale dei premi Un anno fa su per giù, sono stato finalista al premio Campiello, prestigioso premio letterario che si tiene a Venezia. Adesso a distanza di un anno devo dichiarare che l’ospitalità del Campiello è stata più che eccellente; devo anche dire che gli aperitivi, i banchetti, i brindisi sono stati una delizia, sempre. A Venezia il 27 giugno abbiamo cenato a Murano, pollo fritto e arancini fritti ripieni, non so cosa c’era dentro, una delizia; e mi sono servito forse anche esageratamente; la notte poi l’ho passata agitata e con un po’ di pesantezza; ma il giorno dopo, il 28, a Cornuda, pranzo e cena superbi, frittatine, frittelle, sarde fritte in saòr, un fritto misto di mare, buonissimo; anche il gelato fritto c’era, non l’avevo mai assaggiato. Per digerire bisogna berci dietro qualcosa, il vino, sì, amarone, prosecco, ma anche qualcosina di un po’ più forte, che faccia da stura lavandino. La notte il letto ondeggiava, credevo di essere in gondola, sognavo di bere un bicchierino di acido mu-
riatico, che mi desse sollievo, anche se continuavo a lodare la cucina veneta, i bigoli col ragù d’anitra, il maiale al latte, il fegato con la cipolla, il tiramisù e il premio Campiello. Il giorno dopo a Jesolo non so cos’è stato: un po’ il fritto protratto, un po’ lo stress da premio (che nuoce al duodeno), un po’ la vodka, un po’ qualche bicchierino supplementare di vodka, perché quando si fa baldoria, eccitati dalla premiazione, la vodka è un grande aiuto per parlare sensatamente, ma anche per digerire l’olio cotto del fritto; quindi succede che più mangi fritto, più devi bere vodka o l’equivalente (non so se vi succede?). Quando uno è sotto stress, vodka e fritto ti aiutano molto; anche se poi lo stress te lo senti pesare il giorno dopo sul fegato e sulla cistifellea. E infatti di questo passo dopo solo tre giorni ho avuto un blocco totale alla prostata, il 29 giugno; non dico che è stato il premio Campiello, però ha molto contribuito. Per cui ho interrotto il giro di presentazioni, e sono andato
dal medico; il quale mi ha detto che non ero adatto ai premi, in particolare al premio Campiello, per via del trattamento alimentare eccellente, i fritti in Veneto sono un capolavoro, e la grappa – ha detto il medico – la grappa altrettanto: come si fa a resistere? Quindi mai più, – ha detto il medico – avrei potuto sottopormi ad un premio, con relativo stress, eccetera; e con l’eccetera alludeva al fritto, a cui la prostata è particolarmente sensibile. Ai premi sono più adatte le femmine – ha detto il medico – perché non hanno la prostata. E mi ha consigliato di operarmi, se volevo sperare ancora nel primo premio finale. Cosa che ho fatto immediatamente, in via privata, il 18 luglio. Ora qui s’apre la vera questione; l’operazione è costata tredicimila euro, tutto è andato bene, anzi benissimo; ma all’origine di tutto devo dire c’è il premio Campiello, che non è salutare a prostata, reni e in generale agli organi interni; senza sua colpa, sia chiaro, il danno casomai è solo un
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Il re censore e il cattivo lambrusco Tra i grandi critici della società, ci sono i poeti che si fanno commentatori della realtà anche al di fuori delle poesie, scrivendo e intervenendo sui giornali spesso in modo più coraggioso e lungimirante degli editorialisti e politologi e sociologi di professione. Limitandosi all’Italia, basta pensare a Pier Paolo Pasolini o a Franco Fortini. C’è anche Giovanni Raboni, morto quindici anni fa: milanese, autore di raccolte poetiche memorabili, in cui peraltro non risparmiava violente staffilate alla politica corrente. La Canzone del danno e della beffa, pubblicata postuma sul «Corriere della Sera», è forse l’ultima poesia che scrisse, rivolta all’«imprenditore del nulla», al «venditore di aria fritta, / forte coi miserabili / delle sue inindagabili ricchezze», quello che «sorride a tutto schermo / negando ogni evidenza, promettendo / il già invano promesso e l’impossibile, / spacciando per paterno / il suo osceno frasario da piazzista» (6? 6 senza dubbio). Ora esce una raccolta di scritti critici, apparsi su vari giornali a
partire dagli anni 60. Titolo: Meglio star zitti?, a cura di Luca Daino (Mondadori). Si tratta di stroncature di ambito letterario, teatrale, cinematografico su cui non sempre si può concordare (quella contro il «qualunquismo» di Sciascia, per esempio) ma ciò che più conta è che Raboni, chiamato ironicamente il Re Censore, nel presentarsi come critico letterario si pone l’obiettivo, sempre, di fare critica della cultura. A Raboni questo mondo (culturale in primis) non piaceva affatto, non sopportava «i libri sfrontatamente consumistici, i libri “inventati” dall’industria, insomma le monete false». Raboni insisteva sulla necessità di definire i valori, a costo di apparire pedante e noioso. «Un falso libro – un libro falso – è una specie assai più pericolosa e nociva del genere “brutto libro” (…) Costruito per sembrare ciò che non è, per fingere qualità e virtù che non possiede». Il consumo culturale indiscriminato di «falsa moneta» mette a rischio, secondo Raboni, la stessa democrazia. Quando parlava della «grande ondata di
banalità, di volgarità e di stupidità che sta sommergendo il nostro Paese» era il 1996, non c’era ancora l’invadenza dei social network ma era nell’aria. Tant’è vero che a quel tempo Raboni scriveva ciò che a maggior ragione si può scrivere oggi: la regola aurea della democrazia, ogni testa un voto («in base al quale, come è noto, il voto di un analfabeta vale esattamente quanto quello di un premio Nobel»), si è trasferita nel campo dei diritti civili e della cultura. Per cui i mass media (e la politica!) hanno ripudiato «il vecchio pregiudizio secondo il quale alle opinioni dei cosiddetti “esperti” dovrebbe essere dato più spazio e attribuita maggiore importanza che a quella di un qualsiasi altro cittadino», facendo «piazza pulita dell’odioso principio d’autorità e del ridicolo mito della competenza». Mica male, come visione (6? 6). Eravamo, ripeto, nel 1996, sono passati più di vent’anni da allora e già Raboni avvertiva il male diffuso del nostro presente: quel malinteso principio di egualitarismo che si spinge
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