Riponete cartine geografiche e bussole: oggi per orientarsi è meglio lo smartphone
I negoziati tra Svizzera e Unione europea sono allo sprint finale ma restano nodi cruciali da sciogliere
ATTUALITÀ Pagina 15
Picasso, lo straniero: arte, identità e migrazioni in una mostra al Palazzo Reale di Milano
CULTURA Pagina 23
La grande attesa americana
Parte la nuova stagione di TiSki: tra sport, incontri, competizioni e attenzione alle giovani promesse
TEMPO LIBERO Pagina 37
Nuove mappature del mondo
Chissà se davvero, da domani, al di là delle rispettive promesse elettorali dei due candidati, l’elezione della/del nuova/o presidente degli Stati Uniti cambierà i confini del mondo. Davvero Trump o Harris avranno il potere di ridisegnare i contorni degli stati in guerra facendo pendere la bilancia dalla parte che sosterranno: Russia o Ucraina, Israele o palestinesi?
Negli ultimi due anni, gli Stati Uniti hanno rifiutato di usare la forza militare di fronte ai più evidenti atti di aggressione della storia recente. Da quando gli Usa non sono più il guardiano del mondo – tendenza in corso da diverso tempo – l’allargamento o il restringimento dei confini dipende soprattutto dalle risorse dei contendenti, in altre parole dalla legge del più forte sul campo di battaglia.
Forse ha ragione il nostro collaboratore Lucio Caracciolo quando sostiene che, quando va bene, la nostra è l’era dei cessate-il-fuoco, un pallido e del tutto insoddisfacente palliativo della
pace, che nessuno pare volere. Perché nessuno, nemmeno l’Onu (che su questo fronte è debolissima) ha sostituito l’interventismo bellico dell’America che aveva connotato la seconda parte del Novecento. Chi potrà imporre la pace, da domani? Probabilmente nessuno. Il che non vuol dire che l’America, la Cina o l’Europa non determinino in alcun modo i destini dei conflitti in corso. Da ogni angolo del pianeta si moltiplicano gli appelli dei potenti al rispetto dei diritti umani, alla protezione dei civili, all’ossequio alle Convenzioni di Ginevra, oggi spudoratamente ignorate in Ucraina e nel Medio Oriente. Si emanano sanzioni economiche, si cerca di trovare il mezzo di aiutare le vittime, magari evitando di vendere loro direttamente missili, bombe e proiettili. Ma lo sappiamo tutti che questo è un gioco un po’ ipocrita: da una parte ci si stracciano le vesti per le ingiustizie e dall’altra quegli stessi Paesi che evitano di essere convolti con i propri uomini
sui campi di battaglia supervisionano il commercio globale di armi, armano e finanziano quelle guerre per procura. In un qualche modo tutti, America in primis, collaboreranno quindi alla ridefinizione dei confini dei Paesi nel periodo post-bellico (che prima o poi arriverà, fosse anche solo per esaurimento delle munizioni). Sarà un momento estraniante e comporterà il cambiamento delle mappe, come alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, quando il crollo dell’Unione Sovietica generò nuove geografie a cui non eravamo abituati. Al posto di quell’immenso territorio che chiamavamo Urss, in pochi anni vedemmo apparire, sugli atlanti aggiornati, una sequenza di Repubbliche indipendenti e salutammo quella novità come l’inizio di una nuova era di pace e serenità.
Ma il mondo è troppo in subbuglio perché i cartografi non debbano di nuovo ridisegnare il suo assetto. Strana disciplina la geografia, che
è molto più della rielaborazione grafica dei territori e delle loro frontiere (come spiega l’ultimo saggio di Claudio Ferrata, di cui proponiamo una recensione a pag. 17), ma uno strumento per capire noi stessi, le nostre evoluzioni, ricchezze e involuzioni. Raccontate ancora meglio da quando i mezzi digitali offrono possibilità inedite di leggere il territorio, con mappe interattive d’ogni genere, argomento trattato da Mattia Pelli a pag. 4. Consultabili dal nostro smartphone, sono utilizzatissime mappe che ci dicono in tempo reale dove troveremo traffico e con quale situazione meteorologica. Altre di nicchia ci segnalano dove ci sono barriere architettoniche per i disabili, o indicano i luoghi che hanno ispirato versi, leggibili online, agli scrittori e ai poeti ticinesi. O, addirittura, ci mostrano i vicoli dove sono stati commessi delitti nel Medioevo. Una visione dall’alto dell’umanità che cerca di osservare con distacco anche le inesauribili follie di ieri e di oggi.
Giulia Pompili e Aldo Cazzullo Pagine 19 e 21
Carlo Silini
Un cambiamento necessario e ricco di opportunità
Info Migros ◆ A colloquio con Gianni Roberto Rossi, recentemente eletto presidente del Cda di Migros Ticino
Dopo otto anni in veste di membro del Consiglio di amministrazione di Migros Ticino, Gianni Roberto Rossi ne è recentemente diventato il presidente. Una figura carismatica, quella di Gianni Roberto Rossi, apprezzata, fra le altre cose, anche per la sua capacità di creare ponti tra regioni culturali e linguistiche diverse. Il luganese, infatti, che padroneggia perfettamente tedesco, francese e inglese, dopo avere diretto per molti anni la clinica Hildebrand di Brissago, lavora oggi per SUVA in qualità di CEO della Rehaklinik di Bellikon e della Clinique romande de réadaptation di Sion. Le due cliniche riabilitative sono attualmente in una fase di trasformazione che prevede un’armonizzazione organizzativo-strutturale con ricerca di sinergie ed efficienze e una «conduzione strategica sovraordinata». Abbiamo incontrato Gianni Roberto Rossi per discutere con lui delle sfide con cui Migros si sta confrontando in questi mesi di importante cambiamento.
Gianni Roberto Rossi, Migros si trova in un momento di delicata transizione e lei è diventato presidente del Cda di Migros Ticino: quali sono le sfide del suo mandato? Nel mio ruolo di presidente del Consiglio di amministrazione devo – oltre ai tipici compiti che competono a un presidente del Cda – anzitutto agire quale facilitatore tra il Cda e la Direzione di Migros Ticino e tra il Cda e il Consiglio di cooperativa. Visto il momento che l’azienda sta attraversando, è importante sostenere Migros nel progetto generale di questa delicata ma dovuta fase di cambiamento; Migros Ticino, e in particolare la sua Direzione, deve
essere sostenuta e motivata. Occorre che l’implementazione della nuova strategia, che mette il focus sul core business, avvenga senza penalizzare troppo le cooperative. In questa fase di cambiamento, dobbiamo individuare, in sinergia con la Direzione, le nuove opportunità strategiche per Migros Ticino all’interno del Gruppo, penso in particolare al posizionamento della nostra azienda a livello nazionale; per fare questo sarà necessario mettere in luce le nostre peculiarità e gli atout di noi ticinesi (Unique Selling Proposition). Ciò prevede anche la difesa degli interessi e di un certo grado di autonomia per Migros Ticino. Al fine di raggiungere questi obiettivi sarà indispensabile contribuire con giuste decisioni strategiche per garantire la
necessaria redditività e una certa salute finanziaria, che a loro volta garantiranno un determinato grado di autonomia per Migros Ticino.
Migros si è sempre distinta, oltre che per la qualità dei propri prodotti, anche per i valori che rappresenta. In quali si riconosce maggiormente?
A livello economico, sociale e ambientale mi riconosco pienamente nella responsabilità nei confronti di tutti gli stakeholder di Migros (collaboratori, clienti, partner commerciali ecc.), nonché verso il core business. Se poi pensiamo al cosiddetto Engagement Migros, l’impegno dell’azienda (grazie all’investimento di parte degli utili) nell’ambito della socialità, mi rendo conto che in
fondo la mission di Migros è simile a quella della mia professione: anche in qualità di CEO di due cliniche riabilitative mi impegno costantemente a favore del miglioramento della qualità di vita delle persone.
Di Migros apprezzo anche lo spirito di cooperativismo, che professionalmente vivo ogni giorno, e che rappresenta un valore aggiunto in grado di rendere unica l’azienda, e la credibilità.
Cosa porta in azienda della sua ricca esperienza? Di cosa crede che potrà fare tesoro in Migros? Credo anzitutto di potere portare un’esperienza manageriale di livello nazionale basata su un modello collaborativo in continuo cambiamento; il nuovo modello organizzativo di
A Tesserete Migros si fa ancora più bella
Migros richiede, infatti, la ricerca di nuove sinergie e collaborazioni. Migros negli anni non è stata mai sottoposta a così grandi trasformazioni, per cui ora si tratterà di gestire al meglio la cultura del cambiamento, e penso di potere contribuire mettendo a disposizione la mia esperienza personale. Spero che Migros possa fare tesoro anche della mia passione per i valori in comune, nonché per la mia regione, il Ticino. Anche io potrò sicuramente approfittare di quest’esperienza in un contesto e modello organizzativo diverso.
A suo avviso, quali sono le sfide più importanti che dovranno affrontare Migros Ticino e, più in generale Migros?
Migros dovrà essere in grado di affrontare questa nuova organizzazione e il cambiamento con successo, senza venire meno ai propri valori fondamentali e alle proprie caratteristiche, penso in particolare allo spirito di cooperativismo. Saranno da tenersi in dovuta considerazione le necessità e le aspettative dei clienti, dei collaboratori, dei fornitori e naturalmente delle singole cooperative, senza mai trascurare l’aspetto reputazionale. Sarà importante mettere in campo una strategia mirata che garantisca un giusto equilibrio tra centralizzazione e aspetti locali, senza indebolire le cooperative regionali e garantendo loro la necessaria autonomia; in questo modo sarà mantenuta la filosofia della cooperativa. Le peculiarità della Cooperativa Migros Ticino dovranno essere valorizzate, messe in luce e difese, permettendole così di distinguersi: sarà infine importante disporre delle risorse necessarie alla messa in atto della nuova strategia. / Si.Sa.
Info Migros ◆ Quattro settimane di sconti omaggi e concorsi a partire dalla riapertura della filiale questo giovedì
Questo giovedì 7 novembre riaprirà a Tesserete il rinnovato supermercato Migros. Per l’occasione la Cooperativa regionale Migros Ticino ha organizzato quattro settimane di sconti, omaggi, concorsi, simpatiche iniziative e animazione per i bambini.
L’ammodernamento della struttura
Inaugurato nel lontano 1963, dopo regolari migliorie nel corso nei decenni, questo apprezzato e ben frequentato punto vendita di paese della Capriasca aveva bisogno di un deciso aggiornamento per restare al passo con i tempi. Con l’intervento iniziato lo scorso 21 ottobre si è deciso di fare un ulteriore importante passo avanti nel rinnovo della rete di vendita di Migros Ticino. L’investimento complessivo per i lavori di questo amato negozio di prossimità è stato di 300mila franchi. Dopo quasi tre settimane di cantiere riapre dunque giovedì in completa nuova veste la filiale Migros di Via Luigi Canonica 40 a Tesserete. Le strutture interne del supermercato, totalmente ammodernate e ora all’avanguardia, sono caratterizzate dai più alti standard di costruzione e sostenibilità a livello ambientale. L’esperienza d’acquisto è stata migliorata
grazie al ripensamento dei 305 metri quadrati di superficie di vendita, valorizzati da nuovi colori e da un nuovo arredamento. Anche l’impianto d’illuminazione LED a basso consumo farà la sua parte in questo progetto d’innovazione.
Un occhio di riguardo all’accessibilità
Il supermercato, in grado di servire comodamente tutta la popolazione residente nel Comune e proveniente dai suoi dintorni, nonché i numerosi turisti presenti in valle per lunghi periodi dell’anno, si presenta completamente nuovo, più accogliente e con spazi più ampi rispetto a prima. L’esercizio è facilmente raggiungibile sia con i principali mezzi pubblici sia in auto, avendo una buona quantità di posteggi esterni proprio a ridosso della filiale e a disposizione della clientela Migros, gratuitamente. Il punto vendita sarà dotato di casse tradizionali e, per chi va un po’ di fretta, saranno presenti comode e veloci casse subito per il self-scanning e self checkout.
Assortimenti ben calibrati
Il supermercato sarà caratterizza-
to da assortimenti alimentari e non alimentari ben calibrati e orientati a soddisfare i più attuali bisogni degli avventori. La clientela avrà così la possibilità di farvi sia una spesa veloce sia acquisti più importanti e consistenti. Il punto vendita capriaschese continuerà a disporre di un curato reparto Daily, dedicato ai prodotti di consumo immediato, sia caldi sia freddi. A livello di sostenibilità manterrà l’offerta di base dell’assorti-
Giovedì, dopo un cantiere per rinnovare la struttura capriaschese durato tre settimane, si riparte con grande spolvero. Nella foto: una filiale del Sottoceneri. (foto Migros)
mento Migros Bio e l’efficiente parete ecologica. Saranno inoltre riproposti gli apprezzati servizi PickMup e Raccolta delle plastiche miste provenienti dalle economie domestiche (con sacco Migros).
Le iniziative per la riapertura della filiale
Per festeggiare degnamente con gli
avventori questa speciale occasione, il 7 e 8 novembre verrà concesso un 10% di sconto su tutto l’assortimento. Sabato 9 novembre colazione offerta a tutta la popolazione e, per i più piccoli, animazione e trucca bimbi.
Dall’11 al 13 novembre, per ogni CHF 50 franchi di spesa, si riceverà invece in omaggio uno sgargiante cappellino Migros. Spicca poi il concorso in essere dal 18 al 23 novembre, con in palio tre carte regalo del valore di CHF 500, CHF 200 e CHF 100! Chiudono questo corposo e speciale pacchetto dal 25 al 30 novembre le sempre apprezzate degustazioni degli articoli Nostrani del Ticino.
Orari e contatti di Migros Tesserete
Il responsabile Luigi Maggiotto e i suoi 9 collaboratori, cordiali e ben preparati, sono pronti a soddisfare i bisogni della clientela con cura e attenzione, in un clima accogliente e famigliare.
CEO della Rehaklinik di Bellikon e della Clinique Romande de réadaptation.
Frutta & Verdura a prezzo basso
Attualità ◆ Migros mantiene le sue promesse: ha ridotto il prezzo di molti prodotti di uso quotidiano Vi mostriamo come questi 14 prodotti tengono testa ai discount
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Hai un bel progetto sulla diversità?
Potresti vincere 50
mila franchi
Società ◆ C’è ancora tempo fino al 30 novembre per presentare la propria idea vincente nell’ambito dell’#iniziativavarieta lanciata dal Percento culturale Migros
Il mondo è bello perché è variato. E la Svizzera, con le sue molteplici culture linguistiche, stili di vita e differenze culturali è un modello forte di diversità, un aspetto del nostro vivere civile che sta al centro dell’#iniziativavarieta promossa dal Percento culturale Migros che ora lancia un concorso. È il momento di raccogliere idee per favorire questa dimensione speciale del nostro Paese.
Si cercano organizzazioni o istituzioni che collaborano con persone chiave per rafforzare la diversità sociale o culturale
Fino al 30 novembre il percento culturale Migros cerca dei progetti in collaborazione con un’organizzazione che riunisca persone di diverse generazioni, lingue, identità di genere, storie familiari, possibilità fisiche, stili di vita o budget. Se con loro pensate di contribuire alla vita culturale e sociale della Svizzera e a renderla ancora più variegata, allora non esitate e inviate la vostra idea di progetto!
In particolare, si cercano:
• organizzazioni o istituzioni che collaborano con persone chiave* per rafforzare la diversità sociale e
culturale e l’accesso alle offerte per i gruppi target;
• persone chiave o autorappresentanti che, insieme a un’organizzazione o un’istituzione, si impegnano a favore di una comunità e costruiscono ponti;
• organizzazioni o istituzioni che organizzano e occupano le proprie strutture e i propri team in modo inclusivo o che vogliono intraprendere questo percorso.
* Le persone chiave, per intenderci,
sono persone impegnate e con una rete di relazioni, che sanno di cosa ha bisogno la loro community. Solitamente provengono dalla community stessa e si occupano di un tema. Escono dalla propria «bolla» e costruiscono ponti tra gruppi, organizzazioni e comunità. Ad esempio, incoraggiano le persone autorappresentanti di una community a partecipare con le proprie idee e prospettive. Aprono porte e facilitano l’accesso alla società e alla cultura. Perciò, raccontaci del tuo impegno e partecipa al concorso di idee per l’#iniziativavarieta fino al 30 novembre 2024! Il Percento culturale Migros sostiene 15 progetti con contributi da CHF 10’000.– a CHF 50’000.–.
Come partecipare Andate al
SOCIETÀ
Passioni sul lago
Parla il pescatore Germano Valli che a quasi 90 anni continua a percorrere in lungo e in largo il suo Ceresio insieme all’estroso figlio Giorgio
Salute I dolori alle mani a volte non si curano soltanto con le creme: ci sono avvisaglie da non ignorare e in quel caso occorre rivolgersi a uno specialista
Dentro lo smartphone, infinite mappe
Guida dilettevole per il passeggiatore digitale – 4 ◆ Cartine calibrate per ogni uso, anche per scoprire i delitti del Medioevo
Mattia Pelli
Il 12 novembre 2016 a Sulbiate, in provincia di Monza, un giovane appassionato di tecnologie digitali e futuro ingegnere ambientale, inseriva in OpenStreetMaps (OSM) le informazioni sul Municipio, la biblioteca, la scuola e la palestra del suo comune, rendendole disponibili al mondo intero. Un piccolo passo per Sulbiate e per l’umanità, dirà qualcuno. Ma d’altra parte la conoscenza è fatta di tanti piccoli passi, proprio come quello compiuto quel giorno da Lorenzo Stucchi, che insieme a migliaia di altri cartografi volontari come lui, sparsi in tutto il globo, ha contribuito a creare il più grande database geografico mondiale per la creazione di mappe e cartografie (openstreetmap.org), con oltre dieci milioni di utenti. Mettiamo dunque la bussola in un cassetto e ripieghiamo le cartine, care e cari passeggiatori virtuali: per orientarci nel mondo, oggi basta uno smartphone. Sarà anche poco romantico, ma è di certo molto comodo. Torniamo dunque a Sulbiate: da lì al Politecnico di Milano, dove Lorenzo Stucchi ha studiato ingegneria, secondo OSM ci sono 28 Km, da percorrere nell’hinterland milanese ricco di storia, cultura e umanità, ma anche di strade e marciapiedi dissestati. Ne sanno qualcosa le persone
con mobilità ridotta, alle quali il giovane ingegnere ha dedicato un lavoro di ricerca. Con numerose realtà associative del Municipio 9 di Milano ha creato il progetto «Via libera» (progettovialibera4b.wixsite.com), per segnalare i punti critici da modificare per permettere a tutti i cittadini, persone con disabilità motoria, persone anziane, mamme e papà con passeggini, di accedere ai servizi con facilità. Armati di strumenti comuni, come uno smartphone, un’unità GPS, carta e penna, decine di studenti delle scuole superiori hanno esplorato la zona attorno all’ospedale Niguarda. Tutti i dati raccolti sono stati naturalmente caricati su OSM. Nemmeno in Svizzera la situazione è semplice da questo punto di vista: secondo un’inchiesta del 2023 commissionata da Pro Infirmis, una persona con disabilità su tre si sente limitata negli spostamenti, prima di tutto a causa delle barriere architettoniche. Così l’associazione ha messo a punto uno strumento dedicato alla mobilità: una carta interattiva online nella quale fornisce informazioni sull’accessibilità di numerose strutture culturali e turistiche, 160 delle quali in Ticino (proinfirmis.ch/it/offerta/ticino/la-svizzera-priva-di-ostacoli.html).
«Lavorando con gli studenti a progetti legati a OpenStreetMaps ho visto la loro consapevolezza spaziale cambiare», racconta Lorenzo Stucchi, che oggi è coordinatore nazionale per OSM all’interno dell’associazione Wikimedia Italia. E d’altra parte gli strumenti digitali cambiano la nostra percezione del mondo: «In questa nuova era fatta di GPS, Google Earth e mappe digitali multidimensionali, la cartografia è improvvisamente tornata ad essere estremamente rilevante», sostiene Hans-Ulrich Obrist, curatore, critico e storico dell’arte svizzero. Nel 2010 ha dedicato a questo tema una Map Marathon alla Serpentine Gallery, usando le mappe come strumenti per «comprendere la complessità del XXI secolo». Di quell’evento sono rimaste le cartine elaborate per l’occasione da personaggi quali Tim Berners-Lee (l’inventore del web) o l’architetto americano John Baldessari, accessibili dal sito dell’associazione inglese Edge (edge.org/event/edge-serpentine-gallery-maps-for-the-21st-century). Londra, città d’arte ma anche oscura capitale degli omicidi nel Medioevo: la mappa interattiva degli assassinii, delle morti improvvise e delle prigioni della città ci racconta per
esempio che nel 1339 un certo William Malesures, dopo un violento litigio, uccise a colpi di ascia un uomo in Coleman Street. Messa a punto dall’Università di Cambridge, la mappa (https://medievalmurdermap. co.uk/maps/london/) basata su documenti dell’epoca ci indica i luoghi in cui sono avvenuti i delitti e l’arma utilizzata. Per stomaci forti. «Era un ponte strano lungo e storto, a noi pareva brutto ma i forastieri si fermavano a fotografarlo». In un click ci spostiamo da Londra alla decisamente più tranquilla frazione di Roseto (lanostrastoria.ch/entries/EDknO4KDAp2), in Val Bavona, dove sorgeva il ponte descritto da Plinio Martini ne Il fondo del sacco. La Mappa letteraria della Svizzera italiana (www4. ti.ch/decs/dcsu/uapcd/osservatorio/ guida-letteraria/mappa-letteraria) ci consente di scoprire in modo interattivo il legame tra letteratura, autori e autrici e territorio. Elaborata dall’Osservatorio culturale del Cantone Ticino con l’aiuto degli utenti, la cartina online è corredata da altre a contenuto tematico che si possono scaricare, dedicate a temi specifici, tra i quali per esempio una guida alle tombe di uomini illustri o all’amore e i paesaggi letterari. Amo-
re e morte, geografia e memoria. E chi dice territorio, dice anche – ahimè – tasse: il catasto, che è un registro di tutti i beni immobili presenti in una data area geografica, ha lo scopo di stabilire la loro proprietà e quindi anche l’imposizione che il proprietario dovrà sostenere. Uno straordinario esempio storico è il Domesday Book, manoscritto che raccoglie i risultati di un grande censimento completato nel 1086, riguardante la maggior parte dell’Inghilterra e parte del Galles per conto di Guglielmo il Conquistatore. Può essere consultato sotto forma di mappa interattiva online all’indirizzo opendomesday.org. E se invece volete vedere le mappe catastali dei centri storici di Locarno, Bellinzona o Lugano (così come di molti altri comuni ticinesi), sappiate che sono state digitalizzate e sono consultabili online (recuperando.ch/progetti/mappe-catastali-ticinesi-dell-ottocento/). Se però vi capitasse di cercare l’isola di Kokovoko da cui proveniva Queequeg, il fiocinatore tatuato di Moby Dick creato da Melville (en.wikisource.org/wiki/Moby-Dick_(1851)_US_ edition), sappiate che nessuna cartina né GPS vi possono aiutare, perché «Non è segnata su nessuna mappa: i luoghi veri non lo sono mai».
Una mappa onli-
ne del Ceresio, così come si vede su OpenStreetMaps, il più grande database geografico mondiale per la creazione di mappe e cartografie, con oltre dieci milioni di utenti. (openstreetmap.org)
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Imparare la moda nel nuovo polo di Chiasso
Formazione ◆ Fra un mese apre il cantiere che ospiterà i due istituti della Scuola arti e mestieri della sartoria e la Scuola specializzata superiore di abbigliamento e design della moda. Le prospettive di un mondo affascinante sempre in evoluzione
Stefania Hubmann
Fra circa un mese si aprirà a Chiasso il cantiere del nuovo Centro professionale tecnico del settore tessile (CPT) progettato dallo studio di architettura Boltas Bianchi Architetti di Agno. Sono previsti quattro anni di lavori prima di disporre di un polo formativo di riferimento nel contesto territoriale che a livello cantonale ospita la maggior parte delle aziende del settore. A Chiasso si trasferiranno le due scuole SAMS – Scuola arti e mestieri della sartoria, attualmente a Biasca e a Lugano, e la STA – Scuola specializzata superiore di abbigliamento e design della moda, che si trova pure a Lugano. Oltre 250 studenti, alcuni provenienti da fuori cantone, potranno così beneficiare di maggiore coesione e funzionalità nel loro percorso formativo, come pure di una più stretta collaborazione con le ditte operanti nell’ambito della moda. Cosa e chi si cela dietro queste sigle non sempre di immediata comprensione? Di quali tipi di formazione si tratta? In vista della realizzazione del nuovo CPT siamo andati alla scoperta di queste scuole che in Ticino vantano una lunga tradizione.
Partiamo quindi da oltre un secolo fa per trovare le radici della scuola di sartoria. A Biasca si risale alle suore che insegnavano il mestiere alle ragazze nella Casa San Giuseppe. A Lugano la Scuola Professionale Femminile apre nel 1907 per iniziativa della Città che la gestirà fino all’inizio degli anni Novanta quando diventerà cantonale. Le aziende cercano queste nuove figure professionali, tra modellista/designer ed esperto in tecniche digitali
La scuola luganese si è sempre distinta per spirito innovativo e partecipazione a eventi nazionali. Un libro edito per il centenario ne ripercorre lo sviluppo nelle diverse sedi. Nel 1969 nasce la sezione Tecnici dell’abbigliamento (la futura STA), in risposta alla crescita e alla rivoluzione dell’industria dell’abbigliamento con l’avvento del prêt-à-porter. Dal 1981 la scuola accoglie anche i maschi. A Viganello, dove si trova tuttora, la SAMS giunge nel 1995. Negli anni Duemila cresce l’interesse per una formazione che si allarga ad ambiti affini. Gli spazi risultano però sempre più stretti e da oltre dieci anni si cerca una soluzione alternativa che si concretizzerà con il nuovo CPT di Chiasso.
Basta una visita in via Boscioro 5 a Viganello per rendersi conto che l’edificio non è più adeguato allo studio proposto. La Scuola arti e mestieri della sartoria è una formazione di base con riconoscimento federale (Attestato federale di capacità) accessibile dopo la Scuola Media. Richiede capacità manuali, accuratezza e passione per dar vita all’abbigliamento femminile. «Negli ultimi anni gli studenti sono in media oltre cento – spiega il direttore Ferdinando Panelli – suddivisi in due formazioni, quella triennale a tempo pieno o duale (scuola e lavoro) – Creatrici/Creatori d’abbigliamento da donna – e quella biennale per Addette/Addetti alla cucitura. Ogni al-
lieva/o ha bisogno per lavorare di un grande tavolo e di un manichino, ciò che richiede laboratori spaziosi. Disponiamo di apparecchiature all’avanguardia, ma la confezione di un capo d’abbigliamento rimane nel suo insieme un processo artigianale che parte da carta e matita».
La SAMS, che conta circa 40 docenti compresi quelli della STA, offre inoltre la possibilità di conseguire la Maturità professionale artistica seguendo in parallelo i relativi corsi proposti al CSIA (Centro scolastico per le industrie artistiche) situato nelle vicinanze. Qui giungono anche gli studenti con il medesimo obiettivo provenienti dalla SAMS di Biasca, istituto riservato ai domiciliati nel Sopraceneri. Diretto da Davide Pedretti, conta a sua volta quasi un centinaio di iscritti seguiti da oltre venti docenti. Riguardo alle caratteristiche della formazione, il direttore illustra da parte sua come questa professione permetta di «creare dal nulla un prodotto finito, ciò che non accade in quasi nessun altro mestiere». Soddisfazioni che le allieve e gli allievi – questi ultimi presenti nelle due scuole in numero crescente ma ancora molto limitato –possono raccogliere attraverso i progetti sviluppati nei rispettivi istituti.
A Biasca si lavora in prevalenza su progetti interni in spazi ampi e luminosi. «La nostra scuola – aggiunge
Davide Pedretti – è molto attiva nella promozione con porte aperte e stage per permettere ai giovani interessati di meglio capire i contenuti della formazione». Ciò anche per evitare un numero troppo elevato di abbandoni, ancora frequenti dopo il primo anno. Situate in contesti regionali diversi, le due SAMS puntano ognuna su specificità proprie. Gli studenti della scuola di Viganello partecipano con regolarità a progetti esterni. È il caso della sfilata che si è tenuta a inizio ottobre al Teatro sociale di Bellinzona, frutto della collaborazione con l’associazione «Anna dai capelli corti» la quale sostiene le giovani donne colpite da tumore al seno. Dieci abiti realizzati su misura per ogni «Anna» sono stati presentati intercalati da vaporose tuniche con stampata una frase significativa ideata sempre dalle donne colpite dalla malattia. Gli accessori sono invece stati realizzati dalla STA. Per Angela Cacciabue, responsabile della formazione, «il carattere sociale di questo e di altri progetti costituisce una motivazione supplementare per gli allievi e le allieve, arricchiti nell’ambito di una sfilata da aspetti quali il lavoro in team, il rispetto delle tempistiche e la presentazione pubblica». «Il 7 novembre – aggiunge – la SAMS luganese parteciperà con un’altra serie di abiti all’Evento Artigiano 2024 che ha scelto quest’anno il
tessile quale tema portante». Al nuovo polo formativo chiassese si guarda con fiducia anche per questi aspetti. Oltre ad aule e laboratori concepiti ad hoc per soddisfare le esigenze formative, il CPT disporrà infatti degli spazi necessari per organizzare eventi e sfilate al suo interno.
Formarsi anche in inglese
A Biasca Davide Pedretti cita invece quale caratteristica della SAMS il percorso formativo bilingue italiano/ inglese al quale sono iscritte in totale trenta ragazze. «Offriamo questa possibilità da tre anni e quest’anno abbiamo raggiunto il record di venti iscritte al primo anno. Nel settore della moda la lingua inglese è importante e permette di muoversi da un Paese all’altro. A questo proposito va menzionato, oltre agli scambi all’interno della Svizzera, il programma di scambio che abbiamo instaurato con una scuola di Oslo. Si tratta di un progetto che permette alle nostre allieve e ai nostri allievi di recarsi per due settimane in Norvegia. L’indirizzo simile ma non identico delle due scuole favorisce un interessante scambio di competenze. Manualità e precisione sono i nostri punti di forza che entrano in dialogo con gli aspetti legati al logo, al brand e al marketing approfonditi nella scuola di Oslo. In questo modo si offre agli studenti un ulteriore stimolo per passare alla scuola superiore STA, che si concentra sull’aspetto industriale dell’abbigliamento». Il settore è vivo, le richieste da parte del mercato del lavoro esistono, ma – confermano i direttori – la formazione triennale deve essere accompagnata dai due anni di scuola superiore per poter essere competitivi sul mercato del lavoro. Ubicata a Viganello nell’edificio dell’ex Camiceria Lavelli, la STA permette di conseguire il diploma di Tecnica/o diplomata/o SSS di tessile e dell’abbigliamento, moda e tecnologia (TTA). Non essendoci un’analoga formazione nella
Svizzera romanda, è frequentata da diversi studenti di questa regione. Il focus della scuola è l’industrializzazione del prodotto di abbigliamento con una forte valenza pratica, poiché lavora su progetto a stretto contatto con le aziende. «Il corso prevede quattro semestri di formazione a tempo pieno e un semestre di stage presso un’azienda del settore» chiarisce Valeria Gilardi, docente di design del prodotto. «Quest’ultimo periodo è molto importante perché facilita l’inserimento nel mondo del lavoro. Oltre la metà degli studenti viene infatti assunta in itere ». La formazione della STA è altamente specializzata e all’avanguardia. Valeria Gilardi si sofferma sulla digitalizzazione: «La STA ha integrato la progettazione 3D che simula in modo immediato effetti e cadenze dei capi. Le aziende cercano attualmente in prevalenza queste nuove figure professionali, tra modellista/designer ed esperto in tecniche digitali. I nostri studenti possono quindi inserirsi facilmente in azienda ricoprendo posizioni quadro sia a livello produttivo che progettuale». Nell’anno 2024-25 gli studenti sono una quarantina, ripartiti nei due anni di formazione e nel semestre di stage. Quanto ai progetti, la docente cita «le collaborazioni nell’ambito della creazione e della produzione di capi funzionali e simbolici come possono essere la giacca di rappresentanza della squadra HCAP (stagione 2023-24) o, in fase di sviluppo, la nuova divisa di servizio della Federazione Pompieri Ticino». Forti di una lunga tradizione, in Ticino le professioni del settore tessile e dell’abbigliamento oggi restano tali. Il trasferimento di queste scuole nel nuovo polo di Chiasso rappresenta per tutti gli intervistati un’opportunità al fine di ottimizzare le risorse, puntare a migliorare ulteriormente la qualità della formazione, intensificare le collaborazioni con le industrie presenti sul territorio e affrontare le sfide del futuro anche nell’ambito della sostenibilità.
Novità ◆ Migros Ticino ha introdotto tre pregiate varietà di caffè dell’azienda locarnese Carlito Intervista al titolare, Daniele Schillig
Signor Schillig, quando nasce la vostra azienda e quanti collaboratori impiegate?
Caffè Carlito è un’azienda familiare ticinese che produce caffè di alta qualità dal 1965. Fondata da mio padre Carlo Schillig insieme al padre Karl e al fratello Peter, oggi è gestita dalla seconda generazione dal sottoscritto. Grazie a un processo di tostatura artigianale lento e attento, l’azienda è riuscita negli anni a fidelizzare la clientela e a crescere costantemente. Oggi, con oltre 20 collaboratori, Caffè Carlito offre un’ampia gamma di prodotti e servizi, mantenendo inalterata la passione per la tradizione e l’innovazione.
Quali sono i prodotti che offrite e cosa li distingue?
Le nostre miscele sono tutte formate da Arabica e Robusta, in differenti percentuali e provenienze per poter generare un fantastico ventaglio di
sapori. Disponibili in diversi formati (grani, polvere, capsule e cialde). Oltre alle nostre miscele classiche, offriamo anche una vasta gamma di specialità. Si possono pertanto trovare caffè monorigine 100% Arabica, perfetti per gli amanti delle estrazioni alternative come il filtro o l’aeropress, e miscele certificate BIO Suisse e Fairtrade, sia in grani che macinate, per chi cerca un caffè etico e sostenibile.
Chi sono i vostri clienti ideali?
I nostri clienti ideali sono amanti del caffè che apprezzano la qualità e l’artigianalità, che cercano un prodotto unico, tostato con cura e passione, e sono sensibili ai temi della sostenibilità. Sono persone che riconoscono il valore di un caffè biologico, Fair Trade e di alta qualità, sono curiose e informate, apprezzano la complessità e la varietà dei caffè monorigine e sono disposte a sperimentare nuove miscele. Sono persone che cercano un’esperienza sensoriale completa e un rapporto di fiducia con il loro torrefattore.
Da dove proviene la materia prima?
La nostra firma è l’artigianalità e si esprime attraverso la minuziosa selezione dei chicchi di caffè, raccolti con cura da regioni diverse e distinte in tutto il mondo. Questi comprendono regioni come il Sud/Centro America principalmente per quanto riguarda il caffè Arabica - Brasile,
Perù, Costa Rica, Venezuela ed altri -; Africa e Asia per quanto riguarda la Robusta - Indonesia, India ed altri ancora. Abbiamo cura della materia prima, per la quale prevediamo una tostatura lenta e ponderata, un metodo che rispetta e conserva le qualità intrinseche di ogni singolo chicco. Qual è il processo di lavorazione?
Come già detto, il nostro caffè è frutto di una tostatura lenta e attenta. Ogni singolo chicco è riscaldato gradualmente fino a raggiungere la temperatura perfetta per sviluppare al massimo il suo aroma. Successivamente, lasciamo riposare i chicchi per alcuni giorni al fine di esaltare ulteriormente le note gustative. Questo processo, totalmente ma-
nuale e lontano dalle alte temperature tipiche della produzione industriale, garantisce un caffè di qualità superiore. Infine, le nostre miscele vengono accuratamente confezionate e subito inviate ai nostri clienti.
Come vi ponete rispetto alla sostenibilità? Dalla piantagione alla tazzina,
Caffè Carlito Aroma in grani 250 g Fr. 4.95
Caffè Carlito Espresso Crema 250 g Fr. 4.95
Caffè Carlito Mocca 250 g Fr. 4.95
Daniele Schillig
Titolare della Caffè Carlito di Losone
La nostra più grande sfida è quella di rendere la produzione del caffè sempre più sostenibile, rispettando l’ambiente e le persone coinvolte in tutta la filiera. Crediamo fermamente che questa
Consigli per la preparazione di un buon caffè
Per preparare un espresso perfetto anche a casa, ecco alcuni semplici consigli da parte di Daniele Schillig:
Macinatura
Utilizza un macinacaffè per ottenere una macinatura fine e omogenea, simile alla grana dello zucchero semolato.
Dosaggio
La dose ideale è di circa 7-8 grammi di caffè per una tazzina.
Pressatura
Pressa il caffè nel portafiltro in modo uniforme con un peso tra i 15 ed i 20 kg.
Temperatura dell’acqua
L’acqua deve essere calda ma non bollente, intorno ai 90°C.
Tempo di estrazione
L’estrazione ideale dura tra i 25 e i 30 secondi.
Pulizia
Pulisci regolarmente la tua macchina da caffè per mantenere la qualità del caffè.
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Nelle foto: alcune fasi della produzione del pregiato caffè Carlito. (Flavia Leuenberger)
Porticine apritevi!
Scopri i nostri calendari dell’Avvento, tanto belli quanto diversi
Gente «nata in barca» tra le sponde del Ceresio
La testimonianza ◆ A tu per tu con Germano Valli di Riva San Vitale (quasi 90 anni) esperto di pesca con le reti sempre a fianco dell’estroso figlio Giorgio che si diletta pure di musica, arte e gastronomia
Raimondo Locatelli
Fra la sparuta (dal profilo numerico) categoria di pescatori con reti sul Ceresio figurano i Valli, padre (Germano) e figlio (Giorgio). Il primo ha ormai 90 anni essendo nato a Capolago il 25 gennaio 1935 e vive a Riva San Vitale, il secondo (classe 1963) risiede ad Odogno. Almeno 2-3 volte per settimana solcano il Ceresio pescando con reti. Germano oggi non è più, dal profilo formale, titolare di una patente siccome è «accompagnatore» del figlio, ma in realtà ha un «pedrigree» di straordinario, ineguagliabile passato (e presente) in fatto di pesca «professionale». Benché sia il più longevo sui due bacini subalpini e… giovanile sia mentalmente che nella prestanza, non è certo una comparsa: un autentico, testardo ed appassionato protagonista nel guidare l’imbarcazione (il figlio Giorgio invece sta a prua) destreggiandosi fra correnti ed attrezzi del mestiere con una disinvolta familiarità nell’aiutare a posare le reti la sera e recuperarle il mattino, ma soprattutto nell’estrarre (e non è sempre facile) dalle maglie i pesci, primeggiando nel filettare, affumicare e conservare alcune specie.
Il nonno contrabbandiere arrivato a Capolago nel 1880
Una famiglia dall’attività alieutica nel Dna. «Il nonno Galileo, arrivato a Capolago da Lezzeno sul Lario nel 1880 ove lavorava il legname e pescava con le reti, era anche contrabbandiere di caffè e tabacco da una riva all’altra del lago». Quest’ultima attività lo aveva costretto ad emigrare per sottrarsi alle grinfie della giustizia, gestendo sulle rive del Ceresio una masseria e una piccola osteria. Come lui, altre famiglie si erano sparpagliate in villaggi sul Ceresio, tutte con una notevole figliolanza: il nonno, ad esempio, ha avuto 13 figli (di cui 10 maschi), in buona parte (8) nati in Ticino. E nelle nostre terre, lui come altri, ha continuato a pescare sullo specchio d’acqua tra Melide e Morcote, nonché trafficando tabacco nella zona di Porlezza, mentre i cavalli gli servivano per trasportare nel Milanese legname dei boschi del basso Mendrisiotto. «Oltre l’80% del pescato era smerciato in ristoranti e grotti, ma tanto pesce ritirato dal “pesatt”, un certo Pigazzini, che lo vendeva nella regione momo. Molte le alborelle messe a seccare. Negli anni 50, in una rete “varionera” in barca, ci si è ritrovati con ben 113 chili di alborelle!»; negli anni 60, il lago brulicava pure di agoni venduti freschi, oppure fatti essiccare e poi pressati nel sale in un contenitore di latta per renderli “missultit”», fortemente apprezzati dal profilo culinario.
Il ricordo di papà Umberto e il lavoro sul Generoso
sciuto a Capolago, con un garage e una famiglia di quattro figli, compreso il «nostro» Germano, tant’è che –secondo una poesiola del figlio Giorgio e Claudia per l’80° compleanno – «Umberto e Giulia l’hanno creato / in una barca è quasi nato / e tra pesca e masseria / temp par giugà ga n’era mia». «Mio padre acquistava reti di cotone, da pulire ogni due settimane usando schiuma di sapone mischiata a “bulla di castagne” per eliminare una sorta di colla appiccicata quando i pesci rimanevano imprigionati fra le maglie della rete. Oltre a lucci e tinche, pure presenti in abbondanza, con la “cavedanera” si catturavano in buon numero trote e cavedani. Nella zona di Bissone, con l’amico Renato Rezzonico usavo la “spaderna” con circa 250 ami per pescare anguille vendute a Lugano, ma in discreto numero finivano pure al mercato di Losanna».
Dopo le elementari e le maggiori a Capolago e Riva San Vitale e il tirocinio di meccanico e due anni oltre San Gottardo, Germano è stato assunto dalla ferrovia del Monte Generoso. «Al Generoso ho conosciuto colei che diverrà poi mia moglie, Giuseppina Padrun, engadinese e pittrice per diletto, che lavorava in cima al monte da cameriera». Dopo un lustro – con l’arrivo del primo figlio Alberto – ha aperto un garage a Capolago e più tardi una carrozzeria, e ciò sino a 70 anni, cedendo tutto a figlio e nipoti. Nel 1964, morto il padre, col «numero chiuso» nel conseguimento della patente, nato il figlio Giorgio, si è visto costretto a smettere con le reti.
Le «mitiche alborelle» e il Ceresio malato
«Da ragazzo e sino alla morte del padre, ho pescato con foga, passione, entusiasmo, in modo irrefrenabile. Dopo la giornata dapprima in scuola e poi al lavoro, la sera si usciva in barca per calare le reti. Il pesce era per me un’attrazione fatale e soprattutto quotidiana, con… montagne di mitiche alborelle che pullulavano nel lago ed erano “divorate” fritte dalla nostra gente ma specialmente da turisti nei grotti e in osterie. Non solo questi lucenti pesciolini, ma anche il coregone, il persico e il salmerino, dall’agone al perca e al luccio, dalla trota alla carpa, dalla tinca al cavedano, ecc.». A partire dagli anni Sessanta, il Ceresio si è mostrato vieppiù malato e sudicio a causa dell’inquinamento e il conseguente fosforo che soffocava i pesci: ma sono rimaste clamorosamente inascoltate svariate e pressanti oltre che clamorose denunce anche a livello politico. Nel 1986, la tragedia di Chernobyl, con la scomparsa totale dell’alborella, l’apparizione (sempre più invasiva) del gardon e la conseguente… invasione del cormorano, lo scombussolamento generale fra alcune specie ittiche.
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)
Simona Sala
Barbara Manzoni
Manuela Mazzi
Romina Borla
Ivan Leoni
Per almeno una ventina d’anni salmerini a iosa a Sils sul Maloja Sicché, Germano Valli ha quasi trascurato i fondali del «suo» lago per dedicarsi alla pesca con canna in fiumi e torrenti, in ogni valle, specialmente in Vallemaggia. «Portavo in auto con me i figli e la moglie. Si partiva alle 5 ritornando verso le 9 a lavorare in garage. Ho acquistato un camper per facilitare le trasferte, cominciando a frequentare assiduamente l’Engadina, in particolare il lago di Sils, al Maloja: «Una pacchia poiché si riusciva a catturare 20 salmerini il mattino ed altrettanti nel pomeriggio, ma anche trote. Dapprima, ospiti di una famiglia diventata amica per la pelle, poi il camper si è rivelato comodissimo, partecipando persino con successo a gare di pesca. Per oltre vent’anni d’estate siamo andati al Maloja, da giugno a settembre, con frequenti soggiorni e pescate a non finire». Non a caso, la citata poesia recita: «Da Capolago a Maloja / lui sul lago mai si annoia / ma da quando Germano è in pensione / la pesca è la sua religione… / Tutti sanno della sua amante / il suo passatempo più importante / il suo nome è Mariella / tra tutte le barche la più bella».
In barca con il freddo senza scarpe e calze
Ma la pesca sul Ceresio, in barca e con le reti, ha riavuto il sopravvento. Ricominciando – in presenza di acque un po’ migliori – con il figlio Giorgio nel 2009, con la licenza di pesca da professionista. Il padre nel ruolo di addetto alle manovre dell’imbarcazione e di «accompagnatore» del figlio, «in toto» immerso in questo… mestiere, con un suo inconfon-
Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano
dibile «marchio» nell’abbigliamento: la giacca impermeabile quando tira il vento o piove, un paio di ciabatte (tipo infradito) oppure stivali, ma di frequente anche a piedi nudi e comunque senza calze «sino alla temperatura di 5 gradi». Eppure, «non ho mai preso neppure un raffreddore, ed era stato così anche mio padre».
Reti su un fronte di 1000 metri e le carpe assai ricercate
Giorgio Valli, da par suo, è personaggio noto nelle nostre contrade ma anche oltre San Gottardo. Anch’egli singolare, poiché a volte te lo trovi dinanzi a piedi scalzi e sempre con il tipico cappello nero e la fascia rossa in testa, quasi un mix tra menestrello e clown, di un’empatia disarmante, con doti di scultore e pittore, musicista e cantante. Con la moglie Claudia Klinzing fondatori e «primi attori» de «I Tacalà», gruppo musicale presente a molti raduni festosi d’ogni genere. Una persona dai mille interessi, tant’è che Giorgio Valli con la consorte (pure musicista) – residenti prima a Bogno e ora a Pregiardin sopra Odogno – ha ricevuto un ambito riconoscimento da Slow Food, la «Chiocciola 2024», per la dedizione alla cucina sana e genuina, organizzando corsi sulle erbe selvatiche e lezioni di cucina, a favore di un cibo di qualità e in armonia con la natura e per l’ambiente. Come è, appunto, anche il pesce di lago, naturale, sano, saporito, variato e a chilometro zero. Passione per la pesca che hanno trasmesso al figlio Jora, ventinovenne, che si diletta con la canna in Ticino e in Engadina: per nonno Germano, «è un fenomeno avendo catturato in un sol giorno oltre 60 chili di lucci sul Verbano e, anzi, rientra fra i migliori lenzisti in Svizzera». Racconta il… vegliardo. «Operiamo tra Meli-
de-Maroggia-Bissone, qualche volta oltre il ponte-diga. Posa delle reti in serata e recupero il giorno dopo quasi all’alba. Usciamo un centinaio di volte all’anno, ossia circa tre volte a settimana, impiegando sia reti da fondo che reti galleggianti di ogni misura. Le galleggianti posate arrivano anche a 1000 metri per la cattura di coregoni e trote lacustri. Due-tre anni fa, c’erano molti sander, l’anno scorso una più che discreta quantità di persici. Sull’arco dell’anno, circa 4000 chili rispetto ai 1’000 kg imposti dal regolamento di pesca per mestiere. Si tratta soprattutto di gardon, utile per l’apprezzato fritto misto, ma anche delizioso se leggermente infarinato e profumato con salvia e rosmarino, oppure marinato in salamoia con limone, olio ed erbette. Il mio record per la trota è di 9,4 chili, pescata l’anno passato». Molte, soggiunge questo autentico lupo di… lago, le carpe, come quella tratta in barca sempre l’anno passato e del peso di 25 chili. Nel 2023 il duo Valli ha avuto la fortuna di pescare in un sol giorno 60 chili di carpe: «Filettarle, e ciò vale pure per le tinche, non è per niente un gioco da bambini, ma sono pesci, specialmente le carpe, di notevole interesse dal profilo gastronomico».
Smercio senza alcun problema e ricette da leccarsi i… baffi
Nessun problema per lo smercio del pesce, potendolo fornire a ristoratori, scuole e privati, anche attraverso reti come la ConProBio, prodigandosi nella valorizzazione del pesce indigeno. Padre e figlio, rientrati con la o le ceste di pesce catturato, si trasferiscono a Melano, ove in un box che funge da laboratorio provvedono ad eviscerazione, filettatura, lavorazione o congelazione sotto vuoto, o ancora l’affumicatura, a seconda del tipo di prodotto, delle richieste di mercato e della sua destinazione. «Si lavora quasi a catena: Giorgio provvede ad incidere il pesce e a ripulirlo dalle viscere, mentre a me tocca il compito di filettare, con un gran mal di schiena! Mi occupo pure di affumicatura di filetti di carpa e tinca, apprezzati dalla nostra vasta clientela e da consumare entro un mesetto: non ce n’è mai abbastanza per soddisfare il palato dei buongustai». Ogni pesce si presta a molte, deliziose ricette: agoni in carpione «in base ad una ricetta di mia madre», oppure preparazione del coregone dopo essere stato filettato o quindi arrostito con olio per poi essere messo a bollire nell’aceto assieme a diverse verdure, in primis sedano, carote e cipolle triturati. Una leccornia anche il lucioperca in carpione in base ad una vecchia ricetta di Capolago con spezie e verdure tagliate, ma pure il gardon marinato, il paté di pesce, il marinato all’aglio orsino, ecc. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. E buon appetito!
Editore e amministrazione
Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850
Germano Valli non demorde, all’alba dei novant’anni continua a solcare il suo amato lago in veste di pescatore. (Foto Valli)
Facciamo la felicità dei fan delle decorazioni
9.95 Portalumino
13,3 cm, con motivo fiocco di neve, il pezzo
5.95 Candela cilindrica 10 cm, disponibile in blu ghiaccio, il pezzo
69.95 Coperta in pelliccia sintetica
130 x 150 cm, disponibile in color crema, il pezzo
14.95 Piatto portacandele Ø 30 cm, il pezzo
9.95 Abete di ceramica con LED 16.5 cm, bianco caldo, alimentazione a pila, il pezzo
Dolori alle mani: cosa possiamo fare?
Salute ◆ Il primo passo consigliato è una diagnosi per chiarire l’origine reumatologica degenerativa o infiammatoria
Maria Grazia Buletti
Secondo la definizione della Lega ticinese contro i reumatismi «la mano è il coltellino svizzero dell’evoluzione umana: uno strumento geniale e multifunzionale». Non ci si pensa mai abbastanza, ma la sua struttura è complessa per assicurare la cosiddetta motricità fine. Mentre la forza per afferrare, stringere, premere, ruotare, tirare e pizzicare proviene essenzialmente dall’avambraccio: «Lunghi tendini trasmettono il movimento e la forza dell’avambraccio sino alla punta delle dita». Senza dimenticare il pollice opponibile alle altre dita che consente la cosiddetta presa di precisione (o presa a pinza), quando il pollice si oppone all’indice. «Le mani sono i nostri utensili più importanti, tanto nel lavoro quanto nel tempo libero e nella vita di tutti i giorni. Prendete assolutamente sul serio i dolori alle mani!». Pure l’esortazione della Lega svizzera contro i reumatismi porta l’attenzione sulla salute delle nostre mani della quale non ci curiamo sinché qualcosa non funziona e sentiamo dolore alle dita, al pollice o al polso, e magari notiamo pure una limitata mobilità. A questo proposito, il reumatologo Nicola Keller (già presidente della Lega ticinese contro il reumatismo) ci aiuterà nel comprendere se i dolori alle mani sono di tipo reumatico. «Innanzitutto, a parte le patologie articolari, le mani possono essere interessate da problemi tendinei (ad esempio il pollice a scatto per infiammazione della guaina tendinea dei tendini flessori), o tendiniti provocate da sollecitazioni meccaniche. Vi sono le patologie neurologiche, come il tunnel carpale con disturbi alla sensibilità della mano, dolori che si irradiano all’avambraccio a causa della compressione del nervo mediano a livello del polso». Ad ogni modo: «Qualsiasi tipo di dolore che rientra nelle patologie reumatologiche merita un’indagine per distinguere se è di natura degenerativa o infiammatoria». Questa la ragione per cui la persona che inizia a lamentare dolore alle mani «può e deve rivolgersi al medico», onde scoprirne esattamente le cause e prevenire danni che potrebbe-
Viale dei ciliegi
Ai primi dolori le cure casalinghe con creme e pomate non sempre si rivelano efficaci. Allora è meglio passare dal medico e cercare uno specialista. (Freepik)
ro rivelarsi permanenti. Naturalmente, la prima raccomandazione è quella di «scaricare» le articolazioni delle dita e delle mani, proteggendole nell’adottare comportamenti consoni che convergono sempre nella prevenzione: con uno stile di vita sano (alimentazione corretta, niente fumo, movimento adeguato all’età e via dicendo).
Ma, spiega lo specialista, è importante consultare il medico: «Qualora i dolori alle mani persistano oltre due settimane di trattamento con rimedi casalinghi come, ad esempio, pomate e impacchi dall’effetto rinfrescante, lenitivo e antinfiammatorio». Rimedi dei primi giorni a cui, secondo l’opuscolo informativo della Lega ticinese contro il reumatismo, si può aggiungere anche un «bagno di lenticchie secche fredde», al fine di ridurre i processi infiammatori.
Lo specialista da coinvolgere
Se i dolori persistono il primo interlocutore è il proprio medico di fami-
glia che deciderà se coinvolgere poi uno specialista, come il reumatologo, il chirurgo della mano o un terapista specializzato (ergoterapista), a dipendenza dell’anamnesi, della clinica e dei risultati degli esami eseguiti (laboratorio e radiologia). Nella diagnosi, dicevamo che il primo distinguo riguarda i disturbi che possono essere di origine degenerativa o infiammatoria: «In genere, la differenza tra degenerativo e infiammatorio si gioca inizialmente sul fatto che la rigidità dovuta all’artrosi (degenerativa) è di breve durata (quando mi alzo al mattino e muovo le mani il dolore passa abbastanza velocemente), mentre se la rigidità perdura per ore possiamo già pensare a una vera e propria artrite (infiammatoria)». Queste le basi che pone Keller nell’approfondire le due possibili cause. Ciò premesso, «l’artrosi è la causa più frequente di dolori alle mani e porta a pensare a un processo degenerativo e doloroso a carico delle articolazioni; parliamo di poli-artrosi delle dita quando sono interessate più articolazioni». Il rischio dell’insorgen-
● Serge Bloch-Nicolas Hubesch Zouk. Piccola strega dal cuore grande Terre di Mezzo (Da 6 anni)
Lei è Zouk, e come dice il titolo del primo volume della serie che da quest’anno Terre di Mezzo sta pubblicando in italiano, è una piccola strega dal cuore grande. Abita in una piccolissima casetta streghesca incastrata tra i grattacieli di una metropoli come tante, ma la sua casetta non è «come tante», è proprio questa casetta a costituire l’elemento architettonicamente straniante nell’illustrazione che raffigura la città, alludendo sin dall’inizio a quel magico nel quotidiano che costituisce la modalità con cui l’infanzia abita il mondo. Zouk è una bambina adorabile, come tutte le bambine. Ha una mamma e un papà. Una famiglia come tante. «Be’...quasi!» Sta in quel quasi la forza di queste storie (peraltro caso editoriale da 200mila copie vendute): Zouk va a scuola, gioca con gli amici, va in gita, aspetta Babbo Natale, vive situazioni in cui i bambini possono identificarsi, però lei è una strega, lei è ma-
gica. E così, con la sua bacchetta e le sue formule, può combattere le ingiustizie, aiutare chi ha bisogno, occuparsi degli animali in difficoltà, fare qualcosa per salvare il pianeta. Tuttavia i bambini non l’avvertiranno come un’eroina irraggiungibile, perché Zouk è ancora inesperta, proprio come loro, e non tutti i suoi incantesimi andranno a segno. Oppure lei stessa commetterà qualche guaio. E, pur avendo un cuore grande, a volte sarà distratta, o inadempiente, come quando le sue magie faranno grandi cose, come spegnere macchine inquinanti e fermare enormi spre-
chi, ma dimenticherà «di fare attenzione a casa mia...». Questo mix di poteri magici e imperfezione rende Zouk un personaggio nei confronti del quale i piccoli lettori e le piccole lettrici non potranno che provare simpatia. Altri punti di forza di questa serie sono la compresenza in ogni volume di tante storie, che si prestano sia alla lettura ad alta voce da parte dell’adulto, sia alla lettura autonoma dei lettori principianti, perché sono scritte in stampatello maiuscolo e i testi, brevi, chiari, umoristici, sono intervallati dalle illustrazioni, tanto che la narrazione procede a pari misura grazie alle parole di Serge Bloch e alle immagini di Nicolas Hubesch. Bloch e Hubesch pubblicano le storie di Zouk nell’originale francese dalle Edizioni Bayard, che ha varato la serie nel 2016. E ora Zouk è anche cartone animato su Cartoonito. Finora in italiano sono usciti Piccola strega dal cuore grande e Piovono magie a scuola, e aspettiamo di vedere cosa combinerà la streghetta, coadiuvata dai suoi amici Zucca (una zucca) e Amleto (un gatto), nei prossimi volumi.
lezza dei legamenti, destabilizzando l’articolazione». Fra le malattie infiammatorie della mano, l’artrite reumatoide risulta la forma più diffusa: «Colpisce l’1% circa della popolazione nella quale il 70% sono donne, e si manifesta in genere in modo simmetrico nelle due mani, soprattutto nelle piccole articolazioni delle dita». Fra i sintomi tipici, Keller cita la rigidità mattutina delle dita, i dolori e l’impotenza funzionale. «Se questa malattia non viene diagnosticata e quindi trattata in modo adeguato le infiammazioni articolari possono distruggere nell’arco di pochi mesi le articolazioni, con conseguenti danni gravi ed irreversibili». Bisogna perciò porre particolare attenzione ai sintomi: «L’articolazione colpita si gonfia, si surriscalda, duole e si muove meno».
za di questa malattia degenerativa aumenta con l’età. «Una persona su tre sopra i 50 anni, soprattutto se donna, può sviluppare una poli-artrosi delle dita, a causa della perdita graduale del tessuto cartilagineo (ndr: preposto a rendere fluido il movimento articolare attutendo urti e pressione) per cui le ossa sfregano una contro l’altra provocando dolori nel movimento, rigidità articolare e talvolta escrescenze ossee, tanto più forti se la malattia è in uno stadio avanzato». Non si può prevenire la sua insorgenza per familiarità (fattore predisponente), ma si può fare qualcosa per proteggere l’usura delle articolazioni: «Le persone sedentarie sono molto più soggette ad artrosi rispetto a chi si muove spesso. Non è per contro possibile prevenirne l’insorgenza se questa si sviluppa da una precedente lesione articolare come una frattura ossea». La forma di artrosi più frequente riguarda la base del pollice (rizo-artrosi) e colpisce prevalentemente le donne. «Si presume che i cambiamenti ormonali della menopausa inducano una maggiore debo-
Un accenno, ancora, all’artrite psoriasica. «Si tratta di una malattia sistemica, associata alla psoriasi (caratterizzata da alterazioni cutanee tipiche, con una pelle squamata, a volte con coinvolgimento delle unghie), che colpisce le articolazioni periferiche, le articolazioni della colonna, così come le inserzioni tendinee (entesi). Spesso vengono coinvolte le articolazioni delle mani in modo asimmetrico, al contrario dell’artrite reumatoide». Altre manifestazioni infiammatorie delle mani possono essere dovute alle artropatie microcristalline: «Alla gotta (artropatia molto dolorosa, riconducibile a depositi di cristalli di acido urico) o alla pseudogotta (dovuta a depositi di pirofosfato di calcio)», sulle quali non ci dilungheremo, a favore di un promemoria che invita a non trascurare i segnali d’allarme perché, ribadisce il medico, «se non trattati, i disturbi possono causare limitazioni della mobilità e disabilità». Dunque, è importante chiarire subito l’origine di questi dolori, consultare un medico se persistono oltre i 14 giorni di trattamento con rimedi casalinghi e, in caso di diagnosi, aderire a una presa a carico adeguata e personalizzata alla patologia riscontrata, con farmaci prescritti dallo specialista, ed eventualmente fisioterapia ed ergoterapia.
Marco Viale
Irma la strega
Feltrinelli Kids, collana I Bruchi (Da 6-7 anni)
Un’altra strega è la protagonista di questo libro, una strega adulta, stavolta, alle prese con la frustrazione di essere considerata dalla società ormai roba passata, una vecchietta che non interessa a nessuno, mica come i cuochi stellati, gli influencer, i calciatori, gli attori. La collana dal bel titolo «I Bruchi», rivolta a «lettori che metteranno le ali», propone storie riccamente illustrate a colori e scritte in stampatello maiuscolo, per le primissime letture, o minuscolo, per chi già è un pochino più esperto, e a questi ultimi è rivolta l’avventura di Irma, una vicenda vivace e semplice, ma con la possibilità di un livello ulteriore di riflessione, e cioè: avere successo rende davvero felici? Quanto è importante ascoltarsi davvero, e fare ciò che ci fa stare bene? Irma è depressa, vorrebbe cambiare vita, farsi notare, e il cambiamento si innescherà quando reagirà di fronte a un prepotente che alla cassa del supermercato le dice «spostati nonnetta». Una strega arrabbiata è capace di tutto, e si farà notare persino troppo! Diventerà famosa, di tendenza, alla moda, ricercata in ogni ambiente, presente su tutti i media. Però... però... che nostalgia le tranquille serate con Cocò, orco timido e bravo cuoco, Waldy vampiro pauroso, Bob licantropo stonato, Genny la mummia e tutti gli altri strampalati e sbrindellati amici... Nella caratterizzazione di questa combriccola di scalcagnati mostri, Marco Viale, illustratore e autore, è particolarmente efficace, e riesce a condurre i lettori verso un allegro e confortante finale.
di Letizia
Bolzani
3.50
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5.95
4.90
3.70
Sciroppo Magia di bacche
Biberli ripieno Petit
Cupcake ai lamponi
Ora anche al tartufo
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ATTUALITÀ
Ue, giro di vite sui migranti L’estrema destra avanza e fa sentire la sua voce. Qual è la posizione della Svizzera?
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Intervista ad Albert Rösti
Il ministro è favorevole al potenziamento delle strade nazionali elvetiche, ecco perché
Pagina 18
Trump divide la religione
Reportage da Salt Lake City, dove la chiesa mormone guarda con sempre più simpatia ai democratici
Pagina 19
Negoziati Svizzera-Ue: lo sprint finale
Focus sul Bangladesh Lo spettro dell’internazionale del terrore crea preoccupazioni in tutta l’area geopolitica
Pagina 20
Diplomazia ◆ Restano insidiosi nodi da sciogliere, primo fra tutti quello legato all’accordo sulla libera circolazione delle persone
Ci siamo, quasi. O forse no. I negoziati tra Svizzera e Unione europea per la definizione delle relazioni bilaterali del futuro sono giunti in dirittura d’arrivo. Per quanto riguarda la tempistica sembra esserci un obiettivo condiviso: riuscire a firmare questi nuovi accordi entro la fine dell’anno in corso. E c’è persino l’ipotesi di una data, il 18 dicembre, giorno in cui le due presidenti, Viola Amherd e Ursula von der Leyen, potrebbero apporre il loro sigillo a questa nuova intesa. «Dopo più di 120 incontri a livello tecnico, siamo arrivati all’ultimo miglio», ha fatto notare di recente Maros Sefcovic, il commissario europeo responsabile delle relazioni con il nostro Paese. Ma il problema sta proprio in questo ultimo miglio, che appare, se possibile, ancor più insidioso di quanto non lo siano state le trattative fin qui condotte tra Berna e Bruxelles. Al tal punto che, sul fronte interno, manca persino una definizione, o un titolo, capaci di fare l’unanimità per qualificare questi nuovi accordi. Insomma non si sa nemmeno come chiamarli.
C’è persino l’ipotesi di una data, il 18 dicembre, giorno in cui si potrebbe apporre il sigillo a questa nuova intesa
Il Consiglio federale utilizza l’espressione «approccio a pacchetto», per dire, in burocratese stretto, che le trattative in corso portano su un ventaglio di tematiche e che al centro di questi negoziati non ci sono soltanto le questioni istituzionali, una delle zavorre che aveva fatto colare a picco il cosiddetto «accordo quadro», naufragato ormai tre anni e mezzo fa per volere dello stesso Consiglio federale. Non per nulla i negoziati sono stati estesi anche ad ambiti finora esclusi dai bilaterali, come ad esempio il settore dell’energia, della sanità pubblica e della sicurezza alimentare. Un «pacchetto» che prevede anche il ritorno a pieno titolo del nostro Paese nei programmi con cui l’Ue dà forma alla propria ricerca scientifica. Ambiti in cui la Svizzera ha interesse, sempre secondo il Governo, a muoversi in sintonia con l’Unione per poter accedere in modo agevolato al mercato unico europeo. L’accordo in ambito energetico, ad esempio, è visto da più parti come una sorta di assicurazione per evitare il rischio di black out elettrici in terra elvetica. L’UDC, invece, usa ad ogni piè sospinto l’espressione «accordo coloniale», per i contenuti istituzionali che esso porta con sé, con la Svizzera che a detta dei democentristi si dovrà sempre adeguare alla legislazione europea, con il rischio di subi-
re delle ritorsioni se dovesse decidere di non farlo. L’aggettivo «coloniale» piace molto ai democentristi, del resto lo avevano già utilizzato nel 1992, quando l’UDC riuscì ad affossare l’adesione allo Spazio economico europeo. Il mondo sindacale, tuttora contrario a questi nuovi accordi, non fa uso di una definizione precisa, a suo dire si tratta di un patto che al momento tiene conto soprattutto degli interessi della grande industria esportatrice. Con il rischio di dover indebolire le condizioni di lavoro in Svizzera. Coloro, infine, che vedono di buon occhio queste trattative, puntano sull’espressione «accordi di stabilizzazione». Si tratta infatti di consolidare la via bilaterale, iniziata ormai 25 anni fa. Non per nulla proprio questo fronte utilizza volentieri anche l’espressione «Bilaterali 3», da intendere come una versione rivista e ampliata rispetto agli accordi tuttora in vigore. Una posizione simile a quella del Consiglio federale. Governo che il prossimo mercoledì, 6 novembre, ha previsto una riunione ad hoc per stilare un bilancio dei negoziati in corso e per capire se si
possa davvero mettere mano a penna e calamaio per firmare questi accordi. Dai nostri ministri al momento trapela poco o nulla.
Pochi giorni fa la presidente della Confederazione Viola Amherd, davanti alla stampa estera a Berna, si era espressa in termini positivi. «Personalmente sono ottimista», ha affermato la ministra vallesana, anche se restano ancora dei nodi cruciali da sciogliere.
Il 6 novembre il Consiglio federale ha previsto una riunione ad hoc per stilare un bilancio dei negoziati in corso
Primo fra tutti quello legato all’accordo sulla libera circolazione delle persone, e all’arrivo in Svizzera di forza lavoro europea. Politicamente è uno dei dossier più incandescenti, lo è di fatto da almeno 25 anni, anche perché stretto a tenaglia dall’opposizione di UDC e sindacati. Una sorta di vicolo cieco. Per uscirne, in questi ultimi mesi è stata ventilata l’ipotesi di una clausola di salvaguardia, un freno che
il nostro Paese potrebbe far scattare a partire da una determinata soglia di immigrati europei. Facile a dirsi, ma molto complicato a farsi, anche perché si tratta di creare delle eccezioni alla libera circolazione delle persone, principio che l’Ue considera uno dei pilastri centrali della propria impalcatura comunitaria.
Su questo punto la rivendicazione svizzera è «un passo di troppo», come ha già fatto notare la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Per Viola Amherd ci potrebbe essere uno spiraglio, nel tentativo di cesellare una versione «svizzero-compatibile» della libera circolazione. E qui va ricordato che all’articolo 14 dell’accordo sulla libera circolazione è previsto che «in caso di gravi difficoltà di ordine economico o sociale» una delle due parti contraenti può chiedere di «esaminare le misure adeguate per porre rimedio alla situazione». Un articolo su cui il Consiglio federale non ha mai voluto far leva in tutti questi anni e che richiama il principio stesso della clausola di salvaguardia. Ma al di là dei negoziati in corso, il Governo è chiamato a dire la sua anche su un altro
tema scottante, e qui si tratta di un tema di politica interna. L’interrogativo riguarda il futuro verdetto delle urne. Per avvallare definitivamente questi nuovi accordi ci vorrà la doppia maggioranza di Popolo e Cantoni o basterà la maggioranza semplice dei cittadini? Argomento divisivo, a tal punto che è stata anche lanciata un’iniziativa popolare, chiamata Bussola, che mira a introdurre l’obbligo del referendum obbligatorio, e quindi della doppia maggioranza, quando si tratta di decidere il destino di trattati internazionali.
In ogni caso le prossime settimane ci diranno se il Governo sarà davvero in grado di trovare le risposte necessarie per giungere ad una firma di questi accordi. La pressione è davvero alta, in particolare su Ignazio Cassis. Il nostro ministro degli esteri è in carica dal 2017, sette anni in cui sul fronte europeo si è finora concretizzato ben poco. Un primo tentativo, quello dell’accordo istituzionale, era andato a vuoto tre anni fa. Ora siamo agli esami di riparazione, che ci diranno se sulla pagella europea del ministro ticinese ci sarà una nota perlomeno sufficiente.
Keystone
Roberto Porta
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Unione europea: la stretta sui migranti
Prospettive ◆ L’avanzata delle formazioni di estrema destra ha delle conseguenze precise. Qual è l’atteggiamento della Svizzera?
Marzio Rigonalli
Un nuovo corso, caratterizzato da una serie di misure restrittive in materia migratoria, sta diffondendosi in Europa. Numerosi Paesi tentano di far fronte ai problemi che pone la migrazione facendo scelte che ancora ieri trovavano ben poco spazio sulla scena politica. L’Italia, per esempio, ha concluso un accordo con l’Albania che le consente di svolgere le procedure d’asilo sul suolo albanese per le persone intercettate e soccorse nel Mediterraneo. L’applicazione dell’accordo è però stata subito fermata dall’intervento della giustizia italiana. Con la nuova intesa, il Governo di Roma tenta di bloccare, o perlomeno di rallentare, l’accesso all’Europa a vari cittadini. In Olanda l’Esecutivo ha promesso di varare severe misure per contenere il diritto d’asilo e sta negoziando con l’Uganda un centro che accolga i richiedenti l’asilo la cui domanda è stata respinta. La creazione di un centro analogo vien tentata anche dalla Danimarca, che ha aperto un negoziato con il Kosovo.
Dal nuovo vertice europeo previsto in dicembre sono attese ulteriori misure concrete sulla migrazione e sul diritto d’asilo
La Finlandia ha chiuso le sue frontiere con la Russia. Il primo ministro polacco, il liberale Donald Tusk, ha chiesto ed ottenuto dall’Ue la possibilità di sospendere temporalmente il diritto d’asilo, per bloccare il flusso di irregolari inviati dalla Russia e dalla Bielorussia. La Germania del cancelliere Olaf Scholz ha introdotto di nuovo il controllo delle sue frontiere nazionali. Il nuovo Governo francese, presieduto da poche settimane da Michel Barnier, ha già promes-
so di varare a breve una nuova legge sull’immigrazione che sarà ricca di misure restrittive come, per esempio, la punizione del soggiorno illegale, o una serie di barriere destinate a frenare il ricongiungimento familiare, a rendere difficile l’accesso alle prestazioni sociali e perfino a contenere l’afflusso di studenti stranieri nelle università francesi. Il nuovo corso ha una matrice politica dettata in gran parte dalle formazioni dell’estrema destra e dalla loro avanzata elettorale. Un’avanzata che si è manifestata alle ultime elezioni europee di giugno e in parecchie consultazioni nazionali. In diversi Paesi la destra radicale è ormai parte integrante del Governo, o lo sostiene, condizionando le sue principali scelte. È così in Ungheria, in Slovacchia, in Italia o in Svezia. In altri Paesi, come per esempio in Francia, l’estrema destra, dopo un lungo processo di normalizzazione, è giunta alla soglia del potere e presto potrebbe dare un colpo mortale alla tradizione umanitaria francese e alla costruzione europea.
I vertici dell’Unione europea non sono estranei al nuovo corso. Nel maggio scorso il Consiglio europeo ha adottato il Patto europeo sulla migrazione e l’asilo. Il testo tende a facilitare l’espulsione di immigrati che non hanno diritto all’asilo e ad accelerare le procedure d’asilo. Entrerà in vigore nel 2026. Lo stesso mese di maggio, 15 ministri dell’interno hanno scritto una lettera alla Commissione europea nella quale hanno chiesto di agevolare il trasferimento delle procedure d’asilo in Stati fuori dall’Ue. Poco prima dell’ultimo vertice europeo del 17 e 18 ottobre, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha inviato una lettera agli Stati membri sulla politica migratoria, nella quale ha definito
l’accordo concluso tra l’Italia e l’Albania. E poche ore prima dell’incontro di Bruxelles, la stessa von der Leyen ha partecipato ad una riunione convocata da Giorgia Meloni e comprendente una decina di capi di Stato e di Governo favorevoli ad un inasprimento della politica d’asilo. Forse più per opportunità politica e non tanto perché pienamente convinta, la presidente della Commissione europea segue e asseconda i tentativi di cambiamento in corso. Lo fa anche perché è agevolata dall’attuale vuoto di potere ai vertici dell’Ue. Un vuoto che le consente di prendere da sola importanti decisioni. La nuova Commissione non è ancora entrata in vigore e la vecchia Commissione limita il suo lavoro al disbrigo degli affari correnti.
I cambiamenti in atto in Europa non mancheranno di ripercuotersi anche sulla Svizzera. Fino a poco tempo fa, le critiche contro l’immigrazione incontrollata venivano principalmente dall’UDC, che non esitava a ritenere la questione la causa principale di tutti i mali della società elvetica, anche dell’aumento delle pigioni e dei premi delle casse malati. Adesso le richieste di interventi più energici sulla migrazione provengono anche dal PLR e da una parte del Centro. Di recente i liberali radicali hanno adottato un «cahier des charges» per il Segretario di Stato della migrazione Vincenzo Mascioli, entrato in carica da poco. Chiedono che venga inasprita la politica d’asilo con più interventi mirati alle frontiere, con il rimpatrio immediato dei ri-
La geografia come sapere e come cura
chiedenti respinti, con la sospensione dell’aiuto allo sviluppo per i Paesi che non accettano di riprendere i richiedenti la cui domanda è stata respinta e con nuove limitazioni per il diritto al ricongiungimento familiare. Sono richieste che indicano la direzione che si vuol seguire e che mostrano quanto delicato sia il compito del responsabile del dossier, il consigliere federale Beat Jans. E sullo sfondo campeggia la domanda che il Consiglio federale ha rivolto all’Ue nell’ambito del negoziato bilaterale in corso. L’Esecutivo federale chiede di poter usufruire di una clausola che, in determinati casi, consenta alla Svizzera di limitare l’immigrazione proveniente dall’Unione.
Dal nuovo vertice europeo previsto in dicembre sono attese misure concrete sulla migrazione e sul diritto d’asilo. Misure che consentano ai Governi nazionali di coordinare meglio la loro azione in questo settore e di rendere più efficace la lotta contro l’immigrazione irregolare. L’Europa è alle prese con i gravi problemi che pone la migrazione, problemi che rischiano di aggravarsi con i cambiamenti climatici e le sfide geopolitiche. Intanto l’evoluzione demografica del Vecchio Continente dimostra che il buon livello dell’economia e dello stato sociale possono essere conservati solo con l’afflusso di immigrati. Rinunciare al loro arrivo sarebbe dunque un’utopia che non ha solidi riscontri nel passato. Gestire correttamente il loro afflusso, tenendo conto dei suoi aspetti positivi e negativi, senza dimenticare la componente umana, così centrale nella nostra storia e nella nostra tradizione, permetterebbe invece di evitare dolorosi conflitti sociali e l’arrivo al potere degli estremismi politici.
Il saggio ◆ Claudio Ferrata prende posizione in difesa di quella che è, tra le altre cose, una scienza utile per costruire il bene comune
Una dichiarazione di amore per la geografia: è questo il sentimento che sorregge l’ultimo saggio di Claudio Ferrata, a lungo docente di geografia nei licei e tuttora cultore della materia, nonché membro del Comitato direttivo dell’Associazione GEA. L’autore ha condensato le sue osservazioni in un breve (un centinaio di pagine) ma denso libretto, sotto il titolo Scrivere la terra. La geografia, sapere sullo spazio e azione sul mondo, edito da Mimesis. In realtà Ferrata, per esprimere la sua relazione con la disciplina che ha sempre coltivato con passione, ricorre all’espressione «presa di posizione per la geografia!».
Tutti vestiamo i panni del geografo nel nostro modo di rapportarci al mondo, ad esempio quando scegliamo dove abitare
Il punto esclamativo non è casuale, manifesta la ferma volontà di difendere un campo di studio che, al pari di altre scienze sociali, si ritrova spesso nella condizione, un po’ umiliante, di giustificare la sua presenza e la sua utilità, e non soltanto nei programmi scolastici. Eppure tutti vestiamo
i panni del geografo nel nostro modo di rapportarci con il mondo esterno, quando scegliamo un’ubicazione in cui abitare, quando calcoliamo i tempi di percorrenza casa-lavoro, quando intraprendiamo una gita o un viaggio, o percorriamo un sentiero di montagna affidandoci alle carte topografiche.
Come altre discipline che le stanno vicine – la sociologia, la storia, l’antropologia culturale – la geografia ha conosciuto un enorme sviluppo dopo la Seconda guerra mondiale, in concomitanza con i processi di decolonizzazione e i progetti di aiuto allo sviluppo. A lungo identificata con un freddo nozionismo fatto di classificazioni e nomenclature, specie nell’insegnamento, la geografia postbellica ha allargato gli orizzonti, dialogando con le scienze sociali e umane. Nel 1968 uno dei padri di questo nuovo indirizzo, il francese Pierre George, dava alle stampe L’Action humaine in cui proponeva la seguente definizione: «Si potrebbe definire la geografia come lo studio della dinamica dello spazio umanizzato». Da allora i confini disciplinari si sono estesi fino ad incrociare l’urbanistica, la demografia, le scelte politiche, la tutela del paesaggio e del patrimonio naturalistico. Concet-
ti con «luogo», «spazio», «territorio», «regione» hanno assunto significati nuovi, aperti alle contaminazioni. Si pensi a come viviamo/interpretiamo la nozione di «luogo», le cui radici fisiche, materialmente delimitate, arrivano a toccare le corde delle emozioni e dell’appartenenza. Sono i luoghi del cuore, ricordi che risalgono all’infanzia, oppure ad improvvise accensioni della memoria di fronte ad uno scorcio suggestivo, ai pregi architettonici di un edificio storico, ai colori di un
tramonto alpino, alla vegetazione di un parco cittadino. Insomma, avverte l’autore a p. 89, la geografia «produce una conoscenza inerente alle relazioni con lo spazio ed è implicata nei progetti sociali, aperta sulle tematiche ambientali, su tutto ciò che riguarda la nostra presenza nei territori». Da questo approccio sono nate, nel recente passato, visioni come la «città-Ticino», con una doppia valenza. Per un verso la presa d’atto che il Cantone era diventato sempre più un grumo uni-
co urbano, concentrato nei fondivalle, solcato da arterie viarie e ferroviarie interconnesse; per l’altro la necessità di governare questa conurbazione in costante espansione tentacolare con gli strumenti della progettazione e della pianificazione. Impresa che ha richiesto il contributo anche dei geografi, accanto ai geologi, agli architetti, agli urbanisti, agli ingegneri del traffico… Questo saggio di Ferrata vuol essere una «peroratio» in favore della materia che ha insegnato per tanti anni. E anche un omaggio a maestri come Lucio Gambi, Claude Raffestin, Eugenio Turri, Franco Farinelli… Infine l’autore pensa ai giovani, gli ideali destinatari di questo trattatello, per dire che la geografia è molte cose assieme: un sapere riflessivo ma anche una scienza utile per costruire il bene comune, dotata di applicazioni che vanno dalla cartografia (oggi prevalentemente digitale) all’approntamento delle «cure» di cui hanno urgente bisogno i nostri territori sempre più malati. / O.M.
Informazioni
Claudio Ferrata, Scrivere la terra. La geografia, sapere sullo spazio e azione sul mondo, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2024.
innovativo
Ursula von der Leyen segue e asseconda i tentativi di cambiamento in corso.
(Keystone)
Sankowski Pixabay
«Non costruiamo strade di riserva»
Info Migros ◆ Il 24 novembre la Svizzera si esprimerà sul potenziamento di sei tratti autostradali Il Consigliere federale Albert Rösti spiega in un luogo particolare perché si batte a favore di questo tema
Christian Dorer
È raro vedere un Consigliere federale con un outfit del genere: Albert Rösti, 57 anni, indossa una tuta arancione acceso, un casco e stivali di gomma. Il capo del Dipartimento dei trasporti visita il cantiere al centro del tunnel del Gubrist, attualmente in fase di ampliamento per un costo di 1,6 miliardi di franchi. I lavori si concluderanno alla fine del 2027, quando si potrà finalmente dire addio agli ingorghi quotidiani.
Signor consigliere federale, cosa ha imparato dalla sua visita al tunnel del Gubrist?
Il modello è ingegnoso: si costruisce prima un tubo nuovo per poi risanare in successione i due tubi vecchi di 40 anni. Senza questo nuovo traforo, il traffico a Zurigo sarebbe collassato. Quando tutto sarà finito ci saranno più corsie a disposizione, cosa di cui c’è urgente bisogno, visto l’aumento del traffico.
Il 24 novembre ci esprimeremo su sei progetti di potenziamento. Gli oppositori sostengono che più strade significano più traffico. Cosa risponde?
Che si sbagliano! Non stiamo costruendo strade di riserva, bensì corsie di cui già oggi abbiamo urgentemente bisogno. In Svizzera vivono
9 milioni di persone, un terzo in più rispetto agli anni 60, quando furono progettate le autostrade attuali. Ogni anno si registrano più di 48’000 ore di ingorghi stradali, e la tendenza è in aumento. Questo porta gli automobilisti a deviare attraverso i paesi, creando un grosso problema. Noi
vogliamo riportare il traffico sull’autostrada. C’è un dato interessante: le autostrade rappresentano solo il 3% di tutta la rete stradale, ma gestiscono il 40% del traffico di auto e addirittura il 70% di quello di camion!
Quante persone passeranno dal
Albert Rösti, in tuta e caschetto arancioni, in visita al cantiere che si trova al centro del tunnel del Gubrist. (Foto Michael Sieber)
treno all’auto se potranno viaggiare gratis?
Non capiterà mai. Anche perché non capita nemmeno il contrario: nonostante il traffico, gli automobilisti non prendono il treno. Molte persone non possono scegliere liberamente il proprio mezzo di trasporto.
re il clima costruendo nuove strade, perché in questo modo si previene il traffico e si riducono le emissioni di CO2. Gran parte del traffico stradale sarà decarbonizzato in un prossimo futuro, e la questione del CO2 sarà comunque risolta. Non dobbiamo dimenticare che stiamo investendo nettamente di più nella ferrovia che nel potenziamento della rete stradale, anche se il traffico individuale rappresenta il 70% e quello pubblico il 30%.
Un no sarebbe un rifiuto a tutti i futuri potenziamenti stradali?
Ora ci stiamo concentrando su sei progetti nelle regioni con maggior traffico. Un no renderebbe indubbiamente più difficili i potenziamenti futuri.
La Svizzera può permettersi di costruire nuove strade in tempi di ristrettezze finanziarie?
Attraverso l’imposta di circolazione, la vignetta autostradale e ogni litro di benzina, gli automobilisti fanno confluire denaro nel Fondo per le strade nazionali e il traffico d’agglomerato. Questi soldi possono essere usati solo per la manutenzione delle strade e le nuove costruzioni. La cassa della Confederazione non viene toccata.
Perché chi non è mai rimasto bloccato nel traffico dovrebbe votare a favore del potenziamento della rete autostradale?
La popolazione è in crescita da decenni. Perché la Svizzera non è riuscita ad adeguare le proprie infrastrutture?
Non credo che la Svizzera abbia perso il treno. La popolazione però è cresciuta molto più in fretta del previsto. Quando nel 2017 si votò per la svolta energetica, l’ipotesi era che nel 2050 ci sarebbero stati nove milioni di abitanti in Svizzera. Ora siamo nel 2024 e questa cifra l’abbiamo già raggiunta.
Per sgravare i quartieri e i paesi dal traffico. Ciò significa più spazio e sicurezza per ciclisti, pedoni e bus dei trasporti pubblici, ma anche meno rumore e meno incidenti. Diciamolo: oggi regna il caos, e la situazione del traffico è diventata insostenibile. Se io come individuo sono bloccato in un ingorgo, arrivo in ritardo. Se i camion della Migros, che distribuiscono merci in tutta la Svizzera, rimangono bloccati nel traffico ogni mattina, generano costi enormi. Ed è inaccettabile che il trasporto di animali rimanga fermo sulle strade sotto un caldo cocente. Questo è un problema che riguarda tutti.
La Svizzera deve raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Il Consiglio federale come pensa di salvare il clima se nel contempo costruisce nuove strade? È più probabile che si riesca a salva-
La posizione di Migros
Il 24 novembre la Svizzera si esprimerà sul potenziamento della rete autostradale. L’investimento di 4,9 miliardi mira a risolvere le criticità su sei tratti di strade nazionali. Contro il decreto federale è stato lanciato un referendum. Secondo il parere del comitato per il no, il progetto è troppo costoso e divora troppo terreno. I problemi di traffico esistenti non si risolverebbero. Per riapprovvigionare i punti vendita, la Migros ha bisogno di un’infrastruttura di trasporto efficiente, ed è quindi favorevole al progetto. Indipendentemente dall’esito della
Ciononostante, in qualsiasi altro Paese un’arteria principale come la A1 tra Berna e Zurigo sarebbe già da tempo a sei corsie. I progetti stradali non hanno vita facile. Negli ultimi decenni è stata coltivata una certa resistenza nei confronti dell’automobile, che è diventata il capro espiatorio per il cambiamento climatico, l’inquinamento, le polveri sottili e via dicendo. Contro gli attuali progetti ferroviari non vi è alcun referendum, ma contro i progetti stradali sì.
Un giorno ci saranno vetture a guida autonoma. E questo aumenterà la capacità delle strade di circa un terzo. Gli investimenti attuali non serviranno a niente a lungo termine?
Assolutamente no! Costruiamo per risolvere i problemi di oggi. Ci vorranno anni prima di arrivare alla guida completamente automatizzata. Entro il 2050 la popolazione svizzera raggiungerà i 10 milioni circa. A preoccuparmi non è che si costruisca troppo, ma che non si riesca a stare al passo con le costruzioni.
Anche sua moglie lavora nel settore dei trasporti, essendo assistente di volo di Swiss. Quanto spesso l’accompagna?
Da studente andavo sovente con lei, era fantastico! Purtroppo ora mi manca spesso il tempo. Di recente l’ho accompagnata in un volo per Johannesburg.
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Così Trump ha diviso anche la religione
Stati Uniti ◆ Reportage da Salt Lake City, dove la chiesa mormone guarda con sempre più simpatia ai democratici Giulia Pompili
Entrare nel campus della Brigham Young University (BYU) di Provo, a pochi chilometri da Salt Lake City, la capitale dello Utah, è come tornare indietro nel tempo a una cinquantina di anni fa. Al piano inferiore di uno degli edifici principali di questo mastodontico college c’è il bowling. «Frequentatissimo alla sera!», ci spiegano. Poco più avanti, da una sala laterale, arriva della musica particolarmente allegra: dentro ci sono decine di ragazzi e ragazze che ballano: «Il corso di danza tradizionale e folcloristica qui è uno dei più antichi del Paese». In questo college tutte le lezioni si aprono con una preghiera. Ai corsi più comuni, gli studenti affiancano lezioni di «benessere spirituale», lettura di sacre scritture e storia delle religioni. La Brigham Young University è un’università fondata nel 1875 e oggi considerata «la Harvard dei mormoni».
La Brigham Young University è un’università fondata nel 1875 e oggi considerata «la Harvard dei mormoni»
Non è facile essere ammessi, per via dei programmi di studio molto competitivi, tra cui uno dei corsi di giornalismo più famosi del Paese, ma anche perché rispetto ad altre università prestigiose, la BYU costa meno grazie a un gran numero di borse di studio che sono quasi tutte finanziate dalla proprietà del college, cioè la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, il nome formale della chiesa cristiana fondata nel 1830 dal predicatore Joseph Smith dopo la rivelazione del Libro di Mormon La BYU è un pezzo fondamentale dell’immagine della chiesa, una delle più potenti d’America, che fino alla scorsa settimana aveva nove membri del Congresso americano suoi appartenenti: tutti repubblicani. Il legame fra mormonismo, formazione e politica è evidente alla BYU, dove si formano i leader di domani e che fino a oggi sono sempre stati rigorosamente di area repubblicana. Poi è arrivato Donald Trump, e anche qui qualcosa è cambiato.
Le richieste di ammissione alla BYU sono sempre di gran lunga superiori ai posti disponibili (nel 2022 34’464 studenti ammessi), nonostante le regole siano piuttosto restrittive: nella filosofia dell’università ogni studente «rappresenta» la chiesa mormone, e quindi sono vietati gli alcolici, niente abbigliamento eccentrico o troppo sciatto – per gli uomini niente capelli lunghi, niente barba, solo baffi
ma «ben curati» – e siccome «il corpo è sacro» vanno evitati tatuaggi, piercing, ma anche qualunque sostanza possa alterare lo stato psicofisico come «tabacco, il caffè, il tè e altre droghe e sostanze nocive che non fanno bene né al corpo né allo spirito». Naturalmente sono vietati i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio. Jen Nishiguchi, che lavora alla BYU come manager internazionale, ci spiega che le richieste per studiare qui vengono da tutto il mondo, soprattutto da famiglie religiose che vedono nel college della chiesa uno «spazio sicuro».
Non c’è un’istituzione più influente a Salt Lake City e nell’intero Utah della chiesa mormone. I critici e sostenitori della laicità delle istituzioni pubbliche sottolineano di frequente che al Campidoglio dello Stato siedono per la maggior parte membri della chiesa. Nello Utah, se vuoi fare carriera politicamente, «devi per forza essere un membro», ci spiega Neil, insegnante in pensione che arrivò a Salt Lake City da New York, più di cinquant’anni fa, come moltissimi altri soltanto per le montagne e lo sci. Il nuovo tempio in costruzione al centro della città è un mastodontico tributo alla centralità della religione, e il rito della domenica di andare ad ascoltare il famoso Coro del Tabernàcolo Mormone – uno dei cori più famosi del mondo – dà senso alla ritualità comune che è identità di una intera città. Eppure la roccaforte dei
repubblicani non è più così convintamente conservatrice, e uno dei motivi fondamentali è stato proprio Donald Trump.
Grace ha trent’anni, non è mai uscita dai confini dello Utah e, come moltissimi suoi coetanei, fa dei turni in un ristorante e guida un Uber. Nella sua auto c’è un termos di caffè caldo, dalle sue braccia spuntano alcuni tatuaggi. «Certo, faccio parte della chiesa», ci spiega. «Ma dieci anni fa qui è cambiato tutto. Trump ci ha mostrato che anche i repubblicani possono andare contro i princìpi religiosi». Durante le fasi più intense della campagna elettorale, anche nei giardini delle case di Salt Lake City sono iniziati a comparire i cartelli blu «Harris-Walz», una cosa impensabile fino a qualche anno fa (Neil ci spiega che lui pure ha votato democratico, ma no, il cartello non lo ha messo per paura che qualcuno venisse a fare qualche dispetto alla sua villetta). Trump dice bugie, è volgare, anche nel suo atteggiamento con le donne, e vìola uno dei principi fondamentali della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni: l’accoglienza nei confronti di immigrati e stranieri. Le sue azioni tradizionalmente vicine al conservatorismo repubblicano, per esempio la nomina alla Corte suprema che ha portato al rovesciamento della Roe v. Wade e alla fine dell’aborto come diritto tutelato a livello federale, non sono stati sufficienti per fermare il progressivo allontanamento della chiesa dai repubblicani trumpiani, e allo stesso tempo l’inesorabile avvicinamento della nuova generazione di mormoni al Partito democratico. Per non parlare del «culto della personalità», ci dice quasi in coro un gruppo di ragazzi alla BYU: fanno riferimento al video che Trump ha usato spesso nell’ultimo periodo della campagna elettorale prima dei comizi, chiamato «God Made Trump», nel quale il tycoon sostiene di essere mandato da Dio a salvare l’America. Secondo gli osservatori americani, questo è uno dei motivi per il quale anche gran parte delle chiese evangeliche si sono allontanate dalla politica federale, rompendo il tradizionale patto con il Partito repubblicano. A giugno
è una minaccia per la democrazia» – un riferimento che in molti hanno indirizzato al Partito repubblicano e a Trump.
Sono poche le religioni e i culti che in America sono rimasti in blocco fedeli a Trump. Anche la chiesa dell’Unificazione, originaria della Corea del sud alle cui convention il milionario ex presidente ha partecipato spesso, dopo essere stata al centro di polemiche e indagini giudiziarie in Giappone ha spostato i suoi affari in America. Sean Moon, figlio americano del reverendo Moon fondatore della Chiesa dell’Unificazione, ha partecipato all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio.
Anche nei giardini delle case di Salt Lake City sono comparsi i cartelli blu «Harris-Walz», una cosa impensabile prima
scorso perfino il centenario presidente della chiesa mormone, Russell M. Nelson, ha pubblicato una lettera ai fedeli dove scriveva che partecipare alle elezioni è importante, ma «votare in base alla “tradizione” senza studiare attentamente i candidati e le lo
E poi c’è la Word of Faith Fellowship, chiesa evangelica carismatica di Spindale, in Carolina del nord, spesso accusata di manipolazione dei suoi fedeli e maltrattamenti: i suoi membri sono quasi sempre presenti ai comizi pubblici di Trump. Anche nella religione, in America, l’ex presidente ha avuto una funzione divisiva al punto che non tutti sanno come sarà il futuro: «Io voglio laurearmi ma poi non ho intenzione di restare nello Utah, né tanto mento nella chiesa», ci confessa un ragazzo sottovoce. Non ha
Product Manager
Latticini
(f/m/d)
Tasso d’occupazione 80-100%
Data d’inizio Da concordare
Mansioni
È co-responsabile del raggiungimento degli obiettivi finanziari del proprio settore
Sviluppa e promuove attività per incrementare la cifra d’affari ed i margini prodotto
Analizza e ottimizza gli assortimenti, proponendo nuove referenze in base alle esigenze del mercato e alle direttive aziendali
Coordina e gestisce un piccolo gruppo di lavoro
Cura le relazioni con i fornitori e i contatti aziendali a livello nazionale e regionale
Sostiene i bisogni e la strategia regionale
Lavora con applicativi informatici specifici
Garantisce il flusso di informazioni interne ed esterne all’azienda, partecipando anche a riunioni e conferenze nazionali
Sviluppa progetti nell’ambito del settore assegnato
Requisiti
Formazione di «Specialista Marketing» (o superiore) o comprovata esperienza
Ottima conoscenza dell’italiano e del tedesco parlato e scritto costituiscono requisito indispensabile (altre lingue a titolo preferenziale)
Conoscenze merceologiche del settore indicato
Ottima attitudine alla negoziazione
Esperienza nell’utilizzo dei principali applicativi informatici, pacchetto Office e SAP
Spiccate capacità organizzative, dinamismo e spirito d’iniziativa
Buone doti comunicative e relazionali, attitudine alla gestione e al lavoro in team
Candidatura
Dal sito internet www.migrosticino.ch (sezione «Lavora con noi»), includendo la scansione dei certificati d’uso.
Il campus della Brigham Young University. (sito BYU)
Nuovo tempio in costruzione al centro di Salt Lake City. (Pompili)
Presso gli uffici amministrativi di S. Antonino
Cosa succede in Bangladesh
Dacca ◆ Lo spettro di un aumento delle attività dell’internazionale del terrore crea preoccupazioni in tutta l’area geopolitica
Francesca Marino
Anche nel nuovo Bangladesh, guidato dal premio Nobel Mohammed Yunus, hanno commemorato il 7 ottobre. Per ricordare le vittime civili della atroce strage perpetrata da Hamas e chiedere il ritorno degli ostaggi ancora detenuti a Gaza? Non proprio. Ad essere commemorata, anzi celebrata, è stata l’operazione Tufan Al Aqsa: che è il nome dato da Hamas e dai gruppi di tagliagole al soldo dell’Iran come Hezbollah e Houthi, alla strage di civili di cui sopra.
Episodi di violenza ai danni della minoranza induista (e cristiana) sono cominciati subito dopo l’insediamento del nuovo Governo
La celebrazione si è tenuta all’Engineering Institute di Dacca e l’evento è stato organizzato dall’organizzazione integralista Al Markazul Islami, tristemente nota per i suoi legami con Al Qaeda. Ad arringare i partecipanti sono stati alti dirigenti di Hamas, tra cui lo sceicco Khaled Qaddoumi, portavoce dell’organizzazione, e lo sceicco Khaled Meshaal, presidente dell’Ufficio politico di Hamas, entrambi residenti a Doha. All’evento erano presenti anche figure islamiste di spicco del Pakistan, come Mufti Taqi Usmani e Maulana Fazlur Rehman, entrambi influenti nei circoli più
radicali del Paese, oltre a una rappresentanza dei talebani.
La riunione di questa combriccola di terroristi dichiarati e di simpatizzanti assortiti ha suscitato serie preoccupazioni a Nuova Delhi e non solo. Le agenzie di sicurezza indiane sono state messe in stato di massima allerta, ma lo spettro di un rinnovato aumento delle attività dell’internazionale del terrore nella regione crea preoccupazioni in tutta l’area geopolitica. I segnali sono, d’altra parte, tutt’altro che rassicuranti. Negli stessi giorni in cui si è tenuto il raduno di jihadisti, difatti, la minoranza induista del Paese celebrava la festa del Durga Puja, nove giorni e nove notti dedicate al culto della dea Durga. Episodi di violenza, omicidi, case e templi bruciati, un vero e proprio pogrom ai danni della minoranza induista (e anche di quella cristiana) sono cominciati subito dopo l’insediamento del nuovo Governo; in occasione del Durga Puja la situazione è peggiorata sempre più. Gruppi islamici radicali hanno marciato per le strade protestando contro le celebrazioni pubbliche e opponendosi alle festività nazionali per la festa induista. È stata presentata una richiesta in sedici punti che chiede varie restrizioni alla libertà di religione e di credo degli induisti. Non solo, gli stessi gruppi radicali sponsorizzati dal Governo hanno intimato agli induisti di andarse-
ne entro sette giorni o di affrontare la violenza. Gli incidenti includono molestie aperte a donne di religione induista, vandalismo di case e luoghi di culto, l’incendio del Centro culturale Indira Gandhi, con i suoi 21’000 libri, e di case e attività commerciali appartenenti a cittadini di religione induista. Sono stati segnalati anche diversi casi di funzionari pubblici di religione induista rapiti e costretti in seguito a dimissioni forzate. E questo è – purtroppo – solamente l’inizio. Nel nuovo Governo ad interim di Dacca, che dicono rischi di essere ad interim come il Governo dei talebani, siedono in parti uguali integralisti islamici più o meno legati al Pakistan, membri dell’esercito e, sorpresa, individui legati in un modo o nell’altro a Washington. A cominciare dal premio Nobel per la pace Yunus (accusato in patria di corruzione e di chiedere un interesse del 28% sui prestiti della Grameen Bank) legato a doppio filo alla Fondazione Clinton. E a quanto pare i due rappresentanti degli studenti che sono stati inseriti nel gabinetto di Yunus avevano avuto, nei mesi precedenti alla «rivoluzione» che ha rovesciato il Governo dell’ex-premier Sheikh Hasina, una serie di incontri con rappresentanti dei servizi segreti pakistani e americani a Doha, in Qatar, dove siede il fior fiore dei rappresentanti del terrorismo internazionale. A Dacca e dintorni si di-
di riduzione sul tuo calendario
ce difatti, e si diceva da mesi, che il cambio di regime sia stato fortemente voluto da Washington: «Sarei potuta rimanere al potere se avessi ceduto agli Usa l’isola di Saint Martin, consentendo così agli americani di controllare la Baia del Bengala» ha detto Hasina, che già nella scorsa primavera denunciava le pesanti ingerenze americane negli affari del Paese.
Le dichiarazioni della ex-premier erano state smentite dal portavoce del Dipartimento di Stato americano Andrew Miller, ma le pesanti ingerenze americane nelle elezioni in Bangladesh dello scorso gennaio sono un dato di fatto. Il gran rifiuto di
Hasina a proposito della base militare avrebbe fatto arrabbiare Washington, che avrebbe sfruttato l’opportunità di piazzare in Bangladesh un Governo più accomodante.
Un Governo che garantirebbe non soltanto il perseguimento degli interessi strategici americani nella regione ma anche – attraverso una potenziale ripresa del terrorismo, dei profughi e dell’instabilità al confine indiano (fino a oggi giudicato «sicuro») – la possibilità di tenere Nuova Delhi sotto controllo ogni volta che le decisioni del Governo indiano si rivelano contrarie agli interessi statunitensi nella regione e non solo.
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Mohammed Yunus è premier del Bangladesh dallo scorso agosto. (Keystone)
Il Mercato e la Piazza
Il franco forte come freno all’immigrazione
Dal profilo della politica economica una delle caratteristiche della Svizzera è rappresentata dal fatto che il know how, ossia le conoscenze e l’esperienza sul cosa e sul come la si deve fare, sono in buona parte concentrate nell’amministrazione federale e nella Banca nazionale. Si può dire che il contributo delle facoltà di economia, che nei Paesi anglosassoni è preminente, da noi è invece trascurabile. Esiste di fatto una specie di divisione del lavoro: le facoltà universitarie si occupano della teoria ma per risolvere i problemi concreti si fa sempre appello all’amministrazione e alla Banca nazionale. Una riprova di questa situazione ci viene offerta dall’intervista che Boris Zürcher, responsabile della direzione per il lavoro presso la SECO, la Segreteria di Stato dell'economia, ha dato di recente alla «NZZ». Al centro della stessa c’era il problema di come limitare l’immigrazione di lavoratori. Qualche mese
In&Outlet
fa il prof. Rainer Eichenberger, dell’università di Friburgo, aveva proposto proprio per questo scopo di introdurre una tassa sull’immigrazione. Egli pensava che la stessa avrebbe potuto indurre molti immigrati a desistere dal loro intento. Richiesto di dare un parere su questa proposta, Zürcher non si è fatto pregare: secondo lui «una tassa sull’immigrazione sarebbe al massimo un sedativo politico». Perché non influenzerebbe la causa prima dell’immigrazione di lavoratori, ossia il continuo aumento della domanda di forza lavoro da parte dell’economia, e perché sorgerebbero rapidamente problemi di applicazione. A una misura del genere numerosi rami della produzione e dei servizi reagirebbero con richieste di trattamento speciale. Con il tempo, e con l’aumento dei casi di trattamento speciale, l’effetto della tassa tenderebbe perciò ad annullarsi. No, sostiene Zürcher, se si vuol veramente limitare
l’immigrazione occorre agire sul piano della macroeconomia con misure monetarie, valutarie e fiscali. Nell’intervista Zürcher non ha fatto un elenco dettagliato di queste misure. Da quanto ha detto, tuttavia, sembrerebbe che la sua preferenza si porterebbe sulle misure valutarie. Siccome la nostra economia vive soprattutto dell’esportazione, una delle misure più efficaci per frenarne la crescita – e con essa l’aumento della domanda di lavoratori stranieri – sarebbe costituita da un ulteriore rafforzamento del franco. Egli è naturalmente conscio che una misura del genere potrebbe avere conseguenze negative importanti. Sostiene tuttavia che nell’economia ci sono sempre conflitti di obiettivi, ragione per cui non si ottiene mai qualcosa gratis. Zürcher è convinto che in futuro la pressione politica per contenere l’immigrazione aumenterà e che quindi la rivalutazione del franco, come misura per combat-
Elezioni americane: la partita resta aperta
Ci siamo. La campagna elettorale è finita. Si vota. E si deve affrontare una domanda. Com’è possibile che Donald Trump abbia molte chances di vincere di nuovo? Non ci hanno forse raccontato che in America, se un politico mente al popolo, è finito? Trump ha mentito molte volte. È giunto ad avallare un tentativo di colpo di Stato eppure non ha pagato, anzi, non è mai stato così forte. In un mondo in cui la guerra nucleare non è mai stata così vicina. Eppure, nonostante le drammatiche notizie in arrivo dall’Ucraina e dal Medio Oriente, solo il 2% degli americani voterà pensando alla politica estera. Il 21% voterà per «la difesa della democrazia»: si tratta di democratici convinti che Trump rappresenti un pericolo per le istituzioni. Ma un’ampia maggioranza relativa, il 41%, voterà pensando all’economia. Perché l’America è sì una grande democrazia, ma è anche la prima potenza economica mondiale. È una democrazia
capitalista, dove si vota sui prezzi, sui salari, sull’occupazione. E sulle tasse. Non a caso Trump promette una bella sforbiciata al fisco. E, sempre non a caso, il 50% degli intervistati sostiene che Trump governerebbe l’economia meglio di Kamala Harris; solo il 39% pensa il contrario, gli altri non si esprimono. E il sondaggio non è stato commissionato dalla Fox, la rete dei conservatori, bensì dalla Cnn, la rete dei progressisti. Questo non significa che Trump vincerà. Significa che la partita è aperta e che noi europei fatichiamo a capire Trump e la «sua» America. Certo, il candidato repubblicano rappresenta una mutazione della destra americana. Aggressivo, arrogante, sbrigativo, semplificatore fino alla banalizzazione: pare fatto apposta per essere amato o detestato. L’establishment del partito lo detesta, per le stesse ragioni per cui la base lo ama: non è un politico di professione. Critica l’amministra-
Il presente come storia
zione Bush, ha irriso i candidati sconfitti da Obama nel 2008 (John McCain) e nel 2012 (Mitt Romney). Si muove come quello che è sempre stato: l’imprenditore di sé stesso, il venditore del proprio marchio. Uno che dice di sé: «Ho avuto milioni di donne, tutte quelle che ho voluto e anche di più». La maggioranza delle donne voterà per Kamala ma la maggioranza degli uomini voterà per lui. Tra i giovani vince Harris, ancora più nettamente tra gli under 24; ma i giovani votano meno degli anziani. Hillary Clinton ebbe tre milioni e mezzo di voti popolari in più ma per poche decine di migliaia di voti perse tutti gli Stati in bilico. Un allineamento astrale che non si ripeté nel 2020 e potrebbe non ripetersi neppure stavolta. Eppure è importante capire perché il voto del 5 novembre sia così in bilico. L’economia non è necessariamente «roba da repubblicani». Nel 2008, in piena crisi, Obama conquistò la più schiac-
Il dialetto non è (ancora) lingua nazionale
Nel nostro Paese la discussione intorno alle lingue è ciclica come le fasi lunari. Anzi, non è peregrino sostenere che la questione s’intreccia con il complesso cammino dell’edificazione dello Stato federale (Costituzione del 1848). Sul piano giuridico la parità era data per garantita (art. 109 «la tedesca, la francese e l’italiana sono lingue nazionali della Confederazione», cui si aggiunse nel 1938 il romancio). Tuttavia, all’atto pratico, ovvero nella redazione di leggi e regolamenti, le cose cambiavano. La crescita nel corso degli anni dei servizi dell’amministrazione centrale, dell’esercito e delle aziende che avevano come mandato di coprire l’intero territorio nazionale (prima le poste e poi le ferrovie) era motivo, presso le minoranze, di ricorrenti irritazioni e rivendicazioni. E questo perché la parte linguisticamente maggioritaria era anche la parte che controllava le princi-
pali leve del potere. Economicamente la Svizzera tedesca primeggiava (e tuttora primeggia), con ovvie ricadute sui rapporti di forza politici e sulle relazioni tra confederati. Di qui un perdurante attrito con i Cantoni germanofoni, accusati da romandi, svizzero-italiani e romanci di protervia e sordità nei confronti delle legittime richieste dei figli cadetti di mamma Elvezia… Ma il castello delle accuse andava anche oltre. Nel secondo dopoguerra a taluno questa situazione ricordava la dinamica colonialista-colonizzato, una formula allora usata dagli studiosi che si occupavano del terzo mondo e del processo di decolonizzazione. Nel 1982 fece scalpore la denuncia contenuta in un pamphlet intitolato La Romandie dominée: quel che stava accadendo in terra romanda poteva qualificarsi come una «colonizzazione a freddo» condotta dalle centrali economiche, politiche
di Angelo Rossi
terla, potrebbe diventare un tema d’attualità. Questo anche perché non ci si può attendere molto da eventuali altre misure di contenimento dell’immigrazione come, per esempio, una clausola di protezione nei confronti dell’immigrazione dai paesi dell’Ue, da inserire in un futuro trattato, oppure l’ulteriore mobilitazione di possibili riserve di manodopera femminile. Zürcher pensa che l’Ue non accetterà mai clausole che possano limitare il libero accesso della sua manodopera in Svizzera. Quanto al potenziale di manodopera femminile, egli osserva che il grado di occupazione delle donne è in continuo aumento, ma non reputa però che misure fiscali – come l’introduzione della tassazione individuale per le coppie sposate o aumenti dei sussidi agli asili nido – possano effettivamente migliorare la situazione. Il suo ragionamento sembra quindi non fare una grinza: se la Svizzera deside-
ra contenere l’immigrazione di lavoratori dall’estero, la sua economia deve crescere meno. Sorprende però che a portarlo avanti sia uno dei «grand commis» della SECO. È un modo di pensare che farà felici tutti coloro che a sinistra e a destra dello spettro politico argomentano oggi in favore di una crescita economica e demografica limitata se non addirittura nulla. È giusto però ricordare che una simile politica avrebbe costi rilevanti per i rami di produzione e dei servizi che vivono dell’esportazione come pure per le regioni che, come per esempio il Ticino, hanno una base economica composta essenzialmente di questi rami. In conclusione, la rivalutazione del franco proposta da Zürcher potrebbe conseguire l’obiettivo di limitare l’immigrazione di lavoratori, ma creerebbe sicuramente costi elevati per i rami e le economie delle regioni che da sempre hanno sofferto per il franco forte.
ciante vittoria democratica dal 1964. Ma quando l’economia va bene la priorità, più che gli aiuti, diventano i dividendi. Trump ha un piano di tagli alle tasse e di «reindustrializzazione del Paese» che piace sia ai lavoratori sia a un certo tipo di imprese, quelle più tradizionali. Ma il suo piano include anche dazi destinati a provocare ritorsioni sui prodotti americani. Il trumpismo è «America first», cioè isolazionismo, protezionismo, prudenza o ritiro dagli scenari di crisi. Però la forza dell’America non è solo nelle basi militari e nelle portaerei. È nel fatto che le sue aziende tecnologiche, quelle che trainano la Borsa, hanno un mercato illimitato, da otto miliardi di consumatori. I padroni della Rete, del commercio elettronico, degli smartphone, dell’intelligenza artificiale sono riusciti a vendere i loro prodotti anche ai poveri, oltre che agli europei e ai Paesi in crescita. L’America resta la prima potenza mondiale anche perché
è attrattiva. Se c’è una scoperta scientifica o un caso letterario, un vaccino o un prodotto high-tech, è da lì che viene. Puoi essere bianco o nero o giallo o meticcio, etero o gay o fluido o indefinibile, al sistema non importa, purché tu possa portare valore aggiunto. È un sistema che ha aspetti terribili, seleziona e scarta, considera la salute non un diritto ma un bene da comprare e da vendere, come il cibo e la casa. Ma è un sistema che più o meno funziona. Un tipo come Trump rischia di incepparlo; anche se il vero capo della destra globale, Elon Musk, lo appoggia. Se l’economia è leadership, egemonia, opportunità, visione, non è detto che Trump sia davvero il più adatto a gestirla. Ma l’economia non è solo questo. È anche meno tasse e più soldi in tasca, meno migranti non qualificati che abbassano salari e diritti, e più fabbriche di ritorno in patria. Su questo terreno Trump è considerato più credibile. A breve il verdetto.
e culturali che avevano sede sulla sponda orientale della Sarine. E il Ticino? Nessuna speranza, sarebbe presto diventato Disneyland… D’altra parte una diagnosi analoga, ma con minore vis polemica, era già stata formulata da Angelo Rossi nel 1975, sotto il titolo di «un’economia a rimorchio». Le schermaglie linguistiche sono insomma riconducibili in buona parte ai rapporti di forza e ai sottostanti mutamenti socio-economici. Lo comprova la marcia trionfale dell’inglese nelle scuole d’oltralpe, con il conseguente declassamento delle altre due lingue nazionali. Allorché, alcuni anni or sono, un Cantone come Zurigo imboccò questa via, le reazioni nei Cantoni romandi furono veementi, con in prima fila il battagliero giornalista José Ribeaud (1935-2019), il quale nei suoi interventi non esitò a stigmatizzare l’inclinazione dei più forti (i direttori
svizzero-tedeschi della pubblica educazione) a gettarsi nelle braccia dell’anglofonia, relegando così in secondo piano il francese. Non solo: Ribeaud riteneva che l’amore degli svizzeri-tedeschi per lo «Schwitzerdütsch» avesse oltrepassato il perimetro in cui abitualmente un dialetto vive (la cerchia familiare e amicale, le relazioni informali) per elevarsi al ruolo di quinta lingua nazionale, la più diffusa e tenacemente coltivata, usata nei Parlamenti cantonali e nei media elettronici, privati e pubblici. «Per cortesia con noi parlate tedesco!», questo il perentorio invito che Ribeaud rivolse allora ai suoi connazionali. Anche gli svizzeri-italiani hanno sempre dovuto alzare la voce per affermare le loro ragioni in quanto titolari di una lingua nazionale, specie negli uffici federali, nei comitati partitici e sindacali, nelle conferenze intercantonali, nei musei, nell’insegnamento (cattedre
di lingua e letteratura italiana, diploma di maturità), nelle campagne pubblicitarie dei grandi gruppi commerciali e negli spot in tv. Sta di fatto che l’onda dialettale («Mundartwelle») non accenna a decrescere; anzi, come tutti possono constatare appena smontati dal treno a Zurigo, Berna o Basilea, il «buon tedesco» («Hochdeutsch, Schriftdeutsch») è quasi scomparso dal paesaggio linguistico della Svizzera tedesca. Un’esondazione che non agevola il dialogo tra maggioranza e minoranze. Un altro segno preoccupante è la tendenza ad esprimersi in dialetto da parte di politici d’alto rango (compresi alcuni consiglieri federali), personalità accademiche, funzionari pubblici, moderatori radio-televisivi. Figure che dovrebbero parlare a tutti, farsi capire da tutti, e non soltanto dalla comunità di provenienza. Ma sono rimostranze destinate a cadere nel vuoto.
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CULTURA
Difficili relazioni famigliari
Antonio Franchini racconta sua madre, e la sua natura complessa, ne Il fuoco che ti porti dentro
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Storie di arte e provocazione
Tra avanguardie, aneddoti e l’irriverente asino artista, Veneziani narra la Parigi novecentesca
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Elettronica per trio Gabaglio, dopo aver festeggiato i dieci anni dei Niton, presenta un nuovo album e omaggerà Puccini
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Cent’anni dell’amato attore In libreria, la biografia di Walter Chiari scritta da Sancisi e dal figlio Annichiarico, tra aneddoti e ricordi
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L’arte dell’esilio di Picasso: genio senza patria
Mostre ◆ La mostra a Palazzo Reale di Milano indaga l’opera del pittore catalano alla luce della sua condizione di straniero
Elio Schenini
Non esiste nessun altro artista del Novecento le cui opere siano così capillarmente presenti nei principali musei d’arte di tutto il mondo come Picasso. Prolifico come pochi, anche grazie alla voracità con cui ha assimilato nel corso di tutta la sua vita tradizioni iconografiche diversissime che gli hanno permesso di rinnovarsi costantemente mantenendo però una singolarità di accento inconfondibile, l’artista spagnolo incarna in maniera emblematica il cosmopolitismo e lo spirito universalistico dell’arte moderna. Eppure, come ha ampiamente documentato Annie Cohen-Solal in un bel libro intitolato Picasso – Una vita da straniero (Marsilio, 2024; originale: Un étranger nommé Picasso, Fayard, 2021), per gran parte della sua vita Picasso ha dovuto sottostare, in quanto straniero, alle limitazioni impostegli da un’Europa ancora rigidamente ingessata nelle identità nazionali di origine ottocentesca e sorvegliata da occhiute e poliziesche burocrazie. Questa condizione non caratterizza solo gli esordi della sua carriera –quando Pablo Ruiz Picasso era ancora un giovane e sconosciuto pittore catalano che, come tanti suoi connazionali, si era trasferito nella capitale francese in cerca di fortuna – ma anche gli anni della piena maturità, quando musei e collezionisti americani ed europei si contendevano le sue opere, tra cui le famose Demoiselles d’Avignon acquistate dal MOMA di New York nel 1937, mentre lui – che tra il 1904 e il 1909 aveva dovuto condividere con altri protagonisti dell’arte d’avanguardia gli spazi angusti e fatiscenti del Bateau Lavoir di Montmartre – si poteva ormai permettere lussi prima inimmaginabili come comprare il castello di Boisgeloup in Normandia o avere quattro domestici al suo servizio. A dispetto di tutto ciò, per quasi un cinquantennio Picasso non è stato altro che uno straniero per le autorità francesi. Non importava che fosse un artista conosciuto in tutto il mondo e un esponente di spicco dell’arte moderna, per la polizia era una persona da tenere sotto sorveglianza e da guardare con diffidenza e sospetto in primo luogo perché straniero, poi perché artista d’avanguardia e infine perché vicino ad ambienti politici di sinistra. È anche per questo motivo che Picasso dopo il suo trasferimento a Parigi decise di abbandonare il patronimico Ruiz, che lo identificava immediatamente come spagnolo, preferendo usare da quel momento il cognome materno che – essendo meno facilmente individuabile come cognome di origine italiana – appariva più adatto alla postura mimetica che il processo di integrazione nel nuovo Paese richiedeva.
Ispirata dal libro di Annie Choen-Solal, non a caso ne è lei stessa la
curatrice, la mostra Picasso lo straniero in corso a Palazzo Reale a Milano ha il merito di riuscire a inquadrare da una prospettiva inedita l’universo Picasso, già ampiamente analizzato in ogni suo più recondito anfratto da una miriade di pubblicazioni e mostre. Non solo, con la sua ricerca, che ha preso avvio scandagliando gli archivi della polizia francese, Annie Choen-Solal mette in campo un approccio rigoroso e impegnato che rifiuta l’estetismo fine a sé stesso con il quale si guarda spesso alle opere di fi-
gure ipermitizzate come quella di Picasso, per contestualizzare le quali ci si limita di solito a richiamare la fitta e spesso sapida, ma sostanzialmente innocua, aneddotica biografica. In un periodo in cui il tema delle migrazioni è all’ordine del giorno – ma a ben vedere quando mai la storia dell’umanità non è stata una storia di migrazioni? – la mostra, come sottolinea la curatrice, si propone di evidenziare le strategie di ibridazione artistica con le quali Picasso ha contribuito a mandare «in frantumi le frontiere tradiziona-
li che separano gli stati per instaurare quelle che, parafrasando l’antropologo Arjun Appadurai, potremmo chiamare le forme culturali cosmopolite del mondo contemporaneo». Se un limite si può trovare in questo progetto che interseca storia sociale e storia dell’arte è quello di adattarsi meglio alle pagine di un libro che non alle sale di uno spazio espositivo. Anche perché in casi come questo, per ovvie ragioni, non sempre è possibile ottenere in prestito tutte le opere necessarie a illustrare il racconto che la
mostra intende dispiegare. E non ci riferiamo unicamente a quello straordinario e attualissimo compianto sulle vittime civili di ogni guerra rappresentato da Guernica, dipinto che Milano ha avuto la fortuna di ospitare nel 1953 proprio a Palazzo Reale, ma che negli ultimi decenni, per ragioni di conservazione, molto raramente ha lasciato le sale del Museo Reina Sofia di Madrid. Ci riferiamo anche ad alcuni dei capolavori del periodo blu e del periodo rosa, in cui compare quell’umanità «minore» fatta di saltimbanchi, prostitute e mendicanti che popolavano le stesse periferie parigine, in cui Picasso, al pari di migliaia di altri emigranti, trascorreva le proprie giornate; capolavori quali la Famiglia di saltimbanchi conservata a Washington, oppure come Giovane acrobata sulla palla del Museo Puskin di Mosca. Tutte opere che evidentemente a Milano non ci sono e che al massimo vengono evocate da studi preparatori, da riproduzioni o da scatti dell’epoca, come nel caso di Guernica, di cui possiamo osservare la genesi nelle fotografie che Dora Maar ha scattato a Picasso mentre la stava dipingendo. Ma a parte queste inevitabili mancanze, la mostra, grazie alla fondamentale collaborazione del Musée Picasso di Parigi, riesce a tratteggiare attraverso un nutrito numero di opere e di materiali documentali una vicenda poco nota di cui è protagonista uno dei maggiori artisti del Novecento. Una vicenda che prende avvio con un rapporto di polizia del 1901, nel quale Picasso venne accusato in maniera sommaria e sulla base di considerazioni del tutto arbitrarie, di essere un anarchico, e che si conclude nel 1940 quando l’artista, che in quel difficile momento avvertiva la vulnerabilità connessa al proprio statuto di straniero, si vide rifiutare la cittadinanza francese. Questo rifiuto accomuna Picasso a un altro genio dell’arte del XX secolo, anche lui iscritto dal regime nazista tra le fila degli artisti degenerati: Paul Klee. Quando nel giugno del 1940 Klee morì in una clinica di Muralto, mentre la guerra si stava diffondendo a macchia d’olio in Europa, la sua richiesta di naturalizzazione giaceva ancora in uno dei cassetti dell’ufficio per gli stranieri del Canton Berna, continuamente procrastinata dalle autorità svizzere che prendevano tempo per evitare di affrontare il «problema» rappresentato da quell’artista che, secondo un rapporto di polizia, con la sua arte minacciava le «sane idee della popolazione».
Dove e quando Picasso lo straniero, Milano, Palazzo Reale. Fino al 2 febbraio 2025. Orari: ma-do 10.00-19.30; gio 10.00-22.30. Info: www.palazzorealemilano.it
Pablo Picasso, Grande Baigneuse au livre, 1937, olio, pastello e carboncino su tela. (Palazzo Reale di Milano)
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Dai conflitti personali alle ferite di un’epoca
Editoria ◆ Nel suo ultimo romanzo, Il fuoco che ti porti dentro, Antonio Franchini fa i conti con sua madre e con la storia della sua formazione in un corpo a corpo ininterrotto
Angelo Ferracuti
C’è un ritorno molto forte di una letteratura famigliare dal vero, non solo in Italia, da Il posto del Premio Nobel Ernaux, Chi ha ucciso mio padre, struggente racconto working class di Édouard Louis, fino ai libri molto premiati di Magrelli, Trevi, Voltolini, il notevole La traversata notturna di Andrea Canobbio (La nave di Teseo). Una letteratura che intreccia memoriale, conflitto generazionale, dinamiche tra le classi sociali, e racconta non solo le lacerazioni dei complessi rapporti parentali ma soprattutto le ferite di un’epoca, le storie personali, le vicende private dentro l’agone della Storia e gli affreschi, le metamorfosi sociali. Ma sono anche rese dei conti, bilanci, modi per dare senso e forma alla propria vicenda biografica.
Un romanzo di formazione in fieri, intellettuale e generazionale, dell’uomo dell’editoria e scrittore che conosciamo
Come scrive Massimo Recalcati in Quel che resta del padre (Raffaele Cortina editore), questo rapporto «è custodia del mistero della vita e della morte, è la responsabilità dell’eredità e della trasmissione», e «ciascuno di noi proviene da un orizzonte che non ha scelto e lo ha determinato». I libri che ho citato partono proprio da questo mistero, da questa eredità, così come Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini (Marsilio, 2024), storia di Angela, la madre dell’autore che sin dall’incipit viene raccontata in tutta la sua sgradevolezza con un cinismo narrativo che da una parte cerca l’effetto verità, stabilisce una distanza, dall’altra serve all’autore an-
L’immagine
dentro. (Marsilio Editori)
za per economia di mezzi, essenziale ed espressiva, mischiando descrizioni e dialoghi, o lunghe conversazioni dialettali molto espressive, però sempre misurati, mai macchiettistici, ed è più colloquiale quando – descrivendo aspetti sociologici e luoghi comuni, abitudini, mode, comportamenti – assume toni quasi da reportage sociale.
che per creare un personaggio forte, tragico, che inevitabilmente diventa romanzesco.
Angela Izzo come i migliori personaggi di fiction è cupa, maligna, «si macera nel conflitto permanente», pervasa da un nichilismo esistenziale spiccatissimo, una che considera l’amicizia come «una forma di dipendenza, un indebolimento della personalità», e «ha bisogno di odiare come di respirare», un carattere da far invidia ai grandi scrittori ottocenteschi, quindi capace di produrre letteratura con il suo temperamento di vita. Inoltre, la figlia del muratore che sposa il commercialista più vecchio di lei di vent’anni da giovane è bella, «fianchi larghi e gran seno, capelli neri mossi, bocca carnosa», ma anche «friccicarella», che lei interpreta di volta in vol-
ta come «maliziosa» o «zoccola». Ma inevitabilmente la sua storia s’innerva e s’intreccia con quella dell’autore e del suo lessico famigliare, sullo sfondo di una Napoli ancora comunitaria degli anni Sessanta e Settanta, viva nel linguaggio e nelle sue forme dialettali, familista e carnale, un mondo palese esibito in un teatro dal vivo di condomini dove appaiono personaggi bizzarri e surreali come quelli portati sul palcoscenico da Eduardo o nelle sceneggiate napoletane di Merola. La storia pendolareggia tra Napoli e Milano, la città dove l’autore attualmente vive, e dove poi andrà a vivere anche sua madre, inconciliabili come patrie di due mondi culturali diversi che nel libro riverberano nei fatti, nei comportamenti e nei costumi. La lingua di Franchini è esatta, avan-
In tutto questo apparire
Daniele Bernardi
Nel 2016 appariva presso il Saggiatore un libro inconsueto, composto strutturalmente di immagini trafugate alla rete e poste in relazione le une alle altre grazie ad accostamenti continui, associazioni, sovrapposizioni e contrappunti. Attraverso quelle pagine multicolori, l’autore si proponeva l’arduo compito di traslare l’esperienza della vita presente, schiacciata ed erosa dal bordone continuo della pervasività di internet, in una messa in forma che avesse come centro d’interesse l’odierna percezione visiva.
Al contrario di Diorama, le ricercatissime e raffinate immagini che compongono l’opera sono tutte in bianco e nero
Diorama, questo il titolo del libro d’esordio del toscano Marco Magurno, si presentava quindi come un «romanzo» la cui lettura si giocava tutta nello sguardo – quello sguardo che oggi, nel nostro essere spettatori permanenti, come ha ben sottolineato Romeo Castellucci, ha perso la sua innocenza. Il risultato dell’esperimento era decisamente stupefacente:
Lo dice esplicitamente a tre quarti del romanzo quando parla del «disprezzo intellettuale» nei suoi confronti: «Ne detesto il qualunquismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggio dell’ignoranza, il rancore, il coacervo di mali nazionali che lei incarna in blocco». Ma Angela è anche figlia incolpevole del suo tempo e incarna tutte le disgrazie della sua storia nella Storia che sta in questo magistrale ritratto del figlio: «Le donne come mia madre, che venivano dalle campagne, da paesi dimenticati e da una miseria ostentata come un certificato di garanzia, tutti gli esseri femminili della mia famiglia materna hanno disprezzato l’amore prima di qualunque altro sentimento, la gentilezza più di qualunque altra virtù, le altre donne assai più di qualsiasi maschio». Franchini fa i conti con sua madre e con l’epoca della sua formazione in un corpo a corpo ininterrotto, e la scrittura liberatoria diventa la «ferita da medicare», senza «nessuna resa postuma», certo che «chi vuole tentare di capire una persona vera essendo consapevole che conoscere veramente non è possibile e che la persona reale gli sfuggirà comunque, può provare a raccontarla come il personaggio di un romanzo». E alla fine onora il vero desiderio di sua madre, quello di «recitare una parte anticonformista e scorretta».
Bibliografia
Il romanzo si apre poi al racconto del parentado, entrano in scena zie, come Vittoria, l’avvocato Alfonso Alterio, il padre dell’autore Eugenio, silenzioso ed elegante, «tutto un rigore di ossa, di tendini, di stoffe, di portamento», sciupafemmine seriale, un altoborghese «cresciuto in condizione agiata, ma con curiosità intellettuali e gusto per l’arte», lo zio Francesco, avvocato di grido a Milano, l’unica persona della famiglia nella quale «il Nord e il Sud si fondono». C’è anche il conio di un’epoca, le automobili lucidate a specchio con pelli di capretto dai capifamiglia, i tinelli coi televisori dagli schermi opachi, appartamenti nei quali «i salotti stanno quasi sempre con le serrande abbassate, sospirano nell’odore di chiuso». Nel libro c’è anche un romanzo di formazione in fieri, intellettuale e generazionale, dell’uomo dell’editoria e scrittore che conosciamo, tra i migliori della sua generazione, ma è il corpo della madre che resta sempre al centro della narrazione nella sua antropologia comportamentale, nel quale l’autore vede e detesta quel nichilismo individualistico e qualunquista tipico dell’Italia, quello che gli fa scrivere in un passo la frase audace «mi fa schifo chi mi ha messo al mondo», che risuona un po’ troppo caricata d’effetto, l’autarchia di vivere senza viaggiare e conoscere, il razzismo e l’odio per i francesi, inglesi e tedeschi, «erede dei sanfedisti scatenati contro i giacobini del cardinale Ruffo», e «l’ennesima figlia, frustrata e invelenita, della reazione».
Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro, Feltrinelli, 2024.
Letteratura transmediale ◆ L’editore Polidoro pubblica Persona, il secondo romanzo visuale di Marco Magurno
il volume aveva la stessa frammentata sfuggevolezza dello schermo di uno smartphone, dove continue colate di figure, forme e simulacri si susseguono a velocità vertiginosa.
A otto anni dal suo primo lavoro, Marco Magurno torna oggi «sulla scena del crimine» con una nuova opera, che decisamente approfondisce e intensifica quanto intrapreso all’epoca di Diorama Persona (Polidoro, 2024) è infatti un libro incentrato ancora sulle medesime tematiche – il vedere, l’online, la morte – ma che presenta in nuce delle sostanziali differenze di tono (in più sensi). Tanto per cominciare, il colore è scomparso: le ricercatissime e raffinate immagini che compongono l’opera (cupi paesaggi, schermi lugubri, dettagli mostruosamente amplificati) sono tutte in bianco e nero, quasi che l’universo multiforme rivelato con Diorama fosse ora passato dentro a un inceneritore. A ciò si accompagna il piglio di un testo molto presente – permeato da sfocature, buchi e deformità ostacolanti la lettura –che ha abbandonato ogni humor (nero) in nome del lirismo e di una prosa filosofico-letteraria.
L’io narrante che traghetta il let-
tore lungo lo Stige di Persona è vittima di una perenne disintegrazione psichica che gli impedisce di procedere nel racconto attraverso una fluidità discorsiva e simbolica coesa. La sua memoria, che egli cerca di richiamare all’ordine per ricostruire brani della propria storia, è perennemente bucata, mentre la percezione dell’esterno appare come manomessa dalle infiltrazioni del mondo digitale, il cui ossessivo richiamo lo costringe al digitare continuo. È il soggetto iper-alienato della contemporaneità, quello che Marco Magurno ci mostra; quel soggetto mercificato fin dentro alle cellule del proprio corpo il cui senso di vita è stato soppiantato da un godimento soffocante di possesso infinitizzato a cui non riesce a rinunciare. Eppure c’è dell’altro. Sì, perché nonostante il clima apocalittico che pervade l’opera non è la vita bruta, nuda, a emergere quale cifra distintiva del narrato, ma, al contrario, la poesia nelle sue molte declinazioni: poesia visiva, poesia pura; prose poetiche e saggistiche che, per quanto bruciate, esplose e disciolte, catturano il lettore col richiamo di una bellezza sotto il cui manto intravediamo l’ombra della morte, colei che sempre governa e che col suo
continuo guardare «persona», meditando zoppicante, cerca a suo modo di vedere e non-vedere (non a caso, l’opera ha continui rimandi al Bardo Thodol, l’antico libro tibetano dei morti).
«Infinitamente si muore in tutto questo apparire. D’intorno la ruina involve e la fine non ha più fine. È un andare sfinito, spossato, privo alla lettera di finitezza e di possa. L’estinta possanza si fa posa e le pose sono moltissime: una posa di lato, una
posa di fronte, una posa dall’alto, una messa a fuoco in cui appaio e scompaio. La nitidezza mi fa vera. Catturami nella caccia del tempo, disintegrazione, strappami un fiore sbocciato d’improvviso, appassito nel suo stesso fiorire sfiorire, braccato in una dolce, disapparente apparenza».
Bibliografia Maco Magurno, Persona Alessandro Polidoro Editore, 2024.
usata per la copertina del romanzo di Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti
Il pittore, l’asino, e l’anartista
Divulgazione ◆ Nel monologo di Jacopo Veneziani a Bellinzona, mezzo secolo di arte moderna fra pittori, aneddoti e contraddizioni latenti
Sebastiano Caroni
Il bello delle discipline letterarie e umanistiche è che presuppongono l’esistenza di fenomeni da interpretare, e che spesso le interpretazioni portino a modi diversi di concepire la realtà. È un po’ come quando si ha una storia da raccontare, e ci si chiede quale sia il miglior modo per farlo. Per essere efficace, una storia deve possedere coerenza e coesione, ma per essere interessante ci vuole anche altro: c’entra il modo in cui la si racconta.
A confezionare una storia interessante c’è riuscito sicuramente Jacopo Veneziani, storico dell’arte e divulgatore, che ha presentato il suo monologo teatrale intitolato Parigi in occasione della recente edizione di Sconfinare Festival, rassegna culturale bellinzonese. Veneziani ha ripercorso la storia dell’arte della prima metà del Novecento focalizzandosi su alcuni dei protagonisti che hanno reso la Parigi di quell’inizio secolo l’epicentro dell’arte mondiale.
Riuscire a riassumere, in un monologo di un’ora e mezza, i lineamenti di cinquant’anni di arte non è impresa facile, considerando due guerre mondiali che, con il loro lascito di traumi e speranze, hanno contribuito non poco a rimescolare le carte in tavola, e non solo nell’arte. La materia potrebbe tranquillamente essere diluita in un corso universitario della durata di un anno, grazie al quale approfondire, quel tanto che basta, le figure chiave e i motivi principali dell’arte moderna. Da abile divulgatore, però, Veneziani ha confezionato una storia abbastanza complessa per non essere semplicistica, ma sufficientemente accessibile per essere fruibile da un pubblico generalista. E, con l’aiuto di un disegnatore che, mentre avanzava nel racconto, abbozzava vignette suggestive su uno schermo gigante, ha trasmesso passione e conoscenza in modo disinvolto, come si addice a chi padroneggia l’arte del monologo teatrale.
Il racconto, fluido e sicuro, si è ab-
bandonato alle pause nei momenti adatti, concedendosi qualche digressione calcolata, e provocando quelle inflessioni di ritmo necessarie a mantenerne l’intensità. Si è trattato, insomma, di una narrazione piacevolmente istruttiva che ci ha portati all’epoca delle avanguardie e degli atelier sgangherati di Montmartre, delle pennellate infuocate di Matisse, delle forme scomposte di Picasso e delle figure allungate di Modigliani. Veneziani si è inoltrato nel buio della Prima guerra mondiale quel tanto che basta per mettere in luce l’esistenza di circuiti artistici undergound e locali clandestini, aperti tutta la notte nonostante l’imposizione del coprifuoco. Del primo dopoguerra, che ha accompagnato l’arrivo del Surrealismo, ha ricordato una cena memorabile presso l’Hotel Majestic, dove si ritrovarono allo stesso tavolo Igor Stravinsky, Pablo Picasso, Serge Diaghilev, James Joyce e Marcel Proust.
Gli anni Venti, chiamati ruggenti per l’ottimismo pervasivo che li ha attraversati, terminarono con il crollo di Wall Street. È la grande Depressione, preludio all’ascesa dei totalitarismi e allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Ma anche quando, nel 1940, Parigi soccombe all’occupazione nazista, la storia dell’arte non si ferma: alcuni artisti sono rimasti e hanno realizzato le loro opere in un ambiente semi-clandestino. Erano gli anni in cui Jean-Paul Sartre pubblicava L’essere e il nulla e con Simone de Beauvoir metteva le basi di quell’esistenzialismo che avrebbe dominato la scena culturale parigina nell’immediato dopoguerra. Alternando piacevolmente ritratti di artisti e riferimenti ai movimenti pittorici, Veneziani non ha trascurato aneddoti che hanno aggiunto vivacità, come quello che riguarda Lolo, un asino che assurge a rappresentante di un nuovo movimento artistico.
Ma chi è questo sosia?
Jacopo Veneziani durante il suo monologo alla rassegna culturale bellinzonese Sconfinare. (Sconfinare Festival di Bellinzona)
L’animale, che apparteneva al proprietario del noto cabaret Au lapin agile, è stato l’inconsapevole protagonista di una beffa orchestrata dal giornalista Roland Dorgelès e dal suo amico, pittore e critico d’arte, André Warnod. Esasperati dalla crescente diffusione di movimenti artistici che finivano per – ismo (cubismo, espressionismo, futurismo, surrealismo, eccetera), i due hanno legato un pennello alla coda del somaro e, recuperata una tela pulita, ha lasciato che il quadrupede, con i movimenti della coda, la riempisse con colori accesi e pennellate ardite. L’asino diventato pittore è stato poi battezzato con il nome di Joachim-Raphael Boronali (anagramma di Aliboron, nome di un asino delle fiabe di La Fontaine), e il risultato dell’esperimento, inviato alla commissione che presiedeva il Salon des Indépendants, è stato accolto ed esposto nel 1910. I critici intanto si chiedevano chi fosse questo pitto-
re il cui nome evocava una possibile origine ispano-italica, ravvisando altresì sorprendenti affinità cromatiche e stilistiche con Vincent Van Gogh. Scimmiottando lo stile roboante del manifesto futurista, Dorgelès, nel frattempo, si è cimentato nella scrittura di un manifesto per un movimento che ha chiamato, coerentemente con il suo intento iniziale, eccessivismo.
Una volta svelata, la beffa ha regalato ai suoi autori una buona dose di soddisfazione, essendo riusciti a prendersi gioco della critica, e dimostrando che in fondo anche un asino può diventare il capofila di una scuola pittorica! L’irriverenza dello scherzo non ha arrestato lo sviluppo dell’arte moderna, ma quantomeno ha rivelato come in quell’inizio secolo l’idea stessa di arte si muoveva sul confine sottile fra innovazione e provocazione, abbracciando nuovi modelli di realtà che si ispiravano al relativismo, al flusso di coscienza e alla nascente psicanalisi.
Fra i molti artisti inclusi nel monologo di Veneziani, è mancato però il nome di Marcel Duchamp (18871968). È pur vero che, a partire dal 1915, Duchamp ha vissuto spesso lontano dall’Europa, prevalentemente negli Stati Uniti, ed è stato veramente iconico solo a partire dagli anni Sessanta, quando la pop art e i movimenti di arte concettuale lo hanno preso come modello. E dire che la sua opera e la sua filosofia di vita, maturate nella prima metà del secolo, mostrano una certa affinità con lo spirito che anima la beffa dell’asino di Montmartre. A Duchamp, infatti, non interessava essere considerato un artista, e non fingeva neppure di esserlo. Anzi, nelle interviste che rilasciava, amava definirsi un anartista: un neologismo coniato per esprimere il suo profondo disinteresse per l’arte della sua epoca, che considerava troppo convenzionale. Né pittore, né asino, e neppure artista. Un anartista, dunque.
Opera ◆ Al Luzerner Theater l’indagine artistica della compositrice Lucia Ronchetti su libretto di Katja Petrowskaja
Marinella Polli
Der Doppelgänger (Il sosia, ndr), un’opera per voci soliste, quartetto vocale e orchestra di Lucia Ronchetti, è in cartellone da inizio settembre al Luzerner Theater nell’ambito del Lucerne Festival. Si tratta di una coproduzione con gli Schwetzinger SWR Festspiele, durante i quali, in primavera, ha avuto luogo la prima assoluta. Lucia Ronchetti (classe 1963, e dal 2021 direttrice della Biennale Musica di Venezia) è ormai considerata una delle compositrici contemporanee di punta, tanto che altre sue opere sono già state rappresentate in prestigiosi teatri quali la Staatsoper di Berlino, la Semperoper di Dresda, l’Opera di Francoforte e il Nationaltheater di Mannheim. Il libretto di Der Doppelgänger è di Katja Petrowskaja, che nel 2013 aveva vinto il rinomato concorso Ingeborg Bachmann. Al suo primo lavoro per l’opera, la scrittrice ucraina si è ispirata dunque alla grande letteratura, nella fattispecie al secondo romanzo di Dostojewski, Il sosia, capolavoro che
continua ad affascinare critica e lettori. Compositrice e librettista indagano in perfetta intesa una situazione semplice e complessa, reale e assurda a un tempo, chinandosi sulla satira sociale e, in particolare, sulla psicologia, due aspetti rilevanti nel romanzo, qui reinterpretati per sottili immagini sonore e verbali che ne sottolineano da un lato l’azione drammatica e dall’altro la poesia.
L’opera di Lucia Ronchetti è un concentrato di parole e suoni che offre svariate possibilità alla Luzerner Sinfonieorchester diretta da uno specialista, Tito Ceccherini. Lungo una partitura che è un collage di suoni minimalisti e rumori, ma anche di frammenti di citazioni di danze e canzoni popolari, maestro e orchestra riescono a coinvolgere il pubblico per un’ora e un quarto. Una partitura che sfrutta appieno le potenzialità di tutti gli interpreti, ai quali vengono richiesti il canto recitato, la voce in falsetto, suoni strozzati o ripetitivi, gemiti e rumori, dunque tecnica fer-
rea ed espressività, nonché una buona capacità di resistenza, coordinamento e immedesimazione.
Soprattutto i due protagonisti riescono ad esprimere la complessa simbologia del testo: Peter Schöne, coinvolgente e coinvolto nel ruolo del costantemente angosciato Jakow Petrowitsch Goljadkin, funzionario subalterno innamorato di Kla-
Un momento dello spettacolo in cartellone a Lucerna.
ra Olsufjewna, la figlia del superiore; Christian Tschelebiew, il sosia, figura curiosa che non solo assomiglia fisicamente a Goljadkin, ma porta anche il suo stesso nome, proviene dal suo stesso paese e lo segue in ogni luogo, non esitando a metterlo in ridicolo e a umiliarlo anche davanti ai colleghi e a coloro che contano a Pietroburgo. Bravi anche Olivia Stahn nei panni
di Klara, Robert Maszl in quelli del dottor Rutenspitz, Emanuel Marjal nel ruolo di Petruschka, il domestico di Goljadkin.
Al regista David Hermann riesce la perfetta messa in scena di una insinuante trama che è anche un raffinato accostamento di Gogol, Kafka e Beckett, vale a dire di assurdo, umorismo, ironia, dramma e astrazione. Si viene immediatamente confrontati con interrogativi più che legittimi. Ma chi è questo sosia? Realtà, illusione, proiezione di determinati aspetti della coscienza del protagonista? Essenziale, ma adeguata la scenografia di Bettina Meyer (Light Design di Clemens Gorzella, costumi di YouJin Seo), un’ambientazione decisamente geometrica consistente in un cubo a scomparti dimensionabili e senza accessori.
Dove e quando Der Doppelgänger, Luzerner Theater, repliche 11.12.2024 e 23.1.2025. luzernertheater.ch
(Elmar Witt)
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L’arte di far suonare le macchine
Personaggi ◆ Intervista a Zeno Gabaglio che, con il suo trio Niton, sta per pubblicare un nuovo album di musica elettronica mentre si appresta a partecipare in modo originale al centenario pucciniano
Alessandro Zanoli
Musica elettronica: un concetto forse fuori moda, superato dai tempi. Quale tra le note che ascoltiamo oggi nei più vari contesti (persino dalla tastiera di un animatore alla tombola per anziani) non ci arriva attraverso una sofisticata sintesi elettroacustica? Il termine, comunque, per come lo si intende generalmente, si àncora a una tradizione di sperimentazione novecentesca. Tutta una serie di celebri compositori «moderni» si sono misurati con le possibilità di creazione sonora mediata da onde elettromagnetiche (pensiamo al laboratorio di Gravesano, gestito da Hermann Scherchen) e persino una corrente del pop progressivo tedesco, negli anni Settanta, aveva attinto idee e atmosfere da quell’ispirazione sperimentale. «Far suonare le macchine» è un’attitudine che comporta anche una sua componente ludica: mille cavetti di collegamento uniscono tra loro apparati pieni di pulsanti e lucine, e spesso fare musica elettronica significa avventurarsi in un percorso di scoperta. Forse per questo le atmosfere che se ne ricavano sono spesso sognanti, sospese, rarefatte, quasi esoteriche. Il lungo preambolo serve a introdurre e a inquadrare la cornice in cui lavora una delle formazioni più interessanti sulla nostra scena musicale. Niton è un trio dedito alla sperimentazione elettronica costruito attorno a tre musicisti: il violoncellista Zeno Gabaglio, il tastierista Luca Xelius Martegani e il «rumorista» che si nasconde dietro allo pseudonimo di El Toxyque. Il gruppo ha festeggiato lo scorso anno il decennale dalla sua nascita e, in un settore musicale così di nicchia, la ricorrenza merita di essere sottolineata. Si tratta in effetti di un’esperienza il cui valore artistico è stato confermato da vari riconoscimenti, anche internazionali. I Niton hanno al loro attivo tre dischi, di cui l’ultimo, Cemento, è stato pubblicato dalla casa discografica di Berlino Shameless Records, mentre è di imminente uscita il loro nuovo album, intitolato semplicemente 11
Alla componente elettronica, i tre di Niton hanno fin dall’inizio associato un’importante componente improvvisativa. «Eravamo nati undici anni fa come gruppo di improvvisazione», ci racconta Gabaglio «poi ci siamo accorti, col passare del tempo, che adottare delle strutture (anche se
non ci diamo mai delle partiture completamente scritte) può essere più interessante, più divertente e il risultato può essere anche più soddisfacente per chi ascolta. Quelle strutture prestabilite possono essere degli schemi formali (in cui comprendere anche la pura improvvisazione) oppure idee di arrangiamento, centri tonali di riferimento, eventuali scansioni ritmiche. È una cosa che ci piace fare». Questi elementi vengono definiti nel corso delle prove: «Capita che ci si incontri, in previsione di qualche concerto, e ci si scambi spunti e idee, sia concreti sia astratti. Da lì si parte con il lavoro di prova, attorno a materiali armonici, melodici o ritmici».
Si può dire che la musica di Niton nasca come output di un processo di ricerca che ognuno dei tre componenti svolge singolarmente. «Quando ci incontriamo è un po’ come se portassimo il meglio di quello che abbiamo scoperto individualmente e ci interessa. Per esempio: nel resto della mia attività lavoro spesso su colonne sonore cinematografiche o teatrali, ma non le vivo come compartimenti stagni. Si crea anzi un interessante scambio bidirezionale, ed è particolarmente fertile portare in una determinata esperienza materiali che magari sono nati e maturati da un’altra parte. Anche se si tratta di contesti molto diversi – situazioni o ambientazioni assai lontane – le relative musiche possono avere un destino comune. È bello poter pensare che la propria musica non sia qualcosa di granitico o unidirezionale, ma che possa percorrere più strade dell’esperienza».
Parlando del sound dei Niton è inevitabile accostarlo alla corrente della musica elettronica tedesca degli anni Settanta. «Quell’esperienza ci piace molto, ma non abbiamo nessun intento di emularne i gruppi. Un collegamento è dato dal fatto che Luca Xelius Martegani suona esclusivamente sintetizzatori analogici: inevitabilmente quel tipo di suono rimanda ai fasti che furono della kosmische Musik, come anche una grammatica dello sviluppo musicale per fasce lineari – quindi meno verticale, meno armonica, meno ritmica – che si prende i tempi per un’evoluzione più lenta degli elementi dell’onda».
Per quello che riguarda invece gli altri componenti del gruppo? «Io uso
un violoncello elettrico, passato attraverso vari effetti, che gestisco tramite una pedaliera piuttosto complessa e in continua evoluzione. El Toxyque, invece, il nostro “musicista mascherato”, usa oggetti amplificati o strumenti utilizzati in modo improprio. Per esempio un banjo “preparato” che diventa una percussione, la ruota di una bicicletta sopra un microfono, le molle degli ammortizzatori di una vecchia Opel. La sua è una parte che potremmo definire rumoristica, ma che in certi punti può anche diventare intonata, quindi melodica o armonica. In generale, cerchiamo di dare agli strumenti una definizione di suono che non si limiti all’estetica di certe musiche cosiddette contemporanee, e che spesso appaiono come pericolosamente esoteriche. Cerchiamo anche di evitare etichette come “ricerca” e “sperimentazione”, perché mettono una distanza artificiosa tra ascoltatore ed esperienza: ci aspettiamo di sentirci dire “fammi sentire quello che suoni, e che sia frutto di ricerca o meno, poco importa!”».
Nell’equilibrio delle parti possiamo forse dire che a El Toxyque spetti un ruolo ritmico, a Gabaglio un ruolo melodico e a Martegani un ruolo armonico: «In nuce è così! A volte sia-
mo però piacevolmente sorpresi di noi stessi quando – riascoltando quello che abbiamo fatto – fatichiamo a capire chi ha prodotto determinati suoni.
A volte le nostre rispettive parti e sonorità si sovrappongono, si confondono. Questo è forse il miglior sintomo dell’esistenza di quello che potremmo definire “suono del gruppo”».
Alla dimensione sonora di Niton, si affianca anche una importante dimensione «visiva». Da un lato una cura estrema nelle pubblicazioni discografiche, che rendono i dischi dei veri oggetti d’arte. Dall’altro, nelle esibizioni dal vivo, la presenza delle proiezioni curate da Roberto Mucchiut. «Possiamo dire che Roberto sia il quarto membro di Niton. Quello che lui fa con noi dal vivo ha un approccio simile al nostro: una parte estemporanea, improvvisata, e un’altra preparata».
Per quello che riguarda i dischi, gli album di Niton sono originalissimi, straordinari. «Quando abbiamo iniziato a pubblicare dischi si stavano affermando le piattaforme di streaming, per cui aveva senso dare un valore aggiunto all’oggettualità degli album, quindi degli LP in vinile con delle grafiche e un’esperienza tattile fuori dal comune. Il disco a 33 giri presup-
pone anche un rapporto diverso con l’ascolto, perché già solo lo sforzo di andare a metterlo sul piatto in qualche modo ti invita pure a sederti ad ascoltarne senza interruzioni almeno un lato. La particolarità dei nostri vinili nasce dal rapporto che ci lega all’etichetta con cui abbiamo sempre pubblicato, Pulver und Asche, che ha nel suo nucleo fondatore Alfio Mazzei, grafico ticinese tra i più visionari della sua generazione. Alfio è un creativo puro, e più la sfida si alza, maggiori sono per lui gli stimoli. Si tratta inevitabilmente di tirature limitate, ma questo rende ancor di più i dischi degli oggetti di prestigio. Dei veri e propri pezzi unici». In conclusione, oltre all’uscita del nuovo album, ci sembra utile sottolineare la prossima apparizione live del gruppo: Niton si esibirà a Vacallo domenica 24 novembre per la prima dello spettacolo Manon.recomposed, ideato in onore di Giacomo Puccini, di cui quest’anno si celebra il centenario della morte. L’accostamento non è casuale, visto che la Manon Lescaut era stata composta da Puccini proprio a Vacallo, a poche centinaia di metri dalla casa di Zeno Gabaglio. Una di quelle coincidenze che, a volte, sono proprio suggestive…
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Un’immagine del Trio Niton. (Giuliana Altamura)
Da questa offerta sono esclusi gli articoli già ridotti.
Walter Siti
nell’immagine usata per illustrare la copertina di 100% Walter. Chiari. Biografia di un genio irregolare di Michele Sancisi. (Baldini+ Castoldi)
Chiari di luna
col grande Walter!
Biografie ◆ Nel nuovo libro di Michele Sancisi, a ricordare l’attore e comico – di cui ricorre il centenario dalla nascita – è il figlio
Simone Annichiarico, coautore del volume can Michele Sancisi
Giovanni Medolago
«Un libro-treno su cui saliranno molti personaggi e molte storie, per un viaggio senza mappe, alla ricerca della vera essenza di un protagonista per certi versi incollocabile». Così Michele Sancisi presenta 100% Walter. Chiari. Biografia di un genio irregolare, la sua ponderosa quanto recente opera sulla vita di Walter Chiari (Baldini+Castoldi).
Autore televisivo e giornalista, Sancisi gli aveva già dedicato Un animale del palcoscenico, aggiudicandosi così il premio quale miglior Libro di Cinema 2011, anno in cui ricorreva il ventesimo dalla morte dell’attore. Oggi, a cent’anni dalla nascita del suo idolo, Sancisi coinvolge nella sua nuova ricerca biografica il figlio unigenito di Walter, Simone Annichiarico; il quale svela aneddoti incredibili, per esempio la volta in cui «si presentò truccato a dovere a un congresso scientifico e tenne una relazione –sotto falso nome – sul sistema nervoso centrale e alla fine ci fu un’ovazione».
Maurizio Porro: «Non era un comico buffo dalle giacche troppo grandi o troppo piccole…»
Simone rivela molti altri particolari su vita&morte del suo babbo: Gino Bramieri, grande amico, fu l’ultimo a vederlo vivo nel residence milanese dove Walter fu ritrovato morto il 20 dicembre 1991, solo e forse ancora deluso per il mancato riconoscimento quale miglior attore alla Mostra del Cinema di Venezia per la sua ultima performance in Romance. Il Leoncino lagunare andò invece al pur meritevole Carlo delle Piane (Regalo di Natale di Pupi Avati) e Lello Bersani, solitamente compassato critico cinematografico della RAI, commentò: «Certamente sarebbe stato meglio un ex aequo con Walter Chiari».
Sulla prima classe del treno 100% Walter, Sancisi e Simone fanno accomodare Mina: Chiari la invita a cena, inviandole un’auto con tanto d’autista. Dopo due ore buone di vana attesa al ristorante, Mina lo chiama al telefo-
no, avvertendolo: «Guarda che tra un po’ qui chiudono: siamo a Lugano!». Sta per andarsene quand’ecco l’affaccio del suo carissimo amico, naturalmente in compagnia di un gruppetto d’altri tiratardi da lui nel frattempo convocati. «Walter solo? Mai!», sentenzia Mina ricordando l’episodio, e confessando altresì d’aver rinunciato al risentito «Sei un incosciente!» masticato nelle ore d’attesa, una volta di fronte al sorriso birichino del ritardatario. Cronico ritardatario, concordano molti altri viaggiatori sul treno di Sancisi/Simone, che raggiunse il suo apice alla prima nazionale di Buonanotte Bettina, commedia musicale dell’infallibile coppia Garinei&Giovannini (strepitoso successo ottenuto poi in coppia con Delia Scalia e le melodie di Gorni Kramer). In programma al Teatro Alfieri di Torino nel novembre 1956, quella sera Walter non si fece vedere del tutto! Un desaparecido immediatamente perdonato dalle cronache d’allora: all’insegna del cherchez la femme, la colpa fu attribuita alle grazie di Lucia Bosè (Miss Italia 1947, amica di Hemingway e Pablo Picasso), una delle tante fiamme di Chiari che quella sera lo trattenne a Milano. E qui si apre il capitolo «gli amori di Walter»: nato l’8 marzo del 1924 (data omen?!), ha reso omaggio alle donne più belle della sua epoca, e certo non solo con le mimose. Attenzione però: varie testimonianze raccolte sul treno Sancisi/Simone concordano su un fatto: no latin lover, Walter fu sedotto più che seduttore. Erano le donne a corrergli dietro, a bizzeffe! Elsa Martinelli lo ricorda infatti come «un autentico gentleman»; Ava Gardner fu felice d’averlo non solo quale accompagnatore turistico nella Roma felliniana, dove Anita Ekberg uscì dalla Fontana di Trevi accolta –ci piace immaginare – dall’accappatoio offertole dal Walter.
Verso la fine della sua vita si accompagnò pure alla bionda dei «Ricchi&Poveri», Marina Occhiena: guarda caso una bella fotocopia di Alida Chelli, la mamma del suo unigenito figlio Simone. Forse – ma qui
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azzarda il vostro cronista – la Signora che Walter ha amato davvero e più di tutte.
Il suo umorismo nasceva dalla dialettica, dal suo modo di conversare come se i telespettatori fossero davvero nel salotto di casa
«Fu una rivoluzione nel varietà» scrive Maurizio Porro nella sua prefazione. «Non era un comico buffo dalle giacche troppo grandi o troppo piccole. Il suo umorismo nasceva dalla dialettica, dal suo modo di conversare come se i telespettatori fossero davvero nel salotto di casa». Poliglotta che snocciolava quattro lingue, fu nel cast di Sono strana gente (inglese australiano con la direzione della leggendaria coppia Powell and Pressburger); il Falstaff di Orson Welles, accanto a Jeanne Moreau, Marina Vlady, Ferdinando Rey e Sir John Gielgud; Bonjour tristesse di Preminger e un cast altrettanto stellare: Deborah Kerr, David Niven, Jean Seberg e Juliette Greco.
Il suo talento – unito a un’invidiabile quanto vulcanica presenza scenica – gli permise altresì di figurare nel cast di film (ne girò quasi 200!) firmati da registi del calibro di Luchino Visconti, Monicelli, Comencini, Damiano Damiani, Scola, Dino Risi. Di quest’ultimo la firma sulla migliore – ai miei occhi – e più toccante interpretazione di Walter Chiari: Il giovedì
Artista showman unico e inimitabile, immenso patrimonio artistico frutto di una carriera leggendaria e di una vita spericolata (non si tace sul mesetto trascorso a Regina Coeli per consumo di cocaina) che la biografia 100% Walter riesce appena a ricordarci, pur sfiorando le 500 pagine.
Bibliografia
Michele Sancisi e Simone Annicchiarico, 100% Walter. Chiari. Biografia di un genio irregolare Baldini + Castoldi, 2024.
Le nostre collaboratrici e collaboratori vi aspe ano a: Porza, Lugano, Bellinzona, Muralto, Balerna, Ascona, Biasca e Faido.
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VIVERE
Diventa imbattibile
con i puzzle
I puzzle sono un passatempo perfetto per le grigie giornate autunnali. Kristin Gall, prima campionessa svizzera di puzzle, ti svela i trucchi del mestiere.
Testo: Dinah Leuenberger
Giocare
VIVERE
Quali sono i puzzle più adatti ai principianti?
Se vuoi cominciare a fare i puzzle, dovresti iniziare con uno piccolino da 200 a 500 pezzi. Con pochi pezzi arrivi in fondo e finisci in fretta. Regola generale: le illustrazioni sono più facili delle foto in quanto quest’ultime presentano a volte sfumature di colore e ombre simili. Naturalmente il soggetto deve piacere, altrimenti non hai la pazienza di terminare il puzzle.
Dove bisognerebbe fare il puzzle a casa?
L’ideale è scegliere un tavolo grande o una superficie di appoggio ampia che non viene usata troppo spesso. In alternativa va bene anche un cartone di grandi dimensioni trasportabile. Fare i puzzle sul pavimento è piuttosto stancante. Inoltre occorre una buona luce, possibilmente diurna.
Come faccio a sapere quanto sarà grande il puzzle?
Di solito le misure sono indicate sulla confezione. Ovviamente bisogna prevedere parecchio spazio in più per sparpagliare bene i pezzi all’inizio. I puzzle da 1000 pezzi misurano in genere circa 50x70 cm.
Come bisogna procedere con i puzzle grandi?
Per prima cosa distribuisci tutti i pezzi sul piano di lavoro e girali con l’immagine rivolta verso l’alto. Separa quindi i pezzi dei bordi, cioè quelli con un lato diritto, e assemblali. Così facendo vedi già quanto sarà grande il puzzle. Raggruppa poi i pezzi di colore simile o con motivi vistosi e componi queste aree del puzzle separatamente. All’interno della cornice già assemblata il puzzle prenderà vita come un patchwork.
Cosa faccio se non riesco più ad andare avanti e non riesco a trovare il pezzo mancante?
Passa all’area successiva e smetti di cercare i singoli pezzi! Compariranno quasi da sé verso la fine del puzzle. Quando avrai quasi terminato, puoi anche separare i pezzi in base alla forma e riempire facilmente i pochi campi vuoti.
Come faccio a diventare più veloce con i puzzle?
Esercitandoti molto! Puoi comporre anche i puzzle misurando il tempo che impeghi per capire quanto ci metti. Ai campionati svizzeri, ad esempio, per un puzzle da 500 il tempo limite era di 90 minuti. Mentre giri tutti i pezzi, puoi già pensare da quale parte cominciare.
Come si compongono i puzzle in coppia?
Naturalmente è fondamentale comunicare. Bisogna parlarsi di continuo e spiegare chi sta facendo cosa, per evitare di aver bisogno degli stessi pezzi. Con un po’ di pratica s’instaura un buon ritmo di squadra, ed è davvero divertente.
La giocatrice di puzzle più veloce della Svizzera
A fine settembre Kristin Gall (26) di Winterthur ha vinto i primi campionati svizzeri di puzzle in singolo e in coppia con il marito René. Le sono bastati 43:07 minuti per completare un puzzle da 500 pezzi. Tra i suoi soggetti preferiti ci sono i puzzle di Mordillo e in generale quelli con le illustrazioni rompicapo. I prossimi campionati svizzeri di puzzle si svolgeranno a settembre 2025 nella Svizzera orientale.
Un chiodo sulla via del deserto buca uno pneumatico della due ruote, ma apre la strada a incontri inattesi, riflessioni tra gli ulivi e scoperte culturali
Folletti del bosco: creazioni naturali
Personaggi fiabeschi fatti con rami di nocciolo, pigne, ghiande e altri materiali: un progetto divertente e creativo che unisce manualità e amore per la natura
TiSki al cancelletto di partenza
Sport ◆ A segnare l’inizio ufficiale della nuova stagione è l’Opening al Centro sportivo nazionale di Tenero, questo sabato 9 novembre
Gli occhi sono puntati verso il cielo. È uno sguardo esplorativo, con la curiosità di capire se dalla volta celeste cadranno i tanto attesi fiocchi, «materia prima» per TiSki, l’organizzazione mantello delle società sciistiche della Svizzera italiana: «Complessivamente sono cinquanta i club che rappresentiamo, per un totale di circa 4mila persone», riassume la direttrice amministrativa di TiSki Anna Gabutti. «Siamo nati e andiamo avanti come Federazione di sci della Svizzera italiana, fin dalla sua nascita, nel 1942, e il cambio di nome in TiSki è stato voluto nel 2019 essenzialmente per praticità: il nostro raggio d’azione è rimasto il medesimo. E, in ogni caso, a livello istituzionale abbiamo mantenuto entrambi i nomi. TiSki è l’anello di congiunzione fra Swiss Ski e gli sci club, e raggruppa i sodalizi a essa affiliati attivi nella Svizzera italiana». Fatta la doverosa premessa, Anna Gabutti entra nel dettaglio delle cifre: «Circa la metà dei 4mila tesserati è costituito dalle Organizzazioni Giovanili (OG), ossia gli U16. È il nostro fiore all’occhiello: praticamente tutte le attività, e di riflesso quelle che ci vedono impegnati a fianco dei vari club, sono appunto concentrate in questa fascia di età».
Ancora troppo spesso TiSki viene però confusa con l’associazione ticinese dello sci di competizione: «La competizione, nelle varie categorie in cui lavora TiSki nelle rispettive discipline (sci alpino, freestyle, snowboard e sci di fondo), è sì una parte importante, ma non è l’unica e, anzi, a fianco di essa c’è tutta una paletta di attività che ci premuriamo di portare avanti e, dove possibile, supportare; progetti specifici che hanno come obiettivo la promozione degli sport invernali, intesi come quelli dello scivolamento in generale», spiega il vicepresidente di TiSki Matteo Cocchi: «I risultati non vengono per caso, ma sono la conseguenza di tutta una serie di presupposti affinché un giovane talento possa crescere. E uno di questi è rappresentato dalla solida collaborazione con i club, aspetto su cui negli ultimi anni abbiamo insistito parecchio. È infatti lavorando alla base, creando tutte le premesse affinché possa essere il più solida possibile, che si può ambire ad avere un vertice vincente. Per poterlo fare occorre dunque lavorare fianco a fianco ai vari club, proponendo tutta una serie di attività».
A segnare l’inizio ufficiale della nuova stagione è il TiSki Opening al Centro sportivo nazionale di Tenero, il 9 novembre. «Abbiamo deciso di riproporre questa giornata, sulla base del buon esito della prima edizione che ha avuto luogo nel 2023. In pratica, ai partecipanti offriamo un Power Test a secco, che serve a valutare la condizione fisica degli atleti. Sarà
l’occasione per avere tutti gli esponenti delle varie discipline radunati in un unico luogo, prima che ognuno prenda la propria strada, chi per le prove di sci alpino, chi per quelle dello snowboard e chi ancora per quelle del freestyle e del fondo. Così come l’inizio, medesimo sarà pure il capolinea della stagione invernale 2024/25: il 29 marzo, ad Airolo».
I tre giorni di Kids Ski Day avranno luogo a Campra (il 2 gennaio), a Campo Blenio (il 25 gennaio) e ad Airolo-Lüina (il 5 febbraio)
Neve permettendo… «Ovviamente, ma noi siamo fiduciosi» tiene a sottolineare Cocchi. «In più quest’anno ad Airolo dovrebbe diventare operativo l’impianto per l’innevamento, a tutto beneficio delle varie attività di scivolamento, freestyle in primis, ma anche tutte le altre discipline».
Particolarmente ricco è poi il «menu» 2024/25 delle attività per la promozione della competizione, rivolto ai giovani e giovanissimi (Under 12): «C’è un progetto specifico, “A tutto fondo”, che portiamo avanti in colla-
borazione con i club ticinesi che praticano lo sci nordico, concepito con l’intento di ricreare un gruppo competitivo in questa disciplina a partire dalle prossime stagioni» spiega ancora Anna Gabutti. «Altri appuntamenti da segnare nel calendario sono i Kids Ski Day – tre giornate di pura promozione, e dunque non competitive – rivolte ai giovani appassionati delle discipline dello scivolamento: una a Campra per gli appassionati di sci di fondo (il 2 gennaio) e, per le altre tre discipline una a Campo Blenio (il 25 gennaio) e una ad Airolo-Lüina (5 febbraio)».
Accanto a questi, come d’abitudine, sull’arco della stagione bianca TiSki proporrà i tre circuiti competitivi: il Raiffeisen Alpine Cup per lo sci alpino, l’Helvetia Nordic Cup per lo sci di fondo e la Raiffeisen Freestyle Series per l’appunto freestyle e snowboard. «Complessivamente saranno 31 le gare direttamente sotto la nostra regia: 16 di sci alpino, 9 di sci nordico e 6 tra freestyle e snowboard. Parallelamente, anche quest’anno ad Airolo, in collaborazione con Swiss Ski e Valbianca, proporremo due prove della Coppa Europa di aerials – la prima il 21-22 dicembre, che coinciderà
pure con l’inaugurazione ufficiale del rinnovato centro di Airolo, e la prova conclusiva della stagione, a inizio aprile – nonché i Campionati svizzeri, germanici e austriaci di gobbe». Dopo anni di assenza, il Ticino tornerà pure a ospitare le gare valide per gli Interregionali della Svizzera orientale (1114 febbraio), ad Airolo, con eventuale “piano B” a Carì».
Resta tuttavia l’incognita dell’innevamento: «Lo scarso innevamento non azzera i nostri piani e le nostre attività, ma logicamente ci costringe a elaborare nuovi scenari e a compiere mille peripezie per riuscire a garantire a tutti una stagione ottimale. Chiaramente, poter contare su una buona massa di coltre bianca nel nostro comprensorio ci permetterebbe di sposare al meglio le esigenze di un’attività agonistica sulle piste con quelle delle scuole, in particolare per i nostri OG».
Il binomio sport (agonistico)-scuola sta infatti parecchio a cuore alla TiSki. «Grazie alla collaborazione con l’Hc Ambrì Piotta, stiamo ad esempio portando avanti un progetto che consente ai giovani talenti nostrani di allenarsi in Leventina, pernottando lì in zona, e poi, al pomeriggio,
di potersi mettere in pari con lo studio facendo capo alle Scuole Medie di Ambrì. A curare questo aspetto è Elias Bianchi, ex discatore dei biancoblù. Stiamo anche lavorando affinché dall’anno prossimo si possa allargare ad altri studenti questo tipo di proposta. Per sensibilizzare le varie sedi di questa possibilità, l’anno scorso abbiamo organizzato un incontro con tutti i direttori delle Scuole medie ticinesi, e il riscontro che abbiamo avuto è stato molto positivo». Torniamo ad Airolo, e all’importanza che riveste, per le attività di TiSki la stazione altoleventinese: «È uno dei punti di riferimento, benché non il solo, per molte delle nostre proposte. A maggior ragione ora che è stata “promossa” a centro di allenamento nazionale del freestyle. Non a caso sono diversi i freestyler ticinesi che fanno parte dei quadri nazionali. Merito, anche, del lavoro di Marco Tadè, che ora che si è ritirato dal mondo delle competizioni internazionali si è rimesso in gioco come allenatore TiSki»
Moreno Invernizzi
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Sulla rotta delle carovane in sella a una moto
Reportage ◆ Tunisia: migliaia di chilometri, sabbia del deserto, e un chiodo nella ruota, quale occasione per fermarsi laddove il turista non sempre arriva
Guido Bosticco, testo e foto
Ore diciassette. Trenta gradi. Cinque chilometri dopo il casello direzione Nord. Autostrada A1, Tunisi-Sousse-Sfax. Un chiodo di quattro centimetri è perfettamente incastonato nel battistrada della ruota posteriore della motocicletta.
Alle spalle il sontuoso anfiteatro di El Jem, fra i più grandi e meglio conservati al mondo, a un’ora di viaggio la prospettiva della medina di Sousse, sul mare, davanti agli occhi, la Royal Enfield ferma sul ciglio della strada, carica di borse, di sabbia del deserto e a dire il vero anche di migliaia e migliaia di chilometri macinati negli anni in Eurasia e attorno al Mediterraneo. Ma ora inesorabilmente ferma per quel chiodo di quattro centimetri. È il momento che ogni motociclista teme, sebbene, intimamente, è anche il momento che ogni viaggiatore spera di vivere, perché sa che sarà l’occasione di incontrare persone, conoscere situazioni e luoghi strani, decisamente off the beaten tracks (fuori dai sentieri battuti).
La prima di queste persone, nel caso di specie, si chiama Abdellatif e sta perlustrando con il pick-up la sua piantagione di ulivi appena fuori dall’autostrada. Gli ulivi, in Tunisia, disegnano metà del Paese, punteggiando con regolarità maniacale le infinite pianure, alternati ai melograni, lungo vallate aride nell’estate bollente, che solo d’inverno ricevono acqua dai fiumi ora in secca. L’altra metà è deserto, bianco, abbacinante, affascinante.
Ma torniamo al grigio asfalto dell’autostrada. Abdellatif si ferma, sorride calmo, cerca di capire come può aiutare. Chiama suo figlio e suo fratello, che è meccanico, saranno qui in pochi minuti, portano anche due bottiglie di acqua gelata, che fanno sempre comodo se c’è da aspettare. I primi consulti prevedono ipotesi di vario tipo, fra cui sollevare la moto sopra il guardrail e caricarla sul pick-up per portarla in officina, subito scartate.
In Tunisia non hai mai la sensazione di essere solo, anzi ti senti osservato anche nel deserto, anche in uno sperduto paesino berbero apparentemente disabitato, anche in un torrido (ma meraviglioso) sito archeologico che è realmente disabitato: qualcuno ti osserva, sa che ci sei e che cosa fai, la qual cosa può essere inquietante, ma è soprattutto rassicurante. Ed è così che appaiono prima un furgone della sicurezza stradale e poi un carro attrezzi, che pattuglia costantemente l’autostrada. Un po’ di mercanteggiamento sul prezzo, come nel costume locale, e poi si carica la moto, direzione Sousse, da un gommista aperto ventiquattro ore. Si è fatto buio e il resto della serata è fra i copertoni e i cerchi, mentre Sabhi, il gommista, smonta e rimonta la camera d’aria e ripara il copertone. C’è tempo di riflettere, di riposarsi su un sedile di automobile posto nel cortile a uso dei clienti e di ripercorrere le tappe del viaggio che ci ha portati fin qui.
Arrivare in Tunisia dall’Europa via terra è oggi quasi impossibile, o incontri guerre o incontri dogane impervie, se non sbarrate. La via più comoda per arrivarci in moto (o in auto o in bici) è il traghetto dall’Italia. L’approdo a Tunisi all’alba dà subito l’idea del perché i Fenici vi abbiano posto la loro casa, Cartagine, mille anni prima dell’arrivo dei Romani,
affacciata su una insenatura naturale, calma, protetta e aperta alle spalle sulla pianura fertile. Sono molte le città puniche e romane in Tunisia e, anche per i non esperti di archeologia, il contatto con quelle pietre crea un legame diretto con il pensiero antico che aveva progettato le strade, le case, i templi, i mosaici, le fognature, le mura, i teatri, le terme, i porti. Tutto sembra riprendere vita.
Che cosa è cambiato da allora? Le cose che muovono l’animo umano sembrano sempre le stesse: l’amore e l’odio, le vette dell’arte, la durezza del lavoro, la speranza della religione, le bassezze e le grandezze della politica, il piacere della conversazione, la cura delle tradizioni. Tutto era già lì. Forse dovremmo chiederci piuttosto quali città lasceremo noi ai nostri futuri visitatori.
Tunisi, quella viva di oggi, è sontuosa, unisce i grandi boulevard francesi e la medina araba, i palazzi monumentali bianchi e stuccati e i portoni di legno intarsiati delle moschee, i negozi dei brand internazionali e le spezie del souk. È una capitale araba e mediterranea insieme. Ma è solo l’inizio di un movimento di culture e stili, che si apprezza soprattutto scendendo verso il Sud della Tunisia, lungo strade ben tenute e villaggi serafici. Certo, la quantità di plastica abbandonata ai bordi delle strade o negli angoli periferici dei paesi ci ricorda che questo pianeta sta soffocando, che dobbiamo darci una mossa o saremo sovrastati dai nostri stessi scarti, che si trasformeranno in qualcosa di meno visibile, forse, ma altrettanto pericoloso. A placare l’animo ci pensa però il Sahara. Il deserto è un passaggio mentale, oltre che fisico: arrivare al suo ingresso significa avere davanti uno spazio apparentemente infinito, apparentemente ostile, apparentemente omogeneo e poterlo assaggiare, anche solo da turisti, è un’emozione strana, un misto di inquietudine e di pace interiore. Tozeur, Kebili, Douz, Matmata, Tataouine sono nomi che
evocano piazze dai portici bianchi e bollenti ai piedi di moschee sempre in movimento, carovane di commercianti (un tempo) e di turisti (oggi). Eppure, anche se sulle dune all’orizzonte appaiono gruppi di Suv che scarrozzano a tutta velocità famiglie e compagnie di amici con gli smartphone appiccicati ai finestrini, l’idea di essere su una linea di confine, sul bordo di un mondo più potente di noi, non viene meno.
La sabbia bianca invade l’asfalto e piega i guardrail, i dromedari dinoccolati camminano accanto alla strada con il loro sguardo lontano e la loro flemma vigile, il lago salato di Chottel Jerid è asciutto e bianco da abbagliare, la strada che lo attraversa è dritta e solitaria, la luce imperversa su tutte le cose, a metà un cartello avvisa dell’assenza di segnale Gps: una preoccupazione che qualche anno fa non avremmo avuto. Tanto se un chiodo ti entra nella gomma della moto, sarà Abdellatif a darti una mano, non lo smartphone.
Informazioni
Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
Douz, la Porta del deserto. La piazza del mercato è un quadrato di portici, tranquillo e vivace insieme. All’ora della preghiera le botteghe chiudono, i commercianti vanno alla moschea; sotto da sin., Matmata, Sud est della Tunisia. Terra di Berberi e di case scavate nella roccia; a Sud, all’inizio del Sahara, sulla strada che conduce da Nefta (vicino a Tozeur) a Mos Espa, uno dei set di Star Wars; in basso, la baia di Hammamet è un rifugio incantevole, dominata dalla sua medina perfettamente conservata. Sono molti gli stranieri che si sono stabiliti qui per la pensione.
Così prendono vita i piccoli folletti del bosco
Crea con noi ◆ Sognando il magico mondo di mezzo, con pochi ma ricercati materiali naturali prendono forma i piccoli personaggi
Giovanna Grimaldi Leoni
Ecco come creare dei simpatici personaggi del bosco utilizzando rami di nocciolo e altri materiali naturali. I piccoli folletti prendono vita grazie a pigne, ghiande e gusci, impiegati per realizzare dettagli come copricapi e accessori. Questo progetto, che valorizza l’uso di materiali naturali, rappresenta un ottimo modo per stimolare la creatività e promuovere la connessione con la natura. I personaggi creati diventeranno perfetti compagni di gioco per i bambini. Inoltre, come tocco finale, potrete realizzare un piccolo carretto e una scatola per contenerli, utilizzando le confezioni delle uova. Sarà un modo divertente per dar vita a un magico mondo di folletti del bosco!
Procedimento
Con il seghetto taglia un ramo di
nocciolo in pezzi di circa 7-9 cm di lunghezza.
Con l’aiuto di un coltellino, rimuovi la corteccia per circa 1/3 della lunghezza del legnetto, per creare lo spazio dove disegnerai il viso del folletto. I bambini di 8-10 anni, possono essere introdotti all’uso del coltellino con la punta arrotondata sempre sotto la supervisione di un adulto. Utilizza ghiande, pigne, gusci e altri elementi naturali per creare simpatici cappelli e ornamenti per i tuoi folletti. Per aggiungere dettagli più morbidi o colorati, ritaglia del feltro con cui realizzare sciarpe, mantelli o altri accessori. Incolla questi elementi sul legnetto con colla a caldo o colla vinilica. Simpatici copricapi possono essere creati per esempio utilizzando solo la parte finale di una pigna, oppure ricavando dal carto-
Giochi e passatempi
Cruciverba
Come si chiama il vegetale ritratto nella foto e originario della foresta amazzonica? E cosa significa il suo nome? Scoprilo a soluzione ultimata leggendo le lettere evidenziate.
(Frase: 7 – 6, 5, 3)
ORIZZONTALI
1. Mancanza, carenza
6. Il cantante... bambino
9. Uccello marino
10. Contento... il ciel
lo aiuta
12. Questo a Trastevere
13. Sono formate da trefoli
14. Nei cerchi e nei triangoli
15. Tra i primi è l’ultima e tra gli ultimi la prima
16. Oasi del Marocco... vicina ai bambini
17. La lingua dei Trovieri
18. Il pentito se le mangia
19. Nella mitologia greco-romana era un semidio
20. Una fastidiosa incombenza
23. Aspri, acidi
24. Preposizione
25. Capostipite della razza nera
26. Paese dell’Africa orientale
VERTICALI
1. Compiacere con lodi e apprezzamenti
2. Ginevra era sua moglie
3. Pronome dimostrativo
4. Il dittongo di qualità
5. Sveglia, perspicace
ne delle uova la parte centrale più appuntita.
Utilizza dei pennarelli per disegnare un volto sorridente sulla parte del legnetto dove hai tolto la corteccia. Puoi personalizzare ogni personaggio come preferisci.
Scatola contenitore
Prendi due confezioni per uova e rimuovi le etichette. Elimina il fondo di ciascuna confezione, che potrai utilizzare per creare copricapi e accessori. Unisci i due coperchi con un rettangolo di feltro, in modo da formare una scatola perfetta per contenere i tuoi folletti.
Carretto
Con un ulteriore coperchio delle confezioni di uova, crea un piccolo carretto. Taglia il coperchio a metà e, con le forbici, riduci ciascuna delle due parti di circa 2 cm. Sovrapponi le due parti ottenute e fissale con della colla. Infila lateralmente due spiedini, praticando dei buchi nella confezione. Fai in modo che gli spiedini fuoriescano di 1 cm da entrambi i lati e fissa delle piccole ruote, utilizzando i cappucci delle ghiande. Incolla un legnetto per creare un manico al tuo carretto.
Alberi
I legnetti possono trasformarsi facilmente in tronchi di piccoli alberi. Divertiti a crearne di diversi tipi utilizzando la parte centrale dei cartoni delle uova o ritagliando delle sagome dal feltro. Decora a piacere con piccoli semi o con un pennarello.
Materiale
• Ramo di nocciolo (o altra pianta facile da intagliare) diametro circa 2 cm
• Pigne, ghiande, elementi naturali vari
• Confezioni delle uova
• Spiedini di legno
• Seghetto
• Forbici, pennarello fine, matita colorata rossa
• Colla a caldo o colla vinilica
(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
Posiziona i folletti del bosco e gli alberi sulla loro base e aggiungi altri elementi decorativi come foglie secche e pezzi di corteccia per ricreare un vero e proprio paesaggio fiabesco. Buon divertimento! Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
6. Avverbio di tempo
7. La patria di Abramo
8. Attira lupi affamati
11. Contrapposta all’altra
13. Dicesi di donna bellissima
14. Vicolo di Venezia
16. Ribollono nel San Martino carducciano
17. Le iniziali del pittore Rosai
18. Frecce
21. Le iniziali del pittore Guttuso
22. Ha denti d’acciaio
24. Si dice per esortare
25. Le iniziali dell’attrice Pandolfi
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
Soluzione della settimana precedente DAL SALUMIERE Una signora al salumiere: «Scusi ma il prosciutto lo vorrei più spesso»
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti
esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
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Viaggiatori d’Occidente
In vacanza con il cane: cucce sempre più ospitali
Alcune tendenze del turismo avanzano trotterellando, quasi di nascosto: i cani per esempio. In Ticino una famiglia su dieci ha un cane registrato e il loro numero è aumentato parecchio durante la pandemia, sia per introdurre un elemento di novità in un periodo di isolamento, sia per avere maggiori opportunità di uscire di casa. Il lavoro a distanza ha poi permesso a uomini e animali di trascorrere insieme parecchio tempo, con un reciproco addestramento per così dire, stringendo legami sempre più forti. Quando la pandemia è finita e abbiamo ricominciato a viaggiare, molti hanno sentito che non potevano separarsi dal loro cane. Con i gatti è diverso: possono essere lasciati a casa più facilmente e al tempo stesso è più complicato portarli con sé. I cani invece vorrebbero stare sempre coi loro padroni. Certo ci sono da tempo pensioni per animali e molti cani, dopo
il trauma della prima volta, possono trovarle anche divertenti. Ma comunque sono lontani dalla nostra vista e non possiamo sapere veramente come saranno trattati. E così gli operatori turistici si sono trovati alle prese con un nuovo e inaspettato problema (come se non bastassero quelli legati alla ripartenza dei viaggi dopo una lunga pausa). Le compagnie aeree, per esempio. Di regola già da qualche anno i cani di piccola taglia possono viaggiare in cabina con il loro proprietario, purché chiusi in un trasportino collocato sotto il sedile di fronte al passeggero. I cani di taglia media o grande invece finiscono nella stiva insieme ai bagagli, anche se in compartimenti speciali con temperatura e pressione controllati. Entrambe le possibilità però ‒ specie la stiva, dove il cane resta solo e spaventato ‒ sono sempre più sgradite. Alcune compagnie stanno tentando
Cammino per Milano
L’angelo di Fontana
Il vecchio tram numero dieci, con le sue panche di legno lucido e le luci-calici in vetro rigato, predispone sempre lo spirito. Ai primi passi sulla ghiaia del cimitero monumentale, nato nel 1866 su progetto di Maciachini che mi è rimasto in mente come nome-capolinea del metrò, m’impressiona il verde argenteo dei maestosi cedri e il gigantismo delle edicole funerarie. Il loro odore resinoso dopo la pioggia è nell’aria. Lo sguardo è catturato presto dall’imponenza dappertutto di sculture e tombe, stemperata dal giallino triste dei crisantemi che stanno sistemando in un’aiuola un gruppo di giardinieri di cui uno esclama, sospirando, inaspettatamente all’antica: «oh Signuur ». Lungo il viale dei tassi, nel punto di fuga, un angelo bianco. L’annunciazione, in marmo di Carrara, ai piedi dell’edicola-obelisco Falck, è rappresentata, rarità, assie-
me alla deposizione. Imbocco il filare dei tigli che in cima incominciano a gialleggiare. Il momento, a ridosso della settimana dei morti, per passeggiare qui, non è per niente male. All’ombra di un tiglio trovo l’angelo di Lucio Fontana (1889-1968). Del 1949, in ceramica smaltata a gran fuoco, sulla cui superficie corrugata color lavanda accesa si sono posate alcune foglie morte, sospeso dentro una struttura in granito di Crevola disegnata dall’architetto Renzo Zavanella (1900-1988), è magnifico. Ispirato dalla Nike di Samotracia –marmo pario, secondo secolo avanti Cristo, al Louvre – rinvenuta acefala e senza braccia, questo monumento funebre di una forza vitale debordante modellato a mani nude dall’artista noto per i tagli e buchi nelle tele, è posto per la tomba del commendator Paolo Chinelli (1880-1946). Il cui nome, scolpito sulla tomba, è coperto
Sport in Azione
soluzioni diverse e hanno scoperto che i padroni sono disposti a spendere cifre anche importanti pur di avere il proprio cane al fianco. Per esempio una Compagnia americana, Bark Air, offre voli charter tra New York e l’Europa con tariffe sino a 8mila dollari per cane e padrone. E Le Pet Express è un minibus per chi viaggia con animali domestici attraverso il tunnel della Manica fino al Regno Unito. Ma anche a un diverso livello di ricchezza, supplementi di 100 o 150 franchi per una più confortevole sistemazione dell’animale sono accolti senza fiatare.
Dal momento che volare col proprio cane resta comunque costoso e complicato, molti proprietari semplicemente danno la preferenza a lunghi viaggi in treno o in auto, quando non ci sono oceani di mezzo. La pressione si sposta così sugli alberghi, ai quali si chiede di poter condividere con il pro-
prio cane la camera (e inevitabilmente alcuni spazi comuni). Per esperienza personale posso dire che la situazione sta cambiando molto rapidamente. Solo qualche anno fa pressoché tutti gli alberghi respingevano il mio cane, nonostante la taglia media e il buon carattere. In particolare durante un viaggio in Germania fui costretto a dormire con famiglia e bestia in una tenda di fortuna, che per caso avevamo nel baule della macchina (un’esperienza che, dopo l’iniziale disagio, si rivelò molto divertente peraltro).
Oggi la mia cagna è ben accolta quasi ovunque, a volte anche con piccoli regali (una coperta, un fazzoletto da collo, un gioco, una ciotola per l’acqua eccetera). Anche nel caso degli hotel eventuali richieste di quote aggiuntive non sono un problema, anche perché i proprietari risparmiano comunque sul costo della pensione per animali. Sonesta International
Hotels, una catena particolarmente ben disposta in questo campo, ha visto crescere di quattro volte nell’ultimo anno le prenotazioni di questo tipo. E nove dei 24 marchi Hilton sono già pet-friendly. Qualcuno propone anche offerte speciali VIP (Very Important Pet), quali un servizio fotografico dedicato a cane e padrone. Del resto gli alberghi hanno molte ragioni per darsi da fare; già ora un quarto delle residenze disponibili su Airbnb accoglie animali domestici. Vengono poi musei e gallerie d’arte. Se i cani non sono ammessi (è il caso più frequente) spesso i padroni sostituiscono l’esperienza culturale con una passeggiata nella natura o un bagno in laghi e fiumi. Insomma il cane non è più solo una sorta di bagaglio vivente, ma un compagno di viaggio a tutti gli effetti, che influenza scelte, itinerari, esperienze. Gli operatori sono avvisati.
dal mare di foglie. Sul corpo dell’angelo acefalo e senza braccia come la dea alata della vittoria ritrovata sull’isola egea, tra le pieghe della sua veste in volo, vive del muschio. Le alette, in origine color oro, ora sono bronzee con scintille d’oro. La struttura di Zavanella, autore negli anni Trenta di una villa duplex a Sermide, provincia di Mantova, considerata il miglior esempio di razionalismo nautico italiano, oggi caduta in rovina, gioca un suo ruolo nell’incanto dell’angelo. Lo protegge e lo libera al contempo, accentuandone il movimento: la teca in granito che lo incornicia è costituita più da spazio aperto che chiuso: cinque rettangoli ariosi e tre parti di lastre in granito ossolano. Su una di queste, in fondo, è incisa una corona di spine, due lance, una scala a pioli, un trespolo con un gallo. Non resisto, già che ci sono vado cercare un’altra opera di Fon-
diffidati. Ma non tutti sono d’accordo
Le curve sono anima, ossigeno, linfa vitale, magia, stupore, creatività, fede. Chi sta in pista o in campo lo percepisce. Tuttavia non capisco perché, a volte, espongano striscioni con i quali manifestano il loro attaccamento ai compagni cui è stato imposto il divieto di seguire la squadra del cuore a tempo determinato. Si tratta di un fenomeno diffuso nel mondo dell’hockey su ghiaccio e del calcio. Per quale ragione difendere un tifoso colpito da un decreto che va a toccare chi si è reso responsabile di atti contro la legge?
Penso ad analoghe reazioni corporativistiche di altre categorie: clero, medici, poliziotti, avvocati, insegnanti, eccetera, tutte degne di stima e di rispetto. Al loro interno, fisiologicamente, si insinua la nota stonata. Un coro non se lo può permettere, fosse anche solo una. Perché quindi difendere a oltranza chi non è in sinto-
nia? È bello che lo si aiuti a ritrovare la linea melodica. Ma se la cacofonia persiste, sono dell’avviso che sia meglio prenderne le distanze in modo da evitare che la credibilità di un intero gruppo sano venga compromessa all’orecchio degli altri. Ho raccolto risposte che raccontano di un codice etico della tifoseria organizzata estrema. Fatto di consapevolezza che certi comportamenti possano scivolare al di là delle regole. Ma anche della coscienza di essere disposti ad assumersi le responsabilità di queste infrazioni. Alcuni termini, come colori, bandiera, maglia, nemici, fede, sono stati un motivo ricorrente dei dialoghi con alcuni «capicurva». Ho percepito una dimensione quasi mistica del tifoso, lanciato in una sorta di viaggio spirituale verso un mondo ultraterreno in cui i limiti si dilatano, e dove vengono accettati comportamenti vietati dalle consuetudini comuni.
Un appassionato già oltre i trenta ha tentato di farmi capire che gli striscioni a difesa dei diffidati non sono necessariamente un segnale della volontà di riammetterli in curva ad ogni costo. Esprimono semplicemente un gesto di solidarietà e di vicinanza nei confronti di chi è costretto a rimanere fuori le mura. Anche perché, a detta loro, le diffide e le sanzioni sono spesso inique. Un altro ultrà ha accennato a un compagno che si è visto mettere al bando per cinque anni per aver sradicato dal suo posto un cestino metallico per i rifiuti, preso in sostituzione del tamburo che era stato dimenticato a casa. Non sta a me giudicare, anche se, francamente, la sanzione mi è parsa esagerata, tanto più che si è trattato di un atto di vandalismo che colpisce, sì, un bene pubblico, ma è ben lungi da atti di violenza che possano compromettere l’incolumità di un rivale. Le bagarre, si sa, sono parte inte-
tana. «Adesso vi faccio vedere una tomba che a me piace molto» dice una guida al suo gruppetto di visitatori tra i quali due modaiole in trench e cappellino: è la tomba dell’attrice Dina Galli. Un vecchietto con il zekyboy, taglia l’erba davanti a una tomba-edicola vittima dell’egittomania ottocentesca. Mi accovaccio per accarezzare un gatto randagio bianco e rosso. E poi mi smarrisco, in questo museo-labirinto, beccando per caso, con la coda dell’occhio, il nome di Portaluppi su una lapide e una scultura di Wildt. Con tutte le opere, le persone, le storie, gironzolando qui si potrebbe quasi tenere una rubrica solo sul monumentale. Un albero sradicato dalla tempesta, una Madonna caduta, ed ecco quello che cercavo: tre colombe in volo che sembrano un ramo d’oro. Non male, però di colpo mi manca già l’angelo e torno, così, nel riparto II, a trovare
il monumento Chinelli. Nel frattempo, è apparso un mazzo di crisantemi pallidi. Qualcuno ha spazzato le foglie e sulla tomba di famiglia appaiono i nomi, i numeri degli anni si sono persi. Nonostante sia inzuppata, mi siedo sulla panchina in pietra di fronte, per affinare le sensazioni e lo studio dell’angelo. Ora, con la pioggerella di quasi fine ottobre e una lieve bruma e lo sfondo neutro del cielo, con il caos della città attutito ma finemente udibile, risalta precisa l’ariosità della teca dove ci sono sette goccioline. «Non al corpo sepolto si pensa, ma all’anima liberata» le parole di Gio Ponti, tra le pagine di «Domus», giugno 1953. E adesso, in questo mese in bilico tra gioia e malinconia, balza agli occhi ancora meglio la bellezza dell’angelo azzurro-lilla che ricorda il mare increspato, la gonna froissé di una ballerina, la coda di un cigno.
grante della filosofia delle curve. Chi sostiene visceralmente i propri colori sa che lo deve fare mettendosi in gioco anche fisicamente. Attento tuttavia al fatto che spranghe, tirapugni e coltelli non debbano fare parte del kit del bravo ultrà. Bravi, mi dico, ma penso che in fondo anche un cazzotto mal assestato può provocare danni irreparabili. Mi viene fatto notare che, almeno nell’hockey su ghiaccio, lo scontro fisico è incluso nello «show». Due o più giocatori si possono affrontare a mani nude, sotto lo sguardo di arbitri e linesman che intervengono solo quando uno dei due contendenti viene scaraventato sul ghiaccio. Quante volte è capitato di sentire i nostri commentatori deplorare questo «spettacolo» e ascoltare l’opinionista di turno, ad esempio Marco Baron, ex portiere che ha calcato anche i palcoscenici della NHL, affer-
mare che la bagarre è a volte cercata per cambiare l’inerzia della partita e per rendere l’esibizione ancora più rovente. «Vede – mi dice un giovane supertifoso – loro si menano in pista e si beccano due minuti di penalità per “durezza eccessiva”. Noi ci vediamo esclusi dagli stadi per uno, due o più anni. Le sembra corretto?» Come dargli torto?
Tuttavia continuo a pensare a un mondo ideale in cui avvocati, medici, sacerdoti, poliziotti, insegnanti, tifosi, tendano il loro animo verso un coro che canta all’unisono. Senza stonature. La sua musica tuonerebbe molto più soave anche all’orecchio di chi magari sonnecchia in tribuna, stimolandolo a unirsi a canti e danze. Per la squadra, l’energia risulterebbe decuplicata. Senza conflitti interni alla tifoseria. Tutti uniti per una causa e un obiettivo comune: lo spettacolo, la vittoria, la gloria.
di Claudio Visentin
di Oliver Scharpf
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