Azione 46 del 11 novembre 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio La rabbia è un’emozione ancora tabù per le donne, eppure può essere utile e favorire mutamenti sociali

Ambiente e Benessere Nasce in Ticino la rete medX, il primo consorzio di medici di famiglia attivi sul territorio già riconosciuto da alcune assicurazioni malattia. Ce ne parlano il dottor Christian Garzoni e la dottoressa Greta Giardelli

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 11 novembre 2019

Azione 46 Politica e Economia Cina e Russia, due visioni contrapposte: ce lo spiega Garry Kasparov

Cultura e Spettacoli Ritorna sugli scaffali delle librerie il grande scrittore austriaco Thomas Bernhard

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Nuovi binari per la Vetta

Stefano Spinelli

di E.Stampanoni pagina 2

L’urgenza della nuova generazione di Peter Schiesser «Mamma, è stata una vacanza bellissima, ma la prossima volta l’aereo lo prendiamo fra cinque anni; abbiamo inquinato moltissimo». Un’amica mi racconta il commento di sua figlia di dieci anni al ritorno da Valencia: «cosa dovevo dirle?». Aveva semplicemente ragione. Questa è la generazione Greta. Incredibile che una bambina, non sottoposta ai media, in qualche modo avesse già interiorizzato il messaggio dell’icona mondiale della gioventù. Quest’amica completa il racconto aggiungendo quanta plastica, quanti rifiuti, quanti mozziconi di sigarette semplicemente venissero gettati ovunque, ripuliti la sera con potenti getti d’acqua (per finire dove?): anche nella vecchia Europa c’è ancora tanto da fare. Immaginate che cosa significano cinque anni nella mente di una bambina di dieci anni: quasi un’eternità. La sua frase esprime un’urgenza di azione che la nostra generazione (quella del baby boom e quella immediatamente successiva), abituata ai tempi lenti dei cambiamenti della politica di ieri, non sembra in grado di capire. I nostri figli ci stanno dicendo che non c’è più tempo per indulgere in

uno stile di vita che sta depauperando il pianeta, che non ci sono più scuse, che il cambiamento deve avvenire ora. E non è solo una bimba di dieci anni che lo manifesta: nel corso di un panel di discussione intergenerazionale a Roma su ipotesi di progetti legati a sviluppo, clima, ambiente, ho constatato che fra la nostra generazione e quella dei giovani c’è una faglia temporale in cui si innesta l’urgenza di agire. In loro non c’è più la disponibilità di attendere i tempi lunghi della vecchia politica. Certo, potremmo commentare che questa urgenza è figlia di un’ingenuità, della scarsa conoscenza di come vanno le cose nel mondo, anche nell’alta politica, quella delle organizzazioni internazionali (ma i trentenni di questo panel sono tutti attivi nelle istituzioni). Tuttavia, ad essere onesti bisogna riconoscere che sono loro, non noi, i figli di questo tempo, il tempo determinato dalla velocità dei cambiamenti tecnologici che stanno rivoluzionando ogni aspetto della vita e dell’economia. E dalla loro parte sta la constatazione che il futuro appartiene a loro, che noi rappresentiamo il vecchio e dovremmo onestamente cominciare a lasciare spazio a loro. Anche perché – almeno il sottoscritto – non riusciamo neppure più a stare al passo con la velocità dei cambiamenti tecnologici del presente.

Invece, che cosa vediamo? Che la generazione anziana, fino agli ottantenni e ai novantenni, non ha nessuna intenzione di liberare il campo, pretende di occupare ancora gli spazi della politica, dell’economia, anche del dibattito pubblico. E lo fa in parte con un – per me – incomprensibile astio verso Greta Thunberg e la sua generazione. Possiamo leggerlo nei commenti sui giornali: esprimono a volte disprezzo e cattiveria verso questi giovani. Cercano – cerchiamo – di giustificare lo status quo in nome di una stabilità, di un modello di vita che ci ha dato benessere (e non lo vogliamo perdere), senza renderci conto che questa stabilità non esiste più, che esiste solo ancora nelle nostre menti, nei nostri desideri. Invece dovremmo accettare che il mondo sta affrontando delle sfide completamente nuove, e quindi cominciare a passare il testimone a chi vivrà il domani. È paradossale che proprio i più anziani, cui spetta ancora poco tempo da vivere, vogliano dire ai più giovani che cosa è giusto per il loro futuro. Lasciamo che siano i giovani a prenderlo in mano già oggi, osando, sbagliando, innovando e migliorandolo secondo le loro capacità, e cominciamo a ritirarci con umiltà in buon ordine. Ricordando che non siamo eterni.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Attualità Migros

Nuovi binari per arrivare in vetta

Ferrovia Monte Generoso Il rifacimento dell’intera tratta di nove chilometri si svolgerà durante le chiusure

invernali dei prossimi quattro anni, garantendo la continuità della linea, che ha raggiunto i 130 anni di vita Elia Stampanoni Dopo 130 anni d’esistenza è giunto il momento di un importante rinnovo per la Ferrovia Monte Generoso. In questi giorni d’inizio novembre (gli scavi inizieranno il 18) stanno prendendo definitivamente avvio i lavori di rifacimento di tutta la sovrastruttura ferroviaria: binari, cremagliera e traversine, ma anche buona parte della massicciata costituita da ghiaia, che verrà pure parzialmente rimpiazzata. L’importante investimento ammonta a 22 milioni di franchi e conferma l’interesse e l’importanza per questa ferrovia a cremagliera, l’unica del Ticino, che nel 1941 fu salvata dal fondatore della Migros, Gottlieb Duttweiler, il quale la comprò in un momento di difficoltà e oggi, dopo 75 anni, la linea ferroviaria continua a essere sostenuta grazie al contributo dal Percento culturale Migros. Dopo le prime salite del 1890, l’attrazione turistica della ferrovia andò scemando e durante gli anni della Seconda guerra mondiale ci fu il rischio che la struttura venisse smontata e il materiale, soprattutto il ferro dei binari, venduto. La lungimiranza del fondatore di Migros, fermamente convinto che l’accesso ferroviario alla straordinaria terrazza panoramica doveva essere mantenuto, salvò la Ferrovia del Monte Generoso che è di seguito diventata un punto di riferimento nel Mendrisiotto, come ha sottolineato anche il sindaco di Mendrisio Samuele Cavadini durante la cerimonia d’inaugurazione dei lavori tenuta lo scorso 2 novembre presso la stazione di Capolago. Dall’originaria trazione a vapore, negli anni cinquanta si passò al diesel e, nel 1982, alla trazione elettrica, rendendo possibile il progressivo potenziamento della frequenza e della capacità di trasporto dei passeggeri, i quali possono oggi raggiungere la vetta del Generoso in circa 45 minuti.

Lorenz Brügger, a destra, direttore della Ferrovia Monte Generoso SA, presenta il progetto alla stampa. Alle sue spalle da sinistra Massimo Bosisio, capo esercizio Ferrovia Monte Generoso SA, Samantha Martinelli, vice-direttrice e il sindaco di Mendrisio Samuele Cavadini. (S. Spinelli)

In occasione del simbolico «colpo di pala», Lorenz Brügger, direttore della Ferrovia Monte Generoso SA, ha pure evidenziato che questo ulteriore investimento da parte del Percento culturale Migros, unito a quello del 2017 per il Fiore di pietra progettata da Mario Botta, totalizza una somma pari a 50 milioni di CHF. Gli interventi verranno eseguiti durante il periodo di chiusura invernale della ferrovia, che è stato prolungato da inizio novembre a fine marzo. I lavori del genio ferroviario sono stati affidati al Gruppo Sersa AG con la sua sede di Lumino, mentre la Tensolrail di Giornico fornirà il nuovo binario completo. Quello attuale, risalente al 1890, richiede dunque una sostituzione dovuta principalmente all’usura. La ditta Fontana Leonello di Rancate s’occuperà invece di fornire la ghiaia per la massicciata che andrà pure sostituita per circa il 60%, in

I nuovi pensionati di Migros Ticino

modo da eliminare le impurità accumulatesi negli anni. La progettazione è stata affidata al consorzio BW, formato da Brenni Engineering di Mendrisio per la parte del genio civile, Wild Ingenieure di Küssnacht am Rigi per la tecnica ferroviaria e Oikos Swiss quale consulente in tematiche ambientali, mentre Pini Swiss

Iniziata la caccia al binario Un’altra novità: la Ferrovia Monte Generoso ha deciso di coinvolgere chi desidera lasciare ai posteri un segno del suo attaccamento al Monte Generoso. Con un’offerta di 130 franchi (tanti quanti gli anni della ferrovia!) per la sponsorizzazione simbolica di un tratto di binario, si potrà sostenere la ri-

Minispettacoli A Muralto una proposta originale per festeggiare

la Giornata dei diritti dei bambini, domenica 17 novembre

Biglietti in palio

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

strutturazione della Chiesetta in vetta al Generoso e alla fine dei lavori, verrà creato un albo celebrativo con i nomi di coloro che avranno scelto di far parte della Ferrovia Monte Generoso per i prossimi 130 anni e oltre. Per informazioni: info@montegeneroso.ch – Tel. 091 630 6111.

Il Niger e le sue storie L’appuntamento domenicale con i Minispettacoli cambia sede, in occasione della Giornata dei diritti dei bambini. Domenica 17 novembre infatti la rassegna di teatro per l’infanzia presenterà al Palazzo dei Congressi di Muralto, inizio ore 17.00, la pièce Kanu = Amore. Si tratta di un’opera di teatro d’artista in cui

Negli scorsi giorni il Comitato di Direzione della cooperativa Migros Ticino ha ringraziato i 23 collaboratori che quest’anno hanno raggiunto il pensionamento o prepensionamento e che in media hanno 26 anni di servizio. Nella foto, in rappresentanza di tutti, sono ritratti alcuni dei festeggiati: Yvonne Richina, Silva Bravo, Marianna Laveder, Sonia Rocca, Assunta Accardi, Eliana Stallone, Graziella Simone, Esther Vanossi, Rosa Mastrillo, Donatella Adro, Pier Paolo Born, Giovanni Mu, Luigi Calignano, Franco Cereda, Danilo Brenna, Franjo Kuzmic, Marco Belluschi.

si occuperà della direzione gestionale dei lavori. La prima fase delle operazioni si concluderà a primavera 2020, dato che la ferrovia dovrà riprendere la sua attività regolare il 28 marzo. «Prevediamo una sostituzione a tappe, che dovrà anche adattarsi alle condizioni meteorologiche. Se tutto dovesse andare secondo programma dovremmo terminare i lavori

in quattro anni (un quinto anno è tenuto come riserva)», ha spiegato il direttore Brügger. Un intervento importante e anche impressionante se si pensa ai nove chilometri della ferrovia che significano per esempio oltre 13’500 traversine che andranno sostituite, come ha precisato Massimo Bosisio, capo esercizio della Monte Generoso. Lavori che garantiranno un corretto funzionamento della ferrovia per altri, tanti, anni. Durante la prossima stagione d’esercizio non ci saranno quindi disagi o limitazioni per gli utenti della ferrovia del Generoso che potranno continuare a salire in vetta per raggiungere il Fiore di pietra oppure per godersi le molte altre attrazioni che può offrire la regione. Pensiamo per esempio alla fitta rete di sentieri da percorrere camminando, in bicicletta o di corsa, alla via ferrata, all’osservatorio astronomico o ai percorsi tematici, come quello dei pianeti o delle «nevère» (antiche costruzioni usate come depositi di neve per conservare gli alimenti), ma anche alle altre attività legate al territorio, all’ambiente e alla natura. Non mancano spunti per gli amanti della geologia, della flora o della fauna, senza dimenticare che il Fiore di pietra è pure una meta privilegiata per cene, banchetti o altri eventi che, anche grazie all’attività della ferrovia, si potranno continuare ad assaporare anche in futuro. Oltre al servizio turistico ordinario, la Ferrovia propone anche dei viaggi speciali che rimandano agli albori della struttura, agli anni della «belle époque». Per due volte al mese nei mesi di giugno, luglio e agosto, la salita da Capolago può infatti essere affrontata su suggestive carrozze panoramiche del 1909. Il viaggio assume il sapore ancor più nostalgico grazie alla locomotiva a vapore del 1890, oppure alla più recente motrice diesel, che conducono i viaggiatori in vetta in un’ora e mezza.

«Azione» mette in palio tra i suoi lettori alcune coppie di biglietti gratuiti per lo spettacolo Kanu=Amore in programma il 17 novembre al Palazzo dei Congressi di Muralto. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna! Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

l’attrice e danzatrice Bintou Ouattara, originaria del Burkina Faso, proporrà una storia di cui interpreterà tutti i personaggi. Vestita con un’ampia tunica bianca, Bintou sarà accompagnata dal vivo da Daouda Diabate alla kora e al gangan e dal Griot del Burkina Faso Kadi Coulibaly, che suonerà anche la calebasse. Kanu (parola che significa «amore» nella lingua Bambarà del Mali) racconta la leggenda del grande fiume Niger. Una narrazione che è la storia di trasformazioni e metamorfosi in cui gli uomini sono mutati in animali, ma anche gli animali in esseri umani. In questa serie di intrecci nascono e si legano destini e amori, contrastati a volte dagli dei e a volte dall’arroganza del potere. Lo spettacolo, proposto dalla Compagnia Piccoli idilli di Merate, è adatto a spettatori a partire dai 5 anni. Tiratura 101’634 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Kanu = Amore

Palacongressi, Muralto 17/11/19, 17.00 www.minispettacoli.ch In collaborazione con

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Società e Territorio La passione per la natura Muriel Hendrichs ci racconta come è nata l’Alberoteca, un progetto di etnobotanica ed educazione ambientale che propone tante attività didattiche per bambini pagina 6

Il teatro interpreta la Carta etica La pièce teatrale Abbracci speciali affronta il tema delle molestie e degli abusi sessuali nell’ambito delle società sportive. Intervista a Cristiana Finzi, delegata per l’aiuto alle vittime di reati pagina 8

Le donne vengono ancora educate, fin da piccole, a sopprimere la propria collera. (Marka)

La rabbia utile

Al femminile La collera è un’emozione ancora tabù per le donne, considerate, secondo lo stereotipo comune,

il «gentil sesso». Qualcosa però sta cambiando: un nuovo scenario di cui si discute negli Stati Uniti e in Canada Stefania Prandi La rabbia è un’emozione tabù per le donne, considerate ancora, secondo lo stereotipo comune, il «gentil sesso». Qualcosa però sta cambiando. Di questo nuovo scenario si stanno occupando libri, conferenze e articoli negli Stati Uniti e in Canada, dove è nato un vero e proprio filone sulla scia dell’ondata di manifestazioni di protesta del 2018 (la Women’s March) e del movimento #MeToo. Alcuni titoli recenti: Good and Mad (Buona e furiosa) di Rebecca Traister, editorialista del «New York Times» che ha firmato altri due libri bestseller su donne e politica; Rage Becomes Her (uscito in italiano col titolo La rabbia ti fa bella) di Soraya Chemaly, scrittrice e attivista; Burn It Down (Distruggi), curato da Lilly Dancyger, editor e giornalista. In questa raccolta di saggi a più voci viene raccontata la rabbia nella sua dimensione privata e pubblica. Ed è proprio l’impatto sulla società ad essere particolarmente interessante. Come scrive Elaine Blair sul «New York Times» a proposito del libro di Traister, la storia dimostra che la rabbia femminile può essere trasformativa, favorendo veri e propri mutamenti sociali. Si

pensi a Elizabeth Freeman, prima afroamericana in schiavitù a vincere una causa per affrancarsi dal padrone, in Massachusetts, nel 1781. La sua lotta è stata motivata dall’aver preteso l’applicazione, per se stessa, del primo articolo nella Costituzione americana: «tutti gli uomini sono stati creati uguali» (la sua storia dovrebbe presto diventare un film). Un altro nome importante è quello di Rosa Parks, che col suo rifiuto di cedere il posto su un autobus a un bianco cambiò per sempre la storia dei diritti civili. Altre meno famose hanno preso parte ai movimenti abolizionisti, per il diritto di voto e del lavoro. Nessuna di loro riusciva più a tollerare le condizioni nelle quali viveva. Eppure, spiega Traister, «raramente la rabbia è stata considerata giusta e patriottica quando ha avuto origine dalle donne». La rabbia, nella sua declinazione di emozione politica in risposta a un’ingiustizia, dovrebbe essere più che lecita stando agli indicatori internazionali che misurano il grado di subalternità in cui vivono ancora molte donne. Secondo il Global Gender Gap report del World Economic Forum del 2018, ci vorranno almeno altri duecento anni per colmare la disparità salariale tra

uomini e donne. Per l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), la violenza di genere è la «maggiore preoccupazione di salute pubblica», con il trentacinque per cento delle ragazze e delle adulte che hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita. In molte hanno iniziato a dire basta. La furia femminile ha preso forma, ricorda Traister, nel movimento #MeToo che probabilmente sta cambiando per sempre il mondo del lavoro americano, con conseguenze a lungo termine anche nel resto del pianeta. Sono state smascherate antiche prevaricazioni considerate «normali»: le molestie verbali e fisiche sul lavoro, che passano dal ricatto agli abusi fisici, non sono più considerate tollerabili. Soraya Chemaly nota che le donne vengono ancora educate, fin da piccole, a sopprimere la propria collera, un vero e proprio spreco, secondo l’autrice, perché «un arsenale carico di ira» fa comodo per reagire quando si appartiene alla metà discriminata della società. La gestione della rabbia resta spesso privata. Questo sembra indicare, ad esempio, il diffondersi delle cosiddette rage rooms, dove si sfogano le proprie frustrazioni distruggendo oggetti con mazze, spac-

cando mobili con martelli, lanciando piatti e bicchieri (ma anche computer) contro il muro e sul pavimento. Presenti in diversi Paesi del mondo, le «stanze della rabbia» sono frequentate per il settanta per cento da una clientela femminile, secondo Battle Sports, compagnia canadese che gestisce un franchising internazionale chiamato, appunto, «Rage Room» in Canada, Stati Uniti, Singapore, Ungheria e Australia. La psicologa francese Florence Millot ha spiegato alla rivista inglese «Huck» che non è stupita dalla tipologia dell’utenza. «Anche se le donne provano rabbia esattamente come gli uomini, hanno meno spazio per esprimerla. La rabbia femminile resta un tabù perché le donne vengono ancora messe su un piedistallo. Sono considerate figure materne, devono occuparsi della famiglia. Se manifestano accessi di ira sono, per la società, dei diavoli». Diversi studi dimostrano che è meglio nascondere la collera, soprattutto nei posti di lavoro. Quella femminile è vista in modo più sfavorevole rispetto a quella maschile. Le donne se ne vergognano, secondo una ricerca di qualche anno fa della Cambridge University. Conclusioni simili si trovano in pubbli-

cazioni di Harvard e dell’Università di Chicago. Anche arrabbiarsi di fronte a un evento traumatico come una malattia non è benvisto. Un libro appena uscito, intitolato Disrupting Breast Cancer Narratives: Stories of Rage and Repair (Cambiare le narrazioni sul cancro al seno: storie di rabbia e rimedio) di Emilia Nielsen, scrittrice e accademica canadese, analizza la necessità di offrire spunti e possibilità diverse alle donne che si trovano ad affrontare esperienze difficili e dolorose dal punto di vista fisico. Per resistere alle cure e all’incertezza, più che discorsi retorici e raccolte fondi (di dubbia trasparenza) con nastri rosa, occorre mettere al centro l’arrabbiatura lecita di chi si ammala. Fare diventare la malattia non più un fatto individuale ma collettivo, come di fatto lo è già, stando ai numeri che indicano l’incidenza del cancro al seno. Nel testo di Nielsen, per ora solo in inglese, vengono citati i contributi di studiose e scrittrici come Barbara Ehrenreich, Kathlyn Conway, Audre Lorde e Teva Harrison. Per ricordare, come scriveva Barbara Brenner, attivista per la lotta contro il cancro al seno, che «la rabbia è utile, dipende da cosa ci fai».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Idee e acquisti per la settimana

Il Centro S. Antonino è online

Attualità Lo storico centro commerciale

di Migros Ticino lancia il suo sito internet e pagina Facebook Il Centro S. Antonino si è finalmente dotato del suo sito web! Da qualche giorno, infatti, sotto l’indirizzo www. centrosantantonino.ch gli internauti possono trovare diverse interessanti curiosità e scoprire tutto quello che succede presso il centro commerciale sopracenerino inaugurato nel 1986. Il portale, di facile fruizione tramite pc, smartphone o tablet, è strutturato in modo chiaro e funzionale e suddiviso in sei sezioni principali. Oltre alla «Homepage» che mostra subito a colpo d’occhio tutte le informazioni essenziali, nella sezione «Il Centro» sono elencate le tappe più importanti che hanno segnato la storia di questo polo dedicato agli acquisti nei suoi oltre trent’anni di esistenza. La parte dedicata ai «Negozi» illustra invece in modo dettagliato le sedici attività commerciali e i tre punti di ristoro presenti a S. Antonino, come pure le modalità di contatto di ognuno di essi. Coloro che sono alla ricerca di esclusive promozioni e offerte imperdibili da parte dei negozi, alla sezione «News e Azioni» troveranno di che soddisfare

le loro esigenze di shopping quotidiano. La mall e l’area esterna del Centro S. Antonino ospitano regolarmente anche eventi unici e manifestazioni collaterali dedicate a grandi e piccoli visitatori: quest’ultime sono consultabili alla voce «I Nostri Eventi». Infine, per segnalazioni o richieste d’informazioni, ognuno può mandare i propri messaggi sotto la sezione «Contattaci»: saremo ben lieti di rispondere personalmente nel più breve tempo possibile. A proposito: segnaliamo che da oggi è attiva anche la pagina Facebook del Centro S. Antonino. Per l’occasione abbiamo lanciato un concorso con ricchi premi in palio per un valore complessivo di CHF 1500.– tra tutti coloro che metteranno un Like alla pagina entro il 30.11.2019. Vi auguriamo buona navigazione e con piacere aspettiamo la vostra visita al Centro S. Antonino! www.centrosantantonino.ch @centrosantantonino

Il Calendario dei Nostrani del Ticino 2020

Attualità Il nuovo calendario da parete è disponibile da subito

gratuitamente nella vostra filiale Migros di fiducia

Tempo di chinoise Attualità Sono numerose le varietà

di fondue chinoise surgelate ottenibili dei supermercati Migros 1

L’ormai consueto appuntamento annuale con l’attesissimo calendario dei Nostrani del Ticino è arrivato: da subito l’almanacco può essere ritirato presso i banchi accoglienza clienti di tutti i negozi di Migros Ticino fino ad esaurimento dello stock. Anche per la nuova pubblicazione continua la consolidata collaborazione con l’illustratore locarnese Sergio Simona, il quale da qualche anno a questa parte stupisce la clientela Migros con le sue coinvolgenti immagini incentrate su alcuni apprezzati prodotti nella nostra regione. Gli abbiamo chiesto dove ha trovato l’ispirazione per creare il calendario 2020. «Quest’anno l’ispirazione arriva dagli emoji, i simboli pittografici molto in voga ai giorni nostri. Da lì è nata l’idea di antropomorfizzare in modo originale le confezioni e i relativi prodotti più gettonati dalla clientela Migros, come per esempio gli yogurt, le fragole, la gazosa, i pomodori, il gelato, le uova e il pane nostrano. Dopo aver effettuato alcuni schizzi, è stata individuata la tecnica giusta e ho proceduto alla realizzazione vera e propria. Ho quindi fotografato i prodotti e, successivamente, con l’ausilio di Photoshop e della tavoletta grafica, ho tolto lo sfondo e aggiunto le mani e gli occhi cercando di renderli il più realistici possibili. Il processo di realizzazione, nonostante possa sembrare veloce, comporta invece lo stesso tempo di creazione di un disegno a mano. Bisogna infatti partire dalla foto, la quale va ela-

2 1. Fondue Chinoise Finest Manzo tagliata a mano, 300 g Fr. 22.95 3

2. Fondue Chinoise M-Classic Manzo 400 g Fr. 16.80 3. Fondue Chinoise M-Classic Vitello 350 g Fr. 20.95

L’illustratore locarnese Sergio Simona

borata tenendo conto dell’angolazione e delle luci che si vogliono ottenere nel lavoro finito. In seguito è necessario scontornare i prodotti, eliminare lo sfondo e regolare toni e luminosità. Le mani e le

gambe devono poi essere inserite rispettando la texture del prodotto. Infine si aggiungono le ombre per conferire al tutto un tocco realistico e la giusta posizione nello spazio».

La fondue chinoise mette sempre tutti d’accordo! Attualmente nei nostri negozi la scelta di carne da immergere nel brodo è particolarmente ricca e invitante. La linea M-Classic, che si caratterizza per l’ottimo rapporto qualità-prezzo, propone le varianti manzo, maiale, tacchino e vitello, come pure una confezione «family» a base di manzo da ben 900 grammi. Chi è invece alla ricerca di qualcosa di

particolarmente sfizioso può affidarsi alla gamma Fondue Chinoise Finest, che include una decina di raffinati prodotti ideali per la tavola festiva. Qualche esempio? Le fondue chinoise di manzo e pollo tagliate a mano, l’aromatica varietà a base di carne di struzzo, oppure ancora il vassoio misto di manzo e vitello composto da tagli classici e polpettine che aggiunge un tocco di originalità alla vostra chinoise.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Idee e acquisti per la settimana

Laboratorio di bricolage natalizio

Attualità Crea con le tue mani originali

biglietti d’auguri presso i Do it + Garden Migros di Taverne (13 novembre) e Grancia (16 novembre)

Questa settimana tutti i bambini a partire dai 5 anni avranno la possibilità di partecipare a un laboratorio creativo di bricolage per realizzare con le proprie mani delle bellissime cartoline d’augurio di Natale da mandare o regalare ad amici e parenti, il tutto con il semplice utilizzo di cartoncini, colla e pregiata lana della Pro Verzasca. Non vi è nessuna iscrizione obbligatoria e la partecipazione è gratuita: coloro che vogliono essere della partita dovranno semplicemente presentarsi allo stand allestito appositamente presso i Do it + Garden Migros di Taverne (mercoledì 13.11) e

Grancia (sabato 16.11), dalle ore 13.30 alle 17.00. Ad accoglierli e seguire i partecipanti ci sarà Giovanna Grimaldi Leoni, esperta decoratrice tessile, collaboratrice del settimanale di Migros Ticino «Azione». Giovanna sarà a disposizione dei bimbi per aiutarli a creare qualcosa di unico, originale e utile, da mostrare con orgoglio ai propri genitori. Il laboratorio richiede all’incirca 20-30 minuti di tempo per ogni bambino. Nel frattempo mamma o papà potranno dedicarsi alla spesa oppure concedersi tranquillamente un caffè. Come già citato precedentemente, la partecipazione è assolutamente gratuita e il materiale necessario viene messo a disposizione da Migros Ticino. Vi aspettiamo numerosi! Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Un anno nel bosco

L’Alberoteca Muriel Hendrichs ci racconta come è nato il progetto didattico di educazione ambientale

Valentina Grignoli Basta una corsa a perdifiato in un prato incolto per far gridare a un bambino, mani protese verso il cielo, «Questa sì che è vitaaaa!»? Forse solo una corsa no, ma chissà che l’immersione nella natura, la vicinanza con i profumi del bosco, la raccolta dei frutti non lo abbia messo a contatto con quel lato «selvatico» che è in lui risvegliando una pulsione vitale altrimenti assopita? Di sicuro c’è che l’etnobotanica Muriel Hendrichs (Master in Ecologia ed etologia evolutiva, specializzazione in Etnobotanica a Neuchâtel), assistendo a questa scena qualche anno fa, ha preso una decisione importante: fare in modo che sempre più bambini, grazie al contatto e soprattutto alla conoscenza della natura, potessero provare la stessa gioia e libertà di quel primo fanciullo. Così, mi ha raccontato la stessa Muriel, è nata l’alberoteca: un gruppo che si occupa di consulenza e progettazione etnobotanica e di educazione ambientale per grandi e piccini. Sono lei e Benoît Maël Cadier, ai quali si aggiungono per le attività didattiche Francesca Bonini e Gea Würsch. Lavorano in Capriasca da qualche tempo e da questo settembre propongono anche «Un anno nel bosco» per permettere ai bambini di vivere, conoscere, abitare e giocare nel e con il bosco per tutti i nove mesi scolastici. Ho incontrato Muriel un giorno d’inizio autunno, e si è presentata con quattro specie diverse di mele in mano. Muriel Hendrichs, come è nata l’alberoteca?

L’alberoteca è nata dal desiderio di condividere la passione per la natura e quello che il territorio ci offre. Tutto ha preso il via con l’esperienza di ProFrutteti, Capriasca Ambiente, quando abbiamo iniziato il recupero delle vecchie varietà di piante da frutta. Per il master avevo sentito la necessità di tornare in Ticino: etnobotanica è lo studio della relazione tra l’uomo e le piante, si studiano le piante nella loro dimensione scientifica, agronomica e morfologica, e soprattutto nella loro forma culturale. E visto che la mia cultura è questa, sono tornata. Accantonando il mio sogno, che era

canto; Gea ci trasporta nel mondo della fantasia, utilizzando gli elementi della natura dal punto di vista artistico per valorizzare creatività ed espressione. Al centro del progetto c’è il nostro paesaggio, il territorio, la biodiversità. Principi che a livello cantonale sono sostenuti dall’Ufficio natura e paesaggio del Dipartimento del territorio, grazie al sostegno del quale siamo potuti partire.

partire per studiare forme incredibili di piante in paesi sconosciuti del mondo. E così sei atterrata nelle valli di Lugano…

Sono i meli che mi hanno portata in Capriasca, io sono di Osogna, cresciuta dentro le pozze, in parte il mio legame con la natura viene da lì. Inizialmente il lavoro consisteva nel riscoprire la storia dei meli, conoscere le varietà esistenti sul territorio. Da qui il mio lavoro di tesi Inventaire ethnobotanique: étude du patrimoine variétal du pommier de la Capriasca et mise en évidence des aspects historiques-culturels qui lui sont associés (durante il lavoro di monitoraggio sono stati cartografati e codificati, nel territorio capriaschese, ben 411 meli, la maggior parte dei quali centenari, ndr.). Dopo il master ho deciso di rimanere perché avevo studiato le piante, individuato tante varietà, le avevamo moltiplicate, e i giovani alberi erano pronti a mettere radici. E quando è accaduto, le ho messe anche io, le radici.

Perché è importante che l’uomo si riappropri dei boschi?

Perché il bosco è una risorsa. Al giorno d’oggi viviamo in una società che dà tanti stimoli, in una giornata siamo sottoposti a troppe sollecitazioni sin da piccoli. È difficile da gestire a volte. Quando si va nel bosco ci si sente bene, radicati, si stacca e si può fare il punto della situazione: cosa è davvero importante? Noi abitiamo un pianeta paradisiaco: innumerevoli piante, animali, interazioni. In una giornata però siamo talmente presi da altro che non ne ce ne sentiamo parte. Conoscere, impegnarsi perché questo paradiso non venga rovinato, è la priorità. A volte basta fare una passeggiata nel bosco: il tempo si dilata, ci si meraviglia, si osserva, si imparano cose che servono per la quotidianità.

Perché dedicarsi poi alla didattica?

La passione per la condivisione delle esperienze in natura c’è da sempre. Si è poi concretizzata quando un’amica maestra d’asilo mi ha chiesto di poter raccogliere le mele e fare il succo con la sua classe: in quella giornata ci sono stati tre momenti importanti. I bambini hanno visto degli animali con le corna e hanno iniziato a correre, per alcuni erano le prime mucche che vedevano! Poi abbiamo incontrato dei maialini in fattoria e un bimbo, emozionato: «ma allora i tre porcellini esistono per davvero?». Io credevo che queste realtà fossero legate prevalentemente alle metropoli... È con l’ultimo episodio che mi sono detta: «Al di là dello studio e della ricerca: se dare l’opportunità di trascorrere del tempo in natura può far gridare a un bambino di sei anni “Questa sì che è vita!”… lo devo fare!». E come ti sei organizzata?

Pian piano, in collaborazione con ProFrutteti, ho sviluppato delle attività all’interno del Progetto di valorizzazione delle antiche varietà di melo, con il sostegno dell’Ufficio federale dell’agricoltura. Un capitolo importante verteva sull’educazione e abbiamo

Per esempio?

A volte basta osservare le formiche per capire che ci vuole cooperazione.

Ti è rimasta la voglia di viaggiare in altre parti del mondo per trovare nuove piante? Con l’Alberoteca si può condividere la passione per la natura. (www.alberoteca.ch)

così creato un piccolo dossier didattico: il «Fruttiscopio» (progetto che mette in luce le molteplici sfaccettature della relazione «uomo-mondo frutticolo», ndr.). C’è poi stata la collaborazione con la mostra «Sguardi sulla biodiversità», realizzata da Capriasca Ambiente in collaborazione con le scuole medie locali e il Museo di storia naturale, nell’ambito della quale abbiamo sviluppato e animato svariate attività didattiche orientate alla scuola all’aperto. Qui si esplorano anche altri ambienti come il bosco, le zone umide e le zone urbane.Poi i doposcuola «esploriAMO-

LANATURA insieme», e infine, spinti dalla necessità di avere una continuità armoniosa tra i ragazzi e lo svolgersi dell’anno naturale, è nata l’idea di «Un anno nel bosco»: si tratta di un percorso attraverso le stagioni dove si investe nel gruppo, nelle relazioni, e si sperimenta gradualmente. Siamo in quattro, il denominatore comune è la passione per la natura, io mi focalizzo maggiormente sulle piante, i semi, i frutti, le foglie, il loro utilizzo e curiosità; Benoît Maël ci accompagna nella scoperta degli animali; Francesca ci coinvolge nella dimensione del movimento, danza e

Sono sempre molto incuriosita dalle persone che interagiscono e interpretano la natura in un modo totalmente diverso dal nostro, per religione, cultura, medicina. Mi affascina il mettere in discussione quello che conosco qui. Trovo stimolanti gli studi in etnobotanica legati alla nomenclatura, poiché ogni pianta in natura è nominata in maniera diversa, a seconda della società in cui si vive: è un’interpretazione del mondo in cui viviamo. Chissà forse un giorno… per ora però sono ben radicata qui! E infatti, parlando con Muriel Hendrics di queste mele, scopro che esistono le «pomm rossin», la mela campana, la ruggine d’autunno, … e che ognuna di loro ha una storia incredibile.

Insegnare è come allenare

Intervista Le riflessioni sulla scuola dello scrittore e insegnante Christian Raimo

Laura Di Corcia La scuola dovrebbe essere un primo approccio al mondo costruttivo e positivo, un laboratorio paritario in grado di permettere a tutti di trovare uno spazio il più confortevole possibile nella vita adulta. Cosa succede, invece, quando questa istituzione non riesce a colmare la faglia della disuguaglianza, cioè le differenze sociali? Il quesito non è per niente slegato dalla nostra realtà, se è vero che anche gli allievi dei nostri livelli B spesso provengono da situazioni svantaggiate da un punto di vista economico e culturale. Abbiamo parlato di questo e altri temi con lo scrittore, insegnante e intellettuale Christian Raimo, autore del bel volume Tutti i banchi sono uguali. La scuola e l’uguaglianza che non c’è (Einaudi 2017). Raimo di recente è stato ospite al Festival di teatro internazionale di Lugano e in novembre tornerà a Bellinzona nell’ambito di una giornata di incontro e riflessione con i docenti sui temi legati all’insegnamento. Il sistema scolastico svizzero ha una matrice differente rispetto a quella che regge la scuola italiana. Come appare ad un occhio esterno?

Mi sono informato sulle statistiche inerenti la scuola svizzera, nello specifico

ho raccolto informazioni sui livelli di dispersione scolastica e disuguaglianza: essendo un Paese piccolo e abbastanza benestante, noto con sollievo che le questioni di classismo risultato meno accentuate che in Italia. La questione della dispersione scolastica riguarda una fetta abbastanza piccola di persone e si assestano attorno all’8% i non scolarizzati dai 15 ai 18 anni; a questa percentuale bisogna ancora fare la tara, visto che il 5% è già attivo da un punto di vista lavorativo. La percentuale di vera dispersione è il 3%, mentre in Italia raggiunge il 13%. È una differenza notevole.

Lungo il percorso offerto dalle scuole medie, per certe materie, esiste una biforcazione: le allieve e gli allievi con i risultati migliori seguono lezioni più complesse e possono in un futuro accedere ai Licei e alle formazioni superiori, gli altri no. Cosa ne pensa?

Penso che il sistema binario di selezione, seppur effettuato in un contesto medio-alto, vada sempre in una direzione di disuguaglianza che vorremmo evitare. Eppure non sono tanto questi dati relativi alla Svizzera ad avermi colpito, quanto quelli che riguardano la solitudine. La Svizzera è una società che invecchia, costituita da molte

persone sole e da molti nuclei familiari monoparentali, solitamente femminili. In questo senso l’idea che la formazione riguardi solo la parte studentesca giovanile e non la società intera, è a mio avviso un tema da tenere presente.

Per offrire un insegnamento atto a valorizzare ogni singolo allievo e ogni singola allieva è decisiva la metodica. In questo momento si parla spesso di «competenze». Qual è il suo parere in questo senso?

La parola «competenze» viene usata dagli insegnanti, dai coordinatori e in generale da coloro che si occupano di didattica in modo diffuso, ma di fatto non esiste una bibliografia condivisa e canonizzata sul tema e non si sa dire con precisione cosa si intenda con questo termine. A volte questa retorica abusata da insegnanti ed educatori dà l’illusione di un’innovazione che in realtà non c’è, perché di fatto già Aristotele parlava di competenze. Ma con Aristotele inizia anche la scuola dei contenuti. E se ci pensiamo bene in fondo le discipline contengono già in sé gli strumenti per imparare. Nessuna disciplina è una disciplina meramente nozionistica. La storia, la filosofia, la storia dell’arte, la letteratura non sono un catalogo di contenuti che noi docenti passiamo agli studenti attraverso

un sistema di insegnamento; esse sono un metodo di apprendimento in sé. Quello che voglio dire è che i contenuti e i metodi si integrano continuamente. Secondo me dobbiamo spostare l’attenzione altrove, per esempio sul fatto che il dibattito pedagogico oggi è sicuramente marginale nel contesto del dibattito pubblico. Proviamo a citare un nome di un pedagogista famoso: ecco, scopriremo che non ci viene in mente nessuno. Questo è un problema di non poco conto. Conosciamo molto bene altre figure di esperti, come politologi, sociologi, psicologi, capaci di orientare il dibattito culturale intellettuale. Pensiamo a Cacciari, a Bauman e ad altre figure che vediamo impegnate a discutere su vari temi in tv o sui giornali. I pedagogisti sono messi da parte. Una figura autorevole come Tullio De Mauro oggi manca. Lei ha insegnato dieci anni. Cosa ha imparato in questo periodo di tempo?

Che il modo migliore di imparare è insegnare. Uno dei metodi che seguo è questo: provare a stimolare in classe una forma di collaborazione educativa, di peer education (educazione fra pari, ndr). Ho la fortuna di insegnare due materie che solitamente vengono amate: la filosofia e la storia. Sono delle

Christian Raimo. (twitter)

materie che insegnano, come anticipavo, un metodo. Ho imparato moltissimo cosa vuol dire interessare qualcun altro nel contesto di un allenamento che non è sporadico, ma quotidiano. Per me questo è fondamentale: avere l’attenzione della classe e fare in modo che gli allievi abbiano la possibilità di uscire, alla fine della lezione, leggermente diversi. È una cosa che ha a che fare da una parte con l’atletica, dall’altra con l’arte. Nell’insegnamento hai una disponibilità di tempo che nessun altro mestiere ti dà. Passo 600 ore con i miei allievi: è una relazione importante, fondamentale. Cerco di impostare un tempo di qualità, perché so che se un insegnante lo utilizza bene esso può portare a una trasformazione importante nella vita dei ragazzi.



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Società e Territorio

Quegli abbracci un po’ troppo speciali Prevenzione Una pièce teatrale affronta il tema delle molestie

e degli abusi sessuali nell’ambito sportivo. Ne parliamo con Cristiana Finzi, delegata per l’aiuto alle vittime di reati

Guido Grilli Una presa di corrente elettrica e sette sedie che si possano impilare. Non hanno bisogno d’altro Katya Troise e Francesco Mariotta, i due attori di Abbracci speciali, il complemento teatrale alla Carta etica per relazioni sane e prevenzione degli abusi sessuali nei settori a contatto con bambini e adolescenti. Così scarna appare la scenografia, che la pièce – ad oggi pressoché inedita – può essere rappresentata in qualsiasi luogo in cui si ritenga importante mettere in campo la prevenzione.

La Federazione Ticinese di Calcio promuove quattro rappresentazioni di Abbracci speciali: attraverso il teatro si riflette sui principi della Carta etica per relazioni sane e prevenzione degli abusi sessuali Talora, più di tante parole, serve affidarsi all’antica e immediata forza del teatro per restituire chiarezza a certe problematiche complesse, come lo è senz’altro la prevenzione degli abusi sessuali. Ne è convinta da lungo tempo Cristiana Finzi, delegata per l’aiuto alle vittime di reati, che un anno fa ha assegnato ai due bravi attori l’incarico di realizzare, attraverso quattro scenari tratti da realtà sportive e associative, una rappresentazione capace di affrontare altrettante situazioni reali di molestie o abusi sessuali nell’ambito sportivo. La pièce, che rientra nel programma cantonale interdipartimentale (DSS, DECS, DI) di misure di prevenzione degli abusi sessuali in ambito extrascolastico, ideata e realizzata dai due attori del Teatro Scintille e della Compagnia Sugo d’inchiostro, è ora al centro di quattro serate regionali di sensibilizzazione organizzate dalla Federazione Ticinese di Calcio con il supporto dell’Ufficio dello sport. La prima si è già svolta nel Luganese lo scorso 5 novembre. Le altre tre saranno in agenda a Bellinzona, il 12 novembre alle 20

alla Scuola cantonale di commercio; a Losone il 19 novembre alle 20 al Centro La Torre; e a Stabio il 26 novembre alle 20 nella sala del Consiglio comunale. Le serate pubbliche contemplano pure una tavola rotonda moderata dal giornalista sportivo, Sergio Ostinelli, alla presenza di professionisti del Dipartimento sanità e socialità e da un rappresentante del settore giovanile delle squadre regionali. Il teatro, dunque, come straordinario veicolo per prevenire gli abusi sessuali. «Certamente il teatro – sottolinea Cristiana Finzi – diventa un buono strumento didattico per integrare degli enunciati, come quelli della Carta etica cantonale sulle relazioni sane e sulla prevenzione degli abusi sessuali nei settori operanti con bambini e adolescenti, che contempla in sintesi i seguenti quattro princìpi fondamentali: Rispetto i limiti della sfera personale di tutti i bambini; Non tollero alcuna forma di discriminazione, molestia o abuso sessuale; Assisto nei limiti della mia responsabilità i bambini e gli adolescenti confrontati a situazioni di molestia o abuso sessuale; Informo i miei responsabili o un’autorità competente se un bambino o un adolescente è, o potrebbe essere, in pericolo. Il teatro permette di far vivere questa Carta etica, valorizzandone l’importanza, affinché non rappresenti soltanto un foglio che allenatori e monitori operanti in società sportive firmano come semplice atto richiesto dal proprio club sportivo. I princìpi vanno invece assunti a livello di comportamento e di azione». Quali sono i contenuti della pièce? «La pièce rappresenta una valida misura di sensibilizzazione alla tematica e mette in scena, invitando alla riflessione, diverse situazioni che si situano nella zona “grigia” (comportamenti inadeguati, molestie, incapacità di porre dei limiti o di accogliere una domanda di aiuto). Questa pièce illustra quattro scene ispirate a situazioni reali che ogni monitore è suscettibile di poter incontrare o che magari ha già incontrato. L’idea è quella di mostrare anche la complessità della tematica, smontando luoghi comuni, stereotipi, perché in nessuna delle scene proposte c’è una soluzione ideale o il suggerimento di un protocollo semplice da poter adottare. Il teatro è un buon veicolo anche per

raggiungere emotivamente le persone, consente allo spettatore di proiettarsi in situazioni reali. E poi il teatro solleva domande e quando lo spettatore s’interroga rispetto a una tematica e ne intuisce la complessità, ecco che abbiamo raggiunto l’obiettivo. Perché nell’ambito della prevenzione degli abusi non esistono ricette». Qual è il percorso che vi ha portati a realizzare Abbracci speciali? «Noi come Stato – risponde Cristiana Finzi – dobbiamo assumere l’onere, il compito di promuovere una maggiore responsabilizzazione delle persone che hanno un compito educativo. E dove, se non nelle associazioni sportive, ricreative, associative? Nel 2015 abbiamo consegnato una documentazione cantonale ad hoc alle 37 Federazioni sportive ticinesi, tra cui la Carta etica, con l’obiettivo di sensibilizzare le associazioni sportive al di fuori del mondo della scuola sulla problematica degli abusi sessuali su bambini e adolescenti. E poi abbiamo tenuto di riflesso serate di presentazione per illustrare questa documentazione: come reagire in casi di abusi, come raggiungere gli enti sul territorio. Parallelamente, sempre dal 2015, è stato istituito un corso cantonale annuale riguardante “La promozione delle relazioni sane” offerto ai monitori del mondo sportivo e ancorato al brevetto di Gioventù e Sport. Segnatamente abbiamo proposto una quarantina di atelier di presentazione della documentazione cantonale e di approfondimento della tematica presso le associazioni sportive. A incaricarsene è stata Lisa Ancona, vice-direttrice di “Dis No”, associazione romanda attiva nella prevenzione degli abusi sessuali su bambini, con cui collaboriamo dal 2012». La forza del teatro si rivela dunque un mezzo efficace per affrontare i temi degli abusi sessuali? «Sì, la messa in scena, il teatro, permette di distanziarti, di vedere e di riflettere. La proposta della Federazione Ticinese di Calcio di promuovere queste serate di sensibilizzazione dà praticamente il primo la alla rappresentazione scenica di Abbracci speciali. La cosa bella è che questo teatro non ha esigenze tecniche né scenografiche. Può essere recitato negli spogliatoi. La pièce può essere messa in scena nei luoghi in cui sono attive le stesse associazioni».

Il Cantone sollecita una maggiore responsabilizzazione degli adulti impegnati con bambini e giovani nel mondo sportivo, ricreativo e associativo. (www.ti.ch)

Un’umanità in cammino

Pubblicazioni Migrazione e quotidianità tra

XVI e XIX sec. nel saggio di Stefania Bianchi Domenico Pezzi, Andata al Calvario con veduta della città di Genova, 1513, chiesa di Santa Maria del Sasso a Morcote.

Elena Robert Una mobilità da capogiro, molto lontana dall’idea un po’ statica che abbiamo del passato, una intraprendenza e una curiosità difficili da immaginare. L’hanno vissuta uomini e donne della Svizzera italiana tra il XVI e il XIX secolo, accomunati dall’esperienza dell’emigrazione. La storica e archivista Stefania Bianchi di Mendrisio ne prende in considerazione a decine nel suo appassionante saggio Uomini che partono. Scorci di storia della Svizzera italiana tra migrazione e vita quotidiana (secoli XVI-XIX) uscito per le Edizioni Casagrande, Bellinzona, di prossima ristampa. Piccoli numeri in rapporto alle proporzioni di quell’umanità che si mette in cammino, affrontando con coraggio «un’avventura faticosa e appagante». La complessità del fenomeno dell’emigrazione è nota, la densità di dati da interpretare pure, i personaggi numerosi, i rapporti di parentela intricati, ma non si corre il rischio di perdersi in quello che può sembrare, inizialmente, un insidioso labirinto: con abilità, brio e naturalezza, complice una prosa accattivante, l’autrice ci accompagna alla meta, facendoci capire i contesti ma anche l’intimità quotidiana di questo impressionante andirivieni di partenze, assenze, ritorni, alleanze familiari e di bottega. I ticinesi sono sempre partiti e determinante ai fini della comprensione dell’insieme è il «peso delle assenze» evidenziato dal catalogo dei cittadini che rimangono nella Comunità di Lugano ordinato dal nuovo Governo della Svizzera italiana all’inizio del 1798, quando si conclude la tutela dei Sovrani elvetici. Nella minuziosa ricerca storica tutto si riconduce a fonti inoppugnabili, atti notarili, lettere, ed è sottoposto a verifiche, confronti, prove e controprove, per dare una risposta attendibile ai tanti interrogativi. Stefania Bianchi mette così in luce fatti, circostanze, motivi delle decisioni, strategie messe in atto nella patria d’adozione e nel paese natio dai migranti per mantenervi la propria identità, affermarsi e integrarsi, sia sul lavoro come nella vita quotidiana. Le tematiche trattate nel libro, attraverso una scelta di saggi recenti dell’autrice, concernono i percorsi dell’aristocrazia dell’emigrazione, quella dei mestieri d’arte, relativa in particolare al Sottoceneri. Le storie raccontate appaiono in una luce nuova ogni volta che Stefania Bianchi, indagando approfonditamente, conferma indizi che si allontanano dai tracciati tradizionali della ricerca storiografica del passato, sovvertendo di fatto percezioni che sembravano consolidate fino a non pochi anni fa. Gli studi più recenti hanno infatti evidenziato i limiti del modello classico degli uomini che partono e poi rientrano in patria e delle donne immobili che attendono il loro ritorno a casa. Da questo punto di vista la lettura diventa ricca di esiti non scontati, a volte per noi sorprendenti. Un esempio tra i tanti, la figura di Anna Fontana (Muggio 1769-1846), svelata da un fondo di 250

lettere, che segue a Genova suo marito l’architetto ingegnere Gaetano Cantoni (Genova 1745 – Muggio 1827): una donna artefice del proprio destino, attiva nella vita privata e in quella pubblica che fa molto per integrarsi, e che comunque, alla fine della sua esistenza si ritira con i suoi ricordi nella casa di famiglia. Una storia singolare ma non eccezionale. Quattro i temi principali trattati nel volume, Mete e professioni, Donne e migrazione, Identità e quotidianità, Contesti e destini, questi ultimi seguendo le tracce di Francesco Castelli di Bissone (Borromini) diventato famoso a Roma, degli Adamini di Bigogno d’Agra attivi in Russia, dei Guidini di Barbengo che troviamo a Novara, Venezia, Torino, Algeri e Milano, nonché dei Fontana, in particolare di Carlo, di Rancate che fa fortuna a Roma. Essendo l’istruzione «il sale del fenomeno migratorio», ne consegue l’importanza del ruolo della bottega, dove ogni aspetto è regolamentato: i Cantoni di Cabbio si distinguono per esempio come formatori a Genova tra Cinque e Seicento nella veste di architetti, a metà del Settecento come stuccatori e specialisti dell’ornato, e ancora nella prima metà dell’Ottocento per aver frequentato l’Accademia d’arte a Genova, come Gaetano Cantoni, che poi la dirigerà. Nuovi percorsi formativi, questi ultimi, sviluppatisi in seguito anche con la frequentazione dei Politecnici che porteranno a nuovi destini per chi parte a imparare l’arte. Nei decenni si acquisiscono successo e un alto grado di specializzazione. Al termine della carriera, ma non sempre è scontato, si rientra in patria, con una famiglia non di rado nuova, con accresciute competenze e capitali. Sulla mobilità delle donne e i ruoli femminili resta ancora molto da indagare. Anche se non è loro preclusa la possibilità di scelta, la grande maggioranza rimane in patria e diventa il polo dei rapporti affettivi e non nei luoghi natii, gestisce le proprietà a casa con l’aiuto di personale che arriva dalle alte valli della Svizzera italiana e dall’Italia: un processo osmotico tra chi parte e chi arriva in Ticino che ha origini antiche e si struttura dal Cinquecento. Per queste donne non era rara l’esposizione al rischio di diventare oggetto delle malizie degli uomini come raccontano le storie di Anastasia Provino di Meride, a processo nel 1678, per aver avuto rapporti con diversi uomini, morta sola e in povertà, di Giovanna Bianchi di Stabio, nel 1795 alla sbarra perché incinta, vittima della seduzione dell’avvocato di casa che le nega la paternità, e di Cecilia Fontana Cantoni, cresciuta nella famiglia più ricca del paese, che la costringe a lasciare Cabbio nel 1695 per seguire il suo compagno, un umile carbonaio. Bibliografia

Stefania Bianchi, Uomini che partono. Scorci di storia della Svizzera italiana tra migrazione e vita quotidiana (secoli XVI-XIX), Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2018, 207 pp.


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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Paradisi infernali I casi di tossicodipendenza risultano in crescita: il numero di soggetti seguiti da Ingrado – l’associazione di prevenzione, ma anche di assistenza ai tossicodipendenti – è cresciuto di molto lo scorso anno; e se la cocaina è la sostanza che crea più dipendenza, sono però gli alcolisti a costituire la maggior parte della casistica. Ed è inquietante che il consumo di droghe sia oggi così diffuso, molto più che in passato: del resto, anche i mezzi per procurarsele sono aumentati, perché si possono produrre in laboratorio nuove sostanze che ancora non sono classificate tra gli stupefacenti e quindi si possono ordinare via Internet o per posta. Ma per quale motivo persone che, magari, stanno bene, non patiscono la fame, dispongono di cure in caso di malattie e non hanno gravi problemi, sentono il bisogno di ricorrere a questi mezzi di piacere artificiale? Forse è perché, secondo la logica

consumistica d’oggi, non si ha mai abbastanza di nulla: e quando hai provato il sesso, le grandi abbuffate, lo shopping compulsivo, vuoi provare dell’altro. O forse tutto comincia per caso: che so, con lo «sballo del sabato sera», che poi si ripete il sabato dopo e a poco a poco si estende ad altre sere della settimana. Quel che dapprima può essere divertimento e piacere, diventa così bisogno e dipendenza. Però non posso non fare un confronto con il tempo, ormai lontano, in cui ero studente all’università. Certo, nel gruppo di amici c’erano spesso ragioni per festeggiare: un esame superato, un compleanno, un successo sportivo... Ci si ritrovava all’osteria, si brindava. Credo che ciascuno di noi abbia ecceduto nel bere almeno una volta: però, in genere, accadeva una volta sola. Quando, la mattina dopo, ci si risvegliava con un orribile mal di testa, ci si ricordava stesi sul letto con la stanza che girava vorticosa-

mente producendo un terribile senso di malessere, e, ancora, si rivivevano le figuracce fatte lungo la strada del ritorno a casa, il pensiero che nasceva era: «Mai più!». E di fatto era così, per tutti gli amici che ho conosciuto allora: riconoscere l’errore costituiva l’occasione educativa per non commetterlo più. Per molti, oggi, non è più così. Ma forse questo accade perché il motivo di fondo non è la ricerca del piacere e del divertimento occasionale, ma un bisogno di evasione, di fuga da una realtà che non soddisfa. Molti casi del passato, anche di uomini celebri, si riconducono a una condizione simile: nell’Ottocento lo scrittore Thomas De Quincey divenne famoso pubblicando le sue Confessioni di un mangiatore d’oppio. Si era dato all’oppio una prima volta da studente, per lenire i dolori allo stomaco di cui soffriva; il farmaco causò poi una dipendenza dalla quale lo scrittore tentò ripe-

tutamente di liberarsi, con successi temporanei e successive ricadute. Dopo la morte della moglie seguì la ricaduta più grave: il dolore spingeva a cercare conforto nel farmaco. E quanti altri uomini famosi fecero ricorso a sostanze stupefacenti, da Freud a Gottfried Benn, a Baudelaire, a Hesse… Baudelaire, appunto, scrisse sul vino e sull’hashish «confrontati come mezzi di moltiplicazione dell’individualità» e nel 1851 pubblicò il suo scritto con il titolo Paradisi artificiali. «Paradisi», appunto: quanti medici dell’antichità (come Galeno), quanti mistici si procuravano evasioni e visioni mistiche di paradisi indotti da erbe allucinogene! L’imperatore Nerone chiamava «cibo degli Dèi» il fungo allucinogeno del quale andava ghiotto; e l’antropologo Piero Camporesi ricorda che quando i missionari, sbarcati nel Nuovo Mondo, assaggiarono un fungo di quelle foreste lo chiamarono

«carne di Dio» per le visioni celestiali che procurava. Insomma, il bisogno di paradisi che ogni cultura ha sempre documentato e coltivato non è affatto scomparso: solo che oggi, in tempo di progressiva demitizzazione – per usare l’espressione del teologo Rudolf Bultmann – sempre meno si crede al paradiso di Tommaso d’Aquino e di Dante e sempre di più lo si cerca qui, sulla Terra. Non credo che questa svolta sia davvero positiva. Per l’uomo è più utile sperare in una qualsiasi sorta di paradiso ultraterreno, di beatitudine fuori del mondo e al di là di questa vita, piuttosto che procurarsi uno stordimento temporaneo dentro paradisi artificiali: quel che più aiuta a vivere è la speranza, il sogno di ciò che non è dato – insomma, ciò che spinge a dare un senso all’esistenza; non il piacere del momento che poi, nelle crisi da dipendenza, si tramuta in un inferno.

soffuso del ciclo di affreschi carolingi. Molti scomparsi, il resto gradevolmente nebuloso, a tratti color marmellata di rosa canina, con i cerchi delle aureole che risaltano. Vengo attratto da un dettaglio astratto: un meandro prospettico mezzo cancellato. Avanzando, ecco i colori più vivi degli affreschi tardoromanici nelle due absidi laterali, quella mediana è purtroppo coperta per un restauro. Oltre ai colori più intensi, spiccano le figure snelle e allungate. Nell’abside settentrionale colgo un apostolo martirizzato a testa in giù, un altro in ginocchio a cui stanno per mozzare la testa con una spada, dietro uno strano albero-fungo. Altra strana pianta si nota nell’abside meridionale con tre frutti enormi tipo fragole, a fianco della lapidazione di Santo Stefano. Tratti bizantini incontrano lo stile delle miniature saliburghesi, il tutto dipinto forse da una bottega veneta. Più sotto, nello zoccolo interno vicino alla statua in stucco di Carlo Magno, c’è affrescato un curioso e raro Mangiacolonna. Accendo un cero nella cappella delle Grazie dove

ci sono appese braccia e gambe di legno come ex voto. Sotto la cantoria, una porta con citofono conduce nella parte di monastero-museo. Il chiostro, con alle spalle le pinete inondate di luce, è una meraviglia. Lì, tra le erbe medicinali, svetta il verbasco noto anche come cero della Madonna. Altre cose degne di nota, girando qua e là, su e giù per scale disorientanti: due flauti ossei di capra, statua lignea della Madonna con una corona tipo matrigna di Biancaneve, un gatto biancoenero avvistato nell’orto, il finto marmo bluastro del refettorio che ricorda i formaggi erborinati, le celle odorose di cembro, il paesaggio accecante fuori che entra dalle finestre con svasatura conventuale, la scritta clausura sulle porte, il passaggio furtivo di una suora. Sulla sponda sinistra del Rom, metto sul fuoco il mio pentolino da viaggio. Non resisto a provare subito una delle tisane delle suore benedettine. Un miscuglio di erbe e fiori chiamato Herbstlicht: verbasco, primula officinale, malva, rosa, eufrasia, timo serpillo, salvia.

wearable technology, nella tecnologia indossabile che è già oltre ai più noti Google Glass e Smart Watch. Incuriosita dal tema mi sono messa in pista a fare qualche ricerca. Informandomi ho trovato due piattaforme valide che in poche righe ci danno il peso e la sostanza di questo settore in evoluzione: Wear it (www.wearit-berlin.com) la piattaforma berlinese dell’innovation summit e WoW Women (www.womenofwearables.com), la piattaforma delle donne che fanno la differenza nel campo della tecnologia indossabile. A partire da Adi Meyer designer che lavora sull’intersezione tra nuove tecnologie, corpo e architettura. Il suo lavoro indaga le percezioni umane e le connessioni interpersonali attraverso delle interfacce fisiche e le esperienze in spazi pubblici. Attualmente lavora al dispositivo indossabile Aposema

una leggera maschera facciale che legge le espressioni umane e specula sulla loro traduzione ricollegandole alle sei espressioni emotive universali di Paul Ekman: rabbia, paura, tristezza, gioia, sorpresa, disgusto. Dispositivo a parte, inquietante ma al tempo stesso affascinante, è interessante quanto dice Adi Meyer sul ruolo delle donne in questo settore «la nicchia del design indossabile è uno strano mix in cui le donne sono il target, il pubblico di riferimento principale per quanto riguarda la moda mentre gran parte dei dispositivi tecnologici indossabili sono disegnati e prodotti per un consumatore maschile. Nel colmare questo gap, questo divario, vedo un’opportunità per promuovere la parità di genere». Come e con quali progetti lo scopriremo nella prossima puntata.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Il monastero di Müstair Già i larici, in questo periodo dell’anno, da queste parti, valgono il viaggio. Giallo oro, baciati dal sole mattutino che ne accentua i riflessi accesi, costellano i boschi intorno a Zernez. Salendo in posta attraverso il Parco Nazionale, incendiano poi a perdita d’occhio il paesaggio, diventato espressionista del tutto quando si scende giù per la Val Müstair. «Megaschön» sintetizza una passeggera dietro di me. Bastian contrari delle conifere, molti Larix decidua ricamano di luminosa grazia, rapsodici o in truppe come là su in alto, le pinete anche qui a Müstair. Il paese più orientale della Svizzera – al confine con l’Italia dove la valle continua tedescofona come Val Monastero per un breve tratto in Alto Adige – adagiato placido sul fondovalle dove scendo ora, alla fermata Clostra Son Jon. Il monastero benedettino di San Giovanni dal quale deriva, attraverso il termine latino monasterium, il toponimo romancio di questo paesino di settecentosessantaquattro anime dove si parla jauer, è dall’altra parte della strada. Odore lenitivo di letame

appena sparso per i prati dove pascolano, beate, le mucche. La merlatura diagonale della torre Planta, attaccata alla chiesa carolingia triabsidale, si staglia contro il cielo azzurro. Sul campanile, fiamme di sole dipinte, i cui raggi si prolungano in frecce che indicano l’ora in numeri romani color rosso sinopia. Il segmento d’ombra segna, netto, poco prima di mezzogiorno; mentre l’iscrizione sopra il sole, personificato con un occhio, è di più ardua lettura. A stento si legge sIste VIator aC ConsIDera Una eX hIs erIt noVIssIMa tUa: epigrafe in cui è contenuto un cronogramma. Le maiuscole sono infatti cifre romane da sommare per conoscere l’anno di nascita di questa meridiana dall’umorismo nero. Dal 1773 si rivolge così ai viaggiatori non frettolosi: «Fermati viandante e pensa che una fra queste ore sarà per te l’ultima». Ultime rose intrepide ai primi di novembre, in un’aiuola-semiroseto, sono in fiore in faccia al cimitero. Una signora anziana pulisce una tomba gettando fiori secchi in un sacco della spazzatura. Una zampa d’orso all’insù,

cesellata nel marmo bianco di Lasa, nella vicina Val Venosta, cattura l’attenzione prima di entrare in chiesa. È lo stemma della famiglia Planta, il cui albero genealogico annovera Angelina Planta, badessa tra il 1478 e il 1509 che ha fatto ricostruire la torre che da lei prende il nome e risale intorno al 960: la più antica, dicono, di tutto l’arco alpino. Entro così, sul mezzogiorno, dentro la chiesa del monastero di Müstair (1246 m). Dal 1983 dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità per via del più grande dei cicli di affreschi giunti a noi dall’alto medioevo, molti scoperti solo negli anni cinquanta. Fondato nel 774 da Carlo Magno, per la grazia ricevuta, si racconta, dopo essere sopravvissuto a una tempesta di neve sul passo dell’Umbrail, di ritorno dalla sua incoronazione come re dei Longobardi. A naso all’insù, mi ammaliano però per prima cosa le volte nervate tardogotiche con giganteschi affreschi floreali che si diramano dalle quattro colonne. Emergono poi solo in un secondo tempo, ai lati, i frammenti biblici sbiaditi di un rosso

La società connessa di Natascha Fioretti Se deleghiamo tutto, cosa ci rimane? Ricordo la prima volta che ho visto Her di Spike Jonze, da un lato l’ho trovato bellissimo, dall’altro inquietante. L’idea di conversare con un sistema operativo, neanche fosse un amico, mi faceva alzare i capelli ritti in testa. Devo dire che a distanza di qualche anno, il film è uscito nel 2013, sostanzialmente non ho cambiato idea. Ma è difficile restare indifferenti all’innovazione, è difficile non lasciarsi toccare o influenzare dalle novità che arrivano sul mercato. Un esempio semplice che però è indicativo della strada che abbiamo intrapreso: parlando con il responsabile di un concessionario di automobili scopro che i nuovi modelli sono dotati soltanto del cambio automatico. Non solo, mi dice che i giovani a scuola guida utilizzano esclusivamente il cambio automatico, dunque quello manuale nemmeno lo conoscono. Ricordo le

parole di Adolf Muschg nella nostra ultima intervista a proposito di intelligenza artificiale, innovazione e auto: «Questo scomparire del presente, tanto che abbiamo bisogno di fare sesso per riuscire a sentirci, a percepire il nostro corpo, è inquietante. L’intelligenza artificiale ha gioco troppo facile con noi. Se deleghiamo tutto, cosa ci rimane?». Mi racconta che da giovane si ricorda il boom delle Studebaker: «sedersi in un auto del genere era un sogno possibile, ma guidarla? Questo era il sogno più grande ed era anche il senso del possedere un auto del genere. Oggi invece lavoriamo ad un modello che ci solleva da tutto questo, ci risparmia la guida. E la chiamiamo razionalizzazione. Ma le persone sono completamente matte? Si privano di un qualcosa che per la generazione precedente è stata una conquista».

Come sempre non tutto è negativo e non tutto impatta le nostre vite allo stesso modo, credo che la cosa più difficile sia mappare, conoscere, farsi un’idea di tutto quello che sta interessando la ricerca e pian piano arriva sul mercato e nel tempo, volenti o nolenti, cambierà radicalmente le nostre abitudini. Faccio un altro esempio molto concreto che mi ha ispirata. Mi riferisco ad un giovane, Marco Dal Lago, fondatore di CLARA, un’azienda ticinese che produce gilet luminosi pensati per ciclisti urbani, runner, pedoni, tutti coloro che in condizioni di scarsa visibilità hanno necessità di rendersi visibili. Sul sito (http:// claraswisstech.com) potete trovare maggiori informazioni sul prodotto in questione, intanto a colpirmi è stata la convinzione con la quale mi ha detto che il futuro è scritto anche nella



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Ambiente e Benessere I «sublimi orrori» Un’escursione vallesana alla gola del Trient, scavata nella roccia del massiccio del Monte Bianco

Una Cuba oltre i sigari Il prossimo viaggio organizzato da Hotelplan porterà i lettori di «Azione» a tuffarsi nel mar dei Caraibi e nel verde della Valle de Viñales pagina 14

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Turismo invece di petrolio In Arabia Saudita da oggi sono visitabili siti Unesco, città, deserto, Mar Rosso, ma non Medina né la Mecca

Consapevolezza sportiva È importante riconoscere ai giovani atleti il diritto di non dover diventare campioni pagina 17

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I medici di famiglia «nella rete»

Salute Una via percorribile per ottimizzare

la qualità terapeutica riducendo la spesa sanitaria globale

Maria Grazia Buletti Alcuni medici privati del Ticino si allineano a quanto già si fa in altri diciotto cantoni confederati costituendo il primo consorzio di medici di famiglia attivi sul territorio, ovvero la rete medX, già riconosciuta da alcune assicurazioni malattia. Due gli obiettivi primari: lo scambio delle conoscenze e la lotta al rincaro dei costi. Ne parliamo con il dottor Christian Garzoni, specialista in medicina interna e malattie infettive e libero docente all’Università di Berna, insieme alla collega medico di famiglia dottoressa Greta Giardelli. Ispirati dall’esperienza di Oltralpe, dove questo modello ha vita oramai ventennale ed è dunque ben collaudato, sono fra i fondatori della rete ticinese appena presentata ai colleghi e ai media. Il progetto ha suscitato un interesse al di sopra delle loro aspettative al punto da creare un piccolo scompiglio burocratico che per ora limita l’ammissione delle adesioni a un centinaio di professionisti. Malgrado ciò, assicurano che ben presto si potrà estendere anche ad altri colleghi momentaneamente esclusi per motivi logistici e organizzativi, sapendo che attualmente nel cantone si contano circa 350 medici di famiglia. «Il processo di creazione è nato un po’ a catena da un interesse condiviso in un gruppo di cinque medici di famiglia che ha dapprima valutato l’idea e poi ne ha parlato con alcuni altri colleghi per sondare l’interesse di condivisione dell’idea», racconta Garzoni, a cui fa eco la dottoressa Giardelli: «Nel presentare il progetto a circa un terzo dei nostri colleghi ticinesi non c’era alcuna volontà di esclusione e, dato il grande interesse riscontrato, ora si organizzerà l’estensione della rete ai numerosi circoli. Per accogliere altri colleghi, entro l’anno prossimo vorremmo superare queste problematiche, continuando a garantire la qualità della rete che partirà ufficialmente il 1° gennaio 2020. Invitiamo comunque tutti i pazienti a scegliere un modello assicurativo “medico di famiglia” disponibile da tutti i medici di famiglia del cantone, e a favorire la scelta di medX qualora il loro medico facesse già parte della neocostituita rete». Validi i vantaggi paventati per i

medici aderenti alla rete medX e altrettanto interessanti i benefici per la popolazione, spiega Giardelli ripercorrendo le origini della figura del medico di famiglia, un professionista dall’antica sapienza e autorevolezza al pari del parroco e del sindaco del paese: «Storicamente era il medico di campagna, conosceva la persona e la storia della sua famiglia e aveva un ruolo oligarchico nella presa a carico dei suoi pazienti. Nel contempo, egli copriva spesso da solo la cura di differenti malattie, senza avere facile accesso a colleghi specialisti, mentre oggigiorno la medicina è sempre più specifica e settoriale ed esige il ricorso alle sue branche specialistiche. Una naturale evoluzione che ci permette di comprendere l’importanza crescente del ruolo centrale di coordinazione del medico di famiglia: egli ha una visione completa dello stato di salute del proprio paziente, conosce il suo contesto e le dinamiche famigliari. Ciò gli permette di valutare e attuare in modo consapevole e individualizzato gli aspetti di prevenzione come pure l’organizzazione della presa a carico specialistica e l’ottimizzazione delle relative terapie a lui necessarie». Un ruolo tanto chiaro quanto «in caduta libera per una serie di ragioni», ha spiegato Garzoni: «Frammentazione della medicina, difficoltà di essere riconosciuto nel ruolo che gli è sempre appartenuto, burocrazia crescente che rende sempre meno attrattiva e più impegnativa questa professione, perdita di indipendenza che comporta uno studio medico spesso condiviso con altri colleghi o addirittura gestito da “amministratori o investitori”, scarsa attrattività del guadagno economico, lunghe ore di lavoro con una disponibilità sette giorni su sette e spesso la solitudine del prendere scelte terapeutiche difficili sono tutte concause che stanno rendendo poco interessante il ruolo del medico di famiglia e il numero di giovani medici che abbracciano questa vocazione va scemando». D’altra parte, ci viene spiegato che l’invecchiamento della popolazione causa un crescente numero di anziani cosiddetti poli-morbidi: «Sempre più pazienti presentano diverse malattie di apparati differenti, il che implica la presa a carico interdisciplinare a opera di molti specialisti». Sono le ragioni per

Il dottor Christian Garzoni e la dottoressa Greta Giardelli. (Vincenzo Cammarata)

cui aumenta il bisogno di riappropriarsi di questo ruolo originario: quello di colui che detiene la visione oligarchica del paziente e la funzione di coordinazione delle cure. Una professione in profonda crisi, una popolazione che invece ne ha sempre più bisogno: la creazione della rete vuole andare proprio incontro a questa problematica. «Si intende dare un supporto ai medici di famiglia aderenti, favorendo la comunicazione e la condivisione attraverso incontri periodici per uno scambio di esperienze tra medici», afferma Garzoni, mentre la sua collega spiega cosa significa tutto questo per i pazienti: «Rispetto al classico modello assicurativo di medico di famiglia, in questa rete ci sarà meno burocrazia e più filosofia di gestione del paziente, a beneficio della reciproca relazione che si deve instaurare fra le parti». In un

contesto di una buona medicina di famiglia come la nostra, la creazione di una rete (e di altre in futuro) si inserisce proprio nell’ottica di favorire possibili misure atte a migliorare le condizioni di lavoro dei medici di famiglia e aumentare l’attrattività della professione. Senza sottovalutare un altro vantaggio non trascurabile che Garzoni riassume così: «L’adesione alla rete, analogamente al modello di medico di famiglia classico già disponibile da anni per tutti i pazienti e tutti i medici del cantone, permetterà di ridurre i costi su più fronti, a partire dal premio assicurativo (fino al 15-17 per cento in meno), senza limitazioni di scelta e di accesso alle cure. Al momento sei principali casse malati hanno stipulato un accordo con questa rete e l’anno prossimo questo numero dovrebbe aumentare». La conoscenza approfondita del

paziente, il coordinamento diagnostico delle visite specialistiche e delle cure, insieme a una più attenta prescrizione dei farmaci generici, sono competenze di cui i medici di famiglia dovranno riappropriarsi a beneficio del paziente, del loro lavoro di curanti e del contenimento dei costi sanitari: «Senza dimenticare che la riduzione della spesa sanitaria dovrebbe in tal modo passare anche da un minor numero di ospedalizzazioni». L’unione fa la forza: «Del progetto beneficeranno tutti quanti: i medici di famiglia che, mettendosi “in rete” ritrovano e rinnovano il loro ruolo centrale di curanti, i pazienti che torneranno ad essere il fulcro di una presa a carico oligarchica e ben coordinata anche se interdisciplinare, e la spesa sanitaria, che potrà essere ridotta in rapporto ad ora, il che non guasta».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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La via delle diligenze

Ambiente e Benessere

Itinerari Un’escursione in Vallese alla scoperta degli albori del turismo alpino

Romano Venziani, testo e immagini Gli occhi scuri di Faustine sorridono dietro un sipario variopinto di gerbere, calle, gigli e orchidee. Tutt’attorno, profumi intensi di fiori, di muschio, di candele aromatiche. Alle pareti, composizioni per ogni circostanza, cartoline, biglietti messaggeri di auguri e di dolci parole. Il negozio di fiori di Faustine, accanto alla strada, a Vernayaz, colpisce per il suo blu intenso chiazzato del rosso delle decorazioni murali. Alle sue spalle, oltre un terreno incolto popolato di «nani-giganti» dallo sguardo perso nel vuoto, la montagna si apre in uno squarcio profondo e oscuro, da cui sgorga un alito fresco e l’acqua grigia di un torrente, che si distende alla luce e inizia a trotterellare lungo la piana del basso Vallese per poi andare a mescolarsi con quella più dubbia del Rodano. Questa spaccatura – alta decine di metri e di cui non si vede la fine – è la gola del Trient, scavata nella roccia dalla corrente dell’omonimo fiume, che in millenni di meticoloso lavoro ha sgranocchiato lo scalino glaciale. I romantici dell’Ottocento erano rimasti estasiati davanti a questa meraviglia geologica e la letteratura dell’epoca è impastata delle loro impressioni di ammirazione e terrore. Oggi ancora, il turista curioso visita la gola, percorribile per un tratto su passerelle aeree aggrappate alle pareti strapiombanti: «Abbiamo ottomila visitatori all’anno. Non sono tantissimi, ma ci va bene così», mi dice Faustine, che, dal 2012, vende i biglietti d’entrata nel suo negozio. La storia della gola del Trient s’intreccia con quella del turismo alpino, che muove i primi passi nei decenni seguenti la scoperta delle Alpi da parte degli avventurosi studiosi del secolo dei lumi, come il ginevrino HoraceBénédict de Saussure, figura di primo piano del pensiero scientifico di fine Settecento. Smanioso di misurare l’altezza del Monte Bianco, questo figlio illustre della città di Calvino promette una lauta ricompensa a chi per primo troverà la via per raggiungerne la vetta. Così, nell’agosto del 1786, Jacques Balmat, cacciatore di camosci e cercatore di cristalli di Chamonix, e il medico Michel Gabriel Paccard conquistano finalmente la cima della grande montagna. L’anno seguente, Balmat accompagnerà lassù anche lo stesso de Saussure con quintali di attrezzature utili ai suoi esperimenti scientifici. È il 3 agosto 1787, giorno ritenuto data di nascita dell’alpinismo. Fino ad allora, l’impressionante e quasi invalicabile massiccio alpino, disteso nel cuore dell’Europa come uno smisurato croissant, che dalla Slovenia va a bagnarsi nel mare della Costa Azzurra, aveva suscitato solo arcani timori nelle popolazioni insediate tra le sue pieghe, che si figuravano la montagna come il regno di creature malefiche e mostruose. Una visione, questa, alla cui rettifica non contribuivano certo atteggiamenti come quello del vescovo di

Annecy, che se ne andava a esorcizzare con un diluvio di acqua santa gli «orridi ghiacciai» di Chamonix. L’interesse crescente per le scienze naturali, nel 18esimo secolo, trasforma le Alpi in un vasto terreno di ricerca, osservazione e sperimentazione e il voyage savant stuzzica la curiosità e diventa la forma più diffusa di viaggio tra gli intellettuali danarosi dell’epoca, che diffondono con i loro scritti un’immagine positiva della montagna. Basti pensare ad Albrecht von Haller e al suo poema Die Alpen, o a Jean-Jacques Rousseau, che, nel romanzo La nouvelle Héloïse, fa della montagna il regno delle grandi emozioni, tramutandola in un mito collettivo, che innescherà una vera e propria esplosione del turismo alpino nel corso dell’Ottocento. Il massiccio del Monte Bianco diventa il principale polo d’attrazione per i rampolli dell’aristocrazia europea, che si mettono in viaggio per ammirare i «sublimi orrori» delle sue «ghiacciaie». E Ginevra ne è la porta d’entrata. Dalla città lemanica partono i due itinerari classici diretti a Chamonix, quello che percorre la valle francese dell’Arve e quello che segue la riva del Lemano, raggiunge il basso Vallese, risale la Valle del Trient e arriva nella città savoiarda attraverso il Col des Montets. La Valle del Trient entra così nella storia del turismo alpino. Di qui passano frotte di viaggiatori, letterati, alpinisti ambiziosi. E di qui passerà anche l’inglese Thomas Cook, l’inventore del turismo moderno e del viaggio organizzato, con il primo gruppo di «clienti», che accompagna a visitare la Svizzera. Non è dei più agevoli, l’itinerario, comunque, e i viaggiatori sono costretti ad avventurarsi sui ripidi sentieri utilizzati per i loro piccoli commerci dagli abitanti della valle. Con l’arrivo a metà Ottocento della ferrovia nella piana del Rodano, questi ultimi si fanno però rapidamente furbi e, fiutando possibili lucrosi affari, promuovono la costruzione di una strada adatta a carri e piccole carrozze: la cosiddetta route des diligences, che sarà tracciata negli anni tra il 1855 e il 1867. Più volte rimaneggiata e allargata, la «via delle diligenze» rimane tuttora l’unica strada che risale l’intera valle fino al confine francese. L’accesso allo spettacolare percorso, disseminato di una cinquantina di curve, è ora però limitato a escursionisti e ciclisti. Il traffico motorizzato, invece, è possibile fino a metà vallata, mentre la parte superiore si raggiunge solo da Martigny, passando dal Colle della Forclaz. Un cielo blu cobalto sgocciola raggi di sole roventi, che mi scoraggiano dal mettermi in cammino e inerpicarmi sui novecento metri di dislivello della strada delle diligenze. Meglio farla in discesa, penso, e mi presento umilmente alla stazione di Vernayaz deciso a risalire la valle del Trient comodamente seduto su una carrozza del Mont Blanc Express, il trenino che collega Martigny a Chamonix, con un percorso panoramico e vertiginoso. Destinazione: Finhaut, uno dei vil-

Finhaut, il vecchio Hotel Bristol. Su www.azione.ch altre foto e l’tinerario.

laggi che maggiormente ha tratto profitto dall’industria degli stranieri, che tra Otto e Novecento trasforma profondamente l’economia della valle fino ad allora essenzialmente agricola. I viaggiatori iniziano a trascorrervi le estati, sono anzitutto aristocratici e rampolli dell’alta borghesia inglese suggestionati dalle descrizioni della guida Baedecker, che si spreca in elogi per questo «charming village», assurto a stazione climatica, da cui si gode una splendida vista sull’intera vallata e il ghiacciaio del Trient, lassù, in alto, con i suoi sfavillanti bagliori. «I contadini diventano proprietari d’hotel, cocchieri, guide e commercianti» mi racconta Sandro Benedetti, geografo e presidente dell’associazione Vallis Triensis, istituita nel 1999 con lo scopo di promuovere la ricerca, lo studio, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale e culturale della valle. «Solo a Finhaut, tra il 1860 e il 1913, vengono costruiti venti alberghi e il comune rivaleggia con località affermate come Zermatt o Grindelwald», continua Sandro, che ben conosce il paese che gli ha dato i natali, lui, figlio di un operaio italiano emigrato in Svizzera all’epoca dei grandi lavori idroelettrici e stradali. La fortuna dura però lo spazio di pochi decenni e dopo il primo conflitto mondiale inizia il declino, perché, conclude Sandro, «non c’è stata la capacità di rinnovarsi, di adattarsi a nuove forme di turismo, come quello invernale». Inutile anche il tentativo di risollevarne le sorti, nel periodo tra le due guerre, grazie alla scoperta di una sorgente d’acqua radioattiva, declamata come toccasana per varie infermità. Le presunte qualità benefiche della Radi-

Passerelle aggrappate alle pareti rocciose.

eau richiamano a Finhaut convalescenti, rachitici, anemici, diabetici, obesi e altri portatori delle più svariate magagne, ma «l’effetto» svanisce in breve tempo. Finhaut oggi è un nucleo compatto di costruzioni sospeso su un burrone e attorniato da fitte foreste di conifere e ampi prati. I grandi alberghi belle-époque hanno chiuso i battenti uno dopo l’altro, trasformati in case d’appartamento. Qua e là, zampillanti fontane mettono in guardia il passante, eau non potable, e tiro dritto rinunciando a rinfrescanti abluzioni. Trovo un po’ di refrigerio nella chiesa parrocchiale, dedicata a «Notre Dame de l’Assomption». Un monumento storico che lascia a bocca aperta. Colori inusuali, pioggia di luce calda dalla grande vetrata, il simbolo «M» di Maria dipinto sulle colonne, inciso nei banchi o forgiato nel ferro delle cancellate, un trittico di Alexandre Cingria, che lascia basiti per la sua audacia, con al centro una Vergine bella come una principessa, che protegge sotto il suo ampio mantello una moltitudine di anime strappate al Purgatorio. La chiesa, il cui aspetto attuale risale al 1929/30, è decorata dagli artisti del Gruppo di Saint-Luc e Saint-Maurice e fa pensare, come ha scritto lo stesso Cingria «all’interno di uno scrigno in cui l’ispirazione bizantina si allea a un’arte popolare al contempo devota e gaia, che so odiata dagli spiriti razionali». La strada delle diligenze inizia tra i prati ai margini del villaggio, ma subito scende con uno zigzagare di strette curve in un’abetaia profumata di resina. Il volo di una gazza agita per un attimo l’immobilità dell’aria stanca. Tra i

ciuffi d’erba e i fiori intravvedo l’occhio vigile di una vipera in agguato, arrotolata nel suo buco d’ombra. Uscendo dal bosco, ecco Le Trétien, un pugno di belle case incrostato al pendio e dichiarato insediamento d’importanza nazionale. Lì accanto, il torrente Triège ha scavato una profonda gola, già visitata dai turisti di fine Ottocento e ora percorribile seguendo un fresco e ripido itinerario. Un crescente vocio, splash, grida di bambini, gente spaparanzata al sole, la strada delle diligenze, che, dopo Le Trétien, si perde, cancellata dalla moderna carrozzabile, passa accanto alla piscina di Marécottes, un suggestivo bacino lungo una settantina di metri ricavato da una cavità generata dall’erosione glaciale. Florian Piasenta, un giovane entusiasta, gestisce con tutta la famiglia l’insolito bagno pubblico, affiancato dallo «zoo alpino», nato negli anni Sessanta e dedicato alla fauna delle nostre montagne, orsi e lupi compresi. Da qui si scende a Salvan, altra stazione climatica della belle-époque, che richiamava una clientela famigliare e cosmopolita, tra cui troviamo personaggi famosi, come Igor Stravinskij o Guglielmo Marconi. A lui e alla storia della radio è dedicato un simpatico museo. L’inventore bolognese, poco più che ventenne e afflitto da problemi respiratori, soggiorna a Salvan nel 1895 e ne approfitta per effettuare i suoi esperimenti di telegrafia senza fili, aiutato da un ragazzino del posto, Maurice Gay Balmaz, che scorrazza nei prati reggendo una rudimentale antenna, mentre Marconi lancia i suoi segnali dall’alto della pierre bergère, un gigantesco masso erratico, che sovrasta il centro del paese. Nel 2008, l’Unione Internazionale delle telecomunicazioni assegna a Salvan il titolo di culla delle telecomunicazioni, suscitando le ire nella patria dell’inventore e un caso internazionale, che Yves Fournier, presidente della Fondation Marconi di Salvan, liquida con un «noi non volevamo impadronirci di niente». Al limitare del paese, la strada delle diligenze si riappropria del tracciato originale, precipitando sulla valle del Rodano con un groviglio di quarantatré curve da capogiro. Mi arrendo e, per tornare al piano, riprendo il MontBlanc Express, che mi regala altre incantevoli visioni, mentre, lontano, una morbida bruma svapora nel rosso-dorato dell’orizzonte.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Ambiente e Benessere

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Viaggio Per i lettori di Azione, Hotelplan organizza dal 5 marzo

al 20 marzo 2020 un viaggio ai Carabi nella terra dei Castro Un itinerario che combina paesaggi di straordinaria bellezza, dal verde delle piantagioni di tabacco nella

valle di Viñales, passando dalla colorata capitale dell’Avana fino alle città coloniali di Cienfuegos e Trini-

5. L’Avana – Playa Giron – Cienfuegos. Tasferimento verso Cienfuegos. Durante il tragitto soste a la Fiesta Campesina, Montemar, La Boca e Playa Giron, la celebre Baia dei porci. Pranzo in corso di escursione. Verso sera, arrivo a Cienfuegos. 6. Cienfuegos. Visita di una fabbrica di sigari e della città. Pranzo in ristorante e a seguire cocktail (incluso) sulla terrazza del Palacio de Valle. 7. Cienfuegos – Parco El Cubano – Trinidad. Partenza per il parco nazionale El Cubano. Pranzo in corso d’escursione. Si prosegue verso Trinidad e all’arrivo sistemazione in casa particular. 8. Trinidad. Visita della meravigliosa città coloniale dichiarata patrimonio mondiale dell’umanità dall’UNESCO. In serata aperitivo nel famoso locale La Canchanchara.

Desidero iscrivermi al viaggio dal 5 marzo al 20 marzo 2020 Nome

dad, per finire nelle calde acque turchesi di Cayo Santa Maria. È quanto Hotelplan, in collaborazione con

Il programma di viaggio 1. Ticino-L’Avana. Trasferimento dal Ticino per Zurigo in pullman privato. Volo con Edelweiss Air. Arrivo di sera a L’Avana. 2. Vinales. Giornata dedicata alla visita della Valle de Viñales dove è prevista un’escursione a piedi per scoprire le numerose ricchezze naturali della valle e i campi di tabacco. Sosta al Mirador de los Jazmines e pranzo in ristorante. In seguito, visita al muro della preistoria e ritorno a L’Avana. 3. L’Avana. Passeggiata attraverso il centro storico tra i luoghi più caratteristici della capitale. Visita al Museo del Rum della «Fondacion Havana Club» e giro panoramico della città con i nostalgici Oldtimer-Cabrio. 4. L’Avana. Visita al Teatro Gracia Lorca; trasferta a Finca Vigia e Cojimar, località dove Hemingway abitò per 21 anni. Rientro a L’Avana.

Tagliando di prenotazione

9. Trinidad. Giornata a disposizione per visite individuali e pranzo libero. Cena in casa particular. 10. Trinidad – Valle de los Ingenios – Santa Clara – Cayo Santa Maria. Partenza verso la valle de «Los Ingenios». Si prosegue per Santa Clara alla scoperta dei siti più emblematici di questa cittadina. 11-13. Cayo Santa Maria. Soggiorno balneare libero in resort 5* che regalerà giornate all’insegna del sole e del relax. Pernottamento in hotel in formula all inclusive. 14. Cayo Santa Maria – L’Avana. Trasferimento a l’Avana con cena tipica cubana. 15. L’Avana – Ticino. Nel pomeriggio trasferimento in aeroporto per l’imbarco del volo Edelweiss Air verso Zurigo. Arrivo in Svizzera il giorno seguente e rientro in pullman in Ticino.

Bellinzona

Lugano

Lugano

Viale Stazione 8a 6500 – Bellinzona T +41 91 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch

Via Pietro Peri 6 6900 – Lugano T +41 91 910 47 27 lugano@hotelplan.ch

Via Emilio Bossi 1 6900 – Lugano T +41 91 913 84 80 lugano-viabossi@hotelplan.ch

«Azione», propone per marzo 2020. Cuba non propone solo i suoi sigari, il rum e il ballo della salsa; è un paese ricco di una storia tormentata, di una cultura colma di colori, di una natura mozzafiato ma soprattutto di una popolazione piena di gioia di vivere, acculturata, calorosa, fiera e allo stesso tempo umile. La più grande isola dei Caraibi possiede un’anima ricca e complessa che non è facilmente percepibile dal turista. Qui tutto è una questione di sensibilità, coperta sovente da una realtà molto dura di un paese che continua a lottare con fierezza per difendere il proprio futuro. Il viaggio, oltre a fornire l’opportunità di toccare con mano alcune di queste sfaccettature, sarà l’occasione per scoprire angoli e luoghi incantevoli di questa affascinante meta.

Cognome Via NAP Località Telefono e-mail Sarò accompagnato da … adulti e … bambini (0-17 anni). Sistemazione desiderata (cerchiare ciò che fa al caso). Variante singola: SI NO

Prezzo a persona In camera doppia: CHF 5730.– Supplemento camera singola: CHF 995.– Spese agenzia Hotelplan: CHF 70.– La quota comprende Trasferimento in pullman privato dal Ticino a Zurigo aeroporto a/r. Volo diretto intercontinentale in classe economica, tasse incluse. Sistemazione in hotel 4 / 5 stelle e in casa particular (Trinidad). Pasti come da programma e

formula all inclusive a Cayo Santa Maria. Tessera turistica. Tutte le visite guidate e i trasferimenti come da programma. Guida locale qualificata italofona e accompagnatore Hotelplan. La quota non comprende Adeguamento carburante; bevande; extra in genere; assicurazione viaggio; mance (ca. 50 Euro per persona da pagare in loco); spese dossier. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Ambiente e Benessere

L’Arabia Saudita si apre al mondo non musulmano

Da Atene a Berlino

Bussole Inviti a

letture per viaggiare

Viaggiatori d’Occidente Ora i turisti possono visitare i cinque siti Unesco, le città, il deserto

e il resort di lusso sul Mar Rosso, ma non Medina né la Mecca

Claudio Visentin Era il 1853 quando il leggendario viaggiatore inglese Richard Francis Burton, il primo traduttore delle Mille e una notte, prese parte al pellegrinaggio alla Mecca e a Medina (Hajj) – uno dei cinque pilastri dell’Islam, da compiere almeno una volta nella vita – fingendo di essere un afghano, grazie alla sua eccezionale conoscenza della lingua e della cultura araba. Rischiò la vita, poiché allora come oggi ai non musulmani quei sacri luoghi erano vietati. Per lungo tempo l’Arabia Saudita ha continuato ad accogliere solo pellegrini, uomini d’affari o al limite immigrati per lavoro, senza nessuna concessione ai comuni turisti internazionali. Poi la svolta, poche settimane fa. A partire dalla fine dello scorso settembre i cittadini di quarantanove Paesi – inclusi Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Cina e la maggior parte dei Paesi europei – possono facilmente ottenere un visto turistico valido per tre mesi, anche al loro arrivo. La Mecca e Medina restano loro vietate, ma i turisti possono visitare i cinque siti Unesco, le città, il deserto e resort di lusso sul Mar Rosso. La promozione del turismo è un tassello importante nel programma di riforme Vision 2030 promosso dal principe ereditario Mohammed bin Salman: attualmente, il turismo contribuisce solo per il 3% al prodotto interno lordo, l’ambizione è salire al 10% entro il 2030, con cento milioni di visitatori. Le ragioni di questo cambiamento di rotta sono diverse, a cominciare dall’urgenza di diversificare un’economia troppo dipendente dal petrolio. Ma almeno pari è il desiderio di migliorare l’immagine internazionale del Paese. Qualche anno fa quando il fondatore di Lonely Planet, Tony Wheeler, visitò tutti gli «Stati canaglia» del mondo giudicò l’Arabia Saudita peggiore anche della Corea del Nord, specie per il trattamento riservato alle donne. Nel 2016 il Paese si coprì di ridicolo quando tre donne pilota del Brunei, dopo aver fatto atterrare il loro Boeing 787 Dreamliner a Gedda, dovettero affidarsi a un uomo per lasciare l’aeroporto in auto. Ora va un po’ meglio e questi divieti sono stati attenuati ma diverse attiviste per i diritti delle donne sono finite in prigione. Poco tempo fa le Nazioni Unite hanno condannato l’Arabia

«Chi visita Atene per la prima volta di solito è scioccato da quanto sia moderna. Solo le strutture senza tempo dell’Acropoli sembrano sfidare l’aleatorietà di una storia schiacciata tra un passato glorioso e un presente in continuo cambiamento (…) I luoghi che abbiamo scelto di proporre in questa guida vanno dall’antico all’ultramoderno e riflettono una città impossibile da classificare (…)».

Al-Ula, patrimonio Unesco, è un’oasi con 7mila anni di storia, ora promossa tra le mete turistiche dell’Arabia Saudita. (Pixabay)

Saudita per il mancato rispetto dei diritti umani; e l’omicidio del giornalista del «Washington Post», Jamal Ahmad Khashoggi, nel consolato saudita di Istanbul un anno fa non ha certo migliorato la reputazione del Paese, già sul banco degli imputati per la guerra in Yemen e il sostegno al terrorismo internazionale. Per far conoscere ai turisti le nuove opportunità è attiva, una campagna Twitter (@visitSaudiNow). E già negli ultimi mesi dell’anno passato alcuni tra i più importanti influencer sono stati invitati a un viaggio di lusso interamente gratuito, purché raccontassero la loro esperienza su Instagram. Alcuni hanno rifiutato, per non collaborare col regime saudita. Altri hanno invece accettato con entusiasmo, mostrando escursioni nel deserto con SUV immacolati e glamping (camping di lusso). Poi hanno visitato l’estremità nord-occidentale del Paese, vicino al Mar Rosso al confine con l’Egitto, dove sorgerà Neon, la città del futuro in attesa di investitori internazionali. Infine, hanno assistito a un altro spettacolo inedito: una gara automobilistica della Formula-E Grand Prix a Dir‘iyya, la città storica culla della dinastia saudita. Economia e relazioni internazionali sono dunque le ragioni di questa apertura dell’Arabia Saudita al turi-

smo. Il Paese è abbastanza ben preparato per quanto riguarda alberghi, aeroporti eccetera. Ma ha forse sottovalutato le implicazioni sociali di questa scelta. E così le nuove leggi sulla pubblica decenza, da poco promulgate, devono regolare un’infinità di situazioni particolari causate dalla presenza di turisti stranieri. Alcune concessioni sono inevitabili. Per esempio, è apparso subito impensabile imporre alle turiste di indossare l’abaya, il tradizionale abito nero, per nascondere il corpo; ci si limiterà a chiedere loro di vestire «con modestia» (dunque niente pantaloni corti, anche per gli uomini, e occhio a quel che c’è scritto sulla vostra T-shirt). Le turiste straniere potranno prenotare una camera d’albergo o condividerla con un uomo anche senza provare di essere sposati; non è poco per un Paese dove il sesso al di fuori del matrimonio è severamente punito. Ma molti altri divieti sono rimasti. Niente alcol per esempio, anche se questa scelta vanifica di fatto l’apertura al turismo inglese… Altre regole? Effusioni pubbliche possono costarvi una multa fino a ottocento dollari e se siete dello stesso sesso non pensateci nemmeno: il turismo omosessuale, in crescita ovunque, qui semplicemente non è contemplato. Durante il Ramadan non mangiate o bevete in pubblico di

giorno. Potete portare una Bibbia con voi per uso personale, ma non mostratela mai. Come in molte altre parti del mondo, avere droga con sé è rischiosissimo (si arriva fino alla pena di morte). La vita quotidiana poi è costellata di trappole: ascoltare musica ad alto volume durante le cinque preghiere quotidiane potrebbe costarvi duecentocinquanta dollari di multa, altrettanto se fotografate edifici governativi o persone senza il loro permesso e così via… Ricordate che i giudici sauditi hanno un’ampia discrezionalità, anche se nella maggior parte dei casi il pagamento di una multa dovrebbe evitarvi battiture pubbliche o l’imprigionamento. Anche i turisti insomma dovranno imparare a muoversi in una società tanto diversa dalla loro. I sauditi sono attirati dalle entrate e dai benefici d’immagine del turismo, ma per poca esperienza non riescono a coglierne tutte le implicazioni. L’idea di permettere certi comportamenti solo ai turisti e non ai propri cittadini è senza dubbio ingenua. Come ha scritto l’antropologo Theron Nuñez, «il turismo, dopo la politica e la guerra, è il più efficace agente di cambiamento nel mondo contemporaneo». E l’Arabia Saudita potrebbe presto ritrovarsi nei panni di un’apprendista stregone che ha risvegliato forze incontrollabili.

Due nuove collane hanno cambiato il nostro modo di viaggiare e raccontare le città. L’editore Emons allinea centoundici luoghi impossibili da trovare nelle tradizionali guide turistiche. E così nel caso dell’ultimo titolo, Atene, scoprirete il vecchio bar degli scacchi dove un giorno passò il campione del mondo, la casa delle spie al tempo del nazismo, la scultura più vandalizzata della città, i pappagalli del giardino nazionale, una taverna per persone sole, una pasticceria per i morti, la piazza degli anarchici, Romeo e Giulietta in salsa greca, i rosari scacciapensieri… The Passenger (Iperborea) rifiuta invece fin dall’inizio ogni tentativo di classificazione in favore di una pluralità di voci: infografiche, inchieste, reportage, racconti. L’ultimo numero è dedicato a Berlino nel trentesimo anniversario della sua riunificazione. La caduta del Muro ha liberato una straordinaria quantità di energie ma quella stagione è ormai conclusa per sempre: i mercatini con i cimeli dell’Unione sovietica, le feste illegali e trasgressive, le case occupate sono ormai ricordi del passato e occasione di nostalgia (Ostalgie). Ma anche dopo aver trovato un suo nuovo equilibrio, Berlino resta profondamente multiculturale, vivace, divertente, sorprendente / CV Bibliografia

Alexia Amvrazi, Diana Farr Louis, Diane Shugart, 111 luoghi di Atene che devi proprio scoprire, Emons, 2019, pp.240, € 14,95. AA.VV., The Passenger – Berlino, Iperborea, 2019, pp.192, € 19,50.

Questioni di omonimia

Giochi di parole Non solo per l’enigmistica a doppio soggetto ma anche per impostare schemi autonomi

1. Bisenso

Artigianato meridionale La xxxxxxx di quella chiesa toscana

venne fusa da un’azienda xxxxxxx. (JoKolog)

fa solo il gioco di Napoleone. (Mister Aster)

2. Bisenso (6)

5. Cambio d’accento

Marconi È lo splendor... del secolo ventesimo. (Garisendo) 3. Polisenso

Amori a palazzo L’astronomo di xxxxx fa la xxxxx a quella damigella lì seduta al centro della xxxxx, bella e muta, le trecce xxxxx e le guancette smorte. (Andronico) 4. Polisenso (9)

Una spia tra le fila di Nelson È un brillante ufficiale, di valore; ma se dintorno non ha altre persone, da singolare verme traditore,

7. Spostamento d’accento

Ladruncolo di campagna M’ha spogliato tutto il xxxxx, quel birbone: se lo xxxxx... (Variante Ascari)

Uno strappo improvviso Mi sono alzato a chiuder le xxxxxxx e al xxxxxxx ho sentito un gran dolore: dovrei fare palestra, alla fin fine, ciò mi farebbe bene pure al cuore... (Il Cherubino)

6. Cambio d’accento (4)

8. Spostamento d’accento (8)

Allarme in America Latina Gira a Santiago come a Bogotà, l’avviso d’una certa gravità. (Happy)

Una donna fatale Possiede un corpo davvero attraente ed è fonte di guai per molta gente. (Alf & Jolly)

Soluzione

I termini che possiedono significati diversi, pur essendo composti da una stessa sequenza letterale (detti omonimi), vengono utilizzati principalmente per la composizione dei giochi enigmistici a doppio soggetto, ma possono essere utilizzati anche per impostare degli schemi autonomi. A tale scopo, viene abitualmente usata la seguente terminologia: ■ bisenso: insieme di due parole che, oltre alla stessa grafia, presentano anche un’identica accentazione (ad esempio: rombo: rumore / figura geometrica); ■ polisenso: insieme di più di due parole che, oltre alla stessa grafia, presentano anche un’identica accentazione (ad esempio: mora: bruna / frutto / sanzione pecuniaria);

■ cambio d’accento: insieme di due parole la cui grafia differisce solo per il tipo di accento tonico (ad esempio: vènti / vénti); ■ spostamento d’accento: insieme di due parole la cui grafia differisce solo per la posizione dell’accento tonico (ad esempio: àncora / ancora). In tutti questi casi, l’eventuale diagramma numerico è costituito da un unico numero indicante la lunghezza comune a tutte le parole da trovare. Qui di seguito vengono riportati alcuni esempi basati su questi schemi, sia di tipo popolare, sia di tipo classico (ognuno di essi è seguito dall’indicazione del relativo autore). Provate a risolverli tutti.

1. campana: strumento musicale / della Campania; 2. lustro: lucentezza / spazio di cinque anni (ventesima parte di un secolo); 3. corte: reggia / corteggiamento / cortile / poco lunghe; 4. solitario: pietra preziosa / isolato / tenia / passatempo con le carte; 5. pèsco/pésco; 6. péso (unità monetaria) / péso (forza di gravita); 7. tendine / tèndine; 8. calamità / calamìta.

Ennio Peres


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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana

Filetto di lucioperca alla mediterranea Secondo piatto Ingredienti per 4 persone: 4 filetti di lucioperca di ca. 150 g ciascuno · 2 spicchi

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

d’aglio · 100 g di pomodori cherry semisecchi sott’olio · 50 g d’olive nere snocciolate · 1 peperoncino · 1 c di capperi · sale · pepe dal macinapepe · 4 c di succo di limone · 1 mazzetto di salvia · 4 c di burro. 1. Scaldate il forno a 200 °C. Sciacquate i filetti di pesce sotto l’acqua fredda e asciugateli tamponandoli con carta da cucina. Accomodateli in una teglia foderata con carta da forno. 2. Schiacciate gli spicchi d’aglio con un coltello e tritateli grossolanamente. Estraete i pomodori dall’olio e tritateli grossolanamente insieme con le olive. Dimezzate il peperoncino per il lungo, privatelo dei semi e tagliatelo a striscioline. Mescolate l’aglio con i pomodori, le olive, il peperoncino e i capperi. 3. Condite i filetti con sale e pepe e irrorateli con il succo di limone. Adagiate la salvia sui filetti e distribuite sul pesce la miscela mediterranea di pomodori, olive e capperi. Aggiungete il burro a pezzettini e cuocete i filetti al centro del forno per circa 20 minuti. Preparazione: circa 20 minuti + cottura in forno circa 20 minuti. Per persone: circa 30 g di proteine, 16 g di grassi, 5 g di carboidrati, 300

kcal/1250 kJ.

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Ambiente e Benessere

Abbiamo anche dei diritti

Sport Suggestivo, il tema dell’edizione 2019 della Notte del Racconto destinata a bambini e ragazzi, ovvero a coloro

che dispongono di meno risorse per ottenere rispetto. Anche nello sport

la sua massima espressione in un fenomeno planetario come Roger Federer, il quale ha costruito la sua immagine e il suo mito, con un’apparente facilità, con leggerezza, seguito con discrezione da una famiglia che lo ha lasciato fare. Purtroppo non è sempre così. Il mondo dello sport pullula di brutte storie. Sia ai massimi livelli, pensate alle vicende di André Agassi o Patty Schnyder, sia a livelli di gran lunga più bassi. È di poche settimane fa l’ennesima rissa che ha visto coinvolti anche dei genitori. La partita di calcio fra gli allievi B2 del Coldrerio e del Rapid Lugano si è rivelata molto tesa sin dal primo minuto, ma a esacerbare gli animi sono stati soprattutto alcuni genitori. Lungi da me il volermi schierare da una parte o dall’altra. Non ero presente. Dalle cronache emerge che la scintilla che ha scatenato la bagarre sia stato un calcio affibbiato, da tergo, da un genitore a un ragazzino. Gli educatori, a giusta ragione, battono il chiodo sul fatto che l’adulto debba fungere da modello. Il senso di tristezza, che provo nel leggere di situazioni come quella appena descritta è rivolto soprattutto ai figli. Che cosa si porteranno a casa da questa vicenda? Che l’avversario è un nemico? Che se non riesci a vincere, ti puoi fare giustizia con la forza? Che quando non ce la fai tu, c’è sempre un padre gasato pronto a spianarti la strada? Io spero quantomeno che i figli abbiano provato un senso di vergogna per il comportamento dei loro genitori. Se così fosse, potremmo perlomeno coltivare la speranza che tra 15-20 anni, quando saranno loro a bordo campo, la storia non si ripeterà.

Giancarlo Dionisio Al mondo ci sono bimbi che cuciono magliette per dodici ore al giorno, e altri che le indossano, poiché i loro genitori possono permettersi di acquistarle. I primi non sanno che cosa significhi fare sport; che cosa voglia dire diventare un campione. Nessuno li incoraggia. Nessuno li spinge. Nessuno pretende dei risultati da parte loro. I secondi si divertono. Giocano, passano da uno sport all’altro: tennis d’estate, sci d’inverno, le attività di gruppo, per socializzare. Bimbi sereni, baciati dalla sorte, fino a quando il sogno di potersi divertire, si infrange contro le smanie di un padre o di una madre che vedono in loro il futuro Roger Federer, o Leo Messi o Mikaela Shiffrin. In una società in cui c’è una giornata dedicata a tutto e a tutti – dalla castagna, all’orologio a cucù, allo gnocco – ci sta che chi organizza la Notte del Racconto ponga quest’anno l’accento sui diritti dei ragazzi. Qualcuno potrebbe storcere il naso. «I giovani di oggi sono dei viziatoni, che diritti e diritti! Che si assumano le loro responsabilità, e assolvano il loro compito, che è quello di obbedire, studiare e ascoltare chi ha più esperienza di loro». Sono solo parzialmente d’accordo. È giusto che si impegnino e studino, se ne hanno l’opportunità, perbacco, tuttavia il rapporto genitori-figlisport è più contorto di quanto non si immagini. Se n’è reso conto l’Unicef, che già nel 1992 aveva promulgato la «Carta dei diritti del bambino nello sport». Lo ribadisce a chiare lettere il Panathlon International, club di ser-

Il rapporto genitori (spesso a bordo campo)figli-sport è più contorto di quanto dovrebbe essere. (Pxhere.com)

vizio con finalità etiche, che da alcuni anni insiste nel fare luce su alcune pericolose derive dello sport giovanile. L’undicesimo e ultimo punto della Carta promuove il Diritto di non essere un campione. Può sembrare banale, ma è la sintesi perfetta di tutti gli altri punti. Non dover essere il numero 1 significa allenarsi divertendosi, in un ambiente sano, con dei carichi adeguati all’età e alle proprie capacità, in assoluta sicurezza, seguiti da adulti capaci e responsabili, eccetera. Se poi un ragazzino, in modo naturale, riesce ad allenarsi più di altri, col

sorriso sulle labbra, senza correre rischi, senza danneggiare il fisico, che lo faccia. Probabilmente è un predestinato. Sono convinto che nel 99 per cento dei casi un giovane sia consapevole dei propri mezzi atletici, tecnici e tattici. Sa perfettamente che, allenandosi meglio e di più, può compiere qualche passo in avanti, ma percepisce anche i propri limiti, che sono figli anche della sua disponibilità al sacrificio e alla sofferenza. Luigi sa che non potrà scalare il mondo del calcio oltre le leghe regionali, Alberto intuisce che non correrà mai i 400 metri piani in meno di 48 secondi,

Giorgia è consapevole che il terzo posto ai campionati ticinesi di attrezzistica equivale per lei a un oro olimpico. Tutti e tre sanno che parecchi loro coetanei sono più forti, più veloci, più efficaci di loro, ma non ne fanno un dramma. Sono felici, soddisfatti. Hanno lavorato, hanno sudato, ma non si sono fatti del male. Con loro, di conseguenza, sono soddisfatti anche i genitori. Hanno sostenuto i figli, li hanno stimolati, guidati, consigliati, ma non hanno mai preteso nulla, se non serietà e impegno. Questa è la situazione ideale, che trova

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Scopri quanti centimetri di diametro misura il canestro di basket e a quanti metri di altezza deve essere dal terreno, leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frasi: 14 – 3, 1, 4, 6)

ORIZZONTALI 1. Non prende la medaglia... 6. Le lancia chi è spaventato 7. Le iniziali della ballerina Titova 9. Cibele lo mutò in pino 10. Auto a Londra 11. Avverbio di luogo 12. Seguono gli ottavi 13. Quelle reflue non sono potabili 17. Lo stampo della Zecca 18. Prodi 19. Una carta da gioco 20. Gitani 21. Tristi, malinconiche 23. Le iniziali del tenore Caruso 24. Il cantante Rosalino Cellamare 25. Un boccone fatale 27. Ingiusto 28. Quartiere romano e acronimo di Esposizione Universale di Roma

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

VERTICALI 1. Correlativo di tale 2. Collisioni 3. Le ha lunghe l’albatro 4. Le iniziali del noto Arbore 5. Biblico marito di Saffira 8. Piccolo gruppo 10. Dispute, liti 12. Una consigliera proverbiale 13. L’atmosfera del Carducci 14. Antichi strumenti di supplizio 15. Regione dell’Iran 16. Qui in fondo 17. Centri Assistenza Straordinaria 19. La lista che fa gola... 21. Sigla di Minimum Order Quantity 22. Sovrano d’altri tempi 24. Nei grassi e nelle proteine 26. Simbolo chimico del rame Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Soluzione della settimana precedente

IL MARITO SPIRITOSO – Tra moglie e marito: «Caro hai visto quell’ubriaco? Dieci anni fa mi ha chiesto di sposarlo e io ho detto di no!» Risposta risultante del marito: «CHE FORTUNA, ANCORA FESTEGGIA!» C H A A N E S R E A L T E S G G H

E L I S I A T E I

T E F O A T O D T A F I A G R A S U O R A C I D E R I D E C E S A N S A R A I A L

R U O T A G O T A

A R E N A T T O A C F E S I A I A N L M O O M S E R

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Politica e Economia GB verso il voto Nel Regno Unito è iniziata la campagna elettorale. Ma se il 12 dicembre dalle urne non uscirà una maggioranza chiara la Brexit a gennaio potrebbe saltare pagina 21

Caso ex Ilva Un fulmine a ciel sereno sullo sfondo di un ambiguo intreccio di scelte politiche azzardate. Così è stato percepito l’annuncio della multinazionale euroindiana ArcelorMittal, che ha restituito allo Stato italiano la patata bollente dell’azienda di Taranto

Che cosa succede in Libano Un’ondata di proteste senza precedenti ha fatto cadere il primo ministro Hariri

Una mole di dati A lungo lo spauracchio delle banche svizzere, lo scambio di informazioni bancarie torna utile al fisco svizzero

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pagina 27 Garry Kasparov è stato anche consulente di strategia a livello internazionale. (Keystone)

L’Occidente impari dagli scacchi

Tattiche e strategie L’influenza geopolitica di Russia e Cina e le minacce che rappresentano per l’Occidente

spiegate dal più grande scacchista della storia, Garry Kasparov Giulia Pompili Siamo tornati al gioco degli scacchi, come durante la Guerra fredda. E serviva il più grande scacchista della storia, Garry Kasparov, per spiegare in modo semplice la differenza con cui l’Occidente dovrebbe trattare con la Russia e con la Cina, sulla base della diversità delle loro visioni. In un’intervista alla Cnbc, Kasparov ha detto che la minaccia tecnologica che arriva da Mosca è «tattica», cioè si basa su obiettivi a breve termine e punta a «benefici immediati», mentre per Pechino si tratta di un approccio «strategico». «Riguarda l’enorme raccolta di dati. La Cina fa un gioco sul lungo periodo», ha spiegato Kasparov. «Se Vladimir Putin cerca dollari e benefici politici immediati, Xi Jinping pensa in termini di secoli». Sembra quasi un luogo comune usare la metafora degli scacchi per spiegare l’influenza geopolitica delle grandi potenze globali. Eppure Kasparov, che oggi lavora come ambasciatore per la sicurezza informatica della ceca Avast, parla in realtà di una questione concreta: dal punto di vista tecnologico, una volta raggiunta la consapevolezza di questa

enorme differenza di metodo, allora sappiamo anche come reagire. Perché per contenere la Russia, secondo lo scacchista, basterebbe una tecnologia adeguata. Per esempio per fermare il diffondersi delle fake news e delle «fabbriche di troll», che secondo varie indagini sono parte del progetto russo di destabilizzazione e influenza sulle elezione dei paesi stranieri, è sufficiente usare bene le tecnologie di cui già disponiamo. Ma con la strategia sul lungo termine di Pechino come si fa? Se si escludono i fattori di rischio tradizionali alla sicurezza pubblica – per esempio l’estremismo, il terrorismo – per anni l’intelligence americana si è concentrata su quella che considerava la maggior minaccia alla sicurezza nazionale: la Russia. Mosca rappresentava il nemico da contenere. Soltanto da pochi anni, anche in Europa e in America, la Cina viene considerata come una «minaccia strategica», e non più come un «mercato lontano», come veniva descritta sui documenti ufficiali. Questo cambio di direzione ha a che fare con l’arrivo di Xi Jinping a Pechino e il suo Sogno cinese: modificare lo status quo globale e rendere la Cina di nuovo una potenza, al pari di quella americana. In Asia orien-

tale già da tempo le mire assertive della Cina rendevano i rapporti con Pechino complicati: il libro bianco della Difesa giapponese sin dal 2010 mette la Cina al primo posto tra le minacce correnti insieme con la Corea del nord. E infatti in Asia la metafora più popolare non è quella degli scacchi ma quella del go, il gioco più antico del mondo nato proprio in Cina 2500 anni fa. I giocatori sono sempre due, si sfidano sul goban, cioè la scacchiera, e le pietre bianche e nere hanno come scopo non l’avvicinamento ma l’accerchiamento. Insomma, la dominazione, e non la conquista. Per Washington è stato più difficile riconoscere l’importanza della Cina nello «scacchiere» globale, ma tutto è diventato più chiaro grazie alla corsa tecnologica. Secondo la Commissione europea entro il 2025 la nuova rete di internet che rivoluzionerà il nostro sistema di comunicazione, il 5G, produrrà un giro d’affari da 225 miliardi di euro l’anno, e tutte le nostre informazioni passeranno attraverso quelle reti. Ecco perché l’infrastruttura ha un enorme valore nella politica di sicurezza nazionale, ed ecco perché Pechino ha investito così tanto nella ricerca tanto da diventare leader del

settore – attraverso il suo colosso delle telecomunicazioni, Huawei. La stessa Commissione europea la scorsa settimana ha pubblicato un report per spiegare i danni che potrebbe fare una «eventuale potenza straniera ostile» se si impossessasse della rete 5G europea. È uno scenario apocalittico, che va dal blocco delle comunicazioni al controllo su infrastrutture strategiche come i trasporti, la fornitura di energia, ma anche i più piccoli elementi tecnologici ormai presenti in molte case europee, come gli assistenti vocali. Il report non cita direttamente la Cina, ma certo è che Huawei si è ormai inserita nel settore, a differenza della Russia. E non vuol dire che gli atti ostili ci saranno, ma che potrebbero esserci, e questa possibilità segna un vantaggio enorme per Pechino. «Russia e Cina rappresentano sfide distinte per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti», si legge in un recente studio dell’americana Rand corporation, «La Russia non è un concorrente alla pari, piuttosto uno Stato canaglia ben armato che cerca di sovvertire l’ordine mondiale, ma che non può sperare di dominarlo. La Cina invece è un concorrente alla pari che vuole modificare l’ordine internazionale e potrebbe do-

minarlo». Se Mosca ha compiuto azioni, in patria e all’estero, per eliminare gli oppositori e creare caos negli altri paesi, cercando di minare le istituzioni europee e atlantiche, finora, secondo Rand, «la crescente influenza di Pechino si basa in gran parte su misure positive: commercio, investimenti e sviluppo. Questo rende la Cina una minaccia meno immediata ma una sfida a lungo termine molto più importante». Anche per quanto riguarda l’intelligence, la Russia usa i suoi agenti dormienti all’estero per compiere azioni da cui trarre un beneficio immediato, mentre la Cina ha già più volte dimostrato di aver costruito una rete impenetrabile fatta di influenze e favori anche all’estero, e di saper gestire molto bene la materia. Un paio di anni fa uno scoop del «New York Times» rivelò che tutte le operazioni segrete della Cia in Cina, tra il 2010 e il 2012, erano sistematicamente fallite grazie all’intervento di Pechino, che ha imprigionato ed eliminato tutte le risorse americane. Allora i funzionari dell’intelligence americana dissero che la Cina era il più grande fallimento dello spionaggio statunitense. La partita a scacchi era già cominciata, ma nessuno se n’era accorto.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Politica e Economia

GB, voto prima di Natale

Nuovo Parlamento La Camera dei Comuni ha approvato la legge presentata

da Boris Johnson per ottenere la convocazione di elezioni anticipate il 12 dicembre e rompere così lo stallo sulla Brexit Cristina Marconi Che le elezioni del 12 dicembre prossimo siano la via d’uscita dalla palude in cui si è insabbiata la politica britannica è ancora tutto da dimostrare. Per ora, con la campagna elettorale iniziata mercoledì scorso, la confusione sembrerebbe essere addirittura aumentata, perché oltre al tema ormai classico della Brexit, sono tornate a farsi sentire le inevitabili differenze tra Tories e Labour, questa volta ancor più accentuate dalla presenza di leader polarizzanti come Boris Johnson e Jeremy Corbyn. Uno dice che l’altro è come Stalin, il rivale lo accusa di ogni nefandezza e il risultato è che i toni sono talmente accesi che non si riesce più a distinguere ciò che è rilevante e urgente, in questo 2019 di caos. A ciò si aggiungono le istanze dei puristi, come l’anti-Brexit LibDem Jo Swinson, e il Brexit Party di Nigel Farage, che in maniera diversa si rifiutano di fare i conti con il dibattito seguito al referendum del 2016, e le intrusioni internazionali: come sempre sottotraccia e insidiose quelle di Mosca e urlate e frontali quelle di Donald Trump, anche se entrambe capaci di destabilizzare una situazione già di suo fragile. Ma al di là della confusione, del brusio dei dibattiti e degli attacchi personali, la domanda principale rimane: è possibile un cambio di scenario tale da realizzare la Brexit entro la prossima scadenza del 31 gennaio del 2020? I fatti, al momento, sono questi: i Tories hanno circa il 38% dei voti stando ai vari sondaggi, che però danno il Labour tra il 27% e il 31%. I LibDem sono al 15-16%, mentre lo Ukip Party di Nigel Farage è al 10%. Il quadro è ancora molto fluido e cangiante, ma il rischio che Johnson non abbia una maggioranza sufficiente a governare bene non si può escludere. E sebbene sia decisamente più forte di Jeremy Corbyn, quest’ultimo ha un margine per formare delle alleanze, magari con gli scozzesi dell’SNP o addirittura con i LibDem, anche se per ora sembra molto difficile, mentre Boris è solo, non ha gli unionisti nordirlandesi dalla sua e non può contare sulla complicità del Brexit Party di Farage, che ha deciso di candidarsi ovunque, anche dove i Tories hanno già un euroscettico di ferro.

Dopo l’ultima proroga concessa da Bruxelles sull’uscita di Londra dall’Ue, adesso la vera sfida è quella della campagna elettorale, che parte coi favori dei sondaggi per Boris Johnson Chi invece ha scelto di non correre per nessun seggio è Farage stesso, ufficialmente per potersi concentrare sulla gestione del partito e sulla battaglia all’accordo raggiunto da Johnson con Bruxelles, anche se il sospetto è che tema di non essere eletto, visto che a Westminster non è mai riuscito a entrare. Un invito all’amicizia tra Nigel e Boris è giunto dal presidente statunitense Trump, che ha detto vezzosamente di «volere bene a entrambi» e che «Boris ce la farà», pur auspicando di vedere i due «uniti», il che rappresenta, secondo Trump, «una possibilità». Sicuramente lo slogan del partito faragista, «Questo accordo non è la Brexit», riduce di molto queste possibilità. Ovviamente Trump ha parlato

Il leader conservatore Boris Johnson. (AFP)

male di Corbyn, ignaro che su un certo tipo di elettorato, non solo laburista, questo è una mano santa. Da Bruxelles, dove sono stati concessi gli ennesimi tempi supplementari in una partita in cui non vince mai nessuno, non ci sono particolari ragioni di speranza: una vittoria netta dei Tories porterebbe ad approvare il famigerato accordo, ma poi rafforzerebbe un partito ormai fortemente ostile all’Europa, deciso a non concedere più nulla nelle trattative sulle relazioni future. Un partito così estremo che sono tante le donne moderate, da Amber Rudd a Nicky Morgan, che hanno deciso di non ricandidarsi per evitare di dover subire gli insulti e gli attacchi legati alle loro posizioni sfumate in un contesto machista. E con loro anche gli uomini moderati stanno facendo lo stesso: Philip Hammond, ex cancelliere dello Scacchiere cacciato dal partito per aver votato contro il no deal, ha deciso di lasciare, a riprova che gli europeisti hanno abbandonato la lotta e la speranza di vedere la loro posizione influenzare la linea del governo. Anche perché con il ricordo di Jo Cox, la deputata laburista uccisa nel 2016, non sono pochi coloro che hanno timori per la loro incolumità personale, al punto che una deputata avrebbe fatto un passo indietro per cercare di lenire le ansie dei figli. A lottare contro la Brexit senza se e senza ma sono solo i LibDem, che promettono di revocare l’articolo 50 nel caso assai remoto in cui Jo Swinson, trentanovenne anch’essa oggetto di violenti attacchi online e di un fanta-

sioso proliferare di fake news, arrivasse a Downing Street. Va bene riempire le piazze di manifestazioni contro la Brexit, ma quando si tratta di votare la lotta per il remain sembra funzionare solo fino a un certo punto. Non solo il Labour ha notoriamente una parte dell’elettorato pro-Leave, preda facile dei populisti del Brexit Party, ma alcuni degli elettori europeisti sembrano pronti a perdonare al Labour la sua mancanza di chiarezza sul dossier. L’ipotesi di un secondo referendum al termine di una rinegoziazione dell’accordo con Bruxelles su cui non farebbe per forza campagna per il remain non sembra alterare più di tanto gli equilibri. Le elezioni, per i britannici, sono tradizionalmente vinte su un’idea di società e quindi di tassazione, pubblica istruzione, finanziamenti alla sanità, tutti temi su cui Boris Johnson sta cercando di strizzare l’occhio a sinistra. «La tragedia del partito laburista contemporaneo di Jeremy Corbyn è che detesta il motivo del profitto in maniera così viscerale – e aumenterebbe le tasse in maniera così arbitraria da distruggere la base stessa della prosperità del Paese», ha scritto Johnson nel suo articolo sul «Telegraph», definendo i laburisti «vendicativi a un punto mai visto dai tempi in cui Stalin perseguitò i kulaks». E come in ogni storia politica contemporanea nei paesi occidentali, anche sulla democrazia britannica incombe l’ombra lunga di Mosca, il cui ruolo è analizzato in un report che il governo ha deciso di non pubblicare prima delle elezioni, tra mille

polemiche. Boris sta cercando di non aggiungere carne al fuoco, anche perché è già molto impegnato a gestire le uscite molto infelici dei suoi compagni di lotta e di governo. Come Jacob Rees-Mogg, leader dei Comuni, che ha detto che le settantadue vittime della Grenfell Tower non hanno dimostrato «buon senso» decidendo di seguire i consigli dei vigili del fuoco di restare chiusi in casa. O Francesca O’Brien, che su Facebook aveva scritto che la gente che riceve sussidi dovrebbe essere «abbattuta» e che ha comunque ottenuto il sostegno del suo partito. In questo contesto è difficile notare la differenza con il BrexitParty di Nigel Farage, tanto che neppure i deputati la vedono e in tanti si dicono a loro agio con la linea seguita dai Tories. Quale che sia l’esito delle elezioni, Westminster non sarà più la stessa senza John Bercow, lo speaker della Camera dalle cravatte sgargianti e dalle urla stentoree. Il suo «ordeeer», talmente famoso da essere diventato anche una suoneria per cellulari, sarà sostituito da quello probabilmente più mite del suo vice Lindsay Hoyle, laburista, deciso fin dal momento dell’elezione di tenere una linea meno schierata. Prima di andare via, Bercow ha fatto una conferenza con la stampa estera in cui ha detto che «la Brexit è il più grande errore fatto dal Paese dopo la guerra». Il suo è stato il Parlamento dello stallo, paralizzato dal conflitto tra chi vuole commettere l’errore e chi non sa come evitarlo. Che un approccio diverso porti a risultati diversi è tutto da dimostrare.

Fra i libri Pubblichiamo un estratto-anticipazione da La seconda guerra fredda – Lo scontro per il nuovo dominio globale di Federico Rampini in libreria da questa settimana (Mondadori). Il tramonto del secolo americano, la possibile transizione al secolo cinese bruciano le tappe, lo scenario si fa attuale e accade nel modo più sconvolgente. È turbolento, traumatico. Due imperi, uno declinante e l’altro in ascesa, accelerano la resa dei conti. Chi sta in mezzo – come gli europei – farà la fine del vaso di coccio? Nessuno di noi è attrezzato ad affrontare la tempesta in arrivo. Neppure i leader al comando delle due superpotenze, hanno un’idea chiara sulla dinamica della sfida, sulle prossime puntate di questa storia. Mettono in moto forze che loro stessi non sapranno dominare fino in fondo. È un mondo nuovo; in poco tempo sta cancellando le regole fissate nell’epoca precedente. Abbiamo bisogno di capirlo, è una questione di sopravvivenza. Trent’anni fa finiva la Guerra fredda. Ma il disgelo Usa-Urss era cominciato ancor prima che cadesse il Muro di Berlino. Perciò abbiamo un ricordo sbiadito delle tensioni acute tra i due blocchi, quando la guerra nucleare era un pericolo concreto, attraversare la «cortina di ferro» era un’impresa, c’erano guerre ideologiche e «cacce alle streghe» da una parte e dell’altra. Poi ci sono i tanti giovani nati dopo quel fatidico 1989. Per loro il concetto di Guerra fredda è astratto; ammesso che ne abbiano sentito parlare. È ora di riscoprirlo, aggiornato alla nuova realtà. Sta cominciando la nuova guerra fredda, ma sarà profondamente diversa dalla prima. Cambieranno molte cose per tutti, in questa sfida tra America e Cina nessuno potrà rimanere veramente neutrale. L’economia e la finanza, la scienza e la tecnologia, politica e la cultura, ogni terreno sarà investito dal nuovo conflitto. Bisognerà smettere di parlare di globalizzazione come se fosse un fenomeno irreversibile: la sua ritirata è già cominciata. Ricordate il termine «Chimerica»? Il neologismo fu coniato fondendo le parole «China+America». Accadeva solo dieci anni fa. Quell’epoca si è chiusa e non tornerà più. Sta succedendo ciò che molti esperti consideravano impossibile. I dazi di Donald Trump non devono ossessionarci: sono stati solo l’ultimo capitolo di una crisi. La guerra commerciale può conoscere tregue o compromessi temporanei, è stata solo l’acceleratore di un divorzio che cambierà le mappe del nostro futuro, e avrà conseguenze sull’Europa. La resa dei conti precipita a tutti i livelli: le maggiori multinazionali Usa stanno rivedendo i loro piani cinesi e la loro dipendenza da quel paese. Tutti stanno cercando alternative, vie di fuga, piani di ritirata strategica. È la fine di un pezzo di storia della globalizzazione durato trent’anni. Con esso tramonta anche un certo ordine mondiale: finché tra Washington e Pechino prevaleva la convinzione di avere molto da guadagnare nella divisione dei ruoli, il loro rapporto generava stabilità. La strategia cinese ha garantito ricchi profitti a tutti. Ma ora la Cina di Xi Jinping sta cogliendo i frutti di un grande progetto di emancipazione. È stata brava e spregiudicata al tempo stesso. Xi è il primo leader che proclama la superiorità del suo modello autoritario sulle nostre liberaldemocrazie. Ma il loro comportamento sta contribuendo ad alimentare in Occidente paura, diffidenza. L’idea che «bisogna fermarli prima che sia troppo tardi» ha fatto breccia anche in ambienti lontanissimi dal sovranismo e protezionismo trumpiano.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Politica e Economia

Esplode il caso ArcelorMittal

Ex Ilva Il colosso dell’acciaio disdice l’accordo con l’impianto di Taranto lasciando un settore in crisi

in ginocchio e trasformandolo in scontro politico Alfredo Venturi Un fulmine a ciel sereno, sullo sfondo di un ambiguo intreccio di scelte politiche azzardate. Così è stato percepito l’annuncio della multinazionale euroindiana ArcelorMittal, che ha restituito allo Stato italiano la patata bollente dell’ex Ilva. Poco più di un anno fa aveva rilevato, impegnandosi a risanarla e rilanciarla, la malconcia impresa siderurgica che gestisce a Taranto il più grande stabilimento europeo di produzione dell’acciaio. Un polo produttivo investito da una doppia crisi, quella industriale legata alla sovrapproduzione mondiale e quella ecologico-sanitaria che deriva dalle pestifere emissioni delle ciminiere. Con un investimento di oltre quattro miliardi di euro la ArcelorMittal aveva prospettato la soluzione di questo duplice problema. E di alcuni problemi correlati, infatti l’ex Ilva comprende non soltanto la fabbrica pugliese ma anche stabilimenti a Genova e Novi Ligure, senza contare alcune unità produttive minori. Perché dunque questo passo indietro che determina problemi esistenziali per oltre diecimila dipendenti, senza contare altrettanti lavoratori che operano nell’indotto? La risposta è racchiusa nei misteriosi meandri della politica, chiama in causa soprattutto il Movimento cinque stelle e la sua visione anti-industriale fondata sulla «decrescita felice», del tutto incongrua in una economia asfittica e dunque interessata ad attrarre investimenti dall’estero. Nulla potrebbe illustrare meglio di questa vicenda i contorti meccanismi della politica italiana. Nel precedente esecutivo con Giuseppe Conte alla presidenza, quello giallo-verde nel quale governavano in compagnia della Lega di Matteo Salvini, i Cinquestelle avevano dovuto inghiottire, su pressione leghista, il cosiddetto scudo penale. Cioè una norma che liberava i nuovi dirigenti da ogni responsabilità, nel tem-

po richiesto dal piano di risanamento ambientale, per irregolarità riconducibili alle precedenti gestioni. Secondo ArcelorMittal è impossibile gestire il polo produttivo di Taranto senza questa protezione legale, assolutamente necessaria per l’esecuzione del piano ecologico. Caduto quel governo per l’improvviso harakiri di Salvini, formato il nuovo ancora con Conte al timone ma giallo-rosso stavolta, perché il posto della Lega lo ha preso il Partito democratico, i grillini sono tornati alla carica e sono riusciti a eliminare lo scudo penale. Più esattamente è stata la fronda grillina, che contesta la leadership sul Movimento del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, a premere per questa virata. Il risultato di tutto ciò, secondo le parole di un sindacalista, è un capolavoro di incompetenza e pavidità politica che non solo non ha disinnescato la bomba ambientale ma vi ha aggiunto una bomba sociale. Infatti la ArcelorMittal fa sapere che la decisione sul recesso si fonda proprio su questa decisione, oltre che sui termini troppo stretti per il risanamento fissati dalla magistratura italiana. Fatto sta che cancellando la tutela legale a suo tempo garantita il governo ha offerto alla multinazionale, per molte ragioni restia a proseguire l’impegno, il pretesto per fare marcia indietro. Ovviamente non solo i Cinquestelle hanno votato questa decisione ma l’intera maggioranza. Per cui il nuovo alleato dei grillini, il Partito democratico, a meno di tre mesi dal cruciale voto regionale in Emilia-Romagna, la regione rossa che secondo i sondaggi potrebbe cadere preda di una Lega apparentemente inarrestabile, deve fronteggiare il reiterato assalto alla diligenza di un Salvini sempre più vorace, che invoca a ogni piè sospinto le dimissioni del governo. E tanto più stavolta, dopo che l’occasione gli è stata offerta su un piatto d’argento. Apparentemente colto alla sprov-

La decisione di ArcelorMittal di recedere dal contratto sull’ex Ilva sta creando grandi tensioni. (Marka)

vista dalla decisione della multinazionale, Conte dice che la mossa di ArcelorMittal è priva di fondamento giuridico e assicura che il governo non consentirà la chiusura: si farà di tutto per salvare lo stabilimento di Taranto disinnescandone al tempo stesso la mortale capacità inquinante. Si coltiva la speranza di rinegoziare l’accordo, ma appare subito chiaro che ArcelorMittal intende alzare la posta chiedendo la possibilità di ridurre gli organici. I rappresentanti della multinazionale convocati a Palazzo Chigi segnalano di volere non solo il ripristino dello scudo penale, ma anche il riconoscimento di cinquemila «esuberi», quasi il dimezzamento dell’organico. Roma vorrebbe che non si riducessero i livelli di occupazione se non attraverso il blocco delle assunzioni e l’incoraggiamento ai pensionamenti anticipati. Conte dichiara dunque la richiesta inaccettabile e offre il ripristino della tutela legale. Ma i Cinquestelle non sono d’accordo

e rifiutano di concedere nuovamente l’immunità. In fondo quel gigantesco stabilimento è incompatibile con il loro dna: un esponente grillino non propose forse a suo tempo di trasformarlo in una sorta di Disneyland? Intanto c’è chi vorrebbe chiudere con la riluttante multinazionale euroindiana e tentare altre soluzioni. Come Matteo Renzi, che dopo la caduta del Conte Uno ha convinto il Pd a formare il Conte Due con i Cinquestelle, salvo poi staccarsi dal partito e crearne uno suo, Italia Viva. Ringalluzzito dalla posizione di potere che gli ha regalato la manovra estiva di Salvini, l’ex primo ministro tiene il governo sotto scacco e lo punzecchia con petulante assiduità. Anche Italia Viva ha votato la fine dello scudo penale ma una sua esponente nel governo, la ministra per le politiche agricole Teresa Bellanova, avanza riserve sostanziali: è in ballo il destino di migliaia di lavoratori, bisogna recuperare senso di responsabilità. Ci pen-

so io, dice Renzi, a procurare la cordata giusta. Il suo piano, che gli specialisti di strategie industriali considerano velleitario, consiste nell’affidare l’ex Ilva a un altro colosso siderurgico indiano, Jindal, secondo classificato nella gara d’appalto che si aggiudicò ArcelorMittal, in compagnia della Cassa depositi e prestiti, l’ente di Stato che gestisce i risparmi postali per finanziare investimenti d’interesse pubblico. Dopo una lunga trattativa, estenuante quanto vana, Conte invita la controparte a una riflessione di due giorni, ma allo stato delle cose è utopistico credere alla possibilità di un ripensamento. Più facile immaginare, nonostante i costi immensi, la nazionalizzazione dell’ex Ilva. Il nodo resta dunque irrisolto, anche perché il compito di scioglierlo è affidato a una maggioranza e a un governo a più voci, talvolta così discordanti che proprio non ce la fanno a produrre un minimo di armonia.

Licenza di uccidere gli indigeni

Amazzonia I mercenari dei gruppi agrari hanno assassinato Paulo Paulino Guajajara, un protettore della foresta Angela Nocioni Non ha fine la guerra silenziosa contro i leader indigeni in Amazzonia. È stato ucciso a colpi d’arma da fuoco Paulo Paulino Guajajara, uno dei leader della terra indigena di Arariboia. È sfuggito miracolosamente all’agguato Laercio Guajajara, altro dirigente indigeno che l’accompagnava. È riuscito a scappare sanguinante nella selva dello Stato di Maranhão, Amazzonia profonda

brasiliana. I due stavano cacciando. Sono caduti in un agguato a freddo. Ad aspettarli c’era un commando di squadracce, le guardie bianche dei latifondisti. Si tratta di uomini armati pagati per invadere le terre indigene e consentire così, previo sfollamento forzato, di aumentare le porzioni di foresta da tagliare o bruciare necessarie all’agrobusiness che si sta mangiando la foresta tropicale e i suoi abitanti. Le comunità locali negli ultimi

Paulo Paulino Guajajara, il leader assassinato (AFP)

mesi si sono organizzate per difendersi. Pattugliano la zona. Il leader ucciso era uno dei capi di questo tentativo di auto-organizzazione. Aveva ricevuto minacce e stava per aderire a un programma di protezione che, tra enormi difficoltà, cercano di mantenere in piedi alcuni gruppi di tutela dei diritti umani per gli indigeni in Brasile. «Non ha avuto il tempo di farlo» dice Sonia Guajajara, coordinatrice dell’Articolazione dei popoli indigeni in Brasile. Lei è della stessa comunità di Paulo Paulino. La notizia dell’agguato mortale l’ha avuta in Europa dov’è venuta a denunciare la strage di indigeni in corso in Brasile. «È in corso un genocidio istituzionalizzato. C’è una tolleranza totale all’omicidio di indigeni. C’è una vera e propria licenza di uccidere nei loro confronti – dice Sonia Guajajara – gli omicidi rimangono impuniti, nessuno cerca i colpevoli. Il presidente Bolsonaro dice che non consentirà mai la demarcazione di terre da riservare agli indigeni, che vuole lasciare la libertà di esplorazione alle imprese e ai singoli, il che vuol dire far cacciare gli indigeni e lasciare invadere le loro terre per la deforestazione. Gli invasori di terre, le loro guardie armate si sentono totalmente legittimati e spalleggiati dal presidente».

Il ministro della Giustizia Sergio Moro ha scritto in twitter: «La polizia federale indagherà l’omicidio del leader indigeno Paulo Paulino Guajajara». Le persone che lavorano a fianco degli indigeni del Maranhão diffidano delle parole del ministro. Dice Christian Poirer di Amazon watch: «Il terrore crescente nelle comunità indigene non nasce dal nulla. È la conseguenza delle politiche di questo governo che ora dice che farà giustizia in questo caso. È una enorme contraddizione». Gli indigeni di quell’area vivono fuggendo da continui incendi, il metodo più usato per la deforestazione. Oltre la metà delle loro terre ha fatto questa fine negli ultimi tre anni. La retorica dell’odio contro gli indigeni, lo sdoganamento del razzismo avvenuto nel linguaggio pubblico del presidente Bolsonaro e del suo clan familiare al governo, ha fatto il resto. Lo sdoganamento dell’omicidio programmato dei leader delle comunità ne è solo l’ultima conseguenza. La guerra agli indigeni viene da lontano. Il razzismo profondo del Brasile preesiste a Bolsonaro, il presidente d’ultradestra ha solo (e non è poco) lasciato che si sentissero spalleggiati dai massimi vertici governativi quelli che lo professano. L’ong Consiglio indigenista missionario denuncia che solo tra

il 2003 e il 2016 almeno 1009 sono stati uccisi. La cifra è stimata al ribasso perché spesso la notizia di morti violente non esce dalle comunità. Riescono ad emergere dal nulla e a diventare notizia solo gli assassinii avvenuti durante grossi scontri con le squadracce dei deforestatori, o degli agricoltori, o dei taglialegna. Che sono poi fattispecie dello stesso grande esercito di assassini di indigeni che cresce, fuori da ogni controllo, nel profondo verde dell’Amazzonia brasiliana. Nell’aprile dell’anno scorso c’è stato un conflitto violento tra agricoltori che stavano invadendo terre degli indigeni gamela nel Maranhão e indios. Gli indigeni sono stati assaliti con asce, con macheti. Ad alcuni di loro hanno amputato le mani. Se non sono le squadre dei latifondisti a invadere le terre, sono i piantatori di marijuana che cercano appezzamenti nuovi per nuove piantagioni. In ballo ci sono affari per miliardi di dollari che non riguardano solamente lo sfruttamento intensivo delle terre da disboscare e trasformare in campi coltivati, ricavando anche ingenti quantitativi di legname da esportare. Gruppi di narcotrafficanti si sono via via impossessati di aree di terra e impongono pizzi da pagare e tasse illegali per poter attraversare i territori indigeni.


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Politica e Economia

Autunno caldo in Libano

Notizie dal mondo Super Tuesday: il GOP perde due elezioni su tre Dopo aver cantato vittoria per aver strappato il governatore in Kentucky ai repubblicani, i democratici tolgono al Grand Old Party anche il controllo dell’intero parlamento della Virginia, per la prima volta in 20 anni. È il secondo risultato negativo per Donald Trump nel Super Tuesday elettorale in tre Stati americani, considerato un test per il tycoon in vista del voto per la Casa Bianca nel 2020, sullo sfondo dell’indagine di impeachment e sotto il crescente fuoco incrociato dell’indagine sull’Ucrainagate, che dalla prossima settimana entrerà nelle case degli americani con le prime testimonianze pubbliche . Il presidente Trump può consolarsi in Mississippi, solido «red state», dove i repubblicani mantengono la carica del governatore.

Protesta popolare Una nuova generazione che non si riconosce più nel vecchio sistema

AFP

di spartizione su basi settarie delle leve del potere e stanca di un’economia al collasso ha innescato una crisi di governo che sta mettendo in difficoltà il sistema politico

Marcella Emiliani Dal 17 ottobre il Libano è in fiamme. Ad accendere la miccia di questa nuova conflittualità è stato l’annuncio del governo di voler tassare le chiamate fatte con WhatsApp, Facebook Messenger e FaceTime, cioè i più diffusi sistemi di comunicazione rapida che tutti conosciamo, scelti non a caso per fare cassa in fretta da un esecutivo ormai arrivato alla canna del gas quanto a disponibilità finanziarie. Fulmineo l’annuncio, fulminea la reazione della popolazione non solo a Beirut, ma in tutte le principali città del Paese: a centinaia di migliaia sono scesi in piazza a protestare non solo contro un provvedimento a dir poco impopolare, ma soprattutto contro il degrado generale del Paese e un’economia ormai al collasso, imputati alla corruzione e al nepotismo dell’intera classe politica ritenuta inetta, rapace e inamovibile. Quella che doveva essere una protesta pacifica, nonostante la tassa annunciata sia stata subito cassata, è però degenerata ben presto in vera e propria guerriglia urbana e in atti di vandalismo diffusi che hanno portato alla chiusura di scuole, uffici pubblici, negozi e banche nei centri nevralgici come Beirut, Tiro e Tripoli ma anche in centri minori come Nabatiyye e Baalbek. In prima fila sul fronte delle manifestazioni i giovani, come nelle primavere arabe del 2011, che in tutto il Medio Oriente si sentono letteralmente defraudati del futuro. Sono ormai cinque anni che l’economia libanese rischia letteralmente la bancarotta e nulla è stato fatto per evitare il peggio. A questo si aggiunga una catena di crisi settoriali che sta martoriando il Paese da troppo tempo: la crisi della spazzatura che nessuno riesce più a raccoglie-

re e finisce data alle fiamme per strada; la crisi energetica che persino nella capitale fa mancare l’energia elettrica per diverse ore al giorno; la crisi, infine, legata ai profughi palestinesi e siriani installati nel Paese. Questo spiega non solo l’immensa rabbia della popolazione tutta, ma anche la prontezza con cui è scesa in piazza a chiedere il licenziamento dell’intero governo e una revisione radicale del sistema di power sharing confessionale che regola la politica libanese fin dall’indipendenza dalla Francia nel 1943. Il movimento di protesta si è auto-battezzato Li Haqqi, (Per i miei diritti) che spiega bene come i libanesi non vogliano più sentirsi «prigionieri» del confessionalismo religioso o di ideologie travestite da credo religioso. Alla base della politica e dell’economia nazionale infatti c’è ancor oggi il Patto nazionale cioè l’accordo stipulato nel 1943 – e riformulato nel 1989 – tra i notabili delle principali comunità confessionali del Paese per spartirsi, appunto, il potere politico e le risorse economiche in proporzioni dettate dalla consistenza numerica delle suddette comunità. In base a tale criterio la presidenza della repubblica spetta a un cristiano maronita, la premiership del governo a un musulmano sunnita e la presidenza del parlamento ad un musulmano sciita. Proprio questo sistema ha incancrenito la dinamica politica libanese, perpetuando non solo le barriere religiose, ma il potere delle stesse famiglie cristiane, sunnite o sciite (sono sciiti anche i drusi) che hanno finito per monopolizzare il processo decisionale scavalcando il parlamento e curando in primo luogo gli interessi della propria parentela e della propria comunità confessionale. Questo, in altre parole, è il maggior difetto della

democrazia libanese, una delle poche nella regione ma che purtroppo versa in condizioni di salute molto precarie. Quanto la popolazione non sopporti più i propri notabili del resto lo hanno chiaramente indicato le scritte sui muri e i cori intonati per strada nel corso di questa lunga protesta interconfessionale. Insulti sono stati rivolti al presidente cristiano maronita Michel Aoun; nei quartieri sunniti della capitale e di Tripoli i manifesti del primo ministro sunnita Saad Hariri sono stati strappati e nel sud del Libano – roccaforte degli sciiti – Nahib Berri, leader di Amal e presidente del parlamento, è stato sbeffeggiato dai suoi correligionari, mentre gli uffici di Hezbollah sono stati addirittura presi d’assalto sempre da correligionari sciiti. Il primo ad arrendersi è stato il premier Hariri che il 29 ottobre si è dimesso dopo 13 giorni ininterrotti di protesta popolare. E dire che il presidente Aoun si era davvero impegnato per costringerlo ad accettare nuovamente l’incarico, cosa che Hariri aveva fatto solo nel gennaio di quest’anno, a sette mesi dalle elezioni politiche che si erano svolte il 6 maggio 2018. Il povero Hariri, del resto, tra il 2017 e il 2018 aveva vissuto momenti davvero poco gradevoli. Nel corso di una visita ufficiale in Arabia Saudita il 4 novembre 2017 aveva annunciato ufficialmente le proprie dimissioni da premier in seguito alle quali però non dava cenni di volere o potere tornare a casa. Aoun parlò apertamente di sequestro di persona ordito dall’erede al trono saudita Mohamed bin Salman, poi intervenne addirittura il presidente francese Macron e Hariri potè tornare in patria e riassumere la carica di primo ministro. Cosa sia realmente successo in quel frangente non è ancora chiaro, ma

pare che Mohamed bin Salman volesse «punire» il giovane rampollo libanese, sunnita come lui, per aver concesso troppo spazio ad Hezbollah e agli sciiti nel governo del suo Paese. In realtà Hezbollah il potere in Libano se lo è preso con le armi e il suo peso politico è enormemente cresciuto grazie alle vittorie ottenute nella guerra civile siriana affiancato dal suo principale sponsor, l’Iran, e più in generale dal trio che ha mantenuto e mantiene al potere Bashar al-Assad a Damasco ovvero, oltre all’Iran, la Russia e la Turchia. Questo interventismo di Hezbollah in Siria e il milione e mezzo di profughi siriani che si sono riversati in Libano togliendo lavoro agli strati più poveri della popolazione locale, come abbiamo accennato, sono uno dei principali motivi di protesta della popolazione libanese. Su un totale di quasi 6 milioni di abitanti, l’aggiunta di due milioni di persone fra profughi siriani e rifugiati palestinesi di vecchissima data (475.000 secondo l’Unrwa, United Nations Relief and Work Agency, che gestisce i campi in cui sono costretti ad abitare) sono davvero tanti in un paese così piccolo e povero. I siriani soprattutto vengono ritenuti «intoccabili» perché Hezbollah e l’Iran li proteggono e hanno finito per rappresentare l’incubo dell’ingerenza di Siria-Iran-Russia-Turchia in Libano. E non si tratta affatto di una semplice percezione: con le manifestazioni iniziate il 17 ottobre è la prima volta che Hezbollah viene apertamente contestato da un movimento popolare interconfessionale nelle sue stesse aree d’elezione, Beirut ovest, la valle della Bekaa e più in generale il sud del Libano. Le sue vittorie a livello regionale, insomma, rischiano di costargli parte del consenso e del potere in patria.

«Nato in coma» Emmanuel Macron ritiene che la Nato sia in stato di «morte cerebrale»: è quanto afferma lo stesso presidente francese al settimanale «The Economist». Il presidente lancia un duro avvertimento sul futuro dell’Europa la cui «straordinaria fragilità» rischia di farla «scomparire» se non comincerà a concepirsi «come una potenza del mondo». «Non credo di drammatizzare le cose, cerco di essere lucido», afferma il capo dello Stato francese, evidenziando tre grandi rischi per l’Europa: aver «dimenticato di essere una comunità», il «disallineamento» della politica Usa dal progetto europeo e l’emergere della potenza cinese che «mette chiaramente l’Europa ai margine». In vista del summit della Nato ai primi di dicembre a Londra, Macron chiede di «chiarire le finalità strategiche» dell’Alleanza, sottolineando come da parte americana non ci sia «alcun coordinamento strategico con i partner», mentre un altro paese membro, la Turchia, conduce «un’aggressione» in una zona, la Siria, «dove i nostri interessi sono in gioco». Nuovi militari Usa in Siria per contenere Isis e Turchia Gli Usa rafforzano la presenza in Siria. Ai 500 militari a Deir Ezzor se ne aggiungono altri a Tirbaspi. Obiettivo: proteggere i giacimenti di petrolio dall’Isis. Soprattutto dopo la nomina di al-Qureyshi a nuovo califfo. Inoltre, si crea un effetto deterrenza contro la Turchia, che continua ad attaccare i curdi e l’esercito di Damasco (SAA) a Ras al-Ain. La situazione nella nazione mediorientale si sta complicando rapidamente e c’è il rischio crescente di un’escalation. Il pericolo dell’Isis in Siria e altrove è infatti tutt’altro che scongiurato. Come ha spiegato il generale Kenneth McKenzie, a capo di CENTCOM (il comando militare Usa per tutte le operazioni), «nonostante la morte di al-Baghdadi, l’organizzazione terroristica è ancora molto pericolosa. Daesh probabilmente cercherà di lanciare un attacco per vendetta – ha sottolineato durante una conferenza stampa in cui sono stati forniti ulteriori dettagli sull’operazione contro l’auto-proclamato Califfo dello Stato Islamico – Noi siamo pronti». Da qui la scelta di inviare nuovamente i soldati americani a Deir Ezzor per proteggere i giacimenti petroliferi. Le truppe, peraltro, potranno fornire anche aiuto sia in ambito di operazioni offensive contro l’Isis sia per proteggere infrastrutture chiave. Come le prigioni in cui sono rinchiusi i jihadisti, in primis quella di Al-Hol.


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Dal 1936 il Soccorso svizzero d’inverno si impegna con aiuti materiali per una Svizzera senza povertà.

Progetto «Empowerment Bambini» Il Soccorso svizzero d’inverno aiuta i bambini di famiglie povere, che possono così partecipare a interessanti attività ricreative (corsi di sport/musica). Questo aiuto contribuisce a rafforzare la personalità dei bambini e a rompere l’isolamento sociale di tutta la famiglia.

Caritas Svizzera si impegna a favore delle famiglie, dei genitori single, dei disoccupati e dei working poor.

Progetto «Mercato Caritas» Ai mercati della Caritas le persone indigenti possono acquistare generi alimentari e prodotti di uso quotidiano a prezzi fortemente ridotti presentando la tessera che ne dà loro diritto. L’assortimento comprende alimenti di base, prodotti freschi, articoli per l’igiene e tutti i prodotti importanti di uso quotidiano.

Pro Juventute aiuta i giovani in difficoltà. 24 ore su 24, giorno dopo giorno.

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Progetto «Eventi conviviali grazie alla coordinazione di volontari» Con il progetto «Eventi conviviali» Pro Senectute organizza ritrovi e attività per le persone anziane, per esempio un pranzo a cadenza mensile, un circolo per sferruzzare, un pomeriggio danzante o semplicemente un evento conviviale nel centro anziani.

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«Progetto abitativo HEKS»: abitazioni per le persone socialmente svantaggiate Il «Progetto abitativo HEKS» sostiene i senzatetto o chi è a rischio di diventarlo. Grazie all’assistenza domiciliare del «Progetto abitativo HEKS» le persone ai margini della società possono sviluppare e consolidare la loro autonomia fino al momento in cui potranno nuovamente vivere senza bisogno di assistenza.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Politica e Economia

Istituzioni economiche internazionali: business as usual? Analisi Alcuni recenti avvicendamenti ai vertici inducono a riflessioni approfondite sugli aspetti di governance

Edoardo Beretta Fra le principali istituzioni economico-finanziarie internazionali vi sono, senza dubbio, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, entrambi fondati nel lontano 1945 e via via allargatisi per Paesi membri (189) e budget a loro disposizione (1,16 mld. $ per il Fondo1 e 2,61 mld. $ per la Banca2). Se al cosiddetto FMI competono funzioni di sorveglianza dell’andamento economico (outlook), assistenza finanziaria (cioè fornitura di credito a Nazioni con cosiddette «difficoltà di bilancia dei pagamenti») e tecnica per la formazione di staff delle amministrazioni pubbliche oltre ad una funzione statistica e regolamentativa (cioè di predisposizione di comuni linee guida), il Gruppo della Banca Mondiale è senz’altro più attivo sul fronte della lotta alla povertà e dell’appianamento di diseguaglianze economico-sociali. È noto che la Direttrice generale del FMI Christine Lagarde ha iniziato il suo mandato di Presidente della Banca Centrale Europea (BCE) a partire da novembre 2019, suggellando un «passaggio di testimone» con Mario Draghi. Tale «staffetta», che non è propriamente priva di carattere di discutibilità, spinge a riflettere meglio su quanto le istituzioni economiche internazionali poggino su un modello

gestionale che non si è ancora evoluto come avrebbe potuto (e dovuto) dopo la crisi economico-finanziaria globale dal 2007 in poi. È fatto noto che il FMI venga tradizionalmente diretto da un esponente europeo, mentre la BM da uno americano: tale «regola non scritta» basata su un mero principio di prassi (desunto altrettanto dai rispettivi rapporti di forza) acuisce, però, la potenziale divergenza di interessi fra shareholders (cioè «azionisti» quali i detentori delle quote di partecipazione a Fondo e Banca maggioritariamente detenute da Paesi avanzati (in primis gli Stati Uniti d’America) e stakeholders (cioè i «portatori di interesse» rappresentati dai popoli delle Nazioni stesse). Nonostante i rinnovati appelli di diversi Paesi emergenti di acquisire potere decisionale, l’approccio è rimasto perlopiù invariato. Con riferimento alla Cina, ad esempio, nel 2016 il FMI si è limitato quale palliativo ad includere la moneta locale (Renminbi) nel paniere valutario di calcolo dei cosiddetti «Diritti Speciali di Prelievo» (cioè dello strumento finanziario ufficiale del Fondo), fatto che può essere considerato uno step preliminare affinché la stessa divenga nel medio-lungo termine «moneta a riserva» (cioè accettata internazionalmente). Non poco, ma nemmeno troppo (o molto

19461951 19511956 19561963 19631973 19731978 19781987 19872000 20002004 20042007 20072011 20112019 2019??? -

La governance delle istituzioni economiche internazionali3 Direttori operativi del FMI Presidenti della Banca Mondiale Camille Gutt Belgio 1946 Eugene Meyer USA Ivar Rooth

Svezia

Per Jacobsson

Svezia

Pierre-Paul Schweitzer Johan Witteveen

Francia

Jacques de Larosière

Paesi Bassi Francia

Michel Camdessus

Francia

Horst Köhler

Germania

Rodrigo Rato

Spagna

Dominique StraussKahn Christine Lagarde

Francia Francia

Kristalina Georgieva

Bulgaria

-

-

di indefinito): infatti, tali strumenti finanziari creati dal FMI nel 1969 sono (ancora) lungi dal divenire una vera e propria moneta internazionale. Oltre a ciò non si può non notare come tali organismi internazionali bene avrebbero potuto svolgere una funzione di «pionieri» nell’immediato dopocrisi; in realtà, risultano fare ancora leva sugli stessi schemi del passato, che li hanno esposti a critiche fe-

19471949 19491963 19631968 19681981 19811986 19861991 19911995 19952005 20052007 20072012 20122019 2019???

John J. McCloy

USA

Eugene R. Black

USA

George Woods

USA

Robert McNamara Alden W. Clausen Barber Conable

USA

Lewis T. Preston

USA

James Wolfensohn Paul Wolfowitz

Australia / USA

Robert Zoellick

USA

Jim Yong Kim

Corea del Sud / USA USA

David Malpass

USA USA

USA

roci: ad esempio, sul Washington consensus (cioè quell’insieme di politiche economiche di stampo neoliberista, che il FMI spesso propugna laddove gli si richieda di intervenire a sostegno finanziario), e sulle condizionalità («plasmate» appunto sulla base di quanto sopra) a cui l’erogazione anche solo parziale dei prestiti è legata. A ciò si aggiungono le già citate criticità inerenti alla governance. Ecco, quindi, che

l’avvenuto «passaggio di consegne» fra i due componenti (Italia e Francia) appare particolarmente discutibile, perché coinvolge in questo «balletto di incarichi» un istituto bancario centrale con funzioni chiave come la stessa BCE. In altri termini: era davvero opportuno presentare al mondo il dato di fatto che – nonostante le dichiarazioni sulla necessità di coinvolgere sempre più le Nazioni minori – in fin dei conti siano sempre solo pochi Paesi a gestire la governance economico-politico mondiale? Nulla di male, potrebbe sostenere chi ritenesse che ciò derivi dal principio dell’«azionariato di maggioranza»: allora, però, che lo si dicesse in tutta franchezza. Note

1. http://www.imf.org/en/News/Articles/2019/04/22/pr19122-imf-executive-board-approves-fy2020-fy2022medium-term-budget 2. http://documents.worldbank.org/ curated/en/793471537214192071/pdf/ FY19-World-Bank-Budget-for-PublicDisclosure-FINAL-vF-09112018.pdf 3. Elaborazione propria da http:// www.imf.org/en/About/seniorofficials/managing-directors, http:// president.worldbankgroup.org e http://www.worldbank.org/en/about/ archives/history/past-presidents. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Politica e Economia

Troppi dati nello scambio di informazioni fiscali

Lotta all’evasione La Svizzera ha iniziato nel 2018 con 36 paesi. A fine settembre il numero di paesi

era già raddoppiato: 75 paesi hanno fornito informazioni, mentre Berna ne ha forniti a 62 paesi

Ignazio Bonoli Lo scetticismo che aveva accompagnato nell’autunno del 2018 lo scambio automatico di informazioni fiscali della Svizzera con i paesi che avevano firmato l’accordo nell’ambito dell’OCSE è scomparso. Dai 36 paesi iniziali si è già passati a 75 paesi che hanno fornito dati a Berna, contro 62 paesi informati da Berna. 13 paesi non hanno ricevuto dati fiscali, da un lato perché non davano sufficienti garanzie sulla sicurezza e sulla confidenzialità dei dati (per esempio Romania e Bulgaria), dall’altro perché vi hanno rinunciato (per esempio Bermude e Isole Caymane). Come si ricorderà, lo scambio automatico concerne il numero di conto, il nome il domicilio del cliente e della banca, il saldo a fine anno precedente e i redditi dei capitali. L’accordo interessa (dal 2018 sulla base dei dati del 2017) un centinaio di paesi, tra i quali alcuni avevano già iniziato ad applicare le regole un anno prima. Nel frattempo si sono fatte alcune esperienze e si sono affinate alcune procedure. La Svizzera ha proceduto ad applicare l’accordo con molta prudenza, rispettando le regole interne compatibili ed esigendo in alcuni casi la reciprocità, nonché il rispetto della confidenzialità e della protezione dei dati personali, soprattutto nei primi anni di applicazione dell’accordo.

Infatti, si era diffuso il sospetto che la Svizzera potesse fornire molti più dati di quanti ne potesse ricevere. Alla luce dei dati sullo scambio di informazioni nei primi anni dell’applicazione dell’accordo, il sospetto non trova però conferma. Già nel 2018, il numero di informazioni fornite era praticamente pari a quello dei dati ricevuti. Anche sulla base dei dati più recenti, si può constatare che lo scambio di dati non è unilaterale: la Svizzera ha fornito informazioni su 3,1 milioni di conti e ha ricevuto dati per 2,4 milioni di conti bancari all’estero di contribuenti domiciliati in Svizzera. Quest’ultima cifra appare enorme nei confronti di circa 5 milioni di contribuenti privati residenti in Svizzera. Si deve però tener conto che la statistica si riferisce anche a persone giuridiche con domicilio fiscale in Svizzera e potrebbe concernere anche contribuenti con più di un conto all’estero. Ciò non toglie che il volume di informazioni fiscali, in entrambe le direzioni, sia impressionante. In ogni caso il numero maggiore di scambi avviene con la Germania. Mancano ancora i dettagli per il 2019 (lo scambio avviene di regola in autunno), ma già nel 2018 il 44% delle informazioni su conti all’estero proveniva dalla Germania. Ciò è dovuto non soltanto ai tradizionali buoni rapporti di vicinato fra i due paesi, ma anche

al fatto che in passato la Germania era interessante per gli evasori fiscali in Svizzera. Per esempio, nelle regioni di frontiera, si apprezzava il fatto che in Germania non veniva prelevata un’imposta preventiva. In Svizzera, come si sa, la tassazione viene eseguita dai Cantoni, anche per l’imposta federale diretta. Quindi sono i Cantoni che ricevono i dati dello scambio automatico di informazioni. Le autorità cantonali di contribuzione sono rimaste sorprese della gran mole di dati ricevuti e alcune hanno fatto notare che, non sempre, è possibile inserire direttamente questi dati, in modo automatico, nelle procedure di tassazione cantonali. Di conseguenza, si è dovuto procedere all’inserimento manuale di singoli dati e limitare l’operazione soltanto ai casi più importanti. Non sono ancora disponibili dati completi, ma alcune valutazioni effettuate sui dati del 2018 nel canton Berna permettono di vedere che l’80% dei casi concerneva conti con depositi fino a 10’000 franchi e solo il 3% conti con 100’000 franchi e oltre. Si è inoltre constatato che una gran parte delle autodenunce è avvenuta poco prima dell’entrata in vigore dell’accordo tramite l’OCSE. Si può quindi dedurre che già la minaccia di uno scambio automatico di informazioni ha avuto un ruolo importante.

Lo scambio automatico di dati bancari è stato a lungo lo spauracchio delle banche svizzere, ora invece ne approfitta anche il fisco elvetico. (Keystone)

Secondo parecchi Cantoni è però ancora presto per valutare pienamente l’effetto degli accordi. Si pensa però che, con questo sistema, si potranno scoprire parecchi altri evasori fiscali, con conti all’estero non dichiarati. Però con qualche limite, poiché l’accordo prevede che i dati così raccolti possono essere usati solo a fini fiscali. Quindi, per esempio, non per società che sono soggette a procedure di

fallimento o per beneficiari di aiuti sociali che non ne avrebbero diritto. Non mancano però anche sistemi per sottrarsi agli effetti dell’accordo. Per esempio in alcuni Stati degli Stati Uniti si possono creare società che non rivelano il beneficiario economico del conto. Vi sono anche piccoli paesi che offrono vantaggi agli investitori in cerca di rifugi. Problemi che l’OCSE dovrà prima o poi affrontare. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

L’aiuto allo sviluppo svizzero: una storia importante Cooperazione internazionale Tra gli obiettivi per il periodo 2021-2024 della cooperazione internazionale

ci saranno la lotta ai cambiamenti climatici e alle cause delle migrazioni

Marzio Minoli «Nel complesso l’umanità non è mai stata così bene come oggi. Le persone vivono meglio, più a lungo, in modo più sano e più sicuro. La cooperazione internazionale è uno dei fattori che ha contribuito al raggiungimento di questo traguardo». Queste parole le si possono leggere in un documento ufficiale della Confederazione, redatto al termine del periodo di consultazione, terminato lo scorso 23 agosto, sul contributo svizzero alla cooperazione internazionale per il periodo 2021-2024. Parole che, stando a quanto dichiarato dal governo elvetico, sottolineano l’importanza della partecipazione svizzera alla cooperazione internazionale per lo sviluppo dei paesi del Sud. Il Consiglio Federale ha deciso di stanziare 11,37 miliardi di franchi per il quadriennio in questione, 265 milioni in più rispetto al periodo precedente. Risorse che principalmente saranno gestite dalla Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC), un’agenzia del Dipartimento Federale degli Affari esteri. Ma anche dalla Segreteria di Stato per l’Economia (SECO). Lo scopo è chiaro: creare le migliori condizioni di vita possibili nei paesi del Sud del mondo. In concreto, gli obiettivi dichiarati per il periodo 20212014 saranno la creazione di posti di lavoro, la lotta ai cambiamenti climatici e alle cause della migrazione irregolare e forzata e non da ultimo l’impegno per la pace e lo Stato di diritto. Il Professor Pietro Veglio, presidente onorario della Federazione delle ONG della Svizzera italiana, la FOSIT, ci spiega meglio cosa vuol dire la cooperazione internazionale per la Svizzera. Professor Veglio, prima di entrare nel merito della cooperazione internazionale, spieghiamo cos’è la FOSIT.

È una federazione cantonale di piccole organizzazioni non governative, le ONG, che operano, partendo dal nostro territorio, verso i paesi del sud. La FOSIT da una parte finanzia i progetti, grazie ai fondi della Confederazione, del Cantone e anche di alcuni comuni ticinesi, ma non solo. Si occupa anche della formazione dei membri, per poter dar loro i migliori mezzi possibili per essere efficienti dove operano. Un momento non sempre facile per

le ONG. All’estero sono spesso criticate e, diciamolo, anche denigrate, anche per mancanza di informazione. In Svizzera com’è la situazione?

Le ONG hanno diversi ruoli in Svizzera. Contribuiscono in modo fattivo a progetti nei paesi del Sud. Rispetto alla FOSIT naturalmente le grandi ONG hanno più mezzi. Inoltre, giocano un ruolo importante nella collaborazione internazionale allo sviluppo facendo pressione sulla Confederazione e sul Parlamento affinché vengano stanziati i fondi per queste attività. Ecco, siamo arrivati alla collaborazione internazionale allo sviluppo. Come è organizzata?

Da una parte abbiamo la comunità internazionale, soprattutto i paesi del Nord sono all’avanguardia nei programmi di cooperazione. Poi ci sono le organizzazioni internazionali finanziate dai governi. Qui mi riferisco alle Nazioni Unite, alla Banca Mondiale e via dicendo. A questi si aggiungono naturalmente le ONG. Tutti assieme contribuiscono alle attività di sostegno. Anche la Svizzera partecipa a queste iniziative. Il Governo stanzierà ancora più di 11 miliardi di franchi per i prossimi quattro anni. Rispetto al quadriennio precedente però ci sono delle novità…

Si, ci sono delle novità, come ad esempio la riduzione dei paesi nei quali la Svizzera è attiva direttamente a livello bilaterale. Una decisione corretta, a mio modo di vedere, in quanto erano diventati troppi ed è anche giusto concentrare perché viste le risorse è meglio essere più efficaci in un minor numero di paesi. Naturalmente la questione è controversa in quanto ognuno la pensa in un certo modo sul quali siano i paesi da aiutare. Altro obiettivo è quello di voler perlomeno stabilizzare la collaborazione con il settore imprenditoriale e finanziario svizzero. È una cosa che si fa già, ma le imprese evolvono e il loro modo di approccio può modificarsi nel tempo e possono offrire un contributo importante. Mi viene in mente come esempio l’Africa sub-sahariana dove c’è necessità di creare posti di lavoro e qui l’economia privata può e deve giocare un ruolo fondamentale. Basta guardare al documento che orienta la collaborazione internazionale, che detta l’agenda per lo sviluppo sostenibile fino al 2030,

Pietro Veglio, presidente onorario della FOSIT e membro della Commissione consultiva sulla cooperazione internazionale. (Stefano Spinelli)

si vede chiaramente che gli obiettivi non possono essere raggiunti senza il contributo dei settori economici e finanziari.

Parlando di agende, in quelle politiche c’è un tema particolarmente presente ovvero i flussi migratori. Uno degli slogan più utilizzati è «Aiutiamoli a casa loro». Abbiamo visto che è una cosa che si fa, e con mezzi importanti. L’impressione è che le persone però non sappiamo esattamente cosa si faccia «a casa loro».

È chiaro che l’informazione non è sempre facile da fornire in modo adeguato. Lo sforzo viene fatto, nel senso di evitare che i migranti debbano emigrare. Un obiettivo, e qui bisogna essere chiari, che non si può raggiungere a corta scadenza. E allora qualcuno dice che l’aiuto esiste da anni ma non si vedono i risultati. Bisogna anche tener conto dell’aumento della popolazione, molto forte, soprattutto in Africa. C’è la fortissima urbanizzazione di questi paesi, un elemento che cambia, e di molto, le dinamiche. Senza dimenticare i cambiamenti climatici che stanno aggravando la situazione in molti paesi. Tutto questo per dire che le soluzionimiracolo a corta scadenza non esistono. Quando si pensa agli aiuti internazionali, anche qui l’idea generale è che tutti i fondi erogati vadano a fi-

nire nei paesi bisognosi. Quello che forse non è conosciuto è che anche per l’economia svizzera questi aiuti sono importanti.

Questo non è l’obiettivo principale della collaborazione internazionale, ma è innegabile che delle ricadute esistono. A parte il lato puramente economico, quindi l’acquisto di beni in Svizzera che poi serviranno ai progetti, vi è anche il fattore immagine. Lo dico perché nella mia esperienza internazionale ho visto quanto questo sia importante. La Svizzera è un paese ricco e il suo impegno è visto di buon occhio soprattutto dai paesi emergenti. Paesi dove le imprese elvetiche possono esportare i loro prodotti. Se il loro benessere aumenta, ne beneficiamo anche noi. Anche questo è uno degli obiettivi che stanno dietro la cooperazione internazionale.

Quando si parla di cooperazione internazionale vi sono due, diciamo, canali: i rapporti bilaterali, ovvero quelli diretti tra la Svizzera e il paese in questione beneficiario degli aiuti, ma anche quelli multilaterali, quindi attraverso istituzioni che spesso vengono viste con sospetto da una parte della popolazione.

La Svizzera agisce molto a livello bilaterale, ovvero direttamente nei paesi bisognosi, e questo è un fiore all’occhiello che la popolazione apprezza molto. Ma anche la collaborazione multilaterale,

ovvero agire nell’ambito delle organizzazioni internazionali, come il fondo monetario internazionale, è molto importante. Ecco, qui forse la popolazione non capisce bene l’importanza di questa cosa. È vero che le critiche alle organizzazioni internazionali a volte sono giustificate, ci mancherebbe. Queste relazioni però sono importanti perché esiste un’ottima collaborazione tra quello che la Svizzera fa a livello bilaterale e l’attività di queste organizzazioni internazionali, rafforzando ulteriormente l’attività della Svizzera. Professor Veglio, in conclusione, qual è la sfida più importante che secondo lei la comunità internazionale, anche attraverso le azioni che abbiamo citato, deve affrontare?

I cambiamenti climatici senza dubbio. Questa è una delle maggiori sfide che la comunità internazionale deve affrontare. E lo deve fare adesso. In particolare, l’adattamento ai cambiamenti climatici perché i cambiamenti non sono del futuro, ma stanno già avvenendo, in modo drammatico. Pensiamo all’agricoltura, ma anche alle infrastrutture urbane e qui ci saranno grosse necessità di finanziamento. E qui il ruolo della Svizzera dovrà essere importante. Naturalmente la lotta deve essere globale, la Svizzera da sola non può fare nulla. Quindi ci vorrà una maggiore coesione internazionale, anche se non è facile da ottenere.

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi L’intasamento turistico L’economia del turismo è una disciplina nella quale non sono rari i neologismi. Tutti ci ricordiamo dei voli charter che negli anni Settanta dello scorso secolo furono determinanti nel promuovere le fortune di molte spiagge del Mediterraneo e di mari anche più lontani. Più di recente abbiamo cominciato a sentir parlare di destinazioni turistiche come fossero nuove qualità di mele che si offrivano in concorrenza nella vetrina di qualche agenzia o in internet. Ancora più recente è il termine di cui vogliamo parlare oggi: l’overtourism. Si tratta di quel fenomeno, che tutti noi conosciamo, quando le destinazioni turistiche sono prese d’assalto da migliaia di persone che intasano strade e piazze e ti impongono lunghe attese alle entrate dei musei o alle stazioni di partenza degli impianti di risalita per

non parlare dei posti in ristorante che devi prenotare almeno con un anticipo di quattro settimane. Venezia, Firenze, Barcellona e tutte le destinazioni delle crociere nel Mediterraneo e nel mar Egeo, ma anche le stazioni invernali delle Alpi conoscono, in periodi dell’anno diversi e di lunghezza diversa, questo fenomeno. L’intasamento turistico si manifesta anche da noi. Lo sanno coloro che devono prendere il treno da Zurigo verso il Ticino in un fine settimana d’autunno, in particolare quando la meteo annuncia nebbia nella Svizzera tedesca e molte ore di sole in Ticino. Sin qui a lamentarsi sono le popolazioni delle destinazioni turistiche e i turisti che non amano doversi muovere, in mezzo alla folla , magari su un sentiero di montagna in alta quota. Ovviamente anche i protettori della

natura e del paesaggio non vedono di buon occhio l’intensificarsi dei flussi di turisti, in particolare nei punti in cui l’ecosistema è particolarmente fragile. Gli operatori del turismo, invece, in generale si rallegrano e non sembrano pensare, almeno da noi, che si debba porre qualche limite alla massa di arrivi. Perché i flussi di turisti aumentano è da ricondurre all’aumento del reddito pro-capite e quindi dei mezzi che una famiglia può riservare alle vacanze, e alla continua riduzione della durata (e del costo) dei viaggi dal domicilio del turista alla sua destinazione. Un altro fattore che fa aumentare la consistenza dei flussi di arrivi è la diminuzione della durata del soggiorno. Per fare un esempio: Lugano, oggi, come nel 1912, può contare su circa mezzo milione di pernottamenti in albergo all’anno con

la differenza però che nel 1912 gli arrivi erano circa 70’000 mentre oggi superano le 300’000 unità. Una differenza che si vede. Senza contare che oggi in città arrivano, nel corso dell’anno, diverse centinaia di migliaia di turisti alla giornata che naturalmente intasano anche se non generano nessun pernottamento. È vero che, finora, l’intensificazione dei flussi di turisti non ha provocato, almeno in Ticino, molti attriti fra turisti e popolazione locale. È però possibile che la situazione peggiori in futuro, specialmente se le nuove strutture di ricezione, come gli appartamenti Airbnb dovessero, cominciare a fare concorrenza alle abitazioni da affittare. In altre destinazioni, come a Barcellona o a Venezia le tensioni hanno dato luogo a movimenti e a manifestazioni di protesta importanti.

Le autorità locali hanno promesso di intervenire con misure per arginare la crescita dei flussi turistici. Venezia, da quest’anno, avrebbe dovuto introdurre una tassa pro-capite di accesso alla laguna. Per motivi diversi la stessa non è stata ancora applicata. Ma è certo che in futuro ci troveremo, come turisti, confrontati sempre di più con misure di razionamento come, per esempio, i pedaggi stradali. Due anni fa Barcellona ha adottato il PEUAT il piano di contenimento dei flussi turistici che, tra le altre misure, prevede per esempio che non si possono più aprire nuovi alberghi in città. È possibile che questa strada – quella delle restrizioni d’uso della pianificazione urbanistica – venga adottata in futuro anche in altre destinazioni turistiche molto frequentate, non da ultimo anche da noi.

il motivo per cui il Partito repubblicano rimane allineato a Trump, anche quando viola i valori e le ispirazioni cari ai conservatori. È accaduto con la questione siriana: il ritiro frettoloso (che non è nemmeno un ritiro: i soldati americani sono tornati a guardia dei pozzi di petrolio) in Siria con il conseguente abbandono dei curdi, alleati dell’America, ha sconvolto molti repubblicani. Si sono visti, in quell’occasione, molti tentennamenti e ripensamenti da parte anche di repubblicani considerati trumpianissimi, con tanto di dichiarazioni di condanna pubbliche, al punto che alcuni commentatori avevano iniziato a contemplare l’ipotesi che potesse ripetersi con Trump quel che era accaduto con Nixon, il quale si era dimesso prima dell’impeachment quando si era accorto che il suo partito non era più con lui. Poi è arrivato il blitz che ha ucciso il leader dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, e tanto è bastato per calmare i probabili riottosi: in fondo questo presidente repubblicano (con l’aiuto di un cane) ha eliminato il terrorista più ricercato del mondo. I repubblicani sono costretti a mostrare un doppio volto: in pubblico chiedono massima trasparenza e mas-

simo rigore nei confronti di Trump, in particolare per quel che riguarda la richiesta di impeachment. Vogliamo avere a disposizione tutti i fatti, proprio come i democratici, dicono: devono convincere gli elettori anche loro, in fondo. Ma negli scorsi giorni i deputati democratici hanno iniziato a rendere pubbliche le trascrizioni delle prime testimonianze avvenute a porte chiuse e alla luce di questi testi il ruolo dei repubblicani appare molto diverso rispetto a quello ostentato in pubblico. Nelle loro domande ai testimoni hanno chiesto informazioni su Joe Biden, l’ex vicepresidente candidato alle primarie democratiche, e anche su Hillary Clinton, ex candidata alle presidenziali battuta da Trump: a parte i favori richiesti da Trump, il materiale compromettente su di loro c’è? E nel caso, cosa dice? Le risposte non sono state soddisfacenti. Allora i repubblicani hanno cercato di verificare se a muovere i testimoni fosse un banalissimo pregiudizio antitrumpiano: è noto che il presidente non abbia un buon rapporto con il suo corpo diplomatico e che preferisca relazioni basate su canali informali e personali. È allora possibile che i diplomatici, che sono i testimoni più ascoltati visto che si

tratta di un’inchiesta che riguarda i rapporti con un paese straniero (l’Ucraina), si stiano semplicemente vendicando di un presidente che non li tiene abbastanza in considerazione? Anche in questo caso le risposte non sono state soddisfacenti. La terza linea d’indagine dei repubblicani riguarda la ricostruzione dei fatti: alcuni testimoni non erano presenti alla famosa telefonata tra Trump e il presidente ucraino, perché ne parlano come se lo fossero? Anche in questo caso le risposte non sono state soddisfacenti. I repubblicani hanno cercato di intervenire il più possibile negli incontri a porte chiuse – una volta anche battendo alla porta con i cellulari gridando: fateci entrare! – per dimostrare la tesi di Trump: è una caccia alle streghe. E infatti da ultimo circola una nuova linea difensiva, che pare quella definitiva (cosa ci può essere dopo?): il presidente ha sì condizionato gli aiuti militari all’Ucraina alla presentazione da parte di Kiev di materiale compromettente su Biden, ma questo non è un reato da impeachment. Così fan tutti, insomma, le relazioni diplomatiche sono complicate: se questa è la strategia, vuol dire che l’appartenenza ha già vinto.

e i borghesi – una costola del movimento liberale – incamerò 29 seggi. Era il pregio della meccanica proporzionale: finalmente il parlamento rispecchiava le forze in campo (ma con l’effetto collaterale di moltiplicare e frammentare gli schieramenti). Anche la «formula magica» scaturì da una logica di tipo proporzionale: la necessità di riservare un posto nell’esecutivo ai principali attori operanti sulla scena all’indomani della seconda guerra mondiale. Il laboratorio chimico che la produsse, diretto dal segretario dei conservatori Martin Rosenberg, assegnò due poltrone ai liberali, due ai democratici cristiani, due ai socialisti e uno agli esponenti degli agrari e del ceto medio (futura UdC). Nasceva così la «democrazia della concordanza», o regime consociativo, a rappresentare pressoché l’80 per cento dei cittadini votanti (allora solo maschi). Poteva

funzionare un simile grande abbraccio fra destra, sinistra e centro? I malumori non mancarono, e nemmeno le trame notturne e i colpi di scena. Ne fecero le spese soprattutto i socialisti nel 1983 e nel 1993: in entrambe le occasioni, le due candidate ufficiali al governo (Lilian Uchtenhagen e Christiane Brunner) non ottennero i voti richiesti. Si levarono proteste, s’indissero congressi straordinari per valutare se valesse la pena stare o no nell’esecutivo accanto a colleghi che palesemente non rispettavano le regole. Fatto sta che tutto rientrò fino al 2003, anno in cui l’UdC di Blocher mise sul piatto la sua rapida ascesa strappando al PPD il secondo seggio. Specchio di un’epoca in cui i partiti ancora contavano nella società elvetica, la formula magica sta per entrare, dopo sessant’anni di onorato servizio, in una fase «liquida», come l’elettorato che

indirettamente l’ha espressa e sostenuta. Gli schemi solidi che fino a ieri sorreggevano e giustificavano il senso di appartenenza ad un determinato partito (la tradizione familiare, le ideologie strutturate in visioni del mondo, il senso civico) si sono dissolti nell’aria; a loro sono subentrati stati d’animo negativi, quali l’indifferenza e la sfiducia, rivoli di umor nero che alla fine sono sfociati in un crescente astensionismo. Non sarà facile, nei prossimi anni, tenere in vita la formula magica. Già ora i Verdi reclamano un riesame delle parti che la compongono; nel mirino potrebbe finire il membro del collegio italofono, ossia Ignazio Cassis. Ironia della sorte: escogitata per includere le minoranze, seppur con ritmi discontinui, la nuova formula finirebbe per attizzare, da parte del Ticino, l’ira contro gli ambientalisti, visti ora come nemici della terza Svizzera.

Affari Esteri di Paola Peduzzi I repubblicani e il loro presidente L’esito finale della inchiesta per l’impeachment di Donald Trump dipende dai senatori repubblicani. Sono loro che, quando arriverà il momento del voto, decideranno il destino del presidente: al Senato ci vogliono due terzi dei voti per confermare l’impeachment e questo significa che una ventina o più di repubblicani dovrebbe passare con i democratici e gli indipendenti e votare contro Trump. Impossibile? Non

proprio, ma le chance sono basse, per una serie di motivazioni che, semplificando, è una sola: l’appartenenza. Per quanto Trump sia il presidente più atipico e meno ortodosso che i repubblicani potessero scegliersi, per quanto in questi tre anni i repubblicani abbiano dovuto ingoiare molti atti sprezzanti di Trump, è pur sempre il «loro» presidente: in ogni caso sempre meglio rispetto a un democratico alla Casa Bianca. È

Il destino di Trump è nelle mani dei senatori repubblicani. (AFP)

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti La «formula» che non ti aspetti Lenta, macchinosa, grigia, prevedibile. Sono aggettivi che accompagnano spesso la politica elvetica. Vista da fuori appare avvolta in mille lacci. Ma osservata dall’interno mostra un’altra dimensione, quella di un cammino che deve fare i conti con delicati equilibri, pesi e contrappesi, esigenze della maggioranza e rivendicazioni delle minoranze. Quest’anno cadono due anniversari: i cento anni dall’introduzione del sistema proporzionale per l’elezione del Consiglio nazionale (o camera bassa) e i sessant’anni della «formula magica», varata nel 1959. Due tappe fondamentali, che hanno permesso di correggere la rotta prima che la motonave «Helvetia» finisse rovinosamente sugli scogli. Vale la pena di ricordare che il «Freisinn», la grande famiglia liberale – secondo la definizione del padre della politologia svizzera, Erich Gruner –

esercitò un’egemonia pressoché totale nei diversi consessi nazionali per decenni. E questo a partire dal 1848 (l’anno in cui vide la luce il moderno Stato federativo): nel Consiglio nazionale resse incontrastata fino alle elezioni del 1919; nel Consiglio degli Stati (o camera alta) fino al 1925; nel Consiglio federale (l’esecutivo centrale) fino al 1943. Dunque quasi un secolo di predominio del «Freisinn», formazione che solo dopo la Grande Guerra iniziò a cedere potere ai rivali cattolico-conservatori e in seguito agli agrari. Le elezioni del 1919, tenutesi con un anno di anticipo sulla scadenza naturale della legislatura (allora triennale), terremotarono le rappresentanze: i radicali persero d’un colpo 45 seggi (da 105 a 60), mentre i socialisti ne guadagnarono 19 (da 22 a 41). Stabile rimase la deputazione conservatrice (meno 1 seggio, da 42 a 41 ), mentre il neo-gruppo che raccoglieva i contadini, gli artigiani


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Cultura e Spettacoli Midge Ure, da rivalutare Il musicista scozzese, celebre per la hit Breathe, con Soundtrack dimostra tutto il suo valore

Dal Ticino alle stelle Abbiamo incontrato il compositore ticinese Victor Hugo Fumagalli che, quasi per caso, è diventato compositore di colonne sonore di successo pagina 37

Da Wegman a Odermatt A Lugano e a Chiasso due mostre fotografiche omaggiano lo statunitense Wegman e lo svizzero Odermatt

Nei suoi panni L’immagine della donna nel tempo grazie al corto In Her Shoes di Maria Iovine

pagina 39

pagina 33

pagina 43 Lo scrittore austriaco in un’immagine non datata. (Keystone)

Le sferzate di Bernhard

Narrativa Tornano in libreria le opere uniche del grande scrittore austriaco

Luigi Forte L’enfant terrible della letteratura austriaca, Thomas Bernhard, uno dei massimi drammaturghi e romanzieri del dopoguerra scomparso nel febbraio del 1989, torna in libreria. Da tempo ci mancavano le sue tirate ossessive e maniacali, l’ironia sferzante, i paradossi e le provocazioni a non finire. Ricordavamo con una certa nostalgia quei suoi personaggi deliranti e folli, eterni sconfitti segregati nella loro paranoia, per i quali la vita è solo un balbettio inconcludente prima del vuoto. E si era un po’ scolorita nella memoria anche la sua scrittura cadenzata e musicale, ricca di contrappunti, dal drammatico all’umoristico, che piaceva molto a Italo Calvino. Chissà se i lettori di oggi avranno la curiosità di avvicinarsi a un autore tanto ostico quanto affascinante. Einaudi ripropone ora il suo romanzo giovanile Amras del 1964 mentre Adelphi ristampa Antichi Maestri, un’opera del 1985. Un arco di tempo in cui maturò l’uomo di teatro con testi originalissimi come Una festa per Boris, La forza dell’abitudine, e ancora fra i molti, Minetti, L’ignorante e il folle, per finire poi con l’ultimo del 1988, Piazza degli eroi, fortemente provocatorio. Ma furono anche anni in cui lo scrittore si

affermò nel panorama europeo come uno dei più originali romanzieri. E accanto ai titoli oggi riproposti si deve ricordare, fra i suoi moltissimi lavori, testi come Perturbamento, La fornace, Il soccombente, A colpi d’ascia, e l’ultimo, Estinzione, con una fluviale requisitoria contro il proprio mondo. Fin dall’inizio in questo scrittore tutto è anomalo: personaggi, situazioni, stile. In Amras due giovani fratelli tirolesi, K. e Walter, sopravvissuti involontariamente al suicidio collettivo della famiglia, vengono rinchiusi dallo zio materno per un paio di mesi in una torre per sottrarli al giudizio della collettività e difenderli dal mondo circostante. È il ventenne K., studioso di scienze naturali, a raccontare la propria segregazione con il fratello appassionato di musica e poesia e affetto da una grave forma di epilessia di cui soffriva anche la madre. E lo fa frantumando la narrazione fra lettere, schizzi, pagine di diario, monologhi e aforismi: così il flusso stesso della vita si disperde nel gioco imprevedibile delle parole che descrivono il caos senza mai cedere ad esso, come ricorda Vincenzo Quagliotti nella sua lucida prefazione. Sono le frasi della sopravvivenza, amalgama di vocaboli, frammenti che mimano una totalità di vita ormai irrealizzabile, in un divenire inconcluso e vuoto come il

monologo del principe Saurau nel romanzo Perturbamento. A distanza di un ventennio ecco la figura dell’anziano musicologo e critico d’arte Reger in Antichi Maestri, che da trent’anni, a giorni alterni, si reca nella Sala Bordone della Pinacoteca di Vienna ad ammirare per ore il celebre quadro di Tintoretto Uomo dalla barba bianca. Anch’egli, che pur scrive articoli per il «Times», vive in un isolamento quasi irreale, confortato solo dalla presenza del custode del museo Irrsigler, a cui trasmette il suo profondo sapere in un rapporto «a distanza ideale da ogni punto di vista». Il mondo maniacale di Reger emerge dal racconto dell’amico insegnante Atzbacher che come un regista mescola personaggi e citazioni, in una sorta di paradossale monologo a tre voci, al punto che la narrazione viene definita «commedia» dal suo stesso autore. La vicenda incalzante e drammatica di Amras si stempera qui nel gioco focoso e ironico di un Bernhard che trasforma la polemica in un divertissement senza pari e veste i panni di un giustiziere cinico, divertito e impietoso. In realtà non è difficile riscoprire anche negli anni della maturità i temi dello scrittore giovane. Il solipsismo e la lucida follia di K. dopo la morte del fratello Walter a cui la malattia ha tolto

ogni speranza inducendolo al suicidio, l’impotenza dei due giovani a vivere nella realtà, quella sorta di stato crepuscolare a cui la loro esistenza soggiace e il tema centrale della morte, pur esorcizzata con infinite farneticazioni, sono un lievito costante nelle pagine di Bernhard, spesso addolcito da una certa dose di humour. Come, ad esempio, la gustosa invettiva di Reger sulle latrine di Vienna città della musica: stambugi nauseabondi e fatiscenti, luridi come in nessun altra parte del mondo. Del resto in Antichi maestri nulla e nessuno si salva. Né l’Austria, paese ridicolo dove tutto è caricatura, pozzo nero di comicità, né gli austriaci, opportunisti nati con una vita intessuta di dissimulazioni e di oblio, né la grande musica (con l’eccezione forse di Wagner) o l’arte degli «artisti di stato» come Dürer, Velasquez, Rembrandt o certa letteratura romantica, dove si salva solo Novalis, l’unico poeta amato da Reger. Per non parlare del furioso attacco contro il filosofo Heidegger a cui nulla viene risparmiato. Lo definisce «ridicolo filisteo nazionalsocialista coi pantaloni alla zuava» o anche «imbecille delle Prealpi» con il berretto nero da Foresta Nera in testa e filosofo delle donne. Dal suo buen retiro nella Sala Bordone Reger osserva con rabbia e humour un mondo inquietante in cui nessun essere

umano trova più protezione, mentre la sua mente non insegue l’incanto della bellezza, meno che mai quella artistica, ma cerca il fallimento. Bernhard frantuma in questo romanzo di macerie ogni certezza, anche quella sublime dell’arte. Non a caso il suo Reger studia i difetti dei capolavori, un errore palese, il punto che rivela in modo inequivocabile la sconfitta dell’artista. Come perlustrando uno spazio ignoto solo con la sua lucidità, l’ironia e la forza della disperazione alla ricerca di nuovi gesti e risposte. Lo scrittore austriaco è una sorta di sciamano che comunica con le Potenze del Nulla e i suoi romanzi sono esorcismi contro la morte. E la bellezza, anche e soprattutto quella artistica che Reger in Antichi Maestri osserva con maniacale compostezza e una maliziosa risata, non è che eterna illusione per chi come Bernhard insegue una verità che guardi nel conflitto disperato della vita oltre il buio eterno. Bibliografia

Thomas Bernhard, Amras, traduzione di Magda Olivetti, prefazione di Vincenzo Quagliotti, Einaudi, p. 87, € 15.–. Thomas Bernhard, Antichi Maestri, traduzione di Anna Ruchat, Adelphi edizioni, p. 188, € 12.–.


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Cultura e Spettacoli

Prezioso e commovente

Musica Midge Ure il solitario: un nuovo box set offre finalmente il ritratto più completo

di un artista pop sobrio e onesto – e, proprio per questo, sovente sottovalutato Benedicta Froelich Sembrerebbe strano, ma a volte il fatto di incidere, più o meno casualmente, un singolo in grado di assurgere allo status di cosiddetto «tormentone radiofonico» può rivelarsi un’arma a doppio taglio – specie per i tanti artisti che, sebbene popolari, non hanno mai raggiunto un successo davvero universale. Così, per quanto, nel lontano 1998, il pubblico mondiale sia stato pressoché estenuato dai continui passaggi radiofonici della hit Breathe, non in molti si sono resi conto di come il suo autore, lo scozzese Midge Ure, fosse in realtà responsabile di ben altri exploit musicali. In effetti, in quanto ex leader dei troppo spesso dimenticati Ultravox – pop band eccellente, tra i più interessanti esponenti del synthpop anni 80 – Ure era già stato la mente dietro successi eclettici ed efficaci quali le indimenticabili ballate agrodolci Vienna e Dancing With Tears in My Eyes, i cui curatissimi videoclip fanno parte dei ricordi di qualsiasi adolescente degli eighties; solo un esempio di un repertorio eterogeneo quanto eccentrico, parallelamente caratterizzato anche dalla nervosa instabilità e ammiccante vena di follia espressa da pezzi più ritmati come The Voice e Sleepwalk. Una versatilità che Ure ha mantenuto anche quando, lasciati gli Ultravox nel 1986, si è imbarcato in una carriera solista in grado di condurlo, tra le altre cose, a organizzare insieme a Bob Geldof il concerto benefico noto come Live Aid. E sebbene Midge non sia sempre riuscito a ottenere il medesimo, travolgente successo conosciuto con Breathe, la sua carriera ultraquarantennale è stata costellata da tali e tante, intriganti esperienze musicali da giustificare pienamente la pubblicazione di questo Soundtrack: 1978-2019, box set di ben tre dischi (due CD e un DVD)

incentrato soprattutto sui nove album solisti pubblicati dal cantante tra l’85 e il 2017, e tuttora sufficientemente ignorati dal grande pubblico da valergli gli onori di una retrospettiva. Di fatto, questa collezione rivela a chi ancora non lo conoscesse un autore caratterizzato da raffinata sensibilità e cultura, capace di muoversi agilmente tra generi e atmosfere anche molto diversi tra loro: ciò si riflette nel carattere profondo e intimista della produzione di Midge, spesso impegnato a esplorare i recessi più nascosti dell’animo umano e, soprattutto, gli aneliti più profondi e idealisti che agitano la coscienze sensibili. Ecco quindi che la tracklist del cofanetto offre temi quali l’amore per la natura e la vita solitaria come mezzo per ritrovare se stessi (Call of the Wild) e l’emotività vibrante, eppure trattenuta, di Dear God, vera e propria preghiera per il miglioramento di se stessi e l’ascesa a uno stato superiore di consapevolezza; per non parlare di una tra le poche hit di grande successo del Midge Ure solista, l’impeccabile Answers to Nothing, impietosa fotografia delle illusioni promulgate dalle religioni «usa e getta». In più, il secondo CD offre anche un assaggio delle molteplici collaborazioni di Ure con un’ampia gamma di musicisti (da Kate Bush a Mick Karn, passando per Rusty Egan), e perfino delle varie cover tentate dall’artista: su tutte, The Man Who Sold The World e, soprattutto, No Regrets, che nelle mani di Midge Ure si trasforma da pezzo country-folk a evocativa ballatona gotica dal sound quasi avant-garde. Del resto, gli anni non hanno minimamente intaccato la potenza destabilizzante di brani ancor oggi intriganti e azzardati come Fade to Grey – patinato ma affascinante esperimento di musica elettronica risalente ai tempi in cui Midge militava nella formazione dei Visage – o l’epico e amaro Wastelands. In tal

Dalle parti di Marracash Questo nuovo sound Persona, un

disco da non perdere Tommaso Naccari

Il cantautore scozzese (qui sulla copertina di Soundtrack) è nato nel 1953.

modo, Soundtrack affianca alla maestria artigianale di inni pop irresistibilmente orecchiabili (si veda Cold, Cold Heart) la forza narrativa di magistrali esempi di songwriting fortemente evocativo – su tutti, la splendida ballata The Gift, dedicata al geniale designer e architetto scozzese Charles Rennie Mackintosh. E non solo: la compilation conferma come Ure sia, in realtà, ben più di un semplice performer anni 80. I pezzi più recenti da lui firmati, quali I Survived e Beneath a Spielberg Sky, dimostrano infatti la sua capacità di affrancarsi dal sound ormai in parte datato tipico della new wave inglese per lanciarsi in esperimenti struggenti e dal sapore assolutamente attuale.

E poiché il cofanetto è impreziosito dall’immancabile bonus DVD, i principali videoclip realizzati da Ure per i singoli pubblicati nell’arco della carriera sono affiancati da raro materiale documentaristico ed esibizioni live, certo in grado di fare la gioia di ogni collezionista. Tanto che non sarebbe eccessivo affermare come questo Soundtrack rappresenti davvero la più ideale introduzione all’arte di un musicista riservato e troppo spesso sottovalutato, eppure ancora in grado di commuovere e provocare, senza mai ricorrere a malriposti atteggiamenti «da star», ma semplicemente grazie alla forza dei messaggi espressi nelle sue canzoni – cosa meno comune di quanto si pensi.

Persona è un disco personale. Esiste frase più scontata di questa? Dopo quasi cinque anni di silenzio solista – anche se Marracash considera pienamente canonico Santeria, il disco realizzato in collaborazione con Gué Pequeno nel 2016 – il rapper della Barona torna con un disco che – proprio sfondando la tautologica banalità delle banalità – lo mette a nudo, che analizza ogni parte del proprio corpo e lo mette alla mercé dei propri ascoltatori anche se sarebbe meglio dire i suoi fan, perché sfido chiunque a rimanere non coinvolto emotivamente dall’ascolto di Persona. Quando si dice che Marracash – anche se forse sarebbe meglio dire Fabio Rizzo, visto il disco di cui stiamo parlando – mette a disposizione dei propri ascoltatori ogni parte del suo corpo si intende che Persona è un maturo concept album sul corpo umano in cui l’ego è rappresentato dalla traccia più spaccona del disco – così come i muscoli – mentre i nervi sono il motivo per cui Fabio si ritrova a scrivere il disco che ancora una volta lo consacrerà nell’Olimpo del rap italiano. Un album che analizza uno degli uomini più profondi della scena, che pur senza rappare per il 100% del disco dimostra di saper rappare (ma anche cantare «come se ci fosse Marracash featuring Marracash»). Il disco è pregno di significati che a solo una settimana dalla release non si può davvero neanche osare a provare a realizzare, ma che il disco sarebbe stata una mazzata lo si poteva evincere da

Rachlin, quasi un predestinato

In Concerto Il 21 novembre al LAC l’OSI sarà affidata a uno dei maggiori direttori

d’orchestra europei, che è anche un eccezionale violinista e violista

Marracash, in arte Fabio Rizzo, o Marra, ha appena pubblicato Persona.

Enrico Parola Nonni, padre, madre, amici: la straordinaria parabola artistica di Julian Rachlin è tutta segnata da relazioni affettive. Nato a Vilnius, la sua famiglia è emigrata in Austria nel 1978 e a dieci anni già si esibiva in pubblico e a 14 diventava il più giovane solista a suonare con i Wiener Philharmoniker: sul podio c’era Riccardo Muti, si era al Berliner Festspiele. Oggi, oltre ad essere considerato uno dei massimi violinisti, è assai apprezzato come violista e ha intrapreso con uguale successo la strada della direzione. Giovedì 21 si presenterà al LAC proprio in questa sua terza veste, salendo sul podio dell’OSI per affrontare un programma ad alta gradazione romantica: dopo un preludio di luminosa classicità con il mozartiano Divertimento per archi K 136, Rachlin dirigerà la sinfonia Incompiuta di Schubert, l’Adagio di Barber, e infine uno dei concerti per violino più appassionati dell’Ottocento, il Primo in sol minore di Bruch; qui però Rachlin lascerà l’onore e l’onere dell’archetto a Ray Chen, trentenne talento di Taipei. La prima volta che Rachlin lo impugnò è gustosa aneddotica: «Avevo solo due anni e mezzo ma le idee chiarissime: volevo suonare il violoncello, lo strumento di papà! Un giorno i non-

Julian Rachlin è nato in Lituania, nel 1974. (www.osi. swiss)

ni mi portarono a casa uno strumento dicendomi che era un violoncello, piccolo perché doveva essere per un bambino che non frequentava ancora l’asilo; mi ci applicai con serietà. Ci si può immaginare il mio sgomento quando papà mi portò a una prova dell’orchestra e scoprii che in realtà lo strumento che mi avevano regalato i nonni era un violino!». Nel 1994, ventenne, incontrò Pinchas Zuckermann, che gli fu maestro e mentore: «Fu lui a spingermi verso la viola: sosteneva che sarei stato un musicista più completo e mi avrebbe aiutato anche come violinista, soprattutto nella tecnica dell’arco». Invece salire sul podio fu un desi-

derio che gli nacque spontaneo, «un ulteriore sviluppo della mia passione per la musica da camera». La mamma aveva studiato direzione di coro nel Conservatorio di San Pietroburgo, si era diplomata assieme a Valery Gergiev, Semyon Bychkov e Mariss Jansons: una classe eccezionale, pensando alla carriera di questi tre giganti del podio. «Infatti mamma si propose subito come mia insegnante, ma io con altrettanta prontezza rifiutai categoricamente: avere la propria madre come insegnante? Figurarsi! Anche perché grazie all’attività come concertista ero diventato sodale di tanti grandi direttori; tra questi Jansons era anche un amico di famiglia, quindi

andai subito da lui. Rifiutò, e alla mie insistenze mi spiegò che la direzione è una cosa complicata e necessita di un insegnamento costante, e lui non aveva abbastanza tempo per essere un maestro serio. Però mi disse che conosceva la figura perfetta per me». È facile immaginare la reazione di Rachlin quando sentì pronunciare da Jansons proprio il nome di sua madre: «Mi venne un colpo! Ma se l’aveva detto Mariss non potevo ostinarmi a rifiutare; però dissi a mamma che lei mi avrebbe dato giusto un’infarinatura generale, avrei appreso le finezze dai direttori con cui lavoravo: Chailly ad esempio fu prodigo di consigli e venne anche ad ascoltarmi. Però lezione dopo lezione dovetti constatare che mamma era davvero brava e alla fine l’ho accettata come mia unica insegnante. Lo confesso: con estrema gioia».

Biglietti in palio «Azione» mette in palio tra i suoi lettori alcune coppie di biglietti per il concerto del 21 novembre, ore 21.30, al LAC, con Julian Rachlin e Ray Chen. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni su www.azione. ch/concorsi. Buona Fortuna!

quando Marra parlò del suo amico storico Gué Pequeno chiamandolo Cosimo e dicendo di lui «Abbiamo un sacco di cose in comune, amicizie, esperienze. Ci piacciono il rap e il cinema, abbiamo perfino fatto un disco assieme. Eppure siamo diversissimi, quasi opposti su certi aspetti. Nell’approccio al lavoro o nel modo di reagire al dolore ad esempio. A me il dolore paralizza, ho bisogno di viverlo fino in fondo, di annegarci, spremerlo e alla fine tirarci fuori qualcosa, magari. Cosimo ha bisogno di non pensarci, di seppellirlo di lavoro e serate fino a che non lo sente più. Di passare oltre, instancabilmente. Ma da qualche parte deve pur finire no? Grazie grande G per averne lasciato un po’ nel mio disco» o da come parlò di Massimo Pericolo: «Alessandro riesce a essere duro e dolcissimo allo stesso tempo. Parla come un tossico dopo una pera ma sta bello in forma come uno sportivo. 7 miliardi ci aveva gasato tutti ma Sabbie D’oro per me è stata la conferma che il ragazzo aveva un futuro brillante. Ci siamo scritti e ci siamo fatti (...) a vicenda e così è passato da me perché avevo un pezzo da proporgli». Persona è dunque un disco di persone – nove featuring, molti per il periodo storico, ma tutti estremamente calibrati – e anche da questo incontro nasce la potenza.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Cultura e Spettacoli Victor Hugo Fumagalli, una vita tra il Ticino e Londra. (Michael Bonito)

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Victor Hugo Fumagalli un talento che è certezza

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Incontri Il giovane compositore di Tremona ha già preso parte

a importanti progetti cinematografici

Cosa ha in comune il cortometraggio d’animazione A Love Story premiato nel 2017 ai BAFTA, i maggiori riconoscimenti cinematografici e televisivi britannici, con l’applaudito documentario del ticinese Olmo Cerri Non ho l’età e con il film indipendente inglese Jellyfish che nel 2018 ha fatto incetta di premi a Dinard in Francia e ad altri festival europei? A firmare la colonna sonora di tutti e tre è un giovane compositore di Tremona.

«Mi piacerebbe conoscere Morricone e ringraziarlo per tutto quello che ha fatto» 33 anni, Victor Hugo Fumagalli porta un nome impegnativo, che stride con la modestia del suo atteggiamento quando deve parlare del suo lavoro, quasi fosse cosa da niente aver creato in pochi anni le musiche per una sessantina di produzioni, tra corti, corti animati, lungometraggi e spot. Sarà che tutta questa avventura non era scritta nelle stelle. «Non era progettato, ci sono finito un po’ per caso a fare musica da film, non era un mio sogno nel cassetto» racconta Victor, che oggi si divide tra Londra e il Ticino. Nella capitale inglese si è trasferito nel 2014 e due anni dopo ha preso un master in musica da film alla National Film & Television School di Beaconsfield, ma a casa torna spesso, anche per lavoro. «Non mi era veramente chiaro quello che volevo fare, ma ho sempre avuto una gran passione per la musica. Ho

lego agli strumenti. A volte mi capita di cominciare anche senza immagini. Può succedere che io legga la sceneggiatura e butti giù delle idee. È successo con I segreti del mestiere, un film svizzero diretto dal giovane regista ticinese Andreas Maciocci, che verrà presentato a Bellinzona nell’ambito del festival Castellinaria». Non mancano, nei lavori di Victor, divagazioni pop come nel caso di The Deepest Ocean, la canzone composta per i titoli di coda di Jellyfish di James Gardner insieme alla cantautrice italiana Mariachiara Terragin. Il brano è in lizza nella categoria Best Song ai Jerry Goldsmith Awards, tenutisi pochi giorni fa a Ubeda in Spagna. «In effetti ho un background pop e rock perché suonavo anche in alcune band, come i Koan e i My Stupid Dream. Al momento comunque mi ritrovo abbastanza in un ibrido elettronico/acustico». Impegnato in progetti sia in Svizzera che in Inghilterra – «Il numero aumenta, piano piano: il problema è quello, che è piano piano!» – Victor sta attualmente lavorando sul cortometraggio animato Only a Child, progetto di una ventina di registi e animatori coordinati dal ticinese Simone Giampaolo. «Si tratta di una sorta di poema che mette in immagini e musica il discorso tenuto alle Nazioni Unite nel 1992 dall’allora dodicenne Severn Suzuki, un’antesignana di Greta Thunberg». «Io cerco di fare il mio e poi spero che piaccia, conclude, mi basterebbe che la mia musica trasmettesse qualcosa, un’emozione piccola o grande. Vorrei emozionare gli altri come la musica emoziona me». Parola di Victor Hugo Fumagalli, compositore di musica da film forse per caso, ma dal talento che è già una certezza.

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Contatto Pro Senectute Ticino e Moesano, Lugano Via Vanoni 8/10, 6904 Lugano Telefono 091 912 17 17, info@prosenectute.org Le nostre sedi regionali si trovano anche a: Balerna, Bellinzona, Biasca e Muralto www.prosenectute.org

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Fabrizio Coli

suonato per anni diversi strumenti, ma è sempre stato un hobby. Ho imboccato anche altre strade perché mi piacevano tante cose. Poi sono andato a Milano dove ho studiato sound design allo IED e l’Inghilterra è stato un lanciarsi alla ricerca di nuove possibilità, con l’idea di imparare anche la lingua. Ma chissà – ride – forse i tasselli del fare musica da film c’erano già dall’infanzia: da piccolo ero molto affascinato dalla colonna sonora del Re Leone, la ascoltavo in continuazione!». Victor ha studiato per anni pianoforte e batteria in scuole private ma non ha frequentato il Conservatorio. È uno dei compositori delle nuove generazioni che lavorano su un portatile, come dice lui, una generazione diversa da quelle dei giganti del campo conosciuti dal grande pubblico. «Morricone, Zimmer, Desplat… questi sono mostri sacri. Mi piacerebbe molto conoscere Ennio Morricone, solo per dargli la mano e dirgli grazie per quello che ha fatto e poi scomparirei dalla sua vista! Ci sono però altri compositori, forse meno conosciuti, con i quali ho una maggiore affinità. Compositori come Atticus Ross che con Trent Reznor ha firmato la colonna sonora di The Social Network. O l’islandese Johann Johannsson, purtroppo scomparso a soli quarant’anni, quello delle colonne sonore di La teoria del tutto, Sicario e Arrival. O ancora Cristobal Tapia de Veer che ha composto la musica per Utopia, una serie inglese. Mi piace molto perché lavora con le voci ed elabora i suoni che registra, li trasforma in altro creando una tessitura sonora con strumenti acustici come pianoforti o archi». Una ricerca sonora che sembra intrigare molto Victor. «Di solito cerco dei suoni che possano essere interessanti – ci spiega, illustrando il suo modo di lavorare – e poi mi ricol-


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Cultura e Spettacoli

Vita da cani? Ma quando mai!

Fotografia/1 Il bracco di Weimar è il protagonista indiscusso degli scatti ironici e dissacranti di William Wegman

Giovanni Medolago Il pianista Stephen Kovacevic ha studiato per otto anni le 32 Sonate del grande Ludovico Van («Senza una vacanza più lunga di tre giorni», ci confessò, ospite al Cinema Lux) prima di sentirsi pronto per la registrazione di un’integrale a dir poco monumentale. François Truffaut dedicò buona parte della sua filmografia all’amore, inteso in senso lato: da quello coniugale a quello per il cinema, arricchendo ogni pellicola con aforismi fulminanti («L’amore a prima vista è come vivere un secolo in un secondo») certo scaturiti da una lunga quanto attenta riflessione. Antoni Gaudì consacrò ben 42 anni della sua vita al progetto della Sagrada Familia e dopo l’ennesimo giorno di lavoro uscì da quel cantiere (eterno? è aperto dal 1882!) ancora così concentrato su guglie e le cripte da attraversare la strada senza accorgersi del tram che l’avrebbe investito e ucciso.

L’intento di Wegman non è quello di criticare la nostra società, ma di fare dell’ironia Di fronte a questi e altri artisti che dedicano attenzione, tempo indefinito e talento a un unico soggetto, il vostro cronista di solito vive due sentimenti contrapposti. Da un lato l’ammirazione per tanta dedizione; dall’altro uno sfumato senso d’inquietudine riguardo un interesse tanto ostinato che rischia talvolta – ai nostri occhi almeno – di scivolare nella monomania. Ebbene, William Wegman è dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso che si ostina a fotografare sempre e solamente i suoi cani. Però, di fronte al

centinaio di opere attualmente esposte al LAC – dove protagonisti assoluti sono i suoi Weimaraner, il senso d’inquietudine di cui sopra non l’abbiamo per nulla vissuto. Perché Wegman dimostra una tale fantasiosa creatività nel mettere in posa i suoi bracchi di Weimar da indurci a credere che in questi quarant’anni non sia stato per nulla ossessionato da un’idea comunque martellante, né tanto meno si sia annoiato. Wegman non vuole portare una velata critica alla società come ha fatto, sempre partendo dall’amico più fedele dell’uomo, Elliott Erwitt coi suoi barboncini bianchi. Si accontenta, si fa per dire, di cogliere alcuni aspetti del nostro quotidiano – e dei suoi miti, aggiungerebbero Barthes e Baudrillard – per ironizzarci sopra, talvolta con un tocco di sarcasmo. Gli spunti gli vengono dall’universo glamour (moda e addirittura erotismo, col segugio ri/vestito in maniera casual o in ammiccanti pose da top model); dal mondo del lavoro, con un pensiero a quella civiltà contadina (Farm Boy) che si rifiuta di sparire per sempre; dalle nostre ricche eredità culturali: l’opera lirica (Tamino del Flauto Magico) e soprattutto la scultura e le arti figurative. Si passa allora dalla statua di un’Eva nuda e classicheggiante che offre la mela a un perplesso Weimaraner all’altro bracco che posa delicatamente le sue zampe su un grande cubo nero cercando di «liberarne» uno più piccolo e bianco, ottenendo così un’opera intitolata Costruttivismo: un Malevic con intruso a 4 zampe! Il sospetto che si tratti tutto di un gioco (quanto gradito agli animalisti non sapremmo dirvelo) è confermato dalle didascalie che introducono le nove sezioni della mostra, firmate dal curatore dell’esposizione William A. Ewing, il quale dà la parola direttamente ai cani; ben felici di rovesciare la prospettiva che di solito noi umani abbiamo riguar-

William Wegman, Constructivism, 2014. (Proprietà dell’artista, © William Wegman)

do ai nostri amici a quattro zampe, con risultati a volte esilaranti. Ewing, già direttore dell’Elysée di Losanna, nota altresì che, sebbene Wegman ponga i cani al centro del suo mondo, «le scenografie, i costumi e gli oggetti di scena rivelano il fascino che la storia dell’arte ha su di lui: dal cubismo alla pittura color field, passando attraverso l’espressionismo astratto o il concettualismo. Nelle opere di Wegman, inoltre, sono eviden-

ti i riflessi di diversi generi fotografici come il paesaggio, il nudo, il ritratto e il reportage». E loro, i veri protagonisti della mostra? Beh, i Weimaraner («Il primo che ho avuto l’ho battezzato Man Ray») sembrano aver scelto un modello preciso per porsi docilmente davanti all’obiettivo: Buster Keaton. Come il grande attore, sono sempre speranzosamente attoniti e disincantati, lo sguardo d’una

malinconia sottile ma così ostinata da negarci il benché minimo sorriso, nemmeno nelle situazioni più umoristicamente improbabili. Dove e quando

William Wegman. Being Human, Lugano, LAC. Orari: ma-do 10.00-18.00; gio 10.00-20.00; lu chiuso. Fino al 6 gennaio 2020. luganolac.ch

Il fattore di disturbo di Arnold Odermatt

Fotografia/2 Nell’ambito della Biennale chiassese le fotografie di un poliziotto con una passione

diventata un vero e proprio mestiere d’arte Gian Franco Ragno Divenuto quasi per caso poliziotto nel 1948 – si formò infatti come pasticciere-fornaio ma si scoprì allergico ad alcune farine – Arnold Odermatt (1925) iniziò sin da giovanissimo a fotografare il suo mondo – come recita il titolo della sua prima raccolta di immagini, Meine Welt – e da semplice autodidatta.

Arnold Odermatt è stato ufficialmente introdotto nel circuito artistico dal grande Harald Szeemann Trasferì la sua passione anche nel lavoro: nel piccolo corpo delle forze dell’ordine del canton Nidvaldo, l’impegno che si era preso fu quello di documentare gli incidenti automobilistici nella sua regione, attività che svolse scrupolosamente fino al suo pensionamento nel 1990. Fu suo figlio Urs, regista e documentarista, a scegliere molti anni più tardi alcune immagini per i suoi filmati, e in seguito per esporle nella galleria Springer di Berlino. Ma chi fece entrare definitivamente l’ormai settantacinquenne Odermatt nel circuito artistico internazionale fu soprattutto il celebre curatore Harald

Szeemann, portandolo alla 49sima Biennale di Venezia del 2001, la seconda edizione da lui curata dal titolo La platea dell’umanità. Fu uno dei tanti casi scelti dal curatore svizzero come «outsider artist» (pensiamo ad esempio a Armand Schulthess ad Auressio, oppure Miroslav Tichy in Moravia) sulla scorta del messaggio di Joseph Beuys riguardo la liceità dell’essere tutti artisti. Ma oltre a ciò va anche considerata la riscoperta della fotografia forense proprio in quegli anni: ricordiamo The Art of the Ar-

chive, esposizione degli anni Novanta basata sugli archivi della Polizia di Los Angeles, esposta anche alla Kunsthaus di Zurigo. Ma rispetto alle fredde prove della scientifica, le immagini di Odermatt hanno, involontariamente, qualcosa di più: esse suscitano un sorriso. Le sue fotografie funzionano come delle slapstick comedy dell’epoca del film muto: la strada vira dolcemente a sinistra attraversando uno scenario incantevole, i segni delle frenate conducono a destra, fuori strada, nel lago o nel fossato.

Arnold Odermatt, Ennetmoos, 1978. (© Urs Odermatt, Windisch / 2019 ProLitteris, Zürich)

L’evento è sdrammatizzato: dalla scena è stato edulcorato ogni elemento drammatico. Non ci sono morti, feriti o sangue visibile. Il guidatore è scomparso, come se fosse tornato a casa a piedi – d’altra parte il cantone è così piccolo e l’ipotesi percorribile – e sulla scena rimane un capannello sparuto di poliziotti e curiosi che contempla e commenta la scena. Emerge così tutta la sua goffaggine dell’incidente, veicoli capovolti, accartocciati e irriconoscibili, tra questi, assoluto protagonista, il famoso Maggiolino della Volkswagen con i suoi fari che sembrano occhi, a volte con la targa con poche cifre come quelle dei fumetti per bambini. Ma il sorriso nasce anche da un altro elemento: gli incidenti fungono da fattore di disturbo nel meraviglioso contesto, come un’unica nota stonata nel piccolo mondo ordinato nel cuore della Svizzera. Le immagini riprese con maestria e precisione da Odermatt negli anni nel lungo secondo dopoguerra con la sua Rolleiflex (un formato quadrato, che poi nelle immagini stampate a volte subisce degli tagli), una volta ristampate, divennero nel giro di pochi anni oggetti di culto, esposte in tutto il mondo negli ultimi vent’anni, in mostre sia tematiche sia personali. Vennero utilizzati altri negativi seguendo altre tematiche e dando for-

ma ad ulteriori monografie, alcune tra le quali edite dall’importante editore Steidl: oltre Meine Welt, 1993, troviamo infatti Karambolage, 2002 – riedito quest’anno; Im Dienst (2006), In zivil (2009) e infine Feierabend del 2016. Meno in primo piano appare invece la considerazione che i due mondi – quello rurale e quello del progresso, incarnato e simboleggiato dall’automobile – fossero in contrasto, proprio perché rappresentanti di due velocità diverse. E ancora meno evidente il fatto che il secondo toglierà via via qualcosa di centrale al primo. Alla sala Diego Chiesa di Chiasso viene saggiamente riproposta proprio la prima scelta di 32 immagini di Szeemann per la Biennale di Venezia citata in precedenza: in perfetta consonanza con il tema dell’undicesima edizione della Biennale – in questo caso di Chiasso – dal titolo Crash: quasi a storicizzare una riscoperta nell’ambito fotografico così importante per la storia dell’immagine in una piccola nazione nel cuore dell’Europa. Dove e quando

Arnold Odermatt. The Biennale Selection. 32 Photographs for Venice 2001. Sala Diego Chiesa, Chiasso. Fino all’8 dicembre 2019, nell’ambito dell’11esima Biennale dell’immagine. www.biennaleimmagine.ch


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Cultura e Spettacoli

Persone reali e doppi virtuali In scena Marjorie Prime, un dramma fantascientifico sull’elaborazione del lutto

e la memoria

Jaimie e Simone a Jazz in Bess Jazz Un doppio

concerto per la serie di Rete Due il 20/11

Giovanni Fattorini La prima delle tre parti che compongono Marjorie Prime (finalista del premio Pulitzer nel 2015) può indurre il lettore o lo spettatore a inserire sbrigativamente il dramma di Jonathan Harrison nel catalogo ormai consistente delle opere (quelle cinematografiche costituiscono quasi un «filone» che sembra preludere a un «genere») i cui protagonisti o coprotagonisti sono in varia misura affetti da demenza senile, e più specificamente dal morbo di Alzheimer. In realtà, Marjorie Prime (da cui Michael Almereyda ha tratto un film uscito nel 2017) è un dramma fantascientifico sull’elaborazione del lutto, l’intelligenza artificiale e la memoria. Siamo nel 2062, in casa di Tess (figlia di Marjorie) e di suo marito Jon (entrambi sui 55 anni e sposati da 29), i quali hanno tre figli che vengono nominati più volte ma non compaiono mai. Perché interloquisca con l’ottantacinquenne Marjorie (che da trent’anni è vedova di Walter), rallentandone in tal modo l’inarrestabile calo cognitivo (in particolare la perdita di memoria), Tess e Jon hanno acquistato dalla compagnia Anni Sereni un «Prime», ovvero un ologramma, che ha il nome e le sembianze del defunto Walter quando era poco più che trentenne (così lo ricorda e lo ha voluto Marjorie). Nel Walter virtuale vengono sommandosi sia le informazioni via via fornite da Tess, Jon e Marjorie, sia quelle che è capace di ricavare autonomamente, guardando, ascoltando e interrogando. Dai dialoghi delle tre scene che compongono la prima parte del dramma veniamo a sapere, fra l’altro, che la giovane Marjorie era molto bella; che ha suonato come violinista in un’orchestra; che un famoso tennista l’ha corteggiata invano e le ha scritto lettere d’amore anche dopo che si era sposata; che ora soffre di artrite e le capita di farsela addosso; che si è addossata a lungo la colpa del suicidio di Damian, il figlio tredicenne; che un tempo Jon non le piaceva perché aveva la barba e apparteneva a una classe sociale inferiore

Un momento di Marjorie Prime. (francoparenti.it, Noemi Ardesi)

alla sua; che ora si è ricreduta perché si è resa conto che al pari del defunto Walter «ha la faccia di uno con cui invecchiare». Da parte sua, Tess è irritata per il fatto che Jon, fornendogli informazioni, aiuti il Prime a fingersi una versione ringiovanita di suo padre, e la ferisce che Marjorie tratti «quel coso» meglio di sua figlia. Del resto pensa che la madre, in passato, non si è mai presa particolarmente cura di lei. Non servono molte battute all’inizio della seconda parte per capire che Marjorie è morta. La figura seduta che tanto le somiglia è un ologramma, un Prime, a cui Tess sta dando informazioni sulla vita e la personalità della madre defunta. Nel dialogo fra Tess e Marjorie affiorano figure e motivi già presenti nella prima parte del dramma. Fra gli altri: il piccolo Damian, che Tess ha talvolta detestato perché in vita e in morte le ha sottratto l’affetto e il pensiero assiduo della madre; il progettato viaggio di Tess e Jon in Madagascar; la barboncina francese di nome Toni, e quella chiamata Toni 2, che Damian ha voluto

portare con sé nella morte; i tre figli di Tess e Jon: Micah, Mitchell e Raina. Durante il dialogo successivo fra Tess e Jon si registra un brusco cambiamento di tono. Tess è profondamente depressa: l’esistenza le appare come una ripetizione di gesti privi di senso, un ostinato sostenersi reciprocamente in vita, un distrarsi dalla morte. Lo dice con parole nette al marito, che si mostra allarmato e le chiede se non pensa che sia opportuno rivolgersi a uno psicologo. La Tess della scena successiva non è più lei, è un Prime, a cui Jon sta fornendo informazioni sulla Tess che durante il viaggio in Madagascar si è impiccata a un albero, alla prima luce del giorno. La terza parte del dramma è la più breve. La didascalia iniziale recita: «Lo stesso salotto di prima, ma più spoglio. Un salotto che è un vuoto luminoso. La sensazione che sia passato molto tempo. Secoli, forse». In questo remoto, imprecisato futuro, Walter Prime, Marjorie Prime e Tess Prime stanno parlando «a proprio agio uno con l’altro, anima-

ti. Non robotici»: così recita la didascalia. E qui mi fermo per rispettare in qualche misura il divieto di spoiler. Marjorie Prime è un dramma fantascientifico da camera, con rare azioni di carattere domestico e un dialogo fatto di battute in prevalenza brevi e mai banali, nel quale hanno grande importanza i silenzi e le reticenze. Un dramma che induce lettore e spettatore a porsi svariati interrogativi sulle prospettive (utopiche o distopiche) di un futuro in cui saranno sempre più compresenti persone in carne e ossa e fantasmi digitali. Sulla scena del Teatro Franco Parenti il testo di Jonathan Harrison raggiunge un’inquietante concretezza grazie al giovane regista Raphael Tobia Vogel e al quartetto di attori formato da Ivana Monti (Marjorie), Elena Lietti (Tess), Francesco Sferrazzi Papa (Walter), Piero Micci (Jon). Dove e quando

Milano, Teatro Franco Parenti, fino al 17 novembre.

Classici stravolti per capire il presente

In scena Melanconica poesia e immagini simboliche per una pièce storica Giorgio Thoeni È nei ricordi più intimi (e scabrosi) che si annidano le trame più significative della nostra vita. Il teatro è fatto di ricordi e di sensazioni, traumatiche verità e narrazioni di personaggi memorabili, un’umanità che trova rifugio nella memoria. Un appassionante gioco di neuroni a specchio dove il testo drammatico riveste un ruolo determinante e il teatro ce la mette tutta con la magia delle sue riletture, nell’eterna sfida di capolavori che ci raccontano il divenire del palcoscenico, un rito che appassiona tutti, sia chi dedica la vita al teatro ma anche scienziati e ricercatori che vi ritrovano i misteri della vita. I classici della drammaturgia sono inoltre parte importante nel processo di crescita del pubblico ed è bello poter incontrare produzioni che guardano con attenzione, coraggio e qualità alle lezioni del passato, quelle che hanno segnato la storia e l’evoluzione del teatro e che riescono a rivivere in scena grazie a nuove e intriganti interpretazioni. Come Lo zoo di vetro (The Glass Menagerie, 1945) di Tennessee Williams nell’allestimento prodotto da LuganoInScena con la regia di Leonardo

Lidi, spettacolo sostenuto, fra gli altri, dal Percento culturale di Migros Ticino e che ha recentemente debuttato al LAC. Un dramma della memoria (memory play) come l’ha definito l’autore: frammenti di emozioni (mood piece) dal taglio autobiografico dove note di lirismo crepuscolare e simbolismo prevalgono sul realismo. Un aspetto dichiarato in apertura da uno dei personaggi, didascalia che introduce una scena costituita da una piattaforma per l’interno di un appartamento delimitato sul fondo dalla sagoma di una casa.

Un momento dello Zoo di vetro, andato in scena a Lugano. (Masiar Pasquali)

Un lampione ricorda lo spazio esterno ricoperto di trucioli azzurri di polistirolo. Una soluzione che dà ulteriore risalto alla scelta di costumi clowneschi per i personaggi connotati da un trucco circense, biacca e naso rossi. In un angolo del proscenio una figura seduta, immobile: inclinerà la postura come ultima resa nella silenziosa evocazione di un padre-marito che pesa sui destini della famiglia Wingfield da lui abbandonata: la moglie vedova bianca (Amanda: Mariangela Granelli) che vive di ricordi col desiderio di accasare la figlia zoppa, complessata e timida (Laura: Anahì Traversi), custode di una delicata collezione di miniature in vetro e un figlio (Tom: Tindaro Granata), aspirante poeta sempre in fuga dalla realtà, una sorta di Pierrot Lunaire. La voce di Laura apre la scena cantando «Quella carezza della sera (non so più il sapore che ha…)» sulle note di un’arpa. Lidi taglia, ricuce, inventa, adatta, compatta, trasforma, asciuga il testo rendendolo palpabile nella sua scomoda verità. Con un occhio di riguardo alle meticolose annotazioni dell’autore per una concezione «di un teatro nuovo, plastico, che deve prendere il posto del teatro, ormai superato, del-

La rassegna di ReteDue «Tra jazz e nuove musiche» si sposta (non di molto) dalla sua sede naturale per trovare ospitalità nel bellissimo club Jazz in Bess, base dell’Associazione Jazzy Jams, a Lugano Besso. Qui offrirà al pubblico degli appassionati una serata assolutamente eccezionale, il prossimo mercoledì 20 novembre, invitando due giovani artisti di grande reputazione e capacità. Simone Graziano è uno dei jazzmen italiani della nuova generazione. È aperto alla molteplicità degli stili musicali e si impegna a farli cozzare tra loro. La sua musica è quindi una forma complessa, che dalla tradizione jazz si avventura verso l’elettronica e la musica contemporanea, senza trascurare però di inglobare stimoli e stilemi del pop e del rock. Insieme a Graziano, a pilotare il progetto Snailspace, uno spazio di ricerca musicale volutamente «lento», ecosostenibile, sono il contrabbassista Francesco Ponticelli e il batterista americano Tommy Crane. Jaimie Branch, nata a New York nel 1983, è cresciuta musicalmente a Chicago, per poi tornare nella Grande Mela portando con sé l’eredità di libertà e di grinta che è tradizione della Windy City. Allieva di Steve Lacy e apprezzata da Dave Douglas, ha nel suo carniere una produzione discografica relativamente ridotta ma le sue capacità musicali sono assolutamente fuori della norma. Pure se di ispirazione piuttosto free, la sua musica mostra un impianto solidissimo e una coerenza compositiva di grandissima originalità. I suoi

le convenzioni realistiche, se il teatro vuole riprendere vita come parte della nostra cultura». Parole di un’attualità sconcertante, una forza che la visione registica alimenta con il disequilibrio espressivo della maschera dei personaggi, una recitazione sostenuta e scene memorabili. Come la lite furibonda fra Amanda e Tom in un fiume di battute rovesciate all’unisono, un potente contrappunto verbale di grande efficacia simbolica (e bravura). O l’effetto della danza macabra di The Haunted House, cartone animato di Disney (1929) con Micky Mouse inseguito dagli spettri, proiettato sull’angosciata immobilità dei Wingfield. E le scene con l’invitato (Jim O’Connor: Mario Pirrello), breve e umiliante illusione d’amore di Laura e parabola finale segnata da una sobria e elegante comicità. Fino al finale che ricorda la storica conclusione strehleriana de I Giganti della montagna col crollo sulla scena della sagoma della casa, simbolo di disfacimento di una famiglia. Platea delle grandi occasioni e unanime tributo con ripetute chiamate per gli attori, il riconoscimento per uno spettacolo decisamente riuscito grazie a una squadra azzeccata.

Jaimie Branch, una vera fuoriclasse della tromba jazz. (rsi.ch/jazz)

dischi Fly Or Die e Fly or Die II: Bird Dogs of Paradise, in cui l’accompagnano Lester St. Louis al violoncello, Jason Ajemian al contrabbasso e Chad Taylor alla batteria, sono stati salutati dalla critica e dal pubblico come due opere di grande novità e freschezza. Qualcosa di assolutamente raro, di questi tempi. La sua presenza a Jazz in Bess sarà dunque un’occasione eccezionale per godere da vicino di una vera forza della natura nel jazz contemporaneo. /AZ In collaborazione con

Biglietti a concorso «Azione» offre ai suoi lettori alcune coppie di biglietti per il doppio concerto Simone Graziano-Jaimie Branch di mercoledì 20 novembre, ore 20.30, a Jazz in Bess di Lugano. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/concorsi. Buona Fortuna!


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Cultura e Spettacoli

Mai sposare una donna con la patente Parità di genere A colloquio con la giovane regista italiana Maria Iovine che ha partecipato

alla 76esima Mostra del Cinema di Venezia con il cortometraggio In Her Shoes

Laura Marzi Abbiamo incontrato Maria Iovine, giovane montatrice e regista, vincitrice del Premio Zavattini con il cortometraggio In Her Shoes, che tra i numerosissimi riconoscimenti ha vinto anche la menzione speciale a «Visioni Italiane 2019» e ha fatto parte della selezione ufficiale alla 76esima mostra del Cinema di Venezia. Il corto ribalta la storia utilizzando proprio le immagini storiche: con In Her Shoes incontriamo il personaggio di Domenico e vediamo come sarebbe stata la sua vita in Italia se il mondo avesse girato al contrario e «il sesso debole» fossero stati gli uomini e non le donne. Ci racconti come nasce l’idea di questo corto?

Il corto nasce col premio Zavattini, che non è solo molto prestigioso, è anche un premio di sviluppo: vincere, tra le altre cose, significa potere utilizzare gratuitamente il materiale di archivio, che è costosissimo! Così ho trovato dei capolavori di Cecilia Mangini che hanno fatto da stella polare per il mio corto: guardandoli ho iniziato a pensare a tutte le discussioni che faccio per lottare contro lo stereotipo sulle femministe. In quelle immagini c’è tutta la bellezza che da tante donne insieme può scaturire, dei gruppi di autocoscienza, della creazione dei primi consultori.

In Her Shoes è un progetto artistico, ma è anche un progetto politico.

Sì, penso di lottare da sempre per la

parità di genere, di essere sempre stata femminista. Quando facevo la prima elementare con la mia famiglia ci siamo trasferiti in una casa più grande sempre in provincia di Caserta e ricordo che mio padre disse a me e a mia sorella che avremmo dovuto cominciare ad aiutare mamma a pulire perché eravamo femminucce. Mi alzai in piedi sulla sedia e gli urlai: «io mamma la aiuto perché le voglio bene non perché sono una femmina». Il corto però è dedicato proprio a mio padre che ci ha permesso di vivere come volevamo a differenza delle mie amiche che non potevano uscire di casa, con padri gelosi dei loro fidanzati.

Di recente al Macro Asilo di Roma c’è stato un incontro in cui hai mostrato alcuni dei tantissimi materiali di archivio che hai visionato per la realizzazione di In Her Shoes. Ti va di raccontarci quello che ti ha colpito di più?

È stata dura durante la lavorazione a In Her Shoes vedere in tutto quel materiale televisivo e cinematografico le donne ridotte davvero a degli oggetti. Sembra una esagerazione «femminista», ma quelle immagini di un passato anche recente parlavano chiaramente. Per esempio, posso citare un cinegiornale dell’Istituto Luce del 1961 che ridicolizza le donne alla guida e mette in guardia gli uomini su quanto possa essere sconveniente scegliere una donna che sa guidare, facendo intendere che non sarebbe stata una buona madre di famiglia.

La locandina del film In Her Shoes di Maria Iovine. Che effetto ti fa constatare l’interesse e gli apprezzamenti che In Her Shoes sta ricevendo? Insomma, sei ottimista rispetto a questo presente delle battaglie per la parità di genere?

Sì, profondamente ottimista. Quando ero ragazzina non mi ricordo l’invasione nelle strade che adesso si verifica ogni anno il 25 novembre per la giornata contro la violenza e l’8 marzo, però non possiamo abbassare

la guardia, purtroppo, perché la nostra società tende naturalmente al maschilismo... Per quanto riguarda In Her Shoes sono molto contenta che tante persone abbiano guardato con attenzione e piacere questi venti minuti della storia di Domenico, mentre mi dispiace per coloro che si sono sentiti minacciati dal corto, perché hanno paura delle femministe cattive che vogliono mangiare gli uomini!

A quale progetto stai lavorando ora?

Sto realizzando un documentario su Veronica Yoko Plebani, un’atleta paraolimpica di 23 anni che vestirà la maglia italiana a Tokyo 2020 nella squadra del triathlon. Veronica si è ammalata a 15 anni e il suo corpo riporta infinite cicatrici, ma non si è fatta fermare: è una donna che ce l’ha fatta in tutti i sensi. Parlare oggi di femminismo significa per me parlare di donne che hanno fatto la differenza e gli esempi sono moltissimi.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 novembre 2019 • N. 46

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Cultura e Spettacoli

Lontani, eppur vicini

Ossigeniamoci, ...scriviamo!

Mostre La Fondazione Baur mette e confronto due artiste

(una coreana e una francese) la cui distanza reciproca è solo apparente

La lingua batte L’Infinito, duecento anni

dopo, è più vivo che mai Un suggestivo paravento realizzato dalla coreana In-Sook Son. (Fondation Baur)

Marco Horat Un celebre aforisma di Henry Miller dice: «L’arte non insegna niente, se non il senso della vita». Infatti. L’arte la si può incontrare dappertutto ma specialmente nelle sale di un museo aperto al mondo, dentro il quale avvengono incontri originali e inaspettati, come quello che propone attualmente la Fondazione Baur, specializzata nell’arte dell’Estremo Oriente, con una mostra

La mostra alla Baur intende anche spronare il visitatore ad essere curioso e ad aprirsi a mondi nuovi intitolata Tra terra e seta. Due le artiste contemporanee, finora sconosciute l’una all’altra, protagoniste dello straordinario confronto: Marie-Laure Guerrier ceramista francese e In-Sook Son erede dell’antica arte coreana della tessitura, considerata nel suo pa-

tere su temi importanti per la vita di ciascuno di noi: la creatività che deve sempre animare il nostro operare, la perseveranza che dobbiamo mettere in campo nel perseguire un risultato qualunque esso sia, la curiosità e l’apertura verso il mondo che ci circonda, il desiderio di conoscenza e non da ultimo la spiritualità che unisce le persone al di là di tutte le differenze. Magari attraverso l’espressione artistica. Accanto alla mostra la Fondazione Baur propone una serie di iniziative culturali che hanno naturalmente attinenza con la vocazione del museo ginevrino: conferenze, spettacoli di danza e musica, corsi di giapponese, di ikebana e cerimonia del tè, visite guidate alle varie sezioni del museo tra le quali segnaliamo quella agli ori del Giappone.

ese «Tesoro nazionale vivente». Una iniziativa nata per abbattere frontiere non solo geografiche ma anche culturali e di genere artistico. Cosa hanno in comune queste due tecniche? Molto, a giudicare dai risultati. Nella presentazione della mostra si sottolinea un universo cromatico comune, malgrado le differenze di materiali, come pure la sete di esplorare tutte le rispettive possibilità espressive da parte delle due creatrici: vasi e tazze di forma armonica che sembrano tessuti raffinati con relative sfaccettature e pieghe che giocano sull’incidenza della luce e trasmettono allo spettatore una specie di ritmo musicale; dall’altra parte filati di diverso spessore e colore, rivisitando le tecniche tradizionali e l’uso dei punti di ricamo, che appaiono come paesaggi grazie alla virtuosità dell’artigiano-artista (si parla di dipinti di seta), ma ricordano al contempo «la morbidezza del celadon, gli smalti rossi e bianchi o il gres porcellanato». Un incontro felice tra due mondi solo apparentemente lontani che fa bene agli occhi, ma porta anche a riflet-

di studenti che recitano in coro l’idillio al grido di battaglia (lo chiamiamo «hashtag») #200infinito; con la recita nella lingua dei segni a Palazzo Madama sede del Senato italiano; con un occhio perenne (lo chiamiamo «webcam») nell’orto-giardino dell’ex Convento di Santo Stefano che mostra in diretta al mondo il panorama dal colle, quello che la siepe precludeva allo sguardo del poeta. «Ohibò, che son codeste diavolerie, codesto bizzarro arnese?!», si chiederebbe oggi Leopardi, sgranando gli occhi: nemmeno la sua celebrata immaginazione sarebbe arrivata tanto in là. Sul «Corriere della Sera», Emanuele Trevi scriveva recentemente di vedere in Leopardi «una specie di santo», il colle e la siepe come «l’elemento vitale di questo culto»: «e se non è sacra questa siepe», rifletteva Trevi, «cos’altro possiamo considerare sacro?» Leopardi è santo per aver compiuto il miracolo: «in luogo della vista», scriveva nello Zibaldone, «sorge l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale». È questa la chiave di volta: l’immaginazione. Che per ognuno di noi cerca, affannosamente, la sua forma di espressione ideale. Guardiamo dal basso agli intoccabili come Leopardi, celebriamoli. E seguiamoli, imitiamoli (proviamoci, su…), perché il dono dell’immaginazione viene consegnato a ogni essere umano. Siamo tutti scrittori, si diceva. Che meravigliosa bugia. Eppure se guardiamo ai milioni di testi composti ogni giorno – nell’era in cui i pessimisti ci vedono tutti pilotati da algoritmi – si direbbe che all’essere umano piace ancora e sempre coltivare la capacità di rendere concreta l’immaginazione, grazie all’altro dono, la parola. Forza, allora. Scrivere, scrivere, scrivere. Non è così importante arrivare alla meta ed espugnare la fortezza dell’editoria. È importante invece tenere la mente in movimento, dare ossigeno alle sue suggestioni, quelle nascoste allo sguardo ma sempre pronte a balzar fuori se solo apriamo quella scatola. E il naufragar sarà dolce in questo mare.

Laila Meroni Petrantoni Siamo tutti scrittori, siamo tutti poeti, a giudicare dalla mole di libri pubblicati ogni anno, al ritmo di una catena di montaggio. Anzi, oggi è più facile: se non trovi un editore, fai da te e prova a sguazzare nel mare magnum di internet. Qual è la percentuale di chi potrà dire «ce l’ho fatta!», chi sarà ricordato fra dieci anni? E fra duecento? Pochissimi eletti entrano nell’Olimpo dei Grandi. Eppure forse non è solo questo il nocciolo del dibattito. Oggi, due secoli dopo quella passeggiata sul Monte Tabor, «l’ermo colle» che da allora celebra Recanati in tutto il mondo letterario, si ricorda quell’Infinito con cui Giacomo Leopardi schiuse la sua immaginazione, lasciandola libera. Lui, Leopardi, riusciva dalla sua stanza nella casa paterna a fissare con l’aiuto di carta e penna il suo pensiero, la sua angoscia così come la sua gioia più pura. Beato lui, con tutto il rispetto che si deve al «poeta italiano più amato nel mondo». Ma proprio di quell’immaginazione tutti noi siamo dotati, anche se spesso vive come un uccellino in una gabbia aperta. Oggi, quel capolavoro del 1819 viene celebrato in mille modi. Perfino con adunate (li chiamiamo «flash mob»)

Dove e quando

De Terre et de Soie, Marie-Laure Guerrier et In-Sook Son, Ginevra, Fondation Baur. Fino al 19 gennaio 2020. fondation-baur.ch

A. Ferrazzi, Giacomo Leopardi, 1820 ca., Recanati, Casa Leopardi. (Wikipedia)

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