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Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Quale sorte attende il Nuovo Quartiere Cornaredo, con il polo sportivo e le due torri?
Ambiente e Benessere Paolo Merlani e Roberto Malacrida riflettono sul triage in caso di crisi Covid e sull’impatto emotivo del confinamento dell’anziano
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 9 novembre 2020
Azione 46 Politica e Economia Da «zero problemi» a «problemi ovunque»: come muta la politica internazionale della Turchia
Cultura e Spettacoli Al Museo d’arte di Mendrisio una retrospettiva sull’opera del pittore André Derain
pagina 15
pagina 11
pagina 31
di Caracciolo e Rampini pagine 27 e 29
Keystone
Due Americhe inconciliabili
pagina 41
Uno spettacolo disonorevole di Peter Schiesser Gli Stati Uniti avranno il loro 46.esimo presidente, alla fine di conteggi, riconteggi e cause legali, e probabilmente sarà Joe Biden. Ma fin d’ora si può dire che sono state le elezioni più sconcertanti del Dopoguerra. E la causa sta da una parte sola, quella del presidente. Che ha dimostrato di non rispettare i valori della democrazia. La sua insistenza a non voler riconoscere l’esito dell’elezione in caso di sconfitta, con fantasiose accuse di brogli, la sua richiesta di fermare il conteggio dei voti laddove era in vantaggio grazie ai voti in presenza (quelli per corrispondenza favoriscono Biden) e di contestare per vie legali i risultati a favore del suo avversario, sono un attacco a un pilastro del sistema democratico statunitense; anche se dovesse uscirne senza cedimenti subisce un danno di immagine e credibilità che pone l’iperpotenza mondiale su un piano inclinato. Peggiora il quadro il fatto che Trump è pienamente sostenuto dai suoi sostenitori. C’è un’America per la quale la democrazia serve solo a impossessarsi del potere, non importa con quali mezzi. Consolante è che i timori della vigilia, di scontri violenti durante e
all’indomani delle elezioni, non si sono concretizzati nei primi giorni dopo il voto, a parte qualche protesta. Tuttavia, l’immagine che si presenta al mondo è di una nazione profondamente e stabilmente divisa, in cui il dialogo con l’avversario non è più possibile. Se Biden ha ottenuto più voti di tutti i candidati democratici alla presidenza (venerdì rasentava i 74 milioni di voti), anche Trump, con quasi 70 milioni, ha superato se stesso di 7 milioni rispetto al 2016. La polarizzazione è talmente forte che la corsa alla presidenza ha mobilitato sia gli avversari di Trump, sia nuovi e vecchi sostenitori. Questo porta alcuni analisti americani ad affermare che Donald Trump non sparirà dal palcoscenico politico, in caso di sconfitta: la base elettorale repubblicana è ai suoi piedi, ha un seguito enorme che travalica i confini partitici, di fatto rimarrà il leader del Gran Old Party, eventualmente influenzando le posizioni dei «suoi» membri del Congresso. E potrebbe anche ripresentarsi alle presidenziali del 2024 per un secondo mandato (a 78 anni), se non riuscisse a farsi riconfermare quest’anno. Che lui rimanga presidente o che voglia riprovarci fra quattro anni, potrebbe rimanere un’ipoteca pesante sulla democrazia statunitense. Anche questa è una novità,
se pensiamo che, a parte qualche apparizione in tempi di elezioni, gli ex presidenti escono totalmente dalla scena politica. Con i repubblicani soggiogati dal fascino per la politica e la personalità dirompente di Trump, con questa profonda frattura politicosociale-economica fra le due Americhe, si può concludere che queste elezioni presidenziali, quale ne sia l’esito, non sono state risolutive. I danni alla credibilità e alla stabilità delle istituzioni, l’uso dei poteri presidenziali a vantaggio personale, l’erraticità di muscolose politiche nazionali ed internazionali tolgono gli Stati Uniti dal piedistallo del faro della democrazia. Non che questa America arrogante fosse sconosciuta al mondo in passato, specialmente in America latina, dove dagli anni Cinquanta e per diversi decenni si oppose a ogni tentativo di sostituire le oligarchie con dei governi democratici, appoggiando colpi di Stato militari o insurrezioni (provocando, come reazione, uno spostamento a sinistra delle forze riformiste). Ma speravamo che nel frattempo l’anima davvero democratica, che esiste negli Stati Uniti, avesse preso definitivamente il sopravvento. Con o senza Trump alla Casa Bianca, agli Stati Uniti restano i problemi di una democrazia incompiuta e visibilmente in crisi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Attualità Migros
Nuovi leader cercasi
Scuola Club di Migros Ticino In partenza i corsi di formazione per specialisti in conduzione
L’esperienza comune di questi mesi è quella di vivere dentro una grande incertezza. Per quanto ci sforziamo, individualmente e collettivamente, di monitorare, prevedere, controllare, la sensazione è quella di essere costantemente esposti agli eventi. In questo senso, il Covid-19 ha solo reso più evidente la complessità del mondo. La pandemia ci ha però aiuta-
to a mettere a fuoco quali caratteri ed atteggiamenti possono esserci maggiormente utili per attraversare questo tempo. Capacità che, ad esempio, hanno fatto la differenza nelle imprese e nelle istituzioni. Non è un caso che molte leadership siano «saltate» perché si sono scoperte impreparate a dialogare con un imprevedibile presente e a farsi media-
trici tra gli accadimenti e le persone. Come spesso accade nella storia, la situazione emergenziale ci ha aiutati a comprendere di quali profili umani e di quali risorse abbiamo bisogno nei nostri contesti organizzativi. Chi ha continuato a svolgere il proprio ruolo come se nulla attorno a lui accadesse, impermeabile a quanto i suoi collaboratori stavano vivendo, ha ri-
Azione
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
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schiato di generare reazioni opposte a quelle desiderate, così come chi ha adottato la strategia del controllo totale. Invece, coloro che hanno scelto di porsi in ascolto, accogliere, sostenere, ricomporre, cercando continuamente nuovi ma sempre precari equilibri, si è visto rinnovare la stima e la fiducia e al contempo ha garantito la continuità di relazioni e di funzioni. Sarebbe un grave errore non cogliere il messaggio che questa esperienza collettiva ci rimanda. Di quali leader abbiamo bisogno oggi, nelle imprese e nelle organizzazioni? Ciò di cui avvertiamo la necessità sono leader con una visione positiva e fiduciosa del futuro e del mondo e dunque capaci di ispirarci. Leader capaci di allestire per noi contesti di lavoro aperti e collaborativi, in cui promuovere la crescita di persone e talenti, sviluppare e valorizzare le capacità multiple dei collaboratori, accompagnare nella lettura di una realtà composita e mutevole e coltivare la resilienza. Leader pienamente umani, che, seppure imperfetti, sono capaci di comprendere meglio sé stessi e gli altri, l’interdipendenza dei fattori, la contestualità delle situazioni, e tenere insieme razionalità ed emozioni, funzioni e significati. Questa leadership, però, non si inventa. Da qui l’importanza di una formazione capace di meta-riflettere e intervenire su atteggiamenti e comportamenti, scenari e culture organizzative. Da alcuni anni la Scuola Club di Migros Ticino ha scommesso sulle soft skill che sempre più si confermano competenze cruciali in ogni ambiente professionale, capaci di distinguere i leader del futuro. I sei diversi moduli proposti alla Scuola Club – Conoscenza di sé, Conduzio-
ne di un team, Comunicazione con il team, Tecniche di presentazione, Gestione del proprio tempo e Gestione dei conflitti – aiutano i partecipanti a conoscersi meglio e a proporsi positivamente al proprio team di lavoro. Il completamento dei sei moduli permette di conseguire il Certificato Leadership dell’Associazione Svizzera per la Formazione nella Conduzione SVF-ASFC. Ogni modulo è un viaggio importante grazie al quale è possibile diventare protagonisti sempre più consapevoli della propria storia e punti di riferimento in quella degli altri. Oggi non è chiaro quale forma prenderà il futuro. Sappiamo solo che la differenza la faranno ancora una volta le persone.
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Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch
Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Moduli SVF-ASFC Conoscenza di sé
14.11.20 – 29.05.21 Fr. 1200.–
Comunicazione con il team
21.11.20 – 12.12.20 Fr. 1200.–
Gestione del proprio tempo
16.01.21-06.02.21 Fr. 1200.–
Dirigere un team
27.02.21 – 27.03.21 Fr. 1200.–
Tecniche di presentazione
27.03.21 – 17.04.21 Fr. 600.–
Gestione dei conflitti
24.04.21 – 22.05.21 Fr. 1200.–
Percorso completo «Leadership con certificato SVF-ASFC»
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Società e Territorio Cemea festeggia 50 anni Per l’occasione viene proposto un cofanetto con 9 piccoli libri e altrettante cartoline che ricalcano gli otto principi base dell’Educazione attiva e dei valori dell’associazione pagina 8
Un progetto ambizioso Nei prossimi mesi a Lugano si deciderà il destino del Nuovo Quartiere Cornaredo, del futuro polo sportivo e delle due Torri contestate pagina 11
Nel telelavoro bisogna tutelarsi da eventuali violazioni del segreto professionale. (Keystone)
Telelavoro e il «diritto di internet»
Mondo del lavoro La pandemia costringe molte persone a lavorare da casa e a prendere decisioni in via telematica.
Ma valgono giuridicamente? Marzio Minoli Quando si parla di telelavoro l’immaginario collettivo è quello che vede una persona seduta ad un tavolo nel soggiorno di casa, intenta a battere le dita sulla tastiera. Quello che però spesso non si vede è che quel battere le dita porta con sé alcune implicazioni, di carattere giuridico, alle quali bisogna prestare molta attenzione, per non incorrere in sgradite sorprese. Sul fatto che si lavori di più o di meno da casa, sono state dette e scritte molte cose. I diritti del lavoratore, ma anche del datore di lavoro sono ancora materia di dibattito, anche politico. Quello che però non lascia molto spazio alle interpretazioni sono alcuni dettagli di carattere legale che accompagnano le decisioni prese utilizzando i mezzi tecnologici invece di stare seduti attorno ad un tavolo. Qui entra in campo il cosiddetto «diritto di internet», ovvero tutte quelle norme che regolano come e cosa si possa fare attraverso le tecnologie digitali. Di per sé il telelavoro, come ci conferma un esperto del settore, l’avvocato luganese Gianni Cattaneo, non pone particolari difficoltà giuridiche. Il proble-
ma principale nasce quando si parla di sicurezza dei dati. E qui vengono citati esempi concreti strettamente legati al telelavoro. Situazioni che probabilmente di primo acchito sembrano normali, forse con la falsa percezione che dentro le mura di casa, niente e nessuno possa interferire nel nostro lavoro. Gli esempi sono quelli di documenti riservati sparsi su un tavolo del soggiorno, chiavette USB con dati sensibili utilizzate senza troppe precauzioni, ma anche videochiamate su temi sensibili effettuate in presenza di terze persone. Esempi concreti, semplici, ma che fanno sorgere alcuni dubbi sull’effettiva consapevolezza del fatto che il telelavoro non è semplicemente appoggiare un computer su un tavolo, accenderlo e via. Ma allora cosa deve fare un’azienda per tutelarsi da possibili (e involontarie) violazioni di qualche segreto professionale? Tra le soluzioni, quella di dotarsi di strumenti che permettano la trasmissione di dati in sicurezza in modo «cifrato». Esistono anche chiavette USB che dispongono di questa tecnologia. Tutto questo però deve essere accompagnato da regole scritte e chiare sul come comportarsi quando si lavora
da casa o perlomeno fuori dagli spazi aziendali che stanno sotto la responsabilità del datore di lavoro. Ma una volta risolti i problemi diciamo «tecnici», sorge un’altra domanda: una decisione presa durante una videoconferenza ha la stessa validità rispetto ad una in presenza fisica delle persone? Ancora l’avvocato Cattaneo dice «dipende». Sì, dipende dal tipo di decisione. Di principio le delibere prese per via telematica sono valide. Ma ci sono casi dove invece è necessaria ad esempio una firma autografa e la presenza fisica davanti ad un notaio. Pensiamo solo agli atti pubblici, come la costituzione di una società o di un rogito. Ci sono poi i rapporti tra privati, il classico esempio è un contratto. Si prendono accordi e poi si decide di firmare il fatidico «pezzo di carta» in un secondo tempo. E se questo pezzo di carta non contempla quanto discusso prima, in caso di controversia è possibile presentare una registrazione di conferenza telefonica o di videochiamata come prova? Qui sta al giudice valutare se accettarla o meno in base al principio del libero apprezzamento delle prove. Questi sono solo alcuni degli esempi di problemi che potrebbero sor-
gere quando si lavora per via digitale. Certo, possono sembrare casi estremi. Ma non dimentichiamo che si sta sempre e comunque parlando di affari e le cose devono essere chiare. Il COVID ci sta mettendo di fronte ad un’accelerazione di processi già in atto che devono assolutamente trovare la sponda in una base legale solida. E questa base, al momento, viene fornita dall’ordinanza sul COVID, che prevede appunto delle eccezioni per alcune fattispecie di attività che comporterebbero la presenza fisica. Un paio di esempi sono le assemblee generali delle società, ma anche le udienze giudiziarie. Soluzioni temporanee che hanno una scadenza, ad esempio per le società la forma dell’assemblea virtuale è ritenuta valida, ma solo fino alla fine del 2021. Uno stato di cose provvisorio ma che, nella speranza dei giuristi, potrebbe portare ad una modifica delle norme legali anche dopo l’emergenza pandemica. Per il momento però il diritto deve rincorrere il telelavoro. Ci sono ancora dei buchi normativi che in precedenza venivano affrontati, ma senza urgenza. Come detto i tempi sono cambiati e bisogna pigiare sull’acceleratore.
Gianni Cattaneo pone l’accento su alcuni aspetti molto importanti. La cosa più urgente riguarda l’identità digitale, che permette di comprovare la propria identità per via elettronica. Questo sarebbe un passo molto importante, ma che si scontra con non poche opposizioni soprattutto relative alla protezione della sfera privata. Nel giugno del 2018 il Consiglio federale ha licenziato un messaggio per la creazione di una legge federale per l’identità digitale (legge eID) ma sulla sua messa in atto il popolo svizzero sarà chiamato alle urne. Il motivo del contendere non è tanto il passaporto elettronico, che la maggioranza degli svizzeri vedrebbe di buon occhio, ma il fatto che siano dei privati a gestire i dati personali di chi lo vorrà. Ma soprattutto si dovranno dare ai lavoratori tutti quei mezzi conoscitivi che li mettano in grado di poter utilizzare da casa tutti gli strumenti elettronici, dai documenti alle e-mail, in maniera consapevole e in tutta sicurezza. A volte si tratta di una questione «culturale», di un cambio di mentalità da parte di lavoratori e datori di lavoro, che richiederà tempo. Ma di tempo non ce n’è molto.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Idee e acquisti per la settimana
Pollo svizzero della migliore qualità Attualità Il pollame Optigal della Migros
è da oltre 50 anni prodotto secondo gli standard più elevati. Approfittate questa settimana dell’offerta speciale su tutto l’assortimento
Acquistando del pollo a marchio Optigal potete essere certi di scegliere un gustoso prodotto svizzero di elevata qualità, ottenuto nel rispetto del benessere degli animali e dell’ambiente. Tutta la catena di produzione – dall’allevamento degli animali riproduttori all’incubazione, dall’ingrasso alla macellazione fino alla lavorazione finale – è coordinata dalla Micarna, azienda del gruppo Migros. Il pollame Optigal è allevato in piccole aziende agricole svizzere secondo i criteri del sistema di stabulazione particolarmente rispettoso degli animali (SSRA), dove i polli dispongono di pollai con ampi spazi per razzolare, un accesso a un’area all’aria aperta, banchi rialzati per riposarsi, luce naturale e lettiera. L’alimentazione è costituita da mangimi puramente vegetali. Antibiotici vengono impiegati in casi eccezionali e solo se gli animali sono malati. Per una totale trasparenza verso i consumatori, su quasi tutti i prodotti Optigal figura il nome dell’allevatore.
Carne sana e gustosa
La carne di pollo non è solamente saporita e succosa, ma anche ricca di proteine, magnesio, vitamine, ma povera di grassi e colesterolo. Inoltre è particolarmente digeribile ed è semplice e veloce da preparare in mille modi diversi, che sia bollita, arrosto, rosolata o grigliata. Consiglio: per ragioni di sicurezza alimentare, la carne di pollo deve sempre essere servita ben cotta. La temperatura al cuore ideale deve essere almeno di 80 gradi. Per misurarla correttamente è consigliabile utilizzare un termometro da carne, infilzandolo tra il petto e la coscia, senza toccare l’osso che risulterebbe molto più caldo della carne e falserebbe il risultato.
Raclette Val de Bagnes
Attualità Un formaggio per veri intenditori del tipico piatto
della cucina elvetica
su tutto l’assortimento di polleria fresca Optigal dal 10 al 16.11
Imballaggio compostabile
Novità Alcune verdure nostrane
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Ecco una vera chicca per tutti gli amanti del formaggio fuso: la raclette della Val de Bagnes AOP. Questa vallata del Vallese, oltre alle sue meraviglie paesaggistiche, è infatti nota anche per il proprio formaggio da fondere a denominazione di origine protetta. Non è un caso che ogni anno qui si tenga la manifestazione «Bagnes Capitale de la Raclette», uno stuzzicante evento dedicato a questo straordinario prodotto del territorio. A pasta semidura, grassa, la raclette Val de Bagnes si caratterizza per il suo tipico aroma floreale, cremoso e ricco di profumi. La specialità è prodotta artigianalmente secondo una ricetta ancestrale in piccoli caseifici e sull’alpe durante l’estate, con l’utilizzo di latte crudo vaccino. La stagionatura dura non meno di 3 mesi e avviene su tavole di abete rosso. Naturalmente senza lattosio né glutine, negli anni questa specialità ha ricevuto diverse medaglie per il suo sapore senza eguali.
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Formentino convenzionale e bio, zucca a cubetti e insalata mix fiori: da subito questi quattro prodotti targati Nostrani del Ticino sono disponibili in una vaschetta a base di paglia di riso, completamente compostabile. Gli imballaggi sono prodotti al 100% con scarti vegetali della produzione di riso, vale e dire da materie prime rinnovabili. Sono biodegradabili
e possono essere smaltiti anche nella raccolta differenziata del cartone. La produzione delle vaschette di paglia di riso rappresenta una fonte di entrata supplementare per i piccoli coltivatori di riso. Senza il riutilizzo gli scarti verrebbero generalmente bruciati, ciò che comporterebbe un inquinamento ambientale nelle regioni di origine del riso.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Idee e acquisti per la settimana
L’arte conserviera dal 1872
Attualità I prodotti Polli sono sinonimo
di gusto, qualità, benessere e convivialità
F.lli Polli, azienda italiana leader nella produzione di conserve vegetali quali sottoli, sottaceti, condimenti e olive, è presente sugli scaffali di Migros Ticino con un’ampia gamma di stuzzicanti specialità per l’aperitivo, l’antipasto o come condimento per portare in tavola tutto il sapore della cucina italiana e mediterranea. Dall’antipasto misto ai funghi alla pizzaiola, dai pomodori alla siciliana alle olive, dai carciofi pugliesi ai peperoni grigliati, fino al celebre farcitoast, con Polli ognuno troverà la bontà che meglio soddisfa il proprio palato. L’azienda toscana da sempre lavora nel massimo rispetto dei sapori tradizionali, controllando il processo
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produttivo dal campo alla tavola, per offrire ai consumatori solo prodotti di elevata qualità realizzati con le migliori materie prime e lavorati secondo severe norme di sicurezza alimentare. Forte dei suoi 150 anni di storia, al marchio Polli è stata recentemente riconosciuta l’iscrizione nel registro speciale dei marchi storici italiani di interesse nazionale. Il prestigioso riconoscimento, istituito dal Ministero dello Sviluppo Economico, ha lo scopo di tutelare la proprietà industriale delle aziende storiche e delle eccellenze italiane, per valorizzare il Made in Italy, l’innovazione, la sostenibilità e la competitività internazionale. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Cinquant’anni di educazione attiva
Anniversari Cemea festeggia mezzo secolo di attività proponendo un cofanetto con 9 piccoli libri (e 9 cartoline)
in cui sono raccolti i principi educativi dell’associazione, con testi di allievi, docenti e scrittori Stefania Hubmann Fiducia, cura, ascolto, rispetto e protezione, accoglienza, attività, esperienza, libertà d’espressione. Qual è il fil rouge che unisce questi concetti? Per i Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva, meglio conosciuti come Cemea, si tratta delle parole chiave che sintetizzano gli otto principi sui quali si fonda il loro impegno nella formazione del personale dedito a bambini, ragazzi e giovani in contesti educativi. Per sottolineare il 50mo di fondazione l’associazione ticinese ha voluto promuovere e chiarire questi fondamenti pubblicando un cofanetto. Intitolato «fatti e fiabe», contiene nove piccoli libri (uno per ogni principio più il primo sulla storia dei Cemea) e altrettante cartoline. I principi educativi vengono così veicolati attraverso brevi racconti e immagini. Convinti che «l’educazione si indirizzi a tutti e sia di ogni momento», i rappresentanti dell’associazione intendono offrire uno spunto di riflessione in primo luogo a chi opera nel settore educativo, rivolgendosi però anche a bambini, genitori e a tutte le persone per le quali questi valori universali sono importanti. In sintesi l’obiettivo dell’iniziativa è: «I principi Cemea per tutti». Un grande ombrello che ripara dalla pioggia a indicare rispetto e protezione, una casa posta come una pianta in un vaso per suggerire accoglienza o ancora una lente d’ingrandimento focalizzata su un girotondo di bambini per identificare l’ascolto. Sono alcune delle immagini, divenute copertine e cartoline, che l’illustratrice Paloma Canonica ha abbinato ai principi Cemea. Le storie narrate negli otto librini sono invece il frutto di un lavoro a più mani. «In primo luogo abbiamo voluto coinvolgere bambini e adolescenti, poiché sono loro i destinatari dell’educazione attiva», spiega ad «Azione» Donatella Lavezzo, vicepresidentessa della delegazione Ticino Cemea e formatrice attiva. «Sono inoltre stati sollecitati docenti in formazione e scrittori affermati. Questi ultimi sono Betty Colombo, Alberto Nessi, Luca Chieregato (che ha lavorato con la figlia dodicenne Linda), Roberto Piumini e Maria Rosaria Valentini». Il cofanetto racchiude pertanto sia narrazioni frutto di un percorso comune – effettuato da tre gruppi di studenti e da uno di futuri maestri – sia storie (e una poesia) firmate da professionisti della scrittura. Precisa la nostra interlocutrice: «Con il sostegno degli inse-
Otto principi specifici stanno alla base dei Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva. (Cemea)
gnanti, gli allievi di IV elementare di Vezia (docente Nicola Dall’Acqua) e di II e IV elementare di Massagno (docenti Massimo Bonini e Simone Bellini) hanno compiuto un intenso percorso partendo da un confronto delle idee per giungere infine alla stesura della storia. Articolato anche il lavoro degli studenti di quarta media che hanno partecipato al laboratorio di scrittura condotto da Daniele Dell’Agnola (docente Scuola Media e SUPSI, autore). Scrittura di gruppo, infine, pure per sette futuri docenti, allievi del Dipartimento Formazione e Apprendimento, impegnati sull’arco di una giornata con l’accompagnamento di due formatori dell’associazione. Torniamo quindi ai principi che guidano l’attività formativa dei Cemea, caratterizzata dallo storico stage primaverile destinato ai monitori e alle monitrici delle colonie al quale si sono affiancati nel tempo singole giornate e week-end organizzati anche per altre persone chiamate ad occuparsi dei bambini. Si pensi in particolare ai team degli asili nido, come pure a chi opera nelle mense e nella presa in carico postscolastica. Il primo punto essenziale nello svolgere questi com-
piti educativi è costituito dalla fiducia, intesa quale possibilità per ogni essere umano di svilupparsi e trasformarsi nel corso della sua vita. «Egli ne ha il desiderio e la possibilità», scrivono i Cemea. Come già evidenziato, «l’educazione si indirizza a tutti ed è di ogni momento» (cura), per cui anche lo svago e le proposte extrascolastiche devono tenere presente questo principio. «La nostra azione è condotta in stretto contatto con la realtà» (ascolto) e ancora «Tutti gli esseri umani, senza distinzione di genere, età, origine, convinzioni, cultura, situazione sociale, hanno diritto al nostro rispetto e alla nostra attenzione» (rispetto e protezione). Altri tre punti fondamentali per i Cemea sono il ruolo che riveste l’ambiente nello sviluppo dell’individuo (accoglienza), la possibilità di svolgere attività e l’esperienza personale. Da ultimo, ma solo dal punto di vista della successione, la libertà d’espressione, sintesi di una laicità intesa quale «apertura alla comprensione dell’altro, nell’accettazione delle differenze e nel rispetto del pluralismo. È anche il battersi per la libertà d’espressione di ognuno e contro ogni forma di oscu-
rantismo, discriminazione, esclusione e ingiustizia, nel rispetto dei diritti umani». Ogni fondamento racchiude valori da trasmettere ai più piccoli attraverso pratiche quotidiane (giochi, pasti, passeggiate), affinché possano crescere bene e trovare il loro posto nella società. Per aumentarne divulgazione ed effetto, i Cemea hanno voluto tradurli in una proposta. Conferma Donatella Lavezzo: «I nostri principi fungono da spunto di riflessione in ogni ambito educativo. Tutti possono utilizzarli nella vita di ogni giorno, contribuendo a valorizzare le risorse delle giovani generazioni con l’obiettivo di sostenerle nello sviluppo armonioso della loro personalità. Il cofanetto, realizzato in collaborazione con l’editrice Fiorenza Casanova (dino&pulcino) e la grafica Maya Wäber, è in vendita nelle librerie e sul sito www.cemea.ch. Sarà pure distribuito in modo mirato e messo a disposizione in luoghi strategici come scuole e biblioteche. Auspichiamo inoltre, grazie a nuovi finanziamenti, di poter prolungare il progetto, assicurando la diffusione del cofanetto anche nei prossimi anni». Nel librino introduttivo Giancar-
lo Nava, fra i fondatori dei Cemea nel nostro cantone, ripercorre la storia dell’associazione a livello locale e internazionale, sottolineando l’importanza dello stage nella formazione degli educatori. Questo aspetto ha svolto un ruolo centrale nello sviluppo dei Centri, iniziato in Francia nel lontano 1937 ed ora esteso a 23 Paesi. In Ticino, come nel resto del mondo, i promotori hanno inoltre sempre saputo adeguarsi all’evoluzione della società, rispondendo con le loro proposte formative alle esigenze del luogo e del momento. Per festeggiare il mezzo secolo di vita, la delegazione Ticino Cemea ha voluto sì richiamare i suoi principi guida, universali e sempre attuali, ma soprattutto volgere con fiducia lo sguardo al futuro e alle generazioni che lo animeranno. Una fiducia che caratterizza anche i festeggiamenti. Limitati lo scorso settembre alla presentazione del cofanetto a una quarantina di formatori attivi, prevedono un evento di maggior richiamo il prossimo anno, dopo l’emergenza sanitaria. Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Le torri della discordia
Società e Territorio
Urbanistica A Lugano nei prossimi mesi si deciderà il destino del Nuovo Quartiere Cornaredo e, soprattutto,
del Polo sportivo e degli eventi. Riuscirà la Città a realizzare questo ambizioso progetto?
Fabio Dozio I cassetti del Municipio di Lugano sono pieni di progetti. Il lungolago aspetta da anni una riqualifica, almeno davanti a Palazzo civico. Le piste ciclabili sono attese da lustri. Il vecchio centro esposizioni dovrebbe essere sostituito dal Polo turistico congressuale. La pluricentenaria funicolare degli Angioli, dismessa e abbandonata, colleziona progetti di recupero che sono in bella mostra al LAC. Gli appartamenti a pigione moderata rimangono un miraggio, mentre la città si spopola. Il parco Viarno di Pregassona dovrebbe diventare «un giardino per la città», con bosco annesso e area giochi. Il vecchio Macello potrebbe essere trasformato in chissà cosa, ma non si è ancora chiarito il destino degli inquilini attuali.
In una delle torri dovrebbero trovare spazio uffici comunali, nell’altra uffici cantonali oggi nel centro città Poi c’è il Nuovo Quartiere Cornaredo (NQC), abbozzato nei primi anni duemila, ora diventato assolutamente prioritario, perché la Lega calcio ha bocciato il vecchio campo da gioco. L’urgenza di realizzare il Polo sportivo e degli eventi (PSE) a Cornaredo è imposta dalla Lega nazionale calcio. Ma si sa, come recita il detto popolare, che la fretta fa i gattini ciechi, quindi la corsa contro il tempo per approvare un progetto che permetta di iniziare i lavori del nuovo stadio nella primavera dell’anno prossimo potrebbe comportare qualche rischio. Il Consiglio comunale ha approvato a giugno, a schiacciante maggioranza, un credito di circa 14 milioni di franchi per proseguire nella progettazione del comparto sportivo. I dubbi e le voci critiche non sono mancati, ma alla fine è prevalsa la necessità di obbedire all’urgenza, per non far squalificare il Football club Lugano. Il messaggio del Municipio spiega in modo circostanziato tutto quanto si propone di realizzare. A Cornaredo: la
nuova arena per il calcio, campo sintetico e diecimila posti a sedere, la pista di atletica, un palazzetto dello sport, una serie di palestre sotterranee. Ma anche: uno stabile più due torri per contenuti amministrativi e commerciali, quattro edifici residenziali. Al Maglio di Canobbio: i campi sportivi per l’allenamento e per gli allievi, uno stabile, un posteggio e una sala per il curling. La spesa complessiva per tutto questo po’ po’ di roba si aggirerebbe tra i 180 e i 250 milioni di franchi, cifre ballerine e indicative. Per alleviare il Comune e, di fatto, i contribuenti luganesi, il Municipio propone di realizzare le opere con un partenariato pubblico privato. I finanziatori disposti a investire devono ancora essere individuati e si dovranno definire le condizioni della collaborazione con la Città. Interrogativi ancora in sospeso, e non sono dettagli. Lugano vanta oltre 150 società sportive che praticano una cinquantina di discipline. Dal calcio all’hockey, dal nuoto alla ginnastica, dalla pallacanestro alla pallavolo, ecc. La Divisione Sport stanzia ogni anno 500 mila franchi di contributi alle società per sostenere i movimenti giovanili: l’80% della spesa è coperta dalle AIL SA. Nel 2019 i giovani affiliati alle società sportive erano 6’318, dei quali circa 4 mila residenti a Lugano. La necessità di adeguare le strutture sportive è indubbia e non vale solo per il calcio, anche le palestre oggi a disposizione in città sono obsolete e, per esempio, per la pallacanestro bisogna far capo all’Istituto elvetico, una scuola privata. Assieme al progetto di PSE è previsto anche un nuovo assetto viario per tutta la zona. Si spostano strade, se ne creano di nuove, si progetta una megarotonda sul fiume Cassarate all’uscita della galleria Vedeggio Cassarate. Tanto cemento e tanto asfalto in un quartiere che non offre chissà quali spazi. L’Associazione Traffico Ambiente (ATA) ha presentato uno studio, curato dall’ingegner Marco Sailer, secondo cui è possibile rinunciare alla megarotonda e si possono disegnare strade meno invasive nel comparto del nuovo quartiere. Tra l’altro tutto questo intervento, definito dal Municipio «riordino», dovrà prevedere una modifica del Piano regolatore.
Rendering del Nuovo Quartiere Cornaredo, con le due torri contestate. (Ti-Press)
Operazioni non semplici da risolvere, ma a Palazzo civico si vede rosa: «Questa scelta, dal forte carattere urbanistico, permette innanzitutto di definire un contesto urbano di qualità tra lo stadio e l’edificio di via Trevano, dando vita a un parco urbano dove sarà possibile godere della natura, dello sport e del tempo libero, che collega la collina di Trevano all’area verde del Cassarate». Sembra la descrizione di Central Park a New York! Ora, che i campi sportivi siano un parco urbano è tutto da dimostrare. Finora vale la regola, ferrea, che i campi di Cornaredo sono chiusi e blindati, il verde lo si può osservare dalla rete metallica che li delimita, ma è vietato, per il comune cittadino, calpestarlo. Uno dei punti più critici del progetto è la costruzione delle due torri e degli eventuali edifici con appartamenti. Una delle due torri, secondo la proposta del Municipio, dovrebbe ospitare uffici comunali che lascerebbero il centro città. L’altra torre potrebbe essere occupata da uffici cantonali, in pratica tutto quanto sta al palazzo di giustizia e dintorni. Quindi il centro città verrebbe ulteriormente impoverito, perché meno uffici significano meno abitanti che si recano in queste strutture. Spostare centinaia di dipendenti è già discutibile, per la vita del centro, ma dirottare a Cornaredo centinaia di utenti è ancora peggio. Il Municipio aveva commissionato a Espace Suisse, presieduta dall’architetto Fabio Giacomazzi, un’analisi urbana della città. L’Associazione ha valutato in modo negativo il progetto di spostare gli uffici a Cornaredo, sottolineando che ciò porterebbe a un ulteriore svuotamento del centro. Lugano ha soli 33 abitanti per ettaro, Locarno 100. La risposta del Municipio è stata serafica: «Siamo una città con tanti poli. Cornaredo sarà un polo aggiuntivo, con seimila posti di lavoro e duemila abitanti». E qui ci si scontra con un altro problema. Il centro sarà svuotato e i poli, l’altro è il Pian Scairolo, saranno intasati. Infatti il trasporto pubblico sull’asse nord sud attraverso la città è lacunoso e insufficiente. I veri due poli dell’agglomerato luganese dovrebbero essere il centro città e il piano del Vedeggio, che fra poco verranno collegati
in modo efficace dalla nuova ferrovia Lugano Ponte Tresa. Un’indicazione, questa, avanzata anni fa dai «Cittadini per il territorio». Anche il comparto sportivo, se la Città fosse stata più lungimirante, avrebbe potuto svilupparsi nel polo del Vedeggio, dove lo spazio non manca. Il punto critico del NQC, ripetiamo, sono le torri e gli edifici residenziali. Il Consiglio comunale ha votato turandosi il naso, anche se qualche voce critica si è levata. Il verde Nicola Schönenberger, per esempio, ha definito il progetto «l’ennesima invasione di cemento nella città. Un progetto dalle dimensioni spropositate e ben lontano nel suo concetto da un urbanismo contemporaneo.» E ancora: «La legge nazionale autorizza nuove zone edificabili se si dimostra che le riserve sono insufficienti per i prossimi 15 anni. Vista la situazione di Lugano, piuttosto che azzonare, dovremmo dezonare». Il dibattito pubblico, in questi mesi, è stato piuttosto fiacco. Sono però scesi in campo alcune personalità del partito liberale. Adriano Cavadini, economista, ex consigliere nazionale, mette in discussione il finanziamento a carico della città che sarà eccessivo in questo periodo critico, con la pandemia, e si chiede: «Perché intestardirsi sulla costruzione di due torri di uffici e di appartamenti di oltre 10 mila metri quadrati l’una, contribuendo a svuotare il centro storico, quando la città ha già troppi spazi e appartamenti sfitti e la sua popolazione sta diminuendo?» Fulvio Pelli, ex presidente nazionale del PLR, «si chiede perché, insieme al necessario, si stia progettando anche l’inutile, o addirittura il controproducente: ad esempio delle torri nelle quali trasferire l’amministrazione comunale, svuotando gli stabili di un centro cittadino sofferente». Piero Früh, ingegnere che conosce bene la città, già più di due anni fa ammoniva: «Il centro di Lugano potrebbe rischiare di perdere qualità e forza, non sarebbe più il «Centro di importanza nazionale» voluto dal Piano Direttore. Auguriamoci che i politici riescano a costruire anfiteatri in periferia, mantenendo però ben salda la chiesa al centro del villaggio». Anche l’architetto Mario Botta ha dichiarato che Lugano deve smetterla di
portare i servizi lontano dal centro: è inutile avere una pavimentazione pregiata – ha detto – se poi il centro rimane deserto. A che punto siamo? Ora si aspetta che il Municipio chiarisca, con la società che ha vinto il concorso, le condizioni del partenariato pubblico privato. Anche l’ex municipale Erasmo Pelli ha avanzato qualche dubbio: «Senza pianificazione, – ha detto – stadio e palazzetto potevano essere costruiti velocemente, con due messaggi ad hoc. Trattandosi tuttavia di una pianificazione generale di un comparto molto vasto, quello di Cornaredo, stadio e palazzetto sono stati compresi in tale studio. Le critiche riguardano la cifra finale (250 milioni) e l’onere per il Comune, ma dobbiamo fare un atto di fiducia, nella speranza, malgrado tutto, che l’impresa riesca». Cosa accadrà nei prossimi mesi? La municipale Cristina Zanini Barzaghi, nel dibattito in Consiglio comunale a giugno, ha affermato che le prossime proposte del Municipio saranno presentate in messaggi diversi, come peraltro ha chiesto il legislativo. Vale a dire, verosimilmente, arena calcio e palazzetto da una parte, torri e edifici residenziali da un’altra, Maglio per conto suo. Sembra semplice, ma bisognerà adattare il partenariato a questo scopo. D’altra parte, scorporare il gigantesco progetto sembra l’unica via per evitare il rischio di affossamento. Fulvio Pelli l’ha detto chiaramente: «Io penso che il Municipio perderà la seconda delle due battaglie necessarie, perché per 13 milioni non si lancia un referendum, ma per impedire di svuotare ulteriormente il centro cittadino forse sì, soprattutto perché le entrate della Città a causa della pandemia inevitabilmente scenderanno, e per lungo tempo, e l’importante costo finanziario dell’operazione progettata peserà parecchio sui conti della Città, e per molti anni. Il sogno allora si interromperà con un risveglio, come è normalmente suo destino. La realtà dell’aeroporto insegna». Su questa vicenda, che vedrà progettare i futuri spazi sportivi sviluppando un nuovo quartiere, potrebbero dover decidere i cittadini luganesi.
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Società e Territorio Rubriche
Approdi e derive di Lina Bertola Il sorriso oltre la mascherina Lo chiamano home working: una pratica lavorativa sempre più diffusa nell’attuale situazione di persistente emergenza sanitaria. Anch’io mi sono ritrovata, in questo periodo, a tenere un corso di filosofia da casa. Attraverso lo schermo del mio computer ho imparato a entrare in contatto con le persone che idealmente mi raggiungono. Ho imparato a usare la password come fosse un’inedita stretta di mano sulla soglia del luogo di incontro. Un’esperienza nuova. Curioso e anche un po’ straniante non potermi specchiare nello sguardo dell’altro ma solo nelle immagini evocative con cui accompagno il discorso, lasciando correre la parola verso persone per lo più invisibili, a parte qualche incursione momentanea offerta dalla tecnologia dentro piccoli riquadri posti sull’angolo dello schermo. Grazie all’immaginazione sto comunque riuscendo a convivere con questa mancanza della presenza fisica dei miei
interlocutori. Per tentare di mettere davvero in comune i pensieri ho sentito forte il bisogno di immaginare quelle espressioni che sempre, nell’ascolto della parola dell’altro e nella condivisione di un’atmosfera, nascono dalla postura della bocca e irradiano nell’espressione dello sguardo. Sullo sfondo della bellezza delle immagini artistiche offerte dal mio power point, ho imparato a immaginare la bellezza dei sorrisi. Perché il sorriso, al di là dei molteplici sentimenti che può esprimere, è anche il segno di una disposizione dell’animo all’apertura e all’ accoglienza. Confrontata con questa mancanza, e con l’immaginifica evocazione della sua presenza, mi sono poi chiesta se oggi, dietro le mascherine, quando ci incontriamo in luoghi non virtuali, riusciamo ancora a sorridere a noi stessi e agli altri. Mi sono chiesta se anche la mascherina, segno visibile, e in questo momento imprescindibile, di reciproco rispetto,
non possa trasformarsi in un sorriso, autentico seppur di carta. Mi sono chiesta se in queste nuove posture del volto non sia riconoscibile, in altre forme, il linguaggio del sorriso, capace di alimentare, nonostante tutto, i legami e i sentimenti di condivisione. Oggi siamo tutti un po’ più tristi, sospesi in un tempo sospeso che sembra non voler passare. Una tristezza indotta, spiace dirlo, anche dalla continua battente informazione su numeri che alla fine riguardano solo, o soprattutto, gli addetti ai lavori. Sappiamo di essere in un periodo difficile, ma perché ricordarcelo in modalità algoritmica anziché in forme comunicative più adatte a sollecitare le nostre responsabilità, evitando le derive dell’insofferenza o della paura? Ma la tristezza di oggi, quando riesca a contenersi in un approccio comunque accogliente nei confronti della vita, pur con le sue durezze e le sue sofferenze, quando non si lasci abitare dalla paura,
non credo sia incompatibile con il sorriso. Con un sorriso che diventa allora metafora di ogni legame, come accade anche quando lo offriamo ad una persona malata proprio nel condividere il suo dolore. Scrive Alda Merini, la splendida poetessa che ha cantato mille tormenti della vita, «Sorridi donna / sorridi sempre alla vita / anche se lei non ti sorride. / Sorridi agli amori finiti / sorridi ai tuoi dolori. / Il tuo sorriso sarà / luce per il tuo cammino / faro per naviganti sperduti…» Sorridere è un modo delicato e discreto di accogliere la vita, in attesa delle sue luci e delle sue ombre. Ma il sorriso a volte può, della vita, annunciare un desiderio di espansione, un invito ad andare oltre; un invito a ridere, ad aprirsi ad una risata e ad assumerne tutta la forza esistenziale, come in questi versi di Pablo Neruda: «Amor mio, nell’ora / più oscura sgrana / il tuo sorriso, e se d’improvviso / vedi che il mio sangue
macchia / le pietre della strada, / ridi, perché il tuo riso / sarà per le mie mani / come una spada fresca». Qualcuno forse ricorderà l’esplosiva risata di Zorba il Greco al termine dell’omonimo film; una risata incontenibile che contagia il suo compassato amico inglese di fronte al disastro: il loro progetto sta crollando impietosamente sotto i loro occhi e loro ridono, e si mettono a danzare la bellezza della vita al ritmo del sirtaki. Del ruolo terapeutico della risata si fece promotore Patch Adams, meglio conosciuto come il «Dottor Sorriso». Adams fondò in America, nel 1971, una clinica molto particolare e piuttosto alternativa, amorevolmente attenta alla relazione e al benessere del paziente. La sua proposta terapeutica ha avuto ampia risonanza nel mondo, e non è raro incontrare nelle corsie degli ospedali, o nelle case per anziani, accanto ai camici bianchi, i variopinti e giocosi «medici clown». Ridere, per riaffermare la vita.
magistrale in ferro battuto che faccio scorrere ora: va come una sposa. Come mi aveva detto una volta un mio amico, a proposito della sua vespa special chiaro di luna appena riparata da un garagista leccese di Carouge. La modesta bellezza impavida dell’Oratorio di Preda (1077 m), dedicato alla Madonna della Cintura, in località Ticialett, reinaugurato alle due pomeridiane dell’undici ottobre di quarantanni fa, è immutata, vista e vissuta la seconda volta. Appena entri infonde una pace e un piacere estremi. Forse la bellezza oggi è anche maggiore, per via della luce autunnale che entra a quest’ora, dalla lunetta dietro l’altare. Subito a sinistra, c’è appeso il piano del progetto di «rigenerazione» come annotato in matita, dell’oratorio pastorale. Fuor di metafora: era riparo di pastori e capre. Thurston, autoitalianizzatosi a volte, in altri lavori, in Briano Cirillo, ha scarabocchiato poi: «in memory of dr Fritz von Ballmoss». Von Ballmoos, immagino, volesse scrivere; famiglia all’origine della salvezza, mi ha detto un ex sindaco all’osteria, di questo oratorio la cui semplicità e le pro-
porzioni riempiono di grazia. Sbarre grezze di ferro, per il sostegno, sono tocco selvaggio di genuinità. I colori primari sono ripresi, in una misura che non può essere più giusta, ma anche l’utilizzo di pigmenti naturali contribuisce all’armonia. Il pavimento disconnesso e incerto, poesia pura, è qualcosa di rudimentale e solenne che in pochi passi porta ad alzare lo sguardo sulla volta a croce, avvolti dal rosa panna delle pareti affrescate. Tre opere di Thurston alle pareti: due bassorilievi in terracotta simillecorbusierianeggianti così così e un collage non male, dove un frammento è la Greina. Un altro mondo che ad alcuni fa pensare un po’ alla tundra e a Thurston invece ricorda molto la Scozia. Il volto della Madonna con la cintura in mano è annerita o forse è una Madonna nera. Il bambino in grembo ghigna, la cintura potrebbe sembrare un serpente. Amo gli affreschi restaurati appena, scrostati, con pezzi mancanti. La descrizione dettagliata dell’altare la tengo segreta, come il contenuto del tabernacolo, ma per me è, senza ombra di dubbio, l’altare più bello del Ticino.
lism Award for Technical Innovation in the Service of Digital Journalism. Cosa fa Sophi e come funziona? È un sistema di intelligenza artificiale che lavora in modo autonomo nel trovare, selezionare e promuovere i contenuti migliori. Cioè quei contenuti che possono portare nuovi abbonati e sottoscrizioni oppure trattengono gli utenti sulla piattaforma. L’IA di Sophi è stata istruita dagli editori del «Globe» a comprendere quali contenuti sono rilevanti per ogni pagina e quali articoli sono più appropriati. Ogni dieci minuti individua quelle storie che meritano di essere promosse e aggiorna di conseguenza le pagine del sito. Detto in altre parole il 99% dei contenuti sul sito del «Globe» li posiziona Sophi e con grande successo. Stando infatti ai dati raccolti, i click sono aumentati del
17%, gli abbonamenti hanno avuto un incremento del 10% e nessuno si è mai chiesto se fosse un computer a curare il sito. Non male per un giornale che vanta 175 anni di storia decidere di assumere un gruppo di data scientist e incaricarli di sviluppare una piattaforma per la comprensione ed elaborazione del linguaggio che possa essere usata facilmente dai giornalisti. Insieme, data scientist e giornalisti, hanno elaborato un metodo per assegnare dei punteggi ad ogni contenuto a seconda di quale valore porta al giornale. Secondo David Walmsley, direttore del «Globe», «la newsroom del futuro è quella in cui i giornalisti possono concentrarsi nel trovare e raccontare storie importanti» mentre l’intelligenza artificiale fa il lavoro sporco: trovare nuovi lettori e nuovi abbonati.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Oratorio di Preda a Ticialett Scoperto per caso, all’inizio di quest’estate, scendendo giù a rotta di collo nel bosco, dopo una camminata di ore tra un temporale sui pascoli di Gorda e un arcobaleno prima delle pinete di Sorda, vale la pena tornarci. Oratorio segreto, non indicato da nessuna parte, rigenerato, tra il 1977 e il 1980, proprio quando era sul punto di cadere in rovina, dall’architetto-artista inglese Bryan Cyril Thurston. Il sentiero parte alle spalle del cimitero di Ponto Valentino. Ex comune della media Valle di Blenio più conosciuto per le milizie napoleoniche che ogni terza domenica di luglio, per via di un voto fatto dai mercenari bleniesi nel 1812 nella campagna di Russia, sfilano alla festa della Madonna del Carmelo. Dove c’è una casa con un porno cactus gigante e sei nanetti da giardino accanto. E così, verso mezzogiorno di una soleggiata giornata ai primi di novembre, m’incammino con umiltà su per l’antica mulattiera ripida, cosparsa di foglie morte e ricci quasi tutti vuoti. Passo per passo, dopo quarantadue minuti, con la leggera fatica che snebbia la mente e rende nitido il pensiero,
il rudere di una stalla di pietra, mi annuncia l’oratorio selvatico. Bianco calce, quattro quadratini blu cobalto sulla facciata est, il tetto in piode, eccolo là in pieno sole. Sullo sfondo il giallo-oro accecante dei castagni e le cime innevate tra le quali spicca piramidale – almeno credo, nel riconoscere le montagne sono una frana – il pizzo Erra. I quadrati blu cobalto, cinque in tutto, sono le piastre di ancoraggio a vista. Da vicino ammiro il bullone e la vite dipinti: primo segno di spontaneità-colpo di fulmine. Un arco irregolare in pietra, iscritto nella facciata, fa compagnia a due di questi ancoraggi imbullonati che mimano involontariamente o meno, una specie di suprematismo russo. Verso l’angolo a valle, questa percezione è amplificata dall’incontro di altri due quadrati blu con una striscia verticale di un giallo delicato. «Come un raggio dal cielo» scrive in proposito, a pagina centocinquantasette di Landschaft und Architektur (1987), lo stesso Bryan Cyril Thurston. Nato nel 1933 a Leiston, nel Suffolk, e residente da una vita a Uerikon, sul lago di Zurigo, è uno dei primi salvatori, all’ini-
zio degli anni settanta, della Greina. Felci ingiallite ai piedi del piccolo oratorio che mi ricorda di nuovo, per un secondo o due, le Cicladi. L’Adula, come sempre, è più bianca delle altre montagne. Lo stupore per i viandanti è dietro l’angolo, sulla facciata nord, all’entrata. Qui il blu cobalto e il giallo polenta incontrano il rosso carminio, in una composizione geometrica alla Malevič che mi ha colto di sorpresa, in piena erranza bleniese, il giorno del solstizio d’estate. Colori primari che potrebbero apparire inopportuni, eppure dosati in questo modo, ingentiliscono il piccolo oratorio rinato grazie a Thurston con l’aiuto di amici e della fondazione Pro Patria. Preda in dialetto è un pietra grande, un masso erratico forse, venerato qui nella notte dei tempi ma non si vede in giro e mi sa che si chiami così perché sorge su un promontorio roccioso, tipo la Madonna del Sasso. Dalle grate lasciate arrugginite apposta, s’intravede l’acquasantiera in pietra rosa anch’essa lasciata nello stato originario. La porta in legno, umile come quella di una stalla e dunque magnifica, ha un chiavistello
La società connessa di Natascha Fioretti Sophi, la newsroom del futuro La settimana scorsa in Svizzera nel mondo dei media sono successe diverse cose. È uscito il rapporto annuale sulla qualità dei media dell’Università di Zurigo sul quale non voglio soffermarmi ma segnalarvi un aspetto che mi pare importante. Stando allo studio la qualità dei siti di informazione online è migliorata in modo significativo e non ha nulla da invidiare ai giornali cartaceei. Anzi in alcuni casi – vedi i siti della «Berner Zeitung» e del «Blick» – superano le rispettive edizioni stampate. Altro dato interessante è la caduta di «Le Temps», di cui si registra una moderata diminuzione nella qualità dei contenuti e invece un importante calo del gradimento dei lettori. A questo proposito la notizia che il quotidiano di qualità di riferimento della Svizzera
romanda sia passato da Ringier Axel Springer alla Fondazione Aventinus è una boccata d’ossigeno. Da tempo negli ambienti giornalistici romandi l’interesse della fondazione era noto. D’altra parte le cifre in rosso di «Le Temps» e la politica di Ringier, che da tempo non punta più sul giornalismo perché troppo poco remunerativo e nel 2017 chiuse «l’Hebdo», non lasciavano presagire nulla di buono per il futuro del quotidiano losannese. Ora che la fondazione non solo assicura di mantenere la redazione e di garantire l’indipendenza della testata ma di investirvi per farla crescere e tornare agli antichi splendori, per il giornalismo di qualità della Svizzera romanda ci sono buone speranze. Anche perché Aventinus sembra voler acquisire pure la neonata Heidi.news, testata digitale
nata un anno fa per colmare il vuoto lasciato da testate come «Le Matin». Guarda caso alla sua guida c’è Serge Michel, ex vicedirettore proprio di «Le Temps». L’intenzione della Fondazione, che ha già una partecipazione in Heidi.news, pare sia quella di costruire delle sinergie tra le due realtà. Non male in tempi in cui non si parla d’altro che di tagli, ristrutturazioni e chiusure. E se questo è quello che succede da noi, oltre oceano c’è un progetto del «The Globe and Mail» che sta facendo molto parlare di sé. L’editore canadese starebbe infatti costruendo la newsroom del futuro. Si chiama Sophi ed è un sistema di intelligenza artificiale. Con questo progetto «The Globe and Mail» ha già vinto due premi, il 2020 North American Digital Media Award e la recente edizione dell’Online Journa-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Dal 1919 al futuro Cent’anni di ricerca hanno reso le serre idroponiche uno dei metodi di coltivazione più evoluti
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Misure di protezione Il ritorno dell’emergenza sanitaria rischia di far pagare allo sport il conto più alto
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Tra salute e salvezza
Covid Il triage in caso di crisi e l’impatto
Maria Grazia Buletti Il 29 ottobre, durante la conferenza stampa del Consiglio federale, alla domanda di un giornalista su come si fossero mosse le autorità per evitare il sovraccarico degli ospedali, Alain Berset, capo del Dipartimento federale dell’interno ha risposto che i Cantoni si sono mossi solo oggi, all’arrivo della seconda ondata. Lasciando la politica a chi di competenza, parliamo della situazione sanitaria ticinese con le rassicurazioni del professor Paolo Merlani, primario di medicina intensiva, direttore sanitario e direttore medico del Servizio di medicina Intensiva EOC: «Sebbene questo virus ci abbia sempre riservato qualche sorpresa, e la predizione è un’arte difficile da applicare, possiamo dire che per ora la situazione è più tranquilla rispetto a marzo». Tuttavia, egli non ne nasconde il possibile peggioramento e il fatto che stavolta potrebbe durare anche diversi mesi: «E i numeri potrebbero diventare anche più importanti della prima ondata». Complice una dilagante stanchezza delle persone dovuta al protrarsi della pandemia e alle relative ricadute psico-socio-economiche, quel che più preoccupa la popolazione è il dubbio che sia insufficiente la capacità del nostro sistema sanitario per fare adeguatamente fronte alle necessità di curare tutti i pazienti indistintamente, insieme ai timori di veder rifiutare agli anziani le cure adeguate. «Quando non si sa come andrà a finire, soprattutto noi che ci occupiamo di medicina intensiva, dobbiamo saperci preparare al peggio». Così è stato ed è, dice Merlani: «L’organizzazione messa in atto a marzo per fronteggiare l’epidemia è rimasta attiva: abbiamo aumentato la capacità di posti in terapia intensiva così come il personale medico e sanitario specializzato». Egli ricorda che la difficoltà minore risiede nell’approvvigionamento di farmaci, respiratori, materiale: «Il problema principale è formare il personale specialistico». La formazione corrente di questi specialisti necessita di fondi e di tempo («5 anni per formare medici specialisti e circa 2 per gli infermieri specializzati»), che è tanto tempo:
«Nessuno al mondo è riuscito, in questi mesi, a moltiplicare il numero di specialisti. Dal canto nostro, anche qui abbiamo fatto il massimo possibile, attivando una specie di scuola veloce per quegli infermieri che già a marzo avevano partecipato all’esperienza di Locarno: presto avremo circa 30 infermieri formati apposta per la crisi Covid, ma ricordiamoci che quei 30 serviranno a trattare non più di circa 8 pazienti». Questa soluzione veloce ne va a coadiuvare altre prese durante i mesi di tregua dalla pandemia: «Con la Società di medicina intensiva abbiamo attivato una rete che potrebbe dirigere i pazienti dove ci sono posti disponibili, in tutta la Svizzera. Sistema utile in caso di pandemia disomogenea come la prima, ma forse meno efficace in un’ondata più omogenea come questa, vedremo. Inoltre, abbiamo predisposto tutta la riserva di materiale di protezione e farmaci (ridotta al limite la prima volta) per affrontare questa seconda ondata». In questi pochi mesi, dal punto di vista sanitario, è dunque stato fatto tutto il possibile per scongiurare i timori e sedare le polemiche delle ultime settimane suscitate dal documento elaborato in primavera dall’Accademia svizzera delle scienze mediche sul comportamento da tenere in caso di «scarsità di risorse». Egli rassicura anche su questo controverso punto: «È un documento, elaborato la scorsa primavera, su come affrontare nel Cantone in modo uniforme, trasparente e tracciabile la crescente pressione sul sistema sanitario». Dal canto suo, il professor Roberto Malacrida, membro della Commissione nazionale di etica in materia di medicina umana, puntualizza come queste linee guida rispecchino questioni etiche e sanitarie sempre esistite, oggi emergenti perché durante una crisi si pone il problema dell’eventuale scarsità di risorse: «Anche in tempi normali esiste la pratica di individuare e soppesare la proporzionalità nel continuare a erogare terapie molto invasive senza fare del male al paziente (ma il suo bene). Se dobbiamo considerare l’eventualità di risorse insufficienti, a maggior ragione dobbiamo essere consapevoli di non fare medicina “inutile”: va evitata quel-
Keystone
del confinamento sull’anziano al centro di importanti riflessioni
la che, parafrasando il filosofo Umberto Galimberti, è solo tecnocratica e fine a se stessa, dove la tecnica non è più solo un mezzo, ma diventa il fine stesso». Questo aspetto può diventare più acuto durante la crisi: «Con un’ulteriore complicanza etica: quando non ci sono risorse sufficienti, bisogna scegliere chi curare; però non ci si basa sull’età anagrafica della persona, bensì sulla valutazione di chi, approfittando dei letti in cure intensive, guadagna di più rispetto a chi ne trarrebbe solamente sofferenza». Un dilemma sempre esistito nella medicina intensiva, che dipende pure molto dal rapporto di fiducia reciproca che si instaura fra famiglia, se il paziente non è in grado di discernere, e medici (e anche dalla fiducia riposta dalla società nelle sue strutture sanitarie)». L’età anagrafica non è dunque un criterio di esclusione dalle cure: «Anche se è onesto sottolineare che l’età
avanzata indirettamente fa parte dei criteri di gravità clinica a causa delle relative comorbidità che vanno però valutate individualmente: gli ultraottantenni hanno comunque una polipatologia più grave di chi è più giovane (ipertensione, diabete, problemi cardiocircolatori e patologie senili molto più frequenti)». La percezione delle linee guida relative al triage da parte del personale medico attivo nei reparti di cure intense, insieme all’impatto psicologico delle misure di restrizione delle libertà personali e la loro proporzionalità (con particolare attenzione alla fascia degli anziani sani e di quelli residenti nelle case di cura) è tema di due studi in corso da parte della Fondazione Sasso Corbaro. Sull’impatto del confinamento degli anziani nelle case di riposo Malacrida dice: «Lo scrittore Edoardo Albinati insegna nelle carceri e ha osservato
come i carcerati che vi restano a lungo vivono solo la dimensione della misera cella e dei corridoi stretti. Per questo, faticano a vedere lontano. Ho pensato che anche un anziano che vive in una camera, isolato per molte settimane, si trova nella stessa situazione e potrebbe sviluppare una sindrome simile». Il dilemma si gioca tra rispettare le giustificate direttive delle autorità ed essere così bravi da riuscire a individuare le eccezioni intelligenti per venire in aiuto a chi più ne ha bisogno. «Pensiamo anche ai famigliari a cui dare la possibilità di accompagnare il proprio caro soprattutto durante il suo fine-vita, affinché gli siano di conforto e a loro volta non soffrano di un ricordo ancora più doloroso. A livello di regole e confinamento emerge nuovamente che il dato anagrafico “non deve essere l’elemento di discrimine”». Perché si può morire anche di solitudine.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Ambiente e Benessere
The Travellers Club
Incontrando gli afropei
resiste fin troppo…
letture per viaggiare
Viaggiatori d’Occidente Un affascinante Gentlemen’s Club londinese la cui la tradizione
Bussole Inviti a
Ricordate come inizia il libro più popolare di Jules Verne, Il giro del mondo in 80 giorni (1873)? Al Reform Club di Londra il protagonista, Phileas Fogg, durante una partita a carte scommette ventimila sterline che riuscirà a girare attorno alla Terra in meno di tre mesi. Nell’Ottocento, gentiluomini, politici, professionisti e intellettuali facevano a gara per entrare nei club più prestigiosi, a cominciare appunto dal celebre Reform Club, fondato nel 1836 per favorire la diffusione di idee liberali e progressiste (tra i soci Winston Churchill e Arthur Conan Doyle). La sede del Reform Club era al 104 Pall Mall, a breve distanza da Buckingham Palace e dagli altri luoghi più famosi della capitale inglese. Ma Jules Verne avrebbe forse fatto meglio a spostare la sua storia al portone accanto, 106 Pall Mall, dove nel 1829 l’architetto Charles Barry aveva costruito la sede del Club dei viaggiatori (The Travellers Club) in un edificio neorinascimentale, ispirato a Palazzo Pandolfini, progettato da Raffaello a Firenze. L’idea di un club dei viaggiatori prende forma nel 1819: dopo l’infuocato quarto di secolo seguito alla Rivoluzione francese, Napoleone era stato finalmente spedito nella remotissima isola di Sant’Elena, nell’Oceano Atlantico meridionale, e l’Europa si spalancava nuovamente davanti ai viaggiatori inglesi, come al tempo del Grand Tour. The Travellers Club è un prestigioso circolo privato riservato a uomini di successo, reclutati tra le fila della nobiltà o dell’alta borghesia. Come di consueto è necessario essere presentati da due soci e superare il voto degli altri. Ma sin dalla fondazione, l’articolo sei dello Statuto ha introdotto anche un requisito aggiuntivo: «Non potrà essere ammesso al Travellers Club chi non abbia viaggiato fuori delle isole britanniche a una distanza di almeno cinquecento miglia da Londra in linea d’aria». Nel tempo di easyJet può sembrare banale, ma prima dell’invenzione della ferrovia voleva dire di fatto riservare il club a viaggiatori di lungo corso, commercianti internazionali e personale diplomatico. La testa di Ulisse nel logo, del resto, chiarisce perfettamente i modelli ideali. Due secoli dopo il club gode di ottima salute. La quota d’iscrizione annuale non è neppure elevata (circa 1300 franchi svizzeri), considerato che gli
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Claudio Visentin
spazi sono decisamente raffinati. La biblioteca, composta per la maggior parte da libri di viaggio, è una delle più eleganti di Londra. Ci sono poi un cocktail bar, una sala fumatori affacciata sopra Carlton Gardens, due sale da pranzo, spazi per riunioni e stanze da letto per ospiti stranieri o per soci di altre città che dovessero trattenersi a Londra. È richiesto un abbigliamento formale, giacca e cravatta o abiti tradizionali del Paese di origine per gli stranieri; niente jeans o scarpe da ginnastica, si capisce. La lista dei soci elenca membri della famiglia reale, capi del governo, il ministro degli esteri in carica, ambasciatori inglesi o stranieri, viaggiatori naturalmente ed esploratori leggendari; per citarne solo uno, Sir William Edward Parry, scopritore del leggendario Passaggio di nord-ovest. Gli ultimi decenni dell’Ottocento furono l’età d’oro dei club e ogni uomo di successo tremava all’idea di esserne escluso o (come si diceva allora) di essere unclubbable. Negli anni Ottanta del Novecento i club sono tornati di moda, ma la modernità ha anche posto sfide inedite e insidiose, a cominciare dalla richiesta di ammettere le donne: oggi possono entrare al Travellers Club solo se mogli od ospiti dei soci e alcuni spazi (soprattutto la sala fumatori) rimangono comunque rigorosamente off-limits. La maggior parte dei Gentlemen’s Club si sono arresi alle donne, anche per rimpolpare le loro fila, non il Travellers Club però, libero da obblighi di legge in quanto privato. Ancora nel 2014 una consultazione
informale ha registrato un sessanta per cento di contrari. Gli argomenti dei favorevoli sono prevedibili e decisamente consistenti. I tempi sono cambiati e le donne sono molto più presenti nella società in ogni ruolo. Un socio osserva: «Sarebbe inimmaginabile rifiutare l’appartenenza sulla base della razza o della religione, non capisco come possa sembrare accettabile farlo sulla base del sesso». E ancora: «Con le donne ho studiato e lavorato, mi sento a disagio in un posto da cui le donne sono escluse. Noi – un club per internazionalisti cosmopoliti – vogliamo davvero essere assimilati ai talebani?». Un altro argomento a favore è naturalmente la quota crescente di donne tra i viaggiatori contemporanei più intraprendenti e coraggiosi: «Quando il club fu fondato, i membri dovevano essere persone esperte di altri popoli e Paesi, non uomini; quest’ultima qualifica era solo una conseguenza accidentale dei costumi dell’epoca… Ci stiamo privando dei talenti e della compagnia di illustri viaggiatrici o diplomatiche che hanno lavorato in alcuni tra i più interessanti e pericolosi angoli del mondo». I contrari insistono piuttosto sulla tradizione. Il club è nato così e così deve morire. «Noi siamo sempre stati un Gentlemen Club… Uno non si iscrive a un club di cricket per poi convincere gli altri a passare all’hockey!». La maggior parte ha sottolineato che ammettere le donne cambierebbe (in peggio) il carattere del club, quella rilassatezza caratteristica di una conversazione tra soli uomini nella sala fumatori o al bar, senza darsi troppa cura del galateo o delle
«Questo libro è il frutto di un viaggio in economia, nero e indipendente; è un tragitto indipendente, nero e operaio (…) Ho percorso le strade del continente confrontandomi con la sua storia a ogni passo, eppure non sono né un antropologo né uno storico; sono uno scrittore e un fotografo. Sono anche un cittadino nero che abita in Europa, oggi, e il mio viaggio è stato un tentativo di dare un senso a questo dato di fatto. Con la pelle scura e il passaporto britannico (…) una fredda mattina di ottobre sono partito in cerca degli afropei…».
convenzioni sociali legate alla presenza delle donne e senza competere per la loro attenzione. Di certo per qualche anno la questione non sarà più discussa e solo un evidente calo dei soci in favore di altri club, aperti alle donne, potrebbe riaprirla; ma questo non sta avvenendo, anzi le richieste di ammissione sono numerose e le finanze solide: «Se non è rotto, non aggiustarlo» è stato forse l’argomento decisivo per chiudere la discussione. Del resto, ci sono anche gruppi di viaggiatrici dove gli uomini non sono ammessi, con motivazioni speculari e senza che nessuno sollevi obiezioni. Per esempio, Adventure Women, fondata e gestita da donne nella convinzione che queste «hanno un senso innato della scoperta, una curiosità sfacciata, la capacità di ridere di sé stesse e di creare un ambiente non competitivo dove ci si supporta e incoraggia…» (www.adventurewomen.com). Intanto, a quanto pare, sta cambiando la stessa idea di cosa sia una donna. La vasta comunità online delle viaggiatrici solitarie – www.solofemaletravelers.club, con oltre settantamila contatti da cento Paesi diversi – in una moderna prospettiva gender si rivolge alle womxn*, ovvero a tutt* coloro che si identificano come donne, anche se con un corpo maschile. Ma non sarà facile spiegarlo ai tradizionalissimi membri del Travellers Club…
Jessica Nabongo sarebbe un’ottima candidata per il Travellers Club. Prima di compiere 35 anni ha già visitato tutti i 195 Stati del pianeta, ma soprattutto è la prima donna nera ad averlo fatto. Una nuova generazione di viaggiatori neri rivendica quel diritto di muoversi tradizionalmente riservato ai bianchi. Conoscete il nome di uno scrittore di viaggio di colore? Da questo momento potrete rispondere citando Johny Pitts, nato da padre afroamericano e madre inglese nella periferia operaia di Sheffield, e il suo interessante viaggio tra gli europei di origine africana: Parigi, Bruxelles, Amsterdam, Berlino, Stoccolma, Mosca, Marsiglia, Lisbona. Di città in città, Johny Pitts incontra le diverse comunità di afropei, neri che si sentono pienamente europei, protagonisti delle loro vite (nella misura in cui l’economia glielo consente), capaci di articolare le loro diverse influenze senza lasciarsi rinchiudere nello stereotipo dell’immigrato, «senza sentirsi misti, mezzo questo e mezzo quello», pronti a dare il loro contributo alla comunità dove vivono. All’inizio Pitts ha incontrato soprattutto artisti e creativi, ma poi anche negozianti, ambulanti, guide turistiche, studenti, tassisti, buttafuori, attivisti, educatori: la bellezza della normalità nera. / CV
Informazioni
Bibliografia
www.solofemaletravelers.club, www.adventurewomen.com
Johny Pitts, Afropei.Viaggio nel cuore dell’Europa nera, EDT, pp. 442, € 24.–. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Idee e acquisti per la settimana
Dolcezza natalizia
I Freylini sono parte integrante del periodo dell’Avvento e del Natale. Da oltre quattro decenni le piccole e deliziose palline di cioccolato addolciscono questo bel periodo dell’anno. Si presentano ora con un nuovo design e sono inoltre disponibili in una speciale Limited Edition al gusto di panpepato. Naturalmente le pregiate palline di cioccolato sono disponibili anche in un’attraente confezione natalizia, che rende i Freylini perfetti per essere condivisi e regalati, considerato inoltre che sono molto facili da scartare grazie al sistema di confezionamento denominato «Twist».
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Quest’anno la nuova Limited Edition Freylini è dedicata al panpepato, chiamato anche pan di zenzero. L’origine del nome di questo popolare dolce natalizio deriva dalla sua ricetta, dal momento che contiene una varietà di spezie aromatiche che nel Medioevo venivano genericamente chiamate «pepe». L’altro nome deriva invece dal termine latino «zingiber», da cui zenzero. Questi termini sono spesso usati per tradurre la variante francese «pain d’épices» (pane di spezie), così come quella tedesca «Lebkuchen» (letteralmente: torta di vita) o ancora «Pfefferkuchen» (torta di pepe).
Foto e Styling Ruth Küng
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Ambiente e Benessere
Ritorno alla pozza del Felice Passeggiate Un’escursione sui luoghi del romanzo di Fabio Andina
Romano Venziani «È qui da poco» mi dice Fabio, accennando al grosso tronco riverso tra i sassi. «L’ha portato giù una buzza del torrente l’estate scorsa. Fanno un bel casino, i temporali, quando si scatenano in queste vallette». Oggi invece c’è poca acqua nella pozza, scivola giù dalla montagna senza far rumore, s’incunea tra i massi e qui si ferma, trattenuta dall’incavo della roccia. Il grosso tronco, levigato dal gran rotolare che la piena gli ha fatto fare trascinandolo fin qui da chissà dove, è incastrato tra le pietre, bianco come un enorme osso spolpato, e occupa buona parte della pozza. Fabio lo osserva, seduto su un sasso. Si è tolto le scarpe e ora se ne sta lì con i piedi a mollo, silenzioso. Lo imito e mi levo gli scarponi e assaggio l’acqua, che si è temperata sotto il sole di questa giornata di mezz’estate. Scatto un paio di foto, ma non ho la genialità dei professionisti che saprebbero trarre immagini spettacolari anche da un misero ruscello di montagna. Do la colpa alla mancanza d’acqua e magari a quelle strane bollicine che galleggiano in superficie o all’invadenza del tronco. «Guarda», mi dice Fabio, che deve aver intuito i miei pensieri, ho una foto di com’è nei suoi momenti migliori. Fa scivolare l’indice sullo smartphone e mi fa vedere l’immagine del torrente spumeggiante, che forma un susseguirsi di cascatelle e poi si butta in una bella pozza di acqua cristallina. L’indice scivola di nuovo e un’altra immagine in controcampo mostra la pozza con ai suoi bordi una capretta nera che fissa l’obbiettivo e, sullo sfondo, un’infilata di cime tra cui riconosco quella di Sgiu, quella di Pinadee e quella di Bresciana, che sovrasta la Val Soi. «Se l’avessimo trovata così, avrei fatto il bagno», dico poco convinto. Lui, Fabio Andina, scrittore-runner innamorato della montagna, che percorre con passo leggero, vien su da Leontica a farlo ogni tanto, il bagno, come lo faceva tutti i giorni il Felice, il protagonista del suo secondo romanzo, oggi alla seconda edizione italiana (vedi bibliografia), la cui traduzione tedesca sta andando a gonfie vele in Svizzera, Germania e Austria, e che tra pochi mesi uscirà anche in francese. L’anno scorso ne avevo registrato l’audiolibro per la Biblioteca Braille e del libro parlato della Unitas e mi era subito piaciuta la figura del Felice, quel vecchio e saggio montanaro, filosofo e vegetariano, che se ne va in giro a piedi nudi o su una vecchia Suzuki a corto di batteria, fa il bagno nel torrente estate e inverno e vive ancorato alla quotidianità della sua valle, nella cui natura ha trovato la pace. Un uomo buono e altruista come ne esistono pochi, nemico delle ingiustizie, la cui religione è il minimalismo di un’esistenza che sa apprezzare le piccole cose e sbarazzarsi di tutto il resto. Un personaggio reale, che riconosco nell’Anselmo, il bastian contrario di Leontica, scomparso novantaquattrenne nel 2014, che si era sorprendentemente prestato come protagonista di un documentario RSI di Fabio Calvi di alcuni anni fa. Aveva un fisico straordinario, asciutto e muscoloso per la sua età, e camminava svelto sulla montagna, con le braccia dietro la schiena, racconta Andina, che l’ha conosciuto fin da quando, bambino, veniva in vacanza a Leontica, in valle di Blenio, dove suo padre aveva comperato una casetta. La gente diceva che andava tutti i giorni a fare il bagno in una pozza, su in montagna, ma non si sapeva dove. «Beh, dato che tu lo sai, mi ci devi portare, sono curioso», gli dico, e lui risponde di sì facendomi promettere di non rivelarne la posizione esatta. E così
Illustrazione del tragitto che porta alla Pozza del Felice. Sul sito www.azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia. (Romano Venziani)
è nato questo strano ed enigmatico itinerario, tutto da decifrare, dove i luoghi si scambiano i nomi, i prati diventano pinete, gli animali si confondono e si fa un gran miscuglio delle specie arboree. Quella è la casa del Felice. Fabio mi indica una bella costruzione dal tetto in piode piena di fascino nonostante le unghiate degli anni, che ne hanno sbiadito il rosa antico delle facciate e i verdi del portone d’entrata e delle persiane. Davanti, un cancelletto in ferro e l’orto delimitato da un muretto, che gli assicura l’intimità di un tempo perduto. Qualcuno ne coltiva ancora il senso di abbandono, invaso di girasoli sospesi sugli alti fusti, zucche e fagiolini appesi a un viluppo di rami, grosse verze lucenti, prezzemolo, ciuffi di carote e ricami di finocchio selvatico. La casa è chiusa, sul poggiolo un cartello ne decreta il destino: «VENDE», seguito da un numero di telefono e un sito internet. Giù in strada, il parlottare di turisti olandesi si stempera nel suono dell’acqua del vecchio lavatoio.
dernità», con le sue pretese di ridurre tutto a una corsa al denaro, al potere e a un’innovazione tecnologica esasperata. Una «modernità» a cui si guarda con diffidenza, ma che al tempo stesso ha uno straordinario potere di seduzione. E questo fa sì che, quella descritta, sia «una società fragile che si sfalda in modo impercettibile», come ha scritto Wolfgang Höbel, nella sua recensione della versione tedesca su «Der Spiegel». Camminiamo sull’asfalto, che un tempo ha risuonato dello «schiaffeggiare dei piedi nudi del Felice», poi «lasciamo la strada cantonale al tornante del Vecchio Larice, un larice centenario e solitario», e ci addentriamo in un vasto pianoro disegnato da prati curati e punteggiato da stalle e cascine. A una piazza di giro, la strada diventa sentiero, che si fa subito più ripido. «Mi raccomando, Fabio, vai piano, mi premunisco, sapendo della sua passione per la corsa. D’altronde, lui corre anche con le parole. Scrive di getto e solo alla fine torna sui suoi passi, a rileggere, sfrondare, ridur-
Il Felice si prepara a fare il bagno. (Fabio Andina)
Fabio Andina, seduto sul tronco al pozzo. (Romano Venziani)
Risaliamo la Carà Tuschin e «lasciato il paese alle spalle imbocchiamo la strada cantonale che da Leontica sale verso il Nara». Da quassù le case del villaggio sembrano stringersi le une alle altre, in un’intimità intrisa di calore e solidarietà. Ed è questa la prima impressione che traspare dal romanzo di Fabio, l’immagine di una comunità aggrappata a valori d’altri tempi che continuano a improntare la vita di ogni giorno. Un’esistenza fatta di semplicità, frugalità, lentezza, ritualità e profonda commistione con la natura e i ritmi delle stagioni. Una comunità che se ne sta, comunque, in bilico tra quel suo mondo ancora essenziale e arcaico e la «mo-
re all’essenziale. Un modo di scrivere, che si è portato a casa dalla California, assieme a una Remington anni Trenta, che se ne sta lì, nera, come una reliquia appoggiata a un tavolino contro la parete del suo salotto montano. Ogni tanto ci batto ancora su quei tasti. Funziona benissimo. Chissà quante pagine ha scritto. Nel Golden State c’è vissuto per sei anni, studiando dapprima l’inglese a San Diego e poi sceneggiatura alla Scuola di cinema di San Francisco. Laggiù ha conosciuto il fascino degli scrittori della Beat Generation e uno dei fondatori del movimento, il poeta Lawrence Ferlinghetti. Che gli hanno lasciato il segno.
«Ho imparato ad amare la natura, stando assieme al Felice. A vivere con poco, ad accontentarmi di quello che ho». Fabio butta lì qualche frase ogni tanto, non parla molto, ma sale con passo leggero sul sentiero che lascia per un attimo il bosco e si affaccia su una gobba fiorita con un paio di baite. Camminare in montagna per lui è una sorta di meditazione, un ritrovare se stesso. E la natura gli procura quel senso di pace che già gli trasmetteva il vecchio montanaro. Pace e una certa dolcezza, penso. Almeno qui, su quest’altro poggio su cui siamo sbucati e da dove lo sguardo abbraccia tutta l’alta valle di Blenio. Il sole ha pulito l’aria dai sedimenti d’umidità della notte, l’ha resa limpida e vivida e il cielo conserva solo, in lontananza, lembi di nuvole sospesi alle vette. In primo piano si distinguono i dolci pendii del Nara, di Piandioss e di Gorda. Sull’altro versante della valle, s’intravvedono i primi contrafforti del massiccio dell’Adula e, di fronte a noi, la Cima di Gana Bianca e la piramide del Simano.
Incontriamo altre cascine tra i prati falciati, poi il sentiero ritorna nel bosco, che taglia in leggera salita. Fabio mi precede sempre con quel suo passo fluido e ritmato. Gli chiedo del suo nuovo libro (Ndr: Sei tu, Ticino? Pubblicato il 17 settembre da Rubbettino). «È un’altra cosa. Prima di tutto nella forma. Questo è un libro di racconti. Sette, con altrettanti personaggi. C’è l’Andrea tormentato da un amore non corrisposto, il Teo, amante della montagna e poi il Seba, appassionato di BMW, la ragazza che ha scoperto il fumo, quello finito in galera. È diverso anche a livello tematico, questo è forse meno poetico e vi affronto altri argomenti. In comune hanno però lo stile narrativo asciutto. Direi che, se La
pozza del Felice è un country blues, in Sei tu, Ticino? c’è anche un po’ di rock». In quest’epoca del mordi e fuggi, di post ridotti all’osso e cinguettii che svolazzano nel web, il genere «racconto» sta tornando in auge, stimolando l’interesse dei lettori frettolosi, sempre più catturati dal fascino della brevità. E l’editoria si adegua. Anche la Rotpunktverlag ha annusato le nuove opportunità e sta valutando di tradurre in tedesco anche il nuovo libro di Fabio Andina. «E infine, dopo un interminabile periodo di silenzio, il Felice dice bòn e si ferma. Mi fermo anch’io, prendo fiato e poi la vedo. Una macchia plumbea fra le rocce nere. La pozza». Con il sole che c’è oggi, quando arriviamo lì, tutto appare invece più chiaro e anche la roccia risplende riflettendone i raggi. La pozza però è ridotta male, con quel misero rivolo d’acqua che l’alimenta è poco più di un catino col fondo di ghiaia. Ricordo le immagini del documentario di Fabio Calvi. È la fine novembre, il Felice/Anselmo nudo come un verme spacca il ghiaccio a colpi di tallone, entra nell’acqua e butta fuori i lastroni lucenti. Poi s’immerge a pancia in giù. E pensare che allora aveva già ottantasette anni, mi fa Fabio, che se ne sta lì seduto sul tronco, pensieroso. Quando ho scritto il libro, continua, ho fatto una promessa, se riesco a pubblicarlo, per ringraziare, che so, l’universo che ha tramato per far sì che trovassi un editore, ogni volta che ritorno a Leontica vengo a tuffarmi nella pozza. È una sorta di rito, per Fabio, il mantener fede alla promessa. L’immergersi nell’acqua fredda è un po’ come rimaner vicino al vecchio montanaro scomparso prima che il libro vedesse la luce, perché quest’acqua nel suo ciclo continuo bagnerà sicuramente anche lui, ovunque si trovi. «E poi – guardando il tronco, conclude – mi piace pensare sia un vecchio larice. Vecchio e saggio come il Felice. Forse è proprio lui, che è tornato a fare il bagno nell’acqua fresca del torrente Gurundin». Bibliografia
Fabio Andina, La pozza del Felice, Ed. Rubbettino, 2018, è stato tradotto in tedesco: Tage mit Felice, trad. Karin Diemerling, Rotpunktverlag, Zürich 2020. Mentre la versione francese a cura di Anita Rochedy (traduttrice di Paolo Cognetti) sarà pubblicata dalle Editions Zoé di Ginevra nella primavera 2021.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Ambiente e Benessere
La coltivazione del futuro
Bio-reportage Uno dei più interessanti metodi sviluppati di recente è quello delle serre idroponiche,
un sistema all’avanguardia per un’agricoltura ecosostenibile
Luigi Baldelli, testo e foto Se ne parla in verità dal 1919, grazie a un articolo che William Frederick Gericke dell’Università della California pubblicò in merito all’«acquacoltura». Da allora – tra i tanti che hanno fatto ricerche si annovera anche la Nasa – questo sistema si è evoluto sempre di più. Ma che cosa è esattamente l’agricoltura idroponica? È, per semplificare, la coltivazione delle piante senza suolo o fuori dal suolo, senza terra e con le sostanze nutritive sciolte nell’acqua, che viene portata alla base della pianta con un sistema a goccia. Parliamo di piante che crescono in verticale, e possono superare i tre metri di altezza, come i pomodori. Oppure, come l’insalata o il basilico, che vengono messe in strutture di polistirolo e galleggiano su grandi piscine, direttamente nella soluzione nutritiva. Questo sempre più innovativo metodo di coltivazione largamente diffuso in Olanda, dopo varie sperimentazioni in tutta Europa e non solo, oggi viene anche esportato in paesi aridi dove coltivare è arduo, come, per citare un solo esempio, la Giordania che, dall’anno scorso, ha avviato un progetto importante per estendere in tutto il paese questo sistema. Anche in Ticino sono stati avviati progetti di varie specie (sperimentali e tecnologici, privati). Per dirne una, alla Migros si trova in vendita un’insalata di coltura idroponica prodotta dall’Orticola Meier di Quartino.
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Diversi sono i vantaggi. Ad esempio, si ottengono così ortaggi tutto l’anno, un risparmio di acqua, assenza di fertilizzanti e pesticidi, nessuno sfruttamento del suolo, prodotti buoni e sani. Queste, le basi su cui si sviluppa
una serra idroponica, il nuovo modo di coltivare la verdura, dove tecnologia e innovazione vanno a braccetto. Abbiamo cercato di capire meglio di che cosa si tratta, rivolgendoci a chi ne sta facendo ampia e profonda espe-
rienza: «Serra idroponica vuol dire anche Resistenza, Impatto, Responsabilità, Azione». Così, Luigi Galimberti spiega la filosofia del suo sogno diventato realtà. Amministratore delegato di Sfera Agricola – la più grande serra
idroponica in Italia, 13 mila metri quadri in provincia di Grosseto nella Maremma toscana – per ora produce insalata, basilico e pomodori e in futuro coltiverà anche peperoni e cavolfiori. «Resistenza vuol dire proteggere le nostre piante; Impatto perché vogliamo proteggere e ispirare il territorio; Responsabilità verso il consumatore che vogliamo istruire sul cosa sceglie e cosa mangia; Azione significa riduzione degli sprechi» continua Galimberti seduto dietro la sua scrivania, in un semplice e funzionale ufficio, lontano anni luce da come vengono immaginati gli uffici degli amministratori delegati. I numeri positivi che ha una serra idroponica sull’ambiente sono edificanti. Qui, dove è prevista la produzione di tre milioni e mezzo di chili di pomodori per il 2020, il risparmio di acqua per l’irrigazione raggiunge l’80% e quello dei fertilizzanti il 90% se confrontati con le stesse produzioni nei campi. «Sono convinto che bisogna cambiare il modo di pensare l’agricoltura», continua Galimberti. «Le piante nei campi sono sempre sotto attacco da virus, insetti e muffe e la frutta, per renderla sempre più resistente ai virus, ha perso sapore. Oggi per fare un buon prodotto alimentare ci vogliono le giuste e moderne tecniche di produzione». E allora andiamola a vedere da vicino questa «rivoluzione agricola». L’interno di questo tempio ha la luce morbida filtrata dai teli della serra. Ogni volta che si entra in un «reparto» Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere bisogna pulirsi la suola delle scarpe. Sulle grandi vasche dentro fogli di polistirolo, con le radici immerse in acqua e sostanze nutritive, galleggiano insalata e basilico. Una distesa di colore verde. Si passa da quelle appena «seminate» a quelle pronte per essere raccolte. I lavoratori sono tutti giovani, ragazze e ragazzi italiani e stranieri. Ma la vera sorpresa è quando si entra nel «tempio del pomodoro». File e file di piante, che crescono verso l’alto e vengono appese al soffitto, alte anche più di tre metri e lunghe più di trenta, piantate in piccoli cubi di lana di roccia infilzata da aghi di plastica che rilasciano acqua e sali minerali. La pianta cresce verso l’alto, dove in cima produce i pomodori, e solo quando questi sono maturi, viene abbassata. In una temperatura costante si muovono operai con carrelli che scorrono sui binari, raccolgono i pomodori, che ritrovano ad altezza delle loro mani. Non bisogna piegarsi, così, mi dicono, è più veloce e meno faticoso. In altre file, carrelli elevatori, con altri operai che abbassano le piante di quel tanto che serve ogni volta che crescono. Mentre invisibili insetti tengono lontane le specie predatrici per la pianta. I prodotti sono biologici al 100%, perché non usano neanche il rame e sono nickel free. Da una cassetta piena di pomodori datterini, ne prendo un paio per assaggiarli: sono buoni, dolci e saporiti. All’esterno un grande bacino raccoglie l’acqua piovana che poi viene utilizzata per l’irrigazione. Perché la serra idroponica è un tipo di agricoltura sostenibile: non vengono contaminate falde acquifere, si riduce o elimina l’inquinamento, si riducono gli sprechi ed è una economia circolare. Tutti quelli che lavorano qui, circa 250 persone assunte, sono della zona: «Prima di tutto abbiamo dato lavoro alle famiglie della zona ed anche per-
ché non avrebbe senso dare lavoro a chi deve fare 50/60 chilometri per venire a lavorare: saremmo ecologici nella produzione del prodotto, ma non in quello dell’aria», mi dice sorridendo Galimberti. Nella filosofia della serra idroponica, oltre al rispetto della natura c’è
anche lo scopo di educare il consumatore a sapere che cosa mangia, istruirlo al cibo. Perché è certamente vero che in Occidente siamo legati a una cultura secondo la quale il cibo proveniente dalla terra sarebbe il più genuino e buono. Ma la ricerca sta scoprendo sempre più che si tratta di una falsa cultura, tant’è che gestendo bene una serra idroponica in tutti i suoi passaggi, dalla giusta composizione dell’acqua, alla quantità di luce, all’umidità e temperatura, solo per citarne alcuni, si ottengono ortaggi e frutta con le stesse sostanze nutritive di quelli coltivati nei campi, ma più buoni. «Il modello della serra idroponica è un modello che deve essere esportato e sempre più diffuso. L’attenzione allo sfruttamento della natura, ai cambiamenti climatici, all’assenza di materie inquinanti e dannose come pesticidi e fertilizzanti sono azioni concrete per una vera sostenibilità» spiega Galimberti. Ed è un modello, come detto, che si può esportare anche in paesi in via di sviluppo, permettendo di avere sempre
verdura 365 giorni all’anno, anche dove le risorse naturali, tipo acqua, sono scarse. Se sono vere le stime di crescita della popolazione, tra 30 o 40 anni ci saranno il doppio di abitanti sulla terra. E allora bisognerà sempre produrre di più, perché la gente va sfamata. Ma se
continuiamo con questo ritmo di sfruttamento della terra, le risorse saranno sempre meno. E solo con responsabilità e con le giuste azioni, da quel meno si potrà ottenere sempre di più e iniziare a restituire alla terra quello che le abbiamo preso. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Broccoli con gremolata di castagne
Migusto La ricetta della settimana
Secondo piatto Ingredienti per 4 persone: 800 g di broccoli · 1 limone · 2 c d’olio d’oliva · 1 spic-
chio d’aglio · 1 peperoncino, circa · 100 g di castagne arrostite e sbucciate (vedi ricetta castagne arrostite fatte in casa o castagne surgelate) · 4 c circa di salsa di soia.
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
1. Dividete i broccoli e i gambi in bocconi e lessateli in acqua bollente. Scolateli croccanti e lasciateli sgocciolare. 2. Nel frattempo, prelevate delle striscioline di scorza di limone e aggiungetele in un tegame con l’olio. Spremete il limone. Aggiungete un po’ di succo all’olio e l’aglio schiacciato. Tagliate il peperoncino ad anelli sottili. Dividete le castagne in quattro e fate soffriggere tutto nell’olio. Insaporite la gremolata con la salsa di soia, quindi distribuitela sui broccoli. Preparazione: circa 20 minuti. Per persona: circa 36 g di proteine, 22 g di grassi, 18 g di carboidrati, 450 kcal/
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Ambiente e Benessere
Un inquietante irrefrenabile caos Sport Come dribblare misure di protezione, iniquità, teorie contrastanti e interessi divergenti?
Ditecelo a chiare lettere. Ci aiuterà a liberare la mente, a superare le innumerevoli incongruenze, nei confronti delle quali siamo stati impotenti spettatori, a partire dal 25 febbraio scorso. Cito solo la questione mascherine, quale esempio di tema sul quale si è cambiato orientamento due miliardi di volte. Per 8-9 mesi, siamo stati bombardati dalle opinioni più disparate, frutto delle riflessioni di virologi, immunologi, medici cantonali, medici generici, omeopati, medici antroposofici, guaritori, filosofi, e mi fermo qui, per una questione di spazio. Almeno fossero state tutte solidali e coerenti, per la serie: «È così, non si scappa. Adeguiamoci!». No, Il virologo A replicava all’immunologo B, il quale contestava le teorie del ricercatore C, che a sua volta rispondeva alle tesi del naturopata D. E noi, lì, nel mezzo del guado. Sconcertati. Senza strumenti di difesa. In balia degli eventi. Va detto che su queste riflessioni multilaterali, più o meno tutti, genitori, insegnanti, falegnami, impiegati, architetti, disoccupati, eccetera, abbiamo ricamato, sui social, nelle piazze reali e in quelle virtuali, o con delle lettere aperte alla stampa. Risultato: il caos. Il disorientamento totale. Si va dalla fiducia cieca nelle istituzioni – e al conseguente senso ferreo del dovere e della responsabilità sociale – alle teorie complottiste, fino all’intolleranza totale sfociata in violente manifestazioni di piazza. Facciamo in modo di avere almeno un’unica boa alla quale aggrapparci. Tutti, insieme, appassionatamente, su un sentiero, in un bosco, a muoverci in estatica contemplazione della natura.
Ben venga che i nostri figli e nipoti continuino a frequentare la scuola. È un luogo di crescita individuale, e di socializzazione. Non so se ci siano dei dati che possano indicare il tasso di contagio e di diffusione del virus all’interno delle varie aule, in cui da 15 a 25 allievi convivono per 30-35 ore settimanali. Si sa di alcune classi costrette a un periodo di quarantena, poiché un loro membro è risultato positivo al test del Coronavirus. Nulla di allarmante, almeno per ora. Quindi non si intravedono gli estremi per una nuova chiusura di tutto il sistema scolastico cantonale, e per un conseguente ritorno alla formazione a distanza. Così hanno stabilito le autorità politiche, sanitarie e scolastiche. Parimenti, le stesse autorità, hanno decretato la prosecuzione di tutte le attività lavorative: fabbriche, uffici, cantieri. «È una questione di sopravvivenza – si è detto – non vogliamo che i probabili mali socio-economici siano più pesanti di quelli medico-sanitari». Preoccupazione legittima. Già, ma lo sport non fa parte del tessuto economico della società? Si è voluto porre un freno a tutte le attività sportive amatoriali, ritenute non indispensabili, e lasciar proseguire i campionati professionistici. Tuttavia, con un massimo di 50 persone in pista o nello stadio. Dimenticando quindi ciò che da tempo scandiscono a viva voce i dirigenti dei nostri club sportivi: «Senza pubblico siamo destinati all’estinzione». In poco tempo si è passati da un tetto massimo di mille spettatori, a un’occupazione dei due terzi dei posti a sedere, per poi precipitare di nuovo, verso una situazione praticamente
Keystone
Giancarlo Dionisio
a porte chiuse. Ciò che sconcerta è la mancanza di armonia e di coerenza delle misure imposte. Posso immaginare il clima di promiscuità e di contatto all’interno di un’aula scolastica. L’ho vissuto da allievo, da studente e da insegnante. Vedo quotidianamente gli assembramenti di studenti e lavoratori sui mezzi pubblici. Ma nessuno batte ciglio. Il buon senso mi suggerisce però che all’aperto, su un campo di calcio, su una pista di hockey o di atletica, in un bosco, oppure, al limite, anche in una palestra molto ampia, ci siano maggiori possibilità che le regole di comportamento dettate dal diffondersi del virus, vengano rispettate.
Se c’è un atto di coraggio da compiere in questo periodo di incertezze, è proprio quello di incoraggiare i bambini a una sana e prudente pratica sportiva. Tra le varie teorie ascoltate in questi mesi, ce n’è una che torna costantemente. È una sorta di ritornello. Un tormentone. «Rinforzate il sistema immunitario! Vi aiuterà a essere più resistenti al virus, e, qualora ne risultaste contagiati, a combatterlo più efficacemente». A corollario di queste teorie, molti medici e specialisti vanno sostenendo che, oltre ai farmaci, non necessariamente di matrice chimica, sono di grande aiuto il movimento all’aria aperta, il sole, le attività aero-
biche, nonché la gioia di stare insieme. Questo, lo predicavano anche le nostre autorità sanitarie, la scorsa primavera, in pieno lockdown, quando si proibiva agli anziani di entrare nei negozi per gli acquisti, ma si suggeriva loro di ritagliarsi un’oretta giornaliera per una sana passeggiata nei boschi, nella massima sicurezza. Fare altrettanto oggi, sarebbe un segnale importantissimo. Avrebbe l’effetto di un farmaco anti-caos. Un rimedio per farci capire che chi ci guida è attento, vigile, ma anche cautamente ottimista. Teme il virus, ma non ha paura di affrontarlo a testa alta. «Muoversi all’aria aperta fa bene».
Giochi
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Contrariamente a quanto si pensa, quando i matadores, durante la corrida sventolano il drappo, i tori non sono disturbati dal suo colore. Perché? Cosa li disturba? Risolvi il cruciverba, leggi le lettere evidenziate e lo scoprirai. (Frase: 4, 9 – 2, 8, 3, 6)
ORIZZONTALI 1. Visto nel sonno 7. L’attore Richard Sandler 8. Due gocce... del 6 verticale 9. Le iniziali di Torricelli 10. Creature mitologiche giapponesi 12. 10 verticale in tedesco 14. Un articolo 16. Modulo lunare 18. Simboli della Pasqua 21. Pure, schiette 23. Fiume austriaco affluente del Danubio 24. Persona con i giusti requisiti 26. La conduttrice D’Eusanio 28. Le iniziali dell’attore Eastwood 29. Ispida, pungente 31. Organizzazione per la Liberazione della Palestina 32. In fila nei treni 33. Haunnomecortomaèlunghissimo VERTICALI 1. Le iniziali dell’attrice Autieri 2. Alato carme 3. Cancello inglese 4. Iniziali di Machiavelli 5. Tuo a Parigi 6. Di gomito non unge... 10. Un quinto di five 11. Insetto puzzolente 13. Nome femminile 15. Offende, danneggia 17. Stretto passaggio 18. Contrapposta all’altra 19. Capitale della Norvegia 20. Fiume della Sicilia 22. Mettono fine al lavoro 25. Unità di misura del lavoro 27. Tre consonanti in discolpa 30. Rendono parenti i preti...
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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7 Soluzione della settimana precedente
MAGICI BOSCHI – Paesi europei con la maggiore superficie boschiva: SVEZIA, SPAGNA, FINLANDIA.
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Politica e Economia Quell’altra America Il massiccio voto a favore di Trump ha messo ancora una volta in evidenza che negli USA c’è una forte identificazione con il capitalismo pagina 29
Politica estera turca Si sta facendo sempre più aggressiva la presenza di Erdogan nel Mediterraneo Orientale e nel Caucaso dove la diplomazia, se mai c’è stata, ha lasciato il posto alle parole forti e alle armi
Cantoni in affanno Il contact tracing è uno dei principali strumenti per tenere in scacco la pandemia. Ma funziona sempre meno
Dal Libor al Saron La Banca Nazionale cambia il tasso d’interesse di riferimento, il cambiamento avrà un impatto sul mercato ipotecario
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Ombre sulla democrazia americana
Presidenziali USA Il voto riflette una spaccatura di fondo del paese che si è aggravata; preoccupazione fra gli alleati
di Washington, mentre cinesi, russi e iraniani si rallegrano dell’incertezza generata da queste elezioni
Lucio Caracciolo In attesa che gli azzeccagarbugli sbroglino la matassa dei voti che prima o poi decreteranno il nome del nuovo presidente degli Stati Uniti, è già possibile un bilancio provvisorio degli effetti geopolitici delle elezioni. Sul fronte interno e su quello esterno. Per ordine. La superpotenza si conferma dilaniata al suo interno da una contrapposizione mai così aspra, almeno nel secondo dopoguerra. Dipinta dalla cartografia elettorale, che scerne il blu democratico (Biden) dal rosso repubblicano (Trump) nell’insieme dei 50 Stati. Ma il voto non fa che riflettere una spaccatura storica, di fondo, fra le coste atlantica e pacifica e le Americhe di mezzo. Le prime due in condizione post-storica, stanche d’impero, refrattarie alla gloria, indisponibili alla
guerra. Edoniste non reaganiane. Simboleggiate da California e New York. Il cuore della nazione è invece giovane e violento, l’opposto delle coste. Con una determinante componente germanoamericana. Sono i discendenti degli immigrati tedeschi, particolarmente numerosi nel Midwest, specie attorno ai Grandi Laghi, ad aver inclinato la bilancia elettorale dal lato di Biden. Ed è contro questa sconfitta – almeno stando ai dati disponibili – che si è per ora infranta la macchina lanciata da Trump alla riconferma da presidente. Nella fly-over America, che noi europei tendiamo appunto a sorvolare trascorrendo da una costa all’altra, si decide e si deciderà in futuro l’equilibrio politico del paese. È la parte più sensibile alla crisi economica, in parte strutturale – si pensi al Rust Belt, l’ex cuore industriale della superpotenza,
oggi semidistrutto più che arrugginito – e più avversa alla globalizzazione, quindi alla Cina «rubalavoro». Trumpiani, in linea di massima, anche se non nella misura sufficiente per dargli la maggioranza del voto popolare nel 2016 come nel 2020. Altro fattore decisivo, gli ispanici. Che però non sono blocco. Ad esempio, in Florida hanno dato la vittoria a Trump, che si offriva loro come argine contro i «comunisti» (per loro castristi) che avrebbero sequestrato il Partito democratico. Altri, specie in Arizona, dove prevalgono i chicanos (già messicani), si sono divisi più nettamente fra i due candidati. La minoranza nera, molto mediatizzata negli ultimi mesi per gli efferati omicidi di polizia ai danni di alcuni suoi membri, si conferma più visibile che decisiva. Anche per il numero non formidabile dei suoi
componenti. In gran parte comunque schierati con Biden. Ma gli effetti più visibili riguardano il fronte esterno. I vincitori, finora, di questa elezione sono i nemici dell’America. Cinesi, russi, iraniani e quanti altri sono finiti in questi anni nel mirino statunitense, non solo metaforicamente. Il caos dello spoglio infinito e revocabile getta più di un’ombra sul funzionamento della democrazia americana. Una macchia sul già discutibile soft power a stelle e strisce. La gioia maligna è il sentimento prevalente nelle capitali «nemiche». Più rilevante il rimbalzo sugli alleati, europei ed asiatici. Nel momento in cui Washington li chiama a raccolta per schierarli nella campagna, per ora non bellica, contro la Cina, costoro cominciano a chiedersi fino a che punto la leadership americana sia credibile, coerente, affidabile. Impressionanti le pri-
me reazione tedesche. La ministra della Difesa Annegret Kramp-Karrenbauer, cristiano-democratica già candidata dalla Merkel per succederle, ha parlato di «situazione esplosiva» in America. Il collega delle Finanze e vicecancelliere, il socialdemocratico Olaf Scholz, ha messo in dubbio la credibilità dei risultati finora emersi. Molto preoccupati giapponesi, sudcoreani, indiani, australiani e altri potenziali soci della crociata anticinese. Per loro la partita non è solo economica, ma anzitutto di sicurezza. Le dispute intestine agli apparati americani e l’incertezza sul prossimo comandante in capo non promettono bene. L’America ha le risorse per rimettere in ordine la casa. Ma non sarà operazione né breve né indolore. Nel frattempo, dovremo abituarci tutti a vivere un poco più pericolosamente.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Politica e Economia
L’anima capitalista degli USA
Elezioni presidenziali 2020 Donald Trump continua ad avere un vasto seguito nella popolazione, segnatamente
in quella parte che pone il benessere economico sopra ad ogni altro valore, compresa la lotta alla pandemia
Nessuno scandalo, fra i tanti che hanno caratterizzato la presidenza Trump, ha fatto deflettere i suoi sostenitori dal votarlo ancora una volta. (Keystone)
Federico Rampini Il risultato finale dell’elezione è appeso ai ricorsi che Donald Trump ha presentato per trascinare l’America ai tempi supplementari con le battaglie legali. Con ogni probabilità non hanno alcun fondamento le sue accuse di brogli e schede truccate. È grave che il presidente in carica lanci un simile attacco per delegittimare la correttezza del processo elettorale. È indegno ma non è sorprendente. Trump lo aveva annunciato da mesi, e dovremmo ormai sapere che lui fa quello che dice. Forse ci terrà con il fiato sospeso fino all’8 dicembre, scadenza obbligatoria perché i 50 Stati Usa rendano finali e ufficiali i loro risultati. Biden sarà comunque il 46esimo presidente degli Stati Uniti, con ogni probabilità.
L’«onda blu» sperata dai democratici non si è avverata: molti neri e ispanici hanno votato per i repubblicani Ci sono già tante lezioni importanti da questo voto, utili anche per capire l’America e gli scenari del nostro futuro. Questa elezione conferma alcune differenze valoriali e culturali tra le due sponde dell’Atlantico. Ne segnalo una, che non dovrebbe sorprenderci ma viene spesso sottovalutata: l’America ha una diffusa cultura capitalista, molti cittadini qui (non necessariamente ricchi) riconoscono la centralità dell’impresa come motore del benessere collettivo. Se si vuol capire quella metà di America – o quasi – che vota repubblicano, questo è un dato importante. Questa tornata elettorale ha smentito una rappresentazione dell’America che da quattro anni prevale sui media di riferimento (come Cnn, «New York Times», «Washington Post»). Ci hanno raccontato una vasta reazione di rigetto
verso il «mostruoso» Trump, che non c’è stata. Ci hanno annunciato svolte epocali, ciascuna delle quali doveva affondare questo presidente. Prima lo scandalo del Russiagate, poi l’impeachment, poi ancora il coronavirus e la recessione conseguente, poi le proteste contro il razzismo per l’uccisione di George Floyd, infine gli scandali fiscali, lo scontro sulla Corte suprema. La geografia elettorale che esce dalle urne invece è di una sostanziale stabilità. Grosso modo i rapporti di forze dei due schieramenti sono rimasti al 2016, come se nulla fosse accaduto da allora. Trump è sempre rimasto un presidente di minoranza, per quattro anni i suoi consensi hanno oscillato attorno al 45% a livello nazionale o poco sopra, ma quel patrimonio di consensi è intatto. Gli spostamenti, dove ci sono stati, sono modesti. Il più significativo, per assegnare la Casa Bianca a Biden, è la sua parziale riconquista di voti operai nell’Upper Midwest: Wisconsin e Michigan. È la «missione compiuta» del vecchio Joe, la ragione principale per cui molti hanno visto in lui il salvatore dopo la sconfitta di Hillary Clinton. Però la maggioranza degli operai ha continuato a votare Trump, e nel Midwest il presidente ha conservato l’Ohio, dove il 56% degli operai iscritti al sindacato ha votato per lui. Quella quasi-mezza America che lo vota condivide la sua narrazione sul coronavirus: la pandemia non è colpa sua, se ha fatto degli errori non sono più gravi di quelli fatti da certi governatori democratici (o governanti stranieri), in compenso ha ragione a non voler paralizzare l’economia nazionale a oltranza perché i danni dei lockdown rischiano di essere ancora più micidiali del bilancio della pandemia. Un dato importante riguarda il voto etnico, che etnico non è affatto. La narrazione di un’America anti-razzista che vota a sinistra contro un’America razzista che vota a destra, è una caricatura. Trump ha avuto un successo decisivo tra gli ispanici in Florida, è questa
la ragione per cui quello Stato-chiave non è andato ai democratici. L’idea che gli ex-immigrati siano «naturalmente» di sinistra è una delle illusioni del partito democratico. Gli ex-immigrati venuti da Cuba ma anche dal Messico o da Portorico, se hanno avuto qualche successo economico diffidano di una sinistra che istintivamente «cura» ogni problema a colpi di tasse e spesa pubblica. Se hanno ottenuto la cittadinanza americana nel rispetto delle leggi, diffidano di una sinistra radicale che vuole aprire le frontiere a tutti, anche a chi entra in violazione delle leggi. Trump è andato meglio del previsto perfino tra gli afroamericani, a dispetto di tutta la retorica sulla «rivoluzione anti-razzista» di Black Lives Matter. Certi afroamericani, come tanti ispanici e tanti bianchi, hanno considerato positivo il bilancio economico dei primi tre anni di Trump, e non gli addebitano il disastro della recessione post-pandemia, anzi pensano che le sue ricette siano più adatte a tirare fuori l’economia americana da questa crisi (come sembra dimostrare il rimbalzo del Pil nel terzo trimestre). In quanto alle proteste anti-razzismo, si sono rivelate un autogol per la sinistra. Se sei afroamericano e commerciante, o piccolo imprenditore, o proprietario di ristorante, e hai visto gli spacciatori e i capi-gang del tuo quartiere mettersi le magliette di Black Lives Matter, impugnare le mazze da baseball, spaccare le vetrine per svuotare i negozi, tu voti per chi sta dalla parte della polizia. Lo slogan «togliamo fondi alla polizia», pur sconfessato da Biden, è stato gridato nelle piazze per mesi, ha l’appoggio della sinistra radicale, ed è diventato realtà nelle due maggiori metropoli americane grazie ai loro sindaci democratici: Bill de Blasio a New York, Eric Garcetti a Los Angeles. Perfino nella ultra-democratica California, che continua a votare a sinistra, tre referendum hanno dato dei segnali in contro-tendenza rispetto all’immagine progressista di quello
Stato. Ha vinto la flessibilità del lavoro nella Proposition 22: Uber e altre aziende simili non saranno tenute a trattare i propri lavoratori come dei dipendenti stabili. Ha perso il referendum che voleva reintrodurre la affirmative action nelle università, cioè le ammissioni preferenziali in base a quote etniche, per favorire minoranze come gli afroamericani (ha vinto qui la resistenza degli asiatici-americani, di gran lunga la percentuale maggiore di studenti, che si fanno strada grazie ai criteri meritocratici). È quindi sconfitta la politica «identitaria» di una sinistra che pensa di governare sfruttando il risentimento razziale, la pretesa di un risarcimento per tutti i torti subiti da due secoli. È in bilico, ma rischia di non aver successo, anche un terzo referendum che puntava ad aumentare la pressione fiscale sugli immobili. Perfino la California dunque mostra qualche dubbio sui dogmi della sinistra di governo. California e New York sotto i governanti democratici hanno raggiunto livelli di pressione fiscale europei; eppure hanno il record dei senzatetto, e hanno servizi sociali scadenti. Hanno continuato ad aumentare le tasse ma non sono paradisi scandinavi. Prima ancora che dilagasse lo smart working da pandemia, molti californiani e newyorchesi avevano cominciato a emigrare verso Stati con minore pressione fiscale. I media, i sondaggisti, e i dirigenti democratici come la presidente della Camera Nancy Pelosi avevano alimentato il sogno di un’Onda Blu che doveva consegnare ai democratici la Casa Bianca, la maggioranza al Senato, un ulteriore aumento di seggi alla Camera, e magari espugnare il Texas. Questo dimostra quanto fossero incapaci di capire la realtà del paese. Ora i mercati festeggiano lo scenario di una presidenza Biden con un Senato repubblicano: è un equilibrio che impone compromessi permanenti, obbliga a governare al centro. Per tradurlo nel linguaggio della politica europea, è quasi l’equivalente di un governo di
coalizione. L’America che crede nella centralità delle imprese, chi pensa che sarà l’iniziativa privata a trainarci fuori da questa depressione, chi non vuole più tasse e più burocrazia, terrà sotto controllo una presidenza democratica. La sinistra delle università e dei media continuerà a descrivere questa mezza America come una tribù di fascisti, ignoranti, razzisti, bigotti. Dopo la sconfitta dei sogni di Onde Blu e di grandi New Deal, si consolerà cullandosi sulla certezza della propria superiorità morale. Trump, se si conferma la sua sconfitta, griderà al golpe e si trasformerà nel capo di un’opposizione bellicosa, incivile, preparandosi a una campagna per il 2024. Non sono ottimista sulla qualità della democrazia americana. La forza dell’economia americana però è fatta di altri ingredienti, ed è saggio non sottovalutarli. Non considero particolarmente significativo l’aumento delle Borse, non riflette l’economia reale. Però qualcosa gli investitori hanno intuito, sul fatto che in questa elezione chi ha votato Trump e ha difeso la sua maggioranza al Senato, ha votato per il capitalismo. Qualche retroscena su questa elezione. La riconquista del Michigan da parte di Biden non è merito suo ma della candidata Libertarian, Jo Jorgensen, che ha portato via a Trump la manciata di voti decisivi (1,1%). Si è ripetuta, all’incontrario, la beffa dei candidati indipendenti che di solito danneggiavano i democratici: il Verde Ralph Nader nel 2000 e la Verde Jill Stein nel 2016 portarono via a Gore e Hillary giusto quel tanto che bastava. I Libertarian sono una minuscola spina nel fianco del partito repubblicano, rappresentano la destra anti-Stato pura e dura. Il Wisconsin è l’altro Stato dell’Upper Midwest che Biden è riuscito a riportare nella casella democratica dopo che Trump lo aveva espugnato nel 2016. Qui sembra essere stato decisivo il Coronavirus: lo Stato ha un’impennata di contagi e molti elettori dicono di averlo considerato il problema.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Politica e Economia
«Zero problemi» Turchia Il motto di Erdogan si è trasformato in una politica
aggressiva di stampo neo-ottomano nel Mediterraneo Orientale e nel Caucaso Francesca Mannocchi Mercoledì scorso il giornale satirico «Charlie Hebdo» ha pubblicato una vignetta che ritrae il presidente turco Recep Tayyip Erdogan in mutande, con una lattina in mano nell’atto di sollevare l’abito a una donna velata, gridando «Uh, Il profeta!». La reazione di Ankara è stata immediata. La procura della capitale turca ha annunciato l’apertura di un’indagine contro i vertici di «Charlie Hebdo». La presidenza turca ha condannato la caricatura definendola «abietta» e sostenendo che rifletta l’ostilità verso l’islam del presidente francese. È solo l’ultima tappa di una crisi diplomatica profonda tra i due paesi che non sono nuovi a contrasti molto aspri. La Turchia e la Francia sono ai ferri corti sul Mediterraneo Orientale, sul Caucaso e soprattutto sul conflitto in Libia, dove Erdogan ha già raggiunto risultati militari significativi in cambio di investimenti e risorse energetiche. Il caso francese è la sintesi perfetta dell’atteggiamento del presidente turco in politica estera. «Zero problemi con i vicini» è stato a lungo il motto della politica di Recep Tayyp Erdogan, corollario della diplomazia di Ankara per sviluppare relazioni di buon vicinato in Nord Africa e Medio Oriente e accreditarsi con i partner europei. Oggi, al contrario, la Turchia è parte attiva (si legga aggressiva) in diversi cruciali scenari internazionali, in dieci anni ha raddoppiato la spesa militare e intende produrre tutte le proprie armi entro il 2023. La diplomazia ha lasciato posto alle armi, il motto zero-problemi è diventato problemiovunque. Restringendo l’elenco alle iniziative militari più recenti, è stata protagonista di tre offensive in Siria, della guerra a Tripoli, del conflitto tra armeni e azeri per il controllo del Nagorno-Karabakh e vanta una presenza militare in Somalia, Qatar e Afghanistan. Gli scenari più critici al momento sono il Mediterraneo Orientale e l’Armenia. Da quando sono ripresi i combattimenti in Nagorno-Karabakh, il territorio conteso tra l’Azerbaigian e l’Armenia, i turchi hanno inviato armi e uomini agli azeri, e assunto posizioni radicalmente distanti dal resto della comunità internazionale. Laddove le Nazioni Unite, l’Europa e la Russia
chiedevano un cessate il fuoco, Erdogan ribadiva il sostegno militare all’Azerbaigian sostenendo che non esista una soluzione diplomatica al conflitto senza il ritiro delle truppe armene dai territori contesi. Nel Mediterraneo Orientale le tensioni si sono acuite la scorsa estate quando la Turchia ha inviato la nave Oruc Reis per delineare nuove possibilità di perforazione di petrolio e gas, e navi da guerra a scortarla, rischiando uno scontro militare con la Grecia che rivendica la territorialità di quel confine marittimo. Dopo averla ritirata il mese scorso, ufficialmente per lavori di manutenzione e rifornimento, e aver avviato negoziazioni diplomatiche mediate dall’Europa, a ottobre la Turchia ha inviato nuovamente la Oruc Ries a sud dell’isola greca di Kastellorizo, un’area di fatto scarsamente ricca di gas e petrolio ma che rappresenta nella contesa tra Grecia e Turchia il terreno di una espressione muscolare della forza militare turca, con il governo di Ankara che ha non solo messo in campo una flotta complessiva di circa venticinque navi da guerra in tre settori del Mediterraneo Orientale ma effettua quotidiane ricognizioni dell’aviazione sull’area. Il governo greco, allarmato dal mancato rispetto degli accordi estivi, ha descritto le decisioni turche come «minacce alla sicurezza della regione». Quelle greche non sono le uniche critiche. La portavoce del ministero degli Esteri francese Agnes von der Muhll ha chiesto alla Turchia di astenersi da nuove provocazioni e mostrare buona fede, e il governo tedesco – attraverso il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert – ha definito l’intervento turco «un passo deplorevole e poco saggio», sottolineando che «sarebbe certamente tutt’altro che favorevole allo sviluppo delle relazioni tra l’Ue e la Turchia». In Libia, forse più che in altri scenari, le mire economiche fanno il paio con la strategia militare. Due settimane fa Turchia e Libia hanno sottoscritto un memorandum d’intesa per i progetti incompiuti in Libia che va ad aggiungersi a quello marittimo e quello militare siglati lo scorso anno. L’accordo è stato annunciato nel corso di un evento organizzato dal DEIK (Consiglio per le relazioni economiche estere della Turchia) alla presenza di 100 produttori ed esportatori turchi e 200 uomini d’affari libici e
consente alle imprese appaltatrici turche di riprendere i progetti interrotti in Libia prima della rivoluzione del 2011. «È un momento molto importante per i rapporti tra i nostri Paesi – ha affermato Mohammad Abdul Karim Raied, capo della Federazione generale delle camere di commercio e industria libica – e la cooperazione economica è destinata ad espandersi». Il giro d’affari è di dieci miliardi di dollari, ben al di sopra dei 3 miliardi raggiunti lo scorso anno e dei due miliardi e mezzo dell’anno prima. Il patto Erdogan-al Sarraj è chiarissimo ormai da tempo. Revisione dei confini marittimi in cambio della presa di Tripoli e accordi commerciali in cambio della conferma del sostegno militare, anche ora che la capitale è stata riconquistata. L’affare della ricostruzione è l’altra faccia del supporto militare che Erdogan ha dato e continua a dare al governo di Sarraj, incurante dell’embargo sulle armi. L’altra forma aggressiva della politica estera turca, che agisce in violazione di norme internazionali e accordi pregressi. Come dimostrato da una recente inchiesta del «Guardian», infatti, molti attori esterni al Paese nordafricano (come gli Emirati in supporto a Haftar) continuano a inviare armi in Libia in violazione dell’embargo. La Turchia, in particolare, utilizza cargo militari Airbus A400M per rifornire le proprie truppe nell’ovest della Libia, e sta espandendo la strategica base aerea libica di Al-Watiya, per rendere più agevole l’atterraggio degli aerei. Accordi che si moltiplicano, quelli tra la Turchia e la Libia e che inevitabilmente complicano gli sforzi di altri paesi, in particolare Italia e Francia, di ricoprire un ruolo diplomatico cruciale nel Paese e beneficiare delle sue risorse energetiche. Le ragioni del cambio di passo di Erdogan dalla politica zero-problemi a quella neo-ottomana sono interne e esterne, e si sovrappongono. Il mancato rispetto di accordi, le mire espansionistiche e gli interventi unilaterali sono i segni del cambiamento, in particolare dal 2015, quando l’AKP al potere ha perso la maggioranza parlamentare per la prima volta dopo più di un decennio mentre sono aumentati i consensi del partito filo curdo (HDP). A rafforzare il potere di Erdogan, inoltre, il fallito colpo di stato dell’anno successivo.
Le bandiere dell’Azerbaigian e della Turchia con i ritratti dei rispettivi presidenti. (AFP)
Il presidente turco ha sempre sostenuto che il colpo di stato fosse stato orchestrato da Fethullah Gulen, il predicatore e politologo in esilio negli Stati Uniti e che fosse necessario e urgente difendere la stabilità del Paese dai nemici interni. La minaccia rappresentata dalle manifestazioni del 2016 ha rafforzato i legami di Erdogan con i nazionalisti, ha aperto la strada alle epurazioni nelle istituzioni (in quattro anni 60 mila persone sono state licenziate o incarcerate sia negli uffici statali che nelle forze dell’ordine) e consolidato la narrazione secondo la quale la Turchia sarebbe un paese abbandonato dall’Occidente e circondato da attori ostili. La crisi economica ha fatto il resto. E in queste ore la situazione sta precipitando, effetto combinato delle tensioni geopolitiche e delle preoccupazioni degli investitori sulla gestione dell’economia. Secondo «Foreign Policy», «da quando ha raggiunto un picco di 951 miliardi di dollari, nel 2013, il prodotto interno lordo della Turchia ha invertito il suo trend di crescita, scendendo a 754 miliardi di dollari nel 2019: un calo di 200 miliardi di dollari, quasi la dimensione del Pil della Grecia, in sei anni». Il sostegno all’AKP nell’estate 2020 è sceso al 31%, un calo significativo rispetto al 43% dei voti ottenuti alle elezioni parlamentari del 2018. Spostare l’attenzione sugli scenari esteri, dipingendo il Paese come costantemente minacciato («La Turchia è il vero bersaglio di un assedio che si estende dal Caucaso ai Balcani, dal Mar Nero al Mediterraneo e alle regioni limitrofe», ha affermato di recente Erdogan) è – per il presidente turco – la strategia per zittire gli oppositori interni e ritagliarsi un ruolo decisivo nell’equilibrio regionale, approfittando dei vuoti di potere lasciati dall’Europa e dagli Stati Uniti. Non c’è dubbio, infatti, che la Turchia stia approfittando delle divisioni interne all’Europa e soprattutto della strategia statunitense di ritirarsi da quelle che Trump ha definito «guerre infinite», e non è un caso che Erdogan
abbia sostenuto Trump a scapito di Biden. Innanzitutto gli è riconoscente per aver protetto la Turchia dalle sanzioni richieste dal Congresso per l’acquisto dei missili S-400 russi e poi tanto più gli Stati Uniti abbandonano la regione, tanto più la Turchia ha modo di accrescere la sua influenza nell’area. Meglio tessere rapporti durevoli con Russia e Cina, di quanto non lo sia formalizzare alleanze con l’Europa ormai in declino sullo scacchiere internazionale e troppo critica sul mancato rispetto dei diritti umani in Turchia. Nonostante le critiche – timide per la verità, anche in occasione del colpo di stato – i paesi europei continuano a tenere un rapporto ambivalente con la Turchia. A regolare la condotta dei governi Ue verso il presidente Erdogan è principalmente la sua minaccia di aprire le porte all’Europa per milioni di rifugiati, come ha già fatto nel 2019 quando la Turchia dichiarò che non avrebbe più impedito ai migranti di arrivare in Europa e decine di migliaia di persone tentarono di entrare in Grecia, attraverso il fiume Evros. Il governo greco, oggi, con un occhio guarda al rispetto dei confini marittimi nel Mediterraneo Orientale, con l’altro comincia a guardare i confini e, preoccupato per il possibile ritorno dei migranti diretti in Europa, ha finalizzato il progetto per un muro lungo il confine nord orientale con la Turchia in prossimità del fiume Evros. Esattamente quello da cui entrarono migliaia di persone lo scorso anno. Economia, gas e armi da una parte. Ricatti sulla pelle delle persone migranti dall’altra. Europa Giano bifronte: da un lato si criticano gli abusi in Turchia, si teme per l’equilibrio della regione e le escalation militari, dall’altro si continua a drenare denaro in cambio della protezione e dell’esternalizzazione dei confini, contribuendo di fatto a dare alla Turchia un potere ricattatorio che non può che aumentare il rischio di instabilità dell’area. Annuncio pubblicitario
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Idee e acquisti per la settimana
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Torta spagnola all’arancia Ingredienti per 1 tortiera apribile di ca. 22 cm Ø 500 g (2-3 pezzi) arance bionde non trattate burro per la tortiera 5 uova 200 g di zucchero greggio semolato 250 g di mandorle macinate Per la farcitura: 1 arancia bionda non trattata Marco Dudler si occupa degli acquisti di frutta e verdura per Migros, soprattutto di agrumi.
«I nostri frutti sono trattati con cera naturale» Marco Dudler, ora sta iniziando la stagione degli agrumi. Quali sono i primi frutti?
Per primi arrivano i mandarini Satsumas, seguiti dai limoni e dalle clementine della Spagna, come anche dai pomelo miele. E in seguito?
Successivamente ci saranno già le arance bionde spagnole. Dalla metà di dicembre saranno disponibili le arance semi-sanguigne Tarocco e, poco prima di Natale, quelle rosse di Sicilia. Queste due ultime varietà necessitano di notti fredde con temperature vicine al gelo per sviluppare il loro caratteristico colore. Con il cambio dell’anno arriveranno nell’assortimento i pompelmi spagnoli, caratterizzati dal loro rapporto zucchero-acido bilanciato. Perché si parla di prodotti stagionali, quando gli agrumi sono ottenibili tutto l’anno?
Si parla di stagionali quando quasi tutti i frutti provengono dall’Europa e sono in vendita alla Migros poco tempo dopo essere stati colti dall’albero, senza stoccaggio intermedio.
Quante varietà di agrumi sono disponibili alla Migros?
Abbiamo una decina di qualità: limette, pompelmi, pomelo miele, limoni, arance bionde, arance semi-sanguigne e sanguigne, mandarini e clementine. Molti di questi sono ottenibili tutto l’anno, alcuni anche sotto la marca Sélection o Extra, come pure Bio o Demeter. Limoni e arance sfuse in vendita alla Migros dopo la raccolta sono trattati in modo naturale. Cosa significa?
Questi frutti sono trattati con una cera al 100% naturale, per esempio a base di cera d’api, carnauba o candelilla. Tali cere sono dichiarate come additivi, ma possono essere consumate senza problemi. Il trattamento con cera naturale permette di mantenere gli agrumi freschi più a lungo. Ciò consente di ridurre lo spreco alimentare e, al contempo, tutto il frutto può essere utilizzato. La Migros contrassegna questi frutti con la dicitura «per cuocere e pasticceria». Il suo consiglio per conservare gli agrumi?
Li tengo al fresco. Così facendo si conservano a lungo e non perdono il loro aroma.
Preparazione 1. Lavate le arance e tagliatele a pezzettini senza sbucciarle. Mettetele in pentola con un po’ d’acqua e lasciatele sobbollire a fuoco basso coperte per ca. 30 minuti. Fate raffreddare poi riducete in purea, meglio se con un frullatore a bicchiere. 2. Scaldate il forno a 180 °C. Foderate la tortiera con carta da forno e imburrate il bordo. Separate gli albumi dai tuorli. Montate ben fermi gli albumi, incorporate a pioggia la metà dello zucchero e continuate a montare finché gli albumi brillano. Lavorate il resto dello zucchero con i tuorli per ca. 4 minuti fino a ottenere una crema chiara. Incorporate ai tuorli la purea di arance e le mandorle. Aggiungete prima 1/3 degli albumi montati, poi con cura il resto. Versate la massa nella tortiera e livellatela. 3. Tagliate l’arancia con la scorza a fette sottili. Distribuitele sulla torta e premetele leggermente nell’impasto. Cuocete la torta nella parte bassa del forno per ca. 45 minuti. Fate la prova cottura. Sfornate il dolce e lasciatelo raffreddare su una griglia. Tempo di preparazione a. 20 minuti c Esperto + ca. 30 minuti sobbollitura + raffreddamento + ca. 45 minuti cottura in forno Costo:
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Per persona ca. 14 g proteine, 21 g grassi, 33 g carboidrati, 1600 kJ/ 380 kcal
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Una buccia «chic»
I limoni e le arance sfuse ottenibili alla Migros sono trattati dopo la raccolta solo in modo naturale. La scorza è commestibile e può essere impiegata per cuocere e in pasticceria. Per la torta all’arancia abbiamo utilizzato questi frutti Testo: Claudia Schmidt Ricetta: Andrea Pistorius
Contro il Food-Waste In progetto pilota presso la Migros Ostschweiz, le clementine, i mandarini e le arance bionde vendute sciolte vengono rivestite di uno strato protettivo («Apeel»). Quest’ultimo è a base vegetale e fa sì che i frutti rimangano freschi più a lungo.
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Politica e Economia
Contact tracing, un’arma spuntata
Pandemia Il tracciamento e l’interruzione della catena dei contagi è uno degli strumenti principali della lotta
alla pandemia. Molti cantoni sono però in difficoltà, perché colti di sorpresa dall’impennata dei casi Luca Beti Non ci si può certo distrarre un attimo. Credevamo di avere la situazione sotto controllo. Invece ci è improvvisamente sfuggita di mano. La lotta contro il nuovo Coronavirus è stata spesso paragonata a una maratona. Oggi sarebbe forse più calzante parlare di un incontro di pugilato. Siamo sul ring: da una parte il COVID-19, dall’altra noi, la popolazione svizzera. Dopo aver vinto ai punti i primi round, abbiamo abbassato la guardia, dando la possibilità al virus di riprendere vigore e metterci alle corde. Un’evoluzione che ha preso alla sprovvista un po’ tutti, esperti, autorità cantonali e Consiglio federale. Alla fine di settembre, la Svizzera con poco più di 50 casi per 100mila abitanti registrava uno dei tassi più bassi in Europa. Poi, all’improvviso, il virus ha rialzato la testa. Dall’inizio di ottobre, il numero di persone risultate positive al test, ricoverate in ospedale o in un reparto di cure intense è raddoppiato ogni settimana. In appena trenta giorni, i casi sono esplosi e il 3 novembre erano quasi 8000 al giorno nella media settimanale. Una crescita esponenziale che nemmeno gli epidemiologi avevano previsto. Marcel Salathé, membro della Task Force, alla fine di settembre aveva affermato alla televisione svizzero tedesca che il numero di casi era stabile e la situazione gestibile, situazione che permetteva di guardare con grande ottimismo ai mesi freddi dell’anno. Purtroppo non è andata così. Dopo aver lasciato gestire la crisi ai governi cantonali, il Consiglio federale è ritornato nuovamente in prima linea: la prima volta domenica 18 ottobre, durante una seduta straordinaria, la seconda volta, dieci giorni dopo. Da bordo ring ha invitato tutti ad alzare di nuovo la guardia e ha adottato varie misure, però meno restrittive rispetto ai Paesi confinanti, anche se da noi la situazione epidemiologica è più preoccupante. È la via elvetica, quella dettata anche dal federalismo. Alla spicciolata, i singoli Cantoni hanno deciso ulteriori giri di vite. Per esempio, tutta la Svizzera francese è in parziale confinamento: dopo Ginevra, Neuchâtel,
Giura e Friburgo, anche i cantoni Vaud e Vallese hanno abbassato le serrande su bar, ristoranti, cinema, musei, centri sportivi. L’obiettivo è ridurre la mobilità della gente per frenare la diffusione del virus, evitando un sovraccarico del sistema sanitario. Il numero di pazienti nei reparti di cure intense è un ottimo indicatore per capire come un Paese supera la crisi. Se nella prima ondata, la Svizzera non è mai andata in affanno, ora è decisamente più in difficoltà. Stando al rapporto di fine ottobre della COVID-19 Task Force della Confederazione, se il numero di ospedalizzazioni continuerà di questo passo, il sistema sanitario rischia il collasso tra l’8 e il 18 novembre. Nel consueto incontro con la stampa, martedì scorso Virgine Masserey, responsabile della Sezione controllo delle infezioni dell’Ufficio federale della salute pubblica, ha confermato questa previsione, indicando che con il ritmo attuale tutti i letti nei reparti di cure intense rischiano di essere occupati in cinque giorni. Mercoledì, il ministro della sanità Alain Berset ha ricordato che il problema è rappresentato anche dalla carenza di personale negli ospedali poiché molti infermieri sono in quarantena. Per capire se le misure messe in campo sono sufficienti per invertire questa preoccupante tendenza devono trascorrere almeno 19 giorni dall’attuazione delle misure di contenimento, così spiega la Task Force. Gli ultimi provvedimenti adottati dal Consiglio federale e validi a livello nazionale risalgono al 29 ottobre. Si dovrà quindi aspettare il 17 novembre per sapere con certezza se le disposizioni hanno prodotto l’effetto sperato. Parlare prima di appiattimento della curva è quindi prematuro. Per frenare la diffusione della pandemia, Confederazione e Cantoni puntano sul tracciamento. E proprio il contact tracing, uno dei capisaldi nella lotta contro il COVID-19, sta vacillando. Responsabili del tracciamento sono i Cantoni, presi però in contropiede dall’impennata dei casi positivi. Martedì scorso, Rudolf Hauri, presidente dell’associazione dei medici cantonali
Addetti al contact tracing a Basilea Città. (Keystone)
ha ricordato che il tracciamento «non funziona come dovrebbe». Nelle scorse settimane molti Cantoni sono corsi ai ripari, reclutando e istruendo nuovo personale. Se in primavera si riteneva che il limite per garantire il tracciamento fosse di 100 contagi al giorno, oggi i cosiddetti tracer devono gestirne fino a 1000. Ma fino a quando può funzionare? Difficile dirlo. Di sicuro è uno degli strumenti più efficaci per evitare un secondo lockdown, una «soluzione dalle conseguenze economiche e sociali drammatiche», così l’epidemiologo Marcel Tanner. L’arma più importante del contact tracing è la velocità. Entro 24 ore dal contagio, i responsabili cantonali dovrebbero contattare telefonicamente la persona in isolamento per ricostruire con lei la catena di trasmissione e mettere in quarantena amici, parenti o colleghi con cui ha avuto contatti ravvicinati. Questo è il quadro ideale della figura del «detective». La realtà è però ormai un’altra, almeno in alcuni Cantoni. Per esempio, il canton Appenzello Interno ha comunicato mer-
coledì scorso che non è più in grado di gestire la situazione, gettando in parte la spugna. A Zurigo, invece, si informa quasi solo in maniera digitale. Mezz’ora dopo aver ricevuto la comunicazione da parte del laboratorio, l’équipe di contact tracing invia un SMS alla persona risultata positiva al test, sollecitandola a mettersi in isolamento e a fornire i dati delle persone con cui ha avuto un contatto ravvicinato, ossia a meno di 1,5 metri e per più di 15 minuti, nei due giorni precedenti la comparsa dei sintomi della malattia. In seguito, i cosiddetti tracer inviano ai contatti stretti un messaggino o una e-mail con l’invito a mettersi in quarantena. Ciò che appare semplice sulla carta, è ben più complesso. Molto spesso la persona positiva al test non è in grado di indicare con precisione dov’è avvenuto il contagio, rendendo quindi impossibile l’individuazione del focolaio dell’infezione. E così il successo del contact tracing è limitato. Secondo il domenicale «SonntagsZeitung», la percentuale di persone positive già in quarantena oscilla tra il 10 e
il 30 per cento, quando dovrebbe essere dell’80 per cento per essere efficace. L’Ufficio federale della salute pubblica si è affidato anche all’applicazione SwissCovid per interrompere la catena dei contagi. Al momento è stata scaricata da quasi 2,5 milioni di utenti, tra cui circa 1,9 milioni l’hanno attivata sullo smartphone. Sono circa il 22 per cento della popolazione. Al momento è difficile dire in che misura contribuisca a ridurre la diffusione del virus. Per l’UFSP sarebbe un successo, anche se l’obiettivo dichiarato era di avere tre milioni di app attive entro ottobre. Il ministro della sanità Alain Berset ha ricordato che la Svizzera non ha a disposizione molte altre armi nella faretra per sconfiggere il nuovo Coronavirus. Per evitare di brancolare nel buio, come sembra sia il caso per molte équipe di contact tracing, e finire al tappeto, stesi dalla pandemia perché ci ha obbligati a un secondo lockdown, bisogna ridurre la mobilità e i contatti. Proprio quanto si augurano le autorità cantonali e federali, anche se restare sul ring costa fatica e ci fiacca, anche nel morale. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Politica e Economia
Quando si inceppa la catena di produzione Nuove incognite Il Coronavirus ha messo in evidenza la fragilità
di un sistema che prevede l’assemblaggio di innumerevoli prodotti in diversi Paesi
Mirko Nesurini Una data cardine per questo tema, lato consumatore, potrebbe essere il 1988. In quell’anno un piccolo gruppo di visionari, che credevano nel potere dell’azione collettiva di fare la differenza nella vita dei lavoratori e nelle catene di fornitura delle aziende, crearono ETI (Ethical Trade Initiative). Negli anni successivi, tutti noi abbiamo seguito decine di scandali riportati dai media, a partire dagli anni 90, che hanno messo in luce lo sfruttamento delle persone che producono vestiti, scarpe e altri beni di consumo per i principali marchi e rivenditori globali. In risposta agli scandali, le aziende hanno iniziato ad adottare codici di pratica del lavoro che disciplinano le condizioni di lavoro delle persone nelle loro catene di fornitura, aiutati da ETI e altri soggetti simili.
Le aziende devono costruire un nuovo rapporto di trasparenza per conoscere tutti i sotto-fornitori coinvolti E fino a qui, siamo sul piano etico in risposta a un bisogno del consumatore di essere tutelato, nel senso di essere certo di acquistare un prodotto rispettoso di una serie di requisiti minimi, tra i quali il lavoro in condizioni di sicurezza e igiene, la mancanza di discriminazioni, eccetera. Molto è cambiato da allora. Le principali aziende del mondo ora controllano meglio, rispetto al passato, i loro fornitori e sottofornitori, gli scandali in questo senso sono diminuiti. Ma il tema del monitoraggio dei fornitori è ancora centrale, come lo era allora. In questo periodo tuttavia è cambiato il punto di osservazione. Si tratta ora di salvaguardare la capacità di produzione e distribuzione dei beni di consumo, non più esclusivamente di monitorare i comportamenti delle imprese. Se negli ultimi mesi hai provato ad acquistare una bicicletta, è probabile che tu abbia riscontrato qualche problema. La carenza di biciclette è internazionale ed è iniziata a gennaio, quando il coronavirus ha chiuso le fabbriche dell’Asia orientale, il centro della catena di approvvigionamento dell’industria delle biciclette. E questa primavera, mentre montava la carenza di offerta, la domanda stava per esplodere.
Più forti insieme. Ci impegniamo per questo. Anche in futuro. Pro Senectute si impegna attivamente affinché giovani e anziani possano convivere in un clima di armonia e solidarietà. Da oltre 100 anni siamo al fianco delle persone anziane e dei loro famigliari.
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Il lockdown ha reso più attrattiva la bicicletta, ma allo stesso tempo la pandemia ha provocato ritardi nelle consegne. (Keystone)
Tutto è iniziato quando eravamo bloccati a casa e abbiamo deciso di prendere la bicicletta, e poi è proseguito quando abbiamo iniziato ad avere dei dubbi «sanitari» nell’uso dei mezzi pubblici. Chi può, adesso usa la bicicletta. La catena della produzione e distribuzione della bicicletta, tratteggiata con un po’ di approssimazione si compone di quattro livelli: 1) fornitura della materia prima (metalli, plastica, gomma, …); 2) strutture e sistemi: quali freni, ruote, trasmissione, motori e accessori; 3) assemblatori; e 4) distributori (mass market, negozi indipendenti, negozi specializzati nello sport). Nei tempi passati, per motivi economici, le forniture di livello 1 e 2 sono avvenute servendosi di fornitori asiatici, capaci di fornire a prezzi competitivi e senza costringere gli assemblatori a dotarsi di stock troppo grandi. Gli assemblatori non hanno aumentato notevolmente la loro capacità produttiva e soprattutto di stoccaggio, o perlomeno non lo hanno fatto alla stessa velocità della crescita della domanda. Ciò ha tenuto bassi i prezzi e ha contribuito ad aumentare i margini, il che è una cosa positiva per i marchi e per i distributori, anche se il lato negativo di tutto questo è stato l’aumento della dipendenza da determinati fornitori low-cost. In tempi buoni, l’acquisto dei componenti per la produzione in mercati lontani aiuta a ridurre i costi, e in tempi difficili? Questo modo di gestire le forniture diventa una gran seccatura. La consegna del prodotto semilavorato e dei pezzi oggi è, infatti, un enorme problema che diversi settori stanno affrontando. Basta un intoppo e intere catene si fermano, in attesa di quel bullone proveniente da quella fabbrichetta in Cina o in Repubblica Ceca, momentaneamente ferma a causa del Coronavirus. Una catena di approvvigionamento, come abbiamo visto sopra per le biciclette, passa attraverso diversi livelli di fornitura. Quindi, una catena di approvvigionamento di un’azienda include il loro primo livello di fornitori e anche i fornitori di tali fornitori. Quindi, l’intero processo, «dalla miniera al consumatore finale», è oggi sotto pressione. Abbiamo vissuto uno shock tra i più significativi che le catene di approvvigionamento globali abbiano dovuto affrontare. La crisi portata dal Covid-19, ha avuto un enorme impatto, non solo sulla capacità di ottenere forniture, ma anche su ciò che sta accadendo con il consumatore finale. In media, le aziende ora sono terrorizzate dal ripetersi dell’interruzio-
ne delle loro linee di produzione per periodi prolungati perché non possono mantenere gli impegni di fornitura e, in un certo senso, sono a rischio di deludere i propri clienti. Si tocca quindi la vulnerabilità delle aziende. I dirigenti si stanno chiedendo quale sia la loro visibilità nella catena di fornitura. Le aziende stanno scoprendo di avere potenziali colli di bottiglia critici nelle loro catene di approvvigionamento, dove, ad esempio, potrebbe esserci un fornitore di secondo livello che fornisce diversi fornitori di primo livello. Se succede qualcosa a quell’unico fornitore, l’intero sistema potrebbe cadere. L’impegno delle aziende è quindi orientato alla costruzione di un nuovo rapporto di trasparenza con la catena di fornitura, finalizzato alla conoscenza effettiva di tutti i sotto-fornitori coinvolti e nell’eventualità di una crisi, nel ripensamento della composizione della filiera, sia a livello di singoli fornitori, che a livello geografico. Nel caso specifico, se ho un paio di fornitori di trasmissioni che si approvvigionano dallo stesso sotto-fornitore di metallo, se si blocca il fornitore di metallo, i miei due fornitori saranno impossibilitati a evadere il mio ordine. La massima trasparenza richiesta ai fornitori, permette di evitare, laddove possibile, tale problema latente. Tutti coloro che lavorano oggi nel mondo degli affari sono cresciuti in un’epoca in cui, fondamentalmente, il commercio diventava sempre più libero col passare del tempo, e le tariffe, le restrizioni e le barriere diminuivano. In altri termini un «liberi tutti» a livello planetario, guidato dalla ricerca del miglior rapporto qualità/prezzo, senza considerare alcuni rischi quali, per esempio, uno stop delle forniture provenienti dall’Asia. Non siamo più in quel mondo, per una serie di motivi, alcuni presentati qui. In questo nuovo stato, in cui è centrale l’esigenza di proteggersi da future crisi, le aziende stanno attivamente pensando a come far fronte a future tensioni all’interno delle catene di fornitura e la domanda del momento è, «come posso ottenere dai miei fornitori una maggiore trasparenza a tutti i livelli?». È davvero una questione di primaria importanza. Trent’anni fa il cliente finale ha fatto pressione per spingere le aziende a mettere mano al tema etico, oggi si pone una sfida attinente ai rischi derivanti dalle mancate forniture, che, nel limite del possibile, devono essere previsti.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Politica e Economia
Si passa dal Libor al Saron
Tassi d’interesse Confermata una notizia dell’anno scorso: la BNS abbandona dal 2021 il London Interbank
Offered Rate; il nuovo tasso è basato sulle transazioni effettive in un giorno determinato e non più su un accordo fra banche
Ignazio Bonoli Confermando una notizia già diffusa nel giugno dello scorso anno, la Banca nazionale Svizzera ha deciso di abbandonare il tasso «Libor» (London Interbank Offered Rate), che serve per applicare parecchi tassi di interesse, tra cui anche quello ipotecario, a partire dal 2021. Questo tasso viene fissato sul mercato di Londra con un accordo fra 12 grandi banche. Per questo motivo, uno dei rimproveri che gli vengono fatti è quello di prestarsi ad eventuali manipolazioni. È quanto si era temuto già nel 2011 quando una banca componente del gruppo decise di autodenunciarsi, per evitare pesanti conseguenze, qualora si fossero scoperti eventuali accordi fra interessati. Furono avviate parecchie inchieste, anche in Svizzera, che indussero l’Agenzia britannica di sorveglianza dei mercati finanziari a chiedere la fine del sistema e passare a nuove regole.
Il Libor è un tasso che è frutto di un accordo fra banche e si prestava facilmente a manipolazioni Questo deve avvenire entro la fine del 2021, con il Libor che verrà sostituito da un riferimento a singoli tassi nazionali. La Banca Nazionale Svizzera ha quindi deciso di passare al «Saron» (Swiss Average Rate Overnight), in pratica il tasso di interesse a giorno sul mercato svizzero. Questo tasso è utilizzato già da oltre una decina d’anni, benché il Libor rimanga molto diffuso. Il vantaggio essenziale del tasso svizzero sta nel fatto che si basa su tassi effettivi delle transazioni finanziarie e non
La decisione della Banca Nazionale Svizzera avrà un impatto indiretto anche sul mercato ipotecario. (Keystone)
su un accordo tra banche come il Libor. Il cambiamento di sistema non è senza conseguenze, poiché molte transazioni si basano ancora sul Libor. A livello mondiale si calcola che siano in atto contratti finanziari per 350 bilioni di dollari, ancora basati sul Libor. Ma anche sul mercato ipotecario svizzero il suo impiego è molto diffuso: si tratterebbe – su un mercato globale di 1’100 miliardi di franchi – di 220 miliardi di franchi, cioè circa il 20% di questo mercato. Si dovrà perciò utilizzare il nuovo metodo per un notevole volume di crediti. Quali sono le principali differen-
ze fra i due sistemi? Come già detto, la differenza principale sta nel fatto che il Libor viene fissato tramite un accordo fra le banche sulla piazza di Londra, il Saron invece deriva dalle transazioni giornaliere effettivamente realizzate nel mercato svizzero. Il che significa che il tasso è noto solo alla fine delle operazioni e non già all’inizio. Con l’accensione di un credito ipotecario basato sul Saron, il debitore sopporta quindi anche il rischio del tasso di interesse. In caso di aumento del tasso, le banche offrono però generalmente la possibilità di cambiare il tipo di ipoteca. Alcune offrono anche
la possibilità di un’assicurazione contro questo rischio. Il modo di calcolare il tasso di interesse diventa importante quando i tassi salgono sopra lo zero (oggi sono sotto). Le banche fisseranno probabilmente un tasso minimo dello 0% e il debitore pagherà solo il margine concordato, come avviene anche con il Libor. Sul mercato attuale – di fronte alla prospettiva di cambiamento – le banche hanno reagito più o meno rapidamente. Alcune attendono tranquillamente l’avvicinarsi della scadenza annunciata, altre si sono già adeguate e reagiscono in modo attivo. Il grup-
po Raiffeisen, per esempio, offre per le nuove ipoteche o per quelle che devono essere rinnovate, già oggi una soluzione Saron Flex, al posto dell’attuale contratto basato sul Libor. La Banca cantonale di Zurigo offre pure un nuovo prodotto detto «Saron – Rollover». Si tratta di un’ipoteca con durata illimitata e tasso di interesse variabile, che si orienta al nuovo tasso di interesse. Tasso che viene fissato ogni volta due giorni prima del termine stabilito con addebito al debitore, alla fine del periodo concordato. Il debito ipotecario può essere denunciato con un preavviso di sei mesi, ma può essere trasformato in ogni momento in un altro tipo di ipoteca offerto dalla banca. Le grandi banche offrono pure due tipi di ipoteche basate sul Saron. L’ipoteca Saron, con libera scelta della durata da due a tre anni e periodicità da uno a tre mesi. L’interesse viene conteggiato alla fine. Oppure il tipo «Rollover» per il quale il tasso di interesse viene stabilito all’inizio. Il debitore conosce così il costo dell’ipoteca fin dall’inizio. Costo che comprende anche il costo della garanzia. La durata può essere di uno o due anni e la periodicità degli interessi di un mese. I due modelli si differenziano soprattutto per la flessibilità. Per il modello «Saron Flex» il debitore può denunciare l’ipoteca entro il termine di un mese e ha la possibilità di eseguire ammortamenti straordinari ogni trimestre. Il modello «Saron» è invece simile a quello degli altri debiti ipotecari. Entro il passaggio al nuovo sistema vi saranno probabilmente altri adeguamenti, che possono differenziarsi da banca a banca. In ogni caso la tendenza è quella di approfittare del cambiamento per allontanarsi dal sistema di ipoteca con tasso variabile (o fisso con scadenze stabilite) con o senza ammortamento per una durata molto lunga.
Quello che possiamo imparare dal Canada La consulenza della Banca Migros Christoph Sax
Christoph Sax è capo economista della Banca Migros
«Speriamo che le stazioni sciistiche rimangano aperte!». Questo è stato il mio primo pensiero quando il Consiglio federale, nel mese di marzo, ha annunciato il lockdown. La passione per lo sci e lo snowboard mi accompagna sin dalla tenera età. Fino a trent’anni, non avevo quasi risparmi, perché spendevo ogni franco per soggiorni in montagna. Ricordo in particolare il Natale del 2003: insieme a mio fratello, per la prima volta mi sono recato nella località sciistica canadese di Whistler per fare snowboard con gli amici. Il Canada è un Eldorado per gli appassionati della neve alta e di freestyle. Ma quello che mi ha più colpito è stato il modo rilassato e rispettoso con cui i canadesi fanno la fila agli impianti di risalita. Non importa quanta folla ci sia: dopo essere giunti all’impianto di risalita, ognuno si dispone in una singola colonna. Quando si creano diverse colonne, il personale delle funivie vigila che le persone si alternino sempre nel mettersi in fila: non c’è nessuna ressa, né tantomeno sci graffiati. In Svizzera la situazione è spesso diversa. Quando ci si ferma davanti agli impianti di risalita, di solito si mantiene poca distanza. Si formano
Coda alla seggiovia di Jersey Cream a Whistler, British Columbia (Canada). (alamy)
dei grappoli, il controllo dei biglietti assomiglia spesso al collo di una bottiglia, perché, mentre fanno la fila, alcune persone cercano di sorpassare per guadagnare tempo. Tuttavia, questo va sempre a scapito di altri, perché l’intero gruppo in questo modo non raggiunge più rapidamente la monta-
gna. Ogni impianto di risalita ha una capacità fissa. Affinché le nostre stazioni sportive invernali possano essere aperte il più possibile senza restrizioni durante la prossima stagione, è necessaria una maggiore distanza. Tuttavia, non dovremmo considerare il manteni-
mento della distanza agli impianti di risalita come un’ulteriore misura di protezione contro il Covid-19, bensì piuttosto come un’opportunità per un cambiamento culturale che doveva avvenire già da tempo. Con un po’ più di rispetto e meno spintoni, possiamo evitare molto stress.
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Idee e acquisti per la settimana
Foto Getty Images
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Per la lavastoviglie utilizziamo sempre Handymatic, preferibilmente le Lemon Tabs. L’ultima volta che le abbiamo comprate abbiamo avuto l’impressione che la confezione fosse nettamente più piccola di prima. Quando siamo rientrati a casa l’abbiamo confrontata con la vecchia confezione, ciò che ci ha confermato l’impressione. Il prezzo è però rimasto invariato. Ciò significa che ora riceviamo semplicemente meno per lo stesso prezzo? Saluti, Livio e Lynn
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Quando l’idillio arriva alla fine Lisbeth Eller Van Ligten è un’operatrice del sociale che vive da qualche decennio in Ticino. Nata a Gurtnellen, da bambina ha sempre sognato di andare a vedere che cosa c’era oltre l’enorme il massiccio del Gottardo che aveva davanti alle finestre di casa sua. Prima di arrivare in Ticino, però, ha compiuto, per ragioni personali e professionali, un lungo itinerario che l’ha portata dapprima a Zurigo e poi in America. Alla fine ha potuto coronare il suo sogno e si è installata con il marito in Ticino. Ticino einfach è il titolo del suo primo libro dedicato all’emigrazione degli svizzeri tedeschi nella nostra plaga. È stato pubblicato da Rezzonico diversi anni fa e raccoglieva testimonianze di confederati sui problemi della loro installazione in Ticino. Ora l’autrice pubblica un secondo libro, Ticino retour, presso la
Gisler 1843 AG di Altdorf, dedicandolo al nuovo fenomeno del ritorno a casa degli svizzeri tedeschi. Sappiamo che, da diversi anni, il saldo del movimento migratorio del Ticino con il resto della Svizzera è diventato negativo. Non solo perché molti giovani ticinesi lasciano il Cantone per cercare un’occupazione all’altezza dei loro titoli oltre San Gottardo, ma anche perché il flusso di ritorno degli anziani svizzerotedeschi è diventato molto consistente. Sono le persone in età che, dopo aver soggiornato in Ticino per diversi anni, talvolta anche per decenni, si decidono a tornare nelle loro regioni di origine. Attenzione però: l’aumento dei flussi di ritorno degli svizzero-tedeschi anziani non è dovuto a una perdita di attrattiva del Ticino per i pensionati svizzero-tedeschi. Le statistiche che cita la Van Ligten dimostrano che
anche l’effettivo degli immigranti in età continua ad aumentare. Tuttavia l’effettivo dei confederati anziani che tornano oltre San Gottardo aumenta più rapidamente di quello di coloro che scelgono di domiciliarsi in Ticino. Si tratta probabilmente dell’ultima fase del ciclo migratorio che vede le persone scegliere di dimorare in regioni diverse a seconda della fase di vita nella quale si trovano. Come dimostra l’autrice di questo opuscolo, i motivi che portano gli svizzero tedeschi in età a decidere di tornare a casa sono numerosi e, in molti casi, si sovrappongono. Dal ricco ventaglio di testimonianze personali raccolte dalla Van Ligten emergono comunque due tipi di spiegazione principali. Il primo è collegato al venir meno della condizione fisica. L’accesso ai servizi di cui abbisogna una persona anziana è, in Ticino, più difficoltoso
– non da ultimo per via della lingua – che nelle regioni dell’Altipiano. Se poi, per il progredire dell’età e degli acciacchi, la persona anziana deve rinunciare alla patente e alla mobilità indipendente, la decisione di ritornare oltre San Gottardo può maturare anche rapidamente. Tanto più quando oltre San Gottardo si trovano i figli e i nipoti che si vorrebbe avere più vicini. Da questo punto di vista varrà la pena di notare che il miglioramento nelle condizioni di trasporto, consentito dall’apertura della NEAT, non sembra aver avuto un’influenza significativa nel risolvere il problema della lontananza degli affetti. Il desiderio di riavvicinarsi ai famigliari aumenta poi quando uno dei coniugi muore e il coniuge sopravvissuto deve lottare contro la solitudine. A questo punto interviene l’altro tipo di spiegazione. Per molti anziani
confederati la decisione di tornare oltre San Gottardo è il riconoscimento di non essere riusciti ad integrarsi nella società ticinese. Da questo punto di vista l’ostacolo maggiore sembra essere l’insufficiente conoscenza della lingua. Si tratta di una carenza che nella maggior parte dei casi non si può eliminare, nonostante nel Cantone vengano offerti corsi di italiano anche per i pensionati. Ripetiamo da ultimo che l’aumento della migrazione di ritorno dei confederati anziani non si basa su una perdita di attrattiva del Ticino anche se non mancano, nelle testimonianze raccolte dalla Van Ligten, gli accenni al peggioramento delle condizioni ambientali (il Ticino di oggi non è più il Ticino di ieri) e le critiche, di più di una pensionata, al Ticino che sembra addirittura aver perso il treno dell’emancipazione femminile.
non sopporta i rituali e il linguaggio della politica. Riconoscere questo non significa amare Trump, e neppure negare il degrado che ha portato nel linguaggio e nei modi della discussione pubblica. Significa cercare di capirlo. E di capire quella metà dell’America che vota per lui. Sarebbe sbagliato anche sottovalutare Joe Biden. Battere un presidente in carica non è mai facile. A maggior ragione battere un lottatore come Trump, che è riuscito non solo a fare cinque comizi al giorno in cinque Stati diversi ancora convalescente dal Covid, ma anche a usare il Covid – come simbolo nel nemico cinese, come segno dell’irriducibilità e della quasi invulnerabilità dell’America – pur avendo sbagliato la gestione della pandemia. E i democratici, che avevano puntato su rigore e responsabilità, non hanno intercettato il sentimento di rabbia e insofferenza che spira dal Paese profondo. Nonostante questo, Biden è quasi il presidente. Trump farà di tutto per non riconoscere una vittoria democratica che ormai però appare chiara, sia pure molto meno netta rispetto
ai sondaggi della vigilia. Biden è riuscito a mobilitare il voto latino in Arizona e – sia pure in misura insufficiente – il voto nero in Georgia e North Carolina. Ma non è riuscito a recuperare, se non in parte, il voto dei ceti medi impoveriti, e quello bianco e operaio degli Stati postindustriali. Un candidato più giovane e fresco forse avrebbe fatto meglio di lui. Ma è anche possibile che un esponente della sinistra ribelle e socialisteggiante, lanciato contro un tipo come Trump, si sarebbe schiantato. Resta un dato oggettivo: la destra americana, per quanto vitale, ha un problema. Tra il 1968 e il 1992, i repubblicani hanno vinto tutte le presidenziali, salvo l’effimero successo di Carter nel 1976. Per due volte hanno conquistato tutti gli Stati: Nixon nel 1972, tranne il Massachusetts, e Reagan nel 1984, tranne il Minnesota (in entrambi i casi va aggiunto il distretto della capitale Washington). Ma è dal 1992 che i repubblicani non ottengono la maggioranza del voto popolare, tranne George Bush figlio nel 2004. Com’è noto, questo è solo un dato statistico; il meccanismo
elettorale è un altro, incentrato sugli Stati. Bush junior nel 2000 e Trump nel 2016 sono diventati presidenti avendo preso meno voti del loro avversario. Ma non sempre può funzionare. Resta per i repubblicani il problema di allargare la loro base, il cui fulcro restano i maschi bianchi: che hanno governato per secoli un’America diversa da quella di oggi. Alcuni candidati hanno dimostrato di saper andare oltre; ma a volte non in modo sufficiente. Così il Grand Old Party ha perso quella egemonia che aveva mantenuto saldamente negli ultimi decenni del Novecento, con risultati non trascurabili tipo vittoria della guerra fredda sul blocco sovietico e rafforzamento del primato economico, tecnologico e militare dell’Occidente. Non è questione solo di saper dialogare con le minoranze, di coinvolgere di più le donne. Si tratta di limare qualche spigolo, di rinunciare a qualche radicalità. Perché ad alzare troppo la voce si vincono le primarie, si conquista il centro della scena; ma poi magari le elezioni, quelle vere, si perdono.
futuro ancora più fosco: quello di una «declino controllato», uno scenario che agli occhi della popolazione riportava le lancette dell’orologio indietro, negli anni precedenti la rapida crescita degli anni 60. Nel nuovo secolo le cose sono andate diversamente, almeno a partire dal cortocircuito finanziario mondiale del 2008: meglio per la Svizzera, peggio per l’Unione. Anno dopo anno la marcia intesa ad assicurare una maggiore prosperità per tutti si è arrestata, portando alla luce lacerazioni interstatali e dissensi profondi tra i paesi del Nord e la fascia mediterranea, soprattutto in tema di giustizia sociale, politiche fiscali e gestione del debito pubblico. Da ultimo, a rimescolare le carte in tavola, è arrivata l’ospite inattesa, la morte con la falce, come nelle raffigurazioni medievali della danza macabra. È quindi da salutare con favore ogni sforzo intellettuale che si proponga
di confezionare un’armatura resiliente anche per regioni piccole come il Ticino; un cantone che per la sua collocazione geografica tra la barriera (alpina) e la frontiera (politica) ha sempre dovuto ingegnarsi per evitare di scivolare nel ruolo di colonia eterodiretta: corridoio di transito, periferia assistita, parco divertimenti della conurbazione di Zurigo. A questo ripensamento si sono dedicati negli ultimi anni due gruppi di studio: Coscienza Svizzera e un cenacolo di riflessione coordinato dall’editore Giò Rezzonico, che da ultimo ha prodotto un «Manifesto per una trasformazione ambiziosa del Ticino». In estrema sintesi, il documento invita ad affrontare gli snodi strategici del cantone in un’ottica di «smart city», ossia di una rete urbana interconnessa, dialogante e attenta agli apporti delle nuove tecnologie. I settori individuati sono gli stessi che ora assillano i ticine-
si: la mobilità, ora vicina alla paralisi; la fragilità del tessuto produttivo; la formazione delle nuove generazioni («Campus Ticino»), il sostegno alle iniziative innovative, le attese generate dai nuovi collegamenti ferroviari e dagli stabilimenti che sorgeranno a ridosso della linea. Il Manifesto individua anche gli attori principali di questa visione: i sindaci dei principali centri situati nel triangolo LocarnoBellinzona-Lugano-MendrisioChiasso. Dovranno essere loro le forze trainanti del cambiamento, loro a indirizzarlo e a governarlo. Rimane indefinito, per contro, il ruolo delle regioni di montagna, delle valli e dei villaggi a nord della capitale. I segnali non sono incoraggianti, soprattutto sul versante demografico e imprenditoriale. Vedere svuotarsi il Sopraceneri come una clessidra dovrebbe preoccupare anche i sostenitori delle «città intelligenti».
In&outlet di Aldo Cazzullo Trump l’irriducibile È stata una lunga notte; e saranno lunghe giornate di discussioni e di ricorsi. All’inizio della serata elettorale si pensava in una vittoria larga di Joe Biden. A un certo punto, memori di quattro anni fa, mentre affluivano i primi risultati molti tra noi hanno creduto che stesse vincendo Trump. In realtà, per Biden è quasi fatta; anche se ci attende un’aspra battaglia legale, una stagione difficile di incertezza. Resto convinto che nei prossimi quattro anni alla Casa Bianca avremo il candidato democratico. Ancora una volta, però, gli elettori americani ci hanno colti di sorpresa. La colpa non è soltanto dei sondaggisti. La responsabilità non è soltanto dei trumpiani non dichiarati, che dei sondaggisti sembrano farsi beffe. L’errore culturale è di (quasi tutti) noi europei, e pure dei democratici americani; i quali non si sono ancora resi conto che Donald Trump non è un candidato debole. Nonostante la chioma dal colore introvabile in natura, il linguaggio improponibile, i modi aggressivi – o forse anche per questo –, Trump è un candidato fortissimo. Perché tiene tutti gli Stati e
tutti i voti repubblicani; ed è competitivo in molti Stati democratici. Perché fa breccia tra i ceti popolari; che i democratici, per come sono diventati, faticano a rappresentare. A lungo i repubblicani hanno pensato di riconquistare la Casa Bianca con un centrista. Un moderato, alla Mitt Romney. O un conservatore classico, magari interventista in politica estera, com’è stato Bush junior e come sarebbe stato John McCain. Invece sono tornati alla Casa Bianca, e la stanno difendendo con le unghie e con i denti, grazie a un radicale. Che però riesce a pescare voti anche nel campo avverso. Trump vince gli Stati in bilico come Ohio, Florida, Iowa. E si conferma competitivo anche in Stati democratici come Wisconsin, Michigan, Pennsylvania. Per due motivi. Perché non si presenta come un moralista bacchettone (tanto i voti dei moralisti bacchettoni li ha già), ma come uno sgargiante miliardario newyorkese, libertino e libertario, incarnazione del sogno e del modo di vivere americano. E soprattutto perché non è un politico di professione, non ha passato la vita a Washington,
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Una certa idea del Ticino Ormai il significato di «crisi» è nella mente di tutti: pericolo ma anche opportunità, interregno tra il noto e l’ignoto, punto di guado tra due sponde, la vecchia e la nuova. L’altra parola che ricorre nella discussione pubblica è «normalità». Uno stato che abbiamo lasciato per colpa della pandemia ma che ora vorremmo ripristinare al più presto. La normalità ci appare come un Eden perduto. Sogniamo tutti di premere il bottone «reset» per ritrovare il mondo di ieri, le vecchie abitudini, le antiche consuetudini. Come se ciò che abbiamo alle spalle fosse tutto da rimpiangere, e non da ripensare, ricostruire, rinnovare dalle fondamenta. Al tema «quale Svizzera vogliamo» e, in subordine, «quale Ticino vogliamo», si dibatte da tempo. I meno giovani ricorderanno alcune ricerche condotte sullo scorcio del Novecento: alludiamo al volume Ticino regione
aperta, nato all’interno del Programma 21 «Pluralismo culturale e identità nazionale» (1990), e al libro bianco dell’economista Carlo Pelanda Ticino 2015, commissionato nel 1998 dal Dipartimento economia e finanze. In quel decennio Confederazione e Cantoni non stavano per nulla sereni. Dopo il Trattato di Maastricht (1992), l’Unione europea aveva accelerato il passo verso l’adozione della moneta unica; seguirono, nel 2004, gli accordi di Schengen, atti a favorire la libera circolazione dei cittadini in tutto il territorio europeo, compreso quello elvetico. In questa marcia, che pareva trionfale e inarrestabile, la Svizzera temeva di rimanere ai bordi della strada, pulcino nero dentro un’allegra nidiata di pulcini bianchi. Nella società serpeggiava il timore che il motore economico del paese perdesse colpi, e che quindi non fosse più competitivo. Al Ticino poi si pronosticava un
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Cultura e Spettacoli Epidemie antiche La letteratura classica contiene varie descrizioni di emergenze sanitarie che rimandano all’oggi
Un omaggio al teatro Il film delle registe Stéphanie Chuat e Véronique Reymond, candidato agli Oscar, racconta la storia di due gemelli
In scena a Lugano Cristina Castrillo ha proposto re-cordari, Veronica Gonzales il divertente Ballo dei piedi
pagina 45
pagina 43
Il cofanetto celebrativo In occasione del suo 70mo compleanno esce un album del compianto Tom Petty pagina 51
pagina 49
André Derain: rivoluzione e tradizione
Mostre Mendrisio dedica una retrospettiva
al grande maestro francese Alessia Brughera La figura di André Derain è sicuramente tra le più singolari e complesse dell’arte del XX secolo. Incluso senza incertezze nel novero di nomi che nei primi anni del Novecento ha rivoluzionato completamente il mondo artistico, il pittore e scultore francese, nato a Chatou nel 1880, ha guidato e ispirato alcuni dei più rilevanti movimenti moderni e contemporanei. Uomo di vastissima cultura, carismatico e dotato di un ingegno fuori dal comune, Derain è stato un artista capace di farsi pioniere delle più audaci ricerche avanguardistiche così come, per quanto possa sembrare paradossale, precursore di un ritorno al classicismo, affiancando l’assidua sperimentazione formale allo studio appassionato della tradizione. «L’eretico del moderno» è stato definito, non a caso: Derain ha contribuito a rinnovare l’arte della prima metà del secolo scorso per poi decidere, senza pentimenti, di collocarsi al di fuori di quelle correnti radicali a cui lui stesso aveva dato il via, seguendo una traiettoria in controtendenza rispetto allo spirito del tempo e alle proprie scelte iniziali. Il cambio di rotta che ha caratterizzato il percorso di Derain non ha però intaccato la sua indole di indagatore inquieto, rendendolo ancora testimone del caos e del turbamento in cui si agitava l’arte del Novecento. Amico di Matisse e di Vlaminck, Derain ha fondato con loro nel 1905 il gruppo dei Fauves, «le belve», che utilizzavano un esuberante cromatismo facendo dell’esplosione di colori il vero soggetto dell’opera. Eppure, dai selvaggi colleghi amanti dei toni ardenti, l’artista si è differenziato sin dalle prime prove, poiché, pur vivacemente contrastata e stesa con pennellate libere e pastose, la sua pittura tradiva già un’inclinazione verso inedite elaborazioni stilistiche. Difatti, non si era ancora consumata la stagione fauvista, che Derain esplorava nuovi territori. Facendo propria, in anticipo sugli altri, la lezione di Cézanne e subendo il fascino dell’arte primitiva, fiancheggiava Picasso nel momento in cui stava dando vita al Cubismo, giocando un ruolo rilevante all’interno di quel movimento (pur mai aderendovi) per aver introdotto il pittore spagnolo al mondo dell’«art nègre», fondamentale per la semplificazione formale a cui entrambi gli artisti sarebbero pervenuti.
È però con il suo periodo definito «gotico» o «bizantino», iniziato nel 1911 e durato fino al 1914, che Derain attuava quello scarto con cui si sarebbe allontanato definitivamente dalle avanguardie. Prefigurando la nascente Metafisica di Giorgio de Chirico e di Carlo Carrà, optava adesso per un «ritorno all’ordine» con una pittura più austera volta alla riscoperta dei grandi maestri del passato. Dopo la traumatica esperienza della guerra e con la complicità di un viaggio a Roma nel 1921, Derain rinsaldava sempre più il suo rapporto con la tradizione, trovando nell’antico quegli elementi che avrebbero contraddistinto il nuovo corso della sua arte. Segnata da questo approdo alla classicità, la pittura di Derain, a dispetto del grande successo di cui aveva goduto fino agli anni Trenta (e dei tanti lussi che aveva concesso all’artista), incominciava a essere contestata, considerata dai più il frutto dell’assurdo ripudio di una fervida vena creativa. Nell’ultima fase della sua vita, trascorsa sempre più isolato nella residenza di Chambourcy, Derain accusava il colpo delle sue scelte controcorrente, con la critica sempre meno interessata al suo lavoro e con amici e colleghi che da suoi estimatori erano diventati accaniti detrattori (basti citare su tutti André Breton, il teorico del Surrealismo). Voci fuori dal coro erano però quelle di Braque, rimasto fin dai tempi delle sperimentazioni cubiste suo grande ammiratore, e di Alberto Giacometti, artista che più di ogni altro aveva compreso la dimensione irrequieta di Derain e che di lui apprezzava proprio gli anni postavanguardistici. A ripercorrere il poliedrico cammino di questo grande protagonista dell’arte del Novecento è la mostra allestita negli spazi del Museo d’arte Mendrisio, importante retrospettiva organizzata grazie alla collaborazione degli Archivi André Derain e ai prestiti provenienti dalle collezioni di prestigiosi musei francesi. Le oltre cento opere esposte vengono presentate secondo un allestimento che intreccia il criterio cronologico a quello per generi, aiutando il visitatore a conoscere e capire l’articolata produzione dell’artista, caratterizzata non solo da un’estrema varietà stilistica all’interno di ogni suo campo di indagine ma anche dal continuo mettersi alla prova in diversi ambiti, da quello pittorico a quello scultoreo fino a quello teatrale.
André Derain, Geneviève à la pomme, olio su tela, 1937-1938. (© 2020, ProLitteris, Zurich)
Attraverso i numerosi dipinti, le sculture dalla grande libertà espressiva e i bozzetti per le arti sceniche a cui Derain si dedica con passione, la mostra mendrisiense esplora i principali aspetti della ricerca dell’artista francese avendo il merito di trattare in maniera esaustiva proprio l’opera tra la Prima guerra mondiale e la sua morte, avvenuta nel 1954, ovvero quel periodo bistrattato dalla critica che solo recentemente ha incominciato a essere rivalutato e compreso nel suo grande valore. Dopo una sezione iniziale che documenta la fase dell’avanguardia con lavori quali L’Estaque, del 1906, un tripudio di colori fauvista, o Portrait d’Iturrino, datato 1914, un ritratto potente in cui emergono tanti echi del passato, primo fra tutti quello di El Greco, la rassegna procede con una nutrita serie di dipinti che ben testimonia l’evoluzione di linguaggi e tematiche dell’arte di Derain. I paesaggi spaziano da quelli degli anni Venti e Trenta, con vedute della
Provenza e visioni di sottoboschi, in cui ben si colgono i rimandi a Poussin, a Constable o a Corot, a quelli «sinistri» del periodo più tardo, con cieli in tempesta e pianure desolate a farsi emblema dell’inquieto pessimismo dell’artista. I nudi femminili, poi, mostrano la profonda conoscenza dell’artista dell’opera di Tiziano, di Giorgione, di Rubens e di Courbet, punti di riferimento per la riconquista di quel solenne possesso dello spazio in cui la figura si colloca solida e immutabile come una statua. Belle anche le nature morte dall’atmosfera atemporale e dalla composizione studiata nei minimi dettagli, dove forti sono i rimandi al Seicento olandese, ai dipinti di Baschenis, Chardin e Manet e agli affreschi pompeiani. Tra i ritratti, di particolare interesse sono la tela Geneviève à la pomme, datata 1938, un dipinto che incarna in modo esemplare l’utilizzo che l’artista fa della luce, intesa come «la sola materia della pittura», e Autoportrait à la pipe, l’ultimo autoritratto eseguito
poco prima di morire, in cui Derain si effigia con la pipa in bocca delineando vigorosamente il proprio volto mediante marcati contrasti chiaroscurali. Infine i lavori popolati da ninfee, cavalieri e figure antiche, opere in cui risuonano suggestioni mitologiche e allegoriche che l’artista ama esibire soprattutto nella fase conclusiva del suo cammino. E guardando il grande dipinto La Clairière, ou le déjeuner sur l’herbe, del 1938, rivisitazione della più illustre pittura veneta e fiamminga, si comprende pienamente come per Derain «fare la rivoluzione nell’arte» fosse «capire la tradizione, nel momento in cui non la si capisce più». Dove e quando
André Derain. Sperimentatore controcorrente. Museo d’arte Mendrisio. Fino al 31 gennaio 2021. A cura di: Simone Soldini, Barbara Paltenghi Malacrida, Francesco Poli. Orari: da ma a ve 10.00-12.00/14.00-17.00; sa, do e festivi 10.00-18.00.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Cultura e Spettacoli
Le epidemie nei classici
Letteratura – 1 Molti autori greci e latini hanno raccontato le emergenze sanitarie dell’antichità
Elio Marinoni L’imperversare della pandemia da Covid-19 ha dato vita a una fioritura, nella stampa internazionale scritta e parlata, di riferimenti a epidemie del passato e alle loro descrizioni letterarie. Negli ambienti di lingua e cultura italiana si sono richiamate soprattutto la peste di Firenze del 1348, che fa da cornice al Decameron del Boccaccio, e quella di Milano del 1630, descritta in alcuni capitoli dei Promessi sposi manzoniani. Non sono mancate tuttavia incursioni in altre letterature: dal Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe (1722), che descrive la pestilenza che colpì Londra nel 1665, alla Peste di Albert Camus (1947), dove si narra dell’immaginaria pestilenza dilagante nella città algerina di Orano, fino alle pesti fantascientifiche immaginate da alcuni romanzieri del secondo Novecento: così, nell’Ombra dello scorpione (1990) Stephen King immagina che un virus, sfuggito da un laboratorio, falcidii gran parte della popolazione mondiale (il pensiero corre alle accuse, rivolte da taluni alla Cina, di essere responsabile di qualcosa del genere per la diffusione del Coronavirus). Lo scopo delle pagine che seguono è di risalire per così dire agli archetipi, mostrando come le descrizioni di epidemie siano molto antiche nella letteratura occidentale e presentino alcune caratteristiche ricorrenti, poi parzialmente ereditate dalle moderne letterature. Da Omero a Sofocle
Il primo accenno a una sorta di moria dilagante all’interno di una popolazione si trova nell’Iliade omerica, il più antico poema a noi pervenuto della letteratura occidentale (VIII secolo a.C.). Proprio all’inizio del poema, leggiamo che «il figlio di Zeus e di Latona» (cioè Apollo) «irato col re» (Agamennone) «mala peste fe’ nascer nel campo, la gente moriva» (Iliade, I, 9-10, tr. di Rosa Calzecchi Onesti). Il termine usato nell’originale greco è noûsos, forma ionica per nósos, «malattia», che sopravvive come prefisso noso – in parole come «nosocomio».La causa di questa moria diffusa nell’esercito acheo a Troia è individuata nel risentimento del dio Apollo nei confronti del re Agamennone, colpevole di non aver accettato la liberazione e la restituzione, dietro riscatto, della figlia Criseide, precedentemente fatta prigioniera, al sacerdote Crise – come diffusamente spiegato nei versi successivi.
Achille offre un sacrificio a Zeus, manoscritto all’Ambrosiana di Milano. (Wikipedia)
La propagazione del noûsos è operata dal dio in persona, che, sceso dall’Olimpo, scaglia le sue frecce nell’accampamento acheo (vv. 43-52). Si vedano in particolare i vv. 50-52: «I muli colpiva in principio e i cani veloci, / ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta / lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte». (tr. cit.). Nonostante il poeta impieghi il sostantivo noûsos si tratta dunque, più che di una pestilenza, di una strage all’arma bianca, a meno di accogliere l’interpretazione razionalistica di Ammiano Marcellino (Storie, XIX, 4,2-3), secondo il quale i dardi di Apollo simboleggiano i raggi infuocati del sole (col quale Apollo era comunemente identificato) e dunque la moria sarebbe stata causata dall’eccessiva calura e siccità. In ogni caso, nel passo omerico sono presenti alcuni elementi che caratterizzeranno successive descrizioni di epidemie: – la moria colpisce anche gli animali; – la sottolineatura del gran numero di cadaveri; – la moria è concepita come punizione divina. Una vera e propria pestilenza è quella descritta nella parte iniziale dell’Edipo re di Sofocle, probabilmente scritto e rappresentato tra il 429 e il 425 a.C. Nel prologo della tragedia, che si svolge a Tebe, un vecchio sacerdote, rispondendo alla domanda di Edipo, re della città, sul perché dell’affollarsi agli altari di sacerdoti e popo-
lo, così risponde: «La città, lo vedi tu stesso, è come sbattuta tra i flutti, e più non può sollevare il capo dalla mortale tempesta: periscono, ancora chiusi nei calici, i frutti della terra; periscono le mandre dei bovi alla pastura; perisce nei vani parti delle donne la semenza dei figli non nati. E il dio del fuoco, il dio della febbre, la pestilenza nemica, si avventa sulla città e la devasta; e le case dei Cadmei si svuotano, e le nere vie dell’Ade si riempiono di gemiti e di lamenti». (Edipo re, 22-30, trad. di Manara Valgimigli). Dopo l’iniziale metafora della tempesta – frequente in un popolo di marinai come i Greci per indicare le sciagure – di cui si sottolinea la letalità, l’autore ricorre al termine specifico di «pestilenza» (loimós nel testo greco, v. 28), utilizzandolo però come apposizione di «il dio del fuoco, il dio della febbre», personificazione icastica della pestilenza stessa. Può essere interessante notare che «il dio del fuoco, il dio della febbre» è un’efficace amplificazione esegetica, dovuta al traduttore, del testo greco, che dice semplicemente «il dio portatore del fuoco» (ho pórphyros theós, v. 27). In effetti, la febbre era il primo sintomo della peste che colpì Atene nel 430, secondo quanto afferma Tucidide (II, 49) e, se è corretta la datazione 429-425 per la composizione della tragedia, accolta dalla maggior parte degli studiosi, è possibile che Sofocle, per la sua descrizione della pestilenza, abbia tratto spunto dalla realtà storica della peste del 430 e
forse addirittura dalla descrizione che ne fa Tucidide (cfr. più avanti). La triplice anafora del verbo «perire» (che nell’originale greco ricorre solo due volte) evidenzia come l’epidemia non riguardi solo gli umani, ma coinvolga anche la vegetazione e gli animali. Il passo si chiude ponendo l’accento sull’elevato tasso di mortalità fra i Tebani («Cadmei»: vv. 29-30). La descrizione della pestilenza che affligge Tebe ritorna, in forma più dettagliata, nella parodo (vv. 151-215), il canto d’ingresso del coro, composto dai notabili della città. Esso ha la forma di una preghiera che i coreuti rivolgono alle massime divinità olimpiche. Ne propongo di seguito i vv. 159188: Antistrofe I: «Te per prima invoco, figlia di Zeus, Atena immortale; e te, Artemide sorella che questa terra proteggi e qui nel cerchio dell’agorà siedi su trono di gloria; e te Febo Apollo che da lontano lanci le tue saette: ioh ioh ioh, tutti tre siatemi presenti, scacciate il morbo mortale. Se già altra volta, la peste di prima, il flagello di fuoco che si era avventato sulla città, voi disperdeste lontano, deh anche ora accorrete». Strofe II: «Innumerevoli mali io patisco. Preso è dal contagio il popolo tutto: arma nessuna d’intelligenza vale a difesa. Frutto non cresce più dalla terra ferace; dai parti non hanno sollievo di loro doglie le donne. Cadono gli uni sugli altri, e tu li vedi che, come stormi di alati, per l’impeto
del male che si appiglia più veloce del fuoco, traggono alle rive del dio occidentale». Antistrofe II: «Di questi morti, che la città più non novera, la città perisce. Giacciono essi al suolo, senza destare pietà e senza compianto, portatori di morte essi stessi. E le giovani spose e le madri canute, qua e là sui gradini degli altari, piangono e supplicano fine a così luttuoso travaglio. Limpido suona il peana e concordi risuonano voci di lamento. Per tutto questo, o aurea figlia di Zeus, mandaci un aiuto che riporti il sereno». (Edipo re, 159-188, trad. cit.) Nell’antistrofe I le tre divinità sono invocate come un «baluardo contro la morte»: è questo il significato dell’agg. alexímoroi del v. 163, risolto dal Valgimigli in un’esplicita richiesta di aiuto («scacciate il morbo mortale»). Con «la peste di prima, ecc.» si allude alla Sfinge, da cui Edipo stesso aveva liberato la città. L’aggettivo «innumerevoli», collocato in posizione enfatica all’inizio della strofe II, pone l’accento sul dilagare inarrestabile dell’epidemia, col conseguente affollarsi di cadaveri prima nelle vie della città e poi all’ingresso dell’Ade (a cui allude l’espressione «alle rive del dio occidentale» della strofe II). Con parole di sconforto il coro constata l’incapacità dell’intelligenza umana (che Sofocle aveva esaltato in un famoso corale dell’Antigone) di escogitare un rimedio contro la pestilenza: «non c’è arma d’intelligenza con cui difendersi» (vv. 170171). Analogamente Tucidide (II, 47, 4) osserva che non solo la medicina, ma «nessun’altra arte umana» (álle anthropeía téchne oudemía) era in grado di curare il male. Poiché Tucidide stesso afferma nel proemio della sua opera (I, 1) di aver cominciato a comporre la storia della guerra del Peloponneso «subito, non appena essa scoppiò» (cioè nel 431 a.C.), non è forse azzardato pensare a un legame di interdipendenza dei due passi. L’elevato tasso di mortalità e il conseguente accumulo di cadaveri per le strade è nuovamente sottolineato all’apertura dell’antistrofe II, dove ritorna, nel testo greco (v. 179), l’agg. anárithmos, «innumerevole», già impiegato al v. 167. Ma qui si aggiunge un altro dettaglio: il venir meno della pietà nei confronti dei defunti, che la situazione di emergenza impediva di onorare con i consueti riti funebri. È un particolare che ricorre anche in Tucidide e diventerà un luogo comune nelle descrizioni di pestilenze. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Un film come omaggio al teatro
Cinema Schwesterlein è il nuovo lavoro delle registe Stéphanie Chuat e Véronique Reymond, una pellicola
dalle grandi ambizioni, selezionata per la corsa agli Oscar Muriel Del Don Rimasto in letargo forzato a causa della pandemia di Covid19, Schwesterlein, il nuovo lungometraggio del duo di registe losannesi formato da Stéphanie Chuat e Véronique Reymond, è finalmente sbarcato il 3 settembre sugli schermi della Svizzera tedesca e il 16 su quelli della Svizzera romanda. La sua uscita in Ticino dipenderà dai risultati ottenuti in Svizzera tedesca ma vista l’attuale capacità limitata delle sale nulla è purtroppo garantito. Schwesterlein è stato inoltre selezionato per rappresentare la Svizzera nella corsa agli Oscar. Una notizia incredibile che le due registe accolgono con gratitudine ed entusiasmo.
La storia racconta di due fratelli gemelli che sfidano la malattia per affermare l’importanza dell’arte Anche se ammettono di non crederci quasi nemmeno loro, è la seconda volta che un loro film viene scelto come rappresentante della Svizzera nella corsa agli Oscar. La prima è stata dieci anni fa con il loro primo film La petite chambre, una meditazione intima e toccante sul lutto. Schwesterlein rappresenta per loro una seconda possibilità, un tram-
polino di lancio che riserva al film una bella carriera internazionale. Schwesterlein, il secondo lungometraggio di finzione di Stéphanie Chuat e Véronique Reymond, rappresenta una tappa decisiva all’interno di una carriera che le registe hanno saputo affrontare con la grinta e la determinazione che le caratterizza. Selezionato in competizione ufficiale alla Berlinale, la loro ultima fatica ha da subito conquistato il cuore degli spettatori grazie ad una storia toccante e tragica che non scade però mai nel pathos e ad una paletta di attori decisamente carismatici: Nina Hoss (Lisa nel film), Lars Eidinger (Sven), Marthe Keller, Jens Albinus e il regista teatrale e direttore artistico della prestigiosa Schaubühne Thomas Ostermeier. Brillante autore di teatro, Lisa non riesce più a scrivere. Ritornata a vivere in Svizzera con la sua famiglia, la sua mente rimane imprigionata a Berlino dove vive suo fratello gemello Sven, celebre attore teatrale. La vita di quest’ultimo è attaccata ad un filo da quando gli è stata diagnosticata una leucemia dalla quale sembra impossibile guarire. Lisa non accetta il destino del fratello e decide di fare qualsiasi cosa per permettergli di ritornare a calcare le scene. Per lui, la sua anima gemella, decide di accantonare tutto mettendo in pericolo la sua vita di famiglia e le sue rassicuranti certezze. Attraverso la passione di suo fratello, Lisa si rende conto di quanto l’arte, la creazione, siano vitali anche
Gli interpreti sono Nina Hoss e Lars Eidinger. (vegafilm.com)
per lei, di quanto ne abbia bisogno per sentirsi viva. Attrici di formazione, Stéphanie Chuat e Véronique Reymond hanno deciso con il loro ultimo lungometraggio di omaggiare il teatro. Schwesterlein è in effetti una meditazione profonda e poetica sulla necessità di recitare, di
incarnare un personaggio, ancora e sempre, per allontanare la morte, per restare vivi malgrado la malattia e un corpo che sembra sgretolarsi. Lars Eidinger, attore feticcio di Ostermeier, incarna Sven, clown ribelle che lotta per mantenere viva la sua arte, il suo alter ego teatrale malgrado la tragicità
del suo destino. Accompagnato dalla sublime musica di Bach, Schwesterlein è un dramma sottile e potente che tocca nel profondo ed evidenzia quanto l’arte sia importante per capire chi siamo veramente, al di là delle pressioni sociali e del conformismo di una società che sembra volerci rendere tutti uguali. Annuncio pubblicitario
Viaggio silenzioso attraverso l’Iran Fotografia Dirandando, racconto
per immagini di Salvatore Scolaro Le potenzialità incredibili della tecnica digitale e poi anche la facilità con cui oggi è possibile approntare dei progetti editoriali di livello professionale permettono oggi a molti dilettanti di cimentarsi con imprese ambiziose. Succede alle piccole band locali, che possono finalmente registrare di album musicali «come quelli veri» oppure agli aspiranti scrittori, che possono far arrivare in libreria le loro opere senza passare per le grandi case editrici. Dirandando, che nasce dalla grande passione del suo autore e circola senza clamore mediatico, quasi per un passaparola tra amici, è uno di questi progetti fai-da-te: un semplice libro fatto di fotografie. Si sente un po’ la mancanza di didascalie, spiegazioni, aneddoti, percorrendone le pagine. (Si scopre poi che ci sono, anche se proprio
È pubblicato da Prestampa Taiana, con la prefazione di Alberto Chollet.
minime, in fondo al volume). Di immagini, nelle nostre giornate sul web, ne vediamo tante ogni giorno. E di immagini di viaggio in paesi esotici ancora di più. Viaggiare e fotografare, come ci insegna Claudio Visentin, sono due facce della stessa medaglia. In molti casi però si fatica a far stare l’immagine della realtà nella nostra riproduzione ingenua. Lo sappiamo tutti. Il colore di quel tramonto in foto non è proprio lo stesso, il taglio del paesaggio non è esattamente conservato come immaginavamo. Insomma, al ritorno del viaggio le immagini che riportiamo sono come un’esperienza parallela, un viaggio quasi diverso. Nel caso delle fotografie di Scolaro invece colpisce l’acutezza dello sguardo: è come se ogni scatto andasse a ricercare non una realtà da riprodurre, ma un paradosso, uno spunto curioso, una contraddizione di quella realtà. Ci vuole senso dello humor e anche fortuna per scattare foto come queste. E poi una non usuale perizia. Non sono scatti qualsiasi. Sono un po’ delle illuminazioni istantanee, assecondate da una evidente capacità tecnica nella composizione e nella cura delle luci. Quando si è capito il trucco, la lettura (o, meglio, la partecipazione del lettore) diventa più attenta e curiosa. Il gioco diventa allora andare a cercare quale spunto Scolaro ha voluto evidenziare, da quale successioni di eventi è rimasto colpito e vuole comunicare a noi, rimasti a casa, come fossero tesori trovati durante il suo viaggio. Il suo Iran è fatto di volti e di angoli particolari. Una collezione di dettagli da interrogare e scoprire: l’Iran di Scolaro non è una conclusione ma una premessa.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 novembre 2020 • N. 46
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Idee e acquisti per la settimana
Divertimento a tutto tondo
La gioia di collezionare e scambiare può avere inizio: con la promozione All Stars a ogni acquisto i clienti Migros ricevono gratuitamente biglie e bollini. In abbinamento alle biglie colorate ci sono altri divertenti elementi, tra i quali delle piste, bei contenitori per collezionare e giochi
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Figure Un saluto alla foca del gelato! Ciao Miggy! I famosi personaggi Migros decorano le biglie e i giochi.
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Scatola per la collezione Esclusiva e pratica: la scatola, nella quale trovano posto tutte le biglie, contiene tre giochi comprensivi delle istruzioni, un dado, così come un sacchetto per le biglie.
Giochi Con le biglie collezionate si possono inventare originali giochi da tavola. C’è anche un gioco dell’oca.
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Codice QR Leggendo quello presente sui bollini della collezione si entra nel mondo Migros All Stars!
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Migros All Stars Dal 3 novembre al 24 dicembre si può di nuovo collezionare. Ogni fr. 20.– di spesa alla cassa e su Migros-Online si riceve una bustina che contiene una biglia e un bollino. Il bollino va incollato sulla cartolina da raccolta. In cambio di una cartolina raccolta completa si beneficia del 65% di sconto su una delle sei piste per biglie Hape. In negozio è inoltre disponibile al libero servizio una scatola da collezione per le biglie (Fr. 4.90, gratuita per i membri Famigros), che contiene tre giochi e un sacchetto per le biglie. Tra l’altro, i soggetti delle biglie permettono di incontrare nuovamente i noti personaggi dell’universo Migros, come Finn, Miggy e il Superconiglio. Tutte le informazioni su migrosallstars.ch
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Idee e acquisti per la settimana
Biscotti fatti in casa
Regala ai biscotti, al punch all’arancia o a un aromatico tè un’intensa nota natalizia. Anice Stellato 30 g Fr. 3.10
Per i classici biscotti di Natale i tagliabiscotti con motivi tradizionali sono assolutamente irrinunciabili. Cucina & Tavola set di tagliabiscotti 6 pezzi Fr.6.95
La pasta per biscotti pronta in edizione limitata «caramello salato» si caratterizza per il suo sapore dolce-salato ed è un’autentica esperienza per le papille gustative. Anna’s Best Salted Caramel Pasta 500 g Fr. 3.90
Consiglio
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Stendere la pasta ancora fredda su una superficie infarinata con l’ausilio degli appositi legnetti stendi-pasta o di un matterello e renderla uniforme. Dopo aver ricavato i biscotti con le formine, rimpastare i resti e spianare la pasta di nuovo. Se la pasta risultasse troppo molle, rimetterla in frigo per qualche minuto.
I limoni sfusi dopo la raccolta sono trattati esclusivamente con cera naturale. La buccia è ideale per la pasticceria natalizia. Limoni Spagna al prezzo del giorno
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Cultura e Spettacoli
La memoria che affonda nelle radici del cuore
In scena A Lugano l’ultima produzione di Cristina Castrillo, omaggio ai 40 anni del Teatro delle Radici,
e il recitare «corporeo» di Veronica Gonzales al Festival delle marionette Giorgio Thoeni «Loro non sono dietro di me, sono dentro di me». Cristina Castrillo dice dei suoi attori. Lo fa in un breve, emblematico intervento che sigla il termine di re-cordari, lo spettacolo che ha debuttato allo Studio Foce e che segna i quarant’anni del Teatro delle Radici. È il segno teatrale di un’avventura in cui ad essere protagonisti sono proprio loro, gli attori che hanno partecipato alla nascita, allo sviluppo, alla crescita e l’affermazione di una storia avvincente, intensa, intima e profonda, costruita lungo un percorso di formazione e attorno a una serie di spettacoli teatrali scritti sulla memoria collettiva e di ognuno, su impegnative e tormentate ricerche individuali e intense passioni corali. re-cordari è tutto ciò, una raccolta di pagine in cui la nostalgia è memoria, dove il racconto di ogni attore si costruisce con simboli, parole, canzoni, danze, confessioni, tracciati a matita e fruscio di batter d’ali… recordari non è solo uno spettacolo, è molto di più. È narrato con la semplicità e l’immediatezza di sempre, ci parla del lavoro instancabile di Cristina ma soprattutto di un teatro di emozioni, di ricordi, di accesa umanità. La stessa che nasce dalle tavole precarie di un teatro forte e fragile al contempo, specchio di una riconoscenza spesso
Un momento dello spettacolo re-cordari.
avara che riesce a nutrirsi di briciole, poche, le migliori, quelle che sono il nutrimento dell’anima e che sostengono l’arte, permettendo alla scena indipendente di sopravvivere, di alimentare idee e creatività con l’entusiasmo di gioie condivise, scritte sulla pelle come cicatrici. Novanta minuti da incastonare. Con Cristina Castrillo hanno raccolto gli applausi sinceri del pubblico i dieci attori in scena, protagonisti di sé stessi, impronta di tanta parte di
una bella epopea: Giovanna BanfiSabbatini, Andrea Fardella, Bruna Gusberti, Ornella Maspoli, Monica Muraca, Massimo Palo, Fulvia Romeo, Nunzia Tirelli, Carlo Verre, Chiara Vighetto e Irene Zicchinelli. Teatro di figura, una gioia per grandi e piccini
Uno spettacolo fatto coi piedi …ma non è un giudizio di valore. È il teatro animato dai piedi proposto dall’artista
argentina Veronica Gonzales, ospite della 38esima edizione del Festival Internazionale delle Marionette di Michel Poletti con Lucia Bassetti che si è appena concluso al Teatro Foce di Lugano. Allieva e degna erede di Laura Kibel, la Gonzales ha creato un’originale antologia di piccole storie per cui, utilizzando gambe e braccia, mani e piedi, raddoppia le possibilità di dar vita con freschezza e energia ai suoi personaggi. Il ballo dei piedi è uno spet-
tacolo di brevi sketch, piccole drammaturgie sonore piene di poesia e divertimento uscite dalle valigie colorate schierate sul palco. Un cuoco specializzato nella pizza Margherita, un ominoginocchio che vuole fare un picnic, un Arlecchino innamorato accanto a icone di favole senza età come il pirata e la sirena, il mago e il drago, il ladro e il poliziotto, il mendicante con il cane alla ricerca di elemosine, il diavolo e il soldato con un messaggio pacifista fino al coro di caballeros messicani con tanto di sombrero. Alla Gonzales basta poco ma quel poco va amministrato con bravura per trasformare ginocchia e piedi con naso, baffi o barba e copricapo per conquistare la fantasia. Per la gioia e la sorpresa di grandi e piccini: pochi per la verità ma sufficienti per premiare l’artista e soprattutto un Festival che caparbiamente è riuscito a onorare anche quest’anno il suo impegno culturale schierando dieci spettacoli, un atelier e finalmente poter mostrare al pubblico il Museo delle Marionette. Per terminare vogliamo ricordare la figura di Gigliola Sarzi scomparsa all’età di 89 anni. Sorella minore di Otello e Lucia, attrice, costumista e partigiana, è stata fra i fondatori del Teatro delle Briciole di Parma. Era considerata fra gli ultimi testimoni della grande tradizione italiana del Teatro di Figura. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
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Cultura e Spettacoli
Regalo di compleanno per i fan
CD Come da volontà del compianto Tom Petty, la versione «integrale» dello storico album Wildflowers
vede infine la luce Benedicta Froelich
Sembra incredibile, eppure sono già passati tre anni da quello che si può tranquillamente definire come uno dei lutti più dolorosi affrontati dalla musica rock nell’ultimo ventennio – la morte prematura e totalmente inaspettata di Tom Petty, senza dubbio una delle star più atipiche di sempre, dotato di un’umiltà e sincerità (oltreché di un’invidiabile abnegazione e passione per la propria arte) difficilmente riscontrabili nei cantanti da classifica odierni. Il vuoto lasciato da Petty sulla scena musicale è, in effetti, così vasto da aver spinto gli eredi – la moglie Dana e le figlie Annakim e Adria – a cogliere l’occasione offerta dal settantesimo compleanno dell’artista per donare infine ai fan ciò che lo stesso Tom favoleggiava da tempo. E il risultato è uno dei migliori box set postumi che il rock a stelle e strisce possa vantare: Wildflowers and All the Rest, giunto nei negozi in ben sette versioni diverse e già ampiamente osannato dal pubblico – tanto da essere riuscito nella non facile impresa di far tornare in cima alle classifiche di «Billboard» un album che conta ormai un quarto di secolo. Tale entusiasmo è in parte dovuto alla qualità del materiale di partenza: non vi è infatti dubbio che Wildflowers, originariamente pubblicato nel 1994, sia uno dei migliori album di Tom – forse l’unico lavoro in cui questi accetti di mettere la propria anima
a nudo, rivelando all’ascoltatore, quasi in una sorta di catartico psicodramma, le proprie angosce e solitudini più profonde. Un’attitudine riflessa dalla scelta di pubblicare il disco come solista, e dall’impressionante varietà stilistica che ne contraddistingue la tracklist, in grado di passare da dolenti ballate intimiste (Time to Move On, Don’t Fade On Me) a travolgenti pezzi rock (You Wreck Me), fino a un finale eccellente come Wake Up Time, brano in grado di coniugare magistralmente la disillusione dell’età matura (leitmotiv principale del disco) e l’insopprimibile desiderio di speranza e rinnovamento – di rinascita, in fondo – al quale, infine, il Petty di allora si è arreso. Una parabola di grande forza emotiva, che Wildflowers and All the Rest ci restituisce in tutta la sua epicità, dal momento che, oltre alla versione rimasterizzata dell’intero album originale, vengono qui offerte ben dieci canzoni scartate dal missaggio finale del disco (cinque delle quali totalmente inedite); e in effetti, la lacerante introspezione e malinconica consapevolezza del lavoro del ’94 pervadono anche le nuove tracce, peraltro tutte collocabili a un livello qualitativo davvero alto – si vedano gioielli come Somewhere Under Heaven o, ancora, Something Could Happen, sorta di romantica confessione intrisa di un’irreprimibile speranza nel futuro; e poi, naturalmente, c’è Leave Virginia Alone, brano prescelto come singolo
Il disco contiene vari brani inediti: in origine era pensato come un album doppio.
estratto dal disco, con tanto di artistico videoclip in bianco e nero. Soprattutto, a differenza di quanto già visto con troppi box set postumi, gli inediti presenti sono ben lungi dal costituire semplici demo o abbozzi di brani: il fatto che le canzoni, già nel loro stadio finale, siano state scartate solo all’ultimo minuto dalla tracklist defini-
tiva dell’album (originariamente concepito come un doppio) fa sì che questo cofanetto trascenda l’idea di semplice operazione commerciale per divenire, a tutti gli effetti, una tappa obbligata per ogni vero fan di Petty. Certo, un primo ascolto potrebbe, in parte, spiegare perché Tom abbia infine rinunciato a queste tracce, alcune delle quali simi-
li a pezzi del passato; eppure, ballate struggenti come la splendida Confusion Wheel e la cadenzata e sognante Hung Up and Overdue conservano tutta la magia dei migliori exploit cantautorali del rocker, che con Wildflowers si convertiva a una dimensione molto più folk e intimista che in passato. Non solo: oltre al puro piacere di ascolto, Wildflowers and All the Rest si distingue anche per la cura con cui ogni particolare del box set è stato concepito, a partire dalla veste grafica squisitamente old-fashioned (incrocio tra un fumetto anni 60 e una brochure pubblicitaria d’altri tempi), fino all’innegabile eleganza del cofanetto di cartone – il quale, nel caso delle edizioni deluxe riservate ai completisti, racchiude fino a cinque CD e nove LP, dato che alle dieci tracce «perdute» si aggiungono diversi home recordings (tra cui l’inedito There Goes Angela), demo, versioni alternative e perfino una setlist live dell’album. E se è vero che l’ascolto di quest’eccellente cofanetto (a tutti gli effetti un «nuovo» lavoro) rende ancor più lacerante il senso di vuoto causato dalla scomparsa di Tom, l’atto d’amore rappresentato da Wildflowers and All the Rest riesce almeno a concederci la grande gioia di scorgere un lato inedito dell’artista, e di poter godere di nuove suggestioni scaturite dalla sua chitarra; proprio come succede nel ritrovare una vecchia fotografia, da cui d’un tratto sembra riemergere l’amico perduto di un tempo, pronto a confortarci nuovamente. Annuncio pubblicitario
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