Azione 46 dell'11 novembre 2024

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edizione

MONDO MIGROS

Pagine 2 – 3 / 6 – 7

SOCIETÀ

L’Intelligenza artificiale aiuta l’agricoltura a ottimizzare l’uso delle risorse e ridurre le emissioni

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ATTUALITÀ Pagina 13

Il 24 novembre in Svizzera si vota sul potenziamento delle strade. Le ragioni di favorevoli e contrari

Al vallesano David Constantin con Tschugger è riuscita una serie tv unica nel suo genere

CULTURA Pagina 21

Il trionfo di Trump, e adesso?

Il Mare d’Aral, un tempo cuore pulsante dell’Asia centrale è oggi simbolo del collasso ambientale

TEMPO LIBERO Pagine 34-35

La vendetta di Dana sul mondo distratto

Una nemesi storica. Negli ultimi scampoli della campagna presidenziale americana, Dana, dea vendicativa e potente, ha scatenato l’inferno pluviale su Valencia. Con questo nome da signora dell’Olimpo (simile a Danae, che fu fecondata da Zeus con una pioggia d’oro), Dana è in realtà un fenomeno meteorologico generato da un accumulo d’aria fredda che prima forma una depressione e poi va a scontrarsi con una massa di aria calda, generando infine piogge non d’oro (magari!), ma d’acqua, provocando alluvioni inaudite.

La conta dei morti e dei danni in Spagna lascia sbalorditi. E se l’Europa ha vissuto l’evento con dolorosa apprensione, nel frattempo l’America si è occupata quasi solo della tempesta politica che ha diviso in due il Paese, regalando infine una netta vittoria a Trump. Una «dimenticanza», quella sulla crisi climatica, che neppure l’uragano Milton abbattutosi sulla Florida oltre un mese fa è riuscito ad aggiustare. Negli scor-

si mesi, del riscaldamento globale e dei suoi effetti né Trump né Harris hanno fatto menzione. O quasi. Nel «discorso della vittoria» mercoledì scorso, Trump ha sì parlato del problema climatico ricordando l’uragano che aveva colpito la Carolina del Nord. Ma non l’ha fatto per sottolineare l’emergenza globale, bensì per lodare l’amico Elon Musk, che aveva offerto un sistema di comunicazione alternativo, visto che quello regolare era saltato. Del resto, quest’estate, sul social X (ex Twitter) c’è stata un’intervista proprio di Musk a Trump, in cui il prossimo presidente Usa era riuscito a dire che «con il riscaldamento globale avremo più ville fronte oceano». Il tycoon repubblicano, del resto, considera il surriscaldamento globale una colossale bufala. E col potere conferitogli dal rinnovo della carica presidenziale, le prospettive per il futuro del clima si fanno ancora più cupe. Sia chiaro, non è che con Kamala Harris ci sa-

rebbe stata una svolta. Da senatrice aveva sostenuto il piano di riduzione massiccia delle emissioni di gas serra. E da procuratrice aveva citato in giudizio aziende produttrici di idrocarburi come Chevron, BP, ConocoPhillips e Phillips 66. Come vicepresidente, tuttavia, è stata assai cauta e in campagna elettorale ha semplicemente schivato l’argomento. Insomma, l’agenda politica americana, e non solo, ha messo in un angolo quella che appare la maggiore emergenza planetaria in corso. In prospettiva peggiore persino delle guerre in Ucraina e nel Medio Oriente, altro tema abbastanza negletto nella campagna presidenziale statunitense, malgrado le promesse di Trump di farle cessare (magari!). È una tendenza che avevamo già notato alle ultime elezioni europee, che si sono rapidamente rimangiate il «patto verde» che aveva caratterizzato il precedente mandato. Ecco perché i disastri ambientali sembrano una nemesi storica. Nella mitologia greca e latina il

termine «nemesi» indica infatti la personificazione della giustizia distributiva che, come indica il vocabolario Treccani, è «punitrice di quanto, eccedendo la giusta misura, turba l’ordine dell’universo». La «nemesi storica», indica perciò avvenimenti «che sembrano quasi riparare o vendicare sui discendenti antiche ingiustizie o colpe di uomini e nazioni». Peccato che a pagare siano degli innocenti. Rattrista che l’emergenza climatica resti in coda ai programmi delle più alte istanze di potere, America in primis. Così, le sciagure in Spagna, come prima in Florida, in Emilia e – per stare in casa nostra – in Mesolcina, in Vallemaggia e in Vallese (ma anche il prosciugamento di immensi bacini d’acqua come il Mare d’Aral, di cui parliamo alle pagine 34 e 35) suonano quasi come un tragico sberleffo ai potenti, un richiamo ancora inascoltato alle loro responsabilità nei confronti dei destini dell’umanità e del suo Paradiso perduto.

Federico Rampini, Lucio Caracciolo e Francesca Marino Pagine 15 e 16

Il futuro è dei più giovani

Info Migros ◆ A colloquio con Giorgio Gallotti che, insieme a Vinish Parackal, si occupa della formazione di apprendiste e apprendisti in Migros Ticino

Sessantotto ragazze e ragazzi sono attualmente impegnati in un apprendistato a Migros Ticino. Grazie alle dimensioni e all’esperienza dell’azienda (che nell’investimento nelle nuove generazioni crede molto), ragazze e ragazzi possono scegliere tra formazioni diverse, contando per tutta la durata del percorso sul sostegno di personale qualificato.

Ne abbiamo parlato con Giorgio Gallotti, che da molti anni, oltre a essere consulente del personale, è anche responsabile degli apprendisti, coadiuvato da Vinish Parackal.

Giorgio Gallotti, oggi Migros Ticino dimostra una grande attenzione agli apprendisti, arrivando perfino ad aumentarne in modo considerevole il numero.

Al momento abbiamo 68 apprendisti divisi nelle professioni di vendita, logistica, commercio e nei centri Activ Fitness. L’anno prossimo si diplomeranno in diciotto. Sono numeri importanti che ci fanno piacere; oggi faccio da supervisore, mentre ad esempio gli apprendisti venditori sono seguiti in filiale dai sostituti gerenti. Nel 2022 è inoltre cambiata la modalità di insegnamento: oggi c’è l’e-learning e i ragazzi non trascorrono più 6-7 giornate all’anno nelle nostre aule. Ritengo un grande valore lavorare con gli apprendisti, non solo per l’aspetto sociale, ma anche perché molti di loro hanno la possibilità di proseguire la loro car-

riera in azienda anche al termine dell’apprendistato.

Come è strutturato l’apprendistato di vendita?

I ragazzi vengono inseriti in una filiale dove restano per un anno; durante il secondo anno vengono mandati a fare un’esperienza in un’altra filiale non troppo lontana, così da conoscere le diverse modalità di lavoro, gli assortimenti e, soprattutto, tipolo-

gia di clienti; l’ultimo anno ritornano alla filiale di partenza, «a casa», molto più operativi e autonomi. Come Migros Ticino non ci mettiamo solo a disposizione dei ragazzi nell’ambito di un apprendistato, ma collaboriamo anche con altri progetti. Ad esempio, vi è il progetto LIFT, attraverso il quale inseriamo in azienda (in forma di stage) dei ragazzi di terza e quarta per 2-3 ore al mercoledì pomeriggio o al sabato,

U n coaching per il tuo progetto

Percento culturale ◆ Ti impegni in ambito sociale e vorresti portare avanti il tuo progetto? Noi ti possiamo aiutare

Vorreste riorganizzarvi o crescere ulteriormente come team? Vorreste ampliare il vostro progetto e vi state chiedendo come fare? State pensando a come convincere altre persone a unirsi alla vostra iniziativa? Il Percento culturale Migros vi dà una mano! Insieme alla vostra organizzazione di pubblica utilità potrete beneficiare del nostro coaching rivolto alle iniziative sociali.

Il Percento culturale Migros aiuta la nostra società a essere aperta e forte per il futuro e desidera contribuire a creare una buona convivenza tra le persone in Svizzera.

Il team Affari sociali della Direzione Società e cultura della Federazione delle cooperative Migros offre il proprio sostegno attraverso il Percento culturale Migros. Esso sostiene progetti sociali e promuove l’incontro e il dialogo tra le persone. Il Percento culturale Migros utilizza il denaro messo a disposizione anche per sostenere persone e organizzazioni impegnate nell’aiuto al prossimo, affinché possano svolgere al meglio il proprio lavoro. Questo è anche l’obiettivo della nuova offerta di sostegno «Coaching per iniziative sociali». Dopo la fase pilota nella svizzera tedesca

e romanda, l’offerta è ora proposta anche in Ticino.

Il coaching consiste in un colloquio tra il/la coach e i partecipanti, durante il quale il/la coach, grazie a un punto di vista esterno, offre il proprio aiuto per la risoluzione dei problemi, anche attraverso la ricerca di nuove idee. Possono ricevere un coaching quei progetti (sviluppati da associazioni e cooperative, ma anche da organizzazioni senza forma giuridica, basta che siano già avviati) che rafforzano la coesione e la convivenza nella società, dunque con un obiettivo sociale. I progetti devono svolgersi in Svizzera, a livello regionale o nell’intero Paese. Al coaching dovranno partecipare più persone: da un minimo di due a un massimo di otto.

Il Percento culturale Migros offre un primo colloquio di un’ora con il/la coach, cui potranno seguire altre otto ore; è previsto il rimborso delle spese di viaggio (treno o autobus) per raggiungere gli incontri.

Come candidarsi Regolamento, coach ed esempi di progetto: engagement.migros.ch/it/coaching Info: anna.frey@mgb.ch; Tel. +41 58 570 33 69

le, ma io ci tengo molto. Ho cominciato a fare questo lavoro quando i miei figli avevano più o meno l’età dell’apprendistato, e l’ho fatto da subito con grande piacere. Mi piace stare vicino ai giovani e sostenerli; mi piacerebbe «viverli» maggiormente in aula, ma le nuove tipologie di apprendimento prevedono altri sistemi.

Cosa propone a una ragazza o un ragazzo che deve affrontare un colloquio?

affinché possano capire quali sono le loro capacità e se il lavoro li interessa. Abbiamo avuto esperienze anche con ragazzi seguiti dai foyer, così come cerchiamo di creare degli stage anche per giovani diversamente abili, seguiti da varie associazioni e/o assicurazioni (AI in primis).

Quando parla dei suoi ragazzi lei si illumina… (ride) I ragazzi sono dei rompiscato-

Anzitutto chiediamo loro di affrontarlo con decisione e convinzione. Sappiamo che il momento del colloquio è molto importante soprattutto per il giovane che è alle prime esperienze. Per questo motivo formiamo costantemente i nostri responsabili nel cercare di individuare le potenzialità dei candidati, così da potere proporre loro la formazione più adatta. L’unico consiglio che posso dare è quello di presentarsi per quello che sono durante la prova pratica, porre tutte le domande del caso e vivere in modo costruttivo queste giornate. Nel complesso sono soddisfatto dei risultati ottenuti dai nostri tirocinanti, e per questo ringrazio tutti i colleghi che si prodigano per il loro successo. Auguro loro sicuramente un futuro ricco di successi sia personali sia professionali e li invito a fare tesoro dell’esperienza in Migros Ticino, anche per coloro che non hanno raggiunto gli obiettivi prefissati. Sono e sarò sempre il loro primo «supporter»!

Salute ai pensionati

Info Migros ◆ Un brindisi per chi va in pensione

Nelle scorse settimane il Comitato di direzione della Cooperativa Migros Ticino ha dedicato un momento di ringraziamento a quelle collaboratrici e a quei collaboratori che hanno tagliato il traguardo di fine carriera. Tra i cinquantasette pensionati, ben otto presentavano un curriculum in cui spiccavano gli oltre 40 anni di presenza nelle file dell’azienda. La media di servizio di questi neopensionati è di ben 28 anni. Questa cifra rappresenta senza dubbio un dato ragguardevole: la fidelizzazione verso l’azienda si esprime infatti anche nel numero di anni che la e il dipendente decidono di trascorrervi.

Il brindisi di saluto, cui hanno partecipato la maggior parte dei pensionati, ha avuto luogo il 21 ottobre nella Centrale Migros situata in Via Serrai 1 a Sant’Antonino. Il momento aggregativo è stato fondamentale, oltre che per i saluti, anche per potere ringraziare collaboratrici e collaboratori per il loro importante contributo all’andamento della Cooperativa Migros Ticino. La direzione di Migros Ticino, ricordando il simpatico momento, rinnova i propri ringraziamenti a collaboratrici e collaboratori ora in pensione, auspicando loro anni sereni e tranquilli, all’insegna di un meritato riposo.

Una parte degli apprendisti impiegati da Migros Ticino.
Alcuni dei pensionati che si sono dati appuntamento per un brindisi finale.
Il sostegno di un coach può aiutare nella realizzazione di un progetto: affidatevi al Percento culturale. (migros engagement)

Quanto dovrebbero costare le mele svizzere?

Attualità ◆ Presto la Migros offrirà più di 1000 prodotti a prezzo basso. Miriam Richter, responsabile Food e Prodotti freschi della Migros Supermercati SA, parla del prezzo delle mele svizzere e spiega perché la Migros sarà sempre più di un semplice discount

Quanto dovrebbero costare le mele svizzere?

Il meno possibile e tanto quanto necessario, per dare la possibilità di gustare questa prelibatezza elvetica ogni giorno.

E quanto costano alla Migros?

Alla Migros una mela della varietà «Gala» costa circa 40 centesimi, a seconda della grandezza. La mela «Gala» è un classico e complessivamente proponiamo una ventina di varietà, tra cui anche mele speciali come la «Diva» e la «Greenstar» nonché prodotti regionali.

La Migros offre ora molti prodotti a basso prezzo: perché inizia con la frutta e la verdura?

Da qualche parte bisogna pur cominciare e abbiamo scelto una categoria di alimenti acquistati molto spesso. In Svizzera un carrello della spesa su due contiene frutta e verdura, che ora sono diventate molto più economiche. Per noi era importante che la maggior parte dei clienti percepisse i nuovi prezzi bassi alla cassa.

Perché allora non proporre tutti i prodotti a prezzo basso come fanno i discount?

Il nostro obiettivo non è nemmeno quello di offrire allo stesso prezzo dei discount ogni singolo prodotto, bensì quelli più importanti, ovvero quelli acquistati più frequentemente. Tra questi figurano anche articoli come cetrioli e limoni biologici, che continueranno a essere più costosi di quelli convenzionali. Questi articoli però sono molto richiesti e quindi li proponiamo a prezzo basso.

Come si compone il prezzo di vendita dei prodotti freschi?

A differenza del giardino di casa,

Alla fine il contatto umano fa la differenza.

(Miriam Richter)

dietro le nostre mele c’è molto più di un albero: ci sono il trasporto nei camion-frigo, lo stoccaggio, la presentazione nei negozi, i controlli di qualità. Tutto ciò costa. Da mesi ci stiamo adoperando per fare sempre meglio e ridurre i costi. A loro volta le migliorie si traducono in prezzi più interessanti per la clientela.

Come resistere alla tentazione di

negoziare prezzi più bassi con i produttori?

Siamo e rimarremo sempre un partner onesto e leale per le agricoltrici e gli agricoltori svizzeri e negoziamo i nostri prezzi di conseguenza. L’obiettivo è sempre quello di ottenere il meglio per la nostra clientela. Tuttavia, come ho spiegato, finanziamo i nuovi prezzi bassi risparmiando soldi nostri, non a spese dei produttori.

C’è il rischio che la qualità diminuisca con il prezzo?

Controlliamo e miglioriamo costantemente la qualità dei nostri prodotti. Grazie alle tecnologie e ai migliori

Vantaggi di un account Migros

Info Migros ◆ Punti Cumulus, promozioni a colpo d’occhio, accesso gratuito al wi-fi Migros: ecco perché vale la pena iscriversi

1 Il conto Migros è il vostro accesso all’universo digitale Migros. Con un solo login potrete accedere a circa cinquanta tra siti web e applicazioni.

2 Ad esempio su Migros Online. Qui potrete fare acquisti in modo semplice e veloce con il vostro conto, vedere le promozioni a colpo d’occhio, avere una panoramica dei vostri prodotti preferiti e ottenere informazioni sui nuovi prodotti.

3 Gli scontrini e i buoni di garanzia saranno memorizzati sul conto Migros.

4 L’iscrizione permetterà di partecipare al programma bonus gratuito Cumulus. Qui potrete tenere sotto controllo il vostro saldo punti e gli estratti conto Cumulus.

5 Potrete navigare gratuitamente con la rete wi-fi Migros nei pressi di una sede Migros, sia essa un supermercato, un ristorante o uno studio Activ Fitness.

6 Potrete diventare soci di una Cooperativa Migros regionale con pochi clic tramite un pulsante nel vostro account Migros e consultare la vostra quota sociale. Informazioni Non avete ancora un Account Migros? Registratevi qui

controlli, la qualità da anni è aumentata. Siamo convinti che la buona qualità debba essere disponibile anche a prezzi bassi.

Anche la carne dovrebbe diventare meno cara. È ancora al passo coi tempi nel 2024?

Riduciamo il prezzo dei prodotti di prima necessità di tutte le categorie, comprese la carne e le proteine vegetali. I consumatori devono poter decidere e trovare un’ampia scelta in tutte le fasce di prezzo.

Dal prossimo anno i prezzi bassi si applicheranno anche ai latticini.

Quanto costa uno yogurt alla fragola?

Lo yogurt alla fragola a base di latte svizzero è un buon esempio di prodotto d’uso quotidiano ed è disponibile già oggi al prezzo basso di 65 centesimi, anche se ciò non è ancora stato evidenziato. Lo stesso vale per l’altrettanto popolare yogurt alla moca a 55 centesimi. Oltre a questi classici, offriamo molte specialità che gli altri non propongono, ad esempio lo yogurt di stagione al mandarino.

Talvolta si rimprovera alla Migros una scelta troppo ampia di yogurt, che può sopraffare i clienti. È sempre una sfida trovare il giusto equilibrio tra assortimento completo e semplicità. Quello degli yogurt è un assortimento per cui disporre di una scelta sufficiente fa la differenza. Anche chi ama lo yogurt alla fragola e al caffè desidera variare regolarmente e assaggiare altri gusti. È diverso ad esempio per la farina, dove bisogna orientarsi velocemente.

Perché?

Quando si tratta di piacere, i nostri clienti amano essere ispirati davanti allo scaffale, mentre quando si tratta di prodotti che vengono ulteriormente lavorati, di solito si tratta di un orientamento rapido.

Gli stessi prezzi bassi della concorrenza: perché allora fare la spesa alla Migros?

La Migros è sinonimo di prezzi bassi, ma non solo: vantiamo un assortimento molto ampio per tutte le tasche, la più grande scelta di prodotti freschi della Svizzera, la più grande scelta di prodotti regionali, marche proprie uniche e una vasta rete di filiali con personale competente e disponibile. Siamo convinti che alla fine il contatto umano faccia la differenza.

2025, più salario

Info Migros ◆ Aumenti salariali 2025 per chi beneficia del CCLN Migros

Migros Ticino è solida, ma il settore del Commercio al dettaglio nel nostro territorio sta attraversando una situazione non facile. La cifra d’affari è stagnante e gli investimenti previsti dalla Cooperativa regionale per i prossimi anni, soprattutto nell’ammodernamento e nell’ampliamento della rete di vendita, sono importanti. Nonostante un quadro generale colmo di sfide, l’azienda ha voluto però attribuire la giusta importanza alle proprie collaboratrici e ai propri collaboratori e, in accordo con il Consiglio di Amministrazione, la Direzione e la propria Commissione del Personale, nel quadro delle negoziazioni salariali 2025 ha convenuto di aumentare la massa salariale complessivamente dell’1.0%.

L’aumento della massa salariale sarà ripartito in considerazione della funzione, dell’esperienza e della prestazione.

Dal 1° gennaio 2025 i salari minimi verranno portati a 4200 franchi

mensili, per collaboratori impiegati a tempo pieno e non qualificati. La Direzione e il Consiglio di Amministrazione di Migros Ticino ringraziano la Commissione del Personale per i colloqui estremamente professionali e costruttivi durante le negoziazioni salariali. La Cooperativa ringrazia inoltre tutte le collaboratrici e tutti i collaboratori per il grande impegno dimostrato durante questo anno dinamico, impegnativo e ricco di cambiamenti per tutto il Gruppo Migros.

Lucas Ziegler

SOCIETÀ

Motori

Il settore automobilistico europeo è sempre più in difficoltà, rischia multe elevate e la conversione all’elettrico è lenta

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Tartarughe, sentinelle dei mari

Visita alla Fondazione Cetacea di Riccione che salva e cura le tartarughe marine ferite o malate

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Videogiochi troppo d’azzardo

Alcuni meccanismi dei videogames sono molti simili a quelli dei giochi d’azzardo: Ingrado lancia l’allarme

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L’Intelligenza artificiale aiuta l’agricoltura

Nuove tecnologie ◆ La ricerca è al fianco di coltivatori e allevatori per ottimizzare l’uso delle risorse e ridurre le emissioni

Le emissioni di bestiame contribuiscono a circa 3,8 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente all’anno, secondo i dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite FAO. Aumentare l’efficienza e la produzione del pascolo del bestiame (ad esempio aumentando la produzione di latte o un numero maggiore di animali) senza aggiungere un impatto ambientale maggiore è un obiettivo fondamentale per ridurre queste emissioni. I ricercatori dell’Università di Glasgow, dell’Alliance of Bioversity International e del Centro internazionale per l’agricoltura CIAT hanno sviluppato una guida pratica su come acquisire informazioni dai satelliti e utilizzare modelli predittivi per valutare i pascoli in termini di quantità (quanta biomassa) e qualità (proteine grezze, digeribilità e contenuto di ceneri). Analizzare i pascoli su larga scala come migliaia di ettari era in precedenza difficile ma i satelliti possono ora raccogliere dati su grandi aree. «Abbiamo sviluppato un sistema che può raccogliere dati via satellite, chilometri quadrati alla volta ma può anche essere utile per un agricoltore con un solo ettaro», afferma Juan Andrea Carso Arango, coautore dello studio pubblicato sulla rivista «Remote Sensing Applications Society and Environment» ed ecofisiologo presso l’Alliance of Bioversity International e il CIAT.

I ricercatori hanno sviluppato una guida pratica su come acquisire informazioni dai satelliti e utilizzare modelli predittivi per valutare i pascoli in termini di quantità e qualità

I modelli di intelligenza artificiale possono prevedere la produttività e la qualità dei pascoli, utilizzando dati di telerilevamento, per aiutare gli agricoltori a prendere decisioni strategiche e gestire i rischi. Il metodo è stato testato nelle praterie tropicali e mira a fornire informazioni utili ai piccoli agricoltori e allevatori per una migliore gestione. Per i ricercatori l’integrazione di nuove tecnologie può portare a sistemi agricoli e alimentari più efficienti, redditizi e sostenibili, anche perché informazioni tempestive sulla produzione o sulla qualità prevista dei pascoli sono importanti per la gestione del rischio in caso di cambiamenti climatici. «Questi modelli – prosegue Diana Maria Gutierrez Zapata, ricercatrice al CIAT – possono supportare strumenti digitali per aiutare il processo decisionale strategico, consentendo agli agricoltori di ottimizzare la gestione dei pascoli e gestire meglio i rischi come la scarsità d’acqua e il foraggio di bassa qualità all’interno

dei loro sistemi di produzione». Una maggiore consapevolezza dei rischi in tal modo può aiutare gli agricoltori a ottimizzare l’uso delle risorse e ridurre le emissioni. L’obiettivo a lungo termine è un’interfaccia intuitiva, simile a quella di Google Maps, che indichi la quantità e la qualità del foraggio agricolo. «Gli sviluppi tecnologici non si possono fermare – esordisce Sem Genini, direttore dell’Unione Contadini Ticinesi (UCT) –. Quanto e come determinate tecnologie si diffonderanno è un’altra questione. All’inizio se ne celebrano le potenzialità, ma non sempre queste sono poi confermate o di facile implementazione. Le famiglie contadine dipendono dalle tecnologie innovative e, soprattutto, da una ricerca impostata sui loro fabbisogni e necessità, in grado di fornire risposte concrete. La sostenibilità è fondamentale in tutti i suoi aspetti: economica, sociale e ambientale – prosegue –. Altrimenti avrem-

mo un problema. Nel nostro settore c’è chi preferisce un approccio il più manuale e fisico possibile, con un ridotto input tecnologico e chi invece accoglie quest’ultimo a braccia aperte. I loro segmenti di mercato, il loro “consumatore tipo” riflettono anch’essi queste filosofie differenti tra loro». «Va detto che ogni generazione porta con sé una nuova sensibilità, un nuovo modo di guardare al passato e al futuro – aggiunge Genini – Sia chiaro: lo scopo finale dell’agricoltura deve essere la produzione sostenibile di derrate alimentari di qualità, sufficienti a sfamarci.

Se le nuove tecnologie portano a dei miglioramenti e benefici nella vita di tutti i giorni, sono le benvenute, se iniziano a trasformare, anche radicalmente, la quotidianità stessa in maniera negativa anche la natura del proprio lavoro cambia».

Altra questione importante è l’impatto della tecnologia sulla realtà specifica del territorio e l’estensione re-

ale degli appezzamenti: «Il Ticino è una piccola realtà: la dimensione media di un’azienda agricola è di 13,4 ettari – illustra ancora Genini –. L’impiego di nuove tecnologie avrebbe più senso nelle grandi realtà per questioni di economia di scala, risultati ottenuti e l’ammortamento dei costi delle tecnologie impiegate. Quanto questi ultimi si riducono è spesso centrale e incentiva la loro diffusione tra chi avrebbe voluto, ma non poteva. Pensiamo all’impiego dei droni: possono agevolare determinati processi, come sopperire alla carenza di manodopera o lavori faticosi – conclude il direttore dell’Unione Contadini Ticinesi. Come nel caso dei trattamenti fitosanitari in viticoltura: nei vigneti impervi vengono ancora fatti con l’atomizzatore in spalla perché non si possono impiegare i veicoli che vediamo in pianura. Si possono inoltre usare per ottimizzare in maniera specifica le procedure e il dosaggio. Anche in Ticino si stanno facendo prove tecniche

sull’utilizzo dei droni e l’efficacia dei trattamenti migliora di generazione in generazione, e ci sono ancora margini di miglioramento. Ogni cambiamento porta a nuove sfide e rischi». Secondo un altro studio recente, intitolato «Agriculture students’ use of generative artificial intelligence for microcontroller programming», l’intelligenza artificiale generativa, quella che sa creare contenuti, come ChatGPT, si dimostra promettente come mezzo utile in agricoltura per scrivere semplici programmi per computer destinati ai microcontrollori. «Sono piccoli computer in grado di eseguire attività basate su programmi per computer personalizzati. Ricevono input dai sensori e possono essere utilizzati nei controlli climatici e di irrigazione, nei sistemi di lavorazione alimentare nonché in applicazioni robotiche e di droni, per citare alcuni usi agricoli» spiega il prof. Don Johnson dell’Arkansas Agricultural Experiment Station.

Utilizzando dati di telerilevamento l’Intelligenza artificiale aiuta gli agricoltori a prendere decisioni strategiche e gestire i rischi. (Freepik.com)
Antonio Caperna

Più contatti sociali migliorano la vita dei migranti

Associazioni ◆ Il coordinatore Willy Lubrini ci parla dell’attività di Mendrisiotto Regione Aperta impegnata

in progetti di accoglienza e condivisione per i richiedenti asilo

Eliana Bernasconi

In un mondo globalizzato dove le distanze si fanno relative, i flussi migratori sono una delle emergenze della nostra epoca. All’estremo sud della Svizzera, la regione del Mendrisiotto è in una diretta e strategica posizione geografica per il passaggio dall’Italia e Chiasso è da sempre il valico obbligato di passaggio. Da non pochi anni, come evidente a chi vi abita o vi si rechi, la cittadina è confrontata con la continua entrata di persone che presentano richiesta di asilo e che provengono da molte parti del mondo. Sugli aspetti di questo vasto fenomeno siamo informati dai media, ma molto rimane da conoscere o comprendere, sappiamo che le domande di Asilo del 2023 sono state circa 30’000; la procedura ha un preciso iter: la richiesta viene presa in esame in un tempo massimo di 140 giorni, se non corrisponde alle esigenze della Confederazione in materia di asilo la domanda è respinta e la persona dovrà lasciare il Paese. Se accolta, la persona potrà rimanere, lavorerà in Svizzera e sarà aiutata ad integrarsi. Sono complessi i motivi per cui i migranti lasciano la loro terra, sono persone singole, famiglie, donne, bambini, o minori non accompagnati, sappiamo che possono impiegare anche 2-3 anni per raggiungere la Svizzera da cui molto spesso passano in Francia, Germania o Inghilterra. Sappiamo dei rischi spesso drammatici che affrontano per intraprendere questo viaggio, sappiamo anche che molti fra loro sono morti nel percorso via terra o sono naufragati tentando di attraversare il mare.

Lo scorso 2023, particolarmente nel periodo estivo, Chiasso ha dovuto confrontarsi con un enorme numero di migranti in attesa di risposta alla loro domanda. Come da prassi, tutte queste persone sono state temporaneamente trattenute al Centro Federale di Asilo (CFA) gestito dalla segreteria di Stato della Migrazione (SEM): erano quindi, entro certi limiti, abbastanza libere di circolare per la città. Come sempre accade nei movimenti di massa, quando una piccola minoranza di persone trasgredisce le regole e crea problemi alla comunità, pregiudica purtroppo la reputazione del gruppo sociale cui appartiene. Nel centro Federale di Asilo e nel centro di Chiasso lo scorso anno si sono verificati continui piccoli furti e disturbi dell’ordine pubblico (peraltro ben controllati dalla Polizia), ma tutto ciò è stato sufficiente perché alcuni cittadini, evidentemente sulla base di fondati motivi, reagissero con sentimenti di allarme, di tensione o paura per la propria sicurezza. Come gli psicologi sanno, questo tipo di emozioni pub-

bliche si propaga con facilità estrema e una preoccupante nuova percezione del diverso da sé, dello sconosciuto e dello straniero stava contraddicendo la generale generosa disposizione all’accoglienza e alla solidarietà verso chi bussa alle nostre porte.

«Dallo scorso novembre siamo presenti nel nuovo Centro Pasture come rappresentanti della società civile, interveniamo con proposte concrete per togliere dallo stato di isolamento i migranti che non sanno come strutturare le loro giornate»

Ed è in quegli stessi giorni dello scorso 2023 che si è costituita l’Associazione Mendrisiotto Regione Aperta. Ne parliamo con il coordinatore Willy Lubrini: «La nostra associazione è nata in una calda giornata della scorsa estate dalla volontà di un gruppo di amici e conoscenti che intendevano reagire allo stato di malessere e paura che avevamo avvertito e che certo non intendevamo negare. Siamo circa 100 persone di ogni età e classe sociale che abitano in preva-

lenza nel Mendrisiotto ma anche in ogni parte del Ticino, siamo pensionati o studenti, operai o insegnanti, artisti, educatori o infermieri. Ci ha guidato l’interesse per l’altro e il desiderio di vivere in una comunità dove non vi siano troppi motivi di divisione e resti possibile migliorare la conoscenza reciproca e la coesione sociale. Come prima azione siamo partiti con una mini inchiesta sociologica, con 90 interviste valide ai fini dell’interpretazione, per verificare se veramente a Chiasso o nel Mendrisiotto fosse il rifiuto a prevalere o non piuttosto lo spirito di solidarietà. Ne è risultato che la popolazione non ha il minimo atteggiamento di negazione verso i migranti, amerebbe soltanto vederli impegnati in lavori di pubblica utilità che li aiuterebbero a strutturare le loro giornate. Come associazione – continua Lubrini – ci siamo subito dati uno statuto sociale e una personalità giuridica per facilitare il nostro impegno verso il miglioramento delle condizioni di vita dei richiedenti asilo».

L’Associazione Mendrisiotto Regione Aperta (MRA) ha sede a Balerna, tra i comuni di Chiasso e Novazzano, nella stessa località dove è stato da poco inaugurato il nuovo, architettonicamente efficiente e funzionale Centro Federale di Asilo

Pasture, che si aggiunge agli altri 7 Centri presenti in altre località della Svizzera. A Willy Lubrini chiediamo ancora che tipo di rapporti l’Associazione intende stabilire con Pasture, il Centro Federale d’Asilo (CFA) gestito dalla Segreteria di Stato della Migrazione (Sem): «La nostra intenzione è concludere una sorta di patto sociale fra Pasture e la Comunità del Mendrisiotto, un accordo che consista in una rete composta dalle istituzioni pubbliche comunali e dal resto della società: dallo scorso novembre siamo presenti nel nuovissimo Centro come rappresentanti della società civile, interveniamo con proposte concrete per togliere dallo stato di isolamento e depressione i migranti che non sanno come strutturare le loro giornate, coinvolgendoli in lavori di pubblica utilità che li portano a organizzare il loro tempo (come ad esempio il riassetto di sentieri, la cura dei boschi, il riciclaggio dei rifiuti, lo sgombero dei detriti, l’aiuto nelle manifestazioni comunali). Questi impieghi consentono loro di avere contatti con la popolazione e nuove esperienze che facilitano la convivenza nel Centro promuovendo l’interazione sociale, sono tre i comuni che da tempo organizzano questi programmi. La presenza del Centro Pasture ha un’im-

portanza regionale che riteniamo debba essere sostenuta da tutti i comuni del Mendrisiotto. Abbiamo un gruppo di coordinamento che coinvolge i comuni della regione senza naturalmente interferire con l’economia privata. La nostra attività – continua ancora Lubrini – è strutturata in un programma mensile di proposte per attività varie e al nostro interno abbiamo dei gruppi di interesse su vari temi, come il Gruppo Cucina, il Gruppo Sport, il Gruppo Cinema, inoltre tutti i sabato pomeriggio una palestra di Chiasso è messa gratuitamente a disposizione dal municipio, dei pranzi comuni sono organizzati dall’oratorio e delle proiezioni cinematografiche hanno avuto luogo a Balerna. Sarebbe nostro obiettivo che le associazioni esterne giungessero loro stesse a proporre attività per i richiedenti asilo».

Il Gruppo Scuola dell’associazione tramite l’appassionato lavoro di due insegnanti elementari ha intrapreso con il DECS e le direzioni della Scuole elementari e dell’infanzia del distretto un progetto per la scolarizzazione dei giovanissimi, mentre le scuole medie di Balerna hanno programmato una giornata con una classe di quarta media che vedrà allieve e allievi coinvolgersi con giovani ospiti del Centro Pasture, dove sono presenti anche delle aule scolastiche. Nelle riunioni che Mendrisiotto Regione Aperta tiene regolarmente vengono proposte nuove inedite occasioni di incontro, come attività sportive, calcio e altri giochi per minori non accompagnati, giovani, adulti e famiglie, o passeggiate nel territorio, ma soprattutto, continua Lubrini, si riflette sull’assoluta importanza di realizzare una buona politica migratoria, che sia trasparente e partecipativa, pianificata e concordata, fondata su un’ottica preventiva.

Fra le iniziative di Mendrisiotto Regione Aperta, ad esempio, ha avuto grande successo un gioioso incontro del Gruppo Cucina, durante il quale un pasticcere ha messo a disposizione per un giorno il suo laboratorio di panetteria: otto giovani donne provenienti da Afganistan, Kongo, Iran e Siria che non si conoscevano fra loro, giunte al centro Pasture due giorni prima, sono state invitate a modellare trecce di pane, pasta frolla e biscotti. La condivisione comune della pasta ha stabilito tra loro un’intimità e una collaborazione che nessun altro intervento avrebbe saputo creare. L’attività prosegue tuttora con entusiasmo e con qualche invito all’esterno di condivisione, come la preparazione di torte per feste di compleanno o la vendita di biscotti nei mercatini.

Fra le iniziative di Mendrisiotto Regione Aperta ci sono anche incontri organizzati dal Gruppo Cucina durante i quali giovani donne migranti provenienti da diversi Paesi si ritrovano insieme a fare pane e dolci in un laboratorio messo a disposizione da un panettiere locale: un momento di condivisone che aiuta a stabilire uno spirito collaborativo e nuovi legami. (Feepik.com)

Mezzo secolo di tradizione e qualità ticinese

Attualità ◆ La qualità del panettone prodotto dal panificio Migros di S. Antonino è stata migliorata. Ne abbiamo parlato con Cristina Piccapietra, responsabile aziendale della sede ticinese della Fresh Food & Beverage Group (ex Jowa)

Cristina Piccapietra, qual è la storia del vostro panettone ticinese?

La storia del nostro Panettone ticinese ha inizio nel 1974 nel nostro panificio regionale di S. Antonino, quando abbiamo iniziato a produrre i tipici prodotti natalizi ticinesi: il panettone e il pandoro.

Questa è stata l’origine di una tradizione e passione tramandata nel tempo e che ha portato al mantenimento, fino ad oggi, della lavorazione del nostro lievito madre, che da 50 anni viene rinfrescato con maestria da mani esperte, come base dei nostri prodotti natalizi.

La qualità del prodotto è stata migliorata. Cos’è cambiato rispetto alla vecchia ricetta?

Fondamentalmente, la ricetta è rimasta fedele alla ricetta tradizionale, ma rispetto alla vecchia ricetta abbiamo apportato alcune modifiche per affinare il gusto e la struttura del nostro prodotto.

Utilizziamo una miscela speciale di farine, che conferisce più struttura all’impasto e abbiamo ottimizzato/perfezionato il processo produttivo per rendere il panettone ancora più fresco.

Inoltre, puntiamo su un tempo di lievitazione più lungo per intensificare il sapore del prodotto.

Gli ingredienti base per il nostro panettone rimangono quelli di sempre: acqua, farina, zucchero, uovo, lievito madre, frutta candita, sultanina e sale, senza l’impiego di alcun conservante.

Per la creazione del panettone usate ingredienti locali?

Sì, diamo grande importanza all’uso di ingredienti locali. Acquistiamo gran parte della nostra farina da un mulino della regione e la restante dalla Svizzera. Anche la frutta candita proviene da un fornitore locale, conferendo al nostro panettone un carattere unico. Non meno importante, uno degli ingredienti di cui siamo particolarmente orgogliosi è il nostro lievito madre, rinfrescato da 50 anni, che non solo

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permette una lenta fermentazione, ma sprigiona anche le sue inconfondibili proprietà organolettiche nel prodotto.

Quanto è importante la lievitazione sulla qualità finale del prodotto?

La fermentazione è un processo complesso e dura diversi giorni, dalla cura del lievito madre, alla preparazione del preimpasto, fino al panettone finale, con un tempo di fermentazione di circa 34-40 ore. Questo processo con tempi di lievitazione prolungati è fondamentale per la qualità finale dei nostri panettoni. Esiste qualche tecnica speciale per

la creazione di un buon panettone?

Una delle nostre tecniche speciali è la tripla fermentazione senza lievito coltivato, ma con il nostro lievito madre sapientemente lavorato, che conferisce all’impasto una straordinaria leggerezza e un sapore intenso e ricco. Questo delicato processo conferisce un’ottima digeribilità del prodotto. Il lievito madre è un lievito naturale attivato attraverso la fermentazione naturale di un impasto di farina e acqua contenente lieviti e batteri lattici naturali. Conferisce ai panettoni un aroma intenso/particolare e una nota di gusto speciale. Grazie alle sue proprietà, i prodotti ottengono una struttura morbida e

ariosa e rimangono freschi e morbidi più a lungo. Il lievito madre è una componente essenziale dei panettoni tradizionali e contribuisce in modo significativo alla qualità e al carattere del prodotto finale. L’uso del lievito madre rende il nostro panettone particolarmente aromatico e facilmente digeribile. Siamo orgogliosi di mantenere questo metodo tradizionale nel nostro panificio in Ticino, offrendo così un esempio di alta arte della panificazione. Inoltre, utilizziamo un metodo di cottura tradizionale che cuoce il panettone in modo uniforme e gli dona la sua caratteristica crosta dorata.

Quali sono le sfide da affrontare per poter ottenere un panettone di qualità?

Una delle sfide più grandi è la precisione nel controllo della temperatura e dell’umidità durante il processo di fermentazione. In particolare, la cura minuziosa del lievito madre è fondamentale per la qualità del prodotto finale. La qualità costantemente elevata è garantita grazie anche a collaboratori di lunga data e specialisti esperti nella panificazione. Anche la selezione dei migliori ingredienti richiede attenzione ed esperienza. Inoltre, dobbiamo assicurarci che il processo di cottura sia perfettamente calibrato per esaltare al massimo il sapore e ottenere la consistenza ideale.

Come viene gestita la sostenibilità nella vostra produzione?

La sostenibilità è un aspetto centrale della nostra produzione. Infatti, collaboriamo il più possibile con fornitori locali per mantenere brevi le distanze di trasporto e minimizzare l’impatto ambientale.

Inoltre, nessun alimento può o deve essere smaltito nei rifiuti. Prestiamo attenzione anche al processo di smaltimento dei rifiuti alimentari, cercando di utilizzarli come mangime per animali prima di destinarli alla produzione di biogas. Cosa distingue il vostro dolce dagli altri disponibili in commercio?

Il nostro panettone ticinese si distingue per l’uso della farina per panettone ticinese e svizzera. Grazie alla produzione locale, i nostri panettoni sono sempre disponibili nei negozi per i nostri clienti nella migliore e più fresca qualità possibile e sono realizzati senza conservanti. Inoltre, sono offerti ai consumatori con un buon rapporto qualità-prezzo.

Di quanto aumenta la richiesta di panettone durante le festività rispetto al resto dell’anno?

A dicembre, la domanda per i nostri panettoni aumenta di circa cinque volte rispetto al resto dell’anno. / I.L.

Nelle foto: alcune fasi della produzione del panettone San Antonio; sotto: Davide Pezzullo, collaboratore specializzato nella produzione dei panettoni. (Foto Oleg Magni)
Cristina Piccapietra responsabile aziendale sede di S. Antonino della Fresh Food & Beverage Group

La giornata della colletta alimentare

Attualità ◆ Sabato 16 novembre 2024 in undici filiali Migros si terrà la tradizionale raccolta di provviste per le persone più bisognose

Da ormai otto anni, in questo periodo dell’anno, alcune filiali di Migros Ticino ospitano la consueta colletta alimentare a favore di Tavolino Magico, organizzata in collaborazione con i volontari degli «Amici della colletta», con il sostegno della Città di Lugano e del Lions Club Lugano. Sono sempre di più anche nel nostro Cantone le persone in una situazione di bisogno che fanno fatica a far quadrare i conti: basti pensare che sono ben 3000 coloro che vengono aiutati settimanalmente da Tavolino Magico nella sola Svizzera italiana.

L’anno scorso, nella nostra regione l’associazione ha raccolto e distribuito oltre 790 tonnellate di generi alimentari ai più bisognosi nei suoi centri. Con la giornata della colletta si vuole ancora una volta porre l’accento sull’importanza della condivisione e solidarietà verso i meno fortunati, contribuendo, secondo le proprie possibilità, a sostenere chi è più in difficoltà di noi.

Il prossimo sabato ognuno può sostenere in modo concreto questa importante iniziativa, acquistando dei prodotti di uso quotidiano da do-

nare ai volontari presenti nei negozi Migros.

Tra i prodotti più idonei ad essere donati, possiamo p.es citare pasta e riso, farine, carne e tonno in scatola, pelati, legumi secchi, latte uht, succhi di frutta, cereali e cioccolato per la colazione, caffè, marmellate e miele, biscotti, ma anche prodotti per l’igiene personale.

Le filiali Migros coinvolte

• Locarno

• Giubiasco

• S. Antonino

• Taverne

• Agno

• Radio-Besso

• Lugano Centro

• Pregassona

• Molino Nuovo

• Crocifisso-Savosa

• Mendrisio-Campagna Adorna

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Il settore automobilistico europeo è in difficoltà

Motori ◆ Costruire più auto elettriche o ridurre la produzione di auto termiche è il dilemma dell’industria europea che rischia multe elevate. Nel frattempo la nuova Abarth 600e dimostra come l’elettrico possa essere sportivo e divertente

Mario Alberto Cucchi

«La Abarth 600e è la dimostrazione che si possono realizzare vetture sportive, divertenti, dinamiche avendo come fonte di potenza un motore elettrico. Chi la guida lo capirà immediatamente perché non ci si ricorda di essere su una elettrica, ma si ha solo il piacere di guidare una vettura attaccata al terreno che dà una grande adrenalina come nello stile Abarth. È stata sviluppata come una termica e l’unica differenza è il motore elettrico. Quindi oltre a divertire è anche ecologica e non avrà problemi di circolazione, tasse, parcheggi». A parlare è Gaetano Thorel, senior vice President di Stellantis e capo di Fiat e Abarth per l’Europa. E noi dopo averla provata in pista possiamo solo dargli ragione. La Abarth 600e Scorpionissima ci ha fatto dimenticare in pochi giri di essere al volante di una vettura a zero emissioni. Ma allora la corsa all’elettrico continua? «Ci sono due alternative: o produciamo meno auto termiche o costruiamo più auto elettriche…», ha risposto Gaetano Thorel.

L’occasione è il lancio della nuova Fiat 600 Abarth che si è svolto in Italia sulla pista piemontese di Balocco. Thorel mentre pronuncia questa frase mima il gesto di avere una calcolatrice in mano. Il motivo è semplice. Dal 2020 al 2024 le emissioni medie delle automobili vendute dai costrutto-

ri non dovevano superare 116 grammi per chilometro di CO2. Lo sforamento di questo limite costa una multa quantificata in 95 € per ogni grammo in più oltre ai 116 moltiplicato per il numero di veicoli venduti dal marchio. Luca De Meo, CEO di Renault e presidente di Acea ha lanciato l’allarme poche settimane fa: «La velocità di accelerazione delle vendite dell’elettrico è la metà di quella di cui avremmo bisogno per raggiungere gli obiettivi e non pagare multe. Se i veicoli elettrici resteranno a livello attuale l’industria europea potrebbe dover pagare 15 miliardi di euro di multe e rinunciare alla produzione di oltre 2,5 milioni di veicoli».

Il problema è che nel 2025 le case automobilistiche dovranno affrontare obiettivi Ue più severi in materia di CO2 poiché il limite massimo delle emissioni medie delle vendite di nuovi veicoli scenderà a 93,6 g per km. «Tutti parlano del 2035, tra 10 anni, ma dovremmo parlare del 2025 perché siamo già in difficoltà» conclude De Meo. Intanto una via d’uscita per i costruttori che non riusciranno a rispettare nuovi limiti ad oggi esiste. Si chiama CO2 pooling e prevede l’acquisto di crediti di CO2 da costruttori più virtuosi. Una modalità che è stata già attuata qualche tempo fa e ha visto Tesla vendere i suoi

crediti a costruttori europei. In pratica se l’Europa da un ipotetico 1000 di multa il costruttore può scegliere se pagarla o acquistare crediti (ovviamente a cifre inferiori) per non pagare poi la multa. Secondo quanto riportato dalla società di analisi Dataforce si prevede una ripresa di questa strategia nel 2025. Ma ha senso chiedere un rinvio della data imposta per lo stop della produzione di auto termiche, ovvero il 2035? Da una parte «il costo di aggiustamento che le aziende europee dovranno sopportare nei prossimi nove anni è troppo elevato e rischia di compromettere la lo-

ro competitività e sopravvivenza nel lungo periodo», ha spiegato sul quotidiano «Il Foglio» Lorenzo Bini Smaghi, ex membro del board della Banca centrale europea. Dall’altra «non si considera la possibilità che rivedere la scadenza comporti anche degli svantaggi che possono essere più elevati dei benefici. Non tenerne conto può far commettere errori che possono costare cari al settore automobilistico». Secondo Bini Smaghi «le risorse finanziarie necessarie nel periodo più lungo in caso di rinvio sia della produzione contemporanea di nuove auto termiche sia dello sviluppo

delle elettriche possono diventare un problema». L’esperienza delle aziende leader come Tesla, che non hanno mai prodotto auto termiche, suggerisce che produrre in parallelo auto con due tecnologie diverse sia molto più costoso. Il problema dell’ammortamento dei vecchi impianti non si risolve necessariamente allungando artificialmente i tempi del loro sfruttamento. E poi: chi vorrà continuare a comprare le auto tradizionali prodotte dalle case automobiliste europee nella fase finale del periodo? Anche se è esteso di qualche anno? Per non dire che un eventuale rinvio può produrre un effetto depressivo sulla domanda di auto nella stessa Europa disincentivando investimenti in questo settore. «Basare le decisioni politiche solo sulle esigenze di breve termine rischia di essere letale per il settore automobilistico europeo e per chi ci lavora», conclude Lorenzo Bini Smaghi. E intanto lo scorso mese di ottobre al Japan Mobility Show Bizweek 2024, Toyota ha portato un’innovazione che potrebbe ridefinire il futuro della mobilità sostenibile: cartucce a idrogeno portatili e versatili. Un’idea che risolverebbe uno dei principali ostacoli alla diffusione dell’idrogeno come fonte energetica: la limitata rete di distribuzione. Insomma chi si ferma è perduto.

I segnali di allarme che ci mandano le tartarughe

Ambiente ◆ La Fondazione Cetacea di Riccione salva e cura esemplari di Caretta caretta feriti o malati, un luogo aperto a tutti che ci ricorda le nostre responsabilità nei confronti degli animali marini

Luigi Baldelli, testo e foto

«La tartaruga non è un guardiano del mare ma un segnalatore delle problematiche del mare», inizia così la chiacchierata con Sauro Pari, Direttore della Fondazione Cetacea di Riccione, una onlus che si occupa della salvaguardia e del benessere delle tartarughe marine. Perché la Riviera Romagnola non è solo mare e divertimento per le famiglie, ma anche un osservatorio e un avamposto per la cura delle tartarughe e per la salute dell’Adriatico. Pari è un 70enne distinto, capelli bianchi e sguardo profondo, un amore immenso per il pianeta e in particolare per le tartarughe. Perché questo animale marino, uno dei più antichi del pianeta, con il suo comportamento e stile di vita ci dice in maniera lampante cosa sta succedendo nei nostri mari, nello specifico nell’Adriatico, e quali sono le minacce che ne mettono a rischio la sopravvivenza.

La tartaruga comune il cui nome scientifico è Caretta caretta è sempre stata presente nel Mediterraneo e ha sempre usato le sue coste sabbiose per deporre le uova. Ma i cambiamenti climatici e l’impatto dell’uomo stanno creando un ambiente sempre più ostile per la tartaruga marina. «L’uomo sta creando danni all’ambiente marinocontinua il dott. Pari – e le faccio subito un esempio: prima le tartarughe nidificavano sulle coste del Nord Africa e delle isole più a sud dell’Italia, come Lampedusa, Linosa, il sud della Sicilia e della Calabria perché lì i mari avevano la temperatura ideale per vivere e le spiagge la temperatura giusta per deporre le uova. Da qualche anno si sono spostate verso il centro Italia a causa del riscaldamento delle acque, che si percepisce ancora di più nel Mediterraneo che è un mare con pochi sbocchi, lo Stretto di Gibilterra verso l’Oceano Atlantico e il Canale di Suez verso il Mar Rosso, un riscaldamento globale causato dai cambiamenti climatici che ha portato ad un innalzamento della temperatura dell’acqua e soprattutto della sabbia».

Questo è il primo segnale che ci mandano le tartarughe, un segnale pericoloso e che dovrebbe farci riflettere. Perché le tartarughe nidificano a una temperatura tra i 24 e i 32 gradi e sotto a questo range le tartarughine non nascono e sopra invece muoiono. E se per noi, l’aumento di 2 gradi non comporta gravi cambiamenti nell’immediato, per questo rettile diventa un fattore di vita o di morte. E a chi nega le prove mostrate dagli scienziati sui cambiamenti climatici ecco che arriva l’istinto animale a confermare quello che gli scienziati, appunto, stanno dicendo da anni. Sauro Pari parla con amore delle tartarughe e tutti qui alla Fondazio-

ne Cetacea di Riccione si prodigano in mille modi per salvare la vita alle tartarughe. Le chiamano per nome, le coccolano, le viziano. Quest’estate ne sono state liberate più di 30 dopo essere state curate.

La Fondazione è un luogo aperto a tutti e così non è difficile trovare una scolaresca in visita, soprattutto bambini di elementari e medie a cui si trasmette, attraverso esempi, racconti e la conoscenza dal vivo delle tartarughe, il rispetto per la natura e l’amore per gli animali. Ed è qui, in mezzo alla visita della scolaresca che sento un altro motivo per cui le tartarughe sono un segnalatore dello stato dei mari: l’inquinamento da plastica. Uno dei motivi per cui vengono ricoverate in questo ospedale le tartarughe è per aver ingerito delle buste di plastica, che loro scambiano per meduse che sono uno dei loro alimenti principali. «Ingoiare sacchetti di plastica, mi spiega Pari, provoca rischi di soffocamento e blocchi intestinali che a lungo termine possono condurre alla morte. E la percentuale di tartarughe che ha ingerito plastica è altissima».

Questo a conferma che nel Mediterraneo finiscono enormi quantitativi di plastica: si stima circa almeno 200.000 tonnellate e secondo il WWF in un rapporto del luglio 2024, il Mare Nostrum contiene una delle più alte concentrazioni al mondo di microplastiche (la plastica che nel tempo non si decompone ma si frantuma). «Questi 20 anni con le tartarughe mi hanno insegnato tanto, mi spiega Pari mentre guarda con orgoglio le sue amiche marine. Mi hanno insegnato che il quadro dei nostri mari è drammatico e che il modello di sviluppo deve assolutamente cambiare». Si gratta la fronte, si contorce le dita e poi riprende: «Le tartarughe, insieme ad altri animali marini come i delfini o gli squali, ci stanno mandando dei messaggi, ci stanno dicendo dove stiamo sbagliano e quali sono le conseguenze dei nostri errori. Ed è nostro dovere non sottovalutare questi avvisi». La tartaruga è all’apice della catena alimentare e se mancano i grossi predatori, come la tartaruga, saltano gli equilibri dell’ecosistema marino. E il rischio che spariscano è davvero alto. Oltre ai cambiamenti cli-

matici e all’inquinamento, l’uomo ci ha messo direttamente del suo anche con la caccia e l’urbanizzazione delle spiagge. E se la caccia fortunatamente è stata vietata in quasi tutto il mondo, urbanizzazione, turismo ed erosione delle spiagge provocano danni ingenti proprio lì dove la tartaruga può nidificare. «Su 100 uova di tartaruga deposte solo poche arrivano a maturità. Il 40% muore durante il tragitto dal nido al mare e le altre durante il primo anno di vita per colpa dell’uomo e dei danni che ha provocato nel mare - si ferma un attimo per poi riprendere –ogni anno vengono uccise dalle 7000 alle 10000 tartarughe solo nell’Adriatico». E mentre Pari mi dice questa cosa si sente dal tono della voce la sua sofferenza.

Ma l’uomo non si ferma solo a questo nella responsabilità che ha verso le tartarughe. Me lo spiega molto bene la dottoressa Maria Grazia Mungherli, specialista in rettili e fisioterapista su animali con problemi motori e neurologici. Mentre siamo sul bordo di una vasca mi indica Stella, una tartaruga di circa 10 anni che ora nuota tranquilla e serena, ma che ha avuto un periodo non facile. «Lei è stata portata qui dopo che era stata colpita dall’elica di un’imbarcazione. Un trauma fortissimo sul carapace, che le ha provocato lesioni interne e uno schiacciamento sulla testa. Non riusciva più a nuotare». Ma grazie alle cure di Maria Grazia e alle lunghe sedute di fisioterapia oggi Stella ha ripreso a nuotare, si muove con disinvoltura nell’acqua e l’incidente sembra solo un lontano ricordo. Ancora un paio di mesi e poi anche lei verrà rilasciata in mare. Le collisioni tra imbarcazioni e tartarughe marine sono molto frequenti, soprattutto quando le tartarughe risalgono in superficie per respirare. Le eliche causano ferite gravi e a volte mortali. E l’aumento delle rotte commerciali e marittime, così come delle imbarcazioni private, amplificano questo rischio.

I nostri progetti offrono aiuti d’emergenza e mezzi di sussistenza sostenibili nonostante la crisi climatica.

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Il gioco d’azzardo strizza l’occhio ai videogiochi

Dipendenze ◆ Alcuni meccanismi presenti nei videogames sono simili a quelli dei giochi d’azzardo, un rischio per i giovani secondo Ingrado che mette in guardia su conseguenze psicologiche e indebitamento eccessivo

I videogiochi? Sono sempre più travestiti da giochi d’azzardo. Gli esempi non mancano: casinò virtuali in cui è possibile scommettere con valuta di gioco su poker, blackjack o slot machine; oppure video games che celano meccanismi e dinamiche basate su ricompense intermittenti, attraverso le quali si ricevono premi in modo casuale e non prevedibile, mantenendo alta l’attesa e l’eccitazione. Un dato che dovrebbe far riflettere: il gioco problematico è aumentato negli ultimi anni dal 2,3 al 5,2% a livello nazionale e concerne quasi un giovane su cinque di età compresa tra i 18 e i 29 anni (fonte Dipendenze Svizzera, 2021). Ma anche i minorenni non ne sono immuni, anzi.

Approfondiamo il tema con Sara Palazzo, responsabile dei servizi ambulatoriali di Ingrado – fra cui il settore dei disturbi comportamentali – che da quest’anno incorpora anche l’allora Gruppo Azzardo Ticino-Prevenzione, fondato nel 1991 dallo psichiatra e psicoterapeuta Tazio Carlevaro, portando dunque la Fondazione Ingrado ad assumere sempre di più il ruolo di centro di competenza sulle dipendenze in Ticino.

Sara Palazzo, videogiochi e giochi d’azzardo sono dunque sempre più vicini e convergenti?

Non si tratta di demonizzare, ma i videogiochi sono sempre più accattivanti e attrattivi, strizzano sempre di più l’occhio alle nuove generazioni, ciò che predispone una facilità maggiore al gioco d’azzardo. Non dimentichiamo inoltre il rischio che, piccole perdite assommate nel tempo, possono raggiungere cifre importanti: dopo tre, sei, dodici mesi queste «micro puntate» possono diventare un problema per il giovane, magari apprendista, che si ritrova a dilapidare il proprio esiguo salario o per i genitori che scoprono fatture delle carte di credito dei propri figli di 1000 franchi e oltre con seri rischi futuri di indebitamento. Stiamo abituando i giovani, già in

Viale dei ciliegi

Ole Könnecke + Hans Könnecke, A tutta musica! Il metodo geniale per conoscere

50 strumenti in un colpo!

Beisler Editore (Da 5 anni)

Un libro che invita all’ascolto, anzi che «suona bene», come dice il titolo originale: Hört sich gut an. Perché qui l’ascolto non è solo quello delle parole lette ad alta voce, ma proprio quello dei suoni dei vari strumenti musicali. Di come «suona» ciascuno strumento: 50 Instrumente und wie sie klingen. Autore dei testi e delle illustrazioni è il celebre Ole Könnecke, svedese di origine e residente in Germania, del quale le edizioni Beisler hanno in catalogo vari apprezzati libri, tra cui quelli dedicati a «Lester e Bob», tipico esempio di coppia comica dalle personalità opposte, in cui il papero Lester è quello furbo, intraprendente, fanfarone, mentre l’orso Bob è il personaggio ingenuo, mite, generoso. Qui, in questo bel libro che nella traduzione italiana porta il titolo di A tutta musica!, Ole Könnecke non racconta una storia, ma dedica ogni doppia pagina a uno strumento musicale: per ciascu-

tenera età, a soglie di gioco preoccupanti. I giochi vengono inoltre concepiti dall’industria del gioco d’azzardo in maniera sempre più performante e bellissimi da un punto di vista grafico. E questo induce il giovane a voler ripetere l’esperienza in modo sempre più frequente e veloce, e a sviluppare atteggiamenti compulsivi. Ed è chiaro che il telefonino, se non vengono concordati dei limiti ben precisi di utilizzo, può portare facilmente il giovane, ma non solo, a giocare in maniera patologica.

Quali sono i tipici segnali d’allarme?

I genitori possono avvertire chiari comportamenti nei loro figli che rappresentano delle spie del problema, tra le più comuni menziono le seguenti: difficoltà nel gestire i paletti rispetto al tempo e al denaro da spendere online i quali sono stati precedentemente condivisi con entrambe le figure genitoriali; un cambiamento repentino dell’umore; un calo nel rendimento scolastico e un ciclo del

sonno irregolare. Sono queste tutte avvisaglie che è necessario prendere in considerazione e in questo caso rivederne la gestione, eventualmente anche con l’aiuto di un professionista.

Come può avvenire concretamente il passaggio dai videogames al gioco d’azzardo?

Il ragazzo tende a voler aumentare l’esperienza di gioco e di conseguenza la posta, che, più è alta, e maggiormente cresce l’attrattività. Ecco che può succedere che abbandoni il giochino sul telefono per passare ad altro, dove si trova a scommettere somme di denaro sempre più importanti. Nel corso degli ultimi anni si registra una tendenza dove sempre più giovani frequentano – e questo per noi è fonte di preoccupazione – le scommesse sportive, nonché il trading online, l’andamento dei mercati finanziari, senza oltretutto averne la minima competenza. Non da ultimo di recente l’industria del gioco d’azzardo ha inoltre implementato nei propri giochi anche l’aspetto social, dove i ra-

gazzi, dopo aver scommesso online, si vantano con i loro coetanei postando unicamente le loro vincite, dando così la falsa impressione che si può vincere facilmente e velocemente.

Le leggi a protezione dei giovani, a questo proposito, appaiono lacunose… Questo, in effetti, è un punto dolente. Oggi la nuova Legge federale sui giochi in denaro, accettata alle urne nel 2019, presenta delle zone grigie non considerando come giochi d’azzardo le scommesse sportive e il trading online. Una nuova riforma della legge dovrebbe essere prevista nell’arco dei prossimi anni.

A Ingrado – Servizi per le dipendenze – avete riscontrato un aumento della presa a carico di giovani confrontati con problematiche legate al gioco?

In termini di numeri in realtà non abbiamo registrato grandi aumenti. C’è però nella popolazione una grande fetta di persone che, sebbene abbia

sviluppato delle problematiche, non ha trovato il coraggio di interfacciarsi ai servizi proposti, quale il nostro. Uno tra i motivi è riconducibile al fatto che il gioco d’azzardo, come tutte le altre dipendenze comportamentali, viene molto spesso banalizzato a differenza dalla dipendenza da sostanze stupefacenti. Questo comporta che di frequente ci si rivolga al nostro servizio quando la situazione è già piuttosto compromessa sotto diversi punti di vista. Già a partire dai 13 ai 14 anni si riscontra di frequente un uso non del tutto consapevole del telefonino. Le fasce più sensibili a rischio di indebitamento sono sicuramente giovani che iniziano l’apprendistato e percepiscono il primo stipendio. Sia i giovani sia i familiari si possono rivolgere a noi, anche solo per dei consigli su come gestire i momenti di difficoltà e sulle regole da introdurre legate alla gestione dello smartphone, come – sembrerà una banalità – non utilizzarlo in certi contesti: a tavola, durante i pasti, e dopo un certo orario serale.

Come si può chiedere aiuto?

Per il gioco d’azzardo è attivo un numero verde nazionale (0800 040 080) a disposizione sia dei giocatori che dei loro familiari. È bene ribadire che agli utenti viene sempre garantito l’assoluto anonimato. Molte persone, per auto segnalarsi preferiscono scriverci direttamente sull’e-mail: disturbicomportamentali@ingrado.ch oppure entrando nel nostro sito raggiungibile all’indirizzo www.ingrado.ch è possibile trovare tutti i contatti telefonici del consultorio più vicino e le informazioni necessarie. Ad oggi, per i disturbi comportamentali, tutte le consulenze sono state centralizzate nelle sedi di Lugano, per il Sottoceneri, e di Bellinzona per il Sopraceneri. Da ormai diversi anni è inoltre possibile richiedere una consulenza online tramite il portale SafeZone.ch dove a rispondere sono sempre presenti dei consulenti di Ingrado.

no un testo breve e chiaro, dove riesce ad inserire, senza comprometterne la leggerezza, cenni storici, curiosità, guizzi in cui interpella direttamente i lettori, coinvolgendoli e interessandoli. E per ciascuno un’illustrazione, espressiva, in perfetto stile Könnecke: a suonare ogni strumento è di volta in volta un animale, e ogni volta l’immagine ha un’ambientazione che la rende una scena dinamica e umoristica, finendo per raccontare anche qui, in questo libro pur non di narrativa ma di divulgazione, una piccola potente storia. Notevole ad esempio lo scambio di sguardi tra la tigre che

suona il sitar e il serpente; oppure l’oca con gli occhiali che suona la viola in mansarda mentre un piccolo pennuto ascolta dall’abbaino; o l’alce che suona il corno osservando preoccupato la topina dallo sguardo severo che lo dirige; o l’aquila che solitaria suona l’arpa su una roccia; e potremmo andare avanti ancora. Ma visto che «gli strumenti musicali sono belli da vedere, ma è ancora più bello ascoltarli» dobbiamo segnalare a questo punto la peculiarità di questo libro: scansionando, per ogni strumento, il rispettivo codice QR, si può sentirne il suono in un breve brano composto appositamente (e registrato con strumentisti solisti) dal musicista Hans Könnecke, figlio di Ole. Tra gli strumenti abbiamo tutti quelli più conosciuti, presenti in orchestra, ma anche quelli provenienti da culture lontane, come il Dulcimer, il Kazoo, il Lur, gli Steeldrum. E non manca quello strumento invisibile che è la voce umana, nei registri Basso, Tenore, Contralto e Soprano, eseguiti in questo caso da cantanti. Un bel libro da guardare, da leggere. E soprattutto da ascoltare, perché suona davvero bene!

Silvia Vecchini e Sualzo serie «Gaetano e Zolletta», Edizioni Gallucci. Collana Balloon (Da 5 anni)

È un fumetto per i più piccoli, che torna in libreria grazie a Gallucci. Gaetano e Zolletta sono un asino grande e un asino piccolo, un adulto e un cucciolo, un papà e un figlio, insomma una di quelle coppie (soprattutto al maschile, di cui gli albi per l’infanzia sono ricchi, come ad esempio Lupo e Lupetto, o Grande Orso e Piccolo Orso) in cui il grande è il personaggio che accudisce e aiuta il più piccolo a crescere, ma non senza imprevisti, impacci, nuovi svi-

luppi. Gli autori, Vecchini per i testi e Sualzo per le illustrazioni, sono un duo di grande esperienza nel graphic novel, che qui però si cimenta non con il più consueto pubblico di adolescenti, ma con quello dei bambini. Ogni volume di Gallucci racchiude due storie. Nel primo abbiamo Un posto perfetto, un posto dove Gaetano, grazie alla mirabolante dimensione fantastica tipica di questa serie, vuole portare Zolletta: spazieranno dal deserto ai ghiacciai, fino alla luna, per scoprire che il posto perfetto è più vicino di quanto si pensi; l’altra avventura, La supersorpresa , racconta della festa di compleanno che Gaetano si affanna, con molti guai, a organizzare per Zolletta; del resto il compleanno non è una giornata speciale solo per il festeggiato, ma anche per il festeggiante, perché come ogni genitore ben sa, celebra il giorno in cui è arrivata la supersorpresa costituita dal proprio bambino! Ora è uscito anche il secondo volume: dopo le vacanze, si parla di scuola e di neve. Le due avventure si intitolano infatti: Voglio la neve! E Si va a scuola!

Pexels.com
di Letizia Bolzani

Approdi e derive

Sentimenti in chat e improbabili condivisioni

«Sono contenta di vederti, ero preoccupata, pensavo non stessi bene». Con queste parole vengo accolta da una gentile signora all’inizio di una riunione comune. Era davvero preoccupata, mi spiega poi, perché non aveva trovato nella nostra chat i miei auguri per Lucia che, proprio in quel momento, sta annunciando il suo ritardo. Le chat di gruppo sono un ottimo strumento organizzativo, non solo per annunciare ritardi, ma pure indicare disponibilità e stabilire gli orari degli incontri. Mi ha lasciata molto perplessa invece il fatto che qualcuno si fosse preoccupato per la mia salute non avendo trovato nella chat il mio «auguri Lucia», accompagnato magari da una simpatica faccina, una bottiglia di spumante e qualche quadrifoglio. Gli auguri a Lucia li avevo fatti anch’io certo, ma in forma privata, scrivendo a lei soltanto, personalmente, un pensiero augurale. Anche in questa occasione mi era venuto spontaneo di non affidare

Terre Rare

alla chat i miei sentimenti, né a proposito di situazioni festose come questa, né tantomeno in occasione di avvenimenti tristi.

Queste mie ricorrenti reticenze e resistenze verso modalità «condivise» di comunicazione e di partecipazione mi hanno fatto riflettere sul valore e sul significato della condivisione. Per restare nell’atmosfera di questa situazione festosa, prendiamo ad esempio una torta di compleanno. Riuniti a festeggiare, la dividiamo la torta, ognuno dei presenti ne riceve una fetta. Ciò che condividiamo è invece il piacere di gustarla, insieme con il sentimento di allegria che suscita lo stare insieme in quel momento. Condividere è «stare con», sentire la presenza dell’altro, in questo caso è guardarlo sorridere e ricambiare lo sguardo, magari anche abbracciarlo concedendosi un brindisi.

Come accade in molte altre situazioni, la condivisione è un sentire comune

che si esprime nella fisicità dello stare insieme, un sentire che nasce dallo sguardo dell’altro che mi interpella, per dirla con Levinas, e dalla reciproca accoglienza. Quale condivisione è invece possibile nel continuo, a volte martellante annunciarsi, dentro una chat, di parole augurali accompagnate da faccine di ogni genere?

Lo squillo che scandisce l’arrivo di un messaggio non può che anticipare l’apparire di tante parole giustapposte, spesso uguali nella loro rituale ripetizione. In questo effluvio di parole, il proprio sentire, l’esporsi di sé all’altro, si trasforma facilmente in un’esibizione estemporanea della propria presenza, dentro uno scenario senza corpo, senza profumi né suoni. Senza risonanze.

Si scrive al volo dalla scrivania, o mentre si traffica in cucina, o in coda alla cassa del supermercato: così l’intimità di uno scambio si consegna ad un messaggio disincarnato, sospeso

Da grande voglio fare lo youtuber

Ne abbiamo letto spesso e, su queste pagine, nei precisi e approfonditi contributi di Simona Ravizza. Ma quando capita di sentirlo con le proprie orecchie fa un certo effetto. Il bambino seduto a tavola al nostro fianco ha nove anni. Come succede nelle conversazioni occasionali con i bambini, tanto per mantenere un minimo di conversazione nella convivenza ravvicinata, scocca la classica domanda: «Che mestiere vuoi fare da grande?». La risposta non è altrettanto scontata. Sorprende al punto che gli si chiede di ripeterla, per timore di non aver capito bene. «Lo youtuber!». Momento di silenzio tra i presenti (sembra di notare un certo imbarazzo nei genitori). La cosa mi colpisce, e penso «finalmente!», contento di trovarmi di fronte una vera esperienza di antropologia digitale contemporanea. Gli chiedo subito cosa gli piace di quel mestiere. Lui chia-

risce, con precisione e puntiglio, che vuole diventare uno di quegli youtuber che danno consigli su come si affrontano i videogiochi. Mi dice che i loro video sono una fonte di informazioni molto utile per quelli come lui che hanno da poco ricevuto in regalo una consolle di gioco. Gli piace il loro modo di raccontare divertente ma pratico, che permette di terminare le avventure e di gustare fino in fondo videogame che altrimenti sarebbero molto difficili da giocare. Dopo il primo momento di sorpresa, rifletto sul fatto che il piccolo ha una certa ragione. Al di là dei suoi aspetti edonistici, esibizionistici, Youtube è oggi una fonte di informazione assolutamente preziosa. Ci verrebbe da associarla all’opera divulgativa del celebre Maestro Manzi, il simpatico docente che dalla TV RAI degli anni 60 alfabetizzava gli italiani nell’epoca del boom economico e di cui si

Le parole dei figli

ricorda di questi tempi il centenario dalla nascita.

Cosa pensate voi di Youtube? Come lo usate? Per quello che mi riguarda passo anche delle mezz’ore a seguire video con istruzioni per lavoretti di bricolage, restauri impossibili di strumenti musicali antichi, ricette di cucina, documentari d’argomento storico e scientifico. Essendo il redattore di queste note completamente estraneo agli argomenti più in voga nella televisione attuale (reality, quiz, esibizione di atrocità e mostruosità di vario genere) ho trovato in Youtube una fonte direi (e senza vergognarmi) «educativa», di non poco valore. Un po’ sull’immagine della TV concreta e ambiziosa, e magari retorica e sentenziosa, con cui sono cresciuto. Se mi avessero predetto una cosa del genere anni fa sarei probabilmente inorridito. Ma da questo punto di vista, inorridisco molto meno di fronte

in un tempo indefinito, una specie di non tempo, che non può trattenere alcun accadere reale.

Chissà, magari Lucia i messaggi li leggerà più tardi, dopo che altri «concelebranti virtuali» avranno fatto la conta delle presenze. E potranno anche preoccuparsi per un messaggio non pervenuto, come la gentile signora che mi ha appena accolta. Il compleanno può diventare così una storia diversa, può trasformarsi in altre storie personali che ci allontanano, in qualche modo, dalla giornata di festa e dalle sue atmosfere; ciascuno se ne sta dentro la propria storia, in solitudine, in cerca o in attesa di improbabili condivisioni.

Queste forme surrogate di «condivisione» rischiano però di tenerci lontani dal sentimento di intimità, dalla discrezione e dal riserbo che alimentano legami veri. Lontani dal sentimento del pudore che protegge il nostro mondo interiore.

La scelta di scrivere i messaggi sempre in privato, in questo caso a Lucia, nasce proprio dal desiderio di contrastare questo rischio e di resistere a quelle sottili, quasi impercettibili minacce al sentimento di intimità, minacce sempre più presenti nel nostro modo di vivere e di convivere. Una postura spontanea che può aiutarmi a restare in contatto con l’altro, con l’autenticità e con l’unicità di ogni legame. Prendersi cura di legami veri, coltivare l’intimità con noi stessi e con gli altri, significa coltivare il riserbo e la discrezione per continuare ad abitare la soglia del nostro mondo interiore. Come ben sappiamo, questa soglia è divenuta molto fragile nell’attuale teatrino dell’esibizione, sempre più invadente, che mette in scena le nostre vite e ci spinge a rendere pubblico tutto ciò che viviamo nell’intimità, convinti che questo nostro continuo esibirci si possa magicamente trasformare in autentica condivisione.

all’ambizione del piccolo e simpatico commensale. A volte, i video mostrano professionisti, artigiani, tecnici specializzati dalla competenza e dalla capacità davvero fuori dal normale. Chi li produce merita l’attenzione del pubblico e, tutto sommato, anche di ottenere un guadagno dalla sua attività di videomaker

Sulla scia di queste considerazioni si ridimensiona quindi il giudizio iniziale sul piccolo interlocutore. Anche lui segue persone la cui capacità è degna di essere premiata. Esistono poi casi diversi e tutti conosciamo le disavventure in cui incorrono certi youtuber famosi. Ma, viene da pensare, chi occupa la scena solo a fini di autopromozione «edonistica» alla fine stanca il proprio pubblico. In margine al caso Ferragni, ad esempio, molto analisti e specialisti del settore della comunicazione digitale hanno osservato che il modello della youtuber mi-

lanese non era più soddisfacente. Stava perdendo terreno di fronte a nuovi modi di comunicare. Oggi gli sponsor non privilegiano più (o non più solo) personaggi ad alto potenziale di esposizione ma preferiscono youtuber dal seguito magari minore, ma più fedele, spettatori che ricercano una reale competenza nel settore di interesse (make up, cucina, hobbies, eccetera). Il bello della chiacchierata con il piccolo aspirante youtuber viene comunque verso la fine della cena, quando, rotto il ghiaccio e conquistata un po’ di familiarità, ci racconta con entusiasmo delle sue avventure in campagna, nella fattoria dello zio, tra galline, pecore e capre. Gli auguriamo che possano diventare anche quelle argomento della sua futura carriera e che possano essere apprezzate quanto le abbiamo apprezzate noi. La tecnologia, dicevamo, è più bella quando si basa su fatti di vita concreta.

«Curate ut valeatis!». Non è che gli adolescenti improvvisamente si siano messi a salutare i loro amici al motto di «Statemi bene!» in latino. Ma ne Le parole dei figli ricorre spesso il nome di chi si congeda con queste parole dai propri giovani follower (oltre mezzo milione su Instagram e quasi 300mila su TikTok). È il content creator letterario Edoardo Prati, nato nel 2004 a Rimini, liceo classico Giulio Cesare, oggi studente di Lettere classiche a Bologna, in scena nei teatri con lo spettacolo Cantami d’amore

Cosa ci racconta dei nostri figli questo 20enne in grado di parlare ai Gen Z sdoganando i libroni che fanno paura, lui che nei suoi video cita i classici nella lingua degli antichi romani, Catullo lo fa in musica, usa due fiammiferi per spiegare il significato di uno dei versi più celebri della Divina Commedia («Amor, ch’a nullo amato amar

perdona»), e invita a sentire le emozioni di un testo più che a studiarlo?

Per aiutare la «Generazione Ansia» alla ricerca della felicità Prati s’appella a Seneca che all’inizio del De vita beata dice: «Tutti, o fratello Gallione, vogliono vivere felici, ma quando poi si tratta di riconoscere cos’è che rende felice la vita, ecco che ti vanno a tentoni; a tal punto è così poco facile nella vita raggiungere la felicità, che uno, quanto più affannosamente la cerca, tanto più se ne allontana…». Per incoraggiare i coetanei che rifiutano il modello nine to five job (ossia il lavoro dalle 9 di mattina alle 5 di pomeriggio), ma che poi hanno paura a inseguire le proprie passioni per il timore di ritrovarsi disoccupati, Prati usa le parole di Machiavelli: «La vita ti offre l’occasione, la fortuna di applicare la tua virtù». Il suo messaggio: «Troppo spesso oggi ci preoccupia-

mo dell’occasione, e non di costruire la possibile virtù». L’importanza di avere qualcuno/qualcosa nella vita cui aggrapparsi nei momenti di difficoltà commuove con Virgilio che, nel IV libro delle Georgiche, racconta come le api in mezzo al vento e alle intemperie si stringano forte a un sassolino per salvarsi. Evviva, dunque, alla fortuna di chi ha il proprio sassolino! Piangiamo pure quanto ci pare – dice ancora Prati – con l’Alcesti di Euripide dove Admeto, il marito-vedovo, a chi gli chiede cosa ci guadagni a voler sempre piangere, risponde: «Niente, lo riconosco: ma mi travolge questo desiderio di lacrime». Non ci deve essere vergogna a riconoscere che l’amore passa anche attraverso gli occhi per arrivare al cuore: lo ammetteva già Petrarca. A chi fa i conti con il primo amore che fa tremare Prati ricorda Dante quando nella Vita Nova vede

per la prima volta Beatrice: «Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, … Lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente». E dell’emozione del primo bacio ci parla con Gli amori pastorali di Dafni e Cloe, romanzo greco di Longo Sofista: «Mi manca il respiro, ho il cuore in gola, l’animo mi si strugge, eppure ho di nuovo voglia di baciarla».

Ma la letteratura è anche politica e allora ecco Tiberio Gracco che nel 133 avanti Cristo capisce già l’assurdità di tanta ricchezza in mano a pochi a scapito di molti: il politico romano, infatti, con la sua riforma agraria stabilisce che nessuno può possedere più di 500 iugeri di terre pubbliche, cui se ne possono aggiungere altri 250 per ogni figlio maschio. Lo Stato suddividerà i

terreni restituiti in fondi da 30 iugeri da assegnare ai poveri. L’ inno alla pace è nelle parole di Lisistrata di Aristofane, la donna ateniese che invita le altre mogli a fare uno sciopero del sesso finché gli uomini non firmeranno la pace. Prati ci racconta insomma le ansie, i timori, i cuori che battono dei nostri figli e ha la capacità di incitarli a trovare risposte nella letteratura. Ma ci mostra anche i loro ideali che stridono con la realtà in cui vivono. Il giovane content creator cita poi un passaggio fenomenale del monologo di Micione nell’Adelphoe di Terenzio che riguarda l’educazione: «Questo è il compito di un padre, abituare suo figlio ad agire onestamente da solo, anziché per paura degli altri: è questa la differenza che c’è tra il padre e il padrone». Lo dice nel 160 avanti Cristo. Vale la pena rifletterci ancora oggi.

di Lina Bertola
di Simona Ravizza
Edoardo Prati
di Alessandro Zanoli

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L’analisi del voto americano

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Ma Trump non ha carta bianca

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Autostrade: si vota sul potenziamento

Una nuova era per i Tory Il ritratto di Kemi Badenoch, la 44.enne di origini nigeriane alla guida dei conservatori britannici

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Svizzera ◆ Il 24 novembre prossimo il popolo dovrà esprimersi su un tema molto dibattuto. Le ragioni di favorevoli e contrari

Gli intasamenti e le code chilometriche sulle nostre autostrade sono sotto gli occhi di tutti. In numerosi punti la rete delle strade nazionali non è più in grado di smaltire il volume di traffico che, dal 1990, è più che raddoppiato. Il 24 novembre prossimo, vista la riuscita del referendum, il popolo svizzero sarà chiamato a pronunciarsi sulla fase di potenziamento 2023 delle strade nazionali che annovera sei progetti di sviluppo per decongestionare il traffico autostradale, da attuare entro una quindicina di anni. Concernono un tratto in Romandia e altri cinque nella Svizzera tedesca. Il costo è di 4,9 miliardi di franchi, finanziati dal Fondo a destinazione vincolata per le strade nazionali e il traffico d’agglomerato (FOSTRA), alimentato dal supplemento d’imposta sui carburanti, dall’imposta sugli autoveicoli e dal contrassegno autostradale.

Con la fase di potenziamento 2023, Consiglio federale e Parlamento, unitamente ai Cantoni e allo schieramento borghese, propongono di allargare a tre corsie l’asse della A1 tra Le Vengeron e Nyon su una distanza di circa 19 km, con una spesa di 956 milioni di franchi. Per quanto riguarda le tratte della A1 Wankdorf-Schönbühl (BE), che sarà allargata da 6 a 8 corsie, e Schöhnbühl-Kirchberg (BE), che sarà estesa da 4 a 6 corsie, è prevista una spesa complessiva di 492 milioni. Si prevede poi la realizzazione di una nuova galleria sotto il Reno a Basilea, lungo la A2, tra Birsfelden (BL) e Klainhünigen (BS), del costo di 1,9 miliardi di franchi, di una seconda canna della galleria Fäsenstaub a Sciaffusa, sulla A4 (393 milioni), e di una terza canna della galleria del Rosenberg a San Gallo, sulla A1 (1,2 miliardi).

Si giunge così a un costo globale di poco più di 4,9 miliardi (che non andrà a gravare sul bilancio fiscale generale della Confederazione), ai quali vanno ancora aggiunti 300 milioni per la pianificazione di altri progetti e 52 milioni per un progetto nel Glattal (ZH), ciò che porta il totale a 5,3 miliardi di franchi. I tempi di realizzazione delle singole opere saranno lunghi e dovrebbero concludersi non prima del 2040. Basti pensare che per l’asse Le Vengeron (GE) – Coppet (VD) – Nyon (VD), la cui estensione a 6 corsie è stata aggiunta ai progetti della fase di potenziamento 2023 delle strade nazionali soltanto durante i dibattiti parlamentari, i lavori dovrebbero iniziare nel 2033, con l’entrata in servizio programmata per il 2041. Stando ai dati della Confederazione, negli ultimi 60 anni il traffico sulla rete delle strade nazionali si è più che quintuplicato. I tratti autostradali molto trafficati sono regolarmente intasati. Nel 2023 si sono regi-

strate oltre 48’000 ore di colonna, che costano alla popolazione e all’economia 3 miliardi di franchi all’anno. Per evitare le code sulle autostrade, automobilisti e camionisti scelgono percorsi alternativi, attraversando città, villaggi e quartieri residenziali. Per questo motivo, con questi sei progetti di ampliamento autostradale, approvati un anno fa da Governo e Parlamento, si vuole decongestionare il traffico.

Per i contrari, anziché incentivare l’uso dell’auto andrebbero promossi i trasporti pubblici e la mobilità ciclabile. Basterà?

Ma i fautori del referendum non sono affatto d’accordo. Sostengono che il sollievo provocato dal potenziamento di queste tratte sarà solo passeggero, dato che dopo una decina d’anni le autostrade saranno nuovamente sature. Inoltre definiscono i progetti «estremi, sovradimensionati, superati, nocivi per il clima ed eccessivamente costosi». Del comitato di referendum, contrario a quelle che definisce «mega autostrade», fanno parte l’Associazione traffico e ambiente (ATA) e l’organizzazione actif-trafiC, sostenute dai Verdi, dal Partito socialista e dai

Verdi liberali, come pure da una cinquantina di organizzazioni di protezione della natura e del clima. A loro modo di vedere il potenziamento è contrario agli obiettivi climatici e non farà altro che attirare più traffico, con code ancora maggiori, più inquinamento e rumore e più emissioni di CO2 (in Svizzera quasi un terzo di tutte le emissioni di CO2 proviene dal traffico motorizzato). Il ministro dei trasporti Albert Rösti risponde loro che, quando i progetti saranno realizzati, ossia verso il 2040, i veicoli privati saranno ancora di più a trazione elettrica.

Tuttavia, per i sostenitori del referendum, vista la crisi climatica, «una simile politica è del tutto insostenibile». A loro modo di vedere, con queste proposte Governo e Parlamento «hanno perso il senso della misura». Occorre affrontare la questione del traffico in modo ragionevole e sostenibile. Anziché incentivare l’utilizzo dell’auto, andrebbero promossi i trasporti pubblici e la mobilità ciclabile. Ma basteranno i mezzi pubblici, già affollati, sebbene costantemente potenziati, e le biciclette ad alleviare il traffico, come pretendono i sostenitori del referendum?

Il fatto – dicono i difensori dei progetti – è che le autostrade sono sature da anni e vanno «decongestiona-

te», attraverso l’eliminazione dei colli di bottiglia e corsie supplementari, onde rispondere alle necessità della mobilità e all’evoluzione demografica. Quest’operazione non attirerà più veicoli di quanti già si trovano incolonnati. Data la posta in gioco, i favorevoli al potenziamento delle strade hanno lanciato la loro campagna già prima della pausa estiva. Finora l’hanno finanziata con 4,1 milioni di franchi, contro i 2,7 milioni degli oppositori. Oltre al Consiglio federale e alla maggioranza parlamentare, tra i fautori vanno annoverati anche l’UDC, il PLR e il Centro. Essi sono sostenuti finanziariamente da associazioni quali Economiesuisse, Unione svizzera delle arti e mestieri (USAM), Auto Schweiz, Touring Club Svizzero, Astag, Unione professionale svizzera dell’automobile (UPSA) e Federazione stradale svizzera (StrasseSchweiz). Pure l’Unione svizzera dei contadini è favorevole ai progetti di potenziamento autostradale, nonostante la perdita di terreni coltivabili e di spazi verdi (si parla di 0,53 chilometri quadrati). Anche Migros è favorevole al potenziamento della rete autostradale.

Per il ministro Albert Rösti le autostrade svizzere risalgono agli anni Sessanta, quando la popolazione era di sei milioni di abitanti. La re-

te attuale delle strade nazionali non è più in grado di assorbire il traffico generato da nove milioni di residenti che continuano a crescere. Dal 1990 il traffico è raddoppiato. Risultato: frequenti ingorghi e ore trascorse in colonna. Senza dimenticare l’inquinamento e il rumore generati dai veicoli incolonnati e dal traffico che si riversa nei quartieri e nei centri urbani alla ricerca di percorsi alternativi, ostacolando i trasporti pubblici e pregiudicando la sicurezza degli abitanti. Con il potenziamento delle tratte, questo traffico «dovrà tornare sull’autostrada». Albert Rösti ha ancora ricordato che «gli utenti della strada finanziano essi stessi le strade. Nessun franco destinato ai trasporti pubblici sarà versato alle strade». Per i sostenitori di queste opere, i vari modi di trasporto devono completarsi e non opporsi. Per loro, la riduzione del traffico che abbandona le autostrade per scegliere itinerari alternativi andrà a beneficio sia delle località, sia dei trasporti pubblici, sia della fornitura di merci. Autostrade intasate non giovano a nessuno. L’esito della votazione è incerto: il potenziamento della rete autostradale, secondo il sondaggio dell’istituto gfs.bern di metà ottobre, verrebbe accolto di misura, ossia dal 51% degli interrogati.

Alessandro Carli
Una veduta aerea dell'autostrada A1 all'altezza dello svincolo di Nyon. (Keystone)

Dove finiscono le banconote fuori corso?

Confederazione ◆ La Banca nazionale svizzera valuta in circa un miliardo di franchi le monete cartacee scadute non rientrate Ignazio Bonoli

La Banca nazionale svizzera (BNS) ha deciso di stampare una nuova serie di banconote, aprendo un concorso nazionale per scegliere le nuove immagini che si riferiscano comunque alle montagne svizzere. Il rinnovo delle banconote è dovuto soprattutto a motivi di sicurezza, ma anche al fatto che offrono un elevato grado di mantenimento del valore originale. Non a caso, quindi, sono considerate le banconote più sicure al mondo. Forse sono anche questi i motivi per cui le nuove emissioni avvengono con una certa frequenza. L’ultima emissione, che concerneva in particolare l’emissione della nuova banconota da 100 franchi, risale infatti al 2019.

La BNS ha deciso di stampare una nuova serie di banconote, cominciando con l’apertura di un concorso nazionale

Un altro fattore importante va visto nel mantenimento dei valori ufficiali elevati, il che ne fa un importante mezzo di riserva di valore. Anche la nuova emissione prevede il biglietto da 1000 franchi mentre per esempio l’Unione europea ha deciso di sopprimere il biglietto da 500 euro. Questo per cercare di evitare le falsificazioni, ovviamente più «redditizie» con monete dall’alto valore nominale. Minore

importanza viene quindi attribuita al deperimento fisico dei biglietti, a causa dell’uso elevato che se ne fa. L’uso del contante, in Svizzera, è frequente, secondo una recente statistica della stessa BNS.

La situazione nasconde però anche un altro fatto particolare che riguarda la Svizzera: quello della conservazione di banconote scadute. Infatti ogni nuova serie emessa ha un preciso termine di scadenza, trascorso il quale può comunque essere cambiata, ma solo presso la Banca nazionale, oppure le sue agenzie cantonali, entro un certo numero di anni. Dal 2020 però, a causa della modifica dell’articolo 9 della Legge sull’unità monetaria e i mezzi di pagamento, i limiti di tempo sono stati soppressi, per cui le vecchie banconote possono sempre essere cambiate.

Forse anche questa novità contribuisce oggi all’aumento del numero di banconote scadute ancora presenti in Svizzera. Probabilmente ve n’è un certo numero anche all’estero, dovuto per esempio a turisti che hanno fatto una visita in Svizzera e conservato qualche biglietto come ricordo. Qui è però impossibile quantificare l’esistenza di vecchie banconote, il cui numero non è così importante.

Nella Confederazione si parla invece di cifre notevoli. Secondo le valutazioni della Banca nazionale, si tratterebbe di circa un miliardo di franchi

compresa la serie emessa nel 1976, ufficialmente ritirata dalla circolazione con effetto il primo maggio 2000. La serie era dedicata a personaggi celebri del nostro Paese, fra cui – molti lo ricorderanno – la banconota da 100 franchi dedicata all’architetto Francesco Borromini, per cui il biglietto da 100 franchi veniva comunemente chiamato «il Borromini».

Il prossimo 30 aprile 2025 saranno quindi 25 anni da quando questa sesta serie di banconote è stata messa fuori circolazione. Come detto, queste banconote possono sempre essere

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cambiate al valore nominale presso la Banca nazionale. Quelle delle precedenti serie erano già state ritirate dalla circolazione e non possono più essere cambiate. Nel frattempo la BNS ha annunciato il ritiro, con effetto il 30 aprile 2021, dell’ottava serie (la settima era stata tenuta in riserva e non utilizzata), anch’essa dedicata a personaggi celebri della Svizzera. Da notare che la Banca nazionale tiene una statistica aggiornata su quanti biglietti di banca sono rientrati solo dal primo maggio 2020. I numeri attuali riflettono l’abi-

tudine tipicamente elvetica di conservare a lungo il denaro. Si valuta perciò che, a fine aprile 2025, circa un miliardo di franchi sarà ancora in circolazione sotto forma di risparmio. Il ricavato del cambio di banconote, secondo la legge, viene trattenuto nella misura del 10% dalla Banca nazionale, che lo utilizza per le proprie spese nell’operazione. Il 20% va al Fondo di aiuto per danni elementari non assicurati, mentre il resto viene attribuito ai Cantoni in base al numero di abitanti, nella misura di due terzi e alla Confederazione per un terzo. Va forse anche ricordato che il biglietto di banca in circolazione dal 2004 non è più garantito in oro. Lo è in pratica con gli attivi della Banca nazionale. Resta aperta la domanda: dove sarà finito il miliardo di franchi scomparso? In passato si costatava che da 150 a 200 milioni di franchi scaduti non venivano cambiati. È possibile che una parte di banconote sia andata persa o irrimediabilmente danneggiata. Per il resto però nessuno è in grado di dire con precisione dove sia finito. Si potrà fare qualche valutazione sulla base delle banconote per le quali si chiede il cambio in valuta corrente. Il resto sarà anche significativo della tendenza svizzera a mettere da parte qualcosa per «futuri bisogni». Lo dicono anche parecchi ritrovamenti «sotto il materasso» in vecchie case rimaste senza proprietario.

Dettaglio della banconota da 100 franchi dedicata a Borromini. (Keystone)

Usa: si torna ai fondamentali

L’analisi

◆ L’elezione si è giocata su inflazione, economia e immigrazione

All’apice dell’invasione di migranti clandestini in America, che si verificò alla fine del 2023, in un solo mese attraversarono la frontiera in 250’000. Alla vigilia dell’elezione del 5 novembre, il numero di attraversamenti era precipitato a un quinto: 50’000 in un mese. Tra quei due dati si è consumata la sconfitta dell’Amministrazione Biden-Harris e del partito democratico, su un tema fondamentale per gli elettori. Il primo numero ha creato un senso di caos, di insicurezza e di ingiustizia: la maggioranza degli immigrati, legali, non vogliono un’invasione di clandestini. Chi è in lista d’attesa da anni per un alloggio popolare, inorridisce perché a New York l’ultimo degli arrivati si vede accolto in una camera d’albergo a spese del Comune. Il secondo numero, gli ingressi crollati a un quinto, ha confermato che l’immigrazione si può frenare: dando ragione a Donald Trump.

Meglio l’originale

La prima fase della politica migratoria Biden-Harris fu segnata dall’egemonia della sinistra radicale, le posizioni «no border» di Alexandria Ocasio Cortez. Kamala Harris a suo tempo aveva aderito all’idea di depenalizzare il reato d’immigrazione clandestina; non aveva preso le distanze dalla proposta di un referendum per abolire la polizia di frontiera. Nelle prime settimane dell’insediamento Biden-Harris, a fine gennaio 2021, tutte le misure di Trump sull’immigrazione furono rovesciate. Biden firmò una raffica di 28 ordini esecutivi (decreti presidenziali): stop alla costruzione del muro lungo il confine; stop ai rimpatri; stop all’obbligo di fermare i richiedenti asilo in Messico. Mandò al Congresso una proposta di legge per una sanatoria generalizzata che avrebbe legalizzato 11 milioni di clandestini. Sono tutte misure che Harris avrebbe implicitamente rinnegato nel 2024, in campagna elettorale. Troppo tardi. I suoi ripensamenti possono essere stati sinceri, su questo e su altri temi. Ma visto che lei ha finito per allinearsi a molte posizioni di Trump, la maggioranza degli elettori ha preferito «l’originale». E di questa maggioranza hanno fatto parte tante donne, black, immigrati naturalizzati, giovani. A New York, dove abito, c’è chi si è dato malato nel day after, per curarsi a casa i postumi del-

lo shock. Roccaforte democratica, la città che non dorme mai è sgomenta. Però le cattive sorprese non sono venute solo dall’«altra America». Trump ha avuto un successo inaspettato anche qui. La nuova geografia elettorale rivela questo: Manhattan, più bianca e più ricca, rimane saldamente a sinistra; ma è accerchiata dai borough (quartieri) più multietnici e operai come Bronx e Queens dove l’avanzata repubblicana è consistente.

L’America è meno divisa di come siamo soliti descriverla, questa è una delle lezioni del 5 novembre 2024. È meno spaccata su basi razziali o secondo criteri sessuali. È meno polarizzata tra comunità di recente immigrazione e «ceppo bianco». È meno lacerata tra generazioni. È perfino un po’ meno divisa tra Stati «rossi» (repubblicani) e Stati «blu» (democratici) perché alcune tendenze del voto li hanno accomunati. Torna attuale invece un’identificazione sociale, di classe, sintetizzata da un vecchio marxista come il senatore Bernie Sanders del Vermont (già candidato «socialista» alla nomination) il quale ha denunciato: «Il partito democratico ha smesso di rappresentare i lavoratori». Questo tradimento della sinistra è una storia che viene da lontano, e ha una spiegazione culturale: i ceti laureati hanno abbracciato ideologie che li separano dalle classi operaie, e quando queste ideologie subiscono reazioni di rigetto, i ceti privilegiati se la prendono con «i bifolchi». Vengo ai dati che ci consegnano un quadro dell’America meno divisa di prima, o meno spaccata di quanto ce la rappresentavamo. Il discrimine tra i sessi non è stato così pronunciato come prevedevano i democratici (l’aborto non ha avuto il peso che si credeva): per Kamala Harris hanno votato meno donne di quante avessero votato per Biden nel 2020. Tra le donne bianche, Trump ha avuto addirittura la maggioranza. Tra le minoranze etniche il voto per Trump è salito fino a sfiorare un terzo, con punte del 45% tra i latinos. Gli «elettori per la prima volta», in prevalenza giovani, avevano scelto Biden nel 2020 e si sono spostati a favore di Trump nel 2024. Anche se la sera di martedì 5 novembre tutta l’attenzione era sui cosiddetti «swing-States» o Stati in bilico, non è in questi che si sono verificati gli spostamenti maggiori. Il voto a favore dei repubblicani ha segnato guadagni molto più consistenti in Stati a solida

Trump e gli indiani

Nuova Delhi ◆ Dove nasce la simpatia per il tycoon

Francesca Marino

«Le più vive congratulazioni, amico mio, per la tua storica vittoria elettorale. Mentre tu costruisci sui successi del tuo precedente mandato, io sono ansioso di rinnovare la nostra collaborazione per rafforzare ulteriormente il partenariato globale e strategico India-Stati Uniti. Insieme lavoriamo per il miglioramento dei nostri popoli e per promuovere la pace, la stabilità e la prosperità globali». Il premier indiano Narendra Modi è stato uno dei primi leader mondiali a congratularsi entusiasticamente, prima via X e poi con una telefonata, con il neo-presidente eletto Donald Trump per l’impresa compiuta: una vittoria schiacciante contro la sfidante Kamala Harris. Che, pur essendo per metà di origine indiana, non era il candidato presidenziale americano per cui la maggioranza dell’India faceva il tifo o per cui, in ultima analisi e dati alla mano, ha votato la diaspora indiana negli Usa (diaspora che tra l’altro in passato aveva votato in massa per lei e per i democratici).

maggioranza democratica (California, New York) e a solida maggioranza repubblicana (Texas, Florida) sicché il divario tra le «due Americhe» si è ridotto, non allargato. È stata un’elezione «decisa dai fondamentali», più ancora che dalla qualità di questo o quella candidata. Cosa s’intende per «fondamentali»? I grandi temi della situazione nazionale che orientano il voto. Al primo posto tra le preoccupazioni dichiarate dagli elettori all’uscita dai seggi: «La mia situazione e quella della mia famiglia oggi è peggiorata rispetto a 4 anni fa». Questa affermazione ha stravinto negli exit poll con il 45%, un livello superiore perfino a quello della grande crisi finanziaria e sociale del 2008. In un’atmosfera di questo genere, vincere per la candidata dell’Amministrazione in carica forse era impossibile (anche se mantengo le mie riserve sulla qualità di Kamala Harris e sui difetti della sua designazione).

Trump non ha carta bianca

Questi dati confermano il tramonto della «politica identitaria»: la sbornia ideologica che negli ultimi anni ha imposto di interpretare tutto secondo i criteri della razza e del sesso. Black, latinos, donne e giovani che hanno votato Trump si sono ribellati anche a quella dittatura ideologica che voleva schiacciarli in una rappresentazione unidimensionale, obbligandoli a votare in base al sesso, al colore della pelle, all’età. Il divario razziale nel comportamento di voto in questo Election Day 2024 è il più basso nella storia Usa dagli anni Cinquanta. Un’elezione che è «tornata ai fondamentali», si è giocata su inflazione, economia, immigrazione: e su questi temi l’identità razziale o sessuale non è affatto decisiva. Ma forse questo era vero da tempo, solo l’ideologia ha impedito di vederlo. Nel 2008 Obama vinse perché la grande crisi finanziaria creò un poderoso vento contrario ai repubblicani; non vinse perché era black; ma neppure la sua vittoria fu impedita dal colore della sua pelle. Trump può sovrastimare il mandato che gli elettori gli hanno dato, come se avesse carta bianca. Mentre scrivo (giovedì scorso, poco prima della stampa del giornale), ancora non ha la certezza di una maggioranza alla Camera. E alle prossime elezioni legislative di mid-term passeranno solo 22 mesi.

ha mai rinnegato le sue origini indiane e la fede induista. Di confessione democratica, come quasi tutta la diaspora indiana, sembra aver cambiato idea negli ultimi anni a causa delle posizioni culturali del partito. Così come ha cambiato idea anche Tulsi Gabbard, passata nella squadra presidenziale dopo aver militato per anni nel partito democratico. Tulsi, che non è di origine indiana ma è di religione induista, è stata una delle stelle della campagna di Trump. Che si era visto contendere la nomina a candidato presidente da un trio di candidati di origine indiana: Nikki Haley, ex governatrice della Carolina del Sud e prima ambasciatrice di Trump alle Nazioni Unite; l’imprenditore Vivek Ramaswamy, che era entrato come outsider nella corsa alla nomination presidenziale repubblicana ricevendo un notevole sostegno. E infine Hirsh Vardhan Singh, un ingegnere.

All’epoca, quando la senatrice Harris era entrata a far parte della lista dei candidati democratici alle presidenziali del 2020, i media dell’India si erano entusiasmati per le sue origini, di cui la politica sembrava andare fiera: Kamala aveva perfino cucinato in video un masala dosa (una specie di crêpe tipica dell’India del sud) con l’attrice e sceneggiatrice Mindy Kaling e un riso al tamarindo con la chef televisiva Padma Lakshmi per celebrare la sue elezione a vice-presidente. La passione per la cucina, però, era sfumata presto così come l’importanza attribuita alle radici asiatiche: Kamala, e i maligni dicono per cavalcare l’onda culturale prevalente nel partito democratico, si era sempre più spesso identificata come «donna nera di origine afro-americana». Non solo. Da vice-presidente, al di là dei più o meno formali convenevoli durante le visite di Modi negli Stati Uniti, non si era mai recata in India ma dell’India aveva quasi solamente parlato per criticare i provvedimenti del Governo e lo Stato della democrazia e dei diritti umani. Come direbbero in India, il karma (il destino) non perdona. Trump ha vinto con la stessa valanga di voti con cui Modi vinse nel 2020 solo che, trattandosi degli Stati Uniti, nessuno o quasi ha nulla da obiettare sullo stato della democrazia americana. Tornando ad Harris e alla diaspora indiana, le simpatie dei media nella patria di Gandhi si sono di conseguenza rivolte altrove: a Usha Chilukuri, per esempio, moglie del neo-eletto vicepresidente JD Vance. Usha Vance, laureata a Yale e con un dottorato preso a Cambridge, è un avvocata di successo ma soprattutto una che non

Il premier indiano Narendra Modi è stato uno dei primi leader mondiali a congratularsi con Trump

D’altra parte, secondo un’analisi del Pew Research Centre, gli indiani sono il gruppo razziale o etnico di elettori eleggibili in più rapida crescita negli Stati Uniti. La ricerca rivela che il loro numero è cresciuto del 15%, ovvero di circa due milioni di elettori eleggibili negli ultimi quattro anni. Più velocemente del tasso di crescita del 3% di tutti gli elettori eleggibili nello stesso periodo e del 12% degli elettori eleggibili ispanici. E, come riportava tempo fa la rivista «Forbes», circa l’uno per cento del Congresso degli Stati Uniti è composto da cittadini di origine indiana: cinque membri del Congresso, il cosiddetto Samosa caucus (i samosa sono una specie di panzerotto ripieno di patate e spezie) e una quarantina di politici nelle amministrazioni locali. Negli ultimi anni i cittadini di origine indiana detengono inoltre, tra i gruppi di origine asiatica, il primato di affluenza alle urne e, a quanto pare, fermo restando la tradizionale inclinazione verso il partito democratico e facendo rieleggere il Samosa caucus, hanno questa volta votato per Trump e per la second lady Usha Vance. In fondo, come ha dichiarato il premier Modi nel suo discorso al Congresso degli Stati Uniti l’anno scorso, «Il Samosa caucus è ora il sapore della Camera. Spero che cresca e che porti qui tutta la diversità della cucina indiana». E anche, dicono, della sua tradizionale accettazione per la diversità culturale e religiosa: negata soltanto da chi dell’India sa poco o nulla…

Tante donne, black, immigrati naturalizzati e giovani hanno votato Trump. (Keystone)
Le simpatie dei media indiani si sono rivolte a Usha Chilukuri, moglie del neoeletto vicepresidente JD Vance. (Keystone)

Fra americani e tedeschi si apre un baratro

L’analisi ◆ Con il ritorno al potere di The Donald il rapporto tra i due Paesi si incrina sempre più, con conseguenze imprevedibili

Fra tutti i Paesi e i Governi del mondo che si trovano a confrontarsi di nuovo con Donald Trump presidente, la Germania è di sicuro uno tra i più preoccupati. La disistima reciproca, talvolta confinante con l’odio, fra l’uomo che vuole rifare grande l’America e la patria dei suoi avi, è noto. Nulla lascia pensare che nelle circostanze attuali questa tensione possa abbassarsi. Semmai il contrario. È su questo che va letta la crisi di Governo, da tempo latente, ma ormai in evidente esplosione a Berlino. La «coalizione semaforo» formata da socialdemocratici, verdi e liberali, guidata (si fa per dire) dal pallidissimo cancelliere Olaf Scholz è sul punto di dissolversi. Nuove elezioni sono prevedibili nel prossimo marzo. Già questo evento illustra la profondità della crisi tedesca. Non solo politica, oramai anche istituzionale. Evidenziata dal tramonto del modello sociale ed economico che ha caratterizzato la Germania federale dalla sua nascita (1949) in avanti, passando per l’annessione della ex DDR nel 1990. L’economia sociale di mercato con i suoi riferimenti fiscali e monetari è in sofferenza strutturale. Ne sono segni chiarissimi la perdita del vincolo energetico con la Russia, simboleggiata dalla distruzione del gasdotto Nord Stream (non sappiamo chi sia stato, ma immaginiamo che Trump abbia brindato alla notizia, in questo

idealmente accompagnato da Biden), insieme alla drastica riduzione degli spazi germanici nel mercato cinese. Già con questa amministrazione si sono accentuate le politiche commerciali americane tese ad attrarre negli Stati Uniti aziende e produzioni tedesche e non solo, per riparare i danni

della delocalizzazione, uno dei fattori essenziali nella sconfitta di Harris e nel trionfo di Trump. Quest’ultimo poi fa degli affari il centro della sua politica estera. Fra i quali affari spiccano dazi e gabelle contro le potenze avversarie, Cina in testa, e sanzioni contro la Russia. Appunto i due vincoli decisivi per tenere in vita il modello Germania.

Ma il baratro che si apre fra americani e tedeschi ha anche una forte dimensione culturale. E, visto che siamo in Germania, persino morale. Trump è per i tedeschi, almeno per la maggioranza di loro, incarnazione del Male assoluto. Per le tendenze illiberali, il disprezzo delle norme (delitto, per le élite tedesche), l’imprevedibilità (peggio che un crimine) e la palese mancanza di forme nelle relazioni con chiunque, anche fra Stati. Non solo in Germania, ma lì più che altrove, l’idea che il voto del 5 novembre che ha trionfalmente riportato il magnate americano alla Casa Bianca segni l’avvio di un’involuzione autoritaria del regime a stelle e strisce è senso comune.

Se poi osserviamo il panorama geopolitico tedesco, interno ed esterno, il quadro si complica. Intanto per la persistente, anzi crescente tendenza alla spaccatura fra Est e Ovest –nuovi e vecchi Länder – che rivela il carattere incompiuto dell’unità nazionale. Questo si riflette nella crescita all’Est di forze nazionaliste e antiamericane di destra e di sinistra. Dall’Alternativa per la Germania, in cui sono incistate anche componenti neonaziste, alla Lega Sahra Wagenknecht, one woman’s party retto con mano di ferro dalla signora che intesta a sé stessa questa lista capace di scalare rapidamente le vette delle competizioni elettorali nella ex DDR, forse presto anche nella Bundesrepublik occidentale, miscelando politiche sociali di origine comunista e visioni

geopolitiche antiamericane e russofile. Comunismo e nazionalismo: i due peggiori nemici storici dell’America. Se poi queste forze si affermassero ancora più nettamente nel voto futuro a scapito dei partiti tradizionali, l’allarme rosso scatterebbe anche a Washington. Dove peraltro si continua a considerare la Germania più un sorvegliato speciale che un vero alleato. Sulla scena internazionale, il gap fra le due sponde dell’Atlantico non potrebbe essere più netto. Da sempre, il principio primo della geopolitica a stelle e strisce è impedire l’affermazione in Eurasia di una superpotenza nemica, capace di sfidarne l’egemonia planetaria. Tradotto: un’intesa Germania-Urss, fino alla fine della guerra fredda, oppure un triangolo Pechino-Mosca-Berlino, all’ora attuale. Presto per dire come le relazioni fra il prossimo Governo tedesco e quelli russo e cinese evolveranno a partire dall’anno prossimo. Ma molto lascia presagire che, malgrado tutto (e soprattutto la guerra in Ucraina), sotto la superficie visibile e mediatizzata alcune tracce degli antichi rapporti speciali con la Russia e della forte compenetrazione economica con la Cina tendano a persistere. E potrebbero riemergere moltiplicati nel mondo in trasformazione. Mutamento accelerato e sempre meno prevedibile con il ritorno di Trump.

L’idea che il voto del 5 novembre segni l’avvio di un’involuzione autoritaria del regime a stelle e strisce è senso comune

Per noi altri europei le oscillazioni della Germania, in crisi di nervi, sono una pessima notizia. Purtroppo i tedeschi non sono celebri nella gestione ragionata delle crisi. Il comportamento del Governo Scholz lo conferma. La tendenza di questo Esecutivo in scadenza non indica un interesse alla maggiore coesione europea. Difficile che il prossimo cambi linea. Semmai il contrario: ciascuno per sé, nessuno per tutti. Inoltre l’economia tedesca sta facendo l’abitudine alla recessione. Per i Paesi più legati al motore germanico, pessima notizia. Si aggiunga infine il fronte delle politiche migratorie, cavallo di battaglia di Trump ma anche di buona parte dei Governi europei, compresi alcuni guidati da formazioni centriste o di sinistra. Quando ci si chiudono le frontiere in faccia per limitare i flussi migratori è molto difficile recuperare serie collaborazioni in altri settori. Il messaggio è chiaro, per la Germania, per l’America e per il resto del mondo: allacciate le cinture di sicurezza.

In Germania la «coalizione semaforo» guidata (si fa per dire) dal pallidissimo cancelliere Olaf Scholz è sul punto di dissolversi. (Keystone)
Keystone

Proteggere la Terra dalle minacce celesti

Spazio

Proprio dieci anni fa, nel novembre 2014, una sonda dell’Agenzia spaziale europea (ESA), chiamata Rosetta, dopo aver raggiunto una cometa faceva scendere sulla piccola superficie del suo nucleo una sonda secondaria, denominata Philae, per analizzarne la composizione del suolo. Rosetta e Philae sono due nomi che rievocano l’antico Egitto e la prima decifrazione dei geroglifici che permise la traduzione dell’antica lingua. La missione Rosetta fu un successo storico, che dimostrò tra l’altro anche la grande capacità tecnica di chi opera in campo astronautico. La cometa, raggiunta da Rosetta dopo un viaggio durato 10 anni, è la Churyumov-Gerasimenko, che orbita attorno al Sole con un periodo di 6,45 anni terrestri. Il suo nucleo misura circa 3 chilometri.

All’inizio dello scorso ottobre è partita dalla Terra una nuova missione, Hera, che punta verso un altro corpo celeste lontano, un asteroide. Hera, nella mitologia greca alla quale ci si riferisce spesso nelle missioni spaziali, è una delle maggiori divinità dell’Olimpo, simbolo tra l’altro della Terra che si unisce al cielo in un connubio che origina la vita.

Il veicolo spaziale Hera, delle dimensioni di un’automobile, sta andando a un incontro ravvicinato con l’asteroide Didymos, piccolissimo corpo celeste che, insieme a più di un milione di oggetti simili a esso, orbita attorno al Sole fin dalle prime fasi di formazione dei pianeti e delle comete. Gli asteroidi sono forse il frutto di un pianeta mancato che avrebbe dovuto formarsi tra Marte e Giove. Proprio per questo la loro conoscenza può anche fornirci preziose informazioni sulla genesi del nostro Sistema solare.

Hera, nella mitologia greca, è una delle maggiori divinità dell’Olimpo, simbolo della Terra che si unisce al cielo

Didymos è un asteroide binario, cioè a doppio corpo, che orbita insieme a un corpo più piccolo che si chiama Dimorphos (che tra l’altro in greco vuol dire a doppia forma). L’attenzione principale di Hera sarà proprio per il più piccolo dei due perché, nel settembre 2022, la sua orbita fu modificata artificialmente dalla missione americana DART. Allora si fece schiantare intenzionalmente e a grande velocità (circa 6,1 km/s) la navicella DART (pesante mezza tonnellata) contro Dimorphos, che ha solo 60 metri di diametro, allo scopo di defletterlo e modificarne l’orbita.

Fu solo un test, l’asteroide non costituiva un pericolo per la Terra. In base alle osservazioni fatte con i telescopi terrestri e spaziali DART ha effettivamente alterato l’orbita dell’asteroide e ridotto il suo periodo orbitale attorno a Didymos di 32 minuti (più o meno un minuto, ed è per questo che qualche pubblicazione parla di 33 minuti), quasi il 5% del suo tempo originale. Ha deformato il corpo dell’asteroide creando un cratere da impatto. In più l’urto ha lanciato anche un pennacchio di detriti a migliaia di chilometri nello spazio. Tra i gruppi di scienziati che hanno studiato quella collisione spaziale, cercando di riconoscerne gli effetti, spicca per noi l’Università di Berna, in particolare con i dottori Sabina Raducan e Martin Jutzi, del Dipartimento di ricerche spaziali e planetologia dell’Istituto di fisica. I

ricercatori bernesi hanno inserito una grande quantità di dati conosciuti relativi a DART, all’asteroide binario e all’urto avvenuto, dentro un programma di simulazione di collisioni di asteroidi, di comete o di pianeti, sviluppato da oltre venti anni all’Università di Berna.

I risultati sono stati pubblicati lo scorso anno. L’asteroide apparirebbe come un «ammasso di detriti» tenuto insieme da una debole gravità. L’équipe ha stimato che l’1% della massa totale di Dimorphos sia stata proiettata nello spazio dall’impatto con DART, proprio in virtù della ridotta gravità. Inoltre risulterebbe che circa l’8% della massa dell’asteroide sia stata rimossa attorno al suo corpo. Il cratere formato dall’impatto, diversamente da quello che succede sulla Terra, secondo la simulazione si sarebbe ulteriormente allargato dopo l’evento. Date queste premesse l’obiettivo della missione Hera è proprio quello di andare a verificare da vicino le conseguenze fisiche avute dall’asteroide nello scontro con DART, vedere la dimensione e forma del cratere creato dall’urto, la composizione del terreno e altre evidenze. Non da ultimo verificare se le osservazioni effettuate da Terra sono corrette.

Del gruppo di lavoro Hera Impact Physics fanno parte anche gli svizzeri Raducan e Jutzi appena ricordati. Il loro programma di simulazione converte i corpi in collisione in milioni di particelle il cui comportamento al momento dell’impatto viene determinato dall’interazione delle diverse variabili riconfigurabili. Il metodo è stato convalidato da diverse esperienze di laboratorio e utilizzato con successo nel 2019, quando riprodusse lo scontro provocato da un proiettile di rame lanciato dalla sonda spaziale giapponese Hayabusa 2 contro l’asteroide Ryugu. Come la missione DART, anche la missione Hera è stata sviluppata nell’ambito di un programma di sicurezza spaziale che mira a proteggere la Terra, la specie umana e le infrastrutture terrestri dalle minacce provenienti dallo spazio. Affinando la comprensione scientifica della tecnica di deflessione degli asteroidi tramite l’impatto cinetico si possiederà una nuova arma per rendere la Terra più sicura. Se un domani un corpo celeste si presentasse in rotta di collisione con la Terra, noi sapremmo come operare per fronteggiare efficacemente il pericolo. Dimorphos al momento dell’im-

patto con DART si trovava a 11 milioni di km dalla Terra; Hera ci metterà due anni per raggiungerlo. L’arrivo è previsto per l’autunno del 2026. «La difesa planetaria è intrinsecamente un’impresa internazionale», ha dichiarato il direttore generale dell’ESA Josef Aschbacher. La missione DART era americana, la missione Hera è europea in collaborazione col Giappone.

Oltre al suo lavoro di osservazione, Hera condurrà anche esperimenti tecnologici, come il dispiegamento di due satellitini Cubesat. Sono della dimensione di una scatola di scarpe, voleranno più vicini all’asteroide rispetto alla sonda madre Hera, che è un cubo di 1,6 metri di lato, con due ali di pannelli solari di 5 metri, e l’aiuteranno nella raccolta dei dati utili alla naviga-

zione e all’osservazione scientifica. Ci sarà presto un seguito a questa impresa. Il 13 aprile 2029 un altro asteroide, Apophis, un corpo di forma irregolare largo circa 375 metri, passerà a meno di 32’000 km dalla Terra. L’avvicinamento più grande mai segnalato per un asteroide di questo tipo.

La missione americana DART ha alterato l’orbita di Dimorphos e ridotto il suo periodo orbitale attorno a Didymos di 32 minuti

Non costituisce un pericolo per noi: la sua traiettoria non punta verso la Terra, ma ci offre un’occasione imperdibile per studiarlo ed estrapolare informazioni generali sul movimento degli asteroidi. Tutto ciò a detta degli esperti internazionali del Programma di sicurezza spaziale, in vista di ipotetici, anche se per ora improbabili, incroci pericolosi tra la Terra e i corpi celesti. La missione per studiarlo si sta già preparando: si chiama RAMSES (acronimo che sta per «Rapida missione Apophis per la sicurezza spaziale»). L’ESA la proporrà ai suoi Stati membri, per approvazione e finanziamento, nel prossimo Consiglio ministeriale del 2025. Il tempo stringe perché per arrivare all’appuntamento con l’asteroide Apophis sarebbe necessario lanciare RAMSES all’inizio del 2028.

Fotogramma del video del lancio della navicella Hera da Cape Canaveral in Florida il 7 ottobre scorso. (Keystone)
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La fine dell’impero britannico

Commonwealth ◆ Il vertice di Samoa ha reso ancor più evidente come la monarchia abbia perso smalto dopo la morte di Elisabetta

La parola che troneggia, nella relazione tra Londra e gli ex Paesi dell’impero britannico, è «risarcimento». Per lo schiavismo e per lo sfruttamento delle risorse in epoca coloniale, due fattori che hanno impoverito i colonizzati e arricchito i colonizzatori. Solo che le cifre richieste sono enormi e la logica secondo cui questa colpa sia quantificabile tutt’altro che condivisa. Keir Starmer, premier laburista con uno spiccato senso della giustizia, è tornato dal vertice di Samoa di fine ottobre deciso a non cedere terreno al concetto, che non doveva neppure essere in agenda ma che ha fatto capolino nel comunicato finale firmato dai 56 Paesi ex coloniali. Alle prese con il tentativo di preservare le rovine dell’impero ereditate dalla madre Elisabetta, anche re Carlo era presente, reduce da una visita ufficiale in Australia dove ha ricevuto dei fischi molto pubblicizzati ma che, alla fine, è andata bene, forse anche per rispetto delle sue condizioni di salute, visto che ha interrotto le cure per poter viaggiare e cercare di sedare le pulsioni repubblicane in uno dei Paesi più importanti tra i 14 di cui è capo di Stato.

Starmer è arrivato a Samoa dopo delle piogge monsoniche. In seguito a lunghi negoziati ha dovuto sottoscrivere un testo finale in cui i leader dei Paesi ex coloniali hanno scritto che «è giunto il momento di avere una conversazione significativa, onesta e rispettosa per formare un futuro basato sull’equità». Anche senza specificarlo, significa solo una cosa: soldi, compensazioni, risarcimenti per lo

schiavismo. Il premier, che poche settimane prima aveva suscitato polemiche tra i conservatori per la decisione di restituire a Mauritius la sovranità delle isole Chagos, dove c’è una base militare britannica e americana, ha detto di «capire la forza dei sentimenti», ma di voler «guardare avanti, non indietro», specificando che «il Regno Unito ritiene che il modo più efficace per mantenere uno spirito di rispetto e di dignità sia di lavorare insieme per fare in modo che il futuro non sia all’ombra del passato, ma che ne venga illuminato». Anche perché si parla di un minimo che va da 250 miliardi a un massimo di oltre 20mila miliardi, cifre impossibili da onorare ma anche capaci di creare un precedente ingestibile. Anche se è una questione il linea con lo Zeitgeist, come si fa a risanare ogni torto?

Il premier ha insistito che sono stati «due giorni molto positivi», tra discorsi sul clima e sulla resilienza, ma non avrebbe apprezzato il lavoro del ministro degli Esteri David Lammy, che non ha parato il problema. La pressione dei Paesi caraibici è stata forte, anche se Downing Street ha ribadito che «nessuna delle discussioni è stata sui soldi, la nostra posizione in materia è stata molto chiara». Però se ne è parlato nelle riunioni, che si sono protratte nel tentativo di trovare una formulazione del comunicato finale accettabile anche per Londra. Tutti i candidati alla posizione di presidente del Commonwealth hanno sostenuto l’idea delle riparazioni e hanno chiesto le scuse della monarchia per la trat-

ta degli schiavi. Alla fine, ha prevalso la candidatura della ministra degli Esteri del Ghana, Shirley Botchwey, che sembra più interessata alla cooperazione allo sviluppo e al tema del clima che non alla giustizia riparativa. Ma se questo tipo di battaglie si porta avanti passo dopo passo, quello del vertice di Samoa è stato sicuramente un momento a modo suo storico. E anche nel Regno Unito molti deputati britannici di area corbyniana hanno accusato Starmer di avere una «mentalità coloniale» per il fatto di non voler parlare di risarcimenti.

L’incontro con i capi di Governo dei 56 Paesi si tiene ogni due anni e sebbene gli argomenti siano spesso un po’ vacui – quest’anno erano cose come «Un futuro comune resiliente: trasformare la nostra ricchezza comune»

– di vacuità in vacuità i legami diplomatici si rinsaldano e le opportunità di dialogo pure. È pur sempre un club molto ampio, con un terzo della popolazione mondiale, e farne parte è utile a tutti. Allo stesso tempo per il Regno Unito post-Brexit è un forum naturale in grado di mantenere un certo livello di connessione con altri Paesi ma anche di aprire un mercato promettente: nella mente talvolta confusa dei brexiteer il Commonwealth è sempre stata l’alternativa naturale alla Ue. Anche se non è così, mollare la presa sulle ex colonie aprirebbe la strada a chi è pronto a sostituirsi, come la Cina.

La vicenda delle Chagos era delicata perché Mauritius ha forti legami con Pechino, che l’anno scorso ha stretto anche un accordo di cooperazione con le isole Solomon, e non im-

Sette consigli alle famiglie per tenere sotto controllo le finanze

La consulenza della Banca Migros ◆ Con i figli in casa, il costo della vita aumenta notevolmente Le famiglie dovrebbero iniziare per tempo a ottimizzare la loro situazione finanziaria

Creare un budget

Un budget aiuta a individuare e gestire le finanze familiari. Prima di tutto occorre farsi un’idea di tutte le entrate. In secondo luogo vanno rilevati i costi mensili per affitto e spese accessorie, generi alimentari, telefono e internet, assicurazioni (compresa la cassa malati), trasporti e attività ricreative. Per calcolare un valore medio, la cosa migliore è raccogliere i giustificativi di tutte le entrate e le uscite nell’arco di alcuni mesi. A tal fine sono disponibili diversi modelli, ad esempio su budget-consulenza.ch.

Costituire delle riserve

Disporre di una riserva finanziaria è importante per tutti, ma soprattutto per le famiglie: con i figli in casa, le spese impreviste sono più frequenti e hanno un impatto maggiore. L’ammontare delle riserve di liquidità è determinato dalle uscite regolari. È consigliabile tenere sul conto di risparmio un importo corrispondente a 4-6 spese mensili. La soluzione ideale consiste in tre riserve: una destinata alle emergenze minori, come le visite mediche o la riparazione di elettrodomestici difettosi, la seconda

per pagare le imposte e le assicurazioni, la terza per gli acquisti occasionali. Dovreste riempire queste riserve nella misura in cui lo consente il budget familiare.

Risparmiare denaro

Una volta accumulate riserve sufficienti, si dovrebbe utilizzare il denaro in eccesso per risparmiare. Per gli obiettivi di risparmio a breve termine, è consigliabile depositare il denaro su un conto di risparmio. Se invece il denaro vi occorre al più presto fra

tre anni, suggeriamo di optare per un piano di risparmio presso una banca. In tal caso un importo fisso viene detratto mensilmente o trimestralmente dal conto e investito in un fondo. Se si vuole costituire un patrimonio a lungo termine, ad esempio per finanziare gli studi dei figli, la quota azionaria può essere più elevata.

Sfruttare il potenziale di risparmio nella vita di tutti i giorni

Se a fine anno volete avere qualche migliaio di franchi in più sul conto, dovreste cercare di ridurre i costi fissi, ad esempio cambiando l’operatore telefonico o la cassa malati. Quando fate la spesa, prestate attenzione alle promozioni o scegliete marchi propri più convenienti come i prodotti M-Budget. Anche quando si va al ristorante è possibile risparmiare. E rinunciando ad esempio al caffè quotidiano per 3 franchi nella mensa aziendale, potete risparmiare oltre 600 franchi all’anno.

Coprire i rischi

Per garantire la stabilità finanziaria è necessario tutelarsi contro alcuni ri-

porta se questo garantisce che sull’isola di Diego Garcia possa restare una base militare britannica per i prossimi 99 anni.

Non solo: il premier indiano Narendra Modi e il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa non sono andati a Samoa ma hanno preferito Kazan, dove il presidente russo Vladimir Putin ospitava una riunione dei Brics, alla presenza del cinese Xi Jinping. Anche lo Sri Lanka ha preferito andare lì. A Samoa il Canada ha mandato solo l’alto commissario nel Regno Unito, a riprova di quanto sia stato un incontro complesso per la delegazione britannica.

Anche la monarchia perde smalto un po’ ovunque, dopo la morte di una sovrana amatissima come Elisabetta II. Barbados è diventata una repubblica nel 2021 e la Giamaica conta di seguire le sue orme l’anno prossimo. Il viaggio di Carlo e Camilla in Australia è stato segnato dal grido di una senatrice indigena, Lidia Thorpe, che ha urlato «non il mio re!» e ha chiesto di «ridare quello che ci hai rubato, le nostre ossa, i nostri teschi, i nostri bambini, la nostra gente». Però, sebbene il tema sia ampiamente dibattuto, alla fine solo il 33% degli australiani vuole vivere in una repubblica, oltre al fatto che il sistema referendario è complesso e difficilmente asseconda gli umori superficiali. Re Carlo ha promesso che tornerà a viaggiare molto dal 2025 e ha lasciato scivolare una parola importante: il passato è stato painful, doloroso, e questo non si può dimenticare.

schi esistenziali, primo fra tutti il rischio di incapacità al guadagno, ad esempio in seguito a un infortunio o a una malattia mentale. Con un’assicurazione per incapacità di guadagno tutelate il vostro reddito personale e, in caso di necessità, rimanete solvibili. È inoltre opportuna una copertura contro il rischio di decesso, soprattutto se si possiede la proprietà abitativa in comune o se solo uno dei coniugi esercita un’attività lucrativa. Questa copertura, se necessario, consente al partner superstite di rimborsare almeno la 2a ipoteca. Per una copertura ottimale del rischio dovreste farvi consigliare da una persona specialista in materia.

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Sven Illi, consulente alla clientela della Banca Migros.
Keir Starmer al vertice del Commonwealth non ha voluto parlare di risarcimenti per le «colpe del colonialismo». (Keystone)

Kemi Badenoch: una nuova era per i conservatori

Regno Unito ◆ La missione della 44enne di origini nigeriane? Ricucire le divisioni di un partito estremamente frazionato, avviando un’operazione di ricostruzione e rilancio che parte dal riconoscimento degli errori del passato

La nuova leader dei Tory, il partito che da 200 anni domina la politica britannica, è un’immigrata nigeriana di prima generazione. Kemi Badenoch (nella foto a destra) – nome di battesimo Olukemi Olufunto Adegoke prima di acquisire il cognome del marito Hamish Badenoch – ha assunto il ruolo che fu di Margareth Thatcher, sua musa ispiratrice, e Winston Churchill, diventando la così la prima donna nera alla guida di un grande partito politico non solo nel Regno Unito, ma in Europa.

Badenoch segna l’avvio di una nuova era per i Tories, che hanno visto negli ultimi 9 anni l’avvicendamento di ben sei segretari. La sua sfida più grande? Ricucire le divisioni di un partito estremamente frazionato, rinnovandolo, avviando un’operazione di ricostruzione e rilancio che parte dall’umile riconoscimento dei propri errori. «Il nostro partito è decisivo per il successo del nostro Paese. Ma per fare sentire la nostra voce, dobbiamo essere onesti», ha dichiarato Badenoch nel corso del suo discorso di accettazione della nomina. «Dobbiamo ammettere con onestà di avere commesso degli sbagli e di non esserci attenuti agli standard richiesti. È giunto il momento di dire la verità e combattere per i nostri principi, pianificare il futuro, reimpostare la nostra politica e modo di pensare. È l’ora di rimboccarsi le maniche e rinnovarsi», ha concluso la leader neo-eletta, con quel piglio carismatico che le ha permesso di fare una carriera lampo a Westminster.

La sua fascinazione per la destra scaturisce dall’ammirazione sconfinata per la «Lady di ferro» Margaret Thatcher

La politica 44enne è stata eletta per la prima volta nel Parlamento britannico solo nel 2017. Entrata nel Governo di Boris Johnson con vari ruoli da sottosegretaria, è per la prima volta ministra nel 2022 con Liz Truss che la mette al vertice del Dicastero per lo sviluppo e il commercio internazionale, incarico successivamente confermato anche da Rishi Sunak. Pertanto la sua ascesa è stata rapidissima. Figlia di un medico e di una pro-

fessoressa di fisiologia nigeriani, Badenoch nasce a Londra nel 1980 per decisione dei genitori che volevano la migliore assistenza medica privata che potessero permettersi per il parto e pertanto erano venuti apposta in Gran Bretagna per darla alla luce, assicurando inconsapevolmente così alla figlia la cittadinanza britannica.

Ritornata dopo la nascita a Lagos, dove viene cresciuta fino all’età di 16 anni insieme al fratello e alla sorella minori, nel 1995 viene rispedita dalla sua famiglia nel Regno Unito per completare gli studi e sottrarla ai disordini in Nigeria, sospesa dal Commonwealth a seguito della condanna a morte di attivisti ambientalisti da parte della dittatura militare. Secondo Lord Michael Ashcroft – veterano Tory e autore di una biografia sulla nuova leader del partito intitolata Blue Ambition – l’attitudine combattiva di Badenoch è stata plasmata molto dall’esperienza di quel periodo ed «è il risultato del suo approccio nigeriano alla risoluzione dei conflitti»: lei guarda all’instabilità che negli anni Novanta ha caratterizzato il Paese africano come uno scenario ipoteticamente

possibile anche nel Regno Unito. Laureata in informatica presso la Sussex University, all’età di 25 anni accarezza l’idea di ritornare in Nigeria per intraprendere la carriera politica, ma compresi gli ostacoli che avrebbe incontrato in quanto donna, decide invece di restare in Gran Bretagna e di iscriversi al partito conservatore. La sua fascinazione per la destra scaturisce oltre che da un’am-

mirazione sconfinata per la «Lady di ferro» Margaret Thatcher, anche da un’avversione per la fazione politica opposta dopo avere avuto a che fare negli anni dell’università con studenti di sinistra a suo dire «viziati, pieni di pretese e privilegiati». Durante i primi anni di militanza nei Tory, Badenoch incontra il futuro marito, il bianco e cattolico irlandese Hamish, banchiere d’investimen-

to della Deutsche Bank, che sposa nel 2012 e con il quale mette al mondo tre figli. Il coniuge appoggia nella sua ascesa politica la moglie, che lavora dapprima nel settore bancario e poi diviene direttrice digitale di «The Spectator», la prestigiosa rivista dell’intellighenzia conservatrice diretta in passato da Boris Johnson prima di diventare premier e oggi guidata dall’ex ministro di svariati Governi Tory, Michael Gove, grande sostenitore di Kemi Badenoch.

Badenoch è la prima donna nera alla guida di un grande partito politico in Gran Bretagna e in Europa

Candidatasi senza successo alle elezioni un paio di volte e schieratasi a favore della Brexit nel referendum del 2016, Badenoch riesce ad entrare in Parlamento l’anno successivo e da allora nessuno l’ha più fermata. Prima leader nera dei Tory, seconda di colore dopo Rishi Sunak e quarta donna alla guida del partito dopo Thatcher, Theresa May e Liz Truss, la 44enne Badenoch darà del filo da torcere al 62enne premier Labour Keir Starmer, il cui partito non ha mai eletto al vertice né una donna né un appartenente ad una minoranza etnica, in contrasto con l’ideologia progressista del partito stesso. Paladina dell’anti-woke (woke inteso come atteggiamento di chi si sente consapevole dell’ingiustizia rappresentata da razzismo, sessismo, disuguaglianze economiche e sociali ecc.) con controverse dichiarazioni sui diritti dei transgender, sull’inferiorità delle culture che non permettono alle donne di lavorare e sulla presunta esosità dei congedi di maternità (su quest’ultima ha poi raddrizzato il tiro), Badenoch si è accattivata le simpatie dei conservatori più a destra. Tuttavia, la sua immediata scelta di designare esponenti sia destrorsi che centristi come Priti Patel e Mel Stride – da lei nominati ministra degli Esteri ombra la prima e Cancelliere dello Scacchiere ombra il secondo – rivela una visione di lungo periodo volta ad unificare il partito, con un obiettivo ambizioso: ricomporre i cocci Tory e puntare dritta a Downing Street.

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Badenoch è ambiziosa e guarda a Downing Street. (Keystone)
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I fisici di Dürrenmatt secondo Horvat

La celebre tragicommedia del grande drammaturgo svizzero andrà in scena al Teatro Sociale di Bellinzona il 14 e 15 di novembre

Pagina 23

Il potere del selfie tra memoria e stigma

Dalle opere di Moira Ricci al progetto VIRE: la fotografia d’autore e popolare come strumento di relazione e riflessione sull’identità

Pagine 24-25

La vita operaia nel romanzo di Etcherelli

Élise: una storia di lotta, amore e solitudine che ricorda le difficoltà del lavoro in fabbrica e il peso dei conflitti sociali

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Nell’incredibile e selvaggia Terra dei vallesani

Serie Tv ◆ Tschugger, la strepitosa serie tutta svizzera di David Constantin, dopo tre stagioni è diventata un film

David Constantin aveva un’idea (che è già qualcosa). Un’idea dai contorni megalomani, che avrebbe lasciato il segno nello storytelling elvetico, e che avrebbe vinto ogni scommessa. Il problema è che all’inizio ci credeva solamente lui, e noi spettatrici e spettatori rischiavamo di perderci la serie televisiva più divertente, irriverente e intelligente prodotta in Svizzera negli ultimi anni. Stiamo parlando di Tschugger (sbirro in vallesano): tre stagioni di demenzialità arguta ai massimi livelli, coronate ora da un film al cinema – presto visibile anche su Play Suisse.

Con la sua idea di girare una serie in Vallese (dove si parla uno degli Schwiizerdütsch, insieme all’appenzellese e al sangallese, più indigesti e difficili della Nazione), con attori sconosciuti, amici dello stesso Constantin, ma anche gente che semplicemente gli piaceva – come il consulente fiscale Laurent Chevrier, che si trasforma nel comandante di polizia Biffiger –, una sceneggiatura improbabile che mescola gli anni 90 con il 2020equalcosa e il desiderio di essere regista, attore protagonista e sceneggiatore, Constantin aveva inizialmente raccolto solo rifiuti. La SSR era già impegnata nella produzione di Wil-

der : non c’era bisogno di un’altra serie investigativa ambientata in montagna. Inoltre, chi era quel David Constantin, classe 1984, nato a Salgesch (VS), all’attivo – o passivo – una serie di studi (germanistica, scienze del cinema e dello sport e psicologia) mai terminati e una laurea in economia aziendale, un filmino girato durante il servizio militare in cui prendeva in giro Ueli Maurer, la mini serie Tschutter (calciatore, Ndr), spot pubblicitari e qualche corto?

Ma Constantin, con la stessa caparbietà del suo personaggio Bax, e forse con le sue ultime forze, riuscì, facendosi aiutare dove poteva, a raccogliere i soldi sufficienti per realizzare un trailer capace di dimostrare che sì, anche la sua sarebbe stata una serie poliziesca ambientata in un paesaggio montano, ma che no, non avrebbe avuto nulla, ma proprio nulla a che fare con Wilder Tutto il resto è storia. La storia di un successo senza precedenti per una serie in grado di stravolgere schemi e modalità, che ruota intorno alle vicende di Bax (sempre lui), poliziotto controverso in ogni momento ben disposto a infischiarsene della legalità, laddove in ballo c’è un bene a suo avviso più grande, affiancato dal collega

e amico (anche nella vita vera) Pirmin (Dragan Vujic), faccia da Mister Bean e cuore d’oro.

Le peripezie dei due li porteranno a muoversi creando immancabilmente il caos in un Vallese a tratti lunare, che ricorda le distese di Fargo in chiave ironica, in un caleidoscopio di personaggi che da lontano assomigliano a quelli di Wes Anderson, ma a uno sguardo più attento si rivelano semplici maneggioni alla mercè dei propri desideri più bassi. Da quello del meraviglioso gruista Juni, imperdibile tuta anni 90 e baffetto, interessato solo a procurarsi e fumare erba, a quello della fascinosa rapper Valmira dalla vecchia Fiat Uno rossa, disposta a tutto pur di trovare un produttore, passando per l’aiutante Smetterling, volenteroso ex poliziotto con un simpatico difetto di pronuncia, diventato hacker; senza tralasciare il viscido politico Fricker, grande villa, grande collezione di armi, grande solitudine. Tutti a bordo di modelli d’auto come non se ne vedevano da qualche decennio, vestiti talvolta come negli anni 80 e altre come nei 70, ma allo stesso tempo capaci di destreggiarsi tra droni e smartphone.

I dialoghi danno il ritmo (serratissimo) a una serie veloce e che non

smette di stupire, con momenti da autentico far west, dove gli infiniti colpi di scena vanno a braccetto con momenti che ricordano vagamente Miami Vice o Una notte da leoni con tutti i suoi sequel. Constantin ama citare, non c’è dubbio, e questo Tschugger è anche un omaggio un poco americano, basta guardare la composizione multietnica del comando di polizia, o il cappellino indossato dal comandante (che, nuovo colpo di scena, reca la scritta UNIA). A rendere la serie inconfondibilmente svizzera, ci pensa di nuovo Constantin, che attinge a piene mani dal patrimonio nazionalpopolare di casa: per spiegare alcuni personaggi o situazioni, nella pellicola sono inseriti piccoli flashback in forma di diapositive, polaroid, o superotto. Vengono così citati presentatori, cantanti, ma anche sex shop online dal sapore local come Amorana, o la storia recente, quelle stesse vicende che hanno cioè segnato la giovinezza di Constantin, come il suicidio di massa degli adepti del Tempio solare negli anni 90. Avvenuto in Vallese (ovviamente) e nel Canton Friborgo. Ecco così che, con il passare delle puntate, questo Cantone spesso visto come marginale, di accesso non immediato, vissuto come un fondovalle

di passaggio, con le sue asperità, geografiche e linguistiche, ma anche caratteriali, assurge a sorta di no man’s land dove tutto è possibile, dove nonsense e follia regnano sovrani. Bax-Constantin, folti baffi, occhiali a goccia e jeans attillati anni 70, senza alcun dubbio grande physique du rôle, uomo perseguitato da incomprensioni e sfortuna, non solo risolve un caso dopo l’altro inseguendo il proprio magnifico istinto, ma ci restituisce anche una Svizzera come non l’avevamo mai vista, divertente, surreale, così provinciale da farsi internazionale, addirittura permeata di tenerezza. E soprattutto, popolata da personaggi che, quasi indistintamente, sono (o sarebbero) dei perfetti sfigati, dei loser, non fosse per la penna del loro creatore, di nuovo quel Constantin arguto e ironico a un tempo, capace di renderli iconici.

L’esperienza di Tschugger, purtroppo, nonostante un successo senza precedenti (si è arrivati al 30% di share), dopo il film potrebbe essere quasi terminata. Nulla di grave, verrebbe da dire: da David Constantin, al di là di ogni ragionevole dubbio, proprio per il fatto che è David Constantin, possiamo solo aspettare con fiducia nuove perle.

Pirmin (Dragan Vuijc), Bax (David Constantin) e Regina. (Lena Furrer). (SRF/Dominic Steinmann)
Simona Sala

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Horvat traduce, dirige e recita I fisici di Dürrenmatt

Teatro – 1 ◆ Dopo il debutto al LAC, il 14 e 15 di novembre sarà in scena al Sociale di Bellinzona la pièce di produzione tutta ticinese

Alla prova generale aperta al pubblico de I fisici di Friedrich Dürrenmatt, per la regia del ticinese Igor Horvat, nella Sala Teatro del LAC di Lugano, un pubblico di giovani, appassionati e addetti ai lavori ha assistito divertito alla celebre tragicommedia del grande drammaturgo svizzero, il cui debutto ha avuto luogo il 5 e 6 novembre, sempre al LAC, mentre si sposterà al Teatro Sociale di Bellinzona il 14 e 15 di novembre.

Andato in scena per la prima volta nel 1962, presso lo Schauspielhaus di Zurigo (non a caso, due anni prima che Stanley Kubrick consegnasse al grande schermo il suo geniale Il dottor Stranamore), nella presente edizione il testo poggia, da un lato, sull’artigianato attoriale degli interpreti, al quale Horvat – in scena assieme agli altri nei panni del commissario Richard Voß – deve parte sostanziale del suo approccio registico; dall’altro su una lettura di carattere razionale, che sembra privilegiare il ragionamento rispetto alla pura fantasticazione.

D’altra parte, è il regista stesso a dichiararlo in un’intervista: attore con un solido cammino alle spalle, Horvat si muove a partire da quell’amore per la cura della battuta, del ritmo, della struttura dei movimenti sul palcoscenico che caratterizza la lunga tradizione del teatro di repertorio italiano. Al contempo, sempre per sua stessa ammissione, essendo stato, da

giovane, studente in un liceo scientifico, gli è sempre rimasto addosso un che di quella curiosità che si interroga sul funzionamento nascosto delle cose: «Un po’ come quando, da bambini, si apre un giocattolo per vedere com’è fatto dentro».

Ciò detto, la storia è nota: auto-internatosi nella clinica psichiatrica Les Cérisiers, dove iniziano a consumarsi cruenti delitti a spese del personale, il fisico Möbius (Pierluigi Corallo) simula un’amletiana follia onde evitare che la sua decisiva scoperta del «Sistema di Tutte le Scoperte Possibili» finisca in mani sbagliate. Il caso vuole –e «il caso», in Dürrenmatt, è il fattore determinante da cui emerge la verità tragica – che nello stesso istituto siano ricoverati due altri scienziati, i quali sostengono di credersi, rispettivamente, Isaac Newton (Marco Mavaracchio) e Albert Einstein (Jonathan Lazzini). A vegliare sull’insolito terzetto troviamo la dottoressa Mathilde von Zahnd (Giorgia Senesi), proprietaria del sanatorio, e l’infermiera Monika Stettler (Catherine Bertoni de Laet). Tutto ha inizio con l’arrivo del commissario Voß alla casa di cura, dov’è da poco stato rinvenuto il cadavere della prima vittima. Senza entrare nel merito della vicenda e dei suoi sviluppi, se si prende in esame la chiave interpretativa dei singoli che con abilità si alternano sul palco, si nota subito un approccio vo-

Da scena a schermo

Teatro – 2 ◆ La regista ticinese Agnese Làposi alla sua prima trasposizione audiovisiva

Tommaso Donati

Non solo teatro: I fisici di Friedrich

Dürrenmatt – per la regia di Igor Horvat, già in scena al LAC di Lugano e ora al Sociale di Bellinzona – godrà anche di una trasposizione audiovisiva realizzata dalla regista ticinese Agnese Làposi (1992). La cineasta è vincitrice della prima edizione del bando di concorso di lingua italiana che incoraggia e sostiene la produzione e la diffusione di opere audiovisive che includono le riprese di uno spettacolo teatrale. Il bando è stato promosso dall’associazione De la scène à l’écran, costituita dalla RSI/RTS, dalla società Svizzera degli Autori (SSA), da SUISSIMAGE e dall’associazione Romanda della Produzione Audiovisiva (AROPA). Làposi, con il suo progetto, ha deciso di rielaborare la pièce, ricostruendola attraverso le varie fasi di sviluppo e preparazione dell’opera teatrale. Per l’autrice, il momento delle prove è quello che più si avvicina all’atto cinematografico, dove la lettura e la postura degli attori sono più contratte, ma allo stesso tempo più libere, e dove la distanza tra la telecamera e l’attore può essere ridotta.

La regista ticinese ha dunque voluto spezzare e ricostruire la linearità dell’opera, che si svolge in un unico spazio, il salone di una clinica psichiatrica. L’unico modo per farlo era quello di separare le fasi di narrazione in spazi e approcci differenti di recitazione. Come in Dürrenmatt la ragione si autodistrugge, anche nel progetto audiovisivo c’è un costante tentativo di smontare sequenza e scenografia per generare nuova linfa. Inoltre, malgrado il pes-

lutamente caricaturale, giustificatissimo, che forse potrebbe essere ancora più spinto, così da portare «alla sua estrema conclusione» – l’espressione è dell’autore – quel taglio grottesco, spesso mostruoso e al limite dell’onirico, che tanto caratterizza il mondo di Dürrenmatt.

Dal punto di vista della drammaturgia, di cui Horvat ha pure curato la traduzione dal tedesco, il regista fornisce al pubblico un personale elemento di lettura dell’opera attraverso l’inserto di una video animazione in cui è riportato il celebre racconto edipico La morte della Pizia. Attraverso questo accostamento Horvat vuole sottolineare quanto, ancora una volta, sia il caso a determinare «il peggiore sviluppo possibile» (sempre Dürrenmatt) che caratterizza gli esiti decisivi di un racconto (così come di un vissuto) e come non ci sia arroganza – scientifica o paranoica – che metta al riparo dal suo possibile palesarsi; senza contare che, come ci insegna Freud, nel caso non c’è mai nulla di casuale, ma, al contrario, una sotterranea logica inconscia dettata, il più delle volte, da una spinta cieca. Il video ci porta infine a considerare le scelte estetiche di scenografie e costumi (Guido Buganza e Ilaria Ariemme) di questa creazione tutta svizzera, che vede riunite le forze produttive di LAC Lugano Arte e Cultura e del Teatro Sociale Bellinzona, così co-

me la collaborazione del Centre Dürrenmatt Neuchâtel. Sovrastata da una struttura geometrica di neon, la scena presenta un interno dai colori spenti, in accordo alle vesti degli attori, che richiama un universo chiuso, ombroso, da vecchio albergo in disuso (scelta che va in contrasto col segno delle animazioni, molto più schematico, da fumetto, nel quale si alternano bianco e nero, tratti di tinte accese e disegni dello stesso Dürrenmatt).

Probabilmente questi registri sarebbero stati suggestivi pure se presi singolarmente, perché caratterizzati tutti da un proprio segno chiaro. E, così come suggerisce Horvat quan-

simismo domini i dialoghi, il progetto mira a cogliere e far emergere in superficie quell’umanità latente nei personaggi che, nel percorso narrativo e nella de-costruzione del lavoro audiovisivo, riusciranno a emergere e a farsi notare.

La traduzione, di fatto, non vuole solo riprodurre, ma creare una nuova opera sfruttando il mezzo della cinematografia, grazie allo sviluppo di ulteriori strati di recitazione, dove i movimenti o la staticità dei personaggi vengono racchiusi in altri spazi, reali o fittizi. Le scene e gli atti dei fisici si sviluppano così tra varie ambientazioni: dalle letture attorno a un tavolo, alle prove in piedi e a quelle sul palco, fino a una scena di finzione girata in una villa sul lago.

Làposi e Horvat, pur avendo ruoli diversi come registi, sembrano seguire lo stesso sguardo e, guidati dallo loro passione viscerale per l’universo e la genialità di Dürrenmatt, riusciranno ad aggiungere alla commedia una traccia personale e ancorata al nostro presente.

do, intervistato, espone le sue considerazioni sulla pièce e parla di come sarebbero potute andare le cose se «il caso» avesse giocato diversamente il suo ruolo nel racconto di Edipo, anche chi qui scrive si permette di fantasticare attorno alle possibili, ulteriori versioni di uno spettacolo che, alla vigilia del suo debutto, già è accolto dal pubblico ospite con un applauso soddisfatto.

Dove e quando I fisici di Friedrich Dürrenmatt, Bellinzona, Teatro Sociale, 14-15 novembre 2024. www.teatrosociale.ch

La regista ticinese Agnese Làposi. (Tommaso Donati)
Marco Mavaracchio, nei panni di Isaac Newton, nello spettacolo I fisici andato in scena al Lac di Lugano, e presto al Sociale di Bellinzona. (Masiar Pasquali)

Vent’anni di ritagli del dolore nell’

Fotografia ◆ L’incontro tra forma d’arte e circostanze di vita, in esposizione al Mufoco di Milano, fa riflettere su come

«Così, solo nell’appartamento nel quale era morta da poco, io andavo guardando alla luce della lampada, una per una, quelle foto di mia madre, risalendo a poco a poco il tempo con lei, cercando la verità del volto che avevo amato. E finalmente la scoprii. […] Attraverso ognuna di quelle immagini, infallibilmente, io andavo oltre l’irrealtà della cosa raffigurata, entravo follemente nello spettacolo, nell’immagine, cingendo con le mie braccia ciò che è morto». Così, scrisse tra le pagine de La camera chiara, il critico e semiologo Roland Barthes. Affermazione che, mai come nell’opera più nota di Moira Ricci, risuona profondamente. Opera composta da una selezione di cinquanta fotografie realizzate tra il 2004 e il 2014, ed esposta fino al 1. dicembre al Mufoco (Museo di fotografia contemporanea) di Milano in una mostra intitolata 20.12.53 – 10.08.04 a cura della storica e critica della fotografia Roberta Valtorta, con la quale, in una recente serata pubblica alla Casa delle donne di Milano, la fotografa ha conversato, con la moderazione di Gigliola Foschi, critica d’arte della fotografia. Ogni immagine diventa un atto di resistenza contro l’oblio, un modo per tenere viva una parte di ciò che non è più

Moira Ricci, nata in Maremma a Orbetello nel 1977, oggi si inserisce nel panorama della fotografia contemporanea come una voce di intensa introspezione e ricerca identitaria. «Due sono i temi principali su cui lavora Moira Ricci – ha spiegato Roberta Valtorta – e sono il rapporto con la sua terra e quello con gli affetti familiari, in particolare con sua madre e suo padre». È ancora in piena ribellione adolescenziale, quando la Ricci rifiuta

l’invito-ricatto di mamma Loriana di iscriversi all’accademia di danza, scuola che le avrebbe pagato, al contrario dell’Accademia delle belle arti a Milano. Negli anni di studio tornerà al suo paese solo di tanto in tanto, un fine settimana al mese, o ogni due mesi: «Ogni volta che tornavo giù da Milano – racconta Moira Ricci – mi ritrovavo sempre qualcosa di nuovo che mia mamma comprava, perché non vedeva l’ora di ristrutturare casa, di farla più grande; era co-

me se mia mamma mi stesse staccando dal mio passato, e quindi ho ricostruito la mia casa che non avrei mai più rivista, e l’ho fatto usando scatole delle scarpe, con urgenza, prendendo della carta da parati, e ritagliando in modo grossolano le immagini: per me era importante farlo in fretta per ricostruire la mia casa prima che venisse cancellata per sempre». Ma l’artista non si è limitata a ricostruire un modellino abbozzato in tre D di quattro stanze

(bagno, cucina, cameretta e salotto). Ha voluto anche farle ri-abitare da tutte le Moire che ha ritrovato nel suo album, Moire fotografate dalla mamma proprio in quei locali, da piccina fino all’adolescenza: «Le ho scansionate, ristampate e poi attaccate su dei cartoncini inserendomi nelle stanze».

Il progetto – che risale al 2001 e si è fatto video, inglobando voci di bambini in loop, oltre che installazione – viene molto apprezzato, ma

non quanto il lavoro che consacrerà Moira Ricci come artista, rendendola nota. Opera scaturita dalla morte della madre, avvenuta la notte di San Lorenzo, il 10 agosto del 2004, che pure determina la seconda parte del titolo della mostra, a ridosso della data di nascita. Morte che ebbe luogo, guarda caso, a seguito di un incidente domestico proprio durante la ristrutturazione della casa. Dedicata alla memoria e alla perdita della madre, l’opera, dunque, torna a

La pratica del selfie, tra relazione e stigma sociale, in mostra negli spazi di Villa Ciani

Se da una parte l’opera di Moira Ricci indaga il legame tra immagine e memoria esplorando temi di perdita e identità, dall’altro sottolinea anche come la fotografia possa costruire – nel suo caso artificialmente e grazie alla pratica del selfie ante litteram elevato ad arte – un ponte emotivo e relazionale tra passato e presente, ma anche tra i soggetti ritratti, temi che risuonano profondamente nel contesto della mostra Doppio Sguardo. Riflessioni visive che ha luogo fino al 23 novembre a Villa Ciani a Lugano e dal 5 al 21 dicembre a Palazzo Franscini a Bellinzona.

Frutto del progetto VIRE (Visualized Relationships) – concepito dall’Università della Svizzera italiana (USI), sostenuto dal Fondo nazionale svizzero (FNS) attraverso il programma Agora, e diretto dalla professoressa Katharina Lobinger, esperta di comunicazione visiva – l’esposizione invita il pubblico (e soprattutto le scuole!) a riflettere su come le rappresentazioni visive possano influenzare la vita quotidiana e le nostre interazioni sociali, soffrendo tuttavia di una contraddizione intrinseca proprio alla pratica del selfie (ma non solo). I selfie, infat-

ti, da un lato sono spesso associati a una certa superficialità e soffrono lo stigma sociale, dall’altro, rivestono un ruolo cruciale nel mantenimento delle relazioni interpersonali.

A spiegare la funzione chiave dell’autoscatto in quest’ultimo contesto, è Federico Lucchesi, ricercatore all’USI e coordinatore del progetto durato quattro anni: «Abbiamo inter-

vistato 90 persone in tutta la Svizzera, con età dai 18 ai 91/92 anni, notando subito come molti degli intervistati disapprovassero il selfie o descrivessero chi lo praticava come stupido, superficiale, egocentrico». Eppure, alla prova dei fatti, «abbiamo scoperto che molte delle immagini più significative per i partecipanti alla ricerca erano proprio dei selfie»,

prosegue il ricercatore, svelando come questi scatti, a volte criticati, possano diventare simboli emotivi di ricordi condivisi. Una coppia, ad esempio, considerava la prima foto insieme, scattata durante un viaggio, come una «risorsa per il mantenimento della relazione», capace di risvegliare emozioni passate.

Le immagini cosiddette mordi e fuggi si trasformano così in una macchina del tempo, ma non solo: tra le pratiche emerse durante la ricerca, vi erano alcune routine quotidiane basate su selfie ironici e spontanei, usati per trasmettere leggerezza e rafforzare i legami. Questi gesti, apparentemente semplici e spesso percepiti come banali o egocentrici, svolgono dunque in verità un ruolo chiave nel mantenimento delle relazioni affettive. Ed è fondamentale rendersene conto prima che lo stigma sociale ci porti a modificare queste importanti consuetudini.

Da qui, il senso ultimo della mostra che, intitolandosi Doppio sguardo, è strutturata in modo da esporre diciassette pannelli con la stessa immagine proiettata, su tela, fronte-retro: «Da un lato è riportato un testo con una frase chiave, una parola che richiama lo

stigma associato all’immagine, dall’altro lato – spiega Lucchesi, che per primo ha scritto i testi – la stessa immagine è accompagnata da una descrizione che racconta la ragione per cui quella foto è importante per la relazione». A tal proposito e per questioni di privacy, va detto che l’uso dell’intelligenza artificiale generativa ha consentito di anonimizzare i volti dei partecipanti, pur mantenendo l’integrità delle fotografie originali (vedi foto).

D’altro canto, il punto non è chi, ma perché: «Vogliamo far riflettere il pubblico su come il giudizio negativo possa oscurare il valore affettivo di un’immagine», conclude Lucchesi.

Dove e quando

Doppio sguardo Lugano, Villa Ciani. Fino al 23 novembre 2024. Orari: gio-ve: 8.30-16.30, sa: 9.0013.00; per le scuole: visite guidate il giovedì e venerdì) Bellinzona, Palazzo Franscini, dal 5 al 21 dicembre 2024. Orari: lu: 8.00-21.00, ma-ve: 8.00-19.00, sa: 9.00-13.00; per le scuole: visite guidate il giovedì e venerdì) Info: www.doppiosguardo.ch

Moira
Ricci

opera di Moira Ricci

esplorare temi universali come la relazione tra presente e passato, ma soprattutto rimette in gioco il tentativo di preservare la memoria attraverso le immagini.

La Ricci, in preda al dolore, affronterà questa perdita, per i successivi dieci anni, con una creatività inusuale e non progettata, ma frutto di un suo estremo bisogno, che la vede trasformare il proprio lutto in un processo artistico, il quale si fa forte della ricerca non di una ragione, ma di una variante della realtà: «Quando mia madre è mancata all’improvviso, io non potevo accettare la realtà. Non sembrava possibile. Così sono andata a cercare le sue foto, perché nelle foto lei era ancora viva».

Attraverso l’arte, è possibile trovare un senso di connessione e comprensione, anche nelle esperienze più dolorose

Tornando a Barthes, se il semiologo resta affranto davanti al limite posto dal tempo (da una parte l’immagine con la madre ancora in vita, dall’altra un presente senza di lei), la Ricci sfonda – di nuovo – quella barriera per tentare l’impossibile: ricreare un legame all’interno dello stesso spa-

zio temporale con un atto di presenza forzata che le consenta non solo di affrontare il dolore, ma forse anche di salvare la madre dalla morte, preannunciandogliela.

Da una parte, infatti, Moira Ricci, quando avvia il progetto, utilizza la fotografia per accedere a momenti perduti e mantenere viva la presenza della madre scomparsa, dall’altra spera di poter «andare dentro le foto e riuscire a prenderla e portarla fuori, così l’avrei salvata»; non potendolo fare, decide di inserirsi nelle vecchie stampe della madre, ritratta in momenti di vita quotidiana, di viaggi, di eventi speciali, dell’infanzia e della prima giovinezza, per avvisarla di quanto accadrà in quel futuro che lei ormai già conosce: «Per questo, negli scatti in cui mi sono inserita, tengo lo sguardo di una persona che sa che succederà qualcosa di brutto: non potendo parlare dentro alle fotografie, dovevo assumere un atteggiamento ammonitore» sperando che prima o poi la madre percepisse il pericolo, evitandolo… Ed ecco svelata la ragione per cui nelle cinquanta fotografie esposte al Mufoco compare sempre anche Moira Ricci: «Mi sono messa insieme a loro, a tutte le persone che sono nelle foto, prendendo posto laddove potevo stare senza intralciare nessuno,

per rispettarli, per rispettare proprio la foto, adattandomi anche al tempo: ho cercato di vestirmi e acconciarmi secondo gli anni dello scatto, copiando un po’ anche mia mamma, nella semplicità che aveva lei nel vestirsi. Non ho voluto comperare nulla di nuovo, per cui a volte usavo proprio i suoi abiti, e persino le sue scarpe; l’unica cosa diversa è questa mia attenzione che ho su di lei; volevo proprio che con la forza del mio sguardo lei capisse. Così mi sono fotografata (ndr. ancora non era in voga il selfie)

tante volte con una macchinetta a 4 megapixel, piccolissima, in digitale, e con un telecomandino: scattavo una foto dopo essermi messa in posa vicino alla mamma; al suo posto, una scopa oppure il cavalletto, per capire dove e come posare lo sguardo su di lei». Tutto questo dopo aver studiato luci, ombre, colori, contesto, posture, look, meteo, umori, stagione eccetera.

Le immagini hanno delle dimensioni che rispettano quasi tutte l’originale, pur essendo frutto di un sapiente miscuglio di analogico e digitale, a segnare forse una delle prime esperienze significative in Italia di un’artista capace di dare un senso creativo e innovativo alle nuove tecnologie, come ha tenuto a sottolineare Roberta Valtorta.

Le mostre, di questo lavoro di lunga durata, iniziarono subito; la prima già nel 2005 quando aveva solo nove immagini. Non è sempre stato facile, dovendo gestire un carico intimo ed emotivo così intenso, ma Moira Ricci ha continuato a sfidare la linearità del tempo, nonostante le molte crisi esistenziali. E lo ha fatto forse rendendosi conto che il suo lavoro non è solo un viaggio personale, ma è il tentativo di restituire forma visiva a una emozione condivisibile: «La fotografia non re-

stituisce la vita, non riporta indietro chi abbiamo perso» ammette Ricci, ma attraverso uno sguardo autentico e diretto, le sue opere riescono a trasmettere un senso di partecipazione collettiva, e spingono a riflettere sull’importanza delle relazioni e sull’eredità emotiva che ognuno porta con sé. La sua poetica diventa così un potente strumento di esplorazione, capace di evocare sentimenti e ricordi che echeggiano in chi osserva, dimostrando che, attraverso l’arte, è possibile trovare un senso di connessione e comprensione, anche nelle esperienze più dolorose: «Quando espongo, spesso mi trovo a parlare con persone che hanno vissuto esperienze simili e che trovano nel mio lavoro qualcosa che risuona con le loro storie» dice, evidenziando il potere della fotografia di dialogare con chi ne fruisce, al di là delle ragioni che stanno alla base dell’atto creativo.

Dove e quando Moira Ricci, 20.12.53-10.08.04, Cinisello Balsamo (MI), Museo di fotografia contemporanea (Villa Ghirlanda, via Frova 10). Fino al 1. dicembre 2024. Orari: me-ve 16.00-19.00 sa e do10.00-19.00; Info: info@mufoco.org

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Moira Ricci

Ottima per fare merenda Zenzero e cardamomo per conferire alla tradizionale torta di mele una nota speziata particolare che stuzzica il palato

Lupi mannari e l’antica arte di mentire con grazia

Il fascino oscuro dei giochi con identità nascoste?

Il vero divertimento, tra accuse, bugie e sospetti, sta nello scoprire chi è il mostro nascosto tra noi

La riva perduta del Mare d’Aral

«Rahmat», acca aspirata e una mano sul petto all’altezza del cuore. Una parola e un gesto che qui valgono più di ogni altra forma di comunicazione. Mi trovo nella repubblica del Karakalpakstan, soprannominata «Stan tra gli Stan» e anticamente parte del Khorezm, regione storica il cui popolo era solito costruire grandi fortezze di fango per proteggersi dai predoni nomadi.

«Rahmat» e mano sul cuore, è così che ringrazio l’autista dopo che mi ha allungato un pezzo di fatir (pane azzimo) alla cipolla. Senza farlo apposta, si chiama Rahmation,  nome che rimanda a un sentimento di misericordia, compassione, gentilezza. Mangio in silenzio il pane delizioso della valle di Fergana, più croccante e saporito del non, presente in tutte le bancarelle uzbeke. Il viaggio verso il lago Aral è appena iniziato e occuperà gran parte della giornata.

Le tempeste di polvere sollevate dai forti venti sul fondale marino prosciugato e inquinato fanno ammalare i pochi residenti

Diverse volte mi sono chiesta cosa andavo a cercare nelle acque di un lago puzzolente, inquinato e lontano nel pieno della чилля o chillya, i quaranta giorni più caldi e soffocanti dell’anno. E la risposta me l’ha data il viaggio intrapreso per raggiungerlo: la sua assenza. Il lago (o mare) d’Aral, un tempo vasto bacino brulicante di vita, è oggi una testimonianza delle devastanti conseguenze dell’intervento umano nel mondo naturale.

Reportage ◆ Un’assenza raccontata attraverso fondali prosciugati, città fantasma e kolkhoz abbandonati

nutriente

Cibo davvero per gatti

Situato tra il Kazakistan e l’Uzbekistan, era un tempo il quarto lago più grande della Terra e le sue acque sostenevano un ricco ecosistema e vivaci comunità di pescatori. Negli anni Sessanta, l’Unione Sovietica, spinta dall’ambizione di diventare un grande esportatore di cotone, deviò i fiumi che lo alimentavano, l’Amu Darya e il Syr Darya, provocando un rapido e drammatico declino delle acque del lago. Già nel 2010 l’Aral aveva perso oltre il 90% del suo volume originario e il suo fondale prosciugato si era trasformato in una polvere tossica.

Un viaggio verso un lago che sta scomparendo non fa che acuire l’attenzione per tutto quello che invece, inspiegabilmente e quasi insolentemente, continua a esistere. Sono oltre 300 i chilometri da percorrere per arrivare alle coste dell’Aral, e il percorso è nonostante tutto confortevole fino al bivio poco prima di Kungirot, dove ci fermiamo per una pausa. Il Kafé Konyrat è un po’ un’istituzione per chiunque si avventuri da queste parti, uno dei pochi esercizi rimasti in un territorio alquanto desolato. Dopo un

pasto frugale a base di ciuffi di aneto, un ingrediente che scoprirò essere onnipresente in Uzbekistan, ripartiamo. Sulla carta, la statale 4P173 tra Kungrad e Muynak appare come un rettilineo semplice, poco frequentato e privo di insidie. In realtà è costellata da buche, e per evitarle Rahmation è costretto a improvvisare continui slalom invadendo la corsia opposta o uscendo dalla carreggiata. Inizia così un incessante percorso a ostaco-

li che durerà quasi due ore. Intorno a noi il terreno diventa sempre più spoglio. Alle porte di Muynak, un grande totem con i colori della bandiera uzbeka (turchese, verde e bianco) avverte dell’ingresso in città. Quando il lago d’Aral era un luogo di pesca fiorente, era circondato dai deserti del Karakum e del Kizilkum. L’economia di Muynak, lambita dalle acque del lago, era basata interamente sulla pesca. Oggi la cittadina si trova

Dal Louvre della steppa all’orologio dell’apocalisse

a 150 km dal tratto di costa più vicino e vive di turismo. La sua attrazione principale è il lugubre «cimitero delle barche», una manciata di imbarcazioni arrugginite su una distesa di sabbia e polvere: in molti hanno inciso il proprio nome sulla ruggine arrampicandosi sulle lamiere. Non è raro imbattersi in coppie di fidanzati che si scattano un selfie emulando Di Caprio e Winslet sulla prua del Titanic. Il museo di Muynak ospita una va-

sta esposizione di dipinti, fotografie e filmati sulla vita del lago nel periodo del suo massimo splendore. Le tempeste di polvere velenosa (Aralkum, «sabbia dell’Aral») sollevate dai forti venti sul fondale marino prosciugato e inquinato hanno provocato malattie croniche e acute tra i pochi residenti che hanno scelto di rimanere, la maggior parte dei quali di etnia karakalpak, e il clima non più moderato dal bacino investe ora la città con

Fondato dall’artista e storico dell’arte sovietico Igor Savitsky, il museo Savitsky di Nukus è soprannominato il «Louvre della steppa». Il fondatore arrivò in Asia centrale partecipando a una spedizione archeologica con il compito di disegnare le fortezze e i manufatti di uso quotidiano del Khorezm trovati durante gli scavi. Tanto rimase incantato dall’arte popolare dei Karakalpak che vi tornò nel 1957 per stabilirvisi a lungo termine, dedicandosi alla ricerca archeologica ed etnografica del popolo Karakalpak. Negli anni collezionò oggetti di ogni tipo guadagnandosi il soprannome di «rigattiere» insieme a dipinti d’avanguardia che altrimenti sarebbero

andati distrutti dal regime sovietico, che promuoveva esclusivamente il realismo socialista. Oggi la collezione del Museo Savitsky comprende più di 90mila oggetti, e i quadri d’avanguardia collezionati da Savitsky con passione maniacale oggi valgono milioni di dollari alle aste più prestigiose dell’Occidente. Un antico luogo di sepoltura situato vicino alla città di Nukus, quella di Mizdakhan è una delle necropoli più grandi e importanti dell’Asia centrale, con tombe e mausolei risalenti al I secolo d.C.. La necropoli è una testimonianza del ricco patrimonio culturale della regione e della sua lunga storia di insediamento umano. Una leggenda

narra che nel cimitero sia nascosto un sinistro «orologio dell’apocalisse» che scandisce il tempo che ci separa dalla fine del mondo. Ogni anno, un mattone si stacca dalla sua parete, segnando l’inesorabile avvicinarsi dell’apocalisse. Quando l’ultimo mattone cadrà, il destino dell’umanità sarà segnato. I castelli del deserto dell’antica Khorezm, tradizionalmente noti come Elliq Qala (cinquanta fortezze uzbeke e karakalpak), sono un insieme di fortezze oggi incluse nella Lista provvisoria dell’UNESCO per lo status di Patrimonio dell’Umanità. Occupata dall’uomo fin dal Paleolitico, Khorezm divenne in seguito uno Stato indipendente e a partire dal IV secolo fu

soggetto a molteplici attacchi, tra cui quelli degli Unni, dei Turchi e, più tardi, degli Arabi. Gli Afrighidi (305-995) portarono una certa stabilità, ma continuarono a fortificare Khorezm per proteggere il territorio e i commerci via terra. Ayaz Qala è un sito archeologico con tre fortezze, la più antica delle quali risale al IV secolo a.C. Con una superficie di 17 ettari, Topraq Qala ospitava una popolazione di 2500 persone e fungeva anche da residenza reale. Chilpik Kala, sulla via che collega Nukus a Urgench, era un luogo di sepoltura zoroastriano: i morti venivano trasportati qui affinché il sole e gli uccelli potessero decomporre il cadavere.

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Tracce di automezzi e di sale in mezzo al deserto.
Simona Dalla Valle, testo e foto

Come una catena di montaggio che si inceppa

Editoria ◆ Nel romanzo Élise o la vera vita di Claire Etcherelli, la storia di una solitudine invincibile e di una condizione sociale che spinge a riflettere sui privilegi che diamo per scontati

Élise o la vera vita di Claire Etcherelli, per L’Orma editore, con la traduzione di Anna Scalpelli racconta di qualcosa che in quest’epoca tendiamo a dimenticare: il lavoro in fabbrica, più in generale la vita operaia. Si tratta di un fenomeno, infatti, che tendiamo ad associare al passato, come se con le trasformazioni radicali innescate dalla rivoluzione digitale questo tipo di esperienza fosse scomparsa e in parte è vero, ma il lavoro inteso come esperienza di fatica immane, come disumanizzazione esiste ancora ed è al contrario purtroppo alla ribalta della cronaca.

Claire Etcherelli è stata un’operaia e una scrittrice che ha ispirato autrici come Simone de Beauvoir e il premio Nobel per la letteratura Annie Ernaux. Con questo romanzo si è aggiudicata il prestigioso prix Fémina nel 1967. La storia è raccontata in prima persona da Élise, orfana insieme a suo fratello Lucien. I due crescono in un paese in una regione della Francia non definita, insieme alla nonna, in una condizione di costante mancanza di denaro. Le due donne investono tutti i loro sforzi e le speranze sul ragazzo che infatti frequenta le scuole medie, ma non sopporta il carico di responsabilità che gli viene dato, tanto che ripaga tutto l’amore che le due riversano su di lui con altrettanti sprezzo e insofferenza. La prima parte del romanzo racconta, quindi, dei conflitti che sorgono perché Lucien non guadagna e insieme al suo amico Henry si interessa di politica, soprattutto della situazione in Algeria: la storia è ambientata negli anni Cinquanta, quelli del conflitto tra la Francia e quella che allora era una sua colonia. Il titolo del romanzo rimanda alla convinzione che Henry e Lucien hanno e con cui contagiano anche Élise che esista «la vera vita», che non corrisponde di certo a quella di tutti loro in quel paesino della provincia, lontani da dove accadono davvero le cose: Parigi. Lucien parte alla volta della capitale francese abbandonando la moglie e la figlia, con l’amante Anne. La sua idea è quella di lavorare come operaio alla catena di montaggio per poter osservare dall’interno soprattutto la condizione dei lavoratori marocchini, algerini, insomma quelli che tuttora vengono genericamente definiti «gli arabi». Nel giro di pochi giorni la stanchezza del lavoro in fabbrica annienta ogni velleità di documentazione e scrittura: l’unica co-

sa che Lucien riesce a fare è spandere il proprio odio, ottenendo in cambio di essere posto in condizioni lavorative estreme, a causa delle quali si ammalerà.

Élise si trasferisce a Parigi per seguire Lucien, nonostante il fratello non perda occasione per sottrarle denaro e comportarsi con lei in modo ingiusto, tanto da convincerla, con un inganno, a iniziare a lavorare alla catena di montaggio della Citroën. Etcherelli è abilissima nel raccontare il processo produttivo all’interno del quale si ritrova Élise, tanto che chi legge vede scorrere davanti ai propri occhi le immagini delle auto, il montaggio degli specchietti retrovisori, dei gommini, il tettuccio… Dopo qualche giorno in fabbrica, Élise si rende conto che: «Prima avevo Dio. Qui devo cercarlo, quindi vuol dire che l’ho perduto». Ciò che trova è l’amore per un operaio algerino, Arezki, con il quale inizia a uscire, ovviamente di nascosto, per le strade di Parigi. Le complicazioni sono tante: il fatto che una donna bianca frequenti un arabo è inaccettabile e poi c’è la guerra in Algeria e il conflitto si ripercuote in patria, esacerbando il razzismo e i controlli da parte della polizia. Arezki è un militante del Fronte di Liberazione Nazionale: di giorno lavora alla catena di montaggio e la sera spesso deve svolgere compiti di cui Élise, nonché lettrici e lettori restano all’oscuro.

La quantità di materiale storico e politico contenuta in questo libro è evidentemente enorme, eppure leggere questo romanzo significa soprattutto leggere la storia di una ragazza che ha dedicato tutta la sua vita a permettere che suo fratello si emancipasse dalla povertà, prima di incominciare «la vera vita» innamorandosi di un uomo destinato a scomparire. È la storia, allora, di una solitudine invincibile e di una condizione sociale che spinge a riflettere sui privilegi che diamo per scontati: «Chi possiede tutto, chi considera il benessere un diritto ormai acquisito, chi non si accorge della propria fortuna perché la dà per scontata non può conoscere la sensazione simile all’ebbrezza che ti pervade quando sei al caldo dopo aver sofferto il freddo, quando hai mangiato qualcosa di buono, quando hai bevuto un caffè».

Bibliogragia Claire Etcherelli, Élise o la vera vita, L’Orma Editore, pp. 259.

Un dettaglio della copertina del libro di Claire Etcherelli.

In fin della fiera

A letto con la contessa scaduta

Frammenti di storie volano nell’aria, per strada, nei bar, nelle sale d’attesa, sui tram. Escono dalle bocche di esseri umani che, cuffie nelle orecchie, parlano con interlocutori lontani. Incrociandoli, catturo, se sono fortunato, l’inizio o la fine di una frase. Se sono fortunato quello spray di parole mi svela qualcosa che ignoravo. Come nel caso che sto per raccontarvi. Passo davanti a un vecchio solitario seduto su una panchina che al cellulare sta commiserando un parente o un amico. Dice: «È stato sfortunato, ha sposato una contessa scaduta». Lo confesso: fino a ieri ignoravo che le contesse avessero una data di scadenza. Il vecchio ha usato il termine «sfortunato» perciò ne deduco che il suo amico ha scoperto l’inganno quando era troppo tardi per tornare indietro. È andata così: allo sposalizio celebrato nella chiesa parrocchiale della contessa segue un signorile rinfresco per testimoni, parenti e amici. Final-

Pop Cult

mente i due piccioncini sono liberi di inaugurare la loro camera da letto nell’albergo cinque stelle. Lo sposo, non solo è un fervente ammiratore di Giacomo Puccini ma, ahimè, è convinto di avere superbe doti da tenore. Eccolo nel ruolo di Cavaradossi quando, in attesa di essere fucilato, ricorda la sua amante Tosca cantando la celebre aria Lucean le stelle: «O dolci baci, e languide carezze, mentr’io fremente le belle forme disciogliea dai veli». Mentre canta non tiene ferme le mani, anche se qui, al posto dei veli, c’è un busto. Tolto il quale, in alto sulla spalla destra scorge qualcosa che potrebbe essere una minuscola voglia. Non è il momento di indagare. Noi usciamo per discrezione da quella stanza e ci torniamo la mattina seguente, quando i due sposi sono ancora a letto. Lei dorme su un fianco mentre lui contempla la schiena nuda della consorte. Ha tutto l’agio così di scoprire che non di un micro difetto della bella epidermide si tratta ma di

La perdita dell’innocenza:

Per quanto quella di popstar venga raramente annoverata tra le professioni foriere di grandi rischi – difficile, in effetti, vederla figurare accanto a mestieri del calibro di pompiere o minatore – non vi è dubbio che gli ultimi decenni abbiano dimostrato come l’ambito del pop-rock da classifica (quello, per intenderci, che smuove milioni di dollari all’anno), vada soggetto a un tasso di mortalità molto alto: basti pensare al famoso 27 Club, simbolicamente istituito negli anni 70 in omaggio a tutti i grandi artisti dell’epoca scomparsi quando appena ventisettenni – da Janis Joplin a Jimi Hendrix, fino a Jim Morrison. Ebbene, il fatto che oggi i tempi siano, per certi versi, un po’ meno «spericolati» rispetto all’epoca d’oro del rock a cui le leggende sopraccitate appartengono, ci ha forse in parte disabituati alle dipartite premature; ed è

Xenia

Monte San Vicino è una propaggine dell’Appennino marchigiano: quasi millecinquecento metri ricoperti di boschi e affacciati sull’Adriatico. Forse perché da un lato appare come una gobba sinuosa e dall’altro un’acuminata piramide, era sacro a Giano: il dio bifronte della guerra, della pace, e della soglia. Su una strada di questa montagna, il 24 novembre del 1943 fu ucciso Abbabulgù Abbagamal. Nella targa a lui dedicata dal comune di San Severino, avevo letto la seguente definizione: «Etiope. Partigiano». Mai avevo visto le due parole associate. Ma anche la data, così precoce, mi colpì: nell’autunno del 1943 la Resistenza cominciava appena a organizzarsi. Lo straniero era un membro della «banda Mario» – dal nome del comandante, Mario Depangher, antifascista di Capodistria, che non aveva esitato a raccogliere attorno a sé combatten-

un minuscolo timbro con due righe di scrittura. Sulla prima riga: nome, cognome, titolo nobiliare, data e luogo di nascita della sposa; sulla seconda la frase: «Da consumarsi preferibilmente entro il 30 settembre 2024». Ma lo sposalizio è stato celebrato il 20 ottobre! Ben oltre la data di scadenza! Un tumulto si scatena nell’animo dello sposo: non erano questi i patti! Non ha dubbi: chiederà l’annullamento del matrimonio ma, gentiluomo di vecchio stampo, non rovinerà la luna di miele per una notte a quella moglie che forse è incolpevole. Solo quando i due sono seduti al tavolino della prima colazione, lui tenta una prima sortita esplorativa, con un tono leggero, come se parlasse delle previsioni del tempo: «Prima, quando ancora stavi dormendo, avevo davanti agli occhi la tua bella schiena e…»

Lei lo anticipa: «Hai scoperto che ho una data di scadenza». «Be’, sì. Perché non me lo hai detto?» «Cambiava qualcosa? Tutte le contesse ce l’han-

no, lo sanno tutti». «Non proprio tutti, io per esempio lo ignoravo. E poi sulla tua schiena c’è scritto 30 settembre e ieri era il 20 ottobre». Lei ride, civettuola: «Stanotte ti sembrava di avere a che fare con una contessa scaduta?» «No di certo. Però dovevate dirmelo».

Lo Sposo pensa al negozio Bio dove un prodotto vicino alla data di scadenza viene venduto al 50% di sconto. D’ora in poi non toccherà più l’argomento, non vuole mandare in rovina la luna di miele. Ma appena rientrato in città, telefona dall’ufficio al cugino sacerdote che abita a Roma e lavora presso il Tribunale della Sacra Rota, per farsi indicare le pratiche per ottenere la «dichiarazione di nullità del sacramento del matrimonio», così figurerà come mai celebrato. Il prete ha bisogno di maggiori dettagli: «Una delle cause di nullità più frequenti è quella del matrimonio rato ma non consumato. Non è questo il caso». «È così. Qui i consumati sono addirittu-

quando muore un «teen idol»

solo quando una nuova disgrazia invade i tabloid che ci rendiamo conto di come lo star system possa tuttora essere molto spietato. Una consapevolezza che assume toni particolarmente foschi quando a morire improvvisamente (in questo caso, in circostanze poco chiare) è un vero e proprio idolo adolescenziale quale il trentunenne britannico Liam Payne, ex membro della formazione degli One Direction, osannata dalle ragazzine di mezzo mondo. Una parabola, la sua, giunta a una fine impietosa quasi un mese fa, quando Payne è rimasto vittima di una caduta fatale dal balcone della sua stanza in un hotel di Buenos Aires.

Davanti a una simile disgrazia, la risposta del pubblico è stata immediata: nelle maggiori città del mondo – da New York a Londra e Parigi – si sono subito svolte lunghe veglie improvvisate, che hanno visto le giovanissime

fan riunirsi spontaneamente tra distese di fotografie, letterine e pupazzi per celebrare il «grande assente» in sentita fratellanza e comunione d’intenti. Del resto, solo chi è stato adolescente nell’era della comunicazione di massa sa quanto possa essere profondo l’influsso esercitato da un teen idol sulle sue ammiratrici: ragazzine sognanti e altamente emotive, innamorate del proprio eroe con quell’ingenua, leale devozione tipica di simili sogni a occhi aperti.

Eppure, molto spesso questa forma di idolatria costituisce il banco di prova dell’età adulta: qualcosa che va ben oltre l’identificazione con personaggi irraggiungibili, grazie soprattutto al forte potere evocativo della musica, in grado di rendere il legame con il cantante del cuore un’esperienza particolarmente coinvolgente. La forma canzone offre infatti una sor-

ta di «portale» verso altre esperienze e suggestioni, in un’immedesimazione pressoché totale con il vissuto espresso dalle liriche – motivo per cui i testi dei brani vengono mandati a memoria dai teen-ager italofoni, costituendo spesso il loro primo incontro con la lingua inglese e con realtà e dinamiche diverse dalle proprie.

Forse è per questo che, laddove gli adulti più smaliziati potranno sorridere davanti alla percezione ai loro occhi «alterata» che le fan più devote hanno della morte di Payne, allo stesso tempo è chiaro come non si possa sottovalutare una perdita per molti versi insanabile come la prematura dipartita di un idolo giovanile – probabilmente, per molte ragazze, il primo, reale contatto con una forma tanto prematura, nonché inspiegabile, di morte.

Non solo: lo spettro della scomparsa violenta, avvenuta in circostanze am-

ra due, il matrimonio e la contessa». «Già. Allora fra le tante cause ce n’è una sola che può fare al caso tuo: l’errore circa una qualità della persona. Ma non deve essere una qualità inessenziale, come nel caso di uno che si fa chiamare dottore e non è laureato, come capita a molti. Deve essere quella particolare qualità che ti ha indotto a sposarla». «Perfetto. A sette anni un’indovina mi predisse che se avessi sposato una contessa avrei avuto una vita fortunata. Perciò l’ho sposata». «Se è così –lo rincuora il cugino prete – ci sono buone speranze. Domattina ti faccio sapere». L’indomani, mentre il nostro Sposo attende la telefonata da Roma, dalla strada sale un crescendo di voci, sono donne che innalzano cartelli: «Siamo tutte Contesse Scadute» e cantano Contessa di Paolo Pietrangeli. Telefona il cugino: «Niente da fare. La colpa è di quell’avverbio, “da consumarsi preferibilmente”. Non tassativamente».

bigue (molti sono tuttora gli interrogativi senza risposta nel «caso Payne») sembra legare in modo quantomeno lugubre il giovane Liam a noti beniamini rock di precedenti generazioni, quali Kurt Cobain e Michael Hutchence; e se da un lato ciò spinge a riflessioni quantomeno scomode sul ruolo giocato da uno star system per molti versi affine a un «tritacarne» di role models, serve anche a ricordarci l’importanza di intavolare un vero dialogo su simili argomenti. Evitando, una volta tanto, di sorridere dello «sproporzionato» dolore provato dalle adolescenti davanti a una delle prime, grandi tragedie che l’alba dell’età adulta propone loro – ma, piuttosto, cercando di accompagnarle in una forma di comprensione non giudicante, che possa contribuire a farne, un domani, adulti empatici e attenti alle sofferenze altrui.

ti di ogni provenienza, lingua e religione. Fra essi, due donne e alcuni neri – immortalati pure in fotografia. La loro storia dimenticata è stata riscoperta da Matteo Petracci, che per anni ha indagato sulla resistenza meticcia e ha poi dedicato loro il volume Partigiani d’oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana Abbabulgù era un «galla»: oggi diremmo un oromo. Con altri 14 uomini, 4 donne e alcuni bambini, era venuto in Italia nell’aprile del 1940 per rappresentare i popoli del governatorato di Galla e Sidama alla Mostra d’Oltremare, in allestimento a Napoli. Essa doveva celebrare l’Impero, presentando agli italiani (che fin lì l’avevano immaginata grazie a foto, documentari e film) la vita nelle colonie: la Libia, la Somalia, l’Eritrea, e l’Etiopia – appena conquistata. Nei padiglioni avrebbero visto la natura, i villag-

gi, i mestieri: e gli indigeni, delle varie etnie. In totale, gli africani coinvolti erano più di una sessantina. Ma la Mostra chiuse poco dopo l’inaugurazione, perché l’Italia entrò in guerra, e gli africani rimasero bloccati a Napoli – sorvegliati dagli ascari della PAI (la polizia africana italiana) e prigionieri della loro Africa di cartapesta: benché chiedessero solo di tornare a casa, non vennero rimpatriati. Le leggi razziali impedivano loro di muoversi, e mescolarsi con la popolazione locale. Vissero tre anni col sussidio del Ministero, costretti all’inazione e percepiti ormai come un fastidio. Alcuni si svagarono partecipando come comparse al film Harlem di Carmine Gallone. Svariati morirono di tubercolosi o malattie respiratorie (troppo duri gli inverni nelle capanne, senza stufe né coperte). Altri finirono in carcere per infrazioni alla

legge: nel 1941 Abbagulgù fu denunciato per resistenza a pubblico ufficiale dopo l’aggressione a un ascaro cui aveva sottratto la bicicletta. La condanna a cinque anni di prigione non venne mai eseguita. Nell’aprile del 1943 gli africani furono trasferiti nelle Marche, in una villa adibita a luogo di confino – benché non fossero sospetti o cittadini di paesi nemici. Fu lì che li colse la caduta del fascismo, e poi l’armistizio. Abbabulgù non era un «fedele ascaro» (come si diceva allora), né un ribelle o un guerriero. Quando altri etiopi fuggirono per unirsi ai partigiani, esitò. Né partecipò quando quelli, con la banda Mario, assalirono Villa Spada per impadronirsi delle armi degli ascari. Ma i tre anni di segregazione napoletana, il razzismo e la cialtroneria dello Stato di cui forse aveva creduto di essere suddito dovevano avergli fatto matura-

re la convinzione del suo diritto di essere soggetto della propria storia. Il 2 novembre raggiunse i compagni, i militari italiani sbandati, gli antifascisti, gli ebrei, i prigionieri fuggiti dai campi (inglesi, jugoslavi e sovietici). Tutti i partigiani avevano un nome di battaglia: il suo era Carletto (il diminutivo dovuto alla piccola statura). Il 24 novembre Depangher fu avvisato del passaggio di un’automobile della Wehrmacht. Riuscì a prendere la vettura e l’autista, mentre i partigiani accorsero per catturare i tre ufficiali dell’equipaggio (potevano essere utili ostaggi). Durante l’operazione, Carletto fu falciato da una scarica di mitra. Secondo alcuni, a tradimento: sparò l’autista altoatesino quando gli altri tedeschi si erano già arresi. Carletto fu sepolto sulla montagna, come nella canzone. Per lui vale due volte il verso di Bella Ciao: morto per la libertà.

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Lupi mannari e l’antica arte di mentire con grazia

Il fascino oscuro dei giochi con identità nascoste?

Il vero divertimento, tra accuse, bugie e sospetti, sta nello scoprire chi è il mostro nascosto tra noi

La riva perduta del Mare d’Aral

Reportage ◆ Un’assenza raccontata attraverso fondali prosciugati, città fantasma e kolkhoz abbandonati

«Rahmat», acca aspirata e una mano sul petto all’altezza del cuore. Una parola e un gesto che qui valgono più di ogni altra forma di comunicazione. Mi trovo nella repubblica del Karakalpakstan, soprannominata «Stan tra gli Stan» e anticamente parte del Khorezm, regione storica il cui popolo era solito costruire grandi fortezze di fango per proteggersi dai predoni nomadi.

«Rahmat» e mano sul cuore, è così che ringrazio l’autista dopo che mi ha allungato un pezzo di fatir (pane azzimo) alla cipolla. Senza farlo apposta, si chiama Rahmation,  nome che rimanda a un sentimento di misericordia, compassione, gentilezza. Mangio in silenzio il pane delizioso della valle di Fergana, più croccante e saporito del non, presente in tutte le bancarelle uzbeke. Il viaggio verso il lago Aral è appena iniziato e occuperà gran parte della giornata.

Le tempeste di polvere sollevate dai forti venti sul fondale marino prosciugato e inquinato fanno ammalare i pochi residenti

Diverse volte mi sono chiesta cosa andavo a cercare nelle acque di un lago puzzolente, inquinato e lontano nel pieno della чилля o chillya, i quaranta giorni più caldi e soffocanti dell’anno. E la risposta me l’ha data il viaggio intrapreso per raggiungerlo: la sua assenza. Il lago (o mare) d’Aral, un tempo vasto bacino brulicante di vita, è oggi una testimonianza delle devastanti conseguenze dell’intervento umano nel mondo naturale.

Situato tra il Kazakistan e l’Uzbekistan, era un tempo il quarto lago più grande della Terra e le sue acque sostenevano un ricco ecosistema e vivaci comunità di pescatori. Negli anni Sessanta, l’Unione Sovietica, spinta dall’ambizione di diventare un grande esportatore di cotone, deviò i fiumi che lo alimentavano, l’Amu Darya e il Syr Darya, provocando un rapido e drammatico declino delle acque del lago. Già nel 2010 l’Aral aveva perso oltre il 90% del suo volume originario e il suo fondale prosciugato si era trasformato in una polvere tossica. Un viaggio verso un lago che sta scomparendo non fa che acuire l’attenzione per tutto quello che invece, inspiegabilmente e quasi insolentemente, continua a esistere. Sono oltre 300 i chilometri da percorrere per arrivare alle coste dell’Aral, e il percorso è nonostante tutto confortevole fino al bivio poco prima di Kungirot, dove ci fermiamo per una pausa. Il Kafé Konyrat è un po’ un’istituzione per chiunque si avventuri da queste parti, uno dei pochi esercizi rimasti in un territorio alquanto desolato. Dopo un

pasto frugale a base di ciuffi di aneto, un ingrediente che scoprirò essere onnipresente in Uzbekistan, ripartiamo. Sulla carta, la statale 4P173 tra Kungrad e Muynak appare come un rettilineo semplice, poco frequentato e privo di insidie. In realtà è costellata da buche, e per evitarle Rahmation è costretto a improvvisare continui slalom invadendo la corsia opposta o uscendo dalla carreggiata. Inizia così un incessante percorso a ostaco-

li che durerà quasi due ore. Intorno a noi il terreno diventa sempre più spoglio. Alle porte di Muynak, un grande totem con i colori della bandiera uzbeka (turchese, verde e bianco) avverte dell’ingresso in città. Quando il lago d’Aral era un luogo di pesca fiorente, era circondato dai deserti del Karakum e del Kizilkum. L’economia di Muynak, lambita dalle acque del lago, era basata interamente sulla pesca. Oggi la cittadina si trova

Dal Louvre della steppa all’orologio dell’apocalisse

Fondato dall’artista e storico dell’arte sovietico Igor Savitsky, il museo Savitsky di Nukus è soprannominato il «Louvre della steppa». Il fondatore arrivò in Asia centrale partecipando a una spedizione archeologica con il compito di disegnare le fortezze e i manufatti di uso quotidiano del Khorezm trovati durante gli scavi. Tanto rimase incantato dall’arte popolare dei Karakalpak che vi tornò nel 1957 per stabilirvisi a lungo termine, dedicandosi alla ricerca archeologica ed etnografica del popolo Karakalpak. Negli anni collezionò oggetti di ogni tipo guadagnandosi il soprannome di «rigattiere» insieme a dipinti d’avanguardia che altrimenti sarebbero

andati distrutti dal regime sovietico, che promuoveva esclusivamente il realismo socialista. Oggi la collezione del Museo Savitsky comprende più di 90mila oggetti, e i quadri d’avanguardia collezionati da Savitsky con passione maniacale oggi valgono milioni di dollari alle aste più prestigiose dell’Occidente. Un antico luogo di sepoltura situato vicino alla città di Nukus, quella di Mizdakhan è una delle necropoli più grandi e importanti dell’Asia centrale, con tombe e mausolei risalenti al I secolo d.C.. La necropoli è una testimonianza del ricco patrimonio culturale della regione e della sua lunga storia di insediamento umano. Una leggenda

a 150 km dal tratto di costa più vicino e vive di turismo. La sua attrazione principale è il lugubre «cimitero delle barche», una manciata di imbarcazioni arrugginite su una distesa di sabbia e polvere: in molti hanno inciso il proprio nome sulla ruggine arrampicandosi sulle lamiere. Non è raro imbattersi in coppie di fidanzati che si scattano un selfie emulando Di Caprio e Winslet sulla prua del Titanic. Il museo di Muynak ospita una va-

sta esposizione di dipinti, fotografie e filmati sulla vita del lago nel periodo del suo massimo splendore. Le tempeste di polvere velenosa (Aralkum, «sabbia dell’Aral») sollevate dai forti venti sul fondale marino prosciugato e inquinato hanno provocato malattie croniche e acute tra i pochi residenti che hanno scelto di rimanere, la maggior parte dei quali di etnia karakalpak, e il clima non più moderato dal bacino investe ora la città con

narra che nel cimitero sia nascosto un sinistro «orologio dell’apocalisse» che scandisce il tempo che ci separa dalla fine del mondo. Ogni anno, un mattone si stacca dalla sua parete, segnando l’inesorabile avvicinarsi dell’apocalisse. Quando l’ultimo mattone cadrà, il destino dell’umanità sarà segnato. I castelli del deserto dell’antica Khorezm, tradizionalmente noti come Elliq Qala (cinquanta fortezze uzbeke e karakalpak), sono un insieme di fortezze oggi incluse nella Lista provvisoria dell’UNESCO per lo status di Patrimonio dell’Umanità. Occupata dall’uomo fin dal Paleolitico, Khorezm divenne in seguito uno Stato indipendente e a partire dal IV secolo fu

soggetto a molteplici attacchi, tra cui quelli degli Unni, dei Turchi e, più tardi, degli Arabi. Gli Afrighidi (305-995) portarono una certa stabilità, ma continuarono a fortificare Khorezm per proteggere il territorio e i commerci via terra. Ayaz Qala è un sito archeologico con tre fortezze, la più antica delle quali risale al IV secolo a.C. Con una superficie di 17 ettari, Topraq Qala ospitava una popolazione di 2500 persone e fungeva anche da residenza reale. Chilpik Kala, sulla via che collega Nukus a Urgench, era un luogo di sepoltura zoroastriano: i morti venivano trasportati qui affinché il sole e gli uccelli potessero decomporre il cadavere.

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Tracce di automezzi e di sale in mezzo al deserto.
Simona Dalla Valle, testo e foto

estati più calde e inverni più freddi del consueto.

A Muynak passiamo a una jeep 4x4. Scoprirò presto il perché. Con Muynak alle nostre spalle l’asfalto cede spazio alla sabbia e la strada diventa deserto, le uniche tracce di vita sono i segni delle gomme dei mezzi che ci hanno preceduti. Dopo un’ora si inizia a intravedere la silhouette dell’altopiano di Ustyurt, ma non ci arriviamo avvicinandoci trasversalmente a esso, bensì viaggiando in una direzione che sembra parallela alla sua lunghezza per un tempo interminabile. Intorno, solo sabbia, pietre e una vegetazione bassa e incolore. La salita verso l’altopiano è così ripida che sembra quasi verticale. In alto, una sbarra regola gli accessi all’altopiano; il guardiano scambia due parole con Abdulla, il mio nuovo autista, prima di richiuderla dopo il nostro passaggio, e la sua sagoma nello specchietto retrovisore si fa sempre più piccola finché non scompare dalla vista.

L’altopiano di Ustyurt un tempo era crocevia di civiltà: qui passavano le carovane dirette a Khorezm e per secoli questa strada fu utilizzata da chi voleva raggiungere rapidamente l’Asia centrale da nord. Il lungo tratto sull’altopiano era considerato la parte più difficile e pericolosa del percorso. Da qui si gode di una vista ininterrotta sui canyon e i deserti circostanti e, più in fondo, sul bacino del Mare d’Aral. Sparsi lungo il percorso tra cespugli e pozze d’acqua dai bordi bianchi di sale, testimoni di un acquazzone recente, giacciono i resti di antichi petroglifi e tumuli.

Ogni curva sembra la copia esatta della precedente e, non fosse per il sole, la sensazione sarebbe quella di aver girato in tondo. La discesa dall’altopiano è altrettanto ripida, e presto compaiono alla vista altri veicoli. Ci sono volute sette ore, ma siamo alla costa. Abdulla ferma la jeep e mi fa cenno di seguirlo. A pochi metri dall’acqua, una fanghiglia scura mi si attacca ai piedi. Davanti a me alcune persone si immergono, le loro calzature sono abbandonate sul bagnasciuga e una schiuma biancastra viene sospinta dalle onde.

Dopo aver perso il 90% della sua

superficie, l’ecosistema del Mare d’Aral è collassato completamente. Tutta l’acqua che entra nel lago a un certo punto evapora, lasciando dietro di sé sali e minerali. L’altissima concentrazione di sale lo rende simile al Mar Morto, per cui si galleggia molto fa-

Kolkhoz : echi di un’epoca passata

Accanto alla desolazione del bacino del Mare d’Aral, i resti dei kolkhoz , le fattorie collettive che un tempo dominavano il paesaggio agricolo della regione, si ergono come echi di un’epoca passata. Questi complessi tentacolari, i cui campi producevano grandi quantità di cotone per soddisfare l’insaziabile domanda dell’Unione Sovietica, sono ora in decadenza. Quello del kolkhoz è un concetto profondamente intrecciato con la storia dell’Uzbekistan. Il kolkhoz era una cooperativa agricola in cui la terra apparteneva allo Stato e i contadini erano responsabili della sua coltivazione. Un kolkhoz poteva avere dimensioni contenute oppure espandersi fino a comprendere più villaggi e coprire oltre cento ettari di terreno. I contadini che coltivavano il cotone venivano pagati dalle fabbriche tessili, potendo trattenere tutti i loro guadagni. Prima della Rivoluzione d’Ottobre del 1917, l’Uzbekistan aveva un’economia di mercato. Ciò significa che i contadini potevano coltivare quello che volevano e venderlo liberamente. Con l’avvento del sistema

cilmente, ed è anche il motivo per cui nessun pesce può sopravvivere nel lago. Oggi, quanto rimane di ciò che fu l’Aral ha una superficie pari a circa un decimo delle dimensioni originali. Eppure, anche in assenza, il Mare d’Aral rimane una presenza potente.

sovietico, tutto ciò che veniva prodotto divenne proprietà dello Stato e i contadini persero la proprietà della terra, oltre che la libertà di scegliere cosa coltivare. Molti artigiani furono costretti a chiudere le loro botteghe e lavorare nelle fabbriche statali e questo fenomeno portò alla scomparsa di diversi mestieri tradizionali. La collettivizzazione forzata e la requisizione dei raccolti portarono a una grave carestia tra il 1930 e il 1934, cau-

sando milioni di morti in Asia centrale e Ucraina. Questo trauma ha lasciato un segno profondo nella memoria collettiva degli uzbeki, che ancora oggi temono di possedere beni per paura che possano essere confiscati. Fino al 2016, parlare di cotone o portare turisti nei campi era tabù, un’eredità del sistema sovietico che il governo uzbeko cercava di nascondere. La politica sovietica mirava a rendere l’Uzbekistan il principale pro-

I fondali essiccati, le città fantasma, i kolkhoz (collettivi agricoli) abbandonati, parlano del profondo impatto dell’intervento umano sul mondo naturale. La storia del lago d’Aral è un ammonimento a camminare con cautela su questo pianeta, perché le

duttore di cotone dell’Urss e, sebbene la legge non consentisse il lavoro forzato, la realtà era molto diversa e gli uzbeki, compresi i bambini, erano obbligati a raccogliere il cotone, soprattutto tra settembre e novembre, periodo nel quale anche le scuole chiudevano.

Il governo uzbeko temeva che le fotografie scattate dai turisti potessero rivelare questo sistema di lavoro forzato al mondo intero. L’attuale presidente Shavkat Mirziyoyev, eletto nel 2016, spinse l’Uzbekistan verso un’agricoltura più democratica ritirando il sostegno statale al lavoro forzato, aumentando i salari per i raccoglitori di cotone, ponendo fine al monopolio statale sull’industria dello stesso e organizzando la sua produzione attorno a società private. Tale iniziativa contribuì a rendere il cotone uzbeko di nuovo competitivo dopo anni di boicottaggio da parte di aziende internazionali.

La coltivazione del cotone richiede molta acqua che in Uzbekistan scarseggia, nonostante specchi d’acqua e fiumi siano visibili un po’ ovunque,

nostre azioni possono avere conseguenze che si ripercuotono sulle generazioni a venire.

Informazioni

Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

sorvolando le campagne con l’aereo o spostandosi in auto. Il fiume Zarafshan, soprannominato «fiume d’oro», è prosciugato per gran parte dell’anno e l’Amu Darya, un tempo alimentata dai ghiacciai del Pamir, sta diminuendo di portata. Si teme che il canale artificiale Qosh-Tepa, progettato dall’Afghanistan, ne ridurrà ulteriormente il flusso.

Oggi l’Uzbekistan utilizza il 50% della sua superficie per coltivare cotone, anche se non ai livelli del periodo sovietico. A partire dalle riforme di Mirziyoyev, l’Uzbekistan sta cercando di trasformare il suo sistema agricolo, allontanandosi dal modello sovietico e promuovendo pratiche più sostenibili. La raccolta del cotone forzata è stata abolita e i contadini hanno ora più libertà di scegliere cosa coltivare.

Il kolkhoz , un tempo simbolo del sistema sovietico, sta scomparendo, lasciando il posto a un’agricoltura più diversificata e rispettosa dell’ambiente. Il Paese sta compiendo passi importanti verso un futuro più sostenibile.

Il Museo Savitsky di Nukus, Muynak; sotto da sinistra a destra: il «cimitero delle barche», un gruppo di ragazze orientali si bagnano nelle acque del lago Aral.
Karakalpakstan: raccoglitori di cotone in un campo.

«Così, solo nell’appartamento nel quale era morta da poco, io andavo guardando alla luce della lampada, una per una, quelle foto di mia madre, risalendo a poco a poco il tempo con lei, cercando la verità del volto che avevo amato. E finalmente la scoprii. […] Attraverso ognuna di quelle immagini, infallibilmente, io andavo oltre l’irrealtà della cosa raffigurata, entravo follemente nello spettacolo, nell’immagine, cingendo con le mie braccia ciò che è morto». Così, scrisse tra le pagine de La camera chiara, il critico e semiologo Roland Barthes. Affermazione che, mai come nell’opera più nota di Moira Ricci, risuona profondamente. Opera composta da una selezione di cinquanta fotografie realizzate tra il 2004 e il 2014, ed esposta fino al 1. dicembre al Mufoco (Museo di fotografia contemporanea) di Milano in una mostra intitolata 20.12.53

– 10.08.04 a cura della storica e critica della fotografia Roberta Valtorta, con la quale, in una recente serata pubblica alla Casa delle donne di Milano, la fotografa ha conversato, con la moderazione di Gigliola Foschi, critica d’arte della fotografia. Ogni immagine diventa un atto di resistenza contro l’oblio, un modo per tenere viva una parte di ciò che non è più

Moira Ricci, nata in Maremma a Orbetello nel 1977, oggi si inserisce nel panorama della fotografia contemporanea come una voce di intensa introspezione e ricerca identitaria. «Due sono i temi principali su cui lavora Moira Ricci – ha spiegato Roberta Valtorta – e sono il rapporto con la sua terra e quello con gli affetti familiari, in particolare con sua madre e suo padre». È ancora in piena ribellione adolescenziale, quando la Ricci rifiuta

l’invito-ricatto di mamma Loriana di iscriversi all’accademia di danza, scuola che le avrebbe pagato, al contrario dell’Accademia delle belle arti a Milano. Negli anni di studio tornerà al suo paese solo di tanto in tanto, un fine settimana al mese, o ogni due mesi: «Ogni volta che tornavo giù da Milano – racconta Moira Ricci – mi ritrovavo sempre qualcosa di nuovo che mia mamma comprava, perché non vedeva l’ora di ristrutturare casa, di farla più grande; era co-

me se mia mamma mi stesse staccando dal mio passato, e quindi ho ricostruito la mia casa che non avrei mai più rivista, e l’ho fatto usando scatole delle scarpe, con urgenza, prendendo della carta da parati, e ritagliando in modo grossolano le immagini: per me era importante farlo in fretta per ricostruire la mia casa prima che venisse cancellata per sempre». Ma l’artista non si è limitata a ricostruire un modellino abbozzato in tre D di quattro stanze

(bagno, cucina, cameretta e salotto). Ha voluto anche farle ri-abitare da tutte le Moire che ha ritrovato nel suo album, Moire fotografate dalla mamma proprio in quei locali, da piccina fino all’adolescenza: «Le ho scansionate, ristampate e poi attaccate su dei cartoncini inserendomi nelle stanze».

Il progetto – che risale al 2001 e si è fatto video, inglobando voci di bambini in loop, oltre che installazione – viene molto apprezzato, ma

non quanto il lavoro che consacrerà Moira Ricci come artista, rendendola nota. Opera scaturita dalla morte della madre, avvenuta la notte di San Lorenzo, il 10 agosto del 2004, che pure determina la seconda parte del titolo della mostra, a ridosso della data di nascita. Morte che ebbe luogo, guarda caso, a seguito di un incidente domestico proprio durante la ristrutturazione della casa. Dedicata alla memoria e alla perdita della madre, l’opera, dunque, torna a

La pratica del selfie, tra relazione e stigma sociale, in mostra negli spazi di Villa Ciani

Se da una parte l’opera di Moira Ricci indaga il legame tra immagine e memoria esplorando temi di perdita e identità, dall’altro sottolinea anche come la fotografia possa costruire – nel suo caso artificialmente e grazie alla pratica del selfie ante litteram elevato ad arte – un ponte emotivo e relazionale tra passato e presente, ma anche tra i soggetti ritratti, temi che risuonano profondamente nel contesto della mostra Doppio Sguardo. Riflessioni visive che ha luogo fino al 23 novembre a Villa Ciani a Lugano e dal 5 al 21 dicembre a Palazzo Franscini a Bellinzona.

prosegue il ricercatore, svelando come questi scatti, a volte criticati, possano diventare simboli emotivi di ricordi condivisi. Una coppia, ad esempio, considerava la prima foto insieme, scattata durante un viaggio, come una «risorsa per il mantenimento della relazione», capace di risvegliare emozioni passate.

stigma associato all’immagine, dall’altro lato – spiega Lucchesi, che per primo ha scritto i testi – la stessa immagine è accompagnata da una descrizione che racconta la ragione per cui quella foto è importante per la relazione».

Le immagini cosiddette mordi e fuggi si trasformano così in una macchina del tempo, ma non solo: tra le pratiche emerse durante la ricerca, vi erano alcune routine quotidiane basate su selfie ironici e spontanei, usati per trasmettere leggerezza e rafforzare i legami. Questi gesti, apparentemente semplici e spesso percepiti come banali o egocentrici, svolgono dunque in verità un ruolo chiave nel mantenimento delle relazioni affettive. Ed è fondamentale rendersene conto prima che lo stigma sociale ci porti a modificare queste importanti consuetudini.

A tal proposito e per questioni di privacy, va detto che l’uso dell’intelligenza artificiale generativa ha consentito di anonimizzare i volti dei partecipanti, pur mantenendo l’integrità delle fotografie originali (vedi foto).

A spiegare la funzione chiave dell’autoscatto in quest’ultimo contesto, è Federico Lucchesi, ricercatore all’USI e coordinatore del progetto durato quattro anni: «Abbiamo inter-

Frutto del progetto VIRE (Visualized Relationships) – concepito dall’Università della Svizzera italiana (USI), sostenuto dal Fondo nazionale svizzero (FNS) attraverso il programma Agora, e diretto dalla professoressa Katharina Lobinger, esperta di comunicazione visiva – l’esposizione invita il pubblico (e soprattutto le scuole!) a riflettere su come le rappresentazioni visive possano influenzare la vita quotidiana e le nostre interazioni sociali, soffrendo tuttavia di una contraddizione intrinseca proprio alla pratica del selfie (ma non solo). I selfie, infatti, da un lato sono spesso associati a una certa superficialità e soffrono lo stigma sociale, dall’altro, rivestono un ruolo cruciale nel mantenimento delle relazioni interpersonali.

vistato 90 persone in tutta la Svizzera, con età dai 18 ai 91/92 anni, notando subito come molti degli intervistati disapprovassero il selfie o descrivessero chi lo praticava come stupido, superficiale, egocentrico». Eppure, alla prova dei fatti, «abbiamo scoperto che molte delle immagini più significative per i partecipanti alla ricerca erano proprio dei selfie»,

Da qui, il senso ultimo della mostra che, intitolandosi Doppio sguardo, è strutturata in modo da esporre diciassette pannelli con la stessa immagine proiettata, su tela, fronte-retro: «Da un lato è riportato un testo con una frase chiave, una parola che richiama lo

D’altro canto, il punto non è chi, ma perché: «Vogliamo far riflettere il pubblico su come il giudizio negativo possa oscurare il valore affettivo di un’immagine», conclude Lucchesi.

Dove e quando Doppio sguardo Lugano, Villa Ciani. Fino al 23 novembre 2024. Orari: gio-ve: 8.30-16.30, sa: 9.0013.00; per le scuole: visite guidate il giovedì e venerdì) Bellinzona, Palazzo Franscini, dal 5 al 21 dicembre 2024. Orari: lu: 8.00-21.00, ma-ve: 8.00-19.00, sa: 9.00-13.00; per le scuole: visite guidate il giovedì e venerdì) Info: www.doppiosguardo.ch

Moira
Ricci

Ricetta della settimana - Torta di mele allo zenzero

Ingredienti

Ingredienti per circa 10 pezzi

(per 1 stampo di 25 x 18 cm)

30 g di zenzero

2 capsule di cardamomo

o 1 cucchiaino di cardamomo

macinato

130 g di burro, molle

150 g di zucchero di canna

3 uova

150 g di farina bianca

1 cc di lievito in polvere

4 mele acidule

zucchero a velo da cospargere

Preparazione

1. Scaldate il forno statico a 180 °C. Foderate la teglia con carta da forno.

2. Grattugiate fine lo zenzero fresco (vedi consiglio) senza sbucciarlo. Liberate i semini dalla capsula di cardamomo e pestateli in un mortaio.

3. Unite lo zenzero e il cardamomo al burro e allo zucchero e mescolate a spuma per circa 3 minuti.

4. Incorporate le uova, una dopo l’altra, poi la farina e il lievito.

5. Lavorate il tutto fino a ottenere un impasto omogeneo e liscio. Versatelo nello stampo e livellatelo.

6. Dividete le mele in quattro, privatele del torsolo e tagliatele a fettine sottili. Disponete in modo decorativo le fette di mela sulla torta.

7. Cuocete la torta al centro del forno per 30-35 minuti. Eseguite la prova cottura. Sfornate e lasciate intiepidire la torta.

8. Cospargetela di zucchero a velo e servitela ancora calda.

Consigli utili

Zenzero fresco: i rizomi freschi e giovani hanno una buccia sottile che può essere consumata. I germogli non sono particolarmente legnosi e sono molto ricchi di un succo piacevolmente piccante e fresco. Se invece dello zenzero fresco utilizzate rizomi di zenzero conservati a lungo (buccia grigio-marrone), dovete prima sbucciarli e ridurre la quantità a circa 20 grammi.

Prova cottura: infilzate un ferro per la calza o uno spiedino di legno al centro della torta. Se questo esce pulito, la torta è cotta.

Preparazione: circa 35 minuti; cottura in forno: 30-35 minuti

Per persona: 4 g di proteine, 13 g di grassi, 34 g di carboidrati, 270 kcal

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Misteri e intrighi in un villaggio medievale

Colpo critico ◆ Il fascino oscuro dei giochi con identità nascoste potrebbe risalire all’Unione Sovietica degli anni Trenta: l’atmosfera paranoica ne richiama lo spirito dell’epoca

Scende la notte sul villaggio, esce la luna, come un brivido un filo di vento s’insinua fra le case e le vie deserte. Tutti dormono. Tutti? Non proprio. Protetti dal buio, avvolti nel silenzio, si destano alcuni lupi mannari. Si cercano, si trovano. Insieme designano chi sarà la loro prossima vittima. Tutti si svegliano. Gli abitanti del borgo aprono gli occhi… qualcuno però manca all’appello! E i lupi? Sono ancora nel villaggio, ma di giorno non si distinguono dagli esseri umani. I paesani cominciano a guardarsi con sospetto. Accuse, controaccuse. Dov’eri la notte scorsa? Dormivo. Bugiardo, ti ho visto socchiudere la porta! Alla fine i paesani linciano un licantropo. Ma sarà vero? E se fosse innocente?

Il succo di questi giochi sta nel mentirsi a vicenda per poi colpire a tradimento e il fatto di ingannare nella finzione aiuta a misurare quanto le bugie portino al caos nella realtà

Questo è un gioco antico, che viene praticato ovunque nel mondo a ogni età e in ogni ambito, dalle università ai campi profughi. I ruoli vengono assegnati casualmente o designati

da un conduttore: discutendo fra loro, i partecipanti devono smascherare i «cattivi». Secondo alcuni ricercatori la meccanica nacque in Unione Sovietica negli anni Trenta: l’atmosfera paranoica del gioco riflette forse lo spirito dell’epoca. La prima versione d’autore venne creata a Mosca nel 1986 dall’allora studente universitario Dimitri Davidoff. L’autore chiamò il gioco Mafia e lo sperimentò con un gruppo di liceali a cui dava lezioni di psicologia.

Non si trattava di lupi mannari ma di banditi. I licantropi arrivarono solo nel 1997 con la versione di Andrew Plotkin. In seguito nacquero mille varianti, con ruoli dotati di poteri speciali: la veggente, i massoni, il cacciatore e mille altri. Mi limito a citare un paio di edizioni. La prima italiana è Lupus in tabula di Domenico Di Giorgio (DV Games 2001); quella forse più diffusa in Europa è Les loups garous de Thercelieux di Philippe des Pallières e Hervé Marly (Lui-même 2001). Nell’ottobre del 2024 è apparso su Netflix un film tratto proprio da questa versione: Loups-Garous, di François Uzan con Franck Dubosc e Jean Reno; non mi è sembrato memorabile, sebbene riproduca fedelmente alcuni stilemi del gioco.

A chi non conoscesse le pietre miliari consiglio di cominciare dalle ri-

Giochi e passatempi

Cruciverba

Una caratteristica dell’orso bianco è quella di nuotare fino a circa… Termina la frase risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate.

(Frase: 5, 10, 5, 5)

ORIZZONTALI

1. L e separa la «d»

3. Vento caldo e umido

7. Lo è l’anser

9. «Suo» in inglese

10. I sola del Tirreno vicina alla costa nord-orientale della Sardegna

12. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco

13. Il compenso dovuto a Caronte

15. Stato federato degli U.S.A.

17. Suffisso con valore collettivo

20. Arriva in testa…

21. Guida la preghiera nella moschea

23. Preposizione francese

25. Le iniziali della Zanicchi

27. Un anagramma di tiara

29. Calcio nei paesi anglosassoni

32. È uguale in Francia

33. Prosciolto dalle accuse

34. Si fa allo stadio

VERTICALI

1. Lo formano i cantori

2. Regina di Troia

4. Espressione di meraviglia

5. Un ufficiale abbreviato

visitazioni più recenti, che correggono qualche difetto come l’eliminazione prematura dei giocatori. La più nota è One night ultimate werewolf di Ted Alspach e Akihisa Okui (Bézier Games 2014). Oppure, con tema differente, The resistance di Don Eskridge (Indie Boards & Cards 2009; bella anche la versione The resistance: Avalon del 2012) o Feed the kraken di Maikel Cheney, Hans Joachim Höh e Tobias Immich (Funtails 2022). Fra i giochi con identità nascoste cito al volo anche Insider (2016), Secret Hitler (2016), Crossfire (2017) e Kill Kim (2023). Il succo di questi giochi sta nel

mentirsi a vicenda per poi colpire a tradimento. Qualcuno potrebbe chiedersi: qual è il valore educativo? Per conto mio, credo che il primo valore dei giochi sia di aprire uno spazio di libertà e di immaginazione. Si potrebbe aggiungere che il fatto di ingannare nella finzione aiuta a misurare quanto le bugie portino al caos nella realtà. Ma c’è un altro aspetto interessante: chiunque può diventare licantropo. In One night ultimate werewolf si può perfino tramutarsi in un lupo senza saperlo. Ecco dunque che il gioco aiuta a non erigere barriere di purezza fra «buoni» e «cattivi», perché

6. O ggetti fatti con la piegatura della carta

8. È d’ornamento nelle piazze

11. L’artefice del Sacco di Roma

14. Bocca in latino

16. Mezzo kiwi

17. Immagine poetica

18. Effonde, espande nell’aria

19. Tirata, nervosa

22. Le custodivano le Vestali

24. Noi in latino

26. Zelo senza fine

28. Il dei tali…

30. Le iniziali della Schiffer

31. Il noto Ricky regista (Iniz)

a tutti noi una volta o l’altra sono cresciuti canini aguzzi e folto pelo nero. Chi è al riparo dal male?

Chiudo con una novità, sempre ambientata in un villaggio medievale ma con una meccanica radicalmente diversa. In Château Combo di Grégory Grad e Matthieu Roussel (Catch Up Games 2024) i partecipanti (da 2 a 4, a partire dai 10 anni) devono scegliere nove carte e disporle in un quadrato, in maniera da creare combinazioni che portino punti in varie modalità. Pur senza essere originale, il gioco è elegante, semplice e scorrevole. Ci sono ben settantotto personaggi unici, ognuno con il proprio effetto, divisi fra le aree «Castello» e «Villaggio» e distinti con vari blasoni in artigiani, nobili, eruditi, ecclesiastici, eccetera. Ognuno di loro è raffigurato con un’immagine e una qualifica: Duchessa, Giudice, Re, Becchino, Pescatore, Viaggiatrice, Curato e molti altri. La grafica è ironica, con alcune strizzate d’occhio assai istruttive. Per esempio l’unico personaggio con il blasone dei nobili nel «Villaggio» è il cosiddetto Bastardo, il quale è di aspetto preciso identico al Principe, che invece abita nel «Castello». L’insegnamento è sempre quello: fra ricchi e poveri, nobili e plebei, principi e bastardi, «giusti» e «sbagliati» la paratia è sottile, sottilissima, a volte inesistente…

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla

cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome,

intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile

Generato con intelligenza artificiale
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

Hit della settimana

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Offriamo oltre 60 varietà di frutta e verdura permanentemente a prezzo discount senza rinunciare alla consueta qualità Migros. Solo così possiamo offrire alla nostra clientela il miglior rapporto qualità-prezzo. E non è tutto: stiamo già lavorando ai prossimi ribassi.

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Voilà... Benvenuto autunno!

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Di cosa hai

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Filetti di trota salmonata con pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Danimarca, in conf. speciale, 380 g, (100 g = 2.36)

Sono disponibili al banco anche ostriche e vongole

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Filetto dorsale di merluzzo M-Classic, MSC pesca, Atlantico nordorientale, in conf. speciale, 360 g, (100 g = 3.88)

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Gamberetti crudi Migros Bio, sgusciati d'allevamento, Indonesia, in conf. speciale, per 100 g

Consiglio: buonissimi con spinaci e patate

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Bastoncini di merluzzo Pelican, MSC prodotto surgelato, 2 x 720 g, (100 g = 0.76)

Pane e prodotti da forno

Sfornati dalla nostra panetteria

4.40

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Il nostro pane della settimana: la maestria artigianale incontra la tradizione ticinese. La cottura intensa conferisce al pane una crosta croccante, mentre il lievito madre garantisce una lunga conservazione e un sapore equilibrato.

conf. da 4 25%

Tutti i panettoni e i pandori, San Antonio per es. panettone, sacchetto da 500 g, 5.– invece di 6.30, (100 g = 1.00) 20%

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Pane della Valle Maggia 600 g, prodotto confezionato, nelle filiali con panetteria della casa, (100 g = 0.87)

Mini tortine disponibili in diverse varietà, per es. tortine di Linz, 4 x 75 g, 4.50 invece di 6.–, (100 g = 1.50)

Formaggi e latticini

Ricchi di proteine, da cucinare e assaporare

Tutti i tipi di crème fraîche (prodotti beleaf esclusi), per es. Valflora al naturale, 200 g, 2.25 invece di 2.85, (100 g = 1.13) 20%

a partire da 2 pezzi 20%

Tutti i Petit Suisse per es. albicocca/mela/ lampone, 6 x 50 g, 2.10 invece di 2.60, (100 g = 0.69)

I'm your meal al cioccolato e alla vaniglia Emmi per es. al cioccolato, 500 ml, 3.95 invece di 4.95, (100 ml = 0.79) 20%

5.20 invece di 6.50 Tartare erbe e aglio o panna e fleur de sel, 2x150g, (100 g = 1.73) conf. da 2 20%

Mezza panna per salse, mezza panna acidula e latte acidulo M-Dessert, Valflora per es. mezza panna per salse, 200 ml, 1.80 invece di 2.15, (100 ml = 0.90) 15%

–.10 di riduzione

1.–invece di 1.10

Tutti gli iogurt Nostrani per es. alla castagna, 180 g, (100 g = 0.56)

7.–

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Emmentaler e Le Gruyère grattugiati, AOP 3 x 130 g, (100 g = 1.79)

1.60 invece di 1.90

Vacherin Fribourgeois dolce AOP circa 250 g, per 100 g, prodotto confezionato 15%

Caseificio Leventina per 100 g, prodotto confezionato 15%

2.25 invece di 2.70

Bontà a base vegetale

Acquolina assicurata!

invece di 8.10

Petit Beurre M-Classic con cioccolato al latte o cioccolato fondente, 3 x 150 g, (100 g = 1.26)

Biscuit Ovomaltine 3 x 250 g, (100 g = 1.33)

invece di 12.60

invece di 45.50 Tavolette di cioccolato Frey assortite, 20 x 100 g, (100 g = 1.35)

Sacchetto Kägi Fret Classic, alla nocciola o all'arancia, 250 g, (100 g = 2.30)

Tutti i prodotti natalizi Merci e Toffifee per es. confezione dell'Avvento Toffifee, 375 g, 5.35 invece di 5.95

Ferrero Rocher e Raffaello per es. Rocher, 75 g, 3.95, (10 g = 0.53)

Tutti i biscotti di Natale Grand-Mère per es. milanesini, 200 g, 3.30 invece di 3.80, (100 g = 1.65) –.50 di riduzione

È il momento di fare scorte

a partire da 2 pezzi 20%

Tutto l'assortimento di purea di patate Mifloc M-Classic per es. 4 x 95 g, 4.– invece di 5.–, (100 g = 1.05)

partire da 2 pezzi 25%

Tutti i tipi di olio M-Classic per es. olio di girasole, 1 litro, 3.75 invece di 4.95, (100 ml = 0.37)

Tutte le salse Salsa all'Italiana per es. al basilico, 250 ml, –.90 invece di 1.35, (100 ml = 0.36) 30%

20%

Tutto l'assortimento Thai Kitchen per es. latte di cocco, 250 g, 2.15 invece di 2.65, (100 ml = 0.85)

Tutto l'assortimento Knorr per es. brodo di verdure, 225 g, 7.60 invece di 9.50, (100 g = 3.33) 20%

Maionese, Thomynaise, senape dolce o concentrato di pomodoro, Thomy per es. maionese à la française, 2 x 265 g, 4.45 invece di 5.60, (100 g = 0.84) conf. da 2 20%

a partire da 2 pezzi 20%

Tutto l'assortimento di cereali Nestlé per es. Cini Minis, 500 g, 4.– invece di 4.95, (100 g = 0.79)

a partire da 2 pezzi 20%

Tutti i tipi di caffè, in chicchi e macinato (prodotti Starbucks esclusi), per es. Boncampo Classico, 500 g, 4.40 invece di 5.50, (100 g = 0.88)

a partire da 2 pezzi

Tutta la pasta trafilata al bronzo M-Classic per es. conchigliette, 500 g, 1.60 invece di 1.95, (100 g = 0.31)

Su Migipedia hanno 4,2 stelle su 5

11.55 invece di 15.–Tortine al formaggio M-Classic prodotto surgelato, 2 x 12 pezzi, 2 x 840 g, (100 g = 0.69) conf. da 2 23%

conf. da 2 20%

Snack o menu, Anna's Best dim sum Sea Treasure oppure chicken satay, per es. dim sum, 2 x 250 g, 11.– invece di 13.80, (100 g = 2.20)

Pizze M-Classic surgelate, margherita o toscana, in confezioni speciali, per es. margherita, 3 pezzi, 825 g, 6.05 invece di 8.10, (100 g = 0.73) 25% 6.95

Mezzelune Anna's Best ricotta e spinaci o alla carne di manzo, in conf. speciale, 800 g, (100 g = 0.87)

conf. da 2 33%

Lasagne La Trattoria surgelate, alla bolognese o alle verdure, per es. alla bolognese, 2 x 600 g, 6.60 invece di 9.90, (100 g = 0.55)

conf. da 2 15%

Focaccia alsaziana originale 2 x 240 g o 2 x 350 g, per es. 2 x 240 g, 5.40 invece di 6.40, (100 g = 1.13)

Da sgranocchiare e sorseggiare

Chips Migros Bio in conf. speciale, al naturale o alla paprica, 300 g, (100 g = 2.00) 20%

6.–

invece di 7.50

Noci o miscele di noci, Party in conf. speciale, per es. arachidi, 750 g, 2.85 invece di 3.60, (100 g = 0.38) 20%

Prodotte in Svizzera Con vitamine e sali minerali

3.95 Farm Chips Wave senape e peperoncino

175 g, (100 g = 2.26)

Orangina

Original, Zero o Rouge, 6 x 1,5 l, 6 x 500 ml e 6 x 250 ml, per es. Original, 6 x 1,5 litri, 8.25 invece di 13.80, (100 ml = 0.09)

Tutto l'assortimento Focus Water

disponibile in diverse varietà, 500 ml, per es. Active, 1.60 invece di 2.–, (100 ml = 0.32) a partire da 2 pezzi 20%

20x

Con il 30% di succo di frutta

3.70 Sciroppo Magia di bacche

750 ml, (100 ml = 0.49)

Evian in confezioni multiple, per es. 6 x 1,5 litri, 4.40 invece di 6.60, (100 ml = 0.05)

14.95 invece di 19.95

Bellezza à la carte

Tutto l'assortimento Kneipp (confezioni multiple, set natalizi e confezioni da viaggio escluse), per es. balsamo doccia cura-pelle ai fiori di mandorlo, 200 ml, 3.75 invece di 4.95, (100 ml = 1.86) a partire da 2 pezzi 25% 8.90 invece di 11.90 Deodoranti Borotalco per es. roll-on Original, 2 x 50 ml, (100 ml = 8.90)

Docciaschiuma, lozioni per il corpo o creme per le mani, Kneipp in confezioni multiple, per es. balsamo doccia ai fiori di mandorlo, 3 x 200 ml, 11.– invece di 14.85, (100 ml = 1.83)

Tutto l'assortimento Grether's per es. pastiglie Elderflower, 60 g, 4.75 invece di 5.95, (100 g = 7.92) 20%

30% 7.40 invece di 9.90

Tutto l'assortimento Tena (confezioni multiple escluse), per es. Discreet Extra, 10 pezzi, 4.10 invece di 5.80

Tutto l'assortimento Tetesept per es. magnesio 335 + calcio + D3, 17 compresse effervescenti, 4.50 invece di 5.95, (1 pz. = 0.26)

cerotto notturno per i brufoli

o balsamo, Elseve per es. shampoo Color-Vive, 2 x 250 ml, (100 ml = 1.48)

12.95 Hero. Mighty Patch The Original oppure Invisible+, 24 pezzi

Tutto per tutti i giorni

Detersivi Ariel in confezioni speciali, per es. Color, 5 litri, 29.95 invece di 64.75, (1 l = 5.99)

l'assortimento Potz per es. Calc, 1 litro, 4.65 invece di 5.80

Per mantenere a lungo come nuovi i capi delicati

invece di 23.–Detersivo Perwoll in conf. speciale, 2,6 litri, per es. detersivo per capi delicati, (1 l = 6.13)

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Lenor per es. freschezza d'aprile, 2 x 1,7 litri, (1 l = 3.22)

Tutto l'assortimento di pellicole e sacchetti, Kitchen & Co. per es. pellicola salvafreschezza n° 11, il pezzo, 2.55 invece di 3.60

7.95 Bastoncini profumati M-Fresh disponibili in diverse profumazioni, per es. Winter Bouquet, 2 x 90 ml, (100 ml = 4.42)

Ciotola Kitchen & Co. Ø 15,7 cm, con motivo ritagliato, il pezzo

Tutto l'assortimento di bicchieri Kitchen & Co. (prodotti Hit esclusi), per es. Basic Longdrink, 6 x 38 cl, 12.60 invece di 17.95, (1 pz. = 2.09)

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Rose Grande Fairtrade disponibili in diversi colori, mazzo da 10, lunghezza dello stelo 50 cm, il mazzo

Rose di Natale in cestino cestino, Ø 13 cm, il pezzo 20% 44.95 Set per fondue bourguignonne/ chinoise Kitchen & Co. 22 pezzi, il set

l'assortimento di lettiere per gatti Fatto per es. Plus, 10 litri, 6.– invece di 7.50, (1 l = 0.60)

7.95 invece di 9.95

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Amaryllis con rivestimento in cera M-Classic il pezzo 23%

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