Azione 47 del 19 novembre 2018

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Un piccolo folletto Migros con un grande desiderio.


Il regalo più bello: festeggiare insieme.

Una notte, poco prima di Natale, in una filiale Migros una cassa si illumina di rosso. La luce viene da Finn, il folletto Migros. È seduto nella sua casetta all’interno della sezione di scansione della cassa e tra le mani tiene una vecchia foto di famiglia che lo ritrae con i suoi genitori folletti. Dopo averla guardata con una forte emozione la mette con cura nello zaino. Le sue due amiche follette Eli e Lucy tentano di convincerlo a rimanere. Nessun folletto Migros ha mai intrapreso un viaggio tanto lungo e pericoloso. Finn ha però deciso: questo Natale lo trascorrerà con i suoi genitori. Eli e Lucy lo seguono con lo sguardo finché non sparisce nella fredda notte.

Finn non vede i suoi genitori già da lungo tempo. Camminando pensa spesso a loro. Si ricorda di come ha finito per separarsi da loro. Tutto ha inizio quando da piccolo comincia a osservarli con gioia mentre lavorano. E quando pian piano cresce in lui si fa sempre più forte il desiderio di diventare un folletto tale e quale ai suoi genitori. Quando può li rimpiazza svolgendo i loro compiti. Non appena suo padre ha un piccolo colpo di tosse, Finn lo spedisce a letto e lo sostituisce con gioia nel lavoro di scansione dei prezzi. I genitori si rendono così conto che Finn ha bisogno di una propria cassa. Perché per un folletto Migros non c’è nulla di peggio che non poter dare il proprio contributo. Un giorno, mentre passeggia nel deposito della filiale, Finn scopre qualcosa di grande nascosto sotto un telo di plastica. Con attenzione ci gattona sotto e quasi non crede ai suoi occhi: davanti a lui si trova una nuova splendente cassa con funzione di scansione.

Non ha mai visto niente di simile. Subito la mostra ai suoi genitori. Tutto eccitato, chiede che folletto ci viva. Nessuno, risponde sua madre, questa è una cassa libera. Subito Finn vuole sapere se può averla. Lei gli risponde di sì, ma papà è perplesso e si intrufola anche lui sotto il telo per capire meglio di cosa si tratti. Finn non se ne accorge nemmeno: è già corso a prendere le sue cose. Mentre Finn impara a districarsi con la tecnologia moderna, suo padre lo affianca. In mano tiene un grande biglietto che ha trovato attaccato alla cassa. È un’etichetta con un indirizzo. Quando Finn la vede il suo piccolo cuore si spezza in 1000 pezzi. La cassa non è destinata alla filiale dove abitano, ma a una filiale Migros molto distante.


Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 19 novembre 2018

Azione 47 -69 ping M shop ne 49-54 / 67 i alle pag

Società e Territorio Il nuovo volume della collana «Le Voci» del Centro di dialettologia e di etnografia è dedicato a «muro» e «muratore»

Ambiente e Benessere Il libro Il pollice del violinista di San Kean svela molto di noi e lascia aperta una domanda: «fino a che punto siamo autorizzati a ricombinare il nostro stesso DNA?»

Politica e Economia Nel vuoto lasciato dagli Usa cresce il coinvolgimento di Mosca in Libia

Cultura e Spettacoli L’eredità di Michael Jackson, ora protagonista di una mostra itinerante, è reale e tangibile

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Il cervello che legge

di Stefania Prandi pagina 4

Keystone

Mutamenti climatici in chiave elvetica di Peter Schiesser È chiaro per tutti? Un aumento della temperatura media del pianeta non significa che fa semplicemente più caldo e soltanto chi vive ai bordi del mare deve temere l’innalzamento del livello delle acque (a causa dei ghiacci polari che si sciolgono), significa che gli eventi climatici diventano più estremi. Anche da noi. Le autorità federali ne sono consapevoli, e per sapere più concretamente in quale forma e con quali intensità si manifesteranno i cambiamenti climatici in Svizzera fa elaborare con regolarità degli scenari da gruppi di esperti. Così da poter aggiornare il Piano di azione per l’adattamento ai cambiamenti climatici, adottato per la prima volta nel 2014. E lo studio presentato la settimana scorsa dai climatologi del Politecnico di Zurigo, dell’Università di Berna e di Meteo Svizzera, valutato da una ventina di esperti internazionali, è di una precisione di dettaglio che gli studi precedenti non avevano, grazie ai progressi tecnologici della ricerca, tale da rendere possibili anche previsioni a lungo termine per le diverse regioni geografiche della Svizzera. La previsione di fondo è restata la stessa: estati più calde e secche,

con più giornate e notti tropicali, piogge torrenziali più frequenti e intense, inverni più miti e piovosi (meno neve). E dopo questa estate tanto lunga da risultare inquietante, sommata ai violenti cataclismi naturali visti in giro per il mondo e alle porte di casa, anche il sentire popolare sembra allinearsi a quello degli esperti. A questo scenario di fondo si aggiunge però un aspetto importante per noi: la Svizzera risentirebbe in modo più accentuato di un eccessivo aumento della temperatura atmosferica: se l’umanità non riuscirà a contenere l’aumento della temperatura media entro 2 gradi centigradi e si giungesse fra il 2045 e il 2075 ad un aumento di 2 fino a 3,3 gradi rispetto al trentennio fra il 1981 e il 2010, in Svizzera l’incremento sarebbe di 3-5 gradi Oltralpe e di 3-5,5 gradi in Ticino, con picchi di più 8,5-9,5 gradi in più rispetto alla norma a seconda della regione geografica. Se invece gli obiettivi del Trattato di Parigi venissero raggiunti, l’aumento della temperatura media in Svizzera non dovrebbe superare i 2 gradi centigradi. Possiamo solo sperare che la comunità internazionale non fallisca gli obiettivi, ma è bene prepararsi anche al peggio. E questo vuol dire prima di tutto farsi un’immagine chiara di quali sono le conseguen-

ze pratiche. Temperature più elevate comportano, per l’ambiente, un accresciuto pericolo di incendi di boschi (vedasi la California), una maggiore instabilità degli strati rocciosi, per chi vive in città uno stress per la salute e una minore qualità di vita (poiché il cemento accumula calore); la siccità rende più aridi i terreni, danneggiando l’agricoltura, e permette un minore sfruttamento dell’energia idrica; le piogge torrenziali, in particolare dopo un periodo di siccità, provocano alluvioni e frane. In sostanza: danni all’ambiente, alle cose e alle persone. È quindi di fondamentale importanza ripensare il nostro vivere quotidiano. E la risposta non potrà venire solo dalle autorità politiche, anche se il loro contributo sarà fondamentale. Gli agricoltori dovranno capire quali colture si adattano meglio ai cambiamenti climatici e dove coltivarle, politici, pianificatori e urbanisti dovranno mettere maggiormente l’accento su un «rinverdimento» delle città, gli architetti su materiali e costruzioni consone a temperature più alte, i proprietari di immobili dovranno tener conto degli accresciuti rischi di allagamenti e smottamenti. Questo per far fronte all’ineluttabile. Senza dimenticare tutte le misure utili per limitare i cambiamenti climatici...


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Società e Territorio Mamme multitasking Desiderare dei figli senza rinunciare al lavoro: il libro dell’antropologa Valentina Simeoni racconta come vivere allegramente la maternità quando tutto è contro pagina 5

Cari genitori, che cos’è l’amore? In una conferenza, Barbara Tamborini e Alberto Pellai hanno spiegato come e quando parlare di affettività e sessualità con i propri figli

Il tempo delle mamme

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Pubblicazioni In un libro testimonianze e pensieri di donne che non vogliono rinunciare né al lavoro né ai figli

Sara Rossi Guidicelli

«La lettura su carta è fondamentale perché implica un rallentamento e permette un consolidamento nella memoria a lungo termine». (Pixabay)

L’importanza della «lettura profonda» Intervista Maryanne Wolf, una delle più note neuroscienziate cognitiviste, analizza come stanno cambiando,

nell’era digitale, i nostri circuiti cerebrali quando ci troviamo di fronte a un romanzo o a un saggio Stefania Prandi Internet ci sta togliendo la capacità di perderci nelle pagine dei romanzi e dei saggi, di venire rapiti per ore dai mondi di carta. Chiunque ami leggere sa che qualcosa è cambiato con la diffusione del digitale: è sempre più difficile immergersi in un testo senza lasciarsi distrarre. A causa delle continue notifiche dello smartphone oppure dell’abitudine a controllarlo, e delle giornate trascorse per lavoro davanti al computer, è diventato faticoso concentrarsi, entrando nella «lettura profonda». Così la definisce Maryanne Wolf, una delle più note neuroscienziate cognitiviste, che insegna alla University of California di Los Angeles (Ucla). Nel suo ultimo libro, Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale (Vita e Pensiero), appena tradotto in italiano, analizza come i nostri meccanismi cerebrali si stiano indebolendo e le conseguenze di questa trasformazione sulle nostre vite e sulla società. Professoressa Wolf, può spiegarci nel dettaglio che cos’è la lettura profonda?

La lettura profonda è composta da una serie di processi mentali piuttosto sofisticati. Questi meccanismi non sono

solo importanti da un punto di vista individuale, ma anche collettivo, perché permettono di sviluppare l’empatia, danno cioè la possibilità di avere una prospettiva, di allenare la comprensione che abbiamo della teoria mentale degli altri: ci permettono di vedere come e cosa pensano le persone. La combinazione dei processi cognitivi che avvengono grazie alla lettura profonda, ci consente di andare al di là della saggezza dell’autore che leggiamo e di svilupparne una nostra. Creiamo così un pensiero nuovo che è alla base della conoscenza. Perché la lettura profonda è importante?

La lettura profonda non ci rende semplicemente degli elaboratori di informazioni, ma esseri umani che arrivano alla conoscenza, in grado di utilizzarla per prendere decisioni, per stabilire quale potrà essere la persona migliore che è in noi. La lettura profonda è un ponte che collega le informazioni, è un cortocircuito in un certo senso, qualcosa di assolutamente fondamentale per sviluppare il sapere. L’elaborazione cumulativa del cervello che legge ci consente di andare oltre a ciò che sappiamo già e oltre al testo: dentro di noi avviene un processo nuovo, modifichiamo la conoscenza per trasformarla

in qualcosa di più vicino alla saggezza, e questo ci può aiutare ad essere persone virtuose. Dal punto di vista culturale, la lettura profonda è una delle più importanti abilità acquisite dagli esseri umani, a livello individuale e sociale, perché contribuisce alla democrazia: consente a tutti di avere prospettiva, di provare empatia nei confronti degli altri, di aspirare all’analisi critica e ad un pensiero diverso e inedito.

Come sta cambiando con la tecnologia il nostro modo di leggere?

I nuovi studi dimostrano che stiamo perdendo i nostri processi più sofisticati di lettura a causa della tecnologia. In teoria, potremmo attivare la lettura profonda anche davanti a uno schermo, ma in realtà non lo facciamo. Le ragioni sono due: lo schermo ci spinge alla velocità e a saltare da una parte all’altra del testo. Pensiamo, così facendo, di filtrare le informazioni per risparmiare tempo e invece non riusciamo a concentrarci nemmeno sui punti che abbiamo scelto. A lungo andare, questa abitudine si rivela dannosa. Quando perdiamo la capacità della lettura profonda che cosa succede?

Questa perdita riguarda adulti e bambini: non siamo più in grado di vedere la bellezza nella cultura, viene meno il consolidamento nella nostra memoria,

avviene un grave danno per la democrazia. Se disimpariamo l’empatia e le basi per lo scambio di prospettive alternative ci impoveriamo intellettualmente e assumiamo una costruzione molto più ristretta di ciò che siamo.

Se siamo lettori profondi di romanzi o saggi e ci rendiamo conto che stiamo perdendo questa capacità, cosa possiamo fare per recuperarla?

Prima di tutto, due ore prima di andare a letto non bisogna stare davanti allo schermo, grande o piccolo che sia. In secondo luogo, se sentiamo di perdere la capacità alla lettura profonda, dobbiamo prendere la cosa seriamente, dandoci delle regole. La regola più importante è leggere profondamente ogni giorno per almeno venti minuti, anche di più, ma questo tempo può essere già sufficiente. Non dobbiamo permetterci deroghe. Io ad esempio mi sveglio la mattina, medito e poi leggo, per venti minuti, teologia, filosofia, qualsiasi cosa mi richieda una forte concentrazione e sia sfidante per la mia mente. Non è importante quando lo si fa, ma farlo, perché la lettura profonda deve essere una disciplina: dobbiamo esercitare i circuiti cerebrali deputati a questa attività. Le nuove generazioni, abituate fin dall’infanzia allo schermo, rischiano

di non avere nemmeno idea di che cosa sia la lettura profonda. Come scrive nel suo ultimo libro, leggere non è qualcosa di naturale, ma una capacità che va imparata e coltivata. Che cosa si può fare per correre ai ripari?

Nel mio ultimo libro, nei capitoli sei, sette e otto, ho descritto dettagliatamente la mia proposta per salvaguardare la capacità di leggere. Ho analizzato, da zero a dieci, a cosa servono le letture su carta e su schermo, e ciò che deve essere gestito con la codifica e con l’elaborazione dei dati. Ci sono tante strategie. Nelle scuole, le letture su carta e su schermo possono essere combinate, ci può essere un’ibridazione. Va comunque ricordato che la lettura su carta è fondamentale perché implica un rallentamento, richiede più tempo, e permette un consolidamento nella memoria a lungo termine. C’è un rapporto tra l’attenzione e la memoria, sfortunatamente lo schermo distrae molto. Quando si è distratti, non si riesce a immagazzinare le informazioni con lo stesso livello di dettaglio, non è possibile concentrarsi e quello che si sta leggendo non entra nella memoria. * L’intervista è stata tradotta e in alcuni passaggi adattata dalla giornalista.

Ha un titolo molto italiano ma è un libro universale. Mamme con la partita Iva, di Valentina Simeoni, che parla di come la maternità possa conciliarsi con il lavoro, persino quello indipendente. La domanda è: le donne che fanno un lavoro indipendente sono più svantaggiate al momento di andare in maternità? Probabilmente la maggior parte sì, perché chi ha uno studio, un negozio, un’attività in proprio deve trovare qualcuno che la sostituisca oppure chiudere, con il rischio di perdere i suoi clienti. Dati specifici per il Canton Ticino non ne abbiamo trovati, pur rivolgendoci a tutti gli uffici che si occupano di indennità di perdita di guadagno, di statistica, di lavoro e di pari opportunità. Quello che emerge è che una donna con un lavoro indipendente paga ogni mese i contributi come una lavoratrice dipendente e ha quindi la stessa copertura in caso di maternità: 98 giorni dal parto. Quasi tutte decidono di beneficiarne per intero, c’è chi però dopo due mesi torna già al lavoro. Per poter usufruire di un congedo più lungo, invece, alcune stipulano un’assicurazione privata. L’autrice di Mamme con la partita Iva è un’antropologa, ha studiato i Navajo, i luoghi sacri in Georgia e il linguaggio di Facebook. Si è accorta che c’era un tema particolarmente discusso sui social network: la maternità. Quando lei stessa è diventata mamma si è chiesta: potrò lavorare come prima? I miei committenti faranno compromessi su orari, distanze, impegno? O, visto che sono indipendente, salterà tutto per aria? Per Valentina, come per molte mamme (e molti papà) il lavoro non è solo quell’attività obbligatoria per portare a casa la pagnotta. È un divertimento, una sfida, un modo di sentirsi utili o, per citare Gaber, liberi perché partecipativi. Questo studio, dice Valentina Simeoni, è per tutte le donne, libere professioniste ma non solo, che si sono chieste, almeno una volta, se dovranno a un certo punto rinunciare al

proprio percorso professionale o se saranno in grado di continuare così, per quanto tempo e soprattutto perché non si ritengono già sufficientemente realizzate curando i propri figli. L’autrice racconta di quando ha fatto il test di gravidanza: «Sono incinta proprio io, che pensavo di non esserne nemmeno capace», si è detta. «Figata». Secondo pensiero: «Devo fare colazione, se no il calo di zuccheri farà male al bambino. Il caffè si può? E il tè?» Terzo pensiero: «E adesso come faccio con il lavoro?». Si sente in difetto, una donna, rispetto al lavoro. Come dire: scusate, mi spiace, ma adesso non potrete contare su di me come prima, almeno non sempre. Ma non erano un diritto la maternità, i congedi, il riposo, le ore di allattamento, i giorni per malattia del bambino? Lo sono, tecnicamente, come abbiamo visto per le indennità di perdita di guadagno. Ma non è tutto così semplice. In mezzo a queste domande ci sono: la stanchezza, gli ormoni, le nausee. E poi, nove mesi dopo: la stanchezza, gli ormoni, le notti in bianco, i sensi di colpa. I sensi di colpa, il tempo: che ci sono sempre, che manca sempre. La ricercatrice antropologa parla con una ventina di donne nella sua stessa situazione e raccoglie testimonianze, pensieri e qualche tentativo di soluzione. Punto in comune di tutte le storie: è possibile. Non bisogna per forza mollare, se non si vuole. E certo ci sono anche vantaggi per chi ha un lavoro flessibile, in cui «comanda lei». Gli orari in cui si fanno i lavori domestici però diventano spesso folli; la testa ha sempre in mente sia i figli sia il lavoro; si deve poter contare su partner e famiglia e servizi; bisogna fare pace con la parte più intransigente di se stesse. Per le donne di questo libro, diventare madre era un desiderio fortissimo, nonostante non volessero smettere di lavorare. In altre parole, alla domanda: «Che cosa sei pronta a sacrificare della tua vita di prima, una volta che avrai un bambino?», loro rispondevano: «A tutto, tranne che al mio lavoro». Il fatto è che, oggi, i bambini arrivano spesso nel

L’arrivo dei figli per molte donne significa dover riorganizzare il tempo lavorativo. (Keystone)

momento più proficuo per il percorso professionale di un giovane adulto. Tra i venti e i trenta, per molti è il momento della formazione e della ricerca. Tra i trenta e i cinquanta invece è quello in cui si trova, si consolida e si sviluppa la propria competenza lavorativa. Ecco perché non è un crimine, vuol far capire l’autrice, se una coppia non ha voglia di rinunciare né all’una né a un’altra bellezza della vita: allargare la famiglia e andare avanti con un’attività che piace e che fa sentire realizzate le proprie potenzialità. In questo libro, il cui sottotitolo è Come vivere allegramente la maternità quando tutto è contro, c’è il capitolo su come essere multitasking al meglio; quello sulla riorganizzazione del tempo (quando lavorare?); e quello sulla riorganizzazione dello spazio (dove è meglio lavorare?). Proprio quando arrivo a questo capitolo del libro mi viene la curiosità di sentire a che punto sono i progetti di quel gruppo di genitori di Lugano che cercava una casa, dove mettere gli uffici su un piano e al piano di sotto uno spazio sorvegliato per i loro bambini. Chiamo Assunta Ranieri Bernasconi che insieme ad altre due mamme, Chiara Di Palma e Selva Varengo, aveva ideato lo spazio di Family Cowor-

king dal nome 8Hz (che sta a ricordare la banda di frequenza nell’uomo con la quale il cervello attiva la creatività e un generale stato di benessere). «Guarda, mi chiami in un momento che potrei parlarti per ore ma non ho un minuto», risponde dal set cinematografico in cui sta lavorando come costumista. «Ho la bimba a casa con la febbre, io sono al lavoro ma non ci sto con la testa. Avrei bisogno di un po’ di calma, di un aiuto. No, infatti, il progetto 8Hz è fermo. Ci manca l’ultimo pezzetto per completarlo e realizzarlo: il luogo. Abbiamo permessi e aiuti cantonali, sostegno e doni utili, abbiamo le famiglie interessate, le educatrici, ma manca la casa. Ieri sono andata a visitarne tre, ma è da un anno che cerco... sembra che nessuno voglia affittarci uno spazio per mettere i nostri uffici vicino allo spazio giochi con professionisti che badano ai nostri piccoli. Pensa a come saremmo più tranquilli se potessimo averli lì a due passi e non bisognasse attraversare la città per portarli al mattino e andare a prenderli al pomeriggio... per non parlare di chi deve ancora allattare. Noi genitori avremmo una produttività più forte e ci potremmo sostenere l’un l’altro come una comunità: questo lo hanno già capito in

un sacco di posti, nelle città svizzere, italiane, di tutta Europa...». Mi piace che Assunta parli di genitori, mentre il libro delega quasi unicamente alle mamme la questione di giostrarsi tra figli e lavoro. È vero che nella pratica è ancora la donna che rimette in questione la sua professione molto più dell’uomo, ma la scelta dovrebbe essere familiare, e non singola. E in tutto questo, i bambini? I bambini sono quelli che ci mettono davanti «i tempi vuoti, lenti, stupendamente inutili», per usare le parole di Valentina Simeoni. «Se non li conosci o se non li ricordi più te li insegna: il tempo del sonno, del gioco, della coccola, della meraviglia davanti a un raggio di luce sulla mano. Solo così la perfetta e calcolatissima ottimizzazione in cui siamo così brave trova il suo senso, altrimenti resta una fatica inutile». Ci sono persone per cui è più facile lavorare, anche con bambini piccoli, che mettersi sdraiate sul divano a poltrire insieme. E se i figli riusciranno a insegnare loro il valore del tempo (prezioso quando si lavora, prezioso quando si sta insieme a giocare, prezioso quando lo si passa da soli, in silenzio a svuotare la testa) allora sarà un insegnamento che durerà per tutta la vita.

Muri e muratori, le fondamenta del nostro mondo Pubblicazioni Esce grazie al CDE un nuovo volumetto dedicato alle «parole importanti» del nostro dialetto

e della nostra tradizione È affascinante attraversare la storia a cavallo delle parole. La nuova pubblicazione del Centro di dialettologia ed etnografia di Bellinzona, dedicata ai termini «muro» e «muratore», ci propone come sempre un viaggio attraverso il nostro cantone seguendo i suggerimenti di termini, modi di dire, locuzioni e giochi di parole. Elementi linguistici che, in qualche modo, rispecchiano comportamenti e abitudini del passato: così, attraverso la lingua, un patrimonio di idee e tradizioni rivive ancora nei nostri discorsi, magari a distanza e di tempo e all’insaputa di noi che li utilizziamo. Il nuovo libretto, come i precedenti, ripercorre da un lato gli aspetti più concreti legati alla realtà descritta dalle parole. Parlando di «muri», ci mette davanti agli occhi cosa rappresentino per il nostro territorio le tecniche di costruzione, come siano evolute nel tempo e come abbiano influenzato il mondo che ci circonda. Corroborato da un apparato di fotografie eloquente e ben

esemplificativo, il discorso attorno ai «muri» ticinesi si snoda dalle tecniche costruttive più antiche fino a quelle di oggi. Dedica ampio spazio, ad esempio,

alla tecnica dei muri a secco, una pratica muraria che richiedeva grande maestria ma che, a distanza di secoli, mostra ancora tutti i suoi pregi. Da notare che il discorso legato ai «muri» ticinesi non riguarda soltanto l’ambito della costruzione di abitazioni e stabili, ma anche quello importantissimo dei terrazzamenti, una caratteristica delle regioni di montagna che ha richiesto ai nostri antenati grande impegno e fatica. Per ciò che riguarda invece l’ambito antropologico legato al lavoro di costruzione, e cioè il mondo dei «muratori», la storia descritta dal piacevole libretto ci richiama a una delle tradizioni più importanti e valide della nostra terra: quella delle schiere di magütt che nei secoli sono emigrati dal Ticino per portare la loro competenza in varie regioni d’Europa. La storia delle maestranze edili ticinesi, infatti, ha dato luogo a una tradizione di grande capacità, coraggio e forza di volontà, trasformando in alcu-

ni casi alcuni di questi volonterosi lavoratori in architetti e capimastri di successo, in grado di soddisfare le richieste dei più importanti committenti. Grazie alla capacità e all’esperienza dei muratori ticinesi del passato si arriva, perché no, fino all’Accademia di Mendrisio dei giorni nostri. Affermazione che può parere una iperbole, ma non lo è.

Copie a concorso «Azione», in collaborazione con il Centro di dialettogia e di etnografia di Bellinzona, mette in palio tra i suoi lettori 10 copie del nuovo volume nella collana «Le Voci». Per partecipare all’estrazione basta seguire le istruzioni contenute nella pagina del sito web di «Azione» www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!

Il libro, curato da Michele Moretti, non è un estratto dal Vocabolario dei dialetti ma un’anticipazione delle voci relative, che saranno pubblicate in futuro. Il tracciato della trattazione passa in rassegna vari aspetti etnografici, artigianali e sociali, spiegando tecniche, descrivendo strumenti e materiali usati, e lasciando spazio, come sempre, anche a spunti divertenti legati a modi di dire locali o a tradizioni curiose. Piacevolissima come sempre l’impaginazione, molto curata in particolare per quello che riguarda l’aspetto iconografico. Qualcuno, chissà, in una delle molte foto pubblicate riconoscerà qualche suo antenato. Il nuovo volume della collana «Le Voci» (come i precedenti pubblicato, lo ricordiamo, con il sostegno del Percento culturale di Migros Ticino), sarà presentato ufficialmente in una serata pubblica che si terrà il 22 novembre prossimo alla Biblioteca cantonale di Bellinzona. /AZ


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Società e Territorio Mamme multitasking Desiderare dei figli senza rinunciare al lavoro: il libro dell’antropologa Valentina Simeoni racconta come vivere allegramente la maternità quando tutto è contro pagina 5

Cari genitori, che cos’è l’amore? In una conferenza, Barbara Tamborini e Alberto Pellai hanno spiegato come e quando parlare di affettività e sessualità con i propri figli

Il tempo delle mamme

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Pubblicazioni In un libro testimonianze e pensieri di donne che non vogliono rinunciare né al lavoro né ai figli

Sara Rossi Guidicelli

«La lettura su carta è fondamentale perché implica un rallentamento e permette un consolidamento nella memoria a lungo termine». (Pixabay)

L’importanza della «lettura profonda» Intervista Maryanne Wolf, una delle più note neuroscienziate cognitiviste, analizza come stanno cambiando,

nell’era digitale, i nostri circuiti cerebrali quando ci troviamo di fronte a un romanzo o a un saggio Stefania Prandi Internet ci sta togliendo la capacità di perderci nelle pagine dei romanzi e dei saggi, di venire rapiti per ore dai mondi di carta. Chiunque ami leggere sa che qualcosa è cambiato con la diffusione del digitale: è sempre più difficile immergersi in un testo senza lasciarsi distrarre. A causa delle continue notifiche dello smartphone oppure dell’abitudine a controllarlo, e delle giornate trascorse per lavoro davanti al computer, è diventato faticoso concentrarsi, entrando nella «lettura profonda». Così la definisce Maryanne Wolf, una delle più note neuroscienziate cognitiviste, che insegna alla University of California di Los Angeles (Ucla). Nel suo ultimo libro, Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale (Vita e Pensiero), appena tradotto in italiano, analizza come i nostri meccanismi cerebrali si stiano indebolendo e le conseguenze di questa trasformazione sulle nostre vite e sulla società. Professoressa Wolf, può spiegarci nel dettaglio che cos’è la lettura profonda?

La lettura profonda è composta da una serie di processi mentali piuttosto sofisticati. Questi meccanismi non sono

solo importanti da un punto di vista individuale, ma anche collettivo, perché permettono di sviluppare l’empatia, danno cioè la possibilità di avere una prospettiva, di allenare la comprensione che abbiamo della teoria mentale degli altri: ci permettono di vedere come e cosa pensano le persone. La combinazione dei processi cognitivi che avvengono grazie alla lettura profonda, ci consente di andare al di là della saggezza dell’autore che leggiamo e di svilupparne una nostra. Creiamo così un pensiero nuovo che è alla base della conoscenza. Perché la lettura profonda è importante?

La lettura profonda non ci rende semplicemente degli elaboratori di informazioni, ma esseri umani che arrivano alla conoscenza, in grado di utilizzarla per prendere decisioni, per stabilire quale potrà essere la persona migliore che è in noi. La lettura profonda è un ponte che collega le informazioni, è un cortocircuito in un certo senso, qualcosa di assolutamente fondamentale per sviluppare il sapere. L’elaborazione cumulativa del cervello che legge ci consente di andare oltre a ciò che sappiamo già e oltre al testo: dentro di noi avviene un processo nuovo, modifichiamo la conoscenza per trasformarla

in qualcosa di più vicino alla saggezza, e questo ci può aiutare ad essere persone virtuose. Dal punto di vista culturale, la lettura profonda è una delle più importanti abilità acquisite dagli esseri umani, a livello individuale e sociale, perché contribuisce alla democrazia: consente a tutti di avere prospettiva, di provare empatia nei confronti degli altri, di aspirare all’analisi critica e ad un pensiero diverso e inedito.

Come sta cambiando con la tecnologia il nostro modo di leggere?

I nuovi studi dimostrano che stiamo perdendo i nostri processi più sofisticati di lettura a causa della tecnologia. In teoria, potremmo attivare la lettura profonda anche davanti a uno schermo, ma in realtà non lo facciamo. Le ragioni sono due: lo schermo ci spinge alla velocità e a saltare da una parte all’altra del testo. Pensiamo, così facendo, di filtrare le informazioni per risparmiare tempo e invece non riusciamo a concentrarci nemmeno sui punti che abbiamo scelto. A lungo andare, questa abitudine si rivela dannosa. Quando perdiamo la capacità della lettura profonda che cosa succede?

Questa perdita riguarda adulti e bambini: non siamo più in grado di vedere la bellezza nella cultura, viene meno il consolidamento nella nostra memoria,

avviene un grave danno per la democrazia. Se disimpariamo l’empatia e le basi per lo scambio di prospettive alternative ci impoveriamo intellettualmente e assumiamo una costruzione molto più ristretta di ciò che siamo.

Se siamo lettori profondi di romanzi o saggi e ci rendiamo conto che stiamo perdendo questa capacità, cosa possiamo fare per recuperarla?

Prima di tutto, due ore prima di andare a letto non bisogna stare davanti allo schermo, grande o piccolo che sia. In secondo luogo, se sentiamo di perdere la capacità alla lettura profonda, dobbiamo prendere la cosa seriamente, dandoci delle regole. La regola più importante è leggere profondamente ogni giorno per almeno venti minuti, anche di più, ma questo tempo può essere già sufficiente. Non dobbiamo permetterci deroghe. Io ad esempio mi sveglio la mattina, medito e poi leggo, per venti minuti, teologia, filosofia, qualsiasi cosa mi richieda una forte concentrazione e sia sfidante per la mia mente. Non è importante quando lo si fa, ma farlo, perché la lettura profonda deve essere una disciplina: dobbiamo esercitare i circuiti cerebrali deputati a questa attività. Le nuove generazioni, abituate fin dall’infanzia allo schermo, rischiano

di non avere nemmeno idea di che cosa sia la lettura profonda. Come scrive nel suo ultimo libro, leggere non è qualcosa di naturale, ma una capacità che va imparata e coltivata. Che cosa si può fare per correre ai ripari?

Nel mio ultimo libro, nei capitoli sei, sette e otto, ho descritto dettagliatamente la mia proposta per salvaguardare la capacità di leggere. Ho analizzato, da zero a dieci, a cosa servono le letture su carta e su schermo, e ciò che deve essere gestito con la codifica e con l’elaborazione dei dati. Ci sono tante strategie. Nelle scuole, le letture su carta e su schermo possono essere combinate, ci può essere un’ibridazione. Va comunque ricordato che la lettura su carta è fondamentale perché implica un rallentamento, richiede più tempo, e permette un consolidamento nella memoria a lungo termine. C’è un rapporto tra l’attenzione e la memoria, sfortunatamente lo schermo distrae molto. Quando si è distratti, non si riesce a immagazzinare le informazioni con lo stesso livello di dettaglio, non è possibile concentrarsi e quello che si sta leggendo non entra nella memoria. * L’intervista è stata tradotta e in alcuni passaggi adattata dalla giornalista.

Ha un titolo molto italiano ma è un libro universale. Mamme con la partita Iva, di Valentina Simeoni, che parla di come la maternità possa conciliarsi con il lavoro, persino quello indipendente. La domanda è: le donne che fanno un lavoro indipendente sono più svantaggiate al momento di andare in maternità? Probabilmente la maggior parte sì, perché chi ha uno studio, un negozio, un’attività in proprio deve trovare qualcuno che la sostituisca oppure chiudere, con il rischio di perdere i suoi clienti. Dati specifici per il Canton Ticino non ne abbiamo trovati, pur rivolgendoci a tutti gli uffici che si occupano di indennità di perdita di guadagno, di statistica, di lavoro e di pari opportunità. Quello che emerge è che una donna con un lavoro indipendente paga ogni mese i contributi come una lavoratrice dipendente e ha quindi la stessa copertura in caso di maternità: 98 giorni dal parto. Quasi tutte decidono di beneficiarne per intero, c’è chi però dopo due mesi torna già al lavoro. Per poter usufruire di un congedo più lungo, invece, alcune stipulano un’assicurazione privata. L’autrice di Mamme con la partita Iva è un’antropologa, ha studiato i Navajo, i luoghi sacri in Georgia e il linguaggio di Facebook. Si è accorta che c’era un tema particolarmente discusso sui social network: la maternità. Quando lei stessa è diventata mamma si è chiesta: potrò lavorare come prima? I miei committenti faranno compromessi su orari, distanze, impegno? O, visto che sono indipendente, salterà tutto per aria? Per Valentina, come per molte mamme (e molti papà) il lavoro non è solo quell’attività obbligatoria per portare a casa la pagnotta. È un divertimento, una sfida, un modo di sentirsi utili o, per citare Gaber, liberi perché partecipativi. Questo studio, dice Valentina Simeoni, è per tutte le donne, libere professioniste ma non solo, che si sono chieste, almeno una volta, se dovranno a un certo punto rinunciare al

proprio percorso professionale o se saranno in grado di continuare così, per quanto tempo e soprattutto perché non si ritengono già sufficientemente realizzate curando i propri figli. L’autrice racconta di quando ha fatto il test di gravidanza: «Sono incinta proprio io, che pensavo di non esserne nemmeno capace», si è detta. «Figata». Secondo pensiero: «Devo fare colazione, se no il calo di zuccheri farà male al bambino. Il caffè si può? E il tè?» Terzo pensiero: «E adesso come faccio con il lavoro?». Si sente in difetto, una donna, rispetto al lavoro. Come dire: scusate, mi spiace, ma adesso non potrete contare su di me come prima, almeno non sempre. Ma non erano un diritto la maternità, i congedi, il riposo, le ore di allattamento, i giorni per malattia del bambino? Lo sono, tecnicamente, come abbiamo visto per le indennità di perdita di guadagno. Ma non è tutto così semplice. In mezzo a queste domande ci sono: la stanchezza, gli ormoni, le nausee. E poi, nove mesi dopo: la stanchezza, gli ormoni, le notti in bianco, i sensi di colpa. I sensi di colpa, il tempo: che ci sono sempre, che manca sempre. La ricercatrice antropologa parla con una ventina di donne nella sua stessa situazione e raccoglie testimonianze, pensieri e qualche tentativo di soluzione. Punto in comune di tutte le storie: è possibile. Non bisogna per forza mollare, se non si vuole. E certo ci sono anche vantaggi per chi ha un lavoro flessibile, in cui «comanda lei». Gli orari in cui si fanno i lavori domestici però diventano spesso folli; la testa ha sempre in mente sia i figli sia il lavoro; si deve poter contare su partner e famiglia e servizi; bisogna fare pace con la parte più intransigente di se stesse. Per le donne di questo libro, diventare madre era un desiderio fortissimo, nonostante non volessero smettere di lavorare. In altre parole, alla domanda: «Che cosa sei pronta a sacrificare della tua vita di prima, una volta che avrai un bambino?», loro rispondevano: «A tutto, tranne che al mio lavoro». Il fatto è che, oggi, i bambini arrivano spesso nel

L’arrivo dei figli per molte donne significa dover riorganizzare il tempo lavorativo. (Keystone)

momento più proficuo per il percorso professionale di un giovane adulto. Tra i venti e i trenta, per molti è il momento della formazione e della ricerca. Tra i trenta e i cinquanta invece è quello in cui si trova, si consolida e si sviluppa la propria competenza lavorativa. Ecco perché non è un crimine, vuol far capire l’autrice, se una coppia non ha voglia di rinunciare né all’una né a un’altra bellezza della vita: allargare la famiglia e andare avanti con un’attività che piace e che fa sentire realizzate le proprie potenzialità. In questo libro, il cui sottotitolo è Come vivere allegramente la maternità quando tutto è contro, c’è il capitolo su come essere multitasking al meglio; quello sulla riorganizzazione del tempo (quando lavorare?); e quello sulla riorganizzazione dello spazio (dove è meglio lavorare?). Proprio quando arrivo a questo capitolo del libro mi viene la curiosità di sentire a che punto sono i progetti di quel gruppo di genitori di Lugano che cercava una casa, dove mettere gli uffici su un piano e al piano di sotto uno spazio sorvegliato per i loro bambini. Chiamo Assunta Ranieri Bernasconi che insieme ad altre due mamme, Chiara Di Palma e Selva Varengo, aveva ideato lo spazio di Family Cowor-

king dal nome 8Hz (che sta a ricordare la banda di frequenza nell’uomo con la quale il cervello attiva la creatività e un generale stato di benessere). «Guarda, mi chiami in un momento che potrei parlarti per ore ma non ho un minuto», risponde dal set cinematografico in cui sta lavorando come costumista. «Ho la bimba a casa con la febbre, io sono al lavoro ma non ci sto con la testa. Avrei bisogno di un po’ di calma, di un aiuto. No, infatti, il progetto 8Hz è fermo. Ci manca l’ultimo pezzetto per completarlo e realizzarlo: il luogo. Abbiamo permessi e aiuti cantonali, sostegno e doni utili, abbiamo le famiglie interessate, le educatrici, ma manca la casa. Ieri sono andata a visitarne tre, ma è da un anno che cerco... sembra che nessuno voglia affittarci uno spazio per mettere i nostri uffici vicino allo spazio giochi con professionisti che badano ai nostri piccoli. Pensa a come saremmo più tranquilli se potessimo averli lì a due passi e non bisognasse attraversare la città per portarli al mattino e andare a prenderli al pomeriggio... per non parlare di chi deve ancora allattare. Noi genitori avremmo una produttività più forte e ci potremmo sostenere l’un l’altro come una comunità: questo lo hanno già capito in

un sacco di posti, nelle città svizzere, italiane, di tutta Europa...». Mi piace che Assunta parli di genitori, mentre il libro delega quasi unicamente alle mamme la questione di giostrarsi tra figli e lavoro. È vero che nella pratica è ancora la donna che rimette in questione la sua professione molto più dell’uomo, ma la scelta dovrebbe essere familiare, e non singola. E in tutto questo, i bambini? I bambini sono quelli che ci mettono davanti «i tempi vuoti, lenti, stupendamente inutili», per usare le parole di Valentina Simeoni. «Se non li conosci o se non li ricordi più te li insegna: il tempo del sonno, del gioco, della coccola, della meraviglia davanti a un raggio di luce sulla mano. Solo così la perfetta e calcolatissima ottimizzazione in cui siamo così brave trova il suo senso, altrimenti resta una fatica inutile». Ci sono persone per cui è più facile lavorare, anche con bambini piccoli, che mettersi sdraiate sul divano a poltrire insieme. E se i figli riusciranno a insegnare loro il valore del tempo (prezioso quando si lavora, prezioso quando si sta insieme a giocare, prezioso quando lo si passa da soli, in silenzio a svuotare la testa) allora sarà un insegnamento che durerà per tutta la vita.

Muri e muratori, le fondamenta del nostro mondo Pubblicazioni Esce grazie al CDE un nuovo volumetto dedicato alle «parole importanti» del nostro dialetto

e della nostra tradizione È affascinante attraversare la storia a cavallo delle parole. La nuova pubblicazione del Centro di dialettologia ed etnografia di Bellinzona, dedicata ai termini «muro» e «muratore», ci propone come sempre un viaggio attraverso il nostro cantone seguendo i suggerimenti di termini, modi di dire, locuzioni e giochi di parole. Elementi linguistici che, in qualche modo, rispecchiano comportamenti e abitudini del passato: così, attraverso la lingua, un patrimonio di idee e tradizioni rivive ancora nei nostri discorsi, magari a distanza e di tempo e all’insaputa di noi che li utilizziamo. Il nuovo libretto, come i precedenti, ripercorre da un lato gli aspetti più concreti legati alla realtà descritta dalle parole. Parlando di «muri», ci mette davanti agli occhi cosa rappresentino per il nostro territorio le tecniche di costruzione, come siano evolute nel tempo e come abbiano influenzato il mondo che ci circonda. Corroborato da un apparato di fotografie eloquente e ben

esemplificativo, il discorso attorno ai «muri» ticinesi si snoda dalle tecniche costruttive più antiche fino a quelle di oggi. Dedica ampio spazio, ad esempio,

alla tecnica dei muri a secco, una pratica muraria che richiedeva grande maestria ma che, a distanza di secoli, mostra ancora tutti i suoi pregi. Da notare che il discorso legato ai «muri» ticinesi non riguarda soltanto l’ambito della costruzione di abitazioni e stabili, ma anche quello importantissimo dei terrazzamenti, una caratteristica delle regioni di montagna che ha richiesto ai nostri antenati grande impegno e fatica. Per ciò che riguarda invece l’ambito antropologico legato al lavoro di costruzione, e cioè il mondo dei «muratori», la storia descritta dal piacevole libretto ci richiama a una delle tradizioni più importanti e valide della nostra terra: quella delle schiere di magütt che nei secoli sono emigrati dal Ticino per portare la loro competenza in varie regioni d’Europa. La storia delle maestranze edili ticinesi, infatti, ha dato luogo a una tradizione di grande capacità, coraggio e forza di volontà, trasformando in alcu-

ni casi alcuni di questi volonterosi lavoratori in architetti e capimastri di successo, in grado di soddisfare le richieste dei più importanti committenti. Grazie alla capacità e all’esperienza dei muratori ticinesi del passato si arriva, perché no, fino all’Accademia di Mendrisio dei giorni nostri. Affermazione che può parere una iperbole, ma non lo è.

Copie a concorso «Azione», in collaborazione con il Centro di dialettogia e di etnografia di Bellinzona, mette in palio tra i suoi lettori 10 copie del nuovo volume nella collana «Le Voci». Per partecipare all’estrazione basta seguire le istruzioni contenute nella pagina del sito web di «Azione» www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!

Il libro, curato da Michele Moretti, non è un estratto dal Vocabolario dei dialetti ma un’anticipazione delle voci relative, che saranno pubblicate in futuro. Il tracciato della trattazione passa in rassegna vari aspetti etnografici, artigianali e sociali, spiegando tecniche, descrivendo strumenti e materiali usati, e lasciando spazio, come sempre, anche a spunti divertenti legati a modi di dire locali o a tradizioni curiose. Piacevolissima come sempre l’impaginazione, molto curata in particolare per quello che riguarda l’aspetto iconografico. Qualcuno, chissà, in una delle molte foto pubblicate riconoscerà qualche suo antenato. Il nuovo volume della collana «Le Voci» (come i precedenti pubblicato, lo ricordiamo, con il sostegno del Percento culturale di Migros Ticino), sarà presentato ufficialmente in una serata pubblica che si terrà il 22 novembre prossimo alla Biblioteca cantonale di Bellinzona. /AZ


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Società e Territorio

L’amore spiegato ai figli Famiglia Parlare di affettività e sessualità con i propri figli, è stato il tema di una recente conferenza

della psicopedagogista Barbara Tamborini e dello psicoterapeuta Alberto Pellai Alessandra Ostini Sutto Arriva per ogni genitore il momento in cui il proprio figlio gli rivolge una delle tante domande sull’affettività o la sessualità. E l’adulto, spesso, non sapendo cosa o come rispondere, esce dall’impasse scansando l’argomento. Gli resta però l’amaro in bocca e, magari, la voglia che qualcuno lo possa guidare nella scelta delle parole giuste per spiegare amore e sessualità ai propri bambini. Attorno a queste tematiche ruotava «Mamma, papà? Che cos’è l’amore?», conferenza tenuta dai coniugi Barbara Tamborini (psicopedagosista) e Alberto Pellai (medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva), la seconda del ciclo «Ah! L’amore!», organizzato dalla Società ticinese di scienze naturali in collaborazione con L’ideatorio dell’Università della Svizzera italiana e l’Accademia di scienze naturali. Per cominciare a riflettere attorno a questa domanda, Pellai illustra i tre livelli evolutivi sui quali si organizza il nostro cervello utilizzando l’immagine di un casa: «il piano terra è quello della sopravvivenza e lo condividiamo con i rettili, tanto che viene chiamato “cervello rettiliano”; qui trova spazio una funzione meramente procreativa. Al piano intermedio si trova il sistema limbico, sede del sentire, e quindi delle emozioni e dell’eccitazione. È grazie a questo livello che la sessualità ci regala sensazioni molto forti. Al piano superiore, prerogativa degli esseri umani, troviamo le funzioni cognitive. Esse ci consentono anche di trasformare il fare sesso in fare l’amore, dal momento che i gesti che compiamo sono coniugati a quello che sentiamo e ai significati che condividiamo all’interno di una relazione».

Numerose ricerche dicono che molti ragazzi tra gli 11 e i 14 anni frequentano siti pornografici In una prospettiva educativa, dovremmo far capire ai nostri figli come la sessualità abbia una propria funzione in ognuno di questi piani, cercando al tempo stesso di trasmettere loro una visione nella quale essi siano il più possibile integrati. E in questo un ottimo aiuto è l’esempio dato dai genitori:

Desiderio e sintonia profonda arrivano nella vita dei ragazzi attraverso quello che osservano: i genitori sono l’esempio. (Keystone)

«Desiderio e sintonia profonda devono arrivare nella vita dei ragazzi attraverso quello che osservano», commenta Pellai, ricercatore e docente presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano. Quando si tratta però di parlare dell’amore ai nostri figli, nostro malgrado ci spaventiamo. E quando la sessualità compare, abbiamo l’istinto di nasconderla. Come quando compaiono scene di sesso alla televisione e cambiamo canale o pronunciamo frasi del tipo «Questo non va bene per te». Così facendo si entra nel codice del silenzio e del non detto. Questo vale ancora di più per i maschi: «Le nostre figlie nel 90-95% dei casi parlano con le loro mamme di sviluppo e sessualità e vengono preparate al menarca, mentre la stessa percentuale di maschi arriva allo spermarca (prima emissione di sperma) nel totale silenzio educativo dei genitori», continua l’esperto. Lasciati soli con le loro domande, i maschietti entrano facilmente in territori insidiosi. «Numerose ricerche ci dicono che la grande maggioranza dei ragazzi tra gli 11 e i 14 anni frequenta siti pornografici. Si tratta di una vera emergenza educativa se si pensa a cosa significhi saturarsi l’immaginario a questa età con visioni che mostrano una sessualità al di fuori del principio di realtà e di qualsiasi contesto narrativo, dove nulla lascia pensare alla dimensione dell’intimità, che inve-

ce è importante per generare un modello relazionale, emotivo e di sessualità condivisa», spiega Pellai. Non solo i maschi, anche le bambine vanno a cercare le risposte che non ricevono dagli adulti di riferimento, e lo fanno su google. «Il problema è che si perde il concetto di “fase specifica”, secondo il quale dosiamo, selezioniamo, offriamo parole, immagini e contenuti che si sintonizzano con l’attuale capacità di integrazione emotiva e cognitiva dei nostri figli», spiega lo psicoterapeuta: «su internet invece la stessa parola immessa da Caterina di 10 anni, Pietro di 12, Alice di 15 e Jacopo di 18 riceve esattamente le stesse risposte, anche se tra i bisogni educativi della figlia minore e del figlio maggiore passano ben tre fasi dell’età evolutiva». Inoltre, dietro il motore di ricerca non c’è un’équipe di educatori ma di strateghi del marketing. «Ci troviamo quindi con dei bambini che ricevono una risposta completamente inadeguata per i loro bisogni di crescita ma perfettamente adeguata ai bisogni del mercato. Dove la dimensione non è quella del fare l’amore ma del fare sesso e quindi totalmente pulsionale, impulsiva, eccitatoria», continua Pellai. Il più grande aiuto per districarsi in questo delicato contesto è il dialogo. «È un filo rosso che continua nel tempo, nella disponibilità di parlare delle cose importanti. Bisogna provare pian piano a trovare le parole, a costruire dei significati. Per il bambino si costruisce

così un tesoro, che rimarrà per sempre», spiega Barbara Tamborini, che opera come consulente per progetti con le scuole. Già con un bambino piccolissimo si può iniziare l’educazione alla sessualità. «Quando ci prendiamo cura del suo corpo, iniziamo a fargli sperimentare come determinati tocchi generino delle sensazioni piacevoli; nominando invece le parti del corpo, lo aiutiamo a costruire i propri confini corporei. Si creano così le basi per l’intimità, la confidenza e la naturalezza per quel che riguarda gli aspetti legati al corpo», afferma la psicopedagogista. Verso i 2-3 anni le occasioni per parlare di sessualità aumentano. Per esempio, non sono pochi i bambini che a questa età si toccano le parti intime. «Bisogna allora decidere quale strategia adottare, se dirgli di smetterla, lasciarlo fare, o altro. Questa situazione può riproporsi verso i 9-10 anni, con bambini quindi in pre-adolescenza – continua – in questo caso bisognerebbe iniziare un dialogo che non spaventa e non colpevolizza, ma aiuta a costruire delle mappe su come si vive la propria sessualità, per esempio dicendo che quello che sta facendo è qualcosa di bello, che procura delle belle sensazioni, ma che serve una situazione di intimità dove poterlo fare». Certo, instaurare questo tipo di dialogo non è facile, ma con il tempo diventa più naturale e i figli lo percepiscono. L’obiettivo cui dobbiamo mirare

un’eroina. La frattura con il mondo infantile viene brutalmente operata dall’ingresso, nella scuola e nella comunità, di una ragazza nuova, Betty, dal comportamento violento e malvagio. Non c’è redenzione per il male che compie, c’è il racconto, drammatico e asciutto, dei suoi atti di bullismo nei confronti degli altri ragazzi e dell’ostilità accanita nei confronti di Toby, il terzo potente protagonista del romanzo, un uomo solitario, provato dalla guerra, che vive emarginato nei boschi, ma che ha, in Annabelle e nella sua famiglia, degli alleati accoglienti e non giudicanti. Sarà Annabelle ad accollarsi, appunto, in prima persona, l’onere di lottare contro i preconcetti, le ingiustizie, il male. E se il finale non porterà troppo facili e trionfanti soluzioni, avrà tuttavia una sua luce di speranza. Non possiamo sempre trovare delle ragioni per il male, ma possiamo combatterne l’insensatezza, assumendo il fardello di scelte giuste e coraggiose.

Céline Claire – Qin Leng, La tempesta, La Margherita Edizioni. Da 3 anni Un albo incantevole, che riesce a parlare ai bambini di accoglienza, solidarietà e integrazione, ma facendolo attraverso una storia bella in quanto tale, senza le forzature che spesso appesantiscono i libri troppo tesi a portare «un messaggio». Le illustrazioni, molto evocative, subito ci portano dentro un bosco, dove vari animali stanno lavorando sodo per fronteggiare una tempesta in arrivo. Ma nella nebbia, tra gli ululati del vento, ecco due ombre avanzare in lontananza. In quelle due ombre, che sapientemente l’illustratrice profila nella pagina, si intravvedono due figure di viandanti, uno più alto e uno più basso. Sono Grande Orso e il suo piccolo: vengono da lontano, non hanno niente, tranne qualche sacchettino di tè, chiedono di poterlo scambiare con un riparo e un po’ di cibo. In quei due orsi, che «procedono a fatica, controvento, stretti l’uno all’altro», c’è

è una relazione nella quale i figli parlino, quando lo vogliono, di sessualità o di affettività con noi, oppure noi proponiamo loro un libro sul tema, ma soprattutto che sappiano che quando vogliono parlare ci siamo e che con noi possono parlare di tutto. «Dobbiamo gettare tanti semi con i quali gli dimostriamo che vogliamo essere sulla scena. Quando c’è un campanello d’allarme ci accorgiamo di aver seminato bene perché nostro figlio richiede il nostro aiuto o anche solo il nostro ascolto. L’obiettivo come genitori è creare questa alleanza, che, nel momento del bisogno diventa un terreno d’incontro dove dire le parole più importanti e ricostruire quella serenità che ci permette di superare degli ostacoli», commenta l’esperta. Nella quotidianità le buone intenzioni sono a volte minate dal fatto che i bambini sembrano essere specializzati nel porre le domande più impegnative nei momenti meno opportuni. Ci troviamo così di fronte ad una decisione: fare uno sforzo e rispondere o cedere alla tentazione di dire «ne parliamo domani», consci del fatto che molto probabilmente così non sarà. «Per affrontare certe questioni il momento dev’essere dettato dal bambino. A chi non è mai capitato di sentirsi in forma, tranquilli e provare ad abbordare un tema delicato con i propri figli, magari dopo aver letto un libro sull’argomento? Il risultato? Dopo pochi secondi li abbiamo persi. La sfida è quindi quella di essere pronti a cogliere l’attimo dell’incontro», afferma Barbara Tamborini. Quando siamo confrontati con una domanda spiazzante una prima cosa da fare è porre a nostra volta delle domande, del tipo «dove hai sentito questa parola?», «perché mi stai facendo questa domanda?». «Ciò ci permette di prendere tempo e ci porta spesso a capire che dietro alla domanda c’era solo una curiosità e quindi a ridimensionare l’impatto che essa aveva avuto su di noi; spesso il bambino non si aspetta grandi discorsi, gli basta una piccola risposta», conclude Barbara Tamborini. Informazioni

Il prossimo incontro del ciclo «Ah! L’amore!» è previsto giovedì 29 novembre, al Cinema Lux, Massagno, 20.30: la filosofa Francesca Rigotti e l’evoluzionista Telmo Pievani rifletteranno sul tema «Il maschio è inutile?».

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Lauren Wolk, L’anno in cui imparai a raccontare storie, Salani. Da 13 anni Un’opera prima di un’autrice americana di grande maturità stilistica (non il solito sbandierato autore giovanissimo), che alla soglia dei sessant’anni è stata accolta da ammirazione unanime da parte della critica internazionale. Da più parti il romanzo è stato accostato a Il buio oltre la siepe, ma è indubbio che, seppure l’impegno civile e la lotta contro l’ingiustizia e il pregiudizio ne siano temi cardine, si tratti di un’opera con una sua energica personalità. Il titolo originale, Wolf Hollow (La Conca dei Lupi), di grande connotazione simbolica, ne avrebbe forse rappresentato meglio il contesto, che il titolo italiano rischia invece di fare fraintendere. Non si tratta di narrare storie, ma di assumere una posizione nei confronti della verità. Siamo in un contesto rurale della provincia americana, nel 1943, la guerra che si combatte in Europa fa sentire i

suoi cupi rimbombi nel cuore di molti personaggi. Io narrante della serrata vicenda è Annabelle, che quell’anno, l’anno dei suoi dodici anni, è costretta a congedarsi dall’infanzia spensierata – dove c’è sempre qualcuno a cui puoi delegare le scelte (dove puoi nasconderti «in un fienile con un libro e una mela» lasciando fuori il mondo) – e deve assumersi la responsabilità di ciò che dice e ciò che fa. Un fardello pesante, ma Annabelle è coraggiosa: «me lo accollai ugualmente, e lo portai come meglio potevo». In questa frase è racchiuso tutto il senso etico della ragazzina, il suo essere, davvero,

la sintesi poetica, simbolica, a misura di bambino, di tutti i popoli migranti in cammino. Gli altri animali sono diffidenti, non aprono le loro porte. Solo un cucciolo di volpe va loro incontro offrendo una lanterna, ben conscio della povertà del suo dono, che non sazia né scalda come il cibo o il fuoco. Eppure proprio quella lanterna – ottima idea narrativa, di altrettanta forza simbolica delle intense immagini – sarà d’aiuto non tanto agli «stranieri» ma proprio agli animali del bosco, quando avranno bisogno, a loro volta di chiedere un riparo. E di chiederlo agli «stranieri». Una storia che illumina i cuori.


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Sharktivity Ho lasciato il titolo nella versione originale perché… perché è intraducibile. O meglio, lo è nella misura in cui, come peraltro molti neologismi americanostatunitensi, una volta tradotto in qualsiasi altro idioma suona strambo. Ci provo comunque e butto lì un’«attività squalifica» – o forse meglio «squaliera» piuttosto che «squalica»… mmmh… non facile costringere l’importante concetto in un flatus vocis. Sharktivity sta per shark activity ed è il nome neologistico di cos’altro se non una app sviluppata dall’Atlantic White Shark Conservancy, organizzazione votata «ad aiutare tanto la gente quanto gli Squali Bianchi a convivere pacificamente» (sic, ovvero testuale). L’area interessata è quella palestra di attività marine di natura ludico-sportiva che gravita attorno a Cape Cod, a Nord di New York, che sta agli States come Taormina sta ai Cisalpini e St. Moritz/San Murezzan ai Confederati, solo che lì si fa il boogie

boarding che è – mi si dice – una sorta di surfing che potrebbe praticare con profitto atletico l’Altropologo. Se non fosse ahimè per gli Squali Bianchi – proprio loro. Sempre loro. E sempre in agguato. Per fortuna c’è il crowdsourcing – che non si traduce ma si spiega col dire che uno – che chiameremo X – è là fuori in acqua e intravede uno SB che si aggira torno a torno facendo finta di niente o magari col solo intento di farsi i fatti suoi. Allora X telefona alla app e comunica la posizione approssimativa (sì, perché non pretenderete mica che vada a prendere le coordinate sotto lo coda del Nostro) del Mostro. A sua volta Y, che sta per l’appunto bugibordingando in zona, estrae il telefonino dalla fondina e calcola col gps la propria longitudine e latitudine (che peraltro è impossibile da tenere a mente per più di dieci secondi quando si polleggia sulla costa di Rimini e immaginatevi quando è questione di vita o di squalo). Y la confronta poi con

quella (stimata) del Mostro e, posto che a 50 km orari di velocità media lo stesso nel frattempo non ne abbia già fatto bistecca, decide se sia il caso o meno di continuare il bagnetto. Il problema è che per la app son tutte cose serie. Prodiga di consigli, la prende inizialmente alla larga anche se in maniera un po’ perentoria: «L’unico modo per escludere completamente un incontro ravvicinato con uno Squalo Bianco è di starsene a terra». Che è, peraltro e volendo essere feroci, una balla: all’Acquario di Baltimora mi sono messo caninocontro-canino con uno Squalo Bianco a due centimetri di vetro temperato di distanza e col biglietto mi hanno anche dato un buono sconto per una pizza al bar che meglio lo squalo… Non si può non pensare che ci sia qui più di un’eco a quell’infamoso detto del Presidente T. Roosevelt «l’unico indiano buono che ho incontrato è un’indiano morto etc…». Però, una volta messe le cose in

chiaro, la app prosegue in tono rassicurante informando che, nel 2017, di 88 attacchi di squali conosciuti al mondo solo cinque sono risultati mortali. E poi via alle statistiche della serie «L’abbiamo scampata bella». In principio si afferma che «comunque sia sono molti di più gli squali uccisi dall’Uomo che gli Uomini uccisi dagli squali» (A voi fa pensare? All’Altropologo francamente poco). E poi: ci sono molte più probabilità di lasciarci le penne cadendo dalle scale, per avvelenamento o in un incidente automobilistico o per condizioni meteo avverse. L’app si fa poi più «scientifica» e mirata alla clientela statunitense: gli americani (beati loro), hanno più chance di essere ammazzati da un colpo di fulmine che da una vacca impazzita. Al che aggiungerei che, per quanto riguarda gli Europei, ne hanno ancora meno di essere incornati da un Bisonte Europeo (800 esemplari circa fra Polonia e Bielorussia). Insomma, conclude

l’app in questione, con la benedizione del Florida University Museum che mantiene un file sugli attacchi di squali, solo lo 0,00002 delle morti al mondo era nel 2017 attribuibile agli squali. Le organizzazioni per la salvaguardia dello Squalo Bianco preferiscono l’espressione «Squalo Bianco» (SB) al «Grande Bianco/Great White» della tradizione per evitare implicazioni razziste (!) e promuovono l’espressione «incontro con lo squalo» piuttosto che «attacco dello squalo» per una sorta di par condicio. I lettori ormai d’antan di questa rubrica avranno compreso che, nel corso delle puntate, lo SB è divenuto un po’ come il CR7 per il calcio: paradigma di uno «sport» di massa (in questo caso quello che chiamammo già a suo tempo «lo sport della paura») nel quale chi meno lo pratica più si sente coinvolto. Domanda: non è che si viva in una società a rischio non di SB ma di infantilizzazione?

umana e ammetta che, come tutte le mamme, vive un amore attraversato da momenti di stanchezza, di solitudine, di incomprensione, di noia e di stizza. Se ha delle amiche, ne parli con loro e vedrà che la mamma perfetta non esiste e che i bambini sono disposti a perdonare gli errori dei genitori quando, nonostante tutto, si sentono amati. L’amore, come il sole, più è forte più produce ombre. E l’amore materno è, in questo senso, particolarmente potente. Mentre sua madre, stando alla sua lettera, è stata distratta da un eccessivo attaccamento al lavoro, può darsi che lei sia troppo legata al suo ruolo di madre. In questa epoca essere «solo mamma» non basta. Adesso che suo figlio ha tre anni e può andare all’asilo, cerchi di ravvivare l’intesa con suo marito, di sentirsi donna oltre che mamma, di trovare nuovi interessi, di partecipare attivamente alla vita sociale e scolastica del bambino. Vi è, oltre alla maternità intensiva verso i propri figli, una maternità estensiva che comprende tutti i

bambini e, con essi, le persone fragili e dipendenti, come gli anziani e i malati. Attraverso la riflessione, l’introspezione e il ricordo, ritorni al passato e abbracci la bambina che è stata, la bambina sola, delusa, irata, troppo presto sostituita da una sosia fittizia e vedrà che, così ricomposta, troverà la capacità di guardare a se stessa con comprensione e al futuro con fiducia. Crescendo Marco l’aiuterà a stabilire una relazione non priva di imperfezioni ma viva e vera, utile a entrambi perché, accanto a un bambino che cresce, crescono anche i suoi genitori. I figli rappresentano una seconda possibilità per divenire ciò che avremmo voluto essere, cerchiamo di coglierla per il bene di tutti.

dell’orgasmo. Si piomba, infine, in un ridicolo che non diverte, neppure. A lungo andare, quest’accozzaglia rischia d’intaccare il valore vero che, in partenza, aveva giustificato l’avvento delle ricorrenze, prima che diventassero moda. Dovevano segnare un punto stabile nel calendario e, soprattutto, nelle conoscenze storiche e nelle coscienze morali. In pratica, sono poche quelle che ancora meritano la nostra attenzione: il 27 gennaio, giornata della memoria, dedicata all’olocausto e ai genocidi del secolo scorso, l’8 marzo giornata della donna, sempre esposta a discriminazioni e violenze, il 1. dicembre, giornata dell’AIDS e poi le altre giornate, organizzate sul piano nazionale e dedicate alla ricerca sul cancro e malattie ancora da esplorare. Intanto, a dispetto dell’affollamento e della confusione, c’è sempre chi s’impegna per ottenere un posto in calendario per dare visibilità e ascolto a una causa, degna della considerazione

pubblica. Per tornare al nostro titolo, si tratta dei singles che, anche in Svizzera, ce l’hanno fatta: l’11 novembre scorso, 11/11 insomma, si è celebrato il primo Singles’Day nazionale. Come, ma non siamo stati in molti, si è letto sui giornali d’oltre Gottardo. In realtà, questa giornata speciale, quasi ignorata, dovrebbe rappresentare le esigenze materiali e le aspirazioni sociali e morali di una folta collettività: il 35% della popolazione elvetica si compone di uomini e donne, che, per scelta o destino, vivono da sole. E, se la cavano. Come capita a me che, ormai single di ritorno, ho avuto modo di apprezzare i cambiamenti a favore di una condizione, un tempo, esposta a ironie e pregiudizi. Grazie anche alla definizione inglese: il single non è più la zitella rifiutata o lo scapolo mammone. È uno, o una, che con la solitudine ha imparato a convivere, attivando altre risorse. Non mi sembra che la nuova ricorrenza possa contribuire a risolvere problemi sfuggenti e irrimediabili.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La mamma perfetta non esiste Cara Silvia, oggi per la prima volta mi trovo, non a leggerla ma a scriverle per una questione per cui gli altri mi guardano male e certe volte lo so, hanno ragione. Vorrei tanto correggermi e cambiare, essere diversa e migliore ma ogni volta ci ricasco. Mi propongo non ripetere più i miei errori ma evidentemente non ce la faccio. Cercherò di raccontarle la mia situazione, anche se questa confessione, mai fatta prima, mi costa molto. Mi sono sposata tardi e temevo che fosse troppo tardi per restare incinta ma dopo pochi mesi è iniziata una gravidanza bellissima, che mi sono goduta sino in fondo. Il parto invece è stato tremendo: diciotto ore di travaglio e dolorose lacerazioni che mi hanno costretta a restare in clinica più del previsto. Tornata a casa, ero così stanca che non riuscivo neppure ad allattare Marco, il mio bellissimo bambino. Era estate e mia madre mi ha lasciata sola ripartendo subito per le vacanze che aveva interrotte di malavoglia. Mio marito si era messo in ferie e mi aiutava in ogni modo, sempre

affettuoso e premuroso, ma io non riuscivo a riprendermi. Tutto era troppo per me: i risvegli notturni, le ore delle poppate, il continuo cambio dei pannolini… avrei voluto fuggire, sparire. Con mio marito mi fingevo felice ma appena rimasta sola urlavo dalla rabbia di non riuscire a essere la brava mamma che avevo sognato di essere. Sin da quando ero piccola, di fronte ai comportamenti altalenanti di mia madre, alla sua indifferenza, mi ero ripromessa di non essere come lei, di essere una mamma bravissima, una mamma perfetta. Ma non è andata così, anzi peggio. Mentre mia madre era fredda, io sono ribollente: ai tanti capricci di Marco, che ora ha tre anni, reagisco con urla, sgridate e talvolta, quando sono sicura di non essere vista, strattoni e qualche sculaccione. Ma subito mi pento e l’abbraccio, lo bacio, gli chiedo perdono. Finirà mai questo tormento? / Estella Sì, Estella, finirà. Finirà perché con questa lettera si è decisa a chiedere aiuto, ad ammettere che da sola non

ce la fa perché il passato la condiziona, perché il dolore che sua madre le ha inferto non può essere superato soltanto con un atto di volontà, con la promessa: «non voglio essere come lei». È vero, come non smetto mai di affermare, che l’amore non ricevuto può essere colmato con l’amore donato, ma resta, nel suo caso, un residuo non elaborato: la rabbia, che i comportamenti contraddittori e imprevedibili di sua madre le hanno suscitato quando era bambina e, a quanto pare, anche oltre. Il suo ideale di mamma perfetta è stato in questo senso fuorviante perché le ha impedito di riconoscere l’odio celato dietro l’amore idealizzato. La collera che ora rivolge a Marco è diretta anche contro se stessa, incapace di essere la figura sublime che si era riproposta. L’impossibilità di realizzare un modello irraggiungibile la fa sentire inadeguata al compito, una matrigna, una strega, mentre è soltanto una mamma turbata. Abbandoni, la prego, le immagini fantastiche che perseguitano la sua mente, si riconosca

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Anche i singles hanno la loro «giornata» Ormai c’è posto per tutti e per tutto sul calendario, dove spesso i giorni normali sono, in pari tempo, giornate speciali, dedicate ai più svariati obiettivi. A prima vista, può sembrare un’altra conquista democratica e laica a nostro pieno vantaggio. Quello che era un privilegio, riservato ai santi e ai grandi personaggi, i cui nomi e le cui gesta avevano meritato una data fissa a futura memoria, adesso si presenta come una nuova occasione aperta alla collettività che, giustamente, ha voglia di esprimersi e farsi sentire. E ne approfitta, a proprio uso e pericolo. Infatti, continua a crescere la moltitudine di persone, associazioni, movimenti, gruppi, enti pubblici e privati, che aspirano ad appropriarsi di una giornata da destinare alla propria causa. Ciò che, ovviamente, si sta scontrando con una circostanza ineluttabile: i giorni dell’anno rimangono, per forza di cose, 365. E così ci si trova alle prese , anche in una sfera un po’ astratta o virtuale, con gli effetti del

sovraffollamento, paragonabili a quelli che, in forma concreta, incombono sul turismo e sul traffico stradale. Insomma, è il prezzo da pagare quando il molto diventa il troppo, provocando, in questo caso, confusione, sovrapposizioni, malintesi sulla scala dei valori, infine assurdità controproducenti. Preso d’assalto, il calendario sta per scoppiare. Per riuscire a soddisfare una pletora di richieste esorbitanti, si ricorre a soluzioni di ripiego. Gli esempi si spre-

cano. Ecco che il 21 marzo, giorno già di per sé significativo come equinozio di primavera, si scorpora in quattro giornate tematiche: giornata delle discriminazioni razziali, giornata della pace interiore, giornata della poesia voluta dall’Unesco, giornata della sindrome di Down. Accumulati, questi obiettivi si cancellano a vicenda. Con il risultato involontario di restituire spazio al vecchio «San Benedetto la prima rondine sul tetto», come s’imparava, con una poesiola, alle mie elementari. Ma il caso delle coincidenze, che finiscono per annientarsi, è tutt’altro che isolato. Anzi rappresenta una tendenza che intacca la credibilità, la ragion d’essere, di celebrazioni, sopraffatte, sul piano quantitativo, dalla proliferazione. Peggio, ancora, su quello qualitativo, dalle motivazioni-barzelletta. E, per fortuna, sempre più ignorate dall’opinione pubblica giustamente indifferente alla giornata delle torte, della nutella, della pizza, della neve, del pane, degli Ufo,


Foto: Fabian Biasio

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Agire contro il cambiamento climatico Da anni, Caritas sostiene gli abitanti dei Paesi più poveri nell’adattamento ai cambiamenti climatici e nel miglioramento della protezione dalle catastrofi naturali. Paesi di intervento: Bangladesh, Brasile, Cambogia, Haiti, India, Kenya, Mali, Somaliland, Tagikistan, Ciad • Rendiamo attenti i piccoli coltivatori sull’importanza di preservare le risorse naturali ed elaboriamo con loro nuovi metodi agricoli, adattati ai cambiamenti climatici. • Installiamo infrastrutture che migliorano l’accesso all’acqua e la protezione contro le catastrofi naturali. Costruiamo anche sistemi di allarme e formiamo le squadre di difesa contro le catastrofi.

Foto: Fabian Biasio

• Rimboschiamo le foreste per lottare contro l’erosione del suolo.

Così come menzionato nella Convenzione di Ramsar, il lago e tutta la zona umida di Wegnia si stanno prosciugando. Pescatori, allevatori e contadini abbandonano progressivamente questa regione per mancanza di cibo. Anche Modeste Traoré, il cui padre già pescava in questo lago, si vede costretto ad abbandonare quest’attività.

«La siccità non deve prenderci il lago» Il pescatore Modeste Traoré e la sua famiglia non possono più vivere di pesca sul lago Wegnia, a nord di Bamako (Mali), che sta scomparendo a causa di siccità ed erosione. Per salvarlo dai cambiamenti climatici e per garantire la sopravvivenza di migliaia di persone in quella regione, le sue rive vanno risanate. Caritas aiuta. famiglia e quella dei suoi due fratelli che vivono insieme, il resto l’ha venduto, ricavandone circa 200 franchi, appena sufficienti per comprare una mucca, niente di più. Modeste si è quindi dato all’agricoltura. All’indomani delle prime precipitazioni nella stagione delle piogge, è già indaffarato a piantare il sorgo, approfittando della terra umida e implorando il cielo di non dover aspettare settimane prima dell’arrivo della pioggia seguente.

Un pescatore senza pesci Le precipitazioni sono costantemente in diminuzione e imprevedibili. Violente tempeste trascinano nel lago alberi sradicati e terra. A volte esso si riempie in una sola notte, ma si prosciuga altrettanto rapidamente. «Anche se a volte piove molto, ciò non mi dà speranza. Quando arriverà la prossima pioggia?» si chiede Modeste Traoré. Nel 2017 ha pescato 50 chili di piccoli pesci. Una parte l’ha tenuta per la sua

Il bestiame diventa una risorsa In prossimità del lago, Modeste Traoré possiede qualche banano e alcuni alberi di mango. Coltiva principalmente il sorgo e un po’ di mais e arachidi, destinati soprattutto alla vendita. Fuori stagione, le donne coltivano pomodori, peperoni e insalata. Quando la raccolta dei prodotti orticoli è buona, i commercianti di Bamako si spostano più di 150 km per comprarne una parte. Quando non si arriva a un

Per saperne di più su Modeste Traoré: farelacosagiusta.caritas.ch

accordo sul prezzo, è necessario andare al distante mercato di Tioribougou. In mancanza di altri ricavi, dal 2017 Modeste si è visto costretto a vendere diversi capi del suo bestiame. Le soluzioni esistono La mancanza d’acqua e i parassiti minacciano costantemente il lavoro in campagna. Rimboschimento, risanamento delle rive, nuove varietà più resistenti, adattamento di tecniche agricole: le soluzioni esistono, ma hanno bisogno di diversi anni per dare risultati. Gli abitanti del villaggio sono determinati a metterle in pratica.

• Sviluppiamo e insegniamo nuove tecnologie che rendono possibile un’economia ecologica e sostenibile. • Nell’ambito dell’aiuto umanitario, forniamo generi di prima necessità alle persone colpite o sfollate, cibo, cure, accesso all’acqua potabile, sostegno materiale in denaro contante, foraggio per il bestiame, nuovi animali per sostituire quelli persi e nuove sementi. Foto: Lassine Coulibaly

«I miei figli non saranno pescatori, come me e mio padre» rimpiange Modeste Traoré. Prima di lui, lo era stato anche suo padre. Il lago Wegnia non contiene più acqua a sufficienza. Gli anziani del villaggio ricordano un tempo in cui molte persone giungevano per visitarlo. Vi erano innumerevoli uccelli e la vegetazione e le colture erano rigogliose. Tutto questo ora è solo un ricordo. Il cambiamento climatico colpisce duro.

Riserve alimentari insufficienti A causa di cattivi raccolti, molte famiglie della regione del lago Wegnia non hanno più avuto riserve alimentari a partire da metà anno 2018 e hanno dovuto ricorrere a un aiuto alimentare di base. Durante il periodo invernale, per diversificare le fonti di reddito, molti giovani lavorano nelle miniere d’oro non ufficiali che si moltiplicano nell’Ovest del Mali. Alcuni trovano un impiego temporaneo nella capitale Bamako, altri emigrano più lontano ancora. Nel villaggio, gli abitanti adottano nuove abitudini per alleggerire la pressione posta sul lago. Importante rimboschimento In questi ultimi mesi, tutto il villaggio si è attivato per coltivare e piantare più di 100 000 nuovi alberi. Alcuni contadini hanno dovuto spostare i loro campi, situati troppo vicino al lago, per lasciare il posto agli alberi, che tratterranno meglio l’acqua nel terreno. Il rimboschimento procede. La coltivazione si allontana dal lago per diminuirne l’erosione. Si costruiscono nuove recinzioni, usando meno legno. Caritas e i suoi partner locali invitano i contadini a guardare oltre e più lontano, per aiutare l’ambiente a rigenerarsi, assicurando maggiore nutrimento e redditi futuri.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Ambiente e Benessere Sul sentiero degli Dei A dorso di un mulo con lo sguardo su Amalfi, Positano e Sorrento ma lontani dalla costa

L’ibrido non basta più In Inghilterra gli incentivi all’acquisto più importanti saranno riservati ai modelli full-electric, inoltre nella capitale britannica arriveranno i primi taxi senza taxista

Le 55 regole di Ridolfi La viticoltura fu oggetto di molti studi da parte dell’Accademia dei Georgofili di Firenze pagina 20

Tra moda e mitizzazioni Il «misterioso» successo dello zenzero ha radici lontane e ha avuto a sua volta alti e bassi

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Scheletri di primati a confronto. (Pxhere.com)

Le storie che di noi ci racconta il DNA Divulgazione scientifica San Kean racconta la storia della genetica e la nostra storia nascosta nei geni Lorenzo De Carli È utile pensare al DNA e ai geni come due entità distinte, sebbene i secondi siano fatti del primo. Il DNA è qualcosa di tangibile, è una sostanza chimica, che si appiccica alle dita. I geni sono lunghi filamenti di DNA ma sono anche cose immateriali perché, in pratica, sono unità d’informazione. Il gene è simile a una storia, mentre il DNA è la lingua in cui la storia è scritta. I cromosomi sono strutture più grandi, formate da geni e DNA, e assomigliano un po’ a libri pieni di storie. Le cellule sono una specie di biblioteca che reca le istruzioni per il funzionamento dell’intero organismo. La storia di come si è compresa la correlazione tra DNA, geni, cromosomi e cellule è lunga e non ancora finita, anche perché – nel frattempo – l’epigenetica ha attirato l’attenzione sul fatto che l’espressione di certi geni dipende anche dall’interazione degli organismi con l’ambiente. Nonostante questi limiti, siamo già in grado di usare il nostro codice genetico per raccontare il nostro passato con una precisione di dettaglio impensabile solo pochi anni fa. Questo è lo scopo che si è prefissato San Kean, scrivendo Il pollice del violinista, una raccolta di testi dedicati sia alla storia della genetica stessa, sia alla nostra sto-

ria profonda, scritte nel nostro DNA. Spiegando come eravamo sul punto di estinguerci, San Kean si sofferma su alcune particolarità della nostra alimentazione. La sua ricostruzione parte dall’osservazione che le scimmie «hanno molari e stomachi fatti per ridurre in poltiglia la materia vegetale, e in natura seguono fondamentalmente una dieta vegana». È vero che ci sono primati, come gli scimpanzé, che mangiano con regolarità termiti o altri piccoli animali e che, in particolare, gli esemplari più giovani talvolta si cibano di piccoli mammiferi indifesi, tuttavia la dieta dei primati è prevalentemente vegana. Prova ne è che in quasi tutte le scimmie un’alimentazione ricca di grassi e colesterolo è dannosa per l’intestino e per le arterie. Com’è possibile, quindi, che noi umani, che condividiamo con i primati gli stessi antenati, consumando carne con moderazione, non accusiamo gli stessi gravi problemi? Che i nostri progenitori paleolitici mangiassero carne è reso evidente dai molti strumenti da taglio abbandonati accanto ai cumuli di ossa dei megamammiferi con cui ci sfamavamo, sicché già nel Pleistocene eravamo onnivori. Ma cos’è avvenuto perché noi potessimo mangiare carne senza soffrire dei disturbi degli altri primati? Ciò che rese possibile acquisire an-

che la carne alla nostra dieta furono le mutazioni del gene apoE (dell’apoliproteina E). La prima mutazione «stimolò la capacità delle cellule killer del sangue di attaccare i microbi, come quelli letali che si celano in ogni boccone di carne cruda». Tuttavia, pur in grado di mangiare carne, come gli altri primati eravamo esposti agli effetti devastanti sul sistema cardiocircolatorio prodotti da un eccesso di grassi di origine animale. La mutazione dello stesso gene apoE che ci permise di distinguerci dagli altri primati si verificò circa 220mila anni or sono, consentendoci di scomporre i grassi pericolosi e il colesterolo, con l’effetto di poter vivere il doppio rispetto agli altri primati. La lettura delle storie scritte nel DNA riserva sorprese che, talvolta, possono lasciare davvero stupefatti. Per esempio veniamo a conoscenza del fatto che siamo i primati con la maggior omogeneità genetica, sebbene la popolazione mondiale abbia raggiunto i sette miliardi e mezzo, e nonostante il diverso colore della pelle, le diverse fisionomie e le diverse fattezze, tutti dipendenti dai diversi ambienti che abbiamo colonizzato nella nostra lunga migrazione dall’Africa. Gorilla e scimpanzé, di cui sono rimasti circa centocinquantamila esemplari per ciascuna specie, hanno, per contro, una varietà genetica supe-

riore alla nostra, malgrado ci appaiano molto simili. La spiegazione finora più accreditata è che c’è stato un momento recente della nostra storia evolutiva, nel quale la popolazione umana è stata composta da un numero di esemplari inferiore ai gorilla e agli scimpanzé. Eravamo, cioè, sul punto di estinguerci. Che cosa causò questo «collo di bottiglia», attraverso il quale passarono così pochi esemplari della nostra specie da spiegare la nostra odierna omogeneità genetica? In questi anni, gli studiosi considerano che la più massiccia riduzione della popolazione mondiale avvenne circa 70mila anni or sono, quando l’esplosione del vulcano Toba in Indonesia eruttò 2700 chilometri cubi di materiale, che oscurarono i cieli della Terra per anni. Qualcosa di paragonabile, ma di dimensioni molto minori, accadde nell’aprile del 1815, quando l’eruzione del vulcano Tambora cancellò per un anno l’estate da tutto il pianeta. «Secondo la teoria del collo di bottiglia del Toba, l’eruzione iniziale portò a una diffusa carestia, ma fu il successivo inasprimento dell’era glaciale a portare la popolazione umana al limite dell’estinzione». Prova indiretta sarebbe il fatto che anche il DNA di macachi, orangutan, tigri, gorilla e scimpanzé mostra segni di un collo di bottiglia dopo l’eruzione del Toba.

Scopriamo nuove cose della nostra storia profonda non solo leggendola nel nostro DNA, ma anche in chi ci sta vicino. Confrontando il DNA del pidocchio del capo con quello del pidocchio del corpo, si è per esempio potuto stabilire quando abbiamo cominciato a indossare con regolarità degli indumenti: circa 190mila anni or sono, vale a dire quando, liberatici della peluria, avevano cominciato a crescerci i capelli. Mentre il costo per il sequenziamento di un intero genoma, in un decennio, si è ridotto da tre miliardi di franchi a circa diecimila, nuove storie molto avvincenti stanno per essere raccontate non solo dalla genetica ma anche dall’epigenetica. È proprio su questa disciplina che, negli ultimi capitoli del suo libro, San Kean attira l’attenzione: dallo studio del modo in cui l’ambiente e le nostre abitudini, anche nel corso della nostra stessa vita, regolano l’espressione dei geni, sta emergendo un fatto nuovo, vale a dire che il DNA non contiene istruzioni che gli organismi eseguono come un hardware eseguirebbe un software, non c’è un determinismo assoluto; siamo, invece, di fronte a qualcosa che assomiglia di più a una partitura musicale, la quale definisce, sì, dei vincoli, ma poi chiede di essere interpretata. È così anche delle istruzioni depositate nel nucleo di ogni nostra cellula.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Ambiente e Benessere

A dorso di mulo

Reportage Un viaggio nel passato a poca distanza dalla Costiera amalfitana

Natalino Russo, testo e foto L’aria è fresca, qui in montagna. Ma da qualche parte giunge l’odore del mare. Man mano che il mattino avanza, il sole scalda le rocce; le nuvole vanno diradandosi e la vista spazia sino al mare azzurro laggiù, in fondo all’abisso di pareti e ripidi valloni. Le capre pascolano e sul sentiero tra le rocce passa un ragazzo in groppa a un mulo. La Costiera amalfitana deve molta della sua bellezza alla geologia: milioni di anni fa le spinte tettoniche sollevarono per oltre mille metri grandi ammassi di roccia calcarea e formarono i Monti Lattari, una penisola che separa il golfo di Napoli da quello di Salerno. Il versante meridionale di queste montagne è un colossale balcone naturale, con fianchi talmente scoscesi da rendere quasi impossibile la costruzione di strade. Le case sono servite solo da antiche mulattiere e si trasporta tutto il necessario alla vecchia maniera, cioè utilizzando i muli (incroci tra asini e cavalle). Per esempio nelle minuscole frazioni del comune di Scala, affacciato su Amalfi e dirimpettaio di Ravello, tutti i giorni si possono vedere al lavoro piccole carovane di animali da soma e ascoltare il caratteristico scalpiccio degli zoccoli sul lastricato in pietra dei vicoletti mentre trasportano attrezzi e materiali edili, legname e prodotti della terra. Più su il paese sparso di Agerola sorge in una conca tra i monti a oltre seicento metri di altitudine. È un paese di tradizioni montanare ma con uno splendido affaccio sul mare. I castagneti di Agerola fornirono legname per le navi della Repubblica marinara di Amalfi; oggi i pali lunghi e dritti sono impiegati nei famosi agrumeti della Costiera e vengono spostati ancora coi muli, unico mezzo di trasporto in grado di inerpicarsi su per i ripidi castagneti. Ad Agerola se ne contano oltre sessanta, di muli. Antonio Milo, un giovane del posto, ha deciso di dedicarsi alla vita pastorale, con l’aiuto del suo mulo Limone. Ogni giorno lui e Limone partono dal paese e si incamminano per

Antonio Milo e Limone sul sentiero degli Dei; sul sito www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica.

l’antica mulattiera, un tempo l’unico collegamento con Positano. Questo percorso spettacolare è oggi conosciuto come Sentiero degli Dei. Qui siamo a poca distanza dai luoghi mitici del Grand Tour: Amalfi, Positano e Sorrento, ma anche Napoli, il Vesuvio e Pompei. Da quassù si ode in lontananza il rumore del mare ma la Costiera, col suo turismo costoso, modaiolo e chiassoso, è lontana. Camminare in un posto del genere, a due passi dal mare eppure in piena montagna, è un privilegio e infatti i camminatori ben informati arrivano da ogni parte del mondo. Antonio percorre il sentiero per metà, fino al rudere di una vecchia casa che pian piano sta recuperando. Alla base di una grande parete traforata di

grotte carsiche c’è il recinto dove tiene le sue centotrenta capre nere di razza napoletana. Ogni mattina di buon’ora le munge e le lascia libere di pascolare. Poi carica il latte in groppa a Limone e torna

in paese per consegnarlo a un caseificio. Nel pomeriggio torna nuovamente per chiamare a raccolta le capre nel recinto. Alcune sere Antonio si ferma a dormire nella sua casetta sul sentiero. Se pas-

sa qualche escursionista ritardatario lo accoglie volentieri e si trattiene con lui a fare due chiacchiere, per rompere la noia di serate tutte uguali. I Monti Lattari non sono un caso isolato. Anche a due passi da altre città e mete del turismo classico si possono trovare montagne, dirupi scoscesi, coste rocciose, tutti luoghi senza strade dove non è possibile arrivare coi normali mezzi di trasporto ma solo coi muli. Per esempio anche a poca distanza da qui, nel Cilento, i muli vengono utilizzati su larga scala per raggiungere molte località di montagna. Lo stesso si può dire di Alicudi, nelle Eolie: l’isoletta non ha carrozzabili ma soltanto scale, sicché i circa settanta abitanti si spostano a piedi e trasportano oggetti pesanti a dorso di mulo. E ancora nel sud del Lazio il borgo medievale di Artena, coi suoi ripidi vicoli, affida la raccolta dei rifiuti ai muli. Non è un vezzo nostalgico ma una necessità. Certo il turismo trasforma ogni luogo, ma dove si arrampicano soltanto i muli i turisti di massa generalmente non arrivano. Limone e i suoi colleghi a quattro zampe possono dunque stare tranquilli: continueranno a trasportare latte appena munto, sporte di ortaggi e mattoni, senza dover sottostare ai capricci di turisti annoiati in cerca di foto perfette per Instagram. E magari, di tanto in tanto, trasporteranno anche lo zaino di qualche escursionista troppo stanco o troppo pigro. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Kiwi: conoscerli e potarli

Mondoverde Ne esistono anche di quelli più rosseggianti che profumano d’ananas

Anita Negretti Sono ben quarantaquattro le specie del genere Actinidia, conosciuti più comunemente con il nome di kiwi. Vengono da lontano, vale a dire dall’Estremo Oriente (Cina, Giappone e Corea) e poi su fin dalle più remote valli della Siberia. Come sono arrivati, dunque, a sostituire i pergolati di vigna sopra i nostri tavoli di sasso? La loro diffusione, la si deve alle coltivazioni estensive presenti in Nuova Zelanda fino dai primi decenni del 1900.

Sono piante che variano in maschili e femminili, per cui è necessario coltivarle entrambe per poter ottenere i frutti Dall’Oceania, oltre al frutto è stato esportato anche il nomignolo kiwi, che si riferisce al piccolo uccello indigeno (Apteryx), simbolo nazionale per l’appunto della Nuova Zelanda. Di fatto il frutto ha una certa somiglianza con la sagoma di questo volatile che è più o meno ovale; per non parlare del fatto che è privo di coda e di piume, per cui l’aspetto ispido e marroncino dei suoi peli più che penne, ricorda davvero tanto i saporiti frutti. Il più classico rappresentante di questo genere è senz’altro Actinidia deliciosa, un arbusto rampicante con rami lunghi fino a dieci metri.

I frutti del Kiwi. (JJ. Harrison)

Si tratta generalmente di piante dioiche, ovvero di piante che variano in maschili e femminili, per cui è necessario coltivarle entrambe per poter ottenere i gustosi frutti verdognoli. Solitamente il rapporto è di una pianta maschile e sette-dieci piante femminili. Tra le varietà più commercializzate e apprezzate sicuramente troviamo «Hayward», la cultivar femminile più

coltivata in tutto il mondo e il cui nome le è stato dato in onore di un vivaista selezionatore; assieme si trova di norma un «Matua», il maschio impollinatore. Fortunatamente, chi per mancanza di spazio non può coltivare molte piante può scegliere solo tra alcune varietà auto fertili, come «Jenny», che riescono a fruttificare autonomamente. Se i frutti del kiwi classico li conosciamo tutti, non così comuni sono

quelli di Actinidia arguta, che si mostrano molto più piccoli, senza la classica peluria, solitamente verdi e molto dolci. Si tratta anche in questo caso di piante che producono liane fino a otto metri di lunghezza, con piccoli grappoli colmi di frutti, mangiabili direttamente con la loro buccia. Tra le molte varietà di Actinidia arguta troviamo «Bingo» che vira sul rosso con un gusto tra il kiwi e l’ananas,

«Jumbo» con frutti lunghi fino a cinque centimetri e «Issai» una varietà auto impollinante, molto rustica e produttiva. Actinidia kolomikta è invece conosciuta per via delle sue foglie decorative e viene utilizzata come arbusto caduco rampicante. Le foglie sono verdi con punte bianche e rosa acceso, come nel caso di A. kolomikta «Adam» con foglie che spuntano a marzo color bianco verde ma che dal mese di giugno fino a ottobre si modificano diventando verdi e rosa, mentre in maggio, come per tutti i kiwi, sbocciano i delicati fiori bianchi. Le actinidie, di qualsiasi specie, si coltivano al sole o a mezz’ombra vicino a muri con fili zincati per ancorarli o accanto a pergolati. Il terreno ideale è argilloso, non amano quelli troppo calcarei e non drenati, e per evitare macchie clorotiche sulle foglie è bene interrare un po’ di torba per acidificare leggermente il suolo. Le nuove piantine si mettono a dimora tra novembre e la fine di marzo e dopo i primi 2-3 anni è necessario intervenire con una potatura: nei mesi freddi, quando le piante di kiwi sono a riposo e non vi è linfa in circolo, si tagliano corti i rami femminili che hanno fruttificato insieme a quelli esili o malformati. Una tecnica colturale prevede una potatura diversa per gli esemplari maschili: andrebbero solo leggermente spuntati in inverno, mentre la vera potatura forte va eseguita in estate dopo la fioritura. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Lotta all’inquinamento in Inghilterra Motori Il Governo punta sui veicoli completamente elettrici e non più sulle ibride. Anche i taxi tradizionali

sono pronti a una metamorfosi ecologica

Mario Alberto Cucchi L’auto ibrida è la soluzione definitiva per sconfiggere l’inquinamento? No, l’ibrido non è mai stato un punto d’arrivo. Nel mondo dell’auto l’obiettivo delle motorizzazioni ibride, benzina-elettrico, diesel-elettrico e le altre alimentazioni miste è sempre stato quello di traghettare il mondo delle quattro ruote verso una mobilità più sostenibile. Per convincere gli automobilisti a sostituire auto a volte ancora in buona efficienza, in molti Paesi i Governi hanno offerto in nome dell’ambiente incentivi economici per chi optava verso questo tipo di alimentazione ecologica. Adesso che molti comprano auto ibride, cosa può accadere? Si andrà avanti con le sovvenzioni statali e gli incentivi delle concessionarie? Una risposta arriva dall’Inghilterra. Il Regno Unito ha infatti deciso di ridurre sensibilmente gli incentivi previsti per chi acquista veicoli ibridi plug-in. Il provvedimento ministeriale entrerà in vigore questo mese e da una parte abolirà completamente il sussidio alla vendita di automobili ibride che emettono fino a 75 grammi per chilometro di CO2, mentre ridurrà del 22% (a 3500 sterline, circa 4600 franchi) quello previsto per i veicoli che emettono meno di 50 grammi/ km di CO2 e hanno un’autonomia elettrica di almeno 70 miglia, circa 113 Km. Gli incentivi all’acquisto più im-

portanti saranno riservati ai modelli full-electric, ovvero le auto che hanno esclusivamente il motore elettrico. Il motivo è proprio la grande diffusione dei mezzi ibridi. «Con modelli ibridi plug-in come il Mitsubishi Outlander diventati ormai popolari tra i consumatori, l’Esecutivo sta concentrando la sua attenzione su modelli a emissioni zero come Nissan Leaf e BMW i3», ha dichiarato il Governo in una nota. Questa è l’Inghilterra. Se da una parte i reali si sposano ancora con la carrozza trainata dai cavalli, dall’altra i loro sudditi sono affascinati dagli ultimi ritrovati della tecnologia automobilistica. Proprio nella capitale britannica arriveranno i primi taxi senza taxista, in pratica senza pilota. Una flotta di taxi a guida autonoma potrebbe circolare per le strade di Londra entro i prossimi tre anni. È stato da poco siglato un accordo da una delle più grandi compagnie di taxi private a noleggio della city con un produttore di software per veicoli autonomi. Si tratta di Addison Lee Group che attualmente ha circa 5mila vetture in servizio attivo in città. La partnership strategica è stata firmata con il produttore di software Oxbotica. Niente fusioni, ma un obiettivo comune. Utilizzare tecnologie, competenze e risorse per il black cab (così si chiamano i neri taxi londinesi, ndr) del terzo millennio. L’innovativo servizio taxi debutterà nella city nel 2021 per poi allargare il raggio di azione l’anno successivo. E la legge inglese cosa dice a riguardo?

Nella capitale britannica arriveranno i primi taxi senza taxista. (Pxhere.com)

Al momento non consente il funzionamento dei veicoli su strade pubbliche senza un conducente umano. La soluzione? Più semplice di quello che si potrebbe pensare. Inizialmente i con-

ducenti della compagnia di taxi Addison Lee saranno presenti nei veicoli per assistere i passeggeri con bagagli e anche per subentrare alla guida in caso di emergenza.

Una fase sperimentale utile, per poi arrivare ad avere i taxi senza conducente. Insomma, per ora saranno taxi autonomi ma sotto sorveglianza. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Le Accademie al servizio della viticoltura

Scelto per voi

Vino nella storia Alcune istituzioni della cultura si sono occupate

anche di enologia, in modo molto serio Davide Comoli A Firenze ha sede la storica Accademia dei Georgofili, istituzione fondata nel 1753 e conosciuta in campo internazionale come uno degli organismi più prestigiosi per lo studio delle scienze e della loro applicazione in agricoltura. La viticoltura e tutto ciò che a questo ramo dell’agricoltura è legato, fu oggetto di molti studi da parte dell’Accademia nel corso dei secoli. Si cercò innanzitutto di mettere ordine fra le pratiche tradizionalmente attuate, a partire dalla potatura, al tipo di tutori da usare, alla concimazione, alle varie patologie della vite, in modo da stabilirne l’efficacia, di incoraggiare possibili innovazioni con scelte ponderate. Per esempio in Toscana, alla fine del ’700 le operazioni di potatura delle viti, pur avendo condizioni climatiche simili, si effettuavano in stagioni diverse. C’era chi potava in primavera, chi in autunno, altri ancora preferivano l’inverno. Nel 1799, l’Accademia mise al lavoro gli esperti ai quali si poneva questo quesito: «determinare con l’aiuto della ragione e dei fatti se per questa operazione sia preferibile una stagione all’altra». In quell’epoca era piuttosto diffusa l’abitudine di potare subito dopo la vendemmia, essendo i contadini piuttosto liberi da altri grossi lavori. Questo modus operandi, venne respinto dai Georgofili che suggerirono invece di eseguire questa operazione poco prima dell’inverno o all’inizio della primavera vale a dire in periodi in cui la fase vegetativa della pianta era rallentata. Un altro quesito piuttosto importante fu proposto nel 1820. Questa volta gli esperti furono chiamati a dare una risposta sul sistema di allevamento della vite. La domanda formulata era questa: «considerata la differenza dei terreni, del clima e da altre varie situazioni,

era da preferirsi l’appoggio del palo o dei pioppi (sistema allora molto in uso in Toscana)?». Fra le ricerche la premiata fu quella presentata da S.B. Guarducci. Dopo tre anni di ricerche l’autore si dichiarava: «favorevole ai vigneti coltivati al pioppo per il raccolto più abbondante, il risparmio nell’acquisto dei pali, il minore impiego di manodopera, i danni più lievi per eventuali gelate primaverili, nebbie e piogge prolungate». Molti furono all’inizio dell’800 da parte dell’Accademia gli studi condotti su quale fossero i migliori sistemi per concimare le viti. Furono messi in evidenza l’importanza degli urati (sale e esteri dell’acido urico) e di elementi come le ceneri di pampini, vinacce e tralci che lasciavano potassio nel terreno. I dibattiti inerenti ai progressi e miglioramenti della viticoltura si estesero anche a fondamentali questioni riguardanti le qualità dei vini. Un certo A. Perrin, proprietario

terriero a Valdarno Superiore, scriveva in un articolo la sua insoddisfazione sull’andamento della viticoltura toscana e ne individuava le cause principali: «cattiva scelta dei vitigni, eccessivo numero di varietà coltivate, viti tenute troppo alte da terra e da ultimo una scelta sbagliata dei luoghi d’impianto». A parer suo le varietà migliori erano: Sangiovese, Cannaiolo e Maruga. Nel Cannaiolo individuava il vitigno con cui si potevano uguagliare i vini di Bordeaux e Borgogna grazie alla sua potenzialità. Un altro uso che rimproverava era quello di usare il terreno e produrre insieme olio, grano e vino. «Diverse erano le esigenze di coltivazione»: diceva il Perrin. Ad esempio le arature profonde, necessarie per la coltivazione del grano, erano deleterie per le radici della vite. Inoltre, ognuna di queste coltivazioni esigeva cure particolari a tempo e debito e alle volte le esigenze dell’una o dell’altra coltivazione si sovrapponevano, ed il contadino si vedeva

La sede dell’Accademia dei Georgofili di Firenze, restaurata dopo l’attentato del 1993. (brunelleschi.imss. fi.it)

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costretto a trascurare qualcosa. La conseguenza di questo stato di cose faceva sì che dalle grandi coltivazioni di vini della pianura si riempissero i tini di vini cattivi e nello stesso tempo non ci fosse sufficiente produzione di grano. Il Perrin concludeva il suo articolo con questa affermazione: «solo nel piano il grano, solo in collina le viti». Nel 1842, Cosimo Ridolfi, allora presidente dell’Accademia dei Georgofili, compose una raccolta di 55 regole che considerava molto importanti per la viticoltura, nella stesura di questi principi fu aiutato dall’agronomo Don Jacopo Ricci. Le regole incitano a: «quanto è più utile coltivar bene che molto». I consigli di Ridolfi invitavano ad un’opera di selezione dei vitigni che doveva essere molto oculata, da operare contrassegnando le viti che reggevano meglio le uve nelle annate nebbiose e quelle che meglio resistevano al freddo: «per togliere sempre da queste i magliuoli (talee della vite, ndr)» scriveva. Si doveva vendemmiare al momento della perfetta maturazione. La vinificazione doveva essere accurata, effettuata in cantine con precise caratteristiche, di esposizione, profondità, umidità e luminosità. I procedimenti volti a migliorare la qualità del vino non dovevano far dimenticare che era prima di tutto necessario curare la vite e la scelta del vitigno. Quando: l’Oidium tuckery (oidio) iniziò a propagandarsi e ad infestare le viti, l’Accademia dei Georgofili diventò un centro di studi e di dati su questa malattia della vite. Nel 1851 Cosimo Ridolfi presentò una tempestiva sintesi dei risultati dei primi lavori, pur non essendo stata individuata con certezza la causa della malattia. Ma delle forti epidemie e virosi che colpirono la vite nel 1800 e che hanno influenzato l’evoluzione della viticoltura europea parleremo nei prossimi numeri della rubrica.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Ambiente e Benessere

Lo zenzero? Piccante ma gentile La cucina è piena di misteri. Fra i più curiosi da analizzare c’è il maggiore o minore successo di certi ingredienti. Ovvero perché alcuni diventano improvvisamente «di moda» mentre altri no. Alla domanda non c’è risposta. In linea di massima, a volte parte un tam tam che, generato da qualche caratteristica positiva dell’ingrediente, lo trasforma in una specie di toccasana, dalle mille proprietà terapeutiche.

Serve anche a preparare una bevanda fermentata e leggermente alcolica detta ginger ale (birra di zenzero) Sia chiaro, a volte il tutto si trasforma in negativo, e un ingrediente può diventare anche il diavolo. Ma mai, o quasi, quel che accade è suffragato da ricerche serie (o come vengono chiamate in gergo: peer review), cioè nessuna di queste teorie pro o contro l’alimento sono validate da specialisti riconosciuti e autorevoli. Così va il mondo. Per esempio, in questi tempi lo zenzero è diventato di gran moda. È una pianta erbacea, nota anche come ginger. Zingiberi è il nome originale: proviene dell’Asia sudorientale e oggi è coltivato un po’ dovunque; e va detto che è da sempre apprezzato per le sue virtù. Se le sue proprietà digestive e aromatizzanti erano già largamente conosciute da greci e romani e le sue qualità antiscorbutiche furono apprezzate dai marinai di tutti i mari, il picco della fama dello zenzero in Europa è legato purtroppo alle terribili epidemie di peste. Fu Ildegarda di Bingen, monaca ed erborista, a indicare nello zenzero un rimedio preventivo per evitare il mortale contagio: il consumo aumentò quindi a dismisura e a volte fu addirittura imposto dalle autorità (forse le

stesse, per essere ancora maliziosi, che speculavano sull’aumento di prezzo). Lo zenzero regnò a lungo sulle mense ricche, ma era ambito anche da quelle povere, nonostante il suo costo proibitivo, soprattutto in abbinamento con il pepe, anch’esso molto pregiato in età medievale. Insieme ad altre spezie, fu per secoli merce preziosa, monopolio di mercanti arabi e oggetto di agguerrite competizioni sui mari tra le grandi potenze per conquistarne il controllo commerciale. La sua fortuna calò durante il XVII secolo, ma rinacque tra Settecento e inizio Ottocento, come spezia per aromatizzare pane, dolci, confetture e bevande. Poi il declino, fino al recente rilancio. Ovviamente, in alcuni paesi il declino fu minore, in altri maggiore. Ha foglie lunghe e strette e fiori colorati. Se ne utilizzano i rizomi, che hanno forma irregolare e bitorzoluta, buccia biancastra a chiazze brunastre e polpa bianca, molto soda. Viene usato soprattutto in polvere, sbucciato e grattugiato finemente, ma anche tagliato a fettine sottili. Con il suo sapore pungente e piccante, ma al contempo gentile, lo zenzero insaporisce bevande e dolci (in particolare torte e budini) e si abbina a diverse pietanze, salse e spezie: dalla carne al pesce, dalle verdure al tofu, dal sushi e sashimi (che accompagna in forma marinata in zucchero e aceto, questa preparazione si chiama gari) alle zuppe, dal riso alle insalate, dalla chutney al curry. Da segnalare anche il suo utilizzo per preparare una bevanda fermentata e leggermente alcolica detta ginger ale (birra di zenzero), oramai onnipresente nei cocktail bar. Può essere conservato sottaceto oppure candito con lo zucchero. Si trova in commercio anche essiccato e macinato, tuttavia è consigliabile acquistarlo fresco, perché conserva il suo aroma più a lungo: in tal caso, vanno scelti rizomi belli sodi, senza segni di muffa. Qualora invece lo si volesse comprare essiccato, meglio il prodotto ancora intero e grattugiarlo.

CSF (come si fa)

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Allan Bay

Pixnio

Gastronomia Una moda che viene da lontano

Vediamo come si fanno tre ricette con lo zenzero. Zenzero candito. Scegliete rizomi freschi e sodi, pelateli e tagliate in pezzetti di 3 mm, quindi copriteli di acqua fredda e fateli bollire per 15’. Scolate e ripetete la procedura di sbianchimento altre 3 volte, poi fate cuocere in acqua e zucchero (mantenendo un rapporto di mezza tazza di zucchero per ogni tazza d’acqua) per 20’, fino a

quando lo zenzero diventa traslucido. Lasciate riposare per 30’ per far assorbire bene lo sciroppo, quindi scolate, fate asciugare per una notte e conservate in un barattolo chiuso dopo aver passato i canditi nello zucchero. Potete utilizzare lo sciroppo per dolcificare tè e bevande rinfrescanti. Pan di zenzero. Ingredienti per 4 persone. Lasciate ammorbidire 60 g di burro, unitevi 60 g di zucchero, 3 uova sbattute, 350 g di farina setacciata e diluite con qualche cucchiaio di latte. Aromatizzate con 2 cucchiai di zenzero in polvere e 1 cucchiaio di cannella in polvere, unite un pizzico di sale e 1 bustina di lievito vanigliato, amalgamate il tutto e versate in una teglia imburrata e infarinata. Fate cuocere per 45’ a 180°. Levate dal forno, lasciate raffreddare.

Frittata di cozze allo zenzero. Per 2 persone. Mondate 500 g di cozze, mettetele in una padella, unite poco vino bianco e fatele aprire a fuoco allegro, coperte, quindi spegnete, lasciatele intiepidire e sgusciatele. Tritate finemente un cipollotto, sbucciate 20 g di zenzero fresco e tagliatelo a fettine. In una ciotola sbattete 3 uova con 3 cucchiai di farina, unite 2 cucchiai di fecola di patate diluita in poca acqua, il cipollotto, lo zenzero, le cozze e 1 cucchiaio di salsa di soia e mescolate. Regolate di sale se necessario. Scaldate un filo di olio in una padella, versate le uova e cuocete la frittata a fuoco basso, rivoltandola quando il primo lato è cotto. Al posto delle cozze potete utilizzare qualsiasi pesce, crostaceo o mollusco, mondato e se necessario spezzettato.

Ballando coi gusti Oggi, due ricette ghiotte dove compare lo zenzero in polvere. Non indico la quantità, mettetene quanto vi piace.

Minestra di riso con gnocchetti di pesce

Gnocchi di saraceno con panna e formaggio

Ingredienti per 4 persone: 200 g di riso da minestra · 400 g di filetti di pesce bianco a piacere · 1 piccola cipolla · 2 uova · 1 tuorlo · zenzero in polvere · erba cipollina · brodo di pesce o vegetale · burro · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: 600 g di gnocchetti di frumento e grano saraceno · 200 g di panna · 100 g di formaggio tipo tomini stagionati (o simili) · zenzero in polvere · burro · sale e pepe.

Sciogliete 1 cucchiaio di burro in una casseruola e fatevi rosolare la cipolla tritata finemente; poi aggiungete il pesce spezzettato e cuocete per 3’. Levate, fate intiepidire, macinate e impastatelo con il tuorlo, salate, pepate, profumate con zenzero a piacere e preparate delle polpettine grandi come una noce. Portate il brodo, di più o di meno a seconda di quanto la minestra vi piace brodosa, in ebollizione, unite il riso e portatelo a cottura. 2’ prima che siano pronte, unite le polpettine. Lavate e tritate l’erba cipollina, mescolatela alle 2 uova sbattute e aggiungetela alla minestra, mescolando, poco prima che la cottura sia ultimata. Servite la minestra calda.

Scaldate a fuoco dolcissimo la panna, insaporite con zenzero a piacere, sale e abbondante pepe, unitevi i tomini tagliati a pezzetti, mescolate un attimo e spegnete. Cuocete gli gnocchi in acqua salata bollente e raccoglieteli con una schiumarola man mano che salgono a galla. Fateli rosolare velocemente in padella con una noce di burro, spegnete, mescolate delicatamente la salsa al formaggio e servite.


Giochi per “Azione” - Novembre 2018 Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47 Stefania Sargentini

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Ambiente e Benessere

Sport di massa e percorsiL Esingolari V A A L (N. 42 - Le valli, i monti innevati, il sangue dei patrioti) 1

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Special Olympics Il gioco gli allori ma soprattutto una vita di valore 7 in piazza, 8 9 Davide Bogiani «Non sempre i valori sportivi sono conclamati nella vita di tutti i giorni. Ma la cosa importante non è il numero di medaglie vinte, bensì il numero di persone che vi partecipano». È leggendo questo passaggio che è stata aperta la conferenza dal titolo «Quattro realtà a confronto per un unico spirito, quello olimpico», svoltasi quest’anno all’Auditorium dell’Università della Svizzera italiana e organizzata da Marco Imperadore con il supporto dal Servizio Sport USI SUPSI. Un incipit, da cui si è snodata anche una riflessione sulla promozione dello sport di massa quale strumento di benessere, ma anche come punto di partenza per raggiungere obiettivi ambiziosi. E di obiettivi, i relatori presenti in sala ne hanno raggiunti parecchi: Deborah Scanzio olimpionica nel freestyle, Murat Pelit paralimpico nel monosci, Fulvio Sulmoni del FC Lugano, Lisa Imperadore medaglia oro nello sci di fondo Special Olympics e Andrea Callegher medaglia oro pure Special Olympics, ma nello sci alpino. Cinque campioni, tante medaglie, e soprattutto molti sacrifici, dedizione e costanza. Ma anche cinque sportivi che, come molti altri, hanno iniziato a praticare il proprio sport assieme ai compagni, nel campetto di sci o di calcio vicino a casa, portando con sé, nella propria carriera, proprio quei valori sportivi acquisiti quando lo sport faceva prevalentemente rima con infanzia, gioco e divertimento. Questa è ad esempio la storia di Lisa Imperadore, campionessa di sci di fondo Special Olympics, che da gio-

Giochi Cruciverba Marcel Proust diceva che l’unico vero viaggio verso la scoperta, non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi… Scopri il resto della frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 2, 4, 5, 5, 5)

vane10è entrata a far parte11 del Gruppo 12 invalidi Lugano (SIL). È nella palestra di Trevano che ha iniziato a muove13 14 re i primi passi nel basket, mentre nei mesi invernali completava il suo alle15 16 17 18 19 20 namento all’aria aperta, inforcando gli sci di fondo. «Grazie e attraverso lo sport, Lisa ha sempre più migliorato 21 22 23 24 l’organizzazione personale, cosa che le ha permesso di raggiungere traguardi non25 solo a26 livello sportivo, 27 ma anche 28 29 30 nella vita quotidiana», afferma Marco Imperadore, papà di Lisa. 31 32 34 35 Lo sport ha regalato a sua figlia 33 l’opportunità di forgiare il proprio carattere, 36 cosa che a sua volta le ha per- 37 38 messo di lanciarsi a gareggiare in altri paesi, di confrontarsi con altre culture e di conoscere atleti uniti nello stesso sport, ma diversi nella nazionalità e nella lingua parlata. «Il contatto con nuovi mondi al di fuori di quelli ordinari e anche con altri atleti ha rafforza2 molti 3 punti4di vista», 5 con6 7 8 9 10 to 1 Lisa sotto tinua Imperadore. «Mia figlia rientra dalle 11 gare con un’energia rinnovata,12 13 carica di nuove forze che le permettono di affrontare poi il quotidiano con 14 15 16 maggiore sorriso e stimolo». Traguardi nati dunque durante la pratica sportiva 17 da bambina, quando18 l’oro sembra19 va una chimera. O quando dell’oro, in fondo, chi se ne importava. 21 Lasciamo la 20 storia di Lisa, simile a quelli di molti altri atleti di Special Lisa e Marco Imperadore. Olympics, per rivolgerci ai promoto22 23 ri della conferenza, ovvero il Servizio za, abbiamo incontrato il responsabile sport USI SUPSI, per eccellenza rap- Giorgio Piffaretti. 24 Sì, 25lo sport di massa è uno presentante dello sport di massa. «Certo, perché stiamo parlando della Fede- strumento di crescita molto imporrazione, quella dello sport universi- tante 26 per i bambini e gli adolescenti tario, che conta il maggior numero di – spiega Piffaretti – ma attenzione a associati, secondi solo al calcio e alla non riporlo poi in un cassetto alla fine 27 ginnastica. A margine della conferendell’obbligo scolastico, come purtrop-

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ha diritto di accesso alle Universiadi, 6 di5 grandezza solo secondi 8in ordine ai Giochi Olimpici. E anche in questo 7 i concaso i traguardi sportivi sposano tatti con altre culture, lingue e importanti conoscenze 9 internazionali 8 1 2utili per il futuro professionale. Un secondo esempio, dunque, di come lo sport di massa, questa volta promosso non da bambino ma da studente, trascini con sé molti altri valori, simili meno. E potremmo continuare 8 o5 ancora per molte righe, citando lo sport per adulti ESA promosso dall’Ufficio 7 federale dello sport, da Pro Senectute, ecc. Tutti settori rivolti al benessere, 6 sì alla medaglia 3 che aprono porte nel proprio segmento sportivo, ma che soprattutto regalano una chiave 4 di esplorazione di mondi paralleli, significativi, importanti, di crescita, di confronto. 9

O R D5 A 6 C A S T D E A L MEDIO E C A O N. 42 I O D O C I L I O F 6 E 3L I D I R U B 8I N I L po spesso accade». E qui gli stu7 per 3 2C E A L E denti universitari interviene il Servizio sport. Le attività si rivolgono anche a S O M professori e collaboratori, oltreR che agliA alunni. Attraverso un programma va- Informazioni utili 8 riegato e proposto in spazi accessibili www.ftia.ch A R I I a pochi minuti a piedi, in bicicletta o https://bit.ly/2qLTZuL 3 stabili uni-7 6 con i mezzi pubblici dagli N A V A R R L' I C E O

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6 1 5 Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba 5 1con il sudoku 7 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi

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M A N N.I 43E DIFFICILE R O Soluzione: Scoprire i 3 O L E D E L6 2 numeri corretti da inserire nelle 5 caselle L'colorate. T V I S7 I 1 7 2 Giochi per “Azione” - Novembre 2018 O Stefania G A T T O SUDOKU PER AZIONE - NOVEMBRE 2018 Sargentini 5 4 7 13 14 15 16 N. 41 FACILE V E N T O R E N (N. 42 - Le valli, i monti innevati, il sangue dei patrioti) Schema Soluzione 2 18 L E V A A L LI 1M TO 6O 8 4 S2 9 A55 7 V3 8 I6 7C 8U A L I 20 8 1 7 9 6 4 2 7 3 N A D T I I I O Z O C E T O 496 34 5 2 1 9 3 2 9 I I N A N E 23 3 4 8 2 1 5 7 3 4 2 D C V U O TW A 5T AI S U D L T C 6 5 17 8 9 7 3 6 1 9 3 4 I A L I N E S A 9 7 2 6 4 3 1 9 7 2 3 1 5 NAG U A E 3G I DH E 9A I 1 F O R M 7 2 4 1 8 6 5 7 4 8 6 5

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

A L I I M O versitari, un gruppo quindi eterogeN A T N.I41 FACILE I di partecipanti Z neo può praticare sport diSchema qualità grazie alle palestre e altre Imesse a disposizione gratuI N A N E strutture itamente dal Cantone e dalla Città di Lugano. 7 L’importanza D C V U O 8TdelleAstruttureT1adat-I la collaborazione con l’ente pubbli7 tecoesono 3 un altro tassello fondamentale I A L I N E S per il successo dello sport di massa.A 3 Anche lo2 sport universitario 9 si pone l’obiettivo della promozione della N G U E lute a 360IgradiD E A sae lascia aperte le porte 3 4 2 verso il successo sporI N O 6 P I1 per Alachescalata tivo, 9in questoI caso 3 Rfa rimaTcon 4 leA Universiadi. Come Lisa per Special A R I 9 A7 2 Olympics, O T lo 3studente O 1 universitario, I 5 I raggiunti i limiti sportivi richiesti,

(N. 43 - L’orca e il coccodrillo marino)

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ORIZZONTALI 1. Castello 7. Un grido nell’arena 8. Preposizione articolata 9. Le iniziali di Tolstoj 10. Fanno espressioni senza conoscere l’algebra 11. Si lava con la lingua 12. Lo è l’ostro 13. Ai lati della colonna vertebrale 17. Dedizione esasperata 18. Saggio, avveduto 19. Divide 20. Gradino sociale 21. Mezzogiorno 22. Il nome di Disney

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I N O P I A I R T A 7 A R della I A settimana O Tprecedente O I I Soluzione

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(N. 45 - “... fatti un bel giro in ospedale!”)

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23. Le iniziali dell’attrice Diaz 17. La parola più generica 5 3 6 4 7 9 8 1 2 5 6 24. La foglia del pino 18. Se stesso per gli inglesi TEMIBILI NEMICI – I due temibili nemici dello squalo bianco sono: VERTICALI Alpino L’ORCA E IL COCCODRILLO MARINO. (N.20. 43Club - L’orca e ilItaliano coccodrillo marino) N. 42 MEDIO 1.1Banchina 22. Le iniziali dell’attore Harrelson 2 3 4 1 25 3 4 5 6 6 77 8 9 10 8 ' Le iniziali del Malgioglio della tv 2. Lo impone il vigile 23. 4 7 1 8 5 L'8 O5 R D A C A S T E 11 12 13 3. A fin di bene... 6 5 3 2 9 6 3 I D E A L E7 C A O S 11 16 4.9Ordinanza nell’antica Roma 10 14 15 2 9 8 1 7 8 6 3 C I O D O C I L I 5. Lo dà il cassiere 17 18 19 7 3 2 5 1 7 3 2E O F E4L I D I D 6.12 In cucina e in cosmesi 13 14 15 20 21 Vincitori del concorso Cruciverba 10. Lustro, onore 1 8 6 4 2 O R U B I 9N I L I su «Azione 45», del 5.11.201823 11. La manina di Mimì nella Bohème 22 9 4 5 3 6 8 A C1E L E V 16Religione afro-americana 17 18 M. Bernardi 12. G. Anghileri,24I. Guzzi, 25 3 2 7 6 4 3 7 6 R A S O M A Vincitori del concorso Sudoku 13. Rapido, veloce 26 14. L’antico precede il medio su «Azione 45», del 5.11.2018 8 6 9 7 3 6 1 5A 4R I I N 19 20 15. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco A. Senkal, A.27Pedrini 5 1 4 9 8 5 1 7N A V A R R O 16. Osso alla radice della lingua

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A T O M A R 34T 61 98I 27 N 1 7 4 I vincitori 6 4 3 F O B A N E R5 4 5 3 9 8 4 6 5 9 E O S E N N A7 7 3 L 8 2 7 51 N O L O G A 5L 9 A 1 8 S 3 1 5 2 4 I 7V A N 9 O8 5 G 2I 7 N 6 3 21 22 23 24 R da nome,I cognome, V 8 I è possibile Fun pagamento E2 Uin contanti D O N. la 43 DIFFICILE I premi, cinque carte regalo Migros ( N. Partecipazione online: inserire luzione, corredata 44 - ... ma nell’avere nuovi occhi) del valore26di 50 franchi, saranno sor-27 soluzione del cruciverba o del sudoku 28 indirizzo, email del partecipante deve dei premi. I vincitori saranno avvertiti 25 5 4 3 8 6 2 7 1 9 M A6spedita N2 I a E«Redazione R9 O teggiati tra i partecipanti che avranno nell’apposito formulario pubblicato essere Azione, per P iscritto.A Il nome vincitori sarà N A M P I N1deiPartecipazione T A 6 1 7 1 5 8 9 2 7 3 5 6 4 fatto pervenire la soluzione corretta sulla pagina del sito. Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». pubblicato su «Azione». O L E D E L 29 il venerdì seguente la pubblica30 31 7 entro Partecipazione postale: la lettera o Non si intratterrà corrispondenza sui riservata esclusivamente a lettori che 2 1 7 6 5 4 9 3 2 8 ' L' T LeS V legali II S I escluse. I O1 E 2 Non P risiedono 3 A7 65inTSvizzera. zione del gioco. la cartolina postale che riporti la so- concorsi. vie sonoA 7 5 4 4 9 3 1 2 8 6 1

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Politica e Economia Scisma ortodosso La decisione del patriarca di Costantinopoli scatena uno scontro politico-dottrinale nella Chiesa ortodossa

Brexit: accordo con Bruxelles Il governo britannico è nel caos dopo le dimissioni di quattro membri dell’esecutivo euroscettici, contrari al sì del consiglio dei ministri alla bozza di accordo raggiunta faticosamente da May con le autorità europee

Un sussidio per le corna? In votazione federale, il 25 novembre, un’iniziativa per favorire gli allevatori che non intendono recidere le corna a vacche e capre

Cancellare i debiti privati Due atti parlamentari a Berna chiedono l’introduzione di norme per permettere di cancellare i debiti privati

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Il vertice sulla Libia tenuto a Palermo: presenti i libici al-Sarraj (4. da sinistra) e Haftar (4. da destra). (Keystone)

Tripoli nuovo teatro di Mosca

Scenari Nel vuoto lasciato dagli Usa di Trump il coinvolgimento della Russia in Libia è cresciuto negli ultimi mesi

per ragioni economiche oltre che per continuare ad affermare la propria egemonia sul modello della Siria Anna Zafesova Qualche commentatore parla già di una nuova partita che la Russia vuole aprire in Libia sul modello della Siria, e nel Regno Unito un articolo del «Sun» ha sollevato il panico affermando che Mosca vorrebbe prendere il controllo della costa libica per riversare sull’Europa una nuova ondata di migranti dall’Africa. A inquietare particolarmente è stata la recente visita a Mosca del generale Khalifa Haftar, che ha condotto negoziati con il ministro della Difesa russo Serghey Shoigu, uno dei personaggi più potenti del regime del Cremlino. Non è la prima volta che Haftar visita Mosca, e un anno fa in segno di trattamento speciale era stato addirittura fatto salire a bordo dell’unica portaerei russa, Admiral Kuznetsov, dalla quale ha tenuto una videoconferenza con Shoigu. Ma quello che ha scatenato una valanga di congetture nei media è stata la presenza all’incontro tra Shoigu e Haftar di Evgheny Prigozhin, il «cuoco di Putin», il controverso personaggio considerato l’artefice sia della «fabbrica del troll» (il centro delle operazioni di info-war russe da cui vengono diffuse le campagne di interferenza in altri paesi allo scopo di manipolare l’opinione pubblica occidentale) che dei merce-

nari del «gruppo Wagner», i contractors militari che Mosca ha inviato per svolgere buona parte delle missioni russe in Ucraina (a dar sostegno alle operazioni di annessione crimeana e alla campagna nel Donbass) e in Siria (a puntellare il regime senza rischiare vite di soldati regolari). Le fonti ufficiali hanno smentito la partecipazione di Prigozhin all’incontro come un segno del suo coinvolgimento militare, affermando che era lì soltanto in qualità del responsabile del catering, la sua funzione «ufficiale». I giornali europei e americani da mesi raccolgono testimonianze indirette di un coinvolgimento sempre maggiore dei russi in Libia, dalla fornitura di missili anti-nave Kalibr e dei famosi complessi della contraerea S-300 all’invio sul terreno di agenti delle truppe speciali e dello spionaggio militare Gru, a infiltrazioni in vari gruppi e clan, fino alla stampa di moneta per il «governo» di Haftar a Tobruk. Voci che finora non hanno trovato conferme, anche perché gli aiuti militari alla Libia andrebbero contro le sanzioni dell’Onu, e a livello formale Mosca continua a riconoscere il governo di unità nazionale di Fayez al-Sarraj a Tripoli. Le simpatie dei russi per Haftar, ex alto ufficiale del regime di Gheddafi che ha studiato nelle accademie militari sovie-

tiche e parla il russo, sono abbastanza evidenti: il generale si muove con disinvoltura a Mosca e usa con abilità la sua reputazione di «uomo dei russi», che lo sostengono anche attraverso l’alleanza con il leader egiziano al-Sisi. Ma, viste da Mosca, le cose sono complicate quanto quelle sul terreno libico, spartito da una galassia di clan e gruppi. A differenza della Siria, dove il Cremlino si è schierato senza esitazione dalla parte del governo di Damasco, in Libia i russi sembrano più attenti a diversificare, e anche al-Sarraj è stato ospite frequente a Mosca. La Russia sembra scettica verso le componenti islamiste del fronte di Tripoli, preferendo – insieme a al-Sisi – il vecchio buono laicismo militare arabo, ma al-Sarraj può contare sugli appoggi di un’altra fazione importante a Mosca, quella del leader ceceno Ramzan Kadyrov. Le mosse di Haftar a Mosca infatti possono essere lette anche in chiave di lotte interne ai vari clan del Cremlino: al suo incontro con Shoigu infatti non erano presenti né diplomatici, né emissari dell’amministrazione presidenziale. È vero che il ministro della Difesa, molto vicino a Vladimir Putin, ha ormai conquistato una quota di influenza diretta sulla politica estera del Cremlino, e in alcune crisi, come quella in Ucraina, la competizione tra militari e diploma-

tici russi ha prodotto cambi di linea repentini quando non contraddizioni aperte. E sicuramente per buona parte dell’establishment russo, soprattutto nei servizi, l’endorsement di Kadyrov a qualcuno è già un motivo sufficiente per schierarsi dalla parte opposta. Mosca vuole ovviamente giocare una partita in proprio in Libia, approfittando anche del vuoto creato dall’America di Donald Trump, e dagli interessi contrastanti delle varie nazioni europee. Gli obiettivi strategici di questa partita però, visto anche il disinteresse di Washington – che in Siria era protagonista e avversario della Russia –, non sono molto chiari. Il controllo della costa a Tobruk e Bengasi, a parte la teoria complottista di Putin che ricatta l’Europa con orde di migranti pronte a sbarcare, non porterebbe grandi vantaggi alla Russia, la cui marina militare non è in condizione di giocare a battaglie navali nel Mediterraneo. Il progetto di fermare gli islamisti e i Fratelli Musulmani ricreando in Medio Oriente un asse militare laico in sintonia con Mosca e Cairo ha un senso politico, ma secondo molti esperti il vero interesse russo è economico. Come dice Dmitriy Frolovsky all’agenzia Rbk, «si tratta di petrolio»: il gigante statale Rosneft ha firmato un accordo di cooperazione con i libici, e quasi

tutti i giacimenti di suo interesse si trovano nella zona controllata dai fedelissimi di Haftar. Il controllo della costa consentirebbe anche di influenzare le rotte del petrolio, anche in funzione di una diminuzione delle esportazioni libiche: la Russia non è particolarmente interessata a un aumento della produzione del greggio, con conseguente abbassamento del prezzo, essendo il petrolio la principale fonte delle sue entrate. Non è da escludere infine che varie componenti del sistema di potere russo si stiano muovendo anche in modo autonomo, creando scenari da proporre poi a Vladimir Putin. O che lo stesso Putin stia dirottando i mercenari di Wagner e gli ufficiali del Gru da Damasco a Tobruk, come aveva già fatto nel 2015 aprendo le ostilità in Siria, dove nel frattempo si sono inseriti gli Emirati, che in Libia sostengono Haftar. Senza contare che anche il generale di Tobruk sta giocando la sua partita, e la sua visita a Mosca alla vigilia della conferenza internazionale sulla Libia a Palermo poteva anche avere come scopo principale mostrare ad alleati e avversari di essere ancora l’«uomo dei russi», minacciando grazie alla presenza davanti alle telecamere di Shoigu e Prigozhin un intervento sia esplicito che «occulto» dei militari del Cremlino.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Politica e Economia

Chiesa I l patriarcato di Mosca ha ufficialmente interrotto i legami con il patriarcato

di Costantinopoli dopo che Bartolomeo ha riconosciuto l’autonomia della Chiesa ortodossa ucraina da quella russa

Il presidente ucraino Petro Poroshenko ed il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo firmano a Istanbul un accordo per concedere l’autocefalia alla Chiesa ortodossa ucraina. (AFP)

Giorgio Bernardelli I loro vescovi e sacerdoti non partecipano più insieme a liturgie e appuntamenti pubblici. E quando a Mosca si citano i patriarchi delle Chiese sorelle, nell’elenco il nome di Bartolomeo di Costantinopoli non compare più. Da qualche settimana i cristiani ortodossi – 300 milioni di fedeli nel mondo – stanno facendo i conti con l’esplosione di una crisi che da tempo covava sotto la cenere. Scisma è una parola che eravamo abituati a leggere solo nei libri di storia, ma è tornata improvvisamente di attualità dopo che il 18 ottobre il Sinodo del patriarcato di Mosca – riunito a Minsk – ha deciso formalmente di «rompere la comunione eucaristica» con quello di Costantinopoli. Di fatto si tratta di una rottura piena tra la storica sede del Phanar a Istanbul – dove nel 1054 si consumò la rottura con Roma – e la Chiesa russa, di gran lunga oggi la più forte per numeri e per mezzi all’interno dell’universo ortodosso. Cuore del contendere è lo statuto dell’Ucraina, questione che si intreccia a filo doppio con il conflitto politico e militare in corso da ormai più di quattro anni nelle regioni orientali del Paese. Mosca rivendica la facoltà di nominare il metropolita di Kiev – e quindi di guidare la Chiesa ortodossa ucraina. Lo fa dal 1686 quando una lettera di Costantinopoli conferì al patriarca russo di allora questa responsabilità, di fatto sancendo l’ingresso dell’ortodossia ucraina nell’orbita di Mosca. Nel contesto di oggi, però, con la spaccatura nel Paese tra filo-occidentali e filo-russi, anche le questioni ecclesiali diventano una bandiera politica. E dunque l’attuale presidente ucraino Petro Poroshenko – eletto nel 2014 dopo i moti di piazza che hanno portato alla deposizione del suo predecessore filo-russo Viktor Yanukovych, ostile all’avvicinamento all’Unione europea e alla Nato – ha scelto di cavalcare il tema dell’autocefalia, cioè dell’indipendenza da Mosca per la Chiesa di Kiev, appellandosi appunto a Costantinopoli.

Per capire a fondo la questione occorre tener presente la natura dei rapporti esistenti all’interno del mondo ortodosso: nelle Chiese d’Oriente vige il criterio della sinodalità, cioè spetta all’assemblea dei vescovi di ciascun patriarcato prendere le decisioni più importanti. E il ruolo del patriarca di Costantinopoli non è paragonabile a quello che ha il Vaticano per la Chiesa cattolica: si è soliti dire che è «un primo tra pari», nel senso che ogni Chiesa nazionale mantiene la sua indipendenza. Ma quanti e quali sono i patriarcati? L’attuale geografia è frutto di una lunga evoluzione storica che ha definito le cosiddette «giurisdizioni canoniche», suddivise oggi in quattordici diversi patriarcati. Stando a queste regole Kiev dovrebbe sottostare a Mosca; ma le tensioni sono facilmente intuibili in un contesto che negli ultimi anni ha visto l’annessione unilaterale alla Russia della Crimea e l’esplosione del conflitto nella regione del Donbass. Anche alla luce di questo a Istanbul il patriarcato di Costantinopoli da tempo ripeteva che la facoltà concessa a Mosca di nominare il metropolita di Kiev andava intesa come una risposta a una situazione storica contingente di oltre tre secoli fa e non come una decisione definitiva. Ma questa lettura è avversata ovviamente dalla Chiesa ortodossa russa. Alla fine di agosto il patriarca di Mosca Kirill si è recato personalmente al Phanar con l’intento di risolvere la questione con Bartolomeo; ma le posizioni dei due schieramenti sono rimaste immutate. E il 15 ottobre è arrivata la decisione con cui il Sinodo di Costantinopoli ha avviato ufficialmente il percorso che porterà al riconoscimento dell’autocefalia dell’Ucraina, che dovrebbe diventare così il quindicesimo patriarcato ortodosso. Scelta che – come era prevedibile – la Chiesa ortodossa russa ha rimandato al mittente, dichiarando – appunto – la rottura della comunione eucaristica. Contemporaneamente tra gli ortodossi ucraini è iniziata la conta tra quanti scelgono di stare dalla parte del futuro

patriarcato di Kiev e quanti invece restano dalla parte di Mosca. Va aggiunto che se la politica ucraina ha avuto un ruolo evidente in tutta questa vicenda, non vanno comunque ignorate altre dinamiche che si innestano in questa rottura. Perché lo scontro è evidentemente tra una realtà come Costantinopoli – forte della sua storia, ma con una comunità da ormai più di un secolo ridotta ai minimi termini in Turchia – e la cosiddetta «Terza Roma», cioè Mosca, che nell’era postsovietica ha visto una rinascita impressionante dell’ortodossia. I numeri sono notevoli: nei trent’anni trascorsi dalla fine dell’era sovietica in Russia sono state costruite circa 30 mila chiese, «tre ogni giorno» precisava recentemente il metropolita Hilarion, il «ministro degli Esteri» degli ortodossi russi. E se prima del 1989 il patriarcato poteva contare su appena 3 tra seminari e accademie di teologia adesso sono più di 50. Un dinamismo che non si ferma entro i confini della Russia: il patriarcato di Mosca, ad esempio, ha ricominciato a guardare anche all’Asia, con propri missionari che hanno fondato negli ultimi anni chiese con le caratteristiche cupole in posti come la Thailandia, Hong Kong, l’Indonesia, persino la Mongolia. Parallelamente a quanto sta facendo Putin a livello geopolitico, dunque, anche nella sfera religiosa Mosca si è riaffacciata sul palcoscenico globale. E l’incontro tra il patriarca Kirill e papa Francesco – il primo in assoluto tra un Pontefice e un leader ortodosso di Mosca, avvenuto a Cuba nel 2016 – va letto anche in questa prospettiva. Si capisce quindi la preoccupazione di Costantinopoli, che teme di vedere sempre più l’ortodossia schiacciata sull’onda lunga del ritorno della Russia. Due anni fa da Istanbul il patriarca Bartolomeo aveva provato a riprendere l’iniziativa convocando a Creta un Concilio ortodosso, cioè un incontro di tutti e quattordici i patriarcati, un evento che ambiva ad essere qualcosa di simile a ciò che per la Chiesa cattolica fu il Concilio Vaticano II negli anni Sessanta del secolo scorso: un confronto a 360 gradi sulle

sfide per l’ortodossia nel mondo di oggi. Ma quell’iniziativa è sostanzialmente fallita proprio perché – dopo aver inizialmente aderito alla preparazione – alla fine Mosca, con le Chiese ortodosse di Antiochia, della Georgia e della Bulgaria, ha scelto di non partecipare, depotenziando così fortemente la portata dell’evento. In fondo la crisi che oggi la questione dell’Ucraina ha portato alla ribalta non è altro che la continuazione di questa spaccatura già venutasi a creare nel 2016. Ed è uno scenario a cui anche il Vaticano guarda con molta preoccupazione: da una parte Roma vorrebbe mediare tra le due posizioni, forte anche degli ottimi rapporti costruiti con il patriarcato di Costantinopoli che durano ormai da cinquant’anni. Si muove però con estrema cautela, per non bruciare il canale nuovo appena riaperto con Mosca. Dentro a questo scenario complesso c’è in particolare una regione del modo dove i contraccolpi di questa spaccatura rischiano di farsi pesanti: il Medio Oriente. Da Gerusalemme fino ad Aleppo, infatti, gli ortodossi sono la più corposa tra le minoranze cristiane. E basta guardare all’architettura delle chiese lasciate in eredità dalla storia travagliata di questo angolo del mondo per capire quanto l’impronta bizantina qui sia stata fondamentale. Ma in questi ultimi anni l’elemento religioso è stato un capitolo fondamentale del ritorno della Russia in Medio Oriente. L’intervento militare in Siria a sostegno di Bashar al Assad è stato presentato da Putin stesso come una difesa delle comunità cristiane locali minacciate. E anche a Gerusalemme ogni mese arrivano frotte di pellegrini russi che affollano la basilica del Santo Sepolcro. Non è un caso, dunque, che il patriarcato di Antiochia – quello da cui dipendono gli ortodossi della Siria – sia stato tra i primi a schierarsi con Mosca nella disputa con Costantinopoli. Rischiano, quindi, di entrare anche le divisioni tra cristiani nella polveriera del Medio Oriente. Proprio là dove la minaccia jihadista non ha affatto finito di mettere le chiese nel mirino.

Quel che resta Della Grande GUERRA Emmanuel Macron (foto) ha ospitato a Parigi più di ottanta leader internazionali per commemorare l’armistizio di Compiègne, che cent’anni fa pose fine alla Prima guerra mondiale. Il presidente francese ha organizzato l’incontro con un unico obiettivo: celebrare la superiorità dell’interesse collettivo su quello nazionale, mostrare che l’unità e la collaborazione sono il requisito essenziale per garantire la pace. Meno Francia e più Europa, in sintesi. Le immagini di Macron con la cancelliera tedesca, Angela Merkel, sono la rappresentazione perfetta di questa unità: cent’anni fa era inimmaginabile pensare a una pace tra Francia e Germania, oggi è inimmaginabile pensare a una guerra tra Francia e Germania. L’interesse collettivo, l’interesse europeo e quello occidentale sono il collante di questa parte di mondo: se non fosse emersa tale solidarietà – che è solidarietà di valori prima ancora che militare o strategica – l’Unione europea non sarebbe oggi il progetto unico che è, al netto delle sue inefficienze. La nota dolente di questa enorme, intensa, piovosissima commemorazione è Donald Trump. Il presidente americano è arrivato a Parigi twittando contro Macron e contro le sue dichiarazioni sulla necessità di un esercito europeo: paga la tua parte nella Nato piuttosto, gli ha detto Trump. Poi il presidente americano è rimasto defilato, nelle immagini compare rigido, a disagio: il mondo attorno non lo tratta bene, e questo è un fatto. Ma a creare questo disagio è stato lui, volontariamente: la sua special relationship con la Francia si è spezzata, quella con il Canada pure (Justin Trudeau ha tenuto uno dei discorsi più spettacolari a Parigi, chiudendo l’ombrello mentre diceva: cent’anni fa la pioggia non era pioggia, la pioggia erano proiettili), quella con la Germania anche, e la parola che più ricorre nel raccontare l’alleanza tra Europa e America oggi è «freddez-

AFP

Scisma nel mondo ortodosso

Parliamo europeo di Paola Peduzzi

za». Appena rientrato alla Casa Bianca, Trump ha usato la sua solita tattica: compensare il disagio con qualche colpo ben piazzato. E naturalmente ha scelto Macron come obiettivo, per dare ancora più peso al «tradimento» di quello che soltanto qualche mese fa era «un ragazzo che mi piace moltissimo». Laddove Macron dice che il nazionalismo è la negazione stessa del patriottismo, Trump dice che la Francia è il Paese più nazionalista che c’è, e farebbe bene a non nascondere la verità facendosi bella con i suoi prodotti di qualità – il vino! – con cui invade il mercato americano senza ammettere reciprocità e promettendo una difesa europea che non si può permettere perché comunque a difendere l’Europa ci pensa ancora l’America. Come ci pensò cent’anni fa: se non fosse per noi, oggi in Francia si parlerebbe tedesco, ha twittato Trump. Il livello zero dell’alleanza transatlantica è stato raggiunto proprio in questi giorni, che beffa. Ma l’Europa che si prepara alle elezioni europee non può fare troppe tattiche: lo scontro sarà tra nazionalisti ed europeisti, e mentre i nazionalisti si raggruppano e si fanno sostenere da Trump e da Putin, gli europeisti puntano su una certezza. Come dice la Merkel, dovremo fare da soli, rimbocchiamoci le maniche, ce la possiamo fare.


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Politica e Economia

The Day after

Guedes, il liberista venuto dal Cile

per l’uscita dall’Ue, lasciano due ministri e due sottosegretari. Contro la May in difficoltà pronta la richiesta del voto di sfiducia

Brasile È uno degli strateghi dell’economia

Cristina Marconi

Angela Nocioni

Il momento in cui si raggiunge un accordo è, inevitabilmente, anche quello della concretezza, quello in cui tutti i nodi accumulati in 28 lunghi mesi vengono al pettine e una resa dei conti a lungo rimandata si fa inevitabile. Così è stato per la Brexit e per la premier Theresa May, instancabile e determinata tessitrice che, per aver dato una forma finale ai desideri sconnessi e contraddittori di un Paese e della sua classe politica, si è ritrovata alle prese con una serie di dimissioni e di attacchi che potrebbero portare alla fine della sua permanenza a Downing Street. Una profezia, quella del tramonto della May, che è stata già scritta mille volte e che fino ad ora si è dovuta scontrare con la realtà di una totale assenza di alternative per uscire dalla Ue senza riaccendere la santabarbara irlandese e senza condannare l’economia a un lento soffocamento. Perché le 585 pagine di accordo con Bruxelles non sono belle e mettono effettivamente il Paese nella condizione di subire i dettami della Ue senza avere voce in capitolo, situazione nettamente peggiore di quella in cui il Regno Unito si trova in quanto Stato membro, ma sono anche l’unica via percorribile: la May, che fino a qualche anno fa era come uno dei ministri e deputati che criticano Bruxelles con virulenza senza sapere davvero di cosa parlano, lo ha sperimentato sulla sua pelle. Da donna tenace qual è, se avesse intravisto la possibilità di un accordo migliore l’avrebbe colta, lei che europeista non è mai davvero stata.

Intervento statale minimo, possibilmente nullo, ma solo per le merci. Per il resto lo Stato controlla tutto e il potere centrale mantiene l’ordine con il pugno di ferro, con tanti saluti al rispetto delle libertà individuali. Eccola qua la ricetta del nuovo corso del Brasile: autoritarismo in politica e liberismo sfrenato in economia. Le merci sono libere, le persone molto meno. Niente di nuovo per l’America latina che conosce già questa ricetta, usata dalle dittature militari negli anni Settanta, applicata con rigore certosino nel Cile di Augusto Pinochet. Ed è lì, nel Cile di Pinochet, nell’officina del pensiero liberista puro in economia applicato con tutto il rigore possibile in una dittatura a capo unico, che il nuovo governo d’ultradestra del Brasile prende spunto ora. Il neopresidente brasiliano Jair Bolsonaro non nasconde la sua ignoranza in economia, gli sarebbe troppo difficile farlo. Non a caso non ha tracciato un programma economico nemmeno elementare durante la campagna elettorale, nella quale, per la verità, è rimasto vago su tutto tranne che sull’intenzione di dare mano libera alle varie polizie perché possano sparare per uccidere a loro discrezione. Per le questioni economiche e finanziarie Bolsonaro si affida a occhi chiusi a un uomo pescato nel giro degli economisti formatisi nel Cile pinochettista, Paulo Guedes (foto), nato a Rio de Janeiro nel 1949, studi di specializzazione a Chicago, con l’impronta teorica del pensiero liberista per eccellenza di Milton Friedman applicato poi nel laboratorio di sperimentazione economica che fu Santiago del Cile durante il regime di Pinochet. Il suo programma, per il poco che si è saputo finora, prevede innanzitutto la privatizzazione di tutte le imprese statali. Compresa l’azienda petrolifera Petrobras, l’impresa pubblica più grande del Continente, paralizzata al momento dopo la rimozione per via giudiziaria della sua intera dirigenza e con quasi tutti i contratti congelati dall’inchiesta dell’ex giudice Sergio Moro che, appena Bolsonaro ha vinto le elezioni, ha mollato l’inchiesta con cui ha fatto politicamente fuori i vertici del Partito dei lavoratori incluso l’ex presidente Lula (incarcerato poco prima delle elezioni presidenziali per le quali era dato come favorito con ampio margine su Bolsonaro da tutti i sondaggi) e ha accettato l’incarico di super ministro della Giustizia con un’inedita quantità di deleghe. Insieme a Sergio Moro sarà quindi Paulo Guedes a governare il Brasile nel prossimo futuro, molto più di Bolsona-

Brexit All’indomani dell’approvazione dell’accordo con Bruxelles

La quadratura del cerchio celtico funziona così: per evitare un confine fisico con la repubblica irlandese, in attesa che dopo la Brexit venga siglato un accordo di libero scambio tra Regno Unito e Unione europea in grado di definire le relazioni future tra i due blocchi e di regolare la situazione dell’isola una volta per tutte, l’Ulster continuerà ad adottare le regole del mercato interno e dell’unione doganale, con alcuni controlli sui beni in provenienza dal resto del Paese. Per minimizzare le differenze, anche il Regno Unito continuerà a essere provvisoriamente parte di una forma di unione doganale, cosa che turba molto gli euroscettici, i quali temono che la soluzione temporanea si cronicizzi e non se ne possa più uscire. Il negoziatore capo della Ue, Michel Barnier ha rassicurato sul fatto che «la soluzione temporanea» per l’Irlanda non debba essere utilizzata se non nel caso fallisse il tentativo di negoziare un accordo post-Brexit. Anche se rinfocolare la guerra civile non è nell’interesse di nessuno, nessuno in questi giorni si trattiene dal giocare con il fuoco e anche gli unionisti nordirlandesi del DUP, sul cui sostegno esterno la May è

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

AFP

costretta a contare per avere una maggioranza in Parlamento, hanno espresso gravi perplessità sulle misure previste. Che invece piacciono agli scozzesi, i quali si chiedono perché anche loro non possano avere una situazione privilegiata di rapporti più stretti con la Ue. Su quasi tutto, però, perché in materia di pesca è meglio l’indipendenza… Insomma, c’è poco da stupirsi che la May, davanti a esigenze tanto contraddittorie, non sia riuscita a portare a casa nulla di meglio. Come l’estate scorsa, in questo novembre ancora tiepido si è riaperta la stagione delle dimissioni di massa, che stavolta potrebbero essere fatali alla premier. Dieci giorni fa il fratello minore di Boris Johnson, Jo, aveva lasciato il suo posto da sottosegretario dicendo che i negoziati sono stati «il più grande fallimento dell’arte del governo dai tempi della crisi di Suez», nel 1956, e chiedendo a gran voce un secondo referendum per strappare il paese all’incubo di una situazione in cui deve scegliere tra il «vassallaggio» delineato dall’accordo con la Ue e il «caos» di un «no deal», ipotesi che sembra ormai pericolosamente vicina. In molti hanno voluto leggere nel discorso della May davanti a Downing Street nella serata di mercoledì (foto) una prima ammissione del fatto che un nuovo voto è possibile, ma la premier, che del saper amministrare la confusione ha fatto il suo marchio di fabbrica, ha alluso al fatto che gli animi sono ancora più infiammati di due anni e mezzo fa e che l’incertezza è alle stelle, mentre un nuovo negoziato porterebbe «alla casella di partenza». All’indomani della lunga riunione di governo di mercoledì, in cui tra le urla e le liti due ministri si sarebbero addirittura messi a piangere, il primo ad annunciare il suo addio è stato il ministro per la Brexit Dominic Raab, avvocato e deputato euroscettico che nelle ultime settimane aveva suscitato l’ilarità generale per aver scoperto che la tratta tra Dover e Calais è effettivamente molto importante per il commercio vista la «particolare conformazione geografica» – parole sue – della Gran Bretagna, che è un’isola. Di Raab si diceva anche che fosse d’accordo con i risultati del negoziato, ma vista la giovane età e le indubbie aspirazioni da leader, l’impressione è che abbia voluto prendere le distanze da un testo inevitabile che però, altrettanto inevitabil-

mente, è stato accolto male da tutti. Per lui «nessun paese democratico» può accettare le misure pensate per l’Irlanda del Nord e per questo ha preferito andare via, come già il suo predecessore David Davis all’indomani della presentazione del piano dei Chequers, a cui l’accordo finale somiglia molto. Poco dopo è arrivata la notizia che anche Ester McVey, responsabile per le pensioni e tra i pochi membri del governo a ritenere che il «no deal» sia una strada percorribile, ha voltato i tacchi dicendo che il testo «non rispetta il risultato del referendum». Poi al valzer degli addii si sono uniti anche dei sottosegretari e delle figure junior dell’esecutivo. Anche il leader dell’opposizione Jeremy Corbyn, che ha sempre criticato la May senza mai proporre un’alternativa che avesse un capo e una coda, ha detto che il testo non rispetta i parametri fissati dal Labour per valutarne l’accettabilità. Gli unionisti irlandesi del Dup hanno fatto sapere che si tratta di un «cattivo accordo» e usando la frase che la May soleva ripetere a ogni piè sospinto fino a qualche mese fa, «è meglio non avere nessun accordo che un cattivo accordo». Il travagliatissimo passaggio del documento attraverso l’approvazione dei ministri non è nulla rispetto alle forche caudine del voto in Parlamento previsto per metà dicembre, ammesso che ci si arrivi. I numeri non sono dalla parte della May, su cui continua a pendere il rischio di una mozione di sfiducia nel caso si raggiungesse la quota di 48 lettere inviate all’organismo competente del partito conservatore: se ne parla da mesi, ma per ora non è mai successo. I leader dell’Unione europea hanno invece dato educatamente disponibilità per un vertice il 25 novembre dedicato interamente al tema. La May è come una sarta a cui sia stato chiesto di fare un vestito da sera corto ma lungo, largo ma attillato, con un tessuto brutto e senza le misure di chi deve indossarlo: il risultato è quello che è, ma lei ha fatto il massimo che poteva senza mancare di rispetto a chi ha avanzato la bizzarra richiesta. Il suo unico errore è stato quello di non denunciare da subito l’impossibilità del compito, ma in questo si è dimostrata una sincera democratica, più volitiva che coraggiosa. Il Paese in qualche modo dovrà rendere omaggio alla sua dedizione, quale che sia il risultato di queste giornate convulse, preludio inevitabile di un nuovo caos.

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ro visto che, alla fine, per comandare con qualche efficacia bisogna pur conoscere ciò che si sta ordinando. Per capire chi sia questo signore brasiliano di nascita e cileno di adozione bisogna andare a chiedere a Santiago. Lì se lo ricordano come uno di quelli della stretta cerchia di Jorge Selume Zaror, ex responsabile del Bilancio dei tempi di Pinochet, direttore agli inizi degli anni Ottanta della Facoltà di Economia dell’Universidad de Chile, l’ateneo pubblico più antico del Paese. Fu un suo invito diretto a portare Guedes a Santiago. Lì assistette da vicino all’esperimento compiuto dai Chicago Boys nella società cilena, esperimento che il loro regista a Santiago, Sergio de Castro, consigliere della giunta militare dal 1973, poi ministro dell’Economia, raccontava in sintesi così: prendere un paese con grandi ricchezze naturali, imporgli una serie di misure di stretta osservanza liberista e senza correttivi che ne attutiscano l’impatto sociale sulle fasce più deboli, riuscire a dargli la scossa e vedere come va. È da Sergio de Castro che Paulo Guedes ha imparato la traduzione dei princìpi teorici di Friedman in provvedimenti pratici. Dopo il 1975 Sergio de Castro ebbe carta bianca dal regime per metter mano al Paese. Pinochet era stato infatti galvanizzato dalla frase di Milton Friedman «i provvedimenti vanno presi sempre in forma radicale perché se vuoi tagliare la coda al cane è meglio tagliarla tutta insieme che tagliargliela un pezzetto alla volta». Aveva messo da parte le sue perplessità sui tecnocrati e aveva affidato a de Castro la macchina economica cilena. Guedes arriva in Cile negli anni Ottanta, quando i Chicago Boys non occupano più le prime linee, ma le loro ricette continuano ad essere applicate da economisti loro allievi. E lì osserva il debutto del sistema di capitalizzazione individuale delle pensioni, uno dei provvedimenti in studio per il Brasile. Onyx Lorenzoni, molto caro al presidente Bolsonaro e probabile suo capo di Gabinetto (il raccordo principale tra il presidente e i suoi ministri), dice apertamente che il Cile pinochettista è un esempio da prendere sotto vari aspetti: «il Cile è per noi un esempio di paese che ha saputo stabilire dei princìpi macroeconomici molto robusti, sono stati loro a permettergli di diventare un’eccezione positiva in America latina». Nel frattempo il neopresidente del Brasile ha fatto sapere di aver scelto due ex militari per il suo governo: Augusto Heleno Ribeiro, militare ritirato, sarà il responsabile della Sicurezza istituzionale, mentre alla Difesa andrà un ex capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Fernando Azevedo e Silva, anche lui ritiratosi dalla vita militare attiva.

Keystone

I dimissionari non accettano il compromesso sull’Irlanda del Nord, che prevede una sorta di mercato unico con l’Ue a tempo indeterminato

cilena degli anni 80 sotto Pinochet

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Politica e Economia

Aiuto allo sviluppo in favore dei propri interessi

Cooperazione allo sviluppo Il ministro degli esteri Ignazio Cassis vuole concentrare l’aiuto allo sviluppo

sui Paesi d’origine dei nostri migranti e lasciare altre aree d’intervento, come l’America del Sud. L’esempio dell’Eritrea evidenzia però che non è facile correlare la cooperazione internazionale con la politica migratoria

Luca Beti «La politica estera elvetica è innanzitutto politica interna». È questo lo slogan che il ministro degli esteri Ignazio Cassis ripete continuamente, come una sorta di mantra, dalla sua elezione in Consiglio federale. Anche se si definisce ancora un apprendista, Ignazio Cassis ha già saldamente preso in mano il timone del suo Dipartimento e ha contribuito a dare una sterzata verso destra alla politica in Consiglio federale. L’annuncio da parte del governo di allentare le disposizioni sull’esportazione di armi anche in Paesi coinvolti in un conflitto interno è l’esempio più palese di questo cambiamento di rotta. Il cambio alla testa del DFAE ha portato un certo scompiglio anche nella sede centrale della Direzione per lo sviluppo e la cooperazione (DSC), l’agenzia dello sviluppo in seno al Dipartimento federale degli affari esteri. I corridoi e gli uffici dell’edificio alla periferia di Berna sono stati percorsi da questa ventata nuova, proveniente dal Sud delle Alpi. Non è stato un refolo, bensì una forte folata di vento che ha messo in agitazione un po’ tutti gli impiegati della DSC, agenzia che Cas-

Profughi eritrei protestano contro il riavvicinamento fra Svizzera ed Eritrea, davanti al Palazzo dell’ONU a Ginevra, nel dicembre 2017. (Keystone)

sis per la sua grandezza ha paragonato a un’armata. Dopo il disorientamento iniziale sembra che l’equazione «politica estera uguale politica interna» sia stato metabolizzato anche dai collaboratori, chiamati ora a dare forma a questa nuova idea nel messaggio concernente la cooperazione interna-

zionale 2021-2024. Il credito quadro dovrebbe rimanere uguale: nel 2017 sono stati spesi poco più di tre miliardi per l’aiuto pubblico allo sviluppo. A cambiare sarebbero invece i temi e gli ambiti prioritari. Molto più che in passato, l’aiuto ai Paesi poveri dovrà concentrarsi sulla migrazione, seguendo quindi il principio di Cassis: «La poli-

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tica estera elvetica è innanzitutto politica interna». Non è un’idea nuova, quella di puntare maggiormente su iniziative di sviluppo nei Paesi del Sud per frenare la migrazione. Nella sessione autunnale del 2016, il parlamento elvetico ha deciso infatti di inserire in un decreto federale un articolo in cui si chiede di correlare strategicamente la cooperazione internazionale e la politica migratoria, focalizzando l’attenzione sulle cause della fuga, prevenendo così la migrazione forzata. L’obiettivo è di aiutare i migranti a casa loro. Ma non solo. Lo scopo è anche di trovare delle intese con i Paesi partner, i cosiddetti accordi di riammissione, per rimandare a casa chi si è visto negare l’asilo in Svizzera. Se da una parte lo slogan «aiutiamoli a casa loro» non fa una grinza, dall’altra solleva un nuvolo di questioni: come? Quando? Con chi? Infatti, molto spesso, chi mette a repentaglio la propria vita per raggiungere l’Europa o qualsiasi altro Eldorado a Nord, lo fa perché nel suo Paese non è più possibile vivere un’esistenza degna di questo nome: è confrontato con autorità corrotte, dispotiche, che violano sistematicamente i diritti umani, senza alcuno Stato di diritto. E allora come fare ad aiutarli in casa loro se il dialogo con il Paese partner è difficile, se non impossibile? Prendiamo l’esempio dell’Eritrea. La Svizzera è una delle mete preferite in Europa di chi fugge da questo Stato del Corno d’Africa. Di conseguenza, la diaspora eritrea nel nostro Paese è particolarmente numerosa e conta circa 38mila persone. È una presenza che dà fastidio: sono perlopiù giovani fra i 15 e i 30 anni, la cui integrazione nel mondo del lavoro è costellata da ostacoli di tipo linguistico, culturale e professionale. E così la questione «eritrea» torna con regolarità a infiammare il dibattito sotto la Cupola di Palazzo federale; lo ha fatto anche in occasione dell’ultima sessione autunnale delle Camere federali. Si chiede continuamente al Consiglio federale di intensificare i rapporti diplomatici con le autorità di Asmara per favorire il rimpatrio di eritrei respinti. È un compito tutt’altro che facile. Come la Svizzera, anche altre nazioni con un peso economico e politico maggiore, per esempio la Germania e la Gran Bretagna, si sono scontrate con il muro di gomma dell’uomo forte del Paese del Corno d’Africa, Isaias Afewerki. La Confederazione non lascia tuttavia nulla di intentato. Dopo essersi ritirata nel 2006, la DSC ha ripreso nell’ottobre 2017 la cooperazione con l’Eritrea, finanziando tre progetti nell’ambito della formazione volti a mi-

gliorare a lungo termine le condizioni di vita e le prospettive dei giovani del posto. Inoltre, da quasi un anno il DFAE ha aperto un suo ufficio presso l’ambasciata tedesca ad Asmara. Sono piccoli passi per riallacciare un dialogo, interrotto oltre 10 anni fa, che hanno però un costo: 4 milioni di franchi. «Soldi buttati al vento», sostiene un collaboratore della DSC. Nel 2019 si farà il punto della situazione e l’impressione è che Berna rimarrà con un pugno di mosche, senza aver ottenuto niente in cambio da Asmara. Ma questi sforzi diplomatici sollevano anche altri interrogativi. È giusto collaborare con un regime autoritario come quello eritreo? Non si rischia forse di consolidare la posizione di chi è al potere? È proprio quanto sostiene lo studio The Amplification Effect: Foreign Aid’s Impact on Political Institutions dell’Università del Wisconsin. Stando alla ricercatrice Nabamit Dutta, gli aiuti allo sviluppo provenienti dall’estero rafforzano le istituzioni politiche esistenti: le democrazie diventano più democratiche, le dittature più dittatoriali. Alliance Sud, la comunità di lavoro delle organizzazioni svizzere di aiuto allo sviluppo, sostiene che in questo modo la cooperazione allo sviluppo viene strumentalizzata per raggiungere obiettivi politici, invece di rispettare il mandato costituzionale che chiede di lottare contro la povertà nel mondo, contribuire a far rispettare i diritti umani e promuovere la democrazia. Dalle colonne della «Neue Zürcher Zeitung» il direttore di Alliance Sud Mark Herkenrath ricorda che è controproducente sedersi allo stesso tavolo con regimi dittatoriali per trovare un accordo in ambito di migrazione, offrendo come contropartita dei progetti di sviluppo. Il professore di sociologia all’Università di Zurigo e Friburgo sostiene che non è possibile frenare la migrazione con l’aiuto allo sviluppo, almeno non prima di aver colmato l’enorme divario in materia di reddito tra Nord e Sud; una vera calamita che attira la gente dei Paesi più poveri a emigrare verso quelli industrializzati. Stando alla Banca mondiale, chi raggiunge l’Europa guadagna in media 15 volte di più e le possibilità che i figli vadano a scuola raddoppiano. E poi come frenare una popolazione africana che entro il 2050 raddoppierà, raggiungendo i 2,5 miliardi? Visto che i mezzi finanziari a disposizione per «aiutarli a casa loro» sono sempre meno – nel 2017 sono confluiti poco più di tre miliardi di franchi nell’aiuto pubblico allo sviluppo, ovvero 480 milioni in meno rispetto all’anno precedente – l’idea è di concentrare il sostegno elvetico su un numero minore di Paesi prioritari e di fissare priorità tematiche e geografiche. Già nel messaggio concernente la cooperazione internazionale 2017-2020 si indica un rafforzamento della presenza della DSC in Africa, continente a cui viene destinato oggi il 55 per cento delle risorse disponibili. Per focalizzarsi maggiormente su questa parte del pianeta, l’aiuto allo sviluppo elvetico dovrà però smarcarsi da altre regioni. Anche se non è ancora stato comunicato ufficialmente – persone ben informate sostengono che la decisione è già stata presa – dal 2021 non avviati nuovi progetti in America latina. Entro il 2025 la cooperazione allo sviluppo svizzera, ma non l’aiuto umanitario, lascerà l’America centrale e quella del Sud. Oggi la Svizzera promuove iniziative in Bolivia, Colombia, Nicaragua, Honduras, Haiti e Cuba.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Politica e Economia

Vacche con o senza corna?

Votazioni federali 25 novembre L’iniziativa lanciata da un contadino grigionese attivo nel Giura solleva un’ampia

discussione sul benessere degli animali e sulla necessità di ancorare nella Costituzione una nuova forma di sussidio Alessandro Carli Gli allevatori di vacche, ma anche di tori riproduttori, capre e becchi riproduttori che portano le corna, dovrebbero essere sussidiati per i maggior costi che questi animali generano. È quanto chiede l’iniziativa popolare «Per la dignità degli animali da reddito agricoli (Iniziativa per le vacche con le corna)», in votazione il 25 novembre prossimo. Sebbene il tema non sia di quelli che «cambiano le sorti del Paese», accende però le passioni del mondo contadino, che appare diviso. Secondo i fautori dell’iniziativa sarebbero in gioco 15 milioni di franchi, senza aumenti nel budget annuale (3 miliardi) destinato all’agricoltura. Ciò significa che questi soldi dovranno essere racimolati, tagliando in altri sussidi agricoli. Parlamento e governo si oppongono al progetto. Eppure, secondo i sondaggi l’iniziativa dovrebbe farcela, anche per le emozioni che la decornazione solleva.

Chi alleva vacche, tori e capre con le corna deve poter beneficiare di un sussidio, a scapito di altri sussidi agricoli In Svizzera, circa i tre quarti delle vacche e un terzo delle capre sono attualmente sprovvisti di corna. Se non si fa nulla – temono i fautori dell’iniziativa, guidati dal contadino Armin Capaul, un grigionese con una fattoria nel Giura bernese – le mucche con le corna rischiano di scomparire dal paesaggio elvetico. Vacche e capre hanno bisogno delle corna per comunicare tra loro, riconoscersi, stabilire il rango di ciascun animale, eseguire l’igiene del corpo. L’assenza di corna negli animali può essere ottenuta con la rimozione dei primi abbozzi cornei negli animali giovani o allevando razze senza corna. Soprattutto per i capi da latte, rimuovere queste sporgenze, resta un’operazione dolorosa. Vitelli e capretti subiscono questo trattamento per cauterizzazione dopo

Armin Capaul, fotografato nei suoi pascoli di Perrefitte, nei pressi di Moutier. (Keystone)

due settimane di vita. Secondo il ministro dell’agricoltura Johann SchneiderAmmann, non vi sono studi scientifici che dimostrino che la decornazione «nuoccia al benessere e alla salute» degli animali. Si procede all’intervento, previa anestesia, utilizzando strumenti specifici, quali decornatori elettrici o a gas, con una temperatura di 700 gradi. Secondo uno studio della Facoltà di medicina veterinaria dell’Università di Berna, il dolore è presente nelle prime 24 ore dalla decornazione ed è ancora riscontrabile tre settimane dopo, nonostante la somministrazione di antidolorifici. Il Consiglio federale relativizza: anche nella medicina umana, circa il 30% dei pazienti che ha subito interventi, con danni ai tessuti paragonabili, soffrono di dolori cronici. L’allevamento di animali senza corna è molto diffuso perché si ridu-

cono, e di molto, gli incidenti e le ferite sia alle persone, sia agli altri animali della mandria o del gregge, sia agli animali stessi. Allevare animali con le corna richiede più spazio nelle stalle e nei recinti, ciò che comporta maggiori investimenti. I fautori dell’iniziativa parlano di costi annui per 15 milioni (almeno 190 franchi per mucca e 38 per capra). Il Consiglio federale, che vi si oppone anche per garantire la sicurezza dei contadini e degli animali, valuta i costi tra i 10 e i 30 milioni. Il testo dell’iniziativa non precisa l’ammontare del contributo per detenere animali con le corna, né come finanziare il progetto, per cui non resta che tagliare nelle altre sovvenzioni agricole. A tutto ciò si aggiunge la registrazione degli animali con le corna, che comporterà oneri non trascurabili per Confederazione e cantoni.

Occorre ricordare che non tutti gli animali vengono decornati, esistono infatti anche razze bovine geneticamente senza corna, come l’angus da carne. Per quel che concerne i capretti, la pratica di decornarli è quasi indispensabile negli allevamenti caprini a stabulazione fissa e in semi-stabulazione. Le capre con corna sono solite procurarsi lesioni, anche gravi, in tutto il corpo e in particolare alla mammella. Per gli oppositori, la questione non deve trovare spazio nella Costituzione, bensì nella legge. L’Unione svizzera dei contadini (USC), che ha deciso di lasciare libertà di voto, è pure della stessa opinione, anche perché la legislazione esistente permette già di promuovere l’allevamento di animali con le corna: basterebbe aggiungere crediti d’investimento o nuovi contributi alle attivi-

te se una persona possa essere spiata in casa sua. Essi sono convinti che, grazie alla loro lobby, gli assicuratori hanno ottenuto più poteri della polizia. Tutto sbagliato, replicano i sostenitori della sorveglianza degli assicurati. Essi respingono le critiche e parlano di una giurisprudenza molto chiara del Tribunale federale. Una sorveglianza sarà ordinata solo in ultima ratio. Essa, infatti, non avviene senza un sospetto che si basa su indizi concreti o se si può chiarire la situazione con un’altra misura. Occorre poi l’autorizzazione di un membro della direzione dell’assicurazione. Le procedure saranno inasprite: gli investigatori dovranno adempiere esigenze elevate, la durata dell’osservazione sarà limitata a 30 giorni su sei mesi. Le persone che sono state sottoposte a osservazione devono in ogni caso poi essere informate. Il referendum è sostenuto da sindacati, PS, Verdi, giovani Verdi liberali, PPD ginevrino, nonché da numerose associazioni, tra cui Amnesty International e le organizzazioni di difesa degli handicappati. Secondo loro, la riforma della legge è stata elaborata dal Parlamento secondo il motto «il fine giustifica i mezzi». Il fatto – affermano – è che sono le stesse assicurazioni sociali a poter ordinare la sorveglianza,

mentre solo un tribunale è in grado di garantire un esame obiettivo sulla necessità di tale azione. La modifica della legge, oltre che dalla stragrande maggioranza del Parlamento e dal Consiglio federale, è sostenuta dai partiti borghesi. Per loro, in casi fondati, è giustificato procedere alla sorveglianza degli assicurati per combattere gli abusi. Essi sottolineano anche la severità che contraddistingue la possibilità di procedere a una sorveglianza. Se il sospetto si rivela infondato, tutto il materiale risultante dall’osservazione dev’essere distrutto. Se il progetto di legge fosse respinto, le osservazioni segrete, anche in futuro, non verranno autorizzate. Nella campagna che precede la votazione si affrontano due visioni ideologiche diverse. Gli oppositori della modifica legislativa non vogliono saperne della nozione di sospetto nei confronti dei più deboli della società. Coloro che soffrono talvolta in silenzio e in modo invisibile vanno protetti e non presi di mira. I fautori ritengono invece legittimo procedere in determinati casi alla sorveglianza degli assicurati, ciò che è nell’interesse di tutti. I truffatori minano la fiducia nel sistema sociale. Smascherando gli abusi si aumenta la credibilità. /AC

Sorvegliare gli assicurati? Il terzo tema su cui saremo chiamati a pronunciarci il 25 novembre è la modifica della legge federale sulla parte generale del diritto delle assicurazioni sociali, contro cui è stato lanciato il referendum, modifica che raccoglierebbe i chiari favori degli elettori. In sostanza, il progetto prevede che investigatori privati possano nuovamente spiare i frodatori delle assicurazioni sociali. I fautori del referendum denunciano una violazione eccessiva della sfera privata. Nessuno contesta la necessità di combattere gli abusi concernenti le assicurazioni sociali, ma per il comitato referendario gli articoli sulle osservazioni segrete sono troppo permissivi: le assicurazioni sociali avrebbero carta bianca per «sorveglianze arbitrarie» e non sottostanno ad alcun controllo. Inoltre – sostiene ancora il comitato – non è praticamente posto alcun limite ai mezzi tecnici previsti a tale scopo. Le assicurazioni possono sorvegliare segretamente un assicurato solo se hanno indizi concreti di riscossione indebita delle prestazioni. A tale scopo possono far capo a registrazioni visive e sonore, a tecniche di localizzazione dell’assicurato per mezzo del GPS fissato su un veicolo, ma solo in modo limitato e se autorizzate da un giudi-

ce. Non è permesso osservare persone in salotto o camera da letto. Non sono autorizzate nemmeno riprese con droni e le registrazioni con microfoni direzionali o con microspie («cimici»). La sorveglianza non sarà limitata allo spazio pubblico: un assicurato potrà essere osservato sul suo balcone, ma a condizione che sia visibile da un posto accessibile a tutti. Due anni fa, la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) aveva richiamato la Svizzera, segnalandole che la sua legislazione era insufficiente per autorizzare l’assicurazione infortuni a spiare beneficiari di rendite. Nel luglio del 2017, il Tribunale federale era giunto alla stessa conclusione per quanto riguardava l’assicurazione invalidità. Le due assicurazioni hanno così dovuto sospendere le attività investigative e di controllo. Orbene, la legge in votazione è intesa a fornire la base legale mancante. Nel caso in cui fosse accolta dal popolo, essa verrà applicata a quasi tutte le assicurazioni sociali, comprese quelle per perdita di guadagno, disoccupazione e malattia. Per gli oppositori, tutte queste disposizioni costituiscono una violazione della sfera privata. A loro modo di vedere, la base legale è troppo vaga: non definisce chiaramen-

tà agricole nei luoghi in cui questo tipo di allevamento comporta spese extra e maggiori esigenze di spazio. I fautori dell’iniziativa sostengono di essere stati obbligati a scegliere la via costituzionale, dal momento che le autorità non hanno finora ascoltato le loro rivendicazioni. Sperano di centrare l’obiettivo, dopo il recente fallimento di varie iniziative contadine. Essi godono del sostegno della sinistra. A favore dell’iniziativa gioca anche il fatto che una parte della società vede di buon occhio le vacche con le corna (nelle pubblicità le hanno quasi sempre) e un sì potrebbe contribuire a rafforzare un’immagine positiva dell’agricoltura svizzera. L’USC teme invece che proprio il crescente numero di votazioni che interessano il settore agricolo possa essere controproducente. Infatti, se da un canto è molto positivo parlare di agricoltura, dall’altro, se si esagera, si corre il rischio di disorientare il cittadino, tanto che alla fine si stanca e perde interesse per le problematiche agricole. L’allevamento di bestiame con le corna può presentare un certo potenziale commerciale. Questa scelta può però indurre gli allevatori a legare i loro animali per evitare ferite, ciò che è contrario agli sforzi compiuti in favore della stabulazione libera e delle uscite all’aria aperta. Il consigliere federale Johann Schneider-Ammann, alle prese con l’ultima consultazione popolare prima del suo ritiro, ricorda che i sussidi sono appunto versati per incoraggiare le forme d’allevamento rispettoso del benessere dell’animale. Infine, è giusto sottolineare che l’iniziativa, depositata nel 2016 dal gruppo d’interessi Hornkuh, non impone un divieto di decornazione, ma chiede di aiutare finanziariamente i contadini che detengono bovini e ovini con le corna, per «ridare dignità a questi animali da reddito». I proprietari saranno liberi di decidere, ma proprio il sussidio – sostengono i fautori – potrebbe incentivarli a lasciare le corna ai loro animali. Perciò, la Confederazione ritiene che non debba limitare tale libertà, offrendo contributi supplementari. Agli agricoltori la competenza di lasciare le corna a mucche e capre. Al cittadino quella di concedere ai detentori di bestiame con le corna un sussidio specifico, ancorandolo addirittura nella Costituzione federale.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Politica e Economia

Debiti privati: possibile cancellarli? Politica federale Due atti parlamentari chiedono al Consiglio federale una proposta di legge che permetta

di cancellare i debiti privati che, in Svizzera, sono molto alti. Ma servirà a diminuire l’indebitamento delle famiglie? Ignazio Bonoli Un postulato del socialista Claude Hêche agli Stati e una mozione del Verde liberale Beat Flach al Nazionale sono stati accettati, quasi in sordina, da entrambe le Camere. Eppure l’argomento non è certamente di quelli minori, dal momento che chiedono una legge che introduca il concetto del condono dei debiti privati. Lo scarso impegno nella discussione è forse dovuto al fatto che gli atti sono presentati in termini generali e chiedono in sostanza al Consiglio federale di elaborare un testo di legge che permetta di cancellare i debiti di persone singole che non sono più in grado di farvi fronte. Una prima giustificazione è insita nel testo stesso delle richieste, che chiedono l’una di introdurre misure che permettano a persone, che non hanno più la possibilità di estinguere un loro debito, di poter essere reintegrate nel tessuto economico; l’altra di considerare le prospettive future di debitori e creditori. Il linguaggio è prudente, ma chiaro: dare la possibilità a una persone fortemente indebitata di estinguere il suo debito privato e reintegrarsi così nell’economia senza il peso di debiti precedenti. Va detto che lo stesso Consiglio federale, in un rapporto dello scorso mese di marzo, scriveva che «la situazione odierna, nella quale persone che devono vivere senza prospettive con i loro debiti e senza possibilità di migliorare la loro posizione economica,

agli occhi del Consiglio federale, è insoddisfacente. Questa mancanza di vie d’uscita danneggia tanto l’imprenditoria privata, quanto l’ente pubblico», aggiungendo che «ogni persona merita una seconda possibilità». Come potrebbe funzionare in concreto questa «seconda possibilità»? Un debitore si mette d’accordo con i suoi creditori di pagare, entro un certo termine, una parte del suo debito. I creditori gli condonano la parte rimanente del debito. Così i creditori sono sicuri di incassare almeno una parte del loro credito. Quale può essere la differenza rispetto al diritto svizzero attuale? Si deve partire dal concetto, alla base del diritto svizzero, secondo il quale un debitore deve sempre far fronte al suo impegno. Per questo esistono attestati di carenza di beni della durata di decine di anni. Nella realtà però questa situazione si verifica raramente. Molti debitori non faranno mai fronte ai loro impegni e possono anche vivere collezionando atti di carenza di beni. Bastano queste poche considerazioni per vedere che emanare una legge che regoli questa situazione è un compito tutt’altro che facile. Si dovrà per esempio stabilire quale proporzione dei debiti il debitore dovrà pagare per giungere a un accordo di condono. Oppure potrà un tribunale costringere un creditore a condonare a un debitore una parte del suo debito? O magari anche: coloro che ricevono aiuti sociali e non hanno

altri redditi potranno beneficiare di un condono parziale? Alcuni paesi conoscono già un sistema di condono dei debiti privati: tra questi gli Stati Uniti, la Francia, la Germania. Dal canto suo il Consiglio federale precisa: «Benché il sistema del condono parziale di debiti privati sia spesso oggetto di riforme, non viene ormai più rimesso in questione». Ad eccezione dell’UDC che finora si è dichiarata contraria al sistema, una maggioranza del Parlamento sembra disposta a seguire l’eventuale progetto di legge, ma con parecchie condizioni. Accanto a chi lo ritiene un mezzo per ridurre l’indebitamento o combattere la povertà, vi è chi teme la possibilità di abusi da combattere fin dall’inizio con prescrizioni e regole molto severe. In realtà, in Svizzera, l’indebitamento privato è molto alto e in continua crescita: se nel 2000 era appena sopra il miliardo di franchi, oggi sfiora i 2 miliardi. Già uno studio dell’Ufficio federale di statistica del 2013 rilevava un’alta quota di debiti presso le famiglie svizzere. Situazione confermata anche dagli uffici di esecuzione e fallimenti, quando questi debitori non fanno più fronte ai loro impegni. Ma chi sono questi debitori insolventi? Non esistono statistiche precise, ma l’esperienza di consulenti e uffici di esecuzione dice che si tratta di persone in crisi, in molti casi soprattutto uomini dopo un divorzio o una separazione. La figura tipica è quella dell’uomo di 40 anni, separato o divorziato.

Il parlamento federale muove i primi timidi passi verso una soluzione di un problema annoso. (Keystone)

Situazione che di per sé offre qualche sostegno alla tesi di «una seconda possibilità», se si assommano anche casi di disoccupazione o di scarsa formazione. Non si può però dimenticare il celebre detto latino. «Pacta sunt servanda», altrimenti è tutto un istituto

del sistema economico che rischia di crollare. Ancora una volta, se c’è una necessità di agire lo si può fare, ma con prudenza e moderazione. Altrimenti l’incentivo a diminuire l’indebitamento rischia di diventare uno stimolo ad aumentarlo. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi I problemi del mercato della formazione in azienda, in Ticino Il consigliere di Stato Bertoli ha fatto di recente il bilancio della campagna di collocamento dei tirocinanti della scorsa estate. Vale la pena ricordarne gli aspetti principali. Domanda e offerta di posti di tirocinio si sono equivalsi anche quest’anno. Tuttavia

le aspirazioni di molti giovani nella scelta della futura professione non hanno potuto essere soddisfatte. I rappresentanti del dipartimento hanno poi messo in evidenza che, nonostante l’equilibrio raggiunto, l’offerta di posti di apprendista è insufficiente. Il numero delle aziende che offrono posti di apprendista è in diminuzione (se non siamo male informati da diversi anni) e, a differenza degli altri Cantoni, in Ticino, l’offerta attuale appena copre le esigenze in termini quantitativi della domanda. Insomma, benché i successi conseguiti, negli ultimi decenni, siano notevoli resta ancora molto da fare in materia di creazione di opportunità di apprendistato nel nostro Cantone. E purtroppo il problema non è di facile soluzione anche se in Ticino sono attive, stando alla statistica, più di 38’000 aziende. Il fatto è che il 92% di queste aziende conta meno di 10 addetti e quindi è difficilmente in grado di sopportare i costi della formazione

anche di un solo apprendista. L’effettivo di aziende che possono formare apprendisti è quindi molto meno importante del montante totale delle aziende. In Ticino sono circa 4800 le aziende formatrici che potenzialmente potrebbero assumere apprendisti. Nel corso dell’ultima campagna di collocamento quelle che hanno effettivamente messo a disposizione posti di apprendista sono state 3433. L’effettivo limitato di aziende che creano posti di apprendista è un problema con il quale si scontrano ogni anno i funzionari che si occupano del collocamento dei nuovi apprendisti. Dei grandi vantaggi del sistema di formazione professionale duale, ossia con un posto di apprendista in azienda, si parla volentieri, anche da noi. Degli sforzi che si rendono necessari, anno per anno, per cercare di procurare a tutti i giovani che vi aspirano un contratto di apprendista, invece, non si sente dire molto. Eppure questa è una delle sfide che dobbiamo vincere,

se vogliamo assicurare un futuro a tutti i giovani (e soprattutto a tutte le giovani) che non proseguono gli studi dopo la conclusione della scuola media. Ma non meno importanti sono i problemi che si pongono dalla parte della domanda di tirocinio. Dapprima per le scelte che esprimono gli scolari ticinesi al termine delle scuole medie. Le stesse sono censite, anno per anno, da un’apposita inchiesta. Quest’anno hanno partecipato all’inchiesta sulle scelte scolastiche e professionali 3220 scolari giunti al termine delle medie. Solo il 26,9% di questa popolazione si è pronunciato per un tirocinio o un pre-tirocinio in azienda. Si tratta in tutto di 865 giovani, 616 ragazzi e 249 ragazze. Come i responsabili del collocamento siano riusciti a trovare, partendo dalle scelte enunciate dagli scolari, i più di 3000 nuovi apprendisti che hanno iniziato la loro attività nelle aziende formatrici del Cantone è un fatto che, ragionando unicamente sui numeri,

ha proprio dell’incredibile. Tanto più che questa situazione – ossia il divario tra le scelte espresse dagli scolari che terminano le medie e il numero dei nuovi contratti di tirocinio sottoscritti entro la fine della campagna di collocamento – si ripete di anno, in anno, pensiamo da decenni. Ai lettori non sarà sfuggito il numero, relativamente basso di ragazze che si esprimono in favore del tirocinio in azienda. Questa situazione si ripete anche per quel che riguarda i nuovi contratti di tirocinio: normalmente il 60% dei nuovi apprendisti sono ragazzi e solo il 40% ragazze. La situazione in Ticino non è molto diversa da quella negli altri Cantoni. Il tirocinio in azienda continua ad essere appannaggio più dei ragazzi che delle ragazze. Per contro le ragazze sono normalmente più numerose nelle scuole professionali. A tutti questi giovani auguriamo un buon esito nel loro percorso di formazione professionale.

digiterà sul telefonino insulti degni del grande twittatore che è. Porgerà la mano all’avversario, e cercherà di tagliargliela. Ha già cominciato nella famosa conferenza stampa, proponendo ai democratici uno scambio impossibile: voi non indagate su di me sul Russiagate, e io non userò l’intelligence federale contro di voi. Non è chiaro neppure se Trump creda davvero di aver vinto. I segnali sono contraddittori. I democratici non riescono più a eleggere senatori negli Stati repubblicani. Non hanno un leader, a parte Obama che non è più eleggibile. Sono divisi tra moderati, che non mobilitano i giovani, e radicali, che non parlano all’elettorato operaio da riconquistare. Eppure i democratici avanzano negli Stati dove due anni fa Trump aveva trionfato: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, dove è battuto il governatore Scott Walker, che sognava

la Casa Bianca. E l’ondata di nuovi eletti, in particolare donne – sorprendente la vittoria di Laura Kelly, nuovo governatore del Kansas, Stato iperrepubblicano – ricorda che la base elettorale del presidente – i maschi bianchi – nel Paese è minoranza, e lo sarà sempre di più. La sfida del 2020 si annuncia incertissima. Una cosa è sicura: Trump non è un’anomalia destinata a essere rapidamente riassorbita. L’ondata antisistema che l’ha portato alla Casa Bianca non è stata una bizzarria della storia; è uno dei segni del nostro tempo. Sotto certi aspetti, il suo risultato è più solido di quello del 2016. Allora fu il colpo d’ala dell’outsider; adesso è la sostanziale tenuta di un leader divenuto capo del partito repubblicano. La vecchia guardia continua a diffidarne; ma la nuova generazione non ha pudore a chiamarlo in soccorso. L’ha fatto Ron

DeSantis, 40 anni appena compiuti, e ha vinto in Florida contro i pronostici; l’ha fatto Josh Hawley, 38 anni, e ha strappato ai democratici un seggio al Senato in Missouri. Anche la reazione isterica di un presidente che prima tende la mano ai giornalisti e poi ci litiga, offre un accordo ai democratici ma li minaccia, si propone come pacificatore senza rinunciare a dividere, conferma che Trump può fare e farsi del male fino all’autodistruzione; ma metà dell’America continua a riconoscersi in lui. Chi sarà il candidato democratico? Nell’autobiografia appena pubblicata, Becoming (Diventare), Michelle Obama dice che no, la politica non le interessa. Ma forse è solo troppo presto. Joe Biden potrebbe essere l’uomo giusto. Però è più vecchio di Trump. E non avrebbe vita facile contro quello che si conferma un osso duro.

Ginevra è nel bel mezzo di una messa cantata. Quasi a voler fare concorrenza al clamore per il braccio di ferro con il consigliere di stato Pierre Maudet, a fine ottobre sono giunti i dettagli di un’indagine sulle spese professionali rimborsate ai municipali della città di Calvino. Gli importi decisamente declassano quelli rinfacciati ai politici ticinesi, visto che, come ha confermato il magistrato inquirente Isabelle Terrier, a fronte di un «bonus» concordato di 15’000 fr. annui, i rimborsi ai municipali ginevrini arrivavano a giustificativi superiori ai 40’000 franchi all’anno. La goccia che ha fatto capire che il bicchiere delle spese extra stava decisamente tracimando è giunta con la scoperta di rimborsi telefonici incassati dal municipale Guillaume Barazzone: a giustificare i suoi 39’000 franchi complessivi c’erano ben 17’000 fr. di spese in telefonia, quasi 1’500 fr. al mese! L’astronomica cifra ha costretto il municipale indagato a scusarsi per «errori involontari» (tra cui lo sconveniente acquisto di una

bottiglia di champagne) e a mettere mano al portafoglio per rimborsare... i rimborsi. Gli impietosi ricami dei media romandi hanno toccato anche la rappresentante dei Verdi Esther Alder che ha inutilmente provato a giustificare con una battuta («Sono “verde” ma non dogmatica») gli oltre 3000 fr. di rimborsi ricevuti per tragitti in taxi. Andando oltre le cifre e l’avidità, i giornalisti hanno infine rivelato anche che gli inquirenti hanno dovuto agire in un clima estremamente difficile perché l’esecutivo si rifiutava di consegnare documenti contabili e imponeva la presenza di un avvocato agli interrogatori (anche il Municipio ha cercato di giustificarsi: tutto era dovuto al tono «inadeguato e molto duro» dei membri della Corte dei conti ginevrina). I tre casi citati confermano l’esistenza di una crisi di fiducia generale nella gestione del denaro pubblico e nei controlli delle frodi. Certo oggi, con la forte pressione mediatica, tutti i casi assumono dimensioni assai più

rilevanti rispetto al passato: prima ancora di sentenze e certezze, si crea un clima che paradossalmente da un lato amplia a dismisura dubbi e illazioni, dall’altro crea assuefazione e tolleranza verso comportamenti un tempo bollati senza remissione. Chi studia questi casi, soprattutto le implicazioni che riguardano i giochi della politica e i movimenti che stanno soppiantando i partiti tradizionali, parla di crescente «sindrome di ipocrisia» e mette in guardia sui pericoli che ne possono derivare. Infatti se a livello personale i comportamenti ambigui possono essere analizzati e curati, a livello collettivo i problemi e le implicazioni risultano molto complessi, perché l’uscita dall’ambiguità, cioè l’ammissione di errore, provoca sensi di colpa e incertezze anche in chi scopre di essere sostenitore di aspettative che si rivelano false. E questa polarizzazione delle ambiguità non ricorda, almeno un po’, il lato incomprensibile di quanto sta avvenendo in politica con populismi e sovranismi?

In&outlet di Aldo Cazzullo Trump, un osso duro Trump non ha perso; quindi ha quasi vinto. Questo l’esito delle elezioni americane di metà mandato. Ho seguito un comizio di Trump e la sua conferenza stampa dopo il voto, e devo confessare di essermi divertito. L’imitazione poteva risultare odiosa o divertente: un gigante sovrappeso dalla cravatta rossa troppo lunga e dalla chioma arancione che fa il verso a una donna, con le mossette, la voce in falsetto e tutto. Di sicuro, non si era mai visto il presidente degli Stati Uniti schernire il capo dell’opposizione alla Camera, dirigendo il coro di buuu dei sostenitori. Questo accadeva fino a un’ora prima delle elezioni. Ma già nella notte Donald Trump annunciava di aver chiamato Nancy Pelosi, divenuta nel frattempo capo della maggioranza alla Camera e probabile speaker, per congratularsi e prometterle che lavoreranno insieme. In conferenza

stampa poi l’ha elogiata come un’eroina. Del resto, aveva fatto così due anni prima con Hillary, passata in poche ore da ergastolana a patriota. Resta la domanda: Donald Trump può governare con un ramo del Congresso in mano ai democratici, anzi ai «socialisti» che vogliono «ridurre l’America come il Venezuela» e attirare «carovane di criminali?»? Saranno due anni di franca e leale collaborazione, o di fuoco e fiamme? Il presidente concorderà con la Camera i punti della sua agenda? Oppure farà quello che gli riesce meglio, una lunga volata elettorale con lo slogan «non mi lasciano lavorare»? Umorale com’è, alternerà le due attitudini. Un giorno si atteggerà a padre della nazione, l’altro si muoverà da capo partito. Tenterà di sedurre e di minacciare. Il mattino terrà un discorso solenne al Congresso citando l’inno e i caduti americani; la sera

Zig-Zag di Ovidio Biffi Il lungo cammino dell’ambiguità La Svizzera, stando a statistiche e a verifiche, a livello mondiale continua ad essere uno dei paesi in cui la corruzione è meno praticata. Questo non impedisce che imprese e manager elvetici facciano (o siano costretti a fare) all’estero ricorso a degli illeciti, come confermano le vertenze aperte in diversi Stati. E nemmeno riesce a escludere che anche da noi si verifichino illeciti legati a frodi, a sviamenti, rimborsi o ad allegre «disponibilità» di fondi pubblici affidati ad autorità, alti funzionari, manager o personaggi del mondo politico o finanziario. Proprio negli scorsi giorni nella Svizzera tedesca sono tornati a galla grossi interrogativi riguardo a spese e disponibilità assurde a disposizione di alti papaveri dell’esercito, fatti in realtà già denunciati dal «Tages Anzeiger» in piena estate e forse per questo disattesi (c’era già tutto nel titolo del giugno scorso: «Geschäftsessen, Reisen, Alkohol: ein Bericht offenbart die Selbstbedienungsmentalität im Verteidigungsdepartement», ovvero

«Pranzi di lavoro, viaggi, alcol: un rapporto svela una mentalità da “servisol” al Dipartimento della difesa»). In Ticino non si può dire che manchino esempi, anche se per ora non ci sono sentenze definitive (e questo non basta a fugare una latente sensazione di degrado morale). Avevamo iniziato l’anno cavalcando il tormentone di Argo 1 – preferito per imperscrutabili motivi a quello dei permessi falsi che sembrava assai più grave e ghiotto (mediaticamente parlando, si intende) – e si è poi proseguito con un florilegio di atti parlamentari e richieste di inchieste su indennità o rimborsi considerati «troppo generosi», concordati e accordati a politici e funzionari. Ora c’è un incerto ma ufficiale «Tütt a posct», perlomeno per quel che riguarda i presunti illeciti legati ai rimborsi dei consiglieri di Stato, e si spera che valga per tutti i dubbi affiorati (e artatamente tenuti in sospeso). Se il Ticino ha posto fine al lungo rosario, imposto dalla petulante e sempre più sguaiata richiesta di autodenunce,


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Cultura e Spettacoli Le scelte di Barry X Ball Villa Panza di Varese omaggia l’artista statunitense con una grande retrospettiva

L’orso, amico di sempre È una presenza a volte ingombrante, a volte desiderata... al Laténium di Neuchâtel si ripercorre il nostro rapporto con l’orso attraverso la storia

Un’attrice senza tabu Laetitia Dosch ha scelto di infrangere ogni schema teatrale prestabilito e tradizionale

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Mario Biondi Il musicista italiano sarà protagonista dell’annuale Concerto per l’infanzia: lo abbiamo intervistato

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Michael Jackson, eredità di un mito

Mostre Le celebrazioni continuano:

dopo Londra, sarà la volta di Parigi, Bonn e Helsinki

Equestrian Portrait of King Philip II (Michael Jackson), Kehinde Wiley 2010. (Olbricht Collection, Berlin / Photo: J. Iseler, NY / © Kehinde Wiley / Courtesy of S. Fridman Gallery, London and Sean Kelly Gallery, NY)

Luciana Caglio Avrebbe compiuto, il 29 agosto scorso, 60 anni: un’età improbabile per il «King of Pop», icona giovanile per definizione, osannata negli stadi. Il tempo, però, gli ha reso giustizia. Il successo, così effimero nel mondo dello spettacolo, nel suo caso doveva allargarsi e consolidarsi in fama permanente e discussa. Come spetta al talento, quando lascia il segno. E lui l’ha lasciato, inconfondibilmente, nella musica, nella danza, nella mimica, nella coreografia, dominando la scena, da sbalorditivo innovatore. Ecco che, a quasi un decennio dalla morte, avvenuta il 25 giugno 2009, la figura di questo geniale funambolo si presta a una rievocazione che ne propone aspetti insoliti e ancora da esplorare. È, appunto, l’obiettivo della mostra che, a Londra, nell’autorevole sede della National Portrait Gallery, fa incontrare un Michael Jackson on the Wall, cioè «sul muro», attraverso dipinti, fotografie, collages, installazioni, che ha ispirato e continua a ispirare. Spiega Nicholas Cullinan, direttore della NPG: «Di solito si ri-

corda un musicista presentando i suoi oggetti, spartiti e costumi, qui, invece, si è scelto un percorso espositivo, direi unico, senza precedenti: illustrare l’impatto di Jackson su arte e artisti e, quindi, il possibile dialogo fra ambiti diversi». Che ciò avvenga in uno spazio istituzionale la dice lunga sul mutato atteggiamento della cultura ufficiale nei confronti della cultura pop. Si sta rivelando un modo efficace per attirare un nuovo pubblico nei musei londinesi. L’affluenza di visitatori, spesso giovani, lo conferma visibilmente. Di certo, in questa svolta Michael Jackson ha avuto una parte rilevante. Non soltanto incuriosì la critica musicale e teatrale con le sue prestazioni sul palcoscenico ma, con la sua stessa persona riuscì, addirittura, a diventare una sorta di materia prima, capace di sollecitare la creatività di artisti d’ogni genere, attraverso una forma di contagio. Tanto che, come precisa il direttore Cullinan, molti si misero al lavoro, appositamente per la mostra. Più di quaranta opere si sono così ritrovate in un ambiente privilegiato che le valorizza e ne spiega l’accostamento. Differenti per

mezzi d’espressione, stili e dimensioni condividono, però, la motivazione: raccontare un mito dagli effetti contrastanti. Non si tratta di esaltare ma di testimoniare. Ad esempio, Kehinde Wiley, autore dell’ammirevole ritratto dell’ex premier Obama seduto fra le piante, qui, affrontando Jackson, ne coglie la megalomania: parodiando una celebre tela di Rubens, lo ritrae a cavallo, alla stregua di un redivivo Filippo II. A sua volta, Mark Ryden, surrealista californiano, intitola significativamente Dangerous una composizione barocca, dedicata al «Re del Pop». Mentre il fotografo David LaChapelle nell’installazione Un sentiero luminoso, lo vede come un angelo, inseguito dal diavolo. Ovviamente, l’immagine classica rimane quella di Andy Warhol, che comparve sulla copertina di «Time» del 19 marzo ’84. Nello stesso numero, l’influente critico e sceneggiatore Jay Cocks consacrava, per così dire ufficialmente, i meriti «dell’autore di testi, del cantante, del ballerino che ha travolto tutte le barriere del gusto, dello stile e della razza». Proprio nei decenni

80/90, all’ex-bambino prodigio, ormai star dai record assoluti (750 milioni di dischi venduti) arrivano consensi e simpatie dal mondo politico e culturale, al di là delle ideologie. Piace a Mandela, a Reagan, alla regina Elisabetta, al regista Spielberg, al mimo Marceau, al musicista Quincy Jones, con cui realizza We are the World, inno della campagna contro la fame in Africa, un fronte dove s’impegna a fondo. Lo sconcertante personaggio, che continua a cambiare fattezze, colore della pelle e abita in una specie di assurda Disneyland, si fa perdonare stravaganze e capricci. Gode, insomma, l’immunità che spetta all’accoppiata genio-sregolatezza di cui Jackson è il tipico esemplare. Tutto ciò fino al 2003, quando un documentario televisivo porta alla luce un episodio ingombrante: molestie a danno di un bambino. Jackson si proclama innocente e, nel 2005, viene assolto. Un’ombra rimane. La mostra ignora di proposito riferimenti diretti a questo fatto. Evita giudizi d’ordine morale. Indirettamente, però, contribuisce a ricostruire la fisionomia complessa di una perso-

nalità in definitiva fragile, spesso vittima delle circostanze. Innanzitutto, nell’ambiente familiare, ricorda egli stesso nella sua autobiografia: «Nostro padre creò gli Jackson Five a suon di botte». In seguito, adulto di successo, si sentì «un suicidato della società», «un prigioniero della popolarità». In pari tempo, scopre l’antidoto: «È sbalorditivo quel che una persona può fare, se ci prova…» Lui ci prova, da instancabile perfezionista, convinto che «la musica abbia un effetto terapeutico» e che fra le varie forme artistiche ci sia «una reciprocità». Ed è, appunto, il messaggio di una mostra che allarga lo sguardo al di sopra delle categorie e dei pregiudizi. Dopo la fortunata esperienza alla National Portrait Gallery, conclusa a fine ottobre, Michael Jackson on the Wall si trasferisce al Grand Palais di Parigi (21 novembre – 20 febbraio), poi alla Bundeskunsthalle di Bonn (4 marzo – 14 luglio) e, infine, all’EMMA Espoo Museum of Modern Art di Helsinki, (21 agosto – 26 gennaio 2020). Come dire, l’eredità di Jackson ha un futuro.


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Cultura e Spettacoli

Il volto tecnologico del passato Mostre Villa Panza a Varese ospita una retrospettiva dello scultore Barry X Ball Alessia Brughera Sono stati i primi anni Ottanta ad assistere alla nascita del rapporto di stima e di amicizia tra il collezionista Giuseppe Panza di Biumo, scomparso nel 2010, e l’artista statunitense Barry X Ball. Il lungimirante conte, che già dalla metà degli anni Cinquanta raccoglieva i lavori delle più interessanti correnti internazionali, aveva ritrovato nelle creazioni dello scultore nato a Pasadena una visione dell’arte affine alla sua, legata all’esplorazione delle potenzialità di una luce trattata nella sua purezza e alla ricerca di una forte connessione con lo spazio. A quei tempi Ball realizzava opere minimaliste in cui all’oro profuso sullo sfondo delle superfici veniva affidato il compito di generare raffinati giochi luminosi. Panza aveva subito acquistato molti di quei primi esiti artistici così carichi di energia e di spiritualità e aveva sostenuto l’artista invitandolo spesso a lavorare nella sua dimora varesina immersa nel silenzio. Le strade dei due si sono poi allontanate quando, nella seconda metà degli anni Novanta, nel percorso di Ball avviene un repentino mutamento di rotta che porta l’artista ad abbandonare l’astrazione a favore di un linguaggio figurativo; una svolta, questa, che se a livello formale appare molto evidente, sul piano concettuale mantiene i medesimi principi su cui poggiava la produzione iniziale. Oggi la prima retrospettiva completa dell’opera di Barry X Ball organizzata negli spazi di Villa Panza ricongiunge il lavoro dello scultore, classe 1955, a colui che è stato uno dei suoi primi estimatori e di cui ancora oggi l’artista conserva un prezioso e vivido ricordo. Nella mostra, allestita secondo un criterio che non segue la successione cronologica ma che punta a evidenziare la coerenza dell’indagine, troviamo oltre cinquanta opere, dagli esordi minimali che tanto hanno affascinato il conte Panza agli esiti più recenti, a creare un percorso in cui il richiamo ai secoli trascorsi muove dall’idea di una storia dell’arte che travalica le coordinate temporali in nome di una bellezza universale eterna. Proprio la relazione tra antico e contemporaneo è uno dei cardini attorno a cui ruota la ricerca di Ball: «Voglio

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che il mio lavoro sia imbevuto dell’intensità che caratterizzava l’arte del passato e che, nel presente, fatico a ritrovare. La mia opera ha sempre dichiarato il proprio omaggio a precedenti storici europei (in particolar modo italiani) con cui sto interagendo in maniera ancora più intima nelle mie nuove sculture» sottolinea l’artista. Per Ball, nato nella modernissima California, la vecchia Europa con la sua cultura millenaria ha un fascino irresistibile. Del 1984 è il primo viaggio

dell’artista alla scoperta dei capolavori di Giotto, di Leonardo, di Michelangelo e di tanti altri grandi maestri, che lo spingono a conoscere e sperimentare con entusiasmo le tecniche medievali e rinascimentali. Il confronto con il passato deve però per Ball condurre a qualcosa di inedito, di altamente innovativo. E non può che essere altrimenti per un artista cresciuto nella fede nel progresso. Ecco che, nelle sue sculture, il volgere lo sguardo indietro nel tempo non viene inteso come semplice imitazione ma

come reinterpretazione in chiave tecnologica del passato, in una commistione di tradizione e innovazione. Le sue repliche di opere antiche e moderne passano difatti attraverso l’uso di apparati e sistemi avanzati, quali scanner 3D, macchine digitali ad alta risoluzione e robot a controllo numerico, per trovare poi solida forma nel marmo, nell’alabastro, nel lapislazzuli o nei metalli pregiati. La progettazione virtuale e la modellazione al computer delle sculture si accompagnano in Ball alla cura

manuale delle finiture, come a rimarcare che dopo l’uso, anche preponderante, della tecnologia, è sempre e comunque l’impronta umana ad attribuire all’opera la sua unicità. Ed è proprio questo paziente e meticoloso intervento sulla materia a scongiurare il pericolo che le creazioni di Ball divengano semplici esercizi di stile frutto di una cieca fiducia nel mezzo tecnologico. Il percorso della mostra varesina raccoglie molti dei lavori più rappresentativi dell’artista, come il doppio ritratto sospeso dello scultore americano Matthew Barney e di Ball stesso, un’opera realizzata in onice messicano rosso e bianco in cui i volti dall’espressività esasperata dei due personaggi vengono trafitti da un giavellotto dorato. Interessanti sono anche i ritratti in pietra dell’artista Lucas Michael e della gallerista newyorchese Jeanne Greenberg Rohatyn in cui Ball insegue un’incisività maggiore tramite la deformazione dei lineamenti. Emblematiche della capacità di Ball di reinterpretare il passato secondo un nuovo linguaggio sono le sculture appartenenti alla serie dei Masterpieces: in Sleeping Hermaphrodite, del 2008-10, l’artista rivisita l’Hermaphrodite endormi conservato al Musée du Louvre restituendone un’immagine dalla sensualità accentuata grazie all’uso del marmo nero del Belgio, la cui superficie viene trattata in molteplici modi; Envy e Purity, poi, ispirate rispettivamente a L’invidia dello scultore fiammingo Giusto Le Court e a La Dama Velata di Antonio Corradini, sono opere che irretiscono lo spettatore, l’una per l’inquietante irruenza che la caratterizza, l’altra, in perfetta antitesi, per il delicato magnetismo che emana. Sempre alla ricerca di un costante dialogo tra storia e contemporaneità, Ball si appropria della tradizione per superarla attraverso la sperimentazione tecnologica, conducendola così verso nuove dimensioni creative. Dove e quando

Barry X Ball. The End of History. Villa e Collezione Panza, Varese. Fino al 9 dicembre 2018. Orari: tutti i giorni, tranne i lunedì non festivi, dalle 10.00 alle 18.00.

Lo sguardo del poeta Pubblicazioni L’ultimo libro della poetessa Patrizia Valduga, dedicato ai poteri dello sguardo,

nell’arte e nei sentimenti Stefano Vassere «Le persone amate noi non le vediamo, di solito, se non dentro il sistema animato, il moto perpetuo della nostra incessante tenerezza, la quale, prima di lasciare che le immagini proiettate dai loro volti giungano sino a noi, le attrae nel proprio vortice, le fa ricadere su ciò che da sempre ne pensiamo, le fa aderire a questa idea, coincidere con essa. Ogni sguardo che nasce dall’abitudine è una negromanzia e ogni viso che amiamo è uno specchio del passato». Diffidate delle raccolte di poesia senza un testo che le accompagni, un soffio di spiegazione del poeta o di qualcuno che lo conosce. E dunque non sbagliate, probabilmente, quando avete l’impressione o l’illusione che un poeta debba essere anche un critico; non osservatore della sola propria o altrui poesia, bensì indicatore delle cose della vita e del generico stare al mondo. Così è fortemente benvenuto questo libro non di poesie

della poetessa Patrizia Valduga. Si chiama Per sguardi e per parole ed è sesto in una collana dell’editrice il Mulino curata da Massimo Caccia-

ri, «Icone. Pensare per immagini», immagini che provocano pensieri e ragionamenti, per dirla alla grossa, affidati a filosofi, psicologi, scrittori. Questo libro si apre (e si chiude) con la fotografia buia eppure così bella del Gesù a Emmaus di Caravaggio; del secondo, però, quello che sta alla Pinacoteca di Brera e porta la data di qualche anno posteriore rispetto al gemello che invece abita alla National Gallery di Londra, che è più colorato e dove Gesù è diverso, rubizzo, con tutta evidenza «bianco e rosso». Tutto, in questa meno recente rappresentazione concorre a renderla perdente se messa accanto alla versione milanese: la tavola disordinatamente apparecchiata, le vesti degli astanti, la loro disposizione e le loro posture. Eppure entrambi i quadri del Maestro ci trasmettono il mistero degli sguardi: dei personaggi di contorno, che guardano il Cristo anche se ancora, nell’attimo, non l’hanno riconosciuto, e di Gesù stesso, che non ha sguardo perché ha gli occhi chiusi e il volto rivolto verso il basso.

È da questo sguardo mancato eppure così potente che si incammina un saggio profondissimo e pieno di voci di ogni epoca sugli sguardi, sul loro potere, sugli aspetti della ragione e su quelli del sentimento, sullo sguardo dell’arte. Nel campionario di immagini coglieremo quella che più ci tocca, ci annichilisce, ci commuove. Qui le vertiginose descrizioni distribuite lungo tutto il testo a proposito degli occhi dell’autore, quelli letterali e concreti: «Proust aveva gli occhi neri, occhi neri che sembravano straripare e vedere anche ai lati, ed era sommamente intelligente, di un’intelligenza che splendeva nei suoi occhi stupendi». E così, per gli occhi di Buñuel («azzurri e sporgenti, il sinistro un po’ strabico, avevano un grande potere»); dello stesso Caravaggio («sappiamo bene come sono gli occhi di Caravaggio»); di Cartesio, che vediamo in coda al sedicesimo di carta patinata che sta al centro del libro. Consumate le nemmeno cento-

venti pagine di questo Per sguardi e per parole, il lettore impreparato è vividamente sorpreso dall’illusione di averne letti a centinaia, tante e tanto varie sono le fonti chiamate a parlarci. È questo il mistero elevante della letteratura. Poi, ci procurano qualche brivido e molto conforto i versi che chiudono questo volumetto lasciandoci il desiderio di riaprirlo, ogni tanto. Sono i versi di un altro sistema di sguardi e non sguardi memorabile nella storia della cultura universale, il cenno d’amore pieno di grazia e luce di Beatrice alla fine del canto quarto del Paradiso, cui risponde l’immagine degli occhi bassi e imbarazzati del narratore Dante: «Beatrice mi guardò con li occhi pieni / di faville d’amor così divini, / che, vinta, mia virtute diè le reni, / e quasi mi perdei con li occhi chini». Bibliografia

Patrizia Valduga, Per sguardi e per parole, Bologna, il Mulino, 2018.


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Cultura e Spettacoli

Storia di un’amicizia tra nemici Mostre A Neuchâtel una mostra ripercorre la presenza del plantigrado alle nostre latitudini Marco Horat Per visitare la mostra attualmente aperta nello spazio riservato alle esposizioni temporanee del Laténium di Hauterive basta seguire le impronte disegnate sui marciapiedi che circondano il museo; orme di un grosso e pacifico orso. Sì, perché è a questo compagno d’avventure dell’uomo fin dalla preistoria, che viene dedicato l’intrigante percorso ideato dai ricercatori del museo neocastellano: un viaggio sulle tracce dell’orso, dalla notte dei tempi fino ai nostri giorni, partendo dall’antico orso delle caverne – quello che abitava anche sul Monte Generoso – fino ai vari tipi di orsacchiotti che tengono compagnia ai nostri bambini, grazie all’episodio che vide protagonista il cacciatore pentito Theodore Roosevelt e un vignettista che trasformò il grosso orso bruno al quale il Presidente si rifiutò di sparare in un piccolo Teddybear dagli occhi dolci. «L’orso ha in effetti accompagnato la vita dell’uomo a partire da 40mila anni prima della nostra era e poi nei millenni successivi», dice Géraldine Delley che ha curato l’esposizione svizzera, ripresa da un’originale idea del Museo di archeologia nazionale di Saint-Germain-en-Laye. E questa è già una buona ragione per occuparcene, visto che le tracce dell’orso sono presenti non solo in Francia ma anche in Svizzera fin dal Paleolitico, in molte grotte (con l’orso delle caverne) e da 20mila anni in avanti con l’orso bruno». Per fare un esempio, vicino a Neu-

châtel è stata recentemente riaperta al pubblico la grotta di Cotencher nella quale sono anche riprese le ricerche archeologiche dopo una lunga interruzione, con nuovi studi che hanno permesso ad esempio, in base ad analisi stratigrafiche, di datare la mandibola di un neandertaliano trovata anni fa ed ora esposta al Laténium, a più di 50mila anni fa, forse addirittura 70 mila! Il che la rende una delle testimonianze più antiche della presenza dell’uomo nelle nostre regioni. In mostra scheletri ritrovati in tutto il Paese, ricostruzioni di animali e ambienti, immagini storiche, manufatti eccezionali esposti in vetrina, accompagnati da video con brevi documentari e interviste a specialisti; quindi un capitolo intrigante di storia culturale dell’uomo, dove si incrociano natura e cultura. La mostra è pensata anche per coinvolgere le famiglie, con momenti interattivi e pubblicazioni dedicati ai più giovani. È a partire dal Paleolitico che compaiono le prime rappresentazioni nell’arte parietale e poi su quella mobiliare, con caratteristiche speciali rispetto al resto del mondo animale. «La relazione tra l’uomo e l’orso è sempre stata ambigua e molto particolare; questa è stata l’altra ragione per la quale abbiamo focalizzato l’attenzione proprio sull’orso. Una ricercatrice francese ne ha censito per il Paleolitico oltre 200 rappresentazioni, osservando due cose interessanti: l’orso è quasi sempre ritratto come animale solitario (a differenza di bisonti, cavalli, tori

Grande orso bruno nella foresta. (© Jacques Ioset)

e mammuth che vediamo a Lascaux o Rossignac sempre in gruppo) e di profilo; inoltre appare spesso in posizione discosta, addirittura nascosta agli occhi di chi guarda; raramente è a confronto diretto con un uomo». Perché? Un omaggio nei confronti di un animale timido e riservato, ma anche rispettato e temuto per la sua forza che lo pone in relazione con energie ultraterrene, quindi degno di forme di culto? Forse. L’uomo lo ha da sempre temuto

(un orso delle caverne ritto sulle zampe posteriori poteva misurare fino a quasi 4 metri di altezza) ma anche indicato come animale totemico. L’orso animale da cacciare o lui stesso cacciatore di uomini, ci possiamo chiedere? In una vetrina sono esposte delle parures datate XVIII secolo che vengono dalla regione delle Grandi pianure americane con denti e unghie di orso bruno; accanto vi è invece un piccolo osso antico ritrovato nella regione di

Neuchâtel: «Un pezzo raro – dice ancora Géraldine Delley – perché si tratta di un osso penico. L’orso è l’unico animale ad esserne dotato e questo probabilmente presso l’uomo preistorico ne accresceva simbolicamente l’immagine di forza e potenza sessuale, quindi di fertilità». L’osso veniva messo da parte e conservato come elemento importante nella vita della famiglia o della comunità. L’orso delle caverne diventa protagonista suo malgrado nelle dispute ottocentesche tra scienza e religione. È grazie alle scoperte archeologiche effettuate un po’ in tutta Europa e nel mondo, in grotte e sui manufatti che lo ritraggono al minimo 20mila anni or sono, che gli scienziati possono affermare l’antichità della vita sulla terra, di fronte a chi parla di una creazione dal nulla avvenuta 4000 anni prima della nostra era. La Preistoria entra così di diritto nella sfera della scienza dalla quale era stata esclusa poiché ritenuta un insieme di fantasie. Da allora l’orso vive tra di noi, più o meno discretamente fino a quando non disturba la nostra quiete: sulle bandiere, sulle maglie di una squadra di hockey, nel nuovo parco di Arosa, fino a qualche anno fa al circo, nei cartoni animati, nei negozi di giocattoli, nei supermercati e sulla carta dei nostri alimenti... Dove e quando

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Cultura e Spettacoli

Il palcoscenico che unisce Premio Europa A San Pietroburgo, una festa per il teatro, con qualche ombra

sulla libertà di espressione

Chi siamo, chi eravamo, chi saremo? Netflix Maniac

vi farà innamorare

Giorgio Thoeni Sull’arco di trent’anni il Premio Europa per il Teatro ha assunto una valenza fortemente simbolica e la sua 17esima edizione che ha avuto luogo a San Pietroburgo dal 12 al 17 novembre (ospitato e finanziato dal Theatre-Festival Baltic House) ha ulteriormente confermato i princìpi di promuovere, nell’ambito dello spettacolo dal vivo, l’interdisciplinarità, l’integrazione e la cooperazione tra il teatro e le altre arti come la conoscenza e la sua diffusione, contribuendo allo sviluppo dei rapporti culturali e al consolidamento della coscienza europea. Nato nel 1986 come progetto pilota in campo teatrale della Commissione Europea presieduta da Jacques Delors, già ministro della cultura francese e attuale presidente del Premio, ha avuto la sua prima edizione l’anno successivo a Taormina. Per il suo ruolo e le sue attività, è stato riconosciuto dal 2002 dal Parlamento e dal Consiglio Europeo quale organizzazione di interesse culturale europeo ed è stato inoltre designato come progetto d’apertura per l’Anno Europeo del Patrimonio Culturale 2018. Dopo nove edizioni siciliane, il Premio è diventato itinerante: Torino, Salonicco, Wroclaw, San Pietroburgo, Craiova, Roma per ritornare nuovamente a San Pietroburgo. «La cultura guarisce le ferite», ha dichiarato alla giornata inaugurale Georges Banu, presidente della giuria del Premio, docente alla Sorbona, critico e saggista fra i maggiori conoscitori di Peter Brook. Lo studioso romeno ha inoltre sottolineato come, sin dalle sue prime edizioni, il Premio sia riuscito a mettere in luce artisti che oggi sono diventati dei maestri della scena attuale, come Vasil’ev e Ostermeier, dando anche rilievo a rappresentanti di realtà te-

Alessandro Panelli

L’innovativo spettacolo del Cirkus Cirkör. (Herik Sundin, Cirkus Cirkör)

atrali che assetti politici o chiusure del passato potevano far apparire distanti. Ma soprattutto riconoscendo personalità come quelle di Mnouchkine, Brook, Strehler, Mueller, Wilson, Ronconi, Bausch, Dodin, Pinter, Lepage, Zadek, Chéreau… per citarne alcuni. Il 17esimo Premio Europa per il Teatro è stato attribuito all’eclettico regista Valerij Fokin, nome di rilievo della scena russa, a cui è stato aggiunto un Premio Speciale per la poliedrica Nuria Espert, attrice e regista catalana oltre che animatrice di battaglie civili. Dalla sua seconda edizione, il Premio assegna anche un riconoscimento alle Realtà Teatrali destinato a coloro che hanno saputo dare un nuovo impulso con stili e linguaggi diversi e che sono riusciti a creare dei ponti culturali grazie a progetti aperti a nuove prospettive

di collaborazione, coinvolgendo realtà e protagonisti transculturali e transnazionali. La giuria ha quindi scelto per il teatro-danza il coreografo belga Sidi Larbi Cherkaoui, l’innovativo spettacolo circense proposto dallo svedese Cirkus Cirkör, l’attore e regista francese Julien Gosselin, il regista e drammaturgo polacco Jan Klata, il regista portoghese Tiago Rodrigues e il nostro Milo Rau. Mentre stiamo scrivendo non sappiamo ancora se Rau avrà potuto ritirare il premio. Da fonte attendibile sembra che la Russia gli abbia ancora negato il visto. Una ruggine che persiste ormai dal 2013 quando Rau aveva inscenato un processo contro dissidenti e artisti, per denunciare il sistema di Putin. Aveva allestito il tribunale al centro Sakharov di Mosca, senza attori ma

con avvocati, artisti, politici, autorità della Chiesa e testimoni. Come si ricorderà, la polizia fece irruzione e interruppe il dibattimento. Dall’episodio nacque un documentario (Moscow Trials), uno scandalo internazionale e il divieto di ingresso in Russia per il regista. Un’ombra che non ha impedito alla maggior parte degli artisti presenti sulle rive della Neva di regalare spettacoli, anteprime, work in progress, letture e conferenze. Un modo per sottolineare che il Premio non ha solo valenze celebrative ma è anche una prestigiosa piattaforma che permette a decine di critici teatrali, studiosi e giornalisti provenienti da tutto il mondo di confrontarsi su temi sensibili come la libertà di espressione e la tolleranza.

Laetitia Dosch, sulle ali della libertà Personaggi L’attrice franco-svizzera riesce a colpire il pubblico per la sua mancanza

di paura e per un’irriverenza che ne sottolinea lo spirito libero Giorgia Del Don Quando l’addetta stampa di Laetitia Dosch mi annuncia via e-mail che il tempo a mia disposizione per intervistare l’attrice non supererà i 30 minuti mi dico: «un tantino primadonna, ma va bene così». Quando poi, sempre la stessa addetta stampa mi ricontatta per annullare l’appuntamento a causa dell’eccessiva stanchezza dell’attrice, mi sento un po’ come un invasore che avrebbe voluto esplorare un territorio che, sebbene messo in scena sotto molteplici prospettive, preferisce comunque rimanere inesplorato. A causa della crudezza dei suoi dialoghi e dell’immediatezza della sua presenza, ogni apparizione di Laetitia Dosch crea scompiglio, un divertito disagio, come se la rete di sicurezza che divide attore e spettatori venisse a mancare. Sebbene l’attrice franco svizzera sembri dare tutto su scena, esponendosi senza il benché minimo filtro, brandendo la provocazione come unica arma, qualcosa nel suo sguardo rimane misterioso. Un po’ come se la scena diventasse il suo ring, un luogo dove può davvero essere se stessa, libera da quella dominazione (sociale, sessuale, intellettuale) che combatte con tutte le sue forze. Incontrare la «vera» Laetitia sarebbe forse stato come usurpare questa sua libertà, penetrare in un mondo extradiegetico che appartiene solo a lei, e che probabilmente è giusto lasciare incontaminato.

L’attrice franco-svizzera Laetitia Dosch, classe 1980. (Keystone)

Intrigante già solo per la sua presenza: pelle diafana e sguardo falsamente ingenuo abitato da un bisogno imperioso di provocare chi osa sfidarlo, Laetitia Dosch fa parte di quelle attrici (Julie Delpy, Virginie Despentes,…) che non hanno paura di niente. La sua forza risiede proprio nella completa noncuranza verso il politicamente corretto, nella capacità d’abbandonare allegramente ogni pudore. Libera di essere e non d’interpretare il proprio ruolo, l’attrice tesse su scena una fitta ragnatela di referenze alla nostra cultura (pop) che stravolgono l’ordine prestabilito. Assistere alla liberazione della parola

sistematicamente imprigionata nelle gole di tante donne è qualcosa di estremamente radicale e catartico. Un gesto di per sé semplice che mette però crudelmente in luce l’assurdità e il ridicolo dei tabù che la tengono a bada. Comica, impudica, ironica ed estrema, Laetitia Dosch si trasforma in portavoce di un nuovo genere, costruito «à la carte», personalizzato secondo i desideri d’ognuno di noi. Come un catalogo di quello che potremmo essere, l’attrice e regista mette in scena nel suo Un album (2017) una galleria di ritratti eterogenei e sorprendenti: un neonato, un’anziana signora, una casalinga dalla risata compulsiva e chi più ne ha più ne metta. Laetitia Dosch sembra inghiottire i personaggi per farli suoi, nutrendosi delle loro forze ma soprattutto delle loro debolezze. Prendendosi gioco con rispettosa ironia dei loro maldestri tentativi di conformarsi a un ridicolo ideale. Lo spettatore si sente smascherato, ma invece della vergogna prova liberazione. Mai sprovvista di sfacciataggine e creatività, Dosch si è formata alla Manufacture di Losanna. Radicale e fedele a quello humour nero che la contraddistingue, Laetitia Dosch si spinge fino a urinare in scena, cospargendosi poi il viso con le proprie scorie, per infine offrire baci ai temerari spettatori che avranno il coraggio di accettarli. Attrice teatrale e cinematografica (nominata quest’anno al prestigioso César come

miglior speranza femminile per Jeune femme di Léonor Serraille), performer (per coreografi del calibro di La Ribot o Marco Berrettini) e regista teatrale, Laetitia Dosch è un artista inclassificabile, libera e debordante d’energia, che si nutre della scena per estrarne l’essenza del proprio benessere. Nel suo ultimo spettacolo, Hate (presentato a La Bâtie di Ginevra), è con Corazon, purosangue spagnolo di dodici anni. Decisa a confrontarsi con la propria superiorità umana, la nostra audace interprete passa dal monologo al dialogo con Corazon, cui dà voce non senza una buona dose d’umorismo. Come due ballerini un po’ maldestri, il cavallo e l’attrice prendono alternativamente il comando della coreografia che mettono spontaneamente in scena. Mai esattamente uguale da una rappresentazione all’altra, Hate è uno spettacolo destabilizzante che gioca con i codici circensi per scivolare quasi subito verso l’introspezione. Incredibilmente contemporanea e sfacciata, l’artista franco-svizzera sembra leggere nella mente degli spettatori, mettendone in scena i pensieri più inammissibili, con umorismo e un’inaspettata leggerezza. Connotazioni sessuali a parte, la relazione fra Laetitia e Corazon non ha niente di diverso da una classica storia d’amore, con la sua dose di soprusi e distruzione. La radiografia d’una storia sentimentale dai toni surreali che ben s’addice a un’artista che è tutto, fuorché convenzionale.

L’opera è un rifacimento dell’omonima serie norvegese uscita nel 2014. Questa volta distribuita da Netflix e creata, diretta e scritta da Cary Fukunaga (True Detective, Beasts of No Nation) con Emma Stone e Jonah Hill come protagonisti. Composta da dieci puntate, Maniac è ambientata in un futuro prossimo con tecnologie provenienti dalle fantasie degli anni 80. All’inizio vengono presentati i due soggetti principali e i motivi che li spingono a fare da cavie per un misterioso test farmaceutico, il cui obiettivo è quello di guarire tutte le malattie con la semplice assunzione di tre pillole. Nella prima puntata facciamo la conoscenza di Owen (Jonah Hill), proveniente da una famiglia molto ricca e affetto da schizofrenia. L’uomo deve difendere suo fratello in tribunale, con il quale ha un rapporto piuttosto travagliato, poiché accusato di un reato misterioso. Nella seconda puntata invece arriva Annie (Emma Stone), una donna depressa e drogata, bloccata nei ricordi del suo passato e incapace di affrontare il presente. Il test prevede di portare le cavie in uno stato di riposo che permetterà loro di «vivere» vecchi ricordi del passato, proiettando noi spettatori dentro la loro personalità. In ogni sogno essi vivono in un mondo diverso, passando da ambientazioni fantasy a realtà oniriche, popolate da agenti della CIA, gangster e truffatori. Ogni mondo è ben caratterizzato e contestualizzato, grazie a una sceneggiatura solida e curata e a una regia che a ogni puntata riserva sempre più di una sorpresa. Oltre al multiverso, poiché quasi ogni puntata è ambientata in un mondo a sé, Fukunaga scava dentro la storia del computer che controlla i soggetti e delle bizzarre persone a capo del test. Maniac ci intenerisce grazie alle debolezze dei suoi personaggi. Ci emoziona grazie a una storia commovente dalla potente impronta drammatica. Le strepitose scene d’azione e le decisioni repentine del computer regalano grande suspence. Ma Maniac riesce nel contempo anche a farci ridere per i suoi personaggi stravaganti e le loro azioni talvolta incomprensibili. Maniac ci fa innamorare dei protagonisti, si crea infatti una forte empatia con i personaggi, di cui sappiamo tutto e che diventano nostri amici. Questa miniserie è una perla dal valore inestimabile, capace di racchiudere infinite emozioni in sole dieci puntate e di affrontare generi diversi tra di loro senza sbavature né banalità. Verso la fine si desidera che tutto ciò non finisca mai. Ma, una volta trovato il coraggio di guardare l’ultima puntata, lo spettatore si ritroverà ad essere felice per aver vissuto una tale esperienza e sarà percorso da un brivido.

La locandina della nuova serie di Netflix.


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Cultura e Spettacoli

Nascita ed evoluzione degli alfabeti Storia della grafica – Terza parte La lenta evoluzione nella forma degli elementi che creano la scrittura,

dagli ideogrammi fino ai caratteri per la stampa

Orio Galli L’alfabeto che usiamo oggi quotidianamente nel mondo occidentale non è nato improvvisamente ma ha avuto una lunga e articolata gestazione durata circa due millenni. Inizialmente formatosi nell’antica Grecia tra l’ottavo e il quinto secolo a.C. ha poi acquisito la sua versione maiuscola durante la civiltà romana circa 200 anni a.C. Attualmente questo alfabeto, anche nella sua forma minuscola, è composto, tra consonanti e vocali, da 26 lettere. Prima però della nascita degli alfabeti cosiddetti fonetici, con segni che rappresentano ognuno un suono diverso, apparvero, dopo gli iniziali pittogrammi dei quali ho già parlato, altre forme «alfabetiche», di transizione, denominate ideogrammi. In questo genere di alfabeti, che sopravvivono ancora oggi in alcuni paesi come Cina e Giappone, ogni segno rappresenta qualcosa: un oggetto, un concetto, un’idea…Per questo sono chiamati ideogrammi. Siccome si tratta di migliaia di segni diversi, conoscerli tutti richiede un grandissimo impegno, anche manuale, nel saperli disegnare. Per la filosofia zen unita alla raffinatezza estetica queste culture orientali avrebbero ancora molto da insegnare a noi occidentali. Un tipo particolare di ideogrammi sono i geroglifici egizi. Segni che si è riusciti a decifrare solo con la scoperta nel 1799 della «Stele di Rosetta», oggi al British Museum di Londra. Si tratta di una pietra nella quale è incisa, a fianco dei

geroglifici, la loro traduzione in greco. Naturalmente numerosi sono gli alfabeti nati presso civiltà diverse, parecchi dei quali ancora usati. Più di una decina rimangono però ancora da decifrare (LA LETTURA, «Corsera», 7.10.18). Vicino alla grafica del nostro alfabeto troviamo il Cirillico, forma in vigore ancor oggi nella grande Russia. La prima forma di alfabeto fonetico (segni che corrispondono a suoni) che si conosca, anche se non ancora completamente decifrata, è quella cuneiforme. Si tratta di un alfabeto nato in area mediterranea. È formato da segni triangolari che secondo la loro disposizione rappresentano suoni diversi. Ma ritorniamo a noi, e a ciò che più da vicino ci riguarda. Dalla nascita del cosiddetto Lapidario Romano, formato da sole lettere maiuscole si è gradatamente passati, sull’arco di circa due millenni (500 a.C. – 1500) ai segni grafici come quelli che più o meno usiamo ancor oggi, anche con il computer. Naturalmente tutto ciò si è verificato attraverso molteplici passaggi. Questa evoluzione, di tipo oserei dire darwiniano, è avvenuta soprattutto all’interno dei conventi dell’Europa medievale a cura dei frati amanuensi, scrivani depositari dell’arte scrittoria. Se i romani incidevano i loro alfabeti con punte nella pietra o con stili su tavolette di cera, lungo i secoli si è passati alla penna d’oca e all’inchiostro. Solo più tardi, verso il Settecento, sono nati i primi pennini metallici. Dapprima si scriveva sulla pergamena (pelle d’ani-

Il «Lapidario Romano» è un alfabeto composto solo da lettere maiuscole.

male appositamente conciata), successivamente su supporti cartacei. In ogni convento si svilupparono, anche secondo le regionali culture, grafie diverse. Belle calligrafie: da calli che in greco significa bello. Il primo graduale passaggio dalle forme esclusivamente maiuscole (Lapidario romano) a quelle minuscole è avvenuto attraverso il carattere onciale (e semionciale). Mentre la versione delle lettere minuscole è nata successivamente, soprattutto in area mediterranea, con il carattere chiamato umanistica. Altri segni alfabetici (font), come il gotico nelle sue diverse varianti, si svilupparono e si affermarono invece solo in aree germanofone.

Partendo dall’umanistica nacque successivamente una calligrafia inclinata, e successivamente «legata», soprattutto per esigenze di velocità esecutiva. Questa scrittura che raggiunse la sua perfezione durante il Rinascimento, venne chiamata cancelleresca o cancellaresca (Ludovico degli Arrighi, 1522) prendendo il nome dai cancellieri che soprattutto la praticavano. Bellissimi esempi si possono ammirare nelle lettere di Michelangelo e del Mantegna. In questo periodo storico anche in Italia stava nascendo la stampa con i caratteri mobili inventati da Gutemberg. Nel suo caso però con le forme dei caratteri gotici d’area germanofona (famosa la prima Bibbia da lui com-

posta e stampata a mano col torchio). Il tipografo veneto Aldo Manuzio prese invece a modello l’umanistica e la cancelleresca. Quest’ultimo carattere (inclinato/corsivo), anche per la sua origine mediterranea venne chiamato italico o italique; così come in omaggio al loro autore (disegnatore e incisore) i suoi font sono pure chiamati caratteri aldini. Benché siano trascorsi d’allora più di cinque secoli, in fatto di qualità estetica e grado di leggibilità, con tutto ciò che nel frattempo la più sofisticata tecnologia ci ha messo a disposizione, quei caratteri rinascimentali rimangono ancor oggi modelli insuperati e insuperabili. Cercheremo in una prossima puntata di capire il perché. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Biondi, il suono della libertà

Un cantante attore, o viceversa

per il 10° Concerto per l’infanzia, evento sostenuto dal Percento culturale di Migros Ticino

Concorso 2 I n

Concorso 1 Intervista al musicista italiano che sarà a Locarno il 24 novembre

Sì, mi sono addirittura lanciato in francese. Devo dire che è un progetto piuttosto ambizioso, ma mi ha divertito estremamente e mi ha portato a registrare in Brasile in quattro lingue: inglese, portoghese, italiano e francese. Una sfida incredibile ma molto molto divertente.

di mi piace molto diversificare. Forse ho fatto delle scelte un po’ rischiose, non perseguendo tutta la vita la stessa canzone e la stessa melodia, ho cercato ogni volta, con ogni disco di rinnovare le idee. Sento che il mondo cambia sotto i nostri piedi e tutto scorre, e quindi mi piace vivere in quell’atmosfera, in quella dimensione di cambiamento continuo. La tournèe italiana prevederà dei cambi di formazione, proprio per non smentire quello che ho detto prima. I Quintorigo faranno parte della squadra, Federico Malaman che in questi giorni debutta con il suo album, sarà con noi, e ci saranno anche Massimo Greco e Tosh Peterson giovanissimo batterista californiano che ha ispirato in qualche modo il cambiamento e la voglia di coinvolgerlo in questo progetto. Non mi piace cullarmi sugli allori, ho bisogno di qualcosa di nuovo.

Io sono un inquieto dalla nascita, e siccome molto spesso mi annoio, ho la percezione di far annoiare gli altri, quin-

Intanto, I wanna be free, è un altro dei miei esperimenti, come al solito, supportato dai miei musicisti, che

Enza Di Santo Mario Biondi, la tournée di novembre del suo nuovo album Brazil è iniziata: come sta andando?

Il tour in realtà non è mai finito, e devo dire che sta andando davvero molto bene. Abbiamo già fatto tanti giri, incontrato tante belle persone, visto tanti posti nuovi e tante culture meravigliose. Molte culture anche all’interno del suo nuovo album che ha sonorità super variegate, diversi linguaggi, diverse lingue…

I brani non seguono uno stesso genere musicale: come mai questo miscuglio?

Nuovo è il singolo I wanna be free uscitoil 9 novembre, cosa ci racconta di questo brano?

sono persone di un’estrema pazienza e che metto spesso davanti a situazioni difficili o improponibili da concepire. I wanna be free nasce da una session in un appartamentino all’interno di un convento di gesuiti del 1600, e forse non è così poetico, ma mentre il pianista Max Greco, si assentava per andare in bagno, io provavo dei suoni, in particolare un suono di coro che mi piaceva molto, così è nato il ritornello e al suo ritorno abbiamo sviluppato la strofa. (Ride). Così, un lampo… di genio...

Sì, molto spesso le canzoni sono questo, attimi, sono quella luce dopo il tunnel, oppure il buio di colpo in una giornata di sole. Sono gli eventi forti e densi dai quali nascono i pensieri che poi diventano vite intere, perché una canzone ha anche la capacità di essere una vita intera. I wanna be free è una canzone con atteggiamento più pop rispetto ad altri miei brani, ma ha contaminazioni fusion e progressive rock tipico dei Quintorigo, c’è elettronica, c’è jazz e soprattutto c’è la sensazione che ha accompagnato la creazione di questa canzone: «abbasso l’oppressione, evviva la libertà!», in cui la libertà è intesa con la sua accezione vera, stare bene senza gravare sulla libertà degli altri. Lei è l’unico crooner affermato in Italia, come vede il panorama musicale attuale rispetto alle voci giovani?

Credo ci siano delle grandissime potenzialità che però, a mio avviso, vengono sfruttate al minimo, forse perché l’Italia non è strutturata come lo sono altri paesi a supportare realmente un’artista che si lancia in sperimentazioni importanti. Ho avuto la fortuna di avere un cavallo vincente come This is what you are che mi ha portato in giro per tutto il mondo. Mi piacerebbe condividere questa fortuna con alcuni giovani, sicuramente molto bravi nel panorama italiano, ma che hanno bisogno di un anello di congiunzione con l’internazionalità.

Il suo nuovo album si intitola Brazil.

Fondamentalmente, in Italia qualsiasi cosa arrivi dall’estero è ritenuta meravigliosa, mentre molto spesso quello che nasce in Italia, viene messo da parte. Se «la tua famiglia» non ti supporta, all’estero non ti prenderanno sul serio. Il bel canto italiano, che esiste dal 1800 e che porta avanti un concetto legato alla classicità (che naturalmente adoro e che deve fare parte della nostra cultura) ritengo sia d’ostacolo al sostegno dell’internazionalità. La credibilità artistica italiana all’estero cala se non si canta O sole mio. (Ride) La scena italiana vive un momento particolare, ci sono cantanti del passato e quelli emergenti dal contesto vasto e sommerso di YouTube. Lei dove si pone?

Nel mezzo come sempre, dove non c’è nessuno e il clima è più caldo.

Sono stato testone e continuo ad esserlo. Voglio portare avanti la mia idea perché mi piace essere onesto con le persone, voglio essere me stesso e voglio essere libero… I wanna be Free, I wanna be me, perché solo essendo se stessi si può migliorare, mentre cercando di essere ciò che non si è, non è possibile far crescere niente. Prossima tappa al Concerto per l’infanzia del 24 novembre...

Io sono sempre lusingato di poter prendere parte ad eventi benefici che si occupano di famiglie che vivono una difficoltà oggettiva. Vorrei ringraziare gli organizzatori e la popolazione di poter essere l’interprete di questo momento di solidarietà a Locarno. Concorso

Sulla pagina web www.azione.ch/ concorsi le istruzioni per vincere alcuni biglietti gratuiti del Concerto di Mario Biondi, al Palexpo di Locarno il 24 novembre, ore 20.30. Buona fortuna!

CD Nel primo anniversario della scomparsa, una curatissima

antologia celebra il talento di Tom Petty

A distanza di ormai un anno da un simile, inaspettato lutto, è ormai evidente come, nell’ottobre del 2017, non siano stati soltanto gli appassionati di rock americano a rimanere a dir poco turbati dalla prematura morte di Tom Petty. Scomparso all’improvviso per un infarto fulminante, senza aver dato agli spiazzati fan alcuna avvisaglia di una fine imminente, il 66enne rocker statunitense se n’è andato con lo stesso stile con cui aveva condotto la sua intera vita artistica – in modo educato e sommesso, quasi senza far rumore, in netto contrasto con le ostentazioni tipiche dello star system. Del resto, è anche grazie a questo suo eterno e quasi fanciullesco understatement che Tom ha sempre occupato un posto speciale nel cuore di molti, e non soltanto di chi ha fatto del pop internazionale la propria passione. Star atipica, scevro da qualsiasi megalomania o presunzione e dotato di una professionalità rara quanto assoluta, per oltre quarant’anni Petty è stato, insieme ai suoi amati Heartbreakers, prolifico autore e performer di una personale forma di onesto quanto irresistibile «American rock», da sempre condito da un pizzico di sano Southern style (il nostro veniva, del resto, dalla

Florida): caratteristiche che l’hanno portato a un’evoluzione intrigante quanto sorprendente, il cui picco assoluto è arrivato proprio alle soglie della mezza età, grazie alla tagliente critica sociale di un capolavoro come il concept album The Last DJ (2002) – personale attacco di Tom contro la spietata macchina delle multinazionali discografiche e la sua tendenza a «masticare e sputare» senza alcun riguardo i migliori talenti sulla piazza. Fortunatamente, ora che è da poco stata superata la boa del primo anniversario della scomparsa, la Reprise Records si è decisa a pubblicare il tributo finale all’artista in cui molti speravano: e nonostante l’apprensione che sempre circonda gli omaggi postumi, stavolta il risultato è davvero valso l’attesa. An American Treasure si presenta infatti come una sorta di cofanetto celebrativo, una retrospettiva dell’intera carriera di Tom, a partire dagli esordi, negli anni 70, fino agli exploit più recenti; e nella migliore tradizione del box set monografico, la collezione rappresenta una vera e propria carrellata di piccole gemme, dove tracce inedite, oscuri demo di brani noti, versioni dal vivo e incisioni alternative di grandi classici si avvicendano nell’arco di ben quattro CD (ognuno dei quali dedicato a un decennio

specifico) – in un autentico flashback non solo della carriera, ma dell’intera vita del rocker. Tanto che, ammirando questa eccellente raccolta, non si può negare come, dopo il superbo cofanetto The Live Anthology di quasi dieci anni fa, i tempi fossero ormai maturi per una nuova compilation di spessore dedicata a un artista del calibro di Petty; soprattutto, mancava un’opera che, come nel caso di American Treasure, si concentrasse su versioni e canzoni meno note (se non sconosciute) dall’immensa produzione del maestro. In quest’ambito, i compilatori – tra cui Adria Petty, figlia di Tom – hanno fatto un ottimo lavoro: non solo la qualità sonora del materiale si mantiene eccellente lungo l’intera tracklist, senza variazioni troppo evidenti tra un CD e l’altro, ma, in più, il criterio di selezione dei brani permette anche ai completisti più sfegatati di trovare comunque qualche sorpresa inaspettata, in grado di stuzzicare perfino i palati più esigenti. Così, se il primo disco costituisce una panoramica degli esordi di Tom e della sua produzione anni 70 (includendo la formazione dei Mudcrutch, sorta di «prova generale» dei fenomenali Heartbreakers), il secondo e terzo CD coprono il periodo che ha visto il rocker all’apice del successo – dappri-

Uno spettacolo teatrale che è diventato uno show televisivo di successo, proposto nel 2014 e 2016 dalla RAI in prima serata di sabato, con ascolti da record. Sogno e son desto è il fortunatissimo récital musicale con cui Massimo Ranieri è tornato a calcare le scene di tutta Italia, in una sorta di tournée ininterrotta che dura ormai da diverso tempo. Le oltre 400 repliche dello spet-

Ha il monopolio sul suo genere…

Per alleviare il rimpianto Benedicta Froelich

regalo biglietti per lo spettacolo al LAC di Massimo Ranieri, il 28 novembre, alle 20.30

La copertina dell’album commemorativo.

ma, appunto, con la sua leggendaria band, e poi anche come solista, con dischi di culto quali Full Moon Fever (1989) e l’intimista e disilluso Wildflowers (1994). L’ultimo blocco del cofanetto è invece dedicato alla fase finale della carriera di Tom: un periodo stimolante, visto che, lungi dal trovarlo imbolsito e annoiato come accaduto ad altre stelle della sua generazione, l’avvento del nuovo millennio lo ha mostrato più che mai entusiasta e pieno di idee, pronto a reinventarsi con album di spessore quali Highway Companion (2006) e Hypnotic Eye (2014). In tal senso, bisogna ammettere che un’antologia quale An American Treasure sottolinea ulteriormente la perdita che la morte prematura di Tom Petty ha rappresentato non solo per il rock statunitense, ma per l’intera scena pop internazionale. Anche per questo, ricordare la sua arte e produzione diviene, per certi versi, più importante che mai – facendo di questa raccolta un’ occasione per permettere ai più giovani di riscoprire un artista unico.

È nato a Napoli nel 1951; il suo vero nome è Giovanni Calone.

tacolo e il successo dell’album che ne è stato tratto confermano la bravura e la popolarità dell’uomo di spettacolo napoletano. Identificare Ranieri solo come interprete canoro è in effetti considerare un solo aspetto della sua carriera ormai cinquantennale. La sua versatilità e la sua presenza scenica, infatti, gli hanno permesso di impegnarsi molto presto anche nel ruolo di attore cinematografico e teatrale. E in quest’ultima veste, nel corso degli anni ha saputo mettere in mostra una personalità e un carattere tali da meritargli ruoli importanti, facendo di lui un interprete di prima grandezza, in particolare della tradizione teatrale napoletana. È indubbio però che nel cuore del pubblico Massimo Ranieri rimanga un cantante dalla fisionomia artistica unica, ciò che gli ha guadagnato un’enorme popolarità. Capace di spaziare dal repertorio della canzone napoletana tradizionale e moderna a quello della canzone italiana melodica e d’autore, Ranieri è un protagonista indiscusso del novecento canzonettistico italiano. Proprio durante lo spettacolo il cantante ripercorrerà il corso della sua vita, intercalando i racconti con brani significativi del suo repertorio. Il testo, dunque, scritto da lui in collaborazione con Gualtiero Peirce, si muove sul doppio binario della confessione in pubblico e del récital musicale in cui, oltre ai suoi cavalli di battaglia come Se bruciasse la città, Erba di casa mia, Rose rosse, Perdere l’amore, trovano spazio canzoni celebri di cantautori italiani e, soprattutto, i pezzi indimenticabili del repertorio partenopeo. / Red.

Per partecipare «Azione» mette in palio per i suoi lettori alcune coppie di biglietti per lo spettacolo Sogno e son desto di Massimo Ranieri, sostenuto dal Percento culturale di Migros Ticino. Le istruzioni per l’estrazione sono pubblicate nella pagina del sito www.azione.ch/concorsi


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Idee e acquisti per la settimana

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shopping Venite a scoprire il mondo dei sapori Rapelli

Attualità Dal 22 al 24 novembre le filiali Migros di Lugano e Agno ospitano l’accogliente «Bottega Rapelli»,

dove si potranno gustare le rinomate specialità dei Mastri Salumieri di Stabio

Prosciutto Crudo San Pietro Piacere allo stato puro grazie a ingredienti eccelsi, una sapiente lavorazione artigianale dei Mastri Salumieri e una lenta stagionatura di almeno 12 mesi.

Rapelli, salumeria dal 1929

Tradizione, artigianalità e passione per la buona cucina: da quasi un secolo il marchio Rapelli è ambasciatore in tutta la Svizzera dell’eccellenza gastronomica del nostro territorio. Nel 1929 Mario Rapelli apre la sua piccola bottega di salumeria nel borgo di Stabio, dove crea e vende prodotti tipici realizzati con i migliori ingredienti locali. Passione per le cose buone e grande determinazione lo porteranno nei decenni seguenti a rivoluzionare con successo il settore della tradizione salumiera ticinese. Oggi come allora, i Mastri Salumieri Rapelli creano una vasta gamma di prosciutti e salumi di grande qualità ispirandosi agli insegnamenti, ai valori e alle ricette di Mario Rapelli tramandate di generazione in generazione. La loro maestria e l’amore per la tradizione assicurano costantemente prodotti di qualità elevata dal gusto inimitabile.

Prosciutto Cotto Puccini Supersottile Una specialità dal gusto pieno e intenso preparata a mano dai Mastri Salumieri. Un piacere per tutti grazie anche all’assenza di lattosio, glutine e polifosfati aggiunti.

Gustose degustazioni alla Migros

Questa settimana nelle filiali di Lugano e Agno si potranno assaggiare alcune delizie firmate Rapelli nell’accogliente e calorosa atmosfera tipicamente ticinese della «Bottega Rapelli». Qui troverete l’eccellenza nostrana di prodotti come il Prosciutto Cotto Puccini, il Prosciutto Crudo San Pietro o la Coppa. Grazie ai

Nel 1929 Mario Rapelli apre la sua piccola bottega di salumeria in Via Giulia a Stabio.

consigli culinari del Mastro Salumiere Rapelli vivrete un’esperienza gustativa indimenticabile cosicché possiate in ogni momento condividere con i vostri cari tutto il buono della vita.

Infine, ricordiamo che oltre alla presenza della «Bottega Rapelli», in molte altre filiali Migros fino a Natale sono in programma ulteriori degustazioni targate Rapelli.

Il Mastro Salumiere Mario Rapelli agli esordi della sua attività.

Scoprite tutte le date del tour su: www.migrosticino.ch/rapelli-on-toura-migros-ticino

Coppa La coppa è ottenuta dal collo del suino che, dopo essere stata aromatizzata a mano con sale e spezie segrete, subisce una stagionatura di almeno due mesi.


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Idee e acquisti per la settimana

Per la gioia di tutti i piccini

Attualità Migros Ticino sarà presente con i suoi marchi Bio e Alnatura alla fiera dei bambini

e delle famiglie «Mondobimbi», in programma al Centro Esposizioni Lugano sabato 24 e domenica 25 novembre. Incontro con Francesca Cassani, responsabile della fiera Signora Cassani, cos’è «Mondobimbi»?

«Mondobimbi» è una fiera giunta alla quinta edizione che si rivolge ai bambini e alle famiglie. Durante le due giornate sono in programma numerose attività e iniziative che non mancheranno di coinvolgere e divertire piccoli e grandi visitatori. Cosa si potrà scoprire di particolare quest’anno?

Avremo dei laboratori di cucina, in cui i bimbi potranno improvvisarsi veri chef, oppure diventare degli scienziati per costruire robot e far volare dei droni. Potranno anche dare libero sfogo alla propria fantasia dipingendo e cucendo, inoltre sono previsti anche dei laboratori per imparare a intrecciare e acconciare i capelli, e si potranno provare delle casse di sapone in tutta sicurezza. Ospiti della fiera saranno anche alcuni simpatici animaletti come caprette, poni e asinelli che non aspettano altro di essere coccolati. Per staccare un attimo, nell’area lettura i bambini conosceranno un libro illustrato con protagonista la simpatica scimmia spaziale Muunky! Infine, quando il languorino si fa sentire, nel ristorante si potrà gustare un menu speciale bimbi, mentre nell’area Migros Bio vi sarà la colazione e la merenda bio offerta a tutti i bambini.

Migros a «Mondobimbi»

È previsto anche uno spazio giochi e un grande concorso…

Esatto. Lo spazio giochi appositamente allestito ha in serbo tanti divertimenti, tra cui gonfiabili, waterball, trampolini per saltare, spettacoli di bolle, magia,… Infine, coloro che visiteranno la fiera potranno partecipare all’estrazione di una bellissima crociera nel Mediterraneo per tutta la famiglia. Vi aspettiamo numerosi!

Orari d’apertura: SA dalle 9.30 alle 20.00 DO dalle 9.30 alle 19.00 Biglietto d’entrata: CHF 5.– al giorno CHF 8.– due giorni Bambini fino ai 12 anni e AVS gratis Visitate anche: www.mondo-bimbi.ch

In occasione della fiera «Mondobimbi», Migros Ticino dà la possibilità ai piccoli visitatori e ai propri genitori di scoprire e gustare alcuni apprezzati prodotti per bambini dell’assortimento Migros-Bio e Alnatura. Durante entrambe le giornate verranno offerte una colazione, dalle ore 9.30 alle 10.30, e una merenda dalle 15.00 alle 16.30, il tutto rigorosamente a base di bontà biologiche, ossia con prodotti ottenuti nel rispetto dell’ambiente, delle risorse naturali e degli animali.

Le noci di Grenoble Azione 25% sulle Noci Grenoble Francia, 500 g Fr. 3.60 invece di 4.80

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dal 20 al 26 novembre

Per gli intenditori quelle di Grenoble sono considerate il fior fiore delle noci. Il grosso calibro, il loro sapore così fine e profumato, come pure il gheriglio tenero e croccante, ne fanno un prodotto d’eccellenza nutriente da mangiare da solo oppure in cucina come ingrediente versatile in molte ricette dolci e salate. Grazie al clima alpino favorevole, relativamente umido e ventilato, da diversi secoli la coltivazione delle noci è diventata il fiore all’occhiello di questa regione

francese, tanto che fu il primo frutto al mondo a potersi fregiare dell’Appellation d’Origine Contrôlée nel 1938. Le noci sono raccolte durante il mese di settembre-ottobre e entro 36 ore dalla raccolta, dopo un’accurata pulizia e cernita, vengono poste negli essiccatoi. Tecniche moderne di lavorazione fanno sì che le noci di Grenoble si conservino bene tutto l’anno, al riparo dal calore e dalla luce, sviluppando ad ogni assaggio il loro caratteristico e delicato aroma dolce e intenso.


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Sostegno alle persone bisognose Solidarietà Sabato 24 novembre è prevista la colletta alimentare in favore di Tavolino Magico

in sette filiali Migros del Cantone

Nella Svizzera Italiana sono quasi 1800 le persone che ogni settimana vengono aiutate da Tavolino Magico attraverso la distribuzione di generi alimentari di ottima qualità. Questa associazione senza scopo di lucro, da 12 anni opera nella nostra regione a favore di persone in difficoltà finanziaria e contro lo spreco alimentare, grazie alla collaborazione con dettaglianti, grossisti, supermercati e oltre 280 volontari. Nel 2017 l’associazione ha raccolto qualcosa come 652 tonnellate di cibo, che sono state consegnate alle persone bisognose nei suoi 13 centri di distribuzione e in diverse mense sparse in tutta la Svizzera italiana. Contribuite anche voi a sostenere le persone meno fortunate, donando uno o più prodotti alimentari di prima necessità e a lunga conservazione in occasione della colletta alimentare di sabato 24 novembre 2018. I volontari degli «Amici della colletta», al motto di «Condividere i bisogni per condividere il senso della vita», saranno presenti in sette supermercati Migros – Biasca, Bellinzona, Locarno, Taverne, Agno, Lugano Centro e Mendrisio Sud – per raccogliere le donazioni presso le casse e sensibilizzare la clientela su questa importante iniziativa solidale. Annuncio pubblicitario

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Sanissa

Impastare come ai vecchi tempi Dal 1967 in Svizzera i biscotti si preparano con Sanissa. La margarina svizzera senza additivi contiene oggi come in passato il dieci percento di burro, ciò che la rende perfetta per preparare dolci ariosi, ripieni cremosi e biscotti natalizi, come graziosi biscotti allo zenzero. Sanissa au beurre è disponibile esclusivamente alla Migros.

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Mondo animale

«I cani vogliono imparare» L’addestratrice di cani Laure Knappe ci parla dei suoi studenti a quattro zampe, dei loro straordinari risultati nell’apprendimento e dell’uso degli snack come ricompensa Testo Michael West

Quanti cani ha già addestrato?

nia Chiggo. colo cane da compag n Böttcher e il suo pic Be i gin ma im ore att red Il

Nella mia scuola nell’Oberland zurighese ho già addestrato ben oltre mille animali. Ricordo in particolare alcuni cani problematici, che ho potuto aiutare grazie alla formazione, grazie alla quale hanno fatto grandi progressi. Naturalmente è altrettanto indimenticabile anche la gioia dei proprietari a fronte del successi riscontrati. Perché è necessario educare i cani?

Io e il mio cane

«Chiggo mi calma» Benjamin Böttcher (39) lavora nella redazione immagini di Migros Magazin e da un anno è proprietario di un cane. «Prima non riuscivo a entrare in sintonia con gli animali domestici», confessa. «Ma oggi Chicco è chiaramente parte integrante della famiglia». Questo il nome del cane, che appartiene alla razza russa bolonka zwetna e che Ben ha ripreso da un collega. Chiggo ha quattro anni e anche sulla bilancia l’ago arriva a quella cifra. Nel mondo canino è dunque un peso leggero. Che compensa con un fascino irresistibile. «A conclusione di una stressante giornata di lavoro, quando mi guarda con i suoi occhioni marrone scuro mi calmo subito», dice Ben. Dal primo momento Chiggo è andato d’accordo con i due bambini della famiglia, Mika (5) e Nele (9). Quando l’esperto di immagini porta a spasso il grazioso quattrozampe, viene spesso avvicinato da altri proprietari di cani: «Grazie a Chiggo la mia cerchia di conoscenze continua ad ampliarsi». Una particolarità di questa razza russa affascina Ben: «Nel corso della sua vita il colore del pelo di un belonka zwenta cambia continuamente. Quando è arrivato da noi, il suo pelo era a macchie nero-bianche, poi tutto bianco e ora ha di nuovo con macchie nere.»

Semplicemente perché gli animali obbedienti hanno più opportunità di godersi la vita, dal momento che i proprietari possono concedergli maggiori libertà. Se l’animale risponde sempre al richiamo non ci si fa alcun problema a lasciarlo scorrazzare in un prato o a lasciarlo giocare con altri cani. Gli animali si divertono quando vien loro insegnato qualcosa di nuovo?

Molti cani desiderano apprendere. Si divertono quando gli si mostra una nuova attività. Inoltre, se su richiesta del proprietario dà la zampa o rotola, aiuta chi non lo conosce a non aver paura del cane. Quando prendono parte all’addestramento è sua abitudine ricompensare i cani con cibo?

Sì, perché è provato che dare dei bocconcini in quantità moderata rappresenta un modo per motivare i cani. Quando apprendono qualcosa di nuovo si può anche giocare un po’ con loro, per esempio con la loro palla preferita.

I cani di piccola e grossa taglia necessitano di tipi diversi di alimenti?

È evidente che cani con costituzioni completamente diverse non necessitano dello stesso tipo di cibo. Un minuto chihuahua non può masticare grossi bocconi come può invece fare un possente alano tedesco. Un caso speciale è quello dei cani da lavoro, come gli husky, che trainano le slitte sulla neve e che necessitano quindi di un’alimentazione particolarmente sostanziosa. Chiunque può davvero imparare a saperci fare con i cani?

Alcune persone nascono con la capacità di condurre i cani, per altre risulta invece più difficile riuscire a relazionarsi con loro. Ma cogni persona che è motivata e che ama il proprio cane può acquisire questa capacità.

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Idee e acquisti per la settimana

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1.65 invece di 2.10 Formaggella ticinese 1/2 grassa prodotta in Ticino, in self-service, per 100 g

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di riduzione Tutti i tipi di pane alle noci (panini esclusi), per es. pane di patate con noci bio TerraSuisse, 350 g, 2.20 invece di 2.70


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I nostri superpr ezzi. conf. da 2

20%

2.15 invece di 2.70 Emmentaler Höhlengold per 100 g

conf. da 2

–.80

di riduzione

13.40 invece di 16.80

11.60 invece di 12.40

Fondue fresca moitié-moitié in conf. da 2 2 x 400 g

Hit

3.90

Berliner 6 pezzi, 420 g

30% Tortelloni M-Classic in conf. da 3 con ricotta e spinaci o carne, per es. con carne, 3 x 250 g, 8.10 invece di 11.70

conf. da 4

20%

Il Burro in conf. da 4 panetto, 4 x 250 g

25%

5.40 invece di 7.25 Mini Babybel retina da 15 x 22 g

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20% Tutti i latticini You per es. 100 Cal alle bacche di bosco, 150 g, –.65 invece di –.85

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Tutte le salse liquide e in bustina Bon Chef a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione

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5.20 invece di 10.40 Lasagne verdi o alla bolognese Buon Gusto in conf. da 2 surgelate, per es. alla bolognese, 2 x 600 g

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Tutto l’assortimento Farmer’s Best prodotti surgelati, a partire da 2 confezioni, 20% di riduzione

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di riduzione Tutte le salse Agnesi a partire da 2 pezzi, –.30 di riduzione l'uno, per es. al basilico, 400 g, 2.65 invece di 2.95

50% Tutti gli Ice Tea in bottiglie di PET in conf. da 6 x 1,5 l per es. all’aroma di limone, 4.05 invece di 8.10

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33% Tutte le acque minerali Vittel in confezioni multiple per es. in conf. da 6 x 1,5 l, 3.95 invece di 5.90


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20%

di riduzione

10.– invece di 12.–

Tutti i tè e le tisane (prodotti Alnatura esclusi), per es. After Dinner Treat You, bio, 20 bustine, 2.55 invece di 3.20, in vendita solo nelle maggiori filiali

30%

5.35 invece di 7.65 Crocchette di rösti Delicious in conf. speciale surgelate, 1 kg

Tutte le capsule Café Royal in conf. da 33, UTZ disponibili in diverse varietà, per es. Lungo Forte, 33 capsule

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Tutte le tavolette di cioccolato Frey, 100 g e 400 g, UTZ (M-Classic, Suprême, Eimalzin e confezioni multiple escluse), a partire da 3 pezzi, 20% di riduzione

conf. da 3

30% Farina bianca TerraSuisse da 1 kg e in conf. da 4 x 1 kg per es. 1 kg, 1.25 invece di 1.85

30% Tutte le confetture e le gelatine Extra in vasetto e in bustina per es. alle albicocche, 500 g, 1.85 invece di 2.70

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5.– invece di 7.50 Petit Beurre in conf. da 3 cioccolato al latte o cioccolato fondente, per es. cioccolato al latte, 3 x 150 g

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Tutti i prodotti natalizi M&M’s e Celebrations per es. calendario dell’Avvento M&M’s, 361 g, 11.95

20% Praliné e truffes con motivo di renna e palline Adoro Frey, UTZ per es. Praliné Prestige, 235 g, 12.20 invece di 15.30

conf. da 8 conf. da 2

30% Senape, maionese e salsa tartara M-Classic in conf. da 2 per es. maionese, 2 x 265 g, 2.15 invece di 3.10

25%

7.80 invece di 10.40 Tutti i tipi di Coca-Cola in conf. da 8 x 50 cl per es. Classic

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 20.11 AL 26.11.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

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7.20 invece di 12.– Succo di mela M-Classic in conf. da 10 x 1 l

1.50

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4.– invece di 5.50 Miscele natalizie con o senza creste di gallo all’anice 500 g, per es. senza creste di gallo all’anice

conf. da 2

20% Barrette di cereali Farmer in conf. da 2 disponibili in diverse varietà, per es. Soft alla mela e alle more, 2 x 234 g, 7.– invece di 8.80


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Tutto l’assortimento Kneipp (confezioni multiple, confezioni da viaggio, set e tisane natalizie esclusi), a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 novembre 2018 • N. 47

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Idee e acquisti per la settimana

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Le molecole delle micelle attirano le particelle di sporco come magneti.

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Idee e acquisti per la settimana

Tutto super?

Preparati anche con ingredienti indigeni

iMpuls

Un’ottima scelta

Mangiare in modo moderno e variato: si può fare con semplicità e comodità anche a casa, grazie a molti nuovi prodotti che assicurano un piacere sempre fresco non solo a vegani e vegetariani Testo Claudia Schmidt, Foto Yves Roth, Styling Miriam Vieli-Goll

L’alga spirulina e il cavolo riccio conferiscono al burger spirulina il suo colore e la caratteristica nota aromatica. Il tipico aspetto del burger nonché la ricchezza di fibre è data dalla quinoa, dal bulgur e dalle patate dolci. You Spirulina Burger 180 g Fr. 4.90

Da qualche anno i cosiddetti prodotti «superfood» sono sulla cresta dell’onda. Caratteristica comune di questo eterogeneo gruppo di alimenti: un’elevata concentrazione di preziosi ingredienti e nutrienti. Spesso gli alimenti provengono da lontano. Oggi però sappiamo che i semi di lino indigeni non hanno niente da invidiare ai semi di chia. Talvolta non bisogna andare tanto lontano, perché le cose buone crescono anche vicino a noi. Uno dei lati positivi del «trend superfood» è che rende i consumatori molto più attenti a ciò che arriva nel piatto. L’ampia scelta di prodotti permette oggi di gustare nuove pietanze e sperimentare sapori unici.

Il Burger Edamame è fatto con il 57 percento di semi di soia verde edamame, che regalano consistenza e proteine. Le patate dolci e le spezie completano il burger. Si prepara facilmente ed è molto versatile. You Edamame Burger 190 g Fr. 5.90

Cotto ha la consistenza del riso, crudo risulta croccante. Il cavolfiore finemente grattugiato è la star della cucina povera di carboidrati. Sostituisce i cereali nei piatti di couscous, può essere usato nelle basi per pizza o nelle specialità asiatiche in padella.

Il mix di cavolo riccio surgelato con taccole, fagioli kidney e chicchi di mais è solo da scaldare. Questa miscela di verdure è ottima come contorno o base per piatti vegetariani.

You Cavolfiore come riso surgelato, 750 g* Fr. 4.90

You Mix di cavolo riccio surgelato, 500 g* Fr. 4.90

Ora su iMpuls

Tutto sui «Superfood»

Il burger Black Bean Cashew è già da tempo parte dell’assortimento di burger vegani. È prodotto con molta verdura e fino al 26 percento di fagioli neri.

Ecco come fare: • apri Discover nell’app Migros • scansiona questa pagina • leggi l’articolo

Alnatura Black Bean Cashew Burger 160 g Fr. 3.90

migros-impuls.ch/superfood La farina di cocco è prodotta con polpa di cocco fresca. È ricca di proteine e contiene molte fibre alimentari. Si può utilizzare per zuppe, curry, come pure in dessert, shake e nella pasticceria. Alnatura Farina di cocco 300 g* Fr. 2.80

*Nelle maggiori filiali

L’olio di canapa ha un sapore che ricorda le nocciole. È ottenuto dai semi di canapa e non possiede nessun effetto inebriante. L’olio è ricco di grassi acidi insaturi ed è una buona base per dressing o per cuocere al vapore. Migros Bio Olio di canapa 250 ml Fr. 8.90

Gli spaghetti di lenticchie sono composti per ben il 90 percento da farina di lenticchie gialle bio. Sono spaghetti raffinati con riso integrale biologico, ricchi di proteine e preziose fibre alimentari. You Spaghetti con lenticchie gialle Bio 250 g Fr. 3.40

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Da qualche anno i cosiddetti prodotti «superfood» sono sulla cresta dell’onda. Caratteristica comune di questo eterogeneo gruppo di alimenti: un’elevata concentrazione di preziosi ingredienti e nutrienti. Spesso gli alimenti provengono da lontano. Oggi però sappiamo che i semi di lino indigeni non hanno niente da invidiare ai semi di chia. Talvolta non bisogna andare tanto lontano, perché le cose buone crescono anche vicino a noi. Uno dei lati positivi del «trend superfood» è che rende i consumatori molto più attenti a ciò che arriva nel piatto. L’ampia scelta di prodotti permette oggi di gustare nuove pietanze e sperimentare sapori unici.

Il Burger Edamame è fatto con il 57 percento di semi di soia verde edamame, che regalano consistenza e proteine. Le patate dolci e le spezie completano il burger. Si prepara facilmente ed è molto versatile. You Edamame Burger 190 g Fr. 5.90

Cotto ha la consistenza del riso, crudo risulta croccante. Il cavolfiore finemente grattugiato è la star della cucina povera di carboidrati. Sostituisce i cereali nei piatti di couscous, può essere usato nelle basi per pizza o nelle specialità asiatiche in padella.

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L’olio di canapa ha un sapore che ricorda le nocciole. È ottenuto dai semi di canapa e non possiede nessun effetto inebriante. L’olio è ricco di grassi acidi insaturi ed è una buona base per dressing o per cuocere al vapore. Migros Bio Olio di canapa 250 ml Fr. 8.90

Gli spaghetti di lenticchie sono composti per ben il 90 percento da farina di lenticchie gialle bio. Sono spaghetti raffinati con riso integrale biologico, ricchi di proteine e preziose fibre alimentari. You Spaghetti con lenticchie gialle Bio 250 g Fr. 3.40

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Nel frattempo è arrivata anche mamma, che si mette subito a consolare il figlio. Gli dice che se vuole, può comunque avere la cassa che gli altrove… piace tanto. Finn all’inizio non capisce. La cassa verrà trasportata altrove Ciò significa che deve lasciarsi portare lontano all’interno di essa? Papà ha già sentito parlare dell’altra filiale Migros. Lì c’è un gran bisogno di folletti Migros. Finn potrebbe rendersi utile. Quella notte il folletto rimane sveglio a lungo a pensare. Il giorno dopo, poco prima dell’arrivo dei collaboratori Migros, Finn abbraccia a lungo i genitori e promette loro che tornerà il prima possibile a far loro visita. Prima che parta la madre e il padre gli fanno due regali: un nuovo casco da folletto con una lampada rossa adatta alla cassa moderna e la foto di famiglia. La stessa foto che tiene in mano dopo un viaggio lungo e pericoloso quando Finn arriva finalmente davanti alla vecchia cassa dei suoi genitori. Di loro non c’è però traccia. Improvvisamente Finn sente un rumore… ciò che succede poi lo puoi vedere nel nuovo film di Natale.

Scansiona il vedere codice QR per il nuovo filmato s. Migro natalizio della

Aiutarsi l’un l’altro. Donare insieme. Anche in Svizzera ci sono molte persone sole e bisognose. Aiutiamole tutti insieme: per ogni cioccolato del valore di fr. 5.–, 10.– o 15.– venduto, la Migros aggiunge un franco. Il ricavato delle vendite viene devoluto interamente ai bisognosi.

Esse hanno dato vita a progetti duraturi per aiutare persone abbandonate a se stesse, ad esempio con un telefono amico per i giovani, un servizio di visita per persone anziane sole o diversi programmi di consulenza e integrazione.

Per i bambini e i giovani Pro Juventute organizza progetti legati all’identità, alla comunità e alle chance per il futuro nei settori Consulenza e sostegno, Formazione e informazione e Spazio e partecipazione.

A chi va la tua donazione.

Famiglie, genitori single, disoccupati e working poor. La Caritas fornisce consulenza sociale e legale alle persone bisognose. Si occupa inoltre di mettere a disposizione volontari per fornire assistenza sociale.

Le donazioni sostengono le associazioni caritatevoli Caritas, HEKS, Pro Juventute, Pro Senectute e Soccorso d’inverno.

In Svizzera HEKS, l’associazione caritatevole delle chiese evangeliche, si impegna a favore di svizzeri e migranti socialmente svantaggiati, soggetti a discriminazione, emarginazione e disuguaglianza di trattamento.

Da più di 100 anni Pro Senectute si impegna a favore delle persone anziane autandole a vivere il più possibile nella propria casa in modo autonomo.

Dal 1936 il Soccorso svizzero d’inverno si impegna, tramite le donazioni che riceve, per una Svizzera senza povertà offrendo aiuto, indipendentemente dalla stagione, a chi non può richiedere quello pubblico.


Mbiiip! La prossima settimana arrivano i folletti di peluche.

tti di Cinque folle uno con peluche, ogn ce e bip. lu i d e n io z n fu

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