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Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio La nascita della civiltà nel provocatorio racconto di James C. Scott
Ambiente e Benessere È nato un marchio che smuove le coscienze ambientali dei nostri centri urbani, i quali, se riusciranno a rientrare in determinati criteri, potranno fregiarsi del label «Citta verde Svizzera»
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 18 novembre 2019
Azione 47 Politica e Economia Perché l’Occidente deve fare i conti con la crisi dell’idea liberale
Cultura e Spettacoli Il Louvre di Parigi celebra Leonardo da Vinci con una mostra magnifica e imperdibile
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Quel muro nella mente, Le cave di marmo di Carrara più difficile da abbattere uno scempio ambientale di Luigi Baldelli
di Peter Schiesser È in uno stato di cose radicalmente diverso che l’anniversario della caduta del Muro di Berlino è stato ricordato. Ricordato, più che celebrato. In un contesto in cui nei Länder dell’ex Repubblica democratica tedesca (la DDR) si affermano forze nazionaliste con tendenze autoritarie c’è poco da celebrare. Trent’anni dopo la dissoluzione dei regimi e sistemi comunisti in tutta l’Europa orientale, oltre che in Unione Sovietica, si cela nella nebbia del presente un muro invisibile, ma ben presente nella mente delle persone. È l’eredità di decenni di dittatura e oppressione, di secoli di dominazione imperiale, tedesca, austro-ungarica e zarista. La Germania orientale la condivide con tutti gli altri paesi che fecero parte di questi due imperi, poi sostituiti da regimi anche meno liberi. Oggi, nell’era della globalizzazione dell’economia, ai cui squilibri le democrazie occidentali sprovviste di strumenti adeguati non sanno porre rimedio, nell’est europeo riemergono i fantasmi di tanti passati. Secondo alcuni, il presente mostra che in Europa lo scisma fra est ed ovest non è superato. Che è l’esperienza fragile dei primi decenni di democrazia, forma politica e di vita non ancora sufficientemente interiorizzata, a spingere molti elettori nelle braccia di un nazionalismo autoritario, ma anche a ridare linfa a partiti sorti sulle ceneri comuniste. Quando lo Stato, il re, l’imperatore hanno sempre pensato per te, se possibile impedendoti di parlare, quando sei stato a lungo suddito non sviluppi un senso di auto-responsabilità in così breve tempo. «Il blocco orientale era un paesaggio di menzogne», ha scritto il direttore della NZZ Eric Gujer, e l’eredità di quel tempo è una profonda diffidenza verso lo Stato e le élite che rende molte persone facile preda di «verità alternative», fake news per intenderci. Ma a ben guardare, quello che vediamo nell’est europeo si discosta molto da quanto avviene in Italia, Spagna, e Francia? Non sono simili le paure di una crescente emarginazione politica, sociale, economica nei «perdenti della globalizzazione»? Sono così diversi dagli Orban, i Kaczynski, l’AFD tedesca, leader come l’italiano Salvini, la francese Le Pen, lo spagnolo Abascal? Anche ad ovest il capro espiatorio è lo straniero, il migrante (benché all’est ci sia un substrato più complesso: nei paesi eredi di quegli imperi multinazionali e multietnici un’omogeneità etnica esiste solo dove era stata imposta con la forza e le deportazioni). Anche a ovest un’importante fetta della popolazione torna a preferire un uomo forte, che possa risistemare le cose senza andare troppo per il sottile. Potremmo dire che pure in Italia e in Spagna non c’è stata una vera elaborazione delle dittature fasciste. Caduto Mussolini, improvvisamente in Italia quasi nessuno era più fascista, la democrazia sembrava la naturale forma di governo del paese. In realtà il fascismo, come lascito culturale e mentale, non era sparito e col tempo si è manifestato e cresce. Ci aveva pensato Berlusconi a sdoganare i post-fascisti di Gianfranco Fini, e pure oggi non c’è molta distanza tra un Salvini e una Meloni, anzi li accomuna una predilezione per l’autoritarismo che invece a Berlusconi e Fini mancava. Anche in Spagna, morto il dittatore Franco, la spaccatura nella popolazione risultava gestibile solo stendendoci sopra un velo, con l’augurio di poterla sanare con i frutti della democrazia e di un’economia di mercato. Aggiungiamoci le tendenze separatiste in Catalogna e possiamo spiegarci parte del successo di Vox di Santiago Abascal. Ma la Francia? E DELICATEZZE SFAVILLANTI RICETTE l’Austria, l’Olanda e quegli altri paesi MIGUSTO dell’occidente europeo in cui forze nazionaliste contano numerose adesioni? Non tutto è eredità del passato: c’è un presente disruptivo e un futuro incerto che inquietano anche ad ovest. E la lettura della realtà, le risposte che BUON NICOLAO si cercano e si danno sono molto simili in tutta l’Europa. Le sfide possono aveMagiche Feste re toni diversi a seconda dei retaggi del Delizie da regalare passato, i modi di affrontarle risultare e idee anche molto dissimili, ma il confronto per scintillanti decorazioni con gli autoritarismi e una costruzione della realtà basata su fake news ci accomuna tutti, ad est e ad ovest.
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MAGIA
NATALE 2019
RIVISTA 2 / 3
PALLINE
DA REGALARE CON LE
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Luigi Baldelli
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Società e Territorio Ageismo, è tempo di parlarne Il professor Christian Maggiori ci spiega come si manifesta questa forma di discriminazione legata all’età e indagata anche da Pro Senectute Svizzera in un sondaggio rappresentativo pagina 8
I 30 anni della Convenzione sui diritti del fanciullo Mercoledì 20 novembre saranno tanti gli eventi che ricorderanno l’importante anniversario, tra questi anche lo spettacolo Stai zitto... diritto! Ne abbiamo parlato con i due interpreti Prisca Mornaghini e Antonello Cecchinato pagina 10
Elogio della barbarie Pubblicazioni Il provocatorio racconto
della nascita della civiltà di James C. Scott demolisce molti luoghi comuni
Lorenzo De Carli Quando c’imbattiamo nel termine «civiltà» tendiamo a pensare a società organizzate in una forma che si avvicina quanto più possibile a quello che sappiamo essere uno Stato. Inoltre, ci viene in mente anche l’idea di «progresso», inteso come graduale passaggio da uno stato primitivo ad uno civilizzato. «Selvaggi» e «barbari» stanno di là dei confini dello Stato, oltre le mura della città, e il racconto della storia antica narra del progressivo incivilimento dell’umanità. Se studiosi come Jared Diamond hanno cominciato ad indagare sulle ragioni per cui le civiltà scompaiono – rilevando quanto importanti siano fattori come le condizioni geograficoambientali, i mutamenti climatici, lo sfruttamento eccessivo delle risorse da parte dell’uomo e l’eccessiva espansione demografica –, c’è anche chi comincia a chiedersi se, davvero, essere «barbari» sia meglio di essere «civili». È il caso del politologo e antropologo James C. Scott, che scrive: «perché rammaricarsi della “caduta” quando la situazione che descrive è il più delle volte la disgregazione di uno Stato complicato, fragile e generalmente oppressivo in frammenti più piccoli e decentralizzati?». Le parole di Scott si leggono nel suo ultimo saggio pubblicato da Einaudi con il titolo: Le origini della civiltà. Una controstoria. Giovandosi degli esiti più aggiornati dell’archeologia, la «controstoria» di Scott documenta come, per la maggior parte della nostra recente esistenza sul pianeta, lo Stato è stata una forma eccezionale, episodica e caduca di organizzazione sociale. Sebbene egli riservi un più dettagliato esame al periodo compreso tra il VII e il II millennio a.C. (quando nacquero i primi Stati nella regione mesopotamica del basso corso del Tigri e dell’Eufrate), Scott prende in esame un ampio periodo storico che comincia dal 12’000 a.C., età alla quale risalgono le prime prove archeologiche sporadiche di stanziali-
tà, fino al 2600 a.C., quando fu inventata la scrittura. Obiettivo della sua ricerca è stato quello di analizzare il motivo per cui – per un lungo periodo – l’uomo evitò la sedentarietà e l’agricoltura, sfruttando i vantaggi della sussistenza mobile. Un argomento cui presta particolare attenzione è quello delle epidemie, delle malattie cioè che si diffondono là dove cresce la densità della popolazione. Una stima accurata calcola che la popolazione mondiale intorno al 10’000 a.C. ammontasse a circa 4 milioni di persone. Da circa un migliaio d’anni era iniziato il Neolitico e in alcune zone del Vicino Oriente già erano state domesticate alcune specie di piante, la cui coltivazione più estesa ed intensa incoraggiò l’abbandono della raccolta di piante selvatiche. Nello stesso periodo, furono domesticati la pecora, il maiale e il bue. Cinquemila anni dopo – età della quale abbiamo prove archeologiche evidenti di villaggi agricoli che dipendono da coltivazioni e bestiame – la popolazione mondiale era cresciuta di un solo milione. Viceversa, dopo altri cinquemila anni, la popolazione aumentò venti volte: «la transizione del Neolitico, lunga cinquemila anni, fu quindi una sorta di collo di bottiglia demografico.» È Scott a scrivere: «credo che le malattie epidemiche siano il silenzio più assordante nelle testimonianze archeologiche del Neolitico». Quanto poco salutare – contrariamente al luogo comune – fu la domesticazione di piante e animali e lo stile di vita agropastorale rispetto allo stile dei cacciatori-raccoglitori lo si vede, per esempio, nell’insorgenza dell’anemia da carenza di ferro causate dalle prime diete a base di cerali: è documentata da inconfondibili segni nelle ossa. La vita sedentaria degli agricoltori lasciava inoltre altre tracce: «le donne di villaggi cerealicoli erano caratterizzate da dita dei piedi ricurve e ginocchia deformate in seguito a lunghe ore passate in ginocchio dondolando avanti e indie-
Arte rupestre risalente al Neolitico, Parco nazionale Tassili n’Ajjer, Sahara, Algeria. (Patrick Gruban)
tro nell’atto di macinare il grano». Nel Neolitico, uomini e donne che cominciarono a dedicarsi ad una vita stanziale, lontana dai gruppi di cacciatoriraccoglitori, si «auto-domesticarono», diventando più piccoli e più deboli. Mentre la narrazione sull’origine della civiltà sembra incoraggiare la convinzione che la nostra specie percorse una linea di progresso ininterrotto, le prove genetiche documentano che lo stile agropastorale fu pernicioso per la salute. Come accadde, allora, che sorsero i primissimi Stati nelle valli del Tigri e dell’Eufrate intorno al 3100 a.C.? I primi Stati nacquero là dove si erano già formati aggregati urbani alla foce dell’Eufrate. Secondo James C. Scott, la teoria secondo la quale le prime comunità furono basate sull’agricoltura irrigua è sbagliata. Per lo studioso è vero invece che le prime e più ampie comunità stanziali fiorirono in prossi-
mità delle terre umide, nella piana alluvionale meridionale della Mesopotamia. Descritto il sorgere dei primi Stati in corrispondenza di queste comunità sviluppatesi nelle ricche piane alluvionali, illustrato lo sviluppo di stratificazioni sociali che liberarono dal lavoro le élite ed i corpi guerrieri istituiti per la loro difesa, sottolineato il ruolo imprescindibile della schiavitù e della corvée per produrre il surplus necessario per il sostentamento di chi non doveva né lavorare, né adoperarsi per cercare cibo, ed esaminata la funzione dei cereali e in particolare del grano per rendere possibile il prelievo fiscale in virtù del quale le élite potevano conservare il potere – James C. Scott tratteggia anche la vita di coloro che stavano di là delle mura che cingevano le prime città-stato; una vita ancora nomade, libera, di uomini e donne che non erano costretti a produrre quanto imposto dalle autorità statali.
Lo Stato antico fu un’istituzione molto fragile. Quando uno Stato antico «cadeva», scomparivano le élite di alto livello, l’attività costruttiva su scala monumentale, l’uso della scrittura ad uso amministrativo e religioso; il commercio su larga scala si riduceva, così come la produzione artigianale per le classi dominanti. Se la tradizionale narrazione scolastica incoraggia a pensare che si trattava di un arretramento rispetto ad una cultura più civilizzata, Scott sostiene che non significava «necessariamente il declino della popolazione di quel territorio», e che in molti casi si trattava anzi di un miglioramento. La «controstoria» di James C. Scott è dunque una rivalutazione dei «tempi bui» succeduti al crollo di città-stato o di civiltà, e una valutazione positiva di tutta l’umanità che viveva, barbaricamente, ai margini della civiltà, libera da una subordinazione coatta ad una autorità.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Ciclisti e pedoni ai ferri corti
Avventure fit
per mancanza di spazio, mentre Pro Velo Svizzera sta per proporre la distanza minima di 1,5 metri ai ciclisti che sorpassano i pedoni
Davide Canavesi
Giorgia Reclari Un ciclista pedala zigzagando fra i pedoni, supera una signora anziana. «Ma fai un po’ attenzione!» gli grida lei stizzita. Lui si volta per risponderle ed è un attimo: il lungo guinzaglio di un cane gli taglia la strada. Frena di colpo, innervosito. Poi riparte ma deve suonare più volte il campanello perché un gruppo di pedoni occupa tutta la pista ciclopedonale. Chiacchierano e si spostano con calma di lato, richiamando un bimbo che stava inseguendo una palla. Lo guardano male mentre li supera e prosegue per la sua strada. È una scena vissuta personalmente in Ticino emblematica della sempre più complicata convivenza fra i vari utenti degli spazi dedicati alla mobilità lenta: pedoni, ciclisti, ma anche guidatori di monopattini elettrici e altri mezzi. Il tema è molto attuale richiede soluzioni sempre più urgenti: secondo i dati pubblicati dall’Ufficio federale di statistica a metà ottobre, dal 2009 (con l’introduzione delle nuove batterie al litio che hanno reso molto attrattive le biciclette elettriche) a oggi le biciclette (comprese le elettriche lente) sono aumentate del 12% in Svizzera. Anche i pedoni e i ciclomotori (che comprendono invece le elettriche veloci) sono in costante crescita. Aumenta la sensibilità ambientale, più persone scelgono mezzi pubblici e le due ruote, private o condivise (ormai alla portata di tutte le gambe, non solo di quelle sportive), ma contemporaneamente diventa sempre più impellente garantire condizioni adeguate a tutti. «Il Ticino rischia davvero di perdere il treno, abbiamo un ritardo ventennale nelle infrastrutture. Questo è il punto critico principale». Ne è convinto Marco Vitali, presidente di Pro Velo Ticino, l’associazione che tutela gli interessi dei ciclisti. Se pedoni e ciclisti sono sempre più spesso ai ferri corti il problema è lo spazio a disposizione, sottolinea. «Si fa tutto al risparmio e le dimensioni delle nuove piste ciclopedonali che si stanno realizzando nel cantone non sono sufficienti». Vitali cita come esempi i progetti di Gudo, la passerella del Ponte di Spada in Val Colla e il percorso Canobbio – Tesserete, «sono progetti molto interessanti ma insufficienti. Così poi si esasperano i conflitti». L’ideale sarebbe separare fisicamente i due tipi di utenti ma visto che spesso non c’è spazio sufficiente per questo tipo di percorsi («in Olanda fanno ciclopedonali di tre corsie!» Fa notare con invidia Vitali) entra in gioco l’altro importante fattore di convivenza, quello educativo. «Occorre maggiore rispetto reciproco, per esempio nel mantenere le distanze». Pro Velo Svizzera proporrà prossimamente l’introduzione a livello
Condividere marciapiedi e passaggi pedonali: non sempre tutto funziona. (Ti-Press)
legislativo della distanza minima di 1,5 metri dal pedone per i ciclisti che sorpassano. «È una regola già in vigore in molti paesi europei come Francia, Spagna e Inghilterra». I conflitti sorgono però spesso in situazioni al limite della legalità: sulle strade molto trafficate senza corsie dedicate, i ciclisti non si sentono sicuri e viaggiano sui marciapiedi (che sono loro vietati se non espressamente indicato con un cartello), irritando i pedoni. Troppi divieti senza alternative sono però controproducenti secondo Vitali. «Non condivido la scelta di Lugano di vietare le zone pedonali ai ciclisti, senza offrire valide alternative. Si dovrebbe fare come nelle città italiane dove le bici sono ammesse. Così ci guadagnano anche esercenti e commercianti». C’è poi la questione della velocità. «Le biciclette elettriche veloci che si muovono tra i pedoni sono davvero pericolose. Dovremo agire sulla sensibilizzazione, ma anche promuovere l’introduzione di limiti di velocità con maggiori controlli, soprattutto nei centri urbani. Vanno colmate lacune nella regolamentazione». Comunque, sottolinea il rappresentante delle due ruote, anche i pedoni devono fare la loro parte nei percorsi condivisi, evitando per esempio di lasciare correre i cani senza guinzaglio o di occupare tutto lo spazio disponibile. E loro, i pedoni che cosa ne pensano? «Il Ticino ha sottovalutato il successo delle biciclette elettriche degli ultimi anni: si è passati da un ciclismo per sportivi e per il tempo libero all’uso della bicicletta per gli spostamenti quotidiani. Ma le infrastrutture sono spesso inadeguate». Anche Jordi Riegg, rappresentante per la Svizzera italiana di Mobilità pedonale svizzera, concorda sull’aumento dei conflitti dovuto alla convivenza forzata. «La realizzazione di nuovi percorsi ciclabili è spesso limitata dalla mancanza di spazio, soprattutto nei centri. Di conseguenza si fa un uso sproporzionato delle
eccezioni, concedendo ai ciclisti di poter transitare sui marciapiedi. Si promuove il traffico lento ma anche i conflitti». Troppi progetti mirano al risparmio di spazio in Ticino: «Per le zone miste è prevista una larghezza ideale di almeno 3,5 metri, mentre in molti casi non si è arrivati a 2,5. È chiaro, si dice ‘meglio che niente’, però così i conflitti aumentano». Sono ancora pochi gli esempi positivi. Riegg cita il rinnovato Viale Cassarate a Lugano, dove l’ampio marciapiede è sufficiente per i vari utenti. «In ogni caso l’ideale sarebbe dividere pedoni e ciclisti con percorsi dedicati». In alternativa si potrebbero aumentare le zone a 30 km/h: le automobili andrebbero meno veloci, i ciclisti si sentirebbero più sicuri e non invaderebbero i marciapiedi, con buona pace dei pedoni. In generale il problema della convivenza fra chi cammina e chi pedala non è vissuto nello stesso modo in tutto il Cantone e si fa sentire in particolare nei centri urbani dove lo spazio è poco. A Lugano, dove ultimamente sono aumentati i controlli in zona pedonale con conseguenti polemiche e accuse reciproche (e contro le autorità), il tema è molto sentito. Se da un lato sono in crescita i conflitti fra i vari tipi di utenti, dall’altro le associazioni che promuovono gli interessi di chi sceglie la mobilità lenta sono unite nelle campagne di sensibilizzazione e nelle battaglie. Lo scorso 13 ottobre a Lugano 250 persone – a piedi e in bicicletta – hanno preso parte alla manifestazione lanciata dall’Associazione traffico e ambiente (ATA), PS, Verdi e altri partiti e associazioni per chiedere una mobilità e una pianificazione del territorio più sostenibili. In contemporanea è stata anche lanciata una petizione. Negli altri centri ticinesi il clima non è così teso ma forse, se non si realizzano le infrastrutture adeguate in tempi brevi, è solo questione di tempo.
aiuta a mantenersi in forma con tanta fantasia
I videogiocatori sono persone pigre e sedentarie. Quante volte questo pensiero ha attraversato la mente di chi videogiocatore non è? In realtà i gamer sono di tutti i tipi e ce ne sono sia sportivi che poltroni. Negli anni diverse produzioni hanno tentato di invogliare i più pigri a fare un po’ di sano movimento. Da Wii Fit ai vari giochi per Xbox Kinect e PlayStation Move, c’è stato un momento in cui i giochi in movimento erano decisamente alla moda. Da quando motion gaming è diventato «sorpassato» però non c’è stato davvero un gioco dedicato al fitness per le masse. Tutto questo è destinato a cambiare con Ring Fit Adventure, un titolo che tenta di unire lo sport ai giochi d’avventura, nella più tipica delle mosse alla Nintendo: con un sacco di fantasia. Ring Fit Adventure, per Nintendo Switch, è un gioco che richiede non solo la console ma anche due periferiche speciali: Ring-Con e Leg-Strap, che troviamo nella confezione. Il primo è il punto focale di tutta l’esperienza: si tratta di un anello da Pilates che dovremo muovere, stringere e tirare per fare esercizio. Ma è più di un semplice anello da esercizi perché si integra con il controller della console, avvalendosi non solo degli accurati giroscopi inseriti da Nintendo per determinarne la posizione nello spazio ma anche della fotocamera a infrarossi per misurare il battito cardiaco. Il secondo accessorio, Leg-Strap, è una sorta di fascia elastica da fissare alla gamba per fornire al gioco informazioni sui nostri movimenti e sulla posizione delle gambe. Una volta bardati di tutto punto potremo lanciarci nell’avventura vera e propria. In passato, con Wii Fit, il giocatore doveva semplicemente seguire degli esercizi guidati. Quello che però mancava era un senso di sfida e una vera «scusa» per farci tornare al gioco ogni giorno. La motivazione, gli sviluppatori di Ring Fit Adventure lo sanno bene, è la componente più complicata di ogni programma d’allentamento. Forse non
2019 Nintendo of Europe
Mobilità lenta Tanti progetti in Ticino sono insufficienti
Videogiochi Nintendo ha creato l’anello che
per coloro che sono già sportivi ma piuttosto per tutti gli altri che, nonostante la buona volontà, non riescono ad allenarsi sul lungo periodo. La risposta di Nintendo è interessante: unire un gioco di fitness ad un’avventura in stile gioco di ruolo. In Ring Fit Adventure dovremo allora attraversare tutta una serie di livelli accompagnati da Ring, una sorta di alter ego virtuale del RingCon che terremo in mano. Ring è stato privato dei suoi poteri da mago degli esercizi dal perfido Drako, un enorme e muscolosissimo drago che si veste in tutina da palestra. Il mostro, come ogni classico cattivone da videogioco, ha deciso di soggiogare il mondo a colpi di squat e addominali e starà a noi fermarlo. Per farlo dovremo percorrere diversi sentieri del mondo di gioco, raccogliendo monete e combattendo contro dei mostriciattoli. Un allenamento tipico di Ring Fit Adventure prevede di correre sul posto, per avanzare fisicamente nel gioco, e diversi tipi di esercizi. Ogni qual volta ci imbatteremo in un nemico dovremo portare a termine una serie di esercizi indirizzati a rafforzare gambe, braccia, addominali e via dicendo. Inizialmente avremo a disposizione solo qualche esercizio che però, proprio come un gioco di ruolo, potremo sostituire con nuovi e migliori. Il gioco ha un sistema piuttosto ingegnoso per farci cambiare tipo di movimenti: più avanziamo nel mondo di gioco e più dovremo scegliere con cura cosa fare in base ai nemici da affrontare. Alcuni mostri saranno più vulnerabili agli squat mentre per altri dovremo fare piegamenti e via dicendo! Ogni esercizio viene sempre accompagnato da spiegazioni a schermo, chiare e semplici da seguire. Dal momento che il gioco sa in che posizione ci troviamo è perfino in grado di correggere posture e movimenti errati. Prima di ogni allenamento ci sarà proposto di fare un po’ di riscaldamento e di adattare l’intensità degli allenamenti in base alle nostre condizioni fisiche attuali. Una volta terminata l’avventura del giorno invece ci sarà proposto di fare un po’ di defaticamento con esercizi di stretching. Volendo è comunque anche possibile fare esercizi e basta, senza seguire la storia principale o addirittura usare l’anello Ring-Con anche a console spenta. Ring Fit Adventure fa un ottimo lavoro nel mantenere il giocatore interessato nelle sfide. Che si tratti dei buffi e bizzarri personaggi che incontreremo nelle nostre avventure sportive (in particolare la signora Tesorina e il signor Patatone), degli scontri coi nemici o della voglia di scoprire quali altre bizzarre avventure a tema sportivo si celano dietro l’angolo. Non è un sostituto ad un vero programma di allenamento fatto in palestra ma di sicuro può essere un buon complemento. Oppure, un timido inizio per le persone più pantofolaie. Annuncio pubblicitario
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Idee e acquisti per la settimana
Il festival delle ostriche
Attualità Dal 20 al 23 novembre i reparti pesce Migros vi invitano a gustare alcune varietà di pregiate ostriche
di provenienza francese Il sapore pronunciato ma al contempo delicato delle ostriche ne fa un piatto per autentici buongustai ed estimatori dei sapori del mare. La Francia ha una grande e lunga tradizione nell’allevamento di ostriche, tant’è che molti considerano i molluschi bivalvi di provenienza francese i migliori al mondo. Fu verso la metà dell’Ottocento che ebbe inizio l’allevamento di ostriche in Francia, poiché lo sfruttamento intensivo dei banchi naturali di molluschi in Normandia e Bretagna aveva compromesso in modo significativo la qualità e quantità delle ostriche disponibili. Ancora oggi gli standard delle varietà commerciali di ostrica sono stati stabiliti dai francesi e riconosciuti anche negli altri paesi. Ostriche alla Migros
Questa settimana ai banchi del pesce Migros e nelle maggiori filiali troverete alcune apprezzate varietà di ostriche francesi. Le «MarennesOléron» sono molluschi affinati fino a 4 settimane nei «claire», degli speciali bacini di acqua dolce argillosi ricchi di sostanze nutritive. Le particolari condizioni ambientali che si creano in questi bacini permettono di ottenere delle ostriche particolarmente polpose. «Le Marennes Label Rouge» sono delle ostriche di alta gamma, fiore all’occhiello dell’ostricoltura francese. I molluschi vengono allevati nei claire a bassissima densità, massimo cinque per metro quadrato, dove restano, alimentati dalle maree, per un periodo che va da quattro a otto mesi. Durante questo lasso di tempo, l’ostrica sviluppa una polpa ricca e una consistenza croccante, come pure un sapore pronunciato e persistente in bocca. Le ostriche «Pléiades Poget» sono allevate tra la Normandia e la Charente. Sono molluschi di taglia media, risultato della transumanza tra la regione della Charente Marittima, dove nascono, e la spiaggia di Utah Beach in Norman-
Azione 20%
su tutto l’assortimento di ostriche dal 20 al 23.11
dia, dove le acque più dolci ne favoriscono la crescita per un periodo da sei a dodici mesi, per poi ritornare nella Charente per un ultimo affinamento di tre o più settimane. La sua forma regolare, il colore madreperla, la carne soda e croccante, come pure il sapore equilibrato tra iodato e dolce, ne fanno un
prodotto imprescindibile tra agli estimatori delle ostriche. Come gustarle
Le ostriche si consumano perlopiù crude e vanno aperte solo al momento di gustarle, con l’ausilio dell’apposito coltello da ostriche, inserendo quest’ultimo
nella cerniera delle valve e, con mano ferma, effettuando un deciso movimento a torsione in modo che i due gusci di stacchino l’uno dall’altro. Eliminare quindi la valva superiore. Si può proteggere la mano che regge l’ostrica con un asciugamano, poiché i gusci sono molto taglienti. Per il servizio posizionare le
ostriche su un letto di ghiaccio tritato e portarle in tavola, accompagnandole à côté con delle fettine di limone, del pane bianco o scuro, riccioli di burro, pepe macinato di fresco o due gocce di tabasco. Si usa gustarle anche con una salsina a base di scalogno tritato mescolato con aceto di vino, pepe e sale.
I datteri Medjool Spezzatino: un grande classico della cucina invernale freschi Attualità Un’intramontabile pietanza gustosa e facile da preparare
Azione 30% Spezzatino di manzo TerraSuisse Svizzera, imballato per 100 g Fr. 2.35 invece di 3.40
Coloro che desiderano portare in tavola un piatto di carne tradizionale, saporito e tenero al punto giusto, sanno che possono fare affidamento sull’ottima carne di manzo di qualità TerraSuisse. Questo marchio della Migros, che si rifà pienamente le direttive di IP-Suisse, garan-
tisce che gli animali siano allevati in un sistema di stabulazione particolarmente rispettoso, in stalle spaziose e con uscite regolari all’aperto. Questi e altri severi criteri sono garanzia di carne svizzera della migliore qualità. Una carne ottima tra l’altro per preparare un succulen-
to spezzatino. Questo taglio, ottenuto dalla spalla o dalla schiena del bovino, è ideale per essere stufato a lungo a fuoco lento. Inoltre risulta particolarmente conveniente rispetto ad altri tagli più nobili del manzo. Un’appetitosa ricetta del momento, potrebbe essere per esempio il manzo alla borgognona, la variante francese del nostro più classico spezzatino. Per 4 persone pelare e affettare finemente 2 cipolle e tagliare a rondelle 2 carote. Scaldare del burro in una pentola e dorare le cipolle e 200 g di pancetta. Aggiungere 1 kg di spezzatino e rosolare brevemente la carne. Condire con del pepe e bagnare con una bottiglia di vino rosso. Aggiungere le carote, un bouquet di erbette aromatiche e uno spicchio d’aglio pelato. Coprire e stufare a fuoco basso per almeno due ore. Tagliare a fettine 200 g di funghi champignon, farli saltare in padella e aggiungerli alla carne 15 minuti prima della fine della cottura insieme a un cucchiaio di concentrato di pomodoro. Eliminare il bouquet di erbe e servire.
Attualità Un dolce piacere direttamente
dagli Stati Uniti
I datteri Medjool sono mediamente tre volte più grandi rispetto alle altre varietà di dattero. Originari del Marocco, le loro palme furono portate negli Stati Uniti negli anni Venti del secolo scorso trovando in alcune regioni, tra cui il sud della California, l’Arizona e la Florida, le condizioni climatiche ideali per il loro sviluppo. I frutti si caratterizzano per il loro sapore delicatamente zuccherato, che ricorda il caramello, e la consistenza morbida e gommosa. La stagione della raccolta si concentra tra agosto e ottobre. Oltre ad essere buoni, contengono pure importanti elementi nutritivi, tra cui vitamine del gruppo B, calcio, potassio, magnesio e ferro. Una curiosità: molte persone associano i datteri alla frutta secca. I datteri freschi vengono invece raccolti direttamente dalla palma da datteri, puliti e, dopo una cernita accurata, immediatamente confezionati. Non subiscono nessun processo fisico o chimico di essiccazione. Per questo
motivo, una volta acquistati, i datteri freschi Medjool andrebbero conservati in un luogo fresco e secco e consumati entro breve tempo, poiché tendono a diventare secchi rapidamente. I deliziosi frutti saranno in vendita da domani ad un prezzo particolarmente vantaggioso presso il vostro reparto frutta Migros di fiducia.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Idee e acquisti per la settimana
Dolci idee per le Feste
Novità Impossibile resistere alla tentazione di gustare i due nuovi prodotti firmati Maina
Panettone Cereali e Uvetta Maina 750 g Fr. 9.90
Il marchio piemontese Maina, tra i leader in Italia nel settore dei prodotti da pasticceria per le festività, è presente sugli scaffali di Migros Ticino con diversi prodotti per ogni gusto e occasione. Accanto ai tradizionali Gran Pandoro e Gran Panettone, la selezione include anche specialità particolarmente golose e originali come il Panettone al Cioccolato, il Gran Nocciolato, il Panettone Tiramisù, il Gran Panettone senza canditi, il Tutti Frutti con frutta esotica e il Panettone cioccolato & Pera. Quest’anno l’assortimento Maina di Migros Ticino si arricchisce ulteriormente, grazie all’arrivo del Panettone Cereali e Uvetta e del Panettone senza lattosio. Il primo, preparato secondo
una ricetta originale che gli conferisce un impasto straordinariamente soffice, è arricchito con una miscela di semi di lino chiaro, girasole, miglio, nonché fiocchi di segale, avena e, dulcis in fundo, sfiziosa uvetta. Il panettone viene lasciato lievitare naturalmente per oltre due giorni con l’utilizzo di solo lievito madre e raffreddato come da tradizione a testa in giù per più di otto ore. Il Panettone senza lattosio, dal canto suo, è dedicato a chi è intollerante a questa sostanza ma non vuole certo rinunciare al piacere di un prodotto festivo di qualità. Lievitato naturalmente e arricchito con profumati canditi e gustosa uvetta sultanina, è realizzato nel pieno rispetto del disciplinare per i prodotti privi di lattosio.
Fotografare e filmare con lo smartphone
«La camera migliore è quella a portata di mano» – un’istantanea della famiglia, dei bambini o degli amici, una foto o un video di una gita in montagna o di una vacanza in città – la fotocamera dello smartphone è sempre disponibile ed è una delle funzioni più usate. Vale la pena prendersi il tempo necessario per cogliere i momenti migliori. Ci sono diversi accorgimenti, spesso molto semplici, per presentare un motivo nel migliore dei modi. Ecco qui di seguito alcuni suggerimenti di Swisscom Academy per ottenere buoni risultati fotografando e filmando con lo smartphone. 1. Pulire la lente della fotocamera prima dell’uso, dato che sullo smartphone non è protetta da un copriobiettivo. Si evitano così le immagini scure o sfocate. 2. Mentre si fotografa o si filma, tenere
lo smartphone preferibilmente con entrambe le mani, appoggiando le braccia su una superficie fissa. In questo modo lo smartphone è più stabile e si evitano le immagini mosse. 3. Disattivare il flash e impostare invece la luminosità della camera e la funzione «HDR» (per es. per il controluce). Si otterranno immagini dai colori più vividi e più ricche di contrasto, poiché lo smartphone adegua l’esposizione. 4. Attivare la griglia della fotocamera: applicando la regola dei terzi al soggetto da fotografare, le immagini diventano più interessanti e risulteranno al tempo stesso più dinamiche e armoniose. 5. Mentre si fotografa o si filma, cambiare la posizione della camera in modo da riprendere il soggetto da diverse prospettive. Si potrà così comporre l’immagine e ottenere un effetto ottimale.
Filmare e fotografare I consigli Swisscom Academy
Desideri approfondire questi e altri suggerimenti per fotografare e filmare con lo smartphone? I corsi «Foto professionali con lo smartphone», «Presentare foto» e «Filmare con lo smartphone» tenuti dai nostri formatori offrono ai partecipanti la possibilità di provare diverse funzioni, impostazioni e prospettive che permetteranno loro di migliorare le foto e i video. Si impara inoltre a usare le app per elaborare immagini o creare video e per presentare efficacemente le immagini e i video più belli. Informazioni e iscrizioni: www.swisscom.ch/academy Numero gratuito: 0800 33 55 77
Illustrazione: Vectorstock; Foto: zVg
Panettone Senza Lattosio Maina 750 g Fr. 9.90
Carmen Lüthi Formatrice Swisscom Academy
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Società e Territorio
Ageismo, una realtà da conoscere
Anziani Christian Maggiori, professore a Friburgo, spiega come si manifesta nella nostra società questa forma
di discriminazione legata all’età, spesso ancora poco percepita anche da parte delle vittime Stefania Hubmann È una parola ancora poco diffusa in italiano, un concetto che sfugge ai più, ma sul quale si concentra un’attenzione crescente. Si tratta dell’ageismo, definito come una forma di pregiudizio e discriminazione ai danni di un individuo in ragione della sua età. In particolare viene utilizzato per definire comportamenti che svalorizzano le persone anziane. Comportamenti sovente animati da buone intenzioni e di cui le vittime non sempre sono consapevoli. Tuttavia gli studi a livello svizzero ed europeo dimostrano che questa forma di discriminazione esiste e supera in percentuale altre assai più note come razzismo e sessismo. Per evitare che la popolazione anziana, in forte crescita, si senta discriminata, occorre puntare sulla sensibilizzazione ponendo l’accento sull’infanzia. A promuovere questo approccio è Christian Maggiori, psicologo e professore alla Haute école de travail social di Friburgo, che studia il fenomeno da diversi anni. Ospite lo scorso settembre del Centro competenze anziani della SUPSI per una conferenza, il prof. Maggiori svela come si manifesta l’ageismo nella nostra società e come può essere contrastato. Sebbene sia entrato nel dizionario Treccani solo tre anni fa, ageismo – dall’inglese ageism a sua volta composto da age (età) e dal suffisso ism – è un termine che risale alla fine degli anni Sessanta. Fu coniato nel 1969 dallo psichiatra e geriatra statunitense Robert Butler proprio in analogia e assonanza con razzismo e sessismo. Diversamente da questi fenomeni tende però a manifestarsi in maniera poco eclatante e quindi emerge con maggiore difficoltà. Nei Paesi anglofoni è una realtà più conosciuta, come dimostra il suo impiego anche nei titoli dei giornali, ad esempio per il licenziamento di una segretaria. Quali gli esempi nella nostra vita quotidiana? Chi discrimina e chi è vittima dell’ageismo? Risponde Christian Maggiori: «L’ageismo si manifesta a vari livelli della società. Nella comunicazione notiamo pubblicità e titoli che veicolano una visione negativa dell’anziano in contrapposizione all’immagine positiva dei giovani. Sul piano individuale, i
Molte persone in età pensionabile si sentono svantaggiate nel ricevere assistenza sanitaria. (Marka)
familiari e i professionisti chiamati ad interagire con le persone anziane tendono ad assumere, seppure involontariamente, comportamenti poco rispettosi. Parlare alla persona anziana come a un bambino, rispondere al suo posto, compiere azioni in sua vece, sono forme di svalorizzazione. Nella maggior parte dei casi sono però considerati comportamenti normali, per cui gli stessi anziani non sempre li percepiscono come una forma di discriminazione». Le ricerche scientifiche dedicate all’ageismo forniscono dati che confermano la sua importanza. L’inchiesta sociale European Social Survey, condotta nel 2008 in 28 Paesi europei compresa la Svizzera, ha evidenziato che nelle persone con più di 65 anni il sentimento di essere vittima di ageismo è percepito dal 34% degli intervistati, mentre il sessismo dal 19% e il razzismo dal 14%. Spiega il nostro interlocutore: «I dati sono stati raccolti attraverso un questionario volto a sondare la percezione degli anziani. Abbiamo condotto nel 2017 un’indagine analoga nella Svizze-
ra romanda (Âgisme et décisions fin de vie) che conferma la proporzione di un anziano su tre che si sente discriminato a causa dell’età. L’ageismo vissuto sale all’80,2% quando all’anziano si sottopongono situazioni specifiche, come il sentirsi dire che racconta sempre le stesse cose, che è lento, o ancora il percepire di essere trattato come fosse un bambino. Quest’ultima forma di ageismo, l’infantilizzazione, è tra le più diffuse assieme alla banalizzazione e all’accondiscendenza. Esiste quindi una discriminazione esplicita, più rara (20,8%) e più facilmente percepibile da ambo le parti, e una implicita (40,3%) che contribuisce a rendere il fenomeno per lo più ignorato o comunque tollerato». Ricercatori e operatori del settore sociale sono invece consapevoli dell’importanza della portata del fenomeno e del ruolo che esso potrà giocare nel prossimo futuro con l’invecchiamento della popolazione. Lo scorso 1. ottobre Pro Senectute Svizzera ha diffuso i risultati di un sondaggio rappresentativo commissionato per appurare
se le persone di tutte le età (fra i 18 e i 99 anni) nelle diverse regioni del Paese si sentano penalizzate. L’inchiesta, pure incentrata sulla percezione degli intervistati, offre nell’insieme un quadro rassicurante, evidenziando però sensazioni diverse sui quattro temi indagati – accesso alle informazioni, assistenza sanitaria, ricerca di un impiego, accesso a iniziative per il tempo libero – a dipendenza delle fasce d’età. Risulta ad esempio che una persona su dieci in età pensionabile si sente svantaggiata nel ricevere assistenza sanitaria. Tra i fattori penalizzanti vengono citati i costi, il non essere presi sul serio in fase di diagnosi e l’impressione di non poter accedere ad alcuni trattamenti unicamente per motivi di età. Il prof. Maggiori conferma che l’accesso alle cure è uno degli ambiti a rischio di discriminazione per le persone anziane, richiamando però l’attenzione su altre importanti fonti di ageismo come la famiglia e i media. In questi casi l’impatto è quotidiano anche se meno percepibile. L’insieme
dei campi nei quali si manifesta l’ageismo comporta un’influenza non irrilevante sulla persona a livello di salute, benessere e partecipazione alla vita sociale. Di qui l’esigenza di contrastare il fenomeno. Nelle conclusioni del sondaggio Pro Senectute sottolinea «l’importanza di promuovere la diffusione di un’immagine positiva della terza età». Un’immagine che si costruisce sin dall’infanzia. A fine 2018 il prof. Maggiori ha ricevuto dalla Fondazione Leenaards un fondo (Premio età e società) per uno studio esplorativo sul tema della sensibilizzazione all’ageismo nelle scuole. «Dopo aver appurato l’interesse da parte del mondo scolastico – precisa al riguardo – stiamo avviando la seconda fase composta da una serie di progetti paralleli. Cito il caso di un Comune della Gruyère, dove gli allievi delle scuole elementari dovranno interpellare alcuni anziani per risolvere gli enigmi di un escape game legato al villaggio. Lavoriamo con gli anziani per gli anziani, riscontrando interesse e desiderio di partecipazione». Stereotipi e pregiudizi vengono integrati fin dall’infanzia, per cui è necessario iniziare le azioni di sensibilizzazione molto presto. Aggiunge il nostro interlocutore: «Una volta sviluppati certi automatismi, eliminarli è difficile, ma grazie alla consapevolezza si può riuscire a controllarli. Sensibilizzare i bambini di oggi significa agire sugli adulti di domani e sugli anziani di dopodomani. Ciò permetterà loro nella terza e quarta età di capire meglio quando saranno penalizzati e di conseguenza di far valere i loro diritti». L’ageismo è una realtà sociale con la quale è necessario confrontarsi, affinché stereotipi, pregiudizi e discriminazioni legati all’età, sia essa avanzata o meno, siano riconosciuti e compresi. Per Christian Maggiori si tratta di affrontare la questione nella giusta prospettiva: chiedersi quando e come si rischia di comportarsi da ageista piuttosto che tentare di smentire di esserlo. Informazioni sul sondaggio di Pro Senectute Svizzera
www.prosenectute.ch
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Società e Territorio
La giornata di Giulio può cambiare
Infanzia Per festeggiare il trentesimo anniversario della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo sono previsti
molti eventi in tutto il cantone, tra questi lo spettacolo della Compagnia UHT Valentina Grignoli «Che il teatro possa aiutarci a costruire il nostro futuro invece di aspettarlo» diceva Augusto Boal, regista brasiliano. Da qui prende spunto l’idea di questo articolo, che vede uniti il teatro e i diritti dell’infanzia. Il prossimo 20 novembre si festeggia infatti il trentesimo dalla nascita della Convenzione ONU dei diritti del fanciullo, ratificata in Svizzera solo nel 1997. Si parla di diritto alla vita, all’identità, alla cittadinanza, alla famiglia, a un ambiente sano, alla salute, all’uguaglianza, all’educazione, al gioco, per citare alcuni tra i 54 articoli. L’Ufficio del sostegno a enti e attività per le famiglie e i giovani del DSS ha organizzato per l’occasione, insieme a diversi partner del territorio, una serie di eventi che ha preso il via il primo settembre scorso e che costellerà tutto l’anno scolastico e oltre. Si tratta della campagna «30 e + eventi per il trentesimo della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo» e lo scopo è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica poiché seppure oggi numerosi diritti vengano garantiti, c’è ancora margine di miglioramento (informazioni sul sito www.gruppo20novembre.ch). Raccontiamo questo compleanno attraverso uno spettacolo di teatro particolare Stai zitto… diritto!, in scena al Teatro Foce questo mercoledì, 20 novembre, alle ore 16.00. Un Teatro Forum sui diritti dei bambini, uno spettacolo interattivo a cura della Compagnia UHT, che propone un momento di riflessione condivisa dove gli spettatori (bambini, genitori e insegnanti) possono diventare protagonisti partecipando attivamente allo svolgersi delle vicende messe in scena. Il Teatro Forum è uno dei metodi del Teatro dell’oppresso (TDO), ideato da Augusto Boal. Si basa sulla relazione tra oppresso e oppressore, e racconta le dinamiche che intercorrono tra i due. Un metodo che nasce in America latina negli anni ’70 per dare voce a gruppi minoritari e marginalizzati attraverso il dibattito:Ma di cosa si tratta esattamente? Cosa si intende con Teatro Forum? E cosa ha a che fare con la Convenzione? Lo abbiamo chiesto direttamente a Prisca Mornaghini e Antonello Cecchinato dell’Associazione Giullari di Gulliver, che dal 2009 si occupano di Teatro Forum nella Svizzera italiana con la compagnia UHT.
Come vi siete avvicinati, Prisca e Antonello, a questo tipo di teatro?
10 anni fa, Les Caméléons, un gruppo romando che da tempo si dedica al TDO ci ha chiesto di collaborare, in quanto ticinesi, a uno spettacolo su commissione di Pro Senectute. Di questo gruppo faceva parte anche Sissy Lou Mordasini (autrice tra le altre cose di Stai zitto…diritto!, si è formata a Parigi al metodo del Teatro Forum con Augusto Boal, ndr.). È arrivata a noi, e così abbiamo creato il primo spettacolo sul maltrattamento nelle case per anziani.
Gli attori della compagnia sono tutti professionisti (Giullari di Gulliver e Progetto Brockenhaus) attivi anche in ambito socio-educativo e sanitario, e quasi sempre gli spettacoli sono commissionati da enti regionali come, appunto, Pro Senectute, Pro Infirmis, il DECS. Si tratta di spettacoli sempre inseriti in una formazione. Servono come spunti su temi specifici, aprono discussioni importanti. E Stai zitto… diritto!?
Questo è l’unico che non è stato commissionato, che abbiamo deciso di creare noi. Ne abbiamo parlato con Sissy Lou, che si è sempre occupata della regia e della formazione per i nostri Teatri Forum, ed è nata l’idea di uno spettacolo sui diritti per l’infanzia. Sissy Lou Mordasini, ha messo a disposizione un testo al quale la compagnia ha aderito con interesse. È dai diritti umani che nasce tutto. Se cominci a mettere queste basi si può fare molto. Vorresti sempre fare qualcosa che sia utile, sensato, ma non sai mai da che parte cominciare. Partire dalla base è la cosa migliore! Cosa significa avere un testo dello spettacolo quando è poi il pubblico a intervenire?
Si parte sempre da un copione. Si rappresenta una storia, suddivisa. Nel caso di Stai zitto si assiste alla giornata di Giulio, 9 anni, attraverso quattro scene che rappresentano diversi momenti. Gli attori le preparano, con il pensiero già proiettato verso quello che potrà avvenire con le interazioni del pubblico.
Come si svolge?
Per la prima mezz’ora tutti assistono quello che noi chiamiamo Il modello della storia. Ci sono tre attori e il Joker (solitamente Prisca Mornaghini) che fa da tramite con il pubblico: introduce,
Lo spettacolo che andrà in scena mercoledì 20 novembre al Teatro Foce è un momento di riflessione condivisa.
spiega cosa succederà e cosa si deve fare. Dopo aver mostrato il Modello gli attori faranno la stessa cosa ma il pubblico sa che potrà interrompere la scena appena vedrà qualcosa che gli dà fastidio, che trova sbagliato o ingiusto alzando la mano. Quando succede il Joker interrompe la scena e chiede cosa farebbe per cambiare la situazione, cosa non va bene e perché. La persona viene quindi invitata a prendere il posto di uno dei personaggi. Attenzione però, una regola importante del Teatro Forum è che non si può andare a sostituire l’oppressore. Nella prima scena per esempio c’è un bambino con sua madre. Lui non riesce a farsi ascoltare dalla mamma, troppo occupata. Ha bisogno di una firma. Noi non facciamo sostituire lei: sarebbe troppo facile, magico, ovvio che lo ascolterebbe. Ma se tu bambino ti trovi di fronte a ciò, cosa puoi fare per farti ascoltare? Questo è l’interessante. E poi la mamma non è cattiva, è semplicemente
presa dalle mille cose che ha da fare. È oppressa a sua volta.
Avete identificato alcuni diritti dell’infanzia particolari in questo spettacolo?
Ne tocchiamo diversi. Si tratta però di diritti che è importante ribadire da noi, dove per fortuna possiamo darne per scontati parecchi.
Gli spettacoli durano un’ora e mezza, e si concludono con le interviste ai personaggi, chiamati dal Joker per raccontare che cosa hanno imparato, che cosa ricorderanno di quello che hanno vissuto in quella specifica rappresentazione. Gli attori fanno riferimento a come il personaggio si è sentito, cosa lo ha colpito...
È bello perché può essere molto divertente, anche se le riflessioni sono piuttosto toste. I bambini si trovano nel momento, nell’azione. Viene fuori in modo più spontaneo quello che pensano si potrebbe fare, senza ragionarci troppo sopra.
La nostra storia modello va sempre a finire male, se non si cambia niente. Gli interventi modificano solo le singole scene, ma poi si torna sempre al modello. Una domanda che ci si pone, interessante, è anche: fino a quando posso cambiare? Anche solo alla fine?
Voi siete attori, ma questo funziona anche nella vostra vita pratica, in situazioni di conflitto magari coi vostri figli?
Nella vita è un po’ più difficile! Gli interventi che si fanno all’attore in scena hanno lo scopo di cercare di mandare la questione il più lontano possibile. Il Teatro Forum serve per aprire domande, non per dare soluzioni o risposte. A portare la riflessione più in là. Ci abbiamo provato, nella vita reale, ma non c’è abbastanza distacco! Informazioni
www.teatroforum.ch
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Bart Moeyaert, Bianca, Sinnos. Da 11 anni «Il linguaggio condensato e musicale di Bart Moeyaert vibra di emozioni trattenute e desideri inespressi (...).» Sono alcune delle parole che la giuria dell’Astrid Lindgren Memorial Award ha utilizzato quest’anno per conferire il prestigioso riconoscimento all’autore fiammingo, presente con i suoi romanzi tradotti in italiano soprattutto nel catalogo dell’editore Sinnos, che – dopo Il Club della via Lattea (2016) e Mangia la foglia (2018) – pubblica ora Bianca, schietto resoconto di ordinarie giornate familiari, scritto al presente e in prima persona dalla dodicenne protagonista, con tutte le sue preadolescenziali contraddizioni nonché stati d’animo in altalena. E appunto, come notava la giuria del Premio nella sua motivazione, un pregio del linguaggio di Moeyaert in questo libro è proprio quella sua capacità di far trasparire, senza ostentarlo, anche tutto il delicato «non detto» emozionale, che la stessa protagonista a volte fatica a comprendere, perché alla sua età non è sempre facile capire
il mondo, e men che meno se stessi. Alla sua età occorrono, come sottolinea la sua stanca mamma – provata dal dover gestire come genitore single una preadolescente e un bimbo dalla salute precaria – delle «istruzioni per l’uso», ma Bianca sa che nelle sue «c’è scritto che a volte sono molto contenta, ma che non sempre lo do a vedere». A volte è la rabbia, per quan-
to repressa, a prevalere (come peraltro mostra anche la bella copertina), soprattutto per quel fratellino delicato a cui vanno tutte le attenzioni, per quei soldi che non sono tanti, per il papà separato che, con la sua nuova compagna, la trova «intrattabile», e vorrebbe dilazionare maggiormente i weekend in cui prenderla in affido. Fulcro delle vicende è l’arrivo, per una merenda pomeridiana, di un amichetto del fratellino, la cui mamma è nientemeno che l’attrice protagonista della sua serie televisiva preferita. Lo sguardo di Bianca sulle mamme e sui bambini è acuto, lei osserva e si sente a sua volta osservata, riflette sulla vita fantastica e su quella reale, conquista più saggezza, e forse più serenità. Oltre al coraggio per fare una cosa difficile, ossia chiedere scusa. Infatti il sottotitolo del romanzo è «Nessuno chiede scusa per caso». Il castoro, l’uovo e la gallina, Minibombo. Da 3 anni L’efficace essenzialità delle loro belle copertine mette in risalto il titolo e un dettaglio cruciale della storia, così
che il lettore entra subito nell’atmosfera delle vicende, in questo caso perfettamente sintetizzate da un uovo (misterioso, così isolato) e dal fogliame. Perché di questo si tratterà, di un uovo al limitare del bosco. Un uovo che un riccio affannato deposita vicino a un castoro, che dorme su un sasso, dicendogli di tenerlo d’occhio e di non darlo «per nulla al mondo» alla gallina. Riccio avverte Scoiattolo, che a sua volta arriva lì di corsa e ripete l’avvertimento al castoro dormiente, poi a sua volta va ad av-
vertire Alce, che avverte Coniglio... In un contrasto divertentissimo tra la dinamicità concitata degli animali che vanno e vengono e l’imperturbabilità assonnata di Castoro, che ogni volta si sveglia di colpo quando l’animale di turno urla le parole «... devi darlo alla gallina», senza cogliere però tutto ciò che precede, e cioè «Per nulla al mondo...». E quindi, ahimè, il distratto castoro lo andrà a dare proprio alla gallina! L’iterarsi giocoso della formula Per nulla al mondo devi darlo alla gallina incrementa il divertimento nella lettura ad alta voce in dialogo con il bambino, la sequenza Riccio lo dice a Scoiattolo che lo dice a... permette ai piccoli di fare previsioni sul susseguirsi delle vicende, preservando però il mistero sull’uovo: perché mai non bisognerà darlo alla gallina? La soluzione arriverà alla fine, scanzonata e sorprendente, come sempre nell’umoristica freschezza dell’équipe Minibombo. Quest’albo segna l’esordio come autrice di Eva Francescutto, la quale ha affiancato le «veterane» Chiara Vignocchi e Silvia Borando.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi I gusti dell’Altro Fra le poche allocuzioni di quel latino che ha tenuto banco globale fino a pochi decenni fa che ancora circola urbi et orbi specie in questi tempi di rinnovato interesse per le questioni gastronomiche, vi è quella che sancisce un democratico – per non dire populista – consenso attorno al fatto che i gusti alimentari siano questione prettamente soggettiva. Questo impone ai ristoratori di attrezzarsi con un menù appetibile a tutti i palati. Ma implica anche – d’altro canto e ben più minacciosamente – giudizi e prese di posizione pesantissime riguardo ai gusti dell’Altro. Attorno alle abitudini alimentari si affollano prese di posizione, pregiudizi, anatemi e proscrizioni predicate sulla base di fatti (o meglio ricette) veri o presunti – tutte comunque volte a screditare, condannare ed additare l’Altro in quanto praticante diete men che umane. Chi scrive ricorda ancora come, da bambino cresciuto in una pianura padana dove Peppone e Don Camillo uscivano sovente dallo schermo per frequentare chiese ed oste-
rie, si sussurrava in certi ambienti che «i Comunisti» mangiassero i bambini, pregiudizio ammetterete piuttosto grave se non fosse che… ma procediamo con ordine. Correva il 1943 e negli ambienti della Repubblica Sociale di Salò cominciavano a serpeggiare sfiducia e sconforto per le sorti belliche che si mettevano di male in peggio. I partigiani – identificati tout court coi «comunisti» – intensificavano le loro azioni dietro le linee del fronte e l’Armata Rossa marciava a grandi passi verso l’Occidente. Ad un certo punto cominciò a diffondersi presso una popolazione stremata dalla guerra ed ormai ridotta alla fame che un numero consistente di bambini di età compresa fra i quattro e i quattordici anni venivano rapiti e mandati in Unione Sovietica per sopperire ai bisogni alimentari dei soldati affamati. La credenza era cresciuta sulla base delle prime per quanto incerte notizie su casi di cannibalismo effettivamente accaduti durante le terribili carestie causate, specie in Ucraina, dal piano
di collettivizzazione dell’agricoltura voluto da Stalin negli anni Venti e Trenta, laddove durante i 900 giorni d’assedio di Leningrado si arrivò ad effettuare fino a mille arresti al mese per antropofagia. Fin qui – diremmo – ahimè niente di nuovo. Uno studio accademico recente sulla pratica storica del dantesco «fiero pasto» documenta come – al di là di episodi conclamati e clamorosi come quello dei naufraghi dell’Essex, la baleniera che nel 1820 ispirò il Moby Dick di Melville – episodi di cannibalismo ricorrevano in tutta Europa in occasione di carestie ed altre calamità quando – per dirla con Dante «più del dolor potè il digiuno». Fatto sta che il governo della Repubblica Sociale finanziò una campagna di manifesti sui quali compariva un infante in pannolini in atto di implorare «Papà salvami!» mentre alle sue spalle incombono minacciose una falce ed un martello. Difficile dire se le autorità fasciste fossero al corrente di stare impiegando un mezzo consacrato da tempo per gettare discredito sui propri oppositori.
Disumanizzare l’Altro accusandolo di pratiche alimentari abominevoli è stato infatti motivo ricorrente di persecuzione. In Europa soprattutto contro gli ebrei. Il 16 novembre 1491, sulla pubblica piazza di La Guardia, vicino ad Avila, in Spagna, un numero imprecisato di ebrei furono sottoposti ad un auto-da-fé e successivamente giustiziati. Fra di loro vi era un certo Benito Garcìa, un ebreo convertito reo confesso di aver ucciso un bambino cristiano per scopi rituali. Il corpo del bambino non era stato trovato e addirittura non vi era evidenza certa che un bambino fosse stato effettivamente rapito. Non solo: la storiografia moderna ne ha messo in dubbio persino l’esistenza. Il caso è stato definito da un’antropologa americana come «il peggior caso di falsa accusa d’omicidio della storia», ma ciò non ha impedito che attorno al martire fantasma sia fiorito il culto del Santo Bambino di La Guardia che dura ancor oggi. L’intero episodio ruota attorno alla leggenda che cominciò a diffondersi a partire
dall’Europa Orientale quando, nel XIII secolo, prese corpo giuridico e legale il pregiudizio antisemita che fece partire, legittimandola, la persecuzione degli ebrei in Europa. Si diceva infatti che, ai fini di celebrare la Pasqua ebraica, occorresse impastare certi dolci rituali con un’ostia consacrata ed il sangue di un bambino cristiano torturato e crocifisso come Gesù Cristo. La credenza trovò ben presto conferma in una serie di processi che fecero fiorire il culto dei Santi Bambini martirizzati per celebrare il Pesach ebraico. Per quanto l’Enciclopedia Cattolica abbia definito già nel 1912 l’evento «una delle più notevoli e disastrose menzogne della storia» sta di fatto che l’Archidiocesi di Madrid ha rivendicato la verità dei fatti ancora nel 2016. E i Comunisti? Ricordo come una certa mia anziana parente, sfegatata anticomunista, ammettesse che si fosse in effetti esagerato. «I Comunisti non mangiano i bambini – ammise – mangiano il dentifricio». Che Dio l’abbia in gloria.
gradimento. Si prenda il tempo che le serve per leggere il Menù e scelga preferibilmente piatti che già conosce, senza preoccuparsi del costo. È probabile che il cameriere, nei momenti di pausa, venga a scambiare quattro chiacchiere con lei: le farà compagnia. Può accadere anche che qualche singolo o singola, trovandosi nella stessa situazione, senta una certa affinità e cerchi di far conversazione. Quando si assume un atteggiamento cordiale, la solitudine non dura molto. Se ha gradito le portate, può anche esprimere un commento positivo che, accompagnato da una buona mancia, propizierà il suo ritorno. In ogni caso, consideri questa «prova» la prima mossa sulla scacchiera della vita che lei sta riorganizzando. In questi casi però, lo so per esperienza, non basta fare da sole, è molto importante chiedere l’aiuto degli altri, trovare delle amiche, sentirsi parte di un gruppo, stabilire un calendario d’incontri e un luogo cui fare riferimento. Per fortuna una cara lettrice ci ha inviato, proprio
in questi giorni, una proposta molto interessante per lei, per la signora Gabriella (vedi «Azione» del 29.7.2019) e per tante altre lettrici: «Buongiorno Signora Vegetti, sono anch’io un’assidua frequentatrice de “La stanza del dialogo”. È così che sono venuta a conoscenza dei gruppi di auto-aiuto. E proprio in queste settimane stiamo lavorando alla costituzione di un nuovo gruppo: “Vivere da sole nell’anzianità”. Tramite la Conferenza del volontariato sociale e sotto l’egida di AvaEva abbiamo preparato un progetto. Ho imparato che nei gruppi di auto-aiuto non avvengono miracoli, però come sono utili! Le auguro ogni bene.... ah, che belle le piccole cose! Giovanna».
nel caso dell’uomo coi sacchetti di plastica, sembrava impersonare un classico del repertorio: il protagonista di una scelta di libertà, uno che ha il coraggio di rompere i legami con ogni forma d’obbligo. Coltivando, a volte, una vena creativa che, nelle metropoli, trova, ovviamente, il clima più favorevole. Ma anche le piazze, i portici, gli autosili luganesi, con il relativo consenso delle autorità, offrono ospitalità ai cosiddetti artisti di strada e ai senzatetto, categoria, quest’ultima, che in una città svizzera pare addirittura inverosimile. Invece, vivacchia e sopravvive persino a Zurigo, dove ha incuriosito Martin Suter, che, nel suo ultimo romanzo Creature luminose (Sellerio) li descrive con affettuosa ironia. In fin dei conti, nella nostra efficiente capitale finanziaria, aprono una parentesi di fantasioso disordine. Ciò che, del resto, coincide con l’in-
terpretazione corrente del fenomeno homeless: considerato una reazione, per così dire logica, alle regole di una società, accaparrata dall’obiettivo del successo economico e professionale. Si tratta, in definitiva, di una scelta a suo modo riabilitativa da parte di un individualista che va per la sua strada. Sempre che, e qui sta l’interrogativo di fondo, si tratti di una scelta libera e non subita. In altre parole, il senzatetto o barbone o clochard non è sempre uno che ha voluto esserlo, bensì la vittima di una situazione che l’ha travolto. In proposito si alzano voci d’allarme. Su «Repubblica», giorni fa Federico Rampini denunciava «l’emergenza homeless a Los Angeles: 60mila nella terra del sogno americano». Fatte le debite proporzioni, anche Fra Martino a Lugano vede aumentare il numero dei commensali alla sua mensa sociale.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Vivere da sole Gentile dottoressa, ho sessantacinque anni e sono felicemente giunta alla pensione dopo aver lavorato come contabile, sempre nella stessa ditta. Non mi sono mai concessa svaghi dovendo assistere mia mamma, gravemente invalida. Purtroppo dallo scorso luglio è venuta a mancare e mi manca tanto. Per uscire dalla depressione, avrei un desiderio: fare un pranzo da sola al ristorante. Non è questione di soldi, posso permettermelo. Quello che mi frena è la vergogna, la paura di sentirmi fuori posto, di essere compatita, come se la gente intorno dicesse: guarda quella poverina, è sola come un cane. E temo che i camerieri non mi prendano in considerazione, che mi assegnino un tavolo vicino alla toilette o dietro a una colonna, che ci mettano tre ore a servirmi e mi guardino con un sorrisetto ironico. Non mangio molto, sono astemia, certi piatti moderni non li conosco neanche. Sarà un problema fare l’ordinazione e alla fine sospetto che il conto sarà così basso
da farmi fare brutta figura. Eppure vorrei riuscire a vincermi e a superare un blocco che anch’io trovo assurdo. Mi dia, per favore, qualche consiglio. Grazie. / Letizia Cara Letizia, innanzitutto complimenti per essere «felicemente» giunta alla pensione: significa che si aspetta di trascorrere anni sereni e in buona salute. Anche il fatto di aver formulato un desiderio e di volerlo realizzare conferma una buona disposizione d’animo e una riacquistata voglia di vivere dopo le rinunce richieste dalla lunga, assidua assistenza a sua mamma. Credo che la prima risposta che viene in mente a chiunque legga la sua lettera è il consiglio di invitare un’amica, una parente, un’ex collega. Un invito al ristorante fa piacere a tutti e sono certa che nessuna le dirà di no. Ma la questione che lei pone ha una motivazione che, a mio avviso, va oltre la questione del pranzare: riguarda l’insicurezza,
l’autostima, il coraggio di tentare e di rischiare. Andando al ristorante da sola lei vuole mettersi alla prova, dimostrare che può e sa bastare a se stessa. Se questo è il problema, mi sembra che l’impresa serva a rompere il ghiaccio, a iniziare un percorso che prevedo in discesa. Innanzitutto, come accade alle donne che svolgono una professione, può immaginare di pranzare fuori casa per esigenze di lavoro. È una circostanza molto frequente. Scelga poi un locale di buon livello che non sia la pizzeria per ragazzi, ma neppure la trattoria di quartiere e tantomeno il ristorante pluristellato. In ogni caso si sentirebbe fuori posto. Un locale tradizionale, di buon livello, potrebbe essere il più adeguato alle sue esigenze. Quando il cameriere le verrà incontro per accompagnarla al tavolo, lo saluti con un sorriso, è il miglior modo per stabilire un clima amichevole. Se il posto che le propone non le piace, glielo dica subito e se ne faccia assegnare un altro, di suo
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Senzatetto: per scelta o per forza? Un mattino di fine ottobre, su un autobus londinese, un passeggero occupa lo spazio che, di regola, spetta alle carrozzine di bambini e invalidi. E ne fa la scena per un suo personalissimo spettacolo. Da una malandata sacca di tela, estrae un fascio di buste di plastica e cellophane spiegazzate, le spiana accuratamente, per poi rimetterle al posto di prima. Ma, intanto, è arrivato a destinazione: alla fermata, scende, abbandonando sul pavimento la sacca, da cui scivolano fuori le buste e un paio di mele verdi, insomma il suo intero bagaglio. Tutto ciò avviene, nel giro di neppure dieci minuti, su un trasporto pubblico ben frequentato, dove però l’episodio passa del tutto inosservato. A seguire le mosse di un personaggio che, visibilmente, apparteneva alla categoria dei senzatetto, ero stata la sola. Impegnata, a mia volta, a non dare nell’occhio, con
una curiosità che, proprio a Londra, si scontra con la tradizione dell’indifferenza, considerata una forma di tolleranza e di accoglienza, cioè una virtù. Sottintende la capacità di accettare, per poi integrare, le diversità, e rappresenta una prerogativa delle metropoli. E questa lo è a pieno titolo, anche per ragioni storiche, capitale di un impero che, sciogliendosi, ha riversato sulle rive del Tamigi un autentico melting pot. In questo crogiolo convivono gli autoctoni anglosassoni, e i cittadini dell’ex-impero, indiani, pakistani, afghani, giamaicani, siriani a cui, dopo la caduta del muro, si sono aggiunti gli emigrati dall’est europeo. E certo non basta un sindaco di origini pakistane e di fede islamica per attribuire a Londra un attestato di coabitazione riuscita. Ne è, tuttavia, un indizio non trascurabile. Sta di fatto che questa
città non sembra un luogo da «prima i nostri». In proposito, capita d’imbattersi in situazioni persino grottesche. La signora, bionda, pelle chiara, che gestisce un delizioso Scottish Shop, nei pressi del British Museum, e giustamente decanta l’inimitabile stile scozzese di sciarpe e maglioni, ci confessa, senz’imbarazzo, di essere polacca e di non aver mai messo piede in Scozia. Ho dovuto, per associazione di idee, pensare ai nostri grotti, già simboli di genuina ticinesità, adesso gestiti da cittadini per lo più di origini balcaniche. La constatazione è scontata: si moltiplicano le analogie fra metropoli e città di provincia, proprio attraverso il loro paesaggio umano. Dove, a Londra come a Lugano, si ritrova, appunto, la figura dell’homeless: circondato da un alone, ancora da decifrare, al di là delle apparenze. A prima vista, come
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Attualità Migros
Un piccolo dono dal grande effetto Natale 2019 Con la sua azione natalizia di quest’anno Migros intende raccogliere fondi
per contribuire ad aiutare le persone in difficoltà in Svizzera Un esempio per tutti è quello della piccola Sara. Una bambina di 8 anni che desiderava moltissimo iscriversi a una scuola di danza ma non poteva farlo: i suoi genitori si sono separati tempo fa e sua madre non aveva un salario sufficiente per pagare le costose lezioni. Anche nella ricca Svizzera situazioni di questo tipo sono sempre più frequenti. Molte persone si rivolgono quindi alle associazioni che si occupano di dare un sostegno a chi è in difficoltà. La mamma di Sara, in particolare si è rivolta al Soccorso svizzero d’inverno, che ha attivato un programma specifico per permettere ai bambini di famiglie con problemi economici di occupare il proprio tempo libero con attività sportive, creative o artistiche. Il Soccorso svizzero d’inverno, del resto, è una delle cinque associazioni nazionali a cui Migros devolve ogni anno i fondi raccolti durante la sua
Come funziona Nei negozi Migros Migros, Micasa, SportXX, melectronics, Do it & Garden sono esposti i cuoricini di cioccolata che servono per l’azione natalizia di solidarietà. Costano 5, 10 o 15 franchi. La somma totale raccolta sarà devoluta a Caritas, Aiuto protestante svizzero, Pro Juventute, Pro Senectute e Soccorso svizzero d’inverno. Ad ogni cuore venduto Migros aggiungerà un franco. Informazioni
migros.ch/donazione
azione di solidarietà natalizia, denominata «Doniamo insieme». Le altre istituzioni sono Caritas, Heks – Aiuto protestante svizzero, Pro Juventute e Pro Senectute. Ognuna di esse utilizzerà la cifra che le sarà destinata per dare continuità ai propri progetti nel rispettivo settore specifico di intervento. Soccorso d’inverno, presente in Svizzera dal 1936, sostiene i bambini di famiglie esposte al rischio di povertà. Come detto, l’impegno vuole permettere loro di accedere ad attività formative durante il tempo libero. In questo modo si mira a rafforzare la loro personalità e a toglierli dall’isolamento dovuto alla loro situazione famigliare. Caritas dal canto suo si impegna per le famiglie, i nuclei monoparentali, i disoccupati e i working poor. Con il progetto «Mercato Caritas» ha istituito centri in cui distribuire alle persone in difficoltà economiche generi alimentari di base e altri prodotti per il fabbisogno quotidiano. Pro Juventute invece si rivolge ogni giorno, 24 ore su 24, ai giovani in difficoltà. Con il suo servizio di consulenza e aiuto legato al numero telefonico 147 sostiene adolescenti e bambini tramite un’equipe di 70 persone pronte a rispondere (gratuitamente e in modo anonimo) su temi come violenza, dipendenza, problemi scolastici e professionali, problemi affettivi e della sessualità. Il Soccorso protestante svizzero conduce un progetto collegato al ricollocamento abitativo di persone che sono rimaste senza casa a causa del loro stato di necessità. L’obiettivo è permettere loro di recuperare sicurezza e indipendenza, in modo da potersi reinserire socialmente. Pro Senectute, infine, aiuta le per-
Una famiglia di civette è testimonial della campagna promozionale (video su youtu.be/JGdZfvSKDC8).
sone anziane a mantenersi il più a lungo possibile indipendenti nella propria abitazione. In particolare con il progetto «Eventi conviviali grazie al coordinamento di volontari» organizza ritrovi e attività per le persone anziane, per esempio un pranzo a cadenza mensile,
un circolo per fare la maglia, un pomeriggio danzante o semplicemente un evento conviviale nel centro anziani. Ricordando che lo scorso anno la raccolta di fondi del periodo prenatalizio aveva permesso di raccogliere 1,8 milioni di franchi, è importante
essere coscienti del fatto che più di un milione di persone in Svizzera sono colpite o minacciate dalla povertà. È fondamentale dunque dimostrare loro concretamente la nostra solidarietà e aiutarle con la nostra raccolta di fondi. Grazie di cuore!
Un’assemblea all’insegna della sostenibilità
Alla riscoperta dei film svizzeri
la strategia Migros in tema di sostenibilità ambientale
il patrimonio cinematografico nazionale
Si è svolta il 9 novembre 2019 a Zurigo l’Assemblea dei delegati delle Cooperative Migros. E questa, la 187.esima, è stata la prima in cui Ursula Nold, precedentemente presidente dell’Assemblea, ha presenziato in veste di presidente dell’Amministrazione della FCM. Nel suo discorso ai delegati ha ribadito che se il suo ruolo ora è diverso, l’atteggiamento resta lo stesso: «Apertura e disponibilità sono il miglior fondamento per trovare assieme delle solide soluzioni per raggiungere un successo duraturo della Migros». In attesa che l’anno prossimo venga designato il nuovo o la nuova presidente dell’Assemblea dei delegati, i lavori sono stati condotti dalla vice-presidente Irmgard Floerchinger. Il presidente della Direzione generale della FCM Fabrice Zumbrunnen ha illustrato lo stato del mercato e le sfide da affrontare, e delineato l’andamento degli affari nella comunità Migros. Zumbrunnen ha ricordato come fra il 2010 e il 2018 in Svizzera la cifra d’affari nel
La maggior parte dell’eredità del Cinema Svizzero è a rischio decadimento o difficilmente accessibile al pubblico. Con «filmo.ch» è stata lanciata la prima edizione online del Cinema Svizzero, volta a garantire una maggiore visibilità ai film classici in ambiente digitale. «filmo.ch» intende gettare un ponte tra il vecchio e il nuovo, tra l’eredità culturale nazionale e la crescente domanda di film on demand. Alcuni esperti indipendenti (per il Ticino Cristina Trezzini e Antonio Mariotti) consigliano i film che considerano opere chiave del Cinema Svizzero. Il sito «filmo.ch» indirizza direttamente ai fornitori VoD, che propongono i contenuti dei film in streaming. «filmo.ch» offre una piattaforma informativa per una migliore comprensione dei film selezionati, oltre ai contenuti bonus sulla storia e sull’opera di restauro. Gli esperti spiegano perché questi film sono un patrimonio straordinario. «filmo.ch» è un’iniziativa dell’as-
FCM Tema centrale della 187.esima Assemblea dei delegati,
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Sul podio, Ursula Nold; a sinistra nella foto Fabrice Zumbrunnen. (Severin Novacki)
settore non-food sia diminuito nei negozi i 8 miliardi di franchi, di cui solo la metà è stata recuperata con il commercio online. Nel focus della 187.esima Assemblea c’è quindi stato il tema «sostenibilità». Le riflessioni attorno ad una futura strategia, in risposta ad una crescente sensibilità ambientale, sono stati illustrati da Sarah Kreienbühl (re-
sponsabile del Dipartimento risorse umane, comunicazione, affari culturali e sociali), Christine Wiederkehr-Luther (responsabile della Direzione sviluppo sostenibile del gruppo Migros), Thomas Paroubek (responsabile della Direzione sviluppo sostenibile e gestione della qualità) e Daniel Schilliger (responsabile Sviluppo sostenibile ELSA).
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
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sociazione CH.Film, realizzata in occasione delle Giornate cinematografiche di Soletta e resa possibile da Engagement Migros, il fondo del gruppo Migros che sostiene progetti pionieri di trasformazione sociale. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Ambiente e Benessere Volvo punta all’impatto zero Per il clima, la casa svedese vuole portare a termine il suo ambizioso progetto entro il 2040
Tra gatti, cani e i loro spiriti Visita alla casa museo di Villa Piccolo di Calanovella, nella penombra avvolgente della dimora di Capo d’Orlando pagine 20-21
Un bollito per tutti Quattro ricette di piatti della tradizione europea, dall’Austria alla Fiandre pagina 25
pagina 18
Incantevoli ma dannose Le cave di marmo di Carrara stanno provocando un disastro ambientale irreparabile
pagina 26
Città verdi
Riconoscimenti Un marchio per identificare
i centri urbani ricchi di spazi verdi e ambienti naturali: cinque località in Svizzera l’hanno ottenuto e altre sono in attesa
Elia Stampanoni Lucerna e Winterthur a fine 2017, Ecublens in primavera 2018, Basilea lo scorso autunno e quindi Sciaffusa quest’estate. Sono cinque le località che hanno già ottenuto il marchio di «Città verde Svizzera», una distinzione promossa dall’Unione svizzera dei servizi dei parchi e delle passeggiate con il sostegno dell’Ufficio federale dell’ambiente (Ufam). Un riconoscimento che, secondo i promotori, non dev’essere solamente un label, ma un incitamento concreto verso ambienti di vita più sostenibili. Tra i propositi dell’iniziativa rientra, infatti, l’istituzione o conservazione di parchi urbani a vantaggio delle persone che vi vivono, dei loro spazi e della loro qualità di vita. Si vogliono per esempio più alberi perché sono un valido alleato contro gli sbalzi di temperatura e contro l’inquinamento atmosferico, ma anche preservare le risorse grazie a una gestione in sintonia con la natura. Città verde Svizzera intende pure favorire la presenza di biotopi urbani, in modo che le specie vegetali e animali in via di estinzione vi trovino degli habitat dove sopravvivere. Le misure che una città può adottare per realizzare gli obiettivi prefissati sono molteplici e spaziano dall’uso parsimonioso delle risorse, come l’uso di energie rinnovabili, alla gestione dei già citati spazi verdi, senza dimenticare l’organizzazione e la progettazione territoriale. Per raggiungere il punteggio necessario all’ottenimento del marchio, che può essere d’oro, d’argento o di bronzo a seconda del livello conseguito, ogni comune ha un catalogo di circa sessanta misure fra cui scegliere. L’elenco è suddiviso in dieci capitoli, iniziando con gli strumenti di direzione strategica, quindi pianificazione del territorio, gestione del personale, formazione e sicurezza sul lavoro. Anche il settore della comunicazione, con l’informazione della popolazione, ha un suo ruolo decisivo, e viene dato peso pure al processo partecipativo degli abitanti e delle associazioni presenti sul luogo. Il coinvolgimento ha
infatti un ruolo essenziale nel successo di progetti del genere, come già constatato e dimostrato in altre occasioni analoghe. Un ampio capitolo è poi destinato al settore delle costruzioni dove, citiamo, «la pianificazione a lungo termine e l’edificazione sostenibile sono la base per degli spazi aperti adattati al loro uso e al rispetto dell’ambiente». Tra le misure proposte viene evidenziata l’efficacia dei tetti verdi, dei giardini pensili oppure della «non impermeabilizzazione» del terreno al fine di consentire l’infiltrazione naturale d’acqua nel sottosuolo e lo sviluppo di una vegetazione utile. Tutti interventi che contribuiscono a rendere i centri abitati più resistenti, sia verso i periodi di caldo intenso sia in occasioni di forti piogge con rischio d’inondazioni. Le città sono quindi invitate e invogliate a dar seguito a una gestione prossima al biologico degli spazi verdi, ossia l’acquisto di alberi di provenienza biologica e la rinuncia nel limite del possibile ai prodotti chimici nella lotta antiparassitaria. Per l’irrigazione degli spazi verdi si vuole limitare l’uso d’acqua potabile, privilegiando per esempio il riciclo di quella piovana. Si rinuncia inoltre in modo completo agli erbicidi, si scelgono metodi di fertilizzazione sostenibili e si favorisce l’impiego di concimi locali e substrati privi di torba, o comunque con un contenuto il più basso possibile. Alle risorse naturali viene di conseguenza posta grande attenzione, utilizzandole in modo rispettoso e con apporti ridotti o nulli d’inquinanti, associati a una manutenzione differenziata. Fondamentali gli sforzi a favore delle specie vegetali e animali che abitano anche le nostre città e in questo contesto radica la grande scelta di misure, una decina, inserite nel capito biodiversità, dove si propongono varie possibilità per raccogliere punti e ottenere sia l’evidente effetto benefico sulla flora e la fauna indigeni, sia per l’appunto il marchio di città verde. Oltre ai cinque comuni elvetici già certificati, altre sette località svizzere hanno inoltrato la loro candidatura, tra cui Losanna e Friborgo, ma anche pic-
Basilea sul Reno abbracciato dal verde. (Lizzyliz)
coli centri come Degersheim o Lichtensteig i quali contano meno di diecimila abitanti. La distinzione può infatti essere richiesta sia dai grandi centri urbani sia dai piccoli comuni che, per non essere scoraggiati e svantaggiati, devono ottenere un punteggio minore rispetto alle città, secondo una scala in base al numero di abitanti. L’ultima grande città elvetica a ricevere il marchio è stata Basilea con i suoi oltre 170mila abitanti, che esattamente un anno fa, era novembre, ha festeggiato l’evento con la messa a dimora di tre alberi simbolici in uno dei suoi parchi giochi. La cerimonia è stata l’occasione per coinvolgere la popolazione e a tutti i partecipanti sono stati donati dei semi di fiori selvatici con l’invito a seminarli la primavera seguente, per
contribuire a dare un tocco di verde e altri colori alla propria città. Nel comunicato stampa di presentazione è stato sottolineato come Basilea si applica costantemente per migliorare la qualità di vita e per promuovere una città verde e con più ecologia, biodiversità, benessere, salute e possibilità per la pratica di attività fisica e incontri. Un impegno che la città ha visto ricompensato dal marchio d’argento di «Città verde Svizzera». Il processo di certificazione è durato in questo caso due anni ed è stato guidato da un gruppo che si è occupato intensamente nell’adempimento delle misure richieste. Sono pure stati evidenziati il valore e l’importanza degli spazi verdi nella città anche in progetti che saranno realizzati nei prossimi anni e che sono già
stati inseriti nel contesto di città verde. Anche nel caso di Sciaffusa, l’ultima città ad aver ottenuto il label lo scorso agosto (pure d’argento), il rapporto degli esperti ha annotato ulteriori margini di miglioramento, per esempio con misure per gestire in modo sostenibile il suolo. In genere è stata sottolineata l’importanza della collaborazione di tutti i dipartimenti, in modo che ogni settore possa apportare il suo contributo per l’ottenimento del marchio di città verde. Una distinzione che, oltre al benessere della popolazione già residente, ne aumenta l’attrattività. Informazioni
(Solo in francese o in tedesco): www. gruenstadt-schweiz.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Ambiente e Benessere
Impatto zero sul clima entro il 2040 Motori Ambizioso ma non impossibile, il progetto della casa automobilistica Volvo
Mario Alberto Cucchi L’obiettivo è davvero ambizioso: diventare un’azienda a impatto zero sul clima entro il 2040. A perseguirlo è il costruttore automobilistico Volvo. Non solo parole. Già oggi è impegnata a ridurre del 40% l’impronta di carbonio per ciascuna vettura prodotta fra il 2018 e il 2025. Il programma include azioni concrete in linea con l’Accordo di Parigi sul clima del 2015, che si pone l’obiettivo di limitare l’aumento di temperatura a livello globale a 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali.
Presentata in questi giorni, la XC40 Recharge inaugura la nuova gamma di prodotti a propulsione elettrica La strategia prevede la completa elettrificazione della gamma a cui sommare interventi importanti sulle emissioni della rete produttiva, delle attività operative e dell’intera filiera. Anche le concessionarie dovranno diventare molto più eco-friendly di oggi. Certo è che non basta premere un pulsante per cambiare un’azienda automobilistica, ecco allora che gli svedesi si sono posti degli obiettivi intermedi. Non si possono vendere solo auto elettriche da domani e quindi il passaggio deve essere graduale. Si parla del 50%
del totale di vendite a livello globale entro il 2025, che determinerebbe una riduzione del 50% delle emissioni allo scarico di CO2 per vettura fra il 2018 e il 2025. Altri obiettivi a breve termine includono la riduzione del 25% delle emissioni di CO2 correlate alla filiera produttiva globale e l’impiego del 25% di plastiche riciclate nelle Volvo di nuova produzione entro il 2025. Saranno anche ridotte del 25% le emissioni di carbonio generate dalle attività operative complessive della Casa. Intanto l’arrivo di nuovi modelli elettrici nelle concessionarie si sussegue a ritmo serrato. In questi giorni Volvo ha presentato la XC40 Recharge, che inaugura la nuova gamma di prodotti Recharge. Si tratta della prima Volvo a propulsione esclusivamente elettrica. «L’abbiamo ripetuto diverse volte in passato: per Volvo il futuro è questo. Oggi, con il lancio della nostra XC40 a trazione elettrica e della linea di prodotti Recharge, facciamo un nuovo importante passo in questa direzione» ha commentato il Ceo Håkan Samuelsson. «La XC40 Recharge racchiude tutto quello che i clienti si aspettano da una Volvo, con l’aggiunta di un innovativo propulsore a trazione integrale elettrica che garantisce un’autonomia di percorrenza di oltre 400 km con un’unica ricarica e sviluppa una potenza di 408 cavalli». La batteria può essere rigenerata all’85% della sua capacità in 40 minuti se collegata a un sistema di ricarica veloce. XC40 Recharge è anche la prima Volvo a essere equipaggiata con il nuo-
vo infotainment basato sul sistema operativo Android di Google che offre la piena integrazione con Volvo On Call per avere un’auto sempre più connessa. Una chicca? Allo scopo di pro-
muovere ulteriormente la guida elettrica, con l’acquisto di ogni modello Volvo Recharge, l’elettricità sarà offerta gratuitamente per un anno attraverso un rimborso del costo medio dell’ener-
gia durante il periodo considerato. A partire dal 2020 ai clienti che visiteranno il sito web di Volvo Cars verrà chiesto se desiderino una Volvo Recharge oppure no. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Idee e acquisti per la settimana
Mani curate in semplicità e velocità Utilizziamo le mani a ritmo continuo: mentre siamo al computer, puliamo o facciamo sport. Affinché abbiano sempre un aspetto curato necessitano di molte attenzioni. Con quattro suggerimenti vi mostriamo come prendervi cura di mani e unghie. La linea I am offre il prodotto giusto per ogni esigenza e si presenta con un design completamente rinnovato
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Rafforzare le unghie: il balsamo per mani e unghie con cheratina rinforza le unghie rendendole più resistenti. La formula trattante con estratto di seta, olio di soia e pantenolo idrata la pelle, che risulta morbida e vellutata. Il balsamo si assorbe rapidamente e non lascia tracce di unto.
Per idratare: la crema per le mani al cocco, con olio di noce di cocco e vitamina E, idrata le mani. Il profumo dell’esotico frutto è un piacere per i sensi. La crema si assorbe rapidamente e regala una gradevole sensazione di morbidezza della pelle.
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Una cura intensiva per le mani: il balsamo Repair è adatto in caso di mani molto sollecitate e screpolate, poiché ha un forte potere idratante. La formula concentrata, arricchita con il complesso di principi attivi Defensil, lenisce rapidamente la pelle irritata. Utilizzare con parsimonia: il contenuto del tubetto è sufficiente per circa 200 applicazioni. Foto Getty Images
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Prevenire l’invecchiamento precoce della pelle: la crema anti età per le mani con Q10, olio di semi di uva, vitamine e acidi della frutta rassoda e contribuisce a conferire alla cute un’elevata elasticità e morbidezza. I filtri UV proteggono inoltre dall’invecchiamento precoce della pelle. Anche questa crema si assorbe rapidamente e non unge.
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Balsamo per mani e unghie I am 100 ml Fr. 3.20
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Crema per le mani al cocco I am 100 ml Fr. 3.20
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Balsamo per le mani I am Repair 50 ml Fr. 3.20
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Crema per le mani anti età I am Q10 100 ml Fr. 3.20
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Ambiente e Benessere
Elogio della penombra
Viaggiatori d’Occidente Al museo di Villa Piccolo di Calanovella a Messina in compagnia di cani e gatti,
mai del tutto morti
Stefano Faravelli, testo e immagini «Quando viene l’oscurità, la casa si interiorizza, diventa ombra, spazio in cui andiamo errando e ritrovando le persone care che ci sono state vicine...». Così raccontava il poeta siciliano Lucio Piccolo, massimo tra i contemporanei secondo il giudizio di Eugenio Montale. E suo fratello, il barone Casimiro Piccolo, spiritato ed elegantissimo nei suoi completi inglesi, non faceva mistero delle apparizioni ultrafaniche delle quali era stato testimone: «Il mio cane, morto da nove anni, l’ho visto tre volte; due volte completamente materializzato; una volta, trasparente… ma l’ho visto bene. Poi lo udimmo bussare di notte e abbaiare da fare spavento nella stanza all’angolo, quella della mamma». Queste memorie degli anni Sessanta, conservate in un vecchio documentario, sono la necessaria premessa alla visita alla casa museo di Villa Piccolo di Calanovella, nella penombra avvolgente della dimora di Capo d’Orlando (Messina). Qui ho passeggiato la notte nel magico cimitero dei gatti e dei cani, l’unica parte del giardino illuminata da una spettrale luce azzurra; quei cani che, come abbiamo visto, non sono mai del tutto morti. È stata assai precoce la mia vocazione a cantare i notturni tripudi di elfi e di fate, ninfe ed egipani, ovvero a narrare le meraviglie del Regno segreto dei fairies, come lo aveva battezzato il reverendo Robert Kirk, autore alla fine del
Nella propria residenza di campagna, a Santa Margherita Belice, lo scrittore palermitano ambientò il suo celebre romanzo Il Gattopardo.
Seicento di una guida ragionata: The Secret Commonwealth. Quel mondo mi appartiene in nome di un lascito aureo, racchiuso in memorie infantili, molto precise, del fatato e del fatale, tanto da farne uno dei temi ricorrenti (forse anche ossessivi) della mia pittura e dei miei viaggi.
Per tutte queste ragioni, la casa dei fratelli Piccolo di Calanovella mi chiamava da anni e gli amici siciliani più volte mi segnalarono la dimora di Capo d’Orlando come un luogo a me predestinato. Perché a Villa Piccolo di Calanovella le creature fatate sono di casa e con loro, spiriti di defunti e anime di-
sincarnate e incorporee apparizioni. Tra le mura di quell’edificio dalle essenziali linee prerazionaliste, immerso in uno splendido parco di oltre venti ettari, visse, per lo più in solitudine e di notte, un trio stravagante e stralunato: il poeta Lucio, suo fratello il pittore e fotografo Casimiro e la sorella Agata
Giovanna, religiosissima ed esperta di botanica. L’immensa biblioteca testimonia la loro sterminata cultura, cosmopolita e poliglotta, nonché le alte frequentazioni epistolari, come l’intensa corrispondenza di Lucio con il bardo irlandese William Butler Yeats. Naturalmente la sezione spiritistica è assai Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere «Alla casa museo di Villa Piccolo di Calanovella, nella penombra avvolgente della dimora di Capo d’Orlando (Messina) (...) ho passeggiato la notte nel magico cimitero dei gatti e dei cani, l’unica parte del giardino illuminata da una spettrale luce azzurra».
Il barone Casimiro Piccolo di Calanovella era uno dei cugini di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e fratello del poeta Lucio.
fornita, con intere annate di Light e di Psychic News, ma anche prime edizioni delle opere di Simone Weil, Alexandra David-Néel, Julius Evola, Frithjof Schuon… Passeggiando per le stanze silenziose della villa, la voce di Lucio Piccolo, il poeta dei Canti barocchi e di Plumelia, sembra ancora sussurrare tra i pendoli e le cineserie degli arredi. Ma è la galleria degli acquerelli di Casimiro il magnete delle mie esplorazioni: la piccola pinacoteca al pianterreno espone il ritratto di un coboldo (un folletto poco socievole) con un ciuffo sul capo, che trasporta una piantina di fragole grande come la sua testa. In un altro
il giorno e oggi la sua è l’unica stanza dalle finestre sempre spalancate. Forse proprio durante i suoi soggiorni a Villa Piccolo nacque uno dei capolavori della letteratura italiana del Novecento, il breve racconto Lighea, storia dell’incontro tra un uomo e una sirena. Sono salito a Villa Piccolo insieme alla poetessa siciliana Maria Grazia Insinga, che a Lighea ha intitolato un festival d’arte e di poesia. Nonostante la giornata ottobrina, ero ancora abbagliato dalla luce smagliante del mare di Capo d’Orlando, frammenti di un paesaggio assoluto naufragato nel brutto. In quel contrasto tra la luce olimpica del Mediterraneo e la crisalide di penombra di quella dimora stregata mi è parso di trovare una chiave per schiudere le porte di Psiche.
acquerello un gruppo di litigiosi ometti in redingote e tricorno attraversa una pozzanghera a bordo del baccello di un pisello… È una pittura raffinata, colta e ironica, memore dei Dulac, dei Dadd e della Fairy Painting vittoriana. Se ne comprende il carattere ispirato, totalmente assente nella più recente inflazione del genere nel fantasy e nel kitch della Videogame Art. Di tanto in tanto, in quell’atmosfera crepuscolare, i tre fratelli ricevevano le visite dal principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, l’autore de Il Gattopardo, cugino dei Piccolo e ad essi affine per vocazione aristocratica e letteraria. Era il solo a vivere la villa durante
Scriveva ancora Lucio Piccolo: «Questa mia predilezione per l’oscurità, per la penombra, non è come potrebbe sembrare un atteggiamento esteriore. Risponde ad un’esigenza interna comune a noi siciliani, credo, quasi a contrasto con la troppa luce che ci circonda. Rifugiarci nell’oscurità di noi stessi, ri-
Esposizione Dal 20 ottobre 2019 al 12 gennaio 2020 i carnet di viaggio di Stefano Faravelli saranno esposti nella mostra Il mestiere del vento (Festival del Viaggio – Orizzonti, frontiere, generazioni; Corso del Piazzo 24, Biella).
trovare quanto abbiamo perduto, esorcizzare il tempo, la morte». In quella penombra, dimensione interiore più ancora che esteriore, si può sperare di trovare un varco per la Terra della visione. E il cammino sarà disseminato di ventagli di ala di farfalla, farsetti di pelle d’ala di pipistrello, mantelli di fata e altri preziosi tesori; ma anche pelli di sirene e i fantasmi dei cani e dei gatti amati. Quella penombra che Francesca, la giovane guida ai misteri di Villa Piccolo, ha pudore e quasi timore di dissipare quando di tanto in tanto deve aprire le finestre per areare la stanza da pranzo. Lì, per disposizione testamentaria, i fratelli Piccolo hanno voluto che davanti al posto di mammuzza la tavola restasse imbandita nei secoli dei secoli… Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Non solo via mare ma anche per le vie carovaniere
Scelto per voi
Il vino nella storia Continua la serie di articoli dedicati alle rotte del vino – 5a parte
Davide Comoli Nel 264 a.C., Roma governava – o erano a essa assoggettati – tutti i territori della penisola italica. Come si desume da molte cronache di quel tempo, il commercio si svolgeva principalmente via mare o lungo le vie carovaniere. È logico quindi pensare che lo sviluppo di questi traffici abbia determinato un miglioramento per renderli più sicuri, veloci e meno costosi. Le più affidabili cronache ci riferiscono quali erano i più importanti punti di riparo e attracco del Mediterraneo, del Mar Nero, del Golfo Persico e del Mar Rosso, ovvero: Emporium, Tarentum, Neapolis, Siracusa, Panormus e Marsiglia. In periodo romano, si ebbe la produzione di una serie di carte stradali chiamate: itineraria. Ma il noto itinerario di Isidoro di Carace, disegnato per
l’Impero Partico, mostra come molto tempo prima degli itineraria romani, il traffico carovaniero era già stato studiato dai funzionari persiani e continuato dai cartografi di Alessandro Magno. Scorrendo le cronache degli ultimi scorci dei secoli a.C. – mentre s’attendeva che Roma diventasse una «potenza imperiale», dominatrice incontrastata del Mediterraneo – si nota che avvenne un certo impoverimento dei traffici mercantili. Fu forse l’espansione di Roma, prima all’interno della penisola italica e poi sempre più a nord e a ovest, che allontanò per un certo periodo l’interesse per i vini della Grecia, di Cipro e altre civiltà viticole dell’Egeo. La Sicilia stessa e la Magna Grecia, svincolatesi troppo in fretta dalla cultura e dagli esperti viticoltori greci, dai quali avevano appreso il mestiere, a quell’epoca
non riuscivano più a trafficare oltre ai ristretti confini delle loro vigne. Le rotte tradizionali frequentate da pirati e mercenari al servizio di commercianti senza scrupoli di varie etnie, invasero poi i mercati con vini poco rispettosi della qualità. La storia ci racconta che nei primi tempi della Repubblica, la penisola italica fu terra di piccoli agricoltori, intenta a produrre mezzi di sussistenza per la propria famiglia, e forse un piccolo surplus da vendere. Lo stesso Catone (234-149 a.C.), che legò la sua fama alle misure prese quale censore (184) contro la ellenizzazione dei costumi di Roma, ci descrisse una sua azienda agricola, evoluta per quel tempo, che disponeva di un vigneto di 100 iugeri (1 iugero = 0.252 ha) e di un oliveto di 240. Catone permise una promiscuità colturale: si seminavano infatti grano, cereali e altre colture vegetali fra i filari delle vigne. Era inoltre molto diffusa la coltivazione della vite sostenuta dagli alberi. Anche questi elementi forse determinarono l’impoverimento della vitivinicoltura nei territori dominati da Roma in quel periodo storico. Fu verso la fine del periodo della Repubblica che il mondo agricolo, grazie a illuminati uomini politici, con coltivazioni e produzioni specializzate, portò una ventata intelligente allo sviluppo dell’intero comparto. Anche il vino, protagonista in passato di affari d’oro per molti Paesi produttori del Mediterraneo, divenne per Roma un’importante mezzo di sviluppo commerciale. Strade efficienti e funzionali trasporti su ruota, collegavano i vari luoghi di produzione, molte strade come quelle in alcune zone vinicole della Spagna furono costruite esclusivamente per soddisfare esigenze mercantili, per agevolare i carri che trasportavano le anfore piene del celebre rosso della Betica. Nel contempo una maggior sicurezza nei viaggi marittimi attraverso il Mediterraneo e in
quelli fluviali, stimolava il commercio. In poco meno di venti giorni, vento e condizioni meteorologiche permettendo, da Roma si arrivava ad Alessandria d’Egitto, dalle coste iberiche a Ostia ci s’impegnava dai nove ai dieci giorni e dalle coste egiziane a Creta non più di tre. L’imperatore Augusto (63 a.C.-14 d.C.) garantì a Roma alcune posizioni strategiche per i traffici mercantili, stabilendo ad esempio un vero e proprio protettorato romano sul Mar Rosso, via obbligata per il commercio con il sudest, cercando con determinazione, grazie alla sua potenza, d’indebolire eventuali controlli esercitati da altri popoli. Cominciarono a essere preferiti e agevolati tutti i prodotti agricoli, a iniziare dal vino, destinati soprattutto al mercato esterno. Anche le fabbriche di anfore e botti assunsero dimensioni di rilievo; gli storici raccontano di alcune in cui operavano più di cento operai specializzati. Qui venivano travasati vini sempre più complessi, strutturati e di varie tipologie, ma anche vini più modesti. Famosa per le sue anfore era l’antica Pithecusa (sull’attuale isola di Ischia), che fu la prima colonia greca nel golfo di Napoli. Ancora non sappiamo con certezza matematica quanti vini si producessero nella grande vigna dell’Impero. Attenendoci a ciò che scrive Plinio nella sua Storia Naturale, troviamo una grossa discordanza tra i numeri che egli ci fornisce (80-185). Si potrebbe ipotizzare che il primo numero sia riferito ai più famosi o a quelli riconosciuti tali, il secondo ai vini in generale di cui all’epoca si aveva notizia. Tra i vini prodotti in Italia elenchiamo i più famosi: il Falerno, il Calenio, lo Statanio, il Cecubo, il Retico e il Mamertino. Ma tutti i vini italici dovevano competere sul mercato con i celebri vini di Chio, di Taso e di Lesbo, per non parlare dei vini spagnoli, tra i quali i Tarraconensi.
Bric Loira (Cascina Chicco)
Quando le prime brume e l’aria si fa un po’ più fredda, aumenta la voglia di cibi più sostanziosi, è normale quindi applicare delle prime regole per un buon abbinamento: «a piatti rilevanti, vini strutturati». Il Bric Loira, uve Barbera cento per cento vendemmiate sulle colline di Castellinaldo (CN) e vinificate dalla Cascina Chicco, è il vino giusto per le nostre serate dove la selvaggina la fa da padrona sulle nostre tavole. Colore di un profondo rubino con riflessi violacei, al naso intensi percepiamo la marasca, la prugna e il ribes, ma anche profumi floreali di viola e alcune spezie delicate, tra cui la vaniglia. Al palato il Bric Loira ci stupisce per la sua morbidezza, il suo colore e i suoi tannini setosi, lasciandoci un finale molto lungo e armonico, piacevolmente accompagnato da un retrogusto di liquirizia. Come già detto, accompagnatelo ai medaglioni di cervo o a un bollito misto, ma sappiate che è stupendo se bevuto con amici durante una «merenda» di pane e salame. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 23.–. Annuncio pubblicitario
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Tempranillo, Cabernet Sauvignon
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Ambiente e Benessere
Quattro nobili bolliti europei Appartengono alla nobilissima famiglia dei bolliti europei, eccovi alcune proposte. Hochepot. Ingredienti per 8 persone. Ricetta delle Fiandre. Dividete 2 code di manzo e 2 codini di maiale in pezzi regolari e metteteli in una pentola colma d’acqua insieme a 2 zampetti di maiale, ciascuno diviso in 4 parti, e 2 orecchie di maiale intere. Portate a bollore, schiumate, sgrassate e cuocete a fuoco dolce per 3 ore. Intanto dividete in 4 parti una piccola verza, eliminate il torsolo e sbianchitela per 5’ in acqua bollente leggermente salata. Aggiungete la verza, 3 rape e 3 carote divise in piccoli pezzi, quindi, 10 cipolline. Cuocere ancora per un’ora sempre a fuoco dolce. Regolate di sale. Poco prima che sia pronto, saltate in padella 8 salsicce intere. Scolate coda, codini e zampetti e metteteli in un grande piatto di portata. Aggiungete le orecchie tagliate sottili, le verdure e le salsicce grigliate. Servite a parte 8 patate cotte a vapore per 50’.
Riportiamo qui le ricette dell’Hochepot, del Pichelsteiner, del Tafelspitz e di un’ottima insalata di bolliti Pichelsteiner. Per 8 persone. Ricetta tedesca. Fate bollire 1 kg di ossa di manzo per un’ora in una grande pentola. Aggiungete in totale 800 g di carne di manzo (punta di petto, biancostato, polpa di spalla o di coscia), tagliata in cubi di 4 cm di lato; 800 g in tutto di maiale (spalla, pancetta, stinco posteriore, carré affumicato di maiale) sempre tagliata in cubi; 400 g di pancetta affumicata tagliata a julienne e una manciatina di pepe in grani. Schiumate e sgrassate poi cuocete a fuoco dolce. Intanto dividete in 4 parti una
piccola verza, eliminate il torsolo e sbianchitela per 5’ in acqua bollente leggermente salata. Dopo 2 ore e mezza aggiungete alla carne 8 patate sbucciate, la verza, 2 carote tagliate a pezzi, mezzo sedano rapa tagliato a pezzi e una cipolla picchettata con 3 chiodi di garofano. 30’ dopo aggiungete un cavolfiore in pezzi, cuocete altri 20’ e spegnete il fuoco. Regolate di sale. Il tutto risulterà abbastanza denso. Intanto avrete preparato l’Apfelkren: grattugiate fine una radice di rafano sbucciata e 2 mele impastandole insieme in una ciotola, con l’aggiunta di poco sale. Eliminate le ossa dal bollito e portatelo a tavola nella pentola di cottura. Servite con Apfelkren e pane al Kummel. Tafelspitz. Per 4 persone. Ricetta austriaca. Tagliate in 4 fette 600 g di girello di manzo e fatele bollire per un’ora e mezza in un brodo vegetale. Prelevatele dal loro brodo, lasciatele raffreddare e tagliatele a fettine sottili. Fate una vinaigrette con olio di semi di zucca (se non lo trovate usate quello di oliva) aceto di mele, sale e pepe e ravanelli tagliati a piccoli dadini; emulsionate bene con una frusta. Guarnite la carne con la vinaigrette. E se avanza del bollito? Avanza sempre… Ebbene il mio consiglio, e vale per tutti i bolliti, è di preparare una ricca Insalata di bolliti. Ecco gli ingredienti ideali per 4 persone. Tagliate a straccetti circa 500 g di avanzi di bollito. Tritate mezza cipolla con uno spicchio di aglio, una manciata di prezzemolo e altrettanto basilico. Disponete il bollito in un’insalatiera, cospargete con il trito e unite un cucchiaino di capperi sottaceto ben sciacquati, 5 cetriolini sottaceto tagliati a fettine e 3 acciughe dissalate e spezzettate. Emulsionate con una frusta 6 cucchiai di olio con una cucchiaiata di senape, sale, pepe e aceto in quantità sufficiente a ottenere una salsa piuttosto liquida. Versate la salsa sul bollito e lasciate riposare l’insalata in fresco per 2 ore prima di servirla.
CSF (come si fa)
Citymama
Allan Bay
Stellar D.
Gastronomia Dalle Fiandre all’Austria sono sempre ricchissimi i piatti di questa saporita famiglia
Vediamo come si fanno due piatti mitici, che molto apprezzo. Il primo è la brudera, un riso mantecato alla fine con sangue fresco di maiale: fidatevi, fa più effetto a leggerlo che a mangiarla. Il secondo si chiama brüscítt, una specialità lombarda di Busto Arsizio: è uno stufato di carne preparato con manzo spezzettato al coltello e cotto
con burro e semi di finocchio. La casseruola viene chiusa ermeticamente e la cottura avviene a fuoco lentissimo, bagnando soltanto con vino rosso. Brudera. Ingredienti per 4 persone. Mettete a cuocere in acqua salata 300 g di costine di maiale e una carcassa di gallina. Non appena sarà possibile maneggiare la carne, spolpate le costine. Tritate una cipolla e fatene rosolare metà in una noce di burro; unite metà della carne di maiale e fatela insaporire per qualche minuto. In un’altra casseruola mettete una noce di burro insieme al resto della cipolla tritata, che farete soffriggere; unite 250 g di riso e, dopo 2-3’, un mestolo del brodo di carne preparato e la restante polpa di maiale. Quando il liquido sarà assorbito, aggiungete altro brodo finché il riso non sarà cotto molto al dente. A
questo punto unite mezzo bicchiere circa di sangue fresco di maiale. Mantecate bene e proseguite la cottura per 2’. Regolate di sale. Servite il riso con la carne soffritta insieme alla cipolla. Brüscítt. Per 4 persone. Tagliate 600 g di polpa di manzo e 50 g di pancetta in striscioline di 3 cm e rosolatele in una casseruola con una noce di burro per 5’. Sfumate con un bicchiere di vino rosso e aggiungete 1 cucchiaio di zucchero, un cucchiaino di semi di finocchio messi in un sacchettino di garza e una punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua. Cuocete, coperto, al fuoco più dolce che potete, per circa 2 ore e 30’ unendo, poco alla volta, ancora vino rosso sobbollito. Regolate di sale e di pepe, eliminate il sacchettino di semi di finocchio. Servite con polenta.
Ballando coi gusti Oggi due dolci. Il primo, il pan di Spagna, credo sia il dolce più facile da preparare al mondo, l’altro richiede comunque poca perizia.
Torta di pan di Spagna
Torta di mandorle
Ingredienti per 8 persone: 500 g di pan di Spagna · 500 g di crema pasticciera ·
Ingredienti per 6-8 persone: 300 g di mandorle · 300 g di cioccolato a scaglie · 100
1 arancio · zucchero a velo.
Tagliate a dadini il pan di Spagna, inumiditelo spruzzando succo filtrato di arancio. Impastate 2 terzi del pan di Spagna con la crema pasticcera e mettete il tutto su un piatto o in una ciotola. Coprite con i dadini rimasti di pan di Spagna e spolverizzate di zucchero a velo. Tenete in frigorifero per un paio di ore e poi servite.
g di cantucci (o altri biscotti a piacere) · 200 g di burro · 200 g di zucchero · 6 uova · grappa · zucchero a velo.
Sgusciate le uova e separate i tuorli dagli albumi. Montate gli albumi a neve ben ferma. Frullate insieme le mandorle, il cioccolato e i cantucci. Lavorate il burro ammorbidito con lo zucchero fino a ottenere una crema soffice; incorporatevi i tuorli, uno per volta. Unite il trito, profumate con qualche cucchiaio di brandy e mescolate. Incorporate infine gli albumi. Versate l’impasto in una tortiera rivestita con carta da forno, livellate la superficie e cuocete in forno a 180° per circa 50 minuti. Sfornate la torta e lasciatela raffreddare prima di sformarla; spolverizzatela di abbondante zucchero a velo e servite.
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Ambiente e Benessere
Un «affascinante» disastro ambientale
Uomo e natura Le cave di Carrara pur avendo dato origine a opere d’arte meravigliose
hanno procurato una ferita aperta e insanabile lungo i fianchi della montagna
Una più ampia galleria fotografica sulle cave di marmo di Carrara si trova nel sito www.azione.ch
Luigi Baldelli, testo e foto Le Alpi Apuane sono una catena montuosa che si stende lungo il confine tra la Toscana e la Liguria, e arriva fino al mare. Sin dai tempi dei romani, è proprio qui che si estrae il marmo più pregiato del mondo. È da queste montagne, da questo mondo unico che i grandi artisti e architetti hanno preso da sempre la loro materia prima, il marmo appunto, per creare le loro opere. Viene da queste cave quello usato da Michelangelo per la sua Pietà e per il David. L’artista amava scegliere personalmente i blocchi di marmo e oggi una delle cave porta il suo nome. La città di Carrara, con il suo cuore anarchico (qui fu fondata la Federazione Anarchica Italiana nel 1945) si identifica molto con il suo marmo. Se si guarda il paesaggio delle cave da lontano, le montagne sembrano innevate, e in altri momenti ricordano paesaggi lunari come ogni mente fervida può immaginare: pareti bianche, lisce che sembrano le pagine della montagna apertasi al mondo per mostrare le sue viscere. Un anfiteatro bellissimo, con il Monte dell’Uccellina, Borla, Brugiana, le cime del Sagro e Gioia, sia dentro sia ai confini del parco naturale delle Alpi Apuane. Ma basta avvicinarsi e iniziare a salire per le ripide strade sterrate che tagliano le montagne per avere subito una diversa sensazione, per capire che quel bianco non è neve che si scioglie ma lo sfregio inferto alla natura per lo sfruttamento intensivo delle cave di marmo. Le alture sono mutilate, ferite aperte lungo i fianchi, le cime tagliate di netto. Il bianco della pietra riflette la luce e amplifica ancora di più, se mai ce ne fosse bisogno, il disastro ambientale. Evidenti i segni che si trovano nei grandi crateri delle cave, profondi, formati da giganteschi scalini alti anche dieci metri, nelle pareti tagliate di netto, nei
crinali della montagna ancora coperti dalla vegetazione che si interrompe bruscamente per dare spazio agli scavi. Un orizzonte frastagliato, violato, con ettari ed ettari di bosco distrutti, che mette in primo piano come il lavoro dell’uomo stia erodendo, portando via, fetta dopo fetta, parti di questi rilievi montuosi per cercare un oro bianco che viene spedito in tutti e cinque i continenti. Un inquinamento ambientale tra i più gravi della terra, tanto che le cave di Carrara sono state inserite nella lista dei 43 paesaggi più distrutti al mondo nel nuovo documentario «Antropocene – L’Epoca Umana». Ogni anno, vengono scavati cinque milioni di tonnellate di marmo. Ma solo un quarto sono blocchi usati a livello artistico, mentre il resto, il vero affare, sono detriti di marmo che vengono trasformati in scaglie e poi in polvere, ottenendo così il carbonato, che viene usato per lavorazioni industriali, dalla pasta dentifricia alla carta e a tanti altri prodotti. Certamente qui si estrae il più pregiato e richiesto marmo al mondo. Sì, perché il marmo di Carrara, che è anche sinonimo di ricchezza e lusso: si trova nelle case, negli hotel, nei risto-
ranti e in importanti uffici pubblici da New York a Pechino, da Dubai a Nuova Delhi. Estrazione che tiene in piedi l’economia della zona. Ma questo non ha impedito un confronto duro e serrato tra imprenditori ed ecologisti sull’apertura di nuove cave. Ad oggi ci sono circa cento cave che danno lavoro a poco più di mille dipendenti, i così detti cavatori, una comunità lavorativa con un forte senso di appartenenza. Poi c’è l’indotto, dai camionisti alla trasformazione e lavorazione. Si parla di più di 10mila addetti. Anche se il numero di chi è impegnato nella trasformazione e lavorazione va diminuendo di anno in anno. La monocultura del marmo ha dato da mangiare a molte famiglie della zona, ma il lavoro del cavatore è sempre stato un lavoro pericoloso e gli incidenti mortali sono ancora molti: dodici negli ultimi tredici anni. E più di 1200 feriti. Così come le conseguenze per la salute di chi respira la polvere di marmo ogni giorno. Un lavoro cambiato nel tempo grazie alla tecnologia ma che ha aumentato l’impatto ambientale. Una volta si usavano mazze e scalpelli e si estraevano piccoli blocchi di marmo, che venivano trasportati dai
buoi e poi dai treni fino alle aree di lavorazione o di stoccaggio giù al porto, dove venivano imbarcati sulle navi. Per il taglio della pietra si è passati al filo elicoidale e per finire al filo diamantato dei nostri giorni. Accompagnato da macchinari, ruspe, scavatrici, camion. E così quello che una volta era il lavoro di un mese, oggi viene fatto in pochi giorni, aumentando l’impatto ambientale sulle montagne e l’inquinamento nella zona a causa di polveri, rumore, smog.
A tutto questo si aggiunge la grave contaminazione causata dalla marmettola, la polvere di marmo, che viene abbandonata nelle cave e si disperde nell’ambiente a causa del vento, inquina le falde acquifere o viene portata via dalle piogge facendo diventare i fiumi della zona di colore bianco. Nella classifica del 2018 di Lega Ambiente sull’ecosistema urbano, la provincia di Massa-Carrara era alla posizione 102 su 104 totali. Le Alpi Apuane hanno una natura aspra e selvaggia ma occorre assolutamente riconoscere che l’impatto ambientale dell’escavazione del marmo è fortissimo e irreversibile. E bisogna avere bene in mente che il marmo è una risorsa che si esaurisce, non si rigenera, non è infinito e queste ferite, queste cicatrici sulle montagne rimarranno per sempre. Dall’alto delle cave il panorama è bellissimo: si vede la città di Carrara, con la sua forma a clessidra, che si allunga fino al mare. Ma bisogna aspettare il tardo pomeriggio per poter ammirare questo paesaggio senza i rumori dei macchinari estrattivi. E tenere lo sguardo fisso verso l’infinito senza guardare in basso la moltitudine dei bianchi, immensi, crateri delle cave.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Ambiente e Benessere
Fiori e licheni per combattere il raffreddore
Fitoterapia La natura ci corre sempre in aiuto, soprattutto per prevenire o attenuare i sintomi dell’influenza,
migliorando il sistema immunitario o fluidificando il muco e calmando la tosse
Eliana Bernasconi Scegliere in determinati casi di affidarsi alla fitoterapia può essere una salutare decisione, anche se la lista dei rimedi antichi e recenti, come abbiamo visto in questa stessa rubrica, è quasi infinita e occorre orientarsi fra infusi e decotti, gocce di tinture e di tinture madri, estratti fluidi e secchi, compresse, oli essenziali. Perciò vale la pena di scrivere questo articolo per ricordare l’unica vera regola tassativa: è assolutamente fondamentale evitare di curarsi da soli e importante chiedere prudentemente consiglio a farmacisti, fitoterapisti, erboristi seri, questo perché anche se non sono prodotti chimici di sintesi ma provengono direttamente dalla natura non per questo le piante medicinali sono prive di pericoli a volte anche gravi. Un’antica teoria nota agli egizi e – poi a Ippocrate e Galeno, alla Scuola medica Salernitana, a Ildegarda di Binghen e a Paracelso – poneva in relazione l’uomo e il Cosmo, i 4 elementi di cui esso è composto, cioè Fuoco, Acqua, Terra e Aria, i quali governerebbero tutte le creature, uomini, animali, pietre, piante, provvedendo al loro equilibrio. Venivano allora classificate le erbe in base all’intensità del loro grado di calore, umidità, secchezza o freddezza. (Nella medicina Ayurvedica gli elementi che compongono il Cosmo sono cinque: Etere, Aria, Fuoco, Acqua e Terra). Secondo uno schema che gli anti-
chi chiamavano «Uomo zodiacale» si poneva una relazione fra piante e astri e si spiegava l’influenza dei singoli pianeti sui diversi organi del corpo umano; in altre parole persone appartenenti allo stesso segno – secondo questa teoria – tenderebbero a sviluppare problemi negli stessi organi, a dipendenza dei pianeti che li governano, di conseguenza, anche se questo farà certo sorridere chi si affida esclusivamente al rigore del metodo scientifico, esisterebbero rimedi erboristici più o meno indicati a dipendenza del proprio segno zodiacale… eppure talvolta succede che un rimedio erboristico agisca benissimo su una persona e sia rifiutato da un’altra, oppure che, come succede tra persone, si creino attrazioni e affinità, o al contrario rifiuti. Forse potremmo prender per buona regola una frase usata dal dottor Gabriele Peroni, farmacista, chimico e fitoterapista di lunga esperienza, il quale afferma che «ognuno deve trovare la propria pianta». Ora che la stagione fredda, malgrado le inquietanti previsioni sul nostro futuro climatico è regolarmente giunta con il suo bagaglio di infreddature, tossi e doloretti vari, al dottor Peroni abbiamo chiesto il nome di alcune piante che le persone gli chiedono maggiormente o che lui consiglia spesso. Le più sollecitate sono di certo: il Salice, la Spirea, l’Artiglio del diavolo, l’Incenso, (detto anche Boswelia), il Ribes nero e l’Ontano nero. È certo che il Salice, consigliato già
C. Perché possa davvero essere utile a rinforzare le difese immunitarie è tuttavia necessario sottoporsi a un trattamento almeno tre mesi prima dell’inverno. Per l’infiammazione bronchiale, per i vari tipi di tosse anche infantile, oltre al profumatissimo Timo che i romani bruciavano nei bracieri per scacciare gli spiriti maligni, è indicata la Piantaggine: le sue mucillaggini svolgono un’azione idratante sulle mucose irritate e calmano la sensazione di bruciore e secchezza della gola. Per fluidificare il catarro sono invece indicati l’infuso di Marrubio, dal nome di origine ebraica e presente nella tradizione erboristica fin dai tempi dell’antico Egitto. In questo senso sono consigliati anche la Malva dai mille usi e il Tè verde. Cipresso ed Eucalipto hanno invece una spiccata azione balsamica grazie alla presenza di olio essenziale, possiedono proprietà antisettiche e possono essere usati per inalazioni. Altra forte azione decongestionante, la produce il Lichene islandico, pianta sedativa che arriva dalle terre dei ghiacci del Nord Europa e che possiamo trovare sulle nostre montagne oltre i mille metri di altitudine dove il clima ne permette la crescita: è costituito, come tutti i licheni, da 2 organismi vegetali che vivono in simbiosi, un’alga ricca di clorofilla e un fungo. Da assumere sia come infuso sia come tintura madre.
Salice ed Echinacea, tra i rimedi più popolari. (publicdomainpictures.net)
all’epoca di Ildegarda di Bingen, è una pianta fredda e umida, fortemente legata all’elemento acqua; si usa per abbassare la temperatura, fluidificare il sangue, ed è un potente antireumatico. Il suo principio attivo, l’acido salicilico, è quello che troviamo nella famosa Aspirina. Nell’Ottocento questo principio attivo fu scoperto nella corteccia del salici e venne prodotto industrialmente diventando uno dei rimedi più diffusi nel mondo. Sempre nel lontano Medioevo, Ildegarda di Bingen, con sorprendente modernità, individualizzava le cure e stabiliva la quantità dei rimedi per ogni
diversa persona. Per tosse e raffreddore consigliava il Tanaceto, pianta presente anche oggi, di natura calda e umida, che aiuta a fluidificare il muco e riscalda. Ma a proposito di prevenzione e cura dei disturbi invernali come non nominare l’Echinacea, bellissimo fiore violaceo giunto a noi dagli indiani del Sud Dakota; studi clinici hanno evidenziato il suo meccanismo d’azione sul sistema immunitario, un vero antibiotico naturale che secondo gli esperti ridurrebbe del 65 per cento il rischio di incorrere in malattie da raffreddamento, percentuale che sale all’86 per cento se associato all’assunzione di vitamina
Giochi
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Scopri il proverbio nascosto in questo cruciverba risolvendolo e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 8, 6, 4, 9)
ORIZZONTALI 1. Un numero 5. Estremità inferiore di una veste 10. Una consonante 11. Vedere a Parigi 12. Le iniziali dell’attore Siani 14. Sigla di paternità ignota 15. Cugini di agli e cipolle 16. I corpi più dilatabili 18. Desinenza di diminutivo femminile 20. Amò Leandro 21. Vergogna, disonore 22. Sulle monete da un dollaro 24. Un anno a Parigi 25. Le iniziali dell’attore Insinna 26. Simbolo chimico del rutenio 28. La costellazione con Aldebaran 30. Diego saggista e opinionista italiano 32. Informazione che annulla la suspense VERTICALI 1. Rappresentato spesso nell’arte cinese 2. Vocali per scrivere bene 3. Emittente televisiva statunitense 4. Canti sacri 6. L’antico precede il medio 7. Piccoli frutti 8. Una bionda spumeggiante 9. Costellazione equatoriale 13. Fiume polacco... sul calendario 15. Il Peter di Barrie 17. Sono a coppie nei cassetti 19. Pronome personale 23. Consumati 25. Famoso capitano della Roma (iniz.) 27. Fiume euro-asiatico 28. Possessivo 29. Scorrono senza far rumore... 30. Le iniziali della nuotatrice Pellegrini 31. Oro francese
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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Soluzione della settimana precedente
CONOSCERE IL BASKET – Frasi risultante: centimetri di diametro del canestro di basket: QUARANTACINQUE - Metri di altezza del canestro dal terreno: TRE E ZERO CINQUE.
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Q U A L U E I M R O I Q
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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Politica e Economia Novità Bloomberg Scende in campo per i democratici a sfidare Trump l’ex sindaco di New York pagina 31
Morales si dimette Bolivia nel caos dopo l’allontanamento del primo presidente indigeno del Paese su pressione dei militari. Morales aveva ottenuto un quarto mandato ma in modo poco chiaro
Fotoreportage Viaggio nel dolore dei familiari delle donne vittime di femminicidio
La sabbia, enorme business Nel mondo vengono estratte 40-50 miliardi di tonnellate di ghiaia e sabbia all’anno
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pagina 39 La foto di un soldato Usa al Checkpoint Charlie a Berlino testimonia la vecchia divisione fra Est e Ovest. (AFP)
La luce che è fallita
30 anni dalla caduta del Muro L’Occidente è arrivato all’anniversario in pace e relativa prosperità ma con meno
gioia e più pessimismo rispetto al futuro. Perché deve fare i conti con la crisi dell’idea liberale Christian Rocca In questi giorni festeggiamo con gioia e passione il trentennale della caduta del Muro e la fine della Guerra fredda, ma la prima, inaspettata e visionaria picconata alla barriera di divisione fisica e ideologica tra l’est e l’ovest è stata assestata un anno e mezzo prima. Era il 12 giugno 1987, il giorno in cui è stata pronunciata la frase simbolo della fine della Guerra fredda: «Mr. Gorbaciov, tear down this wall», signor Gorbaciov tiri giù questo muro. Quel giorno il presidente americano Ronald Reagan era volato di prima mattina a Berlino ovest, partendo da Venezia, dove la sera prima si era concluso il vertice del G7. Poco dopo le due del pomeriggio, Reagan è salito sul palco montato davanti alla Porta di Brandeburgo, chiusa dal Muro che divideva l’ovest dall’est. Subito dopo l’intervento del cancelliere tedesco Helmuth Kohl, Reagan ha preso la parola. Era il 1.279esimo discorso della sua presidenza, ma è diventato il più importante e decisivo. Un altro protagonista della sconfitta del comunismo è stato Giovanni Paolo II, il Papa polacco che dal Vaticano ha assestato le sue picconate. Ci sono anche versioni più pop, come la leggenda secondo cui a far cadere il Muro sia stata, nell’estate 1989, una canzone di
David Hasselhoff, l’attore di Baywatch, che parlava di libertà e che divenne l’inno dei tedeschi dell’Est e dell’Ovest. C’è anche la storia del giornalista italiano, dell’agenzia Ansa, Riccardo Ehrman, il quale proprio la mattina del 9 novembre del 1989 durante una conferenza stampa chiese al portavoce del governo quando avrebbero aperto le frontiere e il portavoce risposte: «Da subito». E, infine, quella dell’impiegato Harald Jäger, addetto al controllo dei passaporti, il quale ascoltata la conferenza stampa alla radio e di fronte a migliaia di berlinesi che si assembrarono al varco verso l’ovest, intorno alle undici e trenta decise di aprire la frontiera. Da allora sono trascorsi tre decenni di pace e prosperità, ma siamo arrivati al trentennale con meno gioia rispetto al passato e più pessimismo rispetto al futuro. Esattamente settanta anni fa, nel 1949, è uscito The God that Failed, pubblicato in Italia l’anno successivo con il titolo Il Dio che è fallito, una raccolta di testimonianze di intellettuali di sinistra disillusi dal comunismo, scritta da giganti del pensiero e delle lettere quali Ignazio Silone, André Gide e Arthur Koestler. Quel libro è stato uno dei documenti più importanti della battaglia di idee combattuta durante la Guerra fredda tra mondo libero e totalitarismo.
A trent’anni dalla caduta del Muro e del fallimento fisico della divinità comunista denunciata per tempo da Silone, Gide e Koestler, anziché celebrare «il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità» (Francis Fukuyama), ci ritroviamo infatti a fare i conti con la crisi dell’idea liberale e di conseguenza a non sentirci per niente bene. Un libro appena uscito in inglese, scritto dal bulgaro Ivan Krastev e dall’americano Stephen Holmes, prova a cercare una spiegazione originale al motivo per cui ci troviamo in questa situazione. Il saggio si intitola The Light that Failed, la Luce che è fallita, titolo evocativo di quello anticomunista del 1949. L’11 settembre, la guerra in Iraq, la crisi finanziaria del 2008, l’annessione russa della Crimea e l’invasione dell’Ucraina, l’impotenza occidentale a fermare il disastro umanitario in Siria, l’emergenza migratoria del 2015 in Europa, il referendum sulla Brexit, l’elezione di Donald Trump e l’ascesa né liberale né democratica della Cina sono le ragioni che hanno reso il liberalismo vittima del suo stesso successo, ma secondo i due autori l’aspetto più interessante è quello politico-psicologico. I populisti dell’est europeo, scrivono, non protestano semplicemente contro un sistema di pensiero, ma contro la sostituzione dell’ortodossia co-
munista con quella liberale. La rivolta globale è contro l’ideologia del thereis-no-alternative, contro il pensiero unico, contro la presunta assenza di alternativa al liberalismo, perché i popoli hanno bisogno di poter scegliere o perlomeno devono vivere l’illusione di poterlo fare. L’idea che la modernizzazione sia sinonimo di assimilazione per imitazione del modello occidentale è controproducente, scrivono i due autori del libro, ed è anche la base del nuovo conflitto globale tra imitatori e imitati che ha preso il posto di quello tra Est e Ovest. La pretesa superiorità morale degli imitati sugli imitatori e l’aspettativa che l’imitazione debba essere senza condizioni invece che adattabile alle tradizioni locali, assieme alla presunzione che i paesi imitati abbiano il diritto di controllare e valutare i progressi degli imitatori, sono il gigantesco innesco del patatrac. In Cina non succede perché i cinesi adottano le tecnologie occidentali per crescere economicamente e rafforzare il prestigio del Partito comunista principalmente allo scopo di resistere, si legge in The Light that Failed, al canto delle sirene occidentali. Il tentativo di democratizzare, di aprire, di modernizzare, invece, ha come obiettivo una specie di conversione culturale a valori
e comportamenti considerati normali in Occidente o a Londra o a Milano, ma che altrove è considerata una minaccia all’identità nazionale. Questa era dell’imitazione ha un impatto notevole anche nel mondo occidentale. Come in uno specchio, scrivono Krastev e Holmes, gli occidentali vedono nel tentativo di imitazione altrui la minaccia di modificare irreparabilmente quel modello di vita: «Questa paura di essere spodestati e sostituiti ha due fonti: da un lato gli immigrati e dall’altro la Cina». Il ragionamento di Krastev e Holmes è seduttivo, oltre che confermato dalle analoghe impossibilità di imporre il modello liberal democratico nel mondo arabo e musulmano, anche se non si avventura a spiegare per quale motivo invece tutto questo abbia funzionato nel dopoguerra post fascista italiano e altrove. E allora, d’accordo: superbia, vanagloria e saccenteria nuocciono gravemente alla salute dell’occidente. E con la boria del nonc’è-alternativa al sistema di vivere che piace a noi non si fanno amicizie. Meglio mostrare doti di umiltà, adeguare la way of life ai tempi che corrono e non imporre a nessuno modelli da imitare, ma allo stesso tempo occhio agli imitatori nostrani dell’autoritarismo illiberale.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Politica e Economia
Bloomberg for president?
Casa Bianca 2020 L’ex sindaco di New York si candida
alle presidenziali per i democratici tra mille dubbi interni allo stesso partito
Federico Rampini Effetto-Bloomberg più effetto-impeachment: sono i due temi su cui si è concentrata l’attenzione dei media e della sinistra negli Stati Uniti. Cominciando dal primo: quanto cambia, cosa cambia, la (probabile, non ancora ufficiale) scesa in campo di Michael Bloomberg nelle primarie democratiche? Il dibattito sulla candidatura dell’ex sindaco di New York incrocia quello con le proposte radicali di Elizabeth Warren: tasse sui ricchi e statalizzazione della sanità. I repubblicani, che dovrebbero essere nei guai per l’impeachment, gongolano compiaciuti di fronte alla divaricazione tra le due anime del partito democratico. «Farà del male a Biden. In quanto a me, sarei felice di battermi col Piccolo Michael». Donald Trump ha liquidato con sarcasmo la notizia che il suo concittadino Michael Bloomberg, ex sindaco di New York, sta per scendere in campo per la nomination democratica. Gli ha già affibbiato il nomignolo sprezzante come ama fare lui. Se mai dovessero incontrarsi in finale, la bassa statura di Bloomberg sarà evidente nei duelli televisivi. Anche se in termini di ricchezza, il nano è Trump: il suo patrimonio personale (finora accuratamente nascosto ai cittadini) non sembra valere neppure un decimo di quello di Bloomberg, che è superiore ai venti miliardi di dollari. E in quanto a nomignoli, Little Michael parlando alla convention democratica del 2016 – quella che incoronò Hillary Clinton – demolì la figura imprenditoriale di Trump definendolo «un Con Man, truffatore di mezza tacca, losco figuro che noi newyorchesi conosciamo bene». Bloomberg rappresenta l’altro volto del capitalismo americano: mecenate progressista, filantropo alla Bill Gates, da primo cittadino investì nel verde pubblico e nelle piste ciclabili, guidò una coalizione mondiale di sindaci per combattere il cambiamento climatico. Miliardario liberal contro miliardariocanaglia; 77enne contro 73enne; gara tra newyorchesi; e tra due outsider della politica nessuno dei quali viene dai ranghi del partito in cui si candida: sarebbe un duello ricco di paradossi. Trump vede giusto però quando analizza la notizia della quasi-candidatura di Bloomberg come un colpo per Joe Biden, l’ex vice di Barack Obama. Per la precisione, l’ex sindaco di New York ha predisposto le pratiche per inserire il suo nome sulle schede elettorali delle primarie democratiche in alcuni Stati dove la scadenza per iscriversi è vicina, come l’Alabama. Non c’è ancora nulla di sicuro. Però il segnale è chiaro: sfiducia verso gli altri candidati democratici. Un anno fa Bloomberg aveva già esaminato l’ipotesi per poi accantonarla. Diversi dubbi lo avevano trattenuto. Da un lato il timore di essere troppo «newyorchese», cioè radical chic: ambientalista, favorevole agli immigrati, ma anche legato al mondo della finanza (i terminal della società Bloomberg sono usati dalle banche per operare sui mercati oltre che per avere quotazioni e notizie). E poi ebbe il timore che la sua candidatura potesse dividere i democratici più che mobilitarli. Bloomberg rappresenta un mix controverso di liberismo economico, moderatismo fiscale, posizioni radicali sui temi valoriali (contro le armi, per il diritto al matrimonio gay ecc). Cos’è cambiato, per indurlo ad accantonare le riserve? Innanzitutto c’è
un impeachment che rischia di danneggiare Biden, il moderato per eccellenza, per il suo coinvolgimento nel Kiev-gate. Ancor più di recente c’è l’effetto Elizabeth Warren. La senatrice del Massachusetts al momento appare la favorita, in particolare negli Stati che aprono il calendario delle primarie, Iowa e New Hampshire (febbraio). La Warren è diventata celebre come un’avversaria dei banchieri durante la grande crisi del 2008-2009, fu vicina al movimento Occupy Wall Street. Ha ripreso alcune delle idee di Bernie Sanders, l’unico candidato che si è sempre definito un socialista. I maligni diranno: con la Warren in testa nei sondaggi e la sua proposta di tosare le grandi fortune con una maxi-patrimoniale del 6% annuo, il miliardario Bloomberg vuole difendere i propri soldi. In realtà lui la ricchezza la usa per fare filantropia, la patrimoniale (se mai dovesse entrare in vigore) dirotterebbe verso il Tesoro una parte di quel che il mecenate sta donando – per esempio – all’università Johns Hopkins di Baltimora per la ricerca medica. L’effetto Warren è un altro: il timore che l’ascesa della senatrice del Massachusetts sia il preludio di una débacle elettorale che regalerebbe a Trump il secondo mandato. Da quando la Warren ha esplicitato le sue proposte più radicali, come il sistema sanitario pubblico e universale a cui lei stessa attribuisce un costo di transizione da 20’000 miliardi di dollari in un decennio, un pezzo di America moderatamente progressista è nel panico; mentre la destra esulta. Il sistema che propone la Warren è in realtà simile a quello in vigore in diverse nazioni europee, che spendono meno per la sanità e ottengono risultati migliori degli Stati Uniti. Però la transizione da una sanità quasi interamente privata ad una totalmente pubblica non è semplice; avrebbe dei costi iniziali elevati; e toglierebbe la libertà di scelta a una parte di ceto medio e lavoratori dipendenti i quali ricevono dalle aziende polizze assicurative private come parte del pacchetto retributivo. Gli opinionisti conservatori gongolano: contro una socialista che promette di espropriare i ricchi e dissanguarci di tasse, la rielezione di Trump a un secondo mandato sarà una passeggiata. Bloomberg sta forse convincendosi di dover salvare il partito democratico da una sicura sconfitta. Quali effetti può avere una sua partecipazione alle primarie? Rappresenterebbe l’alternativa moderata a un Biden in declino. Potrebbe anche attrarre una fascia di moderati repubblicani, quelli che un tempo si riconoscevano in Mitt Romney o Bush (più padre che figlio). Più problematico invece l’appeal verso i metalmeccanici del Michigan, i neri, i giovani innamorati del socialismo alla Warren-Sanders, insomma il mondo «politically correct dei campus universitari». A proposito di quest’ultima fascia di elettori: è già cominciata l’offensiva della «polizia femminista» contro Bloomberg, di cui è stato rispolverato qualche commento poco lusinghiero sulle donne. (Questo genere di offensive censorie colpisce solo candidati democratici, com’è noto Trump ne è immune nel senso che i suoi elettori ed anche le sue elettrici non lo giudicano sul suo maschilismo). È sintomatico che l’effetto-Bloomberg sia visibilissimo sulla East Coast e sui media progressisti, pressoché inesistente nell’America «di mezzo», tutt’altro che formidabile perfino in California.
Prima constatazione: arcinoto a noi newyorchesi, Bloomberg è semisconosciuto in molte parti degli Stati Uniti. Soprattutto quelle che saranno decisive per vincere nel 2020, come gli Stati industriali del Mid-West. Sull’effetto-Trump visto da destra userei un parallelismo italiano. Trump è un Berlusconi, Bloomberg è un Montezemolo o Della Valle. Qui non mi riferisco alla caratura imprenditoriale dove Bloomberg stravince la gara per serietà, talento, competenza e risultati aziendali. Mi riferisco al fatto che essere straricchi non è la caratteristica qualificante. C’è un miliardario capace di incantare le masse perché è un maestro del mezzo televisivo e dei social media: Trump. C’è un miliardario molto serio e credibile, ma irrimediabilmente identificato con l’élite, l’establishment: questo è Bloomberg. Ecco perché la destra mi sembra meno spaventata della sinistra. Aggiungo la discesa in campo in extremis dell’ex governatore del Massachusetts Deval Patrick. Che diventa così il 18esimo candidato democratico in lizza per la nomination. Afro-americano, Patrick è un amico personale di Obama e si colloca nella stessa tradizione moderata. Le sue chance sem-
Michael Bloomberg: secondo Trump «farà del male» a Biden. (AFP)
brano limitate, ma il suo annuncio tardivo conferma il disagio di una parte dei democratici per un parco-candidati troppo squilibrato a sinistra. Dalla settimana scorsa l’impeachment è diventato uno spettacolo pubblico: i testimoni convocati dalla Camera ormai vengono interrogati davanti alle telecamere. Da questo momento la dinamica dell’impeachment può cambiare, perché c’è un’audience di massa. Prima constatazione: le testimonianze che si sono susseguite in questa prima settimana rafforzano le ragioni dell’impeachment. Diversi diplomatici ed ex-diplomatici, anche trumpiani, hanno corroborato la tesi di un «do ut des» tra il presidente americano e quello ucraino. In sostanza il messaggio a Kiev era questo: gli aiuti americani arriveranno se il governo ucraino indaga sugli affari del figlio di Biden in quel Paese. Un presidente Usa che mercanteggia aiuti militari strategici con favori personali che lo aiutino nella sua campagna elettorale: ci sono pochi dubbi
che questo sia un reato degno d’interdizione-destituzione ai sensi della Costituzione. I democratici, a cominciare dalla presidente della Camera Nancy Pelosi, si sentono confortati nella loro scelta di aprire il procedimento. Nella prima fase, quella che si svolge alla Camera, ci sono pochi dubbi: la maggioranza è in mano ai democratici, i quali voteranno l’impeachment che equivale ad una incriminazione del presidente. La palla passerà al Senato in funzione di tribunale giudicante; presumibilmente quando saremo già all’inizio delle primarie. Lì i repubblicani sono maggioranza, e occorre il voto dei due terzi dei senatori perché il presidente sia condannato, quindi destituito (gli subentrerebbe il suo vice, Mike Pence). Al momento non si vedono segnali di spostamento di qualche decina di senatori repubblicani contro il loro presidente. Può darsi che lo spettacolo pubblico abbia un impatto tale sugli elettori repubblicani da cambiare le cose; per ora lo giudico poco probabile. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Brucia anche la Bolivia
Politica e Economia
Golpe o non golpe? Pressato da polizia e militari il presidente è stato costretto a dimettersi e a chiedere asilo
politico in Messico. In molti parlano di colpo di stato mentre nelle strade di La Paz si vivono scene da guerra civile
Angela Nocioni Il portellone si apre e sulle scalette dell’aereo messicano che atterra al Districto federal, Ciudad de Mexico, dopo un’odissea di scali negati e spazi aerei d’emergenza aperti all’ultimo minuto, sbuca un Evo Morales stravolto, spettinato, con l’aria di chi non chiude occhio da giorni. La maglietta celeste e i pantaloni sporchi di terra sono quelli con cui è scappato da la Paz due giorni fa. Dice: «Hanno assaltato la mia casa di Cochabamba, dato fuoco alla casa di mia sorella, stanno sequestrando i nostri compagni meno protetti, ci siamo dimessi per limitare la escalation di violenza». Poi corre dal presidente messicano Lopez Obrador che ha dato asilo a lui e ai suoi principali collaboratori, ergendosi così a figura di riferimento politico continentale per la nuova polarizzazione politica tra destra estrema e progressiti non liberal che si è ormai codificata nelle ultime tre settimane tumultuose dell’America latina. Al Senato di la Paz, nel frattempo, protetto da cordoni delle forze armate, è stata proclamata presidente Jeanine Añez, esponente della destra, fino alla settimana prima personaggio di quarta fila dell’opposizione alla (ex) rivoluzione indigenista di Evo Morales. È una presidente senza quorum. I due terzi dei parlamentari non l’hanno votata. La maggioranza parlamentare è ancora del Mas, il Movimento al socialismo, il partito di Morales, il presidente in carica deposto da un tumulto guidato dalla polizia. Improvvisamente abbandonati dal gruppo di militari che garantiva la loro sicurezza, Evo Morales, il presidente (indio) della Bolivia, e il suo vice Alvaro Garcia Linera (bianco – il colore della pelle non è un dettaglio, ma un elemento fondamentale nella politica boliviana) si sono dimessi. Denunciano di aver subito un golpe. Anche l’opposizione parla di un golpe. Sostiene di averlo sventato. E sventola il rapporto della Organizzazione degli stati americani (Osa), chiamata a verificare la correttezza nel discusso spoglio delle schede elettorali delle elezioni presidenziali del 20 ottobre. Il rapporto denuncia irregolarità e strani momenti di buio nel conteggio dei voti.
L’attuale crisi ha origine nel 2016 quando un referendum ha bocciato una modifica della Costituzione voluta da Morales per cancellare il limite di due mandati alla presidenza Saccheggi e assalti sono in corso nelle grandi città, soprattutto a El Alto, il sobborgo di un milione di persone che domina dall’alto la Paz, abitato principalmente da ex minatori e indigeni delle province immigrati nella capitale, roccaforte di voti rossi. El Alto è tradizionalmente la fabbrica della rivolta in Bolivia. È organizzato (anche militarmente) e disciplinatissimo. Se insorge El Alto, di solito, cadono i governi. Solo che stavolta non c’è un governo da far cadere. Non ci sono nemmeno il presidente del Senato e quello della Camera, dimessisi entrambi. Il presidente della Camera, Victor Borda, ha detto di averlo fatto per salvare la vita a suo fratello, in quel momento sequestrato da attivisti antigovernativi. I ministri se ne sono andati, uno a uno. Il ministro delle Miniere, Cesar Navarro, s’è dimesso mentre era a Potosì, centro minerario in quel mo-
Evo Morales con il suo vice Alvaro Garcia Linera. (AFP)
mento in mano ai manifestanti anti Morales, dicendo che avevano appena dato alle fiamme la casa dove vive. Idem il ministro degli Idrocarburi e tutti gli altri, dirigenti di Stato filogovernativi compresi. Seguiti poi da sindaci, diplomatici, governatori, singoli deputati. Il vuoto di potere è totale. Le Forze armate e la polizia sono in lotta tra loro e divise in fazioni al loro interno. La spallata finale a Morales è stata data da una decisione cruciale presa dai vertici di polizia che, convinti a cogliere l’attimo, gli hanno fatto pagare il conto per tredici anni (le prime elezioni Morales le vinse nel 2006 e da allora è stato sempre rieletto) di potere perduto in favore dell’esercito, del quale il presidente indio si è sempre servito, a scapito della polizia, considerandolo meno infido. Molti poliziotti hanno preso parte alle manifestazioni popolari che chiedevano le dimissioni immediate del governo. Fonti locali sostengono che ci fossero molti poliziotti nel gruppo di persone che ha tentato l’assalto all’ambasciata venezuelana di La Paz. Si moltiplicano gli incendi e gli assalti, il più grosso finora è stato quello al deposito degli autobus della capitale dato interamente alle fiamme. Morales, prima di riuscire a salire sull’aereo messicano, ha scritto: «C’è un ordine di arresto illegale nei miei confronti. Gruppi armati hanno assaltato il mio domicilio». Alvaro Garcia Linera prima di dimettersi ha fatto una sintesi, a modo suo, degli anni di governo: «Abbiamo fatto rinascere la Bolivia. Il 20 ottobre la metà dei boliviani ha votato per noi. Forze oscure hanno cospirato contro di noi. Hanno dato fuoco a istituzioni e sedi sindacali, Hanno organizzato bande paramilitari per intimidire i contadini, minacciano i nostri compagni. È un golpe. Anch’io rinuncio. Sempre sono stato leale al presidente, sono orgoglioso di essere il vicepresidente di un presidente indige-
no e sempre starò al suo fianco, nel bene e nel male». In realtà, da vice, Linera ha governato tanto quanto Morales, che del governo è stato il leader carismatico e la faccia utile a tenere mobilitati indigeni, cocaleros e minatori, ossia la stragrande maggioranza del Paese. Sono opera sua le fondamentali operazioni del governo. Cominciando dalla prima, la nazionalizzazione del gas, che ha ridisegnato la struttura dell’economia boliviana. E passando per la difficilissima trattativa costante con imprenditori e leader d’estrema destra dell’Oriente bianco e ricco di Santa Cruz che chiede da sempre la secessione per diventare un piccolo Kuwait non dipendente da La Paz. La questione Santa Cruz è cruciale nel conflitto eterno boliviano tra il paese andino al 75% indio e un Oriente ricco e bianco, popolato da discendenti di emigrati in fuga nostalgici del Terzo Reich scappati a Santa Cruz alla fine della Seconda guerra mondiale, ustascia croati e estremisti i destra di varia origine che non sopportano, e non l’hanno mai nascosto, l’idea di essere governati da un indigeno.
La Bolivia in questi 14 anni è diventato un altro Paese, guidato con grande abilità da due pragmatici mediatori Cos’è successo il 20 ottobre? Il flusso dei risultati elettorali sembrava indicare che Morales non avrebbe vinto al primo turno, ma sarebbe dovuto andare al ballottaggio da favorito con il suo rivale di destra di sempre, il candidato dell’opposizione ed ex presidente Carlos Mesa. Improvviso black out. Conteggio sospeso. Quando torna l’energia elettrica e si ha il primo nuovo
conteggio, Morales è in netto vantaggio e vince. Dopo pressioni, interne ed esterne, ed ondate di proteste, Morales accetta di indire nuove elezioni. La Organizzazione degli stati americani denuncia scorrettezze nel riconteggio e, soprattutto, il coinvolgimento non previsto di un server esterno nella trasmissione dei dati. Morales ha accettato di indire nuove elezioni. Carlos Mesa e altri leader dell’opposizione, tra cui il capo degli insorti, Luis Fernado Camacho, gli hanno chiesto di non partecipare alle nuove elezioni e di lasciar loro costituire, nel frattempo, una «giunta di governo» formata dagli alti comandi delle forze armate e della polizia. Contro Morales c’è un brutto precedente. Poiché la Costituzione gli vietava di candidarsi in eterno e lui sosteneva che «per completare la rivoluzione indigenista in Bolivia» doveva continuare a governare, ha indetto un referendum per abrogare la norma che gli vietava la ricandidatura. L’ha perso. Approfittando di un potere innegabile esercitato di fatto sul Tribunale supremo elettorale, a lui fidelizzato con operazioni mirate negli ultimi anni (esattamente come fece Chavez in Venezuela e con gli stessi esiti), il suo governo ha cambiato comunque la norma aggirando il divieto. E lui s’è ricandidato. Che abbia preso una pessima piega la sua rivoluzione indigenista è fuori di dubbio. Un’attitudine da autocrate l’ha adottata. Un gusto nell’esercizio disinvolto del potere, pure. «Pontificare a Roma non è come predicare qui in parrocchia» dice lui se gli si chiede conto della brutta china. «Qua abbiamo nazisti veri, ci vorrebbero impalare tutti» aggiunge Linera. Purtroppo per loro la democrazia prevede altri metodi e il rapporto della Osa, se non smentito con i dati alla mano, è una denuncia pesante. Innegabile è anche, però, che la Bolivia in questi quattordici anni è
diventata un altro Paese, guidato con grande abilità politica da un tandem di duttilissimi e pragmatici mediatori. Morales & Linera (il suo vice, ma sarebbe meglio dire, la sua metà) hanno portato al governo una politica sociale tutta rivolta ai più poveri e una politica economica che, a bene vedere, non si è mai discostata dalle regole del liberismo. La strana coppia è riuscita a portare la Bolivia a un tasso di crescita inedito. La Paz, storica debitrice del Fmi, è arrivata a prestare denaro ai suoi vicini. Ha moltiplicato i profitti dell’export del petrolio. Quel modello di governo socialisteggiante, ispirato al comunitarismo indigeno delle antiche comunità aymara, qualsiasi cosa sia, per anni non è stato imposto con la forza. Non è avanzato come uno schiacciasassi. Anzi. I due hanno fatto della disponibilità alla trattativa l’arma più affilata del governo. Anche per questo hanno vinto tutte le elezioni. E si è votato spesso, in Bolivia nell’ultimo decennio. Si sono seduti a dialogare con tutti. Sono andati a cercare un accordo con i radicalissimi minatori di Potosì, in marcia su la Paz con candelotti di dinamite in mano, con i gruppi armati indigeni che hanno accusato Morales di «svendere la patria aymara» ogni volta che tentava mediazioni con il resto del quadro politico nazionale che non fosse la sinistra più estrema. E hanno trattato anche con i governatori orientali che si rifiutano di stringere la mano al presidente indio perché, dicono, «noi non siamo Tarzan e non parliamo con le scimmie». C’è stato un periodo in cui riuscivano a prendere il 50% anche a Santa Cruz, a Tarija e a Pando, le terre della «mezzaluna fertile» boliviana che hanno sempre voluto la secessione. Poi l’incantesimo s’è rotto. La spallata è arrivata. La Paz sta tornando in a mano quelli che dicono «noi non parliamo con le scimmie».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Politica e Economia
Violenza di genere maschile
Reportage In occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne (25 novembre) pubblichiamo
questo lavoro fotografico in cui vengono mostrate «le conseguenze» dei femminicidi sulle famiglie e sulla società
Stefania Prandi
C’è molta attenzione anche mediatica sulla violenza domestica e sui femminicidi, un fenomeno ancora troppo diffuso Giovanna Zizzo fa parte, con altre madri, padri, fratelli, sorelle e figli, di un movimento che in Italia, e nel resto del mondo, dalla Francia all’Argentina, ha iniziato ad alzare la voce contro i femminicidi – termine con cui si intende l’uccisione oppure la scomparsa di una donna per motivi di genere, di odio, disprezzo, piacere o senso del possesso. Ai familiari delle donne assassinate restano i giorni del dopo, i ricordi immobili trattenuti dalle cornici, le spese legali, le umiliazioni nei tribunali e i processi mediatici. Sono sempre di più i parenti che intraprendono battaglie quotidiane: scrivono libri, organizzano incontri nelle scuole, lanciano petizioni, raccolgono fondi per iniziative di sensibilizzazione, creano associazioni. Lo scopo è fare capire alla società che ciò che si sono trovati a vivere non è dovuto né alla sfortuna né alla loro colpa (tantomeno a quella delle vittime), ma ha radici culturali e sociali precise, do-
Tutte le foto del reportage possono essere viste sul sito online di «Azione». (Stefania Prandi)
vute al diffuso senso di proprietà e di dominio degli uomini sulle donne. Secondo il rapporto annuale dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC), i reati contro le donne sono in crescita. L’European Union Agency for Fundamental Rights (FRA) rileva che, nei ventotto Paesi dell’Unione Europea, una donna su tre (sessantadue milioni) ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita,
e una su venti è stata stuprata. I progressi degli ultimi anni non sono stati sufficienti a migliorare la situazione. Le diverse ricerche indicano che il femminicidio avviene soprattutto tra le mura di casa oppure per mano di conoscenti, ma esistono casi in cui i colpevoli sono gli estranei. Marisa Degli Angeli, madre di Cristina Golinucci, scomparsa il primo settembre del 1992 in Italia, è convinta che sia stato uno sconosciuto a uccidere sua
Stefania Prandi
Laura Russo è stata uccisa a dodici anni dal padre, in casa, in provincia di Catania, il 21 agosto 2014. Nella notte Roberto Russo ha scritto un biglietto alla moglie per darle la colpa di quanto stava per accadere e ha accoltellato la figlia mentre dormiva. Ha colpito anche Marika, sorella poco più grande, che è riuscita a difendersi attirando l’attenzione dei due fratelli maggiori, intervenuti sventando la strage. A causa delle ferite è entrata in coma per alcuni giorni. Come hanno scritto i giudici nella condanna, l’uomo voleva «infliggere un castigo alla madre», Giovanna Zizzo. Lei aveva scoperto che lui la tradiva e si era allontanata temporaneamente da casa, senza mai perdere contatto con i figli. «Oggi a distanza di cinque anni non ho paura di urlare, di parlare. Anche se c’è una sentenza di ergastolo, nulla mi restituisce più mia figlia. Se non continuerò io a gridare per lei, è come se venisse uccisa un’altra volta. Invece la mia Lauretta, come tutte le vittime di femminicidio, deve essere ricordata, commemorata».
figlia. Aveva ventun anni. Quel pomeriggio aveva appuntamento con Padre Lino Ruscelli, suo confessore al convento dei Frati Cappuccini di Cesena. Cristina è arrivata al convento, come prova la sua auto, ferma nel parcheggio, e da quel momento non si è più saputo nulla di lei. «È uscita di casa poco prima delle due del pomeriggio e mi ha detto che ci saremmo riviste la sera per andare insieme alla festa della nostra frazione, Ronta. Mentre ero in casa che facevo dei lavori, tutto iniziò a scivolarmi dalle mani, come se fossero diventate di burro. Era lei che chiedeva il mio aiuto, l’ho capito solo più tardi». Per anni non ha potuto fare le ricerche adeguate perché il Convento dei Frati Cappuccini, dove venivano ospitati uomini di diversa provenienza geografica, uno dei quali ha confessato di avere ammazzato Cristina, ritrattando successivamente, non ha permesso l’ingresso. A Marisa (che da allora usa il cognome della figlia), sono arrivate segnalazioni anonime. «C’è chi si diverte. Si fatica a capire quanto ci sia di vero e quanto di falso. Mi hanno scritto, in una lettera non firmata del 1999: «È ora che sappiate la verità. Cristina è arrivata al convento, lì è stata presa, stuprata, uccisa, nascosta nei nascondigli»». Marisa Golinucci è entrata nell’Associazione Penelope (è una delle presidenti regionali) per le
persone scomparse. «Interveniamo appena ci contattano per aiutare i parenti a ritrovare i loro cari. Se riusciamo a salvare una vita, per noi è una festa». Giovanna Ferrari (nella foto accanto), madre di Giulia Galiotto, offre sostegno diretto alle donne che cercano di scappare da rapporti violenti. Sua figlia Giulia è stata assassinata dal marito Marco Manzini l’11 febbraio del 2009, in provincia di Modena. Da anni partecipa anche a manifestazioni, incontri nelle scuole contro le discriminazioni di genere, fa attivismo su Facebook postando ogni giorno notizie sulla violenza e le storture del sistema giudiziario italiano. È andata in televisione e si è iscritta all’UDI (Unione Donne in Italia). Per difendere la memoria della figlia ha scritto un libro, Per non dargliela vinta (Edizioni Il Ciliegio, 2012). Alle diverse iniziative partecipa sempre con suo marito Giuliano Galiotto, padre di Giulia. Lui la accompagna, ma resta in disparte. «Chi osserva da fuori non sa come sono andate le cose. Sui giornali l’hanno chiamato “Il delitto di San Valentino”, “Crimine passionale”». Io e Giulia eravamo legati, parlavamo molto. L’ho sentita a mezzogiorno, quel giorno in cui lui l’ha uccisa. Mi aveva chiamato lei, mi ha fatto ridere con una battuta, poi mi ha annunciato che aveva una cena con il marito». Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Il business della sabbia
Politica e Economia
Economia&ambiente Una crescente tendenza all’estrazione irresponsabile e illegale rende il business
della sabbia un problema ambientale importante. In un nuovo rapporto l’ONU richiama all’ordine. In Svizzera com’è la situazione? Stefano Castelanelli Dubai, Medio Oriente. La città rappresenta oggi uno degli sviluppi architettonici più spettacolari al mondo. La scoperta del petrolio nel 1966 ha trasformato la città portuale di allora nella vibrante e moderna metropoli di oggi. Dubai presenta diversi progetti architettonici al limite tra l’assurdo e il grandioso come le isole artificiali di sabbia a forma di palma, il Palm Jumeirah e il Palm Jebel Ali. I progetti furono iniziati nel 2001 e furono presto seguito da un terzo progetto ancora più stravagante, il World Islands Project, un arcipelago di 300 isole artificiali a forma di mappa del mondo. Questi progetti edili sono sì impressionanti, ma la loro realizzazione ha richiesto un prezzo elevato: l’esaurimento delle riserve di sabbia di Dubai. Per i progetti successivi come la torre Burj Khalifa, l’edificio più alto al mondo, altro progetto croce e delizia della città, sono stati importati grandi quantità di sabbia da tutto il mondo.
Sabbia e ghiaia rappresentano il più grande volume mondiale di materie prime estratte: 40-50 miliardi di tonnellate ogni anno Senza sabbia infatti non c’è cemento, né asfalto, né vetro per costruire le infrastrutture necessarie alla nostra economia. La sabbia è usata dappertutto perché è economica, versatile e facile da ottenere. Tuttavia, la sua estrazione è una delle attività meno regolamentate in molte regioni. Una crescente tendenza all’estrazione irresponsabile e illegale negli ecosistemi marini, costieri e di acqua dolce rende questo un problema ambientale importante. Il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) ha pubblicato in febbraio un rapporto che illustra le possibili soluzioni per un uso responsabile delle riserve di sabbia. Secondo il rapporto, gli impatti ambientali e sociali negativi dell’estrazione della sabbia possono essere ridotti grazie a tre soluzioni: diminuire il consumo; utilizzare materiali riciclati e alternativi alla sabbia; e attuare standard e pratiche ecosostenibili. Il rapporto chiede a tutti gli attori coinvolti di impegnarsi per un uso respon-
L’isola di Palm Jumeirah, a Dubai, durante la costruzione, nel 2006. (Keystone)
sabile delle riserve di sabbia. Ma cosa c’è dietro il business della sabbia? A causa degli elevati costi di trasporto, gran parte della sabbia viene consumata a livello regionale. Sabbia e ghiaia vengono estratte da cave, laghi e fiumi, rimosse dalle spiagge costiere o estratte dal fondo marino. Possono anche essere recuperate dal riciclaggio di materiali da costruzione e demolizione. I deserti sono pieni di sabbia. La sabbia del deserto, tuttavia, è inutile per la maggior parte degli usi perché non è adatta alla produzione di calcestruzzo a causa dei suoi granuli levigati dal vento. Sabbia e ghiaia costituiscono il più grande volume mondiale di materie prime estratte. Si stima che tra 40 e 50 miliardi di tonnellate vengano prodotte ogni anno. L’industria edile consuma più della metà di questo volume, con la sola Cina che rappresenta oltre la metà della domanda edile globale. È probabile che la domanda globale aumenti
nel prossimo decennio a causa dell’aumento della popolazione, dell’urbanizzazione e della crescita economica. A causa dell’esaurimento delle riserve di sabbia e ghiaia delle cave, l’estrazione di sabbia e ghiaia da fiumi, coste e fondali marini è in crescita. Secondo le stime dell’UNEP, queste fonti coprono il 10% della domanda globale (il restante 90% proviene da cave). Tuttavia, questa proporzione relativamente piccola è responsabile degli impatti ambientali e sociali negativi dell’estrazione della sabbia. L’estrazione della sabbia da questi ecosistemi nei paesi in via di sviluppo infatti spesso non è conforme alle normative ambientali o è illegale. L’estrazione di sabbia dal mare può avere un impatto negativo sulla biodiversità marina distruggendo organismi, habitat ed ecosistemi. Mentre l’estrazione di sabbia dai fiumi crea argini instabili, che causano un aumento della frequenza
e l’intensità delle inondazioni. Inoltre possono ridurre la deposizione di sedimenti dai fiumi in molte zone costiere, che causa un’inferiore deposizione nei delta dei fiumi e l’erosione delle spiagge. L’erosione è causata anche dalla rimozione diretta della sabbia dalle spiagge, principalmente mediante l’estrazione illegale di sabbia. Per ampliare la superficie della città-stato di Singapore ad esempio, cresciuta del 25% negli ultimi 50 anni, sono scomparse intere isole; ben 24 secondo le Nazioni Unite. Inoltre, la sabbia viene sempre più spesso estratta legalmente e illegalmente all’interno delle riserve naturali di biodiversità e delle aree protette. Secondo il rapporto dell’UNEP, una prima soluzione per promuovere l’estrazione responsabile della sabbia è diminuire il consumo. In particolare, dovrebbero essere evitati i progetti di speculazione o di prestigio, come quelli di Dubai, e la cementificazio-
ne eccessiva. Una seconda soluzione per un uso responsabile della sabbia è quella di promuovere il riciclaggio dei rifiuti edili minerali e l’uso di materiali da costruzione alternativi. Rifiuti edili minerali come l’asfalto di demolizione o il calcestruzzo di demolizione sono perfetti per il riciclaggio e possono teoricamente essere riciclati fino al 100%. Solo raramente questi rifiuti sono contaminati da corpi estranei o da sostanze pericolose e devono essere depositati in discarica. Inoltre, progetti pilota hanno dimostrato che materiali alternativi possono essere utilizzati per la produzione di calcestruzzo come scarti di altri processi industriali. Infine, l’implementazione di standard e pratiche ecosostenibili può anche favorire un uso più responsabile delle riserve di sabbia. Dove si posiziona la Svizzera per quanto riguarda l’estrazione di sabbia e ghiaia? La ghiaia è presente in grandi quantità in Svizzera. La maggior parte della ghiaia viene estratta dalle cave. Ci sono anche giacimenti in numerosi laghi e circa 20 impianti di dragaggio sono operativi sui laghi svizzeri. Inoltre, nei cantoni montuosi sabbia e ghiaia sono estratte annualmente dai fiumi per mantenerne le dimensioni del letto costanti. A seconda della situazione economica, la Svizzera consuma tra i 30 e i 35 milioni di metri cubi di ghiaia all’anno. Ciò equivale al consumo di circa un camion di ghiaia per abitante. Circa l’80% della domanda è coperto dalla produzione nazionale. Nonostante ci siano in Svizzera grandi quantità di sabbia e ghiaia, i potenziali siti di estrazione sono sempre meno a causa dell’aumento dell’urbanizzazione e della salvaguardia dell’ambiente che ne bloccano lo sfruttamento. Pertanto, il 20% della quantità richiesta viene importata dai paesi limitrofi. E il riciclaggio del materiale edile? In Svizzera, circa l’85% dei rifiuti edili minerali viene riciclato. Il resto finisce in una discarica perché contaminato. Il tasso di riciclaggio è quindi molto elevato. Nonostante venga già riciclato molto, le materie prime secondarie coprono solo il 20% del fabbisogno annuo di materiale del settore edile, perché viene molto più costruito che demolito. Pertanto, la Svizzera dipende ancora fortemente da grandi quantità di sabbia e ghiaia per il suo sviluppo urbano. Queste però provengono da cave svizzere o da regioni limitrofe gestite con pratiche ecosostenibili. Annuncio pubblicitario
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Politica e Economia
L’economia da affitto breve ai tempi di Airbnb: fra opportunità e rischio
Dibattiti O tempora, o mores!, diceva già Cicerone nel 70 a. C. Che sulla recente rivoluzione nel settore degli affitti
ci sia molto da scrivere è, però, indiscutibile
Edoardo Beretta Alla stregua di Uber, che ha rivoluzionato il settore dei taxi, così Airbnb sta decisamente trasformando il concetto di hotellerie oltre che di «affitto breve». Meglio ancora: l’idea imprenditoriale sottostante passa, da un lato, dalla prestazione di modalità decisamente nuove di ospitalità – per certi aspetti, anche più «familiari» (e meno costose); dall’altro, il ricorso ad un pernottamento in camera o appartamento in affitto nasce anche quale logica conseguenza di un settore alberghiero spesso con prezzi elevati, a meno che non si «incappi» in bassa stagione o offerte particolarmente vantaggiose. Per dirla diversamente ancora: come Uber è conseguenza di taxi troppo cari e Flixbus lo è stato con riferimento a tratte ferroviarie dai prezzi monopolistici, così Airbnb scaturisce anche dalla volontà di offrire modalità di pernottamento a minor prezzo rispetto ai tradizionali alberghi. Certamente, gli hotel in generale dovrebbero effettuare – lo scrivo da loro fruitore rimasto sempre «leale» – un’analisi di coscienza, domandandosi se certi rincari avvenuti negli ultimi tempi o lo scorporo di servizi fino a qualche anno fa inclusi di default nel prezzo di base (ad esempio, la prima colazione) non siano stati la proverbiale
goccia che ha fatto traboccare l’altrettanto simbolico vaso. Del resto, dati alla mano, l’indice dei prezzi al consumo (IPC) con riferimento a ristoranti ed alberghi nell’Area Euro ha segnato – l’anno base, il 2015, segnava un valore di 100 – un incremento del 10,57% da quel momento ad agosto 20191. Ciò detto, Airbnb fa leva su un’idea indiscutibilmente geniale, cioè imperniata di fatto sulla mera fornitura di un servizio di intermediazione fra fruitori ed host (cioè il titolare dell’appartamento/della camera in affitto) senza però soggiacere a quelle spese fisse della gestione di una struttura ricettiva come un albergo. Nel contempo, però, Airbnb insidia concretamente l’hotellerie tradizionale, che rischia – come, ormai, il management privato come pubblico ci ha trasversalmente abituato constatare – di dovere incrementare ulteriormente le proprie tariffe, contribuendo così (in) direttamente ancor più al successo di una modalità di soggiorno alternativa. Contemporaneamente, però, è necessario interrogarsi sugli effetti sociali, che tale nuovo servizio alberghiero a pagamento potrebbe comportare. Da un lato, infatti, è evidente che i possessori di immobili secondari e/o locali affittabili ne traggano vantaggio economico – ancor più, evidentemente, laddove ciò avvenga su base saltuaria senza che i relativi introiti siano (inte-
Alcuni dati su Airbnb2 Aziende fruitrici
700.000
Copertura di città
65.000
Copertura di Paesi
191
Fruitori (anni di nascita)
≈ 60% millennials
Fruitori (attesi) in Europa nel 2020
24 mln.
Fruitori (femmine)
54%
Fruitori (maschi)
46%
Fruitori (per notte)
> 2 mln.
Fruitori (totale)
> 150 mln.
Host
≈ 650.000
Inserzioni (totale)
> 6 mln.
Profitti (2017)
93 $
Profitto annuo medio (atteso) di host affittanti appartamento o casa
20.619 $
con due camere da letto Tasso di crescita composto dal 2009
+153%
Tasso di gradimento (“soddisfatti” o “molto soddisfatti”) Valore aziendale
ramente o parzialmente) noti alle autorità tributarie. Non da ultimo, nella vicina Italia, fino a febbraio 2019 Airbnb si è opposta al ruolo di «sostituto d’imposta» nella riscossione della cedolare secca all’atto del pagamento pari al 21%. Dall’altro, però, essere locatari, ma ancor più proprietari immobiliari in località e complessi sempre più caratterizzati da affitti brevi espone tali
90% 38 mld. $
soggetti a conseguenze non indifferenti in termini potenziali di riservatezza, sicurezza, manutenzione straordinaria dell’immobile così come dispersione di rapporti sociali durevoli. In altri termini, un condominio dagli appartamenti affittati a breve tempo perderà senz’altro di valore, sebbene il locatore tragga un guadagno da un’attività analoga di hotellerie. In sintesi: si privatiz-
zano i profitti e si socializzano le spese. Non si può, dunque, essere d’accordo con alcuni recenti studi3 – per quanto preliminari possano essere tali analisi – secondo cui Airbnb genererebbe un incremento generalizzato delle pigioni: stando a tali osservazioni, infatti, i proprietari immobiliari tenderebbero a ridurre la quota di affitti a medio-lungo termine, orientandosi verso locazioni sempre più a breve termine (in quanto remunerative) con conseguente rincaro di quelle più stabili. Al contrario, invece, pare piuttosto il caso per cui – se, da un lato, le pigioni presentino in generale comunque una tendenza all’aumento a fronte di dinamiche sempre meno scomponibili nei loro elementi – tali studi dimentichino il costo sociale derivante da un’eventuale attività di hotellerie sempre più «a ciclo continuo» in spazi non originariamente previsti con tali funzioni. Ancora, una volta, i policymaker rincorrono i cambiamenti. Note
1. https://fred.stlouisfed.org/series/ CP1100EZ19M086NEST. 2. Elaborazione propria da http:// ipropertymanagement.com/airbnbstatistics. 3. https://hbr.org/2019/04/researchwhen-airbnb-listings-in-a-city-increase-so-do-rent-prices. Annuncio pubblicitario
I Nostrani del Ticino sono la riscoperta dei sapori locali e provengono esclusivamente da aziende ticinesi che ne garantiscono la qualità, la freschezza e la genuinità. Oltre 300 tipicità della nostra regione che rappresentano il nostro impegno concreto nel sostenere agricoltori, allevatori e produttori alimentari ticinesi.
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Nuova tendenza nel mercato del lavoro Appartengo a una generazione che vedeva nel lavoro una possibilità di realizzarsi. Sicuramente né io, né i miei compagni, abbiamo mai rinunciato alle vacanze per il gusto di lavorare. Certamente nessuno di noi si è infuriato quando, per legge o per contratto collettivo, si è introdotto il sabato libero e si è ridotto il numero delle ore di lavoro settimanali. Nonostante ciò nella scala dei valori della nostra generazione il lavoro ha sempre sopravanzato il tempo libero. Altre caratteristiche della nostra invidiabile situazione era che un posto di lavoro, a tempo pieno, si trovava abbastanza facilmente; spesso il primo posto di lavoro si conservava per il resto della vita lavorativa; il salario, poi, bastava, di regola, per mantenere la famiglia. La nostra generazione ha avuto la fortuna di vivere, nei primi
decenni del dopoguerra, in un periodo nel quale, per diverse ragioni. la forza contrattuale dei lavoratori e delle lavoratrici era al suo massimo. Oggi, cinquant’anni più tardi, la situazione si è rovesciata. Di conseguenza, ottenere un posto di lavoro a tempo pieno, con una buona remunerazione, non è facile. Siccome però le necessità di bilancio di una famiglia non sono diminuite, anzi, in seguito al rincaro soprattutto degli affitti, delle spese per le assicurazioni e delle imposte, è sicuramente aumentato, ecco che sempre più persone cercano di far quadrare i loro conti, perseguendo più attività di lavoro a tempo parziale. Quella che, ai nostri tempi, era una condizione eccezionale, che si verificava solo fuori dal nostro paese, ossia il lavoratore o la lavoratrice con più attività, è diventato un caso ab-
bastanza frequente anche da noi. Tanto frequente da attrarre l’attenzione dei ricercatori. Così sulla multi-attività dei lavoratori e delle lavoratrici residenti in Ticino si può, per esempio, leggere, nel numero più recente della rivista «Dati», un interessante articolo di Silvia Walker, collaboratrice dell’USTAT. La Walker ci informa dapprima sugli effettivi di questa categoria di occupati. Nel 2018 i multi-occupati erano 11’118 il che corrispondeva al 6,5% del totale della forza di lavoro occupata. Se a questa indicazione si aggiunge che il Ticino, con la regione del Lemano è tra le regioni svizzere con la percentuale più bassa di multi-occupati si può concludere che il fenomeno della plurioccupazione è da noi ancora contenuto. Preoccupa però constatare come l’effettivo di coloro che devono esercitare più
di un’attività per conseguire un salario decente sia però in crescita costante. Queste persone erano infatti solo 6240 nel 2002, mentre oggi, come si è visto, il loro numero è quasi raddoppiato. Ciò significa che il contingente di lavoratori e lavoratrici con più attività cresce quasi sette volte più rapidamente del totale dell’occupazione. Se dovesse continuare a crescere a questo ritmo nei prossimi dieci anni diventerà un fenomeno molto percepibile, nel senso che una buona parte dei giovani che inizieranno la loro carriera lavorativa dovranno farlo occupando più posti di lavoro. L’articolo di Silvia Walker ci informa poi sulla struttura per grado di formazione raggiunto e per tipo di professioni di questo contingente e ci fa anche sapere che la multi-attività è più frequente presso le lavoratrici che
presso i lavoratori. Vorrei terminare ricordando che la flessibilizzazione del mercato del lavoro, manifestatasi nel corso degli ultimi trent’anni, tra l’altro anche con la diffusione del fenomeno della multi-attività, ha avuto una forte ripercussione a livello della società. Se da un lato è vero che l’emergere del lavoro a tempo parziale e del fenomeno della multi-attività ha ridotto l’importanza che il lavoro poteva avere nella scala dei valori del ticinese è anche vero che chi non lavora a tempo pieno e, peggio ancora, chi deve svolgere più attività per conseguire un salario più o meno decente, non viene guardato bene dal resto della popolazione. Per il gruppo dipartimentale che si sta attualmente occupando del futuro del mercato del lavoro ticinese questi sono tutti aspetti sui quali dovrà veramente riflettere.
La sua idea è che «una nazione non è fatta solo dai vivi. È fatta anche dai morti. E da quelli che devono ancora nascere. Noi difenderemo anche loro». Il suo partito si chiama Vox. Come la Voce del popolo. E il discorso dei vivi e dei morti non è solo evocativo. È politico. La Spagna, sostiene Abascal, viene prima degli spagnoli. Gli spagnoli nascono e muoiono; la Spagna è eterna. «Se per assurdo la maggioranza votasse per suicidare la patria, allora noi avremmo il dovere di impedirlo. Fino alle estreme conseguenze». «Valiente-valiente» ritmava la folla. La nascita dell’estrema destra è merito dei separatisti catalani. «Non si può dialogare con le orde secessioniste, i golpisti criminali che vogliono dividere la più antica nazione d’Europa» è la linea di Abascal. Fino a poco tempo fa, era solo uno dei tanti burocrati del partito popolare. Poi ha avuto un’intuizione: esisteva un Paese profondo, stanco di una burocrazia corrotta, ma diffidente della sinistra. Lui le ha dato voce, anzi Vox. «Abbiamo risvegliato l’anima dormiente della Spagna». Il nemico non è soltanto a Barcellona.
È ovunque. Il Paese che Abascal sogna è una «nazione omogenea» per lingua, etnia, religione, cultura, morale. Il nemico è «la dittatura progressista, il femminismo suprematista, i professori animalisti che vogliono vietare Cappuccetto Rosso, che invece è la favola più educativa perché insegna il coraggio, e magari domani vieteranno don Chisciotte in quanto islamofobo». Il nemico è «l’Anti-Spagna»: l’omosessuale che vuole sposarsi, la donna che vuole abortire – tollerato invece il divorzio: lui è divorziato –, l’islamico che vuol mettere il velo alla moglie, il basco che parla una lingua incomprensibile. Anche Abascal è basco. Nato a Bilbao 43 anni fa. Cresciuto sotto scorta. La sua famiglia è stata perseguitata dai terroristi dell’Eta. Papà Santiago era consigliere comunale ad Amurrio, il paese di cui nonno Manuel fu sindaco ai bei tempi del Caudillo. Lui Franco non lo nomina mai: «Ma non rinnegheremo i nostri nonni che combatterono la guerra civile. Allora i progressisti uccidevano i preti e bruciavano le chiese. Anche oggi i progressisti sono nemici della patria. Avversano la
corona e la croce. Ma noi cacceremo il traditore Sanchez e il suo governo illegittimo. Viva il Re!». I militanti rispondono: «Viva!». «Viva la Guardia Civil!». «Viva!». Viva la Spagna!». «Viva!». Le campagne elettorali le comincia a Covadonga, dove secondo la tradizione i cristiani sconfissero per la prima volta i mori, confortati dall’apparizione della Madonna. Abascal si chiama Santiago, Giacomo, come Santiago Matamoros, il santo che nella leggenda interviene a cavallo sul campo di battaglia per far strage di infedeli. Sostiene che l’identità spagnola si è costruita contro l’Islam; «e ora la sinistra ha lasciato che la nostra patria venisse invasa dagli immigrati musulmani». Il modello è Salvini: «Padroni a casa nostra. Legittima difesa. Stop all’immigrazione araba. Altrimenti nel 2049 saremo minoranza nella nostra terra. E scoppierà una nuova guerra civile. Facciamo venire piuttosto i latinoamericani, che sono nostri fratelli!». La sua crescita impetuosa renderà più difficile un accordo tra socialisti e popolari. Forse Vox ha toccato il punto massimo. Forse no.
risce il numero giusto. Lui, poverino, raggiunge sedi centrali, uffici regionali e altri indirizzi, riporta musichette, voci suadenti e inviti a schiacciare tasti, sicuramente utilissimi a molti utenti, di sicuro non a chi cerca solo il numero magico dei soccorsi. Quarto vabbè: basta chiamare casa e la moglie leggerà la tessera d’emergenza appesa in cucina. Uno, due, cinque tentativi, poi riconsegno il cellulare al custode: a casa mia il telefono fisso suona, la linea si sblocca, ma non c’è comunicazione. Inizia per contro un duello di squilli telefonici fra moglie che chiama da casa e io che la cerco dall’autosilo, ma il risultato è sempre quello: impossibile parlarci, niente lettura della tessera, addio soccorso stradale. In compenso ho un nuovo problema: oltre alla gomma ora da riparare c’è anche la linea telefonica. Esco dall’autosilo e duecento metri dopo entro in un negozio Swisscom dove conosco un altro cortese anfitrione. Sentito il rapporto
su quanto mi capita, lui mi gela subito: «Non posso aiutarvi. Dovete chiamare voi il numero gratuito per l’assistenza guasti». Elementare Swisscom, mi vien da dirgli. Ma mi limito ai saluti. Un po’ sfiduciato (ormai era mezzogiorno) obbedisco agli ordini recuperando in macchina il mio vecchissimo prepagato: spiego di nuovo la situazione a una gentilissima impiegata che, dopo il famoso attimo dei servizi telefonici, conferma che il nostro telefono fisso non funziona, lo stanno però riparando. A questo punto, vabbè (quinto), mi vien da piangere: la gomma è sempre sgonfia e il numero del TCS inaccessibile. Passo alla decisione più drastica: mi faccio soccorrere da mia figlia che poco dopo arriva a portarmi a casa. Trovata la tessera nuova e il numero per chiedere aiuto al TCS, ritorno in città dove verso le 13.30 incontro un gentilissimo meccanico che rimette in marcia la vecchia Volvo, sicuramente smaniosa di ricevere gomme nuove.
Cercando di dare un lieto fine al mio disastrato inizio di settimana, vado diritto fino alla sede del mio abituale gommista a Manno. Mentre in preselezione lascio passare le macchine che arrivano in senso contrario da Bioggio, un’occhiata mi basta per capire che le mie peripezie non sono ancora finite. Meglio mettere la freccia per rientrare sulla corsia principale: davanti al gommista c’era un’incredibile colonna di automobilisti che, dopo aver fatto tutto il giro del palazzo, raggiungevano l’entrata dell’officina in attesa di equipaggiarsi con gomme invernali! Tra code e traffico sono di nuovo a casa verso le 15 e mi rendo conto di aver avuto bisogno di oltre 6 ore per percorrere pochi chilometri e sbrigare un banalissimo controllo medico. Naturalmente la colpa di un simile imprevisto e sfortunato inizio di settimana è tutta mia, reo di aver urtato un cordolo uscendo dal posteggio. Chiedo solo l’attenuante di averlo schivato per più di 50 anni.
In&outlet di Aldo Cazzullo La Vox dell’estrema destra la seconda l’8 novembre. Sempre in plaza Colon, che un tempo apparteneva al partito popolare. E l’ho sentito rivendicare tutto e il contrario di tutto: «Noi siamo la più grande nazione della storia. Siamo il Cid Campeador e don Chisciotte. Siamo Isabella la Cattolica. Siamo Pizarro e Cortes. Siamo Lepanto. Noi siamo la Spagna!».
Wikimedia
In Spagna non esistono tre milioni e 600 mila franchisti. Quindi Santiago Abascal (foto) ha raccolto non soltanto un voto nostalgico, quanto – lo dicono le inchieste – un voto urbano, giovane, social, indignato. Ho seguito il comizio finale di entrambe le campagne elettorali del leader di Vox nel 2019. La prima il 26 aprile,
Zig-Zag di Ovidio Biffi Quant’è difficile farsi soccorrere Sembrava una tranquilla mattinata di inizio novembre. Non era il 13 e nemmeno il 17; astri favorevoli, luna al primo quarto e sole su Lugano. Avvio normale quindi, tranne un leggero urto avvertito durante la manovra in retromarcia che compio da oltre mezzo secolo per uscire con l’auto dal posteggio. Cancello chiuso, occhiata alla ruota posteriore, cerchione pulito con la scarpa, e via, nel traffico, per raggiungere l’altro posteggio, quello di un autosilo cittadino, e uno studio medico per un banale controllo. L’alto grado di serenità riceve un drastico correttivo quando arrivo dal medico e scopro un’altra normalità: una decina di persone in attesa. Vabbè, stimo circa due ore. E mi va di lusso, perché dopo un’ora e mezza sono di nuovo in strada, pronto a dare continuità all’inizio di settimana. Tornato all’autosilo, la ruota urtata mi cancella di colpo la serenità: gomma completamente a terra, il cordolo ha inciso il copertone.
Secondo vabbè: si cambia la ruota. Solo che, chiuso fra due vetture e un pilastro, oltre a faticare a reperire la ruota di scorta, proprio non riesco ad alzare l’auto con il cric. Ci vuole il TCS, mi dico, e cerco la tessera con il numero di emergenza da chiamare. Nella solita custodia non c’è e subito ricordo di averla portata in casa per sostituirla con quella nuova ricevuta la settimana prima. Invece l’ho dimenticata nel cassetto assieme al distintivo d’oro dei 50 anni di appartenenza al mitico TCS. Terzo vabbè: ci sarà un custode dell’autosilo. Lo trovo, gentilissimo e oltretutto dotato di mega cellulare, di quelli che tu gli formuli la domanda e lui ti presenta la risposta, vale a dire indirizzi e numeri di telefono sul display. Pronunciamo prima TCS, poi Assistenza TCS, poi ancora Soccorso Stradale TCS. Niente da fare: il numero per convocare i soccorritori è introvabile. Ovviamente la colpa non è dell’assistente digitale che non repe-
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Idee e acquisti per la settimana
Le patate in tutta la loro bontà Con le Fries come contorno, le Chips per l’aperitivo e i Rösti come piatto principale il marchio della Migros Farm offre deliziose bontà a base di patate per ogni occasione. Come novità la scelta di Rösti è ora incredibilmente ricca. Inoltre sono disponibili cinque varietà in cui ingredienti come burro, formaggio, verdure e tuberi sono di qualità bio. Il fatto che per la produzione di tutti i prodotti Farm vengano utilizzate solamente patate svizzere, è naturalmente una cosa ovvia.
Rösti al salmone Far dorare per bene i Farm Rösti Burro in una padella antiaderente senza l’aggiunta di grassi. Aggiungere delle fettine di salmone affumicato sui rösti. Servire con della Crème fraîche e erbette fresche.
Rösti dell’alpigiano Arrostire i Farm Rösti Verdura a mo’ di piccole gallette. Grattugiarvi sopra del formaggio d’alpe. Servire con fettine di pancetta croccante e mousse di mele.
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Foto: MGB Fotostudio; Styling: Claudia Stalder
Rösti Pere-Gorgonzola Arrostire i Farm Rösti Original in una padella antiaderente senza grassi. Servire con pezzetti di pera arrostiti, formaggio erborinato, crescione o formentino.
Farm Fries Rosmarino surgelate, 600 g* Fr. 4.50
Farm Fries Nature surgelate, 600 g* Fr. 4.20
Farm Chips Nature 150 g* Fr. 2.70
Farm Chips Erbe svizzere 150 g* Fr. 2.80
Farm Chips Rosmarino 150 g* Fr. 2.80
Bio Farm Rösti Burro 500 g* Fr. 4.20
Bio Farm Rösti Original 500 g Fr. 2.80
Bio Farm Rösti Verdura 500 g* Fr. 3.60 *nelle maggiori filiali
Enchiladas con pangasio
(per 4 persone, pronte in 45 minuti)
Ingredienti:
Preparazione:
• 8 Pancho Villa™ Soft Tortillas • 1 bustina con mix di spezie Pancho Villa™ Mexican Mix • 1 vasetto di Pancho Villa™ Salsa Mexicana Medium • 800 g di pangasio surgelato • 400 g di pomodori tagliati a pezzetti • 2 peperoni rossi • 2 peperoni verdi • 1 cipolla grande • 2 spicchi d‘aglio • 400 g di patate resistenti alla cottura • 200 g di formaggio grattugiato • Olio di oliva • 1 mazzetto di prezzemolo liscio • 2 lime
Scongelare il pesce e tagliarlo a strisce di 1 cm di spessore. Sbucciare le patate e tagliarle a dadini. Metterle dentro una pentola con acqua fredda e sale. Portare l‘acqua a bollore e cuocere le patate per circa 15 minuti (le patate devono diventare morbide). Scolare e mettere da parte. Sbucciare gli spicchi d‘aglio e la cipolla e tritare il tutto. Tagliare i peperoni a dadini dopo averne rimosso i semi. Scaldare una quantità generosa di olio d‘oliva in una padella. Far soffriggere la cipolla per 5 minuti. Aggiungere l‘aglio e i peperoni e soffriggere per altri 5 minuti.
Altre ricette su www.pancho-villa.ch
Aggiungere il pesce, i pomodori a pezzetti e il mix di spezie. Portare il tutto nuovamente a bollore e cuocere per 10 minuti a fiamma dolce, mescolando regolarmente. Aggiungere le patate e portare nuovamente a bollore. Preriscaldare il forno a 200 °C. Distribuire il composto a base di pesce sulle tortillas, arrotolarle e disporle su una teglia con la parte piegata verso il basso. Distribuire la Salsa Mexicana sulle enchiladas, cospargerle di formaggio e mettere in forno per 20 minuti. Nel frattempo, rimuovere le foglie dal mazzetto di prezzemolo. Spolverare le foglioline di prezzemolo sulle enchiladas calde e servirle con le fette di lime.
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Cultura e Spettacoli A Roma al cinema Non solo nomi internazionali alla kermesse romana, ma anche la presenza del Ticino
A Venezia si respira la Francia Fra i capolavori della perla della Laguna, pesantemente oltraggiata in tempi recenti, spicca anche il Palazzetto Bru Zane, oggi Centro di musica romantica francese
Quelle bambinacce! Veronica Raimo e Marco Rossari hanno pubblicato un libro di filastrocche
Il ritorno degli angeli Dopo le rappresentazioni milanesi anche il LAC ospiterà una parte di Angels in America di Tony Kushner pagina 53
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Leonardo al Louvre Mostre La mostra del secolo
per il cinquecentenario
Gianluigi Bellei Èureka! Finalmente è arrivato il momento della grande mostra su Leonardo da Vinci per il cinquecentenario della morte. Ovviamente al Louvre di Parigi. Dieci anni di preparazione, 140 opere fra pitture, disegni, manoscritti, sculture, oggetti d’arte, provenienti dalle maggiori istituzioni europee e americane come il British Museum e la National Gallery di Londra, il Metropolitan Museum di New York, la Pinacoteca Vaticana… Dieci anni di preparazione durante i quali sono stati restaurati tre dei cinque dipinti della collezione del museo: la Sant’Anna, la Belle Ferronière e il San Giovanni Battista. Sono esposte 11 opere di Leonardo. Un bel successo visto che l’intero corpo pittorico dell’artista conta meno di 20 lavori attribuiti unanimemente dagli specialisti. Uno dei fili conduttori dell’esposizione è il concetto di componimento inculto. Spieghiamolo, perché è importante. È un aspetto che rileva l’estrema libertà dell’artista e che, in parte, coincide con la sua volontà di sperimentare. Lo si scopre nel metodo di lavoro. Ne troviamo cenno nel suo Trattato della pittura, compilato dall’allievo Francesco Melzi che, verso il 1540, assembla i testi degli scritti relativi alla pittura. Al paragrafo 185, della prima versione a stampa del 1651, intitolato Precetto del comporre le istorie Leonardo scrive: «Adunque, pittore, componi grossamente le membra delle tue figure, e attendi prima ai movimenti appropriati agli accidenti mentali degli animali componitori dell’istoria, che alla bellezza e bontà delle loro membra. Perché tu hai a intendere che, se tal componimento inculto ti riuscirà appropriato alla sua intenzione, tanto maggiormente satisfarà, essendo poi ornato della perfezione appropriata a tutte le sue parti». In pratica sostiene che sono l’assenza di compiutezza e l’indeterminato le basi per la perfezione e la congruità. Le riflettografie a raggi infrarossi realizzate sui dipinti – che permettono di penetrare lo strato pittorico e di visualizzare un eventuale disegno sottostante – lo confermano. Poi con pazienza l’artista arrivava alla perfezione con tocchi di pennello sempre più sfumati e velature infinite. Nel giugno del 2009 il
Centre de Recherche et de Restauration des Musées de France rileva con questa tecnica che nel San Giovanni Battista il braccio destro «è stato oggetto di numerose perplessità» e per l’iride, la bocca, il gomito e le dita non sempre il disegno è «stato eseguito con precisione». Leonardo pittura essenzialmente su tavola. All’inizio preparata con una base di gesso lisciato con il palmo della mano. Poi, verso il 1485-1490, con un pigmento a base di bianco di piombo. Su questa base trasferisce dal cartone alla tavola il disegno – dopo aver bucherellato i contorni della figura – con la polvere di grafite. Sul bianco di piombo, la biacca, colora con il verdaccio, il giallorino, che a volte usa come imprimitura, il cinabro e soprattutto l’asfalto. I pigmenti sono legati con olio di noce o di lino. Il famoso sfumato è ottenuto per addizione sui toni medi con colori trasparenti che permettono di aggiustare la tonalità e la dissolvenza del colore. Per Vasari lo sfumato di Leonardo parte dall’ombra, che ha una funzione determinante, per arrivare alla luce. In realtà come specifica Louis Frank in catalogo, ha due direzioni: una verso la luce e l’altra verso l’oscurità. Sempre per il Vasari Leonardo rappresenta la maniera moderna. Fissa il 1250 come anno di rottura della Maniera greca. La Seconda età è caratterizzata dalla regola, dall’ordine, dalla misura, dal disegno e dalla bella maniera. Leonardo ha dato «principio alla Terza maniera che noi vogliamo chiamare la moderna, oltre la gagliardezza et bravezza del disegno, et oltre il contraffare sottilissimamente tutte le minuzie della natura così apunto come elle sono, con buona regola, miglior ordine, retta misura, disegno perfetto et grazia divina, abbondantissimo di copie et profondissimo di arte, dette veramente alla sue figure il moto ed il fiato». Soprattutto è determinante la licenza, all’interno della regola. Poi redige una gerarchia degli artisti che va da buono a più che eccellente. Infine ci sono gli artisti divini i quali hanno la facoltà di provocare lo stupore, la meraviglia, la terribilità, il tremore e il timore. Sono solo cinque: Brunelleschi, Donatello, Raffaello, Michelangelo e, appunto, Leonardo. La mostra parigina è strepitosa, mai viste tante opere di Leonardo tutte assieme. Ma non solo. Si può fi-
Leonardo da Vinci, Ritratto di dama, chiamato erroneamente La Belle Ferronnière, 1490-1497 ca., olio su tavola, Parigi, Museo del Louvre. (© RMN-Grand Palais [musée du Louvre] / Michel Urtado)
nalmente fare un confronto con altri artisti e per Leonardo, con tutte le presunte nuove attribuzioni, è senz’altro un bene. Vedere gli studi a tempera dei drappeggi dei primi anni assieme a quelli dell’atelier del maestro Andrea del Verrocchio stigmatizza subito una differenza, tradotta per il Vinci in maggiore profondità di campo, di contrasto, di luce e di chiaroscuro. Ugualmente si possono paragonare i suoi dipinti certi con quelli dei suoi discepoli come Giovanni Antonio Boltraffio, Marco d’Oggiono, Giovan Francesco Melzi e Gian Giacomo Caprotti detto il Salaì. Opere, quest’ultime, di notevole qualità ma che rivelano immediatamente un’altra mano. Quasi tutti i dipinti vengono af-
fiancati alla relativa riflettografia che ne evidenzia i pentimenti e il metodo di lavorazione. Il percorso espositivo inizia con il grande bronzo di Andrea del Verrocchio Cristo e San Tommaso del 14671483, della chiesa di Orsanmichele di Firenze, e termina con il disegno di una giovane donna del 1517-1518, proveniente dal Castello di Windsor, nel quale la sorridente bellezza indica con la mano un punto situato fuori dal campo dell’immagine. Perché c’è sempre qualcosa che ci aspetta oltre. Di capitale importanza il catalogo che funge da spartiacque fra tutte le ricerche e riferimento imprescindibile per ogni attribuzione. Catalogo con, ovviamente, l’indice dei nomi. Oltre
a questo è consigliato il volume scientifico di Louis Frank e Stefania Tullio Cataldo, Giorgio Vasari. Vie de Léonard de Vinci peintre et sculpteur florentin, pubblicato per l’occasione, che sarà un punto fermo per i commenti sulle due edizioni delle Vite, quella torrentina del 1550 e quella giuntina del 1568, oltreché per diverse singole opere di Leonardo e altri scritti. Dove e quando
Leonardo da Vinci. A cura di Vincent Delieuvin e Louis Frank. Musée du Louvre, Parigi. Fino al 24 febbraio 2020. Catalogo Musée du Louvre / Hazan, euro 35. Tutti i giorni 9.0018.00. Chiuso martedì. www.louvre.fr
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Cultura e Spettacoli
Storie di mondi, dal mondo
Cinema In occasione della Festa del Cinema di Roma, oltre all’osannata opera di Scorsese, sono stati presentati
i documentari di Erik Bernasconi e di Emanuele Gerosa, che si è avvalso della coproduzione di Amka Film
Nicola Falcinella È uno dei film dell’anno e mantiene tutte le promesse alimentate con una gestazione lunga e una lavorazione tormentata. The Irishman di Martin Scorsese, presentato al Festival di New York, poi a Londra e alla Festa di Roma prima di approdare in poche sale e su Neflix dal 27 novembre, è una pellicola che lascia il segno, un punto d’arrivo nella carriera del cineasta italoamericano che alla criminalità organizzata ha dedicato un porzione importante della sua opera, si pensi a Mean Street, Quei bravi ragazzi o Casinò. La storia stavolta è presa dal saggio di Charles Brandt del 2004 L’irlandese. Ho ucciso Jimmy Hoffa, che diventa uno sfaccettato dramma su tre livelli temporali. Protagonista è Frank Sheeran, l’irlandese del titolo (ma anche il Presidente John Kennedy è chiamato così nell’importante parentesi che tratta di mafia e politica), un reduce di guerra ora camionista che entra nell’organizzazione quasi per caso e diventa un membro importante della famiglia Bufalino. All’inizio l’anziano Sheeran riceve in casa di riposo la visita, suggerita da un bel carrello a precedere, di un ospite cui forse raccontare i segreti di una vita criminale, prima di portarseli nella tomba. La porzione centrale mostra il viaggio dell’uomo insieme al boss Russ Bufalino e alle rispettive consorti in auto da Filadelfia a Detroit per partecipare a un matrimonio. Un percorso
che richiede un detour per eliminare il potente sindacalista dei trasporti Jimmy Hoffa che si era legato alla mafia ed era caduto in disgrazia e il cui cadavere non fu più ritrovato. Ci sono poi tutti i flashback dei momenti salienti, dalla guerra mondiale in avanti. Scorsese usa un trio di attori magnifici (Robert De Niro, Joe Pesci e Al Pacino, senza dimenticare Harvey Keitel e Anna Paquin) per interpretare personaggi che restano, utilizzando gli effetti computerizzati per ringiovanire i visi per le scene del passato, anche se l’accorgimento tecnico mostra dei limiti, poiché il movimento dei corpi resta appesantito dall’età. L’imperfezione non distoglie però dalla magia della ricostruzione d’epoca e del ritratto dei personaggi. Un magnifico film di tre ore e mezzo, nel quale il regista si prende tutto il tempo per i dialoghi (scoppiettanti come nel caso del pesce o del ritardo alla riunione, più meditativi e intimi quelli del carcere) e il racconto dilatato, soprattutto nella parte centrale, per concentrare i fuochi d’artificio in una meravigliosa ultima ora. È una meditazione sulla vita, sulla morte, sul destino e sul cinema, un film di sottigliezze e tocchi magici i cui spunti non si esauriscono a una prima visione. Nell’ambito della rassegna romana è stato presentato in prima mondiale il documentario Moka Noir di Erik Bernasconi, un’indagine non giornalistica ma da detective sulla fine del distretto produttivo del casalingo a Omegna,
Un momento di Moka Noir di Erik Bernasconi. (Ventura Film)
in Piemonte. Il regista veste i panni di ispettore per capire il destino di aziende molto note come Bialetti, Lagostina, Girmi o Alessi: sette esempi emblematici, «sette sorelle», nate come ditte familiari, cresciute tra gli anni 50 e gli 80, che negli ultimi anni hanno chiuso o sono state costrette a vendere e delocalizzare. Bernasconi incontra ex imprenditori e operai, ma anche sociologi, storici ed economisti alla ricerca di risposte: chi ha ucciso il distretto del casalingo? chi sono i colpevoli? «Incontro solo vittime» osserva sconsolato a un
certo punto il regista, mentre un pranzo si conclude concordando che «chi ci ha perso di più sono gli operai e i lavoratori». In un bianco e nero che fa tanto poliziesco, utilizzando anche materiali di repertorio, Bernasconi esplora, forse non risolve il caso, ma fornisce elementi interessanti per capire la crisi della manifattura con l’avvento della globalizzazione. Coproduzione ticinese, di Amka Film, è One More Jump di Emanuele Gerosa, documentario su due giovani del Gaza Parkour Team. Abdallah
è arrivato a Firenze, vive in una casa abbandonata e sogna di partecipare alle competizioni acrobatiche in Europa. Da parte sua, Jehad è rimasto a casa, assiste tra molte difficoltà il padre malato, insegna ai ragazzi e sogna anch’egli di andarsene all’estero. Un film coinvolgente ed emozionante sull’essere giovani a Gaza, sulla speranza e la paura (c’è un’impressionante scena di spari durante un attacco israeliano): bisogna essere spericolati per continuare a coltivare sogni in quella striscia di terra. Annuncio
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Cultura e Spettacoli
Un pizzico di Francia a Venezia
Edifici d’arte AVenezia, un poco nascosto, c’è un delizioso palazzetto edificato da Marino Zane, acquistato
e ristrutturato dalla mecenate Nicole Bru, e infine trasformato in un centro culturale
Giovanni Gavazzeni Al forestiero che giunge a Venezia alla stazione di Santa Lucia le indicazioni fornite per giungere al Palazzetto Bru Zane – Centro della Musica Romantica francese – sembrano misteriose: passare il Ponte degli Scalzi, percorrere la Calle Lunga delle Chioverette, girare a sinistra in Calle Bergami, a destra per le Fondamenta Rio Marin. Secondo ponte a destra, svolta a sinistra, fino al Campiello del Forner. Al civico 2368, nel cuore del Sestiere di San Polo, non lontano dalla Basilica dei Frari, ecco il Palazzetto edificato come biblioteca dal nobile Marino Zane a fianco del palazzo di famiglia. Ma cosa ci fa da un Centro di musica romantica francese, a Venezia? Come ha potuto trovare spazio e pubblico in una capitale artistica dove la secolare fondazione lirico-sinfonica (la risorta Fenice) e le attività storicamente radicate della Biennale Musica si intrecciano incontrastate da decenni? Domande sorte spontaneamente quando dieci anni or sono cominciò l’attività del Palazzetto. Dopo l’acquisto da parte della mecenate francese Nicole Bru, un grande lavoro di restauro ha restituito all’antico splendore il nitore degli stucchi, la meravigliosa balaustra della sala da ballo e gli affreschi attributi nientemeno che a Sebastiano Ricci. Fino a qui la storia del Palazzetto sarebbe stata simile a quella di tanti altri restauri privati. Ma la volontà della proprietà era quella di fondare qual-
Il Tempo che rapisce la Verità, affresco di Sebastiano Ricci all’interno di Palazzetto Bru Zane. (Wikipedia)
cosa di vivo, che si relazionasse con la città e con la cintura della terraferma, non rimanendo una enclave di cultura francese nel cuore della Serenissima e basta. Così in questi dieci anni il Centro ha proposto, ospitato e diffuso produzioni musicali – poi circuitanti in Europa, soprattutto in Francia, ma anche in Svizzera, Belgio e Germania – di musicisti celebri, meno noti o dimenticati, in un’accezione temporale dell’età «romantica» che abbraccia il periodo 1780-1920. Il lavoro compiuto in questi anni
sotto la guida del Direttore scientifico Alexander Dratwicki ha ampliato, e qualche volta sovvertito l’immagine di compositori celebri, come nel caso del caposcuola Camille Saint-Saëns. Sotto l’egida del Palazzetto, una ricca monografia di Giuseppe Clericetti, due preziose raccolte epistolari e l’incisione di due opere sconosciute (Les Barbares e Proserpine) ci hanno fatto capire come la grande figura dell’enciclopedico umanista musicale fosse ingombrante quando esplodeva il modernismo dei Balletti Russi. Un altro merito dell’at-
tività del Palazzetto Bru Zane è quella di seguire il teatro più «leggero», quel teatro satirico francese che Jacques Offenbach & Soci traevano dalle scene di «Vita parigina» a loro contemporanee. L’anno scorso uno di quei soci o rivali di Offenbach è tornato alla ribalta, Louis-Auguste-Florimond Ronger detto Hervé, compositore che sognava di scrivere per i grandi teatri di Parigi e venne trattato come il «compositore suonato» (dal titolo di una sua pièce). Scriveva da sé testi e musica; interpretava i ruoli principali; era regista e am-
ministratore. Correva in Prefettura e al Ministero, «senza contare le genuflessioni a ventre piatto davanti alla Censura». Il Palazzetto Bru Zane riesumando la sua Mam’zelle Nitouche (il relativo film con Fernandel fu tradotto in italiano come Santarellina), ci ha fatto conoscere un’operetta-vaudeville spassosa, dove nessuno è quello che sembra, a partire da Célestin, devoto organista del convento di giorno e musicista d’avanspettacolo la sera (il giovane Hervé passava infatti dall’organo di Saint-Eustache ai bordelli musicali delle folies). Nelle riscoperte non mancano gli operisti italiani protagonisti in Francia, da Sacchini con Renaud a Gasparo Spontini, autore finito per essere ricordato quasi solo tramite la venerazione che ne aveva Hector Berlioz (e la Vestale di Maria Callas). Il ruolo chiave di Spontini nell’Impero attende ancora il riconoscimento internazionale che gli spetta, avviato con la prima (e speriamo non ultima) sortita spontiniana nella collana «Opéra français», Olympie. L’equipe artistico-organizzativa del Palazzetto si è guadagnata in due lustri uno spazio unico per vitalità e qualità delle proposte, mostrando come un mecenatismo illuminato sia tanto necessario quanto quello proveniente dallo Stato con le sue intermittenze politiche. Il patronaggio musicale di Madame Bru ci sembra vieppiù raccogliere il testimone novecentesco che fu della leggendaria Madame Winnaretta Singer, poi princesse de Polignac. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Bambine in rima
Editoria Feltrinelli ha recentemente dato alle stampe Le bambinacce, raccolta di filastrocche
di Veronica Raimo e Marco Rossari: un altro modo di guardare alla femminilità Laura Marzi Abbiamo incontrato Veronica Raimo e Marco Rossari, autori insieme di una raccolta di filastrocche Le bambinacce, che a partire da un unico incipit «c’era una bambina…» raccontano in versi tematiche difficili da dire, dal sesso alla malinconia, passando per la vergogna e il desiderio. Lo fanno a partire da un punto di vista giocoso, che non ignora la complessità tragica dell’esistenza, la guarda di sghembo, forse: «non sappiamo come dovrebbe essere una bimba o una donna. Ogni donna crea un rapporto mutevole, faticoso, inebriante con l’altro sesso e con il proprio desiderio verso l’altro sesso. Trovare un equilibrio è difficile e forse non sempre è necessario. Bisogna forse imparare a vivere il desiderio e il rapporto con intelligenza e sensualità, senza scegliere mai un dogma». Siete entrambi scrittori di prosa. Da dove nasce questa raccolta di filastrocche, questa meravigliosa deviazione?
Probabilmente nasce proprio dalla voglia di emanciparsi da quello che oggi sembra diventato un diktat: se vuoi legittimarti come scrittore, devi scrivere un romanzo. Questo libro è nato per gioco, poi ci abbiamo preso la mano, ed è stato divertente per una volta tanto non star lì a fare schemini, ragionare sulla trama, i personaggi, accumulare appunti, angosciarsi dalla prospettiva di mesi da passare dietro al nuovo libro.
Potete raccontarci della fatica del verso e di quella della rima?
Non è tanto una fatica, quanto una piccola indagine, una quest, un movimento enigmistico verso l’eco. Nei versi abbiamo cercato di seguire l’orecchio, l’eco infantile, l’ecolalia. Quindi niente metrica stretta e più versi sciolti, liberi, scombinati, che poi tornavano nei ranghi all’appuntamento con la rima, come appunto una bambina che oscilla di continuo tra la marachella e la disciplina. È stato bello tornare nel
regno fatato e insieme artefatto delle filastrocche.
Il tema del desiderio femminile è un caposaldo del femminismo della seconda ondata, una questione politica, certo, che come tale di rado viene affrontata con allegrezza. Voi avete scelto di dare al desiderio femminile la centralità necessaria, ma di scriverne giocosamente...
Recentemente per questo libro siamo stati invitati a un festival per prendere parte a un incontro dal titolo Il tabù del piacere femminile. Si può parlare davvero ancora di tabù? Una serie come Fleabag ha fatto incetta di premi quest’anno, e ci sembra un’ottima cosa, ma non vorremmo che dopo esserci ritrovati a parlare per anni di desiderio femminile da un punto di vista teorico e filosofico, oggi sia possibile farlo solo attraverso un’autoironia iper-consapevole. In questo libro ci siamo lasciati più trasportare da un senso del comico, da un gusto ludico, o da quello che Wittgenstein definirebbe il «non mi ci raccapezzo». Tutte le filastrocche iniziano con «c’era una bambina…». Sarebbe bello poterle analizzare con voi, ma bisogna fare delle scelte. Inizierei con La bambina che aveva la malinconia: «È una bella compagnia? Non lo so, ma è mia». Vi va di dirci la vostra su questo rapporto d’elezione tra le donne, le bambine, e la malinconia?
Abbiamo esplorato temi diversi: c’è il sesso gioioso, quello perverso. C’è la libertà, ci sono i tabù. C’è la masturbazione, l’omosessualità, il sadomasochismo, ma anche semplicemente l’innamoramento in ogni declinazione. Poi a un tratto c’è venuto di scrivere una cosa sulla malinconia, quello sgomento vuoto e perfino dolce che ti prende da ragazzino e a cui non trovi facilmente un nome. È una delle tante bambine teneramente indolenti, che scelgono di non essere, di non vivere, di aspettare a scegliere, di cullare perfino il loro dolore. Ne La bambina senza vergogna raccontate di una tragedia che può
L’irriverente copertina del libro, disegnata da Mariachiara Di Giorgio. toccare le ragazzine: la diffusione su social della loro intimità. Lo fate ribaltando i ruoli di vittima e carnefice, trasformando la bambina senza vergogna in una regista. A una ragazza oggetto di dileggio e infamia e che la vergogna, purtroppo, la sente da morire, cosa direste?
Siamo i primi a non sapere come reagire di fronte a un’offesa o un’umiliazione. Sarebbe facile rispondere che bisogna avere coraggio e affrontare il mondo a testa alta. Nel caso di questa filastrocca, la bambina si appropria del torto subito rivendicandolo con orgoglio. È una strada. Ma abbiamo anche il timore che tutta questa nuova retorica sull’affermazione del sé, dall’empowerment alla mindfulness, finisca per generare un’ansia di prestazione insieme a un nuovo senso di inadeguatezza. Se ci sentiamo in dovere di ribellarci a tutti i costi, la ribellione in sé perde significato. Quando la parola d’ordine era «resistere!», gli Offlaga Disco Pax provocatoriamente proponevano uno slogan diverso: «desistere!» Ecco, non pensiamo che occorra per forza essere giovani eroine, si può anche essere pigre, timide, scombinate, indecise e caciarone.
Nelle filastrocche ci sono i maschietti e ci sono gli uomini e sono come sono: fantastici, orrendi oppure sono: «Tutto qua?», come esclama La bambina che voleva vedere un maschietto quando finalmente realizza il suo desiderio. Cosa crede una bimba femminista che non vuole essere separatista?
Non sappiamo come dovrebbe essere una bimba o una donna. Ogni donna crea un rapporto mutevole, faticoso, inebriante con l’altro sesso e con il proprio desiderio verso l’altro sesso. Trovare un equilibrio è difficile e forse non sempre necessario. Bisogna forse imparare a vivere il desiderio e il rapporto con intelligenza e sensualità, senza scegliere mai un dogma. I maschietti delle filastrocche a volte sono terribili, deludenti. Altre volte teneri, buffi. Ce n’è uno che s’è infilato abusivamente nel gruppo solo perché voleva far l’amore, ma che ci vuoi fare, concediamo un po’ di impertinenza perfino agli uomini. Dove e quando
Veronica Raimo, Marco Rossari, Bambinacce, Milano, Feltrinelli, 2019.
Pubblicazioni Lunga conversazione su lingua, società e sentimenti di Giuseppe Antonelli
con lo storico della lingua italiana Luca Serianni
Spesso, la storia della linguistica ragiona per maestri; e la storia della lingua italiana di maestri ne ha parecchi. Subito, va detto che una tradizione ormai abbastanza generosa di prove e di attitudini segnala la scuola italiana nell’ambito degli studi sull’evoluzione storica e storico-culturale delle lingue tra le migliori in assoluto. Le figure sono quella nota di Tullio de Mauro (ovviamente), ma poi anche Bruno Migliorini; più recentemente Gianluigi Beccaria, Claudio Marazzini, Francesco Bruni, Gaetano Berruto, Marcello Durante; e in anni ancora più prossimi Giuseppe Patota e Lorenzo Tomasin, Massimo Arcangeli e Giuseppe Antonelli. Ora, proprio Giuseppe Antonelli intervista un altro padre riconosciuto della storia della lingua italiana, Luca Serianni. E lo fa nella formula celebrativa e quasi olimpica dell’intervista lunga in forma di libro, che in questo caso si chiama Il sentimento della lingua ed esce in queste settimane presso l’editore il Mulino di Bologna. In quel catalogo Antonelli e lo stesso Serianni contano già diverse pubblicazioni di qualità. In quella sede, nella vispa collana «Parole nostre», Serianni è per esempio autore del saggio sulla parola Parola.
Il libro di Serianni è edito da Il Mulino.
I temi sono quelli classici relativi al bilancio di una vita da docente e da ricercatore: quindi, la storia della lingua italiana più o meno interpretabile attraverso la storia di dove è andato a finire, nei secoli, il latino; il rapporto tra l’italiano e i dialetti in Italia; l’immancabile e purtroppo mai veramente sorprendente approccio ai prestiti dall’inglese; gli apporti storici della nostra lingua
Netflix Finalmente
la serie ha una fine degna Alessandro Panelli
La lingua e le sue passioni Stefano Vassere
Breaking Bad, e poi? El Camino
alle altre; che cosa bisogna insegnare a scuola per infondere una competenza linguistica consapevole (qui, tra l’altro, Serianni ha una posizione propria piuttosto originale e peculiare, se ricordiamo per esempio un libro di una decina di anni fa dedicato all’italiano a scuola, curato insieme a Giuseppe Benedetti). E poi il ruolo della lettura: dice questo libro che la chiave di volta per potere usare in modo appropriato determinati meccanismi lessicali e strutturali è, nel modo più assoluto, «incontrarli nelle proprie letture». Ma qualche incursione inaspettata sarà per esempio interessante trovarla quando Antonelli chiama il maestro su terreni potenzialmente scivolosi: «sei d’accordo con la certificazione di competenza della lingua italiana per le persone che vengono a vivere e a lavorare in Italia?». Sì, certo, risponde Serianni, per la condivisione di regole e valori sociali e, alla fine, per rispetto dello stesso lavoratore ospite (sia esso – potremmo aggiungere – un rifugiato o, per esempio, un giocatore di hockey su ghiaccio). È quel senso di responsabilità che molte figure di linguisti (in capo a tutte Tullio De Mauro, ma questo libro si conclude proprio su questo punto) hanno avuto e professato nel corso del secolo scorso e che colloca la linguistica anche dalle
parti della teoria della responsabilità morale e civile; perché se non è del tutto vero che una società ha la lingua che merita o viceversa, è però verità sacrosanta che lingua e società condividono spesso tensioni e preoccupazioni che si riverberano sulla comunità intera. Chiuso questo libro succede di rimirarne la copertina e riaccorgersi di quel titolo, che richiama la passione sincera; che è attribuita allo studioso ma qua e là anche ai parlanti. Chi ne abbia la possibilità vada semmai a leggersi le ultime pagine di un altro e più antico libro di Serianni, Prima lezione di grammatica. Vi troverà le storie struggenti di due lettori, una donna e un uomo, che rivolgendosi alla posta de «La Crusca per voi» dicevano: (la prima) «augurandosi di fare in tempo a leggere la risposta, perché gravemente malata di un male che non perdona» e (il secondo) «per la risposta acclude una piccola somma (scusandosi di non poter dare di più)». Ci sono, tra gli italiani che ragionano su fatti di lingua, persone molto per bene. Bibliografia
Luca Serianni, Il sentimento della lingua. Conversazione con Giuseppe Antonelli, Bologna, il Mulino, 2019.
A ben sei anni dalla conclusione di una delle serie televisive più rivoluzionarie, iconiche e avvincenti di sempre con 16 Emmy Awards all’attivo, Breaking Bad torna sulle tv di casa nostra per dare una degna e importante fine a uno dei personaggi più simbolici del mondo del piccolo schermo: Jesse Pinkman. Netflix finalmente produce questo film, fortemente voluto dal creatore originario della serie Vince Gilligan. El Camino comincia là dove l’ultima puntata della quinta stagione, Felina, ci aveva lasciati, ovvero con la fuga di Jesse dopo essere stato imprigionato dai nazisti. Questo film non è propriamente necessario ai fini della serie tv, non apre alcun nuovo spunto narrativo, ma persegue l’obiettivo di dare una degna conclusione a Jesse, il cui destino era rimasto in sospeso. Inizialmente ci si aspetta una storia più tragica, ma metabolizzando l’opera si apprezza il mantenimento di un ritmo piuttosto lineare e senza l’ausilio di colpi di scena. Come tutti sappiamo, Jesse Pinkman è stato il personaggio più sfruttato, maltrattato, che più ha sofferto all’interno delle cinque stagioni di Breaking Bad. Vederlo redimersi, sciacquarsi via i peccati commessi e pronto finalmente a mettere una pietra sopra fa piacere, sorridere e versare pure qualche lacrima. Vince Gilligan racconta il futuro di Jesse mostrando flashback e momenti della sua vita non approfonditi dalla serie. In questo modo si ha una perfetta contestualizzazione di quello che poi farà nel tempo presente. Grazie alle restrospettive emerge inoltre un lato umano verso gli altri personaggi della serie, una novità che ci rallegra, perché in Breaking Bad la moralità era solo sporadica. Nelle due ore di El Camino invece, Gilligan mette in luce l’importanza dell’apprendimento di Jesse che fa finalmente tesoro dei consigli ricevuti. A livello tecnico il film si assesta su livelli eccezionali (mai raggiunti prima) in grado di regalarci paesaggi e panorami mozzafiato, mantenendo fedele l’amata Albuquerque. I punti camera riescono a realizzare quadri visivi stupefacenti. I primissimi piani mantengono alta la tensione e caratterizzano bene lo stato d’animo dei personaggi con giochi di colore coerenti che donano il valore aggiunto necessario a una rappresentazione tridimensionale dei soggetti in campo, grazie all’ancora una volta straordinaria colonna sonora. L’unica pecca è forse l’evoluzione di Jesse, un po’ affrettata e poco approfondita nella prima parte. Gli bastano infatti poche ore per passare dalla condizione di cane bastonato a quella dell’uomo deciso a iniziare il cammino verso la propria redenzione. El Camino è comunque un’opera cinematografica in grado di farci tornare per due ore nel mondo sofferente e tragico che tanto apprezziamo, regalandoci un finale che risponde alle questioni irrisolte e grazie al quale dire finalmente addio a un’opera che rimarrà nei nostri cuori.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Cultura e Spettacoli
Il ritorno di Angels in America
In scena Il Teatro dell’Elfo di Milano riprende e in parte rinnova
lo spettacolo del 2009, proponendolo fino al 24 novembre 2019 Giovanni Fattorini Onusto di premi, tra cui il Pulitzer 1993, Angels in America è un testo teatrale in due parti (intitolate Si avvicina il millennio e Perestroika) che intrecciando alcune storie personali (ambientate a New York tra il 1985 e il ’90, ma prevalentemente nel biennio ’85-’86, durante la presidenza di Ronald Reagan) tratta argomenti quali il capitalismo, la giustizia sociale, l’omofobia, il razzismo, la democrazia, il progresso, le migrazioni, l’identità (sessuale, di genere, etnica, religiosa, di classe, nazionale), e con particolare rilievo il diffondersi negli Stati Uniti dell’AIDS: una sindrome inizialmente considerata triste appannaggio di omosessuali e tossicodipendenti, e successivamente assunta, negli anni Ottanta, a metafora della decadenza e della possibile fine di una civiltà, e dunque fonte di previsioni apocalittiche, di attese millenaristiche, di aspettative palingenetiche. Si tratta, insomma, di un’opera «massimalista», con citazioni e rimandi disparati, con passaggi bruschi dal realistico al visionario. In altri termini: non è una tranche de vie ambientata «in un tinello», per usare un’immagine di conio arbasiniano. Con grande libertà, l’azione si sposta infatti da una camera d’ospedale a un ristorante di lusso, dal Central Park ai ghiacci dell’Antartide, da una casa nello Utah al Paradiso. E il linguaggio con cui si esprimono i suoi personaggi trapassa dal basso-quotidiano al poetico-immaginoso. Dopo la prima londinese del 1993, il Sunday Times ha definito Angels in America «una Divina Commedia per un’età laica e tormentata»: parole che buona parte del giornalismo culturale ripete pigramente anche ai giorni nostri. Per rendersi conto di quanto sia inop-
portuno l’accostamento al poema dantesco, basta considerare il fatto che i personaggi di primo piano della commedia di Tony Kushner sono sette. Una campionatura sociologica piuttosto limitata: sicuramente per quanto riguarda le inclinazioni e le pratiche sessuali: cinque dei sette personaggi sono gay. Quanto all’Angelo che scende sulla terra per annunciare l’avvio della Grande Opera, e irrompe nella camera da letto di Prior Walter per conferirgli un’investitura profetica, più che imparentato con gli angeli della Bibbia, o con l’Angelo della Storia di Walter Benjamin, sembra avere rapporti con il fantasy, il camp e l’effettismo hollywoodiano. (Come dieci anni fa, si direbbe che voglia darcene conferma la fragorosa apparizione della ragazza pennuta che nello spettacolo di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani sfonda una parete della camera di Prior, accompagnata da folgori, tuoni, video psichedelici, musiche ad altissimo volume, cori oltremondani, effetti d’eco e altre amplificazioni sonore. Ma devo aggiungere che una parte non piccola del testo di Kushner, a mio parere, ha carattere parodico o è al limite della parodia). Sottotitolando la sua opera «fantasia gay su temi nazionali», e definendola successivamente «una commedia gay ed ebraica», oltre che «una commedia di New York», il drammaturgo statunitense ha dato prova di maggior consapevolezza e lucidità critica. Un’altra annotazione mi pare inevitabile, e riguarda la rilevanza che dall’inizio alla fine ha il tema dell’AIDS. Nel biennio 1985-86, un’infezione conclamata da HIV significava quasi sempre morte certa. Oggi non più. Sotto questo aspetto, Angels in America si può definire a period piece. Tradotto liberamente: un oggetto di modernariato. E lo fa
La prima parte del dittico Angels in America sarà in scena al LAC di Lugano il 26 e il 27 novembre. (Laila Pozzo)
sembrare tale anche la scena conclusiva di Perestroika, ambientata nel Central Park, dove davanti alla fontana di Bethesda, nel febbraio del 1990, quattro personaggi (Prior, Hannah, Belize e Louis) parlano dei cambiamenti politici avvenuti nel mondo tra il 1986 e il ’90, ed esprimono la speranza che la terribile esperienza della pandemia di AIDS contribuisca alla costruzione di società fondate su idee di pluralismo liberale. Pienamente attuali sono invece i temi dell’ingiustizia, dell’omofobia, del razzismo, delle migrazioni, delle disparità sociali, delle identità, delle incarnazioni negative del potere. Temi che spesso trovano efficace espressione nelle parole e negli atti dei personaggi principali: Prior Walter (giovane WASP affetto da AIDS, a cui l’Angelo affida una missione che ha lo scopo di far ritornare Dio nel Paradiso che ha abbandonato); Louis Ironson (giovane intellettuale ebreo, e alter ego dell’autore, che abbandona Prior, di cui è l’amante, perché non si sente in grado di affrontare i problemi connessi alla sua malattia); Belize (infermiere afroamericano ed ex drag queen, amico ed ex amante di Prior); Joe Pitt (giovane avvocato mormone, assistente di un giudice e pupillo di Roy Cohn, che fatica ad accettare la propria omosessualità e diventa l’amante di Louis); Harper Pitt (moglie depressa di Joe, le cui allucinazioni sono dovute alla dipendenza dal Valium); Hannah Pitt (madre di Joe, anche lei mormone, che si trasferisce dallo Utah a New York dopo che il figlio le ha confessato per telefono di essere gay); Roy Cohn (famoso e influente avvocato ebreo, ultraconservatore e professionista scorretto, eterosessuale in pubblico e omosessuale in privato, che muore di AIDS in un letto di ospedale, sotto lo sguardo del fantasma di Ethel Rosenberg, della quale ha chiesto e ottenuto, nel 1951, la condanna a morte). Al ritmo fluido e alla varietà di registri dello spettacolo diretto da Bruni e De Capitani contribuiscono i numerosi video di Francesco Frongia e soprattutto un affiatatissimo gruppo di nove attori, ciascuno dei quali interpreta diversi personaggi (indicherò soltanto i più importanti). Quattro di loro erano già nell’edizione del 2009: Elio De Capitani (un ottimo Roy Cohn, personaggio realmente esistito), Luca Petranca (Louis Ironson), Ida Marinelli (Hannah Pitt), Cristina Crippa (Ethel Rosenberg). Gli altri cinque sono new entries: Angelo Di Genio (Prior Walter); Giusto Cucchiarini (Joe Pitt), Giulia Viana (Harper Pitt), Alessandro Lussiana (Belize), Sara Borsarelli (l’Angelo).
E se dalla porta entrasse Greta?
Teatro Greta, una pièce per classe scolastica
in cartellone alla Schauspielhaus di Zurigo
Lara Fuchs, Julia Berger e Roman Kiwic in Greta. (© Gina Folly)
Marinella Polli Greta Thunberg, la sedicenne con la sindrome di Asperger che ha iniziato il suo sciopero dalla scuola per chiedere alla politica di salvare il pianeta, è diventata promotrice del movimento di protesta contro cambiamento climatico e riscaldamento globale, ricordando ai politici come non si stia rispettando il patto generazionale su cui poggia ogni società degna di questo nome: quello di preoccuparsi a sufficienza per le future generazioni. Si ha ora occasione di immergersi nelle problematiche sollevate dall’attivista svedese e dalla sua protesta che, grazie anche alla potenza di social media e di tutto il mondo virtuale, è ormai virale, assistendo a una pièce in cartellone attualmente alla Schauspielhaus e intitolata proprio Greta. Si tratta del «Klassenzimmerstück» (lavoro per classe scolastica) di Lucien Haug, autore e pedagogo teatrale, e Suna Gürler responsabile dell’attività teatrale giovanile alla Schauspielhaus, messo in scena da quest’ultima insieme a tre giovani che si rivolgono ai loro compagni delle superiori. Un appassionato e appassionante lavoro collettivo col quale è possibile approfondire il tema e far passare più di un messaggio. Il pubblico è seduto ai banchi di scuola (la prima assoluta ha luogo in un’aula del Liceo Rämibühl di Zurigo), quando si spalanca la porta e i tre protagonisti entrano gridando e esortando allo sciopero. Uno di essi è Claudio, che fa subito presente come solo chi è al liceo può permettersi di scioperare, non chi come lui sta assolvendo un apprendistato. Non sono d’accordo con lui né la seria e impegnata Alina, che conosce a menadito fatti e problemi dell’incombente catastrofe climatica, né l’amica Betty che non si lascia etichettare come
la solita ragazzina viziata della Goldküste. Come Greta che è venuta a parlare di un incubo, non di un sogno e, al motto di «dovremmo sentirci più responsabili del disastro che abbiamo causato e arrabbiarci di più», vorrebbe cambiare il mondo subito per il bene comune, suo e delle generazioni a venire, anche i tre sembrano profondamente scossi dalla situazione del pianeta. Si parla ovviamente di Greta, che in questa pièce viene peraltro solo nominata. Di come si debba avere il coraggio di svegliarsi e fare finalmente qualcosa per cambiare la situazione, senza però che il tema diventi polarizzazione politica, senza un’altra disputa fra sinistra e destra. Purtroppo, accordarsi su un’unica soluzione è difficile e le discussioni fra i tre si fanno sempre più accese: sul modo ecologicamente più corretto di viaggiare, spostarsi, mangiare, vestirsi, persino su chi ha i genitori più consapevoli. Si alzano cartelli, si sparano slogan con il megafono, si litiga, si sbatte la porta, si ricomincia, per quasi un’ora di rappresentazione; i toni sono seri, ma non mancano momenti esilaranti. Un esempio da imitare, Greta, o da non imitare? Va bene scioperare a scuola? E se accetti di scioperare sei un eroe anche tu o solo uno che ha voglia di marinare la scuola? Con questo lavoro, autore e regista si interrogano e interrogano gli studenti. Ottima l’accoglienza del pubblico in occasione della première, battimani scroscianti all’indirizzo del team registico e, soprattutto, dei tre davvero straordinari giovani attori Julia Berger, Lara Fuchs e Roman Kiwic. Dove e quando
Greta sarà replicato in numerose sedi. Per il programma completo vedi www.schauspielhaus.ch
La Mendrisio che non ti aspetti
Da vedere La città accoglie un’installazione dell’artista ticinese Alex Dorici Alessia Brughera Chi in questi giorni si trovasse a percorrere via Noseda a Mendrisio si accorgerebbe sicuramente di qualcosa di insolito: a catturare la sua attenzione sarebbe una lunga corda di colore rosso disposta a delineare un grande solido geometrico dalla prospettiva ambigua che gioca con i volumi degli edifici affacciati sulla strada. Si tratta della più recente installazione di Alex Dorici, giovane luganese che negli ultimi anni sta conquistando un posto di rilievo all’interno del panorama artistico contemporaneo, non solo svizzero. L’opera, intitolata Installation rope 202 meters e visibile fino alla fine di
novembre, è un intervento site-specific scaturito dal più ampio contesto del Workshop di Progettazione Urbana («Azione», 7 ottobre) organizzato dallo Studio di Architettura Lamanuzzi di S. Pietro di Stabio, evento arrivato alla quinta edizione che si è concluso poche settimane fa e che ha scelto di coinvolgere Dorici per la sua peculiare capacità di interagire con il tessuto urbano reinterpretandolo in chiave estetica. In perfetta consonanza con il Workshop, nato con il proposito di instaurare un dialogo tra città e cittadini rafforzando così l’identità stessa del territorio e il senso di appartenenza di chi lo abita, la ricerca di Dorici parte da quelle aree pubbliche che ogni giorno centinaia di
persone attraversano e guardano distrattamente per riconsegnarle al loro sguardo sotto una veste inedita. Con la corda, uno dei materiali da lui prediletti insieme a nastro adesivo, scatole di cartone, tubi e altri elementi di recupero, poveri e di facile reperibilità, l’artista si confronta con lo spazio urbano per ridefinire i suoi volumi consolidati secondo nuovi tragitti visivi. Questo è ciò che accade anche a Mendrisio, dove Dorici si impossessa di uno spaccato della città, quello racchiuso tra l’ampliamento urbanistico degli anni Sessanta e Settanta e la serie di residenze che circoscrivono il versante ovest del paese, per attivare riflessioni sulle modalità di percepire
e vivere il luogo: lavorando sulle strutture preesistenti, l’artista, con il tipico cordame di un vivido rosso che spicca sul color cemento, dà vita alle sue forme geometriche arbitrarie e sconnesse, ai suoi solidi distorti che stravolgono la visione consueta dello spazio, pungolando e ingannando l’occhio, ma restituendogli al contempo la libertà di percorrere traiettorie senza regole e confini. Dove e quando
Alex Dorici. Installation rope 202 meters. L’opera è fruibile nella zona di via Noseda a Mendrisio fino alla fine di novembre 2019.
L’intervento artistico di Alex Dorici a Mendrisio. (Alex Dorici)
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 novembre 2019 • N. 47
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Arte da scoraggiare L’attributo più squalificante, più vergognoso, per un Torinese vecchio stampo, è quello di «artista». Dare a un Torinese dell’artista è peggio che dargli del bandito, quest’ultimo qualche attenuante ce l’ha, è stato abbandonato dai genitori. Ne consegue che un Torinese di buona famiglia che ha la disgrazia di scoprire di avere un temperamento artistico deve tenerlo accuratamente celato, per non incappare nella disistima di parenti e amici. Il Torinese artista si costruisce prima una rispettabile carriera nelle arti liberali, nell’industria, nelle banche, nell’insegnamento e solo in un secondo tempo lascia affiorare in superficie le sue vere tendenze e incomincia a esibirsi. In un primo tempo quasi mai in pubblico, almeno agli inizi testa le reazioni della ristretta cerchia dei parenti e degli amici. La regola vale anche per chi è nato ad Asti: i fratelli Paolo e Giorgio Conte, discendenti di una illustre famiglia di notai, hanno dovuto all’inizio laurearsi in giurisprudenza ed esercitare per
molti anni la professione di avvocati, prima di rivelare al mondo la loro grande bravura di cantautori. Così capita di essere invitati a cena e di fare la piacevole conoscenza con un giudice o un funzionario della prefettura al quale, dopo il caffè, il padrone di casa rivolge il pressante invito di accostarsi al pianoforte. In alternativa si materializza una chitarra. È il momento delle spiegazioni a favore di chi è, ancora per qualche minuto, ignaro del segreto. Il signor giudice compone ed esegue – nel poco tempo libero che gli rimane dopo aver assolto i suoi doveri – graziose canzonette ispirate a episodi che gli sono realmente accaduti. Perché non ci fai sentire. Ho messo un dito nel tritacarne? Oppure Non è colpa mia se è scoppiato il televisore? Interviene un ospite: «No, è più bella quell’altra che fa Non mi dire che non hai messo il freno a mano». Vi mettete all’ascolto pensando che il signor giudice, se anche non è il primo nella classifica dei cantautori, lo è sicuramente, a giudicare dai titoli,
in quella degli sfigati. Scoprite che gli spettatori non devono limitarsi ad ascoltare, applaudire e complimentarsi ma devono essere parte attiva nell’esecuzione. Se va bene, l’intervento si limita a un coretto con degli «Oh, Oh, Oh» da emettere al cenno dell’esecutore. La fantasia degli artisti repressi è diabolica, è probabile che vi venga richiesto di schiacciare a tempo delle perette da clistere cariche di borotalco o di passarvi un pettine sui denti; si porta molto l’azione scenica, tipo strapparsi un pelo dal naso o eseguire flessioni ginniche. I cantautori sono in maggioranza ma non dobbiamo dimenticare i poeti. C’è sempre un vicino di posto che ti domanda in tono zelante: «Conosci le poesie del dottor Bianchi? No? Devi assolutamente convincerlo a leggertene qualcuna». Tu che provi rimorsi cocenti per non avere mai trovato il tempo per leggere la Gerusalemme liberata o Il canzoniere di Umberto Saba, ciò nondimeno preghi il dottor Bianchi, ottimo commercia-
lista, di leggere qualche sua composizione, augurandoti che sia un seguace di Giuseppe Ungaretti, della serie due versi sono pochi ma tre sono troppi. Il dottor Bianchi dapprima si schermisce: «A chi volete che interessino i miei poemetti!». (Poemetti? Andiamo bene!) Gli adulatori insistono: leggici Partita doppia, oppure L’Irpef dell’anima, o meglio ancora Ode al modello 740. Va a finire che il poeta cede alle affettuose insistenze, si alza in piedi, solleva il cuscino dalla sedia sulla quale stava seduto e ne estrae un voluminoso mannello di fogli che teneva lì, pronto per ogni evenienza. Il problema per chi ascolta non è quello di formulare un giudizio sulle poesie – chi se ne frega se sono belle o brutte – ma di non sapere dove posare lo sguardo durante la lettura. Sul bardo che declama no, è troppo vicino, sarebbe come esaminargli le tonsille e a chiudere gli occhi simulando concentrazione c’è il rischio di addormentarsi. Si finisce per guardare nel vuoto simulando un rapi-
mento estetico a condizione di non intercettare lo sguardo di un’altra vittima per non scoppiare a ridere. Al termine della lettura vi toccherà esprimere poche ma sentite parole di lode e di incoraggiamento. Se, esagerando, dite che varrebbe la pena di pubblicarle, il commercialista poeta ribatterà: «Già fatto». Sotto la sua sedia c’è una borsa piena di copie stampate a sue spese, ne estrae una e sul primo foglio bianco scrive una lunghissima dedica nella quale vi elogia come critico finissimo e animo eletto in grado come pochi di capire e apprezzare le sue poesie. Uno s’immagina che a Torino gli studi dei professionisti e dei funzionari siano altrettanti giardini di Armida dove musica e poesia fanno a gara per intrecciare ghirlande. Viene da chiedersi: non sarebbe stato meglio permettere al ragazzo di dare libero sfogo alle sue naturali inclinazioni? Al contrario c’è chi sostiene che l’arte migliora quando è scoraggiata. Se è così aumentiamo la dose di repressione.
poteva essere disgiunta dalla classe (portamento) nè dalla modestia (pudore). Il fornitore della Real Casa, in materia di bellezza, era Dio, niente di meno. Gli occhi denotavano un rapporto diretto con il fornitore supremo: erano pura luce, grazia immacolata e universale. Il corpo non doveva essere mai neppure nominato. La donna bella era statica, aristocratica. Già dal secolo seguente c’è più attenzione al movimento, si parla dell’incedere. Ma le gambe sono sempre sostegno del busto, come il gambo per i fiori, sono occulte putrelle d’alabastro dalla funzione puramente meccanica. Non si vedono, non si nominano. Per vederle dobbiamo aspettare le spiagge. E siamo già al diciannovesimo secolo. Il portamento ora è la schiena diritta della sicurezza borghese. Siamo passati dal corpo nascosto al corpo svelato. E oggi siamo all’ostentazione. Gli occhi, che sono stati luce degli astri e specchio dell’anima, diventano profondità psichica e infine sguardo, e quando ciò accade, la festa dell’ammirazione è finita. La bel-
lezza che, con canoni diversi da un’epoca all’altra, ha fatto della donna l’oggetto del turbamento e poi della sublimazione e poi del desiderio, può sopportare il peso della donna soggetto? La donna che guarda è ancora una donna da guardare? Spesso è vissuta come una minaccia. All’inizio del secolo scorso nasce la «maschietta» con i capelli tagliati corti, snella, il collo scoperto, l’occhio impertinente. Può essere glorificata (senza la collaborazione di Dio), ma può anche essere rimessa al posto suo, punita per la sua imprudente ostentazione di scelte di vita da emancipata. E come si puniscono le donne? Imponendo loro un modello di bellezza a cui cercheranno di adeguarsi con sacrifici e frustrazioni. Quale strumento migliore dell’obbligo d’essere belle per tenerci sotto, schiave delle apparenze, costrette a comprare belletti, a imporci diete, quando non a ricorrere al bisturi, e sempre a rimbecillire di dolore per i guasti dell’età? Prima la bellezza femminile doveva allietare l’uomo, poi doveva spingerlo a procreare, quindi ha
dovuto impedire alle donne di raggiungerlo. Come? Costringendo le ragazza a perdere tempo energia e intelligenza per adeguarsi ai canoni di bellezza del secolo. Mentre suo fratello studiava, lei buttava ore davanti allo specchio. Lui invecchiando migliorava, lei scadeva come merce avariata: la bellezza sfiorisce, l’intelligenza no. La perdita di credibilità del Grande Racconto (la religione, l’ideologia) ci condanna a vivere nel mondo in cui viviamo. La caduta delle trascendenze ci consegna alla dittatura del nostro piacere. Di questo passo con le stampanti 3d e i prodigi di medicina e chirurgia estetica, diventeremo, nel corso di questo secolo, tutti sani e belli e giovaniformi, ma la bellezza, diventata di massa, avrà ancora la funzione di stupirci? Norberta Biasin, croce e delizia della mia prima giovinezza, presto potrà essere costruita in laboratorio. Potranno sfornarne plotoni di Norberte Biasin, tutte belle uguali. Bionde alte slanciate col nasino all’insù e il vitino sottile. Sull’incanto, allora, trionferà la noia.
vano allietato (si fa per dire) la società letteraria italiana. Quell’anno Bompiani propose per il Premio Strega I racconti di Alberto Moravia: ne nacque un pandemonio perché si trattava di una raccolta di racconti già usciti, anche se in realtà il regolamento non vietava la partecipazione di testi editi, purché contenuti in un libro nuovo. Per evitare il caos, Moravia decise nobilmente di ritirarsi lasciando campo libero al Visconte dimezzato di Calvino, il suo favorito: «Penso – scrisse in una lettera al comitato – che i premi andrebbero dati ad autori giovani o per lo meno sconosciuti». Furono gli strali della congregazione del Sant’Uffizio, scandalizzata per la blasfemia di certi racconti e pronta a mandarli all’Indice, a fargli cambiare idea: Moravia partecipò per ripicca e vinse scatenando le invettive di Carlo Emilio Gadda, che concorreva con Il primo libro delle favole. In una lettera all’amico Gianfranco
Contini, Gadda urlò al complotto e non esitò a sparare a zero contro il «rumoroso codazzo degli strombazzatori di sinistra» che sostenevano Moravia, accusato di avere il «cervello… di un autentico deficiente» e silurato come «milionario sinistreggiante an-ario» (con un discutibile gioco verbale sulle sue origini ebraiche, 2). Italo Calvino, nel 1968, scrisse un telegramma agli organizzatori del premio Viareggio, uno dei riconoscimenti più prestigiosi, che gli era stato assegnato per la raccolta di racconti intitolata Ti con zero: «Ritenendo definitivamente conclusa epoca premi letterari rinuncio al premio perché non mi sento di continuare ad avallare con il mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato stop. Desiderando evitare ogni clamore giornalistico prego non annunciare mio nome fra vincitori stop. Credete mia amicizia». Erano anni di contestazione «obbligatoria» in cui era consigliabile
tenersi alla larga dalle istituzioni (nel 1964 Sartre aveva detto no al Nobel). Calvino stesso, che aveva già ricevuto il Viareggio una prima volta nel 1957, nella polemica che inevitabilmente seguì al rifiuto scrisse una lettera al direttore del «Tempo» in cui precisava: «Stare al gioco dei premi è un comportamento che i letterati onesti (e ve ne sono) seguono per abitudine, scoraggiamento, malintesa beneducazione, timore dello scandalo o della solitudine…». Più in là però lo stesso Calvino avrebbe accettato il Premio Asti (1970), il Premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei (1972), poi quello della Città di Nizza, il Mondello e altri ancora (3+ alla coerenza). Chissà se vincendo il Nobel avrebbe seguito l’esempio di Sartre… «Che debbo dire dei letterati in genere? – scrisse Moravia quando seppe delle reazioni isteriche di Gadda dopo la sconfitta – Meglio tacere» (6). In effetti, meglio tacere.
Quaderno a quadretti di Lidia Ravera La noia vincerà l’incanto La bellezza è sempre stata la mia ossessione segreta. La bellezza femminile. Mi affascinava come la fortuna, come il genio. La consideravo fuori dal sistema democratico. Iniquamente distribuita. Irraggiungibile. Il valore che le attribuivo era proporzionale alla sua rarità. Mi ricordo di Norberta Biasin ancora oggi. Al liceo Gioberti, Torino. Norberta era alta e diafana, pelle di alabastro, occhi celesti, lunghi capelli biondi. Arrivava sempre in classe in ritardo. I professori non la sgridavano, la guardavano camminare lenta verso il suo banco, dando a tutti la possibilità di ammirarla. Alle assemblee, alle riunioni, si era negli anni della rivoluzione studentesca, taceva annoiata, eppure tutti erano ai suoi piedi. A me, che non ero bellissima, toccava parlare. Dire la cosa giusta al momento giusto. E dirla bene. Come i maschi. Adesso le belle ragazze sono una maggioranza. Più ci si allontana dalla povertà o dalle guerre, più la razza migliora. Le giovani sono quasi tutte carine, anche se omologate:
capelli piastrati, occhi bistrati, bocche disegnate, vitino e tettone, tacco 12 e jeans incollato al deretano. Ai miei tempi era richiesta la bellezza naturale. O eri bella o eri brutta. Fine. Adesso la bellezza è una app: impari a truccarti, ti compri la mastoplastica additiva, ti tingi i capelli quando sei ancora alle medie. Oggi va la bellezza calcolata, apparecchiata, fasulla. Quale sarà il modello di bellezza del futuro? Ho letto con entusiasmo crescente la Storia della Bellezza, di Jean Vigarello proprio perché, secondo me, la bellezza non ha storia. La bellezza «è», come la poesia, un talento, un dono, non si impara e non si ottiene. Quella che si può raccontare, e Vigarello lo fa in modo magistrale, è la storia del rapporto che tutti noi, animali sociali, abbiamo avuto abbiamo e avremo con la bellezza. I mille tentativi di descriverla, di definirla, di adeguarla, di usarla, di venderla, di insegnarla. Vigarello racconta che nel Rinascimento esisteva soltanto la parte superiore del corpo. Il volto, il collo, il vitino. La bellezza non
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Se i grandi spiriti impazziscono I premi letterari possono indubbiamente cambiare la vita di uno scrittore. Gli scrittori lo sanno e se qualcuno dovesse dire che non gli interessa partecipare e tanto meno vincere, il sospetto è che stia mentendo o che ci sia sotto qualcosa di strano. Sono considerazioni che nascono spontanee dopo la lettura di Visto si premi (Edizioni Santa Caterina, 5+), che racconta a più voci alcuni divertenti (e desolanti) retroscena dei concorsi letterari. Divertenti e desolanti, perché spesso i premi fanno perdere la testa anche agli spiriti migliori, che in certe circostanze offrono il peggio di sé. Qualche esempio. Nel 1959 la Garzanti ha due candidati formidabili allo Strega: Beppe Fenoglio con Primavera di bellezza e Pier Paolo Pasolini con Una vita violenta. È stupefacente leggere i carteggi di quei due giganti. Il primo scrive a Pietro Citati: «i premi letterari non mi tolgono né il sonno né l’appetito. Io non scrivo
per competizione (…), alla radice del mio scrivere c’è una primaria ragione che nessuno conosce all’infuori di me». Bellissima dichiarazione di fede nella scrittura (6), ma il problema è che due cavalli della stessa scuderia editoriale non sono compatibili: uno dovrebbe ritirarsi, e questi, per ordine superiore, deve essere proprio Fenoglio in modo da lasciare spazio a Pasolini. Tuttavia, Fenoglio non ne vuol sapere, Pasolini si infuria (3–) e avvia una «campagna elettorale» promuovendo sé stesso presso i giurati, come in questa (squallidina) lettera del 12 giugno indirizzata al poeta Vittorio Sereni: «Caro Sereni, scusami questo atroce, laconico biglietto tutto bianco: ne sto scrivendo due dozzine… È per chiederti il voto allo Strega… Me lo darai?» (2). Tra i due litiganti, vincerà un defunto, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore de Il Gattopardo, romanzo uscito postumo l’anno prima. Già nel 1952 alcune sceneggiate ave-
La piccola civetta Mimi L’elastico
«Evviva!» esclama Mimi, quando per caso mettendo in ordine salta fuori un elastico. «Con questo posso sicuramente realizzare una catapulta per il mio modellino aereo» gioisce a gran voce Mimi. Ed è così che ancora una volta di tempo per riordinare non ce n’è. Chi si mette a riordinare la casa quando c’è di meglio da fare, come per esempio costruire un modellino aereo in legno leggero con catapulta? Di certo non Mimi. Beh, tra l’altro Mimi è una civetta. Una piccola civetta con una fantasia sconfinata e tanta passione per il bricolage. Le piace escogitare le avventure più spericolate ed è piena di idee creative su come realizzare qualsiasi cosa con il bricolage. La piccola civetta adora vivere mille avventure soprattutto con i suoi amici: lo scoiattolo Evi, la volpe Edi e la lepre Lou. Ed è proprio per loro che Mimi desidera realizzare regali creativi. In fondo tra poco è Natale. Allo scoiattolo Evi la piccola civetta vorrebbe regalare un cannocchiale. La volpe Edi dovrebbe invece ricevere una sfera di vetro con neve. Mentre per la lepre Lou ha pensato di realizzare un modellino aereo. «Ora si fa sul serio» pensa Mimi tra sé e sé, mentre va a prendere dall’armadio tutto l’occorrente per realizzare questo aeroplanino, oltre allo schema di progetto preparato personalmente. La piccola civetta si
ingegna su come fare per trasformare l’elastico in una catapulta e mormora: «Allora … Se fisso qui l’elastico dovrebbe andare bene». Improvvisamente il padre sbircia nella cameretta. «Cosa stai costruendo oggi?» chiede a Mimi. «Mmm...un aeroplanino per Lou» risponde MImi e aggiunge: «Stavo giusto cercando di capire come far decollare l’aereo. L’ideale sarebbe usare questo elastico come catapulta». Il papà si china accanto alla piccola civetta. Adora dedicarsi ai lavori creativi e a nuove invenzioni insieme a Mimi. «Mostrami il tuo progetto». Con il progetto in
SPICK «Mostrami il tuo progetto»
mano il padre non smette di passare in rassegna l’elastico e il modellino aereo. Dopo un po’ si volta raggiante verso Mimi. «Che ne dici di costruire un motore a elastico? Così l’aereo può volare da solo». «È un’idea geniale!» esclama Mimi e inizia
Una s da le toria gg soli o ere da da legge farsi re alta v ad oce
subito a fare uno schizzo del nuovo progetto. Insieme lo tagliano, lo colorano e lo incollano all’aereo. Sono felicissimi di avercela fatta: il modellino di legno con motore a elastico è finalmente pronto. Ma poi succede l’imprevisto: mentre Mimi tiene in mano l’aeroplanino con il motore a elastico in tensione, il padre la urta inavvertitamente. Così la piccola civetta lascia andare l’aeroplanino, che improvvisamente vola tutto solo fuori dalla finestra in direzione del bosco. E Mimi lo insegue a tutta velocità. Si fionda fuori dalla casa sull’albero per buttarsi a capofitto in una nuova avventura. Ma questa è un’altra storia e la racconteremo un’altra volta.
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