Giovani, droghe e psicofarmaci: intervista alla psicoanalista Laura Pigozzi autrice di L’età dello sballo
Ecco i vantaggi e gli svantaggi di alcuni modelli di gestione del budget famigliare
ATTUALITÀ Pagina 14
Storia di Gerusalemme: 4mila anni di eventi epici e conflitti in un fumetto di Lemire e Gaultier
CULTURA Pagina 21
Vita di ragazze tra convitto e fabbrica
Autocross: è Roby Ginevri l’unico ticinese a competere in questo sport adrenalinico a livello nazionale
TEMPO LIBERO Pagina 33
La strana coppia
Più li guardo, più fatico a capire. Cosa c’entra Donald Trump con Elon Musk? I loro interessi coincidono, dicono. Ma non ne sarei così sicuro. Partiamo dall’anomalia di base. Per cosa è diventato famoso Musk? Per Tesla, l’azienda di auto elettriche nata per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e promuovere l’energia sostenibile, due idee che Trump – baldo avversario della transizione ecologica – ridicolizza da sempre. Vero che in tempo di campagna elettorale sia l’uno che l’altro si sono sforzati di mostrarsi aperti e ruffianamente comprensivi: Musk verso le auto a benzina e Trump verso quelle elettriche (ammettendo: «Devo esserlo. Elon mi ha sostenuto con forza»), ma la filosofia di partenza dei due è quasi opposta.
Vero anche che, oltre a Tesla, l’uomo più ricco del mondo si è inventato un impero tra cielo e Terra fatto di navicelle spaziali, interfacce tra cervello e computer, tunnel sotterranei e reti satellitari. Niente a che vedere col mondo di Trump, che ha fatto i dollaroni con modalità più terra-terra. Il primo è un alieno, il secondo un
cow boy. Nel grande avanspettacolo dell’universo, Musk scruta le galassie, Trump le soubrette. Anche il backround politico è diverso. Musk aveva votato Obama e fino a poco tempo fa si definiva un democratico moderato. Dicono che si sia convertito alla causa trumpian-repubblicana per stizza: non avrebbe digerito lo smacco inflittogli da Biden che (stupidamente) nel 2022 non l’aveva invitato alla riunione incentrata sulla produzione di veicoli elettrici negli Usa, alla quale erano invece presenti tra gli altri i Ceo di General Motors e Ford. E ha un doloroso rapporto con Vivian Jenna Wilson, figlia transgender di cui dice: «Ho perso mio figlio. Xavier è morto ucciso dal virus woke», cioè dalla visione che sta alla base della difesa dei diritti delle minoranze di tutti i tipi. Musk sarebbe così precipitato tra le braccia dei nemici di Biden da una parte e degli avversari del «gender» dall’altra; quindi – è matematico – tra le braccia di Trump. Può essere: il salto della quaglia da sinistra a destra è una specialità che abbiamo visto praticato con gran leggerezza anche a casa nostra.
Ma, nel caso di Musk, sembra motivato più da ragioni di frustrazione/rivalsa che da un’adesione profonda a una dottrina politica. Un po’ poco per farne un faro dell’ideologia trumpista. Non si possono negare punti di contatto, come l’avversione verso l’Unione europea (Trump per protezionismo economico e Musk per l’insofferenza alle rigide normative di controllo sul suo social network) e la comune malcelata simpatia per leader «forti» come Putin, Xi Jimping, Milei o Maduro. Ognuno di loro, inoltre, ammira il decisionismo dell’altro. Musk elogia lo stile muscolare di Trump e Trump si complimenta con Musk per i licenziamenti di massa a Twitter al suo arrivo nel 2022 (seimila teste saltate in un solo colpo). Tutti e due toccano «le corde primordiali della maschilità: orgoglio, for-
za, prepotenza, sprezzo delle regole, istinto di avventura, tribalismo, impazienza, istinto», come aveva scritto riferendosi a Trump lo storico Francesco Chiamulera.
Ma il loro è soprattutto un matrimonio d’interesse. Da Musk, oltre al sostegno finanziario della campagna, Trump aveva già ottenuto la resurrezione del suo profilo su X-Twitter, spento dopo l’assalto al Campidoglio e riattivato quando Musk è diventato padrone del social. Da Trump Musk otterrà il ruolo di capo del Dipartimento per l’efficienza nel prossimo Governo Usa e il probabile via libera anticipato alle sue future fantasmagorie.
Durerà? Vedremo. A naso l’universo sembra troppo piccolo per contenere due galli di questo calibro nello stesso pollaio intergalattico.
Barbara Manzoni Pagina 5
Carlo Silini
Fonte di idee e di ispirazione
Collaborazioni ◆ La Fonte collabora da 15 anni con Migros Ticino: il direttore Matteo Innocenti e il capo struttura Maurizio Minoli ci raccontano le sfide e le soddisfazioni del loro lavoro
Nomen omen, verrebbe da dire. La Fondazione La Fonte, infatti, nata nel 1980 per «valorizzare le persone con disabilità», rappresenta una fonte, un inizio di un percorso nuovo. Da 15 anni questa Fondazione, che si dirama in modo capillare sul territorio del Luganese e Malcantone con un’offerta diversificata, collabora anche con Migros Ticino, che rivende alcuni suoi prodotti tra le fila dei Nostrani del Ticino.
Abbiamo incontrato Matteo Innocenti, direttore de La Fonte, e Maurizio Minoli, capo struttura, per farci raccontare organizzazione e vision di una Fondazione che si occupa di oltre 150 persone ed è molto importante per il nostro territorio.
«È vero, siamo attivi in due ambiti in particolare», conferma Matteo Innocenti, «quello abitativo e quello lavorativo, in tutto gestiamo otto strutture. Ogni struttura ha una sua tipologia e un focus su un gruppo particolare di persone con disabilità. Le strutture lavorative sono composte da un panificio, una fattoria, un laboratorio multidisciplinare e un centro diurno».
Maurizio Minoli si occupa invece della gestione della Fattoria di Vaglio e del Fornaio di Agno e Lugano, attività che prevedono caratteristiche come la flessibilità, la pazienza, ma anche uno scambio costante. «Ad esempio in Via Buffi a Lugano, dove gestiamo uno snack bar, le collaboratrici e i collaboratori-utenti devono imparare a essere veloci, a fare i caffè, a gestire gli ordini e a interagire con
la clientela, sia al bancone del bar, sia nell’angolo panetteria; situazioni del tutto quotidiane per molti di noi, ma abbastanza complesse per persone con disabilità», spiega Minoli. Come racconta Innocenti, sempre in ottemperanza al nome della Fondazione, la Fonte non è un punto di arrivo, ma di potenziale (ri)partenza: diversi utenti, infatti, iniziano a collaborare in un’attività di tipo più occupazionale, per poi passare in un laboratorio, fino a riuscire a seguire attività anche all’esterno della Fondazione; la differenziazione tra le strutture offre la possibilità di accompagnare l’utente nel suo sviluppo personale. Sottolinea il direttore, «ciò che ci stimola in modo particolare è la permeabilità, la possibilità che diamo ai nostri utenti di muoversi con facilità tra le nostre strutture, passando da una all’altra, senza il rischio di inciampare, o peggio ancora, cadere». Non è dunque un caso se alcuni degli utenti decidono di intraprendere un percorso di apprendistato, biennale, o triennale, con il conseguimento dell’AFC. «In questo momento abbiamo delle giovani che hanno iniziato da noi come utenti e, grazie alle loro capacità e a quanto appreso lavorando, hanno deciso di buttarsi nell’avventura dell’apprendistato. Desideriamo avere un impatto positivo sullo sviluppo degli utenti e di riflesso sulla collettività nel suo insieme. Per questo non mi piace sentire dire che qualcuno è “finito alla Fonte”, quanto più che “ha cominciato alla Fonte”».
Fascino invernale
Monte Generoso ◆ L’arrivo della stagione fredda porta con sé una serie di appuntamenti in Vetta
Chi l’ha detto che al Monte Generoso si sale solamente nei periodi più caldi? Perché non lasciarsi ammaliare dal fascino della stagione invernale, con i suoi colori e la sua luce? Il 7 dicembre 2024 riaprirà la stagione invernale e fino al 2 maggio le tariffe dei ticket saranno ridotte del 30% per tutte le tratte e tutte le fasce di età.
La novità è che dal 23 dicembre al 6 gennaio il Monte Generoso resterà aperto tutti i giorni (partenze da Capolago alle 10.15, 11.15, 13.15 e 14.15; discesa dalla Vetta 12.25, 13.25, 14.25 e 15.45), e sarà possibile pranzare al self-service al terzo piano del Fiore di pietra o riscoprire i sapori della cucina tradizionale ticinese al Buffet Bellavista, alla stazione intermedia.
Il 7 e l’8 dicembre, per la festa di apertura della stagione invernale, il ticket della cremagliera sarà al 50% sulle tariffe invernali, quindi anco-
ra più conveniente! L’8 dicembre ad accogliere in vetta gli ospiti più piccoli ci sarà San Nicolao, che salirà a Capolago con il treno delle ore 10.15. I bambini potranno partecipare a un simpatico concorso per piccoli artisti, disegnando il Fiore di pietra a tema natalizio! Il disegno più bello verrà utilizzato per le cartoline di Natale dell’anno 2025 (concorso valido dall’8 al 31.12.2024).
Un’altra novità è rappresentata dalla cartellonistica conVivere con il Generoso, voluta dall’Associazione dei Comuni del Generoso, per presentare al meglio il territorio, l’importanza della collaborazione con gli agricoltori, il rispetto delle specie e animali autoctoni, e molto altro ancora.
Informazioni Per maggiori informazioni e orari www.montegeneroso.ch
Illustrazione di Ivan Artucovich per la nuova cartellonistica del Monte Generoso. (conVivere)
La crescita dell’autostima è certamente decisiva per gli utenti, poiché permette loro di creare una sorta di ponte tra gli spazi di lavoro e la società, «a me piace soprattutto vedere la fierezza degli utenti nei confronti del proprio lavoro», spiega Minoli, «il nostro motto, infatti, è fatto da noi, ed è veramente così: sono gli utenti a realizzare i nostri prodotti, dal seme del frutto fino al vasetto di marmellata. Questo fa nascere in loro un grande senso di responsabilità, e al contempo li aiuta ad acquisire autonomia». Le e gli utenti possono andare fieri non solo dei prodotti del panificio, ma anche delle attività legate alla fattoria, dove
si trovano l’orticoltura, il laboratorio di trasformazione dei prodotti dove vengono lavorati gli ortaggi e i frutti coltivati, una falegnameria, un reparto di servizio alberghiero che si occupa di pranzi e merende, nonché delle pulizie dell’infrastruttura. Il coinvolgimento degli utenti si riconosce anche nella scelta dei progetti, discussi di volta in volta, al fine di trovare una soluzione condivisa. Al momento, ad esempio, si lavora a un ampliamento delle colture nella fattoria di Vaglio, o si sperimenta la torrefazione in proprio di una miscela di caffè. Come sottolineano Minoli e Innocenti, negli anni gli utenti sono cambiati molto: oggi, grazie alla
Una Lugano diversa
«Azione» in gita ◆ La passeggiata con Jonas Marti ha permesso a molti di scoprire una nuova città
Sono stati numerosi le lettrici e i lettori che hanno risposto al nostro invito a partecipare a una gita nel centro di Lugano in compagnia del giornalista e divulgatore ticinese Jonas Marti, protagonista della fortunata trasmissione della RSI La storia infinita (in cui si è occupato anche della storia di Migros Ticino, primo supermercato della regione: la puntata è recuperabile sulla piattaforma gratuita PlaySuisse).
Nel corso della passeggiata durata poco meno di due ore, le e i presenti hanno avuto modo di toccare con mano la stratificazione della città sul Ceresio. Lugano, infatti, fra le altre cose, ha visto la presenza di un piccolo (e un poco ribelle) Alessandro Manzoni, di un’enorme fiera degli animali (molto
maggiore autostima e consapevolezza, nonché alle abilità professionali coltivate e cresciute all’interno della Fondazione, gli utenti riescono a esprimere meglio le proprie esigenze, i propri desideri e le proprie idee. Il Natale si avvicina, e per le persone in difficoltà questo periodo dell’anno può naturalmente rappresentare una sfida: molte sono le incognite legate alle festività, dalla solitudine allo smarrimento personale, un’incertezza che tocca anche La Fonte? Minoli sorride, «In questo periodo noi siamo impegnatissimi, perché siamo in piena produzione in tutti i laboratori; si respira dunque una grande energia, oltre all’entusiasmo di vedere acquistati i propri prodotti. Gli utenti sono poi felici delle vacanze imminenti e del tempo da trascorrere in famiglia».
Chiudiamo con i consigli per gli acquisti. In vista delle festività, chiediamo ai nostri interlocutori che prodotti de La Fonte si possono trovare in questo periodo sugli scaffali dei supermercati Migros: «Non perdetevi i biscotti al mais, il panettone e le marmellate Delizia di uva americana o zucca, cui l’anno prossimo seguiranno quella di fragola e rabarbaro, gli straccetti di melanzane e il confit di cipolle di Vaglio. Chi fosse interessato all’intera gamma in assortimento, può visitare anche il nostro shop online». / Si.Sa.
Info e shop www.lafonte.ch shop.lafonte.ch
Parte l’espansione di M-Charge
Info Migros ◆ In fase di valutazione ci sono diverse altre filiali
simile a quella di San Martino) là dove oggi sorge il Palazzo dei congressi, di una filanda dalle condizioni ai nostri occhi impossibili che impiegava numerose ragazze del Mendrisiotto spesso minorenni, di piccole e grandi battaglie, di esecuzioni capitali, di un volo fatale sul lago e di molto altro. Visto il successo dell’iniziativa, nel corso del 2025 saranno organizzate anche delle gite, sempre guidate da Jonas Marti, in quel di Locarno e di Bellinzona, al fine di offrire alle nostre lettrici e ai nostri lettori un’immagine diversa e certamente più completa di quello che è il nostro territorio. Le nuove gite saranno segnalate puntualmente su queste pagine: non perdetevele, poiché le iscrizioni sono limitate!
Come azienda responsabile e allenta ai bisogni della clientela, la Cooperativa regionale si rallegra per questo slancio sostenibile e partecipa attivamente al progetto per una mobilità a zero emissioni. Migrol, infatti, rafforzerà la presenza di colonnine anche a Sud delle Alpi, per offrire una rete di ricarica affidabile ed estesa anche in Ticino: molteplici postazioni saranno dunque ubicate presso i supermercati di Migros Ticino, affinché automobiliste e automobilisti possano ricaricare l’auto elettrica in sicurezza e fare acquisti nel frattempo. A oggi sono 18 le colonnine di nuova generazione confermate in Ticino che sono state o saranno posate in una prima fase presso i supermercati Migros di Agno, Bellinzona Nord, Lugano, Mendrisio Sud, Riazzino e Sant’Antonino.
Una ragazza e un ragazzo impegnati nella panetteria dello snack bar di Via Buffi, a Lugano. (La Fonte)
I partecipanti della gita organizzata da «Azione» il 9 novembre. (Sala)
Le colonnine sui parcheggi di Migros Mendrisio Sud. (Zanini)
SOCIETÀ
Emigrazione femminile
Yvonne Pesenti Salazar racconta la storia delle ragazze dei convitti industriali in Svizzera
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Arriva l’assistente virtuale
La Sezione della circolazione ha introdotto un sistema di IA che risponde alle telefonate
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Tumore al seno e disparità Nei Paesi poveri è ancora causa di una mortalità troppo alta, mancano mezzi diagnostici e farmaci
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Geografia segreta del Ticino L’ultimo libro di Carlo Silini è dedicato a luoghi, personaggi e vicende che rischiano l’oblio
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Aiutare gli adolescenti contro le dipendenze
Giovani ◆ Nel suo ultimo libro, L’età dello sballo, la psicoanalista Laura Pigozzi spiega che il germe della dipendenza può mettere radici già in famiglia. E ricorda che «farcela è possibile»
«A chi ce l’ha già fatta. A chi ce la farà». Si apre con un messaggio di speranza l’ultimo libro di Laura Pigozzi, psicoanalista e scrittrice, specializzata in questioni che riguardano le famiglie, i giovani e il femminile. Il testo, intitolato L’età dello sballo (Rizzoli), è dedicato all’abuso di sostante psicotrope, alcol, cibo e internet durante l’adolescenza. Pigozzi ha alle spalle vent’anni di esperienza diretta sul campo con l’ascolto quotidiano di «situazioni spesso al limite». Tra le pagine spiega che il germe della dipendenza «può svilupparsi anche a causa delle famiglie che non sono in grado di crescere persone capaci di resistere alle difficoltà della vita». I genitori non ascoltano i moniti, sempre più frequenti, degli esperti e continuano a trattare i propri figli come esseri dipendenti da loro: invece di prepararli al mondo, li condannano a un’infanzia eterna.
Laura Pigozzi, lei scrive che la dipendenza è la malattia del secolo. Che differenze ci sono rispetto al passato?
Si crede erroneamente che la malattia del secolo sia la depressione, ma dalla mia esperienza clinica vedo che moltissime depressioni sono in realtà dipendenze celate. Il fenomeno è più diffuso di una volta, non solo per il numero di casi, ma anche per ragioni culturali. Per capire la situazione in cui ci troviamo, dobbiamo fare un passo indietro. Noi nasciamo dipendenti dalle mani della madre o di chi la sostituisce in quella funzione fondamentale che richiede una simbiosi. Crescendo, il programma dovrebbe essere quello di diventare progressivamente indipendenti, arrivando all’autonomia nell’età adulta. Un traguardo che è diventato difficile a causa del discorso sociale in cui siamo immersi: la dipendenza oramai non viene considerata un disvalore. Siamo in un buco educativo, con i genitori che mantengono i figli sempre legati a loro, impedendo la separazione, facendogli credere di non essere in grado di farcela da soli.
Quando comincia questo approccio educativo?
Io vedo che la tendenza a tenersi legati i figli inizia da subito, già con le forme di allattamento «a chiamata», senza ritmo, che si prolungano a oltranza, anche quando il latte materno perde le sostanze nutritive dei primi mesi. È come se la madre fosse un supermercato, perennemente a disposizione del proprio figlio. Così, però, non si instaura una relazione sana, con presenze e assenze.
Tra i giovani in generale dilagano le droghe sintetiche, ci sono inoltre altre dipendenze: dall’alcol, dal cibo, da internet. (Freepik.com)
La mamma c’è sempre, impedendo al bambino di sperimentare la tolleranza dell’assenza e di sviluppare la resilienza alla mancanza, fondamentali nella vita. Se ogni volta che il bambino si sente agitato viene calmato col seno, come propongono certi discorsi pseudoscientifici di medici e personale paramedico, si pongono le basi per l’inizio di una potenziale dipendenza. Sembra che il piccolo debba essere sempre «otturato». Si crede che sia a disagio e quindi, voilà, si somministra il latte. Non lasciare mai piangere un bambino è sbagliato, perché quello è il meccanismo attraverso il quale comunica i suoi desideri, che non sono sempre per il cibo. Ci possono essere richieste di altro tipo che i genitori devono imparare a interpretare nella relazione.
Esistono persone più predisposte alle dipendenze?
L’eredità genetica, che può predisporre a certe tendenze, come ad esempio all’abuso di sostanze, non è un destino. È chiaro che se si cresce con dei genitori tossicodipendenti si hanno maggiori probabilità di emu-
lare certi comportamenti, perché le sostanze girano per casa. Però non sono soltanto queste le persone a rischio: crescere esseri umani che non vengono mai abituati alla mancanza e alla delusione significa predisporli a diventare adolescenti dipendenti. Un teenager senza un minimo di autonomia rischia di cadere nella trappola delle droghe alla prima grossa delusione, come una bocciatura oppure l’esclusione dal gruppo dei pari. Nel libro cito l’arte giapponese del kintsugi, che consiste nel riparare con l’oro un oggetto di ceramica rotto, perché c’è la convinzione che possa diventare più bello di quanto non lo fosse in origine. Le vite, invece, non si possono rimettere insieme con una polverina che sballa. I miei pazienti adolescenti dicono che per loro l’eroina è come un grembo caldo. Una credenza che ha origine nel «plusmaterno», un termine che non prende di mira le madri, ma chiunque eroghi quel comportamento fin dall’infanzia. Il plusmaterno implica volere essere adorati e ammirati dal proprio figlio. È diverso dall’ipercura: si chiede all’altro un bene esagerato, si
vuole che la propria parola sia legge contro quella degli altri.
Che tipo di dipendenze hanno i giovani di oggi?
C’è un abuso di Fentanyl, un oppiaceo sintetico con una potenza molto superiore a quella della morfina, che però da noi non viene assunto come negli Stati Uniti. In Europa il Fentanyl viene usato per tagliare le altre sostanze. In generale, dilagano le droghe sintetiche e perfino la marijuana non è quella di una volta, perché è molto più potente e dà effetti diversi. Inoltre ci sono la dipendenza dall’alcol, dal cibo e da internet. Il problema di internet è che impegna i nostri ragazzi per ore, trattenendoli in casa. Il fatto che restino sotto i nostri occhi ci rassicura, ma sbagliamo, perché mentre noi pensiamo che stiano navigando in modo innocente, loro, invece, magari si stanno vendendo foto e video dei piedi su Onlyfans, come mi hanno raccontato alcune giovani pazienti. I ragazzi dovrebbero uscire, stare con gli amici, avere figure adulte di riferimento diverse da quelle della madre e del padre.
Come si esce dalla dipendenza? Credo che sia importante cercare di prevenire le dipendenze cambiando il modo in cui educhiamo i nostri figli, lasciando che sbaglino, che cadano, che prendano strade che magari non ci piacciono, ma che sono giuste per loro. I genitori devono aiutare a indicare la via di uscita, ma non sostituirsi ai figli. E se si instaura una dipendenza, da sostanze o da altro, va subito combattuta chiedendo aiuto allo psicanalista e ai servizi pubblici. In certi casi è opportuno considerare anche le comunità di recupero. Non bisogna vergognarsi, ma reagire nel modo corretto. Da parte mia, oltre all’impegno come psicoanalista e autrice di libri su queste tematiche, da questo mese di novembre avvierò con la Fondazione Hapax un corso online gratuito per i genitori: sette lezioni, una al mese. Alla fine ci si potrà rivolgere a uno sportello. L’iniziativa è in lingua italiana ed è aperta a chiunque voglia partecipare.
Attualità ◆ Con il cesto regalo dei Nostrani del Ticino farai un’ottima impressione con i tuoi cari Componilo come vuoi tu collegandoti direttamente al nostro sito nostranidelticino.ch
Se stai cercando un regalo originale per Natale, ma non solo – dato che si presta bene anche per ringraziare qualcuno in particolare oppure come omaggio per un anniversario, un compleanno o un traguardo speciale – allora il cesto dei Nostrani del Ticino potrebbe essere la soluzione ideale perfetta. Ognuno di questi cesti di vimini viene accuratamente composto con una selezione di articoli prodotti rigorosamente sul nostro territorio con ingredienti locali e incartato come un bel dono. Dai biscotti alla farina bona alle paste frolle; dalle farine per polenta alle corroboranti tisane; dagli affettati quali salame, salametti, prosciutto crudo e pancetta fino alle mitiche gazose e i mieli ticinesi, non manca certo la scelta di specialità locali per offrire ai propri cari piacevoli momenti di puro piacere gastronomico.
nostranidelticino.ch/ cesti-regalo
Caffè Carlito in degustazione
Comporre il proprio cesto regalo dei Nostrani del Ticino è facilissimo e particolarmente intuitivo. Basta accedere al sito dedicato (vedi sotto) e selezionare la grandezza del cesto (piccolo 5 articoli, medio 10 articoli e grande 15 articoli), come pure la filiale Migros preferita per il ritiro. A questo punto puoi iniziare a comporlo secondo i tuoi desideri scegliendo tra gli oltre cinquanta articoli disponibili nel tool. Una volta concluso, non ti resta che chiudere l’ordine e procedere al pagamento, che potrai effettuare con le principali carte di credito e debito. Infine, entro pochi giorni il cesto è pronto da ritirare nel proprio negozio.
Fin dall’introduzione di questo apprezzato servizio, i cesti dei Nostrani del Ticino vengono preparati in collaborazione con gli utenti della Fondazione Diamante, da oltre trent’anni attivi all’interno della centrale di distribuzione Migros nei più svariati ambiti. Questa impresa sociale promuove l’inclusione di persone in situazione di handicap su tutto il territorio ticinese.
Attualità ◆ Le tre nuove miscele di caffè dell’azienda locarnese Carlito potranno essere gustate nelle prossime settimane in alcune filiali Migros selezionate
Introdotti alcune settimane fa nei supermercati di Migros Ticino, i tre nuovi caffè ticinesi di alta qualità stanno riscuotendo un buon riscontro presso la clientela. Prodotti dall’azienda a conduzione familiare Carlito di Losone con cura e passione seguendo metodi artigianali, sono disponibili nelle tre varianti «Espresso Crema», per chi cerca un caffè dal gusto particolarmente deciso; «Aroma», per gli amanti degli aromi ben bilanciati e «Mocca», un caffè dal sapore pieno ideale sia per i sistemi tradizionali che per il filtro. Tutti i caffè a firma Carlito sono realizzati con le migliori varietà di Arabica e Robusta raccolte in regioni diverse del mondo, miscelate accuratamente in percentuali differenti. Ulteriore tratto distintivo dell’azienda è la lenta e ben ponderata tostatura, dove ogni chicco viene riscaldato gradualmente fino al raggiungimento della temperatura ideale affinché sviluppi il massimo del suo aroma. Prima di essere imballati, i chicchi riposano ancora per al-
cuni giorni. Infine, i caffè lavorati da Carlito si caratterizzano anche per la loro sostenibilità, essendo certificati con i marchi di qualità Fairtrade e Bio Suisse.
Venerdì 22.11 e sabato 23.11.2024
Migros S. Antonino
Venerdì 29.11 e sabato 30.11.2024
Migros Lugano
Venerdì 6.12 e sabato 7.12.2024
Migros Agno
Venerdì 13.12 e sabato 14.12.2024
Migros Locarno
Venerdì 20.12 e sabato 21.12.2024
Migros Taverne
Caffè Carlito Espresso Crema 250 g Fr. 4.95
Caffè Carlito Mocca 250 g Fr. 4.95
Caffè Carlito Aroma in grani 250 g Fr. 4.95
Le ragazze di convitto, emigranti «alla rovescia»
Pubblicazioni ◆ Yvonne Pesenti Salazar documenta le fatiche delle giovani italofone nei convitti industriali d’oltre San Gottardo
Barbara Manzoni
Tra il 1890 e il 1950 migliaia di giovani ragazze provenienti dal Ticino, dal Grigioni italiano e dal Nord Italia sono emigrate da sole o in piccoli gruppi verso i cantoni più industrializzati della Svizzera centrale e orientale per lavorare nelle fabbriche tessili. Le ragazze perlopiù minorenni erano alloggiate nei convitti industriali, costruiti dagli imprenditori stessi in luoghi adiacenti alle fabbriche e gestiti da congregazioni religiose cattoliche. La storia di questo singolare fenomeno migratorio femminile è stata a lungo dimenticata. A farla riemergere è ora il bel libro Ragazze di convitto (coedizione Armando Dadò e Archivi Donne Ticino) della storica Yvonne Pesenti Salazar. L’abbiamo intervistata.
Yvonne Pesenti Salazar, come è nato il suo interesse per la storia dei convitti industriali in Svizzera? È un tema che ho incrociato anni fa mentre facevo ricerca per il mio dottorato: ho trovato una cartolina di una ragazza ticinese, che nel 1903 scrive a casa di nascosto, chiedendo ai genitori di venirla a prendere perché non resiste più nel convitto dove si trova. Questa cartolina che i genitori portarono a Herman Greulich, sindacalista ritenuto il «papà» della socialdemocrazia svizzera, era stata alla base di un’inchiesta effettuata dal Dipartimento Federale dell’Industria delle Fabbriche che coinvolse il convitto di Murg. In seguito ho continuato a cercare altro materiale, i primi risultati di queste ricerche sono poi confluiti nel film Ragazze di convitto girato nel 1988 da Werner Weick. Solo dopo l’uscita del film, però, molte donne mi hanno contattata e mi hanno raccontato la loro esperienza. Sono riuscita così a raccogliere tante testimonianze e moltissimi materiali che conservavano a casa e che mi sono serviti per raccontare l’universo dei convitti nella terza parte del libro. I convitti erano un universo a sé stante: si tratta di una vicenda complessa, che parla di emigrazione, di lavoro femminile e di industria. Ma è anche una storia paradigmatica di socializzazione femminile basata su principi che esasperano la già rigida educazione che veniva impartita all’epoca alle ragazze.
A proposito di modelli educativi esasperati, lei parla addirittura di internamento, perché regolamenti e disciplina nei convitti erano ferrei. Eppure molte delle testimonianze raccolte non sembrano raccontare episodi così cupi, alcune testimoni addirittura dicono che per loro gli anni del convitto sono stati un periodo anche bello… Sì, in effetti internamento è un termine forte. Lo spiego in una nota proprio all’inizio del testo. Internare vuol dire isolare una persona, segregarla dal suo ambiente, tenerla sotto controllo, limitarne la libertà. Questi elementi nella vita dei convitti sono
azione
Settimanale edito da Migros Ticino
Fondato nel 1938
Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31
tutti presenti. Non è, però, un internamento coatto, le ragazze cioè vanno in convitto di propria volontà, alcune addirittura contro il parere dei propri genitori, perché sognano l’indipendenza. Il convitto è comunque a tutti gli effetti un’istituzione totale, caratterizzata da disciplina conventuale, obbedienza assoluta, silenzio, isolamento, esclusione dalla vita sociale del luogo, controllo pervasivo, limitazione della libertà, censura della corrispondenza, giornate scandite secondo ritmi precisi. Se non è internamento, gli assomiglia davvero molto.
Che le donne poi valutino questo periodo in altro modo deriva da diversi fattori. Intanto la memoria quando si riferisce agli anni giovanili della propria traiettoria biografica, mette in atto dei meccanismi di selezione: la gioventù viene sempre valutata come un periodo felice, spensierato. Poi di fatto molte donne (e le loro famiglie) ne hanno tratto dei vantaggi, una signora che ho intervistato quasi ottantenne mi ha detto: «Se io fossi rimasta qui avrei visto solo la porta della stalla». Nessuna però nega la disciplina, la durezza, il controllo. Il che non deve stupire considerando che erano anni in cui la socializzazione di una ragazzina di quattordici-sedici anni era esattamente improntata a quel modello. Era un mondo patriarcale, estremamente
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile) Simona Sala Barbara Manzoni
Manuela Mazzi Romina Borla Ivan Leoni
opprimente per le donne, per cui il convitto non rappresenta un cambio di paradigma così eclatante.
Chi erano le ragazze? Come venivano reclutate?
I convitti in Svizzera interna nascono come istituti di correzione, come li chiameremmo adesso, sono istituti di rieducazione industriali. Gli industriali, che hanno bisogno di manodopera a basso costo e stanziale, si profilano dagli anni 50 dell’Ottocento come benefattori che contribuiscono a lenire il degrado sociale dando un tetto a delle ragazze che sarebbero votate alla miseria, all’abbandono. Poi a partire dagli anni 90 dell’Ottocento cominciano a diventare degli istituti per le migranti, diventano degli alloggi per le ragazze italiane e ticinesi che affluiscono a frotte quando la necessità di manodopera dell’industria tessile svizzera cresce. Gli industriali mettono in atto dei sistemi molto efficaci di reclutamento, inviano, ad esempio, agenti propri che percorrono le vallate del Nord Italia. Un altro vettore di reclutamento è il clero: in Ticino sono perlopiù i parroci del villaggio che informano che le fabbriche della Svizzera tedesca cercano personale femminile.
Le giovani avevano idea delle condizioni che andavano a trovare e sapevano quanto guadagnavano? Nessuna ragazza ricorda di aver mai visto un contratto, partivano senza sapere che tipo di impegno avevano preso i genitori o i tutori. Quelle che sono partite negli anni 20 e 30 sanno quanto denaro possono inviare a casa, perché dopo la prima Guerra mondiale gli ispettori di fabbrica ottengono che le ragazze abbiamo almeno periodicamente la visione del loro libretto, nel quale le suore iscrivono tutte le spese. Sanno dunque che possono mandare periodicamente delle buone rimesse ai genitori, ma non ricevono loro stesse il salario, che viene consegnato alle suore. Naturalmente queste ultime dicono che se le ragazze avessero in mano del
Sede Via Pretorio 11
Convittrici ticinesi a Münchwilen, inizio anni Trenta (Carla Rezzonico Berri); sotto, la copertina del libro.
denaro scapperebbero. Lo raccontano anche alcune intervistate: «Ormai dovevano tenere loro i soldi perché avevano paura che le più ribelli fuggissero dal convitto».
A un certo punto lei scrive nel suo libro che «il sodalizio tra industriali e congregazioni femminili si manterrà per decenni coniugando il paternalismo aziendale e l’assistenzialismo religioso in modo molto efficace», ma come è nato questo sodalizio e i vantaggi erano veramente per entrambe le parti? Il sodalizio tra gli industriali e la Chiesa nasce per motivi pratici. Siamo in un’epoca (fino alla Seconda guerra mondiale) in cui l’identità e l’appartenenza religiosa hanno un significato profondo. Le ragazze partono da regioni cattoliche, cioè regioni poco industrializzate che offrono manodopera a buon mercato, e vanno a stabilirsi in un territorio a religione protestante. La paura che abbandonino la fede e le pratiche devozionali per i genitori sarebbe stato un fattore frenante. Gli industriali, quindi, si rivolgono alla Chiesa che mette a disposizione le suore cattoliche, di regola le suore di Menzingen. Il profitto degli industriali è molto chiaro: le ragazze sono al sicuro, la loro incolumità fisica e morale è salvaguardata, è garantita la disciplina e l’obbedienza, rimangono ben lontane dalle rivendicazioni sindacali. Infine i convitti garantiscono la stanzialità della manodopera. Per la Chiesa il discorso è più sottile. La Chiesa cattolica è in un periodo, la fine dell’Ottocento, in cui inizia a manifestarsi e ad affermarsi il movimento operaio socialista. È cioè posta di fronte al problema della cosiddetta scristianizzazione, o laicizzazione della società che va di pari passo con l’inurbamento, con il lavoro di fabbrica e con le migrazioni. Sin dall’inizio dei movimenti migratori la Chiesa si attiva con le missioni cattoliche e con una serie di organizzazioni assistenziali per non perdere il contatto, direi quasi il controllo, sulle masse dei migranti. Con la gestione
dei convitti ha dunque un vantaggio immateriale, che però non è di certo meno importante del vantaggio materiale degli industriali.
Perché la storia dei convitti è stata a lungo quasi dimenticata? È stato difficile trovare materiale negli archivi?
Penso che quando si fa storia delle donne, soprattutto quella delle donne dei ceti subalterni si è sempre confrontati con il problema delle fonti. Queste donne non scrivono, se non raramente, e quindi non lasciano tracce. Contano poco all’interno della società e di riflesso contano poco anche nella memoria storica: di loro vi è poco o nulla negli archivi. Una parte del materiale per la mia ricerca è quello custodito nell’archivio delle suore di Menzingen, ma in realtà ho potuto scrivere questo libro solo perché le stesse protagoniste mi hanno fornito testimonianze, lettere, cartoline, fotografie.
Il motivo per cui la storia dei convitti per molto tempo non è stata raccontata penso risieda nel fatto che in Ticino quando si parla di emigrazione al femminile si è sempre messa in risalto la situazione delle donne che restavano al paese, mandando avanti la famiglia e l’azienda contadina mentre gli uomini erano via da casa. Quello che racconto è a tutti gli effetti un fenomeno molto particolare, un’emigrazione «alla rovescia» che non dischiude nuovi orizzonti né porta a un’emancipazione economica e sociale. Inoltre, per molto tempo è stata rimossa anche da chi l’ha vissuta in prima persona.
Di tutte le testimonianze che ha raccolto ce n’è una che si porta nel cuore o che l’ha toccata particolarmente?
Questa domanda mi è già stata posta e per me è molto difficile rispondere. Moltissime testimoni che ho intervistato mi hanno colpita e alcuni dei loro modi di dire sono entrati nella comunicazione quotidiana della mia famiglia. Non è una vicenda in particolare ad avermi toccata piuttosto l’atteggiamento delle donne, che ho intervistato ormai anziane: tutte si erano rappacificate con la durezza della vita e con questa esperienza che le ha fatte soffrire. Nessuna serbava rancore, nessuna esprime amarezza. Per me sono state tutte, chi per un verso chi per un altro, un insegnamento e me le porto nel cuore. Ho sempre avuto l’impressione di avere un debito nei loro confronti, e questo sentimento è la ragione che mi ha spinta a scrivere questo libro.
Bibliografia e presentazione Yvonne Pesenti Salazar, Ragazze di convitto. Emigrazione femminile e convitti industriali in Svizzera, Archivi Donne Ticino/Armando Dadò editore, 2024. Il libro sarà presentato sabato 23 novembre al LAC, ore 11.00, entrata libera.
La crisi venezuelana: stabilizzare la vita dei rifugiati
Supermercati vuoti, zero opportunità di guadagno e assistenza sanitaria scarsa: questo ha costretto milioni di persone in Venezuela a fuggire dalla crisi politica e umanitaria e a cercare protezione e prospettive economiche nei Paesi vicini. Caritas fornisce cibo ai più poveri e li aiuta a superare il trauma della fuga per un futuro più autonomo.
«Devo essere forte per i miei figli e i miei nipoti», spiega Arecinda Yngrid Cambar, 49 anni. Quando alla donna di cinque figli è stato diagnosticato un tumore all’utero, sapeva che doveva lasciare il Venezuela se voleva sopravvivere. L’assistenza sanitaria nella sua patria è disastrosa e impagabile per la popolazione impoverita. Anche per i suoi figli le lezioni di scuola si tenevano soltanto a intervalli irregolari. Così Arecinda nel 2017 si è trasferita in Colombia insieme ai suoi due figli minori e i suoi tre nipoti.
In un primo momento hanno trovato rifugio a casa di amici a Maicao. Ma gli spazi ristretti per due grandi famiglie nella stessa abitazione l’hanno co -
stretta a cercarsi un alloggio proprio. Ora la famiglia vive fuori città, in una capanna di teloni in plastica con un tetto in lamiera ondulata. Arecinda cerca di
«Molte madri devono mantenere la famiglia da sole. Grazie alla formazione professionale di Caritas riescono a guadagnarsi da vivere»
Sandra Gonzales Peñalver, coordinatrice del nostro progetto congiunto con Caritas Colombia
sbarcare il lunario producendo amache e borse tradizionali con una tecnica che le è stata insegnata da sua nonna. Ma questo non basta per vivere.
Grazie a Caritas la situazione della famiglia di Arecinda migliora. In una prima fase di stabilizzazione riceve pacchetti con prodotti alimentari, denaro contante per i beni di prima necessità e assistenza psicologica. In seguito l’accento viene posto sull’indipendenza finanziaria attraverso cosiddetti corsi per imprenditrici dove viene insegnato soprattutto alle madri single come gestire un proprio piccolo commercio. «Il fardello che porto si fa così più leggero», dice Arecinda raggiante.
Sì a un mondo senza povertà!
Circa 700 milioni di persone al mondo vivono in estrema povertà. Non hanno abbastanza soldi per il cibo, l’assistenza sanitaria o una casa sicura. 700 milioni di persone, cifra che corrisponde circa all’intera popolazione europea da Tromsø in Norvegia ad Iraklion in Grecia.
Questa realtà scandalosa è inaccettabile. L’obiettivo di Caritas Svizzera è migliorare le condizioni di vita delle persone indigenti grazie al grande sostegno di fedeli donatrici e donatori che dicono sì a un mondo senza povertà. Insieme si può fare la differenza. Insieme ci impegniamo per coloro che fuggono da guerre e disordini politici. Per chi non riesce a trovare un reddito sufficiente. Per chi è colpito dalla crisi climatica e dalle catastrofi naturali.
La sua donazione per un mondo senza povertà:
IBAN: CH69 0900 0000 6000 7000 4
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I rifugiati venezuelani devono costruirsi una nuova esistenza nella massima povertà. Come qui in Colombia.
Foto: Caritas Svizzera, Reto Albertalli
Arecinda Yngrid Cambar, 49 anni, riceve da Caritas Svizzera un pacchetto con prodotti alimentari per la sua famiglia.
Arecinda è fuggita con i suoi due figli e i suoi nipoti in Colombia. Oggi vive in una modesta capanna di teloni in plastica e lamiera ondulata.
Sono l’assistente virtuale, come posso aiutarla?
Cantone ◆ Da alcuni mesi chi chiama la Sezione della circolazione si sente rispondere da un voicebot, cioè da un sistema di Intelligenza artificiale, che capisce pure il dialetto ticinese
Stefania Hubmann
Se si compone il numero della Sezione della circolazione per chiedere un’informazione ci si sente rispondere: «Sono l’assistente virtuale. Come posso aiutarla?». Da settembre è infatti in corso un progetto pilota che introduce l’Intelligenza artificiale (IA) in un contact center dell’Amministrazione cantonale. Il voicebot – come viene definito in gergo il sistema – è in grado di capire la voce parlata e di rispondere in modo pertinente. Al termine della conversazione, se chiamato da un cellulare, invia per SMS il link che porta direttamente alla pagina del sito internet relativa alle risposte ricercate. Quando invece non riesce a soddisfare la richiesta, collega l’utente con un operatore. È attivo 24 ore su 24, 7 giorni su 7 e capisce pure il dialetto ticinese. Implementato in stretta collaborazione con il Centro Sistemi Informativi del Cantone e un’azienda svizzera specializzata, il voicebot della Sezione della circolazione sta facendo continui progressi, poiché il sistema si alimenta e si affina man mano che viene utilizzato. Elia Arrigoni, capo della Sezione della circolazione, è fiducioso sugli obiettivi del progetto: aumentare la qualità e la rapidità del servizio ai cittadini senza intervenire sul numero di collaboratori.
All’inizio qualche critica e presa in giro non sono mancate. «Eravamo consapevoli che far accettare un simile cambiamento sarebbe stata una sfida», afferma Elia Arrigoni, precisando che «questo sistema è già in uso, oltre che in ditte operanti in Ticino, in altre Sezioni della circolazione in Svizzera come ad esempio in quella del Canton Argovia». Per la strategia di digitalizzazione del Cantone Ticino questo progetto è un tassello importante. La scelta di effettuare la sperimentazione nella Sezione della circolazione
corrisponde al preciso intento di sfruttare la massa di chiamate che questa unità amministrativa riceve. La grande quantità di dati è infatti un principio chiave del funzionamento dell’IA. Il capo Sezione chiarisce anche la questione relativa alle aspettative: «In genere queste ultime sono molto elevate, ma è necessario capire che non è possibile ricevere risposte su tutto. Il ruolo degli operatori è ancora essenziale; grazie al voicebot possono ora concentrarsi maggiormente sulle questioni più complesse formulate dagli utenti, accorciando i tempi di attesa».
Dopo la conversazione, se chiamato da un cellulare, invia per SMS il link della pagina internet relativa alle risposte cercate
Alcuni dati contribuiscono a spiegare la portata del servizio fornito dalla Sezione della circolazione. L’anno scorso sono stati registrati oltre 96’000 utenti e circa 445’000 pratiche. Telefonate e mail sono state rispettivamente oltre 245’000 e 18’000. Sempre secondo i dati del 2023, il numero di veicoli (326’063) ha quasi raggiunto quello degli abitanti (355’841). Calcolando i giorni lavorativi nei quali è operativo il contact center si arriva a oltre 940 telefonate quotidiane. «Questo significa – spiega il capo Sezione– che non è sempre possibile per i collaboratori rispondere in modo immediato alla chiamata in entrata». Quali i primi risultati ottenuti con il voicebot? Risponde sempre Elia Arrigoni: «Se paragoniamo il mese di settembre a quello di giugno, siccome luglio e agosto sono condizionati dalle vacanze estive, osserviamo una diminuzione del 26% delle chiamate a quello che noi
definiamo il primo livello. Fino a fine agosto questo settore accoglieva tutte le telefonate, trasmettendo le richieste più complesse al secondo livello. Sgravando l’attività del primo livello grazie all’introduzione del voicebot, è già stato possibile assegnare un collaboratore di questo stadio a quello superiore ottimizzando quindi le risorse e riducendo nel contempo i tempi di attesa degli utenti che necessitano di risposte più elaborate. Va inoltre precisato che per alcune pratiche la comunicazione scritta su carta o tramite il sito è comunque sempre necessaria, sia che l’istruzione venga trasmessa tramite un collaboratore o tramite il voicebot. Seguire le indicazioni fornite da quest’ultimo tramite SMS è pertanto molto utile». Per valutare l’operato del voicebot e il suo sviluppo è prevista una riunione settimanale fra tutti i partner interessati. Elia Arrigoni stima che entro la fine dell’anno il sistema sarà stabilizzato. «In questi primi mesi – aggiunge – abbiamo registrato un aumento del numero di mail che monitoriamo. Pensiamo infatti che sia in parte dovuto all’introduzione del voicebot. Per quanto attiene alle recensioni, la maggior parte degli utenti è soddisfatta dei nostri servizi, ma resta silenziosa, contrariamente agli scontenti che manifestano pubblicamente il loro disappunto». Il sistema è orientato alla quantità, ciò significa che è e sarà allenato a rispondere alle domande più frequenti e non a quelle più difficili. Già il primo mese il sistema ha contato quasi 29’000 chiamate in entrata, di cui circa 16’000, quindi oltre la metà, evase. «Le restanti – precisa il capo della Sezione della circolazione – sono state trasferite a operatori del contact center. Da segnalare che le chiamate senza la formulazione di una richiesta sono state circa
6500 e quelle ricevute fuori orario poco più di 1500». Per quanto riguarda i settori della Sezione più sollecitati dai cittadini, si possono citare la modifica della licenza di circolazione, l’immatricolazione dei veicoli, l’iter degli allievi conducenti, la conversione della licenza di condurre estera, la licenza di condurre internazionale, le modifiche concernenti il collaudo dei veicoli e informazioni su questo tipo di controllo, ai quali si aggiungono lo spostamento degli esami pratici di guida e gli aspetti contabili legati all’imposta di circolazione.
Elia Arrigoni ricorda infine il ruolo pilota del progetto voicebot, volto a fornire pure gli elementi utili per valutare un’eventuale introduzione dell’assistenza vocale presso altri contact center dell’Amministrazione cantonale. «I dati dei primi mesi di utilizzo – spiega – dimostrano che l’impiego del voicebot va letto come occasione di miglioramento del servizio all’utenza. Siamo ancora in una fase iniziale di applicazione di questi sistemi, per cui chi desidera raccogliere la sfida, come ha fat-
Suffragio femminile e memoria digitale
to la Sezione della circolazione, sa che agisce da pioniere con tutte le possibili critiche provenienti dall’esterno e il costante impegno interno per migliorare lo strumento, aspetto questo svolto dalla Sezione unitamente alle aziende che collaborano dal punto di vista tecnico e dell’IA e al Centro Sistemi Informativi». Il progetto vede quindi coinvolti due Dipartimenti: il Dipartimento delle istituzioni dal quale dipende la Sezione della circolazione e il Dipartimento delle finanze e dell’economica al quale fa capo il Centro Sistemi Informativi. Indipendentemente da come è percepita dalla popolazione, vale a dire quale opportunità di progresso oppure con scetticismo o avversione, l’Intelligenza artificiale sta in ogni caso entrando nella vita quotidiana dei cittadini come dimostra questa iniziativa. La prima ticinese di un assistente vocale virtuale per i servizi amministrativi cantonali ha superato lo scoglio iniziale e rimarrà un’iniziativa pilota fino a quando sarà oggetto di una valutazione complessiva.
Il Ticino nel cybermondo – 9 ◆ Il 25 aprile 1966 un piccolo giornale inglese di periferia, il «Coventry Evening Telegraph», dedicò un articolo al Ticino che aveva nuovamente negato il diritto di voto alle donne
Il diritto di voto è uno dei pilastri della democrazia, un atto che va ben oltre la semplice espressione politica: oltre a sancire il riconoscimento del valore dell’individuo all’interno della società, rappresenta la volontà di contribuire attivamente alla costruzione di un futuro condiviso. Tuttavia, è a partire dalla metà del Novecento che esso acquista una valenza ancora più profonda, divenendo un simbolo essenziale e irrinunciabile nel cammino verso l’uguaglianza di genere. Non è dunque sorprendente che, all’epoca, le notizie sul suffragio femminile, sia a livello nazionale che globale, circolassero con grande fervore. L’importanza di questi sviluppi travalicava i confini nazionali, offrendo ispirazione ai Paesi che si affacciavano con timidezza a queste novità e suscitando critiche da parte di chi vedeva in tale passo progressista una minaccia alle tradizioni consolidate. Con il trascorrere dei decenni, le testate giornalistiche passarono dall’esprimere sorpresa per gli Stati, sempre più numerosi, che concedevano il diritto di voto alle donne, allo stupirsi per
quelli che ancora ne erano sprovvisti. È proprio attraverso i giornali dell’epoca che la storia del suffragio femminile può essere compresa in tutta la sua profondità, oltre le pagine delle antologie scolastiche. Sono gli articoli scritti nel vivo degli eventi, privi del filtro della distanza storica, a restituirci la vera essenza della Storia. Particolarmente interessante in questo contesto, ad esempio, è l’attenzione che un piccolo giornale inglese di periferia, il «Coventry Evening Telegraph», dedicò al Ticino il 25 aprile 1966. Nel suo trafiletto a pagina 7 intitolato «Women get a ’no vote’ vote», il quotidiano riporta che l’elettorato maschile del Cantone Ticino aveva nuovamente negato il diritto di voto alle donne: nel 1959 solo il 32% degli elettori aveva votato a favore, perciò il risultato del 48% registrato 7 anni dopo sembrava indicare una lenta ma crescente accettazione della parità di genere. Il fatto che un piccolo giornale locale in Inghilterra si interessasse al Ticino, suggerisce quanto la questione fosse rilevante a livello globale. Per un’Inghilterra che aveva intro-
dotto il suffragio universale nel 1928, la resistenza ticinese al diritto di voto alle donne risultava decisamente anacronistica, se non incredibile. La mancata adozione del suffragio universale in Svizzera – in Ticino fu accettato nel 1969 – faceva scalpore anche fuori dall’Europa. Il 12 gennaio 1970, il «St. Joseph Gazette» del Missouri pubblicava un arti-
colo di John Chamberlain dal titolo «Swiss Law Requires Gun Ownership». A prima vista, il titolo sembra non avere nulla a che fare con il diritto di voto, ma Chamberlain costruisce un discorso elaborato che passa dall’elogio della gestione svizzera delle armi da fuoco – descritta come impeccabile dal suo presunto amico «Jurg da Zurigo» – alla critica della non altrettanto ammirevole gestione dei diritti femminili su suolo elvetico. Chamberlain sottolineava che, sebbene la politica in materia di possesso di armi fosse sensata, ciò non significava che ogni pratica svizzera meritasse di essere emulata. L’altrettanto presunta moglie di Jurg, gli aveva spiegato che la Svizzera, evitando il coinvolgimento nelle due guerre mondiali (anche grazie alla tanto elogiata gestione dell’armamentario), aveva impedito alle donne di prendere in mano le redini della comunità quando i mariti si recavano al fronte, come accaduto in altri Paesi, e dunque aveva decelerato la loro emancipazione sociale. Per quanto la correlazione tra fucili e diritti femminili sia bizzarra
e discutibile, i due articoli sottolineano un aspetto cruciale: i giornali, e in particolare gli archivi digitali che oggi li conservano, ci permettono di analizzare la nostra storia attraverso lo sguardo di chi osserva dall’esterno, fornendo una prospettiva che spesso manca nei resoconti nazionali. Il Ticino, apparentemente periferico rispetto ai grandi scenari internazionali, diventa così protagonista di una narrazione più ampia, che ci aiuta a comprendere meglio i meccanismi politico-sociali dell’epoca. Gli archivi digitali si rivelano dunque strumenti potentissimi per lo studio e la comprensione della nostra storia offrendoci accesso immediato a fonti storiche spesso dimenticate e permettendoci di connettere i punti tra eventi, culture e società distanti nel tempo e nello spazio.
In collaborazione con l’Ufficio dell’analisi e del patrimonio culturale digitale, Divisione della cultura e degli studi universitari, Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport.
Pxhere.com
Athina Greco
Casi di scomparsa di Inga e Lars – I genitori lanciano una campagna di ricerca insolita
Lars (all‘epoca 28 anni) e Inga (all‘epoca 5 anni) sono scomparsi da diversi anni. Le famiglie di Lars e Inga vogliono richiamare l´attenzione dei consumatori e usano le bottiglie del produttore di smoothie true fruits come annuncio di scomparsa. Le bottiglie con le foto verranno messe in commercio e verranno vendute in tutti i supermercati Migros. Le famiglie sperano di ottenere nuove informazioni con questa campagna. Ogni aiuto verrá premiato con 50.000 euro.*
Per richiamare l´attenzione di tutti, le famiglie lanciano una campagna di ricerca insolita in Germania, Austria e Svizzera: fanno stampare gli annunci di scomparsa dei loro figli sulle bottiglie del produttore tedesco di smoothie true fruits. L´annuncio ritrae una nuova foto, che viene pubblicata in anteprima sulle bottiglie. L´obiettivo é raggiungere anche chi non ha mai sentito parlare della scomparsa di queste persone e riuscire ad ottenere nuove informazioni. true fruits è noto per utilizzare il retro delle sue bottiglie di smoothie per testi umoristici. Ora true fruits utilizza questa visibilità per sostenere la ricerca di Lars e Inga e spera che si torni a parlare di questi casi. Da novembre, tutte le sei varietà da 750 ml riporteranno annunci di scomparsa di Lars e Inga per diverse settimane.
* Per ulteriori informazioni sulla campagna, sulla ricompensa e sulle informazioni, scansiona il codice QR.
Nome: Lars Joachim Mittank
Età: 38 anni
(scomparso all‘età di 28 anni)
Altezza: 180 cm
Occhi: marroni
Costituzione: snella, atletica
Caratteristiche distintive: cicatrice di 1,5 cm sulla fronte sinistra, cicatrice sull‘avambraccio sinistro, eventuale barba rossiccia.
Lars è stato visto per l‘ultima volta l‘8 luglio 2014 all‘aeroporto di Varna (Bulgaria) e da allora è disperso. Se hai qualche informazio ne ti preghiamo di fornircela scansionando il codice QR.
Semplicemente buono
per tutta la pasta fresca di Garofalo p. es. Garofalo ravioli ricotta e spinaci, 250 g, 5.20 invece di 6.50
Nome: Inga Gehricke
Età: 15 anni
(scomparsa all‘età di 5 anni)
Colore degli occhi: blu-grigio
Inga Gehricke è scomparsa il 02.05.2015 ed è considerata dispersa da allora. È stata vista per l‘ultima volta a Wilhelmshof, vicino a Stendal, in Sassonia-Anhalt, Germania. Se hai qualche informazione ti preghiamo di fornircela scansionando il codice QR.
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Salute femminile, ancora tante disparità
Oncologia ◆ Nei Paesi poveri il tumore al seno rimane una causa di mortalità troppo alta. Tra le ragioni vi sono le scarse diagnosi precoci, la prevenzione insufficiente e i farmaci inaccessibili
Maria Grazia Buletti
Il tumore al seno è la neoplasia più frequente al mondo: colpisce il 30% delle donne (ivi compreso qualche uomo) ed è la principale causa di decesso per cancro (20%) nella popolazione femminile. Ciò significa che, nel corso della propria vita, una donna su otto potrebbe confrontarsi con questa malattia. La Svizzera conta circa 6000 casi all’anno (in Ticino circa 330-350), e si registrano circa 1350 decessi annui (dei quali 60 in Ticino). Ciò dimostra che questa neoplasia rappresenta un problema di salute pubblica per l’alto numero di donne che coinvolge. Ma si può fare molto perché una sua diagnosi precoce favorisce il ricorso a terapie meno invasive con minori effetti collaterali e il sostanziale aumento delle possibilità di guarigione. Oggi, la mammografia è lo strumento scientificamente più appropriato e raccomandato di diagnosi precoce. Nel nostro Cantone dal 2015 il Dipartimento della sanità e della socialità promuove il Programma cantonale di screening mammografico. Ciò garantisce un equo accesso a un esame di diagnosi precoce di qualità ottimale e completamente gratuito, il cui tasso di adesione delle donne tra i 50 e i 69 anni (circa 50’000) è attorno al 55-60%, in linea col resto della Svizzera.
Nei Paesi poveri spesso non ci sono mezzi diagnostici come la mammografia, la percentuale di guarigione è sotto il 10% a fronte del 70% nei Paesi ricchi
Per pari opportunità, bisogna chiedersi se la prevenzione sia attuabile per tutta la popolazione mondiale, dato che basterebbe una mammografia di screening per individuare questa neoplasia in fase molto precoce, salvando molte vite. «Nel punto della situazione sulla lotta ai tumori a livello globale, il tumore della mammella è uno dei temi su cui si discute parecchio al Forum oncologico mondiale che organizzo dal 2012». Così esordisce l’oncologo professor Franco Cavalli, sottolineando: «Se oggi da noi due terzi delle donne colpite ne guarisce (almeno 70%), nella maggior parte dei Paesi poveri la situazione è peg-
giore della nostra ai tempi in cui, nel 1972, io avevo iniziato la formazione come oncologo e il tasso di guarigione era del 20% perché la diagnosi arrivava molto tardi (con linfonodi già positivi, le terapie mancavano e un terzo era inoperabile)». Il professore parla del progetto avviato nel 2015 in Kirghizistan («centrato soprattutto sul tumore al seno, ma che si vorrebbe estendere al tumore del collo dell’utero»), e illustra la situazione in Africa dove, dati alla mano, spiega: «Nei Paesi poveri la percentuale di guarigione è sotto il 10%, a fronte del 70% nei Paesi ricchi». La salute femminile pare dunque non avere pari opportunità a livello globale: «Nei Paesi poveri non ci sono mezzi diagnostici come la mammografia che risulta essere troppo complicata in quelle regioni (serve se fatta molto bene e valutata da più esperti); le uniche possibilità, al momento, sono l’autopalpazione e l’ecografia. Però, anche le ecografie sono rarissime e per estendere la consuetudine all’autopalpazione bisognerebbe lavorare nell’educazione, ancora carente, della popolazione».
La riflessione dello specialista passa attraverso alcune sue considerazioni: «Se, ad esempio, parliamo di tumore al pancreas, anche da noi la prognosi è ancora lungi dall’essere ottimale, ma se consideriamo i tumori al seno e all’utero, da noi la mortalità si è così abbassata da essere quasi annientata, mentre attualmente nel mondo 400mila donne muoiono ancora». E ribadisce: «Ad esempio, in Gambia la guarigione si attesta a meno del 10%, come da noi 50 anni fa. Il problema è tanto più grande quanto più sappiamo che per il tumore al seno si può fare davvero parecchio se la diagnosi è precoce: basta un intervento relativamente semplice ed è sufficiente una terapia ormonale quotidiana per far aumentare sensibilmente la possibilità di guarigione». Altro punto dolente è il prezzo dei farmaci: «Anche da noi sono sempre più cari e talvolta fatichiamo a pagarli; immaginiamo nei Paesi poveri dove anche la loro reperibilità è un problema. Così, in generale il cancro diventa il vero flagello. Per la cura del tumore al seno, ad esempio, c’è un farmaco assolutamente necessario al quale tre quarti delle donne al mondo non ha accesso». Questi tumori sono dun-
que il vero flagello dei Paesi poveri, ma qualcosa sta cambiando: «Noi ci stiamo muovendo in Kirghizistan e in Nicaragua dove si riesce a intervenire per migliorare la situazione anche a budget limitato». Così anche l’organizzazione Medecins sans Frontières (MSF) che, per voce del delegato per la Svizzera italiana Giacomo F. Lombardi spiega il progetto in Kirghizistan dove l’alto tasso di tumori al collo dell’utero e al seno necessita di un intervento mirato per riuscire a introdurre strumenti che portino a una diagnosi precoce e a una prognosi migliore: «Nel 2023 nel distretto di Sokuluk, Medici Senza Frontiere si è concentrata sulla fornitura di screening e trattamenti alle donne a rischio di cancro al collo dell’utero e al seno e ha sostenuto i servizi di salute mentale. Su questa linea, in collaborazione con il Ministero della Salute, le équipe di MSF gestiscono due cliniche di screening per i tumori al seno e al collo dell’utero nel distretto di Sokuluk, nella provincia di Chui». In linea con la si-
tuazione illustrata dal professor Cavalli e a parte la regione di Sokuluk, Lombardi lamenta la carenza di accesso alla diagnosi precoce. È qui che si inserisce il progetto di MSF per la presa a carico precoce diagnostica e terapeutica: «In questo Paese vogliamo fare la differenza per la stragrande maggioranza di donne (80%) che riceve una diagnosi allo stadio finale, dunque incurabile, e non ha accesso neppure a una terapia palliativa come succede da noi». In un biennio MSF ha creato una cellula autonoma che può essere riprodotta anche in altri luoghi in termini di centro di formazione dei sanitari e di diagnosi precoce: «Un intervento che va incontro all’emergenza della carenza di accesso alle cure, anche nell’ambito oncologico: abbiamo dato gli strumenti ai sanitari locali per permettere loro di far crescere quest’iniziativa verso il miglioramento delle capacità di screening che consentirà di salvare più vite umane, a dimostrazione che pure un intervento umanitario in ambito oncologico può essere incisivo; se ne
parla poco e per questo è un tema degno di grande attenzione». Nel sottolineare la comprovata mancanza di pari opportunità fra Paesi industrializzati e Paesi poveri, Lombardi ribadisce la necessità di migliorare l’accesso alla diagnosi e alle cure anche in questi ultimi: «In Kirghizistan non c’è benessere diffuso e manca l’accesso alle cure, ma con un sistema sanitario presente si può fare comunque molto. Il nostro progetto nel distretto di Sokuluk dimostra che, anche senza cambiare la realtà delle cose in modo repentino, il numero di vite che si riesce a salvare è un multiplo significativo delle donne che altrimenti morirebbero se si forniscono gli strumenti per una diagnosi precoce e la relativa presa a carico». E infine sottolinea un concetto valido più che mai anche alle nostre latitudini: «La prevenzione non è un business: è vero che fa risparmiare soldi perché la presa a carico risulta meno dispendiosa (oltre che con una migliore prognosi), ma la realtà è che salva un sacco di vite in più, dovunque».
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Basterebbe una mammografia di screening per individuare il tumore al seno in fase molto precoce, salvando molte vite. (Freepik.com)
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Nel Ticino delle storie dimenticate
Territorio ◆ Esce per le edizioni San Giorgio l’ultimo libro di Carlo Silini dedicato a luoghi, personaggi e
Camminiamo ogni giorno sopra simboli e misteri e non ce ne accorgiamo. Le pietre dei vecchi edifici non parlano, e molte storie restano sepolte negli archivi, nei palazzi vetusti, nei boschi e nelle montagne di casa nostra. Carlo Silini, redattore capo di Azione, scrittore («per caso», come dice di sé) e giornalista di lungo corso, è sempre stato affascinato da queste esili tracce di un mondo perduto e nell’arco di una ventina d’anni ha scritto numerosi articoli, prima sul «Corriere del Ticino» poi su «Azione», per raccontare la «geografia segreta» del nostro territorio. Così oggi, assemblando una ventina di articoli apparsi tra il 2003 e il 2023, ha dato alle stampe il suo ultimo libro: Storie dimenticate, pubblicato dalle edizioni San Giorgio con il sostegno di Percento culturale Migros Ticino, BancaStato, «Azione» e «Corriere del Ticino».
«Il passato costituisce un territorio
Concorso per i lettori di Azione
Tra i lettori di Azione che richiederanno una copia del libro (inviando i loro estremi e l’indirizzo) entro il 28 novembre scrivendo a info@azione.ch oppure a Redazione Azione, via Pretorio 11, 6900 Lugano, estrarremo a sorte 10 copie che invieremo gratuitamente.
di memoria che non mente – scrive nella prefazione al volume l’architetto Mario Botta – e accanto ai buchi neri si offrono anche squarci di realtà luminosi. Il mosaico tracciato da questa inattesa narrazione (…) può essere interpretato come un caleidoscopio di luci e ombre che si alternano e offrono al lettore la possibilità di varie interpretazioni».
Ma di che storie si tratta? Un esempio. C’è un castello in Val Verzasca, o almeno così sembra: un castelletto con quattro torri al centro di Brione, frazione del nuovo comune di Verzasca. Fino al 1997 era una trattoria, gestita dalle sorelle Togni, poi è rimasto chiuso a lungo finché nel 2019 non sono iniziati i restauri. La gente del villaggio ricorda con nostalgia i tempi delle due sorelle, e oggi che l’edificio viene usato come ambientazione per le escape room, chi potrebbe immaginare che secoli fa, ad abitarlo era un vero e proprio tiranno?
E, altro esempio, chi avrebbe potuto immaginare, fino al 2020, che in tempo di guerra l’Ospedale Beata Vergine di Mendrisio accoglieva malati che non erano malati, ma perseguitati (ebrei e italiani) in fuga dalla barbarie nazi-fascista? Lo attestano alcuni registri acquistati da un rigattiere pochi anni fa, attentamente letti da una signora che si è lasciata trascinare dalla curiosità attorno ai nomi marcati nei registri, scoprendo destini incredibili di cui forse, senza quelle ricerche, non sapremmo nulla.
O, ancora, chi sapeva che nel Seicento c’è stato un balivo, in Valle di Blenio che ha condotto numerosi interrogatori di bambini sospettati di stregoneria? E che, in quello stesso periodo, un parroco di Biasca reclamava contro i troppi roghi di presunte streghe e affrontava con coraggio la peste aiutando come poteva i malati, prima di morire anch’esso durante la terza ondata del morbo?
Chi ricorda, infine, l’immenso quadro circolare al Monte Verità che rappresenta un inno ante litteram all’amore omosessuale, realizzato
già negli anni Trenta del Novecento, molto prima che la causa LGBTQ vedesse la luce?
«È un percorso da un capo all’altro del Cantone – osserva nell’introduzione l’autore –, dal basso Mendrisiotto al San Gottardo, dalle Valli ai villaggi di pianura, ma soprattutto è una forsennata ricerca di storie dimenticate, seppellite sotto strati di terra o volate via con la memoria degli ultimi testimoni che le avevano viste o ne avevano sentito parlare».
Il testo è riccamente illustrato, grazie soprattutto alle fotografie d’archi-
vio del «Corriere del Ticino» e ai suoi fotoreporter storici e recenti (Fiorenzo Maffi, Gabriele Putzu, Chiara Zocchetti…) e propone 21 capitoli che vanno dal tempo dei Romani (i misteriosi resti ciclopici sopra Giornico e le antichissime cave di porfido a Carona) fino a tutto il Novecento (dagli incredibili piani militari svizzeri per invadere l’Italia, ai sessantottini della Magistrale di Locarno, ai minatori che nel buio della roccia hanno scavato AlpTransit).
In definitiva, a ben guardare, è un omaggio ai protagonisti nascosti e/o dimenticati della storia ticinese. «È soprattutto a loro – scrive ancora Silini nell’introduzione – che dedico questo volume, alla compagnia che mi hanno fatto a distanza di secoli o anni dalla loro scomparsa, regalando incanto a luoghi che prima mi sembravano privi di interesse, o quasi, solo perché non conoscevo la loro anima nascosta».
Il volume sarà presentato alla Biblioteca dei Frati di Lugano il 21 novembre alle 18 (entrata libera). Modererà la serata Pietro Montorfani e, oltre all’autore, interverrà l’architetto Mario Botta. / Red.
Bibliografia
Carlo Silini, Storie dimenticate. Per una geografia segreta del Ticino, edizioni San Giorgio, pp 256.
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Un dettaglio di questa foto, scattata nel castello Trefogli di Torricella, è stata usato per l’immagine di copertina del volume. (Chiara Zocchetti)
ATTUALITÀ
Amore e denaro: ci si confronti! Vantaggi e svantaggi di alcuni modelli di gestione del budget famigliare. L’importanza dell’indipendenza economica
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Se il corpo si trasforma in protesta Ahoo Daryaei è diventata un simbolo, l’ennesimo, della resistenza di ragazze e donne iraniane contro le vessazioni della polizia morale
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La riforma della LAMal farà calare
Reportage dal Libano Nel Paese dei cedri crescono i timori del ritorno di una guerra civile mentre Israele continua ad attaccare. Lo sfogo del vescovo di Beirut
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i premi?
Svizzera ◆ Il 24 novembre prossimo saremo chiamati a votare sul finanziamento uniforme delle prestazioni sanitarie che mira a ridistribuire meglio i costi tra Cantoni e assicurazioni. Le ragioni di favorevoli e contrari
Carli
Tra i quattro temi in votazione federale il 24 novembre prossimo, gli svizzeri saranno chiamati anche a pronunciarsi sul finanziamento uniforme delle prestazioni sanitarie ambulatoriali e stazionarie, per ridistribuire i costi tra Cantoni e assicurazioni in modo più equilibrato e meno complicato. Il nuovo sistema di finanziamento è frutto di una modifica della legge federale sull’assicurazione malattia (LAMal). Alla luce dell’ennesimo forte rincaro annuale dei premi delle casse malati, questa riforma dovrebbe permettere in futuro, se non di ridurne, almeno di frenarne l’aumento. Va però ricordato che le soluzioni sin qui proposte non hanno dato risultati tangibili. Ricette miracolose non esistono. Dunque, il rompicapo rimane. Ora ci si riprova con questa modifica legislativa, contro la quale è stato lanciato il referendum da parte del Sindacato dei servizi pubblici (VPOD), appoggiato dall’Unione sindacale svizzera (USS). Governo, maggioranza parlamentare, Cantoni e numerose organizzazioni sanitarie ritengono che tale modifica permetterà di diminuire i premi delle casse malati; gli oppositori – sindacati e partiti di sinistra in primis – parlano di riforma antisociale e di «tradimento», visto che provocherebbe al contrario un aumento dei premi. L’esito dello scrutinio è incerto.
Nel 2022 in Svizzera le prestazioni coperte dall’Assicurazione obbligatoria delle cure medico-sanitarie (AOMS) ammontavano a 44 miliardi di franchi. Sono finanziate in modo diverso a seconda del settore. Per quanto riguarda le cure ambulatoriali (presso uno studio medico, un terapista o in ospedale senza pernottamento), i costi erano pari a 23 miliardi, completamente a carico delle casse malati. Le cure stazionarie (in ospedale con pernottamento) costavano 15 miliardi, coperte per almeno il 55% dal Cantone di domicilio del paziente. Il finanziamento avviene attraverso il gettito fiscale. La parte rimanente (il 45%) è a carico delle casse malati. Queste cure, sebbene più care, gravano meno sui premi degli assicurati, grazie appunto alla citata forte partecipazione cantonale. Infine, le prestazioni sanitarie dispensate nelle case anziani e a domicilio – sempre nel 2022 – costavano 6 miliardi. Sono pagate dai pazienti e dalle casse malati secondo una quota prestabilita. La parte rimanente, oggi poco meno della metà, è a carico del Cantone di domicilio del paziente.
Secondo il Consiglio federale, l’attuale disparità nel contributo dei costi tra le prestazioni ambulatoriali (tutte a carico delle casse malati) e quelle ospedaliere (finanziate in parte dai
Cantoni) ha creato un sistema di incentivi distorto. Sovente i pazienti ricevono cure stazionarie, quando un trattamento ambulatoriale sarebbe più indicato dal punto di vista medico. Risultato: da noi la percentuale di ricoveri ospedalieri è superiore a quella registrata in altri Paesi. In Svizzera gli interventi fatti in ambulatorio, che gravano unicamente sugli assicurati, sono solo il 20%. In altri Paesi europei raggiungono il 50%.
Ora le cure ambulatoriali sono totalmente a carico delle casse malati e le cure stazionarie sono finanziate in parte dai Cantoni
Per ovviare a questa situazione, la complessa riforma (15 pagine) in votazione, conosciuta anche come EFAS (dal tedesco «einheitliche Finanzierung der ambulanten und stationären Leistungen»), prevede di unificare i citati tre modi di finanziamento, ciò che dovrebbe accelerare il trasferimento dal ricovero stazionario a quello ambulatoriale. Così, tutte le prestazioni dell’assicurazione malattie obbligatoria saranno finanziate congiuntamente dalle casse malati e dai Cantoni, secondo un’unica chiave di ripartizione. I Cantoni saranno chiamati a coprire almeno il 26,9% dei costi e le casse malati al massimo il 73,1%. Questo
finanziamento congiunto – secondo i fautori della riforma – non solo ridurrà i falsi incentivi, ma incoraggerà appunto il ricorso alle cure ambulatoriali, migliorando la collaborazione tra medici, terapisti, infermieri e farmacisti. Inoltre, si prevede di conseguire un miglior coordinamento tra i fornitori di prestazioni, onde evitare cure superflue e ospedalizzazioni inutili.
Visto che con la revisione i Cantoni e le casse malati finanzieranno tutte le prestazioni congiuntamente, vi è un maggiore incentivo per entrambi a promuovere le cure più indicate dal punto di vista medico ed economico. Per i sostenitori della riforma, il finanziamento congiunto introduce tutte le premesse per frenare l’aumento dei premi delle casse malati. Secondo uno studio commissionato dall’Ufficio federale della sanità pubblica, il potenziale di risparmio potrebbe raggiungere i 440 milioni di franchi l’anno. Il finanziamento uniforme dovrebbe entrare in vigore nel 2028. Per case anziani e Spitex dovrebbe essere applicato nel 2032.
Le conseguenze della riforma EFAS sono però valutate in maniera diametralmente opposta da sostenitori e oppositori. I sindacati e i partiti di sinistra parlano di una «bomba a orologeria». Secondo loro, la riforma non manterrà le promesse e introdurrà una medicina a due velocità. Provocherà inevitabilmente sia un aumento dei
premi, causato in particolare dalla crescita dei costi delle cure di lunga durata, sia il progressivo deterioramento dell’assistenza nelle case di riposo e a domicilio, dal momento che le cure alle persone anziane verranno standardizzate, a scapito delle reali necessità del paziente. Crescerà anche la parte finanziata dai residenti nelle case per anziani e da coloro che ricevono cure a domicilio. «Questi assicurati risulteranno doppiamente penalizzati: saranno chiamati a pagare premi più elevati, ma riceveranno prestazioni ridotte». Le cure di lunga durata continueranno a crescere con l’invecchiamento della società, ciò che si ripercuoterà pesantemente sui premi che – sempre secondo gli oppositori – aumenteranno anche a causa della modifica della chiave di ripartizione dei costi tra casse malati e Cantoni. Quest’ultimi potranno infatti ridurre la loro quota di finanziamento delle prestazioni sanitarie, ciò che si tradurrà in premi più elevati. Occorre poi dare meno potere e controllo alle casse malati. L’EFAS – affermano ancora i sostenitori del referendum – permette a queste ultime di decidere, al posto di pazienti e medici, quali cure siano necessarie. «Sarà messo sotto pressione anche il personale sanitario per via delle peggiori condizioni di lavoro che ne conseguiranno». A sostegno della riforma, approvata dalle Camere alla fine del 2023, dopo
un iter protrattosi per 14 anni, si sono schierati Consiglio federale, maggioranza del Parlamento e dei Cantoni, UDC, Centro, PLR e Verdi liberali, ma anche numerose organizzazioni sanitarie, tra cui associazioni di medici, ospedali, case di cura, organizzazioni Spitex e assicuratori-malattie. I Verdi hanno optato per la libertà di voto. Con altri quattro Cantoni romandi, il Ticino si oppone invece alla riforma che sarebbe «inadeguata e controproducente» e provocherebbe una maggior spesa, destinata ad aumentare, stimata in 60 milioni di franchi all’anno (dati del 2019). Come coloro che hanno lanciato il referendum, anche il nostro Cantone è del parere che «la maggiore partecipazione cantonale alla spesa sanitaria difficilmente riuscirà a far calare i premi malattia». La strategia proposta il 24 novembre prossimo sarà veramente in grado di arrestare la spirale degli aumenti dei premi malattia? La sanità svizzera offre un’assistenza medica di eccellenza che, di riflesso, fa lievitare pure i premi delle casse malati. Il finanziamento uniforme delle prestazioni sanitarie, che mira ad aumentare le cure ambulatoriali, ha sicuramente il pregio di semplificare il sistema. Affermare che, così facendo, si possano ridurre i premi è ancora tutto da dimostrare. Vero è che i cerotti non bastano! Quella contro il rincaro dei premi resta una battaglia ancora da vincere.
Alessandro
Amore e denaro: è necessario confrontarsi!
Svizzera ◆ Vantaggi e svantaggi di alcuni modelli di gestione del budget famigliare. L’importanza dell’indipendenza
Romina Borla
«Amore e soldi? È un tema tabù nella coppia e nella società, più del sesso», dice Alessia Di Dio, coordinatrice dell’Associazione ticinese delle famiglie monoparentali e ricostituite (ATFMR). «Secondo diversi studi, quasi la metà delle coppie non parla mai della propria gestione finanziaria (funzionamento tacito) e pochissimi sanno come parenti o amici gestiscono il loro budget familiare, quali sono le pratiche più diffuse…». Parlarne, confrontarsi, è invece fondamentale, continua l’intervistata. Anche pensando al futuro, non sempre rose e fiori. Gli aspetti economici, infatti, sono spesso tra le cause dei dissidi tra coniugi/partner e il punto su cui si concentra la conflittualità nelle procedure di separazione e divorzio, ormai all’ordine del giorno. Già, perché in Svizzera – sostiene l’Ufficio federale di statistica (Ust) – due matrimoni su cinque sono destinati a finire. Senza contare le rotture di coppie non sposate con figli: situazioni ancor più complesse, in assenza di convenzioni di concubinato.
Il partner che rinuncia ad interessarsi agli aspetti economico-finanziari dell’esistenza assume una posizione di fragilità
«L’ATFMR offre uno sportello d’ascolto e consulenza», spiega Di Dio. «Quest’anno abbiamo ricevuto oltre 900 sollecitazioni – la tendenza è in crescita – e buona parte delle domande delle/degli utenti riguarda proprio preoccupazioni di natura economico-finanziaria». Cosa succede dopo una separazione/un divorzio? Come sono calcolati gli alimenti? Come richiedere gli aiuti sociali per arrivare a fine mese? Infatti, il grosso problema rilevato dall’associazione è l’indigenza. «I dati più recenti indicano che una famiglia monoparentale su tre si trova in condizione di povertà assoluta (nel 2020 in Ticino – dice l’Ust – si contavano 9040 famiglie monoparen-
tali e 2675 ricostituite). E la tipologia è chiara: un genitore con figli minorenni a carico, di solito si tratta della madre, la quale si scontra con difficoltà e discriminazioni di vario genere». Approfondiremo questi argomenti in futuro, su queste pagine, mentre oggi parliamo di prevenzione.
In quest’ottica, il primo consiglio arriva da Micaela Antonini Luvini, avvocata di Equi-Lab, un servizio di consulenza in materia di conciliabilità e di pari opportunità (www.equilab.ch): «Nessuno dei due coniugi/ partner dovrebbe rinunciare alla propria indipendenza economica. E parlo soprattutto alle donne, perché in genere sono loro a diminuire la percentuale o rinunciare al lavoro per la famiglia. Chi fa un passo indietro deve essere consapevole della posizione di debolezza che assume, specie in caso di separazione/divorzio: pensiamo ai buchi nella cassa pensione, all’esiguità dei risparmi messi da parte, alle difficoltà a rientrare nel mondo del lavoro ecc. Ne vediamo tante finire in assistenza».
L’esperta mette in evidenza anche la «fragilità» del coniuge/partner che rinuncia ad interessarsi agli aspetti economico-finanziari dell’esistenza: «Le tasse falle tu», «Ti do i soldi, tu paga le fatture». «Dividersi i compiti è un conto – afferma Antonini Luvini – ma essere informato/a, conoscere le procedure e sapere cosa fa l’altro/a è importantissimo. È necessario, ad esempio, avere una visione generale del budget famigliare, sapere quanto si paga di tasse/cassa malati e se le si paga… Avete capito bene: succede anche che le bollette, all’insaputa del partner, non vengano saldate, così alcune coppie scivolano in un baratro finanziario. E ricordate che, al momento del divorzio, i debiti si dividono».
Anche Alessia Di Dio sottolinea l’importanza della consapevolezza, a costo di mettere da parte un po' di romanticismo: «È basilare riflettere sul contributo che ciascun genitore investe nella famiglia in termini di tempo e denaro (percentuale lavorativa, ac-
cudimento dei figli, gestione della casa ecc.)». E qui arriviamo all’importanza di creare un budget famigliare (sulla scorsa edizione ne ha parlato anche un esperto di Banca Migros, leggi «Azione» dell’11 novembre, pag. 18). Quali sono i possibili modelli di riferimento? «Se ipoteticamente i due partner percepiscono lo stesso reddito – osserva la nostra interlocutrice –la soluzione è semplice: spese comuni divise a metà, uguali eccedenze. Tuttavia, nella maggior parte delle famiglie vi è una disparità di salario. Di solito nelle coppie con figli è la madre a percepire minori entrate (o nessuna entrata) per periodi anche lunghi. E, nonostante la retorica egualitaria, nel sentire comune il denaro appartiene un po’ di più a chi lo ha guadagnato. Di conseguenza molte donne hanno meno voce in capitolo sulla gestione del denaro, tendono a limitare le spese personali, accumulano meno risparmi e proporzionalmente contribuiscono di più ai costi della famiglia».
Ma andiamo con ordine, ed entriamo nel dettaglio dei diversi modi di gestire il budget famigliare. Ogni
coppia si organizza diversamente, tuttavia è possibile identificare alcuni modelli principali. Partiamo dal «modello informale»: conti separati e ognuno paga di volta in volta una fattura o l’altra, cercando di raggiungere una situazione che i partner sentono come «equilibrata», senza tenere una vera contabilità familiare. In caso di budget ristretti – fa notare Di Dio – è difficile avere un controllo sulla situazione economico-finanziaria generale.
In assenza di discussioni aperte, non c’è nessuna garanzia di un reale equilibrio (sensazione di pagare troppo o troppo poco). Il «modello secondo il tipo di spese» implica che il «grande salario» copra le spese grosse (affitto, auto, vacanze, cassa malati) mentre il «piccolo salario» il resto (cibo, vestiti, baby-sitter ecc). Peccato che le grandi spese siano spesso più «valorizzanti» e i costi variabili tendano a pesare sul salario più basso. Senza contare la difficoltà di controllo complessivo del budget. Nel «modello tutto in comune» la coppia ha un conto unico che raccoglie tutte le entrate e salda ogni spesa. Gli svantaggi: nessuno ha «de-
naro per sé», si rischiano conflitti se uno si assume spese che l’altro non approva. In assenza di vigilanza, uno dei due partner può persino dilapidare l’intero patrimonio familiare oppure può esercitare un controllo totale sull’altro (violenza economica). Il «modello conti separati e 50/50» prevede che per le spese comuni ognuno versi la metà e si tenga l’eccedenza per le spese individuali. Vantaggi: «parità», semplicità, libertà. Può funzionare nei rari casi di redditi simili. Però in caso di disparità di salario, chi guadagna meno è penalizzato. Spesso accompagnato da «doni» del partner più ricco verso l’altro («offro io la vacanza, il ristorante ecc.»), può far sentire in debito il secondo. È la volta del «modello di partecipazione percentuale»: ognuno riceve il proprio salario sul suo conto e contribuisce al conto comune in funzione del proprio reddito. Combina un principio di equità (partecipo secondo le mie possibilità) e un principio di libertà/indipendenza (conti personali separati). La sfida: come calcolare la percentuale?
Valorizzare il lavoro di cura
Nel «modello nostri e miei/tuoi» tutte le entrate confluiscono in un conto unico cointestato. Una volta dedotte le spese comuni, l’eccedenza è suddivisa a metà e versata sui due conti individuali. Indipendentemente dal reddito di ciascuno, ogni partner dispone della stessa somma per le spese personali. E cosa succede quando uno dei due non percepisce un reddito? Uno versa una somma fissa all’altro per le spese mensili? Il partner senza entrate dispone di «soldi per sé»? E qui l’ATFMR evidenzia l’importanza di riconoscere e valorizzare l’essenziale e spesso invisibile lavoro domestico e di cura. Insomma, le possibilità sono tante. L’importante, secondo Di Dio, è conoscerle e individuare quale modalità è quella che risponde meglio ai valori e alle esigenze di ogni singolo nucleo famigliare.
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Gli aspetti economici sono tra le cause dei dissidi tra coniugi/partner e il punto su cui si concentra la conflittualità nelle procedure di separazione e divorzio.
(Vitaly Gariev/Unsplash)
L’ambientalismo non tira
Azerbaigian ◆ La ventinovesima conferenza Onu sui cambiamenti climatici che si svolge a Baku non nasce sotto i migliori auspici
Alfredo Venturi
Non hanno perso tempo i collaboratori di Donald Trump. Un paio di mesi prima del giuramento e dell’insediamento alla Casa Bianca del presidente eletto, hanno fatto sapere che uno dei provvedimenti urgenti destinati a caratterizzare l’inizio del suo secondo mandato sarà l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi. Nella capitale francese le parti della Convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico s’impegnarono nel 2015 a contenere le emissioni di anidride carbonica e degli altri gas a effetto serra in modo da ridurre il surriscaldamento della Terra almeno fino alla soglia del due per cento, possibilmente dell’uno e mezzo, al di sopra dei valori che precedettero la rivoluzione industriale.
Dalle parti di Washington questo impegno ebbe uno strano destino. Una ripetuta giravolta che riflette perfettamente i giri di valzer elettorali tipici del grande Stato federale. L’Accordo di Parigi fu ratificato dal Congresso degli Stati Uniti durante la presidenza di Barack Obama, e annullato dopo che Trump nel 2016 ne prese il posto. Poi fu reintrodotto da Joe Biden che successe a Trump nel 2020, e ora è in procinto di essere nuovamente annullato con il ritorno trionfale alla presidenza del candidato repubblicano. Non è che un antipasto, del resto, perché con ogni probabilità presto arriveranno i piatti forti, come la riapertura delle miniere di carbone o il rilancio del grande oleodotto che attraversando gli States collegherà il Canada al Messico. Esiste poi la realistica prospettiva che altri Stati, incoraggiati da questo precedente, siano pronti a emulare gli Stati Uniti. Non è dunque nata sotto i migliori auspici la COP29, la ventinovesima conferenza delle parti che si sta celebrando a Baku, nell’Azerbaigian. L’assenza di numerosi fra i capi di Stato e di Governo che normalmente affollavano questi eventi non fa che sottolineare una realtà ben nota: sopraffatto da una quantità di esigenze, alle prese con una quantità di contenziosi comprese le due sanguinosissime guerre nel Medio Oriente e nell’Europa orientale, il mondo ha altro a cui pensare. Le urgenze ecologiche non hanno più la popolarità di un tempo, il cambiamento cli-
matico è disprezzato come una delle tante fantasie woke, che non a caso il vecchio-nuovo presidente americano qualificò a suo tempo come nient’altro che una bufala.
Eppure, la meteorologia impazzita riempie le cronache, mentre lo scioglimento dei ghiacci continua ad alimentare l’innalzamento del livello dei mari e ne modifica i parametri in termini di salinità e acidità, arrivando addirittura a deviare le loro correnti. Per non parlare dell’aria irrespirabile che soffoca sempre più le nostre città compromettendo, assieme alla salute del pianeta, quella di noi che l’abitiamo. Gli avversari dell’ecologismo militante accusano gli ambientalisti di servire oscuri interessi finanziari, dimenticando di operare all’unisono con chi, come la potentissima lobby petrolifera, cerca di contrastare i limiti che si vorrebbero porre, per centrare gli obbiettivi dell’Accordo di Parigi, all’uso dei combustibili fossili per la produzione di energia.
L’Azerbaigian si colloca ai vertici internazionali in fatto di esportazioni petrolifere, così come gli Emirati Arabi Uniti
Nonostante tutto questo, a Baku si cerca di evitare un fiasco tale che condannerebbe a morte la diplomazia ambientale, lanciata dalle Nazioni Unite quando segnalarono al mondo l’insidia mortale che lo minacciava, e invitarono politici e scienziati al capezzale del pianeta malato. Inaugurando la conferenza, il ministro azero dell’ambiente, Mokhtar Babayev, ha detto che a causa del surriscaldamento globale il mondo è «sulla strada della rovina», è dunque necessario «tracciare un nuovo percorso». Chissà se Babayev intende farlo accettando un ridimensionamento dei consumi di combustibili fossili, lui che per una vita ha lavorato come dirigente della Socar, la compagnia petrolifera azera. E chissà se prima di parlare alla conferenza si è consultato con il suo presidente, Ilham Aliyev, che sulla stessa tribuna ha definito il petrolio «un dono di Dio».
L’Azerbaigian si colloca ai vertici internazionali in fatto di esportazioni petrolifere, così come gli Emira-
Quando il corpo diventa protesta
Iran ◆ Ahoo Daryaei non è pazza, come tante altre
Francesca Marino
ti Arabi Uniti, che ospitarono a Dubai la COP dell’anno scorso. Proprio a Dubai, d’altra parte, fu riconosciuta ufficialmente la necessità di abbandonare i combustibili fossili. In un ambiente apparentemente paradossale come quello della diplomazia ambientale, con quel suo procedere a piccoli passi non sempre coerenti, si registrò un anno fa una convergenza di fatto fra gli Stati Uniti e la Cina per convincere un altro gigante petrolifero, l’Arabia Saudita, ad accettare l’abbandono graduale dei combustibili fossili. Ci si chiede se si tratta di una rinuncia puramente formale, e se i sauditi hanno davvero abbandonato la tradizionale riluttanza a sacrificare il petrolio sull’altare dell’ecologia. Si chiede a questa COP29 di organizzare un’equa distribuzione dei fondi necessari per finanziare, a spese dei Paesi ricchi, la transizione energetica dei Paesi poveri. A Parigi si mobilitarono cento miliardi di dollari ma non bastano, e a Baku bisognerà alzare di molto questa cifra. In questo contesto ci si chiede quale sarà il ruolo della Cina, che incarna contemporaneamente la posizione di prima potenza commerciale del mondo e la condizione ormai da tempo superata di Paese tuttora impegnato nello sviluppo. Comunque sia, si tratta di somme colossali, che tutti vorrebbero incassare ma pochissimi sono disposti a versare, oberati come sono da problemi di bilancio legati fra l’altro alle spese militari che le guerre in corso hanno fatto schizzare verso l’alto.
A meno di confidare nella esasperante lentezza dei progressi ottenuti dalla diplomazia ambientale, che scattò nel 1992 con la conferenza di Rio de Janeiro per dare vita alle ventinove conferenze fin qui celebrate, appare dunque piuttosto difficile prevedere che dalla riunione di Baku possa uscire qualcosa di risolutivo. Avremo forse uno di quei documenti finali pieni di promesse e di buone intenzioni che sono da sempre la toppa diplomatica sugli insuccessi dei politici. Intanto gli abitanti di Kiribati, il piccolo Stato oceanico assediato dal mare che se non cambia qualcosa lo farà scomparire sott’acqua, scrutano angosciati l’avanzare delle onde, lento ma inesorabile, e sempre più vicino alle loro case.
«È pazza. È pazza, e deve essere rinchiusa!». Perché chi, se non una pazza, rimane in slip e reggiseno e comincia a camminare per strada aspettando l’arrivo della polizia? La «pazza» si chiama Ahoo Daryaei, è una studentessa universitaria, e la sua immagine in reggiseno viola e slip a righe campeggia sui social media e anche su un murales davanti all’ambasciata iraniana di Milano. Perché la giovane è diventata un simbolo, l’ennesimo, della resistenza di ragazze e donne iraniane contro l’imposizione dell’hijab (il velo integrale) e le vessazioni della cosiddetta polizia morale. Avvicinata da membri delle «squadre della gentilezza», brigate di donne paludate di nero definite dalla popolazione «i pipistrelli», che molestano ragazze e donne il cui abbigliamento non è conforme ai canoni della morale religiosa, Ahoo Daryaei si è rifiutata di coprirsi ulteriormente. E, davanti alla minaccia di chiamare la polizia morale, si è tolta i vestiti e ha cominciato a camminare per strada. Per protesta, per disprezzo. Per dare un segnale, l’ennesimo. Come ha dichiarato Masih Alinejad, attivista per i diritti umani iraniana, Daryaei «ha trasformato il suo corpo in una protesta, spogliandosi fino alla biancheria intima e marciando per il campus, sfidando un regime che controlla costantemente il corpo delle donne». Poi è stata presa, gettata in una macchina e portata via. Ore dopo, quando le proteste via social media erano già diventate virali, il portavoce del Governo ha dichiarato che la ragazza non si trova in un centro di polizia, bensì in un istituto psichiatrico perché soffre di problemi mentali e «deve essere aiutata». Peccato che, definendo il suo trasferimento in un istituto psichiatrico sconosciuto come «un rapimento», il Centro per i diritti umani in Iran abbia dichiarato: «Le autorità iraniane usano sistematicamente il ricovero psichiatrico involontario come strumento per reprimere il dissenso, bollando i manifestanti come mentalmente instabili per minare la loro credibilità». Che Amnesty International abbia sostenuto di avere prove che dimostrano che i prigionieri vengono sottoposti a scosse elettriche, torture, percosse e sostanze chimiche quando vengono arrestati con il pretesto dell’instabilità mentale. E che sia recentissima la notizia dell’istituzione, in Iran, di «Hijab clinics», cliniche dell’hijab, dove le «pazze» che rifiutano di attenersi ai comandamenti degli ayatollah possono essere adeguatamente curate. Peccato anche che tanta stampa occidentale abbia in
qualche modo sposato le tesi del Governo iraniano («è pazza») e che poche femministe siano scese in campo. Perché nella terra dei diritti e della libertà personale siamo tutti attenti, attentissimi, più che a difendere la vita delle donne e i loro diritti, a non dare adito a nessun commento che possa essere bollato come islamofobico. Fobia, in greco, significa paura: paura irrazionale. E della «sharia» – la legge islamica – le iraniane, così come le afghane dall’altra parte del confine, hanno sì paura, ma la loro paura è razionale e ben motivata. Una paura che in Afghanistan non si può nemmeno più esprimere ad alta voce, perché l’ultimo editto dei criminali al Governo, i talebani, vieta alle donne perfino di pregare in modo da poter essere udite da altre donne. Dal loro ritorno al potere, i talebani hanno vietato agli esseri di sesso femminile di andare a scuola, di uscire di casa non accompagnate da un parente maschio, di frequentare giardini pubblici, palestre o parrucchieri. Hanno loro vietato di viaggiare da sole, di parlare a qualunque individuo di sesso maschile, inclusi i medici, con cui non abbiano legami di parentela.
Musica e canto sono proibiti a chiunque, ma negli ultimi mesi alle donne è stato vietato anche di parlare in pubblico ad alta voce perché la voce femminile è «una cosa intima» e può essere causa del turbamento maschile. Come detto, il divieto di pregare ad alta voce anche tra donne è l’ultima «perla di saggezza» degli ex «studenti di teologia» – che lapidano, uccidono e torturano – e hanno un sacrosanto terrore delle donne. Dei loro corpi, dei loro capelli, della loro voce. Della loro libertà di scelta. E non si tratta ormai solo di casi isolati. Le scuole femminili vengono attaccate anche in alcune regioni del Pakistan, dove lo spazio per il laicismo e le minoranze religiose è diventato inesistente e dove viene «caldamente consigliato» alle donne di coprire la testa in pubblico. E anche la Libia, passata da una dittatura laica a un Governo di stampo religioso sostenuto per di più dalle Nazioni Unite, di recente ha annunciato per bocca del ministro degli Interni Imed Trabelsi la creazione di una «polizia morale» e l’introduzione di regole di stampo talebano/iraniano: velo obbligatorio sopra i nove anni, divieto per le donne di viaggiare da sole o di intrattenersi con uomini con cui non abbiano legami familiari. «La libertà personale non esiste qui in Libia», ha dichiarato Trabelsi. Aggiungendo che chi la cerca «dovrebbe andare in Europa». O, in alternativa, all’altro mondo.
A Baku si registra l’assenza di numerosi fra i capi di Stato e di Governo che normalmente affollavano questi eventi. (Keystone)
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Medio Oriente ◆ Nel Paese dei cedri crescono i timori del ritorno di una guerra civile mentre Israele minaccia l’importante patrimonio archeologico e un’identità finora difesa a fatica
Paola Nurnberg
La necessità di un cessate-il-fuoco è urgente perché non ci sono più posti sicuri in Libano. Da un'operazione per distruggere i depositi di armi di Hezbollah al confine meridionale, l'offensiva israeliana si è trasformata in una guerra che non ha risparmiato nulla. Colpita a nord anche la millenaria città fenicia di Byblos, dopo incursioni dell’aviazione nella valle della Beqaa e sulla zona di Baalbek, dove ci sono preziose antichità romane, e a sud un altro centro di interesse culturale, Tiro, è bersaglio di pesanti bombardamenti. L’Unesco, che tutela queste bellezze, si è riunita con urgenza per chiedere una protezione del patrimonio artistico, ma la comunità internazionale tace, e sono cadute nel vuoto le accuse che il premier libanese Najib Mikati ha lanciato per la preoccupante inazione del mondo. Forse Tel Aviv regalerà a Trump un piano di cessate il fuoco in Libano per il suo insediamento alla Casa Bianca in gennaio. Ma per ora la guerra continua.
È a Tiro che si può vedere la distruzione che sfiora il parco archeologico affacciato sul mare. Dai finestrini dell’auto si vedono negozi e ristoranti chiusi, come pure gli hotel di questa località turistica con le sue belle spiagge. Poco prima dell’ingresso in città, ci accoglie un grosso cratere sul ciglio della strada e tutto intorno ogni cosa è grigia, coperta dalla polvere sollevata dalle esplosioni. E il centro di Tiro, dopo i ripetuti colpi, è parzialmente distrutto. Continuare fino alla frontiera con Israele, a soli 20 km, sarebbe una follia senza
unirsi ai convogli militari e della missione UNIFIL, United Nations Interim Force in Lebanon. Ma intanto, in quasi due mesi i danni sono già più del doppio rispetto a quelli della guerra del 2006. «Il tuo Libano è vuoto e fugace, mentre il mio Libano durerà per sempre», sono le parole che campeggiano dall’impalcatura di un palazzo in ristrutturazione a Beirut. Si tratta dei versi di una bellissima poesia del libanese Khalil Gibran, che parlava
del suo Paese lontano con profonda nostalgia anticipando, senza saperlo, quello che sarebbe stato il suo tragico destino. Lo stesso destino che sembra sul punto di ripetersi, come temono ormai in tantissimi qui, senza più domandarsi se, ma quando. Lo spettro della guerra civile infatti, da ombra si sta facendo corpo mentre gli effetti del conflitto hanno già modificato la geografia del sud del Libano, a ridosso col confine israeliano. L’Idf, l’esercito di Benjamin Netanyahu, ha
Il vescovo di Beirut: «Abbiamo fallito tutti»
«Abbiamo fallito tutti: le istituzioni, la società e anche la Chiesa», dice il vescovo di Beirut, César Essayan. «La situazione è incerta. Primo: non sappiamo come andrà a finire la guerra con Israele, perché non sappiamo cosa vuole Israele e quali siano le sue visioni nel lungo termine. Secondo: non è chiaro quanto Israele potrà fermare Hezbollah, infine non abbiamo mai visto un numero così importante di sfollati libanesi. E poi c’è paura di non saper gestire la situazione tra di noi. Cioè, se tra queste persone c’è chi sostiene Hezbollah, o Israele, mette a rischio la vita di tutto un villaggio. Quindi, se da un lato non possiamo non accogliere, dall’altro non sappiamo chi stiamo accogliendo».
Lo Stato è presente?
«No, e se il Parlamento non si riunisce per eleggere un presidente della Repubblica, non vediamo un futuro. Se ci sarà un cessate-il-fuoco, quanti potranno tornare a casa? C’è stata distruzione, c’è chi ha perso casa e lavoro, tanti si occupavano di agricoltura e hanno terreni devastati... Ci vorranno anni, perché Israele ha usato bombe al fosforo. Senza contare il problema psicologico per gli sfollati e i bambini».
Una nuova guerra civile è possibile?
«Dipende dalla saggezza di alcune persone. Da libanese che ha dei sentimenti non sono obiettivo e penso che ci siano delle persone che stanno cercando questa guerra civile perché stanno impedendo di organizzare la
vita interna degli sfollati, di trovargli un posto. Si cerca di spingerli altrove, di creare tensione tra la nostra gente, perché non è possibile che uno Stato non prenda in mano l’organizzazione dei bisogni di base con tutti gli aiuti che arrivano. Speriamo che non accadano incidenti isolati che possano portare a un conflitto. Per esempio c’è l’arroganza di Hezbollah, perché sanno che qui non sono i benvenuti, ma hanno contagiato gli altri sciiti. E anche per chi ha aperto le porte è difficile, perché non ci siamo mai riconciliati tra di noi prima».
Qual è la posizione della Chiesa?
«La diplomazia vaticana non si è fermata, ma non solo per i cristiani. Bisogna salvare tutto il Libano. Noi cristiani abbiamo aperto le nostre strutture, perché le strutture musulmane non hanno aperto agli sfollati?»
Qual è la risposta?
«Se apro una scuola per uno sfollato, lo sfollato deve rispettare chi lo accoglie, ma questo non succede. Un Paese non può permettere che lo spostamento di persone non sia controllato, e che nelle scuole vengano accolte persone con le armi. Per questo parlo di rischio. Inoltre siamo ostaggio di forze politiche che cercano di accontentare qualche potenza. Il Libano è già stato distrutto una prima volta ed è stato ricostruito, poi, nel 2006, l’aviazione israeliana lo ha di nuovo distrutto; oggi è successo ancora. Adesso vedremo gli accordi che faranno i potenti, ma se per ora la guerra civile
non è scoppiata è perché non si capisce a chi possa giovare. Molto è colpa di Hezbollah e dell’Iran, ma parecchie colpe le hanno Israele e gli Usa e anche la Francia, che non ha saputo fare diplomazia. Abbiamo colpe anche come libanesi, perché non abbiamo avuto leader che siano uomini di Stato, e anche come Chiesa».
Israele poteva fare diversamente? «Certo. Oggi conosciamo la forza del Mossad e di Israele. Se ha saputo prendere Nasrallah vuol dire che sapeva tutto quello che stava facendo Hezbollah. Poteva agire diplomaticamente, presentare prove all’Onu con carte e filmati per mostrare come Hezbollah o lo Stato libanese non rispettassero la risoluzione 1701 e chiedere al mondo occidentale o agli Usa di applicare sanzioni. Anche Hamas non avrebbe potuto diventare così forte senza il permesso, diretto o indiretto, di Israele. A Israele interessa che Hezbollah e Hamas siano forti perché così può rivendicare l’aiuto degli altri in armamenti dicendo di essere in pericolo. E Hezbollah ha interesse a dire che Israele è una minaccia perché l’Iran vuole mettere piede in Libano. Ma quello che fa paura è che i protagonisti del passato sono gli stessi di oggi. Il presidente del Parlamento è lo stesso da 30 anni. Noi non abbiamo imparato dalla storia, non abbiamo chiesto perdono a nessuno. Siamo diventati sempre più arroganti senza chiederci scusa tra di noi per quello che ci siamo fatti. Per questo abbiamo paura che la storia si ripeta».
distrutto decine di villaggi dove vivevano piccole comunità sciite ma anche cristiane. Anche per questo i libanesi sono stanchi e sfiduciati, ma soprattutto divisi per gli scenari senza precedenti che si stanno configurando in un contesto fragilissimo.
La paura serpeggia anche tra i libanesi più anziani mentre fumano nei caffè all’aperto sulla rue Hamra, via centrale nel quartiere musulmano della capitale, celebre in passato per la
di moda italiana e francese. Incuranti del rumore di un traffico impossibile, seduti ai tavolini dei bar leggono i giornali che ogni giorno raccontano situazioni impensabili fino a due mesi fa. Ecco allora che la presenza dei soldati israeliani penetrati nel sud ricorda ciò che accadde nel 1982, quando l’operazione «Pace in Galilea» lanciata da Israele, ufficialmente per allontanare il nemico facendolo arretrare di 40 km dalla frontiera, aveva portato i suoi soldati fino a Beirut. Chi ha la memoria di allora ritiene che i segnali ci siano tutti. La «linea rossa» stabilita dal fiume Litani e la sua importante fonte d’acqua rientrerebbe inoltre nel progetto del Grande Israele, ovvero il piano di espansione che travalica gli attuali confini israeliani, mentre gli attacchi contro le milizie di Hezbollah – inizialmente per proteggere i villaggi del nord di Israele dal continuo lancio di razzi – si sono presto estesi a target civili e non solo militari. Così, da settimane, vengono colpiti banche, depositi, logistica, ma anche uffici e stazioni televisive collegate direttamente o indirettamente al Partito di Dio.
I morti sono già oltre tremila, e almeno 15 mila i feriti. Nel mese di ottobre invece, aveva provocato orrore la morte di tre giornalisti delle emittenti televisive filo-sciite Al Manar e Al Mayadeen, uccisi di notte mentre dormivano in un hotel ad Hasbaya, nel sudest del Libano, colpito con un missile nonostante lì fossero alloggiati anche altri reporter, le cui auto parcheggiate in cortile recavano ben vi
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Il Mercato e la Piazza
Il motore dell’economia europea si è ingrippato
La grande novità, nella congiuntura economica europea degli ultimi trimestri, è rappresentata dalla recessione dell’economia tedesca. Dopo l’anno di crisi del Covid e la fiammata inflazionista che ne ha frenato la crescita fino al 2023, questa economia non sembra più in grado di riprendersi. Si tratta di una novità in assoluto perché, dagli anni Cinquanta dello scorso secolo in poi, l’economia in questione è sempre stata il motore dell’economia europea. Ora sembra che questo motore si sia seriamente ingrippato. Sono diversi i fattori all’origine di questa prolungata recessione. Quello però che più colpisce l’osservatore esterno è la crisi che si sta sviluppando nell’industria automobilistica che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha sempre rappresentato il fiore all’occhiello dell’economia germanica. Per dare un’idea della sua importanza basterà ricordare che nel 2023 aveva ot-
Affari Esteri
tenuto un fatturato di 564 miliardi, occupava più di 800’000 persone e il suo valore aggiunto rappresentava il 5% del Pil tedesco.
Per apprezzare l’importanza di questo ramo dell’economia germanica bisogna però pensare che attorno ai grandi produttori di automobili vivono e si sviluppano centinaia di medie e piccole aziende che li riforniscono di materie prime, prodotti semi-finiti e componenti per l’auto nelle diverse fasi della filiera, dalla progettazione alla produzione fino alla vendita. Tenendo conto di questa galassia di aziende si può stimare che la quota del settore automobilistico nel Pil tedesco superi il 10%. Ad essere in crisi è soprattutto la Volkswagen di Wolfsburg che è anche la maggior azienda dell’industria automobilistica in Europa. A rivelare al largo pubblico la crisi della VW fu dapprima l’annuncio, un paio di mesi fa, stando al quale l’azienda voleva
rivedere i contratti collettivi, in particolare sospendere la norma che assicurava il posto di lavoro per poter licenziare, l’anno prossimo, una parte dei dipendenti. Poi è apparso un piano di ristrutturazione stando al quale VW avrebbe chiuso 3 dei 13 stabilimenti che possiede in Germania. Non è solo la fine di un’epoca, che aveva visto il gigante di Wolfsburg dominare nei mercati di tutto il mondo. Ma anche la fine di un mito: quello della Volkswagen che non licenziava. Le ragioni della crisi sono come sempre diverse. Da un lato vi è una tendenza di lungo termine al ristagno della domanda nei Paesi sviluppati. La domanda di automobili ha un andamento sinusoidale, vale a dire a forma di S. Ora nei mercati avanzati di Europa e America ha raggiunto il suo punto più elevato; anzi da qualche anno ristagna. Nell’ultimo decennio la variazione delle vendite di automobi-
Susie Wiles, la fautrice del successo di Trump
Susie Wiles è stata la prima nomina di Donald Trump per la sua nuova Amministrazione ed era sembrata una scelta di merito e di buon senso, quasi l’unica. Wiles, 67 anni, è stata l’architetta della vittoria del tycoon alle elezioni del 5 novembre e sarà la sua chief of staff, un mestiere già complesso reso ancora più difficile da questo presidente: il suo capo di gabinetto più longevo del primo Governo, il generale John Kelly, è durato quasi due anni e oggi dice che Trump aveva un’ammirazione per i generali di Hitler. A dire il vero, come consigliera, Wiles si è già mostrata resistente e soprattutto lo ha fatto vincere.
Figlia del giocatore di football Pat Summerall, è cresciuta nel New Jersey, ha iniziato a lavorare con i repubblicani ai tempi di Ronald Reagan e poi è andata a vivere in Florida, all’inizio per amore – si è sposata uno dello staff reaganiano da cui poi ha di-
vorziato – e poi perché si è messa ad essere la più brava a costruire le campagne elettorali di sindaci, deputati, governatori. È stata chiamata anche da politici in differenti Stati, ha molti successi in curriculum, ma la sua base è rimasta in Florida dove è avvenuto nel 2016 il primo contatto con Trump. La sua assunzione nella campagna elettorale di otto anni fa, quella che pareva impossibile da vincere, era stata commentata con un certo spavento dai democratici che l’avevano vista all’opera, spesso come consigliera dei loro rivali. Riconoscevano che fosse molto brava. Si racconta che alla fine di quella campagna elettorale, quando appunto i sondaggi dicevano che Trump fosse sconfitto, Wiles chiese a Trump di finanziare un progetto di mail per convincere gli elettori ad andare a votarlo che era dispendioso. Trump si arrabbiò molto, Wiles pensò di andarsene, il progetto fu comunque
Il lato oscuro degli algoritmi
L’ultimo aggiornamento sulle vicissitudini dell’editoria e della stampa scritta lo apprendo da «Charlie», la newsletter de «Il Post» di Luca Sofri: «Da pochi mesi il “New York Times” ha introdotto un nuovo algoritmo che gestisce la sua homepage, creando una distribuzione personalizzata degli articoli per ciascun lettore, così da spingerlo a rimanere più tempo possibile sul sito perché gli vengono offerti solo contenuti che dovrebbero interessargli». Vien da chiedersi se l’algoritmo non sia già attivo come editore. Seguendo gli ultimi passi compiuti dal «Nyt» sembrerebbe di sì, perché è facile indovinare, anche se si parla di creazione della prima pagina, che il progetto proseguirà puntando a un giornale personalizzato, cioè con contenuti e ovviamente anche orientamenti che l’abbonato predilige (qualcuno sta già portando avanti il lavoro anche da noi, nell’app della Rsi c’è un
li è stata nulla per i mercati degli Usa e del Canada, mentre ha segnato solo un lieve aumento, pari al 4%, per i mercati europei. E questo nonostante gli ingenti investimenti nella pubblicità per nuovi modelli o per i veicoli elettrici. I mercati tradizionali sono saturi. Solo in Cina la domanda di automobili continua a crescere in modo sostenuto: dal 2013 al 2023 essa ha segnato un aumento del 25%. Tuttavia a disputarsi questo aumento sono oggi in molti. Oltre alle case automobilistiche europee, giapponesi e americane (Tesla in particolare), a soddisfare la domanda cinese concorrono anche i marchi locali. Le vendite di case come la Byd, la Geely, la Changan, la Chery, la Li Auto, la Dongfeng, la Gac, la Bacc e altre ancora sono in continua ascesa. È probabile che oggi la loro quota di mercato si avvicini, nel loro Paese, al 50%. È dunque la concorrenza della Cina, in particolare
sul suo mercato, uno dei pochi ancora in espansione, che sta dando il mal di pancia ai produttori tedeschi. Essi si lamentano perché il Governo cinese accorda sostanziali aiuti alla produzione di casa, creando quindi una situazione di concorrenza sleale. Come abbiamo già ricordato, le conseguenze di questo stato di cose stanno diventano catastrofiche per l’economia tedesca che anche quest’anno non crescerà. Nel corso delle ultime settimane, poi, le difficoltà economiche hanno messo in crisi anche la coalizione rosso-giallo-verde che governa in Germania. Per non essere stata capace di trovare un accordo su un piano di rilancio economico la stessa, al governo dal 2021, è andata in frantumi. Il cancelliere Scholz presenterà la domanda di fiducia al Parlamento (16 dicembre) e si andrà al voto anticipato verosimilmente il 23 febbraio 2025. Il momento è veramente molto critico!
approvato. Trump vinse la Florida e le elezioni. Nel 2018 Wiles fu assunta dal candidato governatore allora poco noto, Ron DeSantis, con il quale le cose andarono molto presto male, al punto che DeSantis, vendicativo, disse a Trump, con cui allora i rapporti erano buoni, di non farla lavorare più nemmeno per lui. Nel 2019, quando iniziò la campagna per la rielezione dell’allora presidente Trump, Wiles non era nel comitato elettorale. La separazione durò poco, Wiles tornò, ma è stato negli anni dopo la sconfitta del 2020, quando Trump si è trasferito a Mar-a-Lago, che si è cementato il rapporto di fiducia tra i due. Ben presto Wiles è diventata molto influente, restando però sempre riservata: testimoniò per ore davanti al grand jury per i documenti top secret ritrovati nello sgabuzzino degli ombrelloni nella villa-quartier generale di Trump, era con lui ad Atlanta quando gli
scattarono le foto segnaletiche per il processo in Georgia, faceva da tramite tra il team degli avvocati e quello politico, decidendo di volta in volta come spendere i soldi che arrivavano per difendere l’ex presidente da quella che lui definiva la «caccia alle streghe» giudiziaria. Le caratteristiche che la contraddistinguono? È calma, disciplinata, strategica e non ideologica. La sua calma, il fatto che nessuno ricorda di averla mai vista innervosirsi in pubblico né con lo stesso Trump, che è tutto istinto e ira, è spesso citata nei ritratti che le sono stati dedicati come la sua arma migliore. Lei sa mantenere l’ordine. Alla fine di questa campagna elettorale, quando Trump aveva adottato una retorica sempre più sprezzante, ostile ed eversiva, molti retroscena parlavano di liti continue dentro al comitato elettorale. Così Trump perde, dicevano alcune fonti anonime. Quando poi
invece Trump ha vinto, ha cominciato a circolare la parola «disciplina» come ragione della gran vittoria: ancora una volta è stata Wiles a convincere gli elettori che, un conto sono le parole dette ai comizi, e un altro sono le priorità e gli obiettivi di una proposta presidenziale per tutto il Paese. Se molti elettori che hanno votato per Trump hanno spiegato di non essere stati condizionati dalle tante bugie e iperboli trumpiane ma al contrario ben impressionati dal fatto che mettesse economia e immigrazione in cima alle sue priorità, è grazie al lavoro nascosto ma indefesso di Wiles. Che a differenza dei tanti araldi del trumpismo, come il ciarliero e urticante Elon Musk, guardava alla strategia e non all’ideologia. Molti scommettono che Wiles, oltre al primato di essere la prima donna a ricoprire questo incarico, sarà anche una chief of staff con grandi probabilità di durare.
link che chiede all’utente quali notizie di cronaca vuole privilegiare). Sarà quella la via obbligata dell’informazione del futuro? Nessuno può offrire certezze, anche perché i tanto celebrati e perfetti algoritmi e l’intelligenza artificiale (Ia) stanno alimentando non solo la competizione tecnologica ma, in parallelo, conducono anche quella per il conseguimento del futuro primato geopolitico.
Credo di aver già descritto il mio primo incontro diretto con gli algoritmi, cioè con i procedimenti di calcolo che sono alla base della rivoluzione tecnologica in atto. C’entra il risotto. L’algoritmo, vale a dire «la sequenza di operazioni per calcolare e risolvere un problema», era quello che due tecnici dell’arte culinaria, Ricci e Ceccarelli, affermavano di aver usato per scendere più in profondità nella cottura del piatto tradizionale della cucina milanese. In realtà il loro algoritmo si li-
mitava a schematizzare «alla maniera greimasiana» le varie operazioni della preparazione principale con i suoi sottoprogrammi (tritare la cipolla, far sciogliere il burro, incorporare vino e midollo ecc.) e l’operazione annessa (preparare il brodo)! Prima di quell’uso «sui generis» il termine algoritmo era collegato con l’irraggiungibile genio del matematico inglese Turing e con gli strumenti da lui usati per costruire una macchina in grado di superare l’uomo nel gioco degli scacchi, ignorando che gli sarebbero serviti anche per dare un durissimo colpo a Hitler e per porre le basi di quanto oggi ci viene proposto, e spesso anche imposto, come intelligenza artificiale. Come insegna la storia, ogni nuova scoperta o tecnologia fa scattare anche la progettazione e lo sviluppo di un numero infinito di applicazioni e prodotti. La regola ha segnato anche l’evoluzione dell’Ia e degli algoritmi in
informatica: dagli iniziali usi dei robot nelle fabbriche e degli avatar nei videogiochi in pochi decenni si è arrivati alla guida autonoma di veicoli e alle sofisticatissime consulenze per l’industria, finanziarie e alle applicazioni riguardanti servizi, armamenti e strategie militari del futuro. Inevitabile che questa galassia di impieghi e di complessi orientamenti toccasse anche l’industria dell’editoria con gli algoritmi applicati all’informazione digitale su Internet, causando devastanti scenari per la sopravvivenza della stampa, intesa come «fabbrica» dell’informazione, e dei giornali. Eppure Jeffrey Herbst, matematico presidente di Newseum, il museo interattivo dell’informazione con sede a Washington, in un saggio pubblicato una decina di anni fa prevedeva già che con gli algoritmi i cambiamenti in atto nel mondo della stampa avrebbero avuto effetti ancor più devastan-
ti. Il suo avvertimento era basato sul fatto che Facebook aveva appena annunciato di aver implementato alcuni nuovi algoritmi per determinare chi degli utenti online leggeva uno specifico articolo de «The Washington Post» e quanto a lungo si soffermava su altri articoli o settori dello stesso giornale. Era l’avvio dell’editoria guidata dall’Ia. Sappiamo chi ha acquistato «The Washington Post» e sappiamo anche che Ia e algoritmi sono sempre più controllati dai miliardari proprietari dei social media (da Facebook a Instagram sino al famigerato X/Twitter di Elon Musk). Davanti a questi scenari, visto che chi ci guida –in Europa e sotto la cupola di Berna – pretende di controllare questi problemi limitandosi ad aggiungere zeri alle multe, c’è solo da sperare che un Turing del 2000 inventi un super-algoritmo che aiuti l’uomo a difendere libertà e diritti.
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CULTURA
La montagna nell’obiettivo
Fotografo appassionato di natura e storia, Ely Riva racconta il nostro territorio con sguardo curioso
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Il Magico realismo di Soldini
Il regista milanese con origini ticinesi è raccontato nell’ultimo saggio di Domenico Lucchini
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I tagli profondi di Campbell Quello proposto dall’artista americano è un insolito pas de deux tra essere umano e natura
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Il corpo violato Fra i tesori nascosti dell’arte anche la rappresentazione della triste parabola dei fratelli de Witt
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I primi quattromila anni di Gerusalemme
Letteratura a fumetti ◆ Un viaggio epico attraverso episodi storici, culture e religioni della Città Santa, nella graphic novel di Vincent Lemire e Christophe Gaultier
Blanche Greco
Un fumetto per raccontare i quattromila anni di una città antica e mitica, ma anche reale e moderna, ad adulti e ragazzi, a gente di tutte le nazionalità, di qualsiasi credo religioso, o non credente, che forse la sogna, la brama, ma la vorrebbe diversa da com’è, s’intitola: Storia di Gerusalemme di Vincent Lemire e Christophe Gaultier, edito da Einaudi.
È un «albo» coloratissimo, grandioso e avvincente, risultato di cinque anni di lavoro che, con stile semplice e diretto in duecentocinquanta pagine di vignette e di balloon, ripercorre le varie età di questa «città–mondo» come la chiama l’autore, il professor Vincent Lemire, importante storico francese che si serve anche di fonti archeologiche e documenti inediti per ricostruirne le vicissitudini, i molteplici protagonisti, le casualità del destino e i progetti, i sentimenti di chi l’ha abitata.
Una storia che inizia quando Gerusalemme era una piccola città sperduta sulle montagne, tra il Mediterraneo e il deserto, e arriva sino a oggi, che è diventata «l’ombelico del mondo», culla comune delle tre religioni monoteiste e capitale spirituale del sessanta per cento degli abitanti del pianeta. E tutto questo dopo essere stata nel tempo: egiziana, persiana, ebraica, greca, romana, bizantina, mamelucca, ottomana, inglese, giordana, israeliana, palestinese; e avere attirato: conquistatori, idealisti, profeti, commercianti, scrittori, poeti e politici più o meno illuminati. Una lunga sfilata di personaggi, i più importanti dei quali rivivono nelle vi-
gnette di Christophe Gaultier, noto fumettista francese capace di sfumare la serietà e a volte la crudeltà degli eventi di questa storia epica, con la leggerezza venata d’ironia dei suoi disegni spesso accompagnati da note a piè di pagina che rimandano a testi, lettere ed epigrafi. Narratore delle traversie di Gerusalemme, è un ulivo secolare, «Zeitun», che ricorda quando quattromila anni prima era un nocciolo di oliva sputato da un pastore di passaggio sul terreno brullo, non lontano da una sorgente, quella stessa che permise anche alla città di nascere. Da allora, dal Monte degli Ulivi ha osservato Gerusalemme svilupparsi, ha visto guerre, distruzioni, mattanze, riconquiste, esodi, terremoti terribili e incendi, ma anche sprazzi di pace in cui genti diverse hanno popolato la città, l’hanno
abbellita e fatta diventare una babele di lingue e di usanze, rendendola unica e famosa al di là dei suoi confini. Nei dieci capitoli della rievocazione che ne fa Lemire, concisa, ma esauriente, seducente e struggente, incontriamo tra gli altri: Abramo, David, Re Salomone al quale si deve la costruzione del tempio dove si conservava l’Arca dell’Alleanza; Alessandro il Grande, che portò la città al centro dell’influenza greca; Pompeo, Tito e gli eserciti romani; Erode, e poi Gesù, che a Gerusalemme per festeggiare la Pasqua ebraica secondo i Vangeli, ne annunciò la distruzione: «…non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta». Una profezia che da sempre pesa sulla città e che ciclicamente pare avverarsi, seguita da una rinascita che sembra avere in sé ogni volta i semi dell’odio, del-
la guerra e della distruzione che verrà. Ecco i Crociati che per liberare il Santo Sepolcro la misero a ferro e a fuoco, tanto che dei trentamila abitanti, a Gerusalemme ne rimasero solo alcune centinaia. Anni dopo la riconquistò il «feroce Saladino», ben più saggio che sanguinario, che la riprese quasi senza colpo ferire, e altrettanto fece Federico II, Imperatore del Sacro Romano Impero, ma non i cavalieri tartari che, nel 1244 la invasero e la devastarono. La lista è lunga e comprende Napoleone, Theodor Herzl, Arafat, Saddam, Sharon sino ad arrivare ai nostri giorni attraverso altre guerre, distruzioni, occupazioni, accordi internazionali e speranze andate in fumo. Lemire e Gaultier sfatano antichi miti, elencano fatti, svelano episodi storici poco noti, e regalano al letto-
re la magia di «vedere» l’evolversi degli eventi che hanno trasformato Gerusalemme ogni duecento, trecento anni, nel volgere di poche pagine, lasciando sempre allo spettatore ammirato e angosciato l’ultimo giudizio sul passato e, fatalmente, sull’attuale tormentata situazione di Gerusalemme. Non mancano episodi divertenti come le descrizioni dei cambiamenti della Città Santa sotto l’influsso del turismo religioso iniziato già nel 520 a.C.; o l’arrivo – nel 1601 nella pacifica Gerusalemme Ottomana (1516-1799), abitata da cattolici, ebrei, ortodossi e musulmani di varie nazionalità – di due commercianti inglesi: Timberlake e Sanderson, in visita ai luoghi santi senza il permesso papale, forti solo di quello della Regina Elisabetta. Scambiati per ebrei e poi per greci e alla fine bollati come spie, i due protestanti britannici finirono in prigione. Liberati, seppur con una certa diffidenza, dovettero girare per la città con un cero in mano per essere sempre identificati. L’ultimo capitolo di Storia di Gerusalemme è intitolato La capitale impossibile e si chiude su una domanda emblematica che l’ulivo millenario lancia attraverso i suoi rami: «Che aspetto avrà la mia amata Gerusalemme tra cinquanta o cinquecento anni?» E subito aggiunge «Sono sufficientemente disilluso da non avere alcuna certezza…»
Bibliografia
Vincent Lemire e Christophe Gaultier (trad. Anna D’Elia), Storia di Gerusalemme Einaudi, 2024, pp. 256.
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Ely Riva, fotografo delle montagne
Primi piani ◆ Nel corso delle sue camminate, col dono dell’intelligenza dello sguardo, immortala da sempre paesaggi, piante, animali, e i segni dell’uomo lasciati lungo i secoli negli spazi che attraversa
Stefano Spinelli
Non lontano dal laghetto di Origlio, della cui fauna e flora è un fine conoscitore tanto da avergli dedicato un notevole libro, abita il fotografo Ely Riva. Spirito libero, vivace e curioso, gli piace comunicare e condividere con altri le sue conoscenze. Ed è proprio questo uno degli aspetti che più caratterizza il suo fare fotografico. Oltre che per un proprio piacere personale, infatti, Ely identifica la funzione della fotografia – nelle dovute forme – col comunicare ad altri la realtà per come è, nel suo spontaneo presentarsi e divenire. Si è detto «nelle dovute forme» in quanto compito del fotografo è di saper cogliere «questa realtà» facendo in modo che l’immagine prodotta abbia presa sull’osservatore. Così non fosse, sarebbe un’immagine sprovvista d’interesse: «È quello che devi saper fare, perché se una fotografia non dice, non ti parla, non serve a niente, la si butta nel cestino».
Del buon andamento di questo processo creativo, tanto importante è la qualità dello sguardo del fotografo quanto la conoscenza che ha della realtà – di cui lo sguardo, in ultima analisi, è il prodotto. E a Ely queste peculiarità non mancano. D’istinto, il suo è uno sguardo capace d’inquadrare in modo incisivo, talvolta anche nel brevissimo tempo disponibile per lo scatto. Come giustamente lui stesso riconosce, quello che ha è un dono ricevuto: «L’importante è questo, comunicare agli altri. Io ho ricevuto un dono, questo dono non lo devo tenere lì, lo devo fare vedere agli altri, devo sfruttarlo per gli altri, per rendere felici gli altri». Insomma, per far conoscere il mondo, la sua bellezza, la sua diversità, la sua storia, attraverso le innumerevoli immagini che realizza.
Sono oltre settecento (cioè tutte, tranne una) le vette conquistate da Ely Riva in tanti anni di escursioni lungo i pendii e i crinali delle nostre montagne
Oltre al dono dell’intelligenza dello sguardo, Ely ha quello della curiosità, del voler cogliere e approfondire la complessità del reale. Che sia – per fare un paio d’esempi – imparando a riconoscere gli uccelli distinguendone il canto («quando conosci i primi quaranta, dopo è facile distinguere tutti gli altri. Però, conosci i primi quaranta versi degli uccelli…»), oppure approfondendo la nostra storia attraverso la ricerca, la lettura e la traduzione – dal latino, lingua di cui è appassionato – di antiche pergamene scovate
frequentando archivi locali. Anche in questo modo svela la realtà che incontra e fotografa: «Nei documenti, nelle pergamene, che cerco per riuscire a capire, trovo quasi sempre una risposta alla domanda che mi sono posto». Tanto studio e letture: la sua sete di sapere è viva, vasta e sempre pronta ad accettare nuove sfide. Questa sua curiosità, ci dice, è innanzitutto frutto degli insegnamenti ricevuti dai genitori. Che, fin da piccolo, lo educano alla conoscenza della natura, delle tante forme di vita presenti nell’ambiente in cui cresce – piante, erbe, funghi, tutto quello che si trovava nella campagna del Guasto di Montagnola in cui vivevano – rendendolo sensibile alle dinamiche che reggono la natura e al rispetto che a questa dobbiamo portare. Accendendo nel contempo, attraverso questa educazione d’ordine sentimentale nei confronti della natura, il suo gusto estetico, la capacità di guardare al mondo attraverso le categorie della bellezza.
Già da ragazzo sviluppa le sue due grandi passioni, quelle della fotografia e della montagna, che farà poi sempre convivere: «Ho ancora delle fotografie fatte a 17 anni, quando sono stato per la prima volta sul Basodino, da solo […] Quando avevo 19 anni ero già salito una ventina di volte sul Monte Rosa da tutte le sue parti». Tantissime saranno negli anni le escursioni realizzate lungo i pendii e i crinali delle nostre montagne – riuscendo a conquistarne tutte le cime, oltre settecento!, a parte una – in compagnia della sua immancabile attrezzatura fotografica. E molteplici i libri e gli articoli che di queste esplorazioni diverranno racconto scritto e visivo (visitate il suo sito www.elyriva.ch per averne uno spaccato, o per una delle tante e varie serie di fotografie).
Nel corso delle sue camminate, nella molteplicità delle luci più o meno favorevoli che l’accompagnano, fotografa paesaggi, piante, animali, i segni dell’uomo lasciati lungo i secoli negli spazi che attraversa. Tra questi, ad esempio, le coppelle che s’incontrano, sparse nel territorio, scavate nelle rocce. O i muretti a secco trovati in luoghi inattesi. Sono cacce che richiedono acume, furbizia, prontezza e talvolta pure tanta pazienza, lunghi e solitari appostamenti in ricove-
ri sistemati alla bell’e meglio in attesa della giusta luce e del giusto momento. Ma anche una certa dose di fortuna. Innumerevoli, nel corso dell’intervista, sono gli aneddoti e i trucchi adottati che ci narra per descrivere
come sia riuscito a catturare certe immagini. In questo spazio limitato non avrebbe senso provare a riassumerli. Sarebbe bello, invece, che di questi un giorno ne facesse un libro. Affaire à suivre
Approfittate
Ma Ely non solo scatta, nel suo muoversi incontra anche gli spunti da cui nascono nuove piste da seguire e approfondire, sulle quali riflettere studiando, costruendo così il suo percorso fotografico, di occhio e pensiero in azione. Certo, la sua attività professionale di fotografo – del tutto autodidatta! – non si riassume solo nell’amata osservazione della natura, che da sé probabilmente non sarebbe bastata per sovvenire ai bisogni che la vita comporta. Molteplici sono i campi in cui Ely ha esercitato il suo estro fotografico. Foto d’arte, di reportage, giornalistica, finanche matrimoniale – settecento i matrimoni fotografati nel corso della sua carriera: niente pose, grazie! Solo l’evento nel suo estemporaneo e imprevedibile divenire, perché la fotografia è verità, da non sfalsare arrestando il flusso della vita con delle pose. Sono tutti ambiti che ha frequentato sempre con amore, mai per obbligo, mai col sentimento di esser soggetto a un lavoro. Ma solo alla passione. Se vogliamo, è proprio la passione – per la magia dello sguardo, per la potenza della luce e per la bellezza del mondo che in essa si bagna – la chiave con cui riuscire a leggere la mole di lavoro che Ely Riva negli anni ha realizzato. Passione per la realtà. E per la fotografia, che ce la racconta.
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Silvio Soldini e la sua favola filmica
Editoria ◆ Narrazioni cinematografiche tra realtà e magia nel nuovo saggio di Domenico Lucchini, dedicato a quarant’anni di carriera del regista milanese di origini ticinesi
Nicola Falcinella
È un cinema singolare quello di Silvio Soldini, regista milanese d’origini ticinesi. Un percorso cominciato con gli studi alla New York University e il corto di diploma Drimage (1982) e che arriva all’imminente Le assaggiatrici, tratto dal romanzo di Rossella Postorino e in uscita nel 2025.
La sua carriera quarantennale è ripercorsa nell’approfondito libro Magico realismo scritto da Domenico Lucchini, già autore di pubblicazioni su cineasti svizzeri di punta ( Alain Tanner e Villi Hermann), nonché già direttore del Centro culturale svizzero di Milano, dell’Istituto culturale svizzero di Roma e del Cisa di Lugano/Locarno.
Magico realismo esplora la carriera di Soldini, offrendo un focus sui suoi temi ricorrenti e sul suo rapporto con i collaboratori
Un bell’approfondimento, molto dettagliato film per film, da poco pubblicato da Armando Dadò Editore. La prefazione, non di circostanza, è a cura di Piera Detassis, già direttrice di «Ciak» e presidente della Festa del cinema di Roma, ora presidente dell’Accademia del cinema italiano che assegna i David di Donatello. Una prolusione con preziose osservazioni e annotazioni che stimolano alla lettura e aiutano a inquadrare la figura e l’opera di Soldini e lo studio di Lucchini. Il volume comprende analisi dettagliate e schede di tutti i lavori, uno per uno, divisi in: 6 cortometraggi, tre film di montaggio, 17 documentari, 2 mediometraggi e 11 lungometraggi. E ancora una sezione corposa dedica-
ta ai «topoi soldiniani», gli elementi cardine o ricorrenti della sua poetica, quelli evidenti e quelli più nascosti: gli oggetti, i paesaggi, la suissitudine, il viaggio tra fuga e ritorno o il rapporto tra realtà e favola che conduce alla definizione di «magico realismo». A concludere la pubblicazione c’è una lunga e interessante intervista con il regista, che Lucchini incontrò per la prima volta al Festival di Locarno del 1983 quando fu presentato in concorso il mediometraggio
Paesaggio con figure. Un titolo ripreso da un racconto di Ernest Hemingway e che suggerisce l’idea di «natura morta», pittorica, dei primi film del cineasta, nei quali l’ambientazione, le atmosfere e i suoni preva-
levano sui personaggi e sulla trama. Il saggista accompagna il lettore a seguire l’evoluzione del cinema di Soldini e il suo avanzare verso realizzazioni dove le persone sono sempre più significative, senza mai trascurare l’ambiente e il contesto in cui vivono, spesso motore, anche casuale (all’opera del caso e alla sintonia con il polacco Krzysztof Kieślowski, sono dedicate pagine gustose e stimolanti), del loro agire. Si parla così del lungo sodalizio con il direttore della fotografia Luca Bigazzi, dai loro inizi insieme accomunati dalla voglia di fare qualcosa di diverso rispetto al cinema italiano di quel periodo fino a Brucio nel vento del 2002. Si affronta il discorso delle influen-
Il sogno americano di Anora
ze, da quelle più evidenti nei primi lavori – Wenders, Godard o Tanner, cineasti che tornano spesso nei discorsi – ad Antonioni, Ozu, Bresson e Akermann o gli influssi letterari, curiosamente quasi tutti europei per quanto riguarda il cinema e americani per la letteratura. Lucchini sviscera il passaggio dai primi lavori più asciutti, freddi e minimalisti alle commedie più astratte o sognanti, «magiche» appunto, come Pane e tulipani che nel 2000 gli diede il grande successo di pubblico o Agata e la tempesta Commedie che nascono fuori dal solco dalla tradizione italiana, come spiega lo stesso regista nella conversazione. Cruciale e rivelatrice delle intenzioni di Soldini è stata la scel-
Cinema ◆ Sean Baker, con il film Palma d’Oro a Cannes, mette in scena una protagonista che ribalta il valore della scalata sociale tanto caro agli Stati Uniti
Nicola Mazzi
Una Palma d’Oro inaspettata per un film sorprendente e inatteso. Si potrebbe riassumere in questo modo Anora di Sean Baker che, in maggio, si è portata a casa il premio più prestigioso alla 77esima edizione del festival di Cannes, e visibile, in questi giorni, anche nelle nostre sale.
Potrebbe pure puntare anche a qualche Oscar in marzo, perché è un’opera multiforme, frastagliata e stratificata. Dove il cambio di registro è parte integrante della narrazione e passa dalla commedia al dramma sino a quello romantico, in modo del tutto naturale.
Il regista affronta, in modo molto personale, la grande ossessione dei narratori statunitensi: il mito del sogno americano. E cioè la speranza che attraverso il lavoro e la determinazione sia possibile raggiungere un migliore tenore di vita e la prosperità economica. Ecco, noi seguiamo le vicende di una spogliarellista, di origine russa, esperta in lap dance che intrattiene i clienti con i suoi servizi a pagamento. Abita in una casa nella periferia di New York, vicino a una rumorosa linea della metro e sogna
una vita migliore. Una Cenerentola dei nostri tempi, o forse più precisamente una Pretty Woman del 2024.
Un giorno nel locale dove lavora arriva Ivan, un ragazzo russo che si entusiasma di Anora (ma lei preferisce farsi chiamare Ani) e dei suoi molti talenti fisici. Decide perciò di invitarla a casa sua, una megavilla, dove scopre che il ragazzo è figlio unico di un oligarca russo. Tra i due nasce una bella intesa, tanto che lui decide di portarla a Las Vegas e di sposarsela. Con questa ennesima malefatta di Ivan, però, non sono per nulla d’accordo i genitori di lui, e inviano tre improbabili «uomini di fiducia» per recuperare il figlio e riportarlo sulla retta via.
Se nella prima parte la pellicola procede in modo fluido e classico, come in una qualsiasi Una notte da leoni, nella seconda arrivano le sorprese. Il ritmo si fa ancora più frenetico e inizia una serie di gag in cui il corpo viene usato come in una slapstick comedy (in voga soprattutto nel cinema muto), dove le azioni sono esagerate fino al limite del surreale. Gag basate soprattutto sulla grande caratterizza-
zione dei personaggi e l’adesione recitativa dei protagonisti. In questo senso Ani (Mikey Madison) è davvero adeguata al ruolo. È il perno del film, e i vari registri, che mutano nel corso delle 2 ore e 10, si adeguano in base a quello che le capita. All’inizio la vediamo disincantata e furba, intenta a racimolare più mance possibili, poi, cambia atteggiamento e s’innamora di quello che lei vede come un ragazzo ricco, ma an-
ta di non trasferirsi a Roma e lavorare a Milano (molto spesso in coproduzione con realtà ticinesi e svizzere) con budget più piccoli, restando decentrato, scegliendo temi e modalità produttive diverse dal mainstream. In questa maniera ha potuto scegliere gli attori, non tra quelli di richiamo imposti dalle produzioni, ma quelli più adatti ai personaggi o con cui ha creato solide collaborazioni, spesso lanciandoli (Giuseppe Battiston) e reinventandoli (Bruno Ganz in un ruolo da commedia) o regalando loro personaggi indimenticabili (da Valeria Golino a Licia Maglietta). Centrale è il lavoro con gli attori, che Soldini matura e affina da un film all’altro, come lo è quello con tutti i collaboratori, a partire dalla cosceneggiatrice Doriana Leondeff.
L’opera di Soldini resta molto ancorata alla realtà, anche quella sociale, con uno sguardo che si può ritenere politico pur senza esserlo dichiaratamente: il rifiuto di adeguarsi alla vita frenetica delle metropoli, l’attenzione al diverso (la ragazza rom di Un’anima divisa in due), la crisi economica e di coppia legata al lavoro (Giorni e nuvole) o la disabilità.
Della contemporaneità, il regista sa cogliere le profonde inquietudini, in particolare dei personaggi femminili, e i desideri di evadere o di partire. Un libro, il primo in Svizzera sull’autore, completo e illuminante, che colloca Soldini in una posizione di primo piano nel cinema d’autore europeo di questi decenni.
Bibliografia
Domenico Lucchini, Magico realismo – Il Cinema di Silvio Soldini, Dadò Editore, 2024, 424 pag.
che ingenuo e buono. Per poi cambiare ancora e diventare aggressiva e protettiva. Fino all’ultima, commovente e intensa svolta che non riveliamo. Un’interpretazione a 360 gradi che risalta la bravura, l’eclettismo e la grande forza di Madison-Anora. Torniamo al sogno americano perché il film parla di un tema profondo e che appartiene al DNA, oggi più che mai, degli States. Questa è una storia che ricorda quella di personaggi partiti
dal nulla e che vogliono emergere dalla massa, un po’ come i protagonisti di Rocky e La febbre del sabato sera. In apparenza segue lo stesso percorso, tuttavia Baker, in modo molto intelligente, mette in discussione il credo nell’American Dream. Lui racconta una generazione che lavora in un parco di divertimenti di quarta categoria, che sogna Disneyworld (l’ascesa sociale) ma che, così facendo, perde di vista quello che è; nel proprio profondo, nell’intimo. In sostanza, vede il sogno come un’illusione nella quale perdersi. Ed è proprio questo l’aspetto più interessante di Anora. La critica al sistema americano viene fatta utilizzando gli strumenti usati per raggiungerlo.
È un film generazionale perché Sean Baker ci dice: una soluzione per raggiungere una nuova autenticità (senza basarsi su sogni fasulli e irraggiungibili) i giovani l’hanno e il suo nome è Anora. Anzi, come direbbe lei, Ani.
Filmografia Sean Baker, Anora Universal Pictures, 2024; Palma d’Oro a Cannes
Silvio Soldini sul set del nuovo film Le assaggiatrici, la cui uscita è prevista nel 2025.
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Bryan Campbell e il potere dell’imperfezione
Incontri ◆ A colloquio con l’artista statunitense, che propone un insolito pas de deux tra essere umano e natura
Muriel Del Don
Deep Cuts, ultima tagliente ed euforizzante utopia eco queer del coreografo statunitense basato a Parigi Bryan Campbell, ci spinge a osservare la natura come non avevamo mai fatto prima. Durante lo spettacolo, la tenerezza si unisce alla violenza in un pas de deux improbabile tra antropocene ed ecosistema, sorta di battaglia all’ultimo sangue per trovare un equilibrio dal sapore utopico. Sì, perché quello che caratterizza l’universo artistico di Campbell è proprio la messa in scena di utopie che permettono al pubblico di confrontarsi con i propri limiti, con stereotipi e false certezze che inquinano in modo furtivo il loro quotidiano.
Deep Cuts (tagli profondi, ndr) nasce da un incontro inaspettato, durante una passeggiata in una foresta, tra il coreografo e un albero. Improvvisamente, una sorta di furia inaspettata lo spinge a colpirne ripetutamente il tronco con un ramo. Anziché reprimere questa sensazione di benessere, ma anche di rabbia, Campbell decide di ritrascriverla su scena, di affrontare i sentimenti positivi ma anche negativi, di dominazione e superiorità, che lo legano al mondo fisico. Sorta di coreografia romantico-erotica-forestale in chiave queer, Deep Cuts esplora il rapporto complesso che gli esseri umani intrattengono con l’ecosistema. Amore e violenza si alternano su scena in modo inaspettato in un andirivieni BDSM di emozioni a fior di pelle. Campbell balla, canta e urla accompagnato da musiche pastorali barocche che trasforma in inni di rivolta contro una società che ci vorrebbe tutti e tutte mansueti e sottomessi. Deep Cuts punge, morde e ferisce come uno schiaffo che si trasforma in carezza. Abbiamo avuto l’occasione di discutere con il coreografo del suo universo artistico in appendice al Festival de la Bâtie di Ginevra.
Cosa la ispira artisticamente e la spinge a creare?
Mi piacciono molto le domande alle quali non so dare una risposta, o per lo meno una risposta univoca. Artisticamente, ho bisogno di confrontarmi con tematiche ricche, che mi stimolino e ispirino sul lungo termine. Più in particolare, mi piace molto confrontarmi con pratiche artistiche che non conosco, perdermi per poi ritrovarmi. In Deep Cuts, per esempio, affronto il mondo del cantau-
torato. Non è la prima canzone che scrivo, ma è la prima volta che creo uno spettacolo a partire da canzoni originali. Per ritornare a quello che mi ispira, per Deep Cuts, centrale è stato l’incontro con un albero che mi ha stimolato intellettualmente, ma anche da un punto di vista corporeo. Come unire erotismo e violenza in un rapporto che implica il non umano, o ancora, come rileggere l’ecologia alla luce di questo rapporto? Quello che ho provato a livello emotivo e corporeo durante questo incontro è stato molto importante nella costruzione del mio spettacolo. Tutto ciò si trasforma in terreno fertile di riflessioni, in un condensato di emozioni che ricordo di aver provato da bambino e che continuo a provare ancora oggi.
Deep Cuts ci fa riflettere sulla relazione, spesso sadica, che intratteniamo con l’ecosistema (ma non solo). Da dove nasce quest’idea e qual è il suo rapporto con la natura? Indubbiamente la natura mi ispira. Vivo in città, a Parigi, ma faccio parte di alcune associazioni queer che organizzano ritrovi nella natura. Si tratta di luoghi che incarnano lo spirito di un’intera comunità. Queste associazioni sono state molto importanti non solo per la genesi di Deep Cuts, ma anche per me in quanto individuo e artista. Sono cresciuto accanto a una piccola foresta che da bambino vedevo come un laboratorio dell’immaginario. Mi immaginavo già artista, coreografo, sognavo i miei spettacoli futuri. Giocavo da solo, ma la mia creatività non aveva limiti. Per questo mi piace ritrovarmi solo quando creo, fare delle residenze anche non istituzionali ma autofinanziate durante le quali parto solo in bicicletta in mezzo alla natura.
Che ruolo occupa il suo vissuto nella creazione degli spettacoli? Il mio lavoro è sempre più personale e a volte frontalmente autobiografico. In molti dei miei spettacoli racconto la mia vita, anche se Deep Cuts è leggermente romanzato. A volte il personaggio su scena mi rappresenta, altre volte no, a volte invece realtà e finzione si mescolano. Quello che mi interessa è mettere in scena qualcosa di personale, perché per me è l’unico modo per essere sincero. Il mio approccio coreografico deve essere
ancorato alla mia esperienza personale per avvicinarsi a una sorta di verità che possa difendere e rappresentare. Questo mi permette di attivare una specie di intimità con il pubblico, di coinvolgerlo e farlo accedere al mio mondo.
Che relazione intrattiene con il pubblico?
Mi piace scuoterlo, ma anche sedurlo. Mi rendo conto che nei miei spettacoli c’è molto umorismo e una buona dose di seduzione. Affronto tematiche crude ma in modo a volte più «accessibile» per le persone che hanno bisogno che la «scossa» sia un po’ più dolce. Penso sempre al pubblico quando creo le mie coreografie, che sono al contempo violente e seducenti.
L’umorismo, l’autoironia, la presa in giro «camp» sono effettivamente molto preseti in Deep Cuts. Può dirci qualcosa di più a proposito?
Sono una persona molto insicura e l’umorismo mi permette di rassicurarmi dicendomi che il pubblico mi ama. Se lo faccio ridere deve per forza amarmi. Se consideriamo l’umorismo in chiave camp come una sorta di travestimento drag, allora sì, vedo dei legami con il mio lavoro coreografico. Potrei immaginare una versione di Deep Cuts in cui insisto
ancora di più sull’aspetto camp attraverso delle performances drag king, in cui esagero l’aspetto virile, da boscaiolo, del mio personaggio. Anche se lo esprimo in modo meno caricaturale, quello che condivido con il drag è la voglia di sovvertire e decostruire gli stereotipi eteropatriarcali proponendo la mia personale utopia di genere.
Quello che mi piace particolarmente in Deep Cuts è la rappresentazione scenica di una mascolinità che si prende allegramente gioco e che decostruisce gli stereotipi che gli sono associati. Il suo corpo, atipico e ribelle, sembra infatti rivendicare la sua differenza. È d’accordo con questa interpretazione?
Anche nelle mie creazioni precedenti mi sono interessato e ho incarnato le differenti forme di potere di cui la mascolinità fa parte. Nella mia prossima creazione, che sarà un duo, lavorerò su Moby Dick di Herman Melville, un’opera basata quasi esclusivamente su personaggi maschili. Per la rappresentazione scenica sono stato guidato dalla lettura che Camille Paglia, scrittrice femminista americana, fa del romanzo. Si tratta di un romanzo in cui il tema della mascolinità è centrale. Anche se non ho ancora deciso esattamente come, nel mio prossimo spettacolo continuerò a esplorare que-
sta tematica, magari cimentandomi nell’arte drag (drag king).
C’è qualcosa, nella scena artistica contemporanea che la disturba o al contrario tematiche che non sono abbastanza rappresentate? Nel campo della danza il corpo è centrale, è messo in mostra, ogni epoca e cultura ha il suo «bel corpo», più o meno muscoloso e longilineo, la sua «morfologia perfetta». Sebbene i criteri cambino, il corpo rappresentato su scena deve essere bello e in salute. Dei corpi su scena ne parlano non solo gli artisti, ma anche il pubblico che critica e compara gli interpreti su scena stilandone una spietata lista di preferenze. Si tratta di stereotipi che cerco di decostruire attraverso il mio proprio corpo. In Deep Cuts, per esempio, il mio corpo, per così dire diverso, si muove con movimenti propri alla danza classica. Facendo ciò, creo una danza politica che trovo magnifica malgrado le mie insicurezze. Anche se non sono il più grande ballerino classico al mondo, propongo al pubblico una danza che è mia, e lo faccio con il mio corpo. Abbiamo il diritto di mostrare corpi «imperfetti», così come abbiamo il diritto di mostrare la violenza che ci abita. In Deep Cuts volevo far coabitare la violenza e l’ecologia in un solo e unico spettacolo.
Bryan Campbell in Deep Cuts (batie.ch)
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I corpi dei fratelli de Witt
Tesoro nascosto ◆ Ad Amsterdam una tela politica che suscita profondo orrore Gianluigi Bellei
Nel XVII secolo i Paesi Bassi vivono il loro periodo migliore. Lo sviluppo economico, una repubblica decentralizzata, il pluralismo religioso e la migliore compagnia navale – le navi olandesi fanno rotta verso l’Asia, l’Africa, l’America – ne fanno uno dei Paesi più ricchi al mondo. Libertà, uguaglianza, benessere, tramite il commercio e la navigazione, prosperano anche fra la gente comune. Un «laboratorio intellettuale», è stato scritto. L’arte si sviluppa in ogni luogo creando ricchezza e paradossalmente, mediante l’enorme concorrenza, doppi lavori. A parte Rembrandt, alla fine travolto da un fallimento, tutti gli artisti fanno un altro mestiere. Jan Vermeer gestisce una locanda, Jan Steen fa il mastro birraio, Jan van Goyen coltiva tulipani, Meindert Hobbema lascia la pittura per fare il sommelier. In ogni casa si trovavano dei dipinti; sia in quelle dei ricchi sia in quelle più umili di panettieri e macellai. In questo «Secolo d’oro» vengono dipinti cinque milioni di quadri. Fino al 1672, quando Luigi XIV invade l’Olanda.
Questa storia si può leggere attraverso gli oggetti e le tele presenti al Rijksmuseum di Amsterdam. Dal gigantesco Banchetto di celebrazione della firma del trattato di pace di Munster a opera di Bartholomeus van der Helst del 1648 all’imperdibile Compagnia del capitano Frans Banning Cocq nota come La ronda di notte di Rembrandt van
Rijn del 1642. Un ritratto delle guardie civiche della compagnia degli archibugieri in movimento, emozionante e spettacolare. Un capolavoro. Ma è un altro il dipinto di cui vorrei argomentare. Si tratta de I corpi dei fratelli De Witt del 1672-1675 attribuito a Jan de Baen. Un dipinto vertiginosamente sanguinario, al limite dell’inguardabile.
Vediamo chi sono i protagonisti. Jan de Baen, o Johannes de Baan, (16331702) nasce ad Haarlem; all’età di tre anni, dopo la morte dei genitori, viene affidato allo zio Piemans, pittore. Alla morte di quest’ultimo a 13 anni va ad Amsterdam per lavorare nello studio di Jacobus de Backer. Si trasferisce all’Aia e diviene membro della Corporazione dei pittori di San Luca. De Baen è conosciuto soprattutto come ritrattista e per questo viene invitato in Inghilterra e nel Lussemburgo. Suoi i ritratti di Henri de la Trémoille, dell’ammiraglio Tromp, di Thaddeus de Lantmann, dei principali esponenti della casata di Nassau e vari ritratti dei fratelli Johan e Cornelis de Witt. Johan nasce nel 1625 a Dordrecht dove diventa pensionario, una carica pari a quella di primo ministro. Studia giurisprudenza e matematica. Prima va a Leida e in seguito ottiene un dottorato all’università francese di Angers. Viene considerato il capo del partito dei reggenti olandesi antiorangisti. Un uomo politico brillante ed eloquente, uno dei pochi a non far parte di una monarchia. Una vita in-
faticabile di mediazione. La pace di Breda del 1667, da lui negoziata e che pone fine alla seconda guerra anglo-olandese, ne è un esempio. Nel 1655 riesce ad abbassare il tasso di interesse del Paese dal 5 al 4%. Cornelis nasce nel 1623, anche lui studia giurisprudenza. Nel 1654 viene nominato governatore dell’isola di Putten. Personaggio molto superbo è odiato dal popolo perché antiorangista. Nel 1672 viene accusato di incitare all’attentato contro la vita di Guglielmo III, già proclamato statolder, una sorta di governatore, e per questo incarcerato. Nel 1672 Francia, Inghilterra, Münster e Colonia invadono l’Olanda. Il popolo ritiene che solo Guglielmo d’Orange possa salvare la patria. Il 20 agosto Johan visita il fratello in carcere. Una folla inferocita entra nella prigione, i De Witt vengono condotti in strada e uccisi. I corpi sono mutilati, appesi a testa in giù e fatti a pezzi. La scena è terribile. Hendrik Verhoeff scrive che vengono tagliati le mani, le dita, i nasi e le orecchie. Il poeta Joachim Oudaen, testimone oculare, sostiene che parte dei loro intestini viene mangiata e altra data ai cani. Sembra uso comune dopo i linciaggi portarsi a casa pezzi delle persone uccise. Alexandre Dumas padre ne Il tulipano nero del 1850 scrive nella traduzione di Sara Arena: «Del resto rimaneva poco da vedere perché un terzo assassino gli tirò a bruciapelo un colpo di pi-
stola che stavolta partì e gli fece saltare il cranio. Johan de Witt cadde per non rialzarsi più. Allora ognuno di quei miserabili, ringalluzziti dalla sua caduta, volle scaricare la sua arma sul cadavere. Ognuno voleva dare un colpo di mazza, di spada o di coltello, ognuno voleva far versare la sua goccia di sangue, strappare un lembo di abiti. Poi, quando furono tutti e due dilaniati, straziati, depredati, la folla li trascinò nudi e sanguinanti a una forca improvvisata dove boia improvvisati li appesero per i piedi. Allora si fecero avanti i più vigliacchi che, non avendo osato colpire la carne viva, fecero a pezzi la carne morta e se ne andarono a vendere in giro per la città dei pezzetti di Johan e di Cornelis a dieci soldi l’uno». Il dipinto rappresenta la scena terminale del drammatico teatro dell’orrore, quando oramai tutto è finito.
Siamo in piena notte, il cielo è cupo e dall’ombra fuoriescono i corpi dei due fratelli appena rischiarati dalla luce di una torcia. Appesi a testa in giù con gli evidenti segni degli smembramenti e quant’altro. La composizione è prettamente verticale e la risoluzione dell’immagine particolarmente curata. De Baen ha quarant’anni ed è nel pieno della maturità. Guardatelo attentamente questo dipinto; dopo gli sfarzi e l’opulenza dei decenni precedenti ora la vita si trasforma in devastazione e orrore.
Dove I corpi dei fratelli de Witt attribuito a Jan De Baen 1672-1675 circa, olio su tela, cm 69,5 x 56 Rijksmuseum Amsterdam www.rijksmuseum.nl
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Jan de Baen, I corpi dei fratelli de Witt, 1672.
GUSTO
Biscotti di Natale
Pronti, partenza, via!
Un profumo di cannella, vaniglia e anice si diffonde nell’aria. Desideriamo mangiare tutti i biscotti, ma se il tempo è poco, le paste pronte ci aiutano, creando una magica atmosfera di dolci fatti in casa.
Testo: Claudia Schmidt
Kipferl alla vaniglia
Per ca. 36 pezzi
275 g di farina
3 bustine di zucchero vanigliato da 10 g
75 g di zucchero a velo
100 g di mandorle spellate macinate
2 baccelli di vaniglia o cucchiaino di pasta di vaniglia
200 g di burro freddo
2 tuorli
Per spolverizzare
50 g di zucchero a velo
1 bustina di zucchero vanigliato da 10 g
1. In una scodella mescolate la farina con lo zucchero vanigliato, lo zucchero a velo e le mandorle. Incidete i baccelli di vaniglia ed estraete i semini raschiandoli. Tagliate il burro a pezzetti e mescolatelo con la farina, insieme con i semini di vaniglia e i tuorli. Impastate sfregando con le mani fredde, poi compattate l’impasto e formate due rotoli di 4 cm Ø. Avvolgeteli nella pellicola trasparente e metteteli in frigo per ca. 30 minuti.
2. Estraete un rotolo dal frigorifero e tagliatelo a fette di ca. 1 cm. Formate prima delle palline, poi modellate dei rotolini lunghi ca. 5 cm, con le estremità leggermente appuntite, e curvateli a ferro di cavallo. Disponete i kipferl su una teglia foderata con carta da forno e metteteli in frigo. Procedete allo stesso modo con il resto della pasta.
3. Scaldate il forno ventilato a 160 °C. Cuocete i biscotti per ca. 12 minuti. Mescolate lo zucchero a velo con lo zucchero vanigliato. Sfornate i kipferl e passateli ancora caldi in abbonante zucchero a velo vanigliato, oppure spolverizzateli con abbonante zucchero a velo vanigliato, poi lasciate raffreddare.
Ricetta
Biscotti allo zenzero e alla limetta con pistacchi
La glassa alla limetta e i pistacchi tritati danno brio ai biscotti preparati con la pasta allo zenzero e al limone, che sorprendono occhi e palato.
Alla ricetta
Girandole di milanesini alla cannella
Con la pasta per milanesini e quella per stelline alla cannella, preparerai in modo semplice e veloce dei biscotti bicolore, con due gusti che deliziano il palato.
Alla ricetta
Grandi
stelle alla cannella
Più son grandi, più bontà regalano! Le stelle alla cannella giganti decorate con granella di zucchero e perline argentate fanno bella mostra sui pacchetti.
Alla ricetta
Biscotti al caramello salato
Per ca. 22 pezzi
500 g di pasta al caramello salato ca. ½ busta di glassa al cioccolato scura 1 cucchiaio di mandorle tostate
1. Scalda il forno statico a 180 °C. Stendi la pasta tra due fogli di carta da forno a uno spessore di ca. 7 mm. Ritaglia i biscotti, ad es. delle stelle. Accomodali in teglie foderate con carta da forno, distanziandoli un po’. Cuoci i biscotti, una teglia alla volta, al centro del forno per 7-10 minuti, a seconda della grandezza. Lasciali intiepidire nella teglia e poi falli raffreddare su una griglia da cucina.
2. Per la decorazione, fai sciogliere a bagnomaria la glassa al cioccolato nel sacchetto. Trita finemente le mandorle. Taglia un angolino del sacchetto di glassa al cioccolato. Con movimenti rapidi distribuisci la glassa sui biscotti. Cospargili subito con un po’ di mandorle. Lasciali consolidare.
Creste all’anice
Con il caffè, ma anche con una birra o un bicchiere di vino rosso, le creste all’anice poco dolci e un po’ amare piacciono anche ai meno golosi.
Alla ricetta
Ricetta
Risparmiate tempo con le paste già pronte
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Pasta caramello salato Anna’s Best
500 g Fr. 4.35
Pasta per biscotti zenzero e limone Anna’s Best 500 g Fr. 4.40
Lasciali raffreddare
I biscotti dovrebbero raffreddarsi prima di essere decorati, altrimenti le glasse coleranno dove non devono.
La glassa
Per la preparazione della glassa sono necessari zucchero a velo e del liquido. Poiché la glassa si fluidifica rapidamente, versa all’inizio solo un po’ di liquido e poi aggiungilo goccia a goccia fino a ottenere la consistenza desiderata. Per le superfici utilizza una glassa fluida che possa essere stesa in modo uniforme. Per i punti e le scritte dovresti impiegarne una più densa.
La glassa al cioccolato
Sciogli il cioccolato a bagnomaria per evitare che la glassa si bruci. Assicurati che non entri acqua nel cioccolato, altrimenti si formano dei grumi e non si può più lavorare bene la glassa. Una volta sciolto il cioccolato, lascialo raffreddare a circa 30 gradi in modo che sia bello lucido. Per una glassa particolarmente liscia, puoi aggiungere poco meno di un cucchiaino di olio di cocco per 100 grammi di cioccolato. Tra l’altro, per le e i principianti è particolarmente adatto il cioccolato bianco, perché è più facile da lavorare: non diventa grigiastro e rimane liscio più a lungo.
GUSTO
Biscotti di Natale
Ecco come decorare i biscotti in tutta semplicità
Per decorare i biscotti non c’è bisogno di fare magie. Ti diamo dei consigli su come evitare gli inconvenienti e mascherare gli errori in modo perfetto.
Tasca da pasticciere
Per superfici piuttosto grandi ti consigliamo di utilizzare una normale tasca da pasticciere con beccuccio fine. Per i lavori più delicati, è perfetta una tasca da pasticciere fai da te realizzata con la carta da forno, che si può piegare facilmente. Questo video su migusto. ch ti mostra come fare:
Fai una prova sulla carta da forno
Innanzitutto esercitati a effettuare le decorazioni con la tasca da pasticciere su un pezzo di carta da forno fino a quando non trovi la giusta pressione. Eviterai così di fare degli errori.
Tempo di asciugatura
Se per le decorazioni utilizzi una glassa di colori diversi, lascia ai singoli colori il tempo necessario per asciugarsi, altrimenti si disperderanno.
Maschera gli errori
La glassa non è venuta come volevi? Quando inizia ad asciugarsi, cospargila con codette colorate o di cioccolato per abbellirla. Anche con le noci macinate, le mandorle a scaglie o i pistacchi tritati si nascondono velocemente i pasticci fatti con la glassa, donando ai tuoi biscotti un aspetto molto invitante, nonché una consistenza maggiore e un sapore nocciolato.
Testo: Claudia Schmidt
TEMPO LIBERO
I castelli del Trentino tra storia e mito
Alla scoperta di antiche fortezze costruite in luoghi strategici, testimoni di un passato ricco di battaglie, potere nobiliare e suggestive leggende che attraversano i secoli
Specialissimi ricami d’autunno
Un tutorial creativo per realizzare segnalibri unici utilizzando foglie del bosco, ideali per personalizzare i momenti di lettura e come regalo speciale
Autocross, il brivido che corre sullo sterrato
Adrenalina ◆ Il luganese Roby Ginevri, attualmente l’unico in Ticino a praticare questo sport, racconta la sua passione per i motori e il fuoristrada, nonostante i ricordi del passato
Il brivido e l’adrenalina della velocità allo stato puro. E, soprattutto, nella sua forma più originale, pur se adattata nel tempo. Parlare di autocross è un po’ come effettuare un salto a ritroso nel tempo, tornando a quando i motori rombavano su strade sterrate anziché su circuiti d’asfalto liscio come l’olio. Un ritorno agli antipodi, perché è appunto su questo genere di «strade» che sono nate, indistintamente, tutte le corse automobilistiche come le conosciamo oggi. Ed è ancora su queste che si corre appunto l’autocross, quello vissuto, ai massimi livelli nazionali, anche da Roby Ginevri, attualmente l’unico in Ticino a praticare questo sport: «A grandi linee, l’autocross è lo stesso sport che, a suo tempo, praticavano pure i vari Raffaele De Palma, Enzo Ferrari e via dicendo», riassume il 46enne luganese. «Perché, appunto, una volta le strade erano tutte un misto tra sterrato e asfaltato. L’autocross è una sorta di rivisitazione degli albori dell’automobilismo, pur evolvendo per quanto concerne gli aspetti legati alla meccanica e alla sicurezza sui circuiti. Rispetto alla Formula 1 e agli altri grandi appuntamenti motoristici, il bello di questo sport è che, al di là di tutto, ha saputo mantenere una dimensione più amatoriale. Non servono cifre astronomiche per organizzare un campionato come pure per poter correre anche se, va da sé, ognuno deve comunque riuscire a racimolare quanto basta per mettere a punto la sua vettura. E farlo senza una grande visibilità non è evidente…».
«...molte persone usano l’auto in modo molto più pericoloso di quanto non possa farlo chi pratica questo genere di sport»
C’è una data che Roby Ginevri non scorderà mai. È quella del 9 ottobre 1994, una domenica, il giorno in cui suo padre Vittorio perse la vita proprio in un incidente durante una gara di autocross, a Sedriano, in Lombardia: «Quel giorno avrei dovuto gareggiare anch’io per la prima volta, e per giunta con la stessa auto. Ma quel terribile incidente ha cambiato tutto. Per un po’ mi sono tenuto alla larga dal mondo delle gare motoristiche».
Poi, però, il richiamo dell’auto l’ha nuovamente irretito… «Quando ce l’hai nel sangue, la passione per i motori non te la togli più. Per qualche tempo è rimasta in un angolo dei miei pensieri, latente, anche perché ci ero confrontato quotidianamente con la mia professione di meccanico. Poi un giorno, sarà stato nel 2012, mi sono lasciato convincere a comperare una macchina da autocross. Ovvia-
mente il tutto all’oscuro di mia madre, che di certo non l’avrebbe presa molto bene… mi sono quindi avvicinato alle gare, e, vedendo che i risultati non tardavano a venire, ci ho preso gusto».
Nella bacheca personale di Roby Ginevri, fra gli altri trofei, spiccano due titoli svizzeri assoluti (2017 e 2019) e ben cinque di categoria, il Kartcross (una delle 15 categorie in cui si suddivide l’autocross), vinti nel 2016, 2017, 2019, 2022 e 2023. «A chi mi dà del “pazzo” per la scelta di tornare in pista, considerato il mio passato, rispon-
do che molte persone usano l’auto in modo molto più pericoloso di quanto non possa farlo chi pratica questo genere di sport. Anche perché qui sai perfettamente cosa fai, e vigono severe disposizioni in materia di sicurezza. Insomma, solo una fatalità può originare uno spiacevole incidente. Come appunto capitato quel 9 ottobre di trent’anni fa».
Un 1994 doppiamente tragico e significativo per il ticinese… «Qualche mese prima dell’incidente di mio padre, sulla pista di Imola perdevano
la vita Roland Ratzenberger prima e Ayrton Senna dopo. L’incidente fatale al brasiliano si verificò il 1° maggio, lo stesso giorno in cui, sedici anni prima, ero nato io. Così, quest’anno, a trent’anni di distanza dal 1994 funesto, ho deciso di correre con un’auto dipinta dei colori del pilota brasiliano. E la gara a cui ho partecipato con quella vettura l’ho stravinta! È vero che corro su una monoposto, ma quando sono in pista sento di non essere da solo nell’abitacolo».
Di prim’acchito, sembrerebbe che lo sprezzo del pericolo sia un requisito fondamentale per chi si mette al volante di uno di questi bolidi che sfrecciano su strade sterrate… «Fino a un certo punto: se ti attieni alle regole, i rischi sono minimi. La scarica di adrenalina che si prova, però, è notevole e costante, dall’inizio alla fine. L’apice lo si tocca alla partenza, al momento della staccata per affrontare la prima curva: su una pista sterrata non è facile capire quanto potrà essere l’aderenza effettiva della vettura, e lo stesso vale anche per gli altri piloti che sono lì a battersi per prendere il comando della corsa. A volte devi fidarti degli occhi e sperare che vada tutto bene. Prima di una gara faccio una passeggiata lungo il circuito per rendermi conto delle sue particolarità specifiche. Ma è molto relativo, perché diversi fattori possono influenzare le condizioni della pista. Se piove, poi,
le cose si complicano assai, al punto che girare in pista non è più un divertimento “puro”, ma una sfida logorante, giro dopo giro». Passato e difficoltà però non hanno fermato Roby Ginevri: «Volevo dimostrare di poter competere in questo sport. E dopo undici anni in pista, e parecchi successi, posso dire di esserci riuscito. L’anno scorso in tutte le gare a cui ho preso parte, il mio peggior piazzamento è stato un terzo posto. Quest’anno ho pure voluto alzare l’asticella, presentandomi con la mia auto al via di una prova della categoria superiore. E… ho vinto! È però vero che alla lunga il fatto di essere il solo a praticarlo a queste latitudini si fa sentire: sarebbe magnifico trovare altri ticinesi desiderosi di avvicinarsi all’autocross».
Le piste di autocross sono generalmente lunghe da 1 km a 1,5 km. In Svizzera ce ne sono due: una a Bure (Canton Giura), su un terreno militare, e un’altra a Hoch-Ybrig (Svitto). A cui si aggiunge quella di Maggiora (Piemonte), dove si svolge l’altra manche delle tre valide per il Campionato svizzero: «A Maggiora c’è un tratto dove si toccano i 170 km: da brividi su una pista sterrata, considerato che subito dopo c’è una curva… In Germania, poi, c’è una pista dove si possono toccare anche punte maggiori, ma quando ci sono stato, non avevo l’occhio sul contachilometri».
Moreno Invernizzi
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Storia e leggende delle sentinelle di montagna
Itinerario ◆ Un viaggio tra i manieri medioevali del Trentino, terra di confine e culla di due grandi civiltà europee
Eliana Bernasconi
Se viaggi in treno, ti accorgi di essere in Trentino quando vedi l’Adige: il secondo fiume d’Italia in lunghezza che, sebbene oggi scorra maestoso e tranquillo, in passato causò famose inondazioni. Nasce presso le Dolomiti a 1500 mslm, passa i ponti di Bolzano, Trento, Verona, e tra estensioni di vigneti e alberi da frutta percorre maestoso la pianura Padana per poi finalmente gettarsi nell’Adriatico. Mentre lui, il fiume, dona il suo nome a una delle maggiori province italiane, il Trentino-Alto Adige, dall’altra parte, a Modena, l’autostrada del Sole incontra l’autostrada del Brennero che rapidamente unisce questa regione d’Italia con l’Austria e i Paesi del Nordeuropa. Se, invece del treno, dunque, si sceglie di visitare la regione partendo da Trento, quando la strada aggredisce la montagna tra curve mozzafiato e improvvisi altopiani, improvvisamente appaiono, al posto del fiume, gli antichi Castelli medioevali. Impossibile non notarli: costruiti in posizioni strategiche per il totale controllo del territorio e dei villaggi sottostanti, addossati alle rocce o circondati da foreste, solitari ma dominanti, sono stati strutture militari fortificate e insieme residenze delle nobili e potenti famiglie.
Nessun’altra regione d’Italia conta, rispetto alla sua estensione, oltre cento castelli affiancati da chiese, abbazie e monasteri
Hanno torri di guardia cilindriche o a pianta quadrangolare, roccaforti con lunghe mura merlate che proteggevano l’ingresso, scale interne e cortili. Erano il massimo punto di difesa e resistenza per eventuali invasioni, e qui gli abitanti dei villaggi trovavano rifugio nel caso delle non rare battaglie. Nessun’altra regione d’Italia, e forse d’Europa, conta, rispetto alla sua estensione, un tale numero di castelli, oltre cento, affiancati da chiese, abbazie e monasteri. Inevitabile lasciarsi trasportare dall’immaginazione facen-
do correre i pensieri agli antichi tornei o al clamore delle armi, alle castellane dalle lunghe trecce bionde, alle leggende di fantasmi, tesori nascosti, amori infelici che la fantasia popolare ha raccontato, o forse spesso inventato.
La presenza di questi castelli è giustificata dalla storia secolare di una terra di passaggio che è anche frontiera politica e linguistica, unità geografica e storica nel cuore delle Alpi, punto d’incontro e scontro delle due massime civiltà del continente, la latina e la germanica, materializzate in queste mura. I castelli portano nomi suggestivi: Castel Campo, Castello di Arco, Castello di Corno, Castello di san Michele. Ma più spesso il nome è quello delle antiche famiglie nobiliari che lungo i secoli vi abitarono. Il Castello di Thun, mezz’ora di auto da Trento, si erge davanti a incantevoli montagne, dal 200 a inizio 1900 fu dimora dell’antica famiglia feudale dei Thun; il pubblico può entrarvi, aggirarsi, respirare l’atmosfera dell’epoca tra le stanze rimaste originali, come quella dove abitarono i vescovi.
Castel Beseno, presso il comune di Besanello, era un luogo di massimo potere sulla sommità di un alto colle, e vanta mura di cinta altissime che furono utili per nascondersi e controllare il territorio; si racconta sia stato edificato in una notte di tempesta! Qui, si attraversano grandi sale rimaste arredate come allora, nelle quali il principe
concedeva udienza, ma pure si possono provare le armi dell’epoca, gli scudi, gli elmi e le potenti spade per immergersi nel passato. Le sue mura hanno visto combattere le truppe nobiliari, e scendere in campo per la prima volta i terribili Lanzichenecchi.
Alcuni castelli hanno invece aperto le loro porte trasformandosi in eleganti alberghi, dove si possono celebrare incontri e feste o dormire respirando un’atmosfera medioevale, al riparo dai fantasmi. E come lasciare Trento senza visitare il celebre storico Castello del Buonconsiglio? È una cosa unica con la città, cui è strettamente unito. Raggruppa in un’unica grande struttura costruzioni di epoche diverse, ha enormi sale con affreschi, cortili interni, balaustre, logge, porticati, antiche scale medioevali abbastanza impressionanti da salire e lunghi giardini. Nasce con scopi difensivi ai primi del 1200, in posizione chiave tra le terre germaniche del Sacro Romano Impero e l’Italia sede del papato. Fu feudo vescovile e ben presto divenne l’unica sede del massimo potere politico e religioso, vale a dire quello dei Principi e dei Vescovi di Trento, rimanendo tale nei secoli fino all’arrivo dei soldati napoleonici. Qui, durante la prima guerra mondiale furono incarcerati e giustiziati dall’Austria gli eroi del Risorgimento italiano e i martiri dell’irredentismo trentino Cesare Battisti, Fabio Filzi, Damiano Chiesa.
Ricordando che unisce in un insieme sorprendente edifici sorti in tempi molto diversi, alla parte più antica e difensiva, la possente e cilindrica torre militare duecentesca si accostò secoli dopo il palazzo Castelvecchio, fortezza e residenza dei principi-vescovi; nel Rinascimento per celebrare la visita di re Ferdinando d’Asburgo e della regina Anna d’Ungheria fu aggiunto il «Magno palazzo», fastosa lussureggiante residenza principesca, all’interno della quale ci si aggira tra soffitti a cassettoni, fregi, stemmi, insegne araldiche, raffigurazioni mitologiche, bibliche e storiche. Tra cicli di affreschi
L’eleganza rustica del salice contorto
dei maggiori artisti dell’epoca (Dosso Dossi o Romanino) al servizio del Principe – che illustrarono la storia dei principi – un’immagine del 1535 ritrae Carlo Magno tra i dignitari della sua corte e i vescovi di Trento. Al termine della visita, all’estremo lato sud del castello, si percorrono lunghi giardini prima di affrontare Torre Aquila, esempio del Gotico internazionale, dove la rappresentazione del ciclo delle quattro stagioni ci restituisce una rara fedele immagine della vita quotidiana di corte del Medioevo al tramonto, nel XIV secolo, un tempo forse non così lontano.
Mondoverde ◆ Si chiama Salix «Tortuosa», ed è l’albero dalle forme sinuose che in giardino incanta per la sua bellezza naturale e la sua versatilità
Sei anni or sono mi sono lasciata incuriosire da un salice, più esattamente da un Salix babylonica var. pekinensis «Tortuosa». Impressionata dal lungo nome, prima l’ho ordinato e poi l’ho aspettato con una certa smania, e quando è giunto sotto i miei occhi, mi sono ritrovata davanti un simpatico alberello dai rami e dalle foglie contorte.
La corteccia del fusto principale era marrone-grigiastra, rugosa, mentre quella dei rametti più giovani marrone lucido, quasi tendente al rossiccio. Le foglie, oltre a essere accartocciate, avevano la forma lanceolata, lunghe sei-sette centimetri e di un bel verde brillante. Come farsi sfuggire una pianta così decorativa? Impossibile!
Dove posizionarla è stata la scelta più facile: all’inizio del laghetto, essendo i salici piante amanti delle zone umide. Dopo tre anni era già alta
e
tre
con
babylonica), ma
al contrario di questo, ha dimensioni molto più contenute, fermandosi tra gli otto e i dieci metri. Si adatta però senza problemi alle potature di contenimento, inoltre la sua crescita è rapida nei primi anni, per poi proseguire lenta in fase di maturità.
Con i suoi rami originali, è una pianta decorativa adatta agli ambienti umidi, e dalla crescita rapida
Le foglie, caduche, appaiono a fine aprile e sono precedute dalla comparsa dei fiori.
Poco appariscenti, i fiori dei salici hanno un fascino tutto particolare: si tratta di amenti, chiamate «gattine pelose» da molti bambini e utilizzati dalle insegnanti di scienze delle scuole elementari per illustrare la formazione delle gemme da fiore e da foglie. Chiamato anche salice di Pechino,
ha origine asiatica, sebbene la varietà «Tortuosa» sia una cultivar creata all’inizio del 1900 e spesso commercializzata con il nome di Salix matsudana «Tortuosa». Resiste senza alcun problema al freddo, anzi, spesso è proprio nelle giornate invernali che dà il meglio di sé: i rami contorti, a volte prostrati, rossastri e nudi, sono molto decorativi nelle giornate con la neve. Il mio esemplare cresce solitario, poiché mi piace vederne il tronco, ma è molto bello accostare questa varietà di salice ad altre piante amanti di suoli umidi, come ortensie, Viburnum opulus, iris, Symphoricarpos, Euonymus, Cornus, Astilbe, felci ornamentali, Hoste e Ligularia Non da ultimo, basta prelevare un apice di quindici centimetri, lasciare solo 3-4 foglie, interrarlo in un vasetto con substrato soffice e umido, per avere in poco più di un mese una nuova piantina.
Anita Negretti
metri,
una bella chioma folta,
un’amicizia speciale, quella di mia figlia Celeste, all’epoca sette anni e tanta voglia di nuove scoperte, che l’ha
fatta diventare la sua pianta preferita. Appartenente alla famiglia delle Salicaceae, è parente stretta del salice piangente (Salix
Opioła
Jerzy
Vista dal Castel Beseno. (Assianir)
Castello del Buonconsiglio, Trento. (Renata F. Oliveira)
della nonna
Segnalibri con foglie ricamate
Crea con noi ◆ Porta l’atmosfera autunnale tra le pagine dei tuoi libri grazie a un progetto semplice e divertente
Giovanna Grimaldi Leoni
L’autunno, con le sere che si fanno più lunghe, è la stagione perfetta per immergersi nella lettura. Vediamo allora come realizzare dei segnalibri unici e personalizzati, utilizzando le foglie raccolte durante una passeggiata. Questi segnalibri non solo renderanno i vostri momenti di relax ancora più speciali, ma saranno anche un’idea regalo originale per parenti e amici con la passione della lettura.
Procedimento
Durante una passeggiata, raccogliete alcune foglie. Preferite foglie intatte e senza troppi segni di deterioramento, che abbiamo una superficie abbastanza larga per poter essere ricamate. Le foglie devono essere fresche, ancora morbide al tatto. Mettetele in una pressa per fiori o tra le pagine di un libro spesso, sotto un peso, per almeno mezza giornata. Questo passaggio le ren-
Giochi e passatempi
Cruciverba
Forse non tutti sanno che la Trinacria è… Trova il resto della
frase risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate.
(Frase: 2, 7, 7, 5, 7)
ORIZZONTALI
1. Fondò Troia
3. Ministri protestanti
9. Discorso senza capo né coda
10. Anagramma di seri
11. Aggettivo possessivo
12. Dedicate a Dio
14. Gas per insegne
15. Un comando perentorio
16. Le hanno alcuni mammiferi
17. I monti del Cile
18. Il primo alimento
19. C ’è anche quella di collocamento
21. Motivi orecchiabili
22. Le iniziali dell’attrice Theron
23. Lo scrittore Fleming
24. Sta con lui
25. Pesce dalle carni pregiate
VERTICALI
1. Un simbolo sul quale si clicca
2. Pallonetto al tennis
3. Il famoso Brad
4. Altari pagani
5. In forse...
6. Silenzio complice
derà piatte e più facili da lavorare. Con una penna cancellabile scrivete la parola o il nome scelto al centro della foglia, quindi ricamatela a punto dritto con filo da ricamo e un ago ben appuntito. Questa operazione va fatta con grande delicatezza per evitare che la foglia si spezzi. Se riscontrate difficoltà rinforzate la foglia su retro con del nastro adesivo di carta.
Una volta ricamate, ponete le foglie su un vassoio ricoperto di carta da forno e spennellatele con colla vinilica leggermente diluita. Lasciate asciugare.
Una volta asciutte, ritagliate dal pannolenci dei rettangoli di circa un centimetro per lato più grandi delle foglie. Con ago e filo, fissate le foglie al pannolenci in corrispondenza del picciolo.
Ritagliate il pannolenci, lasciando qualche millimetro di margine lungo
Materiale
• Foglie ancora fresche
• Penna cancellabile
• Colla vinilica e pennello piatto
• Filo da ricamo rosso e beige, ago con punta fine
• Pannolenci nei colori autunnali
• Forbici
• Filati in tinte naturali
(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
il perimetro della foglia. Aggiungete un fiocco e un cordoncino dello stesso filato, in modo che possa sporgere dalle pagine del libro, facilitando il ritrovamento del segnalibro. Provate a utilizzare tipi di foglie e filati diversi. Buon divertimento e … buona lettura!
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
della settimana precedente Una caratteristica dell’orso bianco è quella di
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la
o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Da
Passione per la Pasta dal 1789
Garofalo Rigatoni
Garofalo Spaghetti
Viaggiatori d’Occidente
Riccioli d’oro, da fiaba a modello turistico
Conoscete la favola di Riccioli d’oro e i tre orsi ? Riccioli d’oro un giorno si avventura nel bosco e trova la dimora dei tre orsi: Papà Orso, Mamma Orsa e Orsetto. In casa non c’è nessuno e la bambina comincia a curiosare in giro. Dapprima assaggia le tre ciotole di porridge. Quello di Papà Orso è troppo caldo, quello di Mamma Orsa troppo freddo; quello di Orsetto invece è a una temperatura ideale e Riccioli d’oro lo mangia tutto. Poi prova le tre sedie di casa: di nuovo quella di Orsetto sarebbe perfetta, ma purtroppo si rompe. Infine i letti: quello di Papà Orso è troppo duro, quello di Mamma Orsa troppo morbido mentre – ormai lo avete capito – quello di Orsetto è giusto e quindi Riccioli d’oro si addormenta. Ma quando i tre orsi tornano improvvisamente a casa il suo sonno si conclude con un brusco risveglio e la fuga.
Riccioli d’oro e i tre orsi è una favola
molto amata, piacevolmente ripetitiva nel suo svolgimento. Come sempre ha una morale: insegna ai bambini la discrezione e il rispetto per i beni altrui. E tuttavia, per qualche misteriosa ragione, viene continuamente tirata in ballo quando si parla di turismo. Cominciò qualche anno fa Leo Hickman, il popolare giornalista del «Guardian». Hickman era particolarmente interessato al ricorrere del numero tre, tanto da immaginare un modello di viaggio «Riccioli d’oro» su base triennale: il primo anno ci si concede un lungo viaggio intercontinentale in aereo; l’anno seguente si visitano invece i Paesi vicini, col treno o l’auto; il terzo anno si resta nei confini nazionali, viaggiando a piedi, in bicicletta o coi mezzi pubblici. Il modello proposto da Hickman, oltre alla varietà, ha il pregio della sostenibilità: viaggiando meno ma più a lungo si ridu-
Cammino per Milano
Il bar Basso
Il rosso lava dell’insegna, con l’odore autunnale dei platani all’imbrunire camminando lungo viale Abruzzi, si scorge già in lontananza. Nato nel 1947 come mia mamma, tra reminiscenze amniotiche e amnesie alcoliche, mi culla ancora il ricordo del suono polare del maxi cubetto di ghiaccio galleggiante nei bicchieroni del bar Basso. L’insegna al neon del nome, tratto dal signor Basso, prima anima di questa istituzione milanese al pari della Scala, da vicino rivela il bianco corsivo incorniciato dal rosso neon su sfondo rosso lava. Ai fianchi, due dei dodici mascheroni-leoni ruggenti di questo palazzo all’angolo con via Plinio e via Ernesto Noë. Senza farci distrarre troppo dall’odonomastica, il punto d’incontro tra il grande naturalista morto per via di un vulcano e lo stenografo fautore dell’esperanto, è l’entrata del Basso. Famoso per l’invenzione del Negroni sbaglia-
to, una sera del 1972 al bancone di zinco luccicante che è la prima cosa che afferro con lo sguardo, per mano di Mirko Stocchetto (1931-2016). Barman veneziano per anni all’Harry’s bar, è al bar dell’hotel Posta di Cortina che fa furore con il suo socio Renato Hausammann con cui prende in mano il bar Basso il tredici ottobre del 1967. Un ricordo di Cortina, forse, la saletta separata sulla destra del bancone appena entrati, in vago stile rustico-montano dove riconosco un vecchio giornalista carogna con il cappotto e donna dark. Il velluto verde inglese delle sedie in legno, dall’altra parte, è senza eguali. Mi siedo allo stesso tavolino di due giorni fa quando mi sono reso conto che mi ricordavo tutta un’altra prospettiva del bancone. Però l’ultima volta che c’ero stato erano secoli e con la mia amica Anna ci siamo fatti non so quanti Sbagliati.
Sport in Azione
ce enormemente il proprio impatto ambientale (e oltretutto senza troppi sacrifici).
Altri invece hanno colto nella fiaba soprattutto l’insistenza sul giusto mezzo: né troppo caldo né troppo freddo (il porridge), né troppo grande né troppo piccola (la sedia), comodo il giusto (il letto). Sviluppando questa intuizione si parla ora sempre più spesso di «Paesi Riccioli d’oro», ovvero destinazioni con un buon equilibrio tra diversi aspetti: buone infrastrutture (aeroporti, strade, treni), alberghi confortevoli, un facile accesso alla rete, prezzi ragionevoli, sicurezza nella vita pubblica, una comunità locale vivace e ben disposta verso i turisti. Al tempo stesso però questi Paesi devono essere ancora poco frequentati e quindi risparmiati da forme di Overtourism. In questo modo c’è spazio per esperienze interessanti, piccole esplorazioni e scoperte
personali. Bisogna insomma arrivarci al momento migliore del cosiddetto ciclo di vita della destinazione, quando si è conclusa la fase di scoperta ma prima del pieno sfruttamento turistico.
Sin qui tutti d’accordo; naturalmente poi i pareri divergono quando si passa agli esempi concreti, perché i criteri di valutazione sono inevitabilmente soggettivi. Quali sono i «Paesi Riccioli d’oro»? Di certo è troppo tardi per la Svizzera, il primo Paese turistico al mondo, sia dal punto di vista cronologico sia dei servizi. Un buon candidato, senza andare troppo lontano, potrebbe essere per esempio la Slovenia o la Croazia. L’Albania invece, pur assai apprezzata in quest’ultima estate, per molti potrebbe essere un po’ troppo… ruvida. Nel sud-est asiatico il Vietnam potrebbe farsi preferire alla troppo turistica Thailandia; e nell’America meridionale
il Cile potrebbe offrire un’alternativa al Messico. È facile continuare il gioco. Ma più interessante è cambiare prospettiva e considerare la questione dal punto di vista delle destinazioni, perché riconoscere di essere un «Paese Riccioli d’oro» potrebbe avere parecchi vantaggi. In quella fase infatti è ancora possibile abbracciare un diverso modello di sviluppo turistico, puntando sul cosiddetto «turismo rigenerativo» al posto del tradizionale turismo di massa. In questo nuovo paradigma si limita la crescita del numero di visitatori, così come il loro impatto ambientale e sociale, privilegiando invece la cura del territorio, la protezione dell’ambiente e la crescita delle comunità locali. È un’opportunità negata alle destinazioni mature e già consolidate; e un ultimo insegnamento per una favola che ne propone già molti.
Lo Sbagliato nasce lì al bancone una sera affollata quando Stocchetto prende in mano per sbaglio (o per gioco) una bottiglia di prosecco al posto del gin e lo mescola assieme al bitter Campari e vermouth rosso della ricetta classica, servendo con ghiaccio e una fetta di arancia. È il successo di un errore, io però ho sempre preferito il Negroni vero. Inventato negli anni Venti a Firenze dal conte Camillo Negroni come variante dell’Americano: al posto del seltz, il gin. Chiamarlo Sbagliato però, pregio massimo. Accarezzo con lo sguardo il lungo bancone di zinco e legno chiaro, illuminato dai due lampadari di cristallo appesi. Il rosa del soffitto lo si ritrova, a intermittenza, nei riquadri scanditi dal legno zigrinato della sponda del bancone dove dietro, in prima linea, ci sono due barman con la cravatta. Senza tempo, immutato e immutabile, senza però museificarsi troppo,
Pérez e il Pallone d’oro: l’arroganza del potere
Non sempre si può vincere. In amore, nella vita, nello sport. Nevvero, signor Florentino Pérez? Quello di cui parliamo può sembrare il banale capriccio di un uomo viziato e abituato a ottenere tutto ciò che desidera. In realtà, il gesto del presidente del Real Madrid, ha una portata più ampia. Lo scorso 28 ottobre, all’Aeroporto Adolfo Suárez Madrid-Barajas, un velivolo privato era pronto al decollo per trasportare a Parigi una delegazione dei Blancos per la consegna del Pallone d’oro. È bastata una fuga di notizie per indurre il focoso imprenditore edilizio a imporre il dietrofront ai «suoi» passeggeri. Il prestigioso riconoscimento, creato nel 1956 dalla rivista «France Football», non sarebbe stato attribuito a Vinícius Júnior, funambolico attaccante brasiliano del Real Madrid, vincitore del campionato iberico e della Champions League, bensì a Rodrigo Hernández Cascante, in
arte «Rodri», geniale metronomo del Manchester City, con la cui maglia ha vinto la Premier League, e della Nazionale spagnola, che ha guidato alla conquista del titolo europeo. La giuria, formata da cento giornalisti rappresentanti i primi cento Paesi del Ranking FIFA, ha optato per un cambiamento di paradigma. Dopo anni in cui a sollevare il Pallone d’oro erano stati i bomber e i rifinitori – pensate che negli ultimi quindici, per tredici volte il riconoscimento se lo erano conteso Lionel Messi e Cristiano Ronaldo – la scelta è caduta su un calciatore a tutto campo, uno che sa recuperare palloni, li sa gestire, uno che detta e cambia tempi e ritmi, che sa difendere, servire, lanciare, tirare da fuori area. Rodri è l’emblema della nuova Spagna, guidata dal basco Luis de la Fuente. Un gruppo coeso in cui stelle e stelline danzano in sintonia e in simbiosi. Ma tutto ciò non è bastato al presidente dei
Los Merengues, che si è sentito vittima di lesa maestà. Per giunta da parte di un calciatore che in passato ha vestito la casacca dei rivali cittadini dell’Atletico. Quindi, viaggio annullato. Tutti a terra, il presidente in testa. Alla cerimonia non ci è andato Vinícius, che si è piazzato al 2° posto nella classifica dei migliori 30 artisti del pallone, e nemmeno Jude Bellingham, 3°; Daniel Carvajal, 4°; Kylian Mbappé, 6°; Toni Kroos, 8°; Federico Santiago Valverde, 17°; e Antonio Rüdiger, 22°. Insomma, con mezza squadra nell’alta classifica, a Madrid avrebbero avuto di che essere fieri. Oltre ai calciatori, ha dovuto rinunciare alla trasferta anche Carlo Ancelotti, il Mister, che avrebbe dovuto ritirare il premio riservato al miglior allenatore dell’anno.
La decisione del presidente mortifica chi a Madrid stava organizzando una diretta dell’evento di circa cinque ore.
questo posto dalla fauna eterogenea, mescola la carta da parati vittoriana color pistacchio agli abat-jour anni settanta fatti con bottiglie di champagne Diamant.
«Il Rob Roy è simile al Manhattan» dice il barman più giovane a un cameriere anziano che passeggia su e giù sul marmo roseo, solo che, aggiunge, «al posto del bourbon ci metti lo scotch». Seduta tra i due grandi specchi, una biondina con scialle color zucca, prende appunti e sorseggia uno Sbagliato nel bicchiere normale, a calice. Esito un attimo a osare chiedere un Shirley Temple poi ordino un cocktail analcolico a sorpresa, basta che sia servito nel bicchierone. Il mio cameriere, originario di Sant’Agata di Esaro, qui da due lustri, cravattino, gli occhi bulbosi gradevolmente allampanati, gilè, l’aria blasé ma al contempo di un estremo garbo mi propone, senza una parola
di troppo né una di meno, il Primavera. Un mix di succo di pompelmo, ananas, arancio, sciroppo di granatina. Niente di epocale ma che gioia il bicchierone folle alto quaranta centimetri, idea – nonostante Mirko Stocchetto ne abbia rivendicato la paternità in un’intervista, ribadita dal figlio Maurizio erede del bar – del signor Basso. Poco importa, Stocchetto, ispirato dal Bellini (1948) lagunare di Cipriani, è considerato l’inventore del Rossini (prosecco, succo di fragole), dedicato così, giocando al contempo sul colore del cognome, a un altro compositore. Nell’angolo colgo il riverberare di due bicchieroni giganti. Il cubetto-iceberg nei loro «negri» –diminutivo con cui li chiamava l’Anna – contribuisce a donare, una fine pomeriggio di novembre al calar della nebbia, riflessi di un bagliore sommerso che meraviglia come quelli del rosso Tiziano.
Ma questa è una questione che Perez si deve smazzare in casa. Umilia chi a Parigi in pochi minuti ha dovuto stravolgere la scaletta della serata di gala. Avvilisce, oltre ai rivali giunti da mezzo mondo al Théâtre du Châtelet, tutti i suoi calciatori e il suo tecnico, che avrebbero avuto diritto alla prestigiosa passerella. Ma soprattutto manca di rispetto nei confronti del popolo del calcio. Fatto da VIP, ma anche, e soprattutto, da comuni mortali che fanno fatica a campare, che investono nel pallone i loro esigui risparmi. Ammesso che ne abbiano. I tifosi hanno diritto allo spettacolo. Parimenti hanno bisogno di valori. E questi valori vengono veicolati dai loro modelli: i calciatori.
Quanto è accaduto sull’asse Madrid-Parigi è eticamente insostenibile. È un chiaro esempio di arroganza del potere e del denaro. Da parte di chi, per ruolo, dovrebbe invece contribui-
re a diffondere un codice di comportamento che sappia creare distensione, amicizia, rispetto delle regole. Javier Tebas, presidente della Liga spagnola, ha pubblicamente condannato la decisione di Florentino Pérez. Anche la stampa, compresa quella madrilena, non è stata tenera. Tuttavia, quando si vive una sorta di delirio di onnipotenza, non ci si rende conto dei propri errori. In questo caso, la robusta lavata di capo avrebbe dovuto essere accompagnata da un’altrettanto robusta sanzione. Che sia pecuniaria o che vada a togliere punti in Campionato o in Champions, lo lascerei decidere agli addetti ai lavori. Nel frattempo però, il fatto è stato scaraventato lontano dalle prima pagine, messo in ombra dal dramma climatico ed esistenziale che la regione di Valencia sta vivendo. Di fronte a tutto ciò, i capricci di Florentino diventano una pinzillacchera.
di Claudio Visentin
di Oliver Scharpf
di Giancarlo Dionisio
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