Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio I ragazzi di oggi usano le applicazioni degli smartphone per studiare... meglio conoscerle
Ambiente e Benessere La Silene acaulis è una pianta alpina che non teme la roccia, il vento, la neve, il gelo
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 25 novembre 2019
Azione 48 pagina 3
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Un Ticino diverso nella Berna federale
Quel meraviglioso vizio chiamato collezionismo
di Peter Schiesser
di Alessia Brughera e Ada Cattaneo
Queste elezioni federali non cessano di stupire – fra una settimana, dopo gli ultimi ballottaggi, faremo una valutazione globale con Marzio Rigonalli, oggi però non possiamo non soffermarci sullo storico risultato del ballottaggio per i due seggi ticinesi al Consiglio degli Stati. La perdita del seggio per il PLR e l’esclusione del peso massimo popolare democratico Filippo Lombardi dopo 20 anni a Berna, l’arrivo in carrozza di Marco Chiesa per l’UDC dopo una sola legislatura al Consiglio nazionale, l’elezione di Marina Carobbio per una manciata di voti (su cui pesa però un ricorso riguardante i voti per corrispondenza), sono risultati che mostrano come il piano della politica si sia inclinato anche in Ticino. La tentazione è di cercare la singola causa, credo però che ci sia piuttosto un cocktail di fattori ad aver portato a questo esito. Senz’altro la congiunzione delle liste fra PPD e PLR si è rivelata controproducente, come ha rimarcato l’ex consigliere di Stato liberale radicale Gabriele Gendotti, oltre a mancare un decisivo sostegno dagli elettori dell’altro partito, è venuto a mancare quello dell’area di sinistra. Questa, galvanizzata dalla crescita sostanziosa dei Verdi, ha messo per una volta da parte le animosità interne e ha votato compatta per Marina Carobbio, la quale ha potuto giocare anche la carta della rappresentanza femminile, che in queste elezioni federali assieme all’onda verde è stata determinante in molti casi. Che Marco Chiesa abbia potuto così facilmente battere gli esponenti dei due storici partiti di centro è guadagno suo personale – si vede che il suo stile piace a numerosi ticinesi, persino al di là dell’appartenenza politica all’UDC (quanti elettori PPD e PLR lo avranno votato?); ma è anche frutto della debolezza della Lega dei Ticinesi, che non ha saputo far altro che ripresentare quattro anni dopo un candidato che nel frattempo non aveva raccolto nessuna esperienza politica (un segno della mancanza di personalità di spicco all’interno del movimento), e di un clima politico in cui, almeno in Ticino, si sono create le premesse per un rafforzamento dei poli a discapito delle forze di centro-centrodestra. Certo, è molto probabile che con Chiesa e Carobbio agli Stati i voti dei due ticinesi si annulleranno, troppo distanti sono le posizioni in fatto di politica europea, economica, sociale; serviranno piuttosto a portare acqua al mulino della politica federale più che agli interessi cantonali, ma questo potrà essere valutato fra quattro anni. Tuttavia dobbiamo prenderne atto e considerare ciò che una simile costellazione rivela: un’onda verde che rafforza la sinistra, un centro troppo ibrido per risultare fertile, una destra in cui l’astro nascente è l’UDC e quello discendente la Lega. Prima di capire quali altre alleanze saranno possibili, andranno affrontate le crisi interne ai partiti perdenti (fra questi non dimenticherei che il PS ticinese al Nazionale è comunque sceso dal 14,5 al 12,1 per cento, proseguendo la parabola discendente delle ultime legislature). Il PLR è stato il primo a manifestare una crisi interna, con il radicale Matteo Quadranti che ha chiesto le dimissioni di tutto l’Ufficio presidenziale del partito, riproponendo le antiche divisioni fra liberali e radicali. I quattro punti persi al Nazionale (dal 23,2 al 19,4 per cento) sono un segnale che il PLR non può sottovalutare: sono soltanto frutto di un’alleanza mal digerita o c’è dell’altro? Il PPD sembra ancora troppo sotto shock per fare i conti con la perdita del seggio agli Stati e per contrastare l’erosione di voti, che è proseguita anche questa volta. Ormai i due partiti storici rappresentano assieme poco più di un terzo dell’elettorato, dovranno cercare di capire quale ruolo potranno giocare ancora in futuro, quali contenuti proporre e come comunicarli in modo credibile, prima di giocare di nuovo la carta della disperazione di una congiunzione delle liste. E la Lega? I colonnelli invecchiano, ognuno va per conto proprio, anche quelli nel governo cantonale. L’impressione è che sia un movimento che sta invecchiando e un partito che non è cresciuto omogeneamente. L’elettore di destra chiede evidentemente qualcosa di più strutturato e Marco Chiesa, con il sostegno, potremmo anche dire il discreto padronato di Christoph Blocher, ha saputo intercettare questo sottile cambiamento. Ma Chiesa ha potuto godere anche della lealtà degli elettori leghisti, nonostante da queste elezioni non abbiano ricavato nulla dalla congiunzione con l’UDC (perso il secondo seggio al Nazionale). Sarà interessante vedere che cosa succederà alle elezioni comunali la prossima primavera, in particolare a Lugano. In conclusione, il panorama politico ticinese esce più frastagliato da queste elezioni, ci sono tre blocchi, di destra, di centro e di sinistra, che non hanno molti denominatori in comune, ciò che in futuro potrà riverberarsi anche più di oggi a livello cantonale, con effetti sulla governabilità.
Cultura e Spettacoli La toccante riflessione sulla morte scritta da Hervé Guibert, amico di Foucault
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© Roberto Pellegrini The Rachel and Jean-Pierre Lehmann Collection
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Politica e Economia La Cina in difficoltà nella guerra commerciale con gli Stati Uniti ma anche sul fronte interno
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 novembre 2019 • N. 48
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Attualità Migros
Una spesa di solidarietà
Colletta alimentare 2019 Sabato 30 novembre si terrà nei supermercati di Migros
Ticino l’annuale raccolta di prodotti destinati alle persone in difficoltà. Il cibo raccolto andrà all’associazione Tavolino Magico
Come ogni anno, il periodo prenatalizio si presta a mobilitare la popolazione attorno a iniziative di solidarietà. E come ogni anno ecco che Migros Ticino si presta a dare un proprio contributo in questo contesto, collaborando con il gruppo «Amici della colletta». Al motto «condividere i bisogni per condividere il senso della vita» è organizzata quindi una «Colletta alimentare», a sostegno dell’attività dell’Associazione Tavolino magico. L’iniziativa raccoglierà prodotti donati dai clienti di Migros Ticino in postazioni appositamente allestite nelle filiali di Biasca, Bellinzona, Giubiasco, Locarno, Taverne, Agno, Lugano Centro, Mendrisio Sud, Pregassona, Cassarate e Massagno-Radio. I prodotti interessati dalla colletta sono naturalmente quelli a più lunga conservazione, tra i quali: cacao o cioccolato per la colazione, caffè in grani o macinato, carne in scatola, cereali per la colazione (müesli), concentrato per brodi, farina bianca, farina per la polenta, frutta secca, latte UHT, legumi secchi, marmellate e miele, aceto, olio e sale, pasta e riso, pomodori pelati, succhi di frutta, tè nero, alle erbe o di frutta, tonno in scatola, zucchero, prodotti per l’igiene personale (dentifricio, spazzolini per denti, gel doccia, shampoo) e prodotti vari di pulizia. Quale attività di volontariato a scopo benefico, la «Colletta alimentare» coinvolgerà quasi 350 persone distribuite in undici filiali di Migros in Ticino . Esse accoglieranno i doni dei clienti, organizzandoli poi per instradarli verso la centrale di raccolta di Cadenazzo. Qui il Tavolino Magico ha la propria sede, e da qui organizza e ridistribuisce le derrate raccolte in tutto il cantone. Forse non tutti sanno che quest’anno Tavolino Magico festeggia i 20 anni dalla sua Fondazione a livello
nazionale, mentre in Ticino è attiva da 13 anni a favore di persone in difficoltà finanziaria e impegnandosi contro lo spreco alimentare. Con la collaborazione di dettaglianti, grossisti e produttori, tra cui la Cooperativa Migros Ticino, Tavolino magico contribuisce settimanalmente a consegnare generi alimentari di ottima qualità a circa 1800 persone bisognose in uno dei suoi 14 centri di distribuzione.
L’Associazione Tavolino Magico non riceve sovvenzioni pubbliche, ma fa fronte alle sue esigenze finanziarie per mezzo di donazioni private. Con l’aiuto di 280 volontari e di una cinquantina di persone provenienti da programmi occupazionali, Tavolino Magico ha potuto raccogliere e distribuire nel 2018 660 tonnellate di cibo ancora in perfette condizioni (altrimenti destinato al macero) alle persone bisognose di tutta la Svizzera italiana. Ta-
volino Magico è così un luogo concreto di solidarietà a favore della popolazione locale più bisognosa e si attiva concretamente contro lo spreco alimentare. Il sistema funziona grazie a una rete di volontari che si impegnano settimanalmente, destinando alcune ore del loro tempo libero alle varie attività di gestione. La ricerca di collaborazioni è sempre aperta. Gli interessati possono annunciarsi allo 091 8401451 o scrivendo a info@tavolinomagico.ch.
di Migros Ticino, propone un adattamento della fiaba di Andersen La regina delle nevi
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Il cantante al Teatro del Gatto di Ascona, lunedì 2.12, alle 20.30
Volge alla conclusione la prima parte della stagione 2019-2020 di «Tra Jazz e nuove musiche», rassegna organizzata da Rete Due Rsi e sostenuta dal Percento culturale di Migros Ticino. A presentarsi sul palco del Teatro del Gatto di Ascona, per una serata inserita nel calendario del Jazz Cat Club asconese, sarà il cantante americano Alan Harris.
MiniSpettacoli La rassegna di teatro per bambini, sostenuta dal Percento culturale
Azione
Jazz di Rete Due
Alessandro Zanoli
Il coraggioso viaggio di Gerda La storia è molto conosciuta ed è una delle più lunghe del repertorio di Hans Christian Andersen. Nella sua versione originale si compone infatti di sette episodi che descrivono le avventure della coraggiosa bambina Gerda. Dopo che il suo amico Kay è stato colpito da un incantesimo e rapito dalla Regina delle nevi, la piccola decide di partire da casa per andare a cercarlo. Per ritrovarlo dovrà superare una serie di complesse avventure, in cui alla fine muoverà alla compassione varie persone. Queste a loro volta l’aiuteranno, indirizzandola verso il luogo in cui Kay è tenuto prigioniero. Nella versione teatrale che sarà presentata al teatro San Giovanni di Minusio il prossimo 8 dicembre 2019 ore 16.00, La Regina delle Nevi sarà interpretata da Monica Morini, che è anche la creatrice di questa riduzione scenica, proposta dal Teatro dell’Orsa di Reggio Emilia, con la regia Bernardino Bonzani. La pièce sarà accompagnata dalle musiche dal vivo di Gaetano Nenna.
Allan Harris, il preferito da Tony Bennett
condurrà alla liberazione dalla prigionia. Una storia indimenticabile di amicizia e di coraggio, adatta ai bambini a partire dai quattro anni. La Regina delle nevi
Domenica 8 dicembre, ore 16.00 Oratorio Don Bosco, Minusio In collaborazione con
Biglietti in palio
In scena, Monica Morini, attrice e autrice del testo.
Nel corso delle avventure della piccola Kay non mancheranno tutti gli ingredienti magici che hanno reso celebre la storia del narratore danese. Castelli di ghiaccio, doni fatati, renne ribelli e tribù di briganti si troveranno sul cammino
della piccola eroina, lungo il pericoloso e freddo tragitto che la condurrà fino in Lapponia. La neve il ghiaccio sono naturalmente lo scenario naturale di un racconto in cui il freddo della tristezza lascerà spazio al calore degli affetti e che
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
«Azione» offre ai propri lettori biglietti gratuiti per lo spettacolo La Regina delle nevi che si terrà l’8 dicembre 2019 al Teatro Oratorio Don Bosco di Minusio, inizio ore 16.00. Info su www.azione.ch/concorsi. Tiratura 101’634 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Una delle voci più swinganti del panorama jazz attuale. (rsi.ch/jazz)
Nato a Brooklyn nel 1956, Harris è cresciuto in un famiglia di importanti musicisti. Proprio grazie ai contatti artistici degli Harris, molti celebri jazzisti sono stati ospiti di famiglia. Uno dei più famosi, Louis Armstrong (una sera in cui era stato ingaggiato come baby sitter!) pare addirittura che abbia terrorizzato con la sua voce il piccolo Alan. Nonostante questo trauma infantile, il primo ambito musicale in cui Allan Harris si è impegnato è stato proprio quello del canto: una carriera iniziata a 8 anni come cantore in chiesa. Oggi la sua voce è reputata come una delle più belle ed espressive della scena musicale jazz contemporanea. A questa dote ha accoppiato un’ottima bravura di chitarrista. Il suo repertorio di riferimento è naturalmente quello degli standard, di cui ha lasciato testimonianza in varie incisioni di alto livello, accompagnato da grandi come Tommy Flanagan o Cyrus Chestnuts. Un altro curioso aneddoto che riguarda la sua carriera gli ha guadagnato un’ottima reputazione. Nell’ambiente dei musicisti jazz si ricorda che Harris fu presentato dal celebre paroliere Sammy Cahn in questo modo: «Frank Sinatra disse che il suo cantante preferito era Tony Bennet; Tony Bennet dice che il suo cantante preferito è Allan Harrys». E lo stile di Harris è effettivamente legato alla grande tradizione del canto jazz americano, così come si è sviluppato nelle sue versioni più swinganti e calde. Allen arriva al Teatro del Gatto con un quartetto composto da Arcoiris Sandoval alle tastiere, Nimrod Speaks al contrabbasso e Shirazette Tinnin alla batteria. In collaborazione con
Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 novembre 2019 • N. 48
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Società e Territorio Lo sviluppo regionale Continua con Bellinzonese e Valli la serie di articoli dedicati agli Enti regionali di sviluppo
147, l’aiuto passa anche dalla chat Un nuovo servizio di Pro Juventute permette ai giovani di parlare dei propri problemi con dei coetanei attraverso una Peer-Chat confidenziale e gratuita pagina 8
Il parco da vivere La Fondazione Parco del Piano di Magadino propone attività che favoriscono gli interessi di agricoltura, natura e svago. Intervista alla direttrice Alma Sartoris pagina 11
pagina 7 Per i ragazzi di oggi fare i compiti con lo smartphone accanto è normale. (Marka)
Studiare con le app
Il caffè delle mamme Le applicazioni degli smartphone hanno sostituito dizionari ed enciclopedie, insegnano
le lingue, risolvono equazioni, aiutano a ripassare la storia... Per i genitori è meglio conoscerle Simona Ravizza Ma lo sapete che ai nostri figli basta fare clic con la fotocamera dell’iPhone su una complessa equazione per trovarsela risolta in un secondo? O che c’è un gufo verde di nome Duo che può perseguitare al posto nostro i ragazzi quando non studiano il tedesco? Oppure che un bel ripasso di storia può essere fatto anche con lo smartphone in mano? Partiamo dall’inizio. I cellulari a Il Caffè delle mamme ormai sono zeppi delle app scaricate gratuitamente dai nostri figli per studiare (o copiare). La convinzione è che sia inutile demonizzarle, meglio individuare le più utili, anche se difficilmente potremo consigliarle ai teenager perché le conoscono già. Salvatore Aranzulla, il più famoso autore di tutorial per risolvere i problemi con la tecnologia e autore di un sito tra i 30 più visitati d’Italia (Aranzulla. it), lancia la provocazione: «Chi l’ha detto che quando si studia non bisogna
utilizzare smartphone o tablet? Questi aggeggi, come spesso li definiscono in tono dispregiativo genitori e insegnanti, possono rivelarsi molto utili durante lo studio. Se il dispositivo viene utilizzato con l’atteggiamento giusto e con le app giuste, studiare divertendosi è possibile». La decisione è di stare al gioco. E farci aiutare da Aranzulla per scoprire le più utilizzate e che promettono di aiutare i nostri figli a fare pace con i fantasmi scolastici. Ovviamente l’obiettivo de Il Caffè delle mamme è anche sapere dove i problemi di matematica possono essere copiati ed essere in grado di correre ai ripari. Mettiamoci subito l’anima in pace. Per i nostri figli appoggiare sulla scrivania dove fanno i compiti dizionari o enciclopedie è da età della pietra. I termini che non conoscono li possono cercare su l’app de La Treccani (per Android) e sul Dizionario Italiano e Sinonimi (per Ios). La prima non riporta solo definizioni precise dei termini cercati (come un qualsiasi altro dizio-
nario), ma propone anche la lettura di articoli che approfondiscono ulteriormente l’argomento. La seconda mostra la definizione, i principali sinonimi e, in alcuni casi, anche i proverbi e i detti che riguardano oltre 62mila parole. Tramite il pulsante «Condividi» con un messaggio può essere inviata la definizione cercata ai compagni di studi. L’enciclopedia è sostituita dall’app di Wikipedia, che permette di avere accesso a qualsiasi contenuto. Premendo l’icona del microfono è possibile dettare la parola cercata, il segnalibro consente di salvare l’argomento, che può anche essere condiviso sui social e tradotto in altre lingue. E anche i taccuini possono essere sostituiti da app, come OneNote, dove gli appunti vengono salvati automaticamente e possono essere poi riletti su tutti gli altri tuoi device (ovviamente dopo un accesso con le proprie credenziali). La fotocamera permette di catturare ciò che è scritto su un foglio di carta o alla lavagna, il microfono di integrare i contenuti con
note vocali, la matita di fare uno schizzo, e c’è anche il segno di spunta per chi vuole fare una lista. L’app pubblicizzata come la più famosa al mondo per imparare le lingue (con 99 milioni di download) è Duolingo. È qui che il gufo verde di nome Duo ti incoraggia a completare le lezioni e ti perseguita se non mantieni l’obiettivo (scelto all’inizio) di dedicarti all’inglese, al tedesco, ecc. cinque, dieci, quindici o venti minuti al giorno. Con l’app SSF Storia sviluppata dalla De Agostini è poi assicurato il ripasso per tutti i principali periodi storici, con tanto di quiz, schede e segnalibri. Per Il Caffè delle mamme la scoperta più scioccante è stata la app Photomath che permette di risolvere i calcoli grazie alla scansione. Basta puntare la fotocamera su un’equazione e l’app usa il riconoscimento ottico per risolverla. Unica consolazione: vengono mostrati anche i passaggi per giungere alla soluzione. Dunque, la speranza è che i nostri figli la possano usare,
come anche quella chi si chiama Risolvi Espressioni, per controllare i risultati e capire i passaggi che sfuggono e non per copiare! Ma la app decisamente preferita a Il Caffè delle mamme è Forest e serve per aiutare i nostri figli a rimanere concentrati – e lontani dal cellulare – mentre studiano. Ciascuno sceglie un albero e decide per quanto tempo vuole evitare distrazioni. Una volta attivato il timer, piano piano il seme germoglierà e crescerà fino a diventare un albero virtuale sano e robusto. Se non resisti alla tentazione e prendi il telefono, la pianta appassirà e morirà. Sembra compiersi un miracolo: è possibile riuscire a sfruttare la rinnovata consapevolezza ambientale promossa da Greta Thunberg per riuscire a tenere i nostri figli lontani mezz’ora dal cellulare proprio sfruttando un’app installata sullo smartphone! E, allora, davvero anche un’app può essere educativa. Non resta che farcene una ragione.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 novembre 2019 • N. 48
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Idee e acquisti per la settimana
Squisite specialità regionali Attualità Panettoni e pandori della Jowa per addolcire l’attesa del Natale
Panettone Sélection 1 kg Fr. 18.50
Pandoro Sélection 800 g Fr. 17.50
Un pomeriggio in panetteria Vuoi scoprire come si produce l’apprezzato panettone della Jowa? Allora non perderti il nostro workshop presso la panetteria della casa di S. Antonino, giovedì 28 novembre a partire dalle ore 15.00. 10 fortunati partecipanti potranno preparare insieme ai panettieri del laboratorio un delizioso e soffice panettone, che al termine del corso ognuno potrà portarsi a casa. Gli interessati possono iscriversi da subito e fino al mercoledì 27 novembre, telefonando al numero 091 851 99 41, nelle fasce orarie 9.00-11.00 e 14.00-16.00. Il panettone Sélection della Jowa è il regalo perfetto per le festività natalizie. (Tresol Group/Däwis Pulga)
Da ben 45 anni la Jowa di S. Antonino produce per tutti i negozi Migros della Svizzera due delle specialità per eccellenza che non possono mancare sulla tavola natalizia: il panettone e il pandoro. Entrambe le bontà sono preparate con minuziosa attenzione e parecchia artigianalità dagli esperti panettieri-
pasticceri del panificio della Migros. Per garantire un risultato finale ineccepibile è importante l’utilizzo di ingredienti di qualità elevata, appositamente testati e selezionati dagli specialisti della Jowa, come il burro, le uova, la frutta candita, la vaniglia, e naturalmente la farina - ottenuta da cereali di coltivazione svizze-
ra, frutto di una stretta collaborazione con gli agricoltori prima, e i mugnai in seguito – che permette di ottenere una perfetta lievitazione combinata con il pregiato lievito madre al 100 per cento naturale. Il delicatissimo processo di lievitazione dura fino a 48 ore ed è suddiviso in quattro fasi distinte: un’ine-
Succose clementine in sacchetto 100% riciclabile
guagliabile caratteristica che troviamo esclusivamente nei cosiddetti «grandi lievitati». Si giunge in seguito alla fase di cottura, dove i profumati dolci, una volta usciti dal forno, vengono lasciati raffreddare e infine confezionati e forniti in tempi brevi a tutti i supermercati Migros. La gamma di panettoni e pandori
Jowa comprende i prodotti più tradizionali in sacchetto e scatola come pure, tra le varietà speciali sfornate solo per le Feste, il panettone artigianale, il pandoro al cioccolato, il pandoro e il panettone firmati Sélection, quest’ultimi particolarmente ricchi di burro e incartati a mano in un’elegante confezione regalo.
Incontri letterari
Libri Lo scrittore Federico Iannaccone ospite
dei reparti libri di Agno (sabato 30 novembre) Novità Gli agrumi spagnoli «Dulcimiel» sono una vera prelibatezza che e S. Antonino (sabato 7 dicembre) arricchisce ogni tavola festiva. Correte ad assaggiarle, perché sono in vendita solo per un breve periodo in un pratico sacchetto riutilizzabile
Clementine «Dulcimiel» 1.5 kg Fr. 3.95 invece di 5.90 Azione 33% dal 26.11 al 02.12 Nelle maggiori filiali Migros
Le succose clementine «Dulcimiel» sono coltivate nella regione spagnola di Castellón, ad una settantina di chilometri a nord di Valencia, da una piccola azienda agricola a conduzione famigliare. Gli agrumeti sono situati a ridosso delle montagne e beneficiano delle correnti d’aria iodate provenienti dal mar Mediterraneo. Le coltivazioni approfittano altresì di un’importante differenza di temperatura tra il giorno e la notte, un fenomeno ideale per lo sviluppo ottimale del prodotto. Una volta raccolte, le clementine vengono poste per alcuni giorni in una speciale
camera di conservazione e, infine, imballate a mano in un pratico sacchetto di iuta riutilizzabile e riciclabile. Le clementine «Dulcimiel» non subiscono nessun trattamento chimico dopo la raccolta e sono trattate solo con cere naturali per migliorarne la conservabilità. I frutti si distinguono per il loro sapore marcatamente zuccherino, l’ottimo equilibrio tra dolce-acido e
l’alto tasso di succosità. La clementina fu scoperta all’inizio del Ventesimo secolo da Padre Clément (da qui il suo nome), un religioso-agronomo della regione di Orano, in Algeria. Si tratta di un ibrido tra il mandarino e l’arancio amaro. Grazie alla sua assenza di semi e alle ottime qualità gustative, la clementina divenne ben presto uno degli agrumi più amati.
Dopo il successo di Come radice nella pietra, lo scrittore italiano, ma ticinese d’adozione, Federico Iannaccone torna in libreria con un nuovo appassionante romanzo, «Un ultimo fiocco di neve». Come la prima fatica, anche questa pubblicazione è incentrata sulla dolcissima Frida, il cane salvato nella giungla messicana tanti anni fa e diventato il miglior amico di Federico. Commovente ma al contempo divertente, il libro ci regala l’emozione di una vita vissuta attraverso gli occhi e il cuore di chi ha ricevuto una seconda possibilità. Una tenera raccolta di lettere che Frida dedica ai tanti amici che l’hanno accompagnata nel suo meraviglioso viaggio alla scoperta del mondo. Un libro avvincente, scritto bene e in modo originale, adatto a tutte le età, dove le emozioni si susseguono pagina dopo pagina e da cui sarà davvero difficile staccarsi. È importante segnalare che parte del ricavato della vendita verrà devoluto ad associazioni che operano in favore degli animali. Federico Iannaccone presenterà il suo libro nelle due filiali Migros citate sopra, dalle ore 10.00 alle 16.00. Durante l’incontro ci si potrà intrattenere con l’autore e farsi autografare il nuovo romanzo.
Federico Iannaccone «Un ultimo fiocco di neve» Fr. 14.– In vendita al reparto libri delle maggiori filiali Migros
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Idee e acquisti per la settimana
Nuovo design per le esclusive bontà Migros
Attualità L’Angolo del Buongustaio presenta un nuovo look: fresco, dinamico e facilmente riconoscibile
Diventato un punto di riferimento imprescindibile per chi cerca le migliori specialità gastronomiche locali e internazionali, l’Angolo del Buongustaio Migros ha da poco rinnovato il proprio logo. Con la nuova veste grafica si è voluto puntare su un design elegante e moderno, pur rimanendo legati alla tradizione, grazie anche all’inserimento di uno sfondo in ardesia nera che richiama subito alla genuinità dei prodotti proposti dalla gastronomia Migros. Implementato lo scorso anno all’interno dei reparti macelleria Migros, l’Angolo del Buongustaio è uno spazio dedicato alle specialità culinarie di prima qualità, dove ognuno potrà trovare, oltre alle più classiche proposte sempre apprezzate dalla clientela, anche prelibatezze particolarmente esclusive a prezzi concorrenziali.
Artigianalità,regionalità, «Swissness», tradizione mediterranea e sostenibilità rappresentano i punti salienti dell’offerta dell’Angolo del Buongustaio. La selezione di prodotti, solo per citarne alcuni, spazia dalle rinomate carni svizzere di razza Black Angus al vitello certificato TerraSuisse, dalla carne e dai salumi di suini allevati in Ticino alla carne di manzo nostrano Charolais, dai formaggi nei nostri alpeggi a quelli più tipici della tradizione elvetica, dai pregiati salumi provenienti dalla vicina Penisola alla squisita gastronomia pronta da cuocere, fino alle irresistibili golosità di pasticceria artigianale di produzione propria. Gli specialisti dell’Angolo del Buongustaio sono a vostra completa disposizione per consigliarvi ogni giorno con competenza e cordialità, sia che si tratti di suggerimenti sulla cottura delle carni, sia riguardo i migliori abbinamenti per valorizzare al meglio i vostri piatti quotidiani, come pure, in vista delle prossime festività natalizie, per aiutarvi a definire i menu più adatti a sottolineare degnamente l’importante ricorrenza.
L’Angolo del Buongustaio propone le migliori specialità gastronomiche locali e internazionali. Nella foto il supermercato Migros di Arbedo-Castione, che vi aspetta con le sue proposte e consigli culinari. (Tresol Group/Däwis Pulga) Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Il futuro regionale
Bellinzonese e Valli In Ticino sono attivi quattro Enti regionali
di sviluppo. Con una serie di articoli scopriamo come operano
Nicola Mazzi Il terzo Ente Regionale di Sviluppo che presentiamo, dopo quello del Locarnese e Vallemaggia (su «Azione» del 23 settembre) e del Luganese (21 ottobre), è quello del Bellinzonese e Valli (ERSBV). Un istituto attualmente in fase di transizione dopo che l’ex direttore Raffaele De Rosa ad aprile è stato eletto in Consiglio di Stato. La conduzione della sua agenzia, ovvero l’organo operativo dell’Ente, è attualmente affidata a tre persone: Luca Hess (assistente di direzione), Dante Caprara (che si occupa anche del «Masterplan Valle di Blenio») e Stefano Melera (manager d’area della zona industriale di Biasca). Da gennaio entrerà in funzione il nuovo direttore Manuel Cereda, attualmente responsabile dello sviluppo regionale all’Ufficio dello sviluppo economico del DFE. Come gli altri Enti regionali anche l’ERS-BV ha il compito di promuovere lo sviluppo economico, valorizzando i potenziali della propria regione in collaborazione con le autorità comunali, cantonali e federali e gli attori presenti sul territorio. Attraverso la sua agenzia offre non solo consulenza, ma anche un accompagnamento ai vari progetti, la partecipazione a gruppi di lavoro d’interesse regionale e cantonale, fungendo nel contempo da sportello per qualsiasi richiesta in ambito di politica regionale e promozione economica. Copre il territorio di quattro distretti – il Bellinzonese, la Riviera, la Leventi-
na e la Valle di Blenio – venti Comuni e una quarantina di Patriziati. Questi ultimi, precisano i tre responsabili sono molto importanti vista la loro intensa attività nella valorizzazione e salvaguardia del paesaggio. Il territorio coperto dall’ERS-BV rappresenta il 43% di quello cantonale, comprende la capitale cantonale e un territorio di un considerevole valore naturalistico e paesaggistico e dal grande potenziale economico, caratterizzato ancora da un ambiente a misura d’uomo, da una buona qualità di vita, situato sull’importante asse Nord-Sud. Ma veniamo alle attività vere e proprie. Tra le molte, un progetto pilota è quello del Manager d’area, figura integrata nell’ERS-BV dedicata al rilancio e alla promozione della zona industriale di Biasca, la quale è da annoverare tra i poli di sviluppo economico cantonali. «L’obiettivo – spiega Dante Caprara – è quello di favorire lo sviluppo economico della regione, supportando le aziende presenti e agevolare l’arrivo di nuove ad alto valore aggiunto. Ciò per creare nuovi posti di lavoro (a breve grazie a ulteriori insediamenti saranno presenti in totale circa 300 impieghi). Tra i principali compiti vi è l’accompagnamento ai bisogni degli imprenditori, la loro messa in rete, la ricerca di collaborazioni per ridurre i costi, senza dimenticare la promozione dell’area». L’obiettivo è quello di rafforzare il concetto di polo di sviluppo economico, così come si stanno sviluppando altri poli del gene-
re, per esempio ad Arbedo-Castione e sul sedime dell’ex Monteforno in Bassa Leventina. Tutti progetti che l’ERS-BV sta accompagnando. L’ERS-BV è stato pure pioniere nello sviluppare un «masterplan regionale». È il caso della Valle di Blenio che come evidenzia Caprara nel 2015 «si è dotata di un piano strategico con una visione di sviluppo a medio termine, orientato a trasformare il potenziale della valle sulla base di indirizzi e priorità condivise». Diversi gli esempi che hanno confermato questa volontà. Partendo dal nuovo Centro Sci Nordico di Campra d’importanza nazionale, aperto nelle scorse settimane il cui scopo sarà di promuovere un’offerta sportiva e turistica non solo in inverno, ma sulle quattro stagioni. Per continuare con il progetto di riqualifica e riposizionamento turistico del Centro Polisportivo di Olivone nel quale è prevista un’area di campeggio con piscina, delle aree ludiche per famiglie e un punto di ristoro per i visitatori. Si possono pure menzionare i progetti legati al riposizionamento anche estivo delle stazioni sciistiche, si veda ad esempio il progetto «Campo Blenio-Ghirone Estate», che prevede vari contenuti volti a migliorare la ricettività e l’offerta turistica per la bella stagione, oppure quello del rilancio della regione del Nara con i suoi impianti di risalita anche grazie alla realizzazione di nuovi percorsi MTB. «L’idea alla base è quella di destagionalizzare e diversificare l’offerta turistica
La zona industriale di Biasca.
mettendo in rete le varie iniziative», sottolinea ancora Dante Caprara. In tal senso si inseriscono pure tutta una serie di altri progetti come l’Osservatorio astronomico a Gorda, la promozione e valorizzazione della regione del Lucomagno o della Valle Malvaglia. A livello regionale l’ERS-BV è inoltre coinvolto in tutta una serie di altri progetti. Per la Leventina ad esempio nella realizzazione del Centro nazionale Freestyle promosso da Valbianca Sa, nella copertura dell’A2 ad Airolo, nella valorizzazione dell’area turistica del San Gottardo o ancora nel progetto della nuova Valascia. La lista dei progetti potrebbe continuare andando a toccare anche altri settori e regioni del comprensorio, come nel caso del nuovo polo biomedicale tecnologico di Bellinzona, o nel sostegno dato alle varie piccole medie imprese della regione, come pure alle varie iniziative legate alla va-
lorizzazione della montagna (comprese capanne e alpeggi) e del patrimonio storico culturale. Una particolarità dell’ERS-BV riguarda pure il suo ruolo di segretariato nella Commissione regionale dei trasporti, attiva su più fronti per promuovere un’adeguata mobilità e accessibilità nelle Tre Valli. Qualche cifra, infine, in merito al Fondo di promovimento regionale, uno strumento voluto per sostenere concretamente piccoli e medi progetti ben ancorati al nostro territorio. Dal 2011 al 2018 sono stati sostenuti 326 progetti, generando investimenti per 50 milioni di franchi nei vari settori (imprese, turismo, agricoltura, servizi di base, valorizzazione del territorio, ecc.). Tutto ciò per un effetto leva importante: ogni franco stanziato ha permesso un investimento di circa 10 franchi, consentendo di creare o mantenere circa 100 posti di lavoro. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 novembre 2019 • N. 48
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Società e Territorio
Giovani che aiutano i giovani
Pro Juventute La Peer-Chat di consulenza e aiuto del sito 147.ch permette ai ragazzi di porre domande o esprimere
problemi e preoccupazioni a dei coetanei in modo confidenziale e gratuito
Alessandra Ostini Sutto Per agire in maniera efficace all’interno dell’universo dei ragazzi la modalità «peer» (tra pari) acquista un’importanza sempre maggiore. Ne è cosciente pure Pro Juventute che, sul suo sito 147. ch, propone un nuovo ed innovativo servizio di consulenza, la Peer-Chat. «In pratica si tratta di creare uno spazio in cui poter porre domande o discutere dei propri problemi con qualcuno che conosce quello di cui sta parlando chi scrive», spiega Mara Foppoli, psicoterapeuta, responsabile del Servizio Peer-Chat per la Svizzera italiana. L’efficacia di questo approccio risiede nella relazione di simmetria che si instaura tra le due parti e che ben risponde alla propensione dei giovani a rivolgersi per le proprie preoccupazioni e i propri problemi ai coetanei. Questo perché durante l’adolescenza il gruppo dei pari tende ad assumere maggiori importanza e credito rispetto a quello delle persone appartenenti a una – o più – generazioni precedenti. Oltre a ciò i coetanei offrono il vantaggio di aver vissuto, in tempi recenti, esperienze simili alle proprie o quantomeno di avere la vicinanza emotiva che consente loro di comprenderle meglio. La Peer-Chat costituisce un tassello nella storia di Pro Juventute, la cui attività di consulenza evolve costantemente per rimanere il più possibile aderente al contesto. «Per la Fondazione è importante restare in contatto con i mutamenti del mondo dei giovani. Osservandoli e seguendo i risultati dei principali studi sulle abitudini dei ragazzi in Svizzera, ci siamo resi conto che l’arrivo degli smartphone ha cambiato anche il modo in cui i giovani vanno alla ricerca di soluzioni ai loro problemi. Oggi infatti l’accessibilità alla ricerca di aiuto viene spesso mediata da internet e per questo abbiamo potenziato il sito sia di Pro Juventute che del 147, in modo da renderne maggiormente fruibili le informazioni», afferma Mara Foppoli. Lo scorso anno, 147. ch è stato oggetto di una completa riformulazione. Testi guida di elevata affidabilità e qualità, maggiore raggiungibilità del canale chat e facile accesso ai canali di consulenza telefonica, via e-mail e SMS, con consulenti formati disponibili 24 ore su 24, sono le priorità del nuovo sito web.
I quattro giovani consulenti attivi in Ticino si presentano sul sito 147.ch con un avatar.
Tornando al mondo dei giovani, un altro trend che emerge, come detto, è quello di rivolgersi ai coetanei al sopraggiungere di un problema. «In risposta a questa tendenza, vi è stato in questi ultimi anni lo sviluppo, all’interno dei programmi di prevenzione, di attività di “peer education”, che prevedono cioè il coinvolgimento diretto di giovani per promuovere comportamenti a favore della salute e altre tematiche importanti», commenta Mara Foppoli, che è pure responsabile training, selezione e coaching, per la Svizzera italiana, del 147. Ed è quello che ha fatto la Pro Juventute inserendo l’attività tra pari nell’offerta di consulenza del 147, con la forma della Peer-Chat, che ha il vantaggio di abbattere ulteriormente le barriere che si contrappongono al contatto con i programmi di consulenza e di supporto. «Questa nuova forma di consulenza permette un approccio più vicino al mondo del giovane, dal momento che sono ragazzi che fanno consulenza ad altri ragazzi con l’utilizzo di uno stesso
Consulenza + aiuto 147 Tra i servizi della Fondazione Pro Juventute, il 147 sostiene i giovani con i loro piccoli e grandi problemi e risponde alle loro domande. Ogni giorno sono circa 350 i bambini e gli adolescenti che ricevono supporto dagli oltre 70 consulenti professionisti di Consulenza + aiuto 147. Questo servizio si finanzia principalmente attraverso le donazioni dei cittadini e il sostegno da parte dell’economia e
delle istituzioni. Il sostegno da parte di privati, aziende (come Migros, la quale raccoglie donazioni dalla sua clientela durante il periodo natalizio) e fondazioni (come la Fondazione Eurosanto, che lo scorso dicembre ha raddoppiato le donazioni ricevute dai cittadini) è fondamentale per garantire anche in futuro questo importante canale di consulenza per i ragazzi.
linguaggio e una conoscenza dei problemi – spiega la responsabile del Servizio Peer-Chat Svizzera italiana – tra pari si crea una maggiore connessione, data da una stessa visione del mondo, dallo stesso linguaggio, dalla stessa cultura. La soglia di aiuto in questo modo si abbassa e ci si avvicina inoltre maggiormente al canale dove sono i giovani, ovvero la chat». I professionisti di Pro Juventute hanno notato che questo effetto di vicinanza rafforza nei ragazzi la speranza che è possibile trovare una soluzione al proprio problema, se del caso attivando le risorse di rete necessarie. Si crea dunque una visione più positiva circa la propria situazione e diminuisce il senso di isolamento e solitudine di fronte alla difficoltà. «Di fatto la Peer-Chat è una forma di consulenza con peculiarità e limiti propri. Il “Peer Counseling” parte infatti dal presupposto che ognuno possa avere la possibilità di risolvere da solo la maggior parte dei problemi della vita quotidiana. Per cui i “Peer Counselors” non dicono cosa sarebbe giusto fare e non danno consigli. Il loro compito è di aiutare stando vicino, ascoltando, raccontando la propria esperienza, offrendo cioè semplicemente il proprio sostegno e la propria presenza, oppure scoprendo assieme a chi richiede una consulenza nuove risorse e possibilità nella ricerca di soluzioni», afferma Mara Foppoli. La Peer-Chat di Consulenza + aiuto 147 ha preso avvio nell’aprile del 2018 nella Svizzera tedesca. L’offerta è accessibile dall’homepage del sito 147.ch, senza necessità di iscrizione, in modo confidenziale e gratuito. «Il bilancio dell’inizio dell’attività è assolutamente positivo. Nel primo anno
sono state gestite oltre 800 chat e le valutazioni raccolte da parte dei giovani che ne hanno beneficiato sono state positive», commenta la psicologa, «di conseguenza, è stato ritenuto opportuno estendere il servizio al resto della Svizzera».
Nel nostro cantone il servizio Peer-Chat esiste dallo scorso mese di agosto e si avvale di quattro giovani consulenti: in questo periodo sono già state ricevute e gestite quasi 100 chat In Ticino, la Peer-Chat del 147 è attiva dallo scorso mese di agosto, ogni lunedì sera, dalle 19 alle 22. «Il servizio viene promosso principalmente tramite Instagram (147_Svizzera), con la creazione di stories dedicate, la promozione sui media e la distribuzione di flyer nei principali eventi che coinvolgono i giovani, ad esempio Castellinaria – continua Mara Foppoli – il riscontro finora è stato buono: in questo breve lasso di tempo sono state ricevute e gestite quasi 100 chat». Nel nostro Cantone i giovani consulenti sono 4: Jay (20 anni), Carla (15), Max (22) e Anna (18). «I “peer” sono stati selezionati e hanno seguito una formazione specifica. Sono ragazzi che hanno già superato esperienze di vita importanti – afferma la responsabile del servizio per il Ticino – i turni di
Peer-Chat avvengono in gruppo e prevedono la presenza di un “peer coach” (un consulente 147 esperto e formato) pronto ad intervenire qualora la chat non fosse più gestibile per il consulente “peer”; si tratta di una sorta di rete di sicurezza emotiva che permette di svolgere il proprio turno con serenità». I quattro giovani volontari mettono a disposizione esperienze eterogenee e sono accomunati da un grande impegno e dalla volontà di aiutare altri ragazzi e di confrontarsi con situazioni sempre nuove. Sul sito 147.ch, questi quattro consulenti si presentano con un avatar e un breve profilo, in cui si descrivono ed enunciano alcuni temi in particolare dei quali si può parlare con loro, anche se, ovviamente, si adeguano di volta in volta alle esigenze di chi si rivolge a loro sulla chat. Max propone quali temi bullismo, droghe, coming out e safer sex; anche Carla è a disposizione per affrontare questioni relative al bullismo, ma pure a problemi psichici, ansia da prestazione, paure, body image, depressione e tristezza. Anche con Anna si può parlare di problemi psichici, come ansia e depressione, oltre che di problemi familiari e relazionali, sensi di inadeguatezza e solitudine, progetti futuri e dubbi su essi. Per quest’ultimo tema ci si può rivolgere, infine, a Jay, come pure per problemi di cuore, mobbing, difficoltà a relazionarsi, uso e abuso di sostanze. I giovani in cerca d’aiuto possono quindi scegliere in base all’argomento che gli sta a cuore o alle loro preferenze personali a chi rivolgersi per una consulenza tra pari. E con un semplice click si troveranno collegati con il «peer» prescelto sulla chat. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Tutto un mondo dentro al Parco
Piano di Magadino Diventata operativa un anno fa, la Fondazione Parco del Piano di Magadino offre proposte
che favoriscono gli interessi di agricoltura, natura e svago Sara Rossi Guidicelli Il logo del Parco del Piano di Magadino è verde e sullo schermo è in movimento: un picchio batte velocemente il suo becco; una mucca pascola pacifica; un fiore è mosso dal vento, una gallina mangia, un uomo passeggia, un altro va in bicicletta. Ci sono uccelli, farfalle, frutta, verdura, rane, lucertole, scoiattoli e una spiga di grano. Se si percorre il Piano sempre solo dalla strada per le macchine, non si vede niente di tutto questo. Bisogna scendere e cambiare visuale, perché lì a fianco c’è tutto un tesoro a disposizione. Negli ultimi duecento anni, tutto il Ticino si è trasformato, ma il Piano di Magadino è forse la parte che sorprenderebbe di più Stefano Franscini se dovesse tornare a passeggiarvi. Una volta lì il fiume Ticino non era arginato poi, nell’ultimo secolo la canalizzazione ha mutato il paesaggio e ha fatto crescere industria e sorgere strade; si è espansa la zona edificata fino all’inceneritore, tanto che molti ticinesi ignorano che ci sia un meraviglioso paesaggio naturale e silenzioso proprio sul Piano di Magadino. Il Cantone già da molti anni pensava a un modo per preservare questa area pregiata, affinché non si facesse inghiottire anche lei dal cemento, valorizzando le sue tre vocazioni intrinseche: agricoltura, natura e svago. L’idea di parco arriva dunque da lontano e si è concretizzata dopo il 2007, quando il popolo bocciò in votazione la Variante 95, una strada veloce che avrebbe attraversato il Piano per risolvere il problema del traffico su quella tratta. Il problema non è ancora stato risolto, ma si è preservata però l’area agricola pregiata a elevata biodiversità del Piano, che sta vivendo l’inizio di un suo nuovo sviluppo grazie alla Fondazione del Parco, nella quale sono rappresentati il Cantone, i Comuni, le associazioni agricole, quelle ambientaliste, gli enti regionali di sviluppo, le organizzazioni turistiche regionali e il Consorzio correzione fiume Ticino. A un anno dalla sua entrata in carica, Alma Sartoris, geografa e direttrice della Fondazione del Parco, ci raccon-
Dal punto di vista naturalistico il parco è importante per la biodiversità, grazie alla presenza di ambienti palustri di pianura. (parcodelpiano.ch)
ta il progetto. «La nostra idea di base è che agricoltura, natura e svago possono convivere e potenziarsi a vicenda», spiega. «Siamo un collettore di progetti e iniziative che possono arrivare dagli otto Comuni, dalle 80 aziende agricole e dalle associazioni del territorio che già da tempo si prendono cura di tutti gli aspetti più importanti di questi 2350 ettari di superficie». Il parco si estende lungo il tracciato del fiume Ticino per una lunghezza di quasi 11 km e una larghezza media di circa 2 km. Oltre il 60% della superficie del parco è dedicato all’agricoltura, che costituisce circa i 3/4 della produzione agricola nel Ticino. Dal punto di vista naturalistico, il Piano è considerato un importante polo strategico per la biodiversità, grazie alla grande presenza di ambienti palustri di pianura (tra cui le Bolle di Magadino, «memoria storica» di come erano un tempo le rive del Ticino) che ospitano specie rare di uccelli e anfibi. L’area è perfetta per passeggiate a piedi e in bicicletta a ogni età: pianeggiante, vicina ai due grandi centri abitati, servita da ferrovia e autobus e ricca di prati, boschi, zone umide di grande
bellezza. Difficile ormai trovare upupe e civette alle nostre latitudini, se non proprio sul Piano; mentre le Bolle di Magadino (gestite dall’omonima Fondazione) sono ritenute di importanza internazionale perché tappa degli uccelli acquatici migratori. «Tutta questa zona, che va dalle Bolle al termovalorizzatore di Giubiasco», prosegue la direttrice del Parco, «non è praticamente più edificabile tranne che per esigenze agricole; ora lavoriamo su un grande numero di progetti che vorremmo sviluppare nei prossimi anni. Per esempio, saranno estese le reti ciclabili e pedonali; posizioneremo mappe per orientarsi e scoprire le ricchezze dei luoghi; faremo sensibilizzazione per una buona convivenza tra chi lavora, abita e chi si muove all’interno del Parco. Vorremmo che le aziende agricole potessero promuovere i loro prodotti e far conoscere il modo in cui questi sono preparati». La sensibilità del futuro sembra essere quella di rispettare altrettanto la natura coltivata da quella incolta: non ci si sorprenderà dunque di passare da biotopi senza intervento umano a cam-
pi coltivati e vendita diretta di prodotti cresciuti lì a fianco: anzi, saranno questi gli ingredienti ben amalgamati di una giornata trascorsa in modalità lenta, con vitto a chilometro zero, in un paesaggio da sogno, senza rumori urbani. Oltre a svolgere alcuni lavori di manutenzione per ambienti naturali, sono iniziate svariate collaborazioni: in questo primo anno sono state organizzate serate, conferenze e visite guidate, tutte volte a sensibilizzare sui temi del Parco; sono stati avviati sostegni particolari e consulenza mirata rivolti a un’agricoltura sostenibile; si sta lottando contro le piante neofite; si promuovono alcune iniziative private, come per esempio la spesa in fattoria su due ruote il mercoledì mattina. In collaborazione con la società dei commercianti di Locarno, invece, in settembre, al mercato è stato adibito un angolo con i prodotti del Piano. La Fondazione ha anche partecipato a eventi come Slow Up che promuove la mobilità lenta: «Il traffico dovrà essere sostenibile, cioè il passaggio all’interno del Parco sarà riservato a chi lavora, vive o si reca in un’azienda agricola, per il resto noi fa-
voriamo visite del territorio in bicicletta, a piedi o a cavallo». Tra i progetti per il futuro ci sono anche l’istituzione del Centro di accoglienza del Parco, per scuole, visitatori e gruppi in visita, con un’esposizione permanente, un luogo dove degustare e vendere prodotti del Piano, gli uffici, il punto di partenza o di arrivo per tutte le escursioni, e così via. Un tema di cui si sta occupando la Fondazione e che potrebbe interessare scuole, consumatori e distributori è la limitazione degli sprechi alimentari. «Vogliamo trovare idee per il raccolto che rimane invenduto, sia perché in alcuni periodi dell’anno c’è più produzione che domanda di certi ortaggi che quindi si trovano in eccesso, sia perché di “seconda scelta”, cioè esteticamente diversi. Ne stiamo discutendo con chi si occupa di smerciare gli ortaggi delle aziende locali: abbiamo messo sul tavolo varie proposte che valuteremo per decidere quali direzioni saranno le più interessanti da percorrere», illustra la direttrice. Non ci resta ora che recarci sul posto: scendiamo dal treno a Cadenazzo, Sant’Antonino, Gordola, Giubiasco o Quartino e andiamo ad ammirare i colori dell’autunno, a piedi o con le biciclette. Forse non tutti conoscono il laghetto di Gudo, con il suo osservatorio per uccelli; non tutti avranno già visto i nidi di rondine e il parco giochi nella Fattoria Ponzio; di sicuro non tutti hanno sotto casa formaggio e uova «del contadino» e molti di noi si sono dimenticati di quante rane, cinguettii, libellule ci rallegrano la giornata se decidiamo di trascorrerla all’aria aperta in un luogo protetto. E chi ha già visto la Foce del Trodo, con tutta la vita che gli gira intorno e gli alberi da frutta da cui chiunque può servirsi? Alma Sartoris ricorda anche che ci sono stalle aperte e scuole in fattoria, che piacciono a bambini e ragazzi ma non solo. «Stalle aperte è un progetto che porta le aziende a mostrare il proprio lavoro e i propri animali a chi li viene a trovare» e infine conclude: «Nel Parco si trovano agriturismi, scuderie e ristoranti dove mangiare e anche un bed and breakfast dove pernottare». Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Il dolore lontano Capita, a volte, che la cassetta della posta sia affollata da richieste d’aiuto promosse da molteplici enti di beneficenza. La gran parte invita a un sostegno per offrire cibo, assicurare cure sanitarie, migliorare il tenore di vita delle popolazioni più povere, sparse in diverse zone del globo. E quasi tutte mostrano volti di bambini denutriti, afflitti, sconsolati. Perché bambini? Anche un adulto, ovviamente, soffre la fame, il freddo, o patisce per la mancanza di cure sanitarie; ma la ragione per la quale vengono scelti tristi volti infantili è intuitivamente evidente: la sofferenza di un bambino induce più facilmente alla compassione che quella di un adulto. Questo mi ricorda un esperimento psicologico, condotto sottoponendo a un test parecchie decine di volontari e che diede risultati molto significativi. In sintesi, il test propone due casi: nel primo si legge di un uomo che riceve
dall’Unicef una lettera in cui si chiede un contributo di 50 euro per salvare la vita di venti bambini fornendo loro sali reidratanti; nel secondo, un uomo al volante della sua auto vede sul ciglio della strada una bambina con una gamba sanguinante; si ferma e la bambina gli chiede di portarla all’ospedale. L’uomo considera che il sangue della bambina gli macchierà il sedile causando un danno di almeno 200 euro. In entrambi i casi alla persona soggetta al test viene chiesto se sia moralmente obbligatorio accogliere la richiesta. Ebbene, nel caso della bambina ferita quasi tutti rispondono che prestare aiuto è obbligatorio (non solo in senso giuridico, ma innanzitutto morale); nel primo caso, invece, solo una esigua minoranza si ritiene moralmente obbligata ad accettare la richiesta. Ora, confrontando i due casi, si vede facilmente che soccorrere la bambina è ben più costoso che aiutare i bambini
disidratati, e dunque un mero calcolo utilitaristico farebbe propendere per la prima richiesta; invece non è così. Perché? Perché nel caso della bambina il coinvolgimento è diretto, il dolore è reale e immediatamente percepibile, tanto da far scattare quella reazione empatica che è alla base di tanti comportamenti di solidarietà altruistica. È vero: noi siamo Naturalmente buoni, come dice il titolo di un bel libro dell’etologo Frans De Waal; ma, ovviamente, la nostra bontà non è sconfinata. Proprio gli studi di etologia hanno confermato che questa tendenza innata alla cooperazione altruistica noi la condividiamo con varie specie di scimmie antropoidi; e però, la base biologica ha i suoi limiti: noi siamo «naturalmente buoni» con il nostro «prossimo» – ossia, letteralmente, con chi ci sta accanto, le persone con le quali viviamo e abbiamo relazioni affettive. Come ha scritto Konrad Lo-
renz, «l’uomo non è malvagio fin dalla giovinezza. L’uomo è buono “quanto basta” per una società di undici persone». Ma, poi, ai fondamenti biologici si sovrappone la cultura: ed è indubbio che nel corso di millenni, grazie alla cultura, la morale ha fatta molta strada. Se si guarda all’antichità classica, risulta evidente che il concetto di umanità è ancora ristretto e limitato ai concittadini (maschi): donne e schiavi sono considerati, anche da Aristotele, esseri inferiori, a metà strada fra uomini e bestie; e così pure i «barbari». Ed è un lungo e lento percorso quello che ha portato alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: quella universalità per la quale si riconosce uguale dignità a ogni essere umano, quali che siano la razza, il sesso, la condizione psicofisica, fu sottoscritta solo nel 1948 e sarebbe sembrata assurda a tutta la cultura occidentale precedente.
Ancora nel 1866 una Istruzione del Sant’Offizio giustificava la schiavitù, precisando che «non ripugna al diritto naturale né al diritto divino che il servo sia venduto, comprato, donato». Poi, nel 1992, papa Wojtyla andò in Senegal e in Angola a chiedere perdono per l’«enorme crimine» del commercio degli schiavi fatto dai cristiani. Siamo, dunque, nel periodo più civile della storia: almeno sul piano giuridico l’eguaglianza dei diritti è riconosciuta a ogni persona. Ma sul piano morale? La globalizzazione comporta anche l’anonimità crescente della società umana: e questo potrebbe indebolire la solidarietà spontanea radicata negli impulsi biologici. O, forse, la cultura può dilatare l’altruismo inducendo ad essere solidali anche con la sofferenza lontana di chi non ha volto; e le tante associazioni benefiche che diventano sempre più numerose potrebbero forse esserne una conferma. Forse.
elvetiche (1994), il ritratto colto e ironico di Friburgo finiva così: «Uno scrittore francese, mezzo surrealista, l’adora dal giorno in cui poté vedervi, seduti a un tavolo di caffè, due ecclesiastici negri, due autentici africani, divorarsi tranquillamente una bianchissima fonduta di gruyère…». Menzionata per la prima volta nel 1699 in un manoscritto zurighese di ricette, portata a New York nel 1940 per l’esposizione universale, di moda negli anni settanta forse sull’onda dello sci epidemico, propinata spesso come simbolo di convivialità e coesione nazionale eccetera, ecco che arriva la mia fondue delicatamente pallida. Il caquelon è rosso vulcanico. Oltre al pane, per la vacherin servono delle piccole patate al vapore con la buccia. Buonissima, e poi è anche un’attività ludica infilzare, gironzolare con il forchettone pattinando nella fondue. Certo, il décor funky-kitsch di prima è un po’ ricreato ma risulta artefatto. Troppo ordine nelle foto incorniciate e la scultura cinetica è di un emulo posso di Tinguely. A ogni buon conto c’è stato un certo rispetto, durante il restauro nell’autunno 2004 e
la ristorazione è seria. Il legno chiaro risalta, le sedie thonet d’epoca s’intonano sempre con tutto, girano invitanti frites dorate, avvisto un articolo incorniciato con una foto di Marie-Rose e Albert. Accanto, un altro ritaglio di giornale parla della sua fedele spalla, Gaby Nasel detta Gabichon, cameriera emblematica che quando l’habitué dal pensiero criptico-carpiato ordinava un «ParisDakar» gli serviva sapiente il rosé d’Anjou. Inoltre, va detto, l’orario da bistrò vero è conservato: dalle nove di mattina alle undici e mezza. I giornali sono al loro posto, nel portagiornali a fianco dell’entrata. Noto «La Liberté», quotidiano locale fondato nel 1871 e letto qui al Gothard, in compagnia di una «bière-cognac», dal protagonista alla deriva di Jonas (1987). Romanzo di Jacques Chessex dove questo locale, verso fine novembre, entra in scena otto volte in una settimana. «Sentirsi bene al Gothard per noi è come sentirsi meglio che a casa, meno soli a volte, o più liberi» mi confessò una sera uno che potrei definire, senza ombra di dubbio, bistrologo emerito di Friburgo.
L’opera in 140 caratteri: Un uomo intinge una madeleine nel tè. Questo lo porta a rievocare i ricordi di tutta una vita. Alla fine, decide di scriverci un libro. La community: Marcel Proust: «C’è un mondo dentro quella tazza di tè»; la madre: «C’è una madeleine dentro quella tazza di tè»; Swann: «Aiuto! Tiratemi fuori da questa tazza di tè». Il commento dei follower: Alla ricerca del tempo perduto è la più ambiziosa impresa letteraria del Novecento. E forse la più ambiziosa di ogni tempo: perduto, presente e ritrovato. La memoria, le emozioni, la scrittura, il senso di una vita: i grandi temi si intrecciano tra le pagine di quest’opera immensa. Geolocalizzazioni: Combray («qui ogni cosa ha il profumo del passato»), Balbec, Parigi, Tansonville («dove ritrovare il tempo perduto»). L’hacker: Marcel Proust ha condiviso un ricordo con te. Visualizzalo ora.
Cosa ve ne pare cari lettori? Non solo alla luce del linguaggio e dello stile social, i classici sono stati reinterpretati anche dal punto di vista dell’immagine così centrale nei nostri scambi in Rete. Mi dice Victor Cavazzoni che nel caso del disegno «il gioco di sintesi è totale. La sfida è dire il più possibile per sottrazione. Ho fatto una ricerca sulle copertine e le pubblicazioni dei vari classici e ho visto che per ognuno i simboli sono sempre gli stessi. La sfida era mantenere quei simboli sedimentati nell’immaginario collettivo fondendoli in una forma nuova». È un processo, quello della sedimentazione delle immagini, oggi quasi inesistente visto il costante flusso al quale i social ci sottopongono. Nel gioco di sintesi tra testi e immagini questa guida sentimentale dalla forma social è un libro sui libri adatto sia a chi vuole riscoprire sia a chi vuole avvicinarsi ad un classico per la prima volta. In qualunque caso, buon viaggio!
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Il Café du Gothard a Friburgo Ai primi freddi, il richiamo della fondue, da qualche parte in Svizzera romanda, quest’anno è da seguire. Non sono un fan, ma una volta ogni due tre anni circa, devo andare di corsa in certi posti conosciuti per la fondue. Come il Café du Gothard (607 m) a Friburgo dove mi sto dirigendo adesso a piedi appena sceso dal treno. Oltre la fondue, questo locale – battezzato così alla sua apertura nel 1880 in omaggio al tunnel ferroviario del Gottardo inaugurato due anni dopo e dove sono passato stamattina verso le otto e mezzo – un tempo era famoso anche per la sua irripetibile atmosfera. Opera di MarieRose Holenstein (1944-2012): anima per trentadue anni del Gothard assieme al suo inseparabile bulldog inglese Albert. Ex tata dei Kennedy in America, ha ospitato a casa sua Jacques Fasel, bandito vecchio stile sbarcato una domenica pomeriggio nel suo bistrò dove fluttuavano due gigantesche sculture gioiose di Niki de Saint Phalle. Acquarelli di Tinguely alle pareti, foto di toreador, coniglietti rosa in peluche, rami con uova pasquali, caratteri cirillici di
un enorme manifesto del concerto di un coro locale a Mosca, ricordo anche una volpe impagliata con in bocca una collana di perle. Ballerine con fiocchetto a pois ai piedi, Marie-Rose trattava con la stessa umanità uno spazzino o un consigliere federale. Non per niente, in occasione della mostra Au café, soif de societé al Musée d’art et d’histoire, a trecento metri neanche dal Gothard, dall’autunno dell’anno scorso alla primavera di quest’anno, era esposto un bel ritratto fotografico in biancoenero della «patronne légendaire» con il suo cane accanto, immortalata mentre ride con gli occhi. È sempre lì, all’ombra della cattedrale gotica di molassa: discreto, l’insegna in oro su sfondo nero come le due colonne all’entrata al sedici di rue du Pont-Muré. Mantenuta, meno male, la classica tenda spessa da bistrò color vinaccia che permette – oltre a tenere al caldo la clientela senza correnti improvvise d’aria fredda – a chiunque, un’entrata in scena teatrale. Mi siedo su una delle vecchie panche tutte intorno alla prima sala e la vista di un caquelon color ciliegia, sopra un
réchaud in rame, mi mette subito di buon umore. Senza guardare la carta, ordino una fondue al vacherin. Non l’ho mai provata, l’ultima che ho preso, al Café de l’Evêché a Losanna qualche anno fa, era una moité-moité: metà gruyère, metà vacherin. Del resto al Café Bon Vin di Ginevra mai preso altro che moité-moité, eppure la vera fondue vodese, mi ha detto una volta Annie, la patronne scomparsa dell’Ambiance, bistrò mitico ormai estinto come molti altri di quel genere popolare autentico, è solo gruyère. Curioso, però, come entrambi i formaggi per la moité-moité siano friburghesi, perciò ho sempre considerato Friburgo un po’ come la capitale della fondue. E una fondue memorabile spunta come finale di un reportage su Friburgo, apparso sul «Corriere della Sera» del venti aprile 1947 firmato Eugenio Montale. Inviato speciale in pantofole il cui informatore sul campo era Gianfranco Contini, titolare qui della cattedra di filologia romanza. Intitolato Due preti negri seduti al caffè e ripubblicato postumo a cura di Fabio Soldini in Ventidue prose
La società connessa di Natascha Fioretti Che belli i classici in chiave social Due quarantenni mantovani, Fabio Veneri, formatore e scrittore, e Victor Cavazzoni, illustratore, hanno avuto un’idea originale quanto bizzarra: ripensare 50 capolavori classici della letteratura al tempo degli smartphone.
Dico bizzarra perché li hanno ripensati su carta e non su digitale in un volume uscito per le Edizioni Clichy. L’intento, di quello che sembra un esercizio e quasi un gioco, è di avvicinarsi ai classici secondo i canoni moderni ai quali la vita
L’illustrazione di Victor Cavazzoni per Alla ricerca del tempo perduto.
social e digitale ci hanno abituato con un po’ di ironia e leggerezza ma senza superficialità. Come scrivono gli stessi autori questo lavoro «rappresenta una dichiarazione d’amore con una carezza di humour in tempi in cui i social network svolgono una funzione comunicativa centrale e in cui sempre maggiore è l’importanza del linguaggio visivo». Il risultato sono cinquanta schede, si inizia con L’Iliade e si finisce con L’uomo senza qualità, uguali tra loro per forma, ritmo e colori. La parte testuale è composta ogni volta di cinque voci e ogni scheda ha la sua illustrazione. L’elemento chiave preso in prestito ai social che percorre tutto il progetto è la sintesi. Per rendere l’idea, penso che la cosa migliore sia proporvi una delle schede, ad esempio Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust (a lato l’illustrazione, come tutte volutamente di forma quadrata per ricordare le immagini postate su Instagram).
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Ambiente e Benessere I grandi fiori del Cimbidio Bianchi, rosa, verdi, gialli o anche arancioni, sbocciano in corolle da novembre in poi
Un antipasto cremoso La vellutata di sedano rapa con pezzetti di pera alla Williamine per Natale pagina 20
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pagina 18
pagina 26 In vaste pietraie, oltre i 3000 metri, si trova soltanto qualche isolato cuscinetto di Silene. (Hermanhi)
Un trionfo di sopravvivenza Biodiversità Tra le piante alto-alpine a cuscinetto anche la Silene acaulis
Alessandro Focarile Una vasta pietraia ci attende a 3000 metri di altitudine. Sembra un deserto grigiastro privo di vita, ma osservando meglio, ci rendiamo conto che è un «deserto» abitato. Una farfalletta brunastra (Erebia) vola svampita in cerca di qualche raro fiore. Un gracchio trova qualcosa da becchettare. Un topolino alpino, che non va in letargo, sguscia e guizza via tra i massi di roccia. E un elegante coleottero verdastro (Cicindela gallica) in cerca di qualche preda svolazza in pieno sole con 32° centigradi sui tratti scoperti del sentiero. Non manca qualche vistoso lichene giallo (Rhyzorcarpon geographicum), osservato sul Finsteraarhorn fino a 4500 metri. Ma il vegetale che più colpisce la nostra attenzione per le sue dimensioni è una vistosa pianta a cuscinetto: la Silene acaulis (foto), che sarà l’argomento del nostro articolo. «Le dure condizioni fisiche dell’ambiente alpino hanno causato nel corso del tempo un severo filtro tra gli esseri viventi, che hanno tentato di popolare le altitudini più elevate. Pochi esseri sono riusciti, e si osserva un pro-
gressivo impoverimento, quando ci si eleva sui fianchi di una montagna. Tuttavia, vegetali ed animali sono riusciti a creare delle comunità (cenosi) ben equilibrate e stabili, notevolmente ben adattate all’ambiente alpino del quale sfruttano tutte le possibilità». (Dorst 1972) II clima dell’alta montagna ha profonde conseguenze per la vita dei vegetali e degli animali, dalla minuscola Leptusa (coleottero stafilinide di 1,5-3 millimetri) allo stambecco, ai camosci e alle marmotte. Tutti sono tributari di una miriade di microclimi che evolvono incessantemente in altitudine. Diversi sono i fattori che caratterizzano il clima di alta montagna. Le temperature medie sono basse, il che determina il corto periodo vegetativo delle piante. Vi è una grande escursione termica tra il giorno e la notte, e a seconda dei versanti. L’aumento dei raggi ultra-violetti (UV) favorisce l’intensità dei colori: le genzianelle (kochiana e clusii) e l’eritricio nano (Eritrichium nanum) esibiscono un blu intensamente violento. Come il colore rosso del Sedum arachnoideum. Il vento esercita un’azione di disseccamento dell’aria, e crea l’azione meccanica di sradicamento dell’ap-
parato radicale. Esso limita la statura delle piante, che assumono forme nane, con fiori alti poco più di un centimetro. La radiazione solare è molto più intensa in alta montagna, e la piovosità (sotto forma di neve) è sovente molto abbondante: 30 metri sul Monte Bianco, con un massimo in agosto (Péguy 1962). A quote inferiori, le fugaci gelate estive hanno un effetto deleterio ben maggiore per la vegetazione, mentre durante l’inverno le piante con fiori (fanerogame) sono protette dall’efficiente mantello isolante della neve. Durante lunghi periodi, che possono protrarsi durante 9-10 mesi, la neve costituisce una potente protezione contro i rigori termici. Fino a 20-30 centimetri, lo spessore della neve è attraversato dalla radiazione solare che apporta luce e calore. Sono stati misurati valori prossimi allo zero alla base dello strato di neve a contatto della superficie del terreno, mentre nell’aria c’erano 33 gradi sotto zero. In un vasto spazio della pietraia, oltre i 3000 metri, alligna soltanto qualche isolato cuscinetto di Silene. Esso ha una sola radice fittonante, che penetra profondamente nelle fessure della roc-
cia, generando il suo progressivo disfacimento, e che può avere fino a due centimetri di diametro. Il cuscinetto può raggiungere 80-100 centimetri di diametro, e un’età di cent’anni, con un accrescimento annuo di meno di un centimetro, con un massimo di quattro centimetri durante il maggior periodo vegetativo (20-30 anni). Lo stesso ha uno sviluppo radiale, cioè dal centro verso la periferia. Per tutte queste caratteristiche singolari, la nostra silene può essere considerata un albero in miniatura: un vero successo biologico! La pianta a cuscinetto è un organismo vegetale ottimale, che assorbe molto calore, e conserva l’acqua dove è intensa la traspirazione a causa della secchezza dell’aria in alta montagna e dove tutt’intorno non c’è che la nuda e inospitale roccia. Infine, il cuscinetto funge da collettore di tutta la massa di nutrimento (pollini, spore, semi, detriti vegetali, insetti) convogliata e deposta dalle correnti ascensionali di aria calda fino alle altitudini più elevate. James B. Benedict (1989) ha realizzato un interessante e approfondito studio su questa singolare pianta, dif-
fusa in tutte le regioni boreali del Nord America e dell’Eurasia e nelle Alpi. Il suo campo di ricerca è stato sulle Montagne Rocciose del Colorado (USA), ai bordi del ghiacciaio Arapaho fino a 3700 metri. Da questo studio si apprendono alcune interessanti notizie. Il cuscinetto di Silene acaulis può formarsi su graniti e su scisti. Il più grande cuscinetto aveva 82 anni di età, cioè inizia il suo accrescimento nel 1925. Il suo sviluppo sulla superficie della roccia è tale da impedire quello di altri vegetali (fanerogame e licheni). Infine questo sviluppo è generalmente rotondeggiante, indipendentemente dall’acclività del substrato roccioso di impianto. Bibliografia
James B. Benedikt, Use of Silene acaulis for dating: the relationship of cushion diameter to age, Arctic and Alpine Research, 1989, 21:91-96. Claude Favarger et al, Guide du -Naturaliste dans les Alpes, Délachaux et Niestlé (Neuchâtel) 1972, 429 pp. Franco Rasetti, I fiori delle Alpi, Accademia Nazionale dei Lincei (Roma), 1980, 316 pp. + 572 fotocolor.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 novembre 2019 • N. 48
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Ambiente e Benessere
L’eleganza dei Cimbidio
Mondoverde Di questi grandi fiori della famiglia delle Orchidacee esistono molte specie in natura,
Anita Negretti Bianchi, rosa, verdi, gialli o anche arancioni, i grandi fiori delle orchidee Cimbidio (Cymbidium) sbocciano lungo gli alti tralci carichi di corolle, che portano fino a venti boccioli. In grado di durare fioriti fino a un paio di mesi, vengono spesso utilizzati anche come fiori recisi per composizioni fresche, ma la soddisfazione di coltivare in casa propria un esemplare di queste belle piante diventa alta quando dal gruppo di foglie si vedono comparire i futuri rami fioriti.
Il periodo ideale per trovarle in fiore va da novembre fino alla metà della primavera, mentre in estate restano a riposo I colori brillanti che tingono la consistenza cerosa dei petali accompagnano un vistoso labello, la parte centrale della corolla, che si presenta tigrato, maculato o striato e con sfumature appariscenti. Le lunghe foglie nastriformi, che possono raggiungere anche i sessanta centimetri di lunghezza, si sviluppano da pseudobulbilli grandi come castagne, che rimangono a filo terra, ancorati al terreno da piccole radici. La terra ottimale per la coltivazione dei Cymbi-
dium è in realtà un substrato formato da una miscela di corteccia di pino e torba fibrosa, ma per praticità si possono utilizzare i terricci per orchidee già pronti. Se desiderate regalarvi una di queste bellissime piante (native di India, Cina, Birmania e Australia), considerate che il periodo ideale per trovarle in fiore va da novembre fino alla metà della primavera, mentre nei mesi estivi e caldi vanno in riposo. Da novembre gli alti steli fioriti, che nella maggior parte dei casi raggiungono i sessanta centimetri di altezza, si apriranno gradendo esposizioni luminose ma non soleggiate, in casa o in veranda, lontano da termosifoni e non in pieno sole. Per tutto l’anno vanno concimate, utilizzando preparati per orchidee da somministrare ogni 15-20 giorni e facendo attenzione a controllare l’insorgenza di parassiti come il ragnetto rosso (quasi invisibile a occhio nudo, ma lascia molte piccole ragnatele tra le foglie) o la cocciniglia a scudetto. In entrambi i casi si potranno eliminare con olio bianco, acaricidi o un buon anti cocciniglia. Le bagnature dei Cymbidium si eseguono tre-quattro volte alla settimana, oppure li si possono immergere in acqua a bagnomaria per una notte intera, facendoli scolare al mattino e riportandoli nella loro posizione di coltivazione. Per tutta l’estate è consigliabile lasciarle all’esterno, all’ombra di qualche grande pianta, in grado di schermare il
Eric in SF
ma anche altrettanti ibridi
sole con le sue fronde, in maniera tale che l’orchidea si irrobustisca colorando le foglie di un bel verde carico e moltiplicando i suoi pseudobulbilli. Tra le tante specie presenti in natura, quasi cinquanta, si possono scegliere sul mercato moltissimi ibridi, creati nelle aziende floricole di tutto il mondo, partendo nella maggior parte
dei casi da piante di Cymbidium tracyanum, originario della Birmania e oggetto di sperimentazioni orticole fin dagli inizi del 1900. I candidi ibridi di Cymbidium «Staffi» hanno petali bianchi e labello puntinato di rosa intenso, molto simile alla varietà «Marilyn Monroe», dedicata alla celebre attrice.
Ma se le varietà di rosa spopolano, si possono ricercare ibridi dai colori più particolari, come la tinta verde acido e verde pastello di «Machteld» o «Tara»; il verde pistacchio di «Green Thumb» o il giallo vivo di «Golden Wish», che diventa ancora più caldo e coinvolgente se abbinato all’appariscente arancio di «Mighty sunset». Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Vellutata di sedano rapa alla Williamine Antipasto Ingredienti per 4 persone: 350 g di sedano rapa · 1 cipolla · 1 spicchio d’aglio · olio
per cuocere · 1,2 l di brodo di verdura · ½ limone · 0,5 dl Williams · 1 pera · sale · pepe · 4 c di crème fraîche · 1 rametto d’aneto. migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
1. Tagliate il sedano a pezzettini, tritate la cipolla, l’aglio e fate appassire tutto nell’olio. Unite il brodo, mettete il coperchio e lasciate sobbollire per circa 30 minuti, finché il sedano rapa si ammorbidisce. 2. Grattugiate finemente la scorza del limone e spremete il succo. Aggiungete entrambi alla minestra con la Williamine e frullate il tutto con un frullatore a immersione. 3. Tagliate la pera a pezzettini, aggiungeteli alla vellutata e portatela brevemente a ebollizione. Regolate di sale e pepe e affinate con la crème fraîche. Guarnite con l’aneto. Consigli utili: Variante senz’alcol: sostituite la Williams con il succo di mele. Preparazione: circa 15 minuti + sobbollitura 30 minuti circa. Per persone: circa 3 g di proteine, 7 g di grassi, 11 g di carboidrati, 170 kcal/700 kJ.
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del cosiddetto digiuno intermittente Laura Botticelli
Gentile Laura, ho scaricato tempo fa un app di un personal trainer per allenamenti. Ogni tanto aggiunge anche dei post su altri temi, tipo l’alimentazione. Mi ha incuriosito un post sulla dieta del digiuno intermittente: ci sono delle finestre di 6-8 ore in cui è consentito mangiare più o meno di tutto mentre il resto del tempo non si può mangiare nulla. Cosa mi sa dire a riguardo? Vale la pena provare. / Antonio Buongiorno Antonio, c’è chi digiuna per motivi religiosi e, ultimamente, chi lo fa per dimagrire. La dieta del digiuno intermittente è un periodo entro il quale ci si astiene dal bere bevande che siano diverse dall’acqua e dal mangiare qualsiasi alimento per un periodo di tempo più o meno prolungato, tipo 16:8 (16 ore di digiuno e 8 per alimentarsi) o 20:4 (20 ore digiuno e 4 per mangiare) fino a quello di 36 ore di digiuno. In questo modo si crede che poi, nei periodi dove si può mangiare, il digiunatore tenda ad assumere meno calorie nel complesso, con conseguente perdita di peso. Inoltre si ritiene che privare intenzionalmente le cellule delle calorie possa rallentare la progressione di alcune malattie legate all’età. Adesso non so per cosa lo intendesse questo personal trainer, probabilmente, se è un’applicazione legata allo sport, per perdere peso. Cosa posso dirle a riguardo? Le dirò che questo stile di vita proposto, perché alla fine si tratta di questo, può essere uno strumento per perdere peso per alcune persone ma non è la soluzione per tutti. Il nostro corpo ha bisogno di una determinata quantità di nutrienti ogni giorno. Negare al tuo corpo le calorie per un lungo periodo di tempo non è raccomandato a chiunque sia fi-
sicamente attivo, a donne in gravidanza, mamme che allattano e per i ragazzi sotto i 18 anni o per chiunque abbia determinate condizioni mediche, come il diabete, la gotta eccetera. Quindi per chi può avere lati positivi? Alcune persone possono trovare più semplice non mangiare del tutto per un certo periodo di tempo oppure mangiare moderatamente ai pasti durante il giorno, come chi decide di smettere di fumare del tutto invece di diminuire man mano. È però molto importante, nei periodi dove si può mangiare, non buttarsi sul cibo a casaccio, ma assumere ingredienti sani e di qualità, mantenendo le cinque porzioni di frutta e verdura, preferendo i cereali integrali, le proteine magre e i grassi sani. Esistono diversi piccoli studi che hanno riscontrato livelli più bassi di zucchero nel sangue, pressione arteriosa e colesterolo in chi segue questi digiuni ma mancano ancora studi più ampi e a lungo termine per confermare l’efficacia e la sicurezza di questa dieta, quindi la maggior parte dei benefici proposti sono teorici o limitati. Mi chiede se vale la pena provare. Se non si è tra le persone per la quale è sconsigliata, visto che mancano ancora studi a lungo termine, sarei prudente; non mi butterei sulle formule estreme delle 36 ore di digiuno ma la 16:8 e chiederei comunque un aiuto a dei professionisti in quanto potrebbero esserci degli effetti indesiderabili quali emicrania, stitichezza, crampi muscolari. Informazioni
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© Divisione eventi e congressi, Città di Lugano
MERCATINI DI NATALE IN TICINO
Ascona: 30.11.2019 - 1.12.2019 Locarno: 8.12.2019
15.12.2019 - 22.12.2019 (solo domeniche)
L’ATMOSFERA DELLE FESTE
AVVENTO ROMANTICO
TRADIZIONE NATALIZIA
Nel periodo dell’Avvento, l’aria si riempie del profumo del Natale con i tradizionali mercatini nel cuore di Lugano. In città verranno allestiti anche una pista di ghiaccio, uno scivolo per slittini e snowtube di dimensioni di 30 mt, decorazioni luminose e un presepe a grandezza naturale.
Addobbate di luminarie, nel periodo dell’Avvento le località più soleggiate della Svizzera sono ancora più suggestive. Particolarmente apprezzata da grandi e piccini è la pista di pattinaggio su ghiaccio al centro di Locarno e il tradizionale mercatino natalizio di Ascona.
I mercatini di Natale di Bellinzona esercitano un fascino impareggiabile su grandi e piccini. Privilegiando diverse amate tradizioni svizzere propongono ai visitatori giocattoli per bambini fatti a mano, capi di abbigliamento in feltro e scarpe in pelle.
MERCATINI DI NATALE IN TUTTA LA SVIZZERA EINSIEDELN (SZ) 29.11.2019 - 8.12.2019
Il grande mercatino di Natale di Montreux si svolge sul lungolago del Lemano, dove 172 chalet addobbati, disposti in fila uno dopo l’altro, invitano ad ammirare, assaggiare e cimentarsi nel bricolage. Il magnifico spettacolo è ancora più bello se ammirato dalla grande ruota panoramica. Tre volte al giorno il Babbo Natale volante fa brillare gli occhi dei bambini (alle ore 17.00, 18.00 e 19.00).
Il mercatino di Natale di Einsiedeln (SZ), composto da circa 140 bancarelle disposte nel piazzale antistante l’affascinante monastero e lungo la via principale del paese, attira ogni anno molti visitatori. La musica natalizia risuona ovunque e l’aria profuma di cannella e zucchero. Vale davvero la pena andarci!
La
MONTREUX (VD) 21.11.2019 - 24.12.2019
Dall’1.12 al 24.12 con il calendario dell’Avvento Famigros puoi vincere premi strabilianti. Partecipando ogni giorno aumenti le probabilità di vincere il premio principale: una delle due biciclette elettriche Zouma Deluxe+. Scopri di più su famigros.ch/calendario-avvento
La maison du Père Noël – Rocher de Naye
«L’avventura natalizia inizia già durante la salita a Rocher de Naye con la cremagliera. La vista, la neve, l’atmosfera: un’esperienza semplicemente magnifica! I bambini hanno fatto visita nella sua casetta a un Babbo Natale dall’aspetto davvero autentico e poi hanno giocato nella neve.» Carlo, Papà di Otto (6 anni) e Mario (2 anni)
1 Con il calendario dell’Avvento Famigros puoi vincere ogni giorno
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 novembre 2019 • N. 48
Idee e acquisti per la settimana
Le avventure di Mimi II
Succede sempre qualcosa quando si ha a che fare con la piccola civetta. Durante la prima avventura della serie in quattro episodi, assieme ai suoi amici si è dedicata alle sculture di neve. Chi fa volentieri lavoretti manuali, fino al 24 dicembre acquistando alla Migros può raccogliere i bollini. Ogni cartolina completa può essere scambiata con un box bricolage
«C
i siamo!», esclama felice la piccola civetta Mimi, alzandosi. Prima del sorgere del sole, Mimi si incammina verso la radura coperta di neve, dove quel giorno si svolgerà la grande gara di sculture di neve. Vi partecipano 10 squadre; ognuna ha tempo dall’alba al tramonto per fare una scultura di neve. Alla sera, alla luce delle fiaccole, verranno confrontate le sculture e si premierà la squadra vincente. «Eccovi finalmente», esclama Mimi. Infatti tutti i componenti della squadra sono già arrivati: lo scoiattolo Evi, la volpe Edi e persino la lepre Lou, che molto spesso rimane addormentata. «Pensate che possiamo veramente vincere la gara?», domanda agli altri Evi, un po’ dubbioso. «Possiamo vincere, ma solo se partecipiamo», afferma con sicurezza Edi. «Ed è quello che facciamo». Nelle ultime settimane i quattro amici si sono allenati spesso insieme. La scultura che riescono a fare meglio è una gigantesca civetta. Hanno un trucco particolare: infilano nella scultura-civetta delle pigne di abete, che sembrano così delle penne d’uccello. Per farlo hanno bisogno di parecchie pigne, che hanno raccolto apposta nel bosco negli ultimi giorni. Poi, con le palette fanno un mucchio di neve e danno forma a poco a poco a un’enorme civetta. Passano spesso sulla superficie della civetta una vecchia T-shirt per lisciare le curve. Già dopo mezza giornata la civetta di neve è molto bella. Mimi si rivolge agli amici: «Edi, Lou, potete già cominciare a inserire nella civetta le prime pigne». «Certo, lo facciamo subito», replica Lou. Ma non trova da nessuna parte il mucchio di pigne. «Dove sono andate a finire le pigne?», chiede la lepre a Mimi.
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«Lì davanti!», risponde Mimi. Ma lì non ci sono. Dopo essersi guardata un po’ in giro, Mimi conclude delusa: «Qualcuno le ha veramente portate via». «E adesso che cosa facciamo?», chiede Edi. «Due di noi devono andare subito nel bosco a prendere altre pigne di abete», interviene Evi. Subito si accorge che non è l’unico problema: «Ce ne servono parecchie, e abbiamo bisogno di una borsa per trasportarle». A Mimi viene un’idea: «Abbiamo quella vecchia T-Shirt» e così dicendo la civetta tira fuori un coltellino tascabile a cui è attaccato anche un piccolo paio di forbici. Tagliando abilmente la vecchia T-shirt e facendo qualche nodo, Mimi ricava velocemente dalla T-shirt una gran borsa. Edi e Lou corrono veloci nel bosco con la borsa T-shirt per raccogliere le pigne e di lì a poco fanno ritorno, con la borsa piena. Insieme agli amici inseriscono le pigne nella civetta di neve. La squadra riesce a finire la scultura a malapena in tempo, ma il risultato è comunque più che soddisfacente: ha creato una civetta di neve veramente bella, con un piumaggio bruno fatto di pigne di abete. Stanchi ma felici si siedono vicino alla loro civetta di neve. Improvvisamente, dall’altoparlante echeggia una voce: «La scultura vincente è... la civetta di neve con le pigne di abete!» I quattro amici sono entusiasti e danzano per la gioia attorno alla loro civetta di neve.
Mimi
La prossima settimana potrai leggere una nuova avventura della piccola civetta Mimi.
È molto semplice
Dal 15.11 al 24.12 per ogni acquisto di Fr. 20.– in un supermercato Migros e su LeShop si riceve un bollino – massimo 15 bollini per acquisto. In occasione del successivo acquisto la cartolina completa (20 bollini) può essere scambiata con uno dei cinque box bricolage.
Sfera di vetro – la magica sfera di vetro di Mimi con neve e brillantini
Le avventure di Mimi da stampare, la guida video sui box bricolage, belle idee su come utilizzare le scatole di imballaggio e molti altri suggerimenti su migros.ch/box-bricolage
La borsa T-shirt
La tua T-shirt preferita non ti va più bene ma non riesci a separartene? Perché non la trasformi in una borsa? Così potrai utilizzarla ancora per molto tempo. Non ti serve altro che una vecchia T-shirt, forbici per stoffa, una penna e un righello.
Costume da civetta – il suggestivo travestimento
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Stendi la maglietta davanti a te e traccia quattro linee di taglio sulla stoffa: la prima sotto il collo, la seconda e la terza davanti al giromanica e la quarta sopra l’orlo inferiore.
2 Con le forbici, taglia la T-shirt lungo le linee disegnate. Taglia contemporaneamente sia il fronte che il retro della maglietta.
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Cannocchiale – il set per emozionanti esplorazioni
3 In seguito taglia delle frange uniformi nella parte inferiore della T-shirt. Dovranno essere lunghe 5-10 cm e larghe 1-20 cm. Anche qui va tagliato sia il fronte che il retro.
Ora chiudi la parte inferiore della T-shirt annodando le frange della parte anteriore con quelle della parte posteriore. La tua borsa T-shirt è già pronta!
Civettaplano – l’avventuroso compagno di volo
Decorazioni natalizie – divertimento creativo per lavori di cucito e bricolage
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Ambiente e Benessere
L’inizio di una seconda vita
Un mondo di terapie Reportage dalla Rehaklinik di Bellikon per comprendere l’importanza di un progetto
riabilitativo dopo un grave infortunio
La Rehaklinik di Bellikon. Nella pagina a fianco: Simon Gerber si sottopone alla terapia.Su azione.ch una più ampia galleria fotografica. (Stefano Spinelli)
«Ero postino e talvolta ritiravo la posta alla stazione di Baar dove, quel giorno del mio infortunio, volevo recuperare velocemente un pacchetto che avevo dimenticato nel vagone del treno. Mentre provai a salire la porta automatica si chiuse e io vi rimasi incastrato con il polso: rimasi bloccato fuori dal treno, senza possibilità di scampo, con il braccio incastrato nella porta. L’Interregio partì, presi disperatamente a pugni il pulsante di apertura della porta che però non si aprì. A quel punto lo spirito di sopravvivenza ebbe il sopravvento sulla paura: urlavo invocando aiuto mentre cominciai a correre attaccato al convoglio che prendeva velocità, fino a quando non riuscii più a tenere il passo e mi raggomitolai. Ricordo di aver pensato che dovevo resistere così per due chilometri e mezzo pari a due minuti e 56 secondi: il tempo necessario ad arrivare alla prossima fermata. Però a un certo punto sentii le forze abbandonarmi e lasciai cadere a penzoloni la mia gamba destra che, come una banderuola a folle velocità, fu investita da ghiaia, traversine e placche metalliche che mi strapparono letteralmente la carne». Dopo due lunghissimi minuti e mezzo il treno si fermò alla stazione di Zugo: «Premetti ancora una volta il pulsante e la porta finalmente si aprì. Io mi accasciai al suolo e fui soccorso da alcuni operai che lavoravano sui binari. Venni subito ricoverato all’Ospedale cantonale di Lucerna dove mi dovettero amputare il piede». Questo è il racconto di Simon Gerber, un postino che nel 2012, a 53 anni, ha vissuto uno spaventoso incidente che gli risparmiò la vita, ma lo lasciò invalido con l’amputazione del piede destro e una nuova esistenza da recuperare dapprima, e poi da reinventarsi. Lo incontriamo alla Rehaklinik di Bellikon dove è stato degente per lungo
tempo (dopo la fase acuta passata all’ospedale cantonale di Lucerna), e dove ha seguito un percorso di riabilitazione e riqualifica personale che oggi lo vedono, sessantenne, a lavorare per la Società di trasporti pubblici di Lucerna per la quale guida gli autobus. Siamo a Bellikon, un comune del canton Argovia di appena 1550 abitanti dove, immersi nel verde di un paesaggio che calma e rasserena gli animi, visitiamo una delle due cliniche della Suva (ndr: l’altra è a Sion) che vanta una lunga esperienza nella riabilitazione medica precoce post-infortunio, nella medicina sportiva, nelle perizie mediche e nel reinserimento sociale e professionale delle persone che hanno subito un infortunio. «La Rehaklinik Bellikon è stata la mia salvezza, qui medici e terapeu-
ti mi hanno permesso di affrontare e superare le ferite fisiche e psicologiche legate al mio infortunio, restituendomi mezzi e fiducia per poter intraprendere un nuovo percorso professionale», ci racconta ricordando pure gli incubi del periodo post-traumatico. All’inizio del suo percorso dice di aver pensato con vero rammarico che non avrebbe mai più potuto camminare e che non sarebbe più potuto tornare a lavorare. «Nell’immediato si è trattato di curare per bene le ferite della mia gamba e quelle dell’anima. Quante ore ho passato seduto nel parco a godermi la pace di questo luogo! Anche il panorama che spaziava dalle Alpi grigionesi a quelle bernesi ha certamente favorito la mia guarigione. Mi spostavo sulla sedia a rotelle e ricordo che è stato un lungo pe-
Un ticinese a capo della direzione «Ogni singola persona che riesce a tornare alla propria vita privata e al proprio posto di lavoro dopo un infortunio o una malattia, conquista un doppio beneficio: uno per sé e uno per la società», il ticinese dottor Gianni Roberto Rossi (nella foto) è stato dal 1998 al 2018 direttore e presidente della gestione clinica della Clinica Hildebrand Centro di riabilitazione Brissago, e dal 1° luglio 2018 ha assunto la direzione della clinica di riabilitazione Rehaklinik di Bellikon dove ci accoglie con l’entusiasmo di chi ha profondamente a cuore la struttura, i suoi specialisti e soprattutto il benessere dei pazienti che si trovano a soggiornarvi per lunghi periodi. Soggiorni durante i quali, ci racconta: «Abbiamo il compito di aiutarli a riacquistare salute e autonomia, così che possano rientrare a casa e reintegrarsi nuovamente nella famiglia,
Stefano Spinelli
Maria Grazia Buletti
nella società e nel lavoro». Grandi spazi molto ben strutturati, lungimiranza, competenze e passione sono le qualità che abbiamo potuto apprezzare, accompagnati dal dottor Rossi, durante la nostra visita alla Rehaklinik di Bellikon.
riodo nel quale sono però sempre stato affiancato, sostenuto e incoraggiato dai miei curanti e riabilitatori». Simon si racconta come un fiume in piena, ribadendo spesso la fortuna di aver potuto contare su chi lo ha curato e motivato per poter credere e affrontare il percorso verso una seconda vita sociale e professionale. «Le mie giornate sono state da subito scandite dalle terapie: fisioterapia, scuola di deambulazione, centro fitness: tutto ciò mi ha permesso di parlare di quanto mi era capitato e di elaborarlo». Sorride e scambia qualche simpatica battuta con il chirurgo ortopedico dottor Felix Tschui al quale chiediamo cosa significhi, in buona sostanza, affrontare un percorso di riabilitazione in una clinica come questa, che accoglie soprattutto persone di giovane e media età che hanno subìto grossi traumi agli arti: «Trattiamo persone che, dopo un infortunio di differente gravità (o una malattia), non sono ancora in grado di riprendere la vita e il lavoro che conducevano prima. Di norma si tratta di pazienti che arrivano dopo un’ospedalizzazione acuta perché hanno subìto un cosiddetto politrauma, ad esempio a causa di un incidente automobilistico, un infortunio sul lavoro e quant’altro che comportano la compromissione di una o più parti del corpo. Se un paziente ha gli arti compromessi non potrà rientrare al proprio domicilio senza aver seguito una riabilitazione stazionaria ed eventualmente una riqualifica professionale che gli permetterà di riprendere a vivere dignitosamente». Chi giunge in clinica riabilitativa è reduce da un primo ricovero acuto a cui ora dovrà seguire una nuova fase del processo di guarigione, anche se il dottor Tschui puntualizza che «più che guarire il paziente, nostro compito è quello di supportarlo nel superare le sue nuove limitazioni. Dunque, oltre a
procedere con il trattamento della lesione, abbraccia orizzonti più ampi la valutazione del paziente che accompagniamo nella graduale acquisizione di nuovi strumenti perché possa tornare alla sua vita normale». È la sfida di un lungo percorso che dura di norma parecchie settimane: «La durata della riabilitazione dipende naturalmente dal tipo e dalla gravità della lesione riportata e ogni caso è individuale secondo lo stile di vita della persona, il suo contesto famigliare e professionale. Ad esempio, il percorso sarà differente fra chi dovrà tornare a svolgere un lavoro d’ufficio e chi dovrà riconfrontarsi con la sua precedente professione manuale». L’individualizzazione delle cure è dunque uno degli aspetti importanti: «Dal primo momento del ricovero valutiamo il quadro della situazione individuale: quale lavoro svolge il paziente, come vive, se ha un contesto famigliare, se ha degli amici, quali sono i suoi obiettivi e via dicendo. Questo ci permette di comprendere se il suo ritorno al precedente impiego sia realistico o meno e ci indica la direzione che dobbiamo intraprendere nella sua riabilitazione». A questo punto, il chirurgo ortopedico ci spiega le differenti fasi di ogni intervento riabilitativo, dettate dalle condizioni iniziali: «Accogliamo alcuni pazienti nella nostra unità di terapia intensiva, altri, come il signor Gerber, giungono qui in una condizione che ci permette di iniziare subito un lavoro riabilitativo inter- e multi-disciplinare». Il concetto di interdisciplinarietà è il requisito di presa a carico essenziale per giungere al successo: «Il nostro team è altamente specializzato e aggiornato sulle prassi più innovative ed è composto da differenti figure professionali al servizio del percorso di ogni paziente: parlo di fisioterapisti, ergoterapisti, psicologi, tecnici ortopedici, assistenti sociali e via dicendo, senza dimenticare
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 novembre 2019 • N. 48
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le diverse figure che si occupano del riadattamento post professionale». Sempre più addentro al nostro percorso virtuale riabilitativo e di riqualifica professionale che la Rehaklinik di Bellikon offre, ritorniamo a parlare dell’esperienza di Simon Gerber attraverso il suo racconto che avevamo lasciato al momento in cui, curato il fisico, egli doveva cominciare a riprendersi in mano la vita: «Il mio terapista aveva capito che avevo bisogno di un sostegno psicologico oltre che fisico.
Per ogni caso è valutata la necessità effettiva, affinché benefici delle possibilità adeguate al suo stile di vita La consapevolezza che tutti mi sostenevano, credevano nelle mie risorse e alla possibilità del mio rientro alla vita professionale ha rafforzato la mia autostima dandomi la forza di credere che ce l’avrei potuta fare». Così, ci racconta che lungo i quattro mesi di degenza impara dapprima ad alzarsi pian piano dalla sedia a rotelle e a camminare con le stampelle, cominciando poi a salire le scale e imparando a muoversi su differenti tipi di pavimento: «Facevo grandi progressi supportati dalle conoscenze del personale nel campo dell’ortopedia tecnica». Nel frattempo il calzolaio ortopedico gli confeziona delle scarpe su misura. A spiegarci l’importanza del tecni-
nuovamente lavorare sì al 100 percento, ma forse in un ambito professionale che tenga conto del fatto che egli potrà svolgere un lavoro più leggero del precedente. Ogni persona dispone di risorse e possibilità che aiuteremo a individuare insieme, considerando un suo reinserimento professionale che tenga conto delle indicazioni mediche, del suo livello professionale e del mercato del lavoro». Se il paziente non potrà rientrare al vecchio impiego, sarà indirizzato a nuova vita professionale come è successo al signor Gerber che dice di aver potuto beneficiare appieno degli anni di esperienza della clinica nella riabilitazione post-infortunio: «Grazie al capo dell’ortopedia tecnica ho fatto progressi incoraggianti e, ricevute le mie scarpe su misura, l’AI e gli specialisti di Bellikon mi hanno assistito nel mio percorso di riqualifica professionale». Ci ricorda con orgoglio che oggi sono già cinque anni che lavora a tempo pieno come conducente di autobus per l’Azienda di trasporti pubblici di Lucerna: «Da un giorno all’altro puoi essere strappato dalla tua vita e tutto può cambiare. Però qui ho capito che rinascere è possibile, e a chi oggi sta affrontando questo percorso dico: prendi l’aiuto che ti viene offerto, perché per te desiderano solo il meglio, proprio come vuoi tu».,
Stefano Spinelli
Stefano Spinelli
Ambiente e Benessere
co ortopedico nella riabilitazione chirurgica e ortopedica, è Michel Hofer, il tecnico ortopedico che illustra il mondo in continua evoluzione delle protesi, parlandoci dell’importanza della tecnica sempre più avanzata al servizio del raggiungimento dell’indipendenza e del reinserimento professionale e sociale delle persone che hanno subito l’amputazione di un arto. «Noi specialisti lavoriamo in team e disponiamo di competenze all’avanguardia per poter fornire a ciascun paziente una protesi adatta alle sue specifiche esigenze individuali, e per creare i migliori presupposti riabilitativi finalizzati a una buona reintegrazione socio-professionale». Hofer racconta come ogni protesi sia adattata e messa a punto sul moncone «finché non risulti posizionata alla perfezione e, dunque, potrà essere impiegata al massimo delle sue potenzialità perché la persona possa poi tornare a vivere quanto più normalmente possibile. Ricca, l’odierna offerta di protesi innovative: «Parliamo di protesi dotate di elettrodi applicati ai muscoli, ad esempio del piede, del ginocchio o del braccio in modo da calcolare il passo, o il movimento della mano, e dare il giusto input di movimento. La stessa funzione che il cervello esercita, dando l’impulso di forza adeguato, quando valuta, ad esempio, se la mano deve afferrare un bicchiere di plastica o di vetro». Questo ci permette di comprendere alla perfezione le frontiere della ricerca protesica: «In questo momento, la mano più evoluta sa compiere 32 diverse funzioni che possono essere
programmate al bisogno (anche dal paziente via APP)». Per ogni singolo caso è valutata la necessità effettiva che permetterà a quel paziente di beneficiare delle possibilità adeguate al suo stile di vita: «Un contadino non avrà bisogno di una protesi così raffinata che potrebbe rompere subito nel fare lavori pesanti, ma sarà invece utile a chi deve fare lavori di fine motricità». L’individualizzazione dell’adattamento protesico secondo il
percorso riabilitativo e le necessità del paziente apre le porte alla sua riqualifica, che sarà valutata e programmata «non appena i medici determineranno i limiti e le possibilità lavorative che il paziente potrà superare e affrontare», racconta il capo dell’integrazione professionale Jonas Meier, che elenca qualche esempio concreto di perizie atte a ridefinire la nuova capacità lavorativa: «Ad esempio, un muratore con problemi a un ginocchio potrebbe
La filosofia terapeutica alla Rehaklinik di Bellikon La Rehaklinik Bellikon è una clinica Suva specializzata in riabilitazione traumatologica precoce, medicina sportiva, reinserimento professionale e perizie mediche. Si trova in una posizione soleggiata, sull’Heitersberg tra Zurigo e Baden e gode di un ampio riconoscimento che va oltre i confini nazionali. Dispone di oltre 220 posti letto e cura annualmente 1500 pazienti degenti e 2600 pazienti in regime ambulatoriale. Si avvale di personale di comprovata esperienza e conoscenze all’avanguardia nell’ambito delle riabilitazioni dopo infortuni. Ma non solo: offre un sostegno psicologico, un centro perizie, ed è pure l’unica clinica di riferimento della Svizzera che si occupa di riabilitazione agli ustionati per la quale si avvale della stretta collaborazione con l’Ospedale universitario di Zurigo, vantando di conseguenza una profonda esperienza di lunga data
su speciali procedure terapeutiche e cure mediche all’avanguardia anche in caso di ferite. La filosofia del progetto riabilitativo sottintende un programma individualizzato che tenga conto del fatto che tutti i pazienti sono differenti l’uno dall’altro. Per questo, i diversi specialisti collaborano per garantire la massima interdisciplinarietà finalizzata al conseguimento dei migliori risultati individuali. L’offerta terapeutica tiene conto dei trattamenti diversificati secondo il modello stazionario o ambulatoriale, sempre all’insegna della cooperazione tra le discipline. Tra le terapie più importanti figurano la fisioterapia, la logopedia, l’ergoterapia, le terapie robot-assistite, l’allenamento di forza e resistenza, la terapia e consulenza dello sport e la terapia neuropsicologica. Particolare attenzione è riservata alla riabilitazione psi-
cosomatica e alla psicoterapia in caso di disturbi psichici, alla consulenza sociale in caso di problematiche sociali famigliari o finanziarie, coadiuvate dalla terapia del lavoro nel recupero delle abilità necessarie allo svolgimento di una professione e il reinserimento professionale. Quest’ultimo, quando è possibile, viene studiato con l’ottica dell’organizzazione del ritorno alla professione esercitata prima dell’infortunio, o un avviamento a una nuova professione. La clinica offre una «Aquazone»: piscina con fondi mobili, vasche terapeutiche e di deambulazione, terapie con animali e giardinaggio, insieme a una Down Town: una «città del tempo libero» con un’ampia offerta ricreativa che va dal cinema, alla zona giochi, atelier per bricolage, sala fumatori, arena e world café con sala musicale, biblioteca e centro internet. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 novembre 2019 • N. 48
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Ambiente e Benessere
Il ritorno dei viaggi organizzati Viaggiatori d’Occidente Il turismo di massa non è un male in sé, dipende da come lo si fa
Claudio Visentin Negli anni Cinquanta del Novecento siamo diventati tutti turisti. Anche chi viveva nel Nord Europa, grazie ai nuovi aerei a reazione (messi a punto negli ultimi mesi di guerra), poteva raggiungere in poche ore il sud, il sole, in una parola la Spagna. Si affermò una nuova idea di vacanza legata alla vita di spiaggia, creata negli anni Venti sulla Costa azzurra da ricchi americani: lunghe giornate in cerca dell’abbronzatura perfetta, i cocktail sul bordo della piscina, le cene in terrazza, il jazz in sottofondo, i flirt. In quegli anni, per rispondere a una domanda crescente, le agenzie di viaggio si trasformarono in Tour Operator e cominciarono a produrre su vasta scala viaggi tutto compreso. Un ottimo esempio, alle nostre latitudini, è Hotelplan. Ai viaggiatori poco esperti – allora la maggioranza – sembrò un sogno. L’agenzia prenotava il volo, l’albergo e tutti gli altri servizi; e anche il villaggio era un ambiente protetto, divertente, facile, dove rilassarsi per una settimana. Non c’era neppure bisogno di conoscere le lingue o le abitudini locali, dato che le strutture nei diversi Paesi erano organizzate più o meno tutte allo stesso modo. Poi il vento ha cambiato il suo giro e l’immagine dei viaggi organizzati è peggiorata, diventando sinonimo di edifici anonimi, spiagge affollate, buffet internazionali, una separazione completa dai residenti: i diversi volti di un
turismo che devasta l’ambiente e lascia poco o nulla alla comunità locale. Nel frattempo nuovi collegamenti aerei hanno reso accessibili destinazioni un tempo quasi irraggiungibili. Una migliore conoscenza delle lingue e il desiderio di condividere la vita dei locali ha fatto il resto. E così il viaggio indipendente è diventato la nuova moda. Tutto giusto? Non è detto. Per cominciare il viaggio indipendente non è il rimedio a tutti i mali. Anche partendo uno alla volta, alla fine si crea comunque affollamento nelle destinazioni. Gli abitanti di diverse grandi città – Barcellona, Amsterdam – già protestano contro l’Overtourism causato dalle compagnie low cost: gli spazi pubblici sono affollati e degradati, le case sono tolte dal mercato locale degli affitti per essere offerte su Airbnb. Inoltre non si può essere sempre viaggiatori avventurosi. Ci saranno sempre turisti fermamente intenzionati a passare una settimana di tutto riposo (fly and flop). In sé non c’è niente di male e non sono turisti peggiori degli altri; anzi, semplicemente siamo noi stessi in alcuni momenti dell’anno, quando la fatica quotidiana lascia il segno. E dunque offrire a questi turisti un’alternativa a città già troppo affollate non può essere sbagliato. Al tempo stesso non c’è scritto da nessuna parte che il turismo organizzato debba essere sempre com’è ora, sostiene Justin Francis, amministratore delegato di Responsible Travel in un’intervista alla CNN.
Sempre più contro l’Overtourism causato dalle compagnie low cost. (Pxhere.com)
Cominciamo dai viaggi. Il volo aereo senza dubbio contribuisce al cambiamento climatico, ma si possono usare aerei più nuovi ed efficienti; inoltre i voli charter dei Tour Operator sono di solito al completo e utilizzano al massimo lo spazio (a differenza della business class delle compagnie di bandiera). All’arrivo poi i turisti usano i bus che, dopo il treno, sono il mezzo di trasporto più efficiente dal punto di vista ambientale. Ogni altro aspetto della filiera potrebbe essere rivisto. Per esempio la ristorazione. I turisti escono raramente dal villaggio, dato che hanno già paga-
to per i loro pasti. Ma oggi il cibo viene acquistato sul mercato internazionale e spesso trasportato in aereo: si inquina inutilmente, la qualità è spesso modesta e ovviamente i locali sono scontenti. Tuttavia non sembra impossibile coinvolgere i ristoratori del posto e acquistare prodotti del territorio dai contadini, col risultato di offrire pranzi più interessanti e caratteristici. Alcuni esperimenti hanno mostrato che queste scelte sono economicamente sostenibili e migliorano la propria reputazione. Per esempio a Creta nove hotel acquistano regolarmente vino, olio e pane da cento-
novanta agricoltori locali, mentre gli ospiti sono coinvolti in lezioni di cucina tradizionale (progetto Futuris in collaborazione con TUI, il principale Tour Operator tedesco). E se i turisti hanno poche occasioni di fare acquisti al di fuori dei resort, si possono invitare artigiani locali a presentare e vendere i loro prodotti. Infine anche nelle escursioni si potrebbero preferire guide locali, dopo averle formate e avendo però cura che non portino gli stranieri nelle solite «trappole per turisti» solo perché ne ricavano una commissione. È più facile introdurre queste novità dove si parte da zero. E quindi i villaggi vacanza del futuro potrebbero essere costruiti con meno cemento, materiali e architettura del territorio, uso attento delle risorse (specie l’acqua), energie rinnovabili, corretto smaltimento dei rifiuti eccetera. E magari gli artisti locali potrebbero decorare gli spazi con le loro opere. Certo ci vuole tempo e pazienza per cambiare abitudini consolidate, ma è anche vero che un turismo organizzato senz’anima e senza identità finisce per appiattirsi solo sul prezzo, inevitabilmente sempre più basso per reggere la concorrenza. Un evento simbolico, qualche settimana fa, è stato il fallimento di Thomas Cook, cioè proprio l’azienda che organizzò il primo viaggio tutto compreso nel lontano 1841. Ma c’è spazio per un nuovo Thomas Cook, per un nuovo turismo organizzato e per chi saprà realizzarlo.
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Ambiente e Benessere
Novembre tempo di gratificazioni Sport Da 12 anni Aiuto Sport Ticino organizza il Concorso per il Miglior Sportivo Ticinese
nalisti Sportivi; il team bellinzonese di pallacanestro dei Tigers, che ha vinto il Premio Disabilità e Sport; e All Sport Association, che mira a far conoscere la bellezza dello sport e i suoi veri valori, e che ha ricevuto il Premio Etico, attribuito dal Panathlon Club Lugano e dall’associazione Starti. Sono realtà sportive che agiscono non solo ai vertici, vedi quanto scritto a proposito di Filippo Colombo, ma anche, e soprattutto in ambito giovanile, oppure là dove ci sono delle difficoltà di carattere motorio, sociale o psichico. Per i loro responsabili, così come per gli atleti, ricevere un premio è come vedersi attribuita una tangibile legittimazione. «Hanno visto che esistiamo. Hanno pensato a noi. Hanno capito che stiamo svolgendo un buon lavoro. Ce lo hanno riconosciuto. Ragazzi, avanti così!». Che bello veder occhi che si accendono, e che sotto i riflettori lasciano trasparire un supplemento di bagliore dovuto a una lacrima che affiora; il sorriso che si illumina e che ti lascia lì, in uno stato contemplativo; il lungo e sentito applauso del pubblico; le strette di mano; le pacche sulla spalla; la targa consegnata da padrini come Luca Cereda e Sébastien Reuille, protagonisti di importanti e commoventi pagine di storia dello sport. Tutto ciò manda in orbita. Ti fa pensare che lo sport è una strana combinazione alchemica. E che quando ti imbatti in storie che hanno quali protagonisti, delle persone così, per fortuna, dimentichi per un attimo gli scandali, le truffe, il doping e la violenza. E sei felice di essere, pure tu, atleta, allenatore, genitore, giornalista o tifoso, una piccola parte di questo mondo.
Giancarlo Dionisio Sgomberiamo il campo da equivoci: ha vinto Filippo Colombo, il biker del VC Monte Tamaro, protagonista di una stagione a dir poco magica. Tre vittorie in Coppa del Mondo, Campione svizzero, Vicecampione europeo, Vicecampione mondiale, secondo nella classifica generale di Coppa del Mondo, sempre nella categoria U23. In pratica sul nostro pianeta, un solo atleta, il rumeno Vlad Dascalu, ha fatto un pochino meglio di lui. Il resto è roba da extraterrestri.
Un’opportunità per far parlare di sé. Soprattutto per gli atleti di discipline meno mediatizzate Filippo – ragazzo dal potenziale straordinario, ancora non del tutto esplorato – è oramai una star della MTB. Nel maggio del prossimo anno lotterà per un posto ai Giochi Olimpici di Tokyo nella fortissima selezione rossocrociata capitanata dal fenomeno Nino Schurter (in bocca al lupo!). I media svizzeri, quelli ticinesi, e le riviste specializzate, sanno chi è. Lo curano. Lo seguono. Lo coccolano. Non ha bisogno di una Festa come quella organizzata da Aiuto Sport lo scorso 4 novembre al Palacongressi di Lugano, per dare ulteriore corpo alla sua autostima e per rendere la sua stella ancora più luminosa. Eppure lui c’era. Nella serata in cui Swiss Cycling
Filippo Colombo. (CdT - Reguzzi)
organizzava, oltre San Gottardo, il suo Gala, Filippo ha scelto di rimanere a sud e onorare le proprie origini. Ha gradito il premio attribuito da una giuria popolare, che si è espressa online, e da una di esperti. Così come è parso di vedere una luce speciale anche negli occhi di Michael Fora, di poco fuori dal podio. Anche il fortissimo difensore dell’Ambrì Piotta, intervistato dai media un giorno sì, e l’altro pure, non ha bisogno di questi riconoscimenti. Eppure, pare che essere amati a casa propria, sia uno stimolo per guardare avanti. Per dare la caccia a risultati ancora più prestigiosi.
Era capitato così, negli anni scorsi, anche per altre star dell’hockey ticinese, come Inti Pestoni, Alessio Bertaggia, Luca Fazzini e Gregory Hofmann. Lo stesso discorso lo potremmo fare anche per altri atleti e altre atlete che hanno calcato il palcoscenico del Palacongressi: da Ajla Del Ponte, la sprinter che ha già assaporato l’atmosfera di Giochi Olimpici, Mondiali ed Europei; Ilaria Kaeslin, ginnasta già quarta ad un Europeo e prima ticinese della storia a imporsi alla Festa Federale; così come i giovani Noè Ponti, nuotatore, il più votato fra le Giovani speranze; Emma Piffaretti, saltatrice in lungo,
entrambi con ambizioni olimpiche, e Murat Pelit, sciatore paraolimpico, selezionato lo scorso anno per i Giochi di Pyeong Chang. Chi mastica sport li ha già sentiti nominare parecchie volte. Sono giovani abituati a girare il Mondo. Cresciuti in fretta. Spesso brillanti anche a scuola. Ragazzi e ragazze capaci però di emozionarsi anche al cospetto di un esame ticinese. Il pathos più grande, che ti lascia senza fiato, è tuttavia quello vissuto e lasciato trasparire da chi ha ottenuto i Premi Speciali. Il Velo Club Monte Tamaro, squadra dell’anno secondo la giuria dell’Associazione Ticinese Gior-
Giochi
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Lo sapevi che la formica riesce a trasportare circa…? Completa la frase rispondendo alle definizioni e leggendo le lettere evidenziate. (Frasi: 9, 5, 2, 3, 4)
ORIZZONTALI 1. Stato dell’Asia orientale 4. Due di quadri 6. Il pupo di Mascagni 7. Un possessivo 8. Sul pulsante dell’accensione 9. Toro sacro agli egizi 10. Li cercano gli investigatori 13. La Negri scrittrice 14. Località sciistica del Canton Grigioni 18. Un tipo di tensione... 20. Invocata dai pagani 21. Un articolo 22. E va bene... 23. Ingrediente di molti dolci 25. Le iniziali dell’attrice Ferilli 26. Tipo di alberi 27. Abbreviazione ecclesiastica 29. Lente, poco perspicaci 30. Figura geometrica
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
VERTICALI 1. Pronome dimostrativo 2. Particelle cariche di elettricità 3. Fan dello sposo uno sponsor 4. Ne era il re Mike Bongiorno 5. Tre per Aladino 7. Fa il doppio gioco 9. Fiume dell’Italia settentrionale 11. Un anagramma di anta 12. Un mammifero che va in letargo 15. Fiume svizzero 16. Due vocali 17. Il ceppo... del russo 19. Un ragazzo in ascensore... 20. Si formano nel deserto 23. Si chiede gridando 24. Se ne fanno vere 26. Simbolo chimico del plutonio 28. Preposizione francese
Sudoku Soluzione:
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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SAGGIO PROVERBIO – Proverbio risultante: DICEMBRE NEVOSO N. 45ANNO FACILE FRUTTUOSO. Schema Soluzione
Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 novembre 2019 • N. 48
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Politica e Economia Storia dell’acciaio L’industria siderurgica europea in crisi anche a causa della guerra dei dazi Usa-Cina
Basterebbe una piccola rivoluzione Per salvaguardare il processo democratico sarebbe utile vietare il microtargeting e le fake news a pagamento sui social. L’idea piace anche a Facebook e Google
l’OCSE raccomanda Nel suo rapporto biennale dedicato alla Svizzera, consiglia di alzare l’età di pensionamento a 67 anni per uomini e donne
La consulenza finanziaria Nell’anzianità, le spese per le cure possono intaccare seriamente il patrimonio: come affrontarle? pagina 39
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Keystone
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Il Dragone è in difficoltà
Scenari Risultano in questo momento ridimensionate le ambizioni commerciali di Pechino nel confronto
con gli Stati Uniti, anche a causa del fronte geopolitico interno Lucio Caracciolo Dopo l’ennesimo rinvio dell’accordo «fase uno» per alleviare i termini della guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, è del tutto evidente che la battaglia dei dazi continuerà a lungo. E se anche, come pare, si arriverà a un’intesa per la «fase uno», con effetti davvero minimali sugli scambi e quindi sull’economia globale, molto probabilmente la «fase due», teoricamente più sostanziosa, sarà rinviata alle calende greche. Questo anche per il caos che regna alla Casa Bianca, con Trump sotto inchiesta – la prospettiva della fine anticipata del mandato non è così astratta come pareva essere – e per i meno visibili ma altrettanto concreti tormenti che torturano la leadership cinese. Insomma, la questione è politica, molto prima che economica. Cominciamo dalla sponda americana. Raramente si era sperimentata un’amministrazione altrettanto ineffi-
ciente dell’attuale. E quasi mai lo scontro fra i poteri interni era stato così violento come in questi mesi. Forse la Cina è uno dei rari temi su cui opinione pubblica, mondo politico e apparati condividono una visione. Quella per cui Pechino ambisce a prendere il posto degli Stati Uniti quale Numero Uno al mondo, e lo fa con mezzi fraudolenti. In primo luogo «rubando» le tecnologie di punta americane, per rivenderle magari, in versione «light» e a prezzi stracciati, sui mercati più vari. Ma su come reagire alla minaccia cinese a Washington gli animi si dividono. In due squadre e nei loro sottoprodotti. La prima, maggioritaria, è per la durezza. La Cina va colpita a 360 gradi. Sul fronte economico, contando sul fatto che la dipendenza di Pechino dal mercato americano è assai più corposa di quella di Washington da quello cinese. Quindi la guerra dei dazi sembra destinata a concludersi, quando mai lo sarà, con una vittoria a stelle e
strisce, almeno ai punti. Non basta: ciò che preoccupa gli strateghi americani è la proiezione marittima e navale cinese nell’Oceano Pacifico. Di qui l’intesa a quattro, con India, Giappone e Australia, più alcuni paesi indocinesi, per contenere la sfera d’influenza cinese nei mari interni. A favore di Washington gioca anche la fragilità geopolitica della Cina. Xi (nella foto) non controlla allo stesso modo tutti i suoi territori. A parte lo specialissimo caso di Taiwan, per difendere la cui indipendenza di fatto gli Usa sarebbero costretti alla guerra in caso di attacco di Pechino all’isola, dal Xinjiang al Tibet non mancano le aree instabili. E l’esplosione della ribellione di piazza a Hong Kong sta seriamente danneggiando la reputazione della principale porta d’ingresso degli investimenti esteri in Cina. Veniamo al fronte cinese. I problemi principali che occupano in questi mesi Xi Jinping e la sua cerchia sono tre. In ordine di importanza.
Primo: le diverse province cinesi tendono sempre più all’introversione e paiono refrattarie alle direttive del centro. È una storia antica, ma ogni tanto il potere imperiale – perché tale è quello di Xi – viene contestato nelle periferie. Per evitare che questo si rifletta sul centro, la leadership comunista sta cercando di accorciare la briglia ai potentati locali. Non sarà facile. Secondo: il progetto delle vie della seta (Bri) si sta rivelando più complesso e meno gestibile del previsto. In ambito domestico, le rivalità fra le varie province ne stanno minando la coerenza. Anche perché tanti investimenti all’estero non corrispondono ad analogo impegno finanziario sul fronte interno. Le critiche crescono di intensità, a partire dalle regioni del Nord-Ovest, Xinjiang in testa, che speravano di profittare della Bri per ridurre il gap di ricchezza e di benessere che le divide dalle coste e dalle regioni orientali e meridionali. Terzo: la nomenklatura ha di fatto
bloccato l’ambizione di Xi di privatizzare almeno in parte le grandi industrie di Stato, epicentro della corruzione e dell’inefficienza che colpisce alcuni gangli vitali del sistema. In assenza di questo risultato, il mandato dell’imperatore in carica può essere messo in discussione. La somma algebrica delle difficoltà e delle intenzioni americane e cinesi sembra indicare oggi che l’ago della bilancia penda a favore degli Stati Uniti. Ma Pechino conta sul caos interno alla politica americana e sulla possibile non rielezione di Trump. Sperando, con qualche ragione, che un presidente democratico possa essere meno anti-cinese e più affidabile dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Se mai l’accordo di pace fra Cina e Stati Uniti sarà stipulato, lo vedremo quindi solo dopo l’insediamento del nuovo presidente o la permanenza dell’attuale. Almeno un anno e mezzo di ulteriore guerra commerciale è garantito.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 novembre 2019 • N. 48
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Politica e Economia
Non così d’acciaio
Industria siderurgica Il suo commercio internazionale è oggi terreno di scontro politico fra Stati Uniti e Cina.
Una guerra che infligge pesanti danni alla siderurgia europea
Alfredo Venturi «Il poeta è un grande artiere / che al mestiere / fece i muscoli d’acciaio». Così Giosuè Carducci in una celebre lirica celebrava insieme l’incanto della poesia e la forza di quella lega di ferro e carbonio che nei suoi anni, fra Ottocento e Novecento, dominava ormai da tempo la scena industriale. Quello stesso materiale che nelle parole dell’architetto e urbanista Le Corbusier aveva un posto di assoluto rilievo nella struttura ideale delle nostre città: lo collocava accanto al sole, agli alberi, al cielo. Visioni che si elevano oltre la tecnica, richiamando la mitologia del fabbro presente in molte culture. Nella classicità mediterranea l’immagine del fabbro creatore che domina gli elementi è quella di Efesto, Vulcano per i romani, il dio del fuoco che lavorava i metalli nelle viscere dell’Etna, il leggendario artefice dell’egida, lo scudo di Zeus, e dell’armatura di Achille. Chissà se Efesto conosceva la proporzione ideale di ferro e carbonio, quella che produce un metallo davvero inattaccabile. Chissà se sapeva che con il carbonio non si deve esagerare, che la sua presenza non deve essere di molto superiore al due per cento, altrimenti non di acciaio si tratta ma di ghisa, un fragile composto che del prodotto finale è per così dire la grezza crisalide. Si parla dell’acciaio nella storia, nel mito e nella convulsa economia globale dei nostri giorni mentre attorno al più grande stabilimento siderurgico d’Europa, l’ex Ilva di Taranto, si sta svolgendo una vicenda fra il tragico e il surreale, che potrebbe portare a sviluppi traumatici per chi ci lavora, a una prospettiva da incubo, lo spegnimento degli altiforni. Un’operazione che ancora una volta richiama il mito, perché spegnere un altoforno è un’impresa che può durare mesi, ed è altrettanto impegnativa della procedura di accensione. Per avere ragione di quel fuoco, che arde in una torre alta fino a ottanta metri e larga fino a dodici, bisogna mettere in campo tecniche e protocolli raffinati da decenni di costante perfezionamento. Nel caso specifico di Taranto l’eventuale spegnimento si realizzerebbe in un contesto davvero pesante, segnato dal dramma degli oltre diecimila dipendenti, senza considerare più che altrettanti lavoratori attivi nell’indotto, che proprio al bruciare perenne dell’altoforno hanno legato la loro vita. Indebolito dai suoi dissapori interni, il governo di Roma cerca affannosamente di correre ai ripari, ma l’attuale gestore euro-indiano dello stabilimento, ArcelorMittal, sembra proprio intenzionato ad andarsene. Numero uno al mondo per la produzione di acciaio, questo colosso industriale si è arreso di fronte alla necessità di procedere in via prioritaria al risanamento dell’area e degli impianti. La grande fabbrica è appesantita da una quantità di lacune in materia di protezione dell’ambiente, con il risultato che le sue venefiche emissioni hanno collocato Taranto in vetta alle classifiche sull’incidenza di tumori. In primo luogo il rischio di
L’acciaio e i suoi componenti, ferro e carbone, dominano da sempre, con il petrolio, la scena mondiale. (Keystone)
malattie degenerative riguarda gli stessi lavoratori, al punto che c’è chi chiede la chiusura dell’acciaieria proponendo una drammatica alternativa fra vita e lavoro. Di qui l’obbligo contrattuale per i nuovi gestori di attuare un rigoroso piano ambientale che permetta insieme di salvare la fabbrica e renderla compatibile con la salute di chi ci lavora e di chi abita nei pressi. È proprio la cornice giuridica di questo impegno al centro del contenzioso e difficilmente ArcelorMittal tornerà sui suoi passi, non a caso propone un drastico taglio degli organici che sembra fatto apposta per bloccare ogni possibile intesa.
All’interno della guerra dei dazi fra Usa e Cina scatenata da Trump si sta svolgendo anche un serrato confronto sui livelli di produzione di acciaio Certo non sorprende che uno dei soggetti impegnati in questa partita provenga dall’Asia, sia pure con partecipazioni europee e con sede sociale in Lussemburgo. Nella graduatoria mondiale delle produzioni siderurgiche i primi tre paesi sono proprio asiatici: nell’ordine la Cina, che ha una posizione di schiacciante predominio, l’India e il Giappone. Soltanto al quarto posto gli Stati Uniti, che precedono la Corea del Sud. Seguono a distanza la Russia,
la Germania, la Turchia, il Brasile, l’Italia. All’interno della guerra dei dazi fra Washington e Pechino scatenata dal presidente americano Donald Trump si sta svolgendo anche un serrato confronto sui livelli della produzione di acciaio. È recente la richiesta che l’Unione Europea ha inoltrato alla Cina, invitandola a ridurre quella produzione per recuperare un minimo di equilibrio internazionale, ridimensionando il minaccioso surplus commerciale di Pechino. La questione è ulteriormente complicata dal fatto che da qualche tempo il settore siderurgico versa in una crisi di sovrapproduzione, che a sua volta rende più arcigni gli egoismi nazionali. L’acciaio e i suoi componenti, ferro e carbone, dominano da sempre, con il petrolio, la scena mondiale. La dominano anche da un punto di vista simbolico, grazie alla forza e alla versatilità di quel metallo. Non a caso la Germania nazista e l’Italia fascista chiamarono patto d’acciaio la sciagurata alleanza che portò ai disastri della Seconda guerra mondiale. Altrettanto simbolico, ma al tempo stesso estremamente pratico, il ruolo di questo materiale in un evento di capitale importanza nella storia d’Europa negli anni laboriosi del dopoguerra: il varo della CECA, la Comunità del carbone e dell’acciaio. Era il 1951 quando Francia e Germania, da sempre l’una contro l’altra armate, decisero di mettere una pietra sopra i conflitti del passato. Lo fecero eliminando reciprocamente ogni dazio sulle risorse carbosiderurgiche, mettendole al servizio di un interesse che finalmente non
era più soltanto nazionale. Proprio nei nevralgici territori di confine fra i due paesi, che furono la posta in gioco di tanti confronti armati, quelle risorse avevano le loro sorgenti minerarie, i vasti giacimenti di ferro e di carbone. Coinvolgendo anche l’Italia, l’Olanda, il Belgio e il Lussemburgo, la CECA fu il primo passo di quel processo d’integrazione continentale, gradualmente allargato ad altri paesi, che porterà prima al Mercato comune e ai trattati di Roma che fonderanno la Comunità europea, quindi all’Unione che oggi conta ventisette membri considerando l’imminente uscita del Regno Unito, diciannove dei quali usano la stessa moneta. Quelli che videro la fondazione della CECA erano anni di grande ottimismo, di euforica proiezione verso il futuro. La più devastante guerra della storia era alle spalle, i nemici di ieri si stringevano la mano, l’alleanza atlantica garantiva la pace sia pure fondata sull’equilibrio nucleare, al fianco del rassicurante alleato americano. La vecchia Europa impegnata nella ricostruzione stava ritrovando se stessa incamminandosi fiduciosa verso l’avvenire. Sembrava che i problemi del passato fossero superati. Non era così, almeno non del tutto, perché il mondo era gravato non solo dalle insidie della Guerra fredda ma anche dalle disuguaglianze planetarie, inaccettabili e destabilizzanti, mentre era in agguato una nuova sfida, stavolta economica e finanziaria. Nella seconda metà del Novecento si profilava all’orizzonte la tumultuosa crescita dei paesi emergenti, a comin-
ciare dai due giganti asiatici che oggi monopolizzano, o quasi, il settore siderurgico. Sfornando acciaio e molti altri prodotti più o meno essenziali con costi di gran lunga inferiori a quelli europei e americani, le potenze asiatiche si sono avviate verso una presenza sempre più ingombrante sui mercati di tutto il mondo, e presto includeranno nel confronto anche la competizione finanziaria. E così entrerà in crisi la globalizzazione, mentre gli Stati Uniti, elevando barriere doganali con la Cina e il resto del mondo, sfideranno quello stesso concetto liberistico che è stato considerato a lungo uno dei fondamenti ideologici della nostra èra. Questi primi decenni del terzo millennio vedono dunque una comunità internazionale irrequieta e squilibrata, e di questo squilibrio la produzione e il consumo di acciaio sono uno degli esempi più significativi. Il mondo dell’economia e del lavoro visibilmente zoppica, proprio come Efesto che la tradizione ci descrive deforme, sposo di Afrodite grazie a un raggiro e del resto da Afrodite disprezzato e tradito, al punto da indurlo a sprofondare nelle caverne dell’Etna. La figura contorta del fabbro divino circondato da mantici e martelli potrebbe simboleggiare proprio la siderurgia in crisi dei nostri giorni. Fra l’altro la sua febbrile attività sotterranea non era di quelle che creano lavoro, la leggenda ci racconta che i suoi collaboratori erano automi, lui stesso li aveva forgiati. Non sempre la mitologia è distaccata dalla realtà: Efesto non aveva forse anticipato il mondo dei robot? Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Un’idea che piace anche a Zuckerberg Manipolazioni in rete Vietare sui social il microtargeting politico e le fake news a pagamento
sarebbe una grande soluzione riformista per salvaguardare i processi democratici dalle ingerenze esterne Christian Rocca C’è un modo semplice semplice, un tempo si sarebbe detto un modo riformista, per provare a proteggere quel che è rimasto del discorso pubblico e per salvaguardare i processi democratici dell’Occidente, in attesa che la politica esca dal XX secolo, entri nella nuova èra e cominci finalmente ad affrontare le sfide della rivoluzione tecnologica in modo adeguato ai tempi. Lo strumento non è la censura dei contenuti che i social veicolano sulla rete, anche se prima o poi le istituzioni si convinceranno della necessità di separare le piattaforme tecnologiche dai fornitori di informazione, e di conseguenza di rendere questi ultimi responsabili delle disinformazioni che fanno circolare. Non è nemmeno il divieto di ospitare pubblicità elettorale fraudolenta, come è stato chiesto a Mark Zuckerberg al Congresso degli Stati Uniti (e come ha scelto di fare Twitter), nonostante la bizzarra tesi di Facebook secondo cui è sbagliato censurare la pubblicità politica a pagamento, compresa quella palesemente falsa, perché sarebbe una violazione del principio costituzionale della libertà di espressione, mentre invece non lo è passare al setaccio le panzane dei cittadini semplici e degradare con l’algoritmo il ranking delle fake news private, come se quelle gratuite confezionate dall’uomo di strada fossero più gravi di quelle a pagamento diffuse dal presidente degli Stati Uniti o da altri politici e su cui Facebook, soltanto in America, ha guadagnato 857 milioni di dollari tra il maggio dello scorso anno e settembre scorso. Lo strumento per cercare di riconquistare un minimo di agibilità politica alla libera competizione tra le idee, e per difendere i processi democratici dall’ingerenza delle forze del caos, è il divieto di fare microtargeting politico cioè impedire alle campagne politiche di comprare dai social network la possibilità di aggredire profili dettagliatissimi di
Sia Facebook che Google stanno valutando la questione delle infiltrazioni esterne. (Keystone)
elettori cui mostrare testi, grafici, gif e video sartorialmente cuciti intorno a segmenti di votanti molto definiti e ritenuti particolarmente influenzabili dal loro messaggio. È il metodo per fuggire dalla trappola del modello di business delle piattaforme che somiglia alle gabbie da esperimenti per topi grazie alle quali gli scienziati sono in grado di anticipare le scelte delle cavie e di determinarle in base agli stimoli trasmessi. Ora le cavie siamo noi e, come ha denunciato il pioniere di Internet Jaron Lanier, la gabbia è il meccanismo decisivo per la manipolazione dell’opinione pubblica a fini elettorali, perché consente di cucire le fake news intorno a un target specifico di elettori, chiusi dentro la gabbia del loro social network di riferimento, per indirizzarli a comportarsi nel modo desiderato. Di fermare il microtargeting politico ha parlato David Carroll, il professore protagonista del documentario Netflix su Cambridge Analytica The
Great Hack (Privacy violata), ma è anche una delle richieste dei dipendenti di Facebook a Zuckerberg per affrontare la questione della privacy e delle infiltrazioni esterne, ma la novità è che ora questa idea piace anche a Facebook, come ha confermato l’ex vicepremier britannico Nick Clegg al sito Politico, oggi diventato alto dirigente del social di Zuckerberg. Secondo il «Wall Street Journal», invece, anche Google sta valutando di farlo. Una soluzione riformista, efficace e di buon senso da avviare prima che sia troppo tardi rispetto alle elezioni americane del 2020 e con la speranza che arrivi presto una sollevazione popolare contro le fake news politiche a pagamento e, con essa, anche legislatori e leader illuminati in grado di immaginare un nuovo Codice dei diritti su Internet. Per farcela, però, c’è prima da affrontare i negazionisti delle fake news, quelli secondo cui la disinformatia online non sposta voti, quelli che provano a dimostrare scientificamente,
con tanti numerini allegati, come le fake news non influenzino le opinioni politiche di chi le legge. Un dibattito abbastanza surreale, considerato che contemporaneamente il governo inglese guidato da Boris Johnson ha deciso di non rendere pubblico il rapporto dei servizi di intelligence britannici sull’ingerenza russa nel referendum sulla Brexit del 2016. La notizia non si concilia con la tesi dei negazionisti, altrimenti Johnson avrebbe disposto la pronta pubblicazione e magari gli apparati di sicurezza del Regno Unito non avrebbero perso tempo dietro un falso allarme. Allo stesso modo, fosse vera la tesi dell’ininfluenza, non si spiegherebbero le opposte valutazioni delle agenzie di intelligence di tutto il mondo, i rapporti delle commissioni del Congresso di Washington, il caso Cambridge Analytica, le preoccupazioni europee, le denunce francesi e tedesche, gli imbarazzi di Facebook e, tra l’altro, nemmeno il Russiagate. Perché tutta questa
baraonda, se stiamo parlando di roba che non sposta nemmeno un voto? La realtà è che la tesi secondo cui le fake news non influenzano l’opinione pubblica è essa stessa una fake news di moda negli ambienti sovranisti, pari a quella del gran complotto di Barack Obama, Matteo Renzi e il governo ucraino per fregare Donald Trump. L’aggiunta dei numerini volti a provare l’ininfluenza delle bugie orchestrate dai russi rende la tesi dei negazionisti ancora più surreale, certo non più credibile, perché non tiene conto che il meccanismo principale intorno al quale si struttura l’attacco informatico ai processi democratici è proprio il microtargeting. Valutare le campagne di disinformazione online come normali attività di propaganda dell’epoca precedente la rivoluzione digitale equivale a giudicare la penetrazione di un sito di informazione contando quante copie vende in edicola. In ogni caso, le accertate campagne straniere di disinformazione, efficaci o no, sono comunque un attacco al sistema democratico di chi le subisce, un po’ come la corruzione che è reato anche solo tentarla, non importa se poi si concreta. Ed è compito di chi difende la società aperta contrastarle, non minimizzare. Ma c’è anche un metodo molto più terra terra, perfettamente intuitivo per capire se le campagne di disinformazione politica online sono efficaci o meno, ed è il seguente: se, come dicono i sovranisti nostrani, diffondere fake news è assolutamente ininfluente, per quale motivo l’intelligence russa, i nazionalisti americani e Donald Trump dal 2016 a oggi, risultati alla mano, continuano a farlo? Perché Putin, Trump e tutti i nuovi movimenti politici sovranisti e populisti organizzano grandi manovre digitali e mobilitano le fabbriche dei troll, utilizzano i bot, aprono account falsi e costruiscono campagne palesemente menzognere? Lo fanno per divertimento? Non sanno come impiegare il loro tempo?
Anche il Brasile dà un calcio al razzismo
Paso doble Il Santos Football Club di San Paolo, la squadra di Pelè, ha scatenato una martellante campagna
via social dopo la denuncia di insulti razzisti subiti da un suo tifoso Angela Nocioni «Contundente». Questa è la parola portoghese che rimbalza di bocca in bocca in Brasile per raccontare la campagna antirazzista del Santos football club. Campagna dal linguaggio esplicito molto efficace. Il Santos di San Paolo è una delle squadre di calcio più amate del Brasile e più famosa all’estero. È la squadra che fu di Pelè. È successo che un calciatore di Cearà ha denunciato pubblicamente che un suo compagno di squadra nero ha ricevuto insulti razzisti da un tifoso del
Santos durante una giornata di campionato a fine ottobre. La dirigenza del Santos ha reagito nella seguente maniera. Innanzitutto ha avviato una martellante campagna via social. Il Brasile è un Paese incredibilmente più connesso di qualsiasi Paese europeo e i messaggi via social hanno un grande impatto: un quarto della popolazione si informa solo via social network (dettaglio fondamentale per capire l’efficacia delle fake news su cui si è costruita parte della campagna elettorale dell’attuale presidente Jair Bolsonaro che nei pregiudizi razzisti sguaz-
La foto della campagna antirazzista del Santos Football Club.
za). I social sono da giorni tempestati di messaggi, con il logo della squadra, con questo contenuto: «Se sei razzista, non tifare Santos». Oppure: «Se sei intollerante, xenofobo o razzista, non venire allo stadio, non usare prodotti con il nostro marchio. Meglio: smetti di tifare Santos. Tu non meriti questa squadra e non sei benvenuto nella nostra casa». E ancora: «I nostri spalti sono uno spazio per quasi tutti: abbiamo santistas di ogni etnia, età, origine, abitanti di ogni parte del Brasile, persone di ogni genere, di differenti posizioni politiche, scelte, gusti e credo religiosi. Soltanto per i razzisti lo spazio non c’è». Il Brasile è stato letteralmente inondato di foto (meravigliose) di ragazzine e ragazzini neri di varie favelas locali vestiti con la divisa del Santos che è stata rinnovata, «in omaggio agli idoli neri brasiliani», in un total black per sottolineare che la squadra è «bianca e nera» spiega la società. Uno degli slogan di maggior successo è questo: «Fin quando ci sarà un uomo nero a sfidare il sistema con un pallone ai piedi, il Santos vivrà». I giocatori sono scesi in campo sabato scorso ciascuno con una maglietta nella quale compariva un grosso numero accompagnato dal segno percen-
tuale. Insieme gli 11 numeri danno una panoramica della posizione dei neri nella società brasiliana. Eccone alcuni: l’1% degli avvocati brasiliani sono neri, il 61% dei detenuti nelle carceri brasiliane sono neri, il 70% delle adolescenti incinte sono nere, il 2% dei registi cinematografici sono neri, l’85% dei lavoratori in condizioni di schiavitù sono neri, il 79% delle morti violente riguarda persone nere, il 19% dei medici sono neri, il 18% dei ricchi sono neri. Le foto delle magliette indossate dai calciatori hanno fatto il giro del web. «Senza dubbio alcuno si tratta della presa di posizione più forte contro il razzismo che abbia mai preso un club di football in Brasile» fanno sapere dall’Osservatorio sulla discriminazione razziale nel calcio. La campagna in parte è dovuta anche alla necessità del Santos di mettere a tacere le polemiche sorte per il tempo trascorso tra la divulgazione pubblica di un audio con frasi razziste di un consigliere della società, divulgazione avvenuta in aprile, e l’allontanamento di questa persona dalla società, avvenuta ad ottobre. Troppo tempo secondo parte della tifoseria, che con la protesta #ExpulsaORacista ha raccolto quest’estate il maggior numero di commenti via
web ad argomenti lanciati via twitter. La campagna del Santos non piace a tutti. Alcuni considerano eccessivamente aggressivo invitare le persone sgradite perché razziste a non presentarsi allo stadio. «No, non accettiamo tifosi razzisti» spiega la società, che va oltre: «C’era bisogno di una risposta forte, precisa e rapida. Ci sono momenti in cui è necessario essere intolleranti con gli intolleranti». Una scelta decisa e rivendicata. Da notare che a nessuno, nella dirigenza della società, è venuto in mente di non credere alla denuncia fatta dal giocatore di Cearà, né di insinuare che avesse interessi personali a montare una polemica. L’hanno difeso e basta. Una presa di posizione clamorosa nel Brasile di Bolsonaro, dove il 52% degli elettori solo un anno fa ha votato un candidato che delle sue posizioni esplicitamente razziste ha fatto un cavallo di battaglia elettorale. Interessante che l’abbia fatta il Santos football club, una potenza mediatica ed economica. Una stella nell’immaginario popolare. È una mossa che, nel clima di totale polarizzazione politica attuale in Brasile, suona come un avvertimento al bolsonarismo diffuso: «La guerra è dichiarata».
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Politica e Economia
Raccomandazioni OCSE alla Svizzera Rapporto biennale L’Organizzazione con sede a Parigi suggerisce alla Svizzera varie correzioni
nella politica della previdenza vecchiaia, nel freno all’indebitamento, nella fiscalità e anche nella prevista rendita-ponte per disoccupati oltre i 60 anni
Ignazio Bonoli Del biennale rapporto dell’OCSE sulla Svizzera, i media nazionali hanno dato risalto soprattutto al consiglio di aumentare l’età di pensionamento per tutti. È un segnale importante, benché non nuovo, anche in Svizzera; ma importante perché alla preparazione del rapporto partecipano attivamente anche alcune istituzioni svizzere, soprattutto della SECO, e spesso suggeriscono i temi principali e le soluzioni da seguire. Non v’è dubbio che il tema della riforma della legge sull’AVS e di quella sul secondo pilastro sta diventando sempre più importante e urgente, ma è anche confrontato con alcune opposizioni a livello politico. Per questo gli economisti dell’OCSE avvertono che un intervento in questo settore è quanto mai urgente. Si rendono però conto che le posizioni politiche sono in parte molto divergenti e l’ottenimento di una maggioranza per la soluzione proposta (aumento dell’età normale di pensionamento a 67 anni per uomini e donne) è molto problematico. Per il momento la riforma proposta si limita all’aumento dell’età di pensionamento delle donne a 65 anni e già questo è uno scoglio difficile da superare. Va comunque notato che in tutti i casi presi in esame l’OCSE si limita a un suggerimento e non prevede né tempi
Secondo l’OCSE, in Svizzera l’età di pensionamento dovrebbe salire dapprima a 67 anni, poi orientarsi alla speranza di vita. (Keystone)
minimi di realizzazione, né sanzioni per chi non rispettasse l’impegno. In pratica, questa regola ha avuto una sola grossa eccezione, ma in un caso molto particolare: quello della pressione esercitata nei confronti della Svizzera per la soppressione del segreto bancario verso l’estero, seguito dallo scambio automatico di informazioni fiscali, e quello, in
parte collegato con i vari aspetti finanziari, della tassazione delle imprese con la soppressione dei vantaggi concessi dai cantoni alle società estere. Non si può però dimenticare che questo esame regolare, ogni due anni, delle situazioni politico-economiche nei singoli paesi-membri costituisca di per sé una specie di «pressione sociale»
sui paesi interessati. I relativi rapporti contengono di solito una serie di raccomandazioni, il cui mancato rispetto – come detto – non provoca sanzioni dirette, ma costituiscono un forte incentivo a procedere nella direzione raccomandata. Ovviamente, sul piano politico interno, ognuno cerca di porre l’accento su quegli aspetti che meglio si conformano alla rispettiva linea politica, ignorando spesso tutto il resto. E proprio il settore della previdenza vecchiaia è un esempio tipico di questa situazione. Ma l’OCSE, questa volta, non si limita al generico, ma scende in alcuni dettagli significativi. Per esempio aggiunge che, dopo i 67 anni, l’età di pensionamento deve essere costantemente adeguata alla speranza di vita. Oppure che l’attuale tasso di conversione del capitale di vecchiaia delle casse pensioni al 6,8% è troppo alto e che, per correttezza, dovrebbe essere ridotto tra il 4,5 e il 5%. Il 6,8% attuale, secondo l’OCSE, presupporrebbe un’età di pensionamento di 70 anni! L’organizzazione internazionale affronta anche il tema del freno all’indebitamento, fino a poco tempo fa molto apprezzato anche all’estero, ma diventato oggi un freno a investimenti in miglioramenti nel campo della formazione, degli asili-nido o della politica climatica, per esempio. Sempre nel settore finanziario, l’OCSE suggerisce
un trasferimento della pressione fiscale dalle imposte dirette verso quelle indirette (soprattutto l’IVA). Queste ultime sono meno disincentivanti delle prime nella ricerca di occupazione o di miglioramenti del reddito salariale. In questo campo chiede perfino una diminuzione dell’imposta sul reddito per i redditi inferiori, ma un aumento dei tassi dell’IVA e delle imposte ambientali (con riduzione dei consumi energetici), nonché delle imposte immobiliari (più efficaci di un’imposta generale sulla sostanza). Un modello elaborato dall’OCSE su questi temi prevede che questa riforma fiscale, per altro neutrale rispetto ai bilanci pubblici, permetterebbe di aumentare, entro dieci anni, dell’1,2% il PIL per abitante. Un altro impulso dell’1,5% verrebbe dato dalla riforma della previdenza per la vecchiaia. Entrambe le riforme produrrebbero, per un’economia domestica di quattro persone, un aumento del reddito annuale di quasi 9000 franchi. Un calcolo puramente teorico che nei fatti potrebbe però distanziarsi notevolmente dalla realtà. Infine, solleva qualche perplessità il suggerimento di rivedere il progetto di rendita-ponte per chi perde il posto di lavoro dopo i 60 anni. I costi sarebbero alti e si ridurrebbe la tendenza a cercare un posto di lavoro. In sostanza, secondo l’OCSE, non dovrebbe diventare una specie di pre-pensionamento. Annuncio pubblicitario
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Daniele Perucchini, perché l’incontinenza è un argomento tabù? La fuoriuscita incontrollata di urina può pesantemente influenzare la qualità di vita e per molti rappresenta motivo di imbarazzo. Come si può prevenire l’incontinenza? I muscoli del pavimento pelvico e il tessuto connettivo pelvico giocano un ruolo importante nel mantenere le funzionalità della vescica. Se il pavimento pelvico è debole, vale la pena allenarlo in modo mirato con un terapista appositamente formato.
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Politica e Economia
Quando le spese di cura mangiano i risparmi La consulenza della Banca Migros Jeannette Schaller
Jeannette Schaller è responsabile della pianificazione finanziaria alla Banca Migros
La maggior parte delle persone bisognose di cure cerca di rimanere a casa il più a lungo possibile. In Svizzera sono circa 350’000 i cittadini che si avvalgono dei servizi di Spitex per questo scopo. In tal caso, la persona bisognosa di cure paga alla cassa malati, oltre alla franchigia e all’aliquota percentuale, una partecipazione del paziente fino a 15,95 franchi al giorno. Lo Stato paga per il resto. Invece, i lavori domestici come cucinare o fare le pulizie non sono pagati né dallo Stato né dall’assicurazione malattia obbligatoria. Diventa ancora più costoso se l’assistenza a domicilio non è più possibile e si rende necessario il trasferimento in una casa di cura. Il soggiorno in loco costa in media circa 9000 franchi al mese. La cassa malati paga alla casa di cura, per le spese delle cure, da 9 a 108 franchi al giorno, a seconda del livello di cura. Oltre alla franchigia e all’aliquota percentuale, i residenti pagano una partecipazione del paziente (diversa a seconda del cantone), ammontante al massimo a 21,60 franchi al giorno. Il resto è a carico dello Stato. Le spese per prestazioni non inerenti le cure, invece, come pasti e alloggio, devono essere assunti in primo luogo con mezzi propri. In via sussidiaria, lo Stato aiuta, ad esempio, con assegni per grandi in-
Il servizio Spitex permette di restare a casa il più a lungo possibile, con costi contenuti. (Keystone)
validi per persone che hanno bisogno dell’aiuto di terzi per svolgere gli atti ordinari della vita quali vestirsi/svestirsi, alzarsi in piedi/sedersi, mangiare, provvedere alla propria igiene personale, ecc. Gli assegni vengono versati indipendentemente dal reddito e dal patrimonio – a differenza delle prestazioni complementari (PC). Nel caso di questi
ultimi, la situazione finanziaria sarà presa in considerazione ancora di più in futuro se la riforma PC entrerà in vigore come previsto nel 2021. È previsto che ad avere diritto alle PC saranno solo i soggetti con un patrimonio inferiore a 100’000 franchi. Per le coppie di coniugi e le unioni domestiche registrate questa soglia d’accesso è di 200’000 franchi.
Se infine i risparmi sono stati ampiamente utilizzati e anche le PC non bastano più per finanziare le spese della casa di cura, ecco che interviene il servizio sociale. Ma attenzione: A seconda del cantone, può recuperare i servizi di assistenza sociale dai discendenti se questi vivono in ottime condizioni economiche. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La crescita dell’economia ticinese e i frontalieri Col solito ritardo di due anni sono state pubblicate, dall’Ufficio Federale di Statistica, lo scorso mese, le stime sulla crescita del Prodotto interno lordo dei Cantoni nel 2017. Per il Ticino, come per la Svizzera, il tasso di variazione del Pil reale (cioè ai prezzi dell’anno precedente), nel corso dell’anno appena indicato, è stato negativo. In Svizzera, l’indicatore della prestazione complessiva dell’economia, è diminuito, nel 2017, del 2,7% . In Ticino la diminuzione è stata più contenuta: il Pil reale è diminuito solo del 2,4%. Era dal 2009, ossia dall’inizio della serie di stime dei Pil cantonali, che non si registrava una recessione. Se le stime dovessero essere confermate, si tratterebbe, per il Ticino, di una recessione della stessa ampiezza di quella che ha fatto seguito alla crisi bancaria internazionale. Approfondiamo un po’ il confronto tra l’andamento congiunturale dell’economia ticinese e di quella
nazionale. Come abbiamo già rilevato in altri articoli di questa rubrica, il periodo che ha seguito la crisi bancaria internazionale, ossia gli anni dal 2010 a oggi, ha visto svilupparsi un fenomeno nuovo per l’esperienza di crescita della nostra economia cantonale. Dal 2010 al 2016, anni di espansione del ciclo congiunturale, la stessa è cresciuta (fatta eccezione del 2011) a tassi superiori a quelli medi svizzeri, mentre, negli anni di contrazione (il primo e l’ultimo del periodo considerato), ha conosciuto recessioni più contenute di quelle medie nazionali. Questo significa che, con i fattori di produzione di cui disponeva, l’economia ticinese, in questo periodo, ha sempre ottenuto risultati migliori, in termini di variazione del Pil reale, di quelli conseguiti dall’economia svizzera nel suo complesso. Sempre che, naturalmente, le statistiche e le stime sulle quali si basa il nostro ragiona-
mento siano fondate. Questo risultato deve essere considerato come eccezionale in quanto, nel corso del periodo analizzato, l’economia ticinese ha quasi certamente perso in materia di produttività, e quindi di competitività, rispetto all’economia nazionale. Come si spiega questa performance? La differenza nei tassi di variazione del Pil reale, che, nel corso degli ultimi nove anni, ha separato l’economia ticinese da quella svizzera è dovuta, in buona parte, all’enorme crescita del contingente di frontalieri occupato in Ticino. La crescita dell’occupazione, dovuta quasi esclusivamente all’aumento dell’effettivo dei frontalieri, è addirittura riuscita a compensare la perdita in termini di crescita del Pil provocata dalla diminuzione della produttività del lavoro. In questi ultimi dieci anni sono stati quindi i frontalieri a far crescere l’economia del Cantone più rapidamente di quella
svizzera, Nel medesimo tempo questo effettivo di lavoratori, residenti all’estero, non ha sostituito la manodopera residente. Il tasso di disoccupazione infatti, nel corso degli ultimi dieci anni, non ha fatto che diminuire, scendendo dal 4,9% a un valore attorno al 3%. Solamente nel biennio 20122013 c’è stato un lieve aumento della quota dei disoccupati. Dal 2014 in poi, però, la stessa ha ripreso a diminuire. Questo significa, lo ripetiamo, che l’aumento dell’effettivo dei frontalieri, nel medio termine, non si fa a detrimento dei lavoratori residenti. Anzi le cifre disponibili suggeriscono che i frontalieri, probabilmente hanno un effetto positivo non solo sulla crescita del prodotto interno lordo, ma anche su quella dell’occupazione complessiva. Questa valutazioni positive, sugli effetti economici della crescita dell’effettivo di frontalieri devono però essere temperati, in conclusione, da due
osservazioni. La prima concerne la strada che l’economia ticinese sembra aver preso dopo il ridimensionamento del settore bancario-finanziario. È la strada tradizionale delle attività basata sulla forza lavoro, a buon mercato, che danno esiti inferiori alla media in termini di variazione della produttività e quindi potrebbero minare seriamente, nel lungo termine, la posizione concorrenziale dell’economia nostrana. L’altra osservazione concerne la relazione tra crescita dell’effettivo di frontalieri e variazione della quota di disoccupati. Finora (periodo 20092017) non si è registrato un impatto significativo tra queste due grandezze. Questo però non esclude che in futuro il frontalierato possa diventare un sostituto della manodopera residente. Soprattutto se, in seguito all’estendersi della digitalizzazione e della robotizzazione, la domanda complessiva di manodopera dovesse contrarsi.
è esatta, ma da quando è stata sintetizzata nel semplicistico la Nato-èmorta, molti leader si sono preoccupati soltanto di prendere le distanze. La Nato sta benissimo, vanno ripetendo molti, dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen in giù, anche se non è vero, anche se le fragilità dell’Alleanza sono al centro di un dibattito profondo che ha portato l’Unione europea a riflettere sulla possibilità di una difesa propria, non alternativa alla Nato ma indipendente, questo sì. Poiché le notizie ormai non sono più lunghe di una frase, il tormentone macroniano ha fatto luccicare gli occhi ai russi, che non vedevano l’ora di poter trovare un’altra breccia nel comparto europeo e l’hanno trovata proprio lì, dove siede Mr Europa. I media russi hanno fatto circolare la frase del presidente francese come un attestato di vittoria: noi ve lo diciamo da sempre che la Nato non serve a nulla ed è anzi inutilmente ostile verso di noi, per fortuna ora lo dite anche voi. Peggio di così non poteva andare, insomma. Il tentativo di risveglio fatto da
Macron si è trasformato in un attacco contro di lui e contro la sua presunzione di essere l’interprete unico del pensiero e della visione europea. Nei capi d’accusa c’è anche la sua opposizione all’allargamento nei confronti dei paesi dell’est come Macedonia del nord e Albania, vista come un tradimento del soft power europeo, che attrae paesi con le sue libertà e il suo benessere. Anche qui i russi si sono tuffati: venite da noi, noi non tradiamo le promesse come fa l’Europa, hanno detto ai paesi balcanici in bilico tra est e ovest. Per questa sua opposizione Macron è stato molto criticato, anche se altri paesi la pensano come lui e anche se ha già fatto un’altra offerta, con una revisione del processo di adesione che permette di risolvere la questione aperta dal presidente francese: prima di aprirci agli altri, mettiamo ordine in casa. Chissà quante accuse e critiche e battute arriveranno ora che si apre la stagione degli scioperi e delle rivendicazioni contro le riforme di Macron, il discontento in piazza per fermare un risveglio doloroso, ma necessario.
della croce federale (presente un po’ ovunque, sulle fiancate delle carrozze come sul muso delle locomotive) all’abbigliamento del personale, dai caratteri tipografici ai colori scelti per connotare i tabelloni degli orari. Doveroso soffermarsi sull’orologio ideato nel 1944 dall’ingegnere Hans Hilfiger adottando un quadrante tanto essenziale quanto nitido: dodici larghi segmenti neri su sfondo bianco, cui venne aggiunta successivamente una lancetta per i secondi che riprendeva la foggia della paletta usata dagli addetti al movimento. Il prodotto ha conosciuto una larga fortuna, tanto da finire sugli schermi dei dispositivi Apple. Fin dagli esordi, nel 1902, le FFS hanno cercato di standardizzare il loro sistema di comunicazione visiva, ricorrendo a soluzioni grafiche «calviniste», griglie chiare e lineari, niente fronzoli o trovate audaci, a rappresentare un tipo di approccio allergico ai capricci
della moda. Il messaggio coltivato dalle FFS è stato a lungo sinonimo di sobrietà e anche di un certo conservatorismo, basti pensare alla rigidità della gamma cromatica, fondata sul nero e sul grigioverde. Solo recentemente il «corporate design» si è arricchito di nuovi colori e di geometrie innovative. Un capitolo a parte merita la sezione dedicata ai manifesti pubblicitari, laboratorio che ha visto operare artisti come Emil Cardinaux, Hans Erni, Max Gubler, tre nomi internazionalmente noti della scuola grafica svizzera. Nell’esposizione, che si inoltra anche nei territori dell’ingegneria, dell’architettura e della tecnica ferroviaria, il visitatore ritroverà codici e atmosfere a lui familiari. Perfino la targhetta trilingue che invitava caldamente i viaggiatori a non gettare oggetti dal finestrino, oppure a non esporsi: un eccellente invito ad imparare le lingue nazionali.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Un risveglio doloroso ma necessario Emmanuel Macron (foto) ha detto che la Nato è in uno «stato di morte cerebrale» e da quel momento non si è fatto altro che posizionarsi rispetto a questa dichiarazione tanto forte, tanto radicale, tanto incompresa. Il presidente francese ha fornito una diagnosi così brutale sull’Alleanza atlantica mentre parlava di quanto è cambiata l’America negli ultimi anni: della lunga e articolata intervista che Macron ha rilasciato al magazine britannico «Economist» è rimasta solo quella frase, mentre là dentro c’era una visione articolata e battagliera del mondo, del ruolo della Francia e dell’Europa in questo mondo. «Guardiamo a quel che sta accadendo attorno a noi – ha detto il presidente francese all’«Economist» – Cose che erano impensabili 5 anni fa. Il logorio della Brexit, le difficoltà dell’Europa ad andare avanti, l’alleato americano che ci volta rapidamente le spalle su questioni strategiche: nessuno credeva che tutto questo sarebbe stato possibile». Il punto di partenza per Macron è questo, il mondo si è capovolto, quel che pareva inconcepibile è accaduto e ora, in que-
sto stravolgimento, a pagare potrebbe essere l’Europa, perché «per la prima volta, negli Stati Uniti c’è un presidente che non condivide il progetto europeo». Seguendo questo filo, che sa di mancanza di credibilità e coerenza da parte di Donald Trump, che sa di alleati che non vengono trattati come tali, di ritiri repentini e non coordinati da contesti
di guerra – tanto se i combattenti dello Stato islamico scappano, non vanno in America, arrivano in Europa, ha detto Trump – e di avvicinamenti pericolosi come l’invito ai talebani afghani nella residenza di Camp David – seguendo questo filo, Macron arriva a dire che la Nato è in coma, perché se il primo contribuente balla da solo e disdegna la collaborazione, un’Alleanza che si fonda sulla collaborazione e sul mutuo soccorso non ha possibilità di vivere. Macron voleva rendere chiara questa consapevolezza che cambia l’equilibrio geopolitico delle relazioni internazionali, lo ha fatto nel suo modo schietto e diretto che viene spesso preso come aggressività pretestuosa, ma in sintesi aveva un appello da fare: Europa, svegliati! Nella retorica del presidente francese la paura dei sonnambuli ricorre da molto tempo, al suo esordio sulla scena europea aveva detto che non voleva risvegliarsi, come un bell’addormentato, in un mondo in cui l’Europa non conta più nulla. Ma per contare, l’Europa deve sapere di chi può fidarsi. L’analisi del presidente francese era ed
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Viaggio in treno viaggio sereno (si spera) Nonostante guasti, ritardi, disservizi e irritazioni, le ferrovie federali restano un’icona nell’universo simbolico elvetico. Sono veicoli d’identificazione immediata; forgiano e plasmano un’identità condivisa e facilmente riconoscibile; nei paesi confinanti suscitano sentimenti di ammirazione. I sovraffollamenti e gli errori gestionali sono giudicati con indulgenza, nella convinzione che siano occasionali e compiuti in buona fede, non malattie genetiche incurabili. Questo attaccamento emotivo è ormai ultrasecolare, anche se agli inizi – come ricorda Hans-Peter Bärtschi nel suo ultimo saggio appena uscito da Orell Füssli (Schweizer Bahnen 1844-2024. Mythos, Geschichte, Politik) – vi era chi temeva il diffondersi nelle campagne attraversate dal cavallo di acciaio di spaventose psicosi, quali il «delirium furiosum». Molti medici misero in guardia sugli scompensi mentali che
potevano derivare dai traballanti convogli lanciati a tutta velocità, per la verità assai modesta. Ma le ansie maggiori riguardavano l’attività economica, la scomparsa dei tradizionali mezzi di trasporto fondati sulla forza animale e dei mestieri che ne accompagnavano l’esercizio. Per contro intellettuali come Carlo Cattaneo non avevano dubbi: la strada ferrata era strada di progresso materiale e morale, un’invenzione che nella sua propagazione capillare avrebbe permesso di costruire una tela di ragno tra città, stati, continenti; una fittissima trama, come accade d’inverno quando gli «aghi di acciaio si scontrano e s’attraversano a brevi intervalli e con minuta tessitura, finché tutta la superficie dell’acqua ne rimanga invetriata». Cattaneo non si sbagliava. Centocinquant’anni fa, nel 1869, mentre l’illustre esule lombardo spirava nella sua casa di Castagnola, le prime navi
mercantili attraversavano il canale di Suez; qualche anno dopo, nel 1872, un piccolo esercito di operai italiani iniziava a scavare la galleria del San Gottardo. Che nel nostro paese la cultura ferroviaria sia radicata e profonda, è un dato di quotidiana percezione. Spesso invece sfugge come si è venuta creando e modellando nel corso dei decenni, dalle prime tratte sinuose alle odierne linee superveloci. Alle infrastrutture pesanti costituite da stazioni, ponti, caselli, depositi, centrali, officine, tralicci e cavi occorreva affiancare un’immagine coerente dell’azienda fatta di simboli e pittogrammi; un linguaggio segnico chiaro, che permettesse all’utenza di orientarsi facilmente nel dedalo delle coincidenze. La mostra allestita al Museum für Gestaltung di Zurigo e visitabile fino al 5 gennaio illustra egregiamente questo percorso grafico: dall’abbondante uso
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Cultura e Spettacoli Una collezione di pregio In occasione della mostra dedicata a Marisa Merz, abbiamo incontrato i collezionisti Giancarlo e Danna Olgiati pagina 47
Forever Cure Anche a quarant’anni dal suo esordio, la formazione inglese dimostra tutto il suo valore
pagina 49
Hürlimann torna a casa Heimkehr è il titolo del nuovo, monumentale libro dello scrittore svizzero Thomas Hürlimann
La forza di La Ribot Quest’anno il Gran Premio Svizzero di danza è stato assegnato all’eclettica coreografa e ballerina La Ribot pagina 53
pagina 52 Michel Foucault (1926-1984) in un intenso ritratto di Ledwina Costantini. (Ledwina Costantini)
Storia di una malattia negli anni Ottanta
1. dicembre In concomitanza con la giornata mondiale della lotta all’HIV, una riflessione sulla morte
di Michel Foucault raccontata da Hervé Guibert Daniele Bernardi Fra le prime, celebri vittime di quel beffardo cancro che fu – ed è tuttora, nonostante le cose siano decisamente cambiate – l’HIV al suo espandersi al principio degli anni Ottanta, Michel Foucault occupa un posto peculiare. Omosessuale, non alieno all’uso di stupefacenti, autore di quel capolavoro che è la Storia della follia nell’età classica e dell’illuminante Sorvegliare e punire, attraverso le sue indagini evidenziò la linea di demarcazione con la quale la società occidentale sancì il confine fra normalità e ciò che, ancora, è considerato il suo rovescio; di fatto, le misure con cui ci si rapporta a folli ed emarginati rappresentano, per il filosofo, l’esito di un percorso nato da un processo di «criminalizzazione» della diversità. È dunque emblematico che un virus come l’HIV, la cui caratteristica, soprattutto all’epoca, era quella di colpire soggetti considerati, appunto, diversi – gay, tossicodipendenti, etc. – intaccasse
chi da tutta la vita studiava gli sviluppi dell’antica relazione fra potere e persona. Ma a svelare come Foucault visse la malattia fu un suo giovane amico, lo scrittore e fotografo Hervé Guibert, col lacerante romanzo All’amico che non mi ha salvato la vita, edito da Gallimard nel 1990. Artista estremamente stimato dal filosofo, Guibert concepì parte del libro proprio mentre Foucault giaceva nel suo letto d’ospedale. Infatti, nei giorni che ne precedevano la morte, il destino volle che quell’uomo, solitamente riservato e ostile all’idea di qualsivoglia confessione, si confidasse con lui aprendosi e raccontando di sé, dei suoi ricordi, del suo passato (addirittura il biografo americano James Miller sostiene che Foucault, probabilmente, in quell’occasione rivelò cose che non aveva condiviso nemmeno con Daniel Defert, suo compagno di una vita). Al termine di ogni incontro, Guibert – cosa di cui l’amico era all’oscuro – annotava tutto con puntiglio e cura, certo che il
fato gli avesse dato l’incarico di raccogliere una testimonianza unica. Ma All’amico che non mi ha salvato la vita è un notevole documento non tanto perché esso contenga chissà quali rivelazioni o scoperte. Ciò che, a mio avviso, lo rende un’opera unica è lo stato di febbre, la zona limite, da cui esso sorge: di fatto, si tratta di un gesto estremo – un gesto contro la morte (non era stato proprio Foucault a sostenere che ogni individuo vive il culmine della propria avventura quando si scontra col potere? Esiste forse un potere più grande?). Strutturato come una sorta di diario composto da brevi capitoli – gran parte non supera la pagina – il romanzo appartiene a quella corrente, di cui ora Emmanuel Carrère è certo uno dei più noti esponenti (ma non si tratta di un’invenzione di oggi: il primo fu forse Marcel Proust), da tempo chiamata autofiction: l’autore, qui, cambia ruolo e da artigiano al servizio della pura invenzione si fa protagonista della vicenda vissuta, in tempo presente, in prima persona.
Ma la scelta di Guibert di calarsi direttamente nel narrato non è certo dovuta a questioni stilistiche (in certe condizioni, queste sono quisquilie). Chi vive la malattia abita uno stato di guerra perpetua e, come avviene in ogni conflitto, nessuno o pochi testimoniano del massacro; solitamente si preferisce girare gli occhi dall’altra parte, non parlare del disfacimento e liquidare il peggio – che in alcune vite è tutto – con trite formule: «bisogna andare avanti»; «la vita continua»; «adesso è in pace». «La morte», scriveva il poeta Antonio Porta, «è diventata il grande rimosso della nostra cultura» e la sua pressoché totale ospedalizzazione, come suggerisce Foucault, la dice lunga sul nostro anestetizzante tempo (essere lontani dalla morte non è che un modo di essere lontani dalla vita). Guibert invece, che non ha niente da perdere ed è un vero artista, scava là dove il destino lo ha sospinto in nome di un valore antico (spesso messo in discussione anche dall’amico filoso-
fo): quello della verità, perché, afferma, «per quanto questa possa essere crudele, (...) c’è una certa delicatezza» nel raccontare i fatti nella loro crudezza. Quindi, descrivendo il proprio desolante recarsi di ambulatorio in ambulatorio in una Parigi che, come in un altro romanzo sull’AIDS del 1989 – Les nuits fauves di Cyrill Collard – man mano si muta in una città di morti, Guibert consegna, da un lato, un ritratto intimo di intellettuale, dall’altro uno straziante reportage sugli esiti del male di cui egli stesso morirà nel 1991. Sì, perché All’amico che non mi ha salvato la vita è anche, forse soprattutto, il racconto della propria fine, del proprio morire (il libro si apre con la notizia della sieropositività di Guibert, per poi seguire, con meticolosità, lo sviluppo di ogni minimo sintomo) di cui lo spegnersi di Foucault altro non rappresenta che l’angosciante preambolo, il campanello d’allarme che si tramuta, pagina dopo pagina, nel solenne rintocco della campana a morto.
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Cultura e Spettacoli
Marisa Merz, il volto femminile dell’Arte Povera Mostre A Lugano una mostra celebra l’artista torinese da poco scomparsa
Alessia Brughera Era quasi il Sessantotto e sotto il nome di Arte Povera il critico Germano Celant riuniva un gruppo di artisti provenienti da tutta la penisola italiana accomunati da un linguaggio che, in sintonia con il clima internazionale, attuava un’apertura totale ai più svariati materiali. Fondato a Torino, questo movimento nasceva difatti sulla scia degli sconfinamenti extrapittorici che la Pop Art aveva portato alla ribalta, ma si distingueva per la mancanza di riferimenti iconografici e per l’uso indiscriminato di elementi di ogni tipo, persino di derivazione organica, articolati in strutture informali che spesso invadevano lo
spazio. Con il merito di aver riportato l’Italia al centro del dibattito artistico, la tendenza poverista, dallo stesso Celant definita un’attitudine più che una vera e propria corrente, cercava modalità espressive inedite attraverso cui «aprire un rapporto nuovo con il mondo delle cose» e in particolare con la natura. Ciò che interessava a questi artisti, in un processo che si manifestava «nel ridurre ai minimi termini, nell’impoverire i segni, per ricondurli ai loro archetipi», era creare opere non eterne e fini a se stesse bensì esperibili nel quotidiano e in continua trasformazione. Unica esponente donna del novero dell’Arte Povera era Marisa Merz, che, accanto ai colleghi Mario Merz
Marisa Merz, Senza titolo, 1976, Argilla cruda, pittura oro, cera, su treppiede metallico. (© Roberto Pellegrini. Collezione Giancarlo e Danna Olgiati)
(suo marito, sposato nel 1950), Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis, Alighiero Boetti, Giuseppe Penone e Pier Paolo Calzolari, solo per citarne alcuni, emergeva fin dagli esordi del movimento come una delle sue voci più originali. L’operato della Merz, infatti, rispetto a quello del resto del gruppo, pur spartendo i medesimi principi della corrente, si muoveva su un versante più intimista, più attento a farsi estrinsecazione dei moti profondi della sensibilità e della coscienza. L’artista si è spenta nella sua città natale, Torino, lo scorso luglio, all’età di novantatré anni, dopo un lungo percorso costellato di prestigiosi riconoscimenti, come il Leone d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2013 e la retrospettiva organizzata nel 2017 al Metropolitan Museum di New York. La sua recente scomparsa ha fatto sì che la mostra a lei dedicata, inaugurata a settembre negli spazi della Collezione Giancarlo e Danna Olgiati a Lugano, sia divenuta un omaggio postumo dall’alto valore simbolico, soprattutto se si pensa che fino a poco prima di morire la Merz partecipava con entusiasmo all’allestimento della rassegna accanto alla figlia Beatrice, curatrice del progetto espositivo. La cinquantina di opere radunata a Lugano, prestiti provenienti da raccolte pubbliche e private, perlopiù elvetiche, nonché dalla collezione personale dell’artista, costituisce un esaustivo spaccato della produzione della Merz che ripercorre mezzo secolo di attività concentrandosi su uno dei temi da lei
prediletti, quello del volto e più in generale della figura umana. Per suggerire la poetica che permea questi lavori è stata presa a prestito una frase, diventata il titolo della mostra, che l’artista aveva annotato su una parete della sua casa, quasi a voler dare una sorta di indizio per comprendere il suo mondo creativo: «Geometrie sconnesse palpiti geometrici» sembra difatti contenere e restituire, con una voluta buona dose di enigmaticità, la complessa ricerca della Merz, da sempre sospesa tra lirismo e rigore. Questo accostamento apparentemente antitetico si trova, in nuce, già nei primi lavori che l’artista espone nel 1966 nel suo studio torinese, sculture in lamine di alluminio mobili e irregolari foriere di quell’ossimoro tra nitidezza minimalista e vibrante fluidità che sarà la sua cifra stilistica e che le permetterà di fare il suo ingresso nel circolo poverista. Da queste opere iniziali la Merz prosegue la propria indagine attraverso materiali e tecniche artigianali spesso prerogativa del lavoro femminile, conferendo piena dignità artistica a pratiche tradizionali considerate modeste, come la maglia o il cucito, ad esempio. Cera, argilla, nylon e fili di rame entrano a far parte dell’universo dell’artista torinese, scelti come elementi duttili e leggeri atti a incarnare con la loro discreta presenza un’idea di volubilità che riflette la condizione stessa dell’esistenza. La mostra di Lugano, allestita secondo un principio che trascende le coordinate temporali, ben testimonia la peculiare traiettoria artistica segui-
ta dalla Merz e consente al visitatore di cogliere la profonda relazione che ogni singola opera instaura con le altre, in un gioco continuo di derivazioni, richiami e contaminazioni che racconta l’universo dell’artista come fosse racchiuso in un unico momento dilatato. Il Senza titolo degli anni Settanta posto in apertura del percorso espositivo è un’installazione realizzata con fili di rame lavorati a maglia, un manufatto che solleva riflessioni legate al mondo muliebre inteso come luogo di affetti e di ricordi, in cui si fondono saggezza atavica e perizia manuale. Estremamente raffinati, poi, sono i disegni e le tecniche miste su diversi supporti selezionati per l’occasione (alcuni dei quali presentati al pubblico per la prima volta), come le delicate carte popolate da volti appena accennati che si perdono nella preziosità delle tracce d’oro. Particolarmente significative, ancora, le celebri «testine» in argilla cruda, piccole sculture dalle forme indefinite pitturate con tocchi di pennello dorati: opere semplici e sommarie eppure pregne di energia espressiva con cui Marisa Merz ci invita a entrare nel suo mondo fragile ma palpitante che sa sempre trasformare la realtà in qualcosa di inatteso. Dove e quando
Marisa Merz. Geometrie sconnesse palpiti geometrici. Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, Lugano. Fino al 12 gennaio 2020. Orari: da ve a do dalle 11.00 alle 18.00. www.collezioneolgiati.ch
Conoscenza e passione
Incontri A colloquio con i collezionisti Danna e Giancarlo Olgiati,
che hanno dedicato una vita intera alla loro passione più grande, l’arte
Ada Cattaneo Giancarlo e Danna Olgiati hanno costituito, nel corso di una vita dedicata all’arte, un’importante collezione che va dalle avanguardie storiche agli anni Duemila. Una selezione della raccolta è stata offerta in usufrutto alla Città di Lugano nel 2012 e oggi è possibile visitarla gratuitamente all’interno del circuito museale del MASI nelle sale «underground» della Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, proprio accanto al LAC. In quest’intervista viene ripercorsa la vicenda collezionistica dei due protagonisti, che ha permesso di radunare oltre duecento opere di rilevanza internazionale, che coniugano, in modo del tutto unico in Svizzera, arte italiana ed internazionale. Come ha avuto inizio la Collezione Olgiati?
Giancarlo Olgiati: Quando si inizia una collezione, non si sa dove si andrà a parare. Un orientamento si acquisisce con il tempo e con gli incontri. Per me è stato fondamentale l’incontro con Danna, anche se avevo già capito in precedenza che dovevo guardare al passato per legittimare le mie acquisizioni di opere della contemporaneità. Ho cominciato con i Nouveaux Réalistes, incontrando Klein e Arman per caso a Düsseldorf nel 1962 presso la Galleria Schmeila. Discutendo con Arman delle sue «allures d’objets» capii che l’influenza dei Futuristi e di Balla era per lui fondante. Futurismo, Dadaismo e Avanguardie Russe erano un passaggio necessario per capire come si evolvevano le opere dei Nouveaux
Réalistes. Galeotte furono le opere di Balla acquisite alla Galleria Fonte d’Abisso, dove ho incontrato Danna. Qui è nata la collaborazione, poi divenuta una vita insieme, che ha fatto diventare la collezione ancora più coerente al progetto originario e proiettata verso il futuro grazie ad un vero fil rouge. Quali sono i nuclei principali della vostra collezione?
GO: Il progetto ha dettato come elemento fondante della collezione il rapporto fra l’avanguardia storica e l’avanguardia contemporanea. Quindi la collezione inizia da due grandi nuclei: Futuristi e Nouveaux Réalistes. A tutto questo si ricollegano le opere più recenti, dagli anni Sessanta in poi. Fra queste c’è anche una sezione di Arte Povera.
Danna, come ha influito la tua esperienza di storica dell’arte e di gallerista?
Danna Olgiati: La mia attività in seno alla collezione è esattamente l’altra faccia della medaglia rispetto all’attività di gallerista. Sono due mondi separati, ma il modo di agire è lo stesso. Ho sempre operato salvaguardando la qualità e dando importanza ai contenuti. Con la collezione ci siamo mossi nello stesso modo. È evidente che come collezionista c’è una maggiore libertà di azione: mentre un gallerista si attiene alle tematiche che ha coltivato negli anni, come collezionista si possono esplorare mondi diversi. Ma l’approccio è il medesimo: la qualità innanzitutto.
La vostra collezione racconta del forte legame fra nord e sud. Come avete realizzato questa tessitura fra culture?
DO: Giancarlo è svizzero di lingua italiana, con una cultura europea. Io sono italiana diventata svizzera. Le avanguardie che abbiamo guardato con maggiore interesse sono quelle a sud delle Alpi, riconnesse poi al resto del mondo. Quindi abbiamo sempre mantenuto lo sguardo su quello che faceva parte della nostra tradizione. GO: In fondo si è trattato di confrontare l’arte italiana con il resto del mondo occidentale. Non abbiamo mai approfondito invece l’arte orientale. I limiti sono quindi stati la nostra forza perché, all’interno di essi, abbiamo cercato la grande qualità. Naturalmente non ci siamo limitati all’arte italiana. Ma erano gli stessi artisti di altre nazionalità a esprimere quanto fossero debitori delle avanguardie italiane.
Come avete sviluppato il vostro continuo rapporto con gli artisti?
DO: Lo scambio con gli artisti è sempre un privilegio. È particolarmente interessante quando si crea un dialogo che vada oltre la discussione sulla singola opera, per entrare nel mondo dell’artista. L’opera che vogliamo acquisire non viene discussa quasi mai con l’artista, perché può essere un freno alla nascita di un rapporto più profondo. GO: Frequentando gli artisti, abbiamo imparato che ogni creativo è convinto che l’ultima sua opera sia la migliore, ma spesso non è così. Quindi bisogna conoscere questo mondo per orientarsi. Poi c’è un altro aspetto importante: ci sono state delle gallerie determinanti per la costituzione di alcuni nuclei della nostra raccolta. Vale, per esempio, per le gallerie Fonte d’Abisso e Sprovieri per
I collezionisti Danna e Giancarlo Olgiati. (Claudio Bader)
i Futuristi, per la Galleria Pierre Nahon per i Nouveaux Réalistes, per la Galleria Tega per gli anni sessanta italiani o per la Galleria Christian Stein di Torino e Milano riguardo al nucleo dell’Arte Povera e per la Paula Cooper Gallery di New York riguardo al Neo Astrattismo e al Neo Pop. Quindi l’alleanza con la galleria diventa un fattore determinante per individuare opere di qualità. Che cosa è alla base della vostra attività collezionistica?
DO: Noi siamo collezionisti all’antica, classici. Questo significa avere un progetto, che matura nel tempo. L’opera si acquisisce perché ce n’è sempre un’altra che la precede: l’opera che arriva oggi è motivata da qualcosa che era già in collezione. La nostra linea del gusto, che appare evidente a chi visita i vari allestimenti della collezione, è esattamente il progetto che abbiamo impostato insieme, seguendo le nostre passioni, evolutesi nel tempo in certe particolari direzioni. Ci sono quindi degli elementi che riaffiorano: l’arte concettuale, la materia, l’arte come condizione, espressa anche attraverso la sofferenza vissuta dall’autore. La vera storia della nostra collezione è il percorso che abbiamo fatto insieme. GO: E di regola, al momento di scegliere, Danna ed io ci guardiamo negli occhi e capiamo che l’opera è quella giusta.
Marisa Merz, il cui lavoro è ora in mostra presso la Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, non si è certo lasciata fuorviare dal mercato. Perché avete scelto di dedicarle un’esposizione?
DO: Prima di tutto dobbiamo amare il lavoro di un artista per dedicargli una mostra. L’opera di Marisa Merz è difficile da afferrare, è ancora oggi calata nel mistero della sua persona e di quel suo modo di rappresentare l’opera secondo simbologie e tecniche così diverse fra loro. Quando l’abbiamo scelta, lei era ancora in vita e abbiamo lavorato direttamente con lei e con sua figlia Beatrice, che ha curato la mostra. Possiamo dire che, in questo caso, alla base della nostra scelta c’era il desiderio di conoscerla meglio. GO: Siamo molto orgogliosi anche perché lei ha voluto, qui da noi a Lugano, dimostrare quanto la sua personalità sia in parte autonoma rispetto all’Arte Povera. Sembra infatti emergere la volontà, quasi testamentaria, di dire che l’interesse per il volto umano, nelle sue diversissime sfaccettature, è stato il cardine della sua ricerca. Informazioni
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Cultura e Spettacoli
Le sfumature di Capuçon Musica Il 5 dicembre il grande violoncellista francese Gautier Capuçon
eseguirà Shostakovich e Berlioz in un imperdibile concerto al LAC
Spettacoli Spóros,
per capire la vita attraverso la forza dell’arte
Enrico Parola Per anni Mstislav Rostropovich, il più grande violoncellista del Novecento (e non solo), aveva chiesto a Dimitri Shostakovich di scrivergli un concerto per violoncello. Un giorno lesse sul giornale locale che il compositore ne aveva appena concluso uno; forse ancor più inferocito che deluso perché l’amico Dimitri non gli aveva detto nulla a riguardo, pensando che lo avesse dedicato a un altro musicista e quindi sentendosi tradito, si precipitò bellicoso a casa di Shostakovich. Il quale gli confessò di non avergli detto nulla per timore che l’opera non fosse all’altezza del suo straordinario talento; Rostropovich gli chiese di vedere la partitura e di suonarla, lui al violoncello e il compositore a suonare la parte dell’orchestra al pianoforte; ne fu entusiasta, pace fu fatta a brindisi di vodka protratti fin quasi al mattino seguente. Inutile dire che Shostakovich dedicò fin da subito all’amico il suo secondo concerto per violoncello. È bello talvolta conoscere il «dietro le quinte» delle vite di certi grandi geni, l’aneddotica umana da cui originano i loro capolavori. A suo modo è quello che fa Gautier Capuçon, talentuoso francese di Chambéry che il 5 dicembre sarà solista nel secondo Concerto di Shostakovich, l’Op. 126 in sol maggiore, con l’Orchestra della Svizzera Italiana. Capuçon è attivissimo sui social: ogni
Concorso «Azione» mette in palio alcuni biglietti omaggio per l’Orchestra della Svizzera italiana diretta dal Maestro Markus Poschner e con l’esibizione di Gautier Capuçon che si terrà al LAC di Lugano il 5 dicembre 2019. Per partecipare al concorso seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona Fortuna!
Un nome che è già un programma, quello dell’associazione in questione, che si chiama Rizòmata. Un programma che già dopo poche parole riesce ad accendere la curiosità di chi è alla ricerca di un’offerta culturale diversa, capace di uscire dagli schemi o dai percorsi canonici. I prossimi 29 e 30 novembre l’Ideatorio USI di Cadro ospiterà il debutto dello spettacolo Spóros, durante il quale si intende «esplorare uno dei meccanismi fondamentali della presenza della vita. Quali sono le condizioni per la nascita di un organismo, quali quelle per permetterne la crescita?» Per questo progetto (ideazione e regia di Roberto Mucchiut), ci si avvarrà dei linguaggi della performance dal vivo, dell’arte visuale digitale e del sound design, in un viaggio particolare che vedrà l’interazione di corpo, immagine e suono. Obbligatoria la riservazione all’indirizzo ideatorio@usi.ch
Gautier Capuçon, classe 1981, si esibirà al LAC il 5 dicembre. (Keystone)
giorno pubblica su Instagram foto che lo ritraggono anche in situazioni sorprendenti (ad esempio mentre cavalca a Vienna) e usa Facebook come una sorta di diario di bordo. «Mi piace raccontare alla gente quello che faccio, e se possibile farlo anche vedere; il ritrovarsi in aeroporto con un volo in ritardo o addirittura cancellato fa vedere che la vita del concertista non è fatta solo delle luci del palcoscenico e del suonare davanti al pubblico, ma di spostamenti, inconvenienti, tante piccole o meno piccole incombenze quotidiane. È fatta anche di routine e di lavoro: documento le prove, racconto che cosa sto studiando e le idee che mi sono venute un certo pomeriggio; quando capita illustro un momento di libertà e di svago che sono riuscito a concedermi, come appunto l’aver provato per la prima volta l’ebbrezza di cavalcare mentre ero a Vienna per dei concerti».
Forse non questo lato privato e personale, ma sicuramente la personalità artistica di Capuçon è ben nota al pubblico del Lac: presenza costante del «Progetto Martha Argerich», in questa stagione è artista in residenza di Lugano Musica. Il ritrovarlo anche nel cartellone della Osi non è però un’inutile replica, tutt’altro: tale è il talento del violoncellista transalpino che l’avere più occasioni di ascoltarlo non può non essere accolto con favore e piacere. «Anche per me è importantissima l’empatia che si crea con un certo pubblico. Mentre il pianista è sempre di lato e il violinista può girarsi e ruotare, noi violoncellisti siamo sempre esattamente frontali, guardiamo in faccia la gente dalla prima all’ultima nota. E se capita come quella volta a Boston… Era il mio debutto lì, stavo suonando con Dutoit il concerto di Dutilleux e un signore in prima fila guardava l’orologio ogni cinque secon-
Come nasce e cresce un organismo
di. All’inizio mi disturbava e basta, poi ho iniziato a pensare che stessi suonando in un modo terribilmente noioso…». A Lugano l’accoglienza è sempre stata calorosa, l’ultima volta a ottobre quando ha interpretato il concerto di Schumann con Nelsons e la Gewandhaus. Stavolta invece, accompagnato da Markus Poschner che dirigerà l’Osi anche nella visionaria, talvolta addirittura allucinata Sinfonia Fantastica dove Berlioz si immagina i deliri di un artista che sogna un sabba di streghe, c’è Shostakovich: «I due concerti sono splendidi e molto diversi tra loro. Il primo è più celebre ed eseguito, credo perché più eroico, con un finale battagliero che invita all’applauso; il secondo è più d’atmosfera, è difficilissimo ma la tecnica più che in esibizioni pirotecniche viene richiesta, e in modo massiccio, per trascolorare continuamente tra infinite sfumature».
Dove e quando
Spóros, corpo, arte e audiovisiva. 2930 nov. (20.30), Cadro, Ideatorio USI, www.rizomata.art In collaborazione con
La locandina di Spóros.
Robert Smith 40 anni dopo
Musica Le due facce della medaglia: la band britannica dei The Cure celebra il quarantesimo anniversario di carriera
omaggiando la propria «doppia anima» stilistica Benedicta Froelich Pur avendo dato i natali a moltissime band di talento, la prolifica (eppur effimera) stagione musicale degli anni 80 ha anche mietuto molte vittime, su tutte le innumerevoli «one hit wonders» di cui il decennio è stato particolarmente prodigo. Eppure, la band britannica dei The Cure resta una delle poche formazioni dal background squisitamente «eighties» ad aver superato più o meno indenne le tempeste che hanno scosso il mondo del pop-rock negli ultimi tre decenni, scavalcando a piè pari qualsiasi successiva moda passeggera. Così, se, a quarant’anni dagli esordi, il frontman Robert Smith sfoggia ancora la stessa pettinatura volutamente scarmigliata degli esordi (insieme alle ingenti quantità di ombretto e all’immancabile rossetto vermiglio, da sempre applicato con mano incerta), nulla è cambiato neppure nella qualità delle incisioni ed esibizioni live della band: la voce di Smith non ha minimamente risentito del trascorrere degli anni, e alcuni dei suoi compagni d’avventura sono rimasti i medesimi. Su tutti, lo storico amico di gioventù Simon Gallup, antico bassista del gruppo.
Oggi, per tutti coloro che, al pari di chi scrive, possono vantare innumerevoli ricordi giovanili legati alla musica stravagante e un po’ surreale della band, questo attesissimo «double set» (due DVD, integrati, nella versione deluxe, da ben quattro CD contenenti la sola versione audio) risulta effettivamente imperdibile: una vera e propria celebrazione dei quarant’anni di carriera che il gruppo può ormai vantare, e, allo stesso tempo, molto
Per l’anniversario una copertina tutt’altro che dark.
più di questo. The Cure: 40 Live offre infatti le registrazioni complete di due indimenticabili concerti tenuti dai The Cure nell’estate del 2018, qui distinte da titoli suggestivi: e laddove Anniversary è una dichiarata celebrazione del quarantennale della formazione – un tradizionale, epico concertone all’aperto di oltre due ore, del genere che oggigiorno solo una location come Hyde Park può offrire – ecco che Curaetion-25 costituisce invece un modo più originale e sperimentale di ripercorrere il percorso artistico della band. In occasione della serata finale del 25esimo Meltdown Festival londinese, Smith e i suoi hanno difatti deciso di eseguire due lunghi set caratterizzati dall’inclusione di una sola canzone da ognuno dei loro tredici album, rigorosamente in ordine cronologico – per poi, nella seconda parte dello show, ripetere il processo in senso inverso, arrivando così a un totale di ventotto brani; e le scelte tutt’altro che scontate compiute dalla band fanno sì che la setlist rappresenti un’istantanea peculiare della carriera e del repertorio dei The Cure, in cui l’aspetto più ipnotico e opprimente del loro songwriting brilla con particolare enfasi tramite
brani malinconici e riflessivi quali Other Voices, Bananafishbones e Jupiter Crash, perlopiù raramente eseguiti dal vivo. Il tutto arricchito dalla presenza di due pezzi inediti (It Can Never Be the Same e Step Into the Light), a loro volta abbastanza deprimenti da potersi definire come riusciti richiami al passato del gruppo. The Cure: 40 Live diventa quindi ben più che la solita miscellanea di hit: lungi dal limitarsi a snocciolare il meglio della propria produzione, Smith e compagni si lanciano in un esperimento concettuale curatissimo, come testimoniato dai due DVD che costituiscono il fulcro di questo minicofanetto; in particolare, Anniversary si presenta come una via di mezzo tra un concerto e un happening d’arte moderna, in cui l’esibizione è accompagnata da filmati e immagini – i quali, scorrendo sui maxischermi che, come fondali, circondano la band da ogni lato, ricordano al pubblico la solennità dell’occasione. Per contro, Curaetion-25 rappresenta una vera e propria, intima e claustrofobica «celebrazione dark», tagliata su misura per la gioia dei fan di vecchia guardia. Del resto, spesso si tende a sottovalutare il
fatto che i The Cure sono sempre stati, per così dire, una band dal «doppio registro», nel cui repertorio da tempo convivono un’anima gotica e ombrosa – che ne ha fatto il gruppo più amato dalla tribù giovanile dei cosiddetti «goth» anni 90 – e un gusto marcato per il pop a tratti più orecchiabile e radiofonico, ma comunque sempre di alta qualità; ecco quindi che la compilazione di questo live set appare come un arguto tentativo di combinare con grazia le due anime artistiche della formazione, coniugando l’aspetto «commerciale» a quella che resta forse la cifra stilistica più autentica della band. Così, benché, in ambito rock, le retrospettive siano spesso da considerarsi un affare piuttosto delicato, si può tranquillamente affermare come questo The Cure: 40 Live riesca a superare tutti i rischi e innegabili limiti delle cosiddette «operazioni nostalgia» per assurgere allo status di legittimo, impeccabile omaggio alla carriera di Robert Smith e colleghi: una band che, grazie all’ammirevole professionalità e costanza (e a una grande coerenza artistica) ha fatto la storia del pop inglese degli ultimi quarant’anni.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 novembre 2019 • N. 48
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Cultura e Spettacoli
Il ritorno a casa di Hürlimann
Pubblicazioni Il suo Heimkehr è un romanzo difficile, che offre una lettura a più livelli accompagnata
dall’imperdibile possibilità per il lettore di lasciarsi andare a profonde riflessioni Natascha Fioretti Devo confessare che il romanzo di Thomas Hürlimann l’ho letto sei volte. Vi dico anche, in confidenza, che alla prima ci ho capito poco. Poi però ad ogni lettura ho avuto una sorpresa, trovato un indizio, ho iniziato a sottolineare ogni parola o frase che mi sembrava avesse un senso per quel disegno che nella mia testa lentamente prendeva forma. Com’è quel detto in latino? «Per Aspera ad Astra», attraverso le avversità sino alle stelle. Quella che a prima vista sembra la bizzarra storia di un tale, Heinrich Übel, nato il 21 dicembre del 1950 in una valle sperduta della Svizzera tedesca chiamata Fräcktal, che un bel giorno si risveglia sulle coste della Sicilia senza ricordare cosa gli è successo, è in realtà molto più di una semplice storia. Innanzitutto è la vita del suo autore. Thomas Hürlimann è onnipresente in quest’opera fortemente autobiografica a partire dal nome e dalla data di nascita del protagonista, all’incidente in auto sul ponte, ai tentativi di scrittura, fino al viaggio nella DDR e a quei piccoli dettagli che solo chi lo ha conosciuto da vicino, se non lui stesso, può conoscere. Quello che il romanzo ci racconta è il viaggio esistenziale di un uomo alla ricerca della sua identità, in perenne scontro con la figura paterna che in seconda generazione guida l’attività di famiglia, un’azienda che produce preservativi (l’ironia sagace e pungente, tratto tipico della raffinata e precisa scrittura di Hürlimann, anche qui non manca) e considera il figlio un buono a nulla, un fallito. Molti critici lo hanno definito un’odissea surreale perché proprio come Ulisse, Heinrich Übel affronta viaggi e fatiche con un solo fine: fare ritorno a casa dal padre. Da qui il titolo dell’opera Heimkehr, «Ritorno a casa». Ma, tra le righe di questo volume di oltre cinquecento pagine, c’è di più, a partire dalla copertina rigida viola. In alchimia il viola, unione del rosso e del blu, è il colore della metamorfosi, della transizione. Il viola è il colore tradizionale della mistica, della spiritualità, indica l’unione degli opposti. La trasfor-
mazione, la metamorfosi, la costante crescita e maturazione del protagonista sono fra i punti cardine del romanzo. Così come l’amore, l’attrazione degli opposti. Ci viene detto sin dall’inizio, sin da quando il giovane Heinrich si risveglia nella bella e calda Sicilia dove l’autore nel descriverci luoghi e paesaggi ci delizia con vere pennellate letterarie. Ad esempio quando Heinrich, seduto nella grande piazza al Grancaffè Garibaldi, si dice orgoglioso di avere imparato l’arte di bere il caffè. Lo guardano la cattedrale e gli antichi palazzi con i loro colonnati mentre il signore dell’isola, Helios Hyperion, il dio sole, fa saltare i bottoni alle camicie delle signore e l’aria profuma del balsamo dei mandorli in fiore. È una guida turistica a insegnare a Heinrich, che crede di essere una sorta di Robinson, quali sono le parole chiavi dell’isola: la trasmisgrazione dell’anima di Empedocle, la teoria delle idee di Platone, la metamorfosi delle piante di Goethe e la commedia pirandelliana. I quattro autori sono stati qui. Goethe nell’aprile del 1787, Pirandello in Sicilia ci è nato nel giugno del 1867, Empedocle nel V secolo a.C. si gettò nell’Etna, famoso è il suo sandalo rigurgitato dal vulcano, Platone venne tre volte tra il 388 a.C. al 360 a.C.
Fra tutti i romanzi di Thomas Hürlimann questo è il più ostico, forse perché è anche il più intimo Se non sono queste indicazioni a darci il vento di crociera, cosa allora? Tutto ci riporta ai quattro elementi o alle quattro radici, come scrive Empedocle nel poema Sulla natura cercando la ragione del divenire e interpretandolo come mescolanza e dissoluzione delle quattro radici di tutte le cose: fuoco, acqua, terra e aria. L’uomo, microcosmo, è lo specchio del macrocosmo «noi conosciamo la terra con la terra, l’acqua con l’acqua, il fuoco con il fuoco, l’amore con l’amore». Non solo, Empedocle credeva alla
Lo scrittore Thomas Hürlimann in una recente immagine. (Keystone)
trasmigrazione dell’anima, come Heinrich racconta alla bella Mo dai capelli rosso rame che come una venere emerge davanti a lui dalle acque del mare, «i suoi sogni avevano svelato ad Empedocle di aver vissuto già molte vite, era stato una giovane ragazza e un pesce». Mo, diminutivo di Montag, è la sua anima, Heinrich ne è convinto, «alla nascita la nostra anima perde la sua conoscenza ma determinate intuizioni, ricordi che abbiamo vissuto prima, nel cielo delle idee, restano». Sono proprio loro, le donne che costellano la vita di Heinrich e le diverse forme d’amore che ognuna rappresenta, a ricordarmi due opere di Goethe: Gli anni di apprendistato e Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister. Nel viaggio iniziatico del protagonista Wilhelm le donne giocano un ruolo fondamentale, grazie a loro si attua la sua crescita e ben lo spiega Maria Elena Caiola, docente di lingua e cultura tedesca, nella
sua tesi Wilhelm Meister, l’amore come iniziazione: «Ognuno riconosce nella persona amata la possibilità di evolvere e di migliorare se stesso e l’altro. È il cammino dell’essere umano al fine di armonizzare e trasfigurare la sua natura interiore. È un amore vissuto come stato di coscienza e come legge di vita. Come energia che tocca le profondità dell’essere. Come il grande mediatore tra la natura terrena e divina dell’uomo». Così l’amore per l’attrice Mariane è amore fisico, quello per Aurelie amore amico, per Therese amore mentale e quello per Natalie, la bella Amazzone, è l’amore supremo che riunisce tutti gli amori in armonia. Nel caso di Heinrich la bella amazzone è Mo. Quella Mo che seduta su una panchina a Berlino est, mentre la gente a Bornholmer Strasse si dirige in massa verso il muro appena crollato, gli grida «Heinrich sei vivo!». Heinrich è sulla ruota panoramica, vuole salire al cielo, dare un’occhiata
lassù dove lo attende la sua prossima vita, dove potrà finalmente intraprendere il suo vero ritorno a casa. Ma la ruota panoramica non è soltanto un giro nel cielo: simboleggia il cerchio senza inizio né fine, il serpente che si morde la coda. L’ouroboros indica l’eterno ritorno, l’energia universale che si consuma e si rinnova di continuo, la natura ciclica delle cose. Alla fine, dopo mille peripezie, fallimenti, illusioni e viaggi che lo portano dalla Svizzera alla Sicilia, dall’Africa alla Germania, Heinrich Übel tornerà a casa? Lo scoprirete solo leggendo, di certo posso dirvi che fare ritorno a casa non è una cosa facile, può essere il viaggio di una vita o una grande illusione pirandelliana. Bibliografia
Thomas Hürlimann, Heimkehr, Fischer Verlag, 2018.
Nuove leve ticinesi
Festival Castellinaria Al netto dello scandalo che ha contrassegnato i primi giorni della kermesse,
a Bellinzona si sono viste opere interessanti e che spingono alla riflessione Nicola Mazzi La 32esima edizione di Castellinaria sarà ricordata, purtroppo, come quella di Alessandro Haber che, sul palco, si è rivolto in modo inopportuno alla conduttrice della rassegna bellinzonese. Facendo passare i film in secondo pia-
no. Peccato perché la varietà delle proposte e la qualità dell’offerta erano ottime e avrebbero dovuto primeggiare. Ma così non è stato. Il polverone che ha suscitato lo sgradevole episodio è stato tale da offuscare il resto. Ma siccome questo spazio è dedicato al cinema più che alla cronaca,
I segreti del mestiere, regia di Andreas Maciocci.
rimettiamo i film al posto che meritano anche perché gli spunti interessanti non sono mancati. In particolare, desidero concentrarmi su due film ticinesi presentati in anteprima: I segreti del mestiere di Andreas Maciocci e L’ombra del figlio di Fabio Pellegrinelli che – insieme al documentario I ragazzi dello sciopero di Misha Györik – hanno rappresentato il Ticino alla kermesse. Pellegrinelli, al suo debutto con un lungometraggio, ha proposto un’opera che contiene il tono delle precedenti sue produzioni: Notte noir e Strategia dell’acqua. In questo caso la vicenda mette in scena un chirurgo ticinese, Giovanni Barbieri, e suo figlio, Alberto, divenuti quasi estranei a seguito della morte di Laura, rispettivamente moglie e madre. Sarà una violenta aggressione di Alberto ai danni di un giovane ragazzo ucraino, Ivan, e il coinvolgimento di Giovanni in una losca vicenda con un clan mafioso dell’est a dare il via al riavvicinamento di questi due mondi e alla scoperta l’uno dell’altro. Un’opera sicuramente studiata ed elaborata che si fa seguire abbastanza bene grazie ad attori nella
parte e piuttosto credibili, e a una scrittura realistica e senza particolari sbavature. Tuttavia, a mancare è il ritmo. Seppur girato in modo corretto con inquadrature precise, il film non riesce a catturare del tutto l’attenzione dello spettatore. Le scene sono a tratti statiche e in definitiva mancano di fluidità e di tensione narrativa. Tutti aspetti che miglioreranno sicuramente con l’esperienza, perché il talento c’è e si intravede. Anche l’altro giovane debuttante ticinese alla regia di un lungometraggio, Andreas Maciocci, ha mostrato cose interessanti. Il suo I segreti del mestiere è una storia di formazione che si inscrive nel realismo magico. Il protagonista è un adolescente introverso, Samuel, che si trova alle prese con i problemi classici di quell’età: l’amore, il rapporto con il padre e il desiderio di esprimere la propria personalità. Proprio per sfogare il suo estro ha inventato un personaggio animato: Aline, una ragazzina vispa e determinata, la quale risolve casi che neppure la polizia riesce a dipanare. E con lei dialoga in un continuo ping-pong tra fantasia e realtà. È proprio questo l’aspetto più
interessante del film, il gioco tra i due mondi che si intercalano dando una chiave di lettura diversa agli eventi che si succedono e aggiungendo ulteriore senso al carattere del ragazzo e all’intera opera. Anche in questo caso, tuttavia, ci sono delle carenze che dovranno essere colmate nel prosieguo dell’altrettanto promettente carriera di Maciocci. La recitazione del giovane Massimiliano Motta, a volte, non riesce a essere del tutto convincente. Così come la scrittura di alcune scene; su tutte quelle legate al mondo assicurativo ticinese di cui fa parte il padre e che sembrano più adatte a una metropoli come New York che a una realtà piccola come la nostra. Dettagli, forse, ma che sono importanti nella descrizione di un territorio che si vuole valorizzare grazie all’importante lavoro che sta facendo la Ticino Film Commission. Non basta solo mostrare le location, i nostri bellissimi luoghi (in questo film a essere protagonista è il paesaggio urbano nei dintorni della stazione di Chiasso) al pubblico. Bisogna anche saperli descrivere, attribuire loro una realtà e una verità che qui, purtroppo, è un poco assente.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 novembre 2019 • N. 48
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Cultura e Spettacoli
La Ribot, un’artista totale, radicale e autoironica
Danza La coreografa spagnola María José Ribot Manzano, in arte La Ribot, si è aggiudicata
il Gran Premio svizzero di danza 2019 Giorgia Del Don Maria Ribot, in arte La Ribot (da pronunciare con la «t» finale!) è il frutto di un innesto ispano-svizzero dei più azzeccati, un’unione fuori dagli schemi che sfida le convenzioni per crearsi un angolo di paradiso in un luogo ancora inesplorato: fra mare e montagne, fuoco e ghiaccio. Approdata a Ginevra all’inizio degli anni 2000 dopo un soggiorno di quattro anni a Londra, La Ribot porta con sé un prezioso bagaglio di esperienze madrilene dal sapore almodovariano (artista con cui condivide una verve «décalé» impregnata di Movida). Un’identità molteplice, a tratti paradossale quella de La Ribot che si addice alla perfezione alla sua maniera di creare: al contempo rigorosa e stravagante, pluridisciplinare e in costante mutazione. Un’artista insomma che non si è mai preoccupata di piacere, ma che al contrario ha scavato nei meandri dell’inconsueto senza esitare a dichiarare di aver «sempre lavorato ai margini, in quello che non è la norma». In quest’ottica, il fatto di ricevere il prestigioso Gran premio svizzero della danza 2019 potrebbe sembrare incongruo. Oppure al contrario, come rivendicato dalla coreografa (ma anche ballerina, videasta, drammaturga e chi più ne ha più ne metta) stessa, questo non rappresenta alla fine che un segnale positivo d’apertura delle istituzioni ufficiali verso qualcosa di «scomodo». «Non sono controcorrente di non so che cosa, sono libera e basta», risponde La Ribot a una giornalista che le chiede se non teme di essere riassorbita dalla cultura ufficiale attraverso questo importante premio. Una risposta semplice e chiara che mette in avanti un’individualità forte che si nutre di femminismo e attivismo (due aspetti indubbiamente presenti in tutti i suoi lavori) trasformandoli però in qualcosa di nuovo, arricchendoli d’un vocabolario unico, tanto indisciplinato quanto metodico. Quello che è certo è che il 2019
può a tutti gli effetti essere considerato come «l’anno Ribot». Oltre a essersi assicurata un futuro più sereno (cosa non semplice per un’artista, sebbene la città e il cantone di Ginevra dove vive l’abbiano sempre sostenuta), la regina delle Piezas distinguidas gioisce quest’anno anche d’un’immensa retrospettiva di quasi tre mesi nell’ambito del Festival d’Automne di Parigi: un menu composto da cinque spettacoli e un’esposizione in due parti che ritraccia i suoi incredibili ventisei anni di carriera. Un riconoscimento decisamente glamour che La Ribot personalizza con la sua immancabile stravaganza, a cavallo fra le arti, i corpi (reali e immaginari, singoli e collettivi) e i generi (decisamente lontani da una stereotipata concezione binaria). Alta, snella e muscolosa come una ballerina classica, con un viso atipico, intrigante e androgino che ricorda l’eleganza di un Buster Keaton, il tutto incorniciato da una chioma fulva che è diventata il suo marchio di fabbrica, La Ribot ha trasformato il suo corpo in strumento di una critica quasi palpabile, fatta di carne e ossa. Ciò che la contraddistingue in quanto artista è proprio il fatto che non si sia posta alcun limite rispetto all’utilizzazione del suo corpo al quale fa subire sperimentazioni d’ogni genere: dallo striptease umoristico e femminista di Socorro! Gloria! passando per Gustavia, un duo scatenato (interpretato insieme alla ballerina e coreografa francese Mathilde Monnier) che gioca sulla ripetizione estenuante del genere burlesco per trasformarlo in critica dei ruoli di genere preconfezionati, senza ovviamente dimenticare le sue mitiche Piezas distinguidas che impersona come fosse lei stessa un oggetto da esporre in una galleria d’arte o in un museo. Potente e fiero, il suo corpo sembra fondersi con quello collettivo della scena fatto di spettatori, oggetti, musica, luci e costumi. In questa sorta di comunione con gli spettatori che non tiene mai a distanza, La Ribot dipin-
La Ribot, Panoramix (19932003), Mercat de les Flors, Barcellona, 2019. (© Alfred Mauve)
ge attraverso le sue memorabili Piezas distinguidas (corte vignette mordaci e divertenti che mettono in scena il suo quotidiano e la sua propria versione della «donna», che vende come fosse un’opera d’arte ad acquirenti «distinti/e») tanti piccoli, stravaganti scenari di quello che ognuna di noi potrebbe essere. Da sempre interessata al concetto di «corpo intelligente», la coreografa dalla chioma di fuoco gioisce dell’incontro con corpi atipici, o comunque meno comunemente rappresentati su scena. Corpi e attitudini che perturbano obbligando gli spettatori a cercare nuove chiavi di lettura. Rispetto agli interpreti con cui ha lavorato per Happy Island e che fanno parte della compagnia di danza inclusiva portoghese Dançando com a Diferença, La Ribot dichiara: «questi ballerini sono dei corpi intelligenti che non hanno veramente coscienza di esserlo». Un’intelligenza che non ha nulla a che vedere con il professionismo, ma che
al contrario nasce dalla bellezza e dalla potenza che ogni corpo, con le sue particolarità, già possiede. Una spinta vitale verso mondi possibili che non abbiamo il coraggio di esplorare. «Gli ho insegnato come vivere nel corpo attraverso l’arte, la danza. Perché la danza cura», dice La Ribot a proposito del suo lavoro con la compagnia portoghese. La danza come antidoto al conformismo, come vento impetuoso che rovescia tanto le norme sociali quanto sceniche. Sempre attenta a mettere sullo stesso piano interpreti, pubblico, corpo, immagini, suoni, testi e oggetti, La Ribot trasforma i suoi spettacoli in catarsi collettiva. Questa democratizzazione e transdisciplinarità, al centro di tutte le sue creazioni, l’hanno trasformata in figura maggiore della «danza figurativa» (danse plasticienne in francese). Una maniera di definire una pratica artistica che si nutre di arti sceniche ma anche visive per formare un tutto compatto e indissociabile. Non
è un caso se La Ribot è stata una delle prime coreografe ad aver chiaramente utilizzato i musei e le gallerie d’arte come cornici delle sue pièces. Un’attitudine che non deve però assolutamente essere considerata come snob o elitista, ma al contrario come gesto liberatorio e ribelle rispetto alle norme della rappresentazione scenica. Sovversiva, coraggiosa e fiera, La Ribot non conosce tabù e si getta nell’arena utilizzando il suo corpo come scudo, prendendo posizione rispetto a temi per molti versi scomodi: la sessualità, la rappresentazione di genere, l’handicap, la religione. Senza mai perdersi in un accanimento sterile, i suoi punti di vista restano comunque radicali sebbene sempre accompagnati da uno humour che fa parte integrante della sua personalità. Una maniera d’esprimersi frontale e originale che non smette d’affascinare e che l’ha trasformata in una delle personalità indispensabili della danza contemporanea europea.
Un dialogo tra la scena e il cervello
Pubblicazioni Teatro e neuroscienze, nuove prospettive per la formazione dell’attore Giorgio Thoeni È nato prima l’uovo o la gallina? Al celebre paradosso la scienza ha ormai dato spiegazione, ma se vogliamo seguire un ragionamento logico ancora oggi potremmo perderci nel proverbiale e ingannevole rompicapo. In un certo senso ritroviamo i crismi di un analogo paradosso spostando la nostra attenzione sul rapporto fra scienza e teatro: quale universo di conoscenza delle relazioni nasce per primo? Peter Brook parlando delle più recenti scoperte sul cervello umano sostiene che la scienza ha cominciato a capire ciò che il teatro conosce da sempre. Come ad esempio la scoperta, avvenuta sul finire del secolo scorso, dei neuroni a specchio, una classe di quella piccola unità funzionale del sistema nervoso che si attiva sia quando un individuo esegue un’azione sia quando lo stesso individuo osserva la medesima azione compiuta da un altro soggetto. La definizione ci porta a una serie di processi interpretativi che nel loro divenire contengono il dialogo ininterrotto tra forme diverse e complementari del sapere. Dunque
possiamo dire che nasce prima il teatro all’insegna della formula cartesiana del cogito ergo sum. È infatti proprio la storia della filosofia nella sua genesi più complessa a fornirci spiegazioni sull’essenza dell’essere umano, sulle sue emozioni, sulle reazioni a sentimenti e relazioni con i simili. Le stesse che vengono esplorate nell’analisi e nello studio dell’arte scenica, considerazioni che hanno portato alla creazione di nuovi percorsi formativi. Se lo erano imposti autorevoli pedagoghi, grandi maestri alla stregua di Stanislavskij, Meier’hold, Vachtangov, Strasberg, Grotowski, Barba, Brook e altri, tutti alla ricerca della verità antropologica, alla conquista dello spettatore attraverso la recitazione. I padri fondatori del teatro del Novecento l’avevano capito durante appassionanti stagioni di ricerca sulla formazione dell’attore, sulle sue capacità di trasmettere emozioni. Oggi si afferma il dialogo fra teatro, scienze umane e neuroscienze, un ulteriore capitolo di studio che descrive la relazione fra attore e spettatore nel rapporto fra azione e percezione.
Una porta aperta, parafrasando Peter Brook, anzi spalancata. Una tendenza che sta contagiando la scena a più livelli, dalla danza al teatro sul terreno della formazione. Un processo che non ha lasciato indifferente Luca Spadaro, regista, drammaturgo, fondatore nel ’92 della CompagniaTeatro d’Emergenza (con Massimiliano Zampetti) e pedagogo. Da poco infatti è in libreria
L’attore specchio, un saggio-manuale di 166 pagine pubblicato da Dino Audisio editore e dedicato al training attoriale e neuroscienze in 58 esercizi. Ma come va interpretata questa urgenza pedagogica? E qual è il grado di parentela con le neuroscienze? Intendiamoci, Spadaro non è uno scienziato. È però un regista attento e scrupoloso che per ottenere risultati interpreta l’atto scenico come equilibrio con quanto accade intorno o dentro l’attore partendo dal principio che se osservo qualcuno compiere un’azione, alcuni neuroni del mio cervello si attivano come se io stesso stessi facendo quell’azione. (…) Così pure le emozioni che vediamo in qualcun altro risuonano nel nostro cervello come se fossimo noi stessi a provarle. Considerazioni che apparentemente sembrano sconfinare nell’ovvio ma non è così. Il lavoro dell’attore si basa infatti su una sottile relazione che si instaura con lo spettatore partendo dalla teoria dei neuroni a specchio come spiega Spadaro: esistono circuiti cerebrali pre-azionali che si attivano nello spettatore non appena un attore appare sul palco e di cui chi fa tea-
tro deve tener conto costantemente. Possiamo anche chiamarle emozioni condivise che partono dal lavoro dell’attore, passano attraverso i sensi e si depositano nella memoria. In questo senso il libro è strutturato come una guida articolata che testimonia la passione teatrale dell’autore coltivata con rigore e curiosità in anni di pratica formativa. Come ci racconta la nutrita serie di esercizi corredati da articolate considerazioni. Stimoli verso la disciplina per l’apprendista attore con temi per improvvisazioni e giochi collettivi alla ricerca delle intenzioni più profonde da cui trarre riflessioni, suggerimenti e raccomandazioni dove anche la voce trova la sua centralità come azione fisica. Un’accordatura tra corpo e parola strumenti dell’attore, come ci ricorda Amleto quando si rivolge agli attori della compagnia che deve recitare per lui: adattate la parola all’azione e l’azione alla parola. Bibliografia
L’attore allo specchio. Training attoriale e neuroscienze in 58 esercizi. Roma, Dino Audino Editore, 2019.
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