Azione 48 del 25 novembre 2024

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Tyrrells, Tyrrellbly Tasty”

edizione

MONDO MIGROS Pagine 4 / 6 – 7

SOCIETÀ Pagina 5

Al Caffé dei genitori si parla di metodo di studio accompagnati dal libro di Matteo Salvo

Una mostra sul dottorato «honoris causa» conferito dall’Università di Losanna a Benito Mussolini

ATTUALITÀ Pagina 17

Dopo quarant’anni a Milano ritorna Edvard Munch, portavoce scandinavo del mal di vivere

CULTURA Pagina 25

Con Ghirri la fotografia si fa arte

A Panama, i celebri Diablos Rojos tornano a sfidare i Metrobus tra cultura popolare e disagi quotidiani

TEMPO LIBERO Pagine 40-41

Pagine 32-33

Lavoro, la scelta di puntare su chi vive in Ticino

Il mondo del commercio al dettaglio è spesso sulle prime pagine dei giornali. L’ultimo esempio è l’abbassamento della soglia doganale per l’esenzione dall’IVA svizzera, che dal 1° gennaio 2025 scenderà da 300 a 150 franchi. Nelle ultime settimane anche Migros è stata spesso al centro dell’attenzione. Oggi però desidero parlarvi di Migros Ticino in qualità di più importante datore di lavoro privato del Canton Ticino. È notizia di pochi giorni fa che l’apprendistato fa segnare numeri da record nella nostra regione. Si tratta di un tema centrale nella politica del personale di Migros Ticino. In effetti, la nostra cooperativa si può ritenere una mosca bianca nel panorama dell’occupazione ticinese: i frontalieri e le frontaliere nei ranghi di Migros Ticino sono poco meno del 10%. In altre parole, i collaboratori e le collaboratrici residenti in Ticino e Moesano fanno la parte del leone e rappresentano ben il 90% del nostro personale! Questa percentuale da ca-

pogiro è una vera e propria dichiarazione d’amore di Migros al proprio territorio. Secondo l’ufficio di statistica cantonale la quota di personale frontaliero nel commercio al dettaglio ticinese, nel 2021 si attestava al 40,7%, Migros Ticino compresa (ultimo dato disponibile al riguardo). Molto probabilmente il dato attuale è ancora maggiore vista l’evoluzione degli ultimi anni. Nella ricerca di personale Migros Ticino da sempre accorda la precedenza alle e ai residenti. Il buon nome e la solidità di Migros quale datore di lavoro ci ha quasi sempre permesso di coprire con facilità il nostro fabbisogno di personale. Certo è che il contratto collettivo di lavoro nazionale Migros, applicato anche da Migros Ticino, è un elemento cruciale. In casi isolati e laddove un determinato profilo professionale non si trovi sul mercato del lavoro locale, ricorriamo eccezionalmente al bacino della vicina Italia. Ma veniamo agli apprendisti. Il settore del-

la formazione è uno dei cinque pilastri strategici di sviluppo della cooperativa e dunque anche gli apprendisti ne hanno beneficiato negli ultimi tre anni. La cooperativa ha deciso nel 2022 di impegnarsi maggiormente nella formazione professionale in azienda e i frutti di questa politica sono ben visibili. Il numero di giovani che vengono formati in Migros Ticino è oggi di poco inferiore a 70, in costante aumento. Con il prossimo anno scolastico speriamo di raggiungere la «velocità di crociera» di circa 75 apprendisti su tre anni, tutte e tutti residenti, s’intende. La nostra gioventù ha la possibilità di spaziare tra una mezza dozzina di professioni allettanti: impiegati e impiegate di vendita (AFC impiegato commercio al dettaglio), di logistica, di commercio, autisti e meccanici di mezzi pesanti, così come istruttrici e istruttori di fitness. Un’ottima base per entrare nel mondo del lavoro, per poi partire alla scoperta del grande Mondo Migros e perché no, anche al di là del

Gottardo. Non è raro che una carriera cominciata con un apprendistato, sfoci poi in un ruolo di gerente di filiale oppure di specialista di marketing con attestato professionale federale. Leggo troppo spesso informazioni sbagliate al riguardo della quota di frontalieri attivi nella nostra azienda: ora lo sapete, sono meno del 10% e tra le apprendiste e gli apprendisti sono lo 0%. È un peccato che all’esterno di Migros non ci sia la consapevolezza di queste cifre. Ecco perché mi sembra particolarmente importante che le conoscano bene socie e soci della nostra cooperativa. Soprattutto a voi vogliamo offrire gli strumenti per filtrare le informazioni inesatte che appaiono a volte negli articoli di giornale e che generano commenti fuorvianti nelle chiacchiere di tutti i giorni, nei post e nelle chat sui social. Come Migros Ticino diamo lavoro e aiutiamo i giovani a costruirsi un futuro professionale dal primo giorno.

Manuela Mazzi e Giovanni Medolago
@ Eredi Luigi Ghirri

A Faido vi aspetta una Migros piena di sorprese

Info Migros ◆ Giovedì riapre a Faido il rinnovato supermercato Migros: per festeggiarlo, quattro settimane di sconti, omaggi, concorsi, simpatiche iniziative e animazioni per i bambini

Inaugurato nel lontano 1971, dopo regolari migliorie nel corso nei decenni, questo apprezzato e ben frequentato punto vendita di paese aveva bisogno di un deciso aggiornamento per restare al passo con i tempi. Con l’intervento iniziato lo scorso 30 settembre si è deciso di fare un ulteriore importante passo avanti nel rinnovo della rete di vendita di Migros Ticino. L’investimento complessivo per i lavori di questo amato negozio di prossimità è stato di un milione franchi. Dopo otto settimane di cantiere riapre dunque giovedì in completa nuova veste la filiale Migros di Via Pian della Croce a Faido.

Le strutture sia esterne sia interne del supermercato, totalmente ammodernate e ora all’avanguardia, sono caratterizzate dai più alti standard di costruzione e sostenibilità a livello ambientale. L’esperienza d’acquisto è stata migliorata grazie al totale ripensamento della superficie di vendita, valorizzata da nuovi colori e da un nuovo arredamento. Anche l’impianto d’illuminazione LED a basso consumo farà la sua parte in questo progetto d’innovazione.

L’accessibilità

Il supermercato, in grado di servire comodamente tutta la popolazione residente nel Comune e proveniente

dai suoi dintorni, nonché i numerosi turisti presenti in valle per lunghi periodi dell’anno, si presenta completamente nuovo, più accogliente e con spazi interni più ampi, che faciliteranno anche avventori con una mobilità ridotta. Per garantire una miglior accessibilità è stata edificata una nuova rampa pedonale su via Pian della Croce. È stata eseguita anche una manutenzione dell’ascensore esterno su via Gerra. Sono state eliminate le vecchie scale mobili, sostituite da due comodi lift vetrati di ultima generazione. L’esercizio è facilmente raggiungibile sia con i principali mezzi pubblici sia in auto, avendo una buona quantità di posteggi esterni proprio a ridosso della filiale e a disposizione della clientela Migros. Il punto vendita sarà dotato di casse tradizionali e, per chi va un po’ di fretta, saranno presenti comode e veloci casse subito per il self-scanning e self checkout.

Offerta di Migros Faido

Il supermercato sarà caratterizzato da assortimenti alimentari e non alimentari ben calibrati e orientati a soddisfare i più attuali bisogni degli avventori. Il reparto non alimentare della filiale verrà riproposto con una selezione di articoli fai da te, casalinghi e con piccoli elettrodomestici, per integrarsi al

meglio al contesto che la ospita. La clientela avrà così la possibilità di fare sia una spesa veloce sia acquisti più importanti e consistenti. Il punto vendita leventinese continuerà a disporre del curato reparto Daily, dedicato ai prodotti di consumo immediato, sia caldi sia freddi. A livello di sostenibilità il negozio manterrà l’assortimento di base Migros Bio, l’efficiente parete ecologica e introdurrà le etichette elettroniche di prezzo a scaffale. Quale gradita

Generoso, magia invernale

Monte Generoso ◆ Molte novità per momenti indimenticabili

Dal 7 dicembre, ogni weekend e festivo, la cremagliera salirà sulla vetta del Monte Generoso. Fino al 30 marzo 2025, immergersi nella magia della natura sarà ancora più conveniente grazie a uno sconto del 30% sulle tariffe invernali per tutte le tratte. Inoltre, per il Black Friday del 29 novembre sarà possibile acquistare l’abbonamento annuale al Monte Generoso con uno sconto del 20%.

Durante il fine settimana di apertura, sabato 7 e domenica 8 dicembre,

Trasformailtuocapolavoro nellanostracartolinadiNatale2025!

Tema:ilFioredipietra,firmatodalcelebre architettoM.Bottasitrasformaintemanatalizio. Disegno:formatoA4,colorietecniche dipitturaasceltadelpartecipante.

Premio:ilvincitoreelasuafamigliasi aggiudicanodeibuoniviaggioA/Rsultreninoa cremagliera.Ilmigliordisegnoverràutilizzatoper lanostracartolinadiNatale2025!

Consegna:entroil31.12.2024

lo sconto sulle tariffe invernali sarà del 50%: 27 CHF per gli adulti e 13.50 CHF per i ragazzi fino a 15 anni. Inoltre, chi salirà domenica 8 dicembre con il trenino delle 10.15 da Capolago, sarà accolto da San Nicolao, pronto a distribuire dolciumi e a posare per foto ricordo. In vetta ci saranno caldarroste e vin brulè.

«Per entrare nell’atmosfera della festa più bella dell’anno, soprattutto per i bambini», afferma Chiara Brischetto, Head of Marketing, Communication

Leoperevengonorealizzateduranteilnostro eventodi SanNicolao8.12 pressoilFioredipietra oppureinviateperpostaalnostroindirizzo,specificandoilvostronome,cognome,email,telefono.

FerroviaMonteGenerosoSA “ConcorsoCartolinadiNatale” ViaLüera1-CH6825Capolago

Partecipanti:

Tuttiibambini cheamanodisegnaree esprimerelalorocreatività

& Sustainability della FMG. «abbiamo lanciato il concorso Piccoli Artisti Cercasi: dall’8 al 31 dicembre 2024 i partecipanti potranno disegnare il Fiore di pietra a tema natalizio; il disegno più originale diventerà il biglietto di auguri del Monte Generoso per il Natale 2025» (vedi immagine). Dal 24 dicembre al 6 gennaio, la FMG sarà aperta tutti i giorni con quattro partenze da Capolago e ritorni dalla Vetta.

Per il tradizionale scambio di auguri prenatalizi tra colleghi e amici, al ristorante Fiore di pietra e al Buffet Bellavista si possono organizzare in esclusiva pranzi e cene. O partecipare alle serate Raclette e Fondue Chinoise già in programma per tutto dicembre al Bellavista.

«Vi aspettiamo al Bellavista anche per il pranzo di Natale del 25 dicembre e per il cenone di San Silvestro»; conclude Carolina Russbach, Head of Marketing, Communication & Digital della FMG «ci sono tutti gli ingredienti per rendere indimenticabili le feste: il camino, la musica, le candele, i profumi del buon cibo e l’allegria delle persone care… se arriva anche la neve, sarà un’autentica magia!»

Informazioni www.montegeneroso.ch

novità, da metà del 2025, proporrà al suo interno anche un nuovissimo ufficio postale.

Le iniziative per la riapertura

Per festeggiare degnamente con gli avventori questa speciale occasione, il 28 e 29 novembre verrà concesso un 10% di sconto su tutto l’assortimento. Sabato 30 novembre dalle 11 alle

14 ricco buffet offerto a tutta la popolazione, con intrattenimento musicale da parte di due cori locali e, per i più piccoli, trucca bimbi. Dal 2 al 4 dicembre, per ogni CHF 50 franchi di spesa, si riceverà invece in omaggio una calda e sgargiante cuffia invernale Migros. Sabato 7 dicembre dalle 14 alle 16 FINN, il folletto di Natale della Migros, distribuirà i sacchetti di San Nicolao a tutti i bambini. Spicca poi il concorso in essere dal 9 al 14 dicembre, con in palio tre carte regalo del valore di CHF 500, CHF 200 e CHF 100! Chiudono questo corposo e speciale pacchetto promozionale le sempre apprezzate degustazioni degli articoli Nostrani del Ticino, previste dal 16 al 21 dicembre.

Orari e contatti di Migros Faido

Il responsabile Giuseppe Di Rienzo e i suoi nove collaboratori, ben inseriti nella comunità locale, cordiali e preparati, sono pronti a soddisfare i bisogni della clientela con cura e attenzione, in un clima accogliente e famigliare.

Orari di apertura

Lunedì-venerdì: 8.00-19.00

Giovedì: 8.00-20.00

Sabato: 8.00-18.30

Tel. 091 821 78 40.

La coesione fa bene

Info Migros ◆ Un sostegno ai progetti

Sostegno a progetti e iniziative

Il Percento culturale Migros sostiene in tutta la Svizzera progetti e iniziative che rafforzano la coesione sociale: state realizzando ad esempio un progetto che permetta alle persone di vivere una maggiore coesione e partecipazione al loro ambiente o di incontrarsi e dialogare? Allora potete richiedere i contributi di sostegno del Percento culturale Migros e della Fondazione per la promozione delle lingue e della formazione (SSUB) della Federazione delle cooperative Migros (importo minimo 2000, max 10’000 CHF).

Si sostengono progetti e iniziative in tutta la Svizzera realizzabili a livello locale, regionale o nazionale.

L’organizzazione deve avere sede in Svizzera e una forma giuridica valida (associazione, fondazione di pubblica utilità o cooperativa).

Contributi di sostegno per lo sviluppo organizzativo

Se la vostra organizzazione sociale ha già un’offerta consolidata e desiderate svilupparla, potete chiedere un con-

È sempre più importante creare coesione all’interno della società. (Migros engagement)

tributo di sostegno al Percento culturale Migros (minimo 5000, max 30’000 franchi).

L’organizzazione deve raggiungere con la sua offerta un gran numero di persone in una città, un cantone o in diverse regioni, deve avere sede in Svizzera ed essere rivolta alla popolazione della Svizzera.

Informazioni e iscrizione engagement.migros.ch/it/ sostegno/progetti-sociali

Quattro settimane di sconti, omaggi e sorprese per festeggiare degnamente la riapertura della filiale Migros di Faido.

SOCIETÀ

Il benessere attraverso il movimento L’associazione Svizzera Feldenkrais compie 40 anni e rinnova il suo impegno nella diffusione di una disciplina ancora poco conosciuta

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Il Grifone, tra mito e realtà

Animale mitologico con corpo di leone e testa d’aquila, simbolo di forza e valore, in natura è un rapace presente anche in Svizzera

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L’importanza del metodo di studio

Mezzo secolo di Club ’74

Creatività, coesione e sostegno sono il cuore di un’associazione innovativa e ben radicata nella realtà dell’OSC a Mendrisio

Pagine 12-13

Il caffè dei genitori ◆ Il passaggio dalle elementari alle medie può comportare qualche difficoltà, come aiutare i figli?

Il discorso torna ancora lì! Il passaggio dei più piccoli di famiglia dalle elementari alle medie accende inesorabile a Il caffè dei genitori il dibattito sull’importanza del metodo di studio. La convinzione diffusa è che in linea di massima fino alle elementari basta un po’ di attenzione in aula e semmai un minimo di impegno dopo la scuola per cavarsela con risultati soddisfacenti: dalle medie invece la musica può cambiare e anche chi senza troppi sforzi si è abituato a prendere buoni voti adesso deve faticare di più. Di noi 7 in famiglia adesso è il 10enne Enea ad avere fatto il salto: ma immediatamente mi rendo conto che una discussione simile, proprio a Il caffè, l’abbiamo affrontata nell’agosto 2018 con il debutto alle medie di Clotilde, ormai 16enne. Oggi come allora la necessità è la stessa: liberiamoci dai compiti dei nostri figli (li devono fare loro, non noi!), ma aiutiamoli a capire come studiare. Già sei anni fa gli esperti che avevamo interpellato per «Azione» ci avevano messo in guardia: «Troppo spesso i genitori organizzano in modo puntuale e costante le sessioni di studio del figlio – ci avevano detto gli psicoterapeuti Alberto Pellai e Barbara Tamborini –. A volte si ha l’impressione che certe mamme e papà non siano lì ad aiutare il ragazzo a studiare, bensì stiano studiando con lui, se non addirittura al suo posto. Avere una buona autostima scolastica significa sentirsi capaci di tenere sotto controllo i propri impegni, compiti e lezioni compresi».

Capita l’antifona, resta l’esigenza di fornire ai nostri figli gli strumenti migliori perché imparino a studiare nel modo più efficace, senza poi che noi dobbiamo stargli appresso, cosa sbagliata oltre che insopportabile. Come quando ci ritroviamo a scrivere nelle chat di classe: «Che compiti dobbiamo fare per oggi?». Ecco quel dobbiamo non va pronunciato mai più, non solo per salvaguardare la nostra salute mentale, ma anche per il bene dei nostri figli! È il motivo per cui decidiamo di leggere come se fosse la Bibbia il testo Studiare è un gioco da ragazzi. Il metodo rivoluzionario per fare i compiti in modo efficace e veloce (ed. Gribaudo). L’autore è Matteo Salvo, 47 anni, il primo e unico italiano ad aver conquistato il titolo di Grand Master of Memory che vuol dire riuscire a memorizzare: un numero lungo almeno 1.000 cifre in 60 minuti di tempo; almeno 10 mazzi di carte in 60 minuti di tempo; un mazzo di carte sotto i 2 minuti di tempo. La sua promessa è di rendere lo studio un’attività piacevole, l’apprendimento efficace e permettere ai ragazzi di avere più tempo per gli amici e lo sport. Nessuno a Il caffè dei genitori crede nei miracoli (perlomeno scola-

stici), ma vale la pena tentare di capire. Del resto a tutti noi dispiace avere in casa figli che passano tutto il pomeriggio sui libri, alla sera non hanno ancora finito, e il giorno dopo non vogliono andare a scuola perché hanno l’ansia di non essere preparati. E che cosa dire, poi, di quelli che invece la testa sui libri non vogliono neppure mettercela, gli occhi li spostano in continuazione su TikTok, e sbuffano solo all’idea di studiare per più di dieci minuti?

Ecco allora, in estrema sintesi, sei consigli su cui vale la pena ragionare. Rendere lo studio un’attività piacevole e l’apprendimento efficace: è quanto promette Matteo Salvo nel suo libro Studiare è un gioco da ragazzi

Uno: postazione e materiale di studio. Studiare in un ambiente gradevole fa sentire meglio e questo permetterà di essere a proprio agio e di stare in quel posto più volentieri. Luce. Ordine. Una sedia comoda che permetta anche di tenere la schiena dritta. La penna scelta con cura e che scorre sul foglio proprio come piace, invece che la penna trovata per caso nell’astuccio, magari smangiucchiata dal fratello.

La tazza con la tisana sulla scrivania. Una candela accesa. Tutto può fare la differenza per rendere più accogliente lo spazio dove studiare: «Se tuo figlio per studiare inizia a usare cose che gli piacciono senza neanche rendersene conto – assicura Salvo – assocerà un’emozione di piacere allo studio». Due: pianificazione del tempo di studio. Innanzitutto è fondamentale avere sott’occhio il programma delle lezioni di tutta la settimana: ovviamente lo devono avere sott’occhio i ragazzi, non noi genitori! In base a quello possono fissarsi degli obiettivi da perseguire giorno per giorno, giocando sempre d’anticipo: lunedì arrivare a pagina 7 del libro di storia, martedì imparare 15 vocaboli di inglese, mercoledì scrivere il tema, ecc. Più l’obiettivo è chiaro, preciso e stimolante più diventa facile raggiungerlo. Una strategia che stimola la voglia di fare, perché permette di procedere molto velocemente, è affrontare per prima la materia più impegnativa e subito dopo la materia più facile, in modo da vivere la sensazione di avanzare rapidamente e vedere la to do list che diventa sempre più corta. «È bene che il tempo di apprendimento o di studio a casa non superi mai i 40 minuti consecutivi – insiste poi Salvo –. Dopo ci deve essere sempre una vera pausa per poi riprendere,

se necessario, sempre con la concentrazione alta. È più motivante e incentivante sapere di dover rimanere concentrati per un tempo ridotto. Tuo figlio vedrà la meta vicina e saprà che fino a lì, impegnandosi, ci può arrivare. Per tenere il tempo e mantenere la concentrazione può essere di grande aiuto un timer». Io l’ho provato con Enea, con successo: sapere di avere 30 minuti a disposizione per fare un tema (la cosa che più odia) l’ha convinto a non alzarsi ogni 6 minuti a chiedere una parola, bere, mangiare, cercare una pallina, perdere tempo con le scuse più varie, ma a restare concentrato sapendo che finito il tema avrebbe avuto una pausa. Tre: le parole-chiave. È bene dare una lettura scremante all’argomento da imparare e individuare poche parole da cerchiare sul libro che aiuteranno a rievocare i concetti chiave.

Quattro: studiare per spiegare invece che per imparare. È uno switch mentale. Più che memorizzare i concetti nella propria mente, è utile immaginare qualcuno davanti a cui ripeterli per farglieli capire. Qui sì, ci diciamo a Il caffè dei genitori, che possiamo giocare il nostro ruolo di ascolto!

Cinque: la comunicazione. Il voto del professore non si basa solo sul contenuto esposto, ma anche sulle

modalità con cui viene esposto. Come nel gioco dell’oca allora ritorniamo al punto quattro: «È chiaro che se tuo figlio potrà esercitarsi a spiegare alla lavagna riproducendo la situazione che si troverà a vivere con la sua insegnante – dice per esempio Salvo – sarà molto più facile al momento dell’interrogazione essere tranquillo e disinvolto». Ai miei tempi io facevo finta di essere la prof e di spiegare le cose agli alunni. Ma, forse, sono un caso patologico. Sei: vietato dire non ti agitare. Sentite cosa dice l’esperto: «Se abitui tuo figlio a ricevere informazioni in questo modo, la sua mente ripeterà la stessa struttura per qualsiasi cosa lui dica a sé stesso, quindi è probabile che davanti a un rigore dica “Non devo sbagliare” oppure “Non me la deve parare” e all’interrogazione potrebbe dirsi “Speriamo che non mi chieda questo”». Nulla di tutto ciò è tranquillizzante. Meglio invece che si dica: «Voglio rimanere tranquillo», «Voglio rimanere concentrato». Per lui sarà molto più semplice andare nella giusta direzione.

L’ultimo capitolo di Studiare è un gioco da ragazzi s’intitola: Verso l’eccellenza! Un campione nello studio. A Il caffè dei genitori confessiamo di non averlo letto: i figli troppo performanti ci spaventano.

Simona Ravizza
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Quando la raclette è nostrana

Attualità ◆ Un formaggio prodotto in Alta Leventina che completa ulteriormente la gamma Migros della specialità simbolo della cucina elvetica. Una bontà imprescindibile per gli amanti dei prodotti locali che apprezzano qualità, freschezza e sostenibilità degli ingredienti

Il Caseificio Dimostrativo del Gottardo, ad Airolo, dinamica struttura turistica-commerciale situata alle pendici del San Gottardo, dove i visitatori possono scoprire il processo di lavorazione tradizionale del formaggio, produce anche diverse altre specialità casearie, molte delle quali sono disponibili anche nei supermercati di Migros Ticino. Una di queste è l’aromatica raclette.

Qualche anno fa il Caseificio Dimostrativo di Airolo ha voluto creare un proprio formaggio ideale per il consumo caldo. Nasce così la raclette del Gottardo, una specialità ricca dei sapori e degli aromi tipici dei formaggi a base di latte di montagna ticinese. Questo prodotto a pasta liscia, elastica e cremosa, dal tipico colore giallo paglierino, durante la preparazione si scioglie in modo uniforme, sprigionando al meglio tutto il suo aroma unico.

La raclette del Gottardo è un formaggio ticinese a pasta semidura, grasso, realizzato con latte vaccino di montagna pastorizzato. Il suo sapore delicatamente dolce è dovuto all’utilizzo del latte ricco di aromi dei pascoli prealpini ticinesi. La durata della stagionatura è di 90-150 giorni. È un formaggio naturalmente privo di lattosio.

Nuovi sughi Polli

Come vuole la tradizione, anche la raclette del Gottardo si gusta volentieri accompagnata dalle classiche patate al vapore o bollite con la buccia. Per aggiungere un tocco di sapore extra al piatto, il formaggio può essere arricchito anche con salumi quali per esempio prosciutto crudo, carne secca, speck, pancetta o salame. Altri tradizionali abbinamenti sono cipolline e cetriolini sottaceto, verdurine grigliate, ma anche qualche fettina di frutta come mele o pere possono aggiungere una piacevole e contrastante nota dolce. Chi lo gradisce, gusta la raclette con un vino bianco secco.

Novità ◆ Migros Ticino introduce tre sughi pronti di pomodoro del noto marchio italiano

L’azienda Polli, leader nella produzione di pesti, sughi, conserve, sottoli e sottaceti, ha da poco lanciato sul mercato una nuova gamma di sughi per pasta pronti al consumo a base di pomodoro. Tre di questi sono stati inseriti nell’assortimento di Migros Ticino, da sempre particolarmente attenta alle migliori prelibatezze provenienti dalla vicina penisola. Tutte le varianti sono prodotte con pomodo-

ri italiani e polpa di ciliegino italiano di elevata qualità e pochi altri ingredienti, in modo che ognuno di noi possa gustare tutta la semplicità e autenticità della cucina italiana in modo semplice e veloce, ogni giorno. Le salse sono disponibili in un vasetto da 350 grammi, ideale per condire fino a 4 porzioni di pasta, nelle varianti pomodoro e peperoncino, per un tocco di piccantezza caratteristico; pomo-

doro e parmigiano reggiano DOP, un classico che non può mai mancare; e pomodoro e olive, per un delicato sapore tutto mediterraneo. Grazie a questi gustosi sughi, l’esperienza gastronomica unica è assicurata, in linea con la crescente consapevolezza dell’importanza di un’alimentazione ricca di verdure e proteine vegetali per la salute individuale e per la sostenibilità ambientale. In vendita nelle maggiori

filiali Migros
Raclette Gottardo
300 g Fr. 8.95

Novità ◆ Una passata vellutata dal gusto dolce e pieno che mantiene tutto il sapore dei migliori pomodori italiani

Ora nel nuovo brik amico dell’ambiente

Cremosa, omogenea, senza bucce e semi, perfetta per creare piatti deliziosi e unici in grado di conquistare ogni palato. Con la nuova passata di pomodoro scottato al vapore Valfrutta, in brik da 1000 grammi, questa promessa è pienamente mantenuta. Lavorata delicatamente a partire da pomodoro proveniente al 100% da filiera italiana, si presenta in un packaging completamente rivisto, sia per quanto riguarda l’aspetto grafico sia per l’ecosostenibilità, con l’obiettivo di ridurre ancora di più l’impatto sull’ambiente. La confezione presenta infatti un’elevata percentuale di materiali di origine vegetale rinnovabili, nella misura del 64%. Come tutti i prodotti a marchio Valfrutta, anche per la passata viene garantita la completa tracciabilità grazie ad una struttura cooperativa composta da 14’000 agricoltori. Ogni fase della produzione, dal seme alla coltivazione, passando per la raccolta, il trasporto, la lavorazione, fino alla distribuzione ai negozi, viene accuratamente monitorata in modo da assicurare il massimo della qualità ai consumatori.

Migros Faido rinnovata!

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La consapevolezza del movimento

Benessere ◆ L’Associazione Svizzera Feldenkrais compie 40 anni e continua nell’opera di diffusione e informazione su una disciplina ancora poco conosciuta. Ne parliamo con l’insegnante Laura Cambi

«La mia passione è capire i nostri modi di funzionare, così da poter imparare a rendere la nostra vita più facile e piacevole», scriveva Moshé Feldenkrais a proposito del Metodo che porta il suo nome e che si basa sull’idea che è possibile migliorare la qualità della propria vita diventando più consapevoli dei movimenti che si compiono. Il modo in cui ci si muove – ma pure si percepiscono, riconoscono e cambiano i propri schemi – ha infatti un’influenza diretta sul benessere. E il Metodo Feldenkrais, considerando la capacità dell’individuo di apprendere e cambiare nel corso della propria vita (neuroplasticità), si occupa proprio di avviare, accompagnare e supportare questi processi, nell’ambito dei quali l’immagine di sé si amplia e si affina e la flessibilità mentale aumenta.

«Siamo consapevoli che si tratta di un metodo che non tutti conoscono, ma che comunque si pratica un po’ ovunque nel mondo ed è noto soprattutto in ambito artistico. Nel resto della Svizzera è più diffuso che in Ticino, dove il territorio è piccolo e le persone un po’ meno aperte verso questo tipo di discipline», afferma Laura Cambi, che insegna questo sistema di apprendimento somatico in Ticino (dove sono attivi poco meno di una decina di insegnanti, sparsi sul territorio).

Il Metodo Feldenkrais sviluppa il concetto di «apprendimento organico», che nasce dall’esperienza

corporea individuale

A livello nazionale, l’Associazione Svizzera Feldenkrais si impegna per la diffusione del Metodo e, in qualità di associazione professionale, promuove e tutela gli interessi degli oltre 400 membri, la maggior parte dei quali lavora nel proprio studio o in istituzioni pubbliche e private come ospedali, case di riposo, centri di riabilitazione, accademie d’arte e centri educativi. Quest’anno l’associazione ha un duplice motivo per festeggiare; sono infatti trascorsi 40 anni dalla sua nascita, come pure dalla scomparsa del suo fondatore. Un anniversario celebrato su tutto il territorio con una serie di eventi e proposte che hanno preso avvio nel mese di aprile, proseguendo per l’intero anno successivo. «Con il gruppo Feldenkrais Ticino, a fine settembre abbiamo organizzato due giornate di porte aperte a Sorengo e Losone; una bella occasione per sperimentare questo particolare metodo e scoprire le numerose possibilità che offre», commenta Laura Cambi. Come abbiamo accennato, il Metodo Feldenkrais sviluppa il concetto di «apprendimento organico», vale a dire un imparare che nasce dall’esperien-

za corporea individuale. «Attraverso il movimento, esprimiamo pensieri, sensazioni ed emozioni, che il movimento stesso ci aiuta a conoscere, consentendoci così di percepirci in modo più profondo – commenta l’insegnante – e il fatto di spingersi sempre più in là, a cercare nuove cose, che sono di volta in volta delle sorprese, è proprio una degli aspetti che mi piacciono di più; di fatto, quando faccio lezione al mio gruppo, vado automaticamente avanti a lavorare anche su me stessa». In questa «ricerca» che passa attraverso il movimento – aspetto fondamentale tanto che una delle definizioni di questa disciplina è proprio di «apprendimento attraverso il movimento» – un posto importante lo occupano anche le abitudini, le quali, se per certi versi sono utili, limitano anche le capacità del singolo. Per questo con il Metodo Feldenkrais si creano le condizioni necessarie per prendere coscienza delle abitudini, esplorare delle alternative, sperimentare le possibilità di cambiamento, con conseguente graduale espansione del proprio spazio di manovra e dell’immagine che si ha di sé.

Moshé Feldenkrais (1904-1984) è nato a Slavuta (l’odierna Ucraina) da una famiglia ebrea e ha vissuto poi in Israele, Francia ed Inghilterra. Rinomato fisico ed ingegnere, si è distinto in ambito sportivo, principalmente nelle arti marziali (è stato la prima cintura nera di judo in Francia), ma soprattutto è stato un visionario del movimento. Questo suo specifico interesse ha origine negli anni 40 quando, giocando a calcio, si procurò una lesione al ginocchio, riguardo alla quale i medici gli diedero poche speranze di tornare a camminare senza difficoltà né dolo -

«Quanto detto ci fa capire come nel Feldenkrais non ci sia giusto o sbagliato; non si tratta infatti né di una ginnastica né di una terapia (seppur è corrisposto da molte assicurazioni complementari delle casse malati), quanto proprio di un approccio alla globalità della persona, per comprendere ciò che a lei fa bene», spiega l’operatrice del Metodo.

Il Feldenkrais si pratica in sessioni individuali e di gruppo. In entrambi i casi, gli schemi di movimento e di tensione vengono resi consapevoli e vengono esplorate e sperimentate nuove possibilità di movimento e percezione. Caratteristico è l’utilizzo di movimenti lenti e piacevoli che coinvolgono l’intera persona per stimolare il sistema nervoso a rilasciare le tensioni in eccesso e favorire l’apprendimento di una migliore e più funzionale organizzazione. «Si resta sempre nel comodo; quando si ha dolore vuol dire che si sta già facendo troppo e, in tal caso, il movimento può anche essere immaginato», aggiunge insegnante.

Tutto ciò porta a una riduzione del dolore – quando c’è – e più in gene-

re. Non volendo sottoporsi ad un intervento chirurgico, a causa dei rischi, Moshé decise di affrontare la questione da solo. Iniziò a studiare il suo comportamento motorio, con l’idea che il problema non fosse il ginocchio in sé, ma il modo in cui lo utilizzava. L’auto-osservazione consapevole e molti piccoli esperimenti con il proprio movimento, lo portarono ad usare di nuovo il ginocchio senza dolore. Moshé iniziò quindi a trasferire le conoscenze acquisite ad altre persone e sviluppò il metodo che porta il suo nome attraverso decenni di ricerca e studio in particolare di anatomia fun -

L’Associazione Svizzera Feldenkrais è molto attenta anche alla formazione continua degli insegnanti; sotto, durante le sessioni si sperimentano nuove possibilità di movimento e percezione. (feldenkraisticino.ch)

rale ad un aumento del benessere, che si traduce in un uso più efficace della forza, in maggiori mobilità, stabilità e creatività, migliori coordinazione e percezione di sé e una respirazione più libera. «Una volta raggiunta una certa dimestichezza, nei momenti in cui non si sta bene, fisicamente o psicologicamente, basta, in un certo senso,

zionale, funzionamento del sistema nervoso e scienze comportamentali. Le arti marziali e la sua comprensione della fisica, delle scienze ingegneristiche, della neurobiologia, costituirono le fondamenta del metodo, che scelse di concentrare sul movimento, inteso come base di tutte le attività umane e fonte di informazioni per il rimodellamento e la riorganizzazione dei circuiti di controllo sensomotorio nel cervello. Fin dalla sua nascita, il Metodo Feldenkrais è stato oggetto di ricerca; oggi, molte delle intuizioni e scoperte del suo fondatore risultano scientificamente fondate.

“chiedere” al proprio sistema nervoso di rintracciare una nuova via e le cose possono evolversi», commenta Laura Cambi, che del Metodo Feldenkrais apprezza anche la versatilità: «L’ho utilizzato, per esempio, sul mio cane, che aveva un difetto alle zampe posteriori, oppure lavoro sul mio nipotino, semplicemente nel gioco. Apprezzo infatti che – al di là delle lezioni – lo posso applicare in qualsiasi momento, in qualsiasi posizione, anche in emergenza per due o tre minuti se ho un dolore particolare. Proprio questo mi piace, l’infinito delle sue applicazioni, oltre che delle possibilità di ricerca». Il Feldenkrais è infatti adatto a tutti, dai neonati agli anziani, alle persone sane e a quelle malate. Esso può occupare un posto nella vita quotidiana – sia al lavoro che nel tempo libero –ed essere applicato, per esempio, nella rieducazione motoria, nella gerontologia, in caso di malattie con un’influenza sul sistema muscolo-scheletrico e malattie neurologiche, nei problemi di mobilità e altre limitazioni dell’apparato muscolo-scheletrico, nei problemi posturali, in caso di difficoltà di natura psicologica e ancora nell’ambito delle discipline artistiche e sportive. A proposito di queste ultime, il «Blick» ha rivelato come anche lo sciatore Marco Odermatt si alleni con il Feldenkrais, grazie a Kurt Kothbauer, fino a poco tempo fa allenatore di fitness dello sportivo. Migliorando la percezione di sé e l’organizzazione del movimento, il Metodo viene pure utilizzato con l’obiettivo di sviluppare personalità e prestazioni, per esempio migliorando la capacità di concentrazione e apprendimento, riducendo lo stress, sviluppando il potenziale artistico. Il percorso per diventare insegnante Feldenkrais prevede una formazione di base di quattro anni, che si conclude con un diploma riconosciuto a livello internazionale, ottenibile anche in Svizzera. Chi in seguito vuole essere certificato dall’Associazione Svizzera Feldenkrais deve dimostrare ogni due anni, oltre all’esercizio regolare della professione, 40 ore di formazione continua. «Io ho fatto la formazione a Milano, con Mara Della Pergola, la quale è stata l’unica allieva italiana diretta di Moshé Feldenkrais», afferma Laura Cambi, che di base è massaggiatrice medicale con attestato federale, «dopo la formazione di base, ho seguito una post-formazione per bambini con bisogni speciali e poi una master class sull’utilizzo dell’arte per osservare noi stessi».

Chi fosse interessato a questo affascinante mondo, sul sito dell’Associazione Svizzera Feldenkrais troverà 5 audio (anche in italiano) per un assaggio di altrettante piccole lezioni.

Informazioni www.feldenkrais.ch www.feldenkraisticino.ch

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Il grifone, un volatile fra mito e realtà

Mondoanimale ◆ Mitologico simbolo di forza, valore, nobiltà e saggezza, è pure un animale reale presente in natura

«Nella mitologia il grifone era un animale fantastico con corpo di leone e testa d’aquila». La veterinaria Elena Ghelfi collabora con la Facoltà di Veterinaria dell’Università di Milano e si occupa di animali non convenzionali: piccoli mammiferi, rettili e, per l’appunto, uccelli come il Gyps fulfus: «È il nome scientifico del grifone, un volatile possente e affascinante che ha l’aspetto e appartiene alla stessa famiglia degli avvoltoi, quella degli accipitridi, come sparvieri, astori, aquile, poiane, bianconi, albanelle e nibbi». La veterinaria ne sottolinea l’appartenenza mitologica spiegando che, nella storia, ha lasciato tracce di dubbi sulla sua reale esistenza: «Nell’antica Grecia fu associato al dio Apollo e si credeva vivesse nella parte più settentrionale dell’Europa, dove i leggendari animali mitologici conservavano grandi quantità di oro». Al grifone si attribuiva saggezza e capacità di proteggere la conoscenza del dio delle arti, ma anche i tesori: «Simbolo di forza, vigilanza, incarnazione della prova da superare per raggiungere un grande obiettivo, nell’Impero Romano divenne pure simbolo di potere e forza; fu poi associato a Giove, dio del cielo e dei fulmini».

Animale mitologico con corpo di leone e testa d’aquila, è in realtà un rapace la cui presenza in Svizzera è documentata fin dal Medioevo

Questo rapace pare dunque incarnare un simbolo solare e positivo: «Difensore delle terre conquistate dall’Impero, nei secoli a venire le casate nobiliari lo facevano rappresentare negli stemmi e negli affreschi». Evidentemente, questa creatura fantastica stimolava la fantasia degli artisti dai tempi dei tempi: «Sono noti i grifoni che decorano le pareti della sala del trono del palazzo di Cnosso a Creta (1700 a.C.), ma anche il famoso gri-

dei ciliegi

Arne Svingen

Vita da cani

La Nuova Frontiera Junior (Da 12 anni)

Una vita «da cani» non è come una vita «da cane», ci avverte subito Basse, l’io narrante di questa storia. È titolato per dirlo, visto che Basse è un cane. Quindi è ovvio che conduca una vita da cane, ma si sente autorizzato a sperare che la sua vita possa smettere di essere «da cani», giacché è così che gli umani definiscono «una vita in cui mancano tutte le cose belle», e quella di Basse, all’inizio del romanzo, avrebbe molti margini di miglioramento. L’umano di Basse, «il suo migliore amico», si chiama Kjell Il Tossico, e il nome dice tutto. Kjell in fondo ha un cuore d’oro, come dimostra il fatto che abbia adottato Basse quando era un cucciolo abbandonato nella spazzatura, ma vive nell’inferno della tossicodipendenza, fatto di furtarelli, frequentazioni pessime, crisi di astinenza, cronica mancanza di forze e di soldi. Ed è Basse a prendersi cura di lui, come può ovviamente. La svolta avviene con l’ingresso di Gusto, il fratellino di Kjell, rimasto

fone di Pisa, mentre l’origine della sua immagine si fa risalire alle civiltà assire, babilonesi e persiane». Non è quindi retorico chiedersi della reale esistenza del grifone: «In natura questo volatile è un uccello rapace e non è certo l’ibrido, tanto leggendario quanto fantasioso, descritto dalla mitologia». Infatti, secondo le indicazioni di Vogelwarte, in Svizzera la presenza di grifoni erratici è documentata fin dal Medioevo, mentre nel corso del XIX secolo era stato tuttavia sterminato in gran parte dell’Europa: «In particolare, gli fu fatale l’uso di esche avvelenate contro i grandi carnivori, mentre nel 1981 è stato avviato un progetto di reinsediamento nel massiccio Centrale francese e oggi in tutta la Francia nidificano di nuovo più di tremila coppie. Questo, a partire dal 2012, ha portato anche ad un aumento delle osservazioni in Svizzera dove i grifoni passano senza nidificare: sono uccelli erratici che non si riproducono qui, e che si spostano per distanze molto lunghe».

Ogni estate da noi ne soggiornano diverse centinaia: «Si tratta di “ospiti alimentari” che non nidificano, la cui presenza è perciò limitata principalmente al periodo che va da aprile a ottobre». Secondo Vogelwarte, pare pure improbabile che in futuro in Svizzera il grifone diventi un uccello nidificante: «Nelle aree di riproduzione dell’Europa meridionale la deposizione delle uova inizia già tra dicembre e marzo; ci si potrà dunque aspettare eventuali covate solo quando grifoni sessualmente maturi inizieranno a soggiornare in Svizzera tutto l’anno». Un’eventualità che per alcuni comporta una certa inquietudine a causa delle leggende che lo accompagnano e che lo vedono un divoratore di animali vivi oltre che di carcasse: «In realtà, esso è uno spazzino che si nutre principalmente di carcasse di grandi ungulati come stambecchi, camosci, cervi e caprioli: un perfetto riciclatore di carcasse in grado di percorrere anche grandi distanze in cerca di cibo, dato che luogo e

ora in cui le carcasse saranno disponibili non sono prevedibili. Allora, una volta che il grifone ne trova una, mangia il più possibile perché non sa quando scoprirà la prossima». E poiché si nutre principalmente di carogne, pare ovvio associare la sua presenza a quella del lupo: «A causa delle elevate popolazioni di animali selvatici e di morti naturali, in Svizzera il grifone trova cibo a sufficienza anche senza lupi. Naturalmente, potrebbe pure beneficiare delle predazioni dei lupi comparendo molto rapidamente presso un animale predato, tanto che il suo rapido consumo di una carcassa di animale da reddito predata può rendere difficile il rilevamento di una predazione da lupo da parte delle autorità cantonali e nazionali».

fino ad allora a vivere con la mamma, alcolizzata e inadempiente. Da tempo i due fratelli non si vedevano, Kjell se ne era andato per la sua strada di disagio, ma ora la mamma, gravemente malata, è ricoverata in ospedale e Gusto si rivolge a Kjell chiedendogli di poter abitare con lui. Certo Kjell non è quello che i servizi sociali definirebbero un adulto responsabile, ma mai dire mai… e soprattutto mai sottovalutare l’intelligenza di un cane! È una storia bellissima e sì, anche umoristica, nonostante i temi citati possano far pensare il contrario. È una storia leggera e profonda, che

certo commuove, ma fa anche sorridere, principalmente grazie alla prospettiva «canina» da cui è raccontata. Arno Svingen, uno dei più importanti autori norvegesi (che avevamo già apprezzato per La ballata del naso rotto) qui si supera in finezza, perspicacia e ironia nel dar voce all’adorabile Basse. Non è certo la prima volta che in un romanzo per ragazzi si affida a un animale la funzione di narratore, e spesso con esiti molto felici, proprio perché uno sguardo diverso, in senso sia visivo sia valutativo, opera un interessante effetto di straniamento sulle pratiche degli umani: la letteratura per ragazzi annovera sguardi non umani di cavalli, ad esempio, sin dal classico di Anna Sewell Black Beauty, del 1877, fino al celebre e più recente War Horse di Michael Morpurgo; o di gatti, come la storia di emigrazione Una gatta in fuga, di Vanna Cercenà; fino alle scimmie, come nell’intenso punto di vista del gorilla nel romanzo di Katherine Applegate, L’unico e insuperabile Ivan. E decisamente, il cane di questa storia s’inserisce a pieno titolo nello scaffale dei più bei romanzi di questo tipo.

In buona sostanza, il grifone non può essere definito come un puro spazzino, e nemmeno come un vero cacciatore, ma è un perfetto opportunista che si porta appresso il timore di un’errata interpretazione del suo comportamento secondo cui potrebbe attaccare anche animali da reddito o mangiarne di vivi: «Un’idea sbagliata, rafforzata da una copertura mediatica tendenziosa, e da video che circolano sui social media che mostrano presunti attacchi ad animali da reddito». Qui Vogelwarte invita alla prudenza e a non incappare in conclusioni tanto affrettate quanto sbagliate: «Alcune immagini sono davvero brutte, ma quasi mai mostrano l’inizio o la fine dell’interazione fra avvoltoi e bestiame. Quindi,

di solito non è chiaro cosa sia successo esattamente e in quali condizioni fosse l’animale quando essi sono apparsi». Secondo il sodalizio, questi video non costituiscono una prova della pericolosità dei grifoni per il bestiame sano: «Sebbene praticamente non esistano prove che i grifoni attacchino bestiame sano, ognuna di queste segnalazioni dovrebbe essere esaminata in modo dettagliato: l’intero attacco è documentato dall’inizio alla fine? In che condizioni era l’animale colpito? Era malato o ferito?». Solo se si può rispondere a queste domande, ribadiscono gli esperti, si potrà discutere in modo pragmatico e senza polemiche sul grifone, sul suo comportamento e su eventuali misure da intraprendere.

Jörg Mühle Decidi sempre tu!, Terre di Mezzo (Da 4 anni)

L’artista tedesco Jörg Mühle riesce sempre a dare ai suoi personaggi un’espressività vigorosa e tenera al contempo, e quando illustra per altri autori conferisce immancabilmente alle loro storie un valore aggiunto, come nelle sue collaborazioni con Ulrich Hub, ad esempio nei racconti di Anatra Zoppa e Gallina Cieca. Ma Mühle è efficacissimo anche come autore a tutto tondo, sia di immagini sia di testi, e questo Decidi sempre tu!

ne è un’ulteriore prova. Il tema è quello dei conflitti infantili in situazioni di gioco ed è declinato con modalità divertenti e vivaci, in grado di arrivare con immediatezza ai bambini, che rideranno gustando questa storia, ma anche molto si riconosceranno. Ancora una volta, come già nell’altrettanto umoristico Due a me, uno a te, troviamo al centro la coppia di amici (conflittuali) orso e donnola, e ciò che qui scatena la polemica è la gelosia del compagno di gioco: «Il tasso è amico mio!» dice donnola a orso, «Non puoi giocare con lui!». Si trova un accordo, si prova a giocare tutti e tre insieme, ma non appena stabilita la situazione di gioco («Giochiamo alla famiglia!») ecco che i ruoli stabiliti dal fatidico uso simbolico dell’imperfetto («Io ero la mamma, il tasso era il papà, e tu eri il bambino») creano ulteriori dissidi («Perché devo farlo sempre io il bambino?» brontola orso), tanto più che il bambino deve andare a letto, così gli altri due possono giocare indisturbati. Una storia deliziosa, che affronta con humour e franchezza tutte quelle emozioni poco deliziose ma molto vere come la rabbia, la gelosia e il desiderio di comandare.

Viale

Un Club per tutte e tutti, da mezzo

OSC Mendrisio ◆ Quest’anno l’associazione a finalità terapeutiche e sociali Club ’74, situata nel parco di Casvegno, festeggia i primi cinquant’anni:

È ottobre e sono le otto di mattina. La bruma ammanta la parte bassa degli edifici e avvolge gli alberi, sfumandone i contorni e rarefacendo l’aria, quasi a volere offrire un set dall’atmosfera ottocentesca in un sedime che per molti versi è rimasto invariato per più di un secolo; e questo nel cuore di una regione che ha vissuto uno sviluppo esponenziale, quando non addirittura mostruoso. Siamo all’interno di quello che oggi si chiama OSC, Organizzazione sociopsichiatrica cantonale, ma che in passato è stato anche «il neuro» (ONC, Ospedale neuropsichiatrico cantonale), il manicomio, o semplicemente il villaggio. Chi nel Mendrisiotto è cresciuto o ha vissuto, certamente ha più familiarità con i residenti dell’istituto sociopsichiatrico, poiché la loro condizione di libertà (sulla quale torneremo più avanti) li porta a prendere i mezzi pubblici, un caffè in un bar, a fare una passeggiata o qualche spesuccia. A condurre una vita, insomma, il più possibile vicina a quella del «mondo fuori», seppure al netto dei suoi ritmi frenetici e delle sue regole a tratti ferree, con cui non per tutti è possibile tenere il passo.

La Valletta si trova «in fondo», vicino alle serre, ed è un imponente edificio tra campi e parco, risalente alla fine della prima metà del Novecento. La sede del Club ’74, l’innovativa associazione che agisce in nome di dignità e rispetto, che quest’anno compie mezzo secolo, si trova proprio qui, e già di buon’ora è animata da un quieto viavai. Oltre a ospitare un bar, vi sono il salone dedicato a riunioni, pasti in comune o improvvisazioni musicali, un atelier, un mercatino di abiti usati e, al momento, anche parte della collezione di Art Brut acquisita negli anni dal Club ’74.

I club terapeutici sono strumenti di lavoro che permettono di dare voce e soprattutto un ruolo alle persone

L’educatore Mauro, che ufficialmente coordina il servizio di socioterapia, ma i cui compiti, come vedremo, spaziano dalla mediazione all’organizzazione, passando per ascolto, trasporti, spiegazioni e non da ultimo, a volte, preparazione dei pasti, ci accoglie davanti alla scalinata che porta all’ingresso. Il bar è già operativo, e mentre prendiamo posto nel salone, entra una residente che, senza dire una parola, si siede al pianoforte ed esegue un brano. In passato suonava bene, si capisce subito, e Mauro accoglie con un ringraziamento e un complimento la breve ma intensa performance. La donna fa un cenno con il capo, poi, senza aggiungere nulla, infila la porta.

In Svizzera non vi è una politica psichiatrica condivisa, e ogni Cantone si trova nella posizione di compiere determinate scelte terapeutiche. È proprio questa libertà che ha permesso al Ticino, a partire dagli anni 60, di imboccare un percorso innovativo. Racconta Mauro: «In quegli anni il cambiamento fu a livello europeo, in Italia c’era stato Basaglia, ma avevamo anche gli esempi della scuola francese e di quella inglese. Il Ticino scelse così una via ad hoc, attingendo da Basaglia per esempio con l’apertura del manicomio, ma anche dalla realtà della clinica francese La Borde, fondata nel 1953 da Jean Oury. Credo sia doveroso ricordare

l’importanza dell’arrivo qui a Mendrisio del ticinese Ettore Pellandini che aveva all’attivo una formazione teatrale al Piccolo di Milano e un periodo a La Borde in veste di animatore. Pellandini giunse in Ospedale in un momento di grande apertura: non ci si voleva più limitare alla contenzione farmacologica, bensì sviluppare le relazioni tra le persone e l’aspetto lavorativo». Questa nuova corrente fu sostenuta a livello clinico da molti giovani medici, tra cui Graziano Martignoni, e trasformata in disegno di legge dall’avvocato Marco Borghi, su richiesta dell’allora consigliere di stato Benito Bernasconi. A oggi il Ticino è l’unico cantone in Svizzera a rifarsi a una specifica legge sociopsichiatrica (LASP), a differenza degli altri cantoni, in cui ci si basa sul codice civile.

Il Club ’74 nasce a sua volta rifacendosi ai principi della psicoterapia istituzionale fondata da alcuni psichiatri francesi, tra cui Oury, validi ancora oggi, cinquant’anni più tardi. Come riportato sul sito del Club ’74, l’approccio terapeutico vuole essere «basato sulla condivisione del potere tra pazienti e operatori, sull’importanza delle relazioni interpersonali, e sull’ambiente terapeutico come parte integrante del processo di cura».

L’ospedale psichiatrico, i cui primi padiglioni furono costruiti alla fine dell’Ottocento su una spinta che da qualche decennio attraversava un po’ tutta l’Europa, si trova all’interno di un immenso parco donato alla città di Mendrisio da Agostino Maspoli nel 1870 come «fondo pell’erezione e dotazione di un Manicomio»; fino ad allora i malati psichiatrici che necessitavano di un ricovero – non dimentichiamo il ruolo della famiglia, che si occupava dei propri malati, a volte addirittura nascondendoli – venivano collocati al Manicomio provinciale di Como. La costruzione fu approvata per votazione popolare, e nella sua progettualità iniziale, si rifaceva al modello del villaggio; ne resta traccia nella chiesa sulla collina, ma un tempo qui c’erano anche la panetteria, la macelleria, il pollaio, un laboratorio per la produzione di gazosa e le stalle, tutt’intorno, le abitazioni e i campi. Il villaggio aveva perfino una valuta propria. Le attività in cui si impegnavano gli utenti avevano una doppia valenza: oltre a essere terapeutiche, garantivano un certo grado di sussistenza, perché già allora le finanze erano limitate.

Riunioni, confronto e discussione

Oggi si respira una certa anticipazione alla Valletta, poiché più tardi ci sarà la riunione degli Inter Club, ossia dei Centri diurni (CD) dell’OSC, situati in quattro punti strategici della Svizzera italiana: Chiasso (Athena), Viganello (La Fenice), Locarno (Andromeda) e Bellinzona (Andromeda Perseo); strutture che, come afferma il sito del cantone, permettono alle e agli utenti di trascorrere parte della giornata «seguendo programmi terapeutici caratterizzati da attività personalizzate e mirate alla riacquisizione di competenze individuali, relazionali e sociali». Come spiega Mauro, impiegato da dieci anni all’OSC, «i club terapeutici sono degli strumenti di lavoro, poiché sono strutturati in modo da avere un/a presidente, la segretaria, la cassiera, eccetera, una serie di cariche che permette di dare voce, ma soprattutto un ruolo, alla persona».

Sui concetti di ruolo e responsabilizzazione Mauro torna spesso, spiegandone gli atout. Grazie all’approccio orizzontale che prevede la condivisione dei poteri, i pazienti possono godere di libertà maggiori e prendere parte ai processi decisionali. Al fine di incrementare le finanze, e per responsabilizzare le e gli utenti, con il tempo dal Club ’74 sono state create diverse iniziative collaterali, come la riffa, i mercatini e la gestione del baretto. I guadagni extra permettono di organizzare nuove attività, come l’apprezzato atelier di teatro con un regista professionista o l’annuale festa campestre del Parco di Casvegno. Continua Mauro: «Dal nostro Club ’74 passa gente che dispone di una cultura immensa, oppure di un paio di mani d’oro. Sta a noi individuare le specificità di ogni utente. Questo permette di valorizzare le persone, oltre ad affidare a ognuno un compito possibilmente personalizzato; così facendo riusciamo a infondere parte di quell’autostima che si perde naturalmente quando si arriva qui. Non dimentichiamo di come il ricovero psichiatrico sia ancora stigmatizzato da parte della società, cosa che porta a un crollo dell’autostima».

La riunione sta per iniziare, sarà diretta da un animatore socioculturale,

Valentino, poiché Mauro è impegnato nell’accoglienza di un gruppo di neoassunti. Utenti di ogni età provenienti dai diversi Centri diurni del cantone si salutano, prima di entrare nel salone bevono un caffè o fumano una sigaretta. Gli animatori socioculturali si mescolano a chi usufruisce dei centri diurni, che a sua volta non è distinguibile da chi è residente all’OSC o invece lo era un tempo ed è rimasto legato a questo posto. D’altronde, è questa la filosofia di un luogo in cui ogni opinione vale quanto l’altra, poiché a esprimerla vi è sempre un essere umano; dunque, poco importa se il signor G., dopo avere chiesto di essere presidente della riunione e avere dato qualche istruzione, all’improvviso se ne va per non tornare più: Valentino sorride e ringrazia, mentre si procede con l’ordine del giorno. Si racconta delle vacanze trascorse insieme in estate a Scuol, in una struttura meravigliosa perché non era «tipo» colonia, con le camerate, ma aveva delle stanze doppie, di come fossero rilassanti le terme e di come invece fosse faticosa la montagna. I toni sono pacati, e nessuno interrompe, Valentino fa domande, approfondendo così gli interventi di chi chiede la parola. Si passa poi a discutere l’esperienza teatrale – diretta quest’anno da Diego Willy Corna con Ceci n’est pas – le emozioni che vi sono coinvolte, e l’importanza di fare parte di un gruppo. La sincerità e la naturalezza con cui a volte vengono svelati i vissuti di chi prende la parola è quasi disarmante, ma testimonia anche la grande fiducia di chi, parlando di emozioni, sente di potersi fidare e di potere contare sulla sospensione di ogni tipo di giudizio. Valentino ascolta, risponde, fa una battuta ironica. Si passa a uno scambio intorno alla realizzazione del carro di carnevale: ci sono le date dei cortei da tenere in considerazione, e va scelto un tema che, come sottolinea a più riprese Valentino, deve avere anche una valenza politica e sociale. Poi la discussione si focalizza sulla mostra Dubuffet e l’Art Brut in corso al Musec di Milano

a febbraio e su un’eventuale visita

Casa dell’Art Brut di Casteggio (PV). Di questo genere d’arte molti dei presenti hanno già visto il Museo di Losanna, ma, come si evince da una certa fibrillazione, vi è anche molta aspet-

fino
alla
La Valletta, sede del Club ’74 (OSC); in basso; la girandola che indica la via verso il Club 74 (Sala) e una sedia della collezione del Club ’74. (Archivio fotografico Club ’74)
Simona Sala

cinquant’anni: una visita a un luogo inclusivo, creativo e di eguaglianza

tativa nei confronti di un progetto «interno».

Il Club ’74, infatti, nel corso degli anni ha acquistato diverse opere d’arte (quadri e sculture) realizzate da utenti, arrivando oggi a disporre di una collezione di oltre 450 pezzi. Quello che Valentino definisce a giusta ragione «un vero patrimonio culturale» (oltre che una profonda testimonianza umana, oseremmo aggiungere), è ora oggetto di una catalogazione da parte dello storico dell’arte Ivano Proserpi, coadiuvato da alcuni studenti del CSIA di Lugano. All’inizio del 2025 parte della collezione sarà visibile in una doppia mostra a Mendrisio (SUPSI e Filanda). Durante la riunione, però, caldeggiati da Valentino, ci si spinge ancora un po’ più in là, arrivando a immaginare uno spazio permanente da dedicarsi all’arte. Un luogo che permetterebbe alla gente da fuori di avere un motivo in più per entrare nel parco, favorendo così quella tanto auspicata permeabilità tra due mondi. È giunta l’ora di pranzo, chi vuole può fermarsi a mangiare; la riunione si scioglie, ma oggi è mercoledì, e come sempre a metà settimana, più tardi ci sarà l’atteso incontro musicale. Il versatile salone del Club ’74 si trasformerà così in una sala da concerto. Prima, però, Mauro, di ritorno dal giro nel parco con i neoassunti, occuperà il

salone insieme a loro per una breve riunione, cui parteciperanno anche degli ex pazienti e altri collaboratori, per mettere ancora una volta in luce la filosofia di totale apertura dell’ospedale, nonché l’auspicio che anche le nuove segretarie e i nuovi aiuto cuoco imparino a sentirsi parte integrante di una realtà dove non solo non c’è nulla da temere, ma che può rivelarsi anche una grande fonte di ispirazione e testimonianza di condivisione.

I neoassunti così, oltre ad avere individuato il proprio nuovo luogo di lavoro, si sentono raccontare anche delle difficoltà di alcuni ex utenti, del bisogno di riconquistare l’autostima, di come in fondo siano labili e permeabili i confini che separano chi sta dentro da chi, invece, vive fuori, ed è perfettamente integrato in una vita «funzionante».

Blues, un poco di punk e la voglia di musica

È arrivato il tanto atteso momento musicale. Dall’oscurità e alla spicciolata sbucano numerosi utenti. Fanno capolino nel grande salone, dove Valentino ha già preso posto dietro alla batteria, mentre un infermiere sta accordando la chitarra. C’è anche «ul Gianda», sorta di mattatore musica-

le, che ogni mercoledì sera mette a disposizione le proprie competenze per sintonizzarsi sulle corde dell’esibizione di turno.

Uno alla volta, rispettando il proprio turno e accordandosi con il Gianda e gli altri musicisti: è così che ci si prende il palcoscenico durante le serate musicali del Club ’74. Il primo intervento è di un inatteso bluesman, occhi bassi e voce tonante, che subito riesce a creare atmosfera, e a trasformare in una jam session l’esibizione. Chi non se la sente di cantare sceglie maracas, sonagli, tamburelli e cabasa dalla grande cassa di plastica, oppure si prende il tamburo o uno jembe, ma può anche suonare uno dei due pianoforti o le tastiere.

Tocca al prossimo, un uomo timido, come dimostra la voce sommessa, ma a suo modo sorprendente, poiché la sua passione, come confesserà più tardi, va al punk. Si alternano la giovane accompagnata dalla chitarra acustica, e il ragazzo con la passione per le ballate rock, un paio di strofe di Battisti gridate nel microfono da una ragazza che ritorna subito al bar, e poi si riparte. Sempre seguendo lo stesso ordine.

A ogni giro i pezzi sembrano uscire più sicuri, e fra chi accompagna le voci con uno strumento e chi semplicemente ascolta si instaura la magia ti-

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pica della musica, capace di creare un filo invisibile che tocca tutti allo stesso modo e nello stesso momento. Chi all’inizio si esibiva con un certo pudore, finalmente alza lo sguardo, e sorridendo accoglie gli applausi e i complimenti dei presenti, mentre cresce l’affiatamento.

Nel frattempo, Mauro è impegnato in cucina: sta preparando la cena comune insieme a un ex paziente che ogni mercoledì si mette a disposizione. Il menù prevede risotto ai funghi porcini e un TamTam per dessert. Gli

animatori-cuochi-musicisti Mauro e Valentino cercano di frenare gli entusiasmi di chi vorrebbe tornare subito sul palco, chiedendo almeno il tempo per consumare la propria cena, ma c’è chi proprio non ne vuole sapere: d’altronde è mercoledì, e al Club ’74 oggi è il momento della musica.

Fuori è già buio, ma deve essere bello, per chi passa magari per caso, vedere la Valletta illuminata, e sentire le note a volte intonate, a volte meno, ma comunque felici, che si involano verso le campagne tutt’intorno.

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L’altropologo

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Al momento di leggere queste righe il Vostro Altropologo di riferimento si troverà in qualche villaggio del Nord del Ghana – spero Nandom, nel Nordovest, verso il confine col Burkina Faso. Qui sarà ospite d’onore al funerale di una delle persone più straordinarie che sia dato incontrare in settant’anni di ricerche… antropologiche e meno.

Erano gli anni 60 del secolo scorso quando un missionario irlandese intento a portare a termine il processo di conversione dell’etnia Dagati dopo che negli anni 30 un’amministrazione britannica riluttante aveva finalmente aperto le porte alla missionarizzazione del Nord del Paese si presentò a Nandom. Cosa comportasse il divenire cristiani dei nativi già si vedeva in Africa Orientale, coi prodromi di quella che sarebbe diventata la rivolta dei Mau-Mau – «diventano cristiani e si mettono in testa strane idee sull’uguaglianza…», così nei circoli

degli espatriati. Andarci piano con le conversioni, Ladies an Gentlemen. Bene: Edward Nminyuor Gyader, del clan dei Sacerdoti della Terra, autorità spirituale suprema da quelle parti, fu selezionato per essere scolarizzato in Europa e finì per studiare Medicina e Chirurgia all’Alma Mater di Bologna, dove si laureò nel 1972 per poi specializzarsi in Chirurgia Generale a Ferrara e a Padova. Per fare qualche soldo da mandare a casa, lui, grande sportivo, giocava nelle formazioni dei tornei estivi dalla mitica SPAL: mezz’ala a fianco di Fabio Capello. «Le risate che ci siamo fatti» – raccontava. Furono poi Cavalese in Val di Fiemme (Trentino), poi Moena (Val di Fassa) dove fu medico condotto quando ancora nessuno voleva andarci, per poi finire come Secondo Chirurgo al nuovo, grande Ospedale di Lamon, in Trentino. Antico Dispensario Antitubercolare fu affidato come Ospedale al prof. Lobbia, leggendario chirurgo padova-

La stanza del dialogo

Il conflitto interiore delle madri

Gentile Silvia, è da anni che la seguo, e non ho mai avuto il coraggio o la voglia di scriverle ma il suo ultimo articolo «Le contraddizioni della maternità» ha svegliato qualcosa in me che desidero condividere con lei. Io, mamma di una bambina di 8 anni, avuta a 36 anni, dopo diversi tentativi, ho cercato a lungo la maternità ma, dall’altro canto avevo sempre una paura immensa per quello che poteva portare un passo così importante. Avevo una vita normale, una vita professionale molto interessante e piacevole e sapere di perdere questa tranquillità e cosa significa avere un bambino (ho avuto dei nipoti di cui mi sono occupata molto) ammetto che mi faceva riflettere molto sulla scelta di avere un figlio. Ma poi la società te lo impone: «Ancora niente figli?». Alla fine la mia splendida bambina è arrivata, parto veloce e divertente, tutto sembrava semplice. Ma appena si rientra a casa tutto è cambiato.

Come ha scritto Luciana: l’allattamento, i dolori, i pianti, la solitudine. È vero che nessuno ne parla, perché… non bisogna spaventare le future mamme, forse bisogna incoraggiarle, o no? Con il passare del tempo ti crei una routine ma poi comprendi che nulla è come prima. Ho avuto la possibilità di licenziarmi e stare con mia figlia e ne sono felice. Ma poi ti mancano i colleghi, arrivano i momenti di solitudine, manca la soddisfazione del lavoro, la possibilità di sentirsi qualcuno. Quando la bambina ha iniziato l’asilo, pur di stare con lei, ho trovato un lavoro al 35% che mi occupa tutta la settimana: orari da incastrare, mille corse da fare. Ne sono felice ma soffro nel sentirmi dire: eh vabbè ma tu non lavori, cosa sono 14 ore alla settimana e bla bla bla… perché le mamme sono sempre criticate? Perché piuttosto non vengono «applaudite»? /Sara

Cara Sara, la sua lettera sulle contraddizioni del-

La nutrizionista

no già chirurgo all’ospedale di missione a Damongo, nel Nord del Ghana. Il professor Lobbia volle Gyader con sé, come secondo. Sulle prime nessuno – si racconta – voleva farsi nemmeno toccare dal Dottore Nero: i bambini al vederlo scappavano piangendo. Poi un giorno si trovarono in sette escursionisti in una baita in alta quota. Uno di loro si sentì male: Gyader capì che lo sforzo della salita aveva aperto un’ulcera e che l’amico stava morendo di emorragia interna. «Io qualcosa posso fare, ma non sarà piacevole». A mali estremi… e qui comincia la leggenda: grappa a volontà, poi braccia robuste. Gyader era un cacciatore e sempre aveva con lui un coltello ben affilato. Aprì, vide e tamponò. Il nostro se la cavò e sopravvisse. Qualche mese dopo alla porta dell’ambulatorio del nero c’era una fila. «Dicono che fosse perché era uno stregone» – raccontava un’anziana signora anni dopo a Cavalese, quando andai a riferire che Gyader era an-

cora vivo nonostante voci che lo volevano morto nel colpo di Stato dell’89. «Io penso, invece, che il dottor Gyader fosse un Santo».

Santo o meno (Edward era tanto devoto quanto schivo a farsi vedere alla prima messa quotidiana «perché sennò tutti mi saltano addosso per perorare questo e quello» diceva ridendo fra una birra Guinness e le tante altre a seguire) quando capitai nella Regione del Nord, Ghana, nel 1983, non sapevo nemmeno della sua esistenza. Poi la sorte mi impose di trasportare in moto il capo del villaggio dove stavo, che era affetto da prolasso anale, per 120 chilometri di pista poi strada bianca (infernali entrambe). Infilai chissà come i cancelli dell’Ospedale Regionale di Wa che era già buio. Poggiai piede a terra: moto, conducente, capo villaggio ormai mezzo morto dalla perdita di sangue (almeno aveva smesso di lamentarsi ad ogni buca) che avevo legato addosso – tutto col-

lassò a terra, nella polvere. Ricordo vagamente un’infermiera che correva al soccorso profilata contro le ultime luci del tramonto… e un altro personaggio che la inseguiva urlandole che avrebbe dovuto chiamarlo prima – il tutto condito con improperi e peggio… E il tutto in Italiano. Allora mi dissi: «missione compiuta: adesso posso svenire». Dopo due ore eravamo – Gyader, capo villaggio quasi salvo e Altropologo quasi sano – seduti al Black Moses a raccontarcela. Era l’unico bar che avesse birra di frigo. Seccata una cassa, da qui ci trascinammo a dormire nei pressi dell’alba. Il resto è storia di una straordinaria amicizia. Lascio un’Europa allo sbando ad una svolta terribile della sua storia. Altro fare ahimè non riesco/posso. Vado fra gente capace ancora – e nonostante –di voler bene al Forestiero: colui che viene dalla Foresta ai Villaggi di persone ancora civili. Ma usque tandem, Ladies and Gentlemen?

la maternità conferma e ribadisce le argomentazioni di Luciana. Nelle difficoltà di conciliare maternità e lavoro vi è però qualcosa di buono: la libertà.

Da secoli la maternità è stata il destino delle donne. Una volta sposate, non restava altro che accettare i figli che sarebbero arrivati, desiderati o meno. La modernità ha aperto nuovi ambiti di autonomia ai quali non vorremmo più rinunciare. Compresa la decisione di non diventare madri. Tuttavia, come sanno gli psicoterapeuti, la libertà fa paura perché scegliere significa raggiungere alcuni obiettivi ma perderne altri. Assumersi responsabilità così importanti, come quella di mettere al mondo un bambino, non toglie nostalgie e rimpianti. Eppure, alla domanda «vorrebbe che suo figlio non fosse mai nato?», nessuna mamma risponde positivamente. Sente che la venuta al mondo del

Col cambio di stagione aumenta la fame

Buongiorno Laura, mi chiedevo se sia possibile che il cambio di stagione mi faccia venire più appetito, ultimamente ho sempre fame, continuo a spiluccare, non mi sento mai sazia, cosa che normalmente non mi capita. Ho paura di ingrassare, non ho problemi di peso ma ci tengo alla mia figura e in più sono pure molto stanca e sto bevendo tanti caffè. Cosa posso fare? La ringrazio per una cortese risposta. / Giada

Buongiorno Giada, effettivamente entrambi i fattori da lei elencati quali il cambio di stagione e la stanchezza, possono influenzare l’appetito e portare a un aumento di sensazione della fame.

Nel passaggio tra una stagione e l’altra il clima cambia, varia la durata del giorno e, per non farci mancare nulla, cambia pure l’orario; nel corpo avviene un vero e proprio reset che colpisce di-

versi ormoni chiave, tra cui cortisolo, melatonina e ormoni riproduttivi. Nello specifico, nel passaggio tra l’estate e l’autunno le giornate si accorciano, le ore di buio aumentano e, quindi, il nostro corpo risponde aumentando la secrezione di melatonina. La melatonina è l’ormone responsabile della regolazione del ciclo sonno-veglia e viene prodotta in risposta all’oscurità, segnalando al corpo che è ora di rilassarsi. In autunno il corpo produce melatonina prima, facendoci sentire più assonnati durante il giorno. Alti livelli di melatonina causano pure un abbassamento dei livelli di serotonina, l’ormone che migliora l’umore, con possibile comparsa di sintomi quali apatia, sonnolenza e debolezza. Strettamente legata alla luce solare è anche la produzione del cortisolo, spesso chiamato «ormone dello stress», che è fondamentale per regolare energia e prontezza. Esso

raggiunge il picco al mattino per svegliarci e diminuisce gradualmente durante il giorno. Quando si accorciano le giornate in autunno, c’è meno luce solare al mattino e questo può interferire col suo ritmo, lasciando una sensazione di pigrizia. Altri ormoni sensibili all’esposizione della luce solare per le donne sono quelli riproduttivi come estrogeni e progesterone. Man mano che la luce del giorno diminuisce e lo stress aumenta, si potrebbero sperimentare fluttuazioni nel ciclo mestruale, cambiamenti nei sintomi della sindrome premestruale o persino cambiamenti nella fertilità. Tutto ciò porta a una stanchezza generale che può interferire coi livelli di altri ormoni, quelli che regolano l’appetito cioè grelina, che stimola la fame e leptina, che segnala sazietà. Quando si è stanchi, i livelli di grelina possono aumentare, portando a una maggiore sensazione di fame.

suo bambino risponde a una domanda interiore che il sogno rivela. A questo punto che cosa vorrei dire a lei e a tutte le mamme in crisi? Che il confronto tra maternità e attività lavorativa è impari perché la prima nasce dall’inconscio, dal pensiero notturno, la seconda dalla ragione, dal pensiero diurno.

È vero, come reclamava Luciana, che la società deve aiutare le donne a conciliare i due ambiti. L’offerta di aiuti (abitazioni, asili nido, sovvenzioni e facilitazioni) è necessaria ma non sufficiente. Come mostra la sua lettera, vi è un conflitto interiore che si può risolvere solo nella mente e nel cuore delle madri. Aiutate in questo dal loro bambino che cerca in ogni modo di farsi amare dalla mamma. Quando i bambini giocano o si esibiscono in qualche prestazione, non fanno che ripetere: «Mamma guarda, mamma guardami!». È su questa al-

leanza tra il desiderio dei genitori e il desiderio dei figli, che si fondano le relazioni familiari. Ma lasciatemi domandare, ancora una volta: «Dove sono i padri?». Nelle vostre lettere, care lettrici, risultano i grandi assenti. Eppure c’è bisogno di loro. Non solo perché danno stabilità economica e affettiva, ma anche perché, se vissute insieme, le responsabilità genitoriali sono meno pesanti e le gratificazioni più rilevanti. Infine grazie a Luciana e Sara per aver posto, con l’efficacia della vita vissuta, questioni che coinvolgono tutti.

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a info@azione.ch (oggetto «La stanza del dialogo»)

Quando ci si sente stanchi è più facile cercare cibi che ci danno una spinta energetica rapida, quindi alimenti ad alto contenuto calorico e zuccherino. In autunno le temperature scendono e il corpo è stimolato a bruciare più calorie per mantenere una temperatura adeguata. Questo aumento del dispendio energetico può portare a una maggiore sensazione di fame. Cosa fare in questo caso? Ci vogliono un po’ di cambiamenti comportamentali e alimentari: innanzitutto provi a limitare la caffeina dopo mezzogiorno e a prendere tisane che calmano piuttosto che eccitare il suo sistema. Cerchi una routine rilassante che può aiutare a dormire meglio, come fare un bagno caldo. È bene assumere un’alimentazione equilibrata, che fornisca tutti i nutrienti essenziali e che aiuti a mantenere la sazietà più a lungo e idratarsi sufficientemente con te e ti-

sane o bevande calde non zuccherate. Con meno luce solare in autunno e inverno, molte persone sperimentano un calo dei livelli di vitamina D, che può influenzare l’umore, l’energia e l’immunità: aumentare l’assunzione di pesce grasso, latticini fortificati o tuorli d’uovo e passeggiare approfittando delle belle giornate o, chiedendo al proprio medico, assumere un integratore di vitamina D. Un altro minerale utile è il magnesio che aiuta a regolare il cortisolo e supporta un sonno migliore. Per aumentare l’assunzione, aggiungere verdure a foglia verde, noci, semi e cereali integrali ai pasti.

Informazioni

Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a info@azione.ch (oggetto «La nutrizionista»)

di Silvia Vegetti Finzi
di Cesare Poppi
di Laura Botticelli

l’occorrente per i sacchetti di San Nicolao

ATTUALITÀ

Delhi soffoca nello smog

La causa principale? La combustione delle stoppie lasciate nei campi dopo la raccolta del riso

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La violenza economica

Le dimensioni di un fenomeno grave e spesso non riconosciuto e i modi per uscirne

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I profughi ucraini in Svizzera Circa 66’000 persone beneficiano dello statuto di protezione S. Il punto sulla loro situazione

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La Svizzera affascinata dal Duce

Russia e Usa: scontro diretto Il ruolo delle due massime potenze nella guerra in Ucraina, che dura ormai da quasi tre anni

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Il caso ◆ Una mostra indaga sul dottorato «honoris causa» conferito dall’Università di Losanna a Benito Mussolini (e mai ritirato)

C’è un’ombra ingombrante che da quasi novant’anni aleggia sull’università di Losanna. E che di tanto in tanto torna a manifestarsi, dentro e fuori l’ateneo vodese. L’ombra è quella del dottorato «honoris causa» in Scienze sociali e politiche assegnato a Benito Mussolini nel 1937, da quella che oggi viene chiama Unil, dove la L sta appunto per Losanna. Una vicenda passata al setaccio in diverse occasioni, con studi e pubblicazioni, e che dallo scorso 13 novembre è al centro di un’esposizione chiamata Mussolini, un passé sensible. Un titolo che evoca il peso che l’assegnazione di questo dottorato si fa ancora sentire sull’Università di Losanna, ma anche, a ben guardare, pure sulle autorità cantonali e federali di allora. Vale dunque la pena ricordare alcune delle principali tappe di questa vicenda, anche per capire come mai, nonostante appelli e petizioni, l’Unil non abbia ancora deciso di ritirare questo dottorato conferito all’artefice dell’Italia fascista, in un momento in cui già si conoscevano i crimini perpetrati da questo regime in Italia e all’estero.

Non è stato Mussolini a recarsi a Losanna ma i vertici dell’università ad andare a Roma a consegnare al Duce il loro riconoscimento

Questa lunga storia nasce di fatto all’inizio del Novecento, quando il giovane Benito decide di approdare in Svizzera. Era il 1902. A soli 19 anni Mussolini arriva nel nostro Paese senza un progetto preciso, non ha una dimora fissa e nemmeno un vero e proprio lavoro, collabora con quotidiani italiani e di tanto in tanto tiene conferenze rivolte agli operai del suo Paese che lavorano in Svizzera. Si muove tra socialismo e anarchia, sostiene pubblicamente il ricorso alla violenza contro il padronato, e per questo viene arrestato dalla polizia del Canton Berna, portato a Chiasso ed espulso.

Nel 1904, il futuro Duce ritorna in Svizzera e si iscrive all’Università di Losanna, dove rimane però soltanto sei mesi, fino al novembre del 1904, quando decide di lasciare definitivamente il nostro Paese e di rientrare in Italia. A detta di parecchi storici, il periodo trascorso in terra elvetica sarà tra i più importanti per la sua formazione politica. Una relazione con la Svizzera che Mussolini continuerà a curare anche successivamente, anche dopo aver preso il potere a Roma, nel 1922. Contatti che gli permettono di estendere il consenso attorno alla sua figura e di creare quella che oggi alcuni storici della stessa università di Losanna chiamano «une

fascination» per il Duce e per il suo regime. Un’ammirazione che coinvolge anche una parte dell’alta società di allora, con ramificazioni che arrivano fino al Governo federale e all’esercito. Ad accrescere questo sostegno gioca un ruolo anche il diffuso anti-comunismo di quei tempi e i timori legati all’Unione sovietica di Stalin. All’interno dell’ateneo vodese un ruolo di primo piano viene sicuramente svolto da Pasquale Boninsegni, un professore che a suo tempo aveva avuto proprio Mussolini tra i suoi studenti. Anche nel corso degli anni Trenta Boninsegni ha contatti regolari con il Duce ed è proprio lui a proporre alla direzione dell’università di assegnare al leader fascista il dottorato «honoris causa» nel 1937, in occasione dei festeggiamenti per i 400 anni dalla creazione di questo ateneo. Non senza aver prima chiesto allo stesso Mussolini un sostegno per queste celebrazioni. Da Roma verranno versati a questo scopo mille franchi, una somma di rilievo per i criteri finanziari di allora.

La proposta di onorare questo ex studente raccoglie il parere quasi unanime dei vertici accademici e anche del Consiglio di Stato vodese. Poche le voci critiche che si fanno sentire dal mondo politico di quel Cantone. Il Consiglio federale non viene interpellato, saprà di questo riconoscimento soltanto in un secondo momento. Molte invece le lettere e le prese di posizione di disappunto espresse dalla società civile. Critiche che indispettiscono Mussolini, un malcontento che lo spingerà a far sapere all’Università di Losanna di non voler più accettare quel premio. La tensione sale, e anche per questo motivo risultano perlomeno singolari le modalità di consegna di questo «honoris causa». Non sarà Mussolini a recarsi a Losanna ma i vertici dell’università ad andare a Roma e a rimettere nelle mani del Duce questo loro riconoscimento. Nella «Laudatio» redatta per l’occasione si legge che Mussolini «è il promotore di una dottrina politica destinata a lasciare una traccia perenne nella Storia». La

vicenda non si chiude tuttavia con la consegna del dottorato. Da quel momento, e a ritmi regolari, piovono sull’università critiche e richieste di ritirare quel riconoscimento così ingombrante. In tutti questi anni i vari rettori che si sono succeduti alla guida dell’ateneo vodese non hanno mai intrapreso questo passo, anche perché manca nel regolamento interno all’università una procedura precisa per poter effettivamente annullare queste onorificenze, anche nel caso di una persona ormai deceduta. E ci sarebbe persino il rischio che una revoca di questo tipo possa essere impugnata con un ricorso da parte di persone e movimenti che ancora oggi simpatizzano per il fascismo. Per cercare di fare chiarezza, nel 2022 un gruppo di lavoro interno all’Unil e composto da professori di sette diverse facoltà consegna una ricerca dopo ben due anni di lavoro. Le conclusioni di questo rapporto non lasciano spazio a dubbi: i vertici universitari e politici di allora hanno commesso «un grave errore» nell’at-

tribuire questo dottorato, un titolo che ha legittimato «un regime criminale e la sua ideologia». Gli esperti comunque non raccomandano di ritirare l’«honoris causa» ma di procedere a ulteriori studi e a conferenze, per aprire il dibattito su quanto capitato in quegli anni, non solo all’interno dell’università ma anche in tutto il nostro Paese. L’esposizione inaugurata lo scorso 13 novembre rientra in questo tipo di iniziative. Non manca comunque chi continua a chiedere un passo più coraggioso, e cioè il ritiro puro e semplice del dottorato. Per il rettore Frédéric Herman occorre piuttosto mantenere aperto il dibattito democratico attorno a quella pagina di storia. In altri termini – dicono i vertici dell’Unil – revocare quel titolo significherebbe chiudere questo capitolo, con il rischio di consegnarlo all’oblio. Una posizione che ancora oggi non fa comunque l’unanimità nel dibattito pubblico vodese e nazionale. La

di

e di Losanna è dunque destinata a far ancora parlare di sé.

Roberto Porta
vicenda
Mussolini
Al centro Benito Mussolini dopo una riunione della Conferenza di Losanna il 4 dicembre 1922. Insieme a lui, tra gli altri, l’allora ministro degli Esteri britannico George Curzon e il primo ministro francese Raymond Poincaré. (Keystone)

Allarme a Delhi che sprofonda nello smog

India ◆ La causa principale non sono i gas di scarico ma la combustione delle stoppie lasciate nei campi dopo la raccolta del riso

Si vede perfino dallo spazio, la nuvola che incombe su Delhi ormai da giorni. Quella nuvola grigia e tossica che causa tosse, mal di testa e problemi respiratori, che avvolge di nebbia per buona parte della giornata edifici e strade e persone. E ricopre di una polvere densa e giallastra le foglie degli alberi davanti a casa mia rendendo grigi in un paio d’ore gli abiti bianchi. Succede in questo periodo, in realtà, ormai da anni. Quest’anno, però, è peggio di sempre. L’indice della qualità dell’aria ha superato abbondantemente la soglia di pericolosità, ed è superiore di 20-30 volte (dipende dalle giornate) a quello che l’Organizzazione mondiale della sanità considera il livello di guardia. In pratica, viviamo in una camera a gas. Ogni inverno da che mi ricordo a Delhi siamo alle prese col problema dello smog, una miscela tossica di fumo, polvere e nebbia intrappolata dall’umidità, dall’assenza di vento e dalle basse temperature. Causata secondo Safar, un’agenzia di previsioni meteorologiche che fa capo al Ministero delle Scienze della Terra, per il quaranta per cento circa dalla combustione delle stoppie – una pratica che prevede che le stoppie lasciate dopo la raccolta del riso vengano bruciate per liberare i campi – nei vicini Stati del Punjab e dell’Haryana. Le immagini riportate dai satelliti della Nasa documentano i fuochi che bruciano allegramente nei campi e che i contadini

adoperano per preparare velocemente la terra alla nuova semina: quando il Governo ha provato a vietare la pratica, hanno bloccato Delhi per un mese a bordo di trattori e SUV. Dicono di avere bisogno di aiuti finanziari e tecnici per trovare modi alternativi per eliminare i resti del raccolto, ma non specificano quali. Né perché i contadini di altri stati siano capaci di farne a meno. Il resto del problema va accollato alla voce ’sviluppo’, e ha cause che ci sono più familiari: le macchine e i macchinari a diesel e l’attività edilizia.

Il divieto governativo

Più, per un paio di giorni, la quantità di fuochi d’artificio sparata in occasione della festa di Diwali. Il Governo ormai da giorni ha ordinato la cessazione di tutte le attività che prevedono l’uso di carbone e legna da ardere, nonché l’uso di generatori diesel per servizi non di emergenza. Ha vietato l’ingresso di camion a diesel in città a meno che non provvedano a servizi di prima necessità come il trasporto di generi alimentari e ha fermato i lavori di costruzione non indispensabili. Le scuole sono chiuse fino a nuovo ordine, e gli uffici sono stati invitati a far lavorare in smart working almeno il 50 per cento dei dipendenti. Siamo tutti caldamente invitati a rimanere in casa il più possibile e ad adoperare i mez-

zi pubblici se dobbiamo uscire. I produttori di purificatori dell’aria stanno facendo affari d’oro, ed è possibile ordinare il tuo bravo purificatore perfino sui siti che consegnano in genere frutta, verdura e altri generi alimentari. Vista la situazione e il mal di testa strisciante che affligge un po’ tutti da qualche giorno, io e le mie amiche abbiamo deciso di andare a passare qualche giorno nella fattoria dei genitori di una di noi, in un villaggio dell’Uttar Pradesh. Appena uscite dalla città, per la prima volta da giorni, abbiamo visto il sole. Perchè a una cinquantina di chilometri da Delhi cambia l’atmosfera, cambia il paesaggio e, soprattutto, esci dall’Occidente e dal futuro e sei di nuovo in India. Nell’India delle piccole città di provincia e dei villaggi, dove le macchine sono ancora poche e il traffico è essenzialmente composto da motociclette su cui viaggiano intere famiglie e da moto-rickshaw: praticamente una lambretta con i sedili e un tettuccio, che può contenere sei-otto passeggeri (dipende da quanto sono disposti a comprimersi) e che funziona da taxi. Ai bordi dell’autostrada, gente da sola o in gruppi che aspetta qualcosa o qualcuno al ciglio della carreggiata: taxi/autobus improvvisati (e illegali), forse, ma non ne sono sicura. Ciò di cui sono sicura invece, è la sensazione di essere tornata finalmente a casa, nell’India che amo. La felicità di passare un pomeriggio passando

da una bancarella all’altra che vende il più delizioso cibo di strada immaginabile, di sedere su una panca per strada a bare il tè dentro un kullar, una tazzina di terracotta. La felicità di spendere qualche ora a comprare braccialetti di vetro, di svegliarsi la mattina, al villaggio, con il profumo dei frangipani e degli alberi di gelsomino corallo e di addormentarsi col profumo dei gelsomini ordinari. Non siamo più abituati alla campagna, nemmeno le mie amiche indiane. Alle vespe che di questa stagione sono in giro in sciami fino alle due di pomeriggio: poi scompaiono, e arrivano le formiche. Non siamo abituati ai frutteti, ai campi coltivati. Alle contadine che ricavano combusti-

L’indice della qualità dell’aria è di 20-30 volte superiore (dipende dalle giornate) a quello che l’Organizzazione mondiale della sanità considera il livello di guardia. (Pexels)

bile dallo sterco di vacca: formelle di sterco e paglia messe a seccare al sole, che servono ad accendere e ad alimentare il fuoco per cucinare dentro alla chula, una specie di fornello/forno fatto di creta e fango, e per scaldarsi. Al sole che di sera è una enorme palla rossa dentro un cielo d’argento. Ci è dispiaciuto, tornare. Vedere scomparire la gente al ciglio della carreggiata, i trattori pieni di fieno e stoppie, le motociclette e gli autorickshaw. E vedere riapparire, a cinquanta chilometri da Delhi, la spessa coltre di smog che rende la città, quando a sera si accendono le luci simile, più che a una città moderna, a un apocalittico scenario uscito da una scena di Blade Runner.

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Se il partner ti tiene in pugno col denaro

L’intervista ◆ Quali dimensioni assume la violenza economica e come fare ad uscirne. Ce lo spiega l’avvocata Patrizia Aspromonte

Amore e denaro, ne abbiamo parlato settimana scorsa, mettendo in evidenza l’importanza di mantenere l’indipendenza economica – anche una volta diventate madri – e di essere consapevoli degli aspetti economico-finanziari dell’esistenza («Azione» del 18 novembre, pag. 14). Per evitare di trovarsi impreparate/i quando la vita non va secondo i piani, oppure di ritrovarsi imprigionate/i in situazioni di violenza economica che sono diffuse anche alle nostre latitudini, in tutte le fasce di età e classi sociali. Riprendiamo il discorso da qui, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (per informazioni sulla campagna nazionale vedi www. 16giorni.ch).

La violenza economica è una forma di abuso – inserita a pieno titolo del capitolo più ampio della violenza domestica – in cui il controllo delle risorse economiche viene utilizzato come mezzo per esercitare potere all’interno di una relazione. Questo tipo di violenza può assumere diverse forme, afferma l’European Institute for Gender Equality (EIGE), un’agenzia dell’Unione europea che promuove la parità tra i sessi e combatte le discriminazioni di genere: il controllo economico ovvero quando un partner gestisce tutti i redditi della famiglia, limita o impedisce all’altro l’accesso al denaro; se controlla la quantità di soldi che può spendere l’altro o insiste nel tracciarne l’utilizzo; nasconde alla vittima le informazioni economico-finanziarie importanti escludendola

Cosa dice la legge: il Codice civile

Mantenimento della famiglia

Art. 163

1. I coniugi provvedono in comune, ciascuno nella misura delle sue forze, al debito mantenimento della famiglia.

2. Essi s’intendono sul loro contributo rispettivo, segnatamente circa le prestazioni pecuniarie, il governo della casa, la cura della prole o l’assistenza nella professione o nell’impresa dell’altro.

3 In tale ambito, tengono conto dei bisogni dell’unione coniugale e della loro situazione personale.

Somma a libera disposizione

Art. 164

1. Il coniuge che provvede al governo della casa o alla cura della prole o assiste l’altro nella sua professione od impresa ha diritto di ricevere regolarmente da costui una congrua somma di cui possa disporre liberamente.

2. Tale somma va determinata tenendo conto degli introiti propri del coniuge avente diritto nonché di quanto, nella consapevolezza delle proprie responsabilità, l’altro coniuge impiega per la previdenza in favore della famiglia, della professione od impresa.

Obbligo di informazione

Art. 170

1. Ciascun coniuge può esigere che l’altro lo informi sui suoi redditi, la sua sostanza e i suoi debiti.

2. A sua istanza, il giudice può obbligare l’altro coniuge o terzi a dare le informazioni occorrenti e a produrre i documenti necessari.

dalle decisioni che ne conseguono. Lo sfruttamento economico si realizza nel momento in cui una persona abusa delle risorse economiche del partner: gli ruba denaro e beni, lo obbliga a contrarre debiti ecc. Senza dimenticare il sabotaggio economico: quando un coniuge/partner impedisce all’altro di cercare, ottenere o conservare l’impiego, seguire una formazione; se rifiuta di prendersi cura dei figli per impedire alla vittima di portare avanti i suoi obiettivi oppure adotta comportamenti dannosi in vista di importanti appuntamenti professionali o di studio del/la compagno/a. «La violenza economica è un fenomeno grave che talvolta emerge in fase di separazione», afferma l’avvocata Patrizia Aspromonte che collabora con l’Associazione ticinese delle famiglie monoparentali e ricostituite (ATFMR) e il Consultorio delle donne di Lugano. «Spesso va di pari passo con la violenza psicologica: l’abusante tende infatti a mettere in atto anche strategie che mirano a inficiare l’autostima e la dignità della vittima, facendole credere di non valere abbastanza (atti denigratori, accuse, offese, proibizioni ecc.)». L’aspetto più preoccupante, secondo la nostra interlocutrice, è che molto sovente quella economica non viene riconosciuta come violenza a tutti gli effetti, perché rientra in una serie di comportamenti in un qualche modo culturalmente accettati e giustificati dalla società e dalle stesse vittime». Certi stereotipi – che possono «preparare il terreno» a questa tipologia di abuso –sono infatti ancora diffusi: è l’uomo a dover provvedere al mantenimento della famiglia; il denaro appartiene a chi lo ha guadagnato; le donne sono meno interessate alle questioni economico-finanziarie e quindi meno capaci in materia ecc. «Viviamo in un contesto che non favorisce la conciliabilità tra lavoro e famiglia», osserva Aspromonte. Pensiamo ai costi di asili nido e baby-sitter, alla mancanza di mense scolastiche, alla scarsa flessibilità di certi ambienti di lavoro. «Ed è quasi sempre la donna a rinunciare all’impiego, o a ridurre la percentuale, per pren-

dersi cura dei figli e della casa. Appena lei perde l’indipendenza economica, gli equilibri della famiglia cambiano…». Non sempre in negativo, intendiamoci, ma in generale si può osservare che ci sono persone che perdono di autorità in merito alla gestione del denaro, tendono a limitare le spese personali, accumulano meno risparmi ecc.

È un fenomeno grave che talvolta emerge in fase di separazione e spesso va di pari passo con la violenza psicologica

L’avvocata dice: «Non è infrequente incontrare donne che non hanno coscienza dello stipendio del partner, del budget famigliare, dei risparmi e percepiscono dal compagno un’esigua somma mensile, che magari basta giusto per fare la spesa». Si tratta di persone senza autonomia di scelta. Poco spazio è lasciato alla loro volontà, ai loro desideri. Non sono libere e magari neanche se ne rendono conto. Si parla già di violenza economi-

ca, sottolinea Aspromonte. Quando questo sistema «malato» si rompe e la vittima vede più chiaro? «Nel momento in cui il rapporto inizia ad incrinarsi sotto altri aspetti e magari si comincia a parlare di separazione, di divorzio. Alcune prendono dolorosamente coscienza della loro situazione e cambiano registro, ma ce ne sono tante che mantengono, con l’altra parte, un atteggiamento troppo conciliante, anche sotto il profilo economico, nell’intento di intaccare il meno possibile un delicato equilibrio, pure in ottica genitoriale».

Come uscire dall’impasse? Il primo consiglio dell’avvocata è quello di prevenire le situazioni «scomode». Questo significa: evitare di affidare totalmente la gestione degli aspetti economico-finanziari propri e della famiglia al partner. Anche se può sembrare poco romantico, mantenere l’indipendenza economica e un conto individuale.

Mentre quando la violenza è in atto: è necessario rendersene conto, comprendere la portata degli abusi. La legge in ogni caso ci tutela. L’articolo 170 del Codice civile, ad esem-

pio, sancisce l’obbligo di informazione: ciascun coniuge può esigere che l’altro lo informi sui suoi redditi, la sua sostanza e i suoi debiti. «A sua istanza, il giudice può obbligare l’altro coniuge o terzi a dare le informazioni occorrenti e a produrre i documenti necessari». Sapere è il primo passo per agire. Un ulteriore passo da fare: interrompere la relazione economica malsana, aprendo un conto personale dove far confluire tutte le proprie entrate. Gestirlo autonomamente. Non è una mossa facile da compiere – come detto spesso la violenza economica è un elemento di contorno ad altri tipi di violenza – ma è necessaria per tagliare il filo che lega vittima e abusante. Chiedendo magari un supporto psicologico professionale. Ci si può rivolgere al Servizio per l’aiuto alle vittime di reati del Cantone (Servizio LAV) o al Consultorio delle donne (www.consultoriodelledonne.ch), senza dimenticare le esperte di Equi-Lab, un servizio di consulenza in materia di conciliabilità e di pari opportunità (www.equi-lab.ch).

«È necessario valorizzare cosa fa l’altro/a»

Di separazioni e divorzi ne sa qualcosa Federica Invernizzi Gamba, direttrice del Consultorio famigliare di Lugano (www.comfamiliare.org/servizi/consultorio), che conferma: «Nel contesto dei nostri incontri di mediazione emergono spesso situazioni di forte disparità economica tra coniugi/partner, dovute a scelte precise. C’è chi ha più investito nell’ambito lavorativo e chi nelle attività di cura, mettendo magari da parte la carriera. E non è raro che uno dei due si affidi all’altro per la gestione degli aspetti economico-finanziari... Quando ci si innamora si tende a riporre la fiducia, a volte incondizionata, nell’altro». In ogni caso quello che conta, sottolinea l’intervistata, è la dinamica che si crea all’interno della coppia: per fortuna non è sempre deleteria. «Il geni-

tore con più potere economico molte volte resta una ricchezza per il nucleo famigliare che evolve». Comunque la disparità di reddito tra coniugi/partner – al momento della separazione – implica che uno dei due si trovi in una posizione di maggiore fragilità. «Il nostro lavoro di mediatori? Mettere sulla bilancia tutti gli elementi che hanno caratterizzato la vita famigliare affinché ognuno/a possa, da un lato, veder riconosciuto quello che ha fatto e, dall’altro, garantirsi un presente e un futuro senza troppe preoccupazioni. Il principio sotteso: la cura dei figli, della casa e il mantenimento (contributo economico) hanno lo stesso valore! Perché, con il divorzio, si divide a metà il secondo pilastro? Proprio per valorizzare il lavoro non retribuito compiuto dal genito-

re a casa, negli anni di vita insieme». Quando un’unione finisce è dunque necessario portare alla luce gli accordi – spesso informali, raggiunti senza grandi discussioni – che reggevano il nucleo famigliare. E poi, sottolinea Invernizzi Gamba, è fondamentale apprendere: «Gli ex partner/coniugi devono imparare: chi a tornare nel mondo del lavoro oppure organizzare un budget famigliare, chi a gestire le esigenze dei figli e dell’economica domestica. Potersi confrontare apertamente aiuta, come anche mettersi in discussione per il bene della famiglia, dei figli, andando avanti in maniera più consapevole». Quando non è possibile – e il potere economico, sui figli o sui sentimenti viene usato contro l’altro/a – non resta che rivolgersi agli avvocati (che costano molto caro).

keystone

Cosa farà Donald Trump?

Guerra in Ucraina ◆ Il neo presidente americano si ritroverà – come successo nel 2016 – con un Cremlino per nulla desideroso di scendere a compromessi

Nel millesimo giorno di guerra l’Ucraina era ripiombata nel buio e il mese di novembre minaccia di segnare l’ennesimo record: di civili uccisi dalle bombe russe, di missili e droni lanciati sulle città ucraine, di invasori caduti nelle trincee del Donbass dove l’esercito di Vladimir Putin continua ad avanzare (mentre la Casa Bianca decide di inviare anche le famigerate mine anti-uomo a Kiev). Le elezioni del nuovo presidente americano non solo non hanno aperto uno spiraglio di pace, che Donald Trump aveva promesso in campagna elettorale di portare «in 24 ore», ma hanno segnato una escalation. Sul fronte continuano ad arrivare truppe nordcoreane – «Bloomberg» parla di 100 mila uomini di Pyongyang che verrebbero inviati a combattere a fianco dei russi nei prossimi mesi – e il Cremlino ha risposto alle aspettative di un’imminente tregua sferrando massicci attacchi contro le infrastrutture civili delle città ucraine. Mentre, proprio alla vigilia dell’arrivo dell’inverno, Kiev, Odessa e altri grandi centri precipitavano nel buio e nel gelo, il Ministero della difesa russo non faceva segreto nei suoi comunicati di aver colpito centrali elettriche e di riscaldamento, per piegare la popolazione che entra nel quarto inverno sotto le bombe. Una risposta molto chiara sia alle

promesse di pace del team del presidente eletto, sia ai tentativi di riavviare una diplomazia con il Cremlino da parte di Olaf Scholz, che ha infranto il tabù di telefonare al dittatore russo soltanto per dover ammettere che «rimane delle sue idee». Il portavoce della presidenza russa Dmitry Peskov ha anzi ribadito che le condizioni alle quali la Russia è disposta a parlare di tregua vanno ben oltre il «congelamento del conflitto» lungo la linea del fronte attuale: Putin vorrebbe cinque regioni ucraine, incluse territori che le truppe russe non hanno occupato e non sono in procinto di occupare. Una posizione che ha fatto dire a Emmanuel Macron che il presidente russo «non vuole la fine della guerra», e in effetti da Putin non è arrivato alcun segnale di distensione, a parte qualche complimento a Trump come «uomo coraggioso», e l’invito a telefonargli, «sono pronto a parlare». Invito che il presidente eletto degli Usa per ora non ha colto, non ufficialmente almeno, anche se il «Washington Post» rivela che una telefonata molto poco ufficiale ci sarebbe stata. In realtà Trump non sembra per ora avere molto da dire. È vero che dalla sua cerchia sono uscite molte indiscrezioni e proposte su come fermare le ostilità in Ucraina, che tutte in una misura minore o maggiore ven-

gono incontro a Mosca sacrificando gli interessi e l’indipendenza di Kiev. Ma è vero anche che queste intenzioni sono filtrate finora in interviste ai media, dichiarazioni di consiglieri di Trump, tweet di Elon Musk e meme del figlio del presidente. Parole spesso anche molto sprezzanti nei confronti dell’Ucraina e del suo leader Volodymyr Zelensky, che però sostiene – dopo essere stato tra i primi a complimentarsi per la vittoria del candidato repubblicano – di aver avviato con lui un dialogo promettente. Anche molti leader di Paesi europei hanno fatto capire che nelle prime conversazioni con loro il prossimo presidente Usa non ha espresso intenzioni così radicali contro l’Ucraina come quelle della campagna elettorale.

Non ha espresso però nemmeno proposte concrete. Anche perché porre fine – o almeno «congelare» – l’invasione russa non è certamente facile. Trump dovrebbe convincere Putin a fermarsi, se non a retrocedere: con la minaccia di nuove forniture di armi a Kiev o, secondo alcune teorie, facendo collassare il prezzo del petrolio, base economica del regime russo. Per farlo però dovrebbe convincere gli Stati petroliferi del Golfo ad aumentare la produzione insieme agli Usa, obiettivo tutt’altro che scontato e co-

Tutti i gusti regalano piacere al palato.

munque non di effetto immediato. Per costringere Zelensky a cedere (almeno di fatto) i territori occupati dalla Russia, Trump dovrebbe proporre all’Ucraina in cambio garanzie di sicurezza da un’ulteriore aggressione: potrebbe essere un’adesione alla Nato, oppure armamenti a volontà per creare uno «scudo» contro i bombardamenti russi, ma questo tipo di assistenza non soddisferebbe Putin. Inoltre sembra che la Casa Bianca voglia usare come forza di interposizione nel Donbass truppe europee: è vero che in questo momento è l’Ue nel suo insieme a esprimere con maggiore convinzione l’impegno a sostenere l’Ucraina militarmente, politicamente e economicamente, ma è improbabile che molti Paesi vorranno schierare i loro soldati in una guerra che rischia di rimanere calda. È evidente che la fretta di Putin di avanzare nel Donbass, pagando pochi chilometri di offensiva con migliaia di

vite dei suoi soldati, deriva dal desiderio di occupare più territori possibile prima di venire costretto alle trattative. È altrettanto evidente che considera qualunque proposta di pace un segno di debolezza dell’avversario, che quindi va affrontata aumentando la pressione e non lanciando segnali di distensione. Non si può escludere quindi che la tanto attesa autorizzazione di Joe Biden all’esercito ucraino di colpire il territorio della Russia con missili a lunga gittata sia stata in realtà non uno sgarbo a Trump, ma al contrario un accordo tra l’amministrazione uscente e quella futura, per rendere il nuovo presidente il «poliziotto buono» in un eventuale negoziato con Putin. Ma il vero interrogativo rimane su cosa farà Trump dopo che il suo tentativo di mettere d’accordo tutti in 24 ore fallirà, e si ritroverà – come già successo nel 2016 –con un Cremlino per nulla desideroso di scendere a compromessi.

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Il «Washington Post» ha rivelato che una telefonata tra Putin e Trump c’è stata. (Keystone)

Una fotografia dei profughi ucraini in Svizzera

Il punto ◆ Circa 66’000 persone beneficiano attualmente dello statuto di protezione S. Nonostante gli sforzi compiuti da Confederazione, Cantoni e altri attori attivi nel Paese solo il 29 per cento di loro ha trovato lavoro. Come mai?

«Entro la fine del 2024 il tasso di occupazione dei rifugiati provenienti dall’Ucraina sarà del 40%». Questa è stata la promessa formulata all’inizio di maggio dal consigliere federale Beat Jans, capo del Dipartimento federale di giustizia e polizia. Un traguardo ambizioso che, con il passare del tempo, si è trasformato in una chimera. A meno di due mesi dalla scadenza, l’integrazione professionale dei profughi ucraini raggiunge solo il 29%. Rispetto agli altri rifugiati, però, il loro accesso al mercato del lavoro è da due a tre volte più veloce. Gli sforzi profusi da Confederazione, Cantoni, parti sociali e organizzazioni hanno senza dubbio promosso la loro inclusione professionale, ma a un ritmo inferiore rispetto alle attese e con grandi differenze regionali.

Se Appenzello Interno, Glarona, Nidvaldo e Obvaldo hanno quote superiori al 40%, altri Cantoni marciano quasi sul posto, come il Ticino che con il 13,8% registra il tasso occupazionale più basso in Svizzera. La ragione principale di questo primato negativo è la vicinanza geografica al confine italiano e la concorrenza da parte dei lavoratori frontalieri, preferiti dagli imprenditori locali perché questi ultimi possiedono migliori competenze linguistiche e una conoscenza più approfondita delle dinamiche lavorative regionali. Oltre al Ticino, altri Cantoni di frontiera, come Ginevra (13,9%), Vaud (15,1%), Neuchâtel (18,9%) e Giura (23,1%), mostrano quote relativamente basse.

Buona parte dei rifugiati non parla ancora bene le lingue nazionali e ha difficoltà a far riconoscere i diplomi ottenuti in Ucraina

Dall’altro lato, Appenzello Interno, Uri o Glarona hanno avuto più successo. Nei Cantoni piccoli e rurali, dove tutti si conoscono, è più facile stabilire un contatto diretto tra le istituzioni e i rifugiati, riducendo gli ostacoli burocratici e facilitando l’ingresso nel mondo del lavoro. Secondo gli esperti, tuttavia, non sono solo motivi geografici a spiegare le differenze. Alcuni Cantoni hanno conseguito risultati migliori perché hanno accompagnato e sostenuto le persone con lo statuto S subito dopo il loro arrivo in Svizzera. Un impegno premiato dai risultati, come nel Canton Argovia, dove il tasso di occupazione del 37,6% è sopra la media nazionale. Per fare il punto della situazione, Didier Ruedin, docente presso il Fo-

rum svizzero per lo studio delle migrazioni e della popolazione dell’Università di Neuchâtel, ha raccolto le informazioni sull’integrazione delle rifugiate e dei rifugiati ucraini in Svizzera, pubblicando alla fine di ottobre lo studio Ukrainian Refugees in Switzerland: A research synthesis of what we know. Il documento, di un centinaio di pagine, evidenzia alcuni aspetti interessanti. Le barriere linguistiche rappresentano uno degli ostacoli maggiori: buona parte dei rifugiati non parla ancora bene le lingue nazionali, il che riduce le loro possibilità di accedere al mondo del lavoro, soprattutto in settori altamente specializzati. A ciò si aggiungono l’incertezza sulla durata della loro permanenza, le dif ficoltà nel fare riconoscere le qualifi che professionali e accademiche otte nute in Ucraina – il 70% possiede una laurea – limitando l’accesso a posizio ni corrispondenti alla loro esperienza. Infine, un’altra sfida significativa è l’e levato costo delle strutture di accudi mento per i bambini piccoli. In Sviz zera il 62% delle persone con statuto di protezione S sono infatti donne e madri che hanno bisogno di servizi di assistenza all’infanzia per poter conci liare lavoro e famiglia. Sono questi i principali ostaco li all’ingresso nel mondo del lavoro. Eppure, lo statuto di protezione S ha tra i suoi obiettivi proprio quello di favorire l’integrazione professionale di chi è in fuga da una guerra. Intro dotto con la revisione totale della leg ge sull’asilo nel 1998 in risposta agli esodi causati dalle guerre balcaniche degli anni Novanta, lo statuto S è sta to attivato per la prima volta con l’i nizio del conflitto in Ucraina, con sentendo alle profughe e ai profughi ucraini di soggiornare legalmente in Svizzera e di accedere subito al mon do del lavoro e ai servizi essenziali, come l’assistenza sanitaria e l’istru zione, senza dover passare attraverso il tradizionale processo d’asilo. Fino alla fine di giugno 2024, in Svizze ra sono state presentate oltre 106’000 richieste per ottenere lo statuto S, di cui quasi 95’000 sono state approva te. Attualmente circa 66’000 perso ne beneficiano di questa protezione umanitaria temporanea. Nella sua ri cerca, Rudin indica che un terzo delle profughe e dei profughi ucraini spera di rimanere in Svizzera anche dopo

la fine della guerra, un altro terzo intende invece tornare in patria il prima possibile per contribuire alla ricostruzione del proprio Paese, mentre l’ultimo terzo non ha ancora deciso dove intende proseguire il suo progetto di vita. Visto il protrarsi del conflitto, il

Consiglio federale ha deciso di estendere lo statuto S fino al marzo 2026, anche per offrire maggiore sicurezza alle persone bisognose di protezione e garanzie ai datori di lavoro.

Rispetto ad altri Paesi, con un tasso di occupazione del 29%, la Svizzera

si trova nella media europea. Dall’inizio della guerra, più di sei milioni di ucraini e ucraine hanno dovuto lasciare la loro casa. Una ricerca dell’Istituto di ricerca per il mercato del lavoro di Norimberga (IAB) ha analizzato le differenze in materia di integrazione professionale tra i vari Paesi d’accoglienza. Dallo studio emerge che i rifugiati trovano più facilmente impiego negli Stati con una maggiore richiesta di manodopera poco qualificata, poiché questi lavori possono essere svolti anche da persone con competenze linguistiche limitate. Anche i servizi di accudimento per bambini hanno un ruolo significativo. La ricerca evidenzia inoltre che i Paesi hanno adottato strategie di integrazione diverse: alcuni puntano sull’accesso immediato al mercato del lavoro (work first), mentre altri investono in programmi volti a un’integrazione professionale a lungo termine, tramite corsi di lingua e di riqualificazione professionale. Una strategia che, secondo le autrici dello studio, si dimostra vincente sul lungo termine perché favorisce anche l’inserimento nella realtà sociale locale. Per la Svizzera è quindi meglio non mettersi fretta, ma puntare su un’integrazione sul lungo termine visto che i cannoni in Ucraina non sono ancora stanchi di seminare distruzione e morte.

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Il Canada non è più un Paese aperto

Immigrazione ◆ Il Governo introduce delle misure restrittive che colpiscono anche gli stranieri residenti da tempo nel Paese

Il Canada si prepara ad affrontare nuove sfide legate all’immigrazione, dopo la rielezione di Trump alla Casa Bianca (leggi: timori di una fuga di migranti dagli Usa). In ogni caso non è più il Paese spalancato agli stranieri che è stato per decenni. I programmi «Studia, lavora e vivi» per ottenere il visto veloce, sul sito web dell’immigrazione del Governo canadese, non fioccano più. La politica che cercava di attrarre lavoratori stranieri, anche disposta a formarli professionalmente a livello universitario purché restassero come forza lavoro nel Paese offrendo loro una strada per la residenza permanente, sta subendo una sterzata. Dopo aver, negli ultimi anni, invitato stranieri in Canada per aiutare a rilanciare l’economia, il Governo del liberale Justin Trudeau (confermato con un terzo mandato nel 2021) sta facendo marcia indietro, timoroso che la loro stabilizzazione come residenti permanenti possa costare all’Esecutivo in carica troppo in termini di radicalizzazione dell’opinione pubblica. Teme infatti che l’opposizione interna abbia buon gioco a imitare la campagna di Donald Trump di chiusura delle frontiere ai migranti e tenta di giocare d’anticipo. Ad esempio, sono state annunciate novità per ridurre e limitare in corsa il vasto programma di residenza temporanea del Canada. Trudeau prepara barriere per non dare per scontata la residenza sul lungo pe-

riodo a stranieri già presenti, che ora si ritrovano in un limbo legale. Attualmente, secondo i dati del Ministero degli interni, quasi tre milioni di persone che vivono in Canada hanno un qualche tipo di status di immigrazione temporanea. Solo negli ultimi due anni sono arrivati 2,2

milioni di persone. I residenti temporanei rappresentano il 6,8% della popolazione totale del Paese, 41,3 milioni, rispetto al 3,5% del 2022. Ma attualmente l’economia canadese sta creando meno posti di lavoro e la disoccupazione, superiore al 6%, rimane alta. Per i residenti temporanei il tasso di disoccupazione è ancora più alto: il 14%.

ranghi dei lavoratori e aumentare la popolazione. Nonostante l’annunciato cambiamento di linea, il discorso politico rimane civile.

Il ministro del lavoro Randy Boissannault ha spiegato in una recente conferenza stampa riportata dal «New York Times»: «L’ho già detto e lo ripeterò: il programma dei lavoratori stranieri temporanei è una fisarmonica. È pensato per flettersi con l’economia. Quando abbiamo un alto numero di posti vacanti, possiamo portare più persone e, quando l’economia è tesa, chiudiamo la fisarmonica e rendiamo difficile l’ingresso delle persone». Aprire e chiudere la fisarmonica non è così semplice se ci si mette nei panni di uno studente indiano o cinese la cui famiglia ha investito migliaia di dollari per farlo andare in Canada a studiare con un visto con cui, poi, sperava potesse fermarsi a lavorare. Potrebbe tornare in un’università canadese e pagare le tasse universitarie più alte per gli studenti internazionali in cambio della possibilità di lavorare e cercare la residenza permanente. Oppure potrebbe richiedere un visto turistico, anche se non gli darebbe il diritto legale di lavorare. Potrebbe tornare in India o in Cina, la possibilità meno attraente, visti gli anni e i soldi che ha investito in Canada.

Verso lo sfruttamento

Racconta da Toronto Raffaella T., italiana residente in Canada da venti anni per lavoro: «I programmi sono sempre tanti e cambiano molto spesso, ad esempio quello che abbiamo usato io e mio marito è stato cancellato un paio di anni dopo che ne abbiamo usufruito. Inoltre ogni provincia ha programmi specifici, che possono cambiare velocemente, nel giro di uno o due anni a seconda delle necessità: è un tema molto ampio e complesso. Dagli anni Settanta la stragrande maggioranza degli immigrati arriva dall’Asia, soprattutto dall’India. Alla cerimonia di concessione della cittadinanza, la mia, un paio d’anni fa, eravamo un centinaio e tra questi gli europei erano tre, gli altri erano tutti asiatici di decine di Paesi diversi ma con predominanza indiana».

Il programma di residenza temporanea si era intensificato dopo la pandemia da Coronavirus. L’economia canadese aveva bisogno di coprire la carenza di manodopera e aveva moltiplicato i visti d’ingresso. Ma poi, come detto, il trend si è invertito.

Marc Miller, ministro dell’immigrazione, ha annunciato una serie di tagli alle quote di migrazione da gennaio, tra cui la riduzione del numero di visti per studenti rilasciati e un limite al numero di lavoratori stranieri temporanei che un’azienda può assumere. Con un canadese su cinque nato all’estero, il Canada è stato a lungo un approdo sicuro per chi volesse migrare. Storicamente i Governi conservatori e liberali hanno promosso politiche migratorie volte a rafforzare i

Le difficoltà che devono affrontare molti residenti temporanei i cui permessi sono scaduti, o scadranno presto, li stanno spingendo verso lo sfruttamento. Questi finiscono infatti per lavorare senza permesso e quindi senza contratto come addetti alle pulizie, nei magazzini o nelle cucine dei ristoranti, per pochi spiccioli. Alcuni presentano domande di asilo anche se non soddisfano i criteri, perché così possono rimanere ancora un po’. Circa 13’000 studenti internazionali hanno presentato domande di asilo nei primi otto mesi del 2024, secondo i dati del Governo, più del doppio rispetto a tutto l’anno scorso. Raffaelle T. fa notare: «Un canale grosso d’accesso è quello universitario, perché è come se fosse un lasciapassare per la residenza e quindi la cittadinanza, e anche in questo caso in concreto si tratta quasi solo di asiatici, specie indiani. Ci sono università che sono diventate un canale diretto per l’immigrazione, con alti costi e bassa qualità formativa. I laureati di alcune di queste università – che non sono le più importanti, ma dei campus secondari – vengono addirittura scartati a priori dalle aziende che vagliano le richieste di assunzione perché si sa che quei campus non offrono una buona istruzione».

Il primo ministro del Canada Justin Trudeau. (Keystone)
Nei pressi della Roxham Road, al confine tra New York e il Canada. (Keystone)
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Russia e Stati Uniti verso lo scontro diretto

Prospettive ◆ Il ruolo delle due massime potenze nella guerra in Ucraina, ormai giunta a un bivio strategico: c’è la strada che porta al cessate-il-fuoco negoziato e quella di un’escalation fino alla guerra mondiale

Il 2025 sarà decisivo per le guerre in corso, a cominciare dall’Ucraina. Quello che fino a ieri era un conflitto indiretto fra Stati Uniti e Russia sta diventando diretto. La decisione di Biden di autorizzare Zelensky a colpire in profondità il territorio russo con missili di gittata fino a 300 chilometri ha provocato la doppia reazione di Putin. Prima la firma del decreto presidenziale che riscrive la dottrina nucleare russa, riassumibile nel detto «l’impiego dell’atomica è legittimo quando lo dico io». Poi il lancio di un missile balistico di media portata, concepito per trasportare testate nucleari, accompagnato dall’annuncio che la guerra per l’Ucraina è ormai al grado globale. Insomma, saremmo già nella terza guerra mondiale.

Non è ancora così. Ma per la prima volta dall’invasione russa il pendolo sembra inclinare verso lo scontro fra le massime potenze, di cui noi europei saremmo le prime vittime. Una fredda perlustrazione del campo di battaglia, dei leader che cercano di dirigerlo e del clima internazionale porta a questa conclusione.

Premessa: nessuno vuole la terza guerra mondiale, anche perché forse sarebbe l’ultima per mancanza di residua umanità. Ma questo è valso a suo tempo sia per la prima che per la seconda. Guerra mondiale non si nasce, si diventa. Per incidente. O per il fatto che una volta iniziato un conflitto a determinarne il corso non sono tanto le scelte dei duellanti quanto l’inerzia degli eventi. Formati da migliaia di micro decisioni, incentivati dalla propaganda fuori controllo e dallo spirito irrazionale che governa il comportamento degli umani quando in gioco è la vita. Immaginare di godere di immunità rispetto a questo rischio supremo significa vivere in una dimensione irreale. Purtroppo è quel che accade oggi, specialmente fra noi europei talmente abituati alla pace da non concepirne la fine.

Chi non avrà quasi influenza sugli eventi saremo noi europei, peraltro divisi

Quanto all’Ucraina, siamo vicini a un bivio strategico: c’è la strada che porta al cessate-il-fuoco negoziato e quella che scivola verso l’innalzamento della posta fino alla guerra mondiale. Per un certo periodo le due strade correranno parallele. Al più tardi con l’insediamento di Trump potremo intuire quale piega prenderà la partita ucraina. Vedremo che cosa abbia in mente il rieletto tycoon a stelle e strisce. Soprattutto capiremo quali probabilità possiamo concedere al promesso tentativo di chiudere tutto in 24 ore. Crediamo zero, ma sperare è sempre lecito.

La tregua è possibile. Lo schieramento delle forze sul terreno segnala che i russi, continuando ad avanzare non troppo velocemente, hanno sotto controllo quella parte di Ucraina che è storicamente – e oggi più di ieri – di tono russo. Intendiamo gran parte del Donbass e ancor più la Crimea. Kiev non lo ammetterà pubblicamente, ma non ha mai avuto né ha ora intenzione di riprendersi i territori ormai conquistati dai russi per governare dei sudditi infedeli. Significherebbe condannarsi a fronteggiare una guerriglia permanente, con atti di terrorismo e manovre destabilizzanti orchestrate da Mosca. Lo stesso vale all’opposto

per Putin. Se avanzasse in profondità, arrivando fino a Kharkiv e a Odessa, forse anche a Kiev, gli toccherebbe governare un Paese di forte impronta nazionalista, avvelenato dall’aggressione e dai massacri compiuti dai «cugini» moscoviti. E a ricostruire un territorio semidistrutto senza metà della popolazione originaria.

Ma la posta in gioco non è solo e nemmeno principalmente lo spazio terrestre e marittimo (fondamentale per Kiev mantenere però lo sbocco di Odessa sul Mar Nero). Decisivo sarà lo schieramento internazionale di quel che resterà dell’Ucraina a guerra sospesa. Putin ha invaso la Repubblica di Ucraina perché non venisse integrata nella Nato né accettasse basi e armi atlantiche sul proprio territorio. Il punto dei punti per il Cremlino è la neutralità di Kiev. Per Zelensky è l’aggancio alla Nato. Entrambi status mascherabili con i trucchi della retorica e gli artifizi della diplomazia. Ma alla fine conterà la sostanza: sarà o non sarà l’Ucraina in formato ridotto parte dello schieramento occidentale che Putin definisce «nemico» mentre fino a ieri era «partner»?

L’ultima parola la diranno russi e ucraini. Ma un peso importante nello spingere i contendenti verso la via negoziale o il rilancio bellico lo avranno America e Cina. Quest’ultima disposta a sostenere la Russia, ma non a ogni costo. Chi non avrà quasi influenza sugli eventi saremo noi europei, peraltro divisi fra «falchi» polacco-baltici-scandinavi e «colombe» germano-franco-italiane, con i britannici a incitare i «falchi» finché glielo consentiranno gli americani.

Trump ha due priorità apparentemente inconciliabili. Non perdere la guerra e sospenderla. La prima necessità deriva dal fatto che rinunciare all’avanguardia ucraina accettandone la resa comunque mascherata sarebbe smacco intollerabile. È vero che finora l’America, che dal 1945 non vince una guerra vera, non ha mai perso contro la Russia. Il fatto è che non l’ha mai combattuta, soprattutto perché avrebbe dovuto fronteggiare la massima potenza nucleare al mondo. La crisi della deterrenza americana, già avanzata, in caso di sconfitta pur travestita da non-vittoria diverrebbe insostenibile. La Nato ne verrebbe depotenziata,

ammesso non si estingua. Allo stesso tempo, Trump vuole la pace perché sa che gli americani non sopporterebbero una guerra mondiale. Imbroglio dal quale sarà difficile districarsi. Analoga, a parti rovesciate, la posi-

zione di Putin. Sa bene che l’opinione pubblica russa – ebbene sì, anche nelle autocrazie il pubblico conta – non vuole l’aggravamento dell’impegno bellico. Né può però presentarsi a mani vuote dopo tre anni di «operazione mili-

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tare speciale». Non vorremmo che pur di non perdere la faccia russi, ucraini e americani finissero per perdere tutto, massacrandosi a vicenda in un conflitto fuori tutto. Anche perché di una cosa siamo certi: non ce la caveremmo.

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Soldato ucraino sul campo. Joe Biden ha autorizzato Zelensky a colpire in profondità il territorio russo. (Keystone)
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Allo Spazio Officina di Chiasso il lavoro di Mariapia Borgnini intorno alla coperta isotermica

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Poschner, Waarts e l’OSI

Il Maestro e il violinista sul palco del LAC il 5 dicembre, in programma, Bartok e Sibelius

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Le tristi note di Chet Baker

In una graphic novel italiana, i momenti più intimi della prigionia del celebre trombettista

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Munch e l’angoscia della modernità

Mostre ◆ Il mal di vivere dell’artista norvegese ritorna a Milano dopo quarant’anni di assenza

Quando sul finire dell’Ottocento la modernità ha travolto la società occidentale e le sue strutture secolari, nuove ansie, nuove angosce e nuove nevrosi si sono affacciate per la prima volta nell’animo umano. Trascinata dal movimento sempre più vorticoso degli alternatori elettrici e dei pistoni dei motori a scoppio, nel giro di qualche decennio la modernità ha infatti portato a compimento il processo di disciplinamento sociale che aveva favorito la diffusione del capitalismo fin dal XVI secolo e che Michel Foucault ha così acutamente analizzato in Sorvegliare e punire. Reprimendo ogni pulsione individuale non funzionale al sistema, il nuovo pervasivo sistema disciplinare ha trasformato l’Io in un’entità isolata perennemente attraversata da conflitti. Da allora, si potrebbe dire, l’uomo non è più riuscito a sentirsi pienamente «a casa» nel mondo che lui stesso aveva creato.

Edvard Munch (1863-1944) da anni esercita un richiamo irresistibile sul grande pubblico di tutto il mondo

Se l’espressione «disagio della civiltà» si deve a Sigmund Freud che nel 1930, in un saggio ancora oggi estremamene attuale, è stato il primo a individuare e a teorizzare la conflittualità insanabile che si innesca tra le pulsioni primarie dell’individuo e i limiti sempre più stretti in cui è costretto dal progredire della civilizzazione, è anche vero che questo disagio aveva già trovato espressione, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, in ambito letterario e artistico.

Tra i primi e più significativi portavoce di questo nuovo male del vivere figurano curiosamente numerosi autori dell’estremo nord dell’Europa. Una circostanza per la quale si potrebbe avanzare un’ipotesti climatologica, se non siano cioè i lunghi, rigidi e bui inverni scandinavi a favorire un certo accanimento introspettivo in queste contrade ancora oggi «ricche e felici» ma con un alto tasso di suicidi. In questa linea nordica al disagio esistenziale che possiamo far risalire al filosofo Søren Kierkegaard, e che include drammaturghi e scrittori quali August Strindberg, Henrik Ibsen e Knut Hamsun, figura anche l’artista che ancora oggi è noto a tutti per avere dipinto uno dei quadri più iconici della modernità, quello che dell’angoscia dell’uomo moderno è diventato l’emblema assoluto: il quadro è ovviamente L’urlo e il pittore è Edvard Munch. A lui il Comune di Milano, grazie alla fondamentale collaborazione del Munch Museum di Oslo, torna a dedicare, dopo quarant’anni, una gran-

L’horror, tra divi e incassi

Il genere horror evolve anche online attirando nuovi pubblici per la gioia del box office

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de mostra che mira evidentemente a occupare una posizione di vertice nella classifica delle mostre italiane più visitate del 2024. Del resto, Munch è uno degli artisti che, assieme a pochissimi altri, continua a esercitare un richiamo irresistibile sul grande pubblico, come sappiamo bene anche in Ticino, dove la mostra del pittore norvegese presentata a Villa Malpensata nel 1998, con le quotidiane code ad affollare i marciapiedi del lungolago e gli oltre 136’000 visitatori complessivi, è rimasta nella memoria collettiva come un evento memorabile di una stagione probabilmente irripetibile. Tanto più che a Lugano una delle tre versioni a olio dell’Urlo c’era (si trattava della prima, quella del 1893),

mentre a Milano, segno di come sono cambiati i tempi da allora e di come sia sempre più difficile, per ragioni legate ai costi e alla sicurezza, spostare le opere di maggior valore, dell’Urlo è esposta solo una dimessa versione silografica in bianco e nero. Tuttavia, nell’era della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, L’Urlo è ormai diventato un puro simulacro, un’entità incorporea assurta nell’empireo dell’iconosfera mediatica e come tale dotata del dono dell’ubiquità. Non poteva quindi mancare nemmeno a Milano. L’assenza in mostra non solo di una delle tre versioni a olio ma anche di quella a pastello è infatti compensata dalla superfetazione didattica di pannelli, filmati e testi

esplicativi che le evocano all’interno del percorso espositivo, così come dall’infinita varietà di gadget disponibili nello shop sui quali il quadro è riprodotto e dall’ormai immancabile esperienza immersiva che con i suoi cromatismi accesi e mutevoli vorrebbe ricreare i paesaggi della psiche dipinti da Munch, finendo però per evocare più che altro le atmosfere di una discoteca degli anni Settanta. Sfondo perfetto per un selfie da postare su internet, come ci invita a fare la didascalia all’ingresso della sala.

In un’epoca in cui la nozione di mediazione gode di scarsa considerazione in tutti gli ambiti, dalla politica, all’informazione, alla conoscenza, e in cui prevale l’idea di un

rapporto diretto, non mediato, con le cose, è sorprendente osservare la crescita esponenziale che ha interessato negli ultimi decenni il settore della mediazione culturale in ambito museale. È come se il nostro tempo, completamente asservito a una logica utilitaristica, avvertisse la necessità di esorcizzare l’alterità irriducibile e il potenziale sovversivo dell’arte attraverso una forma surrogata di esperienza estetica che ne favorisca una facile, rapida e soprattutto indolore assimilazione. Più che di mediazione si potrebbe parlare di domesticazione, ma è un discorso generale e non riguarda in modo particolare la mostra di Milano che non è che uno degli innumerevoli esempi di questa tendenza ormai imperante.

Per ragioni legate alla sicurezza, l’iconico Urlo è esposto solo in una dimessa versione silografica in bianco e nero

Eppure, per chi ha la forza di fare astrazione dal contesto sovraffollato, di resistere alle lusinghe semplificatorie della didattica, di concentrarsi sull’essenzialità del rapporto visivo con le opere, la mostra di Milano rappresenta un’occasione unica per misurarsi con l’opera di Munch. Il centinaio di opere esposte, tra cui molte significative, ripercorre infatti tutte le fasi della sua lunga e prolifica carriera artistica e documenta le grandi tematiche che l’hanno attraversata, come la malattia, la morte, la follia, la solitudine, l’amore e il rapporto con la natura. Con il loro stile abbozzato, che non mira alla piacevolezza ma alla verità, con il loro cromatismo acceso e stridente che riflette le inquietudini dell’animo umano, le opere di Munch ci mettono di fronte agli incubi e ai fantasmi che ancora oggi popolano il nostro inconscio.

Forse è per questo che quel grido, che continua ad attrarci, ma allo stesso tempo a spaventarci, lo abbiamo trasformato e continuiamo a trasformarlo in qualcos’altro: un’icona, un feticcio, un gadget, persino un fondale con un foro al centro, come quello che ci accoglie al termine della mostra e nel quale possiamo infilare la nostra testa per farci uno scatto da condividere sui social. Che sia questa l’immagine dell’angoscia nel XXI secolo?

Dove e quando Munch. Il grido interiore. Milano, Palazzo Reale. Fino al 26 gennaio 2025. Orari: ma-do 10.00-19.30; gio 10.00-22.30; lu chiuso. palazzorealemilano.it

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Edvard Munch, Notte stellata, 1922–24, Olio su tela, 80,5x65 cm. (© Munchmuseet)
Elio Schenini

I più morbidi di sempre, resistente in lavatrice, biodegradabile*

Introspezione e dialogo nei lavori di Borgnini

Mostre ◆ All’artista ticinese è dedicata un’esposizione allo Spazio Officina di Chiasso

È un oggetto molto peculiare quello che Mariapia Borgnini utilizza con una certa predilezione da più di una decina d’anni: la coperta isotermica. Il telo, per intenderci, che si usa in casi di emergenza per stabilizzare la temperatura corporea, specialmente quando la persona è rimasta esposta a lungo a basse temperature.

Sottilissimo ma estremamente resistente, questo materiale ha attratto l’attenzione dell’artista ticinese per le sue particolari caratteristiche: prima di tutto la leggerezza, poi la capacità di riflettere la luce creando bagliori d’oro e d’argento nonché l’ovattato ma piacevole suono che produce quando lo si manipola o viene mosso dal vento. Il suo lato dorato, infine, è un richiamo al colore che da secoli è molto caro alla storia dell’arte, connesso com’è all’idea del divino e della sacralità.

Non sono però solo le qualità fisiche della coperta isotermica ad aver condotto la Borgnini a scegliere questo oggetto come protagonista delle sue opere. Esso racchiude difatti molti significati che lo legano ai concetti di protezione, riparo e calore ma anche, proprio per l’utilizzo per cui è stato concepito, a situazioni di pericolo, paura e disperazione. Come se lo splendore dei suoi colori inglobasse nella propria mutevolezza sia il confortante sostegno di cui gli uomini hanno bisogno, sia l’ineluttabile sofferenza che li sovrasta.

«Il mio lavoro si sviluppa dalle esperienze che ho vissuto, che persistono e che sono in me. Le forme che esse assumono trascendono la realtà. La sensualità tattile, uditiva, visiva della coperta di salvataggio si presta all’eco dei riflessi che continuano a risuonare in me», afferma la Borgnini. Da questa riflessione nasce la mostra allestita presso lo Spazio Officina di Chiasso, una rassegna site-specific in cui l’artista presenta il suo progetto espositivo composto da una serie di opere realizzate fra il 2012 e il 2023 incentrate sull’uso della coperta isotermica quale mezzo espressivo.

Attraverso queste installazioni, testimonianza della sua attitudine a lavorare per cicli tematici che la impegnano anche per molti anni, la Borgnini esplora contenuti personali e universali che coinvolgono la natura, la memoria, la spiritualità, la cultura e i rapporti umani, in un continuo sovrapporsi tra narrazione intima e collettiva.

D’altra parte non poteva che essere così per una donna che, oltre ad avere tracciato un percorso artistico eclettico durante il quale non ha mai mancato di sperimentare con assiduità numerose tecniche (dalla pittura alla scultura, dall’istallazione alla fotografia, al disegno), ha portato avanti anche l’attività di psicopedagogista, una professione che ha influenzato il suo modo di concepire l’arte come strumento di

ricerca interiore e di profonda apertura verso l’altro.

La Borgnini elabora le tracce della sua vicenda personale amalgamandole a quelle del mondo che la circonda, cogliendo gli stimoli per generare opere in cui si intrecciano forza e fragilità, comprensione e denuncia.

Ben si presta, dunque, la coperta di primo soccorso a incarnare le tante flessioni del suo linguaggio espressivo. La luccicante e impalpabile superficie del telo isotermico viene manipolata dall’artista in molti modi differenti: viene fatta a brandelli, ritagliata,

in promozione

piegata o, ancora, resa supporto su cui stampare immagini, indagata così nelle sue molteplici potenzialità inedite. Tutti procedimenti, questi, portati avanti con la grande abilità esecutiva che caratterizza da sempre il lavoro della Borgnini, attenta a coniugare l’inventiva con cui riesce a trasfigurare poeticamente il materiale utilizzato a una sorta di regale pazienza con cui procede nello sviluppo del suo iter creativo: «Insegno alle mie mani ad aspettare che il racconto si apra per vie traverse», dice. Tra le quattordici installazioni pre-

senti in mostra spicca Amore dopo amore, datata 2016, opera in cui la Borgnini intaglia nel lato dorato delle coperte isotermiche le parole che compongono il testo di una poesia dello scrittore Derek Walcott, evocando l’idea di un raffinato arazzo. Questo lavoro è anche emblematico di quanto per l’artista ticinese sia importante il rapporto tra pensiero, immagine e scrittura, un fecondo connubio che permette di «mettere a fuoco e intensificare la realtà», conoscendola nella sua pienezza. Di grande impatto è poi l’installazione Uccelli, del 2019, realizzata tramite stampa a getto d’inchiostro su entrambi i lati della coperta di primo soccorso: qui i volatili che si librano leggeri nel cielo disegnando traiettorie sempre nuove sono un vero e proprio inno alla libertà.

Con le sue opere la Borgnini percorre il labile confine tra ciò che è luce e ciò che è ombra, tra ciò che è reale e ciò che è etereo, raccontando attraverso un oggetto intriso di molti significati «le pieghe della nostra esistenza tra atrocità e bellezza».

Dove e quando

Mariapia Borgnini.

L’eco dei richiami. Spazio Officina, Chiasso. Fino all’8 dicembre 2024. Orari: ma-ve 14-18, sa e do 10 -12/14-18. www.centroculturalechiasso.ch

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Mariapia Borgnini, Burda, 2022, ritagli coperta isotermica lato oro su cartamodelli (Collezione dell’artista).

ciao, noi siamo innocent e siamo nuovi qui

frutta appena spremuta

con vitamine extra

NUOVO

Bartok e Sibelius con il Maestro Poschner

Concerti ◆ Il 5 dicembre sul palco del LAC debutterà anche il giovane violinista Stephen Waarts

Enrico Parola

Non è più il direttore musicale (gli è succeduto il polacco Kryszow Urbansky), ma Markus Poschner sta proseguendo il suo percorso musicale con l’Orchestra della Svizzera Italiana, per la gioia dei musicisti e del pubblico, che può godere della sintonia sempre più profonda e appassionata tra il maestro e l’orchestra, mentre una concertazione impeccabile esprime una totale condivisione delle idee interpretative. Giovedì 5 dicembre i pentagrammi su cui le strade artistiche di Poschner e dell’Osi tornano a incontrarsi sono quelli, tanto tecnicamente difficili quanto musicalmente ed emotivamente coinvolgenti, del Concerto per violino e orchestra in re minore di Bela Bartok e del Concerto per violino di Jean Sibelius, di cui ricorrono i centovent’anni dalla prima esecuzione (avvenuta l’8 febbraio del 1904 al Conservatorio di Helsinki) e che si inquadra in una più generale accresciuta attenzione per il compositore-icona della musica finlandese: mai come in questa stagione le sue sinfo-

Concorso

«Azione» mette in palio alcuni biglietti per il concerto dell’OSI con Stephen Waarts diretto da Markus Poschner di giovedì 5 dicembre (20.30, LAC).

Per partecipare al concorso inviate una mail a giochi@azione.ch, oggetto «Waarts» con i vostri dati (nome, cognome, indirizzo, no. tel.) entro domenica 1. dic. ore 24.00.

nie campeggiano nei cartelloni delle più importanti orchestre d’Europa. Sul palco del Lac debutta Stephen Waarts, ventottenne di talento proveniente dalla California; vi giunge forte di un curriculum già ampio e blasonato, che vanta esibizioni con orchestre quali la Lucerna, la Cleveland o la Israel Philharmonic. «Ho un fratello gemello, frequentavamo la prima elementare in una scuola privata che ci portava ad assistere a dei concerti – i nostri genitori non amano la classica, quindi in casa non sentivamo certo le note di Mozart o Beethoven» racconta Waarts, nato a Fremont, da cui poi è partito per votarsi totalmente alla classica. «Quando ne ascoltammo uno dove un maestro di violino faceva suonare i suoi allievi – tutti di sei-sette anni, quindi appena più grandi di noi che ne avevamo cinque e mezzo – fummo colpiti; beh, a essere sincero devo confessare che era mio fratello quello particolarmente rapito da quel suono, ma eravamo gemelli e più o meno facevamo tutto assieme, così iniziai anche io. Dopo cinque anni lui smise – ora fa ricerca sui tumori – e io continuai». A cinque anni e mezzo si approcciò allo strumento seguendo il metodo Suzuki, poi le lezioni nel Conservatorio di San Francisco e il primo, importante salto con Aaron Rosand. «Non fu importante solo per gli insegnamenti didattici, ma perché mi trasmise il senso della storia musicale: mi raccontava dei concerti che aveva ascoltato, di quando ascoltava grandi virtuosi come Szering e Heifetz; era come se mi prendesse e mi mettesse sulle spalle di quei giganti». Venne anche il momento dei concorsi: «Il primo al mio paese, ci andai perché mi

dicevano che era divertente farli e in effetti mi divertii. Quando iniziai a partecipare a quelli più seri (ha vinto, tra gli altri, quelli intitolati a Sarasate e Menhin, nonché il premio del pubblico al Queen Elizabeth di Bruxelles, ndr.) divenne meno divertente, ma allo stesso tempo più stimolante: potei suonare con Vengerov e con l’orchestra di Cleveland», la prima delle grandi orchestre da cui è stato accompagnato in più di cinquanta diversi concerti per violino, da Bach a tutti quelli più amati e difficili di Otto e Novecento. «Il metodo con cui studio un brano è un po’ simile a quello scientifico di mio fratello: analizzo tutti i vari elementi che compongono una musica, ci rifletto, e poi formulo un’ipotesi interpretativa; arriva quindi la fase sperimentale, per verificare se le scelte funzionano nell’insieme; è un processo che prosegue anche durante le prove con l’orchestra, dove certe scelte interpretative ed esecutive possono anche cambiare in modo significativo».

Tra il primo studio e le prove pre-concerto, c’è un periodo quasi rituale con cui Waarts si avvicina al momento in cui salirà sul palco: «Durante la settimana prima di un concerto, suono almeno una volta al giorno il concerto che devo portare sul palco, spesso registrandomi e riascoltandomi; mi aiuta molto, e lascia che le idee e soprattutto i sentimenti scorrano, approfondendosi, radicandosi o magari anche cambiando un po’ mentre rimango come “immerso” in quel brano». Quando Alexandra Soumm si esibì come solista in Sibelius – la Osi suonava ancora al Palazzo dei Congressi – nella seconda parte del concerto il pubblico la rivide seduta nel-

le file dei violini a suonare Beethoven. Waarts invece ascolterà il Concerto per orchestra: «In assoluto il mio compositore preferito è Mozart perché la sua musica è vibrante di una incredibile umanità, e allo stesso tempo è di una perfezione tale da far pensare a una creazione divina; ma se dovessi indicarne uno tra quelli del Novecento, sceglierei Bartok.

Il piccolo mondo sul lago di Puccini

Anniversari ◆ Sono passati cento anni dalla morte del grande compositore italiano dallo spirito bohémien

Nella sua musica c’è una meravigliosa giustapposizione di materiale popolare – innanzitutto melodie semplici – e una costruzione musicale assai complessa, piena di contrappunto. Per questo la musica di Bartok lascia sempre l’impressione, anche alla decima volta che la si suona, di nascondere comunque qualcosa da scoprire, capire, e poi godere suonandola o ascoltandola».

Un secolo fa, il 29 novembre 1924, Giacomo Puccini cessò di vivere in una clinica di Bruxelles, dove era ricoverato per sottoporsi a una terapia volta a stroncare un tumore alla gola. Il cuore del Maestro non resse all’energica azione del radio. Aveva 66 anni. Per prima cosa, dobbiamo ricordare che Puccini fu a lungo, e in più occasioni, ospite in Ticino. Vacallo e dintorni erano stati i luoghi di villeggiatura preferiti: dall’agosto al novembre del 1888, poi nell’estate dell’anno successivo, nuovamente da luglio a novembre del 1890, e infine nella stagione calda del ’92. (su www.vacallo.ch sono segnalati ancora tre concerti-omaggio a novembre e dicembre, organizzati nell’ambito dei festeggiamenti per l’anniversario, ndr).

Il grande compositore, in questo 2024, è stato, ed è, celebrato in un migliaio di allestimenti in tutto il mondo, per il posto che merita sulla scena artistica universale. È vero, portò con sé, nella sua bara, anche la Lirica, che non gli sopravvisse, ma riuscì a innovare in maniera rivoluzionaria il linguaggio tradizionale dell’Opera ottocentesca, e in qualche modo ci fece dono della sua duplice immortalità ponendo di fatto le basi della canzone melodica all’italiana.

Al turista giapponese che oggi visita la casa-museo di Puccini, a Torre del Lago di Viareggio, sospinto da

una stanza all’altra, da una vetrina con cimelio autografo alla maschera funebre, viene proposta la solita immagine seriosa del Grande Genio Imperituro che il tempo ha trasfigurato in un falso monumento. Puccini sarebbe il primo a ridersela di questa sceneggiata, perché già da vivo non ne poteva più dei suoi parrucconi concittadini di Viareggio che, dopo averlo criticato per aver convissuto «nel peccato» con una donna sposata, lo inseguivano con le pergamene perché, con la sua arte, aveva reso celebre il lago di Massaciuccoli. Al gigante marmoreo, preferiamo l’irriverente, ma vero, ritratto del toscanaccio che riesce a trasformare un

villaggio di capanne (tale era Torre del Lago agli inizi del Novecento) in una succursale di Montmartre e di Pigalle. Macché Maestro e neanche sor Giacomo: per i suoi compagni di burle, Puccini era solo «Spacco», e il suo identikit pare somigli a quello del goliardico dottor Sassaroli di Amici miei. Nella capanna dell’oste «Gambe di Merlo», ribattezzata «Club della Bohème», il sublime autore di Tosca e di Turandot si dedicava a sontuose gozzoviglie con il suo sestetto di amici pittori, quasi tutti livornesi: Ferruccio Pagni, detto «mi strafotto», i fratelli Angiolino e Ludovico Tommasi, eppoi Lorenzo Viani, Francesco Fanelli e Plinio Nomellini. In loro compagnia, il melanconico

e compassato Giacomo si trasformava in un altro uomo: alzava il gomito, raccontava storie boccaccesche e partecipava a esibizioni di «arie» innescate dal basso pertugio, per la carburazione indotta dai pasti a base di pernici fritte, aringhe coi ravanelli e pasta con anguille. Gli amici lo coprivano anche nelle sue avventure galanti, che non di rado si compivano nei dintorni, tra i canneti del lago e la pineta.

Memorabili le battute di caccia alla folaga, ma soprattutto all’Antilisca, un animale sortito dalla fantasia dei bohémien che si tramandava fosse poco più grosso di una volpe, con la pelliccia d’oro e l’enorme coda ricciuta rivolta all’insù. Si narra che Puccini, con questa storia, facesse perdere delle ore anche a qualche amico credulone, desideroso d’incontrare la leggendaria bestia palustre. Ma al «Club» si raccontavano tante altre storielle, quasi una nuova ogni sera. Qualcuno s’inventò, nientemeno, che le «fosse papiriane» realizzate dagli antichi romani per bonificare la pianura paludosa di Massaciuccoli, richiamassero alla memoria la coltivazione del papiro che si svolgeva sulle rive del lago come ai tempi degli egizi lungo il corso del Nilo. Una colossale bufala, però ben congegnata. Elvira Bonturi, la compagna del Maestro poi divenuta legalmente sua moglie, era alquanto sospettosa del

Club della Bohème. Temeva che gli amici esercitassero un’influenza negativa su Puccini, prosciugandone la vena artistica con le troppe dissipazioni. Autoritaria e possessiva, la donna giunse a vietargli di frequentare il cenacolo di scapigliati. Ma il compositore non si diede per vinto: la notte, richiamato dagli irresistibili schiamazzi che giungevano dal vicino capanno di «Gambe di Merlo», se ne usciva di soppiatto affidandosi a uno stratagemma: incaricava un ragazzo di fargli da controfigura, battendo i tasti del pianoforte. Elvira, che di musica doveva intendersi poco, dal piano di sopra era rassicurata dai suoni che giungevano dal soggiorno della casa. Un uomo come Puccini, intimamente così triste, d’altra parte, aveva la necessità fisica di assorbire i colori della vita. Quando i drammi che gli capitarono soffocarono la sua voglia di evadere, il Maestro entrò nella fase più cupa della propria esistenza. Avrebbe voluto correre al «Club», ma il capanno era stato incendiato, e del resto non poteva più permettersi il lusso di una notte da bohémien. Il diabete gli proibiva di mangiare polenta e selvaggina e la tirannica Elvira era diventata più un’infermiera che una moglie. Quel piccolo mondo sul lago non esisteva più. Al posto delle capanne dei pescatori e dei cacciatori erano sorti villini. La Bohème era rimasta sullo spartito.

Markus Poschner dirigerà il concerto del prossimo 5 dicembre. (© OSI / Kaupo Kikkas)
Roberto Festorazzi
Il compositore in un’immagine risalente al 1900. (Wikipedia)

Cinque minuti che valgono una vita intera

Graphic novel biografiche ◆ Un elegante romanzo a fumetti italiano riporta alla luce uno degli episodi meno noti – e struggenti –della vita del mai dimenticato trombettista jazz americano Chet Baker

Come ogni vero appassionato sa, il cosiddetto «olimpo» dei grandi nomi del jazz è, in un certo senso, definibile come affine a quello delle divinità greche: popolato da personaggi straordinari e dalle doti a dir poco leggendarie, è tuttavia ricco di figure tragiche, il più delle volte andate incontro a morti precoci e spesso drammatiche. E forse nessuno esemplifica lo stereotipo del «bello e dannato» meglio dello straordinario Chet Baker, il celeberrimo trombettista americano principe del cosiddetto cool jazz – personaggio dall’animo gentile e perfino ingenuo, ma anche infelice e tormentato, in grado di trovare un senso alle proprie sofferenze solo nel sentito legame con la musica. E dire che il fato era stato generoso con Chesney «Chet» Baker, dotato, oltre che di un talento eccelso per lo strumento, anche di una bellezza alla James Dean e di una voce ammaliatrice, come rivelato dai pochi dischi in cui si concesse di cantare i vecchi standard jazz. E se la schiavitù dalla droga lo avrebbe sempre perseguitato, imprigionandolo in una spirale di costante autodistruzione, sarebbe stata proprio questa spietata dipendenza a dare origine a uno degli episodi più curiosi e toccanti della sua vita: una parentesi poco conosciuta, infine approfondita nientemeno che con una graphic novel di grande qualità, da due autori italiani, lo sceneggiatore Marco Di Grazia e l’illustratore Cristiano Soldatich.

Il volume Cinque minuti due volte al giorno, pubblicato nel 2019 dalla casa editrice Shockdom, è infatti l’unica opera disponibile sul mercato ad analizzare il periodo trascorso da Chet in un carcere italiano – per la precisione a Lucca, dove risiedeva quando, nel 1960, subì una condanna a sedici mesi di reclusione per possesso e trasporto di stupefacenti. E sebbene la grande fama non gli avesse concesso sconti di pena, a seguito di insistenti suppliche, egli ottenne perlomeno il permesso di portare con sé l’amata tromba: a condizione, però, che la suonasse soltanto «per cinque minuti, due volte al giorno», come titola il fumetto stesso, incentrato proprio su quei brevi momenti di felicità e beatitudine rubati all’alienante routine quotidiana della prigionia.

Secondo un espediente narrativo

risaputo quanto efficace, l’opera firmata da Di Grazia e Soldatich si apre così ai giorni nostri, tramite la testimonianza di un signore d’una certa età che, ai piedi delle mura di Lucca, proprio a ridosso del vecchio carcere, narra a un ragazzino quanto fosse per lui importante e «speciale» ascoltare le note che venivano da quelle finestre.

L’unica opera disponibile che ripercorre la prigionia di Baker nel carcere di Lucca, quando, nel 1960, fu condannato per possesso e trasporto di stupefacenti

Da qui, la storia si dipana attraverso eloquenti flashback, alcuni dei quali catturano la spericolata esistenza del trombettista sulla costa della Versilia, tra storici locali notturni, incontri suggestivi ed eccessi più o meno vistosi; sopra ogni cosa, tuttavia, la musica – la sola, vera musa e amante a cui Chet si sia mai completamente donato – rimane l’onnipresente denominatore comune, tanto da confermarsi quale unica costante anche in un frangente drammatico come quello del carcere. Il vero fulcro della narrazione risiede infatti in quei sedici

mesi e nella magia che, pur in appena pochi minuti, l’artista riusciva a produrre, permettendo ogni giorno ai compagni di prigionia (e al solidale secondino Pasquale, vero «confidente» di Baker nelle sequenze carcerarie) di essere trasportati lontano dalle fredde mura della prigione per il tempo di un brano o due; e non solo, poiché – come sottolineato dall’anziano signore che apre il racconto – in quei cinque, intensi minuti, anche molti lucchesi si assiepavano sotto le finestre del carcere per perdersi nella bellezza di quelle note.

La graphic novel riesce ad afferrare perfettamente l’atmosfera allo stesso tempo eterea e disperata, permettendo al lettore di rispecchiarsi nei sogni e nei desideri di chi, in fondo, desiderava soltanto suonare – non per il pubblico, del quale aveva timore al punto da necessitare della droga per affrontare il palco, ma per sé e la propria anima ferita. I disegni allusivi di Soldatich, sognanti e a tratti quasi stilizzati, rispecchiano perfettamente l’immaginario interiore di Chet, intrappolato tra quella sua toccante naiveté d’indifeso ragazzo americano e la terribile realtà quotidiana a cui i suoi demoni e paure lo costringevano – tra la gioia che la musica, sua vera ragione

di vita, non mancava mai di regalargli, e gli abissi di dolore in cui la droga lo relegava. Davanti a questa terrificante dicotomia, risulta vincente anche la scelta di utilizzare, lungo tutto l’arco della storia, lievi tinte acquarellate, i cui toni mutano a seconda delle sequenze narrative: dal monocromatico (seppia o grigio) per i flashback più intimisti e drammatici, all’uso di un colore leggero o pastello per i rari momenti di serenità e «falsa calma». Del resto, c’è qualcosa di fiabesco nel tratto di Soldatich, che ben si accorda con la natura più intima di Chet –un outsider che, al di fuori della musica, non avrebbe mai davvero trovato il suo posto nel mondo. Questo senso di estraniamento è sempre presente, seppur «sottotraccia», anche nella narrazione di Di Grazia, il quale sceglie di usare le parole con giusta parsimonia, lasciando ai lunghi silenzi e alla malinconia dell’inconfondibile silhouette di Chet il compito di trasmettere i sentimenti nel modo più efficace possibile. In tal senso, l’uso misurato della tensione narrativa all’interno del racconto è ammirevole – ad esempio, nelle sequenze a china in cui l’alternanza mezzatinta di ombre e luce trasmette tutta l’angoscia di

strumento.

Ed è questo, in fondo, che fa di Cinque minuti due volte al giorno un’opera tanto riuscita: la sua capacità di offrirci uno sguardo delicato, e a suo modo profondo, sulla figura di un gigante della musica jazz – il tutto senza mai giudicarlo, ma accogliendo a fondo il suo dolore. Un dolore che Di Grazia e Soldatich sfiorano in modo poetico e suggestivo, restituendo a un uomo per certi versi «predestinato», eppure ammantato di vera, sofferta dignità, lo spessore umano che merita. Come a voler suggerire che, nonostante le molte debolezze e brutture dell’umana esistenza, l’anelito verso il bello e verso l’arte – quel qualcosa d’inafferrabile e intangibile, ancora in grado di conferire un senso al tutto – rimanga l’unico elemento davvero salvifico davanti alle nostre imperfezioni e rimpianti, e alla tragica solitudine che spesso ne è la più evidente conseguenza.

Bibliografia

Marco Di Grazia (Autore), Cristiano Soldatich (Illustratore), Cinque minuti due volte al giorno, Shockdom, 2019.

Baker nel ritrovarsi chiuso in una cella senza la costante compagnia del suo

Il ritorno trionfale dell’horror

Cinema ◆ Il genere del terrore si è evoluto e adattato ai nuovi scenari, conquistando sempre più spettatori, anche sui social media

Se c’è un genere cinematografico che risorge più spesso di un cattivo in un film slasher, quello è l’horror.

Dalle sale cinematografiche ai più oscuri angoli dei social media, l’horror sta rinascendo in tutte le sue forme spaventose, dalla commedia gotica Beetlejuice Beetlejuice al capitolo finale della trilogia gore X, MaXXXine. Ma perché, in un’epoca già carica di ansie, siamo così attratti da queste manifestazioni di paura orchestrata?

Iniziamo col dire che l’horror non è mai stato veramente «morto» – proprio come i suoi protagonisti, è sempre lì, dietro l’angolo, pronto a fare un ritorno in grande stile. E, a dirla tutta, negli ultimi anni ha messo in atto un colpo di scena degno del miglior film: ha conquistato sempre più terreno al box office americano, arrivando a incassare circa un miliardo di dollari all’anno, pari al dieci per cento degli incassi totali di Stati Uniti e Canada. In particolare, il post-pandemia ha risvegliato un appetito insaziabile per il brivido cinematografico, confermato dai successi di film come Immaculate – La prescelta e Longlegs, che schierano stelle del calibro di Sydney Sweeney e Nicolas Cage.

L’horror è stato a lungo il parente povero e snobbato dai nomi della Walk of Fame. Fino a qualche anno fa, i volti noti di Hollywood erano praticamente assenti, a meno che non fossero alla disperata ricerca di lavoro per pagare qualche mutuo arretrato. Eppure, il sangue vende: oggi anche attrici di lungo corso hanno messo da parte il loro scetticismo. Dalla zona vietata ai minori dei negozi di videonoleggio, gli horror arrivano al Festival di Cannes, dove quest’anno Demi Moore ha sfilato sul tappeto rosso per presentare The Substance, un body horror diretto da Coralie Fargeat affrontando il corpo femminile e le sue trasformazioni in modo crudo e fin troppo realista.

Non stiamo dicendo addio ai serial killer con la motosega o ai terribili remakes slasher di Winnie The Pooh, ma è evidente che qualcosa di nuovo

sta emergendo nel genere, rendendolo più maturo e consapevole. Certo, la qualità a volte risente degli aspetti economici, nonostante i dati condivisi da Bloomberg affermino che «l’horror ha incassato il 70% in più al box office nel 2023 rispetto a quanto fatto dal genere nel 2013».

Attori di fama e nuove piattaforme hanno trasformato un genere marginale in una forza trainante del box office

L’horror, infatti, è stato baciato dalla benedizione e maledizione dei reality: budget ridicoli con ritorni economici esorbitanti e una straordinaria capacità di attivare la «macchina dei sequel». Se c’è una cosa che Hollywood ama quanto un vampiro ama il sangue, sono proprio i franchise horror, non per la loro portata narrativa.

Questi sequel, con il loro low budget e meccanismi sempre uguali a sé stessi, rappresentano la copertina di Linus di un’industria instabile che non smetterà mai di servirci Saw X, Smile 2, Alien – Romulus e Omen – L’origine del presagio

Anche se siamo in tema, questa impennata di successo non è frutto di un patto con il diavolo.

I migliori film horror diventano sempre più audaci e riflettono paure reali, come l’IA ribelle in M3GAN e l’ossessione per il corpo femminile in The Substance. Sia che si tratti di franchise o di horror d’autore firmato dalla casa di produzione A24, il genere ha capito che, proprio come Madonna, per restare rilevante deve adattarsi e cambiare pelle.

Così le pellicole in cui troneggiavano scream queens caucasiche, finalmente dicono addio al cast monocromo. Dal protagonista nero in Get Out, interpretato da Daniel Kaluuya,

all’abbandono della classica ragazzina bianca in Scream V in favore di Jenna Ortega, dietro le quinte si amplifica la rappresentazione etnica e queer, creando un ecosistema inclusivo che fa breccia nel cuore di pubblici sempre più vari, e soprattutto negli schermi dei più giovani. Una delle fonti di nuova linfa vitale dell’horror sono i social media.

TikTok e YouTube hanno dimostrato di non essere solo piattaforme per balletti e reaction video, ma delle fucine creative. Nei confini del mondo digitale, chiunque può prendere una telecamera e diventare un narratore di incubi, dando vita a esperimenti stilistici che superano i limiti della produzione tradizionale.

Come scrive la dottoressa Jessica Balanzategui della RMIT University, «questi canali hanno coltivato un ambiente di participatory dynamic, dove chiunque può creare un esperimento visivo che potrebbe diventare il

prossimo fenomeno di culto». I temi dell’analog horror e degli «spazi liminali» sono diventati ricorrenti e non sorprende, quindi, che film come Talk to Me traggano ispirazione da queste correnti, intessendo esperienze che mescolano la paura dell’altro con l’inalienabile terrore di noi stessi.

L’impennata di successo del genere negli ultimi anni è in gran parte merito della sua abilità di parlare a chi subisce disagi sociali ed economici nel nostro tempo. Se negli anni Settanta e Ottanta eravamo tutti traumatizzati da slashers e film post-apocalittici con ansie nucleari a profusione, oggi il panorama è cambiato: spaziando dalla psicologia dell’isolamento alla frenesia informativa, l’horror ha deciso di mettere la trama in prima fila, insieme agli effetti speciali, che non servono più solo a farci saltare dalla sedia. Quando il sangue e la brutalità sono maneggiati con maestria, diventano strumenti attraverso cui esploriamo le profondità dell’animo umano, affrontando temi come paura e vulnerabilità.

L’horror ha alzato decisamente il tiro, abbracciando temi più complessi senza rinunciare alla violenza esplicita, e per completare il quadro mancava solo un volto giusto: ed ecco che le preghiere sono state esaudite con l’arrivo di Mia Goth – definita dal «New York Times», «l’anti-eroina che il cinema horror stava aspettando» – protagonista e icona di slasher di successo. Il fascino dei film dell’orrore risiede nella loro capacità di farci affrontare le paure in un ambiente «protetto», dove, tra un urlo e l’altro, possiamo sempre mettere in pausa l’azione dal divano, in una vulnerabilità controllata. Come suggerisce «The Guardian», «l’horror è progettato per mantenere la nostra attenzione: cervelli allerta, in cerca di pericolo». È proprio questa combinazione di adrenalina e curiosità che ci spinge a tornare, ancora e ancora, sperando di vivere un’epifania che riecheggerà ben oltre i titoli di coda e farà tenere accese le luci di notte.

I nostri progetti offrono protezione alle persone in fuga e creano nuove prospettive di vita.

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Beetlejuice @ Hollywood.
(Universal Studios Singapore)

L’eredità di Luigi Ghirri nelle parole

Numeri primi tra giochi e musica

Intervista ◆ In una chiacchierata sull’evoluzione dell’immagine oltre la tradizione del reportage, a quarant’anni dalla pubblicazione di del cambiamento epocale che attraversò il panorama fotografico italiano

Il libro di Peres e Siminovich unisce matematica, enigmi e creatività con un tocco musicale in un viaggio di logica e intuizione

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Verdure al formaggio stagionato

Il cavolo piuma regala al risotto un bel colore verde, il taleggio lo rende cremoso e i pinoli aggiungono gusto e croccantezza

Zelda torna protagonista di Hyrule L’avventura inedita, con abilità magiche e nuovi nemici, animerà un mondo nostalgico ricreato con uno stile che unisce passato e innovazione

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Il ritorno dei Diablos Rojos : arte e caos a Panama

Enrico Martino, testo e foto

«Luigi merita che tutti i fotografi di oggi gli bacino i piedi, ma le agiografie non fanno altro che danneggiarlo». Così esordisce Guido Guidi, riflettendo sul lavoro di Luigi Ghirri, con il quale ha vissuto e partecipato a una delle rivoluzioni più importanti della fotografia italiana, che ebbe luogo negli anni 80-90. Nato a Cesena nel 1941, Guidi è di fatto uno degli autori le cui fotografie furono pubblicate nel famoso Viaggio in Italia (vedi articolo di spalla), e tra i fotografi ancora viventi che hanno contribuito a ridefinire il modo di guardare il paesaggio italiano. Un cambiamento, come ha ricordato in questa chiacchierata Guidi, già professore di storia e tecnica della fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Ravenna, che ha visto nascere la fotografia artistica.

Uno scintillante grappolo di torri di acciaio e cristallo che tende dritverso il cielo sembra emergere dal mare di Punta Paitilla. Potrebbe essere Miami, ma la seduzione glamour del cuore finanziario di Panama Civiene bruscamente spezzata dall’esplosione di colori, luci lampeggianti e ritmi tropicali sparati a tutto volume da stagionati bus impegnati in spericolati sorpassi da Formula Uno.

Un tempo la fotografia era altro… Negli anni 40-50, imperava il neorealismo e, insieme a esso, la fotografia di reportage, che vedeva un fotografo andare in Columbia a curiosare tra le piantagioni di cotone, e l’altro, in Vietnam a seguire la guerra.

Parliamo del periodo in cui emergeva anche Ferdinando Scianna? Esatto, i fotografi – fuori dallo studio – venivano dalla scuola di Henri Cartier-Bresson. Noi, invece, partivamo dai topografi, io, almeno, Ghirri un po’ meno.

I Diablos Rojos si stanno riprendendo le strade da cui erano stati ufficialmente cacciati una ventina di anni fa in nome della sicurezza stradale e di un sistema di trasporti più moderno e confortevole. Il perché potrebbe nascondersi nel nome, «Diavoli Rossi», con cui da sempre sono stati ribattezzati per i loro colori quasi fosforescenti questi vecchi bus scolastici Made in USA, o più probabilmente per il loro modo di aprirsi la strada nel traffico convulso della capitale.

Ma entrambi avete generato uno spostamento nel fare fotografia.

Lavoratori provenienti dal Caribe anglofono, cinesi, arabi, indiani, europei e nordamericani trasformarono rapidamente una città provinciale in una metropoli multiculturale

A quel tempo i fotografi, stanchi di tirare la carretta e di essere pagati poco, hanno cercato in tutti i modi di entrare nel mondo delle gallerie d’arte. Ma la strada che abbiamo imboccato noi, io, Ghirri, eccetera, è una strada irta di trabocchetti, perché ti porta a fare delle cose al servizio della galleria. Rifiutando la committenza del giornale che non procurava soldi (all’epoca si parlava di 200 lire se le vendevi al «Corriere della Sera»), e accettando il patrocinio della galleria, la fotografia si è un po’ snaturata per essere più simile alle opere d’arte che si vendono in commercio.

Di bus dipinti ne esistono anche altrove, da Haiti all’India e alle Filippine, ma quelli di Panama rappresentano un vertice quasi inarrivabile di horror vacui e sono uno dei tanti effetti collaterali della costruzione di una delle più complicate infrastrutture esistenti, il Canale di Panama, una via d’acqua che sale e scende per oltre ottanta chilometri tagliando la foresta pluviale per collegare l’Atlantico al Pacifico.

Tuttavia, oggi si fanno anche mostre di fotoreportage, elevandoli allo statuto di opere d’arte. Mi lasci raccontare questo aneddoto proprio su Scianna, che considera la fotografia artistica un peccato mortale: molti anni fa visitò una mostra che feci a Milano, di fianco alla libreria Hoepli, alla Galleria San Fedele, che è ancora gestita dai frati gesuiti. Mi ricordo che poi chiese di parlare con il capo, che era Padre Andrea Dall’Asta, il direttore, al quale disse: «Sono Ferdinando Scianna e sono venuto a vedere questa mostra perché pensavo che fosse una stronzata; e quello che ho visto me lo conferma».

Storicamente le prime apparizioni di bus di seconda mano importati dagli Stati Uniti risalgono al 1911 nella Zona del Canale controllata dagli Stati Uniti, ma l’esplosione di questo sistema di trasporto, pubblico seppur gestito da privati, risale agli anni Sessanta con il rapido aumento della popolazione. Lavoratori provenienti dal Caribe anglofono, cinesi, arabi, indiani, europei e nordamericani trasformarono rapidamente una città provinciale in una metropoli multiculturale provocando lo sdegno indignato delle élite intellettuali, la ciudad letrada (città alfabetizzata) che vagheggiava l’idillico ricordo di una panameñidad a base di feste che rallegravano pueblitos popolati da allevatori di origine spagnola.

Reportage ◆ Dalla rivalità con i Metrobus all’orgoglio popolare, i vecchi e fiammeggianti pullman scolastici riprendono possesso della città, tra sfide quotidiane e una tradizione che resiste al cambiamento

e scenografo milanese – faceva dei film a colori, che si sono conservati in modo perfetto. Usava la famosa pellicola Kodachrome. Diapositive che bisognava mandare a Milano, te le sviluppavano, poi te le rispedivano indietro incorporate nei telaietti.

E dunque la novità qual era?

Il problema era la stampa a colori, che fino agli anni Ottanta era di cattiva qualità. Siccome Luigi partì dal fotoamatorialismo, lui all’inizio non se ne curava, perché i fotoamatori si riunivano nei bar, dove proiettavano le immagini delle diapositive sui muri. Passò alla stampa quando s’era messo in testa, come detto, di fare delle mostre, che all’epoca non si facevano; lui ne aveva bisogno. Così iniziò a ordinare dei duplicati in negativo delle diapositive, e da lì procedeva con la stampa, su una carta che però si deteriorava rapidamente, in quegli anni. Le cose cambiarono grazie alla Kodak che a un certo punto migliorò la carta fotografica, era il 1984 (’85/’86 in Italia, dopo gli svuotamenti dei magazzini che avevano i vecchi stoccaggi). Uno «sviluppo tecnologico» di cui, tuttavia, in verità nessuno si accorse.

dere che strada percorrere, a seconda del traffico e dell’umore, segnalando le destinazioni solo con svolazzanti scritte dipinte sulla parte anteriore di autobus scatenati in una spietata competizione che ricorda le corse di bighe romane immortalate da decine di B movies. Con qualche inevitabile problema, anche Wilfredo – che guida un salotto viaggiante di lamiera arroventato da un sole che non perdona – continua a dribblare concorrenti per arrivare primo alla prossima fermata, occhio spiritato e riflessi

Nemmeno lei?

Ho iniziato a fotografare nel ’56-’57, all’età di 15-16 anni, ma solo nell’84 sono passato al colore. Cioè, qualcosa avevo stampato anche negli anni precedenti, ma poco e non perché fossi consapevole del cambiamento in atto, ma semplicemente perché prima non mi piaceva la qualità della stampa.

Colore che si fa comunque notare ancora oggi per la bassa saturazione: si trattava di una scelta poetica? Puoi fare una scelta poetica di questo genere solo se hai la possibilità di compierla…

Nondimeno, il fotografo Roberto Maggiori affermò che «la bellezza è verità e la verità è la mancanza di retorica», come a dire che una fotografia non gridata, ovvero che la scelta di non avere colori sfacciati, da una parte serva per assecondare un principio di bellezza e dall’altra per renderla più vera. Sì, più autentica. Franco Fortini, poeta e saggista, in una conferenza disse che «…se devo scrivere sul pane, che non c’è niente di più retorico del pane, la poesia la posso scrivere in dialetto, forse, ma non sicura-

d’acciaio, mentre tuona «noi siamo il transporte de los pobres, il trasporto dei poveri, ecco cosa siamo!». C’è poco da fare con i pochi dollari al giorno che gli rimangono in tasca, se la giornata è buona, dopo averne pagati almeno cinquanta d’affitto al padrone dell’autobus. Per farcela Wilfredo deve navigare nel magma umano di Panama City dalle tre del mattino a notte inoltrata senza perdere un colpo, un occhio al traffico e uno alla prossima fermata per giudicare al volo se ci sono clienti o

mente in italiano, non nella lingua madre. La posso scrivere con la lingua più dimessa, più umile, insomma», e dunque, per portare acqua al mio mulino, e anche a quello di Luigi, noi abbiamo optato per questo tipo di fotografia perché ci permetteva di essere più umili. E poi, come diceva Walker Evans, c’è un particolare piacere, per chi lo sa trovare, nell’usare un linguaggio disprezzato dai più.

Quando incontrò la prima volta Ghirri?

E infatti, un volume con quello stesso titolo, uscirà solo a breve e a sua firma, giusto? Sì, la casa editrice londinese Mack Books ha in programma di editare altri due miei libri: Andata e ritorno e poi Album, che completerà la trilogia dopo la pubblicazione del libro Di Sguincio, dell’anno scorso.

Nel frattempo, oltre tremila Diablos Rojos invadevano le strade trasportando i panameños da un quartiere all’altro senza un percorso prestabilito. Sono gli autisti a deci-

Il cambiamento toccò oltre il «contenuto», ovviamente, anche la forma e soprattutto l’uso del colore. Luigi passa per essere il primo fotografo a colori, ma già un ventennio prima di lui lo usava il suo conterraneo Franco Fontana (ndr: entrambi dell’Emilia-Romagna), come Stephen Shore in America; e diversi anni prima ancora, Luigi Veronesi – ndr. pittore, fotografo, regista

Ci siamo conosciuti, io e Luigi, alla mostra che Renato Barilli organizzò alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, era il ’76/’78 circa. Ghirri insieme a Franco Fontana e Paola, la sua compagna, vennero all’inaugurazione. Da lì abbiamo iniziato a frequentarci: sono stato un paio di volte a casa sua, e a un certo punto mi ha invitato a pubblicare un libro che avrebbe dovuto chiamarsi Album, ma non uscì mai a causa di un crack finanziario dell’editore; aveva fretta lui, io invece ero molto meno frenetico di Luigi, lui si vede che sapeva inconsciamente che doveva morire presto.

se conviene buttarsi su quella successiva, e magari nel frattempo intrattenere i passeggeri con qualche battuta, «tanto per personalizzare il viaggio» come dice lui. Se non basta, per fidelizzare i clienti si trasforma in DJ alternando personalissime hit di romantiche ballate a irresistibili ritmi di salsa e reggaeton sparati dagli altoparlanti.

All’esterno, il suo arrivo è annunciato dal demenziale bestiario umano e animale che si affolla sulle fiancate rosso fuoco. Eroi pop, attrici, ico-

Una raccolta, quest’ultima, di scatti che sembrano essere lasciati all’improvvisazione e al caso durante il processo creativo… No, non è stato per essere creativo, ma per liberarmi la mente. Tutti noi studiamo, chi più chi meno; molti artisti studiano poco per non essere influenzati da qualcosa, e questo è un guaio, perché bisogna essere influenzati, altrimenti restiamo ignoranti. Diciamo, però, che studiando, il cervello da innocente diventa un cervello armato. Allora come si fa a liberarsi dell’armatura? Si fa con degli espedienti. Uno di questi è appunto quello che mi aveva suggerito un professore di Rochester: fotografare senza guardare, per vedere se quello che ho fotografato sta nelle aspettative di uno che ha il cervello condizionato, oppure in quelle di uno che è riuscito

ne sportive e leader politici inseriti in una complicata texture di decorazioni e colori, nata dalla necessità di rendere più attraenti vecchi scuolabus decisamente bisognosi di un restyling, che devono averne viste delle belle da quando nella loro vita precedente conducevano una rispettabile esistenza in qualche sonnolenta cittadina degli Stati Uniti.

A Panama ogni bus è diventato un’installazione unica di «arte rodante», street art su ruote accessibile a tutti, a differenza di musei e gallerie

Luigi Ghirri, Versailles, 1985; sotto da sinistra a destra: Alpe di Siusi, 1979; Lago Maggiore, 1984; in alto a destra, Rimini, 1985; in copertina, Marina di Ravenna, 1986.
(@ Eredi Luigi Ghirri)

di Guido Guidi

Viaggio in Italia, il fotografo di Cesena restituisce uno spaccato

a liberarsi del cervello, o più propriamente delle convenzioni; per evitare di fotografare soltanto i paracarri, oppure soltanto i palazzi, o solo i cachi maturi, perché si può fotografare anche le merde.

Ma che senso ha?

C’era un musicista famoso del secolo scorso, John Cage, che diceva: «Non ci sono risposte» (ndr. sorride, prima di farsi di nuovo serio). Francesco Arcangelo, noto critico d’arte bolognese, diceva che un dipinto non si legge, lo si contempla. Ecco, io non so se avesse ragione o meno; si può anche leggere, non è un peccato mortale, ci può aiutare a entrare nella comprensione, a portarci l’opera più vicina, ma non per capirla. In questo senso vale la pena di ricordare anche Bruno Munari che, in esergo a un libretto di teoremi sull’arte, mise questa frase: «Il miglior modo per non comprendere un’opera è quello di volerla capire». Un conto è capire, come dicono gli italiani, un conto è comprendere, come dicono più spesso i francesi, no?

Ghirri puntava però molto sulla comunicazione.

Ha perfettamente ragione: ed è questo un nodo fondamentale. Ricordo, ad esempio, che durante una nostra mostra a Ferrara – Icone Città, c’è un cataloghino giallo – dopo aver appeso le foto al muro, di ognuno le proprie, Luigi si avvicinò e disse: «Io la metterei di qua, questa fotografia, non di là. Perché sennò non si capisce mica. Bisogna che si capisca».

E infatti nelle Lezioni di fotografia di Ghirri, a cura di Giulio Bizzarri e Paolo Barbaro (Quodlibet, 2010), il fotografo di Scandiano scrive che sin dagli inizi cercò di «costruire e progettare interi lavori» il che «significava pensare a una forma di narrazione per immagini anziché alla costruzione di singole immagini».

È vero, lo ripeteva spesso. Penso che avesse bisogno, di volta in volta, di confermare un pensiero che scorre per tutta la scena. Cioè, se io vedo un pulcino nella prima fotografia e poi nella seconda vedo ancora un altro pulcino, sono più convinto che il punto di quella fotografia sia il pulcino, no? Ecco, una conferma in qualche modo aiuta la comunicazione. Devo dire però che questa premura di essere capito, secondo me impoverisce l’opera.

Perché?

Perché l’opera non è fatta per comunicare. Anzi, come diceva il mio maestro Italo Zannier, si fotografa per comunicare a sé stessi. Dal canto suo, pure Shore diceva che «il problema è quello di trovare la propria immagine mentale», ma come la trovi se non la conosci? La trovi solo facendo, e facendo, e facendo, alla fine ti avvicini all’immagine mentale, ma è sempre un’iperbole. Per dirla in modo più semplice: io sono più vicino alla modalità di Picasso, che diceva «non cerco ma trovo», mentre Luigi avrebbe potuto dire «non trovo ma cerco».

Fallito il primo Album, con Ghirri però un lavoretto, prima di darvi al grande progetto, lo avete fatto. Pubblicammo un piccolo libro pra-

ticamente sconosciuto, Due fotografi per il Teatro Bonci, commissionatoci dal Teatro di Cesena; una brochure stampata in poche copie. Solo dopo ricevetti la telefonata di Luigi, con cui mi chiedeva se volessi partecipare al progetto Viaggio in Italia; naturalmente consentii subito.

E da qui, la «rivoluzione»! Che ancora riverbera nelle opere di qualche giovane autore. Sono rimasti –incastrati? – nella scia dei maestri, invece di evolversi in altro?

Le rivoluzioni non è che succedano tutti gli anni. Ci sono periodi storici in cui ci sono delle forze che raggruppate generano un cambiamento, no? Per esempio, il ’68. Io ero studente all’università in quegli anni, che alla lunga si sono rivelati decisamente formativi. Questi movimenti generano rotture a volte anche non volute. Rotture, infrazioni rispetto a quello che c’era prima. Quindi non è giusto pretendere da chi non ha vissuto grosse rivoluzioni, dei cambiamenti totali.

Cambiamenti che si sono fatti tuttavia audaci con l’avvento del digitale.

Penso che questa New Age vada contro la tradizione della storia; per i latini, per gli antichi dotti romani, l’autore è semplicemente colui che aggiunge, e non colui che crea. In questi anni l’artista è diventato un creatore, una volta c’era solo il Padre Eterno che era creatore. Ne penso male, ne penso male perché è una fotografia che non ha un fondamento; la fotografia in questi anni deve essere assolutamente nuova, direi differente, c’è una sorta di gara per inventarsi delle stramberie per distinguersi, come anche la grandezza, la dimensione della fotografia, che sembra che chi più ne ha più ne metta, di centimetri e di metri. Mentre la fotografia è nata per metterla nel portafoglio, per portare con sé l’immagine del fidanzato e della fidanzata, questo è il vero uso della fotografia, quello autentico.

Quindi, meglio rimanere collegati alla tradizione?

Il manierismo ha la sua necessità d’essere. Ecco, io non sarei così critico con chi non si lascia travolgere dalla corrente della nuova generazione. E del resto, anche quelli che hanno generato cambiamenti all’epoca, non volendo, si appoggiavano su certi fondamenti. Per dire, noi ci appoggiavamo, io perlomeno, sulla fotografia antica, Ghirri, forse, più che sulla fotografia antica, aveva quale fondamento la pittura italiana del Sette-Ottocento.

Più precisamente?

Giorgio de Chirico tra i contemporanei, e risalendo, Bernardo Bellotto, tra i pittori che hanno usato la prospettiva, per non dire di Caspar David Friedrich, un romantico, che incise moltissimo sulla fotografia di Luigi, soprattutto, su come lui ha fotografato l’architettura del passato, dove viene fuori l’enfasi romantica.

Enfasi meno evidente nel catalogo della mostra I Viaggi, uscito da poco per le edizioni del Masi. Il romanticismo, in questo volume,

è molto più sotteso, meno dichiarato – diciamo – sebbene resti pur sempre latente.

Torniamo, dunque, al paesaggio come rifugio interiore e di introspezione. Ghirri, nelle sue Lezioni, scrisse che «il fotografo partecipa attivamente alla creazione di realtà»: si può dire che l’immaginario sul paesaggio, se non addirittura il paesaggio stesso, potrebbe essere stato influenzato dalla fotografia – e in particolare dal Viaggio in Italia –che non il contrario?

Ma sì, è possibile in qualche modo, tanto più che gli urbanisti con i quali sono stato in contatto per molto tempo si sono avvalsi della fotografia per leggere – usando una parola un po’ equivoca – dicevo, per leggere il paesaggio. La fotografia, cioè qualsiasi cosa che noi facciamo, in qualche modo influenza i gesti, le parole, i fatti di coloro che ci ascoltano. Anche se uno è un urbanista e l’altro è un operaio in fabbrica, dopo un loro incontro, in qualche modo, si saranno influenzati l’uno con l’altro.

Paesaggio che, sia nelle sue opere sia in quelle di Ghirri, si fa periferia: solo per allontanarsi dalle cartoline?

William Fox Talbot, inventore della fotografia, diceva: «Mi piace fotografare una scopa, una scopa ma anche una porta malandata: posso farlo?». Certamente, è la risposta, visto che i pittori olandesi se ne sono già occupati da un pezzo (ndr: sorride, e poi riprende per evitare che le immagini si leggano in modo troppo superficiale o banale). Quando la luce fotografa un paesaggio o un fosso, quello che è il punto di fuga è al centro. È il centro che fotografiamo, e ai bordi c’è spazio. Questo contraddice le regole della prospettiva di Leon Battista Alberti, il quale diceva: «Sì, mettiamo l’orizzonte all’altezza d’uomo, ma il punto di fuga – cito –ponlo là dove tu vuoi». Il punto di vista di Battista Alberti dunque non è centrale. È la chiesa, cattolica, romana, apostolica, che ha portato la prospettiva verso un’evoluzione di centralità. E questo non mi piace. Nella tradizione pittorica italiana, soprattutto, al centro ci sta la Madonna con il bambino, al fianco ci stanno i santi, e poi i santi meno importanti, e poi ancora quelli meno importanti, e poi magari i bambinetti che svolazzano in periferia. A noi piace la periferia del quadro, in accordo con le prediche che faceva John Szarkowski, quando era vivo: la fotografia inizia dal bordo e non dal centro. Detto questo: continuo a sostenere che il paese d’origine dove sono nato – nella periferia di Cesena –, le persone che ho conosciuto, gli oggetti che ho toccato quando ero bambino continuano a essere presenti nella mia storia di fotografo.

Informazioni

Il prossimo 12 dicembre uscirà l’opera magna di Guido Guidi, Col tempo, 1956-2024 una monografia di 400 pagine (per le edizioni Mack Books) che inaugurerà anche l’omonima mostra al MaXXI (Museo nazionale delle arti del XXI secolo) di Roma, dal 13 dicembre al 20 aprile 2025.

Viaggi d’autore al Masi di Lugano

Giovanni Medolago

Si intitola Viaggi la mostra attualmente in corso al LAC di Lugano e dedicata a Luigi Ghirri. Un omaggio all’opera più celebre e forse più importante del fotografo emiliano: Viaggio in Italia. Un progetto che si concretò nel 1984, con l’uscita del libro omonimo e mostre un po’ ovunque nel Bel Paese e all’estero. Da allora è considerato una pietra miliare per la storia della fotografia contemporanea, e non solo italiana: le idee che lo guidarono possono anzi considerarsi una sorta di Manifesto di quella che sarebbe diventata nel corso di più di un ventennio una fondamentale tendenza della ricerca fotografica, affermatasi poi a livello internazionale come la scuola di paesaggio italiana. Alla base del progetto vi era l’intenzione di creare un nuovo ABC del paesaggio, utilizzando la fotografia come strumento intellettuale e al tempo stesso affettivo per entrare in relazione con la complessità del mondo esterno, in questo caso con il paesaggio italiano, così a lungo rappresentato e carico di iconografia, però senza retorica, senza ricorso a stereotipi, senza gerarchie. È forse la prima volta che un gruppo di una ventina di fotografi – Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci, Mimmo Jodice, Guido Guidi e tra gli altri lo stesso Ghirri – viene invitato a uscire dai centri storici delle città. La loro attenzione va spostata ai margini, alle periferie dimenticate e a tutto ciò che fino ad allora non era considerato degno di uno sguardo artistico perché disarmonico o troppo eccentrico. Diviene invece il soggetto ricorrente di un nuovo modo di raccontare il Bel Paese. Il paesaggio non è più solo lo sfondo sul quale si svolgono le vicende umane, non è più solo un soggetto passivo, bensì la lente attraverso cui guardare. Per la prima volta, la fotografia sceglieva di uscire dai propri confini per dialogare con altre forme espressive (la letteratura, il cinema, l’architettura, la grafica), aprendosi al mondo come mai prima. È un’autentica rivoluzione, che arriva fino a noi, alla cultura visiva in cui siamo immersi.

«Non è un caso che molti parlino della fotografia – scriveva Ghirri nel 2010 – come di una tecnica ormai arcaica, superata dalla velocità dei video e del cinema stesso, dei nuovi sistemi di rappresentazione, dell’immagine digitale. Credo invece che, al di là di tutto, la fotografia possa metterci in relazione con il mondo in una maniera profondamente diversa: essa rappresenta sempre meno un processo di tipo conoscitivo. Rimane però un linguaggio per porre delle domande sul mondo. Con la mia storia ho percorso esattamente questo itinera-

rio, relazionandomi continuamente con il mondo esterno, accompagnato dalla convinzione di non trovare mai una risposta alle domande. Anzi: con l’intenzione di continuare a porne, e questa mi sembra già una forma di risposta».

Nato a Scansiano (RE) nel 1943 e prematuramente scomparso a 49 anni, un diploma di geometra che, stando a molti, influenzerà il suo excursus fotografico, Ghirri fu importante anche quale teorico dell’immagine in senso molto lato. Cordiale quanto sintetico con chi gli poneva domande banali («Perché uso solo pellicola a colori? Perché la realtà è a colori!»), i suoi testi critici gli valsero la definizione di filosofo dello sguardo; chi ammirava i suoi scatti (il collega e amico Vittorio Fossati) commentava altrettanto laconicamente: «Mi riporta a riscoprire la grandezza della semplicità». Mentre lo scrittore Gianni Celati parlò di Fotografo dell’assenza.

Tre pensieri di cui avrà ben traccia il visitatore del LAC: nelle sue immagini di spiagge solitamente affollate di Orbetello, Marina di Ravenna o dell’Île Rousse, non c’è traccia di presenze, Ghirri preferisce andare alla ricerca del particolare curioso. La pallina da soft volley perfettamente adagiata sulla linea dell’orizzonte, o il porcospino beatamente addormentato su un variopinto ombrellone. A Cervia, quasi una mise en abyme, ecco in primo piano il manifesto con lui e lei che si baciano appassionatamente per lanciare il concorso «Chiudi il gas e vieni a Hollywood!», mentre il campo lungo con una coppia nei giardini di Versailles ci ha ricordato l’ultima sequenza di Tempi moderni Alla fine dei suoi Viaggi, Ghirri propone un originale «Identikit» (1979) facendoci sbirciare nella libreria della sua casa, meta ultima dalla quale non si è mai veramente staccato. Accanto ai libri sui suoi illustri colleghi (su tutti Carleton E. Watkins, pioniere a metà Ottocento della fotografia paesaggistica negli Usa), ecco i versi di Walt Whitman: «O capitano, mio Capitano», e del poeta andaluso Juan Ramón Jiménez, Nobel nel 1956. Scelte perfettamente coerenti con l’appello che Luigi Ghirri non si è stancato di lanciare con le sue immagini e i suoi scritti: la fotografia deve aprirsi al mondo intero o, in via subordinata, almeno a quello di tutte le altre Arti!

Dove quando Luigi Ghirri. Viaggi – Fotografie 1970-1991, Lugano, Museo d’arte della Svizzera Italiana, LAC. Fino al 26 gennaio 2025. www.masilugano.ch

Buono di CHF 15.– sull’intero assortimento* con il codice 2666

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In fin della fiera

Rivoluzione teatrale al ristorante

Sono un pazzo per i miei colleghi. O, nella più benevola delle ipotesi, un visionario, un megalomane. E soltanto per un semplice annuncio: tempo fa ho deciso di mandare tutti i dipendenti del mio ristorante a scuola di recitazione. Oggi senza lo storytelling non vai da nessuna parte. Alla base della memoria umana c’è sempre una narrazione. In altre parole, di una cena in uno dei nostri ristoranti stellati i clienti ricordano l’accoglienza più che il cibo servito nei loro piatti. Vengono infatti da noi non per nutrirsi ma per provare un’emozione da raccontare agli amici. Come se il locale fosse il palcoscenico di un teatro dove tutti, clienti compresi, recitano una parte.

Uno chef alla terza generazione potrebbe contestare che «I clienti dovrebbero venire da noi non per recitare la vispa Teresa ma per degustare i nostri rigatoni alla norma o la nostra frittata di asparagi». Ma come lo

Voti d’aria

spiega al cliente venuto apposta attirato dalla loro fama, che quella sera, per dire, i rigatoni sono finiti? Ve lo dico io: il maître dovrebbe chinarsi per sussurrare con complicità: «Se posso permettermi, visto che lei è un intenditore, questa sera la pasta alla norma non è venuta all’altezza della sua fama». E a quel punto scatterebbe il suggerimento di un altro piatto: «Ci sarebbero due proposte alternative che teniamo in riserva per chi come lei è in grado di apprezzarle». Abbiamo iniziato coinvolgendo il personale di sala con giochi fin troppo ingenui. I clienti al loro ingresso incontravano, seduto a un tavolino, un indovino con le carte dei tarocchi rovesciate, tante quante erano le proposte del menù. Il cliente, invitato a sorvolare le carte con le palme delle mani, si fermava sulla carta che più l’ispirava. La voltava e scopriva qual era il piatto che i pianeti indicavano giusto per lui quella sera.

Poi abbiamo alzato il tiro, dopo che un discreto numero di clienti aveva iniziato a ritornare per avere ogni volta qualcosa da raccontare. Abbiamo delimitato una parte della sala, così chi voleva essere protagonista e non solo spettatore andava a sedersi a uno di quei tavoli. La vera svolta si è verificata quando i più assidui si sono proposti di collaborare all’impresa. Per esempio portavano a cena un amico ancora ingenuo, che ignorava la specialità del locale. Ce lo indicavano e noi ci dedicavamo a lui, avendo i suoi amici come complici. Un esempio: il cameriere portava a tutti i commensali i piatti che avevano ordinato mentre il bersaglio dello scherzo si vedeva servire una portata agli antipodi rispetto a quello che aveva indicato e che non era neanche sul menù. Era per lui naturale rifiutarla ma il maître, chiamato in soccorso dal cameriere, giurava che proprio quel piatto era stato ordina-

Sviluppi del politicamente scorretto

Si parla di politicamente corretto in termini politicamente scorretti. Luigi Manconi (5+), sulla «Repubblica», ha chiarito bene il sospetto che l’ossessione con cui viene evocato il «politically correct» nasconda il desiderio irresistibile di esprimere disprezzo al «negro» e al «frocio». Manconi partiva dalle reazioni irridenti della destra nei confronti della sinistra che utilizza la formula «gestazione per altri» invece che «utero in affitto». Quest’ultima sarebbe, secondo i «politicamente corretti», una definizione offensiva nei confronti della gestante. Sarà una mania da «mezze calzette» –o peggio da «élite perbenista» – l’impegno a utilizzare parole rispettose? Il dileggio diffuso verso i «buonisti», secondo Manconi (e il voto sale a 5½), tende a legittimare il «cattivismo straccione sul piano delle relazioni interpersonali e dei rapporti sociali».

Da qui la spensierata (e irresponsabile) libertà con cui ministri e viceministri chiamano «pederasti» o «invertiti» gli omosessuali, «mongoloidi» le persone affette da sindrome di down, «cani e porci» i migranti, «devianze» l’obesità e l’anoressia. Si tratta di dire pane al pane, per essere più vicini al popolo (e dunque più simpatici: 2-). Il vero problema è che un linguaggio becero non è solo una volgarità stilistica, ma rivela in genere idee deleterie, discriminanti, razziste. Per esempio, qualche giorno fa il sindaco di Terni, abituato a esibire discorsi da trivio o da latrina, ha preso male la vittoria di Eugenia Proietti, candidata di sinistra alla presidenza della regione Umbria. E come ha reagito? Da par suo. Ha detto che se il candidato fosse stato lui, la sua avversaria non avrebbe avuto nulla da festeggiare e «sarebbe rimasta a casa a lavare i piat-

A video spento

Mendelsohn,

to. Chiedeva quindi aiuto agli altri commensali che confermavano la sua versione. Così che il poveretto non solo finiva per mangiare il cibo non ordinato ma doveva anche trovarlo ottimo, dato che poi lo chef in persona, ideatore di quel piatto, si presentava ansioso di conoscere il giudizio di chi aveva avuto il coraggio di sceglierlo. Per un po’ è andato tutto sin troppo bene; era inevitabile che prima o poi il giocattolo si rompesse. Una sera la parte della vittima toccò a un trombone pieno di sé che, fra le sue tante virtù e attività politiche da sottosegretario, vantava anche quella di essere un cuoco di prim’ordine. Non riuscendo a individuarlo, il maître, dopo aver preso gli ordini, si affacciò dalla cucina, costernato, spiegando che il suo aiuto cuoco si era slogato una spalla per cui gli serviva aiuto per soddisfare tutti gli ordini. Chiese così se fra i clien-

ti presenti ci fosse qualcuno disposto a dargli una mano, in attesa del sostituto… Gli sguardi dei compagni di merenda si rivolsero verso il trombone che proprio in quel momento stava vantando la sua bravura ai fornelli. Non poteva esimersi. Arrivato in cucina e indossato il grembiule, lo misero a cuocere le frittate, impresa non facile anche per chi è un cuoco navigato. Risultato: nel tentativo di capovolgere al volo la frittata, si rovesciò addosso l’olio bollente. Conseguenze: ustioni non gravi, un abito rovinato, indagine della squadra politica sull’ipotesi di un attentato, chiusura del locale per una settimana. Per fortuna una buona notizia me la portò l’avvocato poco dopo: investitori americani decisero di aprire una catena di ristoranti Eleonora Duse affidando a me la direzione, in cambio della rimessa a saldo del conto delle multe e dei risarcimenti.

ti». Voto: – 1 con l’auspicio che i suoi concittadini lo mandino presto a casa (da qui il – 1), lui sì a lavare i piatti e magari anche il gabinetto e le scale del condominio. Era prevedibile invece che una tale uscita raccogliesse molti consensi nei social: migliaia di followers ad applaudire l’amabile brutalità dello sceriffo.

Come è avvenuto quando lo stesso sindaco di Terni, in Consiglio comunale, ha minimizzato la violenza dei maschi proponendo un suo raffinato teorema (-2): «Un uomo normale guarda il bel c. di una donna e ci prova. Se ci riesce, se la tr…, altrimenti se ne torna a casa». (Non per correttezza politica ma per rispetto dei lettori di «Azione» ho preferito usare le iniziali). Il minimo sarebbe stato che a quel punto tornasse a casa a lavare i piatti e a spazzare nei dintorni. Ma lui, ex paracadutista, non ci pensava

neanche, rispondendo sempre da par suo, senza peli sulla lingua: «Offendetevi pure quanto c… volete, questa è la mia idea».

Sì, «idea», proprio così. Fatto sta che oggi il cattivo e il cattivismo in politica tirano molto, e la dimostrazione di questo successo straripante della scurrilità è incarnato ovviamente da Trump, la cui volgarità viene scambiata per sincerità e franchezza; mentre le buone maniere e la gentilezza vengono sempre più ridotte a ipocrisia, falsità, ambiguità. C’è chi si spinge a considerare che Kamala Harris abbia perso le elezioni perché, diversamente dal suo avversario, è stata politicamente troppo corretta fino ad apparire grigia, conformista, intellettualmente superba o, se si vuole usare un termine ormai piuttosto logorato dall’abuso, «radical chic» (parola da scoraggia-

per una critica fatta di gusto e competenza

Parliamo ancora di critica, partendo da una celebre serie americana, Mad Men (Matthew Weiner, AMC, 20072015, visibile ora su Netflix). L’opera si offre in un testo denso ed elegante, capace di evocare, più che mostrare, un mondo remoto, sprofondato nel passato ma, al contempo, in grado di interrogare il presente, in una complessa dialettica fra noto e sconosciuto, familiare e non familiare, campo e fuori campo. Mad Men è un ritratto formidabile dell’America degli anni Sessanta, sospesa fra sogno e disprezzo, fra «persuasori occulti» e il sacrosanto bisogno di lasciarsi persuadere, fra sviluppo economico ed emancipazione sociale e personale. Questo ai miei occhi, non a quelli del più importante critico americano, Daniel Mendelsohn, che dedica ben quindici pagine del suo ultimo libro, Estasi e terrore. Dai Greci a Mad Men (Einaudi, 2024), per convince-

re il lettore che «la sceneggiatura [di Mad Men] è estremamente debole, con intrecci abborracciati e spesso tirati per i capelli, e personaggi stereotipati e talvolta incoerenti; l’atteggiamento verso il passato è superficiale e il modo in cui si posiziona nel presente sgradevolmente compiaciuto; la regia è priva di immaginazione». Insomma, quella che a molti è sembrata un riuscito esempio di «quality tv», per Mendelsohn è poco più di una soap opera. Nonostante le divergenze di opinione, Estasi e terrore è un’opera basilare e monumentale (quasi 400 pagine) che attraversa secoli di cultura, dalla lirica di Saffo ai film di Pedro Almodóvar, alle serie televisive. Questo libro è molto più di una raccolta di saggi. È un viaggio intellettuale che esplora il significato profondo delle opere analizzate, offrendo al lettore strumenti per una comprensione critica e auto-

noma. E, a parte l’omaggio a Roland Barthes, è avvincente la postura critica assunta dall’autore: occuparsi di mitologie, pensando che ogni narrativa sia un processo di creazione di favole, di «narrazioni», di racconti, così come li intendevano i classici. Mendelsohn sostiene che il critico serio non si limita a esprimere un giudizio personale: il critico serio, sostiene Mendelsohn, non si limita a imporre il suo «mi piace» o «non mi piace» (come malauguratamente i social media ci abituano a fare, con l’introduzione funesta persino delle pagelle per acchiappare più click), ma dà «a te lettore gli strumenti per farti una tua idea», condividendo la sua conoscenza, esplicitando le ragioni su cui si fonda il suo giudizio, e soprattutto cercando di trarre un senso dall’opera di cui si sta parlando.

In un’intervista a «La Repubblica», l’autore racconta: «Ho iniziato a scri-

vere nel 1989, all’epoca non esisteva Internet e l’autopubblicazione era estremamente limitata. Non c’erano neanche i blog e tutto quello che ha generato il Far West culturale nel quale viviamo. Ogni recensione veniva stampata e il fact checking era rigorosissimo: un saggio veniva letto da almeno trenta persone. Oggi soltanto alcune pubblicazioni come il “New Yorker” o la “New York Review of Books” continuano a mantenere questo standard di serietà e siamo invasi da critiche, o presunte tali, di persone improvvisate, senza alcuna preparazione accademica. La parola chiave di questa nuova tendenza è self/auto». Nel fondamentale saggio Il manifesto di un critico, Mendelsohn rivela il segreto della sua passione per la professione: da ragazzo leggeva con avidità i recensori più autorevoli («li consideravo prima di tutto insegnanti»). Ed ecco infine la sua formula: «La criti-

re almeno quanto «vip», voto 3--). Andando avanti nel dileggio per il perbenismo linguistico e comportamentale, arriveremo, ben presto, ad avere governanti che, per conquistarsi il favore delle folle, non si limiteranno a essere politicamente scorretti ma dovranno alzare il livello presentandosi politicamente «scorreggianti» (e mi scuso con i lettori ma non trovo altro termine) e si sbronzeranno di coca-cola prima dei comizi per esprimere al meglio la loro irresistibile simpatia. Non basterà più il turpiloquio o la coprolalia, ma passeremo al linguaggio della flatulenza, del borborigmo, del rutto. Un discorso pubblico di pancia per un voto di pancia. Ci arriveremo, ci arriveremo, e sarà il trionfo della democrazia non costituzionale ma intestinale. Il liberalismo finalmente compiuto (6).

ca si basa su questa equazione: competenza + gusto = giudizio significativo, e la parola chiave è significativo. Le persone che, come la maggior parte di noi, reagiscono intensamente a un’opera ma non possiedono l’erudizione necessaria per esprimere un’opinione pregnante non possono essere definite critici. (Ecco perché molte recensioni dei lettori pubblicate online non sono vera critica). Né possono esserlo le persone che, pur dotate di grandissima erudizione, mancano tuttavia del gusto o del temperamento necessari a conferire autorevolezza al loro giudizio agli occhi dei profani. (Ecco perché tanti accademici non sono bravi a recensire per il vasto pubblico). Come qualunque altro tipo di scrittura, la critica è un genere per cui bisogna essere portati, e le persone che ci sono portate sono quelle la cui competenza interagisce col gusto in modo convincente e stimolante».

di Bruno Gambarotta
di Paolo Di Stefano
di Aldo Grasso

Riempi il tuo sacchetto di San Nicolao…

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“Tyrrells, Tyrrellbly Tasty”

L’eredità di Luigi Ghirri nelle parole

Numeri primi tra giochi e musica

Intervista ◆ In una chiacchierata sull’evoluzione dell’immagine oltre la tradizione del reportage, a quarant’anni dalla pubblicazione di del cambiamento epocale che attraversò il panorama fotografico italiano

Il libro di Peres e Siminovich unisce matematica, enigmi e creatività con un tocco musicale in un viaggio di logica e intuizione

Verdure al formaggio stagionato

Il cavolo piuma regala al risotto un bel colore verde, il taleggio lo rende cremoso e i pinoli aggiungono gusto e croccantezza

Zelda torna protagonista di Hyrule

L’avventura inedita, con abilità magiche e nuovi nemici, animerà un mondo nostalgico ricreato con uno stile che unisce passato e innovazione

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Il ritorno dei Diablos Rojos : arte e caos a Panama

«Luigi merita che tutti i fotografi di oggi gli bacino i piedi, ma le agiografie non fanno altro che danneggiarlo». Così esordisce Guido Guidi, riflettendo sul lavoro di Luigi Ghirri, con il quale ha vissuto e partecipato a una delle rivoluzioni più importanti della fotografia italiana, che ebbe luogo negli anni 80-90. Nato a Cesena nel 1941, Guidi è di fatto uno degli autori le cui fotografie furono pubblicate nel famoso Viaggio in Italia (vedi articolo di spalla), e tra i fotografi ancora viventi che hanno contribuito a ridefinire il modo di guardare il paesaggio italiano. Un cambiamento, come ha ricordato in questa chiacchierata Guidi, già professore di storia e tecnica della fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Ravenna, che ha visto nascere la fotografia artistica.

Uno scintillante grappolo di torri di acciaio e cristallo che tende dritverso il cielo sembra emergere dal mare di Punta Paitilla. Potrebbe essere Miami, ma la seduzione glamour del cuore finanziario di Panama Civiene bruscamente spezzata dall’esplosione di colori, luci lampeggianti e ritmi tropicali sparati a tutto volume da stagionati bus impegnati in spericolati sorpassi da Formula Uno.

Un tempo la fotografia era altro… Negli anni 40-50, imperava il neorealismo e, insieme a esso, la fotografia di reportage, che vedeva un fotografo andare in Columbia a curiosare tra le piantagioni di cotone, e l’altro, in Vietnam a seguire la guerra.

Parliamo del periodo in cui emergeva anche Ferdinando Scianna? Esatto, i fotografi – fuori dallo studio – venivano dalla scuola di Henri Cartier-Bresson. Noi, invece, partivamo dai topografi, io, almeno, Ghirri un po’ meno.

I Diablos Rojos si stanno riprendendo le strade da cui erano stati ufficialmente cacciati una ventina di anni fa in nome della sicurezza stradale e di un sistema di trasporti più moderno e confortevole. Il perché potrebbe nascondersi nel nome, «Diavoli Rossi», con cui da sempre sono stati ribattezzati per i loro colori quasi fosforescenti questi vecchi bus scolastici Made in USA, o più probabilmente per il loro modo di aprirsi la strada nel traffico convulso della capitale.

Ma entrambi avete generato uno spostamento nel fare fotografia.

Lavoratori provenienti dal Caribe anglofono, cinesi, arabi, indiani, europei e nordamericani trasformarono rapidamente una città provinciale in una metropoli multiculturale

A quel tempo i fotografi, stanchi di tirare la carretta e di essere pagati poco, hanno cercato in tutti i modi di entrare nel mondo delle gallerie d’arte. Ma la strada che abbiamo imboccato noi, io, Ghirri, eccetera, è una strada irta di trabocchetti, perché ti porta a fare delle cose al servizio della galleria. Rifiutando la committenza del giornale che non procurava soldi (all’epoca si parlava di 200 lire se le vendevi al «Corriere della Sera»), e accettando il patrocinio della galleria, la fotografia si è un po’ snaturata per essere più simile alle opere d’arte che si vendono in commercio.

Reportage ◆ Dalla rivalità con i Metrobus all’orgoglio popolare, i vecchi e fiammeggianti pullman scolastici riprendono possesso della città, tra sfide quotidiane e una tradizione che resiste al cambiamento

Tuttavia, oggi si fanno anche mostre di fotoreportage, elevandoli allo statuto di opere d’arte.

Di bus dipinti ne esistono anche altrove, da Haiti all’India e alle Filippine, ma quelli di Panama rappresentano un vertice quasi inarrivabile di horror vacui e sono uno dei tanti effetti collaterali della costruzione di una delle più complicate infrastrutture esistenti, il Canale di Panama, una via d’acqua che sale e scende per oltre ottanta chilometri tagliando la foresta pluviale per collegare l’Atlantico al Pacifico.

Mi lasci raccontare questo aneddoto proprio su Scianna, che considera la fotografia artistica un peccato mortale: molti anni fa visitò una mostra che feci a Milano, di fianco alla libreria Hoepli, alla Galleria San Fedele, che è ancora gestita dai frati gesuiti. Mi ricordo che poi chiese di parlare con il capo, che era Padre Andrea Dall’Asta, il direttore, al quale disse: «Sono Ferdinando Scianna e sono venuto a vedere questa mostra perché pensavo che fosse una stronzata; e quello che ho visto me lo conferma».

Il cambiamento toccò oltre il «contenuto», ovviamente, anche la forma e soprattutto l’uso del colore. Luigi passa per essere il primo fotografo a colori, ma già un ventennio prima di lui lo usava il suo conterraneo Franco Fontana (ndr: entrambi dell’Emilia-Romagna), come Stephen Shore in America; e diversi anni prima ancora, Luigi Veronesi – ndr. pittore, fotografo, regista

Storicamente le prime apparizioni di bus di seconda mano importati dagli Stati Uniti risalgono al 1911 nella Zona del Canale controllata dagli Stati Uniti, ma l’esplosione di questo sistema di trasporto, pubblico seppur gestito da privati, risale agli anni Sessanta con il rapido aumento della popolazione. Lavoratori provenienti dal Caribe anglofono, cinesi, arabi, indiani, europei e nordamericani trasformarono rapidamente una città provinciale in una metropoli multiculturale provocando lo sdegno indignato delle élite intellettuali, la ciudad letrada (città alfabetizzata) che vagheggiava l’idillico ricordo di una panameñidad a base di feste che rallegravano pueblitos popolati da allevatori di origine spagnola. Nel frattempo, oltre tremila Diablos Rojos invadevano le strade trasportando i panameños da un quartiere all’altro senza un percorso prestabilito. Sono gli autisti a deci-

ra messo in testa, come detto, di fa re delle mostre, che all’epoca non si facevano; lui ne aveva bisogno. Così iniziò a ordinare dei duplicati in negativo delle diapositive, e da lì procedeva con la stampa, su una carta che però si deteriorava rapidamente, in quegli anni. Le cose cambiarono grazie alla Kodak che a un certo punto migliorò la carta fotografica, era il 1984 (’85/’86 in Italia, dopo gli svuotamenti dei magazzini che avevano i vecchi stoccaggi). Uno «sviluppo tecnologico» di cui, tuttavia, in verità nessuno si accorse.

dere che strada percorrere, a seconda del traffico e dell’umore, segnalando le destinazioni solo con svolazzanti scritte dipinte sulla parte anteriore di autobus scatenati in una spietata competizione che ricorda le corse di bighe romane immortalate da decine di B movies. Con qualche inevitabile problema, anche Wilfredo – che guida un salotto viaggiante di lamiera arroventato da un sole che non perdona – continua a dribblare concorrenti per arrivare primo alla prossima fermata, occhio spiritato e riflessi

Nondimeno, il fotografo Roberto Maggiori affermò che «la bellezza è verità e la verità è la mancanza di retorica», come a dire che una fotografia non gridata, ovvero che la scelta di non avere colori sfacciati, da una parte serva per assecondare un principio di bellezza e dall’altra per renderla più vera. Sì, più autentica. Franco Fortini, poeta e saggista, in una conferenza disse che «…se devo scrivere sul pane, che non c’è niente di più retorico del pane, la poesia la posso scrivere in dialetto, forse, ma non sicura-

d’acciaio, mentre tuona «noi siamo il transporte de los pobres, il trasporto dei poveri, ecco cosa siamo!».

C’è poco da fare con i pochi dollari al giorno che gli rimangono in tasca, se la giornata è buona, dopo averne pagati almeno cinquanta d’affitto al padrone dell’autobus. Per farcela Wilfredo deve navigare nel magma umano di Panama City dalle tre del mattino a notte inoltrata senza perdere un colpo, un occhio al traffico e uno alla prossima fermata per giudicare al volo se ci sono clienti o

derna di Bologna, era il ’76/’78 circa. Ghirri insieme a Franco Fontana e Paola, la sua compagna, vennero all’inaugurazione. Da lì abbiamo iniziato a frequentarci: sono stato un paio di volte a casa sua, e a un certo punto mi ha invitato a pubblicare un libro che avrebbe dovuto chiamarsi Album, ma non uscì mai a causa di un crack finanziario dell’editore; aveva fretta lui, io invece ero molto meno frenetico di Luigi, lui si vede che sapeva inconsciamente che doveva morire presto.

se conviene buttarsi su quella successiva, e magari nel frattempo intrattenere i passeggeri con qualche battuta, «tanto per personalizzare il viaggio» come dice lui. Se non basta, per fidelizzare i clienti si trasforma in DJ alternando personalissime hit di romantiche ballate a irresistibili ritmi di salsa e reggaeton sparati dagli altoparlanti.

All’esterno, il suo arrivo è annunciato dal demenziale bestiario umano e animale che si affolla sulle fiancate rosso fuoco. Eroi pop, attrici, ico-

artisti studiano poco per non essere influenzati da qualcosa, e questo è un guaio, perché bisogna essere influenzati, altrimenti restiamo ignoranti. Diciamo, però, che studiando, il cervello da innocente diventa un cervello armato. Allora come si fa a liberarsi dell’armatura? Si fa con degli espedienti. Uno di questi è appunto quello che mi aveva suggerito un professore di Rochester: fotografare senza guardare, per vedere se quello che ho fotografato sta nelle aspettative di uno che ha il cervello condizionato, oppure in quelle di uno che è riuscito

ne sportive e leader politici inseriti in una complicata texture di decorazioni e colori, nata dalla necessità di rendere più attraenti vecchi scuolabus decisamente bisognosi di un restyling, che devono averne viste delle belle da quando nella loro vita precedente conducevano una rispettabile esistenza in qualche sonnolenta cittadina degli Stati Uniti.

A Panama ogni bus è diventato un’installazione unica di «arte rodante», street art su ruote accessibile a tutti, a differenza di musei e gallerie

Di
Luigi Ghirri, Versailles, 1985; sotto da sinistra a destra: Alpe di Siusi, 1979; Lago Maggiore, 1984; in alto a destra, Rimini, 1985; in copertina, Marina di Ravenna, 1986. (@ Eredi Luigi Ghirri)
Enrico Martino, testo e foto
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d’arte. Immagini da fumetto, salaci espressioni popolari e nomi delle fidanzate dell’autista, l’ultima invariabilmente segnalata dalla vernice più fresca, in una sorta di gossip viaggiante, termometro in tempo reale di mode e passioni dell’intero paese, «Se non sei aggiornato, i passeggeri preferiscono un concorrente» conclude con olimpica saggezza Wilfredo. I Diablos Rojos da mezzo di trasporto si sono trasformati in un’autentica esperienza culturale dove i passeggeri sono obbligati a socializzare in una vicinanza obbligata a ritmo di musica e commenti sui fatti del giorno. Intorno a loro è cresciuto un vero e proprio ecosistema, dai pavos, gli assistenti dei conducenti che si sporgono urlando per annunciare il percorso e prendere i soldi, ai meccanici che si affannano a resuscitare rapidamente autobus defunti. Tutti trasudano l’amore riservato a un figlio quando parlano del loro diablo, fonte di orgoglio e autostima, sbattendo queste espressioni artistiche sopra le righe in faccia a una società che ha sempre denigrato e cercato di sradicare la cultura popolare afrocaribeña come «non-panamense».

Dopo il 2003, il crescente numero di incidenti favorito da una competizione sfrenata, un’idiosincrasia per le regole stradali degli autisti e la mancanza di sicurezza spinsero il Governo a sostituirli con trasporti più efficienti. Dal 2011 una flotta di oltre milleduecento fiammanti Metrobus dotati di aria condizionata e conducenti in uniforme ha provato a mandare definitivamente in pensione i Diablos Rojos. Ma senza successo, perché – con il tempo – inaffidabilità e prezzi troppo alti hanno messo in crisi i nuovi bus, ridotti a meno della metà per problemi di manutenzione, e i panameños sono spesso obbligati a pagare due volte, la prima per accedere alle aree riservate dei Metrobus aspettando per ore invano, la seconda per ripagare uno dei quasi settecento Diablos Rojos che scorrazzano di nuovo allegramente per le strade.

Sono quasi settecento i Diablos Rojos che scorrazzano di nuovo per le strade di Panama

Moltissimi passeggeri, pur di arrivare in tempo sono disposti ad accettare questo verdadero calvario di bus rumorosi, affollati e insicuri dove l’assistente del guidatore spesso blocca dall’esterno la porta posteriore per impedire a qualche passeggero di scendere senza pagare. Così Gesù Cristo, l’inossidabile Madonna, Giulio Cesare, Sri Aurobindo e San Judas Tadeo, popolare protettore di cause impossibili, sono tornati a convivere felicemente con una folla di reginette di bellezza, anche se il genere che tira di più è il fantasy, almeno a giudicare dall’esagerato numero di muscolosi guerrieri vichinghi e biondissime fate che sembrano liquefarsi a ogni istante, non sai bene se per il calore del tropico o per il grasso che trasudano motori inclini a tirare le cuoia a ogni accelerata.

Non mancano campioni di skate-board che duellano con minacciosi tirannosauri e seducenti eroine sado-maso occhieggiate da scafati ragazzini, mentre i parafanghi sono riservati a proverbi popolari e ironici sfottò alla concorrenza. Si cambia decisamente soggetto sulla parte anteriore del bus con improbabili ghiacciai, foreste di pini e romantici cottage di legno ispirati a film e serie televisive americane che – per chi

vive ai tropici – sono molto più esotici della lussureggiante vegetazione quotidiana. «Le pitture devono catturare l’attenzione con colori quasi fosforescenti e scegliamo i soggetti insieme agli autisti, anche se spesso siamo chiamati in modo un po’ dispregiativo busistas » mi ha raccontato tempo fa con un po’ di amarezza Oscar Melgar, il più famoso artista di Diablos Rojos in un’officina persa nella campagna accanto al motel El Incanto. «Io che arrivo dal nulla sono riuscito a esportarli dalla strada a mostre e gallerie d’arte, compresa la Biennale di Liverpool, ma l’unico risultato che non sono mai riuscito a ottenere è che i panameños guardino questi bus come parte della nostra cultura. Ci vogliono da due a quattro settimane per completare le decorazioni e molti, anche per risparmiare, hanno cominciato a semplificarle o addirittura eliminarle, ma anche se dovessero sparire dalle strade resterebbero per sempre icone di Panama, perché guardarli è come vedere la nostra bandiera. Non puoi uccidere la cultura del tuo Paese senza neanche rendertene conto, è come toglierti un pezzo di vita, e se lo fai te ne accorgerai troppo tardi. È l’ironia di governi che utilizzano i Diablos Rojos come marketing turistico e contemporaneamente cercano di cancellarli dalla vita quotidiana. Che moderniz-

zino pure, però molte persone povere non possono pagare biglietti più cari, e una lunga catena di microimprese scomparirà insieme a un fenomeno unico in tutto il continente americano, forse nel mondo, nato nei sobborghi più poveri».

Pionieri come Luis Evans, «El Lobo», probabilmente uno dei tanti discendenti degli schiavi-operai importati per la costruzione del Canale, sono i dimenticati precursori di un’arte collettiva nata negli anni Quaranta del secolo scorso decorando le chivas, pick-up Chevrolet e Chrysler convertiti in minibus con panche di legno. Il loro stile ha influenzato quello dei Diablos Rojos, celebrati ai tempi d’oro persino in popolarissimi concorsi pubblici per il più bello. Per due decenni, politici e urbanisti hanno annunciato la loro fine preferendo l’asettica estetica di bus più efficienti e moderni, ma i Diablos sono sopravvissuti a dispetto di tutto e di tutti perché esprimono la cultura popolare di Panama, come i murales in altre città. Sono una tela di lamiera su cui gli artisti locali esprimono la loro visione del mondo. «Anche se ogni nuovo governo promette mezzi di trasporto più efficienti una cosa è dirlo, un’altra è farlo» sorride Elwin, che ha traghettato passeggeri per decenni su un bus che proclama dalla sua luccicante fian-

cata, «Solo hay respeto pa’l q’me respete », «Io rispetto solo quelli che mi rispettano». «Il Metrobus è una comida sin sal, un pranzo senza sale, mentre i Diablos rojos sono piccanti e a me spiace molto che ai nostri figli possa mancare questa esperienza. Appena entri inizi a chiacchierare con lo sconosciuto accanto a te e magari puoi incontrare la ragazza dei tuoi sogni – per

più fighi – innamorandoti degli spostamenti quotidiani. Per molti di noi il primo bacio è stato dato sui sedili posteriori di uno di questi diablos e il giorno in cui non ci sarà più sarà come un giardino senza rose, un cielo senza stelle».

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(f/m/d)

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Da concordare

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Stesura capitolati e richiesta di offerte

Interazione con ditte e operai (pianificazione attività, verifica esecuzione)

Partecipazione e coordinazione riunioni di cantiere e direzione lavori su cantiere

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Buone conoscenze dei programmi Autocad, Messerli e del pacchetto Office 365

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Passioni matematiche e armonie inattese

Giochi di parole ◆ Il nuovo libro di Ennio Peres e Sergio Siminovich unisce logica e creatività, esplorando

simmetrie dei numeri primi con un tocco musicale

Francesco Giudici

L’armonia dei numeri primi – Giochi matematici e nuove simmetrie creative è il titolo del nuovo libro a firma di Ennio Peres e Sergio Siminovich, in libreria da un paio di mesi. Molto noto il primo come giocologo ed enigmista: su «Azione» ha tenuto per anni un’affascinante rubrica che appariva proponendo attività ludiche che spaziavano dalla matematica agli anagrammi, dalla linguistica alle magie con le carte; meno conosciuto il secondo, direttore d’orchestra e dottore in arte italo-argentina. L’intera opera è stata poi revisionata da Susanna Serafini, architetto e illustratrice, che cerca in ogni modo di mantenere vivo il ricordo di Ennio Peres, suo marito, scomparso il 17 luglio del 2022. Strano connubio quello sorto tra i due autori: da una parte un matematico, musicista autodidatta che si confessa stonato e privo del senso del ritmo e, dall’altra, un artista che mette in atto le sue conoscenze relative alla musica per sconfinare tra le combinazioni numeriche. Alla fine di un concerto, Sergio Siminovich venne presentato a Ennio da un’amica di entrambi. La passione di Siminovich, matematico autodidatta, per la ricerca delle particolari qualità dei numeri primi fece sì che i contatti continuassero anche dopo questo primo fugace incontro. Peres, laureato in Matema-

tica all’Università della Sapienza, riuscì a far pubblicare un estratto del lavoro del nuovo conoscente sulla rivista online della Bocconi. Diversi altri libri sono stati scritti su questo argomento: da quelli di Marcus du Sautoy e di Roberto Siano (che dei numeri primi prendono in considerazione le caratteristiche matematiche), ad altri, dove «il numero primo» appare nel titolo, ma non vengono in realtà trattati argomenti matematici come, per esempio, La solitudine dei numeri primi dello scrittore Paolo Giordano. Si comincia, per entrare in questo mondo affascinante, con la parte iniziale curata da Ennio Peres: teoria sì,

ma presentata in modo piuttosto godibile. E così veniamo a sapere che da quasi cento anni il numero 1 non è considerato primo. A scuola me lo avevano sempre annoverato in questa squadra, già a partire dall’elaborazione del crivello di Eratostene… Per aiutare poi nella ricerca delle soluzioni dei giochi numerici proposti troviamo delle utili tabelle con tutti i numeri primi inferiori al 10mila (sono 1229, che è un numero primo pure lui). I giochi proposti, ormai è indubbio, mettono in evidenza l’acume e la creatività di Ennio Peres, che in un problema cita un improbabile celebre matematico, Erone Snipe, che al-

tro non è se non l’anagramma del suo nome e cognome. Troviamo attività che richiamano i Doublets di Lewis Carroll (con i numeri primi però), schemi di cruciverba dove a incrociarsi sono i numeri primi e perfino trucchi con magie matematiche sempre «trafficando» con le particolarità che questi numeri speciali offrono a chi le sa utilizzare in modo creativo. La seconda parte del libro ha per autore Sergio Siminovich e il suo approccio ai numeri primi è piuttosto inusuale. Si sofferma parecchio sui rapporti che questi numeri hanno tra di loro, sulle cosiddette famiglie che essi formano e sconfina perfino nel pensiero laterale che lo psicologo e studioso di formazione del pensiero, il maltese Edward De Bono ha divulgato nelle sue opere.

Ci vengono, pure, proposti diversi metodi per determinare se un numero è primo, così come si trovano serie ripetute di cifre che scaturiscono da divisioni usando numeri primi. Provate a dividere 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6 con il 7! Anche a conclusione della seconda sezione del libro sono stati inseriti giochi che sfruttano le caratteristiche elencate nelle teorie esposte in precedenza.

Ci piace infine ricordare che all’amico musicista, Ennio Peres dedicò una delle sue meravigliose elabo-

razioni anagrammatiche, analoghe a quelle che di anno in anno proponeva prendendo in considerazione le lettere che formavano il nome dell’anno in arrivo. Riportiamo solo i primi sei versi di un’ode che ne conta ventitré (numero primo!), perché ventitré sono le lettere che compongono il nome completo dell’amico: Sergio Gustavo Siminovich, lettere disposte peraltro in forma di acrostico: «Smisto vaghe voci, su, in giro E ho smosso vivaci grugniti; Ravviso chi mi suggestionò… Gringo, svito musiche soavi, In giocose Tv, misuro svaghi: Ohi: c’è gran gusto vivissimo!» […] Una delle ultime conferenze di Ennio ebbe luogo a Locarno, venerdì 15 ottobre 2021. Il matematico, enigmista e giocologo intrattenne il pubblico nella sala del Kursaal e centinaia di studenti in collegamento su streaming (era il periodo del Covid) con il tema «Matematica e Umorismo». La conferenza può essere vista su Youtube digitando: Italmatica-Matematica e Umorismo.

Bibliografia

Ennio Peres e Sergio Gustavo Siminovich, L’armonia dei numeri primi. Giochi matematici e nuove simmetrie creative, Dedalo Edizioni, 2024. 172 pag.

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Ricetta della settimana - Risotto al cavolo piuma con taleggio

Ingredienti

Piatto principale

Ingredienti per 4 persone

50 g di pinoli di cedro

200 g di cavolo piuma

sale

1 cipolla

2 spicchi d’aglio

2 c d’olio d’oliva

350 g di riso per risotto

1 dl di vino bianco

1 l di brodo di verdura

150 g di taleggio

pepe

Preparazione

1. Dorate i pinoli di cedro senza grassi in una padella. Eliminate le costole legnose dalle foglie di cavolo. Dividete le foglie a pezzetti di circa 2 cm. Sbollentatele in acqua salata per 2 minuti. Scolatele, passatele sotto l’acqua fredda e fatele sgocciolare bene.

2. Tritate finemente la cipolla. Schiacciate l’aglio. Scaldate l’olio in una pentola e soffriggeteci la cipolla e l’aglio. Unite il riso e tostatelo.

3. Sfumate con il vino e fatelo ridurre, finché non è evaporato completamente.

4. Aggiungete il brodo un po’ per volta e lasciate sobbollire il risotto per circa 20 minuti, rimestando di tanto in tanto, finché non diventa cremoso ma è ancora al dente.

5. Tagliate il taleggio a dadini. Aggiungete il cavolo piuma al risotto insieme alla metà del formaggio. Regolate di sale e pepe. Guarnite il risotto con il resto del taleggio e i pinoli di cedro.

Consiglio utile

Frullate la metà del cavolo piuma e incorporatelo al risotto insieme al taleggio.

Preparazione: circa 20 minuti; sobbollitura: circa 20 minuti

Per porzione: circa 18 g di proteine, 23 g di grassi, 77 g di carboidrati, 610 kcal

Iscriviti ora!

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SCANSIONAMI

Torna l’eroina di Hyrule

Videogiochi ◆ Echoes of Wisdom rinnova la saga di Zelda con gameplay innovativo e atmosfere rétro

Nintendo torna alle origini della sua celebre saga con The Legend of Zelda: Echoes of Wisdom, un nuovo capitolo per la console Switch che riporta i giocatori nell’amata Hyrule, ricreata con la classica visuale dall’alto che ha caratterizzato i primi, indimenticabili capitoli della serie. Ma questa volta, a impugnare la spada (o meglio, il bastone magico) non è l’eroe silenzioso Link, bensì la principessa Zelda in persona, protagonista assoluta di un’avventura inedita e ricca di sorprese. La trama, pur iniziando in modo piuttosto familiare con Ganon che minaccia Hyrule mentre Link si prepara ad affrontarlo, prende presto una piega inaspettata. Una forza oscura si manifesta nel regno, aprendo voragini che inghiottono gli abitanti e li sostituiscono con inquietanti doppelganger. Link stesso viene risucchiato nel buio, per questo toccherà a Zelda salvare Hyrule dalla catastrofe.

Echoes of Wisdom introduce una meccanica di gioco completamente nuova, basata sulla «memorizzazione» degli oggetti. Zelda, grazie al bastone magico donatole da Tri, può «catturare» quelli presenti nel mondo di gioco – piante, rocce, letti, giare e persino nemici – e replicarli a piacimento. Questa abilità offre un’incredibile libertà di azione e apre a soluzioni creative e imprevedibili. I giocatori potranno sperimentare con diverse combinazioni di ogget-

La perfetta sfericità

Mondoverde ◆ I fiori profumati di Cephalanthus occidentalis attirano e nutrono api e farfalle

Anita Negretti

È questa la stagione perfetta per trapiantare il vostro Cefalanto, ne aveste uno in vaso. Piu empiricamente, va trapiantato – come altre specie –quando è dormiente e sei settimane prima che il terreno geli del tutto.

ti, e realizzare così ponti, scale, barriere e persino armi improvvisate per superare gli ostacoli e risolvere gli enigmi. Oltre alla memorizzazione, Zelda dispone di un arsenale di abilità magiche che la rendono un’eroina versatile e potente. La sincronia, ad esempio, le consente di fermare il tempo o di sincronizzarsi con i movimenti dei nemici per raggiungere piattaforme elevate o superare trappole mortali. In alcuni momenti, Zelda può persino trasformarsi in una spadaccina, evocando lo spirito combattivo di Link che le permetterà di affrontare i nemici con attacchi rapidi e letali.

Il mondo di gioco è un vero e proprio omaggio ai classici della serie, con ambientazioni che richiamano alla mente A Link to the Past e altri titoli iconici. Hyrule è ricreata con cura dettagliata, tanto da offrire un’esperienza

Giochi e passatempi

Cruciverba

Tra amici: «Mio cognato di cognome si chiama…» Termina la frase risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate.

(Frase: 6, 3, 3, 8, 3, 7)

ORIZZONTALI

1. L’Iscariota traditore

5. Anagramma di spot

9. Un numero inglese

10. Grosso recipiente di terracotta

12. Articolo

13. È finita in fondo...

14. Molti furono scritti da Davide

15. Due volte nel brindisi

16. Noia, fastidio

17. Pendono dalle campane

18. Orifizi della pelle

19. Priva di forma

21. Mitigare, addolcire

23. Può essere viziata e pungente

24. Osso del corpo umano

25. Nome femminile

28. Il nonno di Priamo

29. Sommità

30. Particella negativa

31. Mi seguono in miseria...

32. Animali col grugno

33. Per... a Londra

34. Destino, sorte

35. Detto anche danese

VERTICALI

1. Arrossiscono con facilità

2. Desinenza di diminutivo femminile

3. Lo scrittore Eco (Iniz.)

4. Città del Marocco

5. Isole dell’oceano Pacifico meridionale

6. Dopo il «bi»

7. Due vocali

8. Carme funebre

visiva piacevole e nostalgica. Purtroppo, il gioco soffre di alcuni cali di frame rate, soprattutto nelle aree aperte, che possono inficiare la fluidità dell’azione. Un difetto tecnico che, si spera, verrà risolto con futuri aggiornamenti.

The Legend of Zelda: Echoes of Wisdom è un capitolo atipico nella saga, ma non per questo meno affascinante. L’innovativo gameplay basato sulla memorizzazione, la trama avvincente e l’atmosfera rétro lo rendono un’esperienza unica e memorabile. Il titolo conquisterà sicuramente i fan di vecchia data, ma anche i nuovi giocatori che desiderano scoprire le origini di una delle serie videoludiche più amate di sempre. Un’avventura che, pur con qualche piccola imperfezione, si conferma un’aggiunta di valore al mondo di Hyrule, capace di divertire, sorprendere e incantare.

Il suo nome scientifico è Cephalanthus occidentalis, e si tratta di una pianta di medie dimensioni, che riesce a raggiungere i due metri d’altezza dopo circa dieci anni di vita, assestandosi su di una larghezza di 2,5 metri.

La sua particolarità è quella di produce fiori perfettamente sferici, color bianco panna, deliziosamente profumati e dai quali fuoriescono lunghi stami gialli, che risultano essere un vero e proprio scrigno goloso

per gli insetti pronubi come api, bombi e sirfidi.

Amante del sole ma, come nel caso del mio esemplare, anche della mezz’ombra, è molto resistente al freddo, al vento e non teme l’acqua stagnante; tant’è che il mio esemplare cresce rigoglioso al bordo del laghetto accanto al salice contorto di cui ho scritto su «Azione» proprio settimana scorsa.

11. Infossature dei polmoni

12. Succo vitale

14. Tutt’altro che frivola

15. L’ufficio della diocesi

16. Un pesce

17. Una taglia abbondante

18. Ci riveste

20. Specialità dell’atletica leggera

21. Nome femminile

22. Sacrilego

26. Fiume della Francia

27. Un albero

29. L’ovvero latino

30. Valle percorsa dal Noce

32. Le iniziali dell’attore Accorsi

33. Centro d’affari

Ha foglie caduche che ricompaiono in marzo, diventando lunghe 1015 centimetri e dalla forma ellittico-lanceolata, color verde lucente dal margine seghettato e con venature giallognole. I fusti sono densamente ramificati e questa caratteristica fa sì che si presenti come un cespuglio fitto e ricco di fiori, che raramente necessita di potature, avendo una forma proprio molto regolare.

Originario del Nord America, appartiene alla famiglia delle Rubiaceae, lo si può coltivare facilmente in giardino in piena terra ma anche in vaso, prestando però più attenzione alle bagnature che andranno eseguite due volte alla settimana nei mesi caldi e ogni dieci giorni durante l’inverno, a meno che non decidiate di impiantarlo all’esterno, così da poter godere durante la prossima estate, da luglio fino alla metà di ottobre, di un piccolo arbusto che monopolizzerà lo sguardo e la curiosità di chi verrà a farvi visita.

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera

cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

Hit della settimana

Arachidi extra Israele/Egitto, sacchetto da 1,5 kg, (1 kg = 5.73) 40% 26. 11 – 2. 12. 2024

3.50 invece di 5.90 Bistecche di scamone di manzo Black Angus M-Classic Uruguay, 2 pezzi, per 100 g, in self-service 40%

di 13.50

Patate fritte o patate fritte al forno, M-Classic prodotto surgelato, in conf. speciale, per es. patate fritte al forno, 2 kg, 6.05 invece di 10.10, (100 g = 0.30)

Filetti di salmone con pelle Migros Bio d'allevamento, Norvegia, 300 g, in self-service, (100 g = 2.98)

8.60 invece di 14.40

Tutto l'abbigliamento per bebè e bambini e tutte le scarpe per bambini incl. calzetteria, biancheria da giorno e da notte (escl. articoli SportX e Hit), per es. giacca per bebè verde, il pezzo, 23.95 invece di 39.95

Tutti i tovaglioli, le tovagliette e le tovaglie di carta, Kitchen & Co., FSC® (prodotti Hit esclusi), per es. tovaglioli Basic, 40

Tutte le capsule di caffè (prodotti Starbucks esclusi) a partire da 2 pezzi

Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. In quantità usuali per una normale economia domestica, fino a esaurimento dello stock.

Tutto l’assortimento di abbigliamento per adulti incl. biancheria, calzetteria, scarpe, borse, accessori e cinture (articoli da viaggio e prodotti hit esclusi)

Il nostro consigliosettimana:della

Settimana Migros Approfittane e gusta

3.50

invece di 5.90 Bistecche di scamone di manzo Black Angus M-Classic Uruguay, 2 pezzi, per 100 g, in self-service 40%

40%

8.60 invece di 14.40 Arachidi extra Israele/Egitto, sacchetto da 1,5 kg, (1 kg = 5.73) 40% 26. 11 – 2. 12. 2024

Patate fritte o patate fritte al forno, M-Classic prodotto surgelato, in conf. speciale, per es. patate fritte al forno, 2 kg, 6.05 invece di 10.10, (100 g = 0.30)

8.95 invece di 13.50

Filetti di salmone con pelle Migros Bio d'allevamento, Norvegia, 300 g, in self-service, (100 g = 2.98) 33%

Il 6 dicembre arriva San Nicolao

40%

Tutto l'abbigliamento per bebè e bambini e tutte le scarpe per bambini incl. calzetteria, biancheria da giorno e da notte (escl. articoli SportX e Hit), per es. giacca per bebè verde, il pezzo, 23.95 invece di 39.95

Tutti i tovaglioli, le tovagliette e le tovaglie di carta, Kitchen & Co., FSC® (prodotti Hit esclusi), per es. tovaglioli Basic, 40 x 40 cm, bianchi, 50 pezzi, 1.80 invece di 2.95 a partire da 2 pezzi 40%

Un tripudio di colori e vitamine

23%

2.30 invece di 3.–

Arance bionde Spagna, rete da 2 kg, (1 kg = 1.15)

1.65 Frutti della passione Colombia, retina con 3 pezzi

3.95 Clementine Spagna, sacco di iuta da 1,5 kg, (1 kg = 2.63)

Migros Ticino

30%

4.80

invece di 6.95

22%

–.70

Finocchio Migros Bio Italia, per kg, (100 g = 0.40) 40%

3.95 invece di 6.60

30%

3.50 invece di 5.–

Cachi Persimon Migros Bio Spagna, al kg, (100 g = 0.48)

Zucca a fette Italia, per kg, confezionate, (100 g = 0.35)

invece di –.90

4.60

Broccoli Migros Bio Spagna/Italia, al kg 21%

invece di 5.85

23%

2.30

invece di 3.–

Pomodori datterini Migros Bio Spagna/Italia, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.46)

3.40 invece di 4.30

Formentino Migros Bio Svizzera, busta da 125 g, (100 g = 2.72) 20%

3.95

Insalata invernale Migros Bio 200 g, (100 g = 1.98)

Migros Ticino
Cetrioli Spagna, il pezzo

Cucinati a mano,

I nostri menu Daily, preparati giorno dopo giorno amorevolmente a mano, sono particolarmente equilibrati, colorati e variegati. Sono in vendita nelle filiali, a scelta caldi o freddi. L'ideale da consumare subito o riscaldare.

Buon appetito!

9.95

invece di 14.30 Salmone affumicato Migros Bio d'allevamento, Norvegia, 180 g, in self-service, (100 g = 5.53) 30%

3.60 invece di 4.50 Filetti di pesce persico con pelle M-Classic d'allevamento, Svizzera, per 100 g, in self-service 20%

Pain Sarment precotto M-Classic, IP-SUISSE bianco, scuro o rustico, per es. bianco, 300 g, 2.50 invece di 3.10, (100 g = 0.83)

Filetti di tonno M-Classic pesca, Pacifico occidentale, per 100 g, in self-service

Gamberetti Pelican, ASC e capesante Pelican, MSC, prodotti crudi prodotto surgelato, in conf. speciale, per es. gamberetti, ASC, 750 g, 14.95 invece di 20.90, (100 g = 1.99) 28% 13.95 invece di 20.25

Gamberetti sbollentati e sgusciati M-Classic, ASC d’allevamento, Ecuador, 450 g, in self-service, (100 g = 3.10) 31% Delizioso su pane per toast con mousse di rafano

Fagottini di spelta alle pere Migros Bio, bastoncini alle nocciole o fagottini alle pere per es. fagottini di spelta alle pere Migros Bio, 3 pezzi, 225 g, 2.80 invece di 3.50, (100 g = 1.24)

Torta per feste fresca e fruttata con crema di cocco e mandarini

e

Prelibate

conf. da 4 1.30 di riduzione

14.50 invece di 15.80 Il Burro

4 x 250 g, (100 g = 1.45)

conf. da 6 –.30 di riduzione

Yogurt Saison e M-Classic disponibili in diverse varietà, per es. strudel di mele/prugne e cannella/castagne, Saison, 6 x 200 g, 4.50 invece di 4.80, (100 g = 0.38)

Liquide bontà Bevande

a partire da 2 pezzi 20%

Tutti i tipi di Caffè Latte Emmi per es. macchiato, 230 ml, 1.70 invece di 2.10, (100 ml = 0.73)

Tutti i tipi di cottage cheese M-Classic, bio e aha!, per es. M-Classic nature, 200 g, 1.– invece di 1.20 15%

a partire da 2 pezzi

30%

Tutti i tipi di Coca-Cola e Fanta in confezioni multiple, disponibili in diversi formati, per es. Coca-Cola Classic, 6 x 1,5 litri, 9.90 invece di 14.10, (100 ml = 0.11)

In offerta anche la Fanta

conf. da 10

33%

3.95 invece di 5.90

Capri Sun Multivitamin, Multivitamin Zero o Monster Alarm, 10 x 200 ml, (100 ml = 0.20)

conf. da 6 33%

Aproz o Aquella disponibili in diverse varietà, 6 x 1,5 litri o 6 x 1 litro, per es. Aproz Gazéifiée, 6 x 1,5 litri, 4.25 invece di 6.40, (100 ml = 0.05)

Tutti gli smoothie e i succhi, Innocent per es. succo d'arancia, 900 ml, 3.95 invece di 4.95, (100 ml = 0.44)

Riserve strategiche... presto fatto

Tutto l'assortimento bio Mister Rice per es. carnaroli, 1 kg, 4.40 invece di 5.50, (100 g = 0.44) 20%

Tutto l'assortimento Tiger Kitchen per es. salsa Szechuan, 200 g, 2.35 invece di 2.95, (100 g = 1.18) 20%

conf. da 3 33%

Ravioli Anna's Best refrigerati ricotta e spinaci, mozzarella e pomodoro oppure alla carne di manzo d'Hérens del Vallese, per es. ricotta e spinaci, 3 x 250 g, 9.50 invece di 14.25, (100 g = 1.27)

Tutte le zuppe Bon Chef per es. crema di verdure Easy Soup, 80 g, 1.85 invece di 2.60, (10 g = 0.23) a partire da 3 pezzi 30%

Tutto l'assortimento La Trattoria prodotto surgelato, per es. pizza al prosciutto, 2 x 330 g, 3.65 invece di 4.60, (100 g = 0.55) 20%

Tutti i tipi di pasta Tradition, IP-SUISSE per es. tagliatelle, 500 g, 3.60 invece di 4.55, (100 g = 0.72) 20%

conf. da 2 30%

Involtini primavera J. Bank's prodotto surgelato, con pollo o verdure, per es. con pollo, 2 x 6 pezzi, 740 g, 9.80 invece di 14.–, (100 g = 1.32)

Spicchi di mango, noci miste o mandorle, Sun Queen per es. spicchi di mango, 2 x 200 g, 7.– invece di 8.80, (100 g = 1.75)

36%

8.80

invece di 13.90

Nocciolata bio 650 g, (100 g = 1.35)

a partire da 2 pezzi 20%

Tutto l'assortimento di tisane Klostergarten per es. foglie di ortica bio, 20 bustine, 1.55 invece di 1.90, (10 g = 0.58)

13.95 Oriental Snacks Anna's Best

Kibbeh & Sambousek, Spinach & Beetroot Falafel, Crunchy Cauliflower, 510 g, (100 g = 2.74)

Olio d'oliva Don Pablo

1 litro o 500 ml, per es. 1 litro, 9.70 invece di 12.95, (100 ml = 0.97) 25%

di riduzione

Tutti i salatini da aperitivo Party per es. cracker salati, 210 g, 1.80 invece di 2.10, (100 g = 0.86) a partire da 2 pezzi

a partire da 2 pezzi 20%

Tutti i caffè istantanei (prodotti Nescafé e Starbucks esclusi), per es. Crema Noblesse Exquisito, in busta da 200 g, 8.80 invece di 10.95, (100 g = 4.38)

di 5.70

conf. da 2 20%

Cornatur nuggets o scaloppine mozzarella e pesto, per es. nuggets, 2 x 225 g, 6.30 invece di 7.90, (100 g = 1.40)

Dall’amaro al dolce

Branches Frey milk o dark, in conf. speciale, 50 x 27 g, per es. milk, 12.75 invece di 25.50, (100 g = 0.94) 50%

12.90 invece di 21.50 Pralinés du Confiseur Frey Christmas Edition, 452 g, (100 g = 2.85) 40%

9.45 Haribo Mega Fête in conf. speciale, 1 kg

–.50 di riduzione

Tutti i biscotti di Natale Grand-Mère per es. milanesini, 200 g, 3.30 invece di 3.80, (100 g = 1.65)

Tutti i tipi di cioccolato fondente Lindt per es. Les Grandes Noir Noisettes, 150 g, 3.80 invece di 4.70, (100 g = 2.53) a partire da 2 pezzi 20%

Quasi come fatti in casa Wafer con ripieno di crema al latte e al nougat

6.70

invece di 9.60

Biscotti rotondi Chocky M-Classic al cioccolato o al latte, 3 x 250 g, (100 g = 0.89) conf. da 3 30%

4.95 Knoppers Big Spender in conf. speciale, 15 pezzi, 375 g, (100 g = 1.32)

Tutti i detersivi per capi delicati Yvette (confezioni multiple e speciali escluse), per es. Wool & Silk in conf. di ricarica, 2 litri, 9.60 invece di 11.95, (1 l = 4.78)

di 16.95 Amarillidi su legno con motivo disponibili in diversi colori, il pezzo

13.55 invece di 16.95 Corona dell'Avvento disponibile in diversi colori, Ø 25 cm, la corona

Delicati ed efficaci

In azione anche il gel doccia da uomo

6.40 invece di 9.60

Prodotti per la doccia Nivea o Nivea Men per es. Creme Soft, 3 x 250 ml, (100 ml = 0.85)

4.80

invece di 8.–

Salviettine cosmetiche Kleenex, FSC® Original o Balsam, per es. Original, 4 x 72 pezzi

Tutto l'assortimento per la cura del viso e del corpo Garnier (prodotti per la cura delle mani, deodoranti, confezioni da viaggio e multiple esclusi), per es. acqua micellare detergente All in 1, 400 ml, 6.– invece di 7.95, (100 ml = 1.49)

Linea per la cura del corpo a base naturale dalla

Tutto l'assortimento Good Mood (confezioni multiple escluse), per es. sapone per le mani alla vaniglia e lavanda, 250 ml, 3.35 invece di 4.20, (100 ml = 1.34)

Pratici per la casa Varie

Tutto l'assortimento bio Mibébé per es. flip di mais, 90 g, 2.20 invece di 2.75, (10 g = 0.24)

Salviettine umide per bebè Pampers Sensitive o Aqua, in conf. speciale, per es. Sensitive, 12 x 52 pezzi, 23.– invece di 46.80

Latte di proseguimento Nestlé Beba Bio 2 oppure Junior 18+, per es. Bio 2, 3 x 800 g, 57.95 invece di 83.85, (100 g = 2.41)

Set di pantofole per ospiti disponibile in grigio o in rosso, con 6 paia di pantofole di varie misure, il set

Set termico da uomo Essentials con maglia e pantaloni, disponibile in nero, taglie S-XXL, il set

Completo termico da donna Essentials con maglia e pantaloni, disponibile in nero, taglie S–XXL, il set

30%

Tutto l’assortimento di giocattoli

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Tutte le capsule di caffè a partire da 2 pezzi (escl. Starbucks)

Incl. biancheria, calzetteria, scarpe, borse, accessori e cinture (articoli da viaggio e prodotti hit esclusi) 80.–di riduzione

19.95 invece di 99.95

Macchina per caffè in capsule

Delizio Carina Midnight Black

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