Azione 49 del 2 dicembre 2024

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edizione

MONDO MIGROS Pagine 2 / 6 – 7

SOCIETÀ Pagina 5

Wikipedia è un affascinante progetto di sapere collettivo al quale chiunque può partecipare

Il dolore dei palestinesi di Gerusalemme est e la necessità di opporsi all’oppressione

ATTUALITÀ Pagina 18

Il mondo perduto dell’infanzia di I.B. Singer in un libro edito di recente da Adelphi

CULTURA Pagina 23

Cosa succede se la neve scompare?

Mutonia: il parco artistico che trasforma i rifiuti in arte, grazie a una comunità di Santarcangelo

TEMPO LIBERO Pagine 38-39

La guerra raccontata dai soldati in crisi

«Dev’essere tutto falso e inconsistente, se migliaia di anni di civiltà non sono nemmeno riusciti a impedire che scorressero questi fiumi di sangue, che esistessero migliaia di queste prigioni di tortura. Soltanto l’ospedale mostra che cosa è la guerra». Parola di Enrich Maria Remarque, lo scrittore tedesco morto a Locarno nel 1970, che in gioventù aveva combattuto nelle melmose trincee della Prima guerra mondiale a Ypres e che nel suo romanzo-capolavoro, Niente di nuovo sul fronte occidentale, narra lo scombussolamento non solo fisico dei soldati tedeschi durante il conflitto. E l’incubo dei luoghi di cura: «Ho presenti le orribili immagini dell’ospedale: i soldati asfissiati che, soffocando giorno per giorno, vomitano pezzo per pezzo i polmoni bruciati».

A distanza di oltre un secolo, l’osservazione di Remarque resta attualissima. Perché nei conflitti in Ucraina, nel Medio Oriente e negli altri

scenari bellici dimenticati (per l’Istituto di ricerca per la pace di Oslo, sono in corso 59 guerre sparse in 34 Paesi), i morti non possono più parlare, e le rispettive propagande sono abili a nasconderne le salme. Impossibile, per esempio, capire quanti morti ci siano stati negli oltre mille giorni di guerra in Ucraina. E chi si sbilancia nel gioco delle cifre spesso scrive che «tra morti e feriti» ci sono state tot migliaia di vittime. Come se morti e feriti fossero la stessa cosa. Ma i primi sono invisibili, mentre i feriti, i mutilati, i sopravvissuti alle granate anche solo per un graffio, portano fuori e dentro di sé i segni non occultabili della guerra. Sarà anche per questo che gli ospedali – a Gaza oggi come in Siria anni fa – sono oggetto di bombardamenti?

Per cancellare non solo la speranza di salvezza per civili e combattenti colpiti, ma anche la loro imbarazzante presenza in grucce, carrozzelle, occhi di vetro e arti di titanio?

I sopravvissuti sono la prova vivente dello schifo della guerra. Non solo gli aggrediti, ma gli stessi aggressori, che dopo mesi di violenza appresa nelle accademie militari ed esercitata in battaglia esplodono interiormente. «A noi fu data così la più raffinata educazione di caserma, e spesso abbiamo pianto per la rabbia. […] Divenimmo duri, diffidenti, spietati, vendicativi, rozzi», scriveva Remarque alludendo ai ragazzi mandati al fronte, allora come oggi. E, oggi come allora, inermi di fronte al male che gli si chiede di compiere.

Su «Le Monde» sono apparse le testimonianze di riservisti israeliani in terapia in un ranch nei pressi di Tel Aviv per i disordini da stress post traumatico. Nessuno di loro mette in discussione le scelte del proprio Governo o gli ordini dei generali, ma tutti lottano per liberarsi dagli incubi dai quali sono abitati. «Per voi siamo come dei mostri, vero?» spiega uno di loro, che ave-

va partecipato all’identificazione del corpo di Yahya Sinouar, il capo ucciso di Hamas. Ma i mostri, in realtà, ce li hanno dentro. Si sentono in pericolo dappertutto, descrivono i compagni d’armi rimasti muti d’un colpo durante un attacco. Uno di loro ha l’impressione di sentire continuamente del «sangue invisibile» colare sul proprio corpo. Un suo compagno aveva testimoniato davanti a una commissione del Parlamento israeliano che i soldati avevano dovuto a più riprese «schiacciare» i palestinesi «vivi o morti, a centinaia». Ordini non meno feroci sono risuonati in questi mesi anche sul fronte opposto (basti pensare alle stragi del 7 ottobre 2023). «Questo libro – scriveva Remarque – non è che il tentativo di raccontare di una generazione la quale – anche se sfuggì alle granate – venne distrutta dalla guerra». Prima o poi finirà anche questa guerra, immolando di nuovo, tra le altre cose, l’anima di chi l’ha combattuta.

Luca Beti Pagina 17
Carlo Silini

«Le associazioni sono una scuola di democrazia»

Percento culturale ◆ Associazionismo e ricerca di nuovi volontari: ne abbiamo parlato con Jessica Schnelle

Monica Müller-Poffa

Come si possono trovare e motivare i volontari a impegnarsi in un’associazione o in un progetto? Occorre creare strutture che li attraggano. Ne abbiamo parlato con Jessica Schnelle, responsabile degli Affari sociali presso la Direzione Società e Cultura della Federazione delle Cooperative Migros, facendo riferimento al più recente studio commissionato dal Percento culturale Migros all’Istituto Gottlieb Duttweiler GDI: Un impegno qui e ora: quattro esempi per mobilitare efficacemente nuove persone volontarie.

Quanto è importante il volontariato in Svizzera?

Molto. Una Svizzera senza volontariato sarebbe inimmaginabile, afferma Markus Lamprecht, autore del monitoraggio dei volontari. Secondo questo studio, in Svizzera vi sono circa 100’000 organizzazioni. Una persona su quattro di età superiore ai 15 anni svolge almeno un’attività di volontariato non retribuita e tra le persone di età compresa tra i 40 e i 64 anni la cifra raggiunge un terzo. Nel 2016, 1,5 milioni di volontari hanno lavorato per un totale di 700 milioni di ore.

Che si tratti di politica, attività del tempo libero, movimenti sociali, organizzazioni umanitarie o aiuto al prossimo, rispetto ad altri Paesi, la Svizzera si distingue per il volontariato.

Perché?

Sicuramente per il sistema politico del nostro Paese, che valorizza la responsabilità personale. Il volontariato ci permette di funzionare come società. Le associazioni sono una scuola di democrazia. Che si tratti degli scout o del club dello jass, in qualità di gruppo ci si deve chiedere come organizzarsi, come proporre un’idea e come raggiungere un obiettivo. Il volontariato permette anche di coltivare i valori democratici e di realizzare nuove idee volte a migliorare la convivenza sociale.

Perché allora associazioni, iniziative e gruppi sociali hanno difficoltà ad attirare volontari?

La crescente individualizzazione ha portato a un maggiore coinvolgimento professionale e a meno tempo. Anche la mobilità e la pressione economica sono aumentate. In generale, quindi, ci impegniamo di meno. La prospettiva di dover ricoprire una carica in un’organizzazione per tre anni piace a poche persone.

«Impegnati qui e ora»

Il Percento culturale Migros ha commissionato all’Istituto Gottlieb Duttweiler GDI lo studio (case study) Un impegno qui e ora – quattro esempi per mobilitare efficacemente nuove persone volontarie (autore: Jakub Samochowiec). Nello studio, i volontari di quattro progetti forniscono informazioni su come riescono a mobilitare volontari sempre nuovi e ad avere così un impatto sulla società. Dal 1957 il Percento culturale Migros si impegna per una società diversificata, solidale e responsabile. La promozio -

Le associazioni chiedono troppo alle persone?

In genere si muovono bene. Varrebbe forse la pena di chiedersi quali siano le aspettative «tacite», ad esempio in termini di disponibilità. Le associazioni potrebbero cominciare a valorizzare chi c’è al momento, in altre parole, l’idea di un impegno «globale» potrebbe essere sostituita da una forma di cooperazione più libera: chi ha voglia di impegnarsi, lo farà. Anche se solo per tre mesi, e non per tre anni.

Questa consapevolezza è maturata nelle organizzazioni che si affidano ai volontari?

Probabilmente molti ne sono consapevoli, ma poi è difficile passare alla pratica, poiché una certa continuità è necessaria. Sono necessarie persone che sposino l’idea, che sostengano la struttura dell’organizzazione o del movimento, ma allo stesso tempo c’è bisogno di forme di partecipazione diverse, dalle attività su piccola scala alle nuove idee. Deve maturare l’idea secondo cui l’impegno sociale può essere fatto anche in modo diverso.

Oggi vi è ancora interesse a partecipare?

Sì, lo notiamo soprattutto tra due gruppi: da un lato ci sono i giovani, interessati a temi come il cambiamento climatico. Dall’altro lato vi è un enorme potenziale tra i baby boomer, che sono ancora in forma e hanno un alto livello di istruzione. A muoverli è il desiderio di restituire qualcosa alla società, e allo stesso tempo dare forma alla propria vita.

Il case study del GDI Un impegno qui e ora analizza quattro progetti

(Critical Mass, Haus pour Bienne,

ne e il sostegno del volontariato sono sempre stati un punto focale di questo lavoro. Lo studio comprende anche una guida di autoverifica che consente di confrontare le proprie risposte con quelle dei progetti intervistati. È inoltre possibile caricare suggerimenti su ciò che funziona bene nella propria organizzazione per attirare nuovi volontari. 15 buoni Migros da 100 franchi ciascuno saranno messi in palio tra le risposte inviate entro il 31 gennaio 2025. h ttps://engagement.migros.ch/it/ volontariato

Votare online da Migros Ecco come fare!

Aderenti a Critical Mass per le strade di Zurigo.

Gärngschee – Basel hilft, OpenStreetMap) che hanno avuto successo nella mobilitazione di nuovi volontari. Come ha fatto, ad esempio, «Critical Mass»? È un movimento che tutti conoscono: il Critical Mass si svolge spesso a Zurigo e in numerose altre città del mondo l’ultimo venerdì del mese, ritrovandosi sempre nello stesso luogo. Le persone poi pedalano insieme per la città. È un modo per esprimere la necessità di avere più spazio per il traffico non motorizzato. Non vi sono gerarchie e le persone si riuniscono spontaneamente con altre che la pensano come loro; ci si diverte senza obbligo di «impegno». Oggi però per il Critical Mass a Zurigo ci vuole una licenza e tutto è diventato più complicato.

Altri modelli di cooperazione volontaria?

La Haus pour Bienne a Bienne. L’edificio appartiene alla parrocchia riformata protestante di Bienne, ma è gestito dall’associazione FAIR! e svolge un lavoro di integrazione sociale. È a disposizione di tutti e vi si possono affittare gratuitamente delle stanze. Le persone vi si riuniscono per frequentare corsi di lingua, gruppi di cucito, laboratori di pittura o per giocare a ping-pong. Due organizzatori socio-culturali sono alle dipendenze dell’associazione FAIR! e gestiscono la Haus pour Bienne a tempo parziale.

Entrambi gli esempi hanno in comune una grande apertura. Ci vuole una struttura, ma deve essere flessibile. In conclusione, tutti e quattro gli esempi di successo analizzati hanno un terreno comune e sono molto aperti di fronte a nuove idee e opportunità. Se si vogliono nuovi volontari, occorre metterli nella condizione di contribuire a plasmare l’organizzazione e di essere coinvolti nei progetti.

Perché il Percento culturale Migros sostiene il volontariato?

I nostri stili di vita, la demografia e la situazione geopolitica stanno cambiando. Il volontariato è uno spazio in cui possiamo negoziare e lavorare insieme per ottenere qualcosa. Lavorare per una società più coesa fa parte del DNA della Migros. Noi ci basiamo sulla decima tesi di Dutti, secondo cui un’azienda può stare bene solo nella stessa misura in cui sta bene la società.

Info Migros ◆ Nel 2025 verrà introdotto il voto elettronico per le votazioni generali – una prestazione pionieristica. Un vademecum per esercitarlo nella vostra cooperativa

Nina Huber

Una volta all’anno, le socie e i soci delle cooperative regionali Migros sono chiamati a votare su questioni di carattere statutario e su altri temi, come nel 2022, quando hanno potuto esprimersi sull’introduzione della vendita di alcolici alla Migros, votazione il cui esito è stato negativo. Le votazioni generali delle cooperative regionali diventano così il fulcro della democrazia Migros. Ora arriva una nuova pietra miliare: le votazioni saranno possibili per via elettronica.

1 Per votare dovete essere socie o soci di una Cooperativa Migros.

2 Per il voto digitale è necessario un account Migros. Se ce l’avete già fate il login; in caso contrario potete registravi qui: account.migros.ch/about

3 Nel menu cliccate la sezione Cooperativa.

4 L’appartenenza alla cooperativa deve essere attivata digitalmente. È perciò necessario il numero di socia/ socio, che trovate sulla vostra tessera socia/socio oppure sulla copertina di «Azione».

5 Cliccate sul pulsante votare online e accettate le condizioni di partecipazione. Ora siete pronti!

6 Poco prima della prossima votazione riceverete una e-mail contenente le informazioni e un link che vi condurrà direttamente all’e-voting nell’account Migros. Se avete già inserito il vostro numero di telefono e vi siete annunciati per l’autenticazione a due fattori, otterrete un codice da in-

serire nell’account. In caso contrario, al momento dell’accesso sarete indirizzati a un processo di autenticazione a due fattori. Questa richiesta di conferma garantisce che stiate davvero votando di persona.

A proposito: dopo aver votato online, riceverete un buono digitale per una tavoletta di cioccolata da ritirarsi in una filiale Migros.

La votazione online è sicura?

Il voto elettronico è sicuro e anonimo. Oltre all’autenticazione a due fattori, è stato installato un sistema completo di crittografia e decrittografia. «Questo significa che non sarà mai possibile attribuire i voti a singole persone», spiega Nicola Vanetta, responsabile del progetto di e-voting. Al termine di una votazione generale, i responsabili delle cooperative vedranno solo il numero dei favorevoli, dei contrari e degli astenuti.

I premiati ACTIV FITNESS

Info Migros ◆ Negli scorsi giorni sono stati estratti i vincitori del concorso indetto per il decimo anniversario di ACTIV FITNESS Ticino

In occasione della festosa giornata di porte aperte tenutasi lo scorso 26 ottobre è stato messo in palio un ambito abbonamento annuale per ognuno dei sei centri presenti sul territorio cantonale. L’adesione è stata massiccia e tra i numerosissimi partecipanti sono stati ora estratti i sei fortunati vincitori. Si portano dunque a casa un anno di piacere, equilibrio psicofisico e fatica gratuita: Alessio Spinocchio (AF Bellinzona), Chiara Guffanti (AF Giubiasco), Lorenzo Lorenzini (in foto mentre riceve il premio dalla vice-gerente Leidiane Marconi presso AF Losone, il primo centro aperto in Ticino), Elena Riccardi (AF Lugano), Gabriele Benelli (AF Mendrisio) e Therese Stübi (AF Vezia). Congratulazioni e buon allenamento!

A partire da gennaio le socie e i soci della Cooperativa Migros potranno votare anche online.

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SOCIETÀ

La salute dei nati prematuri

Ogni parto pretermine è da considerare in tutte le sue criticità, ne parla la pediatra Chiara Arrizza

Pagina 9

La depurazione delle acque Dal 2016 sono cambiate le norme sui microinquinanti: cosa si fa in Svizzera e in Ticino

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Incontro con Livia Ravelli I ricordi della titolare dell’omonimo storico caffé locarnese che dal 2025 cambierà veste

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Il paese delle meraviglie del sapere

Le qualità dell’Ippocastano Gli estratti di questa pianta sono ricchi di saponine con una forte azione capillaro-protettiva

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Guida dilettevole per il passeggiatore digitale – 5 ◆ L’idea di Diderot e D’Alembert dell’Encyclopédie è sopravvissuta fino a noi, la sua ultima manifestazione si chiama Wikipedia ed è nata nel 2001

Cara passeggiatrice, caro passeggiatore, giunti al termine di questa piccola guida virtuale e contemplativa ai luoghi più ascosi e incantevoli del web, permettimi di lasciarti con un invito all’azione. Seguirai così la via scelta da Ilario Valdelli, informatico (con una seconda laurea in Scienze umanistiche) che dal 2005 è precipitato, come novella Alice (https://it.wikisource.org/wiki/Alice_nel_Paese_delle_meraviglie), in un paese delle meraviglie del sapere: Wikipedia.

Wikipedia è un progetto di sapere collettivo e partecipativo: Ilario Valdelli, dalla Mesolcina, è uno dei tanti volontari attivi nella comunità che si occupa della versione in italiano

«Prima o poi, gli uomini che pensano e scrivono governano l’opinione; e l’opinione, come sapete, governa il mondo», scriveva D’Alembert, che con il suo collega Diderot, nel 1751 pubblicava il primo tomo dell’Encyclopédie (puoi leggerla qui: https://gallica.bnf. fr/essentiels/diderot/encyclopedie).

Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, così come di byte nei nostri cavi ethernet e nelle nostre antenne WiFi. Eppure l’idea di creare un deposito di tutto il sapere umano è sopravvissuta: la sua ultima manifestazione nasce nel 2001, quando Jimmy Wales e Larry Sanger danno vita all’enciclopedia online che tutti conosciamo e utilizziamo (anche se a volte non lo ammettiamo). Wikipedia affonda le sue radici nel tecno-ottimismo che ha caratterizzato Internet alla fine del XX secolo, quando si pensava che la gente comune avrebbe potuto usare gli strumenti informatici come mezzo di liberazione, educazione e illuminazione. E – nonostante i tempi bui nei quali viviamo – sopravvive: a fine dicembre 2020, Wikipedia in italiano era composta 1’662’190 voci, ciò che corrisponde a circa 645 volumi dell’Enciclopedia Britannica. Ilario Valdelli, che dalla Mesolcina in cui risiede continua da più di 20 anni a lavorare come volontario, è uno dei tanti che compongono la comunità di Wikipedia in italiano, con ben 2’564’774 utenti registrati, dei quali 7079 hanno contribuito con almeno una modifica a una voce nell’ultimo mese.

Perché l’enciclopedia online ha una caratteristica unica: è prima di tutto – e lo rivendica – un progetto di sapere collettivo, al centro del quale c’è il bottone «modifica» che si trova su ogni sua pagina e che permette a chiunque di mettere mano a una voce,

di correggerla, di inserire nuove fonti o nuove informazioni.

«La prima volta che ho voluto modificare una voce su Wikipedia, per curiosità, il giorno dopo questo contenuto era stato cancellato per violazione di copyright. Mi sono detto che allora dietro questi milioni di voci enciclopediche c’era veramente qualcuno», racconta l’informatico. La voce in questione era quella relativa al paese di provenienza di suo padre, Dugenta (https://it.wikipedia.org/wiki/ Dugenta), in Campania. Da allora Ilario Valdelli ha continuato il suo lavoro di volontario, dedicandosi in particolare alla scrittura di voci relative alla Svizzera Italiana e alla sua cultura. Come quelle su Mario Agliati (it.wikipedia.org/wiki/Mario_Agliati), Giovanni Bianconi (it.wikipedia. org/wiki/Giovanni_Bianconi_(poeta)) e Valerio Abbondio (it.wikipedia.org/wiki/Valerio_Abbondio). È stato uno dei fondatori di Wikimedia Italia e Svizzera, due dei tanti capitoli nazionali della Wikimedia Foun-

dation, organizzazione senza fini di lucro nata negli USA che ha lo scopo di incoraggiare progetti di diffusione della conoscenza libera, tra cui c’è naturalmente anche Wikipedia. E oggi lavora in qualità di responsabile per l’innovazione di Wikimedia Svizzera, della quale è stato primo presidente. Attualmente sta contribuendo su Wikisource (biblioteca digitale multilingue, che accoglie testi e libri in pubblico dominio o con licenze libere) al Compendio storico della Valle Mesolcina del 1838 di Giovanni Antonio a Marca (it.wikisource.org/ wiki/Compendio_storico_della_Valle_Mesolcina).

Scansionato e poi caricato in originale su Wikimedia Commons, un enorme archivio di immagini digitali, suoni ed altri file multimediali con licenza libera, il compendio aveva però bisogno di essere trascritto (eccolo: https://commons.wikimedia.org/wiki/ Image:Compendio_storico_della_ Valle_Mesolcina.djvu).

Ilario Valdelli cura anche il pro-

getto Wiki Science Competition, un concorso fotografico biennale dedicato alla fotografia scientifica, aperto a tutti, anche a chi non è uno scienziato (qui i finalisti 2023: commons. wikimedia.org/wiki/Commons:Wiki_Science_Competition_2023/ Winners/Switzerland).

«Fare questo lavoro sulla Mesolcina mi sta aiutando a conoscere meglio la valle», racconta Ilario Valdelli, che ricorda di avere avuto un sussulto dopo aver letto un particolare passaggio del Compendio. «Dopo una debole pioggia d’alcuni giorni, caduta nell’anno 562, le alte piramidi che in quei tempi erano rinomate e rimarchevoli per la loro costruzione, chiamate unitamente Vedrua, si staccarono improvvisamente, e sotterrarono il paese di Drenola con tutti i suoi abitanti in numero di circa cento persone». I sopravvissuti, si narra nel volume, «andarono poi ad abitare a Sartens, luogo sulla sinistra della Moesa, che compongono presentemente quel piccol paese detto Sorte».

Sorte, l’epicentro del terribile nubifragio che ha colpito, 1462 anni dopo, la Mesolcina.

Ma un’enciclopedia fatta dai suoi utenti in modo partecipativo non è priva di rischi, come numerose controversie – debitamente raccolte in una pagina Wikipedia (it.wikipedia. org/wiki/Controversie_legate_a_ Wikipedia) – nel corso degli anni hanno mostrato. «Paradossalmente –spiega Ilario Valdelli – l’arrivo di intelligenze artificiali come quella dietro a ChatGPT, le cui fonti non sono trasparenti, mostrano tutta la forza e l’attualità di un progetto come quello di Wikipedia, dove ogni modifica a una voce può essere visualizzata e discussa».

E allora, cari passeggiatori, vi lascio con questo invito: cliccate il bottone magico con la scritta «modifica», per diventare artefici del vostro destino da internauti. Perché – parafrasando il Dodo di Alice nel Paese delle meraviglie – il miglior modo di spiegare una cosa è farla.

Pagina
Mattia Pelli

Il fascino della Stella di Natale

Attualità ◆ Dai bei colori sgargianti, rosso intenso, il più gettonato; ma anche salmone, crema, puntinate o striate, la Stella di Natale è il simbolo dell’Avvento e regalarne una significa riconoscenza e buon auspicio per chi la riceve. L’esperta vivaista e collaboratrice di «Azione», Anita Negretti, ci svela alcuni consigli e trucchetti per averla sempre splendida, anche dopo le festività

La Stella di Natale, il cui nome botanico è Euphorbia pulcherrima, è una pianta originaria del Messico e del Guatemala, dove il clima è caldo e secco e questa condizione va rispettata anche alle nostre latitudini. Prestate attenzione sia a dove sono state poste sia all’annaffiatura ricevuta. Al momento dell’acquisto, per il viaggio fino a casa, non esponetela al freddo, ma proteggetela anche con della semplice carta. Una volta giunti a destinazione, assicuratevi quindi che sia posta in un luogo caldo e soprattutto lontano da correnti d’aria.

È inoltre fondamentale prestare attenzione allo stato di salute delle piante: evitate quelle con foglie molto chiare, quasi tendenti al giallo, solitamente indicano una debolezza della pianta data da una scarsa concimazione, o con foglie rovinate, spezzate e con perdita di lattice bianco, che altro non è che la linfa della pianta. Le foglie devono essere erette, turgide, di un bel colore verde scuro, i fiori colorati (che in realtà sono foglie che la pianta colora per attrarre gli insetti impollinatori e che vengono definite brattee) devono avere un colore brillante, mentre i veri fiori, che potete scorgere all’apice dei rami, tra le brattee, devono risultare chiusi e ricchi di boccioli. Questo significa che la pianta è fresca e in salute. Infine, fate attenzione sia alla forma della pianta, che dovrà essere tondeggiante, per assicurare un buono e ideale sviluppo a tutti i rametti, sia al terriccio che dovrà presentarsi leggermente umido, non inzuppato né secco.

Sia che l’abbiate ricevuta come regalo, sia che l’abbiate acquistata voi, ricordatevi che siete in presenza di una pianta perenne, che può vivere per molti anni con i giusti accorgimenti, regalandovi una chioma dalle sfumature variegate a seconda della stagione: dopo l’inverno le nuove foglie che spunteranno saranno di un bel verde smeraldo e cambieranno colore con l’arrivo delle prime corte giornate nell’autunno successivo. Per non cadere nel pregiudizio di lasciarla perire poiché è solo una pianta per il periodo delle festività, una volta giunta nella vostra abitazione, per la vostra Stella di Natale scegliete un luogo caldo, che superi i 15 °C, luminoso ma che non sia al sole diretto (se posta davanti a una finestra, schermatela con una tenda leggera), a una certa distanza dai termosifoni e dal pavimento con impianto a serpentine, che potrebbero rovinare le foglie facendone seccare gli apici, come d’altronde per tutte le altre piante d’appartamento. Bagnatela circa una volta alla settimana, aggiungendo l’acqua sulla terra, non nel sottovaso, e avendo cura di evi-

tare ristagni di acqua nel porta vaso o nel piattino sotto al vaso. Utilizzate, se possibile, acqua poco calcarea ed evitate di nebulizzare acqua direttamente sulle foglie: rimarranno antiestetiche macchie di calcare che andranno a compromettere la bellezza della pianta.

Un buon trucco è di bagnarla la sera, ponendola nel lavandino, lasciando così alla terra tutto il tempo per sgocciolare, e rimettendola al proprio posto solo al mattino.

Per avere colori brillanti e uno sviluppo sano delle brattee, non dimenticatevi di concimarla ogni 15/20 giorni con un prodotto liquido per piante fiorite, scegliendo prodotti ricchi di fosforo e potassio: le Stelle di Natale arrivano infatti da serre di coltivazione dove vengono concimate con frequenza e soggette a un’alternanza luce/buio molto rigida, questo per accentuare la colorazione delle foglie. Se all’improvviso viene sospesa la loro razione di concime, andranno incontro a un deperimento: basterà quindi concimarle con regolarità come le altre piante d’appartamento.

Se avete raccolto il guanto di sfida per tenere al meglio la vo stra Poinsettia, altro nome della Stella di Natale, è probabile che verso l’inizio della primavera tenderà a spogliarsi dalle foglie più grosse: non preoccupatevi, sta semplicemente andando in riposo vegetativo dopo la fioritura. Tenuta moderatamente bagnata e concimata regolarmente, rimetterà presto le sue nuove foglioline. Nei mesi caldi, da maggio a fine settembre, potrà anche essere posta all’esterno, ma all’ombra, e prima del ritiro in casa, cambiatele il vaso, aumentandolo solo di 2/3 cm: avrete una bellissima pianta d’appartamento che vi terrà compagnia a lungo.

Il 7 dicembre arriva San Nicolao!

Attualità ◆ Un dolce omaggio per tutti i bambini vi aspetta alla vostra Migros

Per la gioia di tutti i bambini, sabato 7 dicembre dalle ore 15.30, il simpatico vecchietto barbuto vestito di rosso visiterà diverse filiali di Migros Ticino per incontrare i piccoli visitatori. Come vuole la tradizione, San Nicolao distribuirà un dolce omaggio, un sacchetto con tante cose buone da mangiare. Vi aspettiamo numerosi!

Una lunga tradizione

Il giorno dedicato a San Nicolao, di fatto, si celebra il 6 dicem bre, ed è legato alla figura di San Nicola di Bari o San Nicola di Myra, un santo vissuto tra il III e IV secolo.

Era conosciuto per la sua gran de generosità e impegno verso i poveri, i bambini, gli anziani e in generale i meno fortunati.

profittano per scambiarsi dei regalini. La figura bonaria e generosa di San Nicolao ha ispirato anche la tradizio ne di Babbo Natale.

La ricorrenza in molti Paesi europei è diventata un’immancabile tradizione prenatalizia, dove San Nicolao non solo incontra i bambini, ma visita anche gli anziani e altre associazioni e gli adulti ne ap-

S. Antonino

Lugano

Agno

Locarno

Bellinzona

Mendrisio Campagna Adorna

Cassarate

Taverne

Biasca

Losone Faido (14.00-16.00 con Finn)

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Troppa fretta di nascere

Salute ◆ Ogni parto prima del termine va considerato adeguatamente e supportato nelle sue criticità Ne abbiamo parlato con la pediatra Chiara Arrizza esperta di neonatologia

Il 17 novembre è stata la Giornata Mondiale della Prematurità (World Prematurity Day). Viene celebrata dal 2011 in oltre sessanta Paesi con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dei parti pretermine e sulle problematiche del neonato prematuro. Per comprendere la portata delle nascite annuali dei neonati pretermine bisogna fare un distinguo che tenga conto delle settimane di gestazione: «Un bambino su dieci, al mondo, nasce prematuro. Di questi, il 70% è definito “pretermine tardivo” o “ late preterm”, cioè di età gestazionale compresa tra le 34 e le 36 settimane e 6 giorni. La Svizzera è allineata a questa statistica». Così esordisce la dottoressa Chiara Arrizza, pediatra responsabile del reparto di neonatologia e del Medicentro Pediatrico Clinica Sant’Anna di Sorengo, che pure vanta una profonda esperienza come capoclinica di neonatologia maturata all’Inselspital di Berna: «Uno dei “Centri di terzo” livello specializzati nella presa a carico di neonati con grave prematurità, nei quali il personale medico-infermieristico è molto esperto nella presa a carico delle criticità di questi piccoli, e dove si agisce inoltre in modo multidisciplinare, anche con aiuto psicologico per i genitori che permette alle puerpere di confrontarsi con psicologhe appositamente formate per il puerperio, dunque abituate alla donna che ha partorito e ancor più attente ad eventuali depressioni post parto, a maggior ragione in situazioni complesse come queste».

Più bassa è l’età gestazionale alla nascita maggiori saranno le difficoltà del neonato: dall’immaturità polmonare all’instabilità nella termoregolazione, fino a problemi di tipo metabolico e neurologico

Nascere prima del termine presenta diverse criticità, tanto più importanti quanto più precoce è la nascita e quanto più basso il peso: «Il vero problema è la criticità dei gravi prematuri (24 settimane, per circa 450 grammi di peso), la cui sopravvivenza è aumentata proprio grazie alla presa a carico specialistica e multidisciplinare ed è ora del 70% (a fronte comunque di un’elevata percentuale di probabili comorbidità)». Quindi, a seconda dell’età gestazionale alla nascita e del decorso clinico della gravidanza, il neonato prematuro presenta problematiche che devono essere gestite: «Sarà un neonato di basso peso, con immaturità polmonare che può essere causa di stress respiratorio tanto più importante quanto più bassa è l’età gestazionale alla nascita. Presenterà difficoltà alimentari, instabilità nella termoregolazione e problemi di tipo metabolico, neurologico e infet-

tivo». Insomma, più nasce prematuro e più il neonato sarà globalmente immaturo. Ma, secondo la specialista, «la maggior parte di questi bimbi risolve la sua problematica polmonare nel primo anno di vita, anche se potrebbero restare deboli dal punto di vista bronchiale e, ad esempio, avere rischio maggiore di sviluppare decorsi severi di bronchioli e altre affezioni del tratto respiratorio anche per patogeni coi quali altri bambini guariscono con pochi giorni di sindrome influenzale». Si può intuire che un bimbo prematuro potrebbe essere destinato ad avere problemi di salute nel tempo. «Ci può essere una cronicità, anche se non tutti sono destinati ad avere problemi, ma la prematurità potrebbe comportare alcune patologie che possono avere effetto per tutta la vita come le disabilità legate a complicanze neurologiche. Diciamo che più la prematurità è grave, e più possono presentarsi situazioni che vanno seguite dagli specialisti nel tempo».

Molteplici le cause del nascere anzitempo, anche se non sempre individuabili: «Esistono condizioni preesistenti la gravidanza o legate ad essa che potrebbero favorire una nascita pretermine. Inoltre, possono predisporvi, ad esempio, infezioni locali dell’apparato riproduttivo del tratto uro-genitale, malattie della placenta, malformazioni o distensione dell’utero (ndr: come può accadere nelle gravidanze multiple). In alcuni casi, può rendersi necessario un parto anzi termine per preservare la salute della madre o del nascituro (come gra-

(redattore responsabile)

vidanza gemellare, plurigemellare o un’inadeguata crescita fetale). Infine, esistono cause collegate a condizioni esterne disagevoli che potrebbero portare ad anticipare la nascita: un sovraccarico di lavoro, la mancanza di protezione della maternità soprattutto negli ultimi mesi di gravidanza e situazioni di stress materno». A tema prevenzione, l’OMS ha lanciato una sfida per cercare di ridurre le nascite pretermine (stimate in circa 15 milioni al mondo), come pure la maggiore morbilità e mortalità dei bimbi che nascono in queste condizioni e vivono nei Paesi a basso sviluppo: «In questi Paesi il fattore socioeconomico, le dipendenze, le infezioni materne, incidenti e lavori pesanti anche in gravidanza rappresentano le principali cause di nascite premature. La sfida è ginecologica ed è indispensabile mettere in atto tutto quanto sia possibile per individuare i fattori di rischio, favorendo controlli regolari e una gravidanza il più serena possibile. Fermo restando che essere gravida non significa assolutamente essere ammalata, ma bisogna ricordare che dalla ventiquattresima settimana la donna inizia ad accusare maggiore fatica, il corpo cambia e il peso andrà pure monitorato». Nelle patologie neonatali, e nelle nascite premature, i genitori sono di fondamentale importanza: «Il loro ruolo è curativo e la relazione con il bimbo deve essere instaurata sin dall’inizio. È inoltre importante sottolineare che quando nasce un neonato pretermine, anche la sua mamma e il suo papà diventano tali prima

Un Avvento di storie e luci

Mendrisio ◆ Un calendario diffuso invita all’ascolto di 24 racconti

È un calendario dell’Avvento molto particolare quello che si può vivere in questi giorno a Mendrisio. Pensato dal Dicastero Cultura, eventi e sport della città e curato da Barbara Paltenghi Malacrida, parte dall’idea di far risplendere le vie del Borgo e contemporaneamente invita la popolazione a passeggiare lungo un percorso che da Via Stella, passando per Piazza del Ponte e Corso Bello, arriva a Piazzetta Borella. Ad accompagnare le passeggiate di chi vorrà vivere questo originale calendario diffuso ci sarà ogni giorno un nuovo racconto da ascoltare. In tutto 24 storie appositamente scritte per l’occasione da altrettanti autori del territorio. Ogni «casella» è la vetrina di un negozio che ospita uno schermo, così che i passanti possano godere delle interpretazioni dei sei attori e attrici coinvolti nel progetto. Alla fine di ogni narrazione si potranno ammirare le immagini caleidoscopiche create dal videoartista Roberto Mucchiut e ispirate a capolavori rinascimentali. Infine, la sera del 24 dicembre e fino al 6 gennaio 2025 tutti gli schermi saranno accesi come una grande installazione luminosa e sonora.

del tempo stabilito. Perciò, è fondamentale affiancarli in questo percorso. Dopo gli anni della pandemia, neonatologia e terapie intensive neonatali hanno riaperto le porte a genitori, ristabilendo il necessario e insostituibile rapporto parentale fin dalle prime ore dopo il parto».

Un’esperienza di questo tipo porta anche a chiedersi se a un parto pretermine ne succederà un altro del genere: «Dipende dalle cause che hanno scatenato la prematurità: se dovute a condizioni locali dell’utero materno c’è la possibilità che questo possa ripetersi. Se invece si tratta di un evento isolato, probabilmente non si ripeterà e la mamma potrà portare a termine una prossima gravidanza senza rischi». Ad ogni modo, la specialista ricorda che è bene indagare tutta la storia clinica della mamma: «Sarà necessario un monitoraggio sulla base del primo parto prematuro e delle sue cause». Infine, superato il periodo di degenza ospedaliera, neonato e genitori saranno assistiti in un follow-up che li accompagnerà anche a casa: «La cura e il prendersi cura del neonato con criticità e della sua famiglia copre l’aspetto pediatrico, ma anche neurologico, in modo da seguire il bimbo e i genitori nel complesso, secondo le linee guida internazionali. Inoltre, a livello multidisciplinare si lavora in équipe composta da specialisti di differenti discipline sanitarie come infermieri, psicologi, perinatali, fisioterapisti che convergono nella presa a carico e personalizzando ad ogni caso le decisioni diagnostiche e terapeutiche».

Il calendario ha aperto la sua prima casella ieri sera con il racconto di Sara Catella e proseguirà per tutto il periodo dell’Avvento con le storie scritte da Alberto Nessi, Alessio Pizzicannella, Doris Femminis, Mario Casella, Maria Rosaria Valentini, Massimo Daviddi, Carlo Silini, Tommaso Giacopini, Tommaso Soldini, Yari Bernasconi & Andrea Fazioli, Alexandre Hmine, Begoña Feijoo Fariña, Sabina Zanini, Luca Brunoni, Katia Balmelli, Virginia Helbling, Flavio Stroppini, Bérénice Capatti, Giorgio Genetelli, Olimpia De Girolamo, Fabiano Alborghetti, Anna Ruchat e Dada Montarolo. Tutti i racconti sono stati raccolti nel volume Un Natale di storie a Mendrisio a cura di Gabriele Capelli Editore.

Un bambino su dieci al mondo nasce prematuro. (Freepik.com)

La vera Italia: pasta e pesto

Depurazione delle acque: le nuove sfide

Ambiente ◆ Nel 2016 sono cambiate le norme sull’abbattimento dei microinquinanti, 120 degli 800 impianti di depurazione in Svizzera si stanno adeguando e applicano un modulo supplementare: in Ticino saranno quattro

Una prima, ovvia ma fondamentale, constatazione: l’acqua è parte integrante della vita e del nostro patrimonio, per cui necessita di una protezione costante per garantirne la disponibilità nel medio-lungo termine e salvaguardarne la quantità e la qualità. Sul piano istituzionale, a livello cantonale, nel luglio 2014 è nato Ufficio protezione delle acque e approvvigionamento idrico (UPAAI), che in seno al Dipartimento del territorio fa parte della Sezione della protezione dell’aria, dell’acqua e del suolo (SPAAS): il campo di azione ingloba acque superficiali e sotterranee, approvvigionamento idrico, smaltimento delle acque, impianti di depurazione (IDA), industrie ed artigianato, e serbatoi (tank). Il tutto per una gestione qualitativa delle acque il più possibile integrata dell’intero ciclo dell’acqua, dall’approvvigionamento allo smaltimento passando per la protezione (www.ti.ch/acqua). In totale, una ventina di funzionari diretti dal dott. Mauro Veronesi.

In Svizzera sono presenti oltre 300’000 sostanze microinquinanti in prodotti di uso quotidiano: provengono da industria e artigianato, economie domestiche e agricoltura

Nel settore della depurazione, l’evoluzione è importante e significativa, siccome la filiera di trattamento risulta vieppiù complessa e performante. Alla fase meccanica di sgrigliatura, dissabbiatura, disoleatura e decantazione si è aggiunto uno step di trattamento biologico (solitamente fanghi attivi) e chimico (flocculazione del fosforo). Gli impianti di maggiori dimensioni sono più sofisticati di quelli piccoli, dovendo soddisfare esigenze depurative più severe.

Una trentina di depuratori dislocati nel Cantone

Oggi, abbiamo 9 IDA consortili: Barbengo, Biasca, Bioggio (per Lugano), Croglio, Foce Maggia, Foce Ticino, Giubiasco, Rancate (per Mendrisio) e Vacallo (per Chiasso). Gli impianti comunali sono 21, così dislocati: Airolo, Altanca (Quinto), Auressio (Onsernone), Berzona, Broglio (Lavizzara), Campo Blenio (Blenio), Campra (Blenio), Carì (Faido), Cornon (Dalpe), Dalpe, Isone, Loco (Onsernone), Medeglia (Monteceneri), Mergoscia, Morcote, Mosogno (Onsernone), Olivone (Blenio), Palagnedra (Centovalli), Prato Leventina, Rodi (Prato Leventina) e Varenzo (Quinto).

La piaga dei microinquinanti a bassissime concentrazioni

La depurazione convenzionale tratta le acque luride domestiche (feci, urine, acque di scarico da docce, lavastoviglie e lavatrici) e quelle industriali facilmente degradabili (da caseifici). Ma non basta. In funzione dello sviluppo sostenibile delle attività umane – per garantire il giusto equilibrio fra necessità economiche, ambientali e sociali – negli ultimi decenni ci si è focalizzati, grazie a modifiche di norme introdotte nel 2016, sull’abbattimento dei microinquinanti nelle acque di scarico addotte ai de-

puratori. L’obiettivo è di abbattere il carico di microinquinanti riversati nell’ambiente, almeno del 50% su scala nazionale. Ma che cosa sono i microinquinanti? Sostanze contenute in prodotti di uso quotidiano (medicinali, detergenti, cosmetici, ecc.), nonché in prodotti fitosanitari e per la protezione dei materiali. Tali sostanze finiscono nelle acque attraverso lo smaltimento delle acque urbane o per immissioni diffuse (dilavamento di superfici agricole). Sono microinquinanti presenti a bassissime concentrazioni (da un miliardesimo a un milionesino di grammo al litro), ma dagli effetti negativi sugli organismi acquatici o compromettenti sulle risorse di acqua potabile. In Svizzera abbiamo oltre 300’000 sostanze del genere in prodotti di uso quotidiano: provengono da industria e artigianato, economie domestiche e agricoltura. Usiamo prodotti come medicinali e per il corpo, mezzi di contrasto radiologici, detergenti, prodotti fitosanitari e per la protezione di materiali (per proteggere il legno o pitture per le facciate): le sostanze inquinanti in essi contenute finiscono nelle acque. Ma alcune di tali sostanze fanno durare il più a lungo possibile l’effetto desiderato, sono poco o nulla degradabili, per cui non sono eliminabili dagli impianti di depurazione tradizionali, sicché si disperdono inalterate nell’ambiente: le ritroviamo, in tracce, nei piccoli fiumi e nei ruscelli, e in aree densamente popolate.

Quattro impianti per combatterli

Eppure, negli ultimi 50 anni disponendo di IDA vieppiù performanti, la qualità dell’acqua è sensibilmente migliorata. Con l’alto livello dei depuratori, le immissioni di sostanze nutritive (azoto e fosforo) e di sostanze organiche disciolte nonché di metalli pesanti nell’ambiente sono nettamente diminuite. Ma buona parte dei microinquinanti finisce nelle acque attraverso gli IDA: è qui che si impongono misure incisive di riduzione. Date le conoscenze attuali, si prestano l’ozonizzazione e/o l’assorbimento

su carbone attivo, due metodi applicati con successo per trattare l’acqua potabile. Per il dott. Mauro Veronesi dell’UPAAI, le modifiche normative del 2016 consentiranno di trattare in modo mirato i microinquinanti in circa 120 IDA sugli 800 presenti in Svizzera, applicando un modulo supplementare (quinta fase). Gli impianti sono stati selezionati in base a tre criteri: dimensione (> 80’000 abitanti allacciati), presenza di laghi utilizzati a scopo potabile a valle di impianti con oltre 24’000 abitanti allacciati, insufficiente diluizione nel ricettore delle acque trattate.

La «strategia cantonale», in funzione di un modulo supplementare per abbattere i microinquinanti, ha individuato quattro impianti da potenziare, di cui 3 nel bacino del Ceresio (Bioggio, Barbengo e Rancate) e Vacallo per il comprensorio di Chiasso; gli IDA di Giubiasco, Foce Maggia, Foce Ticino, Biasca e Croglio non sono per ora prioritari, mancando criticità qualitative a livello dei ricettori (fiume Ticino e Verbano), siccome la forte diluizione delle loro acque minimizza gli impatti delle immissioni dei reflui depurati su ecosistemi acquatici, ambiente e biodiversità.

Applicata la tecnica dei «carboni attivi»

Gli IDA consortili di Bioggio e Chiasso, in avanzata fase di progettazione, prevedono l’impiego di carboni attivi, in quanto – rileva il capo dell’UPAAI – «il ricorso all’ozono non si dimostra opportuno, siccome nei test preliminari in laboratorio si sono avuti prodotti secondari indesiderati, come bromati e nitrosammine».

Per il depuratore di Lugano sul Piano del Vedeggio si prevedono rifacimento e potenziamento della linea acque, inclusa la quarta fase, e ciò entro un lustro. L’onere è di 75 milioni (una decina per abbattere i microinquinanti con sussidio federale del 75% e il resto per potenziare ed ammodernare l’IDA); entro il medesimo periodo, anche l’impianto di Chiasso dovrebbe pure essere una realtà, con una spesa di 45 milioni.

Per gli impianti di Barbengo e Rancate si è ancora in fase preliminare di progettazione, ma si ricorrerà alla tecnica dei carboni attivi, con messa in funzione fra 10-15 anni.

Obiettivo prioritario: la rimozione dell’azoto

Aggiunge il dott. Mauro Veronesi: «Per monitorare gli effetti positivi del potenziamento dell’IDA di Bioggio, dal 2018 è attivo un campionatore automatico sull’argine sinistro del Vedeggio, 400 metri a valle del punto di immissione delle acque depurate. L’apparecchio raccoglie in continuo aliquote d’acqua dal fiume, con un campione quindicinale da sottoporre ad analisi. Si verifica così la presenza dei microinquinanti, accertando se essi sono presenti in concentrazioni elevate, non da ultimo a causa dell’esigua diluizione del fiume. Una volta disponibili i quattro nuovi impianti, si beneficerà di un miglioramento della qualità delle acque, ma residui di cosmetici, medicamenti, pesticidi, detergenti, ecc., provenienti da altri IDA minori, continueranno ad impattare le acque». Non a caso, su piano federale si discute di estendere la lotta ai microinquinanti ad altri IDA in funzione, con nuove soglie di depurazione a beneficio dell’ambiente. Con altri interventi sui depuratori si punta a un abbattimento elevato, magari sostanziale o decisivo, dell’azoto, non solo per ossidarlo (nitrificazione) ma pure per eliminarlo, come si fa per il fosforo, ridotto, e non di poco, nel Ceresio. La rimozione dell’azoto –che, come il fosforo, è elemento nutritivo indispensabile per il fitoplancton – è già un traguardo in vari depuratori oltre San Gottardo e anche da noi è realtà negli IDA di Foce Ticino e di Bioggio. Ma, vista la presenza di cianobatteri sul lago di Lugano con clamorose fioriture tossiche a riprova del ruolo giocato dall’azoto e considerato l’effetto cromatico del fenomeno, occorre accelerare nel rimuovere l’azoto.

Sottolinea il capo dell’UPAAI: «Ci si aspetta un più deciso intervento a livello di legge, ma Berna è irremovibile nel negare ogni tipo di sussidio per abbattere l’azoto, diversamente da

quanto fa per i microinquinanti. Per il Ticino l’onere finanziario sarebbe consistente, tanto più che in svariati Cantoni della Svizzera tedesca il problema dell’azoto è già stato risolto con massicci aiuti federali, mentre adesso per Ticino e Romandia si rimane a bocca asciutta».

In quali altri ambiti si può ancora intervenire per minimizzare gli impatti ambientali? La misura principale consiste nel ridurre l’apporto di sostanze nutrienti nel lago e nei fiumi, in primis fosforo e azoto, separando a livello di canalizzazioni le acque luride da quelle meteoriche. Ciò però spetta ai Comuni, attraverso il Piano Generale di Smaltimento delle Acque (PGS).

Le nanoplastiche nei nostri laghi

Altra seria faccenda. Secondo uno studio di fine anni Venti circa (2014 EPFL e 2018 Dipartimento del territorio), le concentrazioni di microplastiche nel Ceresio sono – come nel Verbano e nel Lemano – il doppio rispetto agli altri laghi svizzeri. Sono le nanoplastiche a suscitare i maggiori grattacapi poiché esse oltrepassano alcune barriere fisiologiche, anche se si cerca di eliminarle attraverso appositi filtri e metodi di pulizia. «Un IDA con la filiera più avanzata di trattamento, secondo Mauro Veronesi, arriva a trattenere il 93% delle microplastiche, con alcune piccole “fughe”. Si imporrebbe un “cambiamento di mentalità”, sia prediligendo abiti ecosostenibili, privi di fibre di plastica, sia attraverso un solido rispetto per la natura, evitando di gettare rifiuti nell’ambiente (littering)». Questione di educazione, prima di tutto. L’acqua che sgorga dai rubinetti proviene anche dal Ceresio, con quattro punti di prelievo. Grazie a una filiera di trattamento delle acque molto sofisticata, sono eliminate microplastiche, microinquinanti disciolti e microorganismi presenti. L’acquedotto a lago in fase di realizzazione a Riva San Vitale prevede varie fasi di trattamento: ozono, filtro a carbone attivo granulare, ultrafiltrazione e trattamento UV.

L’impianto di depurazione delle acque di Giubiasco. (amb.ch)

La signora dei portici di Locarno

Incontri ◆ Aneddoti e ricordi di Livia Ravelli, titolare dell’omonimo storico bar caffè in Largo Zorzi, gestito per oltre un secolo dalla famiglia del marito, Ademaro

Ti accoglie come sempre, da una sessantina d’anni a questa parte, in piedi accanto al bancone del bar. Dietro di lei le foto di famiglia, accanto una cassa ancora funzionante del 1914. Un saluto, qualche scambio di convenevoli, quindi ti affida ai suoi fidati collaboratori – che lavorano con lei anche da trent’anni e più, cosa più unica che rara in un pubblico esercizio – per lasciarti gustare un caffè, un tè, una cioccolata con panna d’inverno o un gelato d’estate, magari sui tavolini che s’affacciano su Largo Zorzi e la grande magnolia. Sempre elegante, con i suoi tailleur pastello e l’immancabile foulard, non manca di chiederti della famiglia, del lavoro, ricordando tutto dell’ultima conversazione avvenuta magari qualche mese fa.

Tra il Secondo dopoguerra e gli anni 80 la pasticceria Ravelli ha dettato i tempi della storia locale e del glamour internazionale

Livia Ravelli, classe 1937, è indubbiamente la signora dei portici di Locarno. Da quando, una decina d’anni fa, è scomparso il marito Ademaro, per i più intimi «Maro», è toccato a lei gestire il bar caffè Ravelli, locale che ha superato il traguardo dei 110 an-

ni di storia e che nel 2025 si appresta a cambiare radicalmente, trasformandosi in ristorante. Toccherà al bis-nipote, Giorgio Ravelli, proseguire la tradizione di famiglia di ristoratori (il padre di Giorgio, Enrico, ha gestito per anni il ristorante Navegna, in riva al lago) ed esercenti. «Alla mia età è giusto lasciare spazio ai giovani che hanno idee ed energia e sono sicura che Giorgio farà un ottimo lavoro, continuando nella migliore tradizione quello che la sua famiglia ha fatto per oltre un secolo», spiega la signora Livia. Una famiglia, i «Ravell», nella quale è entrata in punta di piedi, nel 1962, quando appunto sposò Ademaro, pasticcere di Locarno, figlio di Giovannino, che nel 1913 inaugurò «L’offelleria Ravelli», come si chiamava all’epoca una pasticceria (da qui il famoso proverbio milanese «ogni ofelè fa il so mester », cioè ogni artigiano faccia il suo mestiere). Tra il Secondo dopoguerra e gli anni 80 del secolo scorso la pasticceria Ravelli ha dettato i tempi della storia locale e del glamour internazionale. La lista delle personalità passate sotto le insegne del caffè o che si sono fermate sulla terrazza è lunga e coinvolgente, richiamando alla memoria un tempo che fu e che probabilmente non tornerà più. Si vedeva spesso l’A-

ga Khan in compagnia della Begun, un Paul Klee oramai malato che scoprì i savoiardi al marsala confezionati dall’Ademaro, il pittore Italo Valenti, lo scultore Jean Arp e gli intellettuali locarnesi come Marino Marini ed Edgardo Cattori, studiosi come Virgilio Gilardoni, Ettore «Lupo» Ongaro e Pino Bernasconi che si sfida-

vano tra i tavoli del «Ravell» a colpi di versi di Montale e Ungaretti. Tra questi tavoli nacque l’idea di spostare il Festival del film dal Grand Hotel al maxischermo in Piazza Grande. Un trasloco che non piaceva a Raimondo Rezzonico, ma quando il «patron» vide l’effetto che faceva sul pubblico in piazza la proiezione-test sullo schermo realizzato dall’architetto Livio Vacchini si dovette ricredere. E fu la fortuna del Festival. «Allora era veramente un mondo diverso, i clienti parlavano tra loro, discutevano, anche animatamente ma sempre con rispetto, non si rinchiudevano dietro lo schermo dello smartphone come oggi. E nascevano o si consolidavano amicizie vere», dice. In punta di piedi, con discrezione, ma con un piglio e una personalità capaci di «comandare su tutto» come diceva spesso Ademaro quando era ancora in vita, la signora Livia governa da par suo il locale che è un unicum tra i pubblici esercizi della regione e forse del Canton Ticino. Nata Dillena, patrizia di Intragna, commessa di una boutique di abbigliamento per bambini, Livia Ravelli dopo le nozze si catapultò nella «nuova belle époque» vissuta e disegnata da turisti, residenti e da personaggi del jet set che arrivavano a Locarno per il Festival e si sedevano ai tavolini del suo bar per gustarsi un tè con i pasticcini o il gelato, mangiando una piadina o una pizza, osservando il via vai sotto i portici. Tavolini in legno massello e sedie «griffate» Giò Ponti per Cassina (l’arredamento di design d’epoca è rimasto tuttora, salvato da

ben tre alluvioni che hanno allagato piazza e portici). Mobili importanti, massicci, perché al «Maro» e a sua moglie Livia non sono mai mancati il buon gusto e il piacere di circondarsi del bello e firmato. «Ricordo però con molta ammirazione la baronessa Von Thyssen, che con il suo seguito alloggiava al Grand Hotel ma non mancava mai di venire da noi per gustarsi i dolci che Ademaro le preparava. Poi da Villa Favorita a Lugano non disdegnava una gita a Locarno anche fuori dal periodo festivaliero e naturalmente veniva a farci visita, apprezzando anche le opere di Edgardo Cattori e di altri artisti che mio marito collezionava. Quella sì era una donna di gran classe», ricorda con ammirazione Livia che però per la sua storia e il suo portamento non ha nulla da invidiare alla nobildonna spagnola. Il bar caffè Ravelli, anche quando nel 1980 cessò con la pasticceria per concentrare la sua attività come pubblico esercizio, è sempre stato un crocevia di idee e personalità. Ademaro era il catalizzatore, ma la signora Livia, un passo indietro al marito, coltivava relazioni, amicizie e riusciva persino a mettere d’accordo i suoi impegnativi clienti. «Per tanti anni sedettero allo stesso tavolo, accanto al bancone, l’editore Armando Dadò, il senatore Sergio Salvioni, gli architetti Livio Vacchini e Luigi Snozzi, che nonostante fossero concorrenti si stimavano vicendevolmente, l’avvocato Luciano Giudici, quindi Flavio e Gianfranco Cotti, che avevano lo studio qui accanto e al Ravelli erano di casa. Poi artisti e intellettuali ai quali si aggiungevano municipali e sindaci dell’epoca. Alle 13.30 quasi ogni giorno, c’era la tradizionale «ora culturale» del caffè Ravelli, dove sorseggiando un caffè, tostato personalmente da Ademaro, si discuteva di politica, di cronaca, di fatti e misfatti, di presente e futuro, ma sempre in amicizia, nonostante gli avventori avessero radici e orientamenti così diversi. E poi magari si finiva a giocare a carte, nel salottino al piano di sopra», racconta.

Un’abitudine, quella della partita a carte, che la signora Livia coltiva ancora oggi, con le sue amiche di sempre, a cominciare da Carla Del Ponte, l’ex magistrato con la quale condivide anche qualche buca al Golf Club di Ascona. «L’anno prossimo compirò 88 anni, ma salute permettendo un giro sul green cerco sempre di farlo ancora», dice sorridendo la signora dei portici di Locarno.

Proprio accanto al caffè Ravelli, all’angolo di via della Gallinazza, sorge un palazzo del 1700, Casa Varenna, che racchiude un paio di medaglioni di pregio, affrescati dalla scuola degli Orelli e una spettacolare terrazza. Acquistato 25 anni fa dalla famiglia Marcollo, grazie al progetto dell’architetto Michele Bardelli il palazzo, la cui storia si incrocia con le vicende umane di un ex sindaco, Bartolomeo Varenna (1818-1886) e generazioni di locarnesi, è in via di ristrutturazione e recupero. Così come il porticato e la terrazza, già demolita per creare un nuovo

affaccio su Largo Zorzi. Il progetto di rilancio del comparto è curato dal gruppo Artisa, che sta ristrutturando anche lo stabile ex Globus e che realizzerà tra Casa Varenna e l’ex convento di Santa Caterina un boutique hotel con una ventina di camere e un nuovo blocco abitativo. Da sottolineare che il complesso alberghiero-residenziale sarà ad usufrutto pubblico con il passaggio pedonale che da Largo Zorzi condurrà al futuro Museo cantonale di storia naturale al Santa Caterina, attraverso degli spazi adibiti a giardini.

Livia Ravelli davanti al bancone del suo bar con una statua che la ritrae realizzata da Pedro Pedrazzini. (M. Giacometti)
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Le saponine, vera ricchezza dell’Ippocastano

Fitoterapia ◆ Comunemente detto Castagno d’India, la sua origine è da ricercare invece nella Penisola balcanica

Eliana Bernasconi

Il nome scientifico dell’Ippocastano è Aesculus hippocastanum L., comunemente detto Castagno d’India. di questo nome non si conoscono i motivi in quanto l’albero non ha nulla a che fare con l’India, e la sua vera origine è nella Penisola balcanica, ma è chiamato anche Castagna matta o Castagna equina. Pietro Andrea Mattioli, medico umanista vissuto a Siena nel 1500, per primo ne ricevette i frutti da un medico fiammingo proveniente da Costantinopoli. Mattioli, in tempi nei quali la chimica dei nostri giorni ancora doveva nascere, con grandi splendide tavole per la prima volta disegnate dal vero, gettava le basi della ricerca botanica e farmacologica, l’autore senese così descriveva i frutti di questa pianta: «chiamasi in Costantinopoli castagne cavalline, per giovar elle à i cavalli bolsi, e che tossiscono, date loro a mangiare».

La Castagna matta è detta anche equina perché in Turchia era usata per curare i cavalli dalla tosse

L’etimologia del nome Ippocastano nasce dunque dal greco hippos (cavallo) e castanum (castagno), i Turchi davano appunto da mangiare questi semi ai loro cavalli per guarirli dalla tosse. Nella stessa epoca un altro

famoso medico, Castore Durante, aggiungeva: «Le castagne cavalline astringono, e mangiate generano ventosità e sono spiacevoli al gusto… dansi a quelli che vomitano, o sputano sangue». Basta approfondire le notizie su una pianta per scoprire quali e quante sorprendenti applicazioni ne venivano fatte in passato, ad esempio la medicina popolare impiegava l’acqua di cottura dei frutti interi per maniluvi e pediluvi contro i geloni, contro i dolori addominali si applicava un empiastro preparato con poca acqua cuocendo la polpa dei frutti sino alla consistenza di una polentina, i semi erano impiegati oltre che per edemi e disturbi reumatici, anche come rimedio per distorsioni, contusioni e mal di schiena, con gli stessi frutti, in periodi di particolare crisi come durante la Seconda guerra mondiale, si fabbricava il sapone.

L’Ippocastano è una pianta sub spontanea, per la sua maestosità e bellezza lo troviamo facilmente coltivato in parchi o giardini. Da aprile a maggio i suoi candidi fiori a grappolo macchiati di giallo e rosso e rivolti verso l’alto ci avvertono della primavera, le foglie hanno un lungo picciolo e ognuna è suddivisa in 5-7 foglioline ineguali e dentate, capsule con un guscio spinoso racchiudono 2-3 castagne di inconfondibile aspetto arrotondato, lucide e dure, che ci sorprendono quando in autunno cadono anche ai

bordi della strada. Non sono commestibili a causa del loro gusto amaro: a forti dosi possono essere tossiche. Dell’Ippocastano in fitoterapia si usano i frutti, i semi e la corteccia dei giovani rami, le gemme e i giovani getti. La grande proprietà racchiusa in questa pianta, per la quale è molto nota, si trova nei semi, nella corteccia e nelle foglie, che sono ricchi di saponine, la cui miscela prende il nome di Escina. Questo prezioso prin-

cipio attivo conferisce agli estratti di Ippocastano una forte azione capillaro-protettiva e decongestionante, utilizzabile soprattutto nelle condizioni di insufficienza venosa periferica. È utile perciò per riattivare la circolazione, favorire un minor ristagno di sangue e soprattutto evitare di avere gambe gonfie e pesanti in previsione e nei periodi di grande caldo estivo. Ha anche un’azione protettiva e preventiva contro la stanchezza e la fragilità

capillare essendo un potente vasoprotettore. Alla sua corteccia sono riconosciute proprietà febbrifughe, vasocostrittrici, tonico astringenti. Le proprietà dell’Ippocastano sono note anche alla medicina omeopatica, dove viene usato sotto forma di gocce orali, granuli e macerato glicolico. Secondo il famoso dottor Edward Bach, che ha scoperto e messo a punto i diffusi e molto amati rimedi floreali che portano il suo stesso nome, i fiori rossi dell’Ippocastano, Red Chesnut, sono un meraviglioso aiuto per le persone che vogliono liberarsi dall’ansia. Proprietà simili a quelle dell’Ippocastano, per ripristinare tra l’altro il fisiologico equilibrio dell’apparato circolatorio, le possiamo trovare anche in altre piante (che possono essere assunte sia in forma di Tisana, cioè infuso o decotto, sia come estratto solido o liquido, sia come Tintura madre o macerato glicolico), come ad esempio la Centella asiatica, il Mirtillo, il Cipresso o la Vite rossa, il Pungitopo, il Ginko biloba e l’Amamelide, il Ribes. Ma a questo proposito, come sempre, non smetteremo mai di sottolineare che qui si forniscono solo informazioni e non certo consigli, per i quali occorre sempre consultare il proprio medico. Anche se nell’opinione corrente le cure con le erbe potrebbero erroneamente avere fama di essere innocue perché naturali, in realtà le cose sono ben diverse.

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L’Ippocastano si trova facilmente nei parchi ed è particolarmente apprezzato per la sua maestosità. (Pixabay.com)

Energia

Dove risparmiare energia in casa

In Svizzera il 44,4% dell’energia totale viene consumata tra le pareti domestiche c’è un grande potenziale di risparmio

Testo: Nina Huber

Arieggiare

Una corretta ventilazione nei mesi più freddi fa risparmiare molta energia. «Non lasciate le finestre aperte quando le temperature esterne sono basse», consiglia Diego Sigrist. Ecco come arieggiare correttamente: aprendo le finestre e le porte di una stanza si crea una corrente d’aria e si ricambia l’aria. Cinque minuti due volte al giorno sono sufficienti.

Temperature interne

Per un buon riposo notturno, in camera da letto la temperatura non dovrebbe superare i 18 gradi. La temperatura può fare una grande differenza. Abbassando di un grado il riscaldamento si può risparmiare circa il 6% di energia. Diego Sigrist consiglia: «È importante che le porte della stanza più fredda della casa restino sempre chiuse». Attenzione: quando partite per un fine settimana o per le vacanze, non dimenticate di abbassare il riscaldamento.

Apparecchiature elettriche

Anche i piccoli consumatori di energia possono fare la differenza. Elettrodomestici come televisori, computer e macchine da caffè, anche quando in modalità standby, consumano elettricità. Se non lavorate da casa, durante il giorno potete spegnere il router WLAN. A proposito: il caricabatterie collegato alla spina consuma energia anche se il telefono cellulare non è collegato.

Frigorifero e forno

Isolamento

Un migliore isolamento termico e finestre più strette possono ridurre i costi di riscaldamento fino al 60%.

In Svizzera più di un milione di abitazioni non sono isolate in modo adeguato. Le responsabilità sono dei proprietari. «Se siete in affitto, potete informare il vostro padrone di casa sui vantaggi e le possibilità delle misure sostenibili e dei programmi di sostegno», consiglia Diego Sigrist.

Il riscaldamento

Il riscaldamento rappresenta circa due terzi del consumo energetico. «Con il riscaldamento giusto si risparmia e si riducono le emissioni di CO2». Secondo Diego Sigrist, passando a una termopompa in vent’anni si può risparmiare dal 10 al 30%. Per una casa unifamiliare, si tratta di un importo che può arrivare a 10.000 franchi. «Agli inquilini si consiglia di affrontare il tema con il proprietario di casa», dice Diego Sigrist.

Consumo d’acqua

Risparmiare acqua conviene: l’acqua calda e il trattamento delle acque reflue negli impianti di depurazione richiedono molta energia. Utilizzate dunque rubinetti a risparmio d’acqua, evitate di pre-sciacquare i piatti, limitatevi a eliminare gli avanzi di cibo con uno spazzolino da cucina e gettateli nei rifiuti organici. Utilizzate la modalità Eco-modus per lavastoviglie e lavatrice, limitate i cicli di lavaggio bollenti: i vostri elettrodomestici dureranno più a lungo. Cinque minuti di doccia consumano un quarto dell’acqua necessaria a un bagno completo.

«Investire in elettrodomestici efficienti dal punto di vista energetico può essere inizialmente costoso, ma a lungo termine ripaga», afferma Diego Sigrist. Un elettrodomestico appartenente alla classe energetica A consuma la metà dell’energia di un apparecchio di categoria C o peggio ancora. Fintanto che un elettrodomestico è funzionante, non dovrebbe essere sostituito. La durata media di un forno o un frigorifero è tra i 10 e i 15 anni. Al termine di questo periodo, i costi di riparazione non convengono rispetto all’acquisto di un nuovo apparecchio a risparmio energetico.

L’esperto

Diego Sigrist lavora presso Scandens. L’azienda gestisce un software per la pianificazione dei risanamenti ed è sostenuta dal Fondo Pionieristico della Migros.

ATTUALITÀ

L’unica via d’uscita: la «coresistenza»

Le sofferenze dei palestinesi di Gerusalemme est e la necessità di opporsi, dalle due parti, alle politiche di oppressione

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Il ritorno di Trump preoccupa la Cina Il mercato americano potrebbe diventare ancor meno accessibile a Pechino. Quali saranno le possibili mosse di Xi Jinping?

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Mancano medici, tecnici e scienziati

In Svizzera sono sempre di più gli stranieri nelle professioni con un elevato grado di specializzazione: come invertire la tendenza?

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Addio allo skilift: il prezzo della crisi climatica

Svizzera ◆ Da simbolo nazionale, lo sci sta diventando sempre più sport per pochi eletti. Colpa anche del riscaldamento globale

È piacevole rivivere, di tanto in tanto, il potere evocativo di certi odori. Dopo essere entrati nel naso, richiamano alla mente ricordi che pensavi di aver dimenticato. Il profumo dell’erba appena tagliata fa riemergere l’immagine delle mattine fresche trascorse a falciare. L’odore pulito e leggero dell’aria che preannuncia la prima neve rievoca il momento in cui, bambini, si usciva di casa, con la bocca aperta, per catturare i primi fiocchi e sentirli sciogliersi sulla lingua. In quegli attimi mi chiedo quali profumi avranno questo potere evocativo sui miei figli. Saranno altri, forse. Magari l’odore della nebbia novembrina. Per loro sarà certo difficile ritrovare la freschezza cristallina tipica delle giornate d’inverno. Non sono cresciuti in montagna. E poi, il cambiamento climatico si è portato via, almeno alle basse quote, questa meraviglia. Non lo dicono i nostalgici, ma i dati scientifici.

Il 2024 si preannuncia come l’anno più caldo mai registrato da quando si misurano le temperature globali

Secondo MeteoSvizzera, il numero di giorni di neve sotto gli 800 metri è diminuito del 50% rispetto al 1970, e a 2000 metri del 20%. Eppure, di fronte all’evidenza dei fatti, il mondo sembra impegnato in una partita alle «belle statuine»: perde chi osa muoversi per primo. Alla COP29 di Baku, in Azerbaijan, i rappresentanti di quasi 200 Paesi hanno discusso sull’importo da destinare al finanziamento di progetti per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra e per l’adattamento ai cambiamenti climatici. Solo sul filo di lana, gli Stati Uniti, l’Europa e una manciata di Stati industrializzati hanno approvato un testo che li impegna a devolvere al Sud globale 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Questo importo è tre volte superiore all’impegno precedente, ma resta lontano dai 1000 miliardi chiesti dai Paesi più poveri. Sull’accordo incombe poi l’ombra della seconda presidenza di Donald Trump, che in campagna elettorale ha promesso di ritirare nuovamente gli Usa dall’Accordo di Parigi e di promuovere le attività di trivellazione, impegno riassunto nello slogan «Drill, baby, drill». Intanto, il 2024 si preannuncia come l’anno più caldo mai registrato da quando si misurano le temperature globali. Il programma Copernicus, il servizio di monitoraggio climatico dell’Unione europea, ha annunciato che la colonnina di mercurio supererà il limite di 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, soglia stabilita nell’Accordo di Parigi del 2015.

Quest’anno, in Svizzera, abbiamo già sperimentato le drammatiche conseguenze di tale evoluzione, con piogge torrenziali, piene improvvise e colate detritiche che hanno lasciato dietro di sé distruzione e morte.

In cima al Monte Lema è ancora visibile il blocco di cemento a cui era ancorato il cavo della sciovia

Per capire quale impatto avrà l’aumento costante e inarrestabile delle temperature globali sulle nevicate e sul turismo invernale, l’associazione Funivie Svizzere ha chiesto a degli esperti di delineare possibili scenari futuri. Il professore dell’Istituto di ricerca sull’atmosfera e sul clima del Politecnico federale di Zurigo, Reto Knutti, insieme ad altri specialisti, aveva il compito di rispondere alle seguenti domande: di quanto aumenterà la temperatura entro il 2050? A quale altitudine si troverà lo zero termico tra circa 30 anni? Quanti giorni di ge-

lo e ghiaccio si prevedono nell’inverno 2050 e con quali conseguenze sulla coltre nevosa? Il documento Klimaszenarien Winter 2050, presentato in novembre, prospetta un avvenire preoccupante per le stazioni sciistiche della Svizzera. Dall’inizio delle misurazioni nel 1864, le temperature invernali in Svizzera sono aumentate di circa 2,4 °C, un fenomeno strettamente legato alle attività umane responsabili dei cambiamenti climatici. Si prevede un ulteriore aumento di circa 1 °C entro il 2050. Di conseguenza, lo zero termico si è innalzato di circa 300-400 metri dal 1960 e si prevede che aumenterà di altri 300 metri entro il 2050, riducendo i giorni in cui sarà possibile utilizzare i cannoni sparaneve. Inoltre, la copertura nevosa naturale è diminuita in modo significativo e gli esperti stimano un’ulteriore riduzione compresa tra il 10% e il 30% entro il 2050. Questa tendenza sarà maggiore alle basse e medie altitudini, mentre le alte quote saranno molto meno colpite.

La crescente difficoltà nella produzione di neve artificiale avrà gravi conseguenze sul turismo inverna-

le. Già oggi molti impianti di risalita sotto i 1500 metri sono in difficoltà. E così, in Svizzera, è facile imbattersi in sciovie dismesse, simbolo di un cambiamento inevitabile. Daniel Anker, giornalista e autore di diversi libri di montagna, è andato alla scoperta di questo passato. Nella guida escursionistica Après Skilift presenta una cinquantina di itinerari lungo i pendii dove un tempo era in funzione uno skilift. In questa sua ricerca ha esplorato i segni della cultura legata alla pratica dello sci. L’autore racconta che, ad esempio, di domenica gli abitanti di Intragna prendevano l’autopostale per Moneto, nelle Centovalli, e seguivano le discese dei giovani sciatori comodamente seduti in un ristorante. Un altro testimone di un glorioso passato si trova in cima al Monte Lema, dove è ancora visibile il blocco di cemento a cui era ancorato il cavo dello skilift. Con la scomparsa delle sciovie a basse quote, si perdono preziosi momenti di incontro. Negli anni 40 e 50, quasi ogni paesino della Svizzera, dal Giura all’Altopiano e naturalmente nelle

Alpi, aveva il suo skilift. Qui i bambini, nei pomeriggi liberi, si lanciavano in discese funamboliche, con sci di legno allacciati ai piedi. Lo sci era un passatempo popolare, considerato lo sport svizzero per antonomasia. Visti i costi operativi crescenti, gli investimenti in infrastrutture moderne e la produzione di neve artificiale, gli skipass hanno ormai raggiunto prezzi proibitivi. Nei comprensori più rinomati, una giornaliera può superare i cento franchi nei giorni di maggiore affluenza. Secondo Reto Gurtner, presidente della Weisse Arena Gruppe di Laax, entro il 2034 i prezzi potrebbero raggiungere addirittura i 200300 franchi. E allora, quali ricordi ci rimarranno dei giorni di neve di oggi? Forse il collasso del traffico sulle strade e sui binari di alcune settimane fa, la poltiglia grigiastra sui marciapiedi oppure i nervi a fior di pelle dei pendolari bloccati sul percorso casa-lavoro? Sono ricordi amari, frutto anche delle scelte che facciamo oggi per proteggere il nostro pianeta.

Luca Beti
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L’unica via d’uscita: la «coresistenza»

Prospettive ◆ Le sofferenze dei palestinesi di Gerusalemme est, trattati dalle autorità israeliane come se fossero immigrati nella loro città natale, dove le loro famiglie risiedono da generazioni. E la necessità di opporsi alle politiche di oppressione

Dopo 14 mesi di scontri ininterrotti tra Israele e Hezbollah, lo scorso mercoledì è entrata in vigore una tregua di 60 giorni (sempre che non venga sistematicamente violata) frutto di un accordo siglato da Netanyanu con i leader libanesi, ma le rispettive popolazioni sono scettiche e molti degli sfollati a nord di Israele non si percepiscono sicuri e non si fidano a far ritorno nelle proprie case. La sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti delle istituzioni israeliane rimane elevata anche a fronte delle vicende giuridiche che coinvolgono il primo ministro: dai mandati d’arresto della Corte penale internazionale, alla questione della fuga di documenti riservati, passando per l’ennesima richiesta di rinvio della testimonianza al processo di corruzione a suo carico. Se dunque le sirene hanno smesso almeno temporaneamente di suonare, le manifestazioni, le marce e i sit-in silenziosi davanti alla Knesset proseguono a oltranza anche nei giorni feriali soprattutto a sostegno delle famiglie degli ostaggi. A Gaza, infatti, la tregua auspicate da Biden sembra ancora lontana e la distruzione procede senza sosta insieme alla riforma giudiziaria promossa dal Governo che galoppa in direzione del regime autoritario. Per il secondo anno consecutivo le festività di Natale si svolgeranno sotto tono, soprattutto a Gerusalemme, dove la popolazione palestinese continua ad essere presa di mira dalle politiche dell’occupazione israeliana e dai coloni legittimati da questo Governo come mai prima d’ora.

A introdurci nelle intricate vicende di Gerusalemme est è Ir Amim,

che dal 2000 si occupa di monitorare le demolizioni di case e difendere i diritti dei palestinesi, sensibilizzando l’opinione pubblica sui complessi risvolti politici, giuridici, economici e sociali dell’occupazione nella provincia di Gerusalemme. L’associazione opera a fianco della comunità palestinese sostenendola per promuovere le condizioni per un futuro più stabi-

to simbolico per due popoli e tre religioni, riveste un ruolo decisivo anche nel raggiungimento di una soluzione diplomatica.

l’applicazione della strategia della cooperativa collaborando attivamente con tutte le sedi sul territorio ticinese Segue i processi nazionali per promuovere la presenza merce Contribuisce allo sviluppo dei concetti di vendita nazionali

Propone misure per la massimizzazione delle vendite, ottimizzazione del margine prodotto, e contenimento degli scarti Collabora in prima persona alla preparazione dei negozi e specifici layout

Supporta e controlla il corretto svolgimento delle attività commerciali

Requisiti

Formazione nel Commercio al Dettaglio, Marketing o comprovata esperienza Conoscenze merceologiche del settore di competenza

Ottima conoscenza dell’italiano e almeno buona del tedesco parlato e scritto (conoscenza delle altre lingue a titolo preferenziale) Esperienza nell’utilizzo dei principali applicativi informatici, pacchetto Office e SAP

Spiccate capacità organizzative, dinamismo e spirito d’iniziativa Ottime doti relazionali e di comunicazione con attitudine al lavoro in team

Candidatura

Dal sito internet www.migrosticino.ch (sezione «Lavora con noi»), includendo la scansione dei certificati d’uso.

Alla fine della Guerra d’indipendenza israeliana, Gerusalemme fu divisa in due: la parte occidentale della città fu occupata e annessa da Israele, mentre la parte orientale, la città vecchia di Gerusalemme e i suoi quartieri circostanti, fu occupata e annessa alla Giordania. Nel 1967, durante la Guerra dei sei giorni, Israele conquistò anche la parte orientale della città insieme al resto della Cisgiordania, nonché Gaza e le alture del Golan, annettendo la Gerusalemme giordana e 28 villaggi circostanti la municipalità, che oggi costituiscono l’area nota come Gerusalemme est. Tale annessione fu sancita legalmente da Israele nel 1980 attraverso la Legge fondamentale che definisce l’intera città di Gerusalemme capitale «completa e unita» dello Stato ebraico. Il provvedimento non è tuttavia stato riconosciuto dalla maggioranza della comunità internazionale che continua a considerare Gerusalemme est un territorio occupato illegalmente. Come parte dell’annessione, ai palestinesi di Gerusalemme est fu concesso collettivamente lo status di «residenti permanenti» che attribuisce loro diritti civili e sociali, come la copertura previdenziale, senza tuttavia i diritti politici completi di una cittadinanza. I residenti possono votare alle elezioni comunali ed essere eletti nel Consiglio comunale, mentre non possono essere eletti alla carica di sindaco, né candidarsi o votare alle elezioni nazionali della Knesset, dove tuttavia viene presa la maggior parte delle decisioni che li riguardano. In sostanza, i palestinesi di Gerusalemme vengono trattati come se fossero immigrati nella loro città natale, dove le loro famiglie risiedono da generazioni, e possono richiedere la cittadinanza israeliana solo su base individuale con poco successo. Dal 1967, inoltre, Israele conduce a Gerusalemme est una politica di espropriazione della terra di proprietà palestinese a favore degli insediamenti

ebraici e delle aree verdi, che la maggior parte degli israeliani vedono come quartieri normali, simili a quelli della parte ovest della città. Tale politica ha separato i quartieri palestinesi gli uni dagli altri e diviso Gerusalemme est dal resto della Cisgiordania. Agli inizi degli anni 2000, inoltre, è stato eretto un muro di separazione che si snoda tagliando fuori la città da Ramallah e dal resto della Cisgiordania, e lasciando alcuni quartieri di Gerusalemme dall’altra parte del muro. La recinzione sortisce un profondo effetto sulla vita culturale, economica e sociale dei palestinesi, in particolare di quelli che risiedono in quartieri come Kfar Aqab e il campo profughi di Shoafat, costretti a passare attraverso il checkpoint per raggiungere il resto della città, e i cui bisogni sono quasi completamente trascurati dalle autorità israeliane, che forniscono pochissimi servizi nella zona anche quando si tratta di risorse essenziali come le infrastrutture idriche. Il tasso di povertà è particolarmente elevato.

Dal 1967 Israele conduce a Gerusalemme est una politica di espropriazione della terra di proprietà palestinese

Tale combinazione di meccanismi legali, diritti di cittadinanza, espansione degli insediamenti, acquisizione di proprietà, stanziamenti di bilancio e politiche di pianificazione urbana che favoriscono i residenti ebrei israeliani e gli interessi geopolitici, volta a limitare sistematicamente i diritti della popolazione palestinese e le sue rivendicazioni di crescita, sviluppo e sovranità, ha subito un tragico incremento dalla salita al potere dell’ultimo Governo Netanyahu nel gennaio 2023 e un’ulteriore accelerazione dal 7 ottobre in avanti. Un’inchiesta recentemente condotta dal programma Hamakor per il Canale 13 ha messo in luce come i residenti palestinesi di Gerusalemme est siano bersaglio dei capricci del ministro Ben Gvir e dei suoi più stretti consiglieri ogni volta che hanno biso-

ai

palestinesi (ad

l’incendio di veicoli) e le violazioni dei diritti fondamentali degli abitanti di Gerusalemme est non contribuiscono alla sicurezza degli israeliani, anzi. (Keystone)

gno di manipolare Netanyahu per ottenere concessioni politiche o di creare eccitazione tra le file dei loro seguaci. Che si tratti di sfidare il già precario status quo del Monte del Tempio, demolire abitazioni cosiddette «abusive» o commettere violente incursioni notturne nei quartieri palestinesi con la complicità delle forze dell’ordine; dal loro gruppo Whatsapp è emerso come tutto si traduce in mere azioni di punizione collettiva, violazioni dei diritti fondamentali degli abitanti della zona est della città che non contribuiscono in alcun modo alla sicurezza degli israeliani, anzi inaspriscono le tensioni e le rappresaglie.

La legge israeliana inoltre permette ai cittadini ebrei di reclamare vecchie proprietà ebraiche, mentre non esiste un diritto equivalente per centinaia di migliaia di palestinesi che fuggirono o furono costretti ad abbandonare le loro case nel 1948 quando gran parte delle proprietà arabe furono confiscate, anche a Gerusalemme ovest, e messe sotto la custodia dello Stato con una legge ad hoc. In questo senso tutti ricorderanno la massiccia mobilitazione in aiuto alle famiglie palestinesi minacciate di espulsione e sfratto dal quartiere di Sheikh Jarrah che nel 2021 diede vita a settimane di raduni e manifestazioni popolari a Gerusalemme est, nelle città miste in Israele e in Cisgiordania. I tribunali si sono schierati apertamente anche in favore dei coloni ebrei che cercano di prendere possesso di Silwan, un altro quartiere palestinese a ridosso delle mura della città vecchia. Esperti e attivisti sostengono che il forte aumento delle demolizioni indica che il comune di Gerusalemme sta sfruttando l’attenzione globale su Gaza per cercare di sradicare altri palestinesi da Gerusalemme est. L’unica nota davvero positiva è che gli attivismi congiunti di palestinesi ed ebrei attorno alle vicende di Silwan e Sheikh Jarrah rappresentano due casi riusciti di «coresistenza» che hanno prodotto il risultato di limitare sfratti e demolizioni. Nella «coresistenza» dunque sono contenuti i semi della speranza per il futuro: sosteniamola.

Le incursioni
danni dei
esempio

Il ritorno di Trump preoccupa la Cina

Economia ◆ Se il mercato americano dovesse diventare ancor meno accessibile a Pechino, Xi Jinping darà un’accelerazione alla sua spinta diplomatica e commerciale verso il Grande sud globale e l’Europa

Donald Trump si insedierà alla Casa Bianca solo il 20 gennaio, ma ha già aperto l’offensiva contro Xi Jinping minacciando dazi del 10% sulle importazioni dalla Cina. Con due precisazioni importanti. Anzitutto, questi dazi andrebbero ad aggiungersi a quelli già esistenti, introdotti dalla prima Amministrazione Trump nel 2018 e poi mantenuti o alzati da Joe Biden. Secondo, questi dazi li ha minacciati solo per costringere Pechino a cessare le esportazioni di componenti chimici per il Fentanyl, la droga che fa strage di tossicodipendenti americani. Non escludono altri dazi mirati invece a ridurre lo squilibrio commerciale: in campagna elettorale Trump evocò addirittura tasse doganali del 60%.

La Cina che si appresta ad affrontare il Trump Due è molto diversa da quella del 2016, l’anno della prima elezione del repubblicano. In otto anni molte cose sono cambiate: pandemia, guerra in Ucraina, economia cinese in stagnazione. Per certi versi questa Cina è più debole, per altri è più forte. Un aspetto-chiave, visto che Trump ha promesso un protezionismo ancora più aggressivo, è che la dipendenza di Pechino dalle esportazioni è cresciuta. Quindi Xi Jinping è ancora più vulnerabile di otto anni fa, in caso di escalation dei dazi Usa. Dal 2016 molte cose sono cambiate: pandemia, guerra in Ucraina, economia cinese in stagnazione

Comincio con un dato quasi comico, surreale, che dà la misura dell’inasprimento delle tensioni accumulatesi fra le due superpotenze. Per la prima volta da quando Stati Uniti e Repubblica Popolare stabilirono relazioni diplomatiche formali (nel 1979, sette anni dopo il disgelo Nixon-Mao, sotto la presidenza Carter), abbiamo un potenziale segretario di Stato Usa sotto sanzioni e quindi con divieto di ingresso in Cina. Si tratta del senatore repubblicano Marco Rubio. Per adesso è solo un segretario di Stato designato, la sua nomina non è ufficiale e dovrà passare al vaglio del Senato. È una delle designazioni meno controverse, fra quelle già annunciate da Trump. Rubio come senatore si è occupato molto della Cina, in passato contribuì all’elaborazione di politiche dure, comprese delle sanzioni legate ad abusi contro i diritti umani a Hong Kong e nello Xinjiang. Pechino reagì castigandolo a sua volta, mettendolo nell’elenco di alcuni politici americani sanzionati con il divieto di visto. Non si prevede uno scontro su questo, però. A Pechino voci autorevoli hanno già spiegato che, senza bisogno di fare retromarcia, il Governo cinese può stabilire che il privato cittadino Rubio resta «persona non grata» ma il segretario di Stato Rubio in quanto rappresentante del Governo avrà la possibilità di effettuare visite ufficiali…

Per dare la misura di quanto le relazioni siano peggiorate in questi otto anni: la designazione di Rubio in realtà è stata accolta con un sospiro di sollievo dai cinesi. Per quanto il senatore della Florida sia un «falco» sulla Cina, c’è di peggio, molto peggio. Pechino temeva di più un ritorno di Mike Pompeo, ex segretario di Stato.

Pompeo era arrivato ad auspicare una rivolta del popolo cinese contro i suoi leader comunisti. Nel libro di memorie pubblicato dopo la sua esperienza in Governo, Pompeo si dice favorevole al riconoscimento diplomatico di Taiwan, come uno Stato sovrano: provocazione inaccettabile per la diplomazia cinese che esige il rispetto del principio «esiste una sola Cina». Un altro trumpiano di cui i comunisti paventavano il ritorno è Robert O’Brien, già consigliere per la sicurezza nazionale: lui teorizza un disgelo con la Russia per spaccare l’alleanza fra Putin e Xi. Si capisce che Rubio sia considerato il male minore. Ad applicare le scelte sui dazi nel Trump Due nel ruolo di Trade Representative sarà Jamieson Greer che fu il braccio destro di Robert Lighthizer, il responsabile del commercio estero che guidò la prima ondata di dazi. Quella cominciò oltre sei anni fa con tasse doganali del 25% contro le importazioni dalla Cina di pannelli solari, lavatrici, acciaio e alluminio. Poi l’Amministrazione Biden vi aggiunse altri dazi: contro auto elettriche, batterie, altre tecnologie legate alle energie rinnovabili, e semiconduttori. Ora a che punto siamo? Per certi versi la Cina si è difesa bene. Ha conquistato la Russia, che per effetto delle sanzioni occidentali è costretta a comprare molto più di prima da Pechino. La Cina ha anche firmato nuovi accordi commerciali, soprattutto

nel sud-est asiatico e nell’Indo-Pacifico. È ormai il primo partner commerciale per la maggioranza dei Paesi africani e sudamericani. Ha quindi diversificato i propri sbocchi commerciali. Rimane tuttavia un’economia eccessivamente dipendente dalle esportazioni: il suo attivo commerciale globale dovrebbe raggiungere il record storico del trilione, mille miliardi di dollari. Esporta un po’ meno negli Stati Uniti, ma sempre troppo: 430 miliardi di dollari. Se Trump infligge dazi del 60% il colpo sarà duro. Oxford Economics ha stimato che dazi di questa entità possono abbattere l’export cinese verso l’America dal livello attuale che è il 14% sul totale degli acquisti Usa dal resto del mondo, fino al 4%. La banca svizzera UBS prevede che la crescita economica della Repubblica Popolare, già in pesante rallentamento, perderebbe l’1,5% di Pil. Queste previsioni rischiano di sottovalutare la capacità cinese di aggirare i dazi. In passato Pechino ha usato varie strategie per ridurre l’impatto di quelle tasse doganali. Una consiste nel «travestire» i propri prodotti facendoli transitare da Paesi come il Vietnam, esenti dai dazi americani: lì il «made in China» subisce pochissime lavorazioni o anche nessuna, ma riparte verso gli Usa con l’etichetta «made in Vietnam». Vari Paesi del sud-est asiatico si sono prestati al gioco. Però Trump minaccia di estendere l’applicazione

Trump (sulla sinistra, vicino a Xi Jinping) in campagna elettorale ha evocato addirittura tasse doganali del 60%. (Keystone)

Fra i Libri

Marina Montesano e Franco Cardini, Donne sacre. Sacerdotesse e maghe, mistiche e seduttrici, Il Mulino, novembre 2023. Il titolo del libro è già un programma. Un programma che si ricollega a un filone caro al medievalista Franco Cardini e molto caro a Marina Montesano, quello delle «figure femminili fuori dal comune», come suggerito dalle pubblicazioni della professoressa (Caccia alle streghe, 2012; Streghe: le origini, il mito la storia, 2020; Maleficia: storia di streghe dall’Antichità al Rinascimento, 2023, Andare per i luoghi della stregoneria, 2024).

Marina Montesano si occupa infatti da anni del tema della stregoneria (anche in studi pubblicati in inglese: Classical Culture and Witchcraft, 2018; Witchcraft, Demonology and Magic, 2020; Folklore, Magic, and Witchcraft, 2021) e di un argomento collegato a quello delle streghe: la storia di genere e della marginalità ( Ai margini del Medioevo. Storia culturale dell’alterità, 2022).

dei nuovi dazi ad altri Paesi e quindi questa strada potrebbe chiudersi. Un altro sotterfugio è offerto dalla legge statunitense De Minimis, che esenta dai dazi vendite in modica quantità attraverso canali del commercio elettronico, tipo Amazon. Una parte delle esportazioni cinesi si sono riversate sul commercio online. Però la legge De Minimis è in corso di revisione al Congresso di Washington e potrebbe chiudersi anche questo canale.

C’è poi tutta la pressione che le lobby americane eserciteranno per ottenere esenzioni di varia natura dai dazi (mi riferisco alle tante aziende che importano dalla Cina, anche componenti e semilavorati da usare nelle loro produzioni): si vedrà se il Trump Due sarà capace di tenere duro. Infine c’è la strategia cinese delle delocalizzazioni, per esempio in Messico: pure su queste il Trump Due minaccia di intervenire. Ha minacciato dazi del 25% contro Messico e Canada.

La Cina ha conquistato la Russia, che per effetto delle sanzioni occidentali è costretta a comprare molto più di prima da Pechino

Se il mercato americano dovesse diventare sempre meno accessibile alla Cina, è certo che Xi darà un’accelerazione alla sua spinta diplomatica e commerciale verso il Grande Sud Globale, nonché verso l’Europa: rilancerà i tentativi di dividere gli europei dalla nuova Amministrazione americana. Su un altro fronte Xi può reagire ai dazi americani con delle forme di embargo che neghino agli Usa l’accesso a terre rare e minerali strategici: dove l’egemonia cinese si è rafforzata negli ultimi anni. In conclusione, la Cina è esposta ai danni di una nuova ondata protezionista perché ha costruito un modello economico in cui i consumi interni sono sacrificati, di conseguenza è costretta a esportare enormi eccedenze di produzione industriale. Né l’aiuta il fatto che il Trump Due arrivi mentre la Repubblica Popolare non è uscita dalla crisi immobiliare, con le ricadute che questa ha sul debito dei suoi enti locali e delle sue banche.

In Donne sacre i due autori hanno tuttavia scelto un tema trasversale, sia per i temi trattati sia per la cronologia. Quindi il testo è popolato da una galleria di straordinarie figure femminili: non solo le streghe e le marginali, ma anche potenti personalità che appartengono al mito (ad esempio Circe) o alla realtà storica (come Ildegarda di Bingen). Donne che sono emblematiche di certe funzioni: le mistiche, le divinatrici, le medium. L’analisi spazia da queste figure femminili occidentali alle sciamane giapponesi, passando dalle mistiche africane (la congolese Dona Beatriz). Centralità è data al culto mariano, che assorbe una parte della sacralità femminile del passato precristiano, facendo di Maria la figura più importante del culto cristiano. Nel nostro presente desacralizzato, fatto di chiese vuote, le feste e i riti mariani suscitano ancora uno straordinario interesse, dinanzi al quale ci si chiede se non rappresenti l’onda lunga di una sacralità al femminile che resiste. Non è escluso che questi fenomeni possano essere spiegati con soluzioni di tipo funzionalista, ma dopotutto un’interpretazione non esclude le altre. È il caso anche dello spiritismo sviluppatosi fra fine Ottocento e primi del Novecento: certamente le medium ricorrevano a illusionismi, ma il fatto che si trattasse prevalentemente di donne sembra significativo dello speciale dialogo che il genere femminile ha intrecciato con la dimensione del sacro.

I nuovi approcci alla storia consentono di illuminare aspetti inediti della vita sociale, inclusi quelli legati al ruolo delle donne. Senza sminuire la gravità della violenza di genere, questi studi contribuiscono a superare lo «stereotipo dannoso» della donna vista esclusivamente come vittima, permettendo di riconoscere anche le sfide e le conquiste femminili. Focalizzandosi sulla dimensione del sacro, gli autori osservano come le donne siano generalmente meno coinvolte degli uomini nelle istituzioni religiose (come le Chiese) che mediano il rapporto con il sacro. Nonostante questo, le rappresentati dell’altra metà del cielo hanno spesso un rapporto più diretto con il sacro, cosa che le ha condotte a ricoprire ruoli di leadership. È una forma di compensazione? Oppure tutto questo è legato alla natura stessa del femminile e alla sua forza creatrice? Non c’è una risposta definitiva, ma gli esempi presentati dagli autori offrono notevoli spunti.

di Paolo A. Dossena

In Svizzera mancano medici, tecnici e scienziati

Economia ◆ Sono sempre di più gli stranieri nelle professioni con un elevato grado di specializzazione, come invertire la tendenza?

Ignazio Bonoli

Il problema della necessità di personale straniero in Svizzera si trasferisce, in misura sempre più importante, verso professioni che richiedono un elevato grado di specializzazione. Prendiamo il caso dei medici. Se ne sono occupate di recente anche le Camere federali, accettando una mozione del deputato vallesano del Centro, Benjamin Roduit, la quale chiede che vengano formati più medici in Svizzera. Oggi, infatti, già il 40% dei 40’000 medici attivi nel Paese è straniero o ha ottenuto il diploma all’estero. Si tratta della percentuale più alta in Europa e anche nell’ambito dell’Ocse, con l’eccezione di Israele. Eppure, da quasi 30 anni la Svizzera continua a mantenere il «numero chiuso» per le facoltà di medicina, accompagnato anche da una selezione spinta per i test attitudinali. Di conseguenza aumentano le previsioni sulla mancanza di medici nei prossimi anni. Negli ultimi 10 anni hanno concluso gli studi in Svizzera circa 10’000 medici, mentre quasi 30’000 medici esteri hanno ottenuto il permesso di esercitare la professione nella Confederazione.

Di fronte a queste cifre il Parlamento – contro la volontà del Consiglio federale – ha quindi deciso di abolire il «numero chiuso» nelle facoltà di medicina. Misura insufficiente per raggiungere lo scopo del provvedimento introdotto nel 1998, che era quello di frenare l’aumento costante

dei costi della sanità. Ma per tentare di risolvere il problema, aumentando il numero di medici formati in Svizzera, saranno necessari forti investimenti. Un percorso di studi completo di medicina costa allo Stato, in media, oltre 600’000 franchi, per cui saranno necessari circa 300 milioni di franchi all’anno solo per aumentare di 500 il numero di medici elvetici, formati in un periodo di tempo che raggiunge i 12 anni, tra formazione di base e specializzazione.

Quello dei medici è forse il problema più eclatante, ma parecchi altri settori lamentano gli stessi sinto-

mi. Une recente indagine dell’Ufficio di consulenza economica di Basilea (BSS Volkswirtschaftliche Beratung) dice che, tra i nuovi tecnici (con formazione accademica in fisica e chimica), i due terzi del totale del personale assunto proviene dall’estero. Anche tra i matematici e gli statistici il numero di lavoratori svizzeri è insufficiente: il 59% dei nuovi assunti viene dall’estero. Fenomeno analogo anche per i biologi con il 57% di stranieri. Nel settore della programmazione elettronica e degli ingegneri: negli ultimi tre anni sono stati assunti rispettivamente 28’000 e 12’000 stranieri,

Promozione natalizia

per un totale di oltre 200’000 persone. Si tratta di dati statistici che si innestano nel dibattito in corso sulla presenza di stranieri nella Confederazione. Essi dimostrano che in molte attività economiche, anche a livello accademico elevato, la Svizzera non può fare a meno di personale straniero. Personale che si concentra soprattutto – a parte il settore medico-sanitario – in importanti rami industriali, che necessitano di specialisti in campi come la matematica, l’informatica, le scienze naturali e la tecnica. Settori che sono di importanza determinante nella concorrenza internazionale cui è sottoposta l’economia svizzera d’esportazione. Le statistiche citate da BSS Volkswirtschaftliche Beratung si interessano anche della componente femminile sul totale dei posti di lavoro. In alcuni di questi settori le donne sono sempre state poche. Le cose però cambiano, a cominciare dal tipo di lavoro da eseguire, dall’importanza della ricerca e sviluppo di sistemi e prodotti. Vi è stato un sensibile aumento delle donne negli studi accademici interessati. È però doveroso constatare che, se nel numero totale di studenti universitari le donne sono in maggioranza, nei settori tecnici citati rappresentano ancora solo il 22%. Numero basso nel confronto internazionale. Un’altra tendenza, rilevata invece dal Politecnico federale di Zu-

rigo, è quella che vede un numero importante di accademici dirigersi verso impieghi allettanti nell’amministrazione pubblica, nell’insegnamento e nel settore della salute. Perciò se l’aumento di studenti universitari è confermato da qualche tempo, nei settori tecnici dell’economia privata non è paragonabile. L’economia deve quindi fare il massimo possibile per formare più tecnici svizzeri e in questo senso un maggior impiego di donne o quello di pensionati potrebbero contribuire a risolvere parte del problema. Problema che – a detta degli esperti –si aggraverà nei prossimi anni fino a costatare già nel 2035 una mancanza di 460’000 occupati a tempo pieno. Questo soprattutto perché il numero di pensionati va aumentando, mentre il numero delle nascite diminuisce. Di conseguenza, l’offerta di lavoratori nel mercato interno rallenta. Lo confermano i dati dell’Ufficio federale di statistica. Per quanto riguarda le professioni accademiche, sarebbe augurabile un ulteriore spostamento degli studi umanistici verso quelli scientifici. Già oggi, comunque, le università e i politecnici contano un numero elevato di stranieri. Molti di essi nel settore tecnico-scientifico. Mentre una forte presenza di svizzeri negli studi umanistici è all’origine delle citate scelte per l’amministrazione pubblica, l’insegnamento o le professioni sanitarie.

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Nel numero totale di studenti universitari le donne sono in aumento
ma nei settori tecnici restano in minoranza. (Unsplash/ Koblitz)

Il Mercato e la Piazza

Quanto vale un villaggio di montagna?

Tra le ingegnose invenzioni di metodo proposte dalla scienza economica nel corso degli ultimi 60 anni, l’analisi costi-benefici, ossia il calcolo della redditività di un investimento pubblico, trova un posto di onore. Essa è valsa, a uno dei suoi inventori, il prof. James Mirrlees, il premio Nobel per l’economia nel 1996. Da dove viene questa tecnica di valutazione degli investimenti? Si era verso la metà degli anni Sessanta dello scorso secolo e le organizzazioni internazionali (l’Onu e l’Ocse in particolare), sollecitate dai Governi dei Paesi membri a produrre prove sull’efficacia dei loro interventi, andavano cercando un metodo che consentisse di valutare la fondatezza dei progetti di investimenti nei Paesi in via di sviluppo che intendevano sostenere finanziariamente. Il primo manuale di analisi costi-benefici per il settore pubblico venne sviluppato da Mirrlees e i suoi collaboratori dell’uni-

In&Outlet

versità di Cambridge. Il criterio di decisione del metodo: scontando i flussi dei costi e dei ricavi che l’investimento avrebbe generato durante il suo periodo di vita si ottenevano due cifre: il valore attuale dei costi e quello dei ricavi. Se il valore attuale dei ricavi superava quello dei costi, l’investimento poteva essere realizzato. Nel caso contrario era meglio rinunciarvi. Presentato così il metodo di valutazione sembra semplice. Nell’applicazione pratica sorgono però molti problemi. Per i costi la situazione è chiara: ogni progetto di investimento pubblico possiede infatti un preventivo di costi. Esso corrisponde (salvo eccezioni) abbastanza bene al dispendio di risorse che si incontrerà nella realizzazione. Stimare i ricavi, ossia determinare l’utilità dell’investimento pubblico, è invece tutto un altro paio di maniche. Lo prova anche la recente discussione che è sorta intorno all’utilità di costru-

ire un tunnel di drenaggio a Brienz, il comune grigionese minacciato da una nuova frana. La spesa prevista è di 40 milioni di franchi. C’è chi, andando a far le pulci al progetto, ha calcolato che la spesa per abitante per la realizzazione del tunnel sarebbe di mezzo milione di franchi – Brienz conta oggi solo 80 abitanti – e si è quindi chiesto se il santo valesse la candela e se un’analisi costi-benefici del progetto in questione non rivelerebbe alla fine che sarebbe più conveniente lasciarlo perdere e spostare gli abitanti del villaggio grigionese in posti meno pericolosi.

A questo tipo di critiche i sostenitori degli investimenti pubblici in zone poco sviluppate rispondono sempre con due tipi di argomento. Con il primo sostengono che i benefici del progetto sono, per varie ragioni, molti di più e molto più importanti di quelli che si potrebbero derivare dalla sola consi-

derazione degli interessi della popolazione coinvolta. Supponete, come sarebbe il caso per il tunnel di Brienz, che il finanziamento venga assicurato non solo dal Comune interessato ma anche, in base a leggi già in vigore, dal Cantone e dalla Confederazione. È facile trovare allora che una parte dell’utilità di questo progetto concerne anche i livelli superiori dello Stato federale e non solo gli abitanti – ed eventualmente le bestie – che ne trarrebbero direttamente profitto in quel di Brienz. L’altro argomento, che rientra di nuovo negli aspetti metodici dell’analisi costi-benefici, consiste nel prendere in considerazione il possibile costo di opportunità del progetto, ossia il rapporto costi-benefici di progetti alternativi, sempre da realizzarsi per iniziativa dell’ente pubblico. Così, reagendo a un articolo che predicava la necessità di sottoporre il progetto di Brienz a un’analisi costi-benefici per

Meloni, Schlein e Salvini: il punto sulla politica italiana

In Italia ogni tanto si vota per le elezioni regionali, e questo fa sì che il Paese sia sempre in campagna elettorale. Già questa non è una buona notizia. Le ultime Regioni ad andare al voto sono state Emilia Romagna e Umbria. Entrambe vinte dal centrosinistra. In Emilia Romagna si trattava di una conferma abbastanza scontata; eppure ricordo che nel 2020, quando Matteo Salvini andava citofonando alle case di presunti spacciatori, pure in Emilia Romagna, l’esito finale era considerato sul filo (anche se poi Stefano Bonaccini vinse senza troppi patemi). Nel 2019 in Umbria, invece, aveva vinto la destra. Ma sarebbe un errore pensare che il vento in Italia stia cambiando. La popolarità di Giorgia Meloni resta salda. Il Governo sta facendo poco. I ministri litigano: da ultimi, Alessandro Giuli e Guido Crosetto, sul rinnovo dei vertici del Museo Egizio di Torino, non proprio una priorità per l’opinione pubbli-

ca (e tanto meno un settore di competenza del ministro della Difesa). Ma la premier ancora funziona. Sa comunicare. Ad esempio, quando si è aperta una querelle nella maggioranza sul taglio al canone Rai – Lega favorevole, Forza Italia contraria – in una dichiarazione resa camminando, senza neppure fermarsi davanti alle telecamere, ha detto: «Siamo riusciti a imporre una tregua in Libano, riusciremo a risolvere pure la questione del canone Rai». In realtà la tregua (già violata?) non l’ha certo imposta Meloni, semmai è una decisione – tardiva – di Benjamin Netanyahu. Però questa idea della presidente del Consiglio che si occupa di cose serie mentre gli alleati minori sono curvi sulle vicende domestiche ha una certa presa sugli elettori. Almeno per ora. Meloni farebbe bene a non mostrarsi troppo sicura, perché l’economia italiana non va benissimo. Elly Schlein può tirare un sospiro

Il presente come storia

La riscoperta dell’America

Una cascata di immagini e parole ha ritmato le giornate dello scorso mese di novembre. Protagonisti assoluti: i due candidati alla carica di presidente degli Stati Uniti: Trump e Harris, il repubblicano e la democratica, il magnate di destra e la donna di colore liberal, lo spaccone e la moderata. In fondo abbiamo votato anche noi, dai divani del nostro piccolo angolo di terra. Loro non sapevano chi fossimo noi, mentre noi sappiamo chi sono loro. Chissà, magari eravamo più informati noi dell’isolato farmer dell’Ohio… Da dove nasce tanto interesse per la grande Nazione d’oltre Atlantico? Beh, innanzitutto sono i nostri «padroni», come candidamente mi ha confessato un collega. Incontestabile. Finora gli Stati Uniti hanno retto le redini dell’Occidente, ponendosi come super-gendarme dell’Alleanza atlantica. È il nostro capo-famiglia, quindi è giusto occu-

determinare se valeva la pena di realizzarlo, un lettore di un quotidiano zurighese ha subito proposto di verificare la fondatezza economica anche di altri progetti pubblici come, per esempio, la copertura di tratti di autostrada in zone densamente abitate. Nella città di Zurigo, sosteneva quel lettore, è allo studio un progetto del genere che costerà, non 40 milioni, ma mezzo miliardo. Anche se il costo per abitante di un simile progetto sarebbe inferiore a quello del progetto di Brienz, il lettore in questione si domandava se spendere mezzo miliardo per coprire un tratto di autostrada in ambiente urbano assicuri un valore attuale netto maggiore che investire 40 milioni per preservare, in montagna, una superficie molto maggiore, minacciata da una frana. Anche in questo caso la risposta dipende da come, nell’esercizio di valutazione, si identificherebbero e si stimerebbero i benefici dei due progetti.

di sollievo. Ma ora deve fare buon uso della vittoria. Mai in una democrazia moderna (con la parziale eccezione di François Mitterrand nel 1981) la sinistra ha vinto le elezioni politiche su una base radicale; sempre l’ha fatto conquistando il centro, in Italia con candidati cattolici come Romano Prodi. Non si pretende che Schlein si converta, però dovrebbe almeno guardarsi dall’impostare la campagna elettorale sulle tasse, anzi assicurare che non saranno alzate al ceto medio. Perché si sa: il leader politico proclama che verranno alzate le tasse solo ai ricchissimi, poi si scopre che quelli sono già al sicuro nei paradisi fiscali, e le tasse vengono aumentate a quelli che già le pagano. Una giovane donna svizzera è diventata la leader della sinistra italiana. In realtà Schlein è (anche) italiana, figlia di una madre senese e di un padre americano di origine ebraica, ma è nata e cresciuta in Ticino, abbandonato solo a

19 anni per fare l’università a Bologna. Mi ha raccontato che nella sua classe alle scuole elementari c’erano molti ragazzi figli di famiglie fuggite dalle guerre balcaniche, e che questo le ha insegnato i valori della società multietnica e dell’integrazione. Schlein ha una formazione americana: ha partecipato da volontaria a entrambe le campagne elettorali di Obama (2008 e 2012). Ma non rappresenta solo il paravento per occultare vecchi politici. Rappresenta una novità. Però dà l’impressione di non avere ancora convinto del tutto gli elettori. Ma il vero segnale che viene dal voto regionale è il crollo della Lega. Salvini ormai è un cavallo perdente. Neppure abbracciare il generale Vannacci e il sindaco di Terni Bandecchi, che guidava una lista alleata con il centrodestra, evita a Salvini un netto ridimensionamento. La sua candidata, Donatella Tesei, la leghista che governava l’Umbria, è stata sconfitta,

più nettamente del previsto. Il partito di Salvini in Umbria passa dal 37% delle scorse regionali al 7, in Emilia Romagna dal 31 al 5. Con questi numeri qualsiasi leader di partito dovrebbe rassegnare le dimissioni. Se poi si pensa al disastro dei trasporti pubblici, di cui in teoria Salvini è ministro, viene da chiedersi cosa aspettino Zaia, Fedriga e gli stessi leghisti lombardi a porre la questione. In realtà non lo faranno, almeno per ora. Perché la Lega è un partito leninista, dove comanda uno alla volta. E perché la Lega di Salvini – nazionalista, sovranista, molto di destra – è talmente distante da quella nordista e federalista di Bossi che, se Salvini venisse messo in minoranza e fosse costretto a lasciare la segreteria, fonderebbe un partito suo. A questo punto l’Italia avrebbe il suo partitino di estrema destra, tipo Alternative für Deutschland in Germania. E neppure questa, a mio avviso, sarebbe una buona notizia.

parsene, cercare di capire quale sia la direzione di marcia della nuova amministrazione, in particolare in campo economico-daziario.

Secondo: il modello elettorale americano è macchinoso ma al fondo elementare: obbliga a schierarsi sulla base di una logica bipolare. E questa «semplificazione», stile «duello a Mezzogiorno», piace agli elettori che non amano i sistemi complessi, come sono spesso quelli europei. Ma poi, al di là dello scontro politico, perdura in tutti noi la suggestione dell’american dream, della prodigiosa macchina culturale, dal cinema alla musica alla letteratura. Viene in mente Alberto Sordi formato macchietta nel film Un americano a Roma, ma anche scoperte e appassionamenti veri, come quelli coltivati, fin dal tempo del fascismo, da scrittori come Elio Vittorini, Cesare Pavese, Italo Calvino. «L’America –disse una volta Umberto Eco – più che

uno schema imitabile, è stato un termine ideale, un luogo mitico». Infine rimane impressa nelle menti di molte famiglie ticinesi, valmaggesi in particolare, l’epopea migratoria, iniziata nella seconda metà dell’Ottocento e proseguita, tra alti e bassi, per tutto il Novecento, come ci ricorda sempre Giorgio Cheda nelle sue ricerche: «Il coro dei montanari cisalpini in trasferta nel mondo è così diventato parte di una sinfonia universale, non priva di contrasti e drammaticità, ma anche di successi» (Dal Ticino verso la libertà, edizioni Oltremare, 2022). Poi, certo, ci sono anche le disillusioni, i disinnamoramenti per un Paese che pare aver voltato le spalle alle speranze sollevate da John F. Kennedy ai tempi della nuova frontiera. L’America delle manifestazioni contro la guerra nel Vietnam, della lotta per i diritti civili, dei campus universitari in subbuglio, e più recentemente dei movimenti no-

global. Simpatia anche per l’America delle tecnologie innovative, sviluppate in qualche anonima autorimessa della California per iniziativa di alcuni scapigliati e anticonformisti pirati informatici. Due nomi su tutti: Steve Jobs e Steve Wozniak, i fondatori della Apple. Procurarsi i loro prodotti voleva dire aderire ad un modello di società libertario e antiautoritario, estraneo se non ostile alle grandi corporations come l’IBM (infatti, agli inizi, i due sistemi operativi non erano compatibili). Adesso tutto è cambiato. Persino la leggendaria «Silicon Valley» teme di perdere il suo pluridecennale primato tecnologico a vantaggio dei cinesi; di qui, probabilmente, l’emergere di un riflesso difensivo e un crescente consenso a chi promette di contrastare la penetrazione nel mercato nordamericano di aziende come Huawei. Altri timori sono legati alla diffusione

dell’intelligenza artificiale, considerata come un «killer» di posti di lavoro. «Siate affamati e folli», predicavano dalle contee affacciate sul Pacifico i geniali alfieri della computer science, legittimamente fieri delle loro innovazioni. Passando dai «mezzi di produzione» ai «mezzi di informazione», dai bulloni della vecchia industria ai bit dei circuiti elettronici, promettevano progresso ed emancipazione. Ma poi questo cammino liberatorio si è interrotto: al suo posto è subentrata una nuova fase, fatta di satelliti e viaggi interstellari, chip nel cervello e robot umanoidi, con alla testa la nuova classe dei tecno-oligarchi, un manipolo di miliardari adoratori dei peggiori autocrati. Una transizione non dal capitalismo al socialismo, ma un balzo spaziale da Marx a Musk… Anche questa una Zeitenwende, un passaggio d’epoca di cui s’intravedono, per ora, soltanto i contorni più inquietanti.

di Angelo Rossi
di Aldo Cazzullo
di Orazio Martinetti

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CULTURA

Umorismo e dramma

Il romanzo d’esordio di Elena Fischer racconta di una giovane ragazza e dei suoi sogni di riscatto

Pagina 25

Il camaleonte del cinema

Dalla trasformazione fisica al talento straordinario, Bale continua a sorprendere

Pagina 27

Roma: tesori archeologici Il corredo della «Tomba 93» svela storia e antichi commerci mediterranei dell’aristocrazia laziale

Pagina 29

Curiosare, all’ombra del padre

Un podcast per riflettere In Nos esclaves il ruolo, non sempre marginale, della Svizzera nella tratta degli esseri umani

Pagina 31

Letteratura ◆ Cronache da uno straordinario mondo perduto nella nuova traduzione del libro di Isaac Bashevis Singer

Viene quasi spontaneo talvolta immergersi fra le pagine di Isaac Bashevis Singer non come lettori, ma nel ruolo di personaggi che osservano avidamente il mondo dello shtetl, fra villaggi e borghi dell’ebraismo yiddish dell’Europa orientale. Magari con gli occhi del piccolo Isaac, come nelle memorie di vita familiare Alla corte di mio padre, proposto da Adelphi nella vivace versione di Silvia Pareschi. Pubblicate dapprima a puntate con uno pseudonimo sul quotidiano ebraico «Daily Forward», quando il premio Nobel era da tempo negli Stati Uniti, uscirono poi in volume nel 1966.

Via Krochmalna, a Varsavia, era popolata da una serie di personaggi indimenticabili che hanno influenzato lo scrittore

Evocando gli anni tra l’infanzia e l’adolescenza a Varsavia, a ridosso della Prima guerra mondiale, Singer non parla solo di se stesso e della propria famiglia, ma richiama in vita un vivacissimo mondo ebraico popolato di figure originali: pazzerelli, sempliciotti dal gran cuore, soggetti devoti in costante attesa del Messia, ma anche dotti, furbi e dissoluti. Personaggi dall’animo turbato che potevano venirsi a sfogare da suo padre, Pinchos Menachem, uomo fiducioso e devoto, che presidiava un beth din, cioè una corte rabbinica che, come ricorda l’autore nella nota introduttiva, era «una specie di connubio fra tribunale, sinagoga, casa di studio e, se vogliamo, lettino dello psicanalista». Uno splendido osservatorio per il piccolo Isaac dai capelli rossi e gli occhi azzurri, sveglio e curioso, che fissa e raccoglie immagini e atmosfere di un tempo destinato a scomparire tragicamente, ma sempre vivo e pregnante nelle sue parole.

Intenso è il rapporto coi propri familiari: i dialoghi col padre su Dio e i testi sacri, l’amore verso la madre Bathsheba, figlia di un rabbino, la stima nei confronti del fratello Joshua e della sorella Esther, anch’essi più tardi scrittori. Ma ancor più coinvolgenti sono le tante storie qui narrate che riescono, non senza ironia e gioco, a delineare un’intera epoca. Con gli occhi di quel lontano bambino, Singer ridà spazio e vita alla sua stessa identità, come svanita nel dramma dell’olocausto.

Nella popolare via Krochmalna, dove abitava la famiglia, ecco arrivare Moshe Blecher, il lattoniere, ottimo biblista, che sui tetti sembra aspettare la venuta del Messia, o una vecchia donna singhiozzante, sedotta molti anni addietro, che aveva abbandonato il figlio illegittimo in una

cesta vicino a una chiesa. Si vergogna a entrare in sinagoga e invoca l’Angelo della Morte che venga a liberarla. Così come il libraio che ogni anno detta un testamento diverso, che mai nessuno leggerà alla sua morte, o lo strano individuo dall’inflessione tedesca, erudito e giramondo, che fa infuriare il rabbino perché vorrebbe vendergli per cento rubli la vita eterna, cioè la sua parte nell’aldilà, di cui è convinto di aver acquisito una grande porzione grazie allo studio della Torah e delle tradizioni sacre. Non come il povero Reb Chayim, nei cui occhi brilla una bontà antica, che considera il Rabbi «la mano destra di Dio». Per lui la madre di Isaac scrive le lettere ai figli emigrati in America, dove tutto, a suo parere, era alla rovescia e «la gente camminava a testa in giù». E che dire del quasi centenario Reb Moishe, detto Ba-ba-ba per il suo costante intercalare, che si tappa le orecchie sentendo voci femminili che possono condurlo alla la-

scivia, e dorme vestito perché il Messia può giungere in qualsiasi istante. Mentre Reb Asher, il lattaio, un uomo che fa beneficenza a destra e a manca, e canta nel coro della congregazione la piccolezza dell’uomo e la grandezza di Dio, salva l’intera famiglia del Rabbi da un incendio durante la notte.

Nei suoi romanzi ogni lettrice e ogni lettore finisce per cercare un ruolo come personaggio, così da sentirsi più addentro

Il piccolo Isaac nascosto spesso in qualche angolo della stanza di suo padre, colleziona immagini inedite e personaggi che sembrano usciti da una fantasia debordante e incantatrice. A quel tempo, inconsciamente, inizia a collezionare tasselli del proprio futuro di scrittore. E la realtà che assorbe con tanta curiosità gio-

vanile è una vera maestra di vita: desideri, ambizioni, meschinità, gioie e dolori sulla scena del beth din diventano stimoli e pulsioni alla scoperta del mondo. E s’infittiscono col tempo le domande del giovane Isaac: dov’era Dio, di cui tanto si parlava in casa sua? E di fronte ai mali del mondo, fra cui quella guerra infame e i tanti morti, «perché Dio rimaneva silenzioso nel settimo cielo?». Non gli bastano infine le risposte rassicuranti del padre, lui guarda altrove, fa nuove amicizie, legge «libri proibiti» e viene anche in contatto, grazie al fratello che frequenta un atelier, con il mondo dell’intellighenzia e giovani artisti ebrei che non studiavano libri sacri e non pronunciavano benedizioni. Ma poi, trasferitosi con la madre e un fratellino da zii e cugini nella cittadina di Bilgoraj a causa del tifo che imperversava a Varsavia, ritrova un mondo di vecchio ebraismo con il suo tesoro di spiritualità e dà libero sfogo al proprio entusiasmo: «Il tem-

po sembrava scorrere all’indietro. Vivevo la storia ebraica». Ma i tempi cambiano e Isaac osserva con interesse quei giovani che fondano una società sionista, legge scrittori europei e russi e si entusiasma per Spinoza che gli mette in subbuglio il cervello. Infine accetta di insegnare l’ebraico a principianti, maschi e femmine. E forse qualcosa di più intenso si metterà in moto: «Ero pronto per il tumulto che gli scrittori chiamano “amore”», confessa da ultimo. Ma anche per ridisegnare quel mondo che aveva segretamente assorbito in tanti splendidi romanzi e racconti, in cui ogni lettore cerca alla fine un ruolo come personaggio per sentirsi più addentro, a curiosare come faceva il piccolo Isaac all’ombra del padre.

Bibliografia

Isaac Bashevis Singer, Alla corte di mio padre traduzione di Silvia Pareschi, Adelphi, pp. 328, € 20,00.

Un’immagine di Varsavia risalente all’inizio degli anni 40 raffigurante Krochmalna Street, vicino al luogo di residenza dei Singer. (Wikipedia)
Luigi Forte

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Un giardino non del tutto paradisiaco

Editoria ◆ Nel romanzo d’esordio di Elena Fischer, tra il dramma familiare e il desiderio di ricominciare, la protagonista Billie esplora i legami, i segreti e le fragilità dell’esistenza

Stefano Vastano

È possibile che un romanzo che narra di traumi profondi, della perdita di persone importanti sia al contempo divertente, bello da leggere e anche avvincente? Sì, Paradise Garden, il romanzo d’esordio di Elena Fischer, già bestseller in Germania e appena pubblicato da Gramma Feltrinelli, è una di quelle rarissime creature che hanno il dono di coinvolgerti sin dalle prime pagine, facendoti toccare con mano non solo i drammi dei suoi protagonisti, ma anche la loro voglia di vita, il desiderio di ricostruirsi nonostante tutto e tutti un’altra esistenza. È precisamente questa la spinta vitale di Billie – all’anagrafe Erzsébet, nome ungherese – una ragazzina di 14 anni molto sveglia, sempre pronta ad affrontare, con una punta di sano cinismo, i risvolti più intricati della vita. Billie vive con sua madre Marika, una donna ancora giovane, di origini ungheresi appunto, di cui solo un po’ alla volta veniamo a scoprire i segreti. Sono accampate in un appartamentino di due stanzette, in uno di quei casermoni popolari alla periferia di una metropoli tedesca. Marika ha un carattere indomabile, è impetuosa al massimo e di lavori ne fa due: di giorno, è la (pallida) donna delle pulizie in un ufficio tutto vetri e anonimi impiegati. Di sera, eccola nei panni della cameriera avvenente, jeans attillatissimi e stivaloni bianchi (con ciliegie ai lati) in un bar notturno. La precarietà del quotidiano è insomma tanta; Billie e Marika sono costrette a rigirare ogni centesimo per arrivare a fine mese, e il loro menù consiste di cibi riscaldati nel microonde. Il loro minuscolo nido

è arredato con mobili rappezzati, e un divano blu trovato per strada. Eppure, nonostante le mille ristrettezze, la loro vita scorre serena, come in un «Paradise Garden» tutto loro e artificiale. Sì, certo, Marika, che da ragazza a Budapest ha studiato danza classica, con i suoi spasimanti ha avventure che durano un weekend. Il casermone in cui vivono, passandoci le estati intere su due sdraio nel ballatoio, è quel che è. Eppure, i loro vicini sono brave persone: Ahmed, il ragazzo con le ciglia più lunghe del quartiere, è un fedele musulmano, un pugile e dà sempre pacati consigli alle due donne. Per non parlare delle torte che quella stralunata di Luna sforna in continuazione e offre a Billie.

Tutto sommato dunque la vita di Billie e di sua madre è una sorta di idillio, che rischia di trasformarsi in un vero «paradiso» nel momento in cui vincono un premio in denaro azzeccando alla radio il titolo di una canzone. E così, per la prima volta nella loro magra esistenza, eccole pronte con la loro scalcinata Nissan a partire per le vacanze, in Francia, al mare (quello vero, e non sul ballatoio).

Devo ammetterlo: i primi otto capitoli del romanzo sono quanto di più fresco ed esilarante abbia letto negli ultimi tempi. Billie, ad esempio, visto che sua madre l’ha educata a essere sempre sé stessa e sincera, sputa sentenze come un caustico genietto.

Come sua madre poi, anche lei è coraggiosa, e riesce persino a buttarsi in piscina dai dieci metri.

Poi, giunti al nono capitolo, l’autrice cambia tono e registro: sulla por-

ta dell’appartamentino compare da Budapest la nonna di Billie, mamma tutta d’un pezzo di Marika, una sessantenne ultra cattolica e tradizionalista. E l’armonia fra mamma e figlia, la loro vita (e quella dei loro vicini) in un attimo va in frantumi. È vero che la nonna cucina le pietanze ungheresi in modo divino. Ma il rapporto fra Marika e sua madre è a dir poco disastroso, ed Elena Fischer sa dipanare in modo meraviglioso l’intricato passato di Marika, i motivi che l’hanno portata a scappare, giovanissima, da casa, a rompere con la madre, con la danza, con Budapest, e a restare incinta (di «uno stronzo», si legge nel romanzo) rifugiandosi in Germania sul Mare del Nord (ma questo il lettore lo scoprirà solo negli ultimi capitoli).

Insomma, l’atmosfera nell’ex «Pa-

radise Garden» è tesa, tanto che una sera, tornate dall’ospedale, dove la nonna ha fatto degli esami, tra mamma e figlia si arriva ai ferri corti, e volano non solo parole cariche di odio. Dopo una spinta della nonna infatti Marika perde l’equilibrio, e va a sbattere sullo spigolo del tavolo. Solo lì comprendiamo meglio le prime righe del romanzo, che anticipavano il funerale della povera Marika, e le reazioni di Billie: «Mia madre è morta questa estate».

Ovvio che la ragazza rimasta sola (la polizia ha arrestato la nonna per accertamenti) si avvita in una crisi devastante, ritrovandosi da un giorno all’altro completamente a pezzi. Dopo il funerale, e le prime mestruazioni, Billie si ritrova in un orfanotrofio, da cui fugge camuffandosi con una

strana parrucca azzurra (il dolore le ha estirpato i capelli a ciuffi). Nel tunnel in cui è ormai incastrata solo un punto di luce può ridarle un filo di speranza: la ricerca del padre. Ma dove cercarlo se Marika si è sempre rifiutata di parlarne?

Le pagine in cui Billie girovaga alla ricerca del padre a bordo della Nissan (oltre a buttarsi dai trampolini in piscina, Marika le ha insegnato anche a guidare), sono fra le più lucide del romanzo. Tanto più che alla fine, Billie riesce davvero a ripescare, su un’isoletta sperduta del Mare del Nord, suo padre. O almeno una figura maschile che potrebbe diventarlo, dato che Marika non le ha rivelato neanche questo. Il fatto cioè che Billie non è venuta al mondo in Germania, ma in Ungheria. E che l’uomo che lei ha appena ritrovato non è il padre-biologico, ma è come se lo fosse, dato che accolse Marika in fuga con la piccola Billie che aveva sei mesi.

Cosa ci raccontano allora le persone, anche quelle a cui teniamo di più, della loro vita, e cosa ci nascondono? Di chi possiamo fidarci quindi, e su cosa si fondano le relazioni e quei percorsi strampalati, senza né capo né coda che chiamiamo «vita»? Una piccola, grande opera questa di esordio di Elena Fischer, per tentare di districarsi in queste che, sino a prova a contraria, sono le questioni fondamentali dell’esistenza, più o meno agiata, più o meno precaria di ognuno di noi.

Bibliografia

Elena Fischer, Paradise Garden, Gramma Feltrinelli, 2024

Kendrick Lamar e la sfida (già vinta) di GNX

Musica ◆ Ad appena due anni da un disco complicato e sofferto, a sorpresa il rapper di Compton ritorna con un nuovo lavoro

Non se lo aspettava proprio nessuno. Forse, perché l’attenzione del pubblico mondiale era stata troppo a lungo catalizzata da una faida potente e reiterata, di quelle cui assistiamo soprattutto nel mondo del rap, a suon di brani sfornati a mo’ di risposta.

Il 22 di novembre Kendrick Lamar ha pubblicato GNX, nuovo album, il sesto realizzato in studio.

Nell’affollato mondo del rap, ora alle prese con uno scandalo monstre, al cui centro vi è il produttore e musicista P. Diddy, Kendrick Lamar è da sempre rimasto un passo indietro, o forse sarebbe più corretto dire «oltre», come sicuramente preferirebbero in molti. Se da un lato i temi della maggior parte di rapper (e trapper), ormai triti, sono – in ordine gerarchico – i soldi, le donne (che non vengono solitamente chiamate così), le infanzie difficili e le madri, Kendrick, al più tardi da quel capolavoro che è Damn (2017), valsogli il Pulitzer della musica, si è invece occupato anche di altro. Che si tratti delle dipendenze da alcol all’interno della famiglia o della difficoltà di rappresentare una fascia spesso discriminata della società statunitense come quella degli afroamericani, del pregiudizio legato al fatto di essere di Compton o delle cosiddette mental issues, Lamar dà al rap quel che è (o meglio era) del rap e che ne ha segnato gli albori nel 1973, os-

sia: denuncia sociale e personale in rima, mixata a un flow inconfondibile, a una giusta dose di ironia, spesso amara, e al lavoro straordinario su fiato e voce.

Argomenti così lontani da quello che il pubblico vuole sentire e facilmente ripetere, costituirebbero un suicidio musicale annunciato per qualsiasi rapper che non abbia lo status di Kdot; incasellati e messi in rima nel flow inconfondibile del giovane artista statunitense – non arriva a quarant’anni – però, non possono che confermarne l’expertise che va al di là di qualsiasi critica, e dunque incontra solamente favori. Di pochi giorni fa è anche l’invito ufficiale a presiedere l’ambito half time show del Super Bowl il prossimo 9 febbraio a New Orleans, che in molti si aspettavano sarebbe toccato a Lil Wayne, nativo della capitale della Louisiana, nonché – in passato – fra coloro che, Kendrick, lo supportavano.

Poco si sa della vita privata di Kendrick, che diserta i social così come gli appuntamenti mondani, che al glamour contrappuntato di riccanza (così spesso pacchiano) ed esposizione preferisce la sfera intima e famigliare e una vita cristiana, eppure (o forse proprio a causa della sua presenza rarefatta), ogni sua laconica affermazione, ogni sua barra riesce a scatenare un piccolo terremoto mediatico.

Lo si è visto nello «scambio» tra lui e Drake, in un dissing continuato per settimane e che, se non proprio la sua scomparsa definitiva, ha senza dubbio causato qualche ammaccatura all’immagine del rapper canadese, accusato di pedofilia e colonizzazione culturale. A decretare il successo di quella faida, erano state soprattutto la bomba Not Like Us, prodotta da Mustard (invocato con un urlo già diventato meme, vedi Minions e SpongeBob, in tv off ), e 6:16 in LA di quel Jack Antonoff (che sta anche alle spalle di Taylor Swift) che, insieme a Sounwave, di queste dodici nuove track, ne

firma la bellezza di undici. GNX, che prende il nome dal modello di automobili Buick Grand National del 1987, anno di nascita di Lamar, in quello che è stato riconosciuto come un omaggio alla sua Los Angeles, alterna brani orecchiabili al primo ascolto, e quindi molto ballabili, a un tour quasi nostalgico in arrangiamenti densi di sintetizzatori funky che fanno molto West Coast, e più o meno dichiaratamente rendono omaggio all’indimenticato Tupac Shakur, scomparso nel 1996: per averne la prova, basta ascoltare reincarnated In man at the garden, Kendrick, fa-

cendo anche i conti con se stesso, lascia ad altri la falsa modestia (ripete a oltranza I deserve, «io merito» ndr) e riesce a evitare di apparire supponente; afferma di essersi meritati lo status sociale e la posizione in cui alla sua giovane età si ritrova, senza per questo avere perso nemmeno un briciolo di quel dolore che da sempre si porta appresso, e che soprattutto nel penultimo album, Mr. Morale and the Big Steppers (2022), affiorava di continuo, rendendo il disco un lavoro sofferto e particolarmente tormentato – e per questo a tratti anche difficile. Non mancano in GNX excursus anomali, volti a sottolineare un senso della ricerca indiscutibile, che si riverbera nei brani wacced out murals, reincarnated e gloria e si devono alla cantante mariachi losangelina Deyra Barrera. Fil rouge con i lavori precedenti è invece heart, percorso autobiografico iniziato nel 2010 e giunto al sesto episodio, dove (incurante del fatto che Drake avesse già rubato il titolo heart pt. 6 per foraggiare il dissing di cui sopra) il rapper si afferma anche come produttore, dopo avere abbandonato la TDE e fondato la pgLang Company: «Now it’s about Kendrick, I wanna evolve, place my skillset as a Black exec » (Ora le cose ruotano intorno a Kendrick, io voglio evolvere, piazzare le mie competenze come exec di colore, ndr).

Simona Sala
GNX, una piacevole sorpresa per chiunque ami Kendrick Lamar. (Universal)
Immagine di copertina del libro Paradise Garden, il romanzo d’esordio di Elena Fischer.

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Christian Bale, mister versatile

Ritratto ◆ Dalle diete estreme ai ruoli più sfaccettati, l’attore gallese conferma la sua indole camaleontica

L’annuncio che l’attore Christian Bale interpreterà il mostro di Frankenstein in una pellicola di prossima uscita, lo conferma fra gli attori più talentuosi e versatili del momento.

Gli attori più popolari non sono per forza quelli più capaci, e gli attori più capaci non sono per forza i più popolari. Ci sono anche attori, alcuni dei quali estremamente popolari, che si ritrovano come incastrati, intrappolati in ruoli di un certo tipo: è il caso di molti protagonisti di film d’azione ad alto contenuto adrenalinico, come Bruce Willis, Dwayne Johnson, o Vin Diesel. Altri, invece, frequentano generi e personaggi molto diversi, e ci stupiscono per le loro attitudini camaleontiche: come Keanu Reeves, che nel corso della sua carriera ha saputo impersonare ruoli tanto diversi come il pistolero John Wick e Siddharta Gautama, ovvero il Buddha in persona. Anche Tom Cruise, per dire, ha alternato con regolarità ruoli d’azione a personaggi più complessi e

sfaccettati. O Robert De Niro, che ha saputo regalare agli amanti del cinema interpretazioni tanto diverse quanto indimenticabili.

I grandi attori sono quelli che interpretano, nel corso della loro carriera, ruoli anche molto diversi. Tale duttilità manifesta la capacità di dare forma e spessore, attraverso la recitazione, a un’ampia gamma di personaggi, dimostrando così una spiccata abilità nel lavorare su sé stessi al fine di modellare e di creare nuove identità sul grande schermo. Molti di questi attori sono al tempo stesso popolari ed estremamente talentuosi. Altri ancora, pur non salendo sul podio degli attori più popolari, sono dotati di una tale bravura che per loro le lodi non si esauriscono mai. Fra questi c’è sicuramente Christian Bale, attore che nasce in Galles nel 1974 e che poi sarà naturalizzato statunitense. Il padre, David Bale, è un famoso attivista per i diritti degli animali. La madre Jenny James è artista circense, mentre il

nonno è ventriloquo e prestigiatore: legami che testimoniano come la stoffa dell’attore sia anche una questione di famiglia. Nel corso della sua prolifica carriera, Christian Bale ha recitato in film come L’impero del sole (Steven Spielberg, 1987), American Psycho (Mary Harron, 2000), L’uomo senza sonno (Brad Anderson, 2004), La trilogia del cavaliere oscuro di Christopher Nolan (2005, 2008, 2012), The Fighter (David O. Russell, 2010), La grande scommessa (Adam McKay, 2015), e Vice (Adam McKay, 2018).

Di recente si è parlato molto del fatto che Bale interpreterà il mostro di Frankenstein in The Bride!, film di prossima uscita diretto da Maggie Gyllenhaal. In occasione di alcuni test di ripresa, la regista ha diffuso alcuni scatti che ritraggono Bale nel suo nuovo ruolo. L’attore, scherzando, ha detto che si sarebbe dovuto rasare i capelli a zero per l’inizio delle riprese: un accorgimento necessario per assumere – grazie anche a un apposito trucco –

le sembianze del mostro. Chi conosce bene Christian Bale sa che, nella sua carriera, ha sottoposto il suo corpo a esperienze ben più provanti di un taglio completo di capelli. In più occasioni l’attore si è dimostrato capace di perdere o acquisire peso per interpretare al meglio un personaggio. Una ricerca dell’autenticità che, però, non si limita alle trasformazioni fisiche, ma riguarda anche la sua abilità nell’adottare, a dipendenza delle circostanze, accenti diversi. Nel promuovere i singoli capitoli della Trilogia del cavaliere oscuro che Nolan ha dedicato, tanto per restare in tema di trasformazioni, all’uomo pipistrello, l’attore esagera volutamente l’accento americano di fronte a un pubblico che, al cospetto di un Batman dalla cadenza britannica, potrebbe anche storcere il naso. Ma veniamo ad alcune delle trasformazioni più clamorose alle quali si è sottoposto nel corso della sua carriera. Per il film L’uomo senza sonno, per esempio, Bale dovette perdere 25 chili per entrare nel ruolo di protagonista, riducendo il suo corpo a pelle e ossa. Limitando, per diverse settimane, la sua dieta giornaliera a una scatoletta di tonno e una mela, sottomise il corpo a un’esperienza estenuante che mise a dura prova la sua integrità fisica e mentale. La critica, per l’occasione, non mancò di mettere in valore la dedizione di Bale nell’interpretare un personaggio dal corpo cadaverico, quasi spettrale. Terminate da poco le riprese de L’uomo senza sonno, l’attore si assicurò il ruolo di Batman nel primo episodio della saga che Christopher Nolan dedicò all’uomo pipistrello. Mangiando cibi ricchi di carboidrati come pasta e pane, recuperò rapidamente il peso perduto e, una volta riguadagnata la tonalità muscolare, si sottopose a un intenso allenamento che gli permise di costruirsi, a tempo da record, un invidiabile fisico

da atleta. Il corpo muscoloso e tonico di Bruce Wayne che vediamo fare flessioni con una disinvoltura quasi disarmante nel film diretto da Nolan, sembra non avere nulla in comune con quello di Trevor Reznik, il protagonista de L’uomo senza sonno: eppure si tratta sempre di Christian Bale. Sembra impossibile che in così poco tempo abbia trasformato il suo corpo in maniera così radicale, ma qui gli effetti speciali non c’entrano per nulla. In The Fighter del 2010, l’attore rilanciò la sfida. Nella pellicola interpreta Dicky Eklund, fratellastro del pugile Micky Ward; reduce da una storia di dipendenza, Eklund appare scarno e segnato dalla vita. Costretto a perdere i muscoli conquistati faticosamente in palestra per diventare Batman, Bale si dimostrò, ancora una volta, perfettamente all’altezza. Nelle successive pellicole, la sfida addirittura si rovesciò. In American Hustle (2014), l’attore interpreta Irving Rosenfeld, un malavitoso sovrappeso: per entrare nel ruolo, Bale si cibò quasi esclusivamente di cheeseburger, patatine fritte e donuts. Ritornato al suo peso forma, in Vice (2018), dovette di nuovo prendere chili fino ad assumere le fattezze, che lo rendono irriconoscibile, del personaggio di Dick Cheney, vicepresidente degli Stati Uniti dal 2001 al 2009 sotto la presidenza di George W. Bush.

Dopo questa ennesima prova di duttilità, Bale ha dichiarato alla stampa che, per salvaguardare la sua salute fisica e mentale, non intende più sottoporre il suo fisico a trasformazioni così estreme. La sua vocazione camaleontica, però, ci suggerisce il contrario. Accettando di diventare il mostro di Frankenstein – una delle creature più famose della letteratura e del cinema –, Bale di fatto sposta l’asticella, esplorando nuovi territori che confermano la sua irriducibile versatilità.

Berlinguer, un grigio funzionario ai vertici dell’Italia

Cinema ◆ Il nuovo film di Andrea Segre, premiato alla Festa di Roma, ricostruisce cinque anni di vita politica e personale dell’allora segretario del PCI

«Un grigio funzionario» è una definizione che prima la moglie e poi una delle figlie dedicano affettuosamente a Enrico Berlinguer, storico segretario del Partito comunista italiano-PCI (dal 1972 al 1984) e tra i protagonisti di una stagione importante per la Penisola. Berlinguer – La grande ambizione, film di Andrea Segre, è appena uscito nelle nostre sale, dopo aver vinto un premio – quello per il miglior attore –alla recente Festa di Roma e ad aver avuto un buon riscontro di pubblico e di critica.

Racconta le vicende politiche (molte) e personali (poche) di Berlinguer tra il 1973, quando sfugge a un attentato in Bulgaria, e il 1978, dopo l’assassinio dell’allora presidente della Democrazia Cristiana-DC Aldo Moro. Anni in cui il PCI divenne il primo partito in Italia e cercò un dialogo con l’altro grande partito (la DC appunto) arrivando vicino a cambiare il destino del Paese grazie al famoso compromesso storico. Un accordo che allontanò il partito di Berlinguer dai comunisti sovietici, ponendolo come un unicum tra i partiti comunisti mondiali.

Questo è il perimetro storico entro cui si svolge l’opera di Segre. Un confine fondamentale per comprendere il film che è molto ancorato a quelle vicende e nulla lascia all’immaginazione. Infatti, il tutto è spiegato per filo e per segno; il pensiero politico di Berlinguer viene sviluppato soprattutto dalla sua voce fuori campo (a volte al limite dell’estenuante) che ne chiarisce i concetti e gli obiettivi, nel suo tono piano, lento, monocorde e contraddistinto dal suo evidente accento sassarese. In questo senso, la pellicola ha il difetto di essere troppo didascalica, pedante e pedagogica. A tratti – come in alcune scene nelle quali Berlinguer spiega il suo pensiero politico alla famiglia – anche artefatta.

Se questo è il difetto principale, il film ha anche alcuni pregi interessanti. Anzitutto la credibile interpretazione di Elio Germano che, grazie ad alcuni sottili tic facciali e legati al movimento del corpo, ne restituisce le tre dimensioni e il carattere schivo, ma tenace del suo personaggio. Come è stato detto da molti critici, il suo lavoro attoriale non è enfatico, ma – malgrado sia

presente in quasi ogni scena – è giocato sulla sottrazione. Il suo Berlinguer è davvero un grigio funzionario che è diventato il responsabile del più grande partito italiano dell’epoca. Sempre focalizzandoci sui personaggi, se la trasformazione di Germano in Berlinguer è sicuramente un punto forte, gli altri (Andreotti, Ingrao, Iotti, Cossutta, eccetera) restano più in superficie. Anzi, a volte, come è il caso proprio di Andreotti, scivolando nell’inutile macchiettismo. Altro aspetto interessante è sicuramente la ricerca del materiale d’archivio e il grande lavoro svolto dal montatore Jacopo Quadri (che alcuni ricorderanno ospite all’Immagine e la Parola di Locarno nel 2019). L’assemblaggio di quel materiale documentaristico con la fiction è particolarmente riuscito a farci quasi dimenticare i due livelli e a immergerci in quell’epoca complessa, difficile e tormentata della storia italiana. Il film di Segre, sotto questo punto di vista, è di una precisione filologica davvero impressionante. Poi c’è la scenografia. I «padri politici» del segretario del PCI si avvi-

cendano regolarmente nei vari uffici. Sono infatti presenti nelle fotografie che osserviamo, sullo sfondo, e che immortalano Lenin, Marx, Gramsci e Togliatti. Ecco, il film, anche plasticamente, fa di Berlinguer l’erede di

quell’ideologia, in quel preciso momento storico. Un fatto da leggere come una critica all’attuale sinistra italiana? Probabilmente, vista l’esigenza di realizzare un film su Berlinguer oggi, a 40 anni dalla morte.

Christian Bale nei panni di Frankenstein di Maggie Gyllenhaal.
(Niko Tavernise / Instagram)
Un’immagine tratta dall’ultimo film di Andrea Segre, Berlinguer – La grande ambizione. Al centro, Elio Germano nei panni del politico. (Cineworx)

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I tesori della «Tomba 93» svelati al Museo di Roma

Archeologia ◆ Uno scettro in avorio, una lancia di bronzo e una bottiglietta faïence: l’aristocrazia laziale del VII secolo a.C. torna alla luce grazie a fondi elvetici

Il tavolo di una delle stanze del laboratorio di restauro del Museo Nazionale Romano è pieno di reperti ritrovati all’interno della cosiddetta «Tomba 93», ma l’attenzione dell’ex direttore del museo, Stéphane Verger – che ha seguito l’intero iter di recupero fino alla recente fine del suo mandato – è tutta rivolta a tre oggetti in particolare: una lancia di bronzo, uno scettro in avorio e una bottiglietta di faïence che conteneva profumo. «Anche solo per questi tre reperti valeva la pena il grande lavoro di recupero e restauro che abbiamo portato a termine», esordisce lo studioso. Il recupero di una notevole scoperta archeologica getta luce su antiche connessioni culturali e commerci mediterranei

Questi tre oggetti sono parte del corredo funerario della «Tomba 93», scavata nel 1984 nella necropoli di Laurentina-Acqua Acetosa, vicino a Roma, e poi lasciata per anni nei depositi in attesa di un lavoro di recu-

pero che è arrivato solo qualche anno fa grazie a un contributo di 100mila franchi svizzeri erogati dall’Ufficio federale della cultura elvetico grazie a un bando vinto proprio dal museo romano. Per oltre tre decenni la «Tomba 93» (così chiamata perché è la novantatreesima scavata in quella necropoli) è stata oggetto di pensieri e interesse da parte degli scienziati. Si trattava di una sepoltura sotterranea, ampia dodici metri quadrati e che presentava un corredo funerario principesco formato da oltre cento oggetti: «La tomba maschile con carro più importante della necropoli con una particolarità che la rendeva davvero unica. Normalmente, in queste necropoli e in questa epoca, i corpi venivano inumati. Tuttavia in questa tomba, in modo del tutto eccezionale, il corpo era stato incinerato e le ossa messe in un piccolo vaso di bronzo con intorno i gioielli più importanti. Un rito che ricorda quello antico villanoviano o laziale, ma anche un rito eroico che viene dalla Grecia, quello detto omerico, perché Patroclo, il compagno di Achille, era stato seppellito così. La similitu-

dine con l’incinerazione aristocratica della tradizione greca è interessante dunque anche a livello storico». Insomma, bisognava lavorare su quella che si sapeva essere una tomba importante e con un corredo funerario di rilievo, ma per farlo servivano soldi. «Per questo abbiamo deciso, nel maggio del 2021, di partecipare al bando dell’Ufficio Federale della cultura della Svizzera che abbiamo vinto».

«Dal 1° giugno 2005 l’Ufficio specializzato per i trasferimenti internazionali di beni culturali dell’Ufficio federale della cultura è incaricato dell’esecuzione della legge federale sui trasferimenti internazionali di beni culturali», aveva spiegato qualche tempo fa a Tvsvizzera.it Tania Esposito Hohler, funzionaria dell’Ufficio federale della cultura.

Tale legge «recepisce nel diritto interno la Convenzione UNESCO del 1970 e la Convenzione UNESCO del 2001 e disciplina l’importazione di beni culturali in Svizzera, il loro transito, l’esportazione e il rimpatrio dalla Svizzera, nonché le misure contro i trasferimenti illeciti. La concessione di aiuti finanziari per la conservazione del patrimonio culturale mobile è una delle numerose misure previste dalla legge in questione», continuava Esposito Hohler.

Grazie a quei fondi, quindi, è stato possibile iniziare a lavorare sui pani di terra della «Tomba 93». Lavori durati oltre un anno che hanno portato alla luce diversi oggetti (tra cui due scudi, diverse lance e spade, vasi di bronzo e gioielli di ogni tipo) che hanno raccontato molto della vita e delle relazioni dell’aristocrazia laziale del VII secolo a.C.

Si è trattato di scavi complicati. Perché questa era una sepoltura a camera: ampi spazi con oggetti collocati spesso anche su mobili. Il soffitto, essendo di legno, dopo un certo numero di anni cede a causa delle infiltrazioni d’acqua, dei parassiti e delle muf-

fe. Quando il legno cede, crolla tutto ciò che c’è sopra, solitamente massi di pietra. Crollo che distrugge gli oggetti sottostanti, li sposta e li deforma a seconda della loro tipologia. Gli oggetti fragili si rompono, mentre quelli metallici, se ancora in buono stato, si piegano e si deformano, compenetrandosi gli uni con gli altri. Insomma, un lavoro per niente facile, ma che ha portato i suoi frutti. «In primis, questo scettro di avorio, che è simbolo di potere ma che ci dice anche che in quell’epoca esistevano dei contatti commerciali tra le popolazioni del Lazio e la sponda Sud del Mediterraneo». A riprova di ciò, c’è un oggetto che rappresenta

un unicum assoluto: la bottiglietta di faïence – un tipo di ceramica smaltata molto diffusa nell’antico Egitto – che conteneva profumo. E poi una lancia di bronzo, anch’essa segno di potere, che rimanda alle tradizioni regionali dell’Italia.

I lavori di restauro sono ormai terminati. Dunque si potrà entrare presto nella fase due del progetto che prevede in primis l’inizio di uno studio scientifico per arrivare presto a una pubblicazione. E poi la presentazione al pubblico del lavoro svolto. Prima in una mostra, la cui data non è ancora stata stabilita, e poi nella nuova sezione del Museo Nazionale Romano che sarà allestito tra due anni.

Stéphane Verger, ex direttore del Museo Nazionale Romano, nel laboratorio di restauro.
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In alto, lo scettro di avorio.

Laddove l’anarchia si sposa con l’eco-creatività

Itinerario

Tra le colline che sovrastano Rimini, esattamente a Santarcangelo di Ro magna, esiste un museo a cielo aperto particolare e scenografico, chiamato Parco Artistico di Mutonia. Corre vano gli anni Novanta, quando un gruppo di artisti e performer della scena underground londinese cono sciuti come Mutoid Waste Company gettava le sue fondamenta in una ex cava abbandonata. In quel periodo il gruppo si trovava in Italia proprio per seguire la meta dove li portava la loro arte. Finirono tra le colline riminesi, stabilendosi a Santarcangelo, e da al lora non se ne sono più andati.

La materia prima

Tutta la produzione artistica dei mu toidi si basa su un principio fondamentale: usare per le loro opere materiale di recupero e di scarto. Riciclare e trasformare in sculture gli oggetti inutili o destinati a essere distrutti.

ta comunitaria. Ma Mutonia è anche un luogo aperto a tutti quegli artisti che vogliono sperimentare

Luigi Baldelli, testo e foto
Pagina 40
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Karl Krüsi (1855-1925) lavorò nelle piantagioni svizzere delle Indie olandesi (Museo nazionale svizzero); sotto; l’elmo tropicale, segno distintivo della dominazione coloniale, fine 19esimo sec. (Museo di etnografia Ginevra).

La Svizzera e i «suoi» schiavi

«Sono contenta che la Svizzera non abbia mai partecipato a queste storie di schiavitù, né alla colonizzazione» È il 2017 quando, in Benin, l’allora presidente della Confederazione, Doris Leuthard, pronuncia queste parole. Sette anni dopo, la sua voce – registrata allora – riecheggia nelle mie orecchie mentre ascolto l’introduzione del podcast Nos esclaves, una serie in otto episodi prodotta dalla Radio Télévision Suisse. La sorprendente inchiesta del giornalista Cyril Dépraz, durata quasi due anni, mette in luce una realtà ben diversa. Pur non avendo mai posseduto colonie né gestito flotte per il traffico di schiavi, alcuni imprenditori e finanziatori svizzeri parteciparono attivamente alla tratta degli schiavi atlantica tra il XVI e il XIX secolo. Centinaia di imprese e privati svizzeri furono coinvolti nel commercio e nella deportazione di almeno 170 mila persone. Ingenti ricchezze sono state accumulate da cittadini elvetici tramite attività commerciali basate sulla schiavitù e sul colonialismo.

In Nos esclaves si analizza il contributo «indiretto» alla tratta degli esseri umani da parte di imprese e privati svizzeri

Non solo: mercenari svizzeri servirono nei principali eserciti europei, che portarono avanti campagne di conquista e di mantenimento dell’ordine nelle colonie. In Nord e Sud America, e in misura limitata anche in Asia e Africa, emigrati svizzeri furono invitati a coltivare terre sottratte con la violenza alle popolazioni locali, dando avvio a uno sfruttamento intensivo del territorio e delle risorse naturali, con conseguenze ecologiche ed economiche visibili ancora oggi. Molti svizzeri lavorarono per potenze coloniali, e migliaia di cittadini confederati furono coinvolti in questo commercio, spesso con il tacito consenso delle autorità federali.

Un esempio citato nel podcast è un documento del 1864 – epoca in cui la maggior parte delle nazioni europee aveva già abolito la schiavitù – che dimostra come il Consiglio federale fosse consapevole dell’esistenza di colonie con schiavi in Brasile: le autorità sapevano che cittadini svizzeri possedevano persone ridotte in schiavitù a Cuba e nel Nord America, e la pratica era considerata «un atto che non implica alcun crimine» quindi social-

mente accettabile e persino vantaggioso per gli svizzeri residenti oltremare. Il podcast si avvale anche delle ricerche di Thomas David, professore di storia contemporanea internazionale all’Università di Losanna, che ha studiato la vicenda e pubblicato il libro La Suisse et l’esclavage des noirs, edito da Antipodes di Losanna che, con uno strutturato lavoro di indagine, ha cercato di portare alla luce un tema fino a questo momento piuttosto dimenticato.

Nelle otto puntate, già disponibili sulle principali piattaforme di streaming, vengono raccontati episodi emblematici emersi da queste ricerche. L’autore del podcast ci porta in giro per la Svizzera a visitare luoghi simbolo di questa storia. Come nella piazza principale di Neuchâtel, sotto la statua di David de Pury, commerciante e probabilmente il principale benefattore della città, che finanziò ospedali, scuole e persino la costruzione del palazzo municipale. Denaro guadagnato anche con la tratta degli schiavi, il che solleva naturalmente una serie di questioni etiche che si riverberano su tutta la società. Oppure a Yverdon, dove per anni visse Pauline Buisson, una delle due donne costrette alla schiavitù e portate in Svizzera dalle colonie haitiane alla fine del XVIII secolo dal militare di carriera David-Philippe de Treytorrens. Si citano gli investimenti di denaro pubblico delle città di Zurigo e Berna nella «South Sea Company», una società britannica attiva nella tratta degli schiavi nelle colonie spagnole in America. Nel podcast si racconta anche dei produttori di Gruyère che, vantando la lunga conservabilità del proprio prodotto, rifornivano le navi impegnate nel commercio atlantico delle persone schiavizzate, e delle università elvetiche che contribuirono alla diffusione delle teorie razziste, legittimando a livello internazionale sul piano scientifico, il colonialismo. L’ascolto del podcast continua anche sul treno, mentre viaggio verso Zurigo per visitare la mostra La Svizzera coloniale in esposizione al Museo nazionale fino al prossimo 19 genna-

Nuova newsle er

io. Esposizione che offre una panoramica della storia coloniale del nostro Paese e invita a riflettere sull’influenza che il colonialismo ha avuto sul nostro modo di pensare. Molti e impressionanti gli oggetti e i documenti in mostra: alcuni di essi sono citati e raccontati anche nel documentario audio. Il simbolo dell’esposizione è un casco coloniale, proveniente dalla Repubblica Democratica del Congo, indossato anche dagli svizzeri durante i loro soggiorni nel Paese, usato per proteggersi dal sole ma anche e soprattutto come simbolo di potere e oppressione. La mostra affronta direttamente temi controversi, per esempio l’opportunità di sostituire o rimuovere i nomi di strade e monumenti dedicati a figure coinvolte nel colonialismo, interrogandosi se tale intervento rappresenti una giusta misura o un tentativo di censurare la storia.

Non è peraltro l’unica iniziativa che testimonia l’attualità di questo tema: anche il Dizionario Storico della Svizzera ha recentemente pubblicato online un approfondito dossier multilingue intitolato «Intrecci coloniali della Svizzera» che raccoglie voci legate al ruolo della Confederazione e di alcune importanti famiglie di industriali nella rete coloniale mondiale.

Affrontando la storia, il podcast non dimentica però il presente, interrogandosi per esempio sulla questione del linguaggio da utilizzare per affrontare queste tematiche. Ad esempio si chiede se, nella narrazione, sia accettabile l’uso del termine «négritude» e di tutti i suoi derivati. L’autore sceglie consapevolmente di utilizzare i termini originali contenuti nei documenti storici, nonostante siano carichi di violenza simbolica.

Affronta inoltre il dibattito sulla parola «schiavo», termine che riduce una persona alla sua condizione, mentre le forme «ridotto in schiavitù» o «persona schiavizzata» offrono una prospettiva più complessa sulla questione. Non vengono fatte scelte linguistiche radicali e i termini coesistono nel racconto. Consapevole di trovarsi in un periodo di transizione, l’autore sceglie di usare le parole che in passato hanno descritto questa condizione, accostandole a quelle del presente e, forse, del futuro.

Un audio reportage emozionante e istruttivo, che ci obbliga a confrontarci con la nostra eredità coloniale e che sarebbe bello ascoltare, con un’adeguata traduzione in italiano, anche sulle nostre frequenze.

Non lasciatevi sfuggire l’opportunità di rimanere aggiornati! Con la nuova newsle er della nostra Fondazione, vi teniamo informati sulle nostre a ività, sui proge i in corso e su temi rilevanti legati al mondo dell’anzianità.

Volontari cercasi

Siamo sempre alla ricerca di persone desiderose di offrire il proprio tempo come volontari nei diversi ambiti della nostra Fondazione, presenti in tu e le regioni del Cantone.

In particolare, cerchiamo volontari per il servizio fiduciario e il servizio di assistenza nella compilazione delle dichiarazioni d’imposta nel Mendrisio o, Locarnese e Bellinzonese.

Inoltre, il servizio di accompagnamento a domicilio è costantemente in cerca di persone che vogliano portare compagnia e conforto agli anziani che vivono soli.

Se desiderate fare la differenza, non esitate a contattare il nostro servizio di volontariato: Tel. 091 912 17 17 – volontariato@prosenectute.org

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GUSTO

Mandarini & Clementine

Deliziose succose sorprese

Aromatici, dolci e succosi: mandarini e clementine apportano freschezza e sole nel piatto. Sono perfetti per dessert, insalate e piatti autunnali

Insalata di cavolo rosso con tofu e mandarino

Ingredienti per 4 persone

460 g di tofu , ad es. al curry

600 g di cavolo rosso

3 cucchiai di condimento bianco

2 cucchiai di salsa di soia

2 cucchiai d’olio di sesamo

1 cucchiaino di salsa sriracha (salsa piccante)

4 mandarini

½ mazzetto di coriandolo

Marinata

1 mandarino

2 spicchi d’aglio

½ mazzetto di coriandolo

5 cucchiai d’olio d’oliva

½ cucchiaino sale

1. Per la marinata, spremete il mandarino e con un frullatore a immersione frullate finemente il succo con l’aglio, il coriandolo, l’olio d’oliva e il sale. Tagliate il tofu a listarelle e fatelo marinare nella salsa per ca. 10 minuti.

2. Nel frattempo, con una mandolina tagliate finemente il cavolo rosso e conditelo con l’aceto, la salsa di soia, l’olio di sesamo e la salsa sriracha. Sbucciate i mandarini e tagliateli a fette. Sfogliate il coriandolo, mettete da parte qualche foglia e mescolate il resto con l’insalata di cavolo rosso.

3. Scaldate una padella grande. Togliete il tofu dalla marinata e fatelo sgocciolare bene, raccogliendo la marinata. Rosolatelo in padella da ogni lato poi toglietelo e tenetelo in caldo. Versate la marinata in padella e fatela ridurre un po’. Nel frattempo, impiattate l’insalata di cavolo. Guarnitela con il tofu, le fette di mandarino, le foglie di coriandolo e conditela con la marinata ridotta.

Ricetta

Insalata di ramen

Pasta giapponese, cavolo rosso e coleslaw danno vita a un’insalata a cui mandarini e arachidi aggiungono un tocco di dolcezza e croccantezza.

Costoletta alle erbe con salsa ai pomodori e mandarini

Guarnite con un fresco trito di prezzemolo, cerfoglio, aneto e cetriolo, le costolette di maiale sono servite con carote e una salsa di pomodori e mandarini.

Clementine curd

Brunch/Colazione

Per ca. 3 vasi per conserve da 1 dl

250 g di clementine, pesate mondate ½ limetta

1 baccello di vaniglia

150 g di zucchero gelificante 2:1

2 anici stellati

3 uova

1 cucchiaino d’amido di mais

100 g di burro cialda di spelta

1. Sbuccia le clementine e dividile in spicchi. Spremi la limetta. Frulla gli spicchi con il succo di limetta. Incidi il baccello di vaniglia per il lungo, estrai i semini raschiandoli e mettili in pentola con la purea di clementine, lo zucchero e gli anici stellati. Mescola, porta a ebollizione e fai sobbollire forte per ca. 8 minuti. Filtra la massa con un colino in una pentola. Mescola le uova con l’amido di mais. Incorpora la miscela e mescolando continuamente fai scaldare la massa a fuoco basso, finché lega. Attenzione perché ora non deve più cuocere! Togli la pentola dal fuoco e incorpora il burro a dadini. Versa il curd in vasetti caldi sciacquati precedentemente con acqua bollente e sigilla subito.

2. Servi il curd alle clementine con delle cialde di spelta alle uova dorate in un tostapane o nel forno. A piacere guarnisci con delle fettine di clementina.

Tartare di manzo alla mandared

La mandared è una clementina a polpa rossa. Si può usare per condire la tartare di manzo per un fantastico antipasto. Possono essere utilizzate anche le clementine.

Ricetta Cake alle clementine

Pasticceria dolce

Per ca. 12 pezzi per 1 stampo per cake di 30 cm

230 g di burro ammorbidito

220 g di zucchero

1 clementina bio, solo la scorza

4 uova grosse

250 g di farina

1 presa di sale

2 cucchiaini di lievito in polvere

100 g di yogurt al naturale

Coulis

3 clementine, ca. 1,25 dl di succo

1 limone, succo

100 g di zucchero a velo

1 clementina bio per decorare

1. Scaldate il forno statico a 180 °C. Foderate lo stampo per cake con carta da forno. Montate a spuma il burro e lo zucchero con uno sbattitore elettrico per ca. 3 minuti. Aggiungete la scorza grattugiata fine della clementina, poi incorporate un uovo dopo l’altro. Mescolate la farina con il sale e il lievito e incorporate all’impasto insieme con lo yogurt. Versate l’impasto nello stampo e cuocete in forno per 45–50 minuti. Fate la prova cottura con uno stuzzicadenti. Sfornate la torta e lasciatela intiepidire.

2. Per il coulis, spremete le clementine e misurate 1,25 dl di succo. Spremete il limone, mescolate il succo con quello delle clementine poi aggiungete lo zucchero a velo. Bucherellate il cake con uno spiedino e irroratelo con il coulis. Lasciate raffreddare il cake. Tagliate la clementina bio a fette e decorate il cake.

Ricetta
Più ricette con mandarini e clementine su migusto.ch

Mandarino vecchio, clementina recente

Il mandarino è originario della Cina e viene coltivato da oltre 1000 anni. La clementina è molto più recente. Ha avuto origine solo nel XX secolo nella regione mediterranea da un incrocio tra arancio amaro e mandarino.

Cosa distingue

le clementine dai mandarini

I mandarini hanno una buccia di colore arancione chiaro, mentre quella delle clementine è arancione scuro. I mandarini hanno nove o dieci spicchi, mentre le clementine ne hanno da otto fino a dodici. Le clementine hanno molti meno semi, hanno una buccia più spessa, sono più dolci e meno aspre. Grazie alla loro buccia spessa, le clementine sono solitamente più facili da sbucciare.

Come mantenerli freschi a lungo

Hai portato a casa più clementine e mandarini di quanti tu ne voglia mangiare al momento? Puoi conservarli in frigo nello scomparto delle verdure. Le basse temperature ne ritardano l’essiccazione. Lì i mandarini si mantengono freschi per circa due settimane, le clementine anche per qualche settimana in più. Evita assolutamente che i frutti siano vicini e si tocchino. I punti di pressione li fanno andare a male più rapidamente.

Cosa fare della buccia

Appena sbucciati, i piccoli agrumi diffondono il loro irresistibile profumo in tutta la casa. Se metti la buccia fresca sul termosifone, il profumo nella

GUSTO

Cosa c’è da sapere su clementine e mandarini

Entrambi gli agrumi sono deliziosi, ma qual è la differenza tra i due? Informazioni utili e consigli su questi frutti gustosi

stanza sarà ancora più intenso. L’aroma può anche essere conservato: grattugia la buccia dei frutti bio e mescolala con lo zucchero. Puoi usarla per aromatizzare i dolci e l’impasto delle torte. Le bucce essiccate possono essere spezzettate e aggiunte a una miscela di spezie mediterranee o a un pot-pourri profumato.

Come trovare i frutti maturi Più sono conservati a lungo, più i mandarini si disidratano. È quindi meglio scegliere quelli più pesanti, poiché contengono ancora molto succo.

Cosa fare con quale frutto? Nelle zuppe, nei cake e nelle bevande, i mandarini offrono molto sapore, una fine acidità e aromi leggermente amari. Le clementine sono la prima scelta nelle macedonie, nelle bowl e negli yogurt grazie alla loro dolcezza e al loro sapore delicato.

Hans Gamper: lo svizzero che fondò il Barcellona

La storia visionaria del fondatore del Barça, dalla Svizzera alla Spagna, tra successi calcistici, crisi politiche e un’eredità ancora viva nel club catalano

Un elfo natalizio da animare con creatività

Non è facilissimo, ma può essere divertente trasformare materiali riciclati in una marionetta festosa, perfetta per decorare la casa o far giocare i bambini

Laddove l’anarchia si sposa con l’eco-creatività

Itinerario ◆ Il principio dei mutoidi di Mutonia è riciclare e trasformare in sculture gli oggetti inutili o destinati a essere distrutti

Tra le colline che sovrastano Rimini, esattamente a Santarcangelo di Romagna, esiste un museo a cielo aperto particolare e scenografico, chiamato Parco Artistico di Mutonia. Correvano gli anni Novanta, quando un gruppo di artisti e performer della scena underground londinese conosciuti come Mutoid Waste Company gettava le sue fondamenta in una ex cava abbandonata. In quel periodo il gruppo si trovava in Italia proprio per seguire la meta dove li portava la loro arte. Finirono tra le colline riminesi, stabilendosi a Santarcangelo, e da allora non se ne sono più andati.

La materia prima

Tutta la produzione artistica dei mutoidi si basa su un principio fondamentale: usare per le loro opere materiale di recupero e di scarto. Riciclare e trasformare in sculture gli oggetti inutili o destinati a essere distrutti.

Filosofia che si percepisce subito appena si arriva a Mutonia, nella campagna fuori Santarcangelo, circondati da alberi e prati. Si tratta di uno spazio davvero grande, quasi quanto un campo di calcio. All’ingresso, subito danno il benvenuto sculture che rappresentano robot, animali futuristici, cani con sei zampe, draghi in metallo e ominidi che ricordano marziani. E tutti, nessuno escluso, sono fatti di ferro, acciaio o plastica recuperata da vecchie auto, moto, frigoriferi, lavatrici e qualunque oggetto destinato a una discarica. Il bello di Mutonia è che i suoi artisti vivono all’interno del museo stesso. Accanto alle statue, roulotte, van e camper alloggiano coloro che hanno deciso di scegliere questa vita comunitaria. Ma Mutonia è anche un luogo aperto a tutti quegli artisti che vogliono sperimentare e conoscere la magia di creare con materiale di riciclo. Uno spazio libero dove la circolazione di idee è importante per

alimentare l’arte del movimento. Perché Mutonia, oltre a essere un museo, una cittadella artistica residenziale, è anche un grande laboratorio creativo dove la fantasia regna sovrana all’insegna di opere dall’estetica eco-cyberpunk

Sedicimila metri quadrati

Basta fare una passeggiata tra i quartieri di Mutonia – che conta 16mila metri quadrati – per vedere quanto materiale di scarto è a disposizione delle sculture; materiale che per una mente meno attenta e artistica avrebbe valore zero qui diventa prezioso. In fondo, in un angolo, una serie di manichini in fila come una truppa di soldati, sembra pronta per essere usata in futuro da mastri ricreatori. Poco più avanti un vecchio pannello elettronico aspetta di essere smontato per vivere una seconda vita in un’opera d’arte. E ancora, i telai di due camion

d’antan sono stati issati a mo’ di vertice di un triangolo che ricorda un arco di trionfo.

Qui, riciclare vuol dire creare, dare vita a una forma d’arte potente e innovativa. Viene messa in mostra la capacità dell’uomo attraverso la fan-

tasia di rigenerare quello che viene considerato ormai inutile. E la fantasia non ha limiti a Mutonia. L’ingresso in questo museo è totalmente libero. L’importante è non disturbare e non essere invadenti con gli artisti. Si possono ammirare le opere,

Luigi Baldelli, testo e foto
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guardarle da vicino e, se si è fortunati, scambiare quattro parole con gli scultori. Come la donna al lavoro in cima a un ponteggio dove con l’aiuto della fiamma ossidrica unisce pezzi di lamiere per realizzare un grande gallo. Nessun disegno o schizzo dell’opera; è tutto nella sua mente. E quando le dico che è molto bello, mi risponde che andrà ad adornare una piazza di un paese qui vicino.

Di fatto, le sculture di Mutonia hanno un mercato ben solido e vasto. Oltre ad essere state esposte in musei e festival di tutto il mondo, come il Burning Man o la Biennale di Venezia, sono anche state vendute a prezzi che variano dai 15mila ai 50mila euro. Sono opere che si sposano bene con l’ambiente, sono futuristiche, originali, etiche. Riescono a riempire da sole grandi spazi, stimolano la curiosità, perché quando si vede una scultura di Mutonia non si può rimanere indifferenti. Oggetti trasformati in qualcosa di straordinario, nati in un ambiente dinamico.

L’arrivo dei mutoidi

Ma come sono arrivati qui, su queste dolci colline attraversate dal fiume Marecchia, e non lontano dalle spiagge di Rimini i componenti della Mutoid Waste Company? Il nucleo che ha dato vita al movimento, formato da inglesi e scozzesi, era da un po’ che si spostava in Europa. Dopo Londra erano andati a Berlino, Parigi e poi Barcellona. In giro con i loro spettacoli e sculture. E proprio da questo girovagare vennero invitati nel 1990 a partecipare al Santarcangelo dei Teatri. Quando arrivarono, con i loro camper e caravan, i capelli a cresta, vestiti di pelle, nel più puro stile cyberpunk, chiesero dove potevano sistemarsi con veicoli e attrezzature. Venne loro indicata la vecchia cava abbandonata. Dovevano rimanere per poco e invece sono quasi 35 anni che hanno messo radici a Santarcangelo.

Mutonia è diventata negli anni anche una meta turistica non convenzionale che attrae visitatori da tutto il mondo

D’altronde questa terra è abituata all’arte: qui è nato il poeta Tonino Guerra. E la popolazione deve aver subito percepito che nonostante l’aspetto, in quei ragazzi «strani» c’era un’anima in cui regnava l’arte e il piacere per il bello. Oggi, e non solo da oggi, fanno parte integrante della regione che li ha adottati, per cui molti artisti sono diventati stanziali. Certo, non sono sempre stati rose e fiori. Nel 2013, per problemi burocratici, hanno rischiato di essere sfrattati dalla cava. Ma le proteste, prima a livello locale e poi a livello nazionale, hanno spinto la Soprintendenza a riconoscere Mutonia come «un’esperienza rilevante che è entrata nell’identità e nella storia sia di Santarcangelo sia della nazione».

Anarchia creativa controllata

Mutonia è una comunità autonoma, dove l’anarchia si mischia alla creatività e al rispetto per l’ambiente. Uno stile di vita che attrae visitatori da tutto il mondo, una meta turistica non convenzionale. È aperto tutti i giorni dalle 09.30 alle 19.00 e se non si paga il biglietto non vuol dire che sia un parco senza regole. Bisogna essere rispettosi delle opere, della privacy degli artisti, e

dell’intero microcosmo all’interno del quale coesistono anche delle sculture interattive e dinamiche. Robot giganti, animali grotteschi, automezzi strani di un periodo post apocalittico che ricordano quelli che si vedono nei film di fantascienza come Mad Max

Processo creativo

Per la realizzazione di queste opere serve un impegno lungo e laborioso. Prima di tutto bisogna trovare i materiali nelle discariche, nei

depositi di rottami o nelle fabbriche abbandonate.

Materiale che a sua volta diventa forma di ispirazione, perché un vecchio tubo arrugginito può trasformarsi nella zampa di un cane oppure nella base su cui far sviluppare un’opera astratta. Una volta raccolto il materiale inizia il lavoro manuale: tagliare il ferro, assemblarlo, saldarlo, fino a quando quello che era solo «roba inutile da buttare in discarica» riprende una nuova vita e diventa un’opera d’arte. Passeggiare all’interno del Parco porta certamente a pensare al rapporto che abbiamo con gli oggetti che ci circondano. Ed è fuori dubbio che viviamo in una società consumistica dove spesso i prodotti hanno una vita breve e la loro dismissione il più delle volte comporta un impatto devastante sull’ambiente. A fronte dello stupore che provocano le tante istallazioni, pure consola, dunque, constatare come realmente sia possibile riciclare molti materiali in modo creativo e innovativo.

Per concludere, è indubbio che a Mutonia, oltre alla sfida delle convenzioni tradizionali vi sia anche quella estetica, e si accenda così un faro sull’arte contemporanea, facendo al contempo un atto di resistenza contro lo spreco. Trasformare gli scarti in bellezza deve portare a una riflessione su come affrontare le sfide ambientali del nostro tempo. E l’arte del riciclo di Mutonia può diventare un modello da seguire, non solo nelle sculture e istallazioni, ma anche nella moda, nell’architettura, nel design. Perché qui siamo davanti non solo a un’espressione artistica, ma a uno strumento di cambiamento sociale. Un’azione concreta che ci dimostra come tutti gli oggetti possano avere una seconda vita e come in qualcosa che si riteneva inutile possa invece celarsi la bellezza.

Informazioni

Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

Lo svizzero che creò il Barça

Sport ◆ Fu Gamper a fondare uno dei club di calcio più blasonati del mondo

FC Barcelona, lo scorso 29 novembre, ha iniziato i festeggiamenti dei 125 anni dalla sua fondazione con una serie di eventi che si protrarranno fino all’aprile 2025, in attesa della riapertura del nuovo Camp Nou, lo stadio del Barça, oggetto da anni di lavori di ammodernamento.

Così come per l’Inter – fondata a Milano da un gruppo di svizzeri, i l 9 marzo del 1908 – anche la nascita del club catalano si deve a uno svizzero, Hans «Joan» Gamper. Terzo di cinque fratelli, orfano di madre morta di tubercolosi e figlio di un uomo d’affari che si occupava di transizioni bancarie, Hans comincia a fare sport sin da giovane, dimostrandosi portato per tutte le discipline che praticava: dal calcio alla corsa, dal nuoto al tennis.

«Mio nonno nacque a Winterthur il 22 novembre 1877» ci racconta Xavier Gamper, chimico di 66 anni e nipote dello storico fondatore. «Dopo alcuni anni di militanza in una squadra locale, l’Excelsior, a 19 anni, nel 1896, fondò il FC Zürich con un amico, Hans Enderli, per poi giocarci nei due anni successivi. In seguito, per motivi professionali, si trasferì dapprima a Basilea giocando nella squadra locale. E poi a Lione dove giocò anche a rugby» aggiunge Xavier Gamper.

La vera svolta, però, arriva un giorno del 1898 quando un amico

gli propone di andare a Barcellona a lavorare. Dato che a Barcellona, a quell’epoca, non c’erano squadre di calcio, Gamper pubblica un annuncio sul giornale «Los Deportes» invitando coloro che volevano praticare il futbol a contattarlo. Il gruppo, formato da tre svizzeri, due tedeschi, tre inglesi e sei catalani si riunisce il 29 novembre fondando il FC Barcelona, e dando dunque vita a una delle squadre di calcio oggi più blasonate del mondo. Essendo Gamper ancora minorenne per le leggi spagnole, viene nominato presidente un altro svizzero, Walter Wild. Del club catalano, Hans Gamper farà parte come giocatore disputando 106 partite con una media di un gol a partita. Diventerà poi presidente in cinque momenti diversi.

Ma il merito principale di Gamper, secondo il nipote, fu quello di salvare il Barça quando, il 2 dicembre del 1908, vide i soci riunirsi con un unico punto all’ordine del giorno: sciogliere la società. «Mio nonno era molto carismatico, un leader assoluto ma anche un visionario. E così in quella riunione decise di caricarsi sulle spalle e a sue spese il Barcellona salvandolo dal fallimento».

L’indole visionaria di Gamper si concretizzò quando, appena nominato presidente, capì l’importanza di costruire uno stadio di proprietà. Tema divenuto ormai mantra per le squadre

di calcio di oggi a ogni latitudine, di cui Gamper intuì però l’importanza già cento anni or sono. Con soldi suoi, e con l’aiuto di altri, costruì lo stadio del Carrer Industria (Campo de la calle Indústria) realizzato in legno, dando vita alla cosiddetta epoca d’oro del Barça, che schierava i migliori giocatori dell’epoca e che vinceva trofei uno dopo l’altro. «Nel 1923, visto che lo stadio del Carrer Industria era diventato piccolo, decise di costruire un nuovo stadio a les Corts vicino a dove ancor oggi si trova il Camp Nou, investendo di tasca sua una quantità impressionante di soldi per l’epoca: 970mila pesetas a fondo perduto, la metà dell’intero costo dello stadio che fu costruito in soli tre mesi», tiene a precisare il nipote.

Ma le questioni politiche spagnole e quelle legate all’economia internazionale cominciarono a pesare sul futuro del Barça e su quello di Gamper. A seguito della dittatura di Primo de Rivera in Spagna e per colpa del suo essere praticante protestante, Hans Gamper – nel frattempo diventato Joan Gamper in omaggio alle sue simpatie catalaniste – fu allontanato dal Barça ed espulso dal Paese nel 1925. «Quando, dopo qualche mese, fu autorizzato a rientrare a Barcellona, gli venne impedito di ricoprire qualsiasi incarico nel Club. Fu addirittura obbligato a pa-

gare il biglietto per assistere alle partite della sua squadra. La crisi economica del 1929 gli fece poi perdere tutti i soldi». Gamper, a seguito della crisi depressiva in cui era precipitato, si suicidò sparandosi un colpo di pistola il 30 luglio del 1930. Dopo la sua morte, la moglie friburghese, Emma Pilloud – che Gamper sposò nel 1907 e dalla quale ebbe due figli – vietò che in famiglia si tornasse al suo ricordo: «Mia nonna non voleva che si parlasse del nonno. Noi nipoti non l’abbiamo mai sentita parlare di lui. Una cosa molto triste. Le informazioni le abbiamo prese dallo zio Joan Ricard Gamper e dalle persone che lo avevano conosciuto», spiega Xavier Gamper, che aggiunge: «Noi abbiamo mantenuto i rapporti con la Svizzera, abbiamo la doppia cittadinanza così come anche i nostri figli. Io, mia cugina Emma – che ha scritto un libro sulla vita di mio nonno intitolato De Hans Gamper a Joan Gamper, una biografia emocional e che da qualche anno si è trasferita nel cantone di Losanna – così come anche altri miei famigliari, abbiamo frequentato la scuola svizzera

di Barcellona. E il tedesco, insieme al catalano e al castellano, è la nostra lingua materna. Io mi sento svizzero anche se vivo a Barcellona: voto in Svizzera e tutti noi Gamper ci sentiamo svizzeri».

Un legame, quello del Barcellona con la Svizzera, che continua ancora oggi, visto che la confederazione elvetica è il Paese che, dopo la Spagna, ospita il maggior numero di club organizzati di tifosi del Barça al mondo. Ci sono penyas del Barça a Basilea, Bellinzona, Martigny, Ginevra, Sciaffusa, Losanna e Berna. «Sicuramente è per via della sua origine svizzera» chiosa Xavier Gamper, il quale, confessando di voler scrivere una biografia completa sul nonno, ci tiene ad aggiungere che «sarebbe bello se si potesse far disputare prima o poi un Gamper (ndr. trofeo in onore del fondatore che dal 1966 si gioca al Camp Nou nel pre-campionato tra il Barcellona e un avversario che cambia ogni volta) tra Barça e Zurigo. Una bellissima idea per fare un omaggio ulteriore a Hans “Joan” Gamper, fondatore delle due squadre».

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Formazione del Barça nel 1900: Hans Gamper è il terzo da sinistra, seduto, con i baffi, e la palla tra i piedi.

L’elfo di Natale più colorato che c’è

Crea con noi ◆ Per realizzare una marionetta divertente, come decorazione o gioco, basta utilizzare materiali semplici e riciclati

In questo tutorial vedremo come creare una marionetta natalizia a forma di elfo, perfetta sia come gioco per i bambini sia come decorazione per la porta o la camera dei più piccoli. Questa marionetta è realizzata con materiali semplici e riciclati, come cartone, pittura e ritagli di pannolenci, che rendono il lavoretto creativo e sostenibile.

Procedimento

Stampate il cartamodello e, con una matita, tracciate le varie parti sul cartone. Ricordate che braccia e gambe devono essere speculari. Ritagliatele con cura usando le forbici o un taglierino. Dipingete tutte le parti con pittura acrilica o tempe-

ra; lasciate asciugare e, se necessario, applicate una seconda mano per ottenere un colore ben coprente. Se il cartone si curva dopo l’asciugatura, passate una mano di pittura bianca anche sul retro per appiattirlo; in caso contrario, non è necessario. Dal pannolenci rosso ritagliate le scarpe e i guanti. Per farlo, appoggiate la sagoma di cartone «dritto contro dritto», tracciatela con una penna, ritagliate e incollate i pezzi con colla a caldo o in stick.

Usate i pennarelli per disegnare il viso dell’elfo e aggiungete dettagli a piacere, come piccoli pompon, bottoni, o una fibbia in panno per la cintura. Potete anche aggiungere un tocco brillante con un po’ di colla glitter.

Giochi e passatempi

Cruciverba

Forse non sai che il nucleo del Sole misura circa… Termina la frase leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate.

(Frase: 8, 7, 2, 5, 7)

ORIZZONTALI

1. Perciò

6. Articolo

7. Vanno in coppia

9. Buia, oscura

11. Salame senza sale

12. C omposto di idrogeno con altro elemento chimico

14. Preposizione articolata

15. Unta

20. Il tasto opposto a off

22. L’odio nel cuore

24. Fiume dell’Italia settentrionale

25. Lo è il fittone

28. Due lettere in più

29. Acido desossiribonucleico

30. Preposizione articolata

32. Vale dieci a briscola

34. Si trovano lungo gli uadi

35. Lo può essere il viso

VERTICALI

1. Avverbio di luogo

2. Consacrati da Dio

3. Misura lineare inglese

4. Le iniziali dell’attore

Sutherland 5. Cadde al primo volo

Forate l’estremità del cappello e inserite un nastro per poter appendere la marionetta. Incollate le orecchie. Con una pinza o un punteruolo, forate le varie parti dell’elfo come indicato nel cartamodello, e assemblate braccia e gambe al corpo centrale usando le punte di Parigi. Voltate la marionetta e create il meccanismo per muoverla: usate 3 pezzi di filo o spago. Con il primo filo collegate le due braccia; con il secondo unite le due gambe. Il terzo filo si fissa verticalmente alle braccia e alle gambe (seguite le indicazioni per i buchi sul cartamodello e la fotografia). Tirando il filo, le gambe e le braccia dell’elfo si muoveranno su e giù, creando un divertente effetto di danza.

Idea in più:

Aggiungete un piccolo campanellino con un nastro al braccio dell’elfo per un effetto sonoro festivo.

Materiale

• Cartone riciclato

• Colori acrilici o tempere (verde, bianco, nero, beige)

• Pennelli piatti

• Pannolenci nei colori rosso, bianco e nero

• Forbici o taglierino

• 4 punte di Parigi (fermacarte)

• Colla a caldo o bastoncino di colla

• Colla glitter rossa e verde (opzionale)

• Pennarello nero e rosso fine (per i dettagli del viso)

• Filo di cotone o spago

• Punteruolo o pinza per forare

• Bottoni, pompon o campanellini (opzionali) (I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Buon divertimento con la vostra marionetta! Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

8. Vi si corre un Gran Premio

10. Poveri di sentimenti

13. Sudicio, sporco

16. Cadevano dopo le calende

17. Assistente

18. Informa in TV

19. Usa poco le ruote

21. Una pianta come il bonsai

23. A Roma valeva dieci

26. Quello in tedesco

27. Quartiere romano

31. Due quarti di luna

33. Le iniziali dell’attore Scamarcio

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina

cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione,

intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è

esclusivamente a

in

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con

Suggerimento di presentazione

Un albero di Natale tutto da gustare

Perché non creare un piatto da aperitivo a forma di albero di Natale? Grazie ai tradizionali prodotti Beretta, oltre ad avere un bell’aspetto convincerà anche per il suo sapore delizioso

Determina le dimensioni della composizione: su un tagliere o un vassoio di legno, disponi i grissini come tronco e i fichi come punta dell’albero. Distribuisci il formaggio tagliato a triangoli come base su cui adagiare i rotoli di salame, prosciutto crudo e bresaola. Per finire completa il tutto con prelibatezze come olive, datteri, pomodori secchi e acini d’uva. Buon divertimento!

Salame Felino Beretta 100 g Fr. 7.70
Bresaola Beretta
100 g Fr. 10.10
Prosciutto crudo San Daniele Beretta 100 g Fr. 10.10

d’Occidente

Airbnb trasformerà il Colosseo in un’arena turistica?

Nell’antica Roma gli scontri tra gladiatori erano organizzati da magistrati, politici o imperatori in cerca di consenso. Ora quel ruolo sembra passare ad Airbnb. Infatti in occasione dell’uscita del film Il gladiatore II, diretto da Ridley Scott, la piattaforma online specializzata negli affitti brevi ha deciso di offrire a sedici turisti la possibilità di rivivere l’esperienza dei gladiatori, combattendo in costume storico nel Colosseo. I duellanti si misureranno per tre ore su una piattaforma di legno al centro dell’arena più famosa del mondo, interamente a loro disposizione: «Sentirai l’adrenalina, la sabbia tra le dita e il peso dell’armatura. Sentirai l’eco dei gladiatori passati nelle catacombe del Colosseo e l’inconfondibile cozzare dell’acciaio nell’arena. Vedrai il riflesso della luna sulla pietra di travertino attraverso il sudore che ti cola sul viso. Divente-

rai un gladiatore». I partecipanti saranno sorteggiati tra i nuovi iscritti e l’evento è previsto per maggio 2025. L’esperienza sarà gratuita, ma i vincitori dovranno organizzare per conto proprio il trasporto e l’alloggio nella Città Eterna.

Forse immaginando già possibili obiezioni, Airbnb ha preparato tutto per bene: l’evento si svolgerà dopo il tramonto, al di fuori degli orari di apertura del Colosseo, senza limitare l’accesso al pubblico abituale; e, grazie al coinvolgimento di esperti, la ricostruzione storica sarà accurata. Oltre a farsi carico di tutti i costi, Airbnb donerà un milione e mezzo di dollari per la conservazione dell’anfiteatro. Sulla base di queste garanzie, il Parco archeologico del Colosseo ‒ che gestisce la struttura per conto del Ministero dei beni culturali ed è dunque vicino al Governo ‒ ha dato il suo consenso.

Cammino per Milano

San Bernardino alle Ossa

Me lo aveva raccontato una modella secoli fa, al bancone una notte da Peppuccio, bar-tabacchi unico alla darsena, questo posto «dove il macabro incontra la grazia del barocco». Disse sorseggiando un rabarbaro con il seltz, confessandomi di esserne ossessionata al punto da doverci andare ogni giorno. Non ci sono mai andato, all’epoca, nella «più strana chiesa che vi sia in Milano» come afferma Carlo Romussi in Milano ne’ suoi monumenti (1875). Di corsa attraverso via Verziere. E sbaglio chiesa, entrando prima in quella di Santo Stefano dove nel 1571 viene battezzato Caravaggio e Galeazzo Maria Sforza nel 1476 è accoltellato a morte. La chiesa dedicata al santo predicatore – protettore di chi ha perso la voce, stenografi, pubblicitari – dal volto smunto e gli occhi acutissimi, invece è a fianco, di lato. Nell’ambulacro, una freccia sul marmo indica la via per l’os-

sario. Una quindicina di passi lungo un corridoio con ex voto d’argento in bacheca e avevano ragione Romussi e la modella: a bocca aperta lascia questa cappella-ossario. Centinaia di ossa – teschi, femori, tibie o cos’altro – sono accatastati, con cura e geometria, nelle nicchie. E seguendole con lo sguardo su su fino al soffitto a volta affrescato, si è travolti dall’esplosione barocca di nuvole e angeli in volo avvolto da un pulviscolo d’oro prototiepolesco. Alcuni teschi e ossa sono posti fuori, sulle lesene nerofumo, formando delle decorazioni verticali con motivi pirateschi. E sopra le nicchie, come fregi rococò. E poi ancora sopra, sulla trabeazione, file di teschi e ancora più su ossa dappertutto, qua e là, decorative, fino a condurti al soffitto. L’affresco è opera di Sebastiano Ricci (1659-1734), prodigioso pittore di Belluno, precursore del Tiepolo.

Sport in Azione

Anche così, tuttavia, le critiche non sono mancate, soprattutto dall’amministrazione cittadina, controllata invece dalle opposizioni. L’assessore alla cultura di Roma ha chiesto di ritirare il piano, denunciando «un uso avvilente del nostro patrimonio storico-artistico». E anche la presidente della Commissione cultura della città ha invitato a «evitare che diventi luogo di goliardia per pochi eletti». Sarebbero critiche accettabili se non fosse che, quando tocca a lui, il Governo cittadino non se la cava molto meglio. In passato per lungo tempo finti centurioni hanno infastidito i turisti intorno al Colosseo, offrendo la possibilità di scattare fotografie in cambio di denaro. E dopo la chiusura della Fontana di Trevi per lavori di restauro, la Sovrintendenza capitolina ai beni culturali ha installato una vasca sgraziata per permettere ai visita-

tori di esprimere desideri e lanciare monete nell’acqua come da tradizione (senza contare che il precedente restauro della fontana nel 2015 fu finanziato interamente da un noto marchio della moda).

Per tornare ai gladiatori, se la decisione spettasse a me sarei in sincero imbarazzo. D’istinto, la proposta non mi convince, ma forse non è neanche la fine del mondo. Dopo tutto, anche al tempo di Roma antica il Colosseo ospitava spettacoli violenti, plebei, pensati per compiacere il gusto facile delle masse. Inoltre, in diversi siti archeologici le rievocazioni storiche vanno di moda ed è comune lo sforzo di dare al visitatore un ruolo più attivo. E poi l’affitto per una sera soltanto porta in cassa parecchio denaro. Insomma perché no, si potrebbe dire. Ma forse la questione è più complessa e va molto al di là dello specifico

evento. Molti cittadini sottolineano come da tempo Airbnb abbia trasformato l’intero centro storico di Roma (e non solo il Colosseo) in un grande parco a tema. E mentre la città si prepara al Giubileo 2025, con milioni di altri visitatori in arrivo, montano le proteste contro l’Overtourism. I residenti lamentano che è sempre più difficile trovare case in affitto a prezzi ragionevoli; non ci sono ancora prove certe della colpevolezza della piattaforma online, ma certo molti sospetti. Per questo negli ultimi anni Roma, come quasi tutte le grandi città turistiche, ha adottato diverse misure per regolamentare e controllare l’attività di Airbnb. Intanto gli attivisti rimuovono gli smart locker per il checkin automatico, lasciando al loro posto un cappello di Robin Hood e un messaggio: basta affitti brevi. E ai gladiatori chi ci pensa più.

Intitolato Trionfo di anime in un volo d’angeli (1695), è una meraviglia già così, eppure è la miscela con i morti ammassati in bellavista, nel cuore di Milano, a innescare lo stupore estremo di questa Wunderkammer metropolitana. L’idea risale a dopo il 1642, quando crolla il campanile di Santo Stefano distruggendo l’antico ossario: la confraternita dei Disciplini lo ricostruisce con grazia barocca e horror vacui stipandolo all’eccesso. Quattro lampade da teatro agli angoli, illuminano il memento mori monumentale che diventa leggiadro in alto, con le anime in volo, liberate e rischiarate di luce naturale dalle quattro finestrelle.

I teschi, dietro la ramina, in mezzo, in ogni parete, come un mosaico, formano una croce. Da vicino, si notano alcune parti eburnee nei teschi imbruniti dai secoli. Alcune maglie delle reti sono allargate, un bi-

Nazionalità, patria, senso di appartenenza

«Lo sport travalica i confini. Siamo tutti fratelli. Lo spirito olimpico ci accomuna. Gli avversari sono rivali, non nemici».

È retorica che appartiene a un mondo ideale. In realtà, l’etimologia stessa del termine agonismo ci insinua il dubbio che antropologicamente ci sia di più.

Da «agon», parola greca che significa gara, rivalità, lotta, si giunge ineluttabilmente ad «agonia», l’ultima lotta della vita contro la morte. Di fronte a questo percorso, i concetti di nazionalità, patria, senso di appartenenza scivolano in secondo piano.

Se uno scienziato, un architetto, un letterato cambiano nazionalità, nessuno eccepisce. Ci va bene che siano cittadini svizzeri il romanziere Hermann Hesse, l’architetto Santiago Calatrava, il fisico Albert Einstein. A loro nessuno ha richiesto di issare la bandiera rossocrociata. Nessuno ha mai preteso che, la mano sul cuore, cantassero il salmo svizzero il primo

di agosto. Lo pretendiamo per contro dagli sportivi. Perché? È così fondamentale che lo sport sia un terreno di coesione nazionale?

Non saprei cosa rispondere. Probabilmente lo è. Lo si percepisce in tribuna, sentendo appassionati delle quattro regioni linguistiche sostenere la nostra Nazionale in un unico afflato. Ma questa è una storia che riguarda noi che stiamo al di qua del fronte. In trincea, i guerrieri vedono altri orizzonti. Non sono dei soldati di milizia. Sono dei professionisti. Sono attori, clown, funamboli che ci regalano gioia ed emozioni difendendo gli interessi del loro datore di lavoro. E oggi, più che mai, il datore di lavoro lo si può cambiare. Magari anche più volte, come ad esempio il ciclista Andrei Tchmil, che in carriera ha difeso i colori di Unione Sovietica, Moldavia, Ucraina e Belgio. O la ginnasta Oksana Ćusovitina, che ha vestito le insegne di Unione Sovietica, CSI, Uzbekistan,

Germania, infine ancora Uzbekistan. Opportunismo? Direi che si tratta piuttosto di una questione di opportunità. L’atleta cerca impiego là dove pensa di trovare le migliori condizioni. Da noi, molti secondos hanno scelto di vestirsi di rossocrociato, anche se la Svizzera non è la terra dei loro padri. Hanno ottenuto il passaporto e, piano piano, hanno cominciato a percepire un senso di appartenenza. Il fatto che calciatori di origine kosovara abbiano scelto di continuare a difendere le ragioni di Helvetia, anche dopo che il loro Paese è stato riconosciuto dalla comunità internazionale, ne è la testimonianza. Ci sta che Brel Embolo non esulti dopo la rete segnata al Camerun delle sue origini. Ci sta che Kubilay Türkyilmaz si ponga dei problemi nello sfidare la Turchia dei suoi avi. Il loro attaccamento alla maglia non ne esce sminuito. Anzi, a mio modo di vedere, sono loro a uscirne ingigantiti sul piano umano.

glietto è dentro una cavità oculare, due rose sono ficcate dentro le orbite, perlustrando per bene qua e là trovo anche, nascosto, un asso di cuori. Qualcosa qui mi ricorda la sacralità magica di Santa Maria delle Anime al Purgatorio di Napoli, senza però di certo neanche sfiorare quella familiarità speciale con la morte: prendersi cura dei crani senza nome posando persino sigarette. Eppure quelle zone levigate dalle dita dei devoti mostrano vicinanza e mi tentano. «Anche il deraciné o l’illuminista più incallito prova la tentazione di toccare: e tocchi! Senza paura!» trovate scritto nella Guida ai misteri e segreti di Milano (1967) a cura di Mario Spagnol e Giovenale Santi. Titubante, tocco un teschio con il polpastrello dell’indice, lo accarezzo e la sensazione è gradevolissima, come d’avorio o la più fine porcellana di una tazzina da tè dello Staffordshire.

Secondo una leggenda, le ossa che rivestono le pareti, sono di cristiani guidati da Sant’Ambrogio e morti in battaglia con gli ariani. Altre voci dicono siano poveri morti al vecchio ospedale del Brolo, i priori che lo dirigevano, carcerati, nobili di sepolcri scomparsi; mentre i condannati a morte, si dice, sono quei teschi nelle cassette sopra la porta. A ogni modo poco importa sapere chi siano, le vecchie sciure milanesi l’hanno sempre chiamato l’ossario degli innocenti. Re Giovanni V del Portogallo, noto dissipatore, colpito da questo luogo eteroclito, ha voluto riprodurne una copia fuori Lisbona. Ossessionato da San Bernardino alle Ossa è stato, pare, anche uno dei fondatori, in viale Regina Giovanna, del primo supermercato d’Italia. Sui pennacchi sagomati in alto, un po’ come pensieri dei fumetti, da notare, le apoteosi debordanti dei santi.

Nello sport, cambiare casacca può anche essere una questione di vita. Non penso allo sciatore Marcel Hirscher, già ricolmo di gloria e di denaro che, cinque anni dopo il suo addio alle competizioni, torna a gareggiare sotto le insegne dell’Olanda, paese di origine di sua madre. E neppure a Lucas Braathen che, in rotta con la federazione norvegese, si concede un anno sabbatico di ripensamento, e torna in pista aggiungendo il cognome materno Pinheiro, per difendere i colori di un paese, il Brasile, non proprio in sintonia con lo sci alpino. Penso invece al Memorial Arturo Gander vinto di recente a Chiasso dalla 17enne algerina Kaylia Nemour. Lo scorso anno è stata la prima ginnasta africana a salire sul podio iridato. In agosto è stata la prima a conquistare un oro olimpico. Era un talento predestinato. Nata e cresciuta a Saint-Benoît-laForêt, nel Centro-Valle della Loira, è

francesissima culturalmente e affettivamente, nonostante le origini algerine del padre. Tuttavia, dopo due infortuni alle ginocchia, il medico della nazionale transalpina l’ha messa alla porta: «No, tu non puoi gareggiare». E questo nonostante il parere positivo del suo specialista personale. Le conseguenze sono logiche: Kaylia si rivolge alla Federazione algerina, che le spalanca l’uscio. La Federazione internazionale di ginnastica impartisce la sua benedizione. L’ostracismo dei francesi la blocca per dodici mesi. Kaylia torna quindi in gioco e sbanca Mondiali e Olimpiadi. Morale: negli uffici federali francesi affiorano invidia e frustrazione. A Chiasso, la ragazza è seguita da una «troupe» televisiva che sta girando un documentario sulla sua ancora breve e luminosissima esistenza. Giornalista, cameraman e fonico non sono algerini. Indovinate per chi lavorano? Bravi, avete indovinato, per un network francese.

di Giancarlo Dionisio
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