Azione 50 del 9 dicembre 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio L’Ufficio federale della sanità pubblica studia la qualità dell’aria nelle aule scolastiche

Ambiente e Benessere La vaccino-esitazione per l’Oms rientra fra le dieci sfide più importanti per la salute mondiale; ce ne parla il dottor Alessandro Diana, pediatra vaccinologo

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 9 dicembre 2019

Azione 50 Politica e Economia Sulla scena geopolitica mondiale è apparsa da qualche tempo una coppia inedita: Cina e Russia

Cultura e Spettacoli Una piccola e preziosa mostra al Poldi Pezzoli di Milano per vedere la Madonna Litta

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di Venturi e Veronese

pagine 21 e 23

AFP

Clima, ultimo appello

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Il viaggio fa curriculum? di Alessandro Zanoli E così anche il signor Luigi ci ha lasciati. Ripensando a lui tornano in mente divertenti episodi di gioventù che condividiamo con suo figlio, caro amico: siamo cresciuti insieme in quello strano periodo che sono stati gli anni 70. Il signor Luigi è stato un vero «self-made man» anche se certamente non conosceva la parola. Era nato all’inizio del 900 in una grande famiglia contadina, in una situazione di povertà di quelle che oggi facciamo fatica soltanto a immaginare. Dopo essere stato macellaio in una filiale Migros, alla fine degli anni 60 aveva aperto il suo negozio, in proprio. Aiutato dalla moglie Luisa aveva nel corso degli anni messo a frutto la sua professione, con passione ed enorme impegno personale. Fino a diventare una figura di riferimento per tutto il paese: oltre a dare attenzione ai suoi clienti aveva formato schiere di apprendisti che esercitano tutt’oggi il mestiere e si ricordano di lui. Insomma, in tutta la sua enorme umiltà, la sua dolcezza anche, era un personaggio benvoluto e rispettato da tutti, che lo chiamavano semplicemente per nome. Bastava

dire «il Luigi», in paese, e tutti capivano di chi si stesse parlando. A noi, ragazzi cresciuti senza nessun merito in un epoca di benessere economico, il signor Luigi era molto simpatico. Bonario, scherzoso, ci trattava con una generosità fatta di bistecche e salamini, ma non solo. Senza battere ciglio ci prestava il furgone dell’azienda quando dovevamo scarrozzare i nostri strumenti per andare a suonare. Noi, al contrario, ingenerosi a nostra volta, lo prendevamo un po’ in giro. Il suo punto debole? Il signor Luigi non era mai andato in vacanza. Sembrava non capisse bene proprio il significato della parola. Il suo divertimento, la sua vocazione (a parte qualche partita a scopa nel bar di fronte) erano il suo lavoro. Senza nessun problema né senso di colpa particolare. Che ci andassero pure i suoi figli, sua moglie, ogni tanto, ad Albenga. Ma lui, il suo posto l’aveva nel negozio, ogni giorno, senza nessun rimpianto per spiagge, passeggiate, gelati sul lungomare. La figura del signor Luigi ci è tornata alla memoria qualche giorno dopo la sua scomparsa, discutendo con un’amica che si occupa di gestione del personale in una grande azienda. Nel corso di una divertente chiacchierata si parlava di quanto sia variato il panora-

ma «curricolare» (se così si può dire) di chi cerca lavoro. La nostra amica ci segnalava ad esempio il caso di una ragazza, dinamica e piena di buona volontà, che ascriveva entusiasticamente alle sue doti quella di «aver viaggiato in 45 paesi del mondo». Ora, con tutta la buona volontà di un selezionatore risorse umane, come va considerata quest’attitudine al cosmopolitismo, per una persona di 38 anni? Calcolando ottimisticamente che abbia cominciato a viaggiare a 20 anni, nei successivi 18 deve avere effettuato almeno tre viaggi all’anno per raggiungere un totale di quella portata. Cosa ne avrà riportato, se non una sequenza interminabile di procedure per il check-in, estenuanti permanenze in aeroporto, overdose di aria condizionata gelida e irradiazione da luce al neon? Andare in vacanza «fa curriculum»? Viaggiare è senza dubbio un’esperienza istruttiva ma, oltre a un telefono pieno di fotografie, in che modo arricchisce il nostro bagaglio personale? Nel dubbio a noi rimane soltanto la certezza dei salamini del signor Luigi. Ormai pensionato, si era rassegnato ad occuparsi della sua vigna e di una produzione casalinga tanto limitata quanto preziosa. La sua quiescenza era stata un accurato, appassionato lavoro.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

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Società e Territorio Il futuro dei droni Saranno uno degli strumenti lavorativi del prossimo futuro, nel loro sviluppo la Svizzera ha un ruolo di primo piano

Museo in Erba L’esperienza di tre animatrici del museo per bambini di Lugano al King Abdulaziz Center for World Culture in Arabia Saudita pagina 7

Polizia e Pinacoteca su Instagram Polizia cantonale e Pinacoteca Züst sono le prime due istituzioni dell’Amministrazione cantonale ad essersi dotate di un profilo social pagina 9

Droni: lo strumento del futuro Tecnologia I droni si stanno evolvendo oltre i loro usi militari e stanno diventando potenti strumenti di lavoro

per privati e aziende. La Svizzera ricopre un ruolo di primo piano nel loro sviluppo

Stefano Castelanelli pagina 3

Aria pulita per imparare meglio Scuola Uno studio dell’Ufficio federale

della sanità pubblica ha evidenziato spesso una qualità dell’aria insufficiente nelle aule scolastiche. E in Ticino?

Giorgia Reclari La testa pesante, gli occhi che si chiudono, una sensazione di fatica e la mente che non riesce più a seguire quanto c’è scritto sulla lavagna. Chi non si è mai trovato in una situazione simile durante una lezione scolastica? E i colpevoli additati sono sempre l’insegnante soporifero, l’incomprensibile matematica, la noiosissima storia, l’ostico tedesco… e ognuno può aggiungere all’elenco la materia che meno ama. Ma forse non sono solo le equazioni o le battaglie di Napoleone a rendere la lezione così faticosa. C’è un altro fattore che può influire sul rendimento di una classe: la qualità dell’aria, o meglio, la presenza di sostanze definite «inquinanti indoor». Cosa sono? Sono tutto ciò che viene emesso dalla ventina di persone presenti nella stanza (si parla di 3000 sostanze diverse), cui può aggiungersi anche quanto proviene dall’esterno. In Svizzera la qualità dell’aria è insufficiente nei due terzi delle aule scolastiche. È quanto ha provato uno studio dell’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP). Per due anni sono state effettuate misurazioni in cento aule nei cantoni Berna, Vaud e Grigioni, monitorando in particolare la concentrazione di anidride carbonica. E i risultati come detto sono poco confortanti, anche se bastano alcuni accorgimenti per migliorare subito la situazione. Anche in Ticino ci si è chinati sul tema. Recentemente sono stati presentati i risultati intermedi del progetto Interreg (l’iniziativa europea che offre la possibilità di realizzare progetti transfrontalieri per lo sviluppo delle regioni) denominato appunto «Qualità dell’aria negli edifici scolastici» promosso dalla SUPSI e da IDM Alto Adige, il facilitatore dello sviluppo economico nella regione italiana (i dettagli sul sito www.qaes.ch). «Il progetto andrà ad investigare sei sedi scolastiche in Ticino e sei in Italia, con un totale di sedici aule monitorate, di cui otto in Ticino» spiegano Luca Pampuri, ricercatore SUPSI e responsabile del Centro di competenze radon e Tiziano Teruzzi, professore SUPSI in fisica della co-

struzione. Le sedi monitorate in Ticino sono a Bellinzona, Mendrisio e Locarno, mentre in Italia sono in provincia di Bolzano. Si tratta di scuole dell’infanzia, elementari e medie, in cui vengono effettuati due periodi di misurazione sia interna che esterna di un mese ciascuno, uno estivo e uno invernale. Secondo i primi rilevamenti sembrerebbe che nel nostro cantone la situazione non sia così drammatica. «Premesso che i risultati non sono ancora definitivi in quanto ci troviamo nel bel mezzo della campagna di monitoraggio – dicono i nostri interlocutori – le concentrazioni di inquinanti indoor trovate nelle scuole finora monitorate non destano particolari preoccupazioni. Ci sono però margini di manovra per quanto riguarda le concentrazioni di CO2». Va detto infatti che lo studio dell’UFSP prende in considerazione unicamente il CO2, mentre il progetto Interreg monitora una serie di altri fattori: composti organici, biossido di azoto, temperatura, umidità relativa, ozono, polveri fini e radon. Ma quindi, viene da chiedersi: come mai ci sono risultati così diversi fra Nord e Sud delle Alpi? «Premettendo che probabilmente le condizioni climatiche presenti al Sud delle Alpi permettono un ricambio d’aria maggiore grazie ad un’apertura manuale delle finestre più costante (le temperature invernali sono meno rigide) – spiegano gli esperti della SUPSI – le caratteristiche impiantistiche degli edifici monitorati sono fondamentalmente differenti tra i due studi: in Ticino il campione finora analizzato (quattro sedi scolastiche) comprendeva anche tre aule con una ventilazione meccanica controllata. In questi casi le concentrazioni sono generalmente risultate migliori, grazie ad un ricambio dell’aria costante». Lo studio dell’Ufficio della sanità invece ha considerato un centinaio di sedi, tutte sprovviste di impianto di ventilazione e in cui si arieggiavano i locali solo con l’apertura delle finestre. La qualità dell’aria respirata dagli allievi ticinesi è quindi giudicata «abbastanza buona», perché solo sporadicamente sono stati registrati superamenti del valore di 2000 ppm (la percentuale del tempo di lezione durante il

La concentrazione di anidride carbonica e di inquinanti indoor determinano la qualità dell’aria nelle aule. (Keystone)

quale la concentrazione di inquinanti era superiore a 2000 ppm è inferiore al 5%). Se questa soglia è superata per una percentuale di tempo superiore al 10%, la qualità dell’aria, secondo i criteri definiti dall’UFSP, è da considerarsi insoddisfacente. Anche se i numeri sono ancora troppo piccoli per poter trarre delle conclusioni statistiche, sembrerebbe che l’aria sia migliore dove c’è un sistema meccanico di ventilazione. Gli esperti sono convinti che un ricambio costante dell’aria sia un fattore determinante. Sistemi di questo genere sono previsti in tutti gli edifici certificati Minergie (che per ora in Ticino sono circa un decimo del totale per quanto riguarda l’edilizia scolastica). Sono soluzioni che suscitano però anche qualche riser-

va, perché in questo tipo di edifici, per garantire l’elevata efficienza energetica, può essere esclusa l’apertura manuale delle finestre. Alcune sedi scolastiche ticinesi, in occasione di una ristrutturazione secondo gli standard Minergie, hanno in effetti richiesto che nel progetto venissero mantenute le finestre con apertura manuale. C’è un po’ il timore che la ventilazione meccanica possa non funzionare correttamente con effetti negativi sulla salute degli allievi. Un timore fondato, non per la qualità degli impianti ma per la loro gestione e manutenzione, come confermano gli esperti della SUPSI «Questi impianti necessitano di cura e manutenzione particolari, che, se vengono meno, possono creare problemi anche per quanto riguarda la qualità dell’aria

interna. Occorre disporre di personale qualificato in grado di occuparsene». Per il momento, gli edifici dotati di questi sistemi sono ancora una minoranza, in tutti gli altri conta ancora molto quanto spesso si socchiudono, aprono o spalancano le finestre. Per questo l’UFSP ha lanciato la campagna «Aria fresca, idee chiare» (www. simaria.ch) in cui si trovano molte informazioni e consigli utili per scuole e insegnanti ma anche per i committenti pubblici di opere edili. C’è anche un simulatore che permette di stimare la qualità dell’aria in un locale in base a vari parametri inseriti. Se si adotteranno tutte queste buone abitudini, allora forse anche i calcoli o gli esercizi di analisi logica sembreranno meno indigesti a tutti gli allievi.

Singapore in passato era un semplice villaggio di pescatori. La città-stato è oggi una moderna e globale metropoli. Famosa per le sue rigide leggi, la tigre asiatica è anche nota per la sua infrastruttura all’avanguardia. Singapore è infatti caratterizzata da edifici e trasporti modernissimi. La città è sempre un passo avanti rispetto al resto del mondo. Non è una sorpresa che il primo taxi volante sorvolerà tra qualche anno i grattacieli della metropoli asiatica. Nel suggestivo quartiere di Marina Bay, lunedì 21 ottobre, la Volocopter ha infatti presentato il suo primo vertiporto, un aeroporto per droni. La sua realizzazione permette alla compagnia tedesca di testare in un contesto reale i suoi droni per il trasporto di persone senza pilota. Nei prossimi anni quindi i taxi volanti visti nei film di fantascienza saranno realtà, almeno a Singapore. Ma il trasporto di persone è solo una delle tante applicazioni commerciali dei droni. Originariamente utilizzati soprattutto in ambito militare, i droni si stanno evolvendo oltre i loro usi militari per diventare potenti strumenti per privati e aziende. I droni hanno già conquistato il mercato dei consumatori amatoriali, anche in Svizzera. Secondo una stima del Governo negli ultimi anni nel paese sono stati venduti oltre 100’000 droni a piloti amatoriali. Ora però questi oggetti volanti vengono sempre più spesso impiegati anche dalle aziende. E gli usi commerciali dei droni sono i più diversi. Oltre al trasporto di persone, i droni vengono anche usati per il trasporto di beni. La Posta Svizzera ad esempio trasporta regolarmente a Lugano e Zurigo campioni di laboratorio tramite drone tra gli ospedali. A seguito di due avvenimenti a Zurigo quest’inverno e primavera, i trasporti tramite droni sono stati momentaneamente sospesi in tutta la Svizzera per chiarire le cause degli incidenti e adottare misure precauzionali per evitare nuovi casi. Nonostante gli intoppi, i partner della Posta sono fondamentalmente soddisfatti del servizio. I vantaggi sono considerevoli. Grazie ai droni i trasporti sono più flessibili, più veloci, meno dipendenti dalla situazione del traffico e più ecologici. Ma i droni non sono solo un mezzo di trasporto, possono anche essere molto utili per svolgere i lavori di manutenzione. Le FFS ad esempio già si affidano ai droni per le ispezioni e la sorveglianza della loro rete di infrastrutture al fine di minimizzare il rischio di frane. I droni fanno risparmiare tempo e rendono il lavoro più sicuro. Non solo per le ispezioni, la compagnia di trasporti svizzera occasionalmente li utilizza anche per scopi di polizia e ha effettuato test molto promettenti per il controllo dei trasporti merce. I droni vengono impiegati anche in altri ambiti. L’impresa di costruzioni svizzera Implenia li impiega già oc-

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Drone usato in ambito agricolo in un progetto di ottimizzazione e riduzione dell’uso di pesticidi attualmente in corso in 60 aziende nei Cantoni di Argovia, Turgovia e Zurigo. (Keystone)

casionalmente per il rilevamento e la modellizzazione del terreno, nonché per la fotografia aerea, e ad ogni progetto valuta ulteriori impieghi. Mentre proprio in maggio la compagnia di assicurazione svizzera SwissRe Corporate Solutions ha annunciato la sua collaborazione con Airbus per offrire ai propri clienti un servizio in grado di valutare i rischi di alluvione di impianti e altre strutture tramite simulazioni create con immagini e dati raccolti dai droni. In agricoltura infine diverse ditte anche in Svizzera offrono alle aziende agricole la possibilità tramite droni non solo di trattare con pesticidi terreni che si trovano in zone di difficile accesso ma anche di monitorare il suolo e le colture. Tuttavia, una forte crescita del loro uso richiede che il traffico di droni venga coordinato. E l’attuale sistema di controllo del traffico aereo non può essere usato per i droni. Per integrare i droni nel traffico aereo è necessario un nuovo sistema di controllo: l’U-space. Il termine U-space si riferisce ad un sistema che integra i droni nello spazio aereo permettendo una coesistenza con altri velivoli. Da marzo Skyguide sta testando il nuovo sistema negli aeroporti di Lugano e Ginevra. «L’U-space ha diverse funzioni – afferma Vladi Barrosa, Head of Media Relations di Skyguide – In primo luogo la piattaforma consente di richiedere le autorizzazioni di volo per i droni in modo facile e digitale». I droni infatti per volare in un raggio di 5 km dagli aeroporti necessitano l’autorizzazione di Skyguide. Mentre per altre applicazioni come il volo senza contatto visivo è necessaria l’autorizzazione dell’Ufficio federale dell’aviazione civile (UFAC).

Oggi queste richieste avvengono ancora tramite corrispondenza scritta. Il processo richiede tempo ed è complicato. Grazie all’U-space invece le richieste si potranno inoltrare online e verranno approvate rapidamente dalle autorità di controllo. Oltre a facilitare il processo di autorizzazione dei voli, il nuovo sistema presenta anche altre funzionalità. «L’Uspace permette anche di identificare e localizzare i droni su una mappa della Svizzera – afferma Barrosa – Inoltre avvisa i piloti di droni se un altro velivolo si sta avvicinando minimizzando i rischi di collisione tra droni e altri velivoli come elicotteri». L’U-space svizzero è il primo sistema di gestione del traffico nazionale di droni in Europa. Skyguide prevede di lanciarlo ufficialmente ad inizio 2020. Le novità per i piloti di droni non si limitano al nuovo sistema di controllo del traffico ma riguardano anche le basi legali. In Svizzera l’attuale regolamentazione dell’uso dei droni è particolarmente liberale. In linea di principio, chi vuole pilotare un drone di piccole o medie dimensioni non necessita di nessuna autorizzazione. Il pilota deve però mantenere costantemente il contatto visivo con il drone, tenersi ad almeno 5 km dagli aeroporti e fuori dalle zone con restrizioni, evitare di sorvolare luoghi affollati e rispettare la sfera privata altrui. In caso contrario è necessaria un’autorizzazione dell’UFAC o del gestore dell’aeroporto per i voli nei pressi degli aeroporti. «La legislazione in materia di droni verrà presto modificata – afferma Antonello Laveglia portavoce dell’UFAC – L’Agenzia Europea per la sicurezza aerea ha pubblicato in giugno due nuovi

regolamenti riguardanti l’uso di droni a scopi commerciali e privati. In futuro per pilotare un drone occorrerà registrarsi presso le autorità e superare un test online». La registrazione riguarda i droni di peso superiore ai 250 grammi (quindi praticamente tutti). Mentre il test online includerà in larga misura le conoscenze fondamentali indispensabili ad un pilota di droni già oggi: contatto visivo, divieti di volo e il rispetto della sfera privata altrui. Le novità legislative però non si limitano alla registrazione e al test online. «La nuova regolamentazione introdurrà tre tipi di categorie per i droni: Open, Specific e Certified» continua Laveglia. Le operazioni a basso rischio sono raggruppate nella categoria «Open» e per questi usi non sono richieste autorizzazioni. La seconda categoria «Specific» si applica agli usi in cui si assume un rischio medio. Queste operazioni devono essere approvate dalle autorità. L’ultima categoria, «Certified», include operazioni ad alto rischio. Per questi utilizzi sarà necessario presentare una domanda completa che verrà analizzata a fondo dalle autorità: i droni dovranno essere certificati e le competenze dei piloti riconosciute. «Gli Stati membri dell’EU dovranno implementare i nuovi regolamenti nelle legislazioni nazionali entro il 1. luglio 2020 – spiega Laveglia – Queste nuove basi legali saranno riprese anche dalla Svizzera». Le novità tecniche e legislative sono necessarie per favorire il crescente numero di applicazioni commerciali dei droni. La battaglia per l’emergente mercato dei droni ad uso commerciale è appena iniziata e le aziende svizzere ricoprono un ruolo di primissimo pia-

no. In Svizzera ci sono circa 80 aziende che sviluppano droni commerciali altamente specializzati. La maggior parte delle aziende risiede nella regione compresa tra il Politecnico federale di Zurigo e il Politecnico federale di Losanna, che per l’alta concentrazione di aziende produttrici viene anche denominata Drone Valley. La Svizzera offre diversi vantaggi per le aziende che sviluppano e producono droni commerciali. Da un lato, la legislazione sui droni è particolarmente liberale e le autorità sono molto cooperative. Le aziende possono quindi testare le applicazioni facilmente. Inoltre la Svizzera offre centri di eccellenza per la ricerca e sviluppo negli ambiti della robotica, dell’elettronica, dello sviluppo di software e dell’aerodinamica. Un altro vantaggio è che le aziende svizzere offrono una soluzione completa che include sia l’hardware che il software. Le industrie di altri paesi sono per lo più specializzate in una sola area, il che rende più difficile lo sviluppo di soluzioni complete. Tutte queste condizioni permettono alle aziende svizzere di sviluppare droni altamente specializzati e di successo. Per consolidare la sua posizione di leader a livello mondiale, la Svizzera sta persino pianificando di creare in Ticino un polo unico dedicato allo sviluppo di droni altamente specializzati coinvolgendo aziende ed esperti di differenti campi. Il progetto, ancora in fase di ideazione, potrebbe vedere la luce già nei prossimi anni. Visto il forte interesse per gli usi commerciali dei droni, è probabile che nei prossimi anni il traffico a bassa quota si intensificherà. E alcuni di questi oggetti volanti sopra le nostre teste saranno made in Switzerland.

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Società e Territorio Il futuro dei droni Saranno uno degli strumenti lavorativi del prossimo futuro, nel loro sviluppo la Svizzera ha un ruolo di primo piano

Museo in Erba L’esperienza di tre animatrici del museo per bambini di Lugano al King Abdulaziz Center for World Culture in Arabia Saudita pagina 7

Polizia e Pinacoteca su Instagram Polizia cantonale e Pinacoteca Züst sono le prime due istituzioni dell’Amministrazione cantonale ad essersi dotate di un profilo social pagina 9

Droni: lo strumento del futuro Tecnologia I droni si stanno evolvendo oltre i loro usi militari e stanno diventando potenti strumenti di lavoro

per privati e aziende. La Svizzera ricopre un ruolo di primo piano nel loro sviluppo

Stefano Castelanelli pagina 3

Aria pulita per imparare meglio Scuola Uno studio dell’Ufficio federale

della sanità pubblica ha evidenziato spesso una qualità dell’aria insufficiente nelle aule scolastiche. E in Ticino?

Giorgia Reclari La testa pesante, gli occhi che si chiudono, una sensazione di fatica e la mente che non riesce più a seguire quanto c’è scritto sulla lavagna. Chi non si è mai trovato in una situazione simile durante una lezione scolastica? E i colpevoli additati sono sempre l’insegnante soporifero, l’incomprensibile matematica, la noiosissima storia, l’ostico tedesco… e ognuno può aggiungere all’elenco la materia che meno ama. Ma forse non sono solo le equazioni o le battaglie di Napoleone a rendere la lezione così faticosa. C’è un altro fattore che può influire sul rendimento di una classe: la qualità dell’aria, o meglio, la presenza di sostanze definite «inquinanti indoor». Cosa sono? Sono tutto ciò che viene emesso dalla ventina di persone presenti nella stanza (si parla di 3000 sostanze diverse), cui può aggiungersi anche quanto proviene dall’esterno. In Svizzera la qualità dell’aria è insufficiente nei due terzi delle aule scolastiche. È quanto ha provato uno studio dell’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP). Per due anni sono state effettuate misurazioni in cento aule nei cantoni Berna, Vaud e Grigioni, monitorando in particolare la concentrazione di anidride carbonica. E i risultati come detto sono poco confortanti, anche se bastano alcuni accorgimenti per migliorare subito la situazione. Anche in Ticino ci si è chinati sul tema. Recentemente sono stati presentati i risultati intermedi del progetto Interreg (l’iniziativa europea che offre la possibilità di realizzare progetti transfrontalieri per lo sviluppo delle regioni) denominato appunto «Qualità dell’aria negli edifici scolastici» promosso dalla SUPSI e da IDM Alto Adige, il facilitatore dello sviluppo economico nella regione italiana (i dettagli sul sito www.qaes.ch). «Il progetto andrà ad investigare sei sedi scolastiche in Ticino e sei in Italia, con un totale di sedici aule monitorate, di cui otto in Ticino» spiegano Luca Pampuri, ricercatore SUPSI e responsabile del Centro di competenze radon e Tiziano Teruzzi, professore SUPSI in fisica della co-

struzione. Le sedi monitorate in Ticino sono a Bellinzona, Mendrisio e Locarno, mentre in Italia sono in provincia di Bolzano. Si tratta di scuole dell’infanzia, elementari e medie, in cui vengono effettuati due periodi di misurazione sia interna che esterna di un mese ciascuno, uno estivo e uno invernale. Secondo i primi rilevamenti sembrerebbe che nel nostro cantone la situazione non sia così drammatica. «Premesso che i risultati non sono ancora definitivi in quanto ci troviamo nel bel mezzo della campagna di monitoraggio – dicono i nostri interlocutori – le concentrazioni di inquinanti indoor trovate nelle scuole finora monitorate non destano particolari preoccupazioni. Ci sono però margini di manovra per quanto riguarda le concentrazioni di CO2». Va detto infatti che lo studio dell’UFSP prende in considerazione unicamente il CO2, mentre il progetto Interreg monitora una serie di altri fattori: composti organici, biossido di azoto, temperatura, umidità relativa, ozono, polveri fini e radon. Ma quindi, viene da chiedersi: come mai ci sono risultati così diversi fra Nord e Sud delle Alpi? «Premettendo che probabilmente le condizioni climatiche presenti al Sud delle Alpi permettono un ricambio d’aria maggiore grazie ad un’apertura manuale delle finestre più costante (le temperature invernali sono meno rigide) – spiegano gli esperti della SUPSI – le caratteristiche impiantistiche degli edifici monitorati sono fondamentalmente differenti tra i due studi: in Ticino il campione finora analizzato (quattro sedi scolastiche) comprendeva anche tre aule con una ventilazione meccanica controllata. In questi casi le concentrazioni sono generalmente risultate migliori, grazie ad un ricambio dell’aria costante». Lo studio dell’Ufficio della sanità invece ha considerato un centinaio di sedi, tutte sprovviste di impianto di ventilazione e in cui si arieggiavano i locali solo con l’apertura delle finestre. La qualità dell’aria respirata dagli allievi ticinesi è quindi giudicata «abbastanza buona», perché solo sporadicamente sono stati registrati superamenti del valore di 2000 ppm (la percentuale del tempo di lezione durante il

La concentrazione di anidride carbonica e di inquinanti indoor determinano la qualità dell’aria nelle aule. (Keystone)

quale la concentrazione di inquinanti era superiore a 2000 ppm è inferiore al 5%). Se questa soglia è superata per una percentuale di tempo superiore al 10%, la qualità dell’aria, secondo i criteri definiti dall’UFSP, è da considerarsi insoddisfacente. Anche se i numeri sono ancora troppo piccoli per poter trarre delle conclusioni statistiche, sembrerebbe che l’aria sia migliore dove c’è un sistema meccanico di ventilazione. Gli esperti sono convinti che un ricambio costante dell’aria sia un fattore determinante. Sistemi di questo genere sono previsti in tutti gli edifici certificati Minergie (che per ora in Ticino sono circa un decimo del totale per quanto riguarda l’edilizia scolastica). Sono soluzioni che suscitano però anche qualche riser-

va, perché in questo tipo di edifici, per garantire l’elevata efficienza energetica, può essere esclusa l’apertura manuale delle finestre. Alcune sedi scolastiche ticinesi, in occasione di una ristrutturazione secondo gli standard Minergie, hanno in effetti richiesto che nel progetto venissero mantenute le finestre con apertura manuale. C’è un po’ il timore che la ventilazione meccanica possa non funzionare correttamente con effetti negativi sulla salute degli allievi. Un timore fondato, non per la qualità degli impianti ma per la loro gestione e manutenzione, come confermano gli esperti della SUPSI «Questi impianti necessitano di cura e manutenzione particolari, che, se vengono meno, possono creare problemi anche per quanto riguarda la qualità dell’aria

interna. Occorre disporre di personale qualificato in grado di occuparsene». Per il momento, gli edifici dotati di questi sistemi sono ancora una minoranza, in tutti gli altri conta ancora molto quanto spesso si socchiudono, aprono o spalancano le finestre. Per questo l’UFSP ha lanciato la campagna «Aria fresca, idee chiare» (www. simaria.ch) in cui si trovano molte informazioni e consigli utili per scuole e insegnanti ma anche per i committenti pubblici di opere edili. C’è anche un simulatore che permette di stimare la qualità dell’aria in un locale in base a vari parametri inseriti. Se si adotteranno tutte queste buone abitudini, allora forse anche i calcoli o gli esercizi di analisi logica sembreranno meno indigesti a tutti gli allievi.

Singapore in passato era un semplice villaggio di pescatori. La città-stato è oggi una moderna e globale metropoli. Famosa per le sue rigide leggi, la tigre asiatica è anche nota per la sua infrastruttura all’avanguardia. Singapore è infatti caratterizzata da edifici e trasporti modernissimi. La città è sempre un passo avanti rispetto al resto del mondo. Non è una sorpresa che il primo taxi volante sorvolerà tra qualche anno i grattacieli della metropoli asiatica. Nel suggestivo quartiere di Marina Bay, lunedì 21 ottobre, la Volocopter ha infatti presentato il suo primo vertiporto, un aeroporto per droni. La sua realizzazione permette alla compagnia tedesca di testare in un contesto reale i suoi droni per il trasporto di persone senza pilota. Nei prossimi anni quindi i taxi volanti visti nei film di fantascienza saranno realtà, almeno a Singapore. Ma il trasporto di persone è solo una delle tante applicazioni commerciali dei droni. Originariamente utilizzati soprattutto in ambito militare, i droni si stanno evolvendo oltre i loro usi militari per diventare potenti strumenti per privati e aziende. I droni hanno già conquistato il mercato dei consumatori amatoriali, anche in Svizzera. Secondo una stima del Governo negli ultimi anni nel paese sono stati venduti oltre 100’000 droni a piloti amatoriali. Ora però questi oggetti volanti vengono sempre più spesso impiegati anche dalle aziende. E gli usi commerciali dei droni sono i più diversi. Oltre al trasporto di persone, i droni vengono anche usati per il trasporto di beni. La Posta Svizzera ad esempio trasporta regolarmente a Lugano e Zurigo campioni di laboratorio tramite drone tra gli ospedali. A seguito di due avvenimenti a Zurigo quest’inverno e primavera, i trasporti tramite droni sono stati momentaneamente sospesi in tutta la Svizzera per chiarire le cause degli incidenti e adottare misure precauzionali per evitare nuovi casi. Nonostante gli intoppi, i partner della Posta sono fondamentalmente soddisfatti del servizio. I vantaggi sono considerevoli. Grazie ai droni i trasporti sono più flessibili, più veloci, meno dipendenti dalla situazione del traffico e più ecologici. Ma i droni non sono solo un mezzo di trasporto, possono anche essere molto utili per svolgere i lavori di manutenzione. Le FFS ad esempio già si affidano ai droni per le ispezioni e la sorveglianza della loro rete di infrastrutture al fine di minimizzare il rischio di frane. I droni fanno risparmiare tempo e rendono il lavoro più sicuro. Non solo per le ispezioni, la compagnia di trasporti svizzera occasionalmente li utilizza anche per scopi di polizia e ha effettuato test molto promettenti per il controllo dei trasporti merce. I droni vengono impiegati anche in altri ambiti. L’impresa di costruzioni svizzera Implenia li impiega già oc-

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Drone usato in ambito agricolo in un progetto di ottimizzazione e riduzione dell’uso di pesticidi attualmente in corso in 60 aziende nei Cantoni di Argovia, Turgovia e Zurigo. (Keystone)

casionalmente per il rilevamento e la modellizzazione del terreno, nonché per la fotografia aerea, e ad ogni progetto valuta ulteriori impieghi. Mentre proprio in maggio la compagnia di assicurazione svizzera SwissRe Corporate Solutions ha annunciato la sua collaborazione con Airbus per offrire ai propri clienti un servizio in grado di valutare i rischi di alluvione di impianti e altre strutture tramite simulazioni create con immagini e dati raccolti dai droni. In agricoltura infine diverse ditte anche in Svizzera offrono alle aziende agricole la possibilità tramite droni non solo di trattare con pesticidi terreni che si trovano in zone di difficile accesso ma anche di monitorare il suolo e le colture. Tuttavia, una forte crescita del loro uso richiede che il traffico di droni venga coordinato. E l’attuale sistema di controllo del traffico aereo non può essere usato per i droni. Per integrare i droni nel traffico aereo è necessario un nuovo sistema di controllo: l’U-space. Il termine U-space si riferisce ad un sistema che integra i droni nello spazio aereo permettendo una coesistenza con altri velivoli. Da marzo Skyguide sta testando il nuovo sistema negli aeroporti di Lugano e Ginevra. «L’U-space ha diverse funzioni – afferma Vladi Barrosa, Head of Media Relations di Skyguide – In primo luogo la piattaforma consente di richiedere le autorizzazioni di volo per i droni in modo facile e digitale». I droni infatti per volare in un raggio di 5 km dagli aeroporti necessitano l’autorizzazione di Skyguide. Mentre per altre applicazioni come il volo senza contatto visivo è necessaria l’autorizzazione dell’Ufficio federale dell’aviazione civile (UFAC).

Oggi queste richieste avvengono ancora tramite corrispondenza scritta. Il processo richiede tempo ed è complicato. Grazie all’U-space invece le richieste si potranno inoltrare online e verranno approvate rapidamente dalle autorità di controllo. Oltre a facilitare il processo di autorizzazione dei voli, il nuovo sistema presenta anche altre funzionalità. «L’Uspace permette anche di identificare e localizzare i droni su una mappa della Svizzera – afferma Barrosa – Inoltre avvisa i piloti di droni se un altro velivolo si sta avvicinando minimizzando i rischi di collisione tra droni e altri velivoli come elicotteri». L’U-space svizzero è il primo sistema di gestione del traffico nazionale di droni in Europa. Skyguide prevede di lanciarlo ufficialmente ad inizio 2020. Le novità per i piloti di droni non si limitano al nuovo sistema di controllo del traffico ma riguardano anche le basi legali. In Svizzera l’attuale regolamentazione dell’uso dei droni è particolarmente liberale. In linea di principio, chi vuole pilotare un drone di piccole o medie dimensioni non necessita di nessuna autorizzazione. Il pilota deve però mantenere costantemente il contatto visivo con il drone, tenersi ad almeno 5 km dagli aeroporti e fuori dalle zone con restrizioni, evitare di sorvolare luoghi affollati e rispettare la sfera privata altrui. In caso contrario è necessaria un’autorizzazione dell’UFAC o del gestore dell’aeroporto per i voli nei pressi degli aeroporti. «La legislazione in materia di droni verrà presto modificata – afferma Antonello Laveglia portavoce dell’UFAC – L’Agenzia Europea per la sicurezza aerea ha pubblicato in giugno due nuovi

regolamenti riguardanti l’uso di droni a scopi commerciali e privati. In futuro per pilotare un drone occorrerà registrarsi presso le autorità e superare un test online». La registrazione riguarda i droni di peso superiore ai 250 grammi (quindi praticamente tutti). Mentre il test online includerà in larga misura le conoscenze fondamentali indispensabili ad un pilota di droni già oggi: contatto visivo, divieti di volo e il rispetto della sfera privata altrui. Le novità legislative però non si limitano alla registrazione e al test online. «La nuova regolamentazione introdurrà tre tipi di categorie per i droni: Open, Specific e Certified» continua Laveglia. Le operazioni a basso rischio sono raggruppate nella categoria «Open» e per questi usi non sono richieste autorizzazioni. La seconda categoria «Specific» si applica agli usi in cui si assume un rischio medio. Queste operazioni devono essere approvate dalle autorità. L’ultima categoria, «Certified», include operazioni ad alto rischio. Per questi utilizzi sarà necessario presentare una domanda completa che verrà analizzata a fondo dalle autorità: i droni dovranno essere certificati e le competenze dei piloti riconosciute. «Gli Stati membri dell’EU dovranno implementare i nuovi regolamenti nelle legislazioni nazionali entro il 1. luglio 2020 – spiega Laveglia – Queste nuove basi legali saranno riprese anche dalla Svizzera». Le novità tecniche e legislative sono necessarie per favorire il crescente numero di applicazioni commerciali dei droni. La battaglia per l’emergente mercato dei droni ad uso commerciale è appena iniziata e le aziende svizzere ricoprono un ruolo di primissimo pia-

no. In Svizzera ci sono circa 80 aziende che sviluppano droni commerciali altamente specializzati. La maggior parte delle aziende risiede nella regione compresa tra il Politecnico federale di Zurigo e il Politecnico federale di Losanna, che per l’alta concentrazione di aziende produttrici viene anche denominata Drone Valley. La Svizzera offre diversi vantaggi per le aziende che sviluppano e producono droni commerciali. Da un lato, la legislazione sui droni è particolarmente liberale e le autorità sono molto cooperative. Le aziende possono quindi testare le applicazioni facilmente. Inoltre la Svizzera offre centri di eccellenza per la ricerca e sviluppo negli ambiti della robotica, dell’elettronica, dello sviluppo di software e dell’aerodinamica. Un altro vantaggio è che le aziende svizzere offrono una soluzione completa che include sia l’hardware che il software. Le industrie di altri paesi sono per lo più specializzate in una sola area, il che rende più difficile lo sviluppo di soluzioni complete. Tutte queste condizioni permettono alle aziende svizzere di sviluppare droni altamente specializzati e di successo. Per consolidare la sua posizione di leader a livello mondiale, la Svizzera sta persino pianificando di creare in Ticino un polo unico dedicato allo sviluppo di droni altamente specializzati coinvolgendo aziende ed esperti di differenti campi. Il progetto, ancora in fase di ideazione, potrebbe vedere la luce già nei prossimi anni. Visto il forte interesse per gli usi commerciali dei droni, è probabile che nei prossimi anni il traffico a bassa quota si intensificherà. E alcuni di questi oggetti volanti sopra le nostre teste saranno made in Switzerland.

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

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La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

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Idee e acquisti per la settimana

Per un Natale senza stress

Attualità I nostri servizi di Party Service e Gastronomia vi propongono una vasta scelta di menu per celebrare

senza fatica il periodo festivo. Come novità da quest’anno potete prenotare le pietanze comodamente online

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Godetevi appieno la magica atmosfera del Natale senza dovervi preoccupare troppo dei lunghi preparativi, dedicando più tempo ai vostri graditi ospiti! Grazie ai servizi di gastronomia di Migros Ticino tutto ciò è possibile e incredibilmente invitante. Che si tratti dello stuzzicante aperitivo aziendale della vigilia, del tradizionale pranzo di Natale in famiglia oppure della sfiziosa cena di San Silvestro con gli amici, vi consigliamo un’ampia selezione di prelibatezze di prima qualità, pronte da portare in tavola in poco tempo, preparate con cura e passione e con l’utilizzo di ingredienti freschissimi dai nostri specialisti di gastronomia. La scelta di pietanze è davvero ricca e variegata, e sarà in grado di accontentare ogni capriccio e desiderio culinario degli ospiti. Qualche esempio per stimola-

re la vostra fantasia? Dagli aperitivi composti dagli aromatici «Salumi del Ticino», dalla «Sinfonia di formaggi» mista, dai «Piatti gastronomici» di carne, dal «Pain Surprise» con differenti farciture a scelta, dai sempre apprezzati «Salatini di sfoglia» misti o dai raffinati «Fingerfood»; agli antipasti sopraffini come l’«Aragosta in Bellavista», i «Paterini di noci e al tartufo», il «Foie Gras»,

le «Ostriche ASC» fino ai piatti forti quali la «Faraona farcita», il «Cappone giallo», il «Tacchino ripieno della tradizione», il «Maialino da latte», lo «Zampone Bedretto», il «Filetto di manzo alla Wellington», il «Filetto di bisonte» oppure le classiche e sempre gettonatissime «Fondue Chinoise» preparate con diversi tipi di carne di vostra scelta. Non mancano ovviamente i golo-

sissimi dessert per chiudere in bellezza e dolcezza ogni festa importante che si rispetti: «Mini tentazioni», «Pasticceria mignon», «Torte artigianali» o «Spiedini di frutta fresca». Gli esperti della nostra gastronomia sono a vostra disposizione per suggerivi le migliori modalità di preparazione delle pietanze, come pure per altri suggerimenti personalizzati se-

condo i vostri gusti o richieste speciali. Tutte le delizie festive possono essere prenotate e ritirate nella vostra filiale Migros di fiducia, dopo aver sfogliato la nostra nuova brochure «Questo Natale… più tempo per i tuoi ospiti», oppure in modo semplice direttamente online cliccando sul sito web sopra indicato. Vi auguriamo fin d’ora buone e gustose Feste!

Passione per il panettone Attualità Nel panettone al gianduja Dolce Monaco, ricco di pregiati ingredienti, si può gustare tutto il savoir-faire

Vincenzo Cammarata

della pasticceria di alto livello

Un impasto deliziosamente soffice con croccante copertura di nocciole, combinati con una farcitura di finissima crema di gianduja, deliziano il palato di qualsiasi buongustaio amante delle cose genuine del nostro territorio. Il panettone al gianduja viene prodotto con grande perizia e amore dal mastro panettiere-pasticcere Marzio Monaco nel suo laboratorio di pasticceria di Losone utilizzando solo ingredienti di elevata qualità, personalmente selezionati dal titolare. «Il piacere di poter soddisfare ogni giorno i gusti di clienti sempre più attenti alla provenienza locale e alla genuinità dei prodotti non ha eguali», spiega Marzio Monaco che recentemente, con il suo panettone tradizionale, si è aggiudicato nientemeno che il secondo posto alla «Coppa del mondo del Panettone» di Lugano, davanti al valmaggese Luca Poncini, anche lui fornitore di Migros Ticino e di cui abbiamo parlato in questo giornale la scorsa settimana. Il panettone al gianduja è solo uno dei deliziosi prodotti sfornati quotidianamente da Marzio: «La nostra panetteria-pasticceria produce anche diverse tipologie di pane, articoli di pasticceria, cioccolatini, biscotti e i dolci della tradizione in occasione delle feste più importanti

dell’anno». Un’altra specialità prodotta da Marzio è il torrone morbido al pistacchio che, visto il successo fatto registrare l’anno scorso, Migros Ticino ripropone anche quest’anno nel suo assortimento. Oltre a ingredienti di pregio, tra cui il lievito madre e il burro ticinese d’alpe, per ottenere un panettone artigianale di ottima qualità serve anche molta pazienza e la perfetta conoscenza dei tempi e delle tecniche di lavorazione, basti pensare che «per tutto il processo di produzione occorrono ben due giorni di lavoro», conclude Marzio Monaco.

Panettone al Gianduja 500 g Fr. 19.50


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Idee e acquisti per la settimana

Prelibatezze nostrane per le feste Novità Lo Zampone il salame Bedretto per banchetti

all’insegna della tradizione

I vincitori del Jackpot dei formaggi La scorsa settimana, presso il Centro Migros S. Antonino, sono stati premiati i vincitori principali dei due concorsi «Jackpot dei formaggi» di quest’anno, organizzati rispettivamente in primavera e in autunno. Tra le migliaia di partecipanti, ad aggiudicarsi le due ambite carte regalo Migros del valore di CHF 1000.– ciascuna sono stati Fabrizio Lasia di Giubiasco e Alessio Vosti di Dongio. Il concorso ha assegnato altri

20 premi di consolazione ad altrettanti vincitori, sotto forma di carte regalo Migros di valore di CHF 100.– l’una. Ricordiamo che i due jackpot sono stati organizzati in collaborazione con Savencia Fromage & Dairy Suisse SA, fornitore di alcuni noti e apprezzati formaggi francesi quali «Le Rustique», «Caprice des Dieux», «Chavroux», «Fol Epi» e «Tartare». Ci congratuliamo con tutti i fortunati vincitori!

Zampone Bedretto per 100 g Fr. 3.20 Salame Bedretto per 100 g Fr. 5.30

Le due nuove specialità della Salumi del Pin di Mendrisio sono preparate esclusivamente con carne di maiali allevati in estate sull’alpe, in Valle Bedretto. Il salame al Merlot è sicuramente uno dei prodotti principe della tradizione salumiera ticinese. Il suo aromatico impasto è composto da carne, lardo, sale, spezie segrete e buon vino Merlot del nostro territorio. Gli ingredienti vengono tritati e miscelati delicatamente tra loro fino ad ottenere un composto uniforme. Quest’ultimo è in seguito

insaccato in un budello naturale e fatto asciugare in locali a temperatura e umidità controllate, per poi essere posto a stagionare lentamente per un periodo di almeno 8 settimane. Il risultato è un prodotto dal sapore intenso che non mancherà di sorprendere ogni buongustaio. L’atmosfera di festa è assicurata con lo zampone precotto Bedretto. Prodotto anch’esso con carni, lardo e cotenne di suini allevati sull’alpe, a cui vengono aggiunti sale, spezie e marsala. L’im-

pasto così ottenuto è insaccato nel caratteristico involucro naturale e posto a cuocere lentamente in forni a vapore. Dopo il raffreddamento, viene confezionato, pastorizzato ed è pronto per essere fornito alla Migros nel suo inconfondibile imballaggio firmato Nostrani del Ticino. Servito con le tradizionali lenticchie o un fumante purè di patate dopo aver riscaldato il prodotto per 45 minuti in acqua calda, lo zampone vi accompagnerà verso un radioso e gustoso anno nuovo.

La consegna dei premi: da sinistra, Carlo Mondada, responsabile marketing settore caseario Migros Ticino, Alessio Vosti, Deborah Lasia (per conto del marito Fabrizio), Ramy Basuny, responsabile assortimento latticini e convenience Migros Ticino e Joe Kunz dell’azienda Savencia Fromage & Dairy Suisse SA. Annuncio pubblicitario

Apertura straordinaria Domenica 15 dicembre saranno aperti dalle ore 10 alle 18 i seguenti punti vendita MIGROS: Biasca, Arbedo-Castione, Bellinzona, Centro S. Antonino, Riazzino, Locarno, Losone Do it + Garden, Taverne, Taverne Do it + Garden, Pregassona, Lugano, Parco Commerciale Grancia, Grancia Do it + Garden, Centro Agno, Centro Shopping Serfontana.


Solo domenica 15 dicembre

Dalle ore 10.00 alle 18.00, presso le seguenti filiali Migros Ticino: Centro Shopping Serfontana, Centro Agno, Grancia Do it + Garden, Parco Commerciale Grancia, Lugano, Pregassona, Taverne, Taverne Do it + Garden, Losone Do it + Garden, Locarno, Riazzino, Centro S. Antonino, Bellinzona, Arbedo-Castione, Biasca. Solo domenica 15 dicembre 2019 all’acquisto minimo di CHF 100.– di spesa, ricevi una carta regalo del valore di CHF 20.–. Valido presso tutte le filiali Migros Ticino aderenti presentando lo scontrino originale e fino a esaurimento dello stock. (Esclusi: fatture a credito, contratti, acquisti Online, Party Service, ristorazione e OBI)


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Società e Territorio

Il Museo in Erba da Lugano all’Arabia

Migros news

Expo idéale Una nuova mostra interattiva ideata dall’artista francesce Hervé Tullet

gira il mondo e le animatrici di Lugano sono andate fino in Arabia Saudita a formare dei colleghi di un museo per bambini Sara Rossi Guidicelli Che legami ha il Museo in Erba di Lugano con l’Arabia Saudita? Perché tre animatrici specializzate in mediazione culturale per bambini sono partite per Dhahran, la città costruita accanto al più antico giacimento saudita di petrolio? Il motivo del viaggio ha un nome illustre e si chiama Hervé Tullet. Chi lavora con bambini o ha figli piccoli conosce certamente il libro di Turlututù, o il libro a puntini, o quello con il buco... sono libri fantastici, semplicissimi, sono idee di gioco, inviti a inventare filastrocche, schiacciare palline, scuotere le pagine, infilarci la testa... Hervé Tullet, artista e illustratore francese, autore di oltre ottanta libri per l’infanzia (ma che piacciono altrettanto agli adulti), propone anche un’esposizione libera e festosa che ha lanciato in tutto il mondo: l’Expo idéale, cioè una mostra creata dagli stessi visitatori. Il Museo in Erba la sta preparando, a modo suo, per il prossimo gennaio; da un anno le animatrici culturali sperimentano i metodi di Tullet e sono in contatto con lui. Quando il nuovo Centro culturale King Abdulaziz di Dhahran ha invitato l’artista al suo Festival dedicato alla creatività a inizio novembre, lui ha mandato in Arabia Saudita proprio tre ticinesi a preparargli il terreno. «Ci ha chiesto di formare un gruppo di persone spiegando loro la filosofia e i metodi ludici che stanno dietro

all’Expo idéale», raccontano Chiara Abbate, Viviana Rossi e Adele Naiaretti. «Siamo state accolte per una settimana al King Abdulaziz Center for World Culture, chiamato più brevemente Ithra, che esiste da appena due anni. In Arabia Saudita, fino a pochissimo tempo fa, il cinema era vietato, così come era vietato per un uomo e una donna non imparentati stare nello stesso luogo pubblico. A novembre noi siamo arrivate in questo splendido centro culturale, gestito da una donna, dove ci sono librerie, sale espositive, sale di proiezione, ristoranti. Abbiamo lavorato al Museo per bambini insieme a un team di donne e uomini che avrebbero poi animato i laboratori di Hervé Tullet. Dovevamo trasmettere i concetti dell’artista a questo gruppo composto da maestri, bibliotecari, artisti, educatori, addetti culturali di vario genere. Abbiamo lavorato in un’atmosfera di entusiasmo generale. Ci pare che sia in corso una grande trasformazione nel paese e noi ne abbiamo assaggiato una piccola parte. Si percepiva una grande voglia di aprirsi a ogni scambio culturale possibile (fino a due mesi fa non c’erano turisti perché non esisteva il visto turistico per entrare nel Paese) e il Festival della creatività Tanween a cui partecipavamo ne è la prova: la sua missione dichiarata è mostrare le cose in un modo nuovo, attraverso incontri, conferenze, mostre, spettacoli, concerti». Chi meglio di Hervé Tullet dun-

L’atelier delle luci: buoni speciali per famiglie Il Percento Culturale Migros Ticino che sostiene la mostra attualmente in corso al Museo in Erba, intitolata L’atelier delle luci. L’arte con il retroproiettore, mette in palio in collaborazione con «Azione» 5 entrate gratuite per famiglie (genitori e figli fino a 5 persone). Ideata dal Service de médiation culturelle del Centre Pompidou di Parigi, L’atelier delle luci è una mostra immersiva fra creatività e film d’animazione. Un’esposizione molto particolare che trasforma il Museo in Erba

in un universo interattivo dove i visitatori diventano creatori, sperimentano materiali e supporti per realizzare immagini effimere e magiche, fatte di colori, luci e forme. La mostra rimarrà aperta fino al 12 gennaio 2020 nella sede di Riva Caccia a Lugano. Per partecipare all’estrazione dei buoni seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/concorsi Inoltre, presentando questa pagina di «Azione» al Museo in Erba potrete approfittare di uno sconto del 20% sui laboratori proposti.

Al Festival Tanween opere che si ispirano a Hervé Tullet.

que potrebbe inserirsi in questa voglia di cambiamento? Le tre animatrici didattiche del Museo in Erba provano a spiegare anche a me che cosa sia un’Expo idéale. Hervé Tullet dice che fa libri così come li fa perché non sa disegnare. Sarà vero, non sarà vero, però succede che poi lui è in grado di far disegnare chiunque. Il suo trucco è cancellare il confine tra gioco e disegno. Durante uno dei suoi incontri con i lettori, li ha invitati a tracciare segni su grandi fogli, dando alcune semplici indicazioni giocose: il risultato è stato così sorprendente che è nata l’idea di ciò che lui chiama Expo idéale: un pomeriggio, un’ora, cinque giorni con bambini, ragazzi o adulti a divertirsi sulla carta e ad appendere al muro quello che succede. L’Expo idéale è modulabile, ripetibile in vario modo. «Una scintilla per gli occhi», chiede di creare. Per esempio: applicate un pezzo di scotch su un foglio bianco. Disegnate sul foglio senza badare al nastro adesivo («divertendovi», è la prima consegna che dà, mentre lui traccia righe, puntini, linee), poi staccate lo scotch e riattaccatelo scambiando la destra con la sinistra, così che il disegno diventi un po’ strano. Affinché queste «scintille per gli occhi» formino una mostra, bisogna semplicemente appendere alle pareti le creazioni. Sul web si trovano alcuni di questi spunti, o capsule, come le chiama

Tullet, così che queste mostre possano moltiplicarsi ovunque, con o senza la presenza dell’artista: una mamma ha fatto un’Expo idéale nella stanza di suo figlio, il Guggenheim di New York ne ha eseguita una delle più grandi, mentre la più piccola sta nascosta in una scatola per scarpe. Tullet dice: un singolo elemento ha la sua bellezza, ma questa bellezza esplode veramente se metti tanti elementi simili insieme. Ed è vero. Le sue pareti sono belle perché sono piene di colore, di forme semplici e ripetute, non come farebbe una macchina, ma come le verdure in un minestrone o i fiori in un campo. Mentre in Arabia Saudita si è appena conclusa la serie di workshop che hanno creato un’Expo idéale al Centro culturale Ithra, a Lugano dal 18 gennaio al 15 marzo inizierà il percorso di giochi, letture e creatività realizzato dal Museo in Erba in collaborazione con l’artista: «Hervé Tullet... Si gioca!». Ci sarà l’installazione «Giochi di scultura», realizzata dal Centre de Créations pour l’Enfance di Tinqueux, e un angolo delle storie, dove saranno esposte dodici illustrazioni originali di Tullet; verrà realizzata collettivamente un’Expo idéale, che trasformerà gli spazi del Museo per i bambini di Lugano in una grande installazione che crescerà di giorno in giorno in un’esplosione di colori fino a occupare tutto lo spazio espositivo.

Tre nuovi specialisti Negli scorsi giorni sono stati consegnati i diplomi agli iscritti al Corso per il commercio al dettaglio, iscritti che hanno superato con successo l’esame di professione federale (livello terziario) a conclusione del periodo di formazione organizzata dalla Commissione per la Garanzia della Qualità. Migros Ticino è attenta alla crescita dei propri collaboratori e ogni anno sostiene la formazione continua, finanziando economicamente e concedendo del tempo di lavoro da dedicare allo studio. Abbiamo quindi il piacere di congratularci quest’anno con i nostri colleghi Romina Favale, gerente della filiale di Paradiso, Bosko Stojcev (a sin.), gerente della filiale di Riazzino e Sejdiu Gazmend, sostituto gerente della filiale di Lugano Centro (migliore media cantonale con 5,3), che hanno ottenuto l’Attestato professionale federale quali Specialisti del Commercio al dettaglio, superando brillantemente gli esami federali. Nella foto i colleghi ritratti insieme alla Responsabile del Dipartimento Risorse umane signora Rosy Croce, presente alla cerimonia di consegna degli Attestati, avvenuta venerdì 29 novembre.

Da sin. Bosko Stojcev, Rosy Croce, Romina Favale, Sejdiu Gazmend. (Ti-Press)

Una pagina per i concorsi Sul sito web Migros.ch è stata creata di recente una sezione particolare che interesserà tutti coloro che amano partecipare ai giochi. Sulla pagina https://www.migros.ch/it/ servizi/concorsi.html sono raccolti regolarmente tutti i concorsi indetti a livello nazionale e che sono collegati alle varie iniziative promozionali di Migros. In particolare in questo periodo sono attivi i concorsi natalizi legati al Calendario dell’Avvento di Famigros e quello «Vinci una festa indimenticabile!», che mette in palio una spesa da 5000 franchi oltre a 40 carte regalo Migros settimanali. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Agenti a caccia di like su Instagram

Comunicazione P olizia e Pinacoteca Züst sono le prime due istituzioni dell’Amministrazione cantonale a dotarsi

di un profilo sul social – Il bilancio dei primi mesi di sperimentazione

Romina Borla Lu, il nuovo collega della sezione cinofila: un piccolo segugio bavarese da montagna. E un gatto che «ha deciso di eseguire un accurato sopralluogo nell’auto di pattuglia». Sono questi i post pubblicati su Instagram dalla Polizia cantonale più apprezzati dagli utenti. Il profilo polizia_ti, lo ricordiamo, è apparso solo il 19 settembre scorso sul social network basato sulla condivisione di fotografie ma conta già oltre 3600 follower. Una novità che si è aggiunta alla consolidata presenza della Polizia cantonale su altre piattaforme sociali: Facebook (con oltre 19’100 follower) e Twitter (più di 2700). «Non siamo di certo la prima Polizia cantonale ad avere un profilo ufficiale su Instagram», afferma il portavoce Renato Pizolli. «Però in breve tempo abbiamo ottenuto un seguito importante e ci fa piacere». Nella società contemporanea i media sociali si sono ormai attestati quali importanti strumenti di comunicazione trasversale, osserva il nostro interlocutore. Non si poteva di certo ignorarlo. Nello specifico Instagram è sempre più popolare tra i giovanissimi. Lo conferma il Global digital report: «L’età media degli utenti di Instagram è più bassa rispetto a quella degli utenti di Facebook». «Giovanissimi che oltretutto non si trovano su altri media sociali», dice Pizolli. «Alla polizia mancava un canale di comunicazione rivolto a loro. In realtà mancava a tutte le istituzioni cantonali. Così abbiamo aderito con entusiasmo al progetto del Consiglio di Stato». La scorsa prima-

Il post su Instagram con cui la sezione cinofila della Polizia cantonale ha presentato Lu.

vera il Governo aveva infatti incaricato un gruppo di lavoro interdipartimentale di valutare l’opportunità di stabilire una presenza ufficiale dell’Amministrazione cantonale su Instagram. Nel suo rapporto il gruppo ha suggerito a due servizi interessati al social, la Polizia cantonale appunto e la Pinacoteca Züst, l’avvio di un periodo di sperimentazione. La prova, come detto, sta funzionando. «Il nostro intento – spiega l’intervistato – è quello di raccontare alla cittadinanza il dietro le quinte della polizia, mostrando le attività quotidiane degli agenti». Niente di spettacolare dunque e nessuna idealizzazione del Corpo ma immagini ordinarie che raccontano un mestiere dalle mille sfaccettature: poliziotti che seguono un

corso di guida veloce, un’auto di pattuglia durante un intervento per un piccolo scoscendimento, la partecipazione a programmi Tv o radio legati alla prevenzione, le porte aperte dell’istituzione, ecc. «Abbiamo optato per un linguaggio accessibile e informale», sottolinea Pizolli. «Una modalità comunicativa che rispetta l’essenza di Instagram, un canale che vive di immagini e contenuti molto diretti». Si tratta di un’operazione che mira ad avvicinare la polizia cantonale ai cittadini, suscitando anche una certa simpatia? «Se succede è solo un effetto secondario», risponde Pizolli. «Qualora lo scopo fosse quello di approfondire, ed eventualmente modificare, la percezione che la gente ha degli agenti, sarebbe

necessario un lavoro molto più organico che coinvolga diversi ambiti». Chi si occupa della pubblicazione di post e storie sul profilo polizia_ti è Saskia Lacalamita, collaboratrice del Servizio comunicazione, media e prevenzione della Polizia cantonale. «Per prepararmi – dice – ho seguito un corso in Marketing digitale alla SUPSI e una giornata di formazione a livello di cancelleria. Momento formativo che ha interessato anche tutti gli agenti incaricati di fornire le immagini da pubblicare». I post con più successo sono stati, come detto, quelli con protagonisti degli animali (e questo – dice Lacalamita – vale per altre polizie svizzere). «Hanno molto riscontro anche le immagini raffigu-

ranti le auto di pattuglia impegnate in interventi spiegati da brevi didascalie. Abbiamo inoltre postato foto di azioni di prevenzione, penso a quella della Giornata nazionale contro i furti con scasso. I social media ci danno la possibilità di entrare in contatto diretto con la popolazione, lanciandole dei messaggi precisi». Anche la Pinacoteca cantonale Giovanni Züst ha voluto puntare su Instagram soprattutto per catturare un pubblico più giovane, allineandosi ad altre realtà museali presenti in Ticino: Max museo (oltre 1250 follower), MASI Lugano (quasi 1000), Museo Vincenzo Vela (611), Museo Villa dei Cedri (561), ecc. Per adesso è riuscita a conquistare meno «fan» di loro (quasi 200) ma non si dà per vinta e continua a programmare i suoi post con largo anticipo. «Il nostro è tradizionalmente un pubblico in là con gli anni», afferma la collaboratrice scientifica del museo Alessandra Brambilla. «Con questa mossa speriamo pian piano di riuscire ad ampliarlo. L’esperienza finora è stata positiva. Instagram, che vive di immagini, è perfetto per promuovere le attività di una pinacoteca. Noi abbiamo deciso di sfruttare il social per mostrare al pubblico come funziona il museo e l’immensa mole di lavoro che sta dietro ad una mostra: come si scelgono le opere, come si preparano le didascalie, ecc.». Tra i post più sfiziosi del profilo della Züst: gli indovinelli sulle opere esposte proposti ai follower che rispondono con entusiasmo. Un buon modo per incuriosire divertendo. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La medicina è in buona salute? Recentemente i quotidiani ticinesi hanno riportato notizie sorprendenti relative ai rapporti tra medici e pazienti nel Ticino: l’Ente ospedaliero cantonale ha registrato lo scorso anno 155 casi di insulti e minacce a medici e al personale sociosanitario. Penso ad alcuni fattori che possono indurre a un comportamento aggressivo nei confronti del personale curante: non è un caso che la maggior parte degli atti aggressivi si registri al pronto soccorso. Ci sono momenti in cui la sala d’attesa è sovraffollata e il soccorso tarda a venire. «Ma perché lo chiamano “pronto soccorso?”», viene naturale di pensare. E l’ansia indotta dal proprio malessere fa desiderare – o addirittura pretendere – d’essere assistiti subito. Poi sorge spontaneo il pensiero dei costi della cassa malati, dei premi in crescita vertiginosa e costante che si è tenuti a versare: e anche questo può indurre

a pensare: «Insomma, con quel che pago!...». Parrebbe, dunque, che il rapporto tra pazienti e operatori sanitari diventi più difficile: i pazienti si fanno sempre più impazienti. Eppure, non si può dubitare – dati statistici alla mano – che le terapie diano in genere buoni risultati. Ma ogni tanto affiora qualche notizia che immediatamente induce inquietudine, sfiducia, pessimismo: un mese fa un quotidiano ticinese riferiva di uno studio che ha rilevato lacune nella qualità delle cure, in particolare nella prescrizione di farmaci; oppure circola la voce di un chirurgo che avrebbe dichiarato operazioni mai eseguite; di uno psichiatra che avrebbe compiuto abusi sessuali su pazienti. Ora, in ogni professione si verificano errori, in ogni mestiere ci sono operatori rigorosi e altri scorretti; ma quando si tratta della medicina, l’attenzione del pubblico è subito allarmata – o indi-

gnata – più che per gli altri settori. La cosa è significativa: evidenzia quanto grande sia la fiducia che si tende a riporre nella professione medica, quanto sia fondamentale l’etica in questo settore; e, soprattutto, quanto si voglia continuare a vedere nel medico un solido appiglio alle proprie speranze. Gli insulti ai medici, del resto, non sono un fenomeno solo d’oggi: la figura del medico è stata tra le più vituperate nel corso della cultura, come appare evidente dalla storia della medicina. Basti pensare a un letterato come Francesco Petrarca, che in uno dei suoi ben quattro libri di Invettive contro un certo medico scriveva: « Fai il tuo mestiere, meccanico, ti prego, se ci riesci; cura i corpi se puoi, e altrimenti uccidi e fatti pagare la mercede del tuo delitto». Anche il termine «meccanico» è spregiativo (lo si ritrova nei Promessi sposi): indicava, un tempo, chi faceva un lavoro manuale

– dunque inferiore all’intellettuale, al dotto. Eppure, nei confronti dei medici c’era, in genere, una reverenza analoga a quella riservata ai preti: entrambi erano rifugi di speranza. Ma, se la speranza veniva meno, poteva subentrare la rabbia della delusione. Al tempo del Petrarca, però, la medicina era una pratica ben poco scientifica, un miscuglio di incerte nozioni di anatomia, magia e alchimia consistente per lo più in esorcismi, salassi e purghe. Nulla di simile alla medicina d’oggi, il cui progresso scientifico e i cui successi sono indubitabili. Non si può dire, dunque, che l’irritazione di alcuni verso operatori del servizio sanitario sia giustificabile in base a una qualità palesemente scadente. Piuttosto, direi che si registra, anche in questo settore, una tendenza ravvisabile in molti aspetti della vita sociale d’oggi: il prevalere dell’individualismo sempre più spinto e l’affievolirsi di quella rispettosa cortesia che un

tempo veniva naturale e spontanea nell’intrattenere rapporti sociali. L’individualismo trionfante fa porre il proprio io al di sopra di ogni altro, il che rende più difficile mettersi nei panni altrui, immaginare le difficili condizioni di lavoro di chi pratica cure infermieristiche, comprendere lo stress al quale può essere sottoposto un medico. Lo stress, appunto: già alcuni anni fa veniva segnalato che la professione medica risultava sempre più stressante, per il numero crescente dei pazienti ma anche a causa delle numerose pratiche burocratiche: due fattori che rischiano di imporre al personale curante una fretta che non si concilia con la corretta pratica medica. Il rapporto empatico con il malato è fondamentale nel percorso terapeutico: il paziente cerca nel medico una solidarietà umana, non la competenza tecnica di un meccanico o di un burocrate.

tura di metallo della vetrata dove in orizzontale è riproposta la serie da uno a cinquantacinque. Spesso, passando di qui per la milionesima volta, in un momento di stanchezza, prima di ripartire, mi sono rifugiato con lo sguardo a undici metri da terra dove riluce il cinquantacinque azzurro sul fianco del cervo in volo verso il cielo. Un po’ la mia stella cometa di tutta la stazione dove passa quasi mezzo milione di persone al giorno. E così mi dirigo nel punto di vista abituale per contemplare il cervo cometa, sotto l’angelo cicciabomba di Niki de Saint Phalle sospeso dal 1997 vicino alla Brasserie Federal. Dove una volta, lì al bancone fuori, un signore con il loden liso aveva definito il lavoro in situ di Merz come «Surrealismo alpestre». «Hitchcock mit Hirsch» aggiunse poi alla terza birra. La quarta gliela offrii io per merito di questi due validi frammenti orali ripescati nella memoria. Ci sono anche due pezzi di neon che stavo quasi dimenticando, simili a parentesi ma che sono più che altro il proseguimento, spezzettato, del tragitto della spirale. «I numeri e la spirale che

corrono verso l’infinito contaminano le cose con un’energia irrazionale che travalica i confini circoscritti della realtà ordinaria» ha scritto la critica d’arte Maddalena Disch a proposito dell’Uovo filosofico di Mario Merz. Il titolo, va detto, forse è un po’ pretenzioso o forse no, comunque è una lunga storia quella dell’uovo filosofico tratto dall’alchimia e stiamo qui fino a domani. Il cervo di Zurigo piuttosto – scambiato magari da qualcuno per renna in questo periodo – da domenica ventiquattro febbraio scorso, mi ricorda anche quello visto nella mostra degli Igloos di Merz all’Hangar Bicocca di Milano. In cima a un igloo, imbalsamato ma ancora sacrale e magico, dominava tutto l’ex hangar della Pirelli illuminato dal suo numero azzurro al neon: diecimilanovecentoquarantasei. Il ventunesimo numero di Fibonacci. I piccioni qui alla stazione centrale di Zurigo, tra l’altro, in contrasto con i numeri di Fibonacci, hanno un numerus clausus. Non di certo le clementine che intendo sbucciare ora alla faccia del ripugnante mercatino di Natale.

freelance dell’8,1%, prevede che nel 2027 più del 50% della forza del lavoro sarà freelance. Un andamento simile si registra anche nel Regno Unito dove i freelance da 3,3 milioni nel 2001 sono saliti a 4,8 milioni nel 2017. Lo stesso vale per il giornalismo, ce lo dice uno studio, Exploring Freelance Journalism, promosso dal National Council for the Training of Journalists, secondo il quale dal 2000 al 2015 nel Regno Unito il numero dei giornalisti freelance è salito da 15’000 a 25’000 registrando un incremento del 67%. Le cause alla base di questi dati sono il risultato di una combinazione di più fattori: un cambiamento nei comportamenti e nelle dinamiche professionali, nella mentalità e nella cultura lavorativa, un cambiamento delle forze economiche che regolano il mercato.

Per ora vale la regola per cui soltanto chi è assunto è tutelato, gode di sicurezze sociali e compensi equi. Eppure la figura del freelance, nel giornalismo come in altri settori, è una figura importante. Eva Hirschi, in un approfondimento sulla questione in Svizzera, ha raccolto diverse voci interessanti. Tra queste quelle dei direttori del «St. Galler» e del «Bieler Tagblatt» secondo i quali «i freelance sono i nostri occhi e le nostre orecchie là fuori, ci portano informazioni e storie che noi non riusciamo a coprire o di cui neanche siamo al corrente». Se le cose stanno così, se la figura del freelance aumenterà nei numeri mentre diminuiranno i posti fissi nelle aziende, allora, gioco forza, le regole del gioco cambieranno per tutti.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf L’uovo filosofico della stazione centrale di Zurigo Per giorni, dopo l’inaugurazione dell’opera di Mario Merz (1925-2003) il trenta giugno del 1992, nessuno dei piccioni e passeri che frequentavano numerosi l’atrio dell’Hauptbahnhof sorta a Zurigo nel 1847, si fece vedere. Per via delle due aquile reali, a grandezza naturale, in volo assieme ad altri tre uccelli e un cervo. Dal binario dieci, scendendo in testa al treno verso sera ai primi di dicembre, settantaquattro passi direzione Limmat portano alla prima prospettiva. Devo solo voltarmi e alzare la mira. Sulla vetrata lato ovest, nata negli anni trenta a sette metri da terra, nello spazio di otto metri per quarantadue, si dipana una spirale al neon rossa all’interno della quale volano cinque uccelli e un cervo, contrassegnati ognuno da un numero luminoso azzurro. È L’uovo filosofico della stazione centrale di Zurigo (415 m). Sono le sei e trentaquattro e cinquantacinque secondi come indica l’enorme orologio lì sotto usato come tradizionale Treffpunkt. L’effluvio solito di bratwurst, in questi giorni che si accorciano sempre più, s’intreccia alle zaffate di glühwein.

L’attrazione maggiore – oltre all’albero Swarovski – del mercatino di Natale dove l’odore dei churros si mescola a quello di raclette, älplermagronen, currypizza o cos’altro. Il colpo d’occhio introduttivo al lavoro site specific dell’artista italiano esponente dell’Arte povera – termine, si sa, coniato da Germano Celant nel 1967 – è troppo ravvicinato e deconcentrato dall’andirivieni classico che però amo molto nel tempo libero. La ricognizione continua dunque con ventuno passi verso l’uscita Bahnhofplatz, mettendomi in un angolo, al riparo dal bellissimo caos consueto della più grande stazione ferroviaria svizzera. Qui si vede come si deve l’opera vincitrice di un concorso a inviti in vista delle celebrazioni del settecentesimo della Confederazione. All’inizio della spirale, ingigantite, ci sono una ghiandaia e una cinciallegra di polistirolo espanso rivestito di poliestere. Come le due aquile e il corvo tra le curve del tubo rosso luminescente che si conclude con il cervo, sempre dello stesso materiale. Sul corpo, in neon azzurro, il numero cinquantacinque.

È l’undicesimo componente della successione di Fibonacci: una serie di numeri dove ogni numero nasce dalla somma dei due precedenti. Zero, uno, uno, due, tre, cinque, otto, tredici, ventuno, trentaquattro, cinquantacinque, eccetera. Presente geometricamente in natura nella spirale della conchiglia di certi molluschi genere Nautilus, nella disposizione spiraliforme dei semi di girasole o delle rosette di un broccolo romanesco, questa proliferazione numerica appare nel Liber Abbaci (1202) di Leonardo Fibonacci (1175 circa – 1235 circa). Dove il matematico nato a Pisa che ha viaggiato molto nel mondo arabo per studiare i segreti dell’algebra dai vecchi maestri occulti, per spiegare la successione che prende oggi il suo nome, utilizza l’evolversi di una coppia di conigli. Omesso lo zero da Merz, si parte con la cincia sovradimensionata e la ghiandaia marina che portano entrambe l’uno, si continua con il due e il ventuno sul petto dei rapaci, l’otto sul dorso del corvo imperiale. I numeri volatili mancanti (tre, tredici, trentaquattro) si trovano lungo la trave mediana dell’intelaia-

La società connessa di Natascha Fioretti E se il futuro fosse freelance? Arriva il Natale è tempo di bilanci, di retrospettive e di emozioni. L’atmosfera che precede le feste ha in sé qualcosa di magico, le luci della sera, ad esempio, che nel loro caldo riverbero richiamano la presenza e l’amore di chi non c’è più. Ma può essere anche un tempo funesto. Da quando l’economia non gira più a pieno regime e la coperta è diventata più corta per tutti, la fine dell’anno coincide con la ricezione di terribili comunicazioni di fine rapporto o fine collaborazione. Terribili perché lo sono nella sostanza ma sempre di più anche nella forma. L’altro giorno è toccato ad una mia amica. Non se lo aspettava, le è stato detto con una sintetica e fredda mail. Ormai lo sa anche Babbo Natale che le lettere non si usano più. L’email però ci ha fatto dimenticare l’uso e il pregio dei convenevoli, delle

forme di cortesia, dell’eleganza nella forma. L’eleganza, anche questa, nei rapporti umani l’abbiamo scordata. Fa parte della nostra grande illusione, che un giorno scoppierà come la bolla immobiliare, quella di crederci sempre connessi. Lo siamo a suon di bit ma a livello umano ci connota una profonda disconnessione. Nel tentativo di consolare questa mia amica mi è tornata in mente la battuta di un assicuratore. Nell’illustrarmi i vari cataclismi che avrebbero potuto annuvolare il mio futuro, arrivato alla voce «perdita del lavoro» mi ha guardato e, convinto di fare una battutona, mi ha detto «lei è freelance quindi non può essere licenziata!». Seguita da una grassa risata. Quando dici di essere una giornalista freelance la maggior parte delle persone ti guarda con aria mista di incredulità

e pietà e, anche un pizzico di diffidenza, quasi a non voler credere che di questo si possa vivere. Freelance uguale lavoratrice sfortunata. Dissento, io sono una felice giornalista freelance, soprattutto, lo sono per scelta. Ammetto, è faticoso, ma se sei un’anima indipendente, curiosa, flessibile, se hai un metodo di lavoro collaudato, spirito organizzativo, sai girare i contrattempi in tuo favore, puoi farcela. Come dice l’alpinista Matteo Della Bordella «Fai ciò che ami e fallo con coraggio». E, aggiungo, fallo bene, metti la qualità del tuo lavoro sempre al primo posto. Sta di fatto che i tempi cambiano, le modalità e le dinamiche del lavoro pure. Dati alla mano, un articolo di Forbes di inizio anno, seguendo il trend attuale per cui negli Stati Uniti nel 2018 c’è stato un incremento dei


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

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Ambiente e Benessere La cagnetta dei nostri laghi Il suo nome scientifico è Salaria fluviatilis, più nota anche come bavosa d’acqua dolce

I cani, star della scena turistica Molte le attività che li vedono coinvolti, anche perché sempre più strutture ricettive hanno iniziato a collaborare con i canili cittadini

Un mix di gustosi aromi Un succulento arrosto di vitello appena sfornato con finocchi, olive nere e pelati pagina 16

Un tennis più «calcistico» A distanza di 120 anni la Coppa Davis si rinnova completamente grazie a Gerard Piqué Bernabéu

pagina 15

pagina 14

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Le esitazioni, una barriera anti-vaccino Sensibilizzazione La comunicazione

è la chiave per un dialogo costruttivo con i vaccino-scettici

Maria Grazia Buletti L’Ufficio federale della sanità pubblica (Ufsp) indica che da gennaio ad aprile di quest’anno sono stati registrati in totale 97 casi di morbillo. Una tendenza al rialzo in linea con l’allarme lanciato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): «Il morbillo cresce rapidamente in tutto il mondo e quest’anno il numero di casi è triplicato rispetto allo stesso periodo dello scorso anno». L’allerta riguarda anche Europa e Usa, dove le vaccinazioni avevano permesso di debellare la maggior parte delle malattie infettive: «Oggi a livello globale sono milioni le persone a rischio e nei primi sei mesi del 2019 i casi segnalati sono i più alti in assoluto dal 2006». La consapevolezza che consacrava le vaccinazioni come una grande rivoluzione silenziosa del nostro tempo sta affievolendosi. Eppure, è in gran parte merito delle vaccinazioni se oggi abbiamo un mondo sicuro nel quale anche i più deboli possono vivere con serenità. Resta un dato di fatto che malattie infettive come vaiolo e poliomielite (non dimentichiamo che condannavano alcuni a morire e molti a una vita di severa disabilità), morbillo, parotite, meningite, tetano, influenza siano state rese inoffensive proprio dai programmi vaccinali. Eppure, proprio ora che i risultati sono evidenti, parecchie persone incorrono sempre più nel pensiero che ai vaccini stessi si possa o si debba rinunciare. I contagi (ad esempio di morbillo) aumentano e di pari passo pare crescere il numero di persone vaccinoscettiche, al punto che l’Oms ha deciso di porre la vaccino-esitazione fra le dieci sfide più importanti per la salute mondiale. Oggi i genitori non si sentono sempre sereni nel fare una scelta che agli esordi dell’era delle vaccinazioni era considerata una vera conquista, e i pediatri sono sempre più confrontati col darsi da fare per fugare i dubbi che insorgono. «Credo siamo giunti al punto che i vaccini siano vittime del proprio successo: non sappiamo se il numero di genitori vaccino-scettici sia aumentato, ma è certo che se c’è ancora una generazione che si ricorda delle malattie infettive debellate dalle vaccinazioni e

dei loro effetti spesso devastanti, così non è per i nostri figli e i bambini che sono arrivati dopo e non hanno visto né vissuto la poliomielite, la difterite e il tetano, ad esempio. Le scienze cognitive lo spiegano col fatto che abbiamo sviluppato una falsa vigilanza: dal momento che non vedo più la malattia, ho la falsa impressione che il pericolo non sia in essa perché non esiste più. Ed è molto difficile doversi vaccinare da una malattia della quale non abbiamo visto né percepito la minaccia». Incontriamo a Ginevra il medico responsabile del centro pediatrico Clinique des Grangettes, il pediatra Alessandro Diana, che ci permette di riflettere su questa reticenza senza giudizio: «Una mia paziente africana, ad esempio, mi chiede tutti i vaccini disponibili dicendomi che non mi rendo conto di quante persone lei abbia visto morire di polio, meningite e altro. Lei ha una vigilanza molto diversa dalla nostra che stiamo qui e non abbiamo più idea di queste malattie». Esitare può dunque essere legittimo, e il nostro interlocutore ha ammesso di aver egli stesso cambiato atteggiamento nei confronti di chi è scettico e non vuole far vaccinare i propri figli: «Come professionisti della salute, per anni abbiamo un po’ sottovalutato l’aspetto dei vaccino-esitanti, dicendo loro che i vaccini sono importanti, senza stare ad ascoltare i loro dubbi, le loro paure, il loro punto di vista. A un certo punto, mi sono messo nei loro panni, ho dubitato delle mie certezze assolute e soprattutto di come volevo imporle, e grazie alla metacognizione, all’osservazione critica del mio pensiero, ho cambiato atteggiamento». Nell’imporre il sapere sull’importanza dei vaccini, il medico è percepito come qualcuno che si pone su un piedistallo, trascurando il dialogo, l’empatia, l’ascolto dell’altro e l’accoglienza delle sue ragioni: «A un certo punto, ho capito che questi miei pazienti ponevano domande legittime, logiche e intelligenti e ho capito che era scorretto non dare risposta ai pazienti vaccinoesitanti». La via intrapresa dal dottor Alessandro Diana è lunga un decennio, sa di grande cambiamento e passa per la parola magica della comunicazione: «I genitori vaccino-esitanti sono persone che agiscono per il bene del loro

Il dottor Alessandro Diana, pediatra vaccinologo, responsabile medico alla Clinique Les Grangettes, a colloquio con una mamma e il suo bambino. (Jorge Stamatio)

bambino, hanno dubbi per i quali meritano ascolto, dialogo e risposte adeguate». La metacognizione altro non è che la «Science of Thinking of thinking»: da meta (dopo) e cognition (conoscenza): «Le neuroscienze ci insegnano che tutti noi prendiamo un’infinità di decisioni sulla base delle credenze. Quindi, si tratta di attivare la corteccia prefrontale per sviluppare le divergenze e porre domande come: “È sicuro che la sua decisione od opinione sia giusta?”, “Quanto siete certi che non vaccinare contro il morbillo sia una buona scelta?”. Il 90 per cento dei pazienti e professionisti vaccino-esitanti sono indecisi e un colloquio motivazionale permette di entrare in empatia, sviluppare le divergenze, evitare il confronto degli argomenti e coltivare un senso di autoefficacia».

Tutto ciò si chiama Motivational Intervewing Spirit: «Un colloquio motivazionale che tiene conto del fatto che una persona non cambierà parere in cinque minuti, ma si deve dapprima provare a comprendere il perché della sua posizione, da dove vengono le sue paure, ammettendo che se avessi le stesse esitazioni avrei le sue stesse perplessità». Il dottor Diana ha ben compreso che chiedendo il permesso la porta si apre. Il genitore vaccino-scettico si sente capito e rimane all’ascolto, più aperto, riflette, domanda, spesso torna sui suoi passi con assoluta legittima autodeterminazione. Si sgretolano così quelle paure legate, per fare un solo esempio, ai vaccini che causano l’autismo: «Attraverso esempi concreti e assenza di evidenze scientifiche, riescono a comprendere che l’unico nesso esistente fra vaccini

e autismo è di tipo temporale e non di causa-effetto». Egli porta parecchi esempi concreti dell’applicazione di questa tecnica che permette ai genitori di accedere a informazioni specialistiche: «La chiave sta nell’accompagnare una persona a cambiare parere, rendendola parte della partecipazione terapeutica; sono certo che informando professionisti e pazienti, questi ultimi sono abbastanza autonomi per saper scegliere cosa sia davvero il meglio per i propri figli che poi spesso scelgono di vaccinare». Il problema non sta nel vaccino-esitante, ma nella disinformazione: «La vera informazione ha fatto progredire l’umanità, mentre quella falsa ci ha sempre ributtato indietro. Dobbiamo unirci, perché il nemico comune non siamo noi, uno contro l’altro, ma la disinformazione».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

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Ambiente e Benessere Sul sito www. azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica.

Una bavosa e simpatica Cagnetta Mondo sommerso È un pesce di lago il cui nome scientifico è Salaria fluviatilis

Franco Banfi, foto e testo Le bavose di acqua dolce (Salaria fluviatilis) non sono solo curiose e interessanti, ma hanno anche un aspetto divertente. Tra la gente di lago è per l’appunto nota con il nome bavosa o cagnetta, ed è un pesce appartenente alla famiglia dei Blenniidae che conta circa 350 specie. Si tratta di una specie moderatamente eurialina, ovvero è un organismo acquatico che potrebbe sopportare un certo grado di salinità, ma che in questo caso tuttavia in natura sembra mostrare preferenza per le acque dolci, mentre si trova meno di frequente nelle acque salmastre. La cagnetta popola, infatti, una vasta gamma di ambienti di acqua dolce, ruscelli, fiumi e laghi, con acque limpide, ferme o moderatamente correnti, dove staziona su bassi fondali con substrato roccioso, sia melmosi sia ricchi di vegetazione. La cagnetta è largamente presente anche nel Lago di Lugano, nella Tresa, nel Lago Maggiore e nel fiume Ticino, così come nel Lago di Como e nell’Adda, nel Lago di Garda e nel Mincio. In tutte queste acque vive in convivenza con il Ghiozzo e la testa di toro. Nel lago di Garda, lo stock di Cagnetta è stato documentato già all’inizio del XIX secolo, contrariamente a quanto accade in laghi e fiumi del bacino idrografico del Ticino, dove i dati di distribuzione sono contraddittori e in realtà descritti (senza dubbi) solo oltre gli anni Settanta. Ma, come detto, è un pesce che sa adattarsi anche alla salinità, per questo

motivo è una specie diffusa in particolar modo nelle regioni europee bagnate dal mar Mediterraneo, nelle cui acque salmastre, laddove si trovano i tributari, può essere rintracciato. Di fatto, la cagnetta (Salaria fluviatilis) che vive nelle acque dolci, e la Salaria pavo (bavosa pavone), che vive nel mare, sono due specie considerate filogeneticamente correlate. A causa della caratteristica interessante della prima che vive in acqua dolce e l’altra che vive in un habitat marino, e per la scarsità di studi sulla variabilità intraspecifica e interspecifica dei caratteri scheletrici, studi istologici indicano che le due specie presentano differenze morfologiche, che sono il risultato della diversità degli ambienti in cui vivono. I risultati dei due approcci, presi insieme, sono in accordo con l’ipotesi che l’origine di queste due specie provenga da un comune antenato marino. La cagnetta è una specie molto timida, tanto che in natura si nasconde nella tana al minimo disturbo ed è difficile da individuare passando quindi spesso inosservata. Pesce di piccole dimensioni (raggiunge una lunghezza di 12 centimetri)

ha il corpo allungato, tondeggiante sul ventre, e compresso lateralmente; quasi del tutto privo di squame è invece ricoperto da un abbondante strato di muco. La testa è molto grande e obliqua nella parte anteriore. Sopra ciascun occhio sporge una minuscola appendice. La bocca, di piccole dimensioni, è dotata di due labbra carnose. I denti comprendono una fila di bassi «incisivi» e due lunghi «canini», ricurvi in ciascuna metà della mascella. Molto ben sviluppate sono anche tutte le pinne. La sua colorazione è generalmente giallo-verde ma anche grigio-nerastro con delle macchie scure irregolari sui fianchi. Il maschio è più grande della femmina, e ha la pinna dorsale molto sviluppata a tal punto da formare una cresta che arriva fin quasi alla coda. La pinna caudale è arrotondata. La dieta della cagnetta è rappresentata da piccoli invertebrati bentonici. Pesce di fondo, vivace e curioso, abitante delle acque molto basse, questo simpatico pesciolino può starsene ritto sulle sue piccole rigide pinne ventrali ricordando molto nei suoi movimenti lo scazzone. Inoltre preferisce le

acque limpide con fondo pietroso, dove gli individui giovani si muovono in piccoli branchi. La cagnetta, che è una specie ovipara, si riproduce tra maggio e luglio, quando la femmina assume una colorazione più chiara mentre il maschio viceversa diventa più scuro. Dopo una prima fase di corteggiamento, la femmina può deporre fino a 1200 uova (di solito 200-300); uova che vengono deposte nella tana del maschio, il quale avrà premura di difenderle fino alla schiusa che di solito avviene dopo 10/15 giorni dalla deposizione. Dopo la schiusa, le larve plantoniche sono lunghe circa 1,5 centimetri e si disperdono nella corrente. Un maschio può accoppiarsi con diverse femmine, per cui può trovarsi a proteggere uova in differenti fasi di sviluppo. La specie non è globalmente minacciata ma le popolazioni locali, specie quelle fluviali, sono talvolta in regressione. Inoltre le popolazioni sono molto frammentate. Tra le minacce che subisce vi è la cosiddetta eutrofizzazione, oltre l’inevitabile e quasi onnipresente inquinamento delle acque

dei laghi. Ma non solo. Essendo un pesciolino, subisce anche attacchi di predatori alloctoni introdotti nei sistemi fluviali in modo sconsiderato. Non da ultimo soffre le modifiche degli alvei fluviali, che comprendono l’eccessivo prelievo idrico durante il periodo riproduttivo. Data la scarsa qualità delle sue carni, questo pesce non ha mai rivestito alcun interesse per la pesca professionale, e nemmeno per quella sportiva. La cagnetta, talvolta, rischia semmai di venir catturata a scopo ornamentale o per essere allevata in acquari d’acqua dolce temperata o fredda per poi essere impiegata come esca. Infine, una curiosità: nel 2004 è stata catalogata una nuova specie di bavosa d’acqua dolce: la Salaria economidisi. Questa nuova specie, si distingue da S. fluviatilis, il suo parente più vicino ipotizzato, perché ha una testa più allungata, ha più denti in entrambe le mascelle, e cirri orbitali più semplici, per non dire della linea laterale più corta e una colorazione distintiva che comprende da 3 a 5 file di grossi punti neri sulla guancia.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

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Ambiente e Benessere

Puoi portarlo con te oppure coccolarne uno in loco Viaggiatori d’Occidente I cani sono sempre più spesso i nostri compagni di viaggio

Il cielo da una finestra Bussole I nviti a

letture per viaggiare

Claudio Visentin Il 2019 è l’anno del maiale, l’ultimo animale nel ciclo di dodici anni dello zodiaco cinese. E da qualche tempo proprio un maiale intrattiene i viaggiatori all’aeroporto di San Francisco. LiLou è una femmina di cinque anni, un cappello da pilota in testa e le unghie delle zampe dipinte di rosso; su richiesta, dà la zampa e sa suonare un piano giocattolo. LiLou non è sola; insieme ai ventidue cani della «Allegra brigata» (Wag Brigade) intrattiene i passeggeri e aiuta a ridurre l’ansia della partenza, dei controlli, del volo. Naturalmente è anche l’occasione perfetta per un selfie da condividere in rete. LiLou e i suoi amici non sono un caso isolato. Almeno cinquanta aeroporti americani offrono qualcosa di simile. Per esempio al St. Paul International Airport di Minneapolis, la star è Stitches, un gatto di undici anni salvato dopo un tornado. Lo trovate al Terminal 1. A parte questi casi però, sono i cani a dominare la scena del turismo. Per esempio l’ufficio turistico della North Carolina ha da poco assunto Mo, un cane adottato, come primo agente di viaggio a quattro zampe dello Stato, dopo averlo selezionato tra oltre cinquecento candidati. Mo racconta i suoi viaggi sui social media e dispensa consigli per viaggiare col proprio cane in North Carolina sul sito DogTravelAgent.com.

Gli animali ormai vengono considerati membri di famiglia e i tour operator ne tengono conto Dall’altra parte del mondo, in Ucraina, nel 1986 i quarantamila abitanti di Pripyat furono costretti ad abbandonare in tutta fretta le case dopo l’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl, senza poter portare con sé i loro animali. Nei giorni seguenti, i soldati cercarono di eliminarli per prevenire la diffusione delle radiazioni, nonostante le toccanti preghiere dei padroni appese alle porte prima di partire. Tuttavia, diversi cani sono sfuggiti alla caccia e sono sopravvissuti nonostante gli alti livelli di radiazioni nel pelo, i rigidi inverni ucraini e la scarsità di cibo. Da qualche tempo, dei volontari pagano di tasca propria il viaggio verso Pripyat per prendersi cura di questi cani randa-

Sono molte le offerte turistiche che prevedono non solo l’ospitalità di animali, ma persino l’adozione. (Pxhere.com)

gi, forse attratti anche dalla possibilità di fare un’esperienza di Dark Tourism nella «zona di esclusione» di trenta miglia attorno alla città fantasma, dove tutto è rimasto com’era al momento della fuga. Anche Airbnb, il popolare portale di prenotazioni on line, propone diverse esperienze con animali in collaborazione con World Animal Protection, un’organizzazione senza fini di lucro. Tra queste, la possibilità di occuparsi dei cani randagi di Los Angeles, portandoli a passeggio nel vicino Runyon Canyon, da dove si gode una vista perfetta sulla famosa scritta di Hollywood. Inoltre i clienti di Airbnb fotografano gli animali e cercano loro un padrone attraverso i social. A oggi oltre cinquemila viaggiatori hanno già prenotato questa esperienza. Sempre più strutture ricettive collaborano coi canili cittadini. Al Blisswood Bed and Breakfast di Cat Spring, Texas, ai viaggiatori soli viene affidato un cane border collie abbandonato come compagno per tutta la durata del soggiorno. Anche la catena di alberghi Aloft (di proprietà Marriott) dal 2014 ospita nella hall, proprio di fianco al bancone, un dimorante del canile lo-

cale in cerca di adozione. I turisti che vi alloggiano sono incoraggiati a giocarci e a portarlo fuori per una passeggiata. Gli americani viaggiano spesso con la loro auto, anche su lunghe distanze, e quindi non è raro che qualcuno si porti poi a casa uno di questi cani o magari torni indietro qualche tempo dopo a riprenderlo. Alcune centinaia di cani sono già stati adottati con successo in questo modo. Anche gli Hotel Westin offrono un programma simile: il cane proposto in adozione vive in una cuccia che riproduce in miniatura l’albergo. Invece a Pittsburgh, negli Shady Side Inn All Suites Hotels, se prenotate almeno cinque notti tramite il sito dell’albergo sarà fatta una donazione di duecentocinquanta dollari a un canile di vostra scelta. Naturalmente in tutte queste strutture un cane può dormire nella stessa camera del suo padrone e spesso c’è anche uno spazio giochi con una piscina. Anche diversi alberghi svizzeri hanno già mosso i primi passi nella giusta direzione e tuttavia nelle storie che abbiamo raccontato la semplice tolleranza si è trasformata in una piena accettazione della presenza dei cani

negli spazi degli ospiti. Dove si aprono le porte ai cani, spesso si propongono anche menu vegetariani e ci si rifiuta di promuovere zoo o altri spettacoli con animali in cattività. Io credo che questa sia una tendenza profonda dei viaggi contemporanei della quale bisognerà tener conto. Il cane è sempre più un membro a pieno titolo della famiglia. In Ticino i cani sono poco più di 30mila. 550mila circa, in Svizzera. In Lombardia un terzo delle famiglie ha un cane, con una rapida accelerazione negli ultimi due anni (+10%: fonte Coldiretti). Sono sette milioni i proprietari di cani in Italia. Tanto per dare qualche cifra. Già ora quasi la metà di tutti i proprietari di cani viaggia coi propri animali, molti altri progettano di farlo. Non è solo la difficoltà di lasciarlo ad altri, quanto piuttosto il desiderio di approfittare delle vacanze per passare più tempo di qualità col proprio cane. Per questo, l’esperienza stessa del viaggio si adatta alla presenza del cane: e quindi per esempio niente aereo ma viaggi in auto, più vicino a casa, nei boschi e lungo i fiumi alla scoperta della natura. Viaggi attivi, divertenti, selvatici, dove si annusa almeno quanto si guarda…

Nel marzo 1956, a Mud Bay, Ketchikan, Alaska, il piccolo Rodney apre gli occhi sul mondo e comincia il suo viaggio nella vita. Dall’oblò dell’incubatrice vede il padre e la madre sul letto d’ospedale accanto. Qualche mese dopo scorge i suoi giochi nella stanzetta attraverso le sbarre del lettino. Poi il cielo da una finestra di casa, una via della città da quella dell’asilo… A quattro anni una semplice lente d’ingrandimento svela tutta la meraviglia nascosta in pochi fili d’erba. A otto anni nella fessura di due assi della palizzata spia una donna che stende il bucato. Pagina dopo pagina questo gioco si ripete senza fine e senza mai stancare il lettore. Attraverso varchi e fenditure di ogni tipo lo sguardo di Rodney si posa su un pezzo di mondo sempre diverso. Man mano che cresce, anche la grande storia si offre al suo sguardo, come lo sbarco sulla Luna nel riquadro del televisore. Quel bambino diventerà poi padre a sua volta e realizzerà il sogno infantile di lavorare alla NASA e di volare nello spazio. Attraverserà le tragedie del suo tempo (11 settembre 2001) e i fallimenti personali: il divorzio, la depressione, una faticosa ripartenza, l’amicizia di un cane, il ritorno a casa nei luoghi d’infanzia. Il suo ultimo sguardo sul mondo, pur avvolto nel dolore, sarà in fondo non troppo diverso dai primi. Credo che nelle intenzioni questo fosse un libro per bambini ma il suo soffio poetico parla davvero a tutte le età. Soprattutto ci ricorda una verità fondamentale sulla quale si basa tutta l’esperienza del viaggio: ogni sguardo parte da un punto di vista particolare e quindi è inevitabilmente diverso; è sempre vero ma anche sempre parziale; non è mai privo di una sua bellezza. / CV Bibliografia

Tom Haugomat, Nello spazio di uno sguardo, Terre di mezzo, 2019, pp. 184, € 20.–.

Modi di ridire Giochi di parole Dalla variante estesa a quella contratta per dire la stessa cosa 7. Sforzarsi invano di sostenere una posizione indifendibile. 8. Essere costretti ad affrontare un compito, noioso e difficile. 9. Aspettare con impazienza che si verifichi un evento molto atteso. 10. Argomento che ha scatenato una lunga disputa, fra diverse persone. 11. Prestare una vigile attenzione, pronti a lanciare un eventuale allarme. 12. Comportarsi superficialmente, senza pensare alle possibili conseguenze. 13. Cercare di placare una lite o di porre rimedio a una situazione imbarazzante. 14. Giovane apparentemente sgraziato, ma dotato di potenzialità ancora inespresse.

15. Essere colpiti da un’ulteriore disgrazia, dopo essere stati già bersaglio della malasorte. 16. Vedersi addebitare colpe di fatti non commessi, allo scopo di salvare i veri responsabili. 17. Far nascere, intenzionalmente discordia e confusione tra due parti che stanno discutendo.

18. Non dimostrare particolari competenze, né possedere le conoscenze necessarie per intraprendere una qualsiasi carriera. 19. Chiamare aiuto per un pericolo inesistente, rischiando così di rimanere inascoltato, quando il pericolo si presenta davvero.

Soluzione

Con il termine modo di dire si intende una locuzione di significato peculiare, proprio di una specifica lingua, la cui traduzione letterale in altre lingue non ha senso logico e che per questo richiede, per essere compresa, una traduzione logicamente estesa. In altre parole, è una locuzione che non può trarre il suo significato dalla combinazione lessicale delle parti del discorso, bensì dall’interpretazione che i parlanti sono abituati a trarne. Si ricorre all’uso di un modo di dire per esprimere sinteticamente un concetto, risparmiando di pronunciare troppe parole. Ad esempio: «La decisione è sta-

ta presa e adesso non è più possibile tornare indietro» equivale a Il dado è tratto. Per testare la vostra dimestichezza con i modi di dire, cercate di individuarne uno per ciascuna delle seguenti venti frasi, in modo da esprimere sinteticamente il medesimo concetto 1. Agire con prudenza e discrezione. 2. Commettere una svista clamorosa. 3. Difendere o approvare un’opinione altrui. 4. Imbastire un discorso completamente privo di senso. 5. Esprimersi in modo conciso, arrivando subito al sodo. 6. A distanza di tempo, quando gli animi si sono calmati.

1. Andarci piano – 2. Prendere un granchio – 3. Spezzare una lancia – 4. Parlare a vanvera – 5. Farla breve – 6. A freddo – 7. Arrampicarsi sugli specchi – 8. Avere una gatta da pelare – 9. Non vedere l’ora – 10. Pomo della discordia – 11. Stare in campana – 12. Agire a cuor leggero – 13. Gettare acqua sul fuoco – 14. Brutto anatroccolo – 15. Piove sul bagnato – 16. Fare il capro espiatorio – 17. Seminare zizzania – 18. Non avere né arte né parte – 19. Gridare: al lupo, al lupo.

Ennio Peres


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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana

Arrosto di vitello con finocchi e olive Secondo piatto Ingredienti per 4 persone: 1 kg di spalla di vitello · 1½ c di semi di finocchio · 2 spicchi d’aglio · ½ cc di pepe nero in grani · 1 cc di fleur de sel · 2 c d’olio d’oliva · 4 finocchi medi · 250 g di pelati in scatola · 12 olive nere · 1 dl di fondo bruno.

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

1. Scaldate il forno a 230 °C. Asciugate la carne con carta da cucina. 2. In un mortaio pestate i semi di finocchio con gli spicchi d’aglio, il pepe e il sale. Mescolate la pasta ottenuta con l’olio e spalmatela sulla carne. Accomodate l’arrosto in una brasiera e rosolate la carne in forno per circa 25 minuti. 3. Abbassate la temperatura a 170 °C. Dimezzate i finocchi. Estraete i pelati dal loro succo. Quest’ultimo potete conservarlo per preparare una minestra. Distribuite intorno alla carne i pelati, i finocchi tagliati a metà e le olive. Versate il fondo bruno. Mettete il coperchio e stufate in forno per 50-60 minuti. Dopo 30 minuti di cottura togliete il coperchio e terminate la cottura senza coperchio. Tagliate l’arrosto a fette spesse e servitele con i finocchi e le olive. Preparazione: circa 15 minuti + cottura in forno circa 75 minuti. Per persona: circa 55 g di proteine, 19 g di grassi, 9 g di carboidrati, 470 kcal/

1950 kJ.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

Coppa Davis: New Look

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Sport C’è molto calcio nella nuova formula della leggendaria manifestazione tennistica.

Le innovazioni non convincono tutti

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Ci può stare, anche perché il tennis

Giancarlo Dionisio La storia della coppa Davis è legata a un filo che parte e arriva ad Harvard, la prestigiosa università del Massachusetts. Furono quattro studenti dell’Ateneo statunitense ad avere l’idea di fondare una competizione per squadre nazionali. Era il 1899. L’anno successivo una selezione USA e una del Regno Unito si giocarono la prima insalatiera della storia. A distanza di quasi 120 anni, un laureato di Harvard ha disegnato e portato in scena la nuova formula della Davis. Uno studente molto particolare, in possesso di un Master in Business, Media, Sports and Entertainment, ma tuttora attivo in qualità di stimato calciatore, che passa la maggior parte del tempo in braghette corte e la maglia «blaugrana» del Barcellona. Gerard Piqué Bernabéu, alias «signor Shakira», è un tipo molto intraprendente. Catalanissimo, 32enne, già campione mondiale ed europeo con la Roja (la nazionale spagnola), presidente del Futbol Club Andorra, Piqué ha fondato alcuni mesi fa la Kosmos Holding, un fondo di investimento che è decollato molto rapidamente. Grazie alla credibilità del suo nome, ha saputo coinvolgere la Federazione Internazionale di Tennis in un processo di rinnovamento dell’ultracentenaria Coppa Davis. L’ha rivoltata come un calzino, dandole una veste molto simile alla Coppa del Mondo di calcio: selezioni preliminari in febbraio, che hanno visto la Svizzera, priva di Roger Federer e Stanislas Wawrinka, uscire subito di scena, eliminata in casa

N. 46 MEDIOsa sconfinare nel gesto artistico, quan-

do nell’arena scendono fenomeni come Federer, Rafael Nadal, Novak 1 5 Roger Djokovic e pochi altri, ma sa anche essere tremendamente noioso quando, 6 per ore, ti ritrovi in campo 5 9due medio2 cri «pallinari», che, senza un briciolo di creatività, non 2 7 si scostano 4 mai dalla linea di fondo. È giusto cambiare, o, 4 9 perlomeno, 6 tentare nuove vie. Ma con una consapevolezza: se è vero, come si dice nel mondo del ciclismo, che la cor4la rendono3spettacolare i corridori e sa non il percorso, è altrettanto vero che il indipendentemente dalla 7 buon tennis, 2 formula delle sfide, non può prescindere dalla 9 qualità 6 dei suoi2protagonisti. Non a caso, quasi in concomitanza con la finale di Coppa Davis, la sfida6 5 3 esibizione fra 1 Roger Federer e Alexander Zverev, ha convogliato nello stadio 3 di Città del Messico,742’517 spettatori, nuovo record mondiale. Un primato che King Roger vorN. 47aDIFFICILE mente, a fine stagione, con molti atleti faranno anche, e soprattutto, palline rebbe superare il prossimo anno grazie a corto di energie e di motivazione. La ferme, quando si potrà fare una rifles- a un incontro-evento, che lo vedrà opconcentrazione di tutti gli incontri in sione su come ha risposto 4 il pubblico posto al suo rivale storico Rafael Nadal. tre soli stadi ha creato l’effetto-aero- televisivo. Una delle ragioni che ha Da parte sua Gerard Piqué ha fatto, e porto delle giornate di punta, con lun- spinto Kosmos Holding e Federazione farà di tutto per corteggiare i tre Big. Il 9 1 5 4 ghissimi tempi di attesa. Internazionale di Tennis a proporre Maiorchino e il Serbo sono già dalla sua “Azione” - Dicembre Italia-Stati Uniti, ad esempio, è an- Giochi una per nuova formula, è infatti la2019 presunta parte. Il Rossocrociato nicchia, poiché data in scena alle quattro di mattina. Il lentezza di alcuni incontri, che si pro- difende9 la dignità della Laver Cup, una pubblico ha risposto bene quando in traggono a oltranza durante il quinto sua creatura che si gioca in settembre (N. 45c’era - Quarantacinque Tre e partizero cinque) 2 a partire dal 2017. Se poi pensiamo 3 campo la Spagna, ma -molte set, magari per 4 o 5 ore. E ciò6in un’eche te, soprattutto durante la fase a gironi, poca in cui la fruizione su schermo dei l’ATP vorrà far sentire la sua voce inQ U Asi fa R sempre T A più diversi sono disputate a spalti semivuoti. I prodotti sportivi serendo, dal prossimo 8 1 anno, un nuovo 9 R L A DaN qui T l’intro3500 presenti alla sfida tra Australia sificata e U parcellizzata. appuntamento, l’ATP Cup, ecco che il A Tformula I C A ofR3» che si e Canada, su un Centrale che ne può duzione della «Best rischio di fare una frittatona indigesta a 3 7 ospitare 12’500, è stato uno spettaco- vorrebbe portare anche del tutti, per abbondanza di uova, è tutt’alL I N O nei N tornei I lo desolante. È evidente che i conti si A C Grande tro che scongiurato. Q USlam. E C O N I O

A distanza di 120 anni la Coppa Davis si rinnova completamente; nello scatto, l’insalatiera protagonista da oltre un secolo (1920-1925).

dalla Russia. Quindi fasi finali concentrate in una settimana, su tre campi madrileni. Le 18 qualificate hanno affrontato dapprima una fase a gironi, poi, a partire dai quarti di finale, si è passati all’eliminazione diretta. Per la cronaca, ha vinto la Spagna di Rafael Nadal e Roberto Bautista Agut. Inutile sottolineare che per il pubblico spagnolo si è trattato di una fiesta. Tuttavia, la nuova formula, nonostante l’allettante montepremi globale di 20 milioni di euro, ha sollevato anche parecchie perplessità. Anzitutto per il periodo. Si è giocato, intensa-

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2 3 7 Vinci una delle 3 carte regalo da 501franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il 6 sudoku 9 23

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(N. 46 - Dicembre nevoso anno fruttuoso)

ORIZZONTALI SUDOKU PER AZIONE - DiCEMBRE 2019 Cruciverba Sudoku N. 48 GENI 1. Fortuito, accidentale D I N. E 45 C FACILE I L E M B O Qual è il nome dell’uccello nello schema? Dove 7. Ci sono anche marziali Soluzione: Soluzione 8. Onde Lunghe R E N N ESchema V O I R 7 vive? Quale graduatoria occupa al mondo per Scoprire i 3 9. Satellite di Saturno A numeri S 2 Ncorretti N 3 P 7O R R I 2 5 6 3 7 grandezza? Troverete le risposte a queste domande 10. Abitudini collettive G da A inserire S 3 Inelle E 5R O 9N A 38 3 9 4 1 11. Un pizzico di tabacco risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere O N T A O N E A 8N caselle colorate. 4 7 1 9 2 12. Voce poco gradevole F I R U E evidenziate. 3 2 1 5 8 4 4 1 13. Nome femminile 4 5 T BIS T 2019 O R O Giochi per “Azione” Dicembre 17. È impegnativo leggerlo... 7 1 4 2 6 7 (Frase: 8 – 9 – 5, 5) F U S A R O 18. Figlio di Anchise e Afrodite 9 6 8 1 5 6 1 5 7 7 4 3 Stefania Sargentini S P O I L E R 19. Poggia sullo scalmo 1

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21. Operetta poetica 22. Tipo di alberi - Cinquanta 23.(N. Di47 nove... vocali volte il suo peso) 24. Particella negativa C 25. Si chiede gridando I 26. Un colore della roulette O 28. Abitazione solitaria 29. Un amante del legno VERTICALI T 1. Bianca... per chi lascia fare A 2. Un valore geometrico S 3. Resta in fondo... S 4. Due di cuori O 5. Bieco, torvo 6. Profeta biblico 10. È morto... con i cappotti - ... ti mando quelli in croato) 12.(N. La48 Power 13. Un segno zodiacale 14. Seguita da un numero indica una categoria sportiva 15. Si è trasformata in UE 16. Come finisce comincia... 17. Un ufficiale abbreviato 19. Reparto dell’Arma dei Carabinieri (sigla) 20. Renato... Fiacchini 22. Nome di molti Papi 23. Antica lingua francese 25. Le iniziali del Duce 27. Oro francese

(N. 49 - Casuario - Australia - Terzo posto)

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblica6 del gioco. 7 8 9 zione

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

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Politica e Economia Che clima fa a Madrid I cambiamenti ambientali sotto l’attenzione dei 196 Paesi partecipanti alla conferenza COP25

FridaysForFuture anche in Africa Il Continente nero è in linea con il resto del pianeta in quanto a sensibilità verso i problemi ambientali. Ed ha la sua giovane attivista al pari di Greta, oltre a un movimento giovanile forte che si batte contro il cambiamento climatico

Banche centrali statalizzate Aumenta nel mondo il controllo pubblico sugli Istituti bancari centrali; la BNS in controtendenza

Libra, tema dell’anno Una giuria svizzera eleva la criptovaluta di Facebook a argomento economico dell’anno

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AFP

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La strana coppia Cina-Russia Sono le punte di lancia della resistenza al predominio globale degli Stati Uniti Lucio Caracciolo Sulla scena geopolitica mondiale è apparsa da qualche tempo una coppia inedita: Cina e Russia. Imperi/civiltà che più diversi non si potrebbero concepire, impegnati nell’ultimo secolo e mezzo più a contrastarsi e combattersi che a cooperare, oggi sono le punte di lancia della resistenza al predominio globale degli Stati Uniti d’America. Anzi, è l’America stessa che ha prodotto questo strano duetto, non sappiamo quanto scientemente o per incidente. Fatto è che il Numero Uno si trova oggi a fronteggiare una quasi-alleanza dei Numeri Due (Cina) e Tre (Russia). Non esattamente quanto i manuali strategici prescrivono a chi si presume egemone. Come è potuto accadere? Quanto è solida questa coppia? Come pensano gli Usa di affrontarla? Le origini dell’intesa russo-cinese risalgono alla metà degli anni Duemila, quando la Russia ha cominciato a capire che la sua ambizione di esse-

re riconosciuta quale centro di potere globale inerente all’Occidente a guida americana era irrealizzabile. Appena arrivato al Cremlino, nel 2000, Putin aveva sondato la Casa Bianca proponendosi di portare la Federazione Russa nell’Alleanza Atlantica. Neanche per idea, fu la risposta (meno garbata) trasmessagli da Clinton. Incurante, il leader russo mise a disposizione la sua intelligence e i suoi spazi aerei (e non solo) a sostegno dell’invasione americana dell’Afghanistan, nel 2001. Gli statunitensi incassarono e passarono all’ordine del giorno. La sequenza delle aperture russe all’Occidente senza risposta si interruppe dopo l’invasione dell’Iraq e divenne pubblica nel 2007, quando Putin intervenne alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco annunciando che la Russia non vedeva più spazio di intesa strategica con l’America e i suoi alleati. Ma la svolta avvenne con il colpo di Stato in Ucraina, nel 2014, che il Cremlino addebitò agli americani e classificò nella categoria delle

«rivoluzioni colorate» miranti a produrre, alla fine, il cambio del regime in Russia. Colto di sorpresa, Putin reagì annettendo la Crimea con Sebastopoli. E volò a Shanghai per stabilire un rapporto privilegiato con la Cina di Xi Jinping (foto), offrendo energia e armi. In quantità e di qualità. Nel tempo, anche i cinesi sono giunti alla conclusione che con l’America si doveva affrontare una lunga marcia nella «guerra fredda», inasprita da Trump con una raffica di dazi. Ne è seguita una sequenza di sanzioni e controsanzioni, di manovre militari atlantiche e russo-cinesi, che hanno reso incandescente la frontiera fra Nato e Russia e quasi irrespirabile l’atmosfera in cui si svolgono i negoziati sulle tariffe fra Cina e Stati Uniti. Quel che America creò, potrebbe sciogliere. Ma gli Stati Uniti sembrano decisi a continuare a contrapporsi contemporaneamente a russi e cinesi. Questi ultimi considerati l’unico ostacolo al battesimo di questo secolo come il secondo a dominio americano.

Mentre i russi sono trattati da nemici permanenti, anche perché solo così gli Usa pensano di poter legittimare la loro presa sull’Europa. Negli ultimi mesi si sono levate negli Stati Uniti autorevoli voci che invitano a sciogliere la minacciosa coppia sino-russa, ad aprire a Mosca per meglio contenere le velleità espansive di Pechino, simboleggiate dalle nuove vie della seta. Per ora, senza il minimo esito. Al Pentagono, dove si studiano e aggiornano in continuazione gli scenari della minaccia, si è giunti alla conclusione che in caso di conflitto aperto gli Stati Uniti non saprebbero vincere una coalizione russo-cinese. Anche perché dovrebbero combattere su fronti lontani, dal Baltico ai Mari cinesi. Non sono solo esercitazioni d’obbligo, ma in vista di proiezioni belliche considerate sempre meno improbabili. È comunque verosimile che qualora Washington e Pechino si trovassero sull’orlo della guerra senza aggettivi, gli americani sarebbero disposti a venire

a patti con i russi. Rivelando quella che sospettano, con buone ragioni, la debolezza di base dell’intesa russo-cinese: la sfiducia reciproca. Nell’ora del giudizio, di fronte a una seria disponibilità americana a riconsiderare positivamente i rapporti con i russi, Putin o chi per lui accoglierebbe forse con entusiasmo questa opportunità, molto più consona alla vocazione storica e strategica della Russia dell’adesione a un raggruppamento a guida cinese. Nell’attesa, l’Alleanza Atlantica è scossa dai contrasti fra questa amministrazione Usa e i principali paesi del Vecchio Continente, Germania in testa. Tanto da far affermare al presidente francese Macron che la Nato è «cerebralmente morta». Se il principio primo della geopolitica americana è impedire che in Eurasia si formi un centro di potenza alternativo intorno a Cina, Russia e Germania/Francia, appare palese come gli Stati Uniti stiano facendo di tutto per alimentare la minaccia che secondo i loro manuali dovrebbero scongiurare.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

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Politica e Economia

L’onda (d’urto) Ue

Fra i libri di Paolo A. Dossena

COP25 Sul tema ambientale si è fatta avanti l’Europa con il discorso di investitura

di Ursula von der Leyen, la nuova presidente della commissione europea, che parteciperà al vertice sul clima di Madrid

Alfredo Venturi L’umanità, dice Antonio Guterres, ha mosso guerra al pianeta. E ora il pianeta sta contrattaccando. Aprendo a Madrid la venticinquesima conferenza delle parti sul clima, il segretario generale delle Nazioni Unite sottolinea una volta ancora che siamo di fronte a un bivio: o invertiamo la tendenza riducendo drasticamente l’effetto serra e dunque neutralizzando i cambiamenti climatici in corso, o ci attende un catastrofico precipitare degli eventi. Siamo insomma vicini al punto di non ritorno, oltre il quale non ci sarà più nulla da fare. È un appello non nuovo, sostenuto dall’allarme documentato della comunità scientifica fin da ventisette anni or sono, da quella conferenza di Rio de Janeiro con cui l’Onu avviò nel 1992 la grande consultazione planetaria culminata nel 2015 con l’accordo di Parigi. Cioè con il solenne impegno internazionale a ridurre in un ragionevole numero di anni a meno di due gradi centigradi, possibilmente non più di uno e mezzo, l’aumento della temperatura media planetaria rispetto ai valori che precedettero la rivoluzione industriale. Perché oltre i due gradi il deterioramento dell’assetto naturale sarebbe irreversibile. Finora qualcosa è stato fatto, ma la progressione del fenomeno è stata soltanto rallentata.

Gli impegni dichiarati dopo l’accordo di Parigi sul clima non sarebbero sufficienti per limitare l’aumento delle temperature al di sotto della soglia di sicurezza di 1,5° Celsius Nella capitale spagnola sono rappresentati 196 paesi oltre a organizzazioni multinazionali come l’Unione Europea. Nel loro insieme offrono al giudizio del mondo una inquietante realtà: molti dei partecipanti sono restii ad applicare l’accordo del 2015, a volte invocano le necessità dello sviluppo economico, altre volte si trincerano dietro il principio della sovranità nazionale. Alcuni, come gli Stati Uniti di Donald Trump, sono arrivati addirittura a sconfessare la storica intesa di Parigi, condivisa dalla precedente amministrazione Obama, e dunque a dichiarare che non intendono applicarla. Perché sarebbe fondata, questa la visione di Trump, su una sopravvalutazione dell’incidenza delle attività umane sui fenomeni naturali. La venticinquesima conferenza si apre nel segno di due emergenze che hanno turbato profondamente l’opinione pubblica rivelando fino a

Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres: «Il pianeta è a un bivio». (AFP)

che punto sono arrivati sia lo sconvolgimento degli equilibri naturali, sia il cinismo di chi non esita, per servire interessi puramente materiali, a infierire su una natura già così maltrattata. Da una parte Venezia sommersa dalle acque, la prospettiva di un incomparabile splendore urbano minacciato proprio da quel mare che la Serenissima storicamente ha dominato. Dall’altra la foresta amazzonica, uno dei vitali polmoni verdi della Terra, devastata da incendi incontrollati e troppo spesso di origine dolosa. Fortunatamente sul tema ecologico si fa avanti l’Europa. Nel suo discorso d’investitura Ursula von der Leyen, la nuova presidente della Commissione europea che proprio alla conferenza di Madrid esordisce in questa veste, ha annunciato che l’Unione considera prioritaria la difesa dell’ambiente. Voglio che il nostro, ha detto, diventi il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050. Per arrivarci non è sufficiente l’obiettivo attuale, la riduzione delle emissioni del 40 per cento entro un decennio. Bisogna fare di più, molto di più. L’ex ministra tedesca della Difesa succeduta al lussemburghese Jean-Claude Juncker immagina l’Europa in un ruolo di guida nel salvataggio del pianeta, impegnata ben oltre i limiti fissati dalle intese fin qui raggiunte. Vorrebbe che i Ventisette dimostrassero al mondo che l’evoluzione verso l’obiettivo indicato da Guterres, la neutralità carbonica cioè l’abbattimento dei fumi che ancora riversiamo nell’atmosfera, non è soltanto necessaria, è anche possibile. D’altra parte la presidente della Commissione deve fare i conti non soltanto con una

platea internazionale non certo compatta sulla necessità di raggiungere ad ogni costo questo obiettivo, ma anche con forti resistenze interne all’Unione. A cominciare da quella del gruppo di Visegrad guidato non a caso dalla Polonia, un Paese in cui l’economia è tuttora basata su quel combustibile fossile per eccellenza che è il carbone, la più inquinante fra le fonti di energia. Eppure si guarda con molte speranze, nonostante tutto, a questa venticinquesima conferenza che chiude il decennio più caldo della storia, almeno da quando sono a disposizione dati comparabili, cioè da metà Ottocento. Gli studi e le statistiche dovrebbero avere ormai spazzato via tutti i dubbi e le riserve che fin qui hanno accompagnato il grande allarme climatico. Si è arrivati addirittura a definire una bufala il surriscaldamento planetario, o almeno il contributo umano a questo fenomeno più che evidente. Difese d’ufficio e torbidi interessi tendono a minimizzare il problema, influenzando molti politici dall’orizzonte limitato, restii come sono a guardare oltre gli orticelli del consenso e della conservazione del potere. Proprio mentre a Madrid si aprivano i lavori, Greta Thunberg sbarcava a Lisbona proveniente dal Cile, il Paese che avrebbe dovuto ospitare la conferenza ma ha dovuto rinunciare a causa dei gravi disordini interni. Esattamente come quando andò a New York per strigliare i rappresentanti delle Nazioni Unite, accusandoli di pensare a tutt’altro mentre il mondo va a rotoli, la giovanissima animatrice del movimento mondiale Fridays for Future ha viaggiato per mare su un catamarano

sospinto dal vento, la più tradizionale fra le energie rinnovabili che la natura mette a nostra disposizione. Poi ha proseguito per Madrid, con l’intento non solo di partecipare alla conferenza ma anche di manifestare con i suoi ragazzi nelle piazze della capitale, chiedendo che i delegati facciano il loro dovere nell’interesse complessivo del pianeta e dell’umanità. I lavori dureranno un paio di settimane e certamente non mancheranno gli sforzi perché si possano concludere con un bilancio positivo, o almeno accettabile. Ma non sarà facile, pesano molto le prese di distanza degli Stati Uniti, del Brasile e di altri paesi fra i più inquinanti, che non vogliono saperne di subordinare le loro economie ai costosi vincoli ambientali. Cercherà di contrastare queste reticenze l’Unione Europea con la linea d’urto annunciata dalla presidente Von der Leyen. Due sono i compiti principali dei negoziatori riuniti a Madrid. Prima di tutto bisogna completare le regole per l’applicazione dell’accordo di Parigi, già in buona parte concordate un anno fa alla ventiquattresima conferenza riunita a Katowice in Polonia. Ancora più importante la seconda missione: si tratta d’imprimere una decisa accelerazione al processo che contrasta il deterioramento climatico, cercando di convincere tutti della necessità di obiettivi più alti in fatto di contenimento delle emissioni di gas a effetto serra. L’alternativa è chiarissima: o questo o la resa, dice il segretario Guterres. Il clima rischia ormai di diventare un puro e semplice problema di sopravvivenza per molte specie, inclusa la nostra.

SERGIO ROMANO, L’epidemia sovranista, Longanesi 2019 Nata dalle macerie delle due guerre mondiali, l’Ue rifugge dal sovranismo, ma nel 2004 ingloba a est Stati usciti dall’implosione dell’impero sovietico. Si tratta di Stati che non hanno paura della sovranità, ma che l’hanno appena riconquistata e non vogliono perderla. Altrove, la Gran Bretagna approva lo stile populista di Boris Johnson, e nel 2016 decide di abbandonare l’Ue. I vari movimenti sovranisti hanno un tratto comune: l’eurofobia. Dall’altra parte dell’Oceano, un altro paese anglosassone, gli Stati Uniti, scelgono Donald Trump, un uomo «affamato di notorietà, disinvolto e occasionalmente piuttosto scostumato», come presidente. Anche Trump ha vinto le elezioni grazie a «quelle regioni che si consideravano impoverite dalla globalizzazione», e grazie «alle rabbie e frustrazioni in una combinazione di nazionalismo, razzismo». Cos’è, dunque, il sovranismo? Secondo Sergio Romano, è un fenomeno fomentato dalle nuove tecnologie e dalla critica alla finanza. Lanciato da questi fenomeni, il sovranismo può avere tratti in comune col nazionalismo, ma ne è certamente distinto. Infatti, il nazionalismo è un mito infarcito di saghe e leggende idealiste dalle quali si desumono nemici storici esterni. Invece, i nemici del sovranismo sono interni: questa è una nuova lotta di classe di ceti impoveriti, postideologici e arrabbiati contro le vecchie corporazioni. Inoltre, nonostante questi tratti comuni, il sovranismo si presenta con caratteristiche peculiari a seconda di dove si manifesta geograficamente. Nel 2008, continua Sergio Romano, il grande crack, provocato dalla spregiudicatezza delle banche americane, si associa in Europa a una gigantesca ondata migratoria musulmana. E la gente non è pronta: «Dopo i numerosi attentati terroristici provocati in buona parte dalla politica degli Stati Uniti in Medio Oriente», quella musulmana «è una fede che molti europei e americani» identificano ormai col terrorismo. Certo l’Islam si sta militarizzando, ma i tribuni della plebe si impadroniscono di una bizzarra teoria pseudo-politologica («l’islamo-fascismo») e conquistano voti. Quali conclusioni si possono trarre? Le teorie complottiste non ci portano lontano: da sempre, la finanza non ha patria e ignora i confini. Allo stesso modo, la globalizzazione non è il risultato di un progetto governativo: è un fatto storico cui hanno concorso molteplici fattori. Il libro si conclude con una difesa dell’Ue e con un appello a riformarla, trasformandola in un fenomeno a due velocità: il nocciolo duro fondatore dovrebbe esserne l’originario nucleo compatto, i paesi dell’Est un anello esterno. Un libro indispensabile per capire cosa è il sovranismo e come fare per superarlo. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Grazie a Leah i «Friday for Future» sono diventati un fenomeno sociale e politico in molte parti d’Africa. (AFP)

Lento ritorno alla normalità Fukushima Nove anni dopo il disastro

nucleare giapponese: tuttavia è ancora emergenza economica e ambientale Giulia Pompili

C’è anche una Greta d’Africa

Clima Anche nel Continente nero i giovani si mobilitano in difesa

del pianeta. Dimostrando di essere in sintonia con il resto del mondo Pietro Veronese Si è parlato molto dell’Africa al vertice Onu sul clima in corso a Madrid, il cosiddetto «Cop25». Magari indirettamente, magari ai margini, ma il continente che più di ogni altro sta soffrendo per i mutamenti climatici che affliggono il pianeta è tornato continuamente nei discorsi. I critici dei «Fridays for Future», le manifestazioni giovanili che in molti Paesi protestano contro l’inazione dei governi nel combattere il saccheggio delle risorse naturali e dell’ambiente, accusano Greta Thunberg e i suoi seguaci di aver dato vita a un movimento che pensa solo al benessere dei paesi ricchi, di essere incapaci di mobilitare il sud del mondo. Ma quando, nel suo discorso di apertura a Madrid, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterrez ha contrapposto alla passività dei governanti la «leadership» e la «mobilitazione» dei giovani, aveva di sicuro in mente anche la quindicenne ugandese Leah Namugerwa.

Ispirata dalla quasi coetanea svedese, la quindicenne ugandese Leah ha avviato la stessa solitaria forma di protesta Ispirata dalla sua quasi coetanea svedese Greta Thunberg, Leah ha avviato la stessa, solitaria forma di protesta. Ha preso a disertare la scuola e si è messa al lato della strada, inalberando un cartello che proclamava il suo «sciopero per il clima». Quando ha iniziato, mesi fa, aveva solo 14 anni. Facile accusarla – pensando alla visibilità mondiale raggiunta da Greta – di essere in cerca di notorietà. Ma ci vuole un certo coraggio a compiere gli stessi gesti della ragazzina scandinava in un contesto così differente. Una cosa è sedersi per terra davanti al Parlamento di Stoccolma; un’altra starsene sulla terra rossa in infradito, o meglio ancora nell’impeccabile uniforme di scolara, con la camicia bianca immacolata, al fianco di uno dei tanti ingorghi monstre che quotidianamente affliggono Kampala. E Leah ha mostrato di saper essere anche originale. Ha lanciato, per esempio, i «compleanni degli alberi», con l’apposito hashtag #birthday-trees: «Sprechiamo molto cibo per festeggiare il nostro compleanno», ha twittato, «ma non celebriamo quello del pianeta, pur dipendendo completamente dalle sue risorse».

Presto battezzata dai media «la Greta d’Africa», Leah Namugerwa è riuscita a portare in piazza un discreto numero di suoi compagni e i «Fridays for Future» sono diventati un fenomeno sociale e politico anche in Uganda, così come in Kenya, in Sud Africa e in altri Paesi del continente. L’agenda di Leah è molto chiara: «Chiedo al presidente Yoweri Museveni di mettere al bando le buste di plastica» è il primo obiettivo che ha dato al neonato movimento ambientalista ugandese. Oltre ai sacchetti, i suoi bersagli sono «i combustibili fossili, la deforestazione, il degrado delle zone umide, l’inquinamento dell’aria e ogni altra forma di ingiustizia e abuso ambientale». Auguri, Leah! Ci voleva un’adolescente ugandese per ricordarci che l’Africa, ancora troppo spesso considerata una vasta parte di mondo fuori dal tempo, il continente dell’arretratezza, dell’isolamento culturale per non dire del primitivismo, vive invece in piena sincronia con il resto del pianeta, affronta e reagisce agli stessi nostri problemi, è insomma nostro perfetto contemporaneo. Il che è tanto più vero se pensiamo all’emergenza climatica. L’Africa, il meno industrializzato e motorizzato dei continenti, è quello che meno di ogni altro contribuisce alle emissioni di gas nocivi, alla presenza di CO2 nell’atmosfera e all’inquinamento globale. Eppure – anche senza considerare il plurisecolare sistematico saccheggio delle sue risorse naturali – è quello che maggiormente soffre le conseguenze del degrado ambientale. Dai media giunge alle nostre orecchie distratte l’eco di un susseguirsi di catastrofi naturali, dall’ennesima siccità in Somalia alle devastanti alluvioni in Mozambico, dall’inarrestabile prosciugarsi del Lago Ciad alle spaventose morie di bestiame in Etiopia o in Zimbabwe. Questo crudele paradosso, che fa delle popolazioni rurali africane – insieme a quelle delle isole e degli arcipelaghi del Pacifico – le prime vittime di un male di cui non hanno alcuna responsabilità, è stato segnalato con forza da due delle maggiori Ong internazionali ai governanti del mondo riuniti a Madrid. Nella speranza di ottenere dai leader mondiali un impegno maggiore di quello di cui sono stati capaci finora, Save the Children ha presentato al Cop25 un rapporto drammatico. Limitandosi al solo anno in corso, il 2019, la ricerca conta oltre 1200 vittime di cicloni, inondazioni e frane in Mozambico, Somalia, Kenya, Sudan e Malawi; segnala che in Africa meridio-

nale, negli ultimi 50 anni, le temperature si sono alzate del doppio rispetto alla media globale; ricorda che le catastrofi naturali sono aumentate a quelle latitudini in intensità e frequenza, fino al caso estremo del Mozambico che per la prima volta nella storia ha subito due feroci cicloni nella stessa stagione. Dieci i paesi maggiormente colpiti nella vasta regione africana: oltre a quelli già citati, anche Madagascar, Zambia, Zimbabwe, Sud Sudan, Etiopia. Ad essere coinvolto è l’intero sud-est del continente, almeno 33 milioni di persone minacciate dall’insicurezza alimentare. Ancora più radicale il documento presentato da Oxfam, la grande confederazione di Ong di tutto il mondo. Il report denuncia la «disuguaglianza climatica» di cui l’Africa è la maggiore vittima. «I Paesi ricchi stanno alimentando una crisi climatica che colpisce prima di tutto decine di milioni di persone vulnerabili in alcune delle aree più povere del pianeta, che non sono in grado di sopportare l’impatto di catastrofi naturale sempre più frequenti, repentine e violente», ha detto Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne di Oxfam Italia, additando come maggiori responsabili gli Stati Uniti e i Paesi dell’Unione Europea. L’alterazione del clima colpisce in maniera feroce i paesi più poveri. La calura alla quale nelle nostre città reagiamo accendendo per qualche ora in più il condizionatore d’aria, porta invece fame e morte nelle zone semiaride subtropicali, migrazioni forzate di milioni di persone, tragedie che travolgono interi sistemi di vita. I cambiamenti climatici, denuncia Oxfam, sono la prima causa al mondo di migrazioni forzate – migrazioni interne, non attraverso confini o continenti: vaste masse di persone che abbandonano i villaggi e allo stremo delle forze si trascinano in cerca di qualche forma di sostentamento, in quantità assai maggiori di quelle causate da conflitti o guerre civili. Secondo il report, questi spostamenti di massa delle popolazioni sono cresciuti di cinque volte nell’ultimo decennio e sono destinati ad aumentare esponenzialmente in mancanza di interventi radicali sulle emissioni nocive e di un impegno finanziario massiccio a sostegno delle popolazioni colpite. Il senso di emergenza che il rapporto di Oxfam trasmette non potrebbe essere più chiaro. Non è difficile capire perché da molte parti dell’Africa si guardi al vertice di Madrid con un’aspettativa così grande da restare, con ogni probabilità, ancora una volta delusa.

Quasi nove anni fa l’area di Fukushima, in Giappone, si è trasformata per gli antinuclearisti nel simbolo della incontrollabile pericolosità dell’energia atomica. Ciò che accadde allora viene definito «il secondo disastro nucleare dopo Chernobyl». E come dopo l’incidente nella città di Pripyat, nel 1986, dall’11 marzo del 2011 anche Fukushima è diventata il luogo della disinformazione, delle teorie del complotto, una fonte inesauribile di pregiudizi al limite della superstizione che hanno oltrepassato facilmente i confini del paese del Sol levante. La differenza tra Chernobyl e Fukushima, però, è piuttosto nota: secondo vari report ufficiali il disastro in Giappone fu causato dall’uomo, cioè dalle scarse misure di sicurezza della centrale, che avrebbero dovuto essere adeguate anche in caso di calamità naturali catastrofiche. Ma nonostante un primo momento di confusione e malafede, soprattutto da parte della compagnia proprietaria dei reattori, la Tepco, il governo giapponese e quello locale della prefettura di Fukushima hanno fatto il possibile per mettere in sicurezza le persone. A oggi sono ancora 42 mila i cittadini che non possono tornare a casa, ma la maggior parte degli sfollati ha ritrovato una vita, magari altrove. Del resto, il calvario della prefettura di Fukushima è ancora lungo.

Dalla scorsa settimana anche l’Ue ha smesso di richiedere l’ispezione sulla radioattività dei prodotti che vengono da Fukushima Il prossimo anno dovrebbe iniziare la fase più delicata della messa in sicurezza dell’area, e anche la più contestata, cioè la bonifica dei reattori. Il governo di Tokyo ha reso noto il programma la scorsa settimana: alla fine del 2021, cioè a più di dieci anni dalla tragedia, si procederà con la rimozione dei resti delle barre di combustibile fuso dal fondo delle vasche di contenimento che si trovano all’interno dei tre reattori danneggiati della centrale nucleare. Il governo ha deciso di rimuovere la parte più pericolosa e altamente radioattiva della struttura, e non di adottare una specie di modello Chernobyl, ovvero di costruire intorno al nocciolo un sarcofago che impedisca al materiale radioattivo di diffondersi. Secondo gli analisti però restano ancora aperte varie questioni, e sembra troppo ottimista il progetto del governo di rendere l’area della centrale atomica completamente bonificata entro i prossimi 30, 40 anni. C’è per esempio il

problema dell’acqua radioattiva, quella che serve per raffreddare i reattori e mantenerli a una temperatura controllata. Un milione di tonnellate di liquido contaminato è già trattato e stoccato in centinaia di cisterne, ma entro il 2022 potrebbe finire lo spazio a disposizione dove collocarle. Il governo di Tokyo non ha ancora capito come procedere, ma quando è iniziata a circolare l’ipotesi di riversare l’acqua radioattiva nell’oceano, pescatori, abitanti dell’area e paesi vicini, come la Corea del sud, hanno protestato. Seul ha addirittura convocato l’ambasciatore giapponese. Non erano veri i titoli dei giornali sulla contaminazione delle acque, o meglio: si parla da tempo di uno sversamento diluito, che non intacchi l’ecosistema, ma il problema è soprattutto d’immagine, dicono a Tokyo. Secondo gli scienziati lo sversamento di una piccola quantità di acqua radioattiva a intervalli regolari non dovrebbe avere effetti sulla salute dell’ecosistema, ma sarebbe un sistema senza precedenti nella storia, e quindi basato solo sui calcoli, e nessuno vorrebbe avere a che fare con un Paese e un governo che getta scorie radioattive nell’oceano. E l’immagine riguarda tutta la filiera della produzione agroalimentare, dalla coltivazione all’export. Quella di Fukushima è un’economia bloccata da quasi un decennio, che lentamente sta uscendo dall’isolamento internazionale. In giro per la prefettura, anche a distanza di chilometri dalla centrale nucleare, c’è ancora chi non riesce a vendere un chicco di riso, nonostante i costanti controlli sulle contaminazioni diano da tempo risultati negativi. Anche il coltivatore lontano dell’area di contaminazione subisce il pregiudizio dell’acquirente, per il semplice fatto che i suoi prodotti sono coltivati nella regione di Fukushima, che si estende per tredicimila chilometri quadrati. Per qualche anno l’intera prefettura ha vissuto una specie di autarchia di fatto, con riso, frutta e verdura consumate solo dagli abitanti della regione. Superata l’emergenza, negli anni successivi all’incidente sono nate nuove linee guida, nuovi protocolli di trasparenza e informazione, anche per combattere certe fake news. E questa nuova strategia di comunicazione ha pagato. Lentamente tutti i divieti di importazione dei prodotti di Fukushima stanno cadendo, grazie anche all’attività diplomatica del primo ministro Shinzo Abe. Dalla scorsa settimana anche l’Unione europea ha smesso di richiedere l’ispezione sulla radioattività dei prodotti che vengono da Fukushima, tranne che per il pesce e i funghi. Secondo il Nikkei Asian Review anche la Cina potrebbe presto accodarsi ed eliminare il blocco delle importazioni da Fukushima. Sarebbe davvero l’inizio di una rinascita per la regione, la più flagellata del Giappone.

Il premier Shinzo Abe alla centrale nucleare di Fukushima. (AFP)


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

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Politica e Economia

Banche nazionali: a chi appartengono Finanza Aumentano le statalizzazioni e il controllo pubblico. L’eccezione della Banca Nazionale Svizzera,

che è di proprietà di Cantoni e privati, ma soggetta alla sorveglianza federale

Ignazio Bonoli Il profilarsi di un nuovo e sostanzioso utile nei conti della Banca Nazionale Svizzera (record di 38,5 miliardi di franchi nel primo semestre di quest’anno ) suscita le abituali discussioni sulla distribuzione di questi soldi. Torneremo all’inizio del prossimo anno su questo tema sempre più dibattuto a livello politico. Oggi vogliamo invece gettare uno sguardo sulle strutture istituzionali della BNS, perché in questo campo le cose stanno cambiando a livello mondiale e la nostra banca nazionale si conferma sempre più come eccezione nel campo delle banche centrali. La Banca Nazionale Svizzera è, infatti, una società anonima, di per sé indipendente, ma soggetta alla sorveglianza della Confederazione, che però (altra eccezione) non ne è nemmeno azionista. I maggiori azionisti sono, infatti, i Cantoni e le banche cantonali con il 49,6% del capitale. Il 26,3% è in mano a privati. È noto un investitore tedesco che detiene il 5,24%, cioè un pochino di più del canton Zurigo con il 5,20%. Per il 24,1% si tratta di azioni non iscritte a registro (in gergo «dispo»). Comunque Cantoni e banche cantonali detengono il 77,4% dei diritti di voto e i privati il 22%. Come accennato, questa struttura pubblico-privata delle banche centrali sta scomparendo. Accanto alla Sviz-

zera rimangono in questo comparto la Francia, la Grecia, San Marino e il Sudafrica. Ma proprio quest’ultimo paese, lo scorso novembre, ha adottato un testo di legge che statalizza la banca centrale, riaccendendo una discussione già sollevata nel 2010 dall’Austria, il cui parlamento ha deciso di acquisire la totalità del capitale della banca, di cui possedeva già il 70%. L’argomento essenziale era supportato dal fatto che il 30% era in mano a banche private, le quali a loro volta erano sorvegliate dalla banca centrale. In pratica, potevano sorvegliare il sorvegliante. Le decisioni di Austria e Sudafrica si inseriscono in un trend che caratterizza l’evoluzione delle banche centrali in questi ultimi anni. All’inizio del secolo scorso invece circa la metà delle banche centrali nel mondo contavano anche azionisti privati nel loro capitale. Soltanto dopo la seconda guerra mondiale il movimento di statalizzazione ha subito una forte spinta in molti paesi. In pratica, oggi, soltanto la banca centrale giapponese e quella belga contano una parte importante di investitori privati. Ognuna di loro regola a modo suo le partecipazioni private, che comunque non sono in grado di esercitare influssi sulla gestione della banca, soprattutto nelle politiche di interesse pubblico, come quella – per esempio – di garantire la stabilità dei prezzi o l’attenzione all’evoluzione della congiuntura.

La Banca nazionale svizzera resiste alla tendenza di statalizzare le banche centrali. (Keystone)

Il campione assoluto nella struttura privata del capitale è l’Italia. La banca nazionale appartiene, infatti, alle banche private. Negli Stati Uniti, il sistema è invece completamente diverso, poiché la banca centrale (Federal Reserve) si compone di 12 banche regionali, che concordano le misure da prendere attraverso la Fed. Ma che la composizione del capitale delle banche centrali non abbia nessun effetto sul-

le loro politiche lo dimostra anche un recente studio che ha preso in esame 35 istituti di paesi membri dell’OCSE. Esso constata anche che la struttura del capitale non ha effetti sulla redditività della banca. Contrariamente a quanto si possa pensare, sono le banche con strutture semi-private che versano più soldi allo Stato rispetto a quelle statalizzate, anche se il loro scopo non è principalmente quello della massimiz-

zazione dei profitti, e non si lasciano influenzare dagli interessi dei proprietari privati. Il perché di queste partecipazioni private ha ragioni storiche. Furono, infatti, le banche private ad emettere le prime banconote (in Ticino, la Banca della Svizzera italiana). Si riteneva, inoltre, che la proprietà privata potesse costituire una protezione supplementare contro gli influssi politici dello Stato nelle politiche della banca. Anche le origini storiche della BNS derivano dal fatto che le azioni, al momento della costituzione del capitale, erano un compenso ai Cantoni per la cessione del monopolio dell’emissione di banconote. Malgrado la tendenza in atto, la BNS non vede la necessità di cambiare sistema. Il vantaggio sta nel fatto di assimilare elementi di diritto pubblico e privato. La componente pubblica garantisce l’esecuzione del mandato nell’interesse generale del paese, quella privata funge da garante dell’indipendenza della banca. È improbabile che la BNS segua i recenti movimenti di statalizzazione, tesi confermata anche con la revisione della legge sulla Banca Nazionale del 2004. Il che non ha impedito – per esempio – alla Banca dei regolamenti internazionali di scegliere la BNS, con Hong Kong e Singapore, per sperimentare gli effetti delle nuove tecnologie finanziarie, allo scopo di migliorare il futuro sistema finanziario globale. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

«Libra» è il leitmotiv della finanza svizzera per il 2019 La consulenza della Banca Migros

Thomas Pentsy

Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

Quest’anno non c’è stato nessun altro argomento che ha smosso così tanto il mondo finanziario quanto la criptovaluta Libra. Una giuria composta da cinque esperti finanziari ha quindi scelto il termine «Libra» come leitmotiv della finanza svizzera per il 2019. L’obiettivo è chiaro: la programmata criptovaluta Libra dovrebbe diventare una valuta elettronica completa, facilmente utilizzabile in tutto il mondo. Sia che si usi lo smartphone o il PC, la valuta digitale dovrebbe consentire a tutti di scambiare denaro tra Libra e le altre valute con facilità e di eseguire le transazioni transfrontaliere in modo rapido e conveniente. Sarà possibile utilizzarla anche per gli acquisti negli shop online e nei negozi. L’introduzione di Libra è prevista per il 2020. La valuta digitale sarà emessa dalla fondazione Libra Association con sede a Ginevra, dietro la quale si cela soprattutto il gruppo statunitense tecnologico e mediatico Facebook. Analogamente a quanto avviene per il bitcoin, questa moneta elettronica si basa sulla tecnologia blockchain. A differenza di altre criptovalute, tuttavia, non mostrerà grandi fluttuazioni delle quotazioni. Lo strumento di pagamento è stato concepito come cosiddetto «Stable Coin», il che significa che la Libra As-

La giuria è composta da cinque membri (da sinistra): lo scrittore Michael Theurillat, l’imprenditore fintech Adriano B. Lucatelli, la professoressa di finanza Sita Mazumder, l’analista di mercato e dei prodotti della Banca Migros Thomas Pentsy e il fondatore di finews.ch Claude Baumann. (Sabine Rock)

sociation vincola il corso di Libra a un insieme di valute diverse, tra le quali presumibilmente il dollaro, l’euro, la sterlina e il dollaro di Singapore. Libra godrà di una copertura totale. Per ogni unità di Libra emessa, questo paniere di valute viene aumentato di conseguenza, in modo che il valore intrinseco della criptovaluta sia sempre coperto dalle divise corrispondenti.

Nessuno sa quando e in che misura Libra si affermerà su vasta scala. Ma la criptovaluta ha il potenziale di ribaltare il mondo finanziario e di diventare una nuova moneta globale. Il numero dei potenziali utenti è enorme; solo su Facebook sono registrate più di due miliardi di persone. Libra rappresenta chiaramente una sfida per l’attuale sistema monetario. Per questo motivo non sorprende

neanche che attualmente il progetto sia poco popolare. Così, politici, banche centrali e istituti finanziari si dicono preoccupati per i progetti dell’associazione Libra. Essi temono, tra l’altro, che la criptovaluta possa provocare distorsioni sui mercati dei cambi. Qual è la vostra opinione in merito a Libra? Partecipate al dibattito su: blog.bancamigros.ch Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Una nuova fatica di Ercole Di recente è uscito il nuovo rapporto del Consiglio federale sullo spostamento del traffico pesante dalla strada alla rotaia sul percorso che attraversa le Alpi. È un lungo resoconto (più di cento pagine) su quella che può tranquillamente essere chiamata una vera fatica di Ercole. Questa politica ha preso il via dalla votazione popolare del 1994 con la quale venne approvato il nuovo articolo 84 della Costituzione federale che per l’appunto chiede di spostare, nella misura massima del possibile, il traffico pesante attraverso le Alpi dalla strada alla rotaia. Veniva poi concretizzata nella legge federale sullo spostamento del traffico pesante del 1999 e in misure di legge susseguenti, con le quali si cercava di dar seguito all’articolo sulla protezione delle Alpi. Il Consiglio federale riferisce ogni due anni, con un apposito rapporto, sul modo in cui

avanza la realizzazione di questa finalità. Consideriamo dapprima i numeri. All’inizio di questo secolo, il traffico stradale di mezzi pesanti attraverso le Alpi svizzere aveva raggiunto una quota massima di 1,4 milioni. L’obiettivo della politica federale era di ridurre questo effettivo a 650mila unità entro la fine del 2018. Dal rapporto succitato veniamo a sapere, però, che, nel 2018, il traffico stradale di mezzi pesanti attraverso le Alpi svizzere è stato ancora di 941’000 camion: l’obiettivo dunque non è stato raggiunto. Nonostante gli investimenti fatti nella realizzazione delle nuove trasversali ferroviarie alpine e nonostante le altre misure di contenimento, non si è purtroppo riusciti a dimezzare (questo era praticamente l’obiettivo iniziale della politica di trasferimento) il traffico stradale. La riduzione ottenuta sin qui è pari a 1/3 circa dell’effettivo di mezzi

pesanti che attraversarono le Alpi su strada nel 2000. Insomma, ridurre il traffico stradale di mezzi pesanti attraverso le Alpi spostandolo verso la ferrovia sembra proprio essere una fatica di Ercole. I pareri sul perché la realizzazione dell’obiettivo di questa politica avanza più lentamente del previsto sono naturalmente diversi. I promotori dello spostamento pensano che le misure adottate sin qui siano troppo blande e che occorrerebbe obbligare le aziende di trasporto ad utilizzare il treno piuttosto che l’autostrada attraverso le Alpi. L’Associazione dei trasportatori, naturalmente, è di parere contrario. Nella sua presa di posizione sul nuovo rapporto approva l’obiettivo del trasferimento e non si oppone a un rafforzamento dei controlli sul traffico pesante, a patto però che resti proporzionato. Il testo del

Consiglio federale informa poi in modo dettagliato sul come sia evoluta la situazione in materia di inquinamento sugli assi di transito dell’A2 e dell’A13 e sullo stato di realizzazione delle singole misure, dall’infrastruttura ferroviaria alla borsa internazionale per il traffico pesante attraverso le Alpi, passando per la tassa sul traffico pesante, la liberalizzazione del traffico ferroviario, la promozione dell’offerta nel traffico ferroviario attraverso le Alpi e l’intensificazione dei controlli sul traffico pesante. Presentando il rapporto, la consigliera federale Simonetta Sommaruga, titolare del Dipartimento dei Trasporti, ha accennato alle nuove misure di sostegno, alle quali il Consiglio federale ha già dato il suo appoggio, come le riduzioni di tasse d’uso e la continuazione nell’erogazione dei sussidi, che doveva cessare nel 2023, fino al 2030. Il prossimo anno, come si

sa, la NEAT verrà completata con l’apertura della galleria di base del Ceneri e con il completamento del corridoio di 4 metri sulla linea ferroviaria del San Gottardo. Anche queste realizzazioni infrastrutturali daranno un contributo fattivo alla continuazione della politica di trasferimento del traffico pesante dalla strada alla ferrovia. L’organizzazione dei trasportatori fa però notare che in materia di infrastruttura molto resterà da fare su percorsi di avvicinamento alla NEAT, sia in Germania che in Italia. Nonostante le difficoltà che ancora si frappongono al raggiungimento dell’obiettivo, tutti gli interessati si augurano che il trasferimento del traffico pesante attraverso le Alpi dalla strada alla ferrovia sia raggiunto al più presto. Almeno sulla bontà dell’obiettivo da raggiungere si è arrivati, oggi, al consenso generale.

fase, cioè il voto al Senato. Sono i politici che decidono l’impeachment ed è per questo che fin dall’inizio dell’inchiesta le attenzioni sono rivolte ai repubblicani: se loro cedono, l’impeachment è possibile, altrimenti no. Perché i repubblicani dovrebbero cedere e incriminare il loro presidente? Questa è la domanda che si pongono tutti, anzi, che si ponevano, perché ora è quantomai evidente che i repubblicani non hanno più tanti dilemmi: stanno con Trump. Basta leggere il documento che hanno pubblicato la scorsa settimana come atto difensivo. A convincerli dell’impossibilità di sostenere il loro presidente c’erano i fatti: la telefonata al presidente ucraino in cui Trump ha detto che avrebbe sospeso gli aiuti militari in attesa di materiale compromettente su un rivale politico (Joe Biden). Tutti i testimoni hanno convalidato questa versione, anche quelli che inizialmente erano o apparivano restii. Ma quando si è capito che le testimonianze andavano in quella direzione e che i fatti non potevano essere contraddetti più di tanto, i repubblicani hanno scelto di prenderne un’altra, ben sintetizzata da un appunto che si

è preso lo stesso Trump: it’s nothing, non è niente. Più la classe diplomatica americana confermava più la risposta diventava: e quindi? Trump potrà aver sbagliato a fare quella telefonata e quella richiesta, ma questa non è materia d’impeachment. Ci sono due filoni nei sostenitori del «non è niente»: chi dice che la comunicazione con Kiev è grave e non avrebbe dovuto esserci, e chi – i pasionari – dice che non c’è niente di male, le relazioni internazionali non sono roba da signorine, si è diretti e si è brutali, e soprattutto così fan tutti. L’esito è comunque lo stesso: non è niente. Una reprimenda è il massimo che ci si può aspettare. I democratici naturalmente non la pensano così e anzi molti sostengono che vogliano allargare, in questa fase tecnica, lo spettro delle azioni presidenziali da considerare, riciclando anche il Russiagate, quelle 400 pagine in cui le interferenze russe nelle elezioni americane del 2016 erano ampiamente dimostrate ma nelle quali mancava – perché il compito spettava al Congresso – il coinvolgimento presidenziale. Ora che il Congresso ha l’occasione, vuole sfruttarla al massimo, e se la te-

lefonata in Ucraina non vi basta, allora prendete il Russiagate: tutto tranne l’impunità. Ma la macchina di propaganda trumpiana è già al lavoro: poiché l’Ucraina è un’arma spuntata – sostiene – si cerca di diseppellire un’altra arma spuntata, il Russiagate, lo vedete quanto sono disperati i democratici? Il metodo funziona, non lo scopriamo adesso: l’opinione pubblica americana non si è mossa di un millimetro, gli antitrumpiani continuano a credere che Trump debba essere messo sotto accusa per una quantità di motivi che vanno ben oltre l’Ucraina; i trumpiani costruiscono un muro di donazioni promettenti attorno al loro presidente maltrattato. Finiremo per parlare dell’impeachment in due modi. I politici diranno che un volano elettorale tanto imponente e funzionante Trump non avrebbe potuto nemmeno sognarlo, soltanto i democratici potevano inventarlo; gli esperti di media studieranno la copertura di queste audizioni come un caso paradigmatico di come l’esperienza del 2016 sia diventata lo standard della comunicazione trumpiana. Per tutti gli altri, non sarà niente.

i dispersi sulle montagne, gli annegati nel lago Ritom («sei in una volta sola»), i congelati sulle cime, le vittime delle valanghe. Nell’accostarsi alla vita alpestre occorre dunque farsi guidare da tatto e misura; scrutarla da tutti i lati e non lasciarsi sedurre dalla sola faccia dell’incanto. I numerosi studi usciti negli ultimi decenni, frutto della competenza e della passione di storici, etnografi e glottologi, hanno messo in guardia dalle facili idealizzazioni arcadiche. Ci limitiamo qui a ricordare l’opera di Mario Vicari con i suoi Documenti orali della Svizzera italiana, capolavoro di meticolose indagini sul terreno e di competenza linguistica. I chiaroscuri di questa epopea alpina, che ancora resiste in molte parti dell’alto Ticino, sono presenti anche nel volume su Piora (Un alpe, una valle, una storia), appena edito da Salvioni con un’introduzione di Fabrizio

Viscontini sulle origini del pascolo e del sistema corporativo che lo regge tuttora. I curatori, alle pagine 228-229, ripropongono anche la poesia della Borioli, che quando fu presentata al concorso indetto nel 1955 dalla rivista «Il Cantonetto» diretta da Mario Agliati «sollevò a dir poco una tempesta. Non mai vista un’atmosfera simile, per un avvenimento che non fosse sportivo o politico». Quegli sventurati non furono i soli, purtroppo, a perdere la vita in quel comprensorio, tanto maestoso quanto infido al mutar del cielo e delle stagioni. Il libro si raccomanda per il largo ventaglio tematico (toponomastica, botanica, biologia, geologia), per le testimonianze raccolte e per la nutrita sezione di immagini, sia a colori che in bianco e nero. C’è la Piora (femminile) come vallata, ritratta d’estate e d’inverno, ma c’è soprattutto il Piora (maschile) come alpe e come formag-

gio, la vera ricchezza di questo «parco nazionale» sui generis, che si potrebbe anche candidare a patrimonio Unesco. Ovviamente anche lassù è giunta la modernità, portata dalla carrozzabile e dalla funicolare, dagli impianti idroelettrici e dagli stabili per il bestiame, le caldaie e le mungitrici elettriche. Tuttavia le innovazioni sono rimaste discrete e non invasive; non hanno rivoltato e sfigurato il paesaggio, che rimane uno dei più ammalianti del cantone. In altre aree alpine si è imboccata una strada diversa, con alberghi, discoteche e impianti di risalita, trasformando il territorio in luna park o in lussuosi insediamenti per le classi agiate. In val Piora non è successo, per fortuna. Cosicché il gitante può rigenerarsi tra conifere e laghetti, in armonia con i ritmi della natura, mentre nel fondovalle scorre il traffico europeo, nella confusione di cantieri, frastuoni e colline di materiali di scavo.

Affari Esteri di Paola Peduzzi L’impeachment? It’s nothing L’inchiesta sull’impeachment di Donald Trump è finita, ora si entra nella procedura di messa in stato d’accusa del presidente degli Stati Uniti: i lavori passano alla commissione Giustizia del Congresso, il luogo in cui si sono svolti tutti gli impeachment della storia statunitense, e non dobbiamo più aspettarci testimonianze scioccanti come è accaduto finora. Ci saranno testimoni e audizioni, ma l’obiettivo di questa nuova fase è quello di stabilire se ci sono le condizioni per l’impeachment, cioè se nello svolgimento delle sue funzioni il

presidente Trump ha superato i limiti che la Costituzione pone ai suoi poteri. Per questo sono stati scomodati, sia da parte dei democratici sia da parte dei repubblicani, molti costituzionalisti che parteciperanno alle audizioni. L’approccio tecnico che contraddistingue questa seconda fase non deve spaventare: la questione qui è tutta e sempre politica. Per quanto si possa scendere nei dettagli e nelle interpretazioni giuridiche dei testi, alla fine ci sarà un voto alla Camera – forse entro Natale, ma non è detto – che aprirà o no la terza

Donald Trump. (Keystone)

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Il libro dell’alpe Alpi e alpigiani sono spesso oggetto di alati lirismi. La versione di chi vive quest’esperienza, o l’ha vissuta, differisce assai da chi la osserva dall’esterno, per interposta persona. Lo sguardo indiretto tende ad abbellirla e a coglierne solo l’aspetto romantico o bucolico; a volte con venature nostalgiche. La questione non è nuova; in campo letterario prende avvio nel 1922, con Giuseppe Zoppi e il suo Libro dell’Alpe. Un romanzo che piacque ai cittadini, meno ai montanari. Già nel 1933, con i racconti Quando tutto va male, Guido Calgari, che al mondo rurale era vicino per biografia e sensibilità, volle espressamente contrastare la visione data dallo scrittore di Broglio: «a spingermi a narrare sventure fu poi un moto di reazione contro l’idillio del Libro dell’Alpe, tutto festa e purezza e felicità». Nel 1964 anche Plinio Martini avvertì l’esigenza di proporre una «contro-narrazione» in funzione anti-

Zoppi, colpevole di aver trasfigurato l’aspra vita sui monti della Lavizzara: «proprio qui a Rima ricordo di averlo visto tanti anni fa, e guardato con ammirati occhi adolescenti nella dirittura di un indice teso: quello è Giuseppe Zoppi. Stava seduto sul prato, felice, camicia bianca, cravatta e scarpe di vernice; con chi parlasse non so: dei pari suoi credo, professori, ammiratori, gente di città comunque ostentatamente tale; ma riascolto divertito la sua risata gaudiosa e improvvisa come uno strappo di campanella, e ricordo ancora bene la donna biancovestita che gli stava al fianco, tanto diversa dalle contadine che ero abituato a vedere». Erano le ombre di un mondo che lasciava poche vie di scampo alle popolazioni di montagna; lo colse con rara efficacia nel secondo dopoguerra Alina Borioli, nella poesia Ava Giuana d’Altenchia, dolente canto funebre di una civiltà aggredita da un destino crudele:


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

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Cultura e Spettacoli Letteratura altra Nori, Cavazzoni e Martinoni propongono uno sguardo diverso e a tratti eccentrico sul mondo che ci circonda

Una grazia sofferta Cent’anni or sono si esibiva per l’ultima volta il leggendario quanto tormentato ballerino Vaslav Nijinsky pagina 37

pagina 33

Il mondo balla il tango L’11 dicembre è la giornata internazionale del tango: un’occasione per ripercorrerne la storia

pagina 43

Urgenze teatrali A Milano Thomas Bernhard con Umberto Orsini; in Ticino produzioni locali di pregio

pagine 45 e 47

Leonardo e la Madonna Litta

Mostre Piccola esposizione al Poldi Pezzoli

di Milano utile per discutere sul tema delle attribuzioni leonardesche

Gianluigi Bellei Sta terminando l’anno delle celebrazioni per il cinquecentenario della morte di Leonardo. Abbiamo dato conto delle due esposizioni più importanti: quella sui disegni alla Queen’s Gallery di Londra e recentemente quella al Louvre di Parigi. Non c’era altro di importante da segnalare. Vogliamo però concludere questo anniversario sottoponendovi una questione della quale si parla poco. Quella delle attribuzioni. Ne cogliamo il pretesto in occasione della minuscola mostra in corso al Poldi Pezzoli di Milano dedicata alla Madonna Litta. Il problema delle attribuzioni è una querelle secolare. All’inizio i soli che potevano dare dei giudizi erano gli artisti. Per il semplice motivo che conoscevano la materia e la tecnica. Poi tutto è passato nelle mani degli storici dell’arte e dei funzionari. Alcuni lavoravano nei musei altri nelle università. Vari i metodi di attribuzione. Lungo e sterile sarebbe elencare i prestigiosi nomi dei conoscitori d’arte e dei loro metodi. Semplifichiamo dicendo che un conoscitore deve avere un’ottima memoria, aver girato e visto moltissimi dipinti e, soprattutto, essersi soffermato sui particolari. Sì, perché secondo loro, o alcuni di loro, a parte l’aspetto storico, quello che maggiormente importa sono alcuni particolari dei soggetti realizzati che rivelano il nome dell’artista. Stiamo parlando delle orecchie, dei nasi, delle mani e dei piedi. Se ci sono delle similitudini vuol dire che l’artista è lo stesso. Può sembrare una cosa bizzarra per un non addetto ai lavori, ma vi assicuro che la questione è presa molto sul serio. Alla fine è diventata una specie di mania. Anche perché, come scrive Kenneth Clark le expertises seguitavano a «distribuire ricchezza a un’ampia fetta di sacerdoti dell’arte». E così si sono create lunghe liste di dipinti e nomi da far impallidire chiunque. Se

non si trovava il nome esatto, se ne creavano di fittizi: dall’Amico di Sandro al Maestro del Bambino vispo, dal Maestro della Madonna Rucellai al Maestro del Trittico di Digione… A questi signori si sono sempre contrapposti i falsari. Artisti, in pratica, che senza più la nomea di esperti si divertivano a prenderli in giro inondando i musei di loro opere. Qui facciamo qualche nome. Giovanni Bastianini, Alceo Dossena, Umberto Giunti e Han Van Meegeren (1889-1947) autore di una serie di Vermeer creduti autentici. Arriviamo così alla Madonna Litta. Al Louvre possiamo vedere in questi mesi i lavori di Leonardo e dei suoi allievi. Nell’ultimo decennio del Quattrocento l’atelier di Leonardo funzionava a pieno ritmo. Si ipotizza che per la bottega abbia preso come modello quella del Verrocchio, suo maestro, con delle precise divisioni del lavoro e mansioni. Il maestro elaborava i disegni e gli assistenti li traducevano in cartoni per lo spolvero. A volte venivano usati anche contro cartoni. Si utilizzavano anche solo parti dei cartoni. Gli allievi iniziavano la stesura pittorica e alcune volte lo stesso Leonardo interveniva su singoli dettagli del dipinto. Pietro C. Marani, nel catalogo milanese, sottolinea che nel tempo il concetto di dipinto autografo è cambiato. L’originalità del dipinto deriva dal fatto che al maestro viene data la paternità dell’invenzione e della composizione e di conseguenza si ritiene che l’opera gli sia attribuibile «qualunque cosa uscisse dalla sua bottega sotto la sua supervisione». Ultimamente, soprattutto per Leonardo, si è specificato che il concetto di opera autografa si riferisce a un dipinto realizzato interamente dal maestro. In questo senso aiutano i documenti storici e soprattutto il metodo di realizzazione del dipinto. Di Leonardo si conoscono meno di una ventina di lavori a lui attribuiti. Tutti gli altri sono opere di

Leonardo da Vinci (Vinci, 1452-Amboise, 1519), Madonna Litta, tempera su tavola trasportata su tela. (© San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage)

allievi con eventuali ritocchi specifici per mano del maestro. Ancor oggi si sta discutendo della paternità dei dipinti realizzati dagli allievi. Anche se a dire il vero alcune differenze si stanno delineando. Soprattutto tra i due principali: Marco d’Oggiono e Giovanni Antonio Boltraffio. La questione che qui è opportuno rimarcare è che nella mostra parigina i dipinti degli allievi (o quelli ritenuti a loro ascrivibili) sono di buona qualità. Al contrario a Milano troviamo delle tele non particolarmente eccelse. Questo può trarre in inganno per un confronto con la Madonna Litta che risulta di alta fattura. Tale da far ritenere che possa essere di Leonardo. La sua attribuzione in ogni caso è controversa. Carlo Bianconi nel 1787 la attribuisce a Leonardo come Guglielmo Della Valle nel 1792. Giuseppe Bossi, alcuni anni dopo, sostiene che sia opera della scuola di Leonardo.

Charles Lock Eastlake, direttore della National Gallery di Londra, nel 1854 la attribuisce a Bernardino Zenale. Poi, via via, si fanno i nomi di Bernardino Luini, Bernardino de’ Conti, Giovanni Ambrogio de’ Predis, Giovanni Antonio Boltraffio, Marco d’Oggiono e Andrea Solario. A contribuire alla confusione è il catalogo della mostra milanese, che sembra sia stato realizzato senza una regia coordinata. Tatiana Kustodieva nella scheda relativa al dipinto, che attribuisce a Leonardo, scrive che la tavola viene eseguita a metà degli anni Novanta del Quattrocento a Milano e poi portata dallo stesso Leonardo a Venezia dove viene vista da Marcantonio Michel nel 1543. Di diverso avviso Andrea Di Lorenzo che ritiene l’argomento «problematico» e il dipinto opera di Giovanni Antonio Boltraffio. Vincent Delieuvin nel catalogo

della mostra parigina attribuisce, come la maggior parte degli specialisti, la Madonna Litta a Giovanni Antonio Boltraffio o a Marco d’Oggiono. A questo punto vi proponiamo un confronto. Andate al Louvre a vedere la Madonna Benois, certamente di Leonardo, e poi al Poldi Pezzoli per quella Litta (entrambe le opere provengono dal museo dell’Ermitage di San Pietroburgo e, non a caso, la prima è esposta al Louvre). Osservate i piedi e le mani dei due bambinelli. Vi sarà subito evidente che si tratta di artisti diversi. Dove e quando

La Madonna Litta. A cura di Pietro C. Marani e Andrea Di Lorenzo. Museo Poldi Pezzoli, Milano. Fino al 10 febbraio. Catalogo Skira, euro 29. Me-lu 10.00-18.00. Chiuso martedì. www.museopoldipezzoli.it


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

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Cultura e Spettacoli

Tre libri eccentrici

Editoria La letteratura, per fortuna, è fatta anche di opere e di autori «fuori schema»

che non seguono i canoni tradizionali ma che raccontano le cose strane del mondo Il primo libro che vorremmo presentarvi è opera dello scrittore emiliano Ermanno Cavazzoni (che è ormai anche un collaboratore apprezzato del nostro settimanale). Nel suo ultimo volume, Storie vere e verissime (edito da La nave di Teseo) Cavazzoni raccoglie una serie di suoi scritti brevi apparsi in varie pubblicazioni, in particolare sul domenicale del «Sole 24 Ore». Si tratta di testi con una componente autobiografica ricorrente, che realizzano quel tipo di osservazione del mondo obliqua e surreale così tipica del suo stile. Il lettore quindi è costretto a prendere in considerazione situazioni apparentemente normali della vita, ma viene confrontato con eventi e vicende curiose, che danno luogo poi a interpretazioni del tutto paradossali dell’accaduto. Non si intende qui anticipare in nessun modo contenuti che possano togliere l’effetto sorpresa alla lettura. Ma quel che è vero è che si ride spesso, leggendo i racconti di Cavazzoni. Non perché lui voglia essere un umorista, assolutamente. Piuttosto la ricerca del senso, all’interno del nonsenso dell’esistenza, conduce il suo riflessivo narrare a conclusioni bizzarre, a espressioni di ingenua incredulità che ci spiazzano e ci fanno considerare il mondo sotto un’ottica patafisica di grande divertimento. Da sempre Cavazzoni ci ha abituato alla sorpresa e i suoi racconti vanno a parare sempre dove uno meno se lo aspetta: in un «limbo delle fantasticazioni» di cui è uno dei più assidui esploratori.

Un particolare dalla copertina del libro di Renato Martinoni.

Paolo Nori, con il suo spirito originale e simpatico, sta riuscendo in un’impresa curiosa, mobilitando schiere di giovani scrittori e grafomani per la redazione di vari repertori di insanità locali. Il Repertorio dei matti del Canton Ticino è uno di quelli che sono piaciuti di più a chi scrive queste righe. Forse, semplicemente, per campanilismo. In primis perché alcuni di quei personaggi li abbiamo conosciuti davvero e ritrovandoli nel libro li rivediamo con un certo affetto. In seconda battuta,

trovando ritratte nero su bianco le fissazioni di questi strani personaggi ci rendiamo conto che, forse, i matti del nostro cantone dicono pubblicamente cose che gli altri, i «soi-disant» normali, si accontentano magari soltanto di pensare. Al di là di tutto ciò, comunque, il librino, frutto di un lavoro di gruppo assolutamente encomiabile, è piacevole, divertente, senza enfasi. Istruttivo, anzi, quando con una punta di sarcasmo sembra porsi l’obiettivo di mettere in discussione la «nostra» sanità mentale.

Ad esempio ricordandoci come certe donne, con il loro sacrosanto desiderio di vedere riconosciuti i propri meriti e diritti, siano effettivamente passate per matte, negli scorsi decenni. È questo il senso dell’operazione, forse: farci aprire gli occhi su una realtà parallela che però non è così bizzarra come crediamo. Il terzo libro eccentrico della serie è in realtà un serissimo studio, messo in opera da Renato Martinoni, sulla figura del pittore Antonio Ligabue. Antonio Ligabue. Gli anni della formazione

(1899-1919) (Marsilio Editori) è una puntigliosa ricerca sulle tracce anagrafiche e su quelle negli archivi dei servizi sociali svizzeri lasciate dai primi anni di vita dell’artista. Figlio di emigrati italiani insediatisi nella Svizzera interna, Ligabue è conosciuto al grande pubblico essenzialmente per la seconda parte della sua esistenza, vissuta a Gualtieri, nel cuore dell’Emilia (ne parla anche Cavazzoni nel libro di cui sopra). Lo studio di Martinoni cerca di fare chiarezza attorno agli anni in cui il «genio» del pittore si è formato. Rispondendo in fondo a un auspicio che Zavattini aveva espresso nel suo stupendo poema biografico Toni Ligabue («Un biografo serio dovrà / vedere che tracce / restano lassù di Ligabue») ecco che Martinoni si è messo alla ricerca di elementi documentali che confermino il mito dell’infanzia frustrata e segregata vissuta dal povero Antonio nella Svizzera tedesca. Scoprendo tra l’altro che le cose per Antonio erano forse andate meglio di quanto si pensava: la Svizzera di inizio 900, permeata da fermenti educativi e umanitari del tutto encomiabili, sicuramente ha fatto del suo meglio per dare a Ligabue un’educazione e un mestiere. Il libro si legge molto volentieri, magari proprio a complemento della comunque irrinunciabile e bellissima biografia zavattiniana. Martinoni ci restituisce così un «ritratto dell’artista da giovane» più elvetico di quanto si pensi, tanto che l’appellativo di «Van Gogh svizzero» attribuito a Ligabue risulta ancora più calzante e giustificato. /AZ Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

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Cultura e Spettacoli Il leggendario ballerino Vaslav Nijinsky in L’Après-midi d’un Faune, 1912. (Keystone)

PRO SENECTUTE

Informa Novità «Spazio teatro» Il progetto, in collaborazione con l’Accademia Teatro Dimitri e la SUPSI, verrà proposto a partire dal mese di gennaio presso i centri diurni socio-assistenziali di Tenero e Bellinzona. Attraverso esercizi e giochi teatrali alla portata di tutti, sarà possibile trasformare in momenti di condivisione i propri ricordi, racconti, canzoni, oggetti e fotografie, e passare un po’ di tempo in compagnia. I primi incontri sono previsti a Tenero lunedì 13 gennaio e in seguito a Bellinzona lunedì 20 gennaio 2020 (dalle 14.30 alle 16.00 ). «Spazio teatro» è aperto a tutte le persone anziane interessate, iscrizione obbligatoria. Per maggiori informazioni e per iscriversi: 091 745 84 82 (Tenero) e 091 829 08 21 (Bellinzona).

Nijinsky, una follia piena d’amore

Attività e prestazioni

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ballerino di tutti i tempi», il ricordo di Vaslav Nijinsky e del suo forte legame con la Svizzera è più vivo che mai

Benché soltanto i cosiddetti «ballettomani» ne siano a conoscenza, fu proprio su suolo elvetico che, esattamente un secolo fa, nel 1919, l’appena trentenne Vaslav Nijinsky – secondo molti il più grande ballerino di sempre, primo precursore della danza odierna – uscì di scena in modo inaspettato, ponendo fine a una carriera durata appena dieci anni, eppure travolgente quanto un romanzo popolare della sua natìa Russia. Ancora oggi, nonostante il fatto che nessuna esibizione di Nijinsky sia mai stata filmata, la sua leggendaria elevazione nel salto è ritenuta senza eguali; del resto, furono proprio le capacità atletiche e il talento artistico quasi soprannaturali a farne l’attrazione principale degli storici «Ballets Russes» fondati nel 1909 dal geniale impresario Sergei Diaghilev.

L’incomparabile bravura di Nijinsky è giunta fino a noi sebbene non esista alcun filmato di lui Da San Pietroburgo, in breve tempo il giovane danzatore conquistò così Parigi, e da lì il mondo intero: e mentre la frase «avez-vous vu Nijinsky danser?» diveniva un cliché salottiero, in teatro le signore svenivano nell’assistere all’incredibile «stag jump» con cui Vaslav chiudeva l’etereo balletto Le Spectre de la Rose, o alla sua straziante interpretazione di Albrecht in una versione di Giselle che ottenne anche il plauso di Marcel Proust. Non solo: mentre era conteso come modello dai maggiori artisti del tempo, Nijinsky si misurava anche con la sperimentazione più pura, tramite exploit d’avanguardia quantomeno audaci – come il fin troppo moderno Le Sacre du Printemps, la cui «prima» parigina, nel 1913, causò una vera e propria rivolta all’interno del teatro. Tale coraggio, tuttavia, era stato raggiunto a caro prezzo. Infatti, sebbene l’introverso e solitario Vaslav aves-

se mostrato fin da bambino un talento quasi incredibile per la danza, l’estrema indigenza l’aveva presto costretto ad affidarsi a mecenati facoltosi – il che, all’epoca, significò inevitabilmente ritrovarsi nel letto di Diaghilev e divenire in tutto e per tutto sua proprietà. Certo, Sergei Pavlovich permise al suo protetto una libertà creativa pressoché totale – dandogli la possibilità di ideare e coreografare lavori «di rottura» come L’Après-midi d’un Faune (1912), a tutt’oggi uno dei più attuali e scioccanti balletti del ’900: un sensuale precursore della danza moderna, ispirato alle pose bidimensionali delle pitture tombali egizie ed elleniche. Allo stesso tempo, però, la condizione di «prigioniero» del proprio impresario comportava un soffocamento emotivo al quale il taciturno e timidissimo Vaslav non poteva rassegnarsi; e l’occasione di fuga arrivò nel 1913, quando, sul piroscafo che lo conduceva in Sudamerica per una tournée, l’artista decise impulsivamente di sposare l’ungherese Romola de Pulszky. Ma tale atto di ribellione non tardò a causare ripercussioni, allorché Diaghilev, avuta notizia delle nozze, licenziò in tronco la geniale star dei Ballets Russes. Ed è a quest’evento traumatico che si possono far risalire i primi, concreti cedimenti nella psiche di Nijinsky – scompensi catturati in modo raggelante, eppure evocativo, nei celebri Diari da lui redatti nel 1919, dopo il trasferimento con la moglie e la figlia Kyra a St. Moritz: quasi la cronaca in diretta della discesa nella psicosi di un’anima fin troppo candida e sensibile. In realtà, l’inquietudine di vivere del ballerino aveva basi ben tangibili: oltre agli svariati traumi giovanili e al dramma profondo di ogni artista incompreso («fingerò di essere un clown, affinché possano capirmi»), vi era il senso di colpa che Nijinsky si portava dentro per aver acconsentito a divenire «schiavo» di Diaghilev. La liberazione donatagli dall’amore per Romola e Kyra, grazie al quale aveva potuto infine seguire le proprie inclinazioni eterosessuali, non bastava ad affrancarlo dalla dipendenza da un uomo da cui si era sempre sentito manipolato – proprio come l’infelice marionetta Petrushka, da lui

interpretata con tanto trasporto sul palco. Eppure, nonostante Vaslav andasse via via perdendo il contatto con la realtà, la sua capacità di creare bellezza, spingendosi ben oltre i confini della banalità quotidiana, risplendeva più che mai. A St. Moritz egli perfezionò infatti un personale quanto rivoluzionario sistema di notazione della danza, peraltro decifrato solo in tempi recenti dagli studiosi; e proprio laggiù, nella sala da ballo dell’hotel Suvretta House, ebbe luogo la sua ultima performance – una danza solista quasi totalmente improvvisata, caratterizzata da tale violenza e dolore da lasciare gli astanti sopraffatti: era il grido di protesta di uno sconvolto Nijinsky davanti all’orrore per lui incomprensibile della Grande Guerra appena conclusasi. Solo poche settimane dopo, veniva internato a seguito della temuta diagnosi di schizofrenia. Non si sarebbe mai più esibito. In molti hanno sottolineato come i successivi trent’anni della vita di Vaslav Nijinsky, trascorsi in un mutismo quasi catatonico tra un ospedale psichiatrico e l’altro, non mostrerebbero alcuna correlazione con l’uomo che egli era stato in gioventù: in realtà, a sorprendere è la quieta – ma, non per questo, meno significativa – dignità di cui l’artista rimase capace. Negletto e sottoposto a mille privazioni (la Svizzera fu l’unico luogo nei cui sanatori venne trattato umanamente, e a cui avrebbe sempre fatto ritorno), scampò per un soffio allo sterminio operato dai nazisti sui pazienti psichiatrici; ma le brutali terapie a base di ripetuti coma insulinici (in tutto ben 228) ne avevano ormai minato il fisico, e nel 1950, appena sessantenne, «il dio della danza» si spense a Londra – finalmente, dopo decenni, da uomo libero. Ma forse, dentro di sé, il sognatore Nijinsky non era mai stato davvero prigioniero, nemmeno nei peggiori momenti di malattia: anima senza tempo né età, in lui l’eterna, bruciante ipersensibilità – e l’astrazione da essa originata – erano sempre state mezzo non solo artistico, ma anche spirituale, e perfino metafisico. Come ebbe a dire egli stesso, «nella mia follia risiede il mio amore per l’umanità».

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Benedicta Froelich


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

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Idee e acquisti per la settimana

l’albero. E cercare cibo d’inverno è difficile. Già adesso non tutti gli uccelli ne hanno abbastanza», afferma la cincia. Alla piccola civetta gli uccelli fanno pena. «Ma noi possiamo aiutarvi!», esclama all’improvviso, raggiante, e ha già un’idea. «Sapete cosa facciamo? Costruiamo una casetta apposta, facilmente accessibile a qualsiasi uccello che abbia fame. E poi non ci resta che pregare tutti gli uccelli del bosco di cedere un po’ della loro scorta invernale e la mettiamo nella casetta. Così tutti ne avranno abbastanza.» Lesti corrono, saltano e volano a casa di Mimi, dove con una vecchia bottiglia di PET, due mestoli e una corda costruiscono una casetta per gli uccelli. «È bellissima!», esclamano felici e si recano da tutti i loro vicini per ricevere un po’ della scorta invernale. Tutti gli animali sono ben disposti a donare un po’ di ciò che hanno per aiutare gli uccelli in difficoltà. Non appena Mimi, Evi, Edi e Lou hanno appeso la casetta ben rifornita, giungono in volo molti uccelli: non solo quelli affamati, ma anche quelli che hanno ceduto un po’ della loro scorta invernale. Sono contenti di potersi aiutare a vicenda e del fatto che nessun uccello debba patire la fame. «Si comprende così quanto renda felici aiutare gli altri», ride soddisfatta la piccola civetta Mimi, e i quattro amici si rallegrano della loro buona azione.

Le avventure di Mimi

Nel corso della terza storia, assieme ai suoi amici la piccola civetta Mimi crea una mangiatoia per gli uccellini. Chi fa volentieri lavoretti manuali, fino al 24 dicembre acquistando alla Migros può raccogliere i bollini; ogni cartolina completa può essere scambiata con un box bricolage

Mimi La prossima settimana potrai leggere una nuova avventura della piccola civetta Mimi.

Come ottenere i box bricolage

Fino al 24.12 per ogni acquisto di Fr. 20.– in un supermercato Migros e su LeShop si riceve un bollino – massimo 15 bollini per acquisto. In occasione del successivo acquisto la cartolina completa (20 bollini) può essere scambiata con uno dei cinque box bricolage.

Sfera di vetro – la magica sfera di vetro di Mimi con neve e brillantini

Le avventure di Mimi da stampare, la guida video sui box bricolage, belle idee su come utilizzare le scatole di imballaggio e molti altri suggerimenti su migros.ch/box-bricolage

La casetta per gli uccelli

Quando un albero cade, molti uccellini perdono la propria casa e restano senza cibo. La piccola civetta Mimi e i suoi amici vengono in loro soccorso. E allora raccolgono del cibo e costruiscono una casetta per gli uccelli. Se vuoi creare anche tu una casetta per gli uccelli, ti servono solo una bottiglia in PET, due cucchiai di legno, un pennarello indelebile, un paio di forbici, del filo, un bastoncino e ovviamente del becchime.

Costume da civetta – il suggestivo travestimento

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entre stanno facendo colazione, la piccola civetta Mimi e i suoi genitori odono un forte schianto: boom! «Cosa sarà mai stato?» domanda il padre. Intanto Mimi si è già precipitata alla finestra: «Oh no! Il vecchio abete è caduto sulla radura», annuncia la piccola civetta. Già da tempo i genitori di Mimi dicevano che quell’albero sarebbe presto caduto, vecchio e marcio com’era. E adesso è successo, con tutta quella neve e il forte vento. Non sono neanche passati cinque minuti che si sente bussare alla porta: è Evi, lo scoiattolo amico di Mimi. «Ciao Mimi, svelta, andiamo a vedere più da vicino l’abete caduto. Edi e Lou sono già lì che ci aspettano». «Siete sempre di corsa!», commenta la madre. Evi e Mimi sono ormai lontano. Non appena giungono all’albero caduto trovano alcuni uccelli che svolazzano intorno tutti agitati e altri a terra che guardano tristemente il vecchio abete. La volpe Edi li saluta esclamando: «Guardate un po’, non sapevo che su quest’albero abitassero ancora così tanti uccelli». Mentre parla, una piccola cincia mora giunge in volo e viene a posarsi vicino a loro. «È la tua casa, quest’albero?», chiede Mimi alla cincia mora. «Sì. Mia, dei miei genitori e di un paio di altre famiglie di uccelli», risponde la piccola cincia. Dopo un istante di silenzio, continua: «Sapevamo che il vecchio albero prima o poi sarebbe caduto; ma proprio adesso, d’inverno!» «Nell’albero avevate tutte le vostre cose e il cibo per l’inverno?», chiede Mimi alla cincia mora. «Sì. Ma non riusciamo più a recuperarli, visto il modo in cui è caduto

1 Prendi una bottiglia in PET, rimuovi l’etichetta e pulisci la bottiglia. Sulla bottiglia, traccia con il pennarello indelebile la circonferenza del manico di un cucchiaio di legno. Fai questa operazione due volte. Traccia la prima circonferenza un po’ più in basso e la seconda un po’ più in alto ma scostandola dall’altra in modo che non siano allineate.

2 Ora ritaglia con le forbici i due cerchietti che hai tracciato. A questo punto ritaglia nella bottiglia altri due buchi diametralmente opposti ai primi. Stavolta dovrai tracciare e ritagliare una sagoma col lato inferiore piatto e quello superiore ad arco, in modo che gli uccellini abbiano spazio per beccare. Adesso i cucchiai di legno possono essere inseriti nella bottiglia.

3 Prima di procedere col prossimo passaggio, li devi però sfilare. Ora infatti devi fare un buco sul fondo e uno nel tappo a vite della bottiglia. Per questa operazione fatti aiutare da un adulto.

Cannocchiale – il set per emozionanti esplorazioni

Civettaplano – l’avventuroso compagno di volo

4 Ora infila il filo nel buco del tappo e in quello sul fondo della bottiglia. Sotto il fondo della bottiglia, annoda a un bastoncino il capo del filo che ne esce. Così il filo manterrà stabile la bottiglia e non si sfilerà. Al capo superiore, sopra il tappo, fai con il filo un passante col quale potrai appendere la casetta per gli uccelli.

5 Ora infila di nuovo i cucchiai di legno nei buchi e riempi la bottiglia di becchime. Quindi chiudi la bottiglia e appendi col passante la casetta per gli uccelli a un albero o al balcone, se possibile in una posizione dove non si bagni. Decorazioni natalizie – divertimento creativo per lavori di cucito e bricolage


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

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Idee e acquisti per la settimana

l’albero. E cercare cibo d’inverno è difficile. Già adesso non tutti gli uccelli ne hanno abbastanza», afferma la cincia. Alla piccola civetta gli uccelli fanno pena. «Ma noi possiamo aiutarvi!», esclama all’improvviso, raggiante, e ha già un’idea. «Sapete cosa facciamo? Costruiamo una casetta apposta, facilmente accessibile a qualsiasi uccello che abbia fame. E poi non ci resta che pregare tutti gli uccelli del bosco di cedere un po’ della loro scorta invernale e la mettiamo nella casetta. Così tutti ne avranno abbastanza.» Lesti corrono, saltano e volano a casa di Mimi, dove con una vecchia bottiglia di PET, due mestoli e una corda costruiscono una casetta per gli uccelli. «È bellissima!», esclamano felici e si recano da tutti i loro vicini per ricevere un po’ della scorta invernale. Tutti gli animali sono ben disposti a donare un po’ di ciò che hanno per aiutare gli uccelli in difficoltà. Non appena Mimi, Evi, Edi e Lou hanno appeso la casetta ben rifornita, giungono in volo molti uccelli: non solo quelli affamati, ma anche quelli che hanno ceduto un po’ della loro scorta invernale. Sono contenti di potersi aiutare a vicenda e del fatto che nessun uccello debba patire la fame. «Si comprende così quanto renda felici aiutare gli altri», ride soddisfatta la piccola civetta Mimi, e i quattro amici si rallegrano della loro buona azione.

Le avventure di Mimi

Nel corso della terza storia, assieme ai suoi amici la piccola civetta Mimi crea una mangiatoia per gli uccellini. Chi fa volentieri lavoretti manuali, fino al 24 dicembre acquistando alla Migros può raccogliere i bollini; ogni cartolina completa può essere scambiata con un box bricolage

Mimi La prossima settimana potrai leggere una nuova avventura della piccola civetta Mimi.

Come ottenere i box bricolage

Fino al 24.12 per ogni acquisto di Fr. 20.– in un supermercato Migros e su LeShop si riceve un bollino – massimo 15 bollini per acquisto. In occasione del successivo acquisto la cartolina completa (20 bollini) può essere scambiata con uno dei cinque box bricolage.

Sfera di vetro – la magica sfera di vetro di Mimi con neve e brillantini

Le avventure di Mimi da stampare, la guida video sui box bricolage, belle idee su come utilizzare le scatole di imballaggio e molti altri suggerimenti su migros.ch/box-bricolage

La casetta per gli uccelli

Quando un albero cade, molti uccellini perdono la propria casa e restano senza cibo. La piccola civetta Mimi e i suoi amici vengono in loro soccorso. E allora raccolgono del cibo e costruiscono una casetta per gli uccelli. Se vuoi creare anche tu una casetta per gli uccelli, ti servono solo una bottiglia in PET, due cucchiai di legno, un pennarello indelebile, un paio di forbici, del filo, un bastoncino e ovviamente del becchime.

Costume da civetta – il suggestivo travestimento

M

entre stanno facendo colazione, la piccola civetta Mimi e i suoi genitori odono un forte schianto: boom! «Cosa sarà mai stato?» domanda il padre. Intanto Mimi si è già precipitata alla finestra: «Oh no! Il vecchio abete è caduto sulla radura», annuncia la piccola civetta. Già da tempo i genitori di Mimi dicevano che quell’albero sarebbe presto caduto, vecchio e marcio com’era. E adesso è successo, con tutta quella neve e il forte vento. Non sono neanche passati cinque minuti che si sente bussare alla porta: è Evi, lo scoiattolo amico di Mimi. «Ciao Mimi, svelta, andiamo a vedere più da vicino l’abete caduto. Edi e Lou sono già lì che ci aspettano». «Siete sempre di corsa!», commenta la madre. Evi e Mimi sono ormai lontano. Non appena giungono all’albero caduto trovano alcuni uccelli che svolazzano intorno tutti agitati e altri a terra che guardano tristemente il vecchio abete. La volpe Edi li saluta esclamando: «Guardate un po’, non sapevo che su quest’albero abitassero ancora così tanti uccelli». Mentre parla, una piccola cincia mora giunge in volo e viene a posarsi vicino a loro. «È la tua casa, quest’albero?», chiede Mimi alla cincia mora. «Sì. Mia, dei miei genitori e di un paio di altre famiglie di uccelli», risponde la piccola cincia. Dopo un istante di silenzio, continua: «Sapevamo che il vecchio albero prima o poi sarebbe caduto; ma proprio adesso, d’inverno!» «Nell’albero avevate tutte le vostre cose e il cibo per l’inverno?», chiede Mimi alla cincia mora. «Sì. Ma non riusciamo più a recuperarli, visto il modo in cui è caduto

1 Prendi una bottiglia in PET, rimuovi l’etichetta e pulisci la bottiglia. Sulla bottiglia, traccia con il pennarello indelebile la circonferenza del manico di un cucchiaio di legno. Fai questa operazione due volte. Traccia la prima circonferenza un po’ più in basso e la seconda un po’ più in alto ma scostandola dall’altra in modo che non siano allineate.

2 Ora ritaglia con le forbici i due cerchietti che hai tracciato. A questo punto ritaglia nella bottiglia altri due buchi diametralmente opposti ai primi. Stavolta dovrai tracciare e ritagliare una sagoma col lato inferiore piatto e quello superiore ad arco, in modo che gli uccellini abbiano spazio per beccare. Adesso i cucchiai di legno possono essere inseriti nella bottiglia.

3 Prima di procedere col prossimo passaggio, li devi però sfilare. Ora infatti devi fare un buco sul fondo e uno nel tappo a vite della bottiglia. Per questa operazione fatti aiutare da un adulto.

Cannocchiale – il set per emozionanti esplorazioni

Civettaplano – l’avventuroso compagno di volo

4 Ora infila il filo nel buco del tappo e in quello sul fondo della bottiglia. Sotto il fondo della bottiglia, annoda a un bastoncino il capo del filo che ne esce. Così il filo manterrà stabile la bottiglia e non si sfilerà. Al capo superiore, sopra il tappo, fai con il filo un passante col quale potrai appendere la casetta per gli uccelli.

5 Ora infila di nuovo i cucchiai di legno nei buchi e riempi la bottiglia di becchime. Quindi chiudi la bottiglia e appendi col passante la casetta per gli uccelli a un albero o al balcone, se possibile in una posizione dove non si bagni. Decorazioni natalizie – divertimento creativo per lavori di cucito e bricolage


Foto: Alexandra Wey

Pubbliredazionale

La povertà infantile non deve esistere in un Paese ricco come la Svizzera In Svizzera vivono circa 1,7 milioni di bambini, 103 000 dei quali sono vittime della povertà. In altre parole: in ogni classe in Svizzera c’è in media un bambino proveniente da una famiglia socialmente svantaggiata. La povertà influisce fortemente sull’esistenza di questi bambini. Chi è povero deve accontentarsi di vivere in alloggi precari lungo strade trafficate, una condizione che limita il raggio di mobilità dei bambini. Spesso i genitori di bambini colpiti dalla povertà non possono permettersi di far frequentare ai propri figli attività nel tempo libero, svolgere hobby o praticare sport nelle varie associazioni, il che porta all’esclusione e all’isolamento. La responsabilità nella lotta alla povertà infantile è sempre stata oggetto di un rimpallo fra la Confederazione e i Cantoni. In Svizzera manca una politica mirata per la lotta alla povertà.

Per la famiglia il Natale è un giorno come un altro.

Kim (7 anni): «Nessuno deve vedere che siamo poveri» Kim*, 7 anni, è una degli oltre 100 000 bambini in Svizzera che vivono in una famiglia con mezzi finanziari limitati. «Non avrei mai pensato che in Svizzera esiste la povertà» afferma la madre. Ma poi la famiglia ha sperimentato sulla propria pelle quanto velocemente si possa finire in uno stato di emergenza esistenziale. Un tempo la famiglia stava bene, mamma Linn lavorava a tempo pieno. Ma poi il marito è diventato violento, non soltanto nei confronti della moglie, bensì anche dei figli. Quando Linn lo ha lasciato, si è ritrovata con il nulla più assoluto: «Mi sono ammalata, ho perso il posto di lavoro, ho dovuto lasciare l’appartamento.» Da allora lotta per rientrare nel mondo del lavoro e cerca contemporaneamente di occuparsi al meglio dei figli. Gli hobby dei bambini pregiudicherebbero il bilancio familiare già precario «I miei figli sanno che possiamo permetterci ben poco, meno delle altre famiglie» racconta la madre. Anche se hanno pretese modeste, a volte per loro è difficile gestire la situazione. La famiglia non è mai potuta andare in vacanza e trascorre il Natale come gli altri giorni perché manca il denaro per i regali e gli addobbi. «Vorrei che i miei figli potessero fare delle attività ricreative, ma giocare a calcio

o suonare uno strumento costa. I soldi non bastano per due attività e non posso fare parzialità tra i miei due figli» spiega Linn.

Tenere nascosta la povertà

Dopo la dolorosa separazione dal padre la famiglia si è isolata. «Quando ti trovi nel ceto sociale meno abbiente ti accorgi che la gente ti tratta in modo diverso. Prima non conoscevo questa sensazione» afferma la madre. Come molte persone colpite dalla povertà in Svizzera, fa in modo che la sua condizione passi inosservata il più possibile. È convinta che per i suoi figli sia meglio così. Linn ha svolto un apprendistato e lavorato per molti anni come impiegata. «Mi è sempre piaciuto lavorare. Ho comunque dovuto inviare moltissime candidature prima di riuscire a trovare un impiego a tempo parziale. Sul lavoro mi viene chiesta flessibilità, ma allo stesso tempo mi sento sotto pressione sapendo che i miei figli sono rientrati dal doposcuola e a casa non c’è nessuno.

E se succedesse qualcosa?» si chiede preoccupata. «Vado anche a imbustare lettere, l’importante è guadagnare qualcosa. Mi auguro di tornare a essere finanziariamente indipendente per potermi occupare dei miei figli, proprio come una volta.» Linn ha imparato a gestire questa emergenza finanziaria. «Prima di spendere soldi ci penso due volte. Mi chiedo: è veramente necessario?» La scrivania per la cameretta dei bambini è stato ad esempio un acquisto ben ponderato, così non devono più fare i compiti sul tavolo della cucina. E possono concentrarsi meglio. Il figlio Liam vorrebbe andare al liceo. Dopo aver superato una fase piuttosto difficile ora a scuola va bene. Ma gli ostacoli a volte sono imprevedibili: a differenza dei suoi compagni di classe, il ragazzo non possiede un cellulare. Questo pone qualche problema poiché gli insegnanti a volte danno i compiti tramite WhatsApp. «Quando me ne sono accorta, ho dovuto chiamare e chiedere che i messaggi venissero inviati al mio numero.» * Le offerte di Caritas le danno un po’ di sollievo: grazie alla CartaCultura, Linn può permettersi una tessera per il museo, dove cinque volte all’anno vengono organizzate serate cinematografiche per bambini. «I bambini non vedono l’ora che arrivino questi appuntamenti» racconta la madre. E ora Kim ha una “madrina”, intermediata dal progetto di padrinato “con me” di Caritas, con la quale trascorre regolarmente dei momenti nel tempo libero. Anche se Kim si mostra ancora piuttosto timida, è sempre felice di poter fare un’escursione. * Per tutelare la sfera privata di Kim e di suo fratello questo ritratto è stato realizzato in modo tale da impedire l’identificazione dei protagonisti.

Per saperne di più su Kim: farelacosagiusta.caritas.ch

Caritas esige l’introduzione delle prestazioni complementari per le famiglie in tutta la Svizzera, conferendo così gli stessi diritti a tutti i bambini. Caritas sostiene le famiglie colpite dalla povertà anche attraverso le proprie offerte. Aiuto concreto CartaCultura: con la CartaCultura di Caritas, le famiglie meno agiate possono usufruire di innumerevoli offerte per il tempo libero e per la formazione continua a prezzi ridotti presso strutture sportive, istituti di formazione e istituzioni culturali. Offerte di questo genere proteggono dall’esclusione sociale e dall’isolamento. Progetto di padrinato «con me»: le madrine e i padrini Caritas passano regolarmente del tempo con i bambini svantaggiati che vivono così nuove esperienze e catturano nuove impressioni. Una pausa gradita, anche per i genitori. Consulenza sociale e in caso di indebitamento: le persone che vivono situazioni di vita difficili ricevono un aiuto competente dagli uffici di consulenza sociale e in caso di indebitamento. Negozi Caritas: nei 21 negozi Caritas le persone toccate dalla povertà possono acquistare cibi sani e articoli per l’uso quotidiano a prezzi fortemente ribassati. Mercatini dell’usato Caritas: i mercatini Caritas offrono calzature e vestiti per grandi e piccini a buon prezzo e di ottima qualità. Conto donazioni: 60-7000-4 Per donazioni online: caritas.ch/svizzera-povertainfantile


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Cultura e Spettacoli

Parlare come una donna

Linguistica Le eventualità della lingua delle donne e di quella degli uomini in un bel saggio

della linguista Rita Fresu

Stefano Vassere Non è per nulla difficile trovare nella pubblicistica anche più sostenuta l’allusione a differenze, ancora piuttosto lontane dall’essere dimostrate concretamente, tra un parlare (e scrivere) femminile e quello maschile. Così, quasi a caso, si legge una recensione che qualche settimana fa Michela Marzano ha dedicato a un libro di Sandra Petrignani sul bel «Robinson» di «Repubblica», che si intitola (la recensione) La parola femmina. E, più o meno a quell’epoca, c’è una lunga intervista (anche lei nel bel «Robinson») a David Grossman, il cui titolo è questa volta Non scrivo più da maschio. Nella prima si teorizza la diversità tra lo scrivere maschio e lo scrivere femmina, perlopiù per lodare di quest’ultimo una maggiore attrezzatura morale. Nella seconda Grossman ci racconta come in un suo nuovo libro la «sfida» maggiore sia stata quella di «scrivere come se fossi» non una (intendendo che sarebbe già stata impresa fuori portata dei più) ma «tre donne, una 90enne, una 65enne e la terza 40enne». Viene a proposito un innovativo saggio della linguista Rita Fresu dedicato alla verifica di una convinzione (pseudo)scientifica storica, basata sul fatto che i generi svilupperebbero codici diversi, e, di più, su quello che il canone più neutro sarebbe quello maschile; come a dire che la lingua maschile sarebbe una vera e propria norma e quella femminile uno scarto. Ora, ben più di qualche morfologia sbagliata nell’indicazione dei mestieri al femminile o di

Uomini e donne parlano in modo diverso? (Keystone)

qualche maschile neutro o non marcato nella lingua di tutti i giorni, è chiaro che questo costume appare discriminatorio nell’essenza. Negli anni Settanta, il sociolinguista americano Robin Lakoff (molti lo confondono con il cognitivista George Lakoff, che pure si è occupato di effetti psicologici delle discriminazioni linguistiche) tipologizzava la lingua delle

donne come timorosa di incorrere in giudizi negativi, dunque conservativa e il più possibile ripiegata sulla norma e aderente al prestigio linguistico, con il ricorso ad attenuativi, «gentilismi», garbo, affettività, emozione. Una sorta di «lingua in difesa», insomma. Di fatto un numero non indifferente di studi ha dimostrato che raramente si riesce a isolare tratti linguistici

o stilistici che siano esclusivamente femminili. O meglio che eventuali differenze in questo senso sono, se ci sono, un artefatto dovuto a variazioni sociali e di situazione. Diversa è piuttosto l’attenzione al modo con cui osservatori esterni qualificano il linguaggio delle donne e degli uomini, alla percezione e ai giudizi che si danno sul carattere più o meno maschile o femminile del

parlare. «A tale proposito – dice la Fresu – vale la pena ricordare che uno degli aspetti innovativi dei sondaggi dell’ultimo quindicennio consiste proprio nell’affermazione di un’immagine negativa del comportamento linguistico maschile». I giudizi di bambini e adolescenti nella seconda parte del testo della Fresu (bisogna dire «di Fresu»?, pardon…) sono, al netto degli aspetti tecnici che si lasceranno all’eventuale e paziente lettore, molto vistosi. I ragazzini tendono a essere convinti che la produzione linguistica vada differenziata e che esista di fatto «una diversità di linguaggio tra generi». Ma la tendenza più interessante è quella che fa dire ai piccoli osservatori che il linguaggio più inusuale non sarebbe più quello femminile ma ormai quello maschile. Messo di fronte a un testo scritto da un uomo e richiesto di darne una valutazione, dice per esempio un piccolo informante: «non è stato chiaro nella descrizione, non ha dato una terminologia giusta; i maschi sono più incerti, i maschi non specificano tanto». E poi: «fa troppo ridere, è tutto quanto strano; è molto, molto, molto molto ma molto strano, il suo modo di scrivere è un po’ più strano». Bibliografia

Rita Fresu, Il linguaggio femminile e maschile nell’italiano contemporaneo: orientamenti e linee di tendenza, in L’italiano che parliamo e scriviamo, a cura di Sabina Gola, Firenze, Franco Cesati Editore, 2019. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Tango è libertà

Danza Tra qualche giorno si celebra la ricorrenza annuale che festeggia uno dei balli più sensuali Enza Di Santo L’11 dicembre si festeggia il «Dia internacional del tango», la giornata internazionale del tango, in onore di «la Voz» Carlo Gardel e «la Mùsica» Julio De Caro, nati in questa data rispettivamente nel 1890 e nel 1899. Molto amato anche in Ticino, il tango è ben più di un ballo. Le sue origini, profondamente legate alla storia argentina e uruguaiana, sono un intreccio tra la cultura popolare delle rive del Río de la Plata e quella degli immigrati europei, in particolare italiani e spagnoli. L’Argentina del 1800 era la terra dove cercare fortuna e, soprattutto con la fine della guerra in Paraguay e la costruzione del nuovo porto di Buenos Aires, nel 1870, affluirono alla capitale migliaia di migranti da tutto il mondo. Si crearono nuovi quartieri multietnici, le «Orilla», caratterizzati da forte miseria e sproporzione tra popolazione femminile e maschile; ovviamente prosperavano i «quilombos», postriboli poco raccomandabili. È proprio in questi bassifondi che ci si intrattiene con la musica e nascono nuove sonorità. La payada pampera si unisce alla danza e si diffonde l’habanera, ballo spagnolo portato dai marinai da Cuba. Così, attorno al 1880, sull’insolita e caratteristica camminata di questo ballo, nasce la milonga, che nelle movenze sensuali, attinge anche dal candombe, degli schiavi africani provenienti dall’Uruguay. Il folclore rioplatense si fonde

con il valzer e nasce il tango della Vecchia Guardia, che per sua natura ha come unica regola l’improvvisazione. Ma questo fervore musicale era vietato, rifiutato dai ceti sociali alti che lo consideravano per la sua ibridazione, per le figure prese da polka e mazurca in cui dama e cavaliere erano troppo vicini e per i testi esplicitamente riferiti al sesso, una minaccia alla moralità, all’identità e alla tradizione nazionale argentina. Gli autori di questi brani restano anonimi o celano la propria identità dietro pseudonimi almeno fino al 1910. Quello che è considerato il primo tango, «El entrerriano» (1896), scritto peraltro con una «r» mancante in copertina, porta la firma di A. Rosedo il cui vero nome era Rosedo Mendizàbal, di origine afro-argentina. In questo scenario, si affermano anche Ernesto Ponzio e Àngel Villoldo. L’invenzione della radio, la registrazione su disco e la diffusione dei grammofoni, nonché l’arrivo del cinema sonoro segnarono la prima tappa del cambiamento di rotta. Con la Nuova Guardia a partire dal 1912 questo genere esce dagli schemi dell’illegalità e dal suo ghetto politico sociale, diventa popolare e iniziano a differenziarsi gli stili. Il tango si diffonde a livello mondiale e, pur mantenendo il suo carattere spontaneo, si definisce raffinandosi, e alle musiche, che finalmente vengono scritte e non solo riportate da un orecchio all’altro, si abbinano testi che hanno contenuti più romantici. La sessualità si trasforma in sensualità, il sesso in amore.

Una giovane coppia balla il tango a Buenos Aires. (Keystone)

Francisco Canaro, di origini italiane, seppur considerato un artista della Vecchia Guardia contribuì notevolmente alla transizione verso la Nuova Guardia dirigendo orchestre tanguere al limite della legalità. Icone della Nuova Guardia sono l’affascinante attore francese Carlos Gardel, considerato universalmente la voce

del tango, e il compositore, violinista e direttore d’orchestra Julio De Caro, che ha lasciato il segno nel mondo tanguero con il suo stile originale e gli arrangiamenti raffinati. La sua è la musica del tango. Con l’ammirazione per questo personaggio, tra i primi a usare il suo vero nome, e l’influenza che ha avuto in questo scenario musicale, si

definisce il periodo d’oro orchestrale di questo genere «decarismo». Forse, definire «argentino» questo ballo passionale ed elegante e questo genere nato da tante influenze, non è così preciso, ma è sicuramente affascinante pensare come tante culture diverse possano incontrarsi e creare una nuova musica. Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

Delizie da regalare I cioccolatini sono tra i regali di Natale più apprezzati. Grazie alla grande scelta, ogni amante del cioccolato trova la sua varietà preferita. Alcuni sono particolarmente contenti con i cinque classici più amati, le Pralinés Prestige Créations Exquises, altri fanno un pensierino sulle nuove Truffes al liquore nei gusti cherry-brandy, cointreau e rum. Altri ancora prediligono le Pralinés du Confiseur dell’avvento, o ancora le popolari Pralinés Prestige. È meglio comprarne diverse confezioni: come regalo, per condividerli o semplicemente per sé stessi, per addolcire il periodo natalizio.

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Cultura e Spettacoli

Un libro invece di un discorso funebre In scena Umberto Orsini in scena con un «gioiello di famiglia» Giovanni Fattorini Scritto due anni dopo la morte di Paul (nipote del celebre Ludwig, l’autore del Tractatus logico-philosophicus), Il nipote di Wittgenstein è un tributo alla memoria di un amico verso cui Thomas Bernhard si sentiva profondamente in colpa. «Duecento amici verranno al mio funerale e tu dovrai tenere un discorso sulla mia tomba». Così gli aveva detto Paul. «Ma al suo funerale non vennero più di otto o nove persone […] e io stesso in quel momento mi trovavo a Creta». L’essere venuto meno, sia pure involontariamente, al desiderio dell’amico (morto in un ospedale di Linz, e non nel manicomio am Steinhof, dove era stato ricoverato più volte, tanto che lui stesso lo definiva «la mia vera casa») non è la sola ragione per cui Bernhard si sentiva in colpa. «Durante gli ultimi mesi della sua vita ho consapevolmente evitato il mio amico per ubbidire a un basso istinto di autoconservazione, e questo non me lo perdono». Il nipote di Wittgenstein vuole dunque essere un atto riparatore che non cede alla tentazione del discorso puramente elogiativo. Scritto in prima persona, il libro è stato adattato in forma di monologo dal regista francese Patrick Guinand, che nel 1992 lo ha messo inscena con Umberto Orsini nei panni del narratore. Lo spettacolo fu così apprezzato dal pubblico e dalla critica che Orsini lo ha ripreso più volte, sino a farne un cavallo di battaglia, o come lui stesso ha detto, una sorta di «gioiello di famiglia», che ha voluto sfoggiare anche nella stagione teatrale 2019-2020.

Umberto Orsini in un momento della pièce. (piccoloteatro.org)

Per Patrick Guinand, Il nipote di Wittgenstein è un concentrato dei temi principali di Thomas Bernhard (che sono, aggiungo io, la malattia, la morte, la solitudine, i limiti del linguaggio, l’arte, l’insensatezza del vivere e la follia). Ed è anche il suo testo più semplice e più intimo, quello cioè in cui lo scrittore austriaco ha affrontato nel modo più diretto la realtà dei sentimenti attraverso la storia della sua amicizia con Paul Wittgenstein, al quale si sentiva legato da molte predilezioni – per la musica innanzitutto – e da molte avversioni (un’affinità, la loro, che non escludeva i contrasti. Nel suo procedere, il racconto disegna due ritratti: quello del pazzo Paul Wittgenstein, che per intervalla

insaniae era un uomo di grande intelligenza e sensibilità, e quello del diversamente pazzo e malato Thomas Bernhard, che ha saputo dominare la sua pazzia attraverso la scrittura). Nell’adattare il libro per la scena, Guinand ha scelto i momenti (27 per l’esattezza) che gli sembravano fondamentali (vale a dire i più intimi), operando piccoli tagli al loro interno e mantenendo inalterata la progressione del racconto. L’amicizia con Paul – scrive Guinand nella nota di regia del ’92 – ha consentito allo scrittore di raddoppiare la propria «irritazione», di osservare e giudicare i viennesi, l’Austria e il mondo con potenziata «intransigenza», quell’intransigenza da cui erano

posseduti entrambi quando sedevano sulla terrazza del Sacher («qualsiasi cosa o persona ci capitasse davanti agli occhi, noi l’accusavamo»). Bernhard rievoca la figura dell’amico – una delle pochissime persone importanti della sua vita – trapassando dalla commozione rattenuta all’osservazione distaccata di certi suoi comportamenti, dalla lucida riflessione all’invettiva: contro gli psichiatri, i premi letterari («accettare un premio altro non significa che lasciarsi cagare in testa perché in cambio si è ottenuta una certa somma di denaro»), la campagna, gli attori del Burgtheater, i viennesi, l’Austria intera («questo paese così arretrato, tronfio, grossolano, e nello

stesso tempo afflitto da disgustosa megalomania»). Nella messinscena di Guinand, l’avvincente monologo (che contiene anche alcuni passaggi comici) viene pronunciato in una stanza semicircolare imbiancata a calce e sobriamente arredata con un mobile addossato a una parete (nel quale sono contenuti un violino e un giradischi), un divano, una poltrona e una lampada a stelo quasi identici a quelli che si trovano tuttora nella casa-museo dello scrittore a Ohlsdorf, in Alta Austria. L’ottantacinquenne Umberto Orsini dipana la peculiare complessità dello stile di Bernhard con variazioni ritmiche, timbriche e tonali che fanno pensare a una partitura musicale in cui i silenzi non sono meno significativi e vibranti delle parole, mentre i gesti, misurati e precisi, intessono un contrappunto rigoroso e incisivo, a volte in risposta ai gesti e agli sguardi della donna (un’invenzione di Guinand, modellata sulla figura femminile presente nel dramma Il riformatore del mondo, e interpretata da Elisabetta Piccolomini) che si muove nella stanza in qualità di domestica e governante devota e silenziosa, lucidando il pavimento, servendo il caffè, aiutando l’artista a cambiare abbigliamento (prima una vestaglia, poi un frac, poi un abito di campagna), o mettendo sul giradischi la Sinfonia renana diretta da Schuricht. Dove e quando

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 9 dicembre 2019 • N. 50

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Cultura e Spettacoli

L’esplorazione della vita nel dialogo tra danza e tecnologia

Teatro In scena il debutto dell’Ideatorio e l’ultima fatica di Luca Spadaro, due produzioni che dimostrano

la crescita della scena alle nostre latitudini Giorgio Thoeni Una sorprendente alchimia unisce la tecnologia alla danza. È un dialogo che inizia alla fine del secolo scorso per proseguire sulla strada dell’incanto drammaturgico di un processo quasi ipnotico, sorretto da un linguaggio dove la disciplina dell’avvenire si trasmuta al fianco delle più elementari leggi della dinamica. È interessante lasciarsi trasportare da queste considerazioni dopo aver assistito a una performance. Come ci è capitato recentemente al seguito di un piccolo evento celebrato a pochi chilometri da Lugano, in un luogo che l’Università della Svizzera Italiana ha voluto dedicare alla comunicazione scientifica: l’Ideatorio di Cadro. Accanto alla vocazione di servizio culturale, in quella sede, già casa comunale, l’USI ha pensato di occupare parte dell’attività con momenti in cui la comunicazione scientifica potesse diventare anche animazione, spettacolo. L’Ideatorio ha così ospitato il debutto e una sola replica di Spóros, performance concepita e diretta dal video-sound-designer Roberto Mucchiut con l’azione coreografica di Elena Boillat (supervisione artistica di Francesca Sproccati), progetto sostenuto dal Percento culturale di Migros Ticino. Sulle pareti nude di una stanza la proiezione di una ragnatela a segmenti romboidali elaborata da Mucchiut

diventa anima allusiva per il racconto dell’inizio della vita. Un effetto che accompagna i passi della Boillat con un incedere lento e misurato lungo le pareti che produce una sorta di spinta deformante procreatrice sulle linee proiettate. Sono impulsi vitali che a poco a poco generano forme, prima grigie poi colorate. Come cellule al microscopio diventano oggetti che si fissano in un misterioso quanto evanescente quadro floreale, eredità del movimento vitale. Poco più di mezz’ora vola accompagnando l’esplorazione fisica e immaginifica di Spóros, viaggio evolutivo per la danza elegante, precisa ed energica della Boillat; un respiro costante del corpo attraverso la fascinosa costellazione tecnologica e sonora di Mucchiut. La tappa di un’avventura artistica esemplare per molti aspetti che meriterebbe di superare gli steccati regionali e mostrare le sue qualità anche in altri contesti e in altre sedi. Spazi angusti per la parola di Pinter

A poche settimane dal suo esordio saggistico-letterario con L’attore specchio sul lavoro pratico con gli attori, Luca Spadaro ha debuttato al Foce di Lugano con la compagnia del Teatro d’Emergenza mettendo in scena Il calapranzi, atto unico del 1959 di Harold Pinter, con Massimiliano Zampetti e Sebastiano Bottari, attori sorretti dall’aiutoregia di Silvia Pietta (una prima per l’at-

Massimiliano Zampetti e Sebastiano Bottari (da sin.) in Il calapranzi. (Teatro Foce)

trice). Una concomitanza stimolante per poter osservare in filigrana il lavoro del regista su un testo che continua a essere considerato teatralmente un osso duro e cavallo di battaglia per una recitazione impegnativa. Uno spauracchio, insomma. Non è infatti semplice ottenere dalla drammaturgia pinteriana la palestra per neuroni a specchio, parafrasando il testo di Spadaro, con una commedia che si svolge interamente in una stanza chiusa, un luogo di identità in cui si affrontano e si svelano i limiti

delle difese dell’individuo con dialoghi di assoluta quotidianità spesso sospinti da motivazioni tutte da trovare e in cui potrebbero annidarsi persino i germi della violenza. In scena il calapranzi del titolo è il porta vivande incassato nella parete di in un seminterrato arredato con due brandine. Un tempo doveva essere la cucina di un ristorante. Due presunti killer attendono istruzioni sull’arrivo di uno sconosciuto, un messaggio che dovrebbe arrivare proprio dal

calapranzi. Presto si fa largo la noia, partono domande intercalate a lunghi silenzi, sopraggiungono nervosismo e dubbi in un dialogo spesso serrato che fa nascere timori, diffidenza. Una piattaforma ideale per la regia di Spadaro nel testare emozioni condivise. E ce la fa, grazie alla bravura e all’affiatamento dei protagonisti nell’esercizio dei caratteri: nevrastenici, spaventati e insofferenti, talvolta sommessamente comici. Una squadra che ha convinto il pubblico al debutto e nelle successive repliche. Annuncio pubblicitario

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Omini di panpepato, 2 pezzi 2 x 65 g


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