Anno LXXXVII 9 dicembre 2024
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
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SOCIETÀ
ATTUALITÀ
CULTURA
TEMPO LIBERO
Domenico Barrilà nel suo ultimo libro ci mette in guardia sui rischi dell’individualismo
Karin Keller-Sutter sarà la nuova presidente della Confederazione con diversi grattacapi da risolvere
Al Museo d’arte di Mendrisio un’imperdibile mostra antologica celebra i lavori di Ingeborg Lüscher
La disciplina del moto trail non è nota a tutti: Mauro Bernardini ce ne racconta atout e particolarità
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L’IA nella quotidianità dei ragazzi
Guido Grilli
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La parola che non abbiamo trovato Carlo Silini
A volte la realtà è più veloce del dizionario. Succedono cose per le quali non esistono ancora parole adatte a descriverle. Parlo per diretta frustrazione, sperimentata nel fortunato gremio di chi seleziona ogni anno, a poche settimane dal Natale, la parola svizzera dell’anno in lingua italiana. Per il 2024 abbiamo scelto «non binario» al primo posto, «allerta-meteo» al secondo e «nomofobia» al terzo. Prima di spiegare la terna vincente, torno al concetto di partenza. Quest’anno, più ancora dei precedenti, è stato segnato dalla guerra e dalle sue nuove declinazioni. Ancora pochi giorni fa si è riaperta la ferita della guerra civile siriana con l’invasione jihadista di Aleppo e per qualche momento abbiamo addirittura sentito parlare di legge marziale in Corea del Sud. Eravamo tutti d’accordo, in giuria, che il tenore del 2024 è stato ininterrottamente bellico e che la realtà della guerra ha dominato prepotentemente l’intero arco dell’an-
no. Ma la parola che ci mancava, quella che non siamo riusciti a mettere in cima alla classifica che poi abbiamo proposto non esisteva. La guerra, infatti, non è una novità del 2024, c’è da sempre, fa parte di quella quota costante del male di vivere che abbruttisce il mondo. Di nuovo, rispetto alla guerra, allora cosa c’è stato? L’assenza di un tentativo serio e credibile di cercare la pace. A parte la volonterosa ma inefficace conferenza del Bürgenstock sull’Ucraina, nel canton Nidvaldo, né l’ONU né i «padroni del vapore» internazionali (leggi America e Cina) hanno osato o voluto imporre la via diplomatica. Solo il Papa, vox clamantis in deserto, è andato avanti a proporla, anzi a implorarla, fra il gelo dei contendenti e la distanza siderale delle grandi potenze. Possibile che in un anno nessuno sia riuscito a imporre non dico la pace, ma un robusto tentativo di raggiungerla? La parola giusta del 2024 che ci voleva ma ancora non c’è doveva esprime-
re proprio questo sprezzo, questa colpevole dimenticanza, questa mancanza di volontà nel ricomporre o quanto meno arginare i conflitti per via diplomatica. Nemmeno il vocabolo «antidiplomazia», che esiste ma è scarsamente diffuso, riesce a esprimere il grumo di sfiducia e disinteresse per la più alta e nobile forma di politica che conosciamo, la diplomazia appunto, sparita perfino dai radar della coscienza civile. La pace? Aspettiamo Trump o la Harris e vediamo come si mette, si sono detti tutti per mesi e mesi. Che è come dire: 1. aspettiamo, cioè non c’è urgenza di intervenire; 2. e aspettiamo la legge del più forte, non la legge del miglior bene (o del minor danno) possibile che regge la logica delle negoziazioni. È un andazzo talmente pervasivo, quello di pensare che non ci possa essere una via non missilistica, bombarola o comunque violenta verso la fine delle guerre, che siamo rimasti orfani di una parola per esprimerlo.
È anche per questo che alla fine si è ripiegato su «non binario», un’espressione che a un primo livello di lettura – grazie alla vittoria dell’elvetico Nemo all’Eurovision Song Contest – fa riferimento alla scoperta o riscoperta in Svizzera della possibilità per una persona di non identificarsi strettamente o del tutto nel genere femminile o maschile. E a un secondo livello a un’altra ancora più intrigante possibilità mentale: quella di non pensare in modo binario, bianco o nero, vero o falso, amico o nemico, senza sfumature. Che è poi il modo di ragionare degli estremisti e dei fautori di ogni guerra. Di «allerta-meteo» coi tempi che corrono c’è poco da dire, è un’àncora di salvezza se attivata in tempo utile. «Nomofobia», invece, designa la paura incontrollata di rimanere sconnessi dalla rete di telefonia mobile. In questo caso il vocabolario ha camminato veloce, trovando un termine del tutto al passo con la bruciante realtà dei fatti.
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Un prestigioso premio alla sostenibilità
Info Migros ◆ A Praga il progetto di Migros Bellinzona Nord si aggiudica l’AtmoAward grazie ad Andrea Skory di Migros Ticino e a Luca Rossi della Biaggini S.A.
La soddisfazione è loro dipinta in faccia: Andrea Skory, ingegnere e responsabile dei servizi logistici di Migros Ticino, e Luca Rossi, ingegnere e project manager della E. Biaggini SA, grazie all’innovativo progetto di Migros Bellinzona Nord, si sono aggiudicati il premio simbolico degli AtmoAward Europa (categoria End user/Retail) alla 14esima edizione degli Atmosphere Europe Summit 2024, tenutasi nelle scorse settimane a Praga. Gli eventi Atmosphere sono il luogo dove i principali attori del settore discutono le questioni relative ai gas naturali, tracciando un quadro completo di tendenze e sviluppi futuri. Abbiamo incontrato Rossi e Skory per farci raccontare il percorso intrapreso da Migros Ticino per una maggiore sostenibilità. Andrea Skory (AS) e Luca Rossi (LR), non è la prima volta che partecipate ai summit di Atmosphere, qual era il vostro atout questa volta? AS: È la quarta volta che Luca Rossi e io partecipiamo a questo evento. La Biaggini SA è infatti il nostro partner di fiducia per tutti gli impianti frigoriferi che vengono installati da Migros in Ticino. L’edizione dell’anno scorso si è tenuta a Bruxelles, e durante il viaggio di ritorno, Luca e io ci siamo detti che quest’anno avremmo potuto concorrere. Personalmente, mi sono occupato per i primi due o tre anni di progetti innovativi in questo campo, e così, pur essendo nel frattempo passato alla logistica, ho potuto partecipare alla manifestazione. Abbiamo portato il progetto di Migros Bellinzona Nord, poiché rappresenta un esempio virtuoso. Oltre ad avere un’ottima produzione del freddo, lo stabile è autosufficiente grazie alla produzione di energia elettrica con impianto fotovoltaico. Inoltre, abbiamo acquistato anche un camion elettrico per le forniture. Nel mese di gennaio, in occasione del Forum di Davos, il CEO di Atmosphere Marc Chasserot, è venuto in Ticino, e Luca ha potuto mostrargli il cantiere di Bellinzona Nord. Chasserot ci ha spronati a partecipare. LR: Atmosphere, l’azienda che ha
organizzato il convegno a Praga e ha insignito Migros Ticino del premio, è nata nel 2007 come Shecco, e solo dal 2024 si chiama così. L’azienda è fondamentalmente un acceleratore di mercato globale indipendente per tutte le soluzioni di raffreddamento e riscaldamento che operino esclusivamente con refrigeranti naturali. Tra le sue attività vi sono eventi come appunto AtmoEurope, ricerche di mercato e attività mediatiche. Agli eventi partecipano le maggiori compagnie a livello globale impiegate nel settore della refrigerazione, del condizionamento e del riscaldamento. Quindi sia end user, ossia la categoria di clienti finali di cui fa parte Migros Ticino, sia installatori e OEM (Original Equipment Manufacturer, produttore di apparecchiature originali, Ndr), come lo siamo noi, oppure produttori di valvole e compressori, o controllori elettronici; in altre parole, tutti coloro che fanno parte della filiera della refrigerazione, ma esclusivamente con gas refrigeranti naturali. Facciamo un passo indietro: cosa significa «gas refrigeranti naturali»? LR: Fino a pochi anni fa i gas refrigeranti, chiamati anche gas freon, erano per lo più sintetici. A partire dai primi anni 2000, la CO2, che è un refrigerante del tutto naturale ed era utilizzata nei primi, rudimentali impianti di refrigerazione del 1800, ha ricominciato a prendere piede. Ciò e dovuto anche a una maggiore sensibilità ambientale, soprattutto verso l’effetto serra, di cui sono fortemente responsabili tutti i gas refrigeranti sintetici. In pochi anni la CO2 è diventata lo standard nella refrigerazione commerciale e industriale, e si sta affermando oggi anche nel campo della climatizzazione ambientale. Migros Ticino nel 2009 ha installato il primo impianto di refrigerazione a CO2, e da allora ha provveduto a convertire tutti gli impianti ancora operanti con gas sintetici; oggi manca un solo impianto, che sarà convertito nel corso dell’anno prossimo. Credo che Migros rappresenti un unicum nel panorama mondiale. AS: Ora parliamo di Migros Tici-
Andrea Skory e Luca Rossi con il premio simbolico degli AtmoAward Europe.
no, ma questa tendenza è comune a tutte le Cooperative Migros. Io ho sempre spinto verso idee nuove con il costante sostegno di Luca; per i progettisti si trattava di una cosa nuova, e si sono resi necessari molti incontri per spiegare il progetto. Migros ci ha dato grande fiducia, permettendoci di testare sul campo delle idee particolarmente innovative. LR: Nel 2019 abbiamo installato il primo impianto a CO2 integrato,
ossia capace di combinare refrigerazione, riscaldamento e condizionamento (HVACR). In altre parole, un’unica macchina è in grado non solo di alimentare tutte le utenze frigorifere (vetrine, congelatori, vasche, banchi a servizio, celle frigorifere), ma, grazie all’installazione di soli due compressori dedicati, soddisfa le esigenze di riscaldamento e condizionamento nelle diverse stagioni dell’anno.
Biaggini SA, un partner del territorio Migros Ticino collabora da anni con la Biaggini SA, e questo in linea con la sua filosofia, secondo cui è sempre più importante collaborare con i partner presenti sul territorio, così da innescare un circolo virtuoso. Come spiega l’ingegnere Luca Rossi: «Alla Biaggini mancano quattro anni per compierne cento, quindi abbiamo a 96 anni!». L’azienda, oggi a Cadenazzo (dopo un periodo a Muralto e a Giubiasco) è sempre rimasta a carattere familiare; fondata da Eugenio Biaggini, nonno dell’attuale titolare Michele Biaggini, in questo campo è tra le più vecchie d’Europa.
Dopo un inizio nel settore della ristorazione alimentare, il fondatore Eugenio Biaggini si appassionò al settore della refrigerazione, arrivando a costruire dei primi, rudimentali compressori. Cominciò quindi a collaborare con un fornitore di compressori in Italia (un’altra azienda di famiglia esistente da oltre un secolo), in un sodalizio che dura da oltre 60 anni. Michele Biaggini ha riconosciuto subito le opportunità legate alla CO2, e ha quindi favorito i cambiamenti aziendali necessari a questa transizione. La CO2, permette oggi alla Biaggini SA di muoversi anche nei settori del condizionamento e del riscaldamento.
Di cosa tiene conto il premio che avete ricevuto? LR: Il premio tiene conto, oltre che di tutto il portfolio di Migros Ticino nell’ambito dei refrigeranti naturali, in virtù del fatto che praticamente il 100% è a CO2, anche dell’impianto di Bellinzona Nord, senza tralasciare Migros Ticino in un senso più globale, cioè intesa come azienda virtuosa, dalla forte sensibilità ambientale. Ora che quasi tutti gli impianti sono a CO2, vi sono ancora margini di intervento da parte della Biaggini SA? AS: L’obiettivo è raggiunto, ora lavoreremo sulle componentistiche, e su un’ulteriore ottimizzazione degli impianti. LR: La rivoluzione è stata fatta, ma l’ottimizzazione non è ancora terminata. Migros ha già in programma la ristrutturazione delle prime installazioni a CO2, poiché queste hanno ormai raggiunto i 15 anni di servizio. Gli impianti a CO2 di prima generazione saranno convertiti in impianti a CO2 di seconda generazione. A che punto sono i lavori negli altri Paesi? Avete avuto modo di scoprirlo a Praga? LR: In Italia, per fare un esempio, ogni supermercato ha solamente tra il 5 e il 10% di impianti a refrigerazione naturale. AS: Sì, ed è un peccato, poiché è un Paese molto all’avanguardia nella componentistica: tutte le componenti, infatti, provengono dall’Italia. Il sodalizio tra Migros Ticino e la Biaggini SA, se possibile, dopo questa esperienza esce ancora più rafforzato. AS: Assolutamente, nella Biaggini SA abbiamo trovato un partner competente, dove tutti gli attori si sono messi in gioco. Nella fase più delicata, che è quella iniziale di progettazione, abbiamo potuto avvalerci della competenza e della collaborazione di Luca, che segue la nostra voglia di innovare per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità prefissati. / Si.Sa.
Generoso, magia invernale
Monte Generoso ◆ Molte novità per momenti indimenticabili fino al 30 marzo dell’anno prossimo Dal 7 dicembre, ogni weekend e festivo, la cremagliera sale sulla vetta del Monte Generoso. E fino al 30 marzo 2025, immergersi nella magia della natura sarà ancora più conveniente, e questo grazie a uno sconto del 30% sulle tariffe invernali per tutte le tratte. Questa non è però l’unica novità, e quest’anno la Ferrovia Monte Generoso ha pensato anche ai più piccoli. Dopo l’incontro con San Nicolao nel fine settimana appena conclusosi, i bambini potranno mettere alla prova il proprio estro partecipando a un concorso. «Per entrare nell’atmosfera della festa più bella dell’anno, soprattutto per i bambini», afferma Chiara Brischetto, Head of Marketing, Communication & Sustaina-
bility della FMG, «abbiamo lanciato il concorso Piccoli Artisti Cercansi: dall’8 al 31 dicembre 2024 i partecipanti potranno disegnare il Fiore di pietra a tema natalizio; il disegno più originale diventerà il biglietto di auguri del Monte Generoso per il Natale 2025» (per le condizioni di partecipazione, vedi immagine a fianco). Inoltre, dal 24 dicembre al 6 gennaio, la FMG sarà aperta tutti i giorni con quattro partenze da Capolago e ritorni dalla Vetta. Per il tradizionale scambio di auguri prenatalizi tra colleghi e amici, al ristorante Fiore di pietra in Vetta e al Buffet Bellavista si possono organizzare in esclusiva pranzi e cene. Oppure partecipare alle serate Raclette e Fondue Chinoise, già in programma
Trasforma il tuo capolavoro nella nostra cartolina di Natale 2025! Tema: il Fiore di pietra, firmato dal celebre architetto M. Botta si trasforma in tema natalizio. Disegno: formato A4, colori e tecniche di pittura a scelta del partecipante. Premio: il vincitore e la sua famiglia si aggiudicano dei buoni viaggio A/R sul trenino a cremagliera. Il miglior disegno verrà utilizzato per la nostra cartolina di Natale 2025! Consegna: entro il 31.12.2024 Le opere vengono realizzate durante il nostro evento di San Nicolao 8.12 presso il Fiore di pietra oppure inviate per posta al nostro indirizzo, specificando il vostro nome, cognome, email, telefono.
Ferrovia Monte Generoso SA “Concorso Cartolina di Natale” Via Lüera 1 - CH 6825 Capolago
Partecipanti: Tutti i bambini che amano disegnare e esprimere la loro creatività
per tutto il mese di dicembre al Buffet Bellavista. «Vi aspettiamo al Buffet Bellavista anche per il pranzo di Natale del 25 dicembre e per il cenone di San Silvestro» conclude Carolina Russbach, Head of Marketing, Communication & Digital della FMG. «Nell’intimo ristorante situato di fianco all’omonima fermata del trenino, si potranno trovare tutti gli ingredienti in grado di rendere indimenticabili le feste: il camino, la musica, le candele, i profumi del buon cibo e l’allegria delle persone care… se poi saremo fortunati e arriverà anche la neve, sarà un’autentica magia!» Informazioni www.montegeneroso.ch
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SOCIETÀ ●
Lugano protegge i suoi gioielli La collana «Con cura» dedicata ai beni culturali restaurati e restituiti ai cittadini è una delle iniziative dell’Ufficio del patrimonio culturale
Mobilità elettrica Le microcar o quadricicli presentano soluzioni sempre più innovative: una rivoluzione leggera che in Svizzera stenta a decollare
L’uso dei media dei ragazzi svizzeri Lo studio JAMES 2024 fotografa le abitudini dei teenager nel loro tempo libero e indica quali sono gli strumenti mediali che preferiscono
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Individualisti non si nasce, si diventa
Intervista ◆ Lo psicoterapeuta Domenico Barrilà ci mette in guardia sui rischi di pensare solo a se stessi e ai propri interessi, dando il cattivo esempio ai più piccoli Stefania Prandi
Il titolo dell’ultimo libro di Domenico Barrilà suona come un monito. Già dalle prime pagine diventa subito chiaro che per affrontare il volume, appena pubblicato, è necessario mettersi in discussione. Con Individualisti si cresce. Come rovini la vita di tuo figlio e di chi gli sta attorno (Feltrinelli), Barrilà ci pone di fronte a un atteggiamento che spesso pensiamo appartenga agli altri, e non a noi. Per capire meglio come riconoscere l’individualismo che ci può permeare, magari in modo mascherato, abbiamo chiesto a Barrilà, psicoterapeuta e analista adleriano, con oltre trentacinque anni di attività clinica, di rispondere ad alcune domande.
«Un individualista fatica a creare legami solidi perché le sue intenzioni non sono mai cooperative» Domenico Barrilà, che cosa significa essere individualisti? Significa esasperare oltre il tollerabile un parassita presente nel nostro mondo interiore, presumendo di poterlo dosare a piacimento. Pensare di controllare l’individualismo è un autoinganno, un’illusione, la stessa che anima le speranze di un tossicodipendente, convinto di potere smettere quando vuole. L’individualismo è come una dipendenza, e quando comincia la sua corsa ci sfugge di mano. Diventa famelico, cerca di conquistare nuovi territori, creando i presupposti per incrinare il nostro equilibrio e le nostre relazioni, da quelle meno prossime a quelle sentimentali. Un individualista fatica a creare legami solidi perché le sue intenzioni non sono mai cooperative, né genuinamente né come semplice effetto collaterale. Lavora come un buco nero, risucchiando tutto quello che sfiora il suo campo gravitazionale. Perché la nostra società spinge sempre di più verso l’individualismo? Non credo sia un processo intenzionale, siamo tutti vittime di un modello «incrementale» che non lascia respiro. Bisogna sempre fare più del giorno precedente, anche quando pensiamo che nelle ventiquattro ore precedenti avevamo toccato vertici insuperabili. Accade all’incirca come in quei sogni in cui crediamo di avere raggiunto la stazione di arrivo, ma una mano oscura ci riporta sempre al punto di partenza. I processi sociali ed esistenziali viaggiano oramai a velocità ingestibili. La rottura del rapporto tra il tempo e gli even-
Ognuno per sé? Secondo Domenico Barrilà non è vantaggioso per la nostra specie. (Freepick.com)
ti fa crescere enormemente la spesa energetica di ciascuno di noi, ma quell’energia non è illimitata e siamo costretti a fare ricorso alla chimica, da una parte, e al cinismo dall’altra. La velocità ci spaventa e ci spinge ad agire in modo innaturale, egoistico, portandoci a dimenticare che siamo parte di una specie cooperativa, un tratto a cui dobbiamo tutti i progressi realizzati e il benessere raggiunto. Come mai crediamo di essere immuni all’individualismo e invece ne veniamo comunque «contagiati»? Vale per tutti? In genere tendiamo a contestare le caratteristiche che riteniamo socialmente riprovevoli anche perché esiste il pensiero consolatorio di essere delle eccezioni, ragione per cui, oltre a negare di essere individualisti, sottovalutiamo l’impatto dei nostri comportamenti sulla vita degli altri e anche dell’ambiente. Che responsabilità ha la famiglia nel crescere persone individualiste? La famiglia è lo scalpello più affilato tra quelli che contribuiscono alla formazione dello stile di vita. È una
struttura assai più complessa di come la si intende di solito, non riferibile soltanto al modo di vestire oppure ai gusti di una persona. Si tratta di una vera e propria impronta digitale, qualcosa di specifico di ogni persona che ci rende riconoscibili agli occhi dei nostri compagni di viaggio. Lo stile di vita si modella assai precocemente, potremmo dire che entro i primi cinque o sei anni di età è già abbastanza abbozzato. Proprio nel libro racconto di un viaggio in treno durante la pandemia. Gli unici a non indossare la mascherina erano un padre e un bambino, che rimediavano precipitosamente quando passava il controllore e, una volta scampato il pericolo, se la ridevano, fieri di sé stessi. Verso la metà del tragitto il controllore, arrivato alle loro spalle, li ha presi con mani nella marmellata minacciando di farli scendere alla fermata successiva. Ecco, quel bambino, purtroppo, visto che col padre ci resterà per decenni, è candidato a diventare una tossina, per sé stesso e per il suo prossimo, perché dovrà scegliere tra perdere la stima del padre e salvarsi oppure seguirne l’esempio, con le conseguenze del caso.
Lei scrive che l’individualismo è nocivo non solo agli altri, ma anche a sé stessi. Certo, l’individualista non passa inosservato e il gradimento sociale nei suoi confronti non raggiunge mai livelli alti, anche se all’inizio il suo comportamento può essere valutato positivamente da alcuni. Ma non si può barare in eterno, non c’è salvezza per chi vuole vincere da solo, quindi perderà, sempre. Considerando che uno dei tratti caratteristici dell’individualista è l’incapacità di gestire gli smacchi, possiamo immaginare quanta sofferenza gli possano procurare i normali incidenti di percorso cui tutti andiamo soggetti. Qualche anno fa, nei titoli di una collana illustrata per bambini, avevo annotato la definizione di «coraggio» come «la capacità di tollerare l’insuccesso e ricominciare». In sintesi, l’individualista non vince mai veramente, in compenso le sue sconfitte sono assai umilianti e complicate da ammortizzare. Come si può cambiare rotta? Ricordando, attraverso la cultura e l’educazione, a noi e alle nuove
generazioni, chi siamo veramente, ossia gli eredi di una specie che si è evoluta soltanto a partire dalla scoperta dei vantaggi che offre la cooperazione. Perdendo questo tratto ci estingueremo in poche generazioni. Pensiamo che Alfred Adler, grande medico e psicologo viennese, nato 150 anni fa, riteneva, dimostrandolo, che il sentimento sociale, ossia la capacità di provare genuino interesse verso il prossimo, è un vero e proprio «barometro della normalità». L’attività clinica lo mostra tutti i giorni: le persone più infelici e meno adattate sono quelle individualiste, perché i loro perenni calcoli utilitaristici le rendono invise alle altre persone. Questo aumenta la probabilità che si ammalino di più. «La guarigione della nevrosi e della psicosi esige la trasformazione del soggetto grazie ad un’azione pedagogica, la correzione dei suoi errori ed il suo ritorno definitivo in seno alla società umana», scriveva Adler, e penso che più chiaro di così non avrebbe potuto essere. Se giochi contro gli altri, perdi, anzi ti ammali. Anche se non te ne accorgi, aggiungo.
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Il panettone Gottardone
Novità ◆ Un nuovo irresistibile prodotto della nota pasticceria Buletti di Airolo è entrato a far parte dell’assortimento di Migros Ticino
Il Gottardone è un panettone speciale contenente cioccolato e mirtilli. La golosa specialità è stata creata in onore di AlpTransit, con l’intento di valorizzare il nostro territorio e la cultura ticinese del panettone. La semi canditura dei mirtilli, come pure la realizzazione del cioccolato a partire da fave di cacao – un unicum in Ticino – avviene nel laboratorio Buletti. L’azienda segue la filosofia della filiera corta e tracciata, promuovendo il contatto diretto con le cooperative di cacao, con l’obiettivo di preservare trasparenza, rispetto per i produttori e per l’ambiente.
Che si tratti del panettone tradizionale o del nuovo Gottardone, la produzione di questi dolci della regione richiede lunghi tempi di lavorazione. Tra preparazione dell’impasto iniziale, rinfreschi, lievitazione e cottura ci vogliono almeno 48 ore.
Azione 15% Panettone al burro Buletti 1 kg Fr. 29.75 invece di 35.– Solo dal 9 all’11 dicembre 2024
Panettone Gottardone 500 g Fr. 24.–
Come le altre proposte della pasticceria Buletti – il panettone al burro, il pandoro al burro e il panettone senza lattosio – anche il Gottardone è prodotto nella regione del Gottardo. Il laboratorio è stato fondato ad Airolo nel 1992 dal panettiere-pasticcere-confettiere Bruno Buletti. Grazie ad un’elaborazione minuziosa con ingredienti di elevata qualità, i prodotti Buletti sono apprezzati ben oltre i confini cantonali, riscuotendo consensi anche a livello nazionale e internazionale.
Gonfiotto ai marroni Cuoco Panettone al Gianduia Dolcemonaco Panettone artigianale Dolcemonaco Panettone al pistacch io Dolcemonaco Panettone tradizionale La Fonte Triestina al cioccolato Poncini
Flavia Leuenberger
I dolci festivi Buletti non contengono nessun tipo di conservante o emulsionante, ma solo ingredienti naturali, come per esempio il lievito madre che è prodotto e curato in casa, le uova provenienti da allevamento al suolo e il burro acquistato presso alcuni piccoli produttori locali.
Pasta fresca artigianale ticinese
Attualità ◆ I cappellacci alla ricotta e spinaci dei Nostrani del Ticino sono l’opzione perfetta per il tuo primo piatto festivo
rispettosi dell’ambiente e scegliendo imballaggi a base di cartone riciclato al fine di ridurre al massimo l’uso della plastica.
Le festività natalizie si avvicinano e portano con sé piacevoli e sfiziosi momenti culinari da trascorrere con i propri cari. Tra le innumerevoli pietanze in grado di regalare al nostro palato esperienze uniche, suggeriamo di provare i cappellacci alla ricotta e spinaci del Pastificio Di Lella di Sementina, una specialità ideale da servire come primo piatto per esaltare i genuini sapori del nostro territorio. «Dalla lavorazione della sfoglia al ripieno, i nostri cappellacci alla ricotta e spinaci sono fatti interamente a mano», spiega Yaël Nessi, direttrice dell’azienda a conduzione familiare fondata nel 1968. «Il ripieno viene realizzato con una ricotta cremosa prodotta in Valle Leventina e spinaci freschi coltivati sul Piano di Magadino. La base dell’impasto è inve-
Un pastificio regionale ce costituita da farina di grano duro coltivato sui terreni alla Maggia e uova fresche ticinesi di allevamento all’aperto». La lavorazione degli ingredienti è affidata alle sapienti mani dei mastri pastai Di Lella, i quali lavorano il ripieno e la sfoglia per trasformali in ravioloni «cappellacci», un formato tondeggiante e ripiegato il cui nome si rifà al tipico cappello di paglia dei contadini. «Il frutto di
questa maestria artigianale è un prodotto gourmet di elevata qualità, che si gusta ottimamente con una crema al formaggio, funghi porcini rosolati e un sughetto di pomodorini cherry. Un’altra appetitosa possibilità è quella di servirli semplicemente mantecati con del burro e della salvia, una delizia pronta in pochi minuti e perfetta per i giorni di festa», conclude Yaël Nessi.
Il Pastificio Di Lella da oltre cinquant’anni produce pasta fresca nel rispetto di una tradizione artigianale che si tramanda da tre generazioni. Da sempre a conduzione familiare e oggi gestita dalla famiglia Nessi, l’azienda crea ricette stagionali utilizzando i migliori ingredienti che offre il nostro territorio. Il pastificio investe costantemente anche nella sostenibilità, ottimizzando e implementando processi produttivi efficienti e
Cappellacci alla ricotta e spinaci nostrani 250 g Fr. 6.95 In vendita fino ad esaurimento delle scorte per un periodo limitato
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Un dolce viaggio con Chocolat Stella Attualità ◆ La raffinata selezione di cioccolatini dell’azienda ticinese appagherà ogni gusto
biologica, composta dalle truffe nere al cioccolato fondente, truffe al latte svizzero e truffe al cioccolato bianco; praline mocca con cioccolato al latte e ripieno di crema di caffè; praline gianduia con dolce ripieno di crema alle nocciole e praline noce di cocco dall’irresistibile ripieno esotico. Lasciatevi sedurre da queste piccole tentazioni!
Flavia Leuenberger
Che feste natalizie sarebbero senza i tradizionali cioccolatini? Meglio ancora se di produzione ticinese, come quelli firmati Chocolat Stella, la cui produzione avviene a Giubiasco, in uno stabilimento che risponde ai più alti standard produttivi internazionali. Per le festività l’azienda propone una selezione di sopraffine creazioni a base di ingredienti di qualità
Praline Bio Chocolat Stella 189 g Fr. 32.– In vendita nelle maggiori filiali Migros
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SOCIETÀ
Un patrimonio conservato «con cura» Lugano ◆ Sono numerose le iniziative della Divisione cultura della Città, tra queste una collana di volumi dedicati ognuno a un bene culturale restaurato e restituito ai cittadini Stefania Hubmann
Quando si cammina nella propria città, monumenti, fontane e altre opere simboliche rischiano di essere presenze abituali sulle quali ci si sofferma poco e di cui spesso si ignora il significato pur essendo parte integrante del locale patrimonio culturale. Il loro restauro è un’occasione per riscoprirli soprattutto se accompagnato da un piccolo volume ricco di immagini che ne riassume la storia e il valore artistico. A Lugano ciò è possibile grazie alla collana divulgativa «Con cura», il cui titolo accentua volutamente l’impegno nei confronti del patrimonio del passato per tramandarlo alle generazioni future. Avviato tre anni orsono, il progetto si inserisce nel contesto di una visione innovativa dei compiti della Divisione cultura, come spiega ad «Azione» il direttore Luigi Maria Di Corato. La storica Manuela Maffongelli, responsabile della collana, ci illustra i primi quattro volumi dedicati nell’ordine al Tempietto di Washington, al Monumento Reali, al Monumento Indipendenza e alla Sala dei matrimoni di Palazzo Civico. Questo breve elenco già indica come alcune opere siano sempre visibili, mentre altre solo in occasioni speciali. La collana «Con cura», disponibile gratuitamente presso l’Ufficio del Patrimonio culturale, permette quindi di avvicinare tutti gli interessati anche a spazi non accessibili come lo è la Sala dei matrimoni, aperta solo nelle occasioni di rito. Restaurata la scorsa primavera assieme a quella di Palazzo Tosetti Riva a Castagnola, la Sala dei matrimoni di Palazzo Civico è ricca di opere pregiate. Spiega Manuela Maffongelli: «Realizzata nel 1943 a seguito di un concorso di decorazione pittorica per sostenere gli artisti in anni difficili, la Sala è stata affrescata dalla pittrice ticinese Rosetta Leins e arredata con mobili disegnati dall’architetto e artista Mario Chiattone. A causa del tempo trascorso e di altri agenti come il fumo, la Sala necessitava di un restauro, reso più complesso dalla sua funzione pubblica».
Un lavoro multidisciplinare che toglie il velo dell’oblio Il lavoro dell’Ufficio del Patrimonio culturale a livello di conservazione parte sempre dalla necessità di preservare un’opera in stato di degrado. Precisa al riguardo l’esperta: «Il team composto da professionisti di più discipline – storia, storia dell’arte, restauro – si confronta sulla base della mappatura del patrimonio collettivo diffuso. La priorità viene data ai beni che versano nello stato di conservazione peggiore, programmando ogni anno diversi interventi di restauro realizzati. Solo ai restauri più significativi si dedica un volume che racchiude l’intero percorso volto a “restituire” l’opera ai cittadini. L’obiettivo dei contributi dei rispettivi specialisti (quello sul restauro evidenziato da
Itinerario nell’anima del Ticino
Libri ◆ Da poco in libreria l’ultima opera di Carlo Silini
La Sala dei matrimoni di Palazzo civico è stata affrescata dalla pittrice ticinese Rosetta Leins e arredata con mobili disegnati dall’architetto e artista Mario Chiattone.
pagine colorate) è di spiegare con un lessico di facile comprensione il contesto storico nel quale l’opera è stata realizzata, il suo valore artistico, i protagonisti ad essa legati e gli interventi effettuati per garantirne la conservazione». Se il restauro toglie al monumento la patina del tempo, il volume gli leva il velo di oblio, messaggio trasmesso anche dalla copertina in carta velina. «Con cura» non è infatti solo il titolo della collana, riflesso dell’attitudine nei confronti del patrimonio culturale, ma pure il metodo con cui la Divisione cultura lavora sui tre assi di sua competenza, come ricorda il direttore Luigi Maria Di Corato. «Sosteniamo lo sviluppo culturale attraverso il supporto ad artisti, operatori e volontari; favoriamo la collaborazione degli istituti culturali (fondati o partecipati dalla Città) con le istituzioni e i cittadini; valorizziamo e promuoviamo il patrimonio storico e artistico di Lugano, dalla cultura immateriale alle opere monumentali, gestendo pure l’Archivio storico e il Museo Wilhelm Schmid. All’obiettivo divulgativo contribuisce anche il sito www.luganocultura.ch». «Al centro del nostro operato – prosegue il direttore – c’è il cittadino, proprietario delle opere, fruitore delle proposte culturali, finanziatore delle nostre attività tramite il prelievo fiscale e non da ultimo produttore di contenuti di alcune di esse nell’ambito di un percorso di cittadinanza attiva. Un vasto progetto basato su tale principio concerne le Mappe di comunità che stiamo allestendo nei diversi quartieri in collaborazione con la popolazione. Quest’ultima è invitata a partecipare agli incontri fornendo testimonianze orali, fotografie, oggetti e documenti relativi ai beni presenti sul territorio nel quale vive. Il progetto si arricchirà di un ulteriore tassello
con la stampa della versione cartacea delle Mappe». Per il nostro interlocutore i due mezzi di comunicazione – cartaceo e digitale – svolgono un ruolo complementare e vanno utilizzati entrambi in base alle rispettive funzioni.
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile) Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Ivan Leoni
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)
Il prossimo volume dedicato agli abiti Tornando alla collana «Con cura» e alle opere che fa riscoprire, Luigi Maria Di Corato si sofferma sul Monumento Indipendenza, fra i simboli della storia di Lugano, restaurato nel 2023. «Quest’opera è un esempio del ruolo svolto dai cittadini che l’hanno voluta per ricordare nel 1898 il centenario dell’indipendenza dell’attuale Cantone Ticino. Grazie alle ricerche storiche e artistiche effettuate prima del restauro, il monumento si arricchisce di contenuti rimessi in circolo attraverso il volume». Valore e bellezza sono ugualmente racchiusi nelle pagine dei due volumi dedicati al Tempietto di Washington e al Monumento Reali. Manuela Maffongelli: «Il primo, situato sul lungolago e caratterizzato dal busto del primo presidente degli Stati Uniti d’America, ha inaugurato la collana nel 2021, mentre l’anno scorso è stato pubblicato il volume dedicato al monumento Reali presente nel cimitero monumentale della Città. È stata l’occasione per riscoprire la storia di una famiglia che ha donato a Lugano la sede del Museo d’arte e a Cadro quella che oggi ospita l’Ideatorio. Stiamo ora lavorando al prossimo numero che avrà nuovamente lo scopo di “restituire” alla popolazione un patrimonio non visibile. Si tratta di oltre cento abiti risalenti al Settecento e all’Ottocento provenienti dall’ex Museo storico della Città. Sono stati restaurati,
ma risultano troppo fragili per essere esposti. Sono pertanto custoditi nei depositi come le altre collezioni dell’istituto museale chiuso nel 1963. Per quanto riguarda i monumenti del centro cittadino, è previsto a breve il restauro della Fontana Antonio Bossi in Piazza Rezzonico».
Stasera appuntamento con le «Pagine storiche luganesi» L’iniziativa divulgativa dell’Ufficio del Patrimonio culturale si affianca alla collaudata collana di carattere scientifico «Pagine storiche luganesi» di cui viene presentato proprio oggi l’ultimo volume: Il libro della fibbia. Storia del convento di Santa Maria degli Angeli. L’appuntamento – alle 18 nell’omonima chiesa – inaugura una serie di eventi dedicati alla vita quotidiana a Lugano nel periodo di passaggio fra la dominazione milanese e l’arrivo dei Confederati. Un’esposizione temporanea è liberamente visitabile presso il Giardino Belvedere fino al 14 febbraio 2025. I modi per valorizzare i beni storici e artistici, permettendo al pubblico di riscoprirli anche a favore della propria identità culturale, sono molteplici. Lo dimostrano le numerose iniziative della Divisione cultura della Città di Lugano, attenta, come ricorda in conclusione il direttore Luigi Maria Di Corato, «a gestire con la stessa cura le forme di espressione artistica di ieri e di oggi. Dobbiamo essere consapevoli che l’arte è un linguaggio, un flusso che diventa cultura e soprattutto una componente essenziale del benessere dei cittadini». Informazioni www.luganocultura.ch; per la richiesta dei volumi «Con cura»: patrimonio@cultura.ch
Non è una guida turistica, né è un libro di storia, ma piuttosto un itinerario nell’anima del Ticino alla scoperta (o alla riscoperta) del suo DNA nascosto. Il libro Storie dimenticate. Per una geografia segreta del Ticino (Edizioni San Giorgio) è nelle librerie della Svizzera italiana da poco più di una settimana e racconta fatti sorprendenti (come la Svizzera che voleva invadere l’Italia, alla faccia della neutralità elvetica), personaggi semisconosciuti (come il balivo della Valle di Blenio che nel Seicento metteva sotto il torchio i bambini in odore di stregoneria), e luoghi del nostro territorio noti e meno noti (come i misteriosi resti ciclopici sopra Giornico). Un’occasione, insomma, per affacciarsi su ciò che non sappiamo della nostra identità svizzero-italiana e che non troviamo sui libri di storia. Nato dal lavoro giornalistico di Carlo Silini, il volumetto, riccamente illustrato e con la prefazione dell’architetto Mario Botta, propone 21 capitoli che partono dal tempo dei Romani e arrivano fino alle soglie del XXI secolo. Le 21 storie dimenticate sono inoltre diffuse in tutti i distretti del Cantone. Per i lettori di Azione sarà possibile acquistare il libro con uno sconto del 10% sul prezzo di copertina (vedi sotto).
10% di sconto per i lettori di Azione Il libro può esser acquistato e ordinato direttamente alle: Edizioni San Giorgio Via Industria 1 - 6933 Muzzano o ordinato per mail a libri@cstsa.ch o direttamente sul sito https://www.centrostampaticino.ch/ shop-libri/ Il pagamento avverrà con fattura Costo 26.– CHF, sconto del 10% per gli abbonati ad Azione + spese di spedizione.
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Anno LXXXVII 9 dicembre 2024
Settimanale di informazione e cultura
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SOCIETÀ
L’elettrico punta anche sui quadricicli
Motori ◆ Piccole, minimaliste, ideali per la città: le microcar full electric propongono soluzioni sempre più innovative Eppure in Svizzera la rivoluzione «leggera» non ha ancora preso piede Mario Alberto Cucchi
Partiamo da un dato di fatto: le case automobilistiche devono vendere più auto elettriche. Lo abbiamo scritto e oggi ne siamo ancora più convinti. Non è una scelta ma un obbligo dettato dall’agenda dell’Unione europea e dalle multe che impone. Ma come si possono vendere più auto elettriche? Come si può convincere un’automobilista che per alcuni versi non è forse ancora maturo? Il cavallo di Troia potrebbe essere il quadriciclo. Non un’auto e neppure una motocicletta, ma una soluzione di micromobilità adatta ad ambienti urbani. Esistono da decenni e negli ultimi anni hanno registrato una forte evoluzione.
Il modello Ami di Citroën è commercializzato anche in Svizzera
Adatti alla mobilità urbana, i quadricicli in Italia e in Francia si possono guidare dai 14 anni, in Svizzera invece solo dai 18 Una volta spinti esclusivamente da motori termici, oggi sono disponibili anche con evolute motorizzazioni full electric e soluzioni ingegneristiche derivate dai veicoli di grande produzione. Grazie a un crescente interesse da parte di affermate case costruttrici, sono cresciuti in dimensioni, tecnologia e sicurezza, assomigliando sempre più a vere e proprie auto. In Svizzera Citroën, che fa parte del gruppo Stellantis, commercializza Ami. Caratterizzata da un design minimalista è in grado di ospitare due occupanti proteggendoli dalle intemperie. Ami occupa appena mezzo
posto auto: è lunga solo 2,41 m, larga 1,39 m, è alta 1,52 m. Parcheggiare è facilissimo: il raggio di sterzata è di soli 7,20 m. Ideale per manovre facili e veloci anche nei centri urbani con strade congestionate. L’autonomia? Settantacinque chilometri per una velocità massima di 45 km/h. Il prezzo parte da 9’590 franchi. Non pochi, vero, ma esistono diverse modalità di acquisto che permettono di diluire l’importo nel tempo attraverso piccole rate. Tetto panoramico in vetro, porta di ricarica USB per i device, riscaldamento, cambio automatico e cavo di ricarica standard
incluso. Si può ordinare tramite il sito www.citroën.ch e la si può ritirare in seguito presso la concessionaria più vicina o averla consegnata direttamente a casa. Ami è uno tra i tanti quadricicli di ultima generazione. C’è anche la simpatica Topolino di Fiat, che condivide la stessa piattaforma della Ami, disponibile anche nell’affascinante versione Dolcevita senza portiere e con tetto apribile. Ma non sono le sole sul mercato. Nissan ha appena presentato Nano Car Silence S04 a cui non manca neppure l’aria condizionata. Disponibile in due
varianti, L6e o L7e, si distingue per la batteria estraibile. Soluzione unica, la batteria diventa un trolley e lo si può portare in casa o in ufficio per caricarla comodamente senza dover pensare ad avere una Wall box in garage o ad attaccarsi alle colonnine per strada. Una o due le batterie estraibili a seconda del modello. Anche lei come Ami ha un motore elettrico che le permette di raggiungere una velocità massima di 45 km/h. Ma l’autonomia può passare addirittura a 175 km nel caso si decidesse di optare per la versione con due batterie. Il modello L7e offre invece una motorizzazio-
ne ancora più potente che le permette di raggiungere una velocità massima di 85 km/h. Ecco allora che guardando questi numeri si capisce che il quadriciclo può ben uscire dai centri delle città e arrivare anche nei paesi satelliti. Una vera rivoluzione «leggera», che in Svizzera non ha però ancora preso piede. Il problema è normativo, la legge della Confederazione permette di guidarli dai 18 anni. In Italia e in Francia, le si possono invece guidare dai 14 anni. Ed ecco allora che in quel caso può essere, come dicevamo, un vero cavallo di Troia per entrare nelle famiglie con l’elettrico attraverso i ragazzi. Per poi diventare delle proprie e vere family car utilizzate anche da mamma e papà. In Svizzera a fine 2020 era stata presentata una mozione all’Assemblea federale per consentire un’armonizzazione delle norme vigenti per i diversi utenti della strada e favorire l’allineamento alle disposizioni applicate nei Paesi limitrofi. Era chiesto che i quadricicli potessero essere guidati almeno dai 16 anni. Il Consiglio federale nel 2021 ha respinto la mozione. Ma la tecnologia in questi anni ha fatto passi da gigante. I quadricicli di ultima generazione non sono più «solo» un capriccio per giovani rampolli ma possono essere una soluzione di micro mobilità interessante per tutti. Ecco perché, forse, si potrebbe riconsiderare un possibile abbassamento dell’età in cui potersi mettere al volante di queste microcar elettriche.
Capitan Costantini e la sua spalla comica Asia Editoria ◆ Le Edizioni San Giorgio pubblicano il meglio della fortunata rubrica del CdT Pensieri dal battellino
Diavolo di un Bruno Costantini. Il navigato giornalista, già vicedirettore del «Corriere del Ticino», cronista parlamentare al fu «Giornale del Popolo», redattore della prima ora al Mastino (ops!) «Mattino della Domenica», con un’ampia parentesi lavorativa al Dipartimento delle finanze e dell’economia a Bellinzona, ha dato alle stampe per le Edizioni San Giorgio il distillato del proprio sapere politico-cronachistico e della propria ironia, nell’agile volumetto Pensieri dal battellino. Cronache reali da un mondo irreale. Chi conosce l’omonima rubrica settimanale del «Corriere del Ticino» sa di cosa stiamo parlando: di un mondo tra il reale e l’immaginario, un teatrino galleggiante, nel quale l’autore – grazie alla spalla comica di Asia, microinfluencer del lago – irride vizi e virtù della repubblica dell’iperbole cantonticinese. Il libro raccoglie un’ampia selezione di quegli articoli, pubblicati tra il 2019 e il 2024, proponendo il meglio della rubrica. Nel Muppet Show costantiniano, il battellino immaginario un tempo trasportava i turisti da una parte all’altra del Ceresio e oggi carica e scarica casse di un vino molto particolare, come indica la dicitura: «Barbera fatto con il mulo». «È un bel passo avanti – scrive l’autore – l’immagine è già più naturale. E nessuno potrà venirci a dire che son capaci tutti di bere “green” col mulo degli altri».
La copertina del libro, realizzata da Nicole Tosi.
Il capitano di vascello Bruno e la sua compagna d’avventure Asia navigano sul Ceresio e commentano le onde anomale, le acque mosse e i periodi di bonaccia sociale e politica che movimentano o addormentano il golfo di Lugano, il Ticino, la Svizzera e il Mondo. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento di queste acque scrisse mirabilmente Antonio Fogazzaro nei suoi romanzi Piccolo mondo antico e Piccolo mondo moderno. Oltre un secolo più tardi, quello di Bruno Co-
stantini è un piccolo mondo antico di regole e certezze che si confronta col piccolo mondo moderno di Asia, sempre in fregola per i nuovi trend, pronta a inforcare la bici elettrica rosa per correre dal parrucchiere, pardon, dall’hair stylist, o a indossare il trikini (bikini più mascherina in tinta) in tempi di pandemia. Il Battellino è quindi un meccanismo perfetto d’analisi paradossale della realtà, basato su quello che potremmo definire «l’effetto Blues Brothers», che si verifica quando una persona dal contegno controllato e serio quale Costantini è, si presta a ragionamenti terre-à-terre che assomigliano molto a quelli dell’uomo di strada. Il contrasto tra il lessico ricercato e i pensieri che esprime è spesso esilarante. Un esempio? «Più che dai bastoni – scrive Costantini parlando di due municipali luganesi – dovrebbero stare in guardia dai proiettili di gomma del Comandante della polizia comunale, il quale, parlando dell’intervento alla festa abusiva a Villa Saroli, ha assicurato che “non abbiamo mirato ad altezza d’uomo, ma alle parti basse”. Sarà che un tempo, quando si parlava di precise parti del corpo umano, con pudicizia dialettale si diceva “giò in bass” per identificare quelli che sarebbero stati definiti “gioielli di famiglia”, ma la spiegazione del Comandante lascia un po’ interdetti per la mirata crudeltà».
Funziona così il Battellino, a raffiche di ironie piene di buon senso. L’autore auspica ad esempio una giornata mondiale dei babbei, visto che ci sono già quelle «del cane in ufficio, dei blogger, della pace interiore, della Nutella, degli UFO, della fatina dei denti, del bacio, della vedovanza, del gabinetto, del dialogo tra religioni e omosessualità, degli uccelli migratori e dell’orgasmo. Non ci starebbero allora anche i babbei?». Imperdibili alcune decorticazioni di personaggi noti locali o internazionali, come Matteo Salvini: «Per fortuna vi è ancora chi cerca risposte nella dimensione mistica, sopra le miserie umane, come il capopopolo della Lega Matteo Salvini che riceve messaggi dalla Madonna di Medjugorjie e che ha dalla sua parte gente che scende in strada con il rosario in mano a pregare per lui. Ci ricorda Pino Casagrande, presunto veggente Vercellese che diceva di avere le stigmate da Padre Pio…». Caustico, ma a suo modo affettuoso, lo sguardo sulle magagne locali: «Abbiamo pensato di organizzare sul battellino una grande serata di gala dedicata ai candidati che a vario titolo non hanno avuto soddisfazione dalle elezioni federali, una crociera dei trombati con vino e gazzosa per tutti». Ogni tanto emerge l’intrinseca conoscenza della macchina cantonale: in Gran Consiglio «… hanno inizia-
to a parlare alle 14 e hanno finito che erano passate le 23.30. Anche perché c’erano pure le risposte del Governo alle interpellanze sul coronavirus, ben 33 delle quali, una buona metà, inoltrate dall’MPS del giustiziere fumantino Pronzini che, prevedibilmente, ha preteso la risposta immediata non curante dei colleghi sfiancati che chiedevano pietà». In un Cantone ad alto tasso di permalosità di vip e sotto vip locali, c’è da chiedersi come sia riuscito Costantini a tenere in piedi il suo circo di nani e ballerine senza essere sbranato dai personaggi che ha irriso. Azzardo due ipotesi. La prima è che affianca sempre l’ironia all’autoironia, come quando si fa definire da Asia «un cetomedista del menga». La seconda è che Bruno graffia sì, ma senza la ferocia partigiana che si riserva ai nemici di bandiera o di partito. Lo scrive lui stesso: «Noi non siamo pirati delatori o naufraghi in cerca di vendetta, bensì tranquilli navigatori che dal battellino osservano divertiti il teatrino transnazionale». Insomma, diverte e si diverte. Una formula apparentemente semplice, a saperla fare. / C.S. Bibliografia Bruno Costantini, Pensieri dal battellino. Cronache reali da un mondo irreale, Edizioni San Giorgio, 2024.
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SOCIETÀ
I media nella vita dei nostri ragazzi
Giovani ◆ Secondo lo studio JAMES 2024 molti teenager in Svizzera hanno già ricevuto più volte offese, insulti o molestie sessuali online. Inoltre gli strumenti di Intelligenza artificiale irrompono nella loro quotidianità a una velocità record
Che i giovani fossero esposti in modo crescente al cyberbullismo – vale a dire ad atti aggressivi, prevaricanti compiuti tramite sms, e-mail, chat sul telefonino – così pure a molestie sessuali perpetrate sempre attraverso lo smartphone, era noto. Ora questi preoccupanti fenomeni risultano confermarsi con frequenza. Lo rivela per la prima volta il nuovo studio «JAMES 2024 Giovani, attività, media – rilevamento Svizzera» condotto dall’Università di Scienze Applicate di Zurigo. L’indagine, alla quale ha preso parte anche l’USI di Lugano, ha interpellato 1183 teenager (dai 12 ai 19 anni) delle tre principali regioni linguistiche, Ticino incluso. Leggiamo i risultati, accompagnati dalle considerazioni di Eleonora Benecchi, docente e ricercatrice dell’USI di Lugano alla facoltà di Comunicazione, cultura e società, che ha partecipato all’indagine quale responsabile della raccolta dei dati nella Svizzera italiana. Quasi un quarto degli interpellati ha dichiarato di avere già ricevuto più volte offese o insulti nel mondo digitale. Oltre il 10% ha riferito di essere stato sovente avvicinato online con intenti sessuali indesiderati o di essere stato approcciato da qualcuno che voleva parlare loro di sesso. Ad essere maggiormente colpite dal fenomeno sono le ragazze. I maschi sono sempre più spesso sia vittime sia autori di cyberbulilismo, mentre quasi una ragazza su due ha subìto molestie sessuali. Osserva la professoressa Benecchi: «Quasi un quarto dei ragazzi ha ricevuto offese o insulti ripetuti tramite messaggi privati, mentre episodi di prese in giro pubbliche o esclusione dai gruppi online sono meno comuni, ma comunque capaci di avere un impatto rilevante. È significativo osservare che non vi sono grandi differenze tra chi subisce il cyberbullismo e chi lo pratica, suggerendo che molti giovani potrebbero trovarsi in entrambi i ruoli. Poiché questo feno-
meno non aumenta con l’età, è opportuno avviare campagne di prevenzione già a livello di scuola primaria. Le molestie sessuali da parte di sconosciuti online, invece, crescono significativamente con l’età e colpiscono soprattutto le ragazze, evidenziando l’importanza di educare i giovani alla sicurezza digitale e al rispetto reciproco già in giovane età». L’indagine si focalizza su innumerevoli altri aspetti: da come i giovani spendono il tempo libero da soli, alla loro vita attraverso la sempre più familiare e accessibile varietà di media nella loro economia domestica. Quasi senza eccezioni, ormai tutti i giovani hanno accesso a Internet, cellulare, computer/laptop e a un televisore, la cui modalità di fruizione ha decisamente cambiato volto. Basti pensare – lo dice sempre lo studio – che gli abbonamenti a film e serie in streaming sono disponibili in 8 case su 10, un numero leggermente inferiore rispetto allo stesso studio JAMES 2022.
Le app più utilizzate puntano su contenuti visivi e interattivi, offrendo agli adolescenti spazi per esprimersi e costruire la propria identità. Un aspetto che non ha solo risvolti positivi Con poche eccezioni, i giovani possiedono ormai tutti uno smartphone personale che utilizzano soprattutto nel tempo libero e per navigare su Internet e ascoltare la musica. E i social network? Rimangono assolutamente in auge e non accennano a tramontare: i servizi di messaggistica come Instagram, TikTok, Snapchat e WhatsApp si confermano popolari tra i teenager. Ne è prova, fra l’altro, che rispetto all’ultimo rilevamento, la loro intensità s’è stabilizzata a un livello relativamente alto, a suon di like.
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Guido Grilli
«Le app come Instagram, TikTok e Snapchat, in particolare – evidenzia la docente e ricercatrice dell’USI – puntano sui contenuti visivi e interattivi, offrendo agli adolescenti non solo strumenti di comunicazione, ma veri e propri spazi per esprimere se stessi e costruire la propria identità. Questo aspetto può avere sia risvolti positivi, come l’espressione e la connessione con gli altri, sia negativi, come la pressione sociale e il confronto costante. Tuttavia, il controllo esercitato dagli algoritmi su queste piattaforme influenza significativamente quali informazioni i giovani ricevono e condividono, contribuendo a definire i temi di discussione e a plasmare il loro modo di vedere il mondo. Queste app non sono quindi solo strumenti neutri, ma attori chiave nella formazione della visione della realtà delle nuove generazioni e va dunque rinforzata l’educazione mediale per consentire ai giovani di usarle e valutarle in modo critico». Anche i giochi online sono diffusi: 8 giovani su 10 giocano occasio-
nalmente nel tempo libero, mentre circa il 50% in modo regolare, specie i ragazzi. Ma i giovani non sono esclusivamente davanti a uno schermo. Amano anche la lettura. Harry Potter su tutti. Nella lista figurano anche altri libri preferiti che spaziano tra più generi. Resta il fatto che lo smartphone li tiene comunque parecchio impegnati. Un dato si mostra rivelatore: sono circa 3 in media le ore trascorse sul telefonino nei giorni infrasettimanali. Una quota che lievita a 4 ore nei weekend. Ma ci sono elementi che lasciano intendere quanto l’utilizzo del device personale non avvenga solo per bighellonare, bensì per scopi decisamente più edificanti: i giovani utilizzano sì principalmente i social network, i servizi di messaggistica e i portali video su Internet per finalità di intrattenimento, ma anche i motori di ricerca in primis per informarsi (il 57%). Lontani dagli smartphone e da congegni simili, c’è poi finalmente anche la vita all’aria aperta. La ricerca mette in evidenza, quale aspetto deci-
samente positivo, come i giovani svizzeri, nel tempo libero, si concentrino su impegni come lo sport. Più dei due terzi degli interpellati ha affermato di incontrarsi regolarmente con amici e amiche, più volte alla settimana. Ma c’è un’altra evidenza che emerge con chiarezza nello studio: gli strumenti di intelligenza artificiale sono entrati, come nessun altro media prima d’ora, molto rapidamente nella vita dei giovani. Stanno facendo ingresso nella loro quotidianità a una velocità record: quasi il 71% ha già provato a usare ChatGPT e programmi simili. E benché l’IA sia una tecnologia diffusasi nella società solo verso la fine del 2022, già un terzo dei teenager ne fa uso almeno una volta alla settimana. «L’IA – conclude la professoressa Benecchi – sta diventando parte integrante della vita mediale delle nuove generazioni, offrendo potenzialità significative per l’accesso immediato e personalizzato alle informazioni. Tuttavia, emergono anche rischi importanti. Uno dei principali problemi legati a questi strumenti è rappresentato dalle cosiddette “allucinazioni”: errori o imprecisioni che possono condurre alla diffusione di informazioni false. Il rischio è che i giovani, fidandosi acriticamente di questi strumenti, possano adottare o condividere contenuti inesatti, con potenziali conseguenze sulla loro capacità di giudizio e sul dibattito pubblico. Per affrontare questa sfida, diventa cruciale rafforzare l’alfabetizzazione mediale dei giovani. Non basta fornire loro accesso a strumenti avanzati: è essenziale educarli a utilizzare l’IA in modo critico, insegnando loro a verificare le fonti e la correttezza delle informazioni. Questo approccio non solo riduce i rischi associati all’uso dell’IA, ma contribuisce anche a formare cittadini consapevoli e capaci di partecipare attivamente alla società dell’informazione».
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Viale dei ciliegi Timothée de Fombelle Qualcuno mi aspetta dietro la neve Illustrazioni di Thomas Campi Terre di Mezzo (Da 9 anni)
Timothée de Fombelle si era gloriosamente fatto conoscere una ventina di anni fa con l’uscita (per l’Italia da San Paolo) di Tobia, la storia di un ragazzo che viveva in un albero, con il suo piccolo popolo. I romanzi di Tobia furono un successo e vennero tradotti in più di venti lingue. Da qualche tempo di questo autore stiamo conoscendo, tramite l’editore Terre di Mezzo, anche dei romanzi dalle dimensioni più vicine al racconto, dal passo meno articolato rispetto alla grande saga di Tobia, e alla successiva, di Vango. In questa rubrica avevamo parlato del racconto Victoria sogna, su una ragazzina che in ogni grigiore scorge squarci onirici. Anche il racconto che esce ora parla di squarci di meraviglia dentro il grigiore, ma qui il tono malinconico della storia è forse maggiormente apprezzabile da un pubblico più adulto, quantunque essa si configuri come una struggente storia di Natale (a cui le belle illustrazioni di Campi danno valore aggiunto) anche per i giovani lettori. Qui i pro-
di Letizia Bolzani
tagonisti sono caratterizzati dalla dimensione della solitudine e del viaggio. C’è Gloria, una rondine che una mattina d’inverno inizia a volare controcorrente, verso il freddo Nord. Ha un nome perché le è stato dato da un essere umano: anni prima, in Africa, un bambino l’aveva raccolta, ferita, la mattina di Natale, e l’aveva salvata, facendole un nido con una scatola di latte della marca «Gloria». Un’altra marca, e un altro Natale, connotano il secondo personaggio: la scritta «Gelati Pepino & Schultz» che spicca sul camion giallo guidato da Freddy d’Angelo, un fattorino che la vigilia di Natale viaggia da Genova verso l’Inghilterra, per un’ultima conse-
gna. Freddy medita in silenzio, parla a tratti con un compagno di viaggio immaginario, perché a lui, davvero, nessuno rivolge mai la parola. Gloria vola alta nel cielo, Freddy attraversa i tunnel sull’autostrada, ed entrambi, senza saperlo, vanno nella stessa direzione. Gloria sente il suono del vento, Freddy ascolta Frank Sinatra. «Ho sempre amato le storie di Natale», ha detto de Fombelle in un’intervista su un canale francese, «soprattutto quando hanno ombre malinconiche, come nei film di Frank Capra, o nella canzone di Sinatra I’ll be home for Christmas. E amo quella sorta di diritto al miracolo che esse ci trasmettono, quando il buio viene illuminato da una scintilla». La scintilla arriverà nel commovente – e circolarmente perfetto – finale, quando Freddy, visto che la consegna viene annullata, si potrà fermare a casa sua in Francia: alla luce al neon della sua povera cucina Freddy riscalda la lattina che sarà la sua cena di Natale, allorché un guasto all’impianto elettrico fa saltare la luce (la luce è così importante, simbolicamente, in questa storia), e questo lo obbligherà, per una serie di motivi, a uscire e ad aprire il portellone del camion. E un terzo personaggio,
anch’egli solo e in viaggio, entrerà a illuminare la storia. Jarvis Signor Babbo Natale Lapis (Da 3 anni)
In copertina, il segno caldo e lieve dell’autore-illustratore inglese Jarvis ci presenta lo scenario che contiene questa storia: una bimbetta col pigiamino giallo è seduta insieme a Babbo Natale su una nuvola, in un cielo notturno punteggiato di stelle e di fiocchi di neve, tra pacchetti, bastoncini di zucchero e un orsacchiotto di peluche. Gli elementi più teneri del Natale ci sono tutti, e c’è anche la com-
plicità di sguardi tra gli occhi curiosi della bambina e quelli gentili, dietro gli occhiali, del suo vecchio interlocutore dal cappuccio rosso e dalla barba bianca. Perché di un dialogo tra i due si tratta, immerso in un’atmosfera magica tra sogno e realtà, suggerita anche dal Babbo Natale nella boule-de-neige del frontespizio, che ritroviamo poi, su un tavolino, nella prima scena di questa storia, quando, dal suo lettino, la notte di Natale, la bimba lo coglie (è il caso di dirlo) con le mani nel sacco. «Babbo Natale? Sei proprio tu?». Da qui comincia il fuoco di fila di domande che la piccola rivolge a Babbo Natale, e che costituiscono il filo conduttore dell’albo. Domande che passano dalla quotidianità della protagonista (Vuoi vedere i miei pesci? Vuoi sentire come suono il flauto? Sei più vecchio tu o nonno Aldo?) alla vita magica di Babbo Natale (Ma tu conosci tutti i pupazzi di neve? Posso diventare uno dei tuoi elfi?). Domande che ogni bimbo si potrebbe porre, e che non hanno risposta da Babbo Natale, perché il loro è uno di quei dialoghi silenziosi e meravigliosi in cui l’infanzia si pone in ascolto (come accade nella preghiera), della trascendenza e dell’altrove.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 9 dicembre 2024
azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ / RUBRICHE
Approdi e derive
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di Lina Bertola
Il nostro viaggio creativo ◆
«Noi assicuriamo la tua creatività!»: questa la solenne promessa affidata agli schermi televisivi da una compagnia di assicurazione. E voilà, mi son detta, ci risiamo, nell’enfasi di tali proclami pubblicitari il valore della creatività viene sì riconosciuto e affermato, ma consegnato al linguaggio promozionale del mercato, come fosse un oggetto qualsiasi, un bene di consumo in nostro possesso, un valore con un prezzo da proteggere. Ripensata dentro una prospettiva pragmatica e utilitaristica, è come se la creatività perdesse in un certo senso la sua anima, come se ci si dimenticasse del suo essere una radice della nostra umanità, espressione del senso e del valore della vita. Questa riduzione del suo valore e della sua intima presenza in ciascuno di noi è una deriva semantica tipica del nostro tempo in cui sempre più spesso facciamo scivolare lo sguardo da ciò che siamo a ciò che abbiamo o sap-
piamo fare. Già nel 2009, anno europeo della creatività, se ne era parlato come di una competenza in grado di migliorare l’efficienza in molti ambiti professionali. Eppure si tratta di una parola forte della vita che abita l’intimità del nostro stare al mondo come promessa e desiderio di bellezza, come una spinta esistenziale che ci sospinge sempre al di là dell’esperienza immediata. Creatività è desiderio e ricerca di armonia e di bellezza, valori che ci chiamano a proiettarci in un orizzonte di trascendenza; valori radicati nella nostra umanità, fin dalle radici della nostra civiltà. Il «nulla di troppo», scolpito sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, ad esempio, è un’immagine potente della soglia dell’umano, del suo limite che orienta, protegge e dà bellezza al nostro desiderio di trascendenza e di infinito. Del valore dell’armonia sono simbolo anche le virtù dell’anima, temperanza, coraggio, intelligenza,
con cui Platone fonda una città felice abitata da uomini felici. E questa felicità come tensione esistenziale è ben espressa nell’idea di virtù di Aristotele, nel compito etico di far fiorire le potenzialità intrinseche, ma sempre originali, in ognuno di noi. Fin da queste rappresentazioni fondative della nostra civiltà è forte la presenza di uno slancio creativo che abita in noi come un altrove a cui tendere. Se impariamo a riconoscerla e ad ascoltarla, questa tensione ideale del vivere può manifestarsi nell’esperienza di ognuno, fin nei minuscoli gesti quotidiani. In ciascuno di noi ci sono posture dell’anima che accolgono ed esprimono il gesto creativo di cui siamo fatti. Ciò può accadere ogni volta che sporgiamo lo sguardo oltre il nostro cielo e restiamo in ascolto e in attesa, magari rapiti da una domanda inaudita, o quando riusciamo ad accogliere la realtà senza bisogno di addomesticarla e l’in-
visibile diventa allora visibile. Ed è ancora la creatività che abita in noi a farci attendere l’inatteso e ad invitarci a vedere il non ancora visto e a manifestarsi ogni volta che riusciamo ad ospitare uno sguardo poetico sulla vita. Il che significa, molto semplicemente, ogni volta che entriamo in contatto con noi stessi e con il mondo, come se tutto nascesse per la prima volta. Per la filosofa Annah Arendt proprio la natalità, il nascere, sta a fondamento della creatività. «La nascita – scrive – è il miracolo che preserva il mondo dalla sua normale, naturale, rovina». La nascita in quanto tale è divina ed è a fondamento della creatività proprio perché è la condizione di ogni possibilità dell’agire umano. Se gli uomini possono fare qualcosa di nuovo è perché sono qualcosa di nuovo. Coltivare l’essere nascente che siamo, sentire l’autenticità sempre inaugurale del vivere, mi sembra un invito ir-
rinunciabile per comprendere il valore della creatività. E per lasciarla fiorire in noi. Ma non è sempre facile, ne è prova la deriva semantica, ma anche concettuale, che la riduce ad una competenza performante, un valore aggiunto, molto utile nell’esercizio delle nostre attività. Questa riduzione del suo significato e del suo valore corrisponde all’attuale atmosfera culturale che ci chiama ad esibirci in un presente assoluto in nome di un pragmatismo efficientista. Ma questo nostro modo di stare al mondo lascia sullo sfondo quell’orizzonte di senso in cui riconoscerla e coltivarla come sorgente preziosa del nostro vivere e convivere. A questa creatività in qualche modo tradita, consegnata a visioni riduttive dell’umano, mi piace rispondere con un luminoso pensiero che attraversa tutta l’opera della filosofa Maria Zambrano a ricordarci che «il nostro viaggio è sempre creazione».
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Terre Rare
di Alessandro Zanoli
Una rincorsa infinita ◆
A distanza di qualche settimana torniamo ad occuparci dell’Ufficio federale della cibersicurezza UFCS (https://www.ncsc.admin.ch). Lo spunto ce lo offre un’interessante intervista che il suo direttore Florian Schütz (bel caso di nomen omen…) ha concesso al nostro settimanale confratello, «M-Magazin», e che ci sembra utile riprendere in questo spazio, per dare anche ai nostri lettori la possibilità di avere un’informazione di «prima mano» su quanto la Confederazione sta attuando in un settore particolarmente delicato. E se nella nostra intervista a uno dei responsabili, Roman Hüssy, («Azione» del 22 luglio e 19 agosto 2024) avevamo cercato di capire principalmente come lavora questa unità investigativa cibernetica, nel contributo di «M-Magazin» (a firma di Pierre Wuthrich) troviamo invece indica-
zioni più ampie sulle dinamiche generali che caratterizzano il tema della cibercriminalità. Come spiega Florian Schütz, ogni giorno in Svizzera vanno a segno numerosi attacchi informatici a persone singole o ad aziende. Nel primo caso l’obiettivo è avere accesso ai dati personali per accedere a conti bancari. Nel secondo si tratta invece di tentativi di richiesta di riscatto dopo aver bloccato l’accesso ai server aziendali e dopo averne reso inutilizzabile il contenuto. Queste manovre si devono in gran parte a bande criminali internazionali ben organizzate, ma non mancano anche situazioni di cui si rendono responsabili gruppi politicamente motivati, che cercano di bloccare l’accesso a siti ufficiali o servizi pubblici, ad esempio per motivi di propaganda politica o per avere accesso a dati sensibili.
Le parole dei figli
Secondo il responsabile dell’UFCS, in Svizzera il livello di sicurezza informatica generale non è omogeneo: da una parte ci sono banche e istituti finanziari che, per garantire la sicurezza dei loro clienti, sono chiaramente interessati a difendere al massimo le informazioni in loro possesso e i loro sistemi informatici. Altre istituzioni, ad esempio quelle legate al mondo della salute come ospedali e cliniche, hanno meno risorse da investire nel settore della sicurezza informatica, e quindi risultano più vulnerabili. E se, pensando alla favorevole situazione economica della Svizzera, potesse sorgere il dubbio che la ricchezza nazionale sappia suscitare di per sé un interesse speciale e attiri maggiormente l’attenzione dei malintenzionati, secondo Schütz in realtà il problema è diffuso in tutte le nazioni
industrializzate e la nostra realtà non è un bersaglio più appetitoso di altri. La Svizzera, forse, risulta più interessante per la presenza di numerose organizzazioni internazionali, in particolare nell’area di Ginevra, da cui potrebbe essere possibile estorcere informazioni riservate o rilevanti. Va notato che la sempre maggiore utilizzazione di sistemi basati sull’Intelligenza artificiale ha dato una spinta al settore della cibercriminalità ma, per converso, l’IA può essere usata anche per intercettare i tentativi di frode «artificialmente intelligenti». L’IA sa rivelarsi molto utile, ad esempio, nell’identificare le falle di sistemi informatici poco sicuri e a rischio, mentre è per ora meno efficace nell’individuare altre forme di truffa, quali i video «artefatti». Ma il futuro porterà sicuramente a miglioramenti anche nell’uso «di-
fensivo» di questa nuova tecnologia. In conclusione, Florian Schütz, ricorda a noi utenti meno esperti le regole base per garantirci un minimo di sicurezza nell’uso dei nostri apparecchi informatici. Tra questi l’uso più frequente possibile dell’identificazione a due fattori e il costante aggiornamento dei sistemi operativi installati su smartphone, tablet e computer. Ne riparleremo in questa rubrica, perché siamo sicuri che molti utilizzatori quotidiani di elettronica di consumo non sappiano bene come gestire tali misure minime di difesa. E magari le stanno già usando senza rendersene conto. E questo è un aspetto davvero stupefacente, per certi versi, del nostro rapporto con il mondo digitale. A volte è quasi come se stessimo guidando una macchina senza avere la patente…
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di Simona Ravizza
BookTok
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«Fenomeno #BookTok». I lettori boomer possono essersi imbattuti in questo hashtag leggendo le classifiche dei libri più venduti. Noi genitori invece lo vediamo sempre più spesso declinato ne Le Parole dei figli alla domanda: cosa stai leggendo? Se la risposta è Una brava ragazza è una ragazza morta (ed. Rizzoli aprile 2023) della 32enne londinese Holly Jackson, It ends with us. Siamo noi a dire basta della 43enne statunitense Colleen Hoover (ed. Sperling & Kupfer marzo 2022) oppure la serie Love me Love me dell’italiana Stefania S. (ed. Sperling & Kupfer maggio 2023, oggi al quarto volume dal titolo Ancora insieme, uscito il 26 novembre 2024) vuol dire che i nostri figli fanno parte della community che ama pubblicare video recensioni sul libro appena letto o farsi suggerire il prossimo da acquistare dal social TikTok. BookTok è infatti l’hashtag
che caratterizza queste discussioni (book vuol dire libro in inglese e tok riporta alla piattaforma cinese). Il fenomeno inizia a prendere piede nel novembre 2020, effetto collaterale della pandemia Covid che ci ha chiusi in casa. Il 5 aprile 2023 su TikTok esce un comunicato stampa che annuncia: «La celeberrima enciclopedia Treccani, considerata come la massima impresa editoriale italiana in ambito culturale, e che ogni anno sancisce l’ingresso di nuovi termini nel vocabolario italiano, ha aggiunto BookTok tra i neologismi del 2023. Un riconoscimento che conferma l’impatto dell’hashtag, oltre 120 miliardi di visualizzazioni in tutto il mondo, e quasi 2 miliardi per #BookTokItalia». A sua volta la Treccani sottolinea: «Il neologismo intende raggruppare tutti i contenuti TikTok in cui i libri vengono recensiti e analizzati».
La lista dei titoli più chiacchierati sul social è lunga e in continuo aggiornamento. Oggi molte librerie hanno iniziato a creare angoli in negozio con l’esposizione dei libri consigliati dalla community. E anche gli store online hanno una sezione dedicata. Il sito della casa editrice Mondadori spiega: «I libri #BookTok sono il fenomeno editoriale del momento». Nel maggio 2024 il Salone del Libro di Torino, da 36 anni la più importante manifestazione italiana nel campo dell’editoria, istituisce la prima edizione del premio TikTok Book Awards con migliaia di giovanissimi che votano su app i loro autori, creator, libri e case editrice preferiti. Proclamato libro dell’anno Una brava ragazza è una ragazza morta, ultimo testo della trilogia thriller che racconta le indagini della studentessa Pippa Fitz-Amobi, che per la tesina di fine anno decide di porta-
re come argomento l’omicidio della giovane Andie Bell, avvenuto anni prima nella città in cui vive, Little Kilton: «BookTok ha cambiato la mia vita», ammette l’autrice, Holly Jackson. Del resto, l’impatto di #BookTok sul mondo dell’editoria è davvero sorprendente. Un caso editoriale internazionale nato dal passaparola su TikTok è It ends with us. Siamo noi a dire basta, che racconta la relazione scandita da abuso emotivo e violenza domestica tra la giovane fioraia Lily e il 30enne neurochirurgo in carriera Ryle. Pubblicato da Atria Books il 2 agosto 2016, il romanzo arriva alla popolarità mondiale nel 2021 proprio grazie a TikTok. Ripubblicato in 29 Paesi, tra cui l’Italia: l’editore Sperling & Kupfer sceglie di non tradurre il titolo per sfruttare la familiarità degli utenti di TikTok con quello in inglese. Nel 2024 Justin Baldoni di-
rige l’adattamento cinematografico. E nel 2025 diventerà un film visibile in tutto il mondo sulla piattaforma Amazon Prime anche la saga Love me Love me, che racconta la storia di June White, una ragazza che si trasferisce a Laguna Beach, in California, dove cerca di farsi nuovi amici al liceo e incontra il bello e dannato James Hunter. Il libro inizialmente ha successo su Wattpad, l’app dove chiunque può scrivere e leggere storie in tutte le lingue, di cui abbiamo già parlato ne Le parole dei figli dell’aprile 2022. La prima scena di sesso è di autoerotismo, l’amore è anche queer, il protagonista maschile è bisessuale e combatte con la mascolinità tossica. Insomma: conoscere il trend social vuol dire comprendere la modalità consueta di approccio alla lettura della Generazione Z. E i suoi gusti letterari nei quali si riflette un modo di essere.
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ATTUALITÀ ●
«Aiuto umanitario da difendere» Intervista a Flavio Del Ponte, valmaggese, chirurgo di guerra, autore di un libro fresco di stampa in cui racconta l’inferno dei conflitti
Focus sulla Corea del sud Mentre le autorità proclamano e poi revocano la legge marziale, un’università femminile diventa il simbolo della lotta per i diritti delle donne
Una «lady di ferro» in salsa elvetica Karin Keller-Sutter sarà la nuova presidente della Confederazione e fin da subito dovrà fare i conti con diversi grattacapi
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Il tempo delle alleanze è finito
Prospettive ◆ La Nato, in crisi di identità, non riesce a trovare uno scopo mentre l’intesa opportunistica Russia-Cina potrebbe svanire da un momento all’altro. È l’ora del caos e non sappiamo quando potrà seguire un nuovo ordine Lucio Caracciolo
Il segno geopolitico dei tempi è il tramonto delle alleanze. C’erano una volta le grandi intese fra Stati raggruppati in blocchi, l’uno contrapposto all’altro. Caso di scuola la guerra fredda: Est contro Ovest, Patto di Varsavia contro Alleanza atlantica, regimi comunisti e liberaldemocrazie. Schema quasi cartesiano, ultimo erede del sistema degli Stati nazionali e/o dei relativi imperi lungo tutta la parabola dell’età moderna. Oggi l’Alleanza atlantica a guida americana è ancora formalmente in piedi, ma non ha molto a che vedere con il blocco occidentale fondato nel 1949 per contenere la minaccia sovietico-comunista. Quanto al resto, scomparso il Patto di Varsavia, restano vaghi allineamenti di opportunità, privi di vere strutture e senza un leader da tutti riconosciuto. Oppure sigle mediatiche variamente interpretabili, come il «Sud globale», i Brics o quant’altro. Benvenuti nel mondo delle relazioni transazionali, caso per caso e dossier per dossier. Ognuno per sé, nessuno per tutti.
La Nato, incarnazione dell’Occidente a guida statunitense, soffre della crisi di tale egemonia. Nella foto il segretario di Stato americano Antony Blinken al meeting dell’Alleanza a Bruxelles, settimana scorsa. (Keystone)
Il clima negli Usa, espresso nel motto trumpiano «America first», racconta il distacco del «numero uno» dagli impegni formalizzati nel Patto atlantico Prendiamo due esempi eminenti: la Nato e l’intesa Russia-Cina. Nel primo caso, assistiamo all’involuzione di una poderosa alleanza militare, incarnazione dell’Occidente a egemonia statunitense, che soffre della crisi di tale egemonia. Nel secondo, le due grandi potenze che sfidano gli Stati Uniti sono in realtà avversari che per contingenze storiche si usano reciprocamente onde contare di più nella competizione con il «numero uno». A quasi quarant’anni dalla fine della guerra fredda, l’Alleanza atlantica con la Nato quale impalcatura militare è ancora alla ricerca di uno scopo. Dal punto di vista della superpotenza promotrice, questa organizzazione è sempre stata la cornice di un sistema di alleanze bilaterali costruito secondo il modulo perno/raggi (hub/ spoke). Tutti i Paesi atlantici facevano affidamento sull’ombrello atomico americano quale estrema garanzia di sicurezza contro eventuali aggressioni. Questa assicurazione sulla vita è oggi messa in questione. Sicché il senso stesso della Nato si è perso: se non serve a chi vi partecipa per poter contare sulla protezione americana, a che cosa serve? E per conseguenza, perché Washington deve impegnarsi ancora in una organizzazione i cui soci, dal suo punto di vista, viaggiano
a sbafo sul treno del «numero uno»? E che potrebbero spingerla in una guerra mondiale? Ora che Trump si accinge a reinstallarsi alla Casa Bianca riscopriamo il problema di fondo del nucleo occidentale: la crisi della fiducia reciproca. Dovuta alla scarsa comunanza di interessi, una volta coperta dall’esistenziale pericolo rosso. Si obietterà che dalla fine del secolo scorso l’Alleanza continua a espandersi, vedi il recente reclutamento di Finlandia e Svezia. Vero. Ma la questione è che più si allarga la famiglia meno il capofamiglia può impegnarsi a tutelare tutti. Classico problema di sovraesposizione (overstretching). Il famoso articolo 5 del Trattato di Washington, peraltro assai interpretabile, che nella versione mediatizzata esprime il motto dei moschettieri – tutti per uno uno per tutti – non è più credibile. A meno di non pensare che Washington consideri alla stessa maniera Regno Unito e Macedonia del Nord, Germania e Montenegro, Italia e Slovenia. La
guerra in Ucraina ha fatto esplodere la contraddizione fra allargamento e sicurezza. Più vasto ed eterogeneo lo spazio da difendere, meno efficace la deterrenza a stelle e strisce. Dunque la credibilità dell’Alleanza e del suo leader in crisi di identità.
Putin si è allineato alla Cina quando nel 2014 ha abbandonato il sogno di essere considerato dagli Usa come un partner autonomo ma paritario Le prime vittime di tale paradosso sono proprio gli ucraini. I quali hanno combattuto e continuano a combattere, malgrado tutto, per essere ammessi sotto l’ombrello di un’organizzazione che promette di integrarli un giorno, senza dire quale. Mentre è sempre più evidente che gli stessi americani non considerano imminente questo matrimonio. Le offerte di qualche alternativa all’integrazio-
ne piena nella Nato, sotto forma di eventuali impegni di potenze disposte a garantire la permanenza in vita di Kiev contro future aggressioni russe, sempre che nel frattempo si raggiunga un duraturo cessate-il-fuoco, non possono avere la stessa cogenza della membership atlantica. Il clima domestico negli Stati Uniti, espresso nel motto trumpiano «America first», esprime il distacco del «numero uno» dagli impegni formalizzati nel Patto atlantico. La Nato potrà esistere ancora per decenni, ma nessun socio vi si sentirà garantito come prima. Diverso il caso dell’allineamento russo-cinese, mai strutturato come alleanza organizzata e formalizzata. Putin vi si è adattato quando nel 2014 ha abbandonato il sogno di essere considerato dagli Usa come un partner autonomo ma paritario. Persa Kiev, non restava che cercare soccorso a Pechino. Dopo qualche esitazione, Xi Jinping ha stabilito che tutto sommato conviene legarsi provvisoriamente ai russi per due motivi
essenziali: far fronte comune contro l’egemonia americana e penetrare intanto nella sfera di influenza di Mosca, specie nell’Asia centrale post-sovietica e nella Siberia quasi disabitata e ricchissima di risorse. Russi e cinesi restano però alquanto diffidenti gli uni verso gli altri. L’America li ha spinti a unirsi, l’America potrebbe dividerli nel momento in cui scegliesse di optare per una tregua tattica con il partner russo – ma solo dopo un compromesso sull’Ucraina – nel frattempo dissanguato nell’«operazione militare speciale». In ogni caso, possiamo dimenticare per il tempo visibile le eleganti semplificazioni del mondo spartito in blocchi. È l’ora del caos, cui non sappiamo quando potrà seguire un nuovo ordine, eventualmente basato su nuove alleanze fra grandi potenze ciascuna dotata di propria sfera di influenza reciprocamente riconosciuta. L’importante intanto è non finire dentro una guerra mondiale che renderebbe tragicamente accademico il nostro ragionamento.
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ATTUALITÀ
La Svizzera non può guardare dall’altra parte
L’intervista ◆ Flavio Del Ponte, chirurgo valmaggese in contesti di crisi, non usa mezzi termini: «La guerra è un abominio contro cui bisogna insorgere ed è necessario difendere l'aiuto umanitario» Romina Borla
«La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire». Questa citazione di Albert Einstein, scritta su un cartoncino, campeggia nello studio di Flavio Del Ponte, medico valmaggese specializzato in aiuto umanitario e tanto di più, autore di un libro di recente pubblicazione che ci sentiamo di consigliare: Dissonanze. Storie di un chirurgo di guerra, Armando Dadò Editore. L’impulso più forte di scriverlo è arrivato il 24 febbraio 2022, quando è scoppiata la guerra in Ucraina. L’orrore che ritorna, non più lontano da casa sua, e lui «spettatore inerme e paralizzato» a seguirlo in tv. La guerra è una «schifezza, il macello di esseri umani», per continuare con le parole di Gino Strada, altro chirurgo di guerra che Del Ponte ha incontrato sul suo cammino. Un macello di tutti e tutte, che continua imperterrito, senza distinzioni di sorta. «Un abominio contro cui bisogna insorgere», afferma Del Ponte. «Pensiamo alle sofferenze indicibili inflitte ai bambini: ferite, mutilazioni, violenze, fame, abusi e uccisioni. Si tratta di crimini inumani che non si possono tollerare. Si deve cominciare da lì, dalla sofferenza muta dei piccoli innocenti e delle loro madri impotenti. Chi ordina la guerra a tavolino, magari pigiando un bottone, dovrebbe vedere e toccare con mano questo dolore… Come anche chi auspica tagli ai fondi per l’aiuto umanitario. Tagli senza senso, soprattutto in un Paese come la Svizzera che ha dato i natali alla Croce Rossa. Dobbiamo difendere l'aiuto umanitario e promuovere la cultura della medicina dell'umanitario, i cui contorni vanno meglio definiti, spingendo i giovani a buttarsi in quel campo dopo adeguata preparazione».
ge sempre. Ma situazioni terribili e scioccanti, nel momento in cui vengono vissute, non vengono percepite come tali. Poter fare qualcosa di pratico – ad esempio di fronte allo strazio di corpi dilaniati – in qualche modo ti distrae dal sovraccarico di emozioni. Che comunque resta impresso nel cuore e nella mente. In un secondo tempo bisognerebbe riprendere in mano il pesante carico, elaborarlo, per evitare di cadere nella spirale dello stress post-traumatico». Per fortuna c’erano le pause «salvifiche»: le sue missioni duravano qualche mese e poi tornava a casa, alla vita cosiddetta normale, per ricaricare le batterie. Poi c’erano i confronti con specialisti di psicologia, la musica – che è sempre stata una sua passione – e la stesura di un libro di ricordi dove Del Ponte torna a mettere mano alla sofferenza umana, che non finisce quando viene firmato un trattato di pace.
Bambini a Gaza aspettano il cibo portato dalle organizzazioni umanitarie. (Keystone)
Il Consiglio nazionale ha approvato una proposta che intende stralciare i 20 milioni destinati ai rifugiati palestinesi Intanto però arrivano notizie di senso opposto. Settimana scorsa il Consiglio nazionale elvetico ha approvato una proposta con cui s’intende stralciare i 20 milioni destinati all’UNRWA, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi. E, di recente, gli Stati Uniti hanno approvato l’invio di mine anti-persona in Ucraina, nonostante queste armi siano state messe al bando dalla comunità internazionale quasi 30 anni fa poiché «uccidono o mutilano centinaia di persone ogni settimana, per la maggior parte civili innocenti e senza difesa, in particolare bambini; ostacolano lo sviluppo e la ricostruzione economici; impediscono il rimpatrio dei rifugiati e delle persone dislocate sul territorio; e comportano ulteriori gravi conseguenze durante gli anni successivi alla loro posa» (vedi Convenzione di Oslo del 1997, ratificata dalla Svizzera ma non da Stati Uniti, Russia, India e Cina). Sofferenza muta dei più piccoli, dicevamo, ma anche resilienza. Spiega Del Ponte: «I bambini dispongono di un potentissimo “riflesso interno vitale”. Riescono cioè a passare dal dolore più acuto all’allegria, alla libertà della fantasia. Ne ho visti tanti animare lo spirito degli ospedali: giocavano con nulla, avvolti nelle loro len-
Dopo un conflitto il Paese è in ginocchio, in preda alla disperazione e alla povertà. Non ha i mezzi per andare avanti
zuola che di giorno diventavano i loro vestiti, giravano tra i giacigli inventando mondi. Riuscivano a divertirsi in contesti poco rallegranti, ad inventarsi un clima famigliare che faceva bene anche agli adulti... E partecipavano ad ogni attività con entusiasmo. Ad esempio in Africa abbiamo pro-
posto dei corsi di lingue e tutti loro aderivano, attentissimi e impegnati. L’intento era quello di spezzare le giornate infinite dei piccoli ricoverati in ospedale». Strutture di cura che, nelle varie parti del mondo, assumono contorni diversi da quelli a cui siamo abituati. Nel saggio del medico valmaggese sono descritti tanti ospedali, come quello Digfer di Mogadiscio: «Un mastodonte malconcio» dove «le sale operatorie, se davvero era possibile chiamarle così, giacevano in uno stato che non saprei neppure descrivere. In un caos totale si cercava di fare quanto possibile con mezzi ridottissimi, l’igiene inesistente, l’elettricità a singhiozzo. (…) Per terra e ovunque erano disseminati stracci e compresse intrise di sangue e di altri liquidi, brandelli di abiti sudici buttati lì assieme a pezzi di stoffa che ancora avvolgevano i resti di vecchie amputazioni». Lo scontro con la dura realtà dei contesti di crisi era forte – osserva il nostro interlocutore – ma poi ti abituavi e «devo dire che nelle strutture della Croce Rossa eravamo privilegiati; se mancavano mate-
riale o strumenti lo annunciavamo e giungevano la settimana seguente». Del Ponte ci parla anche dell’incontro, nei diversi Paesi visitati, con la medicina tradizionale ovvero con gli «esperimenti» condotti dai guaritori del posto utilizzando polvere vegetale, sterco di cammello, frutta macerata, uccelli schiacciati, frattaglie e molto altro. «Ho sempre avuto l’impressione che si trattasse di cure dirette all'anima più che al corpo», afferma. «Naturalmente non reagivo sempre bene quando mi chiamavano, di notte, nel reparto degli “operati”, poiché alcuni pazienti avevano le ferite aperte ricoperte da piume colorate e sostanze non ben definite». Ma si trattava di un insieme di credenze e rituali da considerare e rispettare. Il nostro interlocutore – sia nel saggio sia nell’intervista – affronta a più riprese il tema del lato umano della medicina, racconta di quando ti tremano i polsi davanti a un essere umano che soffre o che sta per morire. «Il personale curante – osserva – si trova spesso a dover gestire situazioni molto difficili, ancora più forti in contesti bellici. Il lato emotivo emer-
Da Bignasco verso il resto del mondo Flavio Del Ponte nasce a Bignasco, in Vallemaggia, nel 1944. Dopo il Ginnasio al Collegio Papio di Ascona e il Liceo a Einsiedeln si laurea in Medicina, specializzandosi in chirurgia generale e traumatologia di guerra. Dopo le prime esperienze professionali negli ospedali di Cevio e Locarno, parte per una missione all’estero: a Lambaréné, in Gabon, dove cura anche i malati di lebbra. Da lì è un susseguirsi di ritorni e partenze. Del Ponte opera infatti in svariati contesti di crisi quali Cambogia, Vietnam, Laos (1983-86 per conto della Croce Rossa svizzera), Pakistan, Thailandia, Somaliland, Somalia, Kenya, Sud Sudan, Arabia Saudita, Kuwait, Iraq e Haiti (per il Comitato internaziona-
le della Croce Rossa). Lavora anche per l’Oms e l’Unicef. A 50 anni non solo diventa coordinatore medico dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) in Tanzania, ma anche osservatore delle elezioni politiche in Sudafrica, le prime a suffragio universale dopo l’abolizione dell’apartheid (1994). Poi arriva il genocidio in Ruanda, dove l’odio tra Tutsi e Hutu porta al massacro di oltre 800 mila persone (la chiamata arriva dal Corpo svizzero di aiuto umanitario). Il centro degli aiuti umanitari è Goma. Del Ponte ricorda il terrore, i cadaveri, l’epidemia di colera e i superstiti: un esercito di «disperati vagabondi, affamati e ma-
lati, che non si potevano nemmeno chiamare rifugiati, miserrimo com’era il loro stato». Nel 1994 si trasferisce a New York, dove lavora per la Divisione operazioni per il mantenimento della pace dell’Onu, quando il sottosegretario generale è Kofi Annan. Nel 1996 torna a Berna al Dipartimento degli affari esteri nella Divisione della Cooperazione allo sviluppo portando avanti – tra le altre cose – la battaglia contro le mine anti-persona, la lotta all’Aids e le ricerche sul bioterrorismo. «Solo oggi – dice Del Ponte – mi accorgo, a fine corsa, di una vita così variata e appassionante che m’è passata accanto quasi senza che me ne accorgessi».
Dopo un conflitto infatti il Paese è in ginocchio, in preda alla disperazione e alla povertà. Non ha i mezzi per andare avanti. Tra i sopravvissuti – anche quelli curati dai medici dell’umanitario – c’è chi ritrova la salute perfetta, almeno quella del corpo, ma la maggioranza rimane bisognosa di cure per tutto il resto della vita. Vive un’esistenza miserabile, magari senza famiglia, senza nessuno che se ne prende cura. «E qui – dice l’intervistato – si evince l’importanza dell’aiuto allo sviluppo e alla cooperazione: un sostegno preziosissimo che non può mancare e deve obbligatoriamente seguire alla prima fase dell’aiuto umanitario che salva la vita». Nel saggio si parla anche di come avvicinarsi alle professioni dell’umanitario, del tormento per la discriminazione delle donne dentro e fuori gli ospedali, della lentezza burocratica delle istituzioni nonostante le urgenze del mondo, dei dubbi... Ma non c’è spazio per lo scoraggiamento. «Mai. Non ci si può fermare. Bisogna tornare ai principi fondamentali, ai trattati – così spesso disattesi – dei diritti umani e dei bambini. Aggrapparsi alla speranza, cambiare rotta. Mi ripeto: ai Paesi che non sono in grado di risalire la china occorre un aiuto, servono più mezzi e persone». Inoltre – aggiunge Del Ponte – bisogna lavorare sulla formazione nella medicina dell’umanitario. Tentativi sono stati fatti, ma ad oggi in Svizzera non esiste una specializzazione universitaria ad hoc. Sono comunque presenti corsi interessanti di formazione a livello internazionale (ad esempio www.dismedmaster.com) al quale il nostro interlocutore ha potuto dare una mano per alcuni anni come insegnante invitato. Gli resta il rimpianto di non essere riuscito ad «impiantarlo» in Svizzera e si augura che altri lo sapranno fare: «Il bisogno è oggi più pressante che ieri». Il saggio Flavio Del Ponte Dissonanze. Storie di un chirurgo di guerra Armando Dadò Editore.
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ATTUALITÀ
Le studentesse sudcoreane alzano la voce
Seul ◆ Mentre le autorità proclamano e poi revocano la legge marziale, un’università femminile diventa il simbolo della lotta per i diritti delle donne in un Paese che non li riconosce affatto Giulia Pompili
A Seul, la capitale della Corea del sud, tutti parlano della legge marziale durata 150 minuti, proclamata a sorpresa dal presidente Yoon Suk-yeol martedì scorso contro «le forze anti-istituzionali» del Paese, e poi subito revocata grazie al forte sistema democratico sudcoreano, ma che in quella nottata di caos, blindati per strada e voti parlamentari notturni ha aperto una profonda ferita nel Paese. Una crisi che non è soltanto politica ma che riguarda la società intera, polarizzata ed estremizzata, di una Nazione che ha ancora molto da elaborare del proprio passato e da far evolvere nel proprio presente. Quello che è accaduto di recente in una nota università di Seul aiuta a spiegare un pezzo di questa storia.
È iniziato tutto quando il consiglio universitario ha paventato la possibilità di ammettere studenti maschi ai corsi Due giovani sulla ventina sono stati arrestati dalla polizia della capitale perché sorpresi a scavalcare la recinzione per introdursi nel campus della Dongduk Women’s University. I due hanno poi spiegato alle forze dell’ordine che volevano dare un’occhiata perché incuriositi da quello che stava succedendo all’interno dell’università, e magari scattare qualche foto. In Corea del Sud quel campus è infatti diventato un caso, per la protesta delle sue studentesse: una vicenda che ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il problema della parità di genere nel Paese e del violento sentimento anti-femminista che muove gran parte della società iperconservatrice coreana. È iniziato tutto il 4 novembre scorso, quando il consiglio universitario ha aperto ufficialmente alla possibilità di ammettere studenti maschi ai corsi. La Dongduk Women’s University, fondata nel 1950, si trova nel Distretto di Seongbuk della capitale su-
Il campus della Dongduk Women’s University con i segni della protesta. (Korea JoongAng Daily)
dcoreana. È un’università privata, non è particolarmente prestigiosa come la Ewha Womans University, ma è una delle otto rimaste su tutto il territorio nazionale ad accettare soltanto studentesse di sesso femminile. Le scuole esclusivamente femminili in Europa ricordano qualcosa di antico e superato, ma sono luoghi che le donne coreane rivendicano per una ragione: la presenza di colleghi maschi, secondo molti studi pubblicati recentemente, le penalizza dal punto di vista delle performances scolastiche – a parità di preparazione i maschi sono quasi sempre privilegiati – e anche nella vita quotidiana. Con lo stesso diploma di laurea, un uomo ha molte più possibilità di trovare lavoro rispetto a una donna. Inoltre, la cultura maschilista delle università miste costringe le donne a seguire tradizioni considerate ormai superate, come il ruolo subordinato e servizievole che dovrebbero avere nei confronti degli studenti maschi. Que-
sti ultimi, spesso più grandi delle loro colleghe a causa del servizio militare obbligatorio, godono di maggiore considerazione. Anche per queste ragioni, le donne occupano appena il 20 per cento dei seggi parlamentari in Corea e rappresentano solo il 7,3 per cento dei dirigenti delle prime cinquecento aziende del Paese, che si classifica al 94° posto su 146 Paesi in termini di uguaglianza di genere (secondo il World Economic Forum). Quando la Dongduk Women’s University ha iniziato a ventilare l’ipotesi di un’apertura anche agli studenti maschi, lo ha fatto per via del declino degli introiti delle iscrizioni legato alla crisi demografica. Tuttavia le studentesse hanno immediatamente iniziato la loro protesta: è stato creato un comitato d’emergenza e avviato un presidio permanente nel campus, con lezioni boicottate e tenute online come ai tempi del Covid. «Sebbene l’università non sia un ri-
fugio perfetto, ci siamo sempre sentite libere all’interno del campus universitario, ed eliminare uno spazio sicuro dove le donne possono esprimere liberamente le proprie opinioni va contro gli scopi fondativi dell’università», ha dichiarato ai media coreani Lee Song Yi, copresidente del comitato d’emergenza universitario. C’è stata addirittura una votazione studentesca, in cui, delle 1973 studentesse che hanno partecipato, 1971 hanno votato contro la proposta di apertura e due si sono astenute. Col passare dei giorni la situazione si è fatta più tesa: il 12 novembre scorso al campus è arrivata la polizia, chiamata ufficialmente per «rumori notturni». C’è un video di quel confronto, in cui un agente dice alle ragazze: «Un giorno sarete insegnanti e madri, quale esempio darete?», una frase sessista che ha provocato ancora di più la rabbia delle manifestanti. È bastata una settimana perché la
protesta alla Dongduk attirasse l’attenzione di attivisti per i diritti degli uomini e di altre figure politiche di estrema destra e populiste, trasformando il conflitto legato all’università in qualcosa di più esteso. L’associazione sudcoreana Man on Solidarity, molto nota per le sue posizioni anti-femministe e in passato più volte criticata per aver preso di mira e molestato attiviste femministe, ha organizzato delle proteste e dei sit-in contro le ragazze della Dongduk, iniziando una campagna sui loro seguitissimi social contro le «radicali femministe» delle università. Qualche esponente politico non ha perso l’occasione di criticare la «dottrina woke», ed è allora che sono iniziate perfino le minacce online, anche di morte, contro le studentesse. Una dei membri del consiglio studentesco ha dichiarato a «The Guardian» in forma anonima: «La decisione unilaterale dell’università, presa senza consultare chi vive e studia qui, ci ha lasciato senza scelta se non alzare la voce». Le donne coreane sono ormai abituate a farlo: come quando, a milioni, qualche anno fa sono scese in piazza per chiedere di criminalizzare l’installazione delle microcamere e la diffusione senza consenso di video intimi. Oppure più di recente, qualche mese fa, per chiedere alle istituzioni di intervenire per fermare «l’epidemia di deepfake pornografici», ossia falsi video con il volto di donne comuni usati per lo più a scopo estorsivo. Il 22 novembre scorso il consiglio universitario ha comunicato alle studentesse di aver archiviato, per il momento, l’ipotesi di un’apertura a studenti maschi: la prima battaglia l’hanno vinta loro. Le lezioni sono ricominciate, ma la Dongduk è già un simbolo della lotta per i diritti delle donne in Corea del Sud. Nessun politico, né di destra né di sinistra, men che meno l’uomo della legge marziale Yoon Suk-yeol, ha mai ancora affrontato politicamente il tema dei diritti, delle libertà delle donne e della parità di genere in Corea del Sud, e questo qualcosa vorrà dire.
Ogni contributo nel pilastro 3a serve a ridurre l’onere fiscale
La consulenza della Banca Migros ◆ Chi esercita un’attività lucrativa, può migliorare la propria previdenza per la vecchiaia con qualsiasi versamento, anche di piccola entità
Per il pilastro 3a mi restano 500 franchi all’anno. Vale la pena versarli? Sì, perché chi esercita un’attività lucrativa, può migliorare la propria previdenza per la vecchiaia con qualsiasi versamento, anche di piccola entità.. I capitali del pilastro 3a accumulati e remunerati integrano la previdenza statale (AVS) e la previdenza professionale (LPP). Questo risparmio aiuta a garantire il proprio tenore di vita nella terza età in quanto, spesso, i primi due pilastri non bastano. Nel lungo termine, anche piccoli contributi al pilastro 3a sono convenienti. Versare regolarmente è più importante dell’ammontare dei versamenti annuali: in questo modo si crea una routine di risparmio che aiuta a rag-
giungere meglio gli obiettivi finanziari. Per distribuire l’onere finanziario sull’arco dell’anno, è possibile anche effettuare versamenti mensili. Prima si inizia con i versamenti, tanto più si beneficia dell’effetto dell’interesse composto, poiché il capitale dell’anno precedente già remunerato viene reinvestito con gli interessi. Nel corso degli anni, quindi, i piccoli importi possono crescere notevolmente. Versando annualmente 500 franchi, dopo 30 anni si avrebbero circa 17’300 franchi sul conto del pilastro 3a. Isabelle von der Weid, consulente alla clientela della Banca Migros ed esperta in previdenza.
Ridurre l’onere fiscale Se si vogliono migliorare le proprie opportunità di rendimento è consi-
gliabile investire i capitali del pilastro 3a in titoli come azioni o obbligazioni. In tal caso bisogna trasferire l’avere dal conto 3a a un fondo 3a. A seconda della strategia d’investimento, è possibile ottenere rendimenti fino al 6% l’anno. Un fondo previdenziale comporta tuttavia anche fluttuazioni del patrimonio. Per compensare sul lungo periodo le perdite temporanee è quindi consigliabile investire il più possibile a lungo termine. L’orizzonte d’investimento dovrebbe essere compreso tra quattro e dieci anni almeno, a seconda della quota azionaria del fondo previdenziale. A prescindere dall’importo dei versamenti, ogni contributo nel pilastro 3a riduce l’onere fiscale. È possibile infatti dedurre i versa-
menti dal reddito imponibile fino all’importo massimo annuo (7056 franchi per il 2024). Di recente il Consiglio federale ha deciso di consentire in futuro i versamenti retroattivi nel pilastro 3a. Questo tuttavia non vale ancora per il 2024. Pertanto è consigliabile, se possibile, versare l’importo massimo. Consiglio Quest’anno non ha ancora investito nel pilastro 3a? Allora effettui un versamento sul conto 3a entro metà dicembre. In tal modo potrà ottimizzare le imposte per il 2024. Alla Banca Migros è possibile effettuare il bonifico online entro il 27 dicembre.
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ATTUALITÀ
Una «lady di ferro» svizzera e azzoppata
Berna ◆ Karin Keller-Sutter sarà la nuova presidente della Confederazione e fin da subito dovrà fare i conti con diversi grattacapi, a partire dal compito di gestire le finanze senza un preventivo approvato dal Parlamento
Per cominciare affidiamoci a due curiosità, legate alla figura di Karin Keller-Sutter (nella foto), la futura presidente della Confederazione. Il primo aneddoto ci porta sul ring di una palestra di pugilato. Una pedana calcata su per giù per un’ora alla settimana, proprio dalla ministra delle finanze. Un’ora e nulla più, perché troppi sono i suoi impegni. Un modo per «staccare completamente dalla politica», come ha fatto sapere lei stessa, parlando di tanto in tanto di questa sua insospettabile passione. Il secondo aneddoto ci viene invece rivelato dal settimanale svizzero-tedesco «Das Magazin». In un lungo articolo si viene a sapere che la signora KKS, questo il suo arcinoto soprannome, conserva sul suo comodino di fianco al letto una copia della regola di San Benedetto, norme religiose che risalgono a 1500 anni fa. «Ora et labora» prevedeva questo santo patrono d’Europa, una regola che ancora oggi struttura in momenti e compiti ben precisi la giornata nei monasteri di questo ordine. Precetti che la consigliera federale del PLR applica anche alla politica, facendo leva su principi simili: la disciplina – pure quella di bilancio – e la necessità di affidare a regole ben definite anche il credo liberale che è alla base della sua azione di governo. Sangallese d’origine, nata a Wil nel 1963, Keller-Sutter ha una formazione di traduttrice e di interprete ma anche di docente. È stata eletta in Consiglio federale nel dicembre del 2018, dopo una lunga carriera politica iniziata più di 30 anni fa proprio a Wil e proseguita poi nel Parlamento e nel Governo del suo Cantone, dove ha iniziato a costruire la sua reputazione, ormai consolidata, di «lady di ferro» della politica svizzera. Dal primo gennaio dell’anno prossimo sarà lei a guidare il Governo, la sua elezione a presidente della Confederazione è prevista questo mercoledì, 11 dicembre. Per lei la festa, i complimenti e i sorrisi saranno
molto probabilmente di breve durata. La sua nomina si inserisce in una sessione invernale delle Camere federali segnata da un’estenuante maratona di dibattiti attorno al preventivo 2025. E tocca a lei, sentinella delle finanze federali, fare in modo che il nostro Paese possa disporre di un bilancio già a partire dall’inizio del prossimo anno. Le prime ore di questo dibattito hanno finora lasciato capire che KKS rischia di cominciare il suo anno presidenziale negli scomodi panni di ministra azzoppata, con il compito di gestire le finanze senza un preventivo approvato dal Parlamento. Mai prima d’ora la Svizzera si era ritrovata in una situazione del genere. I conti della Confederazione navigano nelle cifre rosse ma una maggioranza del Parlamento, composta da UDC, PLR e Centro, vuole accrescere, e velocemente, gli investimenti in favore dell’esercito, visto il contesto geopolitico del momento. Per Keller-Sutter si sta andando troppo in fretta e c’è ora persino il rischio di dover in qualche modo aumentare le entrate, come lei stessa ha fatto capire davanti al Parlamento.
I conti della Confederazione navigano nelle cifre rosse ma una maggioranza del Parlamento vuole accrescere gli investimenti in favore dell’esercito Del resto, lei e il Consiglio federale hanno varato un pacchetto di rientro da 3 miliardi e mezzo di franchi, e per KKS questa è una soglia da rispettare, anche perché non si tratta di risparmi veri e propri ma di una riduzione dell’aumento delle spese. Sullo sfondo c’è anche il grande dibattito attorno al freno all’indebitamento, strumento approvato dal popolo a stragrande maggioranza e difeso a spada tratta dalla ministra del PLR. A sinistra però lo si considera un meccanismo troppo
Keystone
Roberto Porta
rigido, che impone al Paese un irragionevole rigore finanziario. Due visioni diametralmente opposte che ci accompagneranno anche nei prossimi anni, visto che i conti in rosso hanno assunto ormai una dimensione strutturale. Ma come se non bastasse, la futura presidente della Confederazione dovrà fare i conti anche con altri grattacapi. Entro la fine dell’anno verrà infatti pubblicato il rapporto della Commissione parlamentare d’inchiesta istituita per far luce sul tracollo del Credit Suisse e sul suo passaggio nelle mani di UBS. Un’operazione gestita proprio da Keller-Sutter e considerata un successo anche a livello internazionale, tanto che nel 2023 il «Financial Times» iscrisse la nostra ministra tra le 25 donne più influenti del mondo. Il Parlamento ha comunque voluto vederci chiaro, dopo aver bocciato a posteriori, e senza effetti concreti, i crediti miliardari a sostegno di questa operazione. E così sotto inchiesta è finita anche lei, a tal punto che i risultati di questa indagine potrebbero
anche intorbidire la sua immagine di «salvatrice della Patria». Se ne saprà di più nelle prossime settimane. Ciò che è certo, invece, è che da neo-presidente della Confederazione KKS dovrà anche posizionare il nostro Paese nei confronti della nuova amministrazione statunitense, che dal prossimo 20 gennaio tornerà a trovarsi nelle imprevedibili mani di Donald Trump. Gli Stati Uniti sono ormai diventati il nostro principale mercato di esportazione, le relazioni con Washington vanno considerate una priorità, come lo sono anche i rapporti con l’Unione europea. I negoziati per stabilizzare le relazioni bilaterali sono entrati nella fase conclusiva, molto lascia pensare che la firma conclusiva di questi nuovi accordi verrà apposta ancora prima della fine dell’anno. Ma c’è chi ritiene che queste trattative andranno ai tempi supplementari, in questo caso potrebbe toccare proprio alla ministra l’onore e l’onere di sottoscrivere in primavera quelli che vengono chiamati i bilaterali del futu-
ro. Tante sfide per la neo-presidente e per colei che viene considerata la figura più forte all’interno del Consiglio federale, anche perché può spesso appoggiarsi sulla maggioranza composta dai ministri liberali e UDC. In conclusione, va detto che Keller-Sutter è la nona donna ad accedere alla carica di presidente. E chissà se in questi giorni le capiterà anche di tornare con la mente al 2010, quando invano tentò per la prima volta di accedere al Consiglio federale, dopo le dimissioni di Hans-Rudolf Merz. Sembrava avere il sostegno del suo partito e anche di una buona parte del Parlamento ma quel giorno invece venne eletto Johann Schneider-Amman. Per lei fu una delusione cocente a tal punto che si era ripromessa di non più riprovarci. La storia è poi andata diversamente, e così la ministra del rigore e della perfezione, anche nella cura della sua immagine, sarà ora presidente della Confederazione. La prima a farla con la casacca del PLR, e anche questo è un fatto a suo modo storico. Annuncio pubblicitario
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CULTURA ●
Le ambizioni di Cognetti Con Fiore mio lo scrittore Paolo Cognetti si lancia in un progetto cinematografico che non convince per numerosi aspetti
Un intellettuale coraggioso In libreria una selezione antologica di scritti del filologo italiano Cesare Segre a cura di Paolo di Stefano
La straordinaria vita di Emil Nelle sale del Cantone un documentario di Phil Meyer ripercorre la lunga e ricca carriera del comico Emil Steinberger
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Ingeborg Lüscher, instancabile sperimentatrice Mostre ◆ Il Museo d’Arte di Mendrisio ospita la prima antologica in Ticino dedicata all’artista svizzero-germanica Alessia Brughera
Chi volesse rintracciare uno sviluppo lineare nello stile di Ingeborg Lüscher farebbe uno sforzo vano. Non certo perché nel percorso dell’artista svizzero-germanica manchi un sentire comune che ne permei l’intera produzione, quanto piuttosto perché il suo lavoro ha sempre vissuto di una continua sperimentazione slegata da qualsivoglia coordinata stabile e immutabile. Troppo complesso difatti è il pensiero della Lüscher per trovare un’unica modalità di estrinsecazione: tanti sono i punti di vista e le prospettive da cui l’artista guarda sé stessa e il mondo attorno a lei, rivelatori di un’indole in perenne evoluzione. Istrionica e disposta a giocare con la propria identità, la Lüscher, ancora oggi a ottantotto anni, persegue costantemente l’obiettivo di avvicinarsi a una forma di espressione personale e autentica in cui ogni passo per il raggiungimento dell’esito finale è un’avventura del corpo e dell’anima.
L’itinerario della mostra mette in luce l’incredibile varietà di forme espressive che caratterizza la produzione dell’artista Sebbene la prassi dell’artista abbia una forte attinenza con il suo vissuto e con la sua esperienza biografica, la Lüscher volge il proprio interesse verso le potenzialità creative offerte dall’ambiente circostante, in un assiduo impegno a reinventarsi e a reinventare il contesto reale con estrema libertà. Non sorprende, dunque, che tra le sue figure di riferimento ci sia Joseph Beuys, maestro atipico e spirituale, rappresentante di un’energia anticonvenzionale nell’arte contemporanea. Nata come Ingeborg Löffler a Freiberg, in Sassonia, la Lüscher approda all’arte dopo essere stata un’attrice di teatro e di cinema molto apprezzata. È nel 1967 a Praga, dove si trova per la lavorazione di alcuni film, che avviene la svolta, una sorta di «risveglio», come lei stessa lo definisce: scossa dall’impeto degli ideali dei giovani dissidenti che porteranno agli sconvolgimenti politici e sociali noti come «primavera di Praga», l’artista mette in discussione la propria tranquilla visione del mondo e decide di cambiare vita. Si separa dal marito Marc Lüscher, noto psicoterapeuta e filosofo, si trasferisce in Ticino e incomincia a dipingere, percorrendo da autodidatta un cammino che si distingue per la spiccata curiosità, per l’apertura mentale e per l’affascinante capacità di rielaborare gli stimoli ricevuti con un’inventiva travolgente. L’arrivo nel nostro cantone coincide dunque con un profondo cambiamento nell’esistenza dell’artista.
Ingeborg Lüscher, I giardini pensili di Semiramide, 1999-2024, nastri di poliuretano giallo intrecciati, dimensioni variabili. (Stiftung Situation Kunst, Bochum. Donazione Ingeborg Lüscher Foto: Cosimo Filippini © Ingeborg Lüscher, 2024, ProLitteris, Zurich)
La Lüscher si stabilisce a Tegna, dove vive prima da sola poi insieme al compagno Harald Szeemann, rivoluzionario curatore con cui condivide un approccio all’arte fuori dagli schemi nonché la conoscenza della realtà locale, dal Monte Verità a Eranos. Considerato il suo rifugio, il Ticino diventa un luogo di ispirazione per l’artista, un luogo che concilia la sua voglia di sperimentare lasciandosi suggestionare dagli incontri con le persone. Nonostante il forte legame della Lüscher con il nostro territorio, nessun museo ticinese, inspiegabilmente, le aveva sino a questo momento dedicato un’antologica. Ben venga, dunque, la rassegna allestita con grande cura negli spazi del Museo d’Arte di Mendrisio, un’esposizione che testimonia in maniera esaustiva l’articolato percorso creativo dell’artista. Ciò che subito emerge dall’itinerario della mostra è l’incredibile varietà di forme espressive che caratterizza la produzione della Lüscher, accompagnata dalla pluralità dei temi trattati (l’amore, la casualità, il sogno, il ruolo della donna, la famiglia, la morte, la spiritualità) e dall’utilizzo di ma-
teriali inconsueti, spesso di scarto. Incontriamo così le Inbox della fine degli anni Sessanta, scatole contenenti del polistirolo plasmato con il fuoco, elemento, quest’ultimo, simbolo di trasformazione e di rinnovamento, destinato a rivestire un ruolo importante nel lavoro della Lüscher. Ecco, poi, le opere risalenti ai primi anni Settanta in cui l’artista usa mozziconi di sigaretta recuperati da amici e conoscenti nella convinzione che conservino un frammento della loro vita: emblema di emancipazione, ribellione e piacere, questi resti vengono incollati su oggetti di ogni tipo infondendo loro l’afflato umano. Molto interessante è anche la sezione dedicata ad Armand Schulthess, uomo visionario che in perfetta solitudine aveva trasformato il suo bosco ad Auressio in una specie di biblioteca a cielo aperto. In rassegna è presente parte del materiale che la Lüscher è riuscita a recuperare poco prima che i familiari dell’eremita distruggessero il suo straordinario «giardino enciclopedico». Non potevano mancare, ancora, le Foto del mago, una serie work in progress che a oggi comprende più di
cinquecento ritratti di parenti, amici, conoscenti e artisti (basti citare Andy Warhol, Maurizio Cattelan, Christo, Tony Cragg, Jannis Kounellis, Richard Serra e Daniel Spoerri) a cui la Lüscher ha chiesto di inscenare una magia di fronte all’obiettivo della macchina fotografica: il risultato è un progetto giocoso e divertente, dove libertà e improvvisazione la fanno da padroni. Significative della versatilità dell’artista sono le opere eseguite negli anni Ottanta e Novanta con lo zolfo, una sostanza che ha colpito la Lüscher per la sua valenza cromatica e olfattiva. Con questo elemento l’artista ha dato vita a grandi tele, dove viene contrapposto alla pittura acrilica nera, e a piccole sculture, dove viene applicato allo stato puro su altri materiali. Tra le installazioni dai molteplici contenuti stratificati troviamo Pesto cotonese (1989-2024), un lavoro realizzato con i pelucchi dei vestiti rimasti intrappolati nel filtro della lavatrice, che ci parla di ruoli femminili decodificati così come della caducità dell’esistenza, e Perché tu possa camminare a Venezia senza che nessuno ti riconosca – mantello mimetico per un uomo ricerca-
to, opera dagli echi totemici fatta con cortecce di palma da dattero nel 1998 per Harald Szeemann, in occasione della sua nomina a direttore della Biennale di Venezia. Di grande impatto, a fine percorso, è un’altra installazione, intitolata I giardini pensili di Semiramide, composta da lunghi nastri di plastica di un giallo intenso adagiati su una struttura di legno, a creare una sorta di cascata splendente. L’opera omaggia la leggendaria regina assira, una delle donne che nella storia si sono distinte per la loro ambizione, ma è anche un coinvolgente viaggio nella luce intesa come forza sovrannaturale: una potente immagine intrisa di spiritualità attraverso cui la Lüscher lascia trapelare l’invisibile dietro il visibile, facendo confluire nei suoi lavori le energie nascoste della natura. Dove e quando Ingeborg Lüscher. Il cielo ancorato alla terra. Museo d’Arte Mendrisio. Fino al 19 gennaio 2025. Orari: ma-ve 10-12 / 14-17; sa-do e festivi 10-18. Informazioni: museo.mendrisio.ch
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Anno LXXXVI 9 dicembre 2024
CULTURA
Sulle orme del santo bevitore
Cinema ◆ Parigi, Roth e Olmi: alla ricerca dei miracoli nascosti tra le pieghe della vita Roberto Festorazzi
Mi ha sempre affascinato il racconto di Joseph Roth, La leggenda del santo bevitore, che Ermanno Olmi ha tradotto in un capolavoro della cinematografia. Il film – ambientato in una Parigi dall’atmosfera trasognata – è delicato e struggente e reca, come sempre nella poetica del regista dai tempi narrativamente «lunghi», l’impronta di chi si accosta in punta di piedi alle vicende degli umili. La storia riverbera un poco la biografia di Roth, romanziere austriaco di origine ebraica, morto nel 1939, a Parigi, dove si era rifugiato per sfuggire alla persecuzione razziale. La trama la conosciamo tutti. Andreas Kartak, un ex minatore oriundo della Slesia caduto in disgrazia per un delitto d’amore, trascorre la sua esistenza tra i diseredati che hanno nei ponti della Senna il proprio rifugio.
Quando la realtà si mescola al miracoloso senza forzature, le storie degli ultimi si trasformano in parabole universali Ma l’inaspettato prestito di duecento franchi da parte di uno sconosciuto benefattore, con la sola condizione di riportarli la domenica mattina nella chiesa che custodisce la statua di Santa Teresa di Lisieux, diventa l’inizio di una specie di odissea metropolitana, nella quale si assiste al prodigio della continua rinascita di un uomo alla deriva. Tra un Pernod e l’altro, Andreas incappa in una serie di situazioni che interferiscono nella sua determinazione d’onore di restituire i duecento franchi. Ma, in modo inatteso, il miracolo si rinnova e il protagonista riceve altre somme di denaro. È il se-
La locandina del film La leggenda del santo bevitore, di Ermanno Olmi.
gno della predilezione del divino, che irrompe nella storia vincendo anche il torpore alcolico di un clochard e trasformando le persone in destinatari di un misterioso messaggio di amore. L’appuntamento indicato dalla provvidenziale mano della piccola Teresa è proprio là, nella chiesa di Sainte-Marie des Batignolles. Ed è nella sagrestia del tempio che il «santo bevitore» spira, dopo aver incontrato una bambina, di nome Teresa, che egli riconosce come la sua benefattrice celeste. L’apparizione di Teresa all’ormai agonizzante Andreas avviene in un bistrot accanto alla chiesa, e l’uomo scoppia in lacrime davanti a quella ragazzina che afferma di aspettare i suoi genitori. Nel dialogo, Olmi è fedele, nel rifarsi, quasi parola per parola, al testo originale di Roth: «È incredibile, io mai avrei pensato che una santa così grande e così piccola, una creditrice così piccola e così grande, mi facesse anche l’onore di cercarmi dopo che ho mancato per tante volte il mio
impegno di venire da lei. Capisco, lei è molto delicata e premurosa, ma io ho mancato, le devo duecento franchi e ora posso sdebitarmi, finalmente, signorina santa». Quei volti e quelle intense scene del film mi erano rimasti impressi, così, trovandomi a Parigi, sono voluto andare a cercare la chiesa di Sainte-Marie des Batignolles. Quanti senza dimora vivono rintanati dentro i cunicoli della metropolitana, o sotto i ponti, come ai tempi di Roth. E chissà che gioia per loro sarebbe udire il fruscio di quelle banconote sfregate tra le mani. Cammino, dunque, sulle orme del santo bevitore e concentrato, quasi rapito, nel piccolo vortice dei prodigi capitati ad Andreas. Scendo alla stazione «Rome» del metro, nel diciassettesimo arrondissement. La chiesa è un edificio classicheggiante, la cui forma è quella di un tempio greco con un frontone triangolare sostenuto da quattro colonne di ordine toscano. È un giorno feriale, sul sagra-
to non c’è certo l’animazione domenicale descritta nel film, con i chierichetti che giocano a rincorrersi. Ma Sainte-Marie ha una storia che merita di essere conosciuta. Costruita tra il 1828 e il 1851, secondo la leggenda la chiesa deve il suo nome a una statuetta in bronzo, una Vergine con bambino e globo terrestre, che sarebbe stata rinvenuta durante i lavori di scavo delle fondamenta. All’interno del tempio, semplice e disadorno, si trova però un’altra statua, quella di Thérèse di Lisieux. Una figura affusolata e misticamente protesa al Cielo, come una Madonna dei tempi moderni. Nel racconto di Olmi, la raffigurazione della santa appariva nella penombra, ma come animata e resa viva dall’intensità della liturgia che si celebrava nella chiesa. Ora, davanti a me, quell’icona è immersa nel silenzio dell’eternità. Sainte-Marie è completamente vuota, non c’è nessuno che preghi e s’inginocchi davanti a Teresa. Non c’è Andreas Kartak, passato a miglior vita, e si comprende come l’incantesimo di quel mondo un po’ magico descritto da Roth si sia dissolto come le brume al primo mattino. Sembra tutto un castello di fantasia, nel deserto poetico di una civiltà che non ha il tempo di sostare a riflettere. Ma la fede non può essere una fiaba sentimentale. Forse, in un angolo, c’è ancora chi spera nel gesto di una santa, capace di chinarsi sulle nostre miserie. L’evento che cambia la vita può passare anche attraverso gli odori acri di un bistrot, come è accaduto nella lunga notte di Andreas che Olmi ha descritto magistralmente. Nell’inferno di questa vita terrena, che ti crocifigge, a ciascuno tocca un anticipo di paradiso. E che Dio conceda a tutti gli assetati d’alcol e d’infinito una morte così lieve e bella.
Perdersi tra vette e cliché
Opera prima ◆ Fiore mio, documentario di Paolo Cognetti, tenta di raccontare la montagna e l’emergenza climatica, ma manca di forza e autenticità Nicola Mazzi
Fiore Mio di Paolo Cognetti si abbina in modo perfetto alla classica espressione: «Vorrei ma non posso». Anzi, meglio, «Vorrei ma non riesco». Manca praticamente tutto nell’opera prima (e si vede che è prima) dello scrittore milanese. Non c’è dinamica, non c’è forza, non c’è tensione narrativa (molto grave per uno scrittore come lui) e soprattutto non c’è senso in questo film senza capo né coda. Presentato in anteprima sullo schermo di Piazza Grande durante l’ultimo Locarno Film Festival, è arrivato ora nelle sale cinematografiche della Svizzera italiana. Il documentario è ambientato nell’estate del 2022 quando l’Italia si trova confrontata con un periodo di siccità e Paolo Cognetti vede l’esaurirsi della sorgente di casa sua a Estoul, piccolo borgo posto a 1700 metri di quota che sovrasta la vallata di Brusson. Un evento che lo sconvolge, tanto da far nascere in lui l’idea di voler raccontare la bellezza delle montagne, dei paesaggi e dei ghiacciai ormai destinati a sparire o a cambiare per sempre a causa del cambiamento climatico. E lo fa partendo con il suo cane Laki, verso il Monte Rosa. Il viaggio lo porta a incontrare alcu-
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Una scena del film Fiore mio. (© Daniele Mantione)
ne persone che vivono in montagna come Remigio, Arturo Squinobal e sua figlia Marta, Corinne, Mia, e lo sherpa Sete. Tutti personaggi che sembrano usciti da una cartolina o da una pubblicità turistica, ognuno a raccontare la propria esperienza, ma sempre in modo scontato, superficiale e banale. Come si diceva, la pellicola di Cognetti ha l’ambizione di raccontare
la montagna, le persone che la abitano, la natura, e l’emergenza climatica. Ma non riesce a trasmetterne né forza, né autenticità. È poco più di un dépliant, anche un po’ new age (vedi le bandierine tibetane alla moda che attacca alla sua cascina e che fanno tanto «benedizione buddista»), dove non emerge la durezza del luogo e quindi la sua autenticità. Cognetti sembra un turista della domenica che
passeggia col suo cane, tra una cascina e l’altra. Gli elementi tipici della montagna (il vento, il freddo, la fatica, la profondità di una sensazione) sono praticamente assenti. Lui ci prova a ricrearli, ma il risultato è quello di vivere in un luogo finto, fasullo, dove l’intensità delle sensazioni che si provano su una montagna sono completamente assenti. Provate a vedere Il cavallo di Torino di Béla Tarr e poi capirete di che cosa sto parlando. In quel film la forza del vento ti entra nei vestiti, attraversa la pelle e ti perfora le ossa. Qui, questa forza non si percepisce per nulla, poiché è tutto superficiale e senza forza. Anche i tentativi, maldestri, di inserire nel documentario un discorso sulla lingua e sui dialetti, non funzionano: i dialoghi non bucano lo schermo e si fermano a una semplice e banale chiacchiera da bar. Non da ultimo – e non è meno grave – è l’autoreferenzialità. Le persone che vivono in montagna (salvo rari casi come quello di Mauro Corona) sono schive per definizione. Non amano mettersi in mostra. Scelgono quella vita anche per i silenzi e la solitudine tipica dei luoghi. Invece Cognetti si vuole molto bene.
La leggerezza di un dramma Cortometraggio ◆ Conflitto interiore e desiderio di libertà di una donna in maternità Nicola Falcinella
Una giovane donna, interpretata dalla talentuosa Jenna Hasse, ha appena scoperto di essere incinta. Da quel momento, il suo quotidiano e le persone attorno a lei diventano solo un contorno sfumato, lasciando la protagonista sola con la sua responsabilità. È questa la trama del cortometraggio La Gravidité, realizzato dalla regista zurighese Jela Hasler e premiato come miglior cortometraggio nel 2024. Il film cerca di cogliere il sentimento della paura di perdere la propria libertà in città, una Zurigo fredda e piena di rumori e dettagli insignificanti, ma molto importanti per l’autrice, dato che servono a evocare quella leggerezza, a cui Hasler è molto legata e che non vuole mettere da parte neppure in situazioni drammatiche, dove la meschinità dell’uomo sembra essere la normalità. L’inadeguatezza è sempre presente, nascosta dietro la finzione. Laurianne, la protagonista, vuole il controllo su quello che non reputa giusto nelle persone a lei vicine. Diventa il motore di una ruota che vuole far girare a proprio favore. Si delinea così il ritratto di una donna alla ricerca di un proprio spazio, anche quello di recitazione e improvvisazione. Jela Hasler, con il suo cinema, porta lo spettatore a ricordare che viviamo in una società piena di ostacoli, e che è difficile non seguire il flusso della città per andare controcorrente. A volte ci si abitua, si possono migliorare le cose, ma sembra che non si possa immaginare altro. Tuttavia, la regista vuole dimostrare che esiste ancora una speranza, quella incarnata dai suoi personaggi che si trasformano in eroine contemporanee. Nella forma semplice ed essenziale del film, nel volto e negli occhi di queste figure, si alza una voce di resistenza. Per la regista, il formato del cortometraggio è un mezzo per catturare in immagini un momento istantaneo della vita ordinaria, per raccontare piccole lotte personali contro il maschilismo solo all’apparenza nascosto. Vuole giocare con l’inaspettato, con il fuori campo o con ciò che non vediamo, creando un vuoto intorno alla protagonista. Nel momento conclusivo di quiete e solitudine del film, tutto scompare, anche la rivelazione della sua decisione. Informazioni La Gravidité (15’), prodotto da Langfilm-Bernard Lang AG e SRF Schweizer Radio und Fernsehen, è ora disponibile sulla piattaforma online Play Suisse.
Un’immagine tratta da La Gravidité di Jela Hasler, uscito da poco su Play Suisse.
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CULTURA
Il diario pubblico di un intellettuale
Pubblicazioni ◆ Edita dal Saggiatore una selezione di interventi civili dell’importante filologo romanzo Cesare Segre Pietro Montorfani
In un’epoca in cui si pensa di sostituire i giornalisti con gli algoritmi dei Large Language Models (AI), pronti quindi ad accettare gli esiti che sempre si prospettano quando si investe soltanto sul risparmio di tempo a discapito della qualità dell’approfondimento e dell’informazione, c’è da chiedersi quale possa essere oggi, nei media, il ruolo degli «intellettuali» (posto che questa parola continui ad avere un senso, o che la categoria stessa esista ancora). Tocca l’argomento – lo cito en passant – David Bidussa nel suo recentissimo Pensare stanca. Passato, presente e futuro dell’intellettuale, appena uscito per Feltrinelli; ma è tema che ci porterebbe lontano.
val di Susa, si ritirava verso Torino, ammazzando qua e là qualche poveraccio; avere negli occhi le truppe francesi d’Algeria che scendevano poderose dalla frontiera. Giova aver assistito all’improvvisa fraternità delle persone, che si abbracciavano gridando parole al vento, ma parole di felicità; giova averle viste ballare per le strade.
Il filologo romanzo Cesare Segre ha saputo indossare la veste pubblica dell’intellettuale con sobrietà e coraggio
Le riflessioni di Segre in questo Diario, la cui postfazione è di Paolo Di Stefano, ruotano intorno a cinque macro-temi Per passare dal generale al particolare, se c’è una persona che ha indossato la veste pubblica dell’intellettuale con sobrietà e coraggio è stato, negli ultimi anni, Cesare Segre, filologo romanzo tra i più importanti del Novecento, critico letterario appassionato di strutturalismo nonché uno dei fondatori, con Maria Corti e Dante Isella, della cosiddetta scuola pavese. Nonostante questo pedigree accademico, che avrebbe quasi potuto autorizzarne il confinamento in una torre d’avorio, Cesare Segre non ha mai disdegnato di intervenire su periodici e quotidiani a larghissima divulgazione, da «Panorama» a «Il Giorno» al «Corriere della Sera» (persino sul nostro «Corriere del Ticino»). Ne offre un ricco ed esaustivo assaggio la selezione antologica appena curata da Paolo Di Stefano per Il Saggiatore, quasi 300 pagine racchiuse sotto il titolo, significativo e persino un po’ provocatorio (dati i tempi), di Diario civile. Andrà sottolineato innanzitutto come Di Stefano sia stato, della lunga frequentazione di Segre con il «Corriere della Sera», un pezzo di parte in causa, dato che per anni ha avuto il piacevole compito di tenere i contatti con il filologo e di concertare assieme a lui i suoi contributi mensili per il quotidiano di via Solferino. La collaborazione era iniziata in realtà prima del suo arrivo, nel febbraio del 1988, per iniziativa del direttore di allora (Ugo Stille) e dell’amico
La selezione antologica degli scritti di Cesare Segre uscita per Il Saggiatore.
Intellettuali a confronto: Maria Corti, Alberto Arbasino, Cesare Segre e Dante Isella all’università di Pavia.
Corrado Stajano, e sarebbe continuata fino al novembre del 2013, a un passo dalla scomparsa di Segre (marzo 2014). In 25 anni sono usciti qualcosa come 481 pezzi, di cui 86 ripresi in questa antologia, che opera una selezione intelligente a partire da alcuni criteri dichiarati: cercare, dove possibile, di evitare il «versante professionale», cioè la critica letteraria in senso stretto, per inseguire gli interventi più interessanti e duraturi (utili cioè al di là delle circostanze contingenti, e ancora vivi quindi per noi oggi) su temi di attualità, società, politica, etica, costume. Non che Segre riesca – o voglia – abbandonare del tutto gli ambiti di propria competenza: se parla di costume, parla di lingua, se parla di politica parla di scuola, e così via, con un occhio gettato a intermittenza dal mondo dei libri e delle aule universitarie a quello della vita di tutti i giorni, in andata e in ritorno, con beneficio duplice per entrambe le sponde del grande mare della cultura. Nella sua postfazione, Di Stefano individua in effetti cinque macro-temi attorno ai quali si coagulano le riflessioni di Segre in questo «diario in pubblico» durato un quarto di secolo: (1) la memoria dei nazifascismi e il costante pericolo di un loro ritorno; (2) i principali snodi storici e culturali che hanno contribuito a definire i dibattiti della nostra epoca; (3) il progressivo degrado della «società degli studi», incarnatosi in alcune infelici riforme scolastiche e universitarie; (4) i mutamenti linguistici di cui è stato oggetto l’italiano in tempi recenti; (5) vari contributi al dibattito sui destini della filologia e della semiotica, non senza prospettive critiche. In quest’ultimo gruppo rientrano anche alcune commoventi pagine in ricordo di maestri e colleghi, nelle quali il Segre anziano richiama alla mente i meriti di chi ha percorso assieme a lui un pezzo di strada: da Gianfranco Contini a D’Arco Silvio Avalle, da Maria Corti a Dante Isella, da Lalla Romano a Giuseppe Billanovich. Un posto speciale devono avere avuto però, anche presso il loro stesso estensore, i molti interventi sul tema della Shoah e delle grandi tragedie
del Novecento. È qui che il discendente di ebrei piemontesi, laico ma ben consapevole della propria tradizione culturale, offre il meglio del proprio sentire civile, come in questo
passo del 2009 per la ricorrenza della Liberazione: «Per capire appieno il significato del 25 aprile giova, per esempio, aver visto (come chi scrive) l’esercito tedesco che, in fuga per la
Giova essersi resi conto d’improvviso che ci si poteva muovere senza preoccupazioni, che l’invisibile ma dura prigione in cui eravamo tutti rinchiusi non esisteva più, e il mondo era aperto per chiunque». Nient’altro che un invito, insomma, a fare contemporaneamente due cose: tenere lontano l’antisemitismo, e tenere vivo l’antifascismo. Un esercizio non semplice, meno scontato di quanto possa sembrare a priva vista, come insegnano questi nostri tempi così tormentati e contraddittori. Bibliografia Cesare Segre, Diario civile, a cura di Paolo Di Stefano, Il Saggiatore, 2024. Annuncio pubblicitario
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CULTURA
Così tipicamente Emil
Cinema ◆ Una vita per la comicità: il documentario Typisch Emil sul grande artista svizzero ora anche nelle sale ticinesi Simona Sala
Essere stato Emil e avere fatto tanto ridere una nazione, ma non solo, e diverse generazioni, ma non solo, è un traguardo la cui portata è di difficile immaginazione per il cittadino comune. Essere Emil, per contro, come ci racconta lo stesso artista nel documentario Typisch Emil, per Emil Steinberger è stato a tratti difficile, quando non insopportabile, in una sorta di paradosso per cui il creatore del «personaggio Emil», proprio dallo stesso personaggio è stato a lungo schiacciato. Ma cosa ha reso Emil Steinberger «Emil»? La carriera del lucernese (classe 1933, anche se, come afferma, a contare non sono gli anni, ma ciò che si fa) sembrava già tracciata, incanalata come era nell’ambizione per definizione di certa borghesia, ossia quel «posto fisso» che a lungo, in altri tempi, ha fatto la gioia di madri e padri. Steinberger lavorava per le poste: un lavoro che, al di là di uno stipendio fisso che entra in banca ogni mese nello stesso giorno (siamo pur sempre svizzeri e precisi), portava con sé solamente monotonia e ripetitività. Per fortuna, appena calava la sera, Steinberger aveva la possibilità di trasformarsi in un cabarettista. Un’attività che, però, con il tempo non riuscì più a contenere e soddisfare un estro e una creatività fuori del comune: Emil aveva bisogno di altri palcoscenici; accadde dunque che (cosa più
unica che rara), il giovane impiegato postale si licenziò su due piedi per frequentare la Kunstgewerbeschule di Lucerna e studiare grafica. Scelta indigesta e mai davvero perdonata dalla famiglia, racconta Emil; ancora oggi, a oltre mezzo secolo di distanza, gli risulta difficile trattenere le lacrime quando ricorda come, a causa di quella che fu vissuta come una delusione immensa (da parte di un figlio indomabile e dagli atteggiamenti incomprensibili), sua madre non uscì dal letto per dieci giorni. L’abbandono del posto fisso permise al giovane lucernese di crescere nel ruolo che si era ritagliato su misura, dello svizzero medio – se è mai esistito. Un cittadino (così ci veniva proposto Emil) incastrato proprio in quei cliché da cui l’uomo Steinberger era fuggito, e che il pubblico ha poi ritrovato – ridendoci sopra – nel poliziotto, nel postino o nel pompiere, tanto per citare alcune delle sue caricature più celebri e iconiche. L’umorismo semplice (pur nella sua complessità) di Emil, che riguardava tutti, senza in realtà colpire nessuno, permise a chiunque lo vedesse, di sentirsi parte in causa senza davvero esserlo, in una modalità che escludeva qualsiasi forma di volgarità ma, soprattutto, permetteva e stimolava, forse per la prima volta, una specie di coesione nazionale, annullando il famigerato «Röstigraben». Emil reci-
Emil Steinberger, in arte Emil, in un momento del documentario di Phil Meyer.
tava in tedesco e in francese (in modo tale che anche i ticinesi potessero comprenderlo), e si distingueva per il controllo della mimica facciale, a suo agio in personaggi a volte un poco tonti, altre ingenui, altre scaltri, senza tuttavia mai esserlo davvero. Emil piaceva a tutte le svizzere e a tutti gli svizzeri, e ciò si consolidò al più tardi nel 1978, quando accompagnò in tournée il circo Knie, e quasi un milione e mezzo di persone si misero in fila per vederlo. Con il tempo la fama di «uno svizzero che permetteva anche agli altri di ridere degli svizze-
ri» (come viene definito nel documentario) oltrepassò i confini, e anche in Paesi come la Germania e l’Austria, Steinberger divenne una star, pur senza avere mai cercato questo tipo di gloria e, soprattutto, restando fedele ai propri tratti semplici, umili e dolci, pur sulla base di un’intelligenza vivace e straordinaria. Le svizzere e gli svizzeri, per loro natura e reputazione considerati un popolo discreto, nel caso di Emil, finirono in preda a una vera e propria isteria di massa: come si racconta nel documentario di Phil Meyer, all’ar-
tista non era più nemmeno possibile acquistare un paio di scarpe, senza che una folla lo seguisse all’interno del negozio. Una condizione insolita quanto insopportabile, che lo portò, all’età di sessant’anni, a trasferirsi nella Grande Mela, dove (almeno così Steinberger sperava), nessuno lo avrebbe riconosciuto. Se da una parte non riuscì a scivolare nell’anonimato, dall’altra però, conobbe Niccel, quella moglie e compagna che lo segue da più di trent’anni, e che nell’abbraccio del suo amore non ha coinvolto solamente l’uomo Emil, ma anche la sua opera tutta. Il nuovo amore ha permesso all’artista di scendere a patti con il proprio destino e la propria fama – forse perché in due tutto risulta più facile – restituendolo al pubblico svizzero, che a oggi non lo ha mai lasciato. È grazie a Niccel se Emil ha ritrovato la via del palcoscenico, se è riuscito a scrivere dei nuovi spettacoli e a gestire una fama più unica che rara nel panorama elvetico; forse anche se è riuscito a essere il poliedrico protagonista di un documentario, ora nelle nostre sale, che lo vede al centro di una lunga e intensa parabola – non ancora terminata – e che ha scelto di presentare anche al pubblico ticinese, rinsaldando l’affetto decennale che lo lega indissolubilmente a tutti i pubblici che ha incontrato e ancora incontra. Annuncio pubblicitario
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CULTURA / RUBRICHE
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In fin della fiera
di Bruno Gambarotta
De Amicis, travolto dal successo ◆
Torino, seduti al tavolino di un caffè Edmondo De Amicis: – Professor Lombroso, ricorda? Sei mesi or sono le chiesi una consulenza sui caratteri fisionomici di un ragazzo malvagio e irrecuperabile. Cesare Lombroso (sfogliando le pagine di Cuore): Ricordo: lei ha dipinto benissimo il ritratto del piccolo delinquente nato: «21 gennaio, sabato. Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei funerali del Re, e Franti rise. Io detesto costui. È malvagio. Ci ha qualcosa che mette ribrezzo su quella fronte bassa, in quegli occhi torbidi». De A: Grazie. Ora ho di nuovo bisogno dei suoi consigli. L: Di che si tratta? De A: Di questa lettera anonima. La prego, la legga. L: Vecchio porco, che cosa ci facevi domenica pomeriggio nella camera 126 dell’albergo Savoia insieme alla Maestrina dalla Penna Rossa? Se non vuoi che tua moglie lo venga a sapere, domattina alle dieci in punto siediti sulla panchina di fronte all’albergo.
Firmato: il tuo amatissimo Franti. De A: Cosa devo fare, professore? L: Posso farle una domanda? De A: Se non mi chiede dov’ero domenica pomeriggio… L: Posso farle la domanda di riserva? Quante sono le maestre che hanno creduto di riconoscersi nel personaggio della Maestrina dalla Penna Rossa? De A: Dodici, finora. L: E con tutte e dodici lei… De A: Professore, l’uomo non è di marmo. Cosa mi consiglia di fare? L: Faccia quello che le viene richiesto. Ufficio del Delegato di Polizia D: Si accomodi, signora. In cosa posso esserle utile? Maestrina: Lei avrà certamente letto il libro Cuore di Edmondo De Amicis. D: Beh… diciamo che l’ho sfogliato… M: Legga (allunga una busta). D: Cara Porcellona dalla Penna Rossa. Che cosa ci facevi domenica pomeriggio nella camera 126 dell’albergo Savoia assieme al tuo amato autore Edmondo De Amicis? Se non vuoi che venga a saperlo il direttore della tua
scuola siediti domani alle dieci in punto sulla panchina di fronte all’albergo. Firmato: Derossi. D: Questo Derossi lei lo conosce? M: È il primo della classe! (recita ispirata) «Ma il più bello di tutti, quello che ha più ingegno, che sarà il primo di sicuro anche quest’anno, è Derossi». D: Mi dica: c’era lei, domenica pomeriggio, nella camera 126 del Savoia? M: Ma come si permette! Io sono una vera educatrice! D: Allora in compagnia del De Amicis c’era un’altra maestrina dalla penna rossa. Da quando è uscito Cuore, a Torino tutte le maestre si mettono una penna rossa sul cappellino. M: Che cosa mi consiglia di fare? D: Faccia quello che le chiede. Io sarò nei paraggi. Panchina vuota di fronte all’albergo Savoia. De Amicis arriva, si siede. Arriva la vera educatrice. Si siede. De Amicis è turbato da quella presenza imprevista. Compare la moglie di De Amicis: È vero, dunque!
De A: Cara, che sorpresa! Cosa fai qui? Signora De A: Che ci fai tu qui piuttosto, con la maestrina dalla penna rossa! M: Ma come si permette! Io sono una vera educatrice! Sig.ra De A: Zitta tu! (Estrae dalla borsa una lettera anonima) Se vuoi sorprendere tuo marito con la maestrina dalla penna rossa vai domani alle dieci alla panchina di fronte all’albergo Savoia. Tuo Votini. «Quello molto ben vestito, che si leva sempre i peluzzi dai panni». (trionfante) E adesso? M: Anch’io sono qui per una lettera anonima. Sig.ra De A: Ma mi faccia il piacere! Compare il Delegato di polizia: – Permette, signora? Delegato di polizia Pautasso. La signora è venuta da me denunciando una lettera anonima e io l’ho invitata a eseguire quanto le veniva richiesto. Sig.ra De A: Una lettera anonima? Anche a lei? E cosa dice di bello? D: Il contenuto non ha importanza. Quello che conta è che convocava la signora alle dieci su questa panchina.
Sig.ra De A: Va bene. Ma tu (rivolta a De Amicis) che cosa ci facevi su questa panchina? Io una spiegazione ce l’ho! Le lettere le hai scritte tu! De A: Questa è una logica tutta femminile! Capisco convocare la signora qui presente, ma perché avrei dovuto mandare un invito anche a te? Sig.ra De A: Allora perché sei qui? De A: Perché anch’io ho ricevuto una lettera anonima. Il professor Lombroso che per puro caso si trova là sul marciapiedi di fronte, può confermarlo. L: Sì, ma posso anche confermare che l’intuizione femminile della signora De Amicis ha colpito nel segno. De A: Come sarebbe? L: Lei è stato travolto dal successo, ma nel suo intimo sente di non meritarlo completamente. Allora una parte di lei, quella che fra sedici anni il dottor Freud chiamerà subconscio, ha deciso di punirla facendo ribellare i suoi personaggi contro il loro creatore. Un interessante caso di sdoppiamento della personalità. Non mi stupirei se fra qualche anno lei aderisse al socialismo.
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Pop Cult
di Benedicta Froelich
Quella segreta, inconfessabile ricerca dell’amore incondizionato ◆
Non occorre certo essere degli animalisti sfegatati per rendersi conto di come, negli ultimi anni, le creature del regno animale abbiano spesso sostituito le controparti umane nel cuore d’innumerevoli persone, sempre più deluse (per non dire disilluse) dal contatto quotidiano con i propri simili e dall’apparente egoismo della società odierna. La ricerca quasi inconsapevole di quell’amore incondizionato che solo un animale sa donare si è così estesa anche ai social network, decretando il successo sempre più travolgente di una serie di «influencer a quattro zampe», perlopiù cani e gatti, che oggi spopolano sul web alla stregua di veri divi, elargendo pillole di saggezza e infinito buonumore ai loro numerosissimi follower. In realtà, il fenomeno era emerso già anni fa con l’avvento di celebrità di provenienza statunitense quali Lil
Bub e Grumpy Cat, gattini affetti da particolari difetti genetici che li rendevano simili (nell’aspetto, ma non solo) a veri e propri personaggi da fumetto, al punto da figurare in innumerevoli meme creati da fan adoranti. Tuttavia, negli ultimi due-tre anni il fenomeno ha assunto proporzioni inedite, dando vita a un vero e proprio «sottogenere» dalla rilevanza internazionale: basti pensare, tra gli altri, al vertiginoso successo del canale YouTube A Guy And A Golden, in cui Jonathan, padrone del Golden Retriever Teddy, investe una quantità immane di tempo e risorse nell’ideazione di video terribilmente sarcastici, in cui il suo cane e il meticcio Archie si dilettano nel giocare scherzi d’ogni tipo al proprio coinquilino umano; il tutto rivelando un’inventiva e abilità tecnica davvero notevoli, dal momento che le gesta di Teddy sem-
brano filmate senza l’ausilio di alcun effetto speciale o software d’intelligenza artificiale. Di fatto, l’incredibile popolarità raggiunta da Teddy non ha nulla da invidiare ai più celebri tra gli influencer «umani», dal momento che le sue sortite in pubblico (a volte con indosso gli elaborati costumi che il padrone ama creare per lui) scatenano un interesse pari a quello suscitato da una rockstar in tournée. Eppure, fenomeni del genere non sono limitati al mondo di lingua inglese: uno degli esempi più eclatanti nell’ambito italofono è infatti quello di Chico, giovane esemplare di Maltipoo (incrocio tra maltese e barboncino) caratterizzato da una parlantina esilarante, con tanto di accento smaccatamente romagnolo e particolarissimo gergo a base di onomatopee e storpiature varie. Una creaturina che ha fatto in poco tempo la fortuna di
Francesco Taverna, cantautore della provincia di Alessandria ormai noto come «papà di Chico» – il quale, oltre a donare la voce al proprio cane, si impegna nel concepire, per il suo protetto, avventure a cavallo tra sottile ironia e autentica dolcezza, cariche di buoni sentimenti e sentito affetto tra padrone e animale. In effetti, ciò che più colpisce nel leggere i commenti ai video caricati sui vari social network sotto la dicitura Io sono Chico è il fatto che la maggior parte dei followers – o «frollowers», come li definisce il loro beniamino peloso – sembra ricercare, negli exploit del cucciolo parlante, una forma d’evasione che possa distrarre dalle difficoltà quotidiane per concentrarsi, sia pure per pochi minuti, su qualcosa di positivo e confortante, esemplificato dall’affetto che «papà» Francesco e la sua compa-
gna provano per il proprio cagnolino. E qui, in fondo, sta il segreto del successo di tali fenomeni: forse, ciò che noi tutti davvero ricerchiamo in questi eroi a quattro zampe è semplicemente quell’innocenza e semplicità che il mondo dello spettacolo convenzionale ha da tempo perduto. Del resto, in contrasto con le folle di narcisisti ed egocentrici che si pavoneggiano su OnlyFans o TikTok, la naturalezza di personaggi quali Teddy e Chico, fatta di slanci genuini e della sincera, assoluta lealtà e abnegazione tipiche del genere animale, riporta alla mente i tempi più felici dell’infanzia – quando immaginare che un cane potesse parlare o guidare l’automobile non appariva poi così strano. Il che, di fatto, equivale anche a restituirci una tardiva possibilità di avvertire di nuovo il potere rigenerante dei nostri sogni di un tempo.
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Xenia
di Melania Mazzucco
Le unghie della signora Mei Ling ◆
Le unghie rivestono le estremità distali delle dita nei vertebrati di terra. Hanno compiti di protezione, difesa e offesa. Ma negli esseri umani queste produzioni cornee hanno ormai limitata funzione pratica e sono piuttosto esornative. Nei secoli passati, insieme ai peli, allo sperma, al sangue mestruale, venivano sminuzzate nelle pozioni afrodisiache o malefiche – per attrarre o affatturare in base al principio magico dell’analogia. Nel XXI secolo dipingerle è diventato per le donne quasi un obbligo sociale. Nei quadri della tradizione occidentale raramente si vede altro che un velo madreperlaceo (Olympia di Manet ha lo smalto rosso, ma è una meretrice). In quella orientale invece le donne vantano sempre unghie scarlatte. Sarà per questo che le italiane hanno affidato le loro alle cinesi?
Le unghie sono le pepite d’oro di Mei Ling – ovvero Giada, come la pietra preziosa. È una donna di mezza età e media statura, dai lineamenti generici. Parla poco, ma i suoi penetranti occhi scuri rivelano un’intelligenza prensile e sorniona. Il suo negozio è sormontato dall’insegna: MAGIC NAILS. In inglese, perché più cosmopolita – anche se Mei Ling l’inglese non l’ha mai imparato. Quando arrivò in Italia, per raggiungere una zia, non conosceva neppure l’italiano. Lavorava nel ristorante in cui venivano dirottati tutti gli abitanti del loro circondario – una provincia remota della Cina meridionale. Serviva i piatti in tavola, stappava le bottiglie, apparecchiava. Non capiva nulla di ciò che le dicevano i clienti, riparandosi dietro un sorriso inespressivo. Mei Ling disegnava bene, e le sarebbe piaciuto studiare pittura.
Ma i suoi erano contadini troppo poveri per mandarla lontano. Però quando gli emigrati in Europa avevano cominciato ad inviare rimesse, l’avevano lasciata partire. Aveva diciannove anni. Aveva dormito in un ripostiglio del ristorante, finché non aveva incontrato la signora Xia, che veniva a cena tutti i lunedì – quando il suo salone da parrucchiera era chiuso. L’aveva assunta come manicure. All’inizio cose semplici, con lima, punta diamante, spingi cuticola. Ma poi si era imposta la moda delle unghie lunghe sei, sette centimetri, il che obbliga ad allungarle. Le unghie artificiali così ricostruite in acrilico o gel si staccano oppure vanno sostituite, perché la ricrescita (circa un millimetro al giorno) le rovina in quattro settimane, il che assicura una dipendenza economicamente fruttuosa. La superficie per il colore
si era ampliata e queste unghie iperboliche bisognava non solo dipingerle, ma decorarle. Minuscole stelle, fiamme, croci, lettere. Un lavoro certosino (due ore almeno). E il talento negato di Mei Ling aveva potuto fiorire. Pennellava con precisione da miniaturista le immagini che le clienti le proponevano dopo averle viste su Instagram, o nelle foto di qualche modella, lasciandole estasiate. Se avesse frequentato un corso di onicologia (può costare migliaia di euro), le insegnanti le avrebbero detto che il vero scopo del nostro lavoro è il benessere della cliente: in fondo siamo psicologhe, curiamo le anime. Mei Ling aveva lasciato il seggiolino nell’angolo interno del salone della signora Xia, e preso in affitto un locale tutto per sé. Vetrina su strada, reclame delle sue creazioni su pannello plastificato, tre postazioni per l’asciugatu-
ra con lampade LED. Prezzi modici (ma per un disegno ben fatto mai meno di ottanta euro). Riceve su appuntamento, tuttavia accetta anche donne di passaggio. Adesso ha sei dipendenti, e una casa di proprietà all’Esquilino. Le figlie studiano alle scuole pubbliche italiane, e il sabato alla scuola cinese. Lei torna due volte l’anno in Cina per acquistare cosmetici e strumenti. Al villaggio, è considerata un boss. Nel suo regno, in cui fatica dalle nove del mattino alle otto di sera, senza pausa per riposare nemmeno quando era incinta, è un modello. E pensa che non avevo mai avuto nemmeno una forbicina! confessa, ridendo. Non sono una sua cliente. Forse perché creatura più d’aria che di terra, provo ancora un’inspiegabile avversione per le unghie. Ma onoro l’orgoglio appagato della signora Mei Ling.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 9 dicembre 2024
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CONSIGLI Natale
Addobbare l’albero
in sette passi Poche cose creano un’atmosfera festosa come un bell’albero di Natale. Con le nostre istruzioni appenderai luci, ghirlande e decorazioni a regola d’arte. Testo: Edita Dizdar
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Ghirlande luminose Finalmente l’albero sta (dritto) in piedi e si può cominciare! Se vuoi farti un favore, per prima cosa appendi le ghirlande luminose, così in seguito non dovrai aggiustarle faticosamente intorno agli altri addobbi. Inizia dalla base dell’albero e risali fino alla cima con l’estremità libera. Assicurati che le luci siano distribuite in modo uniforme.
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Candele Se opti per candele vere, fissale all’albero dopo le ghirlande, ancora prima di aver attaccato gli altri addobbi. In questo modo avrai più margine di manovra per posizionare i supporti e le candele in modo sicuro. Assicurati che verso l’alto vi sia sufficiente spazio libero; la sicurezza viene prima di tutto.
Immagini: Adobe Stock/Stocksy
Altre ghirlande A differenza delle ghirlande luminose, con le altre ghirlande dovresti iniziare dalla punta dell’albero. Avvolgile a spirale prima intorno ai rami corti e poi intorno a quelli sempre più grandi.
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MONDO MIGROS
CONSIGLI Natale
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Addobbi grandi Le decorazioni che occupano più spazio vanno sull’albero per prime. Le bocce e gli ornamenti di grandi dimensioni sono perfetti per addobbare la metà inferiore dell’albero. Più sono pesanti, più vanno posizionati verso il centro dei rami, così eviti che pendano troppo a causa del peso e che l’albero appaia afflosciato.
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Addobbi piccoli Le bocce e gli ornamenti piccoli sono ideali per addobbare la parte superiore dell’albero e per riempire gli spazi vuoti più in basso. Le piccole opere di bricolage (dei bambini) daranno al tuo abete un tocco personale e le decorazioni di cioccolato ti addolciranno letteralmente il periodo natalizio.
Decorazioni dorate per l’albero
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Appendere in modo efficiente Ti impigli continuamente negli aghi mentre appendi le bocce, le opere di bricolage e le decorazioni di cioccolato? Allora prova questo consiglio: appendi l’addobbo al tubo di cartone vuoto di un rotolo esaurito di carta per uso domestico. Ora infila il tubo sul ramo scelto e fai semplicemente scivolare la decorazione lungo il tubo finché arriva sul ramo.
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Di più è meglio Il tuo albero addobbato sembra ancora spoglio? Usa dei nastri di stoffa in colori che si abbinano alle altre decorazioni. Tagliali a strisce e legali ai rami formando dei bellissimi fiocchi. Consiglio: ricorri a un nastro di tessuto anche per appendere le bocce invece di usare ganci o fili.
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TEMPO LIBERO ●
Helsinki sotterranea Viaggio nel sottosuolo di un Paese che sta rafforzando le proprie difese nascoste contro il potenziale nemico russo
Biscotti natalizi un po’ diversi Natale è tempo di dolcetti: perché non introdurre il pistacchio e realizzare dei discoletti un poco diversi e speciali?
Giocare con dei fiori Provate per una volta a mettervi nei panni di un esploratore botanico dell’800 e l’insolito gioco (da tavola) è servito
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«Prova tutto», in equilibrio sugli ostacoli
Adrenalina ◆ A colloquio con Mario Bernardini, esperto di trial, impegnativa disciplina del motociclismo Moreno Invernizzi
L’origine etimologica dello sport su cui si accendono i riflettori in questa puntata di «Adrenalina» è già un programma, «Try all», che, tradotto dall’inglese, sta per «prova tutto». E per quel «tutto» si intende ogni tipo e forma di ostacolo, naturale per le prove all’aperto, o artificiale, per quelle indoor. Poi, per semplificare le cose, con gli anni questa particolare e adrenalinica disciplina del motociclismo è diventata appunto trial. L’Inghilterra, del resto, è la culla di questo sport, figlio di un’industria motociclistica che agli inizi del 1900 fioriva oltre Manica. Il trial nasce però negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, quando alcune delle più affermate case di produzione di motociclette inglesi mettono a punto i loro prototipi, noti anche come «work bikes», concepiti per adattarsi al meglio alle caratteristiche di strade accidentate di allora. Dapprima per necessità, ma poi, e in men che non si dica, per praticare quello che con gli anni è divenuto uno sport a tutti gli effetti, con folte schiere di praticanti un po’ in tutto il mondo. Anche alle nostre latitudini, dove grazie a diverse gare di respiro internazionale proposte nel recente passato a Biasca dal Moto Club locale, il trial s’è creato una buona cerchia di appassionati. Mario Bernardini è uno di questi, divenendo col tempo una sorta di punto di riferimento per chi vuole praticarlo in Ticino come pure nei Grigioni. L’abbiamo incontrato per una chiacchierata a 360 gradi attorno a questa disciplina. «La parte del leone in questo sport la fa la Spagna, che può vantare alcuni tra i migliori piloti di trial a livello mondiale – sottolinea il nostro interlocutore –. Lì e soprattutto in Catalogna c’è una vera e propria cultura del trial, favorita dal fatto che è nella penisola iberica che hanno aperto le prime fabbriche di moto concepite appositamente per questo sport, le più importanti Montesa, Bultaco e Ossa. Poi, più tardi, si sono interessate le giapponesi Honda e Yamaha. In Inghilterra, agli albori, si usavano infatti semplici moto da strada, a cui veniva apportata solo qualche modifica. Poi, invece, «esportandolo», si è passati a mezzi concepiti appositamente per spostarsi agilmente da un ostacolo all’altro». Anno più anno meno, Mario Bernardini è in sella da quasi mezzo secolo. «Ho iniziato ad appassionarmi alle due-ruote all’età di 12 anni, anche un po’ prima, se consideriamo anche i motorini – racconta l’oggi 62enne biaschese –. Ero affascinato dal motocross. Tuttavia, non essendoci piste nelle immediate vicinanze, per poter praticare questo sport avrei dovuto sobbarcarmi frequenti trasferte in
Le gare di trial possono durare fino a oltre cinque ore: sono richieste competenze tecniche, ma anche grande concentrazione.
Italia o oltre San Gottardo, per cui quel sogno è rimasto tale. Perciò mi sono dedicato al trial, che qualcuno già praticava qui, in Riviera, e potevo allenarmi «praticamente fuori dalla porta di casa», abitando a ridosso della buzza di Biasca, terreno ideale per la pratica di questo sport.
Con il tempo Mario Bernardini è diventato un punto di riferimento per chi vuole praticare il trial in Ticino o nei Grigioni Quell’adrenalina che si provava nell’affrontare i vari ostacoli disseminati sul percorso mi piaceva, così sono andato avanti: ho completato l’iter per l’ottenimento della licenza svizzera, poi mi sono iscritto alle prime gare. Nel 1984 sono stato contattato dal Moto Club Biasca per organizzare una gara qui per l’anno seguente. E nel 1986 abbiamo fatto il bis, invitando nientemeno che il campione del mondo di trial, il belga Eddy Lejeune, tanto per la gara quanto per un corso di formazione aperto agli interessati». Nel 1989 l’a-
sticella si alza ulteriormente, e Biasca catalizza su di sé i riflettori planetari del trial: «Quell’anno abbiamo addirittura organizzato il Campionato mondiale, replicandolo nel 1994 e nel 1999. Alla prima edizione c’ero anch’io: oltre ad aver tracciato il percorso, ho partecipato in prima persona. C’erano tantissimi piloti, circa 120, e avevo chiuso attorno a metà classifica, risultato tutto sommato soddisfacente, considerato che molti erano professionisti». Mario Bernardini non si è però fermato lì. «Per una buona decina d’anni ho partecipato al Campionato svizzero, prima come Junior e poi nella categoria maggiore, piazzandomi regolarmente nelle posizioni alte della classifica. Ma ho avuto anche una… seconda carriera: grazie a una vecchia conoscenza mi sono avvicinato al mondo delle gare di trial con moto d’epoca». La scintilla è scoccata una seconda volta: «Per un’altra decina d’anni ho partecipato al Campionato italiano di moto d’epoca, dove dopo diversi podi, nel 2017, 2018 e nel 2019 ho vinto il titolo nella categoria Expert». L’eco che hanno avuto gli appun-
tamenti di respiro internazionale di Biasca ha rilanciato la passione per questo sport anche dalle nostre parti: «In Ticino a praticare il trial sono una settantina di persone. Molte fanno capo anche a me, dato che mi occupo di vendita, riparazioni e manutenzioni di moto da trial. A margine ho pure allestito una sorta di museo dedicato a queste moto adiacente alla sede del nostro Team con officina, magazzino e palestra. Dopo 10 anni di competizioni ho coronato un mio sogno, creare una mia officina: nel 1985 ho fondato la mia ditta «Bernardini Mario Moto» (Moto Bernardini) a Biasca. Poi, dopo un periodo in affitto, nel 1993 ho coronato il mio secondo sogno, costruendo la mia sede sempre a Biasca, e sono stato concessionario Honda per 35 anni. Un periodo ricco di soddisfazioni: ho vinto ben tre viaggi in Giappone, come premio per i migliori concessionari in Svizzera. Nel 2019 ho poi ho ceduto l’attività a terzi, continuando a occuparmi solo di trial (vendita, manutenzione, corsi e uscite collettive, allenatore e team manager)». In particolare, Mario Bernardini segue da vicino la diciassetten-
ne Aylen Scalvedi, giovane promessa del trial che frequenta la Scuola per sportivi d’élite di Tenero. «Seguo Aylen da quando aveva 12 anni. Ha provato qualche gara regionale di Campionato italiano, e ci ha preso gusto, al punto da iscriversi l’anno seguente al Campionato italiano. Quest’anno la soddisfazione maggiore l’ha avuta con un secondo posto e una vittoria nelle due prove di Campionato europeo svoltesi in Francia. Il suo obiettivo è però un altro: la partecipazione al Campionato del Mondo 2025 nella categoria Trial 2 Women». Ma di strada per arrivarci ne dovrà fare ancora molta, come molti sono i chilometri che dovrà macinare e gli ostacoli da superare… «Il “menu” settimanale di Aylen si compone di un paio di giorni di sedute in palestra, nella bella stagione corsa e bici e una media di 5 uscite in moto. Il trial è uno sport impegnativo (con gare che arrivano a durare, nel loro complesso, fino a 5 ore e mezza), dove è molto difficile tenere la concentrazione per così tanto tempo, e solo la pratica costante ti permette di fare il salto di qualità, altrimenti non si va da nessuna parte».
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TEMPO LIBERO
Helsinki sembra prepararsi al peggio
Reportage ◆ Un curioso (e inquietante) viaggio nella rete di tunnel e bunker del sottosuolo della capitale finlandese Elia Danilo testo e foto
Nella hall della sinuosa biblioteca centrale Oodi, le mani spostano con movimenti lenti le pedine; gli sguardi assorti sulle scacchiere, mentre decine di visitatori ammirano le linee pulite dell’edificio, un gioiello d’architettura contemporanea. Dall’altra parte della grande vetrata, sulla Kansalaistori – la piazza che fa da fulcro del nuovo quartiere – i turisti scattano selfie sotto l’insegna «Helsinki» con la Musiikkitalo, la modernissima sala concerti della città, sullo sfondo. Oltre quella soglia, il garrito dei gabbiani è cancellato da un’acustica allo stato dell’arte. Da una sala, morbide note di violino e pianoforte. La hostess dietro il banco della reception mi accoglie con un sorriso. «Per il rifugio antiatomico?». Le sue dita affusolate indicano gli ascensori in fondo. «Piano meno due, per i parcheggi». Le porte automatiche si aprono su una lunga galleria bianca scavata direttamente nella roccia. È l’ingresso alla Helsinki che nessuno vorrebbe mai dover abitare: una rete di tunnel e bunker sotterranei lunga 300 chilometri. E ancora in espansione.
Il masterplan della città sottosopra è progetto in divenire: un giorno tutta questa rete sarà interconnessa La capitale finlandese si prepara al peggio. Il piano generale per dare rifugio sottoterra a tutta la popolazione – un mega progetto ancora in via di sviluppo – non è di oggi. Le prime gallerie nella roccia risalgono ai tempi della Guerra fredda, ma l’invasione russa dell’Ucraina ha dato al masterplan un nuovo impulso. La Finlandia è il Paese europeo che condivide con Mosca il confine più lungo, 1340 chilometri. L’obiettivo è raddoppiare la rete di bunker, mettendo tutti gli spazi in connessione tra loro. I tunnel sotto la Musiikkitalo scorrono 15 metri sotto la roccia. Oggi sono usati come parcheggi sotterranei. Della rete già esistente, il 70 per cen-
nel ventre della città. Sulla porta, il triangolo blu della protezione civile non lascia dubbi. Un paio di ragazzi in tuta e col borsone sulle spalle scendono con me. Le pareti del tunnel sono abbellite con sagome di giocatori, ma le porte blindate da tre tonnellate ciascuna fanno capire che questa non è una palestra come le altre. L’Arena center occupa 1500 metri quadrati, ospita due campi da hockey, due da calcetto, una palestra e un parco giochi per bambini, oltra a una caffetteria. Lilia, da dietro il bancone, osserva i bambini saltare sui teli elastici; le mamme con gli occhi sui cellulari.
In Finlandia la minaccia russa è sentita da generazioni, e ogni famiglia ha una storia riguardo alla difficile convivenza
I finlandesi cercano di sfruttare gli spazi sotterranei già ora, prima di un loro inauspicato utilizzo difensivo futuro.
to è inaccessibile al pubblico, serve per reti, sistemi d’areazione e filtraggio, depositi di stoccaggio per materie prime e servizi. Ma il resto è vissuto tutti i giorni dagli abitanti di Helsinki: stazioni della metropolitana con i negozi, parcheggi, ma anche spazi espositivi, e persino una piscina. L’idea, è di non sprecare lo spazio in attesa del peggio, ma di dargli una funzione utile anche in tempo di pace. Orientarsi non è così semplice. Le mappe tradizionali non aiutano. Camminando per diversi minuti, raggiungo un’uscita a qualche isolato di distanza. Non mi raccapezzo subito. Dalla superficie, non sempre i punti d’accesso alla Helsinki sotterranea
si vedono. C’è una mappa interattiva online della protezione civile. Cerco un’altra entrata, all’angolo tra Fabianincatu e Pohjoisesplanadi, è una sede di uffici, ma il portone è chiuso: è un ingresso usato solo in caso di emergenza. Mi guardo attorno. Nei giardini sul viale, da un palco, una rock band si accanisce sulle chitarre. Un gruppo di turisti con l’auricolare si affretta dietro la guida che parla al microfono. Riprendo il cellulare e cerco un altro ingresso. Lo trovo tre isolati più a nord. È la fermata della metropolitana Università. Il lungo tunnel di roccia imbiancata sembra uscito da un film post apocalittico, se non fosse che nell’ora di punta è affolla-
to di studenti che, indifferenti, passano davanti alle porte di metallo con il triangolo blu, simbolo del rifugio. Da qui, un dedalo di passaggi sotterranei collega la stazione della metropolitana a una galleria commerciale: negozi, ristoranti, supermercati. Riprendo la mappa per cercare di raggiungere l’Arena center: il complesso sportivo interamente sottoterra. Il masterplan della Helsinki sottosopra è progetto in divenire: un giorno tutta questa rete sarà interconnessa. Ma oggi mancano ancora molti pezzi. Devo risalire in superficie e cercare un altro accesso. Ce n’è uno a meno di un chilometro, in piazza Hakaniemi. Un ascensore di vetro tra le aiuole porta
«Non ci penso, mi sembra normale che qui la gente venga a giocare», dice Lilia. L’idea che questo sia un mega bunker progettato per proteggere 3mila persone da eventi bellici, radiazioni nucleari e sostanze tossiche è qualcosa che a nessuno piace tenere a mente. «Ma se scatta l’allarme, dobbiamo svuotare tutto entro 36 ore». Il piano di emergenza prevede sirene d’allarme, messaggi radio, tv e su tutti i cellulari. La protezione civile deve allestire in tempi rapidissimi i rifugi, aprire gli accessi normalmente chiusi al pubblico e guidare la popolazione verso il bunker più vicino. A nessuno piace ammetterlo chiaramente, ma la minaccia russa qui è qualcosa di sentito da generazioni e ora tornata terribilmente attuale. «Ognuno di noi ha in famiglia qualche storia», dice Lilia. «I miei bisnonni hanno combattuto la Russia durante la Guerra d’inverno, e i miei nonni l’hanno vissuta da bambini, me lo raccontavano sempre: il freddo, la mancanza di cibo». Tra il 1939 e il 1940 i Finlandesi vissero quello che oggi tocca agli ucraini: l’invasione sovietica del Paese scandinavo fu respinta da un’imponente resistenza popolare. Ma già prima, nel 1917, durante la guerra civile contro la Russia zarista i finlandesi avevano sconfitto gli invasori, conquistandosi l’indipendenza. «Per certi versi fa parte di noi: io e il mio ragazzo siamo pacifisti, ma facciamo tutti e due parte delle unità volontarie di difesa». Le chiedo se ha paura. Guarda i bambini che giocano. «Conosci la parola finlandese sisu?» Faccio no con la testa. «Non si può tradurre in altre lingue, è la parola che descrive il nostro carattere, un misto di forza di volontà, resistenza alle difficoltà, resilienza, tenacia. Ecco, noi siamo fatti così. E se servirà vivere per un po’ sottoterra, lo faremo». Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica. Annuncio pubblicitario
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Ricetta della settimana - Discoletti ai pistacchi ●
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1. T ritate finemente i pistacchi con la metà della farina in un tritatutto. Aggiungete alla miscela la farina rimasta, lo zucchero e il sale e mescolate bene il tutto in una scodella.
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100 g di pistacchi tritati 250 g di farina 100 g di zucchero 1 presa di sale 200 g di burro, freddo 1 tuorlo 160 g circa di confettura, ad esempio di fragole, d’arance, di sambuco zucchero a velo per guarnire
2. Tagliate il burro a pezzettini, aggiungetelo e impastate con le mani sfregando il burro con la miscela di farina. Incorporate il tuorlo e impastate velocemente fino a ottenere una massa omogenea e liscia. Avvolgetela nella pellicola trasparente e lasciate riposare per circa 1 ora in frigo. 3. Scaldate il forno statico a 180° C. Spianate la pasta poco per volta in una sfoglia di circa 3 mm di spessore. Ritagliate dei dischi con un taglia biscotti. Al centro della metà dei biscotti ritagliate delle formine più piccole. Accomodate i biscotti sulle teglie foderate con carta da forno. 4. Impastate nuovamente i resti di pasta, metteteli in frigo e spianate di nuovo, fino a esaurire la pasta. 5. Cuocete i biscotti al centro del forno per circa 10 minuti, una teglia dopo l’altra. Sfornate e lasciate intiepidire. 6. Spalmate le basi tiepide dei biscotti con i vari tipi di confettura. Sistemate sulla confettura il secondo biscotto. Lasciate raffreddare e spolverizzate di zucchero a velo. Preparazione: circa 45 minuti; refrigerazione: circa 1 ora; cottura in forno per teglia: circa 10 minuti; raffreddamento: almeno 1 ora Per porzione: circa 2 g di proteine, 6 g di grassi, 11 g di carboidrati, 110 kcal
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TEMPO LIBERO
Perdersi nella giungla cercando un’orchidea Colpo critico ◆ Dalla passione per le piante rare alle spedizioni rischiose degli esploratori dell’epoca vittoriana
«Il punto è che mi sono dedicato troppo esclusivamente alla botanica». Così scriveva il grande biologo inglese Richard Spruce (1817-93) in una lettera di sfogo a un amico. Ma quali erano i lati dannosi della botanica? Spruce fa un elenco: «Esposto a temporali, e a pioggia battente – seduto in una canoa con l’acqua fino alle ginocchia – nutrendomi di cibo scadente e scarso una sola volta al giorno – e non riuscendo a dormire la notte per gli assalti di insetti velenosi». Nell’epoca vittoriana il mestiere del botanico era altrettanto avventuroso che quello dell’archeologo nei film di Indiana Jones. Con la differenza che le vicissitudini di Spruce sono vere.
Un gioco di ruolo che fa rivivere l’epopea dei viaggiatori naturalisti del XIX secolo tra pericoli esotici e tesori botanici Nel XIX secolo la borghesia inglese impazziva per le piante rare, in particolare per le orchidee. Nel 1851 l’Esposizione Universale di Londra era ospitata sotto un immenso padiglione di vetro che suscitò la moda delle serre private: «Un’orchidea rara poteva suscitare la stessa ammirazione di cui oggi è oggetto un’auto sofisticata: l’orchidea blu (Vanda cerulea) era una sorta di icona assai ambita» (Mary
e John Gribbin, Cacciatori di piante, Raffaello Cortina, 2009). Negli angoli più remoti del pianeta avventurieri e botanici andavano alla ricerca di specie rare, dalle Phalaenopsis alle Dendrobium o alle Nepenthes, che erano meravigliose anche se emanavano un odore di pesce marcio. Le piante, raccolte in circostanze fortunose, venivano inviate per nave in Inghilterra; quelle che sopravvivevano erano vendute come se fossero gioielli per migliaia di sterline. Il gioco di ruolo Orchidelirium (NessunDove, 2024), creato da Luke Earl, è ispirato a queste vicende. Uno dei partecipanti (da 2 a 6) assume il ruolo del cronista, gli altri sono cacciatori di orchidee nell’anno 1865. Grazie a una serie di tabelle e usando un mazzo di carte francese, il cronista mette in scena una situazione narrativa. Il suo compito è descrivere ciò che sentono e vedono gli esploratori, i quali devono superare una serie di ostacoli con il loro ingegno (se necessario tirando un paio di dadi). È previsto anche l’uso di alcune monete per indicare gli «scellini» con cui i cacciatori possono pagare dei servitori affinché li traggano d’impaccio. Gli avventurieri avanzano in gruppo, cercando di capire quali segreti nascondano le orchidee più rare, destreggiandosi fra misteriosi e temibili avversari. Il gioco contiene tre «spedizioni» pronte per essere giocate, una
Generato con intelligenza artificiale.
Andrea Fazioli
firmata dall’autore e altre due scritte per la versione in italiano da Chiara Locatelli (che ha tradotto il gioco) e da Oscar Biffi. Si può scegliere fra un viaggio nel Pacifico, uno fra le brume scozzesi e uno in Italia, tra i boschi del Gargano. Il manuale fornisce le istruzioni perché i cronisti possano preparare da sé altre avventure. Orchidelirium è originale ed efficace, congegnato perché i giocatori si divertano a improvvisare. La pre-
Giochi e passatempi Cruciverba L’albero più vecchio del mondo si trova in… Termina la frase leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate. (Frase: 4, 2, 2, 5, 10, 4)
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ORIZZONTALI 1. S ovrasta tutti 5. Succede per legge 9. Qui in inglese 10. Aspro in latino 11. Desinenza di diminutivo plurale femminile 12. Vive nei mari del Nord 13. Sono doppie nella ceramica 14. La friend italiana 16. Mio a Berlino 19. Nome femminile 20. Lo dimostra il giudizioso 21. Collisioni
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Sudoku
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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku 5
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parazione dei personaggi è rapida e il meccanismo aperto ai colpi di scena. È adatto anche ai principianti, ma è consigliabile che almeno il cronista abbia una certa esperienza. Egli può lasciare spazio alla fantasia degli altri giocatori, ma nello stesso tempo deve fornire degli indizi che rivelino piano piano i segreti della spedizione. Per chi ama il rischio in luoghi esotici, segnalo un gioco assai diverso ma con atmosfere simili. Si trat-
ta di Story Box Adventures di Julian Prothière e Alexandre Droit (Tiki, 2024). È un cooperativo da 2 a 8 giocatori a partire dagli 8 anni. I partecipanti hanno due minuti per improvvisare una storia usando una serie di carte illustrate, ognuna delle quali raffigura tipiche situazioni avventurose. Passato lo slancio creativo, i giocatori dovranno ricordarsi ciò che è accaduto, ricostruendo la narrazione con le sue incongruenze e i momenti sospesi sul filo dell’assurdo. È un gioco rapido che con pochi mezzi suscita una bella atmosfera, fra risate e discussioni. La serie Story Box propone anche altri due scenari distinti, legati al mondo dei sogni o al poliziesco. Chi legge Salgari, Verne e Stevenson lo sa bene: non c’è bisogno di viaggi costosi per vivere l’avventura, basta un po’ d’immaginazione. In Orchidelirium è riportata una frase scritta nel 1891 dal cacciatore di orchidee Albert Millican. Come leggerla senza un brivido? «Avendo infine predisposto il mio spirito a un solitario viaggio per mare e ottenuto il biglietto che mi avrebbe condotto ovunque crescessero le orchidee più rare, mi procurai una scorta di coltelli, sciabole, rivoltelle, fucili, quantità smodate di tabacco e giornali per salpare il terzo sabato dell’ottavo mese del ventottesimo anno nel regno di Sua Maestà Imperiale la Regina Vittoria».
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23. Le iniziali della cantante Marrone 24. Luogo dove si trebbia 25. Piccola rana verde 26. In forse 27. Si stacca dal tutolo 28. Li eseguono i cori 29. Espressione di meraviglia VERTICALI 1. Pronome 2. Ha la criniera sulla schiena 3. Asceta 4. Articolo 5. Abbreviazione di titolo onorifico
6. Il regno delle fiabe 7. Le iniziali del cantante Ruggeri 8. Legno pregiato 10. Pappagallo americano 12. È stupida ma ha fegato… 13. Due volte nel brindisi 15. In quel luogo…poetico 17. Preposizione francese 18. Avverbio di quantità 20. Distruggere in Inghilterra 22. Niente a Parigi 23. Gas nobile dell’atmosfera 25. Così termina la commedia 27. Nota musicale
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Soluzione della settimana precedente UN PO’ DI ASTRONOMIA – Il nucleo del Sole misura circa… Resto della frase: … QUINDICI MILIONI DI GRADI CELSIUS
Q U I N D I U N A S C I A M A T R A I D R U R O A I O L I A T A L O N D I A D I G E R A D I C E I U R D N A S U L T R E R U G O S O O A S I
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Migros Ticino
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Frutta e verdura
Le vitamine sono servite
I se mi, le g g e rm piccanti , sono a e nte datt i al consumo
20% 2.85
Papaia di Formosa Spagna, al kg
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IDEALE CON
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32% 9.95 invece di 14.85
Filetti di salmone selvatico con pelle M-Classic, MSC pesca, Pacifico nordorientale, 2 x 150 g, (100 g = 3.32)
Hit 3.95
Insalata invernale Migros Bio 200 g, (100 g = 1.98)
Migros Ticino 2
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21% 1.10
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Consiglio: deliziose al se rv it e con quark all forno e e erbe
22% 2.65 invece di 3.40
Arance bionde Migros Bio Italia/Spagna, rete da 1,5 kg, (1 kg = 1.77)
Migros Ticino
20% 5.95 invece di 7.50
20% Patate dolci Migros Bio
Tutti i cespi di insalata Migros Bio e Demeter
Svizzera, al kg
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Carne e salumi
Senti un po’ che profumini…
15% 3.05
15% Mini filetti di pollo Optigal Svizzera, per 100 g, in self-service
invece di 3.60
15% 9.25 invece di 10.90
Fettine di pollo impanate M-Classic Brasile, 520 g, in self-service, (100 g = 1.78)
Ali di pollo Optigal al naturale e speziate, Svizzera, per es. al naturale, per 100 g, 1.– invece di 1.20, in self-service
21% 2.05 invece di 2.60
Costolette di maiale IP-SUISSE per 100 g, in self-service
Carne sv izze ra
45%
20%
di pollo 10.95 Cosce M-Classic
31.50 Foie gras Delpeyrat
invece di 20.25
prodotto surgelato, in conf. speciale, 2,5 kg, (100 g = 0.44)
invece di 39.50
Francia, 180 g, (100 g = 17.50)
Migros Ticino 4
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21% 2.50 invece di 3.20
Lesso magro di manzo IP-SUISSE per 100 g, in self-service
25% 4.95 invece di 6.60
Costa schiena di manzo IP-SUISSE per 100 g, al banco
CONSIGLIO DEGLI ESPERTI
30% 3.75 invece di 5.40
Fettine di manzo à la minute IP-SUISSE per 100 g, in self-service
25% 1.95 invece di 2.60
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20% 3.35 invece di 4.20
Sminuzzato di manzo IP-SUISSE per 100 g, in self-service
L'arrosto alla ticinese di tenero collo di maiale sapientemente arrotolato e avvolto nella pancetta. Per la preparazione, rosolare l'arrosto nella parte inferiore, sfumare con vino bianco e aggiungere un po' di brodo. Coprire e cuocere in forno a 180 °C per circa 90 minuti, a seconda della grandezza.
Arrosto di maiale alla ticinese IP-SUISSE per 100 g, in self-service
Offerte valide dal 10.12 al 16.12.2024, fino a esaurimento dello stock. 5
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Salumi
… e qui spazio a carne e salsicce!
le salsicc e in r e p : to n e im S ug g e r le ne lla pasta r e lg o v v a , a c rost e r le al for no sfog lia e c uoc
20% 3.20 invece di 4.–
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29% 8.50
Lonza affumicata Quick bio Svizzera, per 100 g, in self-service
invece di 12.–
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22% 6.95 invece di 9.–
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Prosciutto al forno Tradition, IP-SUISSE 2 x 120 g, (100 g = 2.90)
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20% 8.45 invece di 10.60
Carne secca dei Grigioni Migros Bio, IGP Svizzera, 100 g, in self-service
20% 4.95 invece di 6.20
Wienerli M-Classic Svizzera/Germania, 5 x 4 pezzi, 5 x 200 g, (100 g = 0.85)
Prosciutto crudo dalla noce Svizzera, per 100 g, in self-service
mi pronto Il tag lie re di saludi Natale pe r l'ape ritiv o
20% Piatto grigionese Spécialité Suisse prosciutto crudo, carne secca, pancetta cruda e Grisoni, Svizzera, per 100 g, in self-service
15.90 Piatto festivo Gruyère invece di 19.90
carne secca, prosciutto crudo e pancetta cruda, Svizzera, 233 g, in self-service, (100 g = 6.82)
Migros Ticino 6
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Pesce e frutti di mare
Frutti di mare e frutti del mare
50%
31%
10.50 Salmone selvatico Sockeye MSC invece di 21.–
pesca, Pacifico nordorientale, in confezione speciale, 280 g, (100 g = 3.75)
13.95 Filetto dorsale di merluzzo M-Classic, MSC invece di 20.30
pesca, Atlantico nordorientale, 360 g, in self-service, (100 g = 3.88)
Ott imo pe r i ce st i re galo
conf. da 2
48% 9.95 invece di 19.50
Duo festivo con salmone affumicato Sockeye MSC e salmone affumicato dell'Atlantico ASC pesca in Alaska/allevamento in Norvegia, 2 x 150 g, (100 g = 3.32)
50% 7.95 invece di 15.90
Cozze fresche M-Classic, MSC pesca, Paesi Bassi, 2 kg, in self-service, (1 kg = 3.98)
20x CUMULUS
conf. da 3
30% 17.75
invece di 25.50
Novità Filetti di salmone dell’Atlantico Pelican, ASC prodotto surgelato, 3 x 250 g, (100 g = 2.37)
3.50
Mousse di tonno M-Classic, MSC pesca, Pacifico occidentale, 100 g
Offerte valide dal 10.12 al 16.12.2024, fino a esaurimento dello stock. 7
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Formaggi e latticini
Specialità d’oro bianco
15% 2.40
15%
Sole del Ticino per 100 g, prodotto confezionato
invece di 2.85
Tutti i formaggi Da Emilio e Piave DOP per es. Grana Padano Da Emilio, in blocco, per 100 g, 1.90 invece di 2.25, prodotto confezionato
15% 1.75 invece di 2.10
a partire da 2 pezzi
20% Formaggio per raclette a fette aromatizzato e gusti assortiti, Raccard disponibile in diversi gusti (al naturale escl.), per es. gusti assortiti, IP-SUISSE, 900 g, 18.80 invece di 23.50, prodotto confezionato, (100 g = 2.09)
Formaggella ticinese 1/4 grassa per 100 g, prodotto confezionato
conf. da 2
21% 15.– invece di 19.10
Fondue moitié-moitié Caquelon Noir Le Gruyère AOP e Vacherin Fribourgeois AOP, 2 x 400 g, (100 g = 1.88)
Migros Ticino 8
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A rricchit i con v it amine e sali mine rali conf. da 3
conf. da 12
20%
30%
Drink Ovomaltine
intero UHT 13.85 Latte Valflora, IP-SUISSE
250 ml, 500 ml o High Protein, per es. drink Ovomaltine, 3 x 250 ml, 4.65 invece di 5.85, (100 ml = 0.62)
invece di 19.80
12 x 1 litro, (1 l = 1.15)
A lt e r nati a base di av e v e al latt e na , m riso, soia e altandor le , ro
10% Gorgonzola DOP Selezione Reale per es. dolce, 200 g, 4.05 invece di 4.50, (100 g = 2.03) a partire da 2 pezzi
20% Tutti i prodotti V-Love sostitutivi del latte (senza alternative al formaggio), per es. drink all'avena bio Barista, 1 litro, 2.35 invece di 2.90
conf. da 4
20% Yogurt alla panna Yogos al naturale, ai fichi o al miele, 4 x 180 g, per es. al naturale, 3.50 invece di 4.40, (100 g = 0.49)
Migros Ticino
Offerte valide dal 10.12 al 16.12.2024, fino a esaurimento dello stock. 9
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Pane e prodotti da forno
Bontà dal forno Il nost ro pane del la se tt imana: a base di farina big ia con inte nsi aromi di liev it azione. La cr osta è cr occant e, la mol lica le g g era e ariosa , con un delic ato aroma acidul o.
20% Tutte le torte non refrigerate (articoli Sélection esclusi), per es. torta di Linz Petit Bonheur, 400 g, 3.– invece di 3.80, prodotto confezionato, (100 g = 0.75)
uv a sult anina n co ta a it v e li a Past
3.95
a partire da 2 pezzi
Pane d'altri tempi cotto su pietra Migros Bio
20% 2.60 invece di 3.30
500 g, (100 g = 0.79)
Stella d'Avvento 300 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.87)
il In azione anche pane tt one se nza candit i
20%
20%
Tutti i tipi di pasta per biscotti
Tutti i panettoni e i pandori, San Antonio
per es. pasta per milanesini al burro Anna's Best, blocco, 500 g, 3.80 invece di 4.70, (100 g = 0.75)
per es. panettone, sacchetto da 500 g, 5.– invece di 6.30, (100 g = 1.00)
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Dolci e cioccolato
Piccoli piaceri per dolci momenti
Dec orazioni pe r l'albero che piac era nno ai più golosi
a partire da 2 pezzi
20% Cioccolato da appendere all'albero Frey
20%
disponibile in diverse varietà, per es. cioccolato al latte, vuoto, assortito, 500 g, 10.40 invece di 12.95, (100 g = 2.07)
Tutte le palline Freylini Frey in sacchetto per es. Classics, 480 g, 8.40 invece di 10.50, (100 g = 1.75)
20%
20%
Tutto l'assortimento Glacetta
Tutti i biscotti Christmas Bakery in sacchetto da 500 g
prodotto surgelato, per es. Ice Cake al cappuccino, 800 ml, 4.40 invece di 5.50, (100 ml = 0.55)
per es. stelline alla cannella, 4.75 invece di 5.95, (100 g = 0.95)
In v ari tipi di cioccolato
conf. da 3
32% 9.25 invece di 13.80
a partire da 2 pezzi
20%
20%
Caramelle Ricola
Tavolette di cioccolato Frey, 100 g
Tutti i truffes Frey
Original o melissa, senza zucchero, 3 x 125 g, per es. Original, (100 g = 2.47)
(prodotti Sélection, Suprême e confezioni multiple esclusi), per es. al latte finissimo, 1.80 invece di 2.20
(confezioni multiple escluse), per es. assortiti, 256 g, 9.20 invece di 11.50
Offerte valide dal 10.12 al 16.12.2024, fino a esaurimento dello stock. 11
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Scorta
Bontà sia fresche che a lunga conservazione
conf. da 2
20%
40%
Tutti i tipi di pasta M-Classic
Pasta Anna's Best con ripieno, refrigerata tortellini tricolore al basilico, tortelloni ricotta e spinaci o tortelloni con carne di manzo, per es. tricolore al basilico, 2 x 500 g, 6.95 invece di 11.60, (100 g = 0.70)
per es. reginette, 500 g, 1.50 invece di 1.90, (100 g = 0.30)
conf. da 3
conf. da 3
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Pizze Buitoni
Lasagne Anna's Best, refrigerate
surgelate, caprese, al prosciutto o alla diavola, per es. caprese, 3 x 350 g, 13.20 invece di 16.50, (100 g = 1.26)
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