Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio In Ticino il progetto «Da meno 9 a più 36» a favore della salute psichica nella prima infanzia
Ambiente e Benessere L’ambientalista Bill McKibben, nel libro Falter, lancia l’allarme sulla catastrofe imminente causata dai cambiamenti climatici
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 16 dicembre 2019
Azione 51 Politica e Economia Al vertice di Parigi segnali di disgelo sulla guerra russoucraina del Donbas
Cultura e Spettacoli In anteprima mondiale Adelphi propone un nuovo, strepitoso romanzo di Isaac B. Singer
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di G. Gavazzeni e S. Faller pagine 41 e 45
Brescia/Amisano – Teatro alla Scala
Tosca ammaliatrice
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Concordanza nel dilemma di Peter Schiesser Onestamente, qualcuno si aspettava un risultato diverso dalle elezioni per il Consiglio federale di mercoledì scorso? Ossia, che la presidente dei Verdi Regula Rytz sarebbe riuscita a scalzare Ignazio Cassis e quindi a togliere un seggio ai liberali-radicali? Dal momento in cui il presidente del Partito popolare democratico Gerhard Pfister ha dichiarato che non avrebbe sostenuto la candidata dei Verdi, evitando persino di convocarla, i giochi erano fatti. E i numeri sono stati chiari: 145 voti per Ignazio Cassis, 82 per Regula Rytz (e 11 per candidati diversi). Non un risultato brillante, ma un buon margine di vantaggio per il consigliere federale ticinese. Tuttavia, queste elezioni del Consiglio federale non sono state inutili: nelle prese di posizione dei partiti che hanno preceduto le elezioni è emerso con chiarezza il dilemma in cui si trova oggi il sistema di concordanza, fondamento della politica federale. In realtà, tutti avevano una buona dose di ragione nelle proprie argomentazioni: se i partiti di centro e di centro-destra hanno messo l’accento sulla necessità di garantire la stabilità del sistema politico elvetico in nome
della concordanza, a sinistra e anche fra i Verdi liberali si è levata la richiesta di dare una nuova forma alla concordanza, poiché non può più essere chiamata tale se il Consiglio federale rappresenta oggi solo due elettori su tre. Il dilemma sta proprio nel fatto che nelle elezioni dell’11 dicembre non era possibile trovare una soluzione, una formula di governo che rispettasse al contempo la volontà dell’elettorato, che ha premiato le formazioni ecologiste nelle storiche elezioni del 20 ottobre, e la stabilità garantita dall’attuale sistema politico e dalla «formula magica» che ne è espressione dal 1959 (pur con gli scossoni subiti nel 2003 e nel 2007 con le mancate rielezioni di Ruth Metzler e poi di Christoph Blocher). Considerato che fra socialisti, liberaliradicali, Verdi e popolari democratici ci sono (fra il primo e il quarto) meno di 6 punti percentuali di differenza, non si giustifica più che socialisti e liberali-radicali abbiano due seggi, i popolari democratici uno e i Verdi nessuno. Ma toglierne uno ai liberali-radicali per darlo ai Verdi rafforzerebbe in modo eccessivo il fronte di sinistra, mentre il centro (PPD, BDP e Evangelici) risulterebbe sotto-rappresentato; i Verdi liberali, poi, non lo sarebbero per nulla. Un bel rompicapo, che non poteva essere sciolto l’11 dicembre.
Se prendiamo sul serio le dichiarazioni dei partiti e le proposte ventilate alla vigilia dell’11 dicembre, potremmo dire che la soluzione del dilemma è solo rinviata. Da una parte si attende che i Verdi e i Verdi liberali confermino il loro exploit elettorale fra quattro anni (c’è poco da dubitarne, visto che l’emergenza clima non si dissolverà), dall’altra che in questa legislatura i quattro partiti di governo assieme a Verdi e Verdi liberali affrontino seriamente la questione ed elaborino una nuova «formula magica» di governo. Le proposte oggi sul tavolo sono molteplici: si va da un Consiglio federale a 9 nove seggi per integrare in governo Verdi e Verdi liberali senza togliere seggi ad altri, all’idea di Blocher di togliere un seggio ai socialisti e uno al PLR per darlo a Verdi e Verdi liberali, a quella di Gerhard Pfister di limitare a 8 anni la durata massima della carica di consigliere federale per permettere dei veri ricambi. Vedremo se l’impegno verbale della vigilia avrà un seguito, ora che i giochi sono fatti. Al più tardi se ne riparlerà fra quattro anni. Ma ha senso attendere tanto? È ancora possibile, in un mondo e in un’economia che mutano così radicalmente e rapidamente, mantenere i lunghi tempi politici di un periodo storico ormai passato?
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 dicembre 2019 • N. 51
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Società e Territorio Carriere al femminile Cento donne e mille altre è il titolo di un progetto nato dalla collaborazione di diverse realtà accademiche
Che cos’è il dark web? Tutti ne parlano ma per molte persone è poco chiaro cosa sia il lato oscuro della rete e quali pericoli celi pagina 8
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Come sta l’informazione L’Università di Zurigo ha pubblicato l’annuale studio dedicato alla qualità dei media in Svizzera
La storia del «Corriere» Enrico Morresi ci racconta la storia del «Corriere del Ticino» attraverso le vicende dei proprietari di allora e di oggi, a partire dal giudice federale Agostino Soldati pagine 10-11
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L’equilibrio del crescere
Prevenzione Lo sviluppo nella prima
infanzia è determinante per la salute psichica durante tutta la vita, in Ticino il progetto «Da meno 9 a più 36» si rivolge alle famiglie più vulnerabili
Maria Grazia Buletti La nascita di un bambino è sempre un evento bello e unico. Il nucleo famigliare prende consapevolezza lasciandosi alle spalle immaginazione, dubbi e domande, e accoglie il neonato sviluppando l’innata propensione a rispondere ai suoi bisogni. È l’accudimento, condizione necessaria allo sviluppo e alla crescita del nascituro, spiega lo psicoterapeuta Pierre Kahn: «Per crescere, il bambino necessita di una figura adulta capace, sensibile, responsabile che sappia assicurargli vicinanza, protezione e affetto». Purtroppo non sempre il neonato può essere accolto in questo modo, giungendo in famiglie cosiddette vulnerabili. «La vulnerabilità abbraccia un campo abbastanza ampio nel quale dobbiamo distinguere l’aspetto patologico (disturbi psichici, tossicodipendenze, alcolismo e altre dipendenze) dalle nuove “dipendenze senza sostanze” che stanno prendendo sempre più piede: quelle dalla tecnologia che negli ultimi dieci anni ha invaso la nostra società», esordisce lo psichiatra e psicoterapeuta Michele Mattia che racconta l’esempio di una mamma e un papà visti a cena in un ristorante, con il bambino seduto a tavola con tablet e cuffiette nelle orecchie. «Una famiglia diventa vulnerabile anche quando siamo troppo legati a noi stessi ed entriamo nel mancato accudimento verso l’altro, quando i genitori non mettono limiti e, come in quel caso, lo smartphone fa da babysitter al bambino che entra in una dimensione di trascuratezza rimanendo isolato invece di socializzare durante la cena». Ma il discorso è complesso e il campo si allarga anche alle famiglie a basso livello economico nelle quali possono esserci conflitti continui legati a questa dimensione: «Allora il bambino vive all’interno di una famiglia ad altissima conflittualità espressa». Senza dimenticare il rischio legato alle famiglie «ad altissimo livello economico» nelle quali, secondo lo psichiatra, potrebbe verificarsi una dimensione di anaffettività nei confronti dei figli: «La nostra società deve dunque riconoscere che il ventaglio di vulnerabilità famigliare è
ampio e racchiude una serie di aree che oggi sarebbe bene emergessero accanto a quelle già note». Per ora, in occasione della Giornata mondiale della salute mentale dello scorso mese di ottobre, Promozione Salute Svizzera ha acceso i riflettori sulle vulnerabilità famigliari psichiche: «Lo sviluppo della prima infanzia è importante per la salute psichica durante tutta la vita. Tuttavia, le misure a sostegno dei bambini che crescono in condizioni difficili sono insufficienti. Queste carenze vanno portate alla luce e perciò presentiamo quattro nuovi progetti innovativi a favore dei bambini che crescono in famiglie in condizioni iniziali difficili a causa di carichi famigliari, sociali o materiali, e vedono dunque compromesso il loro sviluppo della prima infanzia». In Ticino si è puntato sulla prevenzione con il progetto «Da meno 9 a più 36» (dove per 9 e 36 si intendono i nove mesi della gravidanza e i 36 successivi alla nascita). Ce lo spiega Martina Flury Figini, coordinatrice di PAT-Imparo con i genitori: «Ci rivolgiamo molto precocemente a quelle famiglie che si trovano a manifestare fattori di stress a livello sociale, finanziario, problematiche psichiche o fisiche dei genitori. Ci attiviamo solo dove troviamo consenso e collaborazione della famiglia stessa; partiamo dalle sue risorse e portiamo un nuovo linguaggio, in modo che i genitori si sentano in grado di adempiere bene al proprio ruolo». Un progetto in cui famiglia e specialisti (levatrici, ostetriche, ginecologi, medico di famiglia e via dicendo) sono messi in rete già durante la gravidanza, come spiega Promozione Salute Svizzera che lo finanzia insieme al Cantone: «I genitori approfittano di quest’offerta e, in collaborazione con persone di loro fiducia, sono messi in condizione di prendersi cura della propria salute psichica: ciò è essenziale perché i bambini nella prima fase della loro infanzia dipendono fortemente dalla presenza di persone di riferimento affidabili ai fini di un sano sviluppo». Patologiche, psichiche, legate alle nuove tecnologie o al nuovo stato sociale che vede la famiglia non più allargata ma individualista e spesso sola a gestire le criticità, le vulnerabilità comporteranno un problema di accudimento che
Il rapporto con la madre nei primi anni di vita è fondamentale per lo sviluppo del bambino. (Marka)
non sempre la famiglia riesce a compensare attivando le proprie risorse. Allora va aiutata, dice Pierre Kahn, per proteggere il bambino che: «in caso di stress, disagio o bisogno invia segnali attraverso il pianto o altri atteggiamenti, aspettando di ricevere una risposta complementare che lo possa aiutare e confortare». Le cose si complicano quanto il genitore ha egli stesso bisogno di attenzioni e diviene auto centrico: «Ad esempio, se una madre ha problemi psichici, potrebbe non saper rispondere adeguatamente ai bisogni di un bimbo che piange, potrebbe viverlo come un fastidio o un’interferenza, usarlo come proprio strumento consolatorio, come fosse una bambola e non un individuo, invertendo in un certo senso i ruoli di accudimento». Nei primi anni il ruolo della madre è prepon-
derante sul quello paterno, perciò tutto si complica se fosse lei a presentare una vulnerabilità psichica. Fra conseguenze dirette e indirette («quando è il padre ad avere problemi e la madre si trova ad occuparsi di entrambi»), anche Kahn riconosce il ruolo fondamentale e le risorse della famiglia allargata: «Sono provvidenziali nonne, zie, o altre figure che con la loro presenza possono rispondere ai bisogni del bambino». Le famiglie vulnerabili vanno dunque individuate, sostenute e aiutate per l’equilibrio di crescita dei figli, onde evitare tutta una serie di possibili evoluzioni negative: «Un bimbo piccolo può presentare ritardi nello sviluppo, nel linguaggio, negli aspetti motori, cognitivi e relazionali. Può costruire un rapporto ambivalente con la figura materna, diventando un bambino insicuro
e ansioso. Da adolescente rischia di vivere rapporti morbosi ed esclusivi, non avendo imparato la giusta distanza relazionale con l’altro. Da adulto rischia infine di idealizzare il proprio partner, di sovrainvestirlo diventando un adulto geloso, ossessivo, controllante, autoritario, anche perché da piccolo non ha appreso correttamente a decodificare l’interazione con l’altro». È utile, conclude Kahn, poter riportare il bimbo al centro dell’attenzione dell’adulto, aiutando nel contempo quest’ultimo nella difficoltà che sta attraversando. Tutti, i genitori in primis, vogliono solamente il bene del bambino. Sostenere le famiglie vulnerabili aiuta a proteggere il nucleo in cui cresceranno gli adulti di domani. E proteggere è il sinonimo che più si avvicina al verbo amare.
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Una spinta per le carriere
Università e mondo del lavoro La Notte Bianca delle Carriere, organizzata ogni anno in contemporanea da diversi
atenei svizzeri, mira a favorire la conoscenza personale fra nuovi talenti e potenziali datori di lavoro Stefania Hubmann Nell’era della comunicazione digitale il contatto personale gioca ancora un ruolo essenziale anche per le nuove generazioni, soprattutto quando si tratta di opportunità professionali. Lo dimostra il successo di cui gode la Notte Bianca delle Carriere, organizzata ogni autunno in contemporanea da diverse università e istituzioni parauniversitarie svizzere, dieci per l’edizione 2019 fra le quali le ticinesi USI e SUPSI. Lo scorso 14 novembre l’incontro fra realtà accademica e aziende presenti sul territorio ha avuto luogo all’USI per la quinta volta, organizzato dal Servizio Carriere. Aperto a studenti e laureati di Bachelor, Master e Dottorato delle università svizzere, il grande evento è sì improntato al futuro professionale dei partecipanti, ma anche alla convivialità, per favorire incontri informali e rilassati fra giovani che si affacciano al mondo del lavoro e professionisti a loro volta alla ricerca dei profili adeguati per le loro imprese e società.
«L’evento annuale nasce dalla regolare attività volta a favorire rapporti privilegiati fra gli studenti e le principali realtà professionali locali e internazionali interessate ai nostri talenti»
Tra le esperienze in programma per gli studenti c’è la Job Gallery Walk, concepita come incontri di consulenza individuale di 15 minuti. (Foto USI)
Partiamo dalle cifre che da sole dimostrano il richiamo della manifestazione, svoltasi al Palazzo rosso del Campus USI a Lugano. Erano infatti 110 le attività proposte: dalle conferenze ai workshop, dalle tavole rotonde ai CV Check, dalla Job Gallery Walk alla parte più ricreativa con giochi interattivi, degustazioni e musica. Se da un lato erano presenti circa mille studenti e laureati (di cui 60 Student Angel), oltre venti professori e cinque associazioni studentesche, dalla parte dei potenziali datori di lavoro si contavano 190 professionisti (di cui 50 laureati USI) rappresentanti 70 realtà professionali. Per Silvia Invrea, responsabile del Servizio Carriere, «la Notte Bianca corona ogni anno un’intensa e regolare attività volta a favorire rapporti privilegiati fra gli studenti e le principali realtà professionali locali e internazionali, interessate a reclutare talenti dalle nostre cinque facoltà». Così riassume percorso e obiettivi: «Sin dai primi anni della sua fondazione l’USI ha prestato grande attenzione a questo collegamento con il mondo del lavoro. Il Servizio Carriere è stato istituito diciotto anni or sono per offrire agli studenti molteplici strumenti che stimolano e sostengono la loro ricerca proattiva di uno sbocco
professionale. Aiutiamo gli studenti a trovarsi un lavoro, non glielo forniamo noi. Mi piace utilizzare al riguardo la metafora del pescatore. Noi procuriamo la lenza, spieghiamo la tecnica, ma non forniamo il pesce! Anche lo stage, obbligatorio in molti dei nostri programmi di studio e del quale ci occupiamo a livello di coordinamento, costituisce una preziosa opportunità di ricerca e confronto con il mondo del lavoro». Silvia Invrea, che guida il Servizio Carriere da diciotto anni, spiega come durante l’anno accademico siano organizzati incontri settimanali mirati con diverse realtà professionali, incontri i cui obiettivi sono essenzialmente tre: informare su tipologie di carriere e realtà professionali, formare sulle modalità di ricerca e candidatura, creare contatti professionali con futuri potenziali datori di lavoro. La revisione del Curriculum Vitae ed incontri di Mock Interview o Video Recruiting sono esempi del supporto fornito per massimizzare le chance nell’ambito di una candidatura per un posto di lavoro. La Notte Bianca delle Carriere ha il vantaggio di offrire queste ed altre possibilità di confronto con il potenziale datore di lavoro in maniera diretta e informale. Annelore Denti, respon-
sabile dell’organizzazione della serata per il Servizio Carriere, evidenzia come professori e professionisti siano sempre molto disponibili e coinvolti nelle diverse attività a favore dei giovani partecipanti. «Il ventaglio offerto è davvero ampio – precisa – anche perché tiene in considerazione possibili sbocchi per tutte e cinque le facoltà dell’USI. A inizio serata è sempre previsto un momento comune dedicato a un tema d’attualità che quest’anno presentava il punto di vista delle aziende su Come integrare al meglio laureati/e in STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Matematica) o scienze umane. Questo Panel di apertura ha visto riuniti cinque dirigenti, moderati dal prof. Lorenzo Cantoni, prorettore alla formazione e alla vita universitaria». Alcuni punti forti del programma ricorrono ad ogni edizione, come la Job Gallery Walk che permette di capire in che cosa consiste un determinato ruolo professionale. È concepita come incontri di consulenze individuali di 15 minuti sullo svolgimento di una giornata lavorativa tipo. Questa esperienza – rilevano ancora le nostre interlocutrici – è molto utile per scoprire le specificità di alcune funzioni e magari per orientare di conseguenza il percor-
so finale di studio. Aggiunge Annelore Denti: «Anche il CV Check rappresenta sempre una tappa importante della Notte Bianca, perché permette di verificare direttamente con gli esperti delle risorse umane l’efficacia del proprio Curriculum Vitae». Innumerevoli poi le occasioni di una scoperta o di un approfondimento grazie a una serie di workshop sui lavori del futuro, come ad esempio le nuove carriere nel settore del fashiontech, il lavoro in un’azienda di famiglia o in una realtà internazionale. Insomma una grande varietà di contenuti e livelli, con il comune denominatore oggi caratteristico di ogni attività professionale, ossia la flessibilità. Per coloro che hanno già sviluppato un preciso interesse e intendono approfondirlo con professionisti affini, la Notte Bianca delle Carriere offre l’opportunità di vivere la serata da Student Angel, ruolo che abbina un/a studente/ ssa USI a un’azienda con compito di accoglienza. È quanto ha potuto sperimentare Gaia Nannini, che ha conseguito un Master in Lingua, letteratura e civiltà italiana, seguendo nel suo percorso anche corsi di storia dell’arte e comunicazione. Già in contatto con il LAC nell’ambito di uno stage nel settore dei media, la giovane laureata ha
potuto incontrare personalmente figure chiave del centro culturale. «Il contatto fra Student Angel e azienda viene stabilito già diversi giorni prima dell’evento», racconta Gaia Nannini. «Si instaura così un rapporto privilegiato che si intensifica durante la Notte Bianca delle Carriere, senza però precludere la partecipazione ad altre attività della serata. Poter essere a stretto contatto con tre profili diversi della medesima istituzione è stato un sicuro vantaggio. L’azienda recepisce inoltre molto meglio la portata del tuo interesse per la sua attività». Fra questi professionisti figurano sovente alumni dell’USI, con i quali il Servizio Carriere mantiene stretti contatti al fine di creare un circolo virtuoso nelle relazioni fra realtà accademica e professionale. La Notte Bianca delle Carriere è quindi un luogo ideale per uno scambio proficuo fra questi due mondi. Se gli studenti e i laureati raccolgono spunti e consigli, per le aziende la manifestazione rappresenta una via d’accesso preferenziale ai nuovi talenti. L’offerta di lavoro non è magari immediata, ma una volta stabilito il contatto personale, le chance aumentano notevolmente come dimostrano le storie di successo di diversi alunni.
Azione
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Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
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Idee e acquisti per la settimana
Per gli amanti della carne
Attualità Menu di festa a base di pregiati tagli di carne da prenotare nella vostra macelleria Migros di fiducia
Filetto al pepe verde
Prenota il tuo menu festivo da casa! www.migrosticino.ch
Alcune proposte di pregio:
Filetto di manzo alla Wellington Svizzera, 100 g Fr. 7.90
Filetto di bisonte USA/Canada, 100 g Fr. 10.90
Il filetto di manzo al pepe verde è un piatto classico ma sempre apprezzato.
Quale momento migliore quello del periodo natalizio per concedersi qualche piacere culinario esclusivo, portando in tavola dei piatti dal gusto unico, spesso difficili da trovare il resto dell’anno. Le macellerie Migros vi propongono un’ampia scelta di delizie particolarmente raffinate. Un grande classico è il filetto di manzo alla Wellington, una delle specialità in crosta più conosciute composta da tenerissimo filetto bovino svizzero, prosciutto crudo, funghi e senape, il tutto avvolto in una fragrante pasta sfoglia dorata al punto giusto. Noi ve lo proponiamo bell’e pronto da mettere in forno, preparato secondo la ricetta originale
dalla Salumi del Pin di Mendrisio. Il filetto di bisonte vi stupirà per la sua tenerezza e sapidità. Le proprietà di questa carne povera di grassi e dall’aroma deciso vengono pienamente valorizzate dopo breve cottura in padella o sulla griglia, senza l’aggiunta di troppi condimenti. Molto diffusa nei paesi scandinavi, dove figura spesso tra gli alimenti base, quella di renna è una carne con pochi grassi, morbida e dal sapore marcato. Vi consigliamo di provare l’entrecôte di renna, che per apprezzarlo al meglio necessita solo di essere speziato con poco di sale e pepe, mentre la cottura ideale al cuore dovrebbe essere al massimo di 60 gra-
di. Infine, ecco una carne che alletta il palato per la sua bella marezzatura: l’entrecôte dry-aged. Questa carne di manzo subisce una frollatura tradizionale all’osso per un periodo di almeno due settimane. Solo i migliori tagli del manzo vengono selezionati per questo processo di maturazione. Oltre ad un gusto unico e intenso dalle note nocciolate, all’assaggio la carne si scioglie praticamente in bocca per la sua incredibile tenerezza. Per un risultato ottimale, la carne deve essere rosolata brevemente, proseguendo la cottura in forno a bassa temperatura fino al raggiungimento della cottura interna desiderata (ideale 50 gradi).
Entrecôte Dry-Aged Irlanda, 100g Fr. 9.50
Entrecôte di renna Svezia, 100 g Fr. 8.40
Ingredienti per 4 persone 4 filetti di manzo o bisonte da ca. 200 g l’uno di burro per arrostire 20 g 2 dl di vino rosso 2 dl di brodo di manzo 1 cucchiaio di pepe verde 1,5 dl di panna paprica 1 cucchiaio di whisky Preparazione Preriscaldate il forno a 80 gradi. Salate e pepate i filetti. Rosolarli nel burro a fuoco vivo 3 minuti per lato. Metterli in un piatto e lasciarli riposare nel forno caldo per ca. 30 minuti. Deglassate il fondo di cottura con il vino rosso e ridurre della metà. Aggiungete il brodo e far ridurre ulteriormente. Sciacquate sotto l’acqua fredda i granelli di pepe in un colino e aggiungerli alla salsa. Montate la panna e incoporatela rimestando. Raffinate con sale, pepe, paprica e whisky. Servite i filetti su piatti preriscaldati e napparli con la salsa.
A tutta bontà! Le prelibatezza di cui vi parliamo in questa pagina solo alcune delle nostre proposte esclusive per celebrare con gusto le festività. Nell’opuscolo «Questo Natale… più tempo per i tuoi ospiti», disponibile della vostra filiale Migros oppure consultabile online all’indirizzo www.migrosticino.ch, vi aspetta un’ampia selezione di prodotti di qualità pronti da servire – o da cucinare – preparati con competenza e dedizione dagli esperti della gastronomia Migros. Quest’ultimi ovviamente sono in ogni momento a completa disposizione per ulteriori consigli e trucchi per la buona riuscita di ogni banchetto. A proposito, come novità da quest’anno molte specialità possono essere prenotate online.
Jamón Serrano
Idea regalo Il mini prosciutto crudo Serrano
con coltello e supporto inclusi rappresenta un regalo perfetto per i buongustai più esigenti
Il Serrano figura da secoli tra le specialità più conosciute della gastronomia spagnola. Si ritiene che i prosciutti crudi più rinomati provengano principalmente dalle montagne delle Asturie e dell’Andalusia. Il «Consorcio del Jamón Serrano» assicura che i criteri di qualità vengano rispettati, affinché l’intenso e inconfondibile aroma sia costantemente impeccabile. La stagionatura all’aria avviene ad una temperatura e umidità ideali e dura mediamente fino a 12 mesi.
Per produrre il Serrano si utilizzano esclusivamente cosce di maiali bianchi allevati e macellati in Spagna. La salatura deve essere effettuata con sale marino e ogni coscia deve pesare almeno 6,5 kg. Questo prosciutto crudo – ricco di proprietà nutritive per quanto attiene sali minerali, vitamine e proteine – può essere consumato in qualsiasi momento della giornata, come aperitivo, per farcire panini, per rendere un’insalata più ricca e anche nella cucina calda.
Prosciutto crudo Serrano con coltello e supporto inclusi 950 g Fr. 59.– In vendita nelle maggiori filiali Migros
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Idee e acquisti per la settimana
Un mare di freschezza
Attualità Ai banchi del pesce fresco Migros tanti consigli utili per menu a base di specialità ittiche
Flavia Leuenberger Ceppi
Branzino in crosta di sale
Nella pescheria di Migros Serfontana il responsabile Mario Cortazzo aspetta con piacere la vostra visita.
Per le prossime festività cosa ne direste di portare in tavola un menu esclusivamente a base di pesce e frutti di mare? In questo caso i nostri esperti del banco pesce sono a vostra disposizione per rispondere a tutte le vostre domande e desideri, affinché possiate sorprendere amici e famigliari con originalità e gusto. Dalle varietà più classiche quali salmone, merluzzo, passera e sogliola alle specialità particolarmente delicate come tonno, ostriche, cozze, orate,
branzini, senza dimenticare, su ordinazione, la gustosissima fondue di pesce… da noi ogni vostra esigenza rappresenta la nostra priorità. Tanto più che potete acquistare queste delizie con la coscienza tranquilla, dal momento che l’intero assortimento di pesce proviene da fonti sostenibili. Sperando che una delle nostre specialità ittiche possa conquistare il vostro palato, vi proponiamo in questa pagina una ricetta particolarmente appetitosa: il branzino in crosta di sale.
La tradizione del cappone
Banchi del pesce fresco Voglia di pesce? Allora non esitate a rivolgervi ai banchi del pesce fresco Migros, presenti nelle filiali di Locarno, S. Antonino, Lugano, Agno, Serfontana, Riazzino, Arbedo-Castione, Crocifisso e Biasca, dove i nostri specialisti vi attendono per offrirvi un servizio competente e personalizzato.
Ingredienti per 4 persone 4 branzini di ca. 350 g ciascuno mazzetti di basilico 2 4 spicchi d’aglio 8 cucchiai d’olio d’oliva 6 kg di sale marino grosso 8 albumi d’acqua 0,5 dl 2 cucchiai di pepe rosa 2 limette Preparazione Scaldate il forno ventilato a 200 °C. Sciacquate i pesci con acqua fredda e asciugateli tamponandoli. Tritate il basilico. Schiacciate l’aglio nell’olio e mescolatelo con il basilico. Mescolate bene il sale marino con gli albumi e l’acqua. Spennellate i pesci dentro e fuori con l’olio all’aglio e al basilico. Sbriciolate grossolanamente con le dita i grani di pepe e spargeteli sui pesci. Per ogni pesce, formate sulla teglia un letto di sale alto ca. 1 cm e appena più grande del pesce. Accomodate i branzini sul sale e copriteli con il sale rimasto, poi premete bene. Il pesce dev’essere ben sigillato nella crosta di sale. Cuocete al centro del forno per ca. 30 minuti. Sfornate e rompete la crosta di sale. Liberate i pesci dal sale con un pennellino. Tagliate le limette in quattro. Sfilettate i pesci e serviteli con gli spicchi di limetta.
Cioccolatini dal Ticino
Attualità Irresistibili dolcezze assortite da regalare o regalarsi
Pollame Un classico delle feste 150 giorni. La loro alimentazione è costituita principalmente da cereali quali mais e soia, completata da erba medica, vitamine e minerali. Durante l’ultimo periodo di allevamento i capponi sono nutriti anche con latticini, caratteristica che conferisce alla carne la sua tipica tenerezza e gustosità. Il cappone è un gallo castrato, che veniva allevato e apprezzato già in epoca Romana.
Chocolat Stella Praline assortite 18 pezzi Fr. 32.90 Chocolat Stella Praline assortite 36 pezzi Fr. 49.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Marka
Ripieno al forno, arrostito oppure lessato – il cui brodo viene come da tradizione utilizzato per preparare i tortellini – il saporito cappone è per molti un grande classico dei menu di fine anno. Nei maggiori supermercati Migros vi proponiamo il cappone giallo St. Sever, un prodotto di qualità proveniente dal sud-ovest della Francia. Qui gli animali sono allevati all’aperto per almeno
Le creazioni della Chocolat Stella di Giubiasco fin dal 1928 entusiasmano tutti i golosi grazie alla loro delicatezza e varietà. Sono elaborate nel rispetto della migliore tradizione svizzera, utilizzando materie prime attentamente selezionate e seguendo ricette innovative e originali. Sono assolutamente
esclusi ingredienti OGM, olio di palma o altri grassi, ma viene impiegato solo burro di cacao. Altro aspetto importante per l’azienda bellinzonese è la tracciabilità e sostenibilità degli ingredienti: la Chocolat Stella lavora fave di cacao di 20 paesi diversi e gran parte dei suoi prodotti sono certifica-
ti con i marchi del commercio equo e solidale Bio e Fairtrade. Le praline miste assortite Chocolat Stella sono disponibili alla Migros in una graziosa scatola regalo da 18 e 36 pezzi nei gusti più apprezzati dai consumatori, tra cui amaretto, mocca, macchiato, kirsch, caramel, gianduja e truffes.
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Società e Territorio
Cento donne svizzere a cui ispirarsi Pari opportunità Eccellenze femminili svizzere protagoniste di un progetto accademico
Natascha Fioretti Cento donne e mille altre è il titolo del progetto nato dalla collaborazione tra diverse realtà accademiche tra cui, in particolare, il Service égalité dell’Università di Ginevra, l’Université de Franche-Comté, il Politecnico federale di Losanna e l’Università della Svizzera Italiana all’interno del programma transfrontaliero Interreg PILE e il progetto di cooperazione di swissuniversities. Si tratta di un volume che raccoglie e propone i ritratti di cento donne della regione francese Franca Contea, della Svizzera romanda e della Svizzera italiana con l’intento di dare visibilità alla diversità, alla pluralità e alla ricchezza dei percorsi professionali e personali di molti profili femminili accomunati da formazioni e carriere in ambiti ancora considerati di dominio maschile. I punti forti di questa iniziativa sono diversi, innanzitutto i ritratti e tutto il progetto sono disponibili online all’indirizzo www.100donne.ch dove è anche possibile ordinare il volume cartaceo. Ogni scheda del ritratto è organizzata da una parte testuale più estesa che racconta storia e carriera, segue il questionario di Proust, divertente e meno formale, e un video che mostra le donne raccontarsi dal vivo. Altro elemento di forza è l’eterogeneità dei profili, incontriamo la direttrice della sezione svizzera di Amnesty International, la professoressa di neuroscienze cognitive, la direttrice d’orchestra, l’alpinista o la caporedattrice di una rivista. Per
darvi l’idea dello spirito e delle scelte che definiscono questo lavoro ecco il profilo di Eva Niyibizi, classe 1984, nata in Ruanda, medico capoclinica all’Ospedale universitario di Ginevra. Nel suo questionario di Proust, tra i modelli che la ispirano, annovera Michelle Obama e suo nonno Mathias, giovane orfano cresciuto in una famiglia svizzera negli anni 30, che le ha insegnato ad essere orgogliosa delle sue molteplici identità e a coltivare l’eccellenza. Uno degli obiettivi di questa campagna è proprio fornire modelli virtuosi alle giovani generazioni per colmare il divario del passato in cui «Siamo diventate noi le nostre mentori e i nostri modelli, poiché non ne avevamo abbastanza» dice Eva Niyibizi, che vede nel suo lavoro l’importanza di essere al servizio della comunità e di sentirsi utile per i suoi pazienti. Nel suo ambito dice che il raggiungimento della parità, rispetto ad altri settori, è più lenta «ma inesorabile e per le giovani generazioni è già cosa fatta». In quest’ottica nel 2018 ha contribuito a istituire MedFem un gruppo di medici donne e uomini impegnati a creare gli strumenti che ancora mancano per un migliore adattamento alla «femminilizzazione» della medicina. Eva Niyibizi è uno dei profili della Svizzera romanda, per quanto riguarda il Ticino i profili presentati in tutto sono dieci: le professoresse dell’USI Silvia Santini, Ilaria Espa, Sara Greco e Jeanne Mengis, l’ingegnera chimica Monica Duca Widmer (tra l’altro Presidente del Consiglio di amministra-
sono i criteri alla base della selezione: «si è mirato ad avere un equilibrio tra le varie discipline, i vari settori, le varie regioni di appartenenza e l’età delle professioniste selezionate. Si è guardato all’eccellenza dei profili professionali ma si è voluto dare spazio anche a chi ha percorso una carriera inusuale, a persone giovani, professionalmente in divenire, che potessero essere figure ispiranti. Non si sono volute selezionare donne universalmente riconosciute come leader ma modelli più vicini e accessibili con i quali potersi identificare in maniera più realistica». Sulla questione più critica, la composizione del ventaglio di professioniste ticinesi, Gloria Dagnino spiega che «uno dei criteri è stato dare visibilità alle persone che lavorano nelle istituzioni partner per questo c’è una sovraesposizione delle figure accademiche». Il progetto è stato presentato al pubblico lo scorso 8 novembre a Ginevra ma ci sarà anche un’occasione luganese il 10 marzo del 2020. Nel frattempo «ci sarà un percorso di avvicinamento: ogni settimana tramite la newsletter USI diamo visibilità a uno dei profilo selezionati per il progetto ma daremo spazio anche a profili che non fanno necessariamente parte di questa selezione e rientrano nei criteri». Ecco allora, e speriamo venga colta in maniera proficua, l’occasione di allargare lo sguardo raccontando anche altre competenze, eccellenze e storie femminili importanti del nostro territorio che di modelli ai quali ispirarsi ne ha da offrire molti.
Eva Niyibizi è medico capoclinica all’Ospedale universitario di Ginevra.
zione di Migros Ticino), la scrittrice e giornalista Claudia Quadri, l’ingegnera civile Cristina Zanini Barzaghi, la direttrice del museo Vincenzo Vela Gianna Mina, il medico estetico Gaia Marniga e l’architetta Donatella Fioretti. Nella selezione che propone, il progetto non intende certamente essere esaustivo ma conoscendo bene il territorio e le tante competenze femminili che vi operano mi vien da pensare che la selezione operata sia scarsa nei numeri, poco rappresentativa e poco eterogenea rispetto al progetto in generale. Per capire meglio le scelte e i criteri operati abbiamo fatto qualche domanda a Gloria Dagnino, responsabile da
un anno del Servizio Pari Opportunità dell’USI. Siamo partite dall’origine e dunque dal titolo, dal significato di quel «mille altre» che lascia una porta aperta «quando sono state contattate per far parte del progetto molte donne chiedevano: perché io e non un’altra? Da qui la decisione di aggiungere “mille altre” per recapitare il messaggio che non si tratta di una selezione definitiva ma di un lavoro che vuole mettere in evidenza le carriere femminili nei diversi ambiti e proporsi come progetto replicabile anche in altre regioni, ad esempio nella Svizzera tedesca». Altro tasto che abbiamo toccato per meglio comprendere come è stata composta questa rosa
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 dicembre 2019 • N. 51
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Società e Territorio
Il lato oscuro della rete
Internet Tutti lo citano ma pochi sanno come funziona veramente, cerchiamo di spiegare anche
ai «principianti digitali» cosa sia il dark web e quali rischi cela
Simone Luongo Chiudi gli occhi e visualizza un enorme iceberg in mezzo allo sconfinato oceano, in una giornata di sole ed in cui vi è calma piatta delle acque. La sua superficie è come una montagna baciata dal sole che riflette un bianco puro e luminoso, con molteplici riflessi cristallini. La tranquillità e la visibilità regnano padrone. Ma oltre quella meraviglia? È noto che l’iceberg emerge per il 10% circa del suo volume, quindi sotto troviamo un’immensa massa di ghiaccio inesplorata, della quale apparentemente non vediamo l’esistenza. Basterebbe immergersi, per qualche metro, e scoprire un’enorme massa di ghiaccio sommersa, in parte ancora raggiunta dai raggi solari, maestosa e di un colore azzurro/blu intenso, non più trasparente come sopra la superficie. Immagina infine di immergerti ancora di più negli abissi, nelle profondità, laddove la luce non arriva, fino a raggiungere la parte più bassa dell’iceberg, la sua base, che appare scura, nera, e di ritrovarti quindi circondato dall’oscurità, dove non sei poi così a tuo agio, sereno, dove la tranquillità non è più garantita, dove non ti senti più al sicuro.
Per accedere al dark web bisogna affidarsi a tecniche che anonimizzano le comunicazioni in rete: i messaggi vengono criptati garantendo l’anonimato Ecco il nostro iceberg paragonato al World Wide Web (il www), dove i miliardi di cristalli di ghiaccio che lo compongono possono essere paragonati alle miliardi di pagine internet del web (stime su https://www.worldwidewebsize.com/). Il world wide web in superficie, vale a dire le pagine che tutti noi possiamo raggiungere per esempio attraverso la semplice ricerca di Google, poiché indicizzate, rappresentano la punta del nostro iceberg. Possiamo così liberamente accedere al sito Wikipedia, alla pagine del nostro e-commerce preferito per acquistare un libro o un oggetto, alle informazioni di cronaca attuali, al
Nel dark web si svolgono innumerevoli attività illegali. (Marka)
sito per viaggi dove prenotare un volo o la prossima vacanza. Appena sotto la superficie dell’acqua, nella penombra, prende vita il deep web (letteralmente: rete profonda), un’enorme distesa di dati appartenenti a governi e grandi società o istituzioni; i dati sono qui accessibili ad una cerchia di persone che possiede le dovute autorizzazioni e includono dati governativi, rapporti finanziari, informazioni riservate. Il deep web è chiaramente tenuto lontano dai motori di ricerca pubblici ed è protetto mediante potenti firewall, un dispositivo che è in grado di controllare il traffico dati in entrata e in uscita dal sito internet che non vuole essere esposto al pubblico. Tuttavia, queste pagine sono ancora in gran parte connesse ad internet poiché gran parte di queste informazioni costituiscono un ecosistema per molte applicazioni web di superficie.
Più sotto, alla base del nostro iceberg, negli abissi oscuri dove non arriva la luce del sole, prende vita il dark web (letteralmente rete oscura). Nascosto alla nostra vista per vari motivi, quindi irraggiungibile dai motori di ricerca convenzionali; ed è qui che le cose sono messe in ombra e spesso possono divenire pericolose. Come funziona il dark web? La rete dark è spesso eseguita su server privati ed è per questa ragione che è di difficile chiusura da parte delle autorità. Per accedervi bisogna affidarsi alla tecnica Onion Routing (TOR), una tecnica che anonimizza le comunicazioni all’interno di una rete di telecomunicazioni; in altre parole, i messaggi vengono criptati (i dati o i segnali sono codificati in modo da risultare incomprensibili a chi non possiede la chiave per decodificarli) e questo garantisce l’anonimato dell’utente
dark web. Questo è il motivo che ha portato oggi il dark web ad essere un luogo dove si svolgono numerose attività illegali. Il dominio dei siti internet è qui .onion (invece dei noti .com, .ch, eccetera). Dopo i primi passi che ci consentono di addentrarci nello sconfinato dark web (in questo articolo non vengono fornite le istruzioni per farlo) è ad esempio possibile digitare i nomi dei principali shop online di TOR, in pratica gli Amazon dell’illegalità. Pochi click e siamo in grado di acquistare droghe di ogni genere; se digitiamo il nome di un’arma da fuoco ecco apparire disponibilità in questo senso. Per spingerci un po’ più nel «tecnico» possiamo addirittura acquistare un passaporto falso o il necessario per fabbricarlo, filigrane comprese, oppure una patente di guida, il tutto a prezzi accessibili; ad esempio con meno di 10
impianti di desalinizzazione, con la speranza di fare approvvigionamento. Ma non faranno ritorno. La spiaggia – e la città intera – è diventata una zona di guerra, una giungla, tutti contro tutti per sopravvivere. Alyssa e Garrett restano soli, anche loro devono sopravvivere. Inizia un’avventura mozzafiato che li vede protagonisti in un viaggio disperato, con altri ragazzi: Kelton, il vicino di casa dal padre maniacale nel costruire difese contro possibili catastrofi ma poi incapace di difendere davvero la sua famiglia; Jacqui, tosta, indipendente, spavalda; Henry, opportunista eppure bisognoso degli altri. La storia è narrata con grande efficacia dal punto di vista, a turno, di ognuno di loro. E i capitoli sono inframmezzati da alcune «istantanee», cioè racconti di altri protagonisti della mortale sete, che la rendono una vicenda corale. Neal Shusterman, autore americano bestseller, è affiancato qui dal figlio Jarrod, in una scrittura d’azione tesa e convincente. Un thriller (probabilmente diventerà un film), ma anche una
riflessione sulle dinamiche delle società di fronte agli istinti di sopravvivenza. E sui «disastrosi effetti del cambiamento climatico»: a «tutti quelli che lottano per contrastarli» è dedicato il libro.
franchi possiamo acquistare una carta di credito clonata con i dati del detentore oppure le credenziali di accesso ad un account premium presso il tuo shop online preferito (come Spotify o Amazon). È chiaro che in questi casi siamo di fronte a furti di dati e a veri propri furti d’identità, dove nella pressoché totalità dei casi, la vittima nemmeno è a conoscenza che i suoi dati personali sono stati rubati e si trovano in vendita nel dark web. Chissà pertanto se la Mastercard dell’amico che ci ha raccontato di essere stato vittima di un acquisto con la sua carta di credito, pochi giorni prima non era quotato in un market del dark web. Il limite non ha limiti, nel vero senso della parola. Sul dark web si possono trovare false lauree universitarie, pedopornografia, animali selvatici protetti; perfino sicari disposti a commettere atti criminali e hackers pronti per pochi soldi a rovinare la reputazione di terze persone violando account di posta elettronica o di social network oppure compromettendo smartphones. I migliaia di malintenzionati che giornalmente svolgono attività illecite tramite il dark web ben si tutelano al fine di non farsi intercettare dalle autorità. Usano false identità, indirizzi IP nascosti, indirizzi di posta elettronica preposti (fuori discussione ad esempio i noti gmail, hotmail o yahoo), impiegano criptovalute, si fanno recapitare la merce presso un indirizzo non abitato. Questi utilizzatori sono anche ben consapevoli che come esistono i truffatori nel mondo emerso del web, il dark web non ne è da meno, anzi. Data la tipologia di persone frequentatrici del dark web, ovvero personalità propense all’illecito, è inevitabile che merce acquistata non arrivi mai; insomma, chi la fa l’aspetti. A proposito; nel fare tutto ciò gli avventori di questo mondo sommerso applicano del nastro adesivo sulla lente della web camera, il che è tutto dire sulla pericolosità di questo mondo virtuale. Una sorta di Hunger Games (dal noto film) della rete, dove ognuno deve salvaguardarsi dagli altri evitando pericoli quali essere a sua volta crackato, derubato della personalità o di dati personali, di proprie immagini. Affidatevi ad un esperto del campo, dunque, se per qualche assurda ragione vi venisse voglia di visitare questo lato oscuro della rete.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Neal Shusterman-Jarrod Shusterman, Dry, Il Castoro. Da 14 anni Un gran bel ritmo e un’ottima idea stanno alla base di questo nuovo romanzo per la fascia young adult, che esce nella collana Hot Spot delle Edizioni Il Castoro. Se si volesse etichettarlo lo si potrebbe inserire nel genere distopico, ma qui non ci sono scenari futuri postapocalittici o fantapolitici, qui sembra tutto molto vicino e molto reale. Siamo in California, ai nostri giorni, in una famiglia come tante, un sabato di giugno. Il padre è in garage che ripara l’auto, la madre è in cucina con la ciotola del cane da riempire d’acqua. Il problema è che dal rubinetto non esce nulla. Niente acqua. Lì per lì né i genitori né i figli, l’adolescente Alyssa e il fratellino Garret, si preoccupano più di tanto, eppure una sottile inquietudine comincia a farsi strada, anche perché è da tempo che la siccità è un problema in California. Gli abitanti erano già stati invitati a non sprecare l’acqua, ma ora la crisi è
diventata estrema. L’acqua non c’è più, dai rubinetti non scende più neanche una goccia. Quella sottile inquietudine diventa un’angoscia nei protagonisti e anche nel lettore, che si immedesima totalmente, perché gli scenari catastrofici sono dispiegati con plausibilità e credibilità assolute. Correre al supermercato a fare scorte? Gli scaffali sono presi d’assalto e la gente si aggredisce per l’ultima bottiglia. Trasferirsi in un altro Stato? I voli sono al completo, le autostrade bloccate. I genitori di Alyssa e Garrett vanno alla spiaggia, dove sono stati portati degli
Aa.Vv., Poesie e storie classiche di Natale, Einaudi Ragazzi Da aprire per trovare dei momenti di pace nella frenesia dei giorni natalizi. Einaudi Ragazzi torna alle storie classiche di Natale da leggere ad alta voce in famiglia, per la gioia di tutte le generazioni. Alcuni sono racconti autonomi, come quello di Mark Twain, o di Jack London, o di Joseph Conrad; altri sono tratti da opere più ampie, come il meraviglioso capitolo sul Natale di Topo e Talpa da Il vento nei salici di Kenneth Grahame; domina la letteratura anglosassone, intrisa di spirito natalizio (Dickens docet), ma non manca un brano di Goethe dal Wilhelm Meister, né ovviamente Rodari, o altri autori italiani. Ci sono racconti, ma anche poesie, che nei più anziani rievocheranno ricordi
di scuola, e nei più giovani susciteranno stupore e emozione. Ci sono splendide voci femminili, da Beatrix Potter con i suoi «topolini cattivi»; a Lucy Maud Montgomery, la celeberrima autrice di Anna dai capelli rossi, qui alle prese con un gruppo di ragazze, in collegio, la notte di Natale; e non manca la grande Louisa May Alcott che qui non ci parla di piccole donne, ma di una cavalla, Rosa, che nella notte di Natale, secondo la tradizione, come tutti gli animali, può parlare il linguaggio degli umani. E con quello ci racconterà, anche lei, la sua storia.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 dicembre 2019 • N. 51
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Società e Territorio
Aumentano i cittadini sotto-informati
Media L’Università di Zurigo ha pubblicato l’annuale studio dedicato
alla qualità dei media in Svizzera Roberto Porta Riuscire a convivere con la «piattaforma». Riassunta in due parole è questa la sfida più grande, e ardua, con cui il giornalismo si trova oggi a dover fare i conti, in Ticino, in Svizzera e un po’ ovunque nel mondo. Ce lo ricorda anche l’edizione del 2019 dello studio che ogni anno l’università di Zurigo pubblica sulla qualità dei media nel nostro Paese. Un’analisi di quasi duecento pagine, ormai giunta alla sua decima edizione, che mette in evidenza il ruolo sempre più ingombrante delle «piattaforme» digitali: Google, Facebook, Youtube e affini. È questa la concorrenza, impari per capacità di diffusione e forza finanziaria, che sta sempre più mettendo a dura prova gli strumenti di informazione che consideriamo classici: giornali, radio e televisioni. Basti dire che dal 2009 al 2019 la proporzione di persone che nel nostro Paese dice di informarsi attraverso i quotidiani cartacei è passata dal 56 al 32%. Pure l’informazione televisiva e quella radiofonica hanno subito dolorosi contraccolpi, anche se chi dice di informarsi attraverso questi canali supera ancora il 50% delle persone intervistate, con la radio – anzi le radio – a difendersi meglio di quanto non riesca a fare l’informazione televisiva. Va ricordato che il campione su cui si basa-
no i ricercatori di Zurigo è formato da 3400 persone, intervistate attraverso un formulario online. Di segno diametralmente opposto invece i risultati ottenuti dalle fonti di informazione digitali, basti dire che nel 2019 il 70% delle persone interpellate diceva di informarsi spesso o molto spesso proprio attraverso i social media. Un dato che va comunque un po’ relativizzato, visto che solo il 10% afferma di utilizzare unicamente queste piattaforme per accedere all’informazione. Sta di fatto però che 7 cittadini su 10 fanno ormai riferimento costante a Google, Facebook e affini per seguire le notizie quotidiane, siano esse locali, nazionali o internazionali. E qui, stando allo studio dell’università di Zurigo emerge una nuova categoria di persone, già individuata in alcune delle recenti edizioni di questo studio. Si tratta della categoria definita con il termine di «News-Deprivierten», persone che dispongono di un’informazione carente e superficiale, con un consumo di notizie inferiore alla media. Nel corso degli ultimi 10 anni questo gruppo di persone è passato dal 21 al 36%, ciò significa che oggi un cittadino su tre è di fatto «sotto-informato» e soffre di una deprivazione in materia di informazione. Una proporzione che sale al 56% se si tiene conto soltanto dei giovani, tra i 16 e i 29 anni di età. Più di
un ragazzo su due nel nostro Paese dispone pertanto di un grado di informazione considerato insufficiente, questo perché i suoi strumenti sono solo e unicamente quelli digitali. Con una fruizione che dipende molte volte dal semplice caso, dallo scorrere del contenuto di Facebook o di altri social media. Una fruizione rapida e superficiale di ciò che viene proposto, con un equivoco di fondo: non tutto quello che viene esposto e suggerito dalle piattaforme può essere considerato dell’informazione vera e propria, anzi molto spesso si tratta di pubblicazioni che nulla hanno a che vedere con una notizia, nel senso classico e genuino del termine. Non per nulla lo studio dell’università di Zurigo giunge alla conclusione che questa categoria di persone entra in contatto con notizie e articoli legati all’attualità in modo insufficiente. E qui si apre un capitolo molto delicato perché ha direttamente a che vedere con la qualità e la tenuta della nostra democrazia, come ci ricorda la stessa ricerca di Zurigo. «Saper usufruire dell’offerta di informazioni regionali e nazionali è necessario per poter esercitare i propri diritti democratici e per poter partecipare alla vita pubblica del Paese in cui si vive», si legge a questo proposito nello studio sui mass media svizzeri in merito ai «News-Deprivierten», la categoria di persone che
La stampa scritta è sempre più in difficoltà. (Keystone)
in questo ambito ha conosciuto la crescita più marcata nel corso degli ultimi dieci anni. Va comunque detto che la Svizzera non rappresenta un’eccezione. Altri studi in materia affermano infatti che questo stesso problema è presente in tutte le democrazie occidentali, con una proporzione di «deprivati» di informazione che varia dal 15 al 41%. In altri termini le «piattaforme» sottraggono tempo e attenzione da dedicare alle forme di informazione classiche. Non va dimenticato però che, seppur in modo confuso e occasionale, anche il «deprivato» di notizie finisce a volte sulla pagine online di un quotidiano, di una radio o di una televisione. Può quindi fruire di questi canali e dei loro prodotti, seppure spesso in modo inconsapevole. La navigazione su internet di queste persone è dettata in modo prevalente non dall’informazione ma dalla ricerca di intrattenimento e dalla cura dei propri contatti online. Tutto questo in un contesto finanziario in cui le piattaforme online sottraggono costantemente risorse economiche a giornali, radio e televisioni svizzere. Basti dire che nel nostro Paese la cifra d’affari del mercato pubblicitario onli-
ne si aggira attorno ai 2,1 miliardi, dato del 2018. Una somma complessiva che finisce in gran parte sui conti bancari di Google, che incassa dalle inserzioni pubblicitarie svizzere ben 1,4 miliardi, ciò che equivale al 67% dell’intero settore. In altri termini, nel silenzio quasi generalizzato, stiamo cedendo alle piattaforme con sede negli Stati Uniti una bella fetta del nostro mercato pubblicitario. Una perdita di risorse che sta mettendo a dura prova in particolare la stampa scritta e con essa l’insieme della categoria dei giornalisti. Non per nulla dal 2011 le testate elvetiche hanno tagliato il 20% del loro personale, una riduzione che ha portato alla perdita di ben 3400 posti di lavoro. Anche grazie all’intervento delle associazione di categoria, presto il Consiglio federale dovrebbe presentare un nuovo progetto di legge per dare un nuovo sostegno finanziario ai giornali svizzeri e ai loro siti online. Sempre che queste contromisure possano bastare a salvare le testate più in difficoltà, quelle che più di altre faticano ancora a trovare il modo di farsi valere – e leggere – nel grande e nuovo mondo delle «piattaforme» digitali. Annuncio pubblicitario
Apertura straordinaria Domenica 22 dicembre
tutti i negozi e i ristoranti Migros saranno aperti dalle ore 10 alle 18 Martedì 24 e 31 dicembre chiusura alle ore 17
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Società e Territorio
Un’istituzione secolare
Stampa Una ricerca storica sul «Corriere del Ticino», dagli albori ai giorni nostri, attraverso le vicende
dei proprietari di allora e di oggi, a partire dal giudice federale Agostino Soldati
La vecchia sede del «Corriere del Ticino», in Corso Elvezia 33 a Lugano. (CdT - Gonnella)
Enrico Morresi Quel pomeriggio d’estate, alla villa di Neggio che guarda sul golfo di Magliaso, Vittore Frigerio era arrivato più morto che vivo. Il tram l’aveva scaricato alla base della collina, si aspettava un bicchier d’acqua. Il giudice lo attendeva, lo intrattenne, si parlarono a lungo, lo congedò soddisfatto di come andavano le cose al «Corriere». Il bicchier d’acqua non fu servito. Raccolta dalle labbra di Vittore Frigerio (1895-1961), la storiella ritrae una debolezza di Agostino Soldati, proprietario del giornale, il quale abitava a Losanna dove ha sede il Tribunale federale e quando scendeva in Ticino stava a Neggio, nella grande casa in cui la famiglia del medico Antonio, suo padre (1828-1883), era stata – come si dice – allietata dalla nascita di 13 figli: sette maschi, tra cui Agostino, e sei bambine. Del «Corriere del Ticino», Agostino Soldati era rimasto l’unico proprietario. Nato nel 1857, avvicinandosi per lui l’età del redde rationem, rifletteva sulla cattiva esperienza di molte famiglie di emigrati, nelle quali una fortuna accumulata col sudore di una o due generazioni era finita dispersa e sprecata tra troppi eredi. Il «Corriere» doveva avere un altro destino. Da lui fondato nel 1891 per uno scopo politico (creare un’alternativa alla rivalità tra liberali e conservatori), era diventato un piccolo giornale indipendente dai partiti e di buona qualità: con pagine di esteri (molte corrispondenze dalle capitali), di politica nazionale, ma anche di cronaca, di cultura e (in questo fu il primo) di sport. Il 5 settembre 1938, un mese appena prima di morire, chiamato a sé Raffaele, il maggiore dei suoi nipoti (il giudice non aveva figli), Agostino dettò perciò un «testamento spirituale» che prescriveva al giornale non solo la linea politica ma anche la futura gestione economica: «(…) Deve però essere ritenuto, e questa è la mia precisa volontà che prego di rispettare, che i titoli che ora costituiscono il patrimonio del Corriere e quelli che saranno nel seguito acquisiti con gli avanzi annuali non dovranno mai da
voi essere considerati come vostra proprietà personale, ma come proprietà del Corriere, considerato come se fosse un ente autonomo e destinato a far fronte ai sempre crescenti bisogni del giornale». Agostino Soldati morì il 9 ottobre 1938. Poco più di tre anni dopo, il 24 novembre 1941, Raffaele diede esecuzione al testamento creando la «Fondazione per il Corriere del Ticino». L’avrebbero governata alla pari, per sempre, un rappresentante dei Soldati di Neggio e uno dei Soldati d’Argentina. Imprenditori in Argentina
Come altre famiglie emigrate dal Sottoceneri durante l’Ottocento, i Soldati avevano non solo «fatto fortuna» in Argentina ma creato imprese, aperto allo sviluppo quartieri nuovi, costruito strade, ferrovie. Il Volume XI del Dizionario storico della Svizzera cita, accanto alle biografie del giudice federale Agostino e a quella di un suo nipote omonimo: l’ambasciatore Agostino (1910-1966), la biografia di due fratelli: Giuseppe (1864-1913), attivo a Baires nella chimica e nella farmaceutica, realizzatore al ritorno in patria della Ferrovia Lugano-Ponte Tresa e della strada cantonale che da Magliaso sale a Neggio, e Pio (1871-1934), titolare di industrie chimiche e farmaceutiche, attivo in società e in politica. Il compito di rappresentare per primo il «ramo d’Argentina» toccò ad Agostino, figlio di Pio Soldati, fratello del fondatore. Nato a Buenos Aires nel 1910, Agostino era entrato giovane in diplomazia: un bell’uomo, alto, lo vidi più volte transitare nei corridoi della redazione, allora in Via Pasquale Lucchini, sempre fasciato di abiti blu scuro. Avrebbe condiviso la presidenza della Fondazione fino alla sua morte, nel 1966, molto scrivendo e telefonando da Parigi, dove era a capo dell’Ambasciata svizzera. Il «ramo» di Neggio
Fu Raffaele, negli anni subito seguenti la fine della guerra mondiale, a occuparsi più da vicino al giornale. Viveva
Il fondatore Agostino Soldati. (CdT)
con la moglie Sofia – nata Balli, una locarnese – e tre figli: Matilde nata nel 1930, Silvio (nel 1931) e Antonio (nel 1937), in una bella casa ombreggiata da scurissimi ippocastani al confine tra Lugano e Massagno. Raffaele e Sofia morirono a breve distanza: lui nel 1952, lei nel 1953. La linea successoria cadde sulla prima nata dei coniugi deceduti, Matilde. Era logico che Matilde, andata sposa nel ’57 a un bellinzonese: Giovanni Bonetti (meglio conosciuto come Giampiero, «Peo» per gli amici) dovesse nei primi anni rispettare l’autorevolezza e l’esperienza dello zio ambasciatore e di alcuni amici stretti del defunto giudice federale: l’avvocato Luigi Balestra, notaio dell’Atto di fondazione, e soprattutto il banchiere Gino Nessi, proprietario della Banca Popolare di Lugano, che teneva i cordoni della borsa del giornale. La sua indipendenza si sarebbe manifestata col tempo, ma soprattutto a partire dalla morte dell’ambasciatore Agostino, avvenuta nel 1966. Il «Blätterwald» ticinese
Sei erano le testate uscite indenni dalla bufera della guerra mondiale 1939-45: quattro di partito e due indipendenti: il «Corriere del Ticino» e il cattolico
«Giornale del Popolo». Più diffuso, sia pure di poco, era il «Giornale del Popolo». Il «Corriere», in città, lo distribuiva la Posta prima di mezzogiorno, oppure si comprava nelle edicole, allora molto numerose. Ai lettori fuori Lugano (meno di un quinto del totale) era recapitata per posta o ferrovia una «prima edizione» chiusa già alle 18 del giorno prima. È curioso e significativo che il giornale non avesse perso quota rispetto all’anteguerra. Di sicuro lo aveva danneggiato la sua vicinanza al fascismo italiano. Il giorno dell’armistizio c’era stata addirittura una piccola dimostrazione contro la sede, ma il portone… aveva tenuto duro e i tipografi avevano respinto il tentativo dei manifestanti di penetrare nella sala macchine. A Basilio Biucchi, che era stato il più fervente simpatizzante di quel regime, fu consigliato di cambiar mestiere (da economista di razza qual era si sarebbe affermato come docente universitario) e a Vittore Frigerio, il direttore, fu perdonato tutto per la sua notorietà di autore di romanzi popolari. Era stato Piero Beretta, incaricato della cronaca locale e dello sport, a mantenere vivi i contatti con la Lugano profonda, a cominciare dal Football Club… Quale linea politica difendeva in quegli anni dell’immediato dopoguerra il «Corriere del Ticino»? Senza mancare di rispetto, credo si meritasse lo sberleffo di «Libera Stampa», che lo definiva «giornale dei baslottai» (Tacaa al baslott = avido, taccagno, da: Lessico dialettale della Svizzera italiana, vol.1, p. 246). Di Pierre Grellet, un autorevole giornalista romando che mandava da Berna un articolo la settimana, il Dizionario storico della Svizzera scrive che era «temuto cronista della vita politica svizzera e virulento antisocialista». Di politica cantonale e di economia si occupava Giancarlo Bianchi, un avvocato della piazza che si preparava a succedere a Frigerio quando questi avrebbe lasciato la direzione, ossia il 1. luglio 1958, dopo 46 anni di servizio. Ma appena quattro mesi dopo anche Giancarlo Bianchi morì, stroncato da un infarto.
L’onesta decennale direzione di Giovanni Regazzoni (1958-1968) avrebbe tenuto in caldo per altri dieci anni la buona coscienza dei luganesi. Il cambiamento partì perciò dalla parte della proprietà. Matilde Bonetti-Soldati doveva sentirsi meno vicina agli anziani consiglieri di cui si era circondato suo padre. Si fidava di Amilcare Berra, di pochi anni meno giovane di lei (era nato nel 1921), conosciuto alla Banca Popolare di Lugano di cui aveva assunto la direzione in attesa di traghettarla per intero all’UBS. Liberale di ascendenze familiari mazziniane, laureato in economica politica, Berra aveva esordito all’Amministrazione cantonale delle contribuzioni promovendo il sostegno popolare alla nuova legge tributaria approvata nel 1951 (il «Corriere» era contrario…). Contatto fu preso, e sarebbe stato decisivo, anche con Guido Locarnini, da poco approdato a Lugano come corrispondente della padronale «Corrispondenza politica svizzera». Volendosi ammodernare il «Corriere», le scelte da fare si annunciavano pesanti. La confezione del giornale era sempre stata data in appalto a una tipografia esterna: ultimi titolari, i Grassi che stampavano anche «Gazzetta Ticinese». Il nodo da sciogliere era di quelli tosti: per esempio, il contratto con gli stampatori prevedeva un termine di disdetta di soli sei mesi. Le rotative, allora, si ordinavano con anni di anticipo! Ma ne fu trovata una d’occasione, e la sfida fu accettata. La prospettiva dava a noi, giovani di negozio, molte speranze. Non per via della politica, o dell’economia. Noi soffrivamo di dover rincorrere i colleghi del «Giornale del Popolo» sulle notizie. L’hockey ormai si giocava di sera e i risultati il giornale concorrente li dava, con cronaca e foto, in tutto il Ticino la mattina dopo. Noi li si pareggiava con la seconda edizione, che però, come detto, raggiungeva i lettori solo poco prima di mezzogiorno e soltanto a Lugano e dintorni. Il cambiamento si fece attendere fino al 1969 ma le novità furono di peso: un nuovo stabilimento in Corso
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Società e Territorio Elvezia, la redazione sopra la tipografia, una rotativa nuovissima che consentiva l’andata in macchina fino a quasi mezzanotte, un nuovo formato, una nuova disposizione delle rubriche (la Cittadina «relegata» dietro gli Esteri, il Nazionale, il Cantone!), la ridistribuzione secondo competenze delle responsabilità tra i redattori. Guido Locarnini
Nato nel 1919, «maturato» al liceo dei Benedettini di Ascona, Guido Locarnini (recentemente scomparso a 100 anni compiuti) era rimasto lontano dal Ticino per tutto il tempo dei suoi studi di lettere e di diritto. La guerra l’aveva costretto nel ’39 a lasciare Heidelberg, a Berna aveva conseguito il dottorato in germanistica, aveva fatto il militare, si era sposato e aveva lavorato per quasi quindici anni negli uffici della CPS. La domanda che ancora mi pongo, oggi, è la seguente: presero un abbaglio nel giudicarlo, Matilde Soldati e Amilcare Berra, oppure intuirono che quel ticinese dell’estero, per essere stato vicino alla parte più illuminata della borghesia svizzera, coltivava idee politiche ed economiche più avanti di vent’anni rispetto alla mentalità corrente? D’altra parte, Matilde frequentava amicizie e circoli intellettuali della Milano bollente degli Anni Sessanta, Berra aveva sostenuto la riforma fiscale (il «Corriere» era contrario…), non era un banchiere e basta, avrebbe sostenuto il mecenatismo culturale e dato denaro alla nascente Università della Svizzera italiana… Insomma, a Locarnini venne affidato l’incarico di preparare il sorpasso del «Giornale del Popolo». E nel 1969 fu nominato direttore. Nei rapporti con i redattori (ormai quasi una ventina) la Fondazione si mosse sempre su un piano di grande correttezza. Il personale era al beneficio di un piccolo fondo pensione già dagli anni di Frigerio. Il contratto collettivo, firmato nel 1974 a livello nazionale tra le associazioni degli editori e quelle dei
commercio come sostituto di Matilde; sostituto di Francisco Soldati era Federico Guasti: un cognome «nuovo», di cui più avanti. Che giudizio desse la proprietà della linea impressa al giornale da Guido Locarnini tra il 1969 e il 1982 non è possibile dire con la precisione che potremmo desiderare. Il direttore fu sempre con noi molto discreto, le sue carte sono rimaste private, i verbali delle sedute del Consiglio di fondazione non li ho letti. Ma è certo che molte nubi oscurassero talvolta i rapporti tra proprietà e giornalisti. Il «Corriere» era giornalmente sotto tiro da parte di «Libera Stampa» (che giunse a scrivere di una vipera che la presidente della Fondazione si scaldava in seno). Anche «Gazzetta Ticinese» era molto acre nei confronti del «Corriere». Ma il giornale tenne la barra dritta e la proprietà non smentì mai la redazione pur invitando a prudenza ed equilibrio. D’altra parte, la nave andava a gonfie vele, la tiratura lievitava ogni anno di qualche migliaio di copie e… la cena tradizionale prenatalizia si svolgeva sempre in un clima di compiaciuta unità. A questi sostanzialmente buoni rapporti diede uno scossone l’incidente del 1980 (la candidatura di Mario Gallino alla vicedirezione, sottoposta secondo contratto alla consultazione di noi redattori, abortita a causa di un dottorato esibito e mai conseguito), che innescò una crisi di fiducia. Molti, fuori, ritennero che l’ora di un revirement ideologico fosse arrivata. Ma niente accadde di concreto: vi furono alcune dimissioni importanti, nessuna conseguenza ne patì il giornale. Sergio Caratti (1932) – designato alla successione di Locarnini nell’autunno del 1981 ma in carica solo dalla fine dell’82, quando l’uscente fu ringraziato e pensionato – veniva da un’esperienza decennale al Dipartimento cantonale della Pubblica Educazione. Era un uomo dell’establishment ma di larghe vedute, intesseva ottimi rapporti
Da sinistra, Alfio Giordanello (direttore amministrativo), Matilde Bonetti (presidente del Consiglio di fondazione) e Sergio Caratti (direttore editoriale), davanti alla nuova sede, ai Molini di Muzzano, agli inizi degli anni Novanta. (CdT)
giornalisti, al «Corriere» fu applicato subito e alla lettera, gli stipendi aggiornati sui nuovi minimi contrattuali. Si promosse pure la redazione di uno Statuto di redazione, in quanto previsto dal contratto. Su questo punto la Fondazione fece valere le sue prerogative: il testo finale si dimostrò infatti molto distante da quello elaborato in redazione. Ma anche i redattori sapevano stare ai patti, e la proprietà ebbe l’ultima parola. L’autore della versione definitiva era stato Brenno Galli (1910-1978), ex consigliere di Stato e consigliere nazionale del partito liberale radicale. A lui fu assegnato pure l’incarico di elaborare lo statuto della Società Editrice, delegata dalla Fondazione a gestire gli impianti tecnici. Gli anni buoni
Il contatto tra redazione e proprietà era tenuto dal direttore. Solo per discutere cose che ci riguardavano personalmente noi redattori fummo qualche volta convocati a una seduta del Consiglio di fondazione. Dal 1966 il posto del defunto ambasciatore Agostino era stato assunto da suo fratello, Francisco A. Soldati, che veniva a Lugano dall’Argentina una o due volte l’anno per le sedute. Berra fu iscritto a Registro di
con il mondo culturale italiano, apparteneva al partito liberale radicale ma si rendeva conto che al «Corriere» si praticava un’equidistanza intelligente. Di cambiamento della linea del giornale si parlò nei soliti circoli luganesi, ma non accadde nulla. Ma ripeto la mia convinzione: decisivo fu il fatto che quegli anni erano d’oro in tutti i sensi, il giornale aumentava ogni anno la tiratura e chiudeva i conti in attivo. E poiché non si distribuivano dividendi (per l’intuizione del vecchio giudice!) si andava creando una riserva bene investita, che si sarebbe dimostrata utile quando, superata la svolta del secolo, sarebbero cominciati gli anni delle vacche magre. I «milanesi»
Il «ramo argentino» fu zelante nel mantenere l’impegno di occuparsi del giornale. Due lutti lo funestarono: Francisco Soldati ucciso nel 1979 dai montoneros, estremisti di sinistra; suo figlio, pure di nome Francisco, deceduto per una caduta da cavallo nel 1991. Al posto loro fu designato Santiago Soldati (nato nel 1943), il quale pure avrebbe dimostrato volontà di tener fede all’impegno: ma la lontananza finì per rivelarsi un ostacolo troppo forte. Una soluzione che salvaguardasse il
principio della pari gestione dei rappresentanti dei due gruppi famigliari fu trovata con i discendenti di una sorella minore dell’ambasciatore Agostino e perciò pronipote del fondatore: Noemi (1912-1992), andata sposa a un milanese: Alessandro Guasti. Pure per matrimonio (quello di Maria Pia, la prima figlia dei coniugi Guasti) entrò nell’eredità anche la famiglia Foglia. I Foglia erano banchieri, nel 1958 avevano creato a Lugano la Banca del Ceresio. Alla svolta del centenario del giornale (1891-1991), senza dare segni di cedimento Matilde Soldati superava il mezzo secolo di presidenza. Il suo parere era sempre determinante. Fu lei a escludere ogni sanzione per un’intervista birichina pubblicata sul «Corriere» del 4 ottobre 2007, autore il vicedirettore e responsabile della redazione economica Alfonso Tuor, in cui si metteva in cattiva luce il banchiere Alberto Foglia sul problema dei subprimes. A un richiamo interno ci si limitò pure quando il giornale «bucò» la notizia dell’infarto che aveva stroncato il consigliere di Stato Giuseppe Buffi nel luglio del 2000. Ma senza chiasso, il pubblico non ne seppe niente.
Gruppo Fondazione per il Corriere del Ticino Fondazione Cdt Neggio 100,00% Corriere del Ticino Holding SA, Neggio
Rezzonico Editore SA Locarno 100,00% 2R Media SA Locarno
Centro Stampa Ticino SA, Muzzano 100,00% Società Editrice del CdT SA, Muzzano
TicinoOnline SA Breganzona
44,36%
84,00%
Radio 3i SA Melide
100,00%
MediaTi Web SA Melide
100,00%
MediaTi Marketing SA Muzzano
100,00%
Aida Marketing SA Muzzano
19,00%
Radio Fiume Ticino SA Locarno
Attualmente la Fondazione – che detiene la proprietà del gruppo – è diretta da un Consiglio così composto: per quanto riguarda il «ramo di Neggio» da Gianluca Bonetti (1958), figlio di Giampiero e di Matilde Bonetti Soldati, Fabio Soldati (1957), figlio di Silvio Soldati, presidente, e Matteo Soldati (1969) figlio di Antonio Soldati; per il «ramo d’Argentina» da Santiago Soldati (1943), Federico Guasti (1939) e Federico Foglia (1969). Matilde Bonetti Soldati è presidente onoraria.
2017: quella di Fabio Pontiggia (1958), entrato al giornale nel 1991, cui ora si apriva la porta della direzione. Pontiggia era stato, a «Gazzetta Ticinese», uno dei critici più duri della «linea Locarnini» negli Anni Settanta; sul «Tages-Anzeiger» era stato accusato di essere il ghostwriter di Marina Masoni, quanto dire che era politicamente compromesso. Ma… con la grazia del posto tutto si aggiusta – avrebbe detto il mio vecchio curato – e Pontiggia si sarebbe dimostrato non solo un giornalista intelligente e documentato ma anche un buon custode dei valori che il giornale custodiva nel suo DNA. Si dice ora… che si stia specializzando anche come tour operator e che al timone starà ancora per poco: comunque sia, quando uscirà di scena potrebbe essere rimpianto. Il giornale «nuovo»
Negli scorsi mesi ha suscitato perplessità non tanto la nuova grafica (ci si abitua a tutto con i giornali!) quanto la partizione della redazione con una sorta di vallo generazionale: da un lato i nativi digitali, dall’altro chi… era nato prima. Fioccano gli interrogativi. Che senso ha che a Pontiggia, cui è confermato il titolo di «direttore», sia stato affiancato un «direttore operativo» (Paride Pelli)? Il direttore responsabile non sarebbe operativo? E il direttore operativo non sarebbe responsabile? Alcune scelte fanno temere una minore attenzione per la qualità dei contenuti a profitto del bling bling publieditoriale.
Raccontano il «Corriere» ■ Di riferimento La storia del «Corriere del Ticino» di Mario Agliati: due volumi di quasi 1600 pagine complessive. Il primo volume va dalla fondazione (1891) alla fine della prima guerra mondiale (1918); il secondo dal primo dopoguerra (1919) alla fine della direzione Caratti (1997). Edizioni San Giorgio, Muzzano, 2003. ■ Un rapido excursus storico dei contenuti del giornale è stato offerto dal «Corriere» in occasione dei 125 anni
Fondo patronale TeleTicino SA 50,10% (62,49% diritti di voto)
Il salvataggio del GdP
Alla svolta del millennio si parlava ormai apertamente delle difficoltà del «Giornale del Popolo». Si diceva che stesse per essere venduto ai Salvioni di Bellinzona (già era stata loro ceduta la Tipografia «La Buona Stampa»). Avvicinata dal Vescovo Grampa, eletto da pochi giorni, Matilde Soldati si ricordò di aver detto una volta: «Io il Giornale del Popolo non lo lascerò cadere». Fu promossa la creazione di una società anonima in cui la Fondazione sarebbe entrata per il cinquanta per cento del capitale meno un’azione: l’esborso fu di sei milioni, la comproprietà lasciava le redazioni libere di continuare a fare il giornale che volevano. Solo nel 2009 l’indistruttibile «Signora Matilde» avrebbe chiesto di poter lasciare la presidenza, delegando a titolare della rappresentanza del «ramo di Neggio» l’avvocato Fabio Soldati (1957), figlio di suo fratello Silvio, che già aveva assunto vari incarichi di responsabilità in azienda. Il cambiamento fu l’occasione per rielaborare la forma giuridica, aprendo le società dipendenti dalla Fondazione a nuove articolazioni. Bisognava tener conto delle acquisizioni (Teleticino, Radio 3iii, Mediamarketing). Ed è in quel frangente che un incarico di prestigio (con il titolo di «amministratore delegato») fu conferito a un giornalista italiano noto anche in Ticino – aveva fondato con Stephan Russ-Mohl l’Osservatorio europeo di giornalismo dell’USI: Marcello Foa (1963). Professionista d’esperienza, Foa al «Corriere» si dimostrò troppo giornalista per attenersi al rango di manager. Autore di due volumi intitolati Lo stregone della notizia, la sua inclinazione al complottismo emergeva in particolare nel blog che curiosamente continuava a tenere su «il Giornale» mentre era l’Ad del «Corriere». Fece discutere un suo falso scoop sui riservisti americani, pubblicato sul blog e ripreso, ma solo in poche righe, sul «Corriere». La sua nomina a presidente della Rai Radiotelevisione italiana, il 26 settembre del 2018, ha tolto le castagne dal fuoco. Si era guardato con preoccupazione a un’altra designazione, al termine del mandato di Giancarlo Dillena che aveva tenuto dritta la barra per dieci anni, nel
Fondo patronale
dalla fondazione: dieci pagine con scadenza quotidiana, dal 14 dicembre 2016, a cura di Enrico Morresi (le prime cinque, dal 1891 al 1949) e da Mauro Maestrini (dal 1950 al 1959). ■ Le vicende del giornale sullo sfondo dell’evoluzione della stampa, della radio e della televisione nella Svizzera italiana si leggono nei due volumi di Enrico Morresi Giornalismo nella Svizzera italiana, 1950-2000, Dadò, Locarno, 2014/2017.
Quest’anno il «Corriere» ha fatto notizia anche per il licenziamento di nove collaboratori, tra cui quattro redattori. Si trattava di una misura di risparmio, è stato assicurato. Con il rispetto dovuto a chi è stato toccato dalla misura, si può ammettere che quattro partenze sulla sessantina di giornalisti che oggi impiega il giornale, se non è un errore non è neppure uno scandalo (l’editore Wanner di Aarau ne ha «sacrificato» duecento concentrando in pochi anni una ventina di testate). D’altra parte, la Fondazione doveva frenare l’emorragia di disavanzi degli ultimi anni (da due a tre milioni l’anno) dovuta al drammatico calo della pubblicità. Al parziale risanamento contribuì, paradossalmente, il fallimento del «Giornale del Popolo», visto che la metà dei deficit del quotidiano cattolico gravava ogni anno sul gruppo. In mano private
A questo punto non sarebbe illogico domandarsi se sia giusto che un giornale importante come il «Corriere» appartenga a un gruppo ristretto di persone che non deve rendere conto a nessuno. Si potrebbe rispondere che, in Svizzera, l’appartenenza della quasi totalità dei giornali a imprese di famiglia (i Ringier, i Bachmann, i Coninx, i von Graffenried, e pure i Soldati e i Salvioni…) ha quasi sempre dato buona prova. Spiace semmai la resistenza degli editori della Svizzera tedesca e del Ticino a consolidare la comunità di interessi che li unisce alle associazioni dei giornalisti sottoscrivendo un nuovo contratto collettivo per la Svizzera tedesca e il Ticino (dal 2004 non è più in vigore). La votazione popolare del 4 marzo 2018 ha dimostrato che al Paese serve un servizio pubblico radiotelevisivo efficiente. Ma un servizio pubblico lo svolgerà sempre e ancora la stampa in mani private, se rimarrà rappresentativa di quella varietà di lingue, culture e problemi in cui consiste la Svizzera: dove non esiste un centro che sia insieme politico, economico e sociale, dove la democrazia è da inventare ogni giorno e perciò non può fare a meno della partecipazione di una cittadinanza plurale formata e informata.
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Chi ha morso chi Un episodio recente, in un contesto provinciale peraltro solitamente ignorato dai media, è assurto agli onori delle cronache e sta godendo del suo nanosecondo di gloria sul web. Il 6 dicembre scorso, giorno dedicato a San Nicolò, a Sterzing (italice Vipiteno), che è una bella cittadina del Südtirol/ Alto Adige i krampus hanno attaccato i passanti colpendoli (pare) con le loro rituali fruste fatte di frasche e (parrebbe) anche con bastoni e qualche più o meno deliberata pedata. Fin qui si tratterebbe di una non-notizia della serie «Cane morde Uomo» che il famoso direttore del «New York Sun» John Bogart (18481921) stigmatizzava come irrilevante mentre incitava i suoi reporter a perseguire il ben più succulento scoop «Uomo morde Cane». In tutta l’area culturale tedesco-meridionale, ma particolarmente in Austria, e in Tirolo, i krampus (dal tedesco antico krampen, «artiglio») precedono l’arrivo nei villaggi di San Nicolò che si reca
in serata a portar doni ai bambini. Il Santo è preceduto ore prima da schiere di personaggi mascherati per metà da capri deformi e per l’altra da mostruosi demoni cornuti che si scatenano contro i cosiddetti tratzer. Erano (e sono) questi i giovani del villaggio che provocano i krampus alla violenza sfidandoli a gara per rincorrerli e colpirli mentre tentano di strappare loro manciate di pelliccia o altri simili trofei della loro bravura. Si tratta, se vogliamo, di uno di quei giochi un po’ innocenti e ingenui coi quali ancora i ragazzini si divertono in certe aree periferiche del mondo globalizzato. Troppo giovani ancora per entrare nei ranghi dei selezionati ed eletti krampus, ai quali si accede secondo modalità iniziatiche esclusive, il tratzer si prepara alla sfida imbottendo le parti più esposte ai colpi, indossando scarponi antiscivolo e assicurandosi di poter battere in velocità il suo potenziale inseguitore. Il tutto sperando che la sua bravura nell’ardire lo segnalino come candidato per
la promozione l’anno venturo all’altra parte del gioco. Molto spesso i due avversari si conoscono bene: fratelli, vicini di casa, parenti – o forse anche, concede l’Altropologo, partner in reciproca antipatia. Il punto è che, in un contesto «tradizionale», non solo i protagonisti sono perfettamente consapevoli della sequenza degli eventi, del gioco delle parti, dei limiti reciproci che provocazione e violenza devono rispettare per non rovinare il gioco, ma spesso si conoscono e si riconoscono: provocare, scappare, inseguire ed essere inseguiti diventa quasi un omaggio all’avversario, un segno di riconoscimento e rispetto. Facile poi immaginare i commenti dei giorni successivi da parte di un fratello maggiore che promette al minore, con una strizzatina d’occhio, che troverà il maledetto che lo ha conciato male per punirlo severamente mentre proprio il fratellino confronta e valuta con orgoglio le ferite guadagnate sul campo coi suoi coetanei. Così, almeno, nell’espe-
rienza diretta di chi negli anni ’70 del secolo scorso ne prese di sacrosante dai krampus della Val di Fassa proprio per essere un «forestiero di riguardo». Ma quella era la violenza rituale di tante simili occasioni praticate nei termini della cultura popolare. Finì negli anni 6o – credo ma salvo recrudescenze che certo saranno assai più discutibili – l’uso che vedeva i ragazzini di Bologna colpire con certi ridicoli randelli di plastica le loro Preferite sperando segretamente di essere riconosciuti sotto la maschera così come la Bella sperava segretamente che il suo preferito corresse a colpirla con una bella legnata davanti alle sue compagne. Pratiche che oggi fanno inorridire e mobilitano una (sacrosanta?) political correctness. Il 6 dicembre scorso, a Vipiteno, quello che si è voluto apposta dipingere provocatoriamente come idilliaco scenario da presepe è andato storto. Non solo i krampus hanno picchiato i tratzer secondo mandato, ma c’è andata di mezzo anche una Signora – persona eviden-
temente o non informata dei fatti oppure di passaggio come turista nel qual caso incompetente che è stata travolta dalla foga agonistica del krampus di turno nel cercare di difendere un tratzer a terra. Poi ci si è messo l’ormai ubiquito videofonino: la frittata è stata fatta. Nell’ormai canonico dibattito democratico di base che non va oltre «I like – I do not like» che è seguito, si è assistito a un avvilente «si-no-però-invece-comunque» dove l’ultimo ad essere interpellato era il buon senso antropologico che permettesse di capire come e perché i fatti fossero andati così e così fossero stati capiti. La ciliegina? Uno scoraggiante commento che aizza alla cliccata virale sul video in questione titola: «In pratica i krampus colpiscono i passanti, anche quelli di colore, con bastoni e fruste». Feroce domanda altropologica: sarebbe forse stato meno discriminante se i «passanti» di colore fossero stati risparmiati? Ovvero: chi ha morso chi a Sterzing/ Vipiteno il 6 dicembre 2019?
le, contraddittoria. Per cui scelgono un giocattolo, l’abbandonano per un altro, poi magari ricercano il primo, col risultato di lasciare dietro di sé un campo di battaglia. Inutile sgridarli e punirli perché non comprendono né la colpa né la pena. Meglio riordinare insieme la cameretta una volta la settimana e per il resto lasciar perdere. Forse la mamma di suo marito è stata un po’ ossessiva suscitando nel figlio, seppur con le migliori intenzioni, lo stato d’ansia che ancora l’opprime. Nell’adolescenza poi il disordine della stanza può assumere un valore libertario, esprimere una volontà di autonomia e d’indipendenza di fronte a controlli familiari considerati ingiustificati e intrusivi. Ricordo che il professore di un Liceo milanese era solito asserire che il disordine della stanza dei ragazzi era pari alla libertà del loro pensiero. Il problema nasce, come lei rivela, dalla vita in comune, dalla necessità di ogni coppia di sincronizzare i tempi e i modi dell’esistenza quotidiana, che sembra irrilevante ma che a lungo andare può corrodere
anche le relazioni più forti. Se è vero, come suppongo, che l’accumulo e il disordine costituiscono per suo marito degli impulsi che la ragione non riesce a controllare, è inutile, anzi controproducente ostacolarli e colpevolizzarli. Ogni inibizione non fa altro che rinfocolare i comportamenti compulsivi. Poiché i conflitti esigono almeno due oppositori, è sicura da parte sua di non essere un po’ troppo ordinata, di non assomigliare a sua suocera? Ha provato ad allentare le pretese e a sospendere, per quanto possibile, le richieste che tanto dispiacciono a suo marito? La sua lettera non ne mette a fuoco la personalità ma potrebbe avere un temperamento artistico frustrato dalla necessità di svolgere un lavoro esecutivo, monotono e ripetitivo, poco adatto ad esprimere le sue potenzialità creative. Tuttavia non è mai troppo tardi per dedicarsi per diletto a un’attività artistica iniziando con l’apprendere a suonare uno strumento musicale, dipingere, seguire un corso di autobiografia o di scrittura. Un suggerimento pratico, al quale avrà
già pensato, sarebbe di dedicare alla raccolta degli oggetti che lei ritiene inutili e che per suo marito risultano irrinunciabili, uno spazio particolare come la cantina, il solaio, il garage, un prefabbricato in giardino. Se questo fosse impossibile, non le resta che accettare uno stato di cose che si protrae da 34 anni e che, a quanto pare, vi ha permesso di condividere un matrimonio sufficientemente sereno. Il che, di questi tempi, non è poco. Tanto più che spesso i disordinati sono persone simpatiche, disponibili, affettive, veri e propri ammortizzatori sociali in un mondo che funziona in modo regolato, sistematico ed efficiente, però talvolta a scapito della spontaneità, della comprensione e della solidarietà.
ziati, inventori tecnologici, designer di moda, arredatori e via enumerando gli artefici della nostra quotidianità. Appunto sotto questa luce sono presentati, su «Bilanz», dal direttore Dirk Schütz, impegnato a dimostrare come il benessere elvetico continui a funzionare grazie al contributo, in termini di investimenti, attività, idee, dei nababbi, svizzeri e stranieri residenti. Tanto, sono sue parole, da assicurare una distribuzione di ricchezza «relativamente equilibrata». Una situazione in cui, non da ultimo, il fattore simpatia ha la sua parte. E, da questo punto di vista, i diretti interessati si danno da fare. A cominciare dall’aspetto, ispirato, in molti casi, alla semplicità. Ne sono, ormai, un esempio collaudato i tre fratelli Kamprad, alias Ikea, sempre in testa alla classifica patrimoniale (54-55 miliardi), e sempre in jeans, camicia a collo aperto. Mentre, Jorge Lemann,
imprenditore nel fast food (23 miliardi) si fa fotografare in training, su un campo di tennis. Compare in maglia da tifoso, ovviamente HC Lugano, anche Geo Mantegazza. Insomma, la cravatta non è più d’obbligo, sostituita spesso dalla sciarpa, annodata casual. E c’è chi osa tenute pop, come Loretta Rothschild, tuta leopardata e calze nere a rete. Ciò che, ben inteso, non esclude completi classici e da gran serata: lo smoking con farfallino, ben indossato da Sergio Ermotti, per la prima volta fra i 300 e, al femminile, borse firmate e gioielli, ma non troppo vistosi. Volare basso, dunque, evitando esibizioni che compromettono un percettibile bisogno di normalità, almeno esteriore, e non soltanto. In certi casi, si assiste a conversioni professionali con intenti di recupero morale. Daniel Vasella, già capo della Novartis, famoso per i bonus da 30 milioni all’anno, dopo l’esilio in Uruguay, ap-
pare in versione bucolica: ha scoperto l’hobby dell’allevamento, sulle rive del lago di Zugo, senza però perdere d’occhio consigli d’amministrazione Pepsi e American Express. Ma, in generale, i detentori delle maggiori fortune trovano nelle fondazioni a scopo benefico, un modo concreto per aiutare e mettersi la coscienza in pace. Lo fanno Roger Federer e, cito un conoscente, Tito Tettamanti. Infine, la domanda è d’obbligo, questo tentativo di normalizzarsi, di meritarsi simpatia quali effetti ha avuto sull’opinione pubblica, sui sentimenti popolari? L’arrivo di «Bilanz», copertina dorata, diventa un’occasione rivelatrice. Nell’edicola, al piano terra della Migros di Lugano, quell’elenco non sorprende e non scandalizza. Testimonia una realtà cui arrendersi, ricorrendo alle risorse di un umorismo scaramantico. In fondo, la mancata ricchezza mette al riparo da altri guai. Basta crederci.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Un marito disordinato Cara Silvia, vorrei parlare di ordine e disordine in una coppia. Mio marito è un disordinato incallito e non accetta che io sistemi le sue cose. Risultato: dopo 34 anni di matrimonio la nostra casa è invasa da tutto quello che lui accumula e non butta. Se butto qualcosa se ne accorge subito. Il colmo è che controlla anche la pattumiera e ripesca quello che io ho buttato. Non so più come dirgli che mi piace l’ordine. Questo non è un problema serio, lo so, ma mi disturba molto. Grazie per l’attenzione. / Graziella Ma sì, cara Graziella, che è un problema serio perché la guerriglia quotidiana tra ordine e disordine, conservare ed eliminare, rivela tra lei e suo marito un conflitto profondo, una differenza esistenziale che le scaramucce non fanno che esasperare. Credo che, di fronte all’enigma dei sintomi, la prima cosa sia considerarli un linguaggio e cercare di capire che cosa vogliono dirci. Indagine particolarmente difficile in quanto, come insegna la psicoanalisi, hanno ra-
dici lunghe che rimandano a esperienze dell’infanzia ormai lontane nello spazio e nel tempo eppure capaci di condizionare i nostri comportamenti. I primi anni di vita sono particolarmente determinanti perché il pensiero non è ancora in grado di riconoscere, esprimere e condividere le proprie emozioni. Solo recentemente abbiamo ampliato lo spettro educativo sino a includere la rappresentazione degli stati d’animo ricorrendo, non solo alle parole, ma alle immagini che riportano, passando da un’emozione all’altra come in un gioco dell’oca, alla scoperta di sé. È quanto insegna Anna Llenas, una designer catalana esperta in arteterapia che, nel suo ultimo libro Labirinto dell’anima, edito da Gribaudo, ha costruito un dizionario di immagini che «risuona dentro», offrendo una esperienza che tutti, bambini e adulti, possono condividere per superare il blocco del non detto, del non dicibile. I bambini piccoli sono fisiologicamente disordinati in quanto giocando danno corpo alla fantasia che è mobile, volubi-
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Super ricchi in tanti modi A prima vista, una buona notizia. Si moltiplicano le vie che conducono all’appuntamento con la fortuna che, nell’immaginario collettivo, coincide prosaicamente con un mucchio di quattrini, e quindi cresce la probabilità d’imboccare quella giusta. Nella nostra patria di paperoni, ci sono riusciti in 300, che figurano nell’elenco, pubblicato, ogni dicembre, da «Bilanz», copertina dorata. Questa privilegiata compagine che, in cifre, corrisponde a oltre 700 miliardi di franchi, conferma come all’arricchimento si arrivi nei più svariati modi, al di fuori delle strade maestre tradizionali: industria pesante, trasporti, edilizia, alta finanza e, ovviamente, eredità. La svolta si delineò, nella seconda metà del secolo scorso. Fu segnalata da «Forbes» nel 1987, la rivista finanziaria americana, che in quell’anno creò una primizia editoriale di successo: la graduatoria dei più ricchi del mondo, che, così,
uscivano allo scoperto. L’iniziativa rifletteva fenomeni emergenti: tempo libero, società dello spettacolo, sport popolari, turismo, comunicazioni di massa, consumismo. Tutti ambiti in grado di produrre altre forme di lavoro e di benessere. Ed ecco comparire, nell’elenco di «Forbes», attori, cantanti, campioni sportivi, presentatori tv, editori di riviste popolari: primo della serie, una gloria tipicamente americana, Gene Autry cantante cowboy. Gli fecero seguito star internazionali, quali Paul McCartney, Michael Jackson, Bruce Springsteen. Mentre, nello sport, con McEnroe si apriva la categoria milionari del tennis, cui appartiene anche il nostro Roger nazionale. Ora, nei confronti dei campioni super ricchi, basti pensare ai calciatori, si è sviluppata una forma di benevolenza che si sta allargando: circonda protagonisti delle arti, scrittori, architetti, direttori d’orchestra, scien-
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Ambiente e Benessere Subaru Forester e-boxer Il nuovo modello del costruttore orientale sorprende e conferma l’attitudine per l’innovazione
Dio sta nei dettagli A volte un piatto festivo può distinguersi non per originalità ma per la cura gastronomica pagina 17
Il futuro del porto di Lima Doña Christina: Callao «è una guerra e sopravvive solo chi sta in piedi. Ma è ora di cambiare…» e qualcosa sta infatti cambiando
Nel cuore dell’Europa Hotelplan organizza per i lettori di «Azione» una crociera sul Danubio
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Paure e speranze
Editoria L’ambientalista Bill McKibben,
Stefania Prandi L’aumento generalizzato delle temperature, lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello dei mari, l’acidificazione degli oceani, sarebbero tutti segnali inequivocabili della catastrofe imminente che porterà alla nostra estinzione. Ad essere precisi, non sta per arrivare, è già qui: «Ci siamo dentro fino al collo». E non sappiamo esattamente come evolverà la situazione perché è senza precedenti, a memoria umana. Non usa mezzi termini Bill McKibben, ambientalista, fondatore del movimento internazionale «350. org», autore di diversi saggi sul global warming – cinque anni fa ha vinto il Right Livelihood Prize, considerato il Nobel alternativo – nel suo ultimo libro Falter (Vacillare), edizioni Wildfire (in inglese). Le quasi trecento pagine dell’anatema contro l’inquinamento raccontano i disastri ecologici che funestano diverse aree del pianeta. Si va dalle «distese infernali» dei giacimenti di sabbie bituminose dell’Alberta, in Canada, all’aria grigia e irrespirabile di New Delhi, in India, «orrendo purgatorio», la capitale più inquinata del mondo, passando per «lo stadio terminale» della Grande barriera corallina in Australia e per la carenza di acqua, si teme strutturale, di metropoli come Cape Town, in Sudafrica. Oltre a offrire un panorama accurato degli scenari più tragici che condizionano la quotidianità di milioni di persone, McKibben chiama in causa studi e rapporti sull’ambiente, e cita l’allarme sottoscritto nel 2017 da oltre 15mila studiosi di 184 Paesi «per il bene dell’umanità, perché si agisca prima di danni irreversibili». Sotto accusa, in particolare, le emissioni dei combustibili fossili, principali responsabili dello sfacelo attuale. «Quando si bruciano carburanti fossili, gli atomi di carbonio si combinano con gli atomi di ossigeno nell’aria
e si produce biossido di carbonio, cioè anidride carbonica. La struttura molecolare del biossido di carbonio intrappola il calore che altrimenti verrebbe irradiato nello spazio. Abbiamo, in altre parole, cambiato l’equilibrio del nostro pianeta». È difficile intervenire: le multinazionali del petrolio e del carbone hanno molte più risorse e influenze degli ecologisti. McKibben è diventato famoso per avere scritto, nel 1989, The End of Nature (Anchor), considerato uno dei primi libri sul cambiamento climatico per un pubblico non specialista. In Falter spiega: «Si parla pubblicamente dell’effetto serra da trent’anni, ma se ne era a conoscenza da prima. Semplicemente il problema era silenziato, veniva discusso soltanto tra gli specialisti». Con la sua amica Naomi Klein, attivista e autrice di uno dei più celebri bestseller della saggistica mondiale, No Logo, pubblicato nel 2000, ha lanciato lo sciopero globale dello scorso settembre. Seguendo l’onda dei Fridays For Future, le proteste degli studenti nate in risposta all’attivismo di Greta Thunberg, hanno invitato a uscire dai posti di lavoro e dalle case, chiedendo azioni contro la crisi climatica, «la più grave minaccia esistenziale che tutti noi ci troviamo ad affrontare». L’allarme è stato rilanciato pochi giorni fa, «sulla base di alcuni indici inequivocabili», da oltre 11mila scienziati da tutto il mondo. Studiosi e ricercatori hanno sottoscritto il rapporto «Avvertimento degli scienziati riguardo all’emergenza climatica», pubblicato sulla rivista «Bioscience» da William Ripple dell’Università dell’Oregon, Thomas Newsome dell’Università di Sydney e William Moomaw dell’Università Tufts. Le previsioni apocalittiche non devono impedirci di provare a «correggere la traiettoria». Qualcuno pensa che sia già troppo tardi, ma di sicuro guardare senza fare nulla è già una sconfitta. Proprio nei mesi scorsi McKibben si è fatto arrestare durante una contesta-
Pexels.com
nel libro Falter, lancia l’allarme sulla catastrofe imminente causata dai cambiamenti climatici
zione contro la «criminosa» politica migratoria di Trump. In una e-mail inviata alla rivista «Rolling Stone», l’attivista ha analizzato i legami tra l’immigrazione e la crisi climatica: «La colpa non è di chi parte e abbandona territori troppo aridi oppure allagati, dove è impossibile coltivare cibo. Il numero dei migranti aumenterà in maniera sconvolgente nel corso di questo secolo. Probabilmente dovremmo pensare a gestire il fenomeno invece di erigere muri e costruire gabbie». Un altro modo per reagire è potenziare in maniera massiccia la diffusione delle energie rinnovabili, solare ed eolico in particolare, tecnologie ormai a basso costo. «Gli ultimi studi realizzati da laboratori come quelli di Mark Jacobson all’Università di Stanford dimostrano che ogni grande nazione,
entro il 2030, potrebbe produrre l’80 per cento della sua energia usando fonti rinnovabili. Economicamente, sarebbe molto più vantaggioso che accollarsi i costi del cambiamento climatico». I numeri di Jacobson sono dettagliati: in Alabama, per esempio, ci sarebbero 59,7 chilometri quadrati di tetti disponibili (senza ombra e posizionati nella giusta direzione) per i pannelli solari. Ma serve altro: dobbiamo nutrirci in maniera più sostenibile, implementare il trasporto pubblico, aumentare la densità abitativa delle città, piantare alberi. Mettere al centro la salvaguardia dell’umanità significa, si legge in Falter, anche riconsiderare e regolare l’impiego dell’intelligenza artificiale e dell’ingegneria genetica. E si dovrebbe abbandonare l’idea di sfruttare al massimo la
Terra cercando, nel frattempo, altri habitat su pianeti inospitali dove è un’utopia riuscire a vivere. Secondo uno studio del 2014 della National Academy of Sciences degli Stati Uniti, una missione su Marte comporterebbe rischi «inaccettabili» per la salute, dai danni al cuore e al cervello dovuti ai raggi cosmici durante il viaggio, alla difficoltà di ottenere cibo e medicine una volta arrivati e finite le scorte. Perché dovremmo rinunciare al nostro pianeta quando persino luoghi come il Sahara sono mille volte meglio di Marte o Giove? Resta a noi la scelta. Possiamo non fare nulla. Oppure possiamo agire, pensando che «siamo tutti sulla stessa barca», e impiegare per questa battaglia le migliori qualità umane, dalla solidarietà all’amore per il mondo, al coraggio.
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Agile, spaziosa, sicura e leggera
Motori Subaru conferma la sua capacità di innovare i propri modelli,
presentando la sua nuova Forester e-boxer Mario Alberto Cucchi Subaru, in giapponese significa Pleiadi. Il nome di una costellazione. Un ammasso di stelle visibile nel raggruppamento del toro. Nel logo della Casa costruttrice Subaru ci sono proprio sei stelle, ecco il motivo. Il costruttore orientale si distingue da sempre per la capacità di innovare e ci è riuscito anche questa volta con la nuova Subaru Forester e-boxer. Si tratta di un mild-hybrid ovvero di una vettura ibrida leggera. In pratica il motore termico alimentato a benzina lavora in tandem con un propulsore elettrico. Le batterie non si ricaricano
tramite una presa di corrente, bensì con la frenata rigenerativa oppure grazie al motore termico. Subaru si differenzia rispetto a tutti gli altri mild-hybrid perché il motore elettrico è per la prima volta installato longitudinalmente all’interno della scatola del cambio. Quest’ultimo eroga una potenza di 12,3 kW (16,7 cavalli) e una coppia di 65 NewtonMetro. Mentre il termico eroga una potenza di 150 cavalli e una coppia di 194 Nm. Le batterie sono del tipo agli ioni di litio con una potenza massima di 13,5 kW. Per avere un’ottima distribuzione dei pesi sono state posizionate in un apposito contenitore ventilato posto al
di sotto del vano bagagli in modo tale da non sottrarre spazio al vano di carico e da mantenere invariate le doti di handling della vettura. Tre le differenti modalità di guida. La prima si chiama EV driving e permette al veicolo di muoversi nel più completo silenzio utilizzando esclusivamente il motore elettrico. L’autonomia è minima: meno di due chilometri ma può servire nelle zone a traffico limitato. Motor Assist driving è il nome della seconda modalità che interviene quando il pilota preme più a fondo il pedale dell’acceleratore e combina la forza di entrambi i propulsori. Infine l’ultima, Engine driving, si utilizza nei momenti in cui si richiede la massima potenza e prevede l’esclusivo utilizzo del motore tradizionale, il famoso boxer a cilindri contrapposti, che contemporaneamente ricarica le batterie. La sicurezza è da sempre al primo posto per Subaru che con Forester si è appena guadagnata le famose cinque stelle nei test Euro n-cap. D’altra parte a bordo della nuova e-boxer è presente l’EyeSight di terza generazione che con le sue telecamere stereo provvede a identificare i mezzi che si trovano davanti all’auto. Si ottiene così una guida semi autonoma in cui l’auto frena e accelera da sola seguendo quella che precede. Sicurezza anche in retromarcia dove un radar arresta il veicolo se si presenta un ostacolo improvviso. E in fuoristrada la e-boxer lascia tutti a bocca aperta grazie al terrain reponse. Un sistema particolarmente efficace che permette al suv giapponese di oltrepassare con nonchalance ostacoli degni di un fuoristrada vero. Con tutta questa tecnologia passa quasi in secondo piano il confort e il lusso che si incontra nell’abitacolo. Degno di nota il sistema che attraverso il riconoscimento facciale del pilota va a impostare la posizione ideale di guida attraverso le regolazioni elettriche del sedile ma anche la temperatura con la climatizzazione e le stazioni radio preferite. I prezzi? A partire da 38’150 franchi svizzeri.
Una corsa per Babbo Natale
Podismo Nel borgo di Ascona si tiene ogni
anno una gara dall’atmosfera festosa
A livello nazionale Migros sostiene da tempo le gare podistiche popolari; è uno dei punti chiave della sua strategia collegata alla promozione della salute. Per questo ogni anno si impegna sponsorizzando le principali manifestazioni del settore sotto il cappello della sua campagna GenerazioneM. Dal 2016 ad oggi ha permesso, ad esempio, la partecipazione di oltre 96’000 bambini alle gare organizzate in tutta la Svizzera, mentre ogni anno la quota di atleti coinvolti raggiunge le 230’000 persone. Nel nostro cantone Migros Ticino è, dal canto suo, sponsor di varie manifestazioni legate al podismo popolare. Queste si tengono in varie località del cantone e godono regolarmente di una importante partecipazione di atleti. Una delle più suggestive, sia per il periodo in cui si tiene sia per lo scenario percorso dai corridori, è certamente la
Programma 8.30: Apertura spogliatoi presso la nuova palestra e inizio distribuzione dei pettorali sul lungolago di Ascona. 10.00: U12 (’09-’08) – U14 (’07/’06) – U16 (’05/’04) M-F. Distanza: 1,5 km (1 giro). 10.30: Popolari (’01-...) M-F e U18 (’03/’02) M-F. Distanza: 3 km (2 giri). 11.00: Staffetta U12-14-16 M-F. Distanza: 1,5 km (1 giro). 300m-U12 / 500m-U14 / 700m-U16. 11.15: U10 (2010 e più piccoli) M-F. Distanza: 300m. 11.30: Famiglie e Gruppi (minimo 4 partecipanti, verrà conteggiato il tempo del 3° arrivato). Distanza: 1,5 km (1 giro). 12.00: Attivi M (2001-1980) – F (2001-1985) W35 (1984-’75) – W45 (1974-...) M40 (1979-’70) – M50 (1969-...). Distanza: 6 km (2 giri: novità, nuovo percorso).
Corsa da Natal di Ascona, organizzata dalla locale Società atletica USA. La gara si tiene nella domenica precedente il Natale e raccoglie un pubblico di appassionati pieni di energia ma anche di spirito festoso. In molti infatti partecipano con un equipaggiamento del tutto natalizio: cappelli rossi e pompon bianchi in grande quantità danno l’impressione che Babbo Natale stesso e i suoi aiutanti si siano lanciati nella sfida. Per ciò che riguarda il programma dell’edizione 2019 va ricordato che il percorso della competizione attraversa i vicoli del borgo di Ascona, con la postazione di arrivo e partenza collocata direttamente sul Lungolago principale. Il tracciato si sviluppa sulla lunghezza di 1500 m, e in particolare per la competizione più impegnativa, quella riservata agli attivi, la pista seguirà un nuovo percorso della lunghezza di 3 km. Le iscrizioni alla gara possono essere effettuate ancora fino alle ore 24.00 di venerdì 20 dicembre. L’apposito formulario è pubblicato sul sito web degli organizzatori, www.usascona.ch. Sono pregati di utilizzare questa opzione in particolare le famiglie, i gruppi e le staffette. È prevista comunque la possibilità di iscriversi sul posto, al più tardi 60 minuti prima della partenza di ciascuna categoria. Chi scegliesse quest’ultima opzione avrà un prezzo maggiorato di 5 franchi. Da notare che durante la gara saranno effettuate riprese fotografiche e video che verranno poi messi a disposizione dei partecipanti in un apposito sito web. La competizione si terrà con qualsiasi tempo, ad eccezione però di particolari condizioni di neve o ghiaccio che potrebbero rendere pericoloso il percorso. Informazioni specifiche su un eventuale annullamento della manifestazione saranno disponibili al numero telefonico 1600 fin dal mattino.
Corsa da Natal, Domenica 22 dicembre, Borgo di Ascona.
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Ambiente e Benessere
La memoria delle anfore
Scelto per voi
Il vino nella storia Continua la serie dedicata alle rotte del vino – Sesta parte
Davide Comoli Nello scenario della produzione italica, erano la Campania e in parte il Lazio a fare la parte dei leoni, in quanto i vini di queste regioni non solo primeggiavano nei consumi interni, tra le famiglie benestanti, ma erano molto apprezzati anche tra le popolazioni che si affacciavano sul mercato del vino. Centri di smistamento dei vini provenienti da altre regioni, erano stati creati al nord di Roma da commercianti altamente specializzati. La fama dei vini prodotti nella penisola italica raggiunse perfino i mercati del Medio ed Estremo Oriente. Anfore vinarie che testimoniano la provenienza del vino italico, infatti, sono state trovate ad Alessandria d’Egitto, ad Axum e anche nel sud dell’Iran da dove via mare giungeva per l’appunto la richiesta dei vini italici. In conseguenza di ciò, nacquero delle vere imprese per l’esportazione, oltre Roma, nonostante avesse i numeri per dominare questi mercati, altri mercati – soprattutto quelli dei Paesi affacciati sul Mediterraneo – resistevano e spesso superavano la concorrenza romana. I vini di Cipro, della Siria e delle isole Greche, molte volte vincevano la battaglia della domanda e dell’offerta e
anche a Roma su alcune tavole raffinate giungevano spesso in quantità sufficiente eccellenti vini dall’Asia Minore. Le anfore di ceramica erano i principali contenitori utilizzati nel traffico marittimo mediterraneo già prima del III sec. a.C. Mentre in seguito, cioè nel I e II sec. a.C., le anfore del vino erano soprattutto del tipo conosciute come Dressel 1; pare che siano state prodotte a partire dal 130 a.C. e che fossero usate esclusivamente per l’esportazione dei vini dalla costa Tirrenica. A metà del I sec. a.C., questo tipo di anfora subì una modifica, presentandosi con un collo più alto e più pesante, inoltre si incominciarono a vedere delle imitazioni provenienti dalla Spagna e dalla Francia del sud. Le anfore spagnole portavano quasi certamente il vino della provincia Tarraconense, che secondo il solito Plinio era all’altezza dei migliori vini italici, mentre quelle provenienti dalla Gallia sono indicative di un inizio di viticoltura in quella provincia. Con l’arrivo dei Romani nel sud della Francia, infatti, il mondo vitivinicolo cambia aspetto, anche se nei pressi di Marsiglia, esattamente a Saint-Jean-du-Desert, furono scoperte anni fa una decina d’impianti di vigna risalenti al IV sec. a.C. Lo storico Strabone scrive: «La Gallia Narbonen-
se produce in quantità e dappertutto gli stessi frutti dell’Italia», riferendosi all’uva e alle olive. La diffusione dell’anfora Dressel 1 è un ottimo indicatore dell’ampiezza raggiunta dal commercio romano del vino dal I sec. a.C. Non solo ci fa conoscere le lunghe distanze percorse dal vino, ma anche il ruolo dei fiumi e l’importanza dominante per il suo commercio. Sono state ritrovate così anfore prodotte in Italia lungo il corso del Tamigi, il Rodano, il Reno, la Garonna, l’Ebro, la Guadiana. Non è facile valutare il giro commerciale dato dal vino intorno al I sec. a.C., ma dal numero di anfore ritrovate e da quelle che ancora numerosissime giacciono sui fondali marini, si ipotizza che all’epoca in cui era diffusa l’anfora Dressel 1, furono circa 40 milioni quelle caricate a bordo di imbarcazioni, il che indicherebbe un flusso di circa 100mila ettolitri di vino all’anno proveniente dalle Gallie. Alla fine del I sec., l’anfora Dressel 1 fu sostituita da un nuovo tipo che imitava le anfore prodotte sull’isola greca di Kos, la Dressel 2-4. Mentre la Dressel 1 pesava circa 25 kg con un rapporto peso-capacità di 0,88 litri per kg, le nuove anfore erano molto più leggere, tra i 12-16,5 kg, con un rapporto 1,09-2,04 litri per kg. Questo cambiamento fu forse dato dal
Alcune anfore Dressel 1. (Sailko)
desiderio di trasportare una maggiore quantità di vino, ma qualcuno azzarda l’ipotesi di un mutamento nel costume sociale del bere, con la comparsa della moda dell’annacquare il vino, lanciata dai Greci. Un’ulteriore innovazione tecnica relativa al trasporto via mare del vino (considerati alcuni ritrovamenti su alcuni relitti naufragati all’epoca), fu l’introduzione di navi che portavano pesanti giare, note come: «dolia» e ancorate in mezzo alla nave, ma visti i risultati, sembra che l’esperimento non sia andato oltre al I sec. d.C. La produzione vinicola svolgeva un ruolo molto importante nel commercio alimentare dell’epoca. Insieme all’olio, la Spagna, l’Italia e la Grecia spesso si scambiavano vini, e l’olio prodotto in Italia veniva mescolato con quello prodotto in Spagna, Gallia e Africa. Strabone (circa 64 a.C.-19 d.C.) scrive: «Miscentur sapores… miscentur vero et terrae caelique tractus» («…si mescolano i sapori (…) si mescolano in verità anche terre e tratti di cielo»). L’incremento dei traffici richiedeva un notevole aumento della logistica per far fronte all’intero apparato commerciale. Di tutto questo ne beneficiavano, non solo i grandi porti marini, come quello di Alessandria che sotto Roma Imperiale era diventato il centro mondiale del traffico mercantile, ma anche importanti snodi della penisola italica, tra cui Pozzuoli e Ostia, ma anche Aquileia, Tiro, Cadice (Gades), Efeso e Marsiglia. Si assisteva anche a un fiorente commercio in alcuni porti fluviali ricavati nelle anse dei fiumi, dove transitavano un numero impressionante di anfore vinarie caricate su barconi, come ad esempio a Lione. L’imperatore Augusto, aveva assegnato un compito ai responsabili dei traffici e del commercio: «Unire saldamente l’impero per rendere la sua sopravvivenza la più lunga possibile nei secoli a venire». Noi pensiamo che il vino abbia avuto il merito e un posto di rilievo (non da merce qualunque), per essere considerato un simbolo di raffinata civiltà, con cui scrivere pagine di storia.
Brunello di Montalcino Altesino 2012 D.O.C.G
Il marchio Altesino è una realtà di 40 ettari vitati, 25 dei quali iscritti nell’albo del Brunello, dislocati tra Montosoli (nord) e Pianezzine (sud). Le zone sono protette da grandine e temporali grazie al Monte Amiata, mentre le uve possono raggiungere un’ottima maturazione grazie ai venti caldi della Maremma che creano un microclima caldo e secco. Fondate negli anni Settanta le Cantine di Palazzo Altesi, creano il loro Brunello (uve Sangiovese grosso) in modo tradizionale, con lunghi affinamenti in rovere di Slavonia da 50 ettolitri. Il disciplinare infatti prevede uso di Sangiovese in purezza, riposo in cantina per almeno 50 mesi, di cui almeno 2 passati in botte. Tutto questo dona longevità (20 anni). Il vino che vi proponiamo per il pranzo di Natale è un prodotto molto elegante e molto equilibrato con accenti molto diversi tra loro, ma che – come per un tocco magico – nel bicchiere si fondono tra loro creando una perfetta armonia. Servito a 18° C, è l’ottimo accompagnamento per arrosti, carni rosse, selvaggina e pollame nobile (cappone ripieno). / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 59.–. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Un brasato vestito da festa «Dio sta nei dettagli» dicono i tedeschi, e a ragione. La frase la pronunciò per primo un illustre architetto, Ludwig Mies van der Rohe, ma va detto che vale altrettanto, se non di più, applicata alla cucina. L’esempio che vi propongo si basa su un piatto che preparerò nelle prossime feste: il brasato al vino rosso, che tanto amo. La ricetta canonica è questa (la quantità degli ingredienti indicata è per 6 persone). Fate rosolare per 10’ nel burro 1,5 kg di muscolo di bue. Aggiungete 1 bottiglia di vino rosso senz’alcol, cioè sobbollito per 3 o 4’, 6 cucchiaiate di soffritto di cipolle, vale a dire cipolle stufate in poca acqua, 2 spicchi d’aglio, qualche cotenna sbollentata per 10’ e tagliata a striscioline, una punta di concentrato di pomodoro, una presa di zucchero e un mazzetto guarnito e cuocete coperto a fuoco dolcissimo per 4 ore, unendo poca acqua se necessario.
I dettagli? Evaporate l’alcol del vino; mettete poca acqua nelle cipolle; aggiungete il roux e deglassate il fondo! Alla fine togliete la carne, tenetela al caldo, eliminate il mazzetto e passate il fondo al passaverdura. Rimettetelo sul fuoco e cuocete con 30 g di roux per 5’. Regolate di sale e pepe e spolverizzate con prezzemolo. Servite la carne tagliata a fette nappata con il fondo. Quali sono dunque i dettagli in questo caso, in questa ricetta di semplice esecuzione? Anzitutto il fatto di far evaporare la parte alcolica del vino, che in cottura dona al piatto un tocco di acido eccessivo. Ma anche il fatto di fare il soffritto cuocendo la cipolla con poca acqua, per evitare che degradi, cosa che succede sopra i 100 gradi. E poi conta anche l’aggiunta del roux, che è un addensante, il quale può essere so-
stituito con qualsiasi altro prodotto che produca lo stesso effetto, ovvero che doni voluttuosità al fondo. In realtà poi c’è un dettaglio non citato, ancora più importante: va deglassato il fondo di cottura. Che cosa vuol dire? Nella rosolatura iniziale si creano sul fondo e sulle pareti della casseruola delle crosticine, ben attaccate che vanno recuperate. Per farlo si può anche procedere così: prima di aggiungere il vino, si leva la carne, poi si aggiunge il vino e si deglassa, ovvero lo si fa sobbollire grattando con una robusta spatola il fondo della casseruola per staccare le saporitissime crosticine. Quindi si rimette la carne e si procede come indicato sopra. Questi quattro dettagli, che qualcuno potrebbe definire inessenziali, quanto incidono nel risultato finale? Non vi dico di fare contemporaneamente due brasati, uno con e uno senza dettagli, ma fidatevi, contano moltissimo. Non che, senza, il piatto diventi cattivo, sia chiaro: ma la differenza c’è. Un altro (grosso!) dettaglio vincente? Il buon brodo vegetale. Da sempre lo facciano con cipolla o porri o ambedue, sedano e carote: alla fine sa di molto poco. Ecco quali ingredienti freschi e spezzettati si possono aggiungere per dargli corpo: patate e bucce lavate di patate, topinambur, guaine di finocchi, verza sbollentata per 5 minuti, zucca, bucce e semi di zucca, torsoli di pannocchia, sedano rapa e bucce di sedano rapa, le foglie esterne della lattuga, baccelli di piselli, gambi di asparago, erbette, fagiolini, melanzane, peperoni, coste, rape, pastinaca, erbe aromatiche (timo, maggiorana, origano, salvia, rosmarino), funghi freschi e funghi secchi con la loro acqua di ammollo, erbe selvatiche (ortica, borragine) e altre. Bisogna solo evitare verdure come carciofi, cavolfiore, broccoli, cavolo nero e poche altre che rendono amaro il brodo e prevaricano gli altri sapori. Si possono poi aggiungere spezie come cumino, coriandolo, zafferano, zenzero e cannella. Cambia e moltissimo! Evviva i dettagli, in cucina!
CSF (come si fa)
Jackson
Allan Bay
JGSDF
Gastronomia A fare la differenza sono i dettagli, soprattutto quelli che sembrano inessenziali
Vediamo come si fa un piatto che ho inventato da poco e che farò a Natale: il risotto al vitello tonnato. Gli ingredienti sono per 6 persone. Mettete in freezer per 20’ o poco più 150 g di codino di vitello perché si indurisca, poi con un po’ di pazienza tagliatelo prima a fettine sottili e poi a julienne. Rosolatele per 5’ in poco burro con 1 spicchio d’aglio. Unite ½ bicchiere di vino bianco secco senz’al-
col e 1 foglia di alloro e cuocete a fuoco dolcissimo coperto per 10 minuti. Aggiungete 2 acciughe sott’olio e 70 g di tonno sott’olio ben scolato e cuocete ancora per 1’. Regolate di sale e pepe e gettate l’alloro. Separatamente tostate a fuoco vivo 500 g di riso da risotti, sfumate con 1 bicchiere di vino bianco senz’alcol, unite 6 cucchiaiate di soffritto di cipolle e portatelo a cottura unendo brodo di vitello (o vegetale, ma ottimo) bollente. 3’ prima che sia pronto, unite la carne tonnata. Spegnete, mantecate con 60 g di burro, coprite, lasciate riposare per 2 minuti e servite unendo 1 manciatina di capperi ben dissalati. Prima farò un’insalata Caesar (ingredienti sempre per 6 persone). Se volete imitarmi, fate dorare 2 spicchi d’aglio schiacciati in 3 cucchiai d’olio. Private
4 fette di pane della crosta, spennellatele con olio, tagliatele a cubetti e fateli tostare in forno a 180° per 10’. Tagliate 100 g di pancetta affumicata a listarelle e rosolatele in una padella antiaderente senza aggiunta di grassi finché saranno croccanti. Mescolate 2 tuorli con 2 cucchiaini di senape forte, 1 pizzico di sale e 1 macinata di pepe ed emulsionate con 1 bicchierino di olio evo versato a filo, 1 cucchiaino di salsa Worcester, 2 cucchiai d’aceto bianco e 2 cucchiai di parmigiano grattugiato. Lavate 2 cuori di lattuga romana, asciugatela, spezzettate con le mani le foglie e mettetele nell’insalatiera. Conditele con la salsina, unite la pancetta, 4 filetti d’acciuga sott’olio sminuzzati, i crostini e 50 g di parmigiano in scaglie e mescolate delicatamente. Poi, il brasato.
Ballando coi gusti Oggi, due ricchi dolci che fanno contenti tutti.
Pie di cioccolato
Malakoff
Ingredienti per 6/8 persone: 180 g di mandorle spellate · 60 g di zucchero · 1
albume · burro. Per la farcia: 150 g di cioccolato · latte · 3 uova · 75 g di burro · 3 cucchiai di zucchero · 1 cucchiaio di rum.
Ingredienti per 6/8 persone: ½ litro di latte · 120 g di zucchero · 1 baccello di vaniglia · 1 stecca di cannella · 50 g di fecola · 120 g di nocciole sgusciate · 150 g di burro · ½ bicchierino di liquore · 300 g di savoiardi · ½ bicchiere di rum · panna fresca.
Cuocete le mandorle in forno a 100° per 10 minuti, poi tritatele. Impastatele con lo zucchero e l’albume leggermente sbattuto. Avvolgetelo in pellicola per alimenti e fatelo riposare in frigorifero per 30 minuti. Per la farcia, sciogliete a bagnomaria il cioccolato spezzettato con poco latte, mescolando. Lasciate raffreddare, poi incorporate i tuorli leggermente sbattuti, il burro ammorbidito e lo zucchero, amalgamando. Montate gli albumi a neve soda e incorporateli al composto. Stendete la pasta alle mandorle sul piano di lavoro infarinato, poi mettetela in una tortiera di 24 cm di diametro, foderata con carta da forno. Versate livellando la crema di cioccolato e bagnate con il rum. Tenete nel frigorifero per qualche ora prima di sformarlo e servirlo, guarnito a piacere.
Fate intiepidire il latte, stemperatevi lo zucchero e immergetevi il baccello di vaniglia e la stecca di cannella. Lasciate in infusione per 30’, poi eliminate gli aromi. Lavorate la fecola con poco latte fino a ottenere una pastella fluida, quindi unite a filo il resto del latte. Fate addensare il composto a bagnomaria, mescolando. Lasciatelo intiepidire e aggiungete 100 g di nocciole tritate, il burro e il liquore. Inzuppate i savoiardi nel rum diluito con acqua, rivestitevi uno stampo da charlotte foderato con pellicola per alimenti; riempite il recipiente con strati alternati di crema e di biscotti, poi riponete in frigorifero per almeno sei ore. Sformate in un piatto da portata e guarnire con panna montata e il resto delle nocciole intere.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 dicembre 2019 • N. 51
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Ambiente e Benessere
DJ set a Callao
Viaggiatori d’Occidente Il porto di Lima tra passato, presente e futuro Panorama dal tetto di Casa Fugaz. Sul sito www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica.
Paolo Brovelli, testo e foto Callao era già lì, prima ancora di avere un nome, quando nel 1535 la capitale del Perù fu fondata. Callao era il capolinea della rotta tra il ricchissimo vicereame spagnolo e la madrepatria. Qui approdavano i galeoni carichi di mercanzie provenienti da Siviglia per la via di Panama: viveri, abiti, utensili di ferro eccetera. Dopo aver svuotato le stive, le navi salpavano straripanti dell’argento di Potosí (ora in Bolivia) o colme dei tesori rubati all’impero Inca, sconfitto nel 1533 con l’esecuzione dell’ultimo suo sovrano Atahualpa. Callao non ha mai perso importanza nel tempo. Era e rimane il primo porto sul Pacifico dell’America del sud, nonostante le tante traversie: una per tutte, il maremoto del 1746, che si portò via persino la sua cinta muraria costru-
Graffito del viso di una donna.
ita per scoraggiare i pirati, subito sostituita con la Fortezza del Real Felipe, la maggiore opera di architettura militare dell’America spagnola. Nel 1836, quando il Perù era ormai uno Stato indipendente, Callao fu elevata al rango di capoluogo di provincia e nel 2002 addirittura di regione, con un governo proprio, smarcato dalle ingerenze della capitale. Oggi, quasi per un naturale sviluppo dell’idea originaria, qui sorge anche l’Aeroporto internazionale di Lima Jorge Chávez. Con i suoi ottocentomila residenti, Callao contribuisce a formare una conurbazione di dieci milioni di abitanti, quasi un terzo del paese. Callao è un luogo di passaggio, non una meta turistica, perché è una delle zone più malfamate del Perù, con frequenti scontri armati e un tasso di omicidi doppio rispetto alla media del
Paese. Qualcosa però sta cambiando da quando, nel 2015, è stato proclamato un lungo stato d’emergenza per i sempre più numerosi scontri tra bande. Da allora alcune associazioni provano a far cambiare l’atmosfera, attraverso la presenza sul territorio, inoculando vaccini di cultura e arte all’interno di questa realtà degradata, a cominciare dai pittoreschi quanto violenti quartieri del centro storico, come il Callao Monumental, a due passi dai moli del porto. In Plaza de la Matriz, con la cattedrale ottocentesca, la gente si rilassa e legge il giornale. Mi siedo anch’io su una panchina, al sole fioco del mattino, e con una scusa attacco discorso col mio vicino. Luis Antonio viene qui quasi ogni giorno, da quando è in pensione. Legge con l’orecchio teso, dice che non si sa mai. Però è contento che ora ci sia sempre la polizia in giro. È lui
Fortezza del Real Felipe.
a presentarmi Leyla, quando la vede sbucare tra le bancarelle lungo la adiacente via Galvez. Leyla avrà meno di trent’anni e lavora nella vicina Casa Fugaz, una galleria d’arte gestita da un’associazione. Il palazzo, fiammante di ristrutturazione, mi accoglie nel passage del pian terreno, col soffitto in vetro decorato e i negozietti di artisti e artigiani; poi lo sguardo corre su fino alla terrazza dove ogni domenica si organizza un concerto con vista su tutto il Callao, sul porto con le nuove gru e i mille container. In mezzo ci sono sei piani di saloni con esposizioni, foto, dipinti, laboratori di teatro, scultura, disegno. Un mondo a parte. Leyla ci tiene a farmi fare un giro per le viuzze dei dintorni piene di buche, con numerose case in rovina tappezzate di graffiti. E quando le chiedo
della sicurezza, mi fa conoscere Angel, «l’angelo custode», dice, un tipo sui cinquanta che, nato nel quartiere, ha l’esperienza e l’autorità per cavarsela. «Poi abbiamo dalla nostra doña Christina!» dicono quasi in coro i due intendendosi con uno sguardo, mentre in fondo alla via semideserta, tra le casette basse, una sagoma avanza a passo svelto. Doña Christina è una bomba. Mulatta, una settantina d’anni e un’energia da vendere, irrompe nel gruppetto e subito si presenta come una delle Madres del Callao, soggetto di una delle mostre di casa Fugaz; ragazze madri, mi spiega subito, perché qui sono le donne che tirano avanti la baracca. Gli uomini sono tutti in galera o al camposanto. Ne sa qualcosa lei, matriarca del clan più temuto del quartiere, Los malditos de Castilla: una dozzina di figli, una cinquantina di nipoti e ventisei pronipoti, in buona parte dietro le sbarre per omicidio, rapina aggravata, sequestro, non esita a dire con piglio sicuro. Vedova da decenni, è lei che ha tirato su tutta quella squadra. Non conosce esitazioni, doña Christina: «Se ho sbagliato qualcosa – dice – ebbene ho fatto quel che ho potuto. Qui è una guerra e sopravvive solo chi sta in piedi. Ma è ora di cambiare…» aggiunge con una risata rumorosa e complice verso i miei accompagnatori. Lei ora è dentro fino al collo nel progetto di Casa Fugaz e farà di tutto perché la cosa funzioni. Non sarà facile. Ci vorrà la buona volontà di tutti gli Angel, le Leyla e i Luis Antonio per conciliare arte, cultura e DJ set con i derelitti e le sparatorie in strada. Ma il Callao ha affrontato e superato sfide ben peggiori. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
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Desidero iscrivermi al viaggio dal 10 al 17 luglio 2020 Nome Cognome Via
Viaggio Per i lettori di Azione, Hotelplan
organizza dal 10 al 17 luglio 2020 una crociera sul Danubio
NAP Località Telefono
Una crociera nel cuore dell’Europa navigando sul Danubio. È quanto Hotelplan in collaborazione con «Azione» propone per l’estate
dell’anno entrante (dal 10 al 17 luglio 2020). Un’occasione incredibile per scoprire il Danubio e le sue più belle città:
Vienna, e il suo clima imperiale, Budapest, capitale dell’Ungheria, Bratislava e il suo castello posto a dominio sul grande fiume, Dürnstein e il suo incan-
Il programma di viaggio 1. Ticino – Sankt Margrethen – Passau. Trasferimento in torpedone verso Sankt Margrethen, sosta e cambio torpedone per proseguire verso Passau. Imbarco sulla nave MS THURGAU ULTRA***** in serata. Si salpa! 2. Melk – Vienna . Arrivo a Melk in mattinata e visita del Monastero benedettino, patrimonio UNESCO. In serata arrivo a Vienna. 3. Vienna. Visita della città con possibilità di recarsi al palazzo barocco di Schönbrunn (prenotabile solo a bordo)
4. Budapest. Passeggiata tra gli imponenti edifici lungo le due sponde del Danubio. Quindi proseguimento delle visite attraverso la metropolitana e un treno panoramico, nonché la visita al mercato coperto e alla Basilica di Santo Stefano. Infine: tour leggero attraverso la notturna «Regina del Danubio». 5. Budapest – Esztergom. Escursione alla «Puszta Ungherese» con dimostrazione dell’arte equestre tradizionale. Durante il pranzo a bordo, la nave attraverserà l’ansa del Danubio,
Bellinzona
Lugano
Lugano
Viale Stazione 8a 6500 – Bellinzona T +41 91 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch
Via Pietro Peri 6 6900 – Lugano T +41 91 910 47 27 lugano@hotelplan.ch
Via Emilio Bossi 1 6900 – Lugano T +41 91 913 84 80 lugano-viabossi@hotelplan.ch
Giochi
vacanza. La pagina dei giochi va in o dal 13 gennaio. an Cruciverba e sudoku torn
Cruciverba Sapreste dire quanto vissero Abramo e Mosè? Trovate le risposte a soluzione ultimata, leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 15, 10)
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chiamata anche «Donauknie» o «Wachau ungherese». In serata arrivo a Esztergom. 6. Bratislava. Escursione al castello. Rientro verso il porto e nel centro storico con la famosa Cattedrale di San Martino. 7. Dürnstein. Visita del centro storico medievale e degustazione dei vini locali prima di riprendere la navigazione. 8. Passau – Sankt Margrethen – Ticino. Sbarco dopo colazione e trasferimento con il torpedone verso il Ticino con cambio a Sankt Margrethen. Arrivo in serata.
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
tevole centro medievale. Navigare sul fiume più importante d’Europa, che riesce a unire l’Ovest ed Est del Vecchio continente, è certamente un’esperienza che vale la pena fare una volta nella vita. La crociera sarà organizzata con accompagnamento dal Ticino e per tutta la navigazione, nella formula del viaggio di Gruppo. Sul sito www.azione.ch, il dettaglio del calendario sottostante.
e-mail Sarò accompagnato da … adulti. Sistemazione desiderata (cerchiare ciò che fa al caso). a)
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Variante singola:
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Prezzo a persona In cabina doppia ponte principale (a): da CHF 2230.–. In cabina doppia Junior Suite ponte intermedio (b): da CHF 2725.–. In cabina doppia Junior Suite ponte superiore (c): da CHF 2920.–. In cabina doppia Deluxe Suite ponte intermedio (d): da CHF 3120.–.
Sistemazione nella cabina prescelta. Pensione completa, bevande escluse. Pacchetto di escursioni in lingua italiana. Tutte le visite guidate e i trasferimenti come da programma. Buono Migros di CHF 50.– a cabina. Accompagnatore Hotelplan Ticino. La quota non comprende Bevande; mance (5/7 euro per persona al giorno da pagare in loco); assicurazione contro le spese d’annullamento; escursioni facoltative; extra in genere; spese dossier Hotelplan.
Cabina singola su richiesta. Spese agenzia Hotelplan: CHF 70.–. La quota comprende Trasferimento in pullman privato dal Ticino a Passau a/r. Tasse portuali.
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku ORIZZONTALI 1. Giudizio negativo 3. Sapienti, avvedute 8. Finiscono il dolce... 10. Lo indicano le istruzioni 12. Possessivo francese 14. Mollusco bivalve 16. Senatore in breve 18. Conta... solo alla fine 19. Preposizione 20. Figurano nelle carte da gioco 21. Ripetuto in un famoso ballo 22. Ameno, ilare 23. Simbolo chimico del sodio 24. Estate a Parigi 26. Si chiede per saper il luogo 28. Con «terno» fanno... dentro 29. Una moglie di Garibaldi 31. Il primo navigatore 32. Le aveva Pegaso VERTICALI 1. Un anagramma di tuono 2. Ne ha sette il tarso 4. Fiume del Lazio 5. Si spiegano cantando 6. Andata in disuso 7. Il... trilussiano 9. Il Morricone musicista 11. Fanno coristi ...in crisi 13. Una consonante 15. Acido ribonucleico (sigla) 17. Punto cardinale 20. Preposizione articolata 21. Vittime della scienza 22. Ingrandiscono a vista d’occhio... 23. Ultimocerchiodell’Infernodantesco 25. Pronome personale 26. Rintocco di campana 27. Congiunzione francese 30. Le iniziali dell’attrice Angiolini Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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Risposte risultanti: Nome dell’uccello: CASUARIO – Vive in: AUSTRALIA – Graduatoria al mondo per grandezza: TERZO POSTO.
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C E E E
C A R T I A A P B I M O
A S U A L R T I O U S E A A R O C T O M O R E M O I N I O S N O I T A R L
E L I A Z E R O
luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 dicembre 2019 • N. 51
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Politica e Economia Peronismo bis Mauricio Macri cede il testimone alla coppia FernandezKirchner, tre quarti di secolo dopo l’esperimento originario
La parabola di Matteo Renzi A 44 anni l’ex premier italiano ha un grande futuro dietro le spalle e un avvenire incerto, popolato di nemici più che di estimatori. La sua caduta è una considerevole perdita per l’Italia, poiché Renzi rappresentava la sola concreta speranza di cambiamento
Africa tormentata In particolare l’Africa orientale è teatro di una crescente lotta per le risorse, talora fra Stati, talora fra gruppi umani
Tutto come prima Il cambiamento al vertice della Commissione Europea non muta i rapporti Svizzera-EU
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L’inverno del disgelo?
Russia-Ucraina Al vertice di Parigi con i leader di Francia e Germania, i capi di Stato di Kiev e Mosca
hanno trovato un accordo per impegnarsi a estendere il cessate il fuoco a tutto il conflitto nel Donbass Lucio Caracciolo Finalmente qualcosa di nuovo sul fronte ucraino. L’incontro fra il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo ucraino Volodymyr Zelenskyi, mediato a Parigi da Emmanuel Macron e Angela Merkel (foto), sembra avviare una stagione di graduale disgelo fra Mosca e Kiev dopo la crisi scoppiata nel 2014. Nulla di decisivo né di definito, salvo l’impegno di rivedersi fra quattro mesi a Berlino, ma la sensazione che la pacificazione dell’Ucraina, dove la guerra fra il governo centrale e i separatisti filorussi del Donbas ha provocato già più di 13 mila vittime, sia meno lontana di prima. Il punto più caldo riguarda la possibilità di tenere elezioni nelle repubbliche ucraine ribelli di Lugansk e Donetsk. Gli ucraini vorrebbero che Mosca chiudesse prima i rubinetti che le consentono di alimentare la guerriglia anti-Kiev nei due territori del Donbass: in sostanza, dovrebbe sigil-
lare il confine e consegnare le chiavi al governo dell’Ucraina. Poi si potrebbero tenere elezioni locali, che darebbero un qualche grado di autonomia alle regioni in rivolta. Per i russi il ragionamento va rovesciato: prima si vota, e una volta che il risultato sia validato dall’Osce, si chiude il confine. Il risultato finale cui puntano i russi è un’Ucraina ridimensionata nelle sue ambizioni atlantiche, dotata di un sistema federale che doterebbe del potere di veto le sue entità regionali, da spendere contro un eventuale tentativo di Kiev di entrare nella Nato. In parole povere, ai ribelli filorussi, che resterebbero comunque in Ucraina, sarebbe permesso di impedire l’eventuale accesso di Kiev alla Nato. Per Zelenskyi questo è da escludere. Soprattutto, l’opinione filo-occidentale in Ucraina teme che il giovane presidente, che ha alle spalle una carriera da attore, possa essere manipolato dalla volpe Putin. Gli Stati Uniti sostengono la posi-
zione ucraina, ma si tengono a distanza dal negoziato diretto. La scena è stata così presa dal duo franco-tedesco, con Macron nelle vesti di padrone di casa – l’incontro si è svolto all’Eliseo – ma soprattutto di forza trainante, al cospetto di una cancelliera in declino e che si prepara a lasciare il suo incarico alla fine dell’attuale mandato. Il presidente francese ha ripetutamente marcato le distanze dagli americani – nel caso specifico, dagli ucraini – sostenendo che prima o poi la Russia dovrà essere riammessa nel cerchio ristretto delle potenze abilitate a partecipare a un sistema di pace e cooperazione su scala paneuropea, sulla base dell’equilibrio della potenza. Sullo sfondo, la questione energetica. Le forniture di gas russo all’Europa via Ucraina sono state una costante dell’ultimo mezzo secolo e ora sono rimesse in discussione. Il contratto di forniture scade a fine anno. Nel frattempo, i russi stanno raddoppiando il gasdotto
baltico Nord Stream, che collega i giacimenti siberiani al mercato tedesco scavalcando l’Ucraina e i paesi intermedi dell’ex impero sovietico. Così come il braccio meridionale, il Turkish Stream, surrogato del mai partito South Stream, contribuisce ad aggirare l’Ucraina. Per Kiev, oltre a trattenere parte delle forniture, si tratta di garantirsi invece entrate energetiche fondamentali via la commercializzazione del gas russo in Europa. Allo stesso tempo, Zelenskyi non vuole essere tenuto sotto costante ricatto energetico da Putin. La tensione lungo la frontiera Nato-Russia, con Ucraina e Bielorussia in funzione di cuscinetto filo-occidentale la prima e filo-russa (fino a un certo punto) la seconda, resta alta. Il rischio della degenerazione del conflitto ucraino è palpabile. In tal caso, tutta la regione tra Baltico e Nero sarebbe incendiata. Al recente vertice celebrativo dei settant’anni della Nato i paesi baltici,
la Polonia e la Romania sono riusciti a ottenere la assicurazione americana e, molto più tiepidamente, degli altri alleati, che la pressione e quindi le sanzioni contro la Russia saranno mantenute. Ma lo schieramento euroatlantico è tutt’altro che unanime. Francesi e tedeschi, ma anche italiani, vorrebbero un approccio più morbido alla Russia, considerata comunque parte del sistema di pace e di equilibrio paneuropeo. Contro la Vecchia Europa, la Nuova (gli ex satelliti sovietici inquadrati nel Patto di Varsavia), appoggiata dagli Stati Uniti. Se fra qualche anno un nuovo presidente degli Usa decidesse di riaprire alla Russia, non fosse che in funzione anti-cinese, tutti gli equilibri regionali verrebbero ricalibrati. Ad oggi, al massimo, si possono disinfettare e incerottare le ferite, in un clima di persistente diffidenza. Comunque meglio della deriva incontrollata verso l’allargamento del conflitto.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 dicembre 2019 • N. 51
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Politica e Economia
Che cosa sarà il nuovo peronismo? Cambio della guardia Al posto di Mauricio Macri gli argentini hanno richiamato al potere i peronisti:
il nuovo presidente è Alberto Fernandez, la sua vice Cristina Kirchner, lei stessa già due volte alla guida del Paese, quasi una nuova Evita Federico Rampini L’intero Sud America viene beneficiato dalle svalutazioni che sospingono un boom delle esportazioni, verso la Cina ma non solo. Donald Trump reagisce con dazi punitivi su Brasile e Argentina. Si ripropone così l’eterno dualismo tra ispanici e yankee (o gringos). Sullo sfondo c’è il rilancio di un esperimento politico molto controverso. L’eterno ritorno del peronismo a Buenos Aires è interessante perché è nel lontano 1946 che l’Argentina «inventò» questo modello peculiare di populismo, per certi versi un antesignano di tanti movimenti odierni. Nonostante i disastri economici che spesso ha seminato lungo la sua strada, il peronismo mostra una resilienza invidiabile, almeno nell’animo degli elettori. In questo dicembre 2019 il mio Far West preferito è in Argentina. La definizione le si applica per tante ragioni. Per generazioni di italiani il Nuovo Mondo, la frontiera da conquistare, fu l’Argentina più ancora degli Stati Uniti. Questo Paese ha la percentuale di immigrati italiani più alta al mondo. Tuttora Buenos Aires è una metropoli (15 milioni di abitanti) segnata dall’italianità, con quartieri come Palermo, una squadra di calcio genovese (Boca), un dialetto locale «portegno» che è un misto di spagnolo e italiano. Molti italiani vi fecero fortuna, comprese delle dinastie imprenditoriali come i Rocca
Alberto Fernandez e Cristina Kirchner inaugurano una nuova stagione del peronismo. (AFP)
di Techint. Come è noto anche l’immigrazione svizzera (soprattutto dal Vallese e dal Ticino) è stata un fenomeno rilevante, soprattutto fino alla Grande depressione degli anni ’30. Molti emigranti svizzeri s’insediano nella pro-
vincia di Santa Fe, dove nel 1856 venne fondata la prima colonia elvetica con il nome d’Esperanza. In un’epoca dominata dal tema della sostenibilità, è una nazione straricca di terre fertili, ha riserve idriche
in abbondanza, e una popolazione con un livello d’istruzione medio elevato. Delle sue risorse è avida la Cina, uno dei maggiori investitori negli ultimi anni. Pechino ha sempre importato derrate agroalimentari in gran quanti-
tà dall’Argentina, ma in questi tempi la sua fame è ingigantita da un’epidemia suina che ha dato un ulteriore colpo di acceleratore agli acquisti. Altri settori sono oggetto dell’invasione cinese, per esempio le miniere Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 dicembre 2019 • N. 51
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Politica e Economia di litio, componente essenziale nelle batterie per le auto elettriche o gli smartphone. Nella tensione tra Stati Uniti e Cina, quella che io definisco «la seconda guerra fredda» l’Argentina ha l’opportunità di lucrare sulla propria posizione neutrale, come fece all’inizio della Seconda guerra mondiale. Ho abitato città cosmopolite come Bruxelles Parigi San Francisco New York, dove il paesaggio umano era multietnico da molto tempo. Ma in Argentina mi sento in una situazione diversa. Ci vive un intero popolo che sembra fuori posto. La prima cosa che ti colpisce di Buenos Aires è questa: non ha capito che è in Sud America. È convinta di essere Parigi; o una mescolanza tra Parigi e Londra, Milano e Genova, Berlino e Madrid. Ho girato in Messico, Brasile, Perù: hanno forti impronte di civiltà precolombiane, nel caso del Brasile un crogiolo d’influenze indioafricane. L’Argentina sembra un’intera nazione di passaggio, un pezzo d’Europa appena sbarcato da una nave; e si riserva la possibilità di tornare indietro. Del Nord Europa ha l’architettura dei palazzi, i boulevard e i maestosi giardini pubblici. Dell’Europa mediterranea lo stile umano, il modo di stare insieme, vini e cibi. Dell’Italia: quasi tutto. Perfino nelle patologie l’Argentina è europea. Il peronismo dal 1946 fu un mix di fascismo-socialismo-populismo più simile a dittature nostrane che a quelle sudamericane. In un’America latina percorsa da proteste, con governi abbattuti dalla piazza o vacillanti, violenze dei narcos in aumento, esodi di migranti, l’Argentina potrebbe distinguersi come un modello positivo. La sua democrazia dell’alternanza funziona, il ricordo delle feroci dittature è ormai confinato nei luoghi rituali, come il Parco della Memoria in omaggio ai desaparecidos. La settimana scorsa Buenos Aires ha celebrato l’avvicendamento al vertice:
gli elettori hanno dato il benservito al presidente Mauricio Macri, il neoliberista che ebbe una breve stagione di popolarità in Occidente. Al suo posto gli argentini hanno voluto richiamare i peronisti: il nuovo presidente è Alberto Fernandez, la sua vice è Cristina Kirchner, lei stessa già due volte alla guida del Paese e ormai circondata da un alone di leggenda, quasi una «nuova Evita Peron».
Nonostante i disastri economici che spesso ha seminato lungo la strada, il peronismo mostra grande resilienza Il passaggio dei poteri si svolge in modo ordinato. Anche se Buenos Aires è la capitale mondiale delle manifestazioni – è rara una giornata senza cortei che sfilino davanti alla Casa Rosada in Plaza de Mayo – la caduta di Macri è avvenuta nel modo più normale possibile, alla scadenza del mandato e col suffragio universale. Eppure nessuno si sognerebbe di prendere per modello l’Argentina, che è all’ottava bancarotta sovrana, e nella sua storia turbolenta ha già «consumato» 30 salvataggi del Fondo monetario internazionale. L’ultimo default del debito estero, nel 2001, ha lasciato tracce pesanti anche nei portafogli di tanti risparmiatori italiani. E la storia sembra pronta a ripetersi con una regolarità implacabile. Cambiano i protagonisti, cambia lo sfondo geopolitico, a volte con novità clamorose. Per esempio, all’investitura di Alberto e Cristina mancava il vicino più importante, il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, che ha definito i nuovi governanti argentini «due banditi di sinistra». È la conferma del riallineamen-
to in corso in tutta l’America latina, che coinvolge anche i rapporti con Washington: l’Argentina e il Messico sono le due acquisizioni più recenti nel campo della sinistra anti-Trump, mentre la Bolivia liberata da Morales è passata nel campo delle destre con Brasile e Cile. Un altro fattore decisivo è il Papa argentino: Francesco ha avuto un ruolo nel riconciliare la Kirchner e il suo ex chief of staff Fernandez. Lotta alla povertà e alle diseguaglianze: papa Francesco ha dalla sua il nuovo ministro dell’Economia argentino, Martìn Guzmàn, già docente alla Columbia University di New York e allievo del premio Nobel Joseph Stiglitz. Il peronismo torna al governo con ricette che piacciono ai populisti del mondo intero, Stiglitz essendo uno dei pensatori di riferimento del Movimento 5 Stelle in Italia. Questa Argentina ti accoglie come una Repubblica di Weimar, ma senza le ombre del totalitarismo in agguato. In comune con la Germania dei primi anni Trenta – oltre ai tanti ebrei tedeschi qui immigrati – ha il fascino decadente, la vitalità culturale, l’alta istruzione media, librerie musei gallerie d’arte e centri culturali ovunque. E purtroppo ha in comune l’iperinflazione (55% di aumento dei prezzi al consumo), la svalutazione galoppante. Il governo per frenare le fughe di capitali ha dovuto imporre restrizioni valutarie drastiche: massimo duecento dollari a persona al mese. Il mercato dei cambi offre un piccolo squarcio sulla realtà argentina. Il centro direzionale di Buenos Aires, proprio attorno alla Casa Rosada presidenziale, ospita i quartieri generali di tutte le grandi banche. Palazzi monumentali, mausolei all’inefficienza, con personale pletorico e inutile, dove si rifiutano di cambiarti dollari se non sei cliente, proprio mentre dovrebbero facilitare quei turisti che portano
valuta pregiata; loro stessi ti dirottano verso piccole agenzie di strada dove si pratica il cambio nero.
In America latina è in corso un riallineamento: Argentina e Messico sono le ultime acquisizioni della sinistra anti-Trump Ma non puoi percepire la vera durezza di questa crisi se rimani nel centro di Buenos Aires: i ricchi che abitano nei bei quartieri come Recoleta La Isla Norte e Palermo con i loro palazzi Art Déco, o nei nuovi grattacieli di Puerto Madero, hanno tecniche ben collaudate di evasione fiscale, nei conti bancari del paradiso fiscale uruguaiano. I ricchi latifondisti delle Pampa, che esportano nel mondo più grano dell’Australia e di recente hanno conquistato il mercato cinese della carne suina, sanno come parcheggiare all’estero gli incassi in dollari euro o renminbi. Perfino il ceto mediobasso ha espedienti antichi: compra gli appartamenti pagando in contanti, o investe i risparmi in auto straniere che si rivendono usate a un prezzo più alto del nuovo, «miracoli» dell’iperinflazione alla Weimar. La vera povertà sta cominciando ad apparire nel centro di Buenos Aires in forme discrete: qualche homeless, immigrati boliviani e venezuelani, bambini che chiedono l’elemosina. Ma è la «grande» Buenos Aires (i 12 milioni dell’area metropolitana esterna, contro i 3 milioni della città-centro) quella che contiene tanta miseria; peggio ancora le campagne. Su 44 milioni di argentini un terzo vive ormai sotto la soglia della povertà; il 13% dei bambini soffrono di denutrizione. È la tragedia quasi cronica ormai,
di un Paese che fu tra i più ricchi del mondo. Tra l’ultimo quarto dell’Ottocento, e la grande crisi del 1929, l’Argentina era arrivata ad essere una delle dieci nazioni più opulente, con reddito pro capite superiore alla Francia. Ancora nel 1970 aveva un’economia due volte più ricca del Cile, che oggi l’ha superata nettamente. Laboratorio politico «d’avanguardia» lo divenne fin dal 1946, quando Juan Peròn diede vita al movimento che mescolava ingredienti del socialismo e del fascismo; un’ideologia «giustizialista», un consenso di massa fondato sui sindacati, la spesa pubblica clientelare, l’assistenzialismo, il protezionismo. Il peronismo disprezzato dai neoliberisti, che si sono rivelati incapaci però di superarlo. Macri era il beniamino del Fondo monetario internazionale eppure non ha modernizzato il Paese, né ha tentato un vero risanamento dei conti pubblici. Ora la coppia Alberto-Cristina parla un linguaggio suadente, un peronismo soft che tenta di non spaventare nessuno: promette che proteggerà i più deboli, farà guerra alla miseria e alla disoccupazione, ma senza imporre perdite agli stranieri che (incautamente) hanno ancora investito nei tangobond. 140 miliardi di dollari di debito estero da ripagare, e un prestito d’emergenza di 57 miliardi del Fmi che si sta velocemente esaurendo: la resa dei conti non potrà essere rinviata all’infinito. Né si possono penalizzare troppo gli investitori esteri, essenziali per nuovi progetti come lo sfruttamento di Vaca Muerta, uno dei più grandi bacini di «shale gas»del mondo. Avanzano anche i cinesi, sempre attenti a infilarsi dove gli Stati Uniti lasciano dei vuoti d’influenza. Tutti hanno interesse a capire cosa sarà questo nuovo peronismo, tre quarti di secolo dopo l’esperimento originario. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Renzi, seduttore ora abbandonato Dalle stelle alle stalle Da segretario quasi osannato del Pd e poi ancora capo del governo, oggi arranca
alla guida di un partito oscillante sul 5%
Alfio Caruso Il declino di Matteo Renzi si legge nello sguardo: da ironico a sospettoso. Anche l’andatura ha perso lo smalto e il dondolamento di quando le folle si aprivano dinanzi al suo incedere. Con il suo libro dei sogni aveva attratto l’attenzione di un Paese cinico e malmostoso. Aveva incarnato la figura del progressista capace di scaldare anche l’animo dei moderati. Colui che dopo le europee del 2014 era stato pubblicamente definito dalla Merkel il «matador» oggi arranca alla guida di un partitino oscillante sul 5%. A trentanove anni sembrava destinato a dominare la scena italiana e a conquistare un posto in prima fila su quella europea. A quarantaquattro ha un grande futuro dietro le spalle e un avvenire incerto, popolato di nemici più che di estimatori. La sua caduta è una considerevole perdita per l’Italia: ci siamo giocati l’unico talento politico del bigoncio, la sola concreta speranza di un cambio di passo. Purtroppo l’ha fatto all’indietro. Renzi ha goduto in Parlamento di un potere pari a quello del mitologico De Gasperi negli anni turbinosi del dopoguerra. Sciaguratamente erano soltanto arroganza anziché linearità, furbizia anziché correttezza, dileggio anziché mutamento. D’altronde, da segretario quasi osannato del Pd era divenuto capo del governo dopo aver rassicurato il presidente del consiglio dell’epoca, Enrico Letta, con l’ormai famoso messaggino «Enrico stai sereno». In meno di un mese l’aveva mandato a casa in nome del superiore bene dello Stato. Tuttavia all’opinione pubblica afflitta dalla crisi economica, rintronata dalle consuete litanie di parlamentari intramontabili, impaurita dal destino dei figli, poteva persino piacere un affabulatore in grado di mettere la propria spregiudicatezza al servizio della comunità. Invece la speranza di poter contare su un politico «fiorentino», veniva così definito Mitterrand per la sua scaltrezza, si è tramutata nel dispetto di ritrovarsi con un esibizionista di Rignano, il paese d’origine di Renzi sulle sponde dell’Arno. E forse la sua parabola è figlia di un orizzonte culturale limitato a onta di studi e letture. Gli è mancato lo scatto, è vissuto d’improvvisazioni, è scivolato per non aver calcolato la convenienza di gesti, di scelte. Sarebbe bastato obbligare la sua sodale Maria Elena Boschi a
Contro Renzi hanno giocato la complessità del Paese e la difficoltà a superare le divisioni. (Keystone)
scegliere tra lei ministra e il babbo vicepresidente di una banca in affanno. L’una escludeva l’altro o viceversa. La travolgente scalata verso il cielo della politica avrebbe dovuto consigliare a Renzi di chiedere a mamma e papà di ritirarsi dagli affari, di non lanciarsi in pericolose avventure imprenditoriali con gli immancabili pettegolezzi su gestioni allegre, favoritismi, rapporti chiacchierati. Tanti erano stati sedotti dal Renzi degli inizi. Avevano creduto alle sue parole d’ordine: dalla rottamazione dei logori routiniers della partitocrazia alla premiazione del merito; da un nuovo apparato statuale alla volontà di fare dell’Italia un laboratorio per i giovani. Il vasto consenso sorto intorno alle sue prime iniziative aveva isolato le rare invettive di chi già lo marchiava come il «figlio di Berlusconi». Ma non abbisognava di scomodi paragoni: ci avrebbe pensato da solo a smarrire la strada, che aveva indicata. In fondo le avvisaglie
si sarebbero potuto cogliere allorché si presentò in Senato e con la mano in tasca annunciò ai senatori che era suonata la campanella dell’ultimo giro. Proprio l’abolizione del secondo, inutile ramo del Parlamento avrebbe però costituito l’inciampo in grado di sbatterlo a terra. Da almeno vent’anni venivano coltivati propositi trasversali di abolire il sistema bicamerale perfetto, cioè con le stesse funzioni svolte in parigrado: si era, infatti, rivelato un perfetto modo di esautorare, strangolare, svilire, procrastinare leggi sottoposte a una tripla lettura. Renzi aveva inserito l’abolizione del Senato in una riforma più ampia avente quale obiettivo la riscrittura di ampie parti della Costituzione. La sua iattanza nel rifiutare un’intesa con le opposizioni rese, tuttavia, necessario ricorrere allo strumento del referendum. Renzi era così sicuro di vincere, d’annunciare il ritiro dalla politica in caso di sconfitta. Rappresentò la ma-
niera migliore di coalizzare i suoi numerosi avversari da destra a sinistra: due anni di governo li avevano fatti crescere a discapito degli estimatori. La campagna per abbattere Renzi fu ammantata dal nobile scopo di voler salvare la «Costituzione più bella del mondo». Per capire che non è così, basta rifarsi alla prima riga del primo articolo: «L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro». Il che lascerebbe presumere che le altre siano fondate sul tempo libero, sullo jogging, sull’intrattenimento. È viceversa una Costituzione figlia del suo tempo, scritta fra l’altro dalle due forze, i cattolici e i comunisti, avverse da sempre al Risorgimento, che, malgrado, le innumerevoli zone d’ombra rimane la pietra fondante della Nazione. Insomma, le buone ragioni della riforma pagarono il prezzo dell’avversione al loro ispiratore. E lui nel momento della caduta palesò la mancanza di spessore. Anziché tener fede alla
promessa di ritirarsi, lasciò soltanto il governo. Conservò la segreteria del Pd e si mise a inseguire una improbabile rivincita, che produsse lacerazioni e scissioni fino al miserevole 18% delle elezioni 2018. Se ne fosse davvero andato, avrebbe evitato d’intestarsi la disfatta elettorale ed entro un paio d’anni sarebbe stato implorato di tornare. Da allora è stato un continuo avvitarsi su se stesso fino alla fondazione d’Italia viva(cchia). Nei suoi intendimenti dovrebbe percorrere l’identico cammino di En Marche, il movimento di Macron trionfatore in Francia. Ma tra i due esiste un abisso di saperi e di uso di mondo, di tradizione e di apprendistato. Contro Renzi ha giocato pure la complessità dell’Italia, la sua difficoltà di superare le mille divisioni, da cui è stata sempre afflitta. Adesso contro Renzi c’è anche la procura di Firenze. Indaga a tutto campo sui finanziamenti alla sua fondazione Open, che ha sostenuto le campagne politiche; indaga sui congrui compensi ricevuti nei meeting internazionali; indaga sui prestiti per acquistare la lussuosa dimora privata(1’400’000 euro); indaga sulle società di un amico e sostenitore della prima ora, sospettato di aver veicolato grosse cifre di denaro sui conti esteri. Per ora è più fumo che arrosto. Da trent’anni la magistratura tiene sotto scacco la politica. Nonostante i proclami in difesa dell’autonomia, i partiti non sono riusciti a conquistare l’antica primazia. Al contrario, hanno preferito accontentarsi di un tornaconto spicciolo: ogni inchiesta ha indignato l’indagato, solleticato i rivali e spesso gli alleati. Il copione si sta ripetendo anche in questo caso. Ma per Renzi era proprio indispensabile comprare un’abitazione così costosa o farsi prestare i soldi dalla mamma di un facoltoso sostenitore, poi eletto nelle file del Pd? Era così difficoltoso invitare il suo famoso «giglio magico» a evitare scelte di dubbia linearità? Insomma, più che l’illegalità è l’opportunità a essere tirata in ballo. Renzi minaccia querele civili per attingere ai pingui risarcimenti, ne ha già incassati diversi. Apre le porte a nuove adesioni, se ne contano però pochine e difficilmente ne arriveranno con i pubblici ministeri all’opera. Si batte per modificare la legge sulle fondazioni, ma non trova sostenitori nelle altre forze governative. Per la prima volta il pifferaio suona e nessuno lo segue. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Lotta crescente per le risorse
Africa orientale È il teatro di un confronto crescente fra Stati, talora fra gruppi umani. Destinato ad inasprirsi,
è causato nella maggior parte dei casi dai mutamenti climatici Pietro Veronese Dalla Somalia al Mozambico, dall’Etiopia alla Nigeria, l’Africa, in particolare nella sua regione orientale, è tormentata da conflitti striscianti per il controllo delle risorse naturali. Talora gli Stati, talora comunità in conflitto tra di loro cercano di assicurarsi beni vitali e sempre più scarseggianti. Alcune di queste contese sono tenute per il momento sotto controllo; ma non è infondato temere che, in mancanza di soluzioni concordate e durature, possano sfociare in scontri frontali, in guerre fra Stati. È risaputo che la natura ha benedetto l’Africa, riversando in questo continente i suoi doni con una generosità senza pari. Le risorse vegetali, animali e minerali vi abbondano meravigliosamente. È altrettanto noto che la storia africana, dalla «scoperta» quattrocentesca ad opera dei navigatori portoghesi in poi, è stata segnata dal feroce saccheggio di queste risorse. Oro, avorio, esseri umani ridotti in schiavitù, gomma, petrolio, minerali rari e preziosi, tutto è stato depredato nei secoli. Dai ninnoli ricavati dalle zanne d’elefante che adornavano le mense dei sovrani seicenteschi, all’uranio che armava le bombe atomiche esplose su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945, le ricchezze dell’Africa sono state asservite alle mire dei potenti della Terra. Oggi i protagonisti sono diversi; alle potenze d’Occidente è subentrata la Cina; i re d’Europa sono stati rimpiazzati da governanti africani, talora altrettanto bramosi di ricchezza, in altri casi genuinamente interessati al benessere delle proprie nazioni. In ogni caso, la caccia alle risorse naturali dell’Africa continua. Molte altre cose sono cambiate, oltre ai personaggi che animano il proscenio. In primo luogo è diffusa e crescente la consapevolezza che il patrimonio naturale non è inesauribile, bensì è limitato e va preservato e difeso. Tanto più oggi che il mutamento climatico sta facendo sentire assai più che altrove il proprio impatto sulla vita quotidiana di molte regioni del continente. A immagine della mobilitazione avviata dall’esempio dell’adolescente svedese Greta Thunberg, movimenti giovanili cominciano a manifestare
Un agricoltore della Nigeria, dove gli scontri etnici, soprattutto al Nord, hanno riacutizzato le rivalità. (AFP)
la propria presenza nelle piazze delle maggiori capitali africane. E prima ancora della recente comparsa dei «Fridays for Future», gli attivisti ambientali avevano mosso all’azione le comunità locali, spesso con grave rischio personale. In Sud Africa per esempio si sono opposti ad attività minerarie dall’impatto catastrofico sulle attività agropastorali dei contadini locali, subendo minacce ed arbitri da parte delle forze di sicurezza (si veda il rapporto della ong Human Rights Watch https:// www.hrw.org/sites/default/files/report_pdf/southafrica0419_web.pdf).
Acque del Nilo, petrolio off-shore fra Kenya e Somalia, terre per i pascoli della Nigeria: queste sono le tre questioni più minacciose In Kenya è attiva da anni la mobilitazione contro il gigantesco progetto LAPSSET, il corridoio Lamu PortSouth Sudan-Ethiopia Transport. Si tratta del più grande progetto infrastrutturale dell’Africa centro-orientale,
da realizzarsi interamente con capitali cinesi. Il suo scopo è quello di portare fino al mare il greggio del Sud Sudan – estratto da compagnie petrolifere cinesi – rendendosi autonomi dal Sudan, Paese attraverso il quale il petrolio è costretto attualmente a transitare. Il terminale marino del corridoio dovrebbe essere costituito da un megaporto per le superpetroliere, con ben 32 moli, tre aeroporti internazionali, collegamenti stradali e ferroviari e tre «resort» turistici. Le associazioni ecologiste, prontamente perseguitate dal governo keniano, sostengono che l’impatto della sua realizzazione sarebbe devastante per l’aria, le acque oceaniche, le attività agricole e di pesca. In luglio hanno registrato un’importante successo quando il Tribunale nazionale ambientale del Kenya ha revocato la licenza di costruzione della centrale a carbone che dovrebbe sorgere a Lamu per fornire energia all’intero progetto. Ma il resto dei lavori continua, così come le proteste e con esse le minacce, gli arresti, le detenzioni, le proibizioni di organizzare manifestazioni pubbliche. Nel frattempo il governo del Kenya, già attivamente impegnato a onorare i patti con la Cina per il terminale petrolifero di Lamu, è schierato su un
altro «fronte petrolifero» con la vicina Somalia. Oggetto della contesa sono i giacimenti off-shore che entrambi i Paesi rivendicano. Il rinato governo somalo, sotto la presidenza di Mohammed Abdullahi «Farmajo», fa della questione una bandiera del ritrovato orgoglio nazionale; da parte sua il Kenya, che da sempre ambisce a un ruolo-guida in Africa orientale, non intende cedere. Un negoziato è aperto per ridefinire le frontiere marittime tra i due Paesi; il suo esito è incerto. Non va dimenticato che la costa keniana è esposta alle incursioni di milizie fondamentaliste islamiche di matrice somala, le quali già in passato hanno compiuto attacchi e raid contro località turistiche. Il timore è che possano approfittare della rinnovata tensione per tornare in azione, alla stregua di quanto avviene nel nord del Mozambico. Lì l’entrata in scena di ambigue formazioni armate islamiste ha completamente bloccato i progetti di realizzazione di un altro grande terminale, in questo per il gas estratto dalle profondità marine. Il contenzioso tra Kenya e Somalia ci ha portato al cuore dei conflitti per le risorse naturali dell’Africa centroorientale. Due altre grandi questioni
sono aperte. La prima riguarda l’ampia regione semidesertica che ha al suo centro il Lago Ciad, il settimo lago più grande del mondo ma fragile, perché poco profondo ed esposto a un clima inclemente. Alla sue acque attingono ben cinque Paesi: Ciad, Camerun, Niger e Nigeria. Un micidiale concorso di fattori ha contribuito negli ultimi anni a una riduzione vertiginosa del volume del lago. Il cambiamento climatico, con l’innalzamento della temperatura e il moltiplicarsi delle siccità; il conflitto innescato nel nord della Nigeria dalle milizie islamiche di Boko Haram; il collasso delle attività pastorali ed agricole in ragione delle avverse condizioni del clima. Tutte queste crisi hanno provocato esodi massicci di popolazioni che dalle varie direttrici si sono riversate sulle sponde del lago, prosciugandolo ulteriormente. È una catastrofe di enormi proporzioni, molto complessa e di quasi impossibile gestione, periodicamente denunciata e subito dopo dimenticata. Ha inasprito la tradizionale contesa tra allevatori e coltivatori per l’uso delle terre, che sono sempre più arse, dovendo al contempo sostenere un numero crescente di individui. Le tensioni sono esplose in conflitti armati, che si accendono e si spengono come una vera e propria guerra a bassa intensità. Di tutte, la più minacciosa questione è quella legata al controllo delle acque del Nilo. Sette anni fa l’Etiopia avviò la costruzione della ciclopica diga chiamata GERD, ovvero Grand Ethiopian Renaissance Dam, la Diga del Grande Rinascimento Etiopico. Il suo scopo è produrre una enorme quantità di energia elettrica destinata a sostenere lo sviluppo del Paese, nonché irrigare la regione limitrofa. L’Egitto, la cui sussistenza è strettamente legata all’acqua del Nilo, arrivò a minacciare la guerra contro la diga. Da allora i leader di entrambi i Paesi sono cambiati, quello etiopico è stato di recente insignito del Nobel per la Pace. Ma un accordo non si trova. L’ultimo incontro di negoziato, in settembre, si è concluso con un nulla di fatto. L’anno prossimo l’impianto dovrebbe cominciare a entrare parzialmente in funzione. La tensione cresce. Annuncio pubblicitario
Fare la cosa giusta
Quando la povertà mostra il suo volto nasconde
Legga la storia di Kim: www.farelacosagiusta.caritas.ch
La piccola Kim (7 anni, Svizzera) vive in povertà e non deve essere emarginata ulteriormente
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Politica e Economia
Nuova commissione, vecchi nodi
Relazioni CH-UE Ursula von der Leyen è entrata in carica al posto di Jean-Claude Juncker, ma le posizioni dell’UE
verso la Svizzera non cambiano: Bruxelles resta in attesa di una decisione di Berna sull’Accordo istituzionale
Marzio Rigonalli Il 1. dicembre 2019, a Bruxelles è entrata in carica la nuova Commissione europea, presieduta dalla tedesca Ursula von der Leyen. Il 3 dicembre, il Consiglio nazionale ha approvato il secondo miliardo di coesione destinato a finanziare progetti per ridurre le disparità economiche e sociali tra i paesi dell’UE e ad aiutare quei paesi, come la Grecia e l’Italia, che sono in prima linea nella gestione del fenomeno dell’immigrazione. Il contributo copre dieci anni ed è stato approvato anche dal Consiglio degli Stati. Il suo versamento, però, diventerà effettivo soltanto quando l’UE ritirerà le misure discriminatorie che ha adottato nei confronti della Svizzera, come la mancata proroga dell’equivalenza borsistica, e se non verranno adottate altre misure discriminatorie. È quindi difficile prevedere quando questi fondi verranno stanziati.
Le Camere federali hanno approvato il miliardo per la coesione, ma verrà versato solo dopo che l’UE avrà ritirato le sue misure discriminatorie Tra questi due eventi non c’è un filo diretto, ma tutti e due ci ricordano la situazione di stallo in cui si trovano le relazioni tra la Svizzera e l’Unione europea. È una situazione che non lascia intravvedere un facile sbocco e che, anche in tempi brevi, potrebbe aggravarsi, addirittura degenerare, rendendo più conflittuali i rapporti bilaterali e colpendo gli interessi reciproci. Il pomo della discordia rimane il più volte citato accordo istituzionale, frutto della trattativa bilaterale che iniziò nel 2014 e che si concluse alla fine del 2018. L’accordo concerne cinque trattati bilaterali esistenti che regolano l’accesso al mercato dell’UE (trasporto aereo, trasporti terrestri, libera circolazione delle persone, agricoltura ed ostacoli tecnici al commercio) ed eventuali nuovi trattati bi-
laterali che riguardano l’apertura reciproca di un mercato, come per esempio il previsto accordo nel settore dell’elettricità. Si tratta di vedere in che modo, in questi settori, la Svizzera deve riprendere l’attuale e futuro diritto europeo, nonché di definire un percorso adeguato per risolvere eventuali conflitti. Nonostante l’accordo raggiunto un anno fa, la posizione di Bruxelles e quella difesa da Berna rimangono contrapposte. L’Unione europea ritiene che l’accordo sia definitivo e rifiuta di riprendere il negoziato bilaterale, fosse anche soltanto per rivedere alcune parti del testo. Accetta solo di chiarire alcuni punti sollevati dalla Svizzera e di dar loro spazio in alcuni protocolli aggiuntivi. Chiede quindi alla Svizzera di firmare l’intesa e di avviare il processo interno di ratifica. È la posizione che ha assunto la vecchia Commissione europea presieduta da Jean-Claude Juncker e che è stata ripresa anche dalla nuova Commissione. Ursula von der Leyen si è schierata in favore della continuità. Terrà un occhio aperto sul dossier Svizzera, come faceva Juncker, ed ha affidato la gestione del dossier al commissario austriaco Johannes Hahn, che ne era già il titolare nella vecchia Commissione. Non c’è dunque, almeno per ora, nessun segnale di cambiamento e di una supposta volontà di voler affrontare il dossier Svizzera su nuove basi. Nel definire le sue scelte, Bruxelles è condizionata sia dalla volontà degli Stati membri dell’Unione, sia dal negoziato sulla Brexit. La fermezza dimostrata nei confronti di Londra è stata voluta non soltanto come difesa degli interessi dell’Unione, ma anche come esempio da mostrare a Stati membri che avessero analoghe volontà secessionistiche, od a Stati, come la Svizzera, con i quali l’UE ha negoziato un accordo che non è ancora definitivamente concluso. Concessioni fatte ad una capitale possono spingere le altre capitali interessate a chiedere la stessa cosa. La Svizzera non giudica definitivo l’accordo istituzionale che è stato negoziato. Il Consiglio federale ha lanciato una procedura interna di consultazione, dalla quale sono emersi tre punti particolarmente critici. In primo luogo,
Ursula von der Leyen, in compagnia della cancelliera tedesca Angela Merkel. (Keystone)
l’attuale protezione dei salari. L’accordo metterebbe a rischio alcune misure di accompagnamento introdotte dal parlamento svizzero per impedire il dumping salariale. Poi, gli aiuti statali. I Cantoni temono che l’UE non accetti le garanzie accordate alle banche cantonali ed i contributi dati ad aziende che operano al servizio della collettività. Infine, la direttiva sulla cittadinanza. Bruxelles prevede di estendere i diritti dei cittadini dell’Unione, in particolare di rafforzare i diritti agli aiuti sociali e di limitare le condizioni per l’espulsione dei criminali. La direttiva non è contemplata nell’accordo quadro, ma Berna teme che, con l’entrata in vigore dell’accordo, si ritrovi un giorno costretta a riprendere i punti essenziali di questa direttiva e le sue future modifiche. Di fronte alle resistenze emerse dalla procedura di consultazione, il Consiglio federale ha chiesto alla Commissione europea un chiarimento sui tre punti contestati e la Commissione si è dichiarata pronta ad agire. In realtà, il governo vuole qualcosa di più di un chiarimento, vuole rinegoziare i tre punti. Per raggiungere questo obiettivo, però, deve prima concordare una posizione comune con i partner
sociali ed i Cantoni. Un lavoro che è in corso, ma che non è stato ancora ultimato. Ne risulta una fase di temporeggiamento, durante la quale il Consiglio federale sembra in attesa di una situazione più propizia, sia sul piano internazionale, quando la Brexit sarà completata, sia sul piano interno, quando il popolo ed i Cantoni si saranno espressi sull’iniziativa popolare dell’UDC «Per un’immigrazione moderata». Un’iniziativa che in realtà chiede l’abolizione della libera circolazione delle persone. La votazione si terrà probabilmente nel mese di maggio. Come uscire da questa situazione? Come trovare un accordo che salvi le relazioni bilaterali con l’UE? L’Unione rimane il primo partner economico della Svizzera: assorbe il 52% delle esportazioni elvetiche ed il 70% delle nostre importazioni proviene dall’UE. Qualche proposta è emersa nei media. Michael Ambühl, ex segretario di Stato ed ex capo negoziatore degli accordi bilaterali II, oggi professore al Politecnico di Zurigo, ha proposto sulla NZZ di concludere un accordo interinale con l’UE. Un accordo che consenta di mantenere le relazioni bilaterali e di prevenire i conflitti, rinviando a più tardi il
negoziato bilaterale, quando la situazione internazionale sarà più favorevole. La «Sonntagszeitung» ed il «TagesAnzeiger hanno suggerito un cambio nella guida della diplomazia elvetica. Hanno proposto che Alain Berset diventi il nuovo capo del Dipartimento federale degli affare esteri e che Ignazio Cassis assuma la direzione del dipartimento federale dell’interno. Berset incontra grossi problemi con la riforma delle assicurazioni sociali e, quando è stato presidente della Confederazione ha dimostrato di essere molto attivo sul piano internazionale. Cassis ha avuto problemi nella gestione del dossier Europa ed il passaggio al dipartimento federale dell’interno sarebbe più consono al suo passato politico. Tutte le proposte vanno probabilmente nella giusta direzione. Presuppongono, però, la chiara volontà politica del Consiglio federale di affrontare in modo deciso il dossier Europa. Per esempio, compiendo qualche viaggio in più a Bruxelles, piuttosto che in Russia od in Arabia Saudita, nonché allacciando strette relazioni con i responsabili dell’Unione europea. Una chiara volontà politica che, purtroppo, non si riscontra già da molto tempo. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 dicembre 2019 • N. 51
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Dieci anni senza segreto bancario Roland Rossier, giornalista ginevrino, specializzato in inchieste sugli scandali bancari, ha raccolto il frutto delle sue indagini in un volume, uscito di recente presso Alphil, dal titolo un po’ roboante: La Svizzera e il denaro sporco – 60 anni di scandali bancari. A chi segue regolarmente le cronache economiche dei nostri media il volume di Rossier non porterà molto di nuovo. Potrà però servirgli per rinfrescare la memoria, perché è vero che, nel nostro paese, niente viene dimenticato più in fretta di uno scandalo bancario. Rossier ci ripresenta quelli che si sono prodotti tra il 1950 e il 2018. I casi di evasione fiscale, riciclaggio e le bancarotte sono suddivisi in quattro parti che, di fatto corrispondono non solo a quattro periodi diversi ma anche a quattro diverse situazioni nel rapporto tra lo sviluppo degli affari delle banche elvetiche e il segreto bancario.
Dapprima il quarto di secolo tra il 1950 e il 1975 quando, stando all’autore, la mafia americana scoprì le seduzioni del segreto bancario svizzero. Vengono poi, nella seconda parte, dal 1975 al 1990, quelli che l’autore chiama «gli anni dell’impunità». È il periodo dell’IOS di Bernie Cornfeld, ma anche quello dei Sindona, dei Gelli, degli Ortolani e dei Calvi, per non parlare della Pizza Connection che – come tutti ricordano – costò il posto alla consigliera federale Kopp. La terza parte, intitolata «Dall’arsenale penale all’agonia del segreto bancario», illustra l’evoluzione nel ventennio dal 1990 al 2009, con scandali notissimi legati al traffico della droga e scandali meno noti, almeno fuori Ginevra, determinati dal crollo di costruzioni finanziarie a forte rischio o addirittura con finalità delittuose. Infine la quarta parte ci racconta quanto è successo dopo il 2009,
cioè dopo che l’abolizione del segreto bancario, stando all’autore, non ha di fatto eliminato le possibilità di frode: il denaro, afferma Rossier, è semplicemente passato dal nero al grigio. Quindi, di fatto, l’abolizione del segreto bancario non ha fermato la criminalità. L’ha comunque ridotta di molto perché il comportamento delle banche, rispetto alla clientela straniera, è cambiato in modo sostanziale. Questa tesi è confermata dal rapporto annuale del Money Laundering Reporting Office. Nel 2017 dal settore finanziario sono venute 4700 segnalazioni (nel 2018 sono più di 6100). Un migliaio di esse concernevano cittadini svizzeri. Un altro migliaio cittadini russi e ucraini. Venivano poi 500 casi di cittadini americani e 400 di cittadini del Medio Oriente. Gli italiani, invece, erano solamente 370. Il 41% delle denunce concerneva la piazza di Zurigo, il 30% quella di Ginevra
e l’11% la piazza bancaria ticinese. Secondo Rossier si può affermare che l’obiettivo del denaro pulito sia stato raggiunto, nel senso che gli istituti bancari denunciano le situazioni in cui potrebbe essere coinvolto del denaro sporco. È però possibile che il perseguimento di questo obiettivo abbia fatto diminuire l’attrattiva delle banche svizzere per la clientela straniera. È vero che le statistiche ci dicono che, nel 2014, i clienti stranieri continuavano a detenere nelle banche svizzere 1’800 miliardi di franchi. E chissà quanti altri erano ancora depositati nelle loro cassette di sicurezza. Tuttavia, dopo il 2009, il settore bancario, per non dire il settore finanziario, del nostro paese ha conosciuto una forte ristrutturazione. Dal 2007 al 2017 l’effettivo delle banche si è ridotto da 330 a 253 e i posti di lavoro nel settore bancario sono diminuiti da 135’000 a 110’000. L’occupazione
nel settore bancario è quindi diminuita più lentamente che l’effettivo delle banche. Anche in Ticino si è rilevata la medesima tendenza. Disponiamo di dati per il 2006 e il 2016 grazie all’annuale rapporto sulla «Piazza finanziaria ticinese» del Centro Studi di Villa Negroni. In questo decennio l’effettivo delle banche si è ridotto da 77 a 45, con una perdita pari quindi al 41,5%, mentre l’occupazione è diminuita da 7538 a 5894 unità, con una perdita del 21,8%, ossia di poco superiore a quella riscontrata per la Svizzera nel decennio 2007-2017. Alla luce di questi dati sembrerebbe che la scomparsa del segreto bancario abbia avuto un’influenza negativa soprattutto sull’evoluzione dei piccoli istituti. Apparentemente questo si deve al fatto che i controlli necessari per assicurare che la banca tratti solo con denaro pulito sono troppo costosi per i piccoli istituti.
per il maschio britannico». Quella di Johnson è un’ossessione. Posta foto prese dal basso per evidenziare la sua virilità, anzi «le tacche sul mio fallocratico fallo». In effetti ha avuto una vita erotica da divo di Hollywood, «anche se sono lontano dall’obiettivo», che sarebbero mille donne. Quattro i figli ufficiali – Lara, Teodoro Apollo, Cassia, Milo –, più quelli nati fuori dai matrimoni (uno solo riconosciuto). Suo fratello Jo Johnson ha abbandonato il partito in polemica con lui. La sorella Rachel, anche lei giornalista, sostiene con affetto che Boris sia tecnicamente quasi matto. Da bambino era sordo. Guarì dopo una serie di operazioni e proclamò: «Da grande farò il re del mondo». Dipinge abbastanza bene, si è anche ritratto in toga tipo greco dell’età di Pericle. Sulla scrivania ha appunto il busto di Pericle, su cui ha appoggiato il proprio casco da ciclista. «La cosa peggiore che ho fatto nella mia vita è stata pedalare sul marciapiede» ha avuto il coraggio di dire. È finito sotto un Tir ma non si è fatto niente. Ha investito sugli sci
un bambino genovese di otto anni ma si è fermato a soccorrerlo. Va spesso a Champoluc, arriva in aereo a Torino e talora perde la pazienza all’autonoleggio. Ha scritto un libro sull’antica Roma dove alterna tesi originali a sciocchezze tipo il paragone tra i martiri cristiani e i kamikaze islamici. Assunto al «Times», è stato licenziato per aver attribuito a uno storico una frase mai pronunciata («ma era mio padrino!»). Si alza alle 5. Non paga le multe. A Baghdad rubò un portasigari dalla reggia di Saddam (poi lo consegnò a Scotland Yard). Aveva detto: «È più facile che trovino Elvis su Marte o che io mi rincarni in un’oliva piuttosto che diventi primo ministro». Johnson partecipa insomma di quella natura istrionica e goliarda che appartiene alla tradizione Tory, a cominciare da Churchill, cui ha dedicato una biografia di discreto successo. Ha anche avuto l’ardire di accostarsi al grande Winston, duro con Hitler come lui con gli euroburocrati, tanto quanto Neville Chamberlain prima e David Cameron poi erano stati arrendevoli. In realtà,
Johnson ha scommesso sulla Brexit proprio per spodestare il suo storico rivale e compagno di scuola; e ha vinto. La spregiudicatezza però a volte gli è fatale, come quando ha esposto a una brutta figura la regina Elisabetta, facendole firmare il decreto per sospendere il Parlamento. È un fan di Berlusconi, andò anche a intervistarlo a Villa Certosa, con il suo amico Nicholas Farrel. Abbigliamento di Johnson: «Giacca beige abbottonata sopra camicia e cravatta, bermuda color kaki, calzini alle ginocchia, sandali. Pareva un esploratore ottocentesco alla ricerca delle sorgenti del Nilo». Berlusconi straparlò, sostenendo che Mussolini mandasse gli oppositori in vacanza. Johnson lo paragonò al Grande Gatsby. Visto da vicino, Boris è arruffato, energico, coinvolgente. Probabilmente inaffidabile. Di sicuro, un leader politico moderno, o meglio postmoderno. Proprio quello che il suo rivale Jeremy Corbyn non è. Anche per questo il Regno Unito ha premiato i conservatori.
medesime, in realtà presentano una sostanziale e importante diversità rispetto alle generazioni passate. Un tempo genitori, nonni e docenti oltre a essere impegnati ad affrontare le dure condizioni della quotidianità, sapevano anche badare che la crescita dei giovani fosse comunque ancorata a principi ovviamente riconducibili alle virtù cardinali della religione (vogliamo ricordarle? Prudenza, giustizia, fortezza, temperanza). Oggi invece a pesare sui giovani è spesso e soprattutto l’assenza e il vuoto di adulti sempre più accidiosi e incapaci di inculcare (non tanto a parole, ma soprattutto con i fatti) valori cardinali sul come orientarsi nella vita. Avrete ormai capito che non sono particolarmente attrezzato per proseguire a lungo questo tipo di discorso. Per questo concludo con questo ultimo importante pensiero: «I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto». Lo ha scritto Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone quasi due secoli fa, quindi senza imma-
ginare che un giorno queste sue parole avrebbero toccato problemi e tormenti dovuti a isolamento e assenza di dialogo creati dalle moderne tecnologie di comunicazione. Proseguendo il mio bighellonare in centro, dalla piazza arrivo a una piazzetta dove alcuni muratori sono alle prese con la costruzione di una fontana. Nulla a che vedere con le agognate fontane illuminate sul lungolago, ma pur sempre qualcosa di rilevante di questi tempi, al punto da meritarsi la solita bega politica. Attorno al cantiere il flusso dei pedoni è incanalato da reticolati con teloni con dati e informazioni che riguardano storia, etimologia e ordinamento del comune. Bell’idea. Passo sul lato opposto della strada e noto l’ennesimo segno dei «mala tempora currunt»: un nuovo (centesimo?) negozio di vestiti ha occupato il pianterreno dello stabile un tempo sede di una banca tornata oltre Gottardo. Resiste invece il ciabattino vicino e mi chiedo se – continuando il declino
congiunturale – un giorno non sarà il «riciclaggio di scarpe» a conquistare anche i locali della ex-banca. Proprio in faccia, uno dei teloni del cantiere presenta dati demografici di Lugano mettendo in fila (vado a spanne: non ho osato farmi vedere a trascrivere le cifre esatte) le 25’000 persone sposate con le 24’000 che invece vivono da «single» per finire con 4000 tra vedovi e vedove! Mi chiedo come mai non si faccia cenno a bambini e giovani, cioè alle «persone» non in età di matrimonio? A casa trovo un ultimo accostamento in un altro Zibaldone, il IV, di Romano Amerio: «La piccola città è la vera struttura sociale in cui l’uomo può esercitare tutte le facoltà di comunicazione con gli altri uomini. Kant lo insegna espressamente. D’altronde quella Atene, da cui uscì la splendida civiltà, era al tempo di Socrate una comunità di cinquantamila cittadini». Insomma, i numeri ci sono. Vien da dire: ancora uno sforzo Lugano! E non solo per calcio e hockey!
In&outlet di Aldo Cazzullo BoJo, leader postmoderno Quindi Alexander Boris de Pfeffel Johnson ha vinto la sua scommessa. Ha puntato tutto sulla Brexit, e ce l’ha fatta. Il suo vantaggio su Jeremy Corbyn è netto, più del previsto. I laburisti arretrano decisamente rispetto al 2017. Londra conferma che la sinistra non può credere di tornare al governo con le ricette del passato: tasse, confische, nazionalizzazioni. Corbyn sapeva di arrivare secondo, ma contava di trovare alleati in Parlamento: i separatisti scozzesi, che chiedevano un nuovo referendum per l’indipendenza; e i liberaldemocratici, che invece avrebbero voluto rivotare sulla Brexit. Tutto troppo complicato. Anche il Regno Unito va a destra. Bisogna ricordare però che Johnson è uno strano conservatore. Diplomato a Eton, laureato a Oxford, contende ai laburisti il voto popolare ed è odiato dalle élites intellettuali. Da ministro degli Esteri fece sventolare la bandiera arcobaleno sulle ambasciate britanniche nel mondo per il Gay Pride. Da premier guida un governo di destra
che come ministra degli Interni ha Priti Patel, figlia di indiani emigrati dall’Uganda, come Cancelliere dello Scacchiere (ministro dell’Economia) Sajid Javid, di origine pachistana, come ministro degli Esteri Dominic Raab, figlio di un ebreo cecoslovacco sfuggito a Hitler e di una brasiliana, e come segretario del partito James Cleverly, figlio di un’ostetrica della Sierra Leone. Boris stesso ha sangue turco – il bisnonno Alì Kemal fu ministro dell’Impero ottomano –, caucasico – la bisnonna era una schiava circassa –, russo, tedesco ed è nato a New York. Guida insomma un governo globale di immigrati di seconda generazione, ma vorrebbe chiudere la Manica agli immigrati del futuro, tranne gli istruiti e gli specializzati. A portare Londra fuori dall’Europa sarà proprio l’ex sindaco di Londra. Cresciuto a Bruxelles, dove il padre Stanley era europarlamentare, e dove lui ha esordito come giornalista, inviando al «Daily Telegraph» articoli sulla curvatura delle banane e sulle misure dei preservativi, «troppo stretti
Zig-Zag di Ovidio Biffi Uno Zibaldone tira l’altro Durante uno dei bei giorni di ottobre ho trascorso un pomeriggio a Lugano a bighellonare, cioè girando in centro in attesa prima di una visita medica e poi del bus. Le molte impressioni memorizzate iniziano da una prolungata, ma discreta osservazione di alcuni adolescenti alle prese con i loro smartphone per chissà quale intrattenimento o ricerca. Guardando quei ragazzi – appostati in un angolo di una piazza frequentatissima, circondati da un via vai continuo di passanti, assorti in «smanettate» e pensieri rotti di tanto in tanto da commenti e risate – la mente è andata all’ondata di critiche che di solito viene rivolta a queste moderne e pandemiche distrazioni elettroniche con cui i giovanissimi si isolano dal mondo circostante. Riflettendo ho però ricordato che in fondo anche noi (quindi persone dell’era pre-digitale, cavernicoli di generazioni prima dei «millennials») cercavamo analoghi momenti di distrazione e di astrazione dal mondo degli adulti in cui vivevamo.
Certo, le nostre evasioni non erano dominate da tecnologie (i «display» erano prati e boschi, «smart» era solo il «fulcin» tascabile) di riflesso le nostre «assenze» non destavano preoccupazioni ai genitori, almeno fintanto che non iniziarono a interrogarsi sulle troppe violenze fra cowboys e indiani o sui troppi cartoni animati, sulla «troppa televisione», cioè sulla tecnologia che avanzava. Ma noi – nati poco prima, o durante, o subito dopo l’ultima guerra – avevamo un grosso privilegio: venivamo da generazioni temprate dalle fatiche dei lavori più duri nel primario, nell’edilizia o in ferrovia, impegnate duramente prima ad affrancare i figli dall’emigrazione e dopo a garantire loro se non proprio comodità e lusso, perlomeno un crescente benessere. È un valore aggiunto che spesso rievoco per sottolineare che i giovani d’oggi devono affrontare un isolamento più duro perché a doppia mandata: anche se indifferenza e assenza degli adulti in apparenza possono sembrare le
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Cultura e Spettacoli Rileggere Bach Per ogni violoncellista che si rispetti, le Sei suites di Bach rappresentano una cosiddetta «pietra di paragone»
Scully e Anderson Le opere di Sean Scully a Villa Panza a Varese; le opere scelte da Anderson e Malouf alla Fondazione Prada di Milano pagina 37
La Tosca alla Scala L’opera di Puccini ha inaugurato la nuova stagione della Scala; un personaggio, quello di Tosca, che ha fatto storia
Il nuovo Fankhauser A colloquio con il musicista svizzero Philipp Fankhauser, autore di un nuovo album
pagine 41 e 45
pagina 35
pagina 49 New York fa da sfondo a molti libri di Isaac Bashevis Singer. (Keystone)
La sinfonia della disperazione
Narrativa È uscito recentemente per Adelphi in anteprima mondiale Il ciarlatano del grande Isaac Bashevis Singer Luigi Forte Hertz Minsker era un uomo inquieto nell’anima e nel corpo. Da anni stava scrivendo un libro e non ne vedeva la fine. Nato in Russia, aveva vagato a lungo fra le capitali europee senza mai orientarsi. Suo padre era il Rabbi di Piltz, noto cabalista, e lui stesso, a sentire l’amico Morris Kalisher, era un erudito, esperto di occultismo e studioso di filosofia. Aveva avuto una corrispondenza con Freud e conosciuto personalità come Bergson, Adler e Buber. Si era lasciato alle spalle alcune mogli e un paio di figli in giro per il mondo, mentre a New York nel 1940 c’era arrivato in compagnia di Bronia, scostante e malinconica, che aveva abbandonato la famiglia a Varsavia. Lui la ricompensava facendo gli occhi dolci a un mucchio di donne, sempre disposto a nuove avventure. Persino con la padrona di casa Bessie Kimmel, che organizzava sedute spiritiche nell’alloggio in cui vivevano tutti e tre. Maldestro, eternamente al verde, con un
talento straordinario per cacciarsi nei guai, Hertz era però un esperto in questioni amorose e sosteneva che ogni uomo aveva una passione primaria, al di là di convenzioni e principi. Ancora una volta il premio Nobel Isaac Bashevis Singer evoca nel suo splendido romanzo Il ciarlatano, edito da Adelphi a cura di Elisabetta Zevi e nell’ottima versione di Elena Löwenthal, un edonista pieno di dubbi come il ghostwriter Hermann Broder in Nemici e prima ancora l’incorreggibile dongiovanni Yasha Mazun, protagonista del romanzo Il mago di Lublino, in bilico, come lo stesso Hertz, fra l’amore per la tradizione ebraica e la costante trasgressione delle regole dei Padri. Per il lettore è un’occasione ghiotta: il libro è infatti in anteprima mondiale, apparso finora solo in yiddish a puntate sul giornale Forverts fra il 1967 e il 1968. Vi si ritrova un’America sgualcita, terra senza illusioni, e una New York che, a sentire quegli esuli ebrei, è troppo grande per essere letta. Metropoli puzzolente che in certi angoli ricorda
Varsavia, dove i profughi scampati al nazismo per sopravvivere si arrabattano come possono tra imbrogli e menzogne. Solo Morris, basso e tarchiato, con una piccola barbetta e il sigaro in bocca, miete successi nel settore immobiliare e si muove negli affari come un pesce nell’acqua. Per lui le strade americane sono lastricate d’oro. Inevitabile quindi che cerchi di convincere il vecchio amico Hertz ad abbandonare i suoi manoscritti e cercarsi un lavoro redditizio. Fiato sprecato perché l’inconcludente rubacuori alle prese con i suoi paradossi filosofici ha già il suo daffare con la seconda moglie dell’amico, Minna, donna appassionata, tracagnotta e dal petto abbondante, che scrive poesie in yiddish e ogni tanto dipinge. Anche lei ha i suoi problemi, soprattutto quando in città arriva da Casablanca l’ex marito Krimsky, uno scroccone professionista, un bugiardo matricolato che sembra uscito dalle pagine del Felix Krull di Thomas Mann. A questo punto la commedia prende il volo e ci porta alle latitudini dei film di
Ernst Lubitsch, tra pathos e ironia, sullo sfondo di un mondo in cui aleggiano fantasmi tragici e grotteschi. Morris ha ormai la certezza che la moglie lo tradisca con quel lestofante di Krimsky, che cerca a più riprese di vendergli dei quadri falsi, e lo confessa a Hertz, salvo poi accorgersi che proprio l’amico è il vero amante. Situazione imbarazzante e difficile che metterà fine a un lungo e intenso rapporto e scatenerà le più varie riflessioni sulla debolezza umana tanto da far dire a Morris in preda alla disperazione: «L’essenza della civiltà consiste nel glorificare l’adulterio». Sconvolto, non gli resta che recitare le Diciotto Benedizioni, pensando che anche dalla generazione più giovane, quella dei suoi figli, non arriverà nulla di buono. «Profanano tutto – borbotta con un senso di tristezza e vergogna –. Gettano la Torah in mezzo al letame». Mentre Hertz, per quanto turbato e in preda a riflessioni su Dio e il mondo, cerca la redenzione in nuove coinvolgenti avventure. Tocca a Miriam, la nuova fiamma più lucida e
distaccata di altre, cogliere la vera sostanza di quell’erudito un po’ cialtrone: «Sei un cinico – gli dice – Per te l’amore è solo un gioco (…) le tue parole sono una cambiale senza garanzie». Nella girandola di flirt e passioni lo stesso Hertz si scopre fragilissimo ed esposto alle più crude disillusioni. E il mondo non sorride all’ebreo che si allontana anche solo di un passo dalla Torah. Singer ha scritto una commedia brillante costellata, come sempre, da riflessioni sulla propria identità. È il gioco corale delle molte, disparate voci di una tradizione che l’orrore di quell’epoca voleva cancellare e che qui riemergono alla ricerca di una redenzione impossibile. Una sinfonia dagli infiniti interrogativi che per un attimo sembra l’assordante vuoto della disperazione. Bibliografia
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Cultura e Spettacoli
Johann Sebastian Bach e le Suites che non muoiono mai CD A 300 anni dalla loro composizione continuano a essere ripensate e registrate
Zeno Gabaglio Un blocco di basalto porfirico nero nerissimo: questa è la pietra di paragone, usata per stimare a occhio la purezza dell’oro e di altri metalli. Per estensione «pietra di paragone» è poi divenuto ogni esercizio che consenta una dinamica di confronto, e se ci dovessimo immaginare di trovarne uno relativo all’ambito del violoncello – per saggiare le specificità di interpreti diversi – la risposta sarebbe una sola: le Sei suites di Johann Sebastian Bach. Sconosciuta l’esatta data della loro composizione, sconosciuta la destinazione originaria, sparite per più di un secolo per essere riscoperte da Pau Casals a inizio ’900, furono rese iconiche da Mstislav Rostropovič sotto il muro di Berlino che crollava. Ancora oggi sono l’opera più completa per violoncello solo e nessuno strumentista vi si può sottrarre, come dimostrano alcune recenti pubblicazioni discografiche. Yo-Yo Ma – Six Evolutions
È da sempre un fenomeno, Yo-Yo Ma, sin da quando cominciò ad affermarsi come bambino-prodigio a New York, dove si era trasferito giovanissimo da Parigi con i genitori, musicisti di origine cinese. Nel corso degli anni e della carriera Ma ha saputo confermare – a differenza di tanti altri enfant prodige – le notevoli doti tecniche e affermare
l’intelligenza di un interprete curioso come pochi. Le Suites di Bach le ha registrate e pubblicate per ben tre volte: nel 1983, nel 1997 (con il visionario progetto Inspired by Bach che comprendeva molte discipline artistiche) e circa un anno fa, con un disco dalle promesse altisonanti intitolato Six Evolutions. Al netto dell’elevata qualità tecnica, quello che però sembra mancare nella nuova interpretazione di Ma è proprio l’evoluzione. E per scoprirlo oggi basta poco, un rapido confronto trasversale nei servizi di streaming: se l’edizione dell’83 era effettivamente un po’ più «pesante» e di gusto postromantico, quella del ’97 è assai simile a quella odierna, decisamente troppo per parlare di «Evolutions».
The Netherlands Bach Society – All of Bach
Mauro Valli – Bach in Bologna
Se nell’interpretazione di Yo-Yo Ma ci sono elementi oggettivamente non più proponibili – e quindi nemmeno accettabili, come la ripetizione identicamente pedissequa dei ritornelli (un dato antistorico ormai risaputo, anche a chi non si fregia di attributi da filologo) – fortunatamente ci sono violoncellisti per cui gli anni non sono passati invano. E tra questi c’è Mauro Valli – strumentista «quasi ticinese», in quanto lungamente docente al nostro Conservatorio e pilastro dei Barocchisti – che ha da poco dato alle stampe il disco Bach in Bologna. Se l’accostamento
Nuove canzoni per la musica svizzera
m4music 2020 Per il 22mo anno la rassegna
dedicata ai musicisti emergenti è alla ricerca di giovani talenti
Un concorso promosso dal Percento culturale Migros.
Pronti con Garage Band? Il Percento culturale di Migros ha lanciato l’edizione 2020 della manifestazione destinata alla promesse della musica pop elvetica. M4music è un concorso musicale ma non solo. Nel corso della manifestazione che avrà luogo a Zurigo il prossimo 20 e 21 marzo si terranno conferenze, clinic e incontri di vario tipo, con l’obiettivo di fornire idee e informazioni di prima mano a tutti coloro che intendono intraprendere un’attività musicale ad alto livello. E del resto sono già numerosi gli artisti e le band che proprio a m4music hanno trovato modo di farsi conoscere. Musicisti come Veronica Fusaro, FlexFab, Wolfman o Steff la Cheffe sono stati scoperti proprio durante la Demotape Clinic. Tra tutti i partecipanti saranno selezionate sessanta canzoni che verranno presentate a Zurigo (lo scorso
dalla Suite n. 1. Poco prima del finale c’è un climax crescente che culmina sulla nota più alta del brano; tutti i violoncellisti per evidenziarla le riservano la dinamica più forte e il massimo pathos. Valli no, poco prima del culmine rallenta e accompagna quella nota apicale con una dolcezza e una delicatezza commoventi. Aria fresca, spirito sublime.
anno i partecipanti complessivi erano stati 864). I concorrenti potranno aggiudicarsi premi messi a disposizione dalla Fondazione SUISA per un valore di 17’000 franchi: in seguito avranno la possibilità di farsi conoscere attraverso trasmissioni radio e saranno invitati in vari festival. Per la prima volta, inoltre, potranno usufruire anche di un programma di coaching organizzato dal Percento culturale Migros. Per iscriversi al concorso seguire le istruzioni contenute nel sito www. m4music.ch/de/demotape-clinic/ anmelden. Il termine d’iscrizione è fissato per domenica 12 gennaio 2020. Nell’attesa, al link https://mx3. ch/p/1201uW è stata pubblicata una compilation che contiene «The Best of Demotape Clinic 2019», uno sguardo «sonoro» sul lavoro dei nuovi giovani musicisti pop svizzeri.
Il violoncellista italiano Mauro Valli.
tra le pagine violoncellistiche di Bach e quelle di Domenico Gabrielli (primo esempio storico del genere) è particolarmente fertile, ci limitiamo qui alle Suites: e tanto basta, perché Valli le ha rese meravigliose al limite dello sbalorditi-
vo. L’impressione è di qualcuno che ti racconta quella storia che hai già sentito cento volte, ma riesce a farlo in modo fresco, vivo, nuovo e coinvolgente. Un esempio su tutti, che riguarda il pezzo più celebre della raccolta: il Preludio
Le nuove tecnologie rendono facilmente fruibili e confrontabili le molte versioni delle Suites di Bach, si è scritto sopra. Le nuove tecnologie rendono però anche possibili edizioni fino a poco fa inimmaginabili, delle Suites: The Netherlands Bach Society è l’ensemble di musica antica più longevo dei Paesi Bassi e, da qualche tempo, è anche un canale youtube (78’500 iscritti!) che ha deciso di affrontare la pubblicazione dell’opera omnia di Bach: All of Bach. Un’operazione colossale e gratuita per l’utente che comporta anche una meravigliosa novità d’approccio. Prendiamo le Sei suites: interpretate da sei musicisti diversi in altrettante suggestive location. Tutte meravigliose, anche se la più incredibile è quella del violinista (sì: violinista!) Sergey Malov che – recuperando una verosimile possibilità storica – suona la Suite n. 6 con un violoncello da spalla. Da lustrarsi occhi e orecchie. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 dicembre 2019 • N. 51
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Cultura e Spettacoli
Tra colore e luce
Mostre/1 Le opere di Sean Scully in mostra a Villa Panza aVarese
Alessia Brughera Chi cercasse il nome di Sean Scully tra gli artisti appartenenti alla raccolta storica del conte Giuseppe Panza di Biumo non ne troverebbe traccia. Un incontro tra i due avvenne nel 1989, quando il grande collezionista milanese, su invito della Caldwell Gallery, si recò a New York in visita allo studio del pittore statunitense di origini irlandesi per visionarne la produzione. Sebbene fosse rimasto affascinato da White Window, un lavoro in cui Scully aveva ampliato lo spazio pittorico attraverso un inserto che alludeva al motivo della finestra come simbolo della connessione tra mondo esteriore e mondo interiore, in quell’occasione non scattò in
Panza la scintilla che tante volte lo aveva spinto, con acume e lungimiranza, ad acquistare l’opera d’arte. Il motivo principale era da ritrovare nell’abbandono da parte di Scully della via minimalista tanto cara al conte: l’artista, difatti, si era avvicinato nei primi anni Settanta alla poetica del Minimalismo, avviando un processo di riduzione formale e cromatica che sarebbe stato fondamentale per il suo intero cammino, ma dopo essere arrivato a «spogliarsi fino al nulla», da quella corrente si era allontanato già nel decennio successivo, virando la sua traiettoria verso un’arte più materica e gestuale, accostabile agli esiti dell’Espressionismo astratto. Eppure tante erano le consonanze
tra i temi e le caratteristiche che Panza ricercava e che Scully sviluppava nei suoi lavori: la luce, prima di tutto, e poi il colore, la geometria e quella vocazione dell’opera d’arte ad aprirsi verso l’infinito che può considerarsi il leitmotiv dei manufatti radunati dal conte così come uno degli aspetti fondanti, ancora adesso, del linguaggio dell’artista americano. In virtù di questa profonda sintonia tra i due, una mostra allestita negli spazi della splendida dimora nel cuore di Varese che il collezionista aveva donato al FAI nel 1996, una quindicina di anni prima di morire, riavvicina oggi Giuseppe Panza e Sean Scully in un percorso in cui la loro sensibilità estetica trova molteplici attinenze,
Sean Scully Looking Outward, 2019. 27 finestre di vetro colorate. (FAI – Villa e Collezione Panza Courtesy Magonza)
esaltate proprio dal luogo stesso che ospita le opere. Nelle stanze della villa dove è collocata in maniera permanente una parte della preziosa raccolta a cui Panza aveva dato vita dagli anni Cinquanta, inseguendo le nuove tendenze europee e d’oltreoceano (alcuni degli autori più noti sono David Simpson, Phil Sims, Dan Flavin, James Turrell e Robert Irwin), ecco dunque che i lavori di Scully innescano dialoghi visivi inediti, all’insegna della luce e del colore. La rassegna dal titolo Long Light riunisce ottanta opere, tra dipinti, sculture, carte, fotografie, installazioni e video, che documentano in maniera esaustiva le tappe principali del cammino dell’artista, dai suoi esordi negli anni Settanta fino ad arrivare agli esiti più recenti, contraddistinti, come si evince dall’itinerario espositivo, dal costante oscillare di Scully tra astrazione e figurazione, nell’intento di trovare una sorta di fecondo connubio tra poli opposti. A inizio mostra spiccano alcuni acrilici su tela facenti parte della serie delle «supergriglie», grandi reticoli formati da linee verticali, orizzontali e diagonali che generano spazi labirintici dal grande dinamismo. Si tratta di opere risalenti agli anni Settanta, quando Scully, da poco approdato negli Stati Uniti, si lascia influenzare non solo dal Minimalismo (di questo periodo è la sua amicizia con Robert Ryman, uno dei maggiori esponenti della corrente), ma anche dalla Optical Art e dalle suggestioni derivate da un viaggio in Marocco. Testimonianza di una nuova fase della ricerca dell’artista sono i dipinti eseguiti a partire dagli anni Ottanta, con l’apertura della sequenza di lavori in mostra affidata all’opera-manifesto Backs and Fronts del 1981, anno del distacco di Scully dall’estetica minimalista e dell’inizio di una rivisitazione
del suo stile attraverso una geometria meno rigida, un colore più vibrante e una gestualità più marcata. Si incontrano così gli oli della serie «passenger», realizzati tra il 1999 e il 2004, definiti dipinti nei dipinti per la loro capacità di accogliere sulla superficie piccoli brani pittorici che paiono aperture su un mondo altro, proprio come accadeva, in nuce, in quell’opera che Panza aveva apprezzato nell’atelier newyorchese di Scully. Troviamo poi un nucleo di lavori su lino e alluminio dal titolo Wall of Light, creato dopo un viaggio in Messico che ha permesso all’artista di meditare in maniera più profonda sulla luce, e, ancora, l’inedita serie Madonna, del 2019, in cui Scully si sposta verso la figurazione, contaminando la pittura con il proprio universo privato e ricordando, nelle tinte così come nell’impianto compositivo, maestri quali Henri Matisse o Emil Nolde. Belli, inoltre, i Landline, ispirati agli anni giovanili trascorsi in Irlanda, in cui tramite fasce di colore orizzontali il pittore interpreta la sua visione del mare, da lui spesso immortalato anche con l’obiettivo fotografico, come rivelano alcuni scatti esposti in mostra. Nel parco, infine, Scully ha concepito un’installazione site specific intitolata Looking Outward, una serie di vetri colorati che trasforma la serra del giardino in un raffinato ambiente di luci e cromie: l’opera è entrata a far parte della collezione permanente della villa, a suggellare con la sua presenza l’affinità emotiva e artistica tra il conte Panza e il pittore americano. Dove e quando
Sean Scully. Long Light. Villa e Collezione Panza, Varese. Fino al 6 gennaio 2020. Orari: tutti i giorni, esclusi i lunedì non festivi, dalle 10.00 alle 18.00.
La Wunderkammer di Malouf e Anderson
Mostre/2 Alla Fondazione Prada di Milano una curiosa mostra allestita dal regista texano Wes Anderson
e da sua moglie, la scrittrice e illustratrice Juman Malouf Ada Cattaneo Da I Tenenbaum in poi, i film di Wes Anderson sono difficilmente classificabili. Più di tutto li caratterizza la creazione, per ciascuno, di un vero e proprio mondo immaginario entro cui la vicenda raccontata possa svolgersi. L’esempio più eclatante è la Repubblica di Zubrowka, un ipotetico paese dell’Europa orientale, dove si trova il Grand Budapest Hotel. Lo stesso procedimento vale per la nave «Belafonte», su cui viaggiano Steve Zissou e la sua squadra di ricercatori oceanografici, o per l’isola giapponese «che non c’è» del più recente Isle of Dogs. È pur vero che un riferimento più o meno sottile a eventi fondati e luoghi esistenti connette questi universi alla nostra realtà, alla storia. Ma è la ricchezza infinita dei dettagli e la cura per ogni più marginale elemento che popola i suoi scenari immaginari a conquistare chi ama questo regista, permettendo allo spettatore di seguire al meglio il più che fantasioso dipanarsi delle vicende. Dato questo approccio su set cinematografico, non sorprende che Anderson abbia voluto procedere in modo analogo anche quando gli è stato proposto di realizzare un progetto in un museo. Questo è avvenuto grazie alla lungimiranza di due istituti gemelli di Vienna – Kunsthistorisches Museum
e Naturhistorisches Museum fondati nel 1891 – dove il regista e la sua compagna, la designer Juman Malouf, sono stati invitati per realizzare una mostra. Un dispositivo ben diverso, quindi, rispetto a un lungometraggio, ma che permette pur sempre di intrattenere il pubblico, di narrare visivamente delle vicende e di evocare un altrove, proprio come avviene al cinema. Così, Anderson e Malouf hanno avuto libero accesso ai depositi dei due musei, selezionando oltre cinquecento tra opere e oggetti d’arte che sono poi stati esposti a Vienna e attualmente sono visibili a Milano. Il titolo della mostra – Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori – prende il nome da quella che è in realtà una scatola in legno del IV secolo a.C. proveniente dall’Egitto, contenente una mummia di toporagno, animale trasformato nel protagonista dell’operazione favolistica, proprio come avviene in alcuni dei film di Anderson, come Fantastic Mr Fox. Nel catalogo, che cita per la sua struttura un ennesimo riferimento alla cultura alta, la Boîte-en-valise di Marcel Duchamp, Anderson scrive: «Pensavamo che sarebbe stato semplice. Credevamo che i nostri gusti e i nostri interessi fossero simili e quasi interscambiabili. Ovviamente, ci sbagliavamo. La mostra, presentata a Vienna e Milano, è il culmine di diversi anni di
paziente e frustante negoziazione, discussioni amare e rabbiose, un confronto in alcuni casi totalmente irrazionale, doppiezza machiavellica e inganno. Ma devo dire che siamo contenti dei risultati». L’operazione racconta molto del mondo del collezionismo, degli infiniti legami che possono essere stabiliti fra le opere e del modo che si sceglie per raccontarle. Anderson e Malouf decidono di riprendere il modello della Wunderkammer («camera delle meraviglie»), una tipologia allestitiva nata nel Rinascimento, ma che non smette mai di affascinare. Sono quindi giustapposti oggetti delle più disparate tipologie, dimenticando le canoniche classificazioni di un’istituzione museale, pur di suscitare lo stupore del proprio pubblico. La scelta di invitare un personaggio famoso a ridare vitalità alle collezioni permanenti di un museo, tramite una selezione di opere scelte dai depositi, non è un modello nuovo: fu probabilmente Andy Warhol a fare per primo un’operazione simile, presso il museo della Rhode Island School of Design nel 1969. L’idea è quella di scegliere una personalità sufficientemente famosa da imporre la propria celebrità all’operazione, attirando quindi un interesse più ampio e diverso rispetto al consueto pubblico dei musei. A Milano l’esposizione Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori è ospitata dal-
Juman Malouf e Wes Anderson, Kunsthistorisches Museum, Vienna. (Rafaela Proell)
la Fondazione Prada che con Anderson ha già familiarità: il bar della Fondazione – Bar Luce – è infatti stato disegnato dal regista texano su modello dei caffè milanesi anni Cinquanta, con tanto di arredi in formica, flipper ispirati alle avventure di Steve Zissou e camerieri in giacca e papillon. Fino al 13 gennaio, al pianterreno dell’edificio realizzato dallo studio OMA di Rem Kohlaas, l’allestimento ricrea un vero e proprio scrigno di teche e vetrine creato per ospitare le opere viennesi. Queste sono di volta in volta organizzate per colore o soggetto, in base a una sottile consonanza di contenuti o semplicemente per un’armonia di forme. Si passa dagli abiti di scena di un dramma di Ibsen
al ritratto di Isabella d’Este dipinto da Rubens, da una raganella conservata in alcol a cammei di epoca augustea. Eppure non si ha mai l’impressione che si tratti di pezzi eterogenei: proprio come in una raccolta riunita da un appassionato collezionista, è lo spirito degli autori a tenere le fila di tutta l’operazione e a conferire alla mostra quella leggerezza data dall’equilibrio fra finzione e realtà, proprio come accade nei migliori film di Anderson. Dove e quando
Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori. Milano, Fondazione Prada (Largo Isarco 2). Fino al 13 gennaio 2020.
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Cultura e Spettacoli
Vite di attori e teatro nel teatro
Teatro Roberto Latini prende spunto da tre capitoli di Pinocchio
Lo spettacolo firmato da Roberto Latini nella passata stagione s’intitolava Il teatro comico, come la commedia-manifesto di Goldoni in cui un capocomico e i suoi attori – impegnati nella messinscena di una farsa – discutono delle novità introdotte in ambito teatrale dal drammaturgo veneziano: cioè del passaggio dalla Commedia dell’Arte alla commedia «di carattere». Per bocca del capocomico Orazio, Goldoni afferma che è tempo di abolire le maschere e i ruoli fissi per lasciare il campo a personaggi realisticamente individuati; di sostituire i canovacci della commedia «a soggetto» con copioni interamente scritti da mandare a memoria; di adottare una recitazione naturale (priva cioè di intonazioni e gesti artificiosi) e concertata con rigore. Asserisce inoltre che è necessaria una trama ben costruita e priva di inverosimiglianze. Del goldoniano Teatro comico non era certo l’esile trama a interessare Roberto Latini (sospetto che non lo interessi davvero nessuna trama, nessuna «storia»). Lo interessavano invece la questione dell’attore e quella del «teatro nel teatro». Intervistato prima dell’andata in scena, l’attore-regista ha detto: «Il livello meta-teatrale che vorrei aggiungere al Teatro comico contiene il meta-teatro venuto dopo, che non possiamo dimenticare e far finta che non sia esistito. […] Quello che mi interessa non è rappresentare un testo di Goldoni, ma fare uno spettacolo attraverso Goldoni». Da ciò l’intellettualistica
operazione di accumulo (di citazioni, rimandi, interpolazioni testuali, visive, musicali), che strizzando continuamente l’occhio agli addetti ai lavori ha trasformato – mi scuso per l’autocitazione – «la limpida, vitale commediamanifesto di Goldoni in un uggioso, sterile pasticcio». Del disinteresse di Latini per le trame ci offre una riprova il suo nuovo spettacolo, Mangiafoco, che prende spunto dai capitoli 10, 11 e 12 del Pinocchio di Collodi. Ricordate? Disertando la scuola, dopo aver acquistato un biglietto coi soldi ricavati dalla vendita dell’abbecedario che Geppetto gli ha comprato privandosi della giacchetta, Pinocchio entra nel teatro dei burattini e viene riconosciuto dai suoi «fratelli di legno», che interrompendo la rappresentazione lo invitano a salire sul palcoscenico, dove festosamente lo abbracciano, provocando la reazione infastidita del pubblico e l’intervento del burattinaio, Mangiafoco, il quale, finita la recita, minaccia di gettare Pinocchio sui ciocchi che ardono sotto la sua futura cena: un montone allo spiedo. Il teatro comico di Latini conteneva alcuni elementi riconducibili ai tre capitoli del romanzo di Collodi: ad esempio la figura di Pulcinella (inesistente nella commedia di Goldoni) o il manichino da crash test, posto a lato del palcoscenico, che aveva le fattezze di Pinocchio: segno che elaborando Il teatro comico l’attore-regista romano già pensava a Mangiafoco, al centro del quale ritroviamo l’interesse qua-
si esclusivo per la figura dell’attore e il «teatro nel teatro». All’inizio dello spettacolo (lo hanno prodotto il Piccolo di Milano, la compagnia LombardiTiezzi, la Fondazione Matera Basilicata 20019), ecco fuoriuscire da un sipario fatto di lunghe strisce verticali di carta bianca (scenografia di Marco Rossi, costumi di Gianluca Sbicca) un grande scivolo lungo il quale gli attori entrano in scena come in un gioco fanciullesco. Le circostanze e i motivi per cui sono arrivati alla determinazione pinocchiesca di lasciare i percorsi «regolari» del mondo immaginabile al di là del sipario di carta per entrare nel mondo del teatro, Elena Bucci, Roberto Latini, Marco Manchisi, Savino Paparella, Stella Piccioni, Marco Sgrosso e Marco Vergani ce li dicono producendosi uno dopo l’altro, davanti a un microfono e al centro di un cerchio luminoso, in sette performance a mezza strada tra l’audizione teatrale e il numero di cabaret, sotto lo sguardo di due misteriose figure con una grossa testa da Mickey Mouse, che sono forse l’esigua rappresentanza di un pubblico più vasto. Mangiafoco ha una struttura molto semplice: persino troppo, direi. E i monologhi autobiografici degli attori – presentati in successione quasi meccanica – sono più o meno godibili ma non memorabili. Negli intervalli, poi, tra un monologo e l’altro, ecco i rimandi e le citazioni (anche se in quantità meno cospicua che nel Teatro comico): a cominciare dalle succitate figure con testa da Mickey Mouse (imparentate coi
Un momento dello spettacolo. (Masiar Pasquali)
personaggi surreali di certi quadri di Savinio, con gli uomini e le donne dalla testa di coccodrillo presenti in alcuni spettacoli della compagnia LombardiTiezzi, forse anche coi conigli umanizzati di Inland Empire, l’ipercriptico film di David Lynch) sino alle immagini finali del fuoco e dei blocchi di ghiaccio da cui sporge un naso pinocchiesco, che per il comune spettatore sono
quasi certamente indecifrabili, mentre agli addetti ai lavori e agli appassionati di teatro è probabile che ricordino con forza soverchiante l’Hamletas di Nekrosius. Dove e quando
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Aggiornamento: 01/2019
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Cultura e Spettacoli
L’anno di Tosca
Opera Qualche riflessione intorno all’opera di Puccini in occasione della recente apertura
della Stagione 2019/2020 del Teatro alla Scala di Milano
Giovanni Gavazzeni La Tosca, il personaggio immaginato dal drammaturgo francese Victorien Sardou per la pièce da cui è tratto il capolavoro di Giacomo Puccini è una cantante famosa, scoperta, nella finzione drammaturgica, nientemeno che dal celebre compositore Domenico Cimarosa. È una donna molto religiosa, dedita con passione totale al suo lavoro. Il suo tallone d’Achille è l’estrema gelosia, che comprometterà la vita di un fuggiasco, Cesare Angelotti, nascosto dal suo amante, il pittore di simpatie liberali, Mario Cavaradossi. È capace di lottare contro il suo torturatore, il capo della polizia del Papa Re, Barone Vitellio Scarpia, fino ad ucciderlo, pur di salvare il suo amante. Quando capisce che la fucilazione di Mario non è simulata e l’omicidio è stato scoperto, si getta disperata da Castel Sant’Angelo. Un personaggio teatrale unico per intensità e sfaccettature, il cui reperimento fu la prima preoccupazione dell’Autore. Giacomo Puccini, che, in una comunicazione al barone Angelo Eisner, suo amico e agente nella vita culturale viennese, sperando (invano) che Mahler presentasse Tosca all’Opera imperiale di Vienna, indicò: «Tosca è opera che richiede una donna molto drammatica». Puccini metteva il dito nel punto più delicato per realizzare la sua nuova opera: la scelta della protagonista. «Drammaticità» significava
non solo tessitura della voce, ma capacità di entrare in quel personaggio pieno di contrasti, e così umano. Per il battesimo assoluto al Teatro Costanzi di Roma, la città dove si svolge l’azione dell’opera, Puccini e il suo editore Giulio Ricordi scelsero il soprano romeno Hariclea Darclée (nome d’arte di Harcly Hartulary). La Darclée entrò subito nella parte della Diva. Ricordi che trattava con la Scala per il battesimo a Milano, aveva indicato la Darclèe come protagonista. Riferì a Puccini che La Darclée «ebbe la tolla di chiedere LIRE QUATTROMILA!!!! per sera!!! Questo è il bel regalo che fa a Lei, per averle fatto un onore troppo grande, col preferirla». Sulla parte di Tosca, le grandi soprano del tempo, a partire da Emma Carelli, diventata poi altrettanto celebre come impresaria di ferro del Costanzi, si buttarono in picchiata. Erano cantanti che quando avevano esaurito le risorse vocali, facevano ricorso a lacrime, pianti, urli, a tutto un repertorio «a strappacore» che contribuì non poco a diffondere il pregiudizio che Tosca fosse un’opera di «effettacci», mentre erano solo i malvezzi dei cantanti che fraintendevano le indicazioni dell’Autore. Perfino una voce di straordinaria bellezza, come quella di Renata Tebaldi, indulgeva in uno di quegli «effetti». Un neo se rapportato a un’interpretazione giustamente rimasta negli annali. Nella scena cruciale del secon-
grande Renata aveva imparato così – di pronunciarlo «parlato», con effetto filodrammatico deplorevole. Durante le prove della sua storica rentrée alla Scala nel 1958, alla fine del regno della rivale Maria Callas (eccezionale Tosca, le cui capacità di grande attrice si sentono sia in disco che nel video con la regia di Franco Zeffirelli, quando era arrivato al tramonto del suo cammino artistico), la Tebaldi fu convinta a mutare d’avviso. Cantò come Puccini aveva scritto le ultime parole del secondo atto. L’indomani, ricevette un telegramma dall’insigne critico musicale Teodoro Celli: «Grazie per avanti a lui tremava tutta Roma, sulla nota». Anna Netrebko, la Tosca che ha aperto la stagione 2019-20 della Scala, non ha nulla da invidiare per bellezza e colore vocale alle leggendarie Tosche, fra le quali non si dovrebbe dimenticare la francese Regine Crepin. Senza dubbio il critico musicale non sarà costretto a omettere il giudizio sulla sua prova come capitato in passato a un collega che scrisse che la protagonista prima di passare a soprano pare cantasse da mezzo-soprano. «Aspettiamo a parlarne quando canterà da basso».
Maria Callas e Renato Cionni nella versione della Tosca del 1964. (Keystone)
do atto, quando, sollevato il braccio di Scarpia, Tosca sfila dal petto del cadavere il salvacondotto che significa libertà per il suo Mario, esclama
il famoso E avanti a lui tremava tutta Roma! Puccini scrive quel «declamato» sulla stessa nota (un do diesis centrale). Era però uso – e anche la
Nota
Per la recensione della Tosca che ha inaugurato la Stagione del Teatro alla Scala, v. anche Sabrina Faller a pag. 45. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
Gli eroi della pasta
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Pie di filetto di maiale e champignon
Testo: Dinah Leuenberger Foto: MGB Fotostudio
Ingredienti per 6 persone, per 1 stampo di 28 cm Ø a bordo alto 1 filetto di maiale di ca. 550 g 1 cipolla 3 spicchi d’aglio 6 cucchiai d’olio d’oliva 250 g di champignon già affettati 2 cucchiaini di spezie per panpepato di panna 2,5 dl 1 mazzetto di prezzemolo sale pepe burro da spalmare 2 sfoglie rotonde di pasta per crostate al burro già spianata da 300 g uovo 1 Preparazione 1. Dimezzate il filetto di maiale per il lungo poi tagliatelo a pezzetti di 3 cm. Tritate la cipolla e l’aglio. Scaldate la metà dell’olio in un tegame e rosolatevi la carne a fuoco forte per ca. 1 minuto. Toglietela dalla padella e mettetela da parte. Nella stessa padella fate soffriggere nell’olio restante la cipolla, l’aglio e i funghi. Insaporite con le spezie per panpepato e mescolate. Aggiungete la panna e lasciate ridurre per ca. 5 minuti. Tritate il prezzemolo, unitelo e condite con sale e pepe. Lasciate raffreddare. Scaldate il forno a 200 °C. Petra Hinz (61) casalinga, mamma e nonna Leibstadt
Per i lettori di Azione Petra ha preparato una Pie con filetto di maiale e funghi con la pasta per crostate: «Grazie alle indicazioni precise della ricetta è stato facile e senza stress preparare la pie. È un piatto ideale per quando si hanno ospiti: appena arrivano, devo solo infornare. La pasta si gonfia bene e la superficie rimane bella croccante – proprio come dovrebbe essere. Il risultato impressiona sia otticamente che per quanto riguardo il gusto. Come accompagnamento porto in tavola un’insalata verde».
Zubereitung Preparazione ca. 30 minuti Competente Geübte Geübte Geübte +ca. ca. Minuten gratinieren ca. 30 gratinatura ++ 30 Minuten +30 ca. 30minuti Minutengratinieren gratinieren Preis: mittel Preis: mittel Prezzo: medio Preis: mittel Pro Stück ca. 4 g Eiweiss, 11 g Fett,
ProStück Stück ca.44ca. Eiweiss, 11 ggFett, Per persona 301350 g proteine, Pro ca. ggEiweiss, 11320 Fett, 49 g Kohlenhydrate, kJ/ kcal 49 ggKohlenhydrate, 1350 kJ/320 kcal 53 grassi,45 g carboidrati, 49 g Kohlenhydrate, 1350 kJ/320 kcal 3250 kJ/790 kcal
Foto: Fotostudio-MGB, Styling: Esther Egli
Suggerimento Decorare a piacere la copertura della pie con del pepe rosa.
2. Imburrate lo stampo, accomodatevi una sfoglia e alzate il bordo della pasta. Distribuite i pezzetti di carne con la salsa sulla sfoglia. Prendete l’altra sfoglia di pasta e ritagliate al centro un foro poi coprite la farcia. Sigillate bene i bordi con i rebbi di una forchetta o con le dita. Sbattete un uovo e spennellate il coperchio di pasta. Cuocete la torta al centro del forno per ca. 30 minuti. Servite nello stampo.
Pasta sfoglia al burro 280 g Fr. 3.40
Pasta per crostate 300 g Fr. 2.95
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Vellutata di zucca con copertura di pasta sfoglia Ingredienti per 6 persone di zucca, ad es. Hokkaido 400 g pesata mondata 1 scalogno 2 cucchiai d’olio d’oliva 5 dl di brodo di verdura ½ mazzetto di timo 1 bustina di zafferano 1,5 dl di panna semigrassa sale pepe 1 pasta sfoglia al burro rettangolare già spianata di 280 g 1 uovo 1 cucchiaio di semi di zucca Preparazione 1. Per la vellutata, tagliate la zucca a pezzetti. Tritate lo scalogno. Scaldate l’olio in una padella e fatevi appassire lo scalogno e la zucca. Bagnate con il brodo, unite il timo e lo zafferano e lasciate sobbollire per ca. 25 minuti con il coperchio. Eliminate il timo, aggiungete la panna, fate spiccare il bollore e poi frullate. Condite con sale e pepe. Lasciate intiepidire la vellutata. 2. Srotolate la pasta sfoglia e ritagliate dei dischi, leggermente più grandi del diametro delle tazze in cui servirete la vellutata. Versate la vellutata nelle tazze e coprite con il disco di pasta sfoglia. Con una forchetta schiacciate la pasta sul bordo della tazza. Con gli avanzi di sfoglia ritagliate delle piccole stelle e accomodatele sulle coperture di sfoglia. Sbattete l’uovo e spennellate i coperchi di pasta. Cospargete con i semi di zucca. Cuocete al centro del forno per ca. 20 minuti, poi servite subito. Zubereitung Preparazione ca. 30 minuti Competente Geübte Geübte Geübte + ca. 30 Minuten gratinieren + ca. 20 minuti gratinatura + ca. 30 Minuten gratinieren + ca. 30 Minuten gratinieren Preis: mittel Preis: mittel Prezzo: medio Preis: mittel Pro Stück ca. 4 g Eiweiss, 11 g Fett,
Pro Stück ca.44gca. gEiweiss, Eiweiss, 11 gg Fett, Fett, Per Persona 5 g1350 proteine, Pro Stück ca. 11 49 g Kohlenhydrate, kJ/320 kcal 49 ggKohlenhydrate, 1350 kJ/320 kcal grassi, 25 g carboidrati, 4920 g Kohlenhydrate, 1350 kJ/320 kcal 1300 kJ/310 kcal
Oliver Hinz ha preparato una zuppa con tanto di copertura di sfoglia al burro: «Se voglio impressionare gli ospiti, preparo questa zuppa con il “coperchio”. Sono pochi coloro che si sono visti servire una pietanza simile. La pasta deve essere tolta dal frigorifero solo poco prima della preparazione – in modo
da poterla lavorare bene. Per una nota personale decoro il coperchio con un cuoricino o delle letterine. Anche il gusto mi convince pienamente, nella pasta si sente bene il burro. La ricetta riesce sempre e si prepara velocemente. Ecco perché prima ci si può anche concedere una gita in bicicletta sull’Uetliberg».
Oliver Hinz (40) imprenditore Schlieren
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Idee e acquisti per la settimana
Rose di pasta sfoglia alla mela Ingredienti per 5 pezzi, per 1 stampo per muffin da 12 di 7 cm Ø burro per lo stampo 1 limone 2 mele rosse, ad es. Pink Lady 1 pasta sfoglia al burro rettangolare già spianata 3 cucchiai di confettura di rosa canina 1 cucchiaino di cannella 2 cucchiai di zucchero 2 cucchiai di zucchero a velo Preparazione 1. Imburrate gli stampi. Spremete il limone e versate il succo in una padella. Eliminate i torsoli delle mele con un levatorsoli, tagliate le mele prima a metà senza sbucciarle poi a fettine sottili e mettetele in padella con il succo di limone. Fate sobbollire brevemente le mele, finché si ammorbidiscono un poco. Lasciate raffreddare. 2. Scaldate il forno a 190 °C. Srotolate la pasta sfoglia e tagliatela per il lungo in 5 strisce orizzontali della stessa larghezza. Mescolate la confettura con la cannella e spennellatela sulle strisce di pasta. Disponete le fette di mela per il lungo sulla metà superiore della pasta sovrapponendole leggermente e in modo che il dorso con la buccia delle fette di mela sporga leggermente dal bordo superiore delle strisce di pasta. Ripiegate la parte inferiore delle strisce di pasta sulle mele alla stessa altezza di quella sottostante, poi cospargete di zucchero. Arrotolate le strisce di pasta in modo da formare delle rose e distribuitele nello stampo. Cuocete al centro del forno per circa 30 minuti. Sfornate le rose, sformatele e spolverizzatele con lo zucchero a velo. Zubereitung Preparazione ca. 20 minuti Competente + ca. 20 minuti gratinatura + ca. 30 Minuten gratinieren Preis: mittel Prezzo: medio
Per pezzo ca. 4 g proteine, 11 g grassi, 49 g carboidrati, 1350 kJ/320 kcal
Olivia Meier (36) custode Koblenz
Olivia Meier ci sorprende con delle rose di sfoglia alla mela: «Mi piace provare nuove ricette e prendere per la gola la mia famiglia. Dal momento che vorrei innanzitutto passare del tempo con i miei figli, preferisco delle ricette veloci da preparare ma di grande effetto. Proprio come le rose di sfoglia alla mela. Inizialmente potrebbero essere complicate da fare, ma in verità sono semplicissime e si cucinano in poco tempo. Visto che la pasta sfoglia di Anna’s Best è talmente facile da lavorare, mi piace sperimentare sempre cose nuove. Quando ci sono degli ospiti, preferisco preparare le rose. Una salsa alla vaniglia o del gelato sono perfetti come accompagnamento».
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Cultura e Spettacoli
Tosca tra bellezza e potere
Opera La prima volta dell’opera pucciniana in apertura di Stagione al Teatro alla Scala Sabrina Faller Questa volta il Teatro alla Scala ha puntato sul sicuro: tre grandi interpreti tra cui una diva amatissima, un regista apprezzato già lo scorso anno, comprimari di provata professionalità e uno Chailly «innamorato» delle partiture pucciniane al punto di proporci sempre qualcosa di speciale, in tal caso la Tosca della «prima» al Teatro Costanzi di Roma il 14 gennaio 1900, leggermente diversa da quella ufficialmente approvata dal compositore. Anche il sovrintendente Pereira – che mentre scrivo è in partenza per Firenze, dove andrà a dirigere il Teatro del Maggio Musicale – voleva lasciare alla Scala il ricordo di un trionfo, e c’è riuscito. Un Teatro che mostra al mondo tutte le sue capacità creative e tecniche, un Paese che mostra al mondo quella «grande bellezza» troppo spesso imbrattata, troppo spesso nascosta, tutto quello che si è visto la sera del 7 dicembre, in teatro o nei cinema o alla tivù, è merito anche suo. Dunque, una Tosca sontuosa, monumentale e in movimento, con scene o pezzi di scena che salgono e scendono, particolari amplificati come l’enorme ostensorio del secondo atto, dipinti che si animano, e a renderla contemporanea un rapporto con il cinema che a Puccini non sarebbe dispiaciuto, dall’arrivo in fuga di Angelotti fuori dalla chiesa di S. Andrea della Valle, al suicidio di Tosca che si getta nel vuoto da Castel S. Angelo e viene «inquadrata» dall’alto nel finale.
Accanto a questo aspetto molto evidente, e molto evidenziato dalla critica, ne esiste un altro forse meno rilevato, ed è il fatto che Livermore delinea un suo ritratto della protagonista. Il finale del secondo atto si dilata nella lunga scena della morte di Scarpia, a metà fra Hitchcock e Tarantino, ma è rimasto sorpreso chi si aspettava la pantomima codificata e lasciata in eredità da Sarah Bernhardt (per la quale il ruolo di Tosca fu elaborato da Victorien Sardou) alle dive della lirica, che vedeva l’eroina lavarsi il sangue dalle dita con la bottiglia dell’acqua, strappare il salvacondotto dalle mani rattrappite di Scarpia, piazzargli le candele ai due lati della testa e sul petto il crocifisso staccato dalla parete, per poi andarsene. Nella regia di Livermore a ricordare quel momento restano solo due ceri inutilizzati. La sua Tosca quasi sprofonda nell’enormità del gesto appena compiuto e invece di avvicinarsi al cadavere di Scarpia, si allontana da lui e si rivede in procinto di compierlo, attraverso la presenza di una controfigura che ritroveremo nel finale. Sono due Tosche ben diverse quella di Sardou-Puccini e quella di Livermore: la prima è determinata, sicura e fiera (e avanti a lui tremava tutta Roma…!) del suo delitto, la seconda ne resta quasi traumatizzata e forse intravede già il fantasma della propria morte. Il terzo atto sovrastato da un’enorme ala d’angelo grigia sullo sfondo di nuvole cineree sembra trasportarci nel cielo di Wim Wenders più che nella seducente alba romana. Le scene,
Luca Salsi e Anna Netrebko. (Brescia/Amisano, Teatro alla Scala)
evocanti una monumentalità ronconiana meno inquieta, sono di Giò Forma, i costumi non troppo felici, li firma Gianluca Falaschi. Anna Netrebko, la magnifica diva, la grande interprete che i piccoli errori rendono più umana, non ruba la scena ai co-protagonisti Francesco Meli (Cavaradossi) e Luca Salsi (Scarpia), il primo ben compreso nel suo ruolo di pittore romantico, il secondo attento a costruire uno Scarpia tutto brutalità e niente raffinatezza, che nel tempo potrebbe crescere in complessità. Certo anche altre scene, altre Tosche rimanda la memoria. E la scomparsa recente di un regista innovatore quale fu Jonathan Miller non
può non evocare il ricordo di una Tosca indimenticabile, realizzata a Firenze nel 1986, che trasferiva la vicenda nella Roma del 1944 tra nazifascisti e partigiani, inaugurando nella patria del melodramma il dibattito fra sostenitori del nuovo teatro di regia e regia tradizionale. Miller attuò questo trasferimento di tempo storico perché il pubblico si identificasse maggiormente nella vicenda, perché Tosca è prima di tutto una critica al potere e alle sue derive, la dittatura, la tortura, in ogni tempo e in ogni luogo. È questo il senso profondo dell’opera, che nella regia di Davide Livermore appare un po’ offuscato dal gusto per gli effetti speciali.
E tuttavia la regia di Livermore mette d’accordo tutti, tradizionalisti e innovatori moderati, tanto più che in Italia di innovatori spinti non ne esistono. Lo fa con intelligenza, professionalità e cultura, utilizzando moduli di una cifra personale, che mette in rilievo la teatralità dell’opera ed esalta al massimo grado le opportunità offerte dalla moderna tecnologia, con un occhio particolarmente attento al pubblico televisivo e cinematografico. Dove e quando
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Idee e acquisti per la settimana
Le avventure di Mimi
Succede sempre qualcosa quando si ha a che fare con la piccola civetta. Durante la sua ultima avventura, grazie a una grande candela salva la volpe Edi, caduta nella cavità del tronco di un albero. Chi fa volentieri lavoretti manuali, fino al 24 dicembre acquistando alla Migros può raccogliere i bollini. Ogni cartolina completa può essere scambiata con un box bricolage
«L
a cavità di questo tronco è enorme!» esclama entusiasta la piccola civetta Mimi mentre, seduta su un ramo con la volpe Edi, osserva da un’apertura l’interno dell’albero. «Quanto pensi che sia profondo?» chiede Edi. «Non ne ho idea. Ma l’albero è davvero grande e piuttosto vecchio. Magari tutto il tronco è vuoto» risponde Mimi. Entrambi sono molto felici di avere l’opportunità di esplorare il tronco cavo. Ma oggi non hanno più tempo per farlo. Mimi ha promesso a suo padre che lo avrebbe aiutato con gli addobbi di Natale. E anche Edi dovrebbe tornare a casa presto. Mentre Mimi sta già volando verso casa, Edi è ancora in preda all’indecisione. La curiosità e l’impazienza hanno la meglio: non vuole aspettare un altro giorno per esplorare il tronco cavo. «Si deve pur vedere qualcosa» dice piano tra sé e sé, infilando di nuovo il capo attraverso l’apertura del tronco. Sventatamente, si sporge ancora un po’ in avanti. Proprio quando si accorge che il tronco è davvero completamente vuoto, perde l’equilibrio, precipitando all’interno dell’albero con un sonoro «Oh no!». Sarebbe potuta andare proprio male. Ma per fortuna, fatta eccezione per un paio di sbucciature, non è successo niente. Ma ora non riesce più a uscire dal tronco cavo. L’apertura in alto è troppo lontana, e giù in basso c’è troppo buio. Quindi Edi si mette a fare quel che farebbero tutti. «Aiuto! Aiuuuuto!» urla. Ininterrottamente.
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Quando i suoi amici Evi, lo scoiattolo, e Lou, la lepre, passano vicino al vecchio albero, riconoscono subito la sua voce. «Sembra proprio Edi!» «Hai ragione» risponde Lou, e si mette a chiamare: «Edi, sei tu? Dove sei?» «Sono qui nell’albero» grida Edi, spiegando la disavventura ai suoi amici. Come un fulmine, Evi lo scoiattolo si arrampica sul ramo con l’apertura. «Però!» dice Evi. «È davvero buio qui. Ci serve sicuramente una fune, e anche una candela non sarebbe male.» Lou la lepre corre velocemente a procurarsi una fune e una candela. E sa esattamente chi potrebbe averli: la piccola civetta Mimi. Una volta arrivata da Mimi, Lou le racconta l’accaduto. «Oh no! Mi dispiace per Edi. Per fortuna non è successo niente di più grave» dice Mimi. «La fune non è un problema. Ne ho una qui. Ma la candela... qui trovo solo vecchi residui di cera di candela.» Poi a Mimi viene un’idea. «Ecco, ora so cosa fare!! Sciogliamo i residui di cera e facciamo una candela nuova, bella grande. La candela è presto fatta e brillerà per tutto il tempo necessario a tirare Edi fuori dal tronco.» In poco tempo Mimi e Lou realizzano la candela, utilizzando i vecchi residui di cera, un filo di cotone e un cartone del latte.
Ottenerli è semplice
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Come realizzare una candela
La volpe Edi cade nella cavità di un tronco e la piccola civetta Mimi, la lepre Lou e lo scoiattolo Evi fanno scattare la missione di salvataggio. Per metterla in atto hanno bisogno di una corda e di una candela. La corda ce l’hanno già, ma la candela se la devono prima fare da sé. Con dei vecchi resti di candela, uno stoppino, delle forbici, un tetrapack e un pentolino, la candela è fatta.
Costume da civetta – il suggestivo travestimento
Cannocchiale – il set per emozionanti esplorazioni
1 Raccogli dei vecchi resti di candela e ripuliscili da polvere e sporcizia. Puoi farlo con un cucchiaio o con un pelapatate.
2 Prendi quindi un tetrapack vuoto, lavalo e taglialo in due a mezza altezza con le forbici.
3 Ora metti i resti di candela nel pentolino e falli sciogliere sul fornello.
Ora prendi lo stoppino. Attacca a un suo capo qualcosa che lo appesantisca. Puoi fissare lo stoppino con una bacchetta e con una molletta da bucato. Dopodiché aspetta che la cera si raffreddi e la candela si indurisca. A quel punto potrai aprire il tetrapack ed estrarre la candela bell’e pronta.
Civettaplano – l’avventuroso compagno di volo
4 Versa la cera fusa nella metà inferiore del tetrapack. Attenzione! La cera è bollente. Per questa operazione fatti aiutare da una persona adulta.
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Cultura e Spettacoli
Con Philipp Fankhauser il soul scorre come la vita
Incontri A colloquio con il bluesman svizzero in occasione dell’uscita di Let Life Flow, suo sedicesimo album
Fabrizio Coli Rilassato, elegante e pieno di anima, Let Life Flow è il nuovo album di Philipp Fankhauser appena uscito per Sony Music Suisse. È il sedicesimo lavoro del bluesman svizzero e stilisticamente è la naturale continuazione del precedente I’ll Be Around (2017). «Quando finisco un disco ne sono contento al 75%. I’ll Be Around invece – racconta l’artista – ha sorpassato tutte le aspettative. Così, al momento di fare un altro disco ero un po’ stressato perché non ero sicuro di riuscire a realizzare qualcosa all’altezza». La svolta è arrivata per caso, grazie a un blasonato collega. «Quando ho sentito Kenny Neal a Montreux lo scorso anno è stata veramente una rivelazione. Ho capito che la sua canzone Let Life Flow sarebbe stata la base del nuovo album. Da lì poi le altre cose sono cadute al loro posto in modo naturale. Insomma, ne siamo contentissimi». Fiati, coriste, le tessiture sognanti della steel guitar e quelle calde dell’Hammond e del piano Rhodes: Fankhauser, con la sua voce profonda e appassionata è al centro di tutto, perfettamente a suo agio in blues ballad come You’ve Got to Hurt Before You Heal o Here in My Arms e nei momenti più vivaci come Cold Cold Winter o Stone Cold & Blue, che il musicista impreziosisce con la sua chitarra, raffinata
ed essenziale. Si respira soul nei brani di Let Life Flow, un album che arriva a trent’anni esatti dal debutto discografico con Blues for The Ladies. «Dai miei esordi è cambiato quasi tutto – riflette Philipp –. Nel 1989 i brani erano molto tradizionali. La base è sempre blues e io rimango un cantante di blues, ma oggi ci siamo distanziati dal blues nero tradizionale e abbiamo aggiunto del soul… Sono cose che ho cominciato a sviluppare nel 1995 con l’album On Broadway. Poi, la mia voce è cambiata moltissimo. E per fortuna!». La sorpresa arriva con due brani che non ci si aspetterebbe ma che suonano perfettamente naturali. Chasch Mers Gloube del compositore bernese Hanery Amman è cantato in Bärndütsch. «Ci siamo conosciuti tanti anni fa quando facevo l’autostop per andare al Festival di Montreux – racconta Philipp –. Io non avevo idea che il tizio che mi aveva preso su fosse un musicista di Polo Hofer, ma abbiamo iniziato a parlare di musica e da lì è cominciata la nostra amicizia». E poi c’è Milano di Lucio Dalla, in una versione che non dispiacerebbe a Paolo Conte. «Dai dieci ai vent’anni, io sono cresciuto in Ticino. Qui ho scoperto cantautori italiani favolosi come Battisti, Dalla o Zero». «In realtà volevo registrare L’anno che verrà, che per me è la canzone migliore di Dalla. Ma è molto difficile a cantarsi e così ho scelto il mio
Il musicista bernese Fankhauser. (Adrian Ehrbar)
secondo brano preferito, Milano, che è un po’ più facile. Ero preoccupato per il mio italiano, visto che ormai sono da trent’anni lontano dal Ticino. Allora parlavo dialetto ma oggi l’accento “zuchino” lo senti! Ho mandato le prove di registrazione al mio vecchio maestro nel Locarnese e lui mi ha detto che l’italiano andava… abbastanza bene. Così ho preso coraggio, l’abbiamo registrata e messa sull’album. Spero che
in Italia e in Ticino non mi odino per questo!». Da noi Fankhauser torna spesso a suonare. Quest’estate il suo concerto a Vallemaggia Magic Blues è stato un successo e, ci racconta, «da trent’anni ho il sogno di suonare a Estival». Della sua giovinezza ticinese ha ricordi felici. «Ho avuto molti amici. Mi sono integrato molto bene, il mio nome è cambiato da Philipp a Pippo, ero un ticine-
se! E alla fine degli anni Settanta ci sono state anche Le Stelle (lo storico locale di Ascona, nda) dove mi facevano entrare perché sembravo molto maturo. È stato un periodo bellissimo. È in Ticino che a 12 anni ho deciso che sarei stato un cantante di blues». Forse in pochi allora avrebbero scommesso che un ragazzo, oggi 55enne, originario di Trub, nell’Emmental profondo, sarebbe diventato il bluesman elvetico più conosciuto. «Per diversi anni – ci spiega – sono stato in America. Mi aveva invitato Johnny Copeland: “Come to The Real World”, mi diceva. Finché sono stato in tour con lui le cose sono andate benissimo. Quando però è morto nel 1997 tutto è cambiato. Ai bianchi non interessavo. I neri mi vedevano come qualcosa di esotico, il tipo che viene dal posto dove fanno il formaggio con i buchi e canta il blues. Così, le mie speranze di una carriera di bluesman in America non si sono realizzate. Ma ho imparato lo stesso moltissimo, su di me e sul blues. Alla fine sono riuscito a creare la mia personalità, senza l’illusione di essere nero, di essere americano. Tornato in Svizzera sapevo di essere Fankhauser da Trub nell’Emmental e facevo la mia cosa. È stata una lezione incredibile». E già, la vita è proprio imprevedibile. E come dice la canzone che dà il titolo al nuovo album, allora lasciala scorrere. In fondo è l’unica cosa da fare. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Animali da palestra Il Torinese in palestra. Per un vero torinese, qualsiasi attività, soprattutto se presenta dei lati piacevoli, per acquisire dignità e diritto di cittadinanza, deve avere il carattere di un lavoro. La palestra perciò è vista, nell’immaginario torinese, come un’officina: uno che sta facendo ginnastica «lavora», si dice che quel certo esercizio fa bene perché «fa lavorare» il muscolo. L’istruttore in palestra è una figura corrispondente al capo squadra in officina che fornisce la tabella di produzione e nel passaggio successivo diventa il cronometrista addetto alla rilevazione dei tempi e dei metodi per calcolare la quota del cottimo nella retribuzione. Di conseguenza se l’istruttore si avvicina all’attrezzo, il ginnasta torinese rallenta il ritmo e simula un grande sforzo perché se sollevasse i pesi con eccessiva disinvoltura e con troppa frequenza, gli verrebbe aumentato il carico, altrimenti il muscolo non «lavorerebbe» abbastanza. Infine, proprio come in officina,
in palestra c’è la sotterranea e spietata guerra dell’armadietto; quando un nuovo arrivato usurpa, senza rendersene conto, un armadietto che è appannaggio di uno dei vecchi frequentatori che se lo è conquistato dopo una dura lotta e progressivi avvicinamenti, è tutta una gara di occhiate torve, dispetti, frasi sibilline, finché il neofita intuisce che qualcosa non va nel suo comportamento e fa retromarcia verso un armadietto periferico, non concupito da nessuno. L’armadietto ha un’importanza centrale poiché il torinese arriva in palestra con una sacca un filino più capiente di un armadio quattro stagioni, con tutto un campionario di abbigliamento, una dotazione completa di saponi, creme, shampoo, asciugamani, barattoli di vitamine, di integratori, generi di prima necessità, quanto basta per reggere un mese di assedio. Il torinese non ammetterà mai, neanche sotto tortura, che ha deciso di abbonarsi alla palestra per migliorare il proprio aspetto fisico e nei
lunghi colloqui iniziali con l’istruttore gli porrà svariati quesiti medici: è vero che fare ginnastica fa bene alla circolazione, ai mali di schiena, all’apparato respiratorio? Ci sarà solo in ultimo un accenno alle vere ragioni: «Pensi che una mia amica, che sciocca!, si è decisa ad andare in palestra allo scopo di snellire il giro di vita e il polpaccio, per rassodare il seno e dimagrire». L’istruttore, che conosce i suoi polli, rassicura il suo interlocutore che sì, effettivamente, la ginnastica fa bene anche sotto quel profilo. Per realizzare in breve tempo questo set completo di miracoli, coloro che, dopo lunghi tentennamenti, decidono di iscriversi alla palestra, sono disposti a sacrificare un’ora alla settimana, al massimo due. Per quanto riguarda l’abbigliamento gli uomini vanno sul classico: tuta blu o grigia, rigorosamente di tre misure più abbondante affinché cada come un peplo sulla pancetta e sul mappamondo delle chiappe. Il metodo più sicuro per far
lavorare gli uomini agli attrezzi più faticosi consiste nell’introdurre in palestra un’indossatrice che faccia ginnastica in un angolo, per conto suo e i maschietti tutti lì attorno a far guizzare il muscolo unto di olio. Per praticare con successo la professione di istruttore è necessario possedere una buona dose di sadismo. Sei alle prime sedute dopo aver preso la decisione di iscriverti perché ti mancava il fiato anche per allacciarti le scarpe. Cosa fa l’istruttore per farti sentire un verme? Fa in modo che tu sia preceduto all’attrezzo da un bestione largo due metri e campione di body building, così, quando tocca te, dovrai sfilare decine di anelli di ferro prima di riuscire a sollevare le sbarre. Per le signore l’abbigliamento varia a seconda del tipo di ginnastica praticato ma deve essere sempre coloratissimo e rigorosamente importato dagli Stati Uniti, dai quali arrivano anche le ultime mode in fatto di ginnastica; queste ultime sono detestate dalle signore perché solo le giovanissi-
me possono permettersi di praticarle senza rischiare strappi muscolari. Le madame hanno in compenso la licenza per esercitare lo sport della caccia all’istruttore il quale, come il maestro di sci e l’ufficiale sulle navi da crociera, per contratto non può sottrarsi alle brame delle tardone. La palestra è anche un club dove si intrecciano amori, relazioni extraconiugali, tradimenti, amicizie, pettegolezzi e maldicenze sugli assenti. Nella sauna maschile i signori stravaccati sulle panche di legno e intenti a sudare si raccontano barzellette scollacciate e politicamente scorrette mentre si passano di mano in mano una bottiglia. Tè freddo? Il frullato dietetico venduto a prezzi folli dal bar della palestra? Nossignori, Dolcetto di Dogliani o Chardonnay di Costigliole, quest’ultimo freddo al punto giusto. Come al gioco delle bocce o durante l’intervallo per il pranzo. Riconosciamolo: chi lavora con un impegno così grande è giusto che si prenda le sue meritate ricompense.
non avere, nel proprio corpo, il dispositivo che trasforma il niente in persona, che ne cura la gestazione, che lo porta a maturazione, essere o non essere il corpo da cui esce il corpo dell’altro, fa differenza, è differenza. Le donne non hanno bisogno di parole, è il corpo che dice loro se sono o non sono madri. Gli uomini, al contrario, sapranno di essere padri se saranno nominati tali. L’unica verità del loro corpo è l’aver attinto al corpo della donna. Il maschile, è, perciò, culturale, non naturale. Dipende dalla parola: l’uomo deve dire e deve essere detto. L’uomo che non si appropria della parola retrocede alla barbarie del corpo, deve ripiegare sulla forza, sui muscoli. Ma oggi non c’è più vantaggio a essere corpo maschile. C’era quando si combatteva a piedi, corpo a corpo. C’era quando il lavoro si eseguiva con le mani, con le braccia. C’era prima della rivoluzione Pinkus, l’unica grande rivoluzione del secolo precedente, vale a dire l’affermarsi della pillola. Prima di allora il dispositivo della procreazione
non poteva essere disattivato e il corpo della donna era spossato dalla funzione riproduttiva, era in posizione di inferiorità. La forza maschile assumeva quindi un carattere di necessità: l’uomo doveva combattere, difendere, sostenere la femmina. Oggi questa funzione, la forza muscolare del corpo, non è più necessaria. Il corpo femminile, sdoganato dalla riproduzione coatta, non ha più bisogno di protezione, può allenare i suoi muscoli, fuori e dentro la metafora. Oggi le donne possono disattivare il dispositivo che le rende animali, possono liberarsi dall’implacabilità della natura e vivere nella cultura. Possono insediarsi nel mondo delle parole. Anche se il loro corpo resta regolato dalla natura. È terribile, ma anche meraviglioso, essere intelligenti, capaci di introspezione, forti della parola e, al contempo, attrezzate per essere natura, costrette a subirla senza potersi/volersi emancipare del tutto da quella debolezza che ti mette al riparo dal rischio di sentirti onnipotente.
(6) da un palco di Piazza della Scala. È stata una giornata di solidarietà verso una donna che è sopravvissuta alla deportazione ad Auschwitz e che oggi, a 89 anni, deve vivere sotto scorta perché qualcuno la minaccia fisicamente e la insulta online. I messaggi di odio che riceve sono circa duecento al giorno e il tono abituale assomiglia a questo: «Mi chiedo perché non sia crepata insieme a tutti i suoi parenti» (s.v.). Il fascismo non può tornare? Il giorno dopo, mercoledì, «la Repubblica» pubblicava una breve intervista di Brunella Giovara a un’altra anziana sopravvissuta di Auschwitz, la scrittrice Edith Bruck. Un’intervista sfiduciata, quasi disperata che sembra velare le certezze di Vespa. «Chi porterà avanti le nostre voci?» è la domanda. Quale memoria resterà quando non ci saranno più i testimoni? Ecco la risposta: «Sarà strada libera ai negazionisti. Primo Levi è morto scioccato e scandalizzato dal negazionismo degli anni Ottanta.
Ricordo una sua telefonata, mi disse: «Ti rendi conto, stanno negando il lager già adesso, con noi vivi. Figuriamoci dopo». I giorni della Memoria, le iniziative… sono certamente importanti, ma con noi morirà quasi tutto (…). Il testimone diretto è un’altra cosa. Noi c’eravamo, io c’ero, io ho visto dei soldati giocare a football con la testa di un bambino. La gente però rigetta questi racconti…». Voto d’aria: 6+ alla crudezza e al pessimismo che potrebbero aiutare a tenere altissima la guardia (e a dubitare delle certezze di Vespa). «Il mare dell’indifferenza si chiuderà sopra di noi», prevede Liliana Segre. In effetti. Da quando gli slogan razzisti, le profanazioni dei cimiteri ebraici, le nostalgie mussoliniane e hitleriane sono diventati pratiche diffuse, normali e quotidiane in Rete, nelle pubbliche piazze, in televisione, nelle curve degli stadi e persino nei parlamenti, tutto sembra più reale e angosciante. Gli artisti che appendono (o mangiano) banane non se ne sono accorti?
Quaderno a quadretti di Lidia Ravera Quella cosa che le donne (non) hanno Partiamo da un dato, per così dire, obbiettivo: l’universale è maschile. L’umanità è cosa di uomini, lo dice la radice stessa. C’è l’uomo della strada. L’uomo forte. L’homo sapiens. La donna della strada è una mignotta. La donna forte è una cicciona. La donna sapiens: non pervenuta. La lingua non è neutra, è rivelatrice. Dunque: in principio era il maschio. È maschio il verbo, il modello, il prototipo. Poi ci sono le donne. Le donne sono altro. Altro dall’uomo. Definite da una difformità. Mancano d’un dettaglio fondante, e Sigmund Freud ci ha abituate all’idea che questa aporia provochi, nelle imperfette copie femminili del maschio, una forma più o meno feroce di invidia, l’invidia penis per l’appunto. È vero? Non è vero? Dipende. La cosa certa è che, se si prende a modello il corpo sessuato maschio, quello femminile è mancante. Non ha il pene. Se si prende a modello il corpo femminile, il corpo maschile è mancante: non ha l’utero. Perché il ’900 non ci ha regalato una dottoressa
Freud che teorizzasse l’invidia uteri? Perché quando ho partorito mio figlio, 40 anni fa, qualcuno, felicitandosi, mi ha detto, con soddisfazione: «Adesso ce l’hai anche tu il fallo!» Congratulazioni. Auguri e figli maschi? Si parte di lì e si procede per negazioni o imitazioni. Vi elenco gli stereotipi: è maschia l’aggressività. Maschia la competizione. Sono maschie le ambizioni. È maschio il coraggio. Maschio sale agile sull’albero mentre non-maschio piange con la bambolina seduta nel prato. Maschio penetra, non maschio subisce. Maschio sceglie, non maschio aspetta di essere scelto. Maschio invecchia diventando pregiato come il parmigiano, non maschio scade come una mozzarella di bufala. Questo accadeva nel passato e accade nel presente. Ma io, per fortuna o per imprudenza, vorrei pensare al futuro, che compare innanzitutto sotto forma di domande. Le domande scatenano l’immaginazione. La mia è questa: provando a considerare passata l’era in cui l’universale è stato maschile,
che cosa accadrebbe se l’universale fosse femminile? Non: se le donne comandassero, se pigliassero a zuccate il soffitto di cristallo fino a ridurlo in briciole, se diventassero presidente imperatore papa... No, non ci interessa. Che cosa succederebbe se le donne diventassero modello. Le donne, con la specificità del loro corpo, perché soltanto quella le unisce, le condiziona, trasforma il «sex» in «gender». Noi sappiamo bene che da un corpo diverso discende una diversa esperienza del mondo. Si vive con il corpo e con la mente e con l’anima, ma soprattutto con il corpo, purtroppo. Infatti è il corpo che si guasta invecchia e muore. L’anima è più resistente. È il corpo il fardello che ci rende umani. Umani? In un futuro a universale femminile come si chiamerà l’umanità? Donnità? Dovremo attraversare la fase del «donnesimo» essendo l’umanesimo trascorso e lontano? Scherzo, per quanto con il linguaggio non si scherzi. Torniamo al corpo delle donne, che è diverso da quello degli uomini. Avere o
Voti d’aria di Paolo Di Stefano La banana nel mare dell’indifferenza Una banana appesa a una parete con il nastro adesivo: questo il capolavoro prodotto da Maurizio Cattelan, l’artista concettuale padovano, per la Fiera d’arte contemporanea Basel Art Miami. Di fronte a quell’opera d’arte, già venduta per 120 mila euro, un collega di Cattelan, David Datuna, si fa venire l’acquolina in bocca e cosa fa? Stacca il frutto dal muro, lo sbuccia e se lo mangia: «Amo l’arte e adoro letteralmente questa installazione, deliziosa…», pare abbia detto a bocca piena. Quel capitale andato in fumo (o peggio) ha fatto discutere la scorsa settimana su temi cruciali: la provocazione dell’arte contemporanea, la sua irresistibile ironia postmoderna, la sua valenza effimera, il suo (non effimero) valore di mercato (un’altra banana gemella esposta dallo stesso Cattelan era già stata acquistata per la stessa cifra da una coppia francese di amanti del postdada). Arte o paccottiglia? Capolavoro o bluff? Performance o semplice prodotto ortofrutticolo? Nel dubbio, volano i
seguenti voti d’aria: 2– al genio di Cattelan, –120 mila al gusto degli estimatoricompratori, 5+ all’ingordigia di Datuna, che ha pensato bene di pubblicare su Instagram la sua performance intitolandola Hungry Artist. Se tanto mi dà tanto, non va del tutto escluso che tra qualche tempo, in un museo d’arte contemporanea di Dubai o di Tokyo o di New Orleans o in una galleria molto trendy di Milano, compaia una scatoletta firmata dallo stesso Datuna e intitolata Fu banana d’artista (d’après Piero Manzoni), contenente la traccia fisica dell’avvenuta digestione ed espulsione del capolavoro cattelaniano. Il peggio è che i grandi artisti fanno scuola e corriamo il serio pericolo di dover ammirare, negli anni a venire, un kaki spiaccicato sulla parete del Guggenheim o una castagna inchiodata in un angolo della Tate Modern di Londra. Un artista affamato sarà sempre benvenuto: la sua è comunque una benefica azione di ecologia culturale. Peccato che
non sia possibile mangiare certi libri. Troppo indigesti. Il pensiero vola, come certi voti d’aria, all’ultimo volume di Bruno Vespa (3), sicuramente più indigesto della banana di Cattelan e intitolato con risibile sicumera: Perché l’Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare). Che non possa ritornare il fascismo di Mussolini è fin troppo ovvio, ma che possa ripresentarsi un altro fascismo, aggiornato ai tempi e sotto nuove spoglie, nessuno può escluderlo, nonostante il parere del grande storico visionario Vespa. Una delle giornate più luminose degli ultimi anni, di quelle rarissime che danno speranza molto più delle banane d’arte, è stata la giornata di martedì scorso. Quel giorno, seicento sindaci italiani hanno sfilato per le strade di Milano con Liliana Segre. Per dire basta. «Siamo qui per parlare di amore e lasciamo l’odio agli anonimi della tastiera, guardiamoci da amici anche se ci incontriamo per un attimo», ha detto la senatrice a vita
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