Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio L’Acceptance and Commitment Therapy aiuta a stare bene con se stessi e con il proprio corpo
Ambiente e Benessere Enos Bernasconi, vice direttore del Dipartimento di Medicina interna EOC e direttore della Divisione di malattie infettive dell’Ospedale Regionale di Lugano, spiega l’importanza di vaccinarsi
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 23 dicembre 2019
Azione 52 Politica e Economia Il Natale di BoJo è di quelli da trascorrere con la soddisfazione delle cose fatte
Cultura e Spettacoli Natale in trincea, ma questa volta da parte del pensatore Jean-Paul Sartre
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Keystone
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L’editore e la redazione di Azione augurano
Buon Natale
alle lettrici e ai lettori, alle socie e ai soci della Cooperativa Migros Ticino
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 dicembre 2019 • N. 52
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Speciale Natale
Natale in istituto
Testimonianza Il ricordo di uno dei tanti Verdingkinder, i bambini sottratti alle famiglie e collocati in istituto o dati
in adozione senza il consenso dei genitori, tratto dal libro autobiografico Infanzia rubata
Statistiche esatte non ce ne sono, ma si stima che siano stati centinaia di migliaia i bambini che in Svizzera, durante decenni fino al 1981, sono stati sottratti alle proprie famiglie. (Keystone)
Sergio Devecchi Ogni primavera e ogni autunno, Emil Rupflin, il fondatore degli istituti «Dio aiuta», passava da Pura con l’autista, lo zio Werner. Voleva farsi un’idea delle aziende di sua proprietà sul posto. Per noi bambini comportava il doppio del lavoro. Avevamo un grande rispetto per quell’uomo, perché sentivamo che da lui dipendeva il nostro destino. E non soltanto il nostro: Rupflin teneva in mano tutti i fili. Era lui che stabiliva dove dovevano lavorare gli zii e le zie e come bisognava gestire gli istituti. Gli assistenti potevano certo proporsi volontariamente per il servizio, ma con ciò la loro autodeterminazione finiva. Già dalla più tenera età ebbi modo di osservare come gli adulti eseguissero senza lamentarsi le istruzioni di Rupflin, anche quando queste avevano conseguenze decisive sulle loro vite. Capitava che una zia o uno zio sparisse da un giorno all’altro perché serviva in un altro istituto. Si trattava di compiti diaconali, quindi non ricevevano alcuno stipendio, ma solo vitto, alloggio e denaro per le piccole spese. Quando con l’età non erano più in grado di lavorare, li aspettava l’ospizio di proprietà della fondazione a Zizers. E alla fine un posto in paradiso. Due settimane prima dell’arrivo di Emil Rupflin cominciavano le grandi pulizie. Tutto doveva essere sistemato alla perfezione. Ci infilavamo negli angoli più reconditi, toglievamo la polvere, lucidavamo i pavimenti e il giorno dell’arrivo eravamo esausti. Appena si udiva il clacson che l’autista azionava per ordine del capo, i collaboratori e noi bambini ci precipitavamo fuori e restavamo sull’attenti. Poi ci ritrovavamo davanti quell’uomo benevolo e se-
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
vero con i capelli bianchi. Mi incuteva timore, quando ci accarezzava i capelli e intanto citava il suo Gesù. Mentre Rupflin ispezionava la lunga serie dei suoi sottoposti, lo zio Werner si infilava una tuta e lucidava la macchina. Ce n’era proprio bisogno, dopo il lungo viaggio attraverso le Alpi.
«In tutti quegli anni non ho mai saputo di un bambino dell’istituto che avesse ricevuto una visita per Natale» Sua moglie Babette, invece, mi piaceva. Emanava una bonarietà che faceva bene alle nostre anime intristite. Dovevamo chiamarla mammina, mamma era riservato, come ho già detto, alla direttrice dell’istituto, e mami alla nuora di Rupflin (Marguerite) a Zizers, che aveva sposato il figlio Samuel. Mi ricordo bene di Babette Rupflin. Dopo il mio trasferimento nell’istituto di Zizers, una volta alla fine dell’autunno fui mandato a raccogliere la valeriana. Mi inginocchiai sul terreno già ghiacciato, avevo le dita rigide per il freddo e singhiozzavo disperato di nascosto. Mammina Rupflin si trovava per caso lì vicino e mi sentì. Mi aiutò ad alzarmi e mi portò nella stalla calda. Lì potei riscaldarmi le dita su Pia, la mia grande e bella mucca preferita. E Babette Rupflin fece in modo che quel giorno non dovessi più tornare in giardino. A volte lei e suo marito si ritiravano a dialogare con Dio nel «Taborli», la casa delle vacanze del «Dio aiuta» sopra Zizers. Allora le collaboratrici e i collaboratori sapevano di doversi aspettare Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
dei cambiamenti. Lassù, in quell’isolamento, Emil Rupflin decideva quale nuova sede dovesse essere acquisita, quale chiusa, quali collaboratori fossero da trasferire e dove. Nonostante i problemi di salute, quell’uomo anziano diresse la fondazione fino alla fine. Morì nel 1966, due anni dopo il mio congedo dall’istituto. Oggi è venerato dai suoi successori come «pioniere degli istituti». Io continuo a non capire come mai quell’ex ufficiale dell’Esercito della salvezza, originario della Germania, nel bel mezzo della Prima guerra mondiale, invece di occuparsi di veri orfani nell’Europa devastata, abbia fondato degli istituti per bambini in Svizzera. Noi bambini tiravamo sempre un sospiro di sollievo quando il patriarca ripartiva. Subito dopo l’ispezione autunnale di Rupflin, cominciava il periodo prenatalizio. Nelle domeniche dell’Avvento i più grandi suonavano una serenata con il flauto dolce per i collaboratori. Come tutti i bambini, anche noi pregustavamo le feste di Natale. Era un raro diversivo nella nostra quotidianità, e soprattutto non eravamo costretti a lavorare. La mattina di Natale, ancora al buio, ci recavamo tutti nell’edificio principale: i più piccoli dalla «casetta dei nani», accompagnati dalla zia Anneli, i più grandi dietro di loro, le mani nelle tasche dei pantaloni. Aspettavamo in silenzio davanti al refettorio, finché la porta non si apriva. La vista dell’enorme albero di Natale, con le candele accese e le stelle di paglia che avevamo fabbricato per settimane, era ogni volta sconvolgente. Intonavamo tutti i canti di Natale che conoscevamo, insieme agli zii e alle zie. Non c’erano ospiti. In tutti quegli anni non ho mai saputo di un bambino
dell’istituto che avesse ricevuto una visita per Natale. Quando fuori faceva giorno, ci sedevamo ai tavoli. C’era pane bianco, burro e cioccolata calda. Natale era l’unico giorno dell’anno in cui – compatibilmente con le nostre condizioni – potevamo gozzovigliare un po’. Subito sbirciavamo l’albero di Natale: sotto c’erano i pacchi con i biglietti su cui erano scritti i nomi, e in segreto ci chiedevamo timorosi se qualcuno avesse pensato a noi. Il più delle volte il tutore, che non avevo ancora mai visto in faccia, mi mandava un paio di calze e una tavoletta di cioccolata. Dopo il mio battesimo arrivarono dei regali anche dalla madrina Hulda e dal padrino Jakob. Il direttore sollevava un pacco dopo l’altro, leggeva il nome ad alta voce e consegnava solennemente l’agognato dono. Una volta accadde il temuto disastro: il mio nome non venne pronunciato. La vergogna superava persino la delusione. Dall’angolo più remoto del refettorio guardavo attraverso un velo di lacrime gli altri bambini che spezzavano allegri lo spago dei loro pacchi. Anni dopo avrei riprovato quell’identico sentimento alla scuola reclute. Quando la posta veniva consegnata e gli altri ricevevano i loro pacchi di viveri, io restavo a mani vuote. Dopo la distribuzione delle strenne, gli zii e le zie ci portavano via i dolciumi per poi suddividerli in modo che tutti ricevessero qualcosa. Ci cascai solo una volta, gli anni seguenti mangiai all’istante la mia cioccolata. Quel che avevi, avevi. Per il pranzo di Natale c’erano sempre crauti, forse come contrappasso culinario alla colazione eccezionalmente gradevole. Nel pomeriggio seguiva una passeggiata nel bosco, poi la festa era finita.
Una cosa mi ricordo in modo particolare. Era la vigilia di Natale e nel tardo pomeriggio telefonò l’impiegato delle Poste di Pura dicendo che c’era un pacco per Sergio. Se volevo prenderlo prima di Natale, potevo passare da casa sua. Partii subito, nel bosco era già buio pesto. Le nuvole coprivano a tratti la luna, nevicava appena. Nel villaggio c’era silenzio, le mie scarpe chiodate battevano forte sulle pietre della pavimentazione. Suonai alla casa del postino. Quello aprì la porta e andò a prendere il pacchetto. Da fuori guardai nel soggiorno, dove la famiglia era seduta al tavolo da pranzo alla luce delle candele. I due figli mi guardavano senza parlare, li conoscevo dalla scuola. Il postino tornò e mi porse il pacco. «Buon Natale», mi augurò, poi la porta si richiuse. Il pacco veniva dal tutore. Con molta cautela, quasi fosse di vetro, lo portai attraverso il bosco e lo consegnai all’istituto. La mattina di Natale stava sotto l’albero, dopo un’eternità fui finalmente autorizzato a scartarlo. Una scatola di costruzioni del meccano! Ero al settimo cielo. Non avevo mai ricevuto niente di così prezioso. Contai le viti, disposi le parti di metallo sul tavolo. Scrissi al tutore una lunghissima lettera di ringraziamento, nella speranza che anche l’anno dopo mi avrebbe fatto un regalo così principesco. Ma le cose andarono diversamente. Quello fu il mio ultimo Natale a Pura, e con il tutore ebbi a che fare prima di quanto avessi voluto.
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Bibliografia
Sergio Devecchi, Infanzia rubata. La mia vita di bambino sottratto alla famiglia, edizioni Casagrande, Bellinzona 2019.
Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Speciale Natale
Cartoline di Natale Silenzioso amico
La frase che più mi ha colpito, sentita sullo spiazzo davanti San Giovanni in Laterano il 14 dicembre a Roma, è quella di un giovane ai suoi amici, a manifestazione conclusa: «che bella gente oggi, mi sentirei di uscire la sera con ognuno di loro». Delle centomila sardine che si erano raccolte davanti a questa Basilica, da sempre luogo di adunata della sinistra, qualche migliaio ancora indugiava e si scambiava impressioni come questa. La giornata era stata un successo, il richiamo lanciato a un’altra Italia, rispetto a quella del leghista Salvini, era stato ascoltato anche a Roma. Dopo la rabbia dei Vaffa day, che elevò i 5 Stelle per un attimo nel firmamento politico, oggi sono le più pacate sardine a portare in superficie il bisogno di un’altra politica, soprattutto di un’altra
È vero, come dice la grande Wislawa Szymborska ne Il silenzio delle piante, che «parlare con voi è necessario e impossibile». Anche a me piacerebbe, di tanto in tanto, dire qualcosa a una pianta, magari anche sostenerla o difenderla, in un’epoca in cui le motoseghe ruggiscono e gli incendi divampano. Ma è, appunto, impossibile. Eppure una nevicata leggera e senza importanza come quella di qualche giorno fa, che ha velato di bianco anche l’albero della foto, un temporaneo canale di comunicazione lo crea. E lo fa attraverso il denso silenzio che naturalmente succede alla caduta dei fiocchi. Proprio il vuoto, l’assenza di rumore, hanno il dono prezioso e intrinseco di dare una tregua al nostro pensiero, di fare un po’ di ripulisti nelle nostre vite, sempre più traboccanti di informazioni immagini commenti idee e proclami. Quell’albero silenzioso, a sua volta contemplato in silenzio, archetipo di tutti gli alberi della terra, anche quelli di Natale, con la sua presenza maestosa e tranquilla, ci rimette al nostro posto. E forse di un simile baricentro avremmo bisogno più spesso, non solo a Natale. / Simona Sala
AFP
Un presepe di sardine
etica. Diventeranno un partito? Ne sarebbero capaci? In questo momento non conta, oggi è importante che rappresentino un monito ai politici e il forte desiderio di difendere i valori umanitari e la speranza in un mondo inclusivo. Una presenza inaspettata sotto l’albero di Natale, italiano ed europeo. / Peter Schiesser
L’Avvento dei diritti
La mia cartolina viene dal passato e da lontano. Correva l’anno 1995 quando, a pochi giorni dal 25 dicembre, mi ritrovai negli occhi il più gigantesco albero di Natale che avessi mai visto. Forse anche il più bello per la cornice naturale in cui si trova e per la sua natura speciale: non è un albero, ma una cascata. Un invisibile salto d’acqua che da anni, scorrendo lungo una parete del Cañon del Sumidero, incide nella roccia di travertino balzi su cui si adagiano depositi di muschio e di carbonato, a dar vita a quel magico effetto. La cascata «Arbol de Navidad», alta circa 200 metri, si trova in Messico, nel Chiapas, ed è raggiungibile solo in barca serpeggiando lungo lo spettacolare fiume sormontato dalla montagna spaccata in due. Il canyon fa parte di un parco nazionale di oltre 20mila ettari. Non serve dunque disboscare pinete intere per animare lo spirito natalizio. Certo, questo «alberello» possiamo portarcelo a casa solo in fotografia ma, in fondo, Natale significa anche ferie e viaggi. Perché non diventare pellegrini… della natività? / Manuela Mazzi
Aprire le finestrelle del calendario dell’Avvento rimane uno dei riti più amati di dicembre, in fondo il bello del Natale è soprattutto l’attesa del Natale. Alle scuole elementari di Massagno i bambini e i maestri hanno creato un particolare calendario dell’Avvento: ogni sera una finestra dell’edifico decorata dalla classe si illumina, l’immobile intero è insomma un enorme calendario al centro del quartiere. L’idea, bella di per sé, racchiude anche una riflessione sui diritti dell’infanzia proposta quest’anno agli allievi dell’Istituto per ricordare il trentesimo anniversario della Convenzione ONU. I bambini di Massagno, in controluce, ci ricordano i diritti dei più piccoli, quelli in teoria sottoscritti da praticamente tutti i Paesi del mondo, e ce ne propongono di
Le Feste viste da dietro le quinte
Il lusso di un mondo migliore
Era già buio da un po’ quando finalmente mio padre riusciva a chiudere a chiave la porta del negozio. Arrivava a casa canticchiando, con il passo svelto e la voglia di infilare le pantofole e buttarsi sul divano. Nella serata si cominciava a sorridere e scherzare, mentre mia madre metteva in tavola le buone cose da mangiare che aveva preparato. Si concludeva così, in salotto, tra le luci intermittenti dell’albero e del presepio, un periodo di lavoro intenso e impegnativo, durato settimane. Sul bancone del negozio erano rimasti fogli di carta colorata, nastri dorati, forbici e rotoli di scotch. Mio padre li avrebbe messi a posto il 27 dicembre, con calma, al rientro. Guardando lui avevo imparato a comprendere il senso delle Feste. Erano due giorni di vero riposo,
Qualche giorno fa mi sono imbattuta in un libro appena uscito in Italia dal titolo Il lusso secondo me (Il Sole 24 ore), che mi ha fatto riflettere su che cosa sia il lusso. Non riuscendo a darne una definizione precisa, mi sono affidata all’etimologia latina del termine. Secondo la Treccani il lusso deriva dal latino «luxus», inteso come «fasto, sovrabbondanza, eccesso nel modo di vivere», probabilmente affine all’aggettivo «luxus» nel senso di «slogato, storto, lussato». In questa accezione è contenuta l’idea di allontanamento, e non tanto quella, più positiva, di elevazione. Il lusso rappresenterebbe così una sorta di spostamento al di fuori del normale modo di vivere, provocato da una spinta all’eccesso. Come quando per una lussazione (dal latino «luxare») della spalla, la testa dell’omero fuoriesce dalla cavità in cui è posta. Per analogia, che cosa rappresentano quindi Greta, la lotta ai cambiamenti climatici, la riduzione dei gas a effetto serra, se non una lussazione da uno stile di vita, normale ma non più sostenibile, onde evitare la catastrofe? Un mondo sostenibile è il vero lusso per il futuro dell’umanità. Secondo me. Secondo quella coppia di sposi fotografati a Natale in piazza Duomo a Milano che certamente stava pensando a un mondo migliore per i propri figli. Per molti altri resta ancora, insegna la conferenza sul clima di Madrid conclusasi senza un accordo, un lusso rinunciabile. / Monica Puffi
in casa, in cui godersi i frutti del lavoro di un anno, riprendere fiato e, dopo il tradizionale inventario finale, prepararsi a immaginare il lavoro dell’anno seguente. Quando vedo i miei colleghi nei reparti, indaffarati tra gli scaffali, non posso fare a meno di pensare al «backstage» del Natale. All’impegno che serve a preparare la festa. /Alessandro Zanoli
B. Lundmark
Un abete d’acqua
nuovi. Così ecco spuntare un fantastico «diritto ad essere un po’ selvaggi» e un sacrosanto «diritto ad avere una chance». E che i bambini siano sempre un passo avanti lo dimostra il «diritto di sentire la mancanza del proprio paese e di poterci tornare». / Barbara Manzoni
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Idee e acquisti per la settimana
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Attualità Alcuni consigli per iniziare il nuovo anno col botto
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Croccanti aperitivi Sfiziosissime e ritorte a mano, queste Flûtes di delicata pasta sfoglia in edizione limitata trasformano ogni aperitivo in un momento di puro piacere. Leggere e friabili, sono arricchite con i tipici profumi del sud quali olive, pomodori ed erbette aromatiche mediterranee. Sélection Flûtes Mediterran 130 g Fr. 3.10
Le ostriche Per molti le ostriche non possono mancare sulla tavola delle feste di fine anno. Servite crude come antipasto o aperitivo, condite solo con un po’ di pepe, qualche goccia di limone e accompagnate da pane scuro, le ostriche sono garanzia di una pietanza deliziosa e conviviale. In genere bisogna calcolare sei ostriche per persona. Attualmente ai banchi del pesce fresco e a libero servizio nelle maggiori filiali Migros sono disponibili le varietà «Marennes-Oléron», «Marennes Label Rouge» e «Pléiades Poget». Azione 20% di sconto su tutto l’assortimento di ostriche dal 28 al 4.1.2020
Brindare con gusto L’acqua tonica è la base imprescindibile per molti drink e cocktail di Capodanno. Il marchio britannico Fever-Tree è sinonimo di bevande analcoliche naturali, senza aromi o dolcificanti artificiali. L’Indian Tonic Water è prodotta con oli essenziali di arance della Tasmania, acqua di sorgente e pregiato chinino africano. Il suo sorprendete sapore conquisterà tutti gli ospiti. Fever-Tree Indian Tonic Water 4 x 200 ml Fr. 7.50
Capodanno scoppiettante Allo scoccare della mezzanotte, fuoco alla miccia e tutti pronti a brindare e festeggiare l’arrivo nell’anno nuovo. La bomba da tavola Maxi 2020 contiene ben 30 articoli da party a sorpresa e 30 palline di ovatta. Si raccomanda di accendere la bomba appoggiandola su un supporto non infiammabile e allontanarsi rapidamente. Bomba da tavolo Maxi 2020 Fr. 14.95
Locale e sociale
Specialità Il delizioso panettone tradizionale ticinese prodotto
nel laboratorio de La Fonte è più che un semplice dolce natalizio
Lo zampone Nostrano Mangiare lo zampone con le lenticchie dopo il brindisi di mezzanotte rappresenta l’augurio per un nuovo anno ricco di fortuna e prosperità. Noi vi proponiamo lo zampone 100% ticinese, prodotto con carne di maiali allevati su un alpeggio in Valle Bedretto. La specialità viene elaborata dalla Salumi del Pin di Mendrisio seguendo una tradizionale ricetta e insaccata nel caratteristico involucro. Precotto, necessita di essere solo riscaldato in acqua calda per un’oretta. Zampone Nostrano Bedretto 100 g Fr. 2.80
Gamberi freschi svizzeri
Novità Qualità e sostenibilità per un prodotto
innovativo, ideale per preparare squisiti piatti
Panettone tradizionale ticinese La Fonte 750 g Fr. 23.– Disponibile in tutte le filiali Migros in quantitativi limitati
Un tipico dolce al 100% naturale, senza l’aggiunta di coloranti, conservanti o aromi artificiali, preparato con perizia grazie anche al prezioso contributo di persone con disabilità attive presso il laboratorio protetto di panetteria-pasticceria della fondazione La Fonte, in via Pezza 3 ad Agno. Stiamo parlando
del panettone tradizionale ticinese, un prodotto di qualità perfetto da servire come dessert durante le Feste o da regalare ai propri cari. Soffice e genuino, è un piacere da gustare non solo per la sua prelibatezza, ma anche perché, acquistandolo, si valorizza il lavoro di utenti che ogni giorno, sotto la supervisione
di panettieri-pasticceri professionisti, si prodigano per regalare a tutti i golosi le dolcissime tentazioni più variegate. A proposito: l’intero ricavato della vendita del panettone viene riversato alla fondazione stessa, alfine di sostenere le sue attività in favore delle persone a beneficio di una rendità di invalidità.
Cosa ne direste per Natale di gustare qualcosa di esclusivo, prodotto in Svizzera in modo sostenibile? Allora provate i gamberi freschi SwissShrimp, allevati a Rheinfelden con un approccio consapevole. Nelle ampie vasche dove crescono i gamberi l’acqua salata viene riscaldata attraverso recupero di calore, rinunciando all’utilizzo di antibiotici. L’80% della miscela di sale utilizzato per l’acqua proviene dalle vicine saline del Reno. Il nutrimento per i gamberi è costituito da materie prime biologiche certificate. L’elevato
contenuto di ossigeno dell’acqua salata contribuisce alla bella colorazione azzurrognola brillante dei crostacei. I gamberi SwissShrimp si caratterizzano per la loro consistenza compatta, ricca di polpa, e per il loro sapore delicato, lievemente dolce e nocciolato. Sono una leccornia da gustare cotti in padella, al forno, fritti o grigliati. Gamberi freschi svizzeri 100 g Fr. 11.90 In vendita al banco pesce delle maggiori filiali Migros
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Idee e acquisti per la settimana
Estrema morbidezza e note fruttate
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Società e Territorio Videogiochi Con Star Wars Jedi: Fallen Order scopriamo la storia segreta della caduta degli Jedi seguendo le avventure del giovane padawan Cal Kestis e del suo amico droide BD-1
Campra, centro dello sci nordico La nuova struttura Campra Alpine Lodge & Spa è pensata per accogliere gli appassionati dello sci di fondo ma anche chi vuole godersi natura e relax pagina 10
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Amarsi come si è
Psicologia L’Acceptance and Commitment
Therapy è una nuova forma di psicoterapia che suggerisce di non cambiare il proprio corpo per stare bene con se stessi
Stefania Prandi Non è semplice avere un buon rapporto con il proprio corpo. Siamo bombardati da modelli impossibili, da fisici plasmati da esercizio fisico intenso e interventi estetici e da immagini modificate con applicazioni di fotoritocco. Che nasca da sensazioni interne, oppure da come ci si vede allo specchio, l’immagine corporea è spesso causa di dolori e sofferenze. Stare bene con se stessi e con il proprio corpo (Franco Angeli, 2019) di Emily K. Sandoz, docente di Psicologia all’Università della Louisiana, e Troy Dufrene, scrittore specializzato in psicologia, suggerisce che non è necessario cambiare per sentirsi meglio. Occorre focalizzarsi sui modi per non lasciare che sensazioni, pensieri ed emozioni negative interferiscano su ciò che è importante. Il libro si basa sull’Acceptance and Commitment Therapy, chiamata anche ACT – si pronuncia come singola parola, non come lettere separate – una nuova forma di psicoterapia che fa parte della terza generazione della terapia cognitivo comportamentale. Stare bene con se stessi e con il proprio corpo è un manuale curato, per l’edizione italiana, da Elena Campanini, psicoterapeuta e docente all’Accademia di scienze comportamentali e cognitive (Ascco). Dottoressa Elena Campanini, ci descrive l’Acceptance and Commitment Therapy?
È una terapia basata sulla Relational Frame Theory (RFT), un programma di ricerca di base sulle modalità di funzionamento della mente umana. Questo approccio suggerisce che molti strumenti che utilizziamo per risolvere i problemi, ci conducono in una trappola che crea sofferenza. L’Acceptance and Commitment Therapy è innovativa e diversa rispetto alle altre terapie perché non è stata svilup-
pata per curare disturbi specifici. Considera la sofferenza psicologica come normale e presente in ogni persona. Cerca di condurre a un fondamentale cambiamento di prospettiva nel modo in cui si considera la propria esperienza personale, con lo scopo di portarci a vivere una vita di valore. Che tipo di distorsioni dell’immagine corporea esistono?
Quando si parla di disturbo dell’immagine corporea si fa riferimento ad aspetti diversi. C’è l’angoscia per l’immagine corporea, cioè l’esperienza emotivamente sconvolgente del proprio corpo, il sentirsi sopraffatti dalla tristezza, dal nervosismo, dal disgusto o dalla vergogna rispetto alla propria fisicità. Si parla, invece, di distorsione dell’immagine corporea quando si vede il proprio corpo o parti di esso in modo diverso da come lo vedono gli altri. Definiamo insoddisfazione per l’immagine corporea la distinzione tra ciò che si considera perfetto e ciò che si vede nello specchio. L’evitamento dell’immagine corporea riguarda l’incapacità di prendere visione di alcune parti di sé davanti allo specchio. Infine, l’investimento sull’immagine corporea è la condizione che porta a pensieri sulla salute, sulle relazioni, sul successo.
Stare bene con il proprio corpo ha effetti positivi sulla psiche e sulla vita in generale. (Marka)
Perché è importante intervenire anche se non ci si trova di fronte a un disturbo psicologico grave o comunque clinico?
Le ricerche dimostrano che può essere utile per molte situazioni di difficoltà. È stata applicata con successo in diversi disturbi psicologici come ansia, depressione, disturbo ossessivo compulsivo, disturbo post traumatico da stress, psicosi. L’ACT permette di commettere meno errori sul posto di lavoro e migliorare le prestazioni scolastiche.
L’Acceptance and Commitment Therapy si può applicare anche ad altri malesseri non legati all’aspetto fisico?
Nell’Acceptance and Commitment Therapy sottolineiamo la flessibilità psicologica come una qualità fondamentale della salute mentale. La flessibilità ci consente di imparare ad essere aperti e consapevoli della nostra esperienza, continuando a muoverci verso le cose importanti della vita. Per arrivare a questo si devono praticare quattro opportunità di cambiamento: essere presenti (notare le esperienze di sé e del mondo nel momento in cui
Non essere soddisfatti del proprio aspetto fisico non solo può portare ad un alto rischio di ansia, depressione, disturbi del comportamento alimentare, ma costituire un intralcio alla vita, fino a condurre a problemi finanziari dovuti alle troppe spese per inseguire un ideale fisico che non può essere raggiunto.
Come funziona in sintesi?
si verificano); vedere oltre i pensieri (osservarli senza permettere che prendano il sopravvento sull’esperienza); accettare l’esperienza (accogliere i pensieri dominanti e le emozioni che ne derivano), conoscersi (contattare il sé che è più del modo in cui ci si vede, sente e pensa).
Tra le indicazioni contenute nel manuale c’è quella di «entrare in contatto con ciò con cui si sta lottando». Può spiegarci?
Le lotte con il corpo non si limitano solo all’esperienza fisica, coinvolgono tutto. Essere in grado di connetterci con ciò con cui stiamo combattendo in modo consapevole consente di fare spazio alle opportunità per entrare veramente nella vita e impadronirci delle cose che ci interessano in modo intenzionale.
In un altro passaggio del libro si legge che «creiamo tonnellate di rego-
le, tutte da soli, su ciò che dobbiamo essere e ciò che non possiamo mai essere». Perché attuiamo questo meccanismo e come possiamo superarlo?
Ognuno di noi vive in un mondo in continua evoluzione che può vedere, ascoltare, gustare, annusare e sentire. Siamo in un flusso costante di emozioni, che cambiano di intensità e di caratteristiche. La mente classifica in continuazione e le valutazioni e i confronti danno un senso a tutto ciò che incontriamo. E mentre i momenti si legano insieme nel tempo, costruiamo una storia con il mondo. Creare regole ci consente di semplificare la complessità del mondo che abbiamo intorno ma la loro rigida applicazione ci fa perdere di vista ciò che per noi conta davvero. Come uscire dal meccanismo? Facendo pratica di flessibilità, seguendo la direzione dei nostri valori.
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Società e Territorio
Storia segreta della caduta degli Jedi Videogiochi Un giovane padawan lotta per la sopravvivenza nel nuovo Star Wars Jedi: Fallen Order
Davide Canavesi Star Wars è un universo legato da sempre al mondo dei videogiochi. A partire dal primo gioco, uscito su piattaforme leggendarie come Atari 2600 e Commodore 64 negli anni 80, fino alle più recenti produzioni. L’universo creato da George Lucas è cresciuto grazie a film, fumetti, libri e giochi, con ogni nuova opera ad aggiungere un tassello ad una delle saghe fantascientifiche più famose in circolazione. Nell’anno in cui si chiuderà la terza trilogia di Guerre Stellari, con l’arrivo nei cinema di L’Ascesa di Skywalker, anche i giocatori hanno di che essere entusiasti. Respawn Entertainment (già autori di Titanfall e il popolarissimo Apex Legends) ci propone infatti Star Wars Jedi: Fallen Order. Una storia originale, ambientata dopo la caduta del senato e del consiglio degli jedi, che vedrà un giovane apprendista padawan, Cal Kestis, lottare per la sopravvivenza. Costretto alla clandestinità, per evitare una condanna a morte da parte dell’Impero, Cal ha scelto di rifugiarsi su un sistema periferico, lavorando duramente come riciclatore. Gli anni passano relativamente tranquilli quando, a causa di un malaugurato incidente, Cal è costretto ad usare la forza per salvare un collega nei guai. Tale azione avrà delle ripercussioni immediate: una inquisitrice dell’imperatore, la Seconda Sorella, percepisce Cal. Nonostante il giovane possegga ancora una spada laser non è di certo in grado di battere un’avversaria tanto potente e non può che darsi alla fuga, raccolto da Cere e Greez, due
sovversivi in missione per combattere l’Impero. Accompagnato da un droide di nome BD-1, Cal visiterà diversi sistemi tra cui Kashyyyk, Bogano, Zeffo e alcuni altri sulle tracce di un maestro jedi scomparso, scoprirà un’antica civiltà e intraprenderà un personale percorso di crescita e maturazione, in puro stile Guerre Stellari. Durante i suoi viaggi incontrerà personaggi inediti e alcuni che già conosciamo mentre ripercorreremo assieme al ragazzo i sentieri della Forza. Star Wars Jedi: Fallen Order è un gioco d’azione che non cerca certo di reinventare il genere, accontentandosi piuttosto di offrire un’esperienza esaltante e profondamente cinematografica. Respawn ha chiaramente preso ispirazione da altri giochi famosi come Tomb Raider, Uncharted, Darksiders e Dark Souls, creando un gioco in terza persona che prevede sezioni platform, esplorative, soluzione di puzzle ambientali e, ovviamente, tanto combattimento con la spada laser. La trama ordita da Respawn è inizialmente un po’ debole. Fallen Order si apre infatti con qualche ora altalenante, in cui sentiamo pochissimo attaccamento a Cal o agli altri personaggi. Se da un lato la prima mezz’ora è assolutamente esaltante, le successive due sono più monotone e prive di eventi particolari. Tuttavia, è imperativo superare questa sezione perché è specialmente nella seconda metà del gioco che questo diventa genuinamente emozionante. A mano a mano che i poteri jedi di Cal aumenteranno, ci ritroveremo invischiati in combattimenti epici ed esplorazioni sempre più spettacolari. Proprio per quanto riguarda il
Con il gioco della Respawn Entertainment seguiamo le avventure di Cal Kestis sulle tracce di un maestro jedi scomparso.
combattimento, il fulcro di Fallen Order, inizialmente potremo solo fare attacchi deboli con la spada ma ben presto avremo a disposizione attacchi normali, caricati, calci, prese della forza, schivate avanzate e via dicendo. La progressione si fa a discrezione del giocatore, tramite un albero dei poteri che potremo sbloccare in base alle nostre preferenze. Il sistema di gioco premierà i gamer coi riflessi pronti e abilità nell’applicare combo efficaci, facendo di questo Fallen Order un titolo che offre un grado di sfida più impegnativo rispetto alla media dei videogiochi contemporanei. L’esplorazione dei mondi di Fallen Order si fa in una sorta di mondo aperto, in cui potremo muoverci liberamente sfruttando percorsi e scorciatoie. Nelle prime ore di gioco ci parrà una so-
luzione davvero limitante perché finiremo per ripercorrere gli stessi tragitti più volte. Quando, per esigenze della trama, visiteremo pianeti già scoperti ci accor-
geremo, però, che ogni ambientazione ha molto da offrire. Segreti, nuove aree esplorabili, nuovi nemici e nuovi poteri attendono il giocatore ad ogni visita. Anche l’esplorazione fine a sé stessa diventa assai piacevole dal momento che il gioco offre scorci davvero molto suggestivi mentre scaleremo alberi enormi, percorreremo zone innevate o mondi bruciati dal sole. Abbiamo apprezzato il fatto che gli sviluppatori si siano concentrati nel dare al gioco un aspetto il più possibile cinematografico, non solo per l’assenza totale di caricamenti e le transizioni di scena tipiche dei film, ma anche ricercando sin nel dettaglio l’estetica e lo stile di Guerre Stellari. Questo gioco, disponibile su PC, Xbox One e PlayStation 4, è un buon titolo d’azione, in grado di sorprendere e divertire il giocatore. Una trama niente male, un gameplay soddisfacente e una presentazione generalmente ben congegnata ne fanno un gioco da possedere per i fan di Star Wars.
Rettifica Un particolare del mio articolo pubblicato su «Azione» del 16 dicembre («Un’istituzione secolare. Una ricerca storica sul “Corriere del Ticino”…») esige di essere rettificato perché inesatto. Fabio Pontiggia non poteva essere stato «uno dei critici più duri della “linea Locarnini” negli Anni Settanta» – e per questa ragione alla sua candidatura alla direzione, nel 2017, «si era
guardato con preoccupazione» – perché egli era entrato nella redazione di «Gazzetta Ticinese» solo nel 1981, quando Locarnini stava già lasciando la direzione del «Corriere». È vero che «Gazzetta Ticinese» fu molto critica con la direzione di Locarnini negli anni Settanta, ma gli autori delle critiche erano altri. L’autore si scusa con il collega. / Enrico Morresi, Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 dicembre 2019 • N. 52
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Società e Territorio
Il centro da tre stelle (alpine) dello sci nordico
Alta Valle di Blenio A Campra, centro di eccellenza del fondo a livello nazionale, la nuova struttura alberghiera
permette soggiorni sportivi e campi d’allenamento in estremo comfort e nel frattempo si pensa già alla stagione estiva
Il nuovo albergoristorante è stato progettato per godersi al meglio lo splendido paesaggio naturale in cui è immerso. (Vincenzo Cammarata)
Mauro Giacometti L’aria è frizzante e la neve quest’anno non manca, già da metà novembre. Circondati dallo skyline delle montagne bleniesi, con un’agevole e sempre sgombra strada cantonale si arriva in questo piccolo paradiso terrestre, a quota 1500 m. Si parcheggia l’auto (ma nel fine settimana c’è anche un bus navetta da Olivone), si inforcano gli stretti sci da fondo e si parte per 30 km di piste di varia difficoltà, tutte ben preparate e battute. Una giornata di sport, fatica e sano movimento immersi nella natura, questa l’essenza dell’offerta del Centro sci nordico di Campra, nell’Alta Valle di Blenio, a pochi chilometri dal Passo del Lucomagno.
A Campra il calendario di gare nazionali e internazionali è fitto, il 4 e 5 gennaio è in programma l’unica tappa svizzera della Continental Cup Campra è da oltre trent’anni una meta molto apprezzata dagli appassionati di sport invernali, in particolare dello sci nordico, come pure dagli amanti della natura. Inoltre, l’Ufficio federale dello sport ha riconosciuto a Campra un’importante certificazione (CISIN) quale impianto sportivo di rilevanza nazionale. Da sempre gestito dallo Sci Club Simano, al Centro mancava però un fiore all’occhiello, una stella alpina che lanciasse la località bleniese nell’olimpo svizzero e internazionale delle attività sportive «outdoor». Ed ecco che appunto dallo scorso novembre è stato aperto il nuovo Campra Alpine Lodge & Spa, disegnato dallo studio di architettura Durisch & Nolli, strut-
tura ricettiva di buon livello (tre stelle) che va a completare l’offerta del Centro di sci nordico bleniese proiettandolo decisamente e con più «appeal» anche verso la stagione estiva. «È da almeno quindici anni che si cercava di rendere più attrattiva questa struttura, che già dal punto di vista paesaggistico e delle piste non aveva niente da invidiare a nessuno. Qui hanno imparato a sciare o hanno affinato la propria tecnica atleti di altissimo livello e ad ogni stagione invernale abbiamo ospitato migliaia di appassionati delle discipline nordiche. Ora con il nuovo albergoristorante Campra ha fatto un deciso salto di qualità sia per l’accoglienza turistica sia per l’allenamento sportivo e l’attività agonistica», sottolinea con una certa emozione Nicola Vanzetti, trascinatore dello Sci Club Simano e direttore del Centro sci nordico mentre ci accoglie davanti all’entrata dell’Alpine Lodge & Spa. Costruito sulle «ceneri» del rustico ma un po’ anacronistico ex barristorante, il Campra Alpine Lodge & Spa, dove naturalmente il legno regna sovrano, valorizzato dalle ampie vetrate panoramiche e dalle terrazze rivolte verso le cime innevate, dispone di 76 posti letto in inverno e 118 posti letto in estate, con 16 camere «tradizionali» e 9 invece con 5-7 posti letto adatte a gruppi, società sportive e famiglie. La struttura ricettiva è affidata alla direzione di Fabio Anelli, giovane manager diplomato alla Scuola superiore alberghiera e del turismo di Bellinzona che pur non essendo bleniese doc da sempre frequenta la valle, in particolare Leontica, dove la sua famiglia ha una casa di vacanza. «Lo si può considerare un rifugio alpino di standing superiore – spiega – ma l’importante è che può rispondere ad una clientela ampia e variegata: dal singolo alla coppia, dalla famiglia al gruppo sportivo qui c’è la possibilità di rifocillarsi dopo una giornata sugli sci, di
Nicola Vanzetti, direttore del Centro sci nordico. (V. Cammarata)
Fabio Anelli, direttore del Campra Alpine Lodge & Spa. (V. Cammarata)
cenare nel nostro ristorante, che propone piatti tipici, di riposare in camere spaziose e arredate di tutto punto o di rilassarsi nella zona wellness dotata di bagno turco, sauna, idromassaggio e zona relax, godendosi il paesaggio incantato che ci circonda», sottolinea il direttore dell’albergo.
Il nuovo Centro sci nordico di Campra è frutto di una sinergia tra pubblico e privato. Il capitale della società che lo gestisce, infatti, è ripartito tra i tre Comuni bleniesi, lo Sci Club Simano e alcuni investitori privati. È costato circa 16 milioni, compresi stanziamenti per la ristrutturazio-
Lucomagno ancora più aperto al turismo L’Alta Valle di Blenio e in particolare il Passo del Lucomagno – che da anni ci si impegna per mantenere aperto anche d’inverno – sono alla ricerca di idee per valorizzare turisticamente una regione che tutta la Svizzera c’invidia. Pro Natura Lucomagno ha presentato nelle scorse settimane un progetto per il rilancio turistico dell’intera zona inserita nell’Inventario federale dei paesaggi di importanza nazionale. La regione, secondo Pro Natura Lucomagno, presenta al momento un’offerta frammentata e
non coordinata, tanto che l’associazione si offre come punto d’incontro e di dialogo fra vari attori presenti sul territorio. È stata così creata una piattaforma web (www.destinazionelucomagno.ch) dove ognuno può suggerire spunti, mete e fornire informazioni varie. In un secondo tempo è prevista la creazione di un gruppo che gestirà l’intera iniziativa. Il progetto non si limita al territorio ticinese, ma punta anche ad unire le forze con il versante grigionese del passo.
ne di alcuni stabili e infrastrutture esistenti, come la palestra, la pista in ghiaccio naturale e gli uffici amministrativi. Per l’impianto d’innevamento artificiale, avviato già da qualche anno e per la sua importanza a livello strategico in tutta la Valle di Blenio ha ricevuto contributi cantonali e federali, oltre al sostegno dell’Organizzazione turistica regionale. Ma il risultato di questi importanti investimenti pubblici e delle sinergie con i privati è lì da vedere: le piste di fondo sono ben frequentate, anche durante la settimana, il calendario delle gare nazionali e internazionali si sta infittendo, con il clou stagionale il 4 e 5 gennaio prossimi quando è in programma l’unica tappa svizzera della Continental Cup, piuttosto che per i corsi d’iniziazione o perfezionamento a questo sport riservati ai ragazzi dai 6 ai 14 anni in programma durante le festività natalizie. E per l’albergo, soprattutto dalla Svizzera interna, stanno fioccando le prenotazioni, nonostante l’inaugurazione ufficiale della struttura sia prevista solo nella prossima primavera con una giornata di porte aperte. E a proposito di primavera, il nuovo Centro di Campra, così attrezzato ed accogliente, si candida agli oscar dell’ospitalità turistica ticinese per la bella stagione con i suoi chilometri di sentieri per passeggiate nella natura ed emozionanti quanto impegnative escursioni in mountain bike. «Durante l’estate lavoriamo già con diversi gruppi che campeggiano qui, ma evidentemente con il nuovo albergo – e la sala riunioni di cui dispone – l’offerta è più qualificante con interessanti prospettive per gruppi e società. Puntiamo molto anche sulle scuole, che qui potranno organizzare campi estivi e colonie. E per le famiglie abbiamo in programma anche la realizzazione di un’area attrezzata per bambini», conclude Vanzetti.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 dicembre 2019 • N. 52
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La festa dell’albero Verso la fine di novembre guardavo un elicottero volare a bassa quota nell’azzurro intenso del cielo: portava a spasso, legato ad un cavo, un grosso abete che di lì a non molto, piantato provvisoriamente in una rotonda stradale, sarebbe diventato un albero di Natale. Fa un curioso effetto vedere un albero che vola; ma, in fondo, nell’immaginario dell’uomo, l’albero è sempre stato connesso con il cielo. Più esattamente: le radici che affondano sotto la terra, il tronco che si leva nell’aria, la cima che punta dritta al cielo ne hanno fatto, in tante culture, il simbolo di un collegamento fra i «tre regni», il cielo, la terra e gli inferi. Per questo il culto dell’albero sacro è sempre stato così diffuso nella maggior parte delle culture: «axis mundi» veniva chiamato nell’antichità, «l’asse del mondo», il pilastro sacro che sta al centro del mondo e che congiunge terra e cielo.
Questo simbolismo profondo condensa, come tutti i simboli archetipici, paure, speranze e sogni dell’umanità, per lo meno dall’inizio delle civiltà agricole: «Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore» – scrive Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi; così, la vegetazione che muore nell’inverno e poi rinasce costituisce un fondamento simbolico della speranza umana di sfuggire alla morte entrando in una nuova vita. L’abete poi – un albero sempreverde – non assume nell’inverno un aspetto cadaverico: è dunque un simbolo perfetto di questo sogno di una vita che si rinnova. Stiamo per festeggiare il Natale, che è appunto la ripresa cristiana della festa pagana del sole che muore e rinasce: il 25 dicembre, a Roma come in Egitto e come in Siria, si calcolava che fosse il solstizio d’inverno, giorno di un sole invincibile che, dopo il declino del suo periodo di luce, riprendeva vigore; gli
Egiziani rappresentavano il sole appena nato con l’immagine di un infante che veniva mostrata ai suoi adoratori, nel giorno del suo anniversario, al solstizio di inverno. Il cristianesimo assimilò questa tradizione fissando al 25 dicembre la nascita del Cristo, che diveniva la nuova figura del processo di morte e resurrezione: un processo che ancora una volta riconduce all’albero – quello della croce. Quell’albero, di certo, non era un abete; ma, mescolando ancora una volta tradizioni diverse, si è preso l’abete dalle culture nordiche, facendone l’albero di Natale. Un bel miscuglio, dunque, ma sempre carico di significati simbolici. Mi chiedo quanti ancora – soprattutto tra i giovani – siano consapevoli di questi significati profondi. Per molti, ormai, l’albero di Natale fa solo parte della scenografia luminosa che, in questa nostra epoca della festa continua, introduce alle festività di fine d’anno;
perciò l’abete dev’essere ritoccato e adornato con fili di lampadine, stelle luminose, palle colorate, nastri d’argento. Dev’essere spettacolo, dunque; e, anche, un annuncio delle vacanze natalizie, delle feste e delle scorpacciate di fine d’anno, dei regali in arrivo (poco importa se a portarli sia Babbo Natale, o San Nicolao, o la Befana, o genitori e nonni: l’importante è che arrivino, che le renne e le strenne siano puntuali). È pur vero che anche per me, quando ero un bambino (in un millennio ormai lontano), il Natale era principalmente l’attesa dei regali. Ma quell’attesa era punteggiata da tanti segni rituali: il periodo dell’Avvento, con i suoi digiuni, le penitenze, le preghiere, le lezioni di catechismo che ci spiegavano l’importanza e il significato della nascita nella capanna di Betlemme; e poi l’allestimento del presepe, la preparazione dell’albero, sormontato da
quella stella con la coda, la cometa, che avrebbe guidato i Magi alla capanna del Bambino Gesù. La festa era dunque arricchita di significati spirituali che, nell’immaginario infantile, assumevano l’effetto fantastico di verità fiabesche e che – come tutte le fiabe che ci venivano lette o raccontate – alimentavano la curiosità, la conoscenza delle tradizioni e trasmettevano di generazione in generazione valori culturali. Sarebbe bello, dunque, che il Natale continuasse ad essere la festa degli affetti familiari e dei profondi significati simbolici, ma tutto sta ad indicare che la logica del consumismo e della spettacolarità se ne è ormai impossessata saldamente: basta considerare le somme vertiginose spese dai comuni per gli addobbi natalizi e dai privati per porre i regali sotto l’albero. Un albero che poi spesso, passata la festa, finisce per alimentare un camino dal quale non rinascerà.
con una coda che intralciava il traffico. Mentre tutta la sala solo per lei era consuetudine della regina Eugenia di Spagna che si faceva accompagnare in cadillac, il giorno stabilito, alle cinque in punto. Ma la vera star del Capitole rimane E.T. Record di spettatori in assoluto: ottantaquattromilaseicentoquarantonove in quattordici settimane. La sera della prima di E.T., il dieci dicembre 1982, Lucienne Schnegg raccolse da sotto le poltrone, ottanta cicche appiccicate. Con le lacrime agli occhi, ogni sera, la piccola dame du Capitole sperava di tutto cuore che l’extraterrestre più amato di tutti i tempi ritornasse sulla terra, un giorno. Per ora ci sono i discorsi di presentazione di Frédéric Maire, Grégoire Junod, Roland Cosandey – direttore della cinemateca, sindaco di Losanna, storico del cinema –che non citano, non posso non dirlo, Lucienne Schnegg. Timoniera intrepida che ha salvato intatto, dal naufragio certo tra gli squali delle multisale o gli immobiliaristi senza scrupoli, questo magnifico cinema. Almeno hanno il pregio non superare di molto la mezzoretta e
non sono troppo noiosi. La sala, quasi piena di un pubblico di una certa età, applaude. Le emozioni vere incominciano però con lo spezzone di uno che spacca la legna nell’inverno 1896, in place Saint-François, accompagnate dalle note dal vivo di Enrico Camponovo al pianoforte. Sono immagini mute del repertorio dei fratelli Lumière e durano cinquantanove secondi. Tre minuti e dodici secondi riassumono poi un’antica sconfitta della Svizzera contro la Cecoslovacchia per quattro a uno. Un colpo al cuore mi viene a vedere la distruzione della villa Courvoisier che c’era qui dove siedo ora e la costruzione del «più bel cinema di Losanna». Commovente il ritratto tormentato e comico di Losanna commissionato a Jean-Luc Godard dal titolo Lettre à Freddy Buache à propos d’un courtmétrage sur la ville de Lausanne (1981). Rinuncio al rinfresco, corro a prendere il penultimo battello per Evian-les-Bains. Dove pernotto e ho scoperto solo oggi per caso, camminando sul lungolago sotto la pioggia, dell’esistenza dell’opulenta casa di vacanza dei fratelli Lumière.
milioni di persone. La ricerca spiega la prima mobilitazione di massa nella storia in favore dell’ambiente, unica per strategia, scopo e forza di attrazione nei confronti di giovani studenti, unica anche per l’attenzione mediatica a livello internazionale. A manifestare, ci dice lo studio, sono stati in particolare i ragazzi tra i 14 e i 19 anni, con una forte predominanza di ragazze ispirate da Greta Thunberg. Il movimento di protesta ha trasformato tanti giovani studenti in attivisti cresciuti nei numeri grazie al passaparola a scuola (54%) e grazie ai social media che si sono dimostrati un potente veicolo di comunicazione e aggregazione (34,4%) mentre gli adulti si sono informati attraverso stampa, radio e TV. «Non ci arrenderemo mai, abbiamo appena iniziato» sono state le paro-
le della giovane attivista svedese a commento dell’ennesimo fallimento della classe politica mondiale riunitasi a Madrid. Un’esortazione che vorrei raccogliere per me stessa ed estendere a voi tutti cari lettori: non arrendiamoci! Impegniamoci ogni giorno per una società civile più giusta, inclusiva, responsabile e più informata. Insegniamo ai giovani che il giornalismo di qualità è un alleato irrinunciabile per costruire una società democratica migliore e un futuro più verde e più pulito per tutti. E, se oggi i giovani non si informano perché non si identificano con quanto il mercato offre in termini di qualità e scelta dei temi, che lo dicano, che esortino a cambiare e indichino la via da prendere. Vorrei anch’io cambiare il mondo come Greta Thunberg ma non vorrei vivere in un mondo senza giornalismo.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Il cinema Capitole di Losanna La sera del ventinove dicembre 1928, al sei dell’avenue du Théâtre a Losanna, con la proiezione del film La conquête dramatique du Cervin, viene inaugurato il cinema Capitole. A caratteri corsivi in neon rosa su sfondo turchese scuro, l’insegna di questo glorioso cinema – battezzato con il nome di uno dei sette colli di Roma dove sorgeva il tempio di Giove – si riflette stasera sulla strada lucida di pioggia. Sotto, in nero su una striscia luminosa lattescente, a caratteri componibili dal gusto retrò, si legge VERNISSAGE DVD LAUSANNE. Una scelta di filmati su Losanna, raccolti in numero hemingwayano (quarantanove) in un divudì, sono in programma alle sette. Serata-arrivederci in onore di questa sala che diventerà, dopo il restauro, il nuovo tempio della rinomata Cinémathèque suisse fondata qui a Losanna nel 1948. Dal 1949 al 2010 il cinema Capitole di Losanna (493 m) è stato la vita di Lucienne Schnegg (1925-2015): straordinaria protagonista tenace e buffa del bel documentario di Jacqueline Veuve intitolato La petite dame du Capitole (2005). Sopravvis-
suto alla morìa dei cinema grazie alla caparbietà e dedizione di questa petite dame, entro così lunedì sera nove dicembre al Capitole. Riconciliato per merito di una cioccolata calda in rue Enning poco fa, dopo aver vagato nella tempesta, m’infilo d’istinto in balconata. E in largo anticipo, dopo secoli che non vado più al cinema e proprio di lunedì che è sempre stato per me e per molti altri ragazzi un tempo il giorno del cinema perché costava meno, sprofondo in una delle poltrone in prima fila. Al centro, nell’angolo sinistro. Le prime impressioni sul campo superano di gran lunga le aspettative dello studio. Il rosso scarlatto delle poltrone è ombroso e accogliente, la luce proviene solo dalle pareti zigrinate color meringa. Distribuita parsimoniosa alle estremità delle mura, per via di fonti nascoste che formano dei sottili fili luminescenti, il resto della luce è compito di quattro lampadari parietali in platea composti da grappoli di dodici corna a rovescio. E due qui in balconata, uno per parete, con sei corna o coni ciascuno. Il parapetto in
ottone corre ondivago, intrecciandosi attraverso un motivo a mandorla. Non sono l’unico ad assaporare la pace prima dei film, qualche spettatore è seduto qua e là giù in platea. Una coppia anziana mi tiene compagnia qui in balconata, dove si può apprezzare al meglio la bellezza di questa grande sala costruita dall’architetto Charles Thévenaz (1882-1966) e rinnovata nel 1959. Ottocentosessantasette posti, millecento ai tempi d’oro, quando c’erano, pare, poltrone in velluto rosa. Un sogno, penso, vedere un giorno qui le retrospettive della cinémathèque. Guardando in alto l’azzurro slavato del soffitto spero non venga rinnovato troppo, ma credo non poteva finire in mani migliori. Sul palco, un pianoforte la dice lunga sulla serietà della serata. Una volta lì c’era un organo da cinema accessoriato per gli effetti sonori: tuoni, spari, capitomboli. Il clown Grock si è esibito qui riempiendo la sala, come Jean-Paul Sartre nel 1946, in occasione di una conferenza sull’esistenzialismo. Ma mai si era vista una folla come quella accorsa per vedere Il giorno più lungo (1962)
La società connessa di Natascha Fioretti Ci salveranno i giovani, i caffè e il giornalismo Da qualche tempo a Camorino c’è un nuovo caffè. A metà tra lo stile moderno e quello vintage, il Mima Tea Room è diventato il nuovo centro del paese. Sarà perché a gestirlo sono tre donne, sarà perché oltre al pane fresco c’è un’ampia scelta di deliziose torte fatte in casa, sarà perché è un locale raccolto e accogliente, qui nell’arco di tutta la giornata si incontra la gente del posto. Alla sera a fare l’aperitivo arrivano anche i giovani, al mattino ci sono le mamme e le nonne con i passeggini o chi fa un salto prima di andare al lavoro. Lo avrete già capito: per me che abito a pochi passi di distanza è diventato una sorta di secondo ufficio. C’è il Wi-fi e posso portare anche Coffee, il mio cane, coccolata da tutti. In una delle mie mattine qui al Mima ho ascoltato tre signore parlare dei loro lavori a maglia tra un biscotto
natalizio e un thè. La prima lavora per un’associazione che aiuta le persone anziane, la seconda racconta dei suoi ultimi lavori fatti a mano, delle stoffe e dei colori, la terza propone di fare un mercatino, ora sotto Natale sarebbe il periodo giusto, per poi donare il ricavato all’associazione. Proprio come ai vecchi tempi, ho pensato, mentre ascoltandole con la tastiera del mio computer continuavo a scrivere la rubrica di oggi. Se hanno il tocco e l’atmosfera giusta, se offrono uno spazio nel quale le persone si sentono accolte, i caffè rimangono un punto di incontro e di scambio umano fondamentale anche nell’era digitale. Anzi, oggi acquistano maggiore importanza perché sono uno dei pochi spazi eletti alla condivisione e alla partecipazione fisica. Che poi, pensandoci bene, se da un lato è vero che siamo sempre
più isolati e lontani, ognuno perso nella sua nuvola fatta di bit, dall’altra i migliaia di giovani dei Fridays for Future e del movimento delle Sardine ci stanno insegnando che la realtà è molto diversa. Quante volte abbiamo detto che i giovani sono pigri e poco attenti al mondo reale perché distratti a chattare sul telefonino o a navigare in Rete? Quante volte ci siamo detti: di questo passo dove andremo a finire? E, invece, guardiamoli questi giovani, sono incredibili. Una ricerca europea Protest for a Future: Composition, mobilization and motives of the participants in Fridays For Future climate protests on 15 March 2019 ha analizzato le dinamiche di partecipazione che nel marzo di quest’anno hanno visto scendere nelle piazze di tredici città europee e in tutto il mondo quasi due
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 dicembre 2019 • N. 52
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Ambiente e Benessere Da alleata, ad antagonista Come la coccinella «siberiana» introdotta per la lotta biologica è diventata pericolosa
Un’idea ingenua ma efficace Per rendere migliore l’esperienza del viaggio, sempre più offerte turistiche puntano sull’effetto «stupore»
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La perla del Mojave Nella Death Valley c’è Amargosa, con l’hotel e il teatro più isolati al mondo
La magia del vischio È benaugurante baciarsi sotto un suo rametto il 1° dell’anno, ma è anche utile alla salute
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Un mezzo di protezione collettivo Vaccini Una conferenza del Rotary Club
Lugano sull’importanza di vaccinare i bambini Maria Grazia Buletti Di vaccini abbiamo parlato nell’incontro con il dottor Alessandro Diana, pediatra e infettivologo al centro pediatrico Clinique des Grangette di Ginevra («Azione 46» dell’11.11.2019). Perciò, senza soffermarci ulteriormente, ci limitiamo a ricordare i tre dati essenziali, ovvero: 1. oggi viviamo in un mondo in cui i vaccini hanno eliminato in modo efficace gran parte di quelle malattie infettive che un tempo condannavano alcuni a morire e molti a una vita di severa disabilità – malattie che comprendevano, per esempio, parotite, meningite, tetano, vaiolo e morbillo –, ciononostante molte persone incorrono nel pensiero che ai vaccini si possa o si debba rinunciare. Per questo l’OMS ha posto la vaccino-esitazione fra le dieci sfide più importanti per la salute mondiale; 2. di fatto, a livello globale, le persone a rischio di contagio sono milioni e nei primi sei mesi di quest’anno i casi segnalati sono i più alti in assoluto dal 2006; 3. nello specifico, quest’anno in Svizzera il numero di casi di morbillo, secondo l’UFSP, è triplicato rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. «I vaccini non possono essere un’opinione», e: «I fatti sono la storia e i fatti non sono opinabili»: questo il riassunto del pensiero del Rotary Club Lugano che, in occasione dell’anniversario del 90mo di fondazione, lo scorso ottobre al Palazzo dei Congressi di Lugano ha proposto una conferenza aperta al pubblico proprio su questo tema. Relatori, il professor Giuliano Rizzardini, la dottoressa Lisa Kottanatu e il professor Enos Bernasconi. Con quest’ultimo, vice direttore del Dipartimento di Medicina interna EOC e direttore della Divisione di malattie infettive dell’Ospedale Regionale di Lugano, abbiamo affrontato l’importanza di vaccinarsi. Dopo aver riportato le statistiche emerse durante l’intervista al dottor Diana di Ginevra, ne riferiamo quindi nuovamente, anche in ragione dell’accoglienza riservataci dal professor Bernasconi: «La vaccinazione non è solo un mezzo di protezione individuale, ma collettivo; parlare di vaccini è importante, più se ne parla e meglio è: il medico ne parla con il singolo paziente, con la famiglia, ma i mezzi di comunicazione hanno il compito di esprimersi con quel pubblico molto ampio che è la collettività».
Anche il nostro interlocutore, con cui analizziamo la realtà ticinese, è dello stesso avviso del dottor Diana sul fatto che le vaccinazioni restano una grande rivoluzione silenziosa del nostro tempo, ma questa realtà pare vacillare sotto l’avanzata dei vaccinoscettici che sembra non si curino di questa memoria storica per rinfrescare la quale «dobbiamo essere regolarmente presenti con il tema dei vaccini in qualsiasi modalità comunicativa perché l’informazione classica, nella quale i medici giocano un ruolo fondamentale, rimane essenziale anche nel ricordare che pure gli adulti necessitano di essere vaccinati». Innanzitutto, occorre rispondere a una domanda solo all’apparenza banale su cosa sono i vaccini. L’infettivologo ci consegna una definizione che deve far riflettere, fugando le false credenze e riportando il discorso su un livello di evidenza scientifica: «Il vaccino è un modo naturale di proteggersi contro le malattie. Naturale perché in fondo ciò che viene inoculato è, in parole semplici, la componente meno pericolosa dei microrganismi virali, per preparare il sistema immunitario a difendersi da solo contro il virus che sì, quello può fare un grande danno». E le conseguenze dannose dei vaccini sono il maggior cruccio delle persone vaccino-esitanti o scettiche: «Si tratta di preoccupazioni che dobbiamo imparare ad ascoltare e accogliere, ma alle quali possiamo rispondere che si tratta di paure infondate e senza alcuna evidenza scientifica: nei decenni i vaccini sono diventati sempre più sicuri, e parliamo di virus attenuati (come nel caso del morbillo), oppure di componenti strutturali del virus che, ripeto, hanno il compito di stimolare il sistema immunitario senza produrre gli effetti avversi gravi della malattia». Il professore mette così in evidenza la sproporzione tra quello che definisce il timore di «un rischio teorico» di fare un’encefalite da vaccino, a fronte dei «rischi reali, molto maggiori e certamente più gravi» del virus stesso. Ritorna il concetto di temporalità che sgretola la paventata relazione di causa-effetto fra vaccino e conseguenze infauste: «Le persone di buonsenso si confrontano sulla base dei dati scientifici e non sulle dicerie». Una su tutte, la convinzione dei vaccino-scettici sulla relazione fra il vaccino del morbillo e l’insorgenza dell’autismo. Una
Il professor Enos Bernasconi, infettivologo EOC. (Stefano Spinelli)
leggenda metropolitana sulla quale chiediamo al professore di fare chiarezza: «Uno studio pubblicato in Gran Bretagna nel 1998 sulla rivista “Lancet” (Wakefield, 1998) ipotizzava che il vaccino morbillo-parotite-rosolia (MPR) determinasse un’infiammazione intestinale con conseguente aumento della permeabilità dell’intestino, seguita dall’ingresso nel sangue di sostanze tossiche in grado di danneggiare il cervello e determinare l’autismo. Appena pubblicato, lo studio fu criticato perché presentava dei difetti: si basava solo su 12 bambini senza tener conto del fatto che il 90 per cento dei bimbi britannici era vaccinato con MPR alla stessa età in cui generalmente l’autismo è diagnostica-
to, e infine non metteva a confronto la frequenza dell’autismo tra i vaccinati e i non vaccinati. Alcuni anni dopo una parte degli autori dello studio ne ritrattò le conclusioni, prendendo le distanze dallo studio con una dichiarazione pubblicata su “Lancet”. Durante un procedimento giudiziario condotto successivamente (United States Court of Federal Claims, 2007), un collaboratore di Wakefield, Nick Chadwick, rivelò che i risultati dei test tramite RT-PCR erano stati volontariamente alterati da Wakefield. È infine di quest’anno la notizia che un nuovo studio, con fondamenti scientifici, fornisce l’ennesima conferma che non esiste alcuna associazione tra il vaccino MPR e un maggior rischio di
sviluppare l’autismo, nemmeno tra i bambini che sono più a rischio». Resta che oggi bisogna affrontare il tema dei vaccini con la consapevolezza di non poter ignorare gli elementi di grande preoccupazione che la copertura insufficiente vaccinale potrebbe comportare sempre di più: «Siamo nell’era della globalizzazione, per fare un esempio: viaggiamo in paesi dove non sempre c’è una buona copertura vaccinale; rischiamo di esportare l’infezione creando ancora più problemi nei paesi che visitiamo». Il nostro interlocutore conclude con una riflessione sui vaccinoscettici: «Bisogna ascoltare, comprendere dove stanno le paure e su quali basi poggiano, entrare in comunicazione sgretolando la disinformazione».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 dicembre 2019 • N. 52
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Ambiente e Benessere
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La coccinella venuta dal freddo Alessandro Focarile Siberia, un nome che evoca terre lontane, regno di freddi disumani, di tragiche prevaricazioni dell’uomo sull’uomo, luogo di esaltanti realizzazioni economiche. Ma, anche, palcoscenico per una Natura grandiosa con le dimensioni di un continente: 12 milioni e 800mila chilometri quadrati (oltre 300 volte la superficie della Svizzera). Su questa vastità, si passa dalla steppa alla foresta (la taigà), alla tundra, e alle gelide e disabitate solitudini rivierasche dell’oceano glaciale artico, sviluppandosi su 30 gradi di latitudine da sud verso nord. Questa è la Siberia. Alla fine dell’Ottocento, il famoso esploratore e scienziato norvegese Fridtjof Nansen definiva la Siberia la terra del futuro («Ein Zukunftsland») per le sue immense ricchezze potenziali, certamente non presagendo l’epopea degli idrocarburi dei giorni nostri. Tra il 1600 e la fine del 1800, gli squadroni cosacchi, con una marcia inarrestabile verso Oriente (na Vostok, in russo «ad est»), assicurarono agli Zar il dominio degli immensi territori ad Eest degli Urali, e che costituirono l’Oriente Russo fino a Vladivostok, sulle rive dell’oceano Pacifico. Anche l’Alaska divenne terra russa, venduta poi agli Stati Uniti per 6 milioni di dollari. Furono conquistati vasti territori, praticamente disabitati (fu calcolato che fossero abitati a quell’epoca da non più di 15mila persone: i paleo-asiatici di stirpe samoiedo-mongoloide). Territori ricchissimi di foreste, di selvaggina, di enormi risorse minerarie da sfruttare. Dopo i soldati, seguirono i mercanti, attirati dalle favolose ricchezze di animali da pelliccia. In questo fervore di avventurose vicende umane, non sempre a lieto fine, non potevano mancare i naturalisti-esploratori: zoologi, botanici, geologi, particolarmente onorati e finanziati dagli Zar dell’epoca. Questi, vedevano nella conoscenza delle risorse naturali dei loro nuovi domini, un motivato e concreto supporto pratico per lo sfruttamento delle cospicue ricchezze dell’Oriente russo. Tra questi avventurosi studiosi si distinse il berli-
nese Peter Simon Pallas, attivo durante la seconda metà del 1700. Nel corso di numerose e perigliose spedizioni in Siberia, scoprì una moltitudine di specie nuove per la scienza: animali e piante. Novità inusitate, che dovettero suscitare il più vivo interesse nell’ambiente scientifico e culturale dell’epoca assicurando chiara fama allo scopritore, e anche ai suoi munifici e imperiali sostenitori e protettori. Tra gli insetti, Pallas scoprì nella regione del fiume Yenisei una nuova e vistosa coccinella, da lui denominata «axyridis» in quanto raccolta su una pianta della steppa (l’Axyris), e ne curò e pubblicò la descrizione in latino nel 1773. Il nuovo coleottero fu trovato successivamente anche in Manciuria, in Cina, in Corea e in Giappone. Verso la fine dell’Ottocento, si scoprì (o, riscoprì) che diverse specie di coccinelle erano utili ausiliari per lottare contro le infestazioni dei pidocchi delle piante (Afidi), che arrecavano gravi danni alle colture. Ciò diede inizio alla lotta biologica, utilizzando, cioè, insetti contro altri insetti. La lotta biologica è un artificio creato dall’uomo. Essa può ottenere risultati positivi quando si tenta di contrastare i danni provocati dai parassiti specifici delle colture. Di fatto la lotta biologica è stata progressivamente incentivata quando si è dimostrato palese il fatto che i pesticidi di sintesi avevano tre effetti collaterali altamente negativi, essendo: 1) nocivi per la salute umana; 2) deleteri per i suoli agricoli, a seguito dell’accumulo di sostanze tossiche e non biodegradabili entro tempi brevi; 3) provocanti una bio-resistenza attraverso la formazione di ceppi animali biologicamente refrattari ai trattamenti chimici. Utile, ma non sempre. La lotta biologica può generare, talvolta, anche conseguenze negative difficilmente controllabili: quando l’insetto antagonista dei parassiti (Afidi) modifica il suo regime alimentare in tutto o in parte. Ed è ciò che è avvenuto (e sta avvenendo) con la coccinella «siberiana». Da alleata, si è trasformata in pericolosa antagonista delle coccinelle nostrane, delle quali divora le uova e le
Neozoi Dopo oltre due secoli, sta concludendo il giro della Terra
Alcune coccinelle «siberiane» (Harmonia axyridis). (Pbech)
larve. È questo un’ulteriore conferma, una volta di più, che i programmi della Natura possono essere ben differenti da quelli auspicati dall’uomo. Harmonia axyridis (è questo il suo attuale nome scientifico) è una creatura graziosamente colorata, di circa un centimetro di lunghezza, simile, quindi a quella della ben nota coccinella «nostrana» (Coccinella 7-punctata). È aggressiva, vorace, e dèdita al cannibalismo. Inoltre, è molto prolifica, in quanto può produrre anche 2-3 generazioni all’anno, che aumentano a dismisura l’entità delle sue popolazioni. Grazie anche alle favorevoli condizioni climatiche, che si evidenziano attraverso i progressivi aumenti termici alle latitudini settentrionali, è un fenomeno che provoca i conseguenti spo-
stamenti, verso Nord, dei livelli della vegetazione e della fauna. Nel 1905, la coccinella «siberiana» era importata nelle Hawaii e in California per la lotta contro gli Afidi degli Agrumi. Da allora, questo insetto, volontariamente per opera dell’uomo, involontariamente a causa dei traffici sempre più sviluppati, ha popolato tutto il Nord America, Canada compreso, affacciandosi all’Atlantico per un successivo balzo verso l’Europa. Nel 2000, fu importata in Olanda, ed essendo un ottimo volatore, numerose segnalazioni posteriori accertarono la sua presenza in diversi Paesi dell’Europa occidentale: Francia, Belgio, Germania. In Italia, nel 2004, era già presente in diverse regioni settentrionali (Veneto, Lombardia, Piemonte), e in Svizzera nel 2006 a Nord delle Alpi. Le prime segnalazioni per il Ticino sono molto recenti, e interessano ampie zone: dal Mendrisiotto al Bellinzonese e al Locarnese (una numerosa presenza a Gudo è stata riportata anche dalla stampa). Attualmente, Harmonia axyridis è giunta in Leventina (Faido), confermando le sue notevoli capacità irradiative, grazie anche alle «brezze di valle» da Sud verso Nord. Come molte altre coccinelle, questa «siberiana» ha costumi gregari: all’inizio dell’inverno essa ama radunarsi anche nelle nostre abitazioni per
svernare: nei cassonetti delle tapparelle (rolladen), negli interstizi di porte e finestre, spesso in assembramenti di centinaia di individui. E poiché, se stropicciata, emana uno sgradevole e forte odore difficilmente eliminabile da mobili e pareti, può costituire motivo di un evidente disturbo. Insomma, può essere una vera «peste». È stato pure riscontrato che questa coccinella, annidata fra i grappoli, è in grado di danneggiare irrimediabilmente una partita di uva destinata alla spremitura. A questo proposito, il Servizio fitosanitario cantonale ha messo in guardia gli appassionati del Merlot nostrano. Dopo oltre 200 anni, durante i quali Harmonia axyridis ha compiuto un lungo viaggio, sta lentamente ritornando alla sua patria di origine: la Siberia. E sarà un incontro di famiglia, ritrovando i vecchi parenti di un tempo. Bibliografia consultata
Pierre Gorge, Géographie de l’URSS, Presses universitaires de France (Paris), 1991, 126 pp. Iablokoff-Khnzorian (S.M.), Les Coccinelles. Tribù Coccinellini des régions paléarctique et orientale, Ed. Boubée (Paris), 1982, 568 pp. Majerus M.E.N., Ladybirds. The New Naturalist, Ed. Pub. Collins (London), 1994, 367 pp.
Prestate attenzione quando sciogliete la cera
L’espansione della coccinella «siberiana» dal 1760 a oggi, areale primario. (Alessandro Focarile)
Su «Azione 51» del 16.12 a pagina 47 abbiamo dato indicazioni su come realizzare una candela con resti di cera. Contrariamente ai suggerimenti dati, i resti di candela non devono mai essere sciolti in un pentolino posto direttamente sulle piastre di cucina. Poiché la cera può facilmente prendere fuoco, le prescrizioni per la
protezione antincendio svizzere vietano di scaldare la cera sulle piastre di cottura. I genitori che insieme ai loro figli desiderano realizzare nuove candele con resti di cera dovrebbero sciogliere la cera a bagnomaria e mai lasciare i bambini incustoditi durante l’intera procedura.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 dicembre 2019 • N. 52
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Ambiente e Benessere
Il viaggio è una scuola di stupore
Viaggiatori d’Occidente Il vivere di chi si affaccia sul mondo è sempre più emozionale ed accompagnato
da esperienze immersive Claudio Visentin L’aeroporto di Singapore Changi accoglie ogni anno sessantacinque milioni di passeggeri in transito i quali, negli ultimi sette anni, lo hanno premiato come il miglior aeroporto del mondo (sondaggio Skytrax). Da qualche tempo tuttavia Singapore Changi si rifiuta di essere solo un non-luogo (secondo la famosa definizione di Marc Augé). Non si accontenta più di garantire un rapido ed efficiente passaggio tra il check in e il gate; propone invece esperienze immersive ed emozionanti. Sotto una gigantesca cupola di vetro una cascata si tuffa per quaranta metri attraverso la foresta e a volte, quando il sole l’attraversa, si vede l’arcobaleno. Un sentiero tortuoso conduce tra palme e ficus, orchidee e anthurium. Dietro alla curva un robot offre da bere. Poco oltre, si cammina su una gigantesca rete sospesa a venticinque metri di altezza. Oppure si può oziare nel giardino di girasoli sul tetto e ammirare le farfalle… È una natura addomesticata, strettamente legata ai grandi marchi: gli alberi sono sponsorizzati da Shiseido cosmetici, la cascata da HSBC Bank; dai negozi e ristoranti intorno il visitatore può ammirare lo spettacolo della giungla insieme alle ultime proposte di Calvin Klein.
Un’ala dell’aeroporto di Singapore. (Changi Airport Group)
Tutta l’esperienza di questo modernissimo aeroporto è costruita su un’idea ingenua – ma efficace – di stupore. A Changi il tema è il fuori posto: la natura selvaggia tra gli aerei, là dove non ci aspetteremmo mai di trovarla. Ma tutto il turismo moderno in fondo si nutre di facili stupori. A Sonoma, California, nel gennaio 2020 aprirà un Hotel Nutella, con colazioni ispirate
alla famosa crema di nocciole. Anche qui troviamo un marchio in primo piano e il tentativo di ricreare un mondo da favola: l’Hotel Nutella è la casa di marzapane di Hänsel e Gretel, il Paese dei balocchi di Pinocchio, la fabbrica di cioccolato di Willy Wonka… Ancora in California, a Malibu, Airbnb offre la possibilità di soggiornare nella ricostruzione a grandezza naturale della
Verde stupore L’ambito ristrettissimo dell’ansa di un torrente nella foresta pluviale di Betampona, in Madagascar, dove avevamo fissato il campo tendato, rivelò una stupefacente varietà di rane: microilidi, grosse rane arboree, coloratissime mantellae velenose. Ci sono più specie di rane in pochi chilometri di foresta primaria che in tutta Europa. Questa rivelazione della biodiversità, della varietà di specie viventi nella foresta, fu l’occasione per meditare sullo stupore. La varietà è infatti quel fenomeno archetipo che Goethe pone all’origine dello stupore. «La cosa più alta cui l’uomo possa giungere è lo stupore; quando il fenomeno originario lo stupisce, allora stia contento;
Laghetto e bosco del Madagascar con rane. (Stefano Faravelli)
qualcosa di più alto esso non può concederla, ed egli non deve cercare oltre esso; qui è la frontiera».
Per Goethe lo stupore è duplice: conformemente all’usuale concezione aristotelica (in seguito sviluppata da tutta una tradizione filosofica da Cartesio a Spinoza), Goethe ammette l’esistenza di uno stupore ingenuo (uno stupore «in entrata», potremmo dire), che l’esercizio della ragione ben presto esaurisce attraverso l’indagine empirica e l’analisi teoretica. Vi è tuttavia un altro stupore, indice dei «confini insuperabili che sono imposti all’umanità». Per questo stupore «in uscita» l’elemento ingenuo di meraviglia e la sua comprensione intellettuale, il fenomeno e l’idea, si sommano in una rivelazione sintetica che ci pone di fronte all’ineffabile dell’Essere e del nostro esser-ci. / Stefano Faravelli
casa di Barbie, in occasione del sessantesimo anniversario della famosa bambola. Nel frattempo, il Virginia Museum of Fine Arts ha dedicato una mostra al grande pittore dei luoghi di transito – «Edward Hopper e l’albergo in America» – esponendo sessanta sue opere. Ma la vera attrazione è la perfetta riproduzione a grandezza naturale della stanza d’albergo ritratta nel quadro Western Motel (1957), con i suoi colori verde acido e porpora. La stanza viene offerta al ragionevole costo di centocinquanta dollari e così, tra le nove della sera e le otto del mattino, quando la galleria d’arte è chiusa, si può passare «Una notte al museo», come nel popolare film del 2006. E pazienza se lo stesso Hopper scrisse una volta che «Nessuna abile invenzione può sostituire l’elemento essenziale dell’immaginazione». Nel tempo dei social, e in particolare di Instagram, un altro museo, il Cali Dreams Pop Up Museum di Düsseldorf, ha rinunciato anche alle opere d’arte puntando direttamente sull’offerta di sfondi spettacolari davanti ai quali scattarsi un selfie. Si può scegliere una Cadillac rosa sullo sfondo di palme al tramonto, quel «sogno californiano» contenuto già nel nome del museo; e ancora unicorni da cavalcare, la famosa palestra di Bodybuilding Gold’s Gym e
altre stravaganze. Parola d’ordine: «Be awesome» («Sii fantastico»). Alla reception dell’Henn na Hotel di Tokyo sarete accolti da impiegati virtuali, ologrammi di un dinosauro e di un guerriero ninja. In tutta la Cina poi si costruiscono ponti sospesi sull’abisso col fondo di vetro (sono già duemilatrecento). La passerella East Taihang Glasswalk va ancora oltre e simula una rottura del vetro quando ci si cammina sopra… Gli esempi potrebbero continuare a lungo, con infinite variazioni sul tema. Nel tempo dell’iperturismo (Overtourism) lo stupore è largamente fine a sé stesso, di breve durata; e per questo ha bisogno di essere rilanciato in dosi sempre maggiori perché dà una rapida assuefazione. Altra cosa è lo stupore vero, profondo. Quando si desta in noi un senso di meraviglia, i nostri sensi si fanno più attenti e un varco si schiude verso la comprensione dei luoghi attraversati: l’armonia di un edificio rimanda alle sue misure, la luminosità di un quadro alla sua composizione. Lo stupore porta in sé una domanda, ci spinge a indagare le cause della bellezza, a comprenderla a fondo attraverso la ragione. Anche la natura ha mille segreti da raccontare. Il rumore di un ruscello di montagna, la forma sempre diversa degli alberi del bosco possono stupirci anche senza il contorno di un aeroporto internazionale. Nel presepe classico della tradizione italiana c’è un personaggio che non può assolutamente mancare: lo stupìto. È un pastorello che tiene la mano a visiera sugli occhi; viene generalmente posizionato su una collinetta di muschio e guarda incantato, a debita distanza, la natività. E al centro della scena niente effetti speciali, ma un normalissimo bambino «avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». Solo la comparsa dell’angelo svela ai pastori – gente semplice, umile e per questo ancora capace di stupirsi – il valore nascosto di quello che è davanti ai loro occhi. Il presepe mette in scena la più grande sorpresa che Dio fa al mondo, incastonata nella vita di ogni giorno, tra i poveri e i ricchi, i credenti e gli indifferenti, il buio e la luce. Lo stupore parla di Dio, lo stupore conduce a Dio. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 dicembre 2019 • N. 52
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Il sogno di Marta
Ambiente e Benessere
Reportage La storia dell’Amargosa Hotel and Opera House, tra le depressioni della Death Valley,
i venti fischianti e il calore opprimente del deserto del Mojave
L’ingresso del teatro Amargosa.
Simona Dalla Valle, testo e foto Quando, nel 1976, Marta Becket e il marito Thomas Williams si trovavano nel campeggio di Furnace Creek, una gomma a terra sul loro rimorchio li costrinse a cercare un garage in mezzo al deserto della Death Valley. Lo trovarono a quasi 60 km di distanza in una piccola enclave lungo la strada, nel villaggio di Death Valley Junction, che comprendeva un fabbricato fatiscente composto dai locali ormai dismessi dell’azienda mineraria Pacific Coast Borax Company.
Marta dipinse sulle pareti un pubblico che le tenesse compagnia quando nessuno assisteva agli spettacoli Mentre Thomas riparava lo pneumatico nella vicina stazione di servizio, Marta si aggirava curiosando tra gli edifici. «Mi ero già dimenticata dello pneumatico», scrisse nella sua autobiografia To Dance on Sands: The Life and Art of Death Valley’s Marta Becket pubblicata nel 2006. «Ho camminato verso la struttu-
ra, temendo di toglierle gli occhi di dosso, per paura che scomparisse». In una porta sul retro trovò una fessura da dove poté sbirciare all’interno. Lì vide un piccolo palcoscenico con tende di calicò sbiadito. Le travi del pavimento erano deformate e ricoperte da calcinacci, diverse file di panche ammassate di fronte al palcoscenico. Era ovvio che il teatro era stato abbandonato da tempo. «Osservando attraverso la fessura ho avuto la netta sensazione di guardare l’altra metà di me stessa. L’edificio sembrava dire: portami… fai qualcosa con me… ti offro la vita». Martha Beckett (in arte Marta Becket) era nata nel Greenwich Village di Manhattan il 9 agosto 1924 da Henry Beckett, giornalista del «New York Post», ed Helen Brown, proprietaria di un negozio di mobili. I genitori si erano separati quando Martha era giovane, e la madre l’aveva portata a vivere in Pennsylvania prima di tornare a Manhattan. La giovane Martha, precocemente creativa, scrisse opere teatrali usando uno pseudonimo; inoltre suonava il pianoforte e ballava. La madre la spinse a portare avanti la carriera da ballerina a scapito degli studi superiori e ben presto Martha si unì al corpo di ballo del Radio City Music Hall. A Broadway si
L’interno del teatro con il pubblico dipinto sulle pareti dalla proprietaria.
La struttura si trova a 60 km dal deserto della Death Valley.
esibì nel musical Show Boat, in A Tree Grows in Brooklyn e Wonderful Town. Nel decennio prima di ritrovarsi a Death Valley Junction, dunque, Martha conduceva una vita intensa e itinerante. Quello che da anni era il suo manager nel 1962 diventò suo marito, e insieme a lui intraprese una serie di viaggi negli Stati Uniti occidentali durante i quali iniziò ad apprezzarne il paesaggio, molto diverso da quello che aveva conosciuto crescendo a New York
La lobby dell’hotel.
City. Fu proprio durante uno di questi viaggi che Martha si innamorò di quello che sarebbe diventato l’Amargosa Hotel and Opera House, così ribattezzato in onore dell’insediamento originale il cui nome si traduce in spagnolo come «amaro», a causa delle sorgenti alcaline circostanti. Progettata dall’architetto Alexander Hamilton McCulloch e costruita durante gli anni 1923-1925, la struttura di proprietà della Pacific Coast Borax Company era una vera e propria città aziendale. Composta da un complesso a ferro di cavallo di edifici di adobe in stile coloniale spagnolo, ospitava gli uffici dell’azienda, negozi, un dormitorio, un hotel con ventitré stanze e una sala da pranzo, una lobby e la sede dei dipendenti. All’estremità nord-est del complesso era stata realizzata una sala ricreativa, la Corkhill Hall, utilizzata come centro comunitario per danze, funzioni religiose, proiezioni di film, funerali e riunioni cittadine. Stanchi della vita frenetica di New York, dove cercare di rimanere a galla finanziariamente ed emotivamente era un impegno gravoso, il pomeriggio stesso i due si assicurarono l’affitto del complesso per 45 dollari al mese più le riparazioni. L’opera di ristrutturazione dell’hotel e del teatro iniziò immedia-
tamente: dopo che il tetto fu riparato e le luci di scena furono ricreate a partire da vecchie lattine di metallo, Martha cucì tende di velluto rosso e dipinse i set. Nemmeno gli spettacoli tardarono ad arrivare: la prima rappresentazione avvenne il 10 febbraio 1968 quando, in una notte di pioggia, l’artista si esibì per un pubblico di dodici adulti e i loro figli e nipoti. Da allora e per anni, il sipario dell’Amargosa Opera House si aprì alle 20.15 di ogni venerdì, sabato e lunedì. Il pubblico era composto da gente del posto e turisti curiosi, ma a volte la partecipazione era scarsa o addirittura nulla. Nel 1968, dopo un’improvvisa inondazione che lasciò trenta centimetri di fango all’interno del teatro, Martha ebbe un’idea: dipingere sulle pareti un pubblico che le tenesse compagnia quando non c’era nessuno ad assistere agli spettacoli. La donna scelse di raffigurare una corte spagnola del XVI secolo con un re e una regina, oltre a una serie di personaggi che si ispiravano allo stile coloniale spagnolo originario: nobili, toreri, uomini di chiesa, contadini, zingari e prostitute. La signora Becket si esibì per i successivi 40 anni, smettendo soltanto nel 2012 all’età di 88 anni. Nel frattempo, il matrimonio con Thomas era andato gradualmente a pezzi, e a metà degli anni Ottanta i due divorziarono. La donna dipinse murales anche in tutto l’hotel. Un’alcova all’ingresso del corridoio principale raffigura un gazebo, naturalmente illuminato da un lucernario. Una chitarra poggia su una sedia, in silenziosa attesa di un chitarrista. Le pareti della sala da pranzo sono adornate da murales di un giardino spagnolo del XVI secolo. Le pareti di molte stanze sono decorate con dipinti di putti, pavoni e angeli. Nella stanza 22 una ballerina danza su una palla, mentre una raffigurazione di clown e acrobati è una dedica speciale all’attore Red Skelton, che fu ospite dell’hotel in quattro occasioni. Quando Martha Becket morì nel 2017 il suo unico superstite fu il teatro; insieme a esso, sulle pareti e sul soffitto, il pubblico colorato da lei dipinto, che non se ne sarebbe mai andato.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 dicembre 2019 • N. 52
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Ambiente e Benessere
Vischio non solo per la salute Fitoterapia Un’antica usanza beneaugurante impone agli innamorati di scambiarsi baci
Eliana Bernasconi Il suo nome scientifico è: Viscum album L. È una pianta davvero unica, circondata da un alone di magia e mistero. Rientra nella famiglia botanica delle Loranthaceae, composta da 1400 specie alcune delle quali hanno la particolarità di essere delle «emiparassite», il che significa che crescono ospiti di un’altra pianta dalla quale ricavano i sali minerali, mentre in modo autosufficiente effettuano la fotosintesi clorofilliana. Su piante come ad esempio il pino silvestre, il pioppo, l’abete bianco o la quercia, il vischio sviluppa ciuffi tondeggianti che si conservano verdi tutto l’anno, con rami e piccole foglie opposte e ovali, fiorellini di colore giallo e frutti che sono inconfondibili bacche sferiche lisce e bianche dalla polpa gelatinosa, (da cui l’aggettivo «vischioso», che si usa appunto per indicare qualcosa di molto attaccaticcio e deriva dalla particolarità di queste bacche). La strategia creatrice della natura è davvero stupefacente se osserviamo che anche la propagazione dei semi del vischio avviene per mezzo degli uccelli, soprattutto merli e tordi, i quali mangiano le sue bacche per poi espellerne i semi non digeriti quando si posano sui rami. Proprio su questi ultimi il seme depositato germinerà, dopo essere penetrato nella corteccia dove emetterà radici che si infiltreranno a loro volta nel legno vero e proprio. Un profondo conoscitore delle piante e del paesaggio, Giorgio Lam-
brughi, ci ha suggerito come ottenere il vischio, che cresce nell’alto Ticino e in alcune zone della Riviera. Per averlo sperimentato lui stesso con una pianta di melo, spiega che basta mettere un seme nella piccola fessura della corteccia per l’appunto di un melo o di un pero e attendere di vederlo crescere. Nell’antichità, i Celti adoravano il vischio – ma solo il «vischio quercino» – come «sperma» della sacra quercia. Credevano infatti che le sue bacche bianche fossero gocce del liquido seminale del dio del cielo. Per questo motivo, il vischio di quercia – che è uno degli alberi meno attaccati da questo parassita – era considerato sacro dai loro sacerdoti-medici, i Druidi, per i quali rappresentava l’anima immortale. Di fatto si riteneva che il vischio fosse in grado di proteggere dalle ferite d’arma, e per questo era portato sulla pelle durante i combattimenti, e bruciato nei roghi dei guerrieri morti in battaglia. Tutti i popoli nordici chiamavano il vischio «colui che guarisce ogni male»; il suo culto era così radicato presso le popolazioni europee che riuscì a conservarsi anche molto tempo dopo l’avvento del cristianesimo. Indossato, era ritenuto capace di far concepire le donne per la sua prerogativa di restare verde e fresco anche quando la pianta che lo ospita è «apparentemente» morta per l’inverno. I Druidi lo impiegavano contro l’epilessia e gli spasmi di ogni tipo, per trattare ferite purulente e di difficile guarigione e per le malattie cancerose.
Nonostante la grande considerazione di cui godeva nella medicina popolare, tuttavia, il vischio fu iscritto nella farmacopea non prima della seconda metà del XIX secolo, quando furono scoperti e sperimentati i suoi principi attivi. Un’importante conferma terapeutica si ebbe con una ricerca effettuata da un gruppo misto svizzerogermanico nel 1999, che dimostrò la sua azione nei riguardi del tumore al polmone, e nel 2000 uno studio sperimentale tedesco ha evidenziato gli effetti degli estratti di vischio somministrati dopo la chemioterapia. Del vischio si usano le foglie e i rami giovani, raccolti durante tutto l’inverno a partire da settembre fino a marzo, essiccati al sole si conservano in scatole di cartone. Attenzione, le sue bacche sono invece velenose: a dosi tossiche possono provocare disturbi al sistema nervoso centrale, allucinazioni e paralisi. Il vischio ha proprietà vasodilatatrici, ipotensive, diuretiche, lassative e antiepilettiche; la tintura madre è impiegata nel trattamento dell’epilessia e dell’ipertensione arteriosa (nell’antichità era usato per la tosse spasmodica e i singhiozzi) perché è sedativa, antispasmodica e ipotensiva; l’estratto fluido veniva invece usato contro i geloni. La medicina antroposofica lo impiega come antitumorale. Come difesa e prevenzione dell’arteriosclerosi, una vecchia preziosa ricetta consiglia di macerare per una settimana 20 g di foglie di vischio in 3 dl di vino bianco secco di buona qualità; trascorso il periodo in-
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sotto i suoi rami alla mezzanotte di San Silvestro
dicato, spremere, filtrare, imbottigliare e bere 1-2 bicchierini al giorno. E poi c’è la tradizione, ben nota anche da noi. Un’antica usanza bene-augurante che impone agli innamorati di scambiarsi baci alla mezzanotte di San Silvestro sotto i suoi rami. Le sue origini si perdono nella notte dei tempi e sono impossibili da conoscere, ma forse ci può correre in aiuto una leggenda dei Celti, che vede il vischio portatore di rigenerazione, del trionfo del bene sul male e della vita sulla morte. Così recita la leggenda: la Dea della mitologia nordica Freya, sposa di Odino, aveva due figli, come Caino e Abele uno, Balder, era buono e generoso, l’altro, Loki, cattivo e invidioso. Loki voleva uccidere il fratello. Venutane a conoscenza, Freya chiese a tutti gli esseri della terra, ani-
mali e vegetali, di proteggere Balder. Dimenticò però di rivolgersi anche al piccolo vischio, con i cui rami, infine, Loki fabbricò un dardo e uccise il fratello. Vedendo il corpo del figlio senza vita, la dea inizia a piangere, e magicamente le sue lacrime, diventate bacche bianche, appena toccano il corpo del figlio gli ridonano la vita. Folle di gioia, la madre corre ad abbracciare tutte le persone che passano sotto il vischio, alle quali concederà per sempre la sua protezione. Bibliografia
Gabriele Peroni, Trattato di Fitoterapia Driope, Nuova Ipsa editrice. Laura Rangoni, Il grande libro delle piante magiche, Xenia Edizioni. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 dicembre 2019 • N. 52
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Canapè ai gamberetti Aperitivo Ingredienti per 4 pezzi: 4 fette di pane bigio di ca. 20 g ciascuna · 2 c di burro d’arachidi · 20 g di spinaci a foglie · 100 g di gamberi cotti Tail-on · ½ fetta d’ananas fresco · 1 peperoncino · 1 c d’arachidi · 1 cc di Tabasco.
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
1. Ritagliate dei dischi di circa 7 cm di diametro dalle fette di pane. Spalmateli con il burro di arachidi e farciteli con gli spinaci. 2. Staccate le code dei gamberi e accomodateli sugli spinaci. Tagliate l’ananas a pezzettini, il peperoncino ad anelli e disponeteli sugli spinaci. Tritate grossolanamente le arachidi e distribuitele sui canapè. 3. Servite con qualche goccia di Tabasco. Consigli utili: I canapè coperti si conservano per qualche ora al fresco.
Se preparate i canapè in anticipo da portare a una festa, aggiungete le arachidi e il Tabasco solo prima di servirli. Tagliate i resti di pane a dadini e tostateli, poi utilizzateli come crostini per guarnire insalate o minestre. Calcolate un canapè a testa come benvenuto dello chef e circa tre per un antipasto o aperitivo. Se prevedete di organizzare un’apericena, adattate le quantità in base alla totalità del cibo previsto. Preparazione: circa 10 minuti. Per persone: circa 11 g di proteine, 4 g di grassi, 11 g di carboidrati, 130 kcal/550 kJ.
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Latte e produzione di muco
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La nutrizionista Uno studio ha stabilito
che non vi è nessuna correlazione Laura Botticelli
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Cara Laura, ho sentito che non dovresti bere latte quando hai il raffreddore perché aumenta il catarro. È vero? / Patrizia
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Gentile Patrizia, la ringrazio per la domanda, anche se ammetto non sia proprio un argomento natalizio, rispondo ora perché capita comunque nel periodo dell’anno «giusto», quando la buona parte delle persone, ahinoi, combatte con nasi intasati e mali alla testa, cioè con raffreddori vari. Un po’ di fisiologia. Il catarro è la secrezione delle ghiandole mucipare presenti nelle mucose delle vie respiratorie. Anche se è un po’ disgustoso, il muco gioca un ruolo importante nel nostro corpo perché protegge i tessuti da irritazioni o danni in molte parti del nostro organismo, tra cui trachea, polmoni, esofago e stomaco. Nelle vie aeree la sua produzione è provocata da infiammazione o irritazione, a loro volta causate da diverse patologie. Quindi ne abbiamo bisogno, ma ovviamente nessuno ne vuole troppo, specialmente se ne stiamo già producendo in eccesso a causa del raffreddore. Per tornare alla domanda iniziale. Il latte aumenta ulteriormente la produzione di catarro? No, anche se questa teoria esiste da secoli, e la si trova addirittura nella medicina tradizionale cinese; ancora oggi qualcuno ne è convinto. Non esiste alcuna correlazione tra il consumo di latte e la formazione di muchi e catarri. E a dirlo non sono io, ma il risultato di uno studio eseguito negli anni Novanta, durante il quale hanno tenuto sotto stretta osservazione un campione di persone con raffreddo-
re arrivando a pesare addirittura tutte le secrezioni nasali, senza rilevare alcuna differenza significativa tra chi consumava latte e chi non lo faceva. Probabilmente la sensazione di difficoltà alla deglutizione della saliva più spessa, o nell’avvertire un rivestimento alla gola mentre si beve latte e si ha il raffreddore, è dovuta a una reazione chimica: la combinazione di bevande ricche in grassi, appunto il latte, e la saliva, sembrano simulare l’effetto muco. Si tratta quindi di una nostra percezione errata. Questo inverno potrà godersi un buon bicchiere di latte e miele anche se è raffreddata. Buone feste a lei e a tutti i lettori di «Azione». Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 dicembre 2019 • N. 52
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Ambiente e Benessere
A che stadio siamo arrivati?
Sport Il Ticino è meraviglioso, ma in quanto a impianti sportivi, c’è ancora molta strada da percorrere
Giancarlo Dionisio «Caro Gesù Bambino, siamo un gruppo di anziani. Siamo tutti appassionati di calcio. Fedelissimi ai colori bianconeri: quelli del Football Club Lugano. Ci piacerebbe molto, prima della fine dei nostri giorni (per alcuni, ahinoi, non è lontanissima), di poter assistere a una partita, magari internazionale, in un nuovo, moderno, confortevole impianto sportivo, nella nostra splendida cittadina. Dai media abbiamo appreso che la Swiss Football League ha concesso al nostro Club del cuore, una deroga fino al 2021. È un dato che potrebbe indurre a strapparci i capelli dalla disperazione. Ma ne abbiamo pochi. Poi, alcuni di noi, che in virtù di una strana alchimia genetica, sono anche sostenitori dell’Hockey Club Ambrì Piotta, ci hanno rassicurati. «Tranquilli, sono date destinate ad essere prorogate sine die, lo sappiamo per esperienza». Per noi si tratta tuttavia di un motivo di dignità e di orgoglio cantonale. Un nostro associato 82enne, mago delle nuove tecnologie, ha effettuato una piccola ricerca, dalla quale sono emersi dati inquietanti. Intendiamoci, caro G.B., li conoscevamo già, ma il vederceli sbattuti lì, davanti agli occhi, ci ha quasi fatto venire un colpetto. Sappiamo che sei onnisciente, tuttavia, dati i tuoi innumerevoli impegni in questo periodo, ci permettiamo di ricordarti alcuni aspetti fondamentali della questione. Nella nostra Super League giocano dieci squadre. Otto di queste lo fanno all’interno di stadi costruiti dopo
il 2000. Si va dalle ampie tribune del St. Jakob Park di Basilea, la regina delle nostre arene, con i suoi oltre 42mila posti a sedere. Si passa per gli altri tre gioiellini, di Berna, Ginevra e Zurigo (sponda FCZ, in attesa che un nuovo Hardturm possa risorgere). Si arriva infine alle New Entry. Le piccole e confortevoli bomboniere di Neuchâtel, Lucerna, San Gallo, Bienne e Thun, tutte concepite secondo criteri moderni, abbinate a centri commerciali, ristoranti o unità abitative. A farci concorrenza, in negativo, c’è solo il Tourbillon di Sion, che però ha il privilegio di essere adagiato ai piedi dei castelli (potessimo importarli da Bellinzona!). Lo stadio vallesano ha inoltre la prerogativa di essere ancora tutto sommato abbastanza sexy. Pure lui è nato nello scorso millennio, nel 1968, ma i suoi 51 anni di esistenza lo rendono equiparabile a una bella signora di mezza età. Infine, dato tutt’altro che trascurabile, è omologato per poter ospitare il triplo degli spettatori concessi a Cornaredo, che fu inaugurato nel lontano 1951 (quindi già da tempo in AVS), con la super sfida fra Rossocrociati e Azzurri. Vorremmo tuttavia stendere un velo pietosissimo sulle norme UEFA per l’omologazione degli stadi. Alcuni di noi, i più arzilli e gagliardi, hanno recentemente affrontato la trasferta a Gibilterra, al seguito della Nazionale. Ebbene, in confronto al campetto su cui si è giocato, il nostro Cornaredo sembra l’Emirates Stadium di Londra. Per fortuna qualcosa si sta muovendo. Il progetto del nuovo Polo
Lo stadio di Cornaredo. (CdT - Maffi)
sportivo luganese è partito. Vi si contemplano: un impianto per il calcio per circa 10mila spettatori; un palazzetto da 3mila posti per pallacanestro, volley, scherma, arti marziali, e altro; un campo in erba, con pista per l’atletica, tribune, sale riunioni, spogliatoi, magazzini e buvette. L’optimum! Non ci resta che attendere, e sperare. Sì, sperare. Perché da noi, ogni iter sembra più lungo e complesso che altrove. Non solo a Lugano. Pensa, caro G.B., alle vicissitudini dei nostri «amici» bellinzonesi, o a coloro che , tra Chiasso e Altdorf, palpitano per le sorti della squadra della Valle. Spesso, quando ci ritroviamo a
fare due chiacchiere davanti a un buon bicchiere, ci chiediamo il perché! Perché in altre città, in altri cantoni, non sempre messi meglio di noi dal punto di vista finanziario… tic, tuc, tac, basta una formula magica e in poco tempo, ecco che spuntano il nuovo stadio, o il nuovo palazzetto? Forse perché siamo un po’ più sanguigni, più litigiosi, più faziosi, più invidiosi? Forse perché la nostra storia di ex poveri, ci stimola a trarre il massimo profitto da ogni nostro gesto, e tutto ciò, fra ricorsi e controricorsi, complica maledettamente le cose? Mah! Noi, non siamo mai riusciti a trovare una risposta convincente. Tu, senza dubbio, sai.
Riconosciamo che per te potrebbe essere imbarazzante esaudire il nostro desiderio di veder confezionato il nuovo Polo sportivo luganese in soli due anni. Cosa direbbero gli altri? Quindi, ridimensioniamo le nostre richieste iniziali e ci limitiamo a chiederti, caro G.B., di renderci un po’ meno litigiosi, meno invidiosi, più collaborativi e più solidali. Forse, al di là delle bandiere che ci fanno sognare, esultare, litigare, dobbiamo riconoscere che il futuro del nostro sport di punta andrebbe concepito su scala cantonale. Per molti di noi è duro ammetterlo, ma… ne riparleremo. Per ora facciamo festa. Buon Natale!» Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 dicembre 2019 • N. 52
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Politica e Economia Trump sotto impeachment È il terzo presidente nella storia americana a subire la messa in stato di accusa. In gennaio il processo in Senato
India contro la CAA Il parlamento ha approvato una controversa proposta di legge che dovrebbe garantire la cittadinanza indiana solo ai rifugiati non musulmani pagina 27
pagina 26
Riforma in arrivo Il Consiglio federale presenta la riforma della previdenza professionale: il tasso di conversione dovrà scendere dal 6,8 al 6 per cento
L’anno economico che verrà Intervista al capo economista di banca Migros su quel che possiamo attenderci nel 2020 pagina 30
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Go Brexit go
Londra Alla fine ha vinto BoJo con il suo
Cristina Marconi Il Natale di Boris (foto) è di quelli da trascorrere con la soddisfazione delle cose fatte: dal caos assoluto che ha regnato nel Paese per tre anni e mezzo è riuscito a plasmare un’idea di futuro che, per quanto volutamente ancora avvolta dalla nebbiolina degli slogan elettorali, ha una sua vertiginosa coerenza. E ha conquistato la maggioranza di un Parlamento anchilosato da anni, lasciando immaginare un futuro di decisioni spedite e di influenza profonda su un Paese che ha deciso di affidare a lui la soluzione della propria profonda crisi di identità. Per frustrazione, anche. L’offerta del Labour di Jeremy Corbyn è stata respinta con sdegno proprio da quel Nord ex operaio e deluso al quale il leader socialista voleva dare risposte, permettendo ai Tories di sfondare il «muro rosso» che da sempre proteggeva quelle zone. La posizione ambigua del Labour sulla Brexit non ha pagato: non ha convinto i Brexiteers più deboli a ripensarci e non ha persuaso i Remainers più mercatisti a superare le proprie perplessità. E ora è già partita la lotta per la successione, inevitabilmente, con annessa altra crisi di identità, come per tutti i partiti di sinistra del mondo, al momento. Quello che ha convinto, e molto, è stata invece la linea di Johnson: «Portiamo a termine la Brexit», «Get Brexit Done», martellante come una canzoncina di Natale, ripetuta in tutti i contesti e con mille travestimenti addosso, da lattaio, da panettiere e addirittura alla guida di una ruspa, rassicurante solo nel suo promettere l’uscita dalle secche dell’approvazione dell’accordo per l’uscita dalla Ue. Con i suoi 365 deputati, questo passaggio è dato per scontato ed è il primo regalo che Johnson vuole mettere sotto l’albero prima delle feste, per poi concentrarsi sugli altri appuntamenti che lo aspettano, a partire da quello cruciale del dicembre del 2020, quando ha promesso che finirà il periodo di transizione in cui tutte le regole europee continueranno a essere applicate e la libera circolazione dei cittadini continuerà a valere.
L’obiettivo, a quel punto, si fa molto ambizioso, quasi impossibile: stringere un accordo commerciale con l’Unione europea così ampio da essere un accordo di libero scambio. E per continuare a promettere certezze, Boris ha deciso di rendere illegale per il parlamento approvare una eventuale proroga del periodo di transizione. Riaccendendo inevitabile lo spettro del no deal, ossia dell’uscita senza accordo che danneggerebbe innanzi tutto il Regno Unito. Ma festoso e natalizio, Boris ha deciso di mettere altri regali sotto l’albero dei britannici, anzi di farlo mettere da una Elisabetta assai svogliata, senza corona né pompa magna, nel corso del secondo Queen’s Speech nel giro di poco più di due mesi. Si tratta di nuovi finanziamenti per il servizio sanitario nazionale, quell’NHS su cui il Labour è riuscito, con un certo successo, a spostare l’attenzione durante la campagna elettorale. Per l’esattezza, sono 33,9 miliardi di sterline all’anno entro il 2023/24, con un impegno sottoscritto sotto forma di legge, nella speranza di far dimenticare l’unico disastro vero della campagna elettorale, ossia la foto del bambino di quattro anni lasciato a dormire per terra in una corsia di ospedale con un sospetto di polmonite ignorata in maniera stizzita e priva di grazia da un Johnson apparso drammaticamente carente in compassione. Per il resto i regali, annunciati da una regina vestita di verde acquamarina e impassibile come al solito, sono un inasprimento delle pene per il terrorismo e degli aiuti per le aree depresse, in modo che «tutte le zone del Paese possano prosperare». Boris vuole strapiacere, governando su un Paese che per la prima volta, quando si siederà a tavola per Natale, forse non si accanirà più a parlare di Brexit, tema che per anni ha portato a risse e liti profonde in famiglia, tanto da essere stato bandito già da anni dalla lista degli argomenti accettabili per chiunque voglia trascorrere le feste in pace e armonia. Spinto dai suoi consiglieri molto molto determinati – Dominic Cummings è la mente, il capo
AFP
slogan martellante come una canzoncina di Natale. Tanto che il Paese ha deciso di affidare a lui la soluzione della propria profonda crisi di identità e di concludere il litigioso divorzio con la Ue
della campagna Isaac Levido è il braccio, la compagna Carrie Symmonds la persona che ha saputo rendere un po’ meno irritante l’immagine pubblica di Johnson – il neopremier vuole imprimere fin da subito la sua idea di Paese. E non si esclude che in questo finisca con il realizzare una Brexit meno tossica di quella voluta dai radicali eurofobi alla Jacob Rees-Mogg, che lo ha definito «una benedizione» e che rischia di essere marginalizzato nella prossima squadra di governo, dopo il rimpasto di febbraio prossimo. Quando si spegneranno le lucine di Natale, Boris vorrà cambiare un po’ tutto: l’assetto istituzionale, con una commissione per Democrazia, Costi-
tuzione e Diritti incaricata di pensare a delle riforme; la Bbc, decriminalizzando il mancato pagamento del canone da 154 sterline all’anno e magari abolendolo proprio, in modo da andare incontro alle richieste delle emittenti private come Sky; l’immigrazione, con regole draconiane per i nuovi arrivi e la necessità di compilare un formulario online prima di arrivare anche per i turisti. Per gli immigrati ci saranno tre tipi di visti, sul modello di quanto avviene in Australia: quelli per i grandi talenti, che saranno autorizzati a rimanere quanto vorranno, così come i lavoratori qualificati, che però dovranno essere chiamati da un datore di lavoro, e quelli temporanei e precari per i la-
voratori non qualificati, che saranno chiamati solo in base ai bisogni dei vari settori dell’economia. Sembra un piano perfetto, quello del biondo Boris a braccetto con la sua bionda Carrie, vestita come una ragazza normale. Senza nessuna opposizione in grado di mettersi di traverso, tranne quella della scozzese Nicola Sturgeon, vincitrice indiscussa a nord del Vallo e già decisa a ottenere il suo referendum sull’indipendenza. Questi regali così ben incartati potrebbero essere la chiave per la stabilità e il progresso o, non si può escludere, segnare l’inizio di qualcosa di meno rassicurante, un po’ spaventoso e spettrale come tutte le storie di Natale.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 dicembre 2019 • N. 52
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Politica e Economia
Un’America spaccata
Casa Bianca La Camera ha votato sì all’impeachment ma a gennaio il Senato lo assolverà. Trump è il terzo
presidente nella storia americano messo in stato di accusa dopo Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998
Federico Rampini
Nazionalismo e sovranismo, protezionismo e resistenza all’immigrazione: sono i punti comuni fra le insurrezioni populiste anglo-americane Nel 2016 la vittoria di Brexit nel Regno Unito fu il preludio e il presagio dell’inattesa elezione di Trump, meno di cinque mesi dopo. Nei due casi i sondaggi fecero un flop clamoroso. Nei due casi una costante fu la rivolta della classe operaia contro l’establishment. Nazionalismo e sovranismo, protezionismo contro la concorrenza dai paesi emergenti, resistenza all’immigrazione: l’elenco dei punti comuni fra le insurrezioni populiste anglo-americane è lungo. Le élite tradizionali (compresi i capitalisti, i top manager delle multinazionali, i repubblicani e i Tories di vecchio stampo) odiano o disprezzano «i gemelli» Donald e Boris, qualche volta scambiando i propri desideri per realtà. Gli economisti prevedono da due anni cataclismi nelle economie americana e britannica, mai avvenuti. Intellettuali e giovani universitari hanno avuto innamoramenti per Jeremy Corbyn, la riscoperta del marxismo è stata celebrata, ma il verdetto delle urne è deludente su quel fronte. Perciò, subito dopo l’euforìa di Trump, è interessante l’impatto dell’elezione britannica sulla sinistra americana a meno di 11 mesi da un altro voto di portata mondiale. Esistono almeno due versioni americane di Corbyn. Bernie Sanders, il senatore del Vermont che si proclama socialista e già sfidò Hillary Clinton per la nomination nel 2016, è il più simile. Si può applicare a Sanders la battuta che il «Financial Times» coniò per Corbyn: reduci di una sinistra «vetero» secondo la quale la Guerra fredda fu vinta dalla parte sbagliata. Simpatizzanti del castrismo cubano, dei vari Chavez Maduro, Morales, nonostante i fallimenti ripetuti. Piacciono, non a caso, a tanti giovani che della Guerra fredda o dell’Urss non sanno nulla. L’altra simil-Corbyn in America è la senatrice del Massachusetts Eliza-
AFP
C’è una logica stringente che unisce eventi mondiali delle ultime settimane: la vittoria eclatante di Boris Johnson nelle elezioni inglesi; l’impeachment di Donald Trump; ma anche le rivolte in India contro le nuove leggi sulla cittadinanza. In tutte le democrazie del pianeta continua a soffiare il vento del nazionalismo-sovranismo. Quella stagione politica non si è affatto chiusa. D’altronde non si tratta solo delle democrazie. La Cina di Xi Jinping ha abbracciato forse per prima, un decennio fa, la sua versione del populismo nazionalista; e quando osserviamo gli abusi contro i diritti umani degli uiguri, i campi di detenzione per questa minoranza islamica nello Xinjiang, è inevitabile allineare le due più vaste nazioni del mondo (Cina e India) ad una tendenza più generale che è una reazione difensiva dopo quasi un ventennio di avanzata del fondamentalismo islamico in varie zone del pianeta. È una storia che parte da lontano, dalla guerra in Cecenia all’11 Settembre, ed ha avuto la sua ultima puntata americana con il Muslim Ban di Trump, tutt’altro che anomalo come dimostrano India e Cina.
beth Warren, la cui carriera politica ebbe inizio con il movimento Occupy Wall Street e la protesta contro i salvataggi delle grandi banche, le diseguaglianze sociali, l’economia al servizio dell’un per cento di privilegiati. La Warren è più moderna di Sanders e Corbyn, non ha nostalgie di Che Guevara o T-shirt con la faccia di Mao. Insieme, la Warren e Sanders hanno un seguito che sfiora la metà della base democratica nei sondaggi. Di recente però l’ascesa della Warren – che aveva sorpassato il moderato Joe Biden, ex vice di Obama – si è arrestata e ha dato segni di flessione. È accaduto che, per onestà intellettuale o ingenuità, lei ha scoperto le carte sulla sua riforma sanitaria. Porterebbe in America un sistema uguale a quello italiano, un servizio sanitario nazionale, gratuito o quasi. Il costo della transizione, che sposterebbe dal privato al pubblico l’intera sanità, lei stessa lo ha calcolato in ventimila miliardi di dollari per un decennio. Se a questo si aggiungono altre proposte simili per Warren e Sanders come il Green New Deal e l’università gratuita, la ricetta è chiara: trasformare gli Stati Uniti in una grande socialdemocrazia nordeuropea. Con una pressione fiscale molto più elevata di quella attuale, ma un modello più equo e solidale, meno diseguaglianze, più redistribuzione, più servizi sociali per tutti. È un’idea suggestiva, affascinante, però spaventa anche metà degli elettori democratici, inclusa una parte di classe operaia: vedono l’Europa come un continente stagnante, senza crescita. Forse sono degli smemorati, perché l’America fu una specie di grande Svezia nel periodo incluso tra Franklin Roosevelt e John Kennedy, l’èra delle grandi riforme sociali, quando l’aliquota marginale più elevata sugli straricchi raggiunse il 70%. Quel modello però s’incagliò negli anni Settanta. Poi arrivò la rivoluzione neoliberista, guidata da un’altra coppia anglo-americana: Ronald Reagan e
Margaret Thatcher. Disprezzati e odiati dalle élite anche loro. La Thatcher venne «riabilitata» a sinistra solo da Tony Blair. Reagan, che gli intellettuali europei trattavano come un rozzo cowboy, è stato rivalutato da Barack Obama. Un’altra lezione che viene meditata dopo la vittoria di Johnson: guai a disprezzare gli elettori. Chi votò Brexit nel 2016 si è sentito preso in giro dai tre anni di rinvii che tentavano di svuotare quel referendum. Una parte degli americani prova irritazione di fronte all’impeachment: se Trump è indegno, se è un pericolo per la democrazia, molti cittadini pensano che la via maestra per cacciarlo è il suffragio universale.
La più antica e potente delle liberaldemocrazie occidentali sprofonda in una crisi che non è solo politica e istituzionale ma investe lo spazio di un dialogo civile Trump entra nella storia come il terzo presidente degli Stati Uniti ad aver subito l’impeachment in due secoli e mezzo. «Non ci ha lasciato altra scelta», dice in tono grave e solenne la presidente della Camera, la democratica Nancy Pelosi. I due capi d’accusa con cui è stato incriminato sono l’ostruzione al Congresso e l’abuso di potere: Trump minacciò di sospendere gli aiuti militari all’Ucraina, necessari per difenderla dalla Russia, finché non otteneva dal governo di Kiev un aiuto contro il proprio avversario politico Joe Biden (ex vicepresidente con Barack Obama, oggi candidato alla nomination democratica per l’elezione presidenziale del 2020). Per i democratici, che hanno la maggioranza alla Camera, queste sono violazioni della Costi-
tuzione per le quali l’impeachment è doveroso. Trump ha reagito accusando la Pelosi e il suo partito di «tentato colpo di Stato». Il partito repubblicano ha fatto quadrato attorno a lui. La votazione in seduta plenaria alla Camera ha visto quasi tutti i deputati schierati in base alla disciplina di partito: due blocchi compatti e contrapposti. È l’immagine di un’America che sprofonda in una crisi istituzionale drammatica, di cui l’impeachment è solo un aspetto. Altrettanto preoccupante è la lettura divergente della Costituzione da parte dei due partiti storici, l’incapacità di riunirsi in difesa di valori comuni, la rinuncia a cercare convergenze in nome dell’interesse nazionale. E questo non accade solo nel mondo della politica. I sondaggi dicono che la società civile assomiglia allo spettacolo offerto dal Congresso. Due Americhe si fronteggiano. Quasi la metà dei cittadini pensa che alla Casa Bianca ci sia un criminale colpevole di aver violato la Costituzione, indegno di rappresentare la nazione e di governarla. L’altra quasi-metà pensa che l’impeachment sia una rivalsa politica, una vendetta di parte, il tentativo fazioso di cancellare l’elezione del 2016. I media si sono adeguati da tempo, o forse hanno preceduto e alimentato la spaccatura del Paese: i notiziari di Cnn e Msnbc sono colpevolisti da mesi, come lo furono un anno prima per l’indagine Mueller sul Russiagate (in quel caso l’accusa era di collusione Trump-Putin); la Fox News di Rupert Murdoch dà credito all’ipotesi di una congiura di sinistra che insegue una scorciatoia giudiziaria per rifarsi di aver perso la Casa Bianca. La più antica e potente delle liberaldemocrazie occidentali sprofonda in una crisi che non è solo politica e costituzionale, ma investe il patto di cittadinanza, il discorso pubblico, lo spazio di un dialogo civile. In questo senso non reggono i pa-
ragoni con lo scandalo Watergate, che nel 1974 costrinse Richard Nixon a dimettersi ancor prima che il Congresso procedesse a destituirlo: allora c’erano tante crisi di coscienza nel partito del presidente; c’erano media rispettati come arbitri imparziali. Qualche affinità c’è invece con la vicenda di Bill Clinton, che vent’anni fa subì l’impeachment ma evitò la condanna finale: allora apparvero i germi di una polarizzazione estrema, di una faziosità che è stata paragonata ad una guerra civile «a bassa intensità», un divorzio valoriale sempre più insanabile tra le due Americhe. La seconda puntata di questa tragedia va in scena al Senato a gennaio. Anche in quel caso il copione è già scritto. In quel ramo del Congresso sono i repubblicani ad avere la maggioranza. Al momento non c’è ragione di pensare che verrà meno la compattezza della destra. Quindi mancherà quella maggioranza qualificata – due terzi – necessaria perché il presidente incriminato venga condannato, rimosso dall’incarico e sostituito dal vicepresidente. Trump è riuscito in un miracolo, dall’estate del 2015 in cui ufficializzò la sua candidatura: all’inizio venne trattato come un improbabile outsider, un corpo estraneo, irriso o condannato dall’establishment. Oggi ha ridotto il partito repubblicano a docile strumento; la destra «moderata e rispettabile», quella tradizione repubblicana che si rifà a figure come Abraham Lincoln e Teddy Roosevelt, o più di recente Ronald Reagan e Bush padre, sembra svanita. Trump, pur rimanendo un leader «di minoranza», che non ha mai raggiunto il 50% dei consensi, ha coagulato una nuova base sociale che non sembra disposta a mollarlo. Chi lo votò nel 2016 guarda alla buona salute dell’economia, alle misure prese per castigare la Cina o per limitare l’immigrazione, e potrebbe rivotarlo il 3 novembre 2020. Il tribunale che conta, alla fine sarà quello.
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Politica e Economia
L’India contro una legge discriminante Citizen Amendment Act Secondo il nuovo provvedimento non vengono più garantiti i principi di inclusività.
Solo i rifugiati hindu, parsi, jain, sikh, cristiani o buddhisti otterranno la cittadinanza indiana. I musulmani no
Francesca Marino L’India brucia. Brucia dall’Assam a Kolkata, da Hyderabad a Varanasi. Ma, soprattutto, brucia la capitale, Delhi. E l’incendio non accenna a spegnersi. La scintilla che ha fatto detonare proteste e relative violenze è stata la promulgazione, da parte del governo Modi, del Citizen Amendment Act, una nuova legge sulle procedure per concedere la cittadinanza indiana ai rifugiati provenienti da paesi limitrofi. Secondo la nuova legge, verrà garantita una corsia preferenziale ai rifugiati di religione hindu, parsi, jain, sikh, cristiana o buddhista, perseguitati nei loro paesi d’origine. Per i musulmani, si deciderà caso per caso. La decisione del governo ha scatenato proteste un po’ dappertutto e per diversi motivi. Secondo le opposizioni, la legge viola difatti i principi di laicità e di inclusività della Costituzione indiana, spazza via secoli di tradizione e soprattutto fa parte di un piano ben definito per emarginare i musulmani in India e consegnare la nazione nelle mani dei suprematisti hindu. Il governo ha chiarito che la legge non si applica in alcun modo ai cittadini indiani, che riguarda soltanto i rifugiati che da anni vivono in India e che fino a questo momento non potevano ottenere la cittadinanza, e che è un modo per «aiutare coloro che hanno subito anni di persecuzioni in patria e non hanno alcun posto in cui andare tranne l’India». Escludere i musulmani, però, e quindi i Rohingya o gli Ahmadi che in patria subiscono persecuzioni quanto se non di più dei cristiani o degli hindu, non depone proprio benissimo. Soprattutto perché il nuovo Citizen Amendment Act va di pari passo con l’istituzione del National Register of Citizens: una lista cioè di persone che si trovano «illegalmente» in India e che, per rimanere, devono provare di essere entrate in India prima della creazione del Bangladesh, nel 1971. Sempre secondo le opposizioni, i due provvedimenti sono collegati, tanto che l’implementazione del NRC è stata rimandata perché avrebbe colpito molti induisti che invece con il CAA possono
rimanere nel Paese. Le proteste sono cominciate nel Nord-Est, e nello Stato dell’Assam: non a causa della discriminazione religiosa, ma perché i cittadini dell’Assam protestano da anni contro le migliaia di rifugiati e di immigrati illegali, per la maggior parte provenienti dal Bangladesh, che si trovano nella regione. In sostanza, i cittadini dell’Assam non vogliono immigrati e rifugiati di nessun tipo e di nessuna religione, e detestano i «bengali» che minacciano la loro «cultura e tradizioni». Le proteste in Assam hanno provocato quattro morti, di cui due adolescenti. Sono seguite proteste a Kolkata e un po’ in tutto il Bengala, per motivi simili. E infine sono scesi in piazza gli studenti della prestigiosa università Jamia Millia Islamia di Delhi, per protestare contro la discriminazione di tipo religioso nei confronti dei migranti. La polizia è intervenuta e in pochissimo tempo si sono viste scene degne del famoso G7 di Genova. Le proteste si sono trasformate in scontri, sono volati sassi, molotov, lacrimogeni e quant’altro. La polizia è entrata dentro all’università picchiando a sangue gli studenti fino a dentro i bagni, nella biblioteca e nei dormitori. Non ci sono stati morti soltanto per puro caso. Per solidarietà con gli studenti della Jamia sono scesi in piazza gli studenti delle maggiori università del Paese, ci sono stati altri scontri e altri feriti, e l’incendio non accenna a placarsi. Soprattutto perché le proteste, come sempre succede, sono state cavalcate e trasformate in qualcosa di completamente diverso dai soliti di buona volontà. Secondo gli studenti della Jamia, dentro all’università si sono introdotti e infiltrati altri che studenti non erano. Altri che si sono dedicati, alla Jamia e in tutta Delhi, a dare alle fiamme autobus e autovetture, a sfondare vetrine e recinzioni. I Black Block locali, insomma. La polizia però non ha fatto distinzioni e ha caricato indistintamente tutto ciò che si muoveva attorno a loro. Ragazzi e ragazze inermi e terrorizzati, che scappavano e chiedevano aiuto. Nella notte mezza Delhi, con candele e torce, ha improvvisato una veglia
Le proteste contro il CAA si sono verificate in tutto il Paese, soprattutto a Delhi. (AFP)
portando cibo e coperte alle vittime. D’altra parte, dice il governo, ci sono trenta poliziotti finiti all’ospedale, qualcuno in gravi condizioni. Molti quartieri di Delhi, quartieri residenziali, sono stati vittima di «dimostrazioni spontanee» a base di vetri sfondati e macchine distrutte. L’opinione pubblica è divisa esattamente a metà. E le proteste vengono pilotate e cavalcate da gente che non ha nulla a che fare con l’università e molto con gli slogan jihadi e il terrorismo. O con la malafede. I primi dieci arresti effettuati sono difatti a carico di individui con pesanti precedenti penali. L’India chiede una commissione di inchiesta sul comportamento della polizia e, soprattutto, una revisione del CAA da parte della Corte Suprema. Ma forse non basterà. Perché il problema vero al momento è la polarizzazione delle parti politiche e la quantità di notizie e commenti, veri o falsi, da entrambe le parti, che circolano sui social media e in te-
levisione e che avvelenano il dibattito politico. Anzi, il non dibattito. Perché le discussioni, e anche la politica del governo, invece di focalizzarsi sui temi caldi per il Paese, come l’economia in ribasso e la mancanza di posti di lavoro, sono sempre e soltanto centrate su «pro-musulmano, anti-musulmano». Centrate sulla vera o presunta agenda nefasta del secondo governo Modi e sulla sua volontà di far diventare l’India una nazione hindu. Di convalidare cioè la cosiddetta «teoria dei due Stati» tanto cara a Jinnah che ha portato alla creazione del Pakistan. Pakistan che ha dichiarato, per inciso, di non essere affatto disponibile ad accogliere eventuali rifugiati di religione musulmana, provenienti dall’India o da altri Stati limitrofi. La verità è che la politica, come spesso accade, si gioca sulla pelle dei poveri. Che il rifiuto dei cittadini assamesi e bengali di accogliere gente proveniente dal Bangladesh è dettato dalla man-
canza di posti di lavoro non specializzato. Che ciascuno ha paura di perdere quella particella di sia pur piccolissimo privilegio guadagnato per nascita o con il lavoro. La verità è che i politici, incapaci di combattere in Parlamento a suon di proposte di legge, cavalcano e soffiano sullo scontento di migliaia di poco più che adolescenti mandati come carne da macello a scontrarsi con poliziotti troppo zelanti, per usare un eufemismo. Senza pensare che fomentare l’odio sociale o religioso, come accade ormai da troppo tempo in India, può generare mostri destinati a sfuggire al controllo dei loro creatori. La faccenda non riguarda un provvedimento sugli immigrati, non riguarda il Kashmir, non riguarda nemmeno il verdetto sul tempio distrutto di Ayodhya: riguarda l’intera struttura sociale, culturale ed economica dell’India. Che andando avanti così rischia di trasformarsi in brevissimo tempo, in tutto ciò che aborre: il Pakistan. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Riforma previdenza professionale: un compromesso che scricchiola
Assicurazioni sociali Il Consiglio federale propone la riduzione del tasso di conversione del capitale in rendita
con alcune compensazioni. Per il Parlamento il classico «prendere o lasciare». Il verdetto di nuovo al popolo?
Ignazio Bonoli Il Consiglio federale ha posto in consultazione il nuovo progetto per la riforma della previdenza professionale (le casse pensioni del secondo pilastro). Il progetto riprende tale e quale il compromesso elaborato dall’Unione Svizzera dei datori di lavoro e dai sindacati la scorsa estate. Secondo il consigliere federale Alain Berset questa mossa dovrebbe favorire un largo consenso, indispensabile per realizzare la riforma, ma da parecchie parti si sono già manifestati scetticismi e malcontenti. Il principale pomo della discordia è la proposta di ridurre il tasso minimo di conversione del capitale di vecchiaia in rendite. Attualmente è del 6,8% e dovrebbe essere ridotto al 6%. Una riduzione che comporterebbe una diminuzione della rendita. Per un capitale di vecchiaia di 100’000 franchi, la rendita attuale di 6800 franchi verrebbe ridotta di 800 franchi, cioè del 12% circa. Per compensare queste perdite sono proposte una serie di sovvenzioni che vanno dai 1200 ai 2400 franchi all’anno per le persone attualmente fra il 50esimo e il 64esimo anno d’età, divise in tre «tranches» di 5 anni ognuna, con una diminuzione ogni volta di 400 franchi. Anche le generazioni seguenti beneficeranno di aumenti, dal momento che per il loro finanziamento
è previsto un aumento dello 0,5% dei contributi, fino a un reddito massimo di 853’200 franchi. È inoltre previsto un dimezzamento del salario di coordinamento da 24’885 a 12’443, nel chiaro intento di favorire le classi salariali inferiori e il lavoro a tempo parziale, quindi soprattutto delle donne. Infine, è previsto anche un cambiamento importante nei contributi, con una riduzione per gli assicurati più anziani e un aumento per quelli più giovani, con due sole categorie d’età: 14% per assicurati oltre i 45 anni e 9% per persone fino a 44 anni d’età. La riforma verrà a costare, nel 2030, circa 3 miliardi di franchi, coperti per 1,4 miliardi dalla diminuzione della deduzione del salario coordinato e per 1,83 miliardi dall’aumento dei contributi dello 0,5%. Finalmente, in sostanza, si affronta il problema del tasso di conversione troppo alto sul secondo pilastro. Non a caso la Commissione di sorveglianza della previdenza professionale aveva auspicato una riduzione al 5,4% in 4 anni. Il tema è però molto ostico. Si ricorderà che, nel 2010, il popolo aveva già respinto una riduzione al 6,4%. Non solo, ma la maggior parte delle casse applica già un tasso inferiore, facendo una media ponderata tra la parte obbligatoria (con tasso fissato nella legge) e la parte non obbligatoria dell’assicurazione per
Alain Berset, il consigliere federale responsabile del dossier. (Keystone)
la previdenza professionale. Perfino la cassa pensione del personale della Confederazione applica un tasso di conversione del 5,1% per i nuovi assicurati. In sostanza, questa revisione avvicina il metodo del secondo pilastro
a quello dell’AVS con un trasferimento di oneri delle classi più anziane verso quelle più giovani. In particolare si rimprovera al progetto di non tener conto né dell’aumento della speranza di vita, né della migliorata situazione finanziaria degli attuali pensionati.
Le compensazioni sono decise per un tempo indefinito e per tutti i beneficiari di rendite. Già l’Unione svizzera arti e mestieri si è distanziata fin dall’inizio dal compromesso concordato fra le parti sociali. Non solo, ma ci sono anche importanti settori economici che, oltre all’aumento del contributo, criticano anche il modo di correggere le diminuzioni delle rendite. Particolarmente presa di mira è la mancata distinzione fra coloro che ricevono le compensazioni rispetto alla situazione economica del beneficiario, nonché la durata illimitata delle stesse. Questo avviene per semplificare la distribuzione ed evitare complicati calcoli per ogni singola situazione. Dai primi commenti si può dedurre che l’auspicata grande intesa del Consiglio federale sarà piuttosto difficile da realizzare. Tanto più che il Parlamento non è vincolato al compromesso raggiunto. Tuttavia ogni cambiamento a livello politico rischia di mettere in discussione tutta l’intesa. La minaccia di referendum è già nell’aria, anche se solo la consultazione metterà in evidenza le varie aspettative politiche. Il messaggio del governo dovrebbe essere pronto nel 2020. Le Camere dovrebbero concludere le discussioni nel 2022. Un’eventuale votazione popolare potrebbe aver luogo nel 2023 e la riforma potrebbe entrare in vigore nel 2025. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
«Ci saranno interessi negativi per almeno altri due anni»
Banca Migros Anche il 2020 sarà un anno caratterizzato da tassi d’interesse negativi. Christoph Sax,
capo economista di Banca Migros, spiega le conseguenze per i piccoli risparmiatori, per i proprietari di case, per la borsa e per l’economia in generale
Benita Vogel Come conseguenza della politica degli interessi negativi, i soldi dei risparmiatori non rendono niente. Quanto durerà ancora questa fase?
Questa situazione non cambierà molto presto. I tassi d’interesse negativi dureranno almeno altri due anni. Potrebbe perfino verificarsi un ulteriore calo se la Banca centrale europea ridurrà ancora i tassi. Ed è probabile che, se ci fosse un ritocco, la Banca nazionale svizzera (BNS) seguirà a ruota. I piccoli risparmiatori continueranno quindi ad essere penalizzati?
Finora non ne hanno praticamente risentito. Il loro potere d’acquisto è addirittura aumentato significativamente tra il 2011 e il 2017: in questo periodo i prezzi sono diminuiti, mentre i tassi d’interesse erano positivi. La situazione è però cambiata nel 2017, con il perdurare dei tassi bassi e la ripresa dell’inflazione. Da due anni, quindi, il potere d’acquisto dei risparmiatori è in calo. E al momento la tendenza prosegue.
Cosa si può fare in alternativa?
I fondi strategici con un’ampia diversificazione rappresentano un’alternativa al conto risparmio. Ma dipende sempre da come ognuno riesce a gestire il fattore rischio. Chi perde il sonno quando i corsi delle azioni scendono, dovrebbe restare sul conto risparmio. O forse fare qualcosa per la previdenza per la vecchiaia?
Tutti, a prescindere, dovrebbero costituire un terzo pilastro, dato che questi soldi possono essere dedotti dalle imposte e questo tipo di risparmio previdenziale non può essere prelevato. Dal punto di vista fiscale è interessante anche l’acquisto di quote della cassa pensione, a patto che essa sia ben strutturata e che, ad esempio, non vi siano spese in vista per rinnovamenti immobiliari. Ovviamente, le casse pensioni soffrono a causa dei bassi tassi d’interesse, poiché le loro rendite peggiorano.
Quali conseguenze ha tutto ciò sulle rendite?
Finora, grazie agli investimenti in immobili e titoli azionari, le casse pensioni hanno generato buoni rendimenti. Non è questo il problema principale.
Tuttavia, gli utili vanno sempre di più a beneficio di coloro che già percepiscono una rendita, perché l’aspettativa di vita è in aumento. Oggi, la durata della rendita è maggiore di 3,5 anni rispetto a 30 anni fa e non è più possibile finanziarla con il capitale di vecchiaia. Le rendite pattuite sono troppo elevate. Ciò non può essere sostenibile a lungo termine.
morbida. Questo anche perché, nel caso di un’eventuale crescita dei tassi, essi subiranno solo piccoli rialzi graduali, della portata di un quarto di punto ciascuno. L’inversione dei tassi d’interesse, semmai dovesse verificarsi, avverrà molto discretamente. E in che modo gli inquilini approfittano dei tassi negativi?
Gli affitti iniziali di alloggi di nuova costruzione sono già in calo e prevediamo che anche il tasso ipotecario di riferimento per gli inquilini scenderà di un altro quarto di punto. Ciò equivale a una riduzione di quasi il tre percento dei contratti d’affitto già stipulati, che il locatario può richiedere al padrone di casa. A questo punto, però, il livello minimo sarà raggiunto.
Tuttavia, un aumento dell’età di pensionamento è difficilmente praticabile a livello politico.
Si dovrebbe cominciare a pensare fuori dagli schemi: in Scandinavia l’età della pensione è flessibile. Ognuno può scegliere, all’interno di un determinato intervallo di tempo, fino a quando intende lavorare. Più a lungo lavora, più alta sarà la rendita. In alcuni paesi l’età di pensionamento è addirittura legata alla speranza di vita. Naturalmente gli incentivi al mercato del lavoro dovrebbero essere modellati in modo tale che i datori di lavoro puntino maggiormente sui collaboratori anziani.
Quanto sono dannosi i tassi d’interesse negativi per l’economia in generale?
Se da un lato essi favoriscono la formazione di bolle, ad esempio nel settore immobiliare, dall’altro la politica dei tassi bassi potrebbe diventare una sorta di sovvenzionamento mascherato dell’economia. Infatti, le aziende possono rifinanziarsi talmente a buon mercato da essere poco incentivate a diventare più produttive. Continuerebbero a vivere imprese che non avrebbero alcuna possibilità in una situazione di normale concorrenza. In questo modo il cambiamento strutturale viene ostacolato e si crea una sovraccapacità a livello mondiale.
Le previsioni congiunturali non lasciano intravvedere nulla di buono. Ci saranno ondate di licenziamenti?
Specialmente nell’industria, la situazione è diventata più incerta. Per contro, i consumi delle famiglie sono stabili. Ed anche nel settore dei servizi, l’atmosfera è migliorata. Una stagnazione è possibile, ma si ripercuoterebbe sul mercato del lavoro solo in misura limitata. Si esclude quindi una recessione?
La vertenza commerciale tra Stati Uniti e Cina sarà l’ago della bilancia.
Un’altra conseguenza della politica dei tassi negativi è il rialzo registrato dai mercati borsistici, un record dopo l’altro. Per quanto tempo ancora andrà così bene?
Christoph Sax è il capo economista della Banca Migros.
A causa dei dazi doganali e dell’incertezza nella pianificazione, la situazione dell’industria si è rabbuiata anche negli USA, dove nel novembre del 2020 si terranno le elezioni presidenziali. Partiamo quindi dal presupposto che Donald Trump sarà un po’ più disposto a scendere a compromessi nella guerra commerciale e allora si potrà evitare una recessione. La Banca nazionale svizzera (BNS) ha ancora un margine di manovra per sostenere l’economia?
In autunno la BNS ha aumentato la soglia degli importi sotto la quale le banche non devono pagare interessi negativi. Ciò mitiga in qualche modo le conseguenze per le banche, mentre la BNS si è ritagliata un certo margine di manovra. Se, in caso di crisi, il franco svizzero dovesse diventare di nuovo un bene rifugio e di conseguenza dovesse rafforzarsi, la Banca nazionale può abbassare ulteriormente i tassi di riferimento o indebolire il franco in modo mirato acquistando valute estere, come l’euro o il dollaro. In linea di principio, potrebbe anche comprare obbligazioni della Confederazione o di aziende svizzere.
Potrebbero tornare fasi di interessi elevati come negli anni ’80?
È improbabile. Anche facendo astrazione dalla politica monetaria delle banche nazionali, osserviamo come il livello naturale dei tassi d’interesse degli ultimi 20 anni sia diminuito di due o tre punti percentuali. Cos’è successo?
Il capitale non è più una merce rara: ciò è correlato all’invecchiamento della società. Le persone anziane risparmiano di più, gli Stati investono di meno. Inoltre, un’economia incentrata sui servizi ha bisogno di meno capitale rispetto ad una basata sull’industria. Pure l’inflazione è più bassa, anche a causa della globalizzazione e della conseguente ripartizione del lavoro tra i vari paesi. Quindi, chi ha una casa di proprietà non deve preoccuparsi dello scoppio di una bolla immobiliare, di una discesa dei prezzi e di non riuscire più a ripagare gli oneri ipotecari?
I proprietari di case unifamiliari e di appartamenti nei centri cittadini hanno registrato significativi aumenti di valore. Comunque, sul mercato immobiliare ci aspettiamo una discesa
Favorite dalla politica dei tassi d’interesse bassi e dalla ripresa economica, negli ultimi anni molte società hanno visto aumentare i loro utili. I corsi elevati delle azioni non sono quindi aleatori, ma ci sono anche motivi solidi per le valutazioni elevate delle imprese quotate in borsa. Tuttavia, le battute d’arresto sono sempre possibili, ad esempio a causa della vertenza commerciate tra Cina e Stati Uniti oppure in seguito a eventi politici. Un deprezzamento delle azioni tra il 10 e il 15% è ipotizzabile. Il successo elettorale dei Verdi influisce sul modo in cui gli Svizzeri investono i loro soldi? Gli investimenti saranno più ecologici?
Da anni ormai, la questione della sostenibilità acquisisce rilevanza negli investimenti finanziari. Non si tratta solo dell’aspetto ecologico, ma anche di socialità e di buona gestione aziendale. Specialmente gli investitori istituzionali come le casse pensioni hanno iniziato a dare maggior peso alla questione. Tuttavia, sostenibilità è un termine elastico: è molto importante avere degli standard chiari e trasparenti. In questo ambito, la Banca Migros offre un’ampia gamma di fondi strategici sostenibili e sta ampliando ulteriormente l’offerta. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi I valori non cambiano, ma i giovani si spostano a destra La Svizzera non è particolarmente conosciuta per la sua produzione di dati e informazioni statistiche. Qualche decennio fa, anzi, il prof. Kneschaurek, che allora sovraintendeva, per il Consiglio federale, sulla politica economica di lungo termine, aveva addirittura dichiarato che dal profilo delle statistiche economiche e sociali la Svizzera era un paese sottosviluppato. Nel frattempo si sono fatti passi avanti, grazie anche alle molteplici nuove iniziative prese dall’Ufficio federale di statistica. Così la Svizzera oggi, in materia di statistiche ha migliorato di molto la sua posizione in classifica senza per questo aver raggiunto i primi posti. C’è però un settore nel quale il nostro paese possiede una posizione abbastanza dominante ed è quello delle inchieste sulla gioventù. Grazie dapprima ai dati raccolti nei cosiddetti esami pedago-
gici delle reclute e oggi a quelli reperiti nelle inchieste federali sulla gioventù, i ricercatori del nostro paese dispongono di un enorme magazzino di dati che consente loro di approfondire l’esame dell’evoluzione delle opinioni dei giovani adulti su un ventaglio molto largo di temi. Come dimostrano i saggi riuniti da Luca Bertossa, Karl. W. Haltiner e Oscar Mazzoleni nel volume Giovani adulti allo specchio, appena uscito da Dadò, il patrimonio di dati disponibile permette di seguire i cambiamenti manifestatisi nel corso degli ultimi 40 anni e, in molti casi, di precisare quali sono le differenze che esistono tra i giovani domiciliati nelle diverse regioni del nostro paese. La loro pubblicazione presenta dapprima le caratteristiche di questa inchiesta che viene oggi eseguita, ogni anno, nei centri di reclutamento del nostro paese
e che viene poi integrata con i risultati di sondaggi integrativi per tener conto anche dell’opinione delle giovani donne e dei giovani stranieri. Come si diceva il grande patrimonio di informazioni raccolte sulle opinioni dei giovani consente di affrontare l’analisi dei temi più diversi: dalla soddisfazione per la propria vita, al cosmopolitismo o all’isolazionismo, passando per i valori e gli obiettivi di vita, per la questione se i giovani leggono ancora, per la discussione dell’interrogativo sul sapere chi siano i giovani senza formazione e per l’interesse politico dei giovani e il loro schieramento sull’asse destra-sinistra. Non sempre quello che i ricercatori ci rivelano riesce del tutto nuovo. Ma molto spesso i risultati delle diverse analisi ci inducono a riflettere su cosa non cambia mai e su quanto invece si sta muovendo nel nostro
paese. E questo non è certamente cosa da poco. Volete un esempio? Siete subito serviti: nel suo interessantissimo saggio sui valori e gli obiettivi di vita Luca Bertossa ci dimostra che, dagli anni Ottanta dello scorso secolo al 2018, la gerarchia dei valori dei giovani svizzeri non è cambiata, anche se è vero che, nel corso degli ultimi dieci anni, dopo la crisi bancaria internazionale, valori come «dovere e responsabilità» e «impegno e socialità» sembrano aumentare di importanza. Anche all’interno del paese la gerarchia dei valori non cambia: i giovani ticinesi possiedono una scala di valori che non è sostanzialmente diversa da quella dei loro colleghi confederati (proprio così! Nda). Questa scala di valori è stata derivata da quelli che i ricercatori hanno definito essere gli «obiettivi di vita». Anche la gerarchia di questi obiettivi
non cambia. A questo punto lettori affrettati come è di solito chi scrive, potrebbero pensare che se, nel lungo termine, la gerarchia degli obiettivi di vita e la scala dei valori non cambiano, non dovrebbe cambiare nemmeno lo schieramento dei giovani lungo l’asse che definisce le scelte politiche, vale a dire l’asse destra-sinistra. E naturalmente si sbaglierebbe. Sì perché, come dimostrano Oscar Mazzoleni e Andrea Pilotti nel loro saggio Interesse politico e orientamento sull’asse sinistra-destra, nel corso degli ultimi decenni lungo quest’asse vi sono stati spostamenti significativi. È aumentata in particolare la quota di coloro che si schierano a destra, mentre sono diminuite quelle dei giovani che optano per la sinistra o il centro. In altre parole: tra i giovani svizzeri i valori restano quelli di sempre, ma le scelte politiche cambiano.
rivoluzione del «modello di business» del Regno intero. Oggi il verdetto è chiaro, ma se si vanno a sentire le riflessioni dei parlamentari laburisti che hanno perso il loro seggio – Corbyn non si è nemmeno scusato con loro: l’ex premier Gordon Brown aveva scritto una lettera personale a ognuno degli sconfitti nel 2010 – si capisce che anche durante la campagna elettorale i segnali erano chiari: nei porta a porta che scandiscono le campagne elettorali inglesi, un elettore diceva che non avrebbe votato Corbyn per la Brexit, un altro per l’antisemitismo, un altro perché le nazionalizzazioni costano e spaccano i bilanci pubblici, un altro perché non si fidava. Un laburista sconfitto ha detto al «Guardian»: arrivavi in fondo alla strada dopo aver bussato a tutte le porte e lo sapevi che avresti perso. Corbyn non ha mostrato di aver preso consapevolezza dei propri errori, non si è dimesso nonostante il risultato disastroso che consegna al premier conservatore Boris Johnson una supermaggioranza inossidabile, e ha chiesto un «periodo di riflessione» per definire il futuro del
partito. Ma su cosa ci sia da riflettere c’è molta confusione, e per ora Corbyn – e i corbyniani che non vivono soltanto nel Regno Unito, in Europa è pieno – pensa a trovare le cause della sconfitta altrove. In particolare nel cosiddetto tradimento riformista del New Labour che, secondo Corbyn, è la causa principale dello scivolamento della classe lavoratrice verso altri partiti. L’attuale leader del Labour si riferisce alla stagione blairiana come se non fosse stata una stagione di successo e soprattutto come se fosse finita l’altroieri quando è un decennio ormai, se non di più, che si costruisce il post Blair. E proprio l’ex premier in un discorso spietato dopo le elezioni ha rivendicato il primato elettorale della sua offerta politica liberale e ha chiesto al partito non soltanto di rinunciare a Corbyn in fretta ma di rinunciare soprattutto al corbynismo. Non è detto che accada. All’inizio del 2020 si definiranno le regole e i tempi per la successione a Corbyn, che in questi anni ha modellato il partito a sua immagine e somiglianza facendolo dipendere dall’attivismo radicale di Momentum e dai sindacati.
È probabile che il prossimo leader sia espressione del dominio corbyniano: tra i candidati spicca Rebecca LongBailey, beniamina dei sindacati (in particolare di Unison) che ha ricevuto l’endorsement dall’amica e compagna di appartamento Angela Rayner, ministro ombra per l’Istruzione molto temuta dai Tory perché ha idee forti e retorica solida. Il duo oltre a essere unito ha il sostegno dei corbyniani ed è tutto femminile, cosa che come si sa si porta molto attualmente. Molti pensano che si candiderà anche Jess Phillips, l’unica tra i deputati laburisti ad avere il carisma del leader, ma non si sa se sia una speranza o una cosa vera. Keir Starmer, il più esperto sulla Brexit nel Labour e molto applaudito all’ultima conferenza potrebbe essere una scelta di compromesso, in linea con la riflessione: vicino a Corbyn ma molto meno radicale di lui e soprattutto dialogante con i moderati, Starmer è il traghettatore ideale essendo un abile negoziatore. Una figura così serve, perché per quanto si voglia riflettere ora dentro al Labour è soltanto guerra.
di nasi gocciolanti, di tosse e catarri. Ogni pozza ghiacciata diventava una pista di hockey, ogni strada una rampa affollata di slitte. Una stagione brulicante di esperienze personali e di visioni oniriche sulle diverse fogge che i fiocchi assumevano nel corso della giornata. Era la stagione fredda per antonomasia, dei ghirigori disegnati dal gelo sui vetri sottili delle finestre. Le fonti di calore, alimentate dalla legna raccolta e sminuzzata in autunno, non bastavano a riscaldare l’intera casa; i corridoi e i locali meno frequentati rimanevano gelidi. L’inverno era poi la stagione dell’attesa, dell’avvento, delle novene, della preparazione al Natale; un ciclo che si concludeva a gennaio con Capodanno, i re Magi e l’Epifania, una sequela di feste che infondeva allegria pure nelle famiglie che non conoscevano altro passatempo che il lavoro dalle «stelle alle stelle». Come osserva la
medievista Chiara Frugoni parlando del suo villaggio natale, Solto nella Bergamasca: «la pratica religiosa, condivisa dalla comunità, imprimeva una forte dirittura morale o almeno un profondo terrore dell’Aldilà, pur chiudendo perentoriamente inquietudini e pensieri. Si viveva nella miseria, quasi solo per sopravvivere, ma i bambini erano liberi». L’attesa portava con sé il raccoglimento, la meditazione, il parlottio sommesso accanto ad un fuoco che restava acceso tutto il giorno; una disposizione d’animo favorita dalle funzioni religiose, ma anche da atmosfere uniche, fatte di odori e profumi, di segatura e trucioli, di aghi di conifere e muschio, di colori e canti, e anche di qualche quadretto di realismo magico, come l’improvvisa apparizione al fondo del bosco di cervi e caprioli alla ricerca di cibo. Sarebbe errato credere che l’inverno, per i nostri antenati, si risolvesse
in una stagione morta, dominata dall’inattività. Nessuno stava in ozio nelle case e nelle legnaie. Le donne si occupavano della prole, dei lavori domestici, del bestiame minuto (galline e conigli) e anche del maiale; gli uomini, dopo la stalla, potevano lavorare il legno, oppure intrecciare canestri. Come ci ricorda Mario Rigoni Stern nei suoi Inverni lontani, erano attività diffuse in tutto l’arco alpino: «Persino quando la neve arriva troppo presto e poi si dilunga tanto che nemmeno i lupi trovano più da mangiare, il domestico maiale ci permette di restare al caldo della casa guardando dalla finestra i voli dei corvi, o di restare nella stalla a intrecciare vinchi, a far canestri, a lavorare le assicelle di legno ben stagionate per costruire mastelle e secchie, mulinelli e arcolai, a impagliare sedie: lavori che sempre facevano i nostri contadini-artigiani». Nevi di una volta, che forse non torneranno più.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Corbyn: niente scuse Il Labour inglese è uscito a pezzi dalle elezioni del 12 dicembre e la mappa elettorale del Paese è cambiata in modo straordinario. Non c’è più il cosiddetto «muro rosso» dei laburisti, una cintura di seggi storicamente laburisti
Jeremy Corbyn, leader del Labour. (Wikipedia)
nel centro del Regno che ora – perché il sistema elettorale britannico non perdona: il vincitore prende tutto – è colorato di blu conservatore. Jeremy Corbyn, leader del Labour che ha perso due elezioni di fila (in tutto sono quattro, dal 2010 a oggi), ha detto che la Brexit ha condizionato ogni cosa, e che la sconfitta è stata determinata da una generale propensione dell’elettorato inglese a dare un seguito al referendum del 2016. Gli inglesi vogliono la Brexit, è vero, ma è anche vero che l’offerta laburista ambigua sul divorzio dall’Ue ha condizionato enormemente la percezione dell’affidabilità del partito: Corbyn aveva scommesso su questa ambiguità, pensava che fosse il modo migliore per vincere il mandato per altre ragioni – economiche e sociali – e poi gestire il processo Brexit con il Parlamento e gli europei. Anche se molti gli dicevano che un partito d’opposizione in un Paese che da tre anni si contorce sull’allontanamento dall’Europa deve necessariamente avere una posizione chiara, Corbyn ha insistito con la vaghezza, preferendo invece la chiarezza brutale di una
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Dove sono le nevi di una volta? Piace pensare che i mesi invernali di una volta fossero più rigidi, più crudi, ma anche più spensierati. Le nevicate, anche quelle abbondanti, non suscitavano apprensioni e allarmi fuori misura, come invece accade oggi dopo ogni bollettino meteo. Era inevitabile che l’inverno arrivasse, era fatale, e perciò ci si preparava adeguatamente. Si era attrezzati ad affrontarlo. Ecco per esempio quanto scrive Giovanni Orelli nel capitolo «inverno» che apre L’anno della valanga (1965): «C’è chi guarda la prima neve senza odio o timori dal limitare della casa, o da in cima a una scala di pietra o da dietro i vetri di una finestra, scostando una tendina, o da sotto l’ala di un tetto». Certo, c’era il rischio valanghe, e Airolo ben ricorda le sue disgrazie, come pure la val Bedretto, di cui si dice conosca solo due stagioni: un inverno lungo e un inverno breve. E per rimanere in tema, Altanca e la
Leventina non hanno mai dimenticato la sciagura del 6 dicembre 1894, allorché sei persone perirono annegate attraversando il Ritom con un carico di legna. Una tragedia poi ricordata da Alina Borioli nei dolenti versi di Ava Giuana, in cui la poetessa elencava altri incidenti, altre sventure: chi è mai tornato dalla montagna («smergiüt»), chi è rimasto assiderato sulle cime («sgiarei sü lè pai scim»), chi è rimasto sotto le slavine («rastei sott ai lüinn»), e, appunto, chi è annegato sotto la crosta gelata («neghei sott al gescion»). Eppure la stagione fredda poteva anche esserti amica, perché introduceva nella giornata una pausa, una sospensione, la possibilità di rallentare il ritmo e di volgersi ad altre attività, manuali e intellettuali. L’inverno assumeva così varie facce. Era principalmente la stagione del candore, di cumuli bianchi lucenti al sole, di guance arrossate e incise dalla tormenta (il «küss»), di arti intirizziti,
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Cultura e Spettacoli Mete d’arte Pieter Bruegel il Vecchio a Winterthur e Giulio Romano a Mantova: due mostre ricche di capolavori imperdibili
Quale musica per il 2020? L’anno alle porte sarà un banco di prova per artisti come Ghali, Mahmood e Achille Lauro pagina 34
Leggere sotto l’albero Uscito da poco, il nuovo libro di Elena Ferrante non manca di fare parlare di sé; a colloquio con il giovane autore statunitense Stefan Merrill Block pagina 35
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Alcuni prigionieri in un campo di detenzione germanico mettono in scena una recita natalizia, 1940. (Keystone)
Il Natale secondo Jean-Paul Sartre 25 dicembre Il racconto della natività nel teatro del filosofo francese
Daniele Bernardi Se, come ebbe a dire Simone De Beauvoir, è difficile immaginarsi un JeanPaul Sartre armato di fucile e in divisa, più ancora lo è figurarselo nei panni del Re Magio Baldassarre in visita al Cristo in fasce. Eppure fu proprio il capofila dell’esistenzialismo francese – il filosofo-scrittore che, in Les mots, scrisse «l’ateismo è un’impresa crudele e di lungo respiro: io credo di averla condotta in porto» – a dedicare (e interpretare) da soldato-prigioniero un intero dramma al tema della natività. Ma non ci si inganni: per Sartre, che della guerra fece un’esperienza particolare, non sanguinosa (non conobbe il fango della trincea, la violenza dello scontro fisico), il racconto della venuta al mondo del Salvatore non rappresenta né un incrinarsi del pensiero, né un cambio di prospettiva. È il 1940 quando viene catturato coi suoi compagni d’armi e, dopo vari spostamenti, trasferito nel campo di detenzione di Treviri, nell’ovest della
Germania. Allora ha trentacinque anni e, anche in quelle non facili condizioni, riesce agilmente a dedicarsi alla stesura dei Carnet de la drôle guerre, al suo celebre L’être et le néant e alla conclusione del romanzo L’âge de raison. Qui, dove tiene corsi su Heidegger ai parroci detenuti e ha frequenti relazioni con altri sacerdoti, nasce l’idea, su richiesta di quest’ultimi, di redigere un testo teatrale in vista della sera del 24 dicembre. Sartre partecipa attivamente alla vita comunitaria del campo; la guerra, per lui, è l’occasione di rendersi cosciente «dell’assoluta importanza della socialità dell’uomo» e, di conseguenza, del bisogno di un impegno intellettuale volto a fini concreti. È quindi con questo spirito che si dedica alla stesura di Bariona o il gioco del dolore e della speranza (Christian Marinotti, 2019) un vero e proprio racconto di Natale che vede protagonista un capo-villaggio nella Giudea oppressa dai romani (chiaro riferimento alla Francia occupata) all’epoca della nascita del Cristo. Raffrontato alle altre, note pièces
del teatro sartriano – un teatro che, oggi, nel panorama della scena italofona, si tende a dimenticare – il dramma risulta certo meno convincente. Niente a che vedere con la forza di Huis clos o col cupo Les Séquestrés d’Altona; lo stesso Sartre ebbe delle riserve quando gli ex-compagni di prigionia gli chiesero di pubblicare il copione. Quel che risulta interessante è invece il contesto che vide svilupparsi la drammaturgia. Infatti, se si dovesse immaginare un allestimento, questo non potrebbe non tenere conto del racconto di cui l’opera è circondata: un gruppo di soldatiartisti che, in un campo di concentramento, imbastisce un rudimentale spettacolo. Altro aspetto interessante è la maniera con cui Sartre innerva del proprio pensiero la storia della grotta di Betlemme. Infatti, la vicenda di Bariona, che di fronte agli ulteriori tributi richiesti da Roma, impone alla comunità di non procreare, non manca di rimandi al problema centrale della filosofia sartriana: la libertà dell’uomo e la
responsabilità nei confronti del proprio destino. Per Sartre, la questione che Dio esista o non esista non è interessante poiché l’eventuale presenza divina – la cui onnipotenza è radicalmente messa in discussione dall’arbitrio umano – non libera l’uomo dall’essere artefice della propria sorte. Ecco che in battute quali «contro un uomo libero, Dio stesso non può nulla» e «il Cristo è venuto ad insegnarti che sei responsabile verso te stesso della tua sofferenza» occhieggia quindi questo discorso: per quanto la vita si possa accanire su di noi, ciò che conta è quel che sapremo fare di ciò che l’esistenza ci ha resi; questo minimo spazio di manovra ha il nome di libertà. Commovente è anche come, nel testo, Sartre scelga di venire fraternamente incontro al bisogno dei compagni consegnando loro, finalmente, l’immagine della natività. In «un piccolo momento di tregua» nella trama, proprio quando Bariona si incammina sulla montagna per uccidere il Cristo, ecco che l’attore che veste i panni
del presentatore di immagini indica al pubblico il bimbo nella mangiatoia: «siccome oggi è Natale», recita, «avete il diritto di esigere che vi si mostri il presepe. Eccolo. (...) L’artista ha messo tutto il suo amore in questo disegno, ma voi lo troverete forse un po’ naïf». Segue invece, naturalmente, una profonda descrizione di Maria in cui è sottolineato come «tutte le madri sono così attratte a momenti davanti a questo frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino e si sentono in esilio davanti a questa nuova vita che è stata fatta con la loro». Bariona o il gioco del dolore e della speranza è quindi un libretto singolare, non molto conosciuto, ben introdotto da una lunga nota di Antonio Delogu in cui è descritta la genesi del dramma e il pensiero dell’autore. Se esso, da un lato, rappresenta un insolito accesso all’opera sartriana, dall’altro può più semplicemente essere uno spunto per chi intende fare dono ai propri cari di un originale chiave di lettura della giornata del 25 dicembre.
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Cultura e Spettacoli
La prima neve
Arte e desiderio
Mostre/1 A Winterthur una mostra incentrata sull’Adorazione
Mostre/2 Giulio Romano a Mantova
dei magi nella neve di Pieter Bruegel il Vecchio
Gianluigi Bellei Emanuela Burgazzoli Avvicinandosi a questa piccola tavola si viene catturati immediatamente dal biancore della neve scesa sul villaggio, e dal contrasto con la gamma di marroni, ocra, rossi e grigi con cui sono dipinti le case e gli abitanti del paese che, osservando più da vicino, sembra di vedere intirizziti da un freddo che deve essere estremo e affrettarsi a ritrovare la strada verso le case riscaldate. Lo sguardo desideroso in cerca di dettagli resta però impigliato nei fiocchi di neve che cadono copiosi, come una lieve trama stesa sulla superficie del dipinto, eppure talmente reale da poterne percepire la silenziosa caduta. Sembrerebbe un giorno d’inverno qualunque in un villaggio fiammingo del secondo Cinquecento. Eppure c’è qualcosa che attira l’attenzione; in alto a destra un edificio gotico quasi in rovina; una ruota di carro esattamente posta al centro del dipinto (elementi altamente simbolici per il pubblico dell’epoca); e un bambino che scivola sul ghiaccio sorvegliato dalla madre, l’unico a divertirsi in questa gelida giornata. Poi seguendo un’immaginaria diagonale si scende in basso a sinistra, dove le tonalità si fanno più calde e si scorge una figura inginocchiata; si scoprono allora altre figure nella penombra di una capanna, fra queste una donna che tiene in braccio un bambino. Ecco il vero significato del dipinto: l’evento della nascita di Cristo. Tutto questo in 35 centimetri per 55. Così Pieter Bruegel (detto il Vecchio, per distinguerlo dal figlio, Pieter Bruegel il Giovane) reinterpreta un soggetto classico dell’arte attualizzandolo e ambientandolo nella società fiamminga del XVI secolo. Già questo basterebbe a farne un dipinto straordinario, ma l’Adorazione dei magi nella neve, oltre a essere il più antico paesaggio invernale dipinto da Bruegel nel 1563 (probabilmente su commissione), è anche l’atto di nascita di un nuovo genere pittorico, che avrà numerosi epigoni. Infine si tratta della prima nevicata dipinta su tavola nella storia dell’arte; un fenomeno meteorologico ritenuto impossibile da dipingere, se si esclude un celebre affresco di Ambrogio Lorenzetti a Siena risalente al 1338-39. Una nevicata che il maestro fiammingo aveva aggiunto all’ultimo momento alla scena, frutto di un’attenta pianificazione, come dimostra lo studio delle copie (alcune di queste in mostra), dei disegni preparatori e delle stesure rivelate dalle ultime analisi del dipinto. In mostra insieme a copie e dipinti di epigoni e rare incisioni, si dà una chiara visione dell’importanza delle vedute invernali in questo maestro fiammingo, nato at-
Joannes e Lucas van Doetecum d’après Pieter Bruegel, San Girolamo nel deserto, ca. 1555 /56. (© Graphische Sammlung ETH Zürich)
torno al 1530 nel Brabante settentrionale. Bruegel si forma ad Antwerpen, dove intraprende una fortunata carriera come disegnatore e incisore, tanto da potersi dedicare interamente alla pittura dal 1562 e l’anno dopo trasferirsi a Bruxelles, città in cui muore nel 1569.
Il visitatore è catturato dal biancore della neve che cade su un villaggio del 500 rappresentato da Bruegel il vecchio I paesaggi invernali, sia dipinti sia incisi – il primo, ambientato ad Antwerpen, risale al 1558 – riscuotono grande successo, già fra i contemporanei del pittore; ventisei delle trentasei copie catalogate dell’Adorazione sono state realizzate dal figlio, Bruegel il Giovane. Pur restando fedeli all’originale, non ne possiedono però la stessa qualità pittorica, né il raffinato realismo dei dettagli, né il tocco in grado di definire con pochi tratti un volto o un corpo; impossibile infine riprodurre quella regia cromatica che crea un sapiente equilibrio. Al di là poi del significato teologico – che nell’Adorazione è da mettere in relazione al movimento riformista della Devotio moderna, come ci conferma Kerstin Richter, direttrice del museo – i paesaggi invernali documentano sia i cambiamenti climatici, in particolare i rigidi inverni determinati dalla così detta «piccola era glaciale», sia i mutamenti sociali in atto; la neve democraticamente accoglieva tutti, paesani e borghesi, accomunati dallo svago di attività invernali, come il pattinare sul ghiaccio. In questo senso forse il vero prota-
gonista dei dipinti di Breugel è proprio il paesaggio che arricchisce di nuovi motivi dopo un viaggio in Italia, e in cui è capace di riunire l’idea di infinito – fatto di linee che si perdono all’orizzonte come nel celebre I cacciatori nella neve – con quella di un realismo estremo, che la neve non fa che accentuare, come nel caso dell’infanticidio ne La strage degli innocenti, di cui è esposta una copia. Il paesaggio cela sempre nel pittore fiammingo un dettaglio rivelatore, come nell’altra famosa tavola dei Pattinatori con trappole per uccelli, in cui queste ultime, insieme all’onnipresente ghiaccio, diventano monito per ricordare la fragilità della vita, anche quando se ne celebrano le gioie. Associato spesso al conterraneo Bosch, che cita esplicitamente (come nelle sua versione delle Tentazioni di Sant’Antonio), Bruegel diventerà fonte di ispirazione per molti artisti, fino ai pittori della scuola di Barbizon nell’Ottocento. Nel primo Novecento il Belgio, in cerca di una nuova identità, ne fa il pittore nazionale per eccellenza. Quanto all’Adorazione, dipinta sulla sottile tavola di un albero proveniente dal Baltico, come attestano le ultime analisi dendrocronologiche, finisce nel 1930 alla galleria Cassirer dove sarà comprato quasi per caso da un Oskar Reinhart caduto, come scriveva in quegli anni al fratello, sotto l’incantesimo della pittura fiamminga e di questo autentico miracolo pittorico. Dove e quando
Das Wunder im Schnee. Pieter Bruegel der Alte, Winterthur, Sammlung Oskar Reinhart (Haldenstrasse 95). Orari: ma-do 10.00-17.00; me 10.0020.00; lu chiuso. Fino al 1. marzo 2020. roemerholz.ch
Pieter Bruegel il vecchio, Die Anbetung der Heiligen Drei Könige im Schnee, 1563. (© Sammlung Oskar Reinhart «Am Römerholz», Winterthur)
Giulio Romano è Mantova. Tutto in città lo ricorda e ora due mostre concorrono a presentarlo al meglio. Giulio Romano, al secolo Giulio Pippi (Roma 1492 o 1499 – Mantova 1546), entra giovanissimo nella bottega di Raffaello della quale rileva la direzione alla morte nel 1520. Quattro anni dopo parte per Mantova chiamato da Federico II Gonzaga. Qui assume tutti gli incarichi per le opere di architettura e decorazione dei maggiori palazzi della città come Palazzo Te e Palazzo Ducale. Giulio realizza prevalentemente i progetti grafici e lascia agli allievi la loro traduzione in ornamenti o pittura. Giorgio Vasari nelle Vite considera Giulio come uno degli artisti migliori, alla stregua di Michelangelo, per la sua fusione fra le arti. Nell’edizione Torrentiniana ne fa un elogio altissimo, attenuato nella Giuntina. L’opera di Michelangelo è finita in sé, mentre quella di Giulio si apre a nuove prospettive. Esempio di notevole valore della fusione fra pittura e architettura è, secondo Vasari, la Sala dei Giganti a Palazzo Te. Oltretutto qui siamo in presenza di un’altra sua particolarità eccelsa: l’unione fra lo spaventevole e il terribile. La Sala ha pianta quadrata che si smussa verso l’alto formando una cupola tondeggiante che dà al racconto dipinto sulle pareti una sorta di continuità senza fine. «E chi entra in quella stanza – scrive Vasari – vedendo le finestre, le porte e altre così fatte cose torcersi e quasi per rovinare, e i monti e gl’edifizii cadere, non può non temere che ogni cosa non gli rovini addosso, vedendo massimamente in quel cielo tutti gli dii andare chi qua e chi là fuggendo…». Vasari cita l’epitaffio sulla tomba di Giulio il quale sancisce che le tre arti muoiono con lui e che con lui costituivano un tutto organico: «Romanus moriens secum tres Iulius arteis / abstulit (haud mirum) quatuor unus erat». Due le mostre principali aperte in città fino al 6 gennaio. La prima a Palazzo Ducale con una serie di disegni provenienti per la maggior parte dal Département des Arts Graphiques del Musée du Louvre. Settantadue fogli preparatori dell’apparato decorativo di Palazzo Ducale acquistati per le collezioni reali di Luigi XIV nel 1671 dal banchiere Everhard Jabach (1618-1695). Altri quaranta fogli provengono da altrettante prestigiose istituzioni. Ma è a Palazzo Te che si trova l’esposizione più intrigante. Quel palazzo costruito con mattoni e pietra cotta con le quali «fece colonne, base capitegli, cornici, porte, finestre e altri lavori, con bellissime proporzioni e con nuova e stravagante maniera gl’ornanti delle volte…», scrive sempre Vasari. Bene, la mostra a Palazzo Ducale è intitolata proprio Con nuova e stravagante maniera, anche se il termine si riferisce a Palazzo Te, mentre nelle sale Napoleoniche di quest’ultimo troviamo Arte e desiderio. Qui – fra la Camera di Ovidio o delle Metamorfosi, la Sala dei cavalli, la Camera di Amore e Psiche, dalle Metamorfosi di Apuleio e la Camera dei Giganti dove ammiriamo la vendetta degli Dei contro i Giganti che tentano invano l’assalto all’Olimpo – qui, dicevamo, siamo invitati a riflettere «sul nesso tra arte e piacere, tra visione e desiderio», chiosa Guido Rebecchini in catalogo. Il tema centrale è quello del voyeurismo. Sono anni di edonismo, a ridosso del Sacco di Roma del 15271528, e una stagione di libertà e gioia dei sensi che termina con il Concilio di Trento (1545-1563). Ludovico Ariosto nel suo Orlando furioso osserva con passione e pena il corpo femminile e Pietro Aretino nel Ragionamento della Nanna e della Antonia del 1534 racconta della novizia Nanna che guarda dalla fessura del
muro del convento un’orgia nella cella accanto alla sua. Il desiderio non è unicamente maschile. Sempre nel Ragionamento della Nanna e della Antonia la prima descrive alla seconda la decorazione della sala di una camera del convento nel quale sono illustrate «tutte le vie che si può chiavare». Fra le varie opere in mostra citiamo i Modi. Ovviamente non si tratta delle incisioni originali che sono state distrutte ma del volume cosiddetto «Toscanini» perché appartenuto a Walter Toscanini, figlio del grande direttore d’orchestra. Volume di piccolo formato, con fogli di 6x6,6 centimetri, stampato nel 1556 circa, con incisioni di scarsa fattura a memoria delle originali realizzate da Marcantonio Raimondi su disegni di Giulio Romano attorno al 1524. Oggetti di lusso, questi, di 14x16 centimetri con incisioni raffinatissime alle quali Pietro Aretino appose a mano delle poesie licenziose. Nel 1541 Niccolò Franco, segretario del poeta e poi suo acerrimo nemico, scrive che Ariosto aveva pubblicato un libretto «dove son tutti i modi del chiavare, e ciascun modo mostra il suo sonetto», aggiungendo che la sorella dell’autore li aveva provati tutti.
Bottega di Raffaello, Giovane figura femminile di profilo (verso) ca. 1517 (?) sanguigna. (Parigi, Musée du Louvre, – Cabinet des dessins)
Meno esplicita l’imponente tela di Giulio Romano Due amanti del 1524 circa. Qui una coppia di amanti sono seduti languidamente su un letto. Lui accarezza i fianchi di lei e lei con una mano gli cinge il collo e con l’altra il membro eretto. Il preludio di una scena amorosa, come si intuisce dalle chiavi nelle mani di un’anziana signora che sbircia dietro una porta. Al di là dell’identificazione dei due amanti – Venere con Marte o Adone oppure l’incontro in un bordello con l’anziana mezzana che controlla – quello che caratterizza immediatamente il dipinto è la sua scena ambigua e teatrale tipica delle commedie del periodo come I suppositi di Ariosto (1509), La calandria del cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena (1513) o La mandragola di Machiavelli (1518). L’opera è stata restaurata nel 2017. Le analisi hanno rivelato che parte del dipinto è stato smembrato. Segato in tre parti e la testa dell’uomo e della donna ritagliate a forma di ottagono. D’altronde anche i Modi originali vengono tagliati e i frammenti superstiti sono unicamente i particolari meno scabrosi. Tutto questo a Palazzo Te, un «luogo di segreti e di utopie – scrive Stefano Baia Curioni in catalogo – dove si mescolano Vitruvio e Ovidio, l’arte di costruire e l’arte di amare, in una sequenza che racconta metamorfosi, profonde trasformazioni culturali e clamorose catarsi». Dove e quando
Giulio Romano, Palazzo Ducale, Palazzo Te, Mantova. Fino al 6 gennaio. www.giulioromanomantova.it
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Cultura e Spettacoli
Tra misticismo e seduzione
Mostre/1 Al Museo d’arte di Mendrisio i capolavori dell’India antica Alessia Brughera Non fu soltanto la sua componente esotica e sensuale ad affascinare in epoca moderna gli artisti d’Occidente: l’antica arte indiana era permeata da una spiritualità capace di andare ben oltre il coinvolgimento meramente estetico. Benché non paragonabile all’impetuoso ascendente che ebbe la cultura artistica africana su tanti maestri del XIX e XX secolo, la produzione scultorea e pittorica dell’India, infatti, esercitò una grande influenza sulle arti visive europee, rivelando un repertorio formale nuovo ed esuberante a cui si accompagnavano profondi significati religiosi. Questo connubio di opulenza e ascetismo fu di estremo interesse per molti pittori: Gustave Moreau, ad esempio, seppe trasfigurare l’enfasi decorativa dell’India in visioni di un mondo favoloso e onirico, il simbolista Odilon Redon riuscì a cogliere l’aspetto contemplativo di questa millenaria civiltà trasponendolo nelle sue raffinatissime tele intrise di luce, Ernst Ludwig Kirchner, uno dei padri dell’Espressionismo tedesco, maturò un linguaggio dalle forme piene direttamente ispirato alle maestose figure femminili indiane, in particolare a quelle dipinte nel complesso monumentale di Ajanta, che l’artista aveva avuto modo di ammirare su alcuni volumi trovati in biblioteca. Da quel triangolo che oltre all’India racchiude il Bangladesh, il Pakistan e lo Sri Lanka, arrivando fino alle regioni alle pendici della catena montuosa dell’Himalaya, proviene un’arte preziosa e multiforme, specchio dell’imponente varietà di soluzioni espressive e di stili che si sono susseguiti e stratificati nel corso dei secoli legandosi a un contesto religioso in cui convivono, ancora oggi, le tre dottrine del buddhismo, dell’induismo e del giainismo. La comprensione dell’arte indiana antica, di cui sono giunti fino a noi soltanto i manufatti realizzati con i materiali più durevoli, non può prescindere da queste credenze incentrate sulla ricerca di una via della saggezza per superare i paradossi dell’esistenza. Le opere d’arte non sono altro che uno strumento in mano all’uomo per rac-
contare il suo rapporto con l’universo e per attuare una fusione tra le forze contrastanti che caratterizzano la sua vita. Ecco allora che la creazione artistica viene concepita come un processo attraverso cui placare la dicotomia tra materia e spirito, puntando su una voluttà deliberata che lega questi due elementi in un complesso simbolismo. A testimoniare la fervida potenza visiva della produzione artistica dell’India è la mostra allestita nelle sale del Museo d’arte di Mendrisio, istituzione non nuova a rassegne dedicate ai tesori delle grandi civiltà del passato. L’esposizione è curata da uno dei maggiori esperti al mondo di arte indiana, Christian Luczanits, e raccoglie oltre settanta sculture provenienti da collezioni elvetiche, dando vita così a un ricco nucleo di opere che, sebbene non sia esaustivo nel rappresentare l’arte dell’India nella sua eterogeneità, costituisce un eloquente spaccato di ciò che di questa cultura ha interessato maggiormente l’Occidente. E, difatti, tra i numerosi pezzi raccolti in mostra, realizzati in un arco temporale che va dal II secolo a.C. al XII secolo d.C., a dominare sono i manufatti dalle tematiche legate al buddismo. Tutti lavori dall’autore ignoto o di cui si conosce pochissimo, perché l’anonimato nell’arte indiana significava per l’artista andare oltre l’ottenimento della gloria individuale in favore di una funzione sociale che permettesse di rendere visibile allo spettatore le forme dell’Assoluto. Le tante raffigurazioni delle divinità che sfilano sotto i nostri occhi nell’itinerario espositivo ci danno un’idea di come questi esseri venerati, che nella cultura dell’India incarnano le forze spirituali e il loro travalicamento, siano stati oggetto, nel tempo, di varie trasformazioni di senso e di significato, a cui hanno fatto seguito mutamenti dal punto di vista simbolico e fisico. Ad aprire la rassegna è un’opera riconosciuta come uno dei pezzi più importanti dell’arte indiana, il pilastro di una balaustra circostante lo stūpa, il tipico edificio che conserva le reliquie del Buddha, su cui è rappresentata una figura femminile nell’atto di afferrare il ramo di un albero. Realizzata con la
Era un thriller, lo chiamavano amore Editoria La nuova
prova letteraria di Patrick Mancini
Gaṅgaˉ, dea del fiume. India centrale, fine VIII – inizio IX secolo d.C., arenaria rossa. (S. Spinelli)
pietra arenaria rossa caratteristica della regione di Mathura, dove si sviluppò un’importante scuola di scultura tra il II e il VI secolo d.C., questo lavoro si impone per la grazia e la sensualità della donna ritratta. Può stupirci il fatto che i corpi femminili, inseriti in un contesto spirituale, abbiano forme tanto floride e provocanti, ma nella religiosità indiana ciò non viene percepito come qualcosa di peccaminoso, cosicché la raffigurazione muliebre diventa emblema di potere fecondo e augurale, di abbondanza e prosperità. La stessa avvenenza, rafforzata dalla sofisticata eleganza e dalla ricchezza degli ornamenti, si coglie anche nelle rappresentazioni delle yaksi, donne dall’estremo fascino che personificano l’energia materna della natura, così come in quelle di tante altre divinità, come Pārvatī, idealizzazione della bellezza femminile (suggestivo, in mostra, il bronzetto che la immortala seduta su un fiore di loto), o Vāgīśvarī, «Signora del Discorso», dea voluttuosa e conturbante proprio come viene effigiata nella terracotta del periodo Gupta esposta a Mendrisio, considerata tra le più notevoli riproduzioni di questo essere divino. Tante anche le immagini di
Buddha presenti nella rassegna. Tra queste spicca una scultura in scisto grigio risalente al II-III secolo d.C. che ritrae la figura del bodhisattva, splendida opera realizzata nella regione del Gandhara, luogo di nascita di una scuola d’arte che sapeva combinare mirabilmente forme greco-ellenistiche e soggetti orientali. Inaspettata chicca all’interno del percorso è un disegno che Alberto Giacometti eseguì nella seconda metà degli anni Cinquanta raffigurante la copia di un grande Buddha, probabilmente del periodo Gupta, il cui portamento nobile e impassibile ebbe una certa influenza sulla creazione di una delle sue Femme debout. Un esempio, questo, di quanto l’antica arte indiana, così come era accaduto con molti altri artisti, fosse riuscita a sedurre anche il maestro svizzero.
Una giovane coppia innamorata come tante: Alessandro ed Elisa sono appena andati a convivere e sono ancora in preda al furore passionale dei primi anni di ogni relazione. Un’ottima intesa, una bella casa e un buon lavoro. Forse, all’orizzonte, perfino un matrimonio, da fare celebrare a Don Carlo. All’apparenza tutto è perfetto. Ma c’è qualcosa che non va: Elisa, senza alcun preavviso un giorno crolla affranta e disperata, è convinta di essere costantemente sotto osservazione, perseguitata e tenuta d’occhio da due individui misteriosi che si distinguono per il loro look improbabile e le intenzioni oscure. Il fidanzato Alessandro, che è anche l’io narrante, non esita a offrire all’amata fidanzata tutto il sostegno che una situazione tanto delicata comporta, in quello che pagina dopo pagina sembra delinearsi sempre più come un classico thriller (e non venga tratto in inganno il lettore dal titolo del libro, dal chiaro riferimento manzoniano). La situazione si fa sempre più tesa, fino a quando comincia a precipitare, coinvolgendo naturalmente anche Alessandro e finendo per gettarlo al centro di situazioni in cui non sembra più in grado di avere il controllo sulla propria vita. Patrick Mancini, giornalista di Ticinonline, solitamente avvezzo a sviscerare situazioni reali che avvengono alle nostre latitudini (e non solo), dopo @cuorebuiorrore, uscito nel 2015, ha nuovamente ceduto alla sua grande passione per la scrittura creativa,
Dove e quando
India antica. Capolavori dal collezionismo svizzero. Museo d’arte Mendrisio. Fino al 26 gennaio 2020. Orari: da ma a ve 10.00-12.00 / 14.00-17.00; sa, do e festivi 10.00-18.00. www. mendrisio.ch/museo
Nel 2020 ci sarà di che divertirsi
Musica Quello alle porte si prospetta in tutto e per tutto un turning point: capiremo
finalmente (ma sarà davvero così?) quale direzione prenderà la nuova musica italiana Tommaso Naccari Verso la fine dell’anno, per ogni essere umano che si rispetti, iniziano i buoni propositi. E anche se non è propriamente un essere umano, persino il rap italiano deve scendere a patti con il fatto che un decennio sta finendo e ne inizia uno nuovo, che sarà l’ennesimo tentativo di capire la sua vera natura. Se l’inizio del decennio che sta per concludersi vedeva il rap sfondare definitivamente le porte del mainstream – grazie a Moreno ad Amici e MTV Spit prima sulla Music Television – quello che inizia ci vede con un piede in Europa (e mezzo negli States), con la speranza, finalmente, di tirar fuori la testa dal guscio e poter dire la nostra tra i cugini inglesi, francesi e tedeschi che negli anni sono sempre stati le scene «to be» nel Vecchio continente. Come nella perfezione matematica, il turning point è stato alla metà del decennio, quando da chissà quale stella – decidete voi se dalla buona o dalla cattiva inflessione – è arrivata la trap, un’entità misteriosa per l’Italia che ha confuso l’ancor più confusa scena della
Sfera Ebbasta verrà davvero sostenuto dai cugini americani? (Wikipedia)
critica italiana e ha rimescolato le carte in tavola. Non servono i nomi, ma li facciamo lo stesso: Sfera Ebbasta, Ghali, Dark Polo Gang, Tedua e via discorrendo hanno messo un punto e detto «ok, da qui si riparte». Il 2020 sarà l’anno in cui capire-
mo dove ci porterà questo lungo cammino durato, per l’appunto, cinque lunghissimi anni. L’anno prossimo, difatti, dovrebbe essere l’anno in cui tutti – o quasi – tornano con un disco solista che ci spieghi al meglio qual è il loro posto nel mondo. Sfera Ebbasta è l’esempio più concreto. In questi giorni sta spingendo i propri fan, già come fece con Spotify ai tempi di Rockstar, ad iscriversi ad Amazon Music, attraverso uno spot in cui chiede ad Alexa la release del proprio album. Tutto ciò implica che ormai ci siamo, è iniziata la fase di promozione. Sarà un disco importante, perché capiremo se Drake, J Balvin, Cardi B hanno deciso univocamente che il mercato italiano è un mercato interessante, che stare nel disco di Sfera è qualcosa che serve e conta, o se quelle circolate fino ad adesso erano solo voci e nulla più. A febbraio uscirà anche Ghali che invece ci farà capire se si esce vivi dalla macchina del pop di Fabio Fazio e Saviano: le responsabilità affibbiate da altri ti salvano o ti distruggono? Non saranno gli unici a uscire nei primi mesi del ’20: E-Green, per esempio, ha capito che l’hip-hop
old school delude quanto, se non di più, quello new school – stavo per scrivere new age in un lapsus quanto mai freudiano – e dopo la firma in major sembra essere pronto a mettere in discussione sé stesso e l’intera carriera. Capo Plaza e Shiva, dopo essere stati Holly & Benji, sono pronti a dire la loro con dei progetti personali che saranno per il primo una riconferma, per il secondo il primo vero e proprio banco di prova nel mondo degli adulti. Ma non solo di dischi vive il rap italiano nel 2020: vive di live, come Salmo che dopo aver maledetto il Natale per la seconda volta nella sua carriera farà San Siro, o come Marracash che come cantava Baby K è passato da zero a cento, facendo sold out per quattro volte al Forum. Senza dimenticarsi che a febbraio, come sempre, c’è Sanremo: l’anno scorso Mahmood e Achille Lauro hanno svoltato la loro carriera. Quest’anno si parla di Rancore, Elettra Lamborghini, ma non solo. Che il rap abbia deciso anche di prendersi l’Ariston? Nel 2020 ci divertiremo, questo senza ombra di dubbio...
Un thriller che in realtà è tutt’altro che un thriller.
proponendo una breve opera che non manca di creare sorpresa e stupore nel lettore il quale, sicuro di essere a tu per tu con un genere letterario ben preciso, si ritrova invece a dovere riconsiderare tutto quanto aveva dato per assunto fino a quel momento. In questa storia nulla è infatti ciò che sembra, così come nessuno (né i protagonisti, né l’autore) pare volere tenere fede alle prime impressioni date al lettore, in cui, gradualmente, cresce una sensazione di smarrimento che solamente alla fine si dissolverà del tutto e definitivamente. Succede così che, a libro terminato, subentra un’altra fase, non più caratterizzata dalla lettura del testo, ma dalla riflessione su quanto si è appena letto e, soprattutto, su quanto tutto ciò abbia a che fare con la vita di ognuno di noi e con le decisioni che – più spesso di quanto in realtà non vorremmo – a volte siamo chiamati a prendere. / Red. Bibliografia
Patrick Mancini, #promessi sposi. Stavolta tocca a te. Lugano, Fontana Edizioni, 2019.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 dicembre 2019 • N. 52
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Cultura e Spettacoli
Traumi indelebili
Incontri A colloquio con Stefan Merrill Block, giovane autore statunitense che ha tematizzato le stragi scolastiche,
raccontandole in un romanzo forte e commovente Blanche Greco Cosa spinge due diciottenni a presentarsi nella propria scuola armati di tubi di esplosivo, pistole e fucili, per uccidere con determinazione chiunque gli si pari davanti e poi suicidarsi? Perché un ragazzo di vent’anni va alla festa della scuola con un fucile a pompa e la trasforma in tragedia?
Oliver Loving è nato dal bisogno del suo autore di contrapporsi a un profondo senso di solitudine Il massacro avvenuto negli Stati Uniti nella Columbine High School del Colorado nel 1999, per alcuni anni venne considerato un caso limite, in parte persino un tentativo di emulazione di uno storico e sanguinoso «precedente»: la strage nella Bath School del Michigan nel 1927. Ma poi gli attacchi di questo tipo si sono moltiplicati e gli autori di queste carneficine in alcuni casi non se la sono presa solo con i propri compagni di scuola, ma hanno fatto irruzione anche in classi delle elementari, falciando bambini e maestri in un rituale di morte che induce lo scrittore texano Stefan Merrill Block a parlare di «epidemia sociale». «Dalla creazione degli Stati Uniti la diffusione delle armi è un fenomeno che non si è mai fermato, così come la violenza che è un’eredità della storia e della psicologia nordamericana». Ci ha raccontato quando lo abbiamo incontrato a Firenze durante le giornate del Premio Von Rezzori, alla presentazione del suo ultimo libro: Oliver Loving, storia melancolica e struggente ambientata nella cittadina di Bliss in Texas, che inizia quando i riflettori dei media si sono spenti sull’ennesima strage in una scuola e resta solo il dolore delle famiglie che hanno seppellito un figlio; o di chi, come i Loving, non può neppure elaborare il lutto della propria perdita, perché il loro Oliver non è morto, ma è in coma neurovegetativo nel letto 4
della Crockett State Assisted Care Facility. «Sono cresciuto a Plano, una città che a partire dagli anni 80 è diventata una delle più popolose dello Stato del Texas» – ha continuato il trentaseienne Merrill Block – «ma questa trasformazione non è stata senza traumi, soprattutto per i giovanissimi, tanto che durante la mia infanzia fu chiamata la “capitale dei suicidi d’America”. Dieci anni dopo, quando ero appena adolescente, tra i miei compagni di scuola ci fu un’ondata di morti per overdose di eroina e una impressionante serie di suicidi dove io persi molti amici e persino la consulente scolastica. Fu un periodo nero. Eravamo seguiti regolarmente da vari psicologi e perseguitati dai giornalisti. I miei genitori decisero di tenermi a casa per un po’, ma nel bel mezzo di tutto questo avvenne la sparatoria alla Columbine High School e nella mia testa i due eventi diventarono un unico lungo incubo. La Columbine era, in tutto e per tutto, una scuola simile alla mia, anche come estrazione sociale, e io non riuscivo a staccarmi dai resoconti incessanti che la televisione dava sulla sparatoria, sull’inchiesta e i protagonisti. La cosa andò avanti per settimane. All’epoca e anche oggi dopo aver visto i reportage su avvenimenti simili, non posso non pensare a come ognuna di queste morti trasformi una famiglia per sempre. Nessuno racconta cosa succede loro dieci, vent’anni dopo. Cosa ci può essere oltre al dolore che non si placa, al grande senso di solitudine e di vuoto, che segue questo genere di fatti?» Da questi pensieri è nato il romanzo Oliver Loving proprio come «antidoto a quella solitudine», ma non solo, perché la storia che racconta aggira il fatto di cronaca per mettere a fuoco una città e i suoi abitanti oltre alla famiglia Loving e in parte, l’autore della strage: Hector Espina Junior, lo studente ventunenne di origini messicane che con il suo assalto sconvolse il piccolo mondo di Bliss. È proprio Oliver, che giace immobile e silenzioso nel letto numero 4, attorniato dalla sua famiglia ansiosa di strapparlo al coma, che c’introduce in quella che è stata la sua vita: immagini che popolano la sua mente di
Stefan Merrill Block, classe 1982, è nato a Plano, Texas. (Keystone)
diciassettenne raggiunto dai proiettili mentre correva e che lo hanno immobilizzato, ma non hanno cancellato la sua memoria che rievoca gli affetti familiari, momenti divertenti ed episodi della sua breve esistenza con ironia e candore. Emerge la sua personalità, i suoi rapporti con i genitori, il fratello minore e Rebekka, la compagna di scuola per la quale si è preso una cotta, ma anche la comunità di Bliss intenta con pervicacia da anni a negare l’anima messicana del Texas, cercando di rendere «invisibili» i propri concittadini che ne fanno parte. «I messicani americani sono vittime di un pregiudizio che, anche se non se ne parla, emerge con forza nei momenti di conflitto. È una di quelle “crepe” sotterranee e insidiose che percorrono la società texana e fanno parte del suo malessere anche senza un vero muro, una cosa taciuta per troppo tempo». Ammette Merrill Block che ha lavorato dieci anni a questo romanzo,
facendo ricerche approfondite anche sugli effetti a lungo termine di queste stragi di massa; sui sopravvissuti a simili eventi; sulle persone in coma vegetativo e i loro famigliari. E così, come «la scia dolorosa di queste stragi è lunga ed è un fatto collettivo, non individuale», intorno al letto di Oliver durante quasi quindici anni, si avvicendano i suoi cari, che a turno prendono la parola per raccontarlo, per spiegarsi, ma anche, come in un «giallo», per dare sfogo al proprio senso di colpa nei suoi confronti, che con il tempo si acuisce sino a diventare insopportabile, tanto da portarli al limite dell’autodistruzione. Mentre l’equilibrio della famiglia Loving va in pezzi sotto il peso delle tante cose non dette divenute vergognosi segreti e intorno a loro la comprensione e la pena della gente si logora, un vecchio poliziotto non smette di cercare la verità sul folle gesto di Hector Espina Junior: perché andò alla festa della scuola e uccise solo il gruppo teatrale? Perché
sparò a Oliver, che incontrò casualmente prima di suicidarsi? Cosa salvò Rebekka? Oliver Loving, è un romanzo sorprendente, pieno di colpi di scena, intimo eppure capace di guardare al fenomeno delle stragi nelle scuole con lucida sensibilità; costruito con la consapevolezza che anche la realtà più banale può nascondere inaspettati misteri e soprattutto che la tragedia dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime di fatti simili avrebbe bisogno di essere seguita con più attenzione, perché trascende il gesto del killer, va oltre la cronaca, e come ci ha detto Merrill Block «per i suoi terribili effetti a lungo termine sulle persone, può essere paragonata ai disastri, ai cataclismi e alle calamità naturali». Bibliografia
Stefan Merrill Block, Oliver Loving, Vicenza, Neri Pozza, 2018.
La vita sapiente di Elena Ferrante
Narrativa Dopo la comparsa del nuovo libro di Elena Ferrante, non si sono fatte attendere le critiche Laura Marzi Sono strane le strade della censura: se non sono infinite come quelle della Provvidenza, di certo sono contorte. Parlare di censura rispetto all’ultimo romanzo di Elena Ferrante sembra un’assurdità, eppure… La vita bugiarda degli adulti, l’ultimo libro edito da E/O della più celebre scrittrice italiana vivente, ha suscitato un gran polverone, ma questo era piuttosto scontato. Non solo infatti si tratta dell’opera di una delle autrici italiane più letta e tradotta di sempre, c’è anche di mezzo la questione dell’identità, del nome della scrittrice che, come di dominio pubblico, non è mai stato reso ufficialmente noto, anche se a seguito dell’inchiesta del 2016 a opera di Claudio Gatti per «Il Sole 24 ore» sembra ormai quasi certo si tratti della traduttrice Anita Raja. La curiosità però sarà pure un peccato, ma non è un delitto, la censura sì. L’attenzione destata da Ferrante in generale e da quest’ultimo romanzo in particolare hanno infatti reso palese un atteggiamento che da qualche tempo circonda i romanzi dell’autrice:
lo sprezzo intellettuale. Per chi ha una formazione culturale e letteraria solide o ancor di più per chi si occupa di scrittura per mestiere disprezzare la Ferrante è spesso un imperativo categorico. In
Un successo di pubblico, ma parte della critica resta impietosa.
occasione di quest’ultima pubblicazione tra questi «intellettuali» coloro che hanno il vizio di polemizzare sui social network hanno portato avanti una caccia alla streghe: vietato dire bene del romanzo, pena essere accusati di essere servi del sistema. A parte pochi scarni commenti quali: «non mi è piaciuto», «non mi ha preso», non è facile ottenere una sola buona ragione per questo disprezzo dei romanzi di Ferrante da parte dei più colti. La risposta che si dovrebbe riservare a questo antipatico pregiudizio, a cui tutti coloro che ambiscono essere considerati fra chi «se ne intende» sottostanno, è simile a quella che si dovrebbe dare per rispondere al più castrante dei salutismi. Chi disprezza Ferrante a monte, perché mainstream, ricorda un po’ chi non mangia mai un fritto perché fa male, chi ripudia il burro perché è grasso, chi ha abolito l’aglio e la cipolla dalla propria cucina, perché sono pesanti… Tutte privazioni che, seppur all’apparenza benefiche, sono solo in fin dei conti castranti. Leggere i romanzi di Elena Ferrante significa incontrare una romanziera e questo a sua volta permette di essere
trasportati nell’altrove letterario, come se ogni lettore avesse la leggerezza di una pagina e fosse facilissimo farlo spostare, conducendolo nel mezzo della storia narrata. Il piacere di questa esperienza equivale, per restare sulla metafora culinaria in questi tempi di gran moda, a potersi saziare delle prelibatezze più golose, senza effetti collaterali né sul peso né sulla salute. La vita bugiarda degli adulti non fa eccezione. La storia di Giovanna che è anche Giannì è quella di una ragazzina figlia di una coppia di intellettuali, che cresce adorando in particolare suo padre, che si rivelerà presto come uno «degli adulti, persone ragionevolissime nei loro corpi pieni di sapere. Cosa li riduce ad animali tra i più inaffidabili, peggio dei rettili?». Quest’uomo odia la sorella e la grettezza del sottoproletariato napoletano da cui lui stesso proviene, ma zia Vittoria pare essere invece la persona della famiglia a cui Giovanna assomiglia di più. Ed è bruttissima. All’interno di una storia densa di personaggi, di particolari, di emozioni e pensieri, attraverso il personaggio di Giannina Ferrante racconta la banalità
devastante del percepirsi brutta per una ragazzina. Una delle esperienze che si danno per scontato, a cui poche sono rimaste indenni. E ancora l’evidenza mai del tutto sopportabile che ciò che viviamo da bambini in casa influenzerà la nostra vita per sempre, perché ci scorre nelle vene un sangue che assomiglia troppo a quello di coloro che ci hanno procreato e se ci capita la sventura che questi si dimostrino degli esseri indegni, quella pecca ci perseguiterà. Come sempre Ferrante non dimentica la differenza di classe, fonda ogni sua storia sulla differenza di genere, perché i racconti di donne e uomini, le storie d’amore, sono anche storie di disparità, e di ingiustizie. La filosofa Adriana Cavarero sostiene che la letteratura non ignora l’universale, come vorrebbe la vulgata, ma lo racconta attraverso il particolare. Ferrante fa questo e a dispetto di tutti i magri censori in circolazione fa della letteratura e la fa gustosissima. Bibliografia
Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti, Roma, edizioni e/o, 2019.
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