Una notte in un centro per senzatetto del pastore Sieber nella città più ricca della Svizzera
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ATTUALITÀ
Le donne che nell’anno che sta finendo hanno avuto il coraggio di far sentire la loro voce
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CULTURA
Al Pacino racconta la sua vita, tra sogni impossibili e trionfi, in un’autobiografia senza censure
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TEMPO LIBERO
A Natale, il gioco da tavolo unisce famiglie e amici, offrendo momenti di divertimento e scoperta
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Filippino Lippi (Prato 1457 – Firenze 1504) e bottega con Vincenzo Frediani Madonna con il Bambino e angeli, 1480-1483 ca. Tempera grassa su tavola 43 X 29,5 cm (spessore 2 cm); Collezione privata, Cantone Ticino (Immagine di Carlo Pedroli, Chiasso)
La punta rilucente dell’iceberg
Natale in arte ◆ Il m.a.x. Museo di Chiasso ospita fino al 6 gennaio Madonna con il bambino e angeli di Filippino Lippi
Elio Schenini
Come un iceberg, la cui parte visibile è solo una piccola frazione rispetto a quella che si cela sotto la superficie dell’acqua, l’immenso patrimonio di opere d’arte che l’umanità ha prodotto nel corso della propria storia risulta oggi in gran parte invisibile perché inabissato nei deposti dei musei e nel chiuso delle dimore private, oltre che nei caveau delle banche e nei magazzini dei punti franchi. La condizione di parziale o totale inaccessibilità di queste opere non impedisce però che esse siano continuamente trascinate da una vorticosa corrente sotterranea alimentata non solo dalla passione dei collezionisti e dall’interesse degli storici, ma anche dall’avidità di speculatori e mercanti. E così capita, a volte, che queste opere riaffiorino almeno temporaneamente all’attenzione del pubblico, soprattutto in occasione di vendite all’asta o di esposizioni in spazi museali. Per favorire queste riemersioni, da alcuni anni il m.a.x. Museo di Chiasso, in occasione del Natale offre ai propri visitatori la possibilità di ammirare un’opera normalmente inaccessibile, avvalendosi della collaborazione di una società specializzata nella logistica delle opere d’arte.
Da alcuni anni, per Natale, il m.a.x. Museo offre al proprio pubblico la possibilità di ammirare un’opera d’arte solitamente inaccessibile
Quest’anno a essere esposto nell’atrio del museo è un piccolo dipinto su tavola del Quattrocento toscano su cui è raffigurata la Vergine con in braccio il Bambino attorniata da quattro angeli: uno che sorregge un piatto dal quale Gesù prende i fiori che offre alla madre, gli altri tre inginocchiati ai loro piedi intenti a cantare un brano musicale le cui prime note si possono leggere sul rotolo di carta che uno di loro tiene tra le mani. Soggetto e composizione collegano l’opera al cosiddetto Tondo Corsini, ossia a quello che è indubbiamente uno degli esiti più significativi della prima parte della carriera di Filippino Lippi, nella cui cerchia la tavola è evidentemente stata dipinta. E sin qui gli studiosi sono sostan-
zialmente concordi. Se si tratti invece di uno studio preparatorio dello stesso Lippi, come sostenuto da alcuni, soprattutto in passato, o se non sia piuttosto una copia di bottega, magari del lucchese Vincenzo Frediani, come propendono a ritenere studi più recenti, è invece questione complessa e dibattuta nella quale lasciamo che siano gli specialisti ad addentrarsi. Del resto, proprio attorno a un gruppo di opere in gran parte attribuibili a Filippino Lippi è maturato uno dei più grandi abbagli della storiografia artistica del secolo scorso, che ha visto Bernard Berenson, tra i massimi esponenti della connoisseurship, inventarsi di sana pianta una figura priva di ogni riscontro documentale, battezzata con formula indubbia-
mente suggestiva «l’amico di Sandro» (riferendosi ovviamente a Botticelli), pur di non dover sconfessare il proprio approccio metodologico.
Più facilmente ricostruibili ma non per questo di minor interesse, perché toccano aspetti cruciali della storia del collezionismo, consentendoci al contempo di comprendere le ragioni per cui l’opera si trovi oggi a Chiasso, sono le vicende che hanno caratterizzato il dipinto negli ultimi due secoli. Un arco di tempo in cui l’opera ha avuto modo di attraversare per ben due volte l’Atlantico. Quasi certamente la sua collocazione iniziale non era tuttavia la medicea Villa di Careggi, come ipotizzano i curatori della presentazione di Chiasso, secondo i quali la tavola
potrebbe essere stata venduta, assieme ad altri arredi, dopo la morte, nel 1871, del suo proprietario, lo scozzese Francis Joseph Sloane. Già nel 1867, infatti, l’opera risulta essere negli Stati Uniti, visto che proprio quell’anno è entrata a far parte della collezione della New York Historical Society, come dimostra lo stesso numero di inventario presente sul retro della tavola (NYHS 1867.330), che, come spesso accade, è composto dall’anno di entrata nella collezione seguito da un numero progressivo. La tavola apparteneva al gruppo di 381 dipinti che Thomas Jefferson Bryan donò quell’anno all’istituzione newyorkese e che fino a quel momento aveva ospitato in un vero e proprio museo
privato: la Bryan Gallery of Christian Art. Personaggio singolare e facoltoso, appassionato di scacchi oltre che d’arte, Bryan è stato uno dei primi esponenti del collezionismo americano e uno dei primi, sull’onda del Gothic Revival che investì il mondo anglosassone nel corso dell’Ottocento, a interessarsi ai primitivi italiani. La sua collezione, costituita in larga parte tra il 1829 e il 1852, quando soggiornò stabilmente in Europa frequentando personaggi come Artaud de Montor, continuò ad accrescersi anche nei decenni successivi in occasione di ulteriori viaggi in Europa (morì nel 1870 a bordo del transatlantico Lafayette mentre stava facendo ritorno a New York). Ed è probabilmente durante uno di questi viaggi che Bryan acquistò il dipinto ora esposto a Chiasso, visto che non è incluso nella guida della collezione pubblicata nel 1853. Le peripezie del quadro non finirono però con l’approdo in un’istituzione museale. Ben presto affiancata da realtà museali più ricche e potenti quali il Metropolitan Museum of Art, che poteva godere dei contributi e delle donazioni di un personaggio come John Pierpont Morgan (il fondatore della JP Morgan), la New York Historical Society si trovò già negli anni Quaranta del secolo scorso in gravi difficoltà finanziarie per uscire dalle quali ricorse a quella pratica che costituisce uno dei tratti distintivi più importanti dei musei americani: il deaccessioning, ossia l’alienazione delle collezioni, o come preferiscono dire alcuni, con neologismo, che a noi pare superfluo, la de-accessione. I musei americani, infatti, a differenza di quelli europei, possono, a precise condizioni e con procedure ben definite, alienare singoli oggetti o gruppi di oggetti per garantire il futuro dell’istituzione o per effettuare acquisizioni più rilevanti per l’identità della collezione.
Gran parte delle opere donate da Bryan, soprattutto quelle non direttamente legate alla storia americana, vennero così vendute nel corso di tre aste tenute da Sotheby’s rispettivamente nel 1971, nel 1980 e nel 1995. Come ha osservato Martin Gammon che la storia della de-accessione l’ha raccontata in un libro del 2018, nel quale un capitolo è dedicato proprio alla collezione Bryan, una parte delle opere vendute dalla New York Historical Society sono comunque tornate in tempi più o meno rapidi a far parte di collezioni museali, come il desco da parto che celebrava la nascita di Lorenzo il Magnifico acquisito dal Metropolitan nel 1995, altre invece, come quella attualmente esposta a Chiasso che ha riattraversato l’Atlantico per finire in una collezione privata in Svizzera, riaffiorano ogni tanto dall’oblio in cui si sono inabissate ricordandoci che la punta rilucente dell’iceberg può manifestarsi ai nostri occhi solo grazie all’enorme e oscura massa nascosta che la sorregge.
Dove e quando Madonna con il bambino e angeli, (1480-1483 ca.), Filippino Lippi (Prato 1457 – Firenze 1504) e bottega con Vincenzo Frediani; Chiasso, m.a.x. Museo. Orari: ma-do 10.00-12.00; 14.00-18.00; lunedì chiuso; apertura speciale: giovedì 26 dicembre, Santo Stefano; fino al 6 gennaio 2025. www.centroculturalechiasso.ch
La bellezza dei volti delle figure, soprattutto quello della Madonna e degli angeli, rinviano allo stile del maestro di Filippino Lippi, Sandro Botticelli. Maria è vestita di blu e rosso, i colori simbolici della sua purezza e del suo amore materno.
Il Bambino Gesù interagisce con un angelo che gli offre dei fiori, simbolo della nuova vita e della Passione di Cristo.
Il gruppo di angeli sulla destra, ai piedi del bambino, canta una canzone scritta su un cartiglio.
Ascoltare Bach, gioia ed elevazione
Musica di Natale ◆ L’Oratorio di Natale di J.S. Bach è suddiviso in sei parti, rappresentanti ognuna un momento delle festività
Giovanni Gavazzeni
Secondo quanto riferiva il famoso pianista russo Sviatoslav Richter il solo sentire l’attacco incisivo dei timpani cui fanno eco i trilli celesti dei fiati, e le voluttuose cascate dei fiati nello svettare del giubilo delle trombe, era come se di colpo lo spirito del Natale avesse fatto irruzione nella sua abitazione, portando quella gioia e quella calda luce di speranza che gli inverni sovietici negavano.
Grazie alle piattaforme digitali ci è consentito fare un viaggio tra le varie interpretazioni di questo capolavoro della musica classica
Per Richter e i suoi amici ascoltare il giorno della Natività di Gesù, l’Oratorio di Natale che J. S. Bach scrisse nel 1735, era un rito a cui non avrebbero mai più rinunciato. E come dargli torto: la sferzata di energia gioiosa con cui si apre la prima delle sei parti in cui è suddiviso l’originale Oratorio bachiano è irresistibile, e per questo l’invito a ripetere l’esperienza in tutte le case degli uomini di buona volontà è sempre valido.
In Russia (sovietica e post) come in ogni angolo del mondo e soprattutto a casa dei «nemici» americani, il Natale musicale è associato alle rappresentazioni del balletto-capolavoro di Cjaikovskij, Lo schiaccianoci, che si apre proprio la sera della vigilia, davanti a un albero dove poi si intrecceranno lo scambio dei doni, i giochi e le marachelle dei fanciulli, i sortilegi incantati della battaglia fra i topi e i soldatini, gli incantesimi del mondo dei confetti e dei dolci. La visione magari serale del balletto non preclude l’ascolto meridiano di Bach, perché non c’è funzione o messa che possa raccontare l’annuncio e il mistero del
Natale con maggior gioia e dolcezza della musica di Bach.
Ognuna delle sei parti di cui è composto l’Oratorio di Bach forma con le seguenti un tutt’uno narrativo
L’Oratorio di Bach è suddiviso in sei parti che non possono essere considerate come sei cantate tradizionali a sé stanti, anche se furono eseguite in giorni diversi nell’arco di tredici giorni: ognuna forma con le seguenti un tutt’uno narrativo, aperto da un grande coro o da una sinfonia, come la sublime contemplazione degli angeli e dei pastori che apre la seconda parte, un cullante ritmo di 12/8 che sembra muovere la culla con carezze angeliche. Il racconto musicale include momenti dialogati e narrativi, e come capita nelle celebri Passioni il tenore ha il ruolo dell’Evangelista, cioè di colui che cita il testo evangelico, tratto da soprattutto da Luca e Matteo. Ogni parte fu eseguita per sei differenti festività del tempo natalizio: il giorno di Natale, dove si narra l’avvento e la nascita di Gesù; l’indomani, Santo Stefano, l’annuncio ai pastori; e il 27 l’adorazione dei pastori. Poi si salta al Primo dell’anno con la quarta parte, che racconta la circoncisione; il giorno seguente, la quinta parte è dedicata all’arrivo dei Magi a Gerusalemme, concludendosi con l’adorazione dei Magi il giorno dell’Epifania. Accanto al soffio altissimo dei corali luterani e al nerbo narrativo dei Vangeli, cori e arie sono quasi tutti
provenienti da composizioni, spesso profane, precedenti, senza che il genio bachiano lasci all’ascoltatore il dubbio della loro origine diversa. Potere del genio onnipotente e trasformatore di Bach. Al tempo degli ascolti natalizi di Richter nella Russia sovietica, il verbo bachiano era ancora saldamente nelle mani dei gruppi tedeschi, eredi della tradizione post-romantica, caratterizzata da organici strumentali e corali poderosi. L’avvento della pratica degli strumenti «originali» poi storicamente informati, era solo agli albori. Magari Richter ascoltava la
fortunata versione del suo omonimo tedesco, il grande organista e direttore, Karl Richter, fondatore dell’Orchestra Bach di München e autore di storiche incisioni con voci educate da lungo studio alla duttilità bachiana e rutilanti falangi di ottoni. Oggi se nella cattedrale o nella basilica cittadina si eseguono carole e pive di più modesti dimensioni, grazie alle piattaforme streaming, è possibile ascoltare esecuzioni illuminanti provenienti dai quattro angoli del mondo. Le piattaforme ci permettono di saltare dalla Baviera, dove un gran maestro del coro, Peter Dijkstra, ha
inciso con il Coro della Radio Bavarese e l’Akademie für Alte Musik di Berlino la sua versione (BR Klassik), oppure volare in Catalonia da Jordi Savall per ascoltare il suo celebre Concerts des Nations e la Capella Real de Catalonya (AliaVox), oppure, varcati oceani e continenti, approdare al Giappone del Bach Collegium Japan di Maasaki Suzuki (Bis). Questi suggerimenti d’ascolto possono essere mantenuti ogni anno o variati; il risultato con Bach è sempre garantito: gioia ed elevazione – in questi tempi di guerre e desolazione necessità ancor più vitale.
A sinistra, un ritratto di J. S. Bach. In basso a sinistra uno spartito dell’Oratorio di Natale e sotto (nella foto Wikimedia) un coro che lo sta eseguendo.
Lontano dai festeggiamenti, vicino alla comunità
Elda Pianezzi
Le tre pastiglie aspettavano allineate sul tavolo, pronte a coprire ognuna otto ore e a regalare a Iris una pausa di un giorno intero; o così per lo meno aveva calcolato. Avrebbe sorvolato le festività a distanza, sognando, e si sarebbe risvegliata la sera del venticinque, libera dal peso di inviti non ricevuti e non fatti. Le faccende erano state sbrigate, tutte, compreso lo scambio di auguri con le tre amiche più care, indaffarate con i preparativi di pranzi e cene e già spossate per l’imminente arrivo di parenti e seccatori vari. Iris aveva ascoltato le loro lamentele senza irritazione, perché sapeva che scaturivano da buone intenzioni, dalla volontà cioè di mostrare che la loro condizione non era per forza migliore della sua. Altre interpretazioni le escludeva non per ingenuità, ma per scelta, giacché l’esperienza le aveva insegnato che la via più diretta tra due punti era sempre una linea retta, mentre le speculazioni erano ghirigori che complicavano il cammino.
Iris andò in cucina, tolse l’acqua bollente dal fuoco e la versò nella tazza dove già si trovava il tè. Aggiunse latte e zucchero, si fermò a godere di quel profumo dolce e familiare, diede una bella mescolata e, con la tazza in mano, fece un giro nelle stanze per assicurarsi che tutto fosse spento e chiuso. La camera da letto era in penombra, già pronta ad accoglierla. Prima di addormentarsi avrebbe chiamato la figlia partita per l’Australia con il nuovo fidanzato. Poi più nulla. Trovava confortante l’idea che le cose potessero andare avanti senza di lei.
Una vigilia insolita, dove l’attesa si confonde con la quiete e i confini tra solitudine e solidarietà si fanno sottili
Mentre sorseggiava il tè con lentezza, quasi a voler estendere all’infinito l’intervallo che si era ritagliata, attraverso i vetri del salotto vide l’abete nel suo vaso che si agitava. Aveva scelto di addobbarlo e ora il vento impetuoso lo scarmigliava senza concedergli il sollievo della pioggia, che sul terrazzo non poteva raggiungerlo. Iris uscì per raccogliere qualche decorazione caduta a terra e l’aria umida e mite le ricordò quella delle estati al mare, inappropriata per la vigilia di Natale. Si disse che non importava, che in fondo era una notte uguale a tante altre.
Le grida che all’improvviso salirono dal basso le confermarono che la realtà prevaleva sulla sacralità: i visitatori sgraditi erano tornati. Come avanzi di temporale, negli ultimi tempi formavano rigagnoli umani che da ogni direzione confluivano nello spazio protetto e coperto a pianterreno, ideato quarant’anni prima da un architetto incapace di prevedere le esigenze di privacy dei consumatori di eroina, crack, metanfetamine. Iris pensò a bottiglie rotte, siringhe, resti organici e alla bimba tanto carina del secondo piano, che da poco aveva cominciato a camminare incespicando e ridendo con le manine perennemente protese in avanti, e riluttante si avviò giù per le scale: ci partecipava solo a sprazzi, alla vita, e il ruolo di intrusa la metteva a disagio.
Questa volta erano in tre: un vecchio e un giovane, ingobbiti a bere e fumare sul muretto davanti all’entrata, e una donna ossuta dall’età indefinita, in piedi davanti a loro, che parlava a raffica e si muoveva a scatti su
e giù. Da dentro Iris batté le nocche sul vetro e fece segno che dovevano andarsene. Loro fecero come se nulla fosse ignorandola, con il giovane incapace di reggere a lungo il peso del proprio corpo, che di tanto in tanto si lasciava andare appoggiando la testa sulla spalla del vecchio. In quei momenti la donna si piegava verso di lui dandogli affettuose pacche d’incoraggiamento che però non producevano alcun effetto visibile.
«Crede che dobbiamo chiamare la polizia?»
La voce della signora Morgenstern
sorprese Iris. Sapeva che a essere disturbati dal continuo andirivieni erano soprattutto il rabbino e la moglie, che abitavano a pianterreno, ma in questa notte non si aspettava di incontrare nessuno. Le due donne si guardarono e senza bisogno di tante parole all’unisono decisero che sì, che avrebbero chiamato. Iris seguì la figura lenta fino al suo appartamento, fermandosi con discrezione sulla soglia durante la telefonata. In seguito, visto che anche la signora Morgenstern era a casa da sola, rimase ad aspettare insieme a lei, assicurandole che le faceva piacere, che
compagnati direttamente al centro gestito dall’esercito della salvezza, dove si teneva una festicciola con tanto di cena offerta, musica e canti. Con un po’ di fortuna avrebbero ricevuto anche un posto letto. La donna pareva comunque non apprezzare l’offerta e lanciò a Iris un’occhiata malevola.
Anziché sciogliersi con la partenza degli elementi disturbatori, il gruppetto si infoltì con la comparsa del portinaio, che dal palazzo adiacente venne a curiosare e si fermò a parlare con i poliziotti. Fu in quel momento di chiacchiere improvvisate che la tensione fra loro svanì, mentre i nuvoloni venivano sfilacciati dal vento e la luna tornava a rischiarare la notte. Il giovane, traballante, ne approfittò per risedersi sul muretto, seguito a ruota dal vecchio e dalla donna, che si accese una sigaretta fissando, finalmente tranquilla, un punto inesistente davanti a sé. Nell’eterogeneo conglomerato di individui l’equilibro permase, finché i poliziotti non decisero che l’intervento andava concluso e, salutando con gentilezza, si allontanarono con i loro tre non prigionieri, aiutandoli a trasportare due borse dal contenuto lurido ma innocuo.
Accese le luci dell’abete, suonò al piano il suo brano preferito e decise che il giorno dopo sarebbe andata a passeggiare
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l’ora e il giorno non importavano. All’arrivo dei due poliziotti, che Iris e la signora Morgenstern accolsero aprendo la porta d’entrata (esponendosi), gli uomini reagirono rassegnati, indifferenti; la donna appariva invece offesa, e lo fece notare urlando insulti intrisi di bava contro Iris, la «traditrice» ai suoi occhi. La sua veemenza era adeguata, serviva a bilanciare le ingiustizie, pensò Iris. Uno degli agenti spiegò che di interventi simili ne avevano svolti un gran numero nelle ultime settimane e che questo terzetto era davvero fortunato: li avrebbero ac-
Dopo che ebbero oltrepassato il cancelletto, che diligentemente si chiuse alle loro spalle, Iris si scusò per lo scompiglio causato. Il portinaio e la Morgenstern risposero che era stato necessario, che aveva fatto bene, che il caseggiato andava monitorato, difeso dal degrado. Iris lo sapeva e tuttavia credeva che certe scelte non andassero bollate in modo semplicistico come individuali, ma che andassero considerate come responsabilità della comunità intera e trattate di conseguenza. Per questa notte le cose si erano però appianate con una facilità quasi magica e a Iris venne in mente che in cantina aveva un paio di bottiglie di spumante e che avrebbe potuto scendere a prenderne una per festeggiare, ma forse il portinaio, che era kosovaro, non beveva alcolici e nemmeno la signora, che era anziana. Mentre Iris esitava, la Morgenstern sparì dentro casa, intimando loro di rimanere dov’erano, e pochi istanti dopo ricomparve con un piattino su cui si trovavano dei rugelach, dolcetti che aveva preparato per Hannukkah, farciti con formaggio fresco e cioccolato. Tornata nel suo appartamento, Iris si disse che la signora Morgenstern era davvero un’ottima cuoca e che gli auguri che si erano fatti mentre gustavano quelle delizie si potevano fare per tante ragioni diverse e che i significati dietro ogni augurio potevano anch’essi variare, ma non per questo perdevano d’importanza.
Dopo aver chiamato la figlia e ascoltato con la giusta premura materna le storie di billabong e coccodrilli marini, le avventure subacquee tra tartarughe e pesci pagliaccio e le spedizioni nella giungla, assicurandole che no, che non si sentiva sola, accese le luci dell’abete, suonò al piano il suo brano preferito di Mozart e decise che il giorno dopo sarebbe andata a passeggiare lungo il fiume, per trascorrere l’imminente giornata di festa, una giornata diversa eppur uguale a tante altre.
SOCIETÀ
I canti delle filandaie
L’ultimo volume della collana delle «Voci» del Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana è dedicato alle filande
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Con i senzatetto a Zurigo
Una notte in un centro per persone senza fissa dimora dell’opera sociale del pastore
Sieber nella città più ricca della Svizzera
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Mondoanimale
Nonostante il suo nome, la locusta egiziana è oramai una specie indigena, non invasiva e convive pacificamente con la cavalletta celeste
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«Mio fratello ha ricevuto un regalo più
bello!»
Famiglia ◆ I litigi tra i figli spesso innervosiscono i genitori eppure rientrano nel normale sviluppo del rapporto, aiutano la crescita e rafforzano le abilità sociali ed emotive
Alessandra Ostini Sutto
Hanno un tocco magico in più le Feste quando in casa ci sono dei bambini; un elemento apprezzato anche dagli adulti, questa magia, che si può però d’un tratto smorzare quando scoppia un litigio, magari perché il fratello maggiore ha ricevuto un regalo più grande oppure perché al piccolo di casa vengono accordate maggiori attenzioni da amici e parenti. Le rivalità tra fratelli riguardano, infatti, proprio il bisogno profondo dei bambini di avere l’esclusiva sull’amore dei genitori, in primis, ma pure degli altri familiari, mentre entrano d’altro lato in gioco fattori quali il rango e le lotte di potere per difendere la propria posizione.
I conflitti tra fratelli sono da considerare come un’opportunità di esplorare le regole fondamentali dell’interazione umana
Litigare però, durante l’infanzia, è assolutamente naturale e inevitabile; il conflitto è, difatti, una delle modalità di relazionarsi nella più tenera età e, a ben guardare, non solo. «Quando due persone condividono una relazione, che sia romantica, familiare, amichevole o professionale, è normale che emergano divergenze di opinioni, bisogni o valori, che possono sfociare in un conflitto, il quale in realtà può pure contribuire a mantenere sano il legame. Se affrontati con un approccio costruttivo, tali contrasti favoriscono, infatti, una comunicazione più autentica e una comprensione reciproca più profonda», afferma lo psichiatra, psicoterapeuta e psicoanalista Orlando Del Don.
Il tema dei risvolti positivi dei litigi acquista un’importanza tutta particolare durante l’infanzia, soprattutto nella relazione tra fratelli. Scontri e battibecchi in effetti rientrano nel normale sviluppo del rapporto e svolgono una funzione positiva di crescita, stimolando lo sviluppo dell’identità del singolo e delle sue abilità sociali ed emotive, come confermano studi e ricerche. Tra questi, citiamo il progetto «Toddlers Up», condotto dalla professoressa Claire Hughes del Centro per la Ricerca Familiare dell’Università di Cambridge esaminando lo sviluppo cognitivo e sociale di bambini tra i 2 e i 6 anni. Una delle conclusioni a cui è giunto lo studio riguarda proprio il fatto che avere fratelli ha un effetto benefico sullo sviluppo precoce del bambino, anche nei casi in cui il rapporto non è cordiale.
Anche se il litigare dei figli mette alla prova i nervi dei genitori, piuttosto che volerlo sedare nell’immediato, imponendo loro quasi di dover
andar d’accordo, bisognerebbe aspettare qualche minuto e intervenire solo se necessario aiutando i contendenti ad ascoltarsi, per fare in modo che il confronto sia qualcosa di costruttivo e non di distruttivo. Per facilitare i genitori in questo compito, Protezione dell’infanzia Svizzera sottolinea alcuni dati che dovrebbero tener presente, e cioè il fatto che fratelli di età compresa tra 3 e 7 anni si scontrano in media 3,5 volte all’ora, tra 2 e 4 anni addirittura ogni dieci minuti. D’altro canto però, i fratelli tra i 3 e i 5 anni trascorrono insieme più del doppio del tempo rispetto a quello che passano con mamma e papà e, in generale, fratelli e sorelle lasciano un’impronta almeno altrettanto forte di quella dei genitori.
«La famiglia è il contesto in cui impariamo ad entrare in relazione con gli altri e i fratelli in particolare rappresentano un “laboratorio relazionale” unico, dove si affrontano le prime dinamiche di conflitto – spiega la psicologa Asia Margiotta – tra di loro
gli scontri sono più frequenti rispetto ad altre relazioni e questo a causa della convivenza, della competizione per risorse condivise e della sicurezza del legame familiare». I litigi tra fratelli possono così essere considerati una sorta di «palestra» per relazioni sociali più ampie, offrendo ai bambini l’opportunità di esplorare le regole fondamentali dell’interazione umana. All’interno della relazione fraterna i piccoli sentono infatti di potersi «spingere» più in là rispetto a quello che farebbero con amici e compagni, sperimentando lo scontro acceso e le sue conseguenze, in un ambiente che sentono come protetto e rassicurante; dopo mezz’ora sanno inoltre che tutto tornerà come prima. «In questi conflitti emergono caratteristiche e inclinazioni dei bambini, come pure specifici interessi ed esperienze vissute. Il confronto permette così da un lato di sviluppare una propria identità, esplorando chi si è, scoprendo le proprie risorse e il modo in cui queste interagiscono con quelle degli altri, e
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dall’altro di iniziare a differenziarsi, imparando al tempo stesso a rispettare e adattarsi alle diversità altrui –commenta il dottor Del Don – dinamiche, queste, profondamente legate allo sviluppo della Teoria della Mente (Theory of Mind, TOM), ovvero la capacità del bambino di comprendere che gli altri hanno pensieri, emozioni e intenzioni diverse dalle proprie, che inizia a svilupparsi intorno ai 2-3 anni per raggiungere maggiore complessità verso i 4-5 anni». Concretamente, attraverso piccoli conflitti quotidiani, come il dover aspettare il proprio turno per un gioco, i bambini imparano a riconoscere che l’altro ha prospettive e priorità che possono differire dalle proprie. «La TOM emerge proprio quando il bambino impara a interpretare e rispondere ai desideri e alle emozioni altrui, integrandoli nei propri schemi di comportamento», continua lo psichiatra. Essendo questi primi esercizi di empatia e comprensione essenziali per lo sviluppo sociale ed emotivo, si capisce come le relazio-
ni fraterne possano influenzare positivamente questo importante aspetto della crescita. «Tali esperienze aiutano i bambini a sviluppare una maggiore tolleranza alle frustrazioni, imparando a gestire e regolare emozioni intense come rabbia e insoddisfazione. Gradualmente, essi acquisiscono inoltre la capacità di esprimere il proprio disappunto, spiegare il proprio punto di vista, convincere, mediare e risolvere malintesi, competenze cruciali per le relazioni adulte», afferma Asia Margiotta.
Attraverso le liti, i fratelli esplorano poi dinamiche di potere, comprendendo come età, abilità o forza fisica possano influire sulle relazioni. «Generalizzando, i fratelli maggiori tendono a sviluppare ruoli di leadership o mediazione, mentre i minori apprendono le strategie dai primi. Questo li aiuta a navigare con consapevolezza le gerarchie sociali e a sviluppare una visione più complessa delle interazioni umane – commenta Del Don – durante la risoluzione dei conflitti, i bambini imparano inoltre che gli errori fanno parte delle relazioni e che perdonare è essenziale per ricostruire legami. Questa capacità di recupero emotivo non solo rafforza i rapporti fraterni ma costituisce una base solida – di nuovo – per affrontare le relazioni future». Insomma, sotto vari aspetti, liti e conflitti fraterni, considerati superficialmente in modo negativo, svolgono un’importate funzione di crescita, sia in un’ottica personale che sociale. Ma cosa succede a chi di fratelli non ne ha? «Senza un confronto quotidiano con un pari, il figlio unico ha meno occasioni di apprendere abilità relazionali come la negoziazione, il compromesso e, appunto, la gestione dei conflitti. Sebbene queste competenze sociali possano essere sviluppate attraverso le relazioni con amici o colleghi, il processo avviene spesso più tardi e con una minore intensità rispetto a quanto accade in una dinamica fraterna – spiega la psicologa – d’altra parte, crescendo come unico figlio, si gode dell’attenzione esclusiva dei genitori, che, equivalendo a più tempo e risorse a disposizione, si traduce nell’opportunità di sostenere intensamente la crescita del bambino, incoraggiandolo a sviluppare interessi profondi e a esplorare appieno le proprie capacità. Ciò può favorire lo sviluppo dell’autonomia, che a sua volta diventa una risorsa preziosa in molte situazioni della vita. Inoltre, in assenza di fratelli, il bambino sviluppa maggiormente la capacità di intrattenersi da solo, che funge da stimolo per creatività e concentrazione. Insomma, che vi siano o meno fratelli, ogni configurazione familiare porta con sé sfide e opportunità».
Carni speciali per momenti speciali
Attualità ◆ Presso i banchi macelleria delle maggiori filiali Migros sono disponibili alcuni pregiati tagli di carne che renderanno le feste un’esperienza culinaria indimenticabile
Con le nostre specialità di carne proposte in esclusiva durante le festività, sorprendere i propri ospiti è facilissimo. Ogni taglio è stato selezionato accuratamente per offrire a tutti i buongustai un momento gastronomico all’insegna dell’eccellenza. L’assortimento annovera l’entrecôte di renna, il filetto di bisonte e la raffinata entrecôte di wagyu.
Per un risultato ottimale nella loro preparazione, gli abili macellai Migros sono pronti ad offrirvi suggerimenti e trucchi che possano esaltare al meglio il sapore e la qualità di ogni singolo prodotto.
Questa carne proviene dalle regioni settentrionali della Svezia, dove l’allevamento di renne è legalmente riservato al popolo Sàmi, che rappresenta una componente fondamentale della loro cultura millenaria. Gli allevamenti sono in gran parte semi-nomadi e gli animali si muovono liberamente su vaste aree di pascolo seguendo le stagioni. Le renne si nutrono principalmente di licheni, muschi, cortecce, erba, arbusti e foglie. La carne di renna si caratterizza per il suo sapore ricco ma delicato, leggermente selvatico. Magra, ricca di proteine e povera di grassi saturi, è un’ottima alternativa alle carni convenzionali.
Entrecôte di renna con salsa al mirtillo rosso e rosmarino
Ingredienti per 2 persone
2 entrecôte di renna (circa 200 g ciascuna)
2 cucchiai di olio extravergine d’oliva
1 rametto di rosmarino fresco
1 spicchio d’aglio, schiacciato sale grosso e pepe nero macinato fresco
Per la salsa al mirtillo rosso:
100 g di confettura di mirtilli rossi (in alternativa di ribes o marmellata di lamponi)
50 ml di acqua
1 cucchiaino di aceto balsamico
1 rametto di rosmarino
Un pizzico di sale
Porta le entrecôte a temperatura ambiente almeno 30 minuti prima della cottura. Massaggia la carne con olio extravergine d’oliva, sale grosso e pepe. Scalda una padella antiaderente a fuoco medio-alto con un filo d’olio, l’aglio schiacciato e il rametto di rosmarino. Cuoci le entrecôte per 2-3 minuti per lato per una cottura al sangue, oppure 4-5 minuti per lato per una cottura media. Togli la carne dalla padella e lasciala riposare su un piatto coperto con alluminio per 5 minuti. Nella stessa padella, elimina l’aglio e il rosmarino, quindi versa la confettura di mirtilli rossi e l’acqua. Aggiungi l’aceto balsamico e un rametto di rosmarino. Cuoci a fuoco basso per 2-3 minuti, mescolando fino a ottenere una consistenza liscia e adagia le entrecôte su un piatto caldo. Versa un cucchiaio di salsa al mirtillo rosso sulla carne o a lato. Accompagna con purè di sedano rapa o patate e verdure al forno. Guarnisci con un rametto di rosmarino.
Il bisonte fa parte del gruppo dei bovini selvatici ed è il più grande mammifero terrestre del Nordamerica, dove è noto anche come bufalo. Gli animali sono allevati in grandi spazi aperti, dove pascolano liberamente nutrendosi di erbe, germogli, piante erbacee delle steppe, muschi e licheni. Un bisonte può vivere fino a venticinque anni ed è caratterizzato dalla parte anteriore del corpo molto sviluppata, un garrese importante e corna corte e appuntite. La carne di bisonte non solo è apprezzata per le sue buone qualità nutrizionali, ma anche per il sapore più delicato rispetto al manzo, con note più dolci e distintive. Inoltre, ha un tenore di grassi relativamente basso.
Filetto di Bisonte con burro
aromatizzato al timo e limone
Ingredienti per 2 persone
2 filetti di bisonte (circa 200 g ciascuna)
2 cucchiai di olio extravergine d’oliva
Sale grosso e pepe nero macinato fresco
Per il burro aromatizzato:
50 g di burro a temperatura ambiente
1 cucchiaino di scorza di limone grattugiata (non trattato)
1 cucchiaio di succo di limone fresco
1 rametto di timo fresco (solo le foglioline)
Un pizzico di sale
Burro aromatizzato:
In una ciotolina, mescola il burro con la scorza di limone, il succo di limone, le foglioline di timo e un pizzico di sale. Amalgama bene con una forchetta fino a ottenere un composto cremoso. Avvolgi il burro in pellicola trasparente formando un cilindro e mettilo in frigorifero per almeno 20 minuti, finché non sarà leggermente rassodato.
Cottura della carne:
Porta i filetti di bisonte a temperatura ambiente. Scalda una padella antiaderente o una bistecchiera con un filo d’olio. Cuoci i filetti a fuoco medio-alto per 3-4 minuti per lato (per una cottura media al sangue). Regola di sale e pepe mentre cuociono. Togli i filetti dalla padella e lasciali riposare su un piatto, coperti con un foglio di alluminio, per 5 minuti. Taglia una fettina del burro aromatizzato e adagiala su ogni filetto appena prima di servire. Il calore della carne farà sciogliere il burro, creando una leggera salsa profumata. Servi i filetti con delle verdure grigliate o delle patate novelle arrosto, e guarnisci con un rametto di timo fresco.
La razza bovina wagyu è originaria del Giappone e si distingue per le carni pregiate dalla marmorizzazione superiore. Gli animali vengono nutriti con alimenti specifici – dapprima erba, in seguito cereali quali orzo, mais e grano - al fine di ottenere la tipica marezzatura. Il sapore della carne risulta molto ricco, particolarmente “burroso” e dolciastro, con una consistenza molto tenera. Il grado di marmorizzazione può andare da 3 a 9+. Date le sue qualità organolettiche, la carne di wagyu è ideale per la preparazione di bistecche alla griglia, tartare o cotture rapide. Per esaltarne il suo sapore naturale, è sufficiente condirla semplicemente con sale e pepe, evitando di marinarla.
Controfiletto di Wagyu alla griglia al sale e limone
Ingredienti per 2 persone
2 controfiletti di wagyu (circa 250 g ciascuna)
Sale o fiocchi di sale marino
Pepe nero macinato fresco
1 limone non trattato (per la scorza e il succo) Olio extravergine d’oliva di alta qualità (facoltativo)
Porta i controfiletti di wagyu a temperatura ambiente per almeno 30 minuti prima della cottura. Tampona la carne con carta assorbente per asciugarla leggermente e favorire una crosticina perfetta durante la cottura. Scalda una griglia o una padella antiaderente a fuoco medio-alto. Non aggiungere olio o burro: il wagyu ha un contenuto di grasso elevato, che si scioglierà naturalmente durante la cottura. Cuoci ogni lato per 1-2 minuti per una cottura al sangue o 3-4 minuti per una cottura media. Non cuocere troppo il wagyu per preservare il suo sapore e la sua consistenza marmorizzata. Durante la cottura, non pressare la carne con la spatola per evitare di perdere i succhi. Una volta cotto, lascia riposare il controfiletto su un piatto coperto con alluminio per circa 5 minuti. Spolvera la carne con fiocchi di sale e una leggera grattugiata di scorza di limone per una nota fresca. Aggiungi una macinata di pepe nero e, se desideri, un filo di olio extravergine d’oliva per un tocco ulteriore. Servi il controfiletto tagliato a fette spesse per valorizzare la marmorizzazione della carne. Accompagna con verdure grigliate o un contorno semplice come patate novelle arrosto.
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Quando le filandaie cantavano immoderatamente
Pubblicazioni ◆ L’ultimo volume della collana delle «Voci» del Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana è dedicato alle antiche filande del territorio
Stefano Vassere
Ci sono parole più «piene» delle altre, termini che indicano un oggetto specifico ma che poi, usati per decenni, secoli e generazioni, finiscono per caricarsi di significati diretti o indiretti e costumi, trasformandosi in testimoni linguistici di un contesto più ampio e spesso rivelatore sul piano storiografico.
Da un paio di decenni il Centro di dialettologia della Svizzera italiana pubblica una collana di monografie intestate ad altrettante espressioni del repertorio popolare locale, che appartengono a questa categoria di parole-mondo e che forniscono lo spunto per pagine e pagine di gradevole cultura. Vale dunque la pena in queste settimane procurarsi l’elegante volumetto dedicato ora a Filanda e alla produzione storica della seta (Bellinzona, Centro di dialettologia e di etnografia, 2024).
lati di seta, nata nella Svizzera italiana su una scala di tipo artigianale, è poi diventata nel tempo una industria a pieno titolo, la principale attività imprenditoriale dell’Ottocento, che con l’introduzione di macchine a vapore dette avvio tra l’altro a tre fabbriche di grande aspetto, segnate da un’architettura spartana ma a suo modo monumentale. Nacquero così le filande Fogliardi di Melano, Bolzani-Torriani di Mendrisio (nell’edificio che ospita oggi l’omonimo centro culturale), Lucchini di Lugano (l’ampio complesso si ammira ancora, in gran parte, attorno al Corso Pestalozzi e alla Via Pioda).
È evidente che un’attività del genere rinvii a ricadute sociali e culturali più ampie, legate per esempio all’evoluzione da iniziative quasi famigliari, di portata circoscritta di una prima e antica stagione, a vere e proprie industrie di ambizione molto più ampia, con strutture di impresa moderne, che tra l’altro tra la metà e la fine del diciannovesimo secolo rendevano «quasi il doppio rispetto agli introiti ricavati da formaggio, burro e ricotta messi insieme, e quasi il triplo rispetto alla viticoltura».
rabili con salari decisamente più bassi. Di queste donne, la tradizione conserva i caratteristici canti, giacché durante il lavoro in filanda non era concesso parlare ma si poteva per contro pregare e cantare. Il canone diffuso è quello dei canti di lavoro e dei canti sociali, legati all’aspetto fisico delle filandaie ma anche alle condizioni di lavoro.
Quella del canto è, insomma, attività intensa, marcante e rimarcata, tanto che «nel 1880 il direttore del vicino penitenziario cantonale di Lugano scrisse al locale municipio lamentando il fatto che le operaie dello stabilimento serico Lucchini cantassero “così immoderatamente”».
La filiera della produzione della seta funziona grosso modo come segue. La larva di una specie di falena, il baco da seta, si ciba esclusivamente di foglie di gelso e, a un certo punto, secerne una sua bava attraverso la quale in qualche giorno si imbozzola chiudendosi in un unico filo avvolto attorno al proprio corpo tante e tante volte, nei casi migliori per una lunghezza del tratto di più di un chilometro. Il baco sta in questo stato per poco tempo, prima di trasformarsi in una crisalide e poi una farfalla. Per la produzione di seta l’animaletto viene ucciso prima che buchi il bozzolo per uscirne; e si riesce così a trarre, sfilare, quella specie di matassa di seta e renderla pronta per la tessitura.
L’attività di allevamento dei bachi e della conseguente produzione di fi-
Tra le implicazioni di tipo socio-culturale, c’è certamente il fatto che la quasi totalità della forza lavoro fosse rappresentata da personale fem-
minile, sia nella fase artigianale che in quella industriale: nella prima, «le donne usavano per esempio far schiudere le uova portandole a stretto contatto con il corpo, in seno o sotto le ascelle, avvolte in una pezzuola; era il metodo domestico più diffuso, e verosimilmente più antico». E anche in fabbrica, in quella stagione così intensa, il lavoro era svolto perlopiù da donne, in non pochi casi anche da bambine piccole. Perché convinzioni di allora le ritenevano più adatte per «precisione, agilità manuale, pazienza, disponibilità, remissività», ma anche perché remune-
Intenerisce e commuove infine, del rapporto tra famiglie e filanda, il racconto della bambina di Castel San Pietro che riconosce dall’esterno della fabbrica la voce della madre tra le altre che cantavano: «La riconoscevo la voce di mia madre; e dicevo: Senti la mia mamma come canta!, dicevo ai miei amici».
Bibliografia
Filanda, estratto dal Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana di Giovanna Ceccarelli, Bellinzona, Centro di dialettologia e di etnografia, 2024 (20 franchi) www.ti.ch/cde
i weekend, i giorni festivi e tutti i giorni durante le vacanze natalizie
7.12-30.03
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All’ombra dello sfarzo, un’umanità sommersa
Un tetto per Natale ◆ Una notte a Zurigo nel dormitorio per senzatetto Pfuusbus dell’opera sociale del Pastore Ernst Sieber
Simona Sala
Avere poco, o niente, a Natale è più difficile che in altri momenti dell’anno. Avere poco, o niente, a Natale, è ancora più difficile in una città come Zurigo, puntualmente in cima alle classifiche quando viene stilato il ranking delle località più ricche e in cui si vive meglio.
Prendendo il tram numero 13 dalla Stazione Centrale per risalire la Bahnhofstrasse, in questi giorni impegnata a dare il meglio di sé con tutto lo sfarzo che si confà a una città che, oltre al Politecnico, all’Università, a un ospedale universitario, a musei e parchi, vanta anche una concentrazione di boutique e di lusso come se ne vedono solo in certi quartieri delle grandi metropoli, basta andare fino al capolinea per capire che di realtà, ce n’è anche un’altra.
Sicuramente più sommerso, invisibile agli occhi dei turisti, dei manager di caratura mondiale e dei guru digitali (la sede europea di Google è a due passi dalla Stazione Centrale), c’è un mondo in constante espansione, fatto di persone che subiscono la gentrificazione, l’aumento esponenziale degli affitti, o semplicemente la difficoltà del vivere in una società che va troppo velocemente. Per supportare gli abitanti di questo mondo, affinché non sprofondino nell’altrui indifferenza, e al di là dei canonici servizi sociali, vi sono una serie di fondazioni e associazioni, operanti in parte su base volontaria. Di queste fa parte anche il Sozialwerk (opera sociale) Pfarrer Sieber, rete creata dal carismatico pastore protestante-artista Ernst Sieber (19272018), che aveva fatto della causa degli ultimi e dell’amore per il prossimo il contenuto della propria esistenza, stimolando la riflessione nell’opinione pubblica (e forse anche qualche senso di colpa) e creando una serie di strutture sparse per la città e atte a formare un sistema di sostegno per i più deboli. A sei anni dalla morte del pastore, sono molti i segni del suo passaggio nelle pieghe della società dove non arriva lo Stato, grazie a un’organizzazione che lavora e opera secondo il motto «auffangen, betreuen, weiterhelfen», ossia intercettare, prendersi cura e aiutare ad andare avanti. In altre parole, non lasciare a sé stesso chi, per tutta una serie di motivi (che sono poi le biografie di ognuno di noi), non ce l’ha fatta a costruire e mantenere quella rete di relazioni e affetti necessaria a una riuscita integrazione sociale. Oltre al Pfuusbus vi sono altri due dormitori, ma anche un ospedale specializzato in medicina sociale e malattie da dipendenza, degli accompagnatori spirituali attivi come street worker, un servizio veterinario per gli animali di chi ha un disagio, un caffè per persone ai margini con il desiderio di condivisione e accoglienza, un dormitorio per giovanissimi. Un’organizzazione capillare la cui forza non è solamente negli oltre 150 dipendenti (spesso a loro volta ex utenti, secondo la filosofia del pastore), ma nelle altrettante centinaia di volontari.
Al capolinea del tram numero 13,
fermata Strassenverkehrsamt, a pochi passi dalla sezione della circolazione e di una delle più grandi sedi Credit Suisse della Svizzera, su uno spiazzo che ogni tanto ospita anche un Circo, si trova il Pfuusbus, laddove «pfuusen», in svizzero tedesco, significa «dormire». Il terreno appartiene alla città, che lo mette a disposizione (insieme alla corrente e ai servizi sanitari) dal mese di novembre ad aprile. Lo striscione con la scritta «Du bisch nöd elai!» (non sei solo!), piazzato di fianco all’albero di Natale illuminato, accoglie le visitatrici e i visitatori: utenti, volontari, impiegati del Sozialwerk Sieber. La struttura di accoglienza per i senzatetto Pfuusbus è nata da un ex rimorchio di camion trasformato in dormitorio, ma il Covid e il numero in costante crescita di senzatetto, ha richiesto spazi più ampli, ed è così che sono stati aggiunti dei gazebo con i tavoli per mangiare e i letti a castello per dormire.
Un posto pulito, illuminato bene
Barbara dà un’ultima controllata ai letti, disposti su due livelli, perché tra poco arriveranno i primi ospiti: ogni materasso deve avere il proprio fagotto di coperte con il nome del de-
stinatario scritto su un’etichetta bianca (sono gli utenti stessi a rifarlo ogni mattina, dopo avere dormito), mentre nel locale comune è già pronto un bancone con i thermos di tè e caffè e le ciotole con mandarini e barrette. Al centro dei tavoli (da festa campestre) brilla una decorazione natalizia, per offrire le piccole attenzioni che possono trasformare in un surrogato di casa anche quella che una casa non è. Accanto all’ingresso, sopra il lavandino doppio, intorno a un grande specchio, sono disposti deodoranti, spazzolini e dentifrici, mentre il portatile è pronto a registrare l’arrivo di ogni singola persona: ci si deve annunciare con nome e cognome. Barbara, che al Pfuusbus ha cominciato come volontaria, e poi è diventata una dipendente, si sposta nel cucinino all’interno del rimorchio, dove sono già all’opera quattro volontari dipendenti di una grande multinazionale – un tedesco, un rumeno, una belga e una cinese. Preparano riso al curry, insalata e un dolce al cioccolato per oltre sessanta persone, seguendo quello che è un trend sempre più diffuso tra i dipendenti delle grandi aziende: mettersi a disposizione di associazio-
ni attive in ambito sociale sul territorio, offrendo e cucinando pasti. Barbara prende posto sullo sgabello davanti al portatile, e registra i primi arrivati. Fuori la temperatura si avvicina allo zero, e molti sono infreddoliti. Arrivano altri volontari, Susanna e Hans; lei lavorava per il pastore, lo conosceva bene, e quando ne parla le si illuminano gli occhi; lui, una sera alla settimana si sobbarca un’ora e mezza di viaggio per dare una mano al Pfuusbus; scaldano l’acqua e riempiono le thermos, scambiano qualche parola con chi ne ha voglia. Qualche utente porta uno zainetto, un altro un carrellino della spesa, la maggior parte di loro (sono quasi tutti uomini) possiede unicamente quello che indossa. Qualcuno è distrutto, per quella vita randagia («ora che è freddo, passo molto tempo sul tram», racconta un utente), e schiaccia un pisolino su una panca prima di cena, altri chiacchierano sommessamente. Un uomo che dice di avere due figli e di non volere diventare come suo padre, che picchiava la madre, con un tratto felice disegna un Babbo Natale mentre racconta di come attenda di vedersi assegnato un monolocale in una struttura psichia-
trica; il giovane ragazzo di fronte a lui, che ha dovuto consegnare la bottiglia di vodka alla pesca a uno dei volontari (all’interno del Pfuusbus non si beve e non ci si droga), colora la scritta «Echti Gfüül», «sentimenti veri», senza alzare gli occhi dal foglio. Nel frattempo, per trascorrere la notte qui e chiamare polizia o ambulanza in caso di bisogno, è arrivato Samuel. Racconta di avere avuto una chiamata religioso-spirituale, in seguito alla quale ha cominciato a dedicarsi a chi è più bisognoso, nonostante gli innegabili rischi legati a un’utenza tanto eterogenea. Fra i presenti, infatti, vi sono tossicodipendenti e persone con mental issues, persone che non parlano il tedesco, ma anche chi, all’improvviso, si è ritrovato senza lavoro, senza una famiglia e senza una casa («qualcuno fortunatamente viene qui solo per un tempo determinato», racconta Barbara). Un uomo e una donna magrissimi hanno unito due letti e innalzato dei teli di plastica a mo’ di tenda, per ottenere una privacy aleatoria; ora, mentre fumano saltellando da un piede all’altro, tremano entrambi per il freddo e cercano di scaldarsi a vicenda, «in questo periodo ho sempre freddo», dice lei, come a scusarsi. La cena è pronta, e ci si mette in fila, piatto alla mano, per farsi servire dai volontari della multinazionale. Qui si può mangiare fino alle dieci, ma i primi si sono già ritirati, e qualcuno, dopo il pasto caldo e gli arti finalmente tiepidi, dorme. Arrivano due nuovi volontari, Heidi e Roger, lei, energica, fa questo lavoro da tempo, mentre lui, di professione cuoco, alla seconda esperienza nella cosiddetta Kältepatrouille (pattuglia del freddo), ha l’aria quasi emozionata. Riempiono il baule di un’auto di thermos e panini, e si preparano. Andranno in città, alla ricerca di chi non si è presentato o semplicemente non ci è riuscito, rimanendo all’addiaccio. «Si cammina molto», racconta Heidi, «ma io all’aperto mi sento più sicura: all’aperto si può sempre scappare. Inoltre possiamo chiamare la polizia schiacciando questo bottone». Le notti al Pfuusbus possono non essere facili, ce lo conferma anche Samuel: qualcuno soffre di psicosi, possono nascere tensioni e incomprensioni, ma può essere anche una serata tranquilla, come questa.
Domani sarà un altro giorno, appena svegli occorre preparare il fagotto, e dopo la colazione, entro le nove, si deve lasciare il Pfuusbus. Fuori almeno non piove, ma sarà comunque un’altra giornata all’insegna dell’incertezza, e forse soprattutto dell’indifferenza da parte degli altri. «Gli unici che parlano con me sono i bambini, perché vogliono sapere cosa faccio magari seduto per terra, o vestito così male. Gli adulti mi ignorano, ma per me è bellissimo potere parlare con persone adulte, e qui ci riesco», confessa Felipe, mentre con la sua andatura dondolante si avvia verso la fermata del bus.
Informazioni www.swsieber.ch
I tavoli del Pfuusbus, in attesa degli utenti che arriveranno per trascorrere la notte.
All’ingresso del Pfuusbus, un lavandino per l’igiene personale e il tavolino cui si deve annunciare il proprio arrivo.
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Due innocue vicine di casa
Mondoanimale ◆ Nel nostro territorio la cavalletta celeste e la locusta egiziana convivono pacificamente
Maria Grazia Buletti
Durante il periodo invernale, in Ticino osserviamo sempre più spesso cavallette di notevoli dimensioni fra le quali la più appariscente è la locusta egiziana (Anacridium aegyptium), in un certo qual modo pure impressionante con i suoi 7 centimetri di lunghezza (come si può vedere nella fotografia a lato). «Non è nuova alle nostre latitudini, ma negli ultimi anni la sua presenza si è diffusa probabilmente a causa del riscaldamento climatico». Questa è la premessa del Museo cantonale di storia naturale del Dipartimento del territorio del nostro Cantone che ne sta monitorando l’espansione e, nonostante il nome, la considera «una specie indigena e non invasiva». Si tratta di un insetto ortottero noto con il termine generico di cavalletta o, per l’appunto, locusta, che in realtà raggruppa tutte le Caelifera, nome scientifico della specie. E fra queste, troviamo pure la nostra autoctona cavalletta celeste (Oedipoda caerulescens) che nel 2023 è pure stata eletta da Pro Natura come animale dell’anno, ambasciatrice dei paradisi naturali in cambiamento.
La locusta egiziana è innocua, vegetariana e soprattutto solitaria. Nonostante le sue notevoli dimensioni (fino a 7 centimetri e mezzo) i danni che arreca alla vegetazione sono molto contenuti: va rispettata e monitorata
Le due presentano diverse affinità, a cominciare dal fatto che la locusta egiziana è oramai considerata a tutti gli effetti «una specie stanziale» e non più straniera, tanto quanto la cavalletta celeste. Su questo punto, molte persone, preoccupate dalla sua recente apparizione, chiedono informazioni al Museo di storia naturale che però rassicura: «La specie di locusta egiziana è assolutamente innocua, vegetariana e soprattutto solitaria. Quindi,
nonostante le sue notevoli dimensioni (che vedono la femmina arrivare ai 7 centimetri e mezzo) i danni alla vegetazione sono molto contenuti». Per questi motivi, concludono gli esperti: «Non è una specie da contrastare ma piuttosto da tollerare e comunque da rispettare».
Insomma, le rassicurazioni degli esperti ci riportano alla riflessione dello scrittore, poeta e saggista marocchino Tahar Ben Jelloun: «Siamo sempre lo straniero di qualcun altro. Imparare a vivere insieme è lottare contro il razzismo». Di fatto, Pro Natura spiegava che anche la nostra cavalletta celeste ama il caldo: «Vive in aree aperte laddove la vegetazione è rada; padroneggia l’arte del mimetismo e il suo colore è talmente ben adattato a quello del suolo che è difficile individuarla persino a distanza ravvicinata». In pratica, coi suoi colori del deserto essa si è già adattata a paesaggi sempre più aridi: «Anche se per il mondo degli insetti il riscaldamento globale non è positivo, l’aumento delle temperature permetterà a specie come quella della cavalletta
celeste di occupare nuovi ambienti adatti a loro». Ed è quanto ha fatto la locusta egiziana che, grazie alla globalizzazione, è giunta fino alle nostre latitudini insediandovisi: «Originaria del bacino mediterraneo, in passato in Ticino era presente soltanto nel Mendrisiotto, zona che corrispondeva al limite settentrionale del suo areale». Ed è qui che interviene il riscaldamento climatico a causa del quale: «Come tante altre specie si è espansa anche più a nord, arrivando quasi fino nell’alta valle di Blenio (Olivone), varcando persino le Alpi».
La sua vicina di casa cavalletta celeste è diffusa soprattutto in Ticino, in Vallese e lungo il versante meridionale del Giura, ma la si può incontrare anche in altre regioni della Svizzera a svariate altitudini, dal fondovalle fino a circa duemila metri. Pro Natura rende però attenti sul fatto che essa è protetta: «Può essere catturata soltanto con un’autorizzazione cantonale per scopi di formazione e ricerca». E tornando alla locusta egiziana, questa sua propensione per l’ambiente caldo porta gli individui adulti a superare
l’inverno cercando un luogo temperato, o almeno protetto, per poi entrare in uno stato di torpore: «Spesso si rifugiano nei vasi, dietro le persiane o sui muri scaldati dal sole». Alle nostre latitudini sono due le specie di ortotteri di cui possiamo osservare individui allo stadio adulto anche d’inverno: «La locusta egiziana e l’aiolopo autunnale (Aiolopus strepens), mentre le altre specie superano l’inverno generalmente allo stadio di uovo».
Per tornare al parallelismo di cavalletta celeste e locusta egiziana, la prima autoctona e la seconda considerata oramai tale, Florinn Rutschann (specialista di Ortotteri, incaricato per le riserve naturali di Pro Natura Argovia) ricorda che gli insetti sono il fulcro di numerosi cicli naturali: «Sono cibo per molte specie, impollinano le piante, decompongono il materiale vegetale, smaltiscono le carogne e prestano tanti altri servizi. Il calo complessivo degli insetti e l’aumento di determinate popolazioni sono entrambi campanelli d’allarme e ci segnalano che la crisi climatica e la crisi della biodiversità stanno minano l’equilibrio delle nostre basi esistenziali naturali». La loro innocuità è dunque rafforzata dalla loro utilità nell’ecosistema, contribuendo alla sua biodiversità. Allora, ricordiamoci della cavalletta celeste, ambasciatrice 2023 dei paradisi naturali in mutamento, che popola le nostre latitudini insieme alla locusta egiziana. Nessuna delle due vi arreca alcun danno, ribadiscono gli esperti del Museo cantonale di storia naturale, invitando nuovamente a non contrastare questa specie, a tollerarla e rispettarla e, infine, a contribuire al suo monitoraggio nel nostro Cantone: «Chiediamo alla popolazione di segnalarne la presenza, possibilmente corredata da una fotografia, tramite l’apposito modulo di contatto sul sito dedicato: https://www4.ti.ch/ dt/da/mcsn/temi/mcsn/il-museo/ zoologia-invertebrati/consulenza/ locusta-egiziana».
Le isole d’inverno
Territorio ◆ Per la prima volta le Isole di Brissago sono visitabili in dicembre e gennaio
È un’occasione unica quella proposta quest’anno dalle Isole di Brissago.
Per la prima volta le si potrà, infatti, visitare durante la stagione fredda quando il giardino botanico di solito è regno solo dei giardinieri e degli addetti alla manutenzione, più liberi di muoversi in assenza dei visitatori. Eppure anche in questa stagione offre suggestive fioriture invernali tutte da scoprire.
Per chi vorrà approfittare dell’opportunità sono previsti eventi speciali inclusi nel prezzo del biglietto come dei brevi tour botanici (proposti alle 11.30 e alle 13.30) o una caccia al tesoro dedicata alle tradizioni natalizie del mondo. Inoltre l’Hotel Villa Emden garantirà un servizio ridotto di ristorazione durante gli orari di apertura.
Le aperture eccezionali, previste il 28 e 29 dicembre e il 4-5-6 gennaio, sono state possibili grazie anche alla collaborazione con la Società di navigazione del Lago di Lugano (SNL). I biglietti sono acquistabili unicamente presso gli imbarcaderi di partenza a Locarno, San Nazzaro, Ascona e Brissago.
«Qualunque cosa DiCamillo scriva, brilla»: non è enfatica la citazione da «The Times» riportata nella quarta di copertina. Ogni romanzo della scrittrice americana Kate DiCamillo ha una luminosa forza che arriva dritta al cuore dei lettori e questo non fa eccezione. Anche stavolta ci conduce dentro una storia avventurosa e potente, al fianco di personaggi che hanno conosciuto il buio della disperazione ma continuano a credere che l’amore possa guarire anche le ferite più profonde, e lo fa con una scrittura perfetta: leggera e compassionevole, sia nei confronti di chi sta leggendo, sia di chi viene messo in scena. Una scrittura che non arretra di fronte al dolore che la vita può infliggere, ma che non arretra nemmeno di fronte alla necessità di raccontare il coraggio e la fiducia nel bene dei suoi eroi, i quali, pur compiendo le imprese più audaci, restano dei mirabili antieroi, piccoli, variamente malconci, o reietti. Come il topino Despereaux , protagonista di una sua opera pre-
cedente, dall’animo puro e cavalleresco, che non esita a scendere nelle terribili segrete del castello per salvare una principessa ragazzina. Anche qui, nel contesto medievale de La Profezia di Beatrice, abbiamo una ragazzina, e anche qui abbiamo un animale temerario, in questo caso una capra. Ad essi si uniscono, in questa bellissima storia (ben tradotta da Anna Patrucco Becchi), un monaco miniatore dall’occhio sinistro invalido e ballerino, un orfano analfabeta, e un vecchio eremita dal passato misterioso. Ognuno ha una
sofferenza alle spalle e ognuno troverà il suo conforto e la sua «strada verso la luce», tra fughe, rapimenti, rifugi nella foresta, per salvare Beatrice e trovare se stessi, animati dalla forza dell’amore, che li sorregge anche quando tutto sembra perduto: «andremo e faremo quel che potremo fare» dice con limpida semplicità Jack Dory, il ragazzo, alla fedele capra. Jack Dory impara a leggere grazie a Beatrice, Fratello Edik minia i manoscritti e ispira una storia a Beatrice, la splendida storia di una sirena, Beatrice racconta quella storia a un re (per prendere tempo, come Sherazade), e altre storie ancora rievoca Beatrice. Questo è anche un romanzo sul potere salvifico delle storie, tema molto caro all’autrice, e sull’importanza di credere nella propria luce (quando la sirena è prigioniera e triste, i gioielli sulla sua coda diventano volgari pietre; quando il lupo non crede nella sua corona, perde ogni fiducia nel suo destino). Perché è vero che nel romanzo si parla di una profezia, ma, come leggiamo nella chiusa, «quel che conta alla fine non sono le profezie», ma «Amore. Amore e anche le storie.»
Donaldson-Catherine
L’uccellino e il fiore Emme Edizioni Emme Edizioni (Da 4 anni)
L’uccello giardiniere, che vive in Australia e in Nuova Guinea, è un vero artista: nel suo elaborato rituale di corteggiamento arreda il nido decorandolo accuratamente con tutti gli oggetti che riesce a procurarsi, e che espone in strutture costruite con ramoscelli e altri materiali (delle vere e proprie installazioni), in cui addirittura le pareti possono essere colorate grazie all’utilizzo di una sostanza premasticata. «Sono straordinari perché sono artisti, scultori e pittori, e i maschi usano
le loro creazioni e i tesori che collezionano per fare colpo sulle femmine» ha affermato David Attemborough in un episodio di Natural World: questo documentario ha dato a Julia Donaldson l’ispirazione per la sua storia (dal titolo originale The Bowerbird, nome che indica in inglese l’uccello giardiniere). In italiano è uscita con il titolo più narrativo L’uccellino e il fiore, e nella bella copertina vediamo l’ingenuo uccellino Gino con un fiore nel becco: ingenuo, Gino, perché pensa che basti un piccolo fiore viola a conquistare l’alata del suo cuore, la sprezzante uccella Aurora. «Ma Aurora esclama con una certa arroganza: “Questo fiore, mio caro, non è abbastanza!”». In realtà nulla sarà abbastanza per Aurora, che umilierà Gino persino quando il poveraccio le arrederà un nido con una sfilza innumerevole di oggetti (e sappiamo quanto i piccoli lettori amino ripetere gli elenchi): «Un pettine rosa, uno gnomo e un seme, una fragola, una pietra, una cerniera, delle creme...». Per fortuna il vero amore è in serbo per Gino dietro l’angolo, in questo tenero albo della notissima Donaldson stavolta non in coppia con Axel Scheffler ma con Catherine Rayner, dallo stile molto diverso ma altrettanto efficace.
@Dipartimento del territorio
Viale dei ciliegi
di Letizia Bolzani
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Julia
Rayner
L’altropologo
Spigolature urbane dal Ghana
«Saluta Madre Teresa». Alì mi spinge gentilmente oltre la soglia dell’antro oscuro all’ingresso del mercato di Wa, la capitale della regione del Nordovest del Ghana. Alì è un amico che mi fa da guida e da autista del triciclo che usiamo per gli spostamenti nei villaggi delle mie ricerche. Alì mi porta sì dove gli chiedo, ma lo fa secondo una logistica mentale tutta sua. Il suo lignaggio sta in un villaggio fuori mano e non è sposato. Dunque la sua vita dipende da un fittissimo network di relazioni sociali: ogni spostamento comporta lunghe deviazioni per andare a salutare questo o quella – conoscenti e amici tutti rigorosamente «on the road», ovvero là dove si svolge il 90 per cento della vita da queste parti. Il problema sono io: per Alì presentarmi ad amici e patroni vuol dire costruire, rinnovare e mantenere quotidianamente un capitale sociale altamente competitivo da spendere poi nelle migliaia di complesse e
per me sempre misteriose transazioni che gli permettono di mantenere un tenore di vita non dei peggiori da queste parti. Oggi dunque è il turno di Madre Teresa. Dopo un attimo di smarrimento dovuto al contrasto fra il bagliore esterno e l’oscurità della caverna-magazzino intravedo la Signora in questione e procedo alla lunga cerimonia di scambio di saluti e cortesie. Chissà perché mi viene in mente il protocollo dei saluti nelle regge rinascimentali… Madre Teresa è una di quelle donne commercianti che qui chiamano Regine del Mercato. Commercia in granaglie e dintorni, a seconda delle stagioni e dell’andamento dei mercati. Siede come l’Ape Regina in un angolo strategico del suo magazzino. Su due sgabelli, vista la stazza e gli strati numerosi di stole e sottane multicolori che finiscono per oscurarne ulteriormente il viso nella penombra. Spiccano invece gli occhi: due pupille appuntite come spilli, mobili
La stanza del dialogo
e vivaci, all’erta e tuttavia cordiali ad accompagnare un sorriso che sempre torna ad incorniciare un volto pacioso ed amichevole… fra un versaccio e un ordine perentorio agli innumerevoli commessi che si affannano nel caos apparente conduce con me una civilissima conversazione di consumata cortesia. È originaria del centro del Paese. Etnia Asante, il potente impero che tanto fece tribolare gli Inglesi nell’800. Mercanti nati, gli Asante: prima commercianti d’oro verso il Mali e le rotte transahariane, poi con gli Europei sulla costa a Sud. Il mitico oro degli Asante indusse i Portoghesi a costruire il primo forte sulla costa del Ghana attuale un decennio prima che Colombo credesse di essere arrivato in India. Lo chiamarono Fuerte El Mina – la Miniera – perché si illudevano che l’oro fosse estratto sulla costa, proprio lì sotto i piedi… Un corno: veniva dal cuore dell’allora Akkinia, almeno trecento chilometri
Il Natale, l’amore e la nostra fragilità
Cari lettori, questa è l’unica lettera che mi sono inviata da sola. Dopo tanti anni d’ascolto, sento anch’io il bisogno di essere ascoltata. Non che abbia qualcosa in particolare da dirvi, non è successo niente di speciale è solo il desiderio di entrare in relazione con voi, di superare quell’approccio superficiale che ci fa leggere un articolo rapidamente per poi scordarlo altrettanto rapidamente.
Chi scrive ha sempre bisogno di essere letto, ne ha bisogno per dar senso al suo lavoro ma anche per il desiderio di essere compreso, apprezzato e perché no? Per ricevere un compenso. Ma ogni domanda rappresenta qualcosa di più profondo: una richiesta d’amore che attende di essere contraccambiata.
La cultura romantica ci ha abituati a rappresentare l’amore con un’immagine da scatola di cioccolatini: l’innamorato che, in ginocchio dinnanzi all’amata, chiede la sua mano. Uno
stereotipo rassicurante perché ignora la complessità della relazione, il paradosso che cela. Chi domanda non si basta, altrimenti non chiederebbe nulla a nessuno. Eppure si sente capace di donare l’amore che non ha. Anche l’amata sente il bisogno di rispondere all’appello ma perché? Per ricevere dall’altro la sua parte mancante. Lo scambio non è tanto basato sulla pienezza quanto sulla carenza. Platone, quattro secoli prima di Cristo, fa dire a Diotima, maga sapiente, che Eros è un demone figlio di Penia, la «povertà», e di Poros, «l’espediente», cioè la vitalità, la capacità di cogliere l’attimo fuggente. Platone attribuisce alle donne di amare col corpo, agli uomini di amare con l’anima. Ma ora sappiamo che i due elementi sono sempre inseparabili. Mi soffermo su questa congettura filosofica perché libera l’amore dalle strettoie del romanticismo, dallo stereotipo: «io e te» ci amiamo, bastia-
La nutrizionista
mo a noi stessi, non abbiamo bisogno di nessuno. Forse può valere nell’euforia dell’innamoramento ma poi, anche nella coppia più affiatata s’inserisce un senso di solitudine esistenziale. L’amore non si può chiudere in cassaforte né garantire con una polizza assicurativa. È un campo aperto dove domanda e offerta sono sempre in gioco. Tutti abbiamo bisogno d’amare e di essere amati. E, quando questa sorgente s’inaridisce, subentra un doloroso senso di solitudine. Nella rivisitazione della «Stanza del dialogo», la solitudine è l’argomento più frequente e accorato delle vostre lettere. Uno stato d’animo che non sempre coincide con l’isolamento. Ci si può sentire soli in famiglia, in coppia, in gruppo, durante una festa. In questo senso Natale è una ricorrenza che accentua la nostra fragilità. Gli anziani, in particolare, provano nostalgia per gli anni belli, quelli trascorsi con i propri cari, quando la ca-
Rimettersi in forma dopo un infarto
Buongiorno Laura, purtroppo qualche mese fa ho avuto un infarto. Ammetto di essere obeso e di soffrire di ipertensione, cosa che ovviamente non ha aiutato, oltre al fatto che ho un lavoro molto stressante e ho avuto dei parenti che ne hanno sofferto. Ho 45 anni e mi sono molto spaventato. Adesso ho preso questo episodio come stimolo per rimettermi in salute e quindi ho smesso di fumare e ho iniziato a fare del movimento e cerco di perdere peso. Sto provando a mangiare meno e meglio, avrei bisogno di qualche consiglio perché ho dei dubbi più pratici: amo mangiare tutto ma esiste qualche alimento che devo per forza evitare? Per esempio è tempo di selvaggina, potrò mangiarla ancora? Arriveranno i periodi della fondue e della raclette, come mi dovrò comportare? Le uova? Le frattaglie? I crostacei? Il vino? Il caffè? La ringrazio e saluto cordialmente. / Ivan
Buongiorno Ivan, mi dispiace molto per l’accaduto, spero si sia ripreso al meglio. Mi complimento con lei per non essersi abbattuto e per aver deciso di cambiare le sue abitudini e il suo stile di vita, vedrà che l’aiuteranno a riprendersi presto e a rimanere in salute. L’amore per il cibo non è mai una cattiva cosa, vuol dire che ha più possibilità di scegliere e variare gli alimenti. In generale gli unici alimenti altamente sconsigliati sono quelli ultra processati (cioè che hanno un lungo elenco di ingredienti) e quelli ricchi di zuccheri e/o ricchi di grassi e/o ricchi di sale. Meglio quindi evitare piatti pronti, fast food, snack e dolciumi e optare per cucinare i propri piatti. Sono da preferire ingredienti semplici come la frutta, la verdura, le leguminose, i cereali integrali, il pe-
di dura marcia nella foresta. Madre Teresa si stabilì col marito al Nord, a Wa, cinquant’anni fa. Il marito commerciava in akpeteshie, un micidiale distillato di vino di palma che i ghanesi impararono presto a produrre come versione economica del gin d’importazione. Gradazione devastante e vendite alle stelle in un tempo di crisi economica che vedeva i mercati vuoti e il contrabbando fiorire… Morto il marito, Madre Teresa decise di tenere duro e restare: gli Asante calcolano la discendenza matrilinearmente, e dunque le donne, pur non gestendo il potere politico, godono di uno status molto alto. L’intero commercio degli alimentari è nelle loro mani ed ora che l’economia del Ghana è fra le più floride dell’Africa gli affari vanno bene. «Grazie a Dio – Inshallah Obroni (Uomo Bianco)», chiosa con uno sguardo soddisfatto stringendomi la mano con vigore. Improvvisamente il dramma: una delle pile di sacchi di ri-
di Silvia Vegetti Finzi
so vietnamita da cinquanta chili che si perdono nel soffitto della caverna-magazzino è crollata. E con lei un ragazzino di non più di dieci anni – uno dei tanti (quanti?) che hanno il compito di arrampicarsi in cima al mucchio e passare in basso i sacchi di riso. Urla, versi, improperi – il caos. Sacchi spaccati e montagne di riso in libertà… poi dalla massa dei grani spunta sbuffando il ragazzino in questione: stralunato squote il riso impigliato nei capelli e scoppia a piangere, un commesso lo prende per un braccio, lo tira fuori dalla massa del riso senza tante cerimonie e gli allunga in successione un ceffone e un calcio nel sedere: il ragazzino schiva il calcio, il commesso si sbilancia e finisce a sua volta a gambe per aria nel riso. Risata generale, applausi e sghignazzi. Il commesso si rassetta e sparisce imbarazzato nell’oscurità del magazzino. Mi congratulo con Madre Teresa. Ultima stretta di mano. Ora di bere una birra.
sa profumava di abete, le luci rallegravano l’atmosfera e l’arrosto dorava nel forno. Non è tempo perduto: lo abbiamo vissuto e sopravvive nel nostro ricordo. Certo, nulla è più come prima ma, come dicevo, si può donare quello che ci manca e ricevere dall’altro quello che neppure lui possiede. L’amore è ovunque: fa vivere il mondo, godere del bene degli altri, apprezzare la bellezza che ci circonda. È nella natura, nell’arte, nella scienza, nell’empatia che fa sentire nostra la sofferenza altrui. Chi compie un gesto di cura, si prende cura anche di se stesso. Oltre ad aprire la porta, aprite le braccia. Troverete tante persone che chiedono un gesto d’amore. Donare ci fa sentire ricchi e la gratitudine ci fa sentire amati. In una società che invecchia, saranno sempre più le persone che vivono da sole ma non per questo si sentiranno sole se inserite in una rete di attenzioni e di affetti. Per sconfiggere l’ombra del-
la depressione, cerchiamo di concentrarci sul bello della vita piuttosto che sulla paura della morte. Impariamo a volare con l’ala che ci resta. Se attiviamo le risorse di amore che abbiamo in noi, amandoci per quello che siamo, amando per quello che possiamo, accogliendo l’amore dell’altro per quanto ci può dare, vedremo che il tutto abita dentro di noi.
Mi scuso per avervi inviato una predica non richiesta ma talvolta le parole parlano da sole e le mie vi augurano tutta la felicità che ci è concessa. Grazie per avermi ascoltata e, spero, compresa.
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni
a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a info@azione.ch (oggetto «La stanza del dialogo»)
sce e le carni bianche. Uova, crostacei e frattaglie un tempo erano accusati di aumentare la colesterolemia perché fonte di colesterolo animale, ma oggi si è capito che quest’ultimo ha scarsa influenza sul colesterolo sanguigno. Non vanno quindi banditi dall’alimentazione ma possono essere usati come sostituiti alla carne. Le uova possono essere consumate due volte alla settimana, le frattaglie una volta ogni due settimane e i crostacei una volta alla settimana. Per quel che concerne la qualità della carne è meglio evitare quella rossa e quella elaborata (salsicce, cotechini, ecc.) mentre per quel che concerne la selvaggina, tipo il cervo o il capriolo, differisce dalla carne rossa in parte perché è più magra e ha meno grassi e meno calorie quindi può essere consumata, ma senza esagerare,
una volta al mese e senza annegarla in intingoli vari. Si può sostituire la carne anche coi formaggi, meglio però scegliere dei formaggi non arricchiti in panna, massimo 45% di grasso per estratto secco, e limitare le preparazioni a base di formaggio fuso (quindi raclette, fonduta…) a una volta al mese. Il consumo moderato e regolare di vino rosso avrebbe un effetto cardioprotettore, dato dall’associazione alcol-tannini (antiossidanti), in quantità massima di 2 dl al giorno per le donne e 3 dl per gli uomini. Se però desidera perdere del peso si ricordi che bevendo alcolici assume calorie extra senza accorgersene, quindi le consiglio di berlo solo occasionalmente. Gli elementi nutritivi del vino rosso possono essere trovati anche in un’alimentazione varia con frutta e verdura; il the per esem-
pio contiene anche dei tannini e non ha calorie. Il consumo di caffè è stato recentemente studiato e le conclusioni suggeriscono che il suo utilizzo regolare in realtà è associato a un ridotto rischio di sviluppare ipertensione, insufficienza cardiaca e fibrillazione atriale. Tuttavia, i risultati sono incoerenti per quanto riguarda il consumo di caffè e il rischio di sviluppare malattie coronariche. Ovviamente è meglio berlo senza zuccheri aggiunti e senza cremino, la dose consigliata è massimo tre tazzine al giorno.
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Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a info@azione.ch (oggetto «La nutrizionista»)
di Cesare Poppi
di Laura Botticelli
ATTUALITÀ
«So che mi uccideranno»
Mahrang Baloch è diventata il simbolo della resistenza dei beluci contro gli abusi del Pakistan
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Prospettive fosche per Kiev
Entro i primi mesi del 2025 sapremo se sarà possibile fermare la guerra o se finirà fuori controllo
Pagina 17
Spiritualità condivisa
La Casa delle religioni, un centro dedicato al dialogo interreligioso e interculturale, festeggia 10 anni
Pagina 18
Un rapporto tribolato Uno sguardo alla storia dei rapporti Svizzera-Ue per capire problemi che si trascinano da decenni
Pagina 19
Il 2024 delle donne, tra sconfitte e slanci in avanti
Prospettive
◆ Da Kamala Harris a Gisèle Pelicot, passando per tante altre che hanno avuto il coraggio di far sentire la loro voce
E se quello che sta per finire fosse ricordato come l’anno della «grande frenata»? Quello in cui tutto l’entusiasmo nella marcia verso la parità di genere si è raffreddato, se non congelato? Il 2024, da un punto di vista politico, è stato segnato da una sconfitta particolarmente dolorosa per la causa femminile. Non solo Kamala Harris non è arrivata alla Casa Bianca, ma gli americani, e anche le americane sopra i 45 anni, non si sono fatti problemi a farci ritornare un Donald Trump circondato da un gruppo di potere che di ogni istanza legata ai diritti delle donne si è fatto apertamente beffa. E pazienza se le paure legate all’economia e alla globalizzazione sono forse state le ragioni profonde del suo successo: con lui torna in auge un certo tipo di mascolinità abrasiva, il prototipo dell’uomo alfa abituato a comandare e pretendere dalle donne un ruolo funzionale e subordinato, a proteggerle «che lo vogliano o no», come ha spiegato in una delle sue tante dichiarazioni provocatorie. Con delle eccezioni notevoli, come ce ne sono state a volte nella storia, a partire dalla ministra della Giustizia Pam Bondi, ex procuratrice capo della Florida, antiabortista e sua fedelissima da anni, oppure Susie Wiles, la prima chief of staff della storia americana. Ma una rondine, si sa, non fa proprio primavera. Ma un po’ ovunque si è visto il ritorno del potere maschile, come se l’esigenza di essere attenti agli equilibri non fosse più così forte. La gloriosa università di Oxford, attraversata come tutti gli atenei anglosassoni da potenti spinte verso le pari opportunità e da un’ossessione verso il politicamente corretto, alla fine di una lunga campagna per scegliere un ruolo prestigiosissimo come quello del cancelliere, davanti a candidature di donne eccezionali come la baronessa Royall o la giurista Elish Angiolini, ha scelto seraficamente un uomo, William Hague, ex leader dei conservatori, aperto e intelligente, certo, ma con un profilo che sembra uscito da un voto di 60 anni fa. Gli elettori sono stati 24mila – su 350mila aventi diritto – e lui ha superato di 1600 voti Angiolini, a riprova di un certo disimpegno, di un calo di slancio militante. O forse di una piccola reazione rispetto alla tendenza degli ultimi anni. Se il maschio bianco etero sessantacinquenne a un certo punto sembrava arrivato alla fine della sua millenaria era di gloria, ultimamente sta vivendo una stagione di grande spolvero. Certo, nel frattempo Giorgia Meloni continua a dominare una scena politica in cui, comunque la si pensi sull’importanza del suo essere la prima premier donna in Italia, giganteggia rispetto ai suoi compagni di Governo e anche Elly Schlein ha consolidato il suo ruolo alla guida del PD.
Nonostante la legge francese consenta, nei casi di violenza sessuale, di chiedere di mantenere l’anonimato e la privacy, Gisèle Pelicot ha scelto un processo a porte aperte: «Sono loro a doversi vergognare, non noi». (Keystone)
Ursula von der Leyen nonostante tutto è rimasta leader della Commissione Ue e questi sono tutti elementi positivi, nell’ottica «modelli per le bambine del futuro». Poi c’è il caso della nuova leader dei Tories, la quarantaquattrenne di origine nigeriana Kemi Badenoch, nata nel Regno Unito, cresciuta tra Lagos e gli Stati Uniti e poi tornata a Londra per una carriera tra la banca della Royal Family, Coutts, e il magazine conservatore «The Spectator». Madre di due figli, da una parte rivendica la centralità dei padri nell’educazione dei bambini in modo assertivo e senza nessuna tentazione di mostrarsi come una donna tradizionale, dimostrando che sono lontani gli anni in cui Maggie Thatcher doveva anche sforzarsi di essere una buona donna di casa, dall’altra dice che il sussidio di maternità è eccessivo e rifiuta di essere associata sia alle classiche battaglie femministe che a quelle antirazziste. La sua presenza sta facendo sentire il partito, drammaticamente a corto d’idee, molto moderno ed evoluto almeno su un punto: è guidato da una donna ed è tutt’altro che una «quota rosa». Il premier Keir Starmer, laburista, si è invece circondato di due figure forti, ossia la cancelliera Rachel Reeves e la vicepremier Angela Rayner, nata in una casa popolare del nord del Paese, ragazza madre a 16 anni e ormai politica di lungo corso dopo una fulminante carriera nei sin-
dacati. Ma una leader laburista per ora ancora non s’è mai vista, mentre i Tories ne contano già tre.
A livello internazionale si sono distinte Maia Sandu, presidente della Moldavia, e Claudia Sheinbaum in Messico
Altre due politiche si sono distinte a livello internazionale: Maia Sandu, economista e presidente della Moldavia dal 2020, fresca di rielezione e determinata a portare il suo piccolo Paese più vicino possibile all’Unione europea per sfuggire alle influenze moscovite, e Claudia Sheinbaum in Messico, rieletta in continuità con il potentissimo Andrés Manuel López Obrador e non priva di un penchant per le misure populiste e dal retrogusto illiberale del suo predecessore. Ma con Marine Le Pen che ormai in Francia è una potenza indiscutibile da anni, anche se ha dovuto affiancarsi il più carismatico e giovane Jordan Bardella, forse gli avanzamenti di potere femminile vanno letti attraverso altri indicatori che non siano la mera rappresentanza politica. Solo che anche quelli non sono esaltanti: perfino il World Economic Forum parla di un anno in cui il progresso sta rallentando, anche se – nota – la partecipazione femminile al merca-
to del lavoro è salita un po’ ovunque. Nel 2024, in particolare, il punteggio globale del divario di genere si attesta al 68,5%, con un miglioramento di soli 0,1 punti percentuali rispetto all’anno precedente (Global Gender Gap Report). A questo ritmo, si stima che ci vorranno 134 anni per raggiungere la piena parità di genere a livello globale, più di 5 generazioni di persone Anche la violenza nei confronti delle donne ormai è un allarme costante, globale: in Italia a novembre si contavano oltre 100 femminicidi e, di certo, il fatto che nel Paese l’occupazione femminile sia bassa e la dipendenza economica dagli uomini ancora troppo forte continua ad essere un fattore di rischio difficile da rimuovere nell’immediato. Per quello che riguarda la Svizzera – dice l’Ufficio federale di statistica – nel 2023 si sono registrati 19’918 reati di violenza domestica (le vittime sono in più del 70% dei casi persone di sesso femminile). Gli omicidi commessi nella sfera domestica sono stati 25 (20 donne o bambine). I processi nei confronti dei colpevoli hanno sempre più attenzione mediatica e – per fortuna – la sensibilizzazione è sicuramente superiore rispetto al passato, e va oltre la condanna formale del gesto omicida. È l’intera dinamica della violenza a essere ormai sotto osservazione, e questo lo dobbiamo anche a un enorme
cambiamento nel modo di raccontarla. Uno tra i libri più belli – ha ricevuto il Pulitzer quest’anno (memoria e autobiografia) – ripercorre un femminicidio avvenuto in Messico oltre trent’anni fa: si intitola L’invicibile estate di Liliana. Lo ha scritto Cristina Rivera Garza, la sorella della vittima, ed è uno di quei libri che trasformano per sempre chi lo ha letto. Se il nostro sguardo sta cambiando bisogna essere anche grati a due donne che nel 2024 hanno fatto tantissimo perché le vittime di violenza possano smettere di provare i sentimenti che da sempre la nostra cultura impone a chi subisce un abuso. La scrittrice Neige Sinno, che in Triste Tigre ha raccontato la sua storia di bambina vittima di indicibili violenze da parte del patrigno, e l’eroica Gisèle Pelicot (tra le 25 donne più influenti del 2024, secondo il «Financial Times», insieme a Christine Lagarde, Yulia Navalnaya, Taylor Swift ecc.), esile signora del Sud della Francia che il marito drogava e faceva stuprare da sconosciuti, hanno avuto entrambe le parole e il coraggio di mostrare il proprio volto e di rimandare al mittente il senso di colpa. «Sono loro a doversi vergognare, non noi», ha spiegato Pelicot. E il mondo è stato a sentirla. Mentre giovedì scorso il suo aguzzino è stato condannato a 20 anni di prigione, il massimo della pena, così come richiesto dall’accusa.
Cristina Marconi
«Ho tolto il velo e deciso di protestare per tutti»
Medio Oriente ◆ Mahrang Baloch è diventata il simbolo della resistenza del popolo beluci contro gli abusi dello Stato pakistano
Francesca Marino
«So, lo so con certezza che un giorno mi uccideranno». Chi parla, senza paura e senza commozione apparente, è una donna di trentuno anni appena. Una giovane donna dal viso scarno incorniciato dai capelli neri e da uno scialle scuro che le copre appena il capo. Mahrang Baloch (nella foto a lato), dottoressa in medicina e attivista per i diritti umani, è diventata suo malgrado un simbolo della resistenza del suo popolo, tanto da essere inserita qualche settimana fa dalla BBC tra le 100 donne di maggiore ispirazione per l’anno che sta per finire. La storia comincia da lontano, in realtà, dalla lotta costante dei beluci contro lo Stato pakistano che ne ha illegalmente occupato la terra per trasformare gli abitanti in cittadini di serie B, senza diritti e senza futuro. La storia, per Mahrang, comincia nel 2006, quando suo padre scompare dall’oggi al domani. Dopo anni di richieste, di preghiere e di proteste, il suo corpo viene infine ritrovato nel 2011, gettato come immondizia sul ciglio di una strada. Nel 2017 a scomparire è suo fratello. «È stato il momento in cui ho deciso di protestare per tutti», dichiara Mahrang. «Mi sono tolta il velo e ho mostrato il mio volto. Abbiamo iniziato una mobilitazione di massa nelle scuole», continua la giovane donna. «E siamo andati di porta in porta per fornire ai giovani, soprattutto alle giovani donne, un’educazione politica». Nel 2019 Mahrang fonda la Baloch yakjehti committee, un movimento per i diritti umani che lotta contro gli abusi dello Stato pakistano. E il 23 novembre del 2023, insieme a migliaia di altre donne, si mette in viaggio verso Islamabad alla testa di madri, figlie, sorelle e mogli delle migliaia di persone che ogni anno scompaiono nella regione, a opera dell’esercito e delle cosiddette Death squads, le squadre della morte, a cui lo Stato ha appaltato prigioni private e celle di tortura.
Con i bambini al seguito, molte con i piccoli in braccio, Mahrang e le altre si mettono a camminare come
prima di loro hanno fatto le madri della Plaza de Mayo: sperando che il mondo si accorga di ciò che sta succedendo. Perché in Belucistan, regione illegalmente occupata dal Pakistan nel 1948, da molti, troppi anni è in corso un genocidio culturale e fisico: una vera e propria e propria pulizia etnica che il Pakistan conduce ormai su larga scala tra l’indifferenza e il silenzio del resto del mondo.
Non è la prima volta che i beluci marciano per protestare, ma è la prima volta che sono le donne ad essere il motore della rivolta
Ogni anno scompaiono migliaia di persone: prese dall’esercito, dalle forze dell’ordine o dalle Death squads e mai più riviste. A volte riappaiono, uccise e gettate ai bordi delle strade con addosso segni di tortura. O nelle fosse comuni, scoperte per caso e immediatamente occultate dallo Stato. Oppure anche, prive di organi, gettate come rifiuti sui tetti degli ospedali. Sono intellettuali, attivisti dei diritti umani, politici dissidenti, studenti, giornalisti, professori. Sono giovani, anziani, donne e anche bambini: colpevoli soltanto di essere figli o fratelli di un dissidente ma, soprattutto, di essere beluci.
«Per me l’aspetto più progressista della nostra resistenza è che migliaia di donne di tutte le generazioni, dalle giovani adolescenti alle loro madri e zie, alle loro nonne e persino bisnonne, si sono unite alla causa», continua Mahrang. Non è la prima volta che i beluci marciano per protestare, ma è la prima volta che sono le donne ad essere il motore della rivolta. Perché sono centinaia i casi di donne rapite, detenute e torturate, usate come schiave sessuali dai militari e poi gettate via vive o più spesso morte. Ragazze e donne, come da copione, vengono accolte a Islamabad a colpi di bastone e di lacrimogeni, a colpi
di idrante in pieno inverno: e, dopo quasi un mese, vengono sgombrate di forza. Ma Mahrang non si arrende, come non si arrendono le altre. E in luglio organizza un grande raduno a Gwadar: centinaia di migliaia accorrono da tutto il Belucistan. Questa volta lo Stato manda due killer ad assassinare la ragazza. Che però, a questo punto, è già diventata una leggenda e viene strenuamente protetta dai suoi connazionali. Mentre sui social media circola una registrazione audio del vice commissario di Gwadar, in cui lo si sente minacciare di morte Mahrang, e altri leader e organizzatori della protesta, la giovane donna viene invitata da diverse organizzazioni internazionali. E qualche mese
fa la rivista «Time» la inserisce nella sua lista di giovani leader e la invita al gala di premiazione a New York. Le autorità pakistane le impediscono però di lasciare il Paese e le sequestrano il passaporto. Non solo: lei e Sammi, un’altra attivista, vengono abbandonate in piena notte su una superstrada senza telefono, senza documenti e senza denaro. Ma per il Pakistan non è abbastanza: un illustre sconosciuto da una altrettanto sconosciuta cittadina denuncia Mahrang per terrorismo e «incitazione alla rivolta». La sua reputazione viene fatta a pezzi dai troll al soldo dell’esercito. La relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione di chi difende i diritti umani, Mary Lawlor, ha
espresso «profonda preoccupazione per l’accaduto» citando notizie di «molestie, intimidazioni e maltrattamenti». Per il momento Mahrang è ancora libera, protetta dalla sua fama internazionale e dall’attenzione più o meno costante della stampa estera. Ma non si sa per quanto. Perché un giorno, vicino o lontano, qualcuno la ucciderà. Perché il Belucistan è lo scheletro nell’armadiodel Pakistan, un armadio già zeppo di scheletri ingombranti. Un armadio protetto da una coltre di silenzio densa come una cortina d’acciaio. Un silenzio che il mondo dovrebbe ascoltare prima che sia troppo tardi, e che del Belucistan, e di Mahrang e le altre, rimanga soltanto il ricordo.
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Prospettive fosche non solo per l’Ucraina
Mosca/Kiev ◆ Entro i primi mesi del 2025 sapremo se sarà possibile fermare la guerra oppure se finirà totalmente fuori controllo
Lucio Caracciolo
La guerra in Ucraina è al bivio. Entro i primi mesi del 2025 sapremo se sarà possibile fermarla oppure se finirà completamente fuori controllo. La situazione si può riassumere in questi termini, nelle sue varie dimensioni.
Anzitutto, il campo di battaglia. I russi continuano ad avanzare nel Donbass e la resistenza ucraina si fa sempre più debole. Per mancanza di munizioni, armi e soprattutto uomini. Dopo che Zelensky ha annunciato che non potrà mai recuperare militarmente i territori perduti fra Donbass e Crimea, il morale delle truppe, già basso, è a terra. Nelle città e nei villaggi ucraini si rastrellano giovani e meno giovani da mandare al fronte, in un clima di tensione e paura. Questa crisi sociale e militare si accompagna alle distruzioni nell’industria e nelle infrastrutture energetiche, che rendono la vita sempre meno sopportabile. Gli otto milioni circa di ucraini che hanno lasciato il Paese non sembrano disposti a rientrare, ciò che rende impossibile pensare a ricostruire un territorio già compromesso dai tre anni di guerra. Infatti coloro che dovessero rientrare dovrebbero accettare condizioni di vita molto più disagevoli di quelle di cui fruiscono all’estero. Inoltre sentirebbero il rancore dei locali, che mentre loro si erano autoesiliati continuavano a combattere e a resistere.
L’ammissione di Zelensky di non poter recuperare Crimea e Donbass è la presa d’atto che non potrà contare sull’appoggio americano
Tutto ciò si riflette sugli equilibri politici interni. Secondo i più recenti sondaggi, se il generale Zaluzhny rientrasse a Kiev da Londra, dove Zelensky lo ha spedito a fare l’ambasciatore perché gli dava ombra e aveva idee molto diverse sulla condotta della guerra, vincerebbe di buon margine la sfida con l’attuale presidente, la cui popolarità è in netto declino. Oltretutto il suo mandato è scaduto. Prima o poi, certamente nel momento in cui si raggiungesse il cessate-il-fuoco, si dovrà votare. E Putin ha già maliziosamente fatto sapere che con Zelensky tratterà solo se il leader ucraino avrà ottenuto il rinnovo nella carica in seguito al voto popolare. Più in generale, negli apparati ucraini tutti si stanno riposizionando in vista della svolta in un senso o nell’altro che si sente nell’aria.
Visto dalla prospettiva russa, il fronte offre uno spettacolo relativamente ottimistico. A Mosca qualcuno spera che gli ucraini possano cedere o ammutinarsi, aprendo alle proprie truppe gli spazi vasti delle pianure ucraine, se non addirittura di Kiev. Molti strateghi russi sono però incerti sul vantaggio di penetrare in profondità in terra ucraina, perché dovrebbero poi amministrare popolazioni infide, certamente inasprite contro i russi dai bombardamenti e dalle vessazioni belliche.
Ma la vera partita si svolge sul terreno politico-diplomatico. Senza ancora avere assunto l’incarico di presidente, Donald Trump ha già avviato un intenso giro di negoziati segreti per favorire il cessate-il-fuoco. L’ammissione di Zelensky di non poter recuperare Crimea e Donbass è infatti la presa d’atto che non potrà contare sull’appoggio americano in armi,
munizioni e intelligence, come finora. In teoria, lo spazio sarebbe aperto per una soluzione «coreana». Si sigilla la linea del fronte, con qualche adattamento, e se ne affida la sorveglianza a una forza di pace internazionale formata da Paesi europei della Nato, dalla Turchia e altri volontari. Ma Putin ha già fatto sapere che questa soluzione è inaccettabile perché porterebbe la Nato in Ucraina, peggio che l’Ucraina nella Nato. L’alternativa? Una missione di pace di Paesi neutrali che certamente non offrirebbe agli ucraini le garanzie cui anelano.
La questione più ardua riguarda però lo status geopolitico della Repubblica di Ucraina dopo la cessazione delle ostilità. Kiev aspira alla Nato, ma è ormai evidente che le resistenze americane ed europee ad ammetterla nell’Alleanza atlantica sono per ora insuperabili. E gli ucraini hanno bisogno di una garanzia subito, non di una promessa con scadenza decennale. Resta aperta quindi la ricerca di una formula che escluda l’atlantizzazione dell’Ucraina ma le offra comunque un’assicurazione della vita. Davvero quasi la quadratura del cerchio.
A questo punto non si può quindi escludere che i negoziati falliscano. Ne scaturirebbe certamente un’accelerazione del conflitto, con le truppe russe che potrebbero occupare gran parte dell’Ucraina.
Kiev aspira alla Nato ma è ormai evidente che le resistenze americane ed europee ad ammetterla nell’Alleanza atlantica sono per ora insuperabili
C’è però chi in Polonia, nei Paesi baltici, in Svezia e soprattutto nel Regno Unito prepara uno scenario diverso. E molto rischioso. Creare un incidente che costringa la Nato a intervenire e fare davvero la guerra alla Federazione russa. Anche a rischio di innescare uno scontro nucleare. L’obiettivo strategico dei nordici non è di sconfiggere i russi, ma di cancellare la Russia dalla carta geografica. Vasto programma. Magari da realizzare a tappe o più probabilmente sperando
nella disintegrazione dall’interno del mosaico imperiale costruito da Pietro il grande e successori.
Con la coppia Musk-Trump al comando in America questo estremi-
smo nordico non trova però sponde rilevanti oltreoceano. Gli Stati Uniti non hanno alcuna voglia di imbarcarsi in un nuovo conflitto in Europa, con la prospettiva che possa involve-
re in Terza guerra mondiale. Oltretutto sarebbe molto difficile da «vendere» alla propria opinione pubblica, che non pare troppo interessata al futuro dell’Ucraina.
Il morale delle truppe ucraine
a terra.
rastrellano giovani e meno giovani da mandare al fronte in
clima di tensione e paura. (Keystone)
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Un’oasi di spiritualità condivisa
Berna ◆ La Casa delle religioni, un centro dedicato al dialogo interreligioso e interculturale, celebra il suo decimo anniversario
Luca Beti
Dalla stazione centrale di Berna bastano una manciata di minuti di treno per raggiungere l’Europaplatz. Un nome che potrebbe facilmente trarre in inganno un ignaro visitatore. Dopo essere scesi dal treno e aver superato una rampa di scale, ci si ritrova infatti su una strada cantonale particolarmente trafficata, racchiusa tra un viadotto autostradale, due stazioni ferroviarie regionali e una linea del tram. Nulla a che vedere con una piazza d’Europa. Non ci sarebbe quindi alcun motivo per spingersi nella periferia della capitale, verso i sobborghi di Bümpliz e Bethlehem, considerati a lungo a torto o a ragione i ghetti di Berna, se non ci fosse la Haus der Religionen – Dialog der Kulturen.
La struttura bernese ospita sotto lo stesso tetto i luoghi di culto delle comunità musulmana, cristiana, buddista, indù e alevita
La Casa delle religioni ospita sotto lo stesso tetto i luoghi di culto delle comunità musulmana, cristiana, buddista, indù e alevita, mentre quelle ebraica, bahá’i e sikh hanno la loro sede altrove e partecipano solo alle attività proposte nel centro.
La Haus der Religionen fa parte di un complesso edilizio che comprende un centro commerciale, diversi risto
Si distingue dalle altre sezioni dell’edificio per la sua ampia vetrata su due piani, ornata da motivi ornamentali
Assistente
Marketing Cliente
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Contratto
Indeterminato (50% su mezze giornate ad orario flessibile)
Data d’inizio
Al più presto o da convenire
Mansioni
Gestisce il servizio clienti (M-Infoline):
– fornisce risposte alle richieste di informazioni su prodotti, assortimento, orari di apertura negozi, campagne promozionali, ecc…
– gestisce eventuali problematiche
– raccoglie e analizza i feedback, ottenendo indicazioni per il miglioramento
Svolge attività di segretariato generale in lingua italiana e tedesca
Verifica i concetti e le informazioni da e per le filiali
Organizza attività promozionali nelle filiali (piccoli eventi, degustazioni, sampling,…)
Garantisce una corretta e puntuale reportistica al responsabile di riferimento
Competenze professionali
Formazione nel campo del Marketing o di pari livello
Conoscenze sulle ultime tendenze in ambito marketing Digitale e Social Network
Esperienza nel Customer Relationship Management
Facilità nell’uso degli applicativi informatici
Ottime conoscenze della lingua italiana e tedesca (scritto e orale)
Competenze personali
Proprietà dialettiche e disinvoltura nell’esprimersi anche in forma scritta (italiano e tedesco)
Buone doti di pianificazione e organizzazione
Rapidità nell’apprendere nuove nozioni
Capacità di operare autonomamente
Spiccato orientamento al cliente con l’obiettivo di fornire qualità crescente di servizio
Candidatura
Dal sito
internet www.migrosticino.ch (sezione «Lavora con noi»), includendo la scansione dei certificati d’uso.
tivi delle religioni musulmana e hindu. L’idea di creare una struttura simile risale alla fine degli anni Novanta, quando l’architetto urbanista Christian Jaquet propose di riqualificare l’area di Bümpliz-Bethlehem con un progetto che promuovesse il dialogo interculturale e interreligioso. Dopo una lunga fase di pianificazione e una campagna di raccolta fondi, il progetto è stato inaugurato nel dicembre del 2014, quindi esattamente dieci anni fa, dando vita a uno spazio in cui «si trovano così tanti Dei che nemmeno a Gerusalemme si incontrano tutti nello stesso luogo». Questo era l’incipit di un articolo pubblicato nel 2015.
La Casa delle religioni offre inoltre uno spazio di culto decoroso per le molte comunità religiose di Berna, che in precedenza celebravano i propri riti in spazi di fortuna, come garage, semi-interrati e appartamenti privati.
Sin dall’inaugurazione la Casa delle religioni è diventata un punto
Perché i fedeli scappano
Nel 2023 la fuga di fedeli dalla Chiesa cattolica in Svizzera ha raggiunto livelli senza precedenti. L’anno scorso, infatti, circa 68’000 persone hanno lasciato la Chiesa cattolica, quasi il doppio rispetto a quelle del 2022. Secondo l’Istituto svizzero di sociologia pastorale, che ha pubblicato i nuovi dati a metà novembre, questa drammatica defezione è attribuibile principalmente alla pubblicazione, nel settembre 2023, di uno studio dell’Università di Zurigo che ha documentato oltre 1000 casi di abusi sessuali in ambito ecclesiale insabbiati. Attualmente la principale comunità religiosa nella Confederazione conta circa 2,8 milioni di fedeli, 400’000 in meno rispetto al 2014, quando aveva raggiunto il suo massimo storico in parte grazie all’immigrazione dall’Europa meridionale. Va però osservato che anche la Chiesa evangelica riformata svizzera ha registrato un notevole au -
di riferimento, un unicum a livello nazionale e internazionale. Difficile infatti trovare altrove un centro analogo: uno dei pochi si trova ad Hannover, dove vengono ospitate dieci comunità religiose.
L’aver accolto sotto lo stesso tetto le religioni minoritarie in Svizzera ha contribuito a evitare la loro emarginazione e possibili derive estremiste
A un decennio dalla sua apertura, la Haus der Religionen ha acquisito ancora maggiore importanza. Nel centro si promuove il dialogo e si affrontano questioni fondamentali per favorire la comprensione delle varie culture e religioni, sottolineando ciò che le accomuna, senza cancellarne le differenze, e presentando alternative allo scontro, che spesso
mento di persone che le hanno girato le spalle nel 2023. Circa 39’000 fedeli hanno infatti abbandonato questa confessione, con un incremento di quasi un terzo rispetto all’anno precedente. Secondo i ricercatori, l’indagine sugli abusi nella Chiesa cattolica ha avuto un effetto domino anche sulla comunità evangelica, che alla fine dell’anno scorso contava ancora 1,86 milioni di membri. Intanto il numero di nuove adesioni alla Chiesa cattolica rimane molto modesto: nel 2023 circa un migliaio. In controtendenza, i numeri che fanno riferimento alla Chiesa evangelica hanno invece registrato un leggero aumento in alcuni Cantoni, almeno nei primi mesi dell’anno. Stando agli esperti, tale evoluzione è riconducibile al fatto che alcuni fedeli cattolici abbiano deciso di non abbandonare completamente il cristianesimo ma di aderire alla confessione evangelica.
urbanista
Christian Jaquet propose di riqualificare l’area di BümplizBethlehem. (Casa delle religioni)
viene visto come unica soluzione. Ad esempio, le comunità ebraica e musulmana si sono riunite per piangere insieme le vittime dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, un incontro che ha contribuito a sanare le ferite aperte del conflitto israelo-palestinese. Anni prima «la Casa delle religioni ha reso felice il Dalai Lama»: questo era il titolo di un articolo pubblicato in un giornale locale che informava sulla visita, nel 2016, della guida buddista tibetana. Tuttavia il centro ha catturato l’attenzione mediatica anche per note meno positive. Nel novembre 2022 il «faro del dialogo interreligioso» è stato offuscato da gravi accuse: un’inchiesta giornalistica aveva rilevato che, di nascosto, un imam aveva celebrato matrimoni forzati nella moschea.
Nonostante questi spiacevoli episodi, l’aver accolto sotto lo stesso tetto le religioni minoritarie in Svizzera ha contribuito a evitare la loro emarginazione e possibili derive estremiste, favorendo l’integrazione in una società sempre più multietnica, in un Paese in cui, a volte, stranieri e svizzeri vivono fianco a fianco senza conoscersi né interagire, alimentando così una cultura del sospetto e della diffidenza reciproca.
La Haus der Religionen è proprio l’esatto opposto: le sue porte sono aperte a chiunque sia curioso di conoscere il mondo che lo circonda. È possibile entrare nella moschea della comunità serbo-albanese per seguire la preghiera e ascoltare i canti salmodiati o accedere al tempio indù per osservare i coloratissimi Siva oppure al luogo di culto alevita, dove tutto ruota intorno ai numeri sette e dodici. Nella Casa delle religioni è possibile ritrovare ciò che all’esterno spesso abbiamo disimparato: la volontà di convivere pacificamente.
Bibliografia
Raphael Sollberger, Zentrum Europaplatz – Haus der Religionen: Zwischen Sakralbau und Investorenobjekt, Verein Baukulturen Schweiz, Berna, 2024.
L’idea di creare una struttura simile risale alla fine degli anni Novanta, quando
l’architetto
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Il rapporto tribolato tra Svizzera ed Ue
Diplomazia ◆ Uno sguardo alla storia per capire punti fermi e problemi che si trascinano da decenni
Roberto Porta
È arrivato appena prima di Natale il nuovo accordo che rilancia le relazioni tra la Svizzera e l’Unione europea. Una strenna di fine anno che aprirà ora intense discussioni politiche all’interno del nostro Paese, tra chi la ritiene un regalo avvelenato e chi invece vede in questa intesa uno strumento capace di dare stabilità alle relazioni bilaterali con il nostro grande vicino europeo. Si apre ora una fase di consultazione interna prima della firma di questi nuovi patti, in seguito toccherà al Parlamento riuscire a tirare le somme di questo accordo, poi la parola passerà al Popolo, e forse anche ai Cantoni. Ci troviamo in una sorta di punto nodale: siamo giunti al termine delle trattative con Bruxelles ma siamo anche all’inizio di un lungo percorso verso la votazione popolare più importante di questi ultimi decenni.
L’ultima fase del cammino dura ormai da 25 anni nei quali è emersa la «questione istituzionale»
Dentro questo bivio val la pena di dare uno sguardo alla storia delle relazioni tra Svizzera e Unione europea per capire come si è mosso finora il nostro Paese e per individuare i punti fermi e le questioni ancora irrisolte di questo tribolato rapporto. Per farlo ci affidiamo ad alcune citazioni che abbiamo trovato sul sito dodis.ch, il centro di ricerca che a Berna analizza la storia della nostra politica estera. La prima citazione ci arriva da Max Petitpierre, eletto in Consiglio federale nel 1945 e per 16 anni capo della diplomazia svizzera. Nel 1957, anno di fondazione della Comunità economica europea, il ministro degli esteri scrive che «il problema maggiore che si pone oggi è quello del nostro atteggiamento nei confronti delle istituzioni europee». Per Petitpierre il nostro Paese non era allora pronto per elaborare una propria «dottrina europea», questo perché «per avere delle possibilità di essere approvata dalla nostra popolazione dovrebbe essere troppo prudente, con il rischio di non venire capita e accettata dagli altri Paesi europei». Il nostro
Governo capisce però che dentro questa evoluzione non può rimanere isolato, e per questo motivo, con altri sei Paesi, partecipa nel 1960 alla creazione dell’Associazione europea di libero scambio, nata con lo scopo di facilitare gli scambi commerciali, senza nessun tipo di collaborazione politica. Una cooperazione istituzionale su cui invece si basa da sempre l’Unione europea. E questo continua ad essere ancora oggi uno dei grandi punti di contrasto tra il nostro Paese, che vede nel commercio di beni e servizi il perno attorno a cui ruotano le nostre relazioni bilaterali, e l’Ue che chiede invece anche un avvicinamento istituzionale. Ma torniamo a quegli anni Sessanta del secolo scorso, un periodo in cui Berna cerca comunque collaborazione e accordi con i cosiddetti Stati fondatori dell’Unione europea: Germania, Francia, Italia e i Paesi del Benelux. E qui arriviamo alla seconda citazione, che porta la data del 28 febbraio 1961 e la firma di Etienne Dennery. L’allora ambasciatore francese a Berna scrive queste parole al nostro Governo: «Se la Svizzera non modifica la sua attitudine generale sarà difficile accordarle delle concessioni anche solo parziali (…) Il vostro Paese avrebbe solo da guadagnarci a far prova di più moderazione e realismo». Berna fa i suoi interessi e cerca di cogliere il massimo possibile dalle relazioni con l’Ue, creando anche nervosismi e incomprensioni.
Non per nulla, sempre nel 1961, Agostino Soldati, rappresentante svizzero presso la Comunità economica europea scrive in una nota inviata a Berna: «La Svizzera è il Paese meno popolare a Bruxelles, a causa della sua attitudine critica e per lo scetticismo che manifesta nei confronti del mercato unico». Insomma rapporti tesi, che si sono ripresentati anche in seguito, e qui ricordiamo che una nota interna alla Commissione, del 2012, definiva la Svizzera «una seccatura». Ma torniamo al 1961, anno che si chiuderà con una sorprendente accelerazione da parte di Berna. Il 15 dicembre il Governo scrive alla Commissione europea per annunciare di essere pronto ad
Beat Jans: «La nostra sovranità si può rafforzare soltanto chiarendo le relazioni con il nostro partner più importante». (Keystone)
aprire una procedura di adesione alla Comunità europea. «Il Consiglio federale (…) è arrivato alla convinzione che è possibile trovare una forma appropriata di partecipazione al mercato europeo, che permetta di rispettare la nostra neutralità e l’integrità della Comunità europea», scrive l’allora presidente della Confederazione, Friedrich Wahlen. Un passo legato ad una medesima richiesta inoltrata dalla Gran Bretagna, poi però bocciata dal presidente francese Charles De Gaulle, che non ne volle sapere di una presenza del Regno Unito tra i Paesi della Cee. E così anche la domanda di adesione svizzera finì su un binario morto. Berna si concentrò in seguito sugli aspetti commerciali, e sottoscrisse nel 1972 un accordo libero scambio con Bruxelles. Facciamo ora un salto di vent’anni, questo perché una nuova domanda di adesione venne presentata nel 1992, alla vigilia del voto sullo Spazio economico europeo. Quella richiesta di adesione contribuì di sicuro alla bocciatura popolare dello See, Spazio che non poteva più essere visto come un punto di arrivo ma solo come una soluzione transitoria, una tappa verso l’adesione piena all’Unione europea. Un’ipotesi sempre osteggiata dalla maggioranza della popolazione svizzera. Dopo quel voto, che rappresenta ancora oggi una cesura di fondo nel cammino europeo del nostro
Orazio Martinetti, Itinerari della neutralità , Armando Dadò editore, 2024.
Orazio Martinetti, storico e giornalista, da lungo tempo anche firma di «Azione», ha di recente dato alle stampe Itinerari della neutralità, un agile saggio che affronta un tema tornato di nuovo alla ribalta dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina. In particolare quando, alla fine di febbraio del 2022, il Consiglio federale aderì alle sanzioni contro Mosca decise dall’Unione europea (lo fece a più riprese).
Paese, si aprì un periodo di incertezza che portò all’apertura dei negoziati che diedero poi forma ai primi accordi bilaterali, nel 1999. Da allora si è aperta una fase che si protrae ormai da 25 anni. Un periodo di crescita economica e di incremento demografico, un quarto di secolo in cui è tornata ad emergere anche la cosiddetta «questione istituzionale», la stessa che aveva già frenato il nostro Paese ai tempi di Petitpierre. Un nodo da sciogliere legato alla nostra sovranità e alla ripresa del diritto europeo, per quanto riguarda l’accesso al mercato unico. Con conseguenze, ancora da soppesare, anche sulla nostra democrazia diretta. E qui terminiamo con un’ultima citazione, questa volta del Consigliere federale Beat Jans: «In un mondo complesso, la nostra sovranità si può rafforzare soltanto chiarendo le relazioni con il nostro partner più importante. E questo vale soprattutto per un Paese piccolo come la Svizzera». Terminate le trattative volute proprio per migliorare la nostra posizione nei confronti dell’Ue, resta ora da trovare un’intesa interna su questo nuovo patto europeo. Il percorso sarà ancora lungo, il nostro Paese è tuttora alla ricerca di «una forma appropriata di partecipazione al mercato europeo», come scriveva il consigliere federale Wahlen. E sono trascorsi ormai più di 60 anni.
Alcuni hanno interpretato la presa di posizione come una svolta storica: l’abbandono di una posizione plurisecolare, «uno dei tratti distintivi della repubblica alpina fin dall’età moderna». L’autore del libro – edito da Armando Dadò – scrive: «La Svizzera non partecipa a campagne belliche decise da altri e non fornisce armi ai contendenti: da un punto di vista del diritto internazionale» dunque «non ha gettato alle ortiche la neutralità». Però la diatriba continua, alimentata pure dal «rinnovato attivismo della diplomazia elvetica con l’approdo, nel giugno 2022, al tavolo del Consiglio di sicurezza dell’Onu in qualità di membro non permanente». Il saggio parte – com’è giusto che sia – dai tentativi di definire un concetto che conosce molte sfumature ed evolve nel tempo (si tratta di un percorso, afferma Martinetti). «Il termine N vale a designare la condizione giuridica in cui, nella comunità internazionale, si trovano gli Stati che rimangono estranei ad un conflitto esistente tra due o più di altri Stati» (Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino). Poi una definizione più articolata, dal Dizionario storico della Svizzera: «Per uno Stato la neutralità consiste nella non partecipazione a una guerra tra altri Stati. Il concetto di non partecipazione, proprio del diritto internazionale pubblico, ha avuto nella storia contenuti concreti diversi. Il diritto della neutralità si differenzia dalla politica di neutralità, che comprende l’insieme dei provvedimenti adottati da uno Stato neutrale in tempo di guerra o da uno Stato neutrale permanente già in tempo di pace, di propria iniziativa e a prescindere dagli obblighi che derivano dal diritto della neutralità, per garantire l’efficacia e la credibilità del suo statuto».
Poi lo storico passa in rassegna i momenti cruciali del concetto di neutralità elvetica, dall’età moderna al Congresso di Vienna, dall’epoca dei nazionalismi all’«indignazione di Mazzini», dalla Guerra fredda ai «nuovi scenari dopo l’Ottantanove». Chiude con uno sguardo sull’iniziativa di Pro Svizzera – che il Governo consiglia di respingere – denominata «Salvaguardia della neutralità svizzera» (o «Iniziativa sulla neutralità») la quale mira a sancire nella Costituzione federale la neutralità e il modo in cui viene gestita. E che, secondo Martinetti, «vorrebbe assolutizzare il concetto, restringendo al minimo lo spazio di manovra di cui usufruiscono le autorità federali, di fatto ipotecando ogni margine di azione. Si cadrebbe in una sorta di “neutralismo” elevato a dogma, indifferente e a-storico (…). Un neutralismo in cui aggrediti e aggressori verrebbero posti sullo stesso piano ed ugualmente trattati». Un libro attuale che obbliga a riflettere sul ruolo della Svizzera nel mondo. / RB
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CULTURA
Modernità e smarrimento
Clarice Lispector esplora il conflitto interiore di una donna che si perde tra il desiderio di cambiamento e la consapevolezza di sé
Pagina 23
Corpo e parola al Teatro Foce
Bachmann Bernasconi riflette sulla femminilità con Bucce, mentre Emanuele Santoro indaga la solitudine nelle letture di Stefano Benni
Pagina 25
Immersione nell’editoria ticinese
Dalla Poiana di Bichsel uscito per Casagrande, ai ricordi d’infanzia di Terzaghi, passando per romanzi, racconti, testimonianze e poesie
Pagine 26-27
In Sonny Boy, l’infanzia e la carriera di Al Pacino
Autobiografia ◆ Il grande attore ripercorre la propria vita dagli inizi nel South Bronx fino al successo mondiale
Blanche Greco
Il South Bronx è stato il suo Actors
Studio e il Teatro il suo primo psicanalista, ma come racconta Al Pacino in Sonny Boy. Un’autobiografia, appena pubblicata da La nave di Teseo, ciò che lo ha portato a essere il grande attore che è oggi è stato, sin dall’inizio, il suo «desiderare pervicacemente l’impossibile», perché oltretutto «era povero, e i poveri non recitano».
Sonny Boy, il soprannome che l’ha seguito per tutta l’infanzia, glielo aveva dato sua madre, prendendo il titolo di una famosa canzone di Al Jolson, in voga quando lei era adolescente, non che fosse molto più vecchia nel 1940 quando era nato lui, primo e unico figlio di una coppia di diciottenni che poco dopo si separò, lasciandolo solo con la mamma.
Nel libro Al Pacino mette insieme i ricordi, le sensazioni, gli aneddoti senza curarsi troppo della cronologia e neppure d’imbellettare le cose, più interessato a rievocare un’epoca, un quartiere e quel periodo felice della sua «infanzia alla Oliver Twist» quando faceva parte di una piccola gang di bambini che si guardavano le spalle a vicenda e scorrazzavano sui terreni abbandonati degli orti di guerra del South Bronx.
La povertà e le difficoltà non fermarono Al Pacino, che nel teatro trovò prima un vero e proprio rifugio, poi la propria via di riscatto
Al Pacino poteva però contare sull’affetto dei nonni paterni e materni, italoamericani senza soldi con una vasta famiglia; ed era l’unico amore della madre, donna bella, fragile ed emotiva, che dopo il lavoro si nascondeva con il suo bambino al cinema, al Dover Theatre, per vivere altre vite insieme a lui. Momenti di tregua che Sonny imparò a prolungare a casa, atteggiandosi e mimando i vari personaggi del film appena visto; per far ridere sua madre arrivava a interpretare persino i cani, i cavalli e gli altri animali della storia. Quando c’erano soldi, lei lo portava anche a vedere uno spettacolo a Broadway.
Qualche anno dopo, quando Sonny smise con il baseball perché una gang rivale gli aveva fregato il guantone, non potendo ricomprarne un altro accettò di far parte di un paio di recite scolastiche. Aveva tredici anni, ma il suo talento conquistò l’insegnante che si arrampicò sino al quinto piano della casa dei suoi nonni per raccomandargli di iscriverlo a una scuola di recitazione.
Da allora Sonny cominciò a sognare in grande anche se scaricava cassette di frutta dal verduraio del quartiere, finché se ne andò a Manhattan e s’iscrisse a una scuola di recitazio-
ne. Dormiva dove poteva, mangiava quando ci riusciva, felice di ottenere piccole parti e qualche provino, mentre per sopravvivere faceva consegne, il traslocatore, la maschera nei cinema e il tuttofare al Living Theatre, tacitando lo stomaco vuoto e la paura di quell’esistenza sbandata con un po’ di vino.
In quel periodo sua madre morì «come Tennessee Williams e tanti altri in quegli anni: aveva preso i suoi soliti barbiturici, li aveva vomitati e ne era rimasta soffocata» e lui non c’era a salvarla. Niente sembrò lenire quel dolore: né il vino, né le notti passate a camminare e a recitare per le strade deserte di Manhattan. Poi conobbe Martin Sheen, attore di belle speranze con una famiglia altrettanto povera e tormentata alle spalle e una fiducia incrollabile nel futuro. Abitavano insieme e si esibivano nei locali del Greenwich Village, e a Soho, con gente che sarebbe stata famosa come Joan Baez, ma soprattutto Pacino iniziò a guardare la scena artistica di quegli anni scegliendo i suoi maestri tra le
stelle più fulgide del momento: Marlon Brando, James Dean, Montgomery Clift, e poi Paul Newman, Ben Gazzara, Anthony Franciosa, Peter Falk, John Cassavetes. S’inebriava del loro modo di risolvere un personaggio, o di rinnovarlo, studiava come un forsennato, ma poi arrivava tardi ai provini di Elia Kazan, messo alle corde da quella timidezza e quella paura che neanche il vino riusciva a cancellare. Con il successo di L’indiano vuole il Bronx, di Horowitz, novità della scena newyorkese, la carriera di Pacino – in coppia con John Cazale, (che ritroverà nel Padrino) – prende forma; lo vede Faye Dunaway – che è già una star –e lo raccomanda a Martin Bregman produttore e manager che rappresenta anche Barbra Streisand e Bette Midler, e che diventerà per lui uno che, insieme al suo mentore Charlie Laughton, finalmente gli farà da padre.
Anche il giovane regista emergente Francis Ford Coppola lo nota e lo scrittura per Il Padrino nel ruolo di Michael Corleone. Con lui, Pacino conosce George Lucas, Steven Spiel-
berg, Martin Scorsese e Brian De Palma, sebbene confessi che: «Non sapevo chi fossero, ma capivo che erano una banda di estremisti figli degli anni Sessanta pronti a cambiare la cultura del nuovo decennio» e quel cinema di cui uno dei protagonisti sarebbe stato proprio lui. Grazie all’enorme successo del Padrino, Pacino inanellò una serie di film memorabili come: Quel pomeriggio di un giorno da cani, Scarface, Panico a Needle Park, Serpico, Carlito’s way, senza contare Il Padrino II e Il Padrino III, Scent of a Woman e poi il teatro. Sonny Boy – Un’autobiografia racconta in modo semplice e divertente la vita di un giovane attore di teatro newyorkese sbalzato nel cinema nel momento di maggior fermento, quando New York e San Francisco sembravano surclassare Hollywood. Raggiunto il successo, se l’aereo non gli faceva più così paura, le Nomination che riceveva e la Notte degli Oscar lo terrorizzavano, così il suo «istinto alla Greta Garbo gli faceva scegliere la fuga e la solitudine», bastava una scusa.
Anche in amore. Anche quando erano storie speciali e ci stava male, come con Jill Clayburgh, poi con Marthe Keller, e ancora con Diane Keaton. «Al Pacino “snobba” la cerimonia degli Oscar!». «Pacci è un attore difficile» che si permette di contraddire il suo regista! Quando seppe che si era fatto questa fama, Pacino sognò di urlare la verità ai suoi colleghi nel cimitero di Hollywood.
Sonny Boy racconta gli incontri, gli amori, i film, le occasioni mancate, le donne, gli anni da regista, le disavventure finanziarie, le mogli, i figli, ed è la storia mai banale di un uomo che ha scalato le montagne della propria esistenza lavorando incessantemente su di sé e ha vinto sul suo «mondo alcolico» e sui suoi fantasmi, ma ancora oggi si emoziona quando sale su un palcoscenico.
Bibliografia: Al Pacino (trad. Alberto Pezzotta), Sonny boy. Un’autobiografia, La nave di Teseo, ottobre 2024, 336 pag.
Il giovane Al Pacino nei panni di Michael Corleone nel film Il Padrino. (still dal film omonimo, Paramount)
Clarice Lispector e la città del sogno infranto
Letteratura ◆ Un romanzo allegorico tra smarrimento e modernità, dove parole e immagini raccontano la ricerca del proprio destino
Laura Marzi
La città assediata edito da Adelphi con la traduzione di Roberto Francavilla ed Elena Manzato è il terzo romanzo di una delle autrici più importanti del Novecento: Clarice Lispector. La scrittrice nata in Ucraina nel 1920 e trasferitasi quando era ancora una bambina in Brasile è conosciuta soprattutto per il romanzo pietra miliare della letteratura contemporanea: La passione secondo GH (Feltrinelli 2019; prima edizione, 1949), un testo in cui Lispector ricerca insistentemente il senso stesso dell’esistenza, dando prova di quello che la letteratura può fare quando diventa uno strumento per la ricerca matta e disperata della verità.
La città assediata fu composto in Svizzera, in particolare a Berna, mentre Lispector si trovava in Europa a seguito del marito, un diplomatico brasiliano che per lavoro era costretto a cambiare spesso città e continente. E lo spaesamento che dal Brasile l’autrice deve avere provato trovandosi nel cuore dell’Europa, di fronte allo spettacolo prima delle Alpi e poi dell’efficienza della città elvetica, viene reso nel romanzo attraverso un confronto onirico tra São Geraldo, il borgo in cui la protagonista della storia Lucrécia nasce, e «la città», il luogo che tutti gli abitanti del paesino sembrano desiderare, Lucrécia com-
presa, per quella fame indefinita di modernità che si rivela spesso molto meglio della modernità stessa. Il romanzo è ambientato negli anni Venti, «192…» scrive Lispector per dare un’indicazione temporale che da una parte è molto precisa e dall’altra insiste sull’indefinitezza, esattamente come tutta la storia raccontata in questo testo allegorico. La vicenda è all’apparenza molto semplice: è quella di una ragazza che vive con la madre vedova in un luogo a cui è affezionata, ma dal quale vorrebbe anche potersi emancipare, che ha diversi spasimanti e che sceglie poi di sposare fra questi colui che le può garantire una vita più agiata, nonché il trasferimento nella tanto desiderata città.
Il matrimonio tra Lucrécia e Mateus si svolge nella totale armonia: la donna serve suo marito, lo adula e ottiene in cambio da lui tutto ciò che vuole, da parte sua il marito chiede alla moglie di mangiare di più, di ingrassare un po’, esige con una certa dolcezza che lei accetti come va il mondo, quindi che lui possa avere delle altre donne, mentre lei non può desiderare altri uomini, seppur poi risulterà che per Mateus è molto più facile restare fedele alla moglie di quanto non sia per Lucrécia resistere all’amore che prova per il medico Lucas.
Va in scena la vita
Play Suisse ◆ Nella nuova miniserie, un gruppo di liceali è alle prove con l’improvvisazione teatrale
Tommaso Donati
La miniserie drammatica creata da Julien Gaspar-Oliveri, Ceux qui rougissent (La vita in scena), ci porta con uno stile documentario all’interno di un liceo durante le prove di uno spettacolo teatrale. Una palestra fredda e ostile. Un monologo tratto da Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, recitato in maniera poco ispirata. Attorno, gli altri studenti sembrano annoiarsi. Ci stiamo annoiando? È proprio con questa domanda che un supplente, interpretato dal regista stesso, si presenta e scopre un gruppo disunito. Ha solo un mese di tempo per stare con loro e inizia a sviluppare esercizi incentrati sul movimento del corpo e l’improvvisazione. L’unica cosa che conta è liberare le proprie incertezze attraverso gesti personali, con l’obiettivo di formare un gruppo di attori, che si fidino gli uni degli altri e che possano immaginare mondi nuovi. Utopie in cui ci si possa lanciare nel vuoto o accogliere un abbraccio, e in quel piccolo lasso di tempo, il supplente riesce ad accendere la creatività.
Un piccolo lasso di tempo, solo dieci minuti, è anche quello che compone ciascuna delle otto puntate: frammenti circolari e pieni di intensità, a volte senza un inizio e una fine definita.
La serie si prende però anche lo spazio per fermarsi e rimanere sospesa. Tale contrasto è una metafora del vero volto del liceale di oggi, alla ricerca di dinamismo e immediatezza, ma allo stesso tempo fragile e
D’altra parte, fornire una descrizione della trama di La città assediata è in qualche modo assurdo, visto che poi i fatti in questo romanzo non contano assolutamente nulla. Soprattutto nella prima metà, quella ambientata nel paesino di São Geraldo, a essere importanti sono le immagini, più precisamente il modo in cui le parole di Lispector si sovrappongono, si intrecciano per creare poi delle allegorie, delle suggestioni che non corrispondono affatto alla real-
tà. Almeno non a quella tangibile. Attraverso questo testo sembra che Lispector abbia cercato, più che di raccontare una storia, di tratteggiare uno stato d’animo, una condizione di vita, quella di una donna che aspetta durante la sua giovinezza il compiersi del suo destino attraverso il matrimonio e che poi si ritrova nella coppia, anche se in armonia, a vivere con un uomo che non conosce. Lucrécia ignora, infatti, che cosa significhi il fatto che Mateus sia un intermedia-
rio, che cosa faccia tutto il giorno e tutti i giorni dopo che lei lo ha aiutato a prepararsi per uscire di casa, e allo stesso tempo non è consapevole neanche di ciò che desidera lei stessa. Nei primi anni di matrimonio sicuramente gode della ricchezza di cui può usufruire, ma poi quando a seguito di un piccolo litigio propone al marito di tornare a vivere a São Geraldo e lui accetta, prevale lo smarrimento di trovarsi straniera nel luogo di appartenenza, esattamente come lo era stata in città.
Chi conosce l’opera di Lispector non si stupirà leggendo che i veri protagonisti di questo romanzo sono i cavalli, che tornano costantemente nel testo come simbolo di un’epoca, di una vitalità, di una naturalezza destinata a estinguersi: prima i cavalli che occupano le strade e che rallentano le auto che compaiono a São Geraldo e poi il cavallo come animale totem, immagine della giovinezza di Lucrécia che da ragazza è capace di scalciare come una cavalla, appunto, e poi dopo aver ceduto alla smania di modernità e ricchezza, lei stessa «è rimasta incastrata in uno degli ingranaggi del sistema perfetto».
Bibliografia
Clarice Lispector, La città assediata, Adelphi, pp. 186.
sensibile, con il desiderio di rallentare il mondo fuori. Un esterno che non viene mai mostrato, nemmeno attraverso le finestre. Rimaniamo dunque tra le mura della palestra, testimoni di una recitazione che mescola i codici della finzione e del documentario e che confonde i confini tra immaginazione e realtà, facendoci precipitare nella vertiginosa età dell’adolescenza. Il formato denso, divertente e alle volte folle, si rivela un dispositivo immediato ma ricco di profondità sia in termini di contenuti sia di forma stilistica, creando un linguaggio cinematografico raffinato e minimalista raramente utilizzato per una serie.
Informazioni
Ceux qui rougissent, miniserie prodotta da Melocoton Films (FR) e co-prodotta da Box Productions (CH), RTS e Arte France, è ora disponibile sulla piattaforma online Play Suisse.
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Un’immagine tratta dalla miniserie Ceux qui rougissent
L’immagine di copertina del romanzo in lingua originale A cidade sitiada, Editora Nova Fronteiraer, Rio de Janeiro (ottava edizione).
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Visioni intime e solitarie sul palco del Teatro Foce
In scena ◆ L’identità femminile in evoluzione con Manuela Bachmann Bernasconi e pagine di Stefano Benni per le letture di Emanuele Santoro
Giorgio Thoeni
Il pregio della rassegna Home sul palco del Teatro Foce di Lugano consiste, va ribadito, nel permettere visibilità a buona parte delle produzioni delle compagnie indipendenti della nostra regione. In quel contesto e prima della chiusura dell’anno abbiamo pertanto aggiunto un tassello al percorso creativo di Manuela Bachmann Bernasconi.
La danzatrice, coreografa e performer ha recentemente portato in scena Bucce (titolo inizialmente proposto nella sua versione inglese Husks), un debutto che a nostro avviso ha messo in rilievo il lato forse più maturo dell’artista ticinese con uno spettacolo che ha voluto rifarsi ad alcuni passaggi fra i più significativi dei suoi lavori precedenti aggiungendo nuove e interessanti ispirazioni.
È un breve coro tratto da un brano della monaca benedettina Hildegard von Bingen vissuta nel XII secolo ad accompagnare l’ingresso della danzatrice su una scena immacolata.
Come una nudità limitata da una parete bianca appoggiata sul fondo che servirà come specchio per delle riprese dall’alto dei movimenti a terra della danzatrice. Come un occhio esterno e intimo, ma al di sopra di tutto. Sulle prime battute l’artista attraversa il palco da un lato all’altro con una corsa, come diretta verso una fonte di
memoria corporea: uno dei temi percorsi con sicurezza e lievità nella riuscita performance. È ancora la musica a dare una maggiore dimensione evocativa ai movimenti, sono composizioni di Cédric Blaser, atmosfere fascinose che ricordano sonorità dilatate che sfiorano il chitarrismo sperimentale di Fripp, Frisell o Scofield… uno spazio di sonorità avvolgenti, immaginifiche lungo una rapsodia di ritmi rarefatti. Protetta da un simile contesto immateriale, la danzatrice accompagna il suo universo spiegando con voce fuori campo alcuni episodi della sua dimensione creativa unita a sequenze dove è il corpo a raccontarsi anche
se non manca il riferimento alle difficoltà finanziarie con cui gli artisti si trovano a operare in una regione in cui sembrano essere stati dimenticati dall’istituzione, un adagio a cui siamo ormai purtroppo abituati.
Accenno a parte, la matrice del racconto che in un primo tempo fa da cornice a citazioni da spettacoli pregressi, passa poi all’intima relazione con la femminilità, la gravidanza, la maternità. Un excursus ben evidenziato in Mmitari del 2022, ma fra i temi che spesso accompagnano la sua ricerca coreografica sull’identità femminile in continua evoluzione. Come il corpo in scena. E quel camiciotto largo, mosso dalla sinuosità del busto
in una danza principalmente a terra, alla conquista di una dimensione supplementare, un elemento autonomo che si vuole sfilare dalle braccia verso pudiche nudità.
Per la realizzazione della performance, l’artista si è circondata dei suoi collaboratori più fedeli. Oltre al già citato Blaser per le musiche, ritroviamo l’approccio visionario ed eclettico di Felix Bachmann Quadros e il disegno delle luci curato da Marzio Picchetti, una presenza ormai consolidata anche in ambito regionale.
Solitudine come finzione con Emanuele Santoro
Un’altra presenza nel cartellone di Home è quella di Emanuele Santoro. L’attore e regista ha da tempo trovato nei recital la sua dimensione ideale accanto a un leggio con l’accompagnamento musicale dal vivo. Anche questo è in parte il risultato di una precarietà cui il settore sembra quasi essersi arreso, senza però abdicare al vuoto pneumatico regalando qualità e inventiva in attesa di veri e propri allestimenti e, ci auguriamo, buone notizie anche sul fronte dei sussidi.
Per il momento dunque la lettura teatrale è la dimensione di Santoro che crea, con maestria, con una
comfort-zone che regala pagine di autori scelti dal panorama letterario e teatrale. Un bignami stilistico fra le pagine di Boccaccio, Cervantes, Gogol, Pirandello, Lötscher, Casula con l’economista Cipolla. Una sorta di solitudine dei giusti per un elenco che l’attore ha nutrito ricalcando il motto secondo cui ogni solitudine contiene tutte le solitudini passate. Proprio come ha scritto Stefano Benni nel suo Signor Eremio, un racconto pubblicato sulle pagine di «Repubblica» nel 2020. Non è dunque un caso se il brillante autore bolognese si inserisce perfettamente nella rassegna dei recital – intitolata Comicità della solitudine – per mezzo di Santoro che ha presentato al Teatro Foce tre letture tratte dalla raccolta La grammatica di Dio-Storie di solitudine e allegria (Feltrinelli, 2007) già proposte cinque anni fa nella vecchia sede del Cortile di Viganello. Nell’ordine, le letture di Mai più solo, Boomerang e L’Orlando impellicciato offrono gustose istantanee, crudelmente fedeli, di alcune delle finzioni contemporanee. Un respiro descrittivo graffiante, ancora sulla breccia per la loro attualità e sotto gli occhi di tutti: dai telefoni cellulari come status per apparire meno soli, alla soffocante presenza di un cane fedele, fin troppo fedele. Fino a una parodia del ben noto poema cavalleresco.
Truffes Schutzengeli ispirate a Dubai.
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Un momento dello spettacolo di Manuela Bachmann Bernasconi.
L’elogio del racconto come finzione
Letteratura ◆ Nella raccolta La Poiana, Peter Bichsel sovverte il concetto di realtà letteraria, sfidando le convenzioni narrative con
Manuela Mazzi
«Poi, dopo la lunga pausa diceva: “Gli uomini conoscono le lettere dell’alfabeto, ma hanno abusato della scrittura. Se ne servono solo come dimostrazione e prova, e ciò che è firmato deve essere tutta la verità […].»
Sebbene la bandella de La Poiana di Peter Bichsel – recentemente pubblicata in italiano da Edizioni Casagrande – la descriva come una raccolta di otto racconti sull’arte della narrazione, a ben vedere essa si rivela anche una riflessione critica sul concetto stesso di «verità narrativa». In un’epoca in cui la letteratura sembra essere dominata dal fascino per le «storie vere» – basti pensare che nella dozzina del Premio Strega 2023, tra i candidati, solo uno poteva essere considerato una vera e propria opera d’invenzione, mentre quasi tutti erano o comunque si proponevano come «storie vere» – Bichsel non solo sovverte il paradigma, ma ne denuncia i limiti con sorprendente lungimiranza, considerando che la versione originale di quest’opera fu pubblicata in tedesco la prima volta nel 1985, con il titolo Der Busant
In questi otto racconti, infatti, emerge chiaramente l’uso della correctio, figura retorica in cui, nel nostro caso, il narratore fa affermazioni che corregge immediatamente dopo fornendo delle varianti narrative: «Un giorno lo hanno lasciato andare, Ueli era uno che si lascia andare. Comunque Ueli era uno che rimane, infatti era sempre lì. Arrivato, mai». Tale espediente rivela e, allo stesso tempo, mina, le basi del patto con il lettore, generando un effetto metanarrativo, dato dall’emergere del processo creativo che manifesta l’artificialità della narrazione stessa: «Allora, un tipo sale su un treno. Si chiama Müller, un nome semplice [...]. Già che ci siamo, diciamo pure che è un assicuratore:
Nina Buffi
Vòltati. Quasi un romanzo Istituto Editoriale Ticinese
Voltarsi di fronte al dolore significa spesso affrontare il nodo più intimo delle proprie fragilità. In Vòltati. Quasi un romanzo, la bellinzonese Nina Buffi racconta la propria battaglia interiore di fronte alla perdita improvvisa del padre, Giuseppe Buffi, figura di spicco della politica ticinese, ricordato per il suo contributo all’istruzione e alla cultura, tra cui la creazione dell’Università della Svizzera italiana.
La scrittura diventa quindi il filo con cui l’autrice ricuce lo strappo lasciato da un lutto vissuto nel silenzio e nella distanza emotiva.
La scena iniziale, una ragazzina immobile seduta su un muretto mentre un’ambulanza si allontana, cattura l’essenza del libro: il desiderio di evitare la sofferenza e la forza che si cela nel suo rifiuto. Solo da adulta l’autrice riconosce che il coraggio vero sta nel voltarsi e affrontare ciò che si è sempre evitato. Pubblicato dall’Istituto Editoriale Ticinese, questo «quasi romanzo» unisce autobiografia e invenzione per dare voce non solo al dolore privato e alla relazione padre-figlia, ma anche al peso di un’eredità pubblica. Con una prosa essenziale e intensa, Buffi ci guida in una riflessione profonda sulla memoria e sull’accettazione.
quindi un uomo con borsa portadocumenti [...] Müller è sergente Maggiore. E Müller ha delle pratiche sulle ginocchia».
Questo continuo ritrattare e riformulare non solo enfatizza la natura finzionale delle storie, ma porta in primo piano la formazione delle idee, il flusso di pensiero dell’autore mentre costruisce la narrazione. Quasi come se volesse ricordare al lettore che dietro ogni «verità» letteraria esiste sempre una macchina narrativa, un esercizio di finzione che, paradossalmente, diventa più vero proprio quando smette di pretendere di esserlo.
Che il lettore non si lasci però intimidire da queste nostre dietrologie letterarie. Peter Bichsel è uno degli autori più significativi della letteratura svizzera contemporanea e i suoi racconti, al di là di quanto a posteriori se ne possa dire, sono godibilissimi. Nondimeno, la sua scrittura si rivolge forse a un pubblico più ristretto, a chi è interessato alla letteratura sperimentale o alle sfumature delle interazioni umane, piuttosto che a coloro che cercano storie più coinvolgenti, dato che l’autore di La Poiana sembra volutamente sottrarre tensione emotiva alla narrazione. A differenza di molti scrittori che offrono una trama centrale o un conflitto chiaro tra i personaggi, nei racconti di Bichsel gli eventi sembrano passare inosservati, per quanto fondamentali possano essere per l’evoluzione del protagonista o del contesto. In un certo senso, le sue storie si concentrano più su chi guarda e vive, che sugli eventi che non accadono. Così si evinceva già dai racconti brevi della meravigliosa raccolta intitolata Il lattaio – In fondo alla signora Blum piacerebbe conoscere il lattaio, pubblicata in italiano da Giampiero Casagrande Editore nel 1989.
Eppure, anche se non è di imme-
Claudio Righenzi Effetto cuore Morellini editore
In bilico tra Parigi e Lugano, la protagonista, Emma, in attesa dell’esito di un incidente, si trova a ripercorrere il filo dei suoi ricordi, sospesi tra l’amore perduto per Christian, chef in cerca di sé, e l’amica Chloe, sempre pronta a sostenere entrambi. Sul banco degli imputati: le passate scelte di vita. È questa la trama di Effetto cuore, romanzo d’esordio di Claudio Righenzi (di Lugano) che, dopo quasi 40 anni di carriera nel settore bancario, ha smesso di far di conto per prestare la penna alla narrativa, assecondando così anche la passione per la lettura che nutre sin da quand’era ragazzo. Il romanzo –uscito a fine novembre per Morellini Editore (Milano) – celebra i sentimenti esplorando le cicatrici dell’anima e i tentativi di ricucirle. L’autore devolverà i proventi alla Croce Rossa Svizzera, Sezione del Sottoceneri.
L’immagine di copertina della prima edizione de La Poiana, Der Busant 1985. (Suhrkamp Verlag)
diato coinvolgimento, noi troviamo i suoi racconti a volte commoventi, altre perturbanti, altre ancora disorientanti, e molto divertenti, e poi non si può non apprezzarne la voce geniale.
Ma veniamo alla Poiana che inizia con Maghelona, figlia del re, e Pietro, conte di Provenza, personaggi di un’antica leggenda occitana che, nella riscrittura di Bichsel diventano Maghelona, l’ubriaca, e Ueli, il barbone di Soletta, località in cui l’autore ambienta l’operetta che dà il titolo anche alla raccolta intera.
Se prendiamo questo testo quale chiave di lettura per comprendere e analizzare il resto del contenuto, co-
Giancarlo Dionisio La porta in faccia Salvioni Edizioni
Giancarlo Dionisio esplora le ombre dell’ambizione calcistica nel suo romanzo d’esordio.
C’è un sogno che, per quanto ambito, si rivela spesso ingannevole. La porta in faccia di Giancarlo Dionisio, da anni collaboratore di «Azione», racconta il cammino di Giorgio, giovane promessa del calcio italiano, dal piccolo paese siciliano fino ai palcoscenici della serie A, vale a dire dalla squadra dell’Oratorio alla Juventus. Un’ascesa che sembra una favola, sebbene ben presto il protagonista si scontri con la realtà spietata del mondo calcistico: fama, denaro e l’illusione di una vita perfetta che nasconde invece un lungo calvario generato dal caso della vita.
Attraverso un percorso che lo porta tra le città di Lucerna, Torino e Roma, passando anche per l’Engadina, Giorgio perde non solo l’amore, ma anche la sua identità, schiacciato dal destino, oltre che dai riflettori e dalla pressione di un ambiente che esalta l’apparenza e annienta le verità più intime. Dionisio tratteggia, così, la storia di un giovane che ha tutto, ma non sa più cosa fare di sé, dando corpo a un romanzo che mette in luce la fragilità dei sogni e l’inganno del successo dissolto in un presente che non lascia scampo.
me detto, vien da sé il confronto tra «verità storica» e invenzione letteraria. Certo, in Carriera, l’autore mostra la creazione del personaggio a partire dal suo nome, «un nome (ndr. Salomon Adalbert Meier), brutto come ogni invenzione [...] Adalbert è anche intelligente, si sa, ma non basta per una biografia». A noi, però, balza agli occhi piuttosto l’incertezza con cui Bichsel cerca di caratterizzarlo, tanto che qua e là si adira persino con il proprio personaggio che va per i fatti suoi, decidendo di indossare, per esempio, un cappello che «non rientra nei miei piani, e non tollero che ti agghindi con questo e quello senza il
Gerry Mottis Lo sconosciuto Dadò editore
Un viaggio nell’ignoto, dove ogni racconto è una porta su mondi paralleli e misteriosi: Lo sconosciuto di Gerry Mottis, pubblicato da Armando Dadò Editore, Locarno, è una raccolta che affonda le radici in ventiquattro anni di scrittura. Con il sottotitolo Racconti premiati, segnalati, commissionati, maledetti, il libro raccoglie storie che spaziano dal thriller psicologico alle leggende locali, passando per universi distopici. Mottis, esplorando le inquietudini dell’animo umano, in questa raccolta di racconti dà vita a trame piene di suspense e colpi di scena. Grazie a una penna versatile e coinvolgente, il lettore viene immerso in un’esperienza narrativa ricca e variegata, dove l’inaspettato regna sovrano. Un viaggio narrativo, composto da tecniche e stili diversi, nel quale l’alta tensione fa girare pagina dopo pagina.
mio esplicito permesso scritto: perché non voglio farlo vivere prima di sapere cosa ne sarà di lui. Non gli do un cappello prima di sapere che tipo di locali frequenterà». Da qui, è una goduria assistere alle varianti di quel che capita in Viaggiare in treno (forse il racconto che ci è piaciuto di più, se proprio dovessimo sceglierne uno; cosa che preferiamo non fare). In questo racconto, infatti, viene creata la relazione tra un narratore protagonista e un coprotagonista di cui lo stesso cantastorie non conosce nulla: «e Müller sarebbe sorpreso se sapesse le cose che gli capiteranno oggi, e non avrà idea che sono io a inventarle per lui». Narratore che,
Paolo Santana Finché mi ricordo Flamingo Edizioni
Cosa succede davvero dietro le quinte del mondo dello spettacolo? Finché mi ricordo, l’autobiografia ironica e frizzante di Paolo Santana, trascina il lettore in un vortice di storie incredibili, narrate con uno stile brillante. Conduttore televisivo, radiofonico e PR, Santana ha avuto l’opportunità di conoscere star del calibro di Mia Martini, Loredana Bertè ed Eros Ramazzotti, e di vivere esperienze uniche nel jet set italiano. Tra moda, musica e incontri memorabili, il libro svela dettagli nascosti e retroscena inaspettati. Con la sua penna vivace e la battuta pronta, Santana imbastisce una narrazione scorrevole che sa intrattenere e incuriosire.
Pubblicato da Flamingo Edizioni, i ricavati del libro verranno devoluti all’associazione Helga For Africa, che opera a favore dei bambini del Mali e Burkina Faso, rendendo questa autobiografia non solo un tuffo nel glamour, ma anche un gesto di solidarietà. Come sottolineato dall’editore, Orlando Del Don, è «una lettura scorrevole, che accompagna il lettore con indiscrezioni su un mondo che crediamo di conoscere ma di cui non sappiamo poi molto», perfetta dunque per chi desidera sbirciare nel dietro le quinte di una vita fuori dall’ordinario.
pura
racconti notevoli
pur rivolgendosi di tanto in tanto anche ai lettori, gioca dunque con i suoi stessi personaggi e loro con lui: «Così fu Django che con un bercio mi tirò dentro questa storia», come leggiamo in Aspettare a Baden-Baden. Ma a Bichsel non basta. Venendo il narratore trascinato nella storia, egli un poco si ribella, ma soprattutto cambia natura, trasformandosi da persona reale a personaggio: «Scrivendo io stesso queste righe, non ho ragione di rivelare della mia persona più di quanto gli altri già non sappiano. Per la prima volta mi trovavo da qualche parte senza passato, quindi non volevo nemmeno un’origine». La scrittura diventa così un «gioco» che riflette la confusione dell’esistenza, in una tensione tra il tentativo di comprendere la vita e il suo fallimento.
Ed è proprio la figura del narratore, spesso interno, a volte un po’ dentro e un po’ fuori, a volte fuori, ma non del tutto, che riesce a dar vita quasi a una serie di narrazioni dell’assurdo, stravolgendo la tradizione narratologica, con persistenti cambi di registro, ma soprattutto mettendo continuamente in crisi il principio di verosimiglianza. Seguono poi racconti ancora più metaletterari, se vogliamo stare sull’arte della narrazione: il tema del dialogo emerge in Queste frasi, (sebbene a noi interessi di più notare come in questo racconto si intrometta un’immagine di una donna che disturba il narratore nel processo creativo); il tema della costruzione, della ricerca e dell’attenzione ai dettagli, compresa la scelta dei tempi verbali, si mostra in Grammatica di una partenza, (benché ci affascini il discorso sullo sgretolarsi della lingua: «I processi si frantumano a descriverli», e di nuovo il confronto tra realtà e invenzione narrativa: «E quello che diceva, e lo sapeva, era un gesto che generava il presente ma non
corrispondeva alla verità. Perché la lingua, l’uso letterario, per la formula “viaggiare” richiede la formula “valigia”».); e infine si torna all’invenzione del personaggio in Una dichiarazione per l’apprendista di Prey: «Tu e io, caro Ingol, siamo gli unici a sapere che ho inventato questo nome per te» (e di nuovo però spicca la dichiarazione più significativa circa la pretesa di correttezza delle invenzioni: «Ora si ritrovano nelle bettole e di tutto ciò che dicono hanno le prove scritte in tasca – come se la verità si potesse raccontare. Tutt’al più, se esiste, la si potrebbe dire. Da quando non ci sono più mezze verità, la gente non è più libera. Oggi la libertà di parola vale ovunque solo per la verità»).
Bichsel ci invita così a riflettere sul significato profondo del raccontare storie, mostrando che anche nel più elaborato dei racconti inventati, il lettore trova spesso una verità più autentica di quella pretesa dalle narrazioni biografiche. Così scrisse nel saggio, il cui titolo la dice già tutta, La storia deve avvenire sulla carta (1991): «Non posso mettere su carta la realtà, ma solo quello che c’è da dire sulla realtà. […] Non descrivo il tavolo, scrivo frasi, su un tavolo. “Cosa dice la gente di un tavolo” e non “Cos’è un tavolo”».
E dunque, La Poiana non è solo un tributo all’arte del racconto, ma –anticipando i tempi di quarant’anni –anche una sottile critica all’ossessione contemporanea per la realtà/verità in letteratura.
Forse non per tutti, ma certamente per chi ama le sfide alle convenzioni narrative e per chi sa come apprezzare una narrazione che non dà risposte facili.
Bibliografia
Peter Bichsel, La Poiana, Edizioni Casagrande, 2024.
Piante di parole
Poesia ◆ Due nuove pubblicazioni a firma di Alberto Nessi e Fabio Contestabile
Ogni poeta ha il proprio modo di esplorare il mondo e di trarre ispirazione dalle sue sfumature, ma ciò che accomuna i nuovi lavori di Alberto Nessi e Fabio Contestabile, volendo trovarne uno, è il filo sottile che intreccia natura e umanità. In entrambi i casi, la poesia diventa un veicolo per sondare il rapporto tra il sé e il paesaggio, che sia esso il microcosmo vegetale o il vasto mondo delle emozioni.
Alberto Nessi, con Il mondo salvato dalle piante (Interlinea, 2024), invita il lettore a osservare con occhi nuovi l’universo vegetale, rendendolo simbolo di resistenza e bellezza, la sola che «salverà il mondo». I suoi versi catturano la delicatezza della natura, dipingendo allo stesso tempo un ritratto di quanto muove dentro di noi. Per Nessi, la poesia è un linguaggio capace di cogliere la seconda bellezza, quella nascosta, che cresce in silenzio e non chiede attenzione, ma che condivide con le piante il potere di trasformare il mondo e di togliere il velo sulla natura delle persone. È una riflessione su come la fragilità del quotidiano possa
Fiammiferi e cowboy
Editoria ◆ Un viaggio tra ricordi d’infanzia e curiosità letterarie nel nuovo libro di Matteo Terzaghi
Sebastiano Caroni
C’è un legame molto stretto e affascinante fra l’infanzia e la conoscenza, fatto di curiosità, di un instancabile stupore che si rinnova giornalmente, di un mondo ancora immerso in un’atmosfera magica in cui immaginazione e realtà si intrecciano. Molti di noi da bambini abbiamo avuto per le mani il Manuale delle giovani marmotte, che per molti versi rimanda all’idea dell’infanzia come età della sperimentazione. Il manuale, lo dice la definizione, è un libro che espone in modo esauriente una miriade di informazioni attorno a un tema. Un manuale di racconti in cui riflessioni, aneddoti pittoreschi e ricordi biografici sono intrecciati con originalità
Nel caso de il Manuale delle giovani marmotte, non è tanto il tema a definirne il carattere, quanto i suoi destinatari (un’immaginaria organizzazione scout), ma la sostanza cambia poco: per chi lo sa usare, è una preziosa miniera di informazioni per conoscere e sperimentare il mondo. Se un libro racchiude un mondo dentro le sue pagine, averlo per le mani, sfogliarlo, o magari anche solo desiderarlo, rappresentano già una promessa di scoprire dei segreti, delle chiavi che introducono nel mondo del sapere. Come dire: se il manuale esiste, allora il mondo è a portata di mano. La loro vocazione conoscitiva e specialistica ci porta poi a un’altra osservazione: di manuali ne esistono di ogni tipo e per ogni esigenza. E nel libro di Matteo Terzaghi, Il manuale del fosforo e dei fiammiferi (Quodlibet, 2024), ne incontriamo parecchi. L’autore ne è affascinato, ma il suo libro non è un manuale, né tanto meno
un trattato sui manuali, quanto piuttosto una raccolta di brevi storie che alla leggerezza dello stile sanno unire l’estrema originalità dei contenuti. E allora i manuali diventano degli specchi che riflettono luce, e ci conducono altrove: spesso è il luogo della memoria che si ravviva, ma anche un ritorno all’infanzia, un’età in cui, confessa l’autore, «raccogliamo e accumuliamo una gran quantità di domande. Sono come fiammiferi che si aggiungono ad altri fiammiferi e scatole di fiammiferi che si aggiungono ad altre scatole di fiammiferi. Ogni nuovo incontro, ogni nuova parola, ogni nuova sfumatura delle emozioni e dei sentimenti, ogni premonizione, ogni nuovo scherzo della percezione o della memoria schiude nuovi scenari e porta con sé un certo numero di interrogativi».
Fiammiferi, fiamme, stupore, premonizioni, sentimenti ed emozioni:
Voci dalla Leventina
essere motore di cambiamento, esattamente come la natura offre il suo contributo invisibile alla vita. Dall’altra parte, Derivare per sogni e opali – Versi 2007-2022 del compianto Fabio Contestabile (Manni, 2024), prematuramente scomparso un paio di anni fa, si presenta come una mappa emozionale, in cui il poeta ticinese esplora il dialogo tra la natura e l’esistenza umana. I suoi versi, selezionati e curati da Giovanni Fontana e Mila Contestabile, offrono una finestra sul percorso poetico tracciato da un’incessante ricerca di significato nel mondo che ci circonda. Contestabile, immerso in una natura vissuta non solo come rifugio, ma come specchio delle proprie inquietudini, cerca nel paesaggio l’equilibrio che manca alla condizione umana. La sua poesia, come quella di Nessi, si nutre di radici, ma i suoi rami si allungano verso domande universali, attraversando confini culturali e temporali.
Se Nessi indaga la prossimità con il mondo naturale, Contestabile lo fa con l’interiorità, offrendo al lettore una dimensione più esistenziale.
e una storia di ragazzini che giocando ai cowboy cercano di accendere i fiammiferi usando il tacco degli stivali, come i cowboy di Hollywood. E in mezzo a tutto questo, un vero e proprio manuale dei fiammiferi, convocato a proposito per illuminare il presente attraverso il passato e il passato attraverso il presente. Muovendosi sul confine fra l’aneddoto pittoresco, la biografia, e istruttivi riferimenti a manuali di oggi e di ieri, quello di Matteo Terzaghi è un libro curioso nel senso buono del termine, che sa essere al tempo stesso divagatorio ed estremamente raccolto. Difficile da classificare, ma in compenso molto piacevole da leggere.
Bibliografia
Matteo Terzaghi, Il manuale del fosforo e dei fiammiferi, Quodlibet, 2024.
Guida letteraria della Svizzera italiana ◆ Storia, paesaggio e memoria attraverso gli scritti degli autori che l’hanno raccontata
Non si può attraversare la Leventina senza sentirne il peso della storia. Non per forza quella delle grandi cronache, ma quella che si nasconde tra le pagine della letteratura che ne ha voluto cantare talvolta le lodi, in altri casi le fatiche spese nelle sue viscere, oppure dipingendo con le parole i paesaggi, il vento tra i castagni, i profili delle montagne, o facendo parte di storie anche antiche, il tutto rievocato nelle voci che il San Gottardo ha trasportato nei secoli. È questa atmosfera che il fascicolo Distretto di Leventina riesce a catturare, arricchendo la collana Territori di parole. Progetto, a cura dell’Osservatorio culturale del Cantone Ticino, che ha per scopo l’esplorazione del nostro cantone e del Grigioni italiano attraverso una prospettiva letteraria. Non si tratta solo di citazioni di autori celebri o frammenti di prosa, ma di un percorso che intreccia memoria e parola, dove ogni volume aggiunge un tassello a un mosaico che racconta la relazione tra territorio e cultura.
La Leventina emerge così nella sua complessità come luogo che molti oggi attraversano senza fermarsi, ma che
diventa protagonista grazie a una narrazione capace di far parlare le sue bellezze visibili e invisibili. In questo nono fascicolo, il paesaggio si arricchisce dunque di voci che restituiscono la sua essenza, con il San Gottardo come fulcro simbolico e narrativo, a rappresentare non solo un passaggio fisico ma anche un ponte tra epoche e mondi. Il progetto Territori di parole, costola esterna della Guida letteraria della
Svizzera italiana, ha costruito dunque una mappa alternativa del territorio ticinese, dove la letteratura è lo strumento per decifrare luoghi e legami. Ogni fascicolo, dai primi dedicati al Locarnese, al Mendrisiotto e alla Vallemaggia, fino a quest’ultimo sulla Leventina, è un esempio di come il paesaggio possa essere raccontato e riscoperto attraverso una narrazione che va oltre la geografia.
Anche il linguaggio visivo gioca un ruolo fondamentale. Le immagini curate dagli studenti della SUPSI, ampliano il racconto, in modo tale da creare un dialogo tra parole e fotografia che invita il lettore a una doppia immersione.
Quest’ultima tappa ticinese avvicina la collana al suo completamento (l’ultimo fascicolo, quello grigionese, uscirà nel 2025), ma il suo viaggio continuerà nel patrimonio digitale accessibile a tutti sul sito della Guida letteraria della Svizzera italiana (http://guidaletteraria.ti.ch). Un invito a riscoprire il Ticino attraverso lo sguardo dei suoi autori, ma anche a guardare i suoi paesaggi con occhi nuovi.
Arianna Stöckli
In fin della fiera
La iella secondo il professor Wiseman
La notizia: il professor Richard Wiseman, dell’Università di Hertfordshire, Gran Bretagna, sta cercando dei volontari per i suoi esperimenti sulla iella. Se vi sentite perseguitati dalla sfortuna, fatevi sotto, il professore vi sottoporrà a un corso accelerato di «deiellizzazione». Secondo la sua tesi, la iella è frutto di un atteggiamento mentale, così come la fortuna. A prima vista non sembra una tesi troppo peregrina. Chi ha affrontato esami o colloqui di assunzione sa bene che gran parte del risultato dipende dalla propria disposizione mentale. Chi si presenta con l’atteggiamento di un perdente, pensando «tanto mi bocciano» o «mi chiederanno proprio quell’unico paragrafo che non ho studiato», si scava da solo la fossa. Il professor Wiseman sostiene che questa predisposizione ha origine nell’infanzia e nella prima giovinezza. A me, quand’ero adolescente, ca-
Voti d’aria
pitava con le ragazze: «Adesso mi faccio coraggio, le chiedo di uscire. Ma pro-forma, tanto sono sicuro che mi dirà di no». Infatti. Provavo una sorta di perverso sollievo all’ennesimo diniego, mi avvoltolavo voluttuosamente nella conferma della mia sfiga e mai termine fu più appropriato pensando all’uso della esse privativa. Esiste anche la iella apparente. Mi piaceva una ragazzina: un giorno passeggiava con due amiche. Noi maschietti le seguivamo in quattro e lei, proprio lei, ha deciso che quello di troppo ero io. L’ho rivista quaranta anni dopo, era diventata una balena spiaggiata. Avrei una domanda per il nostro professore: come possiamo inquadrare la iella quando è generata non da un’aspettativa ma da un comportamento virtuoso? Faccio un esempio. Il mio giovane amico Daniele B. è un talentuoso direttore della fotografia del cinema e coltiva la virtù di detestare lo
Il rispetto, una cosa per intimi
La Treccani ha scelto la parola dell’anno: «rispetto» (6). Più un auspicio per gli anni a venire che una fotografia dell’anno passato. Nulla ci fa pensare che il rispetto, negli ultimi tempi, abbia avuto una funzione centrale nella vita sociale o nei rapporti tra individui o tra nazioni. A giudicare da come va il mondo, il rispetto non sembra tra le prime preoccupazioni dell’umanità. Ben venga dunque quella parola come augurio: perché il rispetto implica una reciprocità quasi alla pari. Se l’allievo deve rispettare il maestro, il maestro deve rispettare i suoi allievi; se il sottoposto deve rispettare il padrone, il padrone deve rispettare i suoi dipendenti; se il cittadino deve rispettare i governanti, i governanti devono rispettare i cittadini; se il collega deve rispettare il collega, vale anche il contrario; se un figlio deve rispettare il genitore, il genitore deve rispettare i figli, e così via. Chiudendo una lettera del luglio 1953,
il ventenne Giovanni Raboni, poeta ancora in erba, scriveva al poeta laureatissimo Carlo Betocchi, allora cinquantaquattrenne direttore di importanti riviste: «La prego di ricordarmi, insieme alla mamma, alla Sua gentile Signora, e di credere al rispettoso affetto del Suo Giovanni Raboni». Il «rispettoso affetto» era reciproco? Certo, se così rispondeva Betocchi al giovane Raboni: «Caro Raboni, grazie del suo caro e affettuoso ricordo. E lavori. E mi ricordi, con mia moglie e Silvia alla sua buona mamma. Seguiti, caro Raboni, a darmi notizie del suo lavoro che Le auguro eccellente». La sola disparità visibile era nelle maiuscole di cortesia, regolari in Raboni nei confronti di Betocchi, non in Betocchi nei confronti di Raboni. Il rispetto di Raboni era nell’ascolto del maestro, di cui aveva un’ammirazione suprema e che, con altri illustri giurati, lo aveva premiato a un prestigioso con-
A video spento
spreco. Un giorno, nell’intento di lucidarsi le scarpe, ha scoperto che dal tubetto del lucido nero, opportunamente schiacciato, non usciva più niente. Ma prima di buttarlo nella raccolta differenziata, ha voluto sincerarsi che il tubetto fosse veramente esaurito. Ha accostato un occhio all’ugello di uscita e poi ha provato a schiacciare il tubetto per un’ultima volta. Aveva ragione: s’era formato un tappo di lucido nero seccato che, partito come il proiettile di una pistola, gli ha centrato l’occhio destro. Come avrebbe fatto ognuno di noi nelle medesime circostanze, il mio amico ha alzato di scatto la testa, con la nuca ha colpito l’armadietto dei medicinali che s’è staccato dal chiodo rovinandogli addosso e facendogli sbattere la faccia sul bordo del lavandino, con conseguente frattura dei denti. Ma per fortuna solo di quelli davanti. Ora il mio amico Daniele, da me opportunamente interrogato, mi ha dato
la sua parola d’onore che lui non aveva immaginato che la sua lodevole propensione alla lotta allo spreco potesse generare tali conseguenze. Peraltro concordo pienamente su un’altra tesi del professor Wiseman, là dove afferma che la fortuna aiuta chi si crede fortunato. Per ribadire la mia ferma convinzione di essere un uomo fortunato, rivedo in rete periodicamente quei bei film catastrofici di una volta. Uno in particolare, L’inferno di cristallo, con gli invitati alla festa per l’inaugurazione in cima al grattacielo, isolati dalle fiamme che stanno divorando mobili e arredi dieci o quindici piani più in basso. Ogni volta penso: «Come sono stato fortunato a non andare al ricevimento!». Direte: «Mica ti avevano invitato!» E questo cosa c’entra? Conta il risultato: io sono qua, al sicuro, a casa mia a compiangere quei poveretti in abito da sera lambiti dalle fiamme.
Una stupenda serie di film catastrofici era quella intitolata Airport. Il mio preferito è ambientato su un Boing 707, in volo inaugurale. L’imprevedibile impatto con un aereo da turismo mette fuori gioco entrambi i piloti. Così la capa delle hostess, che magari non ha neanche la patente per l’auto, deve mettersi seduta e impugnare la cloche, seguendo le istruzioni inviate da terra dalla torre di comando. È un lieto fine che mi soddisfa perché mi ricorda tutte le volte che mia moglie dalla località di montagna dove si trova in vacanza con i nipoti, mi spiega al telefono, in video chiamata, quali sono le manovre che devo fare per mettere in funzione la lavatrice, senza mai riuscirci.
Per chiudere con una citazione, ricordiamo il geniale Freak Antoni, mancato dieci anni or sono che disse: «Sono così sfigato che quando ho toccato il fondo incomincio a scavare».
corso per poesie inedite. Il rispetto di Betocchi era nel seguire, per anni, il lavoro del poeta milanese e nel dargli consigli anche severi. Il carteggio Betocchi-Raboni (voto: 6x2), a cura di Benedetta Ziglioli, è uscito di recente per Interlinea con il titolo Le cose buone e vere
Un anno prima, nel marzo 1952, il giovane Andrea Camilleri scriveva a sua madre da Roma: «Mamma carissima, ti prego anzitutto di scusarmi e di perdonarmi se ho lasciato trascorrere una settimana senza scriverti». Andrea ha 26 anni, e chiede scusa e perdono a sua madre per il ritardo con cui si fa vivo. Sono lettere (appena uscite per Sellerio, Vi scriverò ancora, a cura di Salvatore Silvano Nigro) che raccontano momento per momento la vita del futuro scrittore di Montalbano, studente fuorisede e borsista dell’Accademia Nazionale d’Arte drammatica. Cose piccole e grandi: il lavaggio della bian-
Quando il crimine si trasforma in un format
È curioso notare come, in una fase di riflusso della televisione generalista, il lievito di molte trasmissioni sia formato dai casi di cronaca nera: molti talk show sembrano smaniosi di delitti dando sempre l’impressione di essere assetati più di sensazionalismo che di giustizia. Il loro scopo è di trasformare il crimine in un format. In un’infernale spinta, in un’eterna coazione a ripetere, le trasmissioni sui delitti hanno colonizzato i palinsesti, dando vita a un lungo racconto a puntate. Serializzare il dramma significa non soltanto riproporre in continuazione un episodio di cronaca nera particolarmente doloroso, significa anche trasformare l’angoscia in un appuntamento fisso. Non è solo un problema morale, è innanzitutto un problema linguistico. La serializzazione rischia di sganciare l’omicidio dalla realtà giudiziaria per immergerlo in un universo narrativo, con le sue regole,
i suoi tempi. Come se esistessero due giustizie: quella dei tribunali, sconosciuta ai più, e quella televisiva, forte di un grande seguito. Per esempio, il delitto di Brembate di Sopra, quello di Yara Gambirasio, è stato trasformato in un evento mediale, facendo forza su alcuni espedienti narrativi. Primo: l’incertezza sul colpevole ha permesso alle varie compagnie di giro dei talk show di arrischiare le più svariate congetture. Secondo: alla base del delitto ci sarebbero in gioco sentimenti primordiali come odio, amore, impulso, sesso. In questo grande sceneggiato, il pubblico tende a confondere il messaggero con il messaggio (la televisione funziona per storie, non per concetti astratti); gli imputati devono presto imparare come rapportarsi con i media: la tv, per sua natura, si rivolge all’opinione pubblica e sa come formarla. Siccome non esistono riprese televisive neutra-
li non può nemmeno esistere una formazione imparziale dell’opinione. Lo spettacolo della sofferenza rischia di essere solo una parodia della cognizione del dolore. Non è dolore, è dolorismo, secondo l’acuta intuizione dello scrittore Alberto Savinio. Il dolorismo non possiede la disperazione, l’altezza di tono, la nobiltà di gesto, la mediazione estetica delle vere tragedie. L’ultima variante del dolorismo è quella sorta di morbosità del crimine o turismo dell’orrore che ha ormai i suoi luoghi di culto: lo chalet di Cogne, la casa di Erba, le villette di Garlasco e Perugia, l’appartamento di Novi Ligure, il garage di Avetrana. Ma anche i suoi luoghi virtuali, le sue vetrine televisive, con tanto di plastici e di ricostruzioni minuziose della scena del crimine. Lo chiamano anche escursionismo macabro, voyerismo noir, turismo del diavolo. Ovviamente è un turismo esecrabile, come
cheria, gli umori quotidiani, i lievi malanni, il freddo, l’invio di poesie alle riviste, la preoccupazione di trovare una stanza a poco prezzo, la ricerca di una trattoria alla portata delle sue misere tasche, il primo approccio a Cinecittà, il deludente esordio come assistente alla regia, gli incontri con Gassman, Genet, Sartre. Sono 500 pagine di vita vissuta e di fatica per trovare un lavoro (6-). E il rispetto per i genitori è devozione, deferenza quasi, ansia continua: «Sono veramente preoccupato dal vostro silenzio», «da molto tempo non ho vostre notizie, e la cosa mi preoccupa davvero», «vi prego di perdonarmi se non ho avuto il tempo di scrivervi prima». Basta la parvenza di un malinteso, per scrivere alla madre: «I casi sono due, o hai capito male tu o mi sono espresso male io. Se la seconda ipotesi è vera, ti prego di volermi scusare: non avevo la più lontana intenzione di mostrarmi scortese. L’incidente è chiuso».
Usavano parole, frasi, una sintassi per esprimere timori, scuse, sentimenti di riconoscenza. Oggi basta un emoticon per dire cose che Camilleri diceva in una lettera di cinque pagine. Purtroppo non esiste l’emoticon giusto che mi permetterebbe di esprimere al meglio il mio parere su Cristiano Ronaldo, il numero 7 più celebrato della storia del calcio, che ha comperato un jet da 70 milioni di euro per poter volare ovunque evitando il disagio degli scali. Non c’è l’emoticon adatto al campione più pagato del mondo che esibisce il suo yacht milionario e il Rolex carico di zaffiri, il bullo straricco che tiene in garage venti auto di lusso (Bugatti, Rolls-Royce, Ferrari eccetera) per un valore totale di 30 milioni di euro. Disprezzo per il mondo? Per le tante vite che faticano a sbarcare il lunario? E il rispetto? Solo per pochi intimi e per sé stesso (voto – 7). Buon Natale.
lo è l’insistenza dei molti programmi televisivi che oscenamente cavalcano, senza vergogna e senza misericordia, ogni dettaglio della triste storia. In tutte le descrizioni dell’horror show, si difendono i diretti interessati, si tende a sottolineare con forza la distanza che esisterebbe ancora fra scena del delitto e finzione, tra fatti concreti e rappresentazione mediatica, fra realtà e televisione. Ma è davvero così?
Da cinquant'anni, gran parte della nostra vita sociale dipende dalla televisione, anche se oggi essa è il mezzo preferito solo da chi è meno attrezzato culturalmente; per gli altri, c’è Internet. Un tempo era facile distinguere realtà e rappresentazione, ma ormai i media sono i nostri nuovi ambienti di socializzazione, «luoghi» che frequentiamo ogni giorno, dove impariamo a comportarci, ripetere frasi ascoltate e imitare modelli di comportamento. Se una volta, oltre alla famiglia, esi-
stevano alcune istituzioni che servivano come palestra formativa (la scuola, l’oratorio, il circolo, il cineclub, eccetera), da parecchi anni la televisione si è mangiata questi «luoghi della memoria condivisa» e ha cominciato a sbriciolare il confine con la realtà. Si chiama esperienza mediale, viva e complessa: non solo cognitiva, ma anche emotiva, pratica, relazionale. Se la realtà è percepita soprattutto attraverso la televisione, alla fine vale anche il contrario: la realtà tenderà a organizzarsi attraverso format, regole televisive. L’esperienza del reale viene sempre più sottoposta a un processo di elaborazione, messo in atto da realtà virtuali, che finisce per mutare il nostro modo di percepire le cose. Il problema, se mai, è che questa grande rivoluzione culturale è nelle mani di personaggi che assomigliano sempre più a una compagnia di giro che ha trasformato il dolore in spettacolo.
di Bruno Gambarotta
di Paolo Di Stefano
di Aldo Grasso
GUSTO
Aperitivo
Per un gustoso anno nuovo!
L’aperitivo comprende tante cose: brindare e chiacchierare con gli amici e, ovviamente, sgranocchiare
Grissini alle olive
Pasta sfoglia, parmigiano e olive nere sono gli ingredienti di questi grissini alle olive cotti in forno. Ottimi come finger food o per l’aperitivo.
Alla ricetta
Alberello da aperitivo con formaggio
Un’idea originale per l’aperitivo che consiste in un albero formato di cubetti di formaggio infilzati su stuzzicadenti infilzati in una sfera di polistirolo.
Alla ricetta
Ricetta
Stuzzichini di pasta sfoglia con semi
Aperitivo per ca. 35 pezzi
uovo
pasta sfoglia rettangolare già
spianata da 320 g
ca. 20 g di semi di girasole
ca. 20 g di semi di zucca
ca. 2 cucchiai di semi di papavero
ca. 2 cucchiai si semi di sesamo
ca. 1 cucchiaino di miscela di spezie fleur de sel
con degli spessori stendipasta, taglia la pasta a rombi lunghi ca. 5 cm (quadrati allineati di sbieco) direttamente sulla carta da forno.
2. Trascina la carta da forno con la pasta su una teglia. Spennella la pasta con l’uovo. Cospargi i singoli rombi con una o più varietà di semi e con le spezie e il sale. Cuoci al centro
Rotolini di prosciutto di Parma con mela e formaggio
Questi involtini di prosciutto ripieni di fettine di mela, formaggio, noci e rucola sono pronti in un attimo e sono un goloso stuzzichino per l’aperitivo.
Alla ricetta
TEMPO LIBERO
Il monastero della Valle di Susa La Sacra di San Michele, abbazia piemontese che ispirò Umberto Eco, da secoli affascina i visitatori con la sua maestosa architettura
Pagine 34-35
Una succulenta spalla di vitello Aromatizzata con pancetta e prugne secche, si trasforma in un delizioso brasato, ideale da servire con patate o verdure
Pagina 37
Sparking! Zero riporta Dragon Ball sul ring Con oltre 180 personaggi e scontri spettacolari, il sequel offre un’esperienza immersiva che richiede però pazienza ai nuovi giocatori
Pagina 39
Un Natale di giochi per sentirsi pienamente vivi
Colpo critico speciale ◆ Dalla cultura amazzonica al Cenone, il valore rituale e sociale del divertimento è anche un ponte intergenerazionale
Gli Achuar dell’Amazzonia hanno un modo particolare di giocare a calcio. Tutti corrono dietro alla palla, compreso il portiere, e non c’è un numero fisso di partecipanti. È una cerimonia condivisa, spiega l’antropologo francese Philippe Descola, e il fatto di segnare un gol è soprattutto un momento di bellezza.
Nel volume Lo sport è un gioco? (Raffaello Cortina, 2024), Descola precisa che in ogni attività ludica si tratta di «collaborare a un’azione comune, di mettere in atto un processo che va oltre la volontà individuale di tutti i partecipanti». Questo vale anche per i giochi da tavolo. Quando mi siedo e apro una scatola sono consapevole di essere fra due mondi: le regole sono l’atto rituale che consente di essere qui e altrove nello stesso tempo. Giocare significa condividere un’esperienza che si presenta come scoperta di sé e degli altri.
Già nel 1867 nelle Confessioni di un Italiano Ippolito Nievo racconta che nelle case si giocava a tombola, a sette e mezzo e al mercante in fiera. Oggi si può scegliere fra una marea di giochi più moderni. Non è sempre facile proporli: a volte le persone non ascoltano le regole, a volte si rivelano incapaci di partecipare all’«azione comune» di cui parla Descola (forse sono i danni collaterali di un’epoca assorbita dai social network). Ma per fortuna in ognuno di noi c’è un’attitudine ludica radicata nel profondo. Infatti, secondo il filosofo Eugen Fink, «il gioco appartiene essenzialmente alla costituzione d’essere dell’esistenza umana, è un fenomeno esistenziale fondamentale» (Oasi del gioco, Raffaello Cortina, 2008).
A Natale la letizia del gioco assume anche un valore antropologico, in una festa che per i pagani segnava il ritorno della luce nel buio dell’inverno. Fin dall’antichità esiste il mito di un fanciullo divino che gioca con ciò che diventerà il mondo (celebre la raffigurazione del giovane Zeus che si trastulla con un globo nelle Argonautiche di Apollonio Rodio). La Bibbia dice che la Sapienza esisteva prima di tutte le cose e «giocava» ai piedi di Dio (cfr. Proverbi 8). La Sapienza, cioè il Verbo di Dio, per i cristiani è Gesù che a Natale viene nel mondo come un neonato. C’è una saggezza antica, nei bambini, riconosciuta da ogni cultura: nella gratuità del gioco possiamo ritrovare almeno in parte questa purezza di sguardo. Nel loro Giocare è una cosa seria (Interlinea, 2024) Marco Scardigli e Maurizio Stangalino ci ricordano che «i razzismi e i fondamentalismi partono tutti da una visione manichea del mondo; giocare ovviamente non è la soluzione e la panacea di tutti i problemi, ma è un piccolo passo nella di-
rezione giusta. Giocando ci si costruisce una forma mentis elastica e duttile che è l’esatto contrario di questi comportamenti rigidi».
Come entrare nel mondo dei giochi da tavolo? Se abitate nella Svizzera italiana potete passare ogni venerdì sera alle 20.30 allo Studio Foce di Lugano, dove i membri dell’associazione Giochintavola (www.giochintavola. ch) mettono a disposizione gratuitamente i loro giochi e la loro competenza. A Natale c’è un afflusso particolare perché, spiega il presidente Paolo Baronio, «le persone hanno voglia di scoprire novità da proporre ad amici e famigliari».
Baronio stesso ricorda un Natale in cui, insieme ai suoi sei nipoti, ha intavolato una partita a Cheese Thief (Dongxu Li, Jolly Thinkers, 2020), un gioco rapido in cui i partecipanti sono topolini e uno di loro ruba un pezzo di formaggio. «Una discussione lunghissima con accuse e controaccuse che resterà nella memoria dei miei nipoti e anche nella mia. Un gioco che con un’idea semplice crea tensioni e colpi di scena, specialmente quando il topolino che ruba il formaggio si fa sorprendere dagli altri nel cuore della notte…».
Un modo per decidere che cosa intavolare è il canale Recensioni Minute su YouTube. I vari titoli vengono spiegati in maniera rapida ed efficace da Matteo Boca, autore fra l’altro con P. S. Martensen di 21 Giochi Minuti (GateOnGames, 2022), una raccolta di giochi che esplorano varie meccaniche (da 1 a 12 partecipanti). Ogni anno, dopo il pranzo di Natale, a casa di Matteo Boca si crea una forte aspettativa. «Devo tirare fuori dal cilindro una proposta che sappia accontentare due nonni (non giocatori), quattro adulti di cui tre giocatori occasionali e un invasato (che sarei io), due nipoti in età di scuola elementare e un cinquenne. L’anno scorso abbiamo giocato a Concept Kids (Éric Azagury, Repos Production, 2018). Sul tavolo si piazza un tabellone pieno di icone con le caratteristiche di vari animali; toccherà ai bambini farli indovinare agli adulti scegliendo fra varie alternative (lento/veloce, grande/piccolo, eccetera). Gli animali appaiono trasfigurati dallo sguardo infantile. Quale bestia è carnivora, vive sotto terra, è buona, lenta, di colore grigio-marrone? È un furetto, immaginato da un bimbo di quattro anni
che non era mai incappato in questa creatura e che, a modo suo, ha trasmesso la sua meraviglia anche a noi adulti».
L’associazione ludica di riferimento, per chi parla italiano, è la Tana dei Goblin (www.goblins.net), che conta più di quattromila tesserati e più di cinquanta società affiliate. Il caporedattore del sito è Marco Fregoso, uno dei maggiori esperti in Italia. In quanto amante dei «gioconi», Fregoso ha sempre la tentazione di proporre a Natale un peso massiccio tipo Twilight Imperium, cominciando «un’ora secca di spiegazioni davanti a un pubblico assonnato dallo sguardo vitreo e annunciando che il gioco durerà minimo quattro ore, tanto un po’ di caffè tirerà su il morale e se qualcuno non capisce lo aiuto io…». Nella realtà, spiega Fregoso, bisogna adattare il gioco alla circostanza. Un classico party game è Time’s Up (Peter Sarrett, 1999; Asmodée, 2016). «Ricordo una partita davanti al camino, con l’albero illuminato, tra frutta secca e spumante. Le spiegazioni sono brevi e il gioco ha una struttura in crescendo: per tre round un timer scandisce quanto tempo hai per far indovinare quan-
te più parole possibili, sempre le stesse ma con mezzi sempre più limitati (una frase, poi una parola, poi solo dei gesti). Passato lo spaesamento iniziale, i parenti divisi in due squadre si sono fatti coinvolgere. Adulti, bambini, professionisti, studenti, pensionati, davanti al gioco erano tutti uguali. È andata talmente bene che l’anno successivo ho portato Twilight Imperium». E come hanno reagito? «Vorrei offrirvi un lieto fine, ma… non ha funzionato!».
Fregoso si diverte mentre gioca e anche mentre parla di giochi, così come Baronio e Boca. Questo perché il gioco è libertà di essere insieme ciò che siamo e ciò che desideriamo. Nel volume che ho menzionato poche righe fa, Scardigli e Stangalino citano una frase dello psicanalista Donald Winnicott che mi pare allo stesso tempo una conclusione e un buon augurio: «È nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità. […] Di essere pienamente vivo.» E di che cos’altro abbiamo bisogno, a Natale, se non di essere pienamente vivi?
Molti sono i giochi da tavolo in vendita alla Migros, tra questi anche Concept Kids – Animali (Generato da IA)
Andrea Fazioli
P anorami mozzafiato e antiche
Itinerario ◆ Un viaggio tra le mura millenarie del simbolo del Piemonte, ispirazione per Umberto Eco e custode delle preghiere dei
Luigi Baldelli, testo e foto
Dalla cima del monte Pinchiarano, all’imbocco della Val di Susa, domina tutta la valle un imponente edificio religioso dedicato a una figura angelica che più di tutte si oppose al diavolo. Stiamo parlando del monumento simbolo del Piemonte, la Sacra di San Michele, che si trova vicino ad Avigliana non lontano da Torino.
Sulle pietre lucide dello
Scalone dei Morti, la storia millenaria si intreccia con l’eco dei passi che ne hanno consumato i gradoni
Tutto ha inizio con un ex nobile, il conte Ugo di Montboissier, fattosi monaco alla fine del IX secolo d.C. che, volendosi redimere da un passato non proprio immacolato, affronta insieme ad altri monaci benedettini l’impresa di costruire questo monastero che in breve tempo diventerà luogo di sosta e preghiera per molti pellegrini. E così, nella Sacra di San Michele si susseguono stagioni luminose di grande civiltà religiosa sotto la guida dei monaci fino verso la fine del 1300, quando inizia la decadenza. La mala gestione del monastero porta la Casa Savoia e la Santa Sede ad affidare l’abbazia ai vescovi, ma questo non basta ad evitare il declino e poi la chiusura a metà del 1600.
Per due secoli la Sacra di San Michele rimane abbandonata a sé stessa, immersa nell’incuria e preda dei saccheggi che la conducono vicino alla totale rovina. Bisogna aspettare il 1836 per vederla iniziare a risorgere, quando viene affidata da Re Carlo
Alberto di Savoia ai padri Rosminiani, che ancora oggi la custodiscono. Nel 1994 viene dichiarata simbolo del Piemonte. Ma la sua fama non arriva solo dalla sua bellezza e dagli avvenimenti storici che l’hanno attraversata. Perché è proprio a questa abbazia che principalmente si ispira il famoso scrittore Umberto Eco per ambientare il suo best seller Il Nome della Rosa. Bisogna ricordare che Eco aveva trascorso a Torino i suoi anni universitari e che sicuramente aveva visitato la Sacra diventando poi una fonte di ispirazione per la sua location. Ma non solo, anche il frate del romanzo, Guglielmo da Baskerville, prende il nome dallo storico più antico del Sacra di San Michele, frate Guglielmo. E a guardarla da lontano, mentre ci si avvicina lungo la salita che conduce alla Sacra, le somiglianze con l’abbazia che si vede nel film o quella descritta nel romanzo, sono molte.
Così Umberto Eco la fa descrivere dal narratore del suo romanzo: «Come ci inerpicavamo per il sentiero scosceso che si snodava intorno al monte, vidi l’abbazia. Non mi stupirono di essa le mura che la cingevano da ogni lato, simili ad altre che vidi in tutto il mondo cristiano, ma la mole di quello che poi appresi essere l’Edificio […] la posizione inaccessibile era di quelle più tremende, e capace di generare timore nel viaggiatore che vi si avvicinasse a poco a poco».
E se questa solennità è già intuibile da lontano mentre domina solitaria la valle dallo sperone del monte Pinchiarano, diventa ancora più forte quando si arriva, dopo aver parcheggiato e un breve tragitto a piedi, sotto le mura, momento in cui si viene travolti dalla sua apparenza massiccia e dai suoi 26 metri d’altezza che svettano verso il cielo. Del resto è uno fra i più grandi complessi architet-
tonici e religiosi di epoca romanica in Europa.
La visita turistica o spirituale che porta fino alla chiesa, cuore della Sacra di San Michele, inizia dopo essere passati per il portale d’ingresso dove sono scolpiti dei leoni per ricordare che sorvegliano il luogo sacro. Subito dopo ecco la prima grande emozione: lo Scalone dei Morti, una scala larga e ripida scolpita nella roccia che ha per tetto le volte in pietra di grandi archi. Il nome mette un po’ di soggezione, ma c’è un motivo: lungo questa scala, nelle nicchie che si trovano alle pareti, venivano seppelliti i monaci più importanti del monastero così come i grandi benefattori dell’abbazia.
Le pietre degli scalini sono lucide e consumate dal passaggio degli uomini durante i secoli e anche durante le giornate calde trasmettono una sensazione di freddo. Incoraggia a salire gli scalini la luce che si vede in altro
e che passa attraverso un altro portale, quello dello Zodiaco. Ma prima di arrivare in cima è bello prendersi il proprio tempo, sedersi sugli scalini e guardarsi attorno nella pietra scavata a mano, oppure alzare lo sguardo verso l’alto per ammirare le volte e domandarsi in che modo più di mille anni or sono gli uomini abbiano potuto costruire tutto questo e con quanta fatica ci siano riusciti.
In cima allo scalone dei morti si attraversa il portale dello zodiaco e si tona alla luce del sole. Questo portale del XII secolo è forse l’opera più importante della Sacra di San Michele e sugli stipiti e sui capitelli sono scolpiti segni zodiacali e soggetti biblici (la cui descrizione è pure tanto decantata nel romanzo di Eco). Ma è anche da qui, subito dopo il portale che si può iniziare ad ammirare il panorama sottostante, i boschi sulle colline e la Dora Riparia, il principale fiume
leggende
che attraversa la Valle di Susa. Ed è sempre da qui che, volgendo lo sguardo verso le sontuose scale che salgono e portano all’ingresso della chiesa, gli occhi incontrano gli Archi Rampanti, altro nome che evoca fascino e mistero.
A decorare il portale dello Zodiaco, l’intaglio delle stelle e i segni biblici che svelano l’antica maestria custodita tra queste mura
Anche se sono più recenti perché realizzati ad inizio XIX secolo come opere di consolidamento, hanno un fascino e una geometria che quasi ipnotizza il visitatore. Sembra che si intreccino tra di loro, ma poi, spostandosi solo di poco, i quattro archi si stagliano nel cielo e creano una prospettiva di volte che invita a proseguire il cammino, salendo verso il portale romanico della chiesa. Prima di entrare ci si può fermare ancora e guardare il paesaggio dal piccolo terrazzo davanti all’ingresso, sedersi sulla panchina di sassi e contemplare l’ambiente che circonda l’abbazia. Guardare prima verso nord e poi verso sud e ricordarsi che la Sacra di San Michele si trova lungo la misteriosa Linea Sacra del Santo, una linea retta di duemila chilometri
che tocca i sette santuari a lui dedicati. La leggenda racconta che questa linea fu tracciata dal colpo di spada di San Michele nella sua lotta contro il diavolo per scacciarlo dal Paradiso. Coincidenza? Leggenda? Per molti è considerata una linea che tocca punti energetici e di grande spiritualità, che parte dal monastero di Skelling Michael in Irlanda e poi St. Michael’s Mount in Gran Bretagna, Mont Saint Michel in Francia, la Sacra qui in Piemonte, San Michele in Puglia, il monastero di San Michele in Grecia per finire con il monastero di Monte Carmelo in Israele. Passiamo sotto al portale romanico ed entriamo nella chiesa. La luce arancione filtra dalle grandi finestre dietro l’altare dando una dominante d’oro a tutto l’ambiente. Un susseguirsi di stili richiama i vari interventi fatti per la sua costruzione dal 1160 al 1230 circa: dal romanico al gotico e ai lavori di restauro di inizio Novecento. Le tre navate centrali sono separate da grandi pilastri. Affreschi e opere del XVI secolo adornano le mura mentre lungo le pareti, in penombra, spuntano i grandi sarcofaghi dei monaci, costruiti nella classica pietra grigia. Così come le tombe della famiglia Savoia in fondo alla navata, di fronte all’altare. È davvero grande la chiesa, mette
quasi soggezione. Visitarla di domenica mattina, alle ore dieci, durante la funzione religiosa, rende l’esperienza ancora più suggestiva, perché è una messa accompagnata dal coro e i canti rimbombano e si espandono tra le navate creando un effetto e una suggestione unici. Oppure alla messa di mezzanotte di domani 24 dicembre… Anche in questo caso è impossibile non pensare al Nome della Rosa e ai suoi due protagonisti, frate Guglielmo e il suo giovane aiutante, Adso de Melk, mentre cercano di risolvere il mistero al centro del racconto. Ma anche sedersi sulle panche e perdersi con lo sguardo nella semioscurità con i fasci di luce che entrano dalle aperture e ricordano le luci mistiche, pro-
voca meraviglia e turbamento. L’abbazia di San Michele riserva ancora una singolare leggenda: quella della Bella Alda. Dalla chiesa si può, infatti, andare direttamente in un altro ampio terrazzo dal quale ammirare, in basso, le rovine e la Torre della Bella Alda. Quello che rimane di queste mura in pietra che si sono salvate da incuria e saccheggi durante i secoli, una volta erano gli ambienti dei monaci. La leggenda dice che questa graziosa ragazza, per sfuggire alle violenze dei soldati di Federico Barbarossa si gettò dalla torre, venendo salvata da due angeli. Raccontò il fatto a tutto il villaggio ma nessuno le credette. Allora per vanità si butto di nuovo, ma questa volta non c’erano i cherubini a
Lo Scalone dei Morti. Nella pagina accanto, la sagoma imponente della Sacra di San Michele, che assomma le fattezze di un castello a quelle di un antico monastero medievale, anche se alcuni elementi architettonici sono assai più. recenti.
salvarla e morì ai piedi della torre. Da questo terrazzo, oltre che ammirare nell’insieme le rovine e la torre si può scrutare tutta la valle e il panorama con le alpi Cozie e il Monviso che la fa da padrone. La strada che porta poi all’uscita permette di nuovo di passare in mezzo alle rovine, ma soprattutto dà l’opportunità di guardare dal basso le alte mura della Sacra. Una struttura che pare un misto tra una chiesa e un castello inserito in un paesaggio meraviglioso, una volta luogo di transito per pellegrini e oggi metà di visitatori.
Informazioni
Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
La vitamina D contribuisce al normale funzionamento del sistema immunitario
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Bere acqua
I postumi si verificano soprattutto perché l’alcol favorisce la perdita di liquidi, quindi il giorno dopo bevi a sufficienza. L’ideale è l’acqua naturale; in alternativa, puoi ricorrere a tisane non zuccherate.
Buon cibo
Se non hai la nausea, concediti una colazione post-sbornia. La cosa migliore è mangiare ciò di cui hai voglia: alcune persone preferiscono alimenti ricchi di proteine, come uova, fagioli e pancetta, altre optano per i carboidrati e si accontentano di un piatto di pasta. Banane e avocado possono essere utili perché sono ricchi di potassio: per 100 grammi, le banane ne contengono circa 320 mg e gli avocado 430 mg. Spesso il corpo perde questa sostanza a causa dell’alcol.
Bevande isotoniche
L’alcol ci fa espellere più elettroliti. Questo può provocare mal di testa, senso di spossatezza e nausea. Le bevande isotoniche contengono elettroliti e possono contribuire a sostenere l’equilibrio di liquidi ed elettroliti dell’organismo. Anche il brodo contiene elettroliti.
Concediti un po’ di riposo
Dopo una lunga serata in cui hai bevuto molto, il corpo ha bisogno di riposo per riprendersi. Quindi dormi fino a tardi o fai un breve sonnellino durante il giorno. È meglio se eviti l’esercizio fisico intenso.
IN FORMA
Anno nuovo
Cosa aiuta contro i postumi della sbornia
Alzerai un po’ troppo il gomito a Capodanno? Questi trucchi ti aiuteranno a smaltire i postumi della sbornia
Barbara Scherer
Esci all’aria aperta
Anche se ti senti molto male, non dovresti passare tutto il giorno in casa. Fai il giro dell’isolato o una passeggiata nel bosco. L’esercizio fisico leggero stimola la circolazione, il che è utile dopo una notte di festa.
Attenzione agli antidolorifici
Gli antidolorifici senza prescrizione medica, come l’ibuprofene, possono aiutare ad alleviare il mal di testa e i dolori muscolari. Tuttavia, è importante evitare il paracetamolo perché, se associato all’alcol, può danneggiare il fegato. Gli antidolorifici devono sempre essere assunti con cautela e il loro uso deve essere discusso con uno specialista.
Aiuto immediato
dalla Migros
Ricetta della settimana - Spalla di vitello lardellata
Ingredienti
Piatto principale
Ingredienti per 4 persone
100 g di prugne secche
1,2 kg di spalla di vitello
20 g di pancetta a dadini
sale
4 c di farina
2 cipolle rosse
olio per la cottura
5 dl di vino bianco
1 l di fondo per arrosto o brodo di manzo
pepe
½ mazzetto d’erba cipollina
Preparazione
1. Snocciolate le prugne e tagliatele in quattro. Con la punta di un coltello ben affilato fate delle incisioni su tutto il pezzo di carne a circa 3 cm di distanza una dall’altra e in ognuna infilate un pezzetto di prugna e un dadino di pancetta.
2. Salate la carne e infarinatela in modo uniforme.
3. Tagliate le cipolle a spicchi.
4. Mentre scaldate il forno ventilato a 180 °C, scaldate poco olio in una brasiera in cui rosolare la spalla di vitello a fuoco alto per circa 5 minuti su tutti i lati.
5. Aggiungete le cipolle e fatele rosolare brevemente con la carne. Togliete le cipolle dalla padella e mettetele da parte. Unite il vino e il fondo. Trasferite la brasiera al centro del forno.
6. Cuocete la carne per circa 90 minuti finché risulti ben cotta (prova cottura). Estraete la carne dal sugo e lasciatela riposare nel forno spento per circa 10 minuti.
7. Aggiungete le cipolle messe da parte al sugo, trasferite il tutto in una padella e fate ridurre un po’. Regolate di sale e pepe. Servite la carne con le cipolle e la salsa e guarnite con l’erba cipollina tagliuzzata.
Preparazione: circa 30 minuti; cottura in forno: circa 90 minuti
Per porzione: circa 66 g di proteine, 19 g di grassi, 29 g di carboidrati, 630 kcal
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Un’onda energetica di nostalgia e divertimento
Videogioco ◆ Dragon Ball: Sparking! Zero rievoca l’essenza della serie anime con un roster gigantesco, combattimenti aerei e una storia ramificata che conquisterà fan e nuovi giocatori
Kevin Smeraldi
Dragon Ball: Sparking! Zero è il primo vero sequel della serie Dragon Ball Z: Budokai Tenkaichi dai tempi di PlayStation 2. Il suo design e la presentazione old school hanno un certo fascino rispetto agli altri picchiaduro moderni. È più coriaceo della corazza di Vegeta e sbilanciato nei modi che sono sia fastidiosi sia fedeli alla storia. I menu sono labirintici, i consigli per l’allenamento scarsi e a volte poco utili. Ma ogni battaglia è realizzata con l’unico scopo di far vivere la fantasia dei combattimenti di Dragon Ball così come appare nell’anime. Il frenetico scambio di colpi di ki, i calci con teletrasporto e i capelli che cambiano magicamente colore sono un’esplosione di puro divertimento. E dunque il lavoro prodotto da Bandai Namco merita l’acquisto?
Tuttavia, il ritmo di questo titolo, unito a un sistema di tutorial poco efficace, può mettere a dura prova i riflessi dei neofiti
Dragon Ball: Sparking! Zero cerca di meritarselo innovando principalmente la sua «modalità storia ramificata» e il kit di creazione delle battaglie, sebbene giocare a questo picchiaduro a volte può sembrare un atto d’amore
tanto quanto lo sforzo di resuscitare la serie.
Le battaglie in arena non hanno molto in comune con picchiaduro tradizionali come Tekken o Street Fighter. Invece di svolgersi su un piano orizzontale, combinano il movimento 3D in spazi aperti con movelist ridotte, scambiando la complessità tecnica con tattiche spaziali. Questo titolo si è ulteriormente distanziato da altri giochi del suo genere aumentando la velocità, sostituendo gli oggetti lanciabili con grandi elementi ambientali distruttibili e creando enormi cieli vuoti per combattimenti aerei aperti.
Un ulteriore punto di forza è il roster immenso. Sono giocabili più di 180 combattenti provenienti da ogni angolo della serie, molti dei quali sbloccabili tramite il negozio o le modalità «storia». Ci sono personaggi provenienti da serie o film di cui ignoravamo l’esistenza! Molti di questi sono ripetuti (ci sono 19 versioni di Goku!), ma non sono tutti uguali. Ogni Goku ha diverse tecniche speciali e alberi di trasformazione: Goku base dell’invasione Saiyan ha un set di mosse diverso e un potenziale inferiore rispetto a Goku della Saga di Bu o dell’era Super, che può trasformarsi in varie versioni del Super Saiyan. Che dire del gameplay? Purtrop-
Giochi e passatempi
Cruciverba
Qualcuno ha detto che Babbo Natale è stato arrestato! «E come mai?»
Trova la risposta leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate.
(Frase: 2, 5, 5, 3, 2, 4, 3, 5)
ORIZZONTALI
1. Il piccolo Fauntleroy
4. Parte posteriore del torace
10. Un numero singolare
11. Un famoso navigatore
12. Aspro in latino
13. Nel tempo e nello spazio
14. Un famoso gioco
15. Unitamente
16. Altro appellativo del procione
18. Particelle cromosomiche
19. Lo era Gesù
20. Nome dell’attore Gibson
22. A Roma valeva dieci
23. Cotta in acqua
25. Si riordinano in silenzio
27. Un cocktail
29. È ripetitivo
30. Nei... in certi casi
31. Simbolo chimico dello stagno
32. Minuscoli arnesi
34. La città di Anacreonte
35. Si raddoppia per bere
36. Vulcano spento nello stato di Washington
37. L’hello italiano
VERTICALI
1. È famelico per natura
2. Dignità
3. Astro al tramonto...
4. Inferiormente
5. La posizione sociale
6. Come finisce comincia...
7. Grandissimi, sommi
8. Gas nobile
po, eseguire le varie mosse per ogni personaggio è molto difficile e frustrante. Gli input sono semplici, ma ci siamo spesso sentiti persi quando i combattimenti aumentavano di velocità. Il ritmo di questo titolo, unito a un sistema di tutorial poco efficace, può mettere a dura prova i riflessi dei neofiti. Il tempismo per difendersi con il teletrasporto o le varie combo con scatto direzionale ci hanno fatto pregare il Dragon Shenron per avere pietà.
Ci vorranno diverse ore di gioco per padroneggiare Dragon Ball: Sparking! Zero ai massimi livelli. Detto questo, una volta masterizzata la meccanica di gioco, sarà un vero pia-
cere divertirsi lottando nel mondo di Dragon Ball. Come la maggior parte dei picchiaduro moderni, anche questo titolo offre una modalità single player e una multiplayer. La modalità single player, «Episode Battles», è una rivisitazione abbreviata delle più grandi storie di Dragon Ball dal punto di vista di vari personaggi. Quasi tutti i giochi di Dragon Ball lo hanno fatto, ma questa versione è esaustiva e fa un buon lavoro nel mantenere brevi i tempi tra le battaglie, dando la priorità ai momenti importanti. La modalità «online classificata» si distingue come il modo più interessante di giocare in multiplayer. Il
sistema limita le squadre a un massimo di cinque membri assegnando un valore in punti a ognuno, con un massimo di 15 punti da dividere. I personaggi più forti sono più costosi, quindi si può optare per una squadra piccola con personaggi potenti o puntare su un gruppo numeroso di personaggi più economici.
Per quanto riguarda il comparto tecnico c’è poco da dire: questo gioco è semplicemente uno spettacolo per gli occhi. Gli sviluppatori hanno utilizzato l’Unreal Engine 5 sapientemente, ricreando mosse energetiche di rara bellezza, tra caricabili e automatiche, e lo stesso hanno fatto coi vari tipi d’aura dei guerrieri. Stesso discorso per il comparto audio, con un ottimo doppiaggio sia in giapponese sia in inglese, a cui si affiancano convincenti musiche originali, che ben accompagnano scontri e modalità.
Per concludere, Dragon Ball: Sparking! Zero è un gioco che piacerà sia ai fan della serie sia ai giocatori alla ricerca di un picchiaduro divertente e frenetico. L’enorme quantità di personaggi giocabili, il combattimento in 3D e la modalità «storia coinvolgente» lo rendono un’esperienza indimenticabile. Con il Natale alle porte, questo titolo potrebbe essere il regalo perfetto per molti videogiocatori! Voto 8/10
Sudoku Scoprite
9. Una casa tutta miele
11. Può chiuderlo un elastico
14. Sporchissime
17. Tessuti tagliati in diagonale
18. Accompagnano gli italiani mentre parlano
20. Un uccello
21. Chitarra indiana
23. Levi vi sopravvisse
24. Rende irrequieti
26. Nota quella di Assuan
27. Obiettivi finali
28. Lo esegue la fanfara
33. Preposizione
35. 101 romani
Soluzione della settimana precedente Due balordi entrano in una gioielleria e puntano la pistola contro il proprietario dicendo: «O ci dai i gioielli
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito
cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è
esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
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12.95 invece di 21.80 Filetto dorsale di salmone affumicato d'allevamento, Scozia, 300 g, in self-service, (100 g = 4.32)
9.95 invece di 19.95 Ostriche Label Rouge Nr. 3 con coltello Francia, 12 pezzi, in self-service, (1 pz. = 0.83)
Tagli succosi e fettine saporite
2.20
2.95
3.85
Migros Ticino
4.50
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Formaggi e latticini
Proteine in tutte le forme possibili
LO SAPEVI?
Il Gruyère Höhlengold viene fatto stagionare in grotte naturali di arenaria fino al raggiungimento di un livello di qualità ottimale. Il clima all'interno delle grotte e l'attenta cura del casaro assicurano un aroma forte e armonioso e la tipica consistenza friabile.
Tutto il Grana Padano Da Emilio per es. grattugiato, 120 g, 2.40 invece di 2.85, (100 g = 2.00) 15%
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Le Gruyère AOP, Emmentaler e raclette bio a fette, per es. Le Gruyère AOP, per 100 g, 2.40 invece di 3.05, prodotto confezionato 20%
Formaggella ticinese 1/2 grassa per 100 g, prodotto confezionato 15% Con 100%ingredienti naturali
Fondue Gerber L'Original o Moitié-Moitié, per es. L'Original, 2 x 800 g, 20.90 invece di 29.90, (100 g = 1.31) conf. da 2 30%
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Caseificio Leventina per 100 g, prodotto confezionato 15%
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Yogurt LC1 Immunity Nestlé disponibili in diverse varietà, per es. arancia sanguigna e zenzero, 4 x 150 g, 3.50 invece di 4.40, (100 g = 0.58)
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Il nostro pane della settimana: una delicata acidità, germogli di grano e segale donano a questo pane il suo gusto speciale. La mollica è soffice, la crosta ben fessurata e croccante.
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In azione anche i tipi di pasta per biscotti
Rombo scuro
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Tutte le paste in blocco e già spianate, Anna's Best per es. pasta per pizza, spianata, rettangolare, 580 g, 4.– invece di 5.–, (100 g = 0.69)
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fiori al limone e formaggio fresco o gnocchi al basilico, in confezioni multiple, per es. fiori, 3 x 250 g, 11.75 invece di 14.85, (100 g = 1.57)
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Mini Springrolls Vegi Asia Snacks 20 pezzi, 500 g, (100 g = 1.78)
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Tutto l’assortimento Cornatur (confezioni multiple escluse), per es. affettato ai peperoni, 100 g, 2.80 invece di 3.50
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conf. da 3
Cornatur macinato o scaloppina caprese, per es. macinato, 2 x 230 g, 6.70 invece di 8.40, (100 g = 1.46)
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L’imbarazzo della (vasta) scelta
a partire da 2 pezzi 20%
Tutte le olive non refrigerate (articoli Demeter e Alnatura esclusi), per es. olive spagnole nere snocciolate M-Classic, 150 g, 2.20 invece di 2.70, (100 g = 1.44)
Tonno M-Classic, MSC in olio o in salamoia, 6 x 155 g, 8.95 invece di 11.70, (100 g = 0.96)
a partire da 2 pezzi 25%
Tutto l'assortimento di sottaceti e di antipasti, Condy per es. cetriolini, 290 g, 1.95 invece di 2.60, (100 g = 0.67)
Stuzzichini semplici, deliziosi e variegati
a partire da 2 pezzi 40%
Tutto l'assortimento Happy Hour prodotto surgelato, per es. cornetti al prosciutto M-Classic, 12 pezzi, 504 g, 4.10 invece di 6.80, (100 g = 0.81)
conf. da 2 20%
23% 6.–
Maionese, Thomynaise, senape dolce o concentrato di pomodoro, Thomy per es. maionese à la française, 2 x 265 g, 4.45 invece di 5.60, (100 g = 0.84)
a partire da 2 pezzi 20%
Ripieno per vol-au-vent M-Classic con carne o funghi, per es. carne, 500 g, 3.85 invece di 4.80, (100 g = 0.77)
20%
invece di 7.50
Minestre in bustina Knorr vellutata ai funghi porcini, minestra di vermicelli, minestra di letterine o zuppa d'orzo grigionese, per es. vellutata ai funghi porcini, 3 x 66 g, (100 g = 3.03)
a partire da 2 pezzi –.50 di riduzione
Tutti i prodotti da forno per l'aperitivo Gran Pavesi e Roberto per es. Gran Pavesi salati, 250 g, 1.70 invece di 2.20, (100 g = 0.68)
conf. da 6
conf. da 3
conf. da 6 30%
Tavolette di cioccolato Frey
Giandor, al latte e alle nocciole o al latte finissimo, 6 x 100 g, per es. Giandor, 9.20 invece di 13.20, (100 g = 1.53)
conf. da 3 33%
Rocher o Choco Carré, M-Classic per es. Choco Carré, 3 x 100 g, 7.40 invece di 11.10, (100 g = 2.47)
Pancho Villa
Soft Tortillas o Nacho Chips, per es. Tortillas Flour, 2 x 326 g, 7.25 invece di 9.10, (100 g = 1.11) conf. da 2 20%
a partire da 2 pezzi
Tutti i tipi di riso M-Classic
1 kg, per es. riso a chicco lungo parboiled, 1.75 invece di 2.45
a partire da 2 pezzi 30%
Tutti i tipi di caffè Boncampo, in chicchi e macinato per es. Classico in chicchi, 500 g, 3.85 invece di 5.50, (100 g = 0.77)
a partire da 2 pezzi 30%
Caffè in chicchi, istantaneo e in capsule, Starbucks per es. Pike Place Roast in chicchi, 450 g, 7.– invece di 9.95, (100 g = 1.55)
eccellenza
a partire da 2 pezzi 20%
Tutti i tè e le tisane Tetley per es. English Breakfast, 50 bustine, 4.80 invece di 5.95, (100 g = 4.76)
conf. da 10 30%
11.85 invece di 16.95
Succo multivitaminico M-Classic 10 x 1 litro, (100 ml = 0.12)
Grande festa, piccoli prezzi
Tutto il profumo della convenienza Bellezza
LO SAPEVI?
I preservativi della marca propria Cosano sono più avanti. Non solo rispettano i requisiti degli standard europei e ISO per i preservativi, ma soddisfano anche le direttive ancora più severe che il fabbricante stesso si è imposto. L'assortimento comprende 6 tipi di preservativi diversi che si differenziano per dimensioni, gusto, forma e superficie nonché apprezzati gel lubrificanti.
Tutto l'assortimento di contraccettivi con Love Toys (confezioni da viaggio escluse),
Una ricca tavolozza di prodotti
Prodotti per qualsiasi lavaggio e qualsiasi macchia
Tutti gli ammorbidenti Exelia per es. Florence, in conf. di ricarica, 1,5 litri, 4.20 invece di 6.95, (1 l = 2.78)
Tutti i detersivi Total (confezioni multiple e speciali escluse), per es. 1 for all in conf. di ricarica, 2 litri, 8.– invece di 15.95, (1 l = 3.99)
Tutto l'assortimento di alimenti umidi per gatti Vital Balance per es. Adult al manzo, 4 x 85 g, 3.65 invece di 4.60, (100 g = 1.07)
a partire da 2 pezzi
a partire da 2 pezzi
Latte di proseguimento e Junior, Aptamil (latte Pre, latte di tipo 1 e Confort esclusi), per es. Junior 12+, 800 g, 20.– invece di 24.95, (100 g = 2.50)
Bouquet di rose M-Classic, Fairtrade disponibili in diversi colori, mazzo da 30, lunghezza dello stelo 40 cm, il mazzo
SAPEVI?
La salute, il successo o la felicità in amore non sono mai abbastanza. Ecco perché è una bella usanza regalare un vasetto di quadrifoglio a Capodanno. Il quadrifoglio è un simbolo di fortuna perché ci vuole una buona dose di fortuna per scoprirlo in natura.
3.95 Quadrifoglio in vaso di terracotta Ø 6 cm, il vaso
Prezzi imbattibili del weekend
Solo da questo giovedì a domenica
1.35 invece di 1.80 Pomodori ciliegini a grappolo Spagna/Italia, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.27), offerta valida dal 26.12 al 29.12.2024 25%
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Svizzera, per es. carne secca dei Grigioni in crosta di pepe, 80 g, 6.95 invece di 9.95, in self-service, (100 g = 8.69), offerta valida dal 26.12 al 29.12.2024
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invece di 35.60 Red Bull Energy Drink o Sugarfree, 24 x 250 ml, (100 ml = 0.40), offerta valida dal 26.12 al 29.12.2024 conf. da 24