Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Il nostro senso del controllo è stato minato dalla pandemia, la psicologa Olga Chiaia spiega come oggi sia meglio focalizzarsi sul presente
Ambiente e Benessere Il dottor Alessandro Diana, infettivologo alla Clinique des Grangettes Hirslanden di Chêne-Bougeries nel canton Ginevra, fa il punto della situazione sulla ricerca di un vaccino contro il virus Covid-19
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 27 aprile 2020
Azione 18 Politica e Economia Il Giappone si sta ritagliando un ruolo di primo piano in Asia smarcandosi dagli Usa
Cultura e Spettacoli Il ragno con tutto ciò che rappresenta nella mostra di Tomás Saraceno a Firenze
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di Alfio Caruso pagina 27
AFP
Lombardia, profondo rosso
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Tempo di superare la paralisi di Peter Schiesser Il Ticino ha ottenuto di poter prolungare la sua finestra di crisi di una settimana rispetto al resto della Svizzera, tanti degli interrogativi su come evitare il contagio con il Covid-19 nella vita quotidiana (sul posto di lavoro, a scuola, nei luoghi pubblici) restano senza risposte chiare o definitive e molto va ancora preparato per creare una nuova normalità. Ma si percepisce che qualcosa sta cambiando, c’è la sensazione che il peggio è passato, l’appello a stare a casa non è stato ritirato, ma è innegabile che ci stiamo a poco a poco riabituando ad uscire di casa. Ora, prendendo a prestito le parole del medico Andrea Badaracco (CdT 23 aprile 2020), «diventa più importante capire il come uscire di casa in questa nuova situazione. Il come fare diventa più utile del paralizzante non fare». Ci vuole un altro tipo di forza per superare una paralisi rispetto a quella per accettarla. Una miscela di cautela, coraggio, ottimismo. Devono però esserci le condizioni esterne che ci garantiscano più sicurezza possibile. Alcune le creiamo noi, rispettando le raccomandazioni federali sulla distanza sociale e sull’igiene, altre sono frutto
degli sforzi compiuti nell’intero tessuto economico-produttivo e nel settore dei trasporti, dove si studiano piani di lavoro e di usufrutto che rispettino le norme di base (distanza e igiene). Lasciando alle imprese il compito di definire nel concreto i relativi piani di sicurezza (devono poi comunque essere convalidati dalle autorità), il Consiglio federale e i Cantoni danno prova di un comprovato pragmatismo elvetico: le soluzioni non si calano dall’alto, si creano di concerto con chi vive la realtà delle imprese. In questo modo, il Governo federale evita pure di prendere decisioni eccessivamente controverse. Come quella sulle mascherine. Usarle o no? Sono utili o meno? Nel piano pandemico della Confederazione erano previste, gli stock però non erano stati creati. Se è vero che si può trasmettere il virus anche nei due giorni precedenti la manifestazione della malattia non è sufficiente che la porti solo chi ha già i sintomi; d’altro canto può dare una falsa sicurezza se non la si pone e maneggia nel modo corretto. Ora, pur mantenendo il parere che non servono alle persone sane, il Consiglio federale lascia in pratica alla cittadinanza la scelta se portarle o meno e alle varie categorie professionali la necessità di prevederle laddove non
può essere mantenuta la distanza necessaria fra una persona e l’altra, come dal parrucchiere, dal dentista e dove si lavora a stretto contatto. Ci sono realtà che lo permettono abbastanza facilmente, altre che restano nodi da sciogliere: come gestire i mezzi pubblici quando si tornerà tutti al lavoro? Ci metteremo tutti la mascherina? Bisogna prima di tutto averle, ed è per questo che il Consiglio federale ne ha (infine) fatte acquistare 100 milioni in aprile (la maggior parte deve ancora essere fornita) e da oggi verranno vendute anche al pubblico, dapprima attraverso i grandi dettaglianti, cui l’esercito ne fornirà per due settimane un milione al giorno. Ci sono invece altre realtà in cui queste condizioni di sicurezza non possono essere garantite. Le grandi manifestazioni previste nei prossimi mesi, sportive e culturali, sono destinate ad essere cancellate – anche se il Consiglio federale non ha ancora preso una decisione formale, lasciando nell’incertezza gli organizzatori. E poi c’è l'incognita scuola. Impossibile pretendere che bambini e ragazzi portino la mascherina ed evitino contatti fisici. Che cosa significherà per le famiglie e per i docenti? Ancora non sappiamo che tipo di ritorno a scuola sarà, ma di certo non sarà privo di rischi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 aprile 2020 • N. 18
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 aprile 2020 • N. 18
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Società e Territorio Deboli di udito in difficoltà L’uso delle mascherine può penalizzare le persone con problemi di udito
I gruppi di auto-aiuto in Ticino A causa del Coronavirus hanno potenziato le diverse modalità a distanza per rimanere collegati e continuare a «sentirsi gruppo»
Passeggiate svizzere Oliver Scharpf ci accompagna alla scoperta dell’isola di San Pietro tanto amata da Jean-Jacques Rousseau pagina 11
In aiuto dei familiari curanti Disabilità L’esperienza dei primi due anni dei soggiorni temporanei per persone adulte con disabilità
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è stata positiva, ora la si vuole estendere al Sopraceneri. Un supporto concreto per chi è impegnato quotidianamente nella cura e ha bisogno di una pausa per ritrovare nuove energie
Stefania Hubmann
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Dire addio alla smania di controllo
Intervista La pandemia ci impedisce
di programmare e immaginare il futuro. Secondo Olga Chiaia, psicologa e psicoterapeuta, dovremmo focalizzarci sul presente, abbracciando l’incertezza
Stefania Prandi La pandemia causata dal Covid-19 sta mettendo a dura prova il nostro senso del controllo. Difficile riuscire a programmare e immaginare come saranno i prossimi mesi. Varrebbe la pena, invece di preoccuparci eccessivamente del futuro, focalizzarci sul presente, accantonando la smania di pianificazione e di certezze. Ma come fare? Lo abbiamo chiesto a Olga Chiaia, psicologa e psicoterapeuta, autrice di diversi libri, ultimo dei quali Lezioni di fiducia per diffidenti. Quando il controllo è il problema e non la soluzione (Feltrinelli). Perché pensiamo di avere il controllo sulle nostre vite?
Il senso del controllo è una sensazione meravigliosa che acquisiamo crescendo e che manteniamo per l’efficacia che ha sulle cose materiali. Pretendiamo di avere controllo anche sulle nostre emozioni, sulle vite degli altri, sul mondo esterno. Si tratta, però, di qualcosa di illusorio, come ci dimostrano anche gli eventi recenti, perché molto, nella vita, va al di là del nostro raggio di azione. Perché temiamo di perdere il controllo?
La paura di perdere il controllo è tipica di questo periodo storico, in cui ci è chiesto di essere efficienti e di dare sempre il massimo, mentre siamo in molti a provare un senso di inadeguatezza profondo e costante. Crediamo, inoltre, che la scienza e gli strumenti tecnici a disposizione ci rendano padroni delle nostre vite. Quando succede qualcosa che ci fa perdere terreno, il senso di controllo viene meno, e veniamo destabilizzati, precipitando nel caos. È diverso, invece, se siamo noi che lasciamo andare la presa, concedendoci il permesso di essere come siamo, senza piani prestabiliti. In questo secondo caso possiamo parlare di controllo flessibile, che ci alleggerisce le spalle e ci fa respirare meglio, perché consente alla vita di intervenire dove noi non riusciamo più.
Nel suo libro scrive, citando Emily Dickinson, che la nostra mente è più ampia del cielo, eppure quando si contrae nella tristezza o si serra su un pensiero di rabbia diventa angusta, e si rischia di sentirsi chiusi dentro, come in un ascensore bloccato al buio. Perché veniamo sovrastati dalla paura, dalla tristezza e rabbia?
Queste emozioni hanno dei messaggi utili. Se non provassimo paura, faremmo delle cose pericolose. La tristezza ci segnala che la situazione che stiamo vivendo non è buona per noi e ci indica di cambiare qualcosa. La rabbia rivela che il nostro io è stato calpestato, è una reazione di difesa. Una volta colto il messaggio che ci viene inviato da queste emozioni, dovremmo passare all’azione e le sensazioni negative che percepiamo dovrebbero dissolversi. Spesso, all’opposto, cerchiamo di scacciarle senza averle ascoltate, finendo per trattenerle per giorni e per settimane, senza riuscire a lasciarle andare. E si cronicizzano. Come possiamo contrastare queste tre emozioni?
Nella psicologia moderna si parla di «parti» di cui siamo composti. Quindi, non dobbiamo contrastare qualcosa, ma accogliere le parti di noi che provano certe emozioni. Ognuno, in genere, propende maggiormente verso la paura, la rabbia oppure la tristezza. Dopo avere riconosciuto quale emozione ci caratterizza, possiamo cercare di consolare la parte che la prova, come si farebbe con un bambino, aiutandola a passare all’azione. Si può partire proprio dal corpo. Ciascuna di queste tre emozioni, infatti, ha un correlato fisiologico importante. Non ci sono regole generali che vadano bene per tutti, così come certe soluzioni sono adatte solo in certi momenti e non in altri. Però sappiamo, perché esiste una letteratura di secoli al riguardo, che usando il respiro in certi modi, si permette all’ansia di calare e andarsene. Per quanto riguarda la tristezza, può passare con una tecnica chiamata «l’abbraccio della farfalla». Funziona
Per riconquistare la leggerezza possiamo chiedere al nostro senso del dovere di darci una tregua. (Marka)
così: si mette la mano destra sulla spalla sinistra e la mano sinistra sulla spalla destra e si fa un massaggio alternato, seguendo un proprio ritmo. Con quest’azione si esprime il contenimento di se stessi e si secerne ossitocina. E si può imparare a non far esplodere né implodere la rabbia, ma a esprimerla assertivamente. La pandemia è un esempio concreto di perdita di controllo. Quali sono i suoi consigli per mantenere l’equilibrio psico-fisico?
La pandemia mina le nostre certezze, i progetti che credevamo sicuri, tutto ciò che consideravamo affidabile, rendendolo instabile. La soluzione è concentrarci molto sul presente: il futuro, come ci viene ricordato in continuazione da quello che sta succedendo, non è in nostro potere. È giusto sentire
i pareri esterni, ma non troppo, dato che abbiamo visto che anche gli esperti sbagliano. Consiglio di stare in ascolto affettuoso del sé profondo. Alcuni suggerimenti generali: riprendere i nostri cinque sensi ed essere presenti nei nostri corpi, con attenzione. Dentro di noi risiede una propensione all’ottimismo biologico, quello che provano i neonati, che ci fa venire voglia di vivere e respirare nonostante tutto. Affidarsi alla saggezza del corpo, che in alcuni momenti ne sa più di noi, può essere una soluzione. Lei scrive dell’importanza della leggerezza. Come ricordarci di quanto è bella? Come riacquistarla quando la perdiamo?
La leggerezza è la mancanza di pesi. Ci ricordano la sensazione della piacevolezza della leggerezza i bambini, gli
animali domestici, le piante, la natura in generale e il gioco, inteso come la capacità di sbagliare, di girovagare con la mente, di fare cose che non abbiano utilità immediata. Per riacquistarla possiamo chiedere al nostro senso del dovere di darci una tregua. Possiamo lasciare per terra i carichi che ci portiamo sulle spalle, ricordandoci che alleggerirsi non significa essere meno efficaci, ma liberarsi dalla zavorra. Ridurre il sovraccarico di pensieri e di rumore è sempre utile, trovando un momento, durante il giorno, in cui si svuotano la testa e il cuore. Una tecnica semplice è il grounding: ci si sdraia per terra e si visualizza l’immagine della superficie terrestre che ci sostiene e ci accoglie, pensando che i nostri pensieri sono nuvole, passeggere, mentre la nostra mente è il cielo.
Sgravare le famiglie di adulti con disabilità sarà ancora più necessario rispetto al passato una volta superata l’emergenza Coronavirus. Occuparsi di queste persone 24 ore su 24 è impegnativo e a lungo termine occorre poter disporre di un momento per ritrovare nuove energie, così da garantire continuità alla presa a carico a domicilio. In genere si tratta di genitori che seguono i propri figli, con i primi a volte già in età avanzata. È pertanto utile sapere che si può contare anche su un’accoglienza temporanea avviata a titolo sperimentale dal Dipartimento della sanità e della socialità (DSS) nel 2016. Dopo due anni di prova, i due posti letto messi a disposizione – uno ciascuno dalla Fondazione OTAF a Sorengo (Casa Giroggio) e dalla Fondazione San Gottardo nella Casa Don Orione a Lopagno – continuano ad essere disponibili e si prevede di estendere il progetto con altrettanti posti nel Sopraceneri. La richiesta di un’accoglienza temporanea simile a quella proposta dalle case per anziani era stata sollevata da enti d’integrazione quali Atgabbes (Associazione ticinese di genitori e amici dei bambini bisognosi di educazione speciale) e Pro Infirmis già oltre dieci anni or sono e riportata all’attenzione del DSS da Atgabbes durante l’assemblea cantonale del 2012. Nei successivi due convegni cantonali sui familiari curanti la mancanza in Ticino di un’offerta strutturata in tal senso veniva ribadita e in seguito raccolta dal DSS. Il progetto pilota che ha permesso di verificare le esigenze delle famiglie, le reazioni degli utenti e l’organizzazione a livello di istituti è partito sulla base delle riflessioni di un apposito gruppo di lavoro comprendente, oltre all’Ufficio degli invalidi, gli enti promotori e le strutture coinvolte. «Il progetto, concluso il positivo periodo sperimentale, è in fase di sviluppo», spiega Ursula Dandrea, capo servizio dell’Ufficio degli invalidi. «Stiamo lavorando per estendere l’offerta, già affinata in alcuni aspetti, all’insieme del territorio cantonale, in particolare nel Sopraceneri con OTAF a Locarno (Casa Bianca) e Madonna di Re nel Bellinzonese. Le strutture coinvolte nella prima fase sono infatti entrambe situate nel Luganese. Il Dipartimento, attraverso il tema della regionalità, intende agevolare il più possibile il progetto individuale della persona con disabilità. Di qui, la necessità di mantenere il legame con il territorio». I dati relativi ai primi due anni evidenziano un totale di 38 richieste di soggiorno temporaneo accolte. Di questi una proporzione significativa di quasi il 40% riguarda persone giovani (18-24 anni), così come è prevalente nella misura di oltre il 60% una disabilità intellettiva rispetto ad altre forme di disabilità. La possibilità di un soggiorno
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Il soggiorno temporaneo può essere richiesto due volte all’anno per un periodo complessivo di al massimo un mese. (Ti-Press)
temporaneo è accordata a tutte le tipologie di disabilità, tranne i casi che necessitano un collocamento in una casa medicalizzata. L’Ufficio degli invalidi, per il tramite del Servizio d’informazione e coordinamento per le richieste di collocamento nelle istituzioni LISPI (Legge sull’integrazione sociale e professionale degli invalidi), vaglia e coordina le richieste. A questo proposito dopo la fase pilota sono stati introdotti alcuni correttivi per rispondere meglio alle esigenze di tutte le parti interessate. Spiega Ursula Dandrea: «Il soggiorno temporaneo può essere richiesto due volte all’anno per un periodo complessivo di al massimo un mese. Rispetto al progetto iniziale è stato suddiviso in due momenti proprio per assolvere con più efficacia la funzione di sgravio dei familiari curanti. La durata minima del soggiorno è stata invece prolungata da 2 a 4 pernottamenti, al fine di tenere in considerazione da un lato il tempo di adattamento della persona con disabilità e dall’altro l’organizzazione messa in atto dalla struttura per ospitarla. È importante precisare che il soggiorno temporaneo deve essere pianificato con almeno tre mesi di anticipo per riuscire a organizzare l’accoglienza in funzione delle abitudini e delle necessità della persona». I soggiorni temporanei rispondono a motivi legati all’assenza dei familiari curanti, i quali sovente si prendono questa pausa per una vacanza o per motivi di salute. Oltre al valore sociale del lavoro di cura, durante la fase sperimen-
tale è emersa, come evidenzia Ursula Dandrea, l’importanza del percorso individuale compiuto dalla persona con disabilità. «La presa a carico diurna e notturna favorisce l’autonomia della persona e il distacco dalla famiglia, ciò che può rivelarsi un vantaggio anche nell’ottica di un futuro collocamento, soprattutto quando i familiari a causa dell’età non saranno più in grado di occuparsi del proprio caro o della propria cara al loro domicilio». Un problema, quest’ultimo, particolarmente sentito dalle famiglie, come conferma Daniela Carbonetti, che nel 2012 riportò all’attenzione delle autorità la problematica quale delegata all’assemblea cantonale di Atgabbes. «Con il passare degli anni la rete di supporto legata a parenti e amici si allenta. I nonni scompaiono, gli amici dei genitori diventano anziani, fratelli o sorelle escono di casa e sono magari lontani. È quindi più difficile ritagliarsi degli spazi per rigenerarsi e beneficiare di un momento di vacanza. Nostro figlio ha usufruito della possibilità del soggiorno temporaneo più di una volta e siamo soddisfatti di queste esperienze. Egli supera bene il possibile momento di scoramento iniziale, adattandosi alle nuove regole e abitudini. È inoltre per lui l’occasione di socializzare con altre persone e di conquistare una certa autonomia rispetto alla nostra presenza». L’importanza di questa offerta per le famiglie, oltre che dalla testimonianza di Daniela Carbonetti, è confermata dalle considerazioni raccolte dall’Uffi-
cio degli invalidi presso gli stessi utenti e i loro genitori. Il senso di serenità di questi ultimi, la constatazione del lavoro educativo svolto durante la permanenza temporanea, l’importanza delle tappe di avvicinamento alla struttura, la felicità di alcuni diretti interessati per questa nuova esperienza, sono gli aspetti evidenziati. Nel loro insieme rafforzano uno degli obiettivi del soggiorno temporaneo, inteso quale parte integrante di un progetto di vita che tiene in considerazione le specificità della persona e la sua storia. Finora ne hanno beneficiato soprattutto persone già inserite a livello diurno in strutture LISPI. La sfida per l’Ufficio degli invalidi è quella di coinvolgere anche quelle persone con disabilità che non fanno capo a nessuna struttura o offerta istituzionale. Si spera inoltre che questa opportunità possa essere maggiormente sfruttata lungo l’intero arco dell’anno, perché finora le richieste tendono a concentrarsi in certi periodi, in particolare in estate. In realtà l’obiettivo intrinseco del soggiorno temporaneo è di dare sostegno ai familiari sempre e non solo in caso di loro assenza, aggiungendosi ad altre offerte complementari già esistenti. Offerte che però la prossima estate – spiega Donatella Oggier-Fusi, segretaria di organizzazione di Atgabbes – rischiano di ridursi a seguito delle conseguenze della pandemia. «Per il momento le famiglie con le quali siamo in contatto reggono bene la pressione generata dall’emergenza, ma il bisogno
di recuperare le forze si farà sicuramente sentire. I genitori si stanno impegnando moltissimo per riorganizzare la vita dei loro figli, trovando nuove routine quotidiane. Nelle passate assemblee dei gruppi regionali di Locarno, Bellinzona e Biasca è già emersa l’esigenza di un’accoglienza temporanea anche nel Sopraceneri. Ci fa quindi piacere sapere che il progetto va in questa direzione e che evidenzia il carattere educativo di questa esperienza». I soggiorni temporanei rappresentano un supporto concreto per i genitori che accompagnano la figlia o il figlio con disabilità per tutta la vita. La fatica e il loro invecchiamento incidono sulla presa a carico che può essere agevolata e quindi assicurata sul lungo termine grazie a numerose forme di sostegno, fra cui questo tipo di accoglienza. Il progetto si sta facendo conoscere, prestando attenzione alla regionalità e cercando di accrescere la flessibilità per meglio rispondere alle richieste delle famiglie. Al centro, sempre, la persona con disabilità, alla quale si assicura anche in questo contesto un percorso individuale.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 aprile 2020 • N. 18
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 aprile 2020 • N. 18
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Società e Territorio Deboli di udito in difficoltà L’uso delle mascherine può penalizzare le persone con problemi di udito
I gruppi di auto-aiuto in Ticino A causa del Coronavirus hanno potenziato le diverse modalità a distanza per rimanere collegati e continuare a «sentirsi gruppo»
Passeggiate svizzere Oliver Scharpf ci accompagna alla scoperta dell’isola di San Pietro tanto amata da Jean-Jacques Rousseau pagina 11
In aiuto dei familiari curanti Disabilità L’esperienza dei primi due anni dei soggiorni temporanei per persone adulte con disabilità
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è stata positiva, ora la si vuole estendere al Sopraceneri. Un supporto concreto per chi è impegnato quotidianamente nella cura e ha bisogno di una pausa per ritrovare nuove energie
Stefania Hubmann
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Dire addio alla smania di controllo
Intervista La pandemia ci impedisce
di programmare e immaginare il futuro. Secondo Olga Chiaia, psicologa e psicoterapeuta, dovremmo focalizzarci sul presente, abbracciando l’incertezza
Stefania Prandi La pandemia causata dal Covid-19 sta mettendo a dura prova il nostro senso del controllo. Difficile riuscire a programmare e immaginare come saranno i prossimi mesi. Varrebbe la pena, invece di preoccuparci eccessivamente del futuro, focalizzarci sul presente, accantonando la smania di pianificazione e di certezze. Ma come fare? Lo abbiamo chiesto a Olga Chiaia, psicologa e psicoterapeuta, autrice di diversi libri, ultimo dei quali Lezioni di fiducia per diffidenti. Quando il controllo è il problema e non la soluzione (Feltrinelli). Perché pensiamo di avere il controllo sulle nostre vite?
Il senso del controllo è una sensazione meravigliosa che acquisiamo crescendo e che manteniamo per l’efficacia che ha sulle cose materiali. Pretendiamo di avere controllo anche sulle nostre emozioni, sulle vite degli altri, sul mondo esterno. Si tratta, però, di qualcosa di illusorio, come ci dimostrano anche gli eventi recenti, perché molto, nella vita, va al di là del nostro raggio di azione. Perché temiamo di perdere il controllo?
La paura di perdere il controllo è tipica di questo periodo storico, in cui ci è chiesto di essere efficienti e di dare sempre il massimo, mentre siamo in molti a provare un senso di inadeguatezza profondo e costante. Crediamo, inoltre, che la scienza e gli strumenti tecnici a disposizione ci rendano padroni delle nostre vite. Quando succede qualcosa che ci fa perdere terreno, il senso di controllo viene meno, e veniamo destabilizzati, precipitando nel caos. È diverso, invece, se siamo noi che lasciamo andare la presa, concedendoci il permesso di essere come siamo, senza piani prestabiliti. In questo secondo caso possiamo parlare di controllo flessibile, che ci alleggerisce le spalle e ci fa respirare meglio, perché consente alla vita di intervenire dove noi non riusciamo più.
Nel suo libro scrive, citando Emily Dickinson, che la nostra mente è più ampia del cielo, eppure quando si contrae nella tristezza o si serra su un pensiero di rabbia diventa angusta, e si rischia di sentirsi chiusi dentro, come in un ascensore bloccato al buio. Perché veniamo sovrastati dalla paura, dalla tristezza e rabbia?
Queste emozioni hanno dei messaggi utili. Se non provassimo paura, faremmo delle cose pericolose. La tristezza ci segnala che la situazione che stiamo vivendo non è buona per noi e ci indica di cambiare qualcosa. La rabbia rivela che il nostro io è stato calpestato, è una reazione di difesa. Una volta colto il messaggio che ci viene inviato da queste emozioni, dovremmo passare all’azione e le sensazioni negative che percepiamo dovrebbero dissolversi. Spesso, all’opposto, cerchiamo di scacciarle senza averle ascoltate, finendo per trattenerle per giorni e per settimane, senza riuscire a lasciarle andare. E si cronicizzano. Come possiamo contrastare queste tre emozioni?
Nella psicologia moderna si parla di «parti» di cui siamo composti. Quindi, non dobbiamo contrastare qualcosa, ma accogliere le parti di noi che provano certe emozioni. Ognuno, in genere, propende maggiormente verso la paura, la rabbia oppure la tristezza. Dopo avere riconosciuto quale emozione ci caratterizza, possiamo cercare di consolare la parte che la prova, come si farebbe con un bambino, aiutandola a passare all’azione. Si può partire proprio dal corpo. Ciascuna di queste tre emozioni, infatti, ha un correlato fisiologico importante. Non ci sono regole generali che vadano bene per tutti, così come certe soluzioni sono adatte solo in certi momenti e non in altri. Però sappiamo, perché esiste una letteratura di secoli al riguardo, che usando il respiro in certi modi, si permette all’ansia di calare e andarsene. Per quanto riguarda la tristezza, può passare con una tecnica chiamata «l’abbraccio della farfalla». Funziona
Per riconquistare la leggerezza possiamo chiedere al nostro senso del dovere di darci una tregua. (Marka)
così: si mette la mano destra sulla spalla sinistra e la mano sinistra sulla spalla destra e si fa un massaggio alternato, seguendo un proprio ritmo. Con quest’azione si esprime il contenimento di se stessi e si secerne ossitocina. E si può imparare a non far esplodere né implodere la rabbia, ma a esprimerla assertivamente. La pandemia è un esempio concreto di perdita di controllo. Quali sono i suoi consigli per mantenere l’equilibrio psico-fisico?
La pandemia mina le nostre certezze, i progetti che credevamo sicuri, tutto ciò che consideravamo affidabile, rendendolo instabile. La soluzione è concentrarci molto sul presente: il futuro, come ci viene ricordato in continuazione da quello che sta succedendo, non è in nostro potere. È giusto sentire
i pareri esterni, ma non troppo, dato che abbiamo visto che anche gli esperti sbagliano. Consiglio di stare in ascolto affettuoso del sé profondo. Alcuni suggerimenti generali: riprendere i nostri cinque sensi ed essere presenti nei nostri corpi, con attenzione. Dentro di noi risiede una propensione all’ottimismo biologico, quello che provano i neonati, che ci fa venire voglia di vivere e respirare nonostante tutto. Affidarsi alla saggezza del corpo, che in alcuni momenti ne sa più di noi, può essere una soluzione. Lei scrive dell’importanza della leggerezza. Come ricordarci di quanto è bella? Come riacquistarla quando la perdiamo?
La leggerezza è la mancanza di pesi. Ci ricordano la sensazione della piacevolezza della leggerezza i bambini, gli
animali domestici, le piante, la natura in generale e il gioco, inteso come la capacità di sbagliare, di girovagare con la mente, di fare cose che non abbiano utilità immediata. Per riacquistarla possiamo chiedere al nostro senso del dovere di darci una tregua. Possiamo lasciare per terra i carichi che ci portiamo sulle spalle, ricordandoci che alleggerirsi non significa essere meno efficaci, ma liberarsi dalla zavorra. Ridurre il sovraccarico di pensieri e di rumore è sempre utile, trovando un momento, durante il giorno, in cui si svuotano la testa e il cuore. Una tecnica semplice è il grounding: ci si sdraia per terra e si visualizza l’immagine della superficie terrestre che ci sostiene e ci accoglie, pensando che i nostri pensieri sono nuvole, passeggere, mentre la nostra mente è il cielo.
Sgravare le famiglie di adulti con disabilità sarà ancora più necessario rispetto al passato una volta superata l’emergenza Coronavirus. Occuparsi di queste persone 24 ore su 24 è impegnativo e a lungo termine occorre poter disporre di un momento per ritrovare nuove energie, così da garantire continuità alla presa a carico a domicilio. In genere si tratta di genitori che seguono i propri figli, con i primi a volte già in età avanzata. È pertanto utile sapere che si può contare anche su un’accoglienza temporanea avviata a titolo sperimentale dal Dipartimento della sanità e della socialità (DSS) nel 2016. Dopo due anni di prova, i due posti letto messi a disposizione – uno ciascuno dalla Fondazione OTAF a Sorengo (Casa Giroggio) e dalla Fondazione San Gottardo nella Casa Don Orione a Lopagno – continuano ad essere disponibili e si prevede di estendere il progetto con altrettanti posti nel Sopraceneri. La richiesta di un’accoglienza temporanea simile a quella proposta dalle case per anziani era stata sollevata da enti d’integrazione quali Atgabbes (Associazione ticinese di genitori e amici dei bambini bisognosi di educazione speciale) e Pro Infirmis già oltre dieci anni or sono e riportata all’attenzione del DSS da Atgabbes durante l’assemblea cantonale del 2012. Nei successivi due convegni cantonali sui familiari curanti la mancanza in Ticino di un’offerta strutturata in tal senso veniva ribadita e in seguito raccolta dal DSS. Il progetto pilota che ha permesso di verificare le esigenze delle famiglie, le reazioni degli utenti e l’organizzazione a livello di istituti è partito sulla base delle riflessioni di un apposito gruppo di lavoro comprendente, oltre all’Ufficio degli invalidi, gli enti promotori e le strutture coinvolte. «Il progetto, concluso il positivo periodo sperimentale, è in fase di sviluppo», spiega Ursula Dandrea, capo servizio dell’Ufficio degli invalidi. «Stiamo lavorando per estendere l’offerta, già affinata in alcuni aspetti, all’insieme del territorio cantonale, in particolare nel Sopraceneri con OTAF a Locarno (Casa Bianca) e Madonna di Re nel Bellinzonese. Le strutture coinvolte nella prima fase sono infatti entrambe situate nel Luganese. Il Dipartimento, attraverso il tema della regionalità, intende agevolare il più possibile il progetto individuale della persona con disabilità. Di qui, la necessità di mantenere il legame con il territorio». I dati relativi ai primi due anni evidenziano un totale di 38 richieste di soggiorno temporaneo accolte. Di questi una proporzione significativa di quasi il 40% riguarda persone giovani (18-24 anni), così come è prevalente nella misura di oltre il 60% una disabilità intellettiva rispetto ad altre forme di disabilità. La possibilità di un soggiorno
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Il soggiorno temporaneo può essere richiesto due volte all’anno per un periodo complessivo di al massimo un mese. (Ti-Press)
temporaneo è accordata a tutte le tipologie di disabilità, tranne i casi che necessitano un collocamento in una casa medicalizzata. L’Ufficio degli invalidi, per il tramite del Servizio d’informazione e coordinamento per le richieste di collocamento nelle istituzioni LISPI (Legge sull’integrazione sociale e professionale degli invalidi), vaglia e coordina le richieste. A questo proposito dopo la fase pilota sono stati introdotti alcuni correttivi per rispondere meglio alle esigenze di tutte le parti interessate. Spiega Ursula Dandrea: «Il soggiorno temporaneo può essere richiesto due volte all’anno per un periodo complessivo di al massimo un mese. Rispetto al progetto iniziale è stato suddiviso in due momenti proprio per assolvere con più efficacia la funzione di sgravio dei familiari curanti. La durata minima del soggiorno è stata invece prolungata da 2 a 4 pernottamenti, al fine di tenere in considerazione da un lato il tempo di adattamento della persona con disabilità e dall’altro l’organizzazione messa in atto dalla struttura per ospitarla. È importante precisare che il soggiorno temporaneo deve essere pianificato con almeno tre mesi di anticipo per riuscire a organizzare l’accoglienza in funzione delle abitudini e delle necessità della persona». I soggiorni temporanei rispondono a motivi legati all’assenza dei familiari curanti, i quali sovente si prendono questa pausa per una vacanza o per motivi di salute. Oltre al valore sociale del lavoro di cura, durante la fase sperimen-
tale è emersa, come evidenzia Ursula Dandrea, l’importanza del percorso individuale compiuto dalla persona con disabilità. «La presa a carico diurna e notturna favorisce l’autonomia della persona e il distacco dalla famiglia, ciò che può rivelarsi un vantaggio anche nell’ottica di un futuro collocamento, soprattutto quando i familiari a causa dell’età non saranno più in grado di occuparsi del proprio caro o della propria cara al loro domicilio». Un problema, quest’ultimo, particolarmente sentito dalle famiglie, come conferma Daniela Carbonetti, che nel 2012 riportò all’attenzione delle autorità la problematica quale delegata all’assemblea cantonale di Atgabbes. «Con il passare degli anni la rete di supporto legata a parenti e amici si allenta. I nonni scompaiono, gli amici dei genitori diventano anziani, fratelli o sorelle escono di casa e sono magari lontani. È quindi più difficile ritagliarsi degli spazi per rigenerarsi e beneficiare di un momento di vacanza. Nostro figlio ha usufruito della possibilità del soggiorno temporaneo più di una volta e siamo soddisfatti di queste esperienze. Egli supera bene il possibile momento di scoramento iniziale, adattandosi alle nuove regole e abitudini. È inoltre per lui l’occasione di socializzare con altre persone e di conquistare una certa autonomia rispetto alla nostra presenza». L’importanza di questa offerta per le famiglie, oltre che dalla testimonianza di Daniela Carbonetti, è confermata dalle considerazioni raccolte dall’Uffi-
cio degli invalidi presso gli stessi utenti e i loro genitori. Il senso di serenità di questi ultimi, la constatazione del lavoro educativo svolto durante la permanenza temporanea, l’importanza delle tappe di avvicinamento alla struttura, la felicità di alcuni diretti interessati per questa nuova esperienza, sono gli aspetti evidenziati. Nel loro insieme rafforzano uno degli obiettivi del soggiorno temporaneo, inteso quale parte integrante di un progetto di vita che tiene in considerazione le specificità della persona e la sua storia. Finora ne hanno beneficiato soprattutto persone già inserite a livello diurno in strutture LISPI. La sfida per l’Ufficio degli invalidi è quella di coinvolgere anche quelle persone con disabilità che non fanno capo a nessuna struttura o offerta istituzionale. Si spera inoltre che questa opportunità possa essere maggiormente sfruttata lungo l’intero arco dell’anno, perché finora le richieste tendono a concentrarsi in certi periodi, in particolare in estate. In realtà l’obiettivo intrinseco del soggiorno temporaneo è di dare sostegno ai familiari sempre e non solo in caso di loro assenza, aggiungendosi ad altre offerte complementari già esistenti. Offerte che però la prossima estate – spiega Donatella Oggier-Fusi, segretaria di organizzazione di Atgabbes – rischiano di ridursi a seguito delle conseguenze della pandemia. «Per il momento le famiglie con le quali siamo in contatto reggono bene la pressione generata dall’emergenza, ma il bisogno
di recuperare le forze si farà sicuramente sentire. I genitori si stanno impegnando moltissimo per riorganizzare la vita dei loro figli, trovando nuove routine quotidiane. Nelle passate assemblee dei gruppi regionali di Locarno, Bellinzona e Biasca è già emersa l’esigenza di un’accoglienza temporanea anche nel Sopraceneri. Ci fa quindi piacere sapere che il progetto va in questa direzione e che evidenzia il carattere educativo di questa esperienza». I soggiorni temporanei rappresentano un supporto concreto per i genitori che accompagnano la figlia o il figlio con disabilità per tutta la vita. La fatica e il loro invecchiamento incidono sulla presa a carico che può essere agevolata e quindi assicurata sul lungo termine grazie a numerose forme di sostegno, fra cui questo tipo di accoglienza. Il progetto si sta facendo conoscere, prestando attenzione alla regionalità e cercando di accrescere la flessibilità per meglio rispondere alle richieste delle famiglie. Al centro, sempre, la persona con disabilità, alla quale si assicura anche in questo contesto un percorso individuale.
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Società e Territorio
Le parole nascoste dalle mascherine Covid-19 L’uso della mascherina può pregiudicare la comunicazione con le persone deboli d’udito ed essere un fattore
di stress e insicurezza. L’Associazione per persone con problemi di udito ha messo in atto alcune strategie
Maria Grazia Buletti Il coronavirus può contagiarci attraverso un contatto stretto e prolugato con una persona infetta che tossisce o starnutisce, o attraverso le mani che veicolano le goccioline infettive, o infine toccando superfici contaminate che poi, sfiorando viso, bocca, naso o occhi veicolano il virus nelle mucose. Oltre al lavaggio frequente delle mani e alla loro disinfezione, l’Ufficio federale della sanità pubblica raccomanda l’uso corretto di una mascherina igienica per alcune categorie di persone come i professionisti della salute e le persone particolarmente a rischio (anziani e non con patologie preesistenti). Le sufficienti evidenze scientifiche della trasmissione del virus tramite stretto contatto e goccioline sono un’indicazione per proteggere con mascherina anche quelle categorie di persone come gli impiegati della grande distribuzione alimentare e altri lavoratori a contatto con più persone. Dalla metà di aprile si è cominciato a parlare di allentamento graduale delle misure federali attuate a contrastare l’epidemia, i cui criteri saranno determinati dal modo in cui verranno rispettate le norme di distanza sociale e d’igiene. Pensando al «dopo», la discussione si focalizza sull’uso delle mascherine. Un argomento controverso fra chi ritiene che indossarle sarà necessario in una prima fase, e chi le ritiene utili solo per chi è malato e per la sicurezza delle categorie di lavoratori a rischio. A questo proposito il consigliere federale Alain Berset ha affermato: «Non escludo che in caso di allentamento delle misure si possa consigliarne l’uso in determinate situazioni». Mentre Daniel Koch ne sottolinea l’importanza in una fase di riavvio graduale delle attività produttive quali, ad esempio, di parrucchieri ed estetiste. Si evince che l’uso corrente della mascherina come misura supplementare ulteriore per continuare a contrastare questo virus sarà verosimilmente esteso nel tempo. Questa prospettiva tocca un gruppo di persone doppiamente sotto stress come possono essere i deboli d’udito e i sordi per i quali, già nel quotidiano,
comunicare non è semplice. Per loro ora subentra un’ulteriore concreta difficoltà di comprensione. «La comunicazione con le mascherine è un grande fattore di stress e insicurezza; evito di fare small talking perché non sempre si comprende quanto viene detto e non ho il supporto e la sicurezza che la lettura labiale comporta», racconta Milena, debole d’udito, confrontandosi con questa situazione. «Vado con apprensione a fare la spesa o dal medico, perché non so mai se riuscirò a capire cosa mi diranno con la mascherina. Quando poi non capisco, spiego che ho problemi d’udito e loro alzano il volume, cosa che può aiutare se hanno una buona dizione, ma se non articolano bene le parole mi trovo a chiedere loro di scandirle e di parlare più lentamente», aggiunge Pia che si trova nella stessa condizione. Christian spiega: «Senza labiale bisogna avvicinarsi di più alle persone per poter sentire meglio, ma d’istinto poi la gente si allontana ritenendo ciò un’invasione dello spazio o una riduzione della distanza sociale». Queste testimonianze ci hanno permesso di comprendere le difficoltà di queste persone (deboli d’udito di ogni età), problemi che non si limitano alla barriera della mascherina. Conferenze stampa quotidiane della Confederazione presentano altresì insidie, come racconta Fredy: «Le seguivo all’inizio, ma ho dovuto smettere perché non riuscivo a capire molte espressioni, malgrado la bravura degli interpreti costretti a parlare troppo velocemente per tradurre». Non tutti hanno dimestichezza con l’informatica come Dario: «Sono un privilegiato del terziario a cui basta un computer per lavorare esattamente come fossi in ufficio». Purtroppo parecchi non si destreggiano nella comunicazione difficoltosa tra videoconferenze e simili. La pedagogista del team dell’Associazione per persone con problemi d’udito Cinzia Santo conferma che diverse persone hanno fatto capo ad ATiDU segnalando queste difficoltà e il peggioramento della comunicazione legata all’uso di mascherine e alla distanza sociale che obbliga a stare lontani: «Ciò comporta chiari problemi di compren-
L’uso delle mascherine priva della possibilità della lettura labiale che per molti deboli di udito è indispensabile. (Marka)
sione reciproca; le mascherine coprono il labiale e l’espressione visiva, elementi importanti nella comunicazione delle persone deboli d’udito, e limitano pure un po’ il suono. Nelle situazioni in cui bisogna comprendere perfettamente ciò che viene detto, come ad esempio dal medico, ciò genera maggiore stress». Non vedersi più faccia a faccia, comunicazioni con video chiamate, via radio o televisione, la necessità di comprendere attraverso uno schermo, causano non poche difficoltà ai deboli d’udito, creando insicurezza e inadeguatezza per non sentirsi al passo con ciò che ritengono essenziale sapere. Per contenere stress e ansia (che si aggiungono alle difficoltà della situazione di emergenza), ATiDU ha messo in atto alcune strategie con la collaborazione di Pro Infirmis e della Federa-
zione svizzera dei sordi: «Abbiamo distribuito un volantino esplicativo per le persone udenti, che spiega come venirsi incontro con i deboli d’udito e coi sordi. Ma tengo a precisare che, dato l’uso necessario ed essenziale della mascherina, comprendiamo che non sia facile, ad esempio nell’ambito sanitario già sotto pressione, adattare nell’immediato anche questi aspetti per le persone con problemi d’udito». Conoscere la problematica significa però non dare sempre per scontata la comprensione, essere più accorti e cercare una soluzione condivisa. «Dal canto nostro abbiamo responsabilizzato i nostri utenti invitandoli a esprimere le loro difficoltà per trovare soluzioni condivise; sensibilizziamo l’udente nell’ambito sanitario e là dove le mascherine sono più usate; auspichiamo
in futuro l’uso di mascherine trasparenti per i famigliari; nel nostro sito e sui nostri social abbiamo comunque sollevato il problema e proposto possibili soluzioni», conclude Cinzia che pensa anche alle difficoltà degli studenti per le video lezioni: «Difficoltà soggettive per le quali vanno individuate soluzioni personalizzate». Con l’uso delle mascherine protratto nel tempo, l’udente non dovrà dare nulla per scontato, il debole d’udito potrà aiutare l’udente a comportarsi nel migliore dei modi per una buona comunicazione reciproca che, talvolta, potrà essere coadiuvata dalla scrittura e da altre soluzioni creative. Informazioni
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Fare la cosa giusta
Quando la povertà mostra il suo volto Per saperne di più su Mariam: caritas.ch/mariam-i
Mariam Khalaf (25 anni), vedova siriana con 3 figli, vive nel campo profughi in Libano
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Società e Territorio
I gruppi di auto-aiuto oggi Socialità In Ticino sono circa una sessantina e a causa del Coronavirus hanno potenziato
le diverse modalità a distanza per rimanere collegati e continuare a «sentirsi gruppo»
«Gli sdraiati» non abitano più qui In casa Riflessioni
durante la pandemia
Silvia Vegetti Finzi
La partecipazione a un gruppo di auto-aiuto è una scelta personale che si basa sullo spirito di solidarietà. (Marka)
Alessandra Ostini Sutto «Credo che il gruppo possa essere una risorsa preziosa per se stessi e per gli altri, credo che nel condividere le esperienze ci si possa sentire capiti e alleggeriti, in uno spazio sicuro e privo di giudizio»; Diana, Disturbi del comportamento alimentare. Quella appena citata è una delle testimonianze che si trovano sul sito del centro Auto Aiuto Ticino, il cui ruolo è promuovere la conoscenza dell’autoaiuto ed informare sui gruppi esistenti, in collaborazione con la struttura mantello Auto Aiuto Svizzera. Le parole della donna permettono di capire come un gruppo di auto-aiuto sia un tempo e un luogo dove sentirsi liberi di esprimere pensieri ed emozioni e dove poter parlare della propria vita, rileggendola con lo sguardo di chi l’ascolta.
L’auto-aiuto promuove il coinvolgimento diretto della persona che si deve attivare, impara a scoprire le proprie risorse e a beneficiare dello scambio con l’altro Denominato nella letteratura specifica anche «self‐help», «autocura» o «auto mutuo aiuto», il concetto designa il fatto che delle persone confrontate ad una stessa situazione di vita si riuniscano per condividere il proprio vissuto e offrirsi sostegno reciproco. In caso di dipendenza, disagio psichico o sociale, disturbo fisico, malattia cronica o qualsiasi altro tipo di difficoltà, ritrovarsi regolarmente con persone nella medesima situazione consente di sentirsi compresi e di non sentirsi soli. Il valore dell’auto-aiuto si basa sull’intuizione che «chi è parte del problema è parte della soluzione». Inoltre, in questo tipo di gruppo, le difficoltà vissute dai partecipanti possono trasformarsi in uno stimolo per una nuova coscienza di sé e del proprio disagio. «Il concetto di auto-aiuto nasce negli Stati Uniti con gli alcolisti anonimi. Questi primi gruppi si sono poi diffusi
in tutto il mondo, Ticino compreso, dove sono nati vari gruppi legati al problema delle dipendenze. Il concetto è stato successivamente applicato ad altre problematiche legate alla salute, in particolare alle malattie croniche, per le quali non c’è una risoluzione ma si tratta di imparare a convivere con i disturbi», spiega Marilù Zanella, responsabile del centro Auto Aiuto Ticino. «Negli ultimi anni sono nati diversi gruppi legati a tematiche sociali, situazioni di vita particolari – come la perdita di una persona cara – o problematiche legate alla genitorialità, al fatto di vivere situazioni familiari o relazionali difficili». Quello dell’auto-aiuto è quindi un settore in costante evoluzione: nuovi gruppi nascono quando alcune persone confrontate ad uno stesso problema si uniscono mentre altri scompaiono per calo di interesse. Altri ancora si trasformano a seconda degli impulsi e dei bisogni dei partecipanti. Esistono così varie tipologie di gruppi per le esigenze più diverse: in Ticino sono una sessantina per oltre 30 tematiche, in Svizzera circa 2000 per più di 300 temi. Oltre ai gruppi per persone direttamente toccate da un problema, ci sono quelli per i familiari. Per promuovere anche nel nostro Cantone la conoscenza e lo sviluppo dei gruppi di auto-aiuto, è stato creato, in seno alla Conferenza del volontariato sociale, il centro Auto Aiuto Ticino. «A seguito di una prima rilevazione dei gruppi esistenti in Ticino, e con la collaborazione della Fondazione Auto Aiuto Svizzera, dal 2007 si è iniziato a sviluppare un lavoro di rete e messa in contatto coi gruppi», afferma Marilù Zanella, che è pure coordinatrice della Conferenza del volontariato sociale della Svizzera italiana. Il Centro – finanziato dall’Ufficio federale delle Assicurazioni sociali e, dal 2018, anche dal Cantone – orienta le persone che cercano un gruppo e sostiene l’avvio di nuovi gruppi, anche per mezzo dell’organizzazione di corsi; offre inoltre momenti formativi per coordinatori e facilitatori dei gruppi già esistenti. Di regola i gruppi sono auto-gestiti, ma in alcuni casi è previsto l’intervento di un professionista nella fase iniziale oppure come «accompagnatore» o punto di riferimento. L’autonomia e l’autodeterminazione restano comunque
gli obiettivi. «La partecipazione ad un gruppo di auto-aiuto è una scelta della persona e ciascuno al suo interno dovrebbe contribuire alla gestione con spirito di solidarietà. L’idea è che ognuno si senta responsabile del funzionamento e del buon andamento del gruppo», spiega Marilù Zanella. Un altro elemento che contraddistingue questo approccio è che non esiste un gruppo uguale ad un altro. La frequenza e le modalità di incontro variano. Così come le attività che si sviluppano attorno ad un gruppo, che spaziano dallo scambio di informazioni ed esperienze al sostegno reciproco, dall’incontro conviviale ai momenti di socializzazione. L’auto-aiuto non si può quindi ricondurre univocamente all’immagine ricorrente in romanzi, film e serie TV di un gruppo di persone sedute in cerchio che presentano sé stesse e la propria problematica. Come detto in precedenza, in un gruppo di autoaiuto si condividono vissuti e strategie di soluzioni, scoprendosi risorsa per sé, per i compagni e, perché no, per l’intera comunità. Tutto ciò che produce questi effetti è definibile come auto-aiuto, al di là delle forme che prende. Forme sulle quali la situazione contingente gioca inevitabilmente un’influenza. Anche gli incontri dei gruppi di auto-aiuto e i corsi di formazione ad essi connessi sono infatti, ovviamente, toccati dalle misure emanate dalle autorità cantonali e federali in seguito al diffondersi del Coronavirus. «Per compensare il fatto di non potersi incontrare, anche i gruppi di auto-aiuto hanno potenziato le modalità a distanza, sentendosi quindi telefonicamente, incrementando l’uso dei social network e dei gruppi whatsapp e facendo dei collegamenti online tramite i quali i membri hanno modo di vedersi. Riescono così a restare collegati e, soprattutto, a continuare a sentirsi “gruppo”, aspetto centrale in questo ambito. Nella fase iniziale, Auto Aiuto Svizzera ha messo a punto delle indicazioni da dare ai vari gruppi per aiutarli a proseguire temporaneamente le proprie attività con queste nuove modalità che evitano il contatto diretto», commenta la coordinatrice della Conferenza del volontariato sociale, che, pure, in questo momento di crisi, ha voluto fare la propria parte
sensibilizzando le varie organizzazioni che riunisce ad assumere comportamenti responsabili e «reinventare» il modo in cui esse sostengono chi è nel bisogno. «Attualmente riceviamo delle richieste da parte di persone che vorrebbero rendersi utili, magari perché al momento non possono svolgere il proprio lavoro. In questi casi, consigliamo di cominciare col verificare se nel proprio vicinato o giro di conoscenze vi siano persone anziane che possono aver bisogno che gli si vada fare la spesa o che potrebbero trovare conforto anche solo in qualche telefonata. Successivamente consigliamo di rivolgersi al proprio Comune di residenza. Praticamente tutti i Comuni hanno infatti attivato dei servizi di consegna della spesa agli anziani, in collaborazione con gruppi di volontari locali o magari con i negozi del posto», continua la coordinatrice dell’Associazione. Lasciando l’emergenza Coronavirus e tornando all’auto-aiuto, possiamo affermare che il fenomeno vive attualmente una fase di crescita: «Sempre più si riconosce l’importanza di valorizzare le esperienze e le competenze delle persone direttamente toccate da una problematica, perché sono le prime specialiste del tema, lo conoscono da dentro e hanno sviluppato accorgimenti e modalità per alleggerire il carico pratico ed emotivo, che possono essere messe a beneficio di altri», spiega Marilù Zanella. La condivisione, quindi, è fondamentale: «All’inizio per alcuni ci può essere la difficoltà di aprirsi e parlare con altri del proprio vissuto. Ma poi si scopre la bellezza e la forza di trovarsi in un gruppo dove le storie degli altri risuonano dentro di noi, ci parlano perché l’altro ha un vissuto simile e capisce ciò che sto vivendo», aggiunge la responsabile del centro Auto Aiuto Ticino, che continua: «rispetto ad un sostegno di tipo professionale, l’auto-aiuto mira a promuovere proprio il coinvolgimento diretto della persona, che si deve attivare e impara a scoprire le proprie risorse e beneficiare dello scambio con gli altri: l’esperienza dell’altro è di aiuto a me, e la mia esperienza è di aiuto all’altro. Un approccio che non si sostituisce all’intervento dei professionisti, ma lo completa, nell’ottica di favorire salute e benessere».
Qualche sera fa ho sentito per la prima volta bisticciare i due liceali, fratello e sorella che abitano l’appartamento accanto. Due mesi di segregazione, condividendo la medesima stanza con letto a castello, sono una prova impegnativa per tutti, figuriamoci per giovani abituati ad andare a scuola, fare sport, circolare da un ambiente all’altro, stare insieme e da soli. Senza contare che a quell’età il compito di sviluppo consiste proprio nel diventare se stessi, magari diversi da come i genitori li avevano immaginati e cresciuti. Per attuarlo hanno bisogno, senza spezzare i legami affettivi, di prendere le distanze dalla casa e dalla famiglia. Di solito questa spinta crea qualche conflitto, poi tutto si appiana. All’improvviso però tutto è cambiato e la segregazione domestica li ha messi di fronte a una prova senza precedenti cui, a detta di tutti, stanno reagendo piuttosto bene, forse meglio di noi adulti. Tanto che gli epiteti con i quali li avevamo qualificati, o meglio squalificati, risultano ora ingiustificati. Gli «gli sdraiati», i «né-né» (nel senso né studio né lavoro), gli «alieni» non abitano più qui. Narcisisti, egoisti e consumisti, i ragazzi del «tutto griffato» sembrano scomparsi. Il loro posto è stato preso da giovani all’altezza della situazione, composti e responsabili, disposti a studiare a distanza, a non incontrare i compagni e gli insegnanti, pronti a rimpiangere la scuola che sembrava affliggerli. Ieri la mamma dei due fratelli, cui chiedevo come se la cavano i ragazzi, mi confidava: «sin troppo bene. Il mattino seguono le lezioni online, il pomeriggio fanno i compiti e tutto il resto del tempo lo passano bisbigliando al cellulare, leggendo o dando una mano in cucina e, quando li invito a uscire un po’, a prendere una boccata d’aria, mi rispondono che non ne hanno voglia». Stiamo crescendo una generazione di monaci benedettini? Oppure quando apriremo la porta di casa ne uscirà una folla scatenata decisa a recuperare il tempo perduto? Non so ma credo che questa impegnativa esperienza li stia cambiando. Chi sta vivendo il primo innamoramento ha dovuto tradurre lo slancio in parole sussurrate che riproducono, con mezzi diversi, l’epistolario con cui i fidanzati imparavano un tempo a conoscersi reciprocamente e a conoscere se stessi. Forse questo ritiro forzato li sta preparando ad affrontare il mondo che gli lasceremo in eredità, un mondo che non va riformato ma ripensato. Saranno all’altezza della sfida? Spero di sì anche se non si cambia per necessità ma per intima convinzione.
Anche chi sta vivendo il primo innamoramento ha dovuto adattarsi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 aprile 2020 • N. 18
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Società e Territorio Rubriche
Approdi e derive di Lina Bertola Una nuova cultura del silenzio Le persone che incontro, seppure a debita distanza, durante le mie passeggiate quotidiane, spesso stanno parlando al telefono. Parlano, parlano, a voce alta, senza nemmeno alzare lo sguardo sullo splendido panorama primaverile che accoglie e accompagna i loro passi. Certo, di persone con gli occhi puntati sul telefonino se ne incontravano già prima, perse a guardare dentro lo schermo, in silenzio, in una specie di esilio dal mondo. Oggi invece attraverso il telefono esplodono tante parole, spesso anche urlate, in una danza polifonica che sembra voler sfidare, e se possibile anche sconfiggere, questa inattesa esperienza di isolamento. Ciò non stupisce. Al contrario, ci ricorda che la parola è la casa in cui abitiamo. La nostra civiltà nasce dall’oralità e dal dialogo. L’uomo è un animale simbolico: più che a contatto con le cose, vive dentro i significati che attribuisce loro.
La storia umana è racconto, è narrazione; ciascuno di noi, in un certo senso, vive dentro il proprio racconto e lo intreccia con il racconto degli altri. Con i nostri linguaggi abbiamo dato voce al mondo, abbiamo donato parole alla vita, alle sue passioni, ai suoi sentimenti. E queste parole della vita le abbiamo condivise, perché comunicare significa mettere in comune doni, abitare un luogo comune. Per questo la parola è anche luogo della trascendenza, perché fonda sempre altri mondi, moltiplica i mondi possibili e la nostra possibilità di condividerli. Proprio come succede al Piccolo Principe che, dopo aver chiesto al suo interlocutore di disegnargli una pecora, decide che la pecora più bella, la più vera, è quella invisibile, addormentata dentro una scatola chiusa. È un’immagine intensa del magico racconto di Saint-Exupéry. Il dialogo, delicato e rarefatto suscitato dal disegno, ci offre un messaggio molto
significativo: la parola vera comincia solo quando l’invisibile diventa visibile, quando riusciamo a riconoscerci in una dimora comune, abitata da parole condivise. Ma comunicare vuol dire anche mettere in comune un impegno (munus significa dono ma anche impegno); comunicare è rispondere all’altro che mi interpella. Secondo una bella espressione di Nietzsche, parlare significa poter leggere nell’anima dell’altro, perché la lingua comune è l’espressione sonora di un’anima comune. «Parlare» scrive il filosofo«è in fondo la domanda che io pongo al mio simile per sapere se egli ha la stessa anima che ho io». La parola, insomma, può rivelare l’anima. Oggi questa esperienza costitutiva del nostro stare al mondo e del nostro incontro con l’Altro, appare spesso tradita. Tradita e mortificata dentro una comunicazione globale che rischia di svuotare la parola di ogni suo intimo
valore e di ogni sua possibile verità. Tradite e depotenziate in una comunicazione globale che diventa un «non luogo», le nostre parole sembrano danzare, perlopiù solitarie e troppo spesso inascoltate, sulla superficie di un grande spettacolo in cui siamo tutti convocati ad esibire le nostre vite. Eppure, nell’isolamento di oggi, il bisogno di parlare torna forse a volersi mostrare come bisogno di un autentico luogo comune. E questo bisogno potrebbe così rivelarsi come un antidoto insperato al vuoto e all’insignificanza di troppe parole diventate soltanto rumore di fondo. Insomma, nella «passeggiata-chiacchierata» potrebbe nascondersi il desiderio di un ritorno alla parola autentica. Questi fragili indizi non sono però da ricercare nelle mille frasi liberate al vento camminando, ma in ciò che le parole non dicono. Sono indizi che abitano un silenzio: il silenzio che precede e che accompagna i nostri discorsi. Perché solo da questo
silenzio possono nascere i significati più veri: l’uomo che parla cerca un dialogo con sé stesso per incontrare il mondo. Sarebbe bello se proprio l’esperienza faticosa di questi giorni potesse aprirci a una nuova cultura del silenzio. E se potesse farci riconoscere ciò che sempre abbiamo saputo, ovvero che le parole autentiche nascono dal silenzio. Oggi, in verità, anche il silenzio appare tradito nella sua essenza. Un silenzio percepito come minaccia del vuoto, o come punizione: stai zitto! Un silenzio tradito e privato dei suoi molteplici significati: attesa, ascolto, contemplazione, e soprattutto occasione per dare un senso personale alle parole che doniamo agli altri. «Se la parola che pronuncio non si radica in un silenzio di cui sono capace – scrive la filosofa Luce Irigaray – allora non è mai davvero mia». E aggiunge: «Questo silenzio di cui sono capace è anche la prima parola di accoglienza verso l’altro».
allegria. Le querce e i cinguettii, al contempo, provocano stordimento da pomeriggio di metà aprile e fantasticherie. Angolo prediletto da Rousseau nei suoi giri sull’isola, era il posto dove gli abitanti delle vicine rive si riunivano per ballare le domeniche di vendemmia. Libri al rogo, un ordine di arresto a Parigi, preso a sassate a Môtiers, il pensatore ginevrino si rifugia qui per sei settimane tra settembre e ottobre. «Mi hanno lasciato trascorrere soltanto due mesi in quell’isola, ma vi avrei trascorso due anni, due secoli, tutta l’eternità senza annoiarmi di un solo minuto» scrive nella Quinta passeggiata, la più ispirata delle dieci passeggiate che compongono Les rêveries: ultima opera, postuma e incompiuta. Prezioso far niente, libri accantonati, nessuna scrivania, rimanere per ore sdraiato nella barchetta al largo, erborizzare qua e là tutto il giorno. Così ricorda il delizioso tempo qui sull’isola, anni dopo, prima di morire, Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) nel pieno della sua paranoia e ormai afflitto da manie
di persecuzione. Anemoni ammantano la radura dove le tre steli, di calcare chiaro, con un cosmogramma sopra – epicentro, pare, di altre venticinque sparse in giro nel Seeland – sono state messe lì da Marko Pogačnik, geomante sloveno classe 1944, inventore della litopuntura. Sbircio nel padiglione e nella penombra, oltre al bel camino di marmo nero, rapiscono lo sguardo le trentadue sedie di legno accatastate: lo schienale è di quelli forati a forma di cuore. M’incammino nel bosco, continuando a girarmi, per abbracciare ancora, da una certa distanza, con la prospettiva del sentiero tra le querce, il pavillon-colpo di fulmine. All’imbarcadero, nascosto in un angolo all’ombra di una siepe trascurata di bosso, trovo il busto di Rousseau posto lì nel 1904, epoca in cui si sono inventati la sua stanza con mobilio posticcio e botola per scappare. Il volto in bronzo, ossidato, con alcune tonalità verderame, avvicinandomi un po’, assomiglia tantissimo all’ex calciatore tedesco Karl-Heinz Rummenigge.
ne ad hoc. Dunque sopravviveranno quelle redazioni in grado di creare e diffondere una cultura organizzativa online negli spazi digitali, di attuare strategie accurate per individuare le migliori tecnologie e strumenti da mettere in campo, di esplorare nuovi tipi di prodotti editoriali e modalità di coinvolgimento dei lettori, veloci e duttili nell’offrire al proprio pubblico le informazioni che richiede. Quando l’emergenza sarà finita la struttura digitale messa in piedi dovrebbe continuare a funzionare di pari passo con i luoghi fisici per capitalizzare tutto ciò che ha reso efficiente il lavoro, ha creato benefici sostenibili, maggiore accessibilità e diversità delle redazioni, crescente flessibilità e opportunità di coinvolgimento. Insomma immaginatevi delle redazioni che si abituano a lavorare e interagire da remoto risparmiando ingenti costi di infrastruttura e di affitto generando maggiori risorse
per il lavoro dei giornalisti e perché no, dei freelance, che a seconda delle loro specifiche competenze potrebbero essere maggiormente coinvolti rispetto ad oggi. Pensiamo se ci fossero delle piattaforme tipo Upwork che raccolgono e mettono a disposizione profili e competenze di giornalisti freelance in tutto il mondo. Tom Trewinnard ne è certo, se implementate correttamente con team ripartiti per competenza, mansioni e ruolo, le redazioni digitali possono essere degli spazi coinvolgenti e vivaci in grado di sviluppare una propria cultura lavorativa, nuove modalità di lavoro, sostenere una produzione collaborativa e un giornalismo di alto impatto. Come dice Rasmus Kleis Nielsen, professore di comunicazione politica, il modello di business as usual per l’industria delle news è morto e se qualcuno aveva ancora dei dubbi su questo concetto, il Covid-19 l’ha reso chiarissimo.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf L’isola di San Pietro Isola fino a gran parte dell’Ottocento, protagonista assoluta delle Fantasticherie del passeggiatore solitario (1782) di Rousseau e luogo ideale nel 1127 per un priorato cluniacense, per via dell’abbassamento del livello del lago causato dalla correzione delle acque del Giura, verso il 1870, diventa penisola. Eppure, nonostante l’istmo emerso che spezza l’incanto dell’insularità, ne conserva ancora oggi il nome. E per raggiungere l’isola nel canton Berna, con i tempi che corrono, senza i battelli della Società di Navigazione del lago di Bienne, la lingua di terra che parte da Erlach, torna utile. In quarantacinque minuti a passo quasi di marcia, percorro la strada sabbiosa tra i canneti. Assaporo, infine, l’ombra del boschetto dell’ex isola sul territorio di Twann ma di proprietà del patriziato di Berna. Da annotare, l’incontro, un attimo fa, con un’altra ex isola oggi ridotta soltanto a una collinetta segnalata sulle cartine topografiche come Chüngeliinsel. Toponimo in Schwiizerdütsch per indicare l’isola dei Conigli. Isolotto piuttosto, popolato
da conigli a partire dall’autunno 1765: idea di Rousseau. Il benvenuto sull’isola di San Pietro (433 m), St. Petersinsel o Île Saint-Pierre come si legge scritto in piccolo nella didascalia di certe litografie ottocentesche incorniciate negli uffici di un certo gusto, me lo danno le mucche angus. Nerissime e lucide, brucano l’erba beate e rimbambite. Maestre nel godersi il presente o rassegnate, purtroppo, a essere carne da macello. Inverosimile, una camera di Rousseau – scacciato da qui e utile solo da morto e sepolto da sfruttare come attrazione turistica – esiste da visitare, nel convento di un tempo oggi hotel-ristorante chiuso fino a non si sa quando. Dove ci passo accanto ora, per salire al pavillon nel punto più alto dell’isola. Viene naturale chiamarla così, ne ha ancora tutta l’aria. Vigneti di chasselas si distendono addormentati, a ridosso del convento-hotel dal quale spunta un campanile. La vista si apre sul lago calmo, incredibile come gli alberi si rinverdiscano in fretta, in aprile, nel giro di un paio di settimane. Nella
radura di un antico bosco di querce, appare il meraviglioso pavillon ottagonale ricoperto di scandole. Tetto a bulbo, coronato da parafulmine, una persiana chiusa una no, porta aperta. Tengo da parte il piacere di buttarci dentro un occhio e mi sdraio nell’erba, all’ombra di una quercia secolare, con vista sul lago e i vigneti di Ligerz, nel bel mezzo dei quali spicca la chiesa tardogotica riformata. Da quella riva, l’isola, appare due volte, di sfuggita, sullo sfondo delle indagini del commissario Bärlach, svolte quasi tutte in quelle zone, tra le pagine di Il giudice e il suo boia (1952) di Dürrenmatt. Il pavillon prende tutta la scena; con la coda dell’occhio vedo tre stele piantate tra gli alberi. Troppo stanco e affamato per andare a indagare, preparo, invece, il picnic: pane di spelta, mozzarella di bufala, pomodorini datterini, fragole con la panna. Costruito nel 1725, per desiderio di un certo Johann Rudolf Dachselhofer (1691-1756), militare amante di feste campestri e vino bianco, il padiglione isolano con tanto di camino, emana
La società connessa di Natascha Fioretti Appunti per il futuro di una freelance Il lavoro freelance, in crescita già prima della pandemia, potrebbe ricevere un’altra spinta in avanti. Tra i vantaggi della reclusione abbiamo infatti scoperto le potenzialità del lavoro da remoto. E se, l’economia freelance nel mondo sta vivendo un vero boom e plasmando nuovi paradigmi di lavoro, non è soltanto grazie alle tecnologie sempre più performanti ma grazie alle scelte delle nuove generazioni, quelle dei millennials (nati tra il 1981-1996) e della generazione Z (nati tra il 1997-2012). Secondo lo studio Payoneer, società di servizi di trasferimento di denaro online e servizi di pagamento digitale, su oltre 7000 freelance intervistati in tutto il mondo, il 70% ha meno di 35 anni. L’Asia ha il numero più alto, 82%. I giovani lavoratori chiedono maggiore indipendenza e nuove opportunità, nei paesi avanzati il 54% di tutti i millennials puntano sul lavoro indipendente per una questione di stile di vita: più
libero, più indipendente e, pare, più produttivo. Intanto i mercati digitali e i social media offrono nuove possibilità per promuovere il proprio talento e le proprie competenze. Stando allo studio dell’Oxford Internet Institute, grazie a piattaforme come Upwork, Freelancer e PeoplePerHour che raccolgono un enorme database di professionisti indipendenti certificati, molte aziende, dalle start up alle multinazionali, si rivolgono sempre di più online e ai freelance per trovare competenze specifiche adatte per un determinato progetto. Il CEO di Upwork Stephane Kasriel, in un articolo pubblicato sul sito del World Economic Forum, dice che in futuro il lavoro da remoto diventerà la norma, le persone vivranno nelle città che preferiscono, ovvero quelle che offrono condizioni di vita più attraenti in ambienti tecnologicamente amichevoli. Ai tempi del Covid-19 anche le reda-
zioni dei media, penso soprattutto a quelle dei giornali, hanno introdotto il lavoro da remoto cambiando le abitudini e i processi di produzione delle notizie. E insegnandoci, a quanto pare, che le redazioni fisiche non sempre sono indispensabili e, in periodi di crisi come quello attuale e a venire, molto probabilmente segnato da una recessione globale, rappresentano un elevato costo per le aziende. Significa che un’azienda può risparmiare da un lato per mantenere dall’altro ciò che le è più vitale: lo staff editoriale e commerciale. È quanto sostiene anche Tom Trewinnard su NiemanLab quando afferma che le redazioni in grado di sopravvivere in un’era post Covid-19 saranno quelle che continueranno a sviluppare e affinare flussi lavorativi, processi e strutture secondo una logica distributiva, per cui si creano dei team di competenza e delle procedure di produzione, revisione e pubblicazio-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 aprile 2020 • N. 18
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Ambiente e Benessere Scattata una «fotografia acustica» Allo scopo d’individuare i tratti bisognosi di risanamento fonico, il Dipartimento del territorio ha allestito nel 2016 un catasto del rumore stradale
Asparagi al pesto Pistacchi salati, basilico, aglio e sbrinz per donare una decisa nota di sapore
Aziende turistiche in crisi La pandemia azzanna alla gola l’industria del turismo che paga lo scotto del gigantismo
Lo sport va in rete Molti atleti e allo stesso modo squadre intere si allenano e pure si confrontano virtualmente pagina 23
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A quando un vaccino?
Covid-19 La situazione attuale legata
al coronavirus stimola più di una riflessione sui vaccini – 1. parte
Maria Grazia Buletti Abbiamo imparato sulla nostra pelle che dobbiamo contrastare questo virus con le maniere forti: distanza sociale, mascherine, igiene delle mani e disinfettanti. E tempo, avremo bisogno di tempo: per pazientare ottemperando alle necessarie misure di confinamento, per la ricerca di farmaci efficaci a curare una virulenza molto (troppo) grande, nella ricerca e nello studio degli anticorpi di chi è guarito, e infine, ma non per importanza, ci vuole tempo per la realizzazione di un vaccino. «Potremo affermare di essere davvero riusciti a liberarci da questo virus solo quando avremo a disposizione un vaccino. Nel frattempo, dovremo tutti contribuire al contenimento della pandemia, imparando, anche nelle fasi di allentamento, a rispettare le chiare regole di distanza sociale mai attuate prima, senza escludere la possibilità che in autunno il Covid-19 si rifaccia vivo». Quest’ultima affermazione dell’infettivologo e pediatra Alessandro Diana è pure suffragata dall’immunologo statunitense Anthony Fauci e da tutti gli specialisti. Abbiamo già incontrato il nostro interlocutore («Azione» del 9 dicembre 2019) che, in tempi non sospetti, ci ha spiegato l’importanza di ricordare la conquista dei vaccini alla nostra società che pare non averne sempre memoria storica. Oggi parliamo nuovamente con lui, che da infettivologo sta seguendo ogni progresso della ricerca di evidenze scientifiche nella lotta al coronavirus. Evidenze che purtroppo spesso si intersecano con notizie svianti: «Non penso ci sia cattiva intenzione nel dare messaggi fuorvianti su farmaci e vaccini, ma dobbiamo stare attenti all’interpretazione dei dati: nel mondo scientifico è stata messa in opera un’open source (ndr: libero accesso a tutte le informazioni in continuo aggiornamento); osservazioni che non devono essere prese per dati di fatto, perché si tratta per l’appunto di studi osservazionali ancora senza potenza statistica e senza valore di evidenza scientifica». Non bisogna lasciarsi dunque trascinare da notizie (che tali non sono) sulla miracolosità della clorochina, su improbabili scoperte di un vaccino che
necessita per contro di sperimentazione e verifiche di causa-effetto di lunga durata, e via dicendo. Inoltre, il dottor Diana ci rende attenti sull’evoluzione veloce della situazione in cui: «L’informazione riportata il 20 marzo da un articolo seppur autorevole, ad esempio, del “New England”, potrebbe non essere del tutto valida a un mese di distanza e non perché la scienza sia stata imprecisa, ma perché ci vuole tempo: osservazionale, di raccolta e interpretazione dei dati e per approntare farmaci da commercializzare e in definitiva per trovare il tanto agognato vaccino». Un monito anche alla «lettura dei soli titoli degli studi» riportati dalla valanga di informazioni che ci sommerge: «Non si tratta di conclusioni e anche gli esperti dovrebbero stare attenti: scientificamente un’ipotesi non è una deduzione, anche se la scienza necessita di deduzioni». Un esercizio difficile anche per il mondo scientifico, dunque, proprio perché si tratta di una malattia nuova: «Nessuno, fino al 20 gennaio, ne aveva sentito parlare». Chiediamo lumi sulla veridicità dell’arrivo di test per l’identificazione degli anticorpi e sulla loro importanza: «Il tampone attuale cerca il virus stesso, ovvero va ad amplificarne il codice genetico e ciò significa che il paziente risultante positivo al tampone ha il virus nel suo sistema nasofaringeo. Il test anticorpale misura la presenza nel sangue della risposta del nostro sistema immunitario, vale a dire: valuta se i nostri globuli bianchi producono una sostanza specifica su quel virus». Questo spiega come la ricerca degli anticorpi permetterà di dare due risposte: «Sapremo quante persone sono entrate in contatto con il virus e sono poi guarite dalla malattia, e in secondo luogo capiremo se diventeremo realmente immuni una volta avuta la malattia, compreso per quanto tempo questi anticorpi risulteranno protettivi. La sierologia (ricerca anticorpi) è importante per il fatto che permette di identificare chi ha passato la malattia in modo naturale per permettere alle persone che ne sarebbero protette di entrare in relazione». Pensiamo quindi che sarebbe una strada utile alla determinazione della strategia per una ripresa economica: «Chi ha fatto la malattia può tranquillamente riprendere».
Il dottor Alessandro Diana, infettivologo alla Clinique des Grangettes Hirslanden di Chêne-Bougeries nel canton Ginevra. (Jorge Stamatio)
Urge comunque sviluppare un vaccino efficace contro questo virus particolarmente aggressivo. Il mondo scientifico vi sta alacremente lavorando. Ci sono progressi che però non devono trarre in inganno perché il percorso richiede, lo abbiamo compreso, il tempo necessario e di miracoli non ne fa nessuno. «I precedenti studi sulla SARS (altro coronavirus) ci permettono di essere abbastanza avanzati nella ricerca del vaccino e questo può accorciare i tempi». Ma non dribblarli. Sono diverse le fasi, infatti, per lo sviluppo di un vaccino: «La fase 1 serve a determinarne la sicurezza: dallo studio sugli animali alla sicurezza nell’utilizzo sull’uomo (40-50 pazienti circa). La seconda fase è della durata di 2 o 3 mesi e comporta lo studio dell’immunogenicità per misurare il tasso de-
gli anticorpi nel sangue, rispondendo alla domanda: il vaccino induce gli anticorpi?». L’infettivologo spiega che la terza fase si concentra sull’efficacia vera e propria: «Il fatto che il vaccino induca la produzione di anticorpi ancora non significa che, de facto, esso funzioni davvero: bisogna dimostrare che gli antigeni sono “buoni” e la reale protezione». Quest’ultima fase richiede più tempo: «In genere 9-12 mesi, perché bisogna seguire un gruppo di persone vaccinate versus persone non vaccinate, indagando se quelle vaccinate risultano protette rispetto a quelle che non hanno ricevuto il vaccino». Facendo due calcoli: un vaccino validato non sarà ragionevolmente pronto prima 12-18 mesi anche se: «La letteratura scientifica non esclude che,
avendo un vaccino sicuro che induce anticorpi, questo possa essere immesso sul mercato malgrado non si sia passati dallo studio di efficacia. In ragione della gravità della pandemia sarebbe la strategia di provare il tutto per tutto e gli studi di efficacia proseguiranno con il vaccino sul mercato». Una decisione che competerà alle autorità preposte: «Col rischio di avere un vaccino che, in assenza di studi di efficacia, potrebbe non funzionare a dovere». Sarà una grandiosa scoperta, non solo economica, che la Food and Drug Administration e altre agenzie di omologazione annunceranno a tempo debito. Nel frattempo, sempre con il nostro interlocutore, sul prossimo numero di «Azione» riporteremo una riflessione su chi i vaccini, fino ad ora, non li contemplava.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 aprile 2020 • N. 18
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Ambiente e Benessere
Ridurre il rumore stradale
Sensibilizzazione Dal 2016 esiste una «fotografia acustica» del Ticino per orientare i progetti di risanamento fonico
a protezione della popolazione – Il 29 aprile è prevista la giornata contro il rumore
Elia Stampanoni Il rumore è definito come un segnale di disturbo che, come i più graditi suoni, è costituito da onde sonore. La differenza sta proprio nelle caratteristiche acustiche ma anche nella percezione che può essere molto soggettiva e diventare quindi fonte di fastidio. I possibili effetti sono svariati: dalla semplice seccatura fino a conseguenze a livello psichico, quali malessere e stress, oppure fisico, quali disturbi del sonno, uditivi o ipertensione. Sono poi realistiche anche ripercussioni a livello economico, per esempio in caso di perdita di valore degli immobili esposti in modo esagerato a fonti di emissione di rumore. Fonti che possono essere di varia natura, ma che nella nostra regione, in una situazione ordinaria, provengono principalmente dal traffico stradale, a cui seguono le emissioni delle ferrovie, del traffico aereo e dei poligoni di tiro. Si aggiungono poi anche alcune origini più puntuali che colpiscono un numero ristretto di persone, quali gli impianti industriali e artigianali, i cantieri, le cave o gli esercizi pubblici, come illustrato sulla pubblicazione STAR 2017 (l’ultima pubblicata), la Statistica ticinese dell’ambiente e delle risorse naturali, dove le fonti di rumore sono considerate come un «prodotto di scarto delle attività umane» e si trovano «in prevalenza nel fondovalle, dove vive più del 90 per cento della popolazione». Si calcola che circa il 20 per cento degli edifici abitativi e il 35 per cento della popolazione in Ticino siano esposti a un carico fonico esagerato (Star 2017). Ed è proprio per proteggere la popolazione da questi eccessi che negli anni si sono resi necessari sia interventi di protezione sia misure di prevenzione. Proprio allo scopo d’individuare i tratti bisognosi di risanamento fonico, il Dipartimento del territorio ha allestito nel 2016 un catasto del rumore stradale. Si tratta di una «fotografia acustica» del Ticino in grado di orientare e assegnare le priorità d’intervento, sulla base della quale sono stati elaborati i progetti di risanamento fonico ritenuti allora prioritari. L’allestimento del catasto era parte del messaggio licenziato nel luglio del 2016 dal Consiglio di Stato riguardante la richiesta, formulata dal Dipartimento del territorio, di un
credito quadro netto di 11 milioni di franchi e l’autorizzazione alla spesa di 15 milioni di franchi per l’esecuzione degli interventi di risanamento fonico delle strade cantonali per il periodo 2016-2019.
Una pavimentazione è fonoassorbente se per tutta la sua durata riduce il rumore di almeno un decibel A marzo del 2019 è poi stato licenziato un altro credito di 50 milioni per finanziare parte degli interventi, quelli ad oggi prioritari, previsti dai progetti di risanamento fonico delle strade cantonali. Si tratta dei progetti di risanamento fonico degli agglomerati del Mendrisiotto e Basso Ceresio, del Bellinzonese e Locarnese-Vallemaggia, della Riviera e Valli e del Luganese, messi in consultazione e in seguito approvati dal Dipartimento del territorio (al momento manca ancora l’approvazione per quello del Luganese). Dall’entrata in vigore dell’Ordinanza federale sull’inquinamento fonico (OIF) nel 1987, la Confederazione e i Cantoni hanno inoltre stanziato circa sei miliardi di franchi per realizzare misure di prevenzione. Investimenti importanti che, secondo l’Ufficio federale dell’ambiente, hanno permesso di proteggere circa 160mila persone dall’eccessivo rumore stradale. Sul catasto, consultabile all’indirizzo https://www.oasi.ti.ch/web/catasti/esposizione-rumore-stradale.html è possibile visionare i risultati ottenuti, tra cui un calcolo delle emissioni diurne e notturne, sia per l’anno 2016 sia in proiezione per l’anno 2036. Per l’elaborazione dei catasti è stato utilizzato il modello di emissione e di propagazione StL86+, sviluppato dall’EMPA, il Laboratorio federale di prova dei materiali e di ricerca, che tiene conto della topografia del terreno e degli effetti delle riflessioni sugli edifici e altri ostacoli, come muri, barriere antirumore. Emissioni e immissioni foniche sono quindi di principio calcolate teoricamente, ma i risultati possono essere verificati puntualmente tramite misurazioni. Per verificare l’attendibilità
del modello di calcolo dell’EMPA, sono inoltre stati eseguiti dei rilevamenti fonici di breve durata e in condizioni meteorologiche ottimali, vale a dire in assenza di vento e durante giornate asciutte, in quanto solo con questi presupposti i valori medi stimati sono riproducibili. I risultati ottenuti hanno confermato l’affidabilità del modello, la cui precisione si situa a circa ± 2 decibel (dB) e le cui incertezze sono possibili soprattutto a una certa distanza dalle fonti di rumore, dovute in particolare agli effetti della meteorologia e del suolo. «In casi particolari possono essere eseguite dalle autorità anche delle misure puntali – aggiunge Ennio Malorgio, Capo dell’Ufficio della prevenzione dei rumori del Dipartimento del territorio del Cantone Ticino – sia legate al rumore stradale, sia per esempio anche in caso di nuove costruzioni, per verificare delle possibili incongruenze tra i dati inseriti nella licenzia edilizia e quelli effettivamente riscontrabili a fine lavori». Si stima che in Ticino circa 350 chilometri di strade cantonali e 70 chilometri di strade comunali siano fonicamente da risanare (STAR). Il rinnovo della pavimentazione con asfalto
fonoassorbente permette per esempio una diminuzione dell’inquinamento fonico lungo l’asse di transito di alcuni decibel. «Questo valore è inizialmente ancor più elevato ma con il passare del tempo l’asfalto perde parte della sua capacità fonoassorbente, garantendo comunque ancora un’efficacia dopo dieci anni. Si stima una riduzione del rumore di almeno 3 dB(A), decibel ponderato A, sull’arco di dieci anni, che equivale al beneficio che si otterrebbe con un dimezzamento del traffico», precisa il Capo dell’Ufficio della prevenzione dei rumori. Come indicato dall’Ufficio federale dell’ambiente, una pavimentazione è considerata fonoassorbente se per tutta la sua durata di vita contribuisce a ridurre il rumore di almeno 1 decibel rispetto a una miscela di asfalto convenzionale. I fattori che ne influenzano le proprietà acustiche sono la granulometria, la conformazione, la porosità e l’elasticità della superficie stradale. Per la posa, invece, si cerca dove possibile di coordinarsi con altri lavori in agenda: «Laddove già si deve intervenire per il rifacimento dell’asfalto o delle sottostrutture, si approfitta dei lavori per posare lo strato di asfalto fono-
Una giornata contro il rumore Anche la Svizzera, su iniziativa delle associazioni Cercle Bruit, Società Svizzera di Acustica, Lega svizzera contro il rumore e Medici per l’ambiente, partecipa dal 2005 alla giornata internazionale dedicata alla sensibilità al rumore (International Noise Awareness Day) che fu proclamata per la prima volta nel 1956 dalla «League for the Hard of Hearing» di New York. L’evento beneficia del sostegno dell’Ufficio federale dell’ambiente, della Commissione federale per la lotta contro il rumore e dell’Ufficio federale della sanità pubblica. Si pone come obiettivo d’illustrare ogni anno un aspetto diverso della problematica legata al rumore. Anche il Dipartimento del territorio del Cantone Ticino vi aderisce e nel 2020 l’evento si svolgerà mercoledì il 29 aprile
all’insegna del motto «Abbasso il fracasso» (v. immagine), in un contesto di certo particolare, ma ponendo comunque l’attenzione sul fatto che, come si legge sul comunicato stampa: «Il rumore disturba e fa ammalare e, soprattutto di notte, sempre più persone si sentono infastidite dal rumore inutile di motori». La Giornata contro il rumore del 29 aprile intende quindi sensibilizzare soprattutto sul rumore superfluo dei veicoli a motore che disturba il sonno e, di conseguenza, compromette la salute. Gran parte della responsabilità, riportano i promotori dell’evento, è infatti delle persone in sella o al volante: accelerazioni inutili tenendo le marce basse, così come uno stile di guida a giri elevati e spinto al limite di velocità, sono due classiche fonti di rumore eccessivo (informazioni: http://www.laerm.ch).
assorbente – spiega Ennio Malorgio – mentre in altri casi, di regola, si esegue una fresatura superficiale dell’asfalto esistente, su cui si posa quello nuovo». Oltre alle pavimentazioni fonoassorbenti, altri accorgimenti vengono adottati, in determinate circostanze, per ridurre l’emissione di rumore, per esempio la riduzione delle velocità, una misura messa in atto soprattutto dove gli agglomerati si sono espansi negli anni. Anche qui, abbassando le velocità di cartello da 60 a 50 oppure da 80 a 60 o a 50 km/h, si calcolano dei benefici variabili tra 1 e 3 dB(A). L’efficacia acustica dei ripari fonici è pure accertata e si situa tra i 5 e i 15 dB(A), ma questi li troviamo principalmente sui tratti autostradali, che sono di competenza dell’Ufficio federale delle strade (Ustra). Su strade cantonali e comunali manca sovente lo spazio necessario per posarli, ed è inoltre anche difficile o impossibile un inserimento armonioso nel contesto urbano e paesaggistico, in quanto la conformazione degli abitati, che si sono sviluppati lungo le principali arterie e presentano dei fronti edificati a ridosso del campo stradale, costituisce spesso un ostacolo alla loro realizzazione. «Per gli edifici che, nonostante gli interventi previsti, rimarranno esposti ancora a valori elevati di immissione fonica si procederà, in casi ben specifici e a determinate condizioni, all’adozione di misure d’isolamento acustico, in particolare attraverso l’istallazione di finestre fonoisolanti», aggiunge Malorgio. I provvedimenti proposti e adottati non permettono sempre di sanare le situazioni in modo completo e far rientrare tutti gli edifici al di sotto dei valori limite. Determinati assi stradali presentano già oggi un carico veicolare molto elevato, che rende estremamente difficile ridurre le emissioni foniche al di sotto dei livelli fissati dall’OIF. «Per questi motivi, è importante che la lotta al rumore generato dal traffico stradale sia perseguita su più fronti e le misure concrete proposte nei progetti di risanamento fonico stradale si affianchino agli sforzi che le autorità stanno intraprendendo, per esempio nell’ambito dei programmi d’agglomerato per contenere l’incremento del traffico individuale motorizzato», conclude Ennio Malorgio.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 aprile 2020 • N. 18
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Asparagi bianchi con pesto di pistacchi Antipasto o contorno Ingredienti per 4 persone: 1 kg d’asparagi bianchi · 2 c di burro · 1 dl di brodo di verdura · 50 g di pistacchi sgusciati salati · 1 mazzetto di basilico · 1 spicchio d’aglio · 60 g di sbrinz · 6 c d’olio d’oliva · sale · tris di pepe.
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
1. Pelate gli asparagi a partire da sotto la punta e spuntateli. Scaldate il burro in una padella e soffriggete brevemente gli asparagi interi. Sfumate con il brodo e lasciate sobbollire con il coperchio per ca. 5 minuti. Togliete il coperchio e fate ridurre il liquido. Una volta evaporato, lasciate rosolare gli asparagi per circa 3 minuti. 2. Per il pesto, tritate i pistacchi grossolanamente. Mettete da parte un po’ di basilico. Tritate finemente il resto del basilico e mettetelo assieme ai pistacchi in una scodella. Aggiungete l’aglio schiacciato e la metà del formaggio grattugiato. Unite l’olio e mescolate. Condite con sale e pepe. 3. Servite gli asparagi con il pesto e guarniteli con il basilico messo da parte e il resto del formaggio ridotto a scaglie. Preparazione: circa 20 minuti. Per persona: circa 9 g di proteine, 29 g di grassi, 20 g di carboidrati, 370 kcal/
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Ambiente e Benessere
Una lotta per la sopravvivenza
Hotelplan sospende fino al 18 maggio
Viaggiatori d’Occidente Dalla crisi di Airbnb alla chiusura di sedi importanti della
Lonely Planet, per tacere di chi ha già perso il posto di lavoro, ma forse non tutto è perduto
Covid-19 Prolungata
la momentanea interruzione dell’attività
Come ha scritto Luigi Farrauto, cartografo e autore di guide di viaggio, il virus assomiglia molto a un turista di massa. Ha cominciato il suo viaggio da un mercato locale (che scelta banale!) e poi ha frequentato soprattutto le grandi città internazionali, con una preferenza spiccata per i grandi eventi: non si è perso un concerto né un carnevale. Si è rivelato un viaggiatore compulsivo (niente Slow travel!), con una tendenza a danneggiare i luoghi che visita. Per colpa sua tutti hanno dovuto adattare i propri comportamenti. Per esempio Airbnb, il popolare portale di affitti brevi, ha creato un fondo da duecentocinquanta milioni di dollari per aiutare i proprietari colpiti dalle cancellazioni. Già prima del blocco, Airbnb puntava sulle «esperienze», ovvero attività pensate e proposte dai locali per far condividere ai turisti la vita quotidiana della loro città. Ora una buona parte di queste esperienze sono diventate virtuali e si svolgono in rete (airbnb.com/online-experiences). E così potete meditare guidati dal violoncello di Janice Wong, aiutare i cani di Chernobyl nella zona contaminata attraverso l’associazione che si prende cura di loro, cucinare la «pasta della nonna» con l’aiuto di Chiara da Roma (se invece siete italiani e nonna vi fa sempre la pasta, Lhea, panettiera svedese, vi insegna a preparare panini alla cannella e al cardamomo). Infine, Aneta, dalla sua casa nella contea di Galway, vi introduce alle danze irlandesi. Il cofondatore e amministratore delegato di Airbnb, Brian Chesky, si mangia le mani: avrebbe potuto quotarsi in Borsa nel 2018 per un valore stimato tra 50 e 70 miliardi di dollari; secondo stime recenti la sua azienda potrebbe valere ora tra 20 e 30 miliardi di dollari soltanto (The Wall Street Journal). La fiducia dei mercati è solo un ricordo: per ottenere un prestito di un miliardo di dollari, necessario per sopravvivere al blocco completo delle sue attività, Airbnb ha dovuto garantire un interesse del 10 per cento (non proprio un segno di buona salute). Il futuro è incredibilmente incerto. Se, come pare probabile, si tornerà lentamente alla normalità, i clienti saranno inclini a evitare hotel affol-
USNavy
Claudio Visentin
lati, preferendo appunto Airbnb, o al contrario penseranno che gli alberghi diano maggiori garanzie di pulizia? Anche la principale casa editrice turistica del mondo, Lonely Planet (oltre 30 per cento del mercato delle guide turistiche), ha chiuso il suo ufficio di Londra e soprattutto lo storico ufficio di Melbourne, dove tutto cominciò nel 1973 quando due giovani viaggiatori, Maureen e Tony Wheeler, dopo aver percorso l’Hippie Trail da Londra a Katmandu via terra, pubblicarono la loro prima, smilza guida turistica (Across Asia on the Cheap). La pubblicazione delle guide per ora continuerà a singhiozzo dall’Irlanda, ma molti collaboratori esperti hanno già perso il loro lavoro. Paula Hardy, autrice di diverse guide sull’Italia, ha scritto: «Ho cominciato a lavorare per Lonely Planet nel 1999 preparando la guida dell’Etiopia e i viaggi seguenti sono stati esperienze di vita fondamentali. Ho guarito il mio cuore spezzato tra i paesaggi desertici della Namibia. Anni in Italia mi hanno insegnato ad apprezzare i semplici piaceri della vita. Quando mia madre morì, mio padre in lutto mi raggiunse
in Sicilia. La scorsa settimana un amico ha telefonato da Bengasi, in Libia, per informarsi sulla mia salute e sicurezza – un’ironia toccante considerato che lui ora vive in una città governata dalle milizie». In un modo o nell’altro, Airbnb e Lonely Planet sopravviveranno. Più incerto è il futuro delle compagnie aeree, schiacciate da enormi investimenti e alti costi di esercizio: quest’anno sono a rischio oltre trecento miliardi di dollari e venticinque milioni di posti di lavoro (IATA). Un migliaio di aerei potrebbero non tornare mai più nei cieli. Anche le crociere scontano il loro gigantismo. Il 2019 è stato un anno da sogno: trecento grandi navi, centocinquanta miliardi di dollari di giro d’affari, un milione e duecentomila posti di lavoro, trenta milioni di passeggeri (CLIA – Cruise Lines International Association). In tre settimane la Guardia costiera americana ha coordinato lo sbarco di duecentocinquantamila crocieristi, poi ogni attività si è arrestata. Ora ogni giorno di sospensione causa una perdita di quasi cento milioni di dollari e trecento posti di lavoro, senza contare l’indotto (BREA/CLIA
– Economic Impact Analysis). Senza aiuti queste compagnie di navigazione non resisteranno a lungo, ma non è detto possano riceverne dal governo americano, avendo scelto in passato sedi estere e bandiere di comodo per le loro navi. Nell’insieme, l’industria turistica negli ultimi anni è stata più cicala che formica, immaginando cieli azzurri, frontiere aperte e domanda crescente. Ma il virus non è stato un «cigno nero» (secondo la celebre definizione di Nassim Nicholas Taleb), non è stato cioè un evento di forte impatto ma raro e imprevedibile; al contrario era stato ampiamente previsto (per esempio Spillover. L’evoluzione delle pandemie di David Quammen, Adelphi). La lezione è stata dura ma non ci sono solo ombre. Tutte le ricerche mostrano che il desiderio di viaggiare non si è spento. Per cominciare molti hanno preferito rimandare la partenza invece di chiedere un rimborso (era stato anche il nostro suggerimento, alcune settimane fa) e, non appena sarà possibile, oltre tre quarti del campione intervistato vuole tornare a viaggiare. Ripartiamo da qui.
Hotelplan Suisse – l’azienda elvetica del gruppo internazionale Hotelplan che opera sul mercato nazionale con cinque marchi di proprietà: Vacances Migros, Hotelplan, Tourisme Pour Tous, Travelhouse et Globus Voyages – ha deciso di prolungare il termine nella cessazione temporanea della propria programmazione, a causa della situazione pandemica attuale. Di conseguenza, tutti i pacchetti di viaggio già prenotati attraverso Hotelplan Suisse con partenza fino al 17 maggio 2020 compreso verranno proattivamente annullati. In buona sostanza, i clienti che hanno organizzato e già pagato un pacchetto di viaggio rivolgendosi a Hotelplan Suisse con partenza fino a tale data – ad esempio volo e hotel oppure una crociera – saranno rimborsati automaticamente per le spese dell’arrangiamento. L’operazione di rimborso richiederà un lasso di tempo che potrà raggiungere le tre settimane. Anche prestazioni individuali prenotate con Hotelplan Suisse, con partenza fino a tale data, – come, ad esempio, la prenotazione del solo biglietto aereo – verranno annullate; in questo caso, il risarcimento effettivo al cliente sarà quello riconosciuto e rimborsato dal singolo fornitore di servizi. Nuove prenotazioni si potranno effettuare solo per partenze a partire dal 18 maggio 2020. «L’evoluzione a livello mondiale in relazione al Coronavirus porta a ritenere che la ripresa dei viaggi potrà essere più lenta di quanto auspicato. Con l’obiettivo di continuare a tutelare i nostri clienti nel miglior modo possibile abbiamo deciso di prolungare la temporanea sospensione della nostra programmazione», spiega Daniel Bühlmann, COO di Hotelplan Suisse. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Un giglio per primavera Mondoverde La fioritura dei perenni iris, collezionati già nel Rinascimento, colora i giardini più eleganti Anita Negretti Se la regina dei giardini è senz’altro la rosa, l’iris, chiamato anche giaggiolo maggiore o giglio, può tranquillamente essere definito suo pari grazie alle innumerevoli specie di piante bulbose e rizomatose con portamenti, colori e altezze che riempiono gli sguardi e tingono gli umori di tutti. Giunti in Europa dall’Africa settentrionale, è grazie agli arabi che ne abbiamo la diffusione nei giardini contemporanei, mentre, in epoca più antica, gli Egizi ne ammiravano l’eleganza, i Greci e i Romani elogiavano le loro doti farmaceutiche e il loro profumo.
Tra le varietà più piccole, che non superano i 20 centimetri di altezza, si trova «Puppet Baby», di un bel color celeste Durante il Rinascimento vi è stata una vera febbre legata al collezionismo di queste erbacee perenni per via della bellezza dei loro fiori e delle proprietà cosmetiche. Tra tutte le nazioni però è stata l’Italia a elevare le qualità di questo fiore, e in particolare Firenze, città che ha adottato l’iris quale simbolo del proprio gonfalone: il giglio è venduto in tutti i maggiori vivai toscani e la città di Firenze ospita anche un prestigioso
concorso internazionale, molto ambito dagli ibridatori e dai collezionisti. Tra tutte le iris esistenti, sono le barbate quelle più diffuse e maggiormente coltivate, anche oltre oceano, vero regno dei nuovi ibridatori molto prolifici, che ogni anno ci regalano varietà e cultivar sempre nuove e insolite, come «Black Magic» con una forte fragranza all’anice. Le iris barbate, il cui nome botanico è Iris germanica, devono il loro nome alla vistosa peluria posta sulla parte più interna dei petali. Molto semplici da coltivare, sono piante rustiche, amanti del pieno sole e dei terreni rocciosi e leggermente calcarei; non sopportano invece i suoli umidi, poiché il rizoma tende a marcire, soprattutto nel periodo invernale. Aggiungo per completezza di informazioni utili che è tra l’altro sconsigliabile utilizzare la corteccia tritata per pacciamare il suolo di aiuole con iris, perché rilascerebbe sostanze acide essendo corteccia di conifera. I rizomi, che sono l’organo di riserva della pianta, si sviluppano in parte fuori dalla terra e vanno piantati superficialmente, a soli 2-5 centimetri sotto il suolo, in autunno o in tarda primavera. Le radici si svilupperanno successivamente e ancoreranno la pianta al terreno, mentre le lunghe foglie a forma di spada accompagneranno gli steli fioriti alti solitamente 60-80 centimetri. Un consiglio per avere sempre splendide iris consiste nel dividere i cespi. Per i primi 5-6 anni dalla messa a dimora i rizomi si allargheranno formando macchie di colore molto ap-
Un esemplare di Iris tingitana, sottogenere Xiphium. (Oleg Yunakov)
pariscenti, ma in seguito è opportuno sradicarli in tardo autunno – fine inverno, dividendo il cespo con un coltello ben affilato e ripiantando le porzioni in nuove zone con terra soffice e ben lavorata. Tra le varietà di taglia più piccole, che non superano i 20 centimetri di altezza, troviamo «Puppet Baby», color celeste, da abbinare a cespugli di timo
o di lavanda, mentre la maggior parte delle iris raggiungono i 70-80 centimetri, come la bianca «Lugano», la gialla e arancio «Accent» o la più classica «Blue Stacca». Potete provare a creare delle aiuole circolari mischiando al centro dei «Pink Taffetà» rosa carne e «Sapphire Hills» violetti, circondandoli ai lati da roselline tappezzanti bianche oppu-
re andare a ricercare colori più intensi come l’arancio di «Sultan’s Palace» e il viola cupo di «Black Knight». Se invece desiderate coltivarne alcuni esemplari molto alti, provate «Ola Kala», giallo sole che arriva a superare il metro, da coltivare da solo o in aiuole miste stile inglese, in compagnia di rose, emerocallidi, achillee, campanule, peonie e «Stachys byzantina». Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Notti magiche aspettando un gol Sport Intanto il mondo agonistico, tra mille difficoltà economiche, ci prova con surrogati virtuali
Giancarlo Dionisio Parafrasando Karl Marx, molti hanno sostenuto che il moderno oppio dei popoli sia lo sport. C’è un pizzico di verità. Come per tutte le sostanze assunte dal nostro corpo, è una questione di misura. Anche lo stupefacente tratto dal papavero ha le sue proprietà terapeutiche. Esattamente come lo sport. Personalmente credo che le abbia soprattutto quando lo si pratica, con criterio, senza forzature. Con la meraviglia di chi vorrebbe confinare tutti in casa 24 ore su 24, ultimamente il numero di «maratoneti» 1 2 3 4 è andato moltiplicandosi. Sono altresì convinto che anche lo sport vissuto da 6 spettatore possa essere benefico,7 se non addirittura salvifico, in quanto valvola 8di sfogo, che consente9 alla mente di scaricare, se possibile in modo gioioso e non violento, tensioni e frustrazioni. 10 periodo 11 In questo si stanno creando più fronti. C’è chi, soprattutto per ragioni economiche, preconizza una 12 13 rapida ripresa delle attività agonistiche, come ad esempio la Lega calcio italiana 18auspica 19 in tempi brevi la prosecu-20 che zione del campionato. C’è chi – come il portiere della nazionale svizzera 22 23di calcio Yan Sommer, o il numero uno della classifica ATP, Novak Djokovic – sa25 disposto ad accettare 26 un ritorno rebbe alle competizioni senza pubblico. 29Ma il punto sta qui. Che senso avrebbe lo sport agonistico senza il contorno di tribune gremite? Senza le passioni, le emozioni, le vibrazioni della gente, i gesti tecnici e agonistici di Roger Federer, Cristiano Ronaldo e Mikaela Shiffrin avrebbero la stessa pregnanza? E vedere Lugano e Ambrì Piotta giocare in una Corner Arena o 2 3 deserte, 4 sarebbe 5 in1 una Valascia uno scenario in grado di sostituire a pieno titolo 11 il casino festante che accompagna 12 le esibizioni di bianconeri e biancoblu? L’ultimo derby giocato a porte
ha percorso 180 km in bicicletta sui rulli; ha corso i 42 km e 195 metri della maratona su un tapis roulant. Jan ha potuto beneficiare di un seguito medio di 7mila persone (picco di 11mila), e ha potuto persino bearsi di alcuni compagni di avventura che, nelle loro case, hanno nuotato, pedalato e corso con lui. Fra questi anche la fortissima triatleta svizzera Daniela Ryf, e l’ex asso della racchetta, Boris Becker. È addirittura doppio il «bottino» racimolato da Geraint Thomas a favore del sistema sanitario britannico. Il duplice olimpionico, vincitore del Tour de France 2018, ha pedalato in solitaria per 36 ore, diluite su 3 giorni. «12 ore – ha dichiarato – è la durata del turno quotidiano di chi sta lavorando negli ospedali». Sul suo profilo Facebook, Thomas ha raccolto 300mila sterline. Quasi nulla confronto ai 20 milioni incassati dal capitano Tom Moore, 99enne veterano di guerra, passegdi lanciare il Giro Virtual, che si terrà giando in giardino col suo deambuin maggio, e di raccogliere fondi a favo- latore. Che sia questa la rivincita degli re dell’impegno contro il Coronavirus. over 65? In quest’ultima settimana si è tePoteva l’America restare con le nuto anche il Tour de Suisse virtuale. mani in mano? Gli USA sono per antoVi ha partecipato anche il biker ticinese nomasia il paese in cui sport e business Filippo Colombo. L’eco? Non certo da si fondono. Con il supporto tecnico strapparsi i capelli per l’entusiasmo. dell’emittente televisiva specializzata Ci ha provato anche lo youtuber ESPN, la NBA, quella vera, ha ideato spagnolo Iban Llanos, che ha orga- un torneo virtuale in cui i campioni si nizzato un torneo di calcio benefico e sono lanciati in un gioco di simulaziovirtuale con il patrocinio della Liga, e ni, durante il quale persino i litigi in con la disponibilità di parecchie stelle. campo, i commenti ai margini del parImporto raccolto: 140mila euro. Non si quet e gli sfottò hanno trovato il loro sputa neppure su un centesimo, sia ben posto. Non so quale sia stato il seguito, chiaro, ma se pensiamo al giro d’affari sia in termini assoluti, sia in termini di del calcio europeo, quella cifra fa sor- gradimento. Posso immaginare che, SUDOKU PER AZIONE - MARZO 2020 ridere. Da solo, è stato capace di fare per disperazione o per astinenza, in meglio N. 9il triatleta FACILEtedesco Jan Frodeno. molti si siano sintonizzati, con lo scopo Il campione olimpico dei loro beniaSchemadi Pechino 2008, di seguire le evoluzioni Soluzione tre volte trionfatore all’Ironman delle mini. Tuttavia, mi auguro che questa 1 9per 6 poche 7 2settimane, 4 8 5o 7 in diretta, 4 Hawaii, ha proposto sul suo fase duri3ancora profilo per pochi 7 mesi. 4 2Non 3 so 8 fino 5 a9quando 6 1i 7 Facebook, la 8 sua 5 personalissima 6 e titanica sfida reale. Ha nuotato per 3 fan saranno 5 8disposti 6 1 a trattenere 9 4 2 in 3 gola 7 2 3 km e 860 metri nella piscina di casa; l’urlo fatidico: goooooooooollllllll!
Giochi per “Azione” - Aprile 2020 Stefania Sargentini
Il ciclista svizzero Robin Froidevaux pedala nel salotto di casa, davanti a un tablet con la piattaforma Rouvy Indoor Cycling Reality, durante un 5 allenamento in vista della gara «The Digital Swiss 5» in programma dal 22 al 26 aprile 2020. (Keystone)
(N. 13 - Bubolare - Paupulare)
B U C O B L A S R E U D P A N R è stato A l’ultimo R I capacità di O sgomitare, a rinviare il proprio appuntamento, ma il primo a trovare una data sostituU I L E tiva, tra il 29 agosto e il 20 settembre, proprio a ridosso dei Mondiali di Aigle M ilO S E per ora, è M Martigny, cui svolgimento, confermato. Il Giro d’Italia slitta così a ottobre, la Vuelta di Spagna a novemI S A P A bre. Come dire: «Nous les Français», ci siamo sistemati; voi vedete di arranDSonoOcurioso di verificare R seI in G giarvi. autunno si potranno scalare le vette leggendarie di Alpi, Dolomiti e Pirenei. A L B A N O La corsa rosa si è presa una picco-
chiuse in febbraio ha già fornito la risposta. 14 No! 15 16 17 Lo sport si è tuttavia attrezzato per riuscire a catturare l’attenzione dei fan, 21 della gente e a tenere vive le emozioni in questa fase, che ci si augura possa essere solo di transizione. Una delle 24 Classiche ciclistiche più affascinanti, il Giro delle Fiandre, è andata in scena il 5 28e accorciata. aprile, in versione27virtuale Sui rulli, con un rilevatore di dati applicato alla bicicletta, il più veloce è stato il 30 belga Greg Van Avermaet. Il campione olimpico in carica, in carriera è stato capace di addomesticare il pavé della Parigi-Roubaix, ma mai era riuscito a imporsi nella sua corsa. Più volte piazzato, battuto, fra gli altri, anche da Fabian Cancellara, il campione fiammingo non vedrà tuttavia il suo 6 iscritto 7 nell’albo 8 9 10 tra nome d’oro. Perché virtualità e realtà il passo è ampio. Il Tour 13 de France, con tempismo, ma anche dimostrando, come di consueto, pragmatismo e straordinaria
la consolazione. Nel giorno di Pasqua, Stefano Allocchio, ex professionista e attuale direttore tecnico della manifestazione, ha organizzato la «Giro d’Italia Legends», sul tracciato di una vecchia tappa fra Giovinazzo e Vieste. Vi hanno partecipato, oltre allo stesso Allocchio, anche il re degli sprint, Mario Cipollini, e il CT della nazionale azzurra, Davide Cassani. Il tutto è avvenuto sulla piattaforma Zoom, con lo scopo
(N. 14 - Molti ci lasciano le penne)
O M E O P R U N A I I T I O A C A R A D
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M O L L E T I A R A O M E R T A S C I A 4 2 5 7 3 8 1 9 6 5 7 14 15 16 1 9 7 2 4 6 8 5 3 4 6 L A I T E S O R O SUDOKU A 8 6 e3 del 5 1sudoku 9 7 PER 4 2 1 Le vincite di19carte regalo da 50 franchi per8le soluzioni del2 cruciverba 17 18 6 5 4 8 2 7 3 1 9 1 A R C O R A di L 8Covid-19 I sono sospese finoTal termine dell’emergenza 9 1 3 20 21 N. 138 FACILE 92 73 18 49 56 31 65 27 84 3 6 O N O M A D E T L Schema ORIZZONTALI Cruciverba Sudoku N. 10 MEDIO 22 23 1. Passa... in cucina Se cucinando cavoli e cavolfiori non vogliamo E T O5 S E T1 2 5 8 4 7 3 6 9 1 4. Pronome personale 3 4 6 6 9 1 2 95 7 8 25 3 6 7 inondare la casa di 24odori sgradevoli, basterà 7. La cantante Zilli A P5E N 9. La protagonista de La CiociaraT 9 1 7 5 6 8 2 4 3 2 4 A 3 aggiungere nell’acqua di cottura… Scopri cosa, (Iniz.) 8 7 2 5 3 24 9 8 136 8 26 risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere 10. Posta alla fine... R N E1 6 T 5 R 4 3 1 6 8 5 7 2 9 9 11. Sempre presenti in palestra evidenziate. 5 7 8 6 9 7 2 1 4 3 5 9 7 2 3 5 13. Un drappo in premio (Frase: 2, 5, 2, 4, 5) 27 per - Aprile 2020 E 14. Un vizio O Giochi P Stefania E“Azione” R A3 R 1 7 2 8 3 6 9 5 4 2 4 8 Sargentini 1
Giochi
17. Città di origine
18.13 Soprannome Elizabeth (N. - Bubolaredi- una Paupulare)
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attrice 3 4 5 19.2Vi sale il vincitore 6 21. Due vocali7 22. Leggera sull’acqua 8 9 23. Un avverbio 10 11 24. Deserto israeliano 1225. Abbreviazione 13 14 15 16 17 di secante 26. Vicina al cuore 18 19 20 21 27. Un condimento 22 23 24 VERTICALI 25 26 27 28 1. Consacrate a Dio 292. Una maestra... che non sa 30 niente 3. Un anno a Parigi 5. Introduce un chiarimento Osso del bacino (N.6.14 - Molti ci lasciano le penne) 8. Inerzia, passività 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 12. Dio greco del Sole 11 12 13 13. Città del Veneto 14. Frutto untuoso 14 15 16 15. Una di18famiglia 17 19 16. Le iniziali della Zanicchi 21 17. Tra20le Calende e le Idi 19. Un compenso 22 23 20. Insufficiente 24 25 22. Questo a Parigi 26 23. Colpo che sfiora la rete a tennis 27 24. Simbolo chimico del sodio 25. Precede un’ipotesi 1
(N. 15 - ... un pezzo di pane secco)
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U V A N O I N I N A S L T A P E S I N. 14 MEDIO E P A L I O 4 1 9 I A8 R A NM OAL LTE3 I T A 2 77 7 2 1 3 O M E R T A S C I A 5 I4 I T E P OL6 AD OS O R OP9 6 6 5 9 4 T R4 C8 O R A L I A A NO2 ON1 OAM A D8 EN O 2 3 T L 1 1 9 7 5 8 E T O S E T G E 8 V T AS6 PE5E7 C N A 1 8 1 6 9R 7 N3 E T 4 6 R A A CO PEE RT4 A O 7 7 2 R E
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 aprile 2020 • N. 18
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Politica e Economia Newsletter della pandemia Dall’America che protesta per il lockdown alla Cina che deve affrontare i suoi milioni di disoccupati
Disastro Lombardia: 1. parte La regione paga il prezzo più alto della pandemia in Italia, dove è esploso il sistema sanitario disegnato dal precedente presidente Formigoni, condannato per corruzione pagina 27
Papa e pandemia Il Coronavirus costringe Bergoglio ad affrontare il suo magistero senza bagni di folla e senza quella fisicità insita nel dna del cattolicesimo
Catastrofe mondiale Le stime del FMI sull’impatto del Covid-19 sull’economia indicano che questa è una crisi della domanda e dell’offerta
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AFP
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Tokyo torna protagonista in Asia
Strategia Il Giappone non vuole più essere solo il ricco satellite degli Stati Uniti nella regione e per questo
tenta anche la carta del riarmo Lucio Caracciolo La crisi del Covid-19 ha diversi impatti geopolitici, ma quello di gran lunga più importante riguarda la competizione Cina-Usa, decisamente inasprita. Fra i fattori decisivi in questo scontro per il primato mondiale, molto importante sarà l’atteggiamento del Giappone. Nell’opinione pubblica mondiale il Giappone è generalmente considerato una potenza economica (la terza al mondo), commerciale (quarta) e tecnologica (probabilmente seconda dopo gli Usa). Tutto fuorché geopolitica. A un’analisi più profonda, scopriamo che l’ex impero nipponico, obliterato nella Seconda guerra mondiale e risorto al benessere e allo sviluppo sotto la sorveglianza americana, sta ridiventando una potenza a tutto tondo. E data la sua collocazione geopolitica fra Stati Uniti e Cina, lo spostamento di questa potenza ritornata verso l’uno o l’altro com-
petitore potrà determinare l’esito della partita. Fra i segnali del rientro di Tokyo nel grande gioco strategico, vale la pena segnalare anzitutto quello militare. Il famoso articolo 9 della costituzione giapponese – prodotto americano, dettatura del vincitore al vinto – vieta formalmente al Giappone di dotarsi di Forze armate. Risultato: silenziosamente prima, sempre più vocalmente da qualche anno, i governanti giapponesi hanno avviato un dibattito su come superarlo nei fatti, prima ancora che nella lettera. Oggi quello giapponese, che continua a autodefinirsi Forza di autodifesa per rispetto formale al dettato costituzionale, è un esercito secondo in Estremo Oriente solo a quello americano, capace di tenere testa su un piano pressoché paritario a quello cinese, pure in rapida ascesa. Specialmente Marina e Aviazione hanno sviluppato capacità di punta. La proiezione milita-
re giapponese, protetta dalla bandiera Onu e vestita di motivazioni umanitarie o di contrasto alla pirateria, si estende tra Asia e Africa. Di più: il Giappone ha il massimo capitale di plutonio al mondo e padroneggia le tecnologie necessarie a produrre la Bomba atomica: sommando i due fattori, se ne trae che entro pochi mesi Tokyo può virare il suo sistema atomico civile – fondamentale per la produzione di energia a uso interno in un paese storicamente povero di risorse, specie se energetiche – in un ricco arsenale di bombe nucleari. Tanto che nei laboratori strategici delle maggiori potenze Tokyo è considerato attore nucleare latente, se non segretamente già effettivo. Inoltre, sotto la guida del primo ministro Shinzo Abe, il governo giapponese e il suo apparato militare e di intelligence hanno sviluppato una concezione strategica che mira a rifare del Sol Levante un fattore di potenza pa-
nasiatico, decisivo in Estremo Oriente. All’attuale premier si deve l’elaborazione della concezione di una geopolitica dell’Indo-Pacifico. Ovvero della connessione strategica fra i due Oceani che bagnano l’Asia, con il Giappone al vertice del sistema. Visione ripresa dagli Usa, che hanno infatti ribattezzato Indo-Pacifico quello che fino a ieri, nella classifica dei comandi militari regionali a stelle e strisce, si chiamava solo Pacific Command. Insomma, Tokyo vuole tornare a essere un «paese normale», non restare il capace e ricco satellite degli Stati Uniti nell’Asia-Pacifico. Segue la questione regina: che cosa intende fare il Giappone con la ritrovata potenza? E soprattutto: fino a che punto saprà e vorrà smarcarsi dagli Stati Uniti, per muoversi autonomamente? Lo sapremo presto, ma intanto tre fatti paiono evidenti. Primo: Tokyo non ha interesse a stringere troppo il laccio attorno a Pe-
chino, come specie in questi mesi sembrano volere gli americani. La connessione economica e commerciale con la Cina è troppo rilevante. E la eventuale guerra sino-americana sarebbe troppo rischiosa per la sua sicurezza. Secondo: allo stesso tempo, il Giappone non intende rompere l’intesa con gli Stati Uniti, perché si troverebbe solo. In Asia non ha amici, anche per il suo passato imperialista, ma solo partner più o meno occasionali. Terzo: Nella strategia di contenimento della Cina avviata da Obama e inasprita da Trump, gli Stati Uniti non possono contare fino in fondo sul Giappone. Molto dell’orientamento futuro del Giappone dipenderà da come uscirà dalla crisi sanitario-economica-geopolitica in corso. In ogni caso, l’epoca del Giappone satellite, della potenza monodimensionale – economica e non geopolitica – è scaduta.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 aprile 2020 • N. 18
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Politica e Economia
Fra Usa e Cina guerra fredda sempre più fredda
Newsletter della pandemia Mentre l’America si sta chiedendo quale paesaggio uscirà dall’emergenza sanitaria,
Pechino inizia ad affrontare una nuova sfida: quella di costruire un Welfare moderno per i suoi milioni di disoccupati Federico Rampini L’America affronta la pandemia… politicizzandola. Si divide più che mai. E accentua il clima da guerra fredda nei confronti della Cina, che reagisce con un nazionalismo altrettanto ostile. Terza settimana di rialzo poderoso della disoccupazione negli Stati Uniti: altri 4,4 milioni di americani hanno perso il posto in questi ultimi sette giorni, il che porta il totale a 26 milioni di senza lavoro. Il rialzo del prezzo del petrolio non è dovuto tanto a una schiarita nelle prospettive della crescita globale, quanto al riacutizzarsi delle tensioni nel Golfo Persico tra Stati Uniti e Iran. Poiché non c’è mai un limite al peggio, non escludiamo che alla pandemia si aggiungano conflitti militari.
Nella fuga dalle grandi città c’è qualcosa che può diventare permanente: la fine del modello multiculturale Alcuni Stati Usa governati dai repubblicani hanno una tale fretta di riaprire l’economia, che scavalcano perfino Donald Trump. Il presidente prende le distanze dal governatore della Georgia che riapre subito anche i parrucchieri, centri di bellezza e boutique che fanno tatuaggi. La fase due, l’uscita graduale dalle restrizioni anti-contagio, spacca le due Americhe. I media progressisti puntano il dito contro i potentati della destra economica (famiglia Koch), per il loro ruolo nell’organizzare, sobillare e finanziare le proteste di piazza contro il lockdown. Hanno colpito tutti le immagini delle manifestazioni di piazza nel Missouri contro la governatrice democratica: per contestarla si è vista gente armata fino ai denti, che sventolava bandiere a stelle e strisce. La tentazione inevitabile è liquidare questi fenomeni come un macabro folclore dell’estrema destra, in coerenza col negazionismo climatico e il disprezzo di Trump verso la scienza. Però c’è un dato più importante: mezza America si sente costretta a chiusure e restrizioni eccessive pur avendo un contagio ridotto, subisce le reclusioni forzate come se fossero fatte su misura per New York. La provincia profonda si sente protetta dal suo stile di vita: l’American Way of Life fatta di sobborghi a bassa densità di popolazione, villette unifamiliari ben distanziate, pendolarismo in auto anziché sui mezzi pubblici. New York, globalista, multietnica, promiscua, festaiola, è un’aberrazione e la provincia conservatrice non vuole pagare per uno stile di vita che non le appartiene. Le due Americhe sono due universi di valori che questa pandemia rende ancora più distanti. Donde la spinta per riaprire, che viene da zone dove il disastro economico rischia di essere molto superiore a quello sanitario. La geografia del virus incrocia la politica, i modelli valoriali, gli stili di vita e le scelte abitative. Il popolo americano ha una mobilità elevata. Nelle crisi, chi fa bancarotta o viene licenziato a volte cambia vita, vende la casa (se non gliel’hanno già pignorata) e trasloca in un altro Stato. Quale paesaggio emergerà da questa pandemia+depressione? Un’indicazione potrebbe venire dalla lista degli Stati Usa che vogliono vincere la gara delle riaperture anticipate: per lo più
Social distancing anche per le celebrazioni di matrimoni in California . (AFP)
sono nel Sud e sono governati da repubblicani, come Georgia, South Carolina, Tennessee, Florida, Alabama e Mississippi. Sono tutte zone meno colpite dal contagio, anche perché meno densamente popolate rispetto a New York. Nel bilancio finale di questo disastro vedremo forse emergere una diversa gerarchia geografica, economica, perché il modello della megalopoli farà fatica a rilanciarsi. Nella fuga dalle grandi città (anche Manhattan si è parzialmente svuotata, chi ha la seconda casa si è rifugiato al mare o in campagna) c’è qualcosa che può diventare permanente. La fine di un modello dove la tecnopoli ad alta densità, multietnica, culturalmente vivace, aveva una marcia in più. Altri Stati dell’America «profonda» sono invece vulnerabili ad un altro shock, quello petrolifero. Magari hanno pochi malati di virus, ma la catastrofe energetica li impoverisce in modo più che proporzionale: nell’elenco i più dipendenti dal petrolio sono Wyoming, Alaska, Oklahoma, North Dakota e West Virginia. Se la cava un po’ meglio il Texas perché negli ultimi decenni ha costruito un’economia molto più diversificata. I repubblicani cominciano a parlare di bancarotte pubbliche: degli Stati Usa e delle amministrazioni municipali. Ovviamente pensano soprattutto a New York, la situazione più disastrata, dal punto di vista sanitario e quindi anche finanziario. Le casse municipali sono già al limite della bancarotta, il sindaco Bill de Blasio chiede un salvataggio federale, Trump nicchia. Una situazione analoga fu vissuta nel 1975. Il 29 ottobre di quell’anno il presidente repubblicano Gerald Ford rifiutò un aiuto federale per salvare il municipio di New York dalla bancarotta. Un tabloid locale pubblicò il titolo: «Ford a New York: crepa». De Blasio ha rievo-
cato quell’episodio rivolgendo a Trump la domanda: «Hai deciso di lasciarci crepare?» In generale i repubblicani pensano che città e Stati più disastrati in questa fase siano per lo più quelli governati dalla sinistra, e paghino le colpe di una spesa pubblica dissennata, fondi pensione troppo generosi per il pubblico impiego. In realtà nuovi picchi di contagio si stanno allargando al Midwest: vedi la chiusura di un grosso impianto di carne suina della Tyson, colosso dell’industria agroalimentare. Nessuno riuscirà a contenere gli effetti economici della crisi, neppure il «granaio» d’America dove la lobby agricola vota repubblicano. Sono incominciate anche le distruzioni massicce di eccedenze ortofrutticole: la filiera agroalimentare non riesce a riorganizzare abbastanza velocemente la sua logistica per spostare i rifornimenti dalla ristorazione ai supermercati. L’agricoltura americana è anche una vittima collaterale del nuovo irrigidimento nelle relazioni con Pechino. La tregua che venne raggiunta all’inizio di quest’anno fra Trump e Xi sulla guerra dei dazi, prevedeva decine di miliardi di acquisti cinesi in derrate agricole americane. Per adesso è tutto fermo. Il Missouri, Stato governato dai repubblicani, vuole processare la Repubblica popolare e il partito comunista cinese, per chiedere i danni, in nome dei 230 cittadini morti di coronavirus in quella giurisdizione. Chiede anche risarcimenti per la crisi economica che impoverisce il Missouri. Il ministro della Giustizia di quello Stato, Eric Schmitt, ha presentato la denuncia al tribunale federale del Missouri accusando le autorità cinesi di numerosi reati: «Hanno ingannato il pubblico, hanno nascosto informazioni cruciali, hanno arrestato testimoni scomodi, hanno negato il contagio, hanno distrutto ricerche
mediche, hanno consentito che milioni di persone fossero infettate, hanno accaparrato attrezzature mediche, hanno causato una pandemia globale che poteva essere prevenuta». L’iniziativa giudiziaria è clamorosa ma ha scarse probabilità di successo, perché uno Stato straniero è protetto dall’immunità sovrana.
La Cina dovrà anche subire il secondo shock economico provocato dal crollo della domanda in America e in Europa Xi Jinping non sembra impressionato da attacchi e denunce. A colpire l’opinione pubblica americana arriva infatti la notizia degli ultimi arresti a Hong Kong. Quasi che il leader cinese si senta più libero che mai di regolare i conti con gli avversari, nella città ribelle la polizia ha fermato e incarcerato una dozzina di attivisti democratici. Tra gli arrestati figura anche un noto politico locale, Martin Lee, fondatore del partito democratico di Hong Kong. Di fronte alle critiche internazionali il governo di Pechino ha affermato «il proprio diritto di mantenere l’ordine costituzionale a Hong Kong», sottolineando così che non si farà condizionare dallo statuto autonomo dell’isola ex-colonia britannica. La Cina affronta una nuova sfida gigantesca: costruire un Welfare moderno per disoccupati. Nel medio-lungo termine, su questo si gioca la stabilità sociale e quindi il futuro del regime. I numeri ufficiali sono questi: la disoccupazione è salita al 5,9%, che significa 26 milioni di senza lavoro. Curiosa coincidenza, è identica alla cifra americana (però gli Stati Uniti hanno un quarto
della popolazione cinese). Questi numeri sono sicuramente sottostimati. Inoltre la Cina deve ancora subire il secondo shock economico, quello provocato dal crollo della domanda globale per i suoi prodotti, inevitabile conseguenza della depressione in America e in Europa. Il Welfare cinese non è adeguato per gestire un’emergenza di queste proporzioni. Inoltre si scontra con la rigidità delle leggi sulla residenza. Gran parte dei disoccupati, dei nuovi poveri, sono cinesi delle campagne emigrati in città per lavoro. Il sistema dello hukou fa sì che centinaia di milioni di questi immigrati interni non abbiano diritto alla residenza in città, devono mantenere il domicilio legale nel luogo di provenienza. Quindi non hanno diritto alla scuola pubblica per i figli, alle cure mediche nelle grandi città, e così via. Questo crea due categorie di cittadini e ostacola gli aiuti al nuovo esercito dei senza lavoro. La questione cinese è destinata ad assumere un’importanza crescente anche nella campagna elettorale americana. Sia Trump che Joe Biden fanno a gara nell’accusare l’avversario di cedimenti e debolezze verso Pechino. La seconda guerra fredda è ben visibile nell’escalation di accuse tra Washington e Pechino. Come c’insegna la storia della prima guerra fredda, il bipolarismo è un equilibrio instabile, che non previene né impedisce gli scontri militari a livello locale. Trump comunque si è convinto che se riesce a trasformare l’elezione di novembre in un referendum sulla Cina, la vincerà lui. Il 68% dei repubblicani e il 62% dei democratici considera la Cina una seria minaccia. A proposito della tensione con l’Iran: nell’immediato va ricordato che il massimo beneficiario del crollo nei prezzi del petrolio è la Cina, il massimo importatore di greggio nel mondo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 aprile 2020 • N. 18
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Politica e Economia
Martoriato Settentrione
La Lombardia – 1. parte La regione paga il prezzo più alto della pandemia in Italia, dove è esploso
il sistema sanitario disegnato dal precedente presidente Formigoni, condannato per corruzione
Alfio Caruso Sui balconi resiste il tricolore, ma sono finiti gli appuntamenti pomeridiani per applaudire i medici, mettere un po’ di musica, salutarsi agitando le braccia, commuoversi con l’inno di Mameli. Prevalgono la stanchezza, l’ansia di sapere se siamo in discesa sotto lo striscione dell’ultimo chilometro o se ancora ci aspettano montagne da scalare. Si odono sempre meno sirene di autoambulanze, però il quotidiano conteggio dei defunti stringe il cuore e aumenta il senso di precarietà. Si è perso il gusto della vita, domina l’istinto di sopravvivenza. Ciascuno spera di farcela contro il Coronavirus, tuttavia ignora se ce la farà contro la peggiore crisi economica, che ci attende appena metteremo il naso fuori di casa. Dentro le abitazioni ci siamo rimasti, ubbidienti e spaventati, ma non è stato bello e non è bello. La Lombardia paga il prezzo più alto della pandemia in Italia: un terzo dei casi, la metà abbondante dei morti. E cresce il timore che possa cedere il bastione di Milano città, la provincia l’ha già fatto. Hanno sbagliato tutti, anche venerati maestri come l’infettivologo Roberto Burioni, che il 2 febbraio in tv da Fazio affermava: «Il rischio è uguale a zero». Si è subito ricreduto opponendosi alla micidiale diagnosi della direttrice del laboratorio dell’ospedale Sacco, Maria Rita Gismondo: è poco più di un’influenza. Hanno sbagliato gli esperti dell’Istituto superiore della Sanità non insistendo sulla peculiare necessità di mascherine, di guanti, di tamponi, soprattutto dei ventilatori: la conseguenza sono stati un approccio insufficiente e la mancanza del materiale nella fase più acuta. Ha sbagliato per più di un mese consigli, previsioni, precauzioni l’Organizzazione mondiale della Sanità. Ha sbagliato il presidente del consiglio Conte nell’annunciare che l’Italia sarebbe stata al riparo e nel ritenere che bastava chiudere i collegamenti diretti con la Cina. Nelle tre settimane di febbraio a Malpensa e a Orio al Serio i cinesi sono arrivati a frotte da Parigi,
Dall’inizio dell’epidemia sono almeno 200 gli anziani deceduti nei reparti del Pio Albergo Trivulzio di Milano. (Keystone)
da Francoforte, da Londra senza alcun controllo. E poi c’è stata la guerra al governo della giunta lombarda di centrodestra, a prevalenza leghista. Gli esiti sono stati catastrofici. Un valzer sconcertante di giravolte, spesso se non sempre ispirate da Salvini, le cui idee esibivano la scadenza del latte di giornata. In tal modo il governatore Fontana e i suoi assessori sono diventati lo strumento, con cui Salvini ha provato a scardinare l’esecutivo di Conte, ma ha finito soltanto con lo scardinare l’enorme consenso, di cui godeva fino a gennaio. Gli ultimi sondaggi danno la Lega al 26 per cento, era al 34. Purtroppo la Lombardia ci si è ritrovata in mezzo fin dal paziente 1 di Codogno con l’andirivieni dal pronto soccorso senza cautela alcuna. Gli si è aggiunta la settimana persa all’ospedale di Alzano in una ridda di ordini contraddittori fino al proclama dei sindaci di Milano, Sala, e Bergamo, Gori, per spingere le proprie città a ripartire. Allora il segretario del pd Zingaretti è venuto a fare l’aperitivo sui Navigli, dove si è contagiato; è spuntato il video di Salvini nel quale invitava i turisti
stranieri a visitare il Paese più bello del mondo. Quando finalmente si è capito che la prima difesa era l’isolamento e l’Italia è stata trasformata in un’unica immensa zona rossa, Fontana e i suoi sono stati presi dalla fregola di distinguersi inasprendo le chiusure governative. Ma lì è esploso il sistema sanitario della regione. L’aveva disegnato il precedente presidente Formigoni, condannato in via definitiva per corruzione con l’accusa di essersi appropriato di diversi milioni di euro. Puntava sui grandi centri di specializzazione, per metà in mano ai privati. Consolidata fama di eccellenza – oltre a quelli lombardi 160 mila malati provenienti ogni anno dal resto della Penisola – soldi a palate per tutti, ma cancellazione quasi totale della struttura territoriale, i medici di famiglia. Nella fase acuta ha significato l’abbandono della stragrande maggioranza della popolazione. Il dramma delle strade, dei quartieri si è rovesciato sugli ospedali: scoppiavano di pazienti, di richieste d’aiuto, di moribondi, che non si sapeva dove collocare. I medici di famiglia si sono immolati, in Lom-
bardia ne sono morti oltre il 50 per cento del numero complessivo: senza protezione, spesso abbandonati, privi di direttive hanno rappresentato la prima barriera, fatta ahinoi di povera carne umana, al contagio. Inutilmente da gennaio segnalavano l’insorgere di polmoniti fuori dalla norma. L’8 marzo una direttiva della giunta lombarda ha predisposto il trasferimento nelle case di riposo dei malati di Covid-19 dimessi dagli ospedali. È così cominciato il massacro degli anziani, circa 1500. Molti dei presunti guariti presentavano ancora tracce del virus, però sono stati mescolati ai degenti. Infermieri e medici privi di mascherine, di guanti, di tute sono passati da un reparto all’altro. Al Pio Albergo Trivulzio sono già deceduti 200 ospiti. È il più rinomato ente assistenziale milanese, dove tra l’altro incominciò l’inchiesta di Mani Pulite nel 1992, ma un famoso e apprezzato geriatra, il professor Luigi Bermanaschini era stato licenziato perché pretendeva l’uso delle protezioni. Ci ha poi pensato il tribunale a reintegrarlo. Diversi infermieri hanno raccontato che in alcune residenze la
direzione aveva vietato l’uso di guanti e mascherine per non impressionare i ricoverati; allontanati per «aver infangato il buon nome» quelli che rivelarono i primi morti. I magistrati sono già in azione. Gli indagati per epidemia colposa e omicidio colposo plurimo aumentano di giorno in giorno. Sono state effettuate robuste perquisizioni negli uffici regionali. Dalla procura filtrano voci inquietanti sullo spessore dell’inchiesta. La paura che i posti in terapia intensiva fossero insufficienti, l’incapacità di stilare previsioni credibili sulla curva dei malati hanno indotto a creare in poche settimane un ospedale nei capannoni dismessi della Fiera. È stato chiamato l’ex capo della protezione civile Bertolaso, malgrado la discutibile prova offerta dopo il terremoto dell’Aquila, 2009. Ma Bertolaso sta nel cuore del centrodestra e il suo intervento è stato spacciato come risolutore: purtroppo si è ammalato quasi subito. Non ha perciò potuto presenziare all’inaugurazione con tutti i capataz della Lega, di Forza Italia, di Fratelli d’Italia a incensarsi da soli. Costato 15 dei 21 milioni ricevuti in beneficienza, la struttura accoglie una manciata di pazienti, da 3 a 10, e nessuno ha idea di che cosa farne dopo. Al momento non serve, anzi fioccano le domande se quei soldi non potevano essere impiegati in modo più fruttuoso. Poche ore dopo che Conte aveva predisposto la riapertura delle librerie, incongruamente serrate a differenza delle tabaccherie, Fontana si è affrettato a mantenerle chiuse. A due giorni di distanza ha chiesto una totale ripartenza dal 4 maggio in una situazione molto delicata, in cui bisogna accuratamente predisporre l’utilizzo di autobus, metro, negozi, fabbriche, per non parlare di bar e ristoranti. Più di un giornale ha scritto che pure quest’ennesima sparata sia stata suggerita da Salvini. Ne è venuta fuori un’inutile zuffa con i governatori del Meridione, dove la fortuna e la saggia applicazione dell’esperienza maturata nel martoriato Settentrione hanno consentito di ridurre al minimo i danni. Purtroppo non è finita.
Per Conte una sfida non solo sanitaria Alfredo Venturi In Italia il controverso rapporto fra lo stato, impegnato a dare una risposta nazionale alla sfida della pandemia, e le regioni, titolari della competenza in materia di sanità, ha compromesso fin dall’inizio una gestione ben coordinata dell’emergenza coronavirus. Un nodo reso ancor più inestricabile dal fatto che due fra le regioni più duramente colpite dal flagello, la Lombardia e il Veneto, sono amministrate dalle forze di opposizione al governo di Roma. Dunque il fuoco dello scontro politico, come se non bastasse la preoccupante frattura fra Nord e Sud, fa da sfondo al rimpallo delle responsabilità e alle reciproche accuse per i ritardi e il malfunzionamento del sistema. Mentre qualcuno sogna un governo di unità nazionale (o di salute pubblica, secondo la formula lanciata dalla rivoluzione francese), e il presidente della repubblica Sergio Mattarella invita i partiti ad attenuare la polemica e cercare una risposta unitaria, il Paese deve assistere alla solita rissa. Uno spettacolo penoso, subìto in una deprimente condizione di clausura forzata aggravata dall’incertezza sui tempi e i modi
della liberazione e da certi eccessi di zelo delle forze dell’ordine. Forte dell’alto tasso di popolarità registrato dai sondaggi, il presidente del consiglio Giuseppe Conte (foto) si è affidato alle valutazioni, peraltro non sempre concordanti, degli esperti provenienti dal mondo scientifico. Ma ha dato l’impressione di rincorrere giorno per giorno l’attualità dei dati forniti dalla Protezione civile, e di farlo con un piglio decisionista, evitando in nome dello stato d’eccezione di coinvolgere il parlamento nella gestione della crisi. Di qui le opposizioni che ripetutamente chiedono le dimissioni del «presidente non eletto» (sorvolando sul fatto che la costituzione non prevede un capo del governo scelto dagli elettori: il presidente della repubblica lo nomina e le camere gli concedono la fiducia). Di qui ancora un irritatissimo Conte che perde il suo aplomb abituale e si scaglia contro il leghista Matteo Salvini e la sua alleata Giorgia Meloni durante una informativa in parlamento. Nuovi aspri attacchi: il presidente fa propaganda invece di governare, si dimetta... Oltre alla politica sanitaria un altro tema ha innescato una lite altrettanto furiosa: il rapporto con l’Unione
europea. È un punto delicatissimo perché proprio l’Europa è chiamata, dopo un iniziale disinteresse che ha alimentato un crescente euroscetticismo, a dare una mano all’Italia minacciata di morte economica. Dopo che la Banca centrale europea ha avviato l’acquisto di titoli di stato italiani, e dopo che la Commissione di Bruxelles ha varato un programma di assistenza finanziaria per la ricostruzione, al centro dell’attenzione si è ritrovato il Meccanismo europeo di stabilità, un fondo creato per soccorrere paesi in crisi di bilancio prestando denaro in cambio di dure condizioni che implicano pesantissimi tagli alla spesa pubblica. Il Mes richiama il sinistro precedente della Grecia, a suo tempo costretta a una draconiana cura dimagrante per poter beneficiare dell’aiuto europeo. Stavolta emerge una diversa modalità di utilizzo del Mes: gli aiuti potranno essere forniti senza condizioni, o per meglio dire con una condizione sola, che quel denaro venga usato esclusivamente per affrontare le spese sanitarie imposte dalla pandemia. Nonostante questo la polemica continua, chi osteggia il Meccanismo lo considera strutturalmente insidioso, sareb-
be insomma un tranello. Non insegna forse Virgilio che bisogna diffidare degli achei anche quando portano doni? Oltre a buona parte dell’opposizione mezzo governo è ostile al Fondo salvastati, come anche si chiama, da sempre una bestia nera del Movimento cinque stelle. Conte, che dai Cinquestelle indirettamente proviene, si fa dapprima portavoce di questa ostilità per poi ricredersi. Riuniti in videoconferenza il 23 aprile, i 27 capi di governo tratteggiano un piano che coinvolge il bilancio dell’Unione, la Banca centrale e la Banca europea degli investimenti. Ma restano da definire i modi, a cominciare dal rapporto fra prestiti e sussidi a fondo perduto, e i tempi, anche se il Fondo per la ricostruzione, che la Commissione dovrà mettere a punto, è stato dichiarato urgente. Dunque a partire da giugno dovrebbe essere disponibile un pacchetto di 540 miliardi di euro. Quanto alla proposta italo-franco-spagnola degli eurobond, titoli europei che l’emergenza sanitaria induce a ribattezzare coronabond, i paesi più virtuosi, a cominciare dalla Germania e dall’Olanda, sono risolutamente contrari, non intendono condividere oneri
AFP
Governo Il premier diviso fra le polemiche dell’opposizione e la partita degli aiuti europei
finanziari con chi non ha saputo tenere in ordine i bilanci. Le formiche devono forse soccorrere le cicale? Ormai rassegnato ad accettare il Mes, sia pure ammorbidito dall’assenza di umilianti controlli, Conte dovrà vedersela sia con l’ira dei cinquestelle più ortodossi, sia con le opposizioni che lo aspettano al varco. Per questo cerca la sponda di Forza Italia, dopo che Silvio Berlusconi ha aperto al Fondo salva-stati smarcandosi da Salvini, ben sapendo che una nuova ondata di critiche insidierà le sue fortune politiche attualmente incoraggiate dai sondaggi. Intanto, mentre si profila un catastrofico crollo del pil, il contagio rallenta la corsa. I cittadini reclusi intravvedono in fondo al tunnel almeno una pallida luce.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 aprile 2020 • N. 18
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Politica e Economia
La clausura di Bergoglio Vaticano La rinuncia ai sacramenti imposta dalla pandemia rimette in discussione i ruoli della Chiesa
nell’approcciarsi ai fedeli. Compreso il suo modo di fare il Papa
Giorgio Bernardelli Ha fatto della «Chiesa in uscita» il ritornello del suo Pontificato. E ama spesso utilizzare l’immagine dell’«ospedale da campo» per descrivere il suo modo di guardare alla presenza dei cristiani tra le mille ferite – non solo materiali – dell’umanità del XXI secolo. Ma il tempo del Coronavirus, la Pasqua 2020 misteriosamente intrecciatasi con il trauma della pandemia che attraversa tutto il mondo, papa Francesco si è trovato viverla chiuso tra le mura del Vaticano. Persino lì dentro è arrivato infatti il Covid-19; con una manciata di casi subito isolati, sì, ma che hanno portato comunque a far innalzare le misure di sicurezza anche a Casa Santa Marta, il residence interno alla Santa Sede dove dall’inizio del suo Pontificato Bergoglio ha scelto di risiedere. La prima domenica del lockdown – durante l’appuntamento settimanale dell’Angelus, trasformato in una diretta streaming dalla Biblioteca del Palazzo Apostolico – si è definito lui stesso «un papa ingabbiato», non nascondendo il suo fastidio per questa situazione. Certo, la «clausura» non gli ha impedito di farsi presente in queste settimane. E resteranno nella memoria di tutti le immagini fortissime della sua preghiera in mondovisione la sera del 27 marzo in una piazza San Pietro deserta e sferzata dalla pioggia. La sera delle parole dure pronunciate da quel pulpito globale: «Avevamo creduto di poter
proseguire imperterriti pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato». Parole nelle quali la malattia con cui oggi ci troviamo drammaticamente a fare i conti è diventata parabola anche di tante altre contraddizioni, che il virus ha reso solo più evidenti. Di fronte al Covid-19, però, papa Francesco non gioca a far l’oracolo. Sembra lui stesso ancora in cerca di una strada. Non è per niente entusiasta di una Chiesa cattolica che – dal Successore di Pietro fino all’ultimo parroco di periferia – si trova a confrontarsi con la sfida di bucare lo schermo (di un televisore, di un computer o di una chat, in fondo cambia poco). Sente maledettamente la mancanza di quella fisicità che è insita nel dna del cattolicesimo. In fondo in Italia erano decenni che non si vedevano tante Messe, Rosari, prediche e preghiere sui mezzi di comunicazione. E sui social network non mancano nemmeno risposte brillanti alla sete di spiritualità che accompagna la domanda sul senso che porta con sé questa malattia che ha seminato così tanta morte e dolore. Eppure è un terreno che papa Francesco vede comunque come insidioso. Dal Vaticano, pur senza invasioni di campo rispetto a scelte che competono alle autorità civili, morde il freno aspettando il giorno in cui le Messe potranno tornare a essere «come si deve». Perché – appunto – per Jorge Mario Bergoglio, cresciuto come pastore tra le strade polverose e colme di umanità delle Villas Miserias di Buenos Aires, la fede non può passa-
Papa Francesco in questo frangente è più solo di quanto sembri. (AFP)
re da uno schermo. È qualcosa che ha bisogno dell’incontro con la «carne». Quella dei sacramenti celebrati da una comunità riunita insieme; ma anche quella – per lui assolutamente inseparabile – di chi è povero, di chi soffre, di chi è lasciato a morire non solo in una terapia intensiva ma anche ai margini di una strada. Teme più di tutto il virus dell’indifferenza papa Francesco. E sa bene che una religiosità ridotta a mero servizio «on demand» nei momenti di paura può diventare un alleato fortissimo del ripiegamento su se stessi. Proprio per questo, però, papa Francesco – al di là del grande affetto
della gente – è oggi molto più solo di quanto sembri. Anche in queste settimane è stato attaccato duramente da chi, nel mondo del tradizionalismo cattolico, è perennemente in cerca di complotti e nemici. E non gli perdona dunque di essersi «lasciato imporre» con «la scusa del virus» una Pasqua con le chiese sbarrate. Ma all’opposto nel mondo cattolico c’è anche chi pensa che in fondo «non tutti i mali vengono per nuocere»; e che il digiuno forzato dall’Eucaristia può diventare «un’occasione preziosa» per svecchiare riti che a troppe persone non dicono più nulla. Quanto Papa Francesco sia lontano an-
che da questo secondo modo di pensare l’ha dimostrato con uno dei suoi gesti: andando a pregare da solo in una chiesa davanti al Crocifisso di San Marcello, invocato nei secoli dai romani per la liberazione dalla peste. Alla fine quel Crocifisso ha voluto che glielo portassero persino in Vaticano. Ancora una volta, dunque, non ha rinnegato proprio nulla della tradizione della Chiesa. Anzi, il rivoluzionario vestito di bianco vi si aggrappa costantemente nei momenti difficili. Perché lui stesso è figlio delle devozioni popolari molto più che dei circoli teologici che invocano le riforme nella Chiesa. E allora in questa stagione del tutto imprevista del suo Pontificato – con viaggi importanti forzatamente rinviati e senza più bagni di folla in piazza San Pietro – Francesco alla fine ha scelto ancora una volta il terreno che gli è più congeniale: sferza il cattolicesimo sul fronte dell’impegno sociale. Al Venerdì Santo ha portato i carcerati in piazza San Pietro. A Pasqua, dopo aver sostenuto l’appello del segretario generale dell’Onu per una tregua universale, ha scritto ai movimenti popolari aprendo all’idea di un reddito universale per chi non ha un salario stabile. Telefona e invia aiuti nelle province più colpite dal Coronavirus. Ma allo stesso tempo sogna che dalla pandemia esca un mondo rinnovato, nel quale i cristiani siano in prima linea nella battaglia per la giustizia. Quella che non basta un’immagine potente su uno schermo a far trionfare davvero. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
La Grande Serrata, una tragedia economica Analisi FMI Pubblicate le stime del Fondo Monetario Internazionale sulle conseguenze economiche del Coronavirus
per il 2020. Una crisi che non si vedeva dalla Grande Depressione degli Anni Trenta
Marzio Minoli Quando nel 2009 il mondo crollò sotto il peso della crisi finanziaria innescata dai mutui subprime, si pensava che probabilmente si fosse toccato il fondo. Ebbene, solo una decina d’anni dopo metteremmo la firma affinché la pandemia di Coronavirus producesse le stesse conseguenze economiche. Il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato le sue stime per l’anno in corso. Secondo l’FMI nel 2009 il prodotto interno lordo mondiale perse lo 0,5% (fonte: World Economic Outlook 2011) mentre per il 2020 ci si attende un –3%. E se questo calo sembra di per sé molto alto, la situazione è anche peggiore se si analizzano da vicino i singoli paesi. Iniziamo dalla Svizzera. Per il 2020 la decrescita del PIL è stimata al 6%. Ma i paesi confinanti staranno anche peggio. L’Italia chiuderà a –9,1%, peggio di lei solo la Grecia. La Francia –7,2%. La Germania che dovrebbe essere il motore trainante non potrà di certo gioire in quanto le previsioni sono di un calo del 7%. Andando oltre come sempre grande interesse è rivolto alla prima economia mondiale, ovvero gli Stati Uniti. Per loro si parla di un crollo del 5,9%. Ma allora come mai a livello mondiale si parla solo, si fa per dire, di un –3%? Perché ci sono paesi che cresceranno. Ma attenzione ai facili entusiasmi. La Cina farà segnare un +1,2%, mentre l’India +1,9%. Numeri che per questi paesi significano crisi. Poi c’è l’Africa. I paesi più forti, quelli che possono contare su materie prime importanti, come il petrolio, non sfuggiranno alla crisi, mentre altri riusciranno a crescere, ma si tratta di paesi a basso reddito il cui peso specifico non è molto importante. Sulla base di questi dati l’FMI ha presentato anche le previsioni sulla
Quella provocata dalla pandemia è una crisi mondiale dell’offerta e al contempo della domanda. (Keystone)
disoccupazione. Come facilmente intuibile, le cifre sono pesanti. Partiamo dai paesi europei più importanti. L’Italia raggiungerà il 12,7% di disoccupati, la Francia il 10,4%. La Germania tutto sommato se la caverà bene, con un 3,9%. A sorprendere però il dato svizzero. Per l’FMI nel nostro paese il tasso di disoccupazione per il 2020 sarà del 2,7%, ma il dato è quello della SECO, che tiene conto solo di coloro che sono iscritti agli Uffici Regionali di Collocamento, mentre nei paesi europei si utilizza il metodo ILO, dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Con molta probabilità anche in Svizzera il tasso sarà superiore. Ed è stata proprio l’ILO gli scorsi giorni a lanciare l’allarme. Se nei paesi sviluppati chi rimane disoccupato può
contare sulle reti sociali di assistenza, nel mondo ci sono 2 miliardi di persone che invece su queste reti non possono contare. Per loro il blocco delle attività economiche rischia di diventare un vero e proprio problema di sopravvivenza. Scenari allarmanti, per usare un eufemismo. Ma perché si sta verificando questa che, senza mezzi termini, si annuncia come una vera e propria tragedia? Il Covid-19 si differenzia molto dalle cause che hanno causato altri crolli economici. L’infezione porta alle famose misure di contenimento, con il blocco di tutte quelle attività che presuppongono il contatto diretto, come ad esempio i viaggi, il settore del turismo, dell’albergheria e della ristorazione. Le fabbriche di prodotti non essen-
ziali vengono chiuse e anche chi continua a produrre lo fa a ritmi rallentati. E questa è la cosiddetta parte dell’offerta. Poi c’è la parte della domanda. Restare in casa significa non uscire per consumare. Molte persone inoltre sono state messe in disoccupazione parziale, se non licenziate. Un crollo dei redditi che contribuisce ad un’ulteriore riduzione dei consumi. Il tutto all’interno di un contesto fortemente globalizzato, dove i problemi di un paese si ripercuotono su quelli di altri. L’esempio lampante è la Cina, la quale sta uscendo dal periodo peggiore, con molte fabbriche che sono tornate a produrre, e che si ritrovano con le navi piene di container, ma con gli acquirenti, soprattutto negli USA e in Europa, che spingono affinché le forniture vengano rallentate. Inutile
ricevere merce che poi non si può rivendere o utilizzare per la produzione. Oltre a questo, intervengono anche i cosiddetti canali amplificatori, che gettano benzina sul fuoco. La crisi economica si riflette sul mondo della finanza, con gli investitori che vendono i loro attivi per avere la liquidità necessaria a far fronte alle incertezze. Il mercato del credito si blocca, aggravando ancor di più la già difficile situazione di chi ha bisogno liquidità e i paesi emergenti che contano molto sulle materie prime delle quali sono ricchi, vedono i prezzi scendere e siccome sono fortemente indebitati, le loro finanze pubbliche si deteriorano. Il Fondo Monetario Internazionale ha già dato un nome a questo momento storico «The Great Lockdown» che tradotto sarebbe «La Grande Serrata». Una situazione che non si vedeva dai tempi della «Grande Depressione» degli Anni Trenta. Ma con delle sostanziali differenze che fanno ben sperare. Oggi, rispetto a 90 anni fa, il mondo agisce molto più di concerto. Ad esempio, le banche centrali fungono da prestatori di ultima istanza, sostenendo l’economia. Inoltre, tra di loro vengono implementati accordi affinché non manchi mai la liquidità, soprattutto i dollari, facilitando i prestiti interbancari e favorendo la circolazione di liquidità. E anche la Banca Nazionale Svizzera fa la sua parte in questo. Inoltre, oggigiorno esistono reti di sicurezza, come il FMI stesso, che all’epoca non esistevano. Per terminare, un’avvertenza. Il Fondo Monetario Internazionale, ma non solo lui, tiene a sottolineare che le previsioni si basano sui dati attuali dell’evoluzione della pandemia. Lo scenario di base è che nel secondo semestre del 2020 si torni alla quasi normalità. Ma non si sa come evolverà e dunque risulta difficile prevedere il futuro.
Un economista dallo sguardo largo Ritratto Professore e collaboratore del nostro giornale dal settembre 2003, Angelo Rossi compie 80 anni Orazio Martinetti Si era nella prima metà degli anni 70 del secolo scorso. Un’improvvisa crisi petrolifera aveva spento i motori, interrompendo bruscamente il «trentennio glorioso» iniziato nel dopoguerra, un modello di sviluppo fondato sulla crescita ad oltranza. Emergevano le prime crepe, i primi inceppamenti, che non erano soltanto di natura economica. Anche la politica e la società apparivano scosse e incerte sul da farsi. Le iniziative xenofobe di Schwarzenbach scavavano nell’opinione pubblica un profondo fossato, intaccando la reputazione della Confederazione come paese aperto e accogliente. Fu in quell’occasione che il Liceo economico-sociale di Bellinzona, appena costituito, decise di invitare un giovane economista per ragionare intorno alle conseguenze delle iniziative anti-stranieri. Quel giovane era Angelo Rossi, che dopo gli studi accademici compiuti in università elvetiche, tedesche e inglesi aveva proseguito il suo iter come ricercatore e come insegnante al Politecnico di Zurigo e successivamente all’Istituto di alti studi in amministrazione pubblica di Losanna. Rossi, nel corso dell’incon-
tro con gli alunni, mise in luce non solo le ripercussioni sull’economia di quelle scellerate iniziative, ma anche i loro inevitabili riflessi politici, sociali e anche umanitari. Si capiva che l’economia, per il conferenziere, non erano soltanto numeri, statistiche, percentuali, profitti e rendite, ma anche il risultato di una complessa interazione con la sfera politica e sociale. Discepolo all’Università di Friburgo di Basilio M. Biucchi, Rossi non aveva dimenticato la lezione del maestro, al quale il concetto di economia andava stretto, così come ogni iper-specializzazione. La comprova giunse nel 1975, con una pubblicazione destinata ad entrare negli annali della nostra pubblicistica socio-economica: Un’economia a rimorchio, edita dalla Fondazione Piero Pellegrini. Un testo che esaminava la stupefacente crescita del cantone dal 1950 in poi, dovuta, secondo l’autore, non alla vivacità imprenditoriale dei ticinesi (mai brillante storicamente), ma alla messa a frutto dei capitali fuggiti dall’Italia in combinazione con la speculazione fondiaria. In quest’operazione si era distinta una particolare classe di intermediari, quella degli avvocati e dei notai, anello di congiunzione tra i vari attori. Una classe che in tal modo era riuscita a controllare le
leve dei due poteri, quello economico e quello politico. Nell’osservare tale dinamica Rossi si era rifatto ai modelli centro-periferia, paesi dominanti-paesi subalterni utilizzati negli studi sul terzo mondo. Fatti i debiti distinguo, anche il Ticino rientrava in questa modellistica, poiché di fatto la sua autonomia era limitata. Le vere centrali di comando e di controllo non erano ubicate sul suo territorio, ma nella Svizzera tedesca: «L’economia ticinese è dunque una economia a rimorchio. Per questo aspetto la nostra situazione è simile a quella di una colonia. Pur possedendo l’indipendenza politica, siamo infatti dipendenti dall’estero per i nostri investimenti». La diagnosi non piacque alla «classe degli intermediari» che Rossi metteva alla berlina. Fu invece accolta con favore dalle forze di opposizione, che la ripresero in vario modo nelle loro piattaforme programmatiche, come la radiografia più perspicua e precisa dell’arretratezza ticinese. Quell’«illuminazione» scientifica non rimase un’intuizione isolata; altre ne seguirono a intervalli regolari, esposte in volumi dal taglio divulgativo come E noi che figli siamo… (1988) e Dal paradiso al purgatorio (2005) sebbene l’autore fosse professionalmen-
Sguardo lucido, tono pacato, analisi precise, giudizi senza sconti. (Ti-Press)
te attivo soprattutto nelle accademie e nei centri di ricerca d’oltralpe. Nel 1998 decise comunque di ritornare nel cantone d’origine per dirigere la SUPSI, carica che tenne fino al 2003. C’è da credere che questa assenza-presenza non gli dispiacesse, giacché gli consentiva di muoversi con più libertà nei meandri della nostra pubblicistica. Di questa autonomia di giudizio molti lettori di «Azione» gli sono grati, così come tutti coloro che nel corso degli anni hanno potuto apprezzare i suoi interventi sull’andamento del mercato del lavoro, la pianificazione territoriale, le politiche urbane (per questi indi-
rizzi sono da vedersi i saggi raccolti nel volume Tessere pubblicato nel 2010). Rossi, dal 2000 al 2010, è stato anche membro del Consiglio d’amministrazione di Migros Ticino: una specola privilegiata per scrutare da vicino l’evoluzione del commercio al dettaglio. Ultimamente si è dedicato alla ricostruzione da un’ottica storica delle politiche regionali messe in campo nel secondo dopoguerra. Insomma, la ricerca continua. E noi siamo ben lieti di poter ancora beneficiare dei suoi contributi analitici, sempre sorretti da un’intensa passione civile. Tanti auguri, professor Rossi.
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Covid-19, le misure e un possibile seguito Da ormai più di un mese sono in vigore le misure che il Consiglio federale ha preso per combattere la pandemia del Coronavirus. I giornalisti delle pagine economiche della NZZ hanno trovato che era tempo di fare un bilancio. A rispondere alle loro domande hanno chiamato otto tra i più conosciuti economisti del nostro paese. Alla fine dagli interrogati sono venute solo 7 risposte, siccome due di loro, vale a dire Bruno S. Frey e Margit Osterloh ambedue dell’università di Zurigo, hanno scelto di rispondere assieme. Le sette risposte ad ognuna delle cinque domande poste dal quotidiano zurighese sono abbastanza diverse anche se, occorre sottolinearlo, gli interrogati condividono il medesimo orientamento quanto agli indirizzi della loro scienza. La prima domanda concerneva l’adeguatezza delle misure prese dal Consiglio federale. Mentre Aymo Brunetti, dell’univer-
sità di Berna, le ritiene molto positive, altri come Jean-Pierre Danthine, del Politecnico di Losanna, Jan-Egbert Sturm del KOF di Zurigo, e Ernst Fehr dell’università di Zurigo pensano che si sarebbe dovuto poter fare di più o che si sarebbe dovuto intervenire prima. Ci sono poi Christoph Schaltenegger dell’università di Lucerna e la coppia di professori zurighese, che abbiamo già citato, che reputano che si sarebbe potuto procedere diversamente. Stando a Frey e Osterloh, applicando le misure di protezione necessarie, si sarebbero potuti lasciare aperti anche negozi come i fioristi o i centri di giardinaggio. Da parte sua Schaltegger afferma che siccome il pericolo di infezione è diverso da Cantone a Cantone, una strategia centralizzata non è la più adeguata. La seconda e la terza domanda posta dai giornalisti della NZZ riguardava l’allentamento delle misure, in particolare quali delle stesse
potrebbero essere abbandonate per prima. Anche a questo proposito gli avvisi espressi divergono. Schaltegger opina che per prima cosa bisognerebbe riaprire le scuole; Jan Egbert Sturm, invece, chiede che ci si occupi prioritariamente dell’economia, in particolare favorendo la ripartenza della produzione. Interessante è di nuovo la proposta, sostenuta in particolare da Fehr e da Schaltegger, che si proceda in modo diverso alla riapertura di negozi e aziende, non a seconda del tipo di attività svolta, ma a seconda della situazione della pandemia nei diversi Cantoni. Danthine la vede ancora diversamente e propone di consentire il ritorno al lavoro dapprima ai lavoratori giovani e in salute come pure a quelli che già sono stati contagiati dal virus e che, secondo lui, ne sono diventati immuni. Le ultime due domande di questa inchiesta concernono infine le eventuali insufficienze del programma
di misure del Consiglio federale. Da questo punto di vista sono particolarmente interessanti le risposte date all’ultima domanda, che riguardava le possibili correzioni che si potrebbero introdurre. Brunetti si dice d’accordo di dare la priorità alle misure che possono assicurare il mantenimento della produzione. Aggiunge però che se la situazione di eccezione dovesse durare a lungo la domanda potrebbe calare. In questo caso occorrerebbe introdurre misure di sostegno al consumo come, per esempio, una riduzione delle imposte delle persone fisiche. Danthine evoca invece la necessità di precisare i criteri che presiedono alla concessione di crediti alle PMI e agli indipendenti. Fehr trova che solo col passar del tempo sarà possibile stabilire se le somme messe a disposizione dell’economia saranno sufficienti e se si potrà evitare che le stesse si trasformino in sussidi diretti. Föllmi, dell’università
di S. Gallo, precisa che quello che si deve assolutamente evitare è di dare alle aziende contributi a fondo perso. Anche Frey e Osterloh insistono sulla necessità che le misure siano efficaci. Essi raccomandano, quindi, che gli aiuti finanziari dello Stato cessino il più presto possibile e che la quota dello Stato, che sta subendo un rapido aumento, sia poi ridotta rapidamente. A pensarla un po’ fuori dal seminato è infine Jan-Egbert Sturm. È infatti l’unico tra gli interrogati a proporre una misura supplementare. Si tratterebbe di un supplemento all’imposta sui profitti che le aziende dovrebbero pagare, a pandemia terminata, per consentire il finanziamento degli ulteriori interventi di sostegno che si renderanno necessari. In conclusione pare quindi di capire che il programma di misure a sostegno dell’economia potrebbe avere, a livello federale, un seguito di natura fiscale.
strategia di prevenzione del contagio di massa, quattro fasi dettagliate spiegate con calma e con un tono rassicurante. Si è concentrata sulle conseguenze umane oltre che economiche della sua decisione, articolandole lungo tutto il percorso di allerta. Ha detto che le settimane successive sarebbero state difficili per tutti, invece che dire «non svaligiate i negozi che non ce n’è bisogno», ha detto che i supermercati, le farmacie, i distributori di benzina sarebbero rimasti aperti. Ha richiamato il senso che i neozelandesi hanno di loro stessi – «creativi, pratici, attenti al proprio Paese» – e ha concluso: «Siate forti, siate gentili, siate uniti contro il Coronavirus». Due giorni dopo, annunciando che nelle successive 48 ore si sarebbe passati al lockdown completo, la Ardern ha detto: «Oggi abbiamo solo 109 casi, ma anche l’Italia una volta ne aveva altrettanti». E poi ha spiegato nuovamente i dettagli della fase in arrivo, insistendo sul fatto che la responsabilità personale era ed è responsabilità collettiva, l’ultima trasformazione di quel precisissimo
«siate gentili» dei due giorni precedenti: «Faremo di tutto per proteggervi, voi fate di tutto per proteggere ognuno di noi». Un giornalista le aveva chiesto se aveva paura e lei, con la sua forza gentile, ha risposto: «No, perché abbiamo un piano». Il piano si è rivelato vincente: la curva del contagio neozelandese – 1451 contagi, 1036 guariti – è quasi piatta, il 27 aprile comincia la parziale, cauta, apertura. La Ardern ha nel frattempo presentato in Parlamento un pacchetto di stimoli da 6,5 miliardi di euro, composto di: sussidi e taglio delle imposte, un mix degno di una tradizione laburista e liberale di cui la Ardern è un’esponente moderna, aggiornata (anche un po’ solitaria). Si tratta di uno sforzo ingente per una economia che dipende dal turismo e che è per il 97 per cento composta di aziende che hanno meno di 20 dipendenti, ma il calcolo economico del governo è stato: se l’emergenza dura poco, riusciamo a riprenderci in fretta. Quindi l’obiettivo era quello di correre più veloce del virus, impresa che è riuscita davvero in pochissimi
casi e che pare riuscita in Nuova Zelanda: il tasso di trasmissione del virus è allo 0,48 per cento, ben sotto la soglia considerata buona in Europa (la soglia è 1: un contagio per persona positiva). Ora comincia, come per tutti, la parte difficile: ripartire senza vanificare il sacrificio sostenuto. L’unità granitica attorno alla Ardern si sta infrangendo: l’opposizione sostiene che il lockdown è stato eccessivo, punitivo quasi, a due passi da lì c’è l’Australia che con misure ben meno restrittive è riuscita a contenere la pandemia in modo egregio. La Ardern sa che questo è un altro «big moment» e va preso nel modo giusto ma intanto, mentre lei insiste sulla necessità di non cedere all’impazienza, torna in mente una frase che disse qualche tempo fa: «Una delle critiche che più mi è stata fatta nel tempo è che non sono abbastanza aggressiva, non sono abbastanza assertiva, perché sono empatica e quindi fragile. Mi sono sempre ribellata a questa equazione. Mi rifiuto di credere che non si possa essere al tempo stesso compassionevoli e forti». E gentili, soprattutto.
succede perché ogni potere è abitato dal demone dell’onnipotenza, una tentazione alla quale non sa resistere. Secondo insegnamento: l’uso strumentale della pandemia per conseguire fini inconfessabili o segretamente coltivati. La grande guerra del 14-18 accelerò la costituzione della «Fremdenpolizei», incaricata di sorvegliare l’ingresso, la presenza e le attività degli immigrati sul territorio della Confederazione. Con gli anni, la Polizia degli stranieri estese via via il suo raggio d’azione fino a diventare un «potere parallelo», in buona parte occulto e dotato di ampie discrezionalità. Recentemente lo storico Josef Lang ha ricordato quanto fosse lunga la mano della Fremdenpolizei e quanta influenza esercitasse sia in campo normativo, sia nelle quotidiane attività di sorveglianza. Suo compito precipuo fu quello di impedire che il «contagio» del bolscevismo ammorbasse l’organismo sociale all’indomani dello sciopero
generale del novembre 1918. Occorreva fare in modo che il pericolo rosso, di cui erano portatori i sovversivi provenienti dall’Est, venisse bloccato alla frontiera: guai se tali «corpi estranei» fossero penetrati nella società elvetica, debilitandola al punto di minare la sua capacità di opporsi a Lenin e compagni. La Fremdenpolizei giudicava particolarmente perfide le mene sotterranee degli «Ostjuden», gli ebrei orientali che con il loro nomadismo spargevano il «germe» della rivoluzione mondiale nell’Occidente capitalistico, come avevano avvertito gli anonimi autori dei Protocolli dei savi Anziani di Sion (un falso antisemita confezionato dalla polizia zarista nel 1905). Convogliare angosce e rabbie popolari verso un determinato gruppo sociale era prassi abituale, e d’altronde la storia offre copiosi esempi. Episodi simili si verificarono anche in Ticino, a margine dell’epidemia di colera che investì il
cantone nella prima metà dell’Ottocento. La propagazione del «mortifero vomito orientale» – studiata da Raffaello Ceschi in un saggio pubblicato sull’Archivio Storico Ticinese nel 1980 – fu addossata alla turba dei girovaghi, dei mendicanti e degli accattoni: «una simile razza di gente sono già il cholera in anima ed in corpo». Per arrestare il contagio il governo decise di istituire posti di blocco ai valichi di confine, con il compito di respingere tutti gli sbandati intenzionati ad entrare. Germi, bacilli, infezioni, contagi… Sappiamo qual è stato lo sbocco di questa terminologia biopolitica nell’Europa tra le due guerre. È bene sempre ricordarsi di questa rovinosa caduta della civiltà occidentale quando all’orizzonte vediamo profilarsi pulsioni liberticide e scorciatoie autoritarie. L’unico «anticorpo» efficace in questi casi non può che essere una sana e vigile cultura democratica.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Il «big moment» di Jacinta Ardern
Wikipedia
Quando si celebra Jacinda Ardern (foto), premier della Nuova Zelanda, per la gestione della crisi del Coronavirus, molti aggiungono: certo, con cinque milioni e rotti di cittadini è tutto più facile. Ma come hanno imparato dolorosamente gli amministratori locali di molti paesi, la pandemia si
misura in termini relativi: tassi di trasmissione, progressione del contagio, proporzione di malati, morti, guariti. Cinque milioni di cittadini saranno certamente pochi rispetto alle popolazioni di Italia, Giappone o America, ma il punto è: fermare il contagio. E come fermarlo. Il «come» della Ardern è stato: leadership. E trattare nel modo giusto quelli che gli inglesi chiamano i «big moments», i momenti di svolta. I due momenti importanti per la Nuova Zelanda ci sono stati a un paio di giorni di distanza l’uno dall’altro. Il 21 marzo scorso, quando il presidente americano Donald Trump ancora mandava messaggi confusi sulle strette di mano e l’impatto dell’influenza stagionale, la Ardern ha coniato uno slogan semplicissimo – da allenatore di squadra di rugby, dicevano i commentatori neozelandesi, che come si sa filtrano il mondo con l’immaginario degli All Blacks fisso in testa: «We go hard, we go early», colpiamo forte e colpiamo in anticipo. Quando ancora c’erano pochissimi casi in Nuova Zelanda, la Ardern ha annunciato in conferenza stampa la sua
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Il virus e i suoi effetti collaterali L’irruzione del virus nella vita quotidiana ha scompaginato i principî fondamentali della convivenza. La libertà. La sicurezza. La tutela dei più deboli. La tenuta del sistema sanitario. La nuova pestilenza ha occupato ogni angolo dell’organizzazione sociale, condizionandone il funzionamento. Le spicole che sporgono dalla corona portano con sé un evidente potenziale totalitario, ossia la capacità di infiltrarsi in ogni aspetto del vivere civile, dalla politica all’economia, dall’informazione alla cultura. Già alcune «democrazie illiberali» (ossimoro in voga in alcuni paesi ex comunisti) ne hanno approfittato per rafforzare ed allargare le competenze del potere esecutivo: un’occasione provvidenziale per mettere la mordacchia ai partiti d’opposizione. Ogni emergenza tende a ridurre l’ingerenza dei parlamenti e ad accentrare le politiche d’intervento nella gestione della crisi (formazione
degli «stati maggiori di condotta»). Anche la Svizzera conobbe durante i due conflitti mondiali il regime dei pieni poteri, ossia la concentrazione delle decisioni nelle mani del Consiglio federale. Un’operazione considerata inevitabile data la situazione, che però rimase in vigore anche a guerra finita. Per ripristinare le regole democratiche furono necessari interventi energici da parte della cittadinanza più attiva; nel secondo dopoguerra fu addirittura necessario lanciare un’iniziativa popolare – detta del «Ritorno alla democrazia diretta» – per ricondurre il Consiglio federale nell’alveo della tradizione: un verdetto, quello del 1949, non sorretto da una maggioranza schiacciante, come si sarebbe potuto attendere da un popolo geloso delle sue prerogative, ma da appena il 50,7% dei votanti. Di qui un primo insegnamento: cedere quote di potere è facile, riconquistarle a emergenza finita è difficile. Questo
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Cultura e Spettacoli Il trionfale ritorno di Bob Bob Dylan è inaspettatamente ritornato sulla scena con una vera perla dedicata a JFK pagina 32
Dal balcone di A.B. Yehoshua Continua la serie di Cartoline dalla quarantena, questa volta con lo scrittore israeliano e con Nadia Fusini
Addio al Cortile Dopo 15 anni di attività intensa e originale, Santoro ha dovuto lasciare il suo spazio teatrale
Cronache da Nyon... online A causa del Covid-19 il festival Visions du Réel quest’anno andrà in scena in streaming
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E intanto il ragno... Mostre A Firenze Palazzo Strozzi ospita
le opere del geniale artista Tomás Saraceno, ora visibili grazie a un tour virtuale
Blanche Greco Danzano nella brezza primaverile i ballooning spider appesi a lunghi filamenti di seta evanescenti che si allungano sotto il sole, si avvolgono ai rami degli alberi, sfiorano i passanti, saltano i tetti delle case e proiettano i loro alacri ragnetti-acrobati sempre più su, verso il cielo azzurro dove diventano invisibili. Li scorgiamo dalla finestra brillare nell’aria, in questi giorni in cui noi umani siamo quasi in castigo, confinati nelle nostre case da una minaccia che non ci risparmia, obbligati, noi spesso così ingombranti, a guardare la natura che ci circonda ed i suoi riti, con nostalgia infantile. E pensare che neppure un mese fa eravamo a Palazzo Strozzi a Firenze, per l’inaugurazione della mostra Tomás Saraceno, Aria curata da Arturo Galansino, dedicata all’artista argentino autore di eventi spettacolari in tutto il mondo, che si proponeva di portare «il cielo dentro il palazzo rinascimentale» ossia, la sua fantasiosa visione della galassia, della terra, delle piante, dell’acqua, del vento, dei fulmini «impigliata» in una tela di ragno. Infatti sono ormai risaputi sia il grande impegno ambientale, che la passione di Tomás Saraceno per i ragni, lui – architetto visionario e poliedrico di origini italiane, classe 1973, che ha collaborato tra gli altri con il M.I.T; The Natural History Museum; il Max Planck Institute – che tra arte e scienza, li studia, rielabora le loro tele e li porta con sé nelle sue mostre, performer inconsapevoli delle sue opere; della sua simbolica riproduzione dell’universo che, anche a Palazzo Strozzi, ci appare gioiosa, fantasiosa, eppure oscura e misteriosa come un antico presagio. Così accanto ad elementi scientifici e tecnologici, ecco che per guidarci nelle sale, Tomás Saraceno evoca le suggestioni esoteriche e i simbolismi inconsci delle Arachnomancy Cards: trentatré carte, una sorta di tarocchi, per consultare l’oracolo-ragnatela, come succede nella tribù dei Mambila del Camerun. E, anche se Palazzo Strozzi attualmente è chiuso, grazie alla App Arachnomancy possiamo egualmente decodificare i messaggi dell’oracolo, sintonizzandolo sulle impercettibili vibrazioni del nostro destino. Ma se i ragni vi rendono nervosi, o se, come
Diane Keaton in Io e Annie, quando ne incontrate uno, chiamate aiuto e il vostro salvatore per farvi piacere, guardando l’intruso perso nel candore della vasca da bagno, esclama come Woody Allen nel film: «Ma questo non è un ragno è King Kong!», allora, meglio «visitare» la mostra sfogliando il ricco e suggestivo catalogo-racconto: Tomás Saraceno, Aria edito da Marsilio. Si inizia, come nella realtà con l’installazione site specific Thermodynamic Constellation, nel cortile del Palazzo: tre palloni specchianti, quasi tre enormi gocce di rugiada sospese – grazie all’innalzamento della temperatura dell’aria al loro interno dovuta all’energia solare – che rimandano l’immagine del gioco di archi e di colonne del porticato, distorcendolo, mischiandolo a scorci del palazzo, di cielo e di nuvole in mezzo al quale appaiono le facce rivolte all’insù dei visitatori. È il prologo di questa Mostra, che porta la natura e l’utopia tra le sale di Palazzo Strozzi, un «viaggio» che si rivela ironico, bizzarro e anodino, come il manifesto di Aria: la visione apocalittica di Firenze, con Palazzo Vecchio e la sua Torre, la basilica di Santa Maria del Fiore e la cupola del Brunelleschi che, nel buio, emergono a stento da un deserto liquido, forse un lago, illuminati dalla luce che s’irradia da una enorme ragnatela al centro della quale sta sospeso un ragno speciale: un Argyroneta aquatica, un piccolo palombaro che vive e si muove sott’acqua in una bolla d’aria imprigionata dalla sua tela. Un’immagine che attira e dà i brividi, perché resuscita i ricordi della disastrosa alluvione di sessant’anni fa e la paura delle piogge che attanaglia Firenze ogni inverno, oltre a ricordare gli studi scientifici sul futuro delle città del mondo edificate alla foce dei fiumi e sulle lagune come Venezia minacciate dall’innalzamento dei mari. Nel catalogo-racconto, luce accecante e oscurità si rincorrono nelle immagini delle opere: sfere trasparenti, palloni specchianti, agglomerati di bolle bianche che si librano sui prati come nuvole; o che riflettono guizzi di sole e città; figure geometriche che scompongono gli elementi dell’aria, della luce, della polvere; giardini volanti dove piante dalle radici invisibili prosperano cibandosi di aria e di luce; fotografie di esperimenti di viaggi so-
Tomás Saraceno, Flying Gardens, 2020, tillanzia e vetro soffiato a mano. (Court. the Artist; © foto Ela Bialkowska, OKNO Studio)
lari fatti da Saraceno in Argentina, con una sorta di mongolfiera che s’innalza nel cielo grazie all’energia solare: anticipazioni della nuova era, l’Aerocene, che Saraceno preconizza, in un mondo senza combustibili fossili. Invece disegni e fotografie dai vari toni del grigio e del nero, raccontano nel catalogo l’oscurità densa e silenziosa delle altre sale di Palazzo Strozzi, in cui, in teche trasparenti, galleggiano ragnatele opalescenti da: Webs of At-tent-(s)ion, dalle tessiture multiple e soffici, frutto della collaborazione di ragni di specie diverse, a How To Entangle the Universe in a Spider/ Web? dove su una grande tela di ragno cremisi, tridimensionale, vengono individuati i punti delle galassie situate lungo i filamenti, come se fosse un’enorme ragnatela cosmica. Il tutto è accompagnato da saggi e affascinanti excursus che dall’Umanesimo
approdano all’Aerocene citando gli artisti-scienziati, i filosofi, gli architetti, gli astrologi, i matematici del Rinascimento sino ai naturalisti, biologi, architetti utopisti, etologi, letterati e scrittori dei giorni nostri: da Marsilio Ficino a Brunelleschi, da Leonardo da Vinci, a Torricelli, Galilei, a Richard Buckminster Fuller e le sue cupole ideali; a Italo Calvino e le sue Città invisibili, alle pessimistiche visioni di James Bridle, ai mondi giustapposti dell’antropologo Hugh Raffles, solo per citarne alcuni. Certo restano chiusi nelle sale di Palazzo Strozzi, il concerto di Sounding di Air, fili di tela di ragno e aria, pentagramma naturale amplificato da un sistema di microfoni; o quello di Particular Matter Jam(s) Session, dove nel buio appena rotto da una lama di luce, siamo accompagnati dagli echi di particelle, di granelli di polvere, dei tremiti im-
percettibili della ragnatela dell’unico ragno vivo, ospite del Palazzo (guardato a vista da due addetti – lui, o noi? – e alimentato da un etologo), che ci fanno entrare nel suo universo sensoriale con tanti piccoli bip che si accelerano al passaggio di ogni visitatore. Leggendo il catalogo-racconto ci manca quell’ansia, quel brivido quasi un segnale di pericolo atavico, leggero, o al limite del panico, che la quieta presenza di un ragno spesso ci trasmette e che ci accompagna nel buio della Mostra. Sentimento bizzarro e insensato oggi, di fronte alla reale minaccia del virus implacabile e invisibile, che ci sta braccando. Dove e quando
Tomás Saraceno Aria, Firenze, Palazzo Strozzi; in programma fino al 19 luglio. Info palazzostrozzi.org
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Cultura e Spettacoli
Lo scudo della memoria collettiva Incontri A colloquio con lo psicanalista italiano Luigi Zoja, studioso di paranoia e fenomeni di massa
e i rapporti con la Cina forse un decimo di quelli di oggi.
Eliana Bernasconi Psicoanalista e saggista di fama mondiale, Luigi Zoja è noto per un testo fondamentale sul comportamento umano: Paranoia, la follia che fa la storia tradotto in molte lingue, continuamente ripubblicato. Dopo gli studi negli anni 60 si è formato e ha insegnato allo Jung Institut, è stato per molti anni presidente dell’Associazione Junghiana internazionale, ha insegnato e abitato a New York, in Sudamerica e recentemente ha tenuto corsi in Cina. Da anni osserva e denuncia la mutazione del nostro vivere. Ricordiamo fra i numerosi testi il bellissimo La morte del prossimo, sugli effetti della globalizzazione e la società di massa, sull’indifferenza e la lontananza e la scomparsa di quel modo di relazionarci che nel mondo pre-tecnologico non escludeva gli affetti. Oppure ancora il recente Vedere il vero e il falso, indagine della verità nella fotografia del 2018, sugli inganni occulti che non cogliamo nelle immagini e che possiamo scambiare per verità obiettive. Gli abbiamo chiesto come adattarsi a questo enorme improvviso sovvertimento. Solo qualche mese fa nessuno avrebbe creduto a chi preannunciava lo scenario odierno. Eppure nel 2018 un gruppo di esperti aveva coniato un nuovo termine per indicare una pandemia che in un futuro imprecisato sarebbe passata dagli animali all’uomo, ma quando l’OMS comunicò la notizia al mondo, questa fu accolta come una fra le molte. Come possiamo spiegarlo?
In sé niente di nuovo. Gli umani sono più irrazionali che razionali, la psicoanalisi lo dice dai tempi di Freud: la psiche è come un iceberg, 1/10 è visibile, corrisponde all’io, alla coscienza, nove decimi corrispondono all’inconscio. Ma questo vale per i singoli cittadini. Ciò che appare più grave è che gli Stati, i loro Ministeri della Sanità non si siano preparati in questi due anni. Ci aiuta a capire perché?
Posso immaginare che in Italia semplicemente manchino i soldi per la prevenzione. Gli stipendi sanitari sono stati tagliati all’inverosimile: appro-
Siamo al pieno sovvertimento del nostro rassicurante vivere quotidiano, scuole e luoghi pubblici chiusi, contatti umani limitati. Il pubblico ubbidisce ai mezzi di informazione?
Il pubblico ha purtroppo più che mai un comportamento da gregge perché è spaventato. I mezzi di informazione si rendono conto della loro grande responsabilità e cercano di scoraggiare i bisticci tra chi ha opinioni diverse. I mezzi di informazione potrebbero fare di più?
Potrebbero per esempio frenare il rozzo uso dell’Unione Europea come capro espiatorio. È una nuova, indiretta e inconscia forma di razzismo. Quanto siamo costretti a vivere produrrà veri cambiamenti? Luigi Zoja è nato a Varese nel 1943.
fittando dell’Unione Europea i medici emigrano in Inghilterra, gli infermieri in Germania. Di recente gli psichiatri ticinesi mi hanno invitato per una conferenza, non solo erano tutti italiani, ma venivano da Roma in giù. Questo confermerebbe da un lato che in Nord Italia la sanità non è male, dall’altro che il sistema svizzero dispone di maggiori mezzi. Ma ciò non risolve tutti i problemi, ci sono buchi che vanno riempiti e particolarmente in psichiatria, specialità in cui si guadagna di meno.
Dipendiamo totalmente dai massmedia, alle cui notizie le persone reagiscono in modi diversi. Esiste un comportamento ottimale?
È ovvio che il comportamento ottimale consiste nel seguire le direttive dell’autorità e degli esperti, ma all’ansia non si comanda: non si può ordinare a un bambino di non aver paura del buio. I nostri istinti restano quelli dell’uomo del neolitico, ancora nomade, cacciatore-raccoglitore che doveva mantenersi sempre in guardia: Finché la vita normale funziona, gli adulti rimuovono la paura, ma con un pericolo sconosciuto molti ritornano bambini. Rispondere nel modo più equilibrato non è dunque possibile a tutti?
Evidentemente no, molto dipende dalla
qualità dei mezzi di comunicazione, ma più passa il tempo più il loro potere diminuisce. Le notizie si diffondono con i social e tutto dimostra quanto questi siano difficili da controllare e siano la patria delle false notizie. Dipende anche dall’indefinibile «senso civico» di una popolazione, che purtroppo da solo non basta, deve anche esserci sufficiente certezza che le trasgressioni saranno punite, perché certi adulti si comportano come bambini impauriti.
Lei è autore di un importante studio sulla formazione della paranoia, che possiamo chiamare psicosi collettiva, o delirio: è possibile riconoscerla quando ne veniamo in contatto?
La paranoia non è un oggetto materiale, un virus, però come questo si diffonde per contagio. Anche qui la buona informazione e la buona politica sarebbero essenziali. In Italia un paio di anni fa regnava una «paranoia collettiva» del terrorismo, anche se il database europeo diceva che non vi erano stati attacchi (vi fu un unico morto indiretto a Torino, quando nella folla qualcuno pensò allo scoppio di una bomba e ci fu un fuggifuggi con calpestio reciproco). Non possiamo dunque evitare di farci coinvolgere dal contagio?
Quando si instaura una paranoia
collettiva è già troppo tardi, come ho spiegato nel libro, non è facile prevenirla perché nasce da problemi reali. Il terrorismo esiste, però le persone che dicono: «da quando so del terrorismo non esco più di casa» soffrono di un comunissimo disturbo paranoico, abbiamo bisogno di un nemico, del cattivo della storia! Il rischio di venire uccisi dal terrorismo è bassissimo... le persone non dovrebbero uscire di casa perché ci sono gli incidenti stradali, peggio ancora, perché c’è l’inquinamento atmosferico che solo in Italia uccide più di 80’000 persone all’anno (dati EEA, Agenzia Europea per l’ambiente).
Negli anni 1957-60 la cosiddetta Influenza Asiatica, pandemia di origine aviaria, fece migliaia di morti, in seguito arrivò l’Ebola. Vede punti di contatto con il nostro presente?
Certo, gli uomini hanno deformato la natura e ora vengono in contatto con specie animali che prima conservavano un loro spazio separato, ma su ciò le può rispondere un infettivologo. Ma perché l’allarme per queste influenze non fu totale come oggi?
Potenzialmente il pericolo era grande, ma era il mondo a essere diverso. La SARS si sparse dalla Cina nel 2003, ma allora la globalizzazione era bambina,
In teoria sì, stando in casa le famiglie parlano tra di loro come non riuscivano a fare prima, spesso gli studenti studiano di più, si leggono più libri, le coppie che prima non avevano tempo neanche per quello, fanno all’amore. Quanto ci vorrà per ritornare come prima?
Non lo sappiamo. Bisogna anche vedere che costo avrà, in tutti i sensi, questa epidemia. Come dicevo, purtroppo agli incoraggiamenti vanno associate le punizioni. Non dico che gli umani prenderanno il virus come un «castigo divino», ma molti potrebbero associare il flagello collettivo con un «ce la siamo presa troppo comoda». Qualche abitudine più sana potrebbe restare, se non altro per un po’, perché il costo dell’epidemia sarà altissimo e molte coperte diventeranno troppo corte.
Non crede che questa terribile lezione potrà renderci meno egoisti?
Me lo auguro, ma non abbiamo nessuna garanzia. Anche dopo la Prima guerra mondiale si disse che sarebbe stato impossibile il ripetersi di una follia su quella scala, invece arrivò la Seconda, e fu peggio. Ma con una interessante differenza, per la prima milioni di giovani si offrirono volontari, per la seconda pochissimi. Proprio come lei si augura, evidentemente esiste una «memoria collettiva». Che in quel caso fece da scudo contro le paranoie della guerra.
Bob Dylan, un grande narratore Musica I l Maestro ancora una volta non si smentisce e ritorna sulla breccia
con un brano inedito dalla straordinaria potenza lirica ed emotiva Benedicta Froelich Si sa che, quando un artista del calibro e del prestigio di Bob Dylan si ritrova infine sulla soglia degli 80 anni, le sue folte schiere di seguaci sono ben consapevoli di come il loro idolo possa ormai permettersi svariati lussi – tra cui quello di sfornare brani inediti quasi con il contagocce; eppure, sebbene la prolificità del vecchio Bob sia andata via via scemando negli ultimi anni, è comunque innegabile che, quando quest’artista meraviglioso decide di far sentire la propria voce, ciò provochi sempre un piccolo sisma. Soprattutto se, nel pieno di una pandemia mondiale che ha sconvolto le abitudini di ogni abitante del pianeta, il «Bardo di Duluth» decide d’un tratto di tornare alla ribalta con un brano quantomeno particolare: una lunga ballata (della durata di oltre 16 minuti!) incentrata sulla morte di John Fitzgerald Kennedy, in un vero e proprio «flashback» che sembrerebbe avere scarsi legami con la difficile realtà attuale. Del resto, la figura di Dylan è andata soggetta a una distinta e piuttosto
curiosa dicotomia: dopo i fasti dell’impegno sociale degli anni 60 e 70, con la seconda parte della sua carriera (e l’inizio del Never Ending Tour, che dal 1988 lo vede viaggiare instancabilmente da un capo all’altro del mondo), Bob è parso volersi staccare dal suo ruolo di portavoce di una generazione «arrabbiata» per convertirsi invece a uno sguardo ben più intimista, e, in fondo, quasi indifferente nei riguardi della realtà sociopolitica contemporanea. Solo apparentemente, in verità, perché, come una grande scrittrice ebbe un tempo ad affermare (ben prima che a Dylan venisse assegnato il Nobel per la letteratura), «il suo silenzio fa più rumore di mille slogan». In effetti, oggi, con questo nuovo Murder Most Foul, Dylan torna a mostrare grandissima lucidità artistica, combinando lo sguardo crudo e clinico da storyteller consumato alla magistrale poetica di cui sa infondere ogni suo verso. Ecco quindi che il 23 novembre 1963 vede Kennedy «condotto al macello come un agnello sacrificale», mentre gli oscuri personaggi dietro al complotto gli si rivolgono con fra-
si di scherno («hai debiti in sospeso, e noi siamo venuti a riscuotere»); senza peraltro disdegnare un accenno alle ambigue connessioni vantate dal Vicepresidente Lyndon Johnson («abbiamo qualcuno già pronto a prendere il tuo posto»). Lungi dal limitarsi a una perfetta padronanza del racconto di stampo cinematografico, la grandezza di Dylan si estende così alla consueta maestria nell’impiegare una sorta di «flusso di coscienza» narrativo – dipingendo una successione di immagini dalla forza e potere di suggestione assoluti, senza mai concedere un attimo di tregua all’ascoltatore. Difatti, seguendo i dettami della tradizione folk a cui si è sempre rifatto, Bob intesse qui una trama di continue associazioni mentali, indotte da un uso sapiente e conciso del verso e del ritmo poetici e condite da continui rimandi e citazioni «pop» – il tutto volto a calare il pubblico in una dimensione quasi onirica, in cui, bombardato da sensazioni contrastanti, finisca per ritrovarsi immerso in quel tempo, luogo e atmosfere. Certo, negli anni d’oro il Maestro ci aveva già stupiti con epopee narrati-
ve di altissimo livello – su tutte, l’eccellente Hurricane (1975), potente cavalcata rock che raccontava del calvario giudiziario del pugile afroamericano Rubin Carter; e in anni più recenti, la title track dell’album Tempest (2012) lo aveva visto cimentarsi in un affresco corale quanto surreale sull’affondamento del Titanic. Per molti versi, Murder Most Foul è accomunato a simili predecessori sia dalla struttura narrativa che dalla musica quasi elegiaca, sempre volutamente al servizio del testo; in questo caso, però, l’argomento trattato (la morte prematura di chi aveva rappresentato la «nuova frontiera» dell’America, destinata a rimanere irrealizzata) è ancor più caro al cuore di Bob – il quale, del resto, è considerato, al pari di Kennedy, come un vero e proprio simbolo della nazione a stelle e striscie. Oltre a dipingere la perdita dell’innocenza di un intero Paese («l’era dell’Anticristo è appena cominciata»), Dylan tratteggia quindi un autentico dramma shakespeariano di rilevanza universale – quasi l’omicidio di JFK divenisse un simbolo della definitiva morte del sogno non solo americano, ma anche
La nuova canzone del Bardo di Duluth è dedicata a JFK.
occidentale; una morte qui rievocata in modo raggelante, a tracciare un oscuro parallelo tra il crimine di mezzo secolo fa e la fine di ogni libertà civile a cui, anche nel presente, il nostro mondo sembra ormai condannato ad assistere. Così, con Murder Most Foul Bob Dylan si conferma una volta di più come uno dei più grandi storyteller che la storia della musica popolare abbia mai conosciuto – non soltanto in termini di tradizione folk angloamericana, ma anche letteraria: riuscendo a fare di un evento in apparenza datato (e, forse, ormai piuttosto inflazionato) una metafora impietosa, quanto commovente ed evocativa, del crollo di tutti i nostri sogni e speranze.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 aprile 2020 • N. 18
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Cartoline dalla quarantena
Cultura e Spettacoli
Il mondo degli scrittori visto dalla finestra di casa
Nessun uomo è un’isola Tel Aviv Anche dal ventunesimo piano di un grattacielo in Israele il mondo sembra essersi fermato
Abraham B. Yehoshua* Nessun uomo è un’isola Completo in se stesso Ogni uomo è parte della terra [...] E perciò non chiederti Per chi suona la campana Suona per te «Nessun uomo è un’isola» scriveva il poeta inglese del XVII secolo John Donne, ed Ernest Hemingway scelse questa incredibile poesia come motto per il suo libro Per chi suona la campana che tratta della solidarietà in un frangente di pericolo. Dalle finestre del mio appartamento situato al ventunesimo piano intravedo il blu intenso del Mediterraneo intervallato dai moderni grattacieli di Tel Aviv. Dal mio punto di osservazione posso confermare che il lockdown serrato che il governo israeliano ha imposto ai cittadini durante la festività di Pesach, la Pasqua ebraica, viene effettivamente rispettato. Le vie sono deserte e nei parchi passeggiano solo persone per conto proprio. Noi israeliani siamo abituati una volta all’anno a un giorno
silenzioso, lo Yom Kippur, nel quale sono rare le automobili che circolano e le persone possono camminare con sicurezza in mezzo alla strada. Tuttavia i bambini che scorrazzano in bicicletta e sugli skateboard, così come i fedeli che camminano in direzione delle sinagoghe per la preghiera, rendono persino il giorno di Kippur molto più chiassoso e affollato rispetto a questi del lockdown abbattutosi su di noi proprio durante una delle festività a carattere maggiormente familiare. Mentre dal terrazzo osservo le vie deserte di Tel Aviv so che anche quelle italiane, inglesi, tedesche e francesi lo sono altrettanto, così come sono desolate le strade di New York. Io sono un israeliano di 83 anni, nato alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale e, dopo aver vissuto da bambino l’assedio di Gerusalemme, ho preso parte a non poche difficili guerre nel mio paese. Tuttavia si è trattato sempre di imposizioni ed emergenze che percepivo quali profondamente connesse al mio essere ebreo, a questa «identità particolare» o, come siamo soliti definirlo, al «destino ebraico». Questa volta invece la sensazione è diversa, poiché siamo soci a pari
diritti del destino del resto dell’umanità e veniamo misurati e giudicati per le nostre reazioni al virus con gli stessi criteri con cui vengono misurati gli altri paesi. Non siamo un’isola a sé, come ci siamo sentiti tante volte, bensì parte del grande continente umano. Non so quando né come sia nato il virus Corona che avvelena la nostra vita. Sono certo che quando verranno realizzati film che rappresenteranno cinematograficamente questo difficile periodo, un regista scaltro girerà una scena che riproduce il vicolo cinese nel quale evidentemente hanno macellato il pipistrello, con o senza un altro animale, per poi cuocerlo e mangiarlo, dando vita al virus maledetto. Ma io mi permetto di dire che non si tratta di un caso se il virus Corona è nato dalla nostro ossessivo ed eccessivo occuparci di cibo. Ogni volta che accendo la televisione mi imbatto in programmi di cucina di un tipo o di un altro, o sono spettatore di viaggi di turisti curiosi che sostano davanti a stand di cibi esotici in giro per il mondo. Il cibo e la cucina hanno conquistato la centralità che prima apparteneva ai contenuti di letteratura e di teatro, di musica e di cultura, confi-
La quarantena dello scrittore israeliano A.B. Yehoshua con vista sul Mediterraneo.
nando questi ultimi ai margini. Viene da chiedersi se il Coronavirus non ci sta portando un messaggio di avvertimento riguardo alla nostra eccessiva passione per cibi nuovi e originali, per arditi esperimenti gastronomici? Beh, i giornalisti del settore economico prevedono già per il prossimo futuro un quadro di disoccupazione a cominciare proprio dal settore della ristorazione. Ma può essere che io tragga conclusioni inutili e prive di fondamento. Di tanto in tanto i giornalisti si rivolgono a me per ottenere un’intervista, una consolazione, o una previsione in merito alla difficile situazione nella quale ci troviamo, ma io cerco di evitare di nutrire le fila di studiosi, filosofi, scienziati, medici, scrittori e politici che scrivono articoli e invadono i media. Benché un simile profondo sconvolgimento della condizione umana non possa che sedurre le persone come me, abituate a presenziare nella pubblica arena, facendo sentire la propria voce, ammonendo, facendo previsioni o minacciando, quando sto per pronunciarmi mi rammento delle parole del profeta Amos: «Perciò il prudente in questo tempo tacerà, perché sarà un tempo di calamità». (Amos 5,13) Nelle ultime settimane i media menzionano il romanzo La peste di Albert Camus, pubblicato nel 1947, dove viene presentato l’orrore della Seconda Guerra Mondiale attraverso il racconto allegorico della furia con la quale un’epidemia si è propagata nella città algerina di Orano. Questo romanzo faceva parte del programma del mio corso di Letteratura all’ombra della Seconda Guerra Mondiale che ho tenuto tante volte all’università, motivo per cui lo conosco bene. In generale questo libro non mi piace poiché è scritto in modo molto arido, e la trama e i personaggi sono schematici e non sono fonte di ispirazione. Anche Jean Paul Sartre, amico di Camus, si è stupito del fatto che egli abbia ritenuto giusto trasformare i tedeschi in batteri e, così facendo, annullare la drammatica lotta etica che ha caratterizzato la Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, nonostante fossi cosciente della debolezza letteraria del
romanzo, sono tornato a studiarmelo percependone la rilevanza in un frangente come questo, quando qualcosa di complesso, incomprensibile e impossibile da dominare, qualcosa di assurdo, cala improvvisamente sulla società umana colpendola con immensa crudeltà. Proprio il fatto di affrontare qualcosa di non razionale (componente quest’ultima che faceva parte anche della condotta nazista nella Seconda Guerra Mondiale) impone un certo tipo di reazione che non è solo razionale, bensì contiene anche una certa misura di solidarietà. È questo che avevo cercato di chiarire ai miei studenti nell’individuare quale dei sette personaggi del romanzo sopravvive all’epidemia e chi, al contrario, si ammala e muore. A una verifica sembrerebbe di poter affermare che i meccanismi di difesa dei personaggi che avevano preteso di individuare nella pestilenza una sorta di significato più alto, un messaggio di natura sociale o religiosa, una lezione morale o minaccia etica, si indebolirono e non furono in grado di fronteggiare con successo l’aggressione del batterio. Al contrario, quei personaggi che reagirono in modo solidale arruolandosi e prestando aiuto ai malati senza pretendere un significato profondo per le loro azioni e senza aspettarsi una ricompensa spirituale, riuscirono a sopravvivere all’epidemia. Primo tra tutti il medico Rieux che andava da una casa all’altra, da un malato all’altro e, benché non avesse da offrire loro né la salvezza né una medicina, li seguiva fedelmente. Benché fosse il primo candidato a venire colpito dall’epidemia, Rieux riuscì a resistere. Questo è il significato del versetto Per chi suona la campana / Suona per te. Il significato e il messaggio dell’epidemia li cercheremo dopo che ci avrà lasciati in pace. Nel frattempo offriamo solidarietà a chi ne avrà bisogno, e sono molti coloro che ne hanno bisogno già ora, così come saranno moltissimi ad averne bisogno ancora di più dopo che sarà passata. * Traduzione di Sarah Parenzo
Un mare di verde Grosseto Ascoltando i fraseggi gutturali di aironi e fenicotteri,
si viene riportati a una specie di day-one del creato Nadia Fusini Il Coronavirus – con relativo nefasto divieto della giusta varietà della vita individuale, obbligo generale di obbedienza al lugubre comando della segregazione volontaria, e imposizione forzata di una specie di «Chinese way of life», con tanto di mascherina e guantini (come in effetti vedevo girare per le piazze di Roma i turisti cinesi ben prima del Coronavirus) – mi ha colto per pura sorte mentre ero in campagna. Felice sorte, perché qui in campagna non rischio contatti «sociali», se non con i miei due cani, Pozzo e Nina – meravigliosi setter gordon, silenziosi e guardinghi per razza e carattere; e il gatto Robertino, di suo poco espansivo, e assai riservato per egoismo felino. Nella casa abita sempre, tutto l’anno, l’uomo con cui divido la vita. L’ha scelto da tempo; da tempo, intendo
dire, lui s’è «distanziato», anticipando uno stile di vita separata per necessità propria, interiore. In questa casa, più sua, che mia, ho «una stanza tutta per me» – con tanto di bow-window che aggetta sul prato, e sul pozzo circondato da cespugli di rose selvatiche e rose canine, e rosmarini. Sul fondo una parete di eucalipti – frangivento, li chiamano qui – obbediscono al loro nome, e tengono la casa al riparo dei vortici d’aria. Tra i loro rami intravedo l’acqua della laguna, lontana. Ma ne sento la presenza nella luce liquida, una luce speciale, propria delle paludi e dei paduli, degli acquitrini e degli stagni. Con bagliori di grigio, e un velo di umido che rende morbidi, porosi i colori. A poca distanza una riserva naturale accoglie e protegge varie specie di aironi e fenicotteri – bianchi, grigi, rosa. Da qualche settimana, avendo tagliato l’erba nel campo, vengono qui
la mattina a rifocillarsi di non so quale buon cibo sia rimasto tra le zolle. Vedo però che becchettano con alacrità. Per lo più sono schiere di picchi e pennini e avicelle, egrette e garzette. Non tutti i loro nomi conosco, e mi piace in realtà ammirarli nella loro estraneità, nella loro altera e altra bellezza di creature che appartengono a un mondo che non è il mio, anche se conviviamo nello stesso habitat. Ascolto rapita i loro gutturali fraseggi, che mi riportano a una specie di alba del mondo, a una specie di aurora della lingua, di day-one del creato. Non c’entra con il gracchiare del corvo e della cornacchia, non somiglia al tubare delle tortore o dei colombi, né allo zirlo del tordo, né tantomeno al cinguettio del passero, al trillo dell’allodola, al gorgheggio dell’usignolo. È un suono primitivo, che rimanda a un’origine ancora impastata con l’inizio del mondo.
Natura fin dove l’occhio può arrivare: dalla finestra di Nadia Fusini.
Nell’irreale «distanziamento sociale» – eufemismo, o disfemismo partorito da un linguaggio burocratico, che ben rivela come al servizio della politica la lingua vaneggi, vacilli, e tradisca la propria vocazione etica alla comunicazione – il silenzio s’è fatto ancora più vasto, e profondo. E il mare
di verde, che si apre al mio sguardo al di là della «stanza tutta per me», mi offre in dono uno spazio naturale, in cui mi viene spontaneo riflettere sulla infinita generosità di una natura, che seppure in troppi modi violata, è ancora e di nuovo un riparo. E provo gratitudine.
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Cultura e Spettacoli
Santoro, dal cortile alla città?
Teatro D opo 15 anni chiude Il Cortile di Viganello: Lugano è orfana di una sala piccola ma rappresentativa Giorgio Thoeni «Lo spazio fisico del Cortile è stata una realtà che sento il dovere morale di cercare di portare avanti dandogli una seconda vita. E la forza per superare l’iniziale sconforto mi è arrivata anche dalla solidarietà del pubblico». A parlare è Emanuele Santoro che così commenta la chiusura de Il Cortile, la sala teatrale da lui creata 15 anni fa ormai giunta al capolinea. L’annunciato sfratto risale a qualche mese fa, ma la forzata chiusura del teatro per la pandemia l’ha indotto a renderlo operativo sgombrando la sala per la fine di aprile, sull’attuale sedime a Viganello verrà eretta una palazzina di appartamenti destinati agli studenti universitari. E quale sarà il destino de Il Cortile? «Devo ancora capire come procedere» ci spiega Santoro: «l’ideale sarebbe che la Città mettesse a disposizione uno spazio dove potermi trasferire per ricreare un piccolo ambiente. Penso che sia l’unica soluzione sostenibile. Dopo 15 anni di sacrifici, anche economici, sento che questa lunga gavetta potrebbe aiutarmi a chiederlo». Emanuele Santoro (1970), attore, regista e pedagogo, è attivo nel teatro dal 1984. Inizia professionalmente nel 1993 come attore con la Compagnia Nuovo Teatro di Locarno di Patrizia Schiavo. Nel 1994 fonda I Microattori, corsi di teatro per ragazzi in età scolastica. Dal 1998 al 2003 firma regie per le Compagnie Teatro delle Contrade e Teatro Contestabile. Nel 2003 fonda la e.s.teatro, la sua compagnia. Debutta
Solo un bel ricordo... lo spazio Il Cortile di Viganello. (Il Cortile)
con Caligola di Camus a cui sono seguiti molti altri allestimenti, legati a un repertorio fra classico e moderno, fino al recente Uno, nessuno e centomila, di Luigi Pirandello. Proposte corredate da una nutrita serie di récital, per attore solo o in coppia, che hanno soprattutto contraddistinto l’ultimo periodo di programmazione riscuotendo un buon successo di pubblico. Tutte produzioni delle quali, oltre all’interpretazione, Santoro cura l’adattamento, la scenografia e la regia. Nel settembre del 2006 a Lugano-Viganello inaugura
Il Cortile, una sala teatrale da settanta posti, in affitto (1700 CHF al mese), costruita praticamente da solo e con un investimento complessivo di circa 60-70 mila franchi di materiali. Oltre ad essere stata la sede di e.s.teatro, de I microattori e dei Laboratori teatrali, Il Cortile ha ospitato ogni anno la stagione teatrale di e.s. teatro e la rassegna SOLOinscena. Un paio di anni fa, la Città di Lugano, ha incontrato Santoro in rappresentanza della sua compagnia considerata storica… «Ciò mi ha fatto riflettere,
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soprattutto in questi giorni. Potrebbe rappresentare un appiglio per chiedere di avere a disposizione uno spazio… Un appiglio disperato: se la mia è una compagnia storica potrebbe integrarsi alla Città in uno spazio comunale dove mi assumerei le spese vive. Con una famiglia e due bambini, all’idea di ricreare una sala come privato e pagarmela come ho fatto fino ad oggi, se devo dire la verità, non me la sentirei più. Ma è una possibilità che va valutata bene, distinguendo fra una soluzione d’emergenza e una prospettiva stabile. (…)
Cercando noi stessi nel tempo
Azione
Serie TV Tales of the Loop, la nuova serie
di Amazon, emoziona e rende nostalgici Fabrizio Coli
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Ora però è urgente trovare un magazzino dove poter lasciare l’attrezzatura tecnica e tutti i materiali». Ma quali sono le possibilità per un rilancio stagionale? «Sarebbe interessante, per esempio, sottoporre alla direzione del LAC la possibilità di integrare nel suo Teatrostudio la proposta dei récital, un’iniziativa che è piaciuta al pubblico, così come la rassegna SOLOinscena». E che ne sarà della formazione dei più piccoli e dei giovani? «È un aspetto che va ben al di là del fattore economico, è un’attività che pratico da oltre 25 anni e che può essere interessante per la Città. A questo proposito il primo che ho contattato è stato Claudio Chiapparino, direttore della Divisione Eventi e Congressi che, per quanto riguarda lo spazio destinato alla parte didattica, ha dimostrato una certa disponibilità». Una visione tutto sommato positiva per un artista quasi cinquantenne… «Credo nei cambiamenti. Sono convinto che dopo un certo numero di anni doveva succedere qualcosa di importante e questa battuta d’arresto mi ha portato a riflessioni personali e professionali. Quello che prima facevo con grande disinvoltura, oggi, che ho una famiglia, richiede uno sforzo diverso. Questa chiusura del teatro, devo ammetterlo, non mi sta avvilendo più di tanto: con essa si conclude una fase della mia vita dove ho fatto cose che ho voluto fortemente e realizzato con grande passione. Ma non sarà questo a fermarmi: ho ancora voglia di cercare, di fare e di dire delle cose.
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Una cittadina rurale della provincia americana, fra distese di campi, granai e macchine agricole. Anni 80, forse: tutto è imprecisato, soprattutto il tempo. Grandi robot dall’aria malconcia e vetusta si aggirano fra le fattorie circostanti. Boschi e laghi custodiscono misteriosi oggetti abbandonati come reperti archeologici di un futuro indefinito: strani contenitori, enigmatiche sfere arrugginite... L’orizzonte è dominato da imponenti torri industriali. Benvenuti a Mercer, Ohio. Tales from the Loop è la nuova serie fantascientifica di Amazon. Le ha dato vita un libro illustrato dell’artista svedese Simon Stålenhag, un universo visivo che il produttore esecutivo Matt Reeves – Cloverfield – e l’autore Nathaniel Halpern (Legion) hanno sviluppato. Il Loop del titolo è un complesso di fisica sperimentale costruito sotto la cittadina, dove lavora gran parte della popolazione. «Lo scopo del Loop è scoprire i misteri dell’universo. Qui vedrete cose che sembrano impossibili ma non lo sono». A dirlo a inizio serie è il fondatore, interpretato da Jonathan Pryce, uno
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Protagonista della serie è il tempo.
dei pochi nomi noti del cast insieme a Rebecca Hall. La sospensione dell’incredulità è servita: può succedere qualunque cosa. Ma è tutto ciò che sapremo sul Loop, perché la serie non parla di questo. Parla invece di persone, sentimenti, emozioni, paure e desideri, di ciò che ci rende unici e di ciò che ci lega. Cose profondamente umane, che i fenomeni straordinari generati dal Loop mettono solo in risalto. Diversi personaggi tornano più volte, ora protagonisti, ora comparse. Fra loro incontriamo due adolescenti che si amano durante un istante che dura mesi, mentre tutti attorno a loro sono immobili, per via di un oggetto che i ragazzi hanno attivato. Oppure una bambina che cerca sua madre e la sua casa svanite nel nulla e incontra se stessa da adulta. O ancora due amici che si scambiano i corpi… Le conseguenze sono imprevedibili, talvolta drammatiche. Il tempo è il perno attorno a cui tutto ruota: quello che il tempo ci porta via, l’impossibilità che tutto rimanga come amiamo, ciò che continuiamo a cercare senza mai trovare. Un fortissimo, malinconico, sentimento di indefinita nostalgia pervade la serie. La splendida fotografia e il design retrofuturistico lo esaltano. La musica di Philip Glass e Paul Leonard Morgan tende ad appesantirlo. Otto episodi di un’ora, sostanzialmente a sé stanti. Danno vita a una sorta di Ai confini della realtà in versione intimista ma insieme compongono anche un disegno più ampio che si rivela solo alla fine. Rarefatta e delicata, visivamente bellissima, Tales from the Loop è una serie dove tutto è riverbero più che esplicitazione. Ne è rimasta affascinata anche Jodie Foster, che dirige l’ultimo episodio.
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Cultura e Spettacoli
Quando un festival è anche resistenza
Tra sogno e realtà Visions du Réel/2 Tra i partecipanti
alla kermesse anche il ticinese Nikita Merlini
Visions du Réel/1 Nonostante questa edizione sia rigorosamente
online, non mancano le emozioni
Nicola Mazzi
Muriel Del Don La situazione attuale causata dalla pandemia di Coronavirus ha reso la vita delle varie manifestazioni culturali a dir poco difficile. Che si tratti di mastodonti come il Festival di Cannes, la Mostra di Venezia, il Festival di Avignone, il Montreux Jazz Festival o il Paléo, oppure di manifestazioni più contenute come il Festival Internazionale del Film di Friburgo o il Cully Jazz Festival (parlando di Romandia), tutti hanno dovuto prendere delle decisioni complesse e dolorose. Essendo le alternative limitate (escludendo quelle distopiche che prevedono una sfilata sul red carpet con mascherina e nessun ospite internazionale) e il tempo a disposizione per riorganizzarsi più che limitato, molti hanno dovuto gettare la spugna. Il sempre attesissimo Visions du Réel, appuntamento imperdibile per gli amanti del cinema del reale, ha invece deciso di mantenere la sua 51esima edizione proponendone una versione alternativa, esclusivamente online. Questo gli ha permesso di onorare gli impegni presi con i vari registi e professionisti del settore cinematografico e di rappresentare fieramente l’eccezione. Per Emilie Bujes, direttrice artistica, ha prevalso la volontà di mantenere vivo il rapporto con il pubblico e con gli invitati. Visions du Réel infatti è sempre stato un festival accogliente anche se artisticamente esigente, volutamente popolare senza però perdere niente della sua impertinenza. La 51esima edizione (17 aprile-2 maggio) non si svolge fisicamente, ma in versione digitale, sfruttando una tecnologia che si è trasformata in strumento per avvicinare più che dividere. Nello stesso modo in cui la nostra società è messa alla prova da un virus che la sta modificando nel profondo, Visions du Réel si trasforma cercando soluzioni alternative che permettano alla cultura di brillare, malgrado tutto. L’antidoto all’inevitabile sconforto che ha invaso in un primo momento tutto il team del festival è stato il VOD (e più in particolare le piattaforme di streaming Festival Scope, dafilm.com, Tënk e il sito web della RTS) che si è immediatamente imposto come alternativa alle sale cinematografiche, permettendo al
Una scena di Las Ranas di Edgardo Castro. (YouTube)
pubblico di gustare gratuitamente ben 113 film (oltre agli omaggi e agli atelier) suddivisi in sette sezioni, senza dimenticare l’immancabile premio Maître du Réel dedicato quest’anno alla strepitosa Claire Denis e gli attesissimi atelier animati dalla coraggiosa regista brasiliana Petra Costa e dallo svizzero canadese Peter Mettler. Oltre all’offerta cinematografica, quest’anno viene proposta anche una mostra inedita al Château de Prangins immaginata con Godard. La mostra riprende il découpage in sei parti del suo ultimo film Le livre d’image (2018), frammentando ed esplorando ogni segmento dell’opera dal punto di vista visivo e sonoro. Tra i numerosi film selezionati nella Competizione internazionale (lungometraggi), spiccano due opere di giovani registi svizzeri o svizzeri di adozione: Il mio corpo di Michele Pennetta (regista italiano che ha studiato alla SUPSI e successivamente all’ECAL di Losanna) e Kombinat di Gabriel Tejedor. Il primo mette in scena con un’eleganza formale e una sensibilità rare due personaggi in apparenza molto diversi, ma uniti dalle stesse preoccupazioni esistenziali: Oscar, un giovane ragazzo siciliano che vive raccogliendo ferraglia, sottomesso al giogo soffocante del padre e Stanley, immigrato nigeriano che lavora come tuttofare e bracciante per sopravvivere a un’esistenza che sembra sbiadire sotto i suoi occhi. Il secondo ci propone invece di viaggiare nelle viscere di una Russia relegata ai margini, attanagliata da un
governo totalitario che non lascia spazio alla riflessione individuale. Attraverso gli occhi di Maria, Sasha, Guenia e le loro famiglie, Gabriel Tejedor mostra le crepe del sistema, la nascita di una nuova generazione che comincia ad aprire gli occhi sulle condizioni di lavoro e di vita disumane subite dalle generazioni che li hanno preceduti. Toccanti e intrisi di una poesia crudele anche Las Ranas di Edgardo Castro che dipinge con un realismo viscerale il quotidiano di una donna che cerca di vivere una relazione d’amore attraverso le sbarre di una prigione di Buenos Aires e il colombiano The Calm After the Storm di Mercedes Gaviria, un viaggio intimo nel quale i conflitti famigliari lasciano il posto a una riflessione acuta sul ruolo delle donne all’interno di un sistema, quello cinematografico, ancora tristemente patriarcale. Visions du Réel ha saputo reinventare il proprio concetto senza perdere niente del suo carattere coinvolgente e determinato. Le discussioni animate sulla bellezza della settima arte, l’emozione condivisa guardando un film che ci commuove nel profondo, gli incontri fortuiti che durante le manifestazioni cinematografiche possono cambiare il destino di un film ci mancheranno sempre, ma come ci ha dimostrato questa 51esima edizione, l’importante è continuare a combattere e a offrire al pubblico la gioia che solo certi film, quelli che della sincerità hanno fatto il loro credo, possono suscitare.
Visioni e realtà. Questi due termini sintetizzano molto bene la natura del festival cinematografico di Nyon sin dalla sua nascita nel 1969. Un binomio che riassume altrettanto fedelmente i film presentati anche quest’anno, ma solo online a causa del Coronavirus, sul sito www.visionsdureel.ch. Infatti il realismo e il sogno – oltre a essere ovviamente all’origine della nascita del cinema, basti pensare ai viaggi fantastici di Georges Méliès – sono concetti ben presenti nelle opere scelte dai selezionatori della rassegna. Anche nelle varie sezioni dedicate ai corti e ai mediometraggi. È il caso del film ticinese di Nikita Merlini The Last One. Una storia molto ticinese, ma altrettanto universale dove viene messo in scena il passaggio all’età adulta di una ragazza e dei suoi amici. I sogni, le scelte, i dubbi e la grande voglia di partire dalla terra natia sono i temi sui quali discutono: attorno a un falò, su una barca in mezzo al lago o davanti a uno schermo di un tablet. E se la protagonista vive la partenza del fratello maggiore e s’immagina il momento nel quale se ne andrà, la madre ricorda quando invece a partire, anni prima, fu proprio lei. È un lavoro interessante anche perché non rinnega la radice ticinese e quindi realistica dell’opera. Anzi la esalta: nel modo di parlare (il gergo, la cadenza di quell’età), nella scelta dei luoghi filmati (siamo nel Locarnese) e nei sogni dei ragazzi (l’obiettivo è quello di partire per un’Università in Romandia o in Svizzera tedesca). Restando sempre ancorati alla lingua italiana merita una menzione particolare Le grand viveur di Paola Sardella. I filmini montanari girati in Super 8 da Mario Lorenzini (operaio e cineamatore) sono stati trovati e poi rimontati dalla regista. Ne esce un lavoro documentaristico, dove la dura vita
quotidiana sulle Alpi italiane è intervallata da feste e momenti di svago. Dove la regia occulta di Sardella fa emergere la vena realistica di Lorenzini che, come ha ammesso la stessa autrice, ha un modo espressivo di girare e di catturare lo stato d’animo degli alpigiani, simile a quello che aveva John Cassavetes. Un bel mix tra visioni e realtà è quello proposto da Henri Marbacher nel corto Tente 113, Idomèni che racconta il viaggio di un giovane migrante siriano, Agir, in Svizzera. Un lungo percorso pieno di ostacoli che solo l’animazione riesce a rendere in modo profondo. Anche la voce off di Agir, che descrive le varie tappe, gli incontri, le fatiche e le difficili situazioni con cui è confrontato, contribuisce a restituire una dose di realtà a un racconto frammentato. Un’originale prova estetica dove la forma diventa contenuto. Il miscuglio di forme estetiche per guardare al passato è la cifra usata da altri due cortometraggi proposti dal festival di Nyon. Parliamo del sudcoreano I Bought a Time Machine e del polacco We Have One Heart. Se nel primo caso l’illusione di poter tornare nel passato, attraverso una fantomatica macchina del tempo, è il pretesto per poter davvero far rivivere la storia del paese, nel secondo caso il tuffo all’indietro è contraddistinto da una serie di diapositive che un ragazzo trova alla morte della madre. Grazie a quelle foto scopre la storia d’amore dei propri genitori immersa nel conflitto tra Iran e Iraq. Storie molto personali, dunque, che però con il lavoro svolto sui materiali cinematografici (diapositive, video, fotografie, filmati in Super 8), diventano universali. Parlare della propria famiglia, dei propri cari, alla fine significa parlare di un paese e di un particolare periodo storico. Visions du Réel, grazie alla duplice valenza tra sogno e realtà, lo sta mostrando in modo efficace.
Dal trailer di The Last One di Nikita Merlini. (YouTube)
Poetry Slam: in gara con le parole La lingua batte È di moda ormai la competizione fra poeti, su un palco affrontando il giudizio del pubblico Laila Meroni Petrantoni È curioso. Se ci penso, l’immagine che mi si presenta nella mente non è quella di un palcoscenico, bensì di quell’angolo di Hyde Park, nel cuore di Londra, da tempo concesso agli oratori di ogni sorta in totale libertà: per tutti – non solo per gli anglofoni – è lo Speaker’s Corner. C’azzecca poco con il tema scelto oggi per questa rubrica? E invece, magari, un po’ sì. Come in Hyde Park, anche qui abbiamo un coraggioso oratore che nel caso specifico si presenta come poeta: sale su un palco e di fronte a un pubblico lì apposta per giudicarlo inizia a declamare un proprio testo che chiama poesia. Prendiamo un certo numero di questi autori, che malgrado l’asserita fratellanza artistica un po’ si sorridono l’un l’altro a denti stretti perché in realtà sono su quel palco per gareggiare fra di loro,
in fondo anche per essere eletti come vincitori unici della competizione «poetica». Questo genere di gare stile libero a suon di versi (nel senso arti-
Hazel Brugger, star del Poetry Slam elvetico. (Keystone)
stico della parola… o almeno, quasi sempre) si chiama appunto Poetry Slam. Il nome è rimasto in inglese, non solo perché il fenomeno è nato a Chicago, ma anche perché forse in italiano suonerebbe un po’ stravagante: una specie di «colpo di poesia», anzi quasi un «colpaccio di poesia» (che ricorda quell’altro Slam, quello Grande, tanto ambito dai tennisti, definizione che va a stropicciare l’immagine di componimento delicato ed etereo ispirato da sentimenti ed emozioni; in pratica, un ossimoro). Non ho mai assistito a un Poetry Slam vero, quindi non ho nessun diritto di alimentare pregiudizi. Il mio problema è il primo approccio avuto con questo tipo di gara, avvenuto pochissimo tempo fa: non di fronte a un palcoscenico – zona ormai proibita per colpa di un virus – bensì in rete. Dato che i Campionati svizzeri di Poetry Slam, previsti a metà marzo a Basilea, sono
stati cancellati, il canale radio pubblico SRF 1 ha lanciato il «QuarantäneSlam» organizzato secondo la classica formula dei vari turni; gli slammer (ecco, malgrado l’anglicismo preferisco questo termine piuttosto che «poeti») si sono misurati fra di loro con testi autografi e video autoprodotti in casa. In rigoroso schwyzerdütsch con relative sfumature regionali. Uno di questi, una giovane donna acconciata con treccine infantili, ha proposto il suo testo intitolato con una bella parolaccia. Non aggiungo altro, se non un «de gustibus non disputandum est», come tradizione comanda. E per la cronaca, la poetessa è stata scartata al primo round. Passato lo shock, mi dicono invece che i Poetry Slam sono una cosa seria e da qualcuno di essi sta pure uscendo qualche nome degno di nota. Che a volte cede alle lusinghe della buona vecchia carta stampata entran-
do nel catalogo di qualche casa editrice. Come tradizione comanda. Ma a cosa è dovuto il successo dei Poetry Slam? Quali pregi hanno? Certamente il coraggio dei partecipanti di mettersi in gioco, di tornare a onorare l’oralità degli antichi, di affrontare un pubblico che potrebbe anche rispondere con fischi (non guardate me, non lo farei mai…), di condividere e difendere davanti a perfetti sconosciuti un pensiero o forse anche un sentimento che bene o male si trasforma in parola espressa dalla propria voce e con l’ausilio del proprio corpo. Un po’ come succede in quell’angolo di Hyde Park, con in più il sapore dolceamaro della competizione. Il Poetry Slam piace ai giovani, li spinge a giocare con le parole, li libera dai vincoli metrici e retorici della poesia classica. E secondo le statistiche, uno su mille ce la fa. Ai posteri – ma prima al pubblico – l’ardua sentenza.
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