Azione 51 del 19 dicembre 2016

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 19 dicembre 2016

Azione 51 Ms alle hoppi pag ng ine 3136 /

Società e Territorio Questa settimana la nostra rubrica «Viale dei ciliegi» presenta tre libri per bambini dedicati al Natale

Ambiente e Benessere L’intervista all’antropologo Andrea Jacot Descombes chiude il ciclo di articoli di approfondimento «Tra scienza e rito»

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Politica e Economia Da secoli gli animali sono i protagonisti della «pet diplomacy»

Cultura e Spettacoli Durante la Prima guerra mondiale a Natale i canti presero il posto delle armi

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Il Natale nelle tradizioni

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Cartolina della Ditta Borelli, Airolo

Effetti collaterali

Racconto di Natale L’autore ticinese Andrea Fazioli propone ai lettori di «Azione» un racconto natalizio in esclusiva

Andrea Fazioli Nei corridoi del vecchio liceo non si avvertiva l’odore del sangue, ma il professor Fedeli lo sentiva scorrere. Era un fiume di sangue. La violenza più efferata, la forza bruta, senza ritegno. Gli studenti non se ne accorgevano, perché alle loro orecchie le parole giungevano attutite dalla metrica, dalla voce salmodiante dello stesso Fedeli. Ma di che cosa stavano parlando? Di un giovane solitario che s’innamora di sé stesso, specchiato nella sua bellezza, e che finisce per ammazzarsi. Di un uomo che si cava gli occhi per la disperazione. Di una donna tradita dall’amante che si ven-

dica con ferocia, uccidendo i suoi – È un… ottativo? stessi figli. – Senza punto di domanda. – Non ho capito gli ultimi versi – – Un ottativo – ripeté lo studente. disse il professore. – Ottativo presente. Che ha valore deLo studente deglutì prima di ri- siderativo… come il latino… come… petere. – «Perché vorrei stare tre volte Si era fatto male da solo. Fedeli lo presso uno scudo piuttosto che parto- lasciò annaspare per qualche seconrire una volta sola». do, poi tagliò corto: – «Perché vorrei»? – chiese Fedeli. – Come il latino velim. Bene, dopo – È un… cioè, intende che prefe- le vacanze preciseremo la struttura rirebbe combattere, trovarsi in prima di questa scena. Ricordate di leggere linea, piuttosto che… fino al verso 270. – Ho capito. – Fedeli si schiarì la Gli studenti alzarono le sedie sui voce. – Ma sarebbe meglio tradurre: banchi e uscirono in fretta. Nessuno «Come vorrei». Corrisponde all’ut la- di loro, nell’infilare il libro nello zaitino. E il verbo? no, pensò al sangue. Eppure avevano – Il verbo? sentito il lamento di Medea; sape– Il verbo. Che verbo è? vano che, per vendicarsi di Giasone

che l’aveva tradita, aveva ucciso in modo atroce la sua rivale e poi sgozzato i suoi stessi figli. Ma tutto, nelle aule dal soffitto alto, con un perenne soffio di termosifoni, prendeva il sapore polveroso della grammatica e dei trimetri giambici. Così era stato anche per l’episodio di Narciso, di cui Fedeli aveva parlato in seconda liceo, e perfino per la sventura di Edipo. Squillò il campanello. Fedeli rimase seduto alla cattedra, pensando ai versi che restavano uguali negli anni, mentre generazioni di allievi si sostituivano l’una all’altra. Una sequela di facce anonime, più impalpabili dei figli di Medea. «Primo figlio» e «Secondo figlio», così li chiamava Euripide.

Troppa fatica dare loro un nome, tanto poi sarebbero morti lo stesso… Fedeli fece scivolare il libro e la stilografica nella cartella di pelle. Guardò la pioggia fuori dalla finestra, come un sipario grigio, e dietro la pioggia il ricamo delle luci natalizie. Gli venne in mente che doveva fermarsi a prendere il vino, sulla via del ritorno. Quella sera Giovanna sarebbe passata da lui per quello che aveva definito «un brindisi intimo». C’era qualcosa nell’espressione che infastidiva Fedeli, come uno stridore. Troppe «i», forse. E poi l’intimità, con tutte le sue promesse, non andrebbe accostata all’allegria banale di un brindisi. pagina 2


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 dicembre 2016 • N. 51

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 dicembre 2016 • N. 51

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Speciale Natale

Speciale Natale

Effetti collaterali da pagina 1

Uscì nel corridoio e venne quasi investito da un ragazzo che correva verso le scale. Fedeli stava per rimproverarlo, ma poi lasciò perdere. Il ragazzo borbottò uno «scusi». Doveva essere del primo anno: avevano ancora la smania di muoversi, di occupare gli spazi. Poi, crescendo, si facevano sempre più lenti, con un territorio vitale più ristretto; li vedevi radunarsi in gruppi circoscritti, elitari: chi nel pianerottolo all’ultimo piano, chi accanto al gabbiotto del custode, chi nei bagni del terzo piano, presidiati da un manipolo di ragazze spietate. I figli di Fedeli avevano superato anche quella fase: Andrea studiava relazioni internazionali a Ginevra, mentre Teseo – dopo la laurea triennale in scienze della comunicazione – stava ultimando un master in gestione dei media. Tutte materie senza sangue, pensava Fedeli. Il giorno dopo avrebbe visto entrambi i figli, insieme a Simonetta, la sua ex moglie, per il solito pranzo a casa dei suoceri, a base di salmone, tartine, uova ripiene di tonno, arrosto in crosta, patate, tiramisù, con vini bianchi (Greco di Tufo, come ogni anno), rossi (Morellino di Scansano), dolci (Moscato d’Asti) e poi nocino, grappa fatta in casa, caffè. I suoceri erano troppo vecchi per cucinare, così Simonetta e Lidia, sua sorella, avrebbero preparato tutto in mattinata. Fedeli prevedeva di farsi vedere verso mezzogiorno, munito di Moscato e panettone. Ai regali per i ragazzi per fortuna ci pensava Simo, che di solito comprava loro un maglione o un buono per un weekend da qualche parte.

« Sei tu?» – Fedeli fece una pausa. – «Sono io?» Ma il ragazzo si era voltato ed era corso indietro, fino a sparire A pochi passi dall’aula docenti, udì uno schiamazzo e si ricordò dell’aperitivo. Ebbe un’esitazione. Se si fosse lasciato coinvolgere, avrebbe dovuto bere vino bianco scadente in bicchieri di carta, destreggiarsi fra le solite chiacchiere e lamentarsi dei consigli di classe che duravano troppo, dei ragazzi che non leggevano più, dei nuovi corsi di aggiornamento che erano una fregatura. Di solito a Fedeli non dispiaceva lamentarsi un po’. Ma quella sera, all’inizio delle ultime vacanze di Natale della sua carriera, si sentiva particolarmente vulnerabile. Era in quello stato d’animo che fa dire ai personaggi dei film: voglio starmene da solo per un po’. Una frase che Fedeli non aveva mai sentito pronunciare nella vita reale. Non sapeva la causa della sua inquietudine. Era un effetto collaterale del clima natalizio o era l’ombra del prossimo pensionamento? Oppure era il pensiero del sangue versato da Medea… quante volte aveva letto quei versi senza badarci; ora invece gli sembrava un caso di cronaca nera. Pensò alle tragedie che finivano in pasto ai giornali e alla tivù: marito che accoltella la moglie, madre che soffoca i bambini. Il mondo era pieno di sangue. Ed Euripide, nel 431 avanti Cristo, aveva sentito il bisogno di raccontare proprio quella storia, quello strazio assurdo. Tornò indietro e riaprì l’aula dove aveva fatto lezione. Accese la luce, si sedette alla cattedra, tolse il libro dalla cartella. Di fronte a lui, la distesa dei banchi vuoti, con le sedie rovesciate che parevano tanti alberi di navi ferme nel porto. Sfogliò il libro fino al monologo di Medea nel quinto episodio. Erano passati più di quarant’anni da quando,

per la prima volta, in quello stesso liceo, il giovane Carlo Fedeli aveva studiato ogni minuzia grammaticale di quei versi, preparandosi all’esame di maturità. «È necessario che essi muoiano» – ecco il verdetto spietato. «E poiché è necessario, li ucciderò io che li ho generati». Il male si presenta sempre in questo modo, pensò Fedeli, come necessità. Non soltanto il male: anche il fluire della vita è una serie di necessità inesorabili, come il liceo classico, gli aperitivi, i messaggi di auguri, la vecchiaia, l’amore, il salmone con i crostini e il Moscato d’Asti. Il greco lo diceva con una parola sola, un indicativo perfetto passivo: πεπρωται. È stabilito dal destino. Carlo Fedeli credeva nel destino? Dopo tanti anni in cui ne parlava agli studenti, non era sicuro di sapere bene che cosa fosse. Era stanco morto: sette ore di lezione si facevano sentire. Inoltre da mesi soffriva d’insonnia; e quel mattino si era alzato presto, dopo appena due o tre ore di sonno, per finire di correggere. Gli venne in mente che qualcuno sarebbe potuto venire a sbirciare nell’aula, così spense la luce, chiuse la porta e tornò a sedersi alla cattedra. Pensò di chiamare Giovanna, ma si accorse che aveva il telefono scarico: il simbolo della batteria era di colore rosso. Si limitò a scriverle un sms: «Sto scappando dal vino nell’aula docenti… poi corro a casa e ti aspetto. Bacio». Il suono della pioggia lo circondava, picchiettando contro i vetri e gorgogliando nelle grondaie. Spinse la Medea di fianco, incrociò le braccia davanti a sé e vi posò sopra il capo. Una siesta di cinque minuti lo avrebbe aiutato a ritrovare le energie per la serata con Giovanna. Mentre il professore dormiva, l’aperitivo in aula docenti si esaurì lentamente, insieme alle bottiglie di prosecco. Qualcuno si stupì dell’assenza di Fedeli. – Sarà con la sua nuova fiamma… – scherzarono i colleghi. Anni prima, Fedeli aveva avuto una storia con una collega: un’insegnante di francese con cui aveva condiviso una gita a Praga. Poi però, visti i risultati disastrosi della relazione e la successiva ondata di pettegolezzi, aveva sempre badato a tenere distinte la sua vita privata e quella scolastica. Così gli altri non si fecero troppe domande e, uno alla volta, se ne andarono a casa. Infine il custode controllò che le finestre fossero ben chiuse e sprangò il portone, dopo aver spento l’interruttore generale che regolava le lampade nei corridoi e nelle aule. Un minuto dopo, Fedeli si risvegliò. Per qualche secondo rimase disorientato dal buio e dal freddo. Rabbrividì e, rialzandosi, scoprì di avere il collo indolenzito. Non aveva l’impressione di aver dormito per più di dieci minuti, eppure… Fece per illuminare lo schermo del cellulare, ma non ci fu nessuna

Andrea Fazioli. (Ads)

(Keystone)

Racconto di Natale Lo scrittore ticinese Andrea Fazioli ci propone una storia dal sapore misterioso

reazione. Allora si mosse verso la porta e premette il pulsante della luce, ma non accadde nulla. Un black out? Si avvicinò all’orologio e, al chiarore fragile delle decorazioni natalizie, riuscì a decifrare l’ora: le 19.45. Aveva dormito più di due ore! Com’era possibile? Aveva male in ogni parte della schiena, del collo, delle braccia. Pensò di andarsene a casa e di farsi un bagno caldo, prima dell’arrivo di Giovanna. Ma come uscire? Non aveva le chiavi dell’ingresso, e nemmeno della porta sul retro. Certo, avrebbe potuto chiamare dal telefono fisso in aula docenti… ma chiamare chi? Avrebbe fatto una figuraccia: sono rimasto qui, venite a tirarmi fuori! Sarebbe diventato una barzelletta: il vecchio professore di lingue morte che si addormenta la sera di Natale. Gli studenti l’avrebbero trasmessa di generazione in generazione… Pensò di chiamare Saverio, il custode: in cambio di una generosa mancia, avrebbe potuto contare sulla sua discrezione. Si avviò lungo il corridoio in penombra. Il Babbo Natale al neon in cima alle scale era spento, ma le stelle fosforescenti – appese dai docenti di arti visive lungo le pareti – avevano conservato una vaga luminescenza. Con tutte le porte delle aule sbarrate, l’edificio scolastico metteva quasi soggezione. Dopo averci passato i suoi anni da liceale, Fedeli aveva insegnato lì dentro per quarant’anni, eppure non l’aveva mai visto in quel modo: gli spazi parevano enormi, i soffitti altissimi, il buio inghiottiva la fine del corridoio. Sebbene sapesse che non c’era nulla da temere, salvo una figuraccia storica, Fedeli non poté fare a meno di sentirsi impaurito. Gli tornò in mente Euripide, il sangue, il grido spaventoso di Medea… e tutto il resto, tutto quello che aveva raccontato anno dopo anno: dietro ogni mito si celava la disperazione, anime smarrite in un mondo spaventoso, dove ogni tuono, ogni lampo, ogni movimento di terra e di mare era una condanna divina. Arrivò in fondo al corridoio e guardò nella voragine oscura delle scale. Stava all’ultimo piano: due rampe più in basso c’era l’aula docenti, mentre sopra di lui, gli scalini portavano a un minuscolo pianerottolo e alla porta di un ripostiglio. Fedeli se ne ricordava perché da ragazzo, al suo primo anno di liceo, andava spesso a rifugiarsi lassù. Charlie, come lo chiamavano tutti allora, era popolare solo fra le in-

segnanti di una certa età: una specie che tende ad accordare i suoi favori alle creature solitarie, studiose e, per dirla francamente, un po’ sfigate. La sua salvezza era stato l’incontro con Simonetta, in seconda liceo. Con lei aveva attraversato anni di associazioni culturali, giornalini, cineforum. Avevano entrambi studiato a Pavia: Simo filosofia e lui lettere classiche. Qualche anno più tardi si erano sposati. Era finita com’era finita, però Fedeli ricordava ancora quando, dopo averla baciata per la prima volta, era corso lassù, in cima alle scale, perché voleva assaporare la sensazione. Protetto dagli sguardi altrui, aveva perpetrato uno di quei gesti ridicoli che, al momento, sembrano rivestire un grande significato: con la chiave della bicicletta, aveva intagliato nel legno della porta il suo nome e quello di Simo, uniti dalla forma di un cuore. Un cuore! Un’azione infantile di cui lo stesso Charlie in pubblico avrebbe riso. Ma quando si è soli su un pianerottolo, con il cuore che scoppia, i gesti infantili sono un modo come un altro per placare la tempesta ormonale. Il professor Fedeli immaginò quel ragazzino ormai scomparso nella macina del tempo. Con i jeans sdruciti, quei maglioni che gli piaceva indossare, di una o due taglie troppo larghi, le scarpe da ginnastica consunte e un ciuffo di capelli biondi che in nessun modo riusciva a governare. Era magrissimo. Aveva gli zigomi alti, il mento aguzzo. Gli anni avevano smussato gli spigoli, addomesticato i capelli; e solo gli occhi celesti restavano come allora spalancati davanti a ciò che lo stupiva, senza battiti di ciglia, quasi fosse ipnotizzato. C’era qualcosa che non andava. Fedeli restò a fissare nel buio, ma il segnale d’allarme non era giunto tramite la vista: era un suono, un’increspatura nel picchiettio regolare della pioggia. Un respiro? Come se qualcuno stesse cercando di non farsi scorgere, mentre teneva d’occhio il professore all’angolo delle scale. Basta. Era solo paranoia: un effetto collaterale del buio e della stanchezza. Fedeli fece per scendere gli scalini: prima arrivava nell’aula docenti, prima sarebbe tornato a casa. Il cellulare era scarico, ma avrebbe cercato il numero del custode su internet e poi… Di nuovo quel rumore. Stavolta Fedeli si voltò di scatto e lo vide. Era lui. A pochi metri, nell’ombra

del corridoio. La figura magra, con i capelli biondi, i jeans, le scarpe dalle stringhe slacciate. La faccia restava nell’ombra, ma a Fedeli parve d’intuire lo scintillìo dello sguardo. Era un’allucinazione? Per la prima volta da anni aveva ripensato a quei tempi e ora Charlie se ne stava lì di fronte a lui, immobile, come spaventato. Fedeli pensò che fosse uno scherzo dell’immaginazione. Allungò una mano e si trovò a mormorare: – Charlie… Il ragazzo si spaventò. – Ehi! – Si tirò indietro, ma Fedeli fece in tempo a sfiorarlo e a capire che era solido e concreto. Esistevano i miraggi corporei? – Charlie – ripeté il professore. – Me ne stavo andando! – disse il ragazzo, con la voce roca. – Sei tu? – Fedeli fece una pausa. – Sono io? Ma il ragazzo si era voltato ed era corso indietro, lungo il corridoio, fino a sparire nel buio. Fedeli era ancora immobile a metà della scalinata. Si accorse che stava tremando. Quello che aveva visto era assurdo. Era Charlie, senza dubbio. Stessi capelli, stesso atteggiamento, stessa voce sgraziata. Aveva incontrato se stesso, dopo quarant’anni! Ma non era possibile, in realtà, perché Charlie era mutato nel tempo fino a diventare il professor Carlo Fedeli, appunto. Come faceva a essere ancora lì, nel grande liceo silenzioso? Che cosa significava tutto questo? Il destino avrebbe dovuto procedere inesorabile, come nelle tragedie e nei miti e nella grammatica. Il passato era passato, e non poteva farsi presente né futuro. Nemmeno nei corridoi deserti e oscuri, nemmeno la notte di Natale. Eppure… il professor Fedeli aveva visto, aveva sentito. Restò a lungo immobile, aggrappato alla balaustra, incapace di scendere o di salire. Poi, dal basso, vide un fascio irregolare di luce. Si obbligò a scuotersi, a chiamare. – C’è… c’è qualcuno? Dal basso, venne la voce di Saverio: – Chi è? – Sono il professor Fedeli… Il custode si avvicinò. Aveva una torcia: prima la puntò in faccia a Fedeli, poi si scusò e la voltò verso il basso. – Mi scusi, professore, non l’avevo riconosciuta. Ma che ci fa qui? – Stavo lavorando… quando sono uscito dall’aula era tutto chiuso. – Ah, mi scusi, mi scusi… strano,

io ho fatto il solito giro, ma… Si vede che non l’ho vista… però mi scusi, stava lavorando al buio? Fedeli biascicò qualcosa a proposito di una lampadina da scrivania e il custode disse che qualcuno gli aveva segnalato una finestra aperta al primo piano. Allora aveva pensato di fare un giro di controllo. – Sa, ci sono dei disgraziati di allievi che hanno imparato a forzare la serratura delle finestre, io lo ripeto sempre che dovremmo cambiarle… Poi entrano qui di notte a bere, a scrivere sui muri… Perfino la notte di Natale, professore, ma non ce l’hanno una casa quelli? Mentre tornavano al pianterreno, Fedeli rivelò a Saverio che aveva visto uno di quei ragazzi. Un tipo biondo, magrolino… – Ah, lo conosco, non è la prima volta che mi fa questo scherzo! – esclamò il custode. – Ma se lo prendo, gliela insegno io l’educazione! Una delle grandi finestre accanto alla porta principale era spalancata, e la pioggia stava allagando il pavimento. Saverio imprecò fra sé, accese le luci dell’atrio e sprangò la finestra. Poi aprì il portone. Nel frattempo Fedeli stava dicendo che per fortuna il custode era tornato, altrimenti avrebbe dovuto chiamarlo e magari disturbarlo durante il cenone. – Sono solo le otto e un quarto, professore, non si preoccupi! Le otto e un quarto. Fedeli aveva l’impressione che fossero passate ore. Alzò gli occhi verso l’orologio dell’atrio e fu allora che notò la scritta. Sulla parete di fondo, spruzzata con uno spray di colore rosso cupo: CHARLIE LOVES SIMO, a lettere cubitali. Saverio seguì il suo sguardo e avvistò pure lui il graffito. – Disgraziato! Lo sapevo, lo sapevo che quello era entrato per fare casino… ah, ma se gli metto le mani addosso… Non è mica giusto, professore, perché poi quello che deve pulire sono io, tanto per cambiare! Ma lo sa, professore, che… ehi, professore! Tutto bene? Fedeli stava fissando la scritta, con gli occhi sgranati. CHARLIE LOVES SIMO. Non era possibile. Restare chiuso la notte di Natale, passi. L’incontro fortuito con un ragazzo che assomigliava a ciò che lui era stato, passi. Ma che quel ragazzo, casualmente, avesse scritto proprio quelle parole… Dov’era la necessità, la logica, che senso aveva tutto questo? – Professore, si sente bene? Fedeli si riscosse. – Sì, sì, non si preoccupi. È lo stress. – Eh, Natale è così. Ma ora è in vacanza, no? Un po’ di libertà… Un po’ di libertà. CHARLIE LOVES SIMO. – Sì, certo, ora sì… Erano giunti all’ingresso. Saverio lo guardava preoccupato, ma Fedeli lo rassicurò che andava tutto bene. Lo ringraziò per averlo tratto d’impaccio e gli assicurò che gli avrebbe mandato un regalo per sdebitarsi. – Ma si figuri, professore… – No, no, ci tengo, davvero. – Gli strinse la mano. – E buon Natale! – Buon Natale, professore! – Il custode si allontanò, passando dal retro. Dopo qualche secondo, anche Fedeli aprì l’ombrello e s’incamminò. Ma fatti pochi passi, si fermò. Guardò la mole massiccia del liceo, con la pietra scura e i finestroni ampi, sferzati dalla pioggia. CHARLIE LOVES SIMO. Che cosa significava? Che cosa gli era successo quella sera? Stava leggendo la Medea, poi si era addormentato, poi aveva pensato ai suoi primi anni al liceo, poi… Uscì lungo la strada principale. Le vetrine accendevano promesse, tra i fari delle macchine e i lampioni e le mille ghirlande illuminate. La pioggia scivolava dall’ombrello, scendeva giù sul capo, sulla schiena. Il passato e il futuro s’intrecciavano col presente, in maniera incomprensibile, e il professore camminava piano, un passo dopo l’altro, mettendo i piedi dentro le pozzanghere. / AF

Magia nella Notte Santa Pubblicazioni Il Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona pubblica,

a cura di Franco Lurà, un volume dedicato alle tradizioni natalizie

Ad arricchire il panorama editoriale ticinese, in occasione delle festività, è giunto quest’anno un bellissimo volume di Franco Lurà, direttore del Centro di dialettologia e etnografia di Bellinzona. Si tratta di una pubblicazione che riprende l’idea già proposta in passato dal CDE nella collana «Le Voci» e che presenta cioè in una veste monografica molto curata (soprattutto dal profilo iconografico) alcune singole parole tratte dal Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana. Come di consueto il libro esce con il sostegno del Percento Culturale di Migros Ticino ma si tratta di un volume speciale, o meglio «fuori serie», poiché unico, per dimensioni, veste grafica e estensione dell’approfondimento. Ed è unico anche per l’importanza del tema trattato, cioè il Natale. Nelle sue oltre 300 pagine propone una piacevole e affascinante immersione nel mondo delle usanze popolari, dei modi di dire e degli oggetti che caratterizzano questa festività o che l’hanno caratterizzata nella nostra regione. E siccome il Natale è festa tradizionale per definizione, il piacere di riscoprire queste tradizioni, godendo del ricco materiale illustrativo, sarà indicatissimo nei tranquilli pomeriggi in attesa della fine d’anno. Grazie alla gentile disponibilità dell’autore, che ringraziamo, abbiamo pensato di offrirvi una breve anticipazione del testo, raccogliendo qui alcuni spunti che trattano delle credenze magiche legate al Natale. / Red. Aspetti magici del Natale

Il periodo invernale che va grosso modo dall’inizio di novembre, con la ricorrenza dei morti, alla fine del carnevale è pervaso da un alone di magia e di mistero ed è fortemente caratterizzato da una componente soprannaturale, fatta di contatti e scambi con il mondo dell’aldilà, con una dimensione altra e ignota. Questa situazione ha favorito l’insorgere di pratiche, di interpretazioni, di aspettative e di credenze che coinvolgono diversi tasselli del variegato mosaico della vita quotidiana. Molti sono strettamente legati al giorno e in particolare alla notte di Natale, momento nel quale si ritiene che si verifichino diversi prodigi e si abbiano indizi o si creino i presupposti per la realizzazione di eventi futuri. Acqua

Nella notte di Natale all’acqua vengono attribuiti poteri particolari e virtù miracolose. La credenza è antica: già negli elenchi delle superstizioni da condannare inviati dai parroci a Carlo Borromeo nel XVI secolo era menzionata quella di Settala in Lombardia, dove si usava «la notte venendo il giorno di Natale avanti il canto de gallo cavar un sedello d’acqua e lavarsi l’occhi». Più di

Vino

È sicuramente un’eco di antiche credenze la convinzione che il vino bevuto nel giorno di Natale si trasformi in altrettanto sangue: el vign ch’a s bév el dí del Bambígn u va in tant sangh (Cugnasco). Si tratta di una superstizione già documentata nel 1500, quando era condivisa pure da alcuni preti, riscontrabile anche in altre località e riferita ad altri giorni dell’anno, spesso a S. Stefano oppure, come nel Poschiavino, al venerdì santo. Cibo

La leggenda dell’Ulcelina, xilografia di Ugo Cleis. («Natale», p.194)

tre secoli dopo l’uso è attestato nel Bergamasco dove l’acqua, attinta recitando alcune orazioni, «alla mezzanotte del Natale, nel momento stesso in cui era servita per lavare il Bambino appena nato, assicurava un lieto parto alle puerpere e faceva figliare il bestiame senza intoppi. S’aspergevano con essa bestiame e graticci, gettando sul fuoco quella che avanzava, perché era sacra. Chi a mezzanotte si tuffava nell’acqua veniva preservato dalla scabbia». Ancora nella prima metà del Novecento alcuni anziani di Balerna, invece di recarsi alla messa di mezzanotte, andavano con un secchio fino a una sorgente ai piedi della vicina collina di Mezzana e, nel momento in cui le campane suonavano, attingevano l’acqua che sgorgava per poi conservarla e utilizzarla durante l’anno per le sue presunte proprietà curative. Secondo alcune testimonianze, l’innamorato che avesse bevuto tre sorsi in nove fontane diverse durante lo scampanio della messa di mezzanotte non doveva più temere di venir rifiutato dalla ragazza desiderata. A Stabio una leggenda vuole che l’acqua della sorgente dell’Ulcelina si trasformi in vino: quéla l’éva l’Ulcelina, aqua bóna e sustanziusa, inscí

frésca ga n’è migna, pö, surgént miraculusa; a la cünta na legénda che la nòcc da Denedaa, tüta l’aqua che gh’è dénta la divénta vin rusaa, quella era l’Ulcelina, acqua buona e sostanziosa, così fresca non ce n’è, poi, sorgente miracolosa; racconta una leggenda che, nella notte di Natale, tutta l’acqua che c’è dentro diventa vino rosato; la nòtt da Natál pròpi a mezanòtt, quand sü in gésa incumincia l’elevazziún e sa regòrda Betlèm, la Madòna e ul Bambinèll che nass, l’aqua la divénta vin... tanti ann sentüü l’udúr da luntán, ma nissügn l’a bagnaa l bécch! E i resún inn dó: prima bisugnava tacá sü la méssa da Natál, pö bisugnava fá i cünt con la Marmanèla, prunta a mandá a quéll paés tütt i curiós, la notte di Natale, proprio a mezzanotte, quando su in chiesa incomincia l’elevazione e si ricordano Betlemme, la Madonna e il Bambinello che nasce, l’acqua diventa vino, tanti hanno sentito l’odore da lontano, ma nessuno ha bagnato il becco! E le ragioni sono due: dapprima bisognava aver terminato la messa di Natale, poi bisognava fare i conti con la Marmanèla (essere fantastico che sorvegliava la fonte), pronta a mandare a quel paese tutti i curiosi.

Pranzo nel periodo delle feste natalizie, famiglia Lombardi di Airolo. («Natale», p. 218)

Si riteneva che quanto veniva consumato durante il pranzo di Natale avesse virtù speciali. Particolarmente diffusa nei territori della Svizzera italiana era la convinzione che i resti del risotto dati alle galline ne condizionassero il comportamento. Ancor oggi in molte famiglie del Sottoceneri è viva l’abitudine, attestata anche in buona parte dell’Italia settentrionale, di conservare un po’ del panettone mangiato a Natale per il giorno di S. Biagio (3 febbraio), nella convinzione che la sua assunzione preserverebbe dal mal di gola. Sulla tavola natalizia si cercava di non far mancare l’uva, di regola bianca, i cui acini numerosi avrebbero richiamato nell’anno a venire, per una sorta di magia simpatica, un’altrettanta abbondanza di denari. Qualità terapeutiche e apotropaiche sono attribuite all’uovo deposto il giorno di Natale: l’öv faa ul dí da Natál al guariss da tütt i maa, l’uovo fatto il giorno di Natale guarisce da tutti i mali (Chiasso); la credenza era già conosciuta nella Lombardia dell’Ottocento: «l’uovo fatto il giorno di Natale era tenuto in conto di efficacissimo rimedio, ai mali di ventre specialmente, e avevasi per incorruttibile. Onde dalle donnicciuole serbavasi gelosamente». A Como si conservava il grasso dell’oca uccisa per Natale, perché era considerato una vera e propria panacea. Franco Lurà, «Natale». Estratto dal Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana.

Bellinzona, Centro di dialettologia e di etnografia, 2016. In collaborazione con

Concorso Migros Ticino offre ai lettori di «Azione» alcune copie del volume «Natale». Per aggiudicarsele basta scrivere una email contenente nome, cognome e indirizzo, martedì 20 dicembre all’indirizzo giochi@ azione.ch. I vincitori saranno estratti a sorte tra tutti i partecipanti e riceveranno una conferma via email. Buona fortuna!


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 dicembre 2016 • N. 51

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 dicembre 2016 • N. 51

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Speciale Natale

Speciale Natale

Effetti collaterali da pagina 1

Uscì nel corridoio e venne quasi investito da un ragazzo che correva verso le scale. Fedeli stava per rimproverarlo, ma poi lasciò perdere. Il ragazzo borbottò uno «scusi». Doveva essere del primo anno: avevano ancora la smania di muoversi, di occupare gli spazi. Poi, crescendo, si facevano sempre più lenti, con un territorio vitale più ristretto; li vedevi radunarsi in gruppi circoscritti, elitari: chi nel pianerottolo all’ultimo piano, chi accanto al gabbiotto del custode, chi nei bagni del terzo piano, presidiati da un manipolo di ragazze spietate. I figli di Fedeli avevano superato anche quella fase: Andrea studiava relazioni internazionali a Ginevra, mentre Teseo – dopo la laurea triennale in scienze della comunicazione – stava ultimando un master in gestione dei media. Tutte materie senza sangue, pensava Fedeli. Il giorno dopo avrebbe visto entrambi i figli, insieme a Simonetta, la sua ex moglie, per il solito pranzo a casa dei suoceri, a base di salmone, tartine, uova ripiene di tonno, arrosto in crosta, patate, tiramisù, con vini bianchi (Greco di Tufo, come ogni anno), rossi (Morellino di Scansano), dolci (Moscato d’Asti) e poi nocino, grappa fatta in casa, caffè. I suoceri erano troppo vecchi per cucinare, così Simonetta e Lidia, sua sorella, avrebbero preparato tutto in mattinata. Fedeli prevedeva di farsi vedere verso mezzogiorno, munito di Moscato e panettone. Ai regali per i ragazzi per fortuna ci pensava Simo, che di solito comprava loro un maglione o un buono per un weekend da qualche parte.

« Sei tu?» – Fedeli fece una pausa. – «Sono io?» Ma il ragazzo si era voltato ed era corso indietro, fino a sparire A pochi passi dall’aula docenti, udì uno schiamazzo e si ricordò dell’aperitivo. Ebbe un’esitazione. Se si fosse lasciato coinvolgere, avrebbe dovuto bere vino bianco scadente in bicchieri di carta, destreggiarsi fra le solite chiacchiere e lamentarsi dei consigli di classe che duravano troppo, dei ragazzi che non leggevano più, dei nuovi corsi di aggiornamento che erano una fregatura. Di solito a Fedeli non dispiaceva lamentarsi un po’. Ma quella sera, all’inizio delle ultime vacanze di Natale della sua carriera, si sentiva particolarmente vulnerabile. Era in quello stato d’animo che fa dire ai personaggi dei film: voglio starmene da solo per un po’. Una frase che Fedeli non aveva mai sentito pronunciare nella vita reale. Non sapeva la causa della sua inquietudine. Era un effetto collaterale del clima natalizio o era l’ombra del prossimo pensionamento? Oppure era il pensiero del sangue versato da Medea… quante volte aveva letto quei versi senza badarci; ora invece gli sembrava un caso di cronaca nera. Pensò alle tragedie che finivano in pasto ai giornali e alla tivù: marito che accoltella la moglie, madre che soffoca i bambini. Il mondo era pieno di sangue. Ed Euripide, nel 431 avanti Cristo, aveva sentito il bisogno di raccontare proprio quella storia, quello strazio assurdo. Tornò indietro e riaprì l’aula dove aveva fatto lezione. Accese la luce, si sedette alla cattedra, tolse il libro dalla cartella. Di fronte a lui, la distesa dei banchi vuoti, con le sedie rovesciate che parevano tanti alberi di navi ferme nel porto. Sfogliò il libro fino al monologo di Medea nel quinto episodio. Erano passati più di quarant’anni da quando,

per la prima volta, in quello stesso liceo, il giovane Carlo Fedeli aveva studiato ogni minuzia grammaticale di quei versi, preparandosi all’esame di maturità. «È necessario che essi muoiano» – ecco il verdetto spietato. «E poiché è necessario, li ucciderò io che li ho generati». Il male si presenta sempre in questo modo, pensò Fedeli, come necessità. Non soltanto il male: anche il fluire della vita è una serie di necessità inesorabili, come il liceo classico, gli aperitivi, i messaggi di auguri, la vecchiaia, l’amore, il salmone con i crostini e il Moscato d’Asti. Il greco lo diceva con una parola sola, un indicativo perfetto passivo: πεπρωται. È stabilito dal destino. Carlo Fedeli credeva nel destino? Dopo tanti anni in cui ne parlava agli studenti, non era sicuro di sapere bene che cosa fosse. Era stanco morto: sette ore di lezione si facevano sentire. Inoltre da mesi soffriva d’insonnia; e quel mattino si era alzato presto, dopo appena due o tre ore di sonno, per finire di correggere. Gli venne in mente che qualcuno sarebbe potuto venire a sbirciare nell’aula, così spense la luce, chiuse la porta e tornò a sedersi alla cattedra. Pensò di chiamare Giovanna, ma si accorse che aveva il telefono scarico: il simbolo della batteria era di colore rosso. Si limitò a scriverle un sms: «Sto scappando dal vino nell’aula docenti… poi corro a casa e ti aspetto. Bacio». Il suono della pioggia lo circondava, picchiettando contro i vetri e gorgogliando nelle grondaie. Spinse la Medea di fianco, incrociò le braccia davanti a sé e vi posò sopra il capo. Una siesta di cinque minuti lo avrebbe aiutato a ritrovare le energie per la serata con Giovanna. Mentre il professore dormiva, l’aperitivo in aula docenti si esaurì lentamente, insieme alle bottiglie di prosecco. Qualcuno si stupì dell’assenza di Fedeli. – Sarà con la sua nuova fiamma… – scherzarono i colleghi. Anni prima, Fedeli aveva avuto una storia con una collega: un’insegnante di francese con cui aveva condiviso una gita a Praga. Poi però, visti i risultati disastrosi della relazione e la successiva ondata di pettegolezzi, aveva sempre badato a tenere distinte la sua vita privata e quella scolastica. Così gli altri non si fecero troppe domande e, uno alla volta, se ne andarono a casa. Infine il custode controllò che le finestre fossero ben chiuse e sprangò il portone, dopo aver spento l’interruttore generale che regolava le lampade nei corridoi e nelle aule. Un minuto dopo, Fedeli si risvegliò. Per qualche secondo rimase disorientato dal buio e dal freddo. Rabbrividì e, rialzandosi, scoprì di avere il collo indolenzito. Non aveva l’impressione di aver dormito per più di dieci minuti, eppure… Fece per illuminare lo schermo del cellulare, ma non ci fu nessuna

Andrea Fazioli. (Ads)

(Keystone)

Racconto di Natale Lo scrittore ticinese Andrea Fazioli ci propone una storia dal sapore misterioso

reazione. Allora si mosse verso la porta e premette il pulsante della luce, ma non accadde nulla. Un black out? Si avvicinò all’orologio e, al chiarore fragile delle decorazioni natalizie, riuscì a decifrare l’ora: le 19.45. Aveva dormito più di due ore! Com’era possibile? Aveva male in ogni parte della schiena, del collo, delle braccia. Pensò di andarsene a casa e di farsi un bagno caldo, prima dell’arrivo di Giovanna. Ma come uscire? Non aveva le chiavi dell’ingresso, e nemmeno della porta sul retro. Certo, avrebbe potuto chiamare dal telefono fisso in aula docenti… ma chiamare chi? Avrebbe fatto una figuraccia: sono rimasto qui, venite a tirarmi fuori! Sarebbe diventato una barzelletta: il vecchio professore di lingue morte che si addormenta la sera di Natale. Gli studenti l’avrebbero trasmessa di generazione in generazione… Pensò di chiamare Saverio, il custode: in cambio di una generosa mancia, avrebbe potuto contare sulla sua discrezione. Si avviò lungo il corridoio in penombra. Il Babbo Natale al neon in cima alle scale era spento, ma le stelle fosforescenti – appese dai docenti di arti visive lungo le pareti – avevano conservato una vaga luminescenza. Con tutte le porte delle aule sbarrate, l’edificio scolastico metteva quasi soggezione. Dopo averci passato i suoi anni da liceale, Fedeli aveva insegnato lì dentro per quarant’anni, eppure non l’aveva mai visto in quel modo: gli spazi parevano enormi, i soffitti altissimi, il buio inghiottiva la fine del corridoio. Sebbene sapesse che non c’era nulla da temere, salvo una figuraccia storica, Fedeli non poté fare a meno di sentirsi impaurito. Gli tornò in mente Euripide, il sangue, il grido spaventoso di Medea… e tutto il resto, tutto quello che aveva raccontato anno dopo anno: dietro ogni mito si celava la disperazione, anime smarrite in un mondo spaventoso, dove ogni tuono, ogni lampo, ogni movimento di terra e di mare era una condanna divina. Arrivò in fondo al corridoio e guardò nella voragine oscura delle scale. Stava all’ultimo piano: due rampe più in basso c’era l’aula docenti, mentre sopra di lui, gli scalini portavano a un minuscolo pianerottolo e alla porta di un ripostiglio. Fedeli se ne ricordava perché da ragazzo, al suo primo anno di liceo, andava spesso a rifugiarsi lassù. Charlie, come lo chiamavano tutti allora, era popolare solo fra le in-

segnanti di una certa età: una specie che tende ad accordare i suoi favori alle creature solitarie, studiose e, per dirla francamente, un po’ sfigate. La sua salvezza era stato l’incontro con Simonetta, in seconda liceo. Con lei aveva attraversato anni di associazioni culturali, giornalini, cineforum. Avevano entrambi studiato a Pavia: Simo filosofia e lui lettere classiche. Qualche anno più tardi si erano sposati. Era finita com’era finita, però Fedeli ricordava ancora quando, dopo averla baciata per la prima volta, era corso lassù, in cima alle scale, perché voleva assaporare la sensazione. Protetto dagli sguardi altrui, aveva perpetrato uno di quei gesti ridicoli che, al momento, sembrano rivestire un grande significato: con la chiave della bicicletta, aveva intagliato nel legno della porta il suo nome e quello di Simo, uniti dalla forma di un cuore. Un cuore! Un’azione infantile di cui lo stesso Charlie in pubblico avrebbe riso. Ma quando si è soli su un pianerottolo, con il cuore che scoppia, i gesti infantili sono un modo come un altro per placare la tempesta ormonale. Il professor Fedeli immaginò quel ragazzino ormai scomparso nella macina del tempo. Con i jeans sdruciti, quei maglioni che gli piaceva indossare, di una o due taglie troppo larghi, le scarpe da ginnastica consunte e un ciuffo di capelli biondi che in nessun modo riusciva a governare. Era magrissimo. Aveva gli zigomi alti, il mento aguzzo. Gli anni avevano smussato gli spigoli, addomesticato i capelli; e solo gli occhi celesti restavano come allora spalancati davanti a ciò che lo stupiva, senza battiti di ciglia, quasi fosse ipnotizzato. C’era qualcosa che non andava. Fedeli restò a fissare nel buio, ma il segnale d’allarme non era giunto tramite la vista: era un suono, un’increspatura nel picchiettio regolare della pioggia. Un respiro? Come se qualcuno stesse cercando di non farsi scorgere, mentre teneva d’occhio il professore all’angolo delle scale. Basta. Era solo paranoia: un effetto collaterale del buio e della stanchezza. Fedeli fece per scendere gli scalini: prima arrivava nell’aula docenti, prima sarebbe tornato a casa. Il cellulare era scarico, ma avrebbe cercato il numero del custode su internet e poi… Di nuovo quel rumore. Stavolta Fedeli si voltò di scatto e lo vide. Era lui. A pochi metri, nell’ombra

del corridoio. La figura magra, con i capelli biondi, i jeans, le scarpe dalle stringhe slacciate. La faccia restava nell’ombra, ma a Fedeli parve d’intuire lo scintillìo dello sguardo. Era un’allucinazione? Per la prima volta da anni aveva ripensato a quei tempi e ora Charlie se ne stava lì di fronte a lui, immobile, come spaventato. Fedeli pensò che fosse uno scherzo dell’immaginazione. Allungò una mano e si trovò a mormorare: – Charlie… Il ragazzo si spaventò. – Ehi! – Si tirò indietro, ma Fedeli fece in tempo a sfiorarlo e a capire che era solido e concreto. Esistevano i miraggi corporei? – Charlie – ripeté il professore. – Me ne stavo andando! – disse il ragazzo, con la voce roca. – Sei tu? – Fedeli fece una pausa. – Sono io? Ma il ragazzo si era voltato ed era corso indietro, lungo il corridoio, fino a sparire nel buio. Fedeli era ancora immobile a metà della scalinata. Si accorse che stava tremando. Quello che aveva visto era assurdo. Era Charlie, senza dubbio. Stessi capelli, stesso atteggiamento, stessa voce sgraziata. Aveva incontrato se stesso, dopo quarant’anni! Ma non era possibile, in realtà, perché Charlie era mutato nel tempo fino a diventare il professor Carlo Fedeli, appunto. Come faceva a essere ancora lì, nel grande liceo silenzioso? Che cosa significava tutto questo? Il destino avrebbe dovuto procedere inesorabile, come nelle tragedie e nei miti e nella grammatica. Il passato era passato, e non poteva farsi presente né futuro. Nemmeno nei corridoi deserti e oscuri, nemmeno la notte di Natale. Eppure… il professor Fedeli aveva visto, aveva sentito. Restò a lungo immobile, aggrappato alla balaustra, incapace di scendere o di salire. Poi, dal basso, vide un fascio irregolare di luce. Si obbligò a scuotersi, a chiamare. – C’è… c’è qualcuno? Dal basso, venne la voce di Saverio: – Chi è? – Sono il professor Fedeli… Il custode si avvicinò. Aveva una torcia: prima la puntò in faccia a Fedeli, poi si scusò e la voltò verso il basso. – Mi scusi, professore, non l’avevo riconosciuta. Ma che ci fa qui? – Stavo lavorando… quando sono uscito dall’aula era tutto chiuso. – Ah, mi scusi, mi scusi… strano,

io ho fatto il solito giro, ma… Si vede che non l’ho vista… però mi scusi, stava lavorando al buio? Fedeli biascicò qualcosa a proposito di una lampadina da scrivania e il custode disse che qualcuno gli aveva segnalato una finestra aperta al primo piano. Allora aveva pensato di fare un giro di controllo. – Sa, ci sono dei disgraziati di allievi che hanno imparato a forzare la serratura delle finestre, io lo ripeto sempre che dovremmo cambiarle… Poi entrano qui di notte a bere, a scrivere sui muri… Perfino la notte di Natale, professore, ma non ce l’hanno una casa quelli? Mentre tornavano al pianterreno, Fedeli rivelò a Saverio che aveva visto uno di quei ragazzi. Un tipo biondo, magrolino… – Ah, lo conosco, non è la prima volta che mi fa questo scherzo! – esclamò il custode. – Ma se lo prendo, gliela insegno io l’educazione! Una delle grandi finestre accanto alla porta principale era spalancata, e la pioggia stava allagando il pavimento. Saverio imprecò fra sé, accese le luci dell’atrio e sprangò la finestra. Poi aprì il portone. Nel frattempo Fedeli stava dicendo che per fortuna il custode era tornato, altrimenti avrebbe dovuto chiamarlo e magari disturbarlo durante il cenone. – Sono solo le otto e un quarto, professore, non si preoccupi! Le otto e un quarto. Fedeli aveva l’impressione che fossero passate ore. Alzò gli occhi verso l’orologio dell’atrio e fu allora che notò la scritta. Sulla parete di fondo, spruzzata con uno spray di colore rosso cupo: CHARLIE LOVES SIMO, a lettere cubitali. Saverio seguì il suo sguardo e avvistò pure lui il graffito. – Disgraziato! Lo sapevo, lo sapevo che quello era entrato per fare casino… ah, ma se gli metto le mani addosso… Non è mica giusto, professore, perché poi quello che deve pulire sono io, tanto per cambiare! Ma lo sa, professore, che… ehi, professore! Tutto bene? Fedeli stava fissando la scritta, con gli occhi sgranati. CHARLIE LOVES SIMO. Non era possibile. Restare chiuso la notte di Natale, passi. L’incontro fortuito con un ragazzo che assomigliava a ciò che lui era stato, passi. Ma che quel ragazzo, casualmente, avesse scritto proprio quelle parole… Dov’era la necessità, la logica, che senso aveva tutto questo? – Professore, si sente bene? Fedeli si riscosse. – Sì, sì, non si preoccupi. È lo stress. – Eh, Natale è così. Ma ora è in vacanza, no? Un po’ di libertà… Un po’ di libertà. CHARLIE LOVES SIMO. – Sì, certo, ora sì… Erano giunti all’ingresso. Saverio lo guardava preoccupato, ma Fedeli lo rassicurò che andava tutto bene. Lo ringraziò per averlo tratto d’impaccio e gli assicurò che gli avrebbe mandato un regalo per sdebitarsi. – Ma si figuri, professore… – No, no, ci tengo, davvero. – Gli strinse la mano. – E buon Natale! – Buon Natale, professore! – Il custode si allontanò, passando dal retro. Dopo qualche secondo, anche Fedeli aprì l’ombrello e s’incamminò. Ma fatti pochi passi, si fermò. Guardò la mole massiccia del liceo, con la pietra scura e i finestroni ampi, sferzati dalla pioggia. CHARLIE LOVES SIMO. Che cosa significava? Che cosa gli era successo quella sera? Stava leggendo la Medea, poi si era addormentato, poi aveva pensato ai suoi primi anni al liceo, poi… Uscì lungo la strada principale. Le vetrine accendevano promesse, tra i fari delle macchine e i lampioni e le mille ghirlande illuminate. La pioggia scivolava dall’ombrello, scendeva giù sul capo, sulla schiena. Il passato e il futuro s’intrecciavano col presente, in maniera incomprensibile, e il professore camminava piano, un passo dopo l’altro, mettendo i piedi dentro le pozzanghere. / AF

Magia nella Notte Santa Pubblicazioni Il Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona pubblica,

a cura di Franco Lurà, un volume dedicato alle tradizioni natalizie

Ad arricchire il panorama editoriale ticinese, in occasione delle festività, è giunto quest’anno un bellissimo volume di Franco Lurà, direttore del Centro di dialettologia e etnografia di Bellinzona. Si tratta di una pubblicazione che riprende l’idea già proposta in passato dal CDE nella collana «Le Voci» e che presenta cioè in una veste monografica molto curata (soprattutto dal profilo iconografico) alcune singole parole tratte dal Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana. Come di consueto il libro esce con il sostegno del Percento Culturale di Migros Ticino ma si tratta di un volume speciale, o meglio «fuori serie», poiché unico, per dimensioni, veste grafica e estensione dell’approfondimento. Ed è unico anche per l’importanza del tema trattato, cioè il Natale. Nelle sue oltre 300 pagine propone una piacevole e affascinante immersione nel mondo delle usanze popolari, dei modi di dire e degli oggetti che caratterizzano questa festività o che l’hanno caratterizzata nella nostra regione. E siccome il Natale è festa tradizionale per definizione, il piacere di riscoprire queste tradizioni, godendo del ricco materiale illustrativo, sarà indicatissimo nei tranquilli pomeriggi in attesa della fine d’anno. Grazie alla gentile disponibilità dell’autore, che ringraziamo, abbiamo pensato di offrirvi una breve anticipazione del testo, raccogliendo qui alcuni spunti che trattano delle credenze magiche legate al Natale. / Red. Aspetti magici del Natale

Il periodo invernale che va grosso modo dall’inizio di novembre, con la ricorrenza dei morti, alla fine del carnevale è pervaso da un alone di magia e di mistero ed è fortemente caratterizzato da una componente soprannaturale, fatta di contatti e scambi con il mondo dell’aldilà, con una dimensione altra e ignota. Questa situazione ha favorito l’insorgere di pratiche, di interpretazioni, di aspettative e di credenze che coinvolgono diversi tasselli del variegato mosaico della vita quotidiana. Molti sono strettamente legati al giorno e in particolare alla notte di Natale, momento nel quale si ritiene che si verifichino diversi prodigi e si abbiano indizi o si creino i presupposti per la realizzazione di eventi futuri. Acqua

Nella notte di Natale all’acqua vengono attribuiti poteri particolari e virtù miracolose. La credenza è antica: già negli elenchi delle superstizioni da condannare inviati dai parroci a Carlo Borromeo nel XVI secolo era menzionata quella di Settala in Lombardia, dove si usava «la notte venendo il giorno di Natale avanti il canto de gallo cavar un sedello d’acqua e lavarsi l’occhi». Più di

Vino

È sicuramente un’eco di antiche credenze la convinzione che il vino bevuto nel giorno di Natale si trasformi in altrettanto sangue: el vign ch’a s bév el dí del Bambígn u va in tant sangh (Cugnasco). Si tratta di una superstizione già documentata nel 1500, quando era condivisa pure da alcuni preti, riscontrabile anche in altre località e riferita ad altri giorni dell’anno, spesso a S. Stefano oppure, come nel Poschiavino, al venerdì santo. Cibo

La leggenda dell’Ulcelina, xilografia di Ugo Cleis. («Natale», p.194)

tre secoli dopo l’uso è attestato nel Bergamasco dove l’acqua, attinta recitando alcune orazioni, «alla mezzanotte del Natale, nel momento stesso in cui era servita per lavare il Bambino appena nato, assicurava un lieto parto alle puerpere e faceva figliare il bestiame senza intoppi. S’aspergevano con essa bestiame e graticci, gettando sul fuoco quella che avanzava, perché era sacra. Chi a mezzanotte si tuffava nell’acqua veniva preservato dalla scabbia». Ancora nella prima metà del Novecento alcuni anziani di Balerna, invece di recarsi alla messa di mezzanotte, andavano con un secchio fino a una sorgente ai piedi della vicina collina di Mezzana e, nel momento in cui le campane suonavano, attingevano l’acqua che sgorgava per poi conservarla e utilizzarla durante l’anno per le sue presunte proprietà curative. Secondo alcune testimonianze, l’innamorato che avesse bevuto tre sorsi in nove fontane diverse durante lo scampanio della messa di mezzanotte non doveva più temere di venir rifiutato dalla ragazza desiderata. A Stabio una leggenda vuole che l’acqua della sorgente dell’Ulcelina si trasformi in vino: quéla l’éva l’Ulcelina, aqua bóna e sustanziusa, inscí

frésca ga n’è migna, pö, surgént miraculusa; a la cünta na legénda che la nòcc da Denedaa, tüta l’aqua che gh’è dénta la divénta vin rusaa, quella era l’Ulcelina, acqua buona e sostanziosa, così fresca non ce n’è, poi, sorgente miracolosa; racconta una leggenda che, nella notte di Natale, tutta l’acqua che c’è dentro diventa vino rosato; la nòtt da Natál pròpi a mezanòtt, quand sü in gésa incumincia l’elevazziún e sa regòrda Betlèm, la Madòna e ul Bambinèll che nass, l’aqua la divénta vin... tanti ann sentüü l’udúr da luntán, ma nissügn l’a bagnaa l bécch! E i resún inn dó: prima bisugnava tacá sü la méssa da Natál, pö bisugnava fá i cünt con la Marmanèla, prunta a mandá a quéll paés tütt i curiós, la notte di Natale, proprio a mezzanotte, quando su in chiesa incomincia l’elevazione e si ricordano Betlemme, la Madonna e il Bambinello che nasce, l’acqua diventa vino, tanti hanno sentito l’odore da lontano, ma nessuno ha bagnato il becco! E le ragioni sono due: dapprima bisognava aver terminato la messa di Natale, poi bisognava fare i conti con la Marmanèla (essere fantastico che sorvegliava la fonte), pronta a mandare a quel paese tutti i curiosi.

Pranzo nel periodo delle feste natalizie, famiglia Lombardi di Airolo. («Natale», p. 218)

Si riteneva che quanto veniva consumato durante il pranzo di Natale avesse virtù speciali. Particolarmente diffusa nei territori della Svizzera italiana era la convinzione che i resti del risotto dati alle galline ne condizionassero il comportamento. Ancor oggi in molte famiglie del Sottoceneri è viva l’abitudine, attestata anche in buona parte dell’Italia settentrionale, di conservare un po’ del panettone mangiato a Natale per il giorno di S. Biagio (3 febbraio), nella convinzione che la sua assunzione preserverebbe dal mal di gola. Sulla tavola natalizia si cercava di non far mancare l’uva, di regola bianca, i cui acini numerosi avrebbero richiamato nell’anno a venire, per una sorta di magia simpatica, un’altrettanta abbondanza di denari. Qualità terapeutiche e apotropaiche sono attribuite all’uovo deposto il giorno di Natale: l’öv faa ul dí da Natál al guariss da tütt i maa, l’uovo fatto il giorno di Natale guarisce da tutti i mali (Chiasso); la credenza era già conosciuta nella Lombardia dell’Ottocento: «l’uovo fatto il giorno di Natale era tenuto in conto di efficacissimo rimedio, ai mali di ventre specialmente, e avevasi per incorruttibile. Onde dalle donnicciuole serbavasi gelosamente». A Como si conservava il grasso dell’oca uccisa per Natale, perché era considerato una vera e propria panacea. Franco Lurà, «Natale». Estratto dal Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana.

Bellinzona, Centro di dialettologia e di etnografia, 2016. In collaborazione con

Concorso Migros Ticino offre ai lettori di «Azione» alcune copie del volume «Natale». Per aggiudicarsele basta scrivere una email contenente nome, cognome e indirizzo, martedì 20 dicembre all’indirizzo giochi@ azione.ch. I vincitori saranno estratti a sorte tra tutti i partecipanti e riceveranno una conferma via email. Buona fortuna!


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 dicembre 2016 • N. 51

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Società e Territorio La clinica di Novaggio Da clinica militare a centro di riabilitazione: la sua storia percorre tutto il Novecento e ai suoi edifici spetta il ruolo di testimoni d’epoca pagina 6

Scienziate nella storia Il bestseller americano per ragazzi Women in Science, scritto e illustrato da Rachel Ignotofsky, racconta la vita e le scoperte di 50 donne che hanno contribuito all’evoluzione della scienza pagina 8

L’accesso al Mulino del Ghitello. (Elia Stampanoni)

Rocce, cemento e paesaggio culturale Parco delle Gole della Breggia A pochi passi dal caos autostradale, ma anche a pochi passi dalla quiete della Valle

di Muggio, scopriamo il Parco che con il neo direttore Marco Torriani cerca nuovi slanci e maggiori sinergie

Elia Stampanoni A prima vista può sembrare una destinazione per pochi, per chi s’intende di geologia e s’interessa ai sassi, alle rocce o agli affioramenti. Ma il Parco delle Gole della Breggia offre molto di più, altri spunti e un angolo di quiete per tutti. La zona è stata ritagliata a pochi passi dai centri commerciali del Serfontana e se non fosse per dei piccoli cartelli l’accesso dal basso neppure la si noterebbe. Da qui le gole del fiume Breggia si estendono lungo un tratto di circa un chilometro e mezzo, penetrando verso l’imbocco della Valle di Muggio, da cui è pure possibile accedere al Parco, che in totale copre una superficie di 65 ettari distribuita sui territori di Balerna, Castel San Pietro e Morbio (Inferiore e Superiore). L’area delle gole è iscritta nell’Inventario federale dei siti e dei monumenti di importanza federale e nell’Inventario dei geotopi di importanza nazionale. Facile intuire come l’attrattiva principale siano le rocce e gli affioramenti, presenti in grande varietà. L’intaglio erosivo del fiume Breggia espone infatti una tra le più rappresentative serie stratigrafiche delle Alpi meridionali,

una testimonianza quasi completa degli avvenimenti geologici succedutisi nell’arco di circa 100 milioni di anni, fra il Giurassico e il Terziario. «In poche località della Svizzera – leggiamo nella presentazione – esiste, su un territorio così ristretto, una serie stratigrafica di simile lunghezza. Un patrimonio geologico e paleontologico di rilevanza internazionale per varietà, qualità e continuità dei contenuti». Ma, come detto, il Parco non è solo geologia. In questo fazzoletto di territorio c’è anche della storia e della natura da scoprire. Così, passeggiando lungo la rete di sentieri ci si può perdere tra antiche vie di comunicazioni, ponti in sasso o semplicemente farsi cullare dal fiume Breggia e dal suo fruscio, ascoltando i rumori della natura. Intorno, oltre alle rocce, anche tanto verde: boschi, radure e, più in su, le montagne. La scoperta è facilitata da una serie di pannelli didattici (GeoStop) e da una guida disponibile in italiano e inglese. Per vivere e comprendere ancor meglio il Parco ci si può invece affidare alle visite guidate organizzate durante l’arco della stagione, per un’offerta completata dal Mulino del Ghitello o dal percorso del cemento.

Il mulino è il punto di partenza e di accesso principale al Parco ed è inserito in un percorso che costeggiando il fiume Breggia s’inoltra nella valle incontrando il vecchio cementificio, il ponte di ferro, il complesso del Pastificio (birreria) e il grande cementificio Saceba. Lungo il sentiero del 700°, si può anche raggiungere il colle di San Pietro, sul quale si trovano i resti di un castello medioevale e la chiesa rossa da dove il panorama è sorprendente. Altre attrattive completano il periplo che, dal Mulin da Canaa, da percorso storico diventa geologico, senza però dimenticare la flora e la vegetazione. Le rocce chiare e stratificate visibili nel letto del fiume sono le più antiche del Parco: si tratta di calcari selciferi di 190 milioni di anni che verso valle diventano vieppiù ricchi di argille e fossili. L’area ex-Saceba (oltre 40 ettari) è invece sede del percorso del cemento che costituisce uno degli elementi principali del progetto di riqualifica dell’area terminata nel 2012, anno dell’inaugurazione. Istituito nel 1998 e inaugurato nel settembre 2001, il Parco è percorribile grazie a una rete di sentieri di circa 12 km e con un dislivello di 300 m che permette

di unire l’accesso a valle presso la zona Serfontana con l’imbocco della Valle di Muggio più in alto. Dallo scorso giugno la direzione del Parco è nelle mani di Marco Torriani che nei suoi primi mesi di lavoro sta pianificando nuovi progetti. A lui abbiamo rivolto alcune domande. Marco Torriani, quali novità vorrà proporre in un prossimo futuro?

La missione generale a cui stiamo lavorando è l’interconnessione, sia con gli altri nodi della nascente rete di parchi e musei del Mendrisiotto, sia con gli altri settori turistici. Cercheremo maggior contatto e sinergie con le altre realtà della regione, come per esempio il sito UNESCO Monte San Giorgio e il Museo dei Fossili di Meride per le tematiche geologiche e paleontologiche, ma anche con gli altri progetti che si prefiggono una riqualifica turistico-didattica di edifici industriali e protoindustriali dismessi, come le Cave di Arzo o il Parco Valle della Motta. Interessante è anche il progetto «Sentiero dei Mulini», di cosa si tratta?

È un progetto che prevede l’interconnessione dei mulini recuperati o in

fase di recupero nella nostra regione, collaborando con il Museo etnografico della Valle di Muggio (Mulino di Bruzella), il Parco Valle della Motta (Mulino del Daniello), il progetto Parco del Laveggio e il Parco Valle del Lanza (in Italia). Quale lo scopo di queste sinergie?

Con questi attori ci muoviamo sull’asse della conservazione e valorizzazione del paesaggio culturale, collegandoci poi ad altri settori del turismo sostenibile quali la promozione dei prodotti locali, l’enogastronomia o l’agriturismo. Una bella sfida dunque, ben oltre i confini del parco. Ma quali gli interventi previsti invece nel Parco delle Gole della Breggia?

Qui vogliamo per esempio completare la rete dei sentieri del parco con delle nuove stazioni scientifiche a contenuti interdisciplinari, come biologia, storia o ancora archeologia. Inoltre stiamo progettando il miglioramento dell’accessibilità per i portatori di handicap e pianificando dei percorsi per non vedenti. Informazioni

www.parcobreggia.ch


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 dicembre 2016 • N. 51

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Società e Territorio

Una clinica che racconta la sua e la nostra storia

Un aiuto per le necessità più urgenti

un moderno centro di riabilitazione

Soccorso d’inverno tra le istituzioni sostenute da Migros

Novaggio Nata agli inizi del Novecento come clinica militare è diventata nel corso degli anni

Luciana Caglio Ci sono edifici a cui spetta il ruolo di testimone d’epoca. È proprio il caso della Clinica militare di Novaggio, nata agli inizi del ’900, fra le colline malcantonesi, e diventata, negli ultimi decenni uno dei più noti ed efficienti centri di riabilitazione del Ticino. In termini concreti e addirittura simbolici, questa trasformazione riflette le tappe dei cambiamenti che hanno segnato la nostra realtà quotidiana sul piano non soltanto medico, ma sociale, anagrafico e politico. Insomma, un itinerario storico rivelatore, che riserva anche curiosità e sorprese. Ci offre lo spunto a ripercorrerlo la recente conclusione dell’intervento di ristrutturazione, opera dell’architetto Pietro Boschetti che, a questo lavoro, ha saputo attribuire un significato dimostrativo: rispettare quel che c’era, senza cedere alla tentazione del recupero nostalgico, puntando invece, sull’integrazione del nuovo per rispondere alle necessità attuali. In altre parole, anziché demolire sconsideratamente, assicurare continuità a una vicenda secolare. Per trovarne il punto di partenza bisogna risalire al 1899. In quell’anno, Fausto Buzzi Cantone, singolare figura di scienziato curioso del mondo e aperto alle istanze sociali, fece ritorno nel suo Malcantone. Aveva alle spalle una carriera di successo. Laureato in medicina a Ginevra, era emigrato in Germania, dove aveva prestato le sue cure alla famiglia Krupp e a Bismark, per poi diventare primario all’ospedale La Charité di Berlino e, non da ultimo, si distinse con una ricerca in dermatologia, condivisa con l’illustre Ernst Schweninger, che porta i loro nomi. Per Buzzi Cantone, cinquantenne, il rientro in patria non poteva diventare un tranquillo riposo. Attivo in politica, nelle file del partito liberale, viene eletto in Gran Consiglio, e non rinuncia alla medicina. Anzi, lancia un’idea d’avanguardia: fa costruire un ospedale, destinato alla popolazione locale: nel 1900, appena fuori Novaggio, sorge Villa Alta. Poco distante, nel 1904, i coniugi DemartaSchönenberg aprono l’albergo Beau Séjour. E saranno loro, dopo la prematura morte di Buzzi Cantone, nel 1907, a realizzarne il progetto: si chiama Ospedaletto e cura gratuitamente i malati di Novaggio. Nel 1922, un intervento decisivo: il Dipartimento federale militare prende in affitto, e poi acquista, quegli edifici per adibirli alla cura di soldati malati, sperimentando la «terapia del lavoro» anche nei confronti della tubercolosi, che allora imperversava. La popolazione locale, però, si allarma: teme l’insediamento di un vero e proprio sanatorio. Berna corre ai ripari e decide di accettare soltanto «pazienti con tubercolosi non aperta, ossea o convalescenti».

La clinica malcantonese oggi, dopo l’ultimo intervento di ristrutturazione ad opera dell’architetto Pietro Boschetti. (F. Simonetti, nell’opuscolo Clinica di riabilitazione di Novaggio, EOC, 2016)

L’era dei sanatori si concluse nel secondo dopoguerra. Vaccinazioni e antibiotici hanno debellato il più temuto male del secolo. E, quegli edifici, che avevano ispirato capolavori letterari, basti pensare alla Montagna incantata di Thomas Mann, devono chiudere o riconvertirsi. Anche a Novaggio ci si adegua. Sotto la guida del dottor Erich Schwarz, ci si rivolge all’ambito delle malattie interne, in particolare al filone delle affezioni della colonna vertebrale, indicativo di tendenza: malattie e infortuni evolvono con i tempi. La clinica si attrezza, con un nuovo impianto per le radiografie e un padiglione per la fisioterapia. Nel 1976, ottiene da Berna un ulteriore credito per dotarsi di un centro del tempo libero e di un piazzale d’atterraggio per gli elicotteri. A questo punto, siamo negli anni 80, la clinica, diretta dal dottor Frédéric von Orelli, aperta a pazienti civili, percepisce le esigenze di una società, in cui la longevità e la mobilità hanno creato nuove categorie di pazienti. Sono gli anziani, gli sportivi, le vittime di incidenti della circolazione, tutte persone impegnate nel recupero della propria autonomia. L’obiettivo è ormai realistico e rappresenta una sfida da cogliere: trasformare Novaggio in un centro di riabilitazione all’altezza dei tempi. Ma occorrono strutture logistiche e impianti terapeutici in grado di svolgere funzioni sempre più specialistiche. E, con i contenuti , occorre rinnovare l’involucro e, quindi, l’immagine, un fattore che conta anche nell’ambito della sanità. I lavori di ristrutturazione s’impongono con urgenza. Nel 1988, la clinica, istituto federale, ottiene da Berna i necessari finanziamenti. Ed è, quindi, l’Ufficio federale delle costruzioni a in-

dire il concorso che premia Pietro Boschetti, architetto che, qui, è un po’ di casa. Malcantonese nato a Vezio, avverte istintivamente l’importanza del fattore ambientale, un paesaggio privilegiato da valorizzare. Nasce così un progetto impostato su una visione a tutto campo che non si limita a rimodernare singole costruzioni, ma coinvolge il parco circostante, come «tessuto unificatore». Ne scaturisce, per dirla con Mario Botta, «un villaggio sanitario», dove gli spazi interni dialogano con gli spazi esterni. Tutto ciò tenendo conto delle esigenze terapeutiche e sociali dei pazienti, ai quali offrire percorsi pedonali accessibili, luoghi d’incontro, le condizioni materiali e psicologiche per ripartire. Il 2003 segna una data storica sul piano politico: Novaggio che, due anni prima aveva ottenuto la qualifica ufficiale di clinica di riabilitazione SWISS REHA, diventa cantonale. Il Consiglio federale cede il complesso ospedaliero al prezzo simbolico di 1 franco, all’EOC. Per il Cantone significa un altro passo importante sulla via di un’effettiva autonomia sanitaria rispetto a oltre Gottardo. Insomma, il miglior ospedale non è più il treno per Zurigo, come usava dire una volta. Proprio la riabilitazione doveva rivelarsi un settore in continua crescita. Il Ticino, osserva Paolo Beltraminelli, direttore del Dipartimento sanità e socialità, registra «un tasso di over 65 fra i più alti in Svizzera» mentre «cambia il concetto stesso di persona attiva che vuole ritornare al più presto alla vita lavorativa». Le statistiche parlano chiaro: dal 2003 a oggi, la clinica ha più che raddoppiato il numero dei pazienti: da 457 a 1003, nel 2015. Sotto la direzione del primario Nicola Schiavone, in carica dal 2008, oltre 100 professionisti

si dividono i compiti, collaborando secondo una concezione interdisciplinare, nuova frontiera del progresso medico. A Novaggio, insomma, ci si muove. E lungo percorsi paralleli: nell’ambito terapeutico e in quello dell’accoglienza. Sono fattori strettamente legati in una simbiosi che è diventata il marchio stesso della clinica: alla cura della persona contribuisce la cura del luogo. È la convinzione che ha guidato Pietro Boschetti nelle varie fasi di una ristrutturazione, avviata nel 2003, proseguita nel 2007/2011 e completata quest’anno. Si tratta, come racconta, di un’esperienza professionale e umana insolita: «Capita raramente che un architetto possa accompagnare per un grande tratto della sua attività la vita di un insieme di edifici, cogliendo ogni momento della sua trasformazione dovuta al mutare della società. Non ho voluto fare niente di spettacolare. Mi considero un artigiano, sensibile alla genuinità dei materiali e alle istanze ambientali». L’impegno ecologico non ha certo frenato l’impulso innovativo e l’aspirazione al bello. Anzi. L’architetto ne ha interpretato le indicazioni con efficacia. Cioè, privilegiando l’impiego di pietre locali, del legno, dell’acciaio, eliminando la plastica e i fronzoli decorativi, valorizzando la luce naturale, restituendo dignità alle strutture precedenti, puntando sull’armonizzazione fra passato e presente. Anche se, in definitiva, prevale il linguaggio contemporaneo, con segni incisivi, quali la torre dell’ascensore, la passerella, la terrazza lungo l’edificio centrale, le tettoie circolari e, soprattutto, il continuo contatto con il paesaggio. Si torna, così, al punto essenziale: anche il luogo partecipa alla guarigione.

Campagna 2016 Il

Il Soccorso d’inverno si impegna a favore di una Svizzera senza povertà e presta il proprio aiuto nei casi in cui alle persone in situazione critica non è possibile richiedere un sostegno finanziario a un ente o servizio pubblico. Il Soccorso d’inverno, un tempo, veniva associato solo a interventi in favore degli agricoltori in difficoltà durante la stagione fredda. Oggi invece i suoi uffici di consulenza cantonali e regionali forniscono un aiuto materiale durante tutto l’anno. Si fanno carico ad esempio di fatture urgenti e, distribuiscono, se necessario, letti, pacchi di vestiti, cartelle scolastiche o buoni per generi alimentari. Grazie alla sua struttura federale, il Soccorso d’inverno è vicino a chi ha bisogno. Con la sua raccolta fondi di Natale Migros viene in aiuto a persone che nel nostro ricco paese sono minacciate dalla povertà. La somma raccolta va esclusivamente a beneficio delle organizzazioni di aiuto Caritas, HEKS Aiuto protestante svizzero, Pro Juventute, Pro Senectute e Soccorso d’inverno. Migros aumenterà l’importo raccolto di un milione di franchi. Potete partecipare alle donazioni in questo modo: ■ Nella vostra filiale Migros Con l’acquisto di un cuore di cioccolato (Fr. 5.–/10.–/15.–) alla cassa nella filiale Migros o nei nostri mercati specializzati (Do It, Micasa, melectronics, SportXX) – fino al 24.12.2016. ■ Mediante SMS Con la parola chiave «MIGROS» al numero 455. Esempio: per una donazione di Fr. 50.– inviate «MIGROS 50» al numero 455 – entro il 31.12.2016. ■ Mediante versamento Versate la vostra donazione indicando l’oggetto «Raccolta fondi Migros di Natale» entro il 31.12.2016 su questo conto corrente: 30-620742-6. ■ Via Internet Donate con la carta di credito su www. migros.ch/donare. In alternativa potete anche scaricare la canzone di Natale Ensemble su Ex Libris, iTunes o GooglePlay facendo così una donazione. Ulteriori informazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 dicembre 2016 • N. 51

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Società e Territorio

Le scienziate dimenticate

Pubblicazioni Con il bestseller americano Women in Science le ragazze e i ragazzi imparano a conoscere le storie

e le invenzioni delle donne che hanno contribuito all’evoluzione della scienza Stefania Prandi All’inizio del Settecento ci voleva un certo coraggio per partire dall’Europa e avventurarsi nelle foreste del Sudamerica, soprattutto se si era una donna. Maria Sibylla Merian non aveva paura: la sua passione per lo studio degli insetti, che la accompagnò fin da quando era bambina, la portò a sfidare le convenzioni e a spingersi al limite, affrontando le piogge tropicali del Suriname, il caldo soffocante e le malattie. Fu proprio la malaria a costringerla a tornare in Olanda, ma non senza risultato: l’entomologa aveva avuto abbastanza tempo per realizzare le illustrazioni per il suo lavoro più famoso, La metamorfosi degli insetti del Suriname, pubblicato nel 1705, che divenne celebre. Con il tempo, però, i successi di Maria Sibylla Merian sbiadirono, fino a perdersi nei meandri della storia. Così è successo a molte altre scienziate che sono state dimenticate per fare spazio a un elenco di nomi e scoperte quasi esclusivamente maschili.

Con questo libro Rachel Ignotofsky mette in luce l’importanza di raccontare il ruolo attivo delle donne nella storia Un divario di genere che, nonostante gli innegabili progressi degli ultimi decenni, continua anche ai giorni nostri. Per superarlo l’illustratrice e scrittrice Rachel Ignotofsky ha deciso di raccogliere i contributi femminili più significativi in un libro per ragazzi, Women in Science, 50 Fearless Pioneers Who Changed The World (Donne nella scienza, 50 pioniere indomite che hanno cambiato il mondo) pubblicato in inglese per la casa editrice Crown Publishing. «Ho molti amici che lavo-

rano come insegnanti – spiega Ignotofsky ad «Azione» – e mi sono chiesta a lungo perché la scienza e la tecnologia siano ancora considerate un club maschile. C’è un grandissimo gap di genere nel campo delle cosiddette Stem (acronimo di Scienza, tecnologia, ingegneria, matematica) nonostante diverse ricerche dimostrino che le ragazze ottengono gli stessi risultati dei loro compagni maschi. Con questo libro voglio incoraggiarle a seguire le proprie passioni. Credo davvero che uno dei modi migliori per combattere i pregiudizi sia quello di suggerire forti modelli di riferimento. E così ho deciso di usare le mie abilità nel disegno e nel racconto per proporre storie potenti, per creare un testo che non fosse solo educativo, ma anche divertente». Sfogliando le pagine colorate di Women in Science si incontra anche Mary Anning, inglese, paleontologa e collezionista di fossili, nata nel 1799. Proprio il fatto di venire da una famiglia povera, che cercava e vendeva fossili per arrotondare, le permise di scoprire a soli 12 anni il primo scheletro di ittiosauro della storia, e successivamente resti di plesiosauro e di pterosauro. Essendo una donna non poteva pubblicare su riviste scientifiche. I colleghi apprezzavano le sue idee e le inclusero nei loro lavori, senza però citare il suo nome. Un’altra pioniera è stata Elizabeth Blackwell, che divenne la prima dottoressa degli Stati Uniti. A metà Ottocento venne ammessa, nonostante le resistenze, al Geneva Medical College, ma doveva sedersi separata dai compagni. Durante una lezione sulla riproduzione venne invitata ad uscire dall’aula, perché si temeva che la sua indole femminile la rendesse troppo sensibile, ma lei si rifiutò. Dopo la laurea fondò l’Infermeria di New York per donne e bambini indigenti, un posto dove i malati potevano essere curati gratuitamente e le donne medico e

Valentina Tereshkova, la prima donna nello spazio, è tra le 50 protagoniste del libro scritto e illustrato da Rachel Ignotofsky.

infermiere potevano imparare. Negli anni successivi, inoltre, diede il via alla London School di medicina per le donne. Una scienziata sconosciuta ai più è Emmy Noether, matematica che sviluppò equazioni ancora importanti per il modo in cui comprendiamo la fisica. Diventò professoressa all’Università di Göttingen, dove conobbe Albert Einstein. Con lui collaborò a di-

versi studi e divennero amici. Durante il nazismo venne licenziata perché era ebrea, ma continuò a insegnare nel suo appartamento, rischiando la vita, fino a quando fu costretta a emigrare negli Stati Uniti, dove morì a soli 53 anni. Einstein celebrò la sua genialità con un articolo sul «New York Times». Sono molte altre le scienziate considerate da Ignotofsky, dall’astronoma, matematica e filosofa Ipazia, alla

fisica Marie Curie, alla neurologa Rita Levi Montalcini, alla primatologa, etnologa, antropologa Jane Godall, che trascorse anni da sola in Tanzania per studiare gli scimpanzé. «Ho scelto le protagoniste di questo libro non soltanto considerando le diverse discipline, ma anche i periodi storici – sottolinea l’illustratrice – . Nelle mie pagine si trovano biologhe marine, vulcanologhe, suffragette, attiviste per i diritti civili, astronaute. Attraverso le loro vicende biografiche e le loro scoperte si riesce a vedere come hanno combattuto per fare sentire la loro voce». La preferita dell’autrice è Katherine Johnson, una donna che non si fece scoraggiare dal sessismo e dal razzismo dell’epoca e diventò indispensabile all’interno della Nasa, l’Ente nazionale aeronautico e spaziale degli Stati Uniti. Quando le venne detto che le donne non potevano essere ammesse a tutti i meeting, chiese se si trattava di una misura effettivamente stabilita dalla legge americana. Grazie alla sua determinazione riuscì a fare in modo di partecipare alle riunioni con i colleghi e calcolò il lancio della missione su Mercurio. Era così talentuosa che divenne un’esperta delle traiettorie nello spazio. Il suo traguardo più grande fu il calcolo del tragitto di volo della missione Apollo 13, nel 1969, che portò al primo sbarco sulla Luna. All’età di 97 anni fu premiata con la medaglia presidenziale alla libertà. Women in Science è entrato nella classifica dei bestseller del «New York Times». Un successo che secondo Ignotofsky, è dovuto al fatto che «le persone vogliono saperne di più delle figure femminili entusiasmanti e potenti, che hanno lasciato un segno, ma le informazioni al riguardo non sono ancora molto accessibili. Io faccio parte di un vero e proprio movimento contemporaneo che ha deciso di raccontare il ruolo attivo delle donne nella storia, e sono fiera di questo».

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Andrea Valente, Un anno con Babbo Natale, Interlinea Junior. Da 8 anni Quando scoppiano i botti e i festeggiamenti di Capodanno, è proprio allora che Babbo Natale chiude i battenti e si fa un bel sonno. Dopo tutto quel lavoro ne ha ben donde. Per tutto il mese di gennaio se ne starà tranquillo al calduccio. Sì, ma poi? Non dormirà mica tutto l’anno, no? Arzillo ed efficiente com’è non sembra proprio il tipo. E allora cosa farà negli altri mesi? Ce lo racconta Andrea Valente, in questa divertentissima storia di Natale (vincitrice del premio Storia di Natale 2016 dell’editore Interlinea), e lo fa col consueto piglio brioso delle sue illustrazioni e delle sue parole: ogni doppia pagina è dedicata a un mese, e l’attività di Babbo Natale in ogni mese è raccontata da un breve testo e da un’immagine, tra loro perfettamente

in armonia, e perfettamente armonici anche presi a sé. Ogni raccontino ha una misura adeguata, mai eccessiva, lo humour non perde quota e la brillantezza dello stile resta nitida ad ogni riga, cadenzando il ritmo ad ogni voltar di pagina, con la curiosità di scoprire cosa farà mai Babbo Natale nel mese successivo. Il lettore è coinvolto nella narrazione, con quel «tu» coinvolgente e scherzoso di cui Valente fa spesso uso: «con l’inizio dell’estate gli elfi (...) se ne vanno al mare (...) se nel mese di giugno pure tu sarai sulla spiaggia e vedrai qualcuno di non troppo alto, con la pelle verdina e le orecchie a punta, fagli un sorriso anche da parte mia...». Le illustrazioni contrappuntano allegramente il testo, il tratto e i colori danno effetti di movimento ai personaggi e pochi sapienti particolari raccontano ogni volta un’ambientazione. Come trait d’union tra un mese e l’altro si staglia il rosso del cappello di Babbo Natale e anche, magari più nascosta ma non meno costante, quella margherita dal gambo lungo che, dalla Pecora Nera in poi, è un po’ il marchio di fabbrica del poliedrico autore. Ecco una bella storia di Natale non solo per Natale: la si può leggere davvero, mese dopo mese, per sorridere tutto l’anno. Barbara Migliavacca Nascioli, Il dono di Marta, Salvioni Edizioni. Da 6 anni Anche questa è una storia di Natale che dura tutto l’anno. Ma qui il

registro è più intimistico, come si vede già nell’incipit. Là, a gennaio c’era un Babbo Natale che si godeva un buon sonno dopo il duro lavoro, qui c’è un «pigro strascico del Natale» fatto di «addobbi natalizi che pendevano dimenticati dai balconi dei palazzi». E siamo subito dentro il tono della storia, o meglio delle tante storie di cui è intessuto questo libro. Ma questo day after natalizio, «come una tavola abbandonata dopo un pranzo, con ancora i piatti, le bucce e gli avanzi sulla tovaglia» non mette tristezza a Lorenzo, perché sta nevicando, e lui vuole raccogliere qualche fiocco e conservarlo in un vasetto. Proprio sulla cura dei ricordi, sul saper assaporare e conservare con gratitudine nel proprio cuore gli istanti di felicità che la vita ci regala, mi sembra incentrato

questo libro. Ogni capitolo è dedicato a un bambino o a una bambina, che in un periodo diverso dell’anno racchiude in un piccolo contenitore (barattolo, busta, o scatola che sia) un simbolo significativo di felicità: saranno ad esempio i fiocchi di neve per Lorenzo, i coriandoli per Maryam, il profumo del bucato per Gioia, la bellezza perfetta di una ragnatela coperta di brina per Alessandro. Momenti piccoli, minimi – come altro possono essere i fragili istanti di felicità? – ma proprio per questo preziosi. Momenti di gioia di cui i bambini fanno dono a Marta, la vecchia portinaia del condominio, che a sua volta ha un dono per loro. Doni d’amore, non di consumo, scambiati, e non è un caso, tra vecchi e bambini. Veronica Battista, Matteo Casoni, Luca Jegen e Katya Troise. Illustrazioni di Irina Boiani. Il Natale di Grumoldo, Edizioni Scintille di Favole. Da 5 anni Chiudiamo con un’altra storia di autori ticinesi: Il Natale di Grumoldo ha l’impianto di una fiaba classica, con il tradizionale viaggio iniziatico del principe protagonista, il quale, attraverso una serie di canoniche prove, diventerà, da bambinone viziato e prepotente, un giovane uomo coraggioso e generoso. Grumoldo incarna l’archetipo, già visto in tante storie natalizie, del vilain che odia lo spirito del Natale (di cui il più autorevole esempio resta lo Scrooge di

Dickens): scacciato dal padre perché non ha rispettato i patti e si è dimostrato perfido ed egoista, Grumoldo dovrà cavarsela da solo e trovare la sua strada nel mondo. Educativo è il limite posto dall’autorevolezza paterna: «Ma papino, io... – Silenzio! Lascia qui la tua corona e va’ via» e così, anche se il principe a quanto pare non mollerà la corona, il percorso di maturazione si dovrà compiere per forza. Il libro nasce da un fortunato spettacolo teatrale dell’Associazione «Scintille Teatro e Spazio Creativo»

e ciò in qualche misura valorizza il testo, il quale va apprezzato non tanto per i suoi aspetti letterari, ma per quelli legati agli effetti di «viva voce» che si avvertono nell’andamento della narrazione. Una storia da leggere appunto ad alta voce, da far vivere con un’esecuzione che ne metta in scena personaggi, ritmi e suoni.


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Cavalli donati Dovesse mai l’Altropologo decidere di scrivere le sue memorie di insegnante, un capitolo dedicato all’epistemologia profonda dell’antichissima disciplina – ovvero ai suoi fondamenti come materia degna di fatica e diuturna applicazione – sarebbe senz’altro ispirato ad uno studente che ormai il passare degli anni rende ahimè senza volto né nome. Alla domanda in fase d’esame di quali fossero le sue caratteristiche fondamentali, questi rispose: «Guardi, a mio avviso l’antropologia è una materia vigliacca. Vigliacca nel senso che trova che esista un problema anche laddove il resto del genere umano vive e sguazza felice e contento senza farsi problemi di alcun genere». Nel suo candore provocatorio l’affermazione è rimasta nelle prime schede, quelle più a portata di mano, nell’archivio della memoria, evocata di quando in quando da episodi che ne rispolverano l’assunto di base. Come l’altro giorno, in piena azione didattica con un gruppo di studenti confederati. Il contesto, le usanze festive del Natale prossimo venturo, le strenne di Capodanno e via

di questo passo: «Vi siete mai chiesti perché i regali siano così importanti? E, in particolare, vi siete mai chiesti perché se uno riceve un regalo deve – in qualche modo ma deve – reciprocarlo?». Sguardi imbarazzati che vagano dal soffitto allo schermo del PC squadernato che oggi funziona come una volta funzionava nascondersi dietro il profilo del compagno davanti… come non leggere nella mente della classe intera ammutolita: «Ma che razza di domande… Ci mancherebbe farsi anche quella domanda lì… Ma guarda questo qui che vede problemi anche dove non ne esistono…». Beh, la risposta è che sul problema (irrisolto) della reciprocità si sono scritte intere biblioteche e c’è di sicuro ancora spazio per parecchi altri scaffali. Il Saggio sul Dono di Marcel Mauss, pubblicato per la prima volta fra il 1923 ed il 1924 e da allora sempre ristampato pone e ripropone sempre la stessa domanda: «Perché se uno riceve un dono deve in qualche modo reciprocarlo? In cosa consiste tale obbligo? Quali ne sono le conseguenze? Cosa succede se il dono non è reciproca-

to?». L’economia culturale del dono e le circostanze che ne regolano la biografia – per così dire – sono a fondamento dell’antropologia dello scambio come atto fondante la socialità stessa. Scriveva anni dopo il grande Lévi-Strauss che la proibizione dell’incesto come obbligo fra coppie di fratelli e sorelle di «scambiarsi i partner» costituisce l’atto fondante stesso della socialità in quanto reciprocità e comunicazione: «Io do una cosa a te, e tu dai una cosa equivalente a me». E questo è quello che, se ci pensate bene, molti di noi hanno implicato presentando con un sorriso assassino la richiesta di un prestito irrifiutabile – metti l’auto o una piccola somma di denaro – al cognato. «Una domanda che non si può rifiutare» – potremmo dire parafrasando. Ai miei studenti che protestavano che il dono natalizio dei genitori non esigeva reciprocità rispondeva l’altro giorno l’Altropologo (vigliacco e con un sorriso assassino) che l’assioma dell’affetto reiterato e sempiterno che accompagna un dono irreciprocabile non è certo cosa da poco. E che certo e comunque chi dà

sapendo di non dover ricevere si pone comunque sia – per il bene o per il male è altra questione – in posizione di vantaggio rispetto a chi riceve. Intere economie dei rapporti di potere premoderne erano basate sulle gerarchie create dal dono e dal furioso reciprocare i doni ricevuti fra regnanti intenti a mai farsi «trovare in debito». Tanto che nelle antiche lingue germaniche ciò che oggi in inglese si dice gift – il termine per «dono», significava anche «veleno». Il «veleno» ovvero che il caval donato porta dritto dritto nella tua stalla – per così dire – e che pian piano ti entra in casa armi e bagagli a meno che (poiché rifiutare un dono è casus belli – ricordiamocelo) tu non ti affretti a reciprocare – e meglio che non sia con un asino, perché sennò «vai sotto». Tanto per restare in ambito equino, non fu forse Laocoonte, il troiano, ad esprimere perplessità sull’opportunità o meno di portare il Cavallo di Legno più famoso della storia entro le mura cittadine: «Temo i Danai (ovvero gli Achei, i Greci) anche quando portano doni». Parole sacrosante che avrebbero sortito effetto

ben diverso fossero i troiani stati sottili intenditori di doni quali erano i Maori prima di svendere la haka alla nazionale degli All Blacks per l’equivalente di una pipata di tabacco. Tradizionalmente i doni ricevuti si dividevano in due categorie: quelli che potevano essere consumati senza patemi di reciprocità («Ricevuto, grazie, apprezzato e arrivederci») e quelli che – invece ahinoi – si dovevano reciprocare magari con gli interessi. Qui cominciavano i guai, tanto che i doni che cadevano in quella categoria erano anch’essi descritti con il termine di «veleno». Il problema sembra dunque essere universale: fra le popolazioni Akan del Ghana centrale si suole mettere in guardia i bambini sempre pronti a richiedere regali con il proverbio che segue: «Ricordati che se mangi la gallina di tuo fratello la tua cammina già su una zampa sola». Dunque gli avveduti lettori dell’Altropologo sono avvisati. Per le prossime festività fatevi donare quadrupedi piuttosto che bipedi: vi rimarrà più tempo per pensare al prossimo passo – o qualcosa del genere…

supplementare, una relazione da ultimare. La figura del padre, dice Lacan, «è evaporata». Eppure Freud aveva sostenuto, a proposito del Disagio nella civiltà (1931): «Non saprei indicare un bisogno dell’infanzia forte quanto quello di avere la protezione del padre». E, per infanzia, Freud intende qui la minor età. Una constatazione che, nella pratica professionale, ho potuto confermare raccogliendo le confidenze dei figli di genitori separati, in gran parte caratterizzate dal desiderio inappagato del padre, dal rimpianto della sua presenza, dall’attesa del suo ritorno. È vero che in questi anni il lavoro chiede troppo, anche a scapito della vita privata e dei rapporti affettivi. Ma il problema ha radici più profonde. Per secoli le famiglie patriarcali sono state organizzate secondo un modello piramidale ove il padre occupava il vertice, moglie e figli la base. Un modello che trova il suo

paradigma nell’organigramma verticale dell’esercito, l’istituzione educativa più potente e diffusa che sia mai esistita, anche se oggigiorno non ha la stessa incidenza che in passato. Eppure, come una sorta di filigrana, la forma piramidale si sottende ancora a tutte le nostre istituzioni: la scuola, l’ospedale, la fabbrica, i giornali… Solo la famiglia ha assunto una configurazione piatta, orizzontale, paritetica, priva di ogni autorità precostituita. Nella famiglia fondata sugli affetti, dove tutti vogliono essere amati, nessuno accetta di svolgere una funzione normativa e punitiva, che desta inesorabilmente nei ragazzi reazioni ostili ed emozioni negative. Il padre che, nella prima infanzia dei figli, ha imparato a «fare la mamma» senza esserlo, in seguito cerca di proseguire questo compito oppure si defila. Ma gli adolescenti non vogliono un «mammo», né un amico. Ho sentito molti padri dichiarare: «sono

il miglior amico di mio figlio», ma non ho mai ascoltato un figlio dire: «sono il miglior amico di mio padre». E l’amicizia o è reciproca o non è. Il padre che i figli desiderano, e di cui sentono la mancanza, è una figura, non autoritaria («si fa così perché lo dico io!!») ma autorevole, capace di indicare i valori cui attenersi e di testimoniarli nella vita pubblica e privata. Un padre che sa dire «sì» ma anche «no», e spesso «sì ma», mostrando in questo di comprendere i desideri dei figli ma anche di sottoporli al vaglio della responsabilità, ai limiti della morale, ai doveri della vita in comune.

lizzando, poi, nel 2009, a Liegi, la stazione considerata la più bella al mondo. Ora, in queste operazioni di restyling, avviate soprattutto nelle metropoli, l’obiettivo della bellezza non era, però, fine a se stesso. Si trattava, invece, di riscattare, anche dal profilo sociale e morale, luoghi poco raccomandabili, frequentati da teppisti, vagabondi e tossici. Esempio da manuale, in proposito, la Grand Central di New York, dove un tempo era meglio filar via, diventata, adesso, un’attrazione turistica, addirittura un po’ snob.

In termini, evidentemente meno drastici, l’era delle pimpanti stazioni, luminose e funzionali, comporterà, anche da noi, un cambiamento sul piano umano. Perché, francamente, negli ultimi anni, arrivare, con un treno di notte, nella stazione di Lugano, poteva riservare sorprese sgradevoli. Le stazioni si erano, infatti, create un proprio popolo di frequentatori. E, sia chiaro, non soltanto marginali notturni ma, durante il giorno, pensionati, sfaccendati, curiosi, persone che, in qualche modo, cercavano di far passare il tempo. A Bellinzona, era un’immagine ricorrente: le panchine sui marciapiedi della stazione ospitavano proprio gli ex-ferrovieri, spinti dalla nostalgia per le fatiche di un tempo, legate alle famose Officine. E, altra immagine d’epoca, era la nostalgia per la patria lontana, a riunire negli anni 60 e 70, alla stazione di Zurigo, gruppi di emigrati italiani: «Little Italy», erano infatti chiamate certe sale d’attesa, dense di fumo e di melanconia. Alla luce di questi ricordi, c’è da chie-

dersi se le nuove stazioni stile shopping creeranno, a loro volta, una particolare tipologia di frequentatori. Chissà. E c’è pure da chiedersi se le stazioni, belle e forse asettiche di oggi, continueranno a svolgere un ruolo da protagoniste, ispirando romanzieri e cineasti. Si pensi a Trainspotting, il romanzo di Irvine Welsch, tradotto in film da Danny Boyle, che illustrava i tragici effetti di quel passatempo, «contare i treni che passano» su un gruppo di sbandati, a una stazione periferica di Edimburgo. Ma, siamo alla vigilia delle feste, e si deve finire in bellezza, ricordando l’aspetto ameno delle stazioni, che possono ispirare favole toccanti e divertenti. Un esempio ormai classico, il Paddington Bear, inventato da Michael Bond, che racconta le disavventure di un orsetto arrivato per caso in una bellissima stazione londinese, di cui porterà il nome, affrontando l’ingrato contatto con il genere umano. Ma per farsi perdonare, la Paddington Station l’ha immortalato con una statua. Andatela a vedere.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Il padre che i figli desiderano Cara Silvia, questa mattina sono andata a parlare con i professori di mio figlio, che frequenta il Liceo. Come sempre, eravamo tutte e solo mamme. Dove sono i padri? Psicologi ed educatori continuano a sostenere che i figli adolescenti, soprattutto i maschi, hanno bisogno di essere seguiti da una figura paterna, ma dove sono i padri? Fin che i bambini sono piccoli ci danno una mano a crescerli: hanno imparato a cambiare i pannolini, fare il bagnetto, dare il biberon, addormentarli la sera ma poi, man mano che diventano grandi, lasciano a noi l’incombenza di educarli. Una delega che ci obbliga a fare contemporaneamente da padri e da madri, due ruoli complementari che entrano spesso in contraddizione tra di loro. Nel mio caso (ho tre maschi), ho ottenuto che si confidino con me, che mi dicano tutto, anche le cose più scabrose. Ma a quel

punto è difficile cambiare atteggiamento e, dopo aver ascoltato con comprensione, giudicare e punire con severità. Perché, mi dica lei, gli uomini non sanno più fare i padri? / Clelia Ha ragione, cara Clelia, il confessionale e il tribunale non hanno mai svolto la stessa funzione e, tradizionalmente, i due compiti erano affidati a luoghi, istituzioni e persone diverse. Solo ora, nella tarda modernità, l’educazione, delegata alle madri, le obbliga a sovrapporre due ruoli che dovrebbero restare distinti. Proprio ieri mi diceva una mamma: «che bei tempi quando si poteva dire ai ragazzi “questa sera lo dico a tuo padre!!!”». Ora invece gli uomini non sono mai disponibili, il lavoro sembra inghiottire tutte le loro energie e, se rimane un residuo, lo spendono per una partita sportiva con i colleghi, una riunione

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Ormai le città se ne sono appropriate per includerle nel loro tessuto urbano, alla stregua di un quartiere sempre più assimilato: una sorta di città nella città, con la stessa fisionomia, le stesse funzioni, gli stessi servizi. Stiamo, appunto, parlando delle stazioni, oggetto di una metamorfosi che, in queste settimane, ci ha toccato da vicino, suscitando quelle reazioni contrastanti, fra soddisfazione, sconcerto e persino rimpianto, che accompagnano ogni cambiamento. Ma, questa volta, a parte qualche mugugno domenicale rivolto ai «balivi» delle FFS, il Ticino brontolone si è arreso all’evidenza: le nuove stazioni, a Bellinzona e a Lugano, portate a termine in concomitanza con l’apertura di Alptransit, si sono meritate un diffuso compiacimento popolare, sollevando persino un’ondata di orgoglio nazionale. Insomma, guarda un po’, cosa è in grado di combinare la tecnologia elvetica. Certo, queste nuove strutture, dotate di supermercati, boutiques, ristoranti, snack, farmacie, asili nido, pronto

soccorso, fitness, librerie, ecc. sono in grado di appagare, praticamente, tutte le esigenze di una clientela, ben rappresentativa della realtà contemporanea: gente che ha fretta, è di passaggio, è superimpegnata, e non intende rinunciare a niente. Neppure a piaceri d’ordine estetico. Le nuove stazioni, infatti, recano, non di rado, la firma di un’«archistar». E qui doveva imporsi, da precursore, Santiago Calatrava: già nel 90 aveva progettato, a Zurigo, la stazione di Stadelhofen, annoverata fra i «monumenti» cittadini, rea-

fotogonnella

Mode e modi di Luciana Caglio Le stazioni ci raccontano


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Ambiente e Benessere Un agrifoglio per Natale Grazie alle sue bacche l’Ilex arricchisce di colore e porta fortuna alle feste di fine anno

Le preferenze musicali dei cavalli Alcuni amano le forti percussioni, altri invece no, e altri ancora sopportano male le note troppo alte e prolungate

Una festa all’… aglio La bagna càoda: è pesante e non tutti amano il suo forte sapore, che può essere però alleggerito

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Tra Bacco e i monaci Quale destinazione aveva il vino non legato strettamente alla liturgia fra le mura dei conventi? pagina 17

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Prendersi cura: un retaggio antico dell’umanità Fra scienza e rito Le considerazioni

antropologiche sul ruolo della medicina tra le culture secondo l’antropologo ticinese Andrea Jacot Descombes

Nella storia dell’uomo, la medicina ha sempre avuto un ruolo importante. La cura delle malattie, ma anche degli infortuni, sono un retaggio antico dell’umanità. Medici, ma anche uomini medicina, sciamani si trasmettono da secoli conoscenze e ritualità codificate all’interno della cultura di appartenenza. Sono tradizioni antiche, ma ancora presenti ai nostri giorni, spiega l’antropologo ticinese Andrea Jacot Descombes. Signor Jacot Descombes cosa ha spinto l’uomo alla ricerca di soluzioni in campo medico?

Ci sono più elementi che hanno a che fare con la dimensione antropologica ma anche con aspetti fisiologici. L’uomo ha preso coscienza fin da subito del fatto che la sua vita, dal punto di vista biologico, non era infinita e ha dovuto imparare a convivere con il decadimento, la sofferenza e con la morte. L’essere umano ha reagito in primo luogo costruendo un sistema di credenze rispetto all’esistenza di una vita dopo la morte, poi tentando di eliminare o arginare il dolore, i disturbi fisici e psichici per prolungare la sua permanenza in vita. Qual è la differenza, oggi, tra scienza e rito?

Inizialmente la distinzione era piuttosto labile, tant’è vero che gli sciamani o i guaritori di molte società si situavano, e per certi versi si situano ancora, a cavallo tra magia, religione e scienza. Anche nella nostra società, fino al diciannovesimo secolo, quella che noi chiamiamo scienza era pervasa da elementi religiosi, magici e di superstizione. È stato solo con l’avvento del Rinascimento e, soprattutto, con l’Illuminismo e il Positivismo, che la scienza ha cominciato a imporsi con il

pensiero razionale, allontanandosi dal rito, nel quale permaneva un alone di mistero. La differenza è che la scienza si pone come obiettivo di dare una spiegazione razionale a un fenomeno. Il rito accetta che, in alcune delle sue fasi, sussista qualcosa che non si svela con il pensiero razionale umano. Va comunque sottolineato che scienza e rito non sono mai separati del tutto. È importante osservare che anche un fenomeno apparentemente ordinario come andare dal medico può nascondere in sé una dimensione rituale. Si va dal dottore, si discute con lui e di colpo il nostro malessere ha un nome e una cura. Per chi non è del mestiere il funzionamento della medicina, seppur basato su fondamenti scientifici e razionali, presenta comunque una certa dimensione magica e quindi rituale. In che cosa l’antropologia ha saputo, e sa ancora, avere un ruolo in ambito sanitario?

Si dà molta importanza allo stare bene. L’uomo, oggi, è più mobile, per questo si incontrano persone con una diversa provenienza culturale che percepiscono in maniera differente principi quali benessere, malattia e salute. L’antropologia, grazie al suo bagaglio epistemologico, può fornire le chiavi di lettura per spiegare come i diversi sguardi possano entrare in relazione. L’antropologia, occupandosi dello studio delle culture, può mediare la comunicazione medico-paziente affinché essa risulti efficace. Anche una persona nata e cresciuta in Svizzera che va dal dottore potrebbe avere difficoltà nel comprendere il linguaggio medico, questo perché non ne condivide il lessico. Il dottore tende a utilizzare termini tecnici, è un esperto e potremmo dire che anche in questo caso sono a confronto due differenti appartenenze culturali. Da ultimo, sottolineo il tema dell’accesso alle cure nei cosiddetti

Keystone

Roberta Nicolò

paesi in via di sviluppo. L’antropologia permette di comprendere il contesto socioculturale nel quale si vuole intervenire e può fornire elementi utilissimi al successo di progetti di cooperazione allo sviluppo. Si può dire che alcuni rami della medicina moderna siano un ritorno alle origini?

Credo che, più di un ritorno alle origini, si dovrebbe parlare di un nuovo equilibrio tra queste due componenti. Il sapere scientifico e quello spirituale non si sono mai scissi del tutto, ma hanno continuato a mantenere un legame. La visione meno razionale era poco valorizzata e, pertanto, relegata in secondo piano. Oggi invece, non si ha più paura dell’interazione tra visione scientifica della malattia e componente spirituale. In un certo senso, ci si è

aperti molto di più alla visione che hanno altre forme di medicina, come per esempio quella orientale. L’uomo entra in contatto con molte altre culture e da esse apprende. Credo sia per questo motivo che la visione della medicina stia cambiando. La medicina del futuro probabilmente cercherà di fondere in maniera virtuosa il progresso scientifico e tecnologico con l’attenzione alla sfera spirituale.

Qual è, da un punto di vista antropologico e sociale, il futuro della medicina nella società contemporanea?

La medicina continuerà ad avere il ruolo fondamentale che ha avuto sinora e anzi, le sfide che le si presenteranno davanti saranno ancora più grandi, dal momento che il tema del benessere e della salute diventa sempre più centrale nel pensiero umano. Questo è sicura-

mente un fattore che darà alla medicina un ruolo ancora più significativo. Ritengo che la medicina si muoverà, per certi versi, in un campo nuovo e difficile: quello della sua legittimazione. Fino a pochi decenni fa nessuno metteva in discussione il ruolo del medico come esperto, oggi grazie al web, c’è un accesso incontrollato all’informazione. Risulta difficile distinguere l’informazione scientificamente fondata da quella priva di fondamento, con il rischio di produrre confusione. La medicina dovrà prestare attenzione a quella che è ormai una tendenza sociale, cioè la ricerca quasi spasmodica dell’informazione ad ogni costo, alfine di porsi come interlocutrice di una società che ha sempre più bisogno di rassicurazioni sulle proprie condizioni di salute.


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Ambiente e Benessere Un tipico agrifoglio natalizio. (Acinta Iluch Valero)

Un po’ coupé, un po’ suv Motori Dopo la presentazione al Salone

di Ginevra la C-HR della Toyota arriva ora nelle concessionarie svizzere Mario Alberto Cucchi

Un Ilex per un Natale fortunato

Mondoverde È un lascito dei Germani l’usanza di appendere

sulla porta un ramo di agrifoglio per tenere lontani i malefici Anita Negretti Il classico albero di Natale, vero o finto, con radici o senza, è immancabile in queste settimane di festa, ma se volete distinguervi e portare una nota di colore viva, calda e d’impatto, allora lasciatevi conquistare dalle bacche degli Ilex. Non solo bello, ma vero portafortuna contro la malasorte, come già insegnavano i Romani facendo a loro volta propria un’usanza dei Germani: anche loro infatti appendevano sulla porta delle proprie abitazioni un ramo di agrifoglio per tenere lontano malefici e malvagi, augurandosi un periodo di gioia e di forza tra le nebbie dell’inverno.

Meno pungente e più colorate sono le foglie della rara varietà Ilex x altaclerensis «Golden King» Sono moltissime le specie originarie di Cina, America ed Europa che compongono questo genere della famiglia delle Aquifoliaceae. Uno tra i più noti, grazie alle sue belle bacche rotonde, di colore rosso acceso portate su rami spogli di foglie, è indubbiamente Ilex verticillata. Si tratta di un arbusto deciduo, alto fino a due metri, con la particolarità di essere una pianta dioica: ovvero le bacche vengono prodotte solo dalle piante femminili, a patto che nelle vicinanze vi sia un altro esemplare maschile. Questo dato è da tenere ben presente se volete comprare una pianta di I. verticillata, facilmente reperibile in questi giorni per via della sua massima fruttificazione. Detta in altro modo: comprate anche la pianta maschio, che non si riempirà di bacche, ma garantirà rami densi di frutti negli anni a venire alle femmine.

Molto rustico, questo Ilex dalla corteccia liscia e scura, arriva a sopportare punte di freddo fino a –20°C, ama posizioni al sole e terreni ricchi di humus, ben drenati e tendenzialmente acidi. Se non avete un giardino, ma disponete di un terrazzo, potete coltivarlo anche in vaso, utilizzando terriccio per acidofile e un contenitore capiente, visto che si sviluppa lentamente in altezza, ma si infoltisce anno dopo anno. Concimatelo in primavera con un concime granulare per acidofile e bagnatelo regolarmente, specie in autunno, per evitare che le bacche cadano velocemente. Potete abbinare più varietà per creare un magnifico angolo di colore, utilizzando Ilex verticillata «Red Spirit» che non supera il metro d’altezza; «Berry Nice» dalle dimensioni più ampie ma ricchissima di bacche; «Winter Gold» con bacche arancio-rosato o ancora Ilex verticillata «Chrysocarpa» con frutti gialli su foglie verde smeraldo. Se la pianta posta in giardino o in vaso risulta essere molto bella, acquistano ancora più fascino i rami tagliati lunghi, anche 70-80 cm e circondati da fronde di abete poste in un vaso trasparente colmo d’acqua. Con pochi gesti, è dunque possibile ricreare l’atmosfera natalizia senza per forza utilizzare bocce o decorazioni. A mio avviso anche gli agrifogli con le foglie verdi e dai margini bianco crema hanno un fascino che cattura immediatamente, ma in questi casi si parla di Ilex sempreverdi, da coltivare nella maggior parte dei casi direttamente in piena terra, facendo attenzione a scegliere specie che non raggiungano dimensioni troppo importanti. Forse il più classico risulta essere Ilex aquifolium «Argentea Marginata», chiamato comunemente agrifoglio variegato e si tratta di una pianta ermafrodita in grado di riempirsi di bacche rosse da fine novembre che ben risaltano con

le foglie bordate di bianco, così come in Ilex aquifolium «Silver Van Tol» e «Handsworth New Silver»; quest’ultimo ha la particolarità di produrre le nuove foglioline con margine rosa, che successivamente sfumano in un bianco latte. Se amate le foglie variegate, cercate il raro Ilex x altaclerensis «Golden King», alto non più di 3 metri, in cui gli esemplari femminili presentano foglie lunghe fino a 10 cm al centro verde scuro e con bordi giallo intenso. Della stesa tonalità di giallo anche I. cornuta «O spring» con striature lungo tutto il margine fogliare. Anche il portamento di queste belle piante è molto variabile in base alla specie scelta. Ad esempio I. aquifolium «Pyramidalis» assume una forma ideale per giardini dalle dimensioni ridotte, così come I. crenata «Golden Gem», una varietà compatta e bassa che non supera il metro ma si allarga fino a due, con foglioline piccole e fitte di un bel giallo brillante. Persino il colore dei rami varia: basti pensare al verde scuro di I. aquifolium «Atlas», al porpora di I. x altaclarensis «Camellifolia» o alle sfumature violacee di I. crenata «Convexa». Tra tutte, la mia preferenza cade su Ilex cornuta, un arbusto sempreverde dalla crescita lenta, che raggiunge al massimo i 4 metri, con una chioma molto compatta formata da foglie rettangolari, di un bel verde intenso e con spine acuminate. Dai primi di settembre si riempie di bacche rotonde e rosse, in gruppetti di quattro, molto decorative. Alla fine dell’inverno ricordatevi di potare gli agrifogli per stimolare la comparsa di nuovi rami e fogliame, mentre in agosto, prelevando talee lunghe 5-8 cm, e facendoli radicare in un miscuglio di torba e sabbia, si otterranno nuove piante a costo zero. Ed a tutti un fortunato Natale con un bell’agrifoglio!

La prima volta che si è presentata al pubblico mondiale è stato a marzo 2016 mettendosi in mostra proprio in Svizzera, al Salone dell’automobile di Ginevra. Poi la Toyota C-HR era finita sotto i riflettori nella sua veste definitiva in ottobre al Mondial de l’Automobile di Parigi. Da questo mese è possibile vederla e provarla nelle concessionarie svizzere.

C-HR, cioè Coupé High Ride, è un suv compatto per chi ama viaggiare ed è appassionato anche di tecnologia Partiamo dal nome. C-HR è l’acronimo di Coupé High Ride. Si tratta di un suv compatto di segmento C lungo 4,36 metri e con un passo di 2,64 metri. Più grande della Toyota Auris e con dimensioni simili a Nissan Qashqai, si presenta come un vero crossover nel look esterno: un po’ coupé, un po’ suv. Il suo muso secondo i progettisti rappresenta «la più recente evoluzione dei linguaggi Under Priority e Keen Look di Toyota con la sottile griglia superiore che collega il logo con i gruppi ottici, il cui aggressivo design ricorda la forma di due ali tese ad avvolgere gli angoli del frontale». C-HR è realizzata sulla stessa piattaforma globale di Toyota, quella della Prius di quarta generazione, che in questo caso è stata accorciata e allargata. Questo crossover è progettato pensando allo stile di guida degli automobilisti europei che prediligono auto dal baricentro più basso e caratterizzate da una buona reattività ai comandi del pilota. Risultato ottenuto grazie anche a

inedite sospensioni anteriori McPherson, posteriori a doppi bracci e sterzo diretto. Il capo ingegnere del progetto, Hiroyuki Koba, pensa che C-HR sia un mezzo adatto ad «automobilisti attivi, che amano viaggiare e che sono appassionati di tecnologia». Toyota Europe punta a venderne annualmente oltre 100mila l’anno a regime, vale a dire l’11 per cento del segmento. Secondo analisi fatte dalla Toyota il 75 per cento della clientela di C-HR sceglierà l’ibrido. Sono due le motorizzazioni disponibili. La versione di entrata è equipaggiata con un 1.2 turbo da 116 cavalli di potenza massima che può essere abbinato sia alla trazione anteriore sia a quella integrale disponibile con cambio manuale oppure automatico. La versione più ecologica adotta invece lo stesso sistema propulsivo della Prius con motore alimentato a benzina da 1800 cc abbinato a quello elettrico per una potenza di sistema di 122 cavalli. Le batterie al nichel-metallo idruro sono collocate sotto i sedili posteriori senza dunque compromettere la capacità del bagagliaio. C-HR viene prodotta nello stabilimento turco di Sakarya dove la capacità crescerà a 280mila esemplari l’anno. Il motore ibrido del crossover compatto è invece assemblato nell’impianto gallese di Deeside, mentre la trasmissione esce da un sito polacco. C-HR è disponibile negli allestimenti Active, Comfort, Style e Premium. Il prezzo? A partire da 24’900 franchi per la versione due ruote motrici equipaggiata con il motore 1,2 turbo benzina da 115 cavalli abbinato al cambio manuale a 6 marce. Per la versione di accesso con motore ibrido con potenza massima di 122 cavalli e cambio automatico continuo ci vogliono invece 31’900 franchi. Possibile, ma adesso non prevista, una versione ibrida plug-in.

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Ambiente e Benessere

La musica del cavallo Maria Grazia Buletti «Senza cultura equestre, senza nozioni scientifiche, senza buona pratica non si ha un buon cavaliere», è la base su cui poggia la filosofia di Raffaella Scelsi, titolare del Maneggio San Paolo di Olevano Romano, in Italia. Struttura equestre che comprendiamo subito avere qualcosa di speciale che vale la pena di approfondire, a cominciare dalla definizione che ne accompagna il nome: Accademia equestre. «Il nostro è un insegnamento completo e quindi “accademico” che persegue il solo scopo di creare un allievo preparato in modo da saper gestire al meglio il proprio cavallo e praticare bene per il suo piacere, dialogando correttamente con il suo cavallo e instaurando con esso un rapporto profondo». Un rapporto che diventa arte, con la «A» maiuscola, e non solo nel movimento che fonde l’uno (essere umano) con l’altro (cavallo): fluido, continuo e continuato, armonico e armonioso. «Non c’è arte che ben si coniuga con l’Equitazione quale la musica, perché ambedue le attività hanno una pari componente emotiva», precisa Raffaella Scelsi. E noi avevamo ben intuito che di arte si sarebbe trattato, forse non fino a questo punto che si fa via via sempre più interessante. Cavalcare con l’ausilio della musica produrrebbe dunque un effetto dalle più svariate sfaccettature, tutto da scoprire. Ci viene spiegato che c’è un’intera branca della musica che è stata creata per l’Equitazione ed è sconosciuta ai più: «Parlo della musica ba-

rocca, iniziando grosso modo da Lully fino ad arrivare a Mozart, malgrado quest’ultimo sia da considerarsi un autore neoclassico». Il cavallo avrà tuttavia un modo suo di percepire, gradendo o meno, la nostra musica. Secondo l’esperta, che si basa sulla propria grande esperienza equestre, il cavallo ama la musica: «Ho osservato personalmente il comportamento del cavallo in risposta ad alcune melodie, sia da terra che in sella, e ho notato che viene apprezzato un certo tipo di musica ben costruita. Alcuni amano le forti percussioni, altri no, mentre altri ancora mal sopportano le note troppo alte e prolungate». Il cavallo non disdegna neppure il suono della tromba e del violino, «sempre a patto che vi sia alla base una melodia per l’appunto ben costruita». I gusti variano da soggetto a soggetto: «La nostra cavalla Nefertari, ad esempio, si rilassa con i Concerti grossi di Arcangelo Corelli (Opera n. 6), mentre non sopporta i corali per organo di Bach; la compianta Khohi-nour si incantava letteralmente nelle arie per soprano del Messia di Haendel». E non bisogna tralasciare l’importanza del fattore umano nel valutare il particolare effetto che la musica può esercitare sul cavallo, perché queste due variabili vanno di pari passo: «È superfluo ricordare che il cavaliere influenza il cavallo a seconda del proprio stato mentale, da terra come in sella». Raffaella specifica dunque che un cavaliere sensibile e amante di un certo tipo di musica da lei definita colta, avrà un certo atteggiamento mentale quando

(Kent Pledger)

Mondoanimale L ’andatura del proprio cavallo non è la sola musica che crea l’alchimia dell’armonia equestre

l’ascolterà montando a cavallo: «Vi sono composizioni che invitano implicitamente alla calma o comunque a un atteggiamento mentale superiore e questo si riverbera in modo speculare sul cavallo e sulla sua performance». Senza dimenticare che alcuni tipi di musica aiutano a risolvere nel cavallo e nel cavaliere tutta una serie di problematiche legate all’ansia: «Basta saper scegliere e non essere troppo dogmatici». La nostra interlocutrice dice di trovare risolutore per alcuni casi un pezzo di Debussy: «Grazie alla partitura molto dolce, slegata da strutturalismi e artifici di un Haendel». C’è speranza anche per chi non ama in particolar modo la musica classica barocca, perché funzionano molto

bene anche altre insospettabili melodie: «La musica New Age, con il dovuto distinguo, funziona assai bene su cavalieri confrontati con ansia profonda, paura del cavallo e scarsa autostima». E viene sconfessato pure chi non avrebbe mai pensato che tutto possa sconfinare nel Rock. «Un gruppo interessante da ascoltare, sempre secondo il tipo di lavoro che vogliamo svolgere col cavallo, sono i Pink Floyd: la chitarra elettrica di David Gilmour, sempre sapientemente dosata e mai stucchevole o pesante, non disturba il delicato udito del cavallo, e vi sono pezzi di una tale bellezza che tolgono davvero il respiro», racconta sempre Raffaella Scelsi, rifacendosi all’esempio di High Hope (a

parer di critica, una delle migliori canzoni del monumentale gruppo inglese) e citando Us and them contenuto in The dark side on the moon. Musica classica barocca, New Age e Rock: potevano mancare le colonne sonore? «Ho trovato interessanti alcuni pezzi della colonna sonora di Dune, alcuni pezzi non western di Morricone, come nella colonna sonora del Marco Polo, fino a Williams e alla sua Guerre stellari, in cui la marcia imperiale non è niente male, per poi chiudere il cerchio con Michael Nyman che mi ha riportato al barocco con la colonna sonora del film I misteri del Giardino di Compton House». Raffaella Scelsi riporta dunque gli intenti del suo «Maneggio San Paolo – Accademia equestre» all’uso della musica non solo come accompagnamento, ma quale parte integrante del rapporto simbiotico che dovrebbe crearsi fra cavaliere e cavallo: «Non posso dare indicazioni su quali pezzi di musica barocca usare, se non si sono dapprima adeguatamente ascoltati, perché il gusto per una certa melodia è del tutto personale. Non tutti amano la complessità di un concerto per clavicembalo se non hanno avuto a monte una corretta educazione musicale, sebbene non ci sia musica più facile di quella barocca». E già all’inizio di questa interessante quanto bizzarra carrellata fra le sette note danzanti nei maneggi equestri, abbiamo compreso che ciò vale pure per il cavallo che ha, anch’esso, i propri specifici gusti musicali. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Una bagna càoda per le feste Gastronomia Doppia versione per accontentare tutti: una hard e una light, non si parla però di grassi,

ma di quantità di aglio

Allan Bay Fra i piatti che non mancano mai sulla mia tavola lungo le feste, ovvero fra Natale e la Befana (ma non lo preparo però nei giorni di Natale o Capodanno, non so perché), svetta la bagna càoda. Lo so: è pesante. Lo so: non tutti amano perdutamente l’aglio quanto lo ami io. E lo so: non hanno tutti un retaggio piemontese come me. Eredità culinaria che viene fuori proprio nei giorni di festa. Ma permettetemi comunque di esporre un paio di ricette, di cui una potrebbe persino far gola anche a chi meno la ama. Prima, però, è necessario parlare delle verdure più adatte, che andranno bene in entrambi i casi. Verdure crude consigliate: cardi mondati, messi a mollo in acqua acidulata con succo di limone e poi sgocciolati e tagliati a pezzi (sono la verdura canonica, non possono mancare, se crudi non vi piacciono sbollentateli rapidamente); e poi foglie di cavolo, peperoni mondati e tagliati a falde, topinambur sbucciati (anche loro se volete tagliati e sbollentati), finocchi tagliati a spicchi, coste di sedano, puntarelle, radicchio, insalata belga e ravanelli. Verdure cotte consigliate: cavolfiore cotto a vapore (molto meglio che lessato) e diviso in cimette, peperoni arrostiti in forno, spellati e divisi in falde, patate e rape lessate, sbucciate e tagliate a spicchi, barbabietole al forno e cipolle borettane cotte al forno. Eccovi per tanto le mie due versioni preferite: quella hard, straclassica; e quella light, più moderna. Bagna càoda hard. Ingredienti per 4 persone: 4 teste (occhio, teste, non spicchi!) di aglio, 200 g di acciughe sotto sale, olio di noci o di nocciole, latte, burro, verdure da bagna càoda. Dissalate le acciughe, lasciatele a mollo nel latte per una notte e diliscatele. Spellate gli spicchi di aglio, affettateli e metteteli in un tegame di

coccio con una noce di burro. Coprite a filo di latte e cuocete a fuoco dolcissimo, mescolando, finché l’aglio non si sarà spappolato. Stemperate poi le acciughe, mescolando bene. Frullate (se volete: io in linea di massima non lo faccio), rimettete sul fuoco e unite 3 dl di olio di noci o di nocciole, cosa che fa molto vej Piemont, e comunque la bagna càoda si fa da sempre con quest’olio, e 40 g burro; riscaldate a fiamma molto bassa finché la salsa non sarà fluida e caldissima. Portate il tegame in tavola su un fornelletto o su fornelletti individuali e servite con verdure crude e cotte, disposte su piatti da portata, che ogni commensale immergerà nel fornelletto. Bagna càoda light. Ingredienti per 4 persone: 4 spicchi di aglio novello, 12 acciughe dissalate, 4 uova, verdure da bagna càoda, 30 g di nocciole, 150 ml di olio di nocciole, 50 ml di olio extravergine di oliva leggero, ligure o del Garda. Cuocete le uova in camicia. A fiamma dolce stemperate le acciughe e l’aglio nell’olio extravergine. Fuori dal fuoco unite l’olio di nocciole, poi frullate aggiungendo metà delle nocciole tostate. Mondate le verdure da cuocere, sbollentatele per un tempo fra 2 e 4 minuti, poi scolatele in acqua e ghiaccio per 10 minuti, quindi scolatele definitivamente. Alla fine tagliatele nella forma che volete (suggerisco tutte in forma diversa). Le verdure crude mondatele e tagliatele a piacere, mi raccomando, anche loro tagliate in diversa forma. Nel piatto individuale alternate le verdure crude e cotte con gocce (sulle dosi vedete voi, possono essere poche gocce, come con gli ingredienti indicati sopra, ma se aumentate l’aglio e proporzionalmente tutto il resto, male non fate) di bagna càoda. Rifinite aggiungendo le uova e il resto delle nocciole spezzate. Non è la stessa cosa, ma buono resta. Buone feste!

CSF (come si fa)

Tre straclassiche e festaiole polente. Sono tutte piuttosto dure da digerire, dirò di più, la prima è «Il» piatto più poderoso al mondo… quindi se volete dimezzare le dosi, fate pure. Vediamo come si fanno. Polenta ai formaggi di montagna. Ingredienti per 4. Versate 2 litri di acqua in una casseruola e portatela a ebollizione. Aggiungete 600 g di farina per polenta a grana grossa a pioggia

mentre continuate a mescolare con una frusta. Continuate a cuocere mescolando con regolarità. 2’ prima che sia pronta, aggiungete 200 g di burro, salvia e aglio tritati, quindi versate 400 g di formaggi tagliati a piccoli pezzi, mescolando bene. Regolate di sale e di ottimo pepe. Polenta con puntine al pomodoro. Per 4. Mettete 1,5 kg di puntine di maiale in una casseruola antiaderente e unite 2 barattoli di polpa di pomodoro, 2 cipolle mondate e tagliate a velo, 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro diluito in poca acqua e abbondante prezzemolo. Coprite e lasciate cuocere a fiamma bassa per circa 3 ore, unendo poca acqua bollente se si dovesse asciugare troppo: alla fine, gli ossi dovranno essere del tutto spolpati. Regolate di sale e di peperoncino. Circa un’ora e mezza pri-

ma che sia pronto, versate in una polentiera elettrica 2,5 l di acqua leggermente salata. Portatela al bollore, versate a pioggia 600 g di farina da polenta a grana grossa e fatela cuocere per 90’. Servite la polenta con le puntine. Polenta con baccalà. Per 4. Spinate 400 g di baccalà ammollato e tagliatelo a pezzi. Soffriggete 2 cipolle affettate, 2 spicchi di aglio tritati e 2 filetti d’acciuga spezzettati in una teglia con 2 cucchiai d’olio. Rosolatevi i pezzi di baccalà leggermente infarinati, sfumate con 1 dl di vino bianco secco e unite 2 foglie di alloro, 4 dl di latte e 2 dl d’olio. Cuocete coperto in forno a 160° per circa 2 ore, unendo poca acqua bollente se necessario. Regolatelo di sale e di pepe. Fate la polenta e servitela assieme al baccalà spolverizzato con prezzemolo tritato.

Ballando coi gusti Natale uguale dolci. Ecco due proposte semplicissime, accomunate dall’utilizzo del Porto bianco, che è un grande aiuto-pasticcere

Torta di savoiardi e gelatina

Rotolo alla panna

Ingredienti per 6-8 persone: 400 g di savoiardi · 400 g di Porto bianco · gelatina

di frutta a piacere · 100 g di zucchero banco · 5 dl di latte · 4 uova · 1/2 baccello di vaniglia.

Ingredienti per 6-8 persone: pan di Spagna morbido · arrotolabile · 1/2 bicchiere di Porto bianco · 1 cucchiaio di zucchero · 500 g di panna fresca · 1 vaso di crema di marroni.

Pennellate i savoiardi con il Porto e metteteli a strati in uno stampo quadrato, alternando i biscotti e la gelatina. Portate a ebollizione il latte con la vaniglia; spegnete, lasciate in infusione per 10’, eliminate la vaniglia. Montate lo zucchero con gli albumi e aggiungete il latte a filo. Scaldate a bagnomaria e incorporate i tuorli, uno per volta, mescolando. Quando la crema avrà raggiunto una buona consistenza versatela sul dolce. Lasciate riposare per un’ora in luogo fresco poi servite.

Fate bollire il Porto con lo zucchero e un cucchiaio di acqua; quando il composto sarà sciropposo, spegnete, lasciate intiepidire, quindi spennellate con il composto il pan di Spagna. Montate la panna. Spalmate sul pan di Spagna la crema di marroni e distribuitevi sopra uno strato abbondante di panna, circa i 2 terzi. Arrotolate con delicatezza, facendo in modo che la farcia non fuoriesca. Avvolgete il rotolo in un foglio di alluminio e fatelo riposare in frigorifero per 30’. Ricopritelo con la panna montata rimasta e servitelo.


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Ambiente e Benessere

Il bicchiere dell’Abate Il vino nella storia Non solo per le cerimonie religiose,

ma anche per trarne profitti economici Davide Comoli Considerando il grande merito delle comunità religiose nella conservazione e nella diffusione della vite, cerchiamo di curiosare fra le mura dei conventi per scoprire quale destinazione aveva il vino non legato strettamente alla liturgia. Ci siamo quindi documentati su un testo scritto dal professor Léo Moulin dell’università di Bruxelles (autore del libro La vita quotidiana secondo San Benedetto, Edizioni Jaca Book), e in particolare laddove si riferisce alle comunità Benedettine dislocate oltr’Alpi. E poiché le regole monastiche non conoscono frontiere, ma al massimo una diversa interpretazione della regola da parte dell’Abate, consideriamo valido anche per le nostre latitudini quanto egli ci racconta sulle abitudini beverecce dei monaci medioevali. I migliori vigneti di quel periodo storico (per non dire gli unici) erano spesso vigne abbandonate o talvolta varietà nuove, nate da vinaccioli che erano germogliati spontaneamente: i monaci non svilupparono di certo innovative tecniche botaniche per creare nuovi vitigni, ma ebbero sufficiente intuito per capire e preferire quelli che si dimostravano migliori. Queste vigne erano quasi sempre ubicate lontano dalla collettività civile e dai clamori delle battaglie, in territori spesso abbandonati, dove la pianta della vite non aveva più ricevuto le cure dell’uomo. La diffusione delle viti avve-

niva sia in occasione del trasferimento dei monaci, che si portavano appresso il materiale vegetale, sia per l’opera di coloro che, dovendo fondare una nuova comunità, si provvedevano di barbatelle per ricostruire l’indispensabile vigneto. Il buon vino (oltre il suo uso sacro per celebrare la S.S. Messa) dava forza al monaco che doveva lavorare la terra, e il vino poteva altresì offrire una buona fonte economica, di certo molto superiore alle offerte in denaro che la questua in un paese di diseredati poteva offrire. Vino significava dunque denaro sonante, ma con un suono ancor più gradevole e cristallino, se vengono considerate le esenzioni di pedaggio e gabelle concesse agli ordini religiosi. Queste concessioni generarono presto nelle comunità religiose più importanti l’idea di vendere il proprio vino in diretta concorrenza con i produttori laici, ma non solo: pensarono anche che poteva essere molto redditizio creare delle vere e proprie osterie, aperte ai passanti, all’interno delle abbazie. Una strana forma di moderno agriturismo che non poteva certo trovare scusanti in una comunità il cui scopo principale era la cura delle anime. In alcuni rari casi, ci furono comunità che vietarono l’uso del vino all’interno del monastero, e facevano della viticoltura esclusivamente un’attività esterna legata a cospicue vendite e buoni incassi. L’immagine di un Medioevo monastico interamente benedettino è un luogo comune, tanto inveterato quanto storicamente falso, che ha lusingato la

storiografia italiana alimentando a lungo il mito di San Benedetto, padre del monachesimo occidentale. In realtà, l’osservanza benedettina trovò larga diffusione in Europa a partire dall’età carolingia, per l’opera di un patrizio visigoto, Benedetto abate di Aniane, che ridusse i monasteri dell’Impero a unità legislativa applicando le direttive di Carlo Magno e Ludovico il Pio. Prima di allora, tra il IV e l’VIII secolo, numerose regole circolarono nell’Occidente. Una trentina di esse sono pervenute sino a noi. Si vuole che sia stato proprio San Benedetto, nato a Norcia nel 480 (fondatore dell’abbazia di Cassino 529), ad ammettere il consumo del vino quotidiano da parte dei monaci che, non dimentichiamo, dovevano alternare il lavoro alla preghiera (De mensura potus). Inoltre vi erano molte buone ragioni perché il vino entrasse di buon diritto nei refettori dei monaci. Potevano essere ragioni legate al clima o alla scarsità d’acqua potabile, oppure ancora alla mancanza quasi totale di frutta e ortaggi (questi ultimi scarsi o quasi assenti in quei tempi). Un’altra buona ragione era la fatica fisica, che traeva dal fruttosio e dall’alcol presenti nel vino, uno stimolo e un buon corroborante. San Benedetto concedeva un’emina giornaliera, ma i pareri sul quantitativo corrispondente all’emina sono discordi. L’emina romana, corrispondeva a un quarto di litro, mentre quella mercantile valeva esattamente il doppio. A

«Monaco degusta il vino», 1886, olio su tela. (di Antonio Casanova ed Estorach Brooklyn Museum)

sedare le discordie interviene uno storico francese, il Castelnau che ci fornisce una dose da capogiro: 1132 litri l’anno per ciascun membro della comunità! Ma le regole come abbiamo visto, variavano da monastero a monastero, certamente anche in considerazione del rispetto che il vino godeva nel pensiero dell’abate. Quindi si poteva passare da un litro al giorno a una media di 2-3 litri: resta solo da chiarire la qualità del vino somministrato, poiché essa era condizionata dalla quantità prodotta e quindi suscettibile di tagli con acqua, sempre più abbondante quando calava la produzione e cresceva il numero dei convitati. Vi erano di certo dosi vincolate all’età e al grado gerarchico, per cui il giovane o il semplice monaco, quando avvicinavano la loro povera ciotola di legno al dispensiere, erano ben lontani dall’ottenere stesse qualità e quantità

versate nella coppa dell’Abate. Un discorso a parte merita il vino liturgico, cioè quel vino che, per essere consacrato sull’altare, deve rispettare tutte le norme ecclesiastiche, primum l’essere non corruptos. Se oggi la corruzione viene ricercata nell’aggiunta di sostanze «chimiche» o correttive, in passato essa si basava unicamente su due punti: anzitutto doveva provenire da mosto di sole uve, in secondo luogo non doveva aver subito alterazioni tali da compromettere la qualità, quali acescenza, muffe o sabotaggi. Esisteva infatti anche il sabotaggio, effettuato per lo più, immettendo delle cipolle crude nella botte. Se vogliamo comunque tener conto delle gerarchie, possiamo concludere affermando che la vita, il cibo e il vino dei monaci medioevali non erano certo gran cosa. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 dicembre 2016 • N. 51

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Politica e Economia Alla corte di re Trump Uno dopo l’altro i big del capitalismo stanno salendo sul carro del vincitore

Brasile: Temer nella bufera Gli scandali giudiziari che hanno travolto Dilma Rousseff si stanno ora abbattendo sul presidente e su alti dirigenti del suo partito. Per Temer c’è già una richiesta di impeachment

Manodopera poco qualificata Secondo uno studio del Dipartimento dell’economia del canton Zurigo, 4 lavoratori stranieri su 5 sono occupati in impieghi che richiedono scarse qualifiche pagina 22

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AFP

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La politica dei regali

«Gift diplomacy» In segno di amicizia il Giappone voleva mandare un altro cane di razza Akita a Putin

che però ha rifiutato. Da secoli gli animali (ma non solo) sono i protagonisti della «pet diplomacy» Giulia Pompili Nell’802 Carlo Magno vide tornare il suo ambasciatore Isacco, che era stato mandato a esplorare cinque anni prima il Medio Oriente, accompagnato da un elefante. Era stato il Califfo di Baghdad, Hārūn al-Rashīd, a decidere di regalarlo al re dei Franchi e futuro imperatore del Sacro Romano Impero. Certo è che un pachiderma è un dono piuttosto complicato: secondo le cronache Abul-Abbas era un elefante asiatico, e per giunta albino, e nessuno aveva dimestichezza con certi animali in Europa. Così, forse per una intossicazione, forse per una malattia (Abul-Abbas amava molto immergersi nelle acque del Reno), l’elefante morì nell’810 dopo aver combattuto al fianco di Carlo Magno contro la Danimarca. Quella di Abul-Abbas è una delle storie più famose della «gift diplomacy», un’arte antica e affinata coi secoli, che durante il periodo natalizio rende i Palazzi di governo e le cancellerie piuttosto impegnati. In Asia per fare i regali ci sono regole d’etichetta e protocolli specifici. Ma nulla è considerato più amichevole e distensivo del regalare

un cucciolo. In Cina la «diplomazia del panda» (in cinese si chiamano xiongmao, orsi-gatto) come atto politico è un’invenzione piuttosto recente, ma affonda le sue radici all’epoca dell’Imperatrice Wu (625–705), che per prima decise di mandare due panda giganti al suo omologo giapponese in segno di amicizia. Nel 1972, Ling-Ling e Hsing-Hsing furono spediti allo zoo di Washington, donati da Mao dopo l’apertura delle relazioni diplomatiche e la storica visita a Pechino di Richard Nixon l’anno precedente. La Casa Bianca ricambiò il regalo con due esemplari di bue muschiato. Hsing-Hsing morì nel 1999, guadagnandosi perfino un necrologio sul «New York Times». Vista l’importanza simbolica degli orsi bianconeri, tra il 1957 e 1982 la Cina regalò 23 panda a nove capi di Stato diversi. Poi la tradizione rallentò, un po’ perché sono animali delicati e costosi, un po’ per via del pericolo estinzione vista la difficile vita riproduttiva dei panda (e perché il problema diplomatico è dietro l’angolo: quando nel 2005 due panda furono offerti a Taiwan, ci vollero tre anni perché fossero accettati da Taipei).

In Giappone dicembre è il periodo dell’«oseibo», periodo in cui si «ringraziano» le persone care, e gli si fa recapitare un dono. Qui saper fare il perfetto regalo, e soprattutto conoscere le regole d’etichetta quando lo si consegna o lo si riceve, è segno di buone maniere (per il Natale, per esempio, evitate i biglietti rossi, che vengono usati nei periodi di lutto). Come insegna la storia, un cucciolo è sempre apprezzato. Soprattutto in caso di tensioni diplomatiche da stemperare. Yume, un cane di razza akita – l’antica razza nipponica di cani da lavoro, simbolo di fedeltà e amicizia – era stata regalata dal governo di Tokyo a Vladimir Putin (nella foto con Yume in primo piano) nel 2012. In vista della visita di stato di Putin in Giappone della scorsa settimana, che avrebbe dovuto far fare a Tokyo e Mosca dei passi in avanti sulla disputa riguardante i territori del nord – il premier Shinzo Abe aveva pensato fosse una buona idea regalare al presidente russo un altro cane akita, questa volta un maschio. Il Cremlino però ha rifiutato il cucciolo, senza spiegare i motivi. Quando la stampa giapponese ha iniziato a speculare pure sulla sorte di

Yume, Putin ha deciso di portarla con sé e di mostrarla alle telecamere durante un’intervista. Se niente produce panico come il dover scegliere i regali di Natale e scegliere i regali giusti, tra capi di Stato l’operazione può diventare ancora più complicata: bisogna riuscire a trovare un oggetto che rappresenti il proprio paese, ma che mandi anche un messaggio di amicizia, perfino politico. D’altra parte, si devono evitare le gaffe, ma pure gli stereotipi, dicono fonti del cerimoniale italiano. E poi, cosa ancora più importante, se si tratta di un oggetto, il valore del regalo deve essere economicamente simile a quello ricevuto. Il rischio, altrimenti, è quello di finire in un calderone mediatico come l’allora primo ministro britannico Gordon Brown, che nel 2009 volò a Washington con la moglie Sarah per la sua prima visita alla Casa Bianca, e con sé portò quasi ventimila euro di regali: vestiti di Topshop per le figlie degli Obama, Sasha e Manlia, più alcuni libri per ragazzi firmati da autori inglesi. E poi, come regalo personale per l’alleato Barack, un oggetto unico nel suo genere: un portapenne in legno di quercia

ricavato dalle travi della nave da guerra inglese Hms Gannet, gioiello della Marina britannica che in epoca vittoriana aveva pattugliato le coste contro la tratta atlantica degli schiavi. Un regalo non banale e significativo, oltre che costoso. La polemica si scatenò perché Barack Obama, in cambio, donò a Brown un set di venticinque dvd con i migliori film della storia del cinema Usa. Per i figli della coppia di Londra? Un modellino del Marine One, l’elicottero presidenziale, che si trova facilmente nel negozio di souvenir della Casa Bianca. Non proprio lo stesso stile. «Obama ha insultato il popolo britannico», aveva scritto poi il «Daily Telegraph», ma poi la questione era stata rubricata come un errore da «regali dell’ultimo minuto». E pensare che l’Ufficio del protocollo del Dipartimento di Stato americano ha un team di persone che lavora solo su questo. La Gift unit collabora con lo staff del presidente, la First lady, il vicepresidente e il segretario di Stato per scegliere, di volta in volta, i doni migliori da offrire a rappresentanze estere e capi di Stato. Del resto, la diplomazia non è soltanto una questione di chiacchiere.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 dicembre 2016 • N. 51

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Politica e Economia

I capitalisti alla corte di Trump

Nuova Amministrazione A guidare la diplomazia americana sarà il petroliere texano Rex Tillerson, chief executive

di ExxonMobil. Con uno spirito di servizio non molto disinteressato

La Silicon Valley in pellegrinaggio sulla Quinta Strada di Manhattan: è lo spettacolo che in un certo senso chiude simbolicamente l’anno elettorale americano. È l’ultimo segnale di un fenomeno importante, l’establishment del capitalismo Usa sta salendo sul carro del vincitore. Anzi sulla Tower che porta il suo nome. Per alcuni è un’umiliazione, dopo che avevano sparato a zero contro l’immobiliarista newyorchese. Per altri è realpolitik, calcolo dei vantaggi, un nuovo modo di perseguire i propri interessi aziendali scendendo a compromessi col potente di turno. Ci sono quasi tutti alla corte di Re Trump: i potentati della Old Economy come i petrolieri e i banchieri di Goldman Sachs cooptati nei gangli vitali del potere esecutivo; fino ai giovani imprenditori digitali della West Coast che si accontentano di ruoli di consulenza. L’establishment al gran completo sta celebrando una rappacificazione che poteva sembrare fanta-politica pochi mesi fa, quando il potere del denaro votò a maggioranza per Hillary. Che sia stata la nuova «pace di Westphalia», o invece una sottomissione in stile Canossa, i top manager di tutte le aziende hi-tech hanno incontrato Trump a casa sua, all’ultimo piano della dorata Trump Tower, sei ore di volo dalla West Coast. Al meeting si sono presentati Tim Cook di Apple e Larry Page di Alphabet-Google, la numero due di Facebook Sheryl Sandberg e Jeff Bezos di Amazon, Elon Musk di Tesla e Satya Nadella di Microsoft. Peraltro un segnale di disgelo e un’apertura di credito a Trump l’aveva data il fondatore di Microsoft, Bill Gates: l’imprenditorefilantropo più famoso del mondo era andato da solo a trovare Trump e gli aveva elargito un augurio ottimo e abbondante, quello di poter diventare «il prossimo John Kennedy». Aggiungendoci, tanto per non perdere del tutto la faccia, l’auspicio che Trump si converta allo sviluppo sostenibile e alle energie rinnovabili. Ma anche per molti altri esponenti dell’establishment industriale la «conversione» è stata faticosa, imbarazzante. Apple era stata accusata più volte da Trump per le sue delocalizzazioni produttive in Cina e per l’elusione fiscale. Il proprietario di Amazon era stato minacciato personalmente di vendetta fiscale da Trump, indispettito dalle critiche del «Washington Post» di cui Bezos è l’editore. Le auto elettriche di Tesla sono state spesso denigrate dai repubblicani come una tipica tecnologia verde «assistita» dai sussidi dell’Amministrazione Obama. La Silicon Valley al gran completo aveva contraccambiato le accuse, criticando Trump sia per il protezionismo che per la sua ostilità agli immigrati (senza i quali l’economia hi-tech non esisterebbe). Il disgelo fra la Silicon Valley tradizionalmente progressista e il neopresidente, aiuta a capire meglio anche il comportamento di altri giganti del capitalismo. Dalla Ford alla United Technologies (Carrier) alla Ibm, si susseguono da alcuni giorni annunci di nuove as-

AFP

Federico Rampini

sunzioni, oppure di retromarce clamorose rispetto alle decisioni di delocalizzare fabbriche all’estero. È una gara ad accattivarsi un capitale di simpatia dalla nuova Amministrazione in attesa che questa contraccambi, soprattutto con riduzioni fiscali. Nel caso di Rex Tillerson, il chief executive di Exxon designato segretario di Stato, uno dei centri di potere storici del capitalismo Usa, la più grande multinazionale petrolifera decide di mettere il proprio know how nelle relazioni internazionali al servizio di un presidente a dir poco inesperto. E naturalmente è uno spirito di servizio molto interessato. «Un grande player, un giocatore su scala mondiale». Trump elogia così

Donne in schiavitú Reportage online Su www.azione.ch Stefania Prandi racconta in parole e immagini la storia delle donne, raccoglitrici di pomodori in Sicilia. Sono rumene, lavorano dalle 6.30 del mattino fino alle 5 del pomeriggio per 600 euro al mese. Trattate come schiave, vengono molestate sessualmente e ricattate dai loro padroni.

Tillerson, il petroliere amico di Vladimir Putin che lui vuole alla guida della politica estera americana, una nomina che suscita resistenze anche fra alcuni repubblicani, da John McCain a Marco Rubio, e potrebbe affrontare in salita l’approvazione al Senato. Ma cos’ha convinto Trump a scartare altri candidati da Mitt Romney al generale David Petraeus o Rudolph Giuliani? Un amore a prima vista. I due si conoscevano pochissimo, Tillerson come capo di una delle più grandi multinazionali del pianeta ha sempre «volato più alto», si è mosso in una categoria di businessmen ben superiore al mondo tutto sommato provinciale dell’immobiliarista newyorchese. È proprio questo ad aver fatto colpo sul presidente-eletto: folgorato dall’incontro con un protagonista della serie A. Che poi sia un ennesimo favore alla lobby di Big Oil, certo non guasta: Trump ha messo un altro texano, l’ex governatore di quel petro-Stato, Rick Perry, alla guida del dicastero dell’Energia. Se vi si aggiunge il lobbista dei petrolieri all’agenzia dell’ambiente, la svolta rispetto all’ambientalismo di Obama è a 360 gradi. Ma con Tillerson certamente Trump ha puntato molto in alto. Per capitalizzazione di Borsa la Exxon è stata superata solo di recente da un paio di giganti digitali della Silicon Valley, Apple e Google, ma è lei a rimanere la regina

della Old Economy in termini di valore e fatturato. Il texano Tillerson s’identifica con Exxon come un militare di carriera è fedele all’esercito. Lui ha dedicato tutta la sua vita alla compagnia petrolifera: vi entrò nel 1975 e per i successivi 41 anni non ha mai lavorato per un’altra azienda. Il migliore ritratto di Tillerson è nel libro Private Empire: ExxonMobil and American Power, pubblicato quattro anni fa da Steve Coll, che di recente ne ha scritto una sintesi aggiornata sul magazine «The New Yorker». Coll descrive la Exxon come «la diretta discendente dell’impero monopolistico fondato da John D. Rockefeller (inizialmente col nome di Standard Oil, ndr), organizzata sui principi di un capitalismo spietato e della fede protestante». È sempre Coll a parlare di «un impero a sé stante, un potere indipendente rispetto al governo degli Stati Uniti, con una sua politica estera». Questo colosso petrolifero ha una sua rete di intelligence, veri e propri servizi segreti paralleli a quelli del governo americano; ha i suoi think tank per le analisi geopolitiche; assume regolarmente anche alti dirigenti dalla Cia o dal Dipartimento di Stato. In questo senso Tillerson come «player» nel vasto teatro della geostrategia, pesa più di tutti i segretari di Stato che lo hanno preceduto. E la sua stessa carriera si può associare a veri e propri successi di

«politica estera». In particolare in Russia. Tra le ultime operazioni importanti guidate da Tillerson c’è stato l’accordo da lui firmato personalmente con Putin nel 2011, che ha lanciato l’alleanza tra Exxon e Rosneft, compagnia petrolifera russa, per lo sfruttamento dei giacimenti dell’Artico. Crudele ironia: se quei giacimenti energetici sono oggi economicamente sfruttabili, è perché il cambiamento climatico ha sciolto parte dei ghiacci che prima rendevano troppo costosa l’estrazione. Eppure uno degli scandali che hanno macchiato la Exxon è stata la sistematica manipolazione di studi scientifici condotta per molti anni al fine di dimostrare che il cambiamento climatico… non esiste. Se Tillerson riuscirà a superare gli esami al Senato, la sua impronta nella nuova politica estera americana potrebbe essere notevole. A cominciare dalla levata delle sanzioni contro la Russia (cui il capo di Exxon, insignito dell’Ordine dell’Amicizia da Putin, è sempre stato contrario), e magari fino alla riammissione di Mosca nel G7, che tornerebbe ad essere un G8. Con lui dunque si ripropone un tema davvero senza precedenti: l’onnipresenza dei «putiniani» nella squadra di Trump; proprio mentre si susseguono le rivelazioni sul ruolo del leader russo in questa elezione presidenziale. «Vendetta»: la parola italiana che in inglese si usa anche per indicare una spedizione punitiva. La vendetta di Putin, secondo l’intelligence americana descrive quel che è accaduto durante l’ultima campagna elettorale. Un regolamento di conti a cinque anni di distanza. Perché Putin non ha perdonato a Hillary Clinton quella che per il leader russo sarebbe stata l’ingerenza originaria: l’intervento dell’allora segretario di Stato Usa durante le elezioni del 2011 a Mosca, segnate da brogli, irregolarità, proteste di piazza. In quell’occasione la Clinton si schierò coi manifestanti anti-Putin, chiese pubblicamente che le elezioni russe fossero «libere, giuste e trasparenti». All’epoca Putin sentì minacciato il suo potere, temette che l’America stesse fomentando a casa sua un’altra «rivoluzione arancione» come quelle che avevano destabilizzato alcune repubbliche ex-sovietiche. Cominciarono allora i preparativi per la vendetta, seguiti personalmente da Putin nella ricostruzione che ne fa adesso l’intelligence Usa. In base a queste indagini il presidente russo avrebbe diretto personalmente gli attacchi degli hacker che hanno violato più volte i siti del partito democratico per danneggiarne la candidata alla Casa Bianca. Il tipo di attacco fu sperimentato prima in Ucraina e in alcuni paesi scandinavi: furti di informazioni, violazioni di siti governativi, diffusione di false notizie, disinformazione su vasta scala. Poi l’attacco al bersaglio più grosso, la campagna presidenziale americana. Ora tutto ciò ha un interesse storico. Resterà quella macchia sull’elezione di Trump, a futura memoria: il «Manchurian Candidate», l’uomo diventato presidente forse anche grazie all’aiuto di una potenza straniera. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Nei guai anche Temer

Gentiloni con la Dc nell’animo

ora il presidente rischia l’impeachment come Dilma Rousseff

Figurine d’Italia

Brasile Balzato sulla poltrona presidenziale sull’onda dell’indignazione popolare,

Il nuovo presidente del Consiglio

Angela Nocioni

Alfio Caruso

Guai seri in vista per il presidente del Brasile, Michel Temer. La mannaia degli scandali giudiziari che fa fuori i politici in tv e sui giornali prima ancora che il processo sia celebrato, la stessa che ha decimato l’intera dirigenza politica del Pt, (partito dei lavoratori, la sinistra storica brasiliana) si rivolta ora contro Temer, che grazie a quella mannaia è arrivato alla presidenza in sostituzione della presidente eletta Dilma Rousseff, abbattuta da un processo di impeachment che proprio Temer, suo vice, aveva promosso.

Il suo segreto? Una faccia da «bonjour tristesse», che l’accompagna da mattina a sera e già predispone al peggio l’interlocutore: di conseguenza quando si realizza che è pure arguto, oltre che intelligente e colto, verrebbe voglia di stappare champagne. Il problema, però, è riuscire ad ascoltare ciò che dice: il sussurro è infatti il mezzo espositivo prediletto. Un sussurro così flebile che a volte si chiamerebbe il prete per l’estrema unzione e a volte s’interpreta il contenuto all’opposto del suo significato. Non a caso li hanno definiti i «sussurri del niente» facendo torto a quel desiderio di argomentata moderazione, che da sempre contraddistingue i suoi felpatissimi passi. Paolo Gentiloni, sessantaduenne presidente del Consiglio, che per nonchalance democratica taglia il secondo cognome, Silverj, di antica estrazione nobiliare, è la più convincente dimostrazione che moriremo democristiani anche ora che la Dc non esiste più. E malgrado egli mai lo sia stato, anzi abbia sempre militato sulla barricata opposta. Tuttavia con lo scorrere dei decenni dall’incendiaria sinistra extraparlamentare è gradualmente transitato a un riformismo sobrio, in talune circostanze persino più grigio degli abiti che indossa. No, Gentiloni è democristiano nell’animo al pari di quel prozio capace nel 1913 di far entrare i cattolici nell’agone politico dopo quasi mezzo secolo di astensione a causa del veto di papa Pio IX. E nel solco della vecchia moda democristiana guida un governo a tempo, di quelli chiamati «balneari», per quanto siamo a Natale. Di Gentiloni nipote le cronache se ne accorsero a metà degli anni 90: portavoce del sindaco di Roma, Rutelli. Era un quarantenne stagionato, fin lì giornalista di seconda fila con l’unico merito di aver conosciuto Rutelli durante la militanza ambientalista. Sembrava già fuori ruolo da assessore capitolino al Turismo e al Giubileo. Invece la candidatura di Rutelli a premier nelle elezioni del 2001, di cui è il coordinatore, gli apre una prospettiva nazionale, nonostante la batosta inflitta da Berlusconi: partecipa alla nascita della Margherita, è presidente della commissione di vigilanza Rai, ministro delle Comunicazioni con Prodi nel 2006, figura tra i fondatori anche del Partito Democratico. Ma allorché si presenta alle primarie del suo partito per le comunali di Roma, arriva soltanto terzo, su tre. Una bocciatura così sonora da mettere la sordina alla folgorazione per Renzi. Diventa ministro degli Esteri per sostituire la Mogherini ascesa a commissario europeo. E ora presidente del Consiglio per tenere calda la poltrona all’azzoppato leader, almeno a dire dei malevoli. Sempre con quell’aria da requiem e così sia, perfetto per una commemorazione, un po’ meno per una celebrazione.

I manifestanti acclamano Sergio Moro, il magistrato titolare dell’inchiesta Lava Jato nello scandalo Petrobras Lui e alcuni alti dirigenti del suo partito (movimento democratico brasiliano, Pmdb) sono stati accusati di aver ricevuto tangenti e finanziamenti in nero per pagarsi le campagne elettorali. L’accusa per Temer è grossa. Melo Filho, direttore delle relazioni internazionali della impresa di costruzioni Odebrecht, una delle principali aziende brasiliane, ha dichiarato alla magistratura di essere stato presente a un incontro a tre tra lui, Temer e l’allora presidente dell’azienda, in cui Temer avrebbe chiesto l’equivalente di tre milioni di euro in moneta brasiliana in cambio di una serie di favori all’impresa. Per dar forza alla testimonianza il denunciante ha fornito una serie di dettagli sull’incontro, insieme a prove del suo lavoro di lobbista incaricato di oliare con denaro dell’impresa i buoni rapporti con deputati e senatori di vari partiti, soprattutto del Pmdb. Avrebbe fornito ai magistrati l’elenco delle cifre consegnate e i cognomi dei riceventi. Temer ha detto che è una calunnia. Ma lo scandalo, anche se molto più sommessamente rispetto a quelli che negli ultimi anni hanno riguardato le accuse contro i politici del Pt, è già iniziato. E il confronto con ciò che ha portato alla fine del governo Rousseff è inevitabile. Dilma non è mai stata accusata di aver intascato tangenti, né di aver mai avuto a che fare con fondi neri. Nessuna accusa diretta su di lei è mai stata non solo provata, ma neanche formulata. In un momento politicamente nero per il suo governo e per il Pt, è stata cacciata dalla presidenza attraverso un processo di impeachment in cui è stata accusata di aver commesso un piccolo reato amministrativo, non penale, una «pedalata fiscale». Di avere, cioè, compiuto un ritocco nel provvedimento fiscale di fine anno, di essere ricorsa a una banca pubblica per far prestare al governo l’equivalente di 27 mila milioni di euro senza passare per il voto parlamentare.

Il presidente Michel Temer si sarebbe procurato personalmente una tangente di 3 milioni di euro. (AFP)

Secondo l’accusa quei fondi non erano a disposizione dell’esecutivo che, scavalcando il Parlamento, se li procurò ritardando il pagamento a una banca pubblica. Dilma si è difesa dicendo che non solo quei soldi il governo li restituì tutti, ma che un ritardo nel pagamento non equivale a un prestito. Fatto sta che per la lettera della legge brasiliana qualsiasi atto compiuto contro «l’uso legale del denaro pubblico» è illegale, quindi tecnicamente era possibile, con un escamotage politicamente molto discutibile, trascinare Dilma all’impeachment. È stato così che Temer, da vice, è balzato sulla poltrona della presidenza del Brasile sull’onda dell’indignazione popolare e ha varato un nuovo governo, con un indirizzo politico completamente opposto a quello di Dilma. Ed è qui che cominciano i guai seri per lui: procurarsi personalmente una tangente di tre milioni di euro, sempre che l’accusa sia provata (ma gli scandali mediatici vanno avanti anche senza prove) è un serio reato penale ed è un’accusa politicamente ben più grave che compiere una «pedalata fiscale». Anche se il suo partito, il Pmdb, della correttezza non ha mai fatto una bandiera. È un partito fondamentale nel gioco delle alleanze della politica brasiliana. Non presenta mai un candidato presidenziale e governa sempre. Il Pmdb si allea con il Pt, la sinistra di Lula e Dilma, o con il Psdb, il partito di Fernando Enrique Cardoso, la destra liberal. Dipende da chi vince, l’ha sempre deciso dopo la proclamazione del risultato. Tranne alle ultime elezioni, quelle in cui Dilma è stata confermata alla presidenza per un soffio e ha accettato come vice Temer, che l’aveva sostenuta durante la campagna e l’ha impallinata appena ha potuto, forte non di un

suo capitale politico personale (aveva il 12% del gradimento popolare secondo i sondaggi appena indossata la fascia presidenziale) ma di una situazione di stallo in cui l’unico potere istituzionale con appeal è quello giudiziario. Ed è così che in Brasile sono ricominciate le manifestazioni di piazza al grido: fuori i ladri dal governo! Quelli che nel 2014 urlavano «Fora Dilma!», ora gridano «Fora Temer!» e «Fora Renan!» (Renan Calheiros, presidente del Senato, accusato di corruzione e pedina di Temer). I manifestanti acclamano lo stesso nome di allora: Sergio Moro, il giudice sceriffo che ha più volte detto di ispirarsi all’ex pm dell’inchiesta Mani Pulite nei primi anni Novanta, Antonio di Pietro. Moro è il pm d’assalto che ha riscosso politicamente il successo mediatico della Operazione Lava Jato, la mega inchiesta sui sovrapprezzi pagati a politici di tutti i partiti da tutte le imprese che hanno avuto appalti da Petrobras, l’azienda pubblica del petrolio. Tutto ciò è avvenuto nel bel mezzo di una crisi economica che ha reso furiosi molti degli ex poveri (milioni di persone, il grande miracolo del Pt al governo) che si erano illusi, nell’era del boom economico lulista (2003-2010) di essere finalmente diventati parte dell’agognata classe media, di poter spendere, di poter comprare. «Io non volevo cambiare Dilma con un altro, un corrotto con un altro, io non volevo Temer. Elezioni, elezioni!» si sente gridare durante i cortei di protesta. «Sergio Moro pensaci tu». A peggiorare il clima è stata la notizia dell’annacquamento, con una raffica di emendamenti, di un pacchetto di proposte di legge anticorruzione, chiesto dai pm più barricaderi e soste-

nuto da due milioni di firme. I critici della normativa bocciata dicono che leggi simili sono incompatibili con una democrazia che voglia tutelare anche in minima parte i diritti degli individui. Ma la notizia che un parlamento con decine di inquisiti abbia ammorbidito la legge del «tutti in galera» ha riportato comunque molte persone in piazza. Chi sono? Molti sono ancora i delusi del miracolo lulista che non vogliono credere che l’epoca delle vacche grasse sia finita. Odiano con la veemenza degli illusi traditi. Sono gli stessi che tre anni fa chiedevano migliori servizi pubblici e opportunità per i giovani (il 25% dei brasiliani ha meno di 15 anni). Sono incattiviti dall’attesa vana di una svolta che non arriva. Sono in parte la nuova classe sociale creata dal primo decennio del primo governo di sinistra nella storia del Brasile. Sono quelli che si sono gonfiati di debiti, convinti dal buon vento spirato durante gli anni di Lula al governo che il boom fosse eterno. Non vogliono comprensibilmente credere che quel miracolo fosse retto da una meravigliosa congiuntura fatta di prezzi altissimi nel mercato internazionale dell’agrobusiness combinata a una coraggiosa, ma costosissima, politica di ridistribuzione che non ha più i soldi per tenersi in piedi, né una leadership politica in grado di procurarseli. Anche perché quella che c’era è stata spedita in galera dalla stessa magistratura che ora viene invocata come forza salvifica. Nessuno sembra ricordarsi che la cintura industriale di San Paolo, la gigantesca fabbrica di operai in cui è nato politicamente l’ex presidente Lula e che ha garantito un salario a milioni di persone, è da anni in fase di deindustrializzazione. Difficile che la faccia ripartire il giudice di prima istanza Sergio Moro.

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Politica e Economia

Carenza di manodopera qualificata Mercato del lavoro Uno studio del canton Zurigo dice che la Svizzera accoglie lavoratori dall’estero,

Ignazio Bonoli Uno studio del Dipartimento cantonale dell’economia e del lavoro del canton Zurigo, reso noto (forse non casualmente) alla vigilia del dibattito alle Camere federali sull’applicazione dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa, solleva nuovi interrogativi sull’immigrazione di forze lavorative in Svizzera. Lo studio permette infatti di concludere che una gran parte delle forze lavorative estere, immigrate dal 2007 in Svizzera, nel 2014 erano attive in settori in cui non mancavano forze lavorative residenti. Soltanto il 20 per cento delle persone attive immigrate operavano infatti in settori caratterizzati da una forte mancanza di specialisti svizzeri. La stessa percentuale, nel caso di mano d’opera frontaliera, scendeva perfino al 16,6 per cento. Lo studio non dice se questa occupazione di mano d’opera estera corrispondeva a necessità effettive. Esso si basa però su alcuni indicatori, elaborati dal Dipartimento, sulla base di quattro variabili che permettono di misurare la mancanza effettiva di personale in 97 diverse professioni. Secondo gli autori dello studio, i risultati non dimostrano un effetto di sostituzione della mano d’opera indigena con quella straniera. Si constata però che in settori dove la mancanza di specialisti è ridotta, di regola si riscontra-

no molte domande di lavoro da parte di mano d’opera indigena. È possibile che per il reclutamento di specialisti e dirigenti si sia fatto ricorso spesso al mercato internazionale. È anche vero che in settori non specialistici, come ad esempio nella costruzione o nella gastronomia, il grado elevato di disoccupazione della mano d’opera indigena può essere posto in diretta correlazione con il forte afflusso di mano d’opera estera. La situazione varia comunque molto a seconda dei gruppi di professioni o anche delle posizioni all’interno di una professione, nonché da cantone a cantone. Il caso dell’edilizia è emblematico. Nonostante la buona congiuntura nel settore duri ormai da alcuni anni, il settore mostra sempre una disoccupazione superiore alla media. Nel contempo l’immigrazione di forze lavorative dall’estero è sempre elevata con qualche variazione stagionale. Fino a due terzi dei lavoratori provengono dall’estero. È un caso estremo ma significativo del fatto che quattro lavoratori esteri su cinque non sono specialisti e sono occupati in settori dove non c’è una mancanza di specialisti. Nella stessa edilizia si constata che la mano d’opera estera occupa anche posti di specialisti e di dirigenti. Il fenomeno viene poi accentuato in cantoni come il Ticino, dove si osserva un forte impiego di frontalieri.

Keystone

ma spesso in settori nei quali non se ne dovrebbe avere assoluto bisogno: mancano invece lavoratori qualificati in parecchi settori più avanzati

Lavori nella funicolare di Stoos, con una pendenza di 110 gradi la più ripida al mondo. Reinhold Boiger, capo cantiere tedesco, spiega come procedere.

L’interpretazione dello studio del canton Zurigo contrasta sensibilmente con altri studi che hanno invece escluso un effetto di sostituzione di mano d’opera indigena con lavoratori stranieri. È

noto il caso dello studio dell’IRE (commissionato dal SECO) che aveva suscitato ampie polemiche in Ticino. I risultati e le conclusioni dello studio erano poi state confermate da due indagini

analoghe dell’Università di Ginevra e di quella di Neuchâtel. Quest’ultimo studio, con parecchie analogie con quello sul Ticino, constatava che i dati sulla disoccupazione (6,1 per cento su una media svizzera del 3,7 per cento) evolvevano in parallelo con quelli sui frontalieri. Anch’esso concludeva – come per il Ticino – che non è però possibile spiegare il fenomeno con una semplice correlazione matematica. Le ricerche dello studio di Zurigo partivano in realtà da presupposti diversi. Ci si chiedeva come mai le mancanze talvolta acute di specialisti in alcuni settori non siano state compensate dalla forte immigrazione. Una prima risposta è che soltanto un immigrato su quattro è uno specialista ricercato. Nel settore dei frontalieri questa proporzione scende persino a uno su sei. Di conseguenza, la Svizzera ha importato molta mano d’opera, ma spesso non quella di cui ha bisogno. Molti immigrati lavorano quindi in settori in cui vi è anche una forte disoccupazione (gastronomia e costruzioni). Paradossalmente mancano però specialisti anche in un settore come quello dell’edilizia. In realtà, in nessun cantone la mano d’opera estera riesce a coprire più del 27 per cento delle mancanze di personale specialistico. A Ginevra (14,6 per cento) e in Ticino (15,1 per cento), questa copertura è persino molto più bassa. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Parliamo di gratifiche Siamo giunti alla fine del 2016 e, per chi lavora, alle gratifiche di fine anno. Per alcuni la gratifica è iscritta nel contratto di lavoro e prende la forma di una tredicesima, ossia di un mese di salario in più, che spetta al lavoratore indipendentemente dal risultato che potrà ottenere l’azienda. È un po’ come un premio alla fedeltà. Per una quota di lavoratori relativamente piccola (circa un quarto del totale), invece, la gratifica può essere variabile e superare largamente non solo il salario mensile ma anche, in certi casi, l’intero salario annuale. Per questo gruppo di lavoratori la gratifica di fine anno è legata, in qualche modo, alla prestazione che essi hanno prodotto durante l’anno. Il caso classico è quello dei rappresentanti il cui salario è diviso in una parte fissa, abbastanza bassa, e in una variabile che dipende dalla cifra d’affari che riesco-

no ad assicurare alla loro ditta durante l’anno. In questo caso la gratifica remunera il merito del lavoratore e, nel medesimo tempo, serve da incitamento a far meglio per i colleghi che non sono stati così bravi. Per lungo tempo, di gratifiche non ha parlato nessuno. Poi, con lo svilupparsi del capitalismo finanziario, e l’avvento dei cosiddetti «boni», ossia di gratifiche particolari versate ai dirigenti aziendali (li ricevono ¾ degli stessi), dagli importi qualche volta stratosferici, si è cominciato a pubblicare l’entità dell’importo e qualcuno ha anche cominciato a domandarsi da chi era fissato e in base a quali criteri. Evidentemente i «boni» non remuneravano solo la fedeltà all’azienda. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il fatto che, dopo la crisi finanziaria del 2008, e, indipendentemente dai risultati conseguiti, banche e assicura-

zioni hanno continuato a pagare boni milionari ai loro manager. Diventava, non solo per i non addetti ai lavori, ma anche per chi segue i fatti economici, difficile da capire perché una banca che non faceva profitti continuava a pagare «boni» all’insieme dei suoi dirigenti. Non si capiva quali meriti potessero avere gli stessi se gli affari della banca andavano male. Il seguito degli avvenimenti è conosciuto. Nel 2013 l’elettorato svizzero ha approvato l’iniziativa Minder pensando di metter così fine alle male pratiche dei «boni», se non addirittura a questo tipo di incentivi. Ora siamo nel 2016 e possiamo considerare che cosa ha prodotto l’iniziativa. Una prima constatazione è d’uopo: in Svizzera si continuano a pagare «boni» milionari. La pratica di riconoscere ai dirigenti gratifiche di milioni, spesso superiori al loro salario

annuale, non è cessata per niente. Sono invece spariti i «boni» di decine di milioni, quelli di cui godevano pochi dirigenti dell’industria o del settore dei servizi come, per non citare che un caso conosciutissimo, il CEO di Novartis Vasella quando ancora lavorava per questa azienda. L’iniziativa Minder, poi, ha attribuito agli azionisti la competenza di decidere, ragione per cui il processo di decisione sui «boni» è diventato maggiormente trasparente. Le organizzazioni che sorvegliano l’andamento delle società anonime lamentano però che, purtroppo, nella maggioranza dei casi, queste decisioni sono prese dagli azionisti prima di venire a sapere il risultato dell’esercizio. Qui resta quindi del lavoro da fare. Da citare sono ancora due decisioni recenti che vanno nel senso di ridimensionare i «boni». La prima l’ha presa il Tribu-

nale federale. In una contesa tra un dirigente che aveva abbandonato una banca e protestava perché la stessa non gli aveva versato il «bonus» e la banca in questione, restìa a farlo, il tribunale federale ha deciso che se il salario di base annuale di un lavoratore è 5 volte superiore al salario mediano (quindi, per il Ticino, a qualcosa come 290’000 franchi) l’azienda non è obbligata a versare «boni». La seconda decisione è quella del nostro Consiglio federale che ha deciso che i «boni» per i dirigenti delle aziende statali e parastatali non possono superare l’importo dello stipendio annuale. Sono piccoli miglioramenti rispetto ad una situazione che stava per degenerare. Resta però acquisito che sulla strada di un vero controllo del ben fondato dei «boni» ai dirigenti aziendali di strada da fare ce n’è ancora molta.

essere applicata. È possibile che questo non accada. Ma la Consulta si muove entro un ambito ristretto. Il legislatore no. Approvare una nuova legge elettorale in Parlamento è difficile perché ogni partito ha a cuore il proprio interesse particolare e non quello generale. Non dappertutto è così. Nelle democrazie anglosassoni il sistema elettorale è lo stesso da generazioni. In altri Paesi esiste un tacito patto: non si possono cambiare le regole in base alle convenienze del momento. L’Italia ha conosciuto la stagione dei collegi uninominali. Poco più di centomila elettori esprimevano il loro parlamentare. In questo modo si sono avute stabilità e alternanza per due intere legislature (quasi un miracolo per l’Italia): dal 1996 al 2001 ha governato il centrosinistra, sia pure con tre premier; dal 2001 al 2006 ha governato il centrodestra, con Berlusconi. Questa legge porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica: il Mattarellum. Un dettaglio non secondario. Sergio Mattarella deve la propria statura anche al fatto di aver dato al Paese norme che non riflettevano l’interesse della propria parte, ma la volontà popolare.

Il sistema maggioritario non nasce dal nulla. Nasce dalla stagione dei referendum. Il 18 aprile 1993 andarono alle urne il 77% degli italiani, più ancora di quelli che stavolta hanno bocciato la riforma costituzionale, per chiudere l’era del proporzionale. Eppure è lì che si rischia di tornare: al proporzionale, con un modesto premio di maggioranza che in questo momento nessuno dei tre poli è in grado di conquistare. Con il retropensiero che alla fine Pd e Forza Italia, Renzi e Berlusconi si metteranno d’accordo per tagliare fuori Grillo. Ma non è questo il modo migliore per far crescere ancora i Cinque Stelle? Qualcuno pensa davvero di potersi chiudere mesi nelle segrete della politica alle prese con alambicchi da cui distillare – ammesso che esista – la legge in grado di tenere i grillini lontano dal governo? E ancora: nei sondaggi il Pd vale il 30% o anche meno; Forza Italia il 10 o poco più; con che coraggio si potrebbe parlare di larghe intese? Non resta che sperare in un rinsavimento. E al ritorno del Mattarellum. Con gli eletti scelti dagli elettori, non dalle segreterie dei partiti. Ma l’Italia di oggi è un posto in cui si spera pochissimo.

stante «Ho scoperto che Babbo Natale non esiste, me lo ha detto la maestra (…) Mamma, tu lo sapevi?». La collega italiana, riferita la sua risposta («Beh, un po’ lo sospettavo, ma speravo che esistesse, dicono che esiste finché ci si crede, dopo scompare»), proseguiva così il suo racconto: «A quel punto, la vergogna per lo sbugiardamento, perfino l’arrabbiatura con la maestra che aveva rivelato l’indicibile al posto nostro, hanno lasciato spazio a un sollievo, a una liberazione. È fatta, ma a nostra insaputa, è fatta, noi siamo bugiardi ma innocenti. Non è colpa nostra se Babbo Natale non esiste, anzi io non volevo rassegnarmi, volevo crederci, lei adesso lo sa». Anche le parole della Benini, oltre ad avvicinarci al clima natalizio, sono una conferma che le atmosfere del Natale e della sindrome della Lapponia resistono ancora e che forse non scompariranno mai. Lo provano, per concludere, anche

le letterine di bambini raccolte nel libro Caro Gesù, la giraffa la volevi proprio così o è stato un incidente? pubblicato da Sonzogno una decina di anni fa. A quella del titolo ne affianco alcune altre: Caro Gesù Bambino, i miei compagni di scuola scrivono tutti a Babbo Natale, ma io non mi fido di quello. Preferisco te (Sara) – Caro Gesù, sei davvero invisibile o è solo un trucco? (Giovanni) – Caro Gesù Bambino, grazie per il fratellino. Ma io veramente avevo pregato per un cane (Gianluca) – Caro Gesù, mi piace tanto il padrenostro. Ti è venuta subito o l’hai dovuta fare tante volte? Io quello che scrivo lo devo rifare un sacco di volte (Andrea) – Caro Gesù, invece di far morire le persone e di farne di nuove, perché non tieni quelle che hai già? (Marcello) – Caro Gesù Bambino, per piacere mandami un cucciolo. Non ho mai chiesto niente prima, puoi controllare (Bruno). E voi, che leggete, la vostra letterina l’avete già scritta?

In&outlet di Aldo Cazzullo Gentiloni ha il merito di non essere Renzi Ho seguito tutti gli ultimi discorsi di insediamento dei premier italiani (li cambiamo spesso), ma non avevo mai visto niente del genere fino all’avvento di Gentiloni (foto). Venti minuti di sussurri. Non un fremito, tranne quando all’inizio per l’emozione fa crollare il microfono. Non un applauso, salvo quando cita «il rispetto delle istituzioni». Non una polemica. Una deputata della destra a un tratto alza la voce; ma sta telefonando. Il neopremier ha detto cose ragionevoli nel disinteresse più assoluto dell’aula semivuota. «L’amicizia con gli Stati Uniti…». I ministri parlano tra loro con la mano davanti alla bocca per nascondere il labiale, come i calciatori quando criticano l’allenatore. «Lo storico legame con la Nato…». I deputati danno mano all’I-pad, sotto gli occhi perplessi di una scolaresca in visita. Per Renzi neppure un applauso, neanche quando il successore ne elogia «la coerenza». Tre anni fa l’uomo di Rignano si insediava al Senato: mani in tasca, discorso a braccio: «Questa è l’ultima volta che i senatori votano la fiducia a un governo». Si sbagliava; ma parlava da leader politico. Il sollievo per

esserselo tolto dai piedi è palese, non solo nella sinistra Pd. Non solo Renzi, anche Berlusconi, Salvini, Grillo non sono parlamentari. Non è in Parlamento che si giocano le sorti d’Italia. Dice Gentiloni che il governo dura fino a quando le Camere non gli tolgono la fiducia: ma questa è un’ovvietà. La legislatura scade nel febbraio 2018. Difficile che il governo possa durare tanto. «Dura come un gatto sull’Aurelia» ha previsto Calderoli

con una delle sue delicate metafore. Ma è difficile anche trovare una finestra per andare a votare prima, come vorrebbero Renzi e i grillini. Nel primo semestre del 2017 l’Italia avrà la presidenza del G7, che culminerà nel vertice di Taormina, con la novità Trump. Il G7 è un organo vecchio e screditato, che esclude la Russia, la Cina, l’India, insomma il mondo di domani; ma include l’Italia, quindi resta per un Paese sfiduciato uno dei pochi consessi di prestigio. Difficile affrontarlo in piena campagna elettorale, con un governo provvisorio e grigio. Si potrebbe votare a ottobre; ma non si è mai fatto, c’è la legge di bilancio da scrivere e da far approvare. E poi manca la legge elettorale. A proposito: chi ha stabilito che la legge elettorale la debbano scrivere i giudici costituzionali? Il Parlamento è sovrano. Se pressoché tutti i partiti si sono espressi a favore del voto anticipato, perché aspettare un mese e mezzo per un’udienza che potrebbe comunque non essere risolutiva? La Consulta non fa le leggi. La Consulta stabilisce quali norme di una legge violano la Costituzione. È possibile che dalla sentenza esca una legge che possa

Zig-Zag di Ovidio Biffi Letterine e sindrome della Lapponia Si fa di tutto per evitarlo, si protesta perché è sempre «troppo presto» quando ci viene riproposto o anche solo accennato. Poi l’autunno se ne va, inizia l’Avvento e si finisce sempre per accettare l’invadente e perpetua forza del Natale che sta arrivando. L’hanno definita sindrome della Lapponia, malattia che, nei casi limite, spinge a cantare, già da metà dicembre, Jingle Bells al mattino e a iniziare a memorizzare i regali. Il primo sintomo rimane comunque quello di pensare a un albero che si rispetti, magari con il presepe accanto o sotto, addobbi, luci ecc. ecc. Sul Natale, anche senza riaccendere i propri ricordi d’infanzia, esistono fiumi di aneddoti o fatti, molti dei quali sono noti e vivi in tutto il mondo. Come la lettera che la bambina Virginia scrisse al direttore del «New York Sun», elemento prezioso dei ricordi natalizi alla pari delle note di Stille Nacht, o della sterminata serie di melodie

dei crooners americani, da Crosby a Sinatra sino ai canti gospel o alle pive delle zampogne. La storia di Virginia la conoscono quasi tutti, anche perché risale alla fine del XIX. secolo, quando il dottor Philip O’Hanlon di Manhattan si sentì domandare dalla sua bambina di otto anni Virginia se Babbo Natale esistesse davvero. E qui si incontra uno dei motori principali che alimentano il clima natalizio: il momento in cui genitori e parenti si interrogano o vengono interpellati dai loro figli o nipoti sul credere ancora a Gesù Bambino o al più laico Babbo Natale. Virginia aveva cominciato a dubitarne per quello che le avevano detto i suoi coetanei e per questo il padre le suggeriva di chiederlo al direttore del loro quotidiano, assicurandole che «se lo dice il “Sun”, allora è vero». Quell’invito offrì a Francis Pharcellus Church, direttore del giornale, l’opportunità di andare oltre la semplice domanda e di

affrontare anche questioni più ampie, valide ancora oggi, tanto che il suo leggendario editoriale anche cent’anni dopo viene riproposto sulle riviste o nelle pubblicità natalizie anglosassoni. Non posso riprodurre la magistrale risposta del direttore Church, ma un brano lo recupero: «Non credere in Babbo Natale! È come non credere alle fate! Puoi anche fare chiedere a tuo padre che mandi delle persone a tenere d’occhio tutti i comignoli del mondo per vederlo, ma se anche nessuno lo vedesse venire giù, che cosa avrebbero provato? Nessuno vede Babbo Natale, ma non significa che non esista. Le cose più vere del mondo sono proprio quelle che né i bimbi né i grandi riescono a vedere». Rievoco Virginia e la sua richiesta per arrivare a quella, meno datata, rivolta lo scorso anno ad Annalena Benini, scrittrice e giornalista de «Il Foglio», dalla figlia arrivata a casa con un deva-


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Cultura e Spettacoli La nuova prova di Regina La versatile cantante Regina Spektor torna a deliziare il pubblico con un nuovo album

pagina 26

Maestro della perseveranza Il Museo d’arte della Svizzera italiana dedica una restrospettiva ad Antonio Calderara, artista caparbio e solitario

Giornalismo d’altri tempi Incontro con la giornalista, critica letteraria e ora anche scrittrice Klara Obermüller pagina 28

I misteri del Bardo Tutto quello che avreste voluto sapere su William Shakespeare ma che (forse) non avete mai osato chiedere pagina 29

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Pranzo di Natale in trincea delle truppe britanniche, Beaumont Hamel (Francia), 1916. (Keystone)

Un canto più forte della miseria

Natale in trincea Sebbene solo per qualche ora, anche in guerra la musica riuscì ad avvicinare i nemici

Enrico Parola «Natale! Il giorno più bello della mia vita. Durante le prime ore del mattino gli avvenimenti della notte scorsa sembravano uno strano sogno, ma oggi, oggi implorano di essere raccontati. Non crederete mai a quello che sto per dirvi. Ascoltate. L’altra notte, mentre ero seduto nella mia buca a scrivere, il mio amico è entrato tutto agitato e ha esclamato: “Bob! Ascolta!” Ho ascoltato. Dalle trincee tedesche venivano suoni di musica e canti. Il mio amico ha continuato: “Hanno messo degli alberi di Natale lungo tutta la loro linea! Non ho mai visto una cosa del genere!” Arrampicandomi sul parapetto, ho visto qualcosa che ricorderò finché avrò vita. Per tutta la lunghezza delle loro trincee, proprio sul ciglio, avevano appeso lanterne di carta e ogni tipo di luci natalizie, e molte rimanevano come sollevate, probabilmente appese ai rami degli alberi di Natale». La scena è così bella da sembrare il momento topico di un film e in effetti coincide con alcune delle sequenze più emozionanti del celebre Joyeux Nöel, nel 2006 candidato all’Oscar come miglior pellicola straniera. Ma così come il film era tratto da fatti realmente ac-

caduti, la descrizione non è frutto della fantasia di uno sceneggiatore: la scrisse alla fine del 1914 il sergente Lovell ai genitori che abitavano a Walthamstow. È una delle tante, clamorose, sorprendenti e commoventi testimonianze che raccontano della tregua avvenuta la notte di Natale del 1914 con gli eserciti tedeschi, francesi e inglesi che per qualche ora o su alcuni fronti addirittura qualche settimana smisero di combattersi e fraternizzarono: partite di pallone, scambi di auguri, regali, cioccolato e sigarette, gesti semplici ma che in quella circostanza furono come un’epifania, l’accorgersi improvviso di avere di fronte uomini uguali a sé. I primi a esserne sorpresi furono proprio i soldati che vissero quei momenti: «È stato il Natale più incredibile che mi sia capitato», scrisse il caporale Leon Harris raccontando dei tedeschi che «hanno iniziato a urlarci Buon Natale e a issare sui parapetti delle loro trincee un gran numero di alberi di Natale, addobbati con centinaia di candele». Non ovunque la tregua avvenne e non ovunque venne rispettata, ma è significativo che dove si verificò a sciogliere le reciproche diffidenze furono i canti tradizionali di Natale: «Non avrei mai pensato che avremmo passato così

il Natale. Durante il giorno della vigilia i tedeschi di fronte a noi hanno iniziato a cantare quelli che sembravano inni; noi gridavamo di continuare – le loro trincee stavano a sole 150 iarde. Hanno continuato a cantare tutta la notte», «Li abbiamo sentiti cantare la notte di Natale, hanno davvero dei bravi cantanti tra le linee», «Quando hanno finito, i nostri ragazzi gli hanno risposto con altre canzoni»: sono tantissime le lettere che testimoniano dai vari fronti la stessa dinamica. Quei canti, da Holy Night a Stille Nacht e Adeste fideles, quelle melodie uguali che si adattavano agli stessi contenuti tradotti in lingue diverse, ricordarono a quegli uomini che a unirli non erano solo le medesime, orribili condizioni – il fango, il freddo, gli stenti della trincea e i pericoli dello scontro; avevano in comune la fede, la cultura, tante tradizioni e soprattutto il cuore: tutti sentivano dentro di sé il desiderio di tornare a casa, di riabbracciare i genitori, la fidanzata o la moglie e i figli, di sapere le condizioni dei propri campi, di rivedere i propri monti o il campanile del paese. «Li odiavamo, ma li prendevamo anche in giro, e in fondo immaginavamo che loro facessero lo stesso»: parole semplici ma che vibrano di un’ultima simpatia

e comprensione. Ed è la musica, quella semplice, popolare, a esprimere in modo sorprendente e potente tutto ciò. Luigi Santucci ne Il velocifero racconta del «friulano novello di trincea, arrivato con la fisarmonica… che al primo buio ha mandato verso il vetro della luna un canto così agile e appassionato che, per ascoltarlo, nessuna delle altre voci ha osato andargli dietro. La fucileria austriaca s’è diradata a un tratto. Adesso tace. Il cantore snoda l’ultima strofa. Dall’altra trincea scoppia un battimano: Bis, bis! poi una voce in cattivo italiano grida: Vogliamo parole di bella canzona». Non era Natale, la canzone è Ai preat la biele stele, preghiera friulana alla bella stella e ai santi del Paradiso perché il Signore fermi la guerra e il mio bene torni a casa. Gli italiani traducono in cambio di cioccolato e sigarette. Non solo a Natale dunque, come il portaordini raccontato da Elio Gioanola ne La Grande Guerra di un povero contadino, che percorre la vallata senza nascondersi e cantando l’opera: «I riflettori lo inquadravano in pieno, bianco in mezzo a tutto quel nero e mai che i tedeschi sparassero; passava adagio adagio cantando Rigoletto o Traviata… Tutto il fronte stava incantato a sentirlo… Era un uomo

quello da mandare così in guerra, da farlo ammazzare?» Il canto in trincea nasce spontaneo, quasi istintivo: «Mi osservava un ufficiale che, anche quando si raccomanda di starsene zitti, c’è sempre qualcuno che, senza alcuna malizia, canticchia, e interrogato perché ha violato l’ordine, risponde (e gli si può prestare fede) di averlo fatto senza avvedersene» ricorda padre Agostino Gemelli, sacerdote, al fronte anche come medico, «Mentre i pensieri scorrono in lui e rievoca affetti, dolori e gioie, spontaneamente esprime l’interno sentimento con il canto, e se uno intona una strofa gli altri gli fanno eco; così si improvvisano i cori». Davanti a queste melodie vibranti di umanità come alla tregua di Natale improvvisata dai soldati si può fare come Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes tutto stupito da questo «episodio di umanità in mezzo agli orrori della guerra» o indignarsi come quel caporale tedesco che aveva passato la notte nei sotterranei di un’abbazia vicino a Ypres: «dove è andato a finire l’onore dei tedeschi?» si domandava. Si chiamava Adolf Hitler, le pagine del suo diario divennero il Mein Kampf.


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Cultura e Spettacoli

Una Regina di qualità

Musica L’irresistibile grazia del cantautorato di qualità: il ritorno dell’eccentrica e talentuosa Regina Spektor

ci regala un nuovo album ricco di suggestioni preziose ed eleganti

Benedicta Froelich Nell’ambito dell’odierno panorama pop-rock internazionale, capita, purtroppo, sempre più raramente di imbattersi in artisti di ultima generazione che siano in grado di infondere la propria musica di uno spirito in qualche modo innovativo e personale: uno stile non soltanto audace, ma anche contraddistinto da caratteristiche peculiari e riconoscibili, in grado di conferire a ogni brano una connotazione originale e individuale, inconfondibile all’interno della scena contemporanea. Eppure, nonostante l’anagrafe ci confermi che ha appena trentasei anni, l’affascinante Regina Spektor – cantautrice russa di origine ebraica, ormai da tempo prestata agli Stati Uniti e alla loro tradizione musicale – può essere promossa a pieni voti per quanto riguarda audacia compositiva e capacità di distinguersi dalla massa. A distanza di quattro anni dal successo dell’ultimo album, What We Saw from the Cheap Seats, Regina (che nel frattempo si è sposata ed è anche divenuta mamma), torna oggi alla ribalta con il nuovo Remember Us to Life: un disco agile, che ci permette di ritrovare una performer in forma smagliante, decisa a perseguire i propri obiettivi artistici attraverso le particolari e personalissime suggestioni stilistiche a cui ci ha abituati, pur lasciandosi andare a qualche piccola concessione a un «easy listening» leggermente più

radiofonico e commerciale. Ciò si nota fin dalla traccia d’apertura, Bleeding Heart, che si rivela vincente grazie a un ritornello particolarmente accattivante, caratterizzato dagli irresistibili e vezzosi virtuosismi della voce della Spektor, magistrale nell’intessere delicati arabeschi destinati a culminare in una pura esplosione pop – il tutto, come sempre, caratterizzato da un uso sapiente e trasgressivo del pianoforte, strumento che funge da base per ogni singolo pezzo di Regina, già eccellente pianista di formazione classica.

A soli 36 anni Regina Spektor è riuscita a ritagliarsi un posto di tutto rispetto nel panorama musicale Certo, c’è da dire che la tracklist presenta qua e là anche brani non proprio originalissimi come Older and Taller e Tornadoland – entrambi molto gradevoli, ma forse un po’ troppo simili a pezzi presenti in dischi quali Soviet Kitsch (2004) e Far (2009); ma fortunatamente, Regina dimostra di saper osare ben di più con canzoni irriverenti e originali quali la ritmata Small Bill$ e, soprattutto, la visionaria Grand Hotel, in cui l’artista lascia libero sfogo alla propria vena surreale per offrire all’ascoltatore una metafo-

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ra sul sottile velo che separa il mondo dei vivi da quello dei morti, nello specifico da un folcloristico «inferno» situato appena al di sotto di un insospettabile albergo cittadino – visioni che richiamano da vicino alcuni dei brani presenti nell’ottimo Begin to Hope (2006), l’ormai celeberrimo disco che ha donato alla Spektor la fama internazionale. Tuttavia, le tracce di impostazione apparentemente più «classica» non sfigurano all’interno dell’album: ne sono un esempio The Light e il pezzo di chiusura The Visit, che, sebbene di primo acchito non particolarmente memorabili, presentano una forza evocativa non indifferente. E se, di nuovo, Sellers of Flowers richiama un po’ troppo da vicino alcuni brani del passato, ciò non toglie nulla alla capacità di suggestione e al vigore interpretativo che lo caratterizzano. Anche perché l’efficacia dello stile di Regina non viene mai a mancare, come dimostrato da un esperimento quale The Trapper and the Furrier, in cui la Spektor unisce il suo peculiare stile di songwriting moderno alla tradizione dello storytelling angloamericano, nel tentativo di creare una vera e propria ballata gotica dagli accenti apocalittici che riverberi anche del gusto e delle suggestioni tipiche del suo tocco eccentrico. Atmosfere similari, ma più leggere, si riscontrano anche nei lenti, che la cantautrice riesce a infondere di accenti seducenti e scene emotivamente 08.12.16

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Regina Spektor il Giorno del Ringraziamento a New York. (Keystone)

cariche, come nel caso di un pezzo delicato e toccante quale Obsolete; anche se, in verità, lo struggente intimismo di cui Regina è capace risalta soprattutto in Black and White, un’onirica e quasi ipnotica nenia dal sapore nostalgico e fortemente introspettivo. In definitiva, si può dire che anche questa volta la Spektor sia riuscita a regalare ai suoi sempre più numerosi ammiratori un disco profondo e toccante: Remember Us to Life non pullula forse di potenziali hit o brani «da singolo» come era accaduto con Begin to Hope, ma presenta tutte le caratteristiche che ci hanno fatto inna-

morare della musica di quest’artista, la quale si conferma come una delle performer più interessanti e originali dell’attuale scena internazionale. E se, qua e là tra le tracce del CD, si riscontra una lieve stasi creativa – esemplificata da una forte somiglianza a melodie e soluzioni armoniche già note ai fan – ciò non impedisce a Regina di riuscire comunque a far fruttare ancora una volta la propria maestria nell’intessere atmosfere sofisticate e ad alto voltaggio emotivo, riuscendo sempre a ottenere risultati comunque affascinanti e di sicura presa sugli ammiratori, e non solo.

Un talent show a cartoni animati

Concorso Nei cinema ticinesi dal 4 gennaio

il film di animazione SING

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Gadget in palio per i nostri lettori In occasione dell’uscita in Ticino il 4 gennaio del film Sing, Universal Pictures in collaborazione con Migros Ticino mette in palio 3 kit contenenti: ■ Un set scolastico ■ Una borraccia ■ Un paio di cuffie audio La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in altri concorsi promossi da «Azione» negli scorsi mesi. Telefona allo 091 840 12 61 martedì 20 dicembre dalle 10.30. Buona Fortuna!

SING © 2016 Universal Studios. All Rights Reserved.

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Per salvare il suo teatro dal fallimento il koala Buster Moon decide di organizzare la più straordinaria gara di canto che si possa immaginare, così da poter riportare il teatro agli antichi splendori. Solamente cinque concorrenti superano le selezioni: Mike, un topo imbroglione, Meena, una timida elefantina adolescente con una fifa blu del palcoscenico, Rosita, una madre scrofa esaurita costretta a prendersi cura dei suoi 25 maialini, Johnny, un giovane gorilla gangster che cerca di prendere le distanze dalla sua famiglia, e Ash, una porcospina punk-rock che vuole liberarsi dal suo fidanzato prepotente. Ogni personaggio si presenta al teatro di Buster convinto che la competizione di canto potrebbe essere la grande occasione che aspettava per cambiare la propria vita e risolvere i suoi problemi. E mentre si avvicina il gran finale, Buster comincia a rendersi conto che forse il teatro non è l’unica cosa che ha bisogno di essere salvata. Il film di animazione è diretto da Garth Jennigs e offre allo spettatore la visione di un universo parallelo, affascinante e divertente dove un gruppo di animali strampalati si trova ad affrontare problemi quotidiani che tutti noi abbiamo già incontrato prima o poi. Come sentirci trascurati dalla famiglia, preoccuparci di come riuscire a pagare le bollette, superare gli ostacoli che ci impediscono di essere felici e di sentirci a nostro agio nella nostra pelle. Al di là di questo e delle divertentissime scene comiche che propone, Sing è un film che si basa sulla speranza e sui sogni, su quelli che possono sembrare impossibili, ma forse sono più a portata di mano, di zampa o di coda di quanto non sembrino.


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Cultura e Spettacoli

L’infinito nella luce

Mostre Il Museo d’arte della Svizzera italiana dedica una retrospettiva ad Antonio Calderara

Alessia Brughera «Sono autodidatta, isolato, interessato soltanto al mio problema, al mio lavoro. Vado avanti sorretto dalla certezza che un giorno mi sarà svelato quel grande mistero che è la pittura. Per ora quello che mi pare importante è dipingere, è non rifiutare di accettare e affrontare con serena umiltà i sempre nuovi problemi». Così scriveva di se stesso e della propria arte Antonio Calderara, forte di una perseveranza che non gli ha mai permesso di ripiegare su facili soluzioni e di una solitudine che ha saputo conferire alla sua pittura quell’autonomia necessaria al raggiungimento di esiti peculiari. Artista poco conosciuto ai più, nato nel 1903 ad Abbiategrasso, Calderara ha difatti portato avanti una ricerca molto singolare se si pensa all’ambito in cui è maturata, esempio più unico che raro nel panorama italiano novecentesco e vicina per sensibilità alle innovative esperienze internazionali. Piuttosto anomala è stata anche la sua parabola artistica, che lo ha visto convertirsi all’astrazione molto tardi, dopo trent’anni di militanza nelle fila dei figurativi. Un lento approdo, questo, che rispecchia l’indole riflessiva del pittore e il suo bisogno di una graduale elaborazione per giungere a maturare un nuovo linguaggio. Nella sua vita per lo più trascorsa in disparte nel piccolo paese di Vacciago di Ameno, affacciato sulla sponda orientale del lago d’Orta, Calderara non ha però mancato di confrontarsi con gli artisti a lui coevi, soprattutto nella fervida Milano, uscendo di tanto in tanto dal suo isolamento per trarre stimoli con cui alimentare la propria indagine pittorica. Il Museo d’arte della Svizzera italiana dedica una retrospettiva a questo maestro caparbio e solitario, le cui opere mancavano in territorio elvetico dal 1969, anno in cui lo storico dell’arte Jean-Christophe Ammann le aveva raccolte in una grande espo-

sizione al Kunstmuseum di Lucerna. La rassegna luganese ci illustra attraverso quasi duecento lavori disposti in ordine cronologico il complesso percorso di Calderara, sorretto da una costante tensione verso l’assoluto che lo ha condotto nel corso dei decenni a una pittura capace di farsi pura essenzialità. Si parte dai dipinti figurativi degli anni Venti e Trenta in cui si coglie la vicinanza ad alcune delle esperienze che in quel periodo animavano la scena artistica lombarda. Sono opere terse e minuziose, dalle forme semplificate e dalle atmosfere pacate che sfociano in una visione attonita della realtà. Nella scelta iconografica, nella resa cromatica e nell’effetto straniante richiamano gli stilemi del movimento milanese Novecento, espressione di quel «ritorno all’ordine» che si fondava sul predominio dei valori volumetrici e sul trattamento di una luce ben definita. Calderara però sembra non dimenticare nemmeno la lezione degli artisti del passato, primo fra tutti Piero della Francesca, con il suo chiarore che sa intridere i colori, il suo rigore compositivo e la plastica monumentalità delle sue figure. I brani di vita famigliare e gli scorci naturalistici che Calderara realizza in questi anni hanno un forte impianto geometrico e sono avvolti da una luminosità omogenea che li proietta in una dimensione metafisica. Tra questi, L’isola di San Giulio, del 1935, è un bel paesaggio lacustre in cui l’isolotto e le montagne sullo sfondo paiono già dissiparsi in quella luce rarefatta che il pittore inseguirà per tutta la sua esistenza. Il passaggio all’astrazione, difatti, non è altro che la naturale conseguenza dell’assecondare la sua esigenza di luce, quella luce che, scrive Calderara, «nel tempo si è man mano chiarita a me stesso e a se stessa, fino a diventare l’unica cosciente e responsabile protagonista della mia pittura». È così che nei dipinti eseguiti negli anni Quaranta e Cinquanta si assiste a

Antonio Calderara, La finestra e il libro, 1935 (© Fondazione Calderara, Vacciago di Ameno)

un lento abbandono della figura. I soggetti cari all’artista popolano adesso superfici di piccolo formato, prendendo vita da leggeri strati di colore sovrapposti che sciolgono i contorni del reale nelle vibrazioni luministiche. È il progressivo accostarsi di Calderara al nulla dell’assenza, all’uomo e al suo essere finito nell’infinito.

ne ha per Calderara una data precisa, il 1959. Si tratta però di un’astrazione del tutto individuale, che non ambisce a essere pittura geometrica bensì a farsi «rappresentazione della misura umana in uno spazio di luce». Per questo è stata giustamente paragonata alle ricerche che negli stessi anni vengono attuate da artisti americani quali Mark Rothko, Barnett Newman o Ad Reinhardt, in una condivisa aspirazione a fare della superficie pittorica un’estensione mentale, spirituale. I titoli delle opere sono adesso «contrappunti di ritmi», «opposizioni cromatiche», «espansioni organizzate», «attrazioni in tensione», «pesi ottici» e «costellazioni». Lavori governati da una luce iridescente e densa in cui le poche e semplici forme emergono caute dai contrasti minimi delle tonalità cromatiche. Calderara riesce in questo modo a portare piano piano la sua pittura fino al confine ultimo del visibile. Negli Epigrammi, dipinti su tavola realizzati nel 1978, anno della sua morte, i tratti sembrano volatilizzarsi nell’estrema delicatezza dei colori, in una geometria ridotta a pura essenza che diventa poetico annuncio della lenta dissoluzione della vita. Concludono il percorso di mostra alcune opere provenienti dalla collezione del pittore (custodita nella sua casa-atelier di Vacciago), nata dagli scambi con i colleghi più stimati e vicini alla sua vicenda artistica – Lucio Fontana, Piero Manzoni e Josef Albers, solo per citarne alcuni – e preziosa testimonianza della visione del mondo del suo creatore.

Complice l’incontro con la pittura di Mondrian, le opere di Calderara immergono via via le forme in una limpidezza diafana che quasi le cancella: i profili degli oggetti e delle persone si perdono in una luce abbagliante e in una stilizzazione grafica che li riduce a poche linee appena percettibili. L’approdo definitivo all’astrazio-

Dove e quando

Il film è strutturato su due eventi speculari, lontani nel tempo, che segnarono profondamente la vita del regista: l’abbandono della famiglia da parte del padre-poeta e la rottura con la prima moglie. Attorno a questo parallelismo si articola una serie di ricordi legati, soprattutto, all’amatissima madre, ai luoghi dell’infanzia e, al contempo, a uno scenario che appare come soverchiato dal fragore degli accadimenti storici e dall’ombra del potere – non va dimenticato che Tarkosvkij ebbe enormi difficoltà a realizzare le sue opere e che, per il suo Andrej Rubliov (1966), venne accusato di «misticismo». Le sequenze oniriche, così come le scene che riproducono le memorie («non c’è neppure un episodio inventato, tutto è vero», affermava il regista), sovente sono accompagnate dai bellissimi versi del padre e, a più riprese, si vedono balenare quei segni tipici, caratteristici, del suo cinema: l’acqua, il divampare di un incendio, le bestiole, le opere d’arte... Per sottolineare maggiormente il rapporto fra la vita del padre e la propria, Tarkovskij scelse di far interpretare i ruoli della madre e di sua moglie Natalja alla medesima attrice: Margarita Terekhova (un poco come, successivamente, fece Buñuel – ma alla rovescia – in Quell’oscuro oggetto del desiderio con effetti e intenzioni decisamente differenti). In questo senso, la figura materna è assolutamente centrale nell’opera – quasi che questa

rappresentasse il cuore di ogni indissolubile mistero umano e artistico: «in quel momento improvvisamente sentii una grande tranquillità», leggiamo nelle ultime pagine del raccontosceneggiatura Bianco, bianco giorno..., che fu poi alla base delle riprese de Lo specchio, «e capii con assoluta chiarezza che la Madre è immortale». A chi volesse approfondire l’opera e la celebre figura di Andrej Tarkovskij si consiglia, naturalmente, oltre alla visione dei suoi altri sei lungometraggi (L’infanzia di Ivan, Andrej Rubliov, Solaris, Stalker, Nostalghia e Sacrificio), la lettura dei bellissimi Diari – Martirologio (Edizioni la Meridiana, 2002), dei Racconti cinematografici (Garzanti, 1994) e dei saggi riuniti in Scolpire il tempo (Ist. Internazionale Tarkovskij, 2015). Purtroppo invece, ad oggi, ancora non esiste una buona versione in lingua italiana delle opere complete del padre Arsenij – in attesa di una nuova, felice iniziativa editoriale, a quelli che bazzicano le bancarelle e i negozi dell’usato si segnalano l’ormai introvabile Poesie scelte (Libri Scheiwiller, 1989) e il non meno raro Poesie e racconti (Edizioni Tracce, 1996).

Antonio Calderara. Una luce senza ombre. Museo d’arte della Svizzera italiana, Lugano. LAC Lugano Arte e Cultura. Fino al 22 gennaio 2017. Orari: da ma a do 10.00-18.00; gio aperto fino alle 22.00; lu chiuso. www.masilugano.ch

L’altro lato dello specchio

Anniversari Il cinema di Andrej Tarkosvkij a trent’anni dalla morte Daniele Bernardi Alla domanda «Andrej, e la morte? Ti fa paura?», Tarkovskij, nel documentariointervista Un poeta nel cinema, rispondeva: «Per me la morte non esiste». Tale affermazione, riferita con una sorta di innaturale pacatezza, sembra sposarsi perfettamente coi versi del padre del regista, il poeta Arsenj Tarkovskij: «Non mi servono cifre: io ero e sono e sarò, / la vita è miracolo dei miracoli e sui ginocchi del miracolo / solo come un orfano io porrò me stesso». Se è vero, come scrisse un altro grande poeta russo, che tutti siamo destinati a rivivere il destino dei nostri genitori, allora il caso del binomio Tar-

kosvkij padre e Tarkovskij figlio è certo esemplare. E a questa oscura corrispondenza il regista dedicò uno dei suoi lavori più belli: Lo specchio (1976). Fra le opere di Andrej Tarkovskij (Zavraž’e, 1933 – Parigi, 1986) non ce n’è un’altra che sia tanto autobiografica e intima. Pellicola oscura, carica di visioni, sogni e suggestioni, Lo specchio rappresenta certo un caso a sé nella storia del cinema: «Lo specchio», scriveva Tarkovskij nei suoi diari, «è un film religioso. Naturalmente, quindi, incomprensibile per la massa, abituata al cinema da quattro soldi e incapace di leggere libri, di ascoltare musica, di osservare un dipinto...». Di fatto, ancora oggi, lo spettatore che, di fronte alla produzione del regi-

Il cineasta russo in una foto del 1980. (Keystone)

sta, volesse impuntarsi su un mero desiderio di piana comprensione, davanti a questo film dovrebbe, per forza di cose, rivedere le sue posizioni o rinunciare alla visione. Per entrare in quell’universo sottile, fatto di rumori, ombre e luci che risalgono dal fondo, è bene, credo, tenere a mente quanto sosteneva Tarkosvkij riguardo alla propria infanzia e al suo rapporto con l’arte: «il mio carattere somigliava più a quello di una pianta: non pensavo molto, piuttosto sentivo, percepivo». Le molte trame de Lo specchio sono quindi legate dal filo dell’intuizione, più che da quello del ragionamento; e la lingua che il regista impone è in tutto simile a quella dei sogni, piuttosto che a quella della veglia. Da principio, il film si sarebbe dovuto chiamare Bianco, bianco giorno...; titolo che avrebbe dichiaratamente rimandato a un’altra bellissima poesia del padre: «Sta una pietra presso il gelsomino. / Un tesoro c’è sotto la pietra. / Mio padre è sul sentiero. / È una bianca bianca giornata. / (...) Non sono mai stato / più felice di allora. // Là non si può ritornare / e neppure raccontare / com’era stracolmo di beatitudine / quel giardino di paradiso». Successivamente, Tarkosvkij fece altre ipotesi senza che nessuna di queste lo soddisfacesse appieno: Il ruscello pazzo, Martirologio, Redenzione, Confessione, Perché resti in disparte? Infine, si decise per Lo specchio in virtù delle sue molteplici risonanze poetiche e simboliche.

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Cultura e Spettacoli

«Puoi diventare tutto ciò che vuoi»

Incontri A colloquio con la grande giornalista Klara Obermüller, per molti anni alla «Neue Zürcher Zeitung»

e allieva del «papa letterario» Marcel Reich-Ranicki

Natascha Fioretti Klara Obermüller, classe 1940 non se lo è fatto dire due volte e ha scelto di diventare giornalista. E lo ha fatto con grande determinazione e successo lavorando con testate autorevoli come la «Neue Zürcher Zeitung» e la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» e a fianco di grandi nomi come Werner Weber e Marcel Reich-Ranicki. Nel suo libro Alla ricerca delle mie orme, da poco uscito per l’editore Xanthippe, l’autrice ripercorre la sua esistenza personale e professionale mettendo a nudo, con intensa e disarmante semplicità, il suo vissuto intimo, a partire dalla sua adozione e la sua carriera di critica letteraria dalla penna indomita e arguta. Ma allo stesso tempo, questa retrospettiva ha il pregio di offrirci preziosi scorci attraverso i quali rivivere un’epoca del giornalismo che oggi ci appare più che mai fortunata ma anche lontana. All’indomani dell’elezione di Trump tutti i media fanno mea culpa. Un articolo sul settimanale tedesco «WirtschaftsWoche» dice che le elezioni americane sono state una sconfitta del giornalismo. È d’accordo?

Trovo sia un giudizio troppo generico. Di certo riguardo a Trump si può dire che molti commentatori non lo hanno preso abbastanza sul serio, lo hanno considerato una burla, un pagliaccio, si sono sollazzati con i suoi scandali e le sue cadute evidenziando quello che è un problema latente del giornalismo di oggi, molto personalizzato, orientato ai personaggi e alla costante ricerca di scandali. Per questo spesso manca il necessario approfondimento e l’opportuna riflessione. Da questo punto di vista dunque concordo ma in generale trovo sia un giudizio troppo generico e apocalittico. Bisogna differenziare, ci sono modi e modi di fare giornalismo, ci sono giornali seri con commentatori altrettanto preparati e non si può fare di tutta un’erba un fascio. Lei è stata giornalista in altri tempi: c’è qualcosa che la sua generazione di giornalisti sapeva fare meglio di quella odierna?

Non sapevamo fare nulla di più ma avevamo migliori condizioni di lavoro. Non mi riferisco soltanto alle finanze o alle risorse economiche a disposizione ma in particolare al tempo. Quando si trattava di scrivere storie grosse o di fare importanti ricerche ci veniva regalato il tempo necessario per dedicarci a un tema e approfondirlo. Questo tempo, che notoriamente costa, manca oggi a molti giornalisti, con ripercussioni sulla qualità, ma non significa che i giornalisti di oggi siano peggiori di

quelli di ieri, ad essere peggiorate sono le condizioni di lavoro.

prima, ma tutto questo ha contribuito a forgiare tanto la mia identità personale e professionale.

Ha avuto la fortuna di lavorare per autorevoli testate come la «Neue Zürcher Zeitung» e la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» ma per sette anni è stata anche giornalista freelance. Oggi è possibile lavorare come freelance?

Essere una freelance oggi rispetto ad allora è sicuramente molto più difficile. Già ai miei tempi era tutt’altro che facile, dovevo impegnarmi molto per sbarcare il lunario. Quella giornalistica è sempre stata una professione insicura e, oggi, con il fatto che molte aziende mediatiche tagliano le collaborazioni esterne perché determinano costi aggiuntivi, essere un giornalista indipendente è ancora più difficile. Ai miei tempi per riuscire a fare bene rendendosi indispensabili alle redazioni, era necessario specializzarsi in un campo, farlo proprio dimostrando estese competenze e approfondite conoscenze. Non importava se fosse un campo economico, politico o sociale, l’importante era distinguersi, rendersi inconfondibile rispetto alla concorrenza. Lungo il suo cammino ha avuto la fortuna di incontrare grandi mentori come Werner Weber e Marcel ReichRanicki. Oggi è più difficile trovare persone disposte a tramandare la propria esperienza?

Non posso dirlo con certezza perché manco dalle redazioni da troppo tempo, ma posso immaginare che anche i giornalisti con un posto fisso nelle redazioni dei giornali più importanti oggi temono la concorrenza e sono così oberati dalla mole di lavoro e dalle richieste quotidiane da non avere il necessario spazio e l’energia per occuparsi anche dei più giovani.

Da dove nasce la sua urgenza di ricostruire il suo vissuto in questo libro?

Mi premeva confrontarmi con un passato con il quale mi intrattenevo sempre di più; succede con l’età. Pensandoci c’è stato un episodio che ha fatto da detonatore: cinque anni fa abbiamo cambiato casa traslocando in un appartamento più piccolo e più adatto alle nostre attuali esigenze. Ho dovuto riconsiderare e riprendere in mano tutti i miei libri nel tentativo di decidere cosa conservare. Una simile operazione porta a smistare vecchi archivi, scatole, a fare ricerche in solaio o in cantina e, proprio qui, da questo passaggio obbligato, è nata e cresciuta in me l’esigenza di ricordare, di ripercorrere le mie tracce.

Lei è stata adottata e questa esperienza l’ha segnata. Ma a lasciare una impronta è stato anche il prezioso insegnamento di sua madre che le ha

Nel suo libro spende parole di grande stima per Marcel Reich-Ranicki e definisce la sua una scuola severa.

Mi ha insegnato che cosa debba essere la critica letteraria, ovvero non soltanto il parafrasare o ri-raccontare il contenuto di un romanzo ma esprimere un giudizio, dire chiaramente questo libro mi piace oppure no, ed essere in grado di argomentare, motivare, pur restando consapevoli che si tratta di un giudizio fortemente soggettivo. Si tratta di un esercizio difficile poiché richiede anche il coraggio di urtare e magari rovinare qualcuno, ma questa dipendenza è vitale e ne ho fatto esperienza proprio lavorando con lui. In un recente articolo apparso sulla «NZZ», Roman Bucheli accusa la critica letteraria di essere diventata docile e mansueta tanto da avere dimenticato che può e deve avere un’influenza sull’opinione pubblica e sui lettori. È d’accordo?

La giornalista e scrittrice Klara Obermüller. sempre detto «Puoi diventare tutto ciò che vuoi».

Che un bambino, un essere umano in crescita possa, durante la sua giovane vita, costruire la propria autostima, così come sviluppare una fiducia primordiale nel mondo, è uno degli insegnamenti più importanti in assoluto. Non solo grazie e attraverso i genitori, ma anche grazie agli insegnanti o ai datori di lavoro, persone con le quali si hanno delle relazioni e nelle quali riponiamo fiducia e nelle quali crediamo. Ho avuto la fortuna di ricevere questo insegnamento dai miei genitori adottivi e grazie a loro ho potuto sviluppare la forza di resistenza necessaria per rimanere sempre dritta e salda nella vita. Anche questo è uno dei motivi che mi hanno spinto a ricordare e a trasporre i miei ricordi su carta per esserne consapevole ancora una volta. Sempre grazie a fortuite coincidenze è approdata prima alla rivista culturale «DU» e poi alla «Neue Zürcher Zeitung»...

Posso dire che mi sono state offerte opportunità che ho saputo cogliere e che spesso mi hanno anche portata a buttarmi a capofitto in certe avventure, ma ci vuole anche questo per avere fortuna e per trovare la felicità. Si incontra la buona sorte quando si è preparati, pronti a riceverla. Io ho avuto una immensa fortuna, questo è vero. Un compagno di studi che conosceva bene il direttore della rivista «DU» mi ha aperto la porta permettendomi di entrare nella

redazione come volontaria e giovane studentessa, ai tempi non avevo ancora alcuna esperienza giornalistica. Anche il salto alla «NZZ» è stato dettato da una dose di fortuna. Avevo scritto una recensione del libro di Werner Weber, l’allora direttore del Feuilleton del quotidiano, che evidentemente ne era rimasto colpito nonostante io mi fossi espressa con toni piuttosto critici; voleva conoscermi. Anche qui, di nuovo, una piccola porta si apriva proprio nel momento in cui il lavoro nella redazione della rivista «DU» mi andava un po’ stretto perché volevo finire i miei studi e il mio dottorato. Così chiesi a Weber se aveva disponibilità di un posto come assistente a metà tempo in modo da poter coniugare studio e lavoro. Lui mi diede questa grande opportunità. Dopo pochi anni lasciai la «NZZ». Avevo conosciuto lo scrittore Walter Matthias Diggelmann, considerato di sinistra da una «NZZ» che ai tempi, negli anni Settanta, in contrasto con le conseguenze della Guerra fredda, era ancora una roccaforte dello spirito libero. Soffrivo per questo conflitto di fedeltà, per questa tensione e arrivai al punto di dover fare una scelta, il lavoro o l’amore. Scelsi l’amore e così finì il mio rapporto con la «NZZ», cui seguirono sette anni da giornalista freelance. Lì per lì fu dura e fu molto doloroso, ma con il senno di poi penso che mi abbia fatto bene. Ho dovuto pedalare molto, darmi da fare nel conquistare nuovi ambiti, lottare, cosa che non avevo mai dovuto fare

Condivido il suo pensiero che ci riporta a quanto appena detto. La critica letteraria deve saper lodare, ma anche criticare duramente come ci insegna Marcel Reich-Ranicki nelle sue due opere Lauter Lobrede e Lauter Verrisse. Entrambe le cose devono essere possibili, ma bisogna anche essere corretti e saper argomentare, motivare le proprie posizioni e in quanto critico letterario essere pronto a ricevere e ad accettare le critiche anche dai colleghi che non la pensano allo stesso modo. In genere quando si riflette sul proprio vissuto, quando si va in cerca delle proprie origini, si fanno anche scoperte inaspettate.

Attraverso la scrittura del libro non ho fatto esperienze esteriori o acquisito informazioni ma, rileggendo i vecchi diari, gli scritti e le lettere ho ritrovato sentimenti e sensazioni e mi sono di nuovo confrontata con i miei genitori, con i miei tre matrimoni e con me stessa. È stato come incontrare di nuovo la donna che ero sessanta anni fa. Incontri non sempre piacevoli, spesso perfino irritanti e difficili. Nel complesso per me è stato curativo vedere come un uomo cresce, si dispiega e si sviluppa. Rileggendomi, riflettendo mentre sfogliavo vecchi documenti, mi sono profondamente convinta che non siamo mai finiti e definiti, ma sempre in divenire, in costante trasformazione e crescita, fino alla morte. Per l’intervista completa andare sul sito www.azione.ch Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

A proposito di Shakespeare Pubblicazioni Certezze, dubbi e congetture, a 400 anni dalla morte Giovanni Fattorini S’intitola 30 grandi miti su Shakespeare (30 Great Myths About Shakespeare) il libro che suggerisco di leggere durante le prossime feste, sul finire dell’anno in cui ricorre il quattrocentesimo anniversario della morte – avvenuta per l’esattezza il 23 aprile 1616 – del massimo drammaturgo dell’età moderna. Lo hanno scritto Laurie Maguire (docente di Letteratura inglese al Magdalen College di Oxford) e Emma Smith (ricercatrice, lei pure a Oxford, presso l’Hertford College). «Questo libro – dichiarano le autrici – si propone di indagare le cognizioni che crediamo di possedere riguardo a Shakespeare, qui indicate nell’insieme come “miti”». Nell’accezione proposta da Maguire e Smith, la parola «miti» significa «credenze comunemente accettate», «opinioni consolidate», «idee diffuse che possono avere una base fattuale, ma ingigantiscono i dati disponibili o suppliscono con mere supposizioni alle lacune nelle prove documentarie». Le intenzioni di Maguire e Smith sono tre: mostrare «come il materiale storico, o la sua assenza, si presti a interpretazioni e fraintendimenti»; illustrare il momento storico in cui le ipotesi interpretative sono diventate «verità indiscusse»; cercare di «comprendere il fascino dei miti e la presa esercitata sui loro sostenitori». Progettando il libro, Maguire e Smith hanno saputo resistere alla tentazione di occuparsi principalmente dei miti legati alla biografia di Shakespeare. Ne hanno presi in considerazione alcuni, ma cercando di indirizzare il più possibile il discorso verso le opere drammatiche e poetiche in quanto tali. Trattando il mito 16 («Non sappiamo molto sulla vita di Shakespeare»), Maguire e Smith espongono i fatti documentati e concludono che in realtà ne sappiamo parecchio: meno che sulla vita di Marlowe e Ben Jonson, ma molto di più che su quella di altri drammaturghi dell’età elisabettiana. Ciò di cui sappiamo assai poco, invece, è la personalità di Shakespeare, ragion per

Ritratto di William Shakespeare (1564-1616), ca 1865, dell’artista Dante Gabriel Rossetti (1828-1882). (Keystone)

cui siamo portati a leggere certe memorabili battute di alcuni suoi personaggi come espressioni dirette del suo pensiero. Quanto all’indagine condotta dalle due studiose inglesi su altri miti collegati alla biografia dell’uomo e dell’artista («Shakespeare non era istruito»; «Shakespeare non viaggiò mai»; «Shakespeare era cattolico»; «Shakespeare odiava sua moglie»; «Amleto prese il nome dal figlio di Shakespeare»; «I Sonetti di Shakespeare sono autobiografici»; «La tempesta è l’addio di Shakespeare al palcoscenico»), ho deciso di comportarmi come il recensore di un thriller. Niente spoiler. Lascio al lettore il piacere di seguire le argomentazioni e di conoscere le conclusioni a cui arrivano Maguire e Smith. Di particolare rilievo – perché interessano anche i teatranti dei giorni nostri – sono i miti concernenti le rappresentazioni delle opere di Shakespeare e la loro fruizione da parte degli spetta-

tori del suo tempo. Il mito, ad esempio, secondo cui «i ruoli femminili erano interpretati da ragazzi-attori» corrisponde a verità. Da ciò un’ambiguità e un’allusività erotica che «Shakespeare spesso potenziava inserendo nella trama delle sue commedie un travestimento transessuale». Ne La dodicesima notte (l’esempio è mio) Viola era un ragazzoattore che fingeva di essere una ragazza che fingeva di essere un ragazzo. Olivia, a sua volta, era un ragazzo-attore in abiti femminili. Grazie a una convenzione teatrale, il gioco scenico del triangolo amoroso Viola-Orsino-Olivia accresceva quella messa in crisi generalizzata dell’identità sessuale, quel «richiamo impronunciato ma avvertibile – di cui parlava Luigi Squarzina – a una comunione orgiastica e al mito dell’androgino», che unitamente ai pregi del linguaggio fanno della Dodicesima notte un’opera di raro fascino. (Che tale commedia possa essere compresa per davve-

Filmselezione ro solo se recitata da un cast interamente maschile lo ha dimostrato, circa dieci anni fa, il bellissimo spettacolo inscenato da Edward Hall con la compagnia Propeller.) A chi gli domandava – al termine di una conferenza tenuta a Berlino il 12 maggio del 1996 – quali livelli di scrittura patissero un notevole danno per il fatto che i testi shakespeariani, alle Bouffes du Nord, venivano tradotti e inscenati in una lingua straniera (il francese), Peter Brook rispondeva: «Le opere non soffrono, ma io sì. Per un inglese è una vera e propria sofferenza. Perché appena si inizia a tradurre scompare un livello di musica». Tuttavia, «quello che è straordinario con Shakespeare, è che le sue opere sono talmente ricche che anche se sottraiamo ciò che per la maggior parte dei poeti corrisponde al novanta per certo del valore, rimane una materia straordinaria e magnifica». L’undicesimo mito indagato da Maguire e Smith («Shakespeare scriveva nei ritmi del parlato quotidiano») riguarda perlappunto il «suono», la «musica» delle opere drammatiche di Shakespeare. Che in larga misura sono scritte in versi, con prevalenza netta del blank verse, decasillabo sciolto a cinque accenti che fu perfezionato da Marlowe e poi adottato dagli altri drammaturghi elisabettiani. Dopo aver dimostrato che il blank verse affiora non infrequentemente anche nel parlato quotidiano, Maguire e Smith forniscono numerosi esempi di come questo metro – nelle parti in versi delle opere teatrali di Shakespeare – possa agevolmente trapassare dal tono elevato al colloquiale, e di come possa non stranamente risuonare nelle parti in prosa. Inevitabile che tutto ciò vada perduto nelle traduzioni in lingua straniera. Ma come ha detto Peter Brook, nelle opere di Shakespeare c’è molto altro. Bibliografia

Laurie Maguire, Emma Smith, 33 grandi miti su Shakespeare, pp. 348, O barra O edizioni, euro 18.

La furiosa sete di vendetta di Elektra

Teatro I l regista Andrea Novicov ha portato in scena un dramma classico avvalendosi

di una serie di bravi attori ticinesi Giorgio Thoeni Si sottolinea spesso l’efficacia e la bellezza di un’opera teatrale mettendo l’accento su aspetti di modernità, senza però considerare che certi valori sono parte dell’essenza stessa dell’umanità dove le passioni sono sostanza della drammaturgia della storia di ognuno. Parte di queste «tragiche visioni» emergono con lucidità nelle riletture teatrali dei focus scelti fra ricerca e innovazione per comporre la stagione di LuganoInScena. Dopo il mito di Medea e Giasone rivisto dalla scrittura contemporanea di Ariel Dorfman ecco irrompere sulla scena l’antica rabbia di Elektra nel travolgente atto unico di Hugo von Hoffmansthal. Un testo scritto sulla scia della tragedia sofoclea all’inizio del Novecento dal viennese Hugo von Hoffmansthal

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

e che trasuda le irrequietezze suscitate dal confronto di un mito femminile con l’avvento delle teorie psicoanalitiche di Freud in un clima di straordinaria attualità. Un ghiotto invito per Andrea Novicov che ne ha tratto spunto per una visione registica forte e incisiva, circondata da attori di assoluta qualità per un allestimento di grande efficacia. A cominciare dall’immagine scenografica che ci introduce alla realtà esiliata di Elektra, squatter e barbona immersa nella sua rabbiosa ribellione diseredata, che Novikov costruisce in una tensione costante immersa in suoni e immagini distanti, quelli di una società che osserva, condiziona, allontana e reprime la memoria pregiudicando l’eredità dei suoi figli. Elettra si consuma nell’assillo di vendicare la morte del padre, assassinato dalla madre Clitennestra con la complicità dell’amante

Egisto. Vive accampata sotto le mura di palazzo tormentata da incubi. Nemmeno la sorella Crisotemide può aiutarla: è troppo immersa in un desiderio di fuga e di maternità per condividere appieno il desiderio di vendetta di Elektra, un’ostinazione che troverà pace solo nel castigo dei due assassini per mano del fratello Oreste. Una tragedia dove la donna è al centro della dinamica drammatica e che permette a von Hoffmansthal di guidarci in profondità nel labirinto dell’inconscio femminile, dove sogno e realtà si dibattono ferocemente. La parola viene cesellata meticolosamente sugli attori, dipinge personaggi e situazioni con grande e convincente personalità teatrale dove anche l’ironia fa capolino dal vortice della tragedia con un cast che per la prima volta raduna una maggioranza di giovani ticinesi. Dall’o-

stinata e furiosa irrequietezza dell’Elektra di Anahì Traversi, ormai una certezza nella sua costante affermazione artistica, alla bella e delicata Crisotemide di Adele Raes in un registro interpretativo convincente che lascia intuire ulteriori avventure di spicco. L’ottimo Igor Horvath in una memorabile scena del ritorno e ricongiungimento di Oreste con la sorella Elektra. La passionalità disperata e crudele di Clitennestra dell’eccellente Pia Lanciotti, la figura di Egisto di Roberto Molo con le apparizioni di Laio dello stesso Novicov impegnato in una regia esemplare accanto a elementi sintattici di grande qualità come la scelta delle luci, le scene, l’universo sonoro di Roberto Mucchiut e i costumi di Laura Pennisi. Tre serate affollate al Teatro Foce di Lugano con numerosi e meritati applausi.

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Il ritorno dell’autore di Batman ai suoi cari mostri Fabio Fumagalli **(*) Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali, di Tim Burton, con

Eva Green, Asa Butterfield, Chris O’Dowd, Allison Janney, Rupert Everett, Terence Stamp, Judi Dench, Samuel L. Jackson (USA 2016)

Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali è anche una favola, ma non proprio destinata ai bimbi. Già per la sua storia, tratta dal bestseller del 2011 di Ransom Riggs: quella di un sedicenne della soleggiata Florida, al quale il nonno ebreo (Terence Stamp) racconta prima di morire di aver trascorso la propria infanzia nelle nebbie di un’isola al largo del Galles, per sfuggire alle persecuzioni naziste. Partito per quei lidi misteriosi assieme al padre, Jake avrà di che soddisfare la propria curiosità. Scoprirà un luogo magico, come sospeso nel tempo e nella storia. E una comunità di orfani minacciata, oltre che dalle bombe tedesche, dagli hollowgast, mostriciattoli malefici che vorrebbero nutrirsi delle loro pupille. Pur sotto la direzione dell’inquietante direttrice Miss Peregrine (un’affascinante Eva Green) capace di trasformarsi in falco e modificare il trascorrere del tempo, i ragazzini godono di strabilianti caratteristiche soprannaturali. Non solo evolvono in una fascia atemporale che garantisce loro l’eterno incanto dell’infanzia; ma c’è Emma che si libra nell’atmosfera, Millard che è protetto dalla sua invisibilità, Hugh che libera sciami di api dalla propria bocca, Fiona che coltiva carote giganti e la deliziosa Claire con i suoi riccioli, provvista di una bocca vorace. Dietro a tutto ciò, l’avrete compreso, c’è Tim Burton. Il visionario gotico del cinema moderno, un po’ normalizzato dalla critica e dimenticato dal pubblico dopo il disneyano Alice nel paese delle meraviglie (2010) e l’impersonale Big Eyes (2014). Ma pur sempre il cineasta per eccellenza della fede nelle fiabe, nella diversità e fragilità (Batman), nella sfrontatezza (Mars Attacks!), nella tenerezza del fantastico delirante (Sleepy Hollow e Sweeny Todd). «Una versione spaventosa di Mary Poppins», l’ha definita l’autore. Ed è effettivamente impossibile ignorare l’energia straordinaria con la quale Burton riesce a penetrare nello spazio di libertà assoluta concesso al fantastico di Miss Peregrine. Con una quantità impressionante di tragicomici mostri sempre creati nella tradizionale attenzione per il diverso che lo contraddistingue dagli esordi di Edward mani di forbice. Il cinema di Tim Burton è stato da sempre debitore dell’universo delle maschere, non tanto indossate da chi deve nascondersi, ma destinate agli individui che non osano lasciare trasparire la propria fragilità. Ed è forse nelle carenze di quei sottofondi che la magistrale immaginazione creativa del regista in Miss Peregrine, la sofisticazione di un uso sorprendente del montaggio, l’utilizzo di un cast a dir poco privilegiato finiscono per suscitare tutta la nostra ammirazione. Un po’ meno la commozione. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Martedì 20.12

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Idee e acquisti per la settimana

shopping Delizie per il palato nei giorni di festa Attualità Per le specialità a base di pollame affidatevi agli specialisti delle macellerie di Migros Ticino

Tacchino arrosto con ripieno al prosciutto Serrano e allo sherry Piatto principale per 6 persone Ingredienti 100 g di prosciutto Serrano 4 rametti di salvia 300 g di carne macinata mista 0,5 dl di sherry secco sale, pepe macinato di fresco 1 tacchino circa 3,5 kg 1 dl d’acqua 100 g di olive nere snocciolate 0.4 dl di olio d’oliva 12 fette di baguette Preparazione 1. Tagliare il prosciutto a dadini. Tritare la salvia. Mescolare il tutto con la carne macinata e lo sherry. Condire con sale e pepe. Risciacquare con acqua fredda la parte interna ed esterna del tacchino. Asciugarlo tamponandolo con della carta per uso domestico. Inserire il ripieno nella cavità addominale e legare le cosce sopra l’apertura addominale con un filo da cucina. 2. Preriscaldare il forno a 220 °C. Salare il tacchino e collocarlo su una teglia. Unirvi l’acqua e cuocere al forno per circa 20 minuti. Ridurre la temperatura a 180 °C. Continuare la cottura del tacchino per 120 minuti circa. Spennellare di tanto in tanto con il grasso dell’arrosto. Spegnere il forno. Socchiudere lo sportello del forno. Lasciare riposare il tacchino nel forno per 20 minuti circa.

Tacchino, oca, cappone, anatra, faraona, pollo… sono molti coloro che durante i banchetti natalizi portano volentieri in tavola del pollame. Facile da preparare, la saporita carne di pollame permette di cucinare non solo in modo creativo e raffinato, ma anche sano, dal momento che risulta facilmente digeribile e leggera. Se volete dare vita a manicaretti per i tradizionali menu festivi, alla vostra Migros troverete differenti prelibate e frizzanti idee culinarie. Il tacchino intero al forno conquista sempre più commensali grazie anche alla sua valenza scenografica. Attual-

mente lo potete trovare di diverse grandezze in grado di soddisfare sia le piccole che le grandi tavolate, a partire da un peso di 2-4 kg fino ai tacchini adulti da ben 10 kg. Altro tipico piatto delle feste è considerata l’oca. Solitamente viene cucinata farcita e arrostita in forno, e rispetto all’altro pollame spicca per il suo sapore più deciso. Nelle tradizioni culinarie di alcuni paesi del Nord Europa l’oca non può mancare in occasione della festa di San Martino. Sapore al contempo delicato e marcato sono le caratteristiche della faraona. La carne di questo volatile si abbina particolar-

mente bene a ingredienti dolci, come la frutta, sia fresca che secca. La carne va arrostita con moderazione e servita ancora rosata. L’anatra è da sempre considerato un piatto raffinato e saporito. La sua carne succosa offre numerose possibilità di degustazione. È una vera delizia cucinata con le olive o una salsa alla frutta acida. La carne va servita ancora al sangue, altrimenti diventa dura e secca. Un’autentica chicca è il pollo di Bresse, l’unico pollo a beneficiare della Denominazione di Origine Controllata. È allevato su percorsi erbosi e spicca per la sua carne dal gusto unico,

soda e ben venata di grasso. Infine, alla Migros i buongustai troveranno anche il cappone. Un piatto classico della tradizione è il cappone lessato, il cui brodo viene utilizzato per la preparazione dei tortellini o cappelletti, ma il volatile è ottimo anche arrostito in forno oppure ripieno. Vi ricordiamo che presso le macellerie Migros potete non solo chiedere suggerimenti sul modo migliore di cucinare i volatili, ma anche farvi preparare le specialità secondo le vostre esigenze – p.es. ripiene o disossate – affinché voi dobbiate solo preoccuparvi di infornarle.

3. Tritare le olive con l’olio nel cutter e pepare. Tostare in una bistecchiera antiaderente le fette di baguette su entrambi i lati senza aggiungere grassi. Spalmarvi sopra la pasta di olive. Metterle in caldo. Affettare il tacchino. Staccare le cosce e le due parti di petto e tagliarle. Estrarre il ripieno dalla cavità addominale e servirlo con le fette di baguette. Tempo di preparazione ca. 45 minuti, 2 ore e 20 minuti per la cottura, 20 minuti per lasciar riposare

Ricette di

www.saison.ch


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Idee e acquisti per la settimana

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I Tournedos alla Rossini

Attualità Una raffinata ricetta cucinata per i lettori di Azione dallo chef Lorenzo Blardone

del Ristorante Gnesa di Gordola

Natale è una ricorrenza che molti amano trascorrere in casa, insieme alle persone care, festeggiando con lo scambio di auguri, di regali e naturalmente con un pranzo speciale. Per questo la vostra Migros vuole dedicare a questa occasione una proposta raffinata, una preparazione da autentici gourmets. Una ricetta di alta cucina, ma di facile preparazione, con ingredienti che potete facilmente trovare in tutti i negozi Migros del nostro Cantone, i «Tournedos alla Rossini». Eccellente gourmet, il nome del compositore di musica, Gioachino Rossini, è dato ad alcune ricette in cui vengono utilizzati il fois gras ed il tartufo nero. Esiste un famoso aneddoto sull’origine dello strano nome «Tournedos». Rossini amava soggiornare in Francia e ricevere gli amici ai quali offrire i prodotti che egli stesso faceva venire dall’Italia. In particolare egli apprezzava grosse fette di vitello o di manzo fatte cuocere rapidamente in padella, guarnite di fegato d’oca e tartufo. Un giorno egli ordinò al proprio maître che il filetto di manzo venisse cotto in sala da pranzo davanti ai suoi amici, in modo che potesse sorvegliare l’esecuzione. «Maestro, non oserò mai compiere una così banale operazione davanti a voi e agli invitati», disse il maggiordomo imbarazzato. «Ebbene, fatelo girandovi dall’altra parte: tournez-moi le dos». / Davide Comoli

Lo chef Lorenzo Blardone tra i gerenti del Ristorante Gnesa di Gordola: Piero Matozzo (a sin.) e Danilo Camossi. La cucina del ristorante locarnese propone piatti innovativi attenti ai dettagli e nel rispetto della tradizione, con un occhio di riguardo per i prodotti locali. (Flavia Leuenberger)

Filetto di manzo alla Rossini Ingredienti per 4 persone Ingredienti 600 g di filetto di manzo 4 medaglioni di fois gras da 30 g l’uno 1 pezzo Tartufo nero 4 fette di pane toast 2 dl di fondo bruno di carne O,5 dl di Madeira 60 g di burro 1 scalogno Preparazione 1. Tagliate il filetto di manzo in 4 porzioni da 150 g ciascuna e legateli con dello spago per mantenere una forma rotonda durante la cottura. Con un coppa pasta rotondo di circa 6 cm di diametro fate 4 dischi con il pane toast e dorateli al burro in una padella. Salate, pepate i filetti e cuoceteli al burro in una padella (3 minuti per lato). Terminata la cottura privateli dello spago, posateli sopra la fetta di pane toast e lasciateli riposare in forno a 70° per 5 minuti. 2. Tritate lo scalogno, mettetelo in una pentola con il Madeira e fate ridurre a fuoco vivo per circa 1 minuto. Aggiungete il fondo bruno, lasciate ridurre nuovamente fino ad ottenere una giusta densità; passate con un colino fine ed aggiungete una piccola noce di burro alla salsa. 3. In una padella antiaderente cuocete al burro i medaglioni di fois gras su entrambi i lati per circa 1 minuto. Disponete al centro del piatto tutti gli ingredienti a torretta, partendo dal pane, poi il filetto, il fois gras ed in fine 2 fettine di tartufo precedentemente tagliate e nappate con la salsa al Madeira.

LT LE A

RE NOSTRE SPECIALITÀ

F ES T I V E

Maialino e agnello da latte Entrecôte Irish Beef Entrecôte di Wagyu Filetto di bisonte Tacchino disossato Tacchino ripieno Cappone Arista di vitello o maiale Gigôt d’agnello Filetto US Beef Anatra Faraona Oca Tacchino

Azione Foie Gras torchon Francia, 170 g Fr. 21.50 invece di 27.80 dal 20 al 26.12

Filetto di Manzo TerraSuisse Svizzera, 100 g Fr. 9.10


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I Tournedos alla Rossini

Attualità Una raffinata ricetta cucinata per i lettori di Azione dallo chef Lorenzo Blardone

del Ristorante Gnesa di Gordola

Natale è una ricorrenza che molti amano trascorrere in casa, insieme alle persone care, festeggiando con lo scambio di auguri, di regali e naturalmente con un pranzo speciale. Per questo la vostra Migros vuole dedicare a questa occasione una proposta raffinata, una preparazione da autentici gourmets. Una ricetta di alta cucina, ma di facile preparazione, con ingredienti che potete facilmente trovare in tutti i negozi Migros del nostro Cantone, i «Tournedos alla Rossini». Eccellente gourmet, il nome del compositore di musica, Gioachino Rossini, è dato ad alcune ricette in cui vengono utilizzati il fois gras ed il tartufo nero. Esiste un famoso aneddoto sull’origine dello strano nome «Tournedos». Rossini amava soggiornare in Francia e ricevere gli amici ai quali offrire i prodotti che egli stesso faceva venire dall’Italia. In particolare egli apprezzava grosse fette di vitello o di manzo fatte cuocere rapidamente in padella, guarnite di fegato d’oca e tartufo. Un giorno egli ordinò al proprio maître che il filetto di manzo venisse cotto in sala da pranzo davanti ai suoi amici, in modo che potesse sorvegliare l’esecuzione. «Maestro, non oserò mai compiere una così banale operazione davanti a voi e agli invitati», disse il maggiordomo imbarazzato. «Ebbene, fatelo girandovi dall’altra parte: tournez-moi le dos». / Davide Comoli

Lo chef Lorenzo Blardone tra i gerenti del Ristorante Gnesa di Gordola: Piero Matozzo (a sin.) e Danilo Camossi. La cucina del ristorante locarnese propone piatti innovativi attenti ai dettagli e nel rispetto della tradizione, con un occhio di riguardo per i prodotti locali. (Flavia Leuenberger)

Filetto di manzo alla Rossini Ingredienti per 4 persone Ingredienti 600 g di filetto di manzo 4 medaglioni di fois gras da 30 g l’uno 1 pezzo Tartufo nero 4 fette di pane toast 2 dl di fondo bruno di carne O,5 dl di Madeira 60 g di burro 1 scalogno Preparazione 1. Tagliate il filetto di manzo in 4 porzioni da 150 g ciascuna e legateli con dello spago per mantenere una forma rotonda durante la cottura. Con un coppa pasta rotondo di circa 6 cm di diametro fate 4 dischi con il pane toast e dorateli al burro in una padella. Salate, pepate i filetti e cuoceteli al burro in una padella (3 minuti per lato). Terminata la cottura privateli dello spago, posateli sopra la fetta di pane toast e lasciateli riposare in forno a 70° per 5 minuti. 2. Tritate lo scalogno, mettetelo in una pentola con il Madeira e fate ridurre a fuoco vivo per circa 1 minuto. Aggiungete il fondo bruno, lasciate ridurre nuovamente fino ad ottenere una giusta densità; passate con un colino fine ed aggiungete una piccola noce di burro alla salsa. 3. In una padella antiaderente cuocete al burro i medaglioni di fois gras su entrambi i lati per circa 1 minuto. Disponete al centro del piatto tutti gli ingredienti a torretta, partendo dal pane, poi il filetto, il fois gras ed in fine 2 fettine di tartufo precedentemente tagliate e nappate con la salsa al Madeira.

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RE NOSTRE SPECIALITÀ

F ES T I V E

Maialino e agnello da latte Entrecôte Irish Beef Entrecôte di Wagyu Filetto di bisonte Tacchino disossato Tacchino ripieno Cappone Arista di vitello o maiale Gigôt d’agnello Filetto US Beef Anatra Faraona Oca Tacchino

Azione Foie Gras torchon Francia, 170 g Fr. 21.50 invece di 27.80 dal 20 al 26.12

Filetto di Manzo TerraSuisse Svizzera, 100 g Fr. 9.10


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Vitamine esotiche per le festività

Attualità Dolce, saporita e utile per la salute,

la frutta che viene da lontano è ormai di casa

Colori vivaci, forme originali, profumi intensi: la frutta esotica è diventata una componente tipica delle feste natalizie. Anche se si trovano facilmente tutto l’anno, ananas, mango , papaya e frutto della passione sono tra i protagonisti delle nostre tavole da Natale all’Epifania. Migros importa la maggior parte di questi prodotti dalla sponda meridionale del Mediterraneo e, per i frutti d’oltreoceano, privilegia i trasporti via mare, limitando il più possibile il trasporto aereo. Oltre a regalare allegria e a colorare la casa, i frutti tropicali sono anche molto gustosi e benefici per la nostra salute. La papaya, ad esempio, è ricca di vitamina C e di provitamina A e si pensa abbia proprietà antiossidanti grazie ai flavonoidi e ai polifenoli di cui sono ricchi i suoi semi. È ideale per macedonie, salse esotiche e come accompagnamento di piatti dolci e salati. ll frutto della passione è una vera e

propria bomba di vitamine (contiene vitamina A, B e C). Usato in numerose ricette, è spesso alla base di cocktail e succhi di frutta, ed è gustosissimo anche con i dessert o con il gelato. Conosciuti anche come «il pane del deserto», anche i datteri sono di casa a Natale: ricchi di fibra e di zuccheri, rappresentano una formidabile fonte di energia. Ottimi da gustare freschi o secchi, vengono farciti con creme o cioccolato, ingolosendo sia i grandi, sia i bambini. Dal sapore dolce e asprigno, il mango è tra i frutti più scenografici. Ricco di minerali come il potassio, il ferro e il magnesio, ha iniziato ad essere coltivato in Florida e alle Hawaii e, secondo la cultura indiana simboleggia la vita. Da non dimenticare l’ananas e il kiwi, frutti che più degli altri sono entrati nel quotidiano anche nelle nostre case, ma che non possono mancare nei cesti natalizi e a conclusione di un pasto ricco e festoso.

Flavia Leuenberger

Le immancabili dolci tentazioni La pasticceria artigianale di Migros Ticino lavora a pieno regime per soddisfare la voglia di dolcezze in sapor di Natale. Anche quest’anno gli esperti del laboratorio di S. Antonino hanno creato vere e proprie opere d’alta pasticceria selezionando solo i migliori ingredienti perché possiate sottolineare degnamente la festa più bella dell’anno. La selezione, ampia e variegata, include le seguenti tentazioni: tronco al kirsch, tronco al cioccolato, torta di Natale alla crema al burro, torta pan di spagna alla fragola o alla frutta mista, stella di sfoglia alla fragola o frutta mista, torta St. Honoré, torta foresta nera, stelline di sfoglia oppure ancora le mini mousse tiramisù, cioccolato/catalana, limone/ fragola e panna cotta. Si raccomanda alla clientela di effettuare la propria ordinazione con almeno due giorni di anticipo direttamente ai banchi pasticceria della propria filiale Migros, oppure telefonando al numero 0848 848 018. Le specialità sono in vendita dal 22 al 24 dicembre.


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Idee e acquisti per la settimana

Plateau di formaggi

Per formaggi e non solo…

Piatto snacking 320 g Fr. 13.50

Tris di creme per formaggi 3 x 100 g, 300 g Fr. 6.50

Pupazzo di neve formaggio svizzero a pasta molle 170 g Fr. 5.30

Le Rustique au Truffe 150 g Fr. 6.90

Blue Stilton 100 g Fr. 8.90

Per concludere il pasto all’insegna del gusto, un ricco tagliere di formaggi misti è proprio quel che ci vuole. I banchi formaggio di Migros Ticino propongono, oltre al già vasto assortimento standard, anche alcune specialità particolari, disponibili solamente

durante il periodo natalizio. Tra queste segnaliamo per esempio alcuni formaggi a pasta molle svizzeri e francesi, come «L’Affine au Chablis»; «Le Rustique al tartufo nero»; l’originale formaggio molle a forma di pupazzo di neve; il piatto di bocconcini di for-

Flavia Leuenberger

L’Affine au Chablis 200 g Fr. 6.30

maggio a pasta fresca farciti e, infine, il celebre Blue Stilton inglese nel vaso di ceramica. Quest’ultimo formaggio erborinato dalla consistenza cremosa si caratterizza per il suo aroma intenso ed è ottimo gustato su crostini di pane o cracker.

Gelatina di vino Chardonnay 100 g Fr. 1.80

L’abbinamento formaggi e marmellate o composte dolci permette di creare fantastiche combinazioni ricche gusto tutte da scoprire. I tris di creme per formaggi (arancia piccante, pera senapata piccante e salsa di amarene) e la gelatina di vino Chardonnay dell’azienda agricola molisana «Orto d’Autore» sono perfette combinate a formaggi freschi e morbidi, stagionati o dolci, ma non disdegnano nemmeno carni mi-

Marmellata di arance al whisky 340 g Fr. 3.95

ste, bolliti e pesci. Sono tutte vegetali al 100 per cento, senza glutine né lattosio. Dalla Scozia arriva invece un’autentica leccornia per gli amanti degli agrumi e del whisky: la marmellata di arance affinata con un goccio di whisky scozzese del marchio «Mackays». È una delizia sia a colazione su pane tostato e croissant, oppure abbinata a piatti salati a base di formaggio e pollame, come pure ai dessert più variegati.

L’aperitivo ticinese è servito Sinfonia di sapori

Aperitív Ticinés 6 x 10 cl Fr. 3.50

Sélection Perle di Aceto Balsamico di Modena IGP 50 g Fr. 5.90

Flavia Leuenberger

L’aperitivo analcolico ticinese per eccellenza? Si chiama Aperitív Ticinés, ed è prodotto come le amate gazose nostrane dalla Sicas di Chiasso seguendo una ricetta tradizionale con l’impiego di ingredienti esclusivamente naturali. Grazie al suo caratteristico sapore dolce-amaro piace non solo agli adulti, ma anche ai piccoli ospiti. Tradizionalmente si serve da solo, semplicemente con qualche cubetto di ghiaccio e una fettina di limone o arancia, ma è ottimo anche combinato ad altre bevande per creare originali drink e cocktail, non solo analcolici. L’Aperitív Ticinés è in vendita in tutti i supermercati Migros nella confezione da sei bottigliette.

Le Perle di Aceto Balsamico di Modena IGP rappresentano un modo originale per coccolare palato e occhi. Le piccole sfere morbide dall’aspetto simile al caviale racchiudono il miglior condimento italiano e sono perfette per arricchire di sapore e carattere molti piatti tradi-

zionali, dalla carne al pesce, dai finger foods agli antipasti, passando per le insalate fino a dessert come gelati, dolci al cucchiaio e frutta. In poche parole, con le perle di Aceto Balsamico ognuno si trasforma in un grande chef. Provare per credere.


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Idee e acquisti per la settimana

E la festa inizia con un ricco antipasto Attualità Alcune irresistibili e freschissime proposte gastronomiche di Migros Ticino Fantasia e ingredienti di elevata qualità danno vita a degli aperitivi ricchi di sapore ed esteticamente seducenti. I cubetti sono realizzati a partire da prodotti ittici particolarmente apprezzati, nella fattispecie gamberetti, polipo e salmone affumicato, i quali sono successivamente elaborati con salsa cocktail, olive e insalata russa. Cubetti misti 330 g Fr. 10.90 L’aragosta non manca mai agli appuntamenti importanti con il buongusto. La polpa di questo crostaceo dal sapore delicato permette di approntare ricette sempre molto apprezzate dai commensali. L’aragosta in Bellavista è preparata da esperti gastronomi con l’utilizzo di crostacei dell’AtlanticoSettentrionale. La mezza aragosta viene infine decorata con maionese e gelatina per renderla ancora più invitante. Aragosta in Bellavista conf. ca. 480 g, 100 g Fr. 3.90

Impossibile resistere alla tentazione di fronte agli invitanti medaglioni ai crostacei. Le creazioni gastronomiche sono realizzate con saporita polpa di aragosta e gamberi interi, arricchiti successivamente con insalata russa e salsa tartara. Lasciatevi sedurre da queste specialità prettamente festive. Medaglioni aragosta e gamberi 210 g Fr. 8.90

Friabile pasta sfoglia riccamente farcita con gamberi interi, mousse di tonno e paté si trasformano in una finissima preparazione bella da vedere e buonissima da gustare: i vol-au-vent misti. Queste bontà di origini francesi sono state create per soddisfare la gola di tutti i commensali, anche i più esigenti. Vol-Au-Vent misti 320 g Fr. 9.– invece di 12.90 (dal 20 al 24.12) Annuncio pubblicitario

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di riduzione l’uno Tutti i brodi Knorr in barattolo a partire da 2 pezzi, 2.– di riduzione l’uno, per es. estratto di verdure, 250 g, 6.40 invece di 8.40

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Altre offerte. Pesce, carne e pollame

Pastiglie per la gola in conf. da 2, Salbisan e Cassis, per es. Cassis, 2 x 220 g, 8.60 invece di 10.80 20%

Fiori e piante

Tutti i prodotti Kellogg’s in conf. da 2, per es. Tresor Choco Nut, 2 x 600 g, 10.20 invece di 12.80 20% Roastbeef cotto, Svizzera/Germania, affettato in vaschetta, per 100 g, 4.80 invece di 6.95 30%

conf. da 2

20% Prodotti Garnier in conf. da 2 per es. salviettine detergenti per il viso per pelli sensibili, 25 pezzi, 6.70 invece di 8.40

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Vol-au-vent, prodotto in Ticino, in conf. da 320 g, 9.– invece di 12.90 30%

33% Shampoo Nivea in conf. da 3 per es. Classic Care, 3 x 250 ml, 6.50 invece di 9.75, offerta valida fino al 2.1.2017

20% Saponi I am, Esthetic, pH balance e Nivea in conf. da 2 per es. sapone liquido pH balance, 2 x 300 ml, 5.10 invece di 6.40, offerta valida fino al 2.1.2017

Sugo al basilico Agnesi in conf. da 3, 3 x 400 g, 6.95 invece di 8.70 20%

Altri alimenti

Tutti gli aceti e i condimenti Ponti, per es. aceto balsamico di Modena, 50 cl, 3.40 invece di 4.25 20%

Tutte le noci Party, per es. noci miste salate, 200 g, 2.15 invece di 2.70 20%

Prodotti di ovatta Primella in conf. da 2 per es. dischetti di ovatta, 2 x 80 pezzi, 3.– invece di 3.80, offerta valida fino al 2.1.2017

Panettone artigianale, 500 g, 14.30 invece di 17.90 20% Treccia Leventina, 500 g, 3.60 invece di 4.50 20%

conf. da 2

Bouquet di rose Olivia, il mazzo, 19.90 Hit

Pane e latticini

Bûche Marc de Champagne, 340 g, 11.80 invece di 14.80 20%

conf. da 3

Tutti i truffes Frey, UTZ, per es. truffes assortiti, 256 g, 10.05 invece di 12.60 20%

Tutto l’assortimento Peperlizia Ponti, per es. cipolle, 220 g, 2.45 invece di 3.10 20%

Gamberetti del Canada cotti e sgusciati Pelican, MSC, surgelati, 300 g, 6.– invece di 7.50 20%

Near Food/Non Food

Cioccolatini Selection Frey in sacchetto da 1 kg, UTZ, assortiti, 15.– invece di 30.10 50% ** Tutte le farine speciali, per es. di spelta originale chiara TerraSuisse, 1 kg, 2.85 invece di 3.60 20%

Ammorbidenti Exelia in conf. da 2, per es. Orchid, 2 x 1,5 l, 10.40 invece di 13.– 20% **

Capesante alla bretone Pelican, MSC, surgelate, 2 x 110 g, 5.– invece di 6.30 20% *

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 dicembre 2016 • N. 51

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 19 dicembre 2016 • N. 51

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Idee e acquisti per la settimana

Assortimento Migros-Bio

Pane del trebbiatore Migros-Bio

Varietà e molteplicità

Sempre qualcosa di nuovo

L’offerta Migros-Bio, con l’assortimento in costante crescita, promuove la varietà dell’offerta alimentare bio.

Dalla sua introduzione, nel 1995, l’assortimento di prodotti biologici Migros è stato costantemente ampliato. Se inizialmente comprendeva solo verdura e frutta, oggi nella qualità bio sono disponibili anche numerosi alimenti. Come il pane del trebbiatore, che alcuni clienti della Migros hanno degustato. Di seguito la loro opinione sul sapore del pane e su come al meglio abbinarlo con altri alimenti

Marius Meier «Secondo me il pane del trebbiatore si abbina bene all’hummus. Personalmente preferisco però le varietà di pane che contengono semi interi e che hanno una crosta più morbida.»

Testo Heidi Bacchilega; Immagini Paolo Dutto

Migros Bio Cappelli di spugnole secchi, 20 g Fr. 13.50

Il pane del trebbiatore è prodotto con grano scuro e contiene semi di lino, farro e semi di girasole. Si abbina a dolce e salato

Migros Bio Pane del trebbiatore 380 g Fr. 3.40

Gertrud Grab «Il pane è davvero croccante. Si sente un sapore di noce, che a me piace, infatti normalmente acquisto il pane alle noci. Mangerei il pane del trebbiatore con salumeria o carne, oppure con burro e marmellata.»

Alisha Fateh «Ha un buon sapore! Nel pane del trebbiatore riconosco la segale, il farro e i semi di lino. Lo accompagnerei con formaggi e salumi.»

Migros Bio Gipfel al prosciutto surgelato, 210 g Fr. 4.90

Alla scoperta continua dei nuovi prodotti bio

Migros Bio è sinonimo di agricoltura in armonia con la natura. L’assortimento bio comprende oltre 1300 prodotti.

Parte di

Vittorio Autiero «Si potrebbe servire il pane del trebbiatore con olive o pomodori secchi, più in generale con gli antipasti. Per i miei gusti la crosta è farinosa, mentre la mollica dovrebbe essere un po’ più consistente. Più simile al pane bio della fattoria del sole, il mio preferito.»

Bio significa anche produzione nel rispetto della natura e dell’ambiente. Denis Krebs «Il pane del trebbiatore ha un sapore leggermente acidulo. Per questo motivo penso che si potrebbe abbinare molto bene ai formaggi freschi.»

Da leggere la prossima settimana: degustazione di mandorle al timo e rosmarino

Migros-Bio Tè Klostergarten Fiori di Bach Vitality 19,5 g Fr. 5.20


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Idee e acquisti per la settimana

Assortimento Migros-Bio

Pane del trebbiatore Migros-Bio

Varietà e molteplicità

Sempre qualcosa di nuovo

L’offerta Migros-Bio, con l’assortimento in costante crescita, promuove la varietà dell’offerta alimentare bio.

Dalla sua introduzione, nel 1995, l’assortimento di prodotti biologici Migros è stato costantemente ampliato. Se inizialmente comprendeva solo verdura e frutta, oggi nella qualità bio sono disponibili anche numerosi alimenti. Come il pane del trebbiatore, che alcuni clienti della Migros hanno degustato. Di seguito la loro opinione sul sapore del pane e su come al meglio abbinarlo con altri alimenti

Marius Meier «Secondo me il pane del trebbiatore si abbina bene all’hummus. Personalmente preferisco però le varietà di pane che contengono semi interi e che hanno una crosta più morbida.»

Testo Heidi Bacchilega; Immagini Paolo Dutto

Migros Bio Cappelli di spugnole secchi, 20 g Fr. 13.50

Il pane del trebbiatore è prodotto con grano scuro e contiene semi di lino, farro e semi di girasole. Si abbina a dolce e salato

Migros Bio Pane del trebbiatore 380 g Fr. 3.40

Gertrud Grab «Il pane è davvero croccante. Si sente un sapore di noce, che a me piace, infatti normalmente acquisto il pane alle noci. Mangerei il pane del trebbiatore con salumeria o carne, oppure con burro e marmellata.»

Alisha Fateh «Ha un buon sapore! Nel pane del trebbiatore riconosco la segale, il farro e i semi di lino. Lo accompagnerei con formaggi e salumi.»

Migros Bio Gipfel al prosciutto surgelato, 210 g Fr. 4.90

Alla scoperta continua dei nuovi prodotti bio

Migros Bio è sinonimo di agricoltura in armonia con la natura. L’assortimento bio comprende oltre 1300 prodotti.

Parte di

Vittorio Autiero «Si potrebbe servire il pane del trebbiatore con olive o pomodori secchi, più in generale con gli antipasti. Per i miei gusti la crosta è farinosa, mentre la mollica dovrebbe essere un po’ più consistente. Più simile al pane bio della fattoria del sole, il mio preferito.»

Bio significa anche produzione nel rispetto della natura e dell’ambiente. Denis Krebs «Il pane del trebbiatore ha un sapore leggermente acidulo. Per questo motivo penso che si potrebbe abbinare molto bene ai formaggi freschi.»

Da leggere la prossima settimana: degustazione di mandorle al timo e rosmarino

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Idee e acquisti per la settimana

L’Oréal Paris

«La giusta cura del viso migliora l’aspetto della pelle» Dei buoni geni sono il requisito di base per una pelle dall’aspetto giovanile? Sì, ma non solo: la dermatologa Sabine Zenker spiega come aver cura della propria pelle in modo da apparire più giovani Intervista Anna Bürgin

Dott.ssa Zenker, l’invecchiamento naturale non si può bloccare. Ha quindi senso una cura anti-invecchiamento?

Assolutamente sì. Il principio cosmetico per impedire che la pelle invecchi troppo è quello di proteggerla dalla luce del sole. Se messo in pratica ogni giorno, anche d’inverno, con costanza e in modo appropriato al tipo di pelle, tale principio protegge la nostra cute dai raggi UV. Quali fattori d’invecchiamento si possono contrastare con i trattamenti per la pelle?

A partire all’incirca dai 25 anni la nostra pelle invecchia costantemente a causa di agenti esterni come i raggi del sole, il fumo, lo stress e fattori genetici predeterminati. Inoltre, con l’avanzamento dell’età rallenta il ritmo con cui le cellule si rinnovano. Tuttavia, curando la pelle in modo appropriato possiamo fare molto affinché l’età non sembri quella reale. Per esempio, possiamo fornirle umidità regolarmente tramite l’acido ialuronico. Si tratta di un componente endogeno della cute e del tessuto connettivo. In altre parole: si tratta di una molecola zuccherina dall’elevata capacità di immagazzinare acqua, quindi

essenziale per una pelle elastica e compatta. L’acido ialuronico viene prodotto direttamente dal corpo, ma questa capacità scema nel corso degli anni: ogni dieci anni il corpo perde il sei percento del suo contenuto di acido ialuronico. Perciò, è importante rifornire la cute dall’esterno. In questo modo sembra più sana e fresca. Anche le vitamine A e C oppure i peptidi possono stimolare la formazione di collagene della pelle, rafforzandone la struttura. C’è un altro metodo efficace per contrastare l’invecchiamento?

Un’alimentazione sana, e di conseguenza una buona digestione, è alla base di una bella pelle. Credo che in futuro impareremo molto di più a proposito di questa complessa relazione! Si può, comunque, restituire elasticità alla pelle anche lasciando agire una maschera sul viso durante la notte, così che le sostanze agiscano durante il sonno. Cosa suggerisce alle persone che sono soggette a irritazioni cutanee?

Spesso insorgono fattori d’incompatibilità con i cosmetici non a causa dei principi attivi in sé, ma del tipo di additivi come le miscele di profumi, gli stabilizzatori ecc. Se qualcuno è sensibile,

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si consiglia di testare prima le creme sull’interno dell’avambraccio. E in caso di dubbio rivolgersi al dermatologo: questi può eseguire dei test e consigliare la cura più appropriata. Come agisce sulla pelle un siero per il viso?

Un siero è un concentrato di sostanze attive, che rafforza ulteriormente l’effetto della crema applicata successivamente. Di regola, il siero si applica subito dopo aver lavato il viso. Preferibilmente al mattino e alla sera, sempre come complemento alla cura quotidiana della pelle. E quando ha senso usare una crema per il contorno occhi?

Queste creme sono prodotte appositamente per la zona perioculare. Non contengono sostanze che possono danneggiare la cute delicata di quest’area e soprattutto l’occhio. Inoltre, curano in modo adeguato la pelle delicata del contorno occhi. Principi attivi specifici contrastano le rughe o sgonfiano le borse sotto gli occhi. Tuttavia, è meglio non applicarle strofinando, ma picchiettando delicatamente con i polpastrelli. In questo modo non si irrita inutilmente la sottile pelle del contorno occhi.

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La Dott.ssa Sabine Zenker è medico specialista in dermatologia.

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