Azione 10 del 2 marzo 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio La lavorazione della pietra ollare ha una lunga tradizione, che viene mantenuta viva

Ambiente e Benessere Nascere smart: si può è il tema della tavola rotonda al nono Simposio di perinatologia della Clinica Sant’Anna, sabato 21 marzo

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 2 marzo 2020

Azione 10 Politica e Economia La Colombia scopre nuove fosse comuni del governo Uribe

Cultura e Spettacoli Una mostra straordinaria a Palazzo Reale a Milano per Georges de La Tour

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di Marti, Caracciolo, Rampini, Caruso pagine 11, 27-29

AFP

Un’emergenza mondiale

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Né panico, né rimozione, ma sangue freddo di Peter Schiesser Adesso che l’influenza da coronavirus è arrivata anche qui, possiamo constatare su di noi, su ci sta attorno, quanto un’epidemia e la possibilità di una pandemia scatenino dei meccanismi psicologici, comportamentali, mentali atavici, che riassumerei in due parole: paura o rimozione. La prima porta a temere una diffusione a tappeto della malattia, la seconda a ritenere che il can can mediatico e le drastiche misure di contenimento del contagio siano esagerate e che sia tutto una montatura. Sono meccanismi mentali che possiamo controllare solo parzialmente, tentando di razionalizzarli. È inutile giudicarli, dobbiamo farci i conti. Naturalmente, questo rende il compito delle autorità politiche e sanitarie oltremodo difficile e complesso. L’incertezza tipica di ogni inizio di epidemia, con i casi conclamati che cominciano a crescere, impone delle decisioni che possono cambiare di giorno in giorno. E qui la differenza la fanno le singole nazioni, con il loro sistema sanitario, l’ordinamento politico, la mentalità della popolazione. In paesi autoritari-dittatoriali come l’Iran (e la Cina inizialmente) si

tende a nascondere la realtà, per cui laddove il virus appare non si sa come comportarsi, non ci sono misure di contenimento del contagio, le strutture sanitarie sono impreparate, la sfiducia verso le autorità rende più difficile la gestione dell’emergenza. In Europa invece, a parte le corse ai supermercati e alle farmacie e un’ansia più o meno diffusa nelle popolazioni, l’epidemia – a questo stadio – viene gestita in modo serio e razionale: non si minimizza il pericolo ma si cerca di contenere oltre al contagio anche le paure della popolazione, spiegando con trasparenza lo stato della situazione, dando indicazioni su come comportarsi, facendo appello al senso di responsabilità di ognuno, allo stesso tempo si rafforzano i dispositivi medici, preparando le strutture ad accogliere un alto numero di pazienti. Così viene fatto anche in Svizzera e in Ticino. Le autorità cantonali e gli esperti che compongono la cellula di crisi, in primis il medico cantonale Giorgio Merlani, hanno fin qui dato mostra di grande serietà e competenza. Le decisioni che sono state prese (la cancellazione dei carnevali e lo svolgimento a porte chiuse delle partite di hockey, l’invito a rinunciare a manifestazioni pubbliche) non sono sicuramente state facili, d’altro canto non è facile far comprendere che le scuole

invece oggi debbano riaprire (ma chi si occuperebbe di bambini e ragazzi se i genitori lavorano? Meglio tenere a casa chi è malato). Ma anche la popolazione ha fin qui reagito in modo sensato e tutto sommato tranquillo. Il paziente settantenne ricoverato alla Clinica Moncucco, in particolare, ha fatto esattamente quel che andava fatto, con grande senso di responsabilità: non si è recato dal medico o in ospedale, per non contagiare nessuno, bensì ha preso contatto con il suo medico e ha poi seguito le indicazioni che gli sono state date. Un tale comportamento è fondamentale per contenere la diffusione della malattia, poiché diversamente, con centinaia di persone contagiate, il nostro sistema sanitario giungerebbe presto al collasso. Noi restiamo con l’interrogativo su quanto sia pericoloso questo coronavirus. Pare che lo sia soprattutto per le persone anziane e malate, ma questo, anziché servire a minimizzarne la portata, dovrebbe piuttosto renderci ancora più responsabili, poiché anziani e malati, quindi le persone più vulnerabili, hanno lo stesso diritto nostro di essere protette dal contagio. Come hanno già scritto altri, serve una grande dose di buon senso e la disponibilità ad adattarci ad una situazione che muta di giorno in giorno.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 marzo 2020 • N. 10

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Attualità Migros

Diventare formatori digitali

Tutti in pista ad Airolo

con certificato FSEA

8 marzo sarà Famigros Ski Day

Scuola Club Migros Ticino In partenza un nuovo corso per la didattica del futuro

Il mondo della formazione sta attraversando un cambiamento epocale sotto la spinta di quella che in molti hanno definito «rivoluzione digitale». Per ogni formatore si apre una sfida appassionante: attrezzarsi con nuove competenze, ma anche con un nuovo sguardo sull’apprendimento. «Oggi confrontarsi con il digitale è inevitabile» ci spiega Barbara Sangiovanni, Responsabile della Formazione FFA alla Scuola Club di Migros Ticino: «Come Scuola Club desideriamo accompagnare questa transizione. Molti dei nostri formatori e dei partecipanti ai nostri corsi FSEA hanno tra i 30 e i 50 anni, una fascia di età a tratti poco influenzata dal digitale. Noi offriamo loro un percorso di riflessione e, insieme, di pratica; una palestra per imparare a muoversi con agio nel mondo dell’apprendimento digitale». Il formatore può dirsi «digitale» quando non solo è esperto nella propria materia, ma è anche in grado di pianificare, realizzare e analizzare i processi di apprendimento, attraverso l’uso di strumenti digitali. In aula l’utilizzo di smartphone, tablet e video è già molto diffuso. Cosa offre in più questo corso?

Serata informativa «Formatore Digitale» Percorso con certificato FSEA di Formazione continua Venerdì 24 aprile 2020 Scuola Club Migros Lugano, Via Pretorio 15 17.45 Benvenuto e Networking 18.30 Presentazione del percorso a cura di Barbara Sangiovanni, Responsabile FFA – Scuola Club di Migros Ticino. Iscrizioni entro il 6 aprile sul sito: www.scuola-club.ch

Per ogni formatore si apre una sfida appassionante.

«La competenza di saper selezionare in modo appropriato e consapevole i media digitali in base ai diversi bisogni formativi» puntualizza Barbara Sangiovanni. «Insieme sperimenteremo e poi rifletteremo, sia dal punto di vista del formatore che del partecipante, i processi che i diversi strumenti digitali attivano e gli impatti che generano. Testeremo diversi modelli di blended learning, integrando e facendo dialogare l’aula in presenza e l’aula virtuale, modalità asincrone e sincrone. Questa scelta significa per noi riconfermare la centralità della relazione formatore-discente che esce rafforzata dalle opportunità aperte dalle nuove tecnologie». Alla fine del corso i partecipanti sapranno muoversi con consapevolezza tra le diverse opzioni didattiche

offerte dal mondo digitale; adottare i più comuni device; attivare e animare una community di apprendimento grazie alle piattaforme e ai blog; verificare gli apprendimenti con gli strumenti digitali, ad esempio il «Kahoot!». «Questa progettazione d’avanguardia è partita a livello nazionale nelle Scuole Club Migros e noi siamo i primi a proporla in Ticino. Dal 2015 stiamo investendo con convinzione nell’innovazione digitale, tanto nell’infrastruttura delle nostre aule quanto nell’approccio didattico dei nostri corsi. Quali leader sul mercato nell’ambito della formazione dei formatori FFA, che già da tempo vede le competenze digitali parte fondamentale del profilo del formatore, ci sentiamo pronti anche a questa nuo-

va scommessa, mettendoci a fianco di tutti i formatori, sia di quelli futuri, sia di quelli che sono già passati dalla nostra scuola». Requisiti per la partecipazione al corso di «Formatore digitale» sono il possesso del Certificato FSEA 1 e un buon utilizzo dei più comuni applicativi. Verrà rilasciato un Certificato FSEA di Formazione continua. Così conclude Sangiovanni: «Le neuroscienze lo confermano: i processi mentali e gli stili di apprendimento sono cambiati con l’esperienza digitale. Questo corso è una grande occasione di aggiornamento per tutti i formatori che desiderano comprendere questa trasformazione e dialogare con competenza ed efficacia con i pubblici più giovani.

Sci Il prossimo

Lo avevamo già annunciato nelle scorse settimane, ed ora ecco un breve promemoria per tutte le famiglie che amano gli sport sulla neve. La prossima domenica 8 marzo si terrà il consueto Famigros Ski Day, manifestazione agonistica che invita mamme, papà e bambini a cimentarsi insieme sulle nevi della pista di Airolo. La giornata è organizzata da Famigros, il club per le famiglie di Migros. La quota di iscrizione comprende una carta giornaliera per la stazione sciistica, un buono per il pranzo, un regalo per ogni famiglia iscritta e una medaglia ricordo. Il costo del pacchetto è di 110 franchi per famiglia, ma per i membri di Famigros (adesioni gratuite su: www.famigros.ch/iscrizione) e di Swiss – Ski, il prezzo scende a 85 franchi. È ancora possibile iscriversi utilizzando l’apposito formulario contenuto nel sito www.famigros-ski-day. ch. Condizione per l’iscrizione è che la famiglia sia composta da tre a cinque persone (di cui al massimo due adulti): la partecipazione è permessa su sci o snowboard. Inoltre, almeno un bambino deve essere nato dal 2006 in poi. Il calendario dei Famigros Ski Day si concluderà il 22 marzo a Stoos. Informazioni di dettaglio

www.famigros-ski-day.ch

Famigros Ski Day, domenica 8 marzo, Airolo

Camelie musicali, anno dodicesimo

Un armadio pieno di divertimento

arricchisce il suo programma aggiungendo una serata

della stagione 2019-2020 propone «Libero?»

Rassegne L’appuntamento locarnese con la musica barocca

Il Festival Internazionale di Musica Antica «Concerti delle Camelie» è una delle manifestazioni musicali ticinesi più... primaverili. Prendendo spunto dalla fioritura di queste splendide piante, che sono ormai un emblema della stagione turistica locarnese, i concerti propongono al loro affezionato pubblica la consueta scelta di musica da camera raffinata e di qualità, chiamando a Locarno alcune formazioni specializzate nella musica barocca. Giunti alla loro dodicesima edizione, i concerti offriranno quest’anno una novità sicuramente apprezzata. Il calendario delle serate, tradizionalmente tenute alla Sala Sopracenerina di Locarno, si arricchisce infatti di un ulteriore concerto, previsto alla Chiesa Nuova di Locarno.

Concorso «Azione» offre ai suoi lettori alcune coppie di biglietti per le cinque serate locarnesi. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/ concorsi. Buona fortuna!

Ma ecco il programma completo: Venerdì 13 marzo 20.30 «La bottega del caffè» Ensemble Atalanta Fugiens Vanni Moretto, direzione Musiche di S. Pavesi, A. Rolla, N. Zingarelli, G.B. Sammartini, W.A. Mozart Venerdi 27 marzo 20.30 «Le Sonate di J.S. Bach» Marcello Gatti, flauto traversiere Francesco Corti, clavicembalo Venerdì 3 aprile 20.30 «Gioielli Musicali» Accademia dell’Arcadia Turicum Sabrina Frey, flauto dolce; Fiorenza de Donatis, violino; Marco Frezzato, violoncello; Philippe Grisvard, clavicembalo; Vanni Moretto, violone Musiche di J.F. Fasch, W. Babell, G.F. Händel, J.S. Bach, G. Sammartini, G.B. Platti, G.P. Telemann Venerdì 10 aprile 17.00 (Chiesa Nuova Locarno) «Dal Violino all’Arpa» Flora Papadopoulos, arpa barocca Musiche di H.I.F. Biber, G. Tartini, B. Marini, E.J. de la Guerre A. Corelli, J.S. Bach Venerdì 17 aprile 20.30 «Mozart e Beethoven: Quintetti per fiati e pianoforte» Ensemble Dialoghi Cristina Esclapez, fortepiano; Josep

Camelie in fiore nella Sala Sopracenerina di Locarno.

Minispettacoli L’ultimo appuntamento

Due personaggi stralunati e divertenti durante i loro vagabondaggi incontrano... un armadio. Uno strano armadio pieno di cassetti e sportelli da cui escono oggetti bizzarri e di cui è difficile capire a che cosa servano. Con grande voglia di divertirsi e di far divertire il loro pubblico, i due clown Andreas Manz e Bernard Stöckli durante il loro spettacolo «Libero?» danno quindi il via a un gioco creativo in cui inventano giochi di abilità e acrobazie con corde, tubi, cappelli, lenzuola e con tanti altri oggetti usciti dal mobile magico.

Domènech, oboe; Lorenzo Coppola, clarinetto; Bart Aerbeydt, corno; Javier Zafra, fagotto.

I due artisti sono entrambi diplomati alla scuola Dimitri e calcano da molti anni le scene proponendo un duo divertente e surreale. La loro compagnia «minimalista» si chiama in effetti «Compagnia due» e fino ad oggi ha già messo in scena vari spettacoli, la cui formula magica è sempre la stessa: la riscoperta umoristica di oggetti e situazioni della vita di ogni giorno. «Libero?»

Domenica 3 marzo, ore 16.00 Teatro Oratorio Don Bosco, Minusio In collaborazione con

Info di dettaglio

www.concertidellecamelie.com concertidellecamelie@gmail.com

Concorso

Concerti delle Camelie

Dal 13 marzo al 17 aprile 2020 Locarno In collaborazione con Bernard Stöckli e Andreas Manz in scena. (www.compagniadue.com)

«Azione» offre ai suoi lettori alcune coppie di biglietti per lo spettacolo «Libero?». Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 marzo 2020 • N. 10

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Società e Territorio Tenera, untuosa, resistente Attorno alla pietra ollare si è formata una cultura che si mantiene viva ancora oggi, anche nelle Centovalli

Torna Espoprofessioni Dal 9 al 14 marzo Lugano accoglierà la quattordicesima edizione. Ne parliamo con la responsabile della logistica, Sabrina Dalpozzo De Martino pagina 7

Quando la Spagnola colpì il Ticino Un secolo fa il nostro cantone era totalmente impreparato ad affrontare una pandemia. E già allora circolavano varie fake news pagina 11

pagina 5 Non tutti amano particolarmente essere baciati. (Marka)

Educare al consenso

Relazioni Secondo esperti e manuali è necessario insegnare fin dall’infanzia il rispetto del proprio corpo

e di quello degli altri e l’importanza dei confini personali Stefania Prandi Ogni persona, a partire dall’infanzia, sviluppa un proprio senso del limite per quanto riguarda il corpo. Ad esempio, c’è chi non vuole ricevere abbracci dai conoscenti, chi non gradisce baci dai parenti, fatta eccezione per i genitori, chi detesta il solletico. Questi «confini» vanno rispettati. Esiste una parola che ancora fatica a essere usata in italiano – a differenza di quanto accade in inglese – che sintetizza questo concetto: «consenso». Secondo l’Organizzazione delle nazioni unite (Onu), «creare una cultura del consenso richiede a tutti noi di trasformare il modo in cui ci rapportiamo agli altri. Già dalla tenera età, bisognerebbe insegnarne l’importanza ai bambini e alle bambine», trasmettendo così uno strumento di consapevolezza dei propri diritti. Rachel Brian, ricercatrice e artista, ha spiegato il significato di «consenso» usando la metafora della tazza di tè nel video Tea Consent, diventato virale su YouTube con centocinquanta milioni di visualizzazioni. Nel breve corto di animazione viene illustrato che, se si offre il tè a qualcuno, non si deve costringerlo ad accettare per forza la taz-

za con la bevanda né obbligarlo a bere, versandogliela in bocca. Va assecondata la decisione di chi dice subito di no e anche di chi cambia idea all’ultimo momento. «No significa no», per usare uno slogan che viene ripetuto nei dibattiti e nei corsi di educazione negli Stati Uniti. Rachel Brian ha cercato di rendere chiaro il tema del consenso in Dai un bacio a chi vuoi tu (De Agostini), manuale per l’infanzia appena pubblicato in italiano. Il libro fornisce, con testi semplici corredati da disegni, gli strumenti per riconoscere le insidie in ogni ambiente, reale o virtuale, dal bullismo all’adescamento, a contatto con coetanei e adulti. Come possiamo comunicare cosa ci piace e quello che invece ci mette a disagio? Cosa vuol dire fidarsi del proprio istinto? Si può cambiare idea? Come si chiede aiuto? Attraverso le risposte a queste domande i più piccoli, a partire dai sei anni, imparano a difendersi, ad avere fiducia in se stessi e a rispettare gli altri. Sul sito della Harvard Graduate School of Education, Gideon Kahn, educatore che ha insegnato negli asili in California e a New York, spiega l’utilità di un vocabolario semplice e chiaro per farsi capire quando si parla di consen-

so, con parole come «corpo», «spazio» e «mani». L’obiettivo è che se un bimbo oppure una bimba non voglia essere abbracciato da un compagno possa dire «questo è il mio corpo» ed essere capito all’istante. Junlei Li, docente alla Harvard Graduate School of Education, ritiene che si debba insegnare che non c’è niente di male a manifestare il proprio disagio. Per riuscirci, il primo passo è mettersi in ascolto dei più piccoli e poi indirizzarli nel riconoscere ciò che provano. Troppo spesso educatori e genitori scoraggiano chi esprime tristezza, rabbia oppure fastidio. Questo, però, non è un atteggiamento costruttivo perché riuscire a identificare le emozioni negative può aiutare a difendersi quando si viene feriti, a sviluppare empatia e riconoscere emozioni simili negli altri. «Se un bambino oppure una bambina è triste, non è raro che si senta dire: non piangere, non è successo niente, oppure che venga distratta molto velocemente, senza che possa focalizzarsi sulla sensazione spiacevole. Ma esprimere un certo grado di tristezza o rabbia è importante per crescere». Elizabeth Schroeder, educatrice alla Montclair State University e alla Widener University, consulente per

Unfpa (agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di sessualità e salute riproduttiva), autrice del manuale Sex, Love, and Psychology (Sesso, amore e psicologia), pubblicato nel 2009 per Praeger Pub Text, è convinta che sia fondamentale cominciare dall’infanzia ad acquisire la dimensione del «consenso». Si può evitare così, nell’adolescenza e in età adulta, di mettere in atto comportamenti nocivi con se stessi e con gli altri. Secondo Schroeder è importante stimolare riflessioni sull’autonomia personale, sulle relazioni, e sugli aspetti della salute intima, chiaramente adottando modi e linguaggi specifici per ogni età. È meglio usare i termini giusti già dai tre anni rispetto all’anatomia, evitando nomignoli, per non creare confusione né imbarazzi inutili. Esattamente come si utilizzano le parole «occhi», «braccia», «pancia», così si possono nominare le altre parti del corpo, sottolineando che nessuno, fatta eccezione per se stessi, è autorizzato a toccarle a meno che si tratti di un medico che sta facendo una visita specifica e comunque sempre in presenza dei genitori. È basilare educare a credere nel proprio istinto e nelle sensazioni. Per cominciare si può considerare le vo-

lontà dei piccoli rispetto al cibo: se un bambino durante il pasto dice di essere sazio va creduto e non forzato. Melissa Pintor Carnagey, educatrice e fondatrice del sito internet «Sex Positive Families», dal quale i genitori possono scaricare vademecum e opuscoli, ritiene che riuscire a essere in contatto con se stessi e con quello che si desidera è la premessa per potere reagire a situazioni di difficoltà o di pericolo. È anche necessario non focalizzarsi, come succede ancora troppo spesso, soltanto sulle bambine, insistendo su quali siano i modi migliori per esprimere i no perché si toglie da subito la responsabilità ai bambini, futuri uomini adulti. Elizabeth Schroeder racconta di spiegare così, al proprio figlio, come riconoscere se qualcuno non è d’accordo e non sta dando il consenso: «Se non sei sicuro della volontà dell’altra persona prendi la sua risposta come un no, non fare nulla, e parlane per capire meglio». Un altro suggerimento è incoraggiare bambine e bambini a motivare i propri rifiuti. Ad esempio, «non ho voglia di darti un abbraccio, ma va bene se ci teniamo la mano», è una frase per fare capire che è lecito sentirsi a proprio agio con certe cose e non con altre.


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Idee e acquisti per la settimana

Il regno del fai da te a Grancia

Attualità Il Do it + Garden luganese ti aspetta con il suo ampio assortimento di articoli per la casa,

il giardino e per i tuoi hobby preferiti

Il negozio specializzato Migros in via alla Roggia 1, a Grancia, con la sua superficie di vendita di quasi 2500 mq, offre un vasto e variegato assortimento di oltre 14mila articoli nei settori più disparati del fai da te. Giardinaggio, costruzione, articoli per la casa, bagno e sanitari, lavori manuali, ferramenta, macchinari, sicurezza, illuminazione, accessori per l’auto e la moto, prodotti per gli animali domestici… praticamente in ogni ambito famiglie e appassionati di hobbistica trovano l’articolo giusto per realizzare i propri progetti. Il personale, disponibile, competente e ben formato, accoglie la clientela per aiutarla nella scelta e assisterla negli acquisti. Non vanno nemmeno dimenticati i diversi utili servizi offerti da Do it + Garden, tra cui per esempio montaggio e consegna a domicilio, riparazioni e ricambi, taglio legno su misura,

consigli sulla coltivazione delle piante, miscelazione colori secondo i propri desideri, servizio tosaerba, smaltimento nel rispetto dell’ambiente degli articoli in disuso e garanzia di 2 anni. Tra le novità da scoprire fin da subito, segnaliamo le nuove collezioni di mobili da giardino e campeggio, le novità in ambito grill dei marchi Sunset BBQ, Weber e Outdoorchef (con consegna gratuita a partire da un acquisto di Fr. 99.–), gli ultimissimi elettroutensili dei marchi Bosch Blu e Verde, Einhell, Stanley, Lux e tutto l’occorrente per il giardinaggio, l’orto e il terrazzo, con un occhio di riguardo per i prodotti più attuali negli importanti ambiti piante impollinatrici, biodiversità e hotel per insetti utili fai da te. Inoltre sono numerose le promozioni e gli sconti sensazionali di cui si può approfittare ogni settimana. Infine, non manca nemmeno un fornitissimo bar, dove concedersi una piacevole pausa caffè, un aperitivo o un gustoso pranzetto. Aspettiamo con piacere la tua visita!

Specialisti del farro

Attualità L’azienda toscana Poggio del Farro è presente sugli scaffali

di Migros Ticino con diverse specialità a base del cereale più antico coltivato dall’uomo. Questa settimana potete approfittare dell’offerta speciale sulle fette biscottate Nel cuore del Mugello, in Toscana, ha sede da decenni un’azienda che ha fatto del farro una vera e propria vocazione. Giorno dopo giorno, nel rispetto della tradizione e della cultura agricola, Poggio del Farro lavora solo ed esclusivamente farro, seguendo una filiera ideale. In questo suggestivo territorio tra colline e montagna il rustico e resistente cereale ha trovato da secoli le condizioni climatiche e ambientali ideali per la sua coltivazione, che avviene in maniera sostenibile e biologica. Poggio del Farro segue tutto il percorso del farro dalla semina alla raccolta, dalla trasformazione nei più variegati prodotti fino al confezionamento degli stessi per offrire ai consumatori tutta la bontà e naturalità di questo grano antico dalle straordinarie caratteristiche organolettiche e nutritive. Specialità che potete trovare anche nei supermercati di Migros Ticino sotto forma di diverse gustose proposte a base di farro, come gallette, fette biscottate, cereali per la colazione, farina, farro perlato, gnocchi, minestrone, penne, spaghetti e caserecce. Poggio del Farro Fette biscottate 120 g Fr. 2.40 invece di 3.– Azione dal 03 al 09.03

La raclette «ticinese»

Specialità Il saporito piatto

nazionale viene prodotto anche nella regione del San Gottardo con latte di montagna

Azione 30%

Raclètt du Gutard 100 g Fr. 21.– invece di 30.– dal 03 al 09.03

Sapevate che il celebre piatto a base di formaggio fuso, già conosciuto in Vallese fin dal 1600, esiste anche nella versione ticinese? La «Raclètt du Gutard» è preparata dal Caseificio dimostrativo del Gottardo con latte pastorizzato di montagna e viene fatta maturare per almeno tre mesi. Possiede un sapore deciso, delicatamente aromatico, e fonde

che è un piacere nel fornello da raclette casalingo. La crosta lavata edibile e la caratteristica forma quadrata permettono di evitare scarti. Insomma, una vera delizia locale che farà felici coloro che della raclette amano la varietà. Servita con patate bollite e sottaceti, si trasforma in un golosissimo piatto unico tradizionale.


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Società e Territorio

La fortuna della pietra ollare Ricerca Si mantiene viva la cultura legata a questa roccia straordinaria, anche nelle Centovalli,

dove si stanno inventariando manufatti e oggetti Elena Robert Può capitare di imbattersi nella pietra verde persino camminando su sentieri di montagna. Ne fa riferimento per primo Plinio il Vecchio (23-79 d.C) nel trattato Naturalis Historia e ne scrivono anche viaggiatori letterati e naturalisti che percorrono il nostro territorio nel Settecento e nell’Ottocento come Schinz, Lavizzari, Bonstetten. Tenera e al tatto untuosa perché contiene talco e altamente resistente al calore che mantiene a lungo, la pietra ollare (dal latino olla, pentola) si rivela utilissima all’uomo preistorico dell’arco alpino: la sua diffusione diventa capillare ai tempi dei Romani e in epoca tardo antica raggiunge località lontane. Manufatti in pietra ollare sono conosciuti nei principali mercati europei sin dal 1500. In età moderna l’utilizzo rimane invece confinato nelle valli. Fino ai primi del Novecento se ne ricavano oggetti di uso quotidiano come recipienti da fuoco per cucina (i laveggi), forni e stufe (le pigne), elementi strutturali dell’edilizia ornamentale, arredi e suppellettili sacri. Oggi permane l’interesse per le stufe e le pentole, che continuano ad essere prodotte, ma anche per le sculture e l’artigianato. Pur essendo diffusa nelle valli alpine della Svizzera italiana e dell’Italia, ma anche in Vallese, Canton Uri e Grigioni, la pietra ollare oggi è importata da Brasile, Finlandia, Norvegia. Nell’arco alpino c’è una moltitudine di giacimenti sparsi e abbandonati mentre si segnala una concentrazione di affioramenti e cave nel Verbano Cusio Ossola (Museo della pietra ollare, Malesco, Val Vigezzo) e soprattutto in Valmalenco, Valtellina e Valchiavenna, dove la commercializzazione dei prodotti è ancora vivace, legata anche alla riscoperta della tradizione domestica e culinaria. La fortuna della pietra ollare, anche se forse un po’ in declino, non è mai del tutto tramontata. Questa roccia ultrabasica è rara perché ha origine nel mantello continentale o oceanico dove si forma la roccia madre di riferimento, la peridotite. Durante la formazione delle Alpi viene portata sulla superficie sottoposta a pressione e temperatura elevate e a un processo di metamorfismo idrotermale che muta la sua composizione mineralogica, trasformandola in pietra ollare, molto diversa e meno dura della roccia originaria. È il fenomeno dell’erosione a permetterci di vederla sul terreno, dove si concentra in forma di lenti più o meno estese. Pur rappresentando meno dell’1% delle rocce affioranti nelle Alpi, verrà sfruttata dall’uomo per tre millenni.

Il patrimonio della pietra ollare giunge fino a noi attraverso le tracce rimaste sul territorio, reperti archeologici, manufatti e oggetti, la lingua e la terminologia dialettale specifica, toponimi e stemmi, testimonianze del sapere di cavatori e artigiani, studi e ricerche, documentari e film. I toponimi Predera in Val di Peccia, Lavesc tra la Val Leventina e la Val Verzasca, Turnill in Val di Carassino, Cave delle Pigne in Val Bedretto, il nome stesso della Val Lavizzara, gli stemmi patriziali di Fusio, Peccia e Prato Sornico con il simbolo del laveggio, non sono che alcuni esempi. Nella natura si osservano incisioni rupestri anche su massi di pietra ollare, come a Djula, vicino a Dunzio (Aurigeno), a Busbera-Arcegno (Losone), o ancora, tra Frasco e Personico, in prossimità del Passo del Gagnone. In certi giacimenti si notano segni di estrazione, per esempio all’Alpe di Magnello in Val Rovana, alla Cava di Maniò in Val Bedretto, sotto la Cima di Bresciana in Val di Carassino, a Borgnone e Verdasio nelle Centovalli, alla Marscia d’Aion in Valle Calanca. Tracce storiche che il buon senso impone di limitarsi a osservare, anche se si disponesse della necessaria autorizzazione per la ricerca e la raccolta di rocce, minerali e fossili: rischierebbero infatti di andar perse o essere irrimediabilmente danneggiate. La protezione indiretta di questo patrimonio avverrà quando anche affioramenti, giacimenti e cave di pietra ollare saranno contemplati dall’Inventario cantonale dei geotopi che il Cantone sta elaborando, sulla base dei rilevamenti effettuati per l’Atlante geologico della Svizzera.

Vaso ottagonale del 1699 proveniente dalla Casa Manfrina di Borgnone (Centovalli), ora di Silvia Manfrina a Giubiasco. (Fabio Girlanda)

Manufatti di pietra ollare di epoca romana e moderna, provenienti da scavi archeologici nel Cantone Ticino, Archivio Ufficio Beni culturali. (Daniela Rogantini-Temperli)

Molte conoscenze sulla pietra ollare in Ticino si devono alla notevole ricerca della prima metà degli anni Ottanta del secolo scorso svolta dal Museo di Valmaggia (Bruno Donati) con l’Ufficio cantonale dei Musei etnografici (Augusto Gaggioni) e l’Ufficio cantonale dei monumenti storici (Pierangelo Donati), con il supporto di uno studio sistematico esteso all’arco alpino su territorio svizzero e italiano, ossia l’indagine geologica e di laboratorio, confluita in una banca-dati computerizzata, di Hans-Rudolf Pfeifer e Vincent Serneels dell’Università di Losanna, cui si unisce Tiziano Mannoni dell’Università di Genova. Gaggioni porta anche a termine l’inventario delle pigne in Valmaggia (435 manufatti). Tutti questi materiali e risultati, compresi quelli inerenti a Arcegno (Ente manifestazioni arcegnesi) e le fonti scritte (Marino Lepori) sono presentati nella mostra a Cevio del 1985 e pubblicati l’anno seguente in 2000 anni di pietra ollare. Il Museo di Valmaggia è l’unico tra i musei etnografici in Ticino che ospita un approfondimento tematico permanente sulla pietra ollare: proprio a Fusio e in Val di Peccia sono del resto ubicati i giacimenti più redditizi del Cantone, rimasti attivi fino all’inizio del Novecento. Il catasto delle pigne interessa poi anche la Val Bedretto dove Massimo Lucchinetti ne repertoria 102: la più antica del Ticino è del 1581 a Ossasco. Hans-Rudolf Pfeifer, professore emerito di geologia dell’Uni-

versità di Losanna, nel campo della pietra ollare che continua ad appassionarlo e a studiare, può essere considerato un pioniere, contando già allora dell’esperienza di quindici anni dedicati alla relazione genetica tra la stessa e la sua roccia madre. «Inventariammo 400 giacimenti, 120 dei quali nel Ticino e Moesano (associati a una quindicina di laboratori di produzione) ed eseguimmo un migliaio di sezioni sottili» racconta il geologo e geochimico zurighese: «Queste ci restituiscono con chiarezza la composizione mineralogica, grazie alla luce polarizzata. Con un po’ di fortuna, al microscopio, nella medesima sezione sottile, si riesce a fermare come in un fotogramma la storia della roccia e a leggere il processo di trasformazione da peridotite a pietra ollare». Pfeifer conosce bene il Ticino, in particolare il Locarnese, avendolo scandagliato per anni nell’ambito dell’elaborazione della carta geologica della regione uscita nel 2018 e di cui è il principale autore. L’attenzione degli studiosi per la pietra ollare si manifesta nuovamente negli ultimi dieci anni e ci sono tutte le premesse affinché continui, attraverso indagini e iniziative di sensibilizzazione sul territorio. Nel 2012 Cristian Scapozza, geografo e geomorfologo alla SUPSI, curatore del Museo della Valle di Blenio, approfondisce il tema con un contributo sulla Val di Blenio e la Val Pontirone: in tutto nove piccoli giacimenti sfruttati per i laveggi dal 1500 al

Gli studi proseguono, in Ticino e nei Grigioni Si riescono a grandi linee a distinguere le pietre ollari di aree alpine diverse, ma lo stesso tipo di pietra può essere presente in più regioni. Senza considerare che la grande diversità della composizione prevale anche a livello più locale e persino nello stesso giacimento. Anche nella Svizzera italiana la ricostruzione delle reti commerciali storiche passa attraverso lo studio di reperti archeologici per scoprire, tra l’altro, la provenienza della pietra. Un contributo recente di Filippo Luca Schenker, ricercatore SUPSI in geologia e petrologia e Cristian Scapozza (nel numero speciale, Quaderno di archeologia Svizzera, 2019) propone, proprio basandosi sull’eterogeneità di composizione della pietra ollare, un metodo sperimentale, meritevole di approfondimenti, che offrirebbe una lettura migliore anche dei reperti

archeologici, attraverso l’individuazione di una sorta di DNA geochimico della roccia campionata utile per risalire alle macroregioni di provenienza. La stragrande maggioranza dei reperti archeologici in pietra ollare trovati finora in Ticino sono di epoca romana (dal I-II secolo d.C.) e medievale (VII-XIV secolo). Rossana Cardani Vergani, responsabile del Servizio archeologico cantonale, segnala che «è una consuetudine trovarli in necropoli (soprattutto fusaioli sia nel Sopra sia nel Sottoceneri), in luoghi di culto (Chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Quinto, una pisside; Collegiata di San Vittore a Muralto, pentola con coperchio e un calice; Chiesa di Sant’Evasio a Pugerna, un calice), in insediamenti (Legato Maghetti a Lugano, oggetti di uso quotidiano). Sin dal 1967, grazie a Pierangelo Dona-

ti, che dirigerà per venticinque anni l’Ufficio monumenti storici, la ricerca archeologica ha un ruolo importante in Ticino e porta al ritrovamento di molti reperti, anche in pietra ollare, a studi e suoi contributi sul tema legati ai risultati di scavo, alle numerose collaborazioni scientifiche con istituti d’Oltralpe e alla volontà, insita in Donati, di indagare il rapporto fra il reperto e la materia prima. La collaborazione fra l’Ufficio beni culturali e l’Istituto scienze della Terra della SUPSI, una realtà da alcuni anni non solo per la pietra ollare, è sempre più stretta, con buone prospettive. Se si decide di fare studi approfonditi, oggi disponiamo di più strumenti scientifici di una volta». Notizie incoraggianti sulla pietra ollare giungono anche dalla Val Mesolcina e dalla Calanca. «Da una decina d’anni a questa parte

– annota l’archeologa Maruska Federici Schenardi – si avverte una presa di coscienza, in particolare dei ricercatori, per il patrimonio della pietra ollare, siti compresi, che sono una decina. Una buona premessa per ulteriori studi in materia, visto che resta praticamente tutto da indagare». Una piccola sezione sulla pietra ollare si trova nel Centro culturale di Circolo a Soazza (Paolo Mantovani), mentre un approfondimento è presentato nel Museo moesano a San Vittore che espone reperti degli scavi archeologici di Roveredo Valasc del 2007-2009 intrapresi durante la costruzione della galleria autostradale. Sul territorio si segnala tra l’altro la presenza di möcc, ossia lo scarto della lavorazione del laveggio, integrati nell’acciottolato di San Martino a Soazza o a Norantola nelle mura del castello.

1850 ca. e tre laboratori, uno dei quali è di Tiziano Conceprio tuttora attivo a Corzoneso. Diversi progetti di valorizzazione sono attuati in luoghi storici di sfruttamento delle risorse geologiche: «Meritano la stessa attenzione dei siti naturali biotici e culturali» osserva il ricercatore, per il quale «la protezione dinamica, anche per la pietra ollare, deve passare attraverso la conoscenza». Nel 2013 il geografo Luca Pagano aggiorna la ricerca in Valmaggia con un inventario di testimonianze dello sfruttamento sfociato nel 2014 in un pieghevole divulgativo con la proposta di escursione da Campo Vallemaggia all’Alpe Magnello che segue la sequenza di attività dal giacimento al prodotto finito: un’iniziativa del progetto Interreg Sitinet cui partecipano il Museo cantonale di storia naturale e Vallemaggia Turismo. Nei convegni di Carcoforo e Varallo Sesia (Vercelli) promossi dal Club Alpino locale su La pietra ollare nelle Alpi. Coltivazione e utilizzo nelle zone di provenienza confluiranno parecchi nuovi contributi su valli italiane e svizzere, pubblicati a fine 2018. Tre sono inerenti a testimonianze di pietra verde negli edifici sacri della Valmaggia (Flavio Zappa), al patrimonio vallesano (Hans-Rudolf Pfeifer), alle Centovalli e Terre di Pedemonte (Fabio Girlanda e Hans-Rudolf Pfeifer). Passione per la mineralogia e la storia locale e competenze scientifiche accomunano la ricerca in corso in quest’area del Locarnese da quando nel 2015 Fabio Girlanda di Verscio, cercatore di minerali conosciuto in Ticino e Hans-Rudolf Pfeifer uniscono le forze per approfondimenti. «Il comprensorio sicuramente non vanta la plurisecolare tradizione della Valmaggia o delle vicine valli italiane» annota Girlanda: «Gli archivi sono poveri e le fonti orali al momento lacunose, eppure scoperte interessanti non mancano, come un nuovo affioramento a Moneto, alcune pigne o il bel vaso ottagonale con coperchio di Borgnone. È di Intragna l’antica scultura della partoriente sulla sedia gestatoria, esposta al Museo di Valmaggia. C’è anche il lavoro dell’artigiano e artista Ettore Jelmorini (Intragna 1909-1968), parte della cui ricca produzione di opere in pietra ollare è nel Museo regionale delle Centovalli e del Pedemonte. In quest’area geografica stiamo inventariando a tappeto manufatti e oggetti, al momento oltre un centinaio, gran parte dei quali del Seicento. E indaghiamo attraverso nuove sezioni sottili la composizione geo-mineralogica nei giacimenti principali, che sono una quindicina».


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Società e Territorio

Una finestra sul mondo del lavoro

Espoprofessioni Dal 9 al 14 marzo al motto «La chiave del tuo successo» si terrà a Lugano la fiera dedicata

alle professioni: abbiamo incontrato Sabrina Dalpozzo De Martino, responsabile della logistica Nicola Mazzi Migliaia di ragazzi e adulti affolleranno il Centro Esposizioni di Lugano dal 9 al 14 di marzo. In quei giorni, infatti, si terrà la quattordicesima edizione di espoprofessioni, la più grande fiera organizzata in Ticino, con i suoi 10mila metri quadrati. Saranno 250 i mestieri che potranno essere scoperti dai visitatori e in ogni stand saranno presenti gli esperti che risponderanno, in modo professionale, alle domande e alle curiosità sui diversi tirocini e sulle scuole professionali. All’insegna del motto «La chiave del tuo successo» si potrà seguire un percorso che spazia dalle professioni più classiche a quelle meno usuali. Ma ci sarà un occhio di riguardo alle opportunità che completano il proprio percorso professionale di base (AFC): la maturità professionale, la formazione terziaria con la Scuola Specializzata Superiore (SSS), la Scuola universitaria professionale (SUP) e le formazioni professionali che portano a ottenere i diplomi federali. Quest’anno, inoltre, ci sarà la presenza delle varie associazioni del settore gastronomico, riunite nel Polo Alimentare della Svizzera Italiana, con la partecipazione delle associazioni di riferimento. E visto il successo delle passate edizioni la RSI, con un’apposita postazione, offrirà la possibilità ai ragazzi di realizzare dei mini TG, delle emissioni radio e anche alcuni filmati per youtube. Non mancheranno, inoltre, momenti di svago e di

approfondimento. Durante la sei giorni saranno molte le conferenze nelle quali si toccheranno i temi più svariati del mondo del lavoro. Ma uno spazio altrettanto importante lo avrà il gioco. Gli organizzatori hanno infatti pensato anche ad alcuni momenti ludici per incuriosire i ragazzi e farli partecipare in modo attivo alla fiera. All’interno del comitato organizzativo esiste una figura chiave, quella che cura il motore della macchina organizzativa: la responsabile della logistica. Lei è Sabrina Dalpozzo De Martino e da quasi un anno è all’opera per far sì che l’esposizione sia pronta ad aprire le proprie porte il 9 marzo. Con il suo aiuto desideriamo offrire uno sguardo inedito sulla manifestazione. Soprattutto abbiamo voluto curiosare dietro le quinte e scoprire come si costruisce un’esposizione così importante per il Ticino. Iniziamo con il precisare che questa è la sua quarta volta a espoprofessioni, la seconda come responsabile. La prima curiosità è relativa al come si affronta un manifestazione del genere. «La macchina organizzativa è rodata, ma ogni anno va revisionata e dove serve vanno sostituiti alcuni pezzi. Il risultato finale si ottiene attraverso un buon lavoro di gruppo da parte del comitato, il quale s’incontra regolarmente da un anno a questa parte. Serve anche un ottimo segretariato e un costante dialogo tra le parti. Oltre al Cantone, con tutte le sezioni coinvolte, collaboriamo con le associazioni, le OML, le scuole, la

Uno degli stand della scorsa edizione di espoprofessioni. (Ti-Press)

Città di Lugano, la Polizia comunale e le aziende formatrici in qualità di fornitori di servizi o di materiale. In generale occorre pianificare e coordinare per tempo sapendo reagire agli imprevisti che inevitabilmente capitano». Qualche imprevisto, come ci dice Sabrina Dalpozzo De Martino, è inevitabile, ma in generale, «non riscontro grandi problemi. Sicuramente gestire la fiera più grande del Ticino, restando nel budget a disposizione, è una bella sfida, pertanto non sempre si riesce ad accontentare tutti per quel che riguarda gli spazi o i servizi extra che ci vengono chiesti».

Una particolarità di espoprofessioni è la partnership tra Cantone e associazioni professionali. Un lavoro non sempre semplice, ma che se funziona può dare ottimi risultati. «Dal mio punto di vista questo aspetto funziona bene. In particolare osservo un buon interesse da parte delle associazioni di categoria non solo nel partecipare alla fiera come futuri datori di lavoro, ma anche nel presentare la professione nel modo più attuale e reale possibile, aprendo in questo modo ai giovani visitatori una finestra sul mondo del lavoro. Sapersi relazionare con tutti gli

attori coinvolti, amare il lavoro di squadra, essere disponibili e propensi alla condivisione delle informazioni. Direi che questa è la ricetta base per una buona riuscita della manifestazione». E se tutto va nella giusta direzione anche la responsabile della logistica può godersi alcuni eventi che si terranno a Lugano. Infatti ce lo conferma: «Certo, sono sempre attenta a curare l’evento, dall’inizio e quindi dal montaggio dei vari stand, sino allo smontaggio e alla restituzione dei padiglioni vuoti, ma durante la fiera ci sono alcuni momenti di calma, nei quali posso godermi gli eventi in programma. Mi piace anche visitare la fiera scoprendo sempre interessanti novità. E magari incontro chi ho sentito solamente al telefono nei mesi precedenti». Un’ultima questione, altrettanto importante, e più politica, riguarda le fiere in Ticino. Sabrina Dalpozzo De Martino è un’esperta del settore e tocca con mano, quotidianamente, le problematiche esistenti nell’organizzare un evento come espoprofessioni. «Non dico nulla di nuovo se accenno al fatto che ci vorrebbe un centro fieristico moderno? Logistica a parte trovo questa fiera utile e sempreverde. Avere per una settimana tutti gli attori della formazione professionale sotto lo stesso tetto è un’opportunità unica e da sfruttare al meglio». Informazioni

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Società e Territorio

Quando il virus varcò le Alpi Storia Cento anni fa il Ticino fu alle prese con l’epidemia di influenza spagnola.

Tra fake news e polemiche, ecco come allora venne affrontata l’emergenza

Jonas Marti Lugano, Piazza della Riforma, estate 1918, l’annuncio pubblicitario della Birreria Gambrinus fa così: «È ormai accertato che le bevande alcoliche – se consumate in misura limitata – sono fra i migliori rimedi preventivi contro la grippe spagnuola. Durante questi giorni di gran caldo, tutti preferiranno ai poco gustosi specifici farmaceutici una cura primaverile a base di birra fresca o vero cognac francese di primissima qualità. Trovate entrambi da noi». Negli stessi giorni una libreria-cartoleria invita, per combattere l’epidemia, a leggere libri come Cucina vegetariana, oppure La Nuova scienza di guarire, o ancora Donna Medico di Casa, splendidamente illustrato. Ma non solo: contro il virus vengono proposte sigarette a base di eucalyptus, pastiglie di chinino, dentifrici alle erbe, saponi vari e soluzioni per sciacquare la bocca… Scaltri ciarlatani di tutto il mondo unitevi! Anche cento anni fa, senza Facebook, disinformazione e falsi rimedi erano all’ordine del giorno. Tanto che, allarmato, il Dipartimento cantonale di igiene scriveva a tutti i medici ticinesi: «Le voci più fantastiche continuano a circolare nel pubblico intorno all’attuale epidemia, per cui è necessario fornire alla popolazione informazioni per quanto possibile esatte». Fanno un po’ sorridere le fake news di allora. Eppure, fatte le dovute differenze, la situazione di cento anni

fa è un po’ la stessa di oggi, con l’epidemia di coronavirus. «La più grande epidemia è quella della disinformazione», si è detto più volte nelle ultime, ansiogene, settimane. Sui social si sono rincorse bufale e falsi allarmismi. In alcuni casi l’irrazionalità ha portato addirittura all’aggressione di alcune persone con tratti asiatici, presunti portatori del virus. Ma bisogna dirlo: il numero delle vittime del nuovo COVID-19, pur essendo preoccupante, è poca cosa rispetto alle falcidie del virus dell’influenza spagnola del 1918-1920. Nel mondo uccise tra i 40 e i 50 milioni di persone, forse addirittura 100 milioni dicono alcune stime. Nella sola Svizzera, ci furono oltre due milioni di contagiati e 25mila morti. «La più grande catastrofe demografica elvetica», l’hanno definita alcuni storici. Il Ticino fu uno dei cantoni più colpiti. Ad ammalarsi fu metà della popolazione, 80mila contagiati stimati, con 925 morti totali registrati nel giugno del 1919. Nelle valli la situazione si rivelò particolarmente drammatica. A Vogorno, per fare un esempio, l’epidemia colpì 350 dei 650 abitanti. E in pochi giorni 17 malati morirono nel più completo abbandono. Bisogna dirlo: il sistema sanitario ticinese, sottoposto a un’emergenza così grave, dimostrò tutti i suoi limiti e difetti. Il quotidiano socialista «Libera Stampa» denunciò a più riprese le condizioni in cui vivevano gli operai metallurgici di Bodio, ammalati e ab-

bandonati a se stessi. «Mancano gli alloggi, mancano i locali, manca l’igiene. La gente è ricoverata in istalle abbandonate per stamberghe, in tuguri, in tane, in canili. Lo stesso letto serve a più persone. E famiglie dormono in una promiscuità spaventosa, indecente. Siamo entrati nella stanza di un Robbiani. Piccola, bassa, senza aria né luce. Vi dormivano tre o quattro persone ammalate di grippe. Il figlio maggiore giaceva morto sul letto» (30 agosto 1918). Il Ticino all’alba degli anni Venti del Novecento è un territorio ben diverso da quello a cui siamo abituati oggi. È Terzo mondo, povero e sporco, regnano miseria, malnutrizione e scarsa igiene. I medici di allora parlano di bambini ricoperti dai pidocchi. L’acqua potabile è un lusso: l’80 per cento dei comuni non ha ancora un acquedotto efficiente, e gli impianti fognari sono quasi inesistenti. In un contesto così, non sorprende poi, nemmeno due decenni dopo, il grande consenso per demolire a Lugano l’intero quartiere del Sassello, dove tra i vicoli luridi imperversava invece la tubercolosi. Come oggi in Cina, anche allora le autorità finirono sotto accusa. In particolare quelle militari, in un clima arroventato dallo sciopero generale e dalla relativa mobilitazione. Ancora una volta la denuncia arriva dal quotidiano «Libera Stampa» che, in un articolo intitolato L’indecorosa organizzazione sanitaria del nostro esercito, scrive: «Recano il Bund, la N.Z. Zeitung ed altri

Un ospedale improvvisato negli Stati Uniti durante l’epidemia di Spagnola. (Keystone)

giornali (...) che soldati caduti ammalati di grippe spagnuola vennero lasciati negli accantonamenti sdraiati sulla paglia per 3 o 4 giorni, addosso l’un l’altro come sardine, e senza cura. Fra essi ve n’erano dei colpiti di febbre a 40 e 41 gradi; altri sputavano sangue ogni minuto» (2 agosto 1918). Senza parlare, poi, del ritorno dei soldati ticinesi dispiegati nel Giura Bernese, altro cantone particolarmente colpito dall’influenza. Quarantena? Macché. Le truppe – con ragazzi malati che a loro volta contageranno i parenti – vengono rispedite direttamente a casa. Scrive un cronista della «Gazzetta Ticinese», che i ticinesi hanno più paura dei propri soldati che degli eserciti stranieri mobilitati per la Prima guerra mondiale: «È questo il caso di dire che la popolazione ticinese non teme tanto un’invasione da parte dell’amica Nazione del Sud quanto quella del morbo spagnuolo» (1. agosto 1918).

Per cercare di arginare l’epidemia, nel luglio del 1918, il Consiglio di Stato decreta: «Sono vietati in tutto il territorio del Cantone gli spettacoli pubblici quali le rappresentazioni teatrali, cinematografiche, concerti, ecc. nonché le pubbliche riunioni, le feste popolari e campestri, ecc.». Per la prima e unica volta nella storia, il 1. agosto del 1918 in Ticino si rinuncia ai festeggiamenti. A Lugano invece tutti i funerali devono tenersi prima delle 9 del mattino, e il trasporto del defunto deve avvenire «per la via più breve da casa al cimitero». Il Vescovo ordina la disinfezione di tutte le chiese della città, mentre «è vietato sputare per terra nei locali chiusi, in carrozze e per le strade». Oggi dobbiamo affrontare il coronavirus, ed è giusto farlo con serietà. Cento anni fa però le nostre terre furono sconvolte da un altro virus, che entrò in ogni casa, e si portò via tante, troppe persone. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio Rubriche

Approdi e derive di Lina Bertola L’incontro mancante A quasi tutti gli edifici pubblici, banche, grandi magazzini, uffici, ospedali, si accede oggi attraverso porte scorrevoli, spesso invisibili, impercettibili. Una cellula elettronica «sente» la presenza di un corpo e lo invita a continuare il suo cammino senza dover sostare su un confine, senza dover sperimentare fisicamente la presenza di una soglia. Un bel progresso nel nostro rapporto sempre più competitivo e conflittuale con il tempo; un bel progresso, anche, nella lotta ai germi delle maniglie. Ma in questo nostro camminare senza più una soglia da riconoscere, da attraversare con la fisicità di un gesto, ciò che spesso viene a mancare è anche la percezione di un passaggio, di un confine tra un «dentro» e un «fuori». Questi dettagli, apparentemente insignificanti, sembrano così volerci suggerire anche qualcos’altro, qualcosa che ci tocca in prima persona nel nostro sperimentare la vita. Sembrano volerci

suggerire la rimozione di una soglia più intima: quella soglia che ci invita ad aprirci al nostro mondo interiore. Una soglia oggi spesso smarrita nella totale confusione tra il nostro sé intimo e quell’io esteriore con il quale siamo tutti convocati ad esibirci sulla scena del mondo. Ma questi dettagli apparentemente insignificanti, queste porte discrete e impercettibili, pronte ad offrirci un’autostrada simbolica, senza intoppi sul nostro cammino solitario, sembrano evocare anche altri aspetti del nostro abitare la vita. Su un cammino solitario, senza soglie e senza soste, appare, in controluce, anche la fragilità di un’altra soglia: di quel luogo intimo da cui il mio io si apre alla presenza dell’Altro. Gli spazi, insomma, sembrano raccontare anche quel che accade all’anima nel nostro attuale modo di stare al mondo. Un racconto che continua a parlarci

anche quando, al contrario, siamo costretti a fermarci, a sostare davanti ad un portone per accedere a uno di quei rari storici edifici che ancora sopravvivono allo scempio architettonico. Nel Palazzo degli Studi di Lugano, ad esempio, si entra da pesanti portoni di legno e ferro battuto, mantenuti intatti grazie ad un pregiato restauro conservativo. Più volte mi è capitato di arrivare con borse piene di libri, ritrovandomi puntualmente il macigno sbattuto in faccia dallo studente o dalla studentessa che camminava davanti a me. Mai qualcuno che si voltasse per tenermi aperto il portone. Mai nessuno che sentisse la presenza di un possibile altro sul suo stesso cammino. Dettagli apparentemente irrilevanti, gesti minimi della quotidianità, a suggerire anche tutta la fragilità del nostro sentimento di una comune appartenenza. «Homo homini lupus»: l’uomo è un lupo per l’altro uomo, scriveva il filoso-

fo inglese Thomas Hobbes all’inizio del Seicento. La natura umana ci predispone ad una guerra di tutti contro tutti; ciò che prevale è il desiderio di prevaricazione nei confronti del prossimo. Il pensiero moderno ha in seguito elaborato una visione più serena dell’individuo, in grado di superare la cruenta rappresentazione hobbesiana. La «guerra di tutti contro tutti» poteva essere superata grazie a nuove forme di appartenenza. Si è cominciato a riconoscere la presenza di una naturale socievolezza nutrita dal valore positivo di una pacifica competizione economica. Basati sulla simpatia, i rapporti umani avrebbero facilmente consentito all’interesse personale di tradursi in interesse generale. Con le parole di Kant, l’Illuminismo esprime poi grande fiducia in un progresso morale alimentato dal sentimento di comune appartenenza: «Agisci in modo da trattare l’umanità, nella tua persona e nella persona

dell’altro, sempre come un fine e non come un semplice mezzo». Un messaggio luminoso: sentire la propria appartenenza all’umanità come nutrimento del vivere e del convivere e pensarla, anche, come un fine condiviso. Questi ideali della modernità appaiono oggi minacciati dalle profonde trasformazioni in atto nelle nostre società, dal mondo del lavoro alle forme di comunicazione globale. Incertezza e solitudine generano spesso una dolorosa e triste guerra tra poveri. Un clima divenuto aggressivo, anche nei suoi linguaggi, sembra mettere in scena una vera e propria regressione alla visione hobbesiana della convivenza, con il rischio di mandare in pezzi ogni sentimento di comune appartenenza. E così, sempre più spesso, diventiamo incapaci di un incontro con noi stessi e con l’Altro, mentre costruiamo muri, in giro per il mondo e dentro i nostri cuori.

se paragonata a quello che si trova nella stanza in fondo: fotografie di gerarchi nazisti. Non ci vuole molto a capire che il museo supera le opere esposte, però per non cadere preda dei miei gusti forse un po’ difficili e criticare, decido di concentrarmi solo sull’architettura appena premiata come Bau des Jahres 2019. Nella grotta è ritagliata una finestra che si affaccia sulla strada acciottolata e l’edificio dove si entra. Gironzolando, in una stanza buia, voltare le spalle alla videoarte – invecchia male, incomincia a fare la muffa –diventa poi necessario. Infatti non c’è gara con la sorgente – utilizzata un tempo dal birrificio dei fratelli Campell – che sgorga abbracciando tutta la parete rocciosa e forma un laghetto-aiuola. Salendo le scale, andando a zig zag nei vari spazi dove a tratti entra il paesaggio e i muri a secco ai quali è stata restituita l’anfibolite, il lavoro di cinque anni di Schmidlin e Voellmy risulta encomiabile fuoripista. Il merito è anche di falegnami del luogo, carpentieri, fabbri. L’auditorium dai soffitti altissimi è qualcosa, si vedono i ballatoi da dietro

e i balconi sono traforati come i fienili: asso di quadri e punta di diamante. La biblioteca, tutta in cembro con scala scorrevole in ferro, è un sogno. Già l’odore ansiolitico del cembro predispone, poi le poltrone credo danesi, in teak, favoriscono ancora di più, la sosta. Balthus, Beuys, Bill, Klee, Ruscha, roba seria. Da una delle due minuscole finestre, svasata al massimo in stile engadinese, si vede passare il trenino rosso in lontananza. Grażyna Kulczyk appare sulla soglia e mi sussurra «Hallo». È proprio come nelle foto: caschetto biondo alla Raffaella Carrà e pantaloni in pelle nera. Al bistrò del muzeum, creato da una meravigliosa vecchia stüva famigliare che sovrasta l’En nel punto in cui piega deciso verso est, sul davanzale, due vecchie bottiglie verdi di birra rivelano in rilievo l’esonimo tedesco quasi dolce, ufficiale fino al 1943, di Susch: Süs. Doppio espresso e una torta al cioccolato stile caprese che vale la pena. Dalla finestra entra l’En che scorre tranquillo un pomeriggio verso fine febbraio e un giorno, non lontano, sarà Mar Nero.

prendere esempio da lui ma è difficile perché la tecnologia digitale ha amplificato la potenza delle immagini, velocizzato e semplificato a tal punto gli scambi, la comunicazione e le relazioni umane da spersonificarli. Se ci pensate, le immagini che circolano in Rete, così come le informazioni che condividiamo, sono parte dei nostri dati personali. E allora inquietano le rivelazioni fatte qualche settimana fa dal «New York Times» secondo cui l’azienda americana Clearview ha prodotto un’applicazione innovativa nel campo del riconoscimento facciale e dell’intelligenza artificiale. In buona sostanza questa app è in grado di riconoscere e identificare una persona attraverso la sua foto. Per farlo accede a un database di oltre tre miliardi di immagini che prese da Facebook, Youtube, Venmo e altri siti. L’app è anche in grado di ricostruire e fornire i link che riguardano le informazioni

della persona in questione. Nulla di tutto questo era mai stato realizzato dai giganti della Silicon Valley o dal governo degli Stati Uniti, proprio per la minaccia che rappresenta in fatto di privacy. Intanto oltre seicento forze di polizia e sicurezza, tra cui l’F.B.I., utilizzano l’app. David Scalzo della Kirenaga Partners, uno degli investitori di Clearview, dice che l’app è un utile strumento per la risoluzione dei crimini e dice anche che visto il costante aumento della massa informativa non avremo mai più la privacy. Servono leggi adeguate per determinare cosa sia legale ma, a suo avviso, non si può censurare o limitare la tecnologia anche se equivale ad andare incontro ad un futuro distopico. Non so come la pensate voi ma io a questo punto preferirei ritirarmi nei boschi per imparare a vivere come una volpe e in una casetta sull’albero rispolvererei l’arte di scrivere lettere.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Muzeum Susch Susch: adagiato letargico sulle rive dell’En, ai piedi del passo della Flüela e vicino al tunnel della Vereina, duecentodiciannove abitanti. Poco sole in inverno, molta neve, parecchi larici, un hotel garni, una clinica per il burnout alla confluenza dell’En con il torrente Susasca. E dal due gennaio dell’anno scorso, un museo d’arte con la zeta. Battezzato con semplicità grazie al guizzante toponimo, è l’unico esile indizio che porta alla sua fondatrice: Grażyna Kulczyk. Miliardaria polacca collezionista d’arte moderna con caschetto biondo e la passione per i vestiti in pelle nera. Ricavato dai resti di un monastero del 1157 e da un birrificio ottocentesco chiuso da più di ottant’anni, il primo pregio è il mimetismo. Dalla stazioncina di Susch, si vede solo se guardate dove dovete, accanto all’algida chiesa di San Jon e la torre Planta con cupola a cipolla. Bianco neve, ballatoi in legno, il Muzeum Susch (1423 m) si trova proprio sulla sponda destra del fiume che scorre in mezzo al paese. L’unico di tutta la Bassa Engadina dove l’En passa così vicino: sul ponte mi rendo conto

della sua forte presenza liturgica e terapeutica. Entrata a tutto sesto, porta nero antracite. Anfibolite, la parola del giorno, in testa da stamattina. Roccia metamorfica locale il cui termine, mai sentito prima, è saltato fuori in uno dei vari articoli entusiasti a proposito dell’opera acclamata del duo di architetti: Chasper Schmidlin – autore tra l’altro del delicato restauro di Stalla Madulain visitata quindici giorni fa – e Lukas Voellmy. Novemila tonnellate di anfibolite fatte saltare in aria per scavare un tunnel tra due edifici e creare spazi senza disturbare il paesaggio. Alla faccia dell’ego malato di maldestri architetti esibizionisti che ingombrano e inquinano la vista. Lo stupore vero qui, a quanto pare, è da scoprire e nasce dalla roccia stessa. Alla fine del tunnel dove mi sono infilato subito senza preamboli, ci dovrebbe essere un muro di anfibolite umida. «La roccia, esposta all’ossigeno per la prima volta in millenni, ha incominciato a cristallizzarsi, i suoi residui lattei creano una sorta di neve indoor» scrive Alice Bucknell sulle pagine di Architectural Digest, rivista

mensile centenaria di recente. È vero e così, per sport, asciugo le lacrime della roccia con i polpastrelli. Oltre alle tracce lattiginose, ci sono anche delle striature color ruggine, e per terra un bel bordo di pietre di fiume. Gli armadietti dove ficco lo zaino, sono tutti a muro, in cembro, mimetizzati alla perfezione. Risalgo in superficie, già disorientato dal tragitto labirintico, per andare diretto alla grotta-spettacolo. Slippery when wet avverte il cartello giallo sulla soglia con l’omino che sta per cadere. La roccia gocciola sul pavimento nero petrolio di questa grotta naturale usata un tempo dai monaci benedettini come cantina. Al centro, un cilindro in acciaio lucidatissimo, accentua la bellezza dell’anfibolite increspata e scorbutica. Qui Oliver Wainwright del «The Guardian» tira in ballo non a sproposito, il rifugio sotterraneo alpino dei cattivi nei film di James Bond. Di Mirosław Bałka è l’opera permanente intitolata Narcissussusch (2018) che gira impercettibilmente in senso antiorario. Senza la roccia attorno non lascerebbe di certo senza fiato ma è un capolavoro

La società connessa di Natascha Fioretti Potere e rischi di una società fatta di immagini Nel libro di Lorenza Foschini Il vento attraversa le nostre anime (ne parliamo a pagina 38) tutto ha inizio da una lettera d’amore che Marcel Proust scrive a Reynaldo Hahn nel 1907. Una delle tante lettere dello scrittore francese solitamente vendute alle aste per cifre stellari. Proust trascorreva la vita scrivendo lettere, lettere «insensate e fiabesche», imperiose, leziose, «interrogative, ansiose», ingegnose, spiritose, che solleticavano la vanità del destinatario, lo turbavano con l’ironia delle loro iperboli, lo tormentavano con la diffidenza e lo affascinavano per il loro stile. Che meraviglia!, penso, mentre leggo. Quale importante fonte sono state le lettere nella storia della letteratura, quale profondo e intimo sguardo d’accesso nelle vite segrete degli scrittori. D’un tratto ho provato un senso di amarezza. Un domani non sarà più lo stesso per chi, guardandosi indietro,

studierà il nostro tempo: noi di lettere non ne scriviamo più. Per conoscere la vita di un autore cercheremo video su Youtube e sui profili social trovando tante immagini e poche parole scritte. Le immagini, i selfie, sono ciò attraverso cui oggi ci definiamo, ci presentiamo agli altri, una sorta di carta d’identità o di ritratto di noi stessi. Non solo rispetto a ciò che siamo ma anche e soprattutto rispetto a ciò che facciamo. Postiamo costantemente foto, spesso ritoccate, che documentano e raccontano dove andiamo, con chi siamo, cosa mangiamo, a quale evento partecipiamo e così via. L’immagine oggi vince su tutto, sul testo in particolare che sui social è sempre meno presente e ha spesso un mero effetto didascalico. Non è un caso che i giovani tra tanti account e piattaforme prediligano Instagram. Io, invece, lo evito, mi sembra un pot-pourri di vanità e immagini decontestualizzate

con poco senso o valore aggiunto per uno scambio di idee o di informazioni. A questo proposito mi è tornata in mente la chiacchierata di qualche giorno fa a Oxford con Charles Foster, l’autore inglese di L’animale che è in noi (Bompiani), libro nel quale racconta che per comprendere meglio sé stesso e migliorare le sue relazioni con gli altri esseri umani ha deciso di riconnettersi in modo più profondo con la natura e con l’ambiente. Per un anno è andato nei boschi vivendo come un tasso, una volpe o una lontra. Mi diceva quanto possiamo imparare dagli animali e dal loro modo di percepire il mondo, il territorio nel quale si muovono grazie ai cinque sensi. Mentre la nostra percezione del mondo esteriore passa quasi esclusivamente attraverso la vista, gli animali usano l’olfatto, l’udito e il tatto per orientarsi, per conoscersi, per cercare il cibo, per vivere. Dovremmo


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 marzo 2020 • N. 10

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Ambiente e Benessere Molluschi nella SPA Dall’antichità le spugne accompagnano l’uomo nelle cure idrotermali e di bellezza

Essere uno del posto Si diffonde nei viaggiatori il desiderio di vivere come nativi, e non come estranei, i luoghi esplorati pagina 19

Semplice e vegetariano Radicchio trevisano saltato in padella al saporito roquefort e ai semi di canapa pagina 22

pagina 17

Dove osano le aquile Dopo oltre 30 anni di dominio austriaco, gli elvetici sugli sci volano in sorpasso

pagina 25 Il ginecologo Jeffrey Pedrazzoli. (Vincenzo Cammarata)

L’errore medico

Salute Non è ragionevole chiedere alla medicina la perfezione, ma è ragionevole chiederle di provarci Maria Grazia Buletti Prima di iniziare il proprio percorso professionale, ancora oggi i medici formulano un giuramento dai contenuti simili al testo originale del medico greco Ippocrate, che possiamo riassumere nel più famoso aforisma dello stesso padre dell’arte medica: «Primum non nocere». Eppure, da Ippocrate al medico canadese padre della medicina moderna William Osler (1849-1919), l’errore è sempre stato considerato un elemento ineliminabile dell’arte medica. I progressi della medicina sono evidenti, dal ventaglio diagnostico agli orizzonti terapeutici. Il sentimento che accomuna la nostra società ammicca spesso, e non sempre a ragione, all’onnipotenza della scienza medica. Malgrado ciò, non bisogna dimenticare che la medicina rimane una «scienza imperfetta» alla quale non è ragionevole chiedere di raggiungere la perfezione. Ma è lecito chiederle di provarci. Competenza ed esperienza nell’errore medico è il tema della Tavola rotonda, proposta nell’ambito del nono Simposio di perinatologia Nascere smart: si può. La conferenza aperta al pubblico è promossa dalla Clinica Sant’Anna e avrà luogo sabato 21 marzo, dalle ore 11.00, nella Sala Le Tre Vele della Fon-

dazione OTAF a Sorengo (entrata libera). Si tratta del terzo incontro sotto l’egida del Ciclo L’Ora Blu, promosso dalle dottoresse Petra Donati (pediatra) e Cari Platis R. (anestesista) alle quali si riconosce il coraggio intellettuale di portare alla luce temi non certo facili, ma che proprio per questo meritano quel punto di incontro fra arte medica e popolazione, all’insegna della comunicazione trasparente e costruttiva. «Abbiamo deciso di sviluppare questo tema proprio perché la medicina non è una scienza esatta, e quando l’errore si manifesta il problema principale si pone nella sua gestione più adeguata», afferma la dottoressa Petra Donati che, parlando di «cultura dell’errore», porta ad esempio la sua lunga esperienza di medico pediatra in Svizzera interna dove, racconta, «l’errore medico merita una comunicazione immediata, si discute con i genitori per agire un’immediata mediazione». Un approccio di evidente trasparenza crea un rapporto di fiducia reciproca nel processo terapeutico, e innesca un’analisi professionale degli eventi: «L’ammissione immediata dell’errore permette di entrare nella cultura della mediazione con il paziente, e di muovere i passi necessari nel prosieguo delle cure. Parimenti, tra specialisti e tutte le

persone coinvolte, si attiva una procedura di analisi dell’accaduto che permetterà di trarre esperienza evitando di incappare nuovamente in un problema analogo». Alla dottoressa Donati, fa eco la dottoressa Cari Platis che spiega come la «politica di trasparenza e di onestà», in cui la comunicazione è fondamentale, comporterà l’instaurarsi di un rapporto di fiducia con il paziente: «Ad esempio, in sala parto viviamo costantemente l’importanza del fattore umano; assertività, comunicazione, lavoro in team, consapevolezza che comporta un potenziamento della prestazione, sicurezza del paziente: sono tutti fattori votati a diminuire sensibilmente il rischio dell’errore». Le promotrici de L’Ora Blu, nello specifico di questa conferenza, evidenziano in tal modo la centralità dei valori medici a garanzia della tutela del paziente. Fondamentale è la figura del medico stesso, al quale compete l’implicazione di responsabilità verso il proprio o la propria paziente. Per entrare un po’ più nel concreto, ne parliamo con il dottor Jeffrey Pedrazzoli, specialista in ginecologia e ostetricia, che spiega la particolarità dell’ambito dell’ostetricia: «L’ostetricia sottostà a un concetto molto particolare, perché oggi pare inconcepibile che una futura mamma sana

e il suo nascituro sano possano andare incontro a un esito drammatico: oggi più che mai si esige la perfezione, senza fare i conti con il fatto che, ad esempio, un evento emorragico post parto potrebbe avere un epilogo differente secondo il singolo caso che, certamente, il medico condurrà con decisioni terapeutiche sempre votate a salvare la paziente e a una felice conclusione». Egli ci permette di riflettere che, oggi come un tempo, la nascita potrebbe riservare qualche sorpresa non necessariamente imputabile ad errori medici, per una serie di fattori non trascurabili: «La medicina non è una scienza esatta e i modi di procedere possono essere molteplici. Già a livello diagnostico, ad esempio, ci possono essere differenze secondo il medico o il nosocomio in questione, questo a dipendenza delle diverse scuole mediche. Il medico agisce sempre per il bene della sua paziente, e opererà in funzione dell’esperienza e della sua formazione». È dunque sottile il confine fra l’imponderabile e la definizione dell’errore medico, racconta Pedrazzoli: «L’errore medico parte dal presupposto di un’errata interpretazione, ad esempio, di un tracciato, di una valutazione della fase espulsiva e via dicendo. Il tracciato potrebbe segnare che il nascituro non sop-

porta le contrazioni uterine, il medico decide allora di farlo nascere, salvo scoprire che il nascituro sta benissimo». Con questo esempio concreto, il ginecologo porta a riflettere sul fatto che si può «sbagliare» perché bisogna agire secondo la valutazione di quel preciso momento, e solo con il senno del poi sarà semplice giudicare l’esito di quella decisione. In effetti, ritorna il concetto del medico che, nell’esercizio della propria arte, opera con coscienza, conoscenza e passione, ma pressoché costantemente in condizioni di incertezza, perché agisce su un organismo non immune da vizi pregressi e comunque sensibile all’incidenza di innumerevoli variabili in corso d’opera: «Fra tutti i fattori che concorrono all’errore medico, uno non è sempre prevedibile e prevenibile: l’errore umano». Alla Tavola rotonda di sabato 21 marzo, si parlerà pure di vigilanza, di comunicazione e di cambiamenti di paradigma nell’approccio all’errore medico: «L’errore deve essere considerato fonte di apprendimento per evitare il ripetersi delle circostanze che lo hanno causato», è il pensiero che accomuna i nostri interlocutori, i quali confidano nella massiccia presenza di pubblico perché la comunicazione fra pazienti e curanti rimane cosa fondamentale.


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Ambiente e Benessere

Le spugne: usi e costumi, dall’antichità a oggi

Mondo sommerso Si fa presto a dire spugna senza ricordare che le prime (quelle non sintetiche)

avevano origine animale di antichissima progenie

Spugne gialle, Aplysina cavernicola sul relitto Vassilios T, Isola di Vis, Croazia, Mare Adriatico, Mediterraneo. Su www. azione.ch, una più ampia galleria fotografica. (Franco Banfi)

Sabrina Belloni Un rituale di coccole e di benessere. Immersi nell’alveum, nell’acqua calda e profumata delle terme romane (i progenitori delle attuali SPA: salus per aquam), ci si rilassava al piacere di una carezza: l’effetto di una spugna morbida come la seta, un massaggio lieve e uno scrub naturale a cui le dame romane non rinunciavano. Quando ci immergiamo nei mari e nei laghi di tutti i continenti e osserviamo i colori delle spugne, le forme diversissime, le tante varietà che le rendono talvolta irriconoscibili, non pensiamo che questi sono animali antichissimi. Eppure sembra che esse siano i primi animali (l’animale zero per antonomasia) ad essersi evoluti sul pianeta Terra. Oggi si fa presto a dire semplicemente «spugna». Le spugne possono essere naturali o sintetiche, delicate o esfolianti, colorate, grandi e piccolissime… sicuramente scegliere la spugna adatta ad ogni utilizzo è un’impresa. E un breve excursus degli usi nelle ere passate lascia di fatto sbalorditi. L’utilizzo delle spugne è stato documentato sin dall’antichità, nelle civiltà egizie e fenice1. Si sono conservati reperti di pitture murali realizzate con spugne nella dimora della regina di Knossos (1900 AC), nella cultura cretese e minoica. Il loro utilizzo per creare elementi decorativi sui muri ha attraversato millenni ed è diffuso anche ai giorni nostri. Sono conservati reperti di vasellame dell’epoca greca (765 AC) finemente decorato con illustrazioni di scene in ambienti termali2 , dove le spugne erano utilizzate come status symbol. Nell’impero romano, la spugna utilizzata nelle terme era una per antonomasia: la comune spongia officinalis, ricca di spongina (che è una proteina del collagene) e pertanto molto morbida ed elastica. All’epoca era diffusa nel mar Mediterraneo, anche a modesta profondità, e il principale centro di raccolta era Kalymnos (in Grecia) dove la pesca delle spugne costituiva la principale fonte di reddito della maggior parte delle famiglie. Le spugne erano poi usate dai miliziani romani per attutire e ammor-

bidire l’interno delle armature e degli elmi, allo stesso modo in cui i moderni caschi da motociclista sono imbottiti di materiale sintetico assorbente. Una delle testimonianze storiche più ricorrenti è sicuramente quella delle sacre scritture (Vangelo di Matteo) dove è riportato che tramite una spugna fu data da bere a Gesù crocefisso una bevanda a base di acqua e aceto. Sino al Medioevo le spugne furono usate in chirurgia (non come la intendiamo ai nostri giorni). Prima dell’intervento, l’effetto anestetico era ottenuto facendo inalare al paziente una «spugna soporifera». Era una pratica di antiche tradizioni arabe, che consisteva nel far assorbire alla spugna un liquido in cui erano disciolti hashish, papavero e alcaloidi come atropina e scopolamina (ioscina). La spugna veniva poi fatta asciugare al sole. All’occorrenza, veniva umettata e posta nelle narici del paziente. Le mucose del naso assorbivano le sostanze, che inducevano narcosi e un sonno pesante3. Per il risveglio, era utilizzata sempre una spugna, imbevuta di aceto e posta sotto le narici. Potremmo mai immaginare che le comuni spugne sono anche oggetto di sculture? Ebbene sì: due opere d’arte di portata internazionale sono conservate in musei e collezioni private. Sono la Blue Sponge (1959) al Solomon R. Guggenheim Museo di New York e la Sponge Relief (1960) allo Städel Museum di Francoforte, realizzate dall’artista francese Yves Kein. Tuttavia, l’utilizzo più bizzarro è probabilmente quello come contraccettivo. Spugne naturali saldamente attaccate a un filo, imbevute di acqua acidulata (con succo di limone e aceto) e avvolte in coperture di seta, venivano inserite nella vagina prima del coito come metodo barriera. Risale al 1823 la prima campagna educativa per il controllo delle nascite4 nel Regno Unito, che enfatizzava l’effetto contraccettivo di tale pratica. Le «spugne contraccettivo» rimasero popolari sino alla prima metà del secolo scorso, e nel 1983 negli USA fu commercializzata la «Today Sponge»5, una spugna sintetica contenente spermicida. Dei primi pescatori di spugne si hanno notizie grazie ad Aristotele (350

Un ragazzino con tre grandi spugne naturali. (Franco Banfi)

a.C.). Le spugne adatte alle abluzioni si trovavano a poca profondità e pertanto erano raccolte tramite gaffe e arponi. Ma ben presto questa tipologia di pesca fu sostituita da persone che si immergevano utilizzando una zavorra, che li facilitava nella permanenza sui fondali. Ai tempi di Alessandro Magno, detta zavorra era la skandalopetra, una pietra piatta con gli angoli smussati, la forma idrodinamica, frequentemente in granito, del peso variabile tra gli 8 e i 14 kg, legata con una fune da un capo al raccoglitore di spugne, dall’altro alla barca. Un compagno sulla barca seguiva il tuffo dalla superficie e recuperava l’apneista-pescatore con la «petra», salpando la fune al termine dell’immersione. L’epoca d’oro per i pescatori di spugne resta tuttavia l’inizio del secolo scorso. Gli uomini partivano dalla Sicilia, da Cipro, dalla Libia per recarsi nel Mar Egeo e trascorrevano insieme settimane sui caicchi (barche turche) dedicandosi alla raccolta della Spongia officinalis. Era un lavoro molto faticoso e tanti furono vittime della malattia da decompressione, che può causare infermità, paralisi parziali, dolori molto intensi, quali conseguenze della occlusione improvvisa di un vaso sanguigno e della conseguente necrosi dei tessuti rimasti privi di nutrimento. Nel mare Adriatico, l’isola di Krapanj (la più piccola e bassa isola popolata croata) divenne famosa per la raccolta delle spugne. Ebbe inizio nel 1700 e nel XIX secolo oltre 40 imbarcazioni

si dedicavano alla raccolta delle spugne. Solamente nel 1893 i raccoglitori iniziarono a indossare una rudimentale muta subacquea, che poi evolse in un’attrezzatura antesignana di quella utilizzata dai tecnici che lavorano in alto fondale. Fu durante il Medioevo e il Rinascimento, nel periodo di maggior splendore della Serenissima Repubblica di Venezia e dei suoi ricchi commerci sovrannazionali, che le spugne fecero rotta verso l’Oriente. Allo stesso tempo centinaia di imbarcazioni e migliaia di raccoglitori da Italia, Malta, Grecia, Turchia e Tunisia depredarono i banchi del Mediterraneo senza controllo, soprattutto lungo le coste dalmate e del mar Egeo. Nel 1840 furono scoperti banchi di spugne lungo le coste Mediterranee del Nord Africa e iniziarono le importazioni dalle «Indie Occidentali»: soprattutto da Florida, Bahamas, Cuba. Gli effetti del sovrasfruttamento non tardarono a manifestarsi. Dall’inizio del secolo scorso, gli eventi di moria e sofferenza dei banchi si fecero evidenti, al punto in cui alcune spugne furono considerate vicine all’estinzione (Webster, 2007). Negli anni Novanta dello scorso secolo il declino degli stock fu drammatico: in Grecia, Turchia, Cipro, Siria, Egitto e Tunisia la raccolta fu proibita per due anni (Castritsi-Catharios et al. 2005). L’introduzione di spugne sintetiche negli anni Cinquanta ha influito significativamente sull’industria della

pesca e sul commercio delle spugne naturali. Tuttavia negli ultimi anni si rileva una ripresa consistente. Nel Mar Mediterraneo, oggi le spugne sono minacciate dal degrado di alcuni ambienti marini, dovuto solo in parte all’inquinamento ma più spesso da fattori quali la torbidezza dell’acqua, la pesca con le reti a strascico che distrugge i fondali coralligeni su cui si insediano le spugne, la pratica illegale dei pescatori di datteri che distruggono il substrato per estrarre il mollusco, la competizione con le alghe e gli invertebrati per insediarsi in un fondale idoneo alla crescita, e più recentemente, le anomalie termiche che hanno resi inadatti alla sopravvivenza i luoghi ove le spugne sono cresciute, provocando morie in aree estese. Alcune specie di spugne particolarmente vulnerabili e soggette a una pesca massiva sono state inserite negli allegati II e III della Convenzione di Berna e nel protocollo SPA/BIO (Specially Protected Areas and Biological Diversity in the Mediterranean) della Convenzione di Barcellona. In un prossimo articolo vi illustreremo le particolarità biologiche delle spugne e il loro valore nell’ecosistema marino. Note e bibliografia

1. Chiavarà D. (1920), Le spugne e i loro pescatori dai tempi antichi ad ora, Memorie del Regio Comitato Talassografico Italiano. 2. Arndt W. (1935), Bildliche darstellungen von schwämmen im Kretisch‐mokenischen kulturbereich, Sitzungsberichte der Gesellschaft Naturforschender Freunde. 3. Al-Bakri A.K., Takrouri M.S.M., Ghori S.K., Seraj M.A. (1999), Surgical advances and practice of anaesthesia in early Islamic Era. 4. Place F. (1822) Illustrations and Proofs of the Principle of Population, 1967 edition, George Allen & Unwin, London. 5. Edelman D.A., North B.B. (1987) Updated pregnancy rates for the Today contraceptive sponge, American Journal of Obstetrics and Gynecology.


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Ambiente e Benessere

Uno di noi Claudio Visentin «Essere uno del posto»: nel perpetuo, incessante sforzo di distinguersi dagli altri, quella informe massa grigia che chiamiamo turisti, questa sembra essere l’ultima aspirazione dei viaggiatori più navigati. Niente più noiosi musei, trappole per turisti, ristoranti letali dove il cibo è raffigurato da fotografie; molto meglio condividere la quotidianità di chi in quel posto ci vive e quindi si suppone lo conosca meglio di ogni altro. Anche le grandi aziende hanno fiutato al volo l’aria che tira, adeguando le loro proposte. Per esempio, il portale di prenotazioni Airbnb sta sviluppando la sezione «esperienze» dove propone «attività uniche organizzate dalla gente del luogo»: e così potreste imparare a fare la pasta casereccia a Roma con una vera nonna, passare una giornata con un DJ a Cuba o navigare il deserto dell’Oman con un cammelliere. A Milano troverete chi vi accompagna nei migliori bar, nei luoghi perfetti per una foto vincente sui social, in una camminata nel Cimitero monumentale o a cena con amici in una casa sui Navigli. E infiniti altri siti sono pronti a suggerirvi nuove possibilità (per esempio www.spottedbylocals.com). Per rendere ufficiale il legame con la gente del posto si stringono anche degli speciali patti (pledge), con i quali i visitatori promettono per esempio di rispettare la natura, di seguire le regole e di non correre rischi inutili per qualche like in più su Instagram. L’Islanda

(poco più di trecentomila abitanti, quasi due milioni di turisti l’anno) sostiene di averci pensato per prima, già nel giugno 2017 (www.inspiredbyiceland. com/pledge), anche con un certo umorismo («Scatterò foto belle da morire senza morire» è una delle promesse). In settantacinquemila hanno già sottoscritto l’impegno. Molti hanno imitato l’esempio islandese, a cominciare dalla Nuova Zelanda alla fine del 2018 con Tiaki Promise (tiakinewzealand.com, Tiaki nella lingua locale vuol dire aver cura). Ultima (per ora) potrebbe essere la Finlandia, con la campagna Be more like a Finn (www.visitfinland.com/sustainable-finland-pledge). Qualcuno è scettico sulla reale efficacia di queste iniziative, al di là di una generica sensibilizzazione del turista. Nel caso dell’Islanda per aderire basta schiacciare un bottone davanti a uno schermo in aeroporto… Justin Francis, fondatore di «Responsible Travel», ha sottolineato come sarebbe invece ben altrimenti efficace raccogliere fondi per proteggere i luoghi minacciati dal turismo di massa. E così cinque città di montagna degli Stati Uniti incoraggiano apertamente delle donazioni: «Ti invitiamo a considerare un’offerta di un dollaro per ogni ora spesa in mountain bike, salendo verso epici picchi o prati di fiori selvatici, pescando in fiumi e laghi incontaminati o per qualsiasi altra avventura tu abbia appena vissuto» (www.pledgewild.com). Anche il giovane Stato di Palau, un arcipelago della Micronesia, ha cercato di rendere più stringente il patto, tim-

Ma.Ma.

Viaggiatori d’Occidente Il rapporto tra turisti e locali alterna aspetti interessanti e qualche paradosso

brandolo sul passaporto dei visitatori; se non lo firmano l’ingresso è negato e chi non lo rispetta rischia pesanti multe. Le Isole Faroe invece hanno scelto una strategia diversa, «chiudendo» per una settimana ai turisti e invitando dei volontari per lavorare al ripristino dei sentieri insieme ai locali. Grande successo (cento prescelti tra tremilacinquecento candidature), tanto che l’iniziativa è già stata rinnovata («Chiuso

per manutenzione», ci si può proporre per l’aprile 2020). Lo scrittore David Whitley su «The Independent» ha criticato la stessa idea di voler essere «come un locale», partendo dalla sua esperienza personale. «Lo scorso fine settimana è stato sorprendentemente noioso. Ho fatto la spesa al supermercato, un paio di lavatrici, ho riparato la recinzione danneggiata dalla tempesta e ho visto un paio

di film mediocri, scelti tra quelli gratuiti su Amazon Prime. Non mi pare granché come fonte d’ispirazione. Se qualcun altro me l’avesse proposto per un fine settimana di turismo urbano, mi sarei infuriato. Immagina di perdere un paio di giorni preziosi a Barcellona o a Roma sbrigando le faccende domestiche, girovagando e guardando Tom Cruise… Se vai da qualche parte per un fine settimana è del tutto sano e logico concentrarsi su quel che rende veramente unico quel luogo, o almeno insolito e sostanzialmente diverso da quello che potresti vedere entro cinque miglia da casa tua». È una posizione provocatoria ma con qualche fondamento. Chi vive in una città spesso non ha visitato neppure le attrazioni più famose (dopo tutto può andarci quando vuole) e magari non frequenta neanche posti così speciali. Continua David Whitley: «La gente di qui non va nei bar più interessanti: va nei suoi ritrovi abituali che ha frequentato per anni, perché sa che ci sono i suoi amici». Non a caso far vivere la propria città a chi viene da fuori sta diventando un nuovo mestiere (quasi sempre si paga il servizio). E alcune delle guide migliori sono stranieri residenti in città da qualche tempo, abbastanza per farsi un’idea di cosa vedere senza però cadere nell’abitudine. Sono quelli che hanno dovuto capire i luoghi, essere socievoli con estranei con i quali non sono cresciuti e comprendere le differenze. Come dire che i buoni viaggiatori sono anche i migliori locali. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 marzo 2020 • N. 10

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Ambiente e Benessere

Trevisano con briciole di roquefort

Migusto La ricetta della settimana

Piatto unico Ingredienti per 4 persone: 6 c d’olio di canapa · 4 c circa di aceto alle erbe · 2 c di miele liquido · sale · pepe · 8 radicchi trevisani o cicorini · 4 c di burro · 6 c di semi di canapa decorticati · 100 g di roquefort o di feta · ¼ di mazzetto di prezzemolo.

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

1. Mescolate l’olio con l’aceto e il miele, quindi condite la salsa con sale e pepe. 2. Tagliate i cespi di radicchio a metà per il lungo. Rosolateli brevemente nella metà del burro con la superficie di taglio rivolta verso il basso, poi lasciate intiepidire. 3. Tostate i semi di canapa in padella nel burro rimasto, finché si dorano, poi lasciateli raffreddare. 4. Spezzettate il roquefort e unitelo ai semi di canapa. Distribuite la salsa e il roquefort sul radicchio. Tritate grossolanamente il prezzemolo e spargetelo sull’insalata. Preparazione: circa 30 minuti. Per persona: circa 16 g di proteine, 43 g di grassi, 14 g di carboidrati, 530 kcal/

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Ambiente e Benessere

Mahonia senza spine

Mondoverde Un’opportunità nuova per nutrire l’avifauna dei nostri giardini

Anita Negretti La passione per il mondo verde è qualcosa che ti accompagna in ogni momento. Mesi fa, passando lungo la strada che costeggia Figino, ho notato una piccola aiuola ben curata con al centro una pianta insolita che cresceva rigogliosa in piena ombra. Le sue foglie grandi e morbide, quasi simili a quelle di una felce, di un verde molto intenso e lisce mi hanno incuriosita a lungo, non riuscendo a capire di quale pianta si trattasse. Dopo averla guardata per alcuni mesi, a metà dicembre sono comparsi dei fiori gialli oro, inconfondibile segnale di riconoscimento delle mahonie. Si tratta infatti di Mahonia confusa «Nara Hiri», chiamata anche «Narihira», un ibrido creatosi in natura e derivante dall’incrocio spontaneo tra le mahonie che crescono nei boschi della Cina occidentale. Giunta da pochi anni in Europa, è ancora difficile trovare la presenza di questo esemplare nei nostri angoli verdi di casa, anche se le caratteristiche di questa pianta hanno tutte le carte per entusiasmare gli amanti del giardino. In fiore da novembre a febbraiomarzo, presenta spighe erette color giallo e molto profumate. Per nulla spaventata dai rigori invernali, la Mahonia confusa resiste bene fino a –25°C con esposizione a mezz’ombra. Al contrario delle altre mahonie,

questo esemplare ha uno sviluppo ridotto, tant’è che arriva al massimo al metro e mezzo di altezza e al metro scarso di larghezza della chioma. Anche per questo, e per il fatto che non ha foglie che pungono come le altre piante dello stesso genere, la si può coltivare bene in un capiente vaso da tenere su terrazzi o balconi rivolti a nord. Oltre a regalare una bella fioritura invernale, durante la primavera e l’estate questo arbusto sempreverde si riempie di bacche prima verdi e poi blu, bacche, tra l’altro, che sono molto gradite agli uccelli. Per chi invece deciderà di volerla coltivare in giardino, sarà bene che si ricordi di lasciare che le radici di Mahonia confusa «Nara Hiri» possano svilupparsi al meglio. E potrebbe persino non limitarsi a mettere a dimora un solo esemplare, ma potrebbe persino optare per la creazione di una siepe naturale, utile per l’avifauna. A tal proposito, si può dire che accompagnata a un altro cespuglio da bacca come Nandina domestica sarà possibile fornire ancor più cibo agli uccelli, e vale lo stesso discorso unendola a un ciliegio da fiore o a un cespuglio profumato di sarcococca, anche lei amante della mezz’ombra. Piantata vicino a un caprifoglio invernale o un’abelia, magari scegliendo una varietà con le foglie variopinte, sarà invece senz’altro apprezzata dalle api.

Un esemplare di Mahonia confusa «Nara Hiri». (Twitter.com.BruceBigPlant) Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Svizzera «Top», Austria «Flop!»

Sport Dopo oltre 30 anni lo sci rossocrociato sembra ben avviato verso il sorpasso della nazione

che da decenni domina la scena

Giancarlo Dionisio Osservare risultati e classifiche, analizzarli e capirne le cause, è uno dei compiti istituzionali di un giornalista sportivo. Da dicembre – sentitevi liberi di considerarmi un maniaco – al termine di ogni week end mi ritrovo a esaminare le graduatorie della Coppa del Mondo di sci alpino. Lo faccio, settimana dopo settimana, con interesse e stupore crescenti. In attesa che sbocci Marco Odermatt, il nostro miglior talento dai tempi di Pirmin Zurbriggen, attualmente non disponiamo di un atleta, maschio o femmina che sia, in grado di inserirsi nel duello per la vittoria della Classifica Generale. Recentemente c’era riuscita Lara Gut, poi bersagliata dalla malasorte, mentre in campo maschile si deve risalire al successo di Carlo Janka nel 2010. Scorrendo le classifiche attuali con occhio elvetico, oltre all’assenza, si spera temporanea, di un megaleader, balzano all’occhio altri due dati macroscopici. 1. Disponiamo di un numero elevato di sciatori e sciatrici tra la 5a e la 15 posizione. Se consideriamo che sono sparpagliati nelle classifiche delle varie discipline, possiamo affermare che la nostra è una Nazionale forte, equilibrata, con ulteriori margini di crescita. 2. La conseguenza di quanto scritto è confermata dal fatto che nella classifica per nazioni siamo al primo posto. La sigla CH è lassù, in cima, dove per oltre 30 anni volavano le aquile targate «AUT». Incredibile! Tanto più che il divario in punti è andato dilatandosi

settimana dopo settimana, fino a raggiungere quasi quota 1000. Fino a una decina di giorni fa – e mi riferisco sempre al mio maniacale peregrinare fra le graduatorie – notavo la nazionale svizzera maschile sempre al comando, mentre quella femminile era costretta a inseguire Italia e Austria, nonostante le buone prestazioni di Corinne Suter e Wendy Holdener. Dentro di me pensavo: ecco, mancano i punti di Lara Gut-Behrami. Sono bastate 24 ore di fuoco, sulle nevi di Crans Montana, per sciogliere quasi completamente il gap fra le ragazze e proiettare la Svizzera sempre più vicina alla conquista della Coppa per Nazioni. Ciò non accade dal 1989. Da allora, per 30 anni, Austria, ancora Austria, solo Austria. Le Aquile hanno portato in giro per il mondo un numero impressionante di donne e uomini vincenti. Dalla Kronberger al trio Goetchel, Meissnitzer, Dorfmeister, su fino alla Fenninger-Veith. Oppure dall’era Hermann Maier, Stephan Eberharter, Hans Knauß, passando per Benny Raich e Mario Matt, su su fino al Fenomeno, colui che la primavera scorsa ha deciso di dire stop, dopo aver messo in bacheca otto sfere di cristallo in altrettante stagioni consecutive di Coppa del Mondo: Marcel Hirscher, probabilmente il più grande sciatore di tutti i tempi. Che quest’anno siano soprattutto i suoi punti a mancare nel carniere austriaco, ci può stare, tuttavia sarebbe una considerazione che non mette sufficientemente in risalto i meriti della

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno 5 pervenire 6 7 soluzione 8 fatto la corretta9 entro il venerdì seguente la pubblica11 zione del gioco.

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch 1 2 3 4 10

nazionale Svizzera, e i demeriti dei nostri rivali storici che non sono stati in grado di ovviare in tempi brevi a questa pesantissima mancanza. Non saprei spiegare perché la Svizzera sia in testa sin dallo scorso mese di dicembre. Azzardo delle ipotesi: l’ottimo lavoro svolto, negli anni recenti, a livello giovanile, l’arrivo di figure nuove, capaci e vincenti, alla guida della nazionale maggiore, l’impiego adeguato di un budget, che non è sui livelli

di quello austriaco, ma è pur sempre cospicuo. Sta di fatto che in ogni classifica di specialità, sia al maschile, sia al femminile, troviamo la bandierina rossocrociata fra i top cinque, ad eccezione del gigante uomini, dove il nostro miglior rappresentante, Marco Odermatt, è solo decimo, anche perché costretto a disertare alcuni week end di gara a causa di un intervento a un ginocchio. Aggiungo il carico da 11. Siamo persino diventati la nazione faro nello

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Corinne Suter, una delle grandi speranze vincenti. (Keystone)

slalom maschile, dopo che, per quasi 40 anni, eravamo stati abituati a raccogliere solo le briciole. Non so se tra un mese, a stagione conclusa, potremo festeggiare questo storico ritorno ai vertici dello sci mondiale. Io credo comunque che solo un cataclisma ci potrà privare di questa soddisfazione. Ad ogni modo due dati significativi restano già sin d’ora scolpiti nella storia: Corinne Suter ha già vinto la Coppa di specialità nella libera, non accadeva dal 1991 con Chantal Bournissen, e potrebbe ripetersi in SuperG. Dal canto suo, Lara Gut, dopo un lungo digiuno, è tornata al successo. Pim Pum Pam, due cartucce vincenti sparate in 24 ore, per dire al mondo che non è finita, e che lei, per lo sci elvetico, è ancora un capitale importante da investire. La ragazza di Comano non ha ancora 29 anni, sa come si fa a vincere e lo ha ricordato a chi pensava che se ne fosse dimenticata. Lasciamoci quindi stupire. Quanto alla svittese, considerata fino a un anno fa un talento inesploso, ha fatto tesoro delle due medaglie conquistate ai Mondiali del 2019, si è sbloccata, e dopo l’uscita di scena di Lindsey Vonn, si è ritagliata quello spazio privilegiato al quale ambivano atlete come Sofia Goggia, Ilka Stuhec, Ester Ledecka, che le sono regolarmente alle spalle. Insomma, se Federer e Wawrinka, regalandoci la Coppa Davis, ci avevano fatto credere di essere un popolo di tennisti, ed Enrico Bertarelli ci aveva illuso che fossimo una nazione di esperti navigatori, oggi i nostri sciatori ci ricollocano nel cuore della nostra vocazione e della nostra storia.

ORIZZONTALI 1. Un poker mancato 4. Un vento 9. Rischia di andare dentro... 10. Fu un presidente jugoslavo 11. Congiunzione eufonica 12. Le separa la «L» 13. Un frutto 14. Andate alla latina 15. È impegnativo leggerlo... 16. Vento caldo e umido 17. Filosofia morale 19. La famosa attrice Sofia 20. Ogni tanto è piena 21. Simbolo chimico del tantalio 22. Legge francese 23. Cuore di vate 24. Anno a Parigi 25. Città della Svezia 26. Nome maschile

T R I S R E O T VERTICALI 1. Perforatrice, trapano 2. Una del sonno I faseM P E 3. Dieci arabi 4. Conteneva olio Vterza è maturaT O M 5. La 6. Nucleo del tifone 7. Linee... E oneste T I C A 8. Famoso quello di Pericle ad Atene 10. Motivo ricorrente di un’opera N A 13.L PiccolaU quantità 14. Fantoccio mascagnano 15.L Recipienti Obacchici I C 16. Stanno in coda... 18. Provocato da una scarica elettrica U 19.A GrassoN per cucinare L 21. Possono essere offensivi 23. Contrazione perché Z O inglese R diA 25. Le iniziali dell’Ariosto Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Z E F I R O 1 7 I T O E D 9 7 8 R A I T E Soluzione della settimana precedente INDOVINELLI – Ti accompagna oltre la collina senza muoversi… Risultante: OGLI NNon siO Onon si rompe… Risultante: L’UOVO. LA STRADA. usa finoT a quando 2 5 6 9 8 3 7 1 L O M RO L EA R NE 3 7 1 5 4 6 8 2 O R E L S R 8 9 4 1 7 2 5 6 T A S C I A T I 6 2 5 8 9 1 3 4 T R E S C A O B RI A D A F I S S O 4 8 3 7 6 5 2 9 9 1 7 3 2 4 6 8 A L’ P I P A R E I NL D 7 4 2 6 5 9 1 3 A I T U R A N N 5 3 9 2 1 8 4 7 I R E R E N I L O I O 1 6 8 4 3 7 9 5 E L V I R A O S E luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 marzo 2020 • N. 10

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Politica e Economia Virus globale Anche se Xi Jinping dice che il picco dei contagi è superato, una parte del danno è fatto a livello economico e di immagine

Milan l’è semper Milan? Nell’esplosione dell’emergenza sanitaria provocata dal coronavirus il capoluogo lombardo si è trasfigurato, convertendo la sua vitalità sociale ed economica in una specie di deserto segnato dalla paura

I Cantoni si adeguano Riviste le aliquote fiscali sugli utili delle imprese, in linea con le leggi federali. Zugo resta il più generoso

L’arte di risparmiare L’88 per cento degli adulti in Svizzera risparmia con regolarità. Ma come investire questi risparmi? pagina 32

pagina 29

pagina 31

AFP

pagina 28

Come il mondo sta cambiando

Geopolitica del virus Mai come ora le conseguenze economiche e non solo di un morbo non particolarmente letale,

ma rivelatore di grandi cambiamenti, sono state tanto importanti

Lucio Caracciolo Il coronavirus è un formidabile indicatore geopolitico di come sta cambiando il mondo. Il modo in cui i diversi paesi stanno reagendo a questa emergenza sanitaria è rivelatore della loro identità, della loro coesione sociale e culturale, del funzionamento delle istituzioni. E quindi del rispettivo rango su scala planetaria. Cominciamo dalla Cina, epicentro del virus. Non è la prima e non sarà l’ultima volta che epidemie influenzali colpiscono il Paese più popoloso al mondo. Mai come ora però le conseguenze economiche e geopolitiche di un morbo nemmeno particolarmente letale sono state tanto importanti. Alcune centinaia di morti già dagli inizi di febbraio hanno significato il blocco quasi totale dell’economia cinese, la crisi delle Borse asiatiche subito rim-

balzata ovunque, la chiusura di frontiere internazionali come quella con la Russia. Il che indica come la percezione stessa della vita umana sia mutata in Cina. Fino a ieri lo stato cinese non dava gran peso all’esistenza dei suoi cittadini. Il valore della comunità dominava nettamente quello degli individui. La reazione tardiva quindi estremizzata del regime cinese allo scoppio dell’epidemia a Wuhan e nello Hubei indica che il potere del Partito comunista è meno stabile di quanto si immaginasse, perché la Cina è più fragile e il cittadino medio più sensibile alle emergenze di quanto siano mai stati. Se basta così poco – secondo gli standard di un Paese dove nel Dopoguerra milioni di persone sono state uccise da malattie poco o nulla curate – per far scattare l’allarme rosso, vuol dire che Xi Jinping non è sicuro di controllare un Paese in cui il panico

da coronavirus rischiava (e rischia) di metterne in questione la legittimità. O, come dicono i cinesi, il mandato del Cielo. Insomma, per cantarla alla Sting, anche i cinesi amano i loro bambini – e se stessi. Non sono più così disposti a sacrificarsi per il «bene comune», per lo Stato. La grave crisi cinese si è quasi immediatamente trasferita nel resto del pianeta, generando ansia, addirittura panico. E innescando una reazione a catena, a partire dalla sconsiderata decisione italiana di chiudere tutti i voli da e per la Cina. E qui veniamo a noi europei. A partire dall’Italia, che da fine febbraio si è improvvisamente scoperta specialmente esposta al coronavirus. Probabilmente perché, a differenza di altri paesi, che considerano il morbo alla stregua di un’influenza abbastanza normale, in Italia si è deciso di avviare una campa-

gna di controllo capillare su quote rilevanti della popolazione. Con un doppio, interessante effetto geopolitico. In primo luogo, sono venute clamorosamente a galla le divisioni interne. I presidenti di Regione – pomposamente ribattezzati «governatori», quasi equivalessero al capo di uno Stato federato americano – si sono mossi in ordine sparso, spesso contraddicendo il governo centrale. La carta della reazione al coronavirus ridisegna i vecchi Stati preunitari. Il Lombardo-Veneto è rinato sotto specie sanitaria. Tutta l’Italia settentrionale è inizialmente stata trattata e quindi separata dal resto del Paese come fosse entità a sé. E si è comportata per tale, in una cacofonia di espressioni e nel disordine decisionale più grave. Ciò ha contribuito a diffondere il panico, precisamente quello che si voleva evitare. In secondo luogo, l’Italia è stata

percepita divisa anche dall’estero. Così ad esempio il Ministero degli esteri russo ha sconsigliato il viaggio nell’«Italia del Nord». Ma da quando esiste un tale paese? O forse si considera la linea gotica come partizione fra Nord e Sud, e il coronavirus come soggetto geopolitico in grado di bisecare il Belpaese? Inoltre, alcuni paesi europei hanno trattato lo Stivale come pericoloso focolaio di infezione, prendendo misure speciali nei confronti dei cittadini italiani, sempre distinguendo fra nordici e meridionali – questi ultimi improvvisamente elevati a paradigma di virtù. Non è ovviamente il caso di stilare bilanci sanitari del coronavirus. Quando, speriamo presto, l’emergenza sarà superata, dovremo constatare gli enormi danni economici, sociali e geopolitici che questa epidemia di paura ha provocato nel sistema internazionale e nelle stesse nazioni.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 marzo 2020 • N. 10

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Politica e Economia

Prove generali di decoupling

Scenari L’emergenza sanitaria sta scrivendo una nuova pagina del divorzio tra le due maggiori economie del mondo

innescato con la guerra dei dazi e la crisi Huawei. E quindi anche della globalizzazione Federico Rampini Mentre il coronavirus è entrato nella sua fase globale, cioè post-cinese, valutare le conseguenze geopolitiche e l’impatto economico è altrettanto difficile che avventurarsi nelle previsioni sanitarie. Gli interrogativi si addensano. Quale sarà il costo di questa epidemia sulla reputazione della Cina e sul suo ruolo nella catena produttiva mondiale? Siamo già passati dall’epidemia alla pandemia? In Europa si arriverà a qualche chiusura delle frontiere, frenando i due milioni di lavoratori transfrontalieri dello spazio Schengen? È questo l’incidente del tipo «cigno nero» che può scatenare una nuova recessione mondiale? E magari far perdere l’elezione a Donald Trump? «Black swan», cigno nero, è l’immagine metaforica – poiché la grande maggioranza dei cigni sono bianchi – che fu coniata per designare eventi «a bassissima probabilità statistica e ad altissimo impatto». Il XXI secolo ce ne ha già offerti diversi: l’11 Settembre 2001 con l’attacco alle Torri Gemelle; il 2008 con lo schianto finanziario dei mutui subprime; il 2016 con Brexit e l’elezione di Trump. Il coronavirus entrerà a far parte di questa categoria? Bisogna essere cauti prima di maneggiare le previsioni apocalittiche. Ho un ricordo personale sull’epidemia Sars del 2003 perché quell’anno stavo per aprire l’ufficio di corrispondenza di Repubblica a Pechino; l’allarme sanitario fece rinviare al 2004 il mio trasloco dall’America alla Cina. Perciò ricordo con precisione anche il catastrofismo dei commenti di allora. La crisi fu meno grave e più breve di quanto si credeva. Certo, allora la Cina pesava il 3% dell’economia globale, oggi il 20%. Anche se Xi Jinping ora dice che il picco dei contagi è superato, e prevede che ad aprile l’epidemia sarà in ritirata (con l’arrivo della buona stagione questo accade spesso per le influenze), una parte del danno è già fatto. Alcuni centri studi calcolano una crescita cinese dimezzata nel primo trimestre di quest’anno. Lo stesso scenario viene fatto per quella americana, che potrebbe crescere solo del 1% da gennaio a fine marzo, anziché il 2%. L’Europa era già sull’orlo di una recessione, ora aumentano le probabilità che ci finisca dentro. Il mondo sta facendo le prove generali di come vivere senza la Cina. L’Europa le farà su come vivere senza l’Italia? È cominciato quando Xi Jinping – dopo aver colpevolmente censurato per un mese le notizie – ha deciso di bloccare la vita sociale ed economica di 60 milioni di persone, attorno alla città-focolaio di Wuhan: un importante centro siderurgico e metalmeccanico, definita «la Chicago cinese». Poi il resto del mondo ha dovuto proteggersi dalla Cina, imponendo un isolamento che cancella dalla mappa terrestre un mercato di viaggiatori da 150 milioni di voli annui. Compagnie aeree, navi da crociera e catene alberghiere, nonché le grandi convention aziendali e

Xi Jinping dice che il picco dei contagi è superato e che ad aprile l’epidemia sarà in ritirata. (Keystone)

fiere settoriali, sono vittime sicure: per loro non ci sarà la possibilità di recuperare i clienti perduti in questi mesi perché una nave da crociera (o un albergo vuoto) non può raddoppiare il numero di clienti per ogni letto una volta che l’allarme è cessato. Altri cominciano a prendere provvedimenti altrettanto drastici in casa propria: la Corea del Sud cinge un cordone sanitario attorno a una delle sue maggiori metropoli. Il Giappone ha chiuso le scuole e scivola a sua volta verso una recessione. Questo accade dopo due anni in cui l’America aveva già tentato di avviare un «decoupling», un divorzio economico e tecnologico dalla Cina. Non solo con la guerra dei dazi di Donald Trump o con le pressioni sugli europei contro il 5G di Huawei. In realtà tutto l’establishment americano, incluso il partito democratico e l’intellighenzia progressista, hanno rivisto radicalmente i propri giudizi sulla Cina di Xi Jinping: sinistra e destra la considerano un rivale minaccioso, la cui ascesa va fermata prima che sia troppo tardi. Il coronavirus è un cataclisma che nessuno poteva prevedere, neppure nei suoi sogni più selvaggi Trump avrebbe immaginato un simile colpo sferrato alla superpotenza avversaria. Sta di fatto che l’emergenza sanitaria accelera quelle prove generali di «decoupling» o de-strutturazione della globalizzazione. Il clima da Guerra fredda, già percepibile l’anno scorso, sta peggiorando. La dice lunga l’incidente diplomatico attorno al «Wall Street Journal», culminato con l’espulsione dalla Cina di tre corrispondenti di quel quotidiano. L’antefatto è un editoriale pubblicato nella pagina dei commenti del «Wall Street Journal», a firma di uno storico autorevole, Walter Russell Meade. La

tesi di Meade – ampiamente diffusa negli Stati Uniti – è che il coronavirus mette a nudo la debolezza di un regime autoritario, che censurando le cattive notizie ha danneggiato il proprio popolo e ha esportato una malattia nel resto del mondo. Il titolo che il giornale ha dato a quell’intervento, La Cina è il vero malato dell’Asia, ha fatto infuriare Xi Jinping. Il governo cinese ha accusato il «Wall Street Journal» di riesumare pregiudizi razzisti dell’Ottocento, il mito del «pericolo giallo». La reazione di Xi è stata spropositata, con l’espulsione dei tre giornalisti, prontamente condannata dal Dipartimento di Stato americano. È una spirale che nessuno sembra in grado di fermare. Da una parte l’istinto autoritario di Xi lo porta a vedere ovunque complotti contro la Cina, e a reagire peggiorando ulteriormente la propria immagine internazionale. Xi ne approfitta anche per rimangiarsi le promesse fatte a Trump su un aumento delle importazioni agricole dall’America. Sul fronte opposto, negli Stati Uniti si rafforza una visione negativa della Cina che sembra precludere un ritorno alla competizione costruttiva dei trent’anni precedenti. Il tono dei commenti sulla stampa americana è sferzante, vedi l’ultimo apparso sul «Wall Street Journal» a firma del presidente di Next Digital, Jimmy Lai: «Non c’è vaccino per il coronavirus, ma questa malattia rivela una verità che pone un rischio maggiore per Xi: non c’è cura per il comunismo cinese se non il crollo del partito». I costi economici? Non si contano più le grandi fiere cancellate per tenere fuori i potenziali visitatori dalla Cina (che comunque verrebbero bloccati agli aeroporti). Apple è stata la prima delle mega-imprese americane ad an-

nunciare un ribasso nei suoi risultati economici, sia per la caduta delle vendite sul mercato cinese sia perché le sue fabbriche cinesi non forniscono la produzione attesa. Il solo porto di Los Angeles ha già cancellato 40 arrivi di navi porta-container dalla Cina. Tutti i settori produttivi stanno cominciando a prendere le misure del danno: dopo i trasporti e il turismo anche l’automobile e il farmaceutico, l’elettronica e l’abbigliamento. Perfino chi è scarsamente presente in Cina, non vi ha fabbriche né reti commerciali, scopre che nei propri prodotti sono incorporati dei componenti che venivano da là e ora scarseggiano. Un esempio interessante riguarda proprio i medicinali. Quasi nessuno lo sa al di fuori degli specialisti del settore, ma la maggior parte dei «principi attivi» nei farmaci che consumiamo vengono prodotti in Cina o in India. Se si chiude uno dei canali di approvvigionamento, non sappiamo dove procurarci il componente di base per molti dei medicinali che usiamo. Trent’anni di globalizzazione fondati sul dogma dell’apertura dei mercati e della complementarietà hanno costruito delle catene produttive e logistiche così complesse che si fa fatica a districare il groviglio, a estrarne la parte cinese e farne a meno per un futuro più o meno lungo. Amazon, che domina il commercio online in tutto l’Occidente, non sa esattamente quanta parte dei 100 milioni di prodotti che mediamente tiene nei suoi magazzini siano destinati a scarseggiare per qualche interruzione nei flussi dalla Cina. Xi Jinping è consapevole dei rischi che corre l’economia cinese e sta facendo di tutto per accelerare un ritorno alla normalità. Grandi aziende come la Foxconn, che assembla gli iPhone per

Apple, stanno offrendo gratifiche e aumenti salariali agli operai per convincerli a tornare al lavoro al più presto. Le due superpotenze rivali su una sola cosa reagiscono all’unisono. In Cina la banca centrale ha ripreso a pompare credito a buon mercato, e il governo prepara piani d’investimenti pubblici per attenuare la crisi. In America la Federal Reserve è pronta a ridurre nuovamente i suoi tassi qualora sia necessario, e il Congresso potrebbe varare un bilancio espansivo. L’Italia e l’Europa erano già in stagnazione prima dello shock da coronavirus, ora Bruxelles allenterà le rigidità di bilancio per consentire manovre di sostegno al reddito. Le prove generali per smontare la globalizzazione rischiano di trasferirsi in Europa, dopo che l’area più produttiva d’Italia è colpita. Le conseguenze politiche? Qualcuno prevede – o spera – che un arresto della crescita americana sia un colpo alle chance di rielezione di Trump. Altrettanto interessante è capire l’effetto sulla Cina. I cinesi ricordano un detto: «Per chi ha in mano solo un martello, ogni problema sembra un chiodo». Il regime cinese sa fare una cosa molto, molto bene: mobilitare le masse, esercitare l’autorità, comandare il popolo per convogliare tutte le sue energie verso un fine supremo. Quando Xi Jinping chiama ad una «guerra di popolo contro il virus», riesuma slogan che furono della rivoluzione maoista; e poi anche della contro-rivoluzione capitalista. All’inizio il resto del mondo ha visto gli errori e le fragilità della risposta cinese come un segno dei limiti di quel regime autoritario. Poi le cacofonie nella reazione italiana hanno dimostrato che una democrazia non è necessariamente più efficace di fronte all’emergenza. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 marzo 2020 • N. 10

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Politica e Economia

Milano ai tempi del virus

Si aprono le fosse comuni di Uribe

il capoluogo lombardo è irriconoscibile

Alfio Caruso All’ora di pranzo Princi è vuoto. Con le vetrine e il prolungamento su largo La Foppa è la filiale più conosciuta e frequentata della catena, che a Milano sforna a getto continuo pane, pizze, focacce ripiene, croissant, meringhe, crostate. Gli affezionati clienti si sono abituati a file non brevi con il numerino in mano e i prezzi in costante lievitazione al pari di alcune specialità della casa. Ma oggi sul display campeggia lo 0 e le ragazze dietro il bancone hanno pure il tempo di sorridere. Niente lista d’attesa, tutti i prodotti presenti, compresi i «cinesini», morbidissimi panini all’olio più richiesti di mascherine e amuchina in epoca di coronavirus. Siamo nell’epicentro cittadino degli appuntamenti di lavoro e di svago fra ombrelloni, tavolini, stufe all’aperto. In poche centinaia di metri si va dal fascino di Brera alle discoteche di corso Como, dal palazzo Eataly di piazza XXV aprile alle torri sulla grande piazza circolare e sopraelevata Gae Aulenti. Il nuovo punto di aggregazione è stato lanciato dall’Expo; la sua fama è così cresciuta che i turisti vi piombano prima ancora di visitare il Duomo e la Scala. L’ultima versione della Milano da bere, lo slogan vincente degli anni Ottanta spazzato via dalle inchieste di Mani Pulite sulla corruzione. Questa Milano, invece, è stata fermata dal timore di un’epidemia, dove le voci risultano più numerose dei contagiati e gli effetti rischiano d’incidere più di qualsiasi crisi economica. All’ingresso del Giamaica, il bar ristorante simbolo della Brera degli artisti e dei vanesi, indissolubile ponte tra il Dopoguerra avventuroso e le tante rinascite cittadine, hanno appeso un cartello nel quale ricordano di essere rimasti aperti persino sotto i bombardamenti del 1943-’44. Pur non vantando simili natali anche altri gestori di celebri locali si sono uniti nella polemica contro l’indicazione del sindaco Sala di abbassare le serrande alle 18. In comune si sono tenuti sul vago, hanno però sperato di evitare gli assembramenti dell’apericena, l’ultima tendenza, che con 10-15 euro consente un aperitivo talmente rinforzato di stuzzichini da riempire le pance fino alla buonanotte. Ma gli aficionados del rito non avevano bisogno di suggerimenti per rimanere a

casa. Pochissime luci accese in Darsena e in corso Garibaldi, dove pizzerie, paninerie, ristoranti etnici, bar, rivendite di focacce e di ricariche telefoniche attiravano migliaia di clienti. Al Nottingham Forest di viale Piave, il cocktail bar maggiormente in voga, lamentano una perdita secca di 25mila euro a sera. L’associazione dei commercianti calcola che questo clima da coprifuoco costerà circa 2,5 milioni al giorno, 15 milioni la prima settimana e le previsioni volgono al peggio. Milano ha un pil al doppio di quello dell’Italia, duecentomila imprese, 21 miliardi di fatturato tra immobiliare, moda, design: se si ferma, annaspa l’intero Paese. E ora il Salone del Mobile è stato spostato a giugno e tutti gl’impegni delle prossime settimane in Fiera sospesi.

Gli effetti della paura scatenata dall’emergenza rischiano di incidere più di qualsiasi crisi economica Alla pasticceria Ranieri, all’inizio di via Moscova, ritirano le torte prima di abbassare le serrande. Resistono ancora un paio di «Do di petto», che solitamente si trovano solo su prenotazione con qualche giorno di anticipo. Il nome è in onore del soprano Katia Ricciarelli: nell’80 abitava al piano di sopra e con i proprietari della pasticceria vantava, fra un bignè e un cannolicchio, la bontà della torta preparatagli nell’infanzia dalla nonna. Il giorno in cui fornì la ricetta, un semplice impasto di pandispagna, pinoli, crema chantilly, cioccolato, fu confezionato il dolce, che ha garantito alla Ricciarelli un posto d’onore anche nella gastronomia milanese. Milano Fashion Week ha annullato l’ultimo giorno di sfilate, dopo che in precedenza alcune sigle, fra le quali Armani, avevano optato per le porte chiuse e la trasmissione in streaming. Con un successo considerevole in Cina: 16 milioni di utenti e parecchi ordini per telefono. Le modelle stavolta non sono rimaste in città: subito ripartite appena scese dalle passerelle. Perfino Armani ha concesso una settimana di vacanza ai propri dipendenti. Gli alberghi se-

Il Duomo di Milano è stato chiuso ai turisti. (AFP)

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

gnalano un crollo delle prenotazioni fra il 50 e il 70 per cento, si sono svuotati gli Airbnb: in quelli consigliati dallo stesso portale si può dormire in pieno centro con 30 euro. Se parrucchieri, estetisti, barbieri tengono duro, con il titolare spesso all’ingresso nell’attesa di volenterosi clienti, tanti uffici privati hanno preferito fermarsi: chi non si è convertito al telelavoro è andato a Courmayer pullulante di milanesi più che a Natale e a ferragosto. Pochissimi passeggeri su autobus, tram, metro. Hanno chiuso scuole e università; annullati concerti; stoppate le messe, sospese le celebrazioni in Duomo; serrati i cinema, i teatri, i musei. La Scala ha deciso di cancellare «tutte le rappresentazioni a titolo cautelativo in attesa di disposizioni». Stesso destino per la Pinacoteca di Brera: l’ultimo visitatore è uscito alle 17 di domenica. Anche il Piccolo, che fu di Strehler, ha abbassato il sipario. In passato la Scala si era fermata per il colera nel 1836; il Duomo per la peste in più occasioni: l’epidemia del 1630, narrata da Manzoni ne I promessi sposi, fece 60mila morti, il 46 per cento della popolazione. Purtroppo non basta il paragone per risollevare il morale. Nelle banche su richiesta vengono forniti agli impiegati guanti protettivi e mascherine, sparite dalle farmacie assieme ai gel disinfettanti. Tuttavia non si comprende dove siano finite: in strada se ne incontrano pochissime. In compenso sono state sventate già le truffe di quanti ne proponevano al telefono vendita e recapito a domicilio. Presi ovviamente di mira gli anziani: hanno bussato alla porta di una signora sostenendo che li mandava l’assessorato alla sanità per disinfettare le banconote. Proliferano nel web minacciosi consigli per improbabili miscele da preparare sopra il tavolo da cucina con la falsa promessa di uccidere pure i microbi più resistenti. La comunicazione telematica attrae come mai in passato, soprattutto per la spesa a casa. Esselunga e Carrefour hanno moltiplicato per mille gli ordinativi, sono saltate le consegne in giornata. Malgrado le immagini di scaffali vuoti, che hanno fatto il giro del mondo, i supermercati non hanno carenze di alcun tipo, eppure balena fra un prodotto e l’altro la tentazione di un bel rialzo dei prezzi. La mitica Chinatown si è messa in castigo da sola. Tre soli negozi aperti in via Sarpi, il cuore pulsante della rappresentanza cinese, che vanta in città 800 esercizi commerciali. Dopo aver autonomamente deciso la quarantena per coloro rientrati dalla Cina all’inizio di febbraio, e nessun contagiato fra loro, adesso la scelta di mostrarsi i più ligi alle restrizioni con un auto isolamento che stringe il cuore. Si erano già percepite le avvisaglie nel tristissimo capodanno sotto luminarie accese per combattere la tristezza e i sorrisi forzati di quanti speravano di non doversi arrendere. La sarta di via Aleardi, nativa di Shanghai, che fa costare soltanto 7 euro gli orli dei pantaloni, era disperata all’idea di non poter riconsegnare in tempo tutti gl’indumenti affidatile dai milanesi. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

massacrati e spacciati per guerriglieri

EFE

Una città fantasma Nel pieno dell’esplosione dell’emergenza

Colombia Esecuzioni extragiudiziali di civili

Angela Nocioni Si sta scavando alla ricerca di fosse comuni in Colombia, su ordine del tribunale di giustizia transnazionale, organo previsto dall’accordo di pace firmato nel 2016 dall’allora governo Santos con i capi della guerriglia delle Farc. Le fosse sono tante, sparse in tutto il Paese. Le notizie che ne saltano fuori sono raggelanti. Confermano le peggiori ipotesi che i governi della guerra dura alla guerriglia, quelli di Alvaro Uribe essenzialmente (2002-2010) hanno sempre fatto passare per invenzioni propagandistiche: migliaia di persone sono state uccise a freddo da esercito e paramilitari, per le ragioni più svariate, e fatte passare per vittime di scontri a fuoco. «Falsi positivi» li chiama il lessico indecente della guerra da queste parti. Soltanto nella penultima settimana di febbraio, soltanto in un piccolo cimitero cattolico a Dedeiba, zona di montagna a quatto ore di auto da Medellìn, sono stati trovati buttati dentro una fossa cinquanta cadaveri. Secondo i magistrati che hanno ordinato le esumazioni si tratterebbe presumibilmente di vittime di esecuzioni extragiudiziali presentate dall’esercito come morti in combattimento per mostrare che i militari stavano, testuali parole, «ottenendo risultati». Molti di loro sarebbero contadini di zone considerate aree di concentrazione di oppositori al governo. Anche donne e bambini. Tutto ciò è accaduto esattamente una settimana dopo che il generale ritirato Mario Montoya, comandante dell’esercito in più periodi durante i governi Uribe, ha rilasciato dichiarazioni molto pesanti in una udienza a porte chiuse della Giurisdizione speciale per la pace. Parte delle sue dichiarazioni sono filtrate e, confermate, hanno fatto esplodere lo scandalo. Il generale, in realtà reiterando un atteggiamento tipico degli alti militari implicati nella guerra alla guerriglia, ha prima minimizzato la possibilità che i «falsi positivi» esistessero. Poi, incalzato dall’interrogatorio, ha diluito le responsabilità lungo la solita catena di comando dalla lunghezza talmente imprecisabile da risultare infinita. Alla fine, infastidito, ha detto ai magistrati che è certo che non ci siano prove delle esecuzioni extragiudiziali, attribuendo alla bassa estrazione sociale dei soldati semplici le eventuali responsabilità che lui si dice certo saranno impossibili da accertare. Ha detto il generale Montoya: «I ragazzi che vanno nell’esercito vengono dal basso, ci vanno quelli della classe più bassa, non della bassa, né della medio bassa. Ci tocca insegnargli come si utilizza un water, a cosa servono le posate». Su di loro, sui soldati semplici di 18 anni che non hanno mai visto Tiratura 101’634 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

un water in vita loro, il generalissimo Montoya, il vertice olimpico della casta militare colombiana, ha scaricato le colpe dell’esercito che ha guidato per anni. Anche la Colombia abituata a tutto, a questo punto, s’è sorpresa della impudenza. Per questo, quando pochi giorni dopo sono arrivati i dati delle prime fosse aperte e quei cinquanta cadaveri (tra cui molti di donne e bambini uccisi con colpi secchi) la notizia è esplosa con maggior eco politica. Tanto più quando è uscito un video nel quale un colonnello dell’esercito, Alvaro Amortegui, denuncia irregolarità nei servizi di intelligence militare e assicura che era lo stesso generale Montoya a chiedere esecuzioni in alcuni momenti per poter esibire numeri più alti al governo che gli chiedeva risultati brillanti. Il contesto nel quale si sta svolgendo l’inchiesta è altamente intossicato ovviamente da bugie e vendette di ogni genere. E costellato di trappole, anche di rischi concreti per il rispetto del diritto e la presunzione di innocenza dei sospettati. Il giudizio ha più rivoli. Quello che riguarda specificamente la riesumazione dei cadaveri nelle fosse comuni per fare luce nei casi di «falsi positivi» è intestato al magistrato Alejandro Ramelli che ha finora intervistato più di 200 militari. Si suppone, incrociando vari dati di denunce, che i cadaveri di uccisi in omicidi extragiudiziali siano almeno 2300. Il punto è che i dati che riguardano le denunce non sono indicativi perché la stragrande maggioranza delle stragi e dei rastrellamenti, soprattutto nelle zone della selva, non è mai stata denunciata da nessuno. E quindi nella mente di chi si occupa di questa questione campeggia il numero terrificante delle persone scomparse: 200 mila. Questo è peraltro il numero dei corpi che andrebbero esumati e identificati, utilizzando il lavoro straordinario degli antropologi forensi specializzati in materia che vengono dall’Argentina, indicato dalla direttrice dell’istituto di medicina legale Claudia Garcia. Sorpresa. Dopo aver pubblicamente detto che il numero dei corpi da cercare ed esumare era all’incirca questo, 200 mila, Claudia Garcia è stata licenziata senza spiegazioni dal nuovo procuratore generale colombiano (cioè la pubblica accusa che rappresenta il governo) Francisco Barbosa. Il lavoro di ricerca continua. Sono stati identificati altri 18 punti del territorio colombiano in cui scavare. È enorme lo scetticismo popolare – viste le dimensioni dell’orrore che minaccia di essere dissotterrato – sulla possibilità che la ricerca dei responsabili, ma forse anche quella dei cadaveri, vada avanti. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 marzo 2020 • N. 10

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Politica e Economia

Utili aziendali: i Cantoni adeguano le leggi a quella federale Fiscalità A seguito del voto dello scorso maggio, tutti i Cantoni devono avvicinare l’onere fiscale sugli utili

alla media del 15%. In molti casi si tratta di riduzione delle aliquote, ma in altri di aumento per abolire i privilegi

Ignazio Bonoli Con le votazioni cantonali dello scorso 9 febbraio, anche i cantoni di Turgovia e Soletta hanno adeguato le loro leggi fiscali a quanto deciso a livello federale lo scorso mese di maggio con la legge che aboliva i privilegi fiscali concessi dai Cantoni alle aziende. Come si ricorderà, la Svizzera aveva dovuto cedere in questo contesto alle pressioni dell’UE e anche dell’OCSE. L’approvazione popolare del progetto – grazie anche all’assegnazione di fondi all’AVS – esige ora l’adeguamento delle legislazioni fiscali dei Cantoni. Nei due Cantoni in questione si è dovuto procedere a una riduzione del gettito d’imposta. La media dell’onere fiscale sugli utili aziendali si è così avvicinata al 15%, mentre due anni or sono era ancora del 17,4%. Mentre in Turgovia l’aliquota è scesa dal 16,4 al 13,4%, a Soletta si è dovuto scendere dal 21 al 15%. In entrambi i Cantoni questo significa una perdita di gettito fiscale di una sessantina di milioni di franchi, tenuto conto anche del fatto che le imposte vengono ridotte anche per le aziende svizzere. Tra i Cantoni che devono ancora adeguarsi figura quello di Berna, che aveva già deciso una riduzione di imposte nel 2018, che però è stata respinta dal popolo. Attualmente un progetto

più moderato è in discussione nel Gran Consiglio e dovrebbe essere pronto in marzo. Tra gli altri Cantoni, un progetto di revisione è ancora in discussione a livello parlamentare in Vallese, mentre Nidvaldo prevede una votazione popolare in maggio e Appenzello Interno affronterà il tema nella Landsgemeinde di aprile. La nuova tassazione delle imprese è in vigore da quest’anno a livello federale. La maggior parte dei Cantoni si è già adeguata alle nuove regole. L’intenzione è quella di avvicinare tutti i Cantoni a un’aliquota d’imposta media del 15%. Cosa che si sta realizzando anche secondo l’ultima indagine eseguita dal professor Pascal Hinny, avvocato a Zurigo e docente all’Università di Friburgo. La banda di oscillazione fra le varie aliquote cantonali, che era l’anno scorso compresa fra il minimo del 12% e il massimo di circa il 24%, si è ora ridotta fra il 12 e il 21,6%. Oltre al già citato Canton Berna, anche il Canton Zurigo è molto lontano dall’auspicata media del 15%, avendo fissato per il 2021 un’aliquota del 19,7%. Anche in alcuni altri Cantoni sono comunque previste, o in discussione, riduzioni di imposte. Il che non era però sostanzialmente l’obiettivo della riforma, che voleva invece costringere ad aumentare le aliquote i Cantoni con tassazioni inferiori. Tra questi ha fatto

Zugo resta il Cantone fiscalmente più interessante, per le aziende. (Keystone)

molto parlare di sé il Canton Svitto, che però è già al 14,1%. Al di sotto si trovano altri Cantoni della Svizzera centrale, come Zugo (11,9%), Lucerna (12,3%), Glarona (12,4%) e Uri (12,6%). Sempre sotto la media teorica figurano però ancora Cantoni importanti, come Basilea-Città (13%), Neuchâtel (13,6%) o Vaud (13,8%). Ginevra è al 14%, mentre

San Gallo (14,5%) e Grigioni sono molto vicini (14,7%). Il Ticino è fra i Cantoni che dovranno compiere uno sforzo, perché si situa al 19,2%. Il Cantone prevede comunque una riduzione al 15,89% a partire dal 2025. Sono soltanto otto i Cantoni che si trovano ancora sopra il 15%, tra loro – oltre ai già citati –

anche Argovia, Basilea-Campagna e Giura. Alcuni Cantoni hanno approfittato dell’occasione per mantenere o introdurre un tasso unico cantonale e sopprimere così la concorrenza fiscale fra comuni. I dati che abbiamo citato qui sopra concernono la tassazione globale a livello di capoluogo o città importanti. La legge federale prevede tuttavia vari sistemi per favorire fiscalmente le aziende: dalla tassazione dei brevetti (Patentbox) a deduzioni per spese di ricerca a livello nazionale, che però, alla luce della realtà, risultano poco attraenti o utilizzabili in misura ridotta. Per contro, aumenta la pressione fiscale sui dividendi da partecipazioni importanti. La stessa tassazione dei dividendi, per limitare la doppia imposizione, avviene in misura del 70% a livello federale, mentre a livello cantonale varia fra il 60 e il 53%. A livello internazionale, la Svizzera si avvicina molto alla media europea e di altri paesi, che oscilla fra il 20 e il 30%. Concorrenziali restano paesi come Hong-Kong e Singapore (dal 15 al 20%). Anche all’estero queste medie vengono però corrette dall’applicazione di vantaggi particolari. In Europa la media scende così dal 23 al 15%, secondo uno studio recente sui paesi dell’UE volto a stabilire l’onere fiscale effettivo sugli utili delle imprese. Annuncio pubblicitario


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 marzo 2020 • N. 10

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Politica e Economia

Risparmiare, ma farlo bene La consulenza della Banca Migros Loredana Di Massimo

Loredana Di Massimo è specialista in pianificazione finanziaria alla Banca Migros

L’88% dei cittadini svizzeri con più di 18 anni risparmia regolarmente. Questo è il risultato di un sondaggio rappresentativo condotto dalla Banca Migros lo scorso ottobre. Il 58% degli intervistati risparmia fino a 1000 franchi al mese. Il 27% mette da parte dai 1000 ai 3000 franchi mentre il 7% addirittura più di 3000 franchi. La percentuale restante di intervistati non ha fornito alcun dato in proposito. Gli obiettivi di risparmio differiscono molto tra le varie fasce d’età. Tra i 18 e i 29 anni troviamo in primo piano viaggi lunghi e l’acquisto di un’abitazione di proprietà. Tra i 30 e i 55 anni la previdenza per la vecchiaia e l’acquisto di un’abitazione di proprietà costituiscono gli obiettivi principali di risparmio. Per le persone di età oltre i 55 anni, la previdenza per la vecchiaia e una riserva finanziaria sono i più importanti. Per gli obiettivi menzionati viene risparmiato soprattutto con un conto di risparmio. L’elevata importanza si spiega con le preferenze sugli investimenti. Gli aspetti più importanti per tutte le fasce d’età sono il basso rischio, l’elevata flessibilità e le commissioni contenute, ovvero requisiti che un conto di risparmio soddisfa al meglio. Il suo ruolo primario è dovuto inoltre al fatto che circa la metà degli intervistati dichiara semplicemente di risparmiare, senza riflettere con attenzione su come raggiungere al meglio l’obiettivo di risparmio.

A seconda del profilo di rischio, può valer la pena investire sul mercato finanziario, a lungo termine. (Keystone)

A seconda del profilo di rischio personale, può valere la pena di considerare gli investimenti sul mercato finanziario per obiettivi a lungo termine, come per la previdenza e l’acquisto di un’abitazione di proprietà. Ciò è dovuto al fatto che il conto di risparmio non offre una crescita reale del patrimonio a lungo termine, ma al massimo una protezione contro l’inflazione e quindi

un mantenimento del patrimonio. Dall’inizio del 2017, nemmeno questo è garantito: al netto dell’inflazione, il conto di risparmio è quindi un’attività in perdita. Secondo la Banca Migros, questa tendenza perdurerà almeno per i prossimi due anni. Tuttavia, due terzi degli intervistati non hanno modificato le proprie abitudini di risparmio in seguito ai tassi

bassi. La ragione più comune addotta per questo è che le persone credono di disporre di un patrimonio troppo esiguo per forme alternative di risparmio e di investimento. Ma nella pratica, ad esempio, i piani di risparmio in fondi o il risparmio dell’arrotondamento sarebbero disponibili già a partire da piccoli importi tramite i conti di fondi. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 marzo 2020 • N. 10

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Politica economica: quali gli obiettivi? La funzione-obiettivo della politica economica di qualunque governo contiene una serie di finalità che il governo vorrebbe raggiungere, quali un tasso di crescita sostenuto e sostenibile, il pieno impiego della popolazione attiva, la stabilità monetaria e un tasso di inflazione compatibile con la stessa. Per quanto molti media si accaniscano a sostenere il contrario, non esiste governo che persegua, nella sua politica economica solo e unicamente il fine della crescita del Pil nominale. Che poi gli esperti della congiuntura continuino a presentare le loro previsioni sull’andamento dell’economia, occupandosi solamente dell’evoluzione degli aggregati della domanda globale (consumi, investimenti, spesa pubblica, importazioni e esportazioni), dell’inflazione e della disoccupazione, dando così alla crescita del Pil (che di fatto sintetizza l’evoluzione

degli aggregati della domanda globale) un posto privilegiato nei loro commenti è un dato di fatto dovuto alle limitazioni degli schemi di contabilità nazionale in uso. È giusto criticare queste insufficienze, ma sarebbe anche onesto riconoscere che non è facile cambiare la situazione. I tentativi in atto concernono tre differenti livelli di analisi e vanno quindi considerati in modo separato. Cominciamo dalla contabilità nazionale ossia dalle statistiche. La critica della crescita si basa sulla constatazione che il Pil non può crescere senza deteriorare l’ambiente e senza sollevare problematiche redistributive importanti. Sarebbe quindi indispensabile completare i conti della contabilità nazionale con gli aspetti negativi della crescita ossia tenendo conto dei suoi costi sociali. In materia di contabilità nazionale sostenibile, ossia della formulazione di un quadro

contabile che tenga conto anche degli aspetti negativi della crescita, siamo già molto avanti. Per la Svizzera sono appena usciti i dati riguardanti i conti del settore ambientale e quelli della spesa per la protezione dell’ambiente per il 2018. Basta consultare queste statistiche (esistono dati dal 2000 in poi) e confrontarli con la serie riguardante l’evoluzione del Pil per farsi un’idea della correlazione che esiste tra crescita economica e degrado ambientale. Anche per i costi della salute abbiamo regolari stime aggregate che possono essere confrontate con l’evoluzione del Prodotto interno lordo. Vediamo ora il problema della funzione-obiettivo. Anche qui non ci troviamo davanti al niente, anzi! Da quasi 30 anni si parla, a tutti i livelli di governo, di sostenibilità e quindi della necessità di armonizzare tre diverse categorie di finalità: quelle economiche, quelle

sociali e quelle ambientali. Di recente ha suscitato molti commenti l’iniziativa presa dalla prima ministra irlandese Jakobsdottir, unitamente alle colleghe Jacinta Ardern, prima ministra della Nuova Zelanda e Nicola Sturgeon, prima ministra della Scozia, di tener maggior conto, nell’azione governativa, di obiettivi di politica sociale e ambientale come la protezione della famiglia, i costi della salute e un maggior ricorso a energie rinnovabili. Non si tratta di obiettivi politici nuovi, ma originale è il tentativo di promuoverne il raggiungimento congiunto, allineandoli, in ordine di importanza, all’obiettivo della crescita economica. Viene poi il terzo livello che è quello dell’elaborazione teorica. Non possiamo sostenere che non esista una teoria della crescita economica sostenibile. Ma, come spiega chiaramente nella sua pubblicazione più recente, Matthias Binswan-

ger, uno degli economisti svizzeri più ascoltati e professore di economia alla SUP del Nordovest a Olten, nel quadro di un’economia monetaria è praticamente impossibile eliminare la crescita. Che fare allora? Dobbiamo tornare all’economia del baratto? No, ci dice Binswanger, occorre apportare miglioramenti al processo di crescita. Bisogna che l’impatto negativo sull’ambiente si riduca. Occorre che tutti possano partecipare al benessere. Se i robot dovessero sostituire i lavoratori – una visione che si fa sempre di più concreta – bisognerà che ci aiutino a finanziare un salario minimo senza condizionamenti. L’obiettivo della crescita massima potrebbe insomma essere sostituito da quello della crescita moderata. Ma non sarà facile formulare e applicare concretamente le misure che dovrebbero aiutarci a soddisfare questi obiettivi.

il voto di novembre. Perché la rivoluzione radicale non si ferma a Sanders, anzi, Sanders è il punto di partenza. L’establishment del Partito democratico non è riuscito a creare un antidoto a Sanders e alla sua dottrina: a dire la verità non ha creato un antidoto nemmeno a Trump, e la questione è tutta qui, nell’incapacità di trovare una sintesi adeguata della propria identità e contrapporla a un presidente come quello attuale che, pure lui, ha del tutto snaturato il suo Partito repubblicano. Di certo, non ci si aspettava un inizio tanto tentennante di Joe Biden, ex vicepresidente di Obama con un’immagine di uomo empatico e di buon senso, ma non c’è nemmeno stata sufficiente fiducia nel potenziale di Pete Buttigieg, sindaco di un paese dell’Indiana che è stato l’outsider di queste primarie ma non abbastanza per conquistarsi l’appoggio del partito. Che di fronte alla frammentazione ha iniziato a dire: non ci resta che Mike Bloomberg. L’ex sindaco di New York è nato repubblicano, è diventato indipendente, ora è democratico e ha una capacità di spesa

infinita. I suoi investimenti elettorali, anche se il suo primo appuntamento è per il 3 marzo al SuperTuesday (non ha partecipato agli appuntamenti precedenti), sono superiori rispetto a quelli di tutti gli altri candidati alle primarie, compreso Donald Trump. E naturalmente Bloomberg non deve chiedere finanziamenti a nessuno: attinge al proprio patrimonio, e pure se dovesse spendere due miliardi di dollari come si dice che possa fare, avrebbe messo a disposizione soltanto il 5 per cento delle sue disponibilità. Bloomberg ha deciso di utilizzare questa libertà finanziaria soprattutto sulla comunicazione digitale, con enorme creatività e brutalità: molti hanno notato i suoi meme ironici su Instagram e i suoi trollaggi su Twitter (soprattutto verso Trump) ma pochi si sono accorti che alcuni account legati al team elettorali di Bloomberg sono stati sospesi. L’ex sindaco di New York – pareva impossibile – riesce a torcere le regole dei social media ancor più del presidente in carica. Ma Bloomberg gioca anche la carta dell’unità, che è la

variabile davvero mancante di questa corsa democratica: se non dovessi essere prescelto, dice, aiuterò chiunque sia il candidato. E per «aiuterò» intende: metterò a disposizione la mia macchina elettorale munifica. Sarà accettata la sua proposta? Si vedrà. Per ora i sandersiani sono occupati a rifiutare tutto il pacchetto Bloomberg che sa, secondo loro, di corruzione del denaro, di ambizione a comprarsi la volontà elettorale invece che di conquistarla con le idee. I sostenitori del senatore del Vermont sono molto rabbiosi, pensano che questa candidatura sia il risarcimento del danno subito nel 2016, vedono complotti ovunque, occhieggiano anche ai metodi da troll russi. E mentre ognuno combatte dal proprio angolo con le armi che ha, Sanders ha il suo popolo, Bloomberg ha il suo portafoglio, c’è chi ricorda: bisogna creare una grande coalizione progressista contro Trump, mettendo insieme le varie anime, altrimenti non c’è gara. Le proposte di unità sono in realtà una garanzia di sopravvivenza, a saperle cogliere.

stata capace, questa piccola regione italofona, di reggere il confronto con le più blasonate sedi d’oltralpe? Dove reclutare gli insegnanti e con quali allettamenti retributivi? Da quale tronco trarre la necessaria linfa finanziaria per mettere in moto l’intera macchina? Chi visse quella stagione ricorda i dubbi e i timori che accompagnarono la genesi delle prime tre «molecole», in un periodo, per le casse cantonali, di sofferenza economica. In questi cinque lustri, l’Usi ha saputo crescere, allargarsi, creare istituti, inglobare centri di competenza e osservatori, immaginare sviluppi nel campo della ricerca scientifica e medica; più nessuno mette in discussione la sua ragion d’essere e la sua capacità di integrarsi nel paesaggio universitario elvetico. Eppure… eppure l’attuale rettore, Boas Erez, ha ritenuto utile precisare alcuni «fondamentali» sulle pagine del CdT del 23 dicembre scorso, proprio alla vigilia di Natale:

un piccolo esercizio mnemonico sul posto che l’Usi ha saputo ritagliarsi sul filo degli anni nella società ticinese, sulle sue ramificazioni nel territorio, sulle sfide che l’attendono nell’immediato futuro. Tesi poi ribadite nella trasmissione «Moby Dick» di Rete Due (edizione dell’8 febbraio, riascoltabile sul Podcast). Il nodo da affrontare è sempre lo stesso: l’assenza, nel paese, di una «mentalità universitaria». C’è una parte, piccola, che segue e apprezza le iniziative che l’Usi propone da un semestre all’altro; ma c’è anche una larga parte dell’opinione pubblica che continua a considerarla un meteorite, o perché ancora indecifrabile, o perché ritenuta una «colonia» del sistema universitario italiano: un’appendice lombarda frequentata da docenti e studenti provenienti dalla penisola. In passato si è cercato in tutti i modi di abbattere queste pareti divisorie. Purtroppo le diffidenze, per non dire

le ostilità, sono rimaste. Questo non impedisce di riproporre a scadenze regolari appuntamenti come le giornate delle porte aperte, per rammentare che un ateneo non è un faro su uno sperone roccioso, una fortezza inaccessibile ai comuni mortali, ma una palestra in cui si danno convegno conoscenze, esperienze, costruzione di scenari. Non una presenza aliena dunque, ma un organismo vitale, irrorato dai vasi sanguigni dei saperi. Semmai varrà la pena di verificare se i talenti locali, una volta concluso l’iter formativo, qui o altrove, ottengano o meno la possibilità di proseguire il loro percorso all’Usi. Questo non in un’ottica di «quote» (posti da riservare agli «autoctoni», come se la Svizzera italiana fosse una riserva indiana), ma di opportunità di collaborazione e di crescita comune. In una formula: attrarre i cervelli esteri, promuovere i cervelli interni, metterli insieme per incrementare il bagaglio di entrambi.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Dem in cerca di unità

Wikipedia

I democratici americani sono riusciti a dividersi lungo la faglia più profonda delle sinistre occidentali: siamo abituati a sintetizzarla dicendo moderati di qui e radicali di là, ma in mezzo c’è davvero un abisso. Bernie Sanders (foto), senatore del Vermont che non è nemmeno iscritto al Partito democratico pur essendone

il candidato di punta per le presidenziali del prossimo novembre, cerca il riscatto del 2016, convinto com’è – e come lo sono i suoi agguerritissimi sostenitori – che se fosse stato scelto allora alle primarie al posto di Hillary Clinton, oggi non ci ritroveremmo con Donald Trump alla Casa Bianca. Sanders è radicale, trascina a sinistra il partito e l’elettorato, al punto che l’establishment inorridisce: si tratta di uno snaturamento, dice, noi non siamo così. «Socialismo» è la nuova parola-chiave, c’è chi la ripete come uno spauracchio e chi lo fa con ostentato orgoglio, come Alexandria Ocasio-Cortez, la star del Congresso che ha scelto Sanders come trampolino anche per la propria carriera, creando una coalizione tutta a sinistra che ora ha anche un Pac, un comitato politico, di riferimento: si chiama Courage to Change, lo ha lanciato la Ocasio-Cortez assieme a sette endorsement a sette candidate al Congresso (tutte donne), e all’annuncio di una duplice campagna che vuole remunerare il coraggio di chi già è deputato e di chi arriverà con

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Usi: gli esami non finiscono mai Disinteresse, indifferenza, oppure brama di controllo: nei confronti dell’Università della Svizzera italiana (Usi), gli umori oscillano come un giunco al vento. Non sempre si riescono a trovare le parole giuste, ad instaurare con la controparte relazioni distese e non inquinate da pregiudizi. Le tensioni tra la politica e l’accademia emergono regolarmente. La prima vorrebbe dettare le regole, fissare i paletti e in qualche modo intromettersi (nella gestione, quando non addirittura nei piani di studio o nella scelta dei professori); la seconda tende a giudicare simili propositi come un’indebita ingerenza in affari che riguardano solo lei. È giusto che l’università preservi con le unghie e coi denti la sua autonomia. Guai se dovesse cedere alla «volontà di potenza» dei partiti e delle consorterie che tramano nell’ombra. Ma ugualmente sbagliato è concepirsi come un’isola, estranea agli affanni che tormentano la «polis» in cui è inse-

rita e dalla quale riceve le risorse per funzionare. Ancora una volta bisogna ricorrere ad un vocabolario condiviso e coltivare il reciproco rispetto. L’Usi, è bene ricordarlo, nacque venticinque anni fa sulle macerie del Centro universitario della Svizzera italiana (Cusi), un istituto post-universitario che la cittadinanza respinse nell’urna a seguito di un referendum (1986). Col senno di poi, possiamo dire che quella bocciatura fu provvidenziale giacché permise, dieci anni dopo, di varare tre facoltà «vere»: architettura, economia, scienze della comunicazione (oggi Comunicazione, cultura e società), primo nucleo intorno al quale si sarebbe poi aggregata la quarta facoltà, quella informatica, e infine la quinta, l’erigenda facoltà in scienze biomediche. Non è stato un percorso facile. Le voci contrarie erano numerose, non perché avverse per principio al progetto ma perché ancora prigioniere del complesso dell’ex suddito: sarebbe


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Cultura e Spettacoli 77 Bombay Street Intervista alla più celebre boyband svizzera, presto a Lugano per un concerto al Teatro Foce pagina 36

Ricercando l’imprevedibile Per Patricia Kopatchinskaja l’esecuzione e l’interpretazione musicale devono creare un effetto sorpresa in grado di catturare e entusiasmare il pubblico

L’amore di Marcel La storia della relazione tra Proust e Raynaldo Hahn, raccontata da Lorenza Foschini

Giovanni Orelli poeta Esce da Interlinea il volume che raccoglie tutte le liriche dello scrittore ticinese

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Al lume di candela

Mostre Georges de La Tour a Palazzo Reale

di Milano

Gianluigi Bellei Di Georges de La Tour ancor oggi si sa ben poco. Mancano documenti d’archivio e sono esigui i dipinti firmati. E pensare che in vita era sicuramente molto famoso e ricco tanto che divenne il «pittore del re», titolo assegnatogli da Luigi XIII nel 1639. Quaranta i dipinti a lui attribuiti. Pochi e non certi. Pochi, dato che La Tour aveva una sua bottega a Lunéville. Fra il 1620 e il 1651 qui furono firmati cinque contratti di apprendistato con Claude Baccarat, Charles Roynet, François Nardoyen, Chrétien George e Jean-Nicolas Didelot. Unicamente in qualità di garzoni, però, impiegati «a mescolare i colori e a preparare le tele». Naturalmente Georges lavorava assieme al figlio primogenito Étienne il quale viene indicato sommessamente da più parti, senza prove, come collaboratore di zone meno riuscite dei dipinti. Insomma, una bottega organizzata e redditizia. Non certi, perché a quei tempi la firma sui dipinti non significava automaticamente che il quadro era stato realizzato dal firmatario anche perché «dipingere equivaleva ancora a confezionare un oggetto artigianale». Dalle sue bellissime firme, molto diverse fra loro, possiamo pensare che Georges fosse un uomo colto. Colto ma «brutale e arrogante», come scrive Pierre Rosenberg, preoccupato unicamente della propria ascesa sociale. In più si rende «odioso al popolo per la quantità di cani, levrieri e spaniel, che alleva». Figlio di un fornaio, nel 1617 sposa Diane Le Nerf, figlia del controllore delle finanze del Duca di Lorena. Da quest’ultimo nel 1620 riceve il privilegio dell’esenzione da ogni tipo di imposta, vita natural durante. Dopo la morte cade nell’oblio. Sino a che, nel 1915 e successivamente nel 1928, lo storico dell’arte Hermann Voss recupera alcuni documenti d’archivio che porteranno alla sua resurrezione grazie alla mostra del 1934 all’Orangerie di

Parigi, curata da Charles Sterling, Les peintres de la réalité en France au XVIIe siècle. Tredici i dipinti allora presentati. Saranno, però i pittori cubisti e metafisici del primo Novecento a decretarne la grandezza. Le altre esposizioni del 1972, con 31 opere, e del 1997, sempre a Parigi, lo tolgono definitivamente dall’oblio. La cronologia delle opere è controversa. Per molto tempo si è divisa la sua produzione in due periodi: quello giovanile con i dipinti «diurni» e quello della maturità con quelli «notturni». In generale oggi si preferisce ritenere che le due categorie si possano interscambiare. Come forse dimostrano i due lavori datati con certezza: San Pietro e il gallo di Cleveland del 1645 e La negazione di Pietro di Nantes del 1650 che farebbero pensare a un’opera giovanile il primo e tarda il secondo. Anche se a dire il vero nel periodo della maturità i «notturni» sono sempre più numerosi. Altra questione riguarda il fatto se La Tour fosse o meno un seguace di Caravaggio. Non c’è nessuna prova che sia stato a Roma e Jean-Pierre Cuzin nel 1997 ritiene che le sue fonti ispiratrici vadano ricercate piuttosto nella pittura lorenese di Jacques Callot, Jean Le Clerc e Jacques Bellange, mescolata a quella di alcuni caravaggeschi olandesi quali Dirck van Baburen, Hendrick Ter Brugghen e Gerrit van Honthorst. Ma qual è il significato delle sue opere? Anche qui l’incertezza la fa da padrona. Renaud Temperini sostiene che questo sarà per lungo tempo oggetto di discussioni. Indubbiamente nei suoi dipinti si possono intravvedere tracce delle indicazioni dettate dal Concilio di Trento, come una certa spiritualità francescana mescolata a una moralità stoica. Il rifiuto delle «illusioni mondane e la ricerca delle certezze metafisiche». Proprio come affermava Pascal, secondo il quale «tutti i mali dell’uomo discendono da una sola cosa, non sapersene stare tranquillo in una stanza». Dopo l’esposizione nel 2011 a Palazzo Marino di Milano con due opere

Georges de La Tour, Maddalena penitente, 1635-1640. (National Gallery of Art, Washington D.C., USA)

provenienti dal Louvre, L’Adorazione dei pastori e San Giuseppe falegname, in questi giorni possiamo farci un’idea più precisa del suo lavoro a Palazzo Reale, sempre a Milano. La mostra presenta quindici opere provenienti dalle maggiori istituzioni internazionali ed è curata da Francesca Cappelletti e Thomas Clement Salomon, con un comitato scientifico di prim’ordine composto fra gli altri da Pierre Rosenberg, già direttore del Louvre, Gail Feigenbaum, direttrice del Getty Research Institute e Annick Lemoine, direttore del Musée Cognacq-Jay. L’esposizione è organizzata in otto sezioni tematiche: dalla Maddalena agli apostoli, dal realismo alla solitudine. Il tutto con l’aggiunta di una discreta scelta di opere coeve. Da citare una delle quattro Maddalene penitenti conosciute e il San Giovanni Battista nel deserto – attribuito a La Tour nel 1993 da Pierre Rosenberg – nel quale un magrissimo adolescente dai lisci capelli lunghi sfama un agnello; una tela quasi monocromatica, che ricorda l’ascetismo e il nulla. Qui però è meglio sottolineare il

lungo saggio in catalogo di Dimitri Salmon che prende in considerazione l’indefinibile indefinitezza di tutto quanto ruota attorno alla sua opera: il valzer delle attribuzioni e quello della cronologia. Mettiamola così: sino all’inizio del secolo scorso l’artista era praticamente sconosciuto. Poi con la prima esposizione si sono fatti avanti i mercanti, i conoscitori, gli storici… Ognuno di loro aveva l’interesse (monetario) a scoprire un suo lavoro. Secondo Salmon almeno 150 dipinti sono stati negli anni seguenti considerati come autentici. Opere di Gerard Seghers, Trophime Bigot, Gerrit van Honthorst, Adam de Coster, Godfried Schalcken, Paul La Tarte… e tanti altri. Si attribuiva una tela a La Tour e poi magari se ne scopriva una simile ma di fattura migliore e così si declassava la prima. Questo tourbillon si ripercuote ovviamente sulla datazione delle opere e sulla cronologia, con grande imbarazzo degli specialisti interessati. La Maddalena Fabius – chiamata così dal nome di un suo proprietario, proveniente dalla National Gallery of Art di Washington e in mo-

stra a Milano – è stata collocata da Sterling intorno al 1635-45, da Cuzin nel 1638, da Rosenberg e Thuillier nel 163842, da Nicolson e Wright nel 1639-41, da Blunt nel 1645, da Pariset nel 1628 e così via. Oggi si è trovata una via di mezzo: 1635-40. Insomma, per Salmon un puzzle di errate attribuzioni e repliche sgraziate. Tanto che con La Tour «tutto è in movimento: ciò che oggi è considerato vero potrebbe benissimo non esserlo domani». Oppure, come ha sostenuto Jean-Pierre Cuzin nel 2005, è «possibile che ci siano creazioni di La Tour di cui non è mai esistito un esemplare interamente autografo. Va forse accettato che certe creazioni di Georges de La Tour non siano state dipinte da lui, o lo siano state solo in parte». Dove e quando

Georges de La Tour. L’Europa della luce. A cura di Francesca Cappelletti e Thomas Clement Salomon, Palazzo Reale, Milano. Fino al 7 giugno. Catalogo Skira, euro 45. www.latourmilano.it


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Cultura e Spettacoli

Pagine monumentali

Opera Al Grand-Théâtre di Ginevra Les Huguenots di Meyerbeer, una grand opéra

riproposta con un taglio moderno e anche dissacrante Francesco Hoch

È necessario procedere «in punta di piedi» nello scrivere sull’opera Gli Ugonotti di Giacomo Meyerbeer rappresentata mercoledì al Grand-Théâtre di Ginevra, che abbiamo scelto perché la Città di Calvino ne è profondamente coinvolta.

Ha sorpreso, nella regia di Jossi Wieler e Sergio Morabito, il carattere ironico dato alla vicenda di per sé drammatica Gli Ugonotti, protestanti calvinisti di Francia, ribelli di Savoia assieme a gruppi ginevrini, avevano subìto, nella famigerata Notte di San Bartolomeo del 23-24 luglio 1572, un eccidio spaventoso a Parigi durante le lunghe guerre tra cattolici e protestanti. L’argomento dell’opera di Meyerbeer, rappresentata in prima assoluta nel 1836 a Parigi, è tratto da questo fatto storico, immerso in un intreccio romanzesco dell’epoca, come era in voga all’Académie royale de musique, l’allora Opéra di Parigi. Elementi di attualità hanno potuto giustificare la scelta di quest’opera per una ripresa al Théâtre ginevrino dopo il lontano 1927, ma certamente non per lo stile nell’esecuzione che in genere non viene mai profondamente ritoccato, come è il caso ormai in tutte le opere del periodo barocco, già a partire dalla scelta degli strumenti. Qui si trattava dell’uso di un’orchestra mo-

derna tradizionale, la stabile Orchestre de la Suisse romande, ben diretta da Marc Minkovski. L’attualizzazione è avvenuta, come oggi è in uso o di moda, attraverso la messa in scena, in questo caso, di Jossi Wieler e Sergio Morabito, che hanno dato rilievo all’ambientazione religiosa, con accenni a una monumentale chiesa gotica con un rispettivo mobilio trasportabile, e a costumi riguardanti l’inizio del secolo scorso. Ciò che ha sorpreso nella rappresentazione dell’opera è il carattere ironico e talvolta sarcastico dati alla vicenda drammatica. I personaggi sembravano autocriticarsi uscendo da loro stessi in modo da creare scene assurde nei confronti dei temi proposti. Questo fino alla fine, quando nel quinto e ultimo atto, dopo che il popolo ha inneggiato alla guerra mostrando croci e pistole, non era più possibile giocare sul precedente doppio binario. Si è imboccata quindi la via del dramma originale di Meyerbeer con lo straziante finale dell’uccisione della figlia Valentina, convertita al protestantesimo per morire vicino al suo amante Raoul, uccisi entrambi dalle truppe protestanti dirette dal padre stesso di Valentina. Amore e morte si trovano così profondamente uniti, come il Romanticismo ha spesso mostrato in tutte le arti. Il meccanismo straniante di quasi tutta l’opera è stato ricercato nei materiali cinematografici di Hollywood che hanno trattato questo soggetto, immettendo macchine da presa per film, messe in posa da star o scene erotiche esilaranti. Possiamo senz’altro affermare che

Sul cartellone della pièce, il Mur des réformateurs di Ginevra, con i ritratti dei grandi padri del protestantesimo. (gtg.ch )

l’opera originale è di per sé molto complessa, già a causa della durata di quattro ore dei cinque atti, ma anche per il suo soggetto storico di ampia portata. Basti pensare solo al matrimonio combinato tra la cattolica figlia del re, Margherita di Valois con il protestante Enrico III di Borbone, re di Navarra, organizzato per pacificare le due fazioni religiose in guerra. Meyerbeer, di origine tedesca, si era recato in molte parti d’Europa, stabilendo numerose amicizie, come quella profonda con Rossini che com-

porrà una musica in memoria del suo amico defunto. Negli Ugonotti si trovano quindi stili europei diversi: da uno studiato stile strumentale del ’500 francese, pigli ritmici rossiniani, ma anche di Verdi o di Bellini, strutture melodiche classiche, strumentazioni alla francese o influenze tedesche. Ricerche accurate sono state fatte dal compositore per inserire nell’opera anche melodie luterane ed ebraiche. Vale la pena far notare che le opere di Meyerbeer hanno avuto un grande successo in tutta Europa e che come

compositore era tra i più famosi dell’epoca, ma dopo le persecuzioni razziali del Novecento, la sua opera è rimasta nell’ombra e oggi non sembra risollevarsene. Anche alla prima di mercoledì a Ginevra c’è stato un discreto successo da parte del pubblico, molto attento, che ha applaudito con convinzione. Bravi tutti i cantanti e segnaliamo in particolare i soprani Ana Durlovski e Rachel Willis Sorensen, il tenore John Osborn e il mezzo-soprano Lea Desandre.

I fratelli della 77esima

Intervista A colloquio con Matt dei 77 Bombay Street per scoprire la band dei quattro fratelli grigionesi

che si esibirà il 21 marzo allo Studio Foce di Lugano

al mio stato d’animo per tirarmi su di morale.

Enza Di Santo

77 Bombay Street è una delle migliori band live della Svizzera e vi siete esibiti anche in Olanda e in Vaticano. C’è un concerto che ricordate in particolare?

Perché avete scelto il nome 77 Bombay Street?

Per due anni abbiamo vissuto in Australia (tutta la famiglia), a Airlie e la nostra casa si trovava in Bombay Street, al numero 77. Uno dei più bei ricordi di quel periodo con la mia famiglia sono le uscite in barca a vela. Tutti i miei ricordi sono legati al mare; la spiaggia distava da casa appena 30 minuti, era una bella passeggiata e ci divertivamo sempre molto.

Quando abbiamo suonato al GurtenFestival a Berna: ci esibivamo su un piccolo palco, ma è stato molto intenso perché la gente che ci ascoltava impazziva per noi. È stata una prima grande esperienza emozionante, la ricorderemo per sempre.

Cosa pensate della scena musicale svizzera? Offre la possibilità di avere successo anche all’estero? Come descrivereste la vostra esperienza?

Quattro fratelli, quali sono gli aspetti positivi e negativi del suonare in famiglia?

Io penso che uno degli aspetti positivi è che essendo tutti fratelli ci si conosce perfettamente, ma il problema è che si possono avere molte discussioni, molte di più che se fossimo soltanto amici.

… e gli altri sono d’accordo?

No, non lo sono(ride). Essendo in quattro fratelli abbiamo concordato che per evitare problemi solo uno deve prendere le decisioni finali, come per esempio scegliere la musicalità delle canzoni. Quali sono le caratteristiche di ognuno di voi?

La mia caratteristica è che correggo ogni minimo errore cercando la perfezione, sono un perfezionista. Joe, il chitarrista è sempre molto organizzato,

Cosa ha significato per voi il vostro primo album?

Chi scrive le canzoni? Cosa o chi ispira la vostra musica?

Io ho finito il master in Scienze alimentari, adesso so tutto sul cibo! (ride). Esra è un organizzatore a Coira, mentre Joe e Simri gestiscono un ostello club e ristorante.

Una family band di successo. (Tobias Sutter)

Matt, pensi di essere il leader della band? Chi prende le decisioni?

In questo momento prendo io le decisioni, «I am the boss» (ride).

Trovo che la musica in Svizzera sia di alta qualità, però il territorio è piccolo e quindi i tour durano poco, mentre in grandi Paesi le tournée possono durare anche un mese. Esibirsi all’estero è fantastico. Durante il tour in Germania abbiamo capito che avevamo moltissimi fan che ci seguivano. A Milano, i fan conoscevano le nostre canzoni e le cantavano, ed è bello vederli cantare.

lui gestisce il budget della band. Esra è molto creativo, tranquillo, rilassato e prende tutto con calma. Simri, il più giovane, è il più divertente.

Quali sono i tuoi e i vostri sogni in ambito musicale?

In questo momento ci stiamo divertendo molto a incidere il nuovo album e siccome a tutti noi piace l’ambiente in studio, spero che possiamo continuare a fare musica il più a lungo possibile.

In Svizzera, siete diventati improvvisamente famosi con Up in the sky.

Non ci aspettavamo questo successo e ci siamo sorpresi che Up in the sky sia piaciuto così tanto. Per noi è bello sapere che il nostro primo album ha reso felici molte persone.

Le scriviamo tutti insieme, ma io scrivo la maggior parte dei testi. Per esempio, quando ho scritto Up In The Sky, ero in un periodo poco felice e ho pensato scrivere qualcosa di opposto

Per due anni vi siete fermati. Perché? Cosa avete fatto in questo periodo?

Il 6 febbraio è iniziato lo Swiss Tour acustico. Perché questa scelta?

Per questo tour abbiamo pensato che era più bello esibirci in acustico in club più piccoli per concentrarci sulla voce e sulla

melodia. Quando uscirà l’album torneremo al sound elettrico di sempre con batteria, chitarra elettrica e tutto il resto. Il 21 marzo tornerete in Ticino...

Sì, saremo a Lugano allo Studio Foce. La cosa bella del Ticino è che il pubblico è fantastico perché ama cantare, inoltre il clima è caldo rispetto ai Grigioni (la band è stata fondata a Scharans nei Grigioni, ndr. ) Quando uscirà il vostro prossimo album? Come si intitolerà?

In questo momento non sappiamo quale sarà il titolo, ma uscirà quest’anno, probabilmente in ottobre. Quali sono i vostri progetti per il futuro musicale e non musicale?

Per ora i nostri progetti musicali fino alla fine del 2021 sono produrre questo nuovo album, iniziare un tour svizzero e uno europeo. Per quanto riguarda il mio sogno personale è partire per un giro del mondo in barca a vela con la mia ragazza e forse lavorare come «scienziato del cibo» (food scientist).

Concorso «Azione» offre ai suoi lettori alcune coppie di biglietti per il concerto dei 77 Bombay Street che si terrà allo Studio Foce di Lugano il prossimo sabato 21 marzo, ore 21.00. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 marzo 2020 • N. 10

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Cultura e Spettacoli

Un Orso che non graffia

Berlinale 2020 La fisionomia dell’edizione diretta da Chatrian non si discosta

dalla linea seguita nel passato Nicola Falcinella Un festival senza grandi scossoni rispetto al passato, la prima edizione della Berlinale diretta da Carlo Chatrian, proveniente direttamente da Locarno. La rassegna tedesca ha celebrato il 70° con uno slittamento di due settimane rispetto alle date consuete, a causa dell’anticipo degli Oscar, qualche aggiustamento nelle sezioni e nella logistica. Niente di trascendentale, come pure, quando mancano pochi titoli alla conclusione, nella selezione di film, che non si discosta dalle annate passate: alcuni grossi autori (magari non al massimo), qualche novità emergente, dei carneadi e delle provocazioni, non sempre riuscite. Tra le cose migliori le opere di due registe americane ancora non abbastanza conosciute e riconosciute, First Cow di Kelly Reichardt e Never, Rarely, Sometimes, Always di Eliza Hittman. Il primo è un western intimista, fatto

di dettagli, nell’Oregon di fine ’800, su un’amicizia maschile e non virile. Un cuoco al servizio di una compagnia di cacciatori di pellicce si imbatte in un immigrato cinese inseguito da due russi. Insieme si stabiliranno in un villaggio e intraprenderanno un’attività, producendo e vendendo biscotti lavorati con il latte munto di nascosto alla mucca del vicino, la prima arrivata nel circondario. «Never, Rarely, Sometimes, Always» sono invece le possibili risposte del questionario che la diciassettenne Autumn si trova a compilare prima di abortire. Studentessa della Pennsylvania che lavora in un supermercato e ama cantare, la ragazza scopre di essere incinta. Senza dire nulla a nessuno, se non alla cugina che la accompagnerà, decide di andare a New York per un aborto legale. Un film che sulla carta può ricordare Juno, ma se ne distanzia nell’asciuttezza di un racconto dove non si giudica e si segue con empatia il viag-

gio della protagonista che sembra dover adempiere un destino per tornare alla propria adolescenza. La Svizzera è stata in gara con Schwesterlein – Little Sister di Stéphanie Chuat e Véronique Reymond, opera seconda delle registe romande note per La petite chambre. La vicinanza di due gemelli, Lisa e Sven, lei scrittrice, lui attore alle prese con un grave tumore e un trapianto di midollo che non ha funzionato. Un dramma sulla malattia senza grandi sprazzi o spunti originali, che si appoggia sulle buone interpretazioni di Nina Hoss e Lars Eidinger. Quest’ultimo è coprotagonista pure di Persian Lessons dell’ucraino Vadim Perelman, presentato nella sezione Berlinale Special, un film sui campi di concentramento che riesce a distinguersi in un filone molto frequentato e potrebbe essere un successo nelle sale. Siamo nel 1942, il giovane ebreo belga Gilles (Nahuel Perez Biscayart di 120 battiti al minuto) è de-

Stéphanie Chuat e Véronique Reymond, registe svizzere, in concorso con Schwesterlein – Little Sister. (Sophie Brasey)

portato e per salvarsi afferma di essere persiano: caso vuole che trovi un ufficiale tedesco desideroso di imparare il farsi per andare in Iran ad aprire un ristorante alla fine della guerra. Il protagonista dovrà inventarsi da zero una lingua che non conosce, elemento base per un film curioso e solido che evita la retorica. Coproduzione italo-ticinese con Amka Film, dedicato alla recentemente scomparsa Tiziana Soudani, è Favolacce dei fratelli D’Innocenzo, passato in concorso con un’accoglienza positiva. Una vicenda corale ambientata in una periferia di casette a schiera dove vive un’umanità imbruttita con adulti volgari, inadeguati e rabbiosi e con i ragazzini la cui crescita è turbata dalla situazione che si percepisce e si ribellano in maniera spiazzante. Altra coproduzione, in questo caso con Cinédokké di Michela Pini, è Palazzo di giustizia, opera prima della comasca Chiara Bellosi. Una giornata dentro un tribunale, osservando le vite di chi lavora, attende un verdetto o accompagna. Protagoniste sono due giovani, la piccola Luce figlia di un rapinatore e l’adolescente Domenica figlia del benzinaio derubato, che finiranno con entrare in rapporto. Il risultato è un lavoro lontano dal classico film giudiziario, cui interessa poco ciò che accade in aula per concentrarsi su ciò che accade. Il concetto è quello dei documentari del grande americano Frederick Wiseman concentrati su un luogo (spesso un’istituzione) con le storie che riunisce. Tra i lavori interessanti in gara anche la commedia Effacer l’historique dei belgi Benoit Delépine e Gustave Kervern che fanno ridere raccontando di tre vittime della tecnologia, evidenziando l’assurdità del mondo in cui siamo immersi, tra la dipendenza dalle serie tv, le consegne a domicilio e l’iperconnessione.

A piedi nudi sul palco

Musica La violinista Patricia Kopatchinskaja si esibirà al LAC

di Lugano – «Azione» mette in palio alcuni biglietti Enrico Parola «Non voglio diventare una farisea; piuttosto, meglio essere considerata un’eretica, ma desidero rimanere una studentessa per tutta la vita». È forse questa la definizione più icastica che Patricia Kopatchinskaja abbia dato di sé: la violinista moldava vi racchiude il senso del suo fare musica e soprattutto lo scopo della sua inesausta ricerca interpretativa. Un percorso in cui rientra ciò che può sembrare un vezzo e che proprio per la sua estrosa originalità rischia di divenire l’elemento per il quale viene riconosciuta e forse verrà ricordata: si esibisce sempre scalza. Entra sul palco con una sorta di piccola stuoia, la stende, si mette a piedi nudi e poi imbraccia il violino. Attorno a questo vezzo non pochi hanno ipotizzato spiegazioni più o meno suggestive: ad esempio la sua volontà di percepire più nitidamente le vibrazioni del palco, come se dovessero trasmettersi nel suo corpo facendolo vibrare all’unisono. La verità è solo apparentemente più prosastica: «Per me suonare davanti al pubblico è come invitare degli amici a casa e cucinare loro una torta; e siccome in cucina sto sempre scalza, lo faccio anche sul palco». Il paragone viene poi esplicitato: «Odio i concerti che danno l’impressione di una torta esteticamente ineccepibile, confezionata nel modo più accurato, ma insipida; io non voglio

portare sul palco un dolce fatto e finito, ma gli ingredienti; suonare è cucinare davanti al pubblico con quegli ingredienti, perché l’esecuzione dal vivo deve dare l’impressione che quel brano stia nascendo in quel momento. Per questo odio le interpretazioni scontate, banali; chi le cerca che bisogno ha di uscire di casa? Sta sul divano e ascolta per l’ennesima volta un disco. Si va in teatro per scoprire qualcosa di nuovo, per lasciarsi sorprendere. Ovvio, poi si può essere d’accordo o no, convinti o no, entusiasti o disgustati, ma il bello del concerto è prendersi questo rischio». Kopatchinskaja ama il rischio, e non poco: le sue interpretazioni sono tutto fuorché convenzionali, con lei non c’è mai la possibilità del dejà vu; non per ricerca esasperata di eccentricità, di originalità a tutti i costi, ma per

Concorso «Azione» offre ai suoi lettori alcuni biglietti per il concerto del 12 marzo 2020 (LAC, 20.30) diretto da Maxime Pascal che vedrà in scena, insieme all’OSI, la violinista Patricia Kopatchinskaja. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione. ch/concorsi. Buona fortuna!

amore a quello che lei intuisce come la verità di una certa musica. Che possa lasciar spiazzati, come a Lugano – si era ancora al Palazzo dei Congressi – era successo col Concerto di Beethoven, o che possa entusiasmare come – quella volta si era già al LAC – con Ciajkovskij. Ora la virtuosa moldava torna con l’Orchestra della Svizzera Italiana (che Maxime Pascal, trentaquattrenne e lanciatissimo direttore transalpino guida anche in un dittico di Debussy dall’irresistibile fascino timbrico e coloristico, il Prélude à l’après-midi d’un faune e La mer), per affrontare uno dei concerti più difficili tecnicamente, ma allo stesso tempo più soggioganti per lirismo romantico e passione divorante che sprigionano dalla prima all’ultima nota, quello di Sibelius. Per lei il limite tecnico non esiste, come a Lugano aveva dimostrato con un travolgente concerto di Schönberg, accompagnata da Petrenko e la Bayerisches Orchester; «comunque, anche se dovessi commettere errori, non li rimpiangerei: bisogna rischiare di sbagliare se si vuole andare al massimo; svolgere il compitino in tutta sicurezza equivale a confezionare la torta insipida di cui parlavo. Per me la ricerca interpretativa è come un salto dal ventesimo piano; atterro male e mi sento tutta rotta quando il pubblico non capisce le mie scelte». Quando invece le comprende scatta l’ovazione, e quel salto

Geniale e stravagante: Patricia Kopatchinskaja.

prende le fattezze di un doppio carpiato con atterraggio perfetto. L’idiosincrasia per l’accademia e le prassi scontate sono parte del suo dna artistico tanto quanto la musica: «Entrambi i miei genitori sono musicisti, ma nonostante abbiano avuto una formazione classica si sono specializzati nel folk e non li ho mai visti leggere le note su uno spartito. Mia mamma ha iniziato a usare il pentagramma in casa per insegnare a me, quando avevo sei anni; lei andava a orecchio, io, almeno all’inizio, per seguirla avevo bisogno di leggere la melodia da suonare. Mi ha sempre affascinato questo andare a orecchio perché penso che la ragione sia nemica dell’istinto e per far musica c’è bisogno sì di ragione, ma anche e tanto di istinto: la musica è il modo che l’uomo ha trovato per esprimere quelle cose che non riusciva a spiegare a parole. Per questo un concerto non può essere un monumento antico da adorare – non sono una farisea – ma una novità che mi infiamma l’anima».

Francesca è sulla buona strada Musica Convince

il nuovo lavoro della Michielin

Tommaso Naccari Quanto è strano vedere una popstar – italiana, nello specifico – fare qualcosa di intimo, riservato, fuori dagli schemi? Anche se sarebbe bello dire: non è forse (anche) questo il ruolo della popstar? La risposta reale è: molto strano. Eppure Francesca Michielin, per presentare il secondo singolo di Feat, il suo nuovo disco, ha deciso di smettere i panni della popstar e vestire quelli di artista a 360°. Al Rocket di Milano 300 fan più una manciata di giornalisti e addetti ai lavori vari, dunque, hanno assistito a Francesca in una nuova veste, al fianco di Bruno Bellissimo, come bellissimo è stato il set Electro Vintage. Gange feat Shiva è uscito venerdì su tutte le piattaforme digitali ed è il secondo passo della Michielin in un sentiero che la porterà a collaborare con undici artisti diversi per undici tracce del suo nuovo disco, fino alla grande festa che sarà al Carroponte la prossima estate. Nonostante il pezzo abbia diverse pecche – tutte, in realtà, imputabili all’ospite della traccia, che dimostra ancora una volta di non saper stare e probabilmente non poter giocare nel campionato dei grandi – la Michielin riesce a presentarlo in modo così originale e, come scritto in apertura, intimo, che è stata capace di cancellare tutti i difetti possibili ed evidenziabili da chi aveva avuto la fortuna di non ascoltare il pezzo prima dell’esibizione live. Vedere la Michielin al Rocket è stata la possibilità di vederla sotto un’altra veste: in outfit total white davanti a una drum machine, l’abbiamo vista ballare, cantare in inglese, realizzare un medley in barba a Tiziano Ferro e alla sua SIAE dal palco dell’Ariston. Nonostante il bridge del pezzo veda l’artista negarsi la gioia di una «nuova scossa» per le delusioni passate, il nuovo percorso intrapreso, a dir la verità già dallo scorso album, pare finalmente aver rotto l’indissolubile legame che sembra intrappolare chiunque faccia musica a un certo livello in Italia, per dare – in una frase che mai come prima d’ora è realtà piuttosto che un cliché – un occhio all’estero e portarlo dolcemente per mano qui, nella terra dei Sanremo (già citato, vero?). Così per tre settimane, Francesca vestirà panni diversi, mutando forma in continuazione per dimostrare la propria capacità di adattamento a diversi contesti e presentare il suo futuro, fatto di collaborazioni, esperimenti e qualcosa che scopriremo, appunto, solo nel futuro. Per adesso i due featuring sono stati due toccate nel mondo del rap, uno strumentale uno (ahimé) vocale, ma sicuramente il domani farà sì che Francesca allarghi il proprio orizzonte più che mai.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 marzo 2020 • N. 10

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Cultura e Spettacoli

Un amore da romanzo

Realtà e mistero contro la siccità

Editoria Lorenza Foschini continua la sua serie di studi

biografici sulla vicenda di Marcel Proust

Natascha Fioretti Dopo il successo ottenuto con Il cappotto di Proust. Un’ossessione letteraria uscito nel 2008, rilanciato dalla casa editrice americana Harper Collins e tradotto in tredici lingue, Lorenza Foschini, giornalista e scrittrice, non pensava si sarebbe mai più dedicata a Marcel Proust, autore che ha anche avuto occasione di tradurre. Galeotta è stata una lettera, rimasta invenduta a un’asta, che è volata, per così dire, nelle sue mani. Da qui prende il via la storia d’amore narrata nel suo ultimo lavoro Il vento attraversa le nostre anime che – in dialogo con Moira Bubola, responsabile dell’attualità culturale di Rete Due – presenterà al LAC, sabato 7 marzo alle 11.00 per il ciclo «Colazioni letterarie».

Il vento attraversa le nostre anime racconta della sua relazione con il compositore Reynaldo Hahn Protagonista è sempre lui, l’autore di Alla ricerca del tempo perduto e vien da chiedersi se quella di Lorenza Foschini non sia davvero un’ossessione letteraria: «In realtà è l’ossessione di un

In scena Oltre alla compagnia Teatro del

Paravento, si è esibita anche la Alonzo King

gruppo abbastanza nutrito nel mondo, quello dei proustiani, che ha una vera e propria devozione per questo autore, uno scrittore straordinario che ha rivoluzionato la struttura del romanzo del Novecento. Ecco, più che un’ossessione è un culto: io l’ho da quando avevo vent’anni e questo libro non l’avrei mai scritto se non mi fosse capitata tra le mani una lettera». La lettera galeotta è quella che Marcel Proust nel settembre del 1907 scrive a Reynaldo Hahn, l’amore della sua vita: «la storia è stata a lungo taciuta per il perbenismo borghese di queste famiglie che mal tollerevano si sapesse che erano omosessuali. Poi il tempo è passato e il perbenismo si è attutito. Oggi in Francia si sta riscoprendo la figura di Reynaldo Hahn, compositore, pianista e direttore d’orchestra venezuelano, che invece in Italia è poco conosciuta. Poterne scrivere è stata una grande occasione». Entrambi erano ebrei ed entrambi erano omosessuali. Il loro primo incontro avvenne il 22 maggio del 1894 nel salotto di Madame Lemaire, uno dei più rinomati di Parigi, il più ambito dei salons borghesi perché vantava tra gli ospiti parecchi membri dell’aristocrazia, attratti dalla curiosità di incontrare pittori, musicisti, scrittori. Tra i due c’è subito intesa. «Il loro è un grande amore, un amore che non finisce mai più, continua fino alla morte di Proust e oltre. Hahn e Proust hanno

diciannove e ventidue anni, sono due ragazzi straordinari e fuori dal comune. Il primo è cosmopolita parla cinque lingue ed è già considerato una piccola star dei salotti francesi, un piccolo Mozart, mentre il secondo non è ancora sicuro di cosa vuole fare nella vita. È anche la storia di due ebrei nel momento in cui scoppia il caso Dreyfus e lo scandalo di Oscar Wilde. Essere ebrei e omosessuali alla fine dell’Ottocento è una condanna. E se pensiamo alle aggressioni che in Italia ha subito la senatrice Segre, sono temi molto attuali». Lorenza Foschini ricostruisce l’epoca francese della belle époque, un concentrato di genio e di cultura, raccontandoci la parabola umana dei due amanti che l’esperienza della Prima guerra mondiale trasforma: «Proust, alla fine della guerra, è ritenuto un genio, ha vinto il premio Goncourt e nell’Europa che conta, quella di Virginia Woolf e di Henry James in Inghilerra e di Walter Benjamin in Germania, è uno scrittore rinomato per aver ribaltato e cambiato i canoni del romanzo ottocentesco. Quando Marcel muore è all’apice della sua gloria mentre Reynaldo è ormai un uomo del passato. La sua musica melodica spiazzata dai nuovi Debussy e Ravel; in seguito l’arrivo del jazz americano e di tutto quello che comporta». Non vogliamo anticipare troppo ma del titolo, meraviglioso, dobbiamo ancora parlare: «Reynaldo Hahn, come fosse un diario, a margine dello spartito de l’Île du rêve, l’opera che sta componendo, appunta queste parole: “sei del pomeriggio, Marcel Proust seduto davanti a me, triste, e poi il vento attraversa le nostre anime”. È in quei giorni d’estate del 1894 che sente esplodere, ricambiato, il suo amore per Marcel Proust». Per fortuna esistono le lettere, per fortuna Lorenza Foschini, grazie a quella magica proustiana corrispondenza «tra gli esseri e le cose, tra il passato e la vita», si è lasciata ispirare dal contenuto della lettera acquisita decidendo poi di raccontarci il profondo e intenso legame che per ventotto anni ha unito Marcel Proust e Reynaldo Hahn. Bibliografia

Era nato a Caracas nel 1874. (Wikimedia)

Lorenza Foschini, Il vento attraversa le nostre anime. Marcel Proust e Reynaldo Hahn. Una storia d’amore e d’amicizia, Mondadori, 2019.

Miguel Angel Cienfuegos in Aspettando la pioggia. (teatroparavento.ch)

Giorgio Thoeni Non è casuale l’onesto desiderio della compagnia locarnese del Teatro Paravento di riuscire, con le sue produzioni, a rimanere legata al presente, all’attualità. Lo fa a modo suo, come ormai ci ha abituati da alcune stagioni, con un linguaggio semplice, quasi la declinazione di un teatro basilare, poco sofisticato, mettendo in scena testi originali o adattamenti. Dopo il debutto a casa propria, lo spettacolo Aspettando la pioggia è stato proposto al Teatro Foce di Lugano. E, nonostante le concomitanze coi carnevali-mangia-tutto, la presenza di pubblico in platea è stata numericamente accettabile. Il titolo dello spettacolo è doppiamente d’attualità. Se da un lato anche il nostro territorio aspetta da tempo la pioggia, dall’altro al centro del racconto si parla di siccità alludendo a uno degli aspetti più drammatici legati ai cambiamenti climatici. Miguel Angel Cianfuegos, nel dare sostanza al tema teatrale, si rifà all’autore venezuelano Arturo Uslar Pietri (1906-2001) e al suo racconto La lluvia (La pioggia), un esempio del filone narrativo legato alla corrente letteraria latinoamericana del realismo magico in cui accadimenti strani o paranormali sono raccontati come fossero eventi comuni e dove apparizioni, magia e l’elemento fantastico sono visti come normali, parte della quotidianità. Aspetti che si ritrovano in Aspettando la pioggia con in scena due anziani contadini confrontati da mesi con una pericolosa siccità. Una situazione che mette anche in crisi il loro rapporto fino all’arrivo misterioso di un bambino che riporta fra loro gioia, allegria, voglia di vivere e... la pioggia. Costruito con estrema semplicità,

lo spettacolo è a misura degli interpreti e al servizio di una chiave narrativa popolare, immediata. Una formula in cui il Paravento è a suo agio nel raccontarci una parabola in cui il fantastico si mescola al reale senza artifici. Bravi e efficaci nella loro recitazione in una scenografia povera, Miguel Angel Cienfuegos (regista e autore dell’adattamento), Luisa Ferroni e il piccolo Simone: una famiglia d’arte e di fatto. La danza di Alonzo King per eccellenze musicali

Una serata da inserire nei Guinness della danza. Una sala stipata per il gran pubblico ha accompagnato la visita luganese sul palco del LAC della compagnia Alonzo King LINES Ballet che ha proposto Händel / Common Ground, due coreografie per un’immersione fra musica del compositore settecentesco e la più raffinata contemporaneità. Figura centrale ed emblematica dell’espressione coreografica mondiale, nella prima parte del programma King offre una dimostrazione della sua carismatica bravura unendo la complessità barocca di Händel con una danza disegnata per mettere in evidenza la semplicità nella sua perfezione tecnica. Common Ground, una suite su arrangiamenti composti dal prestigioso Kronos Quartet, è un’ode alla città di San Francisco, base della compagnia creata nel 1982, trama di bellezza e linearità spezzate. Visioni contemporanee di una cifra stilistica che avvolge e conquista, che lascia stupefatti per la bravura dei danzatori, ensemble di eccellenze sul piano individuale, fenomenali anche sul piano collettivo per un successo acclamato ovunque e che si rinnova sul palco luganese. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 marzo 2020 • N. 10

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Cultura e Spettacoli

Giovanni Orelli poeta

Letteratura L’editore Interlinea ripubblica tutti i versi dello scrittore ticinese (con alcuni inediti)

Pietro Montorfani È sorprendente come la percezione di un autore, persino di uno che si credeva di conoscere bene, possa cambiare nel tempo con il variare della sua fortuna editoriale. Giovanni Orelli, scomparso nel 2016, negli ultimi anni è tornato giustamente sotto i riflettori: gli sono stati dedicati un numero speciale del «Cantonetto» e un convegno scientifico all’Archivio svizzero di letteratura (in collaborazione con l’Università di Berna), e all’orizzonte si profilano altre novità di sicuro interesse, come la versione francese dei Mirtilli del Moléson e una raccolta di scritti giornalistici. È facile previsione però che nessuna delle prossime uscite editoriali avrà lo stesso impatto emotivo, di «percezione», del volume recentemente proposto da Interlinea, su progetto del diretto interessato, con l’intera Opera poetica e l’aggiunta di alcuni testi inediti. Non saprei direi se sia a causa del titolo – assai più ambizioso di un banale Tutte le poesie, che pure è toccato in sorte a poeti più affermati – oppure delle quasi settecento pagine di piccolo formato, quello consueto della collana «Lyra» di Interlinea, un 12x16 adattissimo ai suoi sonetti e alle sue quartine, ma che sulla lunga distanza non può fare a meno di creare l’effetto di un mattoncino. A rigirarselo tra le mani, sembra quasi un calendario a strappo di quelli di una volta: volendo si potrebbero leggere un paio di poesie al giorno per un anno intero (senza strappare le pagine!) e nella consuetudine con questo insolito breviario ci sarebbe senz’altro di che guadagnarci, in profondità, ironia, erudizione, leggerezza, cultura, passione, desiderio di condivisione... La produzione in versi di Giovanni Orelli, ripercorsa con molta competenza dall’amico Pietro Gibellini nelle pagine introduttive, è un fenomeno relativamente recente, inaugurato dalla pubblicazione di Sant’Antoni dai padü presso l’editore Scheiwiller di Milano nel 1986 e, per quanto riguarda i testi in lingua, con il Concertino per rane di Casagrande quattro anni più tardi. Sono infatti i versi di un autore che al genere della poesia ha dedicato gli ultimi anni

Giovanni Orelli nel suo studio di Cassarate. Sotto, una delle poesie inedite pubblicate da Interlinea. (Ti-Press)

della sua vita, chiusa oramai la stagione della carriera professionale e già ben posizionato come romanziere. Si spiega così, io credo, il continuo insistere sul pedale della memoria, che si declina di volta in volta nell’affiorare di ricordi d’infanzia, ma anche nel recupero di letture sedimentate nel tempo, nell’uso colto del dialetto, nel dialogo tra le epoche e tra le generazioni, insomma in una certa impostazione gnomico-filosofica che sempre emerge, filtrata dall’ironia e fusa dentro calchi metrici variabili ma rigorosissimi. In versi come in prosa, la vastissima erudizione di Orelli e il suo (moderato) sperimentalismo hanno sempre sentito la necessità di un perimetro entro il quale esprimersi: strutture geometriche (griglie prosodiche, elenchi di città, caselle del Monopoly) capaci di contenere e incanalare l’effervescenza della lingua per meglio consegnarla − addomesticata − nelle mani dei lettori. Chi volesse farsene una ragione, per capire come «l’ossessiva pressione metrico-linguistica» si coniughi con

la necessità di condivisione di temi importanti, il tutto sotto l’insegna di Dante, dovrebbe leggere la splendida Nota critica di Massimo Natale a margine della piccola silloge inedita che completa il volume. Si tratta di 30 sonetti scritti Etica

Con quali mai giudizi di valore regoli le tue azioni ? Che pensavi quando ti hanno imposto la parola ETICA? Era nella scuola. Eterne quelle due ore. Ma soressa e tu avreste continuato: di lei «innamorato» tu e dell’etica lei. Proprio credevo facesser già così Adamo ed Eva. Eroun ragazzo«diunavolta».Michiedevo cosa vuol dir lottar contro passioni. E tu sei donna che passioni ha. Cosa oltre l’amare? Il male c’è per te? Il bene esiste solo in quel ch’è utile e vantaggioso, o sol nell’Aldilà?

nel 2015 e raccolti sotto il titolo O imaginativa che... (dal canto XVI del Purgatorio), alle estreme propaggini di una fedeltà alla Divina Commedia, alla sua fantasia, che ha attraversato tutta la produzione letteraria di Orelli e che, come invita giustamente a fare Massimo Natale, andrebbe studiata nel dettaglio. Per questo suo testamento in versi – toni e temi sono davvero quelli di un lascito – l’autore ha ripescato la forma del sonetto, scavalcando le più recenti quartine dedicate ai nipoti e continuando quindi idealmente le serie di sonetti di Né timo né maggiorana (1995) e L’albero di Lutero (1998). Alla numerazione continua di quel distico poetico, uscito in due puntate da Marcos y Marcos, si sostituiscono qui titoli brevi, in genere astratti, che già offrono un’idea dell’atmosfera dell’opera: Scetticismo, Autorità, Buon senso, Libero arbitrio, Saggezza, Presente e passato, e via di questo passo fino alla conclusiva Metafisica («È in calo metafisica che studia / della realtà gli “ultimi” problemi?»). Posti di fronte a una pubblicazione

di questa mole e di questa densità, nella quale si iniziano a intravedere possibili piste di ricerca per anni a venire, ci si chiede se non sia giunta l’ora (anche per ragioni generazionali: molti studiosi di oggi non hanno avuto la fortuna di conoscerli di persona) di togliere finalmente il Giovanni Orelli poeta dall’ombra del cugino Giorgio, e da un confronto implicito, favorito dall’omonimia, che per lungo tempo è parso quasi obbligatorio, ma che non deve essere per forza tale. Prosatore, poeta, docente, opinionista e critico letterario sopraffino, il Giovanni Orelli che si staglia all’orizzonte è più che in grado di muoversi sulle proprie gambe, e noi con lui, libro dopo libro, lettura dopo lettura. Informazioni

Il volume che raccoglie l’opera poetica di Giovanni Orelli sarà presentato alla Casa della Letteratura di Lugano giovedì 5 marzo alle ore 18.30, con interventi di Uberto Motta, Pietro Gibellini e Maria Grazia Rabiolo.

Con Neil Gaiman sulle rotte del fantastico

Pubblicazioni La raccolta «Questa non è la mia faccia» è un illuminante dietro le quinte sul mondo

dello scrittore inglese Fabrizio Coli

Creatore di sogni, instancabile rielaboratore di miti, Neil Gaiman è uno che vive di storie. Non solo perché con le storie si guadagna da vivere, fatto scontato per chi di mestiere fa lo scrittore. Ma soprattutto perché le storie sono il tessuto della sua vita e perché anche le storie sono cose vive. Lo sono in qualunque forma possano essere raccontate, fumetti, racconti, romanzi o sceneggiature, tutti territori che Gaiman ha attraversato a partire dagli anni Ottanta, fino a diventare oggi, soprattutto nel mondo anglosassone, uno dei più celebrati e personali narratori del fantastico. Poco importa da quale porta si sia entrati nel suo mondo. Forse attraverso le pagine misteriose, oniriche e adulte dei fumetti di Sandman. Oppure seguendo in American Gods le avventure di un ex galeotto, assunto da Odino per fargli da autista e guardaspalle nell’America di oggi dove nuovi e vecchi dei stanno per combattere la battaglia finale. Magari sono stati i brividi suscitati da Coraline, che sembrerebbe un racconto per bambini ma dove i personag-

gi hanno bottoni cuciti al posto degli occhi. Oppure è stata la sua riscrittura dei Miti del Nord, che ci ha riportati alle antiche notti d’inverno dove – come ha scritto il «Financial Times» – stretti attorno al fuoco ascoltavamo le storie di un bardo. O magari è perché abbiamo riso insieme a un’improbabile coppia

Neil Gaiman sulla copertina del suo libro.

formata da un angelo e un demone innamorati degli umani che fanno di tutto per evitare l’Armageddon in Good Omens, scritto con Terry Pratchett. Non importa da che parte siamo entrati nel mondo di Gaiman. Se ci siamo entrati, dare una sbirciata dietro le quinte attraverso Questa non è la mia faccia, l’ultimissima raccolta di suoi scritti pubblicata da Strade Blu Mondadori, sarà un’esperienza affascinante. Se ancora non ci siamo entrati, questi scritti potrebbero invitarci a varcare la soglia. E di sicuro qualcosa impareremo, anche solo che ogni grande scrittore è in origine un grande lettore. «Saggi sparsi su leggere, scrivere, sognare e su un mucchio di altra roba», recita il sottotitolo italiano di questo corposo volume (quasi cinquecento pagine). Alla fine si tratta proprio di questo, di scritti sparsi, ma anche di molto di più. È una collezione di materiale di disparata provenienza, accumulato durante tre decenni. Vi trovano posto prefazioni per libri e antologie, nuove edizioni di autori classici o contemporanei, conosciuti o meno. Attraverso di loro Gaiman ci presenta la sua visione del fantastico,

della fantascienza, dell’horror, delle fiabe. Scopriamo o riscopriamo nomi come quelli di Brian Aldiss e il suo romanzo La serra, riflettiamo su Ray Bradbury e Fahrenheit 451, sulle opere di Lovecraft o di H.G. Wells così come sul lavoro di illustratori e fumettisti come Dave McKean con il quale Gaiman ha dato vita a Sandman. Ci sono i discorsi tenuti a convention, serate benefiche o alla consegna di qualcuno degli innumerevoli premi che Gaiman ha vinto o di cui sono stati insigniti i suoi amici e colleghi. Ci sono anche interviste. Alcune sono state realizzate da Gaiman prima della fama, quando era un giornalista freelance del quale ha ancora in sé lo spirito bulimico. Altre sarebbero state realizzate dopo, quando il nome dell’intervistatore avrebbe contato quasi quanto quello dell’intervistato. Ed è interessante notare come il giovane freelance e futuro scrittore è acceso di passione mentre parla al telefono con Lou Reed, mentre è più guardingo e contenuto quando, ormai arrivato al successo, si confronta con il mostro sacro Stephen King nella sua casa in Florida. Ci sono accorati appelli alla lettura e al valore delle li-

brerie. Ci sono i discorsi. E alcuni sono memorabili, come Fai un’opera d’arte, dove Gaiman racconta come e perché è arrivato a scrivere, in un’ode a quell’indomabile forza creativa che può agitarsi dentro di noi. A prima vista questi scritti sembrano le tessere di un caleidoscopico mosaico gettate a casaccio sulla sabbia. Ma se le si guarda da una certa angolazione, da una certa distanza, forse proprio da quei posti economici sul loggione di cui parla il titolo originale The View from the Cheap Seats, ci si può vedere un disegno, un motivo. Una storia, che parla di Gaiman stesso, un viaggio nelle sue passioni di narratore che è al tempo stesso una portentosa mappa per attraversare quel mondo fantastico che ha imperiosamente richiamato lo scrittore inglese. Alla soglia dei sessant’anni, che compirà a novembre, Neil Gaiman non ha smesso di percorrerne le tortuose strade o meglio ancora di inventarle. Bibliografia

Neil Gaiman, Questa non è la mia faccia, Milano, Mondadori, 2019.


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