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«Mi appassiona la complessità che è in noi»
Intervista ◆ Il romanzo di Jean-Baptiste Del Amo uscito per Neri Pozza parla di radici famigliari, di eredità e di patriarcato
Il figlio dell’uomo di Jean-Baptiste Del Amo, un titolo biblico per un romanzo pieno di sottintesi, di segreti e sfumature, è un libro ambizioso e potente che in Francia ha ricevuto il Prix du Roman Fnac 2021, e da poco è pubblicato in Italia da Neri Pozza. È la storia di un uomo che dopo molti anni di assenza, ricompare nella vita della sua compagna e del figlio che ha avuto con lei e li porta con sé in montagna, nella solitaria casa delle Rocce dove è cresciuto, forse per vivere lì con la sua famiglia, o solo per ricominciare daccapo. Qualunque fosse il desiderio del padre, qualcos’altro si fa strada nella sua mente, e finisce per minacciare la vita della madre e del figlio. Ne abbiamo parlato con Jean-Baptiste Del Amo incontrato a Firenze nell’ambito della presentazione del libro a Testo.
Il figlio dell’uomo è il suo quinto romanzo ed è un discorso da uomini. È d’accordo?
È vero, è un romanzo che parla di uomini, della mascolinità e del patriarcato, ma credo che sia anche un libro che giudica con severità il patriarcato e la trasmissione della violenza. Sono un uomo e scrivo credo con sensibilità e attenzione sulla rappresentazione della mascolinità, ma anche con grande affetto per i miei personaggi femminili.
Tuttavia in questo caso il suo personaggio femminile sceglie il sacrificio, perché?
La madre sceglie di nuovo di fidarsi di quest’uomo, che è il padre di suo figlio, anche se intuisce che costituisce una minaccia. Per me è quasi un’eroina, una sorta di Antigone di Sofocle: resiste alla violenza di quest’uomo in tutti i modi, si frappone tra lui e il bambino anche con il suo silenzio, rifugiandosi in una resistenza silenziosa. Come romanziere amo le sfaccettature dei miei personaggi, perché è l’ambiguità, la complessità che è in noi che mi appassiona. Così la madre non è solo una vittima, e il padre, non volevo che fosse visto come un personaggio malefico, anche lui è in parte una vittima della propria educazione e della propria eredità familiare.
Quella che lei racconta è una storia antica, ma che si ripete ancora oggi, finirà mai?
È una storia antica, ma anche molto attuale. Ed io volevo con questo romanzo mostrare in che modo, nella storia dell’umanità, come nella storia di una famiglia, i medesimi schemi comportamentali si ripetono e la violenza si propaga e si riproduce nel tempo, da una generazione all’altra. Anche per questo i miei personag- gi non hanno nomi propri, ma sono semplicemente: il padre, la madre e il figlio.
Secondo lei il figlio, che ha solo dieci anni, riuscirà a sfuggire alla pesante eredità di suo padre e di suo nonno? È la domanda che sta alla base di tutto. Si può rifiutare qualcosa che ci viene trasmesso come una sorta di codice familiare? Soprattutto quando si tratta della violenza, si può sfuggire al determinismo sociale, o familiare? Qual è il nostro libero arbitrio nella vita? Il romanzo non dà delle risposte, perché credo che non sia questo il ruolo della letteratura che deve invece porre domande, fornire rappresentazioni, sensazioni ed emozioni. Sapevo che un finale aperto non dà una risposta precisa, ma ritenevo più importante mostrare come il figlio, per rifiutare l’eredità del padre sia costretto a utilizzare le sue stesse armi e fatalmente a combattere il male con il male.
Quanto c’è di lei nel bambino del libro?
Molto. Il figlio dell’uomo è anche un romanzo di formazione, è la storia di un bambino che si ritrova confrontato con la realtà del mondo degli adulti, ma che scopre anche la natura lassù in montagna e un modo di sta- re al mondo. Per raccontarlo ho scavato nei miei ricordi d’infanzia nelle campagne francesi del sud-ovest.
Il padre del romanzo quanto assomiglia al suo?
C’è qualcosa anche del rapporto che avevo con mio padre, tuttavia la mia storia è molto meno drammatica di quella del libro, ma la figura del padre e quella del patriarca hanno avuto grande importanza sulla mia infanzia. Da mio padre ho ereditato una storia di esilio e di immigrazione dalla Spagna alla Francia. Di mio nonno paterno ho molti ricordi poiché è morto che avevo undici anni. Era il patriarca della famiglia, non parlava francese e lo capivo poco, ma gli ero molto affezionato e subivo il suo fascino perché era una forte presenza maschile. Credo che l’idea di padre che mi porto dietro dalla mia infanzia abbia profondamente marcato il mio immaginario e nei miei romanzi ho sentito il bisogno di approfondirla e di rappresentarla.
Quanto c’è di autobiografico nei suoi romanzi?
Non sempre lo so. Nei miei romanzi, anche ciò che mi riguarda più da vicino è sempre modificato, amplificato, trasformato: dalle esperienze, alle ossessioni, alle paure. Questo libro insieme con i miei precedenti romanzi: Il Sale e Regno Animale, entrambi sulla famiglia, sulla trasmissione dei valori, sulla figura del padre, formano quasi una trilogia, sollevano degli interrogativi e si rispondono nel tempo. Ma con Il figlio dell’Uomo credo di essere arrivato alla fine del cammino, alle radici della mitologia familiare e della violenza trasmessa da padre in figlio ed ora mi sento più libero di passare ad altri argomenti.
Del Amo è uno pseudonimo, perché prenderne uno?
All’inizio era un modo per dissociare la personalità privata dall’identità pubblica nell’attesa di sapere se avrei continuato a fare lo scrittore. È il cognome di mia nonna paterna, un simbolo per la famiglia. Con il tempo Del Amo è diventato parte della mia identità. In spagnolo «amo» vuol dire il padrone, il proprietario terriero. È un nome che mi riporta alla terra, come le mie storie.
Finita l’emergenza legata alla pandemia nelle nostre città è emersa tra i giovani una violenza difficile da capire e da arginare, perché secondo lei?
L’emergenza pandemica ha accomunato mezzo mondo e ha fatto scaturire uno slancio di solidarietà che veniva dalla sensazione di vivere la prima vera esperienza collettiva, ma una volta finita la pandemia, non ci sono state scelte collettive epocali ad esempio riguardo all’ecologia, invece siamo stati tutti riassorbiti da preoccupazioni e situazioni personali. Siamo stati fagocitati dalla dura realtà economica e lavorativa; dalla situazione della guerra in Ucraina che alimenta un sentimento di minaccia di cui oggi siamo pienamente coscienti. Per i giovani è stato un duro risveglio perché il campo delle loro possibilità si è ristretto, le loro speranze future si sono ridotte. Noi, i nostri genitori, siamo cresciuti tutti con l’idea che avremmo avuto la possibilità d’inventarci un’esistenza. Per i giovani di oggi tutto questo è molto più complicato e loro ne sono coscienti. Tutto ciò è di un’estrema violenza e genera violenza.