Azione 29 del 16 luglio 2018

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 16 luglio 2018

Azione 29 M sho alle pa pping gine 3 7-39 / 53-55

Società e Territorio L’impegno per l’inserimento professionale dei disabili dell’associazione inclusione andicap ticino

Ambiente e Benessere Cambiamento climatico: con il progetto Acclimatasion, Sion ha sensibilizzato autorità e popolazione elaborando interventi e raccomandazioni per uno sviluppo urbano rivolto al futuro

Politica e Economia Dopo un anno all’Eliseo Emmanuel Macron sembra aver imboccato una parabola discendente

Cultura e Spettacoli A Palazzo Strozzi di Firenze, è in corso un curioso esperimento a cavallo tra arte e scienza

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Markus Mallaun

Eminem, Slim Shady e gli altri 50

di Simona Sala pagina 29

Europa senza àncora di Peter Schiesser Dopo aver letto il resoconto di Federico Rampini sul vertice Nato e l’analisi di Beniamino Natale sullo stato dei negoziati fra Stati Uniti e Corea del Nord (pag. 23), vien da dire: Donald Trump è un fake president. Un presidente fasullo che spaccia per vittorie dei nulla di fatto, mente sui risultati ottenuti. Tutto questo aggravato da un atteggiamento da «Io e l’America contro tutti», amici e nemici, e da una visione del mondo, dell’America e dell’economia colorata di cinismo, arroganza, ignoranza. Una combinazione pericolosa per l’Europa (Svizzera compresa), considerato il contesto geopolitico in rapido mutamento e le spinte centrifughe che si fanno sentire in alcuni Stati dell’Unione europea. La guerra commerciale scatenata dall’Amministrazione Trump anche contro l’Unione europea, con l’aumento dei dazi sull’importazione di acciaio e alluminio dall’Ue, è una prima manifestazione tangibile del fossato che si va creando nell’alleanza occidentale, quel poderoso blocco liberal-capitalista che ha ridisegnato la geopolitica dal secondo dopoguerra ad oggi. Già dopo il vertice Nato dell’anno scorso, in Europa aveva comin-

ciato a farsi largo la consapevolezza che in futuro si dovrà contare sulle proprie forze, con questo Trump incline a chiudere l’ombrello difensivo americano. E da allora le relazioni transatlantiche non hanno smesso di peggiorare. Qualcuno può pensare e sperare che basterà sopravvivere ai quattro anni di presidenza Trump, o otto nell’ipotesi peggiore, per poi ricostruire l’alleanza occidentale. Ma potrebbe essere un calcolo sbagliato, poiché in questi prossimi 2 o 6 anni e mezzo il mondo non starà fermo, la Cina avrà compiuto altri passi da gigante nella sua politica di egemonia e l’Unione europea chissà in quale stato si troverà, senza dimenticare la Russia di Putin con la sua politica di destabilizzazione dell’Occidente. Si tratta di tre grandi sfide geopolitiche che si intrecciano a loro volta. Prendiamo la Cina, per cominciare: oltre ad acquisire importanti aziende in Europa a suon di miliardi, che garantiscono ai cinesi anche il sapere tecnologico che ancora manca loro sulla strada per diventare i leader mondiali dell’alta tecnologia, investe miliardi (anche in Europa) nell’ambito della nuova Via della Seta, quella Belt and Road Initiative che abbraccerà terre e mari fra la Cina e l’Europa. In Grecia, per esempio, Pechino ha ottenuto nel 2009 la concessione per la gestione

del porto del Pireo, ad Atene, per 35 anni; in sette anni la società cinese Cosco ha già quintuplicato il numero di container caricati e il porto viene tuttora ampliato per accogliere anche le più grandi navi da crociera. La Grecia è stata ben contenta di trovare nella Cina un investitore che creasse impieghi e potenziali guadagni futuri in un momento in cui si è sentita abbandonata dai suoi partner europei. E il primo ministro Tsipras ha contraccambiato impedendo una dura presa di posizione dell’Ue sui diritti umani in Cina. Pechino investe molto anche nei Balcani, in particolare in Serbia e Ungheria, nell’ambito della Via della Seta ma non solo, creando attriti all’interno dell’Ue, poiché Pechino tenta di imporre le sue condizioni per la realizzazione delle nuove infrastrutture, infischiandosene delle regole (per esempio sugli appalti) dell’Unione europea. Inoltre, l’Europa deve fare i conti con il governo filo-russo insediatosi in Italia, con le divisioni politiche derivanti dall’afflusso di migranti, affrontare una Brexit sempre più caotica, uscire dalla sua fiacchezza economica, prepararsi alla fine dell’era Merkel... In questo contesto, un fake president americano può fare molti danni in Europa, che si misureranno nei decenni.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino t 16 luglio 2018 t N. 29

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Attualità Migros

M L’estate in compagnia di Disney Magic Stories Stavolta Migros punta sui famosi personaggi

dell’universo Disney: la promozione è iniziata il 3 luglio e terminerà il 20 agosto 2018. E la nuova azione è digitale...

della promozione i clienti Migros potranno approfittare di alcune giornate speciali, durante le quali riceveranno un numero doppio di stampini digitali per i loro acquisti. Una volta ricevuto un audiopersonaggio è possibile effettuarne la scansione tramite smartphone o tablet e ascoltare la sua storia dopo aver scaricato l’app Migros Play. Naturalmente chi possiede già lo StoryBox può utilizzarlo per sentire i racconti dei personaggi. Anche lo StoryBox è ancora in vendita (fr. 39.90). Si collega lo

StoryBox al computer, si va su www. migros.ch/storybox e si caricano le audiostorie sullo StoryBox. Poi appoggiando uno dei vari personaggi sull’apparecchio ci si può immergere nel suo mondo, come ad esempio in quello di Belle (La bella e la bestia) oppure di Bambi. Le storie hanno una durata variabile da 8 a 12 minuti e si prestano perfettamente a tenere compagnia durante tutta l’estate. Qualcuno si appassionerà alle avventure di Baloo e Mowgli (Il libro della giungla) sul balcone di casa, qualcun altro si tufferà nelle vicende della sirenetta Ariel durante una vacanza in campeggio: il bello delle Disney Magic Stories è che possono essere portate sempre con sé. La promozione ha preso il via martedì 3 luglio 2018 e durerà fino a lunedì 20 agosto 2018.

Per conoscere i gerenti delle filiali Migros Ticino

Migros news

Cristina Mazzardis

Bugnplay.ch: giovani bricoleur vincono l’oro Sono stati ben 108 i partecipanti all’edizione 2018 di Bugnplay.ch, il concorso dedicato ai ragazzi appassionati di tecnologia. I loro progetti hanno riguardato non soltanto il campo dell’attività tecnica, ma anche quelli della fantasia e dello humour. E proprio a questi ultimi sono stati assegnati alcuni dei premi principali. I due ragazzi lucernesi Konrad Leichtle, di 18 anni, e Robin Schmidiger, di 19, hanno realizzato un appassionante videogame fantasy. Jeremias Baur, 17 anni, di Zurigo, ha invece girato un film di animazione che ha come protagonista un robot, il quale si trova a vivere in un mondo disabitato, senza piante ed animali. Il 12enne di Win-

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Luogo di lavoro: Migros Ticino di Cassarate Data di nascita: 11.11.1980 Stato civile: coniugata Animali domestici: pesci tropicali e un cane Hobby: la famiglia e il ballo country Tre aggettivi per descriversi: solare, gentile e determinata Obiettivi nel suo lavoro: un servizio impeccabile per la soddisfazione del cliente

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Activ Fitness La catena di palestre di Migros

assorbe l’attività di Silhouette

Rapunzel è una delle miniature collezionabili. (© Disney)

Dieci personaggi da collezionare, ognuno con una sua storia da raccontare. La novità rispetto alle raccolte degli scorsi anni è che ora per ricevere gli audiopersonaggi gratuiti occorre raccogliere gli «stampini digitali», collezionabili tramite l’app Migros installata sul telefono cellulare. Per ottenere gratis un audiopersonaggio sono necessari 10 stampini digitali. Ecco come funziona la raccolta: ogni fr. 20.– di spesa l’acquirente riceve uno stampino digitale. Chi non completa il carnet di raccolta entro il termine della promozione può acquistare un audiopersonaggio a fr. 4.70, una volta raccolti cinque stampini digitali. Gli stampini digitali si raccolgono effettuando acquisti presso tutte le filiali Migros e presso i partner di Migros. È possibile raccogliere al massimo 30 stampini al giorno. Per tutta la durata

La rete più grande della Svizzera

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Il numero dei centri Activ Fitness in Svizzera è in forte espansione. Lo scorso anno l’azienda ha rilevato l’attività delle palestre Silhouette, una catena presente in Romandia e a Zurigo, per integrarla nel proprio marchio. Si tratta di 18 palestre che sono state sottoposte a lavori di ristrutturazione per adattarle agli alti standard qualitativi di Activ Fitness. Con questa acquisizione AF AG può contare oggi su un totale di 60 palestre in tutta la Svizzera di cui 4 in Ti-

cino. In tutto, i suoi membri arrivano oggi ad oltre 100’000 iscritti. Importante per gli utenti ticinesi: l’abbonamento ad Activ Fitness stipulato nel nostro cantone permette di utilizzare tutte le palestre gestite dal marchio in tutta la Svizzera. È questo uno dei punti di forza della filosofia Activ Fitness. Per informazioni

www.activfitness.ch

Dinamismo e entusiasmo. (Ti-Press)

responsabile dei settori Pop e nuovi media del Percento Culturale Migros, ha espresso la sua soddisfazione per l’alta qualità dei progetti, in particolare proprio nel campo dei videogiochi e dell’animazione.

Un’inclinazione per la tecnologia e molta creatività: i vincitori del GoldAward sono (da sin.) Konrad Leichtle, Robin Schmidiger, Jeremias Baur, Andrin Blass.

terthur Andrin Blass ha costruito un allarme di sicurezza, che tiene fuori dalla stanza dei bambini gli ospiti indesiderati. Dominik Landwehr, Tiratura 101’766 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Migros è la marca con maggiore visibilità L’azienda per le ricerche di mercato Media Focus compie regolarmente un monitoraggio per confrontare la visibilità dei marchi in Svizzera. Nello studio di quest’anno Migros si è piazzata prima nel settore. La visibilità pubblica di una marca deriva dall’esposizione pubblicitaria e dalla sua presenza nei media. La posizione di vertice di Migros è dovuta al fatto che si sono occupati di lei la stampa e i social media. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Società e Territorio Aria di campagna Incontro con la giornalista Daniela Schwegler, autrice di un libro dedicato alla vita di undici contadine svizzere di montagna pagina 4

Ospitare studenti Gli studenti stranieri che arrivano in Ticino per uno scambio di studio o uno stage sono accolti da famiglie ospitanti: un’esperienza interculturale arricchente per tutti pagina 5

Il lavoro oltre la disabilità

Socialità Il settore Azienda dell’associazione

inclusione andicap ticino impiega 42 persone, tra i servizi offerti la compilazione della dichiarazione fiscale e la gestione dei Patriziati

Stefania Hubmann Dai lavori di segretariato alla compilazione della dichiarazione fiscale fino alla gestione di Patriziati e del sito Swisstrotter, da stampa e assemblaggio fino a impaginazione e scanning. I servizi in ambito commerciale offerti dal settore Azienda dell’associazione inclusione andicap ticino, già Federazione Ticinese Integrazione Andicap (FTIA), si sono nel tempo adeguati alle esigenze del mercato seguendo l’evoluzione tecnologica. Ultimo in ordine di tempo lo shop online, non ancora gestito dalle persone con disabilità essendo stato avviato da poco. L’obiettivo finale dell’Azienda resta l’inserimento di queste persone, formate e seguite da personale qualificato, nel mondo del lavoro. Il settore Azienda di inclusione andicap ticino è un’impresa sociale, caratterizzata quindi da finalità sociali e non solo economiche, che si distingue da altri progetti analoghi a livello ticinese perché retribuisce i collaboratori sulla base del loro rendimento partendo da salari di mercato. Sara Martinetti, responsabile della comunicazione, sottolinea l’importanza di questo principio, che implica notevoli sforzi finanziari da parte dell’associazione. Affidato alla responsabilità di Mirella Sartorio, il settore Azienda impiega 42 persone con disabilità per un totale di venti posti di lavoro a tempo pieno. Le percentuali del tempo lavorativo sono variabili, così come le rendite di cui beneficiano i collaboratori. La responsabile è coadiuvata da due operatrici sociali e due coordinatori, suddivisi nei due team operativi corrispondenti ad altrettanti ambiti di lavoro: il primo comprende segretariato e contabilità, il secondo grafica e assemblaggio. «Siamo partiti all’inizio degli anni Novanta con servizi tradizionali – spiega Mirella Sartorio – ampliando poi l’offerta sulla base delle richieste dei clienti e dei nuovi mezzi di lavoro a disposizione. Da un piccolo gruppo di cinque impiegati siamo cresciuti fino agli attuali 42, tutti occupati nella sede di Giubiasco. In entrambi i settori siamo andati alla ricerca di nicchie di mercato adatte alle caratteristiche della nostra azienda, puntando quindi su

compiti che si ripetono, con scadenze ricorrenti e facilmente pianificabili a medio termine. Ai nostri collaboratori assicuriamo formazione teorica e pratica. In questo modo possono acquisire sicurezza e consapevolezza per prepararsi al meglio ad un inserimento nella realtà professionale locale». È quanto avvenuto ad esempio per la giovane Elisa, il cui problema di salute non le ha impedito di diplomarsi quale impiegata di commercio. Dopo essere stata collaboratrice dell’Azienda al 40%, ha trovato un impiego in una banca di Lugano. Ogni anno in media 2-3 persone con disabilità sono accompagnate nella ricerca di un posto di lavoro o di stage; di solito un paio trova questa occupazione. La loro permanenza nell’impresa sociale dovrebbe essere in media di 2-3 anni, durante i quali il coordinatore per l’aspetto lavorativo e l’operatrice sociale per le competenze socio-educative le seguono sulla base di un piano di sviluppo individuale. Da rilevare, l’evoluzione delle diagnosi con un crescente numero di persone con andicap psichico, in grado di assicurare un’ottima qualità di lavoro senza però la necessaria continuità richiesta dal mercato. È inoltre importante sottolineare come già all’interno della stessa associazione, che conta quasi ottanta collaboratori, numerose mansioni vengano svolte da persone con disabilità. Fra i servizi del reparto segretariato e contabilità spicca la compilazione della dichiarazione fiscale, già svolta in passato, ma da quest’anno pubblicizzata con l’intento di avvicinarsi maggiormente al territorio. Mirella Sartorio: «Abbiamo creato un piccolo team specializzato in questo compito, svolto per un prezzo modico a favore di persone singole e famiglie. Il lavoro dei collaboratori con disabilità è verificato e convalidato da personale qualificato. Abbiamo compilato oltre 50 dichiarazioni, per lo più di residenti della zona. Questo servizio permette ai privati di scoprire l’attività svolta nella nostra sede e di favorire la nascita di ulteriori collaborazioni, legate ad esempio alla stampa di volantini per associazioni o a operazioni di contabilità». La ricerca di nuovi incarichi e la diversificazione dei medesimi è uno dei compiti della responsabile del set-

Ai collaboratori è garantita formazione teorica e pratica, lo scopo è l’inserimento nella realtà professionale locale. (Keystone )

tore Azienda. In questi anni sono stati individuati nuovi segmenti di mercato come le campagne elettorali, le Parrocchie – una ventina quelle per le quali si riscuote la tassa annuale – e i Patriziati. A questi ultimi (oggi 100 enti, pari alla metà del totale) grazie ad un apposito programma informatico si è potuta offrire la gestione contabile richiesta dalla nuova Legge entrata in vigore negli anni Novanta. Intuizione informatica e relativo sviluppo dell’attività anche per quanto riguarda il sito www.swisstrotter.ch, progetto di inclusione andicap ticino che è andato via via rafforzandosi. Esso serve a pubblicare online la disponibilità della Carta Giornaliera del Comune e a gestirne le prenotazioni. È invece ancora in fase di rodaggio, ma con un notevole potenziale, la vendita online. Il negozio virtuale, per ora curato da Sara Martinetti, ha inaugu-

rato l’attività con un segnalibro legato a «La notte del racconto», evento che si svolge annualmente in quasi tutti i Comuni coinvolgendo circa 15mila tra bambini, ragazzi e adulti. L’Azienda ha prodotto 6500 segnalibri realizzati da un collaboratore di cui 5000 venduti online. A risentire maggiormente delle difficoltà legate alla situazione economica è il settore grafica e assemblaggio. La concorrenza estera e online ha ridotto il numero di clienti e imposto una riflessione sul passaggio alla digitalizzazione. Diverse mansioni sono già state ripensate estendendo l’offerta alla scansione di documenti e alla grafica legata all’impaginazione. Pur contando 450 clienti e quasi mille ordini evasi nel 2017, tramite un sondaggio l’associazione si è resa conto che la clientela non conosce l’intera

gamma dei servizi proposti dalla sua Azienda. «La promozione di prodotti e servizi, come pure una migliore comunicazione affinché l’equazione FTIA = inclusione andicap ticino sia chiara per tutti, sono le nostre priorità verso l’esterno», concludono Sara Martinetti e Mirella Sartorio. Considerato l’obiettivo finale di un inserimento nel mondo del lavoro «l’associazione intende intensificare l’impegno anche sul fronte delle aziende dove ancora manca la cultura dell’inclusione. I casi esemplari, legati soprattutto alle ditte familiari o alle grandi imprese, devono aumentare e diffondersi». L’appello alle aziende ticinesi disposte ad offrire posti di lavoro alle persone con disabilità è lanciato. Informazioni

www.inclusione-andicap-ticino.ch


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Società e Territorio Sandra Böhm vive con la sua famiglia sulle colline dell’Appenzello Esterno. (Stephan Bösch)

La voce delle badanti Pubblicazioni L’esordio narrativo

della giornalista Sara Rossi Guidicelli

Valentina Grignoli

Ritratti di contadine di montagna Aria di campagna Incontro con Daniela Schwegler

autrice di un libro dedicato alle contadine che hanno scelto la vita di montagna e ne sono felici Natascha Fioretti Quando ho finito di leggerlo mi sentivo così ispirata e così immersa nella natura che ho pensato di diventare una contadina anch’io. Tutti quei bei discorsi sulla permacultura, l’agricoltura biologica, quella biodinamica, l’allevamento su piccolissima scala di animali trattati con rispetto e dignità, niente mezzi industriali, tutto ancora seminato e raccolto a mano... Che dire, mi sono innamorata a prima vista di queste 12 donne che hanno scelto la vita contadina di montagna e sono felici. E, attenzione, qui felicità non fa rima con guadagno economico ma con stile di vita. Doris Martinali, Edith Freidig, Esther Müller, Eveline Hauser, Iris Hauschild, Luzia Biber, Morana Kotay, Regula Imperatori, Claudia Gorbach, Sandra Böhm, Ulrike Stober e Renate Krautkrämer, in diverse parti della Svizzera e per motivi e bagagli di vita differenti hanno fatto della vita contadina una scelta di campo, un modo di vivere che le riempie e appaga appieno. Non le rende ricche e non è una vita semplice ma è la vita che hanno scelto per loro stesse e per le loro famiglie. Un’esistenza a contatto con la natura che non mira a produrre o ad avere troppo ma il giusto, che mette il benessere interiore davanti a quello materiale. Aria di campagna. Ritratti di contadine di montagna (titolo originale Landluft. Bergbäuerinnen im Porträt) è il titolo del libro edito da Rotpunktverlag e ne abbiamo parlato con l’autrice Daniela Schwegler, nella sua casa a Wald, vicino a Rapperswil, mentre il suo peloso gatto Arvo ci osservava con l’aria sorniona di chi sa già tutto. Perché le donne al centro di questa pubblicazione? «Perché così potrò farne un’altra sugli uomini», ride e poi aggiunge «in realtà perché voglio offrire alle donne, visto che sono una donna anch’io, una piattaforma di scambio e delle figure di riferimento con le quale identificarsi e alle quali ispirarsi. Sono stufa di aprire giornali pieni di uomini, politici, responsabili dell’economia mentre alle donne sono riservate le pubblicità dell’intimo o, peggio, gli annunci di sesso. Voglio contribuire a diffondere nell’opinione pubblica altri modelli femminili e, in questo caso, mostrare come se la cavano le donne che scelgono questo stile di vita, quanto possa essere bella un’esistenza semplice in stretta armonia con la natura. Le donne ritratte, infatti, non sono ricche o famose, sono donne forti e convinte

della scelta che hanno fatto, della vita che hanno sposato e dei principi e dei valori che vi sono alla base». A proposito di donne benestanti c’è la particolare storia di Esther Müller di professione ginecologa e agricoltrice che vive nella sua fattoria bio di 7 ettari Archehof Uf em Bode a 960 m di altezza nel canton Soletta. Nella sua prima vita è stata una donna in carriera con tutti gli agi e i lussi di una vita economica più che agiata. Poi, un giorno, suo marito si toglie la vita e la lascia con un mare di debiti «il mondo in quel momento le è crollato addosso e le ha fatto riconsiderare molte cose, le sue priorità innanzitutto. Con il senno di poi, è stato come se la vita le avesse dato una seconda opportunità, ha smesso di concentrarsi su una vita fatta di apparenze nella quale, appunto, contavano carriera, successo, alberghi e viaggi costosi e si è messa in cerca dei suoi valori interiori, si è avvicinata allo sciamanesimo e oggi, nella sua fattoria, cerca la felicità dentro di sé, non più al di fuori». Esther Müller nella sua fattoria che, come il nome suggerisce, è una sorta di Arca di Noè, tiene specie animali in via d’estinzione riservando loro grandi cure e trattandoli con rispetto. Ha vitelli, pecore, maiali di razza Mangalica, oche, galline, api e 4 levrieri che adora. Per lei il rispetto della natura, una vita e un consumo sostenibili sono essenziali, «prima o poi, per lo sfruttamento sfrenato della natura e delle sue creature, ci verrà presentato il conto». Questo ci porta all’incredibile storia della signora Edith Freidig che alla veneranda età di 87 anni vive sola nella piccola fattoria di due ettari Ufem Bühl a 1150 m di altezza nel canton Berna che fino a 3 anni fa gestiva con il marito Werner. Insieme hanno sempre fatto tutto a mano, espandersi e acquistare macchinari agricoli è sempre stato troppo caro per le loro tasche. Hanno lavorato sempre duramente, arrotondavano affittando due appartamenti all’interno della loro casa e Werner d’inverno lavorava allo Skilift. «Potermi immergere nella vita della signora Freidig è stato come affacciarmi alla finestra e respirare un’aria di altri tempi. È stato molto interessante e, soprattutto, stupefacente apprendere e vedere come questa donna sia riuscita a lavorare e a gestire la sua vita contadina con un braccio paralizzato». La sua grande passione erano i viaggi e la cinepresa superotto con la quale ha fatto riprese in Giappone, Iran, Yemen, India, Kenya, Marocco; non c’è dubbio, Edith Freidig è sempre stata una donna

caparbia, piena di risorse, innamorata della sua vita e di suo marito Werner, che era solita riprendere mentre falciava, raccoglieva il fieno o tagliava la legna. Quelle che Daniela Schwegler ha ritratto nel suo libro sono donne con energia e forza da vendere che non si spaventano dinanzi alle difficoltà. Sandra Böhm, ad esempio, vive con la sua famiglia sulle colline dell’Appenzello Esterno. Schwendihalde la sua azienda agricola bio a 700 m di altezza può contare su 3 ettari di terreno. Lei e suo marito si sono incontrati durante il corso in agricoltura biodinamica, oggi producono esclusivamente verdure bio con consegna diretta ai loro clienti tramite un sistema di pagamento per abbonamento. Hanno quattro figli e sono felici «dal punto di vista economico vivono sotto la soglia della povertà», racconta Daniela Schwegler «ma non si percepiscono assolutamente come persone povere. Al contrario, si sentono ricche e fortunate per il loro lavoro e la loro esistenza in armonia con la natura, gli animali e le piante». Nel leggere queste storie sembrerebbe che le donne abbiano una spiccata sensibilità e propensione per un’agricoltura sostenibile e biologica. «In realtà nei contesti alpini proprio per la loro conformazione, per la topografia è possibile solo un certo tipo di agricoltura. Gli spazi sono più piccoli e le pendenze in molti casi non permettono l’utilizzo di macchinari agricoli. Una produzione intensiva qui non è possibile». Daniela Schwegler ha impiegato due anni per scrivere questo libro tra l’altro impreziosito dalle foto di Stephan Bösch che ritraggono le donne nella vita di tutti i giorni. Che cosa le hanno lasciato questi incontri? «Sono stati degli incontri intensi, degli incontri con il cuore. Per raccogliere ogni storia sono stata ospitata due, tre giorni a casa di ognuna di queste donne ed è stato un grande regalo potermi immergere nelle loro vite e guardarle da vicino. Poter condividere la consapevolezza che la felicità non si trova nelle cose materiali e anche con poco si può essere felici è stata una profonda esperienza». Quelle che vi abbiamo raccontato sono solo alcune delle storie contenute nel libro, ci sarebbe ancora quella di Luzia Biber nel canton Uri a 1320 m di altezza che adora leggere le storie al suo gallo o quella della giovane Doris Martinali della Val di Blenio che pian piano sta prendendo in mano le redini dell’azienda di famiglia... Per le altre c’è il libro, purtroppo per ora solo in tedesco.

«A volte facciamo le badanti perché badare a qualcuno è l’unica cosa che sappiamo fare, altre volte perché ci dà libertà, altre volte perché è un bel mestiere, che anche le donne come voi un giorno faranno. Lo facciamo a volte perché ci dà anche la casa». (da Nataša prende il bus, Iulja, p.53). Storie di badanti, storie di vita, mondi lontani, ma al contempo molto vicini a noi. Questo è l’universo entro il quale si muove Sara Rossi Guidicelli, di Ponto Valentino, che con estrema sensibilità e talento narrativo ha raccontato le tante storie di donne venute dall’Est per curare le madri di figlie che non lo possono più fare: dove le figlie non arrivano, giungono le badanti.

Le storie delle badanti raccolte da Sara Rossi Guidicelli si intrecciano a quelle delle famiglie che ne chiedono l’aiuto Nataša prende il bus è il titolo dell’esordio narrativo della giornalista Rossi Guidicelli: un racconto corale, impreziosito dalle illustrazioni di Chiara Fioroni, tante le protagoniste, e diverse tra loro, unite da un mestiere, che diventa sempre più uno stato d’essere. Un libro femminile, in cui ogni donna si impossessa dei singoli capitoli e attraverso la penna dell’autrice si racconta riuscendo a trasmetterci persino le cadenze e le inflessioni tipiche delle lingue dell’Est. Il libro per l’autrice nasce «da lontano». L’idea di raccontare che dietro a un nome, badante appunto, ci sia un cuore che batte e un’anima che vive, prende piede nella mente di Sara Rossi Guidicelli a Livorno: «Vivevo lì ed è stata la prima volta in cui ho preso coscienza del mestiere delle badanti. Mi aveva colpito moltissimo un volume sul lavoro di cura delle badanti: è un mestiere particolare, se ti arriva in casa un idraulico, per esempio, non devi chiedere nulla della sua vita, basta parlare del lavoro da svolgere. Per la badante invece è molto diverso perché lei vive a casa con il suo datore di lavoro, e non ha una famiglia da cui torna a casa la sera o la mattina dopo il lavoro. Quello che la contraddistingue è forse proprio questa solitudine, questa forza di lasciare il suo paese per venire qui e trovarsi in un’altra famiglia». Dopo gli studi Sara torna in Ticino e inizia la sua carriera di giornalista, qui incontra di nuovo le badanti. «Una volta mi è capitato di intervistare per

lavoro una signora che fa questo mestiere e mi ha detto una frase che mi ha colpita molto: “sono contenta che mi chiedi di me perché nessuno mai ci chiede chi siamo, da dove veniamo e chi ci aspetta a casa nostra. Al massimo ci chiedono come sta la Signora. Noi non siamo badanti e basta”. Lì mi sono accorta che non bastava un articolo di giornale per sconfiggere questo tipo di mentalità. Quindi ho pensato di chiedere aiuto alla cultura: avevo appena visto uno spettacolo di Ioana Butu, attrice rumena diplomata alla scuola Dimitri che vive in Ticino. Lei ha un lievissimo e preciso accento rumeno che poteva dar voce alle storie che avrei scritto… l’ho contattata, le ho chiesto di collaborare, e così ne è nato un testo teatrale». Chi sono le badanti del libro? «Sono tutte donne, ho fatto la scelta di andare a incontrare solo quelle provenienti dell’est Europa per limitare il campo. Ho cominciato con Silvia, che mi ha poi proposto diverse sue amiche. Sono persone, molto diverse l’una dall’altra, che hanno in comune solo il fatto che un giorno hanno preso il bus». Come Nataša, la prima protagonista, che dà il titolo al volume. Inoltrandosi nella lettura si scopre che, intrecciate alle loro storie, ci sono quelle delle famiglie che ne chiedono l’aiuto. La voce viene data anche alla controparte, in maniera fluida e sincera. «Questo è stato il passo successivo, dal testo teatrale al libro. È sorta l’esigenza di parlare anche dell’altra parte, delle famiglie dove le badanti vanno a lavorare. Come due persone che ballano il tango, hanno bisogno di trovare un equilibrio perfetto, in cui uno si appoggia all’altro, se l’equilibrio non si trova, non funziona. Quindi è importantissimo sapere chi sorregge la badante e come è sorretta». Sono voci importanti, che permettono alla coralità di essere più completa, autentica, e di disegnare un fenomeno che ci riguarda sempre di più e che continua a fare parte della stretta attualità. Quello che riportano spesso le badanti, oltre al fatto di non essere considerate nel contesto delle loro storie, o del loro essere donne, sono spesso le condizioni di lavoro che non prendono in considerazione il fatto che spesso la loro è un’occupazione di 24 ore su 24. È di qualche giorno fa la notizia secondo la quale la SECO (Segreteria di Stato dell’economia) ha messo a disposizione sul suo sito un documento modello per la redazione dei contratti normali di lavoro (CNL) cantonali nel settore dell’assistenza domestica. Il documento contiene per l’appunto prescrizioni sulle condizioni di lavoro per chi presta un’assistenza di economia domestica di 24 ore su 24 a persone debilitate. Si tratta di una pubblicazione che si rivolge alle persone bisognose di assistenza ma anche ai loro famigliari e ai lavoratori, ed è un passo molto importante e concreto per tutelare il mestiere delle badanti, donne la cui voce si fa sentire in maniera delicata e potente e si fa portavoce di un movimento – il noi utilizzato dall’autrice – anche nelle storie raccontate con poesia da Sara Rossi Guidicelli. Bibliografia

La copertina del libro pubblicato da Ulivo Edizioni.

Sara Rossi Guidicelli, Nataša prende il bus – storie di badanti, di madri e di figlie, pref. di Daniele Finzi Pasca, Ulivo Edizioni, 2018. Per novembre 2018 è previsto uno spettacolo teatrale prodotto dal Sociale di Bellinzona, con la regia di Laura Curino.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino t 16 luglio 2018 t N. 29

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Società e Territorio

Famiglie che ospitano studenti Scambi culturali I giovani che arrivano in Ticino per scambi di studio o stage aziendali sono accolti da famiglie

nelle proprie case: la convivenza è un arricchimento per tutti sia dal profilo umano sia da quello culturale

Guido Grilli «Aprite le porte di casa vostra sul mondo. Vi attende un meraviglioso viaggio interculturale per tutta la famiglia». Anche il Ticino è terra di accoglienza per scambi di studio – seppure i numeri siano contenuti rispetto alla media europea – e il motto in apertura appartiene a una delle più longeve organizzazioni internazionali, la Afs – American Field Service – attiva in Svizzera da 65 anni e in oltre 50 nazioni nel mondo. Ebbene, trovata la famiglia, trovato un tesoro. Lo sa bene Michela D’Amelio, parte dello staff di Afs Svizzera, che spiega come la ricerca di famiglie non sia sempre facile, eppure – garantisce – l’esperienza interculturale è davvero arricchente per chi decide di compiere questo passo. Di natura completamente volontaria e dunque con nessuna retribuzione è la richiesta alle famiglie da parte di Afs, che si occupa di scambi di studio di studenti dai 15 ai 18 anni delle scuole superiori per la durata di un anno – ben 15mila sono complessivamente gli scambi all’anno (250 in partenza dalla Svizzera). «Il Ticino non è ancora tra le località più richieste, anche se ci stiamo espandendo su questa regione promuovendola, anche grazie alla traduzione in italiano del nostro sito e di altro materiale informativo» – spiega Michela D’Amelio, che aggiunge: «in questo momento abbiamo attivato la ricerca di famiglie ticinesi per ospitare uno studente proveniente dall’Honduras che ha scelto quale destinazione il Ticino. Per quanto riguarda invece la partenza di ticinesi per destinazioni internazionali, quest’anno tre ragazzi si apprestano a spiccare il volo, tutti con destinazione gli Stati Uniti, e saranno accolti da famiglie americane dal nord al sud degli Stati Uniti». Prosegue Michela D’Amelio: «Presso la Afs i ragazzi vengono accolti in famiglie ospitanti e ricevono un solido supporto da una persona di riferimento dell’Organizzazione che funge da mediatore tra la famiglia e lo studente. La famiglia ospitante dal canto proprio può pure contare su un referente di contatto per qualsiasi eventuale problema si ponesse durante il soggiorno. Vitto e alloggio sono coperti completamente dalla famiglia. Per quanto riguarda il supporto, l’organizzazione, l’assicurazione malattia, le attività ricreative e culturali sono sostenute dalla Afs, che si occupa di preparare il giovane alla partenza in vista della sua integrazione nel Paese di destinazione

Una giovane studentessa prende possesso della camera messa a disposizione dalla famiglia ospitante. (Marka)

sia dal profilo della lingua sia da quello culturale, degli usi e dei costumi. Lo scambio di studio non è gratuito: le famiglie dei ragazzi che decidono di intraprendere questa esperienza pagano infatti una somma alla Afs, che garantisce il finanziamento del progetto». Ma qual è l’impegno per la famiglia? Una famiglia ticinese di Cugnasco è alla sua terza esperienza di accoglienza di studenti. «Sono un po’ per loro una seconda mamma» – dice la padrona di casa, madre di tre figli adolescenti, che preferisce mantenere l’anonimato. «A 18 anni ho compiuto anch’io uno scambio studentesco di un anno con Afs, in Costa Rica, e l’esperienza è stata così positiva che ho deciso di mettermi a disposizione io stessa come famiglia ospitante». Tre complessivamente le esperienze: la prima nel 2011 con una ragazza americana; poi l’anno successivo con una studentessa austriaca e attualmente con un giovane proveniente dall’Honduras. «Non è sempre facile – ammette la nostra interlocutrice – anche perché si parla di adolescenti, ma ne vale davvero la pena perché c’è molto da imparare dal profilo umano e culturale». La Afs è stata fondata nel 1914 per iniziativa di un gruppo di giovani vo-

lontari coinvolti in servizi di trasporto e ambulanze alle forze alleate in Francia durante la prima guerra mondiale. «Dal dopoguerra – spiega Michela D’Amelio – ha iniziato a prendere vita una rete di costruzione per la pace promuovendo borse di studio finanziate da sostegni privati e istituzionali e scambistudio con l’intenzione e la missione di sviluppare la comprensione, la conoscenza reciproca e le capacità necessarie per contribuire a creare un mondo più giusto e pacifico». Anche il Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport, tramite il Servizio Lingue e stage all’estero promuove programmi europei di scambi e dunque è confrontato con la ricerca di famiglie disposte ad affittare una camera a giovani stagiaires che giungono in Ticino per compiere stage professionali in azienda e perché desiderosi di imparare l’italiano e confrontarsi con la cultura nel cantone più a sud della Svizzera. Susanna Memoli gestisce da dieci anni il progetto Eurodyssée, riservato a giovani adulti dai 18 ai 30 anni che abbiano concluso una formazione con un diploma o una laurea: «La ricerca di famiglie disposte ad ospitare non è evidente, anche se da qualche tempo posso contare su tre famiglie che

accolgono da tempo giovani stranieri coinvolti nel progetto di scambio, a Bellinzona, Camorino e una a Paradiso. Il Cantone riconosce 550 franchi mensili per le famiglie che offrono solo la camera con cucina a disposizione; mentre 800 franchi se oltre alla camera viene garantita anche la mezza pensione». «Eurodyssé, a differenza di Erasmus Plus esteso su tutta l’Europa, coinvolge solo alcune regioni della Svizzera, Spagna, Francia, Belgio, Portogallo e Europa dell’est. Per questo anche il numero di scambi è contenuto: sei all’anno vengono accolti in Ticino e altrettanti vengono ospitati in questi Paesi per periodi da tre mesi a un massimo di sei mesi. Il pacchetto contempla anche il corso di lingua, dunque oltre a compiere un’esperienza in azienda e in famiglia, i giovani stranieri che giungono in Ticino hanno pure l’opportunità di imparare un nuovo idioma. Lo stesso vale per i ticinesi che decidono di recarsi nelle regioni europee ospitanti che partecipano al programma Eurodyssée». Ma qual è l’impegno per la famiglia ospitante? «Si parla di adulti, dunque c’è una piena autonomia da parte dei giovani. Tuttavia le famiglie ospitanti non si limitano ad offrire loro la

camera e la cucina in comune, ma si realizza uno scambio culturale, nasce sempre una bella relazione tra i ragazzi e i componenti della famiglia. Chi accetta di accogliere giovani è molto predisposto e aperto all’accoglienza». Si tratta di famiglie senza figli? «Molte sono coppie con i figli ormai già grandi e fuori di casa e altre hanno invece ancora figli minorenni a carico» – spiega Susanna Memoli. E le regole di casa? «Quelle vanno rispettate e a metterle non siamo certo noi, bensì le famiglie stesse che trovano una comune convivenza che sia di arricchimento e per l’una e l’altra parte. Quando arrivano in Ticino i giovani li accompagno personalmente dalla famiglia ospitante e dunque mi pongo da tramite. Devo dire che si tratta sempre di giovani molto educati e motivati». Oltre ad Eurodyssée, la ricerca di famiglie e di alloggi per stagiaires provenienti dall’Europa riguarda anche i programmi denominati «Xchange», «Leonardo da Vinci» e «Swiss Mobility». Anche in questo caso al centro c’è ancora uno scambio culturale e famiglie pronte ad aprirsi al mondo, a nuove culture, a una politica di accoglienza che sono il segno importante dell’ospitalità e di uno sguardo aperto agli altri.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Paolina Baruchello - Federico Appel, Lo sport non fa per te, Sinnos. Da 5 anni «Nessun bambino è destinato a guardare gli altri giocare: a ognuno il suo sport!» così si conclude questo bel libro dal titolo provocatorio, Lo sport non fa per te, frase che nessun bambino (e neanche nessun adulto) dovrebbe sentirsi rivolgere. Il punto è trovare il proprio sport, quello più congeniale per attitudini fisiche e carattere, senza mai sentirsi obbligati a praticarne uno, solo perché lo vogliono i genitori o perché vi si dedicano gli amici. E così, ben ravvivate dal tratto deciso e dinamico delle illustrazioni di Federico Appel, le pagine di questo albo concatenano delle piccole storie di bambini che abbandonano uno sport (che non faceva per loro) per trovarne un altro a cui possono darsi con divertimento e soddisfazione. Jordi ha appena traslocato nel nuovo quartiere e scende a dare due calci nel campetto sotto casa, rivelandosi subito il più talentuoso. Tutti se

lo contendono per la propria squadra, mentre Michele, più grosso e goffo, viene scelto sempre per ultimo. «Lo sport non fa per te!» gli dice un signore, e Michele si rassegna, fino al giorno in cui, per caso, in piscina, recupera una palla sfuggita ad alcuni bambini. «Come nuoti forte! Vuoi giocare con noi?» Per farla breve, viene inserito nella squadra di pallanuoto, sport in cui può dare il meglio di sé. Ma in piscina c’è Viola, piccolina e titubante in acqua, che non prende neanche una palla. Però il giorno in cui accompagna sua sorella a una festa su un prato, si mette a fare ruote e capriole e viene

invitata da una giovane allenatrice ad unirsi alla squadra di ginnastica artistica. Squadra in cui la spilungona Sara non si diverte per nulla, e per lei sarà decisivo scoprire invece il basket. E così via, di sport in sport, nessuno di questi ragazzini per fortuna si fa demotivare dal petulante adulto di turno che decreta «lo sport non fa per te». I due autori non sono nuovi a raccontare lo sport: Paolina Baruchello, che è anche un’esperta di kung fu, aveva già scritto per Sinnos la graphic novel per adolescenti Pioggia di primavera (in cui il kung fu è un tema centrale); dell’illustratore, Federico Appel, va invece segnalata la graphic novel, di cui è anche autore, Pesi Massimi, sette storie di sport, razzismi, sfide, sempre per Sinnos. Axel Scheffler, serie Pip e Posy, De Agostini. Da 2 anni Piacerà tantissimo ai più piccini questa deliziosa serie di Axel Scheffler, l’artista tedesco che apprezzavamo

come illustratore delle storie di Julia Donaldson (Il Gruffalò, Il gigante più elegante, Dov’è la mia mamma, La strega Rossella e tutte le altre) e che ora firma anche come autore le avventure del coniglietto Pip e della topolina Posy, alle prese, come tutti i bambini, con le scoperte del quotidiano: le meraviglie e le piccole frustrazioni. Ne Il palloncino rosso, ad esempio, la frustrazione da gestire è quella per il palloncino che è scoppiato. «Pip ci rimane malissimo, è davvero molto triste», ma il suo pianto viene calmato da Posy, che ha un’ottima idea: «Facciamo le bolle di sapone!». Le bolle sono

tante, sono belle, ma alla fine volano via e scoppiano, tutte, anche loro: «è normale che le bolle facciano così!» La storia è semplice ma a ben guardare ha significati esistenziali profondi, e racconta, con l’allegria rassicurante e calda dei colori e delle parole di Scheffler, che le cose finiscono, ma è proprio questo a renderle più smaglianti. In Ops! Una piccola pozzanghera si racconta dei giochi dei due amici, così appassionanti che Pip si dimentica di fare pipì, e il risultato è quella piccola pozzanghera che lo mette in imbarazzo. Ma «non preoccuparti» gli dice Posy «a tutti ogni tanto capita un piccolo incidente». Da notare il dettaglio geniale dei vestiti di ricambio un po’ femminili che Posy gli porge e che Pip indossa senza alcun imbarazzo, e il fatto che la prossima pipì di Pip verrà fatta tranquillamente nel vasino. Ne Il mostro spaventoso il tema sono invece le paure. Ogni libro è una piacevole scoperta e si presta a infinite letture!


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Il trionfo del DNA Inizia l’estate balneare e ci risiamo con gli squali. Sempre gli squali, soltanto gli squali. Giorni orsono un noto quotidiano da questa parte delle Alpi ha dedicato un’intera pagina al resoconto di una curiosa ricerca che sta facendo il giro del mondo mediatico dentro e fuori dal web. Un ricercatore italiano in forza ad un’università inglese sta mappando la presenza degli squali in un certo tratto di mare a partire dalle tracce di DNA che questi si lasciano dietro nel loro girovagare su e giù pei Sette Mari. Frammenti di pelle, uova, saliva e altre deiezioni vengono vagliate con tecniche sofisticate per determinare se nelle ultime ventiquattro ore – questa la soglia cronologica di applicabilità della tecnica – la specie di squali X sia o meno passata da quelle parti. Insomma: un po’ come quando da bambini si andava al mare e si faceva a gara a chi avvistasse le targhe automobilistiche più rare (ricordo che una volta stravinsi con un San Marino). Sì perché lo scopo della ricerca – a quanto è dato leggere – è di mappare la frequenza dei

passaggi degli squali in un’area di mare X ed individuarne le specie a rischio di estinzione. Cosa comporti per l’efficacia del genetico censimento il fatto che una specie di squalo Y frequenti per arcane sue proprie ragioni aree altre rispetto al braccio di mare X non è riportato nell’intervista all’Autore della ricerca, ma i lettori criticoni concedano il beneficio d’inventario fiduciosi che una ratio scientifica da qualche parte pure ci sarà. Perché poi – e qui sta il punto altropologico della questione – l’intervista al suddetto prende ad un certo punto una piega improvvisa virando da questioni strettamente scientifiche per introdurre il tema – forse l’unico che interessa al lettore: «Lei usa il DNA (che viene raccolto in bottiglie d’acqua-campione) perché ha paura degli squali?». La risposta – indovinala grillo – è «certo che no». Ovvero si usa quella tecnica perché più efficace di quelle basate su avvistamenti ed altre forme di habeas corpus ravvicinate dispendiose di tempo e di mezzi. E poi il colpo di grazia finale: dopo tutto gli squali sono per

la maggior parte innocui: «È forse più pericoloso nuotare con un delfino che può causare incidenti solo per la sua voglia di giocare». Uno può immaginare la scena: letto questo il lettore balneare ripone il giornale e sia avvia alla battigia per il bagno, rassicurato che – come il Lupo Cattivo – anche gli squali sono buoni. Squali e DNA finalmente assieme. Due capisaldi dell’industria culturale di massa e globalizzata della tarda, tardissima modernità. I primi diventano esponenti di punta di una rappresentazione della Natura che cerca una sua visibilità mediatica rimettendo comunque in gioco le paure oscure delle fantasie infantili, laddove l’infantilizzazione dell’adulto lettore funziona pressapoco secondo il meccanismo: «lo so che hai paura degli squali (o tantovale degli immigrati, degli zingari, del funzionario delle tasse e degli alieni), ma il Grande Fratello – che di queste cose se ne intende – ti rassicura e dimostra che gli squali sono statisticamente innocui. Tanto da essere meno pericolosi dei

delfini». Col risultato – ovviamente – che l’adulto infantilizzato avrà paura tanto degli squali quanto dei delfini. Per quanto riguarda il DNA, la vulgata che lo vede ormai condimento immancabile per ogni sorta di argomentazione ne fa una sorta di demiurgo responsabile di caratteristiche culturali e specificità comportamentali che, proprio per essere biologizzate, divengono innegabili ed inoppugnabili. Così il torneo per la Coppa del Mondo di football ci ha insegnato che la fantasia di gioco basata sull’invenzione improvvisata dei Carioca – insita nel DNA brasiliano – alla fine della fiera poco conta rispetto al gioco macinato e macinante dei Panzer tedeschi, vittime a loro volta di un DNA calcistico per cui basta un corto circuito organizzativo che l’intera baracca vada in crisi. E ce ne è stata di questa roba anche per i Confederati: gioco preciso, puntuale, corale e referendario che però, alla fine poco può contro aggressività e tenuta atletica – aquile kosovare nonostante. E passi l’ambito sportivo dove «il biologico» dovrà pure

in qualche modo contare. Il problema si fa grave quando l’inevitabilità oggettiva dei codici genetici viene trasferita nel campo del sociale e del politico: «Non è nel DNA della Lega scendere a compromessi su questioni fondamentali come l’immigrazione clandestina», tuona il Ministro degli Interni della Penisola. «Il biologico» è fondante e immutabile, trascendente nel senso kantiano del termine – ovvero condizione e non conseguenza di scelte che sono invece culturali e storicamente determinate. Naturalizzando ciò che è culturale, dunque opinabile, transeunte e provvisorio (poiché la cultura è il Grande Mutante della Storia) l’appello al DNA diventa ultima ratio della ragione di una modernità incompiuta, in ritardo ormai rispetto a se stessa: scalzati gli ancoraggi della Religione d’antan, il ricorso alla Natura diventa il Forte Apache di un’ultima (e vana?) resistenza – ricerca ormai esausta per un alcunché di solido in una società liquida, dove squali e delfini nuotano allegramente assieme sugli schermi delle TV.

volta nella storia dell’umanità tutte le donne, non solo le più forti e privilegiate, hanno preteso, e spesso ottenuto, di realizzare le loro potenzialità sulla scena del mondo. Non soltanto nella casa e nella famiglia. In quell’atmosfera di progresso civile, abbiamo sollecitato le nostre figlie a rendersi indipendenti, a studiare, trovare un impiego soddisfacente e fare carriera. La motivazione è stata così convincente da mettere in ombra l’altra parte della femminilità, quella materna. Per ovviare a questi inconvenienti si possono fare molte cose ma mi sembra prioritario aiutare le giovani donne a recuperare pensieri e sentimenti materni. Risulta tuttavia difficile prepararle a divenire madri in una cultura in cui questa dimensione dell’esistenza trova ben poca considerazione. In particolare la gravidanza è stata affidata alla gestione medica che, con continui controlli, crea non poche ansie nelle pazienti. Dovrebbero vivere la gioia dell’attesa ma spesso non sono più capaci di aspettare. In un clima di fretta

e d’impazienza la gravidanza viene considerata un compito da eseguire in sordina, senza rinunciare nel frattempo ad altre priorità. Un commento abbastanza frequente, apparentemente lieve ma in realtà preoccupante, che capita di ascoltare è questo: «ho vissuto i nove mesi come niente fosse». Ove il «niente» annulla la disponibilità, l’introspezione, l’immaginazione, la narrazione. Molte continuano a lavorare, viaggiare, uscire la sera, ballare, calzare tacchi a spillo, dimenticando che quanto sta avvenendo dentro di loro è molto più importante di quanto accade fuori. Sappiamo che il «cordone psichico» che collega madre e feto svolge una funzione fondamentale nello sviluppo di entrambi. Nell’ultimo trimestre di gravidanza, il nascituro avverte le tensioni, le emozioni, gli eventuali traumi vissuti dalla madre ma non è in grado, per l’immaturità del suo apparato psichico, di elaborarli da solo. Spetta allora alla mente della gestante provvedere, per entrambi, ad ammortizzare l’impatto. Sappiamo inoltre che, quando l’attesa non rimane uno spazio

vuoto, ma è animata da prefigurazioni, emozioni e progetti, l’incontro madrefiglio, subito dopo la nascita, sarà più caldo, intenso, reciproco. Per queste e altre ragioni è importante che tra le generazioni di donne riprenda a scorrere il filo rosso dell’amore. Nonne, madri, figlie e nipoti si formano l’una dentro l’altra, come rivelano le bambole russe, le matrioske. Scordarci questa implicazione vuol dire smarrire noi stesse. Solo un dialogo tra donne può recuperare la possibilità, non l’obbligo, di diventare madri. Se vogliamo essere in grado di scegliere dobbiamo confrontare per tempo le due eventualità, il sì e il no, senza lasciarci condizionare da esigenze sociali indifferenti ai desideri profondi delle persone.

seconda delle situazioni. La lingua alta, negli ambienti ufficiali, scuole, tribunali, parlamenti, ai microfoni della radio, fra gli addetti ai lavori della cultura, ed esibita, non da ultimo, come segno di raffinatezza negli ambienti della buona borghesia e dei ceti rampanti. Si educavano i bambini in italiano, considerato, figurarsi, un riparo dalla volgarità: ben presto travolto dall’ondata dei «vaffa», ecc. Anzi, paradossalmente, fu proprio grazie alle parolacce, sintomo di una presunta libertà, che il nuovo italiano conquistò le simpatie dei giovanissimi, anche in Ticino. Tutto ciò a spese del dialetto che, stando alle ultime statistiche, oggi è parlato regolarmente da neppure un terzo della nostra popolazione. Ma va detto che questa popolazione, nel frattempo, ha subito uno sconvolgimento, addirittura rivoluzionario, e non concluso. Paese, per definizione

di confine, abituato per tradizione alle diversità anche culturali, il Ticino si è trovato alle prese con un afflusso di ospiti, scomodo, non tanto per il numero quanto per le diversità. A Lugano, oltre le metà dei cittadini è straniera e rappresenta un ventaglio, se ho ben capito, di un centinaio di nazionalità. Di fronte a quest’emergenza linguistica, il dialetto finisce, per forza di cose, penalizzato. Per farsi capire bisogna, ovviamente, affidarsi alla lingua ufficiale, l’italiano, magari affiancato all’inglese. Il che, sia chiaro, non significa disprezzare il dialetto, al quale ormai da decenni, spetta un ruolo rilevante, sul piano culturale, storico e sociale. Tanto da sollecitare, da un lato, l’attenzione di giovani linguisti e, dall’altro, una forma persino un po’ snobistica di riscoperta da parte di intellettuali in vena nostalgica. Come non

citare le battute in comasco di Gianni Clerici, quando commentava le finali di tennis a Wimbledon. O ancora le rubriche in dialetto di Piergiorgio Baroni su «Illustrazione ticinese». E, perché no, le commedie teatrali che, magari con cedimenti di stile, testimoniano l’insostituibile attaccamento al «quel che eravamo». Si sta, infine, assistendo anche a un rilancio strumentale del dialetto. Cioè con secondi fini. Non s’interviene a favore di una parlata, che è la nostra, bensì contro chi questa parlata non la sa, perché viene da altrove. E allora si propone d’imporla nell’insegnamento scolastico, una materia in più, dopo la civica, veicolata dalla politica. Ma c’è anche un aspetto illusorio, nell’uso strumentale del dialetto. Succede quando, «sa parla dialett» per ingraziarsi il poliziotto. Che non capisce. È originario del Kosovo.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Il dialogo tra donne e la maternità Gentile professoressa, forse sono pensieri d’estate, forse mugugni di un’aspirante nonna, ma le mie due figlie, ora in vacanza, partiranno in autunno: una per la Spagna a Barcellona, l’altra per l’Olanda a Utrecht, ma di fare un figlio non se ne parla. Eppure sono «fidanzate» da tempo e prossime ai quarant’anni. Possibile che non sentano l’orologio biologico suonare l’ultimo minuto? Probabilmente le priorità sono cambiate e noi, della vecchia guardia, non riusciamo più a stare al passo coi tempi. / Gisella, una nonna mancata Cara Gisella, come dice un ritornello «mai dire mai». È vero che dopo i 35 anni calano le probabilità di restare incinta ma certo non si annullano allo scoccare dei 40. Non lasci trapelare la sua impazienza: otterrebbe l’effetto contrario. Ogni attesa ha i suoi tempi, non sempre razionali e calcolabili. Esprima alle sue figlie fiducia e speranza perché è proprio la difficoltà di delineare un futuro a lunga scadenza

a indurre le giovani donne a rinviare la maternità a «data da destinarsi», col rischio di essere coinvolte in un progetto così coinvolgente mentre sono impegnate a fare altro. D’altra parte, come cerco di mostrare nel mio ultimo libro L’ospite più atteso noi stesse, madri e nonne, non siamo estranee a questa situazione. Per certi versi l’abbiamo provocata. I motivi che disincentivano le nascite sono tanti (crisi economica, disoccupazione, precarietà, costo degli alloggi, fragilità della famiglia) ma non sufficienti a spiegare un fenomeno così complesso. In fondo anche in periodi più difficili, come nel primo dopoguerra, le coppie non hanno rinunciato a mettere al mondo bambini. In questa decisione intervengono anche motivazioni psicologiche e proprio su queste dobbiamo interrogarci. Dalla seconda metà degli anni Settanta, a opera del Movimento delle donne, è iniziata una profonda critica alla subordinazione femminile, attribuita soprattutto al maschilismo della famiglia patriarcale. Per la prima

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Torna il dialetto, ma come? La giornata, a volte, comincia bene. Questione anche d’incontri. A Lugano, in una via del centro, fra tanti sconosciuti e tutti di fretta, ecco la faccia di qualcuno, che ricollego a un ricordo: condiviso. Infatti, si ferma e, con un sorriso di gratitudine, mi dice: «Cun lee podi parlà dialett». Finalmente, si era imbattuto in un possibile interlocutore: una persona, cresciuta, come lui, in quel clima di vicinanza e di familiarità, che rendeva inevitabili i contatti diretti, prima dell’era digitale. Nei negozi, in banca, dal benzinaio, alla biglietteria della stazione, nelle agenzie turistiche: per forza di cose, ci si parlava. E da concittadini, in qualche modo legati fra loro. Come nel nostro caso. Lui, postino, recapitava la corrispondenza alle redazioni dei giornali, le famose buste verdi «fuori sacco», al «Corriere del Ticino», dove aveva incontrato mio

padre, e all’«Azione», nelle varie sedi, in Piazza Manzoni, via Bossi, via Pretorio. Insomma, era una paginetta di storia locale, rievocata in dialetto. Perché questa è la cosiddetta lingua del cuore, insostituibile quando, appunto, c’è di mezzo il rimpianto per un passato, non lontano nel tempo ma nelle abitudini. Fra cui l’uso del dialetto, dominante sin verso gli anni 60 nella nostra quotidianità, soprattutto in campagna e nelle valli del Sopraceneri. Ma destinato a un irrimediabile declino. Nei decenni successivi, attraverso il cinema e la televisione d’oltre confine, l’italiano stava, rapidamente, conquistando terreno, in particolare fra i giovani. Si consolidava, così, l’inconfondibile bilinguismo ticinese, marchio regionale di una parlata in cui italiano e dialetto convivevano, con ruoli particolari, che s’integravano. Scattava una sorta di automatismo, a



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Ambiente e Benessere Un po’ di Ticino in Israele Costruita una Bella Lugano a Yehud, nei sonnolenti sobborghi di Tel Aviv

Il successo del termovalorizzatore Intervista a Claudio Broggini, direttore generale dell’Azienda cantonale dei rifiuti, a quasi un decennio dalla costruzione dell’impianto di Giubiasco pagina 12

La perdita della meccanica L’evoluzione dell’intelligenza artificiale sta cambiando nel profondo l’intero settore automobilistico

Tubercolosi e fauna La Svizzera e il Principato del Liechtenstein non sono finora interessati dal fenomeno

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Verde e acqua contro caldo e inondazioni Progetto pilota Sion, con il supporto

della Confederazione, ha mostrato come attenuare gli effetti dei cambiamenti climatici intervenendo sugli elementi naturali delle città

Elia Stampanoni Anche in Ticino qualcosa si sta muovendo. Sono sempre maggiori le attenzioni poste agli spazi verdi, agli spazi comuni e agli spazi liberi nelle città o negli agglomerati. Soprattutto in fase di nuove realizzazioni o di interventi di riqualifica, questi aspetti diventano vieppiù importanti, se non addirittura punti centrali dei progetti (vedi anche l’articolo Alberi in città apparso su «Azione 11» del 12 marzo 2018). Il Cantone, con il Dipartimento del territorio, già si preoccupa degli spazi verdi urbani. Il Piano direttore cantonale, le linee guida generali o i piani d’agglomerato sono strumenti che vogliono e devono fungere da riferimento per i Comuni in fase di progettazione. Disposizioni che hanno come scopo quello di migliorare la qualità di vita, l’aspetto di una città o di un agglomerato, ma che hanno anche un effetto significativo sull’ambiente e quindi, di nuovo, sul benessere della popolazione residente. Le città e gli agglomerati sono, infatti, particolarmente toccate dai cambiamenti climatici, i cui effetti vengono rafforzati dalle caratteristiche specifiche degli ambienti cittadini, quali la scarsità di aree verdi o di acqua (fiumi, laghi, ruscelli,…) in contrapposizione all’alta concentrazione di costruzioni, di strade e di cemento. Le ondate di calore, oggi più lunghe e più frequenti, diventano quindi una minaccia per la salute dei cittadini, soprattutto per i neonati, le persone anziane, malate e bisognose di cure. Il clima sta cambiando e la Svizzera già s’impegna per ridurre il più possibile le emissioni di gas serra ma, secondo le previsioni più ottimistiche, il riscaldamento terrestre potrà essere limitato a un +2°C. Oltre a limitare le emissioni, diventa quindi determinante adattarsi ai cambiamenti e diverse contromisure sono già oggi adottate da singoli Cantoni, Comuni o città.

Per supportare questi interventi mirati al miglioramento della qualità di vita, l’Ufficio federale dell’ambiente (Ufam) ha lanciato il programma pilota Adattamento ai cambiamenti climatici, a cui hanno partecipato pure gli Uffici federali della protezione della popolazione, della sanità pubblica, dell’agricoltura, dello sviluppo territoriale e della sicurezza alimentare e di veterinaria. Tra i 105 progetti inoltrati, la Confederazione ne ha scelti 31 che hanno trattato temi come la penuria di acqua a livello locale, i pericoli naturali, il cambiamento degli ecosistemi e lo sviluppo di città e insediamenti adattati al clima. Rientra tra i selezionati il progetto realizzato nel biennio 2014-2016 nella città di Sion che, con interventi mirati nel verde e nel blu degli agglomerati, ha mostrato come sia possibile attutire gli effetti negativi dei cambiamenti climatici. Nel capoluogo vallesano si è posto l’accento in particolare sull’aumento delle ondate di calore e il rischio di straripamenti. Con il progetto Acclimatasion, Sion ha sensibilizzato autorità e popolazione elaborando interventi e raccomandazioni per uno sviluppo urbano adattato, sia su terreni pubblici sia privati. Grazie al positivo e attivo coinvolgimento della popolazione dei vari quartieri, il progetto ha permesso di rendere la città più resistente al caldo intenso o alle inondazioni. Tra gli interventi più significativi e di certo anche più visibili, la messa a dimora di alberi e la creazione di punti d’acqua corrente. Sono stati più di cento gli alberi e gli arbusti piantati in città, il che significa più ombra e freschezza, mentre sostituendo le superfici scure e nere, come parcheggi o strade, con materiali più chiari e quindi meno termoassorbenti, si è pure contribuito a rendere l’ambiente più naturale. Ulteriore fonte di climatizzazione sono stati i corsi d’acqua in superficie: la città di Sion si è impegnata sia ripristinando ruscelli o fiumi precedentemente interrati, sia installando nuove fontane, ma anche au-

La Città Vecchia di Sion. (Zairon)

mentando la permeabilità dei terreni e favorendo quindi il deflusso di acque in caso di forti precipitazioni. Diversi studi, d’altronde, dimostrano che con una miscela di misure, quali fonti d’acqua, ombra, vegetazione, permeabilizzazioni e materiali adeguati, si ottengono sensibili riduzioni del calore nelle città. Sion si è pure sforzata in tema di biodiversità cercando soluzioni per conservare, proteggere, creare o ricreare il patrimonio arboreo, anche attraverso la scelta di specie che oggi meglio si adattano al clima del vallese. Per ampliare la sensibilizzazione sono stati organizzati incontri, mostre e interventi coinvolgendo gli studi d’architettura o d’ingegneria, ma anche i cittadini, le scuole e gli investitori privati. Iniziata come progetto pilota, la strategia (vincente) di Sion sarà prolungata a lungo termine grazie alla modifica degli strumenti di pianificazione territoriale, tra cui l’elaborazione di un complemento alla strategia di sviluppo,

l’adozione di linee guida politiche per la pianificazione degli spazi pubblici, l’introduzione di nuove disposizioni nei regolamenti edilizi nei piani di quartiere e nei piani di zona. Il progetto attuato a Berna ha invece sviluppato metodi e modelli per la gestione degli effettivi arborei nello spazio urbano, considerando i previsti cambiamenti delle condizioni climatiche. Grazie al fornito catasto degli alberi della città, Berna ha le basi per uno studio dell’impatto del mutamento climatico sulla vegetazione urbana, sulla quale per ora esistono pochi dati accertati. Il progetto ha voluto colmare la lacuna focalizzandosi sulla vulnerabilità delle piante situate in ambiente urbano, ma anche valutare l’apporto degli alberi all’adattamento climatico, in particolare la loro capacità d’assorbire il carbonio e d’influire, migliorandolo, sul microclima. Con l’analisi si è potuto constatare che già oggi la vitalità degli alberi

presenti nella città di Berna è precaria, fatto quasi sempre riconducibile all’ubicazione sfavorevole. Con l’aumento delle temperature, negli spazi urbani diventerà inoltre sempre più importante l’effetto di climatizzazione garantito dagli spazi verdi e dagli alberi. Elementi che, soprattutto nelle città, assicurano un migliore ricambio dell’aria e ombra garantendo della temperatura aerea e l’aumento dell’umidità relativa dell’aria, fattori importanti per la qualità di vita. Dal progetto è pure emerso come alcune delle specie indebolite (ippocastano comune, tiglio estivo e acero montano) saranno ancor più messe a rischio dai cambiamenti climatici. Le specie potenzialmente adatte al futuro clima di Berna saranno pertanto il cerro, l’acero dei Tartari, l’acero opalo o il carpino orientale, specie originarie della Croazia continentale, dove clima è oggi paragonabile a quello atteso per la regione di Berna nel 2080.


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Ambiente e Benessere

La «Bella Lugano» sotto il sole mediorientale

Reportage Tra portici e palme: in Israele è stata appena costruita una replica del centro della Città ticinese

Jonas Marti, testo e fotografie «Fammi vedere come è fatta la vera Lugano». Amos è al lavoro tra i calcinacci di un negozio non ancora finito, trapano in mano, un ragazzo stretto nella sua canottiera impolverata di intonaco. Sa che esiste una città come la sua da qualche parte in Europa, ma non l’ha mai vista. Quando sullo schermo del telefonino vede l’immagine di Piazza della Riforma scoppia a ridere. «Non ci credo, la vostra città è uguale alla nostra!» L’hanno chiamata Bella. Bella Lugano. Qui a Yehud, nei sonnolenti sobborghi fuori Tel Aviv, potrebbe davvero sembrare di essere sulle rive del Ceresio se non fosse per il torrido sole mediorientale e le abbaglianti bandierine israeliane appese ai balconi. Ci sono i portici, come a Lugano. Ci sono i lampioni in stile liberty, come quelli del lungolago. Ci sono le aiuole fiorite, annaffiate senza sosta nel pomeriggio infuocato. E certo le immancabili palme. C’è la pavimentazione in regolari lastre di pietra. C’è «La Piazza», come è stato chiamato il grande spazio centrale. E poi, sotto l’ombra dei portici, ci sono le grandi vetrate, proprio come quelle dei negozi in Via Nassa. Mancano solo ancora due cose: una spennellata di rosso alle panchine di legno e la costruzione della prevista fontana molto simile a quella di Piazza Rezzonico. Poi, davvero: il miracolo della duplicazione sarà definitivamente compiuto. Bella Lugano è l’eccentrico sogno di un sindaco sopra le righe. Chiunque per strada è in grado di svelarne la storia: dieci anni fa, prima di essere eletto, Yossi Ben David lavorava nel settore della moda e compiva molti viaggi in Italia. Un giorno, per caso, gli capitò di visitare Lugano. Mai l’avesse fatto. Galeotto fu il breve soggiorno: rimase così affascinato dall’atmosfera e dall’architettura di Lugano, che decise, una volta sindaco, di costruirne una copia a casa sua, in Israele. «Sono un grande uomo che crede in grandi cose», disse allora con umiltà in un’intervista. Tranne poi, una volta iniziati i lavori (e nel solco di una consolidata tradizione mediterranea a cui non sfugge nemmeno lo Stato ebraico) essere arrestato e condannato per aver favorito nell’appalto imprenditori a lui vicini. Dopo un cantiere terminato due anni in ritardo, oggi Bella Lugano è quasi conclusa. Per chi vuole «vivere in Israele, ma sentirsi in Europa», come recita lo slogan, è meglio affrettarsi: la maggior parte degli appartamenti è stata già venduta, liberi ne rimangono ancora pochi. Il prezzo è quello da alto standing. Un due locali e mezzo costa un milione e mezzo di shekel israeliani, poco più di 400mila franchi. Un tre locali e mezzo arriva fino a due milioni e mezzo di shekel, 690mila franchi.

I portici.

I negozi in costruzione.

L’ufficio immobiliare, una piccola casetta rossa proprio accanto ai palazzi porticati, è sommerso di carte. «Conosci qualche ebreo a Lugano che vuole acquistarne uno?» domanda l’agente immobiliare Benjamin, seduto su un divano di pelle color crema davanti a una gigantografia colorata del progetto. Gli dico che sono lontani i tempi gloriosi della comunità ebraica di Lugano, oggi se ne sono andati quasi tutti. Ma prometto di far girare comunque la voce. Fuori nel cielo, a cadenze regolari, il rombo degli aerei diretti al vicinissimo aeroporto internazionale Ben Gurion. Sui balconi le tracce degli inquilini: bandierine, panni stesi e ombrelloni. Eppure, sotto i portici attorno alla «Piazza», i negozi sono quasi tutti sfitti e vuoti – un’altra somiglianza che qualche maligno potrebbe trovare con Lugano. Molti non sono nemmeno finiti e sono presidiati da sacchi di sabbia e carriole arrugginite. Le strade nel luminoso pomeriggio, col caldo vento che soffia, sono quasi deserte. E invece le promesse erano altre: boutique raffinate, alta moda, ristoranti italiani. Attirare turisti, artisti e amanti della dolce vita. Tutto in un ambiente elegante e mediterraneo. «Faremo qualcosa che non è mai stato fatto altrove in Israele. Sarà un centro turistico, un centro ricreativo, ci saranno piazze con caffè e

bei negozi. Sarà un luogo pieno di vita», diceva ancora l’ex sindaco Yossi Ben David in un’altra intervista. Invece, fino ad oggi, solo due spazi sono stati affittati. In fondo alla piazza c’è un chiosco che vende bibite, gelati e giornali. Il proprietario è seduto su un improvvisato sgabello proprio fuori dal negozio, sventola un ventaglio e si lamenta della desolazione. Dal lato opposto della piazza c’è invece una lavanderia gestita da una coppia di ebrei georgiani. Oltre la vetrina tirata a lucido, all’interno, l’aria condizionata va al massimo, come se non ci fosse un

La Piazza.

L’interno dell’Ufficio immobiliare.

domani. «È vero, il quartiere è ancora vuoto, ma la speranza è l’ultima a morire. Aspettiamo ancora un po’ e poi vedrai, tutto andrà bene», dice il marito Daviti, parlando un poco inglese e un poco russo. Bella Lugano ha sempre suscitato curiosità e sentimenti contrastanti nei media israeliani. Le definizioni sono molte, e colorite. «Una fantasia immobiliare post-moderna», «un progetto degno di Erode», «un’impresa mai compiuta finora in Israele», ma anche «un esempio di scarsa disciplina architettonica» e «pura speculazione edili-

zia». Il progetto iniziale, poi modificato con il grande sollievo di molti abitanti, non conosceva compromessi. Per fare spazio ai nuovi palazzi si sarebbe dovuta sventrare completamente la strada principale della cittadina, Hatuka Saadia, e demolire tutti i 57 piccoli negozi che si affacciano sul corso. I commercianti avrebbero dovuto abbandonare i propri spazi, e in cambio avrebbero ricevuto un indennizzo. Da una parte c’erano i partigiani dei bulldozer: per attirare nuovi concittadini e turisti, dicevano, il rinnovamento del fatiscente centro, «simile a Gaza», era necessario. Dall’altra c’era invece chi si opponeva con forza al progetto, perché non voleva perdere la propria attività e temeva che altrove avrebbe finito per pagare di più l’affitto. Ma non è tutto. Come spesso accade in Israele, dove il passato è una presenza costante e talvolta scomoda, era scoppiata anche una polemica legata al conflitto israelo-palestinese. In un duro articolo, il quotidiano progressista «Haaretz» aveva definito il progetto di rinnovamento urbanistico di Bella Lugano «un tentativo di cancellare il passato arabo della cittadina». Prima della nascita di Israele, Yehud si chiamava infatti Al-Yehudiya ed era un villaggio arabo. Poi, nel 1948 durante la guerra di indipendenza israeliana, gli arabi furono scacciati o fuggirono, e al loro posto arrivarono ebrei, soprattutto dalla Polonia e dalla Turchia. Oggi del passato palestinese, proprio accanto ai palazzi di Bella Lugano, rimane solo una moschea diroccata. Intanto Amos è ancora nel negozio a trafficare con trapano e cacciavite. Manca poco per finire i lavori, solo il rivestimento del pavimento. Poi qui aprirà un negozio di frutta e verdura. Sotto i portici si crea un capannello di curiosi. «Sei venuto apposta per vedere Bella Lugano? Direttamente dall’Italia?» No, fermi tutti: Lugano è in Svizzera. Cala un silenzio di incredulità e stupore, c’è chi scuote la testa, e chi invece se la gratta con sguardo scettico. «In Svizzera? Davvero Lugano non è in Italia?»


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Ambiente e Benessere

Obiettivi sempre più ambiziosi Intervista Claudio Broggini, direttore generale dell’Azienda cantonale dei rifiuti, fa il punto della situazione

a quasi un decennio dalla costruzione del termovalorizzatore di Giubiasco

Il termovalorizzatore per lo smaltimento dei rifiuti di Giubiasco. (Keystone)

Nicola Mazzi La costruzione ideata dall’architetto Livio Vacchini e situata sul territorio di Giubiasco (ora Bellinzona), è tra le più imponenti nel Ticino ed è ben visibile anche per chi passa dall’autostrada. Il termovalorizzatore per lo smaltimento dei rifiuti è stato fortemente voluto dalla politica e soprattutto dall’allora consigliere di Stato Marco Borradori per risparmiare sui costi e per una questione legata alla gestione autonoma del problema. A quasi nove anni dalla sua messa in esercizio abbiamo voluto tirare le somme. Lo abbiamo fatto con il direttore generale dell’Azienda cantonale dei rifiuti Claudio Broggini.

All’epoca l’impianto costò 330 milioni di franchi. Quali sono state le conseguenze per le casse del Cantone e dei Comuni?

C’è stato un risparmio effettivo. Prima della costruzione dell’impianto, per i Comuni la tariffa di smaltimento dei rifiuti era di 280 franchi la tonnellata. Oggi il costo è di 170 franchi la tonnellata (–40%) e il risparmio per gli Enti locali è di circa 10 milioni l’anno. Inoltre l’Azienda cantonale dei rifiuti versa al Cantone due milioni di franchi l’anno per la pianificazione cantonale

Sono passati quasi nove anni dall’accensione del termovalorizzatore (Ictr). Che tipo di bilancio si può tirare?

Credo che il bilancio possa essere considerato positivo. Abbiamo un impianto affidabile e performante sia sotto il profilo tecnologico che da quello ambientale. Il calore sviluppato dalla combustione dei rifiuti ci permette inoltre di fornire energia elettrica paragonabile al fabbisogno di circa 23mila famiglie e scaldare l’acqua per la rete di teleriscaldamento del Bellinzonese. Anche dal punto di vista finanziario la situazione è soddisfacente. Questi anni ci hanno permesso di crescere come azienda e i certificati ottenuti legati alla qualità, alla sicurezza e all’ambiente lo dimostrano. Rammento infine che l’impianto ha creato una quarantina di nuovi posti di lavoro permettendo a queste persone di formarsi in un settore che prima non esisteva in Ticino. Che impatto ha avuto sulle abitudini dei cittadini?

Penso positivo. È vero che prima i rifiuti venivano trasportati oltre San Gottardo e quindi i cittadini non vedevano con i propri occhi in che modo venivano smaltiti. Con l’impianto di Giubiasco la situazione è cambiata e oggi tutti possono toccare con mano come il loro sacco dei rifiuti viene valorizzato. Le numerose visite che organizziamo per le scuole, ma non solo, dimostrano che esiste un buon interesse nel capire come funziona l’impianto. Se all’inizio c’era un po’ di scetticismo verso la struttura, ora sembra sia compresa quale elemento indispensabile per una corretta gestione integrata dei rifiuti .

esempio: per l’ossido di azoto il limite da non superare secondo l’Ordinanza federale è di 80 mg/mc, secondo la licenza edilizia è 30 mg/mc mentre l’emissione media dell’impianto di Giubiasco è di 10 mg/mc. Per quanto riguarda le nanoparticelle posso dire che nel 2016 l’Ufficio federale aveva dato incarico all’istituto di analisi Empa di approfondire le emissioni di polveri fini (incluse le nanoparticelle). Dalle verifiche fatte è emerso che le concentrazioni prodotte sono molto basse a dimostrazione dell’efficacia del trattamento dei fumi a quattro stadi, in particolare quello del filtro a maniche. Ricordo inoltre il rapporto del 2013 della Spaas sulle misure delle emissioni in atmosfera dell’Ictr, dal quale risulta che il contributo dell’impianto alle emissioni totali annuali in Ticino siano da considerarsi molto piccole (ossidi di azoto) o addirittura infinitesimali (polveri, sostanze organiche).

Tra le altre criticità emerse c’è anche quella legata ai cattivi odori che si sentono, ogni tanto, anche passando sulla A2. A che cosa sono dovuti?

Claudio Broggini, direttore generale dell’Azienda C. dei rifiuti. (Keystone)

dello smaltimento dei rifiuti. Tra gli effetti positivi ricordo la quarantina di impieghi creati, la formazione di apprendisti, così come l’energia prodotta dal termovalorizzatore che viene utilizzata sul nostro territorio.

In questi anni sono emerse alcune criticità. In particolare l’associazione Okkio (l’Osservatorio per la gestione ecosostenibile dei rifiuti), aveva posto dei dubbi sulle emissioni di nano particelle. In che modo eseguite i controlli?

Per quanto riguarda le emissioni in atmosfera abbiamo una stazione di misurazione attiva 24 ore su 24 in cui vengono registrare le emissioni di sette inquinanti, un impegno che va oltre quanto richiesto dall’Ordinanza federale contro l’inquinamento atmosferico. Queste sono poi trasmesse in modo automatico alla Sezione dell’aria, dell’acqua e del suolo del Dipartimento del territorio (Spaas) e sono pure consultabili sul sito del Cantone. Le emissioni registrate sono ben al di sotto dei limiti di legge e di quelli – più severi – fissati dalla licenza edilizia. Faccio un

Non riteniamo di essere responsabili di questi cattivi odori. Mi spiego. Queste puzze sono presenti da circa un paio d’anni, soprattutto la notte e in alcuni momenti dell’anno. Nei primi anni di vita dell’impianto non abbiamo mai constatato particolari problemi nella zona e visto che non ci sono stati, da parte nostra, cambiamenti di gestione o mutamenti dei materiali in entrata, siamo convinti – dopo aver evidentemente effettuato tutte le verifiche necessarie – che non provengano dal nostro impianto. Ricordiamo che i rifiuti consegnati all’Ictr vengono stoccati in una fossa stagna, che è mantenuta in depressione forzata. Per evitare proprio la fuoriuscita di eventuali odori, l’aria presente nella fossa viene aspirata e utilizzata quale aria comburente nel processo di termovalorizzazione. È possibile che nella zona alcune attività o alcuni processi siano cambiati; da parte nostra abbiamo prontamente segnalato il problema agli uffici preposti del Dipartimento del territorio, che – per quanto di nostra conoscenza – procederanno a monitorare la situazione. Un altro aspetto che alcuni hanno evidenziato è quello legato al riciclaggio. C’è chi dice che con il termovalorizzatore il cittadino è meno

attento a quello che butta nel sacco dei rifiuti. Che cosa risponde?

Non credo che il cittadino abituato a riciclare abbia cambiato abitudini con l’arrivo dell’impianto. Le statistiche internazionali, inoltre, dati alla mano, evidenziano come gli Stati con un numero più elevato di termovalorizzatori hanno un tasso di riciclaggio maggiore rispetto agli altri. I numeri sembrano quindi contraddire questa critica e anche dalla mia esperienza non mi è sembrato di percepire un cambiamento in negativo, anzi. Da parte nostra, dedichiamo parecchie energie – attraverso un servizio composto da tre persone – alla sensibilizzazione in favore della gestione integrata dei rifiuti, un programma che pone l’accento sulla prevenzione, il riciclaggio e il corretto smaltimento dei rifiuti. Un altro tema è quello del teleriscaldamento. Grazie all’energia prodotta dall’impianto, e attraverso la Teris (società che gestisce il teleriscaldamento), l’impianto permette di offrire energia a diverse abitazioni e aziende nel Bellinzonese. Come si è sviluppato il progetto e oggi quali sono i risultati raggiunti?

All’inizio del progetto dell’Ictr il teleriscaldamento non era previsto, anche se l’impianto era stato predisposto per l’eventuale bisogno. Prima di costruire l’impianto di Giubiasco era infatti stata realizzata un’inchiesta, ma l’interesse verso questo vettore energetico era risultato piuttosto scarso. Probabilmente all’epoca la sensibilità ambientale era meno forte e i prezzi dell’olio combustibile erano bassi e quindi molto concorrenziali. Nel 2008 abbiamo percepito un mutato interesse per questo tipo di energia (il 50% della quantità di energia prodotta dai rifiuti è considerata come energia rinnovabile da biomassa) e, con Aet, abbiamo costituito la Teris SA, società che ha realizzato e gestisce la rete di teleriscaldamento nel Bellinzonese. Dopo una prima fase di rodaggio possiamo dire che anche questo progetto è stato un successo. La rete di teleriscaldamento oggi arriva fino ai centri commerciali di Sant’Antonino (Migros Ticino è collegata) a sud e a nord fino all’Ospedale San Giovanni; essa copre pure la zona amministrativa del Governo e quella nei paraggi della Banca dello Stato. La conclusione del progetto è prevista per il 2019. Detto in cifre la rete di teleriscaldamento ha

permesso, lo scorso anno, di immettere in rete energia termica corrispondente a circa 4,4 milioni di litri di olio combustibile; a regime, l’obiettivo è di superare i cinque milioni di litri, corrispondente al fabbisogno di circa 2500 famiglie.

Ma guardiamo avanti: con l’introduzione della tassa sul sacco cantonale – che entrerà in vigore al massimo entro fine giugno del 2019 – che cosa cambierà per voi? Prevedete un calo dei rifiuti da smaltire?

Il Consiglio di Stato, nel messaggio per l’introduzione della tassa sul sacco a livello cantonale, prevede un calo dei rifiuti comunali (circa 85mila tonnellate all’anno) del 15%. Anche negli altri Cantoni l’introduzione della tassa sul sacco ha portato a un calo dei rifiuti, ma d’altra parte è pure stato registrato un incremento del materiale separato trattato dalle imprese autorizzate. Va pure considerato che recentemente l’Ufficio federale dell’ambiente ha ritenuto che l’attuale situazione economica e il relativo consumo, così come la costante crescita della popolazione dovrebbero, anche in futuro, incidere sul quantitativo di rifiuti prodotti in misura maggiore rispetto alle attività di riciclaggio tese a ridurre i rifiuti; c’è quindi verosimilmente da aspettarsi, nel caso migliore, una stabilizzazione dei quantitativi dei rifiuti inviati alla termovalorizzazione, non però una marcata riduzione. Nei prossimi dieci anni quali saranno le sfide più importanti con le quali il termovalorizzatore sarà confrontato?

Sarà importante mantenere l’ottimo livello raggiunto in questo decennio. Non sarà facile anche perché la nuova legislazione federale pone obiettivi ambiziosi. Per esempio bisognerà estrarre e riciclare il fosforo contenuto nelle acque di scarico comunali, nei fanghi di depurazione e nelle ceneri risultanti dal trattamento termico di questi fanghi; ad oggi diversi procedimenti tecnici sono allo studio, ma nessuno si è finora imposto quale soluzione consolidata. Si sta inoltre pensando a un progetto nazionale per creare un impianto che estragga lo zinco dai fanghi idrossidi degli impianti di smaltimento. Continueremo inoltre nella sensibilizzazione; insegnare alle nuove generazioni il giusto comportamento nella gestione dei rifiuti resterà anche in futuro una delle sfide più importanti per noi.


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Ambiente e Benessere

Da piloti a utilizzatori Motori Grazie alla sempre più presente

intelligenza artificiale, le auto guadagnano in sicurezza ma perdono il fascino meccanico

Nelle foto: il prototipo EQA della Mercedes presentato a Hong Kong.

Quando si parla di Intelligenza Artificiale vengono subito in mente i film di Steven Spielberg. È infatti del 2001 il suo film A.I. (Artificial Intelligence). Basato su un progetto di Stanley Kubrick, raccontava la storia di un robot-bambino quasi umano ed è stato un successo con incassi al botteghino di ben 235,9 milioni di dollari. Oggi il concetto di Intelligenza Artificiale è sempre più abbinato al mondo delle auto. «Dall’A.I. al tè verde. Lezioni est-occidentali per l’inventore dell’auto» è il titolo di una sessione-dibattito che si è tenuta a Hong Kong in questi giorni e a cui ha partecipato Dieter Zeche, amministratore delegato di Daimler AG e responsabile di Mercedes-Benz Cars.

Svelata in anteprima mondiale allo scorso Salone di Francoforte, la Mercedes EQA ha un’autonomia di 400 km Il tutto si è svolto all’interno della conferenza Rise (https://riseconf.com) che ha visto tra il 9 e il 12 luglio 15mila partecipanti provenienti da oltre cento Paesi. Il numero uno di Mercedes ha spiegato in che modo l’intelligenza artificiale aiuti i fornitori a rispondere in modo più adeguato alle esigenze individuali del cliente. D’altronde nel mondo delle quattro ruote le differenze culturali che esistono tra i clienti europei, asiatici e americani si riflettono poi nei loro desideri. Se è vero che auto e tecnologia si legano in modo indissolubile, è altrettanto vero che l’auto sta perdendo un po’ del suo fascino meccanico per diventare un oggetto molto più simile a uno smartphone. Dotata di Intelligenza Artificiale

è in grado di assecondare in sicurezza le richieste dell’utilizzatore, sì, utilizzatore e non pilota, perché in futuro la guida sarà un optional. «Abbiamo consapevolmente scelto Rise come forum internazionale – spiega Jörg Howe, responsabile Global Communications di Daimler AG – perché ci offre l’opportunità di dialogare con la comunità tech, sia personalmente all’evento sia nei social network». A Hong Kong, Daimler ha portato l’avveniristico prototipo EQA. Circolando nei giorni del forum per le strade della città orientale ha lasciato tutti a bocca aperta. Questo concept mostra una delle visioni del futuro della mobilità elettrica secondo Mercedes. Digitalizzata, connessa e ovviamente a emissioni zero. Svelata in anteprima mondiale allo scorso Salone di Francoforte, la Mercedes EQA adotta due motori elettrici, uno per assale, per una potenza sistema di 272 cavalli e una coppia massima di 500 newtonmetro. L’autonomia? Fino a 400 chilometri grazie a batterie agli ioni di litio di ultima generazione. Ma quello che stupisce di più è che in soli dieci minuti di ricarica, anche wireless, recupera energia sufficiente a percorrere cento chilometri. Mercedes procede spedita nella corsa al progresso a quattro ruote. Il Costruttore tedesco ha creato un apposito brand, si chiama EQ, per identificare i suoi mezzi più innovativi. «Guardando verso il futuro, l’intelligenza artificiale è una questione centrale per noi. Questo vale per tutti i settori del business: sviluppo, produzione e uso dei veicoli, servizi di mobilità e comunicazione», spiega Howe. L’intelligenza artificiale e la digitalizzazione aprono nuove opportunità a Daimler in tutti i campi della strategia C.A.S.E.». Ovvero Connessa, Autonoma, Condivisa ed Elettrica: l’auto di un futuro non molto lontano.

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Mario Alberto Cucchi


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Ambiente e Benessere

Le origini del vigneto spagnolo

Scelto per voi

Bacco giramondo La nazione principale della Penisola iberica vanta la più grande superficie

vitata al mondo, contando un milione e mezzo di ettari destinati alle vigne, eppure… Davide Comoli Quando si parla del vigneto spagnolo saltano subito all’occhio due dati: 1,5 milioni di ettari vitati, che fanno della Spagna la più grande superficie vitata al mondo, e (a secondo delle annate) 3540 milioni di ettolitri di vino prodotti. Con ciò, occupa il terzo rango mondiale. La domanda viene spontanea: come mai il più grande Paese vinicolo a livello di superficie figura dietro all’Italia e alla Francia (a dipendenza) come produzione? Contrariamente all’idea che abbiamo acquisito che nulla è più semplice del produrre vino in un luogo caldo e con tanto sole, la realtà è sovente molto diversa. Il clima secco in alcune regioni, infatti, impedisce un impianto elevato di ceppi di vite; e dall’altro lato, sui pianori alti che dominano il centro della Spagna, le giovani vigne subiscono molti danni con le gelate primaverili. Come se non bastasse: i vitigni autoctoni spagnoli sono molto sensibili proprio ai due fattori sopraelencati. Non c’è quindi da stupirsi se nonostante la sua vasta superficie vitivinicola, la Spagna ha un basso rendimento produttivo. Tenuto conto che più un ceppo fatica a sopravvivere, più darà buoni frutti di alta qualità, i viticoltori spagnoli tra gli anni 1980-1990 hanno ristrutturato e modernizzato sia il modo di coltivare la vite, sia i macchinari di cantina. Tra il 1987 e il 1999 nacquero più di 25 nuove zone DO (Denominación de Origen). Furono salvati numerosi vitigni autoctoni che erano stati quasi completamente dimenticati e nuove tecniche di vinificazione permisero di ottenere vini di alta qualità. Oggi, come approfondiremo in seguito, il paesaggio viticolo spagnolo è notevolmente cambiato: sul mercato troviamo una

stupefacente quantità di ottimi vini, prodotti con stili diversi e un impressionante numero di vitigni. Ma quando s’incominciò a coltivare la vigna nella Penisola Iberica? I più antichi abitanti conosciuti della Penisola Iberica provenivano probabilmente dal Nord Africa; tribù di nomadi (circa 3000 a.C.), che s’insediarono presso il fiume Ebro (da qui il nome Iberici). Queste tribù (circa 4 secoli a.C.) s’incrociarono con le popolazioni celtiche provenienti dal nord che già conoscevano l’arte di vinificare. I navigatori Fenici s’insediarono al sud fondando la città di Gadir (Cadice). Verso l’anno 1000 a.C. fu fondata, sempre dai Fenici, la cittadina di Xera (Jerez) e lì sulle colline circostanti piantarono i primi vigneti, dove grazie al clima caldo cominciarono a produrre vini dolci che ben presto furono noti in tutto il bacino del Mediterraneo. Greci, Celti, Cartaginesi e poi in seguito i Romani, furono per molti secoli gli ospiti non invitati di questo vasto territorio. Quando i Romani conquistarono la Penisola iberica e le die-

dero il nome di Hispania, la viticoltura era già molto fiorente e venne in seguito ulteriormente diffusa dai Cristiani gotici occidentali, sino al 711 d.C., quando la penisola cadde in mano ai Mori, la cui presenza durò fino al 1492. Dal punto di vista culturale, economico e sociale, questo periodo storico fu, oseremmo dire, una benedizione per la Spagna. I Mori furono sovrani tolleranti; anche se la viticoltura passò in secondo piano, ciò non impedì che alcuni califfi ed emiri possedessero vigneti in proprio. La vite tornò a prosperare dopo che il Paese fu conquistato (la Reconquista) dai Cristiani. Nel XVI sec. la viticoltura spagnola conobbe tempi gloriosi grazie agli Inglesi che fecero conoscere i vini di Jerez e Malaga. La distruzione dei vigneti francesi, verso la fine del 1800 a causa della filossera, portò poi all’emigrazione di molti vignaioli francesi che si stabilirono nella Navarra, ma soprattutto nella Rioja, portando con sé varietà di uva come il Merlot e il Cabernet Sauvignon. L’uso delle botti di rovere francese, oggi segno distintivo di que-

La celebre Rioja vista da una finestra del Museo del vino di Briones. (Juantigues)

sta regione, rappresentano il retaggio di queste influenze. Risparmiata dalla Prima guerra mondiale, la Spagna ebbe a soffrire per la Guerra civile che colpì duramente la viticoltura, alla quale fece seguito il turbolento periodo della Seconda guerra mondiale. Negli anni Cinquanta la viticoltura del Paese sembrò stabilizzarsi pur se con vini economici e di massa. Dal 1990 grazie alla qualità dei suoi vini, la Spagna ha ripreso il suo profilo di grande produttore. Nel 1991 le prime DO (Denominación de Origen) si sono allineate alle direttive europee e nello stesso anno la Rioja divenne la prima Denominación de Origen Calificada (DOCa), menzione riservata alle zone di altissimo prestigio e tradizione, ottenuta nel 2000 anche dal Priorat (Priorato). La vite viene coltivata soprattutto con il sistema ad «alberello», in particolare nelle zone più assolate, ma troviamo il «guyot» e il «cordone speronato» nelle zone dove si punta sulla qualità. Il vitigno bianco più coltivato è l’Airén che da solo occupa un quarto della superficie vitata, seguono il Tempranillo, la Garnacha che è il vitigno rosso più coltivato al mondo, il Bobal e il Monastrell, tutti a bacca rossa. Il vitigno simbolo della Spagna è il Tempranillo, che assume nomi diversi come: Tinta del Pais nel Duero, Cencibel nella Mancha e Ull de llebre in Catalogna. Tra i vitigni a bacca rossa sono molto diffusi anche: il Merlot, il Cabernet Sauvignon e il Syrah. Discreti i vini bianchi, anche se alle volte il clima arido penalizza i vitigni a bacca bianca; qui, si ottengono dal Verdejo e dall’Albariño, il Macabeo, chiamato anche Viura, e il Parellada. Dal Palomino, dal Moscatel e dal Pedro Ximénez si ottengono ottimi vini da dessert, di cui avremo modo di parlare.

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2017, Pays d’Oc IGP, Francia, 6 x 75 cl

2017, Puglia, Italia, 6 x 75 cl

Tofu ecc., verdure, antipasti, tapas, ratatouille

Carne rossa, verdure, pasta, ratatouille, cibi indiani

Grenache, Cinsault

Primitivo, Negroamaro

1–3 anni

2–5 anni

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24.90 invece di 37.20 4.15 a bottiglia invece di 6.20

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Casal Garcia Branco Vinho Verde DOC, Portogallo, 75 cl

Rating della clientela: Pesce d’acqua salata, tapas, tortilla, moules et frites, cibi orientali Arinto, Trajadura, Loureiro, Azal 1–2 anni

40%

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Enoteca Vinarte, Migros Locarno

Orari d’apertura: lun.–ven. 8.00–18.30 /


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino t 16 luglio 2018 t N. 29

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Ambiente e Benessere

L’abbacchio, ieri e oggi Un lettore chiede cosa esattamente vuole dire abbacchio, un termine, dice, che ha visto utilizzato in modi diversi. Ha perfettamente ragione! Perché abbacchio, ieri (cioè fino a qualche decennio fa) aveva un significato, oggi ne ha uno diverso.

Oggi con abbacchio si intende un agnello da latte che ha poco più di un mese di vita ma che mangia già erbe e altro Ieri, nell’area romana, con questo termine si indicava un agnello non da latte – ovvero che aveva già incominciato a brucare l’erba – il quale veniva considerato migliore proprio per questo fatto. Quindi una specie di agnellone, comunque meno caro dell’agnello da latte, che veniva snobbato, quindi alla portata – non tutti i giorni ma ogni tanto – dei più poveri. Era in fondo per questo motivo che l’abbacchio veniva considerato cibo vile da non presentare sulle mense dei Signori e le ricette (gustosissime) per prepararlo hanno sempre quell’impronta popolare di cibo rustico, non degno di figurare né nelle tavole importanti né nei trattati gastronomici. Oggi, invece, con abbacchio si intende un agnello da latte che ha poco più di un mese di vita e fino a 7 chili di peso (media 4-6 kg), peso raggiunto a volte (o spesso) forzando lo sviluppo dell’animale, ciò che in gran sintesi vuol dire nutrendolo con erbe e mangimi. Quindi comunque giovane ma non da latte, forse un po’ meno tenero ma di sicuro un po’ più saporito. E comunque adatto a tutte le tavole, anche a quelle «ricche» e di conseguenza… presente nei trattati gastronomici. Ecco alcune ricette. Straclassiche. Abbacchio alla cacciatora. Ingredienti per quattro persone. Tagliate

1 kg di coscia di abbacchio in pezzi di circa 4 cm. In una casseruola fate rosolare 1 spicchio d’aglio mondato e leggermente schiacciato in un filo d’olio con 1 ciuffo di salvia e 1 rametto di rosmarino. Eliminate gli aromi e fate rosolare i pezzi di abbacchio per 5 minuti. Sfumate con 1 bicchierino di aceto di vino rosso bollente e lasciate cuocere a fuoco basso per circa 40 minuti, coperto, unendo poca acqua bollente se asciugasse troppo (ma attenzione: a cottura ultimata il fondo deve risultare ben concentrato). A fine cottura insaporite con un’abbondante punta di pasta di acciughe stemperata in poca acqua. Regolate di sale e di pepe. Abbacchio arrosto. Per 6. Salate e pepate mezzo abbacchio (circa 1,5 kg). Mettete in una teglia 1 filo d’olio, 2 spicchi d’aglio mondati e leggermente schiacciati e qualche rametto di rosmarino e insaporite di sale e pepe. Adagiate l’abbacchio e cuocete per circa 40 minuti in forno a 170° girando la carne di tanto in tanto in modo che si arrostisca da ogni parte. Negli ultimi 10 minuti portate la temperatura del forno a 200°. Accompagnate con patate arrostite. Abbacchio brodettato. Per 4. In una casseruola fate rosolare 1 kg di abbacchio, tagliato in pezzi di circa 4 cm di lato, in 1 filo d’olio con 40 g di prosciutto tritato e insaporite di sale e pepe. Unite poi 1 bicchiere di vino bianco sobbollito per 3 minuti, fatelo evaporare e aggiungete 1 bicchiere d’acqua bollente e 4 cucchiai di soffritto di cipolla. Cuocete lentamente per circa 40 minuti bagnando con qualche cucchiaiata d’acqua bollente se asciugasse troppo. In una scodella sbattete leggermente 2 tuorli d’uovo con il succo di 1 limone, aggiungeteci 1 cucchiaio di prezzemolo tritato e 1 pizzico di maggiorana. Quando l’abbacchio sarà cotto, il fondo di cottura dovrà essere sufficientemente fluido, unite il composto di uova e fatelo rapprendere, mescolando con una forchetta, a fuoco bassissimo fino a ottenere una crema. Servite subito.

CSF (come si fa)

André Engels

Allan Bay

Tommaso Passi

Gastronomia Un agnello da piatto per tavole povere trasformato in portata degna dei Signori

E per concludere con l’abbacchio, ecco come si fanno le due ricette con abbacchio che più amo. Coratella di abbacchio con carciofi. Col termine coratella di agnello si intendono il polmone, il cuore, il fegato e, a volte ma non sempre, le budelline dell’agnello: quindi i tagli che una volta costavano di meno, per cui ultra popolari; e si cucina generalmente coi carciofi. Si conoscono ricette romane – ma

non solo per l’uso della coratella – fin dal Medioevo. Ingredienti per 6. Mondate 6 carciofi, meglio se romani, e tagliateli a spicchi immergendoli in acqua acidulata con succo di limone. Scolateli, asciugateli e fateli rosolare in una casseruola con 1 filo d’olio per 2 minuti, poi stufateli a fuoco basso con 1 mestolo di brodo. Pulite 2 coratelle di abbacchio, lavate accuratamente cuore, polmone e fegato poi tagliateli a fettine. Fate rosolare le fettine di polmone in una casseruola con un filo d’olio per 5 minuti. Sfumatele con mezzo bicchiere di vino bianco sobbollito per 3 minuti. Aggiungete le fettine di cuore, mescolate e appena il cuore è scottato all’esterno unite anche il fegato e rosolatelo per 2 minuti. Aggiungete infine i carciofi con il fondo di cottura e 4 cucchiai di soffritto di

cipolla e lasciate cuocere ancora per 3 minuti. Regolate di sale e di pepe. Servite spruzzando con il succo filtrato di mezzo limone e cospargendo con una manciata di prezzemolo tritato. Scottadito di abbacchio. Per 4. Ungete 800 g di costolette di abbacchio con 1 filo d’olio, pepatele, cospargetele con 1 presa di dragoncello e mettetele su una griglia ben calda, possibilmente su brace di legna, o in un grill. Cuocetele per non più di 2 minuti per lato, poi fatele riposare per 3 minuti in forno a 70°. Dovranno risultare ben dorate. Salatele e servitele subito bollenti, da cui il termine. Variante. Con la stessa procedura si possono preparare anche le costolette d’agnello o fette di coscia d’agnello, ma di certo resteranno cotte «al sangue», una cottura che non a tutti piace.

Ballando coi gusti Oggi due saporiti piatti, da condividere con devoti amici. Vanno benissimo anche uno dopo l’altro.

Ragoût di carne e mele

Frittatona di baccalà

Ingredienti per 4 persone: 800 g di spalla di vitello · 600 g di mele · 1 scalogno · 1

Ingredienti per 4 persone: 6 uova · 200 g di baccalà bagnato e mondato · 4 as-

bustina di zafferano in polvere · 1 cucchiaino di cannella in polvere · farina · brodo di vitello o vegetale · olio di oliva · sale e pepe. Tagliate la carne a pezzi da 100 g l’uno e metteteli in una casseruola; insaporiteli con poca farina setacciata, lo scalogno tritato, sale e pepe, coprite a filo di brodo e portate a ebollizione. Fate cuocere per circa 1 ora e 20’, a fuoco basso, finché la carne non sarà tenera, schiumando ogni tanto e aggiungendo, se necessario, acqua bollente. Poi levate la carne e tenetela in caldo. Lavate le mele, eliminate il torsolo e tagliatele a pezzi. Mettetele nel brodo di cottura della carne e fatele cuocere finché non saranno tenere, pochi minuti. Scolatele con una schiumarola e tenetele da parte. Fate ridurre il fondo di cottura unendo un paio di cucchiai di miele, lo zafferano e la cannella finché non raggiunga una consistenza densa. Aggiungete la carne e le mele, mescolate per 1’ e servite, regolando di sale se necessario.

paragi (anche decongelati) · olio di oliva · sale e pepe.

Cuocete il baccalà a vapore per 5’. Poi scolatelo e sminuzzatelo. Mondate gli asparagi eliminando la parte più dura del gambo; lavateli, sbollentate per 3’ i gambi e per 1’ le punte, quindi tagliate il tutto a rondelle. In una ciotola sbattete le uova con una forchetta, unite il baccalà e gli asparagi, salate e pepate. Scaldate 4 cucchiai di olio in una padella antiaderente, unite il composto di uova e lasciate cuocere la frittata a fuoco basso per pochi minuti, finché non inizierà a rapprendersi, quindi giratela con l’aiuto di un piatto e fatela cuocere sull’altro lato finché non sarà dorata. Servitela tagliata a fette oppure ridotta in grossi dadi.



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino t 16 luglio 2018 t N. 29

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Ambiente e Benessere

Fauna selvatica in salute Maria Grazia Buletti I rappresentanti di quattro Paesi hanno firmato a Salisburgo una dichiarazione comune che esplicita l’obiettivo di evitare il contagio di uomini e animali da reddito da parte dei cervi del territorio alpino ammalati di tubercolosi. Germania, Liechtenstein, Austria e Svizzera, con l’incontro avvenuto a marzo, hanno dimostrato la volontà di collaborare per la sorveglianza e la lotta contro questa malattia. «La Svizzera e il Principato del Liechtenstein non sono fino ad ora interessati dal fenomeno», esordisce l’Ufficio federale della sicurezza alimentare e veterinaria (Usav) che sottolinea altresì come nel territorio alpino la tubercolosi nella selvaggina rappresenti un pericolo per l’uomo e per gli animali: «Da anni, nel territorio alpino al confine tra Germania e Austria l’agente patogeno della malattia (Mycobacerium caprae) viene riscontrato nei cervi, con casi isolati di contagio negli effettivi di bovini». Sebbene, dicevamo, la nostra Nazione non sia direttamente interessata da questa epizoozia, i Servizi veterinari di questi quattro Paesi (compreso dunque il nostro) sono concordi sul fatto che il modo più efficace per limitare la tubercolosi nei cervi nello spazio alpino ed evitarne la diffusione sia attuare misure coordinate. Prevenzione, questa, che in Svizzera è adottata come consuetudine alla preservazione della salute della fauna selvatica e, di conseguenza, degli animali da reddito e da compagnia come pure dell’essere umano per quanto attiene alle malattie trasmissibili, come puntualizza l’Usav: «In Svizzera la salute della fauna selvatica viene sorvegliata

mediante un programma condotto su vasta scala. È compito dei cacciatori e dei guardiacaccia osservare lo stato di salute della fauna selvatica e notificare le anomalie». Dato che le epizoozie sono infatti malattie che possono trasmettersi tra animali selvatici e da reddito, un monitoraggio sanitario della fauna selvatica è doppiamente utile: «Sorvegliando lo stato di salute degli animali selvatici e riconoscendo in modo precoce le malattie, si può proteggere non solo la salute della fauna selvatica, ma indirettamente anche quella degli animali da reddito svizzeri». Il programma di riconoscimento precoce su vasta scala delle malattie negli animali selvatici è parte del monitoraggio sanitario corrente, il cui scopo è sorvegliare ed esaminare in tutta la Svizzera diverse specie di animali selvatici (mammiferi, uccelli e anfibi) per individuare eventuali malattie ed epizoozie. Come accennato, un ruolo chiave è svolto dai cacciatori e dai guardiacaccia: «Secondo l’ordinanza sulle epizoozie (che sancisce obbligo di notifica ai sensi dell’art. 61), essi sono tenuti a rivolgersi a un veterinario ufficiale in caso di anomalie o sospetto che un animale sia malato». Una regolamentazione, questa, finalizzata al riconoscimento precoce e alla messa in atto di conseguenti misure efficaci ad arginare e a eliminare l’eventuale malattia, onde evitarne la propagazione e il contagio. Con questo scopo di collaborazione a ventaglio, l’Usav eroga alcune informazioni tecniche per i cacciatori e i guardiacaccia, nelle quali indica in primis che molte alterazioni osservate a occhio nudo sul corpo di animali non possono esse-

Giochi Cruciverba Avete dimenticato la pentola sul fuoco ed ora è tutta bruciata ed incrostata? Niente paura basterà far bollire al suo interno… Scopri cosa, leggendo a cruciverba risolto, le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 5, 5, 1, 11)

Pxhere

Mondoanimale Quattro Paesi alpini, Svizzera compresa, affrontano insieme il rischio di contagio della tubercolosi

re ricondotte in modo univoco a una malattia e richiedono quindi l’accertamento preciso da parte di un laboratorio di analisi. Dunque: «Con il monitoraggio sanitario della fauna selvatica si mira a garantire che la selvaggina in cui si evidenziano anomalie sia esaminata e in seguito valutata dagli esperti del Centro per la medicina dei pesci e degli animali selvatici (Fiwi) della Facoltà Vetsuisse dell’Università di Berna. A

quel punto, se nel laboratorio si dovesse accertare un sospetto di epizoozia, saranno informati i competenti Uffici veterinari e dei cacciatori, i quali adotteranno misure consone alla situazione puntuale. Per questo, l’Usav indica agli interessati il sito del Fiwi sul quale si possono consultare i dati di contatto e una guida per l’invio dei campioni. Fiwi che, nel fornire consulenza, ricorda: «L’analisi degli animali selvatici che

vivono in libertà è gratuita per coloro che inviano i campioni, e i costi sono assunti dalla Confederazione». I programmi specifici sulle epizoozie sono dunque molteplici e, grazie alla raccolta dei dati si documentano i cambiamenti («Frequenza, diffusione, specie dell’ospite, caratteristiche») derivanti dalla comparsa delle malattie e delle epizoozie. In base ai risultati delle analisi sugli animali selvatici svizzeri o alla stima della situazione nei Paesi confinanti, l’Usav si riserva di effettuare ulteriori accertamenti e di avviare programmi di riconoscimento precoce e sorveglianza specifici, come sta succedendo con l’adesione con gli altri tre paesi alpini nel monitoraggio della tubercolosi di cervi. Un monitoraggio sanitario, quello della fauna selvatica, che viene svolto in collaborazione con l’Ufficio federale dell’ambiente (Ufam) e per l’appunto con il Fiwi. Nello specifico, a muovere la collaborazione svizzera è stata la rilevazione in Austria occidentale degli scorsi anni di diversi casi di tubercolosi nei cervi: «Per riconoscere precocemente un’introduzione in Svizzera e per adottare le dovute misure, dal giugno 2014 è stato avviato in un territorio definito della Svizzera orientale e del Lichtenstein un programma specifico sulla tubercolosi per la fauna selvatica». Dunque: «Da un lato si sorvegliano tutti gli animali selvatici in funzione dei rischi (ndr: selvaggina morta o proveniente da abbattimenti selettivi di cervi, camosci, stambecchi, caprioli, cinghiali e tassi), dall’altro si esaminano i cervi sani mediante controlli a campione per poter individuare eventuali stadi precoci di tubercolosi».

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 1

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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ORIZZONTALI 1. Le separa la «b» 3. Domanda per gioco... 7. Canzoni medievali francesi 9. Le nonne di una volta 10. Stato dell’America del Sud 12. L’ideatore di Striscia la notizia (iniz.) 13. Vano, inutile 15. Le iniziali di Respighi 16. La capitale con il Castello Rosso 22. Simbolo chimico dell’itterbio 24. Desinenza di diminutivo 25. 99 romani 26. Ti... seguono in cantina 28. Le iniziali del ballerino Bolle 30. Sono grassi per natura 32. Raccolte di canti religiosi

35. Celebre moschea di Gerusalemme 37. La teneva unita il cowboy 38. Prefisso che vuol dire orecchio VERTICALI 1. Ruminanti nordici 2. Il secondo uomo 4. È sempre in mezzo ai guai 5. La nota Zanicchi 6. Davanti all’uscio 8. Il nome della Blasi 11. Preposizione francese 14. Le iniziali di Torricelli 17. Prefisso replicativo 18. È in capo al mondo... 19. Pronome personale 20. Cadde al primo volo 21. Infatti latino 23. Il famoso Pitt

27. Termine da ricette mediche 29. Nei fumetti esprime freddo e paura 31. Posto in basso 33. Sigla di paternità ignota 34. L’ultimo re Umberto d’Italia 36. Le iniziali della cantante Tatangelo

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

Partecipazione online: inserire la

Soluzione della settimana precedente

TRA COMPAGNI DI BANCO – «Gli astucci sono pericolosi» «E perché?» Risposta risultante: «MOLTI CI LASCIANO LE PENNE».

I vincitori Vincitori del concorso Cruciverba su «Azione 27», del 02.07.2018 T. Dazzi, M. Bravo, R. Marazzi

Vincitori del concorso Sudoku su «Azione 27», del 02.07.2018 A. Morinini, S. Lovato

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non

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è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Il nome dei vincitori sarà pubblicato su «Azione». Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Politica e Economia Ue-GB, avanti piano La May sceglie la via della soft Brexit per immaginare un’uscita dalla Ue meno drastica pagina 22

Trumpismo alla Nato «Ho vinto, ho stravinto». Questo è il bilancio che Donald Trump ha tracciato del «suo» vertice Nato, così se lo è raffigurato lui e lo ha raccontato anche se le versioni degli altri partecipanti non concordano affatto. Ma questo vertice verrà soprattutto ricordato per l’attacco durissimo alla Germania

Kim e la bomba Perché è così difficile per Pyongyang abbandonare la via del disarmo nucleare

Investitori più protetti Le Camere votano la revisione delle leggi che tutelano i clienti degli operatori finanziari

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Macron prima del suo discorso davanti al Congresso a Versailles. (AFP)

Macron, la Vie non è più en rose

Francia A un anno dall’elezione precipita la fiducia e l’indice di gradimento dei francesi e dei media per il presidente Lucio Caracciolo È passato poco più di un anno dal suo avvento all’Eliseo, ma già Emmanuel Macron sembra aver imboccato una parabola discendente. Solo un francese su tre gli conferma fiducia. I media che fino a qualche mese fa lo coccolavano, proteggevano, spesso idealizzavano, prendono le loro distanze critiche. Le opposizioni, per quanto fragili e incapaci di costruire anche solo la prospettiva di un’alternativa che impedisca a Macron di essere rieletto fra meno di quattro anni, lo mettono sotto tiro di sbarramento. Per diverse ragioni ma soprattutto per la sua alterigia neobonapartista che lo spinse, tempo fa, a paragonarsi a Giove. Nel suo stesso partito/movimento – La France en Marche – si alzano frequenti voci dubbiose o apertamente critiche, specie per quanto riguarda le politiche sociali ed economiche del presidente, considerate troppo liberiste e antisociali da molti suoi sostenitori. Anche per questo lo scorso lunedì 9 luglio il presidente della Repubblica Francese ha voluto inscenare uno

di quei colpi di teatro che tanto lo attraggono: ha convocato a Versailles il Congresso – ovvero le due Camere riunite in seduta comune – al quale ha inflitto un discorso di un’ora e mezza. Senza possibilità di replica, anche se ha promesso che dall’anno prossimo (la convocazione del Congresso è prevista a cadenza annuale, a imitazione del discorso sullo Stato dell’Unione tenuto dal presidente degli Stati Uniti d’America) sarà possibile per i parlamentari interloquire, argomentare, dibattere. Tanto per dare un senso a un’istituzione, quella parlamentare, che già costituzionalmente vale poco e che Macron ha ulteriormente ridotto nel suo status, facendone mera cassa di risonanza dell’Eliseo. E colpendo, insieme, il rango del primo ministro, di norma il primo interlocutore del Parlamento. Macron ama decidere da solo, al massimo avendo ascoltato qualche raro consigliere ammesso a corte. Di qui le accuse di «deriva monarchica» che mettono alla berlina il suo autocompiaciuto stile regale. E di qui lo sforzo, non spontaneo, di modestia,

compiuto il 9 luglio, affermando: «C’è una cosa che ogni presidente della Repubblica sa: sa di non poter tutto, sa che non riuscirà in tutto, e io ve lo confermo, so che non posso tutto, so che non mi riesce tutto». Salvo insistere: «Ogni presidente della Repubblica conosce il dubbio e io non faccio eccezione alla regola». E quanto alle accuse di neoliberismo spinto, Macron assicura di «non essere il presidente dei ricchi», di «non amare le caste, né le rendite, né i privilegiati». Le facilitazioni fiscali alle imprese avrebbero un fondo sociale, sarebbero insomma orientate ad attrarre gli investimenti stranieri e a ridurre la disoccupazione. Fatto è che la Francia cresce poco e la disoccupazione non diminuisce. Macron si era presentato alla Francia, all’Europa e al mondo al suono dell’Inno alla Gioia, risuonato nello spiazzo maestoso del Louvre al momento della sua intronizzazione. Per precisare di essere un «sovranista europeista». Ossimoro magico, che ciascuno ha interpretato a suo modo. In particolare gli europeisti, o presunti tali, ne hanno tratto la convinzione che

Macron avrebbe rilanciato il cosiddetto processo di integrazione. Nulla di tutto ciò. Il processo di disintegrazione continua, anzi si accelera, con sempre più paesi convinti che la difesa dei propri immediati interessi nazionali prevalga sulla ricerca del compromesso con gli altrui, come prevedrebbe la regola d’oro dell’Unione Europea. Soprattutto, Macron non può contare, come aveva sperato, sulla sponda tedesca. La crisi di autorità di Angela Merkel, le divergenze interne alla sua maggioranza e al suo partito specie quanto alle politiche migratorie, l’incapacità del cosiddetto «motore franco-tedesco» di allestire un pur vago piano a medio termine di riforma delle istituzioni e delle regole comunitarie, specie dentro l’Eurozona – tutto contribuisce ad addensare cupe nuvole all’orizzonte del Vecchio Continente. Macron è certamente persona intelligente, energica e astuta, ma ha forse letto troppa letteratura francese. A tratti sembra incarnarne gli eroi, come Julien Sorel. Spesso conferma un detto stendahliano: «La parola è stata data all’uomo per celare il suo pensiero» (Il

Rosso e il Nero). Altre volte filosofeggia, ricordando i suoi antichi studi al riguardo. Meno spesso rievoca i recenti tempi da banchiere. Insomma, Macron è un personaggio interessante, che forse un giorno darà luogo a una serie televisiva: «Il giovane presidente», sul modello del «giovane papa» di Paolo Sorrentino. Ma di essere un buon presidente della Repubblica, questo lo deve ancora dimostrare. Certo, dopo le maniere istrioniche di Nicolas Sarkozy o il commovente anonimato di François Hollande, che pure di Macron è stato il mentore, salvo esserne tradito e dimenticato, il presidente in carica ha almeno la capacità di attrarre l’attenzione, talvolta l’ammirazione, di chi crede nel ruolo della personalità nella storia. Ma il presidente non è un attore di cinema o di teatro. Deve dimostrare efficacia e costanza. Deve produrre risultati, soprattutto sul fronte economico e sociale. Macron ha ancora tre anni di tempo per farlo, prima di lanciarsi nella nuova campagna elettorale. Sempre che dal grigio panorama politico francese emerga uno sfidante degno di questo nome.


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Politica e Economia

Avanti con una Soft Brexit

Piano May La premier britannica resiste proponendo la formula di un semi divorzio con un’area di libero scambio

Cristina Marconi Anche in uno scontro al rallentatore prima o poi l’impatto avviene. Nelle lungaggini estenuanti della Brexit, ad avere inaugurato l’inevitabile clima da resa dei conti sono state le doppie dimissioni del ministro responsabile del dossier, David Davis, e di quello degli Esteri, Boris Johnson, a pochi giorni dalla presentazione della proposta che la premier Theresa May (foto) ha finalmente messo a punto per il futuro del Regno Unito nella Ue. Una proposta «soft» che prevede una zona di libero scambio per i prodotti agricoli e quelli manifatturieri, con regole comuni con l’Unione europea, ma anche la possibilità di stringere accordi commerciali con altri paesi, mantenendo il settore dei servizi al di fuori del mercato unico. Difficile che Bruxelles conceda a Londra condizioni tanto favorevoli, anche se non si può non vedere di buon occhio la decisione della May di passare a più miti consigli e immaginare un’uscita dalla Ue meno drastica e dannosa per l’economia. Una linea che però non è stata per nulla apprezzata da alcuni esponenti del fronte euroscettico i quali, senza avere una proposta articolata da contrapporre a quella dei Chequers, la residenza di campagna in cui si è svolta la presentazione, hanno comunque deciso di boicottare quella della premier.

Le dimissioni di due euroscettici eccellenti come Davis e Johnson sono ora un problema in meno per la May «Il sogno della Brexit è morto, affogato tra insicurezze inutili», ha spiegato Boris Johnson nella sua durissima lettera di dimissioni prima di ritirarsi in un silenzio che chissà quanto durerà (conoscendolo, pochissimo). La May lo ha sostituito con il fedelissimo Jeremy Hunt, ex ministro per la Salute, e ha messo l’euroscettico Dominic Raab al posto di Davis in modo da preservare quell’equilibrio che fa sì che un governo spaccato possa effettivamente rappresentare un Paese spaccato. In mancanza di alternative valide alla leadership funambolica della Lady di Gomma, che fino ad ora ha resistito a sette dimissioni di ministri e a una serie impressionante di sciagure politiche, per ora di sfide non ce ne dovrebbero essere, anche perché non esiste una maggioranza, né in Parlamento né tra i cittadini, a favore della «hard Brexit». Anche gente come Michael Gove, ministro dell’Ambiente brexiter ma anche fine stratega, o Jacob Rees-Mogg, uno degli uomini-immagine dell’eurofobia, hanno espresso il loro sostegno alla May, mentre l’ex ministro degli Esteri e leader Tory William Hague ha detto che i «romantici» hanno ambizioni

che non «sono di utilizzo pratico per il Paese» e li ha esortati a farsi da parte. Ma gli euroscettici non staranno con le mani in mano e, senza passare a soluzioni troppo drastiche in grado di aprire al laburista Jeremy Corbyn la strada di Downing Street, promettono di dare battaglia, o meglio «guerriglia»: nei ranghi dei Tories sono iniziate delle dimissioni di profilo più basso ma comunque dannose e continueranno, pare, fino a quando la May non cambierà idea sul tipo di Brexit da perseguire, visto che quella da lei delineata non rispetterebbe lo spirito del voto del 23 giugno 2016. Purtroppo per gli euroscettici il sogno di continuare a navigare nelle vaghe acque di una Brexit indefinita va immancabilmente a sbattere sulle coste della verde Irlanda, isola dove da una parte c’è una Repubblica ben decisa a restare nella Ue e dall’altra un Ulster che fa parte del Regno Unito e che vuole che le vengano applicate esattamente le stesse regole che nel resto del paese. La maggioranza parlamentare della May dipende anche dal sostegno esterno degli unionisti nordirlandesi, motivo per cui la questione è importante a tutti i livelli. Se uscire dalla Ue significherà uscire anche dall’Unione doganale, considerando che l’equilibrio attuale regge sull’assenza di un confine fisico tra le due parti dell’isola, dove si metteranno le frontiere? Al dilemma la May ha cercato di dare una risposta immaginando una zona senza frontiere e con regole comuni solo per le merci materiali, altri negano che il problema stesso esista, anche se le tensioni continuano ad esistere e la pace sarebbe tutt’altro che scontata se venisse reintrodotta una barriera fisica. Aspetti, questi, su cui un ministro degli Esteri dovrebbe avere una sensibilità particolare. Ma le dimissioni di Johnson hanno concluso un’esperienza non particolarmente positiva al Foreign Office. L’ex sindaco di Londra, che avrebbe dovuto usare il suo charme e i suoi contatti per vendere in tutto il mondo l’immagine di una Global Britain di successo, ha in realtà inanellato una serie di gaffes sia internazionali che, recentemente, nel Regno Unito, come quando ha risposto alle perplessità espresse dalle aziende sul rischio di un «no deal» al termine del negoziato sulla Brexit con un sintetico «f**k business», come se l’economia e il mantenimento dei posti di lavoro non fossero tra gli argomenti più importanti per il futuro del Paese. Di questo si è accorto anche Corbyn che, da euroscettico di sinistra in chiave anticapitalista qual è, non può comunque fare a meno di tenere presente che i sindacati che lo sostengono e la sua stessa base, riunita nell’organizzazione Momentum, iniziano a pensare che ci voglia una posizione un po’ più netta da parte del partito sulla Brexit. La corbynmania ha resistito per tre anni, ma per sopravvivere ha bisogno di nuova energia, che può venire solo da

AFP

tra Regno Unito e Ue che assomiglia al mercato unico. Unica chance, forse, di portare a termine il negoziato

una lotta per la questione politica più importante che il paese deve affrontare e che riguarda soprattutto i giovani, la stragrande maggioranza dei quali vota laburista. L’Unione europea è kryptonite politica per i politici britannici e lo era anche prima del referendum. Se da una parte dà la volata ai populisti grazie al suo appeal identitario e appassionato, base ideale per discorsi e slogan efficacissimi (basti pensare a Nigel Farage, ex leader Ukip dalla dialettica affilata, e alla sua incredibile ascesa degli ultimi anni prima di sparire subito dopo il voto del 2016) ma letteralmente tossica quando occorre includerla in un processo decisionale e regolamentare che, dopo 40 anni, è indistricabile da quello nazionale. Per questo Boris Johnson ha deciso di andarsene: per cercare di preservare quel capitale politico di uomo

che non scende a compromessi e che sa interpretare la volontà della gente senza mischiarsi con i tecnocrati. La May, paradossalmente, ha una vita molto più facile ora che lui è andato via, anche se il presidente statunitense Donald Trump ha espresso nei confronti dell’ex ministro biondo parole affettuose e cinguettanti, alludendo alla possibilità di incontrarlo durante la sua visita di Londra. Uno sgarbo non da poco nei confronti dell’inquilina di Downing Street. La Brexit si sta trasformando in una parabola da cui tutti gli euroscettici d’Europa possono trarre qualche insegnamento, a partire dal fatto che gli eccessi di retorica prima o poi portano comunque a dover prendere decisioni concrete e difficili. Per due anni il Regno Unito ha fatto finta che dopo il voto non fosse successo nulla e ef-

fettivamente non è cambiato molto, a parte il fatto che un’economia florida e crescente si vada contraendo e che gli investimenti che fioccavano nel Paese si siano arrestati. La società è spaccata, i due principali partiti sono spaccati e l’idea di un secondo referendum sull’esito finale dei negoziati con Bruxelles – «People’s vote», il «Voto del popolo», dice la campagna – piace ai giovani e alla sinistra, ma terrorizza tutti coloro che pensano che si tratterebbe di un ennesimo salto nel buio. È possibile che a un certo punto, vista l’instabilità politica, ci siano delle elezioni, e questo forse rappresenterebbe la maniera più legittima per correggere una situazione surreale e potenzialmente catastrofica che però è resa meno vistosa dal fatto che tutta Europa sembra essere in uno stato simile, se non addirittura più grave. Annuncio pubblicitario


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Politica e Economia

Il «suo» vertice Nato

Trump a Bruxelles Il presidente americano ignora i valori comuni

dell’Occidente e trasforma l’Alleanza in una partita contabile

Kim e la bomba, un distacco difficile Disarmo Quali sono le ragioni per le quali

è difficile credere alla rinuncia all’armamento nucleare da parte di Kim?

Federico Rampini Ho vinto, ho stravinto. Questo è il bilancio che Donald Trump ha tracciato del «suo» vertice Nato. Il «suo» vertice nel senso che così se lo è raffigurato lui e lo ha raccontato. Le versioni degli altri partecipanti non concordano affatto. Il presidente degli Stati Uniti è certo di avere incassato dei sostanziali aumenti nelle spese militari dei paesi alleati, addirittura fino al 4% dei rispettivi Pil cioè un raddoppio degli impegni precedenti (peraltro disattesi dalla maggioranza). Trump sbandiera questo magnifico risultato che lo distinguerebbe dai suoi predecessori, incapaci di ottenere alcunché. Né Angela Merkel né Emmanuel Macron né Giuseppe Conte hanno confermato questa versione dei fatti, anzi l’hanno smentita in modo più o meno esplicito. Lo stesso segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha ribadito che l’impegno di spesa per la difesa comune punta a un traguardo del 2% del Pil, cioè quello che fu preso dagli alleati nel 2014 quando era presidente Barack Obama. Ma che importa? Il film che ho visto in scena a Bruxelles mi ha ricordato quello che avevo seguito un mese prima a Singapore. Anche là Trump si era gloriato per aver persuaso Kim Jong-un a denuclearizzare. Nulla nelle parole del dittatore nordcoreano confermava lo smantellamento unilaterale dell’arsenale atomico e missilistico; da allora sembra anzi che militari e scienziati di Pyongyang abbiano ripreso a lavorare sul programma nucleare (lo dice la Cia). Ma Trump fa finta di niente, proclamare vittoria e voltar pagina è una sua specialità. A prescindere dai fatti.

Trump a Bruxelles solleva un problema legittimo: la dipendenza della Germania dalla Russia per il gas naturale Del vertice Nato resteranno comunque altri ricordi, per lo più inquietanti e forse perfino traumatizzanti per gli alleati europei. Germania in testa. Mai un presidente americano aveva attaccato così duramente un paese europeo, dalla fine della Seconda guerra mondiale. E come gli accade spesso, Trump usa verità scomode, maneggiandole come armi di distruzione. «La Germania – ha detto il presidente americano – è prigioniera della Russia. I tedeschi hanno chiuso le loro miniere di carbone, hanno rinunciato al nucleare, alla fine dipenderanno per il 60-70% dal gas

naturale russo. Pagano miliardi ai russi. Un ex cancelliere tedesco è il capo di quell’azienda del gas. Noi proteggiamo la Germania, proteggiamo la Francia, e loro vanno a costruire il gasdotto e riempiono di soldi la Russia». Sullo sfondo c’è anche l’altro contenzioso con Berlino: l’enorme attivo commerciale, che non accenna a ridursi, per il presidente americano è una ragione sufficiente a equiparare tranquillamente la Germania alla Cina. C’è del vero nel suo sfogo e alcuni di questi temi furono sollevati – con più cortesia – da Barack Obama. Il caso dell’ex cancelliere Gerhard Schroeder stipendiato dai russi come capo di una delle loro aziende energetiche, è un immane conflitto d’interessi e una macchia indelebile per una classe politica che pretende di dare lezioni di moralità al resto d’Europa. L’eccessiva dipendenza energetica dalla Russia è imprudente, ne sanno qualcosa polacchi e ucraini. Vivere in sicurezza sotto l’ombrello nucleare Usa e con 35’000 soldati americani contribuendo poco alle spese per la difesa, è irresponsabile. Infine – anche se qui la Nato non c’entra – lo stesso Obama accusava la Merkel per quegli attivi commerciali che sono il risultato di politiche mercantiliste, di un’austerity nefasta, con effetti depressivi sulla crescita degli altri paesi. Ma come si fa a convincere l’opinione pubblica europea – largamente ostile alle spese militari e afflitta da tagli al Welfare – che bisogna cambiare rotta? In molti paesi per salire al 2% del Pil di spese militari (non parliamo del 4%) ci vorrebbe uno sforzo di riarmo enorme per le finanze pubbliche e per i contribuenti. In nome di cosa? Un’alleanza come la Nato va sostenuta dimostrando ai popoli che è necessaria, vitale. Trump non fa mai alcun accenno ad una comunità di valori e di ideali. Né ha mai spiegato quali pericoli concreti provengono da un leader russo nazionalista, revanscista, in cerca di rivalse sull’Occidente. A parte i sospetti sul ruolo di Mosca nel favorire la sua elezione, è Trump ad avere incoraggiato l’espansionismo russo in Medio Oriente, dalla Siria all’Iran. Il risultato della sua retorica aggressiva verso gli europei potrebbe essere l’opposto di quello che desidera: un’accelerazione dello scivolamento a Est degli equilibri geopolitici, un «liberi tutti» che rende l’Europa ancora più divisa, debole e ricattabile. Chi lo descrive come isolato ci pensi bene. Dopo Bruxelles, le tappe di Londra e Helsinki servivano a correggere il tiro. In apparenza lo spettacolo che va in scena è «The Donald contro tutti», l’isolazionista furibondo che maltratta gli alleati europei, e viene accolto da manifestazioni di protesta. La

realtà è diversa e di giorno in giorno si colora di trumpismo. La geografia politica europea continua a scivolare nella direzione congeniale al presidente americano. Le tre tappe Bruxelles-LondraHelsinki disegnano una geografia molto particolare, simbolicamente illustrano un viaggio iniziato dal mondo a noi noto (l’Europa delle alleanze imperniate su Ue e Nato), poi spostatosi nella capitale di Brexit in piena ribellione degli ultrà anti-europei, per concludersi nell’incontro con il vero beneficiario di questa dissoluzione, cioè Vladimir Putin. Calpestando una tradizione americana che ebbe inizio con Franklin Roosevelt, ma fu onorata dal repubblicano Ronald Reagan, Trump ignora i valori comuni dell’Occidente e trasforma la Nato in una partita contabile. L’Uomo del Caos si gode lo spettacolo della turbolenza politica inglese: non ha mai apprezzato la moderazione di Theresa May. Ha un feeling invece per Boris Johnson, il suo allievo e ammiratore che esce sbattendo la porta dal governo di Sua Maestà, e invoca un hard-Brexit dirompente. Bisogna ricordare quel che disse Johnson un mese fa per attaccare lo stile di negoziato morbido della May con Bruxelles: «Ammiro sempre di più Trump. C’è del metodo nella sua follia. Immaginatevi come Trump condurebbe il negoziato Brexit. Andrebbe giù duro, romperebbe tutto, ci sarebbe ogni sorta di caos. Tutti gli darebbero del pazzo. Ma così otterrebbe qualcosa». Di giorno in giorno cresce la schiera dei politici europei che come Boris Johnson ammirano lo stile e la sostanza del trumpismo. Chi vuole trasformare il partito conservatore britannico in una forza estremista ha il percorso già tracciato, è la metamorfosi dei repubblicani Usa. Le cause e le radici sociali sono note, il voto Brexit fu il segnale premonitore dell’elezione di Trump, dietro il sovranismo in ascesa ci sono ceti sociali impoveriti dalla globalizzazione, impauriti dall’immigrazione, sulle due sponde dell’Atlantico. Alla base ci sono risentimenti legittimi. Ma lo sbocco geopolitico, con l’indebolimento dell’Ue e della Nato, è tutto a favore del Re di Russia. Guai a sottovalutare l’aria del tempo che soffia impetuosa. A casa sua, Trump nei sondaggi risale. Ha superato tra gli elettori americani il livello di popolarità che Macron riscuote tra i francesi (ormai solo il 38%). Quel 90% di repubblicani che si compattano attorno a lui, sono felici della versione che Trump racconta dei suoi viaggi all’estero: Veni, Vidi, Vici. I dettagli su quel che accade veramente sono irrilevanti, la realtà è ormai un optional.

Beniamino Natale Erano le 7.30 di una mattina di primavera. Dalla finestra dell’albergo nel quale avevo passato la notte, a Wonsan, sulla costa orientale della Corea del Nord, si vedeva una spiaggia larga, lunga e pulita. Il mare era verde e limpido. Due bambini si rincorrevano ridendo. Quest’immagine paradisiaca – della quale ho potuto godere grazie alla Cooperazione italiana, che aveva un programma di aiuti agli ospedali materno-infantili della provincia di Wonsan – si dissolse presto, appena scesi per la colazione. Nella hall dell’albergo c’era un enorme televisore. Era acceso e trasmetteva a tutto volume gli spot di propaganda del governo di Pyongyang, che formano gran parte del palinsesto della tv nordcoreana. Grossi marines americani o piccoli giapponesi con la faccia cattiva che uccidevano i coraggiosi e generosi ragazzi coreani a colpi di baionetta. Sommergibili esplodevano con grandi fiammate, cannoni sparavano i loro enormi proiettili, il sangue scorreva a fiumi. Quelle scene mi sono tornate in mente quando ho letto i resoconti contraddittori della recente missione a Pyongyang del segretario di Stato americano Mike Pompeo. Secondo Pompeo «passi in avanti» sarebbero stati fatti su «tutti i temi in discussione». I nordcoreani, invece, hanno accusato Pompeo di comportarsi «come un gangster» e gli Usa, in sostanza, di non voler rispettare gli impegni presi dal presidente Donald Trump durante il vertice di Singapore con il leader supremo di Pyongyang, Kim Jong-un. Potrebbe essere un «normale» momento difficile nelle trattative oppure l’inizio della fine della «luna di miele» di Singapore. La propaganda che sottolinea la forza e la violenza del nemico – gli americani e i giapponesi – è uno dei pilastri sui quali si regge il regime dei Kim (l’attuale leader è il terzo della dinastia, dopo il padre Kim Jong-il e il nonno Kim il-sung). Sono passati molti anni da quel mio viaggio in Corea del Nord (in tutto ho visitato il Paese tre volte, tra il 2004 e il 2010) ma da quello che leggo, sento e vedo non sembra che le cose siano cambiate molto. La propaganda ha un ritmo martellante, e non potrebbe essere altrimenti, dato che il suo scopo è quello di convincere la popolazione che la guerra con gli americani e i loro alleati, che in realtà è finita nel 1953, è ancora in corso. Cosa succederebbe se improvvisamente gli americani diventassero buoni? Da quale nemico dovrebbero proteggerli questi semidei benpasciuti e sorridenti in un Paese nel quale la lotta per la sopravvivenza quotidiana è dura e la denutrizione è la regola? Bisogna tenere presente che il secondo dei pilastri sui quali si regge il regime – il terzo è la repressione feroce di ogni dissenso – è la disinformazione della grandissima maggioranza della popolazione, che non ha alcun contatto con i mezzi di comunicazione del resto del mondo, compresa la vicina e alleata Cina. Altrimenti come possono credere che il loro Paese sia una specie di paradiso in terra, che i Kim siano delle divinità che li fanno vivere nel modo migliore possibile, quando nella realtà la Corea del Nord è più povera dei più poveri paesi africani? Se un giorno questi pilastri crolleranno – e crolleranno se davvero la Corea del Nord si aprirà al resto del mondo – la sorte della dinastia sarà segnata. Seguendo per alcuni anni i six par-

ty talks, le trattative tra le due Coree, gli Usa, la Cina, il Giappone e la Russia, che si sono svolte dal 2003 al 2007 a Pechino, ho appreso che i nordcoreani considerano la diplomazia una prosecuzione della guerra con altri mezzi, basata su trabocchetti e improvvisi voltafaccia. Queste sono alcune delle ragioni per le quali risulta difficile credere che la Corea del Nord della dinastia dei Kim possa rinunciare al suo armamento nucleare. Nessuno sa dire se Kim Jong-un abbia veramente intenzione di trovare un accordo che gli permetta di mantenere in vita almeno una parte del suo – peraltro trascurabile se paragonato a quello delle altre potenze nucleari – arsenale atomico. Vale la pena forse di ricordare che Trump non è il primo presidente americano ad aver l’idea di lanciare un processo di dialogo con la Corea del Nord – e che l’attuale presidente sudcoreano Moon Jae-in non è il primo a muoversi sulla strada della distensione, già percorsa senza successo dal suo predecessore Kim Dae-jung. Alla fine degli anni Novanta il presidente Bill Clinton intraprese la stessa strada; fu raggiunto un accordo per il disarmo (allora si parlava di missili, il nucleare non era ancora sul tappeto) chiamato «agreed framework», che in sostanza prevedeva una serie di passi dalle due parti sulle strade parallele del disarmo della Corea del Nord e degli aiuti economici forniti al Paese dalla comunità internazionale. L’«agreed framework» passò nel

Keystone

Il vertice Nato è stato preceduto da un incontro bilaterale fra Angela Merkel e Donald Trump. (AFP)

dimeticatoio quando il successore di Clinton, George W. Bush, e Kim Jongil si accusarono l’un l’altro di non aver rispettato gli accordi. L’altra ragione per la quale è difficile credere al disarmo nucleare di Pyongyang è che tutti i paesi che hanno violato il regime di non-proliferazione nucleare, per una ragione o per l’altra, l’hanno fatta franca: Israele, India e Pakistan sono oggi potenze nucleari a tutti gli effetti e nessuno più lo contesta. Hanno rinunciato alla loro bomba il Sud Africa e la Libia di Muammar Gheddafi – la cui fine non a caso viene citata dai nordcoreani quando vogliono spiegare perché non intendono seguire il suo esempio. Lo hanno fatto perché hanno valutato che per loro fosse un passo conveniente, cosa che non pare essere vera per il regime nordcoreano. Ultimo ma molto importante fattore da considerare, la Cina di Xi Jinping. Sicuramente Pechino ha tutto l’interesse ad avere a Pyongyang un regime «ragionevole» e non imprevedibile come quello dei Kim, ma con tutta probabilità preferirà sempre una Corea del Nord con armamento atomico ad una Corea unificata e alleata degli Usa con la quale confinerebbe in caso di un tracollo della dinastia nordcoreana.


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PUNTI


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Politica e Economia

Istituti finanziari: clienti più tutelati Finanza Approvate dalle Camere federali le leggi che completano le regole sui mercati finanziari,

con particolare riguardo alla protezione degli investitori: la legge sui servizi finanziari e quella sugli istituti finanziari Ignazio Bonoli Durante la recente sessione estiva, le Camere federali hanno approvato le due leggi che regolano il sistema finanziario svizzero, soprattutto dal punto di vista della protezione dei clienti degli operatori finanziari. Si tratta della Legge sui servizi finanziari e della Legge sugli istituti finanziari, le cui abbreviazioni sono state pure aggiornate in LSerFi e in LIsFi. Come già ricordato in un nostro precedente commento (vedi «Azione 51» del 18.12.17) la preparazione di queste due nuove leggi ha sollevato parecchie discussioni. Soprattutto da parte degli operatori dei mercati finanziari che temono una eccessiva burocratizzazione del loro lavoro, una forte concentrazione e la scomparsa di molti piccoli e medi uffici. Lo scopo delle nuove leggi è essenzialmente quello di creare condizioni di concorrenza uguali per tutti gli intermediari finanziari e migliorare la protezione dei clienti. Finora il diritto vigente in materia di servizi finanziari presentava parecchie lacune riguardo al comportamento e ai prodotti e servizi offerti. Non è stato però facile trovare regole che potessero reggere un settore composto da attori molto disparati. In realtà, il progetto iniziale del Consiglio federale ha subito parecchi ridimensionamenti già in sede di consultazione. Poi anche il Parlamento ha corretto alcune disposizioni di quello che all’inizio veniva definito dagli interessati un «mostro regolatorio». La

legge introduce però importanti novità, come ad esempio una migliore informazione del cliente, spiegazioni e documentazione esaurienti. Inoltre, i prestatori di servizi finanziari vengono obbligati a far capo a un ombudsman (mediatore) del settore. Viene inoltre codificato per le banche il diritto di retrocessione, quando ricevono bonifici da un fornitore e devono informare il cliente o trasferirgli l’ammontare percepito. I gestori indipendenti di patrimoni vengono inoltre sottoposti indirettamente alla FINMA, attraverso organismi di controllo. Dal canto suo il Parlamento ha reso il progetto di legge meno vincolante, per esempio rinunciando a facilitare le denunce da parte di clienti che si ritengono danneggiati. Inoltre è stata stralciata una clausola generale di accuratezza (Sorgfalt) nel miglior interesse del cliente. Questi doveri sono già previsti dal Codice delle obbligazioni, ma un loro specifico inserimento nella legge ha ampliato lo spazio di intervento della FINMA. Infine, ha anche evitato il rovesciamento dell’onere della prova in casi di informazioni errate attraverso prospetti di emissione o il nuovo foglio informativo di base previsto dalla legge. Così, mentre il settore finanziario ritiene accettabili le nuove leggi, la sinistra in Parlamento non le ha votate, commentando con il classico «la montagna ha partorito un topolino». Esperti del settore parlano di «bicchiere mezzo pieno», perché finalmente,

Il ministro delle finanze Maurer al Nazionale in giugno: benché con molti ritocchi, la legge è stata approvata. (Keystone)

pur con qualche lacuna, la protezione del cliente è chiaramente ancorata in una legge propria. Resta qualche dubbio sul fatto che le nuove leggi svizzere possano soddisfare le esigenze europee in materia. Un punto di contrasto potrebbe essere quello delle retrocessioni, che nell’UE sono vietate, mentre in Svizzera devono solo essere menzionate. Un altro potrebbe essere proprio la clausola generale di accuratezza per i prestatori di servizi finanziari. La lista delle differenze è piuttosto lunga, compresa l’esenzione da certi obblighi di chiari-

mento per i maggiori clienti (oltre i 2 milioni di franchi). Questo però non vuol ancora dire che le prescrizioni svizzere non siano assimilabili a quelle europee, dal momento che anche quelle dell’UE contengono formulazioni generiche e interpretabili. Anche questi aspetti rientrano nel vasto discorso in atto sull’accordo quadro da concludere con l’UE e dal quale dipende ormai l’avanzamento di parecchi «dossier». Dal canto suo la Svizzera è tuttora combattuta sulla salvaguardia delle proprie particolarità nazionali, da mettere a confronto con un mercato

europeo al quale è sempre più strettamente legata. Nel settore finanziario, con le due leggi appena approvate, la Svizzera ha fatto comunque un ulteriore passo verso l’organizzazione del mercato finanziario e la protezione dei suoi clienti. Con le due nuove leggi, che entreranno in vigore il 1. gennaio 2020, insieme alle relative ordinanze esecutive, si completa il quadro di sorveglianza dei mercati finanziari, che già dispone della legge sulla vigilanza, all’origine della FINMA, e della legge sull’infrastruttura finanziaria (v. «Azione 34» 21.8.17). Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Soccereconomics Il calcio, in Svizzera, non dà più respiro ai suoi appassionati. Non è ancora terminata la coppa del mondo che già ricomincia il campionato. E già sono ricominciate naturalmente le speculazioni di commentatori e tifosi sull’esito dello stesso. Il pubblico dei lettori dei giornali specializzati e delle rubriche sportive è interessato a sapere non solo quale squadra vincerà il campionato, ma anche quale retrocederà e quali squadre potranno accedere alle coppe europee della stagione successiva. Le previsioni della maggior parte dei commentatori si appoggiano su due tipi di evidenza. Il primo è rappresentato dalla prestazione degli ultimi campionati. Una squadra che, da anni, si trova nei primi ranghi della classifica continuerà a godere i favori del pronostico. Ma anche per le squadre del gruppetto di coda la previsione si ripete di anno in anno. Daniel Fieldsend,

un autore inglese, giustifica questo modo di fare le previsioni, per estrapolazione, affermando che esiste una gerarchia permanente delle squadre. Alla base di questa piramide troviamo le squadre che si dedicano a sviluppare talenti e si disputano la retrocessione. Lo strato successivo è formato da quelle squadre che raramente conoscono il successo, accedendo, magari ogni dieci anni o venti anni, a una finale di coppa. Viene poi lo strato delle squadre di media classifica che hanno sì speranze, ma non sono mai in grado di realizzarle (le eccezioni qui confermano la regola). I due ultimi strati sono formati dalle squadre candidate al titolo e dai superclub, ossia dalle squadre di fama internazionale. L’altro tipo di informazione introduce invece nella previsione un elemento più legato al caso. Si tratta degli acquisti e delle cessioni di giocatori. Facendo il bilancio degli stessi i

commentatori ci dicono se la squadra si sia, o meno, rafforzata e quindi se sia in grado di migliorare, o no, il risultato della stagione precedente. Queste sono le induzioni che si possono leggere e discutere di questi tempi. Per chi volesse andare oltre esistono però una quantità impressionante di siti internet, specializzati nell’analisi del calcio, che offrono una quantità ancora più impressionante di previsioni, deducendole da un volume enorme di dati e immagini raccolte nel recente passato. È il gigantesco tesoro di informazioni su cui oggi si basa l’analisi calcistica. Un settore particolare della stessa è rappresentato dalla soccereconomics (il termine è stato coniato dagli americani), ossia dal tentativo di estendere l’analisi economica al gioco del calcio. Per questi analisti il calcio è un’industria e la squadra di calcio un’unità di produzione alla quale occorre applica-

re i principi della conduzione aziendale razionale. Tutti noi sappiamo che il principio base è quello dell’efficienza, ossia quello di realizzare il risultato massimo possibile. In termini calcistici si tratta di ottenere, con una data dotazione di mezzi finanziari, il numero maggiore di punti durante la stagione. Per le squadre professioniste è facilmente dimostrabile che il rango che esse ottengono, nella classifica di fine stagione, dipende direttamente dal rango che esse occupano, a inizio stagione, nella classifica dei budget a disposizione delle squadre. Questa legge della soccereconomics vale però solamente su un periodo di più anni. Nella singola stagione, invece, può manifestarsi più di una sorpresa. Per esempio, nella stagione 2017/18 i primi due posti della classifica li hanno conquistati le due squadre con il maggior budget, ossia lo Young Boys e il Basilea.

Ma al terzo posto è venuto inserendosi il Lucerna, squadra che possiede uno dei budget più bassi. Tra gli ultimi della classifica, poi, troviamo il Sion che per budget dovrebbe figurare al terzo posto. Il Sion è una squadra inefficiente: ha speso molto realizzando pochi punti; il Lucerna è invece una squadra efficiente che ha speso poco e ha realizzato molti punti. In conclusione, i soldi possono aiutare a patto che si spendano in modo efficiente. Ma come fare per raggiungere l’efficienza nel campionato di calcio? La risposta a questa domanda la possono dare soprattutto le squadre che non dispongono che di un piccolo budget: i Thun, i Lugano e, soprattutto, i Lucerna di turno. Quel che è certo è che non basta ingaggiare l’allenatore di una squadra efficiente, come continua a fare per esempio il Sion, perché una squadra inefficiente migliori le sue prestazioni.

molto difficile rivincere un Mondiale. L’Europa ha parlato soprattutto con la voce di Francia e Inghilterra. La Russia si è presentata con il sole fresco di una Mosca mai stata così bella, dopo aver costruito centinaia di chilometri di marciapiedi in due anni, gallerie d’arte contemporanea che ospitano affollatissime mostre del graffitaro anticapitalista Banksy, rifatto lo stadio olimpico vigilato dalla statua di Lenin e dai marchi degli sponsor. La Nazionale russa è andata meglio del previsto. Il judoka Putin, che gioca a hockey ma fatica con il calcio, non si è sempre fatto vedere allo stadio; ma ha mandato segnali politici inequivocabili al mondo. Tra i momenti più emozionanti, le volte in cui è risuonato – cantato da tutto il pubblico, e da migliaia di giovani senza biglietto saliti sulle colline vista stadio – il meraviglioso inno russo, che è poi quello sovietico, commissionato da Stalin in piena guerra mondiale. Abbandonato dopo il crollo dell’Urss, lo reintrodusse Putin, dopo aver notato che all’Olimpiade di Sidney 2000 nessun atleta russo cantava l’inno nuo-

vo. Il testo fu affidato al poeta Sergej Vladimirovic Michalkov, lo stesso del 1944, che dimostrò versatilità: dove c’era «Lenin» mise «Dio» o «patria», dove c’era «comunismo» mise «fede». Del resto, come spiega Sergio Romano nel suo saggio su Putin, «la Russia si è sempre identificata con un’ideologia». Non si tiene insieme un impero, un Paese da undici fusi orari, un crogiolo di etnie senza una visione o un credo. Mosca è stata per secoli la «terza Roma», l’erede dei Cesari e di Bisanzio, la protettrice dell’ortodossia e dei popoli slavi. Poi, dopo il 1917, si è fatta apostolo di un altro culto messianico: il comunismo. Tra la Russia bianca e quella rossa, tra l’ortodossia religiosa e quella marxista, Putin ha scelto la prima: ha riaperto chiese e monasteri, si è fatto fotografare mentre venera le reliquie dei santi, ha ripristinato le onorificenze zariste. Ma non ha fatto nulla per contrariare i nostalgici di Stalin (esistono) e della gelida notte brezneviana. I germi del totalitarismo non passano come quelli del raffreddore, e la Russia ne è ancora intrisa.

L’apertura è un progetto che rischia di restare una velleità, se Putin non darà veri segni di cambiamento, se continuerà a far processare gli oppositori, se la società civile non si farà sentire con maggior forza. Ma sarebbe miope negare lo slancio dei russi verso l’Europa e il mondo globale. Per descriverlo restano valide le parole con cui Caadaev, lo scrittore che gli slavofili avevano fatto passare per pazzo, lasciò prima di morire nell’aprile 1856 a proposito delle riforme di Pietro il Grande: «Aprì la nostra intelligenza a tutto ciò che esiste, fra gli uomini, di idee grandi e belle; ci consegnò all’Occidente intero, quale i secoli lo avevano fatto; e ci diede come storia tutta la sua storia, come avvenire tutto il suo avvenire». Poi, dopo qualche giorno, la location passa in secondo piano; e il Mondiale conta soprattutto per il calcio. Però il clima fresco ha rigenerato campioni stanchi. E per un Messi e un Cristiano Ronaldo tornati a casa anzitempo, sono emersi talenti giovanissimi, tra cui lo splendido Mbappé: figlio orgoglioso della banlieue di Parigi.

youtube.com/watch?v=O8_jNDXT_ UM), provo a descrivere le brevi sequenze del filmato amatoriale. In un posteggio libero accanto a un’auto c’è un corvo che si sta cibando beccando una mezza michetta di pane. Nell’inquadratura si vede arrivare anche un topo che però non osa avvicinarsi troppo, tanto che alla fine ritorna indietro e scompare nel terreno erboso oltre il posteggio. A questo punto il corvo inizia il suo incredibile spettacolo: visto il topo sparire, rigira il panino, prende nel becco un pezzo di mollica e si incammina verso il punto dove il topo ha lasciato l’asfalto, deposita la mollica proprio sotto il cordolo del posteggio, si premura di nasconderla un po’ con delle foglie e poi ritorna sui suoi passi con fare impettito e riprende a beccare il panino rimasto. L’inquadratura del filmato si sposta ai bordi del posteggio, in tempo per mostrare che il regalo non è andato perso: uscito dal nascondiglio,

il topo è sceso dal cordolo, ha trovato la mollica e l’ha portata via. Non sono etologo e forse per questo avverto anche un po’ di sprovvedutezza a commentare ciò che i corvi mostrano di saper compiere. Sono però convinto che nel video citato (ripeto: a meno che qualche smentita non provi contraffazione) ci sia la prova di qualcosa che non riguarda soltanto il tasso di intelligenza dei corvi, ma si avvicina e in modo abbastanza sorprendente a ciò che noi umani siamo in grado di fare. Sto pensando alla decisione del corvo di non seguire ciò che suggerisce il rito del mangiare e della difesa del cibo per seguire un interesse diverso e evidentemente anche più forte di quello dettato dall’istinto. Ma soprattutto penso alla scelta di condividere il suo cibo; e non con un altro corvo o un altro volatile, ma con un mammifero: dopo aver visto che anche il topo voleva mangiare ed aveva rinunciato per paura, decide di riservargli un po’ di mollica e di

portarla vicino alla sua tana, oltretutto celandola sotto delle foglie. Negli stessi giorni su «la Repubblica» ho letto di una ricerca scientifica condotta in Nuova Zelanda con protagoniste delle cornacchie a cui è stato insegnato a scegliere fra tessere di carta di determinate dimensioni quelle adatte per ottenere da una scatola-distributore il rilascio di pezzetti di carne. Una volta appreso il meccanismo per cibarsi «pagando» con i foglietti esatti, dato che i ricercatori mettevano loro a disposizione solo dei fogli grandi, i corvi hanno iniziato, senza stimoli o insegnamenti, a strappare con il becco foglietti più piccoli a cui davano sagome adatte per far funzionare il loro distributore automatico di cibo. Duemilacinquecento anni dopo, la morale dei corvi di Esopo sopravvive: «A poco a poco si arriva a tutto». Noi evoluti, invece, preferiamo avere tutto in fretta. E crediamo che il condividere si fermi ai like dei contenuti digitali...

In&outlet di Aldo Cazzullo Mosca città aperta Sono Mondiali di calcio bellissimi, anche se non c’è l’Italia, anche se la Svizzera è uscita – immeritatamente – agli ottavi di finali. Sono bellissimi anche perché segnano l’apertura al mondo di un grande Paese, la Russia, a prescindere dal suo leader. Sono stato all’inaugurazione di Mosca, e mi ha colpito la sobrietà e l’intensità della cerimonia. L’orgoglio russo ha parlato con la musica di Ciajkovskij, l’Uccello di Fuoco di Stravinskij, la tradizione circense degli acrobati, e pure con le parole di Putin. Quattro anni fa i brasiliani fischiarono la presidenta Dilma; i russi hanno acclamato il loro capo, interrompendolo con un’ovazione, nonostante il discorso né breve né brillante: la fratellanza sportiva, «l’umanesimo del calcio», la Russia «aperta, ospitale, accogliente». Gli unici fischi venivano dal settore stampa. La tribuna d’onore sembrava un vertice di partiti fratelli dell’Unione Sovietica, più che una vetrina del mondo libero. C’era il caro presidente azero Ilham Aliyev, che non è solo omonimo ma pure figlio di Heydar Aliyev, fonda-

tore della dinastia che tranne qualche deprecabile interruzione regna a Baku dal 1969. Accanto, il collega armeno Nikol Pashinyan, cui l’Azerbaigian contende il Nagorno-Karabakh. E il mitico Nursultan Nazarbaev, che ha preso il potere in Kazakhstan subito dopo il crollo del Muro e non l’ha più mollato; al suo confronto pareva un sincero democratico il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman, venuto a Mosca un po’ per tifare, un po’ per concordare con Putin il calo delle estrazioni di petrolio in modo da far ulteriormente aumentare i prezzi. Dall’Europa non è venuto quasi nessuno tranne Schroeder, ormai un famiglio. C’erano il caudillo rosso Maduro, che pure avrebbe avuto altro da fare, e il presidente del «libero» Parlamento nordcoreano Kim Yong-nam, molto inquadrato dalle telecamere; ignorati il kirgizo e il moldavo; l’abkhazo e l’osseto del Sud non li riconosce quasi nessuno. La Merkel aveva detto che sarebbe venuta a tifare Germania: non ne ha avuto l’occasione, a conferma che è

Zig-Zag di Ovidio Biffi Ballando con i corvi A me, e penso a tante persone, i corvi non sono particolarmente simpatici. Dove abitiamo, circondati da palazzi, ma con chiazze di verde che ospitano colonie di merli e passeri (i lavori di Alptransit nella galleria della trincea di Massagno ci hanno regalato anche alcuni pipistrelli che la sera danzano davanti al nostro balcone), vediamo i corvi guatare a lungo tutto e tutti, studiando picchiate in siepi e prati, o «passeggiate» nelle gronde dei tetti, contro nidi, uova, piccoli uccelli, prede ignote. Per dire: una volta, in due, hanno persino preso di mira il gatto di una villetta vicina. È questa loro rapacità ad allontanare la simpatia. Allo stesso tempo però riconosco loro un’intelligenza più elevata rispetto ad altri volatili o animali. Sinora derivavo la prova del loro elevato grado di cognizione da documentari in cui li si vede utilizzare delle pietre, prendendole nel becco e poi lasciandole cadere, per rompere gusci e contenitori che

resistevano anche ai loro forti becchi. E prima ancora dalla favola di Esopo, quella del corvo che, avendo sete, trova dell’acqua in fondo a una brocca, ma testa stretta e becco lungo non bastavano per raggiungerla. Allora il corvo inizia a inserire sassi nella brocca facendo salire il livello dell’acqua, sino a poter dissetarsi. Ma pare che anche i corvi evolvano e raggiungano ora livelli più elevati di intelligenza, sino a toccare inimmaginabili traguardi. È quanto deduco da un video, catturato da uno smartphone e mostrato dall’edizione online di un quotidiano tedesco. Memore dell’avvertimento di Mariarosa Mancuso («i deepfake, i video manipolati, non sono facili da sbugiardare»), ho subito voluto scacciare il dubbio della contraffazione cercando eventuali smentite su Youtube e su altri siti del web. Non ne ho trovate. Così, oltre a invitare gli interessati a guardare il video girato, pare, in Ungheria (www.



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Cultura e Spettacoli Ritroviamoci in strada! Mancano pochi giorni alla decima edizione dell’atteso Buskers Festival di Lugano

La riscoperta di Ernaux L’Orma editrice ripropone Una donna, opera della scrittrice francese Annie Ernaux pagina 31

Percorsi teatrali nuovi Si è appena conclusa la kermesse Territori, che propone storie teatrali in ambiti e spazi nuovi

Frauenfeld, tempio dell’hip hop È ancora una volta record: grazie anche alla presenza di Eminem, il più grande festival hip hop d’Europa ha registrato oltre 180’000 presenze pagina 35

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L’installazione artisticoscientifica presente a Palazzo Strozzi. (Keystone)

Un esperimento a Firenze

Riflessioni d’arte The Florence Experiment, a cura del neurobiologo vegetale Stefano Mancuso

e dell’artista Carsten Höller, pur avendo suscitato qualche perplessità, vale certamente una visita Ada Cattaneo Potrebbe sembrare uno scherzo, eppure nel cortile di Palazzo Strozzi – capolavoro di Benedetto da Maiano e fra i più significativi esempi di architettura rinascimentale – sono davvero stati installati due scivoli. Non sono piccoli, anzi sono enormi: misurano ciascuno circa cinquanta metri e si snodano – con il loro andamento spiraliforme – dal loggiato del secondo piano fino al pianterreno. Inoltre, se ne aveste desiderio, con un regolare biglietto ed un sacco di iuta, potreste iniziare la discesa lungo uno dei tubi, ospiti ingombranti di questa dimora cinquecentesca. E, in aggiunta a tutto questo, il gentile personale potrebbe anche chiedervi di portare con voi, nel tragitto, un vaso contenente una piantina di fagiolo. La descrizione iniziale farebbe pensare ad un eccentrico affronto al patrimonio storico artistico, ma in realtà si tratta di una situazione alquanto innocua, nell’ambito della mostra The Florence Experiment. Come esplicita il titolo, l’esposizione si connota come vero e proprio esperimento scientifico e, secondo un uso corrente, prende il nome dalla città in cui viene svolto per la prima volta. Sono in due ad aver-

lo concepito: il neurobiologo vegetale Stefano Mancuso e l’artista Carsten Höller. Per meglio inquadrare il contesto, cominciamo da quest’ultimo: tedesco d’origine, nato in Belgio nel 1961, oggi vive a Stoccolma; conclude il suo percorso di studi scientifici con un dottorato in scienze agricole, scrivendo sulle strategie comunicative degli insetti messe in atto tramite il senso dell’olfatto. Poi il suo percorso professionale subisce una svolta piuttosto brusca: abbandona il mondo accademico per intraprendere la carriera artistica. Non dimentica però le sue origini: si imporrà infatti come uno dei casi più celebri degli ultimi anni per la capacità di coniugare scienza e arte. (Questo connubio è stato utilizzato nella promozione della mostra per collegarla alle passioni coltivate in tal senso dalla famiglia De’ Medici, ma ciò pare davvero una forzatura.) Le opere di Höller di frequente occupano l’intero museo che le ospita: i suoi ambienti, spesso presentati nella veste di attrazioni da luna park, portano i visitatori a fare esperienze percettive distorte, grazie a un impiego stravagante, ma calibrato con grande precisione, di luci, odori, volumi e materiali. Di primo acchito si

tratta di oggetti giocosi e quasi superficiali che creano un contrasto con quanto è custodito all’interno di un museo. In realtà l’artista suggerisce una visione in grado di incrinare il nostro abitudinario approccio alla realtà delle cose. Celebri furono i grandi scivoli della Turbine Hall nella Tate Modern di Londra (2006), voluti da Höller in quanto «generatori di ebbrezza e felicità», come le giganti e sinistre amanite muscarie capovolte, negli spazi della Fondazione Prada di Milano nel 2000. Di Stefano Mancuso, l’altro ideatore della mostra fiorentina, «Azione» aveva scritto nel dicembre 2016, in seguito ad una sua conferenza a Lugano. Egli è il fondatore della disciplina oggi nota come Neurobiologia vegetale, che studia le piante nell’innovativa ottica di organismi intelligenti, in grado di comunicare, valutare le situazioni e reagire ad esse nella maniera più efficiente. Mancuso svolge inoltre un’intensa attività di divulgazione scientifica per sensibilizzare il pubblico sull’importanza dei vegetali, sulle sollecitazioni e i rischi che la modernità impone loro e sul dovere di tutelarli, anche per la sopravvivenza della specie umana. Non abbastanza di frequente, infatti, ci soffermiamo sul fatto che la nostra

esistenza è strettamente dipendente dalle piante, messe a repentaglio da un atteggiamento ecologicamente non sostenibile. Mancuso richiama la nostra attenzione su questi temi facendo spesso ricorso a collaborazioni in ambito artistico (musica teatro, letteratura) e l’evento fiorentino rientra proprio nell’ambito di questo impegno. Oltre che dal substrato scientifico, Höller e Mancuso sono quindi accomunati dal fatto di ricorrere a metodi inusuali per dimostrare le loro idee e per richiamare l’attenzione dei loro interlocutori sui temi affrontati, proprio come per The Florence Experiment. Nella sua accezione scientifica, esso ha come obiettivo di valutare l’effetto sulle piante delle molecole volatili rilasciate dai visitatori mentre scendono rapidi dagli scivoli della Strozzina. Le piantine che essi terranno in mano durante la discesa sono riconsegnate, all’arrivo, a biologi che le analizzano nei laboratori allestiti nei sotterranei dell’edificio. La mostra prosegue poi con altre due sale realizzate da Höller: nella prima sono proiettate scene tratte da film horror e nella seconda da film comici. L’aria di queste due stanze viene portata, tramite due distinte condotte di aerazione, alle piante di glicine

poste al di fuori di Palazzo Strozzi. I biologi ne valuteranno i parametri vitali, confrontando le diverse reazioni fra le piante che respirano aria dalla prima sala e dalla seconda. Si potrebbe discutere sulla scelta di costruire una cornice tanto appariscente per mettere in atto un’operazione con valenza scientifica. Oppure ci si potrebbe soffermare sul tema, tanto discusso, della separazione fra mostre e marketing. Ma, in definitiva, perché non si dovrebbe approfittare dell’entusiasmo e della curiosità dei visitatori per uno scopo diverso che il puro godimento estetico? La mostra ha valenza di intrattenimento, ma anche di attiva presa di consapevolezza. Più che la mostra d’arte contemporanea in sé, più che l’esperimento scientifico, la chiave di lettura sembra invece essere quella di richiamare attenzione sulla dignità del mondo vegetale. Se questa interpretazione è valida, si guarda con meno severità alle attrazioni che per qualche mese interferiscono con le rigorose forme dello storico palazzo. Dove e quando

Palazzo Strozzi, Firenze, fino al 26 agosto 2018.


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Cultura e Spettacoli

Quando l’arte scende in strada

Festival Dal 18 al 22 luglio Lugano si animerà grazie agli straordinari spettacoli di Buskers, rassegna del Longlake

Festival da sempre lontana dalle convenzioni e piena di sorprese

oltre allo statunitense Jonathan Burns con il suo spettacolo Flexible Comedy. Una grande sorpresa che ci riempie di gioia sarà la presenza del Zirkus Chnopf di Zurigo, attivo da 35 anni. D: Questo circo ha spettacoli e personaggi sempre nuovi, e se ne vanno in giro con il trattore... sono mitici!

Enza Di Santo «Chi non c’è, manca!», è il motto e l’invito di Lugano Buskers Festival 2018 che vuole tutti gli amici in città. «Azione» ha chiesto a Ilenia Ricci e Damiano Merzari, di raccontare l’evento. Ilenia e Damiano, siete tra gli organizzatori del Buskers Festival che quest’anno compie 10 anni, quanta soddisfazione si prova ad essere arrivati fino a qui?

Damiano: Più che soddisfazione provo felicità, non interpreto questi 10 anni come un traguardo, ma come il pretesto per proporre un’edizione in cui ci siano tutti i nostri amici, e spero sia la prima di tante. Dieci è ancora un numero piccolo, ma siamo davvero molto felici.

Rispetto alla prima edizione cosa è cambiato?

Ilenia: L’arrivo a questi 10 anni è un punto che ci porterà verso qualcos’altro. Il nostro lavoro ci porta ad essere sempre alla ricerca, e questo decennio è la prima parte del cammino. Rispetto alla prima edizione, cosa di cui siamo molto contenti e molto soddisfatti, la gente si è affezionata e attende l’arrivo di Buskers. Le persone apprezzano le particolarità e le stranezze dell’arte degli spettacoli che proponiamo e, quando arriva il mercoledì d’apertura, è proprio come se consegnassimo il festival nelle mani del pubblico, che ha la possibilità di vivere questo evento sotto i palchi nelle piazze, per la strada

Come trovate gli artisti?

D: All’inizio su internet e soprattutto attraverso il passaparola, ora invece sono gli stessi artisti a proporsi. Ci siamo ritagliati una bella fetta tra i festival di strada, è un festival ambìto. Dove si trovano gli spettacoli?

Mina Clown nell’edizione del 2017. (www. luganobuskers.ch)

sul lungolago e negli spazi allestiti nel parco Ciani. Un modo anche per scoprire «pertugi» di Lugano che in genere passano inosservati come la zona delle palme nel parco.

Per chi non lo conoscesse «ancora», cos’è Buskers Festival?

D: Noi lo definiamo come «una specie di delirio di artisti, di freak, eghi, musicisti che si compone e scompone in un’armonia artistica di bellezza e pienezza». In questi cinque giorni gli artisti si incontrano e fanno un tutt’uno. Gli spettacoli sono bellissimi, suscitano emozioni e grande stupore, ma è soprattutto l’atmosfera che si respira a caratterizzare e animare il

festival a cui partecipano spettatori da tutta la Svizzera.

Un festival di artisti di strada, tra musica, circo e spettacoli itineranti: cosa non bisogna perdersi?

I: A confronto con altri festival di questo genere, Lugano Buskers Festival è un po’ atipico. I buskers «classici» hanno una componente visuale e teatrale molto più forte rispetto a quella musicale, ma siamo tutti appassionati di musica e il nostro intento è sempre stato quello di proporne molta. Quest’anno ci sarà anche una sorta di jam session di chiusura, e qualche altra piccola sorpresa. Come sempre ci saranno artisti e

musicisti svizzeri, tra cui i Reverend Beat-Man, e artisti provenienti da tutta Europa. In Spagna, Belgio e Olanda la visual comedy ha una lunga tradizione, e gli artisti porteranno i loro spettacoli di grande effetto a Lugano. In particolare avremo sul palco i canadesi King Khan con la loro musica rhythm & blues, mescolata a psichedelia e garage rock, e Dado con il suo assurdo show clownesco. Ci saranno poi i Meridian Brothers dalla Colombia, i Particle Kid dagli USA, mentre dalla vicina Penisola arriveranno Paolino Paperino Band, I Camillas e l’Agenzia di Plastica. Ci saranno gli spagnoli Hilton Hiltoff e Adrian Schvarzstein,

I: Da Piazza Manzoni al Parco Ciani vengono allestite 19 postazioni. Quattro sono palchi veri e propri (Piazza Manzoni, Rivetta Tell, Park & Read e la Punta Foce), mentre le altre postazioni, costituite essenzialmente da una presa elettrica, illuminazione, e poco altro, sono sparpagliate lungo il percorso che invitiamo tutti a scoprire. Alcuni spettacoli saranno replicati, per cui sarà difficile perdersi le cose più speciali. Dove e quando

Lugano Buskers Festival, diversi luoghi, dal 18 al 22 luglio 2018; info: www.luganobuskers.ch www.longlake.ch In collaborazione con

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Cultura e Spettacoli

La trilogia del sé

Letteratura Orma Editrice ha recentemente ripubblicato Una donna, ultimo romanzo

della brava scrittrice francese Annie Ernaux

Laura Marzi Una donna è l’ultimo romanzo della scrittrice francese Annie Ernaux, vincitrice nel 2016 del Premio Strega Europeo e di recente insignita anche del Premio Hemingway alla carriera, consegnatole in Italia, a Lignano Sabbiadoro. Pubblicato in Italia per la prima volta da Guanda nel 1988, Una donna racconta la storia della madre della scrittrice a partire dal consueto impianto autobiografico o come viene definito dalla critica: «auto-socio-biografico». Trasforma così il lutto in un «progetto di natura letteraria», come Ernaux si dice verso l’inizio del romanzo per rispondere alla domanda che si sta ponendo da giorni su quale siano il senso e la natura di quelle pagine e del bisogno invincibile di scriverle.

La scrittura di Annie Ernaux è immediata e capace di introspezioni molto profonde Con la ripubblicazione di Una donna si completa così anche in Italia quella che possiamo definire la «trilogia familiare» dell’autrice francese, inaugurata col romanzo Il posto, riedito sempre da Orma Editrice nel 2014 e che, significativamente, prende spunto dalla morte del padre. Il testo racconta la storia di quest’uomo, la sua vita da operaio e poi da commerciante, il posto che occupava nella società così diverso da quello a cui la figlia, Annie, ebbe accesso due mesi

prima della sua morte: il posto da professoressa. Non possiamo non notare il legame tra la fine dei suoi cari e la possibilità che la scrittura offre alla scrittrice di tenerli accanto, raccontandone la storia, che le appartiene perché è quella delle sue origini, di cui lei non porta più segni, se non nella memoria. Il romanzo Una donna comincia con: «mia madre è morta lunedì 7 aprile», mentre verso la metà del testo Ernaux scrive: «mi sembra di scrivere su mia madre per, a mia volta, metterla al mondo». Quale mondo, però? Ernaux proviene da una famiglia di operai normanni che riescono a comprare uno spaccio alimentare, bar e tavola calda, dove la madre lavora dall’alba a notte fonda dando da bere agli avventori. L’autrice infatti scrive: «era necessario che mia madre morisse perché io mi sentissi meno sola e fasulla nel mondo dominante delle parole». Una donna è una storia come tante di una donna di origini umili che ha faticato perché per sua figlia il destino fosse diverso e che non si è risparmiata dal farle pesare la fatica e i sacrifici, a causa del suo carattere irruente, più che per cattiveria. Il ritratto che ci fa la scrittrice è infatti quello di una signora estroversa, infaticabile, aggressiva. Ernaux ci descrive i diversi tratti della personalità della madre, la durezza ma anche la sua disponibilità illimitata ad adattarsi pur di aiutarla, da una prospettiva che si potrebbe definire «appartata», come se fosse ancora bambina e la osservasse di nascosto, con l’amore e il distacco di chi non può capire, perché si trova altrove. La narrazione diventa più emotiva quando racconta della malattia: l’ini-

Annie Ernaux, classe 1940, ha vinto diversi premi prestigiosi. (Keystone)

zio della demenza senile, gli anni in cui si è occupata di lei fino al momento in cui ha dovuto farla ricoverare. Il dolore a cui dà voce però non è quello della «donna», è il suo, scaturito da una fatica perpetrata negli anni e che è stata inutile, perché tutti gli sforzi e lo sgomento quotidiani non hanno potuto interferire neanche in minima parte con la demenza che occupava via via inesorabile la mente di sua madre, spazzandone via la memoria. L’ultimo volume di questa «trilogia familiare» di Ernaux L’altra figlia è stato scritto nel 2011 e racconta di una sorella,

Ginette, morta prima che lei nascesse, di cui i genitori non le hanno mai parlato. Si tratta di una lettera impossibile alla bambina morta di difterite a sei anni, diventata un angelo per la madre che dice un giorno a una cliente: «era più buona di quella lì. Quella lì sono io». Con queste parole Ernaux scopre di avere avuto una sorella, di essere la seconda, dopo un fantasma, però. Interessante, infatti, come questo dialogo impossibile con Ginette diventi anche una riflessione sul «fantasma» che «sempre si nasconde nella scrittura». Da notare, anche, che a differenza del progetto di riparazione

alla base degli altri due romanzi, dedicati al padre e alla madre e scritti nella speranza di farli rivivere, in questo caso Annie vuole che Ginette «rimuoia» per «liberarsi della sua ombra». Alla scrittura immediata e capace di introspezioni profondissime, che ci riguardano anche quando Ernaux ci parla della sua storia personale, della sua famiglia, si associa la bravura del traduttore Lorenzo Flabbi, vincitore nel 2017 del premio Stendhal, per la migliore traduzione dal francese, grazie a un altro romanzo auto-socio-biografico di Ernaux: Memoria di ragazza.

Big Country Deluxe Musica La curatissima edizione deluxe di uno dei loro album meno celebrati riporta finalmente i riflettori

sull’eccelso Stuart Adamson e la sua band, i Big Country Benedicta Froelich Basta una rapida indagine online per rendersi conto di come, al di fuori dei confini della natia Gran Bretagna, ben pochi ascoltatori odierni rammentino il nome dei Big Country, interessante band scozzese a tutt’oggi definibile come unico esempio davvero efficace di perfetta fusione tra pop contemporaneo e sonorità di sapore celtico (il tutto senza disdegnare sfumature a tratti perfino punk rock). E in effetti, benché, a cavallo tra gli anni 80 e i primi 90, i Big Country abbiano ottenuto un discreto successo grazie ad alcuni, azzeccati brani trasmessi su MTV, il termine più sovente impiegato dai nostalgici per descrivere il gruppo resta quello di «vergognosamente sottovalutato». Un rimpianto acuito dal tragico destino toccato a Stuart Adamson, geniale e introverso frontman (nonché principale compositore) del gruppo – il quale, dopo l’impulsivo trasferimento

dalla Scozia a Nashville e un secondo, fallimentare matrimonio, nel 2001 venne trovato impiccato in una stanza d’albergo di Honolulu, dove si era nascosto dopo la sua recente sparizione: un suicidio che tradiva un senso di solitudine e isolamento non soltanto intollerabile, ma anche sottovalutato da colleghi e fan, fino a quel momento solo in parte consapevoli della fragilità psichica di Adamson. Così, a tutt’oggi, nonostante il successo non esattamente planetario dei Big Country, il cosiddetto «zoccolo duro» di ammiratori su cui la band può ancora contare continua ad ascoltarli con rinnovata commozione, favoleggiando di cos’altro Stuart avrebbe potuto produrre se non se ne fosse andato ad appena 43 anni. Il medesimo pubblico, in fondo, per il quale è stata concepita la pubblicazione di un prodotto come la ristampa deluxe e ampliata di Why the Long Face (1995), inciso quando il breve periodo d’oro della formazione si era già

concluso; e bisogna dire che, in questo caso, la Cherry Red Records offre un esempio magistrale di autentica edizione per collezionisti – un cofanetto composto da ben quattro CD, di cui solo il primo racchiude l’album originale nella sua interezza. Il tutto in barba alle critiche dei fan più intransigenti, i quali hanno spesso accusato questo disco di voler ammiccare al sound radiofonico e sottilmente commerciale del tempo, e di non reggere quindi il confronto con i migliori sforzi del gruppo, tra cui il

Il cofanetto comprende quattro CD.

precedente The Buffalo Skinners (1993); eppure, basta ascoltare la forza elementale e quasi trascendentale di un pezzo ispirato quale One in a Million – in cui la voce di Stuart raggiunge picchi di raffinatezza assoluta, arrivando a richiamare i virtuosismi proto-celtici della travolgente hit The Seer (1986) – per rendersi conto di come Why the Long Face offra molto più di quanto non appaia a un primo ascolto: lo dimostrano la struggente e amara ironia che pervade pezzi come Charlotte, Wildland in My Heart e Take You to the Moon – impietose fotografie dell’abisso tra amore idealizzato e realtà – o l’aggressivo vigore di Vicious, il quale ricalca addirittura sonorità a cavallo tra Iggy Pop e Lou Reed. Sforzi che dimostrano come Stuart non abbia mai ottenuto la considerazione che le sue doti di compositore avrebbero dovuto valergli: doti qui confermate, una volta di più, da liriche raffinate ed efficaci, contraddistinte da un’apparente semplicità e una disillusa, malinconica

profondità (si veda You Dreamer e Sail Into Nothing). Tuttavia, ciò che impreziosisce davvero questa ristampa è la scelta, da parte dei compilatori, di operare un vero e proprio lavoro filologico nell’arco dei tre CD che completano il cofanetto: laddove il secondo disco offre infatti le B-side e rarità incise dalla band all’epoca di Why the Long Face, il quarto e ultimo raccoglie perfino le versioni demo originali di ogni traccia dell’album. Senza dimenticare la gemma offerta dal terzo CD, riedizione completa del live album Eclectic, registrato nel 1996: e siccome i Big Country sono sempre stati uno dei (pochi) gruppi anni 80 a distinguersi per una presenza dal vivo travolgente e per la pura qualità musicale dei loro show, la vigorosa schiettezza ed energia che brillano lungo l’intera tracklist catturano alla perfezione l’eccellenza di cui Adamson e i suoi erano capaci ogni volta che mettevano piede su un palco, anche quando ciò accadeva davanti a meno di cento persone. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

La donna e le sue identità fra performance e teatro

In scena Si è appena conclusa a Bellinzona la sesta edizione di Territori, il festival di teatro

realizzato in spazi insoliti e stimolanti Giorgio Thoeni L’estate apre le porte all’intrattenimento: una scommessa dove la qualità dell’offerta gioca un ruolo preponderante. Per la chiamata alla sua sesta edizione, Territori, il festival di teatro in spazi urbani di Bellinzona, ha imbastito gli appuntamenti attorno a due assi portanti: la valorizzazione di luoghi non necessariamente teatrali e, in particolare, della scena artistica regionale, con un programma che – come allude il titolo della manifestazione Marilyn e le altre – ha proposto molti spettacoli che raccontano biografie di donne. Scegliamo di iniziare con Io sono un’altra di Camilla Parini, un progetto che si è sviluppato sull’arco di due anni e che ha coinvolto più di 100 donne di età compresa tra gli 8 e i 93 anni. Quello presentato a Territori è l’epilogo, la tappa finale di un’avventura artistica originale nutrita da uno straordinario contorno umano e filosofico, dove tutte le donne coinvolte hanno accettato di operare una sorta di transfer sul corpo di Camilla rispondendo a domande come: chi sono io, come vorrei rappresentarmi e che cosa racconto di me? Ne sono nati autoritratti femminili intriganti, a cavallo fra performance privata e l’esposizione di un corpo che appartiene a un’altra. Il tutto è stato documentato da fotografie e filma-

ti (Marika Brusorio, Muriel Hediger, Martina Tritten) e poi proposto in un allestimento distribuito nei vani di un appartamento al primo piano del Palazzo Casagrande dove gli ambienti privati, dai corridoi alle stanze fino al bagno, diventano tavolozze di riflessione, punti di investigazione e documenti sonori. Voci, suoni, musiche, immagini, frammenti di un’esperienza di vita la cui complessità realizzativa non smette di stupire e apre a mille possibilità interpretative. Un voyeurismo affascinante, un pudore artistico che meriterebbe di valicare i confini e mostrarsi come esempio di genius loci, un progetto che non deve esaurire la sua spinta fra le mura della turrita ma che può confrontarsi anche all’estero, fiero della sua identità linguistica e della sua forza teatrale. Lo testimonia la curiosità e l’attenzione che ha suscitato tra i numerosi visitatori. Il percorso del festival ha riposto in gioco l’esuberanza di Nando Snozzi che ha messo a segno un altro colpo con i suoi Passaggi clandestini, un’azione scenica organizzata per l’occasione nel parco di Villa dei Cedri. Un appuntamento molto seguito che si è sviluppato sull’arco di tre esibizioni in cui l’artista bellinzonese sfodera la sua verve letteraria fra iperboli sintattiche e lessicali, in un contesto di grande sensibilità dove si agitano profonde inquietudini

Lucilla Giagnoni nei panni di Marilyn.

per un’umanità ferita. La visione di Nando è quella dei suoi colori, delle sue sagome, di una pittura rude, incisiva e selvaggia come la galleria dei volti che nascono dalle sue mani, dalla violenza del gesto, dalla passione. Un’arte che Snozzi ha proposto in un cerimoniale di investitura di Clandestini speciali accompagnato dalla sua squadra fra letture e musica: Patrizia Barbuiani (letture), Zaira Snozzi e Gianni Hofmann (animazione), Matteo Mengoni e Rocco Lombardi (musiche).

Era molto atteso il passaggio teatrale di Lucilla Giagnoni sul palco allestito nella Corte del Municipio per il suo Marilyn, monologo costruito sulla storia dell’attrice americana. Attrice colta, intelligente e di rara bravura, la Giagnoni abbandona le meditazioni apocalittiche e spirituali che l’hanno accompagnata in questi ultimi anni per percorrere la biografia di Norma Jean proiettandoci nella dimensione a specchio di due donne che appartengono a una sola entità. Fra bellezza e soffe-

renza, amore e ricerca della perfezione Marilyn e Lucilla sono espressione di un’unica appassionante, drammatica e disperata poesia per una Marilyn, solo per un attimo… attrice allo stato puro. Merita infine una sottolineatura il ritorno in scena di La forme de l’âme, performance di Elena Boillat all’oratorio di San Biagio. La nudità statuaria del suo corpo si modella in un accurato, avvolgente e delicato gioco di luci su movimenti lenti: una meditazione filosofica di grande intensità e purezza. Annuncio pubblicitario



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Cultura e Spettacoli

Il dio della parola

Openair A Frauenfeld Marshall Mathers, in arte Eminem, ha dimostrato di essere sempre e ancora

l’indiscusso numero uno dell’hip hop mondiale; i concerti sono stati oltre 50 in tre giorni

attuale. Non si sbagliava probabilmente il Premio Nobel per la letteratura Seamus Heaney, quando alcuni anni or sono tesseva le lodi della sua energia verbale: ascoltare (bene) per credere.

Simona Sala Di consacrazioni l’open air di Frauenfeld non ha bisogno. A dirlo, oltre al pubblico, sono i numeri, in impennata da anni: 15 milioni di franchi di budget (di cui circa il 25% destinato ai cachet degli ospiti), 180’000 biglietti venduti, il sold out raggiunto già a gennaio. Eppure quest’anno, se fra i 51 concerti e i 60 Dj set in programma, pubblico e critica avessero dovuto scegliere l’evento migliore, non ci sarebbero stati dubbi e all’unanimità sarebbe stato fatto un solo nome: Eminem. Erano otto anni che il rapper di Detroit non si esibiva a Frauenfeld, e dopo il successo planetario di Revival, uscito lo scorso dicembre, le aspettative di un live erano alte, fosse anche solo per fugare qualsiasi dubbio riguardo alle note dipendenze della star. Quello che le 50’000 persone si sono trovate davanti non è stato solamente un artista brillante, che insieme al fido rapper e produttore Kon ArtisMr Porter – che lo accompagna sin dagli esordi e, nei panni di hype man ne rinforza la voce, a volte un poco sottotono – non ha sbagliato un verso, ma anche un professionista che gioca in una lega ormai galattica, frequentata dalle megastar di un mondo dello spettacolo sempre più affollato. Revival, lo show che Eminem ha offerto, in perfetta linea con i grandi spettacoli americani, è stato costruito con metronomo e cronometro, vien da dire, poiché ogni salto, ogni mossa, ogni passo, sono studiati nei minimi dettagli, mettendo in luce un professionismo lontano dagli esordi freestyle di colui che, sostituendo il proprio ego ipertrofico alla proverbiale timidezza, si definisce il Dio del rap (e come dovrebbe definirsi uno che, anche dal vero, riesce a pronunciare 1560 parole in poco più di 6 minuti?). Sarà anche merito dell’orchestra d’archi che lo accompagna, eppure durante l’ora e mezza di concerto, tanto professionismo non porta mai, nemmeno per un secondo, a un risultato scontato o, peggio ancora, banale, perché Eminem, sia che ripercorra i vecchi successi, tirando in ballo l’alter ego Slim Shady, oppure

Ghali, Migos e Lil Uzi Vert

The Number One. (jeremydeputa)

l’amico di sempre Dr. Dre in Medicine Man, rimane semplicemente in linea con sé stesso, ossia con quel rap preciso, tagliente e inconfondibile che ne ha segnato il successo. Se da una parte la tuta grigia, il cappellino e la felpa con cappuccio ricordano l’Eminem degli esordi alla fine degli anni Novanta – a parte l’orologio, a differenza di altri hip hopper, ben poco è concesso al lusso – dall’altra parte abbiamo un accenno di barba, forse a inconsciamente contrassegnare quella maturità che lo porta a schierarsi apertamente contro Trump. Eminem apre il concerto con un video in cui veste i panni di un rappergodzilla a spasso per una città che distrugge a ogni passo, dove gli elicotteri sono poco più che moscerini: non è uno show per deboli di stomaco, ci fa capire. Ma soprattutto, ci dicono i due (!) medi alzati, vadano retro benpensanti e conformisti, cui giungono come un chiaro sberleffo quei colpi di arma da fuoco che contrappuntano il concerto (ma a Frauenfeld non è l’unico rapper

ad avvalersi di questa trovata scenica), richiamando alla mente la triste quotidianità statunitense, dove le armi da fuoco sono protagoniste di stragi nelle scuole e contraddistinguono le ambigue esistenze dei rapper – l’ultimo in ordine di tempo, omaggiato a più riprese durante l’openair, è il giovane e talentuosissimo XXXTentacion, freddato in strada a scopo di rapina lo scorso 18 giugno a soli vent’anni. Quando Marshall Mathers alias Slim Shady debuttò nel 1999 con The Slim Shady LP, album che scosse le fondamenta della musica e portò più di un critico a stilizzare dei parallelismi nientemeno che con Elvis (anche Eminem sembrava virtuosamente riuscito a «rubare» la musica ai neri e, rivisitandola, a creare una rottura totale con la società), grande era il rischio che le vagonate di soldi (250 milioni di dischi venduti), l’ossessione dei fan (come raccontato nella struggente Stan) e le pressioni mediatiche potessero trascinare nel baratro il giovane tormentato, reduce da un’infanzia triste e povera. Ma non

è stato così. O forse sì, perché per anni abbiamo letto dei divorzi, dell’abuso di farmaci, delle riabilitazioni. Oggi lo troviamo più consapevole, fors’anche a modo suo più autentico. Paradossalmente le parole, se non cantate, non sono il suo forte, e per questo quelle rivolte al pubblico durante il concerto restano poche e convenzionali. Ma d’altronde, a che pro parlare quando le presentazioni si trovano in canzoni come The Way I Am o My Name is? O quando le sinistre reminiscenze di quella violenza fatta di motoseghe e orrore che caratterizzò parte degli inizi, sono ormai al sicuro, confinate in brani come Kill You? Nella parte centrale dello show Mathers arriva perfino a fare una semi-concessione al romanticismo, affidandosi al supporto musicale della brava Skylar Gray per l’interpretazione di Walk on Water, Love the Way You Lie e, appunto, Stan. I tempi sono cambiati, il rap non è più (solamente) la musica della protesta, ma da qualche anno è quanto di più vicino al cantautorato vi sia sulla scena

Quest’anno a Frauenfeld vi è stato anche il battesimo ufficiale della trap in lingua italiana, con il primo ospite della Penisola ad esibirsi nella gigantesca kermesse svizzera. È toccato a Ghali. Forse a causa della sua aria innocua e sincera, o forse per la scelta degli abiti stravaganti (è stato definito uno degli uomini meglio vestiti del 2017) e i testi impegnati – con passaggi che ricordano i giochi linguistici del redivivo Stromae – l’ha spuntata su altri grossi nomi del panorama italiano come Sfera Ebbasta, Gué, FabriFibra o gli ormai indefinibili Fedez&J-Ax. Ghali è sempre quello di Cara Italia e Zingarello in bilico tra il palese desiderio di piacere tout court e una certa ricercatezza, come raccontano le calze al ginocchio e il completo giacca-bermuda dai colori improbabili. Durante il concerto regala t-shirt e cd, e i critici Oltre Gottardo lo apprezzano. Impressionante il concerto (sotto l’acqua) di uno dei gruppi più importanti e gettonati del momento, i Migos. Al netto di un’ostentazione del lusso a tratti stucchevole e del gossip che da mesi accompagna la relazione tra il Migos Offset e la nuova regina del trap Cardi B, la loro è una musica che, se possibile, dal vero acquista ancora più valore, trasformandosi – per meccanismi ma non per risultati – in qualcosa che assomiglia molto all’improvvisazione che normalmente conosciamo nel jazz. Migros, che oltre ad esserlo a Frauenfeld è uno dei maggiori sponsor dei più importanti openair elvetici, durante il concerto è stata al gioco ed è scesa in campo a modo suo spegnendo la lettera «erre» della propria gigantesca sigla arancione. Una sorpresa positiva anche Lil Uzi Vert in completino sadomaso, aggregato di energia che ha saputo dimostrare come la sua figura di artista non si riduca unicamente a quella dello strafatto protagonista di XO Tour Lif3. Annuncio pubblicitario

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Ai piace preparare il cibo con le proprie mani. Ovv iamente questo vale anche per i dessert. Preparare un buon gela to su stecco fruttato e pannoso è facilissimo. Basta ridurre in purea yogurt, zucchero, succo di limone e frutti di bos co surgelati e amalgamare il tutto con la panna. Versare la mas sa nelle formine da gelato e lasciarle nel congelatore per almeno tre ore.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino t 16 luglio 2018 t N. 29

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Idee e acquisti per la settimana

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Prestazione splendente e potenza d’asciugatura Mentre piatti, bicchieri e Co sono asciutti da un pezzo, i contenitori in plastica necessitano di più tempo affinché si liberino da ogni goccia dell’acqua del risciacquo. La situazione cambia con l’utilizzo di Supreme Ultra Caps «shine & dry all in 1» di Handymatic. Sono composte da una combinazione speciale di detersivo in polvere e liquido, che ottimizza sia la capacità di sciogliere i grassi, sia l’effetto dell’asciugatura. Dalla lavastoviglie esce in tal modo tutto splendente, pulito e senza residui di acqua.

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Idee e acquisti per la settimana

Migipedia

Star del mese

I clienti hanno voce in capitolo

Italiano croccante e cremoso

Noi firmiamo. Noi garantiamo.

Migros è una cooperativa, i cui clienti hanno tra le altre cose voce in capitolo sui prodotti che giungono sugli scaffali. Le idee di nuovi prodotti possono essere proposte online sulla piattaforma Migipedia. Qui gli utenti hanno l’opportunità di valutare e commentare i prodotti Migros. I frequentatori del Paléo Festival come sviluppatori di prodotti: invece di utilizzare unicamente Migipedia, per la prima volta l’anno scorso Migros è andata offline al Paléo Festival di Nyon alla ricerca di nuovi gusti per i sandwich Blévita. Presso lo stand Migros i partecipanti al festival hanno potuto lasciare dei post-it con i loro suggerimenti.

Dal post-it alla hit degli snack

Il nuovo sandwich caprese Blévita è il quinto e più recente membro della serie di sandwich e cracker Blévita della Migros. Pomodoro, mozzarella e basilico, i classici ingredienti della caprese, sono stati trasformati in una crema, che riposta tra due cracker di spelta dà vita al nuovo sandwich Blévita.

Oltre 1200 i suggerimenti per nuovi sandwich Blévita sono stati raccolti lo scorso anno al Paléo Festival. Si è imposta l’idea della caprese, presentata dalla grafica di Losanna Orlane Perey e da altri partecipanti al festival

Oltre 10 i milioni di sandwich ai cracker prodotti annualmente da Midor. Concorso

Domanda: quanti voti ha ottenuto il sandwich caprese Blévita nella competizione online?

Il sandwich caprese Blévita è ora disponibile nei negozi Migros e quest’anno può essere degustato al Paléo Festival.

Rispondi alla domanda e vinci una carta regalo Migros. In palio carte regalo per un valore totale di 500 franchi.

2

Poiché l’iniziativa dell’anno scorso ha avuto un grande successo, anche durante l’edizione 2018 del Paléo Festival verranno nuovamente raccolti suggerimenti e idee per nuove tendenze di gusto. Questa volta i partecipanti potranno presentare suggerimenti per lo yogurt «You-100cal».

Partecipazione: www.noifirmiamo-noigarantiamo.ch

1 Prendendo sp unto da ques ti suggerimenti, Midor, industria di produzione Migros, ha sv iluppato tre diverse ric ette.

3

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uando Orlane Perey visita il Paléo Festival, nel suo programma non può mancare una passeggiata attraverso le bancarelle del mercato. È in questo modo che lo scorso anno è giunta anche allo stand Migros. La 35enne losannese ha deciso spontaneamente di partecipare all’azione di crowdsourcing su Migipedia, il cui scopo era raccogliere idee per un nuovo sandwich Blévita. Orlane Perey, una grafica che fa faville con la propria agenzia creativa, ha dato in realtà più suggerimenti, tra i quali la combinazione del gusto caprese. «Questo è il sapore della dolce vita», dice con

4

Un totale di 25 230 utenti ha partecipato al voto su Migipedia. Circa il 62 percento ha decretato vincitrice la proposta caprese di Orlane Perey (nell’immagine).

entusiasmo Perey. La caprese è sinonimo di estate, di sole e di un pasto con gli amici su una terrazza ombreggiata. Anche altri visitatori del festival hanno in ogni modo proposto il classico italiano. Quest’anno Orlane Perey parteciperà ancora al festival, dove potrà degustare le nuove creazioni allo stand Migros. «Sono fiera che la mia idea sia stata la scintilla da cui è nato il nuovo sandwich Blévita», dice Orlane. In futuro questa speciale creazione della Midor le ricorderà per sempre l’edizione 2017 del Paléo Festival, durante la quale ha tra l’altro assistito al concerto del gruppo canadese indie rock Arcade Fire.

Sandwich Caprese Blévita 216 g Fr. 5.30

Online gli utenti hanno potuto votare tra caprese, formaggio con pezzetti di albicocca e mango con frutto della passione.

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche il sandwich caprese Blévita.


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Italiano croccante e cremoso

Noi firmiamo. Noi garantiamo.

Migros è una cooperativa, i cui clienti hanno tra le altre cose voce in capitolo sui prodotti che giungono sugli scaffali. Le idee di nuovi prodotti possono essere proposte online sulla piattaforma Migipedia. Qui gli utenti hanno l’opportunità di valutare e commentare i prodotti Migros. I frequentatori del Paléo Festival come sviluppatori di prodotti: invece di utilizzare unicamente Migipedia, per la prima volta l’anno scorso Migros è andata offline al Paléo Festival di Nyon alla ricerca di nuovi gusti per i sandwich Blévita. Presso lo stand Migros i partecipanti al festival hanno potuto lasciare dei post-it con i loro suggerimenti.

Dal post-it alla hit degli snack

Il nuovo sandwich caprese Blévita è il quinto e più recente membro della serie di sandwich e cracker Blévita della Migros. Pomodoro, mozzarella e basilico, i classici ingredienti della caprese, sono stati trasformati in una crema, che riposta tra due cracker di spelta dà vita al nuovo sandwich Blévita.

Oltre 1200 i suggerimenti per nuovi sandwich Blévita sono stati raccolti lo scorso anno al Paléo Festival. Si è imposta l’idea della caprese, presentata dalla grafica di Losanna Orlane Perey e da altri partecipanti al festival

Oltre 10 i milioni di sandwich ai cracker prodotti annualmente da Midor. Concorso

Domanda: quanti voti ha ottenuto il sandwich caprese Blévita nella competizione online?

Il sandwich caprese Blévita è ora disponibile nei negozi Migros e quest’anno può essere degustato al Paléo Festival.

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Poiché l’iniziativa dell’anno scorso ha avuto un grande successo, anche durante l’edizione 2018 del Paléo Festival verranno nuovamente raccolti suggerimenti e idee per nuove tendenze di gusto. Questa volta i partecipanti potranno presentare suggerimenti per lo yogurt «You-100cal».

Partecipazione: www.noifirmiamo-noigarantiamo.ch

1 Prendendo sp unto da ques ti suggerimenti, Midor, industria di produzione Migros, ha sv iluppato tre diverse ric ette.

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uando Orlane Perey visita il Paléo Festival, nel suo programma non può mancare una passeggiata attraverso le bancarelle del mercato. È in questo modo che lo scorso anno è giunta anche allo stand Migros. La 35enne losannese ha deciso spontaneamente di partecipare all’azione di crowdsourcing su Migipedia, il cui scopo era raccogliere idee per un nuovo sandwich Blévita. Orlane Perey, una grafica che fa faville con la propria agenzia creativa, ha dato in realtà più suggerimenti, tra i quali la combinazione del gusto caprese. «Questo è il sapore della dolce vita», dice con

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Un totale di 25 230 utenti ha partecipato al voto su Migipedia. Circa il 62 percento ha decretato vincitrice la proposta caprese di Orlane Perey (nell’immagine).

entusiasmo Perey. La caprese è sinonimo di estate, di sole e di un pasto con gli amici su una terrazza ombreggiata. Anche altri visitatori del festival hanno in ogni modo proposto il classico italiano. Quest’anno Orlane Perey parteciperà ancora al festival, dove potrà degustare le nuove creazioni allo stand Migros. «Sono fiera che la mia idea sia stata la scintilla da cui è nato il nuovo sandwich Blévita», dice Orlane. In futuro questa speciale creazione della Midor le ricorderà per sempre l’edizione 2017 del Paléo Festival, durante la quale ha tra l’altro assistito al concerto del gruppo canadese indie rock Arcade Fire.

Sandwich Caprese Blévita 216 g Fr. 5.30

Online gli utenti hanno potuto votare tra caprese, formaggio con pezzetti di albicocca e mango con frutto della passione.

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche il sandwich caprese Blévita.


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