Azione 34 del 17 agosto 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio A Rossa, in Val Calanca, riscopriamo i muri a secco e tre chiese ristrutturate

Ambiente e Benessere La Svizzera detiene il primato nel tasso di incidenza del melanoma; ce ne parla il ricercatore Tommaso Virgilio

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 17 agosto 2020

Azione 34 pagina 13

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Politica e Economia Le presidenziali contestate della Bielorussia e il suo ruolo cuscinetto nel confronto Russia-Nato

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di Luigi Baldelli pagina 15

Luigi Baldelli

Murano, l’isola del vetro

Cultura e Spettacoli A colloquio con la direttrice artistica del Locarno Festival per valutare un’edizione anomala

Meno limiti, più rischi, più responsabilità di Peter Schiesser È con qualche brivido freddo che saluto la revoca del limite massimo di 1000 persone alle manifestazioni culturali e sportive a partire da ottobre, in giorni in cui si registrano in Svizzera oltre 200 casi di infezione da Coronavirus. Speriamo vada tutto bene. Lo stesso Alain Berset ha descritto la situazione come «fragile e incerta». I reiterati appelli dei consiglieri federali a considerare questa pandemia una maratona e a imparare a convivere con il virus restano attuali, anzi in questa fase determinanti. Significa prepararsi mentalmente a una lunga sfida, in cui farà la differenza il senso di responsabilità a tutti i livelli della collettività. Il governo ha senza dubbio preso una decisione politica, valutando l’impatto della chiusura sulle finanze degli organizzatori sportivi e culturali ma anche il bisogno di svago delle persone, nonostante l’avviso contrario della task force scientifica e i direttori cantonali della sanità volessero togliere il limite di 1000 persone solo nel 2021. In sostanza, il Consiglio federale non stabilisce più un tetto massimo al numero di persone, starà ai cantoni decidere in base ai piani

di protezione che verranno allestiti dagli organizzatori sportivi e culturali se autorizzare la manifestazione o meno. Farà differenza se si tiene al chiuso o all’aperto. Per esempio, alle partite di hockey si potrà andare solo con mascherina, non ci saranno posti in piedi e nessun tifoso in trasferta, in caso di contravvenzione grave si chiude lo stadio. Ma i piani di sicurezza degli organizzatori, soprattutto quelli sportivi, dovranno contemplare anche ciò che accade al di fuori degli stadi: non ha molto senso imporre un distanziamento fisico, l’obbligo di portare la mascherina nello stadio, se i tifosi stanno pigiati come sardine nei bar e alle buvette in attesa della partita e poi per festeggiarne l’esito. E qui starà il difficile: riuscire a fare capire a una popolazione che si sta gradualmente rilassando (nell’osservanza delle norme di distanziamento) l’importanza di disciplinarsi di nuovo maggiormente. Se non ci si riuscirà, se questi grandi eventi saranno causa di un ulteriore aumento del numero di contagi e dai cantoni non sarà più garantita la tracciabilità dei contatti, si tornerà ai divieti. D’altronde, non è economicamente ma neppure socialmente possibile imporre sempre nuove limitazioni o prolungarle all’infinito. Lo

stesso Berset in un’intervista ha dovuto riconoscere che gli svizzeri sono stanchi, più irritabili, c’è più tensione nella società. Terminata la fase iniziale in cui tutti remavano nella stessa direzione, oggi si è tornati a critiche con toni più accesi (secondo Berset anche fra Cantoni e Confederazione). E più passa il tempo, più fra la popolazione si fa largo una sensazione di confusione. Dopo sei mesi di pandemia le certezze su questo virus sono ancora poche, la ricerca di vaccini sempre in corso, le forme di trasmissibilità non ancora ben conosciute. Ci vuole pazienza ed equilibrio per affrontare questa maratona e non tutti ci riescono. Personalmente, constato con sorpresa che diverse persone, anche amici e conoscenti, si lasciano influenzare o convincere da teorie astruse, complottiste. Altri amici mi riferiscono esperienze analoghe con propri conoscenti o colleghi, persone di ogni genere, anche con formazione superiore. Inutile tentare di convincerle con ragionamenti e porre domande, le loro sono certezze incrollabili. Di fronte all’enorme incertezza generata dalla pandemia, sembra che un certo numero di persone (tante o poche?) senta un forte bisogno di credere, più che di ragionare. Una risposta della nostra psiche per non farci travolgere dalla paura?


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 agosto 2020 • N. 34

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Società e Territorio Donne con talento cercasi Un’agenzia di Neuchâtel si propone di aiutare le imprese verso la parità di genere pagina 3

I muretti a secco di Rossa Alla scoperta del paesaggio terrazzato di questo comune della Calanca, ripristinato nel 2018 dopo anni di lavoro pagina 7

L’anomalia ticinese Durante la fase acuta della pandemia la comunicazione del Consiglio di Stato è stata gestita dai servizi di informazione della polizia e non dalla cancelleria pagina 9

un reverendo si inchina sulla scritta «black lives Matter» dipinta su una strada a tulsa, oklahoma. (Keystone)

Quali scelte per un futuro sostenibile Saggi Sette nazioni in crisi studiate come fossero individui: quando la terapia individuale diventa terapia

di una società intera, secondo lo statunitense Jared Diamond

Lorenzo De Carli «Ma non c’è dubbio che in futuro Los Angeles e le altre grandi città americane saranno teatro di nuove sommosse, scaturite dalla sperequazione economica e dal senso di impotenza frutto della discriminazione razziale». È Jared Diamond, che scrive. Geografo, antropologo, ornitologo ma anche storico, autore del famoso Armi, acciaio e malattie, con cui voleva rispondere alla «domanda di Yali», un nativo della Nuova Guinea: «perché la ricchezza è fiorita in Occidente e non lì da loro?», Diamond, ottantaduenne, è in giro per il mondo per parlare del suo ultimo studio: Crisi. Come rinascono le nazioni, dove un lungo capitolo dedicato al suo paese, gli Stati Uniti, anticipava ciò che le cronache di questi giorni hanno messo sotto gli occhi di tutti: le disuguaglianze sociali e il razzismo: «gli Stati Uniti cominceranno a prendere sul serio i loro problemi quando gli americani ricchi e potenti si renderanno conto di non poter fare nulla per proteggere la propria incolumità finché la maggioranza dei loro connazionali sarà incollerita, delusa e disperata». Per certi versi, il recente Crisi è la

pars construens di Collasso del 2005, dove Jared Diamond descriveva la traiettoria di alcune civiltà del passato che, forzando fino ad un punto di non più ritorno gli equilibri ecologici e rifiutando di riconoscere l’inadeguatezza dei loro modelli di sviluppo, soccombettero sotto il peso di carestie, danni ambientali e depauperamento delle risorse. Tuttavia Crisi è caratterizzato da una peculiarità metodologica tanto coerentemente applicata, quanto suscettibile un po’ di perplessità. Un po’ come fece Gian Battista Vico, Jared Diamond sostiene che è possibile studiare le nazioni come si studiano gli individui, e – in questo caso specifico – trovare una soluzione alle crisi delle nazioni con le stesse strategie usate per venire a capo delle crisi personali. Diamond applica il metodo dello psichiatra Eric Lindemann denominato «terapia della crisi» a sette casi di studio: la Finlandia in guerra con l’Unione sovietica, il Giappone ottocentesco dei Meiji costretto ad aprirsi dal commodoro Perry, il Cile e il regime liberticida di Pinochet, l’Indonesia degli anni Sessanta tra indipendenza e genocidio, la Germania che prende coscienza della sua storia, l’Australia

razzista abbandonata dall’Inghilterra, e gli Stati Uniti di oggi, sordi alla necessità di svolte consensuali. Lindemann ha un posto di rilievo nella storia della psichiatria per l’attenzione prestata ad un caso molto specifico di crisi: il lutto, momento di dolore che il medico americano suggeriva di superare attraverso un esame della situazione presente e la ricerca di una svolta positiva mediante un «cambiamento selettivo». Secondo Diamond, «questo vale tanto per le nazioni quanto per gli individui». In questa prospettiva, prima di cominciare l’esame comparato delle crisi nazionali oggetto del suo studio, Diamond elenca i fattori che gli individui tendono ad usare per la risoluzione delle crisi personali: 1. Riconoscere lo stato di crisi, 2. Accettare la responsabilità personale, 3. Circoscrivere il problema, 4. Chiedere aiuto agli altri, 5. Usare gli altri come modello, 6. Far leva sulla forza dell’Io, 7. Essere autocritici, 8. Valorizzare le esperienze pregresse, 9. Sviluppare la pazienza, 10. Essere flessibili, 11. Disporre di valori fondanti, 12. Essere liberi da costrizioni. Ognuno di noi, nei momenti di crisi, fa ricorso a uno o più di questi fattori, i quali – osserva Diamond – non sono privi di relazione con le culture e le consuetudini

sociali nelle quali siamo cresciuti. Cosicché, se siamo immersi in una cultura che addita come debolezza la flessibilità o l’autocritica, siamo esposti al rischio di non affrontare adeguatamente la crisi; e ciò che accade agli individui, accade anche alle nazioni. Forse proprio perché Diamond dedica agli Stati Uniti un capitolo ricco di dettagli sulla crisi in corso, l’esempio del suo paese è ricco di esemplificazioni in merito all’incapacità di affrontare una crisi nazionale. Negli Stati Uniti, la prima reazione ai segnali di crisi è la negazione: non è vero che c’è razzismo così come non è vero che urgono problemi ambientali. Sebbene il vicino Canada, per esempio, abbia affrontato la crisi del Coronavirus in maniera molto migliore degli Stati Uniti, questi ultimi né hanno chiesto aiuto ad altri, né hanno assunto l’esempio di altri: «ci rifiutiamo di imparare dagli altri perché crediamo nell’eccezionalismo americano: nel fatto cioè che il nostro paese sia unico al mondo, e di conseguenza non possa trarre alcun beneficio dalle ricette applicate in altri paesi». Il progetto di ricerca di Diamond cominciato con Armi, acciaio e malattie, in cui l’autore aveva messo in luce le oggettive condizioni ecologiche faci-

litanti di alcune regioni rispetto ad altre in ordine allo sviluppo delle civiltà; proseguito con Collasso per illustrare come la mancata comprensione degli equilibri ecologici è stata la causa della scomparsa di numerose società; si conclude con una prospettiva illuminista, vale a dire presumendo che le nazioni maturino la capacità di acquisire piena consapevolezza delle proprie condizioni e sappiano progettare strategie di sviluppo concordate. Gli arsenali nucleari, i cambiamenti climatici, l’esaurimento dei combustibili fossili, lo sviluppo delle energie alternative e le diseguaglianze sono – secondo Diamond – tra le maggiori sfide per un mondo che, proprio perché globalizzato, è diventato più piccolo e più fortemente interconnesso. L’atteggiamento illuminista di Diamond si basa sulla ricerca di soluzioni guardando non genericamente al passato, ma ad un passato che sarebbe stato possibile. Con Crisi. Come rinascono le nazioni, Diamond chiede di rinunciare ai nazionalismi nello stesso modo in cui gli individui che vogliono davvero superare le crisi personali debbono accettare di liberarsi selettivamente di quel passato che non consente loro l’accesso ad un futuro sostenibile.


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Per non privarsi di talenti

Donne e lavoro Un’agenzia dedicata all’assunzione di personale dirigente si propone di aiutare le imprese

verso la parità di genere Sara Rossi Guidicelli Eglantine Jamet, formata in sociologia, è stata per molti anni ricercatrice all’Università Paris Nanterre su questioni di genere, studiando l’accesso femminile alle sfere del potere. Poi ha sentito una frustrazione: studiare, va bene, ma lei voleva generare un cambiamento concreto. Come fare in modo che i risultati delle statistiche su donne e lavoro siano diversi tra uno, due, dieci anni?

Gli uomini si buttano con maggiore facilità in un’avventura nuova, le donne temono spesso di non essere all’altezza E così, insieme a Sigolène Chavane, una collega attiva nel mondo imprenditoriale, Eglantine Jamet ha fondato Artemia, un’agenzia con sede a Neuchâtel dedicata alle assunzioni di personale dirigente, manageriale e specialistico. «Cerchiamo di trovare una soluzione pratica al problema che meno donne occupano posti nei quadri alti», spiega la direttrice Jamet. «Si dice che è così perché le donne hanno meno desiderio di fare carriera, perché privilegiano la famiglia, perché scelgono formazioni diverse e molte altre scuse. Il fatto però è che il problema non riguarda solo le donne o la parità in sé. È un problema che tocca prima di tutto le aziende perché per il mondo imprenditoriale è un fallimento sapere che metà dei talenti nel nostro paese è meno accessibile. Anche per il mondo scientifico, medico, tecnologico e così via è un insuccesso ammettere che metà dei diplomati nel nostro paese non userà le proprie risorse al meglio. Senza contare che in Svizzera viviamo da decenni una penuria di personale altamente qualificato: se non riusciamo a fare avanzare le donne formate, se non usiamo le loro competenze, a livello economico è un disastro. Un team misto è vantaggioso per l’organizzazione, la creatività e una corretta rappresentazione dei clienti di un’azienda. Quando si è capito questo, bisogna però ancora imparare come si fa, perché non si tratta di assumere più donne: si tratta di trasformare la cultura dell’impresa a lungo termine e in profondità». Eglantine Jamet ricorda come negli ambiti delle nuove tecnologie lavorino poche donne: «Ma è lì che si determina come si vivrà nel futuro; l’innovazione scientifica cambia la società ed è essenziale che a creare il mondo di domani sia uno staff con i cittadini meglio preparati, composto da giovani e esperti, gente empatica e competitiva, uomini e donne». Jamet non crede in chi dice che le donne siano più performanti, più collaborative, più empatiche... crede anzi che queste dicerie costituiscano l’ennesima discriminazione che subiamo; sa però che i talenti femminili sono più difficili da

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

l’accesso ai piani dirigenziali per le donne è spesso una ripida scala. (Marka)

scovare e da convincere ad accettare un posto dirigenziale. Per questo con Artemia ha sviluppato un metodo e un processo di ricerca che permette di trovarle «comunque». Ma da dove derivano queste differenze di approccio? Perché le donne faticano tendenzialmente di più ad assumere ruoli chiave in politica, nella ricerca e in economia? Le donne hanno sempre lavorato ma per secoli sono state private dei loro diritti. Nel Novecento sono stati fatti molti progressi verso l’eguaglianza a livello di leggi, di studi, di voto, di possibilità di lavorare e di aprire un proprio conto in banca. Viviamo però ancora in un sistema che porta a esacerbare le differenze esistenti tra uomini e donne. Il mercato a volte rema contro la parità in maniera subdola e soprattutto da una trentina d’anni è tornato a rafforzare le differenze. «Guardate per esempio i giocattoli», fa notare Eglantine Jamet. «Ci sono settori per le bambine e quelli per bambini... e non è perché maschi e femmine non possono andare su una bicicletta “del colore sbagliato”, ma perché questa distinzione permette di vendere il doppio. I Lego, che per decenni avevano parificato le bambine e i bambini nella gioia di costruire torri, città, navicelle spaziali, ecco che dagli anni Novanta si iniziano a differenziare anche loro: quelli per le bambine sono rosa, hanno meno pezzi e meno possibilità di incastri complessi; puntano sull’amicizia, la relazione, i saloni da tè, la cucina e i fiori. E la bellezza. Basta bambine che sviluppano curiosità verso il mondo della tecnica e dell’esplorazione, basta con quell’ide-

ale del Lego di rendere i bambini tutti uguali. Da trent’anni ormai, complice la crisi economica, si sta tornando verso un mondo femminile pieno di empatia e un mondo maschile intriso di competizione. Quando invece a tutti servirebbero entrambe le competenze, per essere buoni padri e buone madri, ma soprattutto per essere persone realizzate». L’uguaglianza è tutta ancora lì da costruire, a partire da come si trattano inconsapevolmente i bebè (lo stesso pianto viene interpretato come «paura» nelle bambine e come «rabbia» nei bambini) fino a come si giudica il modo di porsi di un capo donna o uomo. È una questione sistemica, secondo le fondatrici di Artemia e bisogna lavorare su tutti i fronti, educativo, legislativo, politico. Commerciale. E imprenditoriale, come fa Artemia, che impiega oggi cinque persone nella sua sede di Neuchâtel ma che lavora in tutta la Svizzera. A contattarla sono aziende private o enti pubblici che hanno a cuore il problema. Chiedono di essere accompagnati nella ricerca del profilo giusto al fine di non operare discriminazioni e di ottenere la persona migliore per il posto vacante. «Bisogna spezzare un circolo vizioso: perché si tende a riprodurre il sistema conosciuto e così non se ne viene più fuori. Gli uomini per ora sono più presenti, quindi più visibili, quindi più comunicativi e sicuri di sé. Se si lancia un concorso e si guarda chi arriva, si troveranno più uomini. Se si cerca in modo superficiale, si trovano più uomini con esperienza direttiva e maggior numero di diplomi. Allora noi promuoviamo un metodo

di ricerca più capillare. Poi, al momento dei colloqui, dobbiamo tenere conto dell’immagine che abbiamo interiorizzato della persona formata, competente, capace di leadership, che in generale è un maschio bianco tra i 40 e i 50 anni vestito da un completo elegante; se qualcuno non corrisponde a quel modello, per età, etnia, abbigliamento o sesso, beh, sarà giudicato inconsapevolmente in modo meno favorevole. Quasi nessuno discrimina coscientemente, perciò noi proponiamo di sviscerare i comportamenti inconsci». Il lavoro di Artemia è dunque di fare ricerca insieme, a caccia di talenti anche di genere femminile, prendendo in considerazione una più vasta gamma di competenze. Dopo la ricerca dei candidati, accompagna l’azienda o l’ente pubblico nei colloqui per garantire che il processo di scelta avvenga senza pregiudizi. «Funziona solo se il committente ci crede, se capisce che abbiamo lo stesso suo scopo: trovare la persona migliore, senza escludere nessun candidato in partenza», spiega Jamet. «Le donne che incontriamo, cioè i talenti in ogni campo ad alto livello, per ora hanno bisogno di più tempo. Abbiamo osservato che gli uomini sono più ricettivi a una nuova proposta di lavoro; si buttano con maggiore facilità; sono più disposti a rischiare di rompere un equilibrio di vita per affrontare una nuova sfida. Le donne invece hanno in generale più paura di non essere all’altezza (e qui torniamo a motivi legati all’educazione) e in generale hanno più paura del cambiamento perché spesso se lo sono conquistato con più fatica, anche per questioni di gestione fami-

gliare. E qui subentrano ragioni di ordine sociale: bisogna ricordare a tutti, genitori e non, datori di lavoro e non, che per fare un figlio ci vogliono due persone mentre l’impatto sulla carriera pesa quasi interamente su una sola delle due persone, spessissimo la mamma», deplora la direttrice di Artemia. Si lavora dunque sia sulle donne con alta formazione, sia su chi potrebbe impiegarle, sia a livello di sensibilizzazione della società. «A proposito di maternità, bisogna ricordare che assumere la persona giusta, cioè trovare il talento che si stava cercando, è la cosa più importante. Poi, se sarà assente per qualche mese di congedo maternità una, due o tre volte nella sua carriera, non importa. Il tasso di natalità è veramente basso in Svizzera (1,5 figli), quindi le conseguenze non sono grandi. Gli uomini solevano assentarsi per questioni militari e non è mai stato visto come un problema. Le donne che diventano madri acquisiscono moltissime competenze e la loro assenza è solo una questione di organizzazione. Dell’azienda e della famiglia. Anche il lavoro parziale dopo la maternità è quasi sempre possibile e offriamo consulenza pure su questo punto preciso e molto importante». Già. Un altro ambito che preme su chi ha a cuore le questioni di genere è il tempo di lavoro: gli uomini si stanno piano piano accorgendo che possono anche loro diminuire la percentuale di impiego dopo essere diventati genitori. È giusto ed è bello. Questo riequilibra la ripartizione degli impegni professionali e familiari tra uomini e donne e li rende tutti più partecipi all’educazione dei figli, che sono il nostro avvenire.

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Idee e acquisti per la settimana

Eccellenza casearia veneta

Novità Lo stracchino Castellan Urbano è considerato uno dei migliori in Italia. Ora è in vendita nel tuo supermercato

Migros più vicino

Lo Stracchino firmato Castellan Urbano è un prodotto artigianale, fatto come una volta, lavorato con il solo utilizzo di latte vaccino di alta qualità proveniente dal Veneto. Il caseificio è stato fondato nel 1969 da Urbano Castellan, a Rosà, in provincia di Vicenza, e ancora oggi è condotto dalla stessa famiglia, nella fattispecie dalle figlie Sonia, Manola e Sara.

I metodi di lavorazione sono tuttora lenti, manuali e uniscono, oltre al genuino latte proveniente da 17 stalle selezionate che lavorano in esclusiva per il caseificio, solo altri tre ingredienti fondamentali: sale, caglio e fermenti. Da sempre si rinuncia ad ogni tipo di conservante o additivo. L’approccio è di quelli autentici, nel pieno rispetto del gusto genuino del

L’irresistibile T-Bone Steak

Attualità Uno dei più gustosi e teneri tagli

di carne per barbecue di sicuro successo

Non c’è niente di più invitante di un succulento taglio di carne cotto sulla brace. Lasciatevi allora prendere per la gola dal profumo di una bistecca TBone preparata a regola d’arte. Nota anche come Fiorentina, corrisponde alla lombata e al filetto del manzo uniti dall’osso con la caratteristica forma a T. Tenera, succosa e intensamente saporita grazie alla fine marezzatura, per una cottura perfetta il suo interno dovrebbe risultare ancora rosato, mentre l’esterno presentare una bella crosticina che ne preserva i preziosi succhi. Questo ricercato pezzo di carne non pesa mai meno di mezzo chilo. Il modo migliore per gustare la T-Bone è grigliata, sopra brace di carbone o di legna. Togliere la carne dal frigorifero almeno mezz’ora prima di cucinarla. Ungere leggermente la carne con dell’olio e porla sulla griglia rovente. Cuocere a fuoco vivo, girandola una sola volta con l’ausilio di una pinza e salandola alla fine. Non pungerla per evitare la fuoriuscita dei succhi. Il grado di cottura ideale della carne è al sangue, ossia quando la temperatu-

ra interna raggiunge i 55 gradi (ca. 10 minuti di cottura). Dopo la cottura è bene lasciare riposare la T-Bone Steak una decina di minuti affinché i succhi si possano distribuire uniformemente. Questa settimana alla Migros la costata di manzo svizzero TerraSuisse è in offerta speciale. La carne proviene da contadini che allevano i propri animali secondo i criteri di IP-Suisse. Ciò significa che i bovini sono tenuti nel rispetto della specie e della natura. Ricevono del foraggio sano, principalmente prodotto dalla fattoria stessa, e possono accedere liberamente ad uno spazio all’aria aperta.

prodotto e del consumatore, preferendo l’alto livello della qualità piuttosto che la quantità. Un’eccellenza che negli ultimi anni è stata anche premiata con importanti riconoscimenti, sia al Caseus Veneti sia all’Italian Cheese Awards, come pure al World Cheese Awards. Il nome Castellan Urbano è diventato in tutta Italia sinonimo di tradizione casearia

di altissima qualità. Un’azienda famigliare che ha saputo rimanere con successo sul mercato senza rinunciare alla propria identità, in grado di innovarsi negli anni ma rimanendo uguale nella sostanza. Una «bontà sincera» Lo Stracchino Castellan Urbano possiede una consistenza leggermente

compatta e un cuore fondente. È maturato 7 giorni affinché possa sviluppare il suo delicato sapore dolce, tondo, che lo rende ideale per piatti sia dolci che salati. Ha un colore candido, lucente, con gradevole profumo di latte fresco. Stracchino Castellan Urbano 200 g Fr. 3.95

Azione 30% Costata di manzo TerraSuisse 100 g Fr. 4.60 invece di 6.60 dal 18 al 24.8


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Idee e acquisti per la settimana

Fresche alla Migros

Attualità È tempo di gustare le squisite prugne svizzere Le succose e salutari prugne svizzere sono finalmente di ritorno sugli scaffali dei negozi Migros. Grazie ad un clima particolarmente favorevole, quest’anno la raccolta delle prime varietà precoci è iniziata verso la metà di luglio, vale a dire due settimane in anticipo rispetto all’anno scorso. La stagione delle prugne svizzere si protrae fino al mese di ottobre, tempo permettendo. Quest’anno si stima una produzione complessiva di 4041.9 tonnellate di frutti (fonte: Associazione Svizzera Frutta). La più coltivata in assoluto è la Fellenberg, che corrisponde a un terzo della produzione totale. Altre apprezzate varietà sono anche la Belle de Cacak, la Tegera e la Dabrovice. Le prugne svizzere sono coltivate principalmente nei Cantoni di Basilea Campagna, Soletta, Argovia, Turgovia e San Gallo. Tra le diverse proprietà salutari, i frutti sono anche ricchi di pectina e cellulosa, sostanze in grado di esplicare un effetto benefico sulla digestione. Le prugne si gustano fresche oppure come ingrediente per torte, dessert o piatti caldi. Sono ideali per essere trasformate in confetture o composte. Si possono congelare o essiccare. Azione 39% Prugne svizzere al kg Fr. 2.95 invece di 4.90 dal 18 al 24.8

Custodia per mascherine

Ecco un pratico accessorio che non può mancare quando siete fuori casa: il porta mascherine. Da portare con sé in viaggio, durante la spesa, in gita, al lido... e in tutte quelle situazioni in cui è importante avere a portata di mano il dispositivo di protezione, può contenere fino a 2-3 mascherine igieniche monouso. Grazie alla sua struttura robusta e al formato compatto, può

essere riposto comodamente anche nelle tasche dei pantaloni. Dal design moderno e con clip richiudibili per garantire la massima igiene, la custodia è disponibile nei tre colori bianco, azzurro e rosa. Mask Case in 3 colori Fr. 1.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Muri a secco e molto altro

Val Calanca Alla scoperta del paesaggio terrazzato di Rossa con i suoi muri a secco, la cui «arte di costruzione»

è stata inserita dall’UNESCO nel Patrimonio culturale immateriale dell’umanità Elia Stampanoni La Calanca non è una valle di transito come la vicina Mesolcina e forse per questo è anche un po’ meno conosciuta. Proprio per il fatto di non essere una via di passaggio, la quiete regna nei suoi villaggi e sul suo territorio, che comprende i paesi di Castaneda, Santa Maria in Calanca da un lato e Buseno, Arvigo, Braggio, Selma, Landarenca, Bodio-Cauco, Santa Domenica, Augio e Rossa dall’altro. Quest’ultimo si trova a una ventina di chilometri da Grono e lo si raggiunge risalendo la valle lungo il fiume Calancasca, colmando un dislivello di oltre 700 metri. Grazie alle prime ripide rampe ci si lascia presto alle spalle il fondovalle, immergendosi presto in un’altra dimensione. La vista sulla Mesolcina e i suoi dintorni o sulle vette circostanti è da ammirare, mentre poco prima del bivio per Castaneda e Santa Maria la strada verso Rossa si fa più dolce. L’ascesa prosegue però sempre in leggera salita, lambendo le varie località e offrendo anche più ampie distese e luoghi meno impervi. Raggiunto il paese di Rossa, a 1’088 metri di altitudine, sulla collina che domina dall’alto il pittoresco villaggio, è stata recuperato un paesaggio terrazzato, in zona Scata-Calvari, una frazione di Rossa che anticamente era un antico insediamento abitativo. Abbandonata da tempo, la zona è tornata a splendere nel 2018 grazie agli interventi intrapresi sull’arco di sei anni su iniziativa del comune di Rossa

con il sostegno del Fondo Svizzero per il paesaggio, del Progetto di parco nazionale Parc Adula, dell’Ufficio natura e ambiente del cantone Grigioni e di altre istituzioni o sostenitori, tra cui la ProCalanca e l’Ufficio cantonale della cultura (con il Servizio monumenti). Ci sono volute molte ore di lavoro per risistemare oltre un chilometro di muri a secco che oggi si possono di nuovo apprezzare salendo lungo il sentiero che, pure recuperato grazie anche al sostegno dell’USTRA, conduce a due chiesette colorate e prosegue di seguito verso gli alpeggi (e più in là permette di collegarsi con la valle Pontirone attraverso il Pass Giümela). La breve passeggiata lambisce i terrazzamenti e i muretti di Rossa, risalendo l’erto pendio per raggiungere la sommità da dove osservare l’intero comparto oggetto del recupero. L’importanza paesaggistica, ma non solo, dei muretti a secco è d’altronde riconosciuta da tempo anche dal Fondo Svizzero del paesaggio che, da oltre 25 anni, ne promuove la ristrutturazione sostenendo diversi progetti in tutta la Svizzera, sia grandi interventi che sorreggono dei sentieri o che permettono la coltivazione (per esempio i vigneti terrazzati), sia il rinnovo di più piccole strutture. Il comitato dell’UNESCO, Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, ha tra l’altro inserito nel 2018 l’arte della costruzione dei muri a secco nel Patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Una candidatura che era stata

presentata da otto paesi: Cipro, Croazia, Francia, Grecia, Italia, Slovenia, Spagna e Svizzera. Come riporta anche il sito italiano dell’UNESCO, «l’arte dei muretti a secco consiste nel costruire sistemando le pietre una sopra l’altra, senza usare altri materiali se non, in alcuni casi, la terra asciutta». Queste costruzioni dimostrano quindi «l’armoniosa relazione tra gli uomini e la natura e, allo stesso tempo, rivestono un ruolo vitale per prevenire le frane, le inondazioni e le valanghe, ma anche per combattere l’erosione del suolo e la desertificazione». Oltre al recupero dei terrazzamenti e dei muretti, il progetto ha permesso di riattare anche una cascina che ospita oggi una sala adibita a centro d’informazione e in cui ci imbatte salendo, poco dopo la preziosa fontana. Oggi la zona si ripresenta quindi con numerosi terrazzi e una mulattiera che corre tra due basse mura in sasso, attraversando quello che una volta fu l’abitato di una comunità stimata in una trentina di persone. Un piccolo villaggio che, per cause ancora sconosciute, fu abbandonato nella prima metà dell’Ottocento, lasciando lentamente spazio all’avanzata del bosco, anche se sui terrazzamenti vennero inizialmente mantenute alcune attività agricole, come la coltivazione di cereali o altre colture. Di seguito e fino all’abbandono definitivo si praticò ancora la fienagione, che è oggi di nuovo possibile ed eseguita da alcuni agricoltori della zona.

i muri a secco sopra rossa e una delle tre chiesette riattate. (Elia Stampanoni)

Una seconda tappa è inoltre in fase di esecuzione su una zona a ridosso del comparto già risanato, come ci conferma il sindaco di Rossa Graziano Zanardi: «Verrà recuperata un’altra zona terrazzata, con ulteriori 700 metri circa di muretti a secco all’entrata della frazione di Scata-Calvari, mentre più a monte verrà sistemato il sentiero che conduce al Monte Lepre». Interventi che, su iniziativa del comune, sono appoggiati anche dal progetto Parco Valle Calanca. Sempre a Rossa, lo scorso anno sono anche state riattate tre chiesette con il sostegno della fondazione RossArte e della ProCalanca, di cui due si

trovano proprio a ridosso o nel mezzo della zona oggetto del recupero paesaggistico. Le cappelle seicentesche, precedentemente in disuso e in cattivo stato, sono state ridipinte con colori e disegni particolari per mano dell’artista anglosvizzero David Tremlett (si veda «Azione 36» del 2 settembre 2019). Un intervento che, come ci conferma il sindaco, «seppur non abbia ricevuto un consenso unanime, ha però trovato l’importante plebiscito della maggior parte popolazione locale e dei turisti che accorrono a visitarle». Le tre chiesette splendono ora a Rossa e sulle sue alture, accompagnate dal paesaggio terrazzato con i suoi muretti e tutto il resto. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

La comunicazione in stile ticinese

Politica e informazione Durante la fase acuta della pandemia la comunicazione del Consiglio di Stato ticinese

è stata affidata al servizio stampa della polizia cantonale – Un’anomalia rispetto alla prassi del Consiglio federale Roberto Porta L’emergenza generata dal coronavirus è ormai entrata in una seconda fase, con un incedere per il momento più moderato della pandemia. Un’evoluzione che ha portato il Consiglio di Stato ticinese a decretare la fine dello «stato di necessità» e anche a modificare le proprie modalità comunicative. Le conferenze stampa e, più in generale, la comunicazione sul tema, sono infatti affidate ora al Servizio dell’informazione e della comunicazione del Consiglio di Stato (SIC) e non più, come è accaduto a partire dal mese di marzo, al servizio stampa della polizia cantonale, cosa a ben guardare piuttosto strana. È come se le conferenze stampa del Consiglio federale fossero affidate alla polizia federale e non alla Cancelleria, come è invece sempre stato il caso, anche nella fase più delicata dell’emergenza sanitaria che stiamo attraversando.

Gobbi: «In Ticino i media e i cittadini hanno un contatto stretto con i Consiglieri di Stato, mi piace pensare di non aver bisogno di un portavoce» Ma come mai in Ticino la comunicazione governativa è stata per diversi mesi affidata agli addetti stampa della polizia, anche quando il Consiglio di Stato si è presentato in corpore davanti al Paese? «Non è così, – ci risponde il Presidente del Consiglio di Stato, Norman Gobbi – in caso di crisi la comunicazione è affidata a una cellula appositamente contemplata dall’organizzazione dello Stato Maggiore Cantonale di Condotta (SMCC). In tale cellula lavorano sì i collaboratori del servizio stampa della polizia, ma pure i collaboratori dei singoli Dipartimenti e del SIC. Nel caso specifico di questa crisi sanitaria, il SIC ha fornito supporto al Consiglio di Stato e alla cellula di comunicazione a livello di strategia e pianificazione. In questo senso un lavoro forse poco visibile pubblicamente, ma continuo e costante durante tutte le

fasi della crisi. Chi ha seguito le conferenze stampa ha sicuramente notato Oliver Broggini – che lavora proprio per il SIC – condurre diversi infopoint, mentre Ivan Vanolli – anche lui attivo presso il SIC – è rimasto nell’ombra ma sempre presente e attivo a supporto della cellula. Questi compiti sono stati svolti in costante contatto con il responsabile della cellula, Renato Pizolli, e i suoi membri tra cui anche alcuni colleghi della RSI, grazie a una speciale convenzione siglata con la SSR». Una convenzione e una collaborazione con la RSI che ha generato una serie di interrogativi e di polemiche, visto che i giornalisti in questione – sette in tutto – hanno avuto una sorta di doppio ruolo. Da una parte hanno prestato servizio – in seno alla protezione civile – proprio in favore della cellula di comunicazione dello Stato, e dall’altra sono a turno rientrati nelle loro rispettive redazioni, continuando a lavorare come giornalisti. Da più parti – anche dall’interno della RSI – è giunta pertanto la richiesta di perlomeno rivedere questa modalità di collaborazione con le autorità cantonali. Si tratta di un accordo – questo va comunque ricordato – siglato e immaginato per periodi di emergenza puntuali e molto più brevi di quanto non sia stata finora questa pandemia. In attesa di capire se e come la RSI modificherà il suo apporto in caso di crisi rimangono comunque anche altri interrogativi aperti, uno riguarda proprio il SIC, il Servizio dell’informazione e della comunicazione del governo. Come mai questo servizio – pur avendo quattro collaboratori – ha avuto un ruolo piuttosto marginale nella comunicazione del governo ticinese nel corso dell’emergenza da coronavirus? «Come detto il SIC ha partecipato attivamente ai lavori della cellula comunicazione dello Stato maggiore di condotta, con un ruolo di raccordo tra lo stesso SMCC, il Consiglio di Stato e i Dipartimenti – ci dice ancora Norman Gobbi – in tempi “normali” il SIC coordina l’attività informativa e di comunicazione con i dipartimenti, sviluppando processi e nuovi strumenti di comunicazione (come, ad esempio, i social media, i video informativi, le infografiche, ecc.), rimanendo il responsabile unico della comunicazione

Christian Vitta, giorgio Merlani e alain berset, il 19 marzo di quest’anno, durante una conferenza stampa del governo. (Ti-Press)

sulle decisioni governative. Il SIC dispone di quattro collaboratori: due al 100% dedicati alla comunicazione del Consiglio di Stato, un collaboratore al 50% dedicato in particolare al progetto OltreconfiniTi e Estage, e una grafica e fotografa al 50%». Resta il fatto che a livello federale, e non solo nel periodo della pandemia, le conferenze stampa del governo e l’insieme della sua comunicazione sono organizzati dalla Cancelleria della Confederazione, in particolare dal vice-cancelliere André Simonazzi. Non potrebbe essere questo – Norman Gobbi – un modello anche per il Ticino? «L’esperienza di questi ultimi anni ha permesso di trovare una buona sinergia tra l’attività del SIC e la comunicazione dei cinque Dipartimenti, con questi ultimi che fanno sempre riferimento al SIC non solo per gli aspetti strategici ma anche per quelli organizzativi delle conferenze stampa e dei comunicati stampa dipartimentali». Va comunque ricordato che il SIC opera all’interno della Cancelleria dello Stato e che non esiste un vero e

proprio portavoce del governo. Ogni Consigliere di Stato fa riferimento in questo ambito ai propri collaboratori. Non c’è il rischio che la comunicazione del Consiglio di Stato nel suo insieme ne possa risentire, per una mancanza di omogeneità, visto che ogni dipartimento in questo ambito si muove in modo autonomo? «Non mi sembra si possa correre questo rischio – replica Norman Gobbi – anche perché quasi sempre su punti importanti è il Presidente del Governo a presentarsi davanti ai giornalisti, dopo concertazione con i colleghi. Il Presidente e in generale il Governo possono in ogni momento avvalersi del supporto del SIC anche per quanto riguarda il coordinamento dell’informazione. L’organizzazione della comunicazione durante la crisi pandemica ci ha fatto vedere l’importanza di una comunicazione il più coordinata possibile. E proprio in questo senso che, come Governo, abbiamo già chiesto al SIC di mettere a frutto questa esperienza proponendo alcuni accorgimenti che possano contribuire a un miglior coordinamento».

Anche per questo motivo il Consiglio di Stato attualmente non si avvale di un responsabile della comunicazione governativa, esperienza iniziata ma quasi subito abbandonata una decina di anni fa. «In Ticino sia i media, sia i cittadini – sottolinea il Presidente del Consiglio di Stato – hanno un contatto molto diretto con i Consiglieri di Stato. Mi piace pensare di non aver bisogno di un portavoce per comunicare con i miei concittadini, sia come Consigliere di Stato, sia come Presidente del Governo». Questo dimostra che i ministri ticinesi intendono gestire in prima persona la comunicazione con i cittadini. Le strutture comunicative hanno di fatto un compito di supporto come avvenuto anche nelle fasi più acute della crisi. Periodo che speriamo di non dover rivivere, per le sue conseguenze dal punto di vista sanitario ed economico. Dal punto di vista della comunicazione, speriamo e auspichiamo di non dover più confrontarci con conferenze stampa in assenza dei giornalisti, come accaduto nel periodo più critico della pandemia.

La cronaca giudiziaria ticinese sotto la lente

Pubblicazioni Un giurista-docente e un giornalista raccolgono in un libro gli errori in cui è incorsa l’informazione

giudiziaria ticinese nel 2019, aprendo anche un dibattito sui limiti del diritto processuale cui deve sottostare Enrico Morresi Non la legge ma la qualità e la varietà degli strumenti di formazione e di critica permettono la denuncia e la revisione degli errori che i media commettono. Mi piace riprendere questa che Russ-Mohl considerava la chiave del libero funzionamento dei media in America a proposito di un libro uscito da poco in Ticino, opera congiunta di un giurista-docente e di un giornalista attivo alla RSI. In cui al rigore del primo, soprattutto nella citazione dei riferimenti legali, si unisce la puntigliosa registrazione, da parte del secondo, di (oso dire, all’apparenza) tutte le pubblicazioni uscite in Ticino nel 2019, sia a stampa, sia via etere, sia ancora in quell’universo sconfinato che sono i social media. I due autori non si azzardano a calcolare quanto spazio percentualmente occupi la cronaca giudiziaria nell’insieme dell’offerta

giornalistica in Ticino ma è da presumere che sia una bella fetta: un terzo, un quarto? Un effetto della registrazione puntuale degli errori e degli svarioni in cui è incorsa l’informazione giudiziaria ticinese nel 2019 potrebbe giustificare un giudizio molto negativo. In qualche caso (come quando dalla lettura errata di un comunicato si dedusse la «notizia» di un giro di mutilazioni genitali a danno di bambine figlie di immigrati) si potrebbe giustificare una disdetta dell’abbonamento. Ma non è su questo tono che i due autori si divertono a criticare, la loro è un’impresa seria. Malgrado l’impegno sul fronte della procura pubblica («Il Servizio comunicazione, media e prevenzione è composto di sei persone», p. 108), questioni rimangono aperte sui due fronti. Sul fronte delle redazioni, in primo luogo, ove all’incompetenza fattuale

si associa persino l’incompetenza verbale (il codice commìna una sanzione, la corte la infligge!), il rimedio deve consistere in una selezione e formazio-

ne più severa degli addetti. Ma anche sul fronte della magistratura e della politica. L’avvento del nuovo Codice di diritto processuale (prima si chiamava: Codice di procedura penale) ha sconvolto la terminologia, ma ha pure aggravato il compito dei media inasprendo le condizioni di ammissibilità e di conoscenza degli incarti, abolendo quasi totalmente la possibilità di citare i nomi delle persone in causa, riducendo le cronache a parvenze di notizia e in definitiva – ne concludo – negando al pubblico il diritto all’informazione garantito dalla Costituzione. Il senatore Fabio Abate aveva proposto un riesame della questione e il Consiglio degli Stati (contro un parere negativo dal tono arrogante espresso dal Consiglio federale) gli aveva dato ragione approvando la sua mozione. Passata al Nazionale e difesa da nessuno, la proposta di Abate è affogata senza destare reazioni. Anzi, no: una reazione ci sarà.

L’Associazione Ticinese dei Giornalisti e l’Università della Svizzera italiana preparano un rapporto sulla menzione dei nomi in cronaca a scala, addirittura, europea. Auguriamoci che i quiriti le riservino, a tempo debito, una migliore attenzione. Il volume è completato da tre excursus molto interessanti: di Bertil Cottier Cronique judiciaire: avec ou sans les noms, di Nicolas Capt e Irina Riera Le droit à l’oubli dans le monde de la presse digitale, illusion ou réalité?, e di Andrea Frattorillo Vox populi vox Dei? Il fenomeno dei processi visti dai social media, in particolare il caso del pestaggio di Giumaglio. Bibliografia

D. Cerutti / F. Lepori, La cronaca giudiziaria ticinese. Sguardi comunicativi, giuridici e metodologici, Helbling Lichtenhahn, Basilea, 2020, pp. 161.


Veramente Nostrani!


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Società e Territorio Rubriche

Approdi e derive di Lina Bertola L’idea del bene, una bussola silenziosa L’incertezza sui possibili sviluppi dell’emergenza sanitaria induce le istituzioni competenti a pensare e ripensare regole di comportamento che permettano di tenere sotto controllo l’epidemia. Al di là di discutibili forme di insofferenza verso un potere ritenuto troppo invadente che sembrerebbe minacciare le nostre libertà, a me pare invece più interessante riflettere su un’altra questione che concerne il nostro modo di abitare la vita insieme agli altri. Mi riferisco alla poca attenzione riservata, in non pochi casi, a queste nuove regole e mi chiedo perché non sempre vengano recepite nel loro valore e fatichino ad essere accolte, accettate ed interiorizzate. Una prima risposta ci è suggerita dalle parole di Kant. Le regole di comportamento che servono ad uno scopo non hanno molto a che vedere con l’agire morale. Il filosofo parla di imperativi ipotetici, azioni scelte in funzione di un altro obiettivo. Se voglio ottenere

questo, nel nostro caso bloccare la pandemia e proteggere la mia salute, allora devo agire così. Queste norme mirano a incoraggiare comportamenti apprezzabili e condivisibili ma non interpellano quella che Kant chiama «la legge morale in me». Questa legge mi dice di scegliere un comportamento non per raggiungere un altro scopo, ma perché riconosciuto buono in sé stesso. Una finalità verso cui orientare la mia vita. Mi sembra una distinzione molto interessante che può aiutarci a comprendere la nostra attitudine nei confronti di norme stabilite dall’esterno, ovvero norme che non nascono in noi come scelta personale. Oggi viviamo dentro una vera e propria cultura dei regolamenti che accompagna le relazioni tra le persone in ogni ambito della convivenza sociale. La presenza di sempre nuove e mutevoli regole di comportamento, legate al Covid-19, non fa che esasperare una situazione già abbastanza diffusa nelle

nostre società che qualche problemino etico lo pone di suo, a prescindere dalle accelerazioni dettate dal coronavirus. Le regole deontologiche, i codici di comportamento, garantiscono buone relazioni fondate sulla correttezza del nostro agire. Ma questi regolamenti ci trattengono alla superficie della questione etica. Il rispetto di norme imposte dall’esterno, proprio come le regole di ogni gioco, non ci costringe ad interrogarci sul loro valore, non ci mette in contatto con una visione di ciò che è bene, ovvero con un punto di riferimento che preceda e dia un senso all’agire corretto. Se è corretto, ciò che faccio è anche buono, punto. Non sono sollecitato a chiedermi se la mia azione sia corretta perché buona. La differenza non è irrilevante e spiega anche una certa leggerezza e disattenzione quando le regole, come in questo periodo, si complicano un po’. Ciò che è in gioco è la differenza tra l’etica, che interpella il bene, e la deontologia che ci accoglie

sulla soglia del bene, tra le braccia della correttezza. L’idea del bene è spesso assente nel nostro modo di ragionare sui valori e sulle scelte. Certo, possiamo affermare che «va bene» quando si tratta di qualcosa di corretto e condivisibile. Ma il bene, inteso come ciò cui dovrebbero riferirsi azioni ritenute buone, spesso non abbiamo il coraggio di nominarlo. È come se una specie di autocensura si fosse impossessata di una parola ritenuta troppo impegnativa; una parola imbarazzante, anche, e questo perché spesso, proprio in nome del bene, dogmi, soprusi e violenze hanno segnato la storia. Eppure, l’idea di ciò che è bene resta sullo sfondo del nostro agire come una bussola silenziosa. Ce ne possiamo accorgere ogni volta che di fronte ad un’azione corretta, di fronte a una decisione legale, ci capita di restare perplessi e di sentirle come qualcosa di inopportuno. Regole corrette, giuste, ma inopportune, che non

soddisfano il cuore. La parola inopportuno allude ad un valore che trascende la legalità. L’etimo contiene l’idea di un porto: una cosa inopportuna potrebbe essere una cosa che non riesce a raggiungere il suo porto. Un’azione inopportuna potrebbe essere quella che non arriva in porto, e il porto, potrebbe proprio essere quel bene che non abbiamo più il coraggio di nominare. Mantenere uno sguardo attento su questo approdo, nominarlo senza falsi pudori, non significa certo voler definire ciò che è bene, con tutti i rischi di dogmatismo retrogrado che ciò comporterebbe. Riconoscerne la presenza significa semplicemente riuscire a percepirlo come idea limite, come un orizzonte verso cui sporgere lo sguardo, come forma universale del valore della vita. Un’idea limite che non dice che cosa dobbiamo fare ma indica solo come è bene camminare nella nostra vita. Un’occasione, forse, per superare le tante, troppe fragilità della convivenza.

sono sparite, una caduta è conservata con cura in un armadio. A guardarle bene, oltre ai fiori si possono scorgere minuscole siluette nere come una volpe, coppie di ballerini, un diavolo. Incanta una cameretta nella torre: tutta dipinta per dare l’illusione di trovarsi sotto un pergolato con pianta rampicante e fiori qua e là tra l’azzurro del cielo. Mobili da giardino d’epoca color panna e turchese, un tavolino-nido di ferro battuto intrecciato con sopra una felce, completano quest’angolo di mondo che vale il viaggio. Girovagando – tra tappezzerie damascate color granita di more di rovo, decorazioni optical blu oltremare e oro, dipinti rococò-kitsch di Gaspare Tirinanzi, armi esotiche delle isole Fiji – dalle finestre vedo entrare il giardino e il paesaggio intorno. Alberi curiosi, pinete e nevai sopra tra le rocce, il tutto intinto nella luce di temporale imminente che accresce la magia di queste stanze. All’ultimo piano c’è la mostra permanente donata da Dolf Kaiser e intitolata come il suo libro-faro Fast ein Volk von Zuckerbäckern? (1985): Quasi un popolo di pasticceri? Il pezzo forte

è forse il diorama che ritrae l’interno della Conditorei Barth & Cloetta a Breslau. Brillano gli occhi e la fantasia galoppa anche con le scatole di fruits glacés della Confiserie Castromuro di rue de Paradis diciannove a Marsiglia, quella a forma di mandorla dei calissons d’Aix della Confiserie Léonard Parli ad Aix-en-Provence, le tazzine da caffè della pasticceria Tramer a Cagliari, Tarnuzzer a Vercelli, Stoppani a Bari e altro ancora. A un certo punto della visita al «castello dei baroni pasticceri» contenuta in Cuochi, artisti, e visionari (2004), Paolo Paci viene fissato da un dagherrotipo che immortala Rodolphe Salis. Nipote di pasticceri, è il fondatore del Chat noir, leggendario cabaret a Montmartre. Palazzo Castelmur, tra l’altro, è sede dell’archivio storico della Bregaglia, così Gian Andrea Walther, custode spirituale, mi porta in una stanza dove trova una scatola con tutto il materiale mirabolante su Rodolphe Salis (1851-1897). Un racconto, uscito sul suo settimanale «Le Chat noir» del ventisette giugno 1885, è intitolato Voyage imprevu.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Il Palazzo Castelmur a Coltura Bisogna proprio avere le fette di salame sugli occhi, per non accorgersi, passandoci via, di Palazzo Castelmur. Quel castello sul rosa, totalmente fuori luogo, è un ricordo antico, senza nome, depositato da quasi sempre nel subconscio. Mi ha colpito da piccolo, vedendolo dal finestrino della macchina, passando via da lì per andare a sciare in Engadina. E così, un mattino temporalesco di agosto mi sembra ora di andare a dargli un’occhiata in località Coltura, a Stampa. A piedi, arrivando da dietro, assaporo passo dopo passo lo scoprire che il castello avvistabile dalla strada principale è illusionistico. È una vecchia casa dal tetto in piode con solo la facciata davanti turrita, la cui merlatura a coda di rondine attira gli sguardi increduli dei viaggiatori. Una messinscena teatrale, la cui bellezza è nel suo disvelamento voluto, come un gioco paesaggistico per passeggiatori. E di colpo lo preferisco di gran lunga ai castelli veri che sono, va pur detto una buona volta, di una noia mortale. Amo da matti i momenti prima del temporale, le rondini ora sembrano impazzite, percorro con gli

occhi le mura dal colore sfuggente afferrabile solo per un momento in un rosso pompeiano slavato che sfocia in un rosa isolano. Emerge superbo perché scolorito dal tempo, un motivo a scacchiera da decifrare. Mattoni-trompe-l’œil, dipinti formando dei rombi, come Palazzo Ducale a Venezia, dall’imbianchino Zaverio Tessera. Ingaggiato da Giovanni de Castelmur (1800-1871): l’ideologo di questo palazzo-castello, unico nel suo genere di settecentesca casa patrizia vallerana truccata, tra il 1848 e 1854, in castello gotico lombardo-veneto. Nato e cresciuto a Marsiglia dove incrementa la fortuna di famiglia fatta nel ramo della pasticceria. La casa, affacciata sulla piazzetta di pietre fluviali, risale al 1723 ed è stata costruita da muratori valmaggesi, per Zuane Redolfi (16581742): nipote di pasticceri emigrati a Venezia. Varco, alle undici in punto, la soglia di palazzo Castelmur (1017 m) a Coltura. Proprietà dal 1961 del comune di Bregaglia e aperto al pubblico come museo, la sua anima è Gian Andrea Walther, impegnato adesso ad accogliere come si deve una piccola visitatrice di

nome Amira. Alle sue spalle, la prima meraviglia: un modellino di un edificio dei Castelmur a Marsiglia costruito cinque anni fa con zollette di zucchero – omaggio ai Zuckerbäcker grigionesi in giro per il mondo – dall’artista sudtirolese Manfred Alois Mayr. Bartolomeo Castelmur, fratello di Giovanni, è l’autore dei sette acquarelli alle pareti di cembro della stüa bargaiota con soggetto uccelli esotici. Una dozzina di colibrì imbalsamati, appollaiati su un ramo di cartapesta adornato da fiori di ciliegio, bacche, e altre diavolerie floreali, sotto una campana di vetro, stupirebbero anche il più scafato dei wunderkammeristi. Ma a bocca aperta rimango all’inizio delle scale, dove sul corrimano c’è una sfera di cristallo millefiori della manifattura Saint-Louis. Mentre anche il semplice contrasto della pietra delle scale con il velluto rosa del corrimano, può estasiare. Al primo piano, altre nove sfere sono in vetrina; due anni di lavoro ci vogliono per creare questo effetto millefiori che ricorda qualcosa di una barriera corallina. In tutto erano sedici, otto per rampa di scale, cinque

La società connessa di Natascha Fioretti Cosa possiamo fare noi per il giornalismo di qualità? La volta scorsa ci siamo lasciati con alcune domande e da queste vorrei ripartire. Quanto tempo dedichiamo ogni giorno alla lettura di notizie? A quanti giornali siamo abbonati? Soprattutto, che valore diamo al nostro informarci, alla conoscenza di ciò che accade, all’approfondimento di temi e questioni che ci interessano per motivi professionali o personali? È ancora un’abitudine la lettura del giornale? Da qualche anno a questa parte, vuoi per la crisi economica e l’innovazione tecnologica, vuoi per una qualche fake news di troppo, i media in generale hanno subito un calo d’immagine, di forza e sono spesso sotto i riflettori della critica. Si tende ormai quasi sempre ad analizzarne difetti, mancanze e debolezze. Ma, insomma, anche qualche pregio ce l’hanno se ci accompagnano da tanti secoli. Il

primo quotidiano impostato in modo moderno fu la «Leipziger Zeitung» nata a Lipsia nel luglio del 1650. Forse, senza abbassare la guardia perché è giusto mantenere uno sguardo critico, un’attenzione costante sull’operato dei media, è venuto il momento di chiederci cosa possiamo fare noi per l’ecosistema informativo di qualità e quindi per noi stessi, per la nostra conoscenza di ciò che ci accade intorno e per il nutrimento del nostro pensiero critico. Non come atto di carità o di pietà ma come atto di dovere civile basato su una salda convinzione: senza informazione, senza giornalismo di qualità e di approfondimento siamo cittadini a metà. In tempi in cui le maggiori testate del mondo si possono leggere anche online dovremmo sentire una maggiore necessità d’informazione e di ampliare i nostri orizzonti.

Sorge di riflesso un’altra domanda: quanto siamo disposti a spendere per un giornalismo di qualità? Quale valore diamo al giornalismo? Quanto una cena al ristorante per due persone? Il costo dell’ultimo modello dell’iphone? Diamo qualche cifra. L’abbonamento annuale alla NZZ in formato digitale costa 559 franchi, alla testata zurighese «Republik» 240 franchi e al «New Yorker» 49.99 il primo anno e 99 dollari il secondo. Qualcuno potrebbe dire non è poco e questo ci riporta al succo della questione: che priorità e importanza diamo nella nostra vita alla lettura quotidiana del giornale? In Corriere primo amore il giornalista Gaetano Alfetra che fu anche direttore del «Corriere della Sera» scrisse: «Tutto ciò che riguardava i giornali era per me fonte di un fascino irresistibile, quasi fisico: aspettavo l’arrivo

dell’autobus della posta con i pacchi dei giornali e quando il rivenditore, il vecchio Andrea Savo, andava a prenderli, il cuore mi batteva forte se sapevo che c’era qualcosa di mio stampato. Il gesto con cui, con un colpo di coltello, apriva il pacco da cui sfarfallavano fuori le copie arrotolate, fresche e nitide, come petali di fiore, resta per me indimenticabile. Ne prendevo una copia, cercavo il mio pezzettino, mi appartavo e lo leggevo a voce alta». Qualcosa di questo fascino e di questa attesa deve essere rimasto anche per noi. Certo la lettura esige fatica e bisogno di concentrazione, esige tempo, quel tempo che oggi sempre di più è oggetto di distrazioni digitali. Ma, come dice il sociologo italiano Franco Ferrarotti, senza concentrazione non c’è autoconsapevolezza, non c’è pensiero profondo. E, mentre le di-

strazioni digitali ci allontanano da noi stessi, i giornali ci avvicinano, questo almeno è il mio pensiero. Voglio chiudere questa riflessione con una buona notizia di qualche giorno fa. Per la prima volta da sempre i profitti dell’edizione digitale del «New York Times» hanno superato quelli della versione cartacea. I ricavi digitali, sommando abbonamenti e pubblicità, hanno superato quelli della carta: 185,5 milioni di dollari contro 175,4. «Abbiamo dimostrato che è possibile creare un circolo virtuoso in cui gli investimenti sul giornalismo di qualità creano un coinvolgimento del pubblico che a sua volta fa salire i profitti consentendo nuovi investimenti», ha commentato un entusiasta Mark Thompson, CEO uscente, sottolineando la crescita della redazione mentre il resto del settore è colpito da contrazioni nel personale.


Fatto per piacere, fatto in Italia.

Trovi questa e molte altre ricette della cucina italiana su migusto.ch/bella-italia

Focaccia al salame Per arricchire un aperitivo ecco una focaccia morbida e gustosa che nasconde sfiziosi dadini di salame e profuma di rosmarino. La preparazione dell’impasto è piuttosto semplice e l’attesa sarà premiata.

2 h 25 min

Principianti

INGREDIENTI Per 12 persone 160 g di salame 1 mazzetto di rosmarino 450 g di farina 2 cucchiaini di sale farina per lavorare 150 g di pomodori cherry olio d’oliva per condire

20% Tutti i prodotti di salumeria Citterio in self-service, per es. salame Milano al pezzo, Italia, per 100 g, 3.85 invece di 4.85

Biga 20 g di lievito fresco 3,5 dl d’acqua tiepida 1 cucchiaio di zucchero 50 g di farina

TAPPE DI PREPARAZIONE Per la biga, mescolate il lievito con l’acqua, lo zucchero e la farina. Coprite l’impasto con un telo umido e lasciate riposare in un luogo caldo per ca. 15 minuti. Tagliate il salame a dadini. Tritate grossolanamente la metà degli aghi di rosmarino. Mescolate la biga con i dadini di salame, la farina, il sale e il trito di rosmarino. Impastate il tutto per ca. 3 minuti fino a ottenere una massa umida. Coprite l’impasto con un canovaccio umido e lasciate lievitare a temperatura ambiente per ca. 1 ora, finché la massa non raddoppia di volume. Foderate una teglia con carta da forno. Versate l’impasto sulla teglia leggermente infarinata e con le mani stendetelo in una sfoglia spessa ca. 5 mm. Lasciate lievitare ancora per ca. 15 minuti. Scaldate il forno a 220 °C. Con la punta delle dita praticate degli incavi sulla superficie e inserite in ogni incavo un pomodoro cherry. Distribuite il resto del rosmarino sulla pasta. Irrorate con olio d’oliva. Cuocete la focaccia al cento del forno per ca. 25 minuti. Sfornate e servite la focaccia calda.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 agosto 2020 • N. 34

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Ambiente e Benessere Gli ultimi vetrai di Murano Una gita sull’isola che rende uniche le opere d’arte uscite dalle sue fornaci

Soffici all’aglio Buonissimi panini che hanno un solo difetto: uno tira l’altro! pagina 19

pagina 15

Tuffo nel cielo stellato Sempre più concreta la possibilità di diventare turisti dello spazio

Fischi lunghi e acuti Reportage dalle praterie alpine dove si possono osservare le infallibili marmotte nel loro ruolo di sentinelle pagina 26

pagina 23 il ricercatore tommaso Virgilio dell’irb di bellinzona. (Stefano Spinelli)

Si indaga sul melanoma

Medicina Il tumore della pelle marcia più veloce e la ricerca si concentra sulle sue metastasi

Maria Grazia Buletti A causa della pandemia Covid-19, la Campagna contro il cancro della pelle di quest’anno non avrà luogo come di consueto. Questa la decisione della Società svizzera di dermatologia e venereologia (Sgdv) che però esorta tutti a prestare la necessaria attenzione alla pelle, senza dimenticare di godersi il sole ma con cautela, e di proteggersi dai raggi UV. Dei tumori della pelle bisogna parlare perché dobbiamo tenere presente che sono fra i cancri più frequenti nella popolazione. Una persona su tre sviluppa prima o poi un cancro alla pelle e con circa 2500 nuovi casi di melanoma diagnosticati all’anno, la Svizzera detiene il primato del tasso di incidenza fra i più alti in Europa. Già qualche tempo fa, avevamo intervistato il dermatologo Gionata Marazza che ci aveva messo in guardia: «In seguito ai cambiamenti climatici, alle abitudini di vita e alla predisposizione genetica, i tumori che attaccano la pelle sono in aumento e colpiscono sempre più anche i giovani». I più usuali sono il carcinoma basocellulare e quello squamocellulare: «Sono molto più frequenti del melanoma, ma fortunatamente curabili in modo efficace se diagnosticati precocemente».

È il melanoma, però, ad essere il più temuto perché molto più pericoloso degli altri due, anche se meno diffuso. E marcia più veloce, come conferma il ricercatore Tommaso Virgilio che incontriamo all’IRB di Bellinzona (Istituto di Ricerca in Biomedicina, affiliato all’Università della Svizzera italiana). Virgilio è attivo nella ricerca Modulazione in vivo della risposta del linfonodo sentinella alle metastasi di melanoma per una migliore immunoterapia: lo studio sulle metastasi del melanoma a cui è stata assegnata una delle cinque borse di studio da IBSA Foundation Fellowships. L’importanza di questa ricerca risiede nella pericolosità del melanoma: il più letale tra i tumori della pelle, a causa della sua abilità nel formare metastasi: «Sono cellule tumorali capaci di lasciare il tumore originario e migrare al linfonodo più vicino (sentinella), da dove accedono ai vasi sanguigni e invadono altri organi come i polmoni e il cervello. Qui le cellule metastatiche danno origine a nuovi tumori (metastasi), potenzialmente letali per la persona». L’interesse di una ricerca di questo tipo risiede in diverse ragioni e possiamo in effetti considerarla una sorta di prevenzione parallela a quella di sensibilizzazione della popolazione:

«La prevenzione delle campagne che si rivolgono alle persone si concentra sull’informazione riguardo ai possibili rischi del melanoma, con i relativi consigli su come evitarli; che questo abbia una grande importanza è dimostrato, ad esempio, dallo screening mammario dove la prevenzione funziona molto bene». Il significato preventivo della ricerca di cui stiamo parlando agisce in un altro senso: «Vogliamo arrivare a limitare, in futuro, il numero di nuovi casi: i nostri studi sono mirati a trovare come insorge la malattia, dando nuovi strumenti per limitarne l’aumento dell’incidenza del melanoma». Ancora una volta, il nostro interlocutore osserva che purtroppo la percezione del rischio è sottostimata: «La persona media non si protegge dai raggi UV nemmeno quando fa una passeggiata d’estate». Così egli ribadisce la pericolosità di questo tumore a causa della sua incidenza crescente: «Una caratteristica unica e particolare all’interno della grande classe di tumori che lo vede purtroppo in aumento soprattutto nei paesi occidentali; la Svizzera è piccola, ma all’ottavo posto nel mondo dei paesi con incidenza maggiore di melanoma: secondo i dati 2018 dell’OMS e considerando tutte le età, per incidenza è il quinto tumore più frequente negli uo-

mini (dopo prostata, colon-retto, polmoni e vescica) e quarto nelle donne (dopo seno, colon-retto e polmoni)». Le raccomandazioni sono sempre quelle, ma vanno ricordate: «La migliore prevenzione è il monitoraggio delle lesioni precancerose che devono essere tenute costantemente sotto stretto controllo». Si può fare un parallelismo con il tumore al seno per il quale l’aumento dei controlli e la sensibilizzazione si sono dimostrate due chiavi vincenti. «E come il tumore al seno, il melanoma diventa molto aggressivo quando metastatizza, ecco perché il suo riconoscimento precoce è di importanza decisiva e la sua rimozione chirurgica può salvare la vita», afferma il ricercatore che spiega come questa ricerca (capitanata dal capo laboratorio responsabile di progetto dottor Santiago Gonzalez) si concentra proprio sulle cellule metastatiche giunte all’interno del linfonodo sentinella. Una direzione doppiamente importante per il fatto che: «Nonostante questo processo sia noto e importante, ancora poco si sa su come il cancro possa crescere nel linfonodo sentinella, che è un organo di per sé ricco di globuli bianchi». Gli studi condotti fino ad ora hanno già portato a qualche scoperta: «Abbiamo dimostrato che specifici globuli bianchi, chiamati macrofagi, produco-

no delle proteine infiammatorie capaci di promuovere la crescita tumorale». Grazie al sostegno di IBSA Foundation Fellowships, e con l’ausilio di moderne tecniche di microscopia e mappatura genomica, verrà studiato il meccanismo con il quale queste proteine infiammatorie accelerano la diffusione delle metastasi: «L’obiettivo è quello di identificare nuove strategie per immunoterapie che possano rallentare la crescita del melanoma metastatico». Non si può, per ora, cantar vittoria perché Tommaso Virgilio conferma come coi tumori sia difficile osservare e interpretare («Nulla funziona come nero o bianco»), ma di questi e dei futuri risultati potranno beneficiare le terapie farmacologiche che, per il melanoma, affiancano la terapia chirurgica ed eventualmente quella radioterapica: «Pensiamo a una sorta di ripolarizzazione del sistema immunitario da parte dei farmaci immunoterapici, in modo che agiscano sui globuli bianchi stimolandone alcune caratteristiche e bloccandone altre, così da renderli più reattivi contro il tumore». Poco da aggiungere per dimostrare la grande importanza della sperimentazione in corso: «Vogliamo fare in modo che, nonostante la continua crescita, il melanoma faccia sempre meno paura».


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Ambiente e Benessere

Dove la sabbia si trasforma in vetro

Reportage La tradizione quasi millenaria che si tramanda da generazioni sull’isola di Murano rischia di scomparire

Luigi Baldelli Era il 1291. Sono passati 729 anni da quando le vetrerie di Venezia, che erano intorno al Ponte di Rialto, furono spostate dalla Serenissima sull’isola di Murano. Ma aver spostato le botteghe sulla piccola isola di fronte a Venezia voleva dire anche preservare e custodire i segreti e l’arte dei maestri vetrai. Apprezzati nel Medioevo e richiesti in tutta Europa durante il Rinascimento, già allora le classi sociali che potevano permetterselo volevano avere un’opera di Murano nei loro palazzi e dimore. E ancora oggi, Murano vuol dire vetro, vuol dire maestri vetrai che modellano e creano opere d’arte uniche da uno dei materiali più fragili che si conoscano. Una tradizione quasi millenaria, tramandata da generazioni, rende uniche le opere d’arte che escono dalle sue fornaci. E nonostante le enormi difficoltà economiche generate dalla crisi legata alla pandemia abbiano fatto parlare di Murano in termini anche drammatici negli scorsi giorni, sull’isola c’è chi ha fiducia nelle possibilità di rilancio di un’attività in grado di produrre oggetti desiderati da regine, presidenti, attori, artisti. Camminando lungo i canali dell’isola si leggono ovunque insegne di fornaci, vetrerie, artisti e scultori del vetro. «È vero, sono tante le fornaci qui a Murano», mi dice Simone Mian, erede di una delle aziende simbolo, la Fornace Mian. «Però prima, nel settore del vetro, lavoravano circa 5mila persone, oggi solamente 400. Siamo diventati ancora più specialisti, facciamo oggetti su richiesta, pezzi unici, grazie ai nostri artigiani e a una mano d’opera specializzata».

Nel 1300, la legge vietava le partenze da Murano, per impedire ai Maestri di rivelare all’estero i segreti della loro arte Al lavoro, davanti al forno, c’è il Maestro Crepax, cugino del famoso fumettista, circondato dai suoi tre assistenti, di cui solo uno ha meno di trent’anni. Il vetro è formato da silice, una sabbia che diventa vetro ad alte temperature, a cui si aggiunge la soda o altri composti per ottenere la miscela desiderata. Ed è proprio nel momento di passaggio tra lo stato liquido e quello solido che diventa malleabile, per poter essere plasmato e creare forme uniche. Con concentrazione, viene fatta sciogliere la sabbia all’interno dei forni. In seguito, grazie all’impiego di

un artigiano del vetro impiegato alla fornace Nason e Moretti. (Luigi Baldelli)

lunghe canne di metallo, un assistente prende la quantità desiderata da portare al tavolo del maestro artigiano, il quale – con strumenti appositi, come il maioso, un attrezzo in legno simile a un mestolo, o la borsella, una specie di pinza – inizia il lavoro per modellare la forma ricercata. Quando il vetro inizia a raffreddare, il prodotto viene rimesso di nuovo in forno e poi ancora di nuovo riportato al tavolo per aggiustare, perfezionare e definire sempre di più la sagoma. Durante questi passaggi a volte vengono aggiunti piccoli pezzi di colore, che creeranno il disegno finale. Il maestro vetraio soffierà all’interno del vetro sino ad arrivare piano piano a quella forma unica che sta creando. Sul Maestro Crepax calza a pennello la frase che molti bambini muranesi e veneziani si sono sentiti dire: se ti comporti male, ti mando a lavorare in fornace: «Sono sessant’anni che lavoro il vetro» mi dice il Maestro Crepax. «Ho iniziato che avevo dieci anni. Rubavo con gli occhi le conoscenze dai vari maestri. Molti cercavano di non far vedere la loro arte, nascondevano con il loro corpo i movimenti e le tecniche. Ma mi piaceva troppo stare in fornace e sentivo di avere la passione per questo mestiere. Quella è stata una grande scuola. E così a 18 anni sono diventato maestro anche io». Si aggiusta gli oc-

il mastro Crepax riscalda il vetro già lavorato. (Luigi Baldelli)

chiali e intanto controlla il momento in cui tirare fuori il vetro dal forno. Stanno realizzando una collezione per un importante stilista italiano. «Purtroppo, oggi non ci sono più tanti giovani che vogliono fare questo mestiere. Siamo rimasti davvero in pochi. È un lavoro faticoso, certo, ma pieno di soddisfazioni che ti permette di creare senza avere limiti». Non finisce di parlare che torna veloce alla sua postazione di lavoro, dove uno dei suoi assistenti gli sta portando un’asta di metallo sulla cima della quale si trova il vetro bollente, che diventerà un vaso di colore arancione e nero. Usa delicatezza nell’accarezzarlo con il maioso, lo gira veloce, lo accarezza di nuovo. Lo aggiusta con la borsella. Gli occhi esperti gli dicono quando è il momento di rimetterlo di nuovo in forno. «Quello che facciamo», continua poco dopo «sono vere e proprie sculture. E devi avere già bene in testa cosa vuoi realizzare, perché, a differenza del marmo o del legno, non hai tanto tempo per osservare e correggere». È davvero emozionante vedere come dal nulla viene creato un oggetto di vetro. L’attenzione ai particolari, il lavoro di squadra, chi sta al forno, chi fa colare a fili il vetro bollente per fare le decorazioni, chi fa girare l’asta mentre il maestro modella la materia incan-

un assistente di Crepax mentre lavora. (Luigi Baldelli)

descente. Alcune fornaci sono aperte alle visite dei turisti e permettono di poter scoprire questo misterioso mondo, dove, come per magia, la sabbia si trasforma in vetro. E dove anche vedere come esperti artigiani, la cui arte è famosa in tutto il mondo, inventano nuovi colori e forme dal vetro incandescente. E quando alla fine, il Maestro sarà soddisfatto del risultato raggiunto, bisognerà aspettare ancora quarantotto ore perché il vetro si raffreddi e per poterlo toccare e sentire tutte le forme sotto le dita.

Così si aggiungono piccoli pezzi di colore al vetro. (Luigi Baldelli)

Il lavoro dei vetrai è un lavoro da uomini, che si fa in squadra, e si impara con gli anni. Un lavoro dove bisogna far sposare la creatività e l’arte di modellare con il fisico, perché non è facile lavorare dove ci sono forni che raggiungono i mille gradi o spostare di seguito vetro incandescente appeso alla fine di un’asta di metallo. «Non abbiamo una scuola per diventare vetrai; è un lavoro che si impara solo in fornace. E i giovani preferiscono fare altri mestieri, andare sulla terra ferma, ed è forte il rischio di avere un gap generazionale tra dieci-quindici anni» esordisce così, Piero Nason, altro discendente di una storica fornace di Murano, la Nason e Moretti, premiata con il compasso d’oro nel 1954. Per diventare maestro ci voglio anni e anni di gavetta, accompagnata da abilità e creatività. Ma nessuno ha mai pensato di creare una scuola. «Noi Muranesi crediamo di essere gli unici a saper lavorare il vetro, ma non è così» mi dice ancora Nason. «Però è anche vero, che un vetro fatto in terra ferma non ha la poesia di un vetro fatto sull’isola di Murano. Bisogna alimentare e coltivare questa poesia, coinvolgere le nuove generazioni, tramandare l’esperienza, altrimenti si rischia tra qualche anno di avere pochi maestri vetrai: bisogna reinventarsi, per non rischiare di sparire». Perché gli oggetti in vetro di Murano sono oggetti preziosi, costosi, unici. Un’eccellenza che già ai tempi della Serenissima era preservata e protetta. Sulle piccole nove isole che formano Murano, nel 1300, prima dell’arrivo delle fornaci, si trovavano solo due monasteri e la casa di Casanova. E le leggi di quel tempo vietavano di uscire dall’isola per paura che i Maestri fuggissero all’estero o rivelassero i segreti della loro arte. Nason, vede il futuro come una trasformazione, dove le grandi e medie fornaci diventeranno degli atelier del vetro, elevando ancora di più l’unicità degli oggetti. Perché questa tradizione artigianale, dove si incontrano arte, design, manualità, permette di non avere limiti, anzi, come mi dice Simone Mian: «l’unico limite è la fantasia».


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1. Mescolate la farina con il sale in una scodella. Sciogliete il lievito nella miscela di acqua e latte, poi impastate il tutto per circa 5 minuti fino a ottenere un impasto elastico e omogeneo. Coprite la scodella con la pellicola trasparente e lasciate lievitare la pasta in un luogo caldo per circa 2 ore. Nel frattempo, spremete l’aglio sul burro. Tritate finemente il prezzemolo, incorporatelo al burro e mescolate bene il tutto. 2. Spennellate la tortiera apribile con poco burro all’aglio e cospargetela di semola. Con l’impasto lievitato formate delle palline di circa 30 g ciascuna e accomodatele nella tortiera lasciando un po’ di spazio tra una e l’altra. Coprite ancora una volta e lasciate lievitare per circa 1 ora. 3. Scaldate il forno ventilato a 180 °C. Spennellate con cura le palline con 2/3 del burro all’aglio. Cuocete il pane in forno per 20-25 minuti. Sfornate e lasciate intiepidire. Distribuite il burro all’aglio restante sul pane e servitelo tiepido. Per variare, usate la farina di spelta al posto della farina bianca e sostituite il prezzemolo con altre erbe aromatiche come il timo, il basilico o il rosmarino. Se volete ridurre la quantità di lievito a circa 5 g, dopo aver lasciato riposare la pasta a temperatura ambiente per 1 ora, fatela lievitare tutta la notte in frigorifero. A piacere, durante la preparazione potete farcire ogni pallina d’impasto con un dado di formaggio. Preparazione: circa 30 minuti; lievitazione: circa 3 ore; cottura in forno: 20-25

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Ambiente e Benessere

Alle porte del cielo

Viaggiatori d’Occidente Il turismo spaziale sembra essere giunto a un punto di svolta

Accettare il mondo

Bussole Inviti a

letture per viaggiare

Claudio Visentin Negli ultimi quindici anni il turismo spaziale mi ha regalato parecchi momenti di buonumore. Ogni anno immancabilmente sfavillanti conferenze stampa annunciavano l’imminente partenza dei primi viaggiatori delle stelle; ogni volta qualche imprevisto costringeva a rimandare il progetto a tempi migliori. Si capisce, mandare l’uomo della strada nello spazio è incredibilmente difficile e costoso: i propulsori devono essere affidabili, servono complessi sistemi di supporto della vita e bisogna essere pronti a fronteggiare le più imprevedibili emergenze (una guarnizione difettosa causò la distruzione dello Space Shuttle Challenger). Ad oggi solo tre paesi – Russia, Stati Uniti e Cina – hanno raggiunto questo livello di efficienza. Questa volta però potrebbe essere quella buona e mio malgrado ho messo a tacere il mio scetticismo. Alle 20.50 del 2 agosto scorso la navicella Crew Dragon Endeavour, con a bordo i due astronauti Robert Bob Behnken e Douglas Doug Hurley – partita il 30 maggio per la Stazione spaziale internazionale – è tornata sulla Terra senza imprevisti, ammarando trionfalmente (splashdown) vicino a Pensacola, nel Golfo del Messico. Dal tempo delle missioni Apollo, quasi mezzo secolo fa, non si vedeva niente di simile. Le prime reazioni americane sono state di gioia e sollievo. Del resto è ancora fresco il ricordo di terribili disastri. La mattina del 28 gennaio 1986 milioni di spettatori assistettero con sgomento in diretta televisiva all’esplosione dello Space Shuttle Challenger nel cielo del Texas, 73 secondi dopo il decollo; sette morti, l’intero equipaggio. Dopo una cauta ripartenza, nel 2003 lo Space Shuttle Columbia si disintegrò nell’atmosfera durante il volo di rientro e altri sette astronauti morirono nell’incidente. Il presidente Bush decise allora di abbandonare il progetto Space Shuttle e, ironia della sorte, negli anni seguenti per trasportare gli astronauti americani nella Stazione spaziale internazionale ci si è dovuti affidare alle gloriose Sojuz, eredità della dissolta Unione sovietica, l’eterno nemico. Nel frattempo un imprenditore visionario, Elon Musk, il fondatore della fabbrica di automobili Tesla, ha creato la società Space Exploration Technologies Corporation. Space X ha puntato con successo sui razzi Falcon, che possono essere utilizzati più volte per portare in orbita le capsule Dragon, riducendo radicalmente i costi rispetto alla

«È la contemplazione silenziosa degli atlanti, a pancia in giù su un tappeto, tra i dieci e i tredici anni, che mette la voglia di piantar tutto. Pensate a regioni come il Banato, il Caspio, il Kashmir, alle musiche che vi risuonano, agli sguardi che vi si incrociano, alle idee che vi aspettano (…) Un viaggio non ha bisogno di motivi. Non ci mette molto a dimostrare che basta a sé stesso. Pensate di andare a fare un viaggio, ma subito è il viaggio che vi fa, o vi disfa…».

l’equipaggio dell’StS-135 si esercita all’incontro e all’attracco con la iSS nel simulatore di ingegneria dei sistemi al Johnson Space Center di Houston, in texas. (NASA)

Sojuz (da ottantasei a cinquantacinque milioni di dollari per passeggero). Il fantastico volo di Crew Dragon Endeavour è stato il primo lancio spaziale della NASA, con astronauti americani, effettuato da un’azienda privata. Elon Musk intravvede nello spazio la nuova frontiera per l’espansione (e forse la conservazione) della coscienza umana. La NASA per parte sua intende riportare l’uomo sulla Luna entro il 2024, con il Progetto Artemide. Ma naturalmente si aprono anche nuove prospettive per il turismo spaziale. Sino a questo momento le prime esperienze sono state organizzate da Space Adventures in collaborazione con l’agenzia russa Roscosmos, utilizzando la capsula Sojuz. Dal 2001 al 2009 sette turisti sono saliti sulla Stazione spaziale internazionale, nella parte russa. Il primo turista spaziale privato pagante com’è noto è stato l’imprenditore statunitense Dennis Tito (venti milioni di dollari nel 2001 per trascorrere sette giorni sulla base orbitante); l’ultimo, il fondatore del Cirque du Soleil, Guy Laliberte, nel 2009. La prima turista spaziale è stata l’imprenditrice di origine iraniana Anousheh Ansari (2006), mentre Charles Simonyi, creatore dei principali software Microsoft, c’è stato due volte, l’ultima nel 2009. A partire da

quell’anno però l’aumento degli equipaggi sulla Stazione spaziale internazionale (da tre a sei astronauti) e il ritiro degli Shuttle ha tolto spazio ai turisti. Ora si riparte, con l’idea di allargare la platea dei potenziali clienti. Il turismo spaziale è per molti, se non per tutti; occorre infatti una buona salute, più o meno quanto richiesto per le immersioni in apnea o una maratona (niente ansia o claustrofobia ovviamente). Tutti i rivali di Space X stanno accelerando i loro progetti per non restare indietro. Boeing, Blue Origin (Jeff Bezos, Amazon) e Virgin Galactic (Richard Branson) si limiteranno per ora a brevi voli suborbitali del costo di circa duecentomila dollari. Dopo aver raggiunto lo spazio esterno, si rientra nell’atmosfera senza percorrere un’orbita completa. Per esempio, l’aereo da trasporto WhiteKnightTwo di Virgin Galactic porterà lo spazioplano SpaceShipTwo (sei passeggeri e due piloti) sino a diciassettemila metri; a quel punto SpaceShipTwo si staccherà dal vettore e si spingerà fino a cento chilometri di quota. Poi SpaceShipTwo tornerà a Terra planando dolcemente come un aliante. Nella fase finale della parabola ascendente e nei primi momenti del ritorno i passeggeri potranno vedere il cielo nero punteggiato di stelle e l’orizzonte

curvo della Terra, sperimentando qualche minuto in assenza di gravità come veri astronauti. Riprese professionali documenteranno l’impresa e in alcuni momenti i turisti potranno lasciare i loro posti per guardare dagli oblò. Inevitabile la ricerca dello stupore facile, ma anche una nuova opportunità di apprezzare da un punto di vista inedito la bellezza (e la fragilità) del nostro pianeta. Il passo successivo nel 2021 potrebbe essere la riapertura ai visitatori dell’Hotel Iss, com’è chiamata scherzosamente la Stazione Spaziale Internazionale, orbitante a quattrocento chilometri di altezza. ISS si muove alla velocità di 27’600 chilometri all’ora e il sole per lei sorge e tramonta sedici volte al giorno. Nel 2023 alcuni ospiti potranno passeggiare per la prima volta nello spazio in compagnia di un cosmonauta russo. Infine, in un futuro meno prevedibile nei tempi si aprirà il cancello per lo spazio profondo (Deep Space Gateway), una piattaforma orbitale lunare utilizzata come stazione di transito sia per la prevista base lunare permanente, sia per le prossime missioni con destinazione Marte, il vero obiettivo di Elon Musk. Tra le attrazioni marziane, il vulcano e il canyon più grande del sistema solare…

Simili ai deserti di Marte dovevano essere alcune delle distese faticosamente percorse da Nicolas Bouvier durante il suo grande viaggio del 1953-’54 attraverso la Jugoslavia, la Turchia, l’Iran e l’Afghanistan, con lunghe soste a Belgrado, Tabriz e Quetta. Bouvier viaggiava insieme al pittore Thierry Vernet su una minuscola Fiat Topolino, perennemente squattrinati e in cerca di lavori occasionali. L’usage du monde – questo il titolo originale, ripreso da Montaigne – sarà pubblicato solo nel 1963 a Ginevra, a spese dell’autore, ma ci vorranno molti anni ancora per riconoscere «uno dei più grandi libri di viaggio di sempre. Quei libri cui non è possibile aggiungere nulla e che hanno raggiunto la perfezione proprio tagliando il superfluo» (Paolo Rumiz). Per Bouvier il viaggio implica una radicale accettazione del mondo nella sua varietà, incluse le molte ombre, senza giudicarlo né giustificarlo. Essenziale è piuttosto esporre la propria anima alla «diversità di tante altre vite, fantasie e costumi» (ancora citando Montaigne). «Come un’acqua, il mondo filtra attraverso di noi, ci scorre addosso, e per un certo tempo ci presta i suoi colori. Poi si ritira, e ci rimette davanti al vuoto che ognuno porta in sé, davanti a quella specie d’insufficienza centrale dell’anima che in ogni modo bisogna imparare a costeggiare, a combattere e che, paradossalmente, è il più sicuro dei nostri motori. / CV Bibliografia

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 agosto 2020 • N. 34

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Idee e acquisti per la settimana

bowl bio e colorate

Frutta o verdura fresca, ingredienti bio e una ciotola: non serve altro per preparare deliziose bowl. Le settimane bio e una promozione Cumulus rendono ancora più attrattivi questi leggeri pasti estivi Testo: Dinah Leuenberger; Styling & foto: Pia Grimbühler; Ricette: Vanessa Fuchs

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Bowl vegana al cocco e semi di canapa Per 4 persone 4 cucchiai di semi di canapa 2 cucchiai di semi di lino decorticati 2 mazzetti di basilico 2 bicchieri di Kokos nature da 400 g Sale, per esempio Fleur de sel Pepe da macinare Per guarnire 300 g di cetriolo 2 avocado 4 cucchiaini di olio di semi, p.es olio di canapa crescione

Preparazione 1. Riscaldare per ca. un minuto i semi di canapa e di lino, senza grassi e a bassa temperatura, quindi mettere da parte. Tritare grossolanamente il basilico. Aggiungere allo yogurt e amalgamare con il frullatore a immersione. Aggiungere sale e pepe a piacere. Suddividere nelle ciotole.

2. Guarnire: con il pelapatate ricavare delle lunghe strisce dal cetriolo con la buccia. Tagliare l’avocado a metà e rimuovere il nocciolo. Estrarre la polpa con l’aiuto di un cucchiaio e tagliarla a fette. Guarnire la bowl al cocco e semi di canapa con il cetriolo e l’avocado. Aggiungere un filo d’olio, i semi e il crescione.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 agosto 2020 • N. 34

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Bowl bio di yogurt e banane In una padella ridurre il burro e il miele a fuoco medio fino a ottenere un leggero caramello. Nel frattempo tagliare due banane a metà, quindi in quarti e riscaldare per circa due minuti. Aggiungere il muesli e mescolare delicatamente. Servire con yogurt nature.

Bowl bio di yogurt e prugne Tagliare a metà cinque prugne e togliere il nocciolo. Sbucciare e tagliare grossolanamente un po’ di zenzero. In una pentola cuocere la frutta con lo sciroppo di sambuco a fuoco medio e con il coperchio per ca. dieci minuti. Tritare grossolanamente delle noci. Disporre dello yogurt greco nelle ciotole e servire con la composta calda, noci e fiocchi.

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Yogurt nature bio 180 g Fr. –.50 invece di –.65

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Ambiente e Benessere

La sentinella delle praterie alpine Reportage L’incontro con la marmotta non è dei più facili, ma basta avere molta pazienza

Sabrina Belloni Un richiamo breve, gutturale, sopito, quasi sussurrato. Poi due fischi lunghi e acuti, polifonici, inequivocabili, udibili dalla selvaggina a centinaia di metri di distanza: il potenziale pericolo si sta avvicinando. Allerte, segnali in codice del mondo selvatico al quale noi non apparteniamo; se prestiamo attenzione, il nostro udito li avverte ma il cervello non li decodifica, non li riconosciamo come avvertimenti, mentre gli animali sono attenti a coglierli per restare in vita. La marmotta è una sentinella infallibile: ritta sulle zampe posteriori, dà l’allarme e un network collaudato ed efficace di differenti animali lo diffonde. Le prede scappano e si precipitano al sicuro; i predatori si immobilizzano, sperando di passare inosservati, o attaccano in velocità, cercando di prevaricare le prede ormai allarmate. L’istinto non tradisce, non sbaglia. Meglio stare in guardia quando all’orizzonte si scorgono persone o un rapace volteggia in cielo. Il primo approccio con una comunità di marmotte alpine che si risvegliano gradualmente dopo il letargo invernale si svolge più o meno così. Al primo tepore si sgranchiscono all’imboccatura delle tane, sopra i massi delle praterie che pian piano si riscaldano, sulle pietraie al limite superiore della foresta, dove gli alberi si diradano e sono più piccoli. Sono luoghi dell’anima più che di un turismo di massa, che si offrono ogni anno in primavera ad accogliere un numero esiguo di visitatori di inizio stagione in queste oasi di natura selvatica e di tranquillità, di grande effetto empatico. Gli alti pascoli alpini sono il luogo ideale dove osservare le marmotte, gli iconici roditori di casa nelle Alpi svizzere e italiane, che escono dal periodo di ibernazione invernale nei mesi di maggio-giugno, a dipendenza dell’altitudine, dal piano subalpino sino a lambire quello nivale. Qui le piante sono scarse, ma graminacee e ciperacee nascondono sottoterra lunghi fusti e radici, necessari per superare i rigori invernali e la siccità estiva. Sono risorse alimentari importanti e ghiotte per le marmotte, consumatori primari negli ecosistemi in cui vivono e, a loro volta, prede essenziali per specie di rapaci minacciate di estinzione – quali l’aquila reale e il gipeto – e della volpe. La funzione ecologica delle marmotte nelle praterie alpine è oggetto di studi interessanti: nutrendosi prevalentemente di erbe e graminacee, di trifoglio alpino, germogli e radici, esse ne riducono la dominanza e creano le

Sul sito www. azione.ch si trova una galleria fotografica di scatti dedicati alla marmotta. (Franco Banfi)

condizioni per la sopravvivenza di specie arboree più rare e delicate. Vivono a terra e sotto terra, in cunicoli dotati di diverse stanze, collegate da gallerie sotterranee, che sono scavate con i lunghi e robusti artigli. Si estendono una decina di metri e hanno vari accessi, per consentire una fuga sicura in caso di pericolo. L’orientamento delle aperture è generalmente rivolto a sud, per ridurre l’impatto dei venti freddi e ottimizzare lo scambio termico interno/esterno nei versanti maggiormente soleggiati, oltre ad avere una particolare inclinazione, onde evitare di essere allagate durante le piogge. Le tane delle marmotte sono come le nostre abitazioni. Se si trovano in un buon territorio, vengono tramandate di generazione in generazione o sono occupate da nuove comunità che si sostituiscono alle precedenti. La struttura delle tane è complessa e l’interconnessione delle varie stanze è importante, poiché le marmotte trascorrono sottoterra la maggior parte della vita. L’entrata della tana principale è larga circa trenta centimetri ed è sovrastata da una roccia su cui si ergono le sentinelle durante la guardia. Le tane ausiliarie sono di dimensioni più contenute e sono collegate da tunnel.

Ci sono anche rifugi temporanei disseminati sul loro territorio, in cui infilarsi a capofitto quando avvertono pericoli imminenti. La tana invernale è scavata più in profondità rispetto a quella estiva, e viene riempita con fieno ed erba secca, per proteggersi dalle temperature più rigide e trascorrere il letargo. Quando il gruppo familiare si ritira nella tana invernale, l’entrata viene chiusa dall’interno, con sassi e terriccio, per consentire agli animali di mantenere la temperatura corporea al di sopra di quella ambientale. Non soltanto la quantità, ma la qualità del grasso corporeo delle marmotte ha una valenza nella termogenesi (processo metabolico con il quale si crea calore). Le marmotte (e i mammiferi in generale) sono animali omeotermici, cioè in grado di mantenere costante la temperatura interna negli organi vitali tramite l’eccitazione indotta dal freddo in un letargo profondo. Con il diminuire della temperatura ambientale, l’organismo attua alcuni processi per aumentare la produzione di calore e diminuirne la dispersione, ad esempio l’intensificazione dei processi ossidativi e la vasocostrizione periferica. La qualità di tessuto adiposo bruno è essenziale poiché

sfrutta una molecola proteica (proteina disaccoppiante UCP) per «bruciare/ ossidare» gli acidi grassi (trigliceridi) e produrre calore. La distribuzione anatomica del grasso bruno e lo scambio di calore in controcorrente vascolare sono funzionali a riscaldare gli organi vitali del torace, dei segmenti cervicali e toracici del midollo spinale. Durante il letargo, la massa intestinale si riduce di volume, per limitare la richiesta energetica. Ne deriva che l’alimentazione durante i mesi estivi è di vitale importanza per accumulare le scorte necessarie alla sopravvivenza nei mesi invernali. Le marmotte alpine sono territoriali e vivono in gruppi familiari, formati da una coppia dominante e riproduttiva, i cuccioli nati nell’anno e alcuni subadulti nati negli anni precedenti. Gli individui che non appartengono alla famiglia normalmente vengono scacciati. Non si riproducono ogni anno, poiché il dispendio energetico del crescere le cucciolate non può essere soddisfatto quando le condizioni ambientali non sono ottimali. Ad esempio, quando l’inverno è molto rigido e le praterie restano innevate più a lungo, questi roditori hanno difficoltà a reperire il cibo.

L’asperità degli ambienti in cui vivono gioca un ruolo fondamentale nel loro comportamento sociale, e le avversità – così come l’isolamento – ne influenzano il comportamento. Le marmotte alpine vivono in piccoli gruppi, dove l’integrazione, l’aiuto, l’indipendenza e una gerarchia ben definita sono elementi che influiscono sulla durata della loro vita. In particolare, i ricercatori ritenevano che le sentinelle fossero svantaggiate rispetto al resto della comunità, poiché trascorrono molto tempo di guardia, mentre gli altri membri si alimentano o giocano, consolidando la gerarchia del gruppo. I ricercatori assumevano che le sentinelle fossero più a rischio di essere predate, mentre uno studio più recente (Clutton-Brock e al.) ha rilevato che esse hanno un vantaggio temporale non indifferente, potendo scorgere per prime i predatori e pertanto rifugiarsi nei cunicoli ben prima degli esemplari intenti a nutrirsi o socializzare. Capire le logiche che regolano queste comunità è altrettanto affascinante che osservare questi buffi e simpatici roditori mentre giocano a rincorrersi o se ne stanno placidamente a riposare sulle pietraie. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Turbo-Ajla, aria nuova dal Verbano

Sport Da anni l’atletica ticinese non contava su una cometa in grado di flirtare con le star più luminose al mondo

Giancarlo Dionisio Presto o tardi bisognerà trovarle un nome di battaglia: Turbo-Ajla, Freccia del Verbano, Attentairadar! Eh sì, perché nel giro di poche settimane, il talento e la potenza di Ajla Del Ponte sono esplosi al punto da farle ottenere l’invito ad alcuni meeting della Diamond League. È come se il Football Club Lugano conquistasse l’accesso ai gironi della Champions League. Moneta rara. Moneta preziosa e autentica, frutto di cifre inimmaginabili per chi non conosce bene la ragazza. In pochi giorni la 24enne sprinter ticinese ha fatto segnare uno dei migliori tempi mondiali stagionali, sia sui 100 metri, sia sui 200. Finora, pur intuendone le potenzialità, la sua era luce riflessa. Trapelava da una staffetta 4 x 100, che per la prima volta nella storia ha proiettato la Svizzera nel cuore dell’élite mondiale. Ajla è la prima e insostituibile frazionista, l’elastico di una fionda che scaglia, quale ultimo siluro, Mujinga Kambundji. Da alcune settimane, la luce si irradia su entrambe le ragazze. Le cifre parlano chiaro. Ajla si è avvicinata agli 11” netti sui 100 metri, ai 23” sui 200. Sul mezzo giro di pista, ha fatto segnare anche uno strepitoso 22”88, non omologato a causa del vento leggermente superiore al consentito. Nell’atletica leggera, la Svizzera è tradizionalmente considerato un paese di terza fascia. Disponiamo di un movimento numericamente scarso, tuttavia capace, in passato, di produrre di tanto in tanto qualche bagliore. Pensiamo, ad esempio, al pesista Werner Günthör, ai mezzofondisti André Bucher, Pierre Délèze, Anita Weyermann

ajla Del Ponte mentre vince la gara dei 100 metri, al Citius Meeting nello stadio del Wankdorf a berna, venerdì 24 luglio 2020. (Keystone)

e Markus Ryffel, agli ostacolisti Anita Protti e Marcel Schelbert. Dopo alcuni anni di stanca, stiamo vivendo una sorta di resurrezione, grazie a una giovane generazione che flirta con l’élite mondiale. Le nostre velociste hanno la fortuna di far parte di un gruppo straordinario. Staffetta significa sincronismo, fiducia reciproca, solidarietà e amicizia. Ma significa anche concorrenza, stimolo, darsi una mossa per non perdere il posto di titolare in uno dei quartetti più veloci al mondo.

La ragazza cresciuta nell’Unione Sportiva Ascona, sotto la guida di André Engelhart e Ivo Pisoni, sembra aver interpretato adeguatamente questo spirito. «Mi aspettavo il salto di qualità, anche se magari non in questi termini», ci racconta al telefono. «Credo sia il frutto dell’intenso lavoro svolto durante l’inverno». Ajla ha saputo metabolizzare sapientemente anche le incertezze, le paure e lo stop perentorio dettato dal lockdown. Quando palestre e stadi

erano blindati, dopo un primo breve periodo di smarrimento, se ne andava in riva al lago o al fiume con tanto di decametro per misurare le distanze. Poi via, a tutta velocità, a sollecitare corpo e anima con una serie infinita di ripetute. Per rafforzare la muscolatura, per potenziare l’apparato cardiocircolatorio, per aumentare la cilindrata di un motore già di per sé portato allo sforzo breve e intenso. C’è lo zampino del fratello Karim, difensore dei Ticino Rockets, che du-

rante la pandemia l’ha stimolata a non mollare. Ma credo che dietro questa vera e propria esplosione si celino anche il lavoro certosino dell’allenatore (Laurent Meuwly), che la segue dal 2015, e dello psicologo, che la sostiene dal 2018. In una disciplina in cui tutto si gioca in soli 11”, poco più, poco meno, è fondamentale presentarsi ai blocchi di partenza sereni e concentrati al tempo stesso. «Riconosco di aver sottovalutato in passato l’aspetto mentale – prosegue Ajla del Ponte – da quando lavoro con uno specialista mi risulta più facile focalizzare e diversificare gli obiettivi durante gli allenamenti, ma soprattutto sento dentro di me una maggior voglia di vincere. Sono convinta che i margini di miglioramento più ampi li possa avere sui 200 metri, una distanza che devo ancora imparare a correre e a gestire e, per questo, devo cercare di incrementare la resistenza alla velocità». Questo non significa che il regno di Mujinga Kambundji sia in pericolo. Ma si intravedono i contorni di una rivalità che potrebbe essere stellare, e che potrebbe proiettare due ragazze della piccola Svizzera in una finale europea, mondiale, magari olimpica. I responsi non tarderanno ad arrivare. I meeting della Diamond League sono lì, dietro l’angolo. La partecipazione di Ajla, e il fatto che oltre a lei e a Mujinga, altri cinque o sei atleti rossocrociati dispongano dei mezzi per brillare, potrebbero ridare ossigeno, almeno sui nostri teleschermi, a una disciplina tendenzialmente in perdita di velocità, e per giunta rimasta orfana della sua più incredibile e spettacolare Star: Usain Lightning Bolt.

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Per lucidare l’argento, prima di strofinarlo, lasciatelo una notte… Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 5, 1, 11)

ORIZZONTALI 1. Mitico re di Creta 7. Servizio vincente a tennis 8. Avverbio di luogo 9. Una consonante 10. Davanti al nome di una religiosa 11. Ci portano su e giù 12. Un figlio di Adamo 13. In luogo di... 17. Moderano l’andatura 18. La madre di Cicerone 19. Una consonante 20. Un vento 21. Preposizione articolata 22. Terminano dove iniziano 23. Mi seguono in comitiva... 24. Aviatore

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

VERTICALI 1. La Magò di Disney 2. Qui in Francia 3. Particella negativa 4. Hanno più file di denti aguzzi 5. Parti delle scarpe 6. L’Irlanda per gli irlandesi 10. Rappresentate in teatro 11. Colpisce il5 viso 6 7 8 9 2 3 4 12. Pegno, garanzia 12 13 13. Differente, diversa 14. Andata in15disuso16 17 15. Le iniziali dell’attore Eastwood 19 20 16. Iatale nelle patologie 22 23 17. Un Emilio giornalista 18. Mattino a24Londra 25 20. La vita nei prefissi26 27 22. Le iniziali del compositore 28 29 30 Rossini 23. Le iniziali31 dell’autore della Gerusalemme liberata

Sudoku

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Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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P O L I

A L O S P A G N A L I O P 5A A 1 E R S A R A S T I A G U T R A R D A Z I A C 8A R4 I N E M I A G I N O A N O R D N E S T H Soluzione della settimana S C U R A T I precedente

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Nel film «Biancaneve e i sette nani» un nano ha un particolare diverso dagli altri, come si chiama e cosa lo distingue? Risposta risultante: CUCCIOLO, NON HA LA BARBA.

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Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

C O R D A

U R V A L I E R N A A A U N L A C I A T A

E T I C I R L

C A S E O N I O T B A O T B A

L C I A I O M A E H E A O R I E T A I N O

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 agosto 2020 • N. 34

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Politica e Economia La scelta di Biden La senatrice della California Kamala Harris è considerata la scelta più sicura dalla campagna del democratico Joe pagina 30

Seta indiana Ad Ayodhya la posa della prima pietra del tempio di Ram sul sito conteso fra musulmani e induisti segna la fine del secolarismo in India e l’ennesimo passo compiuto dal governo per ledere i diritti dei cittadini di religione musulmana

Paralisi in Libano Le dimissioni del governo dopo l’esplosione di Beirut prolungano il drammatico immobilismo del Paese

Accordi Bilaterali in bilico Nel voto del 27 settembre sono in gioco la libera circolazione ma anche gli altri sei accordi bilaterali del primo pacchetto

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Il peso specifico di Minsk

Geopolitica La speciale attenzione che circonda la Bielorussia in seguito alle manifestazioni di protesta scatenate

dalla contestata vittoria di Lukashenko deriva dalla sua importanza strategica nel confronto fra Russia e Nato Lucio Caracciolo La Bielorussia è uno Stato di importanza strategica nel confronto permanente fra Russia e Nato. È infatti l’avanguardia occidentale del sistema di protezione dello spazio russo, storicamente basato su ampi territori cuscinetto, oggi in parte integrati dall’avversario atlantico o non più sotto diretto controllo del Cremlino. San Pietroburgo, ad esempio, dista circa 160 chilometri dalla frontiera orientale della Nato, dieci volte meno che ai tempi della guerra fredda. E l’Ucraina, dopo settant’anni di integrazione nell’Unione Sovietica e due decenni di indipendenza sotto indiretta influenza moscovita, è ormai fuori dall’orbita della Federazione Russa. Con l’importante eccezione della Crimea, e ferma restando l’incerta evoluzione della guerra a bassa intensità che strazia il Donbas. Resta la Bielorussia quale ultima vera assicurazione sulla vita di Mosca. Il suo territorio è fondamentale

in chiave difensiva per il potere russo. Nella storia, lo spazio bielorusso ha contribuito in modo decisivo all’assorbimento e poi al respingimento degli invasori da ovest. Ultimo caso, la Wehrmacht, che nel 1941-43 fece terra bruciata in Bielorussia, fra l’altro liquidandovi tutta la popolazione ebraica. Il tasso di distruzione delle città bielorusse, in specie della capitale Minsk, fu durante la Seconda guerra mondiale tra i più alti dell’intera Unione Sovietica. Poiché il senso di accerchiamento che da sempre attanaglia gli strateghi russi si è accentuato negli ultimi decenni a causa dell’allargamento verso est della Nato, il peso specifico della Bielorussia ne è per conseguenza aumentato. Di qui la speciale attenzione che circonda quel Paese in seguito alle manifestazioni di protesta scatenate dalla contestata vittoria di Aleksandr Lukashenko alle recenti elezioni presidenziali. Ufficialmente il presidente in carica è stato riconfermato per la sesta

volta con l’80% dei voti. Ma è opinione comune degli osservatori esterni e di gran parte dell’opinione pubblica bielorussa che quel voto sia stato largamente manipolato. Di qui le proteste di piazza, non solo a Minsk, con la violenta repressione della polizia: migliaia di arresti, centinaia di feriti, almeno un paio di vittime. La sfidante del presidente, Svetlana Tikhanovskaja, dopo un lungo interrogatorio di polizia è stata spedita in «autoesilio» nella vicina Lituania, da dove ha fatto capire di aver fatto una scelta di cuore: per salvare il marito – aspirante leader dell’opposizione incarcerato dal regime in quanto sovversivo e presunto agente di Putin – ha preferito lasciare la patria. Per ora. Mentre la bandiera degli antiLukashenko è ora impugnata dalla più combattiva Maria Kolesnikova, che con Veronika Stepalo ha formato un trio di donne simbolo dell’insofferenza popolare nei confronti dell’«ultimo dittatore d’Europa».

Di qui a immaginare una Majdan bielorussa molto ne corre. Anzitutto, non esistono in Bielorussia strutture politiche degne del nome. Partiti e organizzazioni civiche non hanno spazio sotto Lukashenko. Non esiste alcun centro di aggregazione capace di coalizzare e guidare una piazza in rivolta. Né risultano gruppi armati, come nel caso ucraino. Inoltre, gli Stati Uniti non sembrano disposti ad andare oltre un sostegno di maniera alle rivendicazioni dei manifestanti, che vorrebbero annullato il voto presidenziale. L’unico slogan comune ai ribelli è «Vattene!». Chiaro e potente, ma certo non una piattaforma politica per il dopo-Lukashenko. Gli europei oscillano tra protesta verbale e scelta delle sanzioni – modo per fingersi uniti quando non si sa che fare. Gli stessi polacchi, che guidano il fronte anti-russo nella Nato e nell’Ue, sembrano incerti. Fino a che punto spingere sull’acceleratore per un cambio della guardia a Minsk sul model-

lo di Kiev, salvo poi trovarsi i russi, scattati in avanti per riempire il vuoto determinato dalla crisi del regime di Lukashenko, alla propria frontiera orientale? Certo è comunque l’accresciuto valore geopolitico della Bielorussia. Da anni corteggiata dalle massime potenze: la «sorella» Russia, che avrebbe voluto costringerla in uno Stato comune, diretto da Mosca, ipotesi rifiutata da Lukashenko; gli Stati Uniti, interessati a creare incertezza nelle aree cuscinetto intorno alla Federazione Russa, minandone la sfera d’influenza assai ridotta; la stessa Cina, in prospettiva «vie della seta» e non solo. Ad oggi l’ipotesi meno improbabile è uno stallo. La cui durata non potrà comunque essere troppo lunga. La parabola di Lukashenko volge verso il basso. La sua successione altererà, in un senso o nell’altro, la collocazione geopolitica della Bielorussia. E con essa, gli equilibri eurasiatici.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 agosto 2020 • N. 34

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Politica e Economia

Kamala, è lei l’astro nascente

Casa Bianca Scegliendo una donna nera di origini indiane come vicepresidente, Joe Biden fa riscoprire all’America

l’idea di futuro. La Harris appare perfetta per chiamare a raccolta tutte le categorie più ostili a Trump

Federico Rampini Il «soffitto di vetro» che impedisce a una donna di conquistare la Casa Bianca potrebbe avere il tempo contato. La prossima presidente degli Stati Uniti potrebbe essere di discendenza afrocaraibica e indiana. Il candidato democratico Joe Biden scegliendosi Kamala Harris come vice ha fatto un gesto denso di conseguenze, che lancia un ponte verso le nuove generazioni, le donne, le minoranze etniche. Biden ha dimostrato anche di essere magnanime. Non ha serbato rancore alla Harris per l’attacco feroce che lei gli sferrò durante uno dei primi dibattiti televisivi per la nomination democratica: accusandolo non troppo velatamente di razzismo. Oggi la scelta della Harris riveste un’importanza senza precedenti nella storia delle elezioni americane.

L’America vuole innamorarsi di un presidente che incarni un’idea positiva del futuro. Biden l’ha trovata e si chiama Kamala Biden ha 77 anni e in caso di vittoria ne avrà 78 all’Inauguration Day nel gennaio 2021. Porta male la sua età, la distanza rispetto a Trump sembra maggiore. Non è mai stato un oratore brillante ma ultimamente le gaffe si sono moltiplicate. Se a questo si aggiunge il Coronavirus, molti elettori il 3 novembre si chiederanno se Biden sarà in grado di portare a termine un mandato di quattro anni. Di sicuro non sarà un presidente che si ricandida per il bis. Dalla prima fase della campagna elettorale, quando era ancora candidata alla nomination presidenziale del suo partito, la Harris ha lasciato l’impressione di una donna energica, brillante, aggressiva. Con la sua vitalità, la sua giovinezza, e la sua adrenalina, può supplire alle carenze di Biden. Finora questa è stata una campagna anomala, con un candidato democratico pressoché invisibile. Finora gli è andata bene perché tra Coronavirus e crisi economica Trump si è fatto del male da solo. Non è detto che la non-campagna possa continuare fino a novembre, è ora che scenda in campo una combattente. L’America vuole innamorarsi di un presidente che incarni un’idea positiva del futuro. Biden l’ha trovata e si chiama Kamala. A 55 anni la senatrice della California ha tutto quello che manca all’anziano vice di Barack Obama. Energetica, volitiva e competente, incarna tutti i sogni americani: quello delle donne, dei neri, degli immigrati. È una figura inedita che potrebbe avvicinarsi al primo ministro di una Repubblica parlamentare europea, o al suo capogabinetto: una policy-maker con vaste responsabilità nel preparare il programma di governo, e poi attuarlo. Biden indica ai democratici il loro futuro, in questa donna che aveva 8 anni quando lui iniziava il suo primo mandato al Congresso. Kamala è sul trampolino di lancio per succedergli. Già questo rivela la strategia del duo Biden-Harris: nelle loro biografie e nelle loro fisionomie c’è la promessa di un passaggio delle consegne, la costruzione di una nuova classe dirigente inclusiva, nella quale si riconoscano tutti coloro che erano rimasti ai margini del potere. La strategia del ticket Biden-Harris ha una parte evidente, perfino plateale,

Kamala Harris, 55 anni, con la sua vitalità può supplire le carenze di biden. (AFP)

e un’altra nascosta. Il primo aspetto è quello su cui si sta concentrando l’attenzione. La Harris è perfetta per chiamare a raccolta tutte le categorie più ostili a Donald Trump, motivarle e galvanizzarle, garantire che affluiranno in massa alle urne. Sono donne e giovani, afro-americani e immigrati (in quanto figlia di un giamaicano e un’indiana, Kamala unisce questi due gruppi). La senatrice californiana esaudisce le aspettative di rinnovamento di questi gruppi. La loro avversione a Trump non comporta automaticamente che vadano alle urne il 3 novembre, o che spediscano le schede per corrispondenza nei due mesi precedenti. Il passato (Bush-Gore, Trump-Clinton) insegna che proprio le fasce più radicali, quelle che riempiono le piazze, sono le più indisciplinate il giorno del voto. Sono leggendari i tradimenti dei giovani della sinistra radicale, quelli che regalarono la Casa Bianca a Bush nel 2000 perché votarono il verde Ralph Nader. Nel 2016 l’affluenza giovanile alle urne fu molto deludente, e questo danneggiò Hillary. Il fatto che fino a qualche settimana fa i giovani abbiano invaso le piazze per protestare contro il razzismo della polizia dopo la morte di George Floyd, è un «tranello elettorale» che Biden conosce bene. Le manifestazioni eccitano le attese di un cambia-

mento epocale, ma dai cortei alle urne il cammino è lungo. Gli stessi che urlavano nei cortei possono sottrarsi a un dovere elettorale che giudicano poco rivoluzionario. Avere come vice una donna di colore è un omaggio evidente a quell’ala sinistra e movimentista, perché non tradisca il ticket democratico.

Recuperare consensi fra la classe operaia bianca è altrettanto importante che fare il pieno delle «sinistre arcobaleno» La strategia Biden-Harris però guarda anche ad un’altra categoria di elettori: gli operai bianchi. Furono loro a creare a sorpresa la presidenza Trump. Fasce di metalmeccanici, siderurgici, minatori, sindacalizzati ed ex-democratici, in alcuni Stati del Midwest si sentirono beffati da una sinistra globalista, pronta a fare accordi con la Cina e a spalancare le frontiere agli immigrati clandestini. Recuperare consensi in questa classe operaia bianca è altrettanto importante che fare il pieno delle «sinistre arcobaleno». Il vecchio Joe ha una storia personale che lo rende molto più vicino all’America

operaia, rispetto all’élitaria Hillary. Ma quando Biden dice che la Harris è «simpatico» (al maschile), più alla simpatia allude all’empatia e all’armonia di vedute, al feeling comune. La Harris infatti nonostante la sua immagine personale «alternativa» ha una storia che parla chiaro: è una moderata, centrista come Biden. Quando era Attorney General della California, una carica che unisce il compito di un ministro della Giustizia a quello di un procuratore capo, non cedette mai al lassismo sull’ordine pubblico. Anzi per la sinistra radicale dei campus universitari la Harris era una giustiziera, troppo severa nell’applicare il codice penale. Questo suo passato le torna utile oggi. Trump ha interesse a dare il massimo risalto a quel che sta accadendo a Chicago, New York, Seattle, Minneapolis: dopo i cortei di Black Lives Matter, dopo gli slogan «de-fund the police», sono arrivati i tagli alle forze dell’ordine, e il risultato è inquietante. È in atto una «seconda fase del movimento», gestita dalle gang, con saccheggi e razzìe, aumenti di sparatorie e omicidi. Trump può tentare di ripetere il colpaccio del 2016 descrivendo un’America che scivola verso il caos, l’anarchia e la violenza. Avere al suo fianco una «poliziotta» come Kamala è una scelta strategica per Biden.

L’altro tema dominante da qui al 3 novembre sarà l’economia. La rete di protezione per i disoccupati si sta esaurendo. Al Congresso, democratici e repubblicani non hanno trovato l’accordo su una nuova manovra di spesa pubblica. Trump ha visto un’opportunità in questo stallo e si è proposto come salvatore dei senza lavoro, promettendo di dirottare fondi federali in loro aiuto. Il ticket Biden-Harris ora dovrà assumere la guida delle truppe parlamentari democratiche, per togliere l’iniziativa alla Casa Bianca. Da quando ha avuto inizio la «pandemia economica», cioè la depressione da lockdown, gli Stati Uniti sono stati fra le nazioni più energiche nelle manovre anti-crisi. Il totale della spesa pubblica d’emergenza già erogata da Washington vale il 13,2% del Pil. Di più hanno fatto solo Giappone e Canada, in proporzione al loro Pil. Nessuna manovra europea ha raggiunto dimensioni paragonabili. Eppure non basta, la rete di protezione americana sta raggiungendo i suoi limiti. La disoccupazione supera il 10% della forza lavoro. Le indennità di disoccupazione aggiuntive – 600 dollari settimanali di sussidi federali, da sommare agli aiuti statali là dove ci sono – sono scadute con la rata di luglio. La Camera a maggioranza democratica e il Senato a maggioranza repubblicana non hanno trovato finora un accordo per una manovra supplementare. Trump vuole presentarsi come un presidente che agisce mentre i parlamentari litigano e tergiversano. Ha by-passato il Congresso firmando un decreto esecutivo che interviene su alcune emergenze sociali: estensione dell’indennità di disoccupazione (sia pure in misura ridotta: 400 dollari settimanali di cui 100 a carico degli Stati); sgravio della payroll tax che equivale agli oneri sociali e contributivi del «cuneo fiscale» italiano; prolungamento del blocco di alcuni sfratti; dilazioni sui ratei dei prestiti agli studenti. L’intervento è di dubbia costituzionalità e tuttavia è abile. Mette in difficoltà i democratici. Nessuna delle misure contenute in quel decreto è contestabile in sé. Tutte si possono considerare «di sinistra», in quanto rispondono a bisogni sociali acuti. Solo una è a favore delle imprese (la riduzione dei prelievi sulle paghe a carico dei datori di lavoro) ma indirettamente può favorire i dipendenti. Sono interventi insufficienti vista la gravità della crisi ma sono meglio che niente. E dal Congresso finora è uscito il niente. Che l’atto sia incostituzionale è possibile: il presidente degli Stati Uniti ha scarsi poteri in materia di bilancio, entrate e spese le deve decidere il ramo legislativo; per erogare quei pagamenti Trump deve fare acrobazie spostando fondi da altre voci di spesa già approvate. Tuttavia quando la presidente della Camera Nancy Pelosi, democratica, denuncia l’incostituzionalità, si mette in una posizione vulnerabile. Ai disoccupati non interessa il dibattito sui poteri dell’esecutivo, vogliono sapere come arrivare a fine mese. Trump sa che c’è una sola istituzione più impopolare di lui fra gli americani: è il Parlamento. In una fase in cui è in netto svantaggio su Biden, e la sua gestione della pandemia viene giudicata pessima, il presidente tenta una rimonta sull’unico terreno dove gli americani gli riconoscono una certa competenza: l’economia. Sta a Biden evitare la trappola, e spingere i suoi colleghi parlamentari perché trovino la strada di un compromesso bipartisan: per cancellare la mini-manovra Trump con un intervento più esteso e duraturo.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 agosto 2020 • N. 34

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Politica e Economia

L’india appartiene agli indù?

Notizie dal mondo

del tempio di Ram che sarà costruito sul sito di una storica disputa tra induisti e musulmani

Francesca Marino Chi accendeva la TV o navigava su Internet in India lo scorso 5 agosto, vedeva soltanto un mare di arancione. Arancione come le vesti dei sadhu, i mistici induisti. Arancione come il colore legato al partito al governo, che per qualcuno è ormai sinistro quanto le bandiere con la croce uncinata. Vedeva un mare di arancione e sentiva esclusivamente musica religiosa. Perché tutti, letteralmente tutti i media indiani, televisioni, giornali online e canali YouTube, erano collegati con Ayodhya, città dell’India del nord. Dove il premier Narendra Modi, nel corso di una lunga ed elaborata cerimonia religiosa, si accingeva a porre la prima pietra delle fondamenta di un tempio dedicato a Ram, semidio che, in un passato avvolto nel mito, è stato re della città. Una pietra importante, perché metteva simbolicamente anche la classica pietra sopra a una questione, la cosiddetta «questione di Ayodhya» per l’appunto, che ha indirettamente provocato in India nel corso degli anni cinque-seimila morti e che è, in uno dei suoi risvolti più inquietanti, strettamente connessa anche alla figura del suddetto Modi.

La posa della pietra ha segnato, secondo alcuni, «la morte del secolarismo» in India e l’ennesimo passo compiuto dal governo per ledere i diritti dei cittadini di religione musulmana La moderna «questione di Ayodhya» comincia con un lontano episodio di cronaca: il 6 dicembre 1992 centinaia di integralisti indù radevano al suolo la Babri Masjid, la principale moschea della città costruita nel 1529 in onore di Babur, fondatore dell’impero Moghul, per costruire al suo posto un tempio dedicato a Ram. L’ondata di violenza scatenatasi per tutta l’India di conseguenza è costata nel corso degli anni più di cinquemila vite umane. Dalla irrisolta «questione di Ayodhya» sono dipesi i massacri compiuti in Gujarat mentre Narendra Modi era chief minister dello Stato, e che secondo una parte dell’opinione pubblica sono stati compiuti ai danni dei musulmani con la sua connivenza. Dalla questione di Ayodhya dipendeva la bomba esplosa nell’ottobre 2002 nel tempio induista di Godhra, l’attacco al parlamento di Delhi nel 2001 e anche le bombe esplose all’India Gate di Bombay nel 2003. Per riassumere i termini della questione: il 22 settembre 1949,

Narendra Modi si accinge a porre la prima pietra delle fondamenta del nuovo tempio dedicato alla divinità ram. (AFP)

un simulacro di Ram appariva misteriosamente all’interno della principale moschea di Ayodhya. La cosa veniva interpretata dagli induisti come una specie di «reclamo» da parte del semidio sul suolo del suo luogo di nascita. Nasceva una disputa religioso-catastale tra musulmani e indù, e di conseguenza le autorità civili dichiaravano il luogo «proprietà contesa» apponendo i sigilli. Nel 1992, la disputa culminava nella distruzione della moschea e i relativi scontri. La disputa si è trascinata, con perizie e contro-perizie da parte dell’Archeological Survey of India, fino allo scorso anno, quando la Corte Suprema ha emesso una più o meno salomonica sentenza: ha attribuito il possesso del terreno agli induisti, e assegnato ai musulmani un altro lotto di terra per costruire una moschea. Curiosamente, il verdetto non è stato accompagnato da nessuna polemica tranne quelle di una ormai stanca routine. La posa della prima pietra del tempio ha segnato, secondo alcuni, «la morte del secolarismo» in India e l’ennesimo passo compiuto dal governo per ledere i diritti dei cittadini di religione musulmana. Non a caso difatti, si dice, per porre la prima pietra del tempio di Ram si è scelta la stessa data, il 5 agosto, che lo scorso anno ha segnato l’abolizione dell’articolo 370 della Costituzione che attribuiva al Kashmir uno statuto speciale. Come avviene ormai da più di un anno in India, nessun gesto, nessuna legge e nessun provvedimento, anche il più innocuo e sensato, è immune dal

clima avvelenato che si respira nel Paese e dalla polarizzazione estrema in cui tutto viene interpretato e letto. Perché le discussioni, invece di focalizzarsi sui temi caldi per il Paese, come l’economia in ribasso e la mancanza di posti di lavoro, sono sempre e soltanto focalizzate su «pro-musulmano, anti-musulmano». Centrate sulla vera o presunta agenda nefasta del secondo governo Modi e sulla sua volontà di far diventare l’India una nazione indù. Curiosamente, di tutto ciò ad Ayodhya non c’è e non c’è mai stata traccia. Secolarismo, a guardare da qui, è una parola sconosciuta ai più. La città, secondo la tradizione, è stata fondata dagli dèi ed è prospera come il Paradiso: e sono proprio gli dèi che le assicurano i suoi principali mezzi di sussistenza. Città sacra, per diversi motivi, agli induisti, ai musulmani, ai buddhisti e ai giainisti, Ayodhya fonda difatti la sua economia quasi esclusivamente sul business religioso. E Ram, in particolare, si è rivelato una inesauribile fonte di guadagno per tutti: sacerdoti, commercianti, albergatori, guide turistiche e perfino mendicanti, di qualunque religione essi siano. Ad Ayodhya esistono 7001 templi, nella maggior parte dei quali si lavora quasi esclusivamente per garantire assistenza ai viaggiatori. Il flusso di denaro, alimentato dalle donazioni dei pellegrini e dai loro acquisti, è costante e ininterrotto e destinato a crescere in misura esponenziale con la costruzione del tempio. Trattori, autobus, carri

trainati da buoi, macchine e treni scaricano a intervalli più o meno regolari devoti e agitatori pronti a portare il loro contributo alla gloria di Ram o ai suoi detrattori. E mentre nel resto del Paese infuriano le polemiche, ad Ayodhya musulmani e induisti si spalleggiano e fanno da anni fronte comune difendendosi l’un l’altro ogni volta che seguaci dell’una o dell’altra causa cercano di turbare la quiete cittadina e la sua «divina» prosperità. Il rischio maggiore, a sentire la gente del luogo, è che una città bellissima con i suoi palazzi che cadevano serenamente in rovina sulle rive del fiume Saryu e da cui ti aspettavi di veder comparire da un momento all’altro Ram e sua moglie Sita, venga invasa dall’ondata arancione portatrice di merchandising, costruzioni selvagge, e «progresso» misurato nel numero di toilette pubbliche a disposizione dei fedeli per costruire le quali si abbattono palazzi e costruzioni secolari. Così, mentre amici e conoscenti in tutta l’India inviavano selfie dalla bhoomi puja per dire «io c’ero», si celebrava il funerale non del secolarismo ma dell’Ayodhya che fu. Una città dai ritmi lenti e rilassati, che si srotola placida attorno al fiume e si avviluppa attorno al rosso tempio di Hanuman. Una città che la luce, al tramonto e all’alba, avvolge di un magico alone rosato che si riflette sui vecchi palazzi lungo il fiume. Una città che rischia di scomparire per sempre, come molta parte dell’India, nelle luce arancione troppo cruda della modernità.

L’Argentina di Fernández evita un nuovo default Il governo di Alberto Fernández (nella foto) ha evitato un nuovo default all’Argentina. Sarebbe stato il secondo negli ultimi vent’anni e avrebbe pregiudicato ulteriormente un’economia in profonda crisi già prima della pandemia del Coronavirus, che l’ha resa ancor più assillante. L’Argentina ha quindi raggiunto un accordo preliminare con i creditori sul debito estero. Buenos Aires pagherà 55 dollari per ogni 100 investiti, riducendo di circa il 45% i 66 miliardi di dollari di debito al centro delle negoziazioni da gennaio. Dopo sei mesi di negoziati, l’Argentina ha aperto la strada a una politica sul debito che limiti i condizionamenti alla propria azione internazionale e domestica. Il debito totale del Paese ammonta a circa 325 miliardi di dollari. Quelli inclusi nell’accordo preliminare fanno riferimento a bond emessi dal 2005 in base alle leggi dello Stato di New York, quindi più pericolosi per il Paese nel caso in cui fosse trascinato di fronte ai tribunali degli Stati Uniti, dove ha già subito una dura sconfitta nel 2012 sul caso degli hedge fund. A questi si aggiungono altri 55 miliardi legati a buoni emessi in base alla legge argentina, che il Congresso si è affrettato a ristrutturare unilateralmente, stabiliti con gli investitori stranieri. Non è certo quel che il governo di Alberto Fernández si aspettava. Secondo la bozza presentata dal Ministero dell’Economia, la riduzione del debito si limita infatti all’1,9% del capitale investito, mentre il taglio sostanziale sta nell’interesse percepito, che comunque si attesta intorno al 3,1%. Livello piuttosto alto per gli standard internazionali. Insomma, i creditori guadagneranno poco meno del previsto, ma guadagneranno comunque. Il governo può dunque cominciare ad abbozzare un piano di pagamenti che gli permetta di dar forma al proprio progetto economico. Ora però Buenos Aires dovrà affrontare altri due ardui negoziati. Il primo con il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) per la restituzione del pacchetto di aiuti da 44 miliardi concesso nel 2018. E poi dovranno essere discussi i 10 miliardi in ballo da decenni con i paesi europei riuniti nel Club di Parigi. Insomma, per l’Argentina la strada verso il sollievo finanziario è appena iniziata. Sebbene questo primo accordo le riapra le porte dei mercati del debito sovrano, le condizioni che le verranno imposte e la sfiducia accumulata affievoliscono l’entusiasmo registrato a Buenos Aires nelle ultime ore. / (Limes)

Wikipedia

Seta indiana Ad Ayodhya nell’Uttar Pradesh Narendra Modi ha posato la prima pietra

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Politica e Economia

Libano, la piazza accusa Hezbollah

Scenari Le dimissioni del governo dopo l’esplosione che ha ucciso 160 persone sono un brutto colpo per il Partito

di Dio, il gruppo armato che condiziona la vita politica del Paese e che agisce sotto la direzione dell’Iran Daniele Raineri In Libano il governo si è spento ancora prima di rassegnare in modo formale le dimissioni. Gruppi di volontari hanno preso l’iniziativa, spazzano le strade e ammonticchiano dove trovano spazio le migliaia di tonnellate di detriti create dall’onda d’urto dell’esplosione che due settimane fa ha devastato Beirut. Sono cittadini auto-organizzati che tentano di liberare la città dalle conseguenze più immediate del disastro, come la montagna di vetri rotti che copre le strade di quasi tutti i quartieri, oppure portano bottiglie di acqua e sacchetti di pane alle famiglie che non hanno più una casa – sono moltissime, circa duecentomila persone. Secondo le Nazioni Unite, il Paese ha pane per le prossime due settimane e mezzo (è una situazione a rischio, ma alcune navi cariche di cibo stanno già arrivando). Esercito e polizia non fanno nulla. Proteggono le sedi dei Ministeri e della Banca centrale da dietro le inferriate e osservano i libanesi fare tutto il resto – e prendersi cura di una città che non sa se riuscirà a tornare come prima. Il governo appena ha capito che non sarebbe sopravvissuto alla rabbia popolare si è dimesso in blocco, ma esercita ancora un potere provvisorio in attesa che si trovi il nome che formerà un nuovo esecutivo. Potrebbe volerci pure un anno, considerato che in Libano ogni negoziato politico è un esercizio di spartizione millimetrica di ogni cosa e tutti gli accordi devono tenere in considerazione l’equilibrio delicatissimo fra etnie e religioni che regge il Paese dalla fine della guerra civile. Si fa il nome di Nawaf Salam, un giurista libanese che è stato ambasciatore alle Nazioni Unite e ora lavora alla Corte internazionale di giustizia. Ha una reputazione di uomo onesto e di sicuro il fatto che lavora fuori dal Paese lo fa

apparire molto desiderabile ai libanesi esasperati. Christina Perreira, ricercatrice di Stanford, scrive che il Libano ha un problema di troppa stabilità come molti altri paesi usciti dopo sofferenze enormi da un conflitto fratricida. Di solito le elezioni sono una competizione e gli elettori hanno la possibilità di scegliere i politici che gli sembrano migliori e buttare fuori dalla gara quelli che sembrano inadatti. Ma a Beirut almeno dal 2005 il potere è in mano a un cartello di partiti che sono avversari soltanto di nome e che invece nei fatti si mettono d’accordo su tutto, con la scusa che altrimenti si torna alla guerra civile. Gli elettori hanno soltanto l’illusione di contare qualcosa, vedono aggiustamenti minimali ma nulla si muove. Il risultato si è visto. Il Paese ha superato la fase della stagnazione ed è arrivato a quella della decomposizione. La moneta ha perso l’ottanta per cento del suo valore negli ultimi mesi per colpa delle perdita improvvisa di credibilità (improvvisa per chi non voleva vedere cosa stava succedendo) e questo vuol dire che la gente normale ha perso di colpo l’accesso anche a beni che non sono di lusso. Due settimane fa i libanesi raccontavano all’inviato dell’«Economist» che «per ora non siamo ancora poveri, lo saremo quando dovremo sostituire il frigo o i freni dell’auto e scopriremo che non possiamo più farlo». L’esplosione ha accelerato questo processo in modo incredibile, poteva prendere anni e invece ci sono voluti pochi giorni. Lo stato di sospensione fra benessere e carestia è finito. Molti libanesi non hanno i soldi per sostituire le finestre rotte, che sono aumentati di dieci volte e vanno pagati con gli introvabili dollari. La città che era considerata la Parigi del Medio Oriente è diventata un posto dove almeno un terzo degli

Polizia antisommossa durante le manifestazioni di protesta contro il governo dopo l’esplosione di beirut. (AFP)

abitanti è disperato – e non c’è dubbio che diventerà più pericolosa di adesso. E pensare che il governo non più tardi di luglio aveva ricevuto un avvertimento su quanto fosse pericoloso tenere tutte quelle tonnellate di nitrato d’ammonio nel centro di Beirut e non ha fatto nulla. Quando è scoppiato il rogo al magazzino che poi ha portato all’esplosione, e si vedeva da tutta la città, c’era il tempo di lanciare un allarme generale che avrebbe evitato molte morti, ma nemmeno quello è stato fatto. Così migliaia di persone sono rimaste affacciate a osservare un incendio che era una grande miccia accesa. Come si diceva, il governo è immobile. La causa prima di questa immobilità è la presenza del Partito di Dio,

anche conosciuto con il nome in arabo di Hezbollah. Il Partito ha un potere abnorme grazie al fatto che dispone di una milizia armata – anzi sarebbe meglio dire che è il contrario, si tratta di una milizia armata che dispone di alcuni rappresentanti politici. Hezbollah è uno Stato dentro lo Stato e sfugge a qualsiasi controllo del governo. Ha mandato i suoi miliziani a combattere in Siria alla luce del giorno su ordine dell’Iran, come se fosse la cosa più normale del mondo. Ha fatto passare nel sottosuolo di Beirut una linea telefonica tutta sua, per evitare di usare la stessa linea che usano gli altri libanesi e che potrebbe essere intercettata. Controlla la metà meridionale del Paese e anche il porto e l’aeroporto di Beirut – sa sem-

pre chi e cosa esce ed entra nel Paese. Dispone di giornali e televisioni che si incaricano di dettare la linea. Ma la sua forza persuasiva è sempre quella delle armi. È il Partito di Dio che in questi anni ha tenuto in piedi il cartello dei partiti che paralizza il Libano, perché ai miliziani conviene così. È il Partito di Dio che siede al centro di tutti i negoziati per formare i governi – e infatti anche questo che si è appena dimesso era molto filo Hezbollah. E quando i libanesi che non ne possono più scendono in piazza a gridare lo slogan di protesta, «tutti vuol dire tutti», vogliono dire che Hezbollah non deve sentirsi al di sopra degli altri partiti: deve andarsene via con loro, dopo aver bloccato il Paese per anni.

La fine di un sogno?

Sistema al collasso Il Paese che una volta era definito «la Svizzera del Medio Oriente»

sta vivendo un momento economico tragico Marzio Minoli Quando si parla di Medio Oriente spesso il pensiero corre verso una zona dove la pace sembra essere una chimera. Decenni di conflitti ne caratterizzano la storia, innescati soprattutto dalla presenza dello Stato di Israele, mai completamente accettato dalle nazioni arabe. Anche il Libano ha vissuto il suo periodo di guerra. Anche il Libano ha avuto i suoi problemi con Israele. Ma più che con lo Stato ebraico, il paese dei cedri, così viene soprannominato il Libano, ha vissuto una guerra civile durata quindici anni, dal 1975 al 1990. A fronteggiarsi le forze appartenenti alle diverse religioni presenti. La frange cristiane contro le frange mussulmane. Ma questa diversità culturale e sociale non è solo stata causa di guerra, bensì è stata, e rimane, anche la ricchezza del Libano. E questo è uno degli elementi che è valso al paese il soprannome di «Svizzera del Medio Oriente». Culture diverse, che vivono in modo relativamente pacifico sotto la stessa bandiera. Anche la neutralità è un elemento che lo accomuna alla Svizzera, ma la similitudine più evidente è quella del sistema bancario. Un sistema che è stato la spina dorsale dell’economia libanese per decenni. Un sistema bancario aiutato nel suo sviluppo dal fatto che il paese, anche per la sua neutralità, era un centro regionale di riferimento per il commercio. Prima della guerra civile soprattutto

Beirut aveva questo ruolo. Il settore dei servizi è sempre stato preponderante. A Beirut era un fiorire di aziende dedite ai trasporti e al commercio internazionali. Oltre a questo, anche il turismo era una voce importante dell’economia libanese. Siti archeologici, il clima mite, grandi alberghi e ristoranti, così come molte attività culturali di respiro internazionale hanno contribuito al suo sviluppo. E naturalmente il tutto era supportato da un sistema bancario e finanziario di prim’ordine, tanto che per un certo periodo, fino alla metà degli anni 60, il Libano era anche diventato un paradiso fiscale, l’unico del Medio Oriente. Ma non solo negli anni d’oro. Durante i primi dieci anni della guerra civile, paradossalmente gli avvenimenti bellici hanno anche contribuito allo sviluppo delle banche. Infatti, durante quel

periodo molti libanesi ripararono all’estero ma continuavano a inviare capitali nelle banche libanesi. Questo almeno fino agli inizi degli anni 80, quando i flussi diminuirono e la lira libanese crollò. Una situazione che costrinse il paese a rivolgersi al mercato dei capitali, sia interno che internazionale. Come risultato oggi il Libano è il terzo paese più indebitato al mondo rispetto al prodotto interno lordo, dietro a Giappone e Grecia. Debiti altissimi dunque, e già questo potrebbe essere una fonte di tensione sociale. Ma questa condizione, seppur necessaria, non è sufficiente, come altri paesi insegnano. Il sistema bancario ha continuato a crescere. Anche durante la crisi finanziaria non ha subito molti danni. E tra il 2011 e il 2019 i depositi sono aumentati di 253 miliardi di dollari, cinque volte il prodotto nazionale lordo del paese.

ancora nel 2008 le banche libanesi (qui la banca centrale) erano sommerse di denaro liquido. (Keystone)

Come mai tutto questo successo? Il Libano praticamente deve importare tutto e la merce viene pagata soprattutto in dollari. La Banca Centrale ha spesso pagato interessi molto alti a tutti coloro che depositavano dollari. Fino al 10%. Le banche commerciali hanno poi applicato la stessa percentuale ai clienti, favorendo un grosso afflusso di dollari nelle loro casse. Ma il sistema si basava molto sulla fiducia, e questa fiducia è venuta a mancare già la scorsa estate. Come mai? Le nuvole nere di una pesante crisi economica si intravedevano all’orizzonte. La mancanza di riforme strutturali per contenere il deficit di quasi il 10% annuo, un debito pubblico al 150% del prodotto interno lordo, la crisi siriana che continua a pesare: tutti elementi che hanno fatto fuggire molti investitori, facendo diventare quelle nuvole nere una vera e propria tempesta, che ha portato alle proteste di piazza degli ultimi mesi. Ed è forse la ricca diversità culturale del Libano una delle cause di questo momento tragico. Nel paese ci sono 18 confessioni religiose ufficialmente riconosciute, e il potere viene suddiviso tra le maggiori di queste. Il Presidente deve essere cristiano maronita, il Primo ministro sunnita e il Presidente del Parlamento sciita, secondo uno schema che si trascina da decenni, dal 1943, anno dell’indipendenza dalla Francia e che dopo la guerra civile è stato ulte-

riormente rafforzato. Un sistema che, a detta dei manifestanti, è corrotto e inefficace, e che ha lasciato cadere il paese nel baratro. Fino al 2011 il PIL libanese cresceva ad una media del 9,2%, secondo le stime della Banca Mondiale. Dal 2011 al 2017 questa percentuale è scesa al 1,75%. Poi, dal 2018, crescita negativa. Meno 1,9% nel 2018. Meno 5,6% nel 2019. A tutto questo si aggiunge che il Libano ha un debito di 90 miliardi di dollari che non riesce a ripagare. E per dare l’idea di come il paese sia radicato a logiche di potere discutibili, basti pensare che il presidente della Banca Centrale, Riad Salamé, è in carica ininterrottamente dal 1993. Ma siccome i guai non arrivano mai da soli ecco il Covid, che ha portato al lockdown, e nelle scorse settimane la distruzione del porto di Beirut, la principale porta d’entrata di un paese, come detto, che deve importare tutto. Come uscire da questa situazione? Il Libano ha bisogno di almeno 20 miliardi di dollari, che arriveranno da istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale. Ma prima FMI e altri vorranno delle garanzie di riforme strutturali. Condizioni già poste in passato, ma mai realizzate. Questa potrebbe essere la volta buona per cambiare un sistema che sembra non interessare più nemmeno le nuove generazioni. Quelle che adesso sono in piazza a protestare, unite, a prescindere dalla religione.


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Politica e Economia

Godersi domani il risparmio di oggi La consulenza della Banca Migros

Nicole Koller

Nicole Koller è specialista in Marketing e comunicazione presso la Banca Migros

La scuola, l’apprendistato, l’università, l’entrata nel mondo del lavoro: qualsiasi cosa si faccia da giovani, il denaro è sempre cruciale. Ma l’inizio della vita lavorativa è un’esperienza significativa, è infatti la porta verso l’età adulta. Ecco che arriva il primo, tanto atteso stipendio, da spendere per esaudire qualsiasi desiderio personale. Ora il duro lavoro svolto dà finalmente i suoi frutti. Ma, inaspettatamente, a metà mese i soldi sul conto sono già finiti. Per evitare questa situazione e per un migliore avvio della vita lavorativa si possono seguire alcuni semplici consigli: • scegliere linee di prodotto vantaggiose come M-Budget; • informarsi sempre su sconti e promozioni per apprendisti o studenti; • scrivere la lista della spesa e attenersi ad essa; • confrontare i prezzi di diversi offerenti; • usare la bici anziché i mezzi pubblici; • comprare abiti usati o scambiarli. È inoltre importante risparmiare regolarmente, ad esempio con un ordine permanente per i bonifici sul conto di risparmio, con un piano di risparmio in fondi o con il cosiddetto risparmio dell’arrotondamento, che funziona così: ogni acquisto con la carta Maestro viene automaticamente arrotondato, a scelta ai successivi 1, 2, 5, 10 o 20 franchi, e la differenza confluisce su un conto di risparmio o di fondo.

Mantenere in equilibrio le proprie finanze richiede la dovuta attenzione. (Keystone)

E con un budget spesso limitato, quando si può bisogna approfittare delle offerte interessanti. Negli acquisti e nelle operazioni bancarie. È la combinazione che offre Free25, la nuova proposta della Banca Migros per

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 agosto 2020 • N. 34

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Politica e Economia

Miliardi per salvare la crescita ma le previsioni restano fosche

Conseguenze Covid Italia e Germania (con gli aiuti dell’UE) sono i paesi che stanziano di più con misure

di intervento diretto e indiretto (per esempio fiscale). In Svizzera l’intervento più rapido

Ignazio Bonoli Tutti i paesi industrializzati sono alle prese con provvedimenti volti a parare il colpo dagli effetti del Covid-19 e da quelli suscitati dopo le misure per combatterli. A livello mondiale si constata un forte impatto sulla congiuntura, con il prodotto interno lordo (PIL) che dovrebbe calare quest’anno a ritmi piuttosto elevati. In Svizzera, in giugno, sono stati confermati i ritmi di decrescita già previsti in primavera: il PIL dovrebbe scendere del 6,2% e il tasso di disoccupazione annuo medio si fisserebbe al 3,8%. Si tratta del più grave crollo economico dal 1975. Nel prossimo anno si dovrebbe constatare un leggero miglioramento, ma con il PIL ancora negativo nella misura del 5,3%. In molti altri paesi le previsioni sono anche più pessimistiche. La stessa Unione Europea prevede un calo del PIL dell’8,7% nel 2020 e del 6,1% nel 2021. Parecchi paesi membri mostrano però una situazione peggiore, a cominciare dall’Italia con –11,2%, dalla Spagna con –10,9% e anche dalla Francia con –5,8%. Persino in Germania il PIL subisce un crollo del 6,6%, ma si prevede una ripresa del 10,2% nel 2021. È su queste basi che l’UE ha allestito un piano di sostegno che supera ogni altro intervento finanziario dell’Unione. Basandosi sui dati del «Bruegel» (il laboratorio europeo e di economia globale di Bruxelles) e su quelli del Fondo monetario internazionale è stata allestita un’analisi delle prestazioni previste da ogni paese in proporzione al prodotto interno lordo di ognuno. La Svizzera, partendo dalla fortunata situazione di un debito pubblico molto inferiore alla media europea, ha adottato un metodo molto pragmati-

angela Merkel, emanuel Macron, Sanna Marin (premier finlandese), Stefan lofven (premier svedese) al recente vertice ue in cui sono stati decisi aiuti per 750 miliardi di euro. (Keystone)

co. Metodo che ha lo scopo principale di garantire all’economia le condizioni quadro ottimali solite e di intervenire subito nei casi di rigore, concentrandosi sui bisogni dei lavoratori e delle imprese. Alcune di queste misure hanno la durata di alcuni mesi e vengono rinnovate solo se necessario. Inoltre, la Confederazione non ha allestito un vero e proprio pacchetto anti-virus, come altri paesi hanno fatto, utilizzando lo strumento fiscale. Tuttavia, le spese per il lavoro ridotto e l’aiuto immediato, che possono essere paragonabili

a misure fiscali, raggiungono il 4% del PIL e superano quelle analoghe della Germania o dell’Austria. L’uso del rapporto con il PIL nei confronti è necessario per ovviare alle enormi differenze di popolazione, ma anche di potenziale economico di ogni paese confrontato. Anche paesi come l’Olanda, la Danimarca o la Svezia hanno adottato il metodo del soccorso immediato ai lavoratori e alle aziende. Altri paesi hanno confezionato grossi pacchetti fiscali mirati per esempio a sostenere le industrie-chiave, o la

digitalizzazione o ancora una maggiore responsabilità ambientale. La Germania – per esempio – ha raddoppiato il bonus per l’acquisto di auto elettriche. La Francia sostiene l’industria dell’automobile e quella aviatoria direttamente a suon di miliardi. Alcuni pacchetti contemplano l’anticipo di grossi investimenti pubblici già previsti. Così l’Austria investe molto nelle energie rinnovabili, nella «banda larga» e nell’ammodernamento delle stazioni ferroviarie. In sostanza, molti «pacchetti» sono solo piani che

verranno realizzati nel tempo e quindi pagati solo a tappe future. Molti, sull’esempio svizzero, fanno ampio ricorso a linee di credito garantite, che probabilmente, come già visto in Svizzera, non verranno utilizzate pienamente. Si sta inoltre vedendo che risulta talvolta difficile superare gli ostacoli burocratici. In Italia si sentono lamentele per cui i primi stanziamenti d’urgenza non sono ancora stati versati. Contrariamente alla Svizzera che ha risolto il problema dell’urgenza, per esempio, in Austria solo una parte dei soldi previsti dal «pacchetto» è stata versata. Su tutto questo si innesta il grosso «pacchetto» dell’UE, inizialmente fornito di 540 miliardi di euro, cui si aggiungono 37 miliardi dal bilancio comunitario con diversi scopi precisi. Interessante vedere come si compongono gli interventi per paese. Per esempio l’Italia a cui tocca il maggior volume (pari a quasi il 50% del PIL) ha una minima parte di misure fiscali, un po’ di più per la dilazione di pagamenti e molto per misure di liquidità e garanzie. La Germania prevede molto di più in misure fiscali, meno in dilazioni e parecchio in misure di liquidità e garanzie. A confronto, gli USA con un intervento di meno del 15% del PIL, puntano quasi esclusivamente su misure fiscali, come del resto l’Austria. La Svizzera suddivide l’intervento in modo equilibrato: 8% circa di misure fiscali, 4% circa di dilazioni e 15% circa del PIL del 2019 in misure di liquidità e garanzie. Sarà anche interessante vedere, a distanza di qualche anno, che effetti concreti queste misure avranno avuto, anche se sappiamo che i fattori esogeni condizionano spesso e volentieri l’evoluzione della congiuntura.

Il contante non è tutto: c’è anche l’oro

Dibattiti In epoche di digitalizzazione «spinta» risuona un motto di Paperon de’ Paperoni:

«l’oro non è tutto. C’è anche il platino»

cartamoneta, infatti, erano i sistemi metallici a farla da padrone (anche se parzialmente convertibili) con il cosiddetto «sistema aureo» (gold standard), che fra la metà del XIX Secolo per quasi altri cent’anni è entrato negli annali quale simbolo di stabilità. Nel Secondo Dopoguerra, quando il dollaro statunitense si affermò (sostituendo la sterlina inglese) quale principale mezzo di pagamento negli scambi commerciali e finanziari internazionali, all’oro fu riservato un ruolo di «garanzia di convertibilità», cioè si stabilì che un’oncia pari a 31,10 grammi sarebbe corrisposta a 35$. Il messaggio era chiaro: il dollaro statunitense fungeva sì da liquidità internazionale, ma era a sua volta con-

Edoardo Beretta Se i mezzi di pagamento contanti – il cash, per intenderci – già trasmettono l’idea ben precisa di immediata spendibilità (e, quindi, ricchezza), non vi sono dubbi che essi si collochino nell’immaginario comune su un gradino «più basso» rispetto ad un’altra storica riserva di valore, cioè l’oro, nelle sue forme di lingotti e monete. Su quest’ultimo si è scritto di tutto (e più ancora): luccichìo e glamour connessi, rinvenibili già nell’antichità, scarsità in natura, crescente difficoltà di reperimento all’aumentare della profondità di minaggio etc. ne hanno prima creato e poi consolidato la leggendarietà. Prima della 1800.00 1600.00 1400.00 1200.00 1000.00

Prezzo dell’oro

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1985

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1977

1973

1969

0.00

1.

vertibile dalle banche centrali in oro. Allorquando il 15 agosto 1971 il Presidente Richard Nixon sospese la convertibilità aurea del dollaro statunitense a fronte dell’inarrestabile «emorragia» di riserve auree da Fort Knox e fra il 6 e 7 gennaio 1976 il FMI suggellò a Kingston (Giamaica) la vendita di parte delle riserve auree mondiali, sarebbe stato logico convincersi dell’imminente declino dell’oro in quanto «relitto medievale» (o barbarous relic, come gli economisti amano dire) a fronte della cronica mancanza in economie in forte crescita necessitanti di stock monetari in altrettanto aumento. La storia ci insegna, però, che non fu così. Ecco che ad ogni scoppio di crisi – sia quella economico-finanziaria globale dal 2007 sia quella determinata dall’attuale pandemia – il metallo giallo riemerge come «bene rifugio» par excellence a dispetto delle schiere di sostenitori della digitalizzazione «forzata» anche in ambito monetario. A ciò si aggiunge come i tassi di crescita del prezzo aureo siano stati non soltanto più che ingenti – si è, infatti, ben lontani dai 35$ per oncia ancora validi nel regime monetario fino al 1971 come dimostra il grafico –, ma si siano contraddette ricorrenti affermazioni «forfettarie» circa la stabilità del suo valore. Piuttosto, esso costituisce una buona garanzia di detenzione dei risparmi, sebbene sia innegabile che parte della

bolla finanziaria (cioè della liquidità monetaria eccedente la ricchezza reale) sia da metà degli anni 2000 – poco prima della crisi dei subprime – collocata «stabilmente» sul metallo giallo, fatto che ne comporta da allora valori disallineati rispetto a quelli storici. La ragione della passione immutata per il metallo giallo è presto spiegata (al di là di motivi riconducibili a tradizioni tramandate dalla storia, celebri dipinti, figure popolari o mitologiche etc.): sono, infatti, perlopiù tangibilità e solidità a farvi intravedere una certezza di mantenimento e trasmettibilità valoriali. Purtroppo, l’oro è spesso anche gravato fiscalmente sotto forma di «sostanza», cioè dapprima da acquisirsi al suo corso ufficiale e successivamente da finanziarne annualmente la detenzione. Trattasi, dunque, di vera e propria doppia imposizione o sorta di «anatocismo», a cui è sottoposto il patrimonio in genere (cfr. ad esempio mio articolo per «Azione» no. 30 del 2019), che non tiene però conto del fatto che – mentre gli strumenti di pagamento contanti sono di immediata spendibilità – il metallo giallo lo è assai meno e comporta costi operativi di conversione maggiori. In altri termini: se già l’imposizione della sostanza è discutibile, lo è ancor più l’applicazione dello stesso trattamento fiscale a mezzi di pagamento (o riserve di valore) sostanzialmente differenti fra loro. Un principio simile (ma invertito)

vale anche sotto il profilo monetario: lo sanno bene certi corpi speciali, che durante missioni complesse in luoghi lontani dalla civilizzazione possono avere con sé quantitativi di metallo giallo laddove il dollaro statunitense non fosse accettato. È, quindi, opportuno investire in oro? A prescindere da considerazioni sul suo attuale prezzo (il 3 agosto 2020, 1970,39$ all’oncia), cioè se abbia già raggiunto i suoi massimi oppure vi sia ancora margine di rialzo – il sottoscritto è, ad esempio, dell’avviso che certi beni continueranno a presentare una crescita tendenziale in scenari economici sempre più volatili –, pare difficile oggigiorno pensare ad una strategia di investimento individuale (cioè autonoma da istituti bancari-finanziari) incentrata sull’oro in quanto spesso di difficile convertibilità. Sarebbe, invece, molto più opportuno che policymaker monetari così come tributari ben riflettessero sull’importanza del risparmio individuale (cioè non continuassero a «spremerlo» come tuttora) in quanto non contrapposto al consumo, ma volano di spesa futura così come investimenti attuali e futuri. Nota

1. Elaborazione propria sulla base di: http://www.macrotrends.net/1333/ historical-gold-prices-100-year-chart.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 agosto 2020 • N. 34

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Politica e Economia

Politica europea al bivio

Votazione federale Il 27 settembre si voterà sull’iniziativa dell’UDC per l’abolizione della libera circolazione -

A rischio tutti e sette gli accordi del pacchetto Bilaterali 1, legati dalla «clausola ghigliottina» Marzio Rigonalli Mancano quaranta giorni alla votazione popolare sull’iniziativa federale «Per un’immigrazione moderata (Iniziativa per la limitazione)». Di che cosa si tratta? L’iniziativa vuole abolire la libera circolazione delle persone, valida per i cittadini dell’Unione europea (UE) e dell’Associazione europea di libero scambio (AELS). Chiede che l’immigrazione in Svizzera di tutti gli stranieri venga disciplinata secondo il modello già applicato ai cittadini di Stati terzi e che prevede l’introduzione di contingenti massimi, la priorità ai lavoratori indigeni, nonché la limitazione dei permessi a lavoratori qualificati. L’iniziativa è stata lanciata dall’UDC ed ha avuto subito il sostegno dell’Associazione per una Svizzera neutrale e indipendente (ASNI). L’accordo bilaterale sulla libera circolazione delle persone è stato concluso nel 1999. Venne approvato in votazione popolare, con il 67,2% di «sì», il 21 maggio 2000 ed entrò in vigore nel 2002. Con l’arrivo dei nuovi Stati membri dell’UE, situati nell’Europa centrale ed orientale, l’accordo fu esteso anche a loro e venne riconfermato in una votazione popolare che si svolse l’8 febbraio 2009, dove i «sì» raggiunsero il 59,6%. La libera circolazione delle persone offre un ampio spazio di libertà e di movimento a tutti i cittadini dei paesi dell’Unione europea e dei tre paesi che oltre alla Svizzera si ritrovano nell’AELS, ossia la Norvegia, l’Islanda e il Liechtenstein, nonché ai cittadini della Confederazione. Gli stranieri di questi paesi possono venire in Svizzera per esercitare un’attività professionale e godono di determinati diritti concernenti per esempio il luogo di residenza, le condizioni di lavoro, il riconoscimento delle qualifiche professionali, le agevolazioni fiscali e sociali ed il ricongiungimento familiare. Gli stessi diritti vengono riconosciuti ai confederati, che possono prendere domicilio nello spazio europeo e godere in larga misura delle stesse condizioni di vita, d’impiego e di lavoro dei cittadini dell’Unione europea. L’intesa sulla libera circolazione fa

parte di un pacchetto di sette accordi bilaterali, entrati in vigore il 1. giugno 2002. Il pacchetto, denominato «Bilaterali I» forma un tutto, anche se i temi negoziati sono assai diversi. Gli altri sei accordi possono essere riassunti in questo modo. 1. Ostacoli tecnici al commercio (MRA: Mutual Recognition Agreements). L’accordo garantisce il riconoscimento reciproco degli attestati di conformità per la maggior parte dei prodotti industriali. Ciò facilita l’immissione di un prodotto sul mercato svizzero e su quello europeo ed assicura praticamente le stesse condizioni di accesso al mercato per i produttori svizzeri e i loro concorrenti dell’UE. I settori coperti dall’MRA costituiscono i due terzi del commercio di prodotti industriali tra la Confederazione e l’UE. 2. Appalti pubblici. Grazie a questo accordo le aziende svizzere possono partecipare con piena parità di trattamento a gare d’appalto pubbliche indette negli Stati membri dell’UE. Secondo le stime della Commissione europea, il mercato degli appalti pubblici nell’UE muove ogni anno un giro d’affari complessivo di 2400 miliardi di euro. Analogamente, le imprese dell’UE possono partecipare a gare d’appalto in Svizzera. L’apertura di questo mercato mira a promuovere la trasparenza e la concorrenza e rappresenta un potenziale non trascurabile per alcune imprese esportatrici svizzere, o attive nel settore dei servizi. 3. Agricoltura. L’accordo sul commercio dei prodotti agricoli consente di migliorare l’accesso reciproco al mercato, grazie alle riduzioni dei dazi e dei contingenti di importazione per determinati prodotti, nonché grazie a una serie di semplificazioni relative al commercio. Tra i prodotti che sono stati maggiormente toccati da questo accordo, spiccano i formaggi, i vini, gli alcolici, gli alimenti per animali, le sementi, la frutta e la verdura. L’UE è il principale mercato di esportazione per i prodotti agricoli svizzeri: le esportazioni raggiungono il 58% e le importazioni il 75%. 4. Ricerca. In questo ambito i programmi sono limitati nel tempo e, quindi, rinnovabili con le varie incognite che

Josef Deiss, Pascal Couchepin e il tedesco Joschka Fischer firmano il 21 giugno 1999 gli accordi bilaterali 1. (Keystone)

possono sorgere. L’accordo bilaterale pone le basi per la partecipazione dei ricercatori e delle imprese svizzere ai programmi quadro di ricerca dell’UE. Sono in gioco parecchi miliardi di euro. La Svizzera ha partecipato al programma quadro Orizzonte 2020 e dovrebbe poter partecipare anche al programma Orizzonte Europa 2021-2027. Grazie a questo accordo bilaterale la ricerca e l’innovazione svizzere hanno saputo trarre vantaggi non trascurabili. 5. Trasporto aereo. L’accordo bilaterale ha consentito alla Svizzera di partecipare alla liberalizzazione del traffico aereo europeo. Le compagnie aeree svizzere possono beneficiare in gran parte delle stesse condizioni delle loro concorrenti europee, come per esempio sorvolare tutti gli Stati membri dell’UE, o volare su qualsiasi aeroporto all’interno dell’UE. La situazione creatasi in seguito all’epidemia, diminuisce comunque, almeno temporaneamente, l’importanza di questo accordo bilaterale. 6. Trasporti terrestri. L’intesa garantisce la collaborazione tra la Svizzera e l’UE in questo settore, nonché il riconoscimento a livello europeo della politica elvetica di trasferimento del traffi-

co. L’UE ha accettato la tassa sul traffico pesante commisurata alle prestazioni che percepisce la Svizzera e che è destinata al miglioramento dell’infrastruttura ferroviaria. L’accordo sancisce anche il divieto per gli autocarri di circolare la notte e la domenica. In cambio, la Svizzera ha innalzato il limite di peso per gli autocarri a 40 tonnellate. I «Bilaterali I» hanno nel loro seno una caratteristica, una conseguenza giuridica automatica, definita la «clausola ghigliottina». Se uno dei sette accordi bilaterali viene disdetto, anche gli altri sei faranno la stessa fine. In altre parole, l’UE non considererebbe più validi gli accordi entrati in vigore nel 2002. I promotori dell’iniziativa per la limitazione sostengono che l’UE continuerà ad applicare i sei accordi del pacchetto, perché è nel suo interesse e affermano che, nel caso contrario, la fine di questi accordi non sarebbe poi una tragedia. Sono affermazioni difficilmente condivisibili, perché non si fondano su dati oggettivi. A più riprese, responsabili della politica europea, e anche della Commissione europea, hanno ripetuto che la «clausola ghigliottina» verrà ap-

plicata se la Svizzera dovesse rinunciare alla libera circolazione delle persone. Il sì all’iniziativa popolare dell’UDC implicherebbe dunque la perdita di un importante pacchetto di accordi bilaterali con l’UE e, probabilmente avrebbe ripercussioni negative anche su altri accordi bilaterali. Per esempio, sull’accordo Schengen/Dublino, entrato in vigore nel 2008. È un accordo molto importante per la Svizzera, perché consente la collaborazione con l’UE in settori chiave come l’asilo e la lotta alla criminalità. Questa collaborazione, però, si fonda sulla libera circolazione delle persone. Dopo la bocciatura popolare dello Spazio economico europeo, nel 1992, la Svizzera ha costruito a poco a poco i suoi nuovi rapporti con l’Unione europea, fondandoli sugli accordi bilaterali. Oggi ci sono circa 120 accordi bilaterali, non tutti, ovviamente, di uguale importanza. La strada seguita è stata più volte approvata in votazione popolare. Oggi, non sarebbe veramente ragionevole buttare alle ortiche tutto questo lavoro, i risultati ottenuti ed il benessere che ne deriva per la popolazione, per ottenere in cambio il rigido controllo dell’immigrazione. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 agosto 2020 • N. 34

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Statistiche del lavoro Di solito le statistiche fanno discutere quando contengono errori oppure quando descrivono realtà che non vanno a genio a questo o a quel gruppo di interesse. In Svizzera, per esempio, le statistiche sulla pandemia di Coronavirus hanno fatto discutere da quando la stessa è cominciata. Dapprima si è messa in forse la statistica sul numero dei morti perché nei casi di malattie croniche non era chiaro quale fosse stata la vera causa del decesso. Poi si è criticato il modo di rilevare i dati perché variava da Cantone a Cantone e non consentiva di avere una visione d’assieme coerente e aggiornata del procedere della pandemia. Da un paio di settimane si critica invece l’Ufficio federale della salute perché ha commesso un errore nell’identificazione dei luoghi nei quali si è sviluppato il contagio. Al di là delle contingenze specifiche, queste polemiche

servono almeno a mettere in evidenza quanto sia complicato voler misurare un nuovo fenomeno con un’apposita statistica. Vi sono tuttavia altri esempi di statistiche importanti che, purtroppo, sollevano sempre molte critiche. Un settore particolarmente esposto è sicuramente quelle delle statistiche sul mercato del lavoro. Il problema in questo caso non è tanto quello dei possibili errori nei dati, ma piuttosto quello di dare la giusta interpretazione alle numerose statistiche disponibili, spesso rilevate con criteri diversi. Le persone che, come il vostro servitore, fanno di frequente ricorso a queste informazioni, sono perciò grate a Maurizio Bigotta e a Silvia Walker che, nell’ultimo numero di «Dati», hanno cercato di fornirci una interpretazione sistemica di questo ginepraio. Fino a qualche decennio fa – diciamo fino a metà anni Settanta dello

scorso secolo – la situazione in materia era abbastanza semplice: la popolazione attiva si divideva in occupati e inattivi. Oltre agli studenti universitari, gli inattivi erano rappresentati soprattutto da donne che non lavoravano perché si occupavano esclusivamente delle faccende domestiche e dell’educazione dei figli. Tuttavia, negli ultimi due decenni del secolo, fa la sua apparizione un fenomeno nuovo: la disoccupazione. Dopo il 1990, poi, la situazione cambia velocemente in seguito alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, tanto che – come affermano gli autori della ricerca che commentiamo – «Si vedono sempre più frequentemente forme di lavoro che non cadono precisamente in un gruppo solo, ma anche frequenti passaggi tra i tre stati» ossia fra occupati, disoccupati e inattivi. Sono due, in particolare, gli aspetti nuovi. Il primo è

costituito dal lavoro a tempo parziale. Dagli anni Ottanta dello scorso secolo l’effettivo dei lavoratori a tempo parziale non ha fatto che aumentare. Nel 2019 erano 57’208 in una popolazione di occupati residenti nel Cantone pari a 166’829, il che rappresenta un po’ più di un terzo della popolazione residente occupata. Come sappiamo il lavoro a tempo parziale può essere una scelta del lavoratore, che desidera aver più tempo libero, ma può anche essere un’imposizione che il lavoratore accetta male perché, di per sé, desidererebbe lavorare più a lungo. Bigotta e Walker ci danno indicazioni per il 2019 dalle quali risulterebbe che il 31% dei lavoratori a tempo parziale si reputano sotto-occupati e gradirebbero quindi poter lavorare di più. Il secondo aspetto nuovo, che vorremo citare, è dato dalla disponibilità a lavorare da parte dei lavoratori

che attualmente sono inattivi. Nel 2019 gli inattivi in Ticino erano 125’603. Di questi però solo 13’654, ossia il 10,8%, erano disponibili per una nuova attività lavorativa. La mia conclusione è che, alla luce di queste informazioni, si può affermare che, in Ticino, le riserve di lavoro non sono sufficienti. I Nostri, insomma, non bastano a soddisfare, da soli, la domanda di lavoro dell’economia cantonale. Se aggiungiamo infatti agli inattivi disponibili i disoccupati e i sotto-occupati arriviamo a quasi 43’500 persone il che potrebbe corrispondere a circa 35’000 posti di lavoro a tempo pieno che potrebbero essere teoricamente occupati da questi lavoratori. Anche se i lavoratori che la compongono disponessero delle qualifiche necessarie, questa riserva sarebbe però insufficiente per poter sostituire i frontalieri occupati nella nostra economia.

mano di un agente di polizia bianco a Minneapolis hanno confermato che la questione è tuttora una ferita aperta nel corpo della società americana. Anche per questo la scelta di Kamala Harris, figlia di un giamaicano – che si chiama Donald come il presidente – e di un’indiana di etnia Tamil resta un fatto significativo, innovativo, coraggioso. È un segnale di apertura a strati sociali che si sono finora sentiti inclusi solo in parte nel sogno americano, in quella condizione di rischio e di opportunità in cui vivono coloro che in epoche e modi diversi sono arrivati negli Stati Uniti. E poi è una donna. Non è la prima volta che una donna è candidata alla vicepresidenza. Era già accaduto a un’italoamericana, Geraldine Ferraro, e alla governatrice dell’Alaska, Sarah Palin. Ma la prima era condannata alla sconfitta: nel 1984 Walter Mondale fu spazzato via da Ronald Reagan, e lei con lui. Sarah Palin collezionò una gaffe dopo l’altra e contribuì nel 2008 ad affossare la candidatura di John McCain, battuto proprio da Obama. Kamala Harris ha invece ottime

possibilità di vittoria. Non solo: il ruolo di vicepresidente non è mai stato tanto importante come adesso. Perché Joe Biden ha 77 anni e non li porta neppure tanto bene: se fosse eletto, difficilmente correrebbe per un secondo mandato; e a quel punto la sua vicepresidente potrebbe trovare porte aperte. Anche per questo Trump ha già cominciato ad attaccarla. Va detto però che la Harris non appartiene all’ala estremista e radicale del partito democratico, quella per intenderci della popolarissima (a sinistra) Alexandria Ocasio-Cortez; è una figlia del partito, a cavallo tra la Clinton-machine (più centrista) e il clan di Obama, riformista ma sempre attento a respingere le istanze socialisteggianti e segnate dal rancore sociale. Ciò detto, l’ascesa di Kamala Harris è una buona notizia, in un contesto che resta difficilissimo. Noi europei non abbiamo la percezione piena di quel che sta accadendo in America. Dopo l’11 settembre ci dicemmo che sarebbe cambiata la storia, che nulla sarebbe più stato come prima. Dopo pochi giorni, però, lo spazio aereo americano fu ria-

perto; anche se passarono anni prima che il traffico tra le due sponde dell’oceano tornasse ai livelli precedenti. Oggi la situazione è incomparabilmente peggiore. Da cinque mesi gli americani di fatto non possono venire in Europa, e gli europei di fatto non possono andare in America. Non era mai accaduto nella storia. Ormai è evidente che il caldo indebolirà il virus, ma non lo farà scomparire. Fino a quando non ci sarà un vaccino che funzioni e sia ampiamente distribuito, un ritorno alla normalità sarà impensabile. E ci vorrà molto altro tempo per recuperare il livello degli scambi commerciali e del traffico dei passeggeri che conoscevamo. Quanto a Trump, è molto probabile che la recessione post-Covid e il suo atteggiamento ondivago e inadeguato gli costeranno la Casa Bianca. Ma il compito di Biden sarà molto difficile. E pure gli americani hanno qualche dubbio che l’uomo sia all’altezza della situazione. La speranza è che Kamala Harris possa conferire alla sua candidatura quell’aura di energia e di freschezza che finora è mancata.

momenti alla fine del secolo scorso, con la riapertura degli armadi riguardanti le relazioni con i regimi nazifascisti. Per fare chiarezza su questo capitolo, il governo federale mise al lavoro un gruppo di ricercatori guidati dal prof. Bergier. Tuttavia la generazione che visse il periodo della mobilitazione accolse scrollando il capo i risultati delle indagini, molti preferirono coltivare il ricordo di una resistenza valorosa, priva di macchie e compromessi. Il rapporto con il passato è sempre delicato, un terreno minato. Gesta che i nostri antenati consideravano eroiche e memorabili, possono apparire, a noi discendenti, operazioni meschine, atti di cui vergognarsi. I sentimenti variano all’alternarsi delle stagioni politiche. Nell’immaginario odierno la figura di Stefano Franscini rifulge come un santo laico, padre dell’educazione dei fanciulli e statistico eminente: nessuno oserebbe oltraggiare il monumento eretto nella piazza di Faido. Eppure anche lui fu bersaglio dei contestatori

nel ’68 alla Magistrale di Locarno, il suo busto dato alle fiamme. La storia dunque. Per molti una disciplina inutile e noiosa. Ma poi si scopre che la storia rientra dalla finestra dopo esser uscita dalla porta; che resta teatro di conflitti ideologici e di incessanti controversie, ove si intersecano e si scontrano interpretazioni divergenti, a volte opposte. Ciascun gruppo sociale ne vorrebbe una confezionata su misura, a sua immagine e somiglianza. Di qui la volontà di eternare nel bronzo o nel granito le imprese degli esponenti illustri o presunti tali. Dobbiamo allora rimuovere le statue che a nostro giudizio non meritano tale onore? No, meglio scrutarle da vicino, davanti e dietro, seguirle nei lineamenti e nelle pieghe, evidenziare luci ed ombre, descrivere l’espressività del volto, intuire le intenzioni dell’artista, studiare le ambizioni dei committenti e infine collocarle nello spirito del tempo. E se proprio non sopportiamo la loro presenza, ignoriamole pure, voltando la testa dall’altra parte.

In&outlet di Aldo Cazzullo Una scelta coraggiosa Ha ragione chi fa notare che non bisogna fare troppa retorica sul personaggio di Kamala Harris. Non è esattamente una campionessa delle classi sfavorite, un’immigrata giunta dal Terzo mondo con la valigia di cartone. Il padre è un professore di economia di Stanford, la madre una ricercatrice di Berkeley, due tra le università più prestigiose (e costose, per gli allievi) al mondo. Lei stessa è senatrice dopo essere stata Attorney General della California, una carica ibrida tra magistratura e governo di grande potere, da lei esercitata con giusta severità. Insomma, non si tratta di un outsider assoluta. Però questo non toglie nulla alla novità del suo profilo. Fino a non molto tempo fa, gli aspiranti presidenti degli Stati Uniti dovevano essere wasp: bianchi (white), anglosassoni, protestanti. Un solo presidente, il cattolico (per discendenza familiare più che per convinzioni personali) John Fitzgerald Kennedy, non coincideva con questo profilo; e non ha fatto una bella fine. Poi venne Barack Obama. Prima di

essere eletto, tenne un memorabile discorso in cui si proponeva di esaurire una volta per tutte la questione della razza. Obama non si è mai presentato come il primo presidente afroamericano, quale peraltro era. Ha sempre sostenuto che il colore della sua pelle non fosse poi così importante, e in ogni caso non doveva essere giudicato per questo, né in modo positivo né in modo negativo. Presentava se stesso come un presidente progressista, di cambiamento: questo e soltanto questo contava. In realtà, non è andata così. Gli Stati Uniti non sono (ancora) un Paese postrazziale. La vittoria di Donald Trump nasce anche in questo modo: non tanto perché il presidente abbia schiacciato l’occhio alla piccola minoranza dei suprematisti bianchi, quanto perché ha assecondato un sentimento di rivalsa abbastanza diffuso tra il ceto medio e la classe operaia delle aree post-industriali, che gli ha dato la vittoria in Stati dove peraltro aveva vinto per due volte (2008 e 2012) Obama: Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, Ohio. Anche i moti seguiti all’assassinio di George Floyd per

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Le sorti alterne delle memorie scolpite Paesi grandi, scheletri grandi; paesi piccoli, scheletri piccoli. Nel regolare i conti con il passato, nessuno è innocente. Certo, le dimensioni e il grado d’implicazione pesano. Tutte le maggiori potenze marinare europee hanno partecipato alla gara per accaparrarsi e sfruttare le risorse dell’Africa, dell’India e dell’Indocina con l’avallo e l’incoraggiamento dei partiti al governo. Il colonialismo e l’imperialismo appartengono alla storia dell’Occidente, alla sua politica estera, così come le successive lotte condotte dai colonizzati per riottenere l’indipendenza. È quindi giusto osservare questi fenomeni non in un’ottica nazionale, come spesso si è fatto, ma attivando il grandangolo di una ricostruzione globale. A lungo – per secoli, fin dalla tratta degli schiavi – questa storia è stata scritta dai vincitori. Le nazioni dominanti hanno cercato di giustificare le loro scelte ricorrendo alla nozione di «missione civilizzatrice» nei confronti di popoli rimasti allo stato primitivo. Quindi non

c’era motivo, per l’uomo bianco colto e attrezzato di tecniche e di armi, di farsi scrupolo nell’assoggettare comunità di vario colore e credenza religiosa. Alcuni di questi «civilizzatori» o «benefattori» sono stati onorati al punto da guadagnare l’immortalità nelle fattezze di statue, busti, bassorilievi, targhe, lapidi. Ad imperitura memoria. Nel secondo dopoguerra la prospettiva

Foto d’epoca: il monumento di Franscini a Faido. (lanostrastoria.ch)

è invece mutata. Le lotte di liberazione dei «dannati della terra» hanno aperto gli occhi anche ai distratti. Poi sono venuti gli studiosi (storici, geografi, economisti) ad illuminare la scena con i loro attrezzi del mestiere. È così venuto a galla il mondo sommerso delle interdipendenze e degli squilibri tra gli Stati capitalistici avanzati e il terzo mondo, con le sue immense ricchezze minerarie. Nel contempo è emersa la necessità di riscrivere la storia, di osservarla non dall’alto, dallo zoccolo dei dominatori, ma dal basso, dal selciato dei dominati. Siffatti rivolgimenti hanno comportato un ribaltamento di prospettiva, e quindi imposto un riesame del passato, di come è stato utilizzato, quali parti sono state glorificate e quali occultate. Ora nel mirino sono finiti i monumenti, l’elemento di maggior visibilità e impatto dell’arredo urbano. Ma la storia non scompare mai, rimane insonne nel subconscio dei popoli per poi riaffiorare all’improvviso, seminando scompiglio. La Svizzera ha conosciuto questi


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 agosto 2020 • N. 34

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Cultura e Spettacoli Il Pardo pandemico Con la direttrice del Festival di Locarno, Lili Hinstin, valutiamo un’edizione del tutto anomala

Il pittore in corsia Alla Pinacoteca Züst le opere di Jean Corty, un artista dalla vicenda personale travagliata e dolorosa pagina 45

Un Neil Young d’epoca Esce dagli archivi del cantautore americano l’album Homegrown registrato negli anni settanta pagina 51

pagina 55

Marka

pagina 43

Intervista a Dörte Hansen È l’autrice di Tornare a casa, best seller in Germania, che ora è stato tradotto in italiano

Franca, con la F maiuscola

In memoriam Il ricordo di una grande protagonista nel mondo dello spettacolo italiano

Giovanni Gavazzeni Il Dizionario della lingua italiana Tommaseo-Bellini ci ricorda che per «Donna di spalco, intendesi Donna che vuol prevalere sulle altre, anche oltrepassando i confini della onestà e della riservatezza». Per la straordinaria Franca Valeri che se ne è andata dopo aver toccato il secolo di vita vale solo la prima parte della definizione, essendo la seconda riservata alle generiche calcatrici di palcoscenico. L’importanza di essere franca con la effe maiuscola, significa esprimersi nella veste onnicomprensiva di autrice-attrice-regista. La milanese Franca ha dimostrato in un mondo dove contavano le misure fisiche (il segno di Venere, come il titolo della commedia di Dino Risi, nel quale l’attrice, anche co-sceneggiatrice, toglie la scena alla prorompente «cugina» Sophia Loren, tenendosi alla pari di tre mostri sacri della portata di Peppino De Filippo,

Vittorio De Sica e Alberto Sordi), che una Donna poteva servirsi molto bene di quell’intelligenza sottile che si esprime nell’ironia, «significando il contrario di quel che suonano le parole», mai calcando i toni (dissimulare troppo), a volte fingendo di non sapere. Per fare ciò ci voleva un sapere soffiato con naturalezza, quasi recitato e cantato; servivano doti musicali come il senso dei tempi teatrali – i personaggi di Franca Valeri interpretati da altre attrici non hanno il suo istinto infallibile che impedisce alle parole di irrigidirsi in accademia recitativa e alla frase di cascare a terra esausta. Difficile starle accanto, anzi, meglio che l’interlocutore fosse immaginario, come nei sublimi monologhi telefonici della signorina snob, della ricamatrice, della sora Cecioni alle prese con pupi e mammà. Le siamo riconoscenti anche per un’altra sua passione predominante: l’amore per l’opera. Per tanti anni l’ha raccontata con i sali del-

la sua intelligenza alla radio nella trasmissione Di tanti palpiti, lei che aveva sposato un direttore d’orchestra (Maurizio Rinaldi), ha adottato una bravissima soprano (Stefania Bonfadelli) e covato nidiate di giovani voci nel Concorso «Mattia Battistini» di Rieti. Nelle sue voci teatrali, si riconosceva un «pedale» fonico che ti faceva intuire che la parodia di tante damazze milanesi e signore romane, quelle ninfe egerie che pensano di essere il corollario imprescindibile di ogni manifestazione musicale, nascevano nei teatri che Franca Valeri ha imparato ad amare fin da bambina. Indimenticabile la milanese con la puzza sotto il naso Giulia Sofia, forse esemplata su una nota magnate editoriale meneghina, nella festa a Capri in Totò a colori. Grande anche fuori d’Italia: conquistò Parigi con il suo francese milanesizzato, quello che certe signore parlavano in casa per non far sentire alle persone di servizio argomenti

scabrosi o lo stato dei conti correnti. Qualche anno or sono dopo un premio ricevuto dalla figlia Stefania, ebbi il piacere di salutarla al telefono. Non solo mi apostrofò come se mi conoscesse da sempre (tratto distintivo di grande sensibilità delle persone hors categorie), ma anche ricordava con lucidità, lei incarnazione dell’Ironia, quella di mia nonna Mariuccia, con la quale aveva condiviso molte serate al Teatro all’Opera di Roma e alla Scala. Pensando a questo non ebbi il coraggio di ricordarle un episodio narratomi dalla nonna, la quale, quando aveva l’emicrania poteva crollare il mondo, lei era «in Emmaus». Oggi diremmo in modalità silenziosa. La mattina dopo una cena in cui non proferì parola, stante «la brutta compagnia del mal-di-testa», domandò al nonno Gianandrea: «Ma cosa avranno pensato di me la Gencer (il famoso soprano turco Leyla Gencer) e la Franca Valeri?»

Aveva assistito muta e impassibile a una lunga scenata di gelosia della cantante, all’epoca pretendente ad essere l’amante en titre del nonno, verso la Valeri, rea di essere ammiratrice «troppo» entusiasta del direttore d’orchestra. «Avranno pensato che sono completamente rincretinita». Una scena alla Franca Valeri drammaturga: la gelosia di un amante per la presunta usurpatrice. Attraverso il ricordo di una nonna che rispondeva a chi le chiedeva come stava di avere il «mal dell’anagrafe», e non rispondeva a chi cercava di sapere l’età – camuffata anche sulla carta d’identità («perché magari lassù si dimenticano – ho ancora tante cose da sistemare»), giunge il ringraziamento più sentito per un’artista di cui alcune delle più stimate donne di spettacolo odierne si ritengono allieve: l’acutezza del suo sguardo, distillata nell’inchiostro dei suoi testi, rimane insuperato.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 agosto 2020 • N. 34

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Cultura e Spettacoli

Un Festival anomalo ma funziona Locarno 2020 Valutando con la direttrice artistica Lili Hinstin un’edizione ibrida e unica nella storia

Nicola Falcinella Cancellato il 73° Festival del film a causa della pandemia, Locarno non si è arresa e ha proposto un’edizione ibrida tra streaming e proiezioni in tre sale facendo di necessità virtù. La risposta in rete e in città è stata buona, sia dai professionisti del settore sia dal pubblico, una conferma del favore di cui gode la storica manifestazione e un invito a tenere duro per superare la situazione creata dall’emergenza sanitaria e per un ritorno alla normalità. Abbiamo cercato di tirare le somme di Locarno 2020 con la direttrice artistica, Lili Hinstin. Lili Hinstin, come è andata, dunque?

Beh possiamo dire prima di tutto che siamo stupefatti dal meteo, sono state le giornate più belle da diversi anni durante il festival. Lascia amarezza la mancanza di Piazza Grande, ma è stata la scelta giusta e responsabile, non la rimpiango. In questo contesto sono soddisfatta di Locarno 2020, mantiene lo spirito del festival di scoprire i nuovi film e i nuovi autori grazie ai bellissimi «Pardi di domani». È un’edizione con il futuro al centro, con i «Pardi di domani», che dicono tutto nel nome, e con «Open Doors», che guarda ai nuovi equilibri mondiali e sostiene il cinema di Paesi giovani e molto popolati come quelli asiatici. Tra l’altro Thailandia, Indonesia e Vietnam hanno registrato in questi giorni il maggior numero di spettatori sul nostro sito. Il più visto è stato l’indonesiano No One Is Crazy In This Town di Wregas Bhanuteja: tutti i 1500 posti disponibili sono andati esauriti in 24 ore, tanto che ne abbiamo aggiunti altrettanti. C’è appetito per un cinema di solito difficilmente accessibile.

La proposta dei film delle sale ha ricevuto una buona accoglienza: si è vista una vicinanza dei cinefili, soprattutto del Ticino, al Festival.

Siamo contenti della frequentazione nelle sale di Locarno, anche se è poco in confronto alle situazioni del festival. Le regole sanitarie impongono un massimo di 250 spettatori a proiezione e stiamo riempiendo le sale in media al 70% della capienza. Siamo soddisfatti perché manca il pubblico festivaliero e nonostante questo c’è una risposta. È bello che ci siano i cinefili del Ticino. Si conferma un festival caloroso e con un’atmosfera fraterna, che ha i suoi amici che provano piacere nello stare insieme. Le proiezioni in sala erano rivolte a questo pubblico, non sarebbe

stato giusto non programmare nulla una volta che le autorità avevano autorizzato la riapertura. A parte Piazza Grande, qual è l’elemento del festival che le manca di più quest’anno?

La cosa che manca di più è la folla per strada che discute dei film e che corre da una sala all’altra. E mancano i film in concorso, per fortuna ci sono i «Pardi di domani». Mi piacciono molto i «Secret Screening», è stata una buona idea che sta dando soddisfazioni. Per esempio è andato molto bene Nemesis di Thomas Imbach, che era l’unico svizzero e uno dei pochi film nuovi, molto applaudito anche nella replica. Mi manca la scoperta e il fare da tramite con gli spettatori, presentare un film senza sapere come il pubblico lo riceverà, con quel misto di ansia e speranza. Mancano gli attimi prima della proiezione al Fevi in cui si aspetta vicino al palco in compagnia dei registi per presentare per la prima volta un film. Mostrare le opere è la base del nostro mestiere e resta, ma l’adrenalina e la scommessa, come accade per i film della Piazza, non ci sono. Non c’è il concorso e non ci sono i Pardi, ma ci sono i progetti di «The Films After Tomorrow». Come li avete selezionati?

Scegliere solo 10 progetti è stato un incubo, perché erano tantissimi quelli interessanti. Avremmo potuto selezionarne anche 20, ma avrebbe cambiato l’architettura di Locarno 2020 per cui si era stabilito un budget e una struttura. Avrebbe significato aggiungere un piano a un edificio. Il team del Festival ha una reattività e un’elasticità che non ho mai visto da nessuna parte e tendo a fidarmi di loro. La selezione è stata come fare un puzzle, cercando di fare una cosa variegata e bilanciata e tanti lavori sono rimasti fuori. Trattandosi di un festival svizzero ci è sembrato importante assumere una posizione forte sul cinema svizzero: per questo abbiamo fatto una selezione a parte, per mettere in risalto la vitalità e la creatività della produzione nazionale. Come vede la situazione del cinema elvetico?

Il cinema svizzero ha una storia molto interessante e cinefila, con autori come Alain Tanner o Daniel Schmid, e ha la fortuna di avere oggi una generazione di registi molto interessanti. Mi chiedo cosa può fare il Festival per questo e mi sembra perfetto per promuoverlo. Il riconoscimento che può dare Locarno ai film svizzeri è notevole, penso per esempio all’anno scorso: il ticinese Love

Dirige il locarno festival dal 2019. (Keystone)

Me Tender di Klaudia Reynicke è stato poi preso a Toronto e molti altri festival e L’Île aux oiseaux di Sergio Da Costa e Maya Koya che ha fatto il giro del mondo. Anche il Pardo d’onore a Fredi Murer andava in questa direzione, oltre alla felicità di accoglierlo in piazza dolce, ironico e divertente com’è. Abbiamo proposto i suoi film come fosse una piccola retrospettiva, affinché lo conoscessero i programmatori internazionali presenti qui e lo riprendessero in rassegne in tutto il mondo.

C’è qualcosa di questa formula ibrida che resterà nelle edizioni future del festival?

Ancora non è possibile dirlo. Ogni edizione porta degli insegnamenti e la prossima si costruisce sulla precedente. Ci sarà molto da capire e analizzare prima di andare avanti.

Ha messo la regista americana Kelly Reichardt molto in evidenza, presentando il suo film First Cow in apertura e inserendola nella giuria di «The Films After Tomorrow».

Come considera questa autrice all’interno del panorama statunitense?

Reichardt è un simbolo dell’indipendenza. Lavora negli Usa, dove l’industria conta molto, ma è indipendente sia nella produzione sia nelle scelte. Fa un cinema che non assomiglia a nessun altro e sta costruendo le gesta dell’America, più ancora che degli Stati Uniti come Paese. Attraverso paesaggi, personaggi, situazioni e gesti quotidiani disegna un ritratto mai visto prima del proprio Paese. Il suo ultimo film è bellissimo e non ha ancora una distribuzione in Europa. Mi è parso stupendo poterlo condividere con il pubblico.

In questi mesi le sale cinematografiche sono rimaste chiuse e il pubblico si è abituato allo streaming. Come vede il futuro? Cosa cambierà? E possono esistere i festival in streaming?

Un festival tutto in streaming può esistere, ma non Locarno. Locarno è Piazza Grande, lago, montagne, pub-

blico e incontri. Con Reichardt nella prima serata abbiamo parlato della differenza tra sala e visione casalinga soprattutto per un film come First Cow che è un western e si pensa destinato a uno schermo grande. Secondo lei non è tanto questione di misure dello schermo quanto di concentrazione, perché a casa guardiamo il film mentre facciamo altre cose. Stiamo cambiando la struttura della nostra mente e questo è un punto cruciale. Non vogliamo fare i vecchi brontoloni, ma interrogarci senza convinzioni precostituite perché il mondo cambia. Tanta cinefilia di oggi si è formata attraverso il piccolo schermo, prima della tv e poi del computer, perché solo chi vive in poche grandi città, come Parigi, può vedere tutto in sala. Per questo lo scorso anno abbiamo dato il premio «Utopia» a Enrico Ghezzi per la sua trasmissione Fuori orario. Non bisogna essere contro il digitale, in fondo è il ripetersi dell’avvento della televisione. Ed è tutto in evoluzione.

A caccia di cattivi

Serie TV World’s most wanted ci racconta la storia di cinque imprendibili latitanti

e degli sforzi compiuti per catturarli Nicola Mazzi

Sono tra le cinque persone più ricercate al mondo. Anzi quattro, perché in maggio uno di loro è stato finalmente arrestato. Sulle loro teste c’è una taglia di 5 milioni di dollari e solo pronunciare il loro nome fa venire i brividi e quindi lo scriviamo: Ismael «El Mayo» Zambada Garcia, Félicien Kabuga, Samantha Lewthwaite, Semion Mogilevich e Matteo Messina Denaro. Su di loro Netflix ha realizzato una docu-serie in cinque puntate (ognuna dedicata a un ricercato e di circa 45 minuti), intitolata World’s Most Wanted, che è appena stata messa online. Un documento importante, interessante e che scava nella vita di questi criminali.

Sono cinque documentari diversi ma hanno un paio di caratteristiche comuni: una stilistica e un’altra sostanziale. La prima è legata alla forma: infatti tutti iniziano con immagini girate da un drone, dall’alto, del luogo in cui è nato il ricercato: il Ruanda, il

Messico, l’Italia, Londra e Praga. Un modo per compattare anche graficamente la serie e soprattutto per accomunare le varie realtà. Sembra quasi che il messaggio che ne esca sia: ogni luogo della terra può essere fertile per le attività criminali più efferate. La se-

la locandina della serie. (Netflix)

conda caratteristica è il punto di vista. I cinque sono ovviamente i cattivi, i criminali. Ma i buoni chi sono? Non ci si mette molto a comprenderlo perché sono quelli che li cercano. O meglio, alcuni di coloro che li stanno cercando e cioè l’FBI e la CIA. Un punto di vista «americacentrico» che emerge in modo importante in alcuni episodi più che in altri: soprattutto quando si parla di Russia e Messico. Precisati questi aspetti (non di poca importanza) i documentari sono davvero intriganti. A partire da quello dedicato a El Mayo, il boss del cartello di trafficanti di Sinaloa, colui che controlla la droga di mezzo mondo e continua a farlo malgrado abbiano arrestato il figlio e il compare El Chapo. Impressionante anche la figura del

ruandese Félicien Kabuga, che a un certo punto aveva cercato asilo anche in Svizzera. E come dimenticare la vedova bianca Samantha Lewthwaite? Un’anonima ragazzina inglese che è diventata una dei capi del gruppo terroristico Al-Shabaab. E la mafia russa? Non manca ed è rappresentata dallo spietato boss Semion Mogilevich, uno che ha usato le mani e la testa per uccidere migliaia di persone e che addirittura fu arrestato nel 2008 per poi essere rilasciato senza processo. Ora vive in una comoda villa russa, vicino ad alti esponenti politici. E infine, quello più vicino a noi: l’ultimo boss di Cosa Nostra ancora libero, Matteo Messina Denaro: uno cresciuto sotto l’ala protettiva di Toto Riina; uno di cui non si ha una foto da trent’anni.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 agosto 2020 • N. 34

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Cultura e Spettacoli Jean Corty, Emigranti, olio su tavola.

Marco Boschini Trattati / 7 Commerciante, pittore,

restauratore, cosmografo Gianluigi Bellei

Jean Corty: l’arte che sublima la malattia Mostre Rancate ospita le opere del pittore svizzero appartenenti

alla collezione del dottor Olindo Bernasconi

Alessia Brughera Quando nel 1933, ventiseienne, Jean Corty arriva in Ticino, i suoi riferimenti artistici sono completamente differenti da quelli degli altri pittori del cantone. Di matrice espressionista e quindi caratterizzati da una pennellata vigorosa e dall’utilizzo di colori vivaci, i suoi dipinti tradiscono una forte attrazione per l’arte fiamminga, a cui egli rimane devoto dagli esordi fino alla precoce conclusione del suo cammino. La passione per i grandi maestri delle Fiandre e per l’Espressionismo nordico, che il giovane artista aveva reso ancor più intensa con un soggiorno di studio a Bruxelles, costituisce quindi un unicum nel panorama ticinese di quegli anni. Portatore di una ventata d’aria internazionale, nel nostro cantone Corty non giunge però per scelta. Vi approda poiché, riconosciuto affetto da disturbi nervosi, viene ricoverato presso quello che all’epoca era chiamato Manicomio di Mendrisio. Il motivo del suo trasferimento in questa struttura è dovuto al fatto che suo padre, emigrato per lavorare nelle cave a Cernier, nel canton Neuchâtel, era originario di Agno. Le condizioni psichiche dell’artista non gli impediscono tuttavia di dipingere alacremente, tanto che gli anni trascorsi all’interno dell’Istituto, dal 1933 al 1934 e poi ancora dal 1937 al 1941, sono momenti estremamente prolifici, in cui egli declina la sua cifra stilistica, già ben consolidata, secondo le suggestioni che il Ticino gli offre. Si concentra proprio sulle opere realizzate durante i periodi di degenza al Manicomio la mostra dedicata a Jean Corty allestita nelle sale della Pinacoteca Züst di Rancate, dove sono raccolti un centinaio di lavori circa, tra oli, acquarelli e disegni (in gran parte inediti), che il pittore aveva donato negli anni mendrisiensi a Olindo Bernasconi, suo medico curante e grande paladino del suo talento artistico. Uomo molto colto e grande filantropo, anch’egli scomparso prematuramente, il dottor Bernasconi è stato una figura importante per Corty, capace di andare oltre l’aspetto prettamente medico per instaurare un rapporto umano di stima e di fiducia con il proprio paziente. È lui difatti ad adoperarsi in ogni modo per esortare Corty a dipingere, riuscendo anche a trovargli uno spazio da utilizzare come atelier, convinto che il lavoro e l’arte potessero produrre effetti benefici nel pittore e alleviare così, almeno in parte, le sue turbe mentali.

Tutt’altro che un periodo cupo, questi anni sono dunque per l’artista svizzero una tappa rilevante del suo percorso, un momento in cui rinsalda il proprio linguaggio all’interno di un ambiente che, per quanto possa sembrare paradossale, riesce a farlo sentire a casa, regalandogli un po’ di quella quiete di cui tanto aveva bisogno. Le opere dell’artista esposte nella rassegna rancatese (firmate con il vero cognome, Corti, fino al 1940, poi trasformato in Corty) sono la testimonianza del suo considerare la tradizione pittorica fiamminga come principale fonte di ispirazione, del suo inesausto guardare all’arte nordica come riferimento insuperato, capace, più di ogni altro, di interpretare appieno il suo sentire. Pervasi da una vena malinconica che rende evidente il malessere esistenziale dell’artista, questi lavori dalle forme alterate e dalle rapide accensioni coloristiche non possono non ricordare artisti quali Constant Permeke, pittore belga tra i maggiori rappresentanti dell’espressionismo, a cui Corty si avvicina spesso anche sul piano tematico. Di piccolo e medio formato, i dipinti ritraggono i villaggi del Mendrisiotto con le abitazioni addensate attorno al campanile e i paesaggi della campagna, tutti caratterizzati da una grande ricchezza cromatica e da una pennellata che pare trascinata sulla tela. Sono scorci e panorami, questi, che l’artista osserva dal grande parco della struttura in cui è ricoverato o che ammira durante le tante passeggiate nei dintorni dell’Istituto fatte in compagnia dell’amico Libero Monetti. La partecipazione empatica con il soggetto rappresentato si coglie poi molto bene nelle opere in cui Corty dispiega la figura umana: individui umili e raminghi, come gli emigranti o i lavoratori dei campi, a cui l’artista si sente affine. Intensi sono anche i numerosi disegni esposti in mostra, a documentare come questo mezzo espressivo fosse particolarmente congeniale allo spirito inquieto di Corty. Sono carte in cui il pittore utilizza un tratto greve e tortuoso per delineare con vigore gruppi di case e vicoli, carretti e mulini, nudi maschili e figure femminili, soldati e giocatori di carte. E poi Madonne con il Bambino, Deposizioni, Crocifissioni e uomini in preghiera. Corty immortala spesso anche lo scorrere delle giornate al Manicomio di Mendrisio, con i pazienti dediti alle varie attività di lavoro e di svago. Queste

opere ci permettono così di conoscere anche le moderne terapie applicate all’interno dell’Istituto. La struttura ticinese, dove nei primi anni del Novecento venne ricoverato anche un altro illustre artista svizzero, Filippo Franzoni, era difatti stata creata sul modello dei centri italiani più all’avanguardia per il trattamento degli infermi di mente: situata in campagna per godere della giovevole vicinanza alla natura, la rinuncia a qualsiasi forma di coercizione a favore di un approccio al paziente più libero e stimolante, anche attraverso l’ergoterapia, ne faceva uno degli istituti psichiatrici più rinomati del tempo, come tra l’altro viene ben spiegato nei saggi contenuti nel catalogo della rassegna. Le opere di questa feconda stagione pittorica di Corty sono una sorta di diario per immagini, oli e disegni con un portato nostalgico che si fanno specchio della sua vicenda travagliata. Realizzati con i «segni precisi e contorti di un dolore bohème», come verseggia il regista e scrittore Vittorio Ottino in una poesia del 1977 dedicata all’artista, recano l’impronta del disagio esistenziale che permea inesorabilmente tutta la sua pittura. Corty muore colto da congestione nell’aprile del 1946. Al suo funerale, per usare ancora le parole di Ottino, pochi «personaggi sghimbesci». Se durante la sua breve ed emarginata vita non trova che rari estimatori, dopo la sua scomparsa si assiste a un notevole interesse di pubblico e critica nei confronti del suo lavoro. Il successo tardivo di Corty, però, viene sfruttato da un mercato privo di scrupoli che incoraggia la diffusione di falsi, rendendo così difficoltosa la questione attributiva. Ecco allora che le opere della collezione Bernasconi esposte a Rancate, in cui l’arte del pittore svizzero si afferma nella sua autenticità, si pongono come indubbi elementi di riscontro per fare chiarezza nel potente universo creativo di Corty.

Marco Boschini inizia la sua formazione di pittore nella bottega di Palma il Giovane e in seguito quella di intagliatore da Odoardo Fialetti. Nel 1636 sposa Felice Bocchi. Vive quasi sempre a Venezia in Calle del Figher a San Marcuola. Le date di nascita e di morte sono state a lungo dibattute e in base recenti ritrovamenti sono state fissate la prima al 5 ottobre 1602 e l’ultima nel 1681. Durante la sua vita svolge diversi lavori, ma la sua professione è quella di commerciante di perle false. Il suo amore è la pittura e per questo è considerato un vero e proprio conoscitore dell’arte veneta. Molte volte è chiamato a fare da cicerone a forestieri che vogliono conoscere le bellezze della città. Il cardinale Leopoldo de’ Medici che in quegli anni vuole dotarsi di una collezione organica d’arte chiama Filippo Baldinucci per scegliere gli artisti della scuola toscana, Carlo Cesare Malvasia per quella bolognese e Boschini per quella veneziana. Pubblica diversi libri tra i quali nel 1635 Tariffa del cambio degli scudi forestieri, nel 1660 La Carta del navegar pitoresco, nel 1664 Le ricche Miniere della pittura Veneziana e nel 1677 I gioielli pittoreschi. I suoi libri sono arricchiti da incisioni al bulino eseguite da lui stesso. Per diletto si dedica alla pittura e anche al restauro. Conosce quasi tutti gli artisti veneziani da Domenico Robusti erede del Tintoretto a Leandro Bassano, da Palma il Giovane a Pietro Bellotto. La Carta del navegar pitoresco è sicuramente un libro particolarmente intrigante. Certo di difficile lettura. anche per un veneziano stesso, perché scritto in dialetto. Davide Pugnana ritiene che sia come la Recherche di Marcel Proust o l’Ulysses di James Joyce, dato che probabilmente pochissimi sono riusciti a leggerlo fino in fondo. Detto questo, il libro è un inno alla pittura veneta e al suo co-

Dove e quando

Jean Corty (1907-1946): gli anni di Mendrisio. Opere dalla collezione del dottor Olindo Bernasconi. Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, Rancate. Fino all’11 ottobre 2020. A cura di: Mariangela Agliati Ruggia, Paolo Blendinger, Alessandra Brambilla e Giulio Foletti. Orari: maggio, giugno, settembre, ottobre: 9.00-12.00/14.00-17.00; luglio, agosto: 14.00-18.00. Chiuso il lunedì. Festivi aperto. www.ti.ch/zuest

un’incisione con ritratto di boschini.

lore in netta contrapposizione con il disegno fiorentino e in disprezzo al Vasari. Dei pittori veneti così scrive: «Oh che nudi, oh che forme, oh che maniera / oh che scurzi, oh che moti, oh che stupori! / No fai che zavariar tuti i Dotori / dela pitura? Oh Dio, mo l’è pur vera». Una critica partigiana, parziale, come sosterrebbe Baudelaire. «Al Boschini, scrive Luigi Grassi, spetta effettivamente il posto forse più alto tra i critici del Seicento» e per questo «la nostra ammirazione non potrebbe essere che incondizionata». I cinque maestri per lui sono Tiziano Vecellio, Tintoretto, Giorgione, Jacopo Bassano e Paolo Veronese. Un pugno di artisti che la critica moderna considera canonici ancor oggi. La carta del navegar pitoresco è dedicato all’arciduca Leopoldo Guglielmo ed è scritto in versi endecasillabi in quartine; è diviso in otto cantiche derivate dalla rosa dei venti e si tratta di un dialogo tra un senatore veneziano e il suo compare, lo stesso Boschini, che lo accompagna fra le calli alla ricerca dei capolavori. Nell’ottava cantica troviamo le riproduzioni a bulino dello stesso Boschini di opere di pittori contemporanei fra i quali, detto per inciso, «Vandich». Al Boschini piacciono anche i pittori non veneziani come Pieter Paul Rubens e Diego Velázquez. Di quest’ultimo scrive: «Fù Don Diego Velaſques gran ſugeto, Del Catolico Rè Pitor perfeto». Mentre Tintoretto è un lampo, un tuono, anzi pure una saetta. Splendide le descrizioni dei suoi lavori alla Scuola di San Rocco, sino al «come de gracia quel gran Tentoreto Podeua far per far vn Paradiſo; Se i mortali no’ puol co’l proprio viſo Spiar el vero, che è tuto perfeto?». Bibliografia

Edizione di riferimento (dalla mia biblioteca): Marco Boschini, La carta del navegar pitoresco, Venezia, Filippi editore, 1965.


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Cultura e Spettacoli

Storia di una donna libera

Editoria La Nave di Teseo ripubblica l’autobiografia della controversa scrittrice Lina Agostini

Laura Marzi Capita di leggere memorie e diari di persone che non avevano così tanto da raccontare, autobiografie, o autofiction come si dice adesso, di autrici e autori le cui esistenze potevano tranquillamente rimanere sconosciute ai più, non pubblicate. Con Diario scandaloso di una vecchia di Lina Agostini, riedito da La Nave di Teseo, succede esattamente il contrario. Addirittura la sensazione è che in queste pagine potenti ci sia troppo: troppa vita, personaggi, incontri, coraggio. Troppa lucidità in questa donna che arrivata ai suoi ottant’anni ha deciso di raccontare di sé, dopo aver trascorso la propria esistenza a scrivere le storie del mondo e degli altri. Del resto lo sapeva: «se guadagnerai soldi scrivendo per i giornali, non diventerai una scrittrice: parola del grande scrittore». Non sappiamo chi sia «il grande scrittore italiano» che l’aveva avvertita, ma in ogni caso aveva ragione. La vita adulta di Lina Agostini, però, ironia della sorte, inizia proprio con un romanzo: Giorgina. Giovanissima, ma già sposata col suo insegnante di Lettere, Lina scrive questo libro durante una villeggiatura, anche per sublimare il desiderio che Giorgio, suo coetaneo, le suscita e che lei reprime in nome della fede al dito. Il testo le vale una condanna per oscenità e viene messo al bando dalla censura: racconta i fatti inenarrabili della provincia in cui Lina abita, privilegiando

i segreti delle stanze da letto. Agostini nel tempo diventa consapevole che quel romanzo scandaloso era stato la scorciatoia più efficace e rapida per una fuga dalla vita asfittica che stava vivendo con quello che lei chiama «il marito numero uno». A causa di Giorgina, infatti, il professore la ripudia, i genitori la mandano via di casa e lei, con le 90’000 lire che possiede, prende un taxi e va a Roma. Vive per un po’ nella villa ai Parioli, quartiere alto-borghese della capitale, dell’editore di Giorgina, vedovo e con quattro figli che le si affezionano. Lei deve andarsene però: non può sopportare di essere ancora meno libera di quanto non lo fosse prima, il suo carattere non le lascia mai molta scelta: «quando mi sono sentita in trappola ho sempre pensato a fuggire e al più presto. Se non lo avessi fatto, avrei rinunciato al pensiero costante: “fai quello che ti pare, purché somigli alla libertà”». Negli anni, il rimorso per aver abbandonato quei bambini che la amavano e la volevano come madre la indurrà a scrivere: «se ora avessi i poteri di un mago non gli chiederei nulla per me, solo per te avevo sperato miracoli. Per un tuo sorriso, oggi, baratterei la mia anima con una dose che ti sta uccidendo. O che forse ti ha già ucciso». Neanche con l’aiuto di internet Lina è riuscita a ritrovare quel bambino della villa ai Parioli che la adorava e le lasciava bigliettini d’amore nascosti ovunque. Sa solo che è diventato eroinomane e che lei ades-

in copertina, un intenso ritratto dell’autrice da giovane. (La Nave di Teseo)

so, al contrario di allora, farebbe di tutto per salvarlo. L’abbondanza di vita prosegue dopo la fuga anche dall’editore e la conduce a diventare una giornalista

affermata che viaggia in tutto il mondo. Gli aneddoti del passato, però, non affollano mai la lettura, perché restano in secondo piano. Il diario nasce per raccontare «la quarta vita» di Lina,

quella che trascorre guardando dallo spioncino del suo appartamento i suoi due nipoti e la loro madre, sua figlia, che abitano sullo stesso pianerottolo. Le due non hanno un rapporto idilliaco e Lina, dopo un’esistenza trascorsa tra gli Stati Uniti, Parigi, Mosca, una vita di incontri interessanti, di innamoramenti e matrimoni, vorrebbe solo che la figlia l’abbracciasse e passare più tempo coi bambini. Solo che non le è concesso. Tra la sua ricerca insaziabile di libertà e sua figlia deve essersi creato un corto circuito che le ha tenute insieme, nello stesso palazzo, lasciandole a una distanza che non può essere attraversata: quella tra le porte dei loro appartamenti. Solo che Lina non ha più molto tempo, è in salute, ma ha ottant’anni e sono esilaranti i racconti delle sue visite dal medico e le considerazioni che fa sulla dieta a cui si sottopone, come se non mangiare niente di buono potesse farla diventare immortale. Sarebbe davvero bello se potesse realizzarsi il suo desiderio più importante, lo sarebbe per lei e per tutti coloro che chiederebbero esattamente lo stesso: «vorrei soltanto avere il tempo a disposizione per trovare un equilibrio alle mie debolezze». Bibliografia

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Cultura e Spettacoli

L’ennesima incursione nel passato

Dischi Neil Young dà alle stampe l’irresistibile Homegrown, originariamente inciso a cavallo tra il 1974 e il ’75

Benedicta Froelich Sebbene, negli ultimi anni, Neil Young abbia prodotto in media un album ogni due anni – in contrasto con parecchi suoi coetanei e altri «mostri sacri» del rock, ormai sempre meno inclini a frequentare lo studio di registrazione –, si può comunque affermare che ogni nuovo lavoro del cantautore canadese costituisca tuttora un vero e proprio evento sulla scena pop-rock mondiale; e poiché il lungo e difficile «iato» causato dal recente lockdown sembra aver spinto molti artisti a prodursi in nuovi exploit discografici, ecco che anche il buon Neil sceglie proprio questo momento per donare al pubblico un nuovo (e da tempo annunciato) CD, dal titolo di Homegrown.

L’album è una sorta di anello mancante tra Harvest e Comes a Time, quindi di sicuro interesse per i fan Un album che, fin dalla copertina, presenta però un gusto quantomeno datato, talmente vintage nelle sonorità e nello spirito stesso di ogni brano da apparire quasi come una sorta di «capsula temporale» proveniente dagli anni 70; sì, perché Homegrown fa, in realtà, parte della Special Release

Series, branca minore del progetto Archives, dedicato alla pubblicazione dell’intera opera di Neil – e, come tale, è composto da registrazioni risalenti nientemeno che al 1974 e ’75, allora realizzate per un disco mai dato alle stampe. Erano quelli i tempi in cui Young era reduce dal successo monumentale di Harvest (1972), distinto da una perfetta fusione tra il folk-country dei vecchi tempi e i sapori West Coast derivanti dall’esperienza con Crosby, Stills e Nash: oggi la chiameremmo «musica lo-fi», ma di fatto, all’epoca, ogni dettaglio di quest’album «ritrovato» – dalle liriche agli arrangiamenti, fino al sound dallo spirito decisamente laid back – ricalcava appieno la formula destinata a divenire il «marchio di fabbrica» di colui che è da sempre il cantautore acustico e minimalista per eccellenza; facendo di Homegrown l’anello mancante tra il già citato Harvest e Comes a Time (1978), anche in virtù del fatto che molti dei brani qui presenti sono già noti ai fan, in quanto più volte proposti dal vivo nell’arco degli anni. Fin dalla traccia di apertura, percepiamo così tutta la struggente sincerità del Neil Young prima maniera: un artista che, oggi come allora, non si è mai tirato indietro davanti ad argomenti anche potenzialmente delicati, sempre esprimendo ogni inquietudine e dramma personale tramite registri diametralmente opposti – muovendosi, cioè, tra la calma riflessione degli anni ’70 e la ben più rab-

un particolare dalla copertina del disco.

biosa protesta dei tempi di Rockin’in the Free World e del sodalizio (tuttora in corso) con la band dei Crazy Horse. In Homegrown, Young passa dal tratteggiare la caducità struggente di qualsiasi legame umano – su tutti, l’allora recente separazione da Carrie Snodgress e il rapporto con il primogenito disabile (Separate Ways e White Line) – al descrivere momenti di nostalgia innata, quasi sospesa in uno spazio-tempo indefinito (si vedano i lenti Mexico e Little Wing); ed ecco come, ancora una volta, egli si dimostra un maestro nell’arte della cosiddetta «perfezione della semplicità»,

riuscendo, in poche pennellate, a tratteggiare con maestria i moti del cuore e la necessità di accettarne le inevitabili ripercussioni. Il tutto senza, però, farsi mancare momenti di spensierata e quasi fanciullesca innocenza (Love is a Rose e Try), affiancati alla solita, scherzosa irriverenza da hippy fuori tempo massimo (We Don’t Smoke It No More). Inoltre, come da copione, Homegrown non esula dalle escursioni in quel divertito e sarcastico pseudocountry da sempre tanto caro a Young: la title track dell’album (già pubblicata in versione più rifinita nel disco Ame-

rican Stars ’n Bars, del 1977) diventa così irresistibile occasione per una non troppo velata satira della mentalità a stelle e strisce, mentre Vacancy offre un perfetto esempio di efficace minimalismo rock. Del resto, questo senso di «americanitudine» – ovvero, il forte, eppure critico, senso di appartenenza culturale e musicale alla terra statunitense – pervade l’intero CD, facendo da sottotesto, tra gli altri, al curioso esperimento sonoro rappresentato da Florida (brano interamente in recitativo, caratterizzato da sonorità stridenti e «accidentali») e le languide ballate Kansas e Star of Betlehem. Certo, come spesso accade con le recenti pubblicazioni di Neil, a tratti anche quest’album presenta (seppur in misura minore) i soliti limiti di post-produzione, dando l’impressione di trovarsi davanti a un disco di outtakes non del tutto rifinito, messo insieme con vaga fretta; quasi la quantità fosse ormai divenuta, per l’artista, più importante della qualità – come suggerito dalla prolificità quasi eccessiva degli ultimi vent’anni, nell’arco dei quali l’abbiamo visto sfornare CD piuttosto brevi e dalle finiture a volte poco curate. Tuttavia, in quanto istantanea del passato, Homegrown rappresenta una valida aggiunta alla corposa discografia di Young – un vero «flashback» non solo per i completisti e i fan di vecchia data, ma anche per gli amanti della grande musica americana nella sua accezione più scarna e autentica. Annuncio pubblicitario

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e il rinfresco non possono mancare in capanna», afferma Sabina. La «Rivella Unlimited Bottle» è un ottimo compagno da portare con sé, dal momento che può essere riempita gratuitamente in ristoranti e capanne CAS partner. Le giovani donne si preparano al ritorno, che prevede ancora una bella scarpinata, non prima però di essersi rinfrescate i piedi nel laghetto di montagna. Anche sulla via del ritorno non mancano le pause obbligatorie: il Saxerlücke – molto seguito su Instagram – risplende di un’altra luce rispetto al mattino. Le amiche ne sono certe: «Alla prossima escursione pernottiamo in capanna», commenta Sari. Fortunati coloro che hanno con sé la «Rivella Unlimited Bottle»: con essa il pernottamento in una capanna del CAS partner è al prezzo dei soci CAS.


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Cultura e Spettacoli

Una piccola fine del mondo

Personaggi Incontro con la scrittrice tedesca Dörte Hansen, autrice di Tornare a casa

NataschaFioretti Dörte Hansen, classe 1964, originaria di Högel, una cittadina vicino a Husum nella Frisia settentrionale, ha dismesso i panni di giornalista culturale ed è diventata scrittrice facendo subito centro e per ben due volte di fila. Nel 2015 con il suo romanzo d’esordio Il paese dei ciliegi uscito in italiano per Salani e nel 2018 con Tornare a casa da poco uscito per Fazi Editore. Entrambi sono stati consacrati dal successo di pubblico e di critica: il primo è stato per settimane in cima ai bestseller dello «Spiegel» con 500’000 copie vendute, il secondo è stato premiato dai librai tedeschi come libro dell’anno. Per il critico letterario Rainer Moritz, la duplice grande impresa dell’autrice deriva dalla capacità di miscelare sapientemente intrattenimento, serietà e temi di peso. Non da ultimo, l’uso del basso tedesco che conferisce vivace autenticità ai personaggi e ai luoghi raccontati. Il romanzo si svolge nel paese fittizio di Brinkebüll e il protagonista è Ingwer Feddersen, figlio di Marret fine del mondo, senza padre, allevato e cresciuto dai nonni Ella e Sönke, l’oste del villaggio, che vede in Ingwer l’erede della sua locanda sul Geest, dei quindici ettari di

terreno, della casa e della fattoria. Ma il bambino cresciuto sullo scavapatate, una vita scandita dalla musica di Neil Young con qualche incursione di Joan Baez e Janis Joplin, lascia il paese e va a studiare a Kiel. I tempi cambiano, i luoghi, le persone e le abitudini pure. Anche Brinkebüll dopo la ricomposizione fondiaria del 1965-1967 non è più la stessa: «Tutti avevano capito che non c’era scampo alla grande ricomposizione fondiaria. Che in paese non si poteva continuare ad affaccendarsi in quel modo all’infinito con i secchi per la mungitura e le forche e i cumuli di letame in cortile. Balzellare per i campi in cima a vecchi trattori Hanomag a due cilindri, con mietilegatrici arrugginite a rimorchio senza mai guardare oltre la prossima ora di riposo. Nessuno aveva più la voglia di fare la parte del bifolco con lo sterco sulle suole, sempre a calpestare lo stesso pezzetto di terra, ruminante come il bestiame e attaccato alla carriola per la vita». Così nella terra si aprirono solchi di vari metri, si sradicarono gli ippocastani mentre le lepri schizzavano via impaurite dalle siepi e i cervi fuggivano nei boschetti di mughi. Senza alberi, una dopo l’altra, seguirono estati caldissime senza lepri e senza cicogne.

Per Marret Feddersen segni inequivocabili dell’imminente fine del mondo. Da lei, dal suo disperato grido «non c’è più tempo» inizia la chiacchierata con Dörte Hansen. La moria dei pesci, la scomparsa delle cicogne sono per Marret segni nefasti. Non lo è forse anche il Covid-19?

Molti lo interpretano come tale. Da noi c’è la tendenza a sviluppare teorie, in parte anche teorie complottiste ma credo che si debba fare molta attenzione. Nel mio libro è Marret Feddersen, una sorta di Cassandra del paese, a osservare certi cambiamenti in atto. Solo lei, grazie al suo stretto legame con la natura, è in grado di farlo, è in grado di vedere cose che gli altri non vedono e a metterle in relazione tra loro. E se anche viene considerata da tutti un po’ tocca, nel corso della storia ci accorgiamo che le sue teorie non sono poi così strampalate. Una sorta di fine del mondo avviene davvero, almeno per quanto riguarda il paese di Brinkebüll. Questo ci porta ad un tema chiave del romanzo e cioè la ricomposizione fondiaria. Di cosa si tratta e in che modo cambia il paese?

La ricomposizione fondiaria ha

determinato una trasformazione profonda del paesaggio e ha segnato il passaggio dalla società agraria a quella industriale, l’inizio dell’agricoltura moderna in Germania. All’improvviso sono arrivate grandi fattorie che via via hanno soppiantato le piccole realtà contadine. Si è iniziato a scomporre e frazionare i paesini, a ingrandire i campi, a costruire larghe strade e a interrare i fiumi. Nel giro di due generazioni i cambiamenti sono stati così grandi che le persone non sono riuscite a seguirli e a comprenderli. Negli anni Sessanta la natura era vista come un avversario ostile da battere, per i piccoli contadini di paese che descrivo doveva essere domata. Oggi abbiamo un’immagine armonica di vita e natura, pensiamo alla rinaturalizzazione e al risanamento e anche le cigogne sono tornate. Abbiamo investito una smisurata fede nel progresso della modernità senza prevederne le conseguenze che oggi sono sotto i nostri occhi.

cura di Ella e Sönke: voi mi avete dato così tanto, ora tocca a me restituirvi qualcosa.

Nel tornare a Brinkebüll Ingwer vive l’esperienza della perdita, si rende conto quanto il paese sia cambiato in sua assenza e più in generale da quando lui era bambino. Da un paese vivace in cui c’era tutto, il panettiere, la drogheria, il bar, la scuola e si era indipendenti dalla città, ora è tutto svanito. In piedi c’è ancora la vecchia locanda dei suoi genitori ma è moribonda come tutto il resto e questo alimenta i suoi sensi di colpa per non aver intrapreso la strada tracciata per lui. Suo nonno avrebbe voluto lasciargli tutto, sperava che un giorno prendesse in mano la locanda continuando a vivere in paese e invece Ingwer va a Kiel. La sua è una storia di ascesa e di tradimento verso le sue origini. Ritorna a casa perché si sente in dovere di espiare le sue colpe e decide così di percorrere insieme a Ella e Sönke gli ultimi metri della loro vita. A questo punto il libro diventa un romanzo di formazione perché Ingwer finalmente realizza che non deve sentirsi in colpa per le scelte fatte.

È l’ora in cui Brinkebüll riposa e succedono cose strane di cui nessuno vuol far sapere l’esistenza. Sulla copertina dell’edizione tedesca del libro c’è un contadino che tira il bue, perché il riposo di metà giornata è quello che nel nord della Frisia praticavano i contadini che si alzavano molto presto per la mungitura e poi alla sera erano di nuovo in pista per governare la stalla. Il riposo era parte di un ritmo, di una struttura temporale che caratterizzava la vita quotidiana del paese di contadini. Un ritmo diverso da quello urbano al quale oggi siamo abituati e di cui in tempi di pandemia possiamo rivalutare i lati positivi.

Cosa colpisce il ragazzo dello scavapatate quando ritorna al suo paese dopo una lunga assenza?

In tempi di Covid-19 in cui molte persone anziane si sono sentite isolate quello di Ingwer è un prezioso esempio di cura e responsabilità, non trova?

È nata a Högel, nel nord della Frisia; è stata giornalista ed ora è scrittrice a tempo pieno. (Martinstage 2015)

Sono legati da un patto generazionale, per Ingwer è un obbligo prendersi

Anche noi come Ingwer paghiamo un prezzo per la nostra mobilità?

Il prezzo per la nostra libertà è un senso di smarrimento, la sensazione di non appartenere davvero a qualcosa, a un luogo. Professore di archeologia, sulla soglia dei cinquanta, Ingwer si sente un uomo senza radici. Ha lasciato Brinkebüll per andare a studiare a Kiel ma non si è mai davvero adattato alla vita urbana. Dopo anni vive ancora in una sorta di comune ed è bloccato in una strana costellazione relazionale a tre. La verità è che ancora non sa cosa vuole fare. In passato le nostre vite erano segnate come uno stampo: se il padre faceva il mugnaio il figlio avrebbe fatto lo stesso. Oggi invece dobbiamo produrre un immenso lavoro biografico e reinventarci costantemente.

Il titolo originale del romanzo è Mittagstunde, riposo pomeridiano. Nel libro si dice: «Se c’era una cosa sacra per la gente di lassù era l’ora del riposo a metà giornata». Perché?

Cosa l’ha spinta a lasciare il giornalismo per diventare scrittrice?

Ho visto che sul suo sito lei si definisce una «felice giornalista freelance» e la capisco perfettamente: anch’io oltre ad essere stata redattrice all’emittente Norddeutscher Rundfunk ho lavorato come indipendente. Ma avevo il desiderio di essere completamente libera e quando il mio contratto era terminato decisi di non rinnovarlo. Ero alla fine dei miei 40 anni e mi sono detta: adesso o mai più. Mi è andata bene e ora posso prendermi il tempo per scrivere i miei libri, un grande lusso di cui sono consapevole e grata.

Lingua e natura

Editoria Le avanguardie della linguistica moderna in un libro dello psicolinguista Luca Cilibrasi Stefano Vassere «Gli studenti di linguistica scherzano spesso sul fatto che ai pranzi di Natale nessuno dei parenti sappia esattamente cosa stiano facendo della loro vita. Quando si dice a qualcuno che si studia linguistica, la domanda che in genere viene rivolta è: ‘ah, sì, e quali lingue studi?». Ci sono settori della linguistica che, per loro impostazione storica o forse per pigrizia dei propri cultori, risultano immobili da decenni, accomodati su qualche lodevole alloro e però restie a qualsiasi esplorazione che ne svecchi in un qualche modo strumenti e risultanze. Uno di questi è certamente quello della dialettologia, statica e poco propensa a esplorazioni e avanguardie. Altre discipline paiono per contro volare incessantemente verso nuove frontiere, stabilendo con regolarità nuovi limiti e concordando punti di incontro con le scienze più avanzate. È il caso della psicolinguistica e dell’arcipelago

di direzioni di studio che si è soliti aggregare attorno alle scienze cognitive: antropologia, studio dei sistemi comunicativi, linguaggio degli animali, acquisizione e apprendimento delle lingue, molto altro. Una bella dimostrazione delle virtuose inquietudini di questo segmento degli studi sul linguaggio ci è dato da questo Sulla natura del linguaggio. Un’analisi interdisciplinare, dello psicolinguista italiano Luca Cilibrasi. Il libro ha un inizio con parecchi botti; a partire da una iniziale scansione delle tappe fondamentali della disciplina: dall’inventore della linguistica moderna Ferdinand de Saussure al circolo di Praga negli anni Venti, dall’irruzione devastante di Noam Chomsky alla semantica degli anni Settanta; fino all’approdo, una ventina di anni fa, all’analisi del funzionamento linguistico del cervello con le neuroimmagini generate da tomografie e risonanze magnetiche. Il resto è una rassegna anche molto divertente condotta attorno ai (pochi) temi-

crocevia della materia: l’origine storica delle lingue e mentale della facoltà del linguaggio, i rapporti tra lingua e pensiero, la classificazione e la comparazione delle lingue. Sono urgenze che, come dice Giorgio Graffi in un recente bel libro sull’evoluzione storica della linguistica, non sono cambiate nei secoli se non nel modo di affrontarle. L’incontro con medicina, psicologia, neurologia ecc. genera – bisogna proprio dirlo – occasioni di ragionamento anche qua e là spassose. La rassegna è prevedibilmente infinita ma, pescando un po’ a caso nel mare di curiosità, si può pensare per esempio agli esperimenti sulla lingua madre condotti sui neonati. Si fa così: si prende un «particolare succhiotto elettrico» che permette ai piccolini di manifestare loro preferenze di fronte a stimoli linguistici nella lingua sentita precocemente nel ventre della mamma o sentendo brani in altre lingue. E si vede, perché lo si può misurare, che il bambino sa già quale lingua prefe-

risce. E ancora vale la pena di leggere il capitolo dedicato ai rapporti tra lingua e musica, dove si cerca di dare una spiegazione alle teorie apparentemente ascientifiche secondo le quali alcune lingue (e ovviamente l’italiano) sarebbero più musicali di altre (tipo

l’inglese). Il procedere dell’analisi di Cilibrasi è molto simile a certa saggistica anglosassone sul tema; il profitto per il lettore è fuori discussione. Il libro ha infine anche un suo carattere instant, o almeno up to date. Al livello delle premesse, ci racconta Cilibrasi di qualche vantaggio generato dal recente lockdown pandemico (giustamente questo tipo di linguistica non va troppo per il sottile sugli anglicismi), almeno nella possibilità di beneficiare di un deciso privilegiato accesso agli informanti linguistici. Grazie alle tecnologie di comunicazione, i soggetti sono distanti tra di loro, «si trovano in una condizione più naturale, e quindi la misura del processamento linguistico che otteniamo è più realistica». Bibliografia

Luca Cilibrasi, Sulla natura del linguaggio. Un’analisi interdisciplinare, Catania, Malcor D’ editore, 2020.


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