Azione 41 del 10 ottobre 2016

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 10 ottobre 2016

Azione 41 -76 ping M shop ne 45-54 / 67 i alle pag

Società e Territorio Sei progetti ticinesi premiati da contakt-citoyenneté, il programma del Percento culturale Migros che promuove la convivenza interculturale

Ambiente e Benessere Nell’era del biohacking il cervello è diventato un organo da manipolare, ma ciò resta in verità un’illusione

Politica e Economia Nascono vari programmi per facilitare l’accesso al mondo del lavoro ai rifugiati in Svizzera

Cultura e Spettacoli A Viareggio una mostra racconta il meraviglioso Ottocento italiano, un periodo storico portatore di grandi cambiamenti

pagina 13

pagina 3

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di Rigonalli, Nocioni e Cazzullo pagine 23, 26, 31

AFP

Referendum, l’arma del No

pagina 33

La fuga, unica libertà di Peter Schiesser C’è una domanda che mi pongo ogni qualvolta vedo immagini di migranti che sfidano il mare e il deserto e che finora è rimasta senza risposta: che cosa spinge un essere umano a lasciare il proprio paese esponendosi al rischio di essere derubato, violentato, ucciso, nel tentativo di trovare una vita migliore altrove? Mi chiedo inoltre se farei altrettanto anch’io, trovandomi nelle stesse condizioni. Ho posto le stesse domande durante il dibattito seguito alla proiezione del film Walls dei registi spagnoli Pablo Iraburu e Migueltxo Molina al cinema Corso, nell’ambito del Festival del film sui diritti umani di Lugano, e ho trovato una risposta convincente nelle parole di una giovane statunitense, figlia di esuli cubani: «Lo faresti anche tu. Perché quando vivi in un Paese in cui non ti è possibile scegliere né decidere nulla, affrontare il rischio di morire in cambio di una vita migliore diventa la tua sola scelta possibile, ma soprattutto è una scelta tua, torni ad essere padrone del tuo destino». Un modo drammatico, a volte tragico, di affermare la propria dignità umana. L’allora cancelliere tedesco Helmut Kohl commentò la fuga dei

cugini tedesco-orientali attraverso l’Ungheria che fece da prologo al crollo del Muro di Berlino nel 1989 con queste parole: «votano con i piedi». Questa fuga dalla miseria del sud del mondo e da paesi in guerra, prima ancora di essere letta come una minaccia per la nostra sicurezza (non solo economica), andrebbe intesa nello stesso senso: come un planetario grido di protesta contro le ingiustizie, le repressioni, le disparità, la corruzione, le dittature che schiacciano ancora gran parte dell’umanità – condizioni di cui noi in Occidente non ci rendiamo sufficientemente conto. E un simile straziante urlo, che si accompagna alle sofferenze che queste persone devono subire sia a casa sia cercando di fuggire, dovrebbe rappresentare prima di tutto un invito a noi a non accettare che il mondo vada come va. «Saremo un giorno come tutti gli altri?» si chiede nel film Walls un gruppetto di africani che sopravvive alla bell’e meglio nei boschi, tentando di raggiungere l’enclave spagnola di Melilla in Marocco, (un film in cui sono narrate le vicissitudini di migranti che cercano di superare i muri fra gli Stati Uniti e il Messico, fra il Marocco e Melilla, fra lo Zimbabwe e il Sudafrica). Si sottintende: saremo mai considerati umani come tutti gli altri? È una domanda che dovrem-

mo tenere a mente quando guardiamo alla massa di migranti che si accalca alle frontiere dell’Occidente. Ci aiuterebbe a recuperare la dimensione umana del problema che così spesso viene dimenticata, con la mente accecata dalle nostre paure. È chiaro che la soluzione non è aprire le porte a tutti, gli squilibri che creano le migrazioni di massa sono innegabili, come ha ricordato una magistrata presente al dibattito c’è anche un problema di sicurezza, di criminalità – e gli attentati compiuti da islamisti camuffati da profughi in Europa sono solo un esempio. Non può neppure essere considerato un diritto umano una «libera circolazione dei migranti». La soluzione, l’unica vera soluzione, è di creare le condizioni affinché queste persone non debbano fuggire da dittature e miserie. Questo è un compito della politica, dei potenti del mondo. Noi però possiamo contribuire abbattendo i muri che stanno nelle nostre menti . Il Festival del film sui diritti umani di Lugano, giunto alla terza edizione e conclusosi domenica, è un contributo in tal senso. Mettendo l’accento sulla partecipazione di scolari e studenti getta un seme che in futuro potrà portare altri frutti rispetto a quelli di un populismo dilagante.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Attualità Migros

M Collaboratori soddisfatti

Jazz e gastronomia

Migros Ticino La ricerca indipendente dell’Istituto Transfer Plus conferma gli ottimi

Concorso Biglietti

risultati, registrati anche in passato

In qualità di datore di lavoro responsabile, Migros Ticino vuole migliorarsi continuamente e garantire condizioni di impiego all’avanguardia partendo dalle opinioni positive ma anche dalle valutazioni negative dei propri dipendenti. Per questo motivo, la cooperativa affida triennalmente alla Transfer Plus AG (istituto di ricerche sul mercato indipendente) il compito di «tastare il polso» fra i propri collaboratori attraverso un sondaggio anonimo sulla soddisfazione. Le domande del questionario includono diversi aspetti delle condizioni di lavoro che spaziano dalla soddisfazione generale, il rapporto con il proprio superiore, il clima di lavoro, le possibilità di sviluppo, la comunicazione aziendale, la politica salariale e sociale e la gestione della salute in azienda. Inoltre è stata data la possibilità di esprimere un giudizio generale libero attraverso una domanda aperta. Su una scala di valori che assegna un giudizio soddisfacente con 60 punti, buono con 70 punti, molto buono con 80 punti ed eccellente con 90 punti, tutti gli ambiti hanno ottenuto un punteggio superiore rispetto al 2013, anno dell’ultimo sondaggio realizzato. L’indagine condotta durante lo scorso mese di maggio, ha così visto la partecipazione dell’82% dei collaboratori (+1% rispetto al 2013) che dimostra la volontà del personale di fornire il proprio feedback e contribuire al miglioramento continuo delle condizioni di lavoro in azienda. Aver offerto al management un adeguato supporto in termini di gestione del personale attraverso vari corsi di formazione negli anni, si è rispecchiato in un giudizio dei collaboratori altamente positivo che hanno espresso un miglioramento a proposito del rapporto con il proprio superiore e clima di lavoro (+5 rispettivamente +4 punti rispetto al 2013). Rispetto a 3 anni fa, anche le possibilità di sviluppo sono state valutate con

Sondaggio collaboratori 2016

Soddisfazione complessiva 77 punti

Nel complesso sono soddisfatto della mia situazione lavorativa attuale

77

Nel complesso sono contento del mio lavoro

79

Nel nostro team regna nel complesso un buon clima di lavoro

76

Nel complesso sono soddisfatto del mio superiore

79

In generale sono soddisfatto delle possibilità di sviluppo nella mia azienda

74

Nel complesso sono contento della comunicazione aziendale

75

Nel complesso sono soddisfatto della politica salariale e sociale della mia azienda Gestione della salute in azienda e sicurezza sul lavoro: nel complesso sono soddisfatto di quanto si attua in questo ambito Nel complesso ritengo la mia azienda un buon datore di lavoro

71 82 86 0 punti

20 punti

un punteggio superiore di 4 punti (oggi pari a 74 punti su 100). Questo risultato premia il lavoro svolto nell’ultimo triennio per aggiornare e implementare un sistema accurato di piani di carriera e assessment per individuare e offrire la possibilità di crescita a collaboratori con potenziale. Dal sondaggio emerge inoltre un risultato molto buono per quanto attiene la sicurezza sul lavoro e la tutela della salute, parte integrante del progetto più ampio di gestione della salute in azienda per il quale Migros Ticino ha compiuto numerosi sforzi. Infatti, dal 2015, la cooperativa vanta in qualità di prima, e per il momento unica azienda domiciliata in Ticino, il sigillo di qualità Friendly Work Space (FWS). Si tratta di un importante riconoscimento assegnato alle imprese che si adoperano nell’implementare con-

dizioni di lavoro favorevoli alla salute. L’impegno per ottenere la certificazione è notevole, bisogna infatti dimostrare di aver integrato in modo sistematico la gestione della salute nei processi aziendali e gestionali e prevede una strategia di ampio respiro che va dalle attività mosse a promuovere la capacità lavorativa, la prevenzione di malattie e infortuni sul lavoro, il riconoscimento precoce, l’accompagnamento e la reintegrazione. I collaboratori hanno dimostrato di essere coscienti dell’importanza del progetto esprimendo un gradimento di 82 punti su 100. Per la Migros, la salute dei collaboratori è un bene prezioso. Per questo motivo, tutte e 10 le Cooperative ma anche diverse industrie e aziende della comunità, si sono prefissate di raggiungere gli standard richiesti dal label FWS

progetti per i paesi in via di sviluppo

In collaborazione con

Promesse agli allergici e ai vegetariani

in fase di raggiungimento la seconda

Informazioni

Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

e sono state insignite del marchio entro fine 2015 (come promesso a Fiona, nel contesto delle promesse alle generazioni future). Un datore di lavoro responsabile deve conoscere i propri punti di forza da mantenere costanti nel tempo, ma deve anche essere aperto agli spunti di miglioramento forniti dai collaboratori stessi, in questo modo potrà mirare giorno dopo giorno al miglioramento continuo delle condizioni di lavoro.

La buona musica è ingrediente ideale per una buona cena: entrambi questi fattori saranno in gioco il prossimo 15 ottobre al Centro la Torre di Losone. Nell’ambito della rassegna «Estonia-Ticino», scambio musicale tra aree d’Europa ideato da un gruppo di musicisti ticinesi, il Municipio di Losone propone un concerto speciale, abbinato alle specialità gastronomiche estoni curate dallo chef Joel Kannimäe. Il menu della serata prevede una carrellata attraverso i sapori originali e gradevoli della tradizione culinaria scandinava, e il programma musicale è orientato a una miscela di stili che saranno proposti al pubblico dal quintetto estone Verbarium, affiancato per l’occasione dal duo chitarristico tutto ticinese di Roberto Pianca e Stefano Romerio. La manifestazione si terrà a partire dalle ore 19.00. Costo della cena e dei concerti è di 35 franchi: obbigatoria la prenotazione (massimo 80 iscritti) entro lunedì 10 ottobre all’indirizzo email segreteria.scuola@losone.ch o telefonicamente al numero 091 785 79 01. Gli altri concerti della rassegna «Estonia-Ticino» sono previsti giovedì 13 (Estonian Voices e BLUE 2147, Teatro Sociale Bellinzona) e venerdì 14 (MiaMee e TreMeandy, Jazz in Bess Lugano). (Info: www.qtrio.ch/estoniaticino). Migros Ticino mette in palio fra i lettori di «Azione» 3 coppie di biglietti della serata. Per partecipare all’estrazione scrivi un’email con i tuoi dati all’indirizzo «giochi@azione.ch», entro mercoledì 12 ottobre. Buona fortuna!

Generazione M M antenuta la prima,

Nome nuovo, stesso impegno. Ora il Fondo Aiuti Migros si chiama Fondo di Sostegno Migros. Ogni anno questa istituzione sostiene con un totale di un milione di franchi progetti scelti della collaborazione allo sviluppo. Si tratta sempre di sostenere gruppi svantaggiati nei pasei del Sud e dell’Est e anche in Svizzera aiutandoli ad aiutarsi. Uno dei molti esempi è l’Organizzazione Velafrica, che raccoglie in Svizzera biciclette dismesse, le rimette in sesto e le spedisce in Africa. In 13 paesi dell’Africa orientale e occidentale queste biciclette vengono utilizzate quali mezzi di trasporto e nel contempo creano posti di lavoro nelle officine locali (vedi foto). L’organizzazione è sempre alla ricerca di vecchie dueruote e spera di poter esportare quest’anno 20’000 biciclette.

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938

100 punti

Il grado di soddisfazione espresso dagli intervistati si situa tra il «Buono» e il «Molto buono».

Solidarietà I l Fondo di Sostegno Migros seleziona e finanzia

Azione

40 punti

Buono/ Molto buono 60 punti 80 punti

Su base 100 punti: < 60 = insoddisfacente; 60 soddisfacente; 70 buono; 80 molto buono; 90 eccellente

Un aiuto all’autoaiuto

www.generazione-m.ch.

in palio per il «dînerconcert» previsto al Centro Torre, Losone

Biciclette usate svizzere vengono recuperate in Africa. (Velafrica) Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Entro il 2016 Migros intendeva ampliare del 30 per cento il suo assortimento per chi è colpito da allergie e intolleranze. In giugno tale obiettivo è stato raggiunto e addirittura superato. Attualmente sugli scaffali Migros si trovano 140 prodotti certificati aha!, il che corrisponde a un aumento dell’assortimento del 60 per cento. Nel 2016 si sono aggiunti ancora 14 nuovi generi alimentari certificati aha!, ad esempio la maionese vegana o le barrette Farmer prive di glutine e di lattosio. Benché la promessa sia stata mantenuta, Migros intende continuare ad ampliare il suo assortimento per allergici. Non è noto esattamente quante

persone in Svizzera si nutrano facendo a meno della carne. A seconda delle statistiche e delle indagini, la cifra varia fra l’1,4 e il 3 per cento della popolazione svizzera. Secondo le indicazioni dell’Ufficio federale di statistica, però, nel giro di cinque anni il loro numero è raddoppiato. La tendenza verso un’alimentazione priva di carne si fa sentire anche nel commercio al dettaglio. Entro la fine del 2017 Migros intende ampliare del 30 per cento il suo assortimento di prodotti vegetariani e vegani. In tal modo si rivolge non solo ai vegetariani e ai vegani, ma anche ai fruttariani, ai pescetariani e ai flexitariani (vegetariani con qualche trasgressione).

Tiratura 101’035 copie

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Società e Territorio La psiche nell’era digitale La psicanalisi e la società virtuale: intervista alla ricercatrice francese Natacha Vellut

Tracce di donne Sarà presentata sabato 15 ottobre a Bellinzona la terza fase della ricerca storica voluta dall’Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino

Formazione professionale La campagna nazionale sulla formazione professionale superiore si presenta al Centro Migros di S.Antonino pagina 6

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Progetti di convivenza interculturale Contakt-citoyenneté Il programma di promozione ideato dal Percento culturale Migros ha premiato

anche sei progetti attivi nel canton Ticino Laura Di Corcia Integrazione. Una di quelle parole di cui ci si riempie spesso la bocca (amaramente: negli ultimi tempi sempre di meno). Ma cosa significa, in concreto? Una volta che ho sfamato la bocca di chi ha bussato alla mia porta per svariate ragioni, una volta che gli ho messo un tetto sopra la testa e gli ho spiegato che tante cose che nel suo Paese sono ritenute buone e giuste qui non sono viste di buon occhio, ho raggiunto lo scopo? La persona si sentirà a suo agio, non diciamo a casa propria ché le utopie le abbiamo stipate nel cassetto da un po’, ma almeno in casa di un ospite in cui ci si sente bene? Tocca spolverare il vecchio libro di psicologia generale e tornare alla piramide di Maslow: dopo i bisogni primari (nutrirsi, proteggersi dai pericoli esterni, ecc), che stanno alla base, arrivano altre, meno urgenti ma non per questo meno importanti, necessità, ovvero l’appartenenza, la stima e l’autorealizzazione. A questi principi è ispirato il programma di promozione contakt-citoyenneté, creato nel 2012 da Percento culturale Migros, che ha ideato e promosso l’iniziativa insieme alla Commissione federale della migrazione. Lo scopo? «Coinvolgere i cittadini nell’ambito dell’integrazione della popolazione migrante, in modo da andare nella direzione di una società aperta e innovativa,

fondata sulla convivialità e la reciprocità». Sono parole di Luzia Kurmann, responsabile del progetto per il Percento culturale Migros, la quale aggiunge che «l’integrazione non si ottiene solo proponendo corsi di lingua e fornendo nozioni teoriche. Affinché uno straniero si integri, occorre che pratichi la nuova lingua, incontri le persone, si senta invitato a partecipare agli appuntamenti quotidiani offerti dalla società». La responsabile riconosce nella popolazione indigena un tassello fondamentale ai fini dell’integrazione, sottolineando che «è importante che le due parti facciano uno sforzo per venirsi incontro»; non solo loro, quindi, ma anche noi. In cosa consiste contakt-citoyenneté? Si tratta di un concorso aperto ai progetti che promuovono l’integrazione su territorio elvetico; quest’anno in Ticino sono stati premiati sei progetti (su un totale di 56 in tutta la Svizzera) e possono avvalersi per la prima volta di un’antenna locale coordinata da Marcello Martinoni. Per esempio c’è il progetto Parlami di te ideato da Marialaura Holecz-Calastri, presidentessa dell’associazione Hayat, che promuove l’accoglienza di famiglie siriane in Ticino. Attraverso i contatti dell’associazione e in collaborazione con la fondazione Azione Posti Liberi che ha come referente Laura Francioli, si organizzano incontri fra gli studenti delle scuole medie, superiori e universitarie del cantone e

loro coetanei che hanno vissuto personalmente la tragica esperienza della traversata del Mediterraneo, della fuga da una realtà divenuta orribile a causa della guerra o insostenibile a causa di condizioni socio-economiche tremende, dell’approdo in una realtà nuova, sconosciuta e a volte ostile. «Attraverso questi incontri otteniamo un grande impatto sui giovani che vivono qui – spiega l’ideatrice – un effetto molto più immediato e potente di quello che si sarebbe ottenuto tramite la lettura di un articolo di giornale. Anche perché spesso i ragazzi non leggono». La forza di questi progetti è proprio questo: promuovere l’incontro e l’avvicinamento. «Lo scopo di contaktcitoyenneté è soprattutto quello di favorire l’impegno della società civile – sottolinea Martinoni. «L’accoglienza del migrante viene normalmente realizzata attraverso enti e istituti che si occupano di aspetti primari. Per capirci potremmo fare l’esempio dell’assistenza: ti occupi di far sì che la gente abbia un tetto, si nutra, riceva le cure mediche. Ma tutto quello che sta attorno, come le relazioni intime, le amicizie, che sono altrettanto importanti, difficilmente lo crei lì. Contakt lavora con la società attiva e l’obiettivo è proprio quello di far capire l’importanza dell’impegno individuale». Non è il lavoro di volontariato, quindi, a ricevere finanziamenti e sostegno economico; lo scopo è proprio

quello di promuoverlo, di farlo crescere come pratica gratuita di un’integrazione che funziona solo quando ambo le parti muovono dei passi in direzione dell’altro. «Nel caso del progetto Fuori dai banchi (dove donne locali organizzano attività per donne immigrate per promuovere la loro partecipazione alla vita sociale, ndr) o di Incontriamoci in cucina – continua Martinoni – non diamo una retribuzione agli organizzatori o alle organizzatrici, che sono volontari. Quello che facciamo è assicurare i mezzi finanziari per poter aprire l’attività e dare un sostegno se ci sono spese straordinarie». Un esempio: si vuole organizzare una gita a Milano con il bus? Ecco, il costo del mezzo di trasporto e magari del pranzo verrà fornito da contakt-citoyenneté. Ma se dicevamo inizialmente che non di solo pane vive l’uomo, questo vale anche per il programma: non si tratta solo del non di certo secondario aspetto monetario, perché lo scopo è anche quello di supportare da un punto di vista logistico e metodologico i gruppi che hanno vinto il concorso. «Gestire i rapporti con le istituzioni, con i media, non è sempre semplice, a volte serve un aiuto – continua Martinoni – Ecco, noi siamo un punto di riferimento a loro disposizione». Il volontariato è un’aspirazione alta e nobilissima, ma spesso si scontra con la dura realtà: le culture accolte spesso sono lontane anni luce dalla

nostra e non di rado ci si potrebbe trovar confrontati con tabù, zone d’ombra non semplici da gestire. «Come reagire di fronte alla confessione di una donna che ritiene giusto essere malmenata dal proprio marito? Denunciare, non denunciare? Ai volontari spesso serve una mano e noi siamo qui per questo», aggiunge Martinoni, segnalando anche un appuntamento importante che esula da contakt ma che può servire a tutti coloro che operano o vogliono operare in questo senso: un incontro di formazione su mandato della Divisione dell’azione sociale e delle famiglie (DASF) e in collaborazione con Croce Rossa svizzera Sezione del Sottoceneri e SOS Ticino, che avrà luogo domani, martedì 11 ottobre, presso Spazio aperto a Bellinzona (contatti: info@volontariato-sociale.ch). Infine, qual è l’impatto di contaktcitoyenneté sulla società? «Importante, almeno guardando i numeri dei volontari coinvolti, – conclude Luzia Kurmann – si pensi che nel corso delle prime due edizioni sono state coinvolte direttamente cinquemila persone. Ma se ampliamo l’orizzonte, hanno ruotato attorno ai vari progetti circa 18 mila persone». Per l’edizione attuale, i promotori pensano che le cifre saranno anche più alte. Informazioni

www.contakt-citoyennete.ch


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Società e Territorio

Dov’è la psiche nel mondo virtuale?

Intervista A colloquio con la psicanalista francese Natacha Vellut, relatrice sabato prossimo a Lugano durante

il convegno dell’Accademia di Psicoterapia Psicanalitica della Svizzera italiana

relazioni sociali, più o meno alla stessa età. Smettono di frequentare la scuola, hanno relazioni d’amicizia solo legate ad attività sportive. Mantengono minimi contatti in famiglia e si muovono soltanto dove c’è Internet. Per loro diventano dunque problematiche tutte le questioni legate alla ricerca di un lavoro, di un inserimento sociale.

Alessandro Zanoli La psicanalisi non è soltanto uno strumento terapeutico ma, da sempre, anche una disciplina che studia e cerca di interpretare i fenomeni sociali. In questo senso il convegno che si terrà al LAC di Lugano il prossimo 15 ottobre, promosso dall’Accademia di Psicoterapia Psicanalitica della Svizzera italiana, si propone di indagare un ambito della nostra vita quotidiana che suscita in tutti noi domande e anche preoccupazioni. L’irruzione delle tecnologie informatiche nei nostri modelli comunicativi e comportamentali sta producendo infatti una nuova realtà che ci assorbe, condiziona, ma con la quale dobbiamo misurarci e imparare a interagire. A Lugano prenderanno la parola quindi tre psicanalisti che hanno messo sotto osservazione questo nuovo mondo digitale e che, alla luce della loro esperienza clinica, ne proporranno alcune chiavi di lettura in termini psicologici. Abbiamo chiesto a una delle relatrici della giornata, Natacha Vellut, psicologa, psicanalista, ricercatrice al Centre de Recherche Médecine, Sciences, Santé, Santé Mentale, Société dell’UniversitàParis Descartes, di aiutarci a delineare il quadro in cui la psicanalisi può affrontare la riflessione sulla «società virtuale». La sua esperienza clinica, in particolare, l’ha portata a studiare il caso dei giovani adolescenti giapponesi che vivono in simbiosi con la rete, gli ormai famosi Hikikomori (vedi anche «Azione 39» del 26 settembre scorso). Signora Vellut, secondo lei che cosa direbbe Freud se avesse potuto conoscere questa cosa tremenda che è Internet?

Un tempo gli psicanalisti chiedevano informazioni sui sogni dei loro pazienti, oggi chiedono loro che siti visitano?

La psicologia deve tenere conto della cultura digitale. (Marka)

Beh, non vorrei parlare al suo posto e poi non sono nemmeno convinta che sia così tremenda... Internet ci mette a contatto con una realtà legata al sapere, alla conoscenza, molto interessante, se vista dal punto di vista psicanalitico. Internet permette di acquisire un sapere senza bisogno di passare per un «mediatore altro», senza avere un maestro, senza la nozione di autorità. Là dentro c’è un sapere che è disponibile e noi non siamo obbligati ad essere in una relazione di dipendenza con altri per raggiungerlo. Ecco, questo penso che avrebbe messo Freud un po’ in difficoltà... Internet tocca realmente diversi aspetti della nostra vita e della nostra psicologia profonda?

Sì, tant’è che molti studiosi parlano di una sorta di rivoluzione antropologica, anche rispetto al modo di vedere il futuro che ha diffuso. Secondo me è molto importante dire che Internet modifica la nostra relazione con lo spazio, con la temporalità e nella relazione con gli altri. Questi sono aspetti che hanno certamente un rapporto con la visione psicanalitica.

L’uso della rete però non è necessariamente negativo: non tutti ci si perdono. Internet può essere magari anche terapeutico? Natacha Vellut ha studiato gli Hikikomori.

Certo che sì. Io ho imparato moltissime cose da una Hikikomori che ho seguito. Quando mi parlava, lei metteva in gioco veramente molto poco di sé, ma molto del suo sito preferito di fantascienza, dei suoi personaggi, del perché non voleva che un personaggio morisse, perché un personaggio doveva innamorarsi di un altro personaggio... E con queste informazioni diceva in realtà tanto di sé. Era davvero bloccata nella sua capacità di esprimersi. La sua situazione durava già da dieci anni. Era una giovane donna molto timida, molto inibita, molto grave e però si sbloccava parlando di questo sito su cui aveva investito in modo massiccio.

L’uso di Internet può essere di vario tipo: può essere funzionale, servire a

passare il tempo. Ma può essere anche utilitario: può servire a un apprendimento; oppure può essere anche politico. C’è tutto un filone di siti di questo tipo, che usano Internet come luogo di espressione libertaria. Occorre dire poi che ci sono anche spazi dove si può passare del tempo in una forma di terapia. Al di là della tecnica classica è possibile anche usare Internet come strumento di relazione, tra paziente e terapeuta. Come si userebbero dei disegni per un bambino, dei giochi con un adolescente: può essere proprio uno strumento di mediazione e di gioco, in questo senso, che permette di rendere più morbida la relazione terapeutica. Penso che per noi psicoterapeuti possa rivelarsi non tanto una rivoluzione nella tecnica terapeutica, ma proprio uno strumento.

Le novità tecnologiche suscitano sempre preoccupazione: ricorda i Tamagotchi? Molti psicologi si erano allarmati per quella moda che simulava una vita virtuale. Poi tutto è caduto nel dimenticatoio...

Ecco: una cosa di cui parlerò sicuramente durante l’incontro sarà la questione del mondo virtuale. Una parola estremamente alla moda, estremamente utilizzata, ma è problematica, secondo me. Accettarla implica di dividere il mondo in due settori, quello reale e quello virtuale, due mondi di-

versi. Se cominciamo così siamo fuori strada. Prendiamo per esempio un romanzo: cosa è reale e cosa è virtuale lì dentro? Questa abitudine a creare due mondi separati non ha senso: quando si è su Internet si è a contatto con la realtà. Evidentemente non si tratta di un rapporto personale con qualcuno, ma non per questo non è un rapporto reale. Senza considerare poi che definire cosa sia la realtà è una questione tutt’altro che facile, visto che ognuno di noi vive in un suo mondo, a contatto magari con i proprio fantasmi.

L’impressione che si ha della rete è che stimoli una discreta dipendenza e ciò preoccupa. Ma che cosa cerchiamo in Internet?

Gli studi che ho condotto sul tema degli Hikikomori hanno demistificato molte preoccupazioni. Ero affiancata da specialisti che osservavano altri ambiti del rapporto con Internet e si occupavano in particolare dell’uso di Facebook. Abbiamo scoperto che il social network non è un sostituto ma un potenziamento delle relazioni. Gli Hikikomori, che si isolano dai loro pari, dalle persone della loro età, vivono su Internet, ma evitano le reti sociali. Perché per loro è troppo complicato relazionare. Ma chi sono esattamente gli Hikikomori?

Sono ragazzi che interrompono tutte le

Freud tendeva a ricercare nella mitologia classica i modelli di comportamento psicologico: i nuovi psicanalisti dovranno occuparsi meno di mitologia e più di fantascienza?

Ho letto di recente un articolo di studiosi greci: hanno osservato la situazione dei videogiochi in Francia e hanno osservato che si sta diffondendo un modello di eroe virtuale molto diverso dall’eroe romantico. Questo è curioso perché l’eroe romantico suscitava nei giovani in passato un’identificazione secondaria. L’eroe virtuale si comporta invece in un altro modo. È quasi in opposizione a quello: provoca un’identificazione molto più immediata, spontanea. Non è il cavaliere che incarna la grandezza, i valori della legge: l’eroe virtuale semplicemente distrugge tutti i nemici, senza altro scopo che la rivalità. Nelle sue imprese è difficile leggere un compito simbolico, un ruolo drammatico con cui si possa solidarizzare. Dove e quando

Internet: virtualizzazione della psiche? La psicoanalisi nell’era digitale Sabato, 15 ottobre 2016. LAC, Lugano, dalle 9.00 alle 16.00 Iscrizioni: Segretariato APPsi c/o Dott. Marco Celoria Via Massagno 20 6900 Lugano

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Cristina Sánchez-Andrade, Il pezzettino in più, Feltrinelli Kids. Da 9 anni Manuelita è nata con «un pezzettino in più». Un pezzettino che si chiama cromosoma. Manuelita ne ha 47, mentre la sua sorellina, la sua mamma, il suo papà, la maestra, i bambini che al parco giochi insistono «come corvi» a chiedere «perché ha gli occhi da cinese, perché non si capisce cosa dice?» ne hanno 46. Manuelita è una bambina con la sindrome di Down, a volte non sa esprimersi «correttamente», però «in fondo ai suoi occhi c’era tutto quello che doveva dire». Cose tenere e allegre, come il sorriso buono del nonno, le polpette e la pasta che le piacciono tantissimo, la mamma e tutto l’amore della famiglia, i giochi, il cielo, ma anche «capricci e ossessioni», come la mania di cambiarsi continuamente i vestiti, o di combinare qualche guaio. Non è sempre facile viverle accanto, soprat-

tutto se sei la sua sorellina minore e ti aspetteresti di essere tu quella coccolata e protetta. Invece Lucia, dalla cui prospettiva è narrata la storia, è sì la sorella più piccola però deve assumere un ruolo che per forza è quello della sorella più grande e responsabile. Lucia ama profondamente Manuelita, la difende come una leonessa dai «bambini-corvi» che non la lasciano in pace ai giardinetti, però a volte sul cuore ha come un macigno, pesante come il fardello di responsabilità che deve

prendere su di sé, pesante come il senso di colpa per l’imbarazzo che a volte prova quando è con Manuelita. Interessante e non edulcorata questa prospettiva della sorella piccola-ma-grande («la capa», come scherzosamente la chiama il papà), così come interessante e non edulcorato è il romanzo nel suo insieme, che resta una storia molto delicata e profonda sul rispetto per la diversità. Ricorda il bellissimo e purtroppo fuori catalogo Festa di compleanno di Paula Fox, recuperabile ormai solo in biblioteca. Non a caso anche in questo libro la cornice narrativa è la festa per i dieci anni di Manuelita, e il racconto si snoda come un lungo flashback dialogico tra la mamma e Lucia intente a preparare la torta. Il linguaggio dell’autrice a volte è molto onirico e surreale, e questo non lo rende di facile comprensione per i lettori più piccoli e meno esperti. Ma il libro offre davvero ottimi spunti per riflettere su cosa significhi essere «diversi».

Eric Battut, Il cappello di Topolina, Bohem Press. Da 2 anni. È un silent book, un libro senza parole. Per far parlare solo le immagini bisogna essere bravi, e all’illustratore francese Eric Battut non manca certo l’esperienza, nel disegnare per i bambini, tanto da potersi cimentare con sicurezza in questo suo primo libro in cui la storia è affidata alle sole figure. Ma attenzione, non è che, per il fatto di non avere testo, siano libri più facili: questo ad esempio è adatto a piccolissimi già dai due anni, ma la mediazione di un adulto narratore non solo sarà gradita, ma è anche auspicata.

Cosa succede dunque in questa piccola incantevole storia? C’è Topolina che ha un delizioso cappello di cui va davvero fiera. Ma incontra lumaca, che lo vorrebbe provare, e il cappello prende la forma dei suoi cornini; poi lo vuole provare il gallo, e il cappello diventa fatto «a cresta»; poi sarà un cappello a forma di orecchie di gatto, poi a orecchie più lunghe di lepre, e così via: di animale in animale il cappello di Topolina prende mille forme diverse, fino a diventare gigantesco sulla testa dell’elefante. E quando verrà restituito alla legittima proprietaria sarà un cappello enorme e sformato, con le tracce di tutte le testoline o testolone che lo hanno indossato. Topolina ha un attimo di sconforto... subito cancellato da una bella sorpresa: quel cappello rosso ora può diventare una comoda casetta! Una storia sulla generosità e sulla preziosa capacità di cambiare sguardo, trovando soluzioni nuove.


THOMY e le galline felici Da dove viene l’espressione «galline felici»? THOMY si è dedicata intensamente a questo tema e a partire dal 1o maggio 2016 ha adattato l’intera produzione di salse in maniera tale da non utilizzare più uova da allevamento a terra, bensì uova da allevamento all’aperto.

Le galline felici e le loro uova: tre dati di fatto 1.

Qual è la differenza? Per evidenziare al meglio la differenza tra i due tipi di allevamento vi è un trucco molto semplice: cercate su Google prima «allevamento a terra» e poi «allevamento all’aperto». Riconoscerete subito che la differenza sta nel benessere degli animali. Il passaggio da uova da allevamento a terra a uova da allevamento all’aperto per THOMY rappresenta un’importante pietra miliare e una chiara dichiarazione a favore del benessere degli animali e della sostenibilità.

Il colore delle uova (bianco o marrone) né influisce sulla qualità né è legato al colore delle piume, bensì dipende dalla razza delle galline: se hanno il «lobo auricolare» rosso depongono uova marroni, se invece è bianco anche le uova lo sono.

2. Allevamento a terra o all’aperto? Il timbro indica da dove proviene l’uovo: la prima cifra ci svela come è stata allevata la gallina che ha deposto l’uovo: 0 sta per uova bio, 1 per allevamento all’aperto, 2 per allevamento a terra e 3 per allevamento in gabbia. 3. L’uovo ci fornisce sostanze nutritive: esso contiene soprattutto pregiate e vitali unità costitutive delle proteine. Un singolo uovo copre circa il 10% del fabbisogno giornaliero di proteine e vitamina D e più del 20% del fabbisogno giornaliero di vitamina A di un adulto.

L

’allevamento all’aperto in grande stile non ha ancora preso piede. THOMY, ad esempio, ogni anno per la sua produzione complessiva necessita di 34 milioni di uova, che vengono deposte da 140’000 galline circa. Per l’allevamento all’aperto di queste galline è necessaria una superficie inerbita pari a circa 56 campi di calcio. THOMY innanzitutto ha dovuto cercare dei fornitori che adempissero questi standard.

PUBLIREPORTAGE

DA PROVARE! Gli svizzeri adorano le uova Ogni anno gli svizzeri consumano in media 170 uova a testa (International Egg Commission, 2015) per un totale di 1,4 miliardi di uova circa. Queste vengono cotte, fritte e integrate in vari altri prodotti alimentari come ad esempio nei prodotti THOMY, di cui ogni economia domestica svizzera in media ne consuma nove all’anno. Ne fanno parte maionese, vari condimenti per insalate e altre salse fredde, che vengono particolarmente apprezzate per accompagnare grigliate o fondue chinoise oppure sotto forma di dip.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Società e Territorio

Profili al femminile

Biografie L’Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino presenta la terza fase della ricerca storica

Tracce di donne, questa volta dedicata al Bellinzonese

Elena Robert Il progetto Tracce di donne sta per completarsi come un gigantesco puzzle, regione dopo regione, funzionalmente all’organizzazione di questa ricerca storica voluta dall’Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino (AARDT), con sede a Melano. Racconta on line la nostra storia al femminile, attraverso una prima scelta di biografie di persone del cui operato tutti dovremmo essere fieri. Vissute nel XIX e nel XX secolo, più o meno note, come protagoniste o in forma discreta hanno infatti contribuito con i fatti alla crescita del cantone in vari ambiti. Una settantina le biografie finora disponibili sul web nel sito www.archividonneticino.ch, a cominciare da quelle del Luganese uscite nel 2014, del Mendrisiotto e Basso Ceresio visibili dal 2015 e tenuto conto dei ventuno profili e delle tre video-testimonianze del Bellinzonese e Valli che stanno per essere messi in rete in questi giorni. Queste storie di impegno educativo, sociale e politico, di creatività letteraria e artistica saranno presentate sabato 15 ottobre alle 16 alla Biblioteca cantonale a Bellinzona (anche su pannelli, esposti tra le 14.30 e le 18). Ne parleranno Renata Raggi-Scala, presidente di AARDT

Manifesto per la parità tra uomo e donna. (AARDT, Fondo E. Degoli)

dal suo inizio nel 2001 e direttrice del progetto, Manuela Maffongelli, responsabile del progetto e Susanna Castelletti, storica. Del gruppo di lavoro che ha concepito Tracce di donne fanno parte anche le giornaliste Lorenza Hofmann (coordinatrice) e Chiara Macconi. Senza il sostegno finanziario di diversi Comuni ticinesi, degli Enti regionali per lo sviluppo, del Percento culturale Migros Ticino, di fondazioni e privati, il progetto sarebbe stato difficilmente realizzabile. Tra un anno il quadro eterogeneo di biografie al femminile del cantone si completerà di profili di donne del Locarnese e Valli. A quel momento saranno più chiari gli intrecci di vissuti, le alleanze, gli scambi di esperienze, i diversi modi di operare sul territorio. In prospettiva, i risultati raggiunti da Tracce di donne fino al 2017 non saranno che il punto di partenza di ulteriori arricchimenti o di ricerche approfondite.

Pioniere nel campo della politica, dell’educazione, dell’arte e del lavoro: sono ora una settantina le biografie di donne ticinesi pubblicate sul web «Ritrovare le tracce lasciate da una persona non è sempre così evidente. Nella costruzione di una biografia andiamo oltre la consultazione dei fondi documentali – ci racconta Andrea Porrini, ricercatore e collaboratore di AARDT – incontrando anche familiari o figli, attraverso le cui testimonianze orali si percepiscono ancora memoria viva, entusiasmo, emozioni. Spesso ci viene segnalata l’esistenza di altre raccolte di documenti, che porta a un benefico effetto domino anche nella ricerca». Dal 2012, con l’avvio del progetto, si è constatata un’impennata di acquisizioni. Oggi gli Archivi dispongono di un’ottantina di fondi su persone e associazioni femminili. Vi lavorano anche

Vendemmiatrici, Bellinzona 1928. (Foto A. Berner in Donne ticinesi. Rievocazioni, 1928)

Manuela Maffongelli, storica, e Giorgia Miceli, segretaria: anche se si avvicendano regolarmente volontarie per ricerche o esperienze di riordino, inventariato, catalogazione, il settore si sta professionalizzando. L’interesse degli utenti si manifesta anche per il fondo librario di AARDT, integrato nella Biblioteca cantonale di Mendrisio. Buona parte dei suoi 6mila volumi si trova solo a Melano: l’insieme contempla saggistica, narrativa e biografie della sfera femminile, per quanto riguarda l’aspetto storico, economico, politico, pedagogico, artistico. L’AARDT ha raggiunto il 15esimo di esistenza nel 2016, un anno già denso di anniversari importanti a livello svizzero per l’universo femminile: i 45 anni dall’ottenimento del diritto di voto e di eleggibilità per le donne sul piano federale, i 35 dall’iscrizione nella Costituzione svizzera dell’articolo sulla parità tra uomo e donna, i 25 dal primo sciopero nazionale delle donne contro il mancato rispetto dell’articolo costituzionale, i 20 anni dall’entrata in vigore della Legge federale sulla parità tra i sessi. L’attività dell’associazione è so-

stenuta dal Cantone e continuerà sulla strada battuta finora, cercando, conservando e valorizzando fondi documentari che riguardano la storia delle donne, con la promozione di ricerche, eventi e pubblicazioni. «L’anno prossimo ci concentreremo ancora su Tracce di donne per la fase conclusiva del Locarnese – ci dice Manuela Maffongelli – anche se l’ambizione è che rimanga un progetto aperto ad ulteriori sviluppi. L’AARDT ha tra l’altro in cantiere per il 2017 un’esposizione sulle Suore Cappuccine dell’ex monastero di S. Giuseppe a Lugano che metterà in luce, anche con una pubblicazione, l’educazione femminile dal Settecento agli anni Duemila». Poi c’è un impegno a lungo termine, che durerà anni: «Stiamo verificando la possibilità di entrare nella rete di Sàmara, – aggiunge Andrea Porrini – il progetto cantonale di unificare e riunire le banche dati di associazioni, biblioteche, archivi. In concreto è la trasformazione dei contenuti dei nostri fondi in una banca dati e la sua informatizzazione nel contesto di Sàmara». Anche le biografie di donne del

Bellinzonese e Valli, quasi tutte vissute nel Novecento, e le video-testimonianze di Maria Luisa Delcò, Germana Gaggetta e Carmen Pronini, raccontano storie di determinazione, dinamismo e genialità in vari ambiti. Spiccano per la loro diversità i vissuti della cantante Anita Traversi, scomparsa nel 1991, voce dell’Orchestra Radiosa, negli anni Settanta «ambasciatrice della musica leggera di casa nostra nel mondo», e della partigiana della Resistenza italiana in Valsolda Lucia Buonvicini: morì accoltellata il 10 maggio 1945, mentre stava raggiungendo Oria dall’Alpe Boglia per riabbracciare i figli minori rimasti in collegio. Nella politica, Dionigia Duchini, scomparsa nel 2006, fu tra l’altro deputata al Gran Consiglio per il PPD e presidente dell’Unione femminile cattolica. Più di 30 anni dedicati alla politica contraddistinsero l’impegno di Carla Agustoni-Pugno, deceduta nel 2007, deputata al GC per il PSA, il PSU e il PS: già negli anni Sessanta fu attiva contro l’armamento atomico, per il suffragio femminile e la decriminalizzazione dell’aborto. Come militante sindacale nella VPOD e nei movimenti femministi va ricordata Nadia CanonicaGuidotti (1943-2011), che lottò contro la violenza domestica e quella sessuale. Nel sociale, ad esempio, Luisa Baggio (1906-2001), diresse Pro Infirmis e fu attiva nella Lega contro il reumatismo; suor Maria Pascalina Hoffmann (19261985) trasformò il Ricovero per l’infanzia von Mentlen a Bellinzona in un istituto sociale. Molte donne furono attive in campo culturale e creativo, tra queste Alina Borioli, cultrice di leggende e usanze della Leventina; Anita Calgari, scrittrice per l’infanzia, ideò la pagina della donna del «Giornale del Popolo»; Laura Gianella, vicedirettrice della Biblioteca cantonale di Lugano; Rachele Giudici, contribuì alla valorizzazione dei costumi ticinesi; Angela Musso-Bocca, scrittrice, sollecitò l’apertura della scuola di lingua italiana della Pro Ticino di Zurigo nel 1919; Rosanna Zeli, fu redattrice del Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana.

I professionisti fanno strada

Formazione Il Centro Migros di S. Antonino ospita i campionati svizzeri degli impiegati del commercio al dettaglio

e la campagna promozionale nazionale sulla formazione professionale superiore Da selvicoltore a maestro falegname, da assistente di studio medico a tecnico di sala operatoria, da elettronico a ingegnere elettrotecnico, da impiegata di commercio a capo marketing: sono solo alcune delle prospettive di carriera suggerite dalla campagna della formazione professionale svizzera voluta da Confederazione, Cantoni e organizzazioni del mondo del lavoro con il sostegno della Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione. Per scoprire Formazioneprofessionaleplus.ch da oggi, lunedì 10 ottobre, fino a sabato 15 ottobre, per la prima volta in Ticino, sarà organizzato un evento presso il Centro Migros di S. Antonino dove nell’atrio principale si potrà visitare uno stand informativo. «Lo scopo è quello di far conoscere i punti forti della formazione professionale, – spiega Sara Rossini della Divisione della formazione professionale del Decs – chi sceglie una formazione duale, cioè un apprendistato, dovrebbe essere consapevole che c’è la possibilità di specializzarsi e di fare carriera. In Ticino queste opportunità sono meno conosciute rispetto al resto della Sviz-

zera, eppure sono formazioni molto interessanti che si basano sull’esperienza maturata nel mondo del lavoro e su progetti concreti. Per questo motivo la formazione professionale superiore si rivolge a giovani adulti e ad adulti, così da poter contare su personale specializzato. La campagna nazionale vuole, infatti, mettere in risalto anche l’importanza economica e sociale della formazione professionale superiore». La campagna cartellonistica esposta a S. Antonino sarà visibile in tutto il cantone dal 10 al 17 ottobre. L’invito è quello di informarsi presso la Divisione della formazione professionale o direttamente presso le rispettive associazioni professionali di categoria. Sono quest’ultime infatti ad occuparsi dell’organizzazione dei corsi di formazione che preparano agli esami federali professionali superiori. È inoltre attivo il sito www.berufsbildungplus.ch dove si possono non solo trovare le informazioni pratiche per quanto riguarda la formazione professionale in Svizzera ma anche delle testimonianze video di chi queste possibilità di carriera le ha già sfruttate.

I cartelloni della campagna ufficiale della formazione professionale saranno visibili da oggi su tutto il territorio cantonale .

Assolvere una formazione professionale di base apre dunque ottime prospettive di carriera, ma anche durante la formazione di base stessa si possono vivere esperienze diverse e grandi soddisfazioni. Una di queste è sicuramente rappresentata dai campionati svizzeri che si svolgono per ogni professione. E proprio il Centro Migros di S. Antonino sabato 15 ottobre sarà anche la sede ufficiale dei campionati svizzeri degli impiegati di commercio al dettaglio per la lingua italiana. I candidati saranno ragazzi del secondo anno di apprendistato scelti dalle scuole professionali di base del cantone tramite una selezione interna e si «sfideranno» in diverse consulenze di vendita con clienti simulati, cioè attori coinvolti per l’occasione, con i quali dovranno parlare in italiano e in una seconda lingua straniera a scelta. Una giuria di esperti sceglierà e premierà i migliori apprendisti. / Red. Informazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Hasta la victoria (quasi) siempre Anni ormai orsono il dibattito antropologico conobbe una felice stagione di confronto sul tema del rapporto fra cultura «dotta» e «cultura popolare». Detto in soldoni: a chi sosteneva che i due ambiti fossero sociologicamente, culturalmente e politicamente distanti ed incompatibili si contrapponevano coloro che invece argomentavano che fra le due sfere vi fossero sì diversità anche importanti, ma anche – e soprattutto – fenomeni osmotici che, nella sostanza, costituivano una certa continuità fra la cultura delle «classi dirigenti» e quella delle «classi subalterne». Per capire i cambiamenti di prospettiva che sono intervenuti in soli trent’anni occorre sottolineare che si dibatteva allora sul rapporto fra cultura «alta» e cultura «bassa» soprattutto da un punto di vista storico, con l’oggetto del contendere costituito in sostanza dalle culture premoderne, e da quella che definiamo «medievale» in particolare. Da allora le cose sono cambiate. Cambiate: ma non nel senso che il problema in questione sia stato

risolto. Nelle scienze sociali, infatti ahimè, i problemi «scientifici» non si risolvono come nelle scienze esatte dove ad un certo punto «la ricerca» decide che X è vero e Y è falso. No, da noi no. Si dibatte e si litiga per un po’, si decide di essere d’accordo sul fatto che non si sia d’accordo, si conclude poco – e poi si passa ad altro e si ricomincia. Nella fattispecie, il problema di cui sopra è stato aggirato con l’elaborazione di un nuovo concetto di cultura che vanifica l’idea che vi siano entro ciascuna formazione sociale dislivelli interni fra quella che fu la «cultura dominante» e la corrispondente «cultura subalterna». Oggi infatti si parla di cultura di massa, nella quale ci sarebbero dentro tutti, ma proprio tutti. Le armi storiche della cultura di massa sarebbero «in principio» i mezzi di comunicazione di massa – radio e tv – e poi via via le globalizzazioni culturali degli iPhone, del web delle app e compagnia. Se quelle sono le armi della cultura di massa, il suo braccio armato è il populismo. Cosa sia di preciso «il populismo» nessuno lo sa per certo,

sì da poterlo prendere per le corna e farsi una botta di conti in tasca. Quel che si sa è che è di moda (della quale si capisce per certo ancor meno): questa è precisamente la sua forza, sfuggente e micidiale. Ma veniamo al dunque: il 9 ottobre 1967 Ernesto Guevara, argentino, al secolo rivoluzionario detto il «Che» perché balbettava intercalando, fu fatto secco a La Higuera, Bolivia, senza processo, da un sergente alcolizzato/ricattato delle forze di sicurezza del governo boliviano imbeccate dalla CIA statunitense dopo uno scontro che le vide opposte ai guerriglieri. Gli stessi che il Che intendeva portare a Bogotà per l’inizio di una nuova era – rivoluzionaria e socialista – di quello che, dopo tutto, era il Paese che portava il nome del libertador Simon Bolivar. Saranno in molti fra i lettori di questa rubrica a ricordare le fotografie del cadavere del Che, un mix fra un San Sebastiano trapassato dai proiettili e un Ecce Homo. Portano alla mente – e senza intenzione alcuna da parte degli autori degli scatti, s’intenda (ma questa

è parte della loro carica iconica) – il dipinto del Cristo Morto del Mantegna della Pinacoteca di Brera. Flash back dall’Omega all’Alfa e torniamo al ritratto fotografico del Che che Alberto Korda scattò il 5 marzo 1960: poche altre immagini entrerebbero d’ufficio in una capsula del tempo da consegnare a futura memoria come esemplificative del XX secolo urbi et orbi. Black and White di Man Ray, Marilyn Monroe di Andy Warhol ne farebbero probabilmente il complemento di un terzetto di icone rappresentative di quanto una buona fetta della popolazione globale potrebbe identificare come appartenente al suo orizzonte culturale. Resta da interrogarsi, nel caso specifico, su cosa abbia reso il Che – rivoluzionario e marxista, partigiano controverso finché si voglia ma certo senza compromessi – una figura buona per tutte le stagioni del populismo oggi dilagante. Magliette, logo, stemmi e bandiere – da Destra a Sinistra: il ritratto mediatico del Che è oggi icona trasversale agli schieramenti ideologici… ma icona

di cosa?! Una notizia del 3 ottobre – verificabile in web – ci dice che Roberto Maroni, Presidente della frontaliera Regione Lombardia, già Ministro dell’interno dello Stato Transalpino e calibro da novanta della Lega Padana, abbia pubblicato sul suo blog il Manifesto dei Giovani della Padania. Il «logo»? Un «manifesto» che reca il ritratto korbiano del Che: lo sfondo è rigorosamente verde, il logocolore della Lega Padana. Lo slogan legge: «La Rivoluzione ha cambiato colore». Miracoli della cultura di massa e del populismo pigliatutto: l’odiato eroe del comunismo d’antan è diventato testata d’angolo. Da Rosso a Verde (di rabbia?). Per suo conto, il Che aveva scritto il suo epitaffio ad una conferenza internazionale dei Paesi del Terzo Mondo tre mesi prima di essere fatto secco: «Ovunque la morte possa sorprenderci, sia benvenuta. Sia benvenuta nella misura in cui qualcuno sia in grado di comprenderne il grido di battaglia e riesca a consegnarlo a chi possa combattere per la libertà». Hasta – e RIP – Comandante.

sembra che, sinora, si sia focalizzata soprattutto sulle sue esigenze. Da quello che mi risulta poi, non sono più soltanto le figlie a gestire i genitori vecchi o malati, vi sono molti figli maschi pronti a prendersi cura di loro, disposti a fare sacrifici per mantenerli e accudirli amorevolmente. Quello che era un dovere femminile viene sempre più spesso condiviso. Non è tanto rilevante quindi l’interesse pratico, quanto la sfera affettiva. Sono convinta che, di fronte a una figlia femmina, suo marito lascerebbe cadere tutte le riserve e si innamorerebbe perdutamente di lei, come tutti i papà. Ma questa previsione non l’autorizza a trascurare il suo divieto. Un figlio si può proporre ma non imporre. L’unica arma che possediamo per convincere gli altri a esaudire i nostri desideri è la parola. Non certo la chiacchiera ma la parola vera, quella capace di comunicare, non soltanto le nostre richieste, ma anche il senso profondo che rivestono per noi. Se

non ci riesce da sola potrebbe chiedere l’aiuto di un parente autorevole o di un amico fidato. L’unica consolazione che posso darle è che, tra non molto, la vostra casa sarà rallegrata dalla presenza delle amiche e poi delle morose dei vostri figli. E che, non tutte, ma qualcuna si farà amare come una figlia. Sempre proiettando lo sguardo verso il futuro, potrà scorgere eventuali nipotine che, le assicuro, costituiscono una delle più grandi gioie della vita. Come non smetto mai di ricordare, la vita ci riserva una seconda e talvolta anche una terza possibilità. Basta saper aspettare.

umano, non deve avere la sensazione di compiere soltanto un sacrificio, bensì di svolgere una funzione che ha un valore concreto e, quindi, ottiene un buono, in base alle ore occupate. Depositati nella Banca del tempo, questi buoni compongono un capitale, sempre sotto forma di ore, che, a sua volta, l’anziano di domani potrà riscattare. Come spiega l’inventore: «Un’ora rimane sempre un’ora, non subisce l’inflazione e non produce interessi». Della proposta Kock, paragonata a un quarto pilastro nell’edificio, oggi traballante dello Stato sociale, si è parlato anche in Svizzera. Come si leggeva, recentemente sul «Tages Anzeiger», nella prossima sessione invernale, le camere federali affronteranno proprio l’iniziativa «Zeitvorsorge» (Riserve di tempo), inoltrata, l’autunno scorso, da un gruppo di lavoro di San Gallo, dove il sistema è già in funzione, sia pure su scala ridotta. Potrà, poi, essere allargata? Qui si tocca una questione di mentalità,

di sensibilità, di educazione familiare, di condizionamento ambientale che influiscono sui comportamenti di fronte al gesto di donare: vissuto come obbligo o piacere. Eccoci, appunto, a scegliere fra il denaro e il tempo, o l’oggetto che, a sua volta, implica del tempo. Sta di fatto che il dono può diventare un indizio rivelatore, lo specchio delle intenzioni di chi lo fa verso chi lo riceve, a seconda delle forme che assume. C’è regalo e regalo: esibizionista, ricattatorio, spontaneo, toccante, utile, balordo, sconcertante: insomma, anche donando si corrono rischi. E, allora, per evitarli, c’è chi ricorre ai contanti, infilati in una busta, o al buono acquisti. Una scelta ragionevole che, però, significa una scorciatoia: comprati tu quel che ti pare. Mentre il bello del regalo sta proprio nell’imbarazzo di scegliere la cosa giusta, pensando alle aspettative del destinatario, procurandogli una sorpresa. Insomma, dedicandogli un po’ del nostro tempo.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Il desiderio di una figlia Cara Silvia, mi rivolgo a lei perché nessuno comprende a fondo la mia angoscia. Dovrei essere soddisfatta di quello che ho: un bravo marito, due bambini deliziosi, di dodici e dieci anni, una bella casa, una condizione economica tranquilla. Invece sono tormentata dal desiderio di avere, dopo i due maschietti, una figlia femmina. M’immagino come sarebbe bello crescerla, come la sentirei vicina e quanto mi sarebbe d’aiuto durante la vecchiaia. Invidio la mia vicina che ha due figlie che, pur essendo sposate con bambini piccoli, sono piene di premure per lei. Mi sento ancora giovane e forte per affrontare una terza gravidanza ma, c’è sempre un ma, mio marito non ne vuol sentir parlare. Dice che due figli maschi, soprattutto durante l’adolescenza, ci impegneranno completamente e che una sorellina piccola resterebbe in disparte, un’appendice rispetto al resto della famiglia. Cosa posso fare? Rinunciare o insistere? / Susanna

Cara Susanna, le donne sono vissute, per secoli, sotto il segno dell’obbedienza, prima al padre poi al marito. Era quest’ultimo a decidere quanti figli avere, anche mettendo a rischio la vita della moglie. Per fortuna non è più così. Sappiamo che si diventa soggetti solo riconoscendo i propri desideri e cercando di realizzarli con responsabilità, tenendo conto dei bisogni e dei desideri degli altri. Il desiderio di avere una bambina, in mancanza di ostacoli obiettivi, coinvolge soprattutto il rapporto con suo marito, cui non puoi imporre una paternità non voluta. Ma, allo stesso tempo, non è giusto che condanni sé stessa a una rinuncia così dolorosa senza provare a convincerlo. Purtroppo i conflitti psicologici sono molto più ardui da gestire di quelli oggettivi. Ma non per questo vanno soffocati. Non conosco le vostre vite, ma è probabile che l’intransigenza dimostrata da tuo marito sia motivata, tra

l’altro, da un trauma infantile. Può darsi che la nascita di una sorellina lo abbia spodestato dal ruolo di primogenito o che, crescendo, gli abbia fatto ombra. Ora, ponendosi dal punto di vista dei figli, la sente come una minaccia al loro futuro. In realtà non credo che i due ragazzi sarebbero turbati più che tanto da un altro fratello. Uso il maschile per ricordarle che non può essere sicura che nascerebbe una bambina piuttosto che un terzo maschietto. In questo caso sarebbe pronta a superare la frustrazione di un desiderio irrealizzato e, a quel punto, difficilmente riproponibile? La famiglia non è la somma dei suoi membri ma un sistema complesso dove basta introdurre o spostare una pedina perché cambi la scacchiera intera. Credo che, dopo aver dato voce al suo desiderio, debba interrogare quello degli altri. Ne ha parlato a fondo con suo marito e con i ragazzi? È in grado di comprendere le loro posizioni? Mi

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Donare: questione di soldi o di tempo? In fatto di primati la Svizzera non scherza. Non solo figura in testa alle classifiche mondiali per la tecnologia di punta e l’intraprendenza innovativa, ma ecco che, secondo uno studio dell’università di San Gallo, si afferma anche nell’ambito umanitario. Alla faccia dei luoghi comuni sulla tirchieria elvetica, i nostri concittadini si confermano campioni di generosità in occasione delle raccolte di fondi per aiutare popolazioni colpite da catastrofi naturali, guerre, pandemie, povertà estreme. Versare 20, 50, 100, e più franchi è diventato ormai un automatismo, che ha persino un risvolto morale: un modo comodo per mettersi la coscienza a posto. Fino a un certo punto, però. Rappresenta, infatti, una scappatoia: donando soldi si evita di donare tempo. Proprio qui gli svizzeri, ma è un tratto comune alle popolazioni dell’occidente benestante, si dimostrano meno disponibili. Come dire, nei confronti del tempo, moneta preziosa da non sprecare,

si fanno bene i propri conti. Con effetti sempre più percettibili sul piano sociale. Di quest’operazione risparmio fanno, appunto, le spese categorie di persone per le quali ricevere il dono del tempo altrui può essere un toccasana. Si tratta soprattutto di anziani, di invalidi parziali, di marginali recuperabili che, grazie all’intervento di giovani o di pensionati efficienti, sarebbero in grado di condurre un’esistenza pressocché normale, a casa

propria, una sorta d’indipendenza assistita. Evitando, o rimandando, l’ingresso in una casa di riposo. Con ciò, malgrado le apparenze, anche in una Svizzera patria della tradizione filantropica, i volontari scarseggiano. E allora come colmare questo vuoto motivando i giovani a dedicarsi ai vecchi? Una soluzione l’ha proposta, e con successo, Karl Heinz Kock, un ingegnere di Colonia, per il quale, cinque anni fa, il pensionamento segnò una svolta culturale e professionale: dal settore dell’automobile all’impegno sociale. Di fronte ai costi provocati dalla longevità, elaborò un progetto, ispirato a modelli analoghi che già funzionano, negli USA, in Gran Bretagna e in Giappone: consiste nella cosiddetta «Banca del tempo». Per spiegarci, il giovane che fornisce una prestazione a un anziano, accompagnandolo a fare la spesa, trasportandolo in auto, aiutandolo nei lavori in giardino, e via enumerando forme di contatto


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Ambiente e Benessere Salone dell’auto di Parigi Temi chiave: la digitalizzazione e l’elettrificazione; presenti sia novità sia top manager

Reportage dal Bhutan Un viaggio nella terra himalayana protetta dal «fulmine di fiammeggiante saggezza» pagina 17

Bacco made in USA Introduzione ai vini dell’America del Nord, quarto maggior produttore a livello mondiale

Non solo coccole ai cani Dovrebbero bastare buonsenso, rispetto e un po’ di educazione, ma non è sempre così

pagina 19

pagina 15

pagina 21

Scarlett Johansson nella veste di Lucy, la protagonista dell’omonimo film di Luc Besson. (oorlandoo.it)

Le sostanze nootropiche e la cultura digitale

Neuroscienza Nell’era del biohacking il cervello è diventato un organo da manipolare Lorenzo De Carli Distribuito nel 2014, interpretato da Scarlett Johansson, Morgan Freeman e Min-sik Choi, Lucy di Luc Besson è un film utile per comprendere le aspettative che stanno orientando la ricerca dedicata ai nootropi, quelle sostanze – note anche come smart drugs e smart nutrients – che hanno la prerogativa di potenziare le capacità cognitive del cervello. Lucy è costretta a svolgere il ruolo di corriere della droga. A tale scopo, una banda di criminali le impianta nell’addome una serie di sacchetti contenenti una sostanza denominata CPH4, la versione sintetica di un enzima che le donne in gravidanza producono per avviare lo sviluppo del feto. La protagonista acquista straordinarie doti mentali e fisiche quando, lacerandosi i sacchetti, la sostanza contenutavi viene assorbita dal suo corpo. La metamorfosi è rapida e profonda. Sbarazzatasi della banda che l’ha vessata, torna a casa e in pochi minuti memorizza tutti gli scritti di un noto neuroscienziato: Samuel Norman. Il montaggio parallelo del film mostra da un canto le vicende di Lucy, dall’altro una conferenza di Norman, il quale dichiara che i membri della nostra specie usano solo il dieci per cento delle loro capacità cerebrali e che, avessero accesso all’estesa parte restante, si sco-

prirebbero dotati di poteri inimmaginabili. Quando le due linee di sviluppo narrativo s’incrociano, Lucy dichiara al professor Norman che la sostanza assimilata dal suo corpo le sta facendo fare l’esperienza prefigurata dai sui studi ma che, tuttavia, sa che avrà vita breve. A Parigi, assimilata un’altra dose di CPH4, Lucy compirà un viaggio nel tempo e nello spazio, nel corso del quale – interfacciatasi con la rete computazionale dell’Università – acquisirà conoscenze, che trasmetterà al professor Norman per mezzo di una chiavetta USB. I tre temi principali del film sono l’esistenza di sostanze in grado d’incrementare le nostre capacità cognitive, il funzionamento del cervello e il rapporto con l’informatica. Non è un caso che di smart drugs si è cominciato a parlare alcuni anni fa, in particolare nella comunità degli sviluppatori di software. In questo ambiente le «droghe 2.0» hanno potuto attecchire per due motivi: anzitutto per l’ovvia ragione che uno stile di produzione che non conosce distinzione tra lavoro e tempo libero è terreno fertile per coltivare l’uso di sostanze capaci d’incrementare con l’attività cognitiva anche i profitti; in secondo luogo anche per la meno esplicita ragione che una componente importante della cultura digitale è la pratica dell’hacking, vale a dire l’insieme delle attività utili per co-

noscere e modificare hardware e software. È in questo contesto, mentre la pratica dell’hacking cominciava a sconfinare anche nell’ambito biologico, che le smart drugs sono state recepite come sostanze in grado di estendere la pratica dell’hacking anche al proprio cervello. Le sostanze nootropiche rilasciano agenti neurochimici – in generale neurotrasmettitori, enzimi oppure ormoni – in grado d’incrementare l’apporto di ossigeno al cervello, oppure di stimolare la crescita dei neuroni. L’elenco di queste sostanze è molto lungo e alcune sono contenute in alimenti al di sopra di ogni sospetto, come l’olio di pesce, i mirtilli, il tè verde, il cacao, ecc.; ma quelle più usate sono presenti in medicamenti che la ricerca farmaceutica ha sviluppato per aiutare i pazienti affetti da malattie degenerative come l’Alzheimer o il Parkinson. I nootropi agiscono incrementando il livello dei quattro neurotrasmettitori più importanti del nostro cervello: acetilcolina, dopamina, norepinefrina e serotonina. I nootropi colinergici, per esempio, aumentano la disponibilità di acetilcolina, elemento fondamentale per la memoria e la concentrazione. Inoltre è utilizzata dal nostro cervello quando impegnato in processi come il pensiero astratto, il calcolo oppure nelle attività creative. Non c’è azienda produttrice di

supplementi alimentari che non abbia in catalogo questo tipo di nootropo, di solito nella forma dei precursori dell’acetilcolina o della colina, come per esempio gli aminoacidi Acetil-L-carnitina o Alpha-GPC. Di questa stessa classe fa parte il primo e più usato medicinale nootropo, il Piracetam, acquistabile solo con ricetta in Europa, liberamente disponibile negli Stati Uniti. I nootropi però non vengono solo classificati in funzione dei neurotrasmettitori con i quali interagiscono, ma anche in base agli effetti desiderati. Così, mentre l’estratto dell’erba Bacopa monnieri viene usato per migliorare memoria e concentrazione, quello dell’erba Ashwagandha è usato come tonificante per normalizzare il metabolismo e ridurre il livello di ansia e stress. I siti web dedicati a quella forma di biohacking estesa fin dentro il proprio cervello non mancano, così come si stanno moltiplicando le formulazioni di supplementi alimentari con effetti nootropici. Il rischio per la salute è elevato. Se pure la conoscenza del cervello sta facendo rapidi progressi, si tratta comunque di un organo troppo complesso per avere l’illusione di poterlo modificare a piacimento come se fosse un hardware informatico. Ma c’è dell’altro, oltre agli effetti collaterali del biohacking prodotto con

i nootropi: c’è l’illusione che noi saremmo gli «utenti» del nostro cervello, quelli – per così dire – seduti alla cabina di comando. Questa illusione è alla base di Lucy. Sia la protagonista, sia il neuroscienziato, sono convinti non solo di essere gli utenti del loro cervello, ma di poterne usare in proporzioni variabili. Da una prospettiva evoluzionista, è un grave errore epistemologico. A parte il fatto che la selezione naturale è caratterizzata dall’estrema parsimonia e che dal suo «setaccio» non «passano» organi o tessuti inutili, nel corso della nostra storia evolutiva, il nostro cervello non è diventato sempre più grande e sempre più complesso perché noi ne potessimo disporre a piacimento. È vero tutt’al più il contrario, ovverosia che quell’entità che chiamiamo «io» è emersa a mano a mano che il cervello diventava più complesso, e che è emersa perché «tratto» utile alla nostra sopravvivenza. Come ben dimostrano gli studi di Nicolas Numphrey, la coscienza è un’utile illusione cognitiva, ma, proprio in quanto tale, è un fenomeno emergente del cervello. Il rischio che corriamo con il biohacking è proprio quello di compromettere il funzionamento di quell’organo che ci permette di dire «io», – il rischio di tagliare il ramo su cui sediamo.


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Ambiente e Benessere

Auto digitali ed elettriche alla ribalta a Parigi

Notizie scientifiche Medicina e dintorni Marialuigia Bagni

Motori Molte anticipazioni futuristiche al Salone mondiale dell’automobile nella capitale

Lavare i denti può non bastare L’ultimo lavaggio dei denti non evita i danni da zuccheri. Tutto ciò che mangiamo influenza la salute dei denti. Secondo la piramide odonto-alimentare della Sido (la società che riunisce gli studiosi di odontoiatria), bevande zuccherate, cibi acidi (agrumi o aceto) e dolci favoriscono la carie in presenza di placca batterica. Fra gli alimenti anticarie ci sono frutta fresca, frutta secca a guscio, latte e formaggi stagionati che promuovono la crescita di batteri benefici. Gli zuccheri tornano sui denti anche un bel po’ dopo aver mangiato.

francese prossimo alla chiusura dell’edizione 2016 Mario Alberto Cucchi Tra pochi giorni, domenica 16 ottobre, si spegneranno i riflettori all’interno del Salone Mondiale dell’automobile di Parigi (www.mondial-automobile. com). Assenti molte Case, soprattutto premium e del lusso come Rolls-Royce, Bentley, Lamborghini e Aston Martin, ma anche Ford, Volvo e Mazda. Tuttavia la Porte de Versailles ha visto il pieno di presenze sia di novità che di top manager. Temi chiave del Salone sono quelli della digitalizzazione e dell’elettrificazione delle auto. Automobili al cento per cento elettriche con un’autonomia superiore ai 400 chilometri come la nuova Opel Ampera-e non si erano mai viste prima.

Il piccante salva-vita Mangiare piccante «salva» la vita. Lo afferma l’Accademia cinese di scienze mediche. Peperoncino, curry, zenzero, curcuma sono spezie che non solo insaporiscono i piatti, ma riducono del 14 per cento il rischio di malattie che conducono alla morte, se utilizzate almeno quattro o cinque volte alla settimana, e soprattutto se non si bevono alcolici. La studio è stato pubblicato sul «British Medical Journal».

«Generation EQ» coniuga i quattro valori di Mercedes Benz: guida autonoma, condivisione connettività ed elettricità Molta curiosità per I.D., l’attesissima concept che Volkswagen ha presentato in anteprima mondiale alla rassegna parigina. Un prototipo che anticipa una futura generazione di vetture Volkswagen a propulsione elettrica sviluppate sulla piattaforma dedicata MEB del Gruppo tedesco. Volkswagen promette che il lancio commerciale della vettura di serie avverrà nel 2020 assieme a quello della Golf e che cinque anni dopo il modello sarà disponibile anche con la guida autonoma. Quindi nel 2025, anno in cui Volkswagen conta di vendere un milione di veicoli elettrici. I.D. è un Zero Emission Vehicle e utilizza un motore elettrico da 170 cavalli in grado di consentire una percorrenza da 400 a 600 chilometri con batteria completamente carica. L’Amministratore delegato del gruppo auto-

La Generation EQ.

mobilistico tedesco, Matthias Müller, ha annunciato la nascita di un nuovo brand che avrà una società ad hoc con sede a Berlino e che sarà dedicato espressamente alla mobilità del futuro. Marchio che sarà dunque specializzato in servizi di ride sharing, app e successivamente anche in flotte autonome. La società (il nome sarà svelato il prossimo mese di novembre) sfrutterà la partnership strategica con Gett, app israeliana per pronotazione dei taxi, e punta a diventare leader in Europa. Tra le più ammirate del Salone, la Ferrari GTC4Lusso T, prima quattro posti con motore V8 Turbo. «Il sound è ancora un forte motivo d’acquisto delle

vetture Ferrari e per questo motivo non è prevista una supercar full electric. L’ibrida sì, e già c’è». Con queste parole il responsabile commerciale e marketing della Casa di Maranello, Enrico Galliera, ha ribadito che nel futuro di Ferrari non ci sarà spazio per una vettura totalmente elettrica. Strategia differente per MercedesBenz che a Parigi ha presentato Generation EQ. «Per Mercedes-Benz, la mobilità del futuro si basa su quattro valori: connettività, guida autonoma, condivisione ed elettricità. “Generation EQ” è tutto questo», ha dichiarato Dieter Zetsche, Presidente del Consiglio direttivo di Daimler AG.

«Le automobili a emissioni zero sono il futuro. Il nostro nuovo marchio EQ va ben oltre l’automobile elettrica e racchiude un ampio ventaglio di servizi, tecnologie e innovazioni che ruotano intorno al mondo della mobilità elettrica». Per il prototipo Mercedes a emissioni zero mostrato a Parigi i numeri sono da capogiro: due motori elettrici che offrono una potenza massima di 300 kW, trazione integrale permanente e autonomia di 500 chilometri. Link

www.mondial-automobile.com

Cammina che si ricarica Si può ricaricare il cellulare anche semplicemente camminando. Ricercatori statunitensi del Mit di Boston hanno sviluppato una batteria capace di ricaricarsi grazie all’energia meccanica prodotta da piccoli movimenti, come quelli di una semplice passeggiata. Questa batteria potrebbe trovare applicazione nei cellulari, ma, essendo piccola e flessibile, potrebbe essere utilizzata anche per ricaricare dispositivi biomedici o sportivi. Il batterio mangia-plastica Esiste un batterio che «mangia» la plastica. Ricercatori dell’Istituto per la Tecnologia di Kyoto, in Giappone, hanno scoperto nel batterio «Ideonella sakaiensis» due enzimi, di cui uno totalmente nuovo, che si attacca specificamente alla plastica, mentre l’altro ne facilita il deterioramento, riducendola in piccoli frammenti. Le due proteine sono prodotte solo da questo batterio, in presenza di materiale plastico e sono in grado di degradare le bottiglie per l’acqua in qualche mese, mentre, normalmente, occorre più di un secolo. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Bhutan: cani, yak e molti spiriti Reportage Un Paese incastonato sul versante sud della catena himalayana tra maestose montagne e torrenti

Nadia Ticozzi Quando cala la notte a Thimphu insieme alla luna si alza nel cielo il latrato dei cani. È la ninna nanna himalayana che ogni sera accompagna bhutanesi e turisti lungo la morbida china del torpore. Oppure lì li trattiene, appena al di sopra della superficie del sonno, con la complicità dell’altitudine, se si tratta dei citati turisti che ancora devono abituarsi alle quote di tali maestose montagne. Questo concerto è la prima accoglienza della grande comunità del Bhutan, che include non solo gli umani con i loro animali domestici, in questo caso anche mucche e yak, ma pure l’infinità di spiriti che hanno influenza sugli umori dei pendii montuosi e delle acque dei torrenti, e che vanno rispettati e consultati se si desidera realizzare delle costruzioni. I cani, dicevamo, a notte si riuniscono nelle vie per onorare con un canto i loro padroni: il cielo e la terra. Durante il giorno nella capitale spesso sonnecchiano acciambellati nel mezzo delle due corsie, incuranti e fiduciosi dello scorrere tranquillo delle automobili. Oppure accompagnano per un tratto chi vuole fargli una carezza, per lasciarlo quando le strade si divideranno, anche solo pochi metri più in là, con l’assoluta certezza che pure del cibo gli verrà dato da qualcuno. I Bhutanesi condividono generosamente ciò che hanno, compresi gli spazi. Le strade non appartengono solamente agli umani. Ai bordi delle carreggiate s’incamminano, oltre a uomini, donne e bambini, intere famiglie di bovini che pascolano senza la necessità di un pastore: semplicemente, a sera torneranno verso casa. Il loro pascolo è il Bhutan. La gestione della convivenza in questo Paese, incastonato sul versante sud della catena himalayana, riguarda tutti gli esseri senzienti, compresi gli spiriti.

Al proprio arrivo il turista incapperà in un’immagine del tutto insolita alle nostre latitudini, se escludiamo il luogo in cui potremmo trovarlo rappresentato, ossia i muri dei bagni pubblici. Il pene viene dipinto sulle pareti esterne delle case come elemento di protezione dai demoni, alla vista del quale questi dovrebbero desistere da qualsivoglia pessima intenzione e fuggire spaventati. Ciò che affascina, andando a ritroso nel tempo per conoscere le origini di questa tradizione, è scoprire che il Bhutan nel 14mo secolo ebbe il suo Diogene di Sinope, il suo Socrate pazzo: Drukpa Kuenley, monaco buddista illuminato originario del Tibet, visse tra il 1455 e il 1570 e incarnò il buddismo tantrico. Questa forma di buddismo fu diffusa già dall’ottavo secolo in Bhutan da Guru Rinpoche, conosciuto anche come Padmasambhava e considerato il secondo Buddha. Drukpa Kuenley si recò in Bhutan dopo aver deciso la direzione da prendere scagliando una freccia e seguendo poi la via indicata da essa. I devoti lo chiamano il «pazzo divino» a causa del suo «oltraggioso e non convenzionale modo di insegnare». Così recita il cartellone esplicativo presso il tempio Chime Lhakhang a Punakha, dedicato a questo insolito lama. Egli si «aggirava per la campagna con le parvenze di un vagabondo, indulgendo in canti e danze, in sesso e alcol». Con questi suoi modi egli intendeva criticare l’ipocrisia sottesa a ciò che è considerata la norma e le istituzioni che tali regole emanano, compreso il corpo monastico. Il dipinto del suo fallo, detto «fulmine di fiammeggiante saggezza», simboleggia il disagio che la società prova quando si trova confrontata con la verità. Altresì, il nostro imbarazzo occidentale di fronte a tal simbolo rappresenta la vergognosa verità che senza sesso non

Il fallo del santo Drukpa Kuenley, soprannominato «il pazzo divino». (Nadia Ticozzi)

A destra, la statua che ritrae il Buddha Dordenma (alta 51,5 metri), a sud della capitale Thimphu. Sopra, lo Dzong di Punakha, sede amministrativa del governo fino al 1955. (Nadia Ticozzi)

c’è futuro. Quest’organo infatti è rappresentato anche come sacro di per sé, in quanto portatore di vita. Nel mese di novembre, nella regione del Bumthang, vi è il festival Jampa Lhakhang Drub, che si svolge sull’arco di tre giorni. Durante il festival, allo scoccare della mezzanotte e alla sola luce di un falò, compaiono i danzatori della danza sacra degli uomini nudi, la «naked dance». Questi uomini ballano senza vestiti, la sola parte del corpo ricoperta è la testa, avvolta in un panno bianco. Gli atteggiamenti osceni dei danzatori, che si esibiscono in onore del «pazzo divino», provocano spesso l’ilarità del pubblico. A causa delle indecenze rappresentate per alcuni anni questo spettacolo fu vietato, ma una serie di catastrofi naturali portò il governo a rivedere la propria decisione: la lettura dell’oroscopo da parte di un lama aveva visto in questi disastri la conseguenza

della scelta di vietare la danza sacra degli uomini nudi. Evitare di scatenare l’ira delle entità spiritiche presenti sul territorio, ereditate dalla religione precedente al buddismo, il Bön, è una preoccupazione costante per un abitante del Bhutan e per il governo stesso. La gestione del Paese è demandata a due istituzioni, il governo e il corpo dei monaci, che si occupa esclusivamente delle questioni spirituali e ai cui componenti si fa divieto di candidarsi alle elezioni. Prima di realizzare qualsiasi tipo di costruzione, un lama officerà un rituale di richiesta alle entità che abitano il luogo dove si desidera edificare, per domandare loro di lasciare spazio sufficiente e di non interferire. Il governo stesso deve rispettare queste tradizioni. In progetto vi era la realizzazione di una strada in luoghi remoti e difficilmente raggiungibili, un’opera che sarebbe an-

Incenso in vendita: da bruciare al passaggio di persone importanti. (Nadia Ticozzi)

data a tutto vantaggio dei cittadini. La popolazione invece si oppose, poiché la costruzione avrebbe disturbato uno spirito abitante in una roccia di grandi dimensioni e che andava lasciato in pace, pena la catastrofe. La strada non fu costruita. Questa sorta di «ingegneria spirituale» si rivela una forma di protezione per la gente comune, che così risulta in buona parte protetta dagli abusi edilizi e da un eccesso di cementificazione che porterebbe a uno squilibrio tra uomo e natura. Questa nazione arroccata sui fianchi della catena montuosa più maestosa del pianeta si è aperta al resto del mondo e alla modernità solamente intorno agli anni 70, grazie alla politica lungimirante del quarto re, sua maestà Jigme Singye Wangchuck. Jigme Khesar Namgyel Wangchuck è invece il nome dell’attuale re del Bhutan, il quinto, figlio del precedente che in età ancora giovane ha abdicato in suo favore. Il quarto re del Bhutan è amatissimo dal suo popolo per molti motivi tranne uno: nel 2006 il quarto re annunciò al parlamento che il potere sarebbe stato trasmesso al popolo e che così sarebbe stata stabilita la democrazia. Per la prima volta dalla sua creazione l’Assemblea Nazionale del Bhutan respinse all’unanimità la proposta del re. Questa fu anche la prima volta nella storia del Paese che il re usò il proprio potere di veto e a sua volta respinse il rifiuto dell’Assemblea Nazionale imponendo la sua decisione. Le prime elezioni nel Paese sono state condotte nel 2008 e a oggi la popolazione ancora deve abituarsi al sistema democratico, nei confronti del quale è tuttora riluttante.


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Ambiente e Benessere

La pizza s’impreziosisce

Gastronomia Sempre più amata in tutto il mondo, la tradizionale specialità napoletana d’origine araba

si presta a mille trasformazioni

Allan Bay La pizza è un argomento «caldo». Per tre motivi: 1. La conoscono tutti e quando se ne parla, tutti se ne interessano. 2. Soprattutto per merito degli americani, è un piatto-mondo, onnipresente, forse anche più dell’hamburger. 3. Specialmente in Italia, ma non solo, c’è una grande crescita della pizza di qualità, nel senso che viene sempre più arricchita con ingredienti preziosi che la nobilitano.

Giunta a Napoli nel Cinquecento, prende la sua forma attuale, con pomodoro e mozzarella, soltanto nel 1889 La pizza, nelle sue diverse versioni, è presente dovunque si coltivi il grano. È una focaccia lievitata monoporzione, rotonda, piatta, alta di più o di meno, preparata con farina di frumento e condita con una ricca varietà di ingredienti, salati (ma anche dolci) che viene infine cotta brevemente in forno. A volte è anche rettangolare e cotta, sempre in formato pluri-porzione, al trancio, in una teglia unta: in questo caso i puristi dicono che se si usa olio si dovrebbe chiamare focaccia e non pizza, noi che puristi non siamo chiediamo solo che sia buona. Tonda o rettangolare che sia, resta a base di ingredienti poco costosi, di conseguenza è sempre stata e continua a essere il cibo popolare, di strada per eccellenza. Il nome deriva da pita, termine condiviso da greci, ebrei e arabi. È il pane soffice dei nostri vicini, a volte condito a volte no. Nel Cinquecento arriva a Napoli, dove si acclimata alla grande, al punto da diventare il piatto simbolo di quella tradizione, anche più della pasta. Oltre che a Napoli, la pita ha dato origine anche ad altre tradizioni: come la pizza di patate pugliese; la bassa pizzalandrea della costa ligure, variante della pro-

venzale pissaladière; o la alta, come lo sfinciuni siciliano. Ma il cuore è sempre stato sotto il Vesuvio. Nella città partenopea si sposa, a fine Ottocento, col pomodoro, formando un solidissimo matrimonio d’amore e d’interesse. Poi arriva un terzo incomodo: la mozzarella fiordilatte. L’aggiunta della mozzarella risalirebbe al 1889, quando il pizzaiolo campano Raffaele Esposito elaborò questa sua creazione intitolandola alla regina Margherita di Savoia. È allora che nasce la pizza come la conosciamo oggi. Resta circoscritta a Napoli fino a questo secolo e non diventa popolare in tutta Italia sino a dopo l’ultima guerra: la prima pizzeria a Milano data 1955. Oggi, noi italiani la amiamo alla grande: si calcola che mangiamo ben tre miliardi di pizze all’anno fuori casa. Ma anche in casa, grazie al boom di quelle surgelate e alla pasta pronta da guarnire a piacimento. Poi la scoprono gli americani: nel 1958 nasce Pizza Hut, che la propone oggi in più di 11mila ristoranti nel mondo: altre catene di pizza prosperano anche loro. All’estero la propongono sempre più alta, sempre più condita, spesso molto ricca, tanto da venir considerata un vero piatto unico. Tale è il successo, che non solo negli Stati Uniti ma in molte parti del mondo viene considerata un’invenzione americana… Succede, meglio riderne che arrabbiarsi, però, perché la cucina è un immane melting pot (minestrone) delle più disparate tradizioni: tutti copiano e tradiscono, ma è giusto così. Le varianti italiane e internazionali sono infinite. Dobbiamo preoccuparci per questo? Assolutamente no. I nostri avi hanno avuto il coraggio di aggiungere alla loro pizza un esotico frutto americano, il pomodoro: il pubblico ha apprezzato ed è diventato subito «tradizione», che si sa è un’innovazione di successo. Quindi non dobbiamo soffrire se vediamo aggiungere cose strane sulle nostre amate pizze: sarà poi il mercato a decidere quanto valgono.

CSF (come si fa)

Molte ricette si chiamano: «qualcosa alla paesana». Questa espressione viene usata nei ricettari e nei menu per indicare genericamente un piatto genuino e rustico, di origini campagnole, un po’ come una volta: ed è un termine che comunque piace a tutti, che, si sa, le nonne erano bravissime a cucinare, per definizione… Vuole

anche indicare, come traduzione del francese paysanne, un misto di verdure (patate, carote, rape, cavoli) tagliate a pezzetti di un centimetro per lato, sbollentate e utilizzate per arricchire piatti vari, minestre, fondi di cottura e guarnizioni. Vediamo come si fanno due straclassici «piatti alla paesana». Riso alla paesana. Per 4 persone. Sgusciate 400 g circa di fave fresche. Lavate, spuntate e tagliate a dadini 1 zucchina. Preparate 200 g di dadolata di pomodori. Mettete le verdure in una casseruola con 1 carota, 1 cipolla e 1 gambo di sedano tagliati a dadini, 50 g di pancetta tagliata a cubetti e cuocete a fuoco basso per 10’, mescolando. Unite 150 g di pisellini freschi e 300 g di riso Carnaroli. Portate il riso a cottura aggiungendo acqua bollente o brodo vegetale bollente, 1 mestolo alla

volta e lasciandolo alla fine più o meno brodoso a piacere. Condite il riso con abbondante grana grattugiato, regolate di sale e di pepe e servite. Filetto alla paesana. Per 4 persone. Tagliate a dadini e sbollentate: 2 patate medie, 1 carota, 1 gambo di sedano, 1 zucchina, 1 pezzo di melanzana, 1 rapa, 1 piccolo peperone e altro a piacer vostro. Sbucciate e tagliate a velo 1 cipolla. Scaldate in una padella poco olio e rosolate la cipolla per pochi minuti, mescolando, poi unite le verdure e cuocetele per 2’, sempre mescolando, di seguito regolatele di sale, di prezzemolo e di peperoncino. In una padella scaldate poco olio e saltate 4 filetti da 150 g l’uno 1’ per parte, o poco più se li amate più cotti. Metteteli in una teglia, copriteli con la dadolata e passateli per 10’ in forno a 90°, quindi serviteli.

Ballando coi gusti Oggi due dolci veramente facilissimi e che fanno contenti tutti. Leggero il pan di Spagna, mentre il salame di castagne è molto nutriente ma se avanza non preoccupatevi: si conserva bene in frigorifero.

Dolce di pan di Spagna e frutta

Salame di castagne

Ingredienti per 4 persone: pan di spagna pronto · 600 g di ricotta · frutta di stagione a piacere · vino bianco dolce · panna fresca · burro.

Ingredienti per 4 persone: 800 g di castagne spellate · 150 g di cioccolato fondente · 150 g di zucchero · 150 g di burro · vino dolce.

Prendete 200 g di frutta a piacere, mondatela, tagliatela a dadini e fatela saltare con poco burro in una padella per pochi minuti. Poi frullatela e fatela raffreddare. Setacciate la ricotta e incorporatevi la frutta cotta e poco vino. Ricavate dal pan di Spagna 3 dischi dello stesso spessore oppure 12 dischi di dimensione da dolce individuale. Spalmate la crema su due dei dischi e sovrapponete le tre basi per formare un’unica torta. Se i dischi sono dodici, fate 4 dolci più piccoli. Servite decorando con panna montata e frutta fresca.

Fate bollire le castagne per 30’ poi scolatele e frullatene 4 quinti. Le altre spezzettatele con un coltello. Sciogliete il cioccolato tagliato a scaglie a bagnomaria bagnandolo con poco vino; sempre a bagnomaria sciogliete il burro. Unite alla purea di castagne le castagne tritate al coltello, il burro fuso, lo zucchero e il cioccolato sciolto. Mescolate bene e lasciate raffreddare il composto perché si rassodi. Dategli una forma cilindrica, avvolgetelo in alluminio per alimenti e fatelo riposare in frigorifero per mezza giornata prima di servirlo.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Ambiente e Benessere

Il quarto maggior produttore di vino Davide Comoli Si racconta che fu l’esploratore vichingo Leif Erikson, sbarcato nel golfo della Terranova intorno all’anno mille che, dopo aver notato l’abbondanza di viti selvatiche, chiamò questa terra sconosciuta «Vinland». È certo che già nel XVII sec., la vite selvatica cresceva in modo rigoglioso sulla costa est dell’America del Nord, dalla Georgia al Canada. A metà del Seicento, le missioni Gesuite producevano del vino nel Québec così come i Francescani lo facevano nel Nuovo Messico lungo le rive del Rio Grande. Queste viti selvatiche che ricoprivano la costa atlantica erano specie di vitis labrusca. Il vitigno più famoso tra questi è il Concord, un vitigno a bacca rossa sviluppato da Ephraim Wales Bull della città di Concord nel Massachusetts. Questo vitigno robusto e resistente alle malattie fu poco a poco impiantato in tutta la Nuova Inghilterra e nel Middle West. Nel Grande Sud, un’altra specie indigena, vitis rotundifolia, fu invece la madre di un vitigno a bacca bianca chiamato Scuppernong, coltivato in Carolina e Florida e un po’ più tardi nel Mississippi e Stati attigui. Le prime notizie di industrie vinicole le troviamo in Pennsylvania, negli Stati della Nuova Inghilterra, in Carolina e nel Kentucky dove si produceva vino con vitigni locali, e dove parecchi produttori cercarono invano di produrre vini dallo stile europeo, senza fare i conti con le specie indigene, soprattutto

la vitis labrusca, i cui vini originati esalavano profumi foxées (sgradevole pelo umido). Cercarono quindi di far arrivare dall’Europa talee di vitis vinifera, ma le pianticelle europee non resistettero alle malattie e ai parassiti che furono identificati solo due secoli dopo. All’ovest delle Montagne Rocciose, dove non esisteva nessun ceppo indigeno, i primi vini furono elaborati a partire da uva che proveniva dal Messico, la Criolla. Nel 1850 un centinaio di talee provenienti dall’Europa di vitis vinifera si adattarono bene in California, grazie alle condizioni climatiche simili a quelle delle regioni del Mediterraneo. Fu quindi dalla seconda metà del XIX sec. che la produzione vinicola assunse una certa importanza, prima in California (più di un milione di ettolitri a fine secolo), a seguire in Ohio, in Missouri e nello Stato di New York. Il proibizionismo instaurato nel 1920 in tutti gli Stati Uniti e in Canada, creò parecchi problemi all’industria vitivinicola che stava godendo di un certo successo dovuto all’energia e all’esperienza profusa dagli emigranti arrivati dall’Europa, che già avevano dovuto combattere negli anni 1885 la filossera apparsa per la prima volta in California. Di quel periodo, che durò sino al 1933, si salvarono solo i vitigni americani destinati al succo d’uva, alle marmellate e alle gelatine. Oltre al Concord, gli altri vitigni usati furono la Catawba, la Norton e l’Isabella per i rossi, la Delaware, la Niagara e la Dutchess per i bianchi. Usate prima del proibizionismo per produrre vini tipo Porto e Sherry.

Stan Shebs

Bacco giramondo Già nel 1600 la vite selvatica cresceva rigogliosa sulla costa est dell’America del Nord

Al momento dell’entrata in vigore di questa legge, gli Stati Uniti producevano circa due milioni di ettolitri di vino e i vini della California incominciarono a farsi conoscere. Cinque anni più tardi la produzione era diminuita del 95 per cento e alla fine, nel 1933 in Europa si era perso il ricordo dei vini americani. Ci vollero più di 25 anni perché il resto del Mondo s’accorgesse che esisteva un’industria vinicola americana. Oggi i vini dell’America del Nord non provengono dalla sola California

(85 %), si elaborano vini in quasi tutti gli Stati: Oregon, Washington e New York, sono produttori degni di nota, senza dimenticare il Canada; tuttavia i produttori sono sparsi in modo disuguale. La fantastica diversità dei suoi paesaggi, dei suoi suoli, del suo clima, ha permesso agli Stati Uniti di sviluppare un’incredibile varietà di vini, dall’esotico Léon Millot al Seyval Blanc, sino ai Chardonnay e Cabernet Sauvignon che hanno dato alla California una rinomanza internazionale usando il concet-

to del monovitigno, cioè del vino prodotto da una sola varietà. La maggior parte dei produttori dell’America del Nord non esisteva prima del 1966. Almeno il 70 % delle aziende vinicole californiane furono fondate dopo questa data, nello Stato di New York almeno l’80 % dopo il 1976. Nell’Ontario (Canada) la prima licenza dopo il 1929 fu accordata nel 1975. Nel 1991 gli Stati Uniti divennero il quarto produttore mondiale dietro l’Italia, la Francia, la Spagna, ma davanti all’Argentina. L’America del Nord, possiede cinque grandi regioni dove gli Stati producono vino: 1. La California: domina completamente la produzione, grazie al suo clima particolarmente dolce, la vitis vinifera ivi impiantata dona vini di livello internazionale. 2. Il Nord Ovest: ricopre in termine vitivinicolo gli Stati di Washington e Oregon, zone in pieno sviluppo anche per quel che riguarda la qualità dei loro vini. 3. Il Nord Est: è soprattutto lo Stato di New York che con il suo 4-5 % di produzione si situa al secondo posto di quella totale del paese. Gli altri Stati del Nord Est che producono vino sono: il New Jersey, la Nuova Inghilterra, la Pennsylvania e il Maryland. 4. Nel Sud e nel Middle West: si trovano piccoli produttori capaci di fare buoni vini, scoperti alle volte in luoghi insospettabili. 5. E da ultimo il Canada: per qualcuno potrebbe essere un produttore inatteso, visto il rigore del suo clima, ma lasciatevi sorprendere alle prossime puntate. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Ambiente e Benessere

Il mio amico a quattro zampe

SUDOKU PER Mondoanimale Convivere con un cane significa occuparsene con responsabilità, rispettare le sue esigenze e adempiere ai nostri doveri di proprietari

Giochi per “Azione” - Ottobre 2016 Stefania Sargentini

Maria Grazia Buletti «Vivere con un cane è divertente», questa la premessa dell’opuscolo edito dall’Ufficio della sicurezza alimentare e veterinaria federale (USAV). Pubblicazione che, con le sue domande e risposte, si rivolge a chi è consapevolmente alla ricerca del cane più idoneo al proprio stile di vita. «Avere un cane non significa solo coccole e passeggiate, bensì occuparsene 1 2 3 4 con responsabilità, rispettando le sue esigenze», e queste sono le basi sulle quali 8 9 abbiamo inpoggia la chiacchierata che trattenuto con la vice presidente della Federazione cinofila ticinese e già respon11 12 sabile dei corsi dedicati ai cuccioli Jsabel Meier Balestra. 14di una buona convivenza tra15 L’inizio uomo e cane comporta non solo gioie e diritti, ma una buona dose di conoscenza 17 18 e doveri. Questi ultimi vanno onorati nei confronti dell’animale stesso, come pure della vita in società: «Il cane ha 21 bisogno22 di cibo (io consiglio almeno due pasti al giorno per l’esemplare adulto; per i cuc25 cioli almeno tre); l’acqua deve sempre essere a disposizione, 24 ore su 24; non 27 devono mancare le passeggiate, secondo la razza almeno due al giorno di un’oretta circa per il cane adulto (per il cucciolo bisogna seguire l’indicazione dell’allevatore, del veterinario o dell’istruttore cinofilo del gruppo cuccioli)». Sembra tutto scontato, eppure non sempre lo è e non sempre chi si appresta ad adottare un cane riesce a proiettarsi in queste regole di vita con il proprio quattro zampe 3 4 che1 già da2 cucciolo necessita di5 essere adeguatamente accudito e seguito: «Non dobbiamo far correre un cucciolo o un 7 cane giovane accanto alla bicicletta o ai

N. 37 FACILE Schema 7 2

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(N. 37 - ... utilizzate come moneta di scambio) 5

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10 13 Desirée Mallè, presidente della 16 Federazione cinofila ticinese con i suoi cani. 19

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roller; non dobbiamo imporgli passeg23o in discesa, 24 giate troppo lunghe in salita perché possono nuocere alle articolazioni…». Inoltre, l’esperta sottolinea che il 26 cucciolo deve comunque avere la possibilità di «socializzare con altri cani, scoprire cose 28 sconosciute e fare esperienze nuove». Non pensiamo che per il nostro fu29 turo cane sia sufficiente sfogarsi in un giardino, perché in verità, «ha bisogno di recarsi in luoghi diversi, annusare nuovi odori e, durante la passeggiata, incontrare altri consimili per una questione di socializzazione». Siccome anche l’occupazione mentale del cane è determinante già 6da cucciolo, Jsabel suggerisce anche di munirsi dei vari giochi in commercio o di fabbricarne a casa con un po’ di fantasia e senza grandi costi.

(N. 38 - “Certo Carmela, Alzheimer”)

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Giochi 10 12

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Cruciverba 18 19 Santa Maria del Fiore, 20 meglio La cattedrale conosciuta come il duomo di Firenze è … Termina 22 la21frase leggendo, al soluzione23ultimata,24le lettere evidenziate. 25 26 27 28 (Frase: 2, 5, 2, 5, 3, 9) 29

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(ndr: Legge cantonale) dovrebbero permettere di acquisire le basi riguardo alla tenuta di cani e (questo sarebbe decisamente utile) stimolare la voglia di conoscere meglio il proprio amico a quattro zampe». I corsi OPAn perseguono l’obiettivo di «insegnare all’uomo a insegnare al cane». «È essenziale trasmettere l’importanza della comunicazione efficiente con l’animale, insieme a un po’ di passione, che poi è il motore della conoscenza», afferma Mallè. Tutte le informazioni inerenti la legislazione che regola la detenzione di un cane, come pure le informazioni sui corsi specifici, sono disponibili sul sito dell’Ufficio del veterinario cantonale www.ti.ch/vet, ricorda la presidente della Federazione cinofila ticinese, alla quale chiediamo infine di riassumere i punti essenziali che bisogna valutare nell’adozione di un cane: «Trovare quello giusto è questione di onestà e di un po’ di fortuna. Prima devo comprendere bene qual è il mio stile di vita (e quello della mia famiglia), se questo si concilia con un cane, dovrò quindi interrogarmi su cosa posso offrirgli e cosa posso aspettarmi da lui e viceversa». Mallè ribadisce: «E poi mi devo informare, informare, informare… perché un cane non è un accessorio di moda. È un compagno del quotidiano e ne devo avere cura e rispetto». Rivolgersi a persone competenti per farsi guidare nella scelta è cosa responsabile e saggia: «Non abbiate paura di chiedere, leggete, non sottovalutiamo l’importanza del soggetto giusto e affrontiamo seriamente la decisione di viverci insieme: sarà un’esperienza impagabile».

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ce consiglia di rivolgersi all’istruttore: «Dobbiamo ricordarci che si segue il corso di socializzazione per il cucciolo con l’intento di dargli la possibilità di crescere bene e divenire fiducioso, in quanto una buona socializzazione è la continuazione degli insegnamenti della madre». Un cucciolo, però, non resta tale

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121.2Rampicanti 3 tropicali 4 5 6 22. Le iniziali del noto Carrisi 10 8 9 23. Preposizione articolata 11 12 13 24. Le hanno doppie i pizzoccheri 25.14Informazioni, novità 15 16 26. Va e viene dalla cella 17 18 19 20

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te esperienza che deriva dall’avere un cane». Secondo Mallè: «In realtà basterebbero buonsenso, rispetto e un po’ di educazione (intesa come conoscenza) per non avere bisogno di troppe leggi». Ad ogni modo, le disposizioni legali federali obbligano alla frequenza dei corsi OPAn: «Questi corsi, come pure quelli rivolti alle razze soggette a restrizione

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R7 U T6 A T2 4 1 M 4 I S 5 L E1 6 F2 E T

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I L2 I3 Z Z 8 7 9 6 1 5 4 2 3 6 1 7 M8 O D E9 C O I 5 3 2 4 8 7 6 9 1 E R E5 M O O R 1 4 6 2 99 3 5 7 88 1 A A7 M E9 N I 3 5 4 1 6 2 7 8 9 T A 1 O4 D5 I O 6 2 7 79 3 8 4 1 4 5 8 5 7 S O3 C I D A 9 1 8 5 7 4 3 6 2 4 6 2 T R A M E3 L 9 4 6 5 8 2 1 6 9 3 7 3 R6 E 1 B4 O O M 2 9 3 7 5 6 8 1 4 Soluzione 1 3della settimana I9 M5 precedente O I N A 7 8 1 3 4 9 2 5 6 RICORDI DI GIOVENTÙ – Conce’, ti ricordi come si chiamava quel giovane tedesco per quale persi la testa? Risposta risultante: «CERTO CARMELA, ALZHEIMER». N.il38 MEDIO

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L A S T R E VERTICALI E R T O Z A 1. Un Fausto cantante 2. Riposano in pace A M O A I N 3. Un mezzo di questo... 4. Al centro all’uditorio 5. Nome dello storico presentatore L I O B O N.E 40 PER GENI di la notizia» (N. «Striscia 38 - “Certo Carmela, Alzheimer”) 8. Queste mancano di ferro 10. 4 3 7 5 6 MUn figlio Odi Adamo N D I 4 C OE R VO T2 ET 1O8 9 M4 3 12. Produttori di lana 5 3 6 2 9 8 4 A M I C A P 13. Squadra di calcio italiana E R G R RI M IA 7 LA E2 L I 2 1 8 5 3 49 14.IPrivo P di lucentezza 5 7 6 4 3 I L A 3 A L R 15. Un fallo del tennista 8 E A 2 6 5 4 16.L Laureato in breve A T L I N E C 8 9 2 7 1 I S O L 2E R Z 3 I A 17. Un tipo di esame 3 1 9 8 3 4 1 9 2 A M O R E K A R T 19. Il famoso D’Alessio 1 9 8 4 A C D E G L I Z H 9 1 8 6 7 H A S T R I P E R 21. Bagna Montpellier e... un po’ 7 E D I T A 1 A 9 P lezioso 7 6 4 2 5 M 6 E I 5 23. L’odio nel cuore N O T I Z I E A P 3 1 6 2 5 3 1 8 R E S A C O R A N O 24. Ai lati della zip 25

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3 1 9 8 C E R O T T O 8 4 A M I C A P 7 1 9 R I una Mdelle A 3 carte A regalo E Vinci da 50 franchi con il cruciverba 1 6 eI una L delle A 2 carte A regalo L R da 50 franchi con3 il sudoku E I S O L Sudoku E R Livello Z I difficile A ORIZZONTALI N. 39 DIFFICILE 1. Di ghiaccio sui laghi d’inverno 6. Ripido, Ascosceso M O R E Soluzione: K A R T 7. Ne hanno due le zanzare Scoprire i 3 numeri 6 5 8 9. Prende per la gola corretti da inseHFiume dellaA T R rireI nelle caselle P E9 R 10. FranciaS 1 3 colorate. 11. Vicino a voi 12. EStrumento D a Ifiato T A GiochiM A -POttobre12016I per “Azione” 4 2 13. Dei due, fu eroe Garibaldi... Stefania Sargentini SUDOKU PER AZIONE - OTTOBRE 2016 17. Qualora in poesia R E S A C O R A N O 3 18. L’eccesso nei prefissi

(N. 39 - ... la terza al mondo per grandezza) 3

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19. Cantano d’estate

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(N.20. 37Abbreviazione - ... utilizzate di come moneta di scambio) N. 37 FACILE Schema latitudine

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Politica e Economia Casa Bianca 2016 I sondaggi assegnano in questo momento la vittoria a Hillary ma le previsioni a volte mentono

Usa-Manila meno alleati? Nelle Filippine il nuovo presidente Duterte ha scatenato, oltre alla guerra ai narcos, uno scontro diplomatico con gli Stati Uniti, che consideravano Manila il pivot to Asia iniziato da Obama. Ora gli Usa rischiano di perdere la presa

Abe corteggia Putin Svolta storica nelle relazioni fra i due Paesi: il Giappone chiede l’amicizia a Mosca

Bogotà: No alla pace L’accordo con le Farc voluto dal governo colombiano è stato respinto

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Il significato del referendum del 2 ottobre travalica le frontiere ungheresi. (Keystone)

Orban sconfitto sui migranti

Ungheria Il leader conservatore aveva chiesto al popolo magiaro di votare «no» alle quote decise dall’Unione

per ricollocare i rifugiati in Europa. Ma il referendum non ha raggiunto il quorum necessario Marzio Rigonalli Il referendum ungherese del 2 ottobre sulla suddivisione dei migranti in Europa ha ridimensionato le velleità di un leader, il primo ministro Orban, che vuole bloccare tutti coloro che cercano di entrare in Europa con l’erezione di muri e la chiusura della frontiere nazionali, e che vuol estendere questa soluzione a tutti i paesi membri dell’Ue. In gioco c’era il piano di ripartizione di 160 mila migranti, presenti in Grecia e in Italia, approvato il 25 settembre 2015 dai ministri dell’interno dell’Ue, a maggioranza qualificata, contro il parere di Ungheria, Romania, Cechia e Slovacchia. Secondo questo piano, l’Ungheria, che è un paese di circa 10 milioni di abitanti, avrebbe dovuto accogliere 1294 migranti. Finora questo piano è stato rispettato da ben pochi governi, poiché soltanto circa 5 mila persone sono state trasferite in altri paesi europei, di cui una piccola parte anche in Svizzera. Nonostante questa situazione, Orban, attraverso il referendum, ha tentato di togliere all’Ue il potere di decidere sui migranti per darlo, per quanto concerne l’Ungheria, al parlamento di

Budapest. Il tentativo è fallito, perché la partecipazione al voto è stata soltanto del 40%, lontana dal quorum richiesto del 50%. I tre milioni di ungheresi che hanno messo nell’urna la scheda favorevole al progetto del governo, hanno però consentito ad Orban di gridare vittoria e di annunciare una prossima, possibile modifica costituzionale che conferisca al parlamento ungherese il potere di decidere sull’accoglienza dei migranti. Un secondo progetto dunque che, se verrà messo in atto, rischia di contrapporre di nuovo Budapest a Bruxelles. L’Ue ritiene che le decisioni sottoscritte dai governi nazionali, prese all’unanimità o a maggioranza qualificata, vanno rispettate da tutti i paesi membri. Viktor Orban, alla guida del governo ungherese dal 2010, esce dunque indebolito dal voto del 2 ottobre, sia sul piano interno che su quello esterno. L’elevato numero di ungheresi che non si sono recati alle urne dimostra che nel Paese vi è una crescente opposizione alle scelte nazionalistiche del primo ministro. Un’opposizione che potrebbe trovare un’espressione politica più forte di quanto sia successo finora. Sul piano esterno, la stella di Orban rischia

di brillare un po’ meno in Europa e, soprattutto, all’interno del gruppo di Visegrad, gruppo che comprende quattro paesi dell’Europa centrale, l’Ungheria, la Polonia, la Repubblica ceca e la Slovacchia, e che è contro la politica migratoria dell’Ue. Sul piano internazionale, il premier ungherese è apparso più volte come il leader di questi Paesi. Al di là del suo impatto più immediato, il referendum del 2 ottobre nasconde qualcosa di molto importante, che travalica le frontiere ungheresi. Trattasi della contrapposizione di due idee, di due visioni dell’Europa. Da un lato, c’è chi punta al ritorno delle frontiere nazionali, alla riconquista di tutta la sovranità da parte dei singoli governi nazionali e alla ricerca di soluzioni che non siano il frutto di un compromesso raggiunto fra tutti i paesi membri. Dall’altro, c’è chi auspica un’Europa maggiormente integrata, decisa ad affrontare i problemi insieme e a trovare soluzioni condivise, perché ritiene che, in un mondo globalizzato, l’unione più ampia possibile è necessaria per affrontare i problemi e per poter difendere i propri interessi. Tra i fautori di un’Europa delle na-

zioni troviamo i dirigenti politici dei paesi dell’Europa centrale ed orientale e tutte le forze politiche, dette populiste, che in Occidente si schierano contro l’Unione europea e che ne chiedono la fine, o per lo meno la sua completa trasformazione. Orban è soltanto una delle tanti voci che emergono dal coro delle critiche all’Europa. È una voce che chiede di indebolire l’Unione europea, varando tre drastiche misure: la limitazione dei poteri del Parlamento europeo, il rafforzamento del ruolo del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo e la soppressione della regola della maggioranza qualificata. Tra coloro che mirano ad un’Europa più integrata e unita si distinguono soprattutto i paesi fondatori dell’Unione, anche se le loro opinioni pubbliche sono divise, numerose forze politiche sparse sul continente e tanti intellettuali. Hanno in comune la convinzione che le sfide cui l’Europa deve far fronte, dal terrorismo alla sicurezza delle frontiere, dalla disoccupazione ai migranti, possono essere vinte soltanto insieme. Quest’anno le due visioni dell’Europa si sono scontrate nelle urne già tre volte. In aprile, in Olanda, il no ha

prevalso con il 61% in un referendum sull’accordo di associazione tra l’Unione europea e l’Ucraina. In giugno, i britannici hanno girato le spalle all’Ue e hanno scelto un futuro autonomo. Otto giorni fa, gli euroscettici ungheresi hanno tentato, senza successo, di inviare a Bruxelles un forte segnale della loro volontà di gestire autonomamente l’immigrazione. E lo scontro si ripeterà più volte l’anno prossimo, in tre successive importanti elezioni. A marzo in Olanda, a maggio in Francia ed a settembre in Germania. L’Unione europea sta attraversando una fase difficile. I problemi sono tanti e complicati, e le personalità chiamate ad affrontarli non spiccano né per le loro capacità né per il loro carisma. Molti osservatori non esitano a denunciare il pericolo di uno sfaldamento dell’Unione. L’ipotesi non va trascurata. Il pericolo è reale e per tenerlo a distanza bisognerà poter ricorrere almeno a tre ingredienti: alla sopravvivenza dello spirito che ha animato i padri fondatori dell’unione, ad un’azione dell’Ue più vicina alle aspettative e ai bisogni dei cittadini e a una forte volontà politica messa in atto da leader capaci e riconosciuti tali.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Politica e Economia

Che cosa non dicono i sondaggi

Casa Bianca 2016 Per il momento bisogna prendere per buoni i numeri che assegnano una probabile vittoria

alla Clinton, ma gli analisti invitano a ricordare le previsioni su Brexit che si sono sbagliate clamorosamente

Manca meno di un mese al voto e Donald Trump cala nei sondaggi. L’indice sintetico di tutti i sondaggi elaborato da Nate Silver sul sito FiveThirtyEight traccia un rialzo dei consensi verso Hillary e le assegna una probabilità di vittoria pari al 76% (il calcolo probabilistico non va confuso col suo margine di vantaggio nei sondaggi). Nella media dei sondaggi più recenti il vantaggio netto della candidata democratica è di quattro o cinque punti percentuali. Più significativo è il fatto che lei stia risalendo in molti Statichiave, quelli in bilico che sono decisivi per la vittoria finale, come la Florida. Comunque nella media dei sondaggi la Clinton ha un vantaggio spesso inferiore al margine di errore statistico. Gli esperti più onesti ammettono che il vero margine di errore si aggira probabilmente attorno al 7%. Quindi il vantaggio di Hillary potrebbe dissolversi alla prova dei fatti? C’è una tesi «revisionista», che invita a rassegnarsi di fronte a questa evidenza: i sondaggi hanno sbagliato clamorosamente le previsioni su Brexit in Inghilterra, segno che c’è qualcosa di storto nel modo in cui vengono effettuati. Hanno sbagliato anche le previsioni sul referendum in Colombia, più di recente. Qualcuno ormai pensa che se i sondaggi dicono bianco, conviene scommettere sul nero… C’è una logica, del resto. Se fenomeni come Brexit e Trump rivelano una diffusa ribellione verso le élite, un distacco dall’establishment, una protesta di tipo anti-sistema, può darsi che i sondaggi sottovalutino sistematicamente il tipo di elettori che per la prima volta rinunciano all’astensionismo e usano le urne per esprimere la propria rabbia. Può darsi inoltre che certi elettori in rottura con il «politically correct» mentano ai sondaggisti, o non abbiano voglia di annunciare le proprie intenzioni di voto. Se fosse vero questo punto di vista, allora non dovremmo neppure prestare tanta attenzione al «plebiscito» anti-Trump che sta svolgendosi sui media americani. Tutta la grande stampa si schiera con toni di allarme che non si ricordano nella storia recente della democrazia americana. Si moltiplicano gli endorsement pro-Hillary anche da parte di giornali indipendenti che un tempo non prendevano posizione, da «Usa Today» a «The Atlantic». Ed è scoppiata una rissa in seno alla tv di riferimento della destra, la rete Fox News di Rupert Murdoch, dove l’anchorman Shean Hannity accusa la conduttrice Megyn Kelly di sostenere la candidata democratica. Ma tutto questo accade ancora nell’universo delle élite, dell’establishment. E sappiamo che l’influenza reale dei media è sempre più evanescente. «Ma perché non sono in testa ai sondaggi con 50 punti di vantaggio?» Più volte nel corso di questa campagna elettorale Hillary ha confidato ai collaboratori la sua esasperazione. Mentre scrivo, i dubbi sui sondaggi sono metodologici, ma non ho cifre alternative per contestarli. Dunque, al momento dobbiamo prendere per buoni i numeri che

abbiamo, e ci dicono che le probabilità di vittoria di Hillary sembrano alte. Ma con un margine ridotto, o nella migliore delle ipotesi «normale». Non quello che ci si aspetterebbe per una candidata qualificata, esperta, competente, che affronta un cialtrone, egomaniaco, narcisista, imbroglione e bugiardo, incompetente e inaffidabile. Bene, ho usato solo un piccolo campione dalla lista degli aggettivi che solitamente incolliamo al nome di Donald Trump. Noi giornalisti ogni tanto ci scopriamo a condividere lo stesso pensiero di Hillary: com’è possibile che nei sondaggi quei due siano ancora relativamente vicini?

Finora il ruolo di WikiLeaks nella campagna elettorale è stato a senso unico, sempre a favore di Trump Mi assale una sensazione di «déjà vu». Vivevo a Milano quando, due anni dopo Tangentopoli, un certo Silvio Berlusconi si lanciò in politica. Seguii la sua prima campagna elettorale (1994) mentre ero vicedirettore del Sole 24 Ore. Per le legislative del 1996 ero diventato il capo della redazione milanese di Repubblica. Le successive campagne elettorali le seguii dall’estero. Ricordo la fatica che facevo a spiegare il fenomeno Berlusconi agli stranieri. Oggi no, non farei nessuna fatica, anzi sono gli americani a tracciare analogie fin troppo facili tra Berlusconi e Trump. Ma soprattutto, ricordo periodi in cui era difficile «conoscere un berlusconiano»: nella cerchia dei propri amici e conoscenti, se qualcuno lo votava non te lo diceva. Poi alle urne erano tanti. Idem per quanto riguarda la stampa, gli intellettuali, le élite ivi compresi tanti imprenditori (Gianni Agnelli inizialmente lo snobbava): se toglievi quelli legati a Mediaset, sembrava che l’Italia colta, influente, autorevole, fosse compatta nel bocciare Berlusconi. Eppure tre volte ha vinto e ha guidato tre governi. Con ogni probabilità alla fine l’America dei votanti (di solito, sotto il 60% degli aventi diritto) si dividerà grosso modo in due, come ha sempre fatto, con uno scarto di pochi punti. Quella che a noi sembra un’elezione del tutto anomala per via del fenomeno Trump, potrebbe dare un risultato tutt’altro che anomalo, anzi banale. E allora un problema riguarda quel «noi», pronome plurale che sto usando dall’inizio. Noi giornalisti. Noi opinionisti. Noi intellettuali. Noi liberal delle due coste, abitanti di New York Boston Washington San Francisco Los Angeles. Noi che ci frequentiamo tra simili, e tra le nostre conoscenze facciamo fatica a trovare un elettore (dichiarato) di Trump. Poi nella notte tra l’8 e il 9 novembre ci sveglieremo in un Paese dove molte decine di milioni di cittadini avranno votato per Frankenstein. E li abbiamo anche visti, per carità, e raccontati. Non c’è reporter che non si sia fatto i suoi bei comizi con Trump,

AFP

Federico Rampini

immersioni nella folla che lo adora, lo osanna, gli perdona tutto. Ma poi una volta tornati in redazione, al momento di scrivere, ci siamo immersi in un mondo dove «quelli là» sono ovviamente trogloditi, esseri rozzi, dominati da istinti deteriori. Quando Obama vinse – sia la prima sia la seconda volta – «quelli là» tornarono ad essere maggioranza in soli due anni, appena si spense l’eccitazione delle presidenziali e si votò per il Congresso. C’è qualcosa che non funziona nella democrazia, nel discorso pubblico, e nel nostro modo di raccontare le cose, se queste due tribù continuano a convivere come separate in casa, nel più profondo disprezzo reciproco. Naturalmente il disprezzo è reciproco. Non siamo solo noi progressisti a nutrire questo sentimento. Sull’altro versante, colpisce il fatto che la destra di Trump abbia così tanto in odio i democratici, da fare il tifo per Vladimir Putin; o da auspicarsi devastanti rivelazioni di WikiLeaks, che è ormai un alleato oggettivo (o un braccio operativo) della Russia. Da giorni i social media della destra americana suonano il tam tam sulle «rivelazioni che distruggeranno Hillary Clinton». Parlando alla tv di riferimento della destra, Fox News, il capo di WikiLeaks Julian Assange ha ribadito che ci saranno scoop, al ritmo di uno a settimana, «con riferimento alla campa-

gna elettorale, sotto angolature inattese e interessanti». Inattese, salvo la quasicertezza che attacheranno i democratici e aiuteranno Trump? Perché finora il ruolo di WikiLeaks nella campagna elettorale americana è stato a senso unico. Le rivelazioni, a volte attingendo a materiale rubato dagli hacker russi, hanno messo in imbarazzo Hillary, hanno seminato zizzania tra lei e Bernie Sanders, hanno provocato le dimissioni della capa del partito democratico Debbie Wassermann. Confermando le accuse della stampa liberal che descrive Assange come un docile strumento nelle mani di Putin, o quantomeno un «alleato di fatto» del leader russo. Nulla di veramente nuovo. Ripercorrendo tutta la storia decennale di WikiLeaks, il tratto unificante è proprio questo: gli attacchi sono abbastanza unilaterali, salvo rare eccezioni è l’America il bersaglio principale. O quantomeno, è quando se la prende con gli Stati Uniti che WikiLeaks fa notizia e la sua fama s’ingigantisce. L’elenco parte dal dicembre 2007, con la pubblicazione del manuale interno d’istruzioni ai militari di Guantanamo Bay, il supercarcere dove gli Usa dalla guerra in Afghanistan in poi detengono molti prigionieri accusati di essere «combattenti nemici». Un regalo alla destra americana è la divulgazione nel novembre 2009 degli scambi di email tra autorevoli scienziati ambientalisti, da cui

risulterebbe un complotto contro i rari studiosi che negano il cambiamento climatico. Il 25 luglio 2010 Assange rende di dominio pubblico 75’000 rapporti segreti dei militari Usa sulla guerra in Afghanistan. Il 22 ottobre dello stesso anno è la volta di 400’000 documenti riservati sulla guerra in Iraq dai quali trapela fra l’altro un bilancio di centomila vittime irachene di cui il 60% sono civili. Il grande botto arriva poco dopo, 28 novembre 2010: è il cosiddetto «Cablegate», la rivelazione di 250’000 comunicazioni riservate tra il Dipartimento di Stato e le sue ambasciate nel mondo. I dialoghi interni alla diplomazia Usa diventano di dominio pubblico creando tensioni coi governi (alleati o meno), talvolta scatenando crisi politiche all’interno di paesi stranieri destabilizzati dai giudizi confidenziali degli americani o dalle notizie che Washington e gli ambasciatori si scambiano sulla corruzione di questo o quel regime. Compreso il versante italiano, che coinvolge Silvio Berlusconi, Eni, Putin. In alcuni casi come la Tunisia è stato osservato che le «primavere arabe» hanno avuto una scintilla iniziale anche da quelle rivelazioni. Da ultimo Assange si è concentrato sulla campagna presidenziale Usa. Rivelazioni su Russia o Cina? Zero. Al «New York Times» che gliene chiedeva conto, in un’intervista lui stesso rispose: «Tutti criticano la Russia, che noia». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Politica e Economia Le Filippine di Duterte sono impegnate in un duro scontro diplomatico con la Cina. (Keystone)

Un corteggiamento serrato Svolta storica Shinzo Abe propone a Mosca

di «diventare amici» in funzione anticinese Anna Zafesova

Rodrigo Duterte, il punisher di Manila

Filippine Da mesi il Paese si è trasformato in un campo di battaglia

fatto di processi ed esecuzioni sommarie nel contesto di una campagna contro la droga scatenata dal nuovo presidente. La sua esuberanza sta inoltre provocando una crisi con Washington

Beniamino Natale Melvin Odicta detto «il drago», uno degli uomini più ricchi delle provincia di Iloilo, nelle Filippine centrali, è stato colpito mentre scendeva, nel porto di Aklan, dal traghetto Sant’Antonio da Padova, il 29 agosto scorso. Sua moglie Meriam era appena stata abbattuta dallo stesso sicario, probabilmente anche lui un passeggero del traghetto, che proveniva da Batangas. Uno dei suoi avvocati, Gualberto Cataluna, che si trovava all’ uscita del porto, ha detto che «il drago» l’aveva chiamato al cellulare dicendo che Meriam era stata uccisa e che lui era ferito ad una gamba. L’avvocato ha aggiunto di aver visto il suo cliente, vivo e ammanettato, che veniva caricato su una macchina della polizia. Gli agenti hanno portato lui e Meriam al più vicino ospedale, dove entrambi sono arrivati morti. Un portavoce della polizia ha risposto scandalizzato alla domanda di un giornalista locale: «Perché mai avremmo dovuto ammanettarlo? Era morto…». Il «drago» e sua moglie sono tra le circa tremila vittime della «guerra alla droga» scatenata dal nuovo presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte. «Rodry», come lo chiamano i media filippini, è certamente un personaggio «colorito», secondo la definizione del presidente americano Barack Obama, uno dei due capi di Stato stranieri – l’ altro è il capo della Chiesa Cattolica, Papa Francesco – che sono stati definiti «quel figlio di puttana» da Duterte. Il presidente filippino, detto «the punisher» – il castigatore – è un uomo del popolo, che usa poche parole di un inglese approssimativo nei discorsi tenuti in «filippino» e che ama riferimenti sessuali a vagine «che puzzano» e a stupri, che sembra consideri attività ammirevoli. Una delle sue affermazioni più note, infatti, l’ha fatta parlando dello stupro di una missionaria australiana avvenuto nel 1989 a Davao: «Il sindaco – cioè lui stesso – avrebbe dovuto essere il primo», ha sostenuto dopo aver spiegato che si trattava di una donna molto attraente. A Davao, la capitale della provincia meridionale di Mindanao, è stato infatti sindaco per 22 anni. Secondo i suoi sostenitori «the punisher» avrebbe trasformato la città da capitale del crimine nel luogo «più sicuro delle Filippine». Un’af-

fermazione dubbia dato che è proprio a Mindanao e nella stessa Davao che sono ancora attive bande di sopravvissuti del gruppo integralista islamico Abu Sayyaf, dedite ad attività criminali come i rapimenti senza più nessuna pretesa di motivazioni politiche. «Fate il vostro dovere, e se nel processo uccidete mille persone perché fate il vostro dovere, io vi proteggerò», ha affermato ad esempio pochi giorni dopo essere stato eletto davanti ad una platea di poliziotti. Una licenza di uccidere che è stata presa alla lettera: mille piccoli criminali sono morti nei pochi mesi nei quali Duterte è stato al potere in «scontri» con gli agenti; le altre circa duemila vittime sono cadute sotto i colpi di sicari senza volto, come Melvin Odicta. I loro decessi vengono classificati come «deaths under investigation» (Dui), «morti sulle quali si indaga». Ad opporsi alla campagna di Duterte nelle Filippine sono in pochi. Tra questi la Chiesa cattolica. Nelle omelie i preti condannano le esecuzioni extragiudiziali ma invitano anche a pregare per le forze dell’ordine. La senatrice Leila de Lima, che critica apertamente Duterte e chiede che vengano condotte delle inchieste neutrali sulle «morti misteriose», è stata lei stessa accusata dal presidente di essere compromessa col traffico di droga, e alcuni pensano che potrebbe essere assassinata. Con Duterte, secondo i suoi critici, le Filippine rischiano di tornare ai tempi della dittatura. Non per niente è un ammiratore di Ferdinando Marcos, il dittatore abbattuto nel 1985 dal movimento popolare che portò all’instaurazione di un sistema democratico. Non solo. La sua esuberanza ha provocato una crisi nelle relazioni con gli Usa, che sono stati negli ultimi decenni un alleato di ferro di Manila. Obama ha cancellato un incontro con «Rodry» che si sarebbe dovuto svolgere a Vientiane, in Laos, all’inizio di settembre. Nei giorni seguenti, membri dell’entourage del presidente filippino hanno rilasciato una serie di dichiarazioni nelle quali hanno cercato di spiegare che il «figlio di puttana» non era rivolto direttamente a Obama, ma che si trattava di una sorta di intercalare, come altri potrebbero dire «quant’è vero Dio», o altre frasi fatte del genere. Il problema, ammoniscono gli osservato-

ri, non è solo che un presidente non dovrebbe usare un linguaggio da osteria. È la sua politica regionale ad essere tutt’altro che chiara. Le Filippine sono impegnate in un duro scontro diplomatico con la Cina sulle frontiere marittime nel Mar della Cina Merdionale, che Pechino reclama quasi interamente. Negli anni scorsi la Cina ha costruito una serie di installazioni militari sulla terra «reclamata» da una serie di minuscoli isolotti nell’arcipelago delle Spratly, alcuni dei quali Manila considera parte del suo territorio. In luglio la Corte di Arbitrato Internazionale dell’Aja ha accolto un ricorso del precedente governo filippino – quello guidato da Benigno Aquino III – negando qualsiasi base di legittimità alle pretese cinesi. Prima di essere eletto, Duterte aveva accennato alla possibilità di trattative bilaterali con Pechino: si tratterebbe di un cedimento alla Cina, che sentendosi la più forte nella regione chiede trattative a due con gli altri Paesi, mentre i più risoluti avversari di Pechino – come il Vietnam – cercano di portare in sedi internazionali e multilaterali le dispute territoriali nel Mar della Cina. Oltre a Filippine e Vietnam, hanno in corso dispute con Pechino Malaysia, Brunei, Indonesia e, nel Mar della Cina Orientale, il Giappone. Le aperture di Duterte sono state respinte da Pechino, che ha messo come condizione a colloqui bilaterali la rinuncia delle Filippine ad usare il verdetto della Corte di Arbitrato. Manila è ora paralizzata dalle sue stesse mosse: non può giocare la «carta cinese» per indurre Obama a non sollevare, come aveva minacciato, il problema dei diritti umani e non può avvalersi della protezione di Washington nelle discussioni col «grande fratello» cinese. Manila e Washington stanno ora faticosamente cercando di ricostruire le relazioni con l’ aiuto del Giappone, alleato di entrambe. Duterte non è il primo governante asiatico a usare la mano pesante contro i trafficanti di droga. Campagne di esecuzioni extragiudiziali sono state condotte nel 2003 in Thailandia e negli anni Ottanta in Indonesia, senza peraltro risolvere il problema. Iran, Arabia Saudita e Cina usano con larghezza la pena di morte per i reati di droga, che esiste anche in Indonesia, Malaysia e Singapore.

Il G20 da poco concluso in Cina è stato per Vladimir Putin l’occasione per giocare una partita multilaterale che l’ha visto impegnato con Barack Obama e Xi Jinping, Angela Merkel e Recep Tayyip Erdogan, su fronti che spaziano dalla Siria all’Ucraina all’economia globale. Ma il suo successo maggiore l’ha incassato pochi giorni prima, a Vladivostok, su un fronte che per la Russia tradizionalmente è stato problematico: il Giappone. Il premier Shinzo Abe ha proposto al presidente russo una svolta storica nelle relazioni tra i due Paesi, oscurate da un conflitto territoriale, quello per le isole Kurili del Sud, che tuttora blocca la firma del trattato di pace che chiuda la Seconda guerra mondiale. E che ora Abe vuole riportare a casa, con un’offensiva diplomatica che i commentatori definiscono «corteggiamento». «Vladimir, siamo persone della stessa generazione, possiamo camminare nella foresta vergine della taigà sotto i raggi del sole, calpestando le foglie, come nel “Dersu Uzala” di Akira Kurosawa, parlando del futuro della Russia e del Giappone», è stato l’invito al limite del romantico del premier giapponese, che dopo ben cinque visite in Russia è riuscito a convincere Putin a venirlo a trovare, il 15 dicembre prossimo, alle fonti termali di Yamaguchi: il primo di una serie di vertici che, nei piani di Abe, devono essere annuali, in un rapporto privilegiato che potrebbe ribaltare gli equilibri asiatici. Due anni fa Washington aveva costretto Tokyo a cancellare un invito per Putin. Ma ora Abe vuole andare avanti: ha istituito un ministero apposito per la cooperazione economica con la Russia, caso unico di un ente interamente dedicato a un solo Paese, e ha affidato al suo fratello Nobuo Kishi la gestione della diplomazia con Mosca. E soprattutto si offre al Cremlino come alleato strategico nell’Asia, quasi «supplicando», titola il «Financial Times», di diventare «amico della Russia». Quest’anno cade il 60° anniversario del Trattato di San Francisco, firmato da 49 nazioni ma non dalla Russia, che stabiliva che Tokyo doveva riprendersi almeno due delle quattro isole Kurili del Sud (in Giappone sono chiamate «territori del nord») occupate nel 1945. A Tokyo ogni anno i militanti della destra revisionista e nazionalista - ambiente dal quale proviene lo stesso Abe - manifestano per il ritorno dei «territori del Nord», che vengono visti come parte essenziale del superamento dell’umiliazione della sconfitta e della restaurazione della grandezza imperiale. Mosca per ora manifesta prudenza. Putin ha ricordato che il trattato non stabiliva le condizioni e la sovranità ultima dell’isola di Shikotan e dell’arcipelago disabitato Habomai. Si tratta di «trovare un compromesso che non faccia sentire nessuno vincitore o perdente». Ma il regalo offerto da Abe è un successo insperato, dopo due anni in cui il Cremlino ha cercato di spezzare il fronte delle sanzioni (alle quali aderisce anche il Giappone) cercando alleati in Europa. Il problema principale per un leader non meno nazionalista di Abe è come cedere

Il premier giapponese Shinzo Abe con il presidente russo Putin in occasione del G20 di Vladivostok. (Keystone)

eventualmente le isole: perfino in tempi molto più distesi Boris Eltsin non aveva osato «vendere» le Kurili. «Putin deve accertarsi che Abe non solo sta tentando di “comprare qualcosa” ma in cambio si offre di diventare quell’alleato in Estremo Oriente che serve alla Russia». Negli anni sono state proposte varie ipotesi intermedie - una gestione congiunta, un periodo di transizione di vari decenni, concessioni di pesca ed esplorazioni energetiche nel mare ai russi - ma dopo l’annessione della Crimea e la rottura con l’Occidente parlarne sembrava impossibile, e la visita del premier Dmitry Medvedev alle Kurili era stata letta da Tokyo come una rivendicazione di sovranità, insieme alla decisione russa di piazzare su una delle isole non contese una base militare in funzione anti-Usa. Il Giappone però ha bisogno della Russia anche perché si sente minacciato dall’espansione cinese. Il calcolo di Abe non è privo di fondamento: le forniture energetiche russe sono complementari a un’economia altamente tecnologica ma scarsa di risorse, e gli investimenti di Tokyo nell’Estremo Oriente russo potrebbero arginare l’espansione cinese che preoccupa Mosca. Inoltre i russi hanno disperatamente bisogno di investimenti, e soprattutto di un interlocutore politico di peso massimo dell’Occidente «politico», rompendo il fronte guidato da Washington e Bruxelles. Il vecchio principio della diplomazia giapponese subordinava ogni miglioramento delle relazioni al trattato di pace che chiudeva la Seconda guerra mondiale. «Un vecchio mantra che non porta da nessuna parte», ha detto al «Financial Times» un collaboratore del premier giapponese. Ora Tokyo spera di mandare avanti l’economia contando sui suoi effetti benefici sulla politica. Abe, che fa parte della scuola politica giapponese che esige il «contenimento» della Cina, spera di offrire più di Xi Jinping. Non è chiaro però quanto i russi possano farsi coinvolgere in una alleanza dal chiaro sapore anti-Pechino, proprio mentre appoggiano la Cina anche sulle dispute territoriali con gli altri Paesi asiatici, Giappone incluso. La prudenza di Mosca viene interpretata come «una partita a poker che sta vincendo» da «Asia Times». La chiusura della disputa sulle Kurili e l’avvicinamento con il Giappone sarebbero una vittoria strategica per la Russia. Che però dovrebbe fare i conti sia con Pechino, sia con gli Usa, storico alleato di Tokyo. L’«Asahi Shimbun» ha scritto un editoriale di fuoco contro il premier ricordando che «il Giappone è l’unico Paese del G7 a cercare di espandere la cooperazione con la Russia» e che «un atteggiamento troppo di compromesso rischia di essere visto criticamente dalla comunità internazionale con la quale condivide i valori della supremazia del diritto». Anche perché, nota «The Diplomat», chiudere gli occhi sull’annessione della Crimea rischia di rendere difficile condannare poi le rivendicazioni territoriali cinesi. Una «scommessa rischiosa», nella quale per ora Abe è nella posizione di colui che chiede favori, con Putin che decide se concedersi, e fino a quale punto.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Politica e Economia

Colombia senza pace

Referendum La maggioranza della popolazione ha respinto l’accordo raggiunto all’Avana fra il governo e le Farc.

Ha prevalso la linea dell’ex presidente Uribe che paventava per il Paese il rischio del «castro-chavismo» Angela Nocioni A volte ritornano. E Alvaro Uribe è tornato, da trionfatore. L’ex presidente della repubblica, l’uomo più a destra che Bogotà ricordi nella sua storia politica recente, è il vincitore indiscusso del referendum in Colombia. Il referendum era stato indetto dall’attuale presidente Santos per far ratificare ai cittadini l’accordo di pace siglato, dopo una trattativa al cardiopalma, tra il suo governo e i capi guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) all’Avana. Le Farc sono una narcoguerriglia, un esercito informale dall’ideologia ultraveteromarxista, da più di cinquant’anni in guerra con lo Stato. Sono feroci, di una violenza confrontabile solo a quella dell’esercito regolare che li combatte facendo fare spesso il lavoro sporco a paramilitari di estrema destra, anch’essi finanziati a loro volta dal narcotraffico. All’ideologia rivoluzionaria delle Farc si è nel tempo affiancata, fin quasi a sostituirla, una molto più concreta narco-industria. Il bla bla rivoluzionario è ormai l’esoscheletro che protegge un gruppo di banditi, politicizzati spesso a forza. Molti dei soldati delle Farc sono analfabeti, alcuni presi e portati via di peso da villaggi rurali attraversati dalla guerriglia, non sanno nemmeno per cosa combattono e non saprebbero mai leggere il testo del referendum che li riguarda.

Avendo controllato per decenni parti consistenti del territorio colombiano, coperto in vaste aree da piantagioni di coca, le Farc hanno creato una gigantesca rete di affari con i narcos, entrando in affari con loro. La guerra tra esercito e guerriglia è stata una delle più sanguinose del continente latinoamericano. Militarmente ormai le Farc sono da anni ridotte ai minimi termini, ricacciate nella selva, braccate dalle sofisticatissime armi dell’esercito colombiano (fornite insieme a strumenti di intelligence e addestratori dal Pentagono) e decimate dalle defezioni e dalle spie. Da anni sembrano sul punto di essere sconfitte per fame, ma mai del tutto. È difficile militarmente sconfiggere del tutto una guerriglia con mezzo secolo di vita e una storia radicata nel dna politico, per quanto insanguinato, di una nazione. La si può assediare, costringerla a ripiegare in angoli impervi, ma la sicurezza che non si riorganizzi in gruppo armato, da qualche parte, non c’è mai. Ogni volta che si è tentata negli anni una soluzione per via politica del conflitto, l’unica che ragionevolmente possa garantire una tregua duratura che somigli a una pace, e si è avviata una trattativa, la mediazione è saltata. Spesso per contrasti interni alle Farc. Spesso perché l’ala militarista del governo, di cui Uribe è stato l’anima, si è adoperata perché saltasse. Ogni volta

Membri delle Farc durante la Conferenza della guerriglia nazionale chiamata a ratificare la pace con il governo di Bogotà. (AFP)

la mediazione si è arenata prima di arrivare a buon fine. Ogni volta, tranne l’ultima. Per riuscire a non far saltare il tavolo, stavolta si sono mosse non solo le diplomazie latinoamericane, ma, soprattutto, la diplomazia vaticana. Il segretario di stato Pietro Parolin e

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papa Francesco sono stati i propulsori e i registi, solo apparentemente muti, dell’avvio della trattativa, avvenuta poi fisicamente all’Avana, con padrone di casa Raul Castro, perché i capi delle Farc hanno preteso quella sede brandendo l’argomentazione della sicurezza per la loro incolumità personale e il presidente colombiano Santos, intelligentemente, gliel’ha accordata. Santos non ha però saputo evitare che il risultato storico ottenuto, l’accordo iconograficamente sintetizzato nella stretta di mano tra il capo guerrigliero Timochenko e lui stesso, che prima di essere eletto come capo del governo era stato il ministro della Guerra di Uribe ed aveva ottenuto grandi risultati militari contro le Farc, fosse sottoposto a referendum. Sicuro che quello storico accordo piacesse alla stragrande maggioranza dei colombiani, ha tentato anzi di farlo diventare una sorta di plebiscito politico sulla sua persona. E ha perso. L’affluenza alle urne (ha votato un cittadino su tre) è stata una delle più basse della storia delle consultazioni elettorali in Colombia, paese che ha già di suo una storia di alte percentuali di astensione. Il No all’accordo ha vinto per uno 0,5%. Anche se uno scarto così sottile tra Sì e No e con un’affluenza così scarsa è numericamente irrisorio, politicamente il risultato è rilevantissimo. Sancisce la sconfitta di Santos e la resurrezione di Uribe che ha arruolato per fare proselitismo politico la chiesa evangelica, insieme ai nemici di Parolin e Bergoglio che in America latina esistono e non sono pochi. Uribe è stato abile nel diffondere la bugia che dietro gli accordi siglati all’Avana si nascondesse un’imminente ondata di misure contrarie alla difesa della proprietà privata e alla dignità delle forze militari. Molto efficace nel dipingere un improbabile futuro colombiano in mano ai chavisti (che sono con l’acqua alla gola a casa loro in Venezuela, figurarsi in Colombia). Ottima idea da parte sua è stata soprattutto presentare il No al referendum come un no alle Farc e non come un no alla pace. Interessante notare che il Sì ha vinto nelle parti del Paese più massacrate dalla guerra. È il caso dei municipi assediati storicamente dai guerriglieri, come Cauca, Guaviare, Nariño, Caquetá, Antioquia, Vaupés, Putumayo, Meta e Chocó. A Boyayà, per esempio, dove nel maggio 2002 negli scontri con i paramilitari le Farc uccisero 79

persone che si erano rifugiate in una chiesa, il 94% ha votato per il Sì. Santos, la cui popolarità è scesa da tempo sotto il 20% stando ai sondaggi mentre quella di Uribe rimane intorno al 50% da quando ha lasciato la presidenza nel 2010, ha subito confermato il mantenimento del cessate il fuoco, e aperto al dialogo con Uribe, che ora lo potrà cuocere a fuoco lento con tutto l’agio di un ex presidente che non può formalmente candidarsi in prima persona, ma si appresta a farlo utilizzando un uomo di paglia della destra colombiana, non ha ancora scelto quale. Anche Timochenko, che all’anagrafe risulta chiamarsi Rodrigo Londono, si è dichiarato disponibile a non buttare tutto all’aria. Ma chissà se gli conviene. Per capire il gioco delle parti in corso, però, e la quantità di insidie e doppie identità che si cela nella complessa partita sull’accordo di pace, può essere utile il seguente dettaglio. Pablo Catatumbo, uno dei capi delle Farc, uno dei più seguiti e dei più radicali, membro del Segretariato che è l’organo esecutivo della guerriglia, pochi giorni fa ha aperto una conferenza stampa con le seguenti parole: «Noi, Farc, abbiamo lottato per raggiungere questo accordo finale di pace, nonostante le resistenze del governo, per esempio, a parlare di modello economico. Quello che abbiamo davanti agli occhi è un accordo che offre strumenti per risolvere con mezzi democratici le nostre differenze e porre fine ad un conflitto lungo più di cinquant’anni». Catatumbo ha detto: «Per noi questo accordo rappresenta una porta aperta per la gente che dovrà continuare a lottare e difendere il territorio in condizioni finalmente democratiche e favorevoli all’esercizio dell’opposizione» ricordando poi, e a ragione, che il paramilitarismo è «la maggior minaccia agli accordi raggiunti con il governo». Ebbene, ad «Azione» risulta, per testimonianza diretta, che lo stesso Catatumbo, tempo fa, sprofondato in una conversazione a due all’Avana e ignaro di essere ascoltato, ha detto: «L’accordo ci viene imposto da Castro d’accordo con Timochenko, la pace non è fatta per niente, la stretta di mano tra Timochenko e Santos ci danneggia moltissimo perché si dice ormai in ambienti a noi vicini che le Farc stringono la mano di chi ha fatto uccidere i nostri». Il riferimento era ovviamente a Santos, che prima di candidarsi era ministro della Guerra di Uribe e ha combattuto contro le Farc.


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Politica e Economia Richiedenti l’asilo lavorano in una fattoria a Füllinsdorf, nel canton Basilea campagna. (Keystone)

Economia a «somma zero»

Dibattiti La redistribuzione dei redditi fra

fasce di individui è spesso il gioco preferito dei policymaker. Ma la vera sfida rimane la crescita

Edoardo Beretta

Difficile integrazione professionale Migrazione Di recente sono stati lanciati diversi programmi

per facilitare l’accesso al mondo del lavoro ai rifugiati riconosciuti. Per ora i risultati sono ancora insufficienti

Luca Beti Vestono da muratori, le maniche arrotolate, i capelli coperti di polvere. Riuniti a crocchio ascoltano attentamente le spiegazioni del loro insegnante. Sono 11 rifugiati riconosciuti; seguono un programma di integrazione professionale di un anno che apre loro le porte a un apprendistato nel settore delle costruzioni. «Sono afgano e vivo da quattro anni in Svizzera», ci dice Nasari, incontrato in un capannone della scuola professionale per muratori di Sursee, nel canton Lucerna. «Voglio conseguire l’attestato federale di capacità, guadagnarmi da vivere e in futuro fondare un’impresa di costruzioni». Il programma, lanciato nel 2014 dal canton Lucerna, in collaborazione con la Società impresari costruttori lucernese, l’organizzazione non profit ENAIP e la scuola professionale di Sursee, ha avuto finora un certo successo, anche se all’inizio ha dovuto superare alcune difficoltà. «Non è stato semplice trovare per tutti un posto di apprendistato in un’azienda di costruzioni della regione. A volte ho dovuto fare i conti con i pregiudizi degli impresari nei confronti dei richiedenti l’asilo», ricorda Patrik Birrer, direttore del centro di formazione a Sursee. Nel frattempo, tutti i partecipanti della seconda edizione del programma hanno trovato un posto di formazione, grazie anche alle ottime esperienze dei datori di lavoro con i rifugiati riconosciuti assunti l’anno precedente. Oltre alle conoscenze professionali, i giovani corsisti seguono lezioni di tedesco, cultura generale, aritmetica, geometria e crescita personale. «Nel corso del programma si tenta di colmare le lacune in alcune materie fondamentali», spiega Birrer. «I più non sanno come calcolare la superficie di un’area, il volume di un solido o non hanno mai sentito parlare del teorema di Pitagora». Quella lanciata nel canton Lucerna non è l’unica iniziativa di integrazione professionale per rifugiati in Svizzera. L’Unione svizzera dei contadini, con il sostegno della Segreteria di Stato della migrazione (SEM), ha presentato nel 2015 un progetto pilota di tre anni. A un anno di distanza il bilancio è positivo: 13 rifugiati sono stati impiegati in otto aziende agricole. «Riesco» è, invece, il nome del programma del settore della ristorazione e dell’albergheria dei cantoni Zurigo e Lucerna. Grazie a una formazione teorica e pratica di un anno, i

rifugiati hanno la possibilità di accedere al mondo del lavoro come apprendisti o di ottenere un’assunzione. In nove anni, circa 300 partecipanti hanno ottenuto un certificato federale di formazione pratica o un attestato federale di capacità. Dal canto suo, nel dicembre 2015 la SEM ha presentato il progetto pilota di un apprendistato per rifugiati. L’iniziativa intende preparare ogni anno 1000 rifugiati riconosciuti o ammessi a titolo provvisorio a una formazione professionale in Svizzera. È una sorta di trampolino verso il mondo del lavoro. Quella presentata sopra non è certo una lista esaustiva delle varie iniziative promosse a livello nazionale. Questi esempi evidenziano però la volontà di integrare professionalmente i rifugiati in Svizzera. Un’integrazione a lungo negletta nonostante offra la possibilità di risolvere, almeno in parte, due problemi: la difficoltà dei richiedenti l’asilo di accedere al mondo del lavoro, situazione che si ripercuote sui costi sociali, e la carenza di manodopera in alcuni settori professionali. Anche se promettenti, i programmi coinvolgono per il momento un numero ancora troppo esiguo di persone. Basti pensare che negli ultimi due anni la Svizzera ha concesso lo statuto di rifugiato riconosciuto o di persona ammessa provvisoriamente a circa 30’000 richiedenti l’asilo. Uno studio, svolto nel 2014 su mandato della SEM, indicava che dopo cinque anni soltanto un rifugiato riconosciuto su tre svolgeva un’attività professionale, mentre unicamente il 17 per cento delle persone ammesse a titolo provvisorio aveva trovato un impiego in questo lasso di tempo. Questa situazione è paragonabile ad altri Paesi dell’OCSE ed è dovuta a vari fattori. Stando agli esperti, l’ostacolo maggiore all’integrazione professionale dei rifugiati è la lingua. Altre barriere sono le esperienze traumatiche vissute nei Paesi d’origine, le differenze culturali, la mancanza di una rete di contatti sociali sul territorio, le scarse competenze professionali e scolastiche, ma anche il lungo iter amministrativo per ottenere l’autorizzazione di svolgere un’attività lavorativa. È una situazione che pesa sui costi sociali, come confermano i dati pubblicati dall’Ufficio federale di statistica. Nel 2015, quasi nove persone su dieci nel campo dell’asilo dipendeva dall’aiuto sociale. Infatti, i migranti che giungono in Svizzera, di norma, non hanno di che vivere e quindi sono a carico dell’assistenza. Inoltre, per loro è difficile trovare un

impiego durante la procedura d’esame della loro richiesta. Del resto, in questo stadio la loro integrazione non è ritenuta prioritaria; il timore è di accrescere l’attrattiva della Svizzera per i migranti economici. Ma anche in seguito, i rifugiati riconosciuti o ammessi a titolo provvisorio continuano ad avere enormi difficoltà ad accedere al mondo del lavoro. In media, il 70-90 per cento continua a dipendere dalla mano pubblica per i primi cinque-sette anni, indica un rapporto redatto nel 2014 dalle Associazioni degli uffici svizzeri del lavoro e dei servizi cantonali di migrazione. Oltre agli ostacoli elencati sopra, anche le mutate richieste del mercato del lavoro nel nostro Paese impediscono una veloce integrazione professionale. Oggi, in Svizzera non servono solo braccia, ma anche e soprattutto manodopera straniera altamente qualificata. In passato, le migliaia di profughi provenienti dall’Ungheria, dal Tibet, dalla Cecoslovacchia, dal Vietnam, in epoca più recente, dai Paesi dell’ex Iugoslavia, avevano trovato in fretta una collocazione professionale. I profughi di oggi, provenienti soprattutto da Stati extraeuropei, hanno spesso un livello di formazione non adeguato alle richieste del mercato elvetico. Chi invece ha conseguito un diploma professionale o universitario in patria ha difficoltà a farlo riconoscere in Svizzera. Inoltre, a volte gli attestati di capacità non sono equiparabili con quelli elvetici, altre i rifugiati sono sprovvisti dei certificati e la loro particolare situazione impedisce loro di farne richiesta alle autorità del Paese d’origine. Anche se non attestate sulla carta, la maggior parte dei rifugiati riconosciuti o ammessi in maniera provvisoria porta con sé delle competenze professionali, come evidenzia una ricerca dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Spetta alle autorità competenti determinare risorse, possibilità e deficit di ogni persona per mettere a frutto questo potenziale, per il momento rimasto ancora inespresso. A Sursee, nei capannoni per la formazione professionale dei muratori, tale potenziale è stato riconosciuto ed è costituito di capacità, volontà, interesse e voglia di rivalsa. Dopo aver vissuto la tragedia della guerra o i soprusi di un regime totalitario, agli undici richiedenti l’asilo riconosciuti, nove afgani, un eritreo e un tibetano, è concessa la possibilità di costruirsi, con le proprie mani, una vita indipendente e un futuro migliore.

Che la globalizzazione economica sia spesso fonte di divisione fra i suoi sostenitori e detrattori, è fatto noto. Altrettanto comunemente comprovata è, inoltre, la conclusione, secondo cui nelle ultime decadi si sia assistito ad un ampliamento del divario in termini di benessere economico fra categorie di persone, dove alcune si sono arricchite persino esponenzialmente ed altre sono piuttosto rimaste «al palo» o hanno visto aggravarsi la propria condizione reddituale e patrimoniale. I dati diffusi dall’OCSE sembrano parlare chiaro: il reddito medio del 10% della popolazione più ricca è ben nove volte maggiore del 10% di quella più povera, registrando un incremento rispetto alle sette volte di un quarto di secolo fa1. A tali ineguaglianze non è stato finora posto alcun rimedio strutturale, cioè una soluzione che incida alle origini stesse del problema con un approccio ex ante (e non ex post come nell’attuale scenario). Per far fronte a questa situazione ecco, invece, che i policymaker paiono avere scoperto – creando così un inaspettato sodalizio senza precedenti fra interventismi di stampo keynesiano (in alcuni settori) e laissez-faire di matrice liberista (in altri ambiti) – un vero e proprio «giocattolo» politico-economico: la redistribuzione. Ci sia consentita la metafora: come nell’infanzia i travasi d’acqua da un bicchiere ad un altro rappresentano spesso uno svago praticato, così i decisori economici si concentrano nell’avanzare proposte di riforme basate sul mero trasferimento di risorse fra categorie di persone. Sebbene sia diffusa la convinzione, secondo cui il passaggio di un’unità di reddito da un soggetto più ad uno meno abbiente (per via della tendenzialmente maggiore propensione al consumo di quest’ultimo) stimoli la spesa corrente (e, quindi, la crescita economica), è difficile credere a meccanismi moltiplicativi dalle caratteristiche taumaturgiche: infatti, anche solo ipotizzando due individui A e B rispettivamente dotati di redditi pari a 1000 e 100 unità, come potrebbe una qualche redistribuzione dall’uno all’altro distogliere dal fatto che il reddito complessivo di entrambi rimanga – seppur diversamente allocato – pari a 1.100? In altri termini, l’intervento del legislatore non sarebbe a «somma positiva», bensì a «somma nulla», lasciando la società nel suo complesso in uno stato di ricchezza invariata. Certamente, l’assunto troppo spesso trascurato è che sia la sola attività produttiva e crescita economica a comportare da uniche l’innalzamento (e, certamente, non il solo travaso) del reddito complessivo. A ben guardare, la redistribuzione reddituale tramite

imposizione tributaria progressiva e tariffe di erogazione di servizi (sempre più) in base alla propria forza economica potrebbe forse solo indirettamente ingenerare crescita. In realtà, la politica e l’economia paiono piuttosto volere rimediare alla crescente (e congenita) difficoltà di stimolo di società post-industriali con la mera (e, per giunta, spesso arbitraria) ripartizione reddituale. Un approccio simile è, però, insostenibile nel tempo, poiché sottrae ricchezza agli uni per limitarsi a tamponare le difficoltà degli altri (fra cui disoccupazione o inadeguatezza salariale): i primi, quindi, sarebbero crescentemente disincentivati a produrre (per via della maggiore redistribuzione all’aumentare del reddito) e subirebbero un impoverimento relativo, mentre i secondi certo non si arricchirebbero, poiché la soluzione ai loro problemi economici rimarrebbe la sola crescita generalizzata. A riguardo, si potrebbe sostenere che i Paesi scandinavi, nonostante siano caratterizzati da uno Stato sociale incentrato necessariamente sulla redistribuzione, spesso primeggino nelle classifiche internazionali per qualità di vita e benessere: tale «ricetta», però, non è trasponibile pari passu a nazioni con ben diversi gradi d’efficienza dell’apparato statale (che funge, appunto, da intermediario nella ripartizione fra categorie sociali). L’unico rimedio, che la letteratura mai ha tramandato essere stato nocivo, rimane ancora una volta la sola crescita economica. Quest’ultima, se caratterizzata da maggiore occupazione e migliori opportunità lavorative, non può essere sostituita in alcun modo: che la globalizzazione – incontrollata e repentina come è appunto stata – possa avere creato divario sociale, non può certo indurre tout court a rigettarla. Gli Stati devono, quindi, sapere affiancare un giusto assistenzialismo ed una doverosa difesa «senza se e senza ma» di ambiti come quello sanitario e pensionistico ad una maggiore volontà di creare nuovo reddito – non trasferirlo. Come? Sia sostenendo sistematicamente le modalità lavorative più innovative (ad esempio, telelavoro, desk sharing e flessibilità in termini di tempi/ modi) sia premiando il merito (individuale, scolastico o lavorativo che sia) con incentivi fiscali mirati. Nel volere demonizzare a priori la sostanza economica individuale ai fini redistributivi non ci si avvede, invece, di infliggere un’ingiusta «punizione» alla società nella sua interezza, che non può aspirare ad essere più equamente ricca, ma deve diventare equamente più ricca. Note

1) www.oecd.org/social/inequality.htm

Povertà e ricchezza fianco a fianco in uno slum di Bombay, India. (Keystone)


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Politica e Economia

Svizzera sempre la più competitiva

Statistiche L’indice del World Economic Forum pone l’economia elvetica ancora una volta in cima alla classifica

mondiale, ma i punti deboli non mancano, a cominciare dalle incertezze riguardo ai rapporti con l’UE

Ignazio Bonoli L’indice calcolato per l’ottava volta dal World Economic Forum pone la Svizzera in testa alla graduatoria mondiale. Il rapporto vede ostacoli nel rinascere del protezionismo nel mondo. Il «World Economic Forum», cioè l’istituto con sede a Ginevra, ma molto noto anche al grande pubblico perché organizza, all’inizio di ogni anno, il simposio internazionale di Davos, pubblica ogni anno i risultati di uno studio sulla competitività globale di 138 paesi, dal quale deduce il «Global Competitiveness Index». Questo indice si basa su 12 parametri principali, che sono: le istituzioni, l’infrastruttura, il quadro economico generale, la sanità e l’istruzione primaria, altri gradi di istruzione e formazione, l’efficienza del mercato, il mercato del lavoro, quello finanziario, la tecnologia, la grandezza complessiva del mercato, la qualità del «business», l’innovazione. Questi vengono a loro volta suddivisi in tre sottoindici. In totale vengono utilizzati 114 indicatori. Per l’ottavo anno consecutivo la Svizzera risulta nettamente in testa a questa speciale classifica, ancora una volta davanti a Singapore e agli Stati Uniti. Il nostro paese è infatti risultato al primo posto in ben 11 dei 12 indicatori utilizzati. I settori in cui eccelle in assoluto sono l’innovazione, la qualità del business e la tecnologia. Un vantaggio di peso viene indicato anche nella trasparenza delle istituzioni, nell’ef-

ficienza del mercato del lavoro, nelle buone infrastrutture e nel sistema educativo. Ovviamente non tutto è perfetto anche in Svizzera. L’analisi del WEF rileva alcuni punti deboli: per esempio l’incertezza che domina i negoziati con l’Unione Europea sulla libera circolazione delle persone, i tempi lunghi e le procedure per creare un’azienda, la persistente deflazione, la concorrenza insufficiente in alcuni settori e – ancora una volta – la debole partecipazione femminile al mercato del lavoro. Il saldo complessivo dei fattori esaminati rimane però ampiamente positivo. Se guardiamo alle classifiche mondiali, dopo i tre paesi citati seguono l’Olanda, che supera la Germania. I due paesi, negli ultimi anni, hanno guadagnato posizioni. Al sesto posto figura la Svezia (che migliora di tre posizioni), mentre al settimo segue il Regno Unito, che guadagna pure tre posizioni. Seguono poi Giappone, Hong Kong e Finlandia. Si tratta di paesi piuttosto avanzati nello sviluppo post-industriale, che si distaccano da altri, appartenenti di regola al Sud dell’Europa: la Francia è ventunesima, la Spagna 32esima, l’Italia 44esima, il Portogallo 46esimo (in perdita di otto posizioni) e la Grecia 86esima (in perdita di quattro posizioni). Tra i paesi emergenti, quelli del cosiddetto BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) si nota in particolare il miglioramento dell’India, salita al

Un robot suddivide praline allo Innovation Switzerland, il parco tecnologico inaugurato quest’anno a Bienne. (Keystone)

39esimo posto, guadagnando 16 posizioni rispetto all’anno precedente. Va detto che nei confronti si deve tener conto che il WEF utilizza cinque categorie di sviluppo economico. In queste categorie gli indicatori vengono ponderati in modo diverso, tenendo anche conto – per esempio nella valutazione

del reddito pro capite – di come questo reddito viene prodotto. Importante in questo contesto la valutazione del reddito derivante dall’esportazione di materie prime. Accanto ai netti progressi dell’India – che però presenta ancora parecchi problemi da risolvere – la posizione

migliore nel gruppo dei BRICS rimane quella della Cina, al 28esimo posto, mentre Russia e Sudafrica vengono rispettivamente al 43esimo posto e 47esimo posto. Il Brasile sta invece vivendo un momento difficile, per cui i suoi indici lo collocano all’81esimo posto, in perdita di sei posizioni. Dalla somma delle osservazioni che il WEF aggiunge al calcolo degli indici matematici, si può dedurre una tendenza che caratterizza oggi le varie aree del mondo economico. Intanto si delinea una tendenza abbastanza netta verso la diminuzione del grado di apertura dei vari paesi per quanto attiene agli scambi commerciali. Una tendenza che può portare pregiudizio anche al grado di competitività delle singole economie. L’osservazione era già stata avanzata anche in altri studi che constatano una crescita del protezionismo, accompagnato da un ritorno del nazionalismo sul piano politico. Anche per quanto concerne la Svizzera, si nota in proposito che le tendenze protezionistiche nel mercato del lavoro potrebbero nuocere alla competitività. Infine, non poteva mancare un accenno alle politiche eccessivamente largheggianti delle banche nazionali. Da sole non basteranno per un rilancio della crescita, se non saranno accompagnate da riforme strutturali. Ma è proprio grazie al fatto di aver risolto alcuni di questi problemi che la Svizzera ha raggiunto quest’anno il livello massimo in assoluto nell’indice del WEF: 5,81 punti su un totale di 7.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Finanze del Cantone: il pareggio all’orizzonte Le recenti decisioni del Gran Consiglio ticinese in merito al piano di riequilibrio delle finanze hanno suscitato molto interesse e discussione soprattutto per il fatto che, per la prima volta da quando il Cantone si dibatte in difficoltà finanziarie, il suo parlamento ha deciso di tagliare le spese più di quanto aveva proposto il governo. Vuoi vedere che, finalmente, anche in Ticino la maggioranza di destra riesce a mettersi d’accordo su una politica di rigore nella spesa davanti alla quale, finora, si era mostrata più che tentennante? Nessuno può dubitare delle buone intenzioni del Gran Consiglio. Ci si può però porre due questioni. La prima è di natura politica: perché un parlamento, nel quale la destra da anni è largamente maggioritaria, ha atteso fino al settembre del 2016 per varare una politica finanziaria rigorosa rispetto all’evoluzione delle spese? La nostra ipotesi è che, nel corso degli ultimi

mesi, sia maturata nella destra la convinzione che se marcia compatta, possibili referendum su nuove misure di risparmio saranno di sicuro respinti in votazione popolare. Difficile spiegare le ragioni di questa convinzione. Certo è però che quello che è successo a livello nazionale, nel corso di questo primo anno di legislatura con maggioranza di destra, può avere influenzato anche l’evoluzione della politica ticinese. La seconda questione riguarda la credibilità delle finalità di politica finanziaria espresse in documenti di previsione come piani finanziari o preventivi. Una politica rigorosa di contenimento della spesa è necessaria per far ritrovare l’equilibrio tra spese e ricavi. Perché, occorre ricordarlo, l’esecutivo del Cantone può controllare solo l’evoluzione delle spese. L’evoluzione dei ricavi dipende, in larga parte, dall’andamento delle entrate fiscali le quali, a loro volta, sono influenzate dall’andamento

della congiuntura economica generale, o da fattori anche più casuali, sui quali il governo cantonale non può intervenire, a meno di ricorrere al moltiplicatore fiscale. Considerando i dati della statistica, tuttavia, si ha l’impressione che, nel corso degli ultimi anni, il nostro governo ha preso un po’ sottogamba quello che piano finanziario e preventivo gli dettavano in materia di spesa. Ad eccezione del 2012, anno nel quale il Cantone spese di meno di quanto aveva preventivato, tutti gli altri consuntivi si sono chiusi con eccedenze di spesa rispetto al preventivo. Queste eccedenze sono direttamente correlate alle differenze in più in materia di ricavi. Di fatto, quindi, gli obiettivi di riduzione della spesa dei documenti di previsione non sono mai stati rispettati. Ora il progetto di preventivo 2017 prevede di ridurre il disavanzo a 34 milioni di franchi, ossia a meno della metà dell’ultimo disavanzo accertato, quel-

lo del 2015. Intende farlo soprattutto amministrando con grande rigore la spesa. L’esperienza del recente passato ci dice che sarà difficile raggiungere questo obiettivo. A meno che, e questo nessuno se lo augura, i ricavi aumentino molto meno di quanto il preventivo preveda. Il freno alla spesa diventa veramente effettivo solo quando scarseggiano le risorse. Fatte queste

Evoluzione del disavanzo del Cantone Ticino dal 2012 (in milioni di franchi).

considerazioni vengo alle conclusioni. Come dimostra il grafico che accompagna questo articolo, il fatto che non si riesca a frenare la spesa nella misura in cui si dovrebbe fare secondo piano finanziario e preventivo non ha pregiudicato però la possibilità di raggiungere l’equilibrio tra spese e ricavi nel lungo periodo. Grazie all’aumento superiore al preventivato dei ricavi, il disavanzo nei conti del Cantone continua infatti a diminuire. Non solo, ma il disavanzo nel consuntivo è sempre minore di quello annunciato nel preventivo. Se la tendenza dovesse continuare potremmo anticipare un preventivo in equilibrio per il 2020 e un consuntivo equilibrato forse già per il 2018. Per raggiungere questo risultato non basterà però contenere la spesa con nuove misure di risparmio. Occorrerà anche che i ricavi continuino ad aumentare a un tasso annuale vicino al 2%. La speranza è l’ultima a morire!

piegava nella crisi, la Colombia cresceva al ritmo del 4% l’anno. La prevalenza del no ai referendum non è un fenomeno inedito. In Italia ad esempio, sino alle grandi vittorie di Segni, gli elettori avevano sempre votato no (in particolare all’abrogazione del divorzio e dell’aborto). Dopo l’esplosione del Maggio 1968, De Gaulle sciolse l’Assemblea nazionale e stravinse le elezioni; ma quando l’anno dopo sottopose ai francesi il suo progetto di riforma costituzionale, all’insegna del regionalismo e della partecipazione, fu sconfitto e si ritirò a vita privata, esprimendo l’intenzione di morire il prima possibile (fu accontentato l’anno dopo). E se è accaduto a un gigante della storia essere rifiutato dal popolo che aveva salvato, figurarsi alle figure ovviamente più modeste che calcano ora la scena mondiale ed europea. Complicata da un altro fattore. A Londra, dove il sistema bipolare ha retto – con l’eccezione del voto del 2010

–, Cameron ha pagato il proprio azzardo con le dimissioni e l’addio alla politica. E in tutto il resto d’Europa i poli ormai sono tre o quattro. Il risultato è evidente: arrivare al 51% in una votazione secca è quasi impossibile; molto più facile per le opposizioni coalizzarsi contro chi comanda, scontrandosi con questioni più grandi di lui. In Francia il presidenzialismo a doppio turno crea una torsione per cui un candidato dal 30% o anche meno prende tutto, e diventa rapidamente impopolare: è accaduto a Sarkozy e a Hollande, domani accadrà forse a Juppé. La Spagna è senza governo da quasi un anno. In Germania la «Grosse Koalition» è di fatto un centrosinistra, con il centro che traballa e la sinistra che affonda. In Italia Renzi ha creduto di rafforzare il sì offrendo la propria testa all’elettorato, e ha ottenuto il risultato contrario. Basta leggere il sondaggio a cura di Nando Pagnoncelli: nel merito il sì prevale nettamente, punto per punto, dal

Senato al Cnel al titolo V; ma quando si tratta di dare un’indicazione netta, l’istinto popolare tende a orientarsi sul no. La campagna è ancora lunga, gli indecisi sono troppi per fare previsioni serie; ma la vittoria del sì, che non molto tempo fa appariva quasi scontata, si trova a dover rimontare la corrente della storia. Resta una domanda: cosa farà Renzi nel caso, sempre meno improbabile, di una vittoria del no? I ministri che si illudono che il governo possa andare avanti come se niente fosse, prendono una cantonata. Renzi potrebbe anche restare al suo posto; ma verrebbe logorato giorno dopo giorno, dai suoi nemici interni e anche dai compagni di partito che se lo sono fatti piacere e si sono messi nella sua scia, ma sono pronti ad abbandonarlo alla prima sconfitta. A quel punto Renzi farebbe bene a dimettersi. Sarebbe l’unico modo per avere una chance di tornare in gioco.

alla dentiera e al viagra, l’affermazione del desiderio senza futuro, un eterno svegliarsi-consumare-addormentarsi, senza in mezzo una parola che faccia la differenza tra gli esseri dotati di logos e i parassiti (…) Più siesta per tutti e buen retiro per sempre». (Meglio chiarire subito: la situazione italiana dipinta da Sechi relativizza un po’ i problemi della vecchiaia di casa nostra). A chiudere la settimana arriva una giuliva «cover story» di «Ticino 7», un vero viatico dopo i massacri del Nazionale sulle pensioni: «Mai vecchi. L’allungamento della vita ha spostato in avanti l’inizio della Terza età, con una serie di conseguenze sia sul piano sociale, sia negli stili di vita, sempre più giovanilisti e dinamici…». Anziani tutti agili e scattanti, d’accordo, tutto bello. Ma non è che si sta pubblicizzando (o sdoganando) il pensionamento a 70 anni? Le notizie settembrine rafforzano due mie convizioni. Innanzitutto che il processo di invecchiamento della popolazione è una sorta di lasciapassare a

disposizione degli ambienti economici per imporre diktat e condizionamenti a una politica sempre più supina nell’accettarli («per il bene della società» si è sentito dire). Altro convincimento: la classe politica è sempre più refrattaria ad affrontare i problemi demografici partendo dall’incidenza causata dal calo delle nascite. L’immagine grafica classica della demografia è quella della piramide, con i vari segmenti dalla base al vertice in corrispondenza con le età; e per giustificare e imporre nuovi salassi viene sempre sventolata la piramide rovesciata, col vertice in basso. Per capire meglio i problemi demografici che minacciano tutti i paesi industrializzati e a reddito elevato (dall’Europa alla Cina, per intenderci) sarebbe forse più utile usare l’immagine di un lago con una dicitura che spieghi che esso vive grazie a un immissario (le nascite) e a un emissario (la mortalità). Si capirebbe così che per mantenere il livello necessario non basta bloccare i flussi dell’emissario: se non si tiene

conto che le acque immesse stanno diminuendo o cessando, le misure per frenare i volumi dei deflussi finiranno per risultare inutili o dannose dato che, pur ristabilendo i livelli, non potranno mai garantire anche salute e vita all’acqua del lago. Questa immagine poco ortodossa e la caustica vignetta di Altan sembrano suggerire a politici, tecnici e amministratori la necessità un approccio diverso – mediando tra slanci utopistici della sinistra e frenate populiste della destra, come pure bloccando le spallate distribuite da circoli interessati e lobbisti – per forgiare una politica previdenziale che tenga conto non solo dei numeri ma anche di tutti i cambiamenti demografici e dei mutamenti sociali in atto. Il «bene della società» non lo si assicura addossando disagi a chi già fatica a portare avanti una famiglia, un lavoro o gli ultimi anni della propria esistenza, ma piuttosto offrendo stimoli saggi e ragioni dignitose per coinvolgere tutti nell’impegno e nella solidarietà.

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In&outlet di Aldo Cazzullo Referendum, la paura del no Voi svizzeri avete con i referendum un rapporto sano, anche quando danno risultati dolorosi per noi italiani. La democrazia diretta per voi è la norma: c’è una cultura, una tradizione del referendum. In Italia, meno. Nel resto del mondo, va anche peggio. In un sistema sano, il popolo viene consultato e decide liberamente, senza pregiudizi, senza schemi mentali. Ma di questi tempi non funziona così. Di questi tempi, qualsiasi governo che sottopone la propria linea ai cittadini con un referendum si sente rispondere di no. Hanno cominciato gli inglesi, licenziando Cameron – che non aveva lavorato così male al numero 10 di Downing Street – e la sua scelta di restare in Europa. Hanno continuato ungheresi e colombiani. Eppure le domande bocciate domenica scorsa potevano sembrare retoriche. Più che referendum, erano plebisciti. «Gli immigrati non li vogliamo, siete d’accor-

do, vero?». «Pace fatta con i guerriglieri, giusto?». Come si fa a essere contro la pace? Ma l’insoddisfazione popolare e il rigetto verso i leader sono stati più forti: a Budapest la maggioranza è rimasta a casa, vanificando la prova di forza del premier Orban; a Bogotà la maggioranza si è schierata contro, con il rischio di rendere inutile una trattativa durata anni. Ancora una volta, il fenomeno travalica le categorie storiche di destra e sinistra. In Ungheria la destra è uscita ridimensionata nella sua ambizione di ergersi a regime e ritagliarsi uno spazio al di fuori dalle leggi europee; ma in Colombia la destra ha vinto, denunciando l’accordo con gli ex terroristi come un cedimento all’ondata postcastrista e chavista che ha percorso l’America Latina lasciando disastri dal Venezuela al Brasile. La mancanza di lavoro e le difficoltà economiche aiutano a capire il malcontento, ma non spiegano tutto: mentre il mondo si

Zig-Zag di Ovidio Biffi Per il bene della società? A parlar male della statistica si rischia come minimo di inciampare in dispute e contraddittori. Così, volendo trattare un problema che riguarda la demografia, scelgo di stare alla larga dai numeri e dalle tecniche di computo. Tanto più che le ricerche di dati e studi concernenti l’invecchiamento della popolazione mi forniscono la conferma che in fatto di statistiche il Ticino continua ad essere in colpevole ritardo. Comunque il tema degli anziani negli ultimi tempi compare sovente nelle cronache ed è oggetto di attenzioni mediatiche e scontri politici per i problemi concatenati e complessi che sta conoscendo, mirabilmente riassunti da una vignetta «politica» di Altan: «Con la crescita zero il Paese invecchia. Tra un po’ avremo un pensionato a carico di ogni disoccupato». Sintesi perfetta e ragione in più, rispettando la premessa, per limitarmi a lampi e scoppi mediatici captati l’ultima settimana di settembre. Il lunedì (26) reca i commenti al secco rifiuto dell’iniziativa AvsPlus che chie-

deva (offriva) un potenziamento delle rendite per anziani. Martedì invece titoloni, interviste e commenti sono per l’impennata dei premi malattia con il coordinatore del DSS che dichiara: «L’invecchiamento della popolazione e l’evoluzione tecnologica della medicina sono fattori che inevitabilmente inaspriranno la fattura». Nemmeno 24 ore e mercoledì è il Nazionale a sparare a raffica: pensione a 65 anni delle donne, riduzione del tasso LPP che regola le rendite del II. Pilastro, possibile pensionamento automatico a 67 anni in caso di disavanzo e, tanto per capire l’antifona, via l’aumento dell’Avs già quasi sul piatto. Anziani al muro, insomma. Spero di trovare altra musica giovedì sulla newsletter del collega Mario Sechi. Parla dell’Italia, ovviamente, dove con l’accordo sulle pensioni «avanza a passo di carica la maggioranza piagnona del vitalizio a prescindere, si materializza come un moloch con lo stuzzicadenti in bocca e la canottiera, una società vecchia, decrepita, pronta


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Cultura e Spettacoli Fotografia a Chiasso Festival e fotografia, un binomio sempre più diffuso di cui si è discusso alla Biennale 9 1/2

Ai tempi di Saint-Saëns Il giornalista, scrittore e musicologo Giuseppe Clericetti, è reduce da un nuovo viaggio nel passato: questa volta ha incontrato il grande musicista Camille Saint-Saëns e ne ha scritto la biografia

Bridget Jones è incinta Per la gioia delle ammiratrici, sugli schermi tornano le avventure di un’eroina moderna

Una misteriosa Tempesta L’anglista Nadia Fusini ha pubblicato un libro in cui analizza la Tempesta del Bardo

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Il riscatto dell’Ottocento italiano

Bois de Boulogne di Giuseppe De Nittis, 1873.

Mostre Le opere esposte testimoniano un grande rinnovamento artistico, e allo stesso tempo raccontano

le importanti novità di una società irreversibilmente destinata a cambiare

Luciana Caglio «Sono proprio i macchiaioli la prima vera avanguardia della storia dell’arte, artisti che incominciano a chiamarsi fuori dalla società d’appartenenza per autoverificarsi. La storia però non ha reso giustizia a questo movimento, e quando se ne parla oggi, non sembra essere più che una curiosità etnica». Il giudizio è di Philippe Daverio, critico e bravo divulgatore (le due cose non sempre coincidono), e si ritrova nel catalogo della mostra L’Ottocento aperto al mondo, in corso al Centro Matteucci di Viareggio. Una sede ideale, non soltanto dal profilo logistico, in una palazzina liberty, già di per sé evocativa, ma soprattutto per il ruolo svolto dall’omonima Fondazione per l’arte moderna: che sta concentrando l’attenzione su un periodo, trascurato o frainteso dalla critica e dal pubblico qual è l’Ottocento italiano. Di cui i macchiaioli rappresentarono un’avanguardia, ancora da valutare in tutta la sua portata innovativa. Era nata, a partire dal 1855, ai tavoli del Caffè Michelangelo di Firenze, dove

un gruppo di artisti (Fattori, Signorini, Lega, i più noti), teorizzava e poi sperimentava una pittura liberata dagli accademismi, da praticare all’aria aperta, a contatto con la natura e la quotidianità della gente. Erano le rivendicazioni e gli obiettivi che, nel successivo decennio, dovevano animare le discussioni, ai tavoli del Café de la Nouvelle Athène, a Parigi, fra Manet, Pissarro, Degas, Renoir, future grandi firme dell’impressionismo, movimento destinato a un successo di respiro mondiale. Sono due mondi che sembrano lontani e non paragonabili: una provincia isolata e silenziosa, in un’Italia nazione ancora in fieri, e una capitale cosmopolita e sfolgorante. Ma li avvicinava la condivisa percezione di un cambiamento che era nell’aria: alle soglie della modernità, l’arte stava inventando nuovi linguaggi. Macchiaioli e impressionisti ne diventarono gli anticipatori. Con ciò qual è stato veramente il rapporto fra loro? La mostra risponde all’interrogativo già dal titolo. L’Ottocento aperto al mondo si riferisce all’esperienza vissuta da arti-

sti italiani che, sia operando in patria, sia emigrando a Parigi, furono in grado d’interpretare, con risultati di alto rilievo, i fermenti creativi dell’epoca. Non si tratta, insomma, di stabilire, se e quanto, i macchiaioli approfittarono della lezione impressionista, ne furono insomma dipendenti. Quel che conta è constatare l’autenticità della loro ispirazione e l’efficacia della loro pennellata, attraverso le testimonianze di dipinti rivelatori. Che, non di rado, diventano, per il visitatore, motivo di sorpresa e riflessione. Come accade di fronte a L’uncinetto (1885) di Telemaco Signorini. La sua non è soltanto «una perfetta combinazione di paesaggio e figura», ma, come scriverà negli anni 20 il critico Enrico Somarè, l’artista porta sulla tela «un’immagine mentale», un’astrazione. Anticipando i tempi. Altri, invece, i cosiddetti «Parisiens d’Italie», riuscirono a lasciare il segno proprio sul terreno, in quel momento, più affollato, ostico e autorevole. Il successo a Parigi equivaleva a una conferma di talento. Basti pensare a Giovanni Boldini, ritrattista di

celebrità e «grandes dames». Ma nella capitale si affermò anche Giuseppe De Nittis, partito da Barletta «con poche lire e qualche tubetto di colore (...) insegnò agli inglesi a veder le loro nebbie e ai francesi a veder le loro donne». Al di là di questo giudizio, viziato da un eccesso nazionalista, De Nittis appare una figura dominante in questa rassegna. Non a caso, il suo Al Bois de Boulogne ne è l’icona pubblicitaria, proposta sul manifesto e sulla copertina del catalogo. In realtà, però, la rivelazione è il veneziano Federico Zandomeneghi, Zandò, che s’impara a conoscere, attraverso ben sedici pezzi che illustrano con vivacità momenti di vita pubblica, e, con delicatezza, momenti d’intimità quotidiana. Ma, a sua volta, questa mostra ha, alle spalle, una bella storia da raccontare. Ed è quella del lavoro, della passione, dell’intuito di due collezionisti cui si deve lo straordinario allineamento di opere tanto significative, godibili e utili sul piano della storiografia. Si tratta del livornese Mario Borgiotti (1906-1977) e del milanese Enrico Piceni (1901-

1986): personalità diverse, per nascita, ambiente e attività, ma unite dalla curiosità e dalla capacità di percepire, nel mare della produzione artistica, le cose da salvare. In grado di testimoniare il clima culturale di un’epoca. Borgiotti, lui stesso pittore, si mosse nell’ambito dei macchiaioli, contribuendo alla loro identificazione e valorizzazione. Mentre Piceni, figura multiforme, impegnato nell’editoria, traduttore fra altro di Dickens e Agata Christie, rivolse l’attenzione di collezionista ai «Parisiens d’Italie» e fu una presenza di spicco nella grande stagione milanese del secondo dopoguerra. Insomma, la mostra conferma quanto siano intrecciati e pieni di sorprese i percorsi della creatività. Dove e quando

L’ottocento aperto al mondo nelle collezioni Borgiotti e Piceni. Viareggio, Villa Matteucci per l’Arte Moderna, Orari: ma-ve 15.30/19.30, sa/do 10.00/13.00-15.30/19.30. Fino al 26 febbraio 2017. Info: www.cemamo.it


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Cultura e Spettacoli

Comacina, acuta emozione

Escursioni d’arte R esidenze per artisti, reperti archeologici e monumenti: l’unica isola del Lago di Como custodisce

un ricco patrimonio storico-artistico

sier (esempio quindi di architettura razionalista funzionale realizzata con materiali locali). Oggi la terraferma di fronte all’Isola, località Ossuccio, ospita all’interno del complesso medievale di S. Maria Maddalena, l’Antiquarium dedicato a Belloni e Zecchinelli, che raccoglie circa 250 reperti archeologici provenienti dalle campagne di scavo sull’isola e dalle acque circostanti (negli anni 70 furono compiute campagne sub-archeologiche).

Emanuela Burgazzoli «Camminare fra quelle pietre, posare la mano sulla loro superficie corrosa può dare un’emozione acuta, la sensazione reale e tangibile del tempo impietoso cui nulla può resistere, la sensazione di uno stupefacente viaggio a ritroso…». Così scriveva Giuseppe Ghielmetti nelle sue Passeggiate lariane nel 1970 a proposito dell’Isola Comacina, un fazzoletto di terra lungo 600 metri e largo 200 che sorge a un centinaio di metri dalla costa occidentale del Lario, nel comune di Ossuccio. Una collinetta oggi disabitata, se si escludono alcune residenze d’artiste e una locanda, visitabile da marzo a ottobre, che ha svelato a poco a poco, grazie agli scavi condotti nel Ventesimo secolo, un lungo e movimentato passato, segnato dall’occupazione dei romani, dei bizantini, dei longobardi e dagli imperiali di Ottone II. Divenuta un centro strategico politico e religioso della regione importante nell’alto Medioevo, l’epoca dei comuni; l’alleanza però con Milano contro Como, schierata con Federico Barbarossa, segna la sua fine nel 1169. Segue un periodo di oblio da cui si riscatta solo in epoca recente, grazie a due archeologi: Ugo Monneret de Villard e Luigi Mario Belloni. Saranno in particolare le campagne di

Si può citare qualche ospite illustre? Una suggestiva immagine dell’Isola Comacina. (Keystone)

scavi promosse da Belloni, insieme alla moglie Mariuccia Zecchinelli, dalla fine degli anni Cinquanta, a riportare alla luce un passato di cittadella fortificata con case-torre e numerose chiese, tanto che oggi la Comacina viene considerata fra le aree archeologiche più interessanti dell’Italia settentrionale per l’Alto Medioevo. Per saperne di più abbiamo interpellato Sara Monga, responsabile del Museo Antiquarium.

Quali sono le principali attrazioni dell’isola?

sull’isola da Paola di Bello per modificare la percezione abituale del paesaggio.

sola all’Accademia di Brera, convinto che l’istituzione milanese potesse valorizzarne e tutelarne sia il patrimonio archeologico sia le bellezze paesaggistiche. Nel 1940 lo Stato italiano costituisce la «Fondazione isola Comacina», che rimane quasi inattiva fino al 1970, quando viene approvato un nuovo statuto. La fondazione viene allora ricostituita sotto il controllo del presidente dell’Accademia di Brera. Nel 2000 l’isola è dichiarata inalienabile.

Oggi l’Isola offre testimonianze del suo passato davvero notevoli: si percorre il Viale del Poeta, lungo il quale si possono ammirare i resti di scalette e porzioni di mura medievali che lasciano intendere come le abitazioni fossero una accanto all’altra, in pietra locale. Si raggiunge il complesso archeologico più imponente, costituito dai resti del «Duomo», ovvero

La mostra Sull’isola quest’estate erano visibili sia le installazioni progettate dagli allievi della scuola di decorazione dell’Accademia di Brera, sia gli interventi ideati dagli otto artisti selezionati per le residenze d’artista 2016. Si va dalle piccole sculture di Italo Bressan realizzate con materiali trovati sull’isola al progetto di computer art di Marco Cardini, dall’erbario «a impressione» di Anna Roberti realizzato con piante trovate sull’isola ai set «fotografici» dislocati

Curiosità

Nel 1919, l’allora proprietario dell’isola, Augusto Caprani la cede in eredità al re del Belgio; un atto che vuole testimoniare l’ammirazione degli italiani per la resistenza che il Belgio aveva opposto all’invasione tedesca del 1914. Alberto I donò a sua volta l’i-

la basilica romanica di S. Eufemia, la cui planimetria è ben leggibile, mostrandosi a tre navate separate da porzioni di colonne ottagonali e a tre absidi sopraelevate. Fiore all’occhiello, la cripta, ben conservata nelle sue murature, essendosi salvata dalla distruzione perché sottostante. La chiesa di S. Giovanni Battista, unica chiesa consacrata in loco, secentesca, costruita quindi in epoca posteriore la distruzione affinché la popolazione venisse sull’isola a pregare. L’Aula Battesimale regala ai visitatori porzioni di mosaico e affreschi parietali a motivi geometrici del periodo carolingio. Salendo il sentiero archeologico si passa per il sito di S. Maria col Portico, S. Pietro in Castello e ai resti della chiesa dei SS. Faustino e Giovita. Si ammirano pareti in pietra che sembrano voler rievocare l’arte dei Magistri Comacini, gli artisti locali noti per la loro ars muraria. Infine si raggiunge il sentiero degli artisti e, senza disturbare troppo gli artisti in residenza, si ammira l’architettura razionalista delle Case per Artisti, realizzate dall’Arch. Pietro Lingeri negli anni 36-40 sul modello di Le Corbu-

Sicuramente non possiamo scordare la presenza di Hitchcock in passato, che girò alcune parti del The Pleasure Garden sull’isola. La Locanda dell’Isola Comacina oggi raccoglie diverse foto autografate di artisti che sono passati di lì, non ultimo l’ormai di casa George Clooney e diversi attori e politici. Lei ha un suo luogo preferito sull’isola?

Personalmente posso dire di non avere un luogo preferito sulla Comacina, bensì posso dichiarare come la visita dell’Isola sia nel suo complesso una esperienza sensoriale unica, dove l’arte e la natura si mescolano armoniosamente e il suono dello sciabordio delle onde accompagna dolcemente la vista sugli scorci panoramici meravigliosi. Certamente non si può non ammirare la cripta di S. Eufemia, scendere e fare un giro su sé stessi: in questo modo si ha la percezione di essere all’interno di un luogo veramente antico e così, naturalmente, si va indietro nel tempo… Informazioni

www.isola-comacina.it L’isola Comacina si raggiunge via lago da Ossuccio con un taxi-boat o tramite la Navigazione del Lago di Como. Il biglietto per la visita dell’isola si acquista al Museo archeologico Antiquarium di Ossuccio: entrambi aperti fino al 31 ottobre.

Scattare, parlare, esporre

Fotografia A Chiasso la neocostituita Associazione della Biennale ha cercato di fare il punto intorno al binomio

fotografia-festival, sempre più diffuso in tutto il mondo Gian Franco Ragno Parlare di fotografia oggi è piuttosto semplice e accettato: da alcuni decenni ha iniziato a entrare nei musei dalla porta principale, spinta dall’interesse generale e, anche, dal mercato dell’arte. Parlare di festival di fotografia, invece, appare meno scontato: si tratta infatti di eventi assai eterogenei, ma di grande successo e che si stanno moltiplicando in tutta Europa. Allo Spazio Officina di Chiasso la neocostituita Associazione della Biennale, nata come istituzione indipendente e autonoma dopo vent’anni di

esperienza espositiva, ha cercato di fare il punto intorno al binomio fotografiafestival, in un contesto, anche in Ticino, sempre più ricco di proposte. La due giorni è stata ospitata allo Spazio Officina di Chiasso, per l’occasione reso meno austero grazie alla creazione di uno gradevole spazio relax e lettura adiacente all’entrata – allestito dallo studio grafico CCRZ e arricchito dalla presenza dalla libreria d’arte Choisi di Lugano. Ma non si è parlato solo di fotografia, si è anche potuta gustare la proiezione, la sera del 30 settembre, del film di Laurie Anderson, Heart of a Dog,

Spunti di riflessione alla Biennale 9 1/2 di Chiasso.

presentato dal produttore Luciano Rigolini – visione che ha registrato una ricca presenza di pubblico. È stato però sabato mattina che si è parlato di festival: protagonista dell’incontro, François Hebel, per molti anni direttore del maggiore tra i festival europei e mondiali, Les rencontres de la photographie di Arles; una manifestazione annuale che il curatore francese, dopo averla guidata a metà anni Ottanta, ha rilanciato nei primi anni Duemila per una decina d’anni, guidandola alla piena consacrazione a livello mondiale. Arles infatti è un festival capace di raccogliere, a inizio luglio, quasi centomila spettatori nelle settimane iniziali, in cui si concentrano aperture e dibattiti (gli opening e i talk secondo il gergo del mondo della comunicazione), e il triplo per tutta la durata delle esposizioni, fino a fine settembre. Un festival forse sin troppo grande, come ha scritto Christian Cajoulle sulle pagine di «Internazionale», di un’ampiezza che rischia di snaturarne la missione. Ma per chi li frequenta, i «Rencontres» di Arles hanno e mantengono la loro identità: per la loro storia – di quasi mezzo secolo di esposizione – e per la suggestione data dai luoghi utilizzati (l’anfiteatro romano su tutti). Spazi che diventano protagonisti, scalzando temporaneamente con il circuito della

fotografia più attuale le folle di turisti alla ricerca di Van Gogh. Certo, quaranta esposizioni ufficiali (perlopiù inedite) e altrettante – se non oltre – del circuito off implicano (anche per i maratoneti delle esposizioni) un’attenta scelta a priori, ma crediamo che questo sia il prezzo da pagare per tanto successo. Con verve brillante Hebel, attraverso esempi e molti aneddoti, ha affascinato la platea raccontando come e perché la fotografia sia entrata nel mercato dell’arte, l’avvento della fotografia a colori al festival (Nan Goldin, Martin Parr) ma anche le sue scelte di principio, l’impegno con le istituzioni. Hanno partecipato al dibattito anche Enrico Stefanelli, del festival Fotolux di Lucca, e Hélène Joye Cagnard, delle Journées Photographiques di Bienne, appuntamento annuale anch’esso con vent’anni di storia, i quali hanno dialogato con il curatore francese focalizzando l’attenzione sui giovani e i festival, ovvero sulla lettura portfolio e sulle modalità attraverso cui essi riescono ad entrare, o meno, nelle sale ufficiali. Nel pomeriggio di sabato hanno avuto luogo anche le presentazioni di alcune giovani riviste che si occupano di fotografia e design («Yet», «Ganda» e «Adventice»), e due videoproiezioni di

uno dei più celebri fotografi e artisti italiani, Olivo Barbieri, con i suoi noti Site Specific, visioni inedite di città che egli ha iniziato nel 2003, e dal 2007 proiettato in tutti i più grandi musei al mondo. Prima della doppia visione, Barbieri, protagonista da giovanissimo della mitica esposizione di Luigi Ghirri intitolata Viaggio in Italia nel 1984, è stato intervistato da Francesco Zanot, curatore dello spazio per la fotografia torinese Camera. Nelle giornate della Biennale, è stato infine presentato il tema della prossima manifestazione, quella dell’autunno del 2017, che sarà ufficialmente la decima edizione: si parlerà infatti di Città divise, città plurali – un tema vasto proprio per affrontare la complessa realtà delle aggregazioni umane – le sue separazioni e la sua sostenibilità. Come per le passate edizioni, l’Associazione cercherà di coinvolgere musei, gallerie, spazi espositivi sul territorio per un visione sempre più pluralista e partecipativa di uno dei temi più urgenti della contemporaneità. In collaborazione con


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Cultura e Spettacoli

Camille, la musica è cosa seria!

Pubblicazioni musicali Giuseppe Clericetti ha recentemente dato alle stampe la prima biografia in italiano

del compositore, direttore, pianista e organista francese Camille Saint-Saëns Zeno Gabaglio L’ultima volta – un paio d’anni fa – l’aveva combinata davvero grossa. Con il libro Andrea Gabrieli – Cessate Cantus Giuseppe Clericetti aveva infatti dato alle stampe un puntualissimo epistolario del grande ma misterioso compositore veneziano del Cinquecento; lasciando credere che si trattasse dell’eccezionale riscoperta di una raccolta di lettere autentiche e originali di Gabrieli, non una raffinata e puntuale ricostruzione di un musicologo ticinese degli anni 2000, quali Clericetti appunto è. Apriti cielo: l’accademia ufficiale anziché riconoscervi un modo nuovo, spigliato e avvincente per condurre ed esporre una ricerca sui costumi, le idee e l’ambiente attorno a uno dei giganti della musica passata, vi colse un intollerabile tradimento della deontologia scientifica: anatema! Oggi Clericetti torna di nuovo sul luogo del delitto – segnatamente l’editore Zecchini – per pubblicare la prima biografia in italiano di un altro peso massimo della storia della musica: Camille SaintSaëns. Non ci sono – o perlomeno non sembrano esserci – sotterfugi narrativi e formali, ma siccome con i fasti passati Clericetti sembra aver maturato un filo direttissimo con i compositori nell’aldilà, ci siamo permessi di chiedergli un’intercessione del tutto particolare che introducesse il suo nuovo lavoro: 95 anni dopo la sua morte, la prima intervista postuma a Camille Saint-Saëns! Stimatissimo maestro Saint-Saëns, ringraziandola della rara disponibilità per quest’intervista dobbiamo cominciare chiedendole come se l’è sentita di affidare al controverso Clericetti la prima raccolta italiana dei suoi accadimenti artistici ed esistenziali?

Ah ah ah (ride).... Proprio per gli strali ricevuti dalla musicologia benpensante ho avuto grande piacere che fosse lui a occuparsi di questa mia nuova biografia! Con la sua precedente pubblicazione Clericetti ha agito come Zorro: ha disegnato sul pancione dei tronfi musicologi – quelli con la «m» volutamente minuscola – la verità che si fa

gioco, la cultura leggera, il divertimento dei colti...

omosessualità nascosta. Visto con gli anni che oggi ci separano dagli eventi, e con la mentalità lievemente più aperta dell’Europa del 2016, ci può dire qualcosa in proposito?

Come mai arriva solo ora la sua prima biografia in lingua italiana? Perché un compositore della sua statura ha dovuto attendere così a lungo: in vita ha forse avuto qualche problema con l’Italia o l’italianità?

Non rivelerò certo a lei, o ai lettori, fatti che riguardano la mia sfera sessuale! E i miei gusti o tendenze non devono influenzare il giudizio sulle mie composizioni, ci mancherebbe! Teniamo ben separate le due sfere, quella artistica e quella privata, s’il vous plaît!

Bella domanda, ma non sono così idiota da ritenere che tutti debbano per forza occuparsi di me, come invece credevano per loro stessi i miei colleghi Massenet, Franck, d’Indy. È vero, mi è capitato di scrivere male di certi compositori italiani, come Bellini o Verdi. Ma su Verdi ho poi rimediato in tarda età e gli riconosco il genio del terzo atto di Rigoletto. Adoro inoltre il Mefistofele di Boito. E per la verità sono sempre stato ben accolto dall’Italia, dove si tennero importanti recite del mio Samson et Dalila.

Una particolare dedizione è stata per lei quella verso l’organo, strumento che i suoi colleghi coevi coltivavano sempre meno. Cosa l’ha spinta a mantenere il contatto con questo strumento, per alcuni troppo segnato dalla funzione liturgica?

Ho trascorso vent’anni della mia esistenza come organista titolare della Chiesa della Madeleine, a Parigi: i vent’anni più felici, perché non c’è gioia musicale paragonabile a quella che può regalare l’improvvisazione all’organo. Certo, il mio stile era più colto di quello del mio predecessore. Un giorno il parroco mi chiese di essere più vicino alle aspettative dei fedeli, che frequentavano l’Opéra-Comique; gli ho risposto che quando le sue prediche si fossero adattate alle battute dell’Opéra-Comique, mi sarei adeguato anch’io con le mie musiche.

Il grande pubblico la conosce soprattutto per Le Carnaval des animaux, un’opera unica nel suo genere in tutta la storia della musica, ma anche un’opera che ha dato adito a fraintendimenti tali che lei stesso si trovò costretto a impedirne ogni ulteriore esecuzione fino alla sua morte. Rifarebbe oggi la stessa scelta?

Sì: talvolta bisogna poter influire sul mercato, provocarlo e suscitare certe aspettative... (ride). Di quella composizione ho lasciato che si divulgasse Il cigno, ma il resto è stato pubblicato solamente dopo la mia morte. Vi è piaciuta la presenza dei Pianisti nel mio zoo? E le sei citazioni, fra cui la Cavatina di Rosina di Rossini, nei Fossili? Ne vado fiero, e anche l’amico Liszt ne aveva gustosamente riso in un’esecuzione privata! L’immagine di lei che spesso è stata propagandata è quella di un artista serio, quasi severo. Si sono sbagliati, i musicologi?

Se proprio vogliamo parlare di cose serie, sì: la musica è una cosa molto seria. E mi spaventano le persone che, solamente per saper canticchiare un’arietta, si permettono di scrivere critiche e recensioni. Perché mai – se la critica letteraria è fatta dai letterati, se in medicina, architettura o economia si ascolta il parere degli specialisti – invece in musica si dà retta ai dilettanti? Questo è un grave problema che, per quel che vedo, si verifica anche

Il grande musicista francese Camille Saint-Saëns (1835-1921). (Keystone)

nel vostro Ticino. Non bisogna transigere, in questo sono severo.

Lei è passato alla storia anche per essere stato – nel 1908 con L’Assassinat du duc de Guise – il primo grande compositore a cimentarsi nella scrittura di una colonna sonora per il cinema. Avrebbe mai pensato che quest’arte, allora recentissima, avrebbe scalzato in popolarità tutte le altre?

Sì, lo immaginavo, e per questo accettai con grandi piacere e responsabilità quel nuovo incarico. Lavorai con dedizione davanti a uno schermo, studiando

fotogramma per fotogramma, e questa puntualità la si può sentire in quanto la musica dell’Assassinat senza il supporto delle immagini non ha alcun senso: vado molto fiero del risultato così pienamente cinematografico. Addirittura per quell’occasione registrammo anche l’esecuzione dal vivo, in modo da poterla riprodurre in assenza di un’orchestra: pionieristico, vero? Il fallimento del matrimonio che lei contrasse a quarant’anni con la diciannovenne Marie-Laure Truffot ha fatto parlare – e certamente spettegolare – attorno a una sua possibile

L’ultima parte della sua carriera le ha regalato un grande successo nei paesi anglosassoni mentre nella sua Francia pubblico e critica sembravano molto più attratti dalle novità offerte da autori quali Claude Debussy o Maurice Ravel. Si è trattato di un fisiologico ricambio generazionale o dietro tale evoluzione ci fu dell’altro?

Non sopporto la musica di quei due: pura barbarie. La musica è un linguaggio, con regole di grammatica, di sintassi, di forma e come tale dev’essere chiara: il destinatario deve comprendere il messaggio, e sapere sempre dove ci si trova. La musica deve evitare l’anarchia di Richard Strauss –la più vivida incarnazione del cattivo gusto tedesco – e di Igor’ Stravinskij, come pure sfuggire la noia causata da Johannes Brahms.

Una costanza ammirevole

Musica Il ritorno dell’amata pop band dei Roxette ci mostra un duo ancora in forma smagliante,

a cavallo tra pop music e disco-dance Benedicta Froelich A giudicare dai sentimenti sempre più spesso espressi sul web dall’immenso popolo dei musicofili, sembrerebbe davvero che gli ultimi anni abbiano visto una crescente nostalgia, da parte del pubblico, verso la stagione discografica non solo degli anni 80, ma anche dei 90: un sentimento che di primo acchito poteva sembrare forzato, dato il profilo non proprio elevatissimo di certa effimera musica commerciale prodotta a cavallo di quei due decenni – eppure, l’ingenuità e l’involontaria comicità della cultura pop del tempo appaiono oggi in stridente contrasto con l’ostentata volgarità da cui sono pervasi molti videoclip di odierne, sedicenti star del palcoscenico; al punto che la fedeltà della storica pop band dei Roxette – la quale, nonostante un lungo silenzio discografico tra il 2001 e il 2011, non si è mai sciolta – non può che scaldare il cuore a molti ex ragazzi del decennio dei nineties. Il duo svedese composto dalla biondissima cantante Marie Fredriksson e dal chitarrista Per Gessle è, in effetti, da poco tornato alla ribalta per via della decisione (comu-

nicata lo scorso aprile) di interrompere definitivamente l’attività live a causa dei problemi di salute di Marie, dovuti alle conseguenze del tumore al cervello diagnosticatole nel 2002; ma ciononostante, un nuovo album in studio, dallo speranzoso titolo di Good Karma, ha comunque visto la luce nell’arco di questa lunga estate – per la gioia delle orde di fan che, fin dall’esordio del duo, nel 1986, hanno permesso ai Roxette di ottenere un successo commerciale davvero elettrizzante.

La nuova e probabilmente ultima fatica dei Roxette, Good Karma.

Così, il videoclip del primo singolo estratto dall’album, It Just Happens, ci permette di ritrovare i nostri eroi in forma eccellente, sia dal punto di vista vocale che estetico; tanto che soltanto qualche ruga in più sul viso della Fredriksson ci conferma che oltre trent’anni anni sono effettivamente trascorsi dal debutto del duo. Ma la freschezza «easy listening» dei Roxette è rimasta invariata, come testimoniato dalle sonorità delicate di questa classica ballata dagli accenti romantici, che si colloca nella scia di pezzi ormai storici come Listen to Your Heart e It Must Have Been Love. Procedendo nell’ascolto, ci si rende però conto che Good Karma tende verso sfumature stilistiche più «azzardate», come esemplificato da brani quali Some Other Summer, il secondo singolo dell’album: un pezzo uptempo che sembra uscito direttamente dalle classifiche pop dei primi anni 90, tanto le distorsioni elettroniche delle voci richiamano da vicino gli exploit di band allora di grido come i Pet Shop Boys. Lo stesso approccio si ritrova, del resto, fin dal brano d’apertura del CD, lo spensierato Why Don’tcha?, confermando la volontà dei Roxette di

fondere il loro abituale sound da ballata radiofonica con atmosfere dal sapore più «attuale», benché di respiro già inevitabilmente vintage, come le suggestioni elettropop e disco-dance di cui quest’album abbonda. E in effetti, la caratteristica che più salta agli occhi di questo nuovo lavoro è proprio la «sospensione temporale» che caratterizza l’intera tracklist, rendendo difficile collocare Good Karma all’interno di uno specifico periodo o corrente musicale; e questo benché divenga presto chiaro come, a partire dalla title track (Good Karma, appunto), fino alla penultima traccia 20 bpm, ogni brano mostri l’intenzione dei Roxette di effettuare una chiara svolta musicale, seppur di sapore datato. Una tendenza che dà vita a risultati particolarmente interessanti in You Make It Sound So Simple – un lento ipnotico e riflessivo dalle sfumature che ricordano addirittura le atmosfere inquietanti dei Depeche Mode – e nella suggestiva cavalcata pop This One, per poi essere portata all’estremo in un pezzo solido e sprezzante come You Can’t Do This To Me Anymore. Le uniche eccezioni a questa regola sono un paio di ballate roman-

tiche nello stile a cui la band ci aveva da sempre abituati, ovvero l’intensa From a Distance e la delicata, sebbene un po’ più banale, Why Don’t You Bring Me Flowers? – senza dimenticare il suadente April Clouds, pezzo conclusivo del CD. Il problema che Good Karma pone all’ascoltatore è quindi principalmente legato alle possibili aspettative dei fan nei riguardi del gruppo. È infatti inevitabile supporre che gli ammiratori di vecchia data dei Roxette potrebbero avere qualche difficoltà a riconoscere, in questi tardivi emuli dei Pet Shop Boys, la band dal sapore «new romantic» che negli anni 90 era stata resa tanto celebre proprio dalla sua scelta di insistere su ballate accattivanti e orecchiabili, inequivocabilmente da classifica; eppure, al di là di simili virate stilistiche, resta ammirevole la costanza del gruppo nel proseguire il proprio percorso artistico in barba ai gravi problemi di salute di Marie. E se è vero che questo nuovo sforzo rappresenta un’aggiunta più che dignitosa al già ricco repertorio della band, c’è da scommettere che, presto o tardi, anche i fan più esigenti lo riconosceranno come tale.


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Suggerimenti per tenere a bada il colesterolo Uno stile di vita sano è benefico per la nostra salute e incide positivamente sul livello del colesterolo. Anche un corretto peso corporeo abbassa il rischio di malattie del sistema cardiocircolatorio e stabilizza il tasso di colesterolo. Già lievi modifiche alle abitudini alimentari e un po’ di movimento possono essere molto efficaci. Cominciate subito ad attivarvi!

Fate regolarmente movimento Fare ogni giorno movimento serve a mantenere la forma fisica e controllare il peso, e favorisce uno stile di vita sano. Sono soprattutto gli sport di resistenza a giocare un ruolo fondamentale per quanto riguarda il colesterolo. Essi promuovono infatti la formazione del colesterolo buono (HDL) e mantengono elastiche le pareti delle arterie. Muovetevi ogni giorno il più spesso possibile e praticate uno sport tre volte alla settimana. Un allenamento mirato aumenta i vantaggi per la salute. Vari studi hanno dimostrato che per aumentare i livelli di colesterolo buono HDL e ridurre gli altri grassi nel sangue occorre fare almeno 30–60 minuti di attività fisica a ritmo sostenuto per 3–5 giorni la settimana. Gli sport ideali sono quelli in cui

si esercita anche la forza muscolare, come il nuoto, il mountain biking o lo sci di fondo. Non è mai troppo tardi per iniziare ad allenare il fisico, e ne vale la pena: qualsiasi aumento dell’attività motoria è un vantaggio in più per la salute. Cucina sana e gustosa, a ridotto contenuto di colesterolo Uno stile di vita favorevole per il cuore prevede anche il consumo di piatti appetitosi e sani. Gli esperti del settore concordano nell’affermare che la dieta mediterranea fa bene alla salute del cuore e che gli stanoli vegetali fanno abbassare il colesterolo. Prediligete pesce, oli vegetali di qualità e noci. Particolarmente preziosi sono gli oli vegetali quali, ad esempio, l’olio di oliva o quello di colza nonché le noci, i semi e le nocciole. Gustate saporiti piatti a base di pesce e latticini magri. Potete inoltre completare la vostra dieta adeguando il consumo di carne e arricchendola con cibi fantasiosi e vegetariani. Aggiungete gusto grazie alle erbe aromatiche. Aumentate il consumo di fibre alimentari. Ogni giorno consumate una quantità sufficiente di verdure, insalate, frutta e prodotti integrali. Anche includere regolarmente nella dieta i legumi,

come ad esempio ceci e lenticchie, può aiutare a ridurre il colesterolo. Le fibre alimentari si legano agli acidi biliari nell’intestino e li espellono per la stessa via. A sua volta, per la produzione dei necessari acidi biliari si consuma colesterolo, i cui valori pertanto migliorano. Cambiare le abitudini per un nuovo stile di vita I principi di uno stile di vita sano: tanto movimento all’aria aperta, un’alimentazione equilibrata, poco stress, sonno e riposo a sufficienza e buonumore. Per mantenerli, è sempre utile riesaminare di tanto in tanto il proprio stile di vita e verificare abitudini e comportamenti non ideali. Bastano già pochi cambiamenti per sortire effetti inaspettatamente positivi. Semplice ed efficiente.

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Cultura e Spettacoli

Una Bridget sempre più disinvolta

Filmselezione Al terzo colpo l’episodio più riuscito della celebre saga – Il passo indietro di Roberto Andò

Fabio Fumagalli ** Bridget Jones’s Baby, di Sharon Maguire, con Renée Zellweger, Colin Firth, Patrick Dempsey, Emma Thompson (Stati Uniti 2016)

Bridget ha 43 anni e un compleanno da festeggiare tutta sola. Il che non le impedisce d’incontrare, nell’arco di due settimane, l’amore storico Mark Dark, sempre interpretato dal raffinato e un po’ tanto distante Colin Firth. In più, come se non bastasse, l’affascinante Patrick Dempsey, l’idolo sexy planetario di Grey’s Anatomy. Da una disinvolta solitudine a un problema d’abbondanza: aggravato dal fatto, una volta scoperto di essere incinta, di non sapere quale dei due è il padre. Al terzo capitolo della saga, Bridget Jones’s Baby rimane il fenomeno sociale del 2001. Tratto da un romanzo venduto nel 1995 in 5 milioni di esemplari, ispirato da una rubrica apparsa sul quotidiano «The Independent», traduce le confessioni di una impiegata londinese nubile e allora trentenne, dei suoi tentativi di smettere di bere e fumare, cercare di dimagrire e, soprattutto, scovare l’anima gemella. In altre parole l’universo privato di Rene Zellweger, attrice americana di origine svizzera, che per ottenere il ruolo accettò notoriamente d’ingrassare di una dozzina di chili. A lei e, più sorprendentemente, a questo terzo episodio non nuoce d’invecchiare; in particolare nei confronti dell’insopportabile precedente Che pasticcio, Bridget

Bridget Jones incinta viene aiutata dai suoi due uomini (interpretati da Firth e Dempsey). (Keystone)

Jones (2004). Grazie, forse, al ritorno della regista originale, della collaborazione alla sceneggiatura di un esperto di cinema «sfrontato» come il Dan Mazer della serie dei Borat. E di Emma Thompson, co-sceneggiatrice oltre che grande attrice, qui nel ruolo spassoso di una caustica ginecologa. Ritmo e dialoghi in particolare risultano allora sveltiti; e alcune sequenze entrano di diritto nella migliore, se non proprio inedita tradizione della commedia. Così, l’irresistibile scambio di battute fra la Bridget divenuta pro-

duttrice televisiva e l’amica presentatrice nel corso di un’emissione in diretta. O, ancora, i vari fraintendimenti del sempre più disinvolto ménage à trois; e tutta la sequenza di un festival erotico – musicale, costruita in modo da quasi acquisire le cadenze del cinema d’animazione. Poi, non è ovviamente che Bridget rinunci del tutto a quel bagaglio di mossette, sorrisini e accentuazioni espressive abnormi che hanno deliziato milioni di aficionados (e orripilato altrettanti). Ma non si può pretendere troppo.

*(*) Le confessioni, di Roberto Andò, con Toni Servillo, Connie Nielsen, Pierfrancesco Favino, Marie-Josée Croze, Moritz Bleibtreu, Lambert Wilson, Daniel Auteil (Italia 2016)

Scrittore, oltre che regista, Roberto Andò aveva scosso le acque dello spettacolo italiano due anni or sono con Viva la libertà, tassello meritevole della tradizione italiana di un cinema politico che da Francesco Rosi, Elio Petri ha condotto a Nanni Moretti, Marco Bellocchio. Un film curioso, con un Toni Servillo mo-

struoso protagonista di un’impostura clamorosa: un celebre uomo politico depresso sostituito, all’insaputa generale, dal fratello gemello, appena rilasciato da un istituto psichiatrico. L’eccentricità tragicomica; con il tema della coppia, caro al cinema quanto alla psicanalisi, una riflessione etica e sociale. A quei paradossi aspira anche Le confessioni. Attingendo allo stesso stile: lo sguardo surreale che rende credibile l’impossibile, i tempi dilatati, le inquadrature soppesate al millimetro, gli echi sonori e gli spazi svuotati. Per mutare una realtà raffinata in inquietante dimensione metafisica; e accentuare il magnetismo dell’inamovibile presenza di Toni Servillo. Tutto ciò in un resort di lusso, sulle rive del Baltico tedesco, dove i ministri di un G8 dell’economia stanno per riunirsi. Oltre ai politici, sono compresi (chissà perché) una scrittrice di fiabe, una rock star e il taciturno monaco cistercense interpretato da Toni Servillo. L’aspetto estetico è curatissimo, un po’ tanto debitore del Sorrentino di Il divo e Youth; e di una tensione che si rifà a Il nome della rosa. Ma i guai per i protagonisti e il film iniziano alla scomparsa di uno dei personaggi. Le confessioni s’indirizza allora verso direzioni confuse: poliziesche e filosofiche, etiche e politiche. Troppe per risultare credibili, anche per una questione di linguaggio. Andò predilige i ritmi molto lenti che gli permettono il surrealismo delle immagini. Meno, però, riflessioni sul liberismo all’interno di un universo che lui vorrebbe metafisico; ma che finisce per risultare solo forzato. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

L’antica fatica di vivere Pubblicazioni Il grecista Giulio Guidorizzi ha analizzato per anni

l’affascinante figura di Agamennone – ora ce la propone in un libro

Emmy Hennings, fragile forza dada

Personaggi Al Monte Verità un incontro

su una delle poche figure femminili dadaiste Maria Bettetini Lui, Agamennone. Grande e capriccioso, forte e permaloso. È un piacere leggere del re Acheo senza subire le ricostruzioni hollywoodiane, che dai tempi del peplum, dei filmoni popolari come Spartaco, La tunica, Quo vadis?, da allora non perde occasione per darci eroi palestrati e pettinati col gel, le loro donne tutte Veneri, carri e tende degni delle Mille e una notte. Giulio Guidorizzi racconta le vicende di Agamennone (Io, Agamennone, Einaudi, 202 pp., € 14.00), ma scrive come chi può vantare una conoscenza dovuta a lunga pratica, a lunghi anni di studio. Così sembra in confidenza con Ulisse, Menelao, Paride, e naturalmente Agamennone e tutti gli altri (e le altre, ma le donne a quei tempi si nominavano solo in quanto possesso di qualcuno o vedova o sposa). Il racconto segue in sostanza i fatti dell’Iliade, con l’aggiunta di antefatti anche lontani, come le origini delle famiglie di Achille o degli Atridi, e l’immediato futuro: se l’Iliade si ferma ai giochi funebri in onore di Patroclo, e della presa di Troia veniamo a conoscenza solo nell’Odissea, dai racconti di Ulisse, il libro di Guidorizzi, pur saltando la battaglia finale, arriva a descrivere i fatti di sangue in casa di Agamennone, al suo ritorno. La moglie, Clitemnestra, non ha potuto accettare, né tantomeno perdonare, il sacrificio della figlia Ifigenia, sgozzata sull’altare in cambio dei venti favorevoli alla partenza della flotta achea, dieci anni prima. Non ha credu-

to a chi le ha detto che la giovane non sarebbe morta, ma sarebbe stata rapita da Artemide e portata in Aulide come sacerdotessa della stessa dea. Clitemnestra veste ancora il lutto, suo complice è Egisto, fratellastro di Agamennone e amante della regina. Il re viene ucciso mentre fa il bagno, prima catturato con una fitta rete da pesca, poi pugnalato, la stessa fine dei suoi compagni e della schiava Cassandra, una delle figlie di Priamo. Finisce così la vita di Agamennone, così il racconto di Guidorizzi. Che cosa ci dà questo libro in più rispetto a una ricostruzione dell’Iliade? Ci presenta i personaggi e le divinità nella drammaticità della loro vita, senza la necessaria prudenza di Omero, o chi fosse, che non poteva certo soffermarsi troppo sulle bassezze di dèi e signori. Si sente, per esempio, l’angoscia di una vita senza un perché: tutti, sulla terra e sull’Olimpo, sono sottomessi al giogo della Moira, del fato che si compie necessariamente. L’uomo può industriarsi, può decidere di essere buono o cattivo, ma non serve a nulla, perché la sorte di tutti poi saranno le ombre degli inferi, il nero delle acque dello Stige. Ai Campi Elisi si accenna, forse gli eroi potranno andare là, ma al momento sia Achille che Agamennone, quando Ulisse scende nell’Ade, sono in mezzo alle altre ombre, trasparenti come tutti. L’etica quindi, la disciplina delle regole del comportamento, non è in vista di una vita buona, né di un premio nell’oltretomba, come secoli dopo sosterrà Platone. La vita sarà spesa per ottenere tutta la gloria possibile e per non

Brian Cox nel ruolo di Agamennone in Troy, produzione hollywoodiana del 2004. (Keystone)

essere dimenticati, perché sulla terra si trattengano il più possibile quei simulacri dell’immortalità che sono la fama e la memoria. E se questa è la situazione, il bene non avrà nulla a che fare con il sacrificio di sé in favore di altri, con la cura e la misericordia. L’essere umano dovrà soprattutto lasciare il ricordo di azioni che non portino vergogna: essere grandi guerrieri, vendicare le offese, primeggiare, comandare. Anche il rapporto tra uomini e dèi è definito da una profonda solitudine, un senso di abbandono: gli dèi non vanno offesi, perché puniscono e anche loro non sanno cosa sia il perdono; vanno onorati – se no, appunto, si offendono – ma questo non garantisce il loro aiuto, il loro favore. Sono fin peggiori degli uomini, che almeno hanno il senso della pietas, a volte, verso vecchi e bambini inermi. Dico «a volte» perché, proprio durante la presa di Troia, nessuno ebbe pietà per il vecchio Priamo, mentre il figlio di Ettore, il piccolo Astianatte, fu gettato dalle mura sotto lo sguardo della madre, ormai ridotta a schiava e concubina di un greco vincitore. E tutti, divinità e umani, tutti sono comunque costretti dall’ineluttabile destino già stabilito. L’impressione è quindi di un mondo angosciante e angosciato, dove ci si può anche agitare per conquistare una gloria priva di senso, ma è inutile, tutto finirà. Nell’Odissea, Ulisse si accorge che negli inferi Achille è fatto segno di una certa riverenza da parte delle altre ombre, si complimenta con lui. Ma il principe che fu bellissimo e fortissimo, che scelse una vita breve e gloriosa piuttosto che lunga e anonima, dice a Ulisse che preferirebbe essere uno schiavo ancora tra i vivi, piuttosto che essere riverito tra i morti. Uno schiavo, un nulla senza diritti, un animale da lavoro sottoposto ai capricci del padrone, ecco, esserlo è preferibile alla condizione di morto, se pur riverito. La grandezza di questi personaggi è tutta nell’accettare il gioco fino in fondo, vivere «come se» avesse importanza la gloria o l’avesse il potere, non cedere alla disperazione che pure li accompagna. Così ce li racconta questo libro, meno Hollywood e più fatica di vivere, una lettura piacevole e seria allo stesso tempo.

Simona Sala Il Movimento Dada in questo 2016 è stato celebrato in molti luoghi e in molti modi. Dada è assurto a concetto a tratti perfino un poco vago, cui si sono attribuite valenze spesso distanti da quello che era il contesto originario in cui venne alla luce. Indubbiamente Dada è stato anche sinonimo di caos, di improvvisazione, di un mondo in cui il significato originale delle parole è stato spesso e volentieri stravolto e adattato alle necessità celebrative o di denuncia del momento – non possiamo infatti sorvolare sul fatto che l’Europa fosse flagellata dal Primo conflitto mondiale. Ma il dadaismo (e questo «ma» meriterebbe di essere sottolineato) non è mai stato un movimento di sprovveduti anarchici o di personaggi che rifiutavano la società in quanto tale, come invece si è visto a più riprese in questo anno di celebrazioni. Emmy Hennings, una delle uniche protagoniste femminili del movimento, in questo senso è un esempio emblematico dell’autentica verve creativa del movimento e dei suoi moventi politici. Donna per molti aspetti misteriosa, spesso descritta come una bambina dall’aria indifesa, ma dalla forza insospettata, Emmy Hennings probabilmente non riuscì mai a dare alla propria esistenza la direzione che forse avrebbe voluto. Il suo percorso fu infatti contrassegnato da una condizione di indigenza che, sebbene a fasi alterne, influenzò molte fasi della sua vita, tra cui anche quella, importante e lunga, trascorsa in Ticino. La dadaista nata in Germania, era approdata a Zurigo senza mezzi insieme ad Hugo Ball in pieno conflitto bellico. Dopo un periodo in cui i due lavorarono come intrattenitori in uno dei molti locali che in quegli anni spuntavano un po’ ovunque nella città sulla Limmat, decisero di aprire il Cabaret Voltaire, inaugurato il 5 febbraio 1916 alla Spiegelgasse del Niederdorf. Insieme a loro in quella che fu un’avventura di breve durata, e di cui restano purtroppo poche tracce (ma forse la sua forza risiede anche in questa estemporaneità), c’erano Sophie Taeuber, Jean Arp, Tristan Tzara, Richard Huelsenbeck e Marcel Janco.

Emmy Hennings con bambola dadaista, Zurigo 1916. Archivio svizzero di letteratura (ALS), Berna. Lascito Hennings/Ball.

La studiosa svizzera Christa Baumberger ha dedicato ad Emmy Hennings un libro importante, Emmy Hennings Dada, in cui analizza sia la complessa figura dell’artista, sia quella della donna. Nel corso dell’appuntamento previsto venerdì sera al Monte Verità, Christa Baumberger cercherà di ripercorrere insieme all’attrice Graziella Rossi le tappe fondamentali dell’esistenza di Emmy Hennings, interpellando – quasi fossero personaggi ancora vivi – molti fra coloro che la conobbero, leggendo testi e critiche dell’epoca, dando insomma un afflato nuovo a un personaggio cui la vita non riservò certamente quello che avrebbe meritato, ma su cui le ombre di un passato spesso difficile (Hennings dovette ricorrere, per sopravvivere, più volte alla prostituzione) gravarono fino alla fine. Fino a quel cimitero di Gentilino, dove ancora oggi i due coniugi Hennings-Ball riposano. Dove e quando

Emmy Hennings Dada, con Christa Baumberger e Graziella Rossi, 14 ottobre 2016, Monte Verità, ore 18.30. In collaborazione con

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Cultura e Spettacoli Un momento di Barbarians, del coreografo israeliano Hofesh Shechter. (Gabriele Zucca)

Quel che accade in tre ore nell’isola di Prospero

Pubblicazioni La tempesta di Shakespeare

in un saggio di Nadia Fusini Giovanni Fattorini

La nuova stagione inizia a passo di danza In scena Il pubblico ticinese sembra apprezzare sempre di più

un’offerta di danza che cresce stagione dopo stagione

Giorgio Thoeni I cartelloni delle principali rassegne cantonali sono al completo, e nella nostra regione il teatro si propone con un’offerta dove la drammaturgia contemporanea rivela un intenso dialogo tra danza e teatro. Da Ascona con le proposte del Teatro San Materno di Tiziana Arnaboldi a Lugano con gli appuntamenti del Festival Internazionale del Teatro (FIT), in una diastole e sistole irrobustita dall’apertura del LAC, nell’incontro tra la direzione artistica di Paola Tripoli e quella di Carmelo Rifici. Potremmo avviare un discorso articolato fra discipline e prospettive ma preferiamo dedicare queste prime righe a ciò che possiamo riunire sotto il tetto della danza. Anche perché, nel giro di una settimana, ci è stato possibile alimentare le nostre curiosità contemporanee da più angoli d’osservazione. Due produzioni svizzere

Iniziamo dalla stagione del San Materno che si è inaugurata con Spazi sospesi, una creazione insolita di Tiziana Arnaboldi, in cui la scena non è solo per due eccellenti danzatori, Eleonora Chiocchini e David Labanca, ma in cui la dimensione tecnologica interviene nello spazio con una sua poetica particolare. Si umanizza e trasforma la sua presenza facendo emergere il calore del sentimento in rapporto con gli oggetti. Con riflessioni sulla presenza-assenza, con una garbata autoironia sulla danza contemporanea (bravo Labanca, inedito performer). Uno specchio che ritrova l’immagine di segmenti concreti e luminosi articolati dal computer che diventano anime programmate, corollari essenziali per l’ingegnoso bricolage di François Gendre unite alle originali ricerche musicali di Mauro Casappa. Un mix perfettamente assortito per uno spettacolo intenso e ricco di idee che ha raccolto un meritato successo e premiato la ricerca di Arnaboldi e la sua coerente linea editoriale, quest’anno nel segno della luce e nel ricordo di Charlotte Barra a trent’anni dalla sua scomparsa. Passando alla 25esima edizione del

FIT a Lugano, ha segnato l’interesse del pubblico per la danza contemporanea un’altra produzione svizzera con la prima internazionale di Otolithes di Lorena Dozio in scena al Teatro Studio del LAC con Sévérine Bauvais, Aniol Busquets e Eduard Pelleray. Anche in questo caso abbiamo assoluta coerenza nella cifra stilistica dell’artista con uno spettacolo dai movimenti lentissimi, calibrati lungo il soffio modulato del fischio, un codice espressivo caratteristico non solo dell’universo dei volatili. Ci rivela una sospensione fra cielo e terra in una sorta di architettura per quattro corpi danzanti e strumenti musicali che arrivano a sfidare la forza di gravità. Come i quattro cristalli presenti nell’orecchio, responsabili dell’equilibrio e dell’orientamento. Una prova che il pubblico ha gradito a tal punto da dover aggiungere una replica supplementare. Dall’Inghilterra un trionfo di passionalità

Con la Compagnia londinese di Hofesh Shechter, la danza contemporanea ha riempito la grande sala del LAC con Barbarians, uno spettacolo suddiviso in tre parti per sette straordinari danzatori: Maëva Berthelot, Chiang-Ming Chiang, Erion Kruja, Frédéric Despierre, Yeji Kim, Attila Ronai e Kenny Wing Tao Ho. Il coreografo israeliano Schechter ha dichiarato: «Sono un uomo di quarant’anni, alla ricerca di un brivido» e il «Daily Telegraph» ha definito lo spettacolo una «serata affascinante e volatile, tanto cerebrale quanto pazza». E un po’ «crazy» lo è stata davvero, con una lunga suite di scene ritmate da musica techno e parentesi classiche, un fraseggio coreografico dove l’ironia si somma al sarcasmo e a un uso spregiudicato delle voci per raccontare intimità e passioni. Un divertissement moderno e di classe che è enormemente piaciuto a una platea sorprendentemente giovane. Avventure tecnologiche in elicottero

Un braccio meccanico e un robot dai movimenti snodabili programmati: «B/ Robot», per gli amici. La testa è un beamer che proietta linee e fasci di luce. Fis-

so sulla scena pare umanizzato. Emette suoni e soffi meccanici, è la partitura. Tre danzatori (Silvia Bastianelli, Gloria Dorliguzzo e Manolo Perazzi) si pongono in relazione con B/Robot nello spazio: chi comanda veramente? La formula narrativa, se dev’essere, appartiene allo spettatore, alla sua libertà. Un lavoro ancora in fieri e interessante per le potenzialità che offre al movimento, alla sua catarsi interpretativa. Bella intuizione di Ariella Vidach e Claudio Prati con il team di programmatori (computer, luci, suoni) di AIEP per questo HABIT data, nuova produzione che ha vissuto i suoi primi trenta minuti embrionali al Teatro Studio del LAC. Il debutto è previsto alla fine del 2017. Un’opera aperta. Il borderline fiammingo di Tom Struyf

In questa carrellata non può mancare Another Great Year For Fishing, uno dei due spettacoli proposti al FIT da Tom Struyf, geniale artista belga. Il particolare di questo spettacolo è dato da un sorprendente uso dei media, un montaggio filmato di interviste (lo psicoanalista, l’antropologa, il manager, il giornalista…) accanto a una drammaturgia del movimento con la parola narrata: storie superficiali che sfiorano il nonsense ma che rivelano uno sdoppiamento tra finzione e realtà. Il titolo ci ricorda le primissime visioni di Bob Wilson e la precoce avanguardia di John Cage, peraltro presente nella colonna sonora. Struyf si fa accompagnare da una danzatrice, Nelle Hens, con cui tesse una complessa trama fisica in una performance di equilibri di corpi protesi alla ricerca della posizione eretta senza mai raggiungerla e in un’astrusa serie di movimenti eseguiti in un’estenuante declinazione. Una prova che richiede perfezione in una continua logica della trasformazione. Un esempio che la dice lunga sulla contemporaneità dell’arte nel dialogo tra discipline, nella ricerca di riflessioni incrociate. Illuminante. Questa edizione del FIT ha anche offerto un’avvincente panoramica di drammaturgia squisitamente teatrale che merita un discorso a parte. Lo faremo nel prossimo numero.

Per Peter Brook, che l’ha messa in scena tre volte, l’ultima opera interamente scritta da Shakespeare è «un enigma». Per l’anglista e scrittrice Nadia Fusini, che l’ha frequentata a lungo, è un testo «inafferrabile», «inesauribile». Lo dice in un saggio edito da Einaudi che inizia con queste parole: «Vivere nella tempesta è un titolo né allusivo, né allegorico. Descrive alla lettera quello che faccio: da anni vivo nella Tempesta di Shakespeare, la leggo, la rileggo. Passano gli anni e io sono qui, immersa in quel che significano la tempesta e il mare e il naufragio e la salvezza in Shakespeare». E riandando col pensiero al tempo in cui seguiva le lezioni di Agostino Lombardo – che paragonava La tempesta a «una grande conchiglia» in cui si raccolgono tutti i suoni del teatro shakespeariano, e in particolare quello del mare – Fusini ricorda come quell’immagine le riportasse alla mente il murice che accostava all’orecchio mentre camminava, in compagnia del padre, lungo la spiaggia dell’isola che frequentava da bambina. L’isola dell’infanzia e il padrepedagogo (ma nel libro viene evocata anche la madre, e una vecchia isolana di nome Caterina) sono immagini che ricorrono e s’intrecciano con moderata frequenza agli approfondimenti, in forma di brevi capitoli, dei temi che sostanziano il più famoso dei romance shakespeariani: un procedimento che richiama, per analogia, il linguaggio musicale, e che sembra particolarmente adatto a indagare un’opera in cui la musica è di fondamentale importanza. A un procedimento musicale fanno pensare anche i più frequenti intrecci di variazioni esegetiche, ragguagli oggettivi, e riflessioni nate da una sensibilità personale che ci danno la misura di quanto l’autrice si senta profondamente coinvolta. Due sono le intenzioni che con maggiore evidenza orientano il lavoro di Nadia Fusini. Una è di illustrare come una commedia che pare scaturita per intero dalla fantasia sia intimamente legata alla realtà politica, sociale e geografica del suo tempo. L’altra è di mostrare come La tempesta sia un fulgido e personalissimo frutto della propensione che avevano i contemporanei di Shakespeare ad allegorizzare i fatti reali: nel caso specifico, la colonizzazione delle Americhe; il naufragio avvenuto il 28 luglio 1609 della Sea-Venture (la nave ammiraglia della flotta guidata da sir Thomas Gates) in prossimità delle Bermude; la fisionomia e l’impiego del lumpenproletariat che veniva caricato sui vascelli diretti verso il Nuovo Mondo; il fidanzamen-

to di Elisabetta, figlia di Giacomo I, con l’Elettore del Palatinato. Nel saggio di Nadia Fusini (che in una nota di ringraziamento si dichiara in debito con un gran numero di autori e di libri, dei quali stila «una ristrettissima Top 28»), tutti i personaggi, gli elementi naturali e gli eventi della commedia hanno un significato duplice o plurale. Il mare è una distesa mutevole e sonora, e un’insaziabile tomba dove il cadavere di un re – nel canto illusivo e consolatorio di Ariel – si trasforma «into something rich and strange», «in qualcosa di ricco e di strano». La tempesta e il naufragio vogliono dire «crisi», «prova», e nuova «possibilità». L’isola – terra situata al centro del Mediterraneo e al tempo stesso sulla rotta per il Nuovo Mondo, nonché palcoscenico di un’azione che dura tre ore e rispetta le unità aristoteliche – è un labirinto e un luogo di apparizioni che suscitano meraviglia, un carcere e un istituto di rieducazione, un teatro di congiure per il potere e uno spazio purgatoriale (ma il solo pentimento sincero, alla fine, è quello di Alonso, re di Napoli, e non c’è altra profonda trasformazione spirituale, nella Tempesta, «se non la metànoia di Prospero: quella rivoluzione interiore che dalla vendetta lo trasporta al perdono» e alla rinuncia: la rinuncia alla figlia, Miranda, e all’esercizio della magia). Le pagine che ho letto con attenzione particolarmente simpatetica sono quelle dedicate a Caliban, «this thing of darkness», «questa cosa di tenebra», che Prospero alla fine riconosce come propria. Caliban ha pagato caro il suo tentativo di stuprare Miranda. È diventato il servo di un padrone tirannico che gli impone lavori gravosi e lo punisce con sofferenze fisiche crudeli. Schiavo velenoso, letame, figlio di una strega, diavolo nato, canaglia deforme: così viene apostrofato da Prospero. Non è comprensibile, chiede Nadia Fusini, che il servo cerchi di abbattere il padrone per riprendersi la libertà e la terra che gli appartenevano prima che arrivasse l’usurpatore, dal quale ha appreso una lingua con cui ora sa soltanto maledire? In uno dei capitoli finali, Fusini si domanda che ne sarà di Caliban – il personaggio che più la commuove – quando tutti gli umani avranno lasciato l’isola. Lo immagina seduto su una roccia, mentre guarda la nave che si allontana. Rimasto solo, è libero. «Già, ma libero di fare che cosa? Di attendere? Altri naufraghi? Robinson Crusoe? Godot?». Bibliografia

Nadia Fusini, Vivere nella tempesta, Einaudi, pp. 205, euro 18,50

La Tempesta in un’illustrazione realizzata tra il 1856 e il 1858 da Robert Dudley per un’edizione dell’epoca. (Keystone)


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Idee e acquisti per la settimana

shopping Una delicatezza vestita di blu

Novità Le patate svizzere «Blaue St. Galler» sorprendono non solo per il loro colore inusuale, ma anche

Polpa di un bel colore blu-violetto, gusto particolarmente delicato, consistenza media, versatilità culinaria, forma oblunga: ecco la carta d’identità delle patate svizzere «Blaue St. Galler». La varietà è stata sviluppata agli inizi degli anni Novanta dalla «St. Gallische Saatzucht», una cooperativa che opera nel campo delle sementi, specializzata nelle colture di nicchia. La «Blaue St. Galler» è un incrocio tra la patata Blu Svedese e la patata precoce svizzera Prettigovia. Un’altra particolarità di questa patata è il fatto che mantiene il colore anche dopo la cottura. Il colore è dato dagli antociani, dei pigmenti vegetali particolarmente benefici per la salute grazie alle loro proprietà antiossidanti e rivitalizzanti per l’intero organismo. Inoltre, come le altre patate, contiene preziose vitamine, proteine e sali minerali quali potassio e ferro. Contiene anche fibre alimentari, importanti per regolarizzare il sistema digestivo, ed è un’alleata della linea grazie ai pochi grassi e calorie. La «Blaue St. Galler» è prodotta in piccole quantità da pochi orticoltori ed è l’unica patata blu della Svizzera. La coltura ha una resa inferiore rispetto alle patate tradizionali più diffuse. Dal punto di vista culinario è una varietà dalla polpa di media consistenza, pertanto è ideale per la preparazione dei più svariati piatti: dalle patate bollite ai puré, dalle patate arrosto alle zuppe di patate fino alle patatine fritte. Il colore si mantiene bene se cotta intera, con la buccia, e lasciata successivamente un paio d’ore nel frigorifero prima di essere lavorata per altri usi. Dato il suo sapore delicato, si abbina bene a erbette aromatiche, aglio, carni di maiale e pollame. Una volta acquistate, conservate le patate in un luogo fresco, asciutto e buio. Consiglio: per un piatto buono ma anche bello da vedere che piacerà anche ai piccoli buongustai servite le patate blu abbinate ad altri ingredienti dai colori intensi come per esempio salmone, carni rosse, carote, broccoli, peperoni colorati, cavolini di Bruxelles, piselli, pomodori…

Buono e bello da vedere: un puré bicolore a base di patate blu e patate convenzionali.

Flavia Leuenberger

per la valenza culinaria. Le trovate da questa settimana al reparto verdura dei maggiori supermercati Migros


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Idee e acquisti per la settimana

L’ autunno nel piatto

Attualità Dalla cacciagione ai contorni tradizionali: alla vostra Migros sono molte le possibilità

per gustare i sapori del momento

Entrecôte di cervo con salsa d’arrosto al miele di bosco Piatto principale per 4 persone Ingredienti 2 cucchiai di miele di bosco 1 cucchiaio di senape dolce 1 dl d’aceto di vino rosso, ad es. vinaigre de Merlot 8 entrecôte di cervo di ca. 80 g 300 g di funghi misti, ad es. gallinacci, porcini o pleuroti 2 spicchi d’aglio 200 g i lattuga romana 2 cucchiai di burro sale, pepe olio d’arachidi per cuocere 2 dl di salsa chiara per arrosto fleur de sel

La stagione autunnale è per molti sinonimo di selvaggina. Di questa carne gli estimatori non apprezzano solamente il caratteristico sapore aromatico e l’inconfondibile tenerezza, ma anche il basso contenuto di grassi e calorie, nonché l’ot-

tima digeribilità. Oltre a differenti tagli di carne fresca di cervo, cinghiale e capriolo, nei nostri supermercati non mancano nemmeno i piatti pronti di salmì, i profumati affettati e naturalmente anche gli svariati contorni più appropriati come

castagne caramellate, pere cotte, cavolo rosso, funghi misti, cavoletti di bruxelles, spätzli, tanto per citarne alcuni. E per ingolosirvi ulteriormente, in questa pagina vi proponiamo un appetitosa e facile ricetta a base di entrecôte di cervo.

Preparazione Mescolate miele, senape e aceto. Marinate le entrecôte nella salsa, in frigo, per ca. 2 ore. Tagliate i funghi a bocconi, l’aglio a fettine sottili, la lattuga a striscioline.

Rosolate i funghi nel burro. Unite l’aglio. Soffriggete i funghi, facendo attenzione che restino sodi. Rosolate brevemente la lattuga. Salate, pepate e tenete in caldo. Togliete la carne dalla marinata e fatela sgocciolare su carta da cucina. Conservate la marinata. Rosolate le entrecôte nell’olio a fuoco medio, ca. 3 minuti per lato. Toglietele dalla padella, copritele e lasciatele riposare per ca. 5 minuti. Bagnate il fondo di cottura con la marinata. Unite la salsa per arrosto e portate a ebollizione. Condite con miele, sale e pepe. Insaporite le entrecôte con il fleur de sel e servitele con i funghi e la salsa al miele. Suggerimento Accompagnate con spätzli o pasta.

Azione* 30% di sconto sull’entrecôte di cervo dall’11 al 17 ottobre

Salmì di capriolo cotto 600 g Fr 21.50

Castagne caramellate 250 g Fr 5.20

Pere in salsa al vino rosso 250 g Fr 4.90

Entrecôte di cervo Nuova Zelanda, imb., 100 g Fr 5.20* invece di 7.50

Nobili, buone e benefiche castagne Attualità Il pregiato frutto dei boschi regala un tocco speciale a molte preparazioni

Un tempo erano considerate il pane dei poveri; come una delle poche fonti di carboidrati disponibili d’inverno contribuivano in modo significativo alla sopravvivenza delle popolazioni di montagna. Oggi invece le castagne, grazie alla loro versatilità, sono utilizzate per confezionare moltissime specialità, sia dolci che salate. Ma le castagne non sono solo buone: sono infatti note anche per le loro molteplici proprietà utili per la nostra salute. Oltre ad essere fortificanti e indicate nel curare disturbi al fegato, allo stomaco e all’intestino, contengono anche le preziose vitamine A, B1, B2, B6, C e E, nonché potassio, magnesio e amido. Inoltre esse sono prive di glutine, pertanto indicate anche per coloro che soffrono di celiachia. A proposito: dopo alcuni anni di «magra» a causa della diffusione di un insetto nocivo alle piante, quest’anno in Ticino vi è stata una buona fruttificazione degli alberi di castagno, come ci ha confermato Paolo Bassetti, gestore dei centri di raccolta castagne ticinesi: «La qualità è buona, ma la dimensione dei frutti è piuttosto piccola. Ciò è probabilmente dovuto alla siccità o alle piante ancora particolarmente deboli. Ad ogni modo questo gradito ritorno delle nostre castagne ci fa ben sperare per i prossimi anni».

Castagne 100 g Fr. 1.– invece di 1.50 500 g Fr. 4.60 invece di 6.90

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Crema da spalmare alle castagne 350 g Fr. 7.90

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Vermicelles al pezzo Fr. 2.90 Fetta di torta alle castagne Fr. 3.60 ai banchi pasticceria


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Idee e acquisti per la settimana

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Idee e acquisti per la settimana

Banane sostenibili

Quella curva di dolcezza

Nell’ambito del suo programma per la sostenibilità Generazione M, la Migros promette che entro la fine del 2017 venderà solo banane di produzione sostenibile. Dopo il riso, il frumento e il mais, la banana è il principale prodotto agricolo del mondo. E alla gente piace come pochi altri. Non solo perché ha un gusto dolce che si spande sul palato, ma anche perché è una grossa fonte d’energia Testo Anna Bürgin; Foto e Styling Claudia Linsi

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100 grammi di banana coprono il fabbisogno giornaliero di potassio, che è importante soprattutto per il buon funzionamento di nervi e muscoli. Il frutto, che dal punto di vista prettamente botanico è una bacca, è un apprezzato fornitore di energia, soprattutto per le persone che praticano sport.

Per conservarle più a lungo, le banane dovrebbero essere tenute separate da frutti e ortaggi che rilasciano etilene come le mele o i pomodori. La miglior cosa è appenderle in un luogo fresco, per evitare che si ammacchino e maturino precocemente.

Mangiare banane fa bene all’umore. Ha poca importanza che ciò sia dovuto alla straordinaria dolcezza del frutto o al fatto che contenga triptofano, una molecola che serve a sintetizzare la serotonina, chiamata anche ormone della felicità.

È la bomba calorica della frutta: una banana pesa circa 100 grammi e fornisce al corpo 95 chilocalorie. Con soli 0,3 grammi non contiene praticamente grassi, ma sazia comunque tantissimo.

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Il contenuto di vitamina delle banane è piuttosto basso in confronto a quello di altri frutti. Un’unica banana copre comunque già il 16 percento del fabbisogno giornaliero di vitamina C di un adulto.

Involtini di vitello alla banana su verdure al curry e cocco Piatto principale per 4 persone Ingredienti 1 peperone giallo, 1 verde e 1 rosso 3 carote 200 g di porro 4 fettine di vitello di ca. 130 g ciascuna, tagliate a libro e battute dal macellaio sale, pepe 4 banane stuzzicadenti 3 cucchiai d’olio 4 cucchiai di curry in pasta 5 dl di latte di cocco

4 minuti ed estraeteli dalla padella. Scaldate l’olio rimasto nella stessa padella. Soffriggetevi i peperoni e le carote per ca. 5 minuti. Unite i porri e soffriggeteli per ca. 2 minuti. Unite il curry in pasta e sfumate con il latte di cocco. Portate a ebollizione. Condite con sale e pepe. Aggiungete gli involtini e scaldateli per ca. 3 minuti, girandoli nella salsa. Servite gli involtini alla banana sulle verdure.

Preparazione Dimezzate i peperoni, privateli dei semi e tagliateli a striscioline. Tagliate le carote a bastoncini, il porro a rondelle. Asciugate la carne con carta da cucina e conditela con sale e pepe. Avvolgete una fetta di carne intorno a una banana e fissatela con uno stuzzicadenti. Scaldate la metà dell’olio in una padella ampia. Rosolate gli involtini di vitello tutt’intorno per ca.

Suggerimento Accompagnate con della pasta al wok o del riso. Tempo di preparazione ca. 40 minuti Per persona ca. 35 g di proteine, 30 g di grassi, 46 g di carboidrati, 2500 kJ/600 kcal

Il contenuto di amido diminuisce con il grado di maturazione del frutto. Se le banane acerbe hanno un rapporto di amido e zucchero di 20 a 1, esso risulta esattamente capovolto nelle banane più mature. Ciò le rende facilmente digeribili.

Lo sapevate? Le banane stramature che non possono più essere mangiate, sono ottime per preparare una torta. Troverete la ricetta su www. cucinadistagione.ch

Parte di

Nell’impegno a favore della sostenibilità, la Migros è da generazioni in anticipo sui tempi.


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Idee e acquisti per la settimana

Banane sostenibili

Quella curva di dolcezza

Nell’ambito del suo programma per la sostenibilità Generazione M, la Migros promette che entro la fine del 2017 venderà solo banane di produzione sostenibile. Dopo il riso, il frumento e il mais, la banana è il principale prodotto agricolo del mondo. E alla gente piace come pochi altri. Non solo perché ha un gusto dolce che si spande sul palato, ma anche perché è una grossa fonte d’energia Testo Anna Bürgin; Foto e Styling Claudia Linsi

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100 grammi di banana coprono il fabbisogno giornaliero di potassio, che è importante soprattutto per il buon funzionamento di nervi e muscoli. Il frutto, che dal punto di vista prettamente botanico è una bacca, è un apprezzato fornitore di energia, soprattutto per le persone che praticano sport.

Per conservarle più a lungo, le banane dovrebbero essere tenute separate da frutti e ortaggi che rilasciano etilene come le mele o i pomodori. La miglior cosa è appenderle in un luogo fresco, per evitare che si ammacchino e maturino precocemente.

Mangiare banane fa bene all’umore. Ha poca importanza che ciò sia dovuto alla straordinaria dolcezza del frutto o al fatto che contenga triptofano, una molecola che serve a sintetizzare la serotonina, chiamata anche ormone della felicità.

È la bomba calorica della frutta: una banana pesa circa 100 grammi e fornisce al corpo 95 chilocalorie. Con soli 0,3 grammi non contiene praticamente grassi, ma sazia comunque tantissimo.

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Il contenuto di vitamina delle banane è piuttosto basso in confronto a quello di altri frutti. Un’unica banana copre comunque già il 16 percento del fabbisogno giornaliero di vitamina C di un adulto.

Involtini di vitello alla banana su verdure al curry e cocco Piatto principale per 4 persone Ingredienti 1 peperone giallo, 1 verde e 1 rosso 3 carote 200 g di porro 4 fettine di vitello di ca. 130 g ciascuna, tagliate a libro e battute dal macellaio sale, pepe 4 banane stuzzicadenti 3 cucchiai d’olio 4 cucchiai di curry in pasta 5 dl di latte di cocco

4 minuti ed estraeteli dalla padella. Scaldate l’olio rimasto nella stessa padella. Soffriggetevi i peperoni e le carote per ca. 5 minuti. Unite i porri e soffriggeteli per ca. 2 minuti. Unite il curry in pasta e sfumate con il latte di cocco. Portate a ebollizione. Condite con sale e pepe. Aggiungete gli involtini e scaldateli per ca. 3 minuti, girandoli nella salsa. Servite gli involtini alla banana sulle verdure.

Preparazione Dimezzate i peperoni, privateli dei semi e tagliateli a striscioline. Tagliate le carote a bastoncini, il porro a rondelle. Asciugate la carne con carta da cucina e conditela con sale e pepe. Avvolgete una fetta di carne intorno a una banana e fissatela con uno stuzzicadenti. Scaldate la metà dell’olio in una padella ampia. Rosolate gli involtini di vitello tutt’intorno per ca.

Suggerimento Accompagnate con della pasta al wok o del riso. Tempo di preparazione ca. 40 minuti Per persona ca. 35 g di proteine, 30 g di grassi, 46 g di carboidrati, 2500 kJ/600 kcal

Il contenuto di amido diminuisce con il grado di maturazione del frutto. Se le banane acerbe hanno un rapporto di amido e zucchero di 20 a 1, esso risulta esattamente capovolto nelle banane più mature. Ciò le rende facilmente digeribili.

Lo sapevate? Le banane stramature che non possono più essere mangiate, sono ottime per preparare una torta. Troverete la ricetta su www. cucinadistagione.ch

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Nell’impegno a favore della sostenibilità, la Migros è da generazioni in anticipo sui tempi.


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Idee e acquisti per la settimana

Stephan Eschmann è responsabile della cantina di pietra naturale.

Cave d’Or

«L’aroma viene dalla grotta» Con il nome di Cremoso, un aromatico formaggio alla panna viene ora a completarel’assortimento Cave d’Or. Come tutte le altre specialità di questa linea, anche il Cremoso stagiona nelle grotte di pietra naturale di Mels (SG), dove il responsabile Stephan Eschmann si prende cura di circa 11’000 forme di questo saporito formaggio. Stephan Eschmann, cos’ha di speciale il nuovo Cremoso?

Come già dice il nome, si tratta di un formaggio cremoso, prodotto con molta panna. Stagiona da noi in una cantina di pietra per almeno quattro mesi. In questo modo acquisisce il suo tipico carattere piccante e molto aroma. Che influsso ha il clima della grotta sul sapore?

La temperatura costante di 13 gradi e l’umidità dell’aria di oltre il 90 percento creano le condizioni ottimali per la stagionatura del formaggio. Oltre a questo, l’aria della cantina in pietra naturale contiene specifiche muffe e batteri che influiscono positivamente sull’aroma del formaggio. Cosa condiziona ancora l’aroma del formaggio?

Naturalmente il latte. Per questo il nostro formaggio è prodotto presso la Bergsenn SA di Disentis, prima di giungere in grotta. I caseifici di Disentis ricevono ogni giorno il latte fresco direttamente dai contadini locali. Durante la stagione degli alpeggi il latte viene fornito dall’alpe ai caseifici via pipeline. E siccome le mucche a 1130 metri d’altezza brucano erba fresca ed erbette alpine, il latte di montagna grigionese risulta particolarmente ricco. Il che si nota anche nel sapore del nostro formaggio.

Cave d’Or Raclette 300 g Fr. 7.90

Cave d’Or Le Gruyère al kg Fr. 26.50

Cave d’Or Emmentaler al kg Fr. 27.–

Nuovo Cave d’Or Cremoso al kg Fr. 28.–

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche il formaggio Cave d’Or.


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Idee e acquisti per la settimana

Regula Bickel

Vantaggi biologici

Il biologico gode di una popolarità ormai radicata tra consumatori e produttori. Il perché lo spiega Regula Bickel dell’Istituto di ricerche dell’agricoltura biologica Testo Thomas Tobler; Foto Tanja Demarmels

Regula Bickel è responsabile del settore generi alimentari all’Istituto di ricerche dell’agricoltura biologica (FiBL) e membro del reparto Qualità di Alnatura.

Signora Bickel, secondo Bio Suisse nel 2015 i prodotti biologici hanno raggiunto una quota di mercato del 7,7 percento, la più alta mai registrata. Quali sono i motivi di questa domanda costantemente in crescita?

I prodotti bio sono migliori. Sono meno contaminati da pesticidi e i consumatori lo apprezzano. Molti prodotti vegetali contengono più antiossidanti, mentre quelli animali hanno spesso più acidi grassi Omega 3. Inoltre, i prodotti biologici trasformati mantengono meglio il carattere originale della materia prima, anche perché le aziende di trasformazione bio devono sottostare a norme severe, che ad esempio limitano l’uso di additivi. L’agricoltura biologica, poi, mantiene più pulite le nostre acque, il suolo resta fertile più a lungo e la biodiversità degli animali selvatici e delle piante viene salvaguardata.

I produttori bio riescono ancora a soddisfare la crescente richiesta dei loro prodotti?

Per fortuna, parallelamente alla domanda, cresce anche il numero di aziende produttrici. Comunque, per molte materie prime dipendiamo dalle importazioni. La soia, per esempio, è ancora in gran parte importata. Quali sono i vantaggi dell’agricoltura biologica per gli animali?

L’obiettivo è la gestione ottimale degli animali, non massimizzata. L’allevamento avveduto da parte dei contadini biologici si ripercuote sull’elevata qualità dei prodotti alimentari derivati. Nutrirli in modo appropriato è fondamentale. Per i bovini, ad esempio, è consentito al massimo un dieci percento di foraggio concentrato. Inoltre, tutti gli animali allevati con metodi bio possono muoversi all’aria fresca durante tutto

l’anno, maiali e galline inclusi. Se nelle aziende agricole convenzionali vivono fino a 20’000 polli all’interno dello stesso capannone, nelle fattorie di Bio Suisse ce ne possono essere al massimo 2000. Inoltre, nell’allevamento biologico gli animali non possono essere curati con una profilassi a base di antibiotici. Nel settore del bio si richiede innovazione. Come può essere compatibile con così tanti regolamenti?

Inserire limitazioni nelle direttive può anche stimolare l’innovazione. Per esempio, la riduzione di calorie nel burro oggi si ottiene con l’aggiunta di yogurt e non più diluendolo con acqua, aromi e addensanti. Ci vuole molta innovazione soprattutto per il cibo vegano. Infatti, non si possono aggiungere aromi e additivi a qualsiasi fonte proteica, come ad esempio il Quorn, dal momento che l’aggiunta di aromi

artificiali è proibita e l’impiego di additivi limitato. In questo modo si sondano e si sviluppano nuovi sapori. Con Bio 3.0 l’agricoltura biologica verrà estesa e la produzione aumentata. In cosa consiste esattamente questa idea?

L’idea alla base di Bio 3.0 è che l’agricoltura biologica compia un altro passo in avanti, guadagnando ulteriori quote di mercato, rendendo così sostenibile il nostro sistema alimentare complessivo. L’impiego di tecnologie moderne, come le sarchiatrici robotizzate o i droni per la diagnosi dello stato di salute dei terreni biologici, è relativamente illimitato. Inoltre diventerà più difficile decidere, ad esempio, quali tecniche bio utilizzare per il miglioramento delle colture oppure a quali futuri requisiti dovrà essere sottoposta la trasformazione dei prodotti biologici.

Migros Bio è sinonimo di agricoltura in armonia con la natura. Il marchio Bio annovera oltre 1300 prodotti.

al nat Alnatura è ilura.ch marchio bio per uno stile di vita responsabile al passo con i tempi. Sono utilizzati solo ingredienti di alta qualità e davvero indispensabili. Parte di


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Idee e acquisti per la settimana

Ricetta Bio

Ricetta Bio

Cake al cioccolato e al cocco

Torretta di toast con composta di mele

Dessert per 6 persone Per 1 stampo per cake di 26 cm

Cena dolce per 4 persone

Ingredienti 12 fette di pane per toast, ad es. Pain carré chiaro 50 g di cioccolato fondente, 70 % di cacao 50 g di chips di noce di cocco 2 dl di latte 1 dl di panna intera 2 uova 150 g di confettura di albicocche 1 bustina di zucchero vanigliato zucchero vanigliato per decorare Preparazione Scaldate il forno a 200 °C. Foderate lo stampo per cake con carta da forno. Eliminate il bordo delle fette di pane per toast e riducetelo a dadini. Sistemate le fette di pane nello stampo.

Alnatura Cioccolato amaro 70% cacao 100 g Fr. 1.60 Nelle maggiori filiali

Ingredienti 3 uova 1, 5 dl di latte 12 fette di pane per toast, ad es. Pain carré scuro 3 cucchiai di burro 1½ cucchiai di cannella in polvere 4 cucchiai di zucchero 1 dl di panna intera 1 vasetto di composta di mele da 360 g

Tritate finemente il cioccolato e mescolatelo con le chips di cocco e i dadini di pane. Distribuite la miscela tra le fette di pane per toast. Mescolate bene il latte con la panna, le uova, la confettura e lo zucchero vanigliato. Versate la miscela sul pane per toast. Cuocete il cake in forno per 20-25 minuti. Sfornate e fate intiepidire su una griglia. Spolverizzate il cake con lo zucchero a velo e servitelo tiepido.

Preparazione Sbattete le uova con il latte. Dividete le fette di toast in quattro parti. Fate fondere un po’ di burro in una padella. Immergete i triangoli di pane uno dopo

Tempo di preparazione ca. 25 minuti + cottura al forno 20-25 minuti + raffreddamento

l’altro nella miscela di uova e latte. Dorateli poco alla volta a fuoco medio da entrambi i lati. Mescolate la cannella con lo zucchero. Passate nello zucchero speziato i triangoli dorati e accomodateli uno sopra l’altro nei piatti formando delle torrette. Montate la panna e servitela con la composta di mele e le torrette. Tempo di preparazione ca. 30 minuti Per persona ca. 14 g di proteine, 26 g di grassi, 47 g di carboidrati, 2050 kJ/490 kcal

Per persona ca. 9 g di proteine, 16 g di grassi, 46 g di carboidrati, 1550 kJ/370 kcal

Alnatura Zucchero grezzo vanigliato Bourbon 4 x 8 g Fr. 2.30

Migros Bio Pain Carré chiaro, 265 g Fr. 1.80

Migros Bio Uova svizzere d’allevamento all’aperto 4 x 63+ g Fr. 6.90

Migros Bio Burro 200 g Fr. 3.70

Migros Bio Panna intera 200 ml Fr. 2.60

Alnatura Polpa di mela 360 g Fr. 1.20

Migros Bio Cannella 27 g Fr. 1.25


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Ricetta Bio

Ricetta Bio

Cake al cioccolato e al cocco

Torretta di toast con composta di mele

Dessert per 6 persone Per 1 stampo per cake di 26 cm

Cena dolce per 4 persone

Ingredienti 12 fette di pane per toast, ad es. Pain carré chiaro 50 g di cioccolato fondente, 70 % di cacao 50 g di chips di noce di cocco 2 dl di latte 1 dl di panna intera 2 uova 150 g di confettura di albicocche 1 bustina di zucchero vanigliato zucchero vanigliato per decorare Preparazione Scaldate il forno a 200 °C. Foderate lo stampo per cake con carta da forno. Eliminate il bordo delle fette di pane per toast e riducetelo a dadini. Sistemate le fette di pane nello stampo.

Alnatura Cioccolato amaro 70% cacao 100 g Fr. 1.60 Nelle maggiori filiali

Ingredienti 3 uova 1, 5 dl di latte 12 fette di pane per toast, ad es. Pain carré scuro 3 cucchiai di burro 1½ cucchiai di cannella in polvere 4 cucchiai di zucchero 1 dl di panna intera 1 vasetto di composta di mele da 360 g

Tritate finemente il cioccolato e mescolatelo con le chips di cocco e i dadini di pane. Distribuite la miscela tra le fette di pane per toast. Mescolate bene il latte con la panna, le uova, la confettura e lo zucchero vanigliato. Versate la miscela sul pane per toast. Cuocete il cake in forno per 20-25 minuti. Sfornate e fate intiepidire su una griglia. Spolverizzate il cake con lo zucchero a velo e servitelo tiepido.

Preparazione Sbattete le uova con il latte. Dividete le fette di toast in quattro parti. Fate fondere un po’ di burro in una padella. Immergete i triangoli di pane uno dopo

Tempo di preparazione ca. 25 minuti + cottura al forno 20-25 minuti + raffreddamento

l’altro nella miscela di uova e latte. Dorateli poco alla volta a fuoco medio da entrambi i lati. Mescolate la cannella con lo zucchero. Passate nello zucchero speziato i triangoli dorati e accomodateli uno sopra l’altro nei piatti formando delle torrette. Montate la panna e servitela con la composta di mele e le torrette. Tempo di preparazione ca. 30 minuti Per persona ca. 14 g di proteine, 26 g di grassi, 47 g di carboidrati, 2050 kJ/490 kcal

Per persona ca. 9 g di proteine, 16 g di grassi, 46 g di carboidrati, 1550 kJ/370 kcal

Alnatura Zucchero grezzo vanigliato Bourbon 4 x 8 g Fr. 2.30

Migros Bio Pain Carré chiaro, 265 g Fr. 1.80

Migros Bio Uova svizzere d’allevamento all’aperto 4 x 63+ g Fr. 6.90

Migros Bio Burro 200 g Fr. 3.70

Migros Bio Panna intera 200 ml Fr. 2.60

Alnatura Polpa di mela 360 g Fr. 1.20

Migros Bio Cannella 27 g Fr. 1.25


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Idee e acquisti per la settimana

Ricetta Bio

Sformato di bacche con crosta di meringa Dessert per 6 persone Per 1 pirofila di ca. 23 × 28 cm Ingredienti 1 cucchiaio di burro 12 fette di pane per toast, ad es. Pain carré chiaro 300 g di bacche miste, surgelate 2 uova 250 g di quark semigrasso 2 dl di panna intera 4 cucchiai di succo di agave 1 presa di sale 60 g di zucchero Preparazione 1. Scaldate il forno a 200 °C. Imburrate la pirofila. Riducete il pane per toast a dadini e distribuitelo nella pirofila. Spargete le bacche surgelate sui dadini di pane. 2. Separate le uova. Mescolate bene i tuorli con il quark, la panna e lo sciroppo di agave. Versate il composto sulle bacche. Infornate la pirofila al centro del forno e cuocete per ca. 20 minuti . 3. Nel frattempo, montate gli albumi ben fermi con il sale. Incorporate lo zucchero a pioggia. Continuate a lavorare la massa finché brilla e diventa consistente. Sfornate lo sformato. Alzate la temperatura del forno a 220 °C. Distribuite gli albumi montati sullo sformato e gratinatelo per ca. 5 minuti . Tempo di preparazione ca. 15 minuti + cottura in forno ca. 25 minuti Per persona ca. 12 g di proteine, 20 g di grassi, 45 g di carboidrati, 1700 kJ/410 kcal

Ricette di Migros Bio zucchero fino cristallizzato 1 kg Fr. 2.10

Alnatura Sciroppo di agave 250 ml Fr. 3.30

Migros Bio Bacche miste non zuccherate, 2 x 150 g Fr. 4.50

Migros Bio Quark semigrasso 250 g* Fr. 1.60

www.saison.ch


Azione 50%

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Raccard surchoix a fette Migros Bio e Raccard Tradition in blocco o a fette da 10 pezzi per es. in blocco maxi, per 100 g, 1.70 invece di 2.15

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Bratwurst di maiale Svizzera, 4 x 125 g

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Filetto di passera MSC Atlantico nord-orientale, per 100 g, fino al 15.10

Salmone affumicato Migros Bio* d’allevamento, Scozia/Irlanda/Norvegia, 260 g

IDEA GOLOSA Rendi ancora più delizioso un gustoso pezzo di carne. Spalma il formaggio Philadelphia sulla carne e ricoprila con un mix di pistacchi ed erbe aromatiche. Avvolgi il tutto in un manto di pancetta e pasta, inforna ed ecco pronta una prelibatezza da leccarsi le dita. Trovi la ricetta su www.saison.ch/ it/consigliamo e tutti gli ingredienti freschi alla tua Migros.

conf. da 2

15%

3.90 invece di 4.60 Philadelphia in conf. da 2 per es. al naturale, 2 x 200 g

30%

1.80 invece di 2.60 Luganighetta nostrana prodotta in Ticino, imballata, per 100 g

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1.85 invece di 2.35 Appenzeller surchoix Migros Bio per 100 g

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6.90 invece di 9.90 Minipic in conf. da 3 Svizzera, 3 x 90 g

*In vendita nelle maggiori filiali Migros. Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DALL’11.10 AL 17.10.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

30%

4.80 invece di 6.95 Roastbeef cotto Svizzera/Germania, affettato in vaschetta, per 100 g

25%

4.15 invece di 5.60 Costolette di vitello TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g

30%

1.30 invece di 1.90 Fettine di pollo M-Classic Germania/Ungheria, carne prodotta in base all’Ordinanza svizzera sulla protezione degli animali, per 100 g

30%

5.20 invece di 7.50 Entrecôte di cervo Nuova Zelanda, imballato, per 100 g

25%

2.25 invece di 3.05 Arrosto di spalla di manzo TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g

25%

3.95 invece di 5.40 Racks d’agnello Nuova Zelanda/Australia, imballati, per 100 g


Pura freschezz a. 40%

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IDEA GOLOSA Rendi ancora più delizioso un gustoso pezzo di carne. Spalma il formaggio Philadelphia sulla carne e ricoprila con un mix di pistacchi ed erbe aromatiche. Avvolgi il tutto in un manto di pancetta e pasta, inforna ed ecco pronta una prelibatezza da leccarsi le dita. Trovi la ricetta su www.saison.ch/ it/consigliamo e tutti gli ingredienti freschi alla tua Migros.

conf. da 2

15%

3.90 invece di 4.60 Philadelphia in conf. da 2 per es. al naturale, 2 x 200 g

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1.80 invece di 2.60 Luganighetta nostrana prodotta in Ticino, imballata, per 100 g

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20%

1.85 invece di 2.35 Appenzeller surchoix Migros Bio per 100 g

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*In vendita nelle maggiori filiali Migros. Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DALL’11.10 AL 17.10.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

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25%

4.15 invece di 5.60 Costolette di vitello TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g

30%

1.30 invece di 1.90 Fettine di pollo M-Classic Germania/Ungheria, carne prodotta in base all’Ordinanza svizzera sulla protezione degli animali, per 100 g

30%

5.20 invece di 7.50 Entrecôte di cervo Nuova Zelanda, imballato, per 100 g

25%

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25%

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30%

4.95 invece di 7.30 Minestrone alla ticinese Svizzera, imballato, al kg

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Patate resistenti alla cottura Migros Bio Svizzera, busta da 2 kg

33%

1.– invece di 1.50 Castagne Francia, sciolte, al 100 g

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Insalata filante Ticino, confezione da 200 g

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40%

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2.75 invece di 2.95 Il Burro panetto, 250 g


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4.95 invece di 7.30 Minestrone alla ticinese Svizzera, imballato, al kg

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3.90 invece di 4.90 Uva Italia Sélection Italia, sciolta, al kg Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DALL’11.10 AL 17.10.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

Patate resistenti alla cottura Migros Bio Svizzera, busta da 2 kg

33%

1.– invece di 1.50 Castagne Francia, sciolte, al 100 g

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Insalata filante Ticino, confezione da 200 g

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20% Tutti gli yogurt Migros Bio (yogurt di latte di pecora esclusi), per es. moca Fairtrade, 180 g, –.60 invece di –.75

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I nostri superprezzi. 20% Fagottini alle pere e fagottini alle pere Migros Bio per es. fagottini alle pere, 3 pezzi, 225 g, 2.30 invece di 2.90

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3.90

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Rose Fairtrade, mazzo da 10 disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo 50 cm, per es. arancioni/gialle

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20% Tutti i prodotti per bambini Kellogg’s per es. Smacks, 600 g, 4.– invece di 5.–

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Tutti i tipi di calluna ed erica per es. calluna in vaso da 11 cm, 3.10 invece di 3.90

Tutto il cioccolato Merci e Toffifee per es. Merci, 250 g, 3.95

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10.50 invece di 15.– La Pizza in conf. da 2 per es. 4 stagioni, 2 x 420 g

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6.20 invece di 7.80 Biscotti rotondi Chocky in conf. da 3 al cioccolato e al latte, per es. al cioccolato, 3 x 250 g

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Cioccolatini Classic Frey in sacchetto da 1 kg, UTZ Tutti i tipi di confetture e di miele Migros Bio per es. miele di fiori liquido, 250 g, 2.80 invece di 3.50 assortiti

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conf. da 8

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4.90 invece di 7.60 Chicchi di mais M-Classic in conf. da 8 8 x 285 g

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20% Tutti i brodi Bon Chef e Knorr per es. brodo di verdure, 230 g, 4.30 invece di 5.40

20% Tutti i tipi di aceto e condimenti Ponti per es. aceto balsamico di Modena, 50 cl, 3.40 invece di 4.25

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10.70 invece di 15.30 Pangasio in panatura al limone Pelican in conf. da 3, ASC surgelato, 3 x 300 g

conf. da 2

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6.30

Chips Zweifel in conf. da 2 per es. alla paprica, 2 x 175 g

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4.95 invece di 9.90 Tutte le bevande dolci Jarimba in conf. da 6, 6 x 1,5 l arancia e mango, limone e fiori di sambuco e Himbo, per es. Himbo

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Tutto l’assortimento Alnatura e Alnavit per es. coco drink al naturale, 330 ml, 2.30

20%

7.40 invece di 9.30 Red Bull standard e sugarfree in conf. da 6, 6 x 250 ml per es. standard

20% Tutti i tipi di caffè Cafino e Cappuccino per es. Cafino in sacchetto, 550 g, 8.60 invece di 10.80

conf. da 24 conf. da 2 a partire da 2 pezzi

– .5 0

di riduzione l’uno

40%

6.85 invece di 11.45

Tutto l’assortimento Subito a partire da 2 pezzi, –.50 di riduzione l’uno, per es. Sminuzzato di pollo M-Classic in conf. da 2 risotto alla milanese, 250 g, 2.20 invece di 2.70 surgelato, 2 x 350 g Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DALL’11.10 AL 17.10.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

20% Tutto l’assortimento Happy Hour prodotti surgelati, per es. baguette all’aglio, 240 g, 2.60 invece di 3.25

20%

14.15 invece di 17.70 Alimenti umidi in bustina e menu croccanti Exelcat in confezioni multiple alimenti umidi in bustina, 24 x 100 g, e menu croccanti al manzo, 2 x 950 g, per es. squisitezza di manzo e agnello in salsa, in bustina, 24 x 100 g


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Altre offerte. Pesce, carne e pollame

Appenzeller surchoix Migros Bio, per 100 g, 1.85 invece di 2.35 20% Cake Vermicelles, 300 g, 5.50 invece di 6.90 20%

Galletti Optigal, Svizzera, confezione da 2 pezzi, al kg, 9.40 invece di 13.50 30%

30% Vanish in confezioni speciali per es. Oxi Action Pink, 1,5 kg, 14.20 invece di 21.35

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14.90 invece di 19.–

Teneroni di vitello TerraSuisse, Svizzera, imballati, per 100 g, 2.70 invece di 3.40 20% Carne secca Migros Bio, Svizzera, per 100 g, 7.20 invece di 9.– 20% *

Pane e latticini

15.60 invece di 19.60 Detersivi per capi delicati Yvette in conf. da 2 per es. Black, 2 x 2 l

Tutti i Torino in confezioni speciali, per es. al latte in conf. da 3, 138 g, 2.80 invece di 3.50 20% Olio di colza svizzero Migros Bio, 50 cl, 6.90 Hit Tutta la pasta senza glutine Le Veneziane, Molino di Ferro, per es. Le Veneziane spaghetti, 250 g, 2.– invece di 2.50 20%

Calgon in conf. speciale gel in conf. da 2, 2 x 750 ml

Tutti i Pain Création (esclusi i panini a libero servizio), per es. Ciabatta croccante, 400 g, 3.– invece di 3.80 20%

20%

Altri alimenti

Olio d’oliva Don Pablo, 1 l e 50 cl, per es. 50 cl, 4.45 invece di 5.60 20%

Funghi porcini a fette, interi e misti Valtaro, surgelati, 300 g, 450 g e 500 g, per es. funghi interi, 500 g, 9.10 invece di 11.40 20%

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Near Food/Non Food Il tuo müesli Farmer, mela e cannella, bacche e cioccolato bianco, miele e noce, per es. bacche e cioccolato bianco, 85 g, 2.10 Novità ** Tutti i prodotti per la cura del viso e del corpo L’Oréal (prodotti L’Oréal Men e confezioni multiple esclusi), per es. crema da giorno Revitalift, 50 ml, 13.10 invece di 16.40 20% **

Risotto alla zucca Anna’s Best, 400 g, 7.80 Novità **

Calze al ginocchio per bambini in conf. da 3, disponibili in diversi motivi e misure, per es. motivo Minions, grigio chiaro, numeri 27–30, 7.90 Hit **

Spätzli alla zucca Anna’s Best, in busta da 500 g, 3.50 Novità **

Tutti i deodoranti per ambienti Créateur d’Ambiance, a partire da 2 pezzi 20% **

Chicken sweet & sour Anna’s Best, 400 g, 5.90 Novità **

Tortelli di zucca Anna’s Best Vegi, Migros Bio, 250 g, 5.90 Novità ** Zucca e arancia Anna’s Best Juicy, 250 ml, 3.40 Novità ** Toast Quinoa TerraSuisse, 250 g, 2.40 Novità **

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Spazzola per veneziane FSC il pezzo *In vendita nelle maggiori filiali Migros. **Offerta valida fino al 24.10 Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DALL’11.10 AL 17.10.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Idee e acquisti per la settimana

Oh!

Cremosa e delicata tentazione Gli amanti dell’alimentazione ricca di proteine hanno scoperto gli yogurt alla greca già da tempo. Alla Migros sono disponibili sotto la marca propria «Oh! Yogurt Greek Style». Durante l’autunno e l’inverno sono in assortimento due irresistibili specialità stagionali: arancia sanguigna e mora-pitaya o frutto del drago. Come tutti gli yogurt «Oh!» anche le due nuove varietà contengono il doppio delle proteine rispetto agli yogurt convenzionali (8%). Chi lo desidera, prima del consumo può miscelare la purea di frutta del fondo con il cremoso yogurt. Così facendo, questo fornitore di proteine povero di grassi (0,1%) si trasforma in un baleno in uno spuntino nutriente.

Limited Edition Due nuove varietà della linea Oh! Yogurt Greek Style, disponibili in autunno e inverno

Oh! Yogurt Greek Style Mora/Pitaya 170 g* Fr. 1.85 *Nelle maggiori filiali

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Idee e acquisti per la settimana

Cibo recuperato

Da sapere

Fagottini & Spätzli

Gli avanzi di broccoli e purè di patate si trasformano in fagottini.

Con una macchina per sottovuoto i generi alimentari – cotti o crudi – si conservano fino a quattro volte più a lungo del normale. In questo modo si risparmia non solo il portafoglio ma anche l’ambiente. Suggerimenti e ricette da provare su: www.solis.ch/vakuumierexperiment (in tedesco)

Il giorno prima avete fatto troppo purè di patate? Nessun problema: con quello avanzato e con i resti di verdure e salumi si possono preparare in un attimo delicate minestre, succulenti bocconcini e sostanziosi piatti

Consigli

1

Un sacco di possibilità Il purè di patate è il piatto preferito di molti. E a volte se ne fa anche troppo. Ma va bene così, perché con quel che resta si possono preparare in un battibaleno dei fagottini oppure delle crocchette impanate nella farina. Inoltre, il purè è facile da congelare suddiviso in porzioni. In seguito, si può scongelare poco prima di riscaldarlo lentamente, mischiato a un goccio di latte.

1,2,3 Polpette di patate Piccolo pasto per 4 persone Per ca. 8 pezzi

3

Ingredienti 30-60 g di avanzi di affettato, ad es. carne secca, prosciutto crudo o Salsiz ca. 150 g verdure cotte, ad es. broccoli, carote 2-4 rametti di erbe aromatiche, ad es. timo ca. 400 g di purè di patate 2 tuorli o 1 uovo sale, pepe 4-5 cucchiai di pangrattato 4 cucchiai d’olio di colza HOLL o burro per arrostire 3 cucchiai panna semigrassa acidula o crème fraîche

Preparazione Tagliate i resti di affettato e le verdure a dadini. Staccate le foglie di timo dai rametti. Mescolate il purè di patate con i dadini di affettato e di verdure, il timo e l’uovo. Condite con sale e pepe. Formate 8 polpette rotonde con l’impasto, appiattitele e passatele nel pangrattato. Scaldate l’olio e dorate le polpette a fuoco medio ca. 5 minuti per lato. Servitele con la panna acidula e un’insalata.

Suggerimenti Grattugiate il pane raffermo e usatelo come pangrattato. Se la consistenza del purè è troppo morbida, aggiungete un po’ di farina in modo che l’impasto sia modellabile. Tempo di preparazione ca. 20 minuti

Per le verdure cotte ci sono infinite possibilità di riutilizzo. A seconda del tipo, si possono preparare frittate, minestroni o usare per specialità asiatiche fritte nel Wok. Ma anche per una crema di verdure da servire come aperitivo. Basta ridurre in purè gli avanzi, mischiarli con crème fraîche e speziare a piacere.

2

3

Testo Sonja Leissing; Foto Lukas Lienhard; Illustrazione Rahel Eisenring; Ricette Janine Naininger

Con gli avanzi di salumi come la carne secca grigionese, il prosciutto crudo, le salsicce o la pancetta si possono preparare molte pietanze. Ad esempio, si possono friggere in padella con qualche fetta di cipolla e poi usare per condire un piatto di pasta o da mischiare con le patate arrosto. Una spruzzata di pepe e il pranzo è servito!

Spätzli d’autunno Piatto principale per 4 persone Ingredienti ca. 400 g di verdure cotte o crude, ad es. cavolini di Bruxelle, verza, zucca ca. 150 g di funghi misti 2 cucchiai d’olio di colza HOLL ca. 800 g di spätzli sale, pepe ca. 80 g di formaggio,

ad es. appenzeller o formaggio grattugiato 3-4 cucchiai di confettura di mirtilli rossi Preparazione Mondate le verdure e i funghi, se necessario, tagliatele a pezzettini. Scaldate l’olio in una padella ampia. Versatevi gli spätzli, le verdure e i funghi

Su www.generazione-m.ch/cucinare-con-gli-avanzi troverete un video con le istruzioni per queste e altre ricette con i resti di cibo.

Ricette di

www.saison.ch

e rosolate il tutto finché gli spätzli si dorano leggermente. Condite con sale e pepe. Servite l’appenzeller grattugiato e la confettura con gli spätzli. Tempo di preparazione ca. 10-20 minuti

Parte di

Nell’impegno a favore della sostenibilità, la Migros è da generazioni in anticipo sui tempi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 ottobre 2016 • N. 41

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Cibo recuperato

Da sapere

Fagottini & Spätzli

Gli avanzi di broccoli e purè di patate si trasformano in fagottini.

Con una macchina per sottovuoto i generi alimentari – cotti o crudi – si conservano fino a quattro volte più a lungo del normale. In questo modo si risparmia non solo il portafoglio ma anche l’ambiente. Suggerimenti e ricette da provare su: www.solis.ch/vakuumierexperiment (in tedesco)

Il giorno prima avete fatto troppo purè di patate? Nessun problema: con quello avanzato e con i resti di verdure e salumi si possono preparare in un attimo delicate minestre, succulenti bocconcini e sostanziosi piatti

Consigli

1

Un sacco di possibilità Il purè di patate è il piatto preferito di molti. E a volte se ne fa anche troppo. Ma va bene così, perché con quel che resta si possono preparare in un battibaleno dei fagottini oppure delle crocchette impanate nella farina. Inoltre, il purè è facile da congelare suddiviso in porzioni. In seguito, si può scongelare poco prima di riscaldarlo lentamente, mischiato a un goccio di latte.

1,2,3 Polpette di patate Piccolo pasto per 4 persone Per ca. 8 pezzi

3

Ingredienti 30-60 g di avanzi di affettato, ad es. carne secca, prosciutto crudo o Salsiz ca. 150 g verdure cotte, ad es. broccoli, carote 2-4 rametti di erbe aromatiche, ad es. timo ca. 400 g di purè di patate 2 tuorli o 1 uovo sale, pepe 4-5 cucchiai di pangrattato 4 cucchiai d’olio di colza HOLL o burro per arrostire 3 cucchiai panna semigrassa acidula o crème fraîche

Preparazione Tagliate i resti di affettato e le verdure a dadini. Staccate le foglie di timo dai rametti. Mescolate il purè di patate con i dadini di affettato e di verdure, il timo e l’uovo. Condite con sale e pepe. Formate 8 polpette rotonde con l’impasto, appiattitele e passatele nel pangrattato. Scaldate l’olio e dorate le polpette a fuoco medio ca. 5 minuti per lato. Servitele con la panna acidula e un’insalata.

Suggerimenti Grattugiate il pane raffermo e usatelo come pangrattato. Se la consistenza del purè è troppo morbida, aggiungete un po’ di farina in modo che l’impasto sia modellabile. Tempo di preparazione ca. 20 minuti

Per le verdure cotte ci sono infinite possibilità di riutilizzo. A seconda del tipo, si possono preparare frittate, minestroni o usare per specialità asiatiche fritte nel Wok. Ma anche per una crema di verdure da servire come aperitivo. Basta ridurre in purè gli avanzi, mischiarli con crème fraîche e speziare a piacere.

2

3

Testo Sonja Leissing; Foto Lukas Lienhard; Illustrazione Rahel Eisenring; Ricette Janine Naininger

Con gli avanzi di salumi come la carne secca grigionese, il prosciutto crudo, le salsicce o la pancetta si possono preparare molte pietanze. Ad esempio, si possono friggere in padella con qualche fetta di cipolla e poi usare per condire un piatto di pasta o da mischiare con le patate arrosto. Una spruzzata di pepe e il pranzo è servito!

Spätzli d’autunno Piatto principale per 4 persone Ingredienti ca. 400 g di verdure cotte o crude, ad es. cavolini di Bruxelle, verza, zucca ca. 150 g di funghi misti 2 cucchiai d’olio di colza HOLL ca. 800 g di spätzli sale, pepe ca. 80 g di formaggio,

ad es. appenzeller o formaggio grattugiato 3-4 cucchiai di confettura di mirtilli rossi Preparazione Mondate le verdure e i funghi, se necessario, tagliatele a pezzettini. Scaldate l’olio in una padella ampia. Versatevi gli spätzli, le verdure e i funghi

Su www.generazione-m.ch/cucinare-con-gli-avanzi troverete un video con le istruzioni per queste e altre ricette con i resti di cibo.

Ricette di

www.saison.ch

e rosolate il tutto finché gli spätzli si dorano leggermente. Condite con sale e pepe. Servite l’appenzeller grattugiato e la confettura con gli spätzli. Tempo di preparazione ca. 10-20 minuti

Parte di

Nell’impegno a favore della sostenibilità, la Migros è da generazioni in anticipo sui tempi.


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Idee e acquisti per la settimana

Papeteria

Pianificare facilita la vita

Anche se molti appuntamenti si possono gestire in modo digitale, le agende di carta sono ancora quelle più efficienti. Lo prova il fatto che chi prende appunti per iscritto, poi se ne ricorda meglio. Inoltre, con un calendario tutti i membri della famiglia hanno una panoramica completa di appuntamenti, liste della spesa e compleanni. L’offerta di Papeteria ha l’agenda adeguata per ogni esigenza: in formato verticale od orizzontale, con vista giornaliera o settimanale.

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2 Agenda tascabile con vista settimanale Fr. 5.90

3 Agenda da tavolo A5 con vista giornaliera* Fr. 19.80

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3

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Agenda da tavolo A5 con vista giornaliera* Fr. 9.80

Agenda A7 con vista settimanale* Fr. 5.30

Agenda A6 con vista settimanale* Fr. 8.50

Agenda A5 con vista settimanale Fr. 12.80

* Disponibile in diversi colori e soggetti

Parte di


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Lo sapevate? Dal 2006 tutto l’assortimento delle marche di carta igienica della Migros è certificato FSC o prodotto con carta riciclata. La sigla FSC® certifica articoli provenienti da una gestione responsabile delle risorse forestali.

Soft

Un ruolo sostenibile

Morbido ed ecologico: potrebbe sembrare una contraddizione, ma per la carta igienica della Migros non lo è affatto. Chi vuol essere rispettoso dell’ambiente anche «in quel posto», senza però rinunciare al comfort, ha solo l’imbarazzo della scelta tra il vasto assortimento Soft Testo Anna Bürgin

Sono 21 i chili di carta igienica che uno svizzero consuma mediamente ogni anno. In questa particolare classifica siamo i primi in Europa. È perciò importante che la carta da toilette che usiamo non sia solo morbida e resistente ma anche rispettosa dell’ambiente. Tutti rotoli della marca propria Soft sono prodotti secondo lo standard FSC® o con carta

riciclata. Per esempio, i quattro strati esterni della carta igienica «Deluxe» sono prodotti con legno FSC, mentre i due strati centrali consistono in fibre di materiale riciclato. Per inciso: la Migros propone la gamma più ampia della Svizzera di articoli di legno e carta certificati FSC, svolgendo un ruolo da pioniere nella loro introduzione sul mercato.

Azione 30% su Soft Comfort, 32 rotoli Fr. 13.30 invece di 18.90 e su Soft Sensitive, 24 rotoli Fr. 13.– invece di 18.60 fino al 24 ottobre

Parte di

Soft Recycling Carta igienica 3 veli, 12 rotoli Fr. 6.20

Soft Recycling Supreme Carta igienica 4 veli, 12 rotoli Fr. 7.30

Soft Color Carta igienica FSC 4 veli, 12 rotoli Fr. 8.20

Soft Comfort Carta igienica FSC 3 veli, 12 rotoli* Fr. 7.10

Soft Camomilla Carta igienica FSC 4 veli, 6 rotoli Fr. 4.20

Soft Deco Carta igienica FSC 4 veli, 12 rotoli Fr. 8.–

Soft Deluxe Carta igienica FSC 6 veli, 6 rotoli Fr. 4.65

Soft Sensitive Carta igienica FSC 5 veli, 6 rotoli* Fr. 4.65

Nell’impegno a favore della sostenibilità, la Migros ha anticipato i tempi di generazioni.


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Lo sapevate? Dal 2006 tutto l’assortimento delle marche di carta igienica della Migros è certificato FSC o prodotto con carta riciclata. La sigla FSC® certifica articoli provenienti da una gestione responsabile delle risorse forestali.

Soft

Un ruolo sostenibile

Morbido ed ecologico: potrebbe sembrare una contraddizione, ma per la carta igienica della Migros non lo è affatto. Chi vuol essere rispettoso dell’ambiente anche «in quel posto», senza però rinunciare al comfort, ha solo l’imbarazzo della scelta tra il vasto assortimento Soft Testo Anna Bürgin

Sono 21 i chili di carta igienica che uno svizzero consuma mediamente ogni anno. In questa particolare classifica siamo i primi in Europa. È perciò importante che la carta da toilette che usiamo non sia solo morbida e resistente ma anche rispettosa dell’ambiente. Tutti rotoli della marca propria Soft sono prodotti secondo lo standard FSC® o con carta

riciclata. Per esempio, i quattro strati esterni della carta igienica «Deluxe» sono prodotti con legno FSC, mentre i due strati centrali consistono in fibre di materiale riciclato. Per inciso: la Migros propone la gamma più ampia della Svizzera di articoli di legno e carta certificati FSC, svolgendo un ruolo da pioniere nella loro introduzione sul mercato.

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Soft Recycling Carta igienica 3 veli, 12 rotoli Fr. 6.20

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M-Classic

Caviale vegetariano

Consiglio Le lenticchie nere già cotte M-Classic sono ideali per preparare un’insalata di lenticchie orientale con cachi. Ricetta su www.saison.ch Le lenticchie nere con frutti esotici non sono solo gustose, ma anche belle da vedere.

Le lenticchie nere sono chiamate anche lenticchie Beluga o lenticchie caviale. Il paragone con il caviale sembra azzeccato, dal momento che sono piccole, nere, lucenti e posseggono un gusto particolarmente delicato. Questi legumi ricchi di proteine si distinguono per il loro aroma che ricorda al contempo le nocciole e le castagne, e da tempo hanno un posto d’onore della gastronomia di alto livello. Grazie alla loro consistenza soda anche dopo la cottura sono ideali fredde in insalata oppure calde come contorno. M-Classic propone le lenticchie nere come novità nella variante già pronta.

Migros-Bio è sinonimo di un’agricoltura in sintonia con la natura. L’assortimento propone oltre 1300 prodotti.

Nuovo Migros Bio M-Classic Lenticchie nere 2 x 165 g Fr. 2.90 Nelle maggiori filiali

Parte di M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche le lenticchie nere M-Classic.


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American Favorites

Good News per gli amanti dei burger Gli adepti dei burger si rallegrano di ogni nuova creazione. Ecco perché ora esistono i nuovi American Favorites Bagel Chicken Burger e Pulled Pork Burger. Sono pronti in pochissimi minuti semplicemente riscaldandoli nel forno tradizionale o nel microonde. Il bagel al sesamo sorprende con la sua tenera carne di pollo, una fetta di formaggio fuso ed una salsa piccante. Il Pulled Pork Burger è pure assolutamente irresistibile: la carne di maiale cotta delicatamente a lungo, racchiusa in buns di spelta, proviene dal collo e dalla spalla e viene accompagnata come da tradizione con insalata di cavolo e salsa aromatica. La lunga cottura conferisce alla carne una tenerezza unica e un sapore intenso.

I due burger contengono la migliore carne di pollo e maiale di provenienza svizzera.

Azione 20X Punti Cumulus per i nuovi burger American Favorites fino al 17 ottobre

American Favorites Bagel Chicken Burger 185 g Fr. 4.90

American Favorites Pulled Pork Burger 170 g Fr. 6.90 Nelle maggiori filiali


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Minis

Come quelli della nonna Siete invitati dagli amici e non avete nulla in casa da portare loro? Nessun problema. Con le miscele per dolci Minis Classic e Minis Choco potete preparare facilmente delle deliziose tortine. Basta mescolare la miscela con uova, burro e acqua fino ad ottenere un im-

pasto morbido. Riempite le apposite formine e infornate per una ventina di minuti: i mini cakes sono bell’e pronti. Per terminare non dovete fare altro che scrivere un pensierino personale sulla formina e il regalino è pronto per essere consegnato.

Azione 20X Punti Cumulus sulle miscele per dolci Minis fino al 17 ottobre

Minis Classic Miscela per dolci 250 g* Fr. 4.80

Minis Choco Miscela per dolci 250 g* Fr. 4.80 *Nelle maggiori filiali

Per gli amici del cioccolato: entrambe le miscele contengono deliziose chips di cioccolato.

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche le miscele Minis.


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