Cooperativa Migros Ticino
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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 17 ottobre 2016
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Società e Territorio «Ponti e via!»: l’ingegneria spiegata alle bambine e ai bambini
Ambiente e Benessere L’ingegnere Roberto Fridel ci parla del benessere in azienda e in particolare dell’equilibrio fra vita privata e lavoro
Politica e Economia Vertice della conciliazione a Istanbul fra Turchia e Russia
Cultura e Spettacoli Il Kunstmuseum di Basilea dedica una mostra a Pollock
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Keystone
Dario Fo, incorreggibile giullare
La rivolta del ventre molle dell’America di Peter Schiesser Che cosa dobbiamo aspettarci ancora, nelle tre settimane che precedono le elezioni presidenziali negli Stati Uniti? Solo un anno fa, nessuno avrebbe immaginato che Donald Trump avrebbe sfidato Hillary Clinton l’8 novembre, tanto meno che la campagna assumesse toni così feroci, denigratori, razzisti, sessisti, innaffiata di menzogne, al punto da risultare sediziosa (vedi Rampini a pag. 22). Ha ancora possibilità di vincere, il multimiliardario Trump, dopo l’ennesimo scandalo che lo vede protagonista (un video del 2005 da cui emergono tratti da maniaco sessuale), i due faccia a faccia persi con Hillary, la rivelazione che grazie ad una bancarotta ha evitato di pagare imposte federali per 980 milioni di dollari? Trump e Hillary sono i candidati presidenziali con il più alto tasso di antipatia della storia. L’ex first lady e ministro degli esteri sotto Obama fatica quindi a capitalizzare il vasto rifiuto popolare verso il suo antagonista e Hillary mette ora molte energie nel cercare di convincere i giovani a non votare per i due candidati alternativi, il verde Jill Stein e il liberale Gary Johnson. I sondaggi la danno vincente (grazie
alle donne, mentre una lieve maggioranza degli uomini sta con Trump), ma abbiamo tutti imparato a non fidarci dei sondaggi, soprattutto quando devono misurare il potenziale di rivolta che si cela nell’animo degli elettori. Una logica razionale impedisce di credere che la maggioranza degli elettori statunitensi voglia dare in mano il proprio paese e gli equilibri geopolitici mondiali ad una personalità con atteggiamenti così autoritari, populisti, razzisti, così priva di freni inibitori, assolutamente inadatta ad un sistema democratico con i suoi equilibri di potere. Eppure potrebbe essere così. Ma se anche così non sarà, queste presidenziali ci danno un messaggio molto chiaro: c’è qualcosa di marcio negli Stati Uniti, nell’Occidente intero, se consideriamo quanto di simile si nota anche in Europa. Il messaggio è: c’è una profonda rabbia nell’animo dell’americano medio, frutto di un mondo che è cambiato con la globalizzazione economica e i progressi tecnologici che l’hanno resa così incisiva. È una rabbia anti-sistema del ceto medio bianco, sovversiva, che lascerà tracce profonde anche nell’America del dopo 8 novembre. Non si è manifestata con l’avvento di Trump, era già presente da tempo: il Tea Party che si è innestato nel partito repubblicano (che a
sua volta negli otto anni della presidenza Obama si è distinto per una politica di completo ostruzionismo) ne è stato il primo interprete. E non si dissolverà nel nulla tanto presto. Anzi, a sentire Trump, che in questi giorni insinua il sospetto che le elezioni risultino truccate, aggiungendo che potrebbe non riconoscere la vittoria di Hillary, c’è il rischio che, dopo la classe politica tout court, si delegittimi anche l’istituzione presidenziale. Qualcuno già prevede la nascita di un nuovo soggetto politico con a capo Donald Trump. Si può immaginare quali sarebbero i toni futuri del confronto politico negli USA. E la risposta a questa rabbia? La globalizzazione non è un processo facilmente reversibile: l’emergere di nuove potenze economiche, Cina in primis, ha creato nuovi equilibri, la rapidità dei trasporti ha favorito enormemente i commerci, i portentosi progressi tecnologici rendono sempre più facile sostituire l’essere umano con una macchina. Sono realtà che non si cancellano con un colpo di spugna. Può invece essere ripensato il ruolo dello Stato nell’attutire gli effetti di un’economia che premia chi è altamente qualificato e penalizza chi non lo è. Per riuscirci bisogna però che il potere politico riprenda il primato sul potere economico. Chi può riuscirci?