Azione 42 del 17 ottobre 2016

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 17 ottobre 2016

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Società e Territorio «Ponti e via!»: l’ingegneria spiegata alle bambine e ai bambini

Ambiente e Benessere L’ingegnere Roberto Fridel ci parla del benessere in azienda e in particolare dell’equilibrio fra vita privata e lavoro

Politica e Economia Vertice della conciliazione a Istanbul fra Turchia e Russia

Cultura e Spettacoli Il Kunstmuseum di Basilea dedica una mostra a Pollock

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Keystone

Dario Fo, incorreggibile giullare

La rivolta del ventre molle dell’America di Peter Schiesser Che cosa dobbiamo aspettarci ancora, nelle tre settimane che precedono le elezioni presidenziali negli Stati Uniti? Solo un anno fa, nessuno avrebbe immaginato che Donald Trump avrebbe sfidato Hillary Clinton l’8 novembre, tanto meno che la campagna assumesse toni così feroci, denigratori, razzisti, sessisti, innaffiata di menzogne, al punto da risultare sediziosa (vedi Rampini a pag. 22). Ha ancora possibilità di vincere, il multimiliardario Trump, dopo l’ennesimo scandalo che lo vede protagonista (un video del 2005 da cui emergono tratti da maniaco sessuale), i due faccia a faccia persi con Hillary, la rivelazione che grazie ad una bancarotta ha evitato di pagare imposte federali per 980 milioni di dollari? Trump e Hillary sono i candidati presidenziali con il più alto tasso di antipatia della storia. L’ex first lady e ministro degli esteri sotto Obama fatica quindi a capitalizzare il vasto rifiuto popolare verso il suo antagonista e Hillary mette ora molte energie nel cercare di convincere i giovani a non votare per i due candidati alternativi, il verde Jill Stein e il liberale Gary Johnson. I sondaggi la danno vincente (grazie

alle donne, mentre una lieve maggioranza degli uomini sta con Trump), ma abbiamo tutti imparato a non fidarci dei sondaggi, soprattutto quando devono misurare il potenziale di rivolta che si cela nell’animo degli elettori. Una logica razionale impedisce di credere che la maggioranza degli elettori statunitensi voglia dare in mano il proprio paese e gli equilibri geopolitici mondiali ad una personalità con atteggiamenti così autoritari, populisti, razzisti, così priva di freni inibitori, assolutamente inadatta ad un sistema democratico con i suoi equilibri di potere. Eppure potrebbe essere così. Ma se anche così non sarà, queste presidenziali ci danno un messaggio molto chiaro: c’è qualcosa di marcio negli Stati Uniti, nell’Occidente intero, se consideriamo quanto di simile si nota anche in Europa. Il messaggio è: c’è una profonda rabbia nell’animo dell’americano medio, frutto di un mondo che è cambiato con la globalizzazione economica e i progressi tecnologici che l’hanno resa così incisiva. È una rabbia anti-sistema del ceto medio bianco, sovversiva, che lascerà tracce profonde anche nell’America del dopo 8 novembre. Non si è manifestata con l’avvento di Trump, era già presente da tempo: il Tea Party che si è innestato nel partito repubblicano (che a

sua volta negli otto anni della presidenza Obama si è distinto per una politica di completo ostruzionismo) ne è stato il primo interprete. E non si dissolverà nel nulla tanto presto. Anzi, a sentire Trump, che in questi giorni insinua il sospetto che le elezioni risultino truccate, aggiungendo che potrebbe non riconoscere la vittoria di Hillary, c’è il rischio che, dopo la classe politica tout court, si delegittimi anche l’istituzione presidenziale. Qualcuno già prevede la nascita di un nuovo soggetto politico con a capo Donald Trump. Si può immaginare quali sarebbero i toni futuri del confronto politico negli USA. E la risposta a questa rabbia? La globalizzazione non è un processo facilmente reversibile: l’emergere di nuove potenze economiche, Cina in primis, ha creato nuovi equilibri, la rapidità dei trasporti ha favorito enormemente i commerci, i portentosi progressi tecnologici rendono sempre più facile sostituire l’essere umano con una macchina. Sono realtà che non si cancellano con un colpo di spugna. Può invece essere ripensato il ruolo dello Stato nell’attutire gli effetti di un’economia che premia chi è altamente qualificato e penalizza chi non lo è. Per riuscirci bisogna però che il potere politico riprenda il primato sul potere economico. Chi può riuscirci?


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Attualità Migros

M La banana perfetta

Sostenibilità Migros propone banane di produzione ecologica e sociale nell’ambito di un progetto pilota del WWF

per la produzione responsabile. Visita guidata alle piantagioni in Colombia, dove inizia il lungo viaggio delle banane vendute in Svizzera

Pratica, sana e facile da digerire: nel regno dei frutti la banana è regina. A lei sono dedicate canzoni e in inglese è parte di espressioni comuni, come «they go bananas», detto di qualcuno che perde la testa. Eppure l’origine di questa bontà esotica è spesso ignorata. Per farsi un’idea di come si svolge la messa in opera del progetto pilota del WWF nelle aziende che coltivano le banane vendute da Migros, una delegazione svizzera ha partecipato a una visita in Colombia a suoi fornitori. Un viaggio per un progetto a forte valenza simbolica, al quale, oltre ai responsabili prodotto e sostenibilità, ha partecipato anche Herbert Bolliger, presidente della Direzione generale della Federazione delle cooperative Migros. Dopo aver sorvolato le piantagioni di banane, l’aereo atterra a Santa Marta. Da qui un minibus porta i visitatori alla Finca Samy, che malgrado i suoi 700 ettari, pari a un centinaio di campi di calcio, è una piccola piantagione. Nel Paese la banana è una fonte importate di impiego. Il frutto giallo è il preferito dalla clientela Migros, l’articolo più venduto del settore. La sua immagine è però spesso offuscata da condizioni di produzione problematiche. Per questo motivo Migros, nell’ambito di Generazione M, si è impegnata affinché entro la fine del 2017 tutte le banane vendute nei suoi negozi soddisfino standard ecologici e sociali ancora più severi, anche per quelle che non sono coltivate secondo le direttive bio o Max Havelaar. Da qui la collaborazione con il WWF, che ha messo a punto 300 misure da applicare durante i processi di produzione, trasformazione e trasporto.

L’iniziativa raggruppa 32 bananeti della Colombia e dell’Ecuador, già in precedenza certificati Rainforest Alliance. Il marchio garantisce che le aziende non contribuiscono al disboscamento della foresta e che rispettano le esigenze ecologiche, economiche e sociali per un’agricoltura sostenibile fissate dal Sustainable Agriculture Network. Nel quadro di un processo di monitoraggio tra i più rigorosi, le aziende beneficiano di supporto permanente da parte di specialisti del WWF per consulenza e sostegno nell’attuazione graduale delle 300 misure supplementari. Queste comprendono la protezione della fauna e della flora, la proibizione di utilizzo di prodotti fitosanitari classificati come pericolosi dall’OMS, mentre per i lavoratori condizioni di lavoro che tutelano salute e sicurezza, così come controlli sanitari. Giunti alla Finca i viaggiatori ricevono stivali, visto che nella piantagione ci sono serpenti, e spray antizanzare. Il gruppo si mette quindi in cammino nel bananeto su piccoli sentieri. Dei nastri colorati indicano l’età dei diversi arbusti, alti fra i 3 e i 5 metri: a venti settimane producono un grosso fiore rosso da cui si sviluppano i frutti, le banane, che vengono anche chiamate «dita». Ci vogliono dalle dieci alle venti dita per formare una mano. Un’infruttescenza produce più mani e può pesare oltre 40 chili. Le banane crescono inizialmente verso il basso, poi si girano per cercare la luce. Da qui la loro caratteristica forma. Una guaina in plastica protegge i frutti da insetti e intemperie. Maturano in dodici settimane e a partire dalla decima lo spessore delle dita viene regolarmente misurato. Un’ordinanza fissa infatti con precisione le dimensioni che deve avere la banana ideale, ciò che determina la data della raccolta, tra la trentunesima e la trentatreesima settimana. Carlos Ariza, Jaime Salas e Yeis Zarate mostrano le fasi del raccolto. Carlos si arrampica su una piccola scala e stacca il casco di banane aiutandosi con un coltello. Lo fa quindi scivolare delicatamente a terra, verso i colleghi. Jaime e Yeis inseriscono delle protezioni in plastica tra i frutti e attaccano il pesante casco a una sbarra, per portarlo al punto di carico più vicino. Una volta, raccontano, erano loro a trasportare a spalla i pesanti caschi fino alla postazione di lavaggio, mentre oggi possono contare su una sorta di teleferica destinata allo scopo. Armati di machete i tre tagliano quindi il bana-

La banana, mai banale ■ Il termine «banana» deriva dall’arabo e significa dito. ■ La prima citazione conosciuta risale al 500 circa a.C. in un testo in sanscrito. ■ Nel mondo la banana è uno dei frutti più popolari. Solo in Svizzera ne vengono consumati circa 10 chili per persona. ■ La banana è il prodotto più venduto dell’intero assortimento Migros. Questo il motivo per cui ha il numero 1 sulle bilance del reparto frutta e verdura! ■ La gran parte delle banane vendute in Europa proviene da Equador, Colombia o Costa Rica. Gli indiani consumano le banane che coltivano, mentre quelle africane e israeliane non sono idonee all’esportazione per taglia e caratteristiche. ■ La buccia delle banane non è solo un pratico imballaggio: la sua parte interna viene infatti usata anche per alleviare il prurito causato dalle punture delle zanzare e per far brillare il cuoio.

Il momento del raccolto. (Veronique Hoegger)

no, che fiorisce un’unica volta, lasciando le sue foglie a terra, come ingrasso naturale. Non resta che un piccolo germoglio, che darà vita a una nuova pianta. Nel frattempo le banane sono state separate dal loro gambo e immerse nell’acqua. Nella nuova zona per la raccolta dei rifiuti, la plastica che ha finora protetto i frutti viene depositata in appositi contenitori, per essere riciclata. Anche l’acqua usata per il bagno delle banane viene riutilizzata all’80 percento: dopo essere stata filtrata per eliminare il latice rilasciato dai frutti viene infatti nuovamente pompata nei bacini di lavaggio. In questo modo l’acqua che nel passato si utilizzava in una giornata è ora più che sufficiente per oltre una settimana.

Tracciabilità – 300 misure supplementari A livello mondiale la quota di banane coltivate senza seguire le direttive Fairtrade o i principi bio rimane superiore all’85 percento. Una quota importante. Migros ha dunque deciso di agire e si è associata al WWF per sviluppare un progetto pilota che riunisce 32 aziende agricole in Ecuador e Colombia. Aziende già certificate Rainforest Alliance e chiamate a sod-

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

disfare ulteriori 300 criteri ecologici e sociali. Tra questi la gestione ottimizzata dell’acqua e dei rifiuti, condizioni di lavoro che preservano la salute dei collaboratori, il ricorso limitato ai prodotti fitosanitari, la riduzione delle emissioni di CO2 e ancora misure generali a protezione di fauna, flora e suolo. Per esempio, da entrambi i lati del fiume Rio Frio è stata creata una zona protetta larga 15 metri. Qui la giungla è stata attivamente rinaturalizzata con piante

locali e oltre 268 specie hanno potuto reinsediarsi. Le banane più rispettose dell’ambiente e dei lavoratori sono disponibili da subito in tutti i supermercati Migros. Sono contrassegnate da un adesivo verde su cui è impresso un codice che permette di risalire all’azienda agricola di provenienza. È sufficiente inserire il codice su www.migros.ch/banana per conoscere la storia del frutto e scoprire informazioni interessanti sulle diverse piantagioni.

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Gli impiegati incaricati dell’imballaggio dei frutti li etichettano con i codici Migros che garantiscono la tracciabilità. Il tutto viene poi impacchettato non in casse di cartone, bensì in recipienti di plastica appositamente progettati per Migros. Di fatto, grazie a un ciclo chiuso che prevede il ritorno via nave dei contenitori in plastica, Migros risparmia più di un milione di cartoni, ciò che comporta la riduzione di oltre due terzi delle emissioni di CO2. Partite da Santa Marta le banane Cavendish, ancora verdi, viaggiano per tredici giorni fino a giungere al porto di Anversa, in Belgio. Da lì proseguono via treno verso le sedi delle cooperative regionali Migros a Ginevra, Gossau, Lucerna e Schönbühl, che dispongono di apposite celle di maturazione per le banane, che avviene in un tempo compreso tra i quattro e i sette giorni. I frutti giungono infine nei negozi Migros. Un dettaglio curioso: malgrado i chilometri percorsi, un cliente che si reca in una filiale Migros in auto emette in media più CO2 per banana di quanto ne comporti l’intero viaggio Colombia-Europa in nave.

Parte di

■ Per far maturare delle banane ancora verdi basta riporle in un sacchetto assieme a una mela, che secerne l’etilene. Questa sostanza permette alle banane di maturare e di acquisire il caratteristico color giallo. ■ Il banano non è un albero ma una pianta, che con i suoi 15 metri di altezza è una delle più alte del mondo. ■ La banana ha ispirato numerosi artisti. Per esempio Andy Warhol, che ha disegnato la copertina del disco dei Velvet, oggi oggetto di culto, o ancora Harry Belafonte, la cui interpretazione di Banana Boat Song ha raggiunto una tale popolarità da essere oggi un classico.

«L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Società e Territorio Famiglie affidatarie ticinesi L’Associazione festeggia i 35 anni di vita, una storia basata sull’impegno ad accogliere bambini in difficoltà

Un minigolf a Lopagno Inaugurato da poco nel piazzale di Casa Don Orione è la prima tappa di un progetto più ampio della Fondazione San Gottardo

Allenare i giovani Quattro allenatori di diverse discipline raccontano a ruota libera le loro esperienze

A due passi Oliver Scharpf ci accompagna a Elm per assistere allo spettacolo di luce offerto dal Martinsloch pagina 8

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Gli ingegnosi progetti di Eugenia

«Ponti e via!» A Villa Saroli una mostra

e un libro avvicinano i giovani all’ingegneria e tentano di abbattere i pregiudizi di genere

Stefania Hubmann Una bimba ingegnosa, una bimba che abbina creatività e senso pratico trovando così le soluzioni per costruire diversi ponti in modo da raggiungere un’isola misteriosa. Eugenia, la piccola protagonista di un libro per bambini, è il fil rouge della mostra «Ponti e via!», organizzata dalla Sezione Ticino della SIA, società degli ingegneri e degli architetti, insieme all’istituto internazionale di architettura i2a negli spazi che quest’ultimo occupa a Villa Saroli a Lugano. Obiettivo: suscitare curiosità e interesse per l’ingegneria civile nei bambini e soprattutto nelle bambine. Un’ingegnera è ancora quasi un’eccezione, mentre l’avvocata, la dottoressa e anche l’architetta sono figure sempre più diffuse. Per contrastare i pregiudizi all’origine di un’immagine distorta di questa professione, è necessario iniziare presto, mostrando ai bambini con esempi reali, modellini tridimensionali e giochi di ruolo cosa significa concepire, calcolare e realizzare un ponte. Sono queste le tre fasi nelle quali si suddivide il lavoro ingegneristico e che si possono sperimentare visitando la mostra interattiva (aperta fino al 17 dicembre il giovedì e il venerdì per le scuole e il sabato pomeriggio per il pubblico) con la guida di donne e uomini che hanno scelto l’ingegneria civile quale professione. Fra questi anche Cristina Zanini Barzaghi che nel personaggio di Eugenia si rivede bambina. Il ponte, per lei come per ogni ingegnere, rappresenta uno dei progetti più ambiti, dall’alto valore simbolico. Un fascino che nell’infanzia era rappresentato dal vecchio ponte di Castello, mentre durante gli studi al Politecnico federale di Zurigo osservava con curiosità e interesse le varie fasi di costruzione del

viadotto della Biaschina. Il ponte del presente è invece la passerella pedonale alla foce del Vedeggio, per la quale lo studio di cui è contitolare a Lugano ha vinto il concorso l’anno scorso. «Il ponte è lo spunto ideale per spiegare la nostra professione, perché illustra da un lato il collegamento di sponde diverse e dall’altro il superamento di un ostacolo. Quest’ultimo aspetto, legato alla ricerca di soluzioni adeguate allo scopo, rappresenta l’essenza del nostro lavoro e diventa un’attitudine, un modo di pensare valido anche in altri ambiti». Durante l’inaugurazione della mostra, al cui allestimento ha partecipato attivamente, Cristina Zanini Barzaghi ha pure sottolineato l’importanza di offrire visibilità alla professione di fronte alla mancanza di ingegneri registrata negli ultimi anni. «Anche per quanto riguarda la questione di genere – aggiunge – è necessario insistere, perché purtroppo il progresso generato dall’attivismo degli anni Sessanta e Settanta si è in gran parte bloccato». La proporzione delle donne sul totale degli ingegneri attivi nel 2007 (fonte Economiesuisse, dossierpolitica «La Svizzera ha bisogno di ingegneri», 5.9.2011) si fermava a quota 9,5%. La mancanza di ruoli femminili di riferimento è sottolineata anche nel rapporto del Consiglio federale sulla carenza di personale specializzato MINT (scienze matematiche, informatiche, naturali e tecniche) del 2010. Personalmente Cristina Zanini Barzaghi si è sempre impegnata per sensibilizzare popolazione e studenti, in particolare con presentazioni e atelier in diversi ordini di scuola. Nel 2012 l’Associazione Svizzera delle Donne Ingegnere (SVIN), in occasione dei 20 anni di attività, le ha consegnato uno dei cinque SVIN Award quale premio per questa azione ad ampio raggio. E sono proprio le donne ingegne-

Eugenia e suo fratello Nicola, creati dall’illustratrice Anne Wilsdorf, sono i protagonisti del libro voluto dalla rete «Donne e SIA».

re, oggi riunite a livello nazionale nella rete «Donne e SIA», ad aver promosso nel 2011 la realizzazione di un libro per i più piccoli. Con grande sensibilità l’illustratrice Anne Wilsdorf ha creato il personaggio di Eugenia e la sua avventura condivisa con il fratello Nicola. Al volume, pubblicato l’anno scorso in tedesco, francese e italiano, è seguita, grazie al Gruppo ingegneri SIA del canton Vaud, l’esposizione itinerante sui ponti concepita per le scuole e le famiglie. La sinergia fra i due progetti è oggi un’affermata realtà, come ci conferma Valérie Ortlieb, presente nelle due associazioni. «La mostra, partita da Losanna, è già stata allestita con successo a Ginevra, Sion, Yverdon, Bienne e Zurigo. A Ginevra, ad esempio, si è registrato un grande riscontro da parte delle autorità politiche. Abbiamo inoltre ricevuto richieste dall’Italia, in particolare da Bergamo e Venezia. Il libro, pubblicato dall’editore La Joie de lire, è ora disponibile in una nuova versione italiana edita da Sinnos. Nel frattempo i diritti sono stati venduti anche a una casa editrice cinese». Fra gli atout della mostra, precisa l’architetta vodese, vi è il dossier pedagogico, scaricabile anche dal sito della Rete Donne e SIA. Grazie a questo fascicolo, che offre dodici esercizi sem-

plici ma accattivanti, si può riprendere e approfondire il tema in classe. «Le attività previste nella visita guidata così come quelle del dossier – precisa Cristina Zanini Barzaghi – permettono agli allievi di imparare giocando, recuperando gesti manuali diventati purtroppo sempre meno spontanei». Il ruolo dei docenti, affermano entrambe le professioniste, è essenziale per evitare pregiudizi di genere nei due sensi. Non a caso nella storia di Eugenia il fratello Nicola a un certo punto lavora a maglia. Un altro particolare importante è il vestito scelto dalla protagonista per festeggiare la fine dell’avventura e con il quale afferma la propria femminilità. La mostra è un ricco intreccio di scoperte. Il carattere itinerante la rende flessibile e facile da collegare alle specificità del territorio che la ospita. Spiega Ludovica Molo, direttrice di i2a: «Quando ho visto la mostra un anno fa a Losanna, ho pensato che fosse il progetto ideale per celebrare l’apertura della galleria AlpTransit e festeggiare il nostro primo anno di attività a Villa Saroli. Oltre agli esempi di tre ponti costruiti in epoche diverse, sono infatti presentate sei opere realizzate sulla linea AlpTransit e lungo l’autostrada N2. Il ponte è un tema che

ci è particolarmente caro, poiché l’istituto cerca di costruirne a più livelli, tra l’architettura e le altre discipline, tra i professionisti e la società civile, tra gli adulti e i bambini». Bambini che a Villa Saroli possono immergersi al contempo nel poetico mondo di Eugenia e nella realtà di ponti effettivamente costruiti. L’insegnamento di entrambi, sottolineato anche da Cristina Zanini Barzaghi, è la necessità di non arrendersi di fronte alle difficoltà. La piccola ma ingegnosa Eugenia afferma al proposito: «Quando c’è un problema, non ci si mette a piangere: bisogna riflettere invece». In conclusione l’ingegneria civile dimostra che fantasia e tecnica non sono necessariamente agli antipodi. Anche una professione tecnica ha il suo lato creativo, ciò che dovrebbe rappresentare un incentivo in più per le nuove generazioni. È infatti un po’ paradossale che nell’era di un incessante sviluppo tecnologico venga a mancare l’interesse proprio per le discipline tecniche. Informazioni

www.sia-ticino.ch www.femme.sia.ch www.i2a.ch


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Società e Territorio

Famiglie cercansi

Affido L’Associazione ticinese famiglie affidatarie festeggia i 35 anni di vita. Una storia

fondata sull’impegno ad accogliere bambini come figli per crescerli insieme e che oggi si apre anche ai ragazzi migranti

Fabio Dozio «È un po’ come nel calcio… Siamo genitori in panchina, pronti a scendere in campo per dare il cambio a genitori naturali confrontati con difficoltà o problemi, di vario genere, che impediscono loro di accudire i figli». La metafora sportiva si presta perfettamente per inquadrare una forma di aiuto, l’affidamento famigliare, che richiede impegno e motivazione. Si assume la responsabilità di genitori senza esserlo. È la signora, che chiameremo Angela, che ci racconta, avendo sedici anni di esperienza alle spalle e 21 ragazzi passati dal suo appartamento, un quattro locali e mezzo nella cintura di Lugano. Affido significa assumere il ruolo di genitore, con bambini che possono essere neonati o anche ragazzi, per la durata di anni, sapendo quando si comincia, ma non quando si finisce: «apri la tua casa e il tuo cuore a un bambino in difficoltà», recita lo slogan dell’Associazione. Una specie di adozione temporanea, per bambini figli di genitori confrontati con malattie psichiche, con dipendenze, con fragilità di vario genere. Per le sue peculiarità che lo differenziano dall’adozione – collocamento provvisorio e rientro del minore nella sua famiglia d’origine – l’affido deve essere strettamente legato a un progetto di recupero non solo del minore ma, dove possibile, della sua famiglia, sottolinea l’ATFA. «La difficoltà maggiore – precisa Angela – è non perdere la motivazione, non lasciarsi scoraggiare perché ci si deve confrontare con gli uffici e gli assistenti sociali, poi, e soprattutto, con la famiglia naturale, dove a volte intervengono anche altri parenti. Ci sono momenti in cui ti dici: ma chi me lo fa fare? Ma alla fine c’è la soddisfazione di partecipare a un progetto educativo, che rappresenta anche un mio arricchimento». Il rapporto tra famiglia affidataria e famiglia di origine è importantissimo, da questa relazione dipende la qualità dell’esperienza. Quando la famiglia naturale accetta di buon grado di dare in affido il figlio si crea una situazione di serenità reciproca. Bisogna riconoscere che – aggiunge Angela – «accettare che un’altra persona deve crescere tuo figlio perché tu non sei idoneo non è affatto facile». Attualmente ci sono 129 famiglie affidatarie definite Family con 155 minori collocati: si tratta delle famiglie che si occupano di un affido di lunga durata, che può essere anche di una decina di anni o più. A queste bisogna aggiungere le famiglie SOS, che sono dieci: sono le famiglie che accolgono nei momenti d’urgenza, da pochi giorni a tre o sei mesi. In questo ambito figurano, da qualche tempo, i giovani minori non accompagnati che giungono nel nostro paese chiedendo asilo. Angela ha avuto diverse esperienze come famiglia SOS, accogliendo ragazzi provenienti dall’Eritrea. «Sono giovani minorenni – spiega – ma non sempre dicono l’età giusta. Sono partiti dall’Africa a dodici o tredici anni, sono stati in giro per uno o due anni prima di arrivare in Svizzera. I minorenni non stanno al Centro di registrazione di Chiasso, quindi o vanno alla Croce Rossa a Paradiso, o in istituti o da noi. C’è molta difficoltà di comunicazione, perché non conoscono la nostra lingua, e siamo confrontati con un problema culturale non indifferente. Il giovane eritreo che stava da me si aspettava che io, essendo donna, facessi tutto in casa. Io cerco sempre di coinvolgerli nei lavori in casa, ma lui si rifiutava: fai tu, mi diceva. Ho dovuto

Affido significa accogliere un bambino in difficoltà, l’obiettivo rimane il suo rientro nella famiglia di origine. (Keystone)

insistere per fargli capire che da noi il ruolo di una madre di famiglia non è quello della domestica. Stabilire e far rispettare le regole non è semplice. È arrivato quest’estate quando c’erano gli europei di calcio e lui stava a Lugano fino a mezzanotte per seguire le partite. Ho dovuto insistere per farlo rientrare presto la sera. D’altra parte sono anche fragili, ci sono momenti di crisi, sono tristi e piangono. Allora non resta che abbracciarli, ma non sempre si lasciano abbracciare». I vicini di casa che atteggiamento hanno nei confronti dei giovani africani che vivono con lei? «Ho avuto qualche problema – ci dice Angela – perché alcuni coinquilini, i più anziani, hanno reclamato con il padrone di casa, che si è fatto vivo chiedendomi chi fossero questi giovani. Pensava forse che avessi organizzato una pensione o qualcosa del genere. Ho spiegato che sono una mamma affidataria e la cosa si è risolta». Le famiglie affidatarie sono finanziate dal Cantone. Per un ragazzo accolto per un lungo periodo la famiglia riceve una retta di 1500 franchi mensili. Per l’affido SOS duemila franchi perché in questi casi bisogna comperare tutto, i ragazzi arrivano senza niente. «Il mio giovane eritreo – racconta Angela – quando ha saputo che io ricevevo questi soldi mi ha chiesto di averli lui direttamente. Non è stato facile spiegargli che il denaro era un contributo per le spese di alloggio, per il cibo, per i vestiti e tutto quanto». Chi sono i genitori affidatari che fanno capo all’ATFA? «Sono coppie sposate o non sposate – precisa Elisa Ferrari, assistente sociale dell’Associazione – con o senza figli, possono essere anche singoli. Non ci sono restrizioni, quest’anno abbiamo anche una coppia omosessuale, due donne, che hanno scelto di diventare genitori affidatari. Noi ci occupiamo di garantire l’affidabilità delle persone che si mettono a disposizione. C’è un lungo percorso formativo e di valutazione da parte di assistenti sociali e psicologi. Circa otto incontri prima che la fami-

glia possa venir considerata idonea». Un aspetto significativo è che delle 129 famiglie affidatarie attive, 83 sono di parenti dei bambini: vale a dire perlopiù nonni o zii. «La famiglia riesce ancora, per fortuna, a offrire solidarietà e sostegno nel caso del bisogno», sottolinea Elisa Ferrari.

In Ticino ci sono 129 famiglie affidatarie e 155 minori collocati, a queste si aggiungono 10 famiglie SOS che sono pronte ad accogliere in momenti di urgenza L’ATFA è sempre alla ricerca di famiglie affidatarie. Attualmente ci sono 7 o 8 bambini che sono in attesa di essere collocati. È abbastanza facile trovare ospitalità per i neonati, molto più difficile sistemare gli adolescenti. Accogliere in famiglia un adolescente è certamente più complicato, chiede un maggior impegno relazionale e anche capacità di esercitare un ruolo genitoriale con autorevolezza. Uno dei punti delicati dell’affido è il rientro alla famiglia naturale del ragazzo. La famiglia affidataria accoglie un bambino di tre o quattro anni che dopo una decina di anni può tornare nella famiglia d’origine. Un momento delicato per i genitori affidatari che devono accettare questo distacco. «Proprio come l’inizio dell’affido – ci dice Stefania Catti, anche lei assistente sociale di ATFA – la fine del collocamento deve essere gestito in modo graduale. Il bambino ricomincia ad andare a casa dei genitori per alcuni giorni a settimana, poi via via ci sta sempre di più e diminuisce il soggiorno presso la famiglia affidataria. Solo se l’inserimento non è problematico, il minore può tornare definitivamente a casa». «Il percorso del rientro – precisa Ferrari – va costruito con cura. Se an-

che la famiglia naturale viene ritenuta idonea per riaccogliere il minore, non è automatico che questo venga riaccolto. Bisogna valutare con attenzione qual è il bene per il ragazzo, partendo anche dal suo punto di vista. I bambini che hanno più di sei anni vengono ascoltati e presi in considerazione dall’Autorità competente e dallo psicologo». Per aiutare le famiglie affidatarie nel loro compito, delicato e non sempre facile, ATFA organizza dei gruppi di auto aiuto. Sono momenti di confronto che garantiscono un sostegno alle famiglie nei momenti difficili: in particolare, all’inizio dell’esperienza o alla fine, quando ci si deve staccare dal «figlio». «La fase del distacco per me non è mai stata un problema – ci dice Angela – mi sono sempre preparata per tempo. Il destino del ragazzo è quello di diventare indipendente, se ha 18 anni, o anche di ritornare in famiglia. L’affido deve sempre tener conto della famiglia d’origine e non ci si può sostituire». «Cercasi casa spaziosa a prezzo modico». Fra i progetti dell’Associazione c’è la «casa famiglia». L’idea è di poter ospitare almeno un gruppo di sei o sette ragazzi, soprattutto adolescenti, che non stanno bene in istituto o in foyer e che necessitano di un ambiente famigliare. Una famiglia affidataria potrebbe essere anche costituita da persone con formazioni adeguate (assistenti sociali o educatori) che gestiscono questi giovani in un’abitazione adatta. Perciò l’ATFA è alla disperata ricerca di una casa. L’Associazione ha scritto ai comuni, alle parrocchie, alle fondazioni, ma senza successo. Dunque, possiamo concludere questo breve incontro con la realtà dell’affido lanciando due messaggi. Primo, si facciano avanti le famiglie o le persone che sono disposte ad affrontare questo percorso, impegnativo, ma ricco di soddisfazioni relazionali ed educative. Secondo, se qualcuno può mettere a disposizione un’abitazione, anche modesta, ma spaziosa, a prezzo modico, sarebbe un’occasione che permetterebbe di lanciare un nuovo progetto a favore di giovani e di famiglie in difficoltà.

Giornata d’incontro sulla tarda libertà Donne e nonne

Il convegno del Movimento AvaEva si svolgerà giovedì 20 ottobre al Ristorante Casa del Popolo a Bellinzona

Il Movimento AvaEva, progettato e realizzato dal Percento culturale Migros, propone per giovedì 20 ottobre dalle ore 9.00 presso il Ristorante Casa del Popolo a Bellinzona un convegno sul tema «La tarda libertà». Una nuova generazione di donnenonne fa ormai sempre più parte della nostra realtà. Sono donne attive che viaggiano, hanno cura di sé, in parte lavorano ancora. Hanno un ruolo importante nell’accudimento dei nipoti o di altri membri della propria famiglia, sono impegnate nella cura di affetti e nella solidarietà. Necessitano però anche di spazi di libertà e autonomia, il che implica una chiarificazione delle proprie disponibilità e un riposizionamento nel contesto sia familiare che collettivo. Ma come muoversi tra spinte e desideri contrastanti, trovando un buon equilibrio tra impegno per gli altri e sufficiente libertà per i propri bisogni? A questa e ad altre domande si cercherà di rispondere durante la giornata d’incontro. Dalle ore 10.00 interverranno sul tema anche Renata Dozio, direttrice del Consultorio familiare dell’Associazione Comunità familiare, Raquel Galli Zirpoli, membra del gruppo di pianificazione di AvaEva, Anna Mattia, consulente e mediatrice familiare, Liliana Mornaghini, psichiatra e psicoterapeuta, e Maria Pagliarani, psicoanalista. Modererà la discussione la giornalista Mirella de Paris. Alle ore 11.30 sarà presentata la pubblicazione Donne di AvaEva: gli incontri luganesi del lunedì, una raccolta di riflessioni delle donne che hanno partecipato a questo progetto del Movimento AvaEva. Una pubblicazione che vuole essere «la testimonianza di una riflessione collettiva sulle esperienze e considerazioni di un gruppo eterogeneo di donne su alcuni temi definiti, con la speranza di permettere ad altre donne di riconoscersi e/o confrontarsi, e nel contempo di demolire alcuni stereotipi che la pubblicità e i luoghi comuni veicolano quotidianamente sulle donne della generazione delle nonne, sui loro desideri e bisogni». Nel pomeriggio, alle ore 14, interverrà Heidi Witzig, storica, scrittrice, membra del matronato della GrossmütterRevolution, che illustrerà il manifesto del gruppo «rivoluzione delle nonne». Il convegno terminerà con dei lavori di gruppo sulle prospettive future del Movimento AvaEva. Il costo della partecipazione è di 40 franchi (pranzo compreso). Informazioni

www.avaeva.ch; Norma Bargetzi, coordinatrice Movimento AvaEva, tel. 079 352 98 89, norma@avaeva.ch; www.percento-culturale-migros.ch In collaborazione con


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Società e Territorio

Luoghi di condivisione

Casa Don Orione I l minigolf inaugurato da poco a Lopagno è la prima tappa di un progetto più ampio

e aperto a tutta la comunità voluto dalla Fondazione San Gottardo

Roberta Nicolò A Lopagno nel piazzale di Casa Don Orione, ha aperto i battenti lo scorso agosto un minigolf con 12 buche. Il campo, promosso dalla Fondazione San Gottardo, sostenuto dall’Ente Regionale per lo sviluppo del Luganese, dal Comune di Capriasca e dalla Fondazione Don Orione è la prima tappa di un progetto più ampio, che si completerà con l’apertura di un percorso nel bosco adatto a persone in situazione di handicap, anziani e bambini. Un’idea che sviluppa un’interessante attrattiva per tutta la regione della Capriasca.

L’intento è anche quello di sviluppare una visione di rete territoriale che aumenti l’attrattività della Capriasca «Il progetto nasce come risposta ai bisogni degli ospiti di Casa Don Orione – spiega il direttore della Fondazione San Gottardo, Claudio Naiaretti – negli ultimi anni ci siamo confrontati con un progressivo invecchiamento dell’utenza. L’età media degli ospiti, oggi, è di quasi 50 anni, da qui l’urgenza di approfondire la tematica dell’invecchiamento e di sviluppare un approccio sempre più adeguato alle esigenze delle persone accolte. In questa nuova ottica ci siamo interrogati sulle nuove necessità sia in termini di spazi, sia in termini di attività da proporre. Il campo da basket, per esempio, così come i percorsi di accesso al bosco, non rispondevano più ai bisogni degli abitanti della casa. Abbiamo quindi pensato a come trasformare in maniera funzionale queste due aree. Si è inoltre cercato di sviluppare un progetto che potesse diventare interessante anche per la popolazione del territorio. Seguendo la nostra vocazione, nella quale la persona viene prima dell’handicap, ci è parso importante che questi spazi fossero luoghi di condivisione, di scambio e di incontro, e quindi aperti alla comunità». «Un contesto di normalità in ogni aspetto del vivere quotidiano – continua il direttore Naiaretti – sono elementi di grande rilevanza per una buona qualità di vita, ed è il metodo con cui si affronta la gestione degli ospiti a Casa Don Orione. In realtà quelli che noi chiamiamo ospiti sono i padroni di casa e noi dobbiamo garantire loro un contesto di vita ideale e ottimale. La prospettiva è quella del camminare insieme per creare il contesto giusto per chi vive nel-

Il minigolf a Lopagno è stato inaugurato lo scorso agosto. (Curzio Schlee/ FSG)

la casa e ha bisogno di un’apertura verso la popolazione e il territorio che rappresentano il quotidiano». Nella realizzazione e nella gestione del minigolf, così come nella futura gestione del parco motorio-sensoriale, sono stati coinvolti anche i residenti. Gli utenti vengono impiegati nelle attività legate ai nuovi spazi, così come sono impegnati nelle occupazioni domestiche o negli atelier artistici presenti nella magnifica villa di inizio novecento che li ospita. I nuovi impieghi vanno a incrementare l’offerta di attività occupazionali e completano la proposta di una vita all’insegna dell’autenticità. «Le piste del minigolf sono state installate e montate dal personale della casa. Tutti gli interventi sono monitorati da personale educativo e specialisti, per garantire gli accessi e i percorsi ai disabili. Gli spazi sono stati pensati per permettere attività differenziate, oltre al minigolf è infatti possibile organizzare incontri, feste di compleanno o semplicemente sedersi al chiosco per

consumare una bibita o un gelato in compagnia. La gestione e la manutenzione sono garantite dagli utenti e dal personale della Fondazione, sono inoltre completamente sostenibili e autofinanziate» continua Naiaretti. Il minigolf ha da subito suscitato l’interesse e l’approvazione della comunità di Lopagno che, oltre a frequentare il campo, ha creato un’associazione di sostegno denominata Le mazze di Lopagno. Un gesto significativo della sinergia nata tra progetto e comunità. «Da quando abbiamo aperto le piste, la risposta da parte del pubblico è stata buona. Fin dall’inaugurazione, che ha visto la presenza di quasi quattrocento persone, il minigolf ha saputo portare a Lopagno grandi e piccini in cerca di un’attività per tutta la famiglia. Su richiesta del Municipio è stata avviata una collaborazione con le scuole, che hanno l’opportunità di accompagnare le loro classi gratuitamente a Casa Don Orione. Il coinvolgimento delle scuole è molto importante e segna uno dei

punti fondamentali del progetto. Uno dei propositi è, infatti, proprio quello di sviluppare una visione di rete territoriale, nella quale più attori presenti sul territorio possano collaborare per il benessere e l’attrattività della Capriasca». Un progetto che, come detto, prevede anche la realizzazione di un percorso sensoriale. Sono state progettate 8 postazioni con esercizi e attività utili alla stimolazione della motricità fine, su un’area che misura circa 8000 mq e che è situata a monte della casa Don Orione. Le postazioni e la ristrutturazione dello spazio verranno realizzate a partire dal prossimo anno. «Nell’area boschiva, superficie privilegiata e immersa nella natura, si vogliono proporre attività che permettano alle istituzioni che si occupano di anziani o di persone con limiti fisici o mentali, di trovare un luogo privilegiato che possa fungere sia da punto di incontro, sia da luogo per realizzare attività terapeutiche in forma ludica. Si prevedono postazioni, sul modello

qualità della nostra vita e dei nostri affetti, delle nostre relazioni. Forse dovremmo permetterci ogni tanto di essere anche brutti, spettinati, lenti, senza idee e darci il tempo di perdere tempo, ricordare, correggere il tiro, senza pensare alle nuove corse che ci attendono. Non è facile, mi rendo conto, perché oggi non sei bravo se non sei veloce, sempre sul pezzo, sempre attento e informato su tutto, ma non trovo sia una conquista il fatto che non riusciamo a dare il giusto tempo, attenzione, valore, soprattutto la profondità, alle cose belle che ci accadono. Anche essere profondi è importante e non lo si può essere in velocità, le illuminazioni ci vengono in un attimo ma per poterle davvero cogliere, per andare a fondo delle cose, di ciò che accade, sentiamo, ci vogliono lentezza, concentrazione,

applicazione, tensione e costanza. Facoltà di cui oggi, temo, siamo sempre più sprovvisti, impazienti come siamo di raggiungere e raccogliere più obiettivi possibili. In questo nostro essere schizofrenici la tecnologia e i social ci appoggiano, mentre non aiutano quello che in tedesco si chiama «verweilen», trattenersi, indugiare su qualcosa. Eppure di questo abbiamo bisogno, altrimenti le nostre azioni e il nostro relazionarci saranno sempre più poveri, senza sostanza e senza coscienza. E, per essere profondi, abbiamo bisogno anche delle delusioni, abbiamo bisogno di perdere qualche volta. Lo so, è un bel dilemma perché nell’era dell’iperconnessione le delusioni davvero non sono benvenute, anzi, potendo, le bandiremmo. Per questo quando arrivano ci colgono sempre

del percorso vita, dove le persone possono effettuare esercizi per stimolare il corpo, la mente e valorizzare i sensi. Alcune postazioni prevedono l’utilizzo di acqua o materiali caldi e freddi, altre propongono esercizi più fisici come il cammino su tronchi tagliati distanziati di un passo l’uno dall’altro, o postazioni che valorizzano l’equilibrio. Per noi, tutto questo, è un’opportunità per rafforzare la collaborazione con altre istituzioni che ospitano persone con handicap o anziani e che potranno usufruire delle proposte presenti a Lopagno» conclude il direttore Claudio Naiaretti. Uno scambio tra generazioni, uno scambio tra esperienze e una condivisione di spazi ed attività che vedono gli ospiti di Casa Don Orione protagonisti indiscussi. Una piccola rivoluzione in cui il punto di vista si ribalta; chi di solito viene accolto può accogliere in casa propria. È possibile sostenere il progetto sul sito www.progettiamo.ch

La società connessa di Natascha Fioretti Se siete felici, fateci caso. Non serve Whatsapp. Vi capita mai di vivere qualcosa di bello, bello, addirittura sopra le aspettative (non è facile da adulti) e poi arrabbiarvi perché quel momento, la magia di quel momento non riuscite a trattenerla neanche per un attimo, subito viene seppellita dalle mille cose da fare ma soprattutto dal pensiero già rivolto al futuro in attesa di nuove indimenticabili emozioni? A me è successo di recente e mi sono arrabbiata, e molto, con me stessa per l’incapacità di fermarmi, di assaporare, e perché no, di rimanere per un attimo ancorata a qualcosa che è stato anziché farmi prendere dalla frenesia di ciò che deve venire. E ho iniziato a riflettere sul fatto che poniamo sempre l’attenzione sulle nostre invidiabili capacità di essere velocissimi, mul-

titasking e organizzatissimi in tutto. Ma se poi non riusciamo a goderci il risultato, quello che creiamo per via della frenesia, dell’ansia del tutto sempre bello, sempre al massimo, per cosa corriamo esattamente? Per un secondo di gloria e tutto il resto è niente? Non possiamo trovare un equilibrio, decidere di rallentare un po’? Solo perché la tecnologia e i mezzi di trasporto e comunicazione ce lo permettono non significa che abbiamo l’obbligo di correre sempre, presenti ad ogni evento e in forma smagliante. Forse dovremmo fermarci a riflettere un attimo, rimettere in ordine le nostre priorità, fare – nel mare magnum di opportunità in cui siamo immersi – una selezione di ciò che per noi davvero è importante e vogliamo coltivare, perseguire, conquistare. Fare delle scelte che possano influire sulla

più impreparati. Ma allora com’è che oggi siamo così bravi e lesti a mettere in vetrina le nostre prodezze ma poi a vivere, vivere veramente facciamo fatica? Non sarà ancora una volta colpa della tecnologia? Certo, tra le tante cose essa ci aiuta a semplificare, a ridurre tempi e distanze ma poi sta a noi non perdere il nostro centro, il nostro tempo umano scandito dalle emozioni e dagli stati d’animo che sono davvero poco comprimibili e soprattutto prevedibili. Per quanto mi riguarda, dopo essermi arrabbiata con me stessa, ho deciso di provarci a rallentare e mettere a fuoco ciò che davvero conta e per cui vale davvero la pena correre ma anche fermarsi a riflettere e ad assaporare. Dunque, se sarò felice, ci farò caso. Fatelo anche voi, funziona senza Whatsapp e senza Facebook.


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Società e Territorio

Gestire il gruppo e valorizzare l’individuo

Sport A colloquio con quattro allenatori giovanili di diverse discipline che ci raccontano a ruota libera la loro

esperienza a stretto contatto con ragazze e ragazzi

Paola Bernasconi In Ticino, ragazzi e bambini praticano più di 40 sport. Sono circa 49mila coloro che nel 2015 hanno scelto almeno una disciplina, 31 mila ragazzi e 18 mila ragazze. Il maggior numero si cimenta in calcio, ginnastica sotto varie forme, sci, tennis, basket e nuoto. I monitori che si sono messi a loro disposizione sono stati 8340, come si evince dalle statistiche dell’Ufficio dello Sport del DECS. Ma chi sono? Maestri, amici, padri? Per cercare di capirlo, abbiamo parlato con quattro di loro: due ex giocatori, Flavien Conne che lavora ora per le giovanili dell’Hockey Club Lugano, e Dario Rota, che allena i 17enni e 18enni del Chiasso, oltre a Fabio Bassani che si occupa delle ragazze di 16 e 17 anni del Bellinzona Basket e Dolores Dalmas, la quale lavora con le giovani dai 10 ai 18 anni della gymnastique nella Società Federale di Ginnastica di Locarno. Se per Conne è stato un percorso naturale passare da giocare ad allenare, la voglia a Rota è tornata dopo sei anni di inattività. «I giovani devono imparare molto dal punto di vista tecnico, tattico e fisico, puoi insegnare loro parecchio, al contrario di quanto avviene coi cosiddetti attivi», ci spiega. Già, insegnare: come? Flavien Conne ha a che fare con ragazzi di ogni età, dagli esordienti a chi è a un passo dalla prima squadra. «È ciò che mi piace di più. Un buon allenatore è come un maestro di scuola, ha esigenze diverse a seconda dell’età. Bisogna fare un click, parlare nel mio caso di hockey in modo diverso. Quando si lavora con bambini fra 10 e 13 anni, per esempio, si deve rimanere nel loro mondo e nel loro ambito, soprattutto nel modo di comunicare, non essere troppo duri e mettere troppa disciplina. Gestiamo gruppi, ma anche individualità, vanno trovate parole diverse per ogni singolo caso». Le differenze non si notano solo in base all’età, ma anche al sesso. Bassani, che ha avuto a che fare con ragazzi e ragazze, ce lo fa notare. «Sono dinamiche diverse, personalmente ritengo che sia più difficile gestire un gruppo femminile. I maschietti, se hanno problemi, li risolvono subito, magari anche

L’ex calciatore Dario Rota oggi allena i 17enni e 18enni del Chiasso. (Tipress)

in modo duro, mentre con le ragazze è più complicato, talvolta per gelosie che ristagnano». I nostri interlocutori non hanno mai dovuto affrontare casi di bullismo e machismo, fortunatamente. «La società impone regole interne a livello relazionare per frenare fenomeni del genere», afferma Conne. «L’hockey è una scelta, e il gruppo ha una forte motivazione comune». Allenare da tanti anni vuol dire essere confrontati con il mutamento dei giovani, che, come dicono molti luoghi comuni, non sono più quelli di una volta. Bassani osserva che non hanno più

la «fame di arrivare» di una volta, che lo sport è solo divertimento ed evasione, e Rota conferma. «Gli stranieri, con un vissuto difficile alle spalle, ne hanno spesso di più: basti pensare alla Nazionale Svizzera, con diversi naturalizzati». Conne ha il compito di esserci per tutti, «cerco di dare una mano ai ragazzi a realizzare il loro sogno, sia esso giocare in NHL oppure meno ambizioso. Cosa cercano nell’hockey? Socializzazione, risultati, ambizione, divertimento: per ciascuno c’è un po’ di tutto ma in proporzioni diverse». Ovviamente, non tutti sono dotati allo stesso modo. L’obiettivo è includere

chiunque, ricordandosi che lo sviluppo non è per forza lineare. «Quando hai di fronte un atleta non molto forte, devi allenarlo non più in vista di un futuro ma per farlo divertire praticando sport», dice Bassani. Per Dalmas, «ogni ragazza è benvenuta. Ma se una non è particolarmente dotata, lo diciamo subito ai genitori, per evitare che si facciano illusioni». Quello dei genitori è un altro capitolo ampio. «Ci sono genitori che pretendono risultati. Mettiamo però una barriera, perché includerli implica che possano dire le loro opinioni ed è sbagliato, devono rimanere genitori e non

Una consegna molto particolare

© 2016 Warner Bros. Ent. All Rights Reserved.

Concorso Nei cinema ticinesi dal 20 ottobre il film di animazione Cicogne in missione

La cicogna Junior lavora per l’azienda di consegne di Stork Mountain. È una professionista molto determinata nel suo ruolo: il suo principio è «Consegna sempre!» e Junior con caparbietà e determinazione si impegna per tenere fede al suo motto. Un giorno però un evento imprevisto viene a turbare il suo impegno e rischia addirittura di compromettere la sua carriera: sulle Stork Mountain infatti era attiva molti anni fa una antichissima fabbrica di... neonati di cui le cicogne erano, come si sa, responsabili del recapito «a destinazione». Per un motivo che non possiamo rivelare qui la fabbrica si riattiva un momento e dalle polverose condotte industriali ecco nascere un piccolo pargolo. Possiamo solo anticipare che la colpa di questo infelice avvenimento si deve a una giovanissima ragazza, Tulip, l’unico essere umano rimasto nelle

Stork Mountain. Queste utime sono infatti diventate regno delle cicogne. Junior è molto affezionato alla ragazza e insieme a lei intraprenderà una difficile avventura per consegnare il delicato «pacchetto» alla famiglia che lo desidera. Nel viaggio, pericoloso e pieno di colpi di scena, i due amici incontreranno altri personaggi divertenti e simpatici che li aiuteranno nel loro compito. Il film diretto dai registi Nick Stoller e Doug Sweetland ha l’ambizione di costruire un mondo complesso, affascinante e divertente come raramente si è visto su un grande schermo in un film di animazione: le tecniche impiegate hanno raggiunto una perfezione tecnica di altissima qualità grazie anche alla produzione di Brad Lewis (Oscar per Ratatouille, Z la formica, e coregista di Cars 2) Per ciò che riguarda l’idea del film, questa è venuta proprio dalla vita

di Stoller. Padre di due bambine, spiega: «Siamo stati fortunati con la prima figlia ed è stata una sorpresa quando non è stato così facile avere la seconda e siamo dovuti ricorrere alla scienza. Questa esperienza mi ha fatto apprezzare ancora di più il fatto di avere figli e credo che mi abbia reso un genitore più presente. L’ispirazione è nata da qui: solo in seguito mi è venuta l’idea delle cicogne e del mito secondo il quale sono loro a portare i bambini alle famiglie e di come questo possa avere un impatto su un bimbo che vuole un fratellino». Seguendo il viaggio di Junior e Tuklip saremo sicuramente chiamati a identificarci con loro e a partecipare alla loro appassionante missione. Al di là di tutte le peripezie e le scene di grande comicità, il tema che caratterizza il film, è in fondo, quello eterno dell’importanza della famiglia e del valore dei rapporti affettivi.

fare gli allenatori perché non hanno le competenze. Solo una volta è successo che una ginnasta ha deciso di andare in un’altra società, la mamma era molto ambiziosa e pensava che non eravamo in grado di dare alla figlia ciò di cui aveva bisogno», aggiunge l’allenatrice. Bassani sostiene che bisogna mostrare ai genitori che le scelte sono effettuate per il bene dei ragazzi. «Magari convoco il genitore ad un allenamento e gli mostro che il figlio non riesce a eseguire un esercizio. Ma il rapporto con loro è fondamentale se non vai d’accordo con mamma e papà non puoi lavorare bene». Sport vuol dire anche rapportarsi col proprio corpo, e in una disciplina come quella allenata dalla signora Dalmas è fondamentale. «Le mie sono ragazze che sono in forma, quello che posso vedere è che sono a loro agio col corpo, devono esserlo perché il nostro è uno sport dove il movimento corporeo è al primo posto, il sentirsi a proprio agio permette di presentarsi nel migliore dei modi. Chi è a disagio non può praticare, dato che devi esporti e anche con divise aderenti». Rota racconta come nelle società sportive si trovino giovani di ogni fascia sociale, ma ritiene che il Ticino, nonostante il centro di Tenero, sia indietro rispetto alla Svizzera interna. «Lì si trova un centro sportivo in ogni paese, da noi le varie strutture sono disgregate». Anche Conne sottolinea le difficoltà incontrate per la scarsa disponibilità di impianti. Così come l’eccessivo carico fra scuola e attività varie può essere un ostacolo. «Devono giostrarsi tra basket, flauto, scuola, spesso non sanno scegliere cosa portare avanti», si lamenta Bassani, mentre per Rota il carico degli allenamenti è eccessivo. «Tre sedute alla settimana più la partita sono troppe per bambini di 9 o 10 anni, se non hanno una grandissima passione a 15 anni smettono, anche se hanno talento». Lo sport rimane una palestra di vita, dove ci si confronta con soddisfazioni e delusioni, a volte col giudizio degli altri. Così come deve essere: una palestra per crescere e non solo per divenire i futuri campioni.

Gadget in palio per i nostri lettori In occasione dell’uscita in Ticino il 20 ottobre di Cicogne in missione (anche in 3D), Warner Bros. Pictures in collaborazione con Migros Ticino mette in palio 3 kit ognuno con: ■ set di finger puppet ■ set da gioco magnetico ■ peluche ■ cappellino La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in altri concorsi promossi da «Azione» negli scorsi mesi. Telefona allo 091 840 12 61 mercoledì 19 ottobre dalle 10.3000. Buona fortuna!


PUNTI. RISPARMIO. EMOZIONI.

CIRCO KNIE – «SMILE» Il circo nazionale svizzero è in tournée con il nuovo programma «SMILE», sempre in compagnia di David Larible, il clown dei clown. Oltre ai nuovi numeri del pagliaccio italiano ti aspettano tanti altri artisti di caratura mondiale, come il duo acrobatico Shcerbak Popov, i talentuosi fratelli Errani e il circo nazionale di Pyongyang con la sua esibizione mozzafiato al trapezio volante. Quando: fino al novembre 2016 Dove: diverse località Prezzo: da fr. 30.40 a fr. 56.80 (invece che da fr. 38.– a fr. 71.–), tassa di elaborazione escl., a seconda della categoria Informazioni e prenotazione: www.cumulus-ticketshop.ch

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Giuseppe Verdi ha composto circa trenta opere. Anche quest’anno è possibile godersi dal vivo il meglio di meravigliose ouvertures, arie e duetti: dal 27 al 30 dicembre varie città svizzere ospiteranno il Grande gala «Giuseppe Verdi». Quando: dal 27 al 30 dicembre 2016 Dove: Ginevra, Zurigo, Basilea, Berna Prezzo: da fr. 40.– a fr. 76.– (invece che da fr. 50.– a fr. 95.–), a seconda della categoria Informazioni e prenotazione: www.cumulus-ticketshop.ch

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Letture, incontri, destini Evocando in una pagina autobiografica un ricordo d’infanzia, lo scrittore Elias Canetti, che nel 1981 ricevette il premio Nobel per la letteratura, scrisse: «Andavo già a scuola da qualche mese, quando accadde una cosa solenne ed eccitante che determinò tutta la mia successiva esistenza. Mio padre mi portò un libro». Quel libro era una versione per ragazzi della raccolta di racconti, fiabe e leggende Le mille e una notte. A quella lettura Canetti attribuisce la sua nascente passione per i libri e di lì, conseguentemente, la sua vocazione alla scrittura. Non è dunque impossibile vedere in quel libro, dove abbondano anche episodi di magia, una sorta di incantesimo che tracciò il destino di una vita. Non ho mai creduto che il destino di un uomo sia scritto nelle stelle, e tanto meno credo agli astrologi che affermano di sapervi leggere. Sono però convinto che ogni esistenza

umana è costellata di eventi, a volta anche apparentemente irrilevanti, che tracciano una sorta di percorso obbligato che non a torto si potrebbe dire un destino. In primo luogo, vale quanto scriveva Eraclito nel VI secolo a. C.: «Il carattere di un uomo è il suo destino». Non a caso gli antichi greci usavano la parola daimon – demone – anche per designare una voce interiore che induce a fare o a non fare, una sorta di guida nella vita; e daimon significa dunque anche destino. Oggi che le neuroscienze vanno via via scoprendo il funzionamento del cervello, molte tendenze del carattere vengono attribuite addirittura alla formazione cerebrale che si sviluppa durante la gestazione: ogni cervello è reso unico dalla combinazione del patrimonio genetico e della programmazione che avviene durante lo sviluppo all’interno dell’utero; in quella fase, a giudizio di molti ricercatori, vengono già fissati in misura rilevante i nostri

tratti caratteriali, i nostri talenti e i nostri limiti. Ma poi, s’intende, ogni talento, ogni carenza e ogni componente caratteriale possono in certa misura essere rafforzati, inibiti o modificati dall’ambiente in cui si cresce. Ed è per questo che ogni educatore dovrebbe essere consapevole del fatto che, educando, traccia anche dei destini. Nel mio mestiere d’insegnante ho avuto modo di conoscere ragazzi che nutrivano una passione profonda per la fisica, la poesia, l’astronomia, la musica, la storia; nel passato del giovane l’origine di quelle passioni si legava quasi sempre a una lettura, all’influenza di un genitore o di un amico, alla curiosità o all’entusiasmo che un insegnante aveva saputo risvegliare. E penso che sia una vera sfortuna, per un ragazzo, non incontrare mai sulla propria strada qualcuno che lo accenda di qualche passione intellettuale. Ogni passione suscita sogni,

fa balenare mete che si vorrebbero raggiungere: in altre parole, spinge ad andare oltre, a non rimanere quello che si è già. La vita, quando è veramente vissuta, è realizzazione di sé; ma una simile realizzazione richiede anche la scoperta progressiva della propria identità profonda. «Wird was du bist – divieni ciò che sei», per dirla con Nietzsche. Ora, mi pare chiaro che per avvertire una forte spinta a crescere e a divenire occorre anche una ricca dotazione interiore. Se un uomo è poco, non potrà diventare molto di più; ma quel che è dipende, in gran parte, da quanto si porta dentro dagli anni decisivi dell’infanzia e dell’adolescenza. È in quella fase che si tesse la trama dei destini; e certe prime letture, fatte quando si comincia a leggere bene, possono rimanere profondamente impresse proprio perché sono le prime – a condizione ovviamente, che il libro abbia forza narrativa.

Si sa che oggi molti ragazzi s’appassionano alla lettura molto meno di un tempo, e la cosa non può stupire: i mezzi audiovisivi sono più immediatamente fruibili, richiedono minor impegno, minore concentrazione. Dunque, prevalgono. E poi, la lettura richiede tempo e solitudine: altre cose che si vanno perdendo. È possibile, naturalmente, che anche un film, anche il cicaleccio in un social network possano suscitare emozioni: quanto poi ne rimanga saldamente nella memoria e contribuisca alla crescita della persona è impossibile dire. È però verosimile che l’enorme sovrabbondanza di stimoli emotivi li renda alla fine scarsamente significanti, li stinga in un appiattimento ripetitivo, con scarso profitto per la crescita della persona. Bisogna comunque essere consapevoli del fatto che, anche in questo caso, avranno contribuito a tracciare destini: destini di mediocrità.

nome della locanda poteva persino rivelarsi beffardo. Ad ogni modo, facendo un sopralluogo sempre ieri sera poco prima delle sette, anche solo così, senza il fenomeno mattutino del sole, con il sole al tramonto che baciava quelle creste tormentate sopra il Martinsloch, era qualcosa. Non per niente quell’angolo di mondo, nato da uno scontro continentale, dal 2008 fa parte del patrimonio dell’Unesco con il nome di arena tettonica Sardona. Mentre la consacrazione del Martinsloch e il campanile è avvenuta nel 2012 attraverso un trittico di francobolli da un franco. Caffè e via. Alle nove, sulla strada davanti alla chiesetta bianca costruita lì non a caso nel 1493, c’è già parecchia gente con il naso all’insù. Diversi gli obiettivi professionali puntati verso il Martinsloch (2600 m) che già ora qui da Elm (977 m) ha una certa aura con quei fasci di luce nel cielo, alle spalle dei Tschingelhörner. Si trova sotto una delicata linea che demarca la roccia verrucana vecchia di trecento milioni di

anni scivolata sopra il flysch molto più giovane – trentacinque milioni di anni – e più chiaro. È all’inizio della serie di pizzi, ai piedi del Grande Tschingelhorn che ricorda molto una pinna di squalo a pelo d’acqua. Davanti alla semplice chiesa riformata, le lapidi ben allineate del camposanto. Il campanile campestre, con tetto a capanna, guarda sul prato vuoto a fianco. Tre mucche noncuranti. Un foglio segna il punto dove il fenomeno dovrebbe risultare più intenso e c’è scritto 9.33 al posto delle 9.32 previste. In prima fila, a ridosso della staccionata, c’è anche una troupe della tele. Intervistano uno di qui e dice fiero che non poteva esserci giorno migliore. L’attesa cresce tra il pubblico, ben oltre un centinaio di spettatori. Dal motociclista solitario alle giovani coppiette, dai vecchietti alle scolaresche, passando per una biondo cenere con occhiali da sole, tacchi a spillo, e sanbernardo. E così venerdì trenta settembre, lo straordinario cono di luce lassù taglia la vallata. Il

campanile è ancora in ombra. Tra natel in aria e raffiche di clic sembra importi più immortalare che non ammirare. Le lancette dorate ora riluccicano, quadrante beccato in pieno, in anticipo: sono le 9.29. Se avete tempo, andate tutto dritto per un centinaio di metri, sulla destra c’è l’Elmer citro. Qui subito a sinistra invece, svoltando accanto al prato, arrivate all’ex manifattura di ardesia (1898-1983) che sfornava lavagne per le scuole e per i punti dello jass. C’è poi il Vreni Schneider Sport: negozio dell’ex pluricampionessa di sci nativa di Elm. Le hanno anche dedicato una via, vicino ai campi dove nel settembre 1881, a causa dell’eccessivo sfruttamento d’ardesia, frana un fianco della montagna; più di cento morti. È perpendicolare alla strada dove adesso sfila il corteo di mucche discese dall’alpe. Le pecore niente, le caricano su un tir e basta. Guardano fuori spaventate. A quanto pare, mi dice un pastore, nel Martinsloch si può vedere anche la luna piena, ogni diciannove anni.

no a subire un apprezzamento che fa capo all’apparenza. Altro che parità. Proprio qui vale sempre la citatissima battuta di Rousseau: «La donna è fatta specialmente per piacere all’uomo». Parole strane da parte di un filosofo rivoluzionario, ma risalgono a più di due secoli fa. Frattanto, e ci mancherebbe, nei confronti di una discriminazione, che punisce le donne e assolve gli uomini (le loro pance non fanno notizia) si è sviluppata una crescente consapevolezza. Che, a sua volta, si espone al rischio dei fanatismi che, spesso, accompagnano una buona causa. Ci si sta, infatti, muovendo sul terreno scivoloso di un moralismo che porta al ridicolo. Ne ha fatto le spese, lo scorso anno, Barack Obama. Durante un banchetto, in onore di Kamala Harris, neoeletta ministra della giustizia in California, si era concesso la libertà di un complimento: «Lei non è soltanto impegnata e tenace ma anche di gran lunga la più bella attorney general d’America». Un’esternazio-

ne banale che, fino a pochi decenni fa, apparteneva agli usi e costumi normali, ma adesso non più: ha assunto, invece, connotati offensivi. Sembra ispirata al vecchio luogo comune «bella sinonimo di oca», per cui l’aspetto piacevole abbinato all’intelligenza vivace sembra un’eccezione. Sta di fatto che, per placare la polemica, Obama si è visto costretto a chiedere scusa alla ministra. E chissà, poi, se, nel suo intimo, lei si era sentita offesa. Qualche dubbio si giustifica. Certo la galanteria è finita, già dal profilo linguistico, fra i ferri vecchi inservibili. Con ciò, condannando in blocco qualsiasi apprezzamento sull’aspetto femminile, si corre il pericolo di fare un processo alle intenzioni. E, addirittura, d’intervenire nell’ambito della libertà di parola. Si è aperto, in proposito, sui giornali d’oltre Gottardo, un dibattito, nato, appunto, da commenti «galanti» sul conto della nostra Doris Leuthard: da considerare leciti o illeciti, offensivi o lusinghieri? Staremo a vedere.

A due passi di Oliver Scharpf Il Martinsloch a Elm Due volte all’anno, per un paio di giorni, il sole passa attraverso un buco nella montagna e illumina il campanile di Elm. È il Martinsloch: diciassette metri di altezza e diciannove di larghezza appena sotto la catena rocciosa di pizzi acuminati chiamati Tschingelhörner, al confine tra Glarona e Grigioni. Secondo la leggenda, un giovane pastore di nome Martino pascolava tranquillo le sue pecore da quelle parti quando spunta un gigante famelico venuto da Flims. Martino gli scaglia addosso il bastone appuntito ma lo manca, centrando così la roccia più in alto e scatenando un finimondo. Tornata la quiete c’era un gran bel foro da vedere. Geologicamente il Martinsloch – traducibile con il buco di Martino ma mantenuto di preferenza in lingua originale – si è formato con lo sovrascorrimento tettonico una trentina di milioni di anni fa. Appuntamento a Elm dunque, quasi in primavera o inizio autunno, poco prima che sorga il sole: alle 8.53 il dodici e tredici marzo, 9.32

il trenta settembre e il primo ottobre. Certo, un po’ un rito-lotteria, se piove o anche se è solo leggermente nuvoloso, ciao spettacolo. Molto più facile però che azzeccare un numero alla roulette. Pessimista convinto, al contempo io ci credo anche molto nelle cose, perciò già in agosto avevo riservato una camera a Elm. Ultimo villaggio rurale della Sernftal, il cui nome, forse più che per il Martinsloch, è noto per la storica limonata risalente al 1927: l’Elmer citro. Talmente legata a questo luogo che l’etichetta – oltre allo stemma cantonale modificato e diventato logo con su San Fridolino senza bastone né Bibbia che si abbevera a una fonte giallo limone – mostra proprio sette raggi solari provocati dal Martinsloch. Mi sveglio all’alba, buio limpido, se non passa la fantozziana nuvola dell’impiegato, è fatta. Sono curioso, da secoli. Già ieri, allo stammtisch con ripiano d’ardesia della Gasthaus Sonne, si diceva che le previsioni erano ottime, ma sono scettico fino all’ultimo. Anzi, il

Mode e modi di Luciana Caglio L’aspetto: prerogativa soltanto femminile? All’indomani dell’elezione di Theresa May a premier del Regno Unito, i media si sono affrettati a rivelare, attraverso foto e commenti a iosa, la sua predilezione per le scarpe leopardate. Tanto che, grazie a questa pubblicità d’alto bordo, l’accessorio ha ottenuto un inatteso rilancio commerciale. Basta guardare le vetrine delle nostre calzolerie. In tempi di apatia ideologica, l’episodio non deve sorprendere, anzi. Per assicurarsi popolarità i politici sono sempre più disposti a concedersi alla curiosità del pubblico rendendo noti gusti e abitudini della loro quotidianità, simile a quella dei propri elettori. Qui, però, è d’obbligo una distinzione cosiddetta di genere, del resto evidente. In pratica, il fattore estetico, collegato all’aspetto fisico, interviene a senso unico: rappresenta un metro di valutazione applicato soltanto nei confronti delle donne. Come, appunto, è successo del caso della signora May che, attraverso le scarpe maculate, con tacchi a spillo o piatti a ballerina, do-

veva attirare l’attenzione sul suo fisico e indurre, persino, a una riflessione di tipo morale e culturale: quella passione modaiola potrebbe essere un indizio di frivolezza, vizio notoriamente femminile. La neo presidente britannica,

Theresa May saluta la Regina.

comunque, non è sola. A quel giudizio, basato sull’esteriorità, dove sono in gioco abbigliamento, pettinatura, trucco e persino chili di troppo, si trovano inevitabilmente esposte le signore, d’ogni età e stazza, che rivestono una carica politica o svolgono un ruolo di rilievo sociale. Addirittura simbolica, in proposito, la figura di Angela Merkel. La più importante e discussa premier europea è diventata il bersaglio di scontate ironie, per via delle sue giacche, dal taglio teutonico e dai colori a volte improbabili. Mentre, la sua linea, non proprio esile, le è valso l’epiteto di «culona», comparso più volte sul «Giornale» di Milano. Volgarità e antifemminismo sono spesso tutt’uno. Frecce spuntate, certo, ma indicative. Se non hanno scalfito una Merkel, impegnata in ben altre contese, confermano tuttavia lo status quo. Da questo punto di vista, si assiste a uno sconcertante paradosso: le donne siedono, numerose, nei parlamenti e ne assumono la presidenza, ma continua-


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Ambiente e Benessere La moda del Foliage Siamo entrati a pieno titolo nella stagione turistica più di moda che fa partire per viaggi colorati

Isolate e protette Una nuotata tra squali e mante giganti oceaniche dell’arcipelago di Revillagigedo

Tra fontane e piante secolari Nel suo nuovo libro, Fratus esplora l’Italia affinando la propria percezione naturalistica

pagina 14

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Non cambia solo la maglia In campo si parlano numerose lingue, ma si corre a velocità quasi doppia di un tempo pagina 19

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Lavorare senza stress

Prevenzione Promozione Salute Svizzera

promuove e coordina misure per favorire la salute dei dipendenti aziendali e prevenire le malattie fisiche e psichiche

Maria Grazia Buletti Lo stress professionale può minare seriamente l’equilibrio dell’impiegato fra lavoro e vita privata. Questo disagio più o meno accentuato dei dipendenti incide inoltre in modo massiccio anche sull’azienda stessa e sulla sua produttività. Se ne è parlato lo scorso 5 ottobre al centro Eventi di Cadempino, nella conferenza «Meno stress – Più competitività (esperienze d’Oltralpe per un Ticino più competitivo)», con la partecipazione di Promozione Salute Svizzera che, con la SECO (Segreteria di Stato dell’economia), da oltre un decennio segue e misura questo fenomeno. Per quanto attiene alla produttività aziendale, PSS rivela (2016): «La perdita dovuta allo stress è di circa 5,7 miliardi di franchi l’anno, in termini di mancata produttività (75 per cento) e di costi dovuti all’assenza per malattia (25 per cento)». Inoltre, differenti indagini confermano che lo stress costituisce ormai una delle maggiori sfide odierne del mondo del lavoro e mina altresì la qualità della vita dell’essere umano. Abbiamo incontrato l’ingegner Roberto Fridel, promotore dell’evento ticinese, per parlare del benessere in azienda e in particolare dell’equilibrio fra vita privata e lavoro: «Dal sondaggio Job Stress Index 2016 pubblicato da Promozione Salute Svizzera in collaborazione con l’Università di Berna e la Scuola universitaria di scienze applicate di Zurigo, risulta che un lavoratore su quattro soffre di stress sul lavoro. Ovvero, che i fattori di carico superano le sue risorse, e che un altro 46,3 per cento, a cui bisogna prestare attenzione, si trova in zona sensibile». E il canton Ticino è assolutamente in linea con la tendenza che, dati alla mano, ci è confermata dal nostro interlocutore: «Questo fenomeno è rilevato da diversi studi, tra cui l’Obsan (Osservatorio svizzero della salute) e la SECO che nel 2000 rilevava un 23 per cento di lavoratori con una sensazione di stress alto o medio; dopo dieci anni la percentuale toccava il 35 per cento e possiamo

desumere che nel 2016 essa sia ancora superiore». L’obiettivo di PSS per arginare questo fenomeno in evoluzione è quello di sensibilizzare le imprese, orientandole verso un sistema organico e integrato della gestione della salute in azienda: «I dati sull’impatto economico nelle azienda permettono oggi al datore di lavoro di comprenderne l’opportunità, al di là dell’eventuale responsabilità sociale, così da attivare un maggiore ascolto e specifiche misure che riducano lo stress dei dipendenti e permettano di aumentare qualità e produttività dell’azienda, oltre al loro benessere». Secondo Fridel, sempre più aziende stanno rendendosi conto di questa realtà, insieme a un altro fatto imprescindibile: «Chi risente maggiormente dello stress è la fascia dei giovani e degli oltre cinquantenni a fine carriera: queste persone declinano il tutto attraverso un crescendo di problematiche e soffrono sempre più. Sono individui ai quali ci rivolgiamo, così come pure rendiamo attenti i vertici aziendali del fatto che la mancanza di produttività generata dallo stress dei dipendenti si misura sì in assenteismo, ma anche e soprattutto nei presenzialisti che dimostrano però un significativo calo di produttività». Ne è ben cosciente, ad esempio, Migros che è uno dei partner svizzeri di Promozione Salute Svizzera nell’approccio molto ampio del suo sistema di gestione della salute in azienda («sistema di qualità, assicurazione salute in azienda…»): dal 2015 Migros Ticino è la prima azienda in Ticino ad essere certificata Friendly Work Space. E qui, «nella piccola e media azienda», può venire in aiuto il sistema S-Tool che fornisce strumenti di riflessione e di lavoro alle aziende e ai loro dipendenti: «Si tratta di un sistema organico BSA secondo i criteri del marchio di qualità Friendly Work Space (FWS) introdotto nel 2009, i cui criteri (sviluppati dall’European Network For Workplace Health Promotion) sono stati adattati da PSS al contesto svizzero». Disponibile in nove lingue, il questionario S-Tool è scarica-

L’ingegnere Roberto Fridel, promotore dell’evento ticinese «Meno stress – Più competitività». (Stefano Spinelli)

bile da www.s-tool: «Esso mette in rapporto le risorse e il carico di lavoro dei collaboratori: se le due variabili sono in equilibrio, il benessere dei dipendenti è elevato e la loro prestazione, di conseguenza, è buona». Attraverso questi formulari compilati anonimamente dai dipendenti, l’azienda dispone di utili informazioni circa l’entità di questo fenomeno e il suo potenziale impatto sulla produttività e competitività aziendale, mentre i singoli dipendenti hanno modo di fotografarsi oggettivamente nel proprio vivere, ricavandone parecchie informazioni e suggerimenti per migliorare i

propri comportamenti nel lavoro. Non è sufficiente, però, lavorare solo sulla dimensione aziendale: «Non dimentichiamo che esiste una responsabilità individuale, perché lo stress è una situazione soggettiva che richiede capacità e competenza nel fare pulizia fra tutte le varie aspettative, imparando a fissare le priorità nella gestione del nostro tempo, al lavoro così come nella vita privata». Su questo aspetto, il nostro interlocutore spiega come il metodo MyEquilibrium, da lui sviluppato e già premiato in Italia, va proprio ad agire sull’individuo che deve fare chiarezza nel ridefinire i propri obiettivi e le proprie priorità di vita

e professionali, che andranno poi perseguiti. «Si tratta di prendersi del tempo per comprendere cosa è importante a livello individuale e cosa lo è di meno, tra la dimensione personale e quella aziendale, esplorando bene le aree della salute, della famiglia e della casa, dello svago e magari dell’impegno sociale». Fridel conclude aggiungendo che la «condizione vincente per migliorare una situazione di stress (dunque abbassare la sua percentuale) sta proprio nel prendersi tempo per se stessi, ridefinendo le proprie priorità di vita e di lavoro, e perseguendole con tenacia nell’azione quotidiana».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Ambiente e Benessere

I colori dell’estate indiana o di san Martino

L’America raccontata da altri punti di vista

di contemplazione delle foglie d’autunno

letture per viaggiare

Viaggiatori d’Occidente La nuova moda? Il Foliage, un cammino lento e meditativo

Bussole I nviti a

Claudio Visentin «Sono su una Chevrolet Impala Lt rossa. Era l’unica macchina disponibile rimasta da Rent-A-Wreck (letteralmente: “affitta un rottame”), l’autonoleggio ricavato nell’angolo di un supermercato che sembra il Jet Market di Apu dei Simpson. È notte e ho appena passato lo svincolo di Palermo. Sono nel North Dakota…»

Qualche giorno fa, nell’intervallo della lezione, una mia allieva mi ha raccontato con stupore la trasformazione del treno che utilizza ogni giorno per venire all’università, la ferrovia LocarnoDomodossola-Locarno, conosciuta anche come «Centovallina» dalla parte elvetica e «Vigezzina-Centovalli» dalla parte italiana, entrambi i mezzi con i caratteristici vagoni bianchi e blu.

Nell’Europa orientale il periodo legato al foliage viene definito invece estate delle vecchie signore o estate zingara Da qualche tempo in autunno, e di recente con più convinzione, questa linea viene proposta ai turisti come un’esperienza di slow travel alla scoperta del foliage. Tre corse al giorno hanno treni panoramici più comodi, con un leggero aumento del prezzo; ci sono poi biglietti speciali che permettono di interrompere e riprendere la corsa a piacimento. La proposta è piaciuta ed è stata ripresa da radio e giornali; la televisione pubblica italiana, l’anno scorso, ne ha parlato come della ferrovia panoramica più bella d’Italia. E così nei vagoni ai volti assonnati dei pendolari si sono aggiunti quelli incuriositi dei turisti. Non c’è da stupirsi, ho spiegato alla studentessa, il foliage è di moda e quasi ogni rivista lo propone come l’ultima tendenza in fatto di viaggi autunnali. Ma di cosa parliamo esattamente? Il foliage (detto anche leaf peeping, letteralmente «spiare le foglie») è un viaggio autunnale per ammirare i colori cangianti delle foglie degli alberi; in poche settimane queste passano dal verde al giallo oro, per poi virare verso l’arancione denso e spegnersi infine nel rosso, dapprima scuro poi color vinaccia e ruggine. È un tipico viaggio autunnale, lento e meditativo, camminando in silenzio sul morbido tappeto di foglie cadute, all’ombra di vecchi alberi. È un viaggio raffinato perché privo di attrattive evidenti, giocato su mezzi toni e sfumature: una questione di qualità e intensità piuttosto che di quantità.

Il foliage è solo uno dei tanti viaggi possibili nell’estate indiana (indian summer), come viene chiamata questa stagione dell’anno in America e nel nord Europa. Per estate indiana s’intende quel periodo di bel tempo tra ottobre e novembre che di solito nell’emisfero settentrionale segue ai primi geli, quando già le foglie hanno cambiato colore, ma non è caduta ancora la prima neve. La tela dei ragni si fa argentea alla mattina e c’è tutta l’intensità struggente di un caldo che non durerà, qualcosa di bello destinato a svanire presto. Nell’Europa orientale è detta invece estate delle vecchie signore (forse riferendosi alle streghe) o estate zingara; noi parliamo piuttosto di estate di san Martino, ovvero i giorni intorno all’11 novembre, tradizionale scadenza dei contratti agricoli. In molti luoghi (per esempio in Galizia) questo momento si festeggia con grandi fuochi effimeri: di nuovo un simbolo di calore vivo ma di breve durata. Di certo l’autunno – con il suo clima mite, la luce soffusa e l’abbondanza di frutta matura – è una splendida stagione per viaggiare, troppo spesso tra-

scurata da chi è appena tornato dalle vacanze estive. Naturalmente il foliage può essere praticato quasi in ogni grande foresta (meglio se con una certa varietà di alberi, che cambiano colore con tempi diversi). Eppure per lungo tempo è rimasto confinato alla parte nord orientale degli Stati Uniti: Massachusetts, Maine, New Hampshire, Vermont, Connecticut ecc. Lì si sono formate comunità numerose ed entusiaste, collegate in rete attraverso portali dedicati come Foliage network (www.foliagenetwork.com), continuamente aggiornati sul colore delle foglie. Quando sei anni fa ne parlammo per la prima volta su «Azione» (n. 35 del 30 agosto 2010), il foliage muoveva solo i primi passi. Negli anni seguenti diversi Paesi hanno tentato timidi esperimenti, poi di colpo l’interesse è esploso quest’autunno e ora è sulla bocca di tutti. Il foliage è un perfetto esempio di come nasce un nuovo stile di viaggio, il tema di fondo che coltiviamo ogni settimana in questa rubrica, con esempi diversi. Per cominciare è stato un movimento largamente spontaneo e non il

frutto di strategie di mercato o di suggerimenti di esperti. Diverse persone hanno scoperto di avere in comune con molti altri una passione che sino a quel momento ritenevano soltanto loro e quasi stravagante. Alla base c’è sempre un nuovo modo di guardare, un diverso punto di vista. La ferrovia Centovallina infatti esiste sin dal lontano 1923; e da secoli, in questa stagione, l’autunno colora i boschi oggi attraversati dal treno. Solo negli ultimi anni però si è rafforzata una narrazione, un racconto: attraverso i media, il turista viene motivato a partire e quasi vive in anticipo l’esperienza che farà. Quando la domanda cresce, le strutture vengono adeguate aumentando la frequenza delle corse del treno, offrendo diverse attrazioni (mercatini, eventi ecc.) nonché possibilità d’alloggio in Bed & Breakfast. Il turismo insomma non comincia dalle strutture fisiche, ma queste sono al servizio di un’idea, di un’esperienza, di un racconto. E dunque il primo investimento necessario per la crescita del turismo è… una scintilla di genialità.

Raccontare gli Stati Uniti non è facile. La loro stessa vastità ridicolizza gli sforzi dell’incauto scrittore di viaggio. Serve allora una chiave di lettura. Alberto Giuffré ha visitato le città degli Stati Uniti che hanno nomi italiani: Rome, Milan, Naples, Venice, Florence, Palermo, Verona, Genoa, annotando affinità e diversità. Milan (pronuncia Màilan), Ohio, ha dato i natali al grande inventore Thomas Alva Edison, il cui spirito d’intraprendenza aveva davvero qualcosa di meneghino. Ma senza forzare troppo, che di Milano negli Stati Uniti ce ne sono parecchie altre. E nel caso di Rome, Georgia, non bisogna lasciarsi ingannare da qualche somiglianza casuale (i sette colli!) e ricordare che il nome fu scelto a caso tra Roma, Amburgo e Varsavia. Anche Venice, alla periferia di Los Angeles, per qualche tempo cercò d’imitare il suo modello, con tanto di canali e gondole per i turisti; purtroppo non funzionò e le vie d’acqua infine furono coperte e asfaltate. Ma forse gli Stati Uniti nascono proprio da questo desiderio di riprendere modelli europei per poi farne qualcosa d’altro: Paris, Texas. Emanuela Crosetti ha invece ripercorso il cammino di due leggendari esploratori del West, Lewis e Clarke, che tra il 1804 e il 1806 si spinsero sino al Pacifico lungo i fiumi Missouri e Columbia. Gli Stati Uniti si svelano nel continuo scarto tra passato e presente, tra mito delle origini e incerti epigoni. Bibliografia

Alberto Giuffré, Un’altra America. Viaggio nelle città «italiane» degli Stati Uniti, Marsilio, 2016, pp.126, € 15,00. Emanuela Crosetti, Come ti scopro l’America. Da Saint Louis al Pacifico con i leggendari Lewis e Clark, Exòrma, 2016, pp.360, € 17,50.

La logica fuzzy

Giochi di parole L a teoria degli insiemi sfumati basata sul principio che qualcosa può essere, oltre che vera o falsa,

anche non completamente vera e non completamente falsa

di questa disciplina, a mio avviso, potrebbe riguardare il criterio di impostazione delle consultazioni referendarie. Per poter interpretare più fedelmente la volontà degli elettori indecisi, si potrebbe studiare un sistema che consenta di prendere in considerazione tutte le possibili sfumature di opinione, comprese tra il «Sì» e il «No». Ad esempio, si potrebbe predisporre una scheda particolare, unendo le due caselle del «Sì» e del «No», con una linea orizzontale graduata. In questo modo, il voto potrebbe essere espresso marcando un determinato punto di tale linea, in base alla percentuale di personale convinzione, sulla bontà del quesito proposto. Un sistema analogo potrebbe essere adottato anche per le consultazioni elettorali, offrendo ai cittadini la possibilità

di frazionare il proprio grado di apprezzamento nei confronti di più partiti (senza doverne scegliere per forza uno solo). Dalle operazioni di spoglio (affidabili a un computer…), i risultati ottenibili potrebbero rivelarsi, in alcuni casi, estremamente sorprendenti. Ipotizziamo, ad esempio, che a una tornata elettorale, abbiano partecipato solo quattro partiti (Alfa, Beta, Gamma e Delta), conseguendo queste percentuali di voti: Alfa: 40% – Beta: 35% – Gamma: 25% – Delta: 0%. Supponiamo anche che ogni elettore provasse un X% di stima per il partito Delta e un (100–X)% per quello che ha votato. Ebbene, se fosse stato possibile esprimere concretamente le percentuali delle proprie preferenze politiche, il par-

tito Delta (che, con il sistema tradizionale, non ha ottenuto alcun voto), avrebbe potuto conquistare addirittura la maggioranza relativa, nel caso in cui il valore di X avesse superato una determinata soglia. Qual è il valore intero minimo che avrebbe dovuto assumere X, per generare un simile, inatteso risultato?

Soluzione

Nel mondo della scienza, capita non di rado che un’idea apparentemente strampalata si riveli, nel tempo, foriera di interessanti sviluppi pratici. Nei primi anni Sessanta, il matematico azero, Lotfi A. Zadeh, professore all’Università di Berkeley, cominciò a convincersi che le tecniche tradizionali di analisi dei sistemi erano inappropriate allo studio accurato di molte problematiche del mondo reale. Questa considerazione lo indusse a elaborare, nel 1964, una nuova teoria, detta degli insiemi sfumati, basata sul principio che una determinata proprietà può essere, oltre che assolutamente vera (valore 1) o assolutamente falsa (valore 0), anche non completamente vera e non comple-

tamente falsa (valori compresi tra 0 e 1). Il concetto di insieme sfumato e quello conseguente di logica sfumata (o logica fuzzy), attirò le aspre critiche della comunità accademica. Nonostante ciò, divennero seguaci di Zadeh studiosi e scienziati di tutto il mondo, dei campi più diversi: dalla psicologia alla sociologia, dalla filosofia all’economia, dalle scienze naturali all’ingegneria. Nel corso degli anni Ottanta, diverse importanti realizzazioni industriali della logica fuzzy vennero sperimentate con pieno successo in Giappone. Questi incoraggianti risultati spinsero molti ingegneri giapponesi ad approfondire un ampio spettro di attuazioni inedite. Tutto ciò ha, poi, condotto a un vero boom della logica fuzzy. Una semplice applicazione pratica

Se si pone: X = 29, i risultati delle votazioni sarebbero i seguenti. 1. Delta: 29% 2. Alfa: 40%x71% = 28,40% 3. Beta: 35%x71% = 24,85% 4. Gamma: 25%x71% = 17,75% (per verifica: 29%+28,40%+24,85%+17,75% = 100%)

Ennio Peres


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Ambiente e Benessere

Il fascino dell’arcipelago di Revillagigedo Mondo sommerso Q uattro isole messicane di origine vulcanica in pieno oceano Pacifico

Sabrina Belloni, foto di Franco Banfi Le peculiarità e le funzionalità ambientali, in relazione con le conseguenti urgenze ed esigenze del rafforzamento della loro tutela, talvolta vengono individuate in luoghi lontani dalle attività umane, lontani dai centri abitati, laddove si pensa non siano necessari nostri interventi per preservarne la funzione vitale. Talvolta, non solamente si ignora il valore ambientale di questi luoghi fisicamente lontani, ma non si conosce nemmeno la loro l’esistenza. Giungervi significa anche intraprendere viaggi interminabili. Il nostro, di viaggio, è partito da un porto all’estremo meridionale della Baja California, in Messico. Qui siamo saliti a bordo di una delle uniche tre imbarcazioni autorizzate a intraprendere una traversata oceanica di 25 ore e a navigare nelle acque di una Riserva Marina della Biosfera (riconosciuta dall’Unesco nel 2008) grande 636’685 ettari, da cui emerge l’arcipelago di Revillagigedo, due sbuffi di nera lava vulcanica e due isole di candida pomice che il 16 luglio 2016 sono stati inseriti nei Patrimoni Naturali dell’umanità dalla commissione mondiale Unesco riunita a Istanbul. Un finis terrae dal fascino particolare che si erge minuscolo dall’immensità oceanica. Scogli di roccia vulcanica dove non esiste alcuna pista di atterraggio, dove è proibito attraccare e scendere a terra, dove tutto potremmo immaginare tranne che necessitino di una maggiore tutela, considerato che il loro isolamento dovrebbe già essere una garanzia sufficiente di salubrità e di mancanza di sfruttamento umano. Scoperti nel 1533 dal conquistatore Fernando de Grijalva, restarono isolati dal resto del mondo e privi di interesse sino al 1957, quando il governo messicano decise di insediare pochi militari della Marina messicana sull’isola di Socorro. Una decina di uomini pressoché abbandonati a loro stessi nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, per presidiare e tutelare l’unicità di una vasta area marina che già nel 1994 fu riconosciuta Area Naturale Protetta. I due scogli e le due isole costituiscono i quattro apici emersi di un arco insulare sommerso, parte di una conformazione vulcanica denominata Las Montañas de los Matematicos, che insieme all’isola di Malpelo, alle isole Cocos e alle Galapagos, delimitano un’area oceanica nota come Triangolo del Pacifico Orientale. Grazie alle correnti che vengono rimbalzate e deviate dalle catene montuose sommerse e alla massa di nutrienti che vi convergono, sono un cosiddetto hot-spot dell’ecosistema subacqueo: dall’organismo più piccolo (il plancton), ai pesci più grandi (squali e mante), compresi gli immensi mammiferi marini (megattere e delfini) si

Manta gigante, Manta birostris, nei pressi dell’isola San Benedicto, Arcipelago Revillagigedo, Messico.

riuniscono in questi luoghi, dove i fianchi delle montagne sommerse sono gli unici corpi solidi nell’immensità liquida dell’oceano. L’isolamento in cui è rimasta quest’area sino nella seconda metà del Novecento ha favorito lo sviluppo di condizioni ideali affinché l’arcipelago divenisse un paradiso tranquillo e, nominalmente, inviolabile. Anni orsono, però, l’industria ittica si accorse dell’immensa ricchezza nascosta in queste acque e alcuni pescherecci furono scoperti a effettuare illegalmente una pesca intensiva. Un video girato da un subacqueo americano mostrò le agonie delle mante oceaniche intrappolate nelle reti derivanti e le centinaia di squali issati a bordo dei pescherecci. Questo documento fu presentato alle autorità messicane e mostrato al pubblico americano. Fu l’inizio di una campagna ambientalista che portò all’inasprimento delle pene e delle sanzioni per chiunque procuri un danno o la morte delle specie a rischio nelle acque messicane. Questa campagna sfociò nell’istituzione dell’area naturale protetta, ora Riserva della Biosfera. Le azioni di tutela profuse dal modesto insediamento della marina militare sono rafforzate dalla stretta cooperazione con le sole tre imbarcazioni dedite al turismo subacqueo che sono autorizzate a entrare nelle acque della riserva. Questa cooperazione tacita ed efficace è

Roca Partida, Riserva della Biosfera dell’Arcipelago Revillagigedo (Messico).

uno dei cardini su cui si basa la tutela di un ecosistema che – seppur violato ripetutamente – è ancora uno dei più salubri e completi. Il materiale fotografico e video che continua ad essere realizzato dai subacquei è ampiamente diffuso dai media del settore, e ogni settimana i social network pubblicano nuova documentazione: tutto ciò ha diffuso nel pubblico interessato l’urgenza della tutela di questo splendido ecosistema. Sono trascorse venti ore da quando abbiamo mollato gli ormeggi e lo sciabordio delle onde oceaniche contro lo scafo ricorda che la navigazione non è ancora terminata. Il volo dei gabbiani e delle sule sopra il ponte dell’imbarcazione si fa sempre più insistente, segno inequivocabile che ci stiamo avvicinando alla nostra meta: l’isola di San Benedicto che con l’Isola Socorro, lo scoglio di Roca Partida e Clarion (la più lontana e irraggiungibile) compongono le uniche terre emerse, distanti 400 chilometri da Cabo San Lucas (all’estrema punta sud della Baja California) e da 720 a 970 chilometri da Manzanillo (sulla costa occidentale messicana). Ancora poche ore e poi ci immergeremo in questo ecosistema cruciale per la sopravvivenza di predatori al vertice della catena alimentare (molte specie di squali) e che ospita la più grande aggregazione di mante oceaniche, inclusa la variante più rara, di colore completamente nero. Le mante oceaniche di Socorro sono una colonia residente di oltre cento unità. È una delle colonie più numerose dell’Oceano Pacifico, insieme a quelle delle Hawaii e dell’isola di Yap, in Micronesia. Gli studi su questa popolazione furono iniziati dal Dr. Robert Rubin e da Karey Kumli del Pacific Mexico Research Group, il cui lavoro ha portato poi all’inserimento dell’arcipelago di Revillagigedo nell’elenco dei luoghi meritevoli della tutela UNESCO. Il lavoro condotto dal Pacific Mexico research Group include il programma di foto-identificazione e studio delle mante oceaniche più completo al mondo, che si basa su un archivio fotografico iniziato 38 anni orsono, di oltre 30mila immagini inerenti più di 600 individui. Le mante giganti sono considerate

Squali pinna bianca, Triaenodon obesus, nei pressi della Roca Partida .

Tartaruga verde (Chelonia mydas) e subacquei, nei pressi di Socorro Island.

una specie vulnerabile, presenti nella Lista Rossa dello IUCN, sia perché sono vittima di sistemi di pesca inappropriati e quindi vengono pescate accidentalmente dai pescherecci intenti a pescare intensivamente altre specie ittiche (il cosiddetto bycatch), sia perché sono cacciate dalle popolazioni asiatiche e africane per prelevare le branchie, un ingrediente popolare nella medicina tradizionale cinese. Contrariamente al pensiero comune, sino a pochi anni orsono, quando si riteneva che anche le mante oceaniche fossero creature pelagiche, capaci di traversate epiche nell’immensità ocea-

nica, recentemente i ricercatori hanno chiarito che esse si raggruppano invece in determinate aree, costituendo delle sub-popolazioni, da cui non si allontanano sensibilmente. Queste popolazioni locali, isolate, se prese di mira da una pesca intensiva rischiano il collasso, poiché le mante oceaniche hanno un tasso riproduttivo molto basso e una lunga gestazione, che ne fa una specie a rischio estinzione. Paradossalmente, questa caratteristica può anche tramutarsi in un vantaggio, poiché è più agevole circoscrivere aree piccole densamente popolate di mante e assoggettarle a una stretta tutela.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Ambiente e Benessere

Solitudine contemplativa e senso del tempo

Il seme nel cassetto U n’indagine di Tiziano Fratus che cerca di stabilire le sottili connessioni fra storia, tempo,

natura selvaggia e tentativo di addomesticamento della stessa

Laura Di Corcia Può essere letto come una guida, ma anche utilizzato per mettere a frutto l’immaginazione: L’Italia è un giardino, del poeta e scrittore Tiziano Fratus, è un viaggio erudito e colto attraverso il patrimonio verde del Bel Paese, un’indagine che cerca di stabilire le sottili connessioni fra storia, tempo, natura selvaggia e tentativo di addomesticamento della stessa. Se spesso nei libri di genere il giardino viene visto con occhio critico, tacciato di ipocrisia (si cerca di rendere urbano ciò che per definizione non lo è), Fratus, che l’Italia la conosce bene e l’ha percorsa in lungo e in largo alla ricerca di alberi secolari di cui è in grado di ricostruire la storia e le vicissitudini (non a caso tiene una rubrica su questo tema sul quotidiano «La Stampa»), cambia prospettiva e ci fa capire come il riassunto di tutti i giardini stia in bilico fra solitudine contemplativa e senso del tempo che passa. «In ciascuno di questi luoghi – spiega nell’introduzione – fedele a una radice portante, alla radice fondamentale del mio vivere da Homo radix (così si autodefinisce, ndr), ho messo alla prova il bambino che sta dentro di me, mischiando facili e istintive gioie alla meditazione del tempo che consuma e cancella». Vedere una fontanella con statue greche consumate dal tempo, as-

sediata da forme vegetali come le eriche e circondata da alberi che resistono alle opere, crea un cortocircuito che ci porta alle domande essenziali (chi siamo, soprattutto dove andiamo), realizzando, forse, l’affrancamento dalla chiacchiera dimentica della morte già auspicato da Heidegger. Il giardino – e Pia Pera, alla quale avevamo dedicato una puntata della rubrica parlando del suo ultimo libro e che a fine luglio ci ha lasciati, lo sapeva bene – ha a che fare con la morte, ma anche con la vita. «In queste pagine non è custodita soltanto una percezione naturalistica felix, non si tratta di mero ed estatico viaggiare alla ricerca di bellezza e magia. La radice principe è al contrario dolens, nasce dalla solitudine». È vero, ma è anche vero che questo libro trabocca di vita, di meraviglia. Percorrendo con Fratus i più bei parchi di Italia, da quello della Reggia di Monza con i suoi faggi piangenti, i lecci e i rododendri a quello della Reggia di Caserta con la Fontana di Eolo in cui il tempo «ha smangiato mani, braccia, piedi», un’anticipazione della Fontana di Venere e Adone e di quella di Diana e Atteone; passando dalla Reggia di Venaria in cui si apprende che «il rigore estetico e l’attento accostamento delle sfumature cromatiche delle fioriture costituiscono il valore aggiunto dei giardini, proprio come av-

Il poeta e scrittore Tiziano Fratus, autore di L’Italia è un giardino. (www. alpesorg.com)

viene a Versailles», sognando incantati di fronte al racconto del giardino delle rose, seguendolo ancora fino in Sicilia e agli splendidi orti botanici di Palermo, non dimenticando di passare a salutare la «grande quercia rossa secolare», alta nove metri, che sorge nell’orto botanico di Brera, lì lì per morire, non si può non sperimentare con l’autore una sensazione di sospensione, la percezione immediata della bellezza che appare di colpo, ma che fa presentire la sua presenza. È l’entrata in una nuova, più veritiera dimensione, dove tutte le cose appaiono di colpo nette, come irrobu-

stite nei contorni da una matita colorata. Quindi, se è vero (come sottolineava lo storico François Crouzet nell’intruduzione del libro From Folly to Follies. Discovering the World of Gardens, di Michel Saudan e Sylvia Saudan-Skira) che «tutti i giardini sono costruiti da bambini» e che «sfortunatamente i bambini crescono e si fanno adulti», apprendendo quindi che «tutto quello che pensavano fosse unico è nei fatti banale», viaggiando per le meraviglie verdi italiane, noi possiamo tornare indietro, emigrare nei territori vitalistici dell’infanzia.

Seguite Fratus in questo percorso; partite. Mettetevi in viaggio e andate a scoprire la cattedrale vegetale realizzata da Giuliano Mauri ad Arte Stella, vicino Trento, un luogo consacrato alla Land art dove all’artista è richiesto di entrare in connessione profonda con il bosco, di abbandonare per quanto possibile l’ego; andate a visitare col suo libro sotto il braccio il Parco di Pinocchio a Collodi, in Toscana, ammirando lì vicino, fra Pescia e Capannori, una delle querce più famose d’Italia, «un gigante di età compresa fra i 400 e i 600 anni», probabilmente l’albero nero descritto nella fiaba, al quale Pinocchio fu impiccato prima che arrivasse in soccorso la fatina. Sperimentate l’elemento del tempo, «la quarta dimensione che noi attraversiamo», che nei giardini, come spiega l’autore, si concretizza nel «muro sbriciolato e tinto di giallo», nel «volto di un padre della Chiesa che il sole e le muffe stanno cancellando»; e ancora nella «vegetazione abbondante, che pitta il fondo del fiume meglio di un quadro». Seguitelo, immergetevi in quei ritagli di tempo e spazio, in quei microcosmi che alludono silenziosi al più ampio macrocosmo. Non ve ne pentirete. Bibliografia

Tiziano Fratus, L’Italia è un giardino, Laterza, 2016, pp. 215, 17,50 euro. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Ambiente e Benessere

Coniglio al forno

Cucina di Stagione La ricetta della settimana

Piatto principale Ingredienti per 4 persone: 8 spicchi d’aglio · 1 kg di coniglio, tagliato a pezzi · 8

cucchiai d’olio d’oliva, · ad esempio «Aglio e Peperoncino» Monini · sale, pepe · 200 g d’olive verdi farcite con peperoni · 0,5 mazzetto di prezzemolo Scaldate il forno a 250 °C. Tagliate l’aglio a fettine. Mescolate il coniglio con l’olio e l’aglio. Condite con sale e pepe. Trasferite in una brasiera e rosolate bene in forno per circa 10 minuti. Dimezzate le olive e unitele. Continuate la cottura del coniglio per circa 30 minuti, irrorandolo più volte con l’olio. Staccate le foglie del prezzemolo dai gambi, cospargetele sul coniglio e servite. Accompagnate con insalata.

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Ingredienti 1 pollo intero di ca. 1,2 kg, 1 cucchiaino di sale, 1 cucchiaino di pepe, 1 cucchiaino di paprica dolce, 1 cucchiaino di zenzero in polvere, 1 cucchiaino di maggiorana secca, 1 cucchiaino di cipolla secca granulata, 3 cucchiai di burro per arrostire, 1 limone, 1 testa d’aglio, 3 rametti di rosmarino, 4 dl di fondo di pollame, 2 cucchiai di miele liquido, sale, pepe, ½ mazzetto di prezzemolo Preparazione Scaldate il forno a 200 °C. Sciacquate il pollo con acqua fredda. Asciugatelo con carta da cucina. Mescolate le spezie con il burro per arrostire e spalmate il burro sul pollo. Tagliate il limone a fette di ca. 1 cm. Dimezzate la testa d’aglio in senso orizzontale e accomodatela con le fette di limone e i rametti di rosmarino in una teglia. Accomodate il pollo nella teglia e rosolatelo al centro del forno per ca. 15 minuti. Abbassate la temperatura a 175 °C. Mescolate il fondo con il miele e versatelo sul pollo, quindi continuate la cottura del pollo per ca. 60 minuti. Di tanto in tanto bagnate il pollo con il sugo. Sfornate il pollo. Estraete gli spicchi d’aglio dalla buccia e schiacciateli nella salsa. Spremete anche le fette di limone nella salsa. Condite con sale e pepe. Tritate grossolanamente il prezzemolo e cospargetelo sul pollo. Servite la carne con il sugo e un’insalata di cetrioli. Tempo di preparazione 20 minuti + cottura in forno ca. 75 minuti Per persona ca. 30 g di proteine, 23 g di grassi, 7 g di carboidrati, 1500 kJ/360 kcal

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6 A 2M E N L E A I 1 4 19 17 18 19 20 8D 5I 7 3 F E T T A OAmbiente Oe Benessere 21 22 23 24 2 S 4 O 6C I D A 25 26 T R A 3 M E L 6 1 4 27 28 R E Sportivamente Quanto è cambiato il calcio anche da noi, soprattutto sul piano… linguistico 1B 3O O M 9 5 29 I M O I N A N. 38 MEDIO campo con un compagno di squadra di Alcide Bernasconi (N. 38 - “Certo Carmela, Alzheimer”) cui non sapeva il neppure il nome (!), il È caduto in un sonno profondo quanPuci, lo indicò con 4 2la mano. Colotti 8 capì 1 2 3 4 5 6 to improvviso. Parlo di Vecchio Tifoso. al volo: «È quello seduto due file davanC E R O T T O ti a noi?» gli chiese allora. «Sì, quel lì Saranno stati quei minuti di pubblicità 5 3 7 televisiva, ormai sempre uguali, all’ora di biund», rispose prontamente il Puci. E A M I C A P proseguì: «Al ma parlava, ma mi capiva cena, e altre brevi scene del folclore sviz7 2 8 9 zero, in attesa del secondo tempo della R I M A A E nagott!». partita. Fa sorridere oggi pensare a quei 10 11 A essere sinceri non ricorda più Il centrocampista tempi, quando 3 la Svizzera inaugurò il I L A A L R Campo comunale nemmeno che incontro si giocasse, se del Losanna di Cornaredo il 25 una partita di campionato, oppure una Samuel Campo, novembre 1951. Fu l’esordio di Riva IV 12 13 14 15 16 17 E I S O8 L E 2Rin maglia Z rossocrociata I 6A contro5l’Italia.4 gara di qualificazione ai prossimi mon- a sinistra, si diali. Il chiassese aprì le marcature con un bel batte per la palla 18 19 20 1Kdiagonale 9A sfruttando Fatto sta che venne risvegliato in con il giocatore A M O R3 E R T un suggerimento8 modo brusco dalla padrona di casa. Un del Lugano21 del ginevrino Fatton, il capitano. Verso 22 23 24 tempo lei faceva il tifo per i granata bel- Goran Jozinovic� la fine del match H A S T R I 8 P E si4 Ralzò una nebbiolina e linzonesi, pare con qualche grido di in- che indossa a sei minuti dal termine il portiere bian25 26 27 28 coraggiamento. Poi la passionaccia si at- una maglia conero Corrodi venne battuto dallo juE D I T A7 M Aventino P GiampieroI Boniperti.1 9 tenuò e ora, tutta presa dalla nipotina, lo palesemente «Bubi» 29 30 sport non le dice più nulla: né le partite ispirata ai colori Corrodi si disperò, per la vittoria sfugR E S A C O 3Rgita1diApoco. NConORiva 6IV i compagni di campionato, né la nazionale di calcio, rossocrociati. 14

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Idiomi stranieri e maglie sorprendenti

né l’hockey e neppure le Olimpiadi. Ma il suo occhio è attento e, forse per lo stato di salute di Vecchio Tifoso che provoca improvvisi quanto brevi ma intensi minuti di sonno anche a causa della qualità del gioco, la moglie cerca di tenerlo sveglio, o risvegliarlo almeno alla ripresa del gioco. Certo lei non può stare di guardia tutto il tempo! Si dà quel tanto che basta, insomma, senza tralasciare le molte faccende da sbrigare. «Ma come? Ora non ti interessa più nemmeno la nazionale? Sveglia, sveglia!» La nazionale! Vecchio Tifoso ha quasi un moto di rabbia, e se la prende per tanta disattenzione. Strano ma vero, in campo stanno muovendosi giocatori con maglie quasi identiche a quelle della compagine elvetica, ma con un colletto che le fa apparire un po’ più ricercate. Sul petto nessuno stemma con la croce

(N. 39 - ... la terza al mondo per grandezza)

svizzera. E in panchina, ad agitarsi col volto rabbuiato, neppure l’ombra del se1 lezionatore della Svizzera, ossia Pektovic, bensì Andrea Manzo. Eh sì, questo è il FC Lugano,6con l’improbabile (e direi pure improponibile) maglia che avrebbe forse dovuto 9 impaurire l’avversario, un Losanna che invece sta imperversando contro quel11 li che dovevano giocare con la maglia bianconera: 3-014 dopo il15primo16tempo! 13 Un po’ di nostalgia, non tanto per il risultato (il Lugano uscirà battuto per 18 4-1 dallo stadio olimpico della Pontaise), quanto per la maglietta. Non sol20 del Lugano; l’avversario 21ne tanto quella indossa infatti una blu scura e sembra 22 a una gara di calcetto. 23 di assistere Del 25

Giochi Cruciverba Trova il proverbio nascosto nel cruciverba, risolvendolo e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 5, 3, 9, 6, 9)

L A S T R E E R T O Z A A M O A I N L I O B O E M O N D I O V E M I P E R G R I L L I L A T L I A N E C A C D E G L I Z H 4 O TdaI50Zfranchi I Econ ilAcruciverba P E Vinci una delle 3 carteNregalo

3 9 6 Schema N. 37 FACILE e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku Soluzione (N. 37 - ... utilizzate come moneta di scambio)

(N. 40 - Scusa non rischiesta, accusa manifesta) 1

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VERTICALI 1. 1. Una traccia nell’aria 2. Cuore di vate Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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resto anche altre compagini una partita nalista Tiziano Colotti che, tornando in la giocano con i colori abbastanza simili aereo da una trasferta fatta in Unghe2 a quelli 3 originali 4 5 e nell’incontro succes- ria o da qualche altra parte, il chiassese sivo si… camuffano adottandone altri. Riva IV, detto Puci (22 partite in maglia 6 7 più8 quando Così non ci si raccapezza rossocrociata), non pronunciava i nomi 9 sempligiocano due compagini d’Oltralpe. dei suoi compagni di squadra, Anche i giocatori, talvolta, hanno cemente per non inciampare sulla lin10 difficoltà a intendersi, ma per via della gua tedesca, lui maestro di1dribbling e lingua. Qualche stagione, poi il proble- goleador rossoblù, con ben 156 reti per 12 ma si risolverà. il Chiasso. Il club di confine due anni fa Del resto succedeva già in tempi ha dedicato a Riva IV, uno dei più spet17 lontanissimi, quando i romandi gio- tacolari attaccanti ticinesi di sempre, lo 2mi racconcavano insieme agli svizzero-tedeschi Stadio Comunale. Ecco cosa 19 e anche i ticinesi – più avvezzi a espri- tò il Tiziano in merito a uno degli epimersi in tedesco (o in francese), forse sodi più divertenti del Puci durante quel per esigenze… turistiche – non sempre viaggio di ritorno a casa della Nazionale se la cavavano. in aereo. Ricordò Colotti che per spie- 1 24 l’amico giorMi raccontò una volta gare le difficoltà avute nell’intesa sul Giochi per “Azione” - Ottobre PER 2016 AZIONE SUDOKU - OTTOBRE 2016 5 7 26 Stefania Sargentini

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ORIZZONTALI 1. L’adopera il boscaiolo 5. Protetti da Igea 9. Preposizione 10. Il giovane di una nota parabola biblica 12. Precedono la «l» 13. Le iniziali dell’attrice Rossellini 14. Accorciano o allungano la spiaggia 15. Avverbio di negazione francese 16. È detto così il Turkestan occidentale 17. Si sciolgono nel bagno 18. Si spiegano cantando 19. Un «cerchietto» che lega… 21. Stato del Venezuela 23. Si caccia per paura 24. L’incanto che non incanta 25. La nota Angiolini 28. Una storia lasciata a metà 29. Un sentimento 30. Simbolo chimico del sodio 31. Pronome personale 32. Diavolo ad Oxford 33. Sigla di Forza elettro-motrice 34. Desiderio… ardente 35. Non si lascia a piedi!

cercarono l’intesa, indicando che cosa intendevano fare, aiutandosi sempre con le mani. Ma il Puci era abituato a fare spesso di testa sua… Erano anni in cui nelle squadre ticinesi – i rossoblù del Chiasso, i bian8 Bellinconeri del5 Lugano, i granata del zona e le bianche casacche del Locarno – si parlava (e gridava)1soprattutto3 in dialetto. Ora ecco il Lugano a giocare ogni tanto con la4maglia 2 rossa e la mitica «V» sul petto. In campo si parlano numerose3 lingue, ma si corre a velocità quasi doppia di un tempo e qualche spettatore ticinese deve chiedere a un amico «Chi l’è quel lì?»,6indicando l’autore di uno scatto destinato a miglior 6 tiraccio con cui chiude 1 pe7 sorte di quel raltro una bella azione. «Boh, al su mia. Nessuna idea», gli risponde 9 il Vecchio 8 Tifoso luganese.

(Keystone/Laurent Gillieron)

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

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3. Un terzo di undici 4. Il tesoro pubblico 5. Chi la fa muta tace… 6. Una battuta vincente 7. Non lo dice il compiacente 8. Un Claudio attore e conduttore tv 11. Fa bollire il sangue 12. Saluto inglese 14. Un ruminante 15. Si usa in molti sport 16. Levato, sottratto 17. Un giardino d’inverno 18. Ampi, spaziosi 20. Non accompagnate civilmente 21. Sfoggio di ricchezza 22. Ingenuo inglese 26. Pronome personale francese

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R U T F 2 4 8 Sudoku A T M O 1 4 Soluzione: M I S E R 5 13 numeri Scoprire L iE A da inse6 corretti 2 F nelle E caselle T T A rire 24 8 5 7 S colorate. 4 6 2 T 3 6R 1 3 9I

(N. 38 - “Certo Carmela, Alzheimer”) 24

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(N. 40 - Scusa non rischiesta, accusa manifesta) Partecipazione online: inserire la N. luzione, corredata 40 PER GENI da nome, cognome, è possibile un pagamento in contanti 1 2 3 4 5 6 7 8 soluzione del cruciverba o del sudoku indirizzo, deveI deiBpremi. I vincitori saranno avvertiti S C email U RdelEpartecipante S A N 1 9 4 6 8 5 3 2 7 9 essere 4 3«Redazione 7 9 11 12 1 nell’apposito10 formulario pubblicato spedita a Azione, C O N R I C C O Hper Iiscritto. Il nome dei vincitori sarà sulla pagina del sito. Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». pubblicato 8 7 su6«Azione». 2 1 Partecipazione 3 4 9 5 2 4 9 13 14 15 I si R M A R E E suiP Ariservata S Partecipazione postale: la lettera o Non intratterrà corrispondenza esclusivamente a lettori che 2 5 3 4 9 7 8 6 1 16 17 2 3 1 la cartolina postale che riporti la so- concorsi. legali NonA Lrisiedono in Svizzera. A LeTvie U R sono A escluse. N S I 18

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Politica e Economia Casa Bianca 2016 Il secondo dibattito ClintonTrump, il peggiore della storia politica americana

A Santos il Nobel per la pace Ha spaccato la comunità internazionale il ricononoscimento al presidente colombiano. Che come ex ministro della Difesa del governo Uribe ha combattuto le Farc con una guerra spietata

Il tycoon più ricco di Cina È Wang Jianglin del colosso Wanda, considerato il conquistatore dei mercati esteri

Disposti a tutto Le peripezie di un rifugiato afgano, da 4 anni in Svizzera dopo una fuga durata 12 anni

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AFP

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Pace fatta senza gli Usa

Russia-Turchia L’intesa sulla costruzione del gasdotto Turkish Stream certifica la dipendenza di Ankara dall’energia

russa e la difficile convivenza tra interessi economici e politico-militari (Alleanza Atlantica)

Lucio Caracciolo Fra Turchia e Russia la pace sembra davvero fatta, dopo l’incidente che nel novembre 2015 provocò l’abbattimento di un aereo russo Sukhoj-24 sconfinato nello spazio turco durante le operazioni in Siria. Al di là della ritrovata cordialità fra Erdogan e Putin – due vecchi amici che si capiscono molto bene e si stimano – la prova di questa intesa sta nella sua sostanza energetica. In parole povere, nel rilancio del progetto di gasdotto Turkish Stream, che dovrebbe portare gas russo in Turchia e di qui, se tutto andrà bene, verso l’Europa. Rivelandosi così per quello che tutti sanno vorrebbe essere: la versione riveduta e corretta del vecchio progetto South Stream, boicottato con successo da Washington e da Bruxelles. Perché quel tubo sarebbe dovuto essere l’altra leva della tenaglia che insieme al Nord Stream, il gasdotto baltico che connette direttamente Russia e Germania (e la cui capacità Mosca e Berlino hanno già deciso di raddoppiare), aggirando

la Polonia e gli altri Stati dell’Europa centro-orientale, segnala l’intenzione di europei occidentali e russi di evitare l’attraversamento dell’inaffidabile Ucraina. E di consolidare i loro già strettissimi rapporti energetici. Putin ed Erdogan hanno presieduto alla firma dell’intesa nel vertice di Istanbul il 10 ottobre scorso. I lavori per il nuovo gasdotto, in parte (180 chilometri) in territorio turco, per la maggior estensione (910 chilometri) sottomarino, dovrebbero cominciare entro il prossimo anno, per concludersi nel 2019. Si realizzerebbe così un progetto di fondamentale rilievo strategico, contro il quale è prevedibile che l’opposizione degli Stati Uniti e di alcuni paesi della Nato/Ue sarà feroce, così come lo fu nei confronti del South Stream. La capacità prevista è di 63 miliardi di metri cubi all’anno (il Nord Stream ne può portare oggi 55 miliardi, destinati a raddoppiare non appena disponibile il secondo braccio), di cui 14 destinati al mercato turco, il resto

diretto verso l’Europa. Qui viene il problema: quali paesi saranno disposti a sfidare il veto americano e, probabilmente, di Bruxelles, collegandosi al Turkish Stream? Il rischio che il progetto finisca per arenarsi alla frontiera turco/europea è accresciuto dalla rinnovata instabilità balcanica, oltre che dal clima di ostilità che segna oggi le relazioni fra Russia e Stati Uniti. Il progetto Turkish Stream è d’altronde solo l’aspetto più eclatante della ritrovata, pragmatica intesa russoturca. L’annuncio accompagna infatti l’abbattimento dei dazi all’importazione di prodotti agroalimentari turchi in Russia, preludio a un accordo di libero scambio da siglare entro il 2017, la costruzione di un fondo comune di investimenti per ora limitato a un miliardo di dollari, l’acquisizione da parte turca di una centrale atomica di produzione russa. Certo, resta il dissidio di fondo sulla Siria, dove la Turchia considera il governo di Damasco, appoggiato da Mosca, alla stregua di una banda di

criminali. Erdogan sostiene quindi alcune formazioni ribelli e, soprattutto, si prepara a stabilire in Siria una zona cuscinetto, direttamente presidiata dalle sue truppe. Obiettivo: contenere lo Stato Islamico e insieme impedire la nascita di uno staterello curdo nel Nord siriano (Rojava), legato al Pkk, ovvero alla formazione terroristica che impazza in Anatolia. Il recuperato allineamento russoturco va decrittato nel contesto delle tesissime relazioni Usa-Russia. Il fallimento del colpo di Stato del 15 luglio, dietro il quale Ankara vede la mano della Cia, ha avvelenato i già difficili rapporti turco-americani. Putin ne ha profittato per giocare di sponda. L’intesa con Erdogan mette infatti in questione l’affidabilità dell’alleato turco, tradizionale bastione meridionale dello schieramento atlantico. Se poi consideriamo il raddoppio del Nord Stream come la conferma che, sotto il tavolo, fra Mosca e Berlino i rapporti restano stretti e anzi si consolidano, lo scenario Nato si presenta ancora più inquie-

tante. Da che parte stanno i tedeschi e i turchi? E che dire degli italiani, fra l’altro interessatissimi al progetto Turkish Stream, che rilancerebbe Saipem, che dispone delle tecnologie utili alla costruzione del tratto offshore del tubo? Fra Mosca e Ankara, poi, le relazioni sono alquanto asimmetriche. Malgrado le conclamate idee di grandezza care a Erdogan, che si concepisce come il restauratore dell’impero ottomano se non addirittura come il nuovo califfo, capo dell’intero mondo islamico, è evidente che la Turchia funge da junior partner nella strana coppia con la Federazione Russa. Tanto più che Putin ha deciso di rendere permanente la presenza militare russa in Siria, rafforzandovi la base di Tartus e stabilendovi ulteriori teste di ponte. Tutto lascia pensare quindi che il capitolo aperto dal «sultano/califfo» Erdogan e dallo «zar» Putin nel vertice della riconciliazione del 10 ottobre sia solo il primo capitolo di una lunga vicenda, cui Washington guarda con acuta preoccupazione.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Politica e Economia

Democrazia nel fango

Casa Bianca 2016 I l secondo dibattito televisivo fra Hillary Clinton e Donald Trump si è distinto per cattiveria,

scarsità di contenuti e degrado del costume politico

Federico Rampini La grande guerra fra il «New York Times» e Donald Trump è una storia parallela di questa campagna elettorale, che serve a sottolinearne l’anomalia. Ancora una volta è il quotidiano newyorchese a tirar fuori lo scoop che mette in difficoltà il candidato. Dopo le tasse, le donne. E proprio come accadde per la dichiarazione dei redditi, Trump reagisce minacciando querele (nota bene, in certi paesi europei è normale, qui per niente: col Primo Emendamento a tutela della libertà di stampa la querela per diffamazione è molto difficile vincerla). È ormai una specie di duello parallelo che accompagna quello fra Trump e la Clinton. Ricordo che il direttore del «New York Times» a suo tempo si disse disposto anche a finire in carcere pur di pubblicare ogni verità nascosta su Trump. Il «Times» per primo, seguito poi anche dal «Washington Post» e perfino da un quotidiano come «Usa Today» che ha rotto una tradizione d’indipendenza e ha dato a Hillary il primo endorsement della sua storia: è evidente che molti media hanno deciso che questa non è una campagna normale, e che la stampa ha una missione da svolgere in difesa della democrazia Usa. Quasi un dovere costituzionale. Non è accaduto subito, ma nelle ultime settimane è scattata quasi una clausola di coscienza tra molti miei colleghi americani. Non vogliono svegliarsi il 9 novembre, guardarsi allo specchio, e chiedersi: cosa avrei dovuto fare, e non ho fatto, per impedire questa catastrofe?

Molti media americani hanno deciso che questa non è una campagna normale e che la stampa ha la missione di difendere i valori democratici In quanto al merito delle ultime (per ora!) rivelazioni, ne emerge la figura di un vero maniaco sessuale, che allunga le mani sulle donne senza nessuna inibizione. Molte di loro si sono decise a vuotare il sacco dopo aver sentito la sua difesa in tv contro Hillary, la famosa frase «erano solo chiacchiere da spogliatoio maschile». Con la quale lui tentava di spegnere lo scandalo precedente, suscitato da un video del 2005 dove lui si vantava di afferrare dalle parti intime le donne che gli piacciono, «tanto ci stanno, perché sono un Vip». «Io sono l’ultima barriera fra voi e l’Apocalisse». Così Hillary Clinton ha concluso un’intervista al «New York Times». Toni drammatici, ma non sorprendenti. È vero, ogni candidato ha tendenza a definire la sua campagna come «la più importante della storia». Stavolta ci credono in molti. La frase di Hillary riecheggia commenti che dilagano su molti media dopo il dibattito televisivo andato in onda domenica 9 ottobre. In particolare quella minaccia di Donald Trump, riferita allo scandalo delle email di Hillary: «Se divento presidente nominerò un procuratore per incriminarti e mandarti in carcere». In quel momento l’America si è scoperta in versione Repubblica delle banane, una di quelle nazioni illiberali dove chi vince un’elezione arraffa tutto, e per gli sconfitti è consigliabile l’esilio, se fanno in tempo a scappare. Molti opinionisti, incluso qualche repubblicano, ormai descrivono l’8 novembre come una scelta tra la democrazia e un salto nel buio. Nella stessa intervista Hillary di-

Donald Trump ha minacciato la Clinton di incriminarla e mandarla in carcere per la questione della e-mail se diventerà presidente. (AFP)

ceva: «Se stessi correndo contro un altro repubblicano, avremmo i nostri disaccordi, non fraintendetemi, e farei di tutto per vincere. Ma non andrei a letto di notte con un nodo allo stomaco». Le ansie dei democratici sono in parte attenuate dai sondaggi. Più ancora del secondo duello, con ogni probabilità a indebolire Trump è stato lo scandalo del video datato 2005. I sondaggi usciti dopo, accentuano una tendenza che si era già notata dal 26 settembre (primo dibattito in tv), cioè un calo di Trump. L’ultima rilevazione demoscopica targata «Wall Street Journal»/Nbc attribuisce alla Clinton nove punti di distacco sul repubblicano. E forse bisognerebbe cominciare a mettere fra virgolette l’etichetta «repubblicano». Non si sa più bene con chi e contro chi stia correndo il tycoon dei casinò (un business nel quale ha dichiarato la sua settima bancarotta la settimana scorsa, al casinò Taj Mahal di Atlantic City). È un vero caos quello che regna nel partito repubblicano, dopo la scelta del presidente della Camera Paul Ryan d’interrompere le iniziative pro-Trump per concentrarsi solo sulla difesa dei seggi parlamentari in palio a novembre. Il gesto viene interpretato come una previsione sulla sconfitta di Trump e un tentativo di limitare i danni almeno al Congresso. L’8 novembre si rinnova l’intera Camera e un terzo del Senato. In genere gli elettori americani sono restii a dare un voto «separato», cioè eleggere un presidente di un partito e deputati o senatori del partito rivale. Di qui lo scenario per cui i democratici, se trascinati dalla vittoria della Clinton, potrebbero sottrarre almeno una parte del Congresso (più probabile il Senato, più ardua la Camera) ai repubblicani che sono attualmente maggioritari in tutti e due i rami. Colpisce una dichiarazione di Trump in cui si descrive come final-

mente «libero dalle catene» del suo partito, libero cioè di fare campagna come vuole lui. Ma anche pronto a incolpare l’establishment e i notabili di partito se sarà battuto. Il degrado del costume politico è stato evidente a tutti la sera del 9 ottobre, una data che resterà scolpita nella storia di questo Paese per la sua infamia. È stato il duello dell’odio. Pochi contenuti, troppa cattiveria. Un clima avvelenato fin dal primo gesto: quando Donald Trump e Hillary Clinton arrivano sul palco quella sera, non si stringono neppure la mano. Al primo match, il 26 settembre, c’era stato almeno quell’abbozzo di fair play. Un dibattito «brutale», lo definisce il sito Politico.com che aggiunge un’amara ma inevitabile previsione: «Altri venti giorni di fango». Il «New York Times» parla di «colpi bassi», in un periodo in cui pare che le parti basse dell’anatomia abbiano preso il sopravvento.

È un vero caos quello che regna nel partito repubblicano che si sta concentrando sulla difesa dei seggi parlamentari in palio l’8 novembre Sul «Washington Post» alcuni esperti si dedicano a un esercizio da etologi (quelli che studiano il comportamento animale): smontano ogni singolo gesto, per un’analisi del linguaggio corporeo in quei 90 minuti infernali. Trump si distingue per dei tic da alfa-maschio, capobranco: tira su col naso come un toro che sta per caricare; gira attorno a Hillary come un leone che vuole marcare il suo territorio; le punta costantemente l’indice contro, «un gesto ostile

in tutti i linguaggi di tutte le tribù». Zoologia e antropologia spiazzano l’analisi politica. Non convince neppure la cortesia finale, perché quando Hillary confessa che di Trump le piacciono i figli, è un complimento con veleno subliminale: The Donald tiene famiglia e a quella pensa prima di tutto. Prima conclusione. La democrazia americana è malata, con grande godimento di Vladimir Putin e Xi Jinping (mai elezioni Usa sono state raccontate con tale gusto dai media di regime russi e cinesi). È difficile ritrovare nel passato recente un simile livello di animosità, di disprezzo, di insulto. Seconda conclusione. Donald Trump se l’è cavata un po’ meglio rispetto al primo dibattito, che per lui era stato un disastro. Ma un pareggio non basta a Trump, che da tre settimane è in calo nei sondaggi. Sui temi, i due sono stati prevedibili. Prendiamo le tasse: lui le vuole ridurre in modo «reaganiano» (ma lo fece anche George W. Bush) cioè abbassando soprattutto la pressione fiscale sulle imprese, quindi indirettamente sui loro ricchi azionisti. La teoria è quella del «trickle down», aumentando gli incentivi a investire per i più ricchi, tutti ci guadagneranno. Lei lo ha accusato di fare «gli interessi di Donald», e ha rilanciato le sue proposte di una stangata sui super-privilegiati, una minimum tax del 30% per chi guadagna più di un milione lordo all’anno (Buffett Rule) e un’altra sovratassa sui redditi oltre i 5 milioni. Altra divisione classica è sull’energia. Trump accusa le politiche ambientaliste di Obama-Clinton di avere «distrutto l’industria energetica americana». Strizza l’occhiolino ai petrolieri e a tutta l’industria fossile (carbone incluso) promettendogli un’America senza Environmental Protection Agency. Messaggio che piace anche a un pezzo di classe operaia, peraltro. Hillary gli

oppone il fatto che l’industria energetica americana non se la cava male: il Paese ha quasi raggiunto l’autosufficienza e non importa più una sola goccia di petrolio dal Medio Oriente. Lei promette di accelerare la transizione verso le energie rinnovabili, per fare dell’America «la superpotenza verde del XXI secolo». Trump è stato efficace nella parte distruttiva. Le sue accuse a Hillary sono semplici e chiare: fai politica da 30 anni e non hai risolto i problemi, sei tutta chiacchiere e niente azione; il Medio Oriente dopo 8 anni di politica estera democratica è un disastro. Lei dà il meglio quando entra nei dettagli (perché li conosce) e quando descrive un’America inclusiva, i cui valori sono per tutti: donne, bianchi e neri, musulmani, ispanici, immigrati, disabili. Tutte categorie che Trump ha insultato in questa o quella occasione. Ancora una volta l’ombra di Vladimir Putin si è allungata sulla campagna elettorale. Hillary ha evocato, tra le ragioni per cui Trump non pubblica le sue dichiarazioni dei redditi, la possibilità di conflitti d’interessi per i suoi legami affaristici con la Russia. E ha ricordato il ruolo degli hackers russi (con WikiLeaks) che sistematicamente prendono di mira i siti del partito democratico e la campagna di Hillary. Lui non ha preso le distanze da Putin neanche in questa occasione. Anzi, Trump si è dissociato dal suo vice Mike Pence che di recente ha invocato una presenza militare Usa in Siria più determinata per rintuzzare l’avanzata russa. ​N​el primo duello tv Trump si lasciò andare ad una profezia di malaugurio: «Questa crescita economica è drogata dalla Federal Reserve che per motivi politici aiuta Obama-Clinton, siamo in piena bolla e presto scoppierà». Almeno di b ​ olle​,​un pochino​il bancarottiere seriale se ne intende...


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Politica e Economia

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Oslo rilancia la pace

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Nobel 2016 Il Comitato Norvegese premia Juan Manuel Santos, attuale presidente

della Colombia, per aver raggiunto dopo quattro anni di negoziati e mezzo secolo di guerra, l’accordo con i guerriglieri Farc. Accordo che i colombiani hanno bocciato a sorpresa nel recente referendum

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Angela Nocioni

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Juan Manuel Santos, attuale presidente della Colombia ed ex ministro della guerra del non proprio pacifico governo di Alvaro Uribe (2002-2010), ha vinto il Nobel per la Pace. Una scelta squisitamente politica, applaudita da molti e detestata da tanti. Il Comitato di Oslo per l’assegnazione del Nobel ha voluto porgere una bombola di ossigeno al difficile e delicatissimo accordo di pace tra il governo colombiano e la narco-guerriglia delle Forze armate rivoluzionarie di Colombia (Farc), in guerra da cinquantadue anni contro lo Stato colombiano. Quell’accordo è stato promosso e fortemente voluto dal presidente Santos che ci si è giocato sopra tutto il suo capitale politico. Ed è stato bocciato – per meno dello 0,5 per cento dei voti, ma pur sempre bocciato – da un referendum popolare che Santos ha convocato per la ratifica sperando di farne un plebiscito su sé stesso e che si è invece rivelato un boomerang in grado di decapitare non solo la sua personale carriera politica, ma anche una preziosa pace firmata dopo mezzo secolo di orrori di guerra.

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Santos, che non è mai riuscito a sconfiggere militarmente le Farc, chiese a Chavez di fare da ambasciatore

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Il presidente colombiano Santos è festeggiato a Bogotà dagli indigeni Misak dopo l’annuncio di Oslo . (AFP)

da presidente quello che Uribe considera da tutta la sua vita come il peggior male possibile: la soluzione politica del conflitto con la guerriglia. C’era bisogno di riunirsi pubblicamente con Chavez? Non era possibile avere con l’allora presidente venezuelano un incontro segreto? No, non era possibile se si voleva essere credibili nei confronti della controparte venezuelana. Santos era considerato a quei tempi a Caracas l’erede di Uribe. Un erede scaltro, ambizioso al punto da mettere politicamente in ombra il suo padrino, ma pur sempre il suo erede. E soprattutto il suo ministro della guerra, visto che la sua pressoché esclusiva occupazione da ministro della difesa fu fare una guerra spietata alle spietate Farc.

Chi si aspetta da Oslo la difesa della pace resta sgomento nel vedere assegnato il Nobel a Santos che in passato ha combattuto le feroci Farc con spietata violenza Per Chavez essere ricevuto pubblicamente da Santos significò avere la prova tangibile che il presidente colombiano aveva superato l’influenza di Uribe tanto da umiliarlo con una mossa definitiva: invitare il suo acerrimo nemico e chiedergli di diventare alleato del governo. Chavez, che voleva la pace in Colombia, pragmaticamente e da un punto di vista politico anche generosa-

mente, accettò di fare da ambasciatore di quel signore bogotano che, come ministro della difesa, aveva deciso e praticato la controffensiva più pesante che i cinquantadue anni di guerra tra esercito e Farc avessero mai conosciuto. Ne prese le distanze solo quando, ormai molto malato, capì che Santos, da presidente, continuava a lasciar commettere operazioni coperte contro i guerriglieri con i quali voleva trattare perché aveva lo strategico obiettivo di riuscire a farli sedere al tavolo di mediazione in una situazione di debolezza. Santos non è mai riuscito a sconfiggere militarmente la guerriglia, sempre che sia possibile sconfiggere militarmente un gruppo armato che esiste da mezzo secolo e che ha avuto per un lungo periodo il controllo di una larga parte del territorio dello Stato. In compenso è stato colui che ha inflitto alle Farc i colpi più duri in mezzo secolo di guerra. Fu sotto il suo comando, come ministro della difesa, che fu ucciso in una spettacolare azione Raul Reyes, il capo militare della guerriglia. Ucciso non in territorio colombiano, ma in territorio ecuadoriano. Fu L’Operazione Felix: il primo marzo del 2008 la Forza aerea colombiana, seguita poi da una azione di terra coperta da elicotteri da guerra, bombardò a tappeto una vasta area rurale nella selva ecuadoriana, ben oltre il confine con la Colombia. Almeno ventidue guerriglieri morti, tra cui Reyes, tradito da una spia e, secondo fonti mai confermate ufficialmente, da un telefono satellitare usato il 27 febbraio per ricevere la telefonata di Hugo Chavez che lo informava della liberazione di alcuni ostaggi.

Fu sempre sotto il comando di Santos che avvenne la liberazione della ex candidata presidenziale dei Verdi, Ingrid Betancourt, dopo sei anni di sequestro. Al comitato di Oslo non sarà sfuggito nemmeno che è stato sempre sotto il comando di Santos, che la Colombia ha conosciuto la lunga serie dei cosiddetti «falsi positivi», ossia l’uccisione, da parte dell’esercito regolare, di molti civili fatti passare poi per guerriglieri. E che è con Santos alla guida, mentre già erano state intessute le trattative segrete con le Farc, che è stato ordinato di uccidere il leader guerrigliero Alfonso Cano. Nel tentativo di non vedere reso vano da nuove sventagliate di mitra il fragilissimo accordo di pace firmato dal governo di Bogotá e i capi delle Farc all’Avana, il Comitato di Oslo ha deciso di premiare non l’intera carriera, con la sua scia di sangue, dell’attuale presidente della Colombia, ma l’ultima fase della sua storia politica, tenacemente legata alla volontà di porre fine a mezzo secolo di conflitto. Comprensibile che chi si aspetta da Oslo la difesa della pace intesa come non violenza, resti sgomento vedendo il Nobel nelle mani di Santos, che della violenza, anche feroce, ha fatto un uso politico strumentale ogni volta che l’ha ritenuto utile. Resta il fatto che è stato nei dipartimenti più martoriati dalla ferocia della guerriglia che si è registrato il miglior risultato del sì al referendum sull’accordo. A Boyayà, per esempio, dove nel maggio 2002 negli scontri con i paramilitari le Farc uccisero 79 persone che si erano rifugiate in una chiesa, il 94% ha votato per il sì.

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Vediamo quindi chi è Juan Manuel Santos, questo militarista convinto che con il pugno di ferro ha condotto, da capo delle forze armate mentre il suo ex mentore Alvaro Uribe era presidente della repubblica, gli attacchi più efficaci e più sanguinosi alla guerriglia, mettendola sotto scacco senza mai riuscire a sconfiggerla, fino a convincersi finalmente che la soluzione politica era l’unica via possibile per mettere fine al folle massacro. Figlio della più alta borghesia di Bogotà – suo padre era il proprietario de «El Tiempo», il quotidiano più importante della Colombia, suo zio era l’ex presidente della Repubblica Eduardo Santos, suo cugino il vicepresidente del governo Uribe – ha studiato economia e amministrazione d’impresa all’università del Kansas, è diventato giornalista e poi politico di professione, prima come liberale e poi, slittando a destra accanto a Uribe. Santos era presidente della repubblica da solo tre giorni quando ricevette a Santa Marta, nei meravigliosi Caraibi colombiani, l’allora presidente venezuelano Hugo Chavez. Da politico pragmatico decise che per tessere la difficilissima trattativa con i guerriglieri avrebbe chiesto la mediazione venezuelana, utile per il rapporto di protezione e appoggio, non solo logistico, che il leader venezuelano garantiva alla leadership della guerriglia. Spalancare la porta a Hugo Chavez significava però sbatterla in faccia da Alvaro Uribe. Santos lo sapeva benissimo. E scelse Chavez. Uribe non era un qualsiasi dignitario colombiano. Era, ed è tuttora, il politico più potente della Colombia e, soprattutto, era il padrino politico di Santos. L’ex presidente si sentì tradito due volte. Prima, quando si rese conto che il suo apprezzato ministro della difesa si era aperto al suo fianco un margine politico non per fargli da mansueto delfino ma per farsi eleggere al suo posto. Poi, una volta eletto, decidendo

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Politica e Economia Wang Jianlin spiega un progetto di sviluppo di real estate a Beijing nel mese di giugno. (AFP)

Una riforma fiscale indigesta Imposizione delle imprese III La sinistra

respinge la legge votata dal Parlamento, ma l’UE fa pressione per sopprimere favori fiscali cantonali alle aziende estere in Svizzera

Ignazio Bonoli

Ombre cinesi su Hollywood

Ricchi e famosi Il tycoon Wang Jianlin del colosso Wanda

si conferma l’uomo più ricco di Cina e il braccio armato di Xi nella conquista dei mercati esteri

Giulia Pompili Wang Jianlin si sta comprando Hollywood, un pezzo alla volta. Il «Wall Street Journal, a fine settembre, non lasciava spazio alle interpretazioni: l’uomo più ricco di Cina, proprietario del gruppo Dalian Wanda, ha messo già da tempo gli occhi sull’industria americana del cinema e ora è in trattativa per acquisire la Dick Clark Productions, una delle case di produzione di show televisivi più grandi del mondo e del Golden Globe Awards. Reuters parla di un deal da un miliardo di dollari. Del resto mister Wang aveva già fatto parlare di sé nell’ambiente cinematografico hollywoodiano quando aveva investito nella Sony Picture, quando era stato a un soffio dall’acquisire il 49 per cento della Paramount Picture (poi la Viacom si mise di mezzo, e mandò a monte l’accordo) e infine quando, nel gennaio di quest’anno, è diventato proprietario degli studi cinematografici Legendary Entertainment. L’obiettivo, per la Dalian Wanda, è quello di acquisire «almeno il 50 per cento» di uno dei cosiddetti «big six» del cinema americano (Warner Bros, 20th Century Fox, Universal, Paramount, Columbia e Walt Disney), portando l’enorme mercato cinese ancora di più nell’industria hollywoodiana. Un progetto che ha fatto preoccupare almeno 16 membri del Congresso americano, che a settembre hanno chiesto formalmente di vederci chiaro sulle acquisizioni cinesi nel settore. Ma in un’intervista alla Cnn Money, Wang era stato chiaro: «Considerata la mia personalità e come l’azienda sta mettendo in atto i miei piani, penso che potremo essere i numeri uno nel mondo del mercato immobiliare, dell’intrattenimento, del turismo e dello sport». Nel settembre del 2014 Wang Jianlin era stato sorpassato da Jack Ma, il proprietario del colosso dell’ecom-

merce cinese Alibaba, nella classifica degli uomini più ricchi di Cina. Ma dopo pochi mesi Wang era tornato a dominare la lista dei miliardari, facendo del gruppo Dalian Wanda uno dei più potenti e influenti del mondo. Possiede centri commerciali in almeno cento città diverse, controlla una catena di alberghi di lusso e la Wanda Cinema Line che è tra le più importanti in Australia e in America. In Europa, negli ultimi anni il gruppo Dalian Wanda ha messo le mani nel settore sportivo. Nel 2013 ha acquistato l’inglese Sunseeker International, azienda del lusso che produce yacht. Nel gennaio del 2015 l’azienda di Wang Jianlin ha acquistato il 20 per cento delle quote della squadra di calcio Atletico Madrid per 45 milioni di euro e, quasi contestualmente, ha comprato pure la Infront, colosso che gestisce i diritti tv del calcio, il marketing e la mediaticità di quasi tutti gli eventi di calcio, perfino dei Mondiali. Un anno dopo il gruppo cinese Wanda Sports è diventato partner globale della Fifa, mettendo le mani sull’enorme patrimonio del calcio globale. Che vuol dire controllare, di fatto, tutta l’industria del pallone. A sessantuno anni, Wang Jianlin è uno degli imprenditori più famosi del mondo. Meno mediaticamente esposto di Jack Ma, con il suo patrimonio ha contribuito a demolire la figura del miliardario che ha venduto l’anima al capitalismo, e quindi condannabile, come nella tradizione del Partito comunista cinese. Del resto Wang ha costruito la sua fortuna anche grazie alla fedeltà dimostrata negli anni nei confronti dello stesso Partito e del governo di Pechino. Nato il 24 ottobre del 1954 a Guangyuan, nella provincia del Sichuan, Wang era l’ultimo di cinque fratelli con un’eredità particolarmente ingombrante: il padre, Wang Yiquan, è considerato ancora oggi un eroe della

patria, che aveva combattuto al fianco di Mao durante la guerra civile cinese. A quindici anni, ispirato dalla figura del padre, Jianlin lasciò la scuola per arruolarsi. Voleva diventare generale, ha detto in un’intervista al «Beijing Times», ma dopo diciassette anni di servizio nell’Esercito popolare di Liberazione (e della vita militare mantiene ancora oggi il portamento eretto, e l’eleganza, scrive l’intervistatore) nel 1986 lasciò le armi. Divenne amministratore dell’ufficio sviluppo nel distretto di Xigang, a Dalian, nella provincia del Liaoning, dove si laureò alla Liaoning University. Tre anni dopo, l’ingresso trionfale nel mercato immobiliare e la costruzione, con un budget iniziale di 80 mila dollari, di un impero planetario. In un lungo articolo pubblicato dal «New York Times» nel 2015, Michael Forsythe ha definito Wang Jianlin l’anello di congiunzione tra il business e il governo di Pechino, ricostruendo tutta la fitta rete di relazioni prima con le autorità locali di Dalian (a quell’epoca il sindaco della città era Bo Xilai) e poi con il Partito. Wang oggi si definisce un filantropo, più che un imprenditore di successo. Dice che i soldi gli servono per aiutare la gente, e chi lo conosce da vicino racconta di un uomo in grado di controllare ogni centesimo in entrata e in uscita dal gruppo Dalian Wanda (il segreto del suo successo, dice, è aver considerato per vent’anni i suoi dipendenti, i suoi colleghi, dei fratelli). L’immagine di benefattore della società cinese – anche per i suoi sforzi per promuovere il soft power di Pechino nello sport e nel cinema – sono forse offuscati soltanto da una figura. Il figlio Wang Sicong, classe 1988, molto attivo sui social network e simbolo degli arricchiti cinesi, famoso per sperperare il patrimonio di famiglia. Come quando, lo scorso anno, ha acquistato due Apple Watch da ventimila dollari l’uno, per il suo cane.

Come annunciato da tempo, il Partito socialista, i Verdi, i sindacati e altre organizzazioni di sinistra hanno lanciato il referendum contro la riforma III della tassazione delle imprese, votata in giugno dal Parlamento nazionale. A inizio ottobre, il comitato referendario ha già depositato alla Cancelleria federale 56’000 firme. Anche la data per il voto popolare era già stata prevista e con ogni probabilità sarà il 12 febbraio 2017. Ancora un tema di difficile interpretazione e di impatto che va oltre i confini nazionali. Infatti, la riforma della tassazione delle imprese risponde alle critiche che l’Unione Europea aveva più volte formulato nei confronti di quei cantoni che concedono facilitazioni fiscali a quelle società estere che scelgono di istallarsi sul loro territorio. Che il tema delle minori entrate fiscali fosse dominante nelle discussioni lo si era già visto prima e durante il dibattito parlamentare. Alcune stime indicavano attorno ai 7-8 miliardi di franchi all’anno le minori entrate fiscali, tenuto conto delle imposte federali, cantonali, comunali e di quelle dei dipendenti (vedi «Azione» del 27.6.2016). Il referendum, oltre alla questione di principio (parità di trattamento fiscale per tutti) punta proprio su queste perdite fiscali per cercare di ottenere il necessario consenso popolare. Per i referendisti la riforma sarebbe troppo cara: alla sola Confederazione verrebbero a mancare circa 1,3 miliardi di franchi, compresi i 900 milioni da versare ai cantoni. Ovviamente cantoni e comuni sarebbero pure toccati dal provvedimento e le compensazioni versate dalla Confederazione non risolverebbero il problema. Tanto più che i cantoni dovrebbero anche ridurre l’aliquota generale sugli utili delle imprese. Se questa aliquota fosse per tutti del 16 per cento, le perdite globali potrebbero raggiungere i 2 miliardi di franchi. Resta comunque l’incognita dell’eventuale partenza di imprese verso l’estero. Ma un’ulteriore incognita è costituita da alcuni aspetti della riforma che

sono contestati e potrebbero non essere accettati nelle trattative con l’UE. Quindi tante discussioni, ma non è affatto sicuro che la manovra fiscale possa andare in porto e incontri poi i favori dei partner europei. Quale potrebbe allora essere l’alternativa in caso di un no popolare o da parte dell’UE? Il problema non è di facile soluzione. La sinistra ha fatto sapere di voler prendere posizione in merito in dicembre. Alcune linee di pensiero sono comunque già state espresse: limitare a 500 milioni al massimo le perdite fiscali per la Confederazione, evitando di rimborsare ai cantoni le loro perdite fiscali. Ecco allora rinascere un vecchio postulato socialista, quello dell’introduzione di un’imposta sui guadagni in capitale. Imposta però già respinta dal popolo anche in un recente passato, per cui difficilmente potrebbe essere usata nella campagna referendaria. Migliori possibilità potrebbe avere un aumento dell’imposta sui dividendi da partecipazioni importanti. I cantoni dovrebbero però limitare l’imposta al 50% dell’aliquota ordinaria per evitare la doppia imposizione degli utili (imposta ordinaria + imposta sui dividendi). I cantoni che praticano la riduzione dell’imposta sugli interessi sul capitale proprio potrebbero però aumentare la tassazione dei dividendi oltre il 60% deciso dal Parlamento. Proposta che incontrerebbe una forte opposizione negli ambienti economici, soprattutto fra le piccole e medie aziende. I cantoni hanno già digerito con difficoltà la riforma in discussione e non vorrebbero tornare ad occuparsi di un aumento generale delle impose per tutte le aziende. E questo succederà in ogni caso già per le multinazionali finora privilegiate, mentre probabilmente le piccole e medie aziende nazionali pagheranno qualcosa in meno. Con la riforma sono in gioco miliardi di franchi di entrate, ma anche 150’000 posti di lavoro, ben remunerati. Una caduta del progetto creerebbe un’incertezza fiscale dannosa all’immagine della Svizzera e quindi anche dei cantoni.

La consegna delle firme per il referendum contro la riforma sull’imposizione delle imprese III, il 6 ottobre a Berna. (Keystone) Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Politica e Economia

«Disposto a tutto, anche a sfidare la morte»

Storie di migranti Ali è un rifugiato afghano. Da quattro anni vive in Svizzera. La storia del suo viaggio è esemplare

e uguale a quelle di tanti altri profughi

Luca Beti Ali si arrotola un pantalone e mi mostra una cicatrice di una decina di centimetri sulla gamba destra. «La vedi? – mi chiede – me la sono procurata saltando da un cavalcavia sul confine con la Slovenia». Un volo di sei metri per sfuggire alla polizia che lo sta braccando. Un volo tra la vita e la morte: una siepe tra le corsie dell’autostrada attutisce l’impatto sull’asfalto, un cordolo gli lascia però un taglio profondo fino all’osso. «È stato terribile. È stato terribile», ripete continuamente. Ali ha 31 anni e da quattro, dal 2012, si trova in Svizzera. Cresciuto a Jaghuri, città di mezzo milione di abitanti, nella provincia di Ghazni, in Afghanistan, con due sorelle e due fratelli, da 16 anni vive lontano dal suo Paese. «Dei motivi della mia fuga non voglio parlare. Sono di etnia hazara e la nostra popolazione ha grossi problemi con i talebani che controllano i territori vicini alla mia città. Di notte passano di casa in casa e si prendono ciò che vogliono, anche la tua vita», mi dice prima di iniziare il racconto del suo viaggio. È il 2000 quando Ali abbraccia per l’ultima volta la sua famiglia. Ha 15 anni. Parte senza passaporto e per undici anni vive nella clandestinità. Dall’Afghanistan raggiunge il Pakistan, dove rimane poche settimane, poi supera il confine con l’Iran. Per quattro anni lavora in una cava di granito «Un lavoro ben pagato», mi dice. Con i risparmi prosegue il viaggio. Valica la frontiera con la Turchia a piedi e in sella a un cavallo, arrampicandosi lungo i valichi impervi tra i due Stati. Per Ali, la Turchia è solo un Paese di passaggio: è la porta per l’Europa. Vi trascorre il tempo necessario per raggiungere le coste che si affacciano sul Mediterraneo. «Sono i soldi in tasca a decidere il tempo che impieghi per raggiungere la tua destinazione. Se non ne hai, devi fermarti e cercare un lavoro», mi spiega. I trafficanti di uomini hanno contatti in tutti i Paesi e si passano i profughi come merce. Basta pagare per raggiungere la prossima tappa. E per lui, la prossima destinazione è la Grecia. «Io e altri tre afghani paghiamo un passatore; 400 dollari ciascuno. In macchina raggiungiamo la spiaggia, dove ci mostra la nostra piccola imbarcazione a remi e ci indica la rotta da seguire per raggiungere la Grecia», racconta. «Partiamo di notte, il mare è mosso e non arriviamo lontano. La barca si capovolge e finiamo in acqua. Ci salviamo in due, aggrappandoci a una corda annodata alla barca. Un compagno viene trascinato via dai flutti, l’altro batte violentemente la testa su uno spunzone di roccia, finisce sott’acqua e non riemerge più». Ali riprova una seconda volta con altri tre profughi, ripagando naturalmente il passatore. A metà traversata la loro barca è intercettata dalla polizia costiera turca che li costringe a tornare indietro. Ritenta una terza volta. «Sei disposto a tutto, anche a sfidare la morte, pur di continuare il tuo viaggio», ci dice mentre il suo sguardo si fa cupo e gli occhi si celano di angoscia. «Rimaniamo sulla spiaggia per tre giorni. Il cielo ci scarica addosso secchiate di acqua. Non abbiamo nulla da bere e da mangiare, ma la paura di essere intercettati dalla polizia turca ci inchioda sulla spiaggia. Finalmente, il quarto giorno il tempo migliora. Partiamo alle dieci e trenta di sera». Ingoiati dal-

Ali oggi lavora come magazziniere alla Marti Logistik a Kallnach, canton Berna. (Luca Beti)

la notte, Ali e i suoi nuovi tre compagni remano verso le luci che intravvedono all’orizzonte. Dopo quattro ore, il faro della guardia costiera greca illumina la loro imbarcazione. «È stato terribile. Ci hanno preso e picchiati. Asif, il mio compagno afghano, ha ricevuto un pugno in pieno viso. Io ho ricevuto una serie di calcioni alle costole. Dopo aver perlustrato per una ventina di minuti il mare a caccia di altre imbarcazioni, i poliziotti ci hanno dato una nuova scarica di pedate e di pugni e hanno spezzato i nostri remi. Infine con un piede hanno allontanato la barca dal fianco della loro motovedetta e hanno lasciato che andassimo alla deriva». Ali e i suoi compagni rimangono in balia delle onde, oscillando tra la vita e la morte, per circa sedici ore. Stremati dalla fame e dalla sete, doloranti per le botte, a turno uno rimane in piedi, di vedetta, per scorgere un’imbarcazione che li possa soccorrere. Alle otto di sera, finalmente, sono avvistati da un peschereccio turco. Poco dopo sono raggiunti da una nave della polizia turca che li riporta a terra. «Per quattro mesi avevo dei dolori lancinanti al costato ogni volta che muovevo il braccio sinistro», ricorda Ali. Dopo essersi ripreso, riprova la traversata; questa volta con un’imbarcazione a motore e con altri 17 profughi. Il viaggio costa però tre volte tanto: 1200 dollari. Dopo tre ore di navigazione raggiunge l’isola di Kos. È finalmente in Grecia, ma a quale prezzo: ha rischiato più volte di affogare in mare, è stato preso a calci e ha speso oltre 2400 euro. Sono già trascorsi sei anni dalla sua partenza dall’Afghanistan. È il 2006. Mentre l’Europa è in preda alla febbre del pallone per il mondiale di calcio in Germania, Ali continua a lasciarsi chilometri alle spalle. Ora prosegue a piedi. Ha speso quasi tutti i suoi risparmi in Turchia. «Sono davvero stato sfortunato: ho dovuto tentare quattro volte per raggiungere l’isola di Kos che dista si è no tre ore dalla costa turca», si rammarica.

Da Patrasso raggiunge Atene. Nella capitale non trova lavoro o solo occasionalmente. Decide allora di proseguire il suo viaggio. Cammina di notte con altri profughi che seguono lo stesso itinerario. Raggiunge prima la Macedonia, poi la Serbia e infine la Bosnia ed Erzegovina. Si ferma alcuni mesi a Banja Luka. Poi supera il confine con la Croazia. A Kutina, una cittadina a circa una sessantina di chilometri dalla frontiera, trova gente per bene che lo aiuta. Dopo 3-4 mesi riprende il viaggio. Vuole arrivare in Slovenia. E ora Ali si fa di nuovo cupo in volto, si lascia cadere sullo schienale della sedia e lascia per un attimo che i ricordi riaffiorino alla memoria, nitidi come se fossero di ieri. «È stato terribile», inizia così. «Ho provato quattro volte, ma mi hanno sempre rimandato indietro. In taxi raggiungevo con altri profughi la frontiera slovena. Camminavo sempre di notte, senza luci per sfuggire ai controlli della polizia. Ma loro erano lì ad aspettarmi. Mi prendevano le impronte digitali e poi mi dicevano di tornare da dove ero venuto. La terza volta, un poliziotto corpulento – io pesavo poco più di 50 chilogrammi – mi ha riconosciuto e mi ha minacciato che m’avrebbe sbattuto in prigione per sei mesi se mi fossi fatto rivedere». È un monito terrificante per Ali che per nulla al mondo vuole finire dietro le sbarre. Con la paura di essere braccato, si mette in viaggio da solo. Conosce i sentieri a memoria. Ma, inesorabili, le guardie di confine slovene sono lì ad attenderlo. Lui si mette a correre a più non posso. Su un cavalcavia gli sbarrano la via di fuga. È in trappola. L’unica possibilità di sfuggire loro è quella di lanciarsi sull’autostrada sottostante. «Con loro c’era un’interprete iraniana. Li ho avvertiti che mi sarei buttato se si fossero avvicinati. Si sono messi a ridere. Quando erano a circa 100 metri di distanza, mi sono gettato. Non avevo più nulla da perdere: avevo 19 anni ed ero pronto a morire». La siepe tra le corsie frena la caduta, si salva e si mette di nuovo a correre, incurante delle mac-

chine che viaggiano a oltre cento all’ora sull’autostrada. Solo dopo 3 ore di corsa si ferma a riprendere fiato. E solo allora si accorge di essersi ferito. La sua pantofola è impregnata di sangue. «È la fine, mi sono detto. Poi però ho ricordato il consiglio di un mio vicino di casa afgano. Ho preso una corteccia di un albero, ho strappato la maglietta facendone delle strisce e così ho medicato la ferita», racconta. Decide di tornare in Grecia, passando per la Serbia e la Macedonia. Stremato, con una gamba malconcia, lo stomaco sottosopra perché mangia poco e male, Ali capisce che non può più continuare il viaggio. Ad Atene si presenta in un ufficio di un’organizzazione dell’ONU. Dopo tre settimane lo spostano a Larissa, poi a Elassona, in un centro profughi. Incontra altri afghani e trova lavoro. «Sgobbo in media 8-10 ore al giorno per 100 euro a settimana. All’inizio è stata molto dura, ma con il tempo la situazione è migliorata». Ali conosce una ragazza, se ne innamora e i due si vogliono sposare. Aiuta la sua famiglia a trovare un appartamento dignitoso e a proseguire il viaggio. Si indebita e dà loro buona parte dei suoi risparmi; in totale oltre 9000 euro. I due fidanzati si danno appuntamento a Colonia, in Germania. Dopo sei anni trascorsi in Grecia, nel 2012 arriva il momento di riprendere il viaggio. Dà 4500 euro a un conducente di autocarro che gli promette di portarlo in Germania. Raggiunge il luogo dell’appuntamento alcune ora prima della partenza. Con lui viaggiano altri due afghani. I tre si infilano nel serbatoio di riserva del camion. L’aria entra da due aperture, che si possono aprire e chiudere dall’interno. «Per circa una trentina d’ore rimaniamo rannicchiati lì dentro, in posizione fetale. Non possiamo né muoverci, né sgranchirci le gambe, né mangiare. Soltanto bere quanto basta per non morire disidratati, per sopravvivere». Ali non sa quale strada abbia percorso l’autista e non sa nemmeno dove si trovi quando lascia il nascondiglio.

Il camionista gli dice soltanto che è in Germania. È il solito trafficante di uomini, un farabutto senza scrupoli. Ali non sa ancora di essere a Chiasso. È il 13 aprile 2012. Piove, è freddo e Ali trascorre la notte in una toilette pubblica. Il giorno seguente, dopo aver girovagato per la città vecchia si incammina verso nord; vuole raggiungere Zurigo e poi proseguire il viaggio verso Colonia. Una pattuglia della polizia lo ferma e lo porta all’ufficio di registrazione di Chiasso. Da lì viene mandato a Basilea, poi al centro per richiedenti l’asilo Lindenegg a Bienne. «Sono stati mesi difficili», continua Ali. «Chiamo in Germania. Il padre della mia fidanzata, di etnia tagika, mi dice che non avrebbe mai dato la figlia in sposa a un hazara. È una notizia che mi getta nello sconforto più nero». Ma non è tutto. Telefona in Afghanistan per avere notizie dei suoi cari. Gli dicono che la sua famiglia è partita, che si è rifugiata in Pakistan. «Li cerco da quattro anni, da quando sono partito dalla Grecia. Contatto conoscenti, ogni giorno vado a caccia di loro notizie in internet, sui media sociali. Mi basterebbe sapere se sono ancora vivi», dice con la voce rotta dalla disperazione. Un istante dopo ritorna ad illuminarsi. In Svizzera, finalmente, la fortuna torna a sorridergli. Ottiene il permesso F. Inizia a correre. «È questa la mia chiave verso l’integrazione in un Paese che voglio conoscere e capire», mi spiega e lo fa mentre si aggiusta il berretto di swissski in testa. A Finsterhennen, in un villaggio nel Seeland bernese dove vive, conosce un gruppo di podisti. Grazie a loro trova lavoro: è magazziniere in una ditta di trasporti, la Marti Logistik. «A volte riaffiorano i ricordi del mio viaggio. È come se assistessi alle scene di un film irreale. Non mi sembra possibile di aver vissuto tutto questo», mi dice alla fine. E invece è tutto vero. Ali ha 31 anni e una cicatrice di circa 10 centimetri sulla coscia destra che gli ricorda il suo passato di profugo. Da 4 anni vive in Svizzera dove vuole rifarsi un’esistenza degna di questo nome.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Politica e Economia

L’impasse del secondo pilastro La consulenza della Banca Migros

Albert Steck Nel 2017 il tasso d’interesse minimo della previdenza professionale scenderà probabilmente all’1,0 percento, con importanti ripercussioni sul capitale di vecchiaia. La ragion d’essere della previdenza professionale è messa sempre più in discussione. Eppure c’è un modo che consente alle casse pensioni di contrastare il calo delle rendite.

Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

Anno dopo anno la remunerazione del capitale delle persone professionalmente attive peggiora: dopo l’1,75 percento dello scorso anno siamo ora passati all’1,25 percento. E per il 2017 è previsto un tasso d’interesse dell’1,0 percento appena. Considerando gli 800 miliardi di franchi che gli Svizzeri hanno risparmiato nella previdenza professionale, le somme in gioco sono enormi: basta una riduzione del tasso dello 0,25 percento per sottrarre agli assicurati proventi per 2 miliardi di franchi l’anno. Naturalmente il tasso d’interesse non deve essere considerato in modo isolato. Altrettanto rilevante è l’andamento del costo della vita, misurato in base al tasso d’inflazione. Nel grafico è dunque raffigurato non solo il tasso minimo nominale, ma anche l’andamento reale, depurato dell’inflazione. Sulla base dell’inflazione annua prevista dalla Confederazione pari allo 0,3 percento, il tasso minimo reale per il 2017 scen-

Il tasso d’interesse nel secondo pilastro precipita Tasso d’interesse minimo nominale Dall’introduzione della previdenza professionale nel 1985 il tasso minimo reale, depurato dell’inflazione, si è collocato in media attorno all’1,8 percento. Nel 2017 raggiungerà appena lo 0,7 percento. (Dati: UFAS, UST)

Media storica: 1.8%

derà quindi allo 0,7 percento, il valore più basso da oltre vent’anni, con la sola eccezione del 2008. (Le ripercussioni concrete sul proprio portamonete sono documentate nel nostro calcolo pubblicato all’indirizzo www.blog. bancamigros.ch). La miseria dei tassi odierni pone le casse pensioni di fronte a un dilemma. Un’eccessiva riduzione del tasso minimo alimenta il malumore degli assicurati. Se, invece, il tasso garantito è troppo generoso, le casse pensioni pre-

Tasso d’interesse minimo reale

cipitano ben presto in una situazione finanziariamente precaria. Recentemente, di fronte alla magra remunerazione dei capitali di previdenza, il senso e lo scopo del secondo pilastro sono stati messi in discussione anche da illustri professori, secondo i quali il principio di ripartizione dell’AVS è migliore rispetto al sistema di capitalizzazione della previdenza professionale. Tocca ora alle casse pensioni dimostrare il contrario, vendendo una parte delle loro obbligazioni poco redditizie e

investendo di più in azioni. Dopo tutto, la quota dei titoli a reddito variabile nei loro portafogli ammonta appena al 30 percento, sebbene questa classe di asset offra le migliori opportunità di guadagno a lungo termine. Le casse pensioni autonome hanno tutti i requisiti necessari per investire in azioni. È una possibilità che andrebbe effettivamente sfruttata. Attualità su blog.bancamigros.ch: L’impasse del secondo pilastro Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Manca la spinta dei consumi Quando si parla di congiuntura e di previsioni congiunturali gli aggregati che attirano la maggiore attenzione sono, da noi, gli investimenti e il saldo della bilancia commerciale. Sono infatti questi i due aggregati che, conoscendo la variabilità maggiore, determinano l’andamento del ciclo economico. Dei consumi e, in particolare dei consumi privati, non si parla invece quasi mai. Eppure questo aggregato rappresenta, in Svizzera, quasi la metà del prodotto nazionale lordo. Mi ricordo, allora ero un giovane membro della commissione nazionale delle ricerche economiche, quale meraviglia aveva destato un collega di commissione quando era intervenuto per argomentare in favore dell’introduzione di misure di controllo sui prezzi ricordando per l’appunto che, in quei tempi, i consumi privati costituiva-

no più della metà del PIL nazionale. Per chi non conoscesse nei dettagli le definizioni della contabilità nazionale ricordo che i consumi privati rappresentano la somma di una serie di spese. La posta più importante è quella per la casa (affitto, energia, acqua, mobili, elettrodomestici, ecc.) che, nel 2014, rappresentava il 29% del totale dei consumi. La seconda posta importante è costituita dalle spese per il tempo libero, la cultura, i ristoranti e gli alberghi: 15.5% del totale. Con il 14.6% del totale seguono poi le spese per la salute. Le spese per l’alimentazione e le bevande non alcooliche, invece, ammontavano solo al 9% del totale dei consumi privati. Costituendo quasi la metà del PIL i consumi privati sono di fatto un elemento stabilizzatore della congiuntura. In situazioni di recessione essi sono spesso il solo aggregato che ancora cre-

sce, contenendo quindi la diminuzione del PIL. Quando invece la crescita è elevata, il contributo dei consumi privati alla stessa, di solito diminuisce perché investimenti ed esportazioni crescono più rapidamente. Non disponiamo di dati sull’evoluzione dei consumi privati in Ticino e quindi non possiamo stabilire direttamente quanto importante sia questo aggregato per stabilizzare la congiuntura nel nostro cantone. Possiamo però cercare di determinarlo indirettamente. Se, per gli ultimi sei anni, paragoniamo l’evoluzione dei consumi privati a livello nazionale con l’evoluzione del PIL nominale svizzero e con quella del PIL nominale ticinese ci accorgiamo che la correlazione tra le due serie è molto più forte nel caso ticinese che in quello della Svizzera. In altre parole, con i pochi dati disponibili possiamo concludere che l’evoluzione

della congiuntura in Ticino sembra dipendere maggiormente dall’evoluzione dei consumi privati che a livello nazionale. Questo fa sì che eventuali aumenti del livello dei prezzi al consumo sono molto più nocivi per l’economia ticinese che per quella svizzera nel suo insieme. Specie quando questi non sono che relativi, ossia nei casi in cui il franco svizzero viene rivalutato rispetto in particolare all’euro. Lo possiamo vedere considerando la variazione nel tasso di crescita del PIL nel 2011, anno nel quale il franco svizzero è stato fortemente rivalutato rispetto all’euro. A livello svizzero, il tasso di crescita del PIL si è ridotto di un po’ più di un terzo rispetto al 2010. In Ticino la riduzione fu, invece, molto più forte, dell’ordine dei due terzi. Osservo che in quell’anno il tasso di crescita dei consumi privati si ridusse, per la Svizzera, del 59.5%

il che suggerisce che il colpo di freno alla crescita del PIL ticinese, realizzato quell’anno, fu quasi essenzialmente provocato da un calo nell’evoluzione dei consumi privati. Responsabile di questa differenza è stato probabilmente il turismo degli acquisti. Questo tipo di evoluzione non si è però riproposto in seguito alla rivalutazione del franco nel 2015. In effetti le diminuzioni nel tasso di crescita del PIL svizzero e ticinese e la diminuzione nel tasso di crescita dei consumi privati in Svizzera sono stati in quell’anno più o meno uguali e vicine al 75%. Non è facile spiegare perché. È però possibile che sul rapporto tra consumi privati e prodotto interno lordo lo scorso anno il turismo degli acquisti, che oramai è un fenomeno acquisito, non abbia inciso più di quanto abbia influito nell’evoluzione dei consumi privati in Svizzera.

favore di Donald Trump specializzata in meme contro Hillary Clinton – un altro ragazzaccio del mondo hi-tech non esattamente sensibile al ruolo delle donne. Su questa questione, il dominio maschile nella Silicon Valley con quelle «chiacchiere da spogliatoio» che lo stesso Trump ha appena sdoganato, sono stati scritti libri e articoli di denuncia, ma invece che scontrarsi su un terreno tanto accidentato, molte artiste hanno pensato di aprire un altro fronte. Nonny de la Peña, ex giornalista di «Newsweek» e regista di documentari, è stata definita la «madrina» della realtà virtuale, dopo che ha prodotto nel 2012 Hanger in Los Angeles, in cui mostrava la vita di una persona in fila a una banca del cibo nella città californiana. Fu uno dei primi esperimenti di utilizzo della realtà virtuale per creare empatia, che è il termine più utilizzato quando si parla della presenza delle donne in questo nuovo mondo. Lavorano su una mag-

giore sensibilità, le donne. Ma questo non significa che si rifugiano in segmenti lagnosi o radicalmente femministi. Angie Smets, produttrice di studio Guerrilla Games della Sony, la scorsa settimana ha lanciato il primo device della PlayStation per giochi nella realtà virtuale. Per costruire questi nuovi contesti, Smest ha lavorato con un team a prevalenza femminile per introdurre dinamiche relazionali nei giochi che fossero innovative e permeate da una sensibilità che, tendenzialmente, non prevale nella visione classica di questo tipo di giochi di scontri e lotte. Non esistono soltanto i giochi e i film nella realtà virtuale, esiste anche l’informazione: Kathleen Lingo è il «commissioning editor» della sezione degli editoriali del «New York Times» che è anche la casa di alcuni dei contenuti di realtà virtuale che il quotidiano americano ha lanciato, dopo aver fatto una campagna di marketing sontuosa:

ha inviato ai suoi abbonati una Google Cardboard (il costo è di 15 dollari) che si può utilizzare con molte app. L’ultimo servizio di realtà virtuale prodotto dal «New York Times» è uno splendido viaggio dentro all’hajj alla Mecca, il pellegrinaggio nei luoghi sacri dell’islam che costituisce il quinto pilastro della religione musulmana. «Se c’è un evento importante, raccontalo con la realtà virtuale», è il motto della Lingo che, come tutte le sue colleghe pioniere, pensa che il valore aggiunto di questo nuovo mondo sia il fatto che «non si deve chiedere il permesso a nessuno». Come accade in tutti i contesti, sarà poi il mercato a decidere quali prodotti e con quali declinazioni risulteranno i più seguiti e profittevoli. Ma un mondo virtuale in cui le donne sono pioniere ha già il suo interesse, e i suoi benefici: nella «Vr» vanno forti le esperienze di donne che imparano come si fa a negoziare un salario pari a quello degli uomini.

museo è fatto di pannelli, di teche, di stazioni multimediali (com’è d’obbligo oggi), ma anche di sentieri che portano fuori, all’aria aperta, nelle abetaie e nelle pietraie di alta quota. L’alunno, o il visitatore, deve poter calpestare il suolo, alzare lo sguardo verso l’alto, oppure scrutare il sottobosco con l’occhio dell’entomologo. Un museo dunque aperto, una piattaforma che vada oltre la «conservazione»

e l’«esposizione» (pur necessarie) per stimolare – soprattutto negli ancor incolpevoli giovani – un raffronto tra il mondo naturale e il mondo artificiale, tra la natura incontaminata e la natura violentata. Un museo «diffuso», reticolare, che favorisca la scoperta più che la contemplazione: un intreccio di piste che incoraggino il cammino nella forma di un pellegrinaggio alpino tra monti e laghi, dal San Giorgio all’Adula, con tappa ad Acquacalda o al Centro di Biologia alpina di Cadagno. Già questo conseguirebbe un alto e lodevole compito educativo: quello della conoscenza, del rispetto e della tutela. Per il momento l’attenzione è puntata sulla sede, per i motivi che abbiam detto. Ma prima o poi bisognerà riflettere sul «Konzept», il filo conduttore. Che in parte è già dato dai reperti esistenti conservati a Lugano, ma che in parte andrà ripensato alla luce delle più recenti acquisizioni della museotecnica. L’idea di creare un «museo del territorio» era già stata affacciata dal governo nel 2004. Allora si prevedeva di dare una casa comune al patrimonio di due àmbiti strettamente imparentati: l’archeologia e la storia naturale. Già

nel Rapporto sugli indirizzi del 2003 si era stabilita la finalità da conferire all’iniziativa: «lo sviluppo nel singolo e nella società della conoscenza del ruolo che l’uomo svolge all’interno del suo ambiente di vita e della consapevolezza dei valori di cui è depositario, con il compito di trasmetterli alle generazioni future». Come si vede, un obiettivo nobile. Ma che nell’attuale modello di crescita fondato sull’immobiliare si sta allontanando sempre di più, fino a diventare un puntino all’orizzonte. Ritagliare uno spazio protetto, una nicchia, un’edicola incontaminata rischia di esercitare la funzione di un’isoletta dentro un magma di asfalto e cemento. Ma forse siamo troppo pessimisti. Se il nuovo Museo saprà risvegliare nelle giovani generazioni una sensibilità diversa da quella imperante nell’odierna «città-Ticino» sarà già un successo. C’è da augurarsi che il dibattito sia ampio e proficuo sia in campo architettonico (con in prima fila l’Accademia di Mendrisio), sia in campo latamente culturale. Perché la natura non è una collezione privata, ma la nostra placenta collettiva, il nostro habitat vitale.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Se la realtà virtuale si tinge di rosa Se il mondo non ascolta le donne, o ne parla male, o predispone per loro un insieme di regole e di aspettative esclusive e a volte deprimenti – basta vedere gli studi psicologici prodotti in questi ultimi tempi per spiegare perché una donna, durante un incontro pubblico, deve stare attenta a come sorride e a quante volte lo fa, certamente non deve alzare la voce, perché se ci prova nessuno percepisce la sua passione, tutti sentono la sua isteria: Hillary Clinton è avvisata, insomma – perché non costruire una realtà virtuale dominata dalle donne? Il «New York Magazine» ha pubblicato un articolo in cui spiega come molte artiste stiano cercando di utilizzare quell’universo inesplorato che è la realtà virtuale per costruirlo a propria immagine e somiglianza. Si tratta di un’avventura da pionieri: l’industria della «Vr», virtual reality, è destinata a valere secondo le stime 150 miliardi di dollari entro il 2020, ma la tecnologia

che si applica e le migliaia di possibilità che esistono in una realtà da costruire offrono alle creatrici di sesso femminile «la rara opportunità» di partire da zero: nella Vr tutti sono novizi, non ci sono gerarchie, non ci sono formalità, c’è soltanto spazio. Gran parte delle ossessioni riguardanti la realtà virtuale gira attorno al mondo del «gaming» e del porno – perché, dicono alcuni, è un’emanazione diretta del dominio maschile della Silicon Valley. La maggior parte dei soldi investiti in questo settore continua a essere esclusiva di questi due temi, che sono come è ovvio parecchio redditizi. Quando il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, comprò Oculus VR un paio di anni fa, disse che l’acquisto era finalizzato alla realizzazione di giochi sempre più evoluti: il fondatore di Oculus, Palmer Luckey, è tornato di recente nelle cronache perché ha creato un’organizzazione no profit a

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Ticino, terra di musei La nuova sede per il Museo cantonale di storia naturale fa gola. Sei le candidature al vaglio: Balerna, Bellinzona, Claro, Lugano, Losone, Faido. Due città e quattro borghi, alcuni considerati discosti. Non sarà facile, per le commissioni preposte, scegliere l’ubicazione, soppesare vantaggi e inconvenienti, confrontare vie d’accesso, spazi e vani eccetera. Come spiegare tale interesse, anzi tale fervore? La prima ragione è del tutto pratica. Alcuni comuni hanno necessità di riutilizzare/riconvertire edifici fatiscenti o aree semi-abbandonate: caserme, macelli, alberghi. Costruzioni voluminose, impegnative, che se non riqualificate diventeranno presto carcasse nel territorio, scheletri spettrali, altri eco-mostri da aggiungere alla già assai lunga lista dei siti invasi dai rovi e dai graffiti. Un primo requisito da soddisfare potrebbe essere il seguente: non sacrificare terreni pregiati, come spesso si è fatto anche nel campo dell’edilizia scolastica, ma puntare sul recupero di strutture esistenti. Già questo sarebbe un primo, vero omaggio all’ambiente. Un nuovo manufatto in cemento armato per celebrare le meraviglie della natura non

avrebbe senso. Sarebbe un cenotafio, non un altare all’ecologia. C’è poi la questione del pubblico. Sappiamo che i primi destinatari dell’iniziativa saranno le scolaresche; in secondo luogo i cittadini amanti della natura, i turisti e gli escursionisti che ancora vanno alla ricerca del «vecchio» Ticino fatto di pietre e di acque, di cascinali e di mulini, gli specialisti come i biologi, i botanici, i cultori delle specie rare. Un

Il Museo cantonale di storia naturale a Lugano in un’immagine d’archivio. (Ti-Press)



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Cultura e Spettacoli Archivi da scoprire Casa Pessina di Ligornetto ospita una mostra di fotografie di Simone Mengani

Ewan McGregor e Philip Roth L’attore scozzese protagonista di Trainspotting si è cimentato nella regia di Pastorale americana

FIT, che passione L’edizione di quest’anno del Festival internazionale del teatro ha entusiasmato il pubblico

Andando a scuola Guanda ha pubblicato un meraviglioso romanzo dello scrittore tedesco Ernst Jünger

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Jackson Pollock, Stenographic Figure, 1942 ca, The Museum of Modern Art, New York, Mr. and Mrs. Walter Bareiss Fund. (© 2016 Digital Image MoMA, New York/Scala, Florenz)

Un altro Pollock

Mostre Le opere figurative in mostra al Kunstmuseum di Basilea Gianluigi Bellei

Jackson Pollock è conosciuto prevalentemente per i suoi drip-paintings eseguiti con la tecnica del dripping (o pouring) cioè dello sgocciolamento. Grandi tele poste per terra sulle quali l’artista getta del colore, per lo più smalti industriali, sino a formare un reticolo ingarbugliato di segni ed emozioni. Pollock danza di fianco e dentro la tela con forza, determinazione e con l’energia della disperazione. La tecnica non è nuova perché già usata da Francis Picabia, Max Ernst e Hans Hofmann, ma in Pollock assume un tratto drammatico e generazionale con sottintesi psicoanalitici. Il suo famoso Full Fathom Five del 1948 è pieno di colature mescolate a tappi, chiodi, pettini, monetine, mozziconi di sigarette… e il titolo è il primo verso della canzone di Ariel nella Tempesta di William Shakespeare: «Cinque tese sott’acqua / Tuo padre si giace / Si son fatte sue ossa / Coralli di brace / Son gli occhi d’allora / Perle chiare». Pollock è un artista emotivo che ha segnato una generazione: quella dei dannati che si scagliano contro la società dei consumi e dell’American way of life. L’arte da cavalletto perde di significato, mentre azione e creazione si mescolano contribuendo a ricreare l’universo e il suo caos nell’unione fra spazio e tempo. La sua breve vita (19121956) termina sul ciglio di una strada in un incidente d’auto mentre era sotto l’effetto di chissà quale sostanza. Alco-

lizzato, depresso, misantropo, Pollock diviene una icona dell’arte e della sua generazione contribuendo al mito romantico dell’artista maledetto ed estremo. Hans Namuth, assieme a Paul Falkenberg, gira nel 1950 un documentario mentre l’artista lavora e annota: «Fu un grande spettacolo. La fiammante esplosione del colore che si riversava sulla tela, i suoi movimenti di danza, il tormento negli occhi di Pollock prima di decidere dove sarebbe caduta la successiva colata di colore, la tensione, poi di nuovo il rilassamento… Le mie mani tremavano». Il periodo dei dripping è però limitato nel tempo: dura dal 1947 al 1950. Il Kunstmuseum di Basilea dedica un’esposizione agli altri lavori realizzati tra il 1930 e il 1956 nella nuova costruzione adiacente al corpo principale del museo e inaugurata il 15 aprile di quest’anno. Disegnata dagli architetti Christ & Gantenbein, scelti dopo un concorso internazionale, la nuova costruzione si contraddistingue per un esterno un po’ troppo chiuso, una pianta poligonale, un interno pulito e limpido con mura alte più di cinque metri, ampie scale e infrastrutture in marmo di Carrara. Con questa nuova costruzione il Kunstmuseum si scinde in tre: il museo storico – che comprende oltre 4000 pitture, sculture e installazioni oltre a 300’000 disegni e incisioni –, il Kunstmuseum Basel / Gegenwart, che ospita l’arte contemporanea posteriore

al 1990 e questa nuova struttura dedicata alle opere eseguite dal 1960 e alle mostre temporanee. L’esposizione dedicata a Pollock presenta un centinaio di lavori suddivisi in ordine cronologico fra nove sale. Si parte con gli anni della formazione, dal 1930, accanto all’artista Thomas Hart Benton con opere che ricordano la sua volumetria severa e antimoderna. Seguono i disegni «psicoanalitici». Dal 1939 Pollock intraprende una terapia, con Josph Henderson prima e Violet Staub de Laszlo poi, per contrastare la sua dipendenza dall’alcool. Henderson gli propone di portargli dei disegni che rilegge secondo gli archetipi junghiani di maschile e femminile, partendo dal serpente, dalla luna e dal sole. Ma è la pittura messicana che travolge l’artista che si ispira a Diego Rivera, José Clemente Orozco e Alfaro Siqueiros con i loro grandi murales. In Naked Man

Il San Carlino a Roma Itinerario online Solo su www.azione.ch, descrizione e fotografie di una visita al San Carlino di Francesco Borromini a Roma, una delle più importanti opere architettoniche dell’epoca barocca.

with Knife del 1938-1940 le figure possenti e travagliate raccontano di morte e violenza: la stessa violenza che l’artista vive sotto l’effetto dell’alcool che lo rende aggressivo e che lo porta a più riprese a confrontarsi con altri all’arma bianca. In seguito Pollock incontra Roberto Matta e si avvicina al gruppo dei surrealisti studiando parallelamente le opere di Joan Miró. I dipinti diventano maggiormente segnici come in Stenographic Figure del 1942, fonte di diverse interpretazioni, o Guardians of the Secret del 1943 dove, accanto a segni fluttuanti, ai lati troviamo due grandi figure, immobili e statuarie. In ogni caso lo studio della psicoanalisi e dell’inconscio diventano per l’artista quasi un’ossessione e i simboli e le metafore riempiono i suoi dipinti. La luna appare sempre più spesso quale archetipo junghiano della femminilità e della madre come in The Moon Woman del 1942, mentre l’influenza giovanile della pittura sulla sabbia degli amerindi viene consolidata da una dimostrazione di questa tecnica dagli stessi indiani Navajos nel 1941 durante la mostra Indian Art of the United States al Museum of Modern Art. Tecnica che gli suggerisce i celebri drip paintings. In mostra troviamo uno dei primi quadri sgocciolati: Galaxy del 1947. Poi le serie Accabonac Creek nella quale dipinge su sfondo bianco ottenendo una maggior limpidezza totale e Cut-Outs dove le figure vengono ritagliate all’interno di

uno spazio ricoperto con il suo tipico dripping. Nel 1949 esce una sua intervista su «Life» dedicata al «più grande pittore vivente degli Stati Uniti» e l’anno successivo il citato film di Namuth. Nel 1951 fa parte del gruppo di artisti noti come gli Irascibili che contestano la politica espositiva del Metropolitan Museum of Art di New York, colpevole di non averli invitati a partecipare a una mostra sull’arte contemporanea americana. È in ogni caso al culmine del successo, proprio mentre l’alcolismo e la depressione prendono il sopravvento. Non dipinge quasi più… l’ultimo lavoro in mostra, Easter and the Totem del 1953, è verticalmente pieno di simboli, tutti da decifrare. Le opere provengono da importanti musei quali il Whitney Museum of American Art di New York, la Tate di Londra, il Metropolitan di New York, la Peggy Guggenheim Collection di Venezia, il Centre Pompidou di Parigi, l’Albertina di Vienna, il Kunsthaus di Zurigo… In una saletta apposita è possibile vedere il film Pollock di Ed Harris del 2000. Buona l’illuminazione, come il catalogo. Dove e quando

Der figurative Pollock, Kunstmuseum Basilea. A cura di Nina Zimmer. Lunedì chiuso, fino al 22 gennaio 2017. Catalogo edito dal Museo, D/E, 39 franchi. www.kunstmuseumbasel.ch


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Cultura e Spettacoli

Preziosi archivi

Fotografia Nei piccoli ma intimi spazi di Casa Pessina a Ligornetto il ticinese Simone Mengani espone

una serie di immagini che ruotano attorno alla conservazione museale Gian Franco Ragno A Casa Pessina, continuano – dopo Reto Albertalli e Flavia Leuenberger – le contenute ma interessanti esposizioni personali di giovani fotografi ticinesi: quest’autunno è la volta di Simone Mengani (1978), di formazione architetto, con al suo attivo diverse mostre personali e collettive.

Le fotografie di Simone Mengani sono un pretesto per parlare di collezioni, catalogazione e conservazione museale Oggetto della sua indagine fotografica sono gli archivi di alcuni musei della Svizzera Italiana (Casa Pessina e Museo Vela di Ligornetto, Museo d’Arte di Mendrisio, il Museo di Villa dei Cedri a Bellinzona e, l’unico con una collezione non artistica, il Museo di Storia Naturale a Lugano). Qui egli riprende tutta una serie di oggetti che non sono nelle sale, bensì nei profondi spazi conservativi, nelle zone più nascoste allo sguardo del pubblico. In questi luoghi, riparati e abitualmente senza luce, le opere, i manufatti, gli animali impagliati vivo-

Una scultura di Apollonio Pessina fotografata da Simone Mengani.

no densamente accatastati e catalogati, nella speranza di guadagnare spazio prezioso. La stretta vicinanza, la quasi una forzata coabitazione contribuisce a far scaturire – nel ritaglio dell’immagine rispetto alla realtà – inediti rapporti e dialoghi tra le parti. Altri elementi che compaiono nell’intenso bianco e nero di Mengani sono gli elementi strutturali (scaffali, armadi a scomparsa «compactus») e i rimandi alfanumerici, le etichette che ne forni-

scono un nuovo nome e collocazione. Ma i depositi, e le fotografie di Mengani, sono, potremmo dire, un pretesto per parlare di altro. Di conservazione, ad esempio – con i suoi costi e le sue esigenze. Di collezioni, e della loro cura, della loro catalogazione e del loro studio quando, tuttavia, sono uno degli aspetti – ed è un dato noto guardando le statistiche – meno attrattivi del museo quando vengono esposti. E, di riflesso, di ciò che il museo, oggi,

è costretto a fare, per attirare l’attenzione sempre più labile di un grande pubblico distratto quotidianamente da mille schermi luminosi davanti alla realtà. Insomma, cosa chiediamo ai musei? Se obblighiamo loro a essere delle macchine che macinano spettatori (con mostre-evento) per staccare il sospirato biglietto, forse sbagliamo obiettivo: le grandi esposizioni e i grossi nomi implicano spese fuori por-

tata – pensiamo solo ai costi assicurativi – sostenibili solo alle potenti macchine turistiche-culturali delle grandi città. Perché questo è il paradosso che conoscono i nostri musei: proprio quando vengono chiesti più risultati economici, vengono decurtate le risorse per ottenerli. Certo, a livello cantonale non sono mancate le occasioni perse, i buoni progetti lasciati sulla carta, le politiche non sempre lungimiranti. Così come sono molte, ancora, fortunatamente, le istituzioni che vanno sostenute, valorizzate, conosciute e, soprattutto, visitate. Perché non si tratta solo di conservazione o deposito. Ciò che conserviamo è ciò che vogliamo trasmettere – come valori storici e culturali, ovvero, in una parola, la nostra identità – alle future generazioni. Come ci ricorda anche Mengani con una fotografia di un piccolo bozzetto del monumento della battaglia dei sassi grossi di Giornico dello scultore Apollonio Pessina del 1937 – il deposito funge anche come memoria collettiva. In attesa di capire, ad oggi, cosa varrà la pena conservare dei tempi attuali. Dove e quando

Simone Mengani. Collezioni nascoste. Casa Pessina, Ligornetto-Mendrisio. Orari: sa-do 14.00-18.00. Fino al 23 ottobre 2016. museo.mendrisio.ch Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli Dario Fo in una foto scattata nel 2014 in occasione di una visita a Chiasso. (Keystone)

La pastorale di Ewan McGregor

Incontri L’attore scozzese ha diretto un film

basato su un celebre romanzo di Philip Roth Blanche Greco

Giullare fino alla fine In memoriam Fino all’assegnazione del Premio Nobel per la

letteratura Dario Fo fu per lo più ignorato dalla critica italiana

Paolo Di Stefano Dario Fo se n’è andato con i suoi novant’anni che considerava un’età pazza, in cui poteva permettersi di continuare a scrivere e a dipingere, recitare, urlare, indignarsi, impegnarsi (con i 5 Stelle di Grillo), graffiare, ghignare del proprio tempo, rimpiangere la sua compagna di sempre, Franca Rame che se n’era andata prima di lui, nel 2013: «La sogno tutte le notti, ha i capelli biondi e leggeri», diceva. Per lui, una persona incapace di partecipare alla vita della comunità è un morto che cammina: portandosi dentro questa idea, Dario Fo lavorava e viveva per il teatro. Avrebbe preferito morire sul palcoscenico, invece è morto in una stanza d’ospedale, anche se il medico che l’ha assistito ha detto che ha fatto il giullare fino alla fine, parlando tanto come fosse a teatro, nonostante i problemi respiratori. Nato nel 1926 a San Giano, in provincia di Varese, a chi gli chiedeva qual era il suo primo ricordo rispondeva alludendo a un episodio infantile in cui si mescolavano il suo sguardo incantato sul mondo e la sua forza fantastica: «Vivevamo sul lago, al confine con la Svizzera. In casa raccontavano che al di là della frontiera le case avevano i tetti di cioccolata. Un giorno andammo e ci dissero che le autorità avevano dato ordine di mettere le tegole perché i bambini avevano avuto tutti il mal di pancia». Ricordava anche, spesso e malvolentieri, la guerra, le bombe che cadevano su Brera, i rifugi nei sotterranei dell’Accademia, dove studiava pittura e scenografia, i morti e i compagni sanguinanti. Ammise, forse tardivamente, di essersi arruolato volontario nella contraerea di Varese e poi di aver vestito la divisa repubblichina di paracadutista del Battaglione Azzurro di Tradate. Non certo per convinzione, precisò, ma per cercare di imboscarsi come fecero molti suoi coetanei: «Eravamo disertori continui, giovanotti spaventati, disorientati, uomini in fuga, ingaggiati con la truffa, incastrati con la violenza. Buona parte dell’esercito di Salò era composta da gente come noi, senza bandiere, preoccupata di una sola cosa: sopravvivere».

La carriera di Fo è notissima, con tutti i suoi tratti accidentati e i suoi trionfi. La rivista e l’arte del mimo lo attrassero presto, si avvicinò al cabaret moderno del milanese Teatro dei Gobbi, con i suoi tre attori di strepitosa bravura, Alberto Bonucci, Vittorio Caprioli e Franca Valeri. Nella stagione 1952-53 arriva il grande successo al Piccolo di Milano della rivista Il dito nell’occhio, a cui Fo lavora con Franco Parenti e Giustino Durano: lo spilungone dai movimenti snodabili e dal grande naso irritava la borghesia milanese e faceva ridere i giovani. L’anno dopo, una nuova commedia, Sani da legare, inaugura la trafila delle censure politiche subìte con regolarità. È di quegli anni l’incontro con Franca Rame, una specie di «splendente Marilyn Monroe», discendente di una famiglia lombarda di attori e di burattinai: nel 1957 il loro legame artistico sfocia in una compagnia Fo-Rame che di fatto durerà oltre mezzo secolo.

Nel ’52-’53 arriva il grande successo al Piccolo di Milano, nel 1957 nasce il sodalizio con Franca Rame Da allora la tradizione popolare che correva nel sangue di Franca, la frequentazione del repertorio dei guitti, il cabaret, le eredità della commedia dell’arte, le suggestioni dell’avanguardia francese, i trucchi circensi confluiscono in una vena surreale legata a una sensibilità politica che si accresce. È la sperimentazione di soluzioni drammaturgiche giocate tra satira e assurdo, burlesco e pura demenzialità giocosa con titoli già in sé significativi come Chi ruba un piede è fortunato in amore o come Isabella, tre caravelle e un cacciaballe. Sono gli anni del Giamaica, il caffè degli artisti, Fo lavora e si diverte con Emilio Tadini, si intrattiene con Morlotti e Alik Cavaliere, frequenta Strehler, scrive canzoni con Jannacci (Ho visto un re) e con Gaber. La nuova e più clamorosa censura è quella imposta dalla Rai durante la collaborazione a Canzonissima 1962: il

putiferio che ne seguì è rimasto memorabile. Il rifiuto dei circuiti tradizionali che si accompagna a una scelta ideologica più radicale vicina ai gruppi della sinistra extraparlamentare, coincide, nel 1969, con l’esplosione di un autentico capolavoro giullaresco pseudo-medievale: Mistero buffo, dove l’invenzione dialettal-corporale del grammelot scatena le capacità gestuali e recitative del mattatore, che viene preso di mira dalle gerarchie vaticane. Seguono, negli anni Settanta, le commedie politiche, tra queste Morte accidentale di un anarchico, ispirata alla vicenda di Pinelli. Cambiando, dipingendo, allestendo, viaggiando, sgobbando su testi sempre nuovi che capovolgono i luoghi comuni della storia e li ripresentano trasfigurati e di solito rivissuti dal basso, Fo arriverà a essere l’autore di teatro più rappresentato al mondo (oltre 67 paesi). Nel 1997 l’apoteosi inattesa con il Premio Nobel, quando tutti, in Italia, aspettavano che fosse laureato Mario Luzi. Il riconoscimento al giullare irritò. Se c’è uno «scrittore» su cui hanno concordato in Italia la cultura di destra, quella di centro e quella di sinistra nelle sue varie declinazioni, questo scrittore è stato Dario Fo. Il fatto è che tutto il fronte intellettuale italiano, a 360 gradi, ha concordato nell’ignorarlo. Nessuno, in Italia, lo considerava ad altezza di letteratura, figurarsi ad altezza di Nobel. Da sempre. I suoi contemporanei (e coetanei) l’hanno semplicemente disconosciuto. Italo Calvino, che si è occupato più di tutti di letteratura popolare e della sua riscrittura, non spreca una sola parola per Dario Fo. E Pasolini? Solo parole di disprezzo, in un testo del 1974: «Quanto all’ex repubblichino Dario Fo, non si può immaginare niente di più brutto dei suoi testi scritti. Della sua audiovisività e dei suoi mille spettatori (sia pure in carne e ossa) non può evidentemente importarmene meno». Scorrendo Franco Fortini, ci si imbatte nel nome del «bravo» Dario Fo accanto a quello del «bravo» Giorgio Gaber: secondo lui andare ad ascoltarli non era meglio che godersi Giochi senza frontiere o L’esorcista. Lo spilungone, ovviamente, non esitava a farci sopra una sonora risata.

L’idea che un libro famoso e difficile, vincitore del Premio Pulitzer, come American Pastoral, di Philip Roth, venga scelto da un attore per la sua prima regia cinematografica, stupisce, anche se si tratta di Ewan McGregor, quarantacinquenne attore scozzese intelligente e talentuoso, da anni alla ricerca di una storia che lo convinca a spingersi dall’altro lato della cinepresa. Così, qualche giorno fa, alla presentazione a Roma di Pastorale Americana del quale è regista e protagonista, insieme a Jennifer Connelly e Dakota Fanning, gli abbiamo chiesto cosa gli avesse dato il coraggio d’iniziare la sua nuova carriera proprio con un capolavoro della letteratura: «Credo che sia stato il fatto di essere padre di quattro figlie, e di ricordare ancora molto bene di essere stato, a mia volta, “figlio”, non troppo tempo fa. Perché questa è la storia di un padre e di una figlia, di due identità a confronto. E io che per anni avevo cercato di essere il migliore dei padri e dei mariti, e un essere umano pieno di buone intenzioni, mi sono angosciosamente specchiato nell’abisso descritto da Roth, prima come attore, interpellato per interpretare “lo Svedese”, protagonista di un film che molti, tra cui Philip Noyce, avrebbero dovuto dirigere; poi, come regista, quando dopo più di quattro anni, sembrò che il progetto naufragasse. Non potevo permettere che quella sceneggiatura che tanto mi aveva commosso e appassionato, restasse lettera morta, così tirai fuori tutte le idee che mi ero fatto, tutto il coraggio che avevo e ne parlai con i produttori che detenevano i diritti del film». La storia ambientata alla fine degli anni >60, racconta lo strano destino di Seymour Levov detto lo «Svedese», ragazzone ebreo, biondo con gli occhi azzurri, al quale la vita sembra aver dato tutto. Bello, buono e fortunato, in pochi anni lo «Svedese» è un uomo ricco, di successo, che gode dell’affetto dei suoi amici e della stima dei suoi impiegati. Sua moglie Dawn (Jennifer Connelly), è un’ex reginetta di bellezza del New Jersey, hanno una bambina adorabile e insieme sono una famiglia perfetta. Ma la bionda e solare Merry, da sempre affetta da una leggera balbuzie, con l’adolescenza, cambia profondamente, frequenta gruppi fortemente politicizzati, mentre l’America è scossa da violenti scontri razziali e dalle proteste sulla guerra nel Vietnam. A poco a poco, la ragazza alza un muro tra sé e i genitori, diventa un’estremista politica e dopo, un attentato a un ufficio postale, in cui muore una persona, nella sua stessa cittadina, Merry sparisce ed entra in clandestinità. «È terribile per un padre non sapere più come fare breccia nel cuore della pro-

pria figlia, come parlarle. Non sapere mai dov’è; con chi è; cosa pensa; cosa fa, mentre, naturalmente s’interroga per capire dove abbia sbagliato, e cosa, di ciò che ha fatto, o detto, possa aver provocato tutto questo», ha spiegato McGregor. «Il film esplora un periodo specifico della storia americana: quando la generazione del dopoguerra, quella del “sogno americano”, entrò in collisione con la generazione successiva, quella dei propri figli – Merry simboleggia tutto questo. Un periodo che purtroppo ha molte similitudini con la nostra tormentata attualità, dove vediamo tanti giovani reclutati da gruppi politici estremisti». La sceneggiatura scritta da John Romano riesce per molti versi, a «catturare» l’essenza del ponderoso romanzo di Philip Roth che esplora i molteplici aspetti della società americana, e che, come ha sottolineato Ewan McGregor: «mette a fuoco un argomento sotto i differenti punti di vista dei vari personaggi, senza mai prendere partito, o rivelarci il suo pensiero. Così ognuno di noi è incoraggiato a pensare per conto proprio, e a farsi la propria idea, discutendo idealmente con i vari personaggi del romanzo, ai quali finisce per legarsi sentimentalmente. Io non potevo procedere nello stesso modo nel film, ma ho cercato di mantenere un po’ di quella distanza e di quella pluralità di argomentazioni, perché volevo davvero capire Merry e le sue ragioni, non liquidarla come una giovane pazza e cattiva. Volevo conoscere i motivi delle teorie della psicologa, la Dottoressa Sheila, su questa famiglia perfetta e sul perché Merry balbetti, e fare in modo che nel pubblico ci sia chi le dà ragione, ma anche chi sospetti che le sue parole siano dettate da gelosia o invidia. Ovviamente molte delle implicazioni e delle sfumature del romanzo non hanno trovato posto nel film, che però è esattamente quello che avevo in mente e questo mi tranquillizza». Nei panni di Merry c’è una strepitosa Dakota Fanning, giovane attrice scelta da McGregor dopo molte ricerche, che è una vera rivelazione in un ruolo così complesso. «Fare il regista è molto complicato, devi rassicurare sempre tutti e tenere i tuoi terrori per te. Devi ascoltare gli attori e far sì che siano fiduciosi e motivati e in questo ho imparato da Danny Boyle, con il quale ho lavorato quando ero molto giovane e che sapeva tirare fuori il meglio da ogni attore. Lui lo sa, ma io gliel’ho ripetuto quest’estate, quando abbiamo girato Trainspotting 2. E ritrovarsi di nuovo insieme, e riprendere in mano i propri personaggi vent’anni dopo, è stata una bella e strana esperienza». Ride finalmente rilassato Ewan McGregor e poi aggiunge: «È stato come sentirseli tutti addosso di colpo, questi vent’anni passati».

Ewan McGregor in una recente foto scattata a Roma con Dakota Fanning e Jennifer Connelly in occasione della prima del film. (Keystone)


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Cultura e Spettacoli I protagonisti della pièce La vita ferma di Lucia Calamaro.

Parole e poesia

Lingua italiana Una raccolta di saggi

della poetessa Patrizia Valduga, ora in edizione elegante e aggiornata

Stefano Vassere

Un dialogo edificante Teatro Quella del FIT è una scena contemporanea che affascina

e coinvolge sempre più spettatori

Giorgio Thoeni La 25esima edizione del Festival Internazionale del Teatro e della scena contemporanea (FIT) è stata archiviata con un bilancio positivo. Dal 30 settembre al 6 ottobre una struttura come il FIT, indipendente, legata al territorio con uno sguardo attento alle proposte internazionali di qualità, ha messo a frutto il dialogo con LuganoInScena proponendo un cartellone coraggioso e innovativo. Un confronto che ha dato linfa alla dimensione contemporanea del festival e che ha anche suggerito soluzioni inedite. Come l’aggiunta di uno spazio alla sua declinazione logistica. E il grande palcoscenico del LAC si è così trasformato in una teatro in grado di ospitare fino a duecento spettatori con file di sedie ora disposte in piano ora su gradinate (o tutte e due). Un’idea vincente che ha contribuito ad accogliere il numeroso pubblico che ha seguito la programmazione che si è distinta per originalità e coraggio. Il teatro in particolare sta indicando al FIT un nuovo percorso: accanto alla drammaturgia «mainstream» costruita sulla parola troviamo soluzioni che si allontanano dal territorio teatralmente classico, in una dimensione diversamente espressiva. Come la trama di racconti filmati in cui lo storyboard cattura lo spettatore con un gioco di fruizione in equilibrio fra attualità, memoria ed evocazione, dove verità e finzione si alternano in una calcolata teatralità. Come Su l’u-

mano sentire, collage di ricordi luganesi raccolti dall’Officina Orsi, come soprattutto nell’esemplare e geniale installazione di Perhaps All the Dragons della compagnia belga Berlin. Ancora dal Belgio arriva il monologo su tapis roulant di Kristien De Proost Tristero: 75 minuti di estenuante training per confessioni personali miste a denuncia sociale. Di assoluto rilievo è stato il ritorno di Lucia Calamaro con La vita ferma. Dramma sul dolore del ricordo, tre atti di grande freschezza drammaturgica e di eccellente bravura interpretativa con Simona Senzacqua, Riccardo Goretti e Alice Redini. L’autrice l’ha definito un «dramma di pensiero». Modulato attorno al tema della morte scopriamo un emozionante universo di presenza-assenza nel quotidiano di una famiglia normalissima dove la figura di moglie e madre viene improvvisamente a mancare. Considerata fra i migliori autori italiani viventi, con le sue invenzione drammaturgiche, la Calamaro ci trasporta in una scrittura teatrale straordinariamente profonda, linguisticamente ricca e sensibile, attenta al dettaglio e pronta a mettersi in discussione nel caos dei pensieri. Il suo è un teatro che non investe sugli accadimenti, non vuole sorprendere o conclamare. Nello sviluppo della narrazione prende per mano lo spettatore accompagnandolo in una dinamica riflessiva dalla semplicità espressiva disarmante. Sul filo della grande scrittura il FIT ha inserito Scannasurice, secondo testo pensato per il teatro da Enzo Moscato

e messo in scena da Carlo Cerciello per l’eccellente interpretazione di Imma Villa. Un ritratto antioleografico di Napoli dopo il terremoto degli anni 80, una discesa agli Inferi, nei bassi della città, nel cuore di una popolazione ferita e sofferente dove trionfa la bellezza di un’anima genuina e drammatica come la sua parlata così poetica, così dimenticata. Non possiamo dimenticare il Theatre NO99 con The Clowns’ Raid Of Destruction. La pluripremiata compagnia estone diretta da Tiit Ojasoo e Ene-Liis Semper ha trasformato il palco del LAC in una galleria di caratteri espressivi, forti e inquietanti. Un’opera totale per un universo del desiderio, della crudeltà, dell’amore in una metamorfosi dove la figura clownesca presenta il suo lato più scabroso in una giostra di quadri di grande potenza. Sublime. Il FIT ha anche permesso di riproporre Princess karaoke con Anahì Traversi e Camilla Parini, uno spettacolo che ha debuttato in aprile a Bellinzona oggi rivisto e corretto da Cristina Galbiati in veste di Dramaturg per un esito più centrato e completo, una produzione che già ci era piaciuta nella sua prima versione e che ora ha trovato il suo equilibrio. Ultime righe dedicate al sorprendente e trascinante Acceso del regista cileno Pablo Lorrain per l’immensa bravura di Roberto Farìas che ci ha proiettato nella più profonda emarginazione fatta di mostruosi abusi: un «pugno nello stomaco» ha chiuso un festival che ha seminato alta qualità.

«Che brutta parola la parola femminicidio: non mi piace perché non mi piace la parola femmina. In biologia la si usa per indicare l’animale destinato a partorire i figli o a deporre le uova, e in botanica per indicare la pianta che sa fare fiori solo di sesso femminile. Gli altri significati hanno una connotazione decisamente spregiativa: si riferiscono a veri o presunti difetti o debolezze della donna, oppure alla sua nuda e cruda sessualità». Patrizia Valduga è Patrizia Valduga, la poetessa. La cosa non andrebbe certo ribadita non fosse che per il fatto che questo Italiani, imparate l’italiano! non è un libro di poesie, e nemmeno di prose. Qui la Patrizia si occupa, certo non rinunciando al vestito tutto suo che ormai le riconosciamo, di lingua italiana e di sue rovine. Si tratta di articoli usciti nelle pagine del «Corriere della Sera», di «Panorama», della «Repubblica». Alcuni sono anche di molto tempo fa, se si considera che le date di pubblicazione vanno dal 1998 al 2012; poi, come annunciato in copertina, l’accrescimento di una nuova edizione (che è peraltro molto elegante, in una collana delle «Edizioni d’if» di Napoli, una copertina con risvolti di un rosso granata molto valdughiano e nobili caratteri mobili argentei che corrono su tutta la superficie, sul recto e sul verso: molto bello). Il procedere di questo libro è brontolone e assertivo, e l’intento è economicistico («perché dire così quando si potrebbe dire più semplicemente cosà?»); la linea è quella, ma con maggiore eleganza, del normativismo più classico e tradizionale. I consigli della poetessa sono qui tutti

concentrati verso la conservazione, e il cambiamento linguistico, quello che il supremo Chomsky chiama «creatività del codice», non è legittimato. Un esempio? Tutta la predica a pagina 27 sulla scomparsa dei suffissi: «la tendenza a mozzare, mozzicare, dei suffissi (–zione, –tura e soprattutto –mento) i sostantivi esistenti: accavallo, allaccio, prolungo». È opinabile: la neutralizzazione dei suffissi è spesso salutare operazione di pulizia, soprattutto quando non si sa scegliere tra – mento o –zione e si finisce per pasticciare. Con le parole l’esercizio viene decisamente più semplice. La scorribanda nel Dizionario Garzanti dei Sinonimi e dei Contrari è tutto un cercare di non andare a cozzare con alternative anglofone ai termini italiani: così, se al lemma attuale il dizionario risponde con up to date e a sitting room si affianca, con grande dignità e amore per la nostra lingua, soggiorno, il Garzanti cede miserevolmente alla tentazione di «trovare delle voci angloamericane con sinonimi angloamericani», con tanti saluti per l’italiano: «surf, Sinonimo windsurf, staff Sinonimo team». Ma bravi! Da piccoli ci insegnavano che un vocabolario deve evitare la circolarità del rinvio a qualcosa che rimanda al punto di partenza: un po’ traslato, si potrebbe dire che rinviare da prestito anglofono a prestito anglofono, da parola inglese a parola inglese, dovrebbe essere, nella lessicografia italiana, pratica severamente proibita. Insomma, la predica di Patrizia Valduga è un po’ scontata e un po’ molto divertente. Ragionare sul costume della nostra lingua italiana non è compito invidiabile, ma il libro si legge in un battibaleno e in più punti con profitto. Non è in discussione che della nostra si facciano proferire (e qui non c’è partita) i mirabili versi delle sue liriche; per fortuna, a portare dignitoso e silenzioso rispetto alla lingua italiana, ci pensano le consone sedi delle sue raccolte poetiche. Come questa: «Io mi arrendo, congedo i miei soldati, / la mia legione di sogni e di versi. / Combattete per altri disarmati, / vincete in verità, miei sogni in versi». Bibliografia

Patrizia Valduga, Italiani, imparate l’italiano!, Napoli, Edizioni d’if, 2016.

Domani, senza rassegnazione

Filmselezione I l documentario ecologista che attira milioni di spettatori Fabio Fumagalli *** Domani (Demain), di Cyril Dion e Mélanie Laurent, documentario (Francia 2015) Non succede ogni giorno che un documentario ecologista sia visto da più di un milione di persone, solo nelle sale francesi. Nemmeno, che un progetto che arrischiava di mai decollare riuscisse a raccogliere in poche settimane buona parte del proprio finanziamento da oltre centomila persone. Quanto sta accadendo a Domani (a prescindere dalla qualità dei risultati cinematografici raggiunti, comunque encomiabili) rappresenta la prova di un fatto eloquente: un numero sempre più crescente di persone desidera informarsi, forse anche occuparsi degli

argomenti trattati dal film. Questo, dopo aver finto per anni con se stesse che si trattasse di fisime alla moda sollevate da quei simpatici di «verdi». Tutto è nato nel 2012 in seguito a un articolo apparso sulla rivista «Nature»: continuando a sfruttare in questo modo le risorse del nostro pianeta l’intera umanità è a rischio di sopravvivenza, addirittura entro il 2100. Prima di arrischiare di fare la fine dei dinosauri, gli autori di Domani, l’attrice-regista Mélanie Laurent e il giornalista Cyril Dion, hanno scelto di perlomeno reagire. Di non rassegnarsi. Senza diffidare, cadendo nella faciloneria, di pronostici così nefasti e radicali. È il momento di darsi da fare: testimoniando innanzitutto coloro che, nelle diverse parti del mondo, stanno contrattaccando. Con positività e non disperazione,

con iniziative spesso sorprendenti – e questo al posto delle dichiarazioni d’impotenza sul diradarsi delle risorse, sullo sfascio degli ecosistemi e sull’irreversibilità del surriscaldamento climatico. Una volta suddivisa la pellicola in capitoli dedicati ad agricoltura, energia, economia, democrazia ed educazione, gli autori sono partiti per mezzo mondo alla ricerca delle numerose persone armate di buona volontà. Cittadini, apparentemente più felici, che non hanno inventato soltanto eoliche e pannelli solari, ma anche un’agricoltura urbana, seminando per le strade e sui tetti (una soluzione che potrebbe anche attenuare lo squallore di certi centri «pedonali» che sappiamo?) e ottenendo in seguito gratuitamente terreni abbandonati nelle periferie. Introducendo monete locali al fine

di rilanciare un’economia fatta di scambi e investimenti reali; o, ancora, inventando forme più affidabili di democrazia e di rappresentanza politica. Semplice, diretto e concreto, il film percorre così un proprio cammino più entusiasticamente didattico che rigorosamente scientifico; evitando i rischi del contraddittorio, ma pure il semplicismo della militanza. Sebbene la sceneggiatura avrebbe forse potuto costruirsi con maggior rigore, evitando le divagazioni fuorvianti lungo il percorso comunque formidabile della diffusione popolare, l’immagine curata e il commento musicale jazzy-pop della cantante svedese Fredrika Stahl, concorrono a togliere a Domani l’approssimazione artigianale che penalizza molti manifesti ecologisti. Dal generoso e quasi commovente

elogio iniziale nei confronti di ogni forma di diversità alle progressive riflessioni su temi ormai epocali come la crescita ad ogni costo, l’espansionismo insensato della globalizzazione o l’accentuazione delle disparità economiche, il film non perde mai il filo della propria umiltà: e forse è proprio questa una delle ragioni dello straordinario successo di cui ha fin qui potuto godere.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Cultura e Spettacoli

Jünger sulla via di scuola

Pubblicazioni Il breve quanto intenso romanzo dello scrittore e filosofo tedesco Ernst Jünger –

pubblicato recentemente da Guanda – vuole essere anche una raffinata vendetta tardiva

Inquieto Ernst Jünger lo fu fin da ragazzo. Era nato ad Heidelberg, in una famiglia borghese e protestante, ma trascorse l’infanzia ad Hannover in Bassa Sassonia, per poi trasferirsi con i genitori e i fratelli in provincia. Spostamenti che molto influirono sul suo rendimento scolastico: in effetti fu uno studente mediocre, cambiò spesso scuola e per un certo periodo finì anche in collegio. Lo scolaretto di un tempo, che leggeva Karl May – una sorta di Salgari tedesco – e s’entusiasmava per Robinson Crusoe, era ormai sedicenne quando si iscrisse con il fratello Friedrich al movimento giovanile di ispirazione romantica ed ecologista Wandervogel. Due anni dopo, nel 1913, fuggito in Francia si arruolò a Verdun nella Legione straniera, poi andò volontario nella prima guerra mondiale e ne uscì con un bel po’ di cicatrici e la più alta decorazione militare prussiana, l’ordine Pour le Mérite. Per non parlare degli avvenimenti successivi: la sua opposizione alla Repubblica di Weimar da esponente di primo piano della rivoluzione conservatrice, le mai celate simpatie per il nazionalsocialismo e il suo ruolo di ufficiale della Wehrmacht durante l’occupazione di Parigi. I lontani anni di formazione sembravano ormai dissolti nell’arco di una vita ricca di turbolenze e contraddizioni che avevano fatto di lui il più significativo critico della modernità e un intellettuale europeo pronto a dialogare con colleghi stranieri di ben altro orientamento, come ad esempio, l’italiano Alberto Moravia. Ma il fanciullo Jünger sopravvisse alle molte battaglie dell’uomo: così alla soglia dei novant’anni lo scrittore lo riesumò in un felicissimo e intenso romanzo breve, Tre strade per la scuola, che Guanda ripubblica ora, a distanza di quasi di un decennio, nell’ottima versione di Alessandra Iadicicco. Si sa che la memoria degli anziani ricompone con più facilità i tasselli del passato che quelli del presente, ma la lucidità e la leggerezza narrative che accompagnano il difficile cammino scolastico del giovane Wolfram – con-

trofigura dello stesso Jünger bambino e adolescente – sono comunque incomparabili. La freschezza e la vivacità della scrittura sembra lenire il dolore, talvolta l’angoscia che ancora suscitano nell’anziano scrittore quei giorni lontani. Ma c’è dell’altro. Il libro – come rivela un’abbreviazione contenuta nel titolo originale – vuol essere una «vendetta tardiva». Contro le aberrazioni dell’opprimente pedagogia prussiana incapace di comprendere e valorizzare anime giovanili ansiose di libertà e poco inclini al livellamento e alla normalizzazione. Il giovane Wolfram non è un disadattato ma un bambino distratto dalle mille seduzioni del mondo che lo circonda. Confuso e affannato arriva tardi a scuola, perché si è trattenuto nel parco a osservare gli uccelli che volteggiano sul lago e, intorno alle rive, i gigli palustri e le spighe dei canneti. Al tempo delle elementari quella prima strada era la più bella, percorsa spesso in compagnia del nonno maestro che sapeva un sacco di cose e gli parlava delle varie famiglie di anatre o delle varietà di fiori e alberi. Quel ragazzo dotato di intelligenza e di solida memoria recepisce solo ciò che gli è gradito: un pessimo allievo che però conosce bene piante e animali e insetti (Jünger sarà, tra l’altro, da adulto un ottimo entomologo), colleziona pietre in base a colore, forma e grana, costruisce sul terrazzo di casa il suo «panorama», cioè il parco cittadino in miniatura, e si tuffa nel proprio mondo come fosse il «relitto di una nave naufragata e gettata a riva per un Robinson»: lui stesso esiliato sulla sua isola mentale. Perché a quel ragazzo incline alle fantasticherie, che si circonda di eroi come Old Shatterhand e l’apache Winnetou conosciuti fra le pagine di Karl May, che ama più Ettore di Achille, sogna con l’Ariosto e sa a memoria le poesie di Schiller, il mondo circostante e la soffocante atmosfera scolastica – a ogni livello – creano seri problemi. Soffre di balbuzie, cade non di rado in una sorta di trance in cui la realtà circostante scompare e a lui sembra di fluttuare al di sopra di sé come se si osservasse dall’alto. Gli insegnanti lo giudicano un inetto incutendogli disagio e paure tanto da causargli fenomeni di incon-

tinenza. Anche più tardi lungo le altre due strade che lo porteranno in scuole diverse, la prospettiva non cambia. E sono gli stessi insegnanti, pur validi nelle loro discipline, a offrire un’immagine di squilibrio e di disagio collettivo.

La curiosità e la sete di conoscenza del piccolo Jünger non furono mai comprese dai maestri Ciascuno di loro – si chiamino Hilbert o Corax, lo studioso che amava recarsi a Roma sulle tracce di Gregorovius – ha il proprio lato in ombra, e la vita non sorride a nessuno. La vendetta di Jünger, a decenni di distanza da quell’epoca, non è rivolta a loro, ma a un intero sistema di cui sono i rappresentanti. Lo scrittore traccia un percorso nel quale a rigide e dogmatiche rego-

le si contrappone l’anelito verso una libera e individuale esperienza. Ma il curriculum drammatico del suo alter ego costruisce attorno a sé l’atmosfera di un’intera epoca, tra ombre lontane e sensazioni mai sopite. Attorno al vecchio Jünger si affollano figure richiamate in vita dal suo giovane protagonista: il dottor Edelstein, che molto contribuisce alla sua guarigione e suo nipote Siegfried, l’ebreo che da buon amico gli sarà accanto in momenti difficili. Anche grazie a loro Wolfram si emancipa dalla sua condizione di paria – una parola appresa dalla lettura di un libro del nonno – e decide di agire come Old Shatterhand, mani-di-ferro. Non la scuola, ma Karl May è la sua fonte di ispirazione e il suo modello di emancipazione. Come quell’eroe del far west americano – sia pure di origine tedesca – egli sente arrivato il momento del riscatto. Con slancio e determinazione colpisce le sue vittime, per lo più condiscepoli, e non esita nemmeno di fronte al nuovo insegnante Corax, che

Bibliografia

Ernst Jünger, Tre strade per la scuola, traduzione di Alessandra Iadicicco, Ugo Guanda editore, p. 74, €10.00 Annuncio pubblicitario

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541 Trucchi e Consigli della Nonna

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Ad alto contenuto di fibre, la cannella può alleviare la stitichezza.

Ernst Jünger con un busto che lo raffigura (foto del 1989). Lo scrittore tedesco morì il 17 febbraio 1998 all’età di 102 anni. (Keystone)

gli crea un terribile senso di oppressione. Proprio in occasione della distribuzione delle pagelle egli chiede la parola e – sia alla maniera di Cicerone che di Socrate, tanto era ormai il sapere retorico accumulato nei suoi lunghi silenzi – si difende dai compagni e finalmente, dopo tante umiliazioni, sferra un colpo decisivo. È Socrate stesso, con cui idealmente conversa, che glielo suggerisce dando «perfino segni di prendere in simpatia il mio insegnante – confessa pubblicamente in classe il ragazzo –. Solo da un punto di vista pedagogico lo giudica una nullità». Poi, raccolti i suoi libri, scompare. La vendetta è compiuta, in nome di un’emancipazione che lo porterà lontano, purtroppo anche da quella libertà che da piccolo agognava fantasticando per le strade della paura.

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Universi al femminile Sto leggendo il resoconto del viaggio del papa in Georgia e sono al punto in cui il Santo Padre, in una dichiarazione ai giornalisti sull’aereo che lo sta riportando a Roma, si pronuncia contro l’insegnamento nelle scuole della teoria del cosiddetto gender. Squilla il telefono, mi cercano dalla città di Cuneo; è la presidente di un circolo femminile, mi vorrebbero invitare nella loro sede per tenere una conversazione; dopo una breve introduzione si dà inizio alle domande del pubblico e il dibattito finisce per coinvolgere tutti i presenti. Ci sono già stato e ogni volta ho vissuto un’esperienza stimolante. Domando quale titolo prevedono per l’intervento. Risposta, dopo una breve esitazione: Il mio lato femminile. Il mio primo impulso consisterebbe in una reazione sdegnata: ma come si permettono quelle screanzate? Io sono un esemplare della specie umana maschio al 100%! Mi frena il pensiero che farei il loro gioco, su questo terreno una negazione drastica è di fatto un’affermazione. E poi non è

vero, anch’io ho, come tutti i maschi, un lato femminile. Non vado dall’estetista, dipendesse da me i chirurghi plastici chiederebbero l’elemosina, non controllo mai allo specchio il mio aspetto prima di uscire di casa… Ma la verità è che se dipendesse da me resterei sempre rintanato in casa: felicità allo stato puro è quando tutti sono usciti e io resto padrone del mio territorio, posso riordinare la cucina fino a farla specchiare, svuotare la lavastoviglie, aspettare che finisca la lavatrice per stendere la biancheria ad asciugare, stirare col ferro a vapore, cucinare. L’imprinting mi deriva da mio padre: in anni decisivi per la mia formazione lui perse il lavoro, la tipografia dove lavorava fu sommersa dall’acqua del fiume Tanaro durante una disastrosa alluvione. Restò disoccupato per anni, la famiglia si resse sul reddito di mia madre che lavorava fino a tardi; mio padre si fece carico del lavoro domestico e io andavo al seguito di quello che è sempre stato il mio modello. Anche in casa mio padre restava tipografo, cioè

uno che ha il culto della precisione e ha in orrore i refusi. Per cucinare si consultavano i libri di ricette e si pesavano gli ingredienti con l’approssimazione dei cinque grammi. Le verdure per comporre l’insalata russa si tagliavano a cubetti tutti uguali e si montava la maionese facendo colare un filo d’olio lungo uno stuzzicadenti appoggiato al collo della bottiglia mentre l’altro sbatteva i rossi d’uovo sempre nello stesso senso. Negli anni 50 abitualmente il capo famiglia, finito di lavorare, tornava a casa e si sedeva a tavola facendosi servire; terminata la cena si alzava per andare all’osteria. Mi fanno ridere quelli che sostengono che l’avvento della televisione ha ucciso la conversazione nelle famiglie. Gli uomini che aiutavano in famiglia erano chiamati con un termine dialettale spregiativo, traducibile come «Giacomo-femmina». Va bene, accetto l’invito, domando: quando è prevista? Risposta: l’8 marzo dell’anno prossimo. Mancano cinque mesi, con questo anticipo le signore prenotano i tavoli in

pizzeria per quel giorno. Come sostiene l’attore Michele Di Mauro, «l’8 marzo gli uomini diventano portatori sani di mimosa». Quella della mimosa è una storia rievocata in un capitolo della magistrale biografia che Massimo Cirri ha dedicato ad Aldo Togliatti, il figlio di Palmiro, pubblicato di recente da Feltrinelli con il titolo Un’altra parte del mondo. Dopo la sconfitta del fascismo si celebra per la prima volta in Italia, nel 1946, la festa dell’8 marzo, due giorni prima dell’approvazione della legge che concede il voto alle donne. Rita Montagnana, madre di Aldo e ancora per poco moglie di Palmiro, rientra dall’URSS e fonda l’UDI, l’Unione Donne Italiane e la presiede. Ci vuole un fiore per simboleggiare la festa. Luigi Longo, vice segretario del partito comunista, propone di regalare un mazzo di violette a tutte le compagne. Le quali obbiettano che la violetta è difficile da trovare, è costosa, va bene a Parigi ma non in un paese prostrato dalla guerra. A Rita viene in mente la mimosa, fiore

da corteo che va sventolato e fiorisce ai primi di marzo. E mimosa fu. Torniamo alla conversazione da tenere a Cuneo; chiedo alla presidente di mandarmi una email per segnarmi l’appuntamento e così scopro che il titolo proposto non è Il mio lato femminile ma Il mio universo femminile. Tutto da rifare. Devo andare ancora indietro nei miei ricordi, prima dell’8 settembre del ’43, quando mio padre era ancora sotto le armi e io, bambino di pochi anni, venivo parcheggiato nel negozio di mia madre parrucchiera. Viziato e sbaciucchiato da tutte quelle signore che parlavano liberamente convinte che non le stessi a sentire mentre non perdevo una sola parola delle confidenze, dei pettegolezzi e delle trame che andavano svelando attorno alle assenti. Non tacevano mai e quando avevano la testa sotto il casco alzavano il tono della voce per farsi sentire. Nascono di lì la mia passione per gli intrecci e la consapevolezza che non bisogna mai credere ciecamente a quello che una donna ti racconta.

avere i nostri dati, siamo un nome per loro. Ma basta, basta imbarazzi davanti alle commesse! E ai commessi. Gentile fascinoso giovinotto, le ribadisco che questo numero di scarpe non mi entra. Mi favorisca il quaranta-e-tot. Signora! S’ignora forse che i piedi sono i miei? Tenga il suo stupore per se stesso, ritiri gli occhi dallo strabuzzo, porti quelle pinne che forse si adeguano alle mie estremità. Che fatica. Non è meglio dissipare il patrimonio familiare di nascosto, non è più rilassante? Sì, voglio tutte e tre quelle paia di pinne, non sia mai che una possa andarmi bene. Perché, nel segreto, nel buio della non coscienza collettiva, l’unico problema è non toccare, né vedere, né, soprattutto, provare quello che compri, quindi, a occhio, devi triplicare gli acquisti, magari magari uno su tre va bene. Ma nessuno saprà. La tua taglia? Ma no, che compri sempre il triplo di quello che, a essere generosi, si potrebbe dire che ti serve. Nascondiamo ciò di cui non è

detto che ci vergogniamo, ma pensiamo che altri penserebbero che ci sarebbe da vergognarsi. Una patetica attenzione al pensiero degli altri, una pazzesca assenza di stima per la propria persona. Da qui la fuga dello struzzo, delle canzoncine dei bambini, «io non c’ero non son stato non son mai venuto qui, io a quell’ora faccio sempre la pipì», allo Zecchino d’Oro. E dei grandi, quando a interpretarli c’è un grande Iannacci: «Macchè delitto di gelosia, io ci ho l’alibi a quell’ora sono sempre all’osteria». L’alibi del segreto, la coscienza invalicabile. Torniamo a settecento anni fa: nella coscienza nemmeno la Chiesa può penetrare, almeno secondo la teoria raccolta dal Decretum Gratiani: la Chiesa non giudica de occultis. Ma ci sono anche altre realtà occulte, i grandi segreti dell’universo, che l’alchimia brama di arrivare a possedere e che Artefio trascrive in un libro intitolato Secretus, mentre, nel Secretum secretorum dello pseudo Aristotele, segreto è

il modo di guarire i malati che Dio ha rivelato a santi, eletti e profeti: più una pratica che una teoria, e soprattutto nell’alchimia latina occidentale più un continuo disvelarsi che un nascondimento. Gli arcani della natura possono essere scoperti e trasmessi non solo dagli alchimisti, ma anche dai filosofi e dai medici, spesso riuniti in un’unica figura di sapiente, un iniziato, anche disposto a curare chi ne avesse bisogno. Il segreto abita dunque, oltre che nei libri, nei cuori, come si è detto, nelle confessioni, nelle relazioni interpersonali intime: la stessa urbanizzazione dell’età comunale rende difficile l’intimità necessaria alla confidenza. Sono quindi le case, meglio ancora le corti, a diventare luoghi di commercio dei segreti. Le osterie, «stessa strada, stessa osteria, stessa donna, una sola, la mia», dice l’Armando. E noi, segretamente, abbiamo omaggiato gli autori di questo capolavoro della Canzone dell’Armando, Dario Fo ed Enzo Jannacci.

che per Leopardi è «la squisita perfezione della lingua latina». Per esempio: il brivido della sintassi nell’Eneide, che nell’eventualità di una catastrofe totale sarebbe il libro da salvare, secondo Gardini, «perché è l’anticipazione di molti altri libri». O la sensualità senza freni in Catullo, il cui linguaggio scurrile non è al servizio del carnevalesco ma obbedisce a una morale rigidamente organizzata. O l’inno alla vita e alla potenza generativa scritto da Lucrezio con la sua precisione definitoria. O la diffrazione drammatica e lapidaria di Tacito. O i respiri e gli scricchiolii di Tito Livio, scrittore di episodi. O le regole di vita di Seneca: «Degli autori antichi – dice Gardini – Seneca è quello che più mi ha aiutato a vivere. Con Virgilio mi commuovo; con Tacito mi appassiono alla crudeltà; con Lucrezio mi allontano e sprofondo e vortico; con Cicerone sogno la perfezione in tutto, pensiero, discorso, comportamento. Seneca mi dà lezioni di felicità». Non

male. Seneca è una miniera di insegnamenti su cui riflettere: «Ogni ferocia proviene dalla debolezza», «Nessuno sbaglia solo per sé», «Non abbiamo poco tempo, bensì ne abbiamo perso molto», «Non abbiamo una vita breve, ma breve l’abbiamo resa». In un discorso messo in bocca al vecchio nonno Cremuzio Cordo, Seneca racconta come si vive tra le stelle e quanto piccola e orrenda appaia da lassù l’esistenza umana, fatta di violenza, conflitti, falsità, menzogne. Tutto ciò si coglie al meglio conoscendo la lingua, assaporandola, gustandola. È lecito che la riforma voluta da un ministero faccia perdere agli studenti l’opportunità di godere di tanta bellezza e di avvalersi di tanta utilità (utilità, sottolineato)? Non è lecito. Per questo una «Task force per il classico» ha rivolto un appello alla ministra italiana dell’Istruzione e al presidente della Repubblica perché nell’esame di maturità non venga abolita la versione dal greco e dal latino. Nei novemila firmatari

ci sono non solo studiosi del mondo antico come Eva Cantarella, Luciano Canfora e Salvatore Settis, ma anche fisici e matematici come Carlo Rovelli, Guido Tonelli e Lucio Russo, medici, ingegneri, avvocati, gente comune, pensionati, casalinghe, studenti. Tra questi c’è anche un musicista rock che studia greco all’Università di Firenze. Si chiama Francesco Rainero e il 24 settembre al Parco di Monza si è esibito davanti a 80 mila spettatori aprendo il concerto di Luciano Ligabue. Ha raccontato così l’evento: «Ho partecipato al contest per individuare quattro band o solisti che introducessero lo show del Liga e, dopo il voto da casa e un’audience, ho vinto». Va bene tutto, non dico di usare gli equivalenti greci o latini, ma possibile che «contest», «band», «show» e «audience» non abbiano delle buone alternative in italiano corrente, che è pur sempre l’erede della lingua di Cicerone? A che serve studiare Properzio o Senofonte se poi parli così male (3)!

Postille filosofiche di Maria Bettetini Segretissimo Per preparare ed eseguire «experimenti magici» bisogna scegliere luoghi «secreti e rimoti, o vero deserti e nascosi», dove non possa arrivare nessuno, e soprattutto nessuna donna. Così la Clavicula Salomonis, testo di magia in una traduzione del XV secolo. Tra Medioevo e Rinascimento il «segreto» diventa termine polivoco ed evocatore di mondi tra loro molto distanti: c’è il segreto del cuore, luogo interiore che raccoglie un’intimità nota solo a se stessi, come nel Secretum di Petrarca, ma anche il luogo dove si strutturano le intenzioni dell’agire, quindi la fonte del peccato o della buona azione. Belle queste divagazioni arcaiche sul segreto. Prima di approfondire, diamo qualche altra notazione, più vicina a noi. Il Segreto è una soap opera spagnola giunta alla puntata 1429 (al 10 ottobre). Non una telenovela, destinata a finire nel giro di qualche mese o anno, una soap, che potrebbe durare anche quindicimila puntate, come Sentieri della CBS,

ossia: se si fosse trattato di un episodio a settimana, la soap avrebbe avuto la durata di 288 anni e mezzo, mentre uno al giorno produce comunque la ragionevole durata di quarantuno anni. El secreto de Puente Viejo è solo all’inizio, ha solo cinque anni. Ma un seguito invidiabile, credo più dalle nostre parti che nella penisola iberica. Che poi, cosa sarà mai questo «secreto»? Ma ce ne sono tantissimi: sconosciute che sono figlie, parenti che sono sconosciuti, cugini che sono fratelli, sorelle che non sono nemmeno cugine. I nomi sono fatti apposta per perdere lo spettatore, Dolores, Pepa, Camila, Carmelo, Eulalia, Severo, Lucas, Pedro. Persi, eh? Come tutti. Però l’idea del segreto prende, cattura. Lo sappiamo bene, noi. Ci esponiamo sui social, mostriamo immagini intime ai limiti di ogni decenza, e poi preferiamo comprare online, piuttosto che nei negozi. Di nascosto. Non importa che sondaggisti di vaglia paghino profumatamente per

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Brivido latino «Quando ti trovi in difficoltà parla in latino e vedrai che ti lasciano in pace». È la frase del grande Paolo Poli (6) che sta in esergo a un libro notevole, Viva il latino (sottotitolo: Storie e bellezze di una lingua inutile), appena pubblicato da Garzanti. L’autore, Nicola Gardini (5½), insegna Letteratura italiana e comparata all’Università di Oxford, ha scritto un romanzo e diverse raccolte di poesie, ha insegnato anche latino in una scuola di New York, al Liceo Verri di Lodi e al Liceo Manzoni di Milano. Le parole di Paolo Poli non basterebbero certo a convincere un ragazzo a studiare il latino, ma appaiono sufficientemente assurde da stimolare la curiosità. Perché parlando latino dovresti avere meno difficoltà con gli altri? Semplice: perché gli altri ti prenderebbero per matto e dunque ti lascerebbero nel tuo brodo di follia. Oppure, ti lascerebbero in pace ritenendoti molto colto e restando paralizzati da una sorta di timore reverenziale. In realtà, ciò che non condivido

del libro è l’aggettivo scelto per il sottotitolo: «inutile». Ma come, Gardini cerca in tutti i modi di far capire la necessità di studiare il latino e il sottotitolo denuncia l’opposto! Va bene l’ironia, ma se non diventa autolesionismo… «Grazie al latino – scrive Gardini ricordando se stesso studente ginnasiale – una parola italiana valeva almeno doppio. Sotto il giardino della lingua quotidiana c’era il tappeto delle radici antiche». Questo libro di Gardini è una dichiarazione d’amore, forte, appassionata, divertente, con il proposito di comunicare quella «tachicardia gioiosa» che l’autore ha sempre provato di fronte a una pagina di Cicerone o di Virgilio: non so se può servire a un ragazzo d’oggi per spingerlo a scegliere di studiare il latino, ma certamente può servire ai suoi genitori, se i suoi genitori hanno curiosità e riescono a trasmetterla al proprio figlio. Gardini passa in rassegna molti brani e ne fa sentire il sapore, l’umore, quella


Un marchio Daimler

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Idee e acquisti per la settimana

shopping Dalla Scozia solo il meglio Novità Nelle maggiori filiali di Migros Ticino sono appena state introdotte alcune pregiate specialità pronte surgelate

di carne scozzese Donald Russell, marchio fornitore ufficiale della famiglia reale britannica Nell’immaginario di molti la Scozia è un paese di paesaggi verdeggianti, di secolari castelli diroccati, di suonatori di cornamusa in kilt e, naturalmente, di whisky. Ma forse non tutti sanno che questo affascinante territorio del nord del Regno Unito è anche rinomato per i suoi allevamenti bovini e ovini. Cuore dell’allevamento di bestiame scozzese è considerata la regione dell’Aberdeenshire, nel nord-est del paese. Ed è proprio qui che ha sede la Donald Russell, azienda rinomata da oltre 40 anni per l’elevata qualità delle sue specialità di carne nonché da 30 anni fornitrice ufficiale della famiglia reale britannica. I bovini e gli agnelli David Russell sono allevati lentamente sui verdi pascoli di piccole fattorie, dove si nutrono di preziosa erba fresca. Una peculiarità che influisce in modo determinante sulla marmorizzazione e il sapore della carne. I migliori tagli sono selezionati con cura per essere lavorati a mano dagli esperti macellai Donald Russell. La carne viene frollata all’osso come da tradizione da 25 a 35 giorni affinché possa acquisire una tenerezza e un gusto impareggiabili. La linea a cottura lenta pronta per il forno

Migros Ticino ha introdotto nel suo assortimento surgelati alcuni tagli di carne già pronti della Donald Russell. Sono marinati e cucinati lentamente da esperti chef con l’impiego della migliore carne scozzese, seguendo ricette tradizionali per una tenerezza garantita. Che si tratti dell’ossobuco di maiale in salsa, della spalla di agnello o del maiale al finocchietto e vino rosso – tutti e tre indicati per due persone – oppure dello stinco di manzo o di vitello in grado di saziare da quattro fino a dieci persone: le specialità sono facili da preparare semplicemente riscaldandole in forno direttamente dal congelatore.

Carne di maiale con finocchietto e vino rosso Pronto in forno in 50 minuti 2 porzioni, 500 g* Fr. 19.80

La carne della David Russell proviene da bovini allevati sui verdi pascoli scozzesi. Sopra, il succulento stinco di manzo.

Il ticinese Tazio Gagliardi vive da diversi anni in Scozia e oggi è CEO dell’azienda Donald Russell: «Qualità e buongusto sono la mia passione. Provengo da una famiglia di macellai ticinesi ed ho assaggiato carne in tutto il mondo, ma non ho mai trovato una qualità comparabile a quella che si può trovare qui nel nord-est della Scozia».

Ossobuco di maiale in salsa Pronto in forno in 50 minuti 1-2 porzioni, 400 g* Fr. 21.– Spalla di agnello Pronto in forno in 50 minuti 2 porzioni, 500 g* Fr. 25.50

Stinco di vitello Pronto in forno in 95 minuti 4-6 porzioni, 1.9 kg* Fr. 85.-

Stinco di manzo Pronto in forno in 135 minuti 8-10 porzioni, 3,2 kg* Fr. 100.–

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Idee e acquisti per la settimana

Scoprire o riscoprire i sapori ticinesi Fiere A Sapori e Saperi rinnovata la presenza dei «Nostrani del Ticino»

Da ben 15 anni, in autunno, si rinnova l’appuntamento con «Sapori e Saperi», la popolare rassegna dei prodotti agroalimentari ticinesi. Si tratta della più importante vetrina del settore, che riunisce sotto lo stesso tetto le specialità più rappresentative del territorio. Quest’anno l’appuntamento è fissato per venerdì 21 (dalle ore 17.00 alle ore 21.00), sabato 22 (dalle ore 10.00 alle ore 21.00) e domenica 23 ottobre (dalle ore 10.00 alle ore 19.00) presso il Mercato coperto di Giubiasco, con ingresso gratuito. La rassegna è promossa dal Dipartimento delle finanze e dell’economia, tramite la Sezione dell’agricoltura, con la collaborazione delle principali associazioni del settore agricolo. La manifestazione si prefigge di avvicinare il pubblico alle tipicità agroalimentari della nostra terra, permettendo di scoprire la ricchezza dei prodotti tipici e delle loro regioni di provenienza. L’edizione 2016 annovera ben 43 espositori locali, a dimostrazione del crescente interesse del pubblico e dei consumatori in generale ai cosiddetti prodotti a «chilometro zero». Fra le novità di rilievo, segnaliamo le «isole del gusto», due punti di ristoro concepiti per esaltare, attraverso assaggi gratuiti, i sapori del nostro generoso territorio, arricchiti dai «saperi» degli chef di Ticino a Tavola e dei sommelier di Ticinowine. Vi saranno, inoltre, le erbe officinali, il pane, i dolci, il gin, le gazzose prodotte grazie ad antiche ricette e i

servizi logistici. Considerevole anche l’offerta enologica, rappresentata da otto case vinicole. Si rinnova anche la presenza della CORSI, che quest’anno propone la valorizzazione delle teche RSI (Totem), memoria significativa per la conoscenza del nostro territorio; quando le immagini erano ancora solo in bianco e nero…. La Federazione Ticinese Produttori di Latte festeggia il ragguardevole traguardo dei cento anni di vita. Un ampio spazio è stato quindi dedicato a questa importante ricorrenza: nell’apposito stand di circa 20 metri di lunghezza, sarà così possibile scoprire e apprendere le peculiarità di questa storica filiera cantonale che sarà affiancata da quella altrettanto importante degli ortaggi e dei vini. La presenza dell’Unione contadini ticinesi, organizzazione mantello del settore, permetterà d’illustrare l’utilizzo delle risorse, i metodi di produzione, l’organizzazione dello smercio e i diversi fattori a monte e a valle della filiera agroalimentare ticinese. Migros Ticino, in qualità di sponsor principale della manifestazione per il tredicesimo anno consecutivo, sarà presente con il proprio stand dedicato ai «Nostrani del Ticino», dove i visitatori avranno l’occasione di conoscere, gustare e acquistare alcuni degli oltre 300 prodotti a chilometro zero normalmente in vendita nei supermercati Migros del Cantone che rappresentano l’impegno concreto nel sostenere agricoltori, allevatori e produttori alimentari ticinesi da parte di Migros Ticino. Ai visitatori dello stand dei «Nostrani», la possibilità di ricevere in anteprima il calendario 2017 griffato con l’inconfondibile «coccarda». Ulteriori informazioni riguardanti questa fiera le trovate su www.sapori-saperi.ch.

Tempo di scorte

Lo sapevate?

Le mele maturano fino a dieci volte più in fretta a temperatura ambiente rispetto a se sono conservate al fresco.

Attualità Presso i reparti frutta e verdura Migros sono disponibili mele,

Un rimedio naturale contro le scottature da sole? Applicate delle fettine di patata sulla parte interessata per una mezzoretta.

patate e cipolle svizzere adatte alla conservazione, offerte in grandi confezioni e a prezzi particolarmente vantaggiosi

Delle fette di cipolla applicate sulla pelle sono efficaci contro acne e punture d’insetti.

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Le mele sono il frutto più consumato in Svizzera e sono presenti in ogni economia domestica. Ricche di vitamine e sali minerali, ma povere di calorie, sono amate da grandi e piccoli. Inoltre sono ricche di fibre alimentari, utili al buon funzionamento del sistema digestivo. Le mele particolarmente adatte alla conservazione disponibili ora alla Migros sono quelle delle varietà Golden, Boskoop, Starking e Gala.

Le patate contengono circa il 20 per cento di amido e sono ricche di vitamine B1 e C. La scelta di patate da conservare annovera le tipologie Charlotte (resistenti alla cottura, ideali per patate bollite, patate arrosto e minestre); Bintje e Laura (consistenza farinosa, idonee per purè, gnocchi, gratin, patate arrosto, rösti, patate fritte).

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Ingrediente base indispensabile in moltissime ricette, la cipolla gialla si presta tuttavia bene anche per la preparazione di piatti principali. Tra le diverse proprietà benefiche, la cipolla possiede persino delle virtù antisettiche, utili in caso di malattie da raffreddamento. Per evitare di lacrimare quando si affettano, è sufficiente passare coltello e cipolla sotto l’acqua fredda per almeno un minuto prima di tagliarla.

Giovanni Barberis

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Questi prodotti si conservano per diversi mesi, a condizione di stoccarli nel modo adeguato: le mele tengono bene fino a tre mesi, mentre le cipolle e le patate addirittura fino alla prossima primavera. L’ideale è possedere una cantina ben aerata e umida con una temperatura tra i 3 e gli 8 gradi oppure, come alternativa, i prodotti si possono conservare sul balcone o in soffitta in casse di legno o polistirolo forato, protette con un telo impermeabile in caso di pioggia.


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Sarasay

Un’unione perfetta

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Frutta e verdura liquida, combinate con fantasia, pronte da bere in qualsiasi momento e senza zuccheri o additivi aggiunti.

Frutta e verdura non sono sempre apprezzate da tutti. Ma ecco che per riuscire a coprire il fabbisogno giornaliero di vitamine e sali minerali, come gustosa alternativa Sarasay propone tre creazioni di succhi. La variante Red Active combina deliziose bacche con l’aroma della bietole, mentre Green Power sorprende per il suo alto contenuto di verdure. Yellow Beauty unisce frutti esotici, carote e patate dolci per creare un rinfrescante cocktail vitaminico.

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Buono a sapersi Cioccolato bio

Per dolci momenti

I regali «commestibili» fatti da sé fanno sempre piacere a chi li riceve, tanto più quando consistono in cioccolato bio. Per fare questi semplici regalini non è necessario spadellare a lungo, come dimostrano queste ricette

Per proteggere l’ambiente e sostenere le aziende indigene, per il suo assortimento Bio la Migros predilige prodotti svizzeri. I prodotti bio importati sono l’eccezione.

Nuova formula Tutti i cioccolati bio sono fabbricati senza emulgatori.

Cioccolato fatto in casa Per 10 tavolette di ca. 50 g ciascuna Ingredienti 10 fogli di carta da forno di ca. 17 x 12 cm ciascuno 200 g di cioccolato fondente, ad es. Crèmant 200 g di cioccolato al latte 100 g di cioccolato, ad es. Noir Orange ca. 8 cucchiai di guarnitura, ad es. Mini Smarties, noce di cocco secca, Caramels (caramelle mou) tagliate a dadini ca. ¼ di cucchiaino di sale grosso pestato, ad es. sale Himalaya ca. ¼ di cucchiaino di pepe di Cayenna sbriciolato

Suggerimenti Come guarnitura potete usare anche decorazioni di zucchero, frutta secca, frutta oleosa tritata, zenzero candito, fiori di zucchero, grani di pepe pestati grossolanamente etc. Le varietà di cioccolato possono essere versate su una teglia foderata con carta da forno. Prima che il cioccolato solidifichi completamente, ritagliate varie formine (cuori, abeti, stelle) oppure spezzettate la placca di cioccolato in più pezzi.

Testo Heidi Bacchilega; Foto & Styling Veronika Studer; Ricette Katrin Klaus

Preparazione Piegate i fogli di carta da forno in rettangoli di ca. 13 x 8 cm con bordi di ca. 2 cm. Fissate i bordi con delle graffette. Tritate grossolanamente le varietà di cioccolato. Mettete i pezzi in scodelle e fateli fondere lentamente a bagnomaria. Versate ca. 50 g di cioccolato in ogni formina di carta e lasciate raffreddare un poco. Distribuite su ogni tavoletta 1 cucchiaio di guarnitura oppure ca. ½ cucchiaino di spezie. Lasciate raffreddare. A piacere lasciate la tavoletta intera o spezzatela in più pezzi.

Crema di cioccolato e nocciole Per 2 vasetti da ca. 2,5 dl Ingredienti 100 g di nocciole 2,5 dl di panna 200 g di cioccolato, ad es. Crémant Preparazione Macinate finemente le nocciole e tostatele in una padella antiaderente a fuoco medio per ca. 3 minuti. Toglietele dalla padella. Portate la panna a ebollizione. Aggiungete le nocciole tritate e abbassate la fiamma. Lasciate sobbollire dolcemente per ca. 10 minuti, rimestando di tanto in tanto. Allontanate la pentola dal fuoco e lasciate intiepidire un poco. Tritate grossolanamente il cioccolato

Tempo di preparazione ca. 40 minuti Una tavoletta ca. 4 g di proteine, 17 g di grassi, 26 g di carboidrati, 1250 kJ/300 kcal

e versatelo nella panna. Fatelo sciogliere mescolando. Riempite i vasetti puliti e asciutti di crema fin quasi al bordo e chiudete subito ermeticamente con il coperchio. Suggerimento In frigo la crema si conserva per ca. 3 settimane. Tempo di preparazione ca. 25 minuti Un vasetto ca. 13 g di proteine, 112 g di grassi, 57 g di carboidrati, 5350 kJ/1280 kcal

Ricette di

www.saison.ch

La formula delle tavolette di cioccolato in qualità bio è stata migliorata. Ora sono del tutto prive di emulgatori. Le materie prime provengono da coltivazioni biologiche e certificate Fairtrade. L’osservanza delle relative linee direttive viene controllata regolarmente da istituti indipendenti.

Migros Bio è simbolo di un’agricoltura in sintonia con la natura. L’assortimento Bio comprende più di 1300 prodotti.

Migros Bio Au Lait Fairtrade Max Havelaar 100 g Fr. 1.85

Migros Bio Crèment Fairtrade Max Havelaar 100 g Fr. 1.85

Migros Bio Latte Nocciole Fairtrade Max Havelaar 100 g Fr. 2.20

Migros Bio Noir Orange Fairtrade Max Havelaar 100 g Fr. 1.85

Migros Bio Gianduja Fairtrade Max Havelaar 100 g Fr. 1.85

Parte di


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Idee e acquisti per la settimana

Buono a sapersi Cioccolato bio

Per dolci momenti

I regali «commestibili» fatti da sé fanno sempre piacere a chi li riceve, tanto più quando consistono in cioccolato bio. Per fare questi semplici regalini non è necessario spadellare a lungo, come dimostrano queste ricette

Per proteggere l’ambiente e sostenere le aziende indigene, per il suo assortimento Bio la Migros predilige prodotti svizzeri. I prodotti bio importati sono l’eccezione.

Nuova formula Tutti i cioccolati bio sono fabbricati senza emulgatori.

Cioccolato fatto in casa Per 10 tavolette di ca. 50 g ciascuna Ingredienti 10 fogli di carta da forno di ca. 17 x 12 cm ciascuno 200 g di cioccolato fondente, ad es. Crèmant 200 g di cioccolato al latte 100 g di cioccolato, ad es. Noir Orange ca. 8 cucchiai di guarnitura, ad es. Mini Smarties, noce di cocco secca, Caramels (caramelle mou) tagliate a dadini ca. ¼ di cucchiaino di sale grosso pestato, ad es. sale Himalaya ca. ¼ di cucchiaino di pepe di Cayenna sbriciolato

Suggerimenti Come guarnitura potete usare anche decorazioni di zucchero, frutta secca, frutta oleosa tritata, zenzero candito, fiori di zucchero, grani di pepe pestati grossolanamente etc. Le varietà di cioccolato possono essere versate su una teglia foderata con carta da forno. Prima che il cioccolato solidifichi completamente, ritagliate varie formine (cuori, abeti, stelle) oppure spezzettate la placca di cioccolato in più pezzi.

Testo Heidi Bacchilega; Foto & Styling Veronika Studer; Ricette Katrin Klaus

Preparazione Piegate i fogli di carta da forno in rettangoli di ca. 13 x 8 cm con bordi di ca. 2 cm. Fissate i bordi con delle graffette. Tritate grossolanamente le varietà di cioccolato. Mettete i pezzi in scodelle e fateli fondere lentamente a bagnomaria. Versate ca. 50 g di cioccolato in ogni formina di carta e lasciate raffreddare un poco. Distribuite su ogni tavoletta 1 cucchiaio di guarnitura oppure ca. ½ cucchiaino di spezie. Lasciate raffreddare. A piacere lasciate la tavoletta intera o spezzatela in più pezzi.

Crema di cioccolato e nocciole Per 2 vasetti da ca. 2,5 dl Ingredienti 100 g di nocciole 2,5 dl di panna 200 g di cioccolato, ad es. Crémant Preparazione Macinate finemente le nocciole e tostatele in una padella antiaderente a fuoco medio per ca. 3 minuti. Toglietele dalla padella. Portate la panna a ebollizione. Aggiungete le nocciole tritate e abbassate la fiamma. Lasciate sobbollire dolcemente per ca. 10 minuti, rimestando di tanto in tanto. Allontanate la pentola dal fuoco e lasciate intiepidire un poco. Tritate grossolanamente il cioccolato

Tempo di preparazione ca. 40 minuti Una tavoletta ca. 4 g di proteine, 17 g di grassi, 26 g di carboidrati, 1250 kJ/300 kcal

e versatelo nella panna. Fatelo sciogliere mescolando. Riempite i vasetti puliti e asciutti di crema fin quasi al bordo e chiudete subito ermeticamente con il coperchio. Suggerimento In frigo la crema si conserva per ca. 3 settimane. Tempo di preparazione ca. 25 minuti Un vasetto ca. 13 g di proteine, 112 g di grassi, 57 g di carboidrati, 5350 kJ/1280 kcal

Ricette di

www.saison.ch

La formula delle tavolette di cioccolato in qualità bio è stata migliorata. Ora sono del tutto prive di emulgatori. Le materie prime provengono da coltivazioni biologiche e certificate Fairtrade. L’osservanza delle relative linee direttive viene controllata regolarmente da istituti indipendenti.

Migros Bio è simbolo di un’agricoltura in sintonia con la natura. L’assortimento Bio comprende più di 1300 prodotti.

Migros Bio Au Lait Fairtrade Max Havelaar 100 g Fr. 1.85

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Migros Bio Noir Orange Fairtrade Max Havelaar 100 g Fr. 1.85

Migros Bio Gianduja Fairtrade Max Havelaar 100 g Fr. 1.85

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Idee e acquisti per la settimana

La macchina perfetta per il caffè Caruso: Solis Grind & Infuse Pro Typ 115 a Fr. 889.– www.galaxus.ch/solis

Caruso

Piccolo e nero

Piccolo, nero, intenso. Un buon espresso è aroma puro. Per farlo bene anche a casa, non ci vuole però solo il caffè giusto ma bisogna anche sapere come prepararlo Testo Claudia Schmidt; Foto Fabian Hafeli, Tobias Sutter (ritratto)

Caruso Oro macinato, 500 g Fr. 7.35* invece di Fr. 9.20 Nelle maggiori filiali *Offerta speciale valida dal 18 al 31 ottobre.

Appena si attraversa la frontiera meridionale, ci si ritrova nel Paese dell’espresso. Tuttavia, è possibile gustarsi questo piccolo sorso d’Italia anche a casa. Con il caffè Caruso la Migros offre, infatti, una miscela di chicchi Arabica e Robusta d’alta qualità, proprio come quella usata abitualmente in Italia. Questi grani sono perfetti per preparare il caffè con le apposite macchine da espresso, che possono macinarli sul momento. Ma anche se si sceglie la miscela già macinata, Caruso fa in modo che nella tazzina ci sia sempre un aroma perfetto. Con Caruso e le altre varietà di caffè tostati dalla Delica di Birsfelden, la Migros dimostra i suoi oltre 90 anni di competenza nel ramo del caffè. E il suo amore per l’italianità.

Concorso Scopri a quale tipo di caffè corrispondi e vinci una Fiat 500! www.migros.ch/ concorso-caffe

I consigli dell’esperto: Philipp Meier ha vinto due volte il titolo di campione dei baristi ed è specialista di caffè alla Delica.

Phlipp Meier

«Un buon espresso ha bisogno di circa 20 o 30 secondi» Signor Meier, come si fa l’espresso perfetto? Un buon espresso è la combinazione di molti fattori: la pressione della macchina, la dimensione della grana e la temperatura dell’acqua influenzano il deflusso del caffè. Un buon espresso impiega dai 20 ai 30 secondi per affluire nella tazzina. Se ci mette 40 secondi tende a diventare amaro. Se, invece, i secondi sono solo 15 l’acqua non riesce a estrarre dal caffè tutti i componenti aromatici. Una buona macchina, quindi, non è garanzia di un buon espresso? No. Bisognerebbe sempre regolarne le impostazioni per ottenere i risultati migliori. Comunque, sono importanti anche altri fattori. Quali in particolare? Innanzitutto, un buon macinino per avere una polvere uniforme. Particelle di varia grandezza non consentono un’estrazione ottimale, perché l’acqua non può fluire uniformemente attraverso la polvere di caffè. Visto che la parte maggiore è comunque costituita d’acqua, quanto caffè viene effettivamente estratto? Sì, è così. Ad ogni modo, in un espresso vengono estratte più componenti aromatiche che in un caffè filtro. Questo ovviamente anche grazie alla pressione.

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui gran parte dell’assortimento di caffè.


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Idee e acquisti per la settimana

La macchina perfetta per il caffè Caruso: Solis Grind & Infuse Pro Typ 115 a Fr. 889.– www.galaxus.ch/solis

Caruso

Piccolo e nero

Piccolo, nero, intenso. Un buon espresso è aroma puro. Per farlo bene anche a casa, non ci vuole però solo il caffè giusto ma bisogna anche sapere come prepararlo Testo Claudia Schmidt; Foto Fabian Hafeli, Tobias Sutter (ritratto)

Caruso Oro macinato, 500 g Fr. 7.35* invece di Fr. 9.20 Nelle maggiori filiali *Offerta speciale valida dal 18 al 31 ottobre.

Appena si attraversa la frontiera meridionale, ci si ritrova nel Paese dell’espresso. Tuttavia, è possibile gustarsi questo piccolo sorso d’Italia anche a casa. Con il caffè Caruso la Migros offre, infatti, una miscela di chicchi Arabica e Robusta d’alta qualità, proprio come quella usata abitualmente in Italia. Questi grani sono perfetti per preparare il caffè con le apposite macchine da espresso, che possono macinarli sul momento. Ma anche se si sceglie la miscela già macinata, Caruso fa in modo che nella tazzina ci sia sempre un aroma perfetto. Con Caruso e le altre varietà di caffè tostati dalla Delica di Birsfelden, la Migros dimostra i suoi oltre 90 anni di competenza nel ramo del caffè. E il suo amore per l’italianità.

Concorso Scopri a quale tipo di caffè corrispondi e vinci una Fiat 500! www.migros.ch/ concorso-caffe

I consigli dell’esperto: Philipp Meier ha vinto due volte il titolo di campione dei baristi ed è specialista di caffè alla Delica.

Phlipp Meier

«Un buon espresso ha bisogno di circa 20 o 30 secondi» Signor Meier, come si fa l’espresso perfetto? Un buon espresso è la combinazione di molti fattori: la pressione della macchina, la dimensione della grana e la temperatura dell’acqua influenzano il deflusso del caffè. Un buon espresso impiega dai 20 ai 30 secondi per affluire nella tazzina. Se ci mette 40 secondi tende a diventare amaro. Se, invece, i secondi sono solo 15 l’acqua non riesce a estrarre dal caffè tutti i componenti aromatici. Una buona macchina, quindi, non è garanzia di un buon espresso? No. Bisognerebbe sempre regolarne le impostazioni per ottenere i risultati migliori. Comunque, sono importanti anche altri fattori. Quali in particolare? Innanzitutto, un buon macinino per avere una polvere uniforme. Particelle di varia grandezza non consentono un’estrazione ottimale, perché l’acqua non può fluire uniformemente attraverso la polvere di caffè. Visto che la parte maggiore è comunque costituita d’acqua, quanto caffè viene effettivamente estratto? Sì, è così. Ad ogni modo, in un espresso vengono estratte più componenti aromatiche che in un caffè filtro. Questo ovviamente anche grazie alla pressione.

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui gran parte dell’assortimento di caffè.


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Idee e acquisti per la settimana

Farmer

La «tua» colazione Farmer ha ampliato il suo assortimento con tre varietà di müesli, affibbiando alla tipica prima colazione svizzera i relativi nomi svizzero-tedeschi: «Dis Müesli Öpfel u Zimt» (Il tuo müesli mela e cannella), «Beeri u wissi Schoggi» (bacche e cioccolato bianco) e «Honig u Nüss» (miele e noci). Il müesli «Bacche e cioccolato bianco» è composto di fiocchi d’avena integrale mischiati a fiocchi di cioccolato, mirtilli, lamponi e mandorle. La pratica coppa consente di gustare il «Tuo müesli» ovunque: in treno, a scuola o in ufficio. Il «Tuo müesli» è preparato con latte o yogurt e rappresenta la porzione ideale per iniziare al meglio la giornata oppure come spuntino tra un pasto e l’altro.

Farmer Il tuo Müesli Bacche e cioccolato bianco 50 g* Fr. 2.10

Farmer Il tuo Müesli Mela e cannella 50 g* Fr. 1.90

Non c’è tempo per fare colazione a casa? Grazie alla pratica coppa «to-go», puoi portare il «Tuo müesli» ovunque e gustartelo in ogni momento.

Farmer Il tuo Müesli Miele e frutta a guscio 50 g* Fr. 1.90

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Uva Italia Italia, al kg

1.25 invece di 1.85 Gruyère piccante ca. 450 g, per 100 g

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ARTICOLI DI NOSTRA PRODUZION E ORA IN AZIONE.

Carne di manzo macinata M-Classic Svizzera, al kg

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4.95 invece di 7.50 Carne secca dei Grigioni prodotta in Svizzera con carne dalla Germania, affettata in vaschetta, per 100 g

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50% a partire da 2 pezzi

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3.60 invece di 4.60 Zucca a fette Francia, imballata, al kg

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3.90 invece di 5.20 Filetto dorsale di salmone Norvegia, per 100 g, fino al 22.10

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Bistecche di manzo tagliate fini TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g

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9.– invece di 12.90 Cappelletti ai funghi M-Classic confezione da 3 x 250 g

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 18.10 AL 24.10.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

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1.95 invece di 3.40 Pâté ticinese Svizzera, al banco a servizio, per 100 g

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3.40 invece di 5.10 Salame al merlot a pasta grossa prodotto in Ticino, pezzo da ca. 400 g, per 100 g

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4.90 invece di 7.– Petto di tacchino M-Classic affettato finemente in conf. da 2 Francia/Brasile, 2 x 144 g


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UN AMERICANO A PARIGI Per accompagnare una zuppa di cipolle, non c’è niente di meglio del classico croque-monsieur alle erbe e al formaggio. Basta cospargere di senape il pane per toast, distribuirvi sopra il formaggio e il prezzemolo tritati, coprire con una seconda fetta di pane e rosolare in padella. Trovi la ricetta su www.saison.ch/ it/consigliamo e tutti gli ingredienti freschi alla tua Migros.

20% Tutti i tipi di toast XL American Favorites, TerraSuisse per es. American, 730 g, 2.30 invece di 2.90

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1.20 invece di 1.80 Panini al burro TerraSuisse 65 g

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6.60 invece di 9.50 Pollo intero Optigal, 2 pezzi Svizzera, al kg

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2.20 invece di 3.15 Prosciutto cotto in conf. da 2, TerraSuisse per 100 g

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L’ASTUZIA GOLOSA Fai fondere il cioccolato e sminuzza l’ananas e le albicocche secche. Trita le noci di acagiù. Con il cioccolato fuso forma dei dischi su una teglia foderata con carta da forno e distribuisci il mix di frutta secca sul cioccolato. Quando sarà consolidato, ecco pronti golosi talleri alla frutta secca. Trovi la ricetta su www.saison.ch/ it/consigliamo e tutti gli ingredienti freschi alla tua Migros.

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L’INDUSTRIA MIGROS E I SUOI PRODOTTI. Latte, bevande a base di latte, yogurt, formaggio fresco, salse, maionese.

Caffè, caffè in capsule, frutta secca, spezie, noci.

Ice Tea, succhi di frutta, prodotti pronti, prodotti a base di patate e prodotti a base di frutta.

Carne fresca, pesce, salumi, pollame.

a partire da 2 confezioni

20% Tutti i tipi di pasta Tradition, TerraSuisse per es. tagliatelle, 500 g, 3.15 invece di 3.95

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Formaggio per raclette Raccard, Gruyère AOP, Appenzeller, fondue.

Acqua minerale, sciroppo, succhi di frutta.

Biscotti, Blévita, gelati, dessert in polvere, frittelle di Carnevale, prodotti da forno per l’aperitivo.

Prodotti trattanti, sostanze cosmetiche attive, detersivi e detergenti, margarine, grassi commestibili.

Diverse varietà di riso, riso al latte, varietà speciali di riso.

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Altre offerte. Pesce, carne e pollame

Prodotti Cornatur in conf. da 2, per es. scaloppine di quorn al pepe e al limone, 2 x 220 g, 8.80 invece di 11.– 20%

Crackers Gran Pavesi, per es. Le Sfoglie, 160 g, 2.30 invece di 2.90 20%

Panettone e pandoro cioccolata al metro, per es. panettone al metro, 440 g, 5.20 invece di 6.50 20% Tutte le cozze MSC, per es. con aglio, pesca, Atlantico nordorientale, 760 g, 7.40 invece di 10.70 30%

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20%

7.50 invece di 9.40 Tutti i müesli Farmer Croc in conf. da 2 per es. con noci di pecan, 2 x 500 g

a partire da 2 pezzi

Filetti di trota affumicati M-Classic in conf. da 3, ASC, d’allevamento, Danimarca, 3 x 125 g, 7.40 invece di 11.10 33%

di riduzione l’uno

Arrosto collo di vitello TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g, 2.85 invece di 3.60 20%

– .3 0

Tutte le salse in bustina Bon Chef a partire da 2 pezzi, –.30 di riduzione l’uno, per es. salsa legata per arrosto, 30 g, 1.20 invece di 1.50

Pizzoccheri, prodotti in Ticino, confezione take away, per 100 g, 1.75 invece di 2.20 20%

Pane e latticini

Carciofi con gambo, La Reinese, 900 g, 10.90

Near Food/Non Food

20% Tutte le farine speciali per es. farina per treccia TerraSuisse, 1 kg, 1.90 invece di 2.40

20%

Pane con 0,7% di sale, 250 g, 1.90 invece di 2.40 20%

Herbs deep breath, 400 ml, 5.50 Novità ** Höhlengold Cremoso, per 100 g, 2.80 Novità ** Miscela autunnale M-Classic, 150 g, 2.90 Novità **

Fiori e piante

Noci moscate intere Migros Bio, Fairtrade, 4 pezzi, 24 g, 2.50 Novità ** Pepe bianco, Migros Bio, Fairtrade, 115 g, 5.20 Novità **

Tutti i lumini da cimitero Ambiance, a partire da 3 pezzi, 20% di riduzione

Rose M-Classic, Fairtrade, disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo 40 cm, mazzo, 20 pezzi, per es. arancioni, 10.90 invece di 12.90 2.– di riduzione Bouquet autunnale Fiona, il mazzo, 12.90 Hit

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Magia di susine spalmabile Sélection, 240 g, 3.20 Novità *,**

Calzini da uomo neri John Adams in conf. da 10, disponibili nei numeri 39–42 e 43–46, 17.90 Hit **

Tè e tisane Sélection, chai matcha e magia alle erbe, per es. chai matcha, 15 bustine, 5.70 Novità *,**

Calzini da donna Next by Rohner in conf. da 3 o fantasmini da donna Ellen Amber, disponibili in diversi colori e misure, per es. calzini da donna Next by Rohner, neri, numeri 35–38, 9.90 Hit **

Tetley London Blend, 25 bustine, 2.95 Novità *,**

Ombrello pieghevole, disponibile in diversi colori e motivi, per es. petrolio, il pezzo, 7.40 invece di 14.80 50% ** Fondue Swiss-Style moitié-moitié e Tradition in conf. da 2, per es. moitié-moitié, 2 x 800 g, 22.40 invece di 28.– 20%

Assorbenti igienici Always Discreet Liners Plus, 24 pezzi, 5.20 Novità **

Smarties in conf. da 2, per es. mini, 2 x 216 g, 5.70 invece di 8.20 30%

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Idee e acquisti per la settimana

Noi firmiamo. Noi garantiamo.

La super golosa di patatine

Cercavamo un’insaziabile mangiatrice di Farm Chips e l’abbiamo trovata. A Pascale Metzger è stato addirittura affibbiato il soprannome di «Pommes Chips». E visitando l’industria alimentare Bischofszell ha potuto assistere personalmente alla produzione delle sue patatine preferite Testo Claudia Langenegger; Foto Paolo Dutto

Pascale Metzger (31 anni) La super golosa con il suo prodotto preferito: le Farm Chips al gusto di rosmarino.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 ottobre 2016 • N. 42

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Idee e acquisti per la settimana

Cuffia in testa, camice bianco e mani ben disinfettate: Pascale Metzger e la nonna Trudi (70 anni) sono pronte per la visita della Bischofszell Alimentari AG (BINA). Qui si produce lo snack di cui Pascal è super ghiotta: le Farm Chips, disponibili nei gusti nature, erbe aromatiche svizzere, rosmarino e origano. «Quelle al rosmarino sono le mie predilette», confessa. Quanto ne sia golosa lo sanno perfino i suoi allievi della scuola pedagogica speciale di Rheinfelden (AG), che ormai chiamano la loro assistente con il nomignolo di «Frau Pommes Chips», come racconta lei stessa ridendo. I padiglioni, dove ogni anno vengono lavorate 11’000 tonnellate di patate, sono giganteschi. Tubi cromati attraversano le sale, ovunque si vedono enormi contenitori d’acciaio, imbuti immensi e macchinari industriali. L’attività ferve: i nastri trasportatori girano, l’acqua scorre, i suoni meccanici riecheggiano. Improvvisamente si leva nell’aria il familiare profumo di patate. Lungo il muro sono accatastate le cassette di legno piene di tuberi appena cavati da terra. «È bello vedere che le chips vengono fatte partendo dalle patate intere», osserva Pascale Metzger. Una scoperta natalizia

Per iniziare, le patate vengono lavate e strofinate, ma la buccia resta su tutte varietà di Farm Chips. In seguito, vengono immesse su un nastro trasportatore e avviate verso un sensore ottico, che scarta quelle «brutte». «Wow», esclama Pascale dall’alto della pedana che sovrasta la macchina, vedendo a che velocità viene eseguita l’operazione. «È una tecnologia impressionante». Dopodiché, i tuberi abbandonano il rumoroso pian terreno attraverso un tubo che li fa approdare al piano superiore, dove sono tagliati a fette, fritti e imballati. Le nostre due visitatrici si incamminano, intanto, su per una scala dove aleggia il profumo di basilico e origano. «Che buon odore», esclama Trudi. Anche tutti gli aromi delle Farm Chips provengono dai campi elvetici. Si può perciò dire che queste chips sono svizzere al 100%. «Quando ero piccola, a casa della nonna c’erano spesso le chips e mio nonno ne dava sempre un po’ a me e mia sorella. Le sgranocchiavo leggendo o guardando la televisione», ricorda Pascale Metzger. Il suo gusto preferito, però, la 31enne, l’ha scoperto solo lo scorso Natale. «A casa dei genitori del mio ragazzo c’erano le Farm Chips al rosmarino. Ne rimasi folgorata». La prima cosa che fece appena riaprirono i negozi dopo la pausa natalizia fu di andare a comprarle.

«Finalmente ho ritrovato delle buone chips. Sono migliori delle altre, perché sono naturali e si sente il gusto di patata». Per un lungo periodo doveva andare a rifornirsi alle Migros di Riehen (BL) o Rheinfelden (AG), perché fino a poco tempo fa le Farm Chips non c’erano nel negozio di Liestal (BL), dove abita. «Adesso ne tengo sempre una scorta. Di recente mia sorella aveva bisogno urgentemente di patatine e, naturalmente, voleva le “mie” Farm Chips, perché sono le migliori. Però non ero a casa. Per fortuna lei ha una chiave di casa mia e ha potuto andare a prenderle». Le Farm Chip sono arrivate sugli scaffali nel maggio 2014. Quante esattamente ne sono state prodotte da allora è un segreto industriale. La BINA rivela solo: «Produciamo complessivamente 15 milioni di sacchetti di patatine all’anno, vale a dire 68’000 per ogni giorno lavorativo». Fresche di fabbrica

Appena tagliate, le fette schizzano fuori da un tubo rotante, dove vengono risciacquate ad alta pressione per eliminare la fecola in eccesso. Affascinata, Pascale sale sulla scala per guardare più da vicino. Le fette scompaiono rapidamente in un gigantesco serbatoio d’acciaio cromato: la friggitrice. È riempita con due metri cubi e mezzo d’olio di girasole. Da qui raggiungono ancora calde la sala adiacente, dove vengono speziate e imballate. «Ooh, io rimango qua», esclama Pascale quando vede tutte quelle calde patatine profumate che vengono trasportate da una postazione all’altra. Qui tutto è estremamente sterilizzato, ma l’aspetto infantile salta fuori lo stesso. Le due visitatrici non hanno occhi che per la distesa di chips sul nastro trasportatore. L’argoviese, che da dieci anni abita a Basilea Campagna, non le aveva mai assaggiate così fresche: sono ancora calde. Ora le croccanti patatine vengono selezionate: negli imballaggi finiscono solo quelle belle grosse. Prima vengono speziate, quindi infilate nei sacchetti nella tecnologica postazione di confezionamento climatizzata. «Attualmente vengono sigillati 75 sacchetti al minuto», spiega l’addetto che sorveglia le macchine in questa fase di produzione. Per il tocco finale c’è bisogno di una persona in carne e ossa: una signora riempie le scatole con 16 buste da 150 grammi. Poi il coperchio viene chiuso, un robot stampa le scatole di cartone e le avvolge nella plastica. Ecco che sono pronte per la spedizione. Naturalmente la nostra super golosa riceve qualche sacchetto di chips da portare a casa. Sorridenti, Pascale e la nonna ne aprono uno. Le patatine sono ancora calde. Un sogno!

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1 La super golosa Pascale Metzger (seconda da sin. accanto alla nonna Trudi) parla con Corinne Harder, responsabile della comunicazione della BINA. 2 Impressionate dalla grandezza dei padiglioni. Corinne Harder spiega a Pascale Metzger l’attività delle postazioni di produzione delle patatine. 3 Le chips cadono giù dal nastro trasportatore e, passando attraverso un filtro, sono suddivise in porzioni e preparate per il confezionamento. 4 Nel frattempo la pellicola dell’imballaggio viene srotolata da un rullo. In seguito viene piegata e incollata. 5 Imballate in buste, le chips vengono preparate per il trasporto verso le filiali Migros. Ogni giorno escono dalla BINA 68’000 sacchetti di patatine.


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Idee e acquisti per la settimana

Cuffia in testa, camice bianco e mani ben disinfettate: Pascale Metzger e la nonna Trudi (70 anni) sono pronte per la visita della Bischofszell Alimentari AG (BINA). Qui si produce lo snack di cui Pascal è super ghiotta: le Farm Chips, disponibili nei gusti nature, erbe aromatiche svizzere, rosmarino e origano. «Quelle al rosmarino sono le mie predilette», confessa. Quanto ne sia golosa lo sanno perfino i suoi allievi della scuola pedagogica speciale di Rheinfelden (AG), che ormai chiamano la loro assistente con il nomignolo di «Frau Pommes Chips», come racconta lei stessa ridendo. I padiglioni, dove ogni anno vengono lavorate 11’000 tonnellate di patate, sono giganteschi. Tubi cromati attraversano le sale, ovunque si vedono enormi contenitori d’acciaio, imbuti immensi e macchinari industriali. L’attività ferve: i nastri trasportatori girano, l’acqua scorre, i suoni meccanici riecheggiano. Improvvisamente si leva nell’aria il familiare profumo di patate. Lungo il muro sono accatastate le cassette di legno piene di tuberi appena cavati da terra. «È bello vedere che le chips vengono fatte partendo dalle patate intere», osserva Pascale Metzger. Una scoperta natalizia

Per iniziare, le patate vengono lavate e strofinate, ma la buccia resta su tutte varietà di Farm Chips. In seguito, vengono immesse su un nastro trasportatore e avviate verso un sensore ottico, che scarta quelle «brutte». «Wow», esclama Pascale dall’alto della pedana che sovrasta la macchina, vedendo a che velocità viene eseguita l’operazione. «È una tecnologia impressionante». Dopodiché, i tuberi abbandonano il rumoroso pian terreno attraverso un tubo che li fa approdare al piano superiore, dove sono tagliati a fette, fritti e imballati. Le nostre due visitatrici si incamminano, intanto, su per una scala dove aleggia il profumo di basilico e origano. «Che buon odore», esclama Trudi. Anche tutti gli aromi delle Farm Chips provengono dai campi elvetici. Si può perciò dire che queste chips sono svizzere al 100%. «Quando ero piccola, a casa della nonna c’erano spesso le chips e mio nonno ne dava sempre un po’ a me e mia sorella. Le sgranocchiavo leggendo o guardando la televisione», ricorda Pascale Metzger. Il suo gusto preferito, però, la 31enne, l’ha scoperto solo lo scorso Natale. «A casa dei genitori del mio ragazzo c’erano le Farm Chips al rosmarino. Ne rimasi folgorata». La prima cosa che fece appena riaprirono i negozi dopo la pausa natalizia fu di andare a comprarle.

«Finalmente ho ritrovato delle buone chips. Sono migliori delle altre, perché sono naturali e si sente il gusto di patata». Per un lungo periodo doveva andare a rifornirsi alle Migros di Riehen (BL) o Rheinfelden (AG), perché fino a poco tempo fa le Farm Chips non c’erano nel negozio di Liestal (BL), dove abita. «Adesso ne tengo sempre una scorta. Di recente mia sorella aveva bisogno urgentemente di patatine e, naturalmente, voleva le “mie” Farm Chips, perché sono le migliori. Però non ero a casa. Per fortuna lei ha una chiave di casa mia e ha potuto andare a prenderle». Le Farm Chip sono arrivate sugli scaffali nel maggio 2014. Quante esattamente ne sono state prodotte da allora è un segreto industriale. La BINA rivela solo: «Produciamo complessivamente 15 milioni di sacchetti di patatine all’anno, vale a dire 68’000 per ogni giorno lavorativo». Fresche di fabbrica

Appena tagliate, le fette schizzano fuori da un tubo rotante, dove vengono risciacquate ad alta pressione per eliminare la fecola in eccesso. Affascinata, Pascale sale sulla scala per guardare più da vicino. Le fette scompaiono rapidamente in un gigantesco serbatoio d’acciaio cromato: la friggitrice. È riempita con due metri cubi e mezzo d’olio di girasole. Da qui raggiungono ancora calde la sala adiacente, dove vengono speziate e imballate. «Ooh, io rimango qua», esclama Pascale quando vede tutte quelle calde patatine profumate che vengono trasportate da una postazione all’altra. Qui tutto è estremamente sterilizzato, ma l’aspetto infantile salta fuori lo stesso. Le due visitatrici non hanno occhi che per la distesa di chips sul nastro trasportatore. L’argoviese, che da dieci anni abita a Basilea Campagna, non le aveva mai assaggiate così fresche: sono ancora calde. Ora le croccanti patatine vengono selezionate: negli imballaggi finiscono solo quelle belle grosse. Prima vengono speziate, quindi infilate nei sacchetti nella tecnologica postazione di confezionamento climatizzata. «Attualmente vengono sigillati 75 sacchetti al minuto», spiega l’addetto che sorveglia le macchine in questa fase di produzione. Per il tocco finale c’è bisogno di una persona in carne e ossa: una signora riempie le scatole con 16 buste da 150 grammi. Poi il coperchio viene chiuso, un robot stampa le scatole di cartone e le avvolge nella plastica. Ecco che sono pronte per la spedizione. Naturalmente la nostra super golosa riceve qualche sacchetto di chips da portare a casa. Sorridenti, Pascale e la nonna ne aprono uno. Le patatine sono ancora calde. Un sogno!

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1 La super golosa Pascale Metzger (seconda da sin. accanto alla nonna Trudi) parla con Corinne Harder, responsabile della comunicazione della BINA. 2 Impressionate dalla grandezza dei padiglioni. Corinne Harder spiega a Pascale Metzger l’attività delle postazioni di produzione delle patatine. 3 Le chips cadono giù dal nastro trasportatore e, passando attraverso un filtro, sono suddivise in porzioni e preparate per il confezionamento. 4 Nel frattempo la pellicola dell’imballaggio viene srotolata da un rullo. In seguito viene piegata e incollata. 5 Imballate in buste, le chips vengono preparate per il trasporto verso le filiali Migros. Ogni giorno escono dalla BINA 68’000 sacchetti di patatine.


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Idee e acquisti per la settimana

Azione* 30% sugli Original Rösti in confezione tripla 3 x 500 g Fr. 4.05 invece di 5.85

Azione* 20% su tutte le Chips Léger, Royal e Farm Chips p.es. Royal Chips Blue/Nature Fr. 2.70 invece di 3.40

Azione* 20% su tutti succhi Sarasay, p.es. Max Havelaar Multivitaminico 1 l Fr. 2.20 invece di 2.80

Selezione di prodotti

Oltre ai vari tipi di chips, l’industria Migros BINA realizza altri prodotti alimentari, di cui vi presentiamo una selezione

Kult Ice Tea Limone PET, 50 cl Fr. –.90 Azione* Tutte le confetture e gelée in vasetto e sacchetto 185-500 g (senza Alnatura), da 2 pezzi 20% di sconto, p.es. Favorit les Suisses Confettura albicocche 350 g Fr. 2.80 invece di 3.50

Giro in bus Il viaggio in bus diventa un film Attraverso passi alpini e quartieri di grandi città. Nelle scorse due settimane, il vecchio autobus della Migros rimesso a nuovo ha attraversato il Paese in lungo e in largo, facendo tappa davanti alla porta delle 20 persone vincitrici del nostro concorso.

Azione* 20% su tutto l’assortimento Farmer’s Best surgelati, p. es. Fagiolini 750 g Fr. 2.85 invece di 3.60

Il Tour de Suisse in bus era accompagnato da una squadra cinematografica, che ha prodotto un documentario di due minuti con le bellissime immagini dei fortunati vincitori. Il film si può vedere su: www.momenti-migros.ch

Azione* 20% sui menu Anna’s Best in conf. doppia, p. es. Chicken Satay 2 x 400 g Fr. 12.40 invece di 15.60

Azione* 20% sugli Anna’s Best Spätzli in confezione multipla, p.es. Spätzli triopack 3 x 500 g Fr. 6.70 invece di 8.40

*Le offerte speciali durano dal 18.10 al 24 ottobre 2016.


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Idee e acquisti per la settimana

pH-Balance

La cura giusta per le pelli sensibili

Con l’arrivo dell’autunno la pelle viene strapazzata dal cambiamento climatico. Soprattutto la pelle sensibile necessita di cure speciali. La linea pH-Balance offre i prodotti adeguati. Sigrid Schneider, responsabile Ricerca e Sviluppo per la cura della pelle presso Mibelle Group, ci fornisce consigli utili per i giorni più freddi

pH-Balance latte per il corpo 250 ml Fr. 4.50

Testo Annette Wolffram Eugster; Foto Christian Dietrich

Sigrid Schneider, come si riconosce una pelle sensibile?

La pelle sensibile è spesso secca e si arrossa facilmente. Reagisce anche particolarmente in fretta agli influssi ambientali e può reagire irritandosi all’uso di cosmetici e detersivi. Perché la linea pH-Balance è indicata per la pelle sensibile?

tivamente, cinque per cento di urea. Quali sono le loro proprietà?

Il dexpantenolo ha proprietà idratanti, antiinfiammatorie e calmanti sulla pelle. Il bisabololo è una sostanza estratta dalla camomilla che favorisce la resistenza della pelle. L’urea previene la disidratazione, facilita la guarigione e viene usata già da molti anni contro le malattie della pelle.

Le formulazioni sono particolarmente dolci, delicate sulla pelle e arricchite con pregiati complessi curativi che proteggono l’epidermide. La calmano e la proteggono dalla disidratazione. Inoltre, badiamo che i prodotti siano discretamente profumati e rinunciamo a sostanze profumanti potenzialmente allergiche. Infine, le formulazioni sono prive di coloranti.

La pelle deve ora adattarsi alla nuova stagione. A cosa bisogna prestare attenzione?

Tutti i prodotti di pH-Balance contengono dexpantenolo e bisabololo. I prodotti per la pelle molto secca contengono in aggiunta dieci, rispet-

Aria calda all’interno, umidità e freddo fuori: come possiamo proteggere la pelle dalle oscillazioni di temperatura?

A causa dei riscaldamenti e del freddo, la pelle in inverno rimane più secca. Le persone con una pelle sensibile necessitano di una cura intensa. In estate la cute tende maggiormente a sudare per regolare lo scambio termico. Pertanto la crema dovrebbe essere più leggera e meno oleosa.

In inverno la crema dovrebbe essere applicata almeno 10-20 minuti prima di uscire di casa, per evitare che con le temperature particolarmente fredde l’acqua contenuta nella crema geli e irriti ulteriormente la cute. Durante la stagione più fredda i bagni caldi sono benefici. Fare il bagno o la doccia sovente non disidrata ulteriormente la pelle?

Il contatto prolungato con l’acqua fa gonfiare la pelle, che tende quindi a perdere più acqua. In questo caso una docciacrema intensamente curativa e una lozione per il corpo nutriente sono molto importanti.

pH-Balance crema per il viso 75 ml Fr. 5.90

I prodotti pH-Balance sono indicati anche per pelli normali o grasse?

Sì. Se però si ha la sensazione che questi prodotti siano troppo ricchi, meglio optare per prodotti dalla consistenza più leggera.

pH-Balance shampoo 250 ml Fr. 4.70

Sigrid Schneider sa esattamente di che cosa ha bisogno la pelle.

pH-Balance docciacrema 250 ml Fr. 3.90

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche i prodotti per la cura della pelle pH-Balance.


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Idee e acquisti per la settimana

Buono a sapersi

La cura giusta per le giacche di piumino

Ellen Amber

Leggerissime e caldissime Le giacche di piumino di Ellen Amber sono il capo d’abbigliamento perfetto per l’autunno: leggere come piume e caldissime. Inoltre si possono compattare nella borsettina allegata, così da portarle dappertutto. Le giacche sono imbottite con piume certificate di alta qualità, pro-

Chi porta una giacca di piumino solo nella vita quotidiana e la ripone asciutta e pulita, può godersela a lungo anche senza lavarla. Basta farle prendere aria. Le parti più esposte, come i polsini o il collo, si possono pulire con una spugna umida. Lo sporco tenace o le macchie di grasso, tuttavia, si possono togliere solo con il lavaggio.

Giacca di piumino da donna taglie S-XXL Fr. 69.– Giacca Teddy da donna taglie S-XXL Fr. 39.80

venienti da allevamenti che rispettano le particolarità degli animali. Il volume dell’imbottitura garantisce una buona isolazione e le piccole camere d’aria mantengono caldo il corpo. Le giacche sono corte o lunghe, con o senza cappuccio, e disponibili in diversi colori.

Borsa da ginnastica di piumino Fr. 29.80 Jeans da jogging da donna taglie S-XXL Fr. 49.80

Le giacche di piumino si possono lavare o con lo speciale programma lana o piumino, oppure con un normale programma a 30 gradi (lavaggio delicato). Seguire le indicazioni riportate sull’etichetta. La piuma bagnata si compatta, si raggruma e non isola più bene. Facendola asciugare a regola d’arte riprende le sue proprietà. Un consiglio: far asciugare gli articoli di piumino nell’asciugatrice con un paio di palline da tennis, che sbattendo contro l’imbottitura di piuma contribuiscono ad allentarla. Affinché possano tornare a sviluppare tutto il loro volume, le piume devono essere assolutamente asciutte. Se si utilizza un programma con un certo grado di asciugatura, il programma termina automaticamente non appena lo strato esterno dell’articolo ha raggiunto l’effetto di asciugatura desiderato. I prodotti di piumino, però, sono ancora umidi all’interno. Si raccomanda quindi di avviare un ulteriore programma a tempo.

Mantello di piumino da donna taglie S-XXL Fr. 79.–

Giacca di piumino da donna taglie S-XXL Fr. 69.– Maglietta da donna taglie S-XXL Fr. 24.80 Jeans da donna taglie 36-46 Fr. 49.90

Pullover da donna taglie S-XXL Fr. 49.80 Berretto di maglia da donna taglia unica Fr. 14.80 Scarpe da donna taglie 36-41 Fr. 49.80

Testo Anette Wolffram-Eugster; Foto Mirjam Kluka

Jeans da donna taglie 36-46 Fr. 49.90


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Buono a sapersi

La cura giusta per le giacche di piumino

Ellen Amber

Leggerissime e caldissime Le giacche di piumino di Ellen Amber sono il capo d’abbigliamento perfetto per l’autunno: leggere come piume e caldissime. Inoltre si possono compattare nella borsettina allegata, così da portarle dappertutto. Le giacche sono imbottite con piume certificate di alta qualità, pro-

Chi porta una giacca di piumino solo nella vita quotidiana e la ripone asciutta e pulita, può godersela a lungo anche senza lavarla. Basta farle prendere aria. Le parti più esposte, come i polsini o il collo, si possono pulire con una spugna umida. Lo sporco tenace o le macchie di grasso, tuttavia, si possono togliere solo con il lavaggio.

Giacca di piumino da donna taglie S-XXL Fr. 69.– Giacca Teddy da donna taglie S-XXL Fr. 39.80

venienti da allevamenti che rispettano le particolarità degli animali. Il volume dell’imbottitura garantisce una buona isolazione e le piccole camere d’aria mantengono caldo il corpo. Le giacche sono corte o lunghe, con o senza cappuccio, e disponibili in diversi colori.

Borsa da ginnastica di piumino Fr. 29.80 Jeans da jogging da donna taglie S-XXL Fr. 49.80

Le giacche di piumino si possono lavare o con lo speciale programma lana o piumino, oppure con un normale programma a 30 gradi (lavaggio delicato). Seguire le indicazioni riportate sull’etichetta. La piuma bagnata si compatta, si raggruma e non isola più bene. Facendola asciugare a regola d’arte riprende le sue proprietà. Un consiglio: far asciugare gli articoli di piumino nell’asciugatrice con un paio di palline da tennis, che sbattendo contro l’imbottitura di piuma contribuiscono ad allentarla. Affinché possano tornare a sviluppare tutto il loro volume, le piume devono essere assolutamente asciutte. Se si utilizza un programma con un certo grado di asciugatura, il programma termina automaticamente non appena lo strato esterno dell’articolo ha raggiunto l’effetto di asciugatura desiderato. I prodotti di piumino, però, sono ancora umidi all’interno. Si raccomanda quindi di avviare un ulteriore programma a tempo.

Mantello di piumino da donna taglie S-XXL Fr. 79.–

Giacca di piumino da donna taglie S-XXL Fr. 69.– Maglietta da donna taglie S-XXL Fr. 24.80 Jeans da donna taglie 36-46 Fr. 49.90

Pullover da donna taglie S-XXL Fr. 49.80 Berretto di maglia da donna taglia unica Fr. 14.80 Scarpe da donna taglie 36-41 Fr. 49.80

Testo Anette Wolffram-Eugster; Foto Mirjam Kluka

Jeans da donna taglie 36-46 Fr. 49.90


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Passion Joghurt

Una passione fruttata Con l’arrivo dell’autunno nei reparti refrigerati Migros ritornano due amate varietà di joghurt firmate Passion: fichi e noci. Sia nel müesli mattutino oppure come spuntino tra un pasto e l’altro, il segreto di queste dolci creazioni sta nella loro consistenza cremosa così come nell’accurata scelta degli ingredienti. I fichi conferiscono allo joghurt un’aromatica dolcezza, mentre la variante alle noci regala non solo un piacere gustativo, ma anche preziosa energia.

Special Edition Gli Joghurt fichi e noci di Passion

Passion Joghurt Special Edition Fichi 180 g* Fr. 1.–

Passion Joghurt Special Edition Noci 180 g* Fr. 1.–

*Nelle maggiori filiali

Le due specialità autunnali Passion-Joghurt alle noci e ai fichi sono disponibili solo per un breve periodo.

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche gli joghurt Passion.


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