Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXX 16 gennaio 2017
Azione 03 M sh alle p opping agin e 33 -35
Società e Territorio Intervista al filosofo francese François Jullien autore di Essere o vivere?
Ambiente e Benessere Il 2 febbraio è la giornata mondiale dedicata a paludi, torbiere e altri acquitrini: ambienti naturali da riscoprire
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Politica e Economia In Europa le forze eurofobe e xenofobe cavalcano l’onda Trump
Cultura e Spettacoli Le parole sono importanti: ricordo del linguista italiano Tullio De Mauro
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Inizia l’era Donald Trump
di Federico Rampini pagina 18
AFP
In attesa del ritorno di un passato di Peter Schiesser Il 20 gennaio è alle porte, il Trump’s reality show può avere inizio – e per quattro anni nessuno potrà cambiare canale. A dire il vero, la sua presidenza è già cominciata: i suoi recenti tweet a grosse imprese americane e straniere hanno sortito effetti immediati, economici e politici. Comanda già lui. Povero Obama: non gli lasciano nemmeno il tempo di asciugare le lacrime di commozione per gli anni passati alla Casa Bianca prima di essere consegnato alla storia; tutti sono ansiosi di sapere nome e genere del pezzo teatrale che Trump intende recitare sul palcoscenico nazionale e mondiale, con la sua squadra di anziani miliardari e generali in pensione. Ma uno può fare il presidente a colpi di tweet, o può soltanto farsi eleggere così? Questo che si inaugura venerdì sarà il più incredibile esperimento politico al confine fra democrazia e caudillismo (figura di autocrate latinoamericano in cui si mescolano e rafforzano consenso e autoritarismo) che gli Stati Uniti, e di conseguenza il mondo, abbiano mai vissuto in epoca recente. Vedremo molto presto se il decantato sistema di checks and balances saprà davvero neutralizza-
re almeno gli impulsi più distruttivi del carattere di The Donald, se Trump è abbastanza accorto da governare tenendo conto di interessi più grandi di lui, o se la sua megalomania non ha confini, rafforzandolo nel suo ruolo di capo rivolta. Per una volta non è retorico scrivere che il mondo attende con il fiato sospeso. Da come imposterà la sua politica nei confronti del Nafta, l’accordo di libero scambio con Canada e Messico che tante fabbriche ha portato nel paese latinoamericano dal 1994, si capirà quali conseguenze potrà avere la sua politica economica per gli Stati Uniti e per il mondo. Oltre 20 anni di Nafta hanno concatenato le economie dei tre paesi in modo tale che un ritorno al protezionismo creerebbe solo perdenti: danneggia chi esporta e chi importa. Siccome un articolo viene prodotto in parte in un paese e in parte in un altro o più paesi, ci perdono tutti (si calcola che in ogni dollaro di merce esportata dal Messico negli Stati Uniti stanno 40 centesimi generati da imprese statunitensi). E c’è una logica se le auto utilitarie vengono prodotte in Messico ma i veicoli di lusso negli Stati Uniti: quella del prezzo che il cittadino americano medio è disposto a pagare per un’auto e del prezzo di un’auto importata dalla concorrenza estera (perlopiù
asiatica, compresa la Cina che da poco, tramite il Guangzhou Automobile Group, sta prendendo piede negli Stati Uniti). Le ricadute economiche del Nafta hanno inoltre generato un’inversione dei flussi migratori fra Messico e Stati Uniti: dal 2009 ci sono più messicani che lasciano gli Stati Uniti per tornare a casa di messicani che emigrano negli USA; danneggiare l’economia messicana, impedendo a imprese americane di impiantarvisi, avrebbe come conseguenza una nuova pressione migratoria verso nord (ciò che poi rafforzerebbe la «necessità» di un muro tra Stati Uniti e Messico). Da come Donald Trump si muoverà sul palcoscenico internazionale e da come si arrangerà con la Russia e la Cina, si capirà se a livello mondiale dovremo assistere o meno a un rafforzamento delle tendenze autoritarie in politica e di conseguenza a un minore rispetto dei diritti umani nel mondo, con il macabro corollario di uccisioni, sparizioni, arresti, torture di persone critiche verso l’ordine costituito (ciò che nel Terzo mondo già avviene in modo massiccio). Capiremo presto se una battuta d’arresto della globalizzazione economica si accompagnerà ad una riedizione di imperialismi vecchio stile, con un conseguente e più palese neo-colonialismo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Attualità Migros
M Fare il pieno di vitamine iMpuls Il clima invernale chiede al nostro
corpo una difesa in più contro i malanni stagionali: il parere di un’esperta nutrizionista
Signora Erb, da dove attinge il suo fabbisogno giornaliero di vitamine?
Per avere un adeguato apporto di vitamine di base seguo un’alimentazione
sufficientemente variata ed equilibrata. Vitamine e minerali essenziali sono presenti non solo nella frutta e nella verdura, bensì anche in molti altri alimenti, come per esempio pesci, latticini, noci, oli vegetali o cereali. L’inverno è stagione di raffreddamenti: quali sono le vitamine particolarmente importanti in questo periodo?
Affinché il sistema immunitario possa funzionare normalmente non è importante il solo apporto di vitamine, bensì quello globale di vitamine, oligoelementi, proteine, acidi grassi, ecc. Un ruolo speciale lo gioca la vitamina C. Studi scientifici dimostrano che in caso di raffreddamento la vitamina C può ridurre la gravità e la durata dei sintomi. Detto con altre parole: chi assume sufficienti vitamine, in particolare vitamina C, in media tossisce e soffia meno il naso, rispettivamente guarisce più velocemente.
dovrebbero mancare verdure cotte al dente, zuppe calde di verdure o gratin di verdure multicolori, anche se nel corso della cottura il contenuto di alcune vitamine può diminuire leggermente.
Insalate, frutta e bacche fresche così come le verdure crude hanno un contenuto di vitamine particolarmente alto. Alcune componenti delle verdure risultano invece più facili da assimilare se intiepidite o sminuzzate. Per questo motivo sulla tavola non
In termini generali bisognerebbe consumare frutta e verdura molto fresche, che di conseguenza andrebbero conservate il minor tempo possibile a casa. Prima del consumo sono da lavare solo brevemente e quindi da cuocere al dente in poca acqua. Tempi di conservazione lunghi o cotture
Crudo o cotto: che ruolo ha la preparazione?
www.migros-impuls.ch
Bevande calde, frutta e verdura fresche: sono i sistemi più semplici ed efficaci con cui molte persone affrontano i rigori dell’inverno. A combattere influenza e raffreddori, per gran parte della popolazione, contribuiscono soprattutto gli agrumi, che contengono molta vitamina C e stimolano il sistema immunitario. Ma anche i kiwi rappresentano un ottimo serbatoio di salute, così come pere, mele e tutta la verdura in generale, sia cruda sia sotto forma di minestre. Molto importante, comunque, è anche mantenere un’attività fisica regolare all’aperto: ben coperti e protetti possiamo affrontare semplici passeggiate oppure praticare attività più sportive come jogging o sci di fondo. Abbiamo pensato di chiedere a un’esperta nutrizionista alcune spiegazioni e consigli sul modo migliore per attraversare in piena forma la stagione invernale. Ecco dunque cosa ci ha detto Annina Erb, Responsabile alimentazione e salute presso la Federazione delle cooperative Migros.
A cosa si deve prestare attenzione?
Divertimento assicurato per tutti i giovani sciatori
Grand Prix Migros 2017 Le tappe in calendario sono 13
e gli appassionati dagli 8 ai 16 anni d’età potranno qualificarsi alla grande finale, programmata in aprile ad Adelboden
Lo scarso innevamento non arresta il tour di questa grande manifestazione iniziata al scorsa settimana a Grächen, nell’Alto Vallese: le rinomate località svizzere che ospitano il Grand Prix sono supportate dai rispettivi Sci Club e dall’ente promotore, Swiss-Ski. Il Grand Prix Migros rappresenta la più importante competizione sciistica per juniori a livello europeo. Nel corso degli anni ha registrato una partecipazione complessiva di poco meno di 7000 giovani sportivi. Oltre ai percorsi di slalom gigante che caratteriz-
zano la gara, per gli sciatori dagli 8 a 16 anni, verrà riproposta la «Minigara». È costituita da un tracciato più facile, per far scoprire a bambini di 6 e 7 anni l’ebbrezza e il divertimento di una vera gara di sci senza l’assillo della classifica. Al sud delle Alpi il Grand Prix andrà in scena sulle nevi di Airolo Pesciüm domenica 19 febbraio. Per l’occasione, il tandem organizzativo di Valbianca SA e dello Sci Club Airolo sapranno soddisfare le aspettative di partecipanti e pubblico. Il villaggio degli sponsor, inoltre, con i vari giochi e la distribuzione di premi, contribuirà a rallegrare la giornata. Ci saremo anche noi di «Azione» e riferiremo sull’edizione del 27 febbraio. Da subito ci si può iscrivere online sul sito www. gp-migros.ch: per la tappa di Airolo le iscrizioni scadono il 6 di febbraio!
Grand Prix Migros, 19 febbraio 2017, Airolo-Pesciüm
Calendario appuntamenti 2017 Gennaio
8 Grächen 14 Les Diablerets 15 Schönried 21 Obersaxen 29 Wengen/ Grindelwald
Febbraio
4 Hoch-Ybrig 12 Sörenberg 19 Airolo
Marzo
5 Wildhaus 11 Les Crosets 12 Lenk 19 Arosa 25 Nendaz
1-2 Finale ad Adelboden
Aprile
prolungate comportano una perdita di vitamine.
Consiglio
Freschi o surgelati: quali implicazioni per il contenuto di vitamine?
Verdure e frutti sono più nutrienti appena raccolti. Nel corso della conservazione si riduce il contenuto delle vitamine, dal momento che sono sensibili a calore, luce e ossigeno. Il sistema di conservazione più rispettoso degli alimenti è la surgelazione. Se frutta e verdura surgelate vengono mantenute ad almeno –18° C e poi cotte delicatamente risultano ricche di vitamine quasi quanto i prodotti freschi o dell’orto.
Gli agrumi, un aiuto in inverno
Nella stagione fredda è utile far uso di agrumi: sono ricchi di vitamina C e stimolano il sistema immunitario. www.migros-impuls.ch iMpuls è la nuova iniziativa in favore della salute di Migros
Successo per la raccolta fondi natalizia Solidarietà Raccolti 3,82 milioni di franchi
per le persone bisognose in Svizzera Anche quest’anno i clienti di Migros hanno dimostrato una grande solidarietà verso le persone bisognose in Svizzera. Acquistando cuori di cioccolato hanno donato oltre 2,8 milioni di franchi. Migros ha aumentato di un milione l’importo della donazione, raggiungendo così la somma di 3,82 milioni di franchi. Grazie alla generosità dei clienti di Migros, anche quest’anno è stata raccolta una somma impressionante, originata dall’acquisto di cuori di cioccolato del valore di 5, 10 e 15 franchi. L’importo sarà devoluto per intero agli enti assistenziali Caritas, Aiuto alle chiese protestanti Heks, Pro Juventute, Soccorso d’inverno e Pro Senectute, che impiegheranno il denaro in progetti per un sostegno mirato delle persone bisognose. Migros ha poi aumentato di un milione l’importo donato dai clienti raggiungendo così un totale di 3,82 milioni di franchi. Ogni organizzazione caritatevole riceve 764’000 franchi. Herbert Bolliger, presidente della Direzione generale della Federazione delle Cooperative Migros, è soddisfat-
to: «I nostri clienti hanno dimostrato un’altra volta una grande solidarietà verso le persone bisognose. Ringrazio di cuore tutti i donatori». Anche l’ex consigliere federale e presidente generale di Soccorso Svizzero d’Inverno Samuel Schmid si rallegra del risultato e, in rappresentanza anche degli altri enti assistenziali, commenta: «Siamo commossi dal fatto che così tante persone abbiano dato prova di grande generosità e, acquistando un cuore di cioccolato, abbiano fatto una donazione in favore di coloro che vivono ai margini della società e spesso vengono ignorati. Grazie di cuore a tutti i donatori e a Migros, che ha reso possibile questa raccolta fondi e ha incrementato la somma delle donazioni». Oltre all’acquisto di cuori di cioccolato, molti clienti si sono serviti anche di una delle altre modalità di donazione offerte da Migros, come il versamento online o via SMS o l’acquisto della canzone di Natale. Migros ringrazia tutti i clienti per le donazioni e augura loro un felice anno nuovo. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Società e Territorio Meglio essere curiosi In generale tendiamo a rifiutare ciò che non rientra nella nostra visione, anche di fronte a dati oggettivi: solo la curiosità ci salva dai pregiudizi pagina 4
Il lavoro nelle Aziende di Pratica Commerciale Siamo entrati nella Prêt-à-porter di Locarno per capire come un’azienda «fittizia» possa essere una vera opportunità di lavoro e formazione pagina 5
La Sala della Suprema Armonia nella Città Proibita, Pechino. (Marka)
Europa-Cina in venti tappe
Pubblicazioni Intervista al sinologo e filosofo francese François Jullien autore di Essere o vivere Laura Di Corcia Essere o vivere? Basandosi su coppie di concetti opposti il nuovo, bel libro di François Jullien, ellenista e sinologo francese, esplora le differenze fra il «pensare secondo Occidente» e il «pensare secondo Oriente». Distanze che nascono dal concetto stesso di «essere», nella Grecia antica cristallizzato nell’attimo, nella Cina visto come «gittata» o durata. Se la cultura occidentale si polarizza sui concetti di scelta, di soggetto, di libertà, quella cinese, meno focalizzata sul singolo, parla invece di situazione, di propensione e di influenza. Essere o vivere di Jullien (Feltrinelli, 2016 ), quindi, vuole proporre una sorta di spaesamento culturale, per vedere cosa sta al di là della cortina delle nostre convinzioni. La lettura del libro può essere utile a chi voglia arricchirsi di nuovi paradigmi e chiavi di lettura per leggere la realtà. Professor Jullien, dal suo libro si apprende che il funzionamento del-
la democrazia in Europa è ispirato ai principi della guerra come è stata pensata nella Grecia antica. Che cosa si può imparare dalla filosofia cinese in questo senso? Come può aiutarci a migliorare il dibattito democratico, spesso molto acceso?
Se vogliamo migliorare la democrazia, non dobbiamo pensare alla Cina. La democrazia è una cosa squisitamente greca, benché non sia al riparo da limiti. Quello che ha contraddistinto il concetto di democrazia presso i Greci è stata la frontalità. Pensiamo alla guerra: ci si scontra falange contro falange, così come nella città greca si contrapponeva discorso a discorso. Il logos contro il logos. Il perno della democrazia greca è l’agorà, il forum. La Cina ha una tradizione politica autoritaria, a tratti totalitaria: da una parte c’è il principe, dall’altra il popolo. I cinesi non hanno mai pensato a un regime diverso dalla monarchia, all’interno del quale si può muovere un buon principe e un cattivo principe. Quello che possiamo chiederci, semmai – ed è quello che mi sono chiesto anch’io
con questo libro – è se la frontalità è il solo modo di approcciarsi al dibattito pubblico. In questo senso, che cosa raccontano i social network sulla nostra contemporaneità?
Personalmente la questione dei social mi porta a chiedermi, ancora una volta, se la frontalità funzioni ancora. Nell’antica Grecia si credeva che la verità nascesse non da un discorso univoco, ma dal confronto fra due discorsi opposti che dovevano scontrarsi. Ma oggi è ancora così? Anche a livello politico, quel che mi viene da pensare è che la frontalità non esista più, che sia una chimera. L’opposizione e i partiti al potere pensano la stessa cosa, quindi come è possibile perpetrare il modello greco? La frontalità come scontro fra discorsi che fa emergere la verità, oggi come oggi, è molto difficile da organizzare. E che cosa pensa delle elezioni americane?
Quello che mi pare rilevante nel contesto delle elezioni americane è la demagogia, che è una vera e propria devianza
rispetto alla democrazia. Di fronte al fenomeno Trump dobbiamo chiederci come sia possibile che la demagogia sia entrata in campo, visto che è una denaturazione della democrazia che va verso il declino. Questo è il destino che ci attende, in America come in Francia, in Italia come in Svizzera.
Il pensiero cinese può forse venire in nostro aiuto di più nella vita di tutti i giorni; per esempio, che cosa ci insegna attorno all’educazione? Con i nostri figli, è meglio usare le parole o il silenzio?
La Cina ha pensato all’educazione, così come alla politica, partendo dal concetto dell’influenza. Essa si concreta nel momento in cui si sceglie un contesto propizio per i propri figli, in modo che crescano influenzati appunto da buone amicizie. L’influenza avviene ovviamente a prescindere dalla volontà del soggetto; per questo non è un concetto molto quotato nella cultura greca antica, che punta tutto sul soggetto. Essere sotto l’influenza di qualcuno – e già la parola «sotto» è peggiorativa – ripugna al nostro ideale di libertà, che crede in
un soggetto diviso dal resto e a sé stante, autonomo. Come applicare il pensiero cinese alla coppia e ai suoi momenti di crisi?
Io mi concentrerei piuttosto sul concetto di risorsa. Il pensiero greco ha delle risorse e quello cinese ne ha altre, quello italiano ne ha altre ancora. Sono risorse da esplorare e da mettere in atto di volta in volta. La cultura cinese – che è lontana dal concetto di modello, presente invece in Grecia – si focalizza sul concetto di opposti e sull’armonia, che si basa sulla complementarietà fra gli stessi. Il tema dell’incontro in Cina è molto importante e l’incontro è comunicazione, non mescolanza. Mentre si entra in contatto con l’altro, ciascuno conserva la sua identità, altrimenti verrebbe a cadere la polarità. Il trucco consiste nel permettere all’altro di essere altro. Bibliografia
François Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Feltrinelli, 2016.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Società e Territorio La curiosità scientifica è una predisposizione che va coltivata e trasmessa agli altri. (Marka)
Yahoo! è game over
Alfabeto Digitale Un tempo era il motore
di ricerca privilegiato ma col passare degli anni ha cercato di differenziarsi e di rendersi competitivo nel panorama della rete: invano
Ugo Wolf
La curiosità ci salva dai pregiudizi
Ricerche In generale tendiamo a rifiutare selettivamente ciò che
non rientra nella nostra visione, anche di fronte a dati e fatti «oggettivi», ma con uno sforzo possiamo cercare di cambiare rotta
Stefania Prandi L’intelligenza non basta per salvarci dai pregiudizi e dalle false verità: ad aiutarci davvero è la curiosità. A questa conclusione è arrivato il team di filosofi, psicologi e registi di documentari, guidato da Dan Kahan, professore all’Università di Yale, negli Stati Uniti, che ha realizzato una ricerca sui condizionamenti dell’orientamento politico sul nostro modo di analizzare la realtà. Già altri studi, in passato, hanno dimostrato che non basta avere un buon bagaglio culturale, anche in ambito scientifico, e un alto livello di quoziente intellettivo, per riuscire a liberarsi dai preconcetti che arrivano dall’appartenenza politica. In generale tendiamo a rifiutare selettivamente ciò che non rientra nella nostra visione, anche di fronte alla citazione di dati e fatti oggettivi, impedendo così agli altri di influenzarci su certi argomenti. Come scrive sul sito della BBC Tom Stafford, ricercatore in Psicologia e Scienza cognitiva all’Università di Sheffield, in Gran Bretagna, autore di saggi sull’irrazionalità e i pregiudizi, «è riduttivo pensare che i preconcetti siano il risultato di un istinto bieco e di pancia». Le persone dotate di un’ottima capacità analitica utilizzano le abilità cognitive per giustificare quello in cui già credono e cercare ragioni per smontare ogni evidenza contraria. La ricerca dell’Università di Yale, pubblicata sulla rivista scientifica «Advances in Political Psychology», usa due test per analizzare il modo in cui l’orientamento politico condiziona i nostri ragionamenti. Il primo misura le competenze in ambito scientifico attraverso una serie di domande su fatti e metodi, cercando di stabilire la capacità di ragionamento e di motivazione delle scelte. Il secondo, invece, è più innovativo e cerca di calcolare la curiosità analizzando a quali argomenti e notizie si è interessati, se di sport, scienza, politica, cultura. Dal primo test si ottengono risultati prevedibili. Ad esempio, chi si de-
finisce progressista tende a considerare questioni come il cambiamento climatico gravi e rischiose per la salute e il futuro, al contrario di chi si definisce conservatore. Inoltre, i progressisti con più conoscenze scientifiche sono maggiormente preoccupati degli altri con le stesse convinzioni politiche, mentre per i conservatori più istruiti vale l’esatto opposto. Dal test della curiosità, restano differenze tra progressisti e conservatori, ma le opinioni cambiano notevolmente, soprattutto su questioni come, ad esempio, le vaccinazioni e il cibo geneticamente modificato. Chi dimostra maggiore curiosità tende a ragionare facendo prevalere i dati e i fatti e non le convinzioni. La curiosità, nello specifico quella di carattere scientifico, che si sviluppa leggendo libri divulgativi, notizie di scienza, guardando documentari, aiuta a sfidare i pregiudizi e a selezionare notizie che contraddicono le credenze che già si hanno, indipendentemente dall’appartenenza politica. Sarebbe quindi auspicabile coltivarla per cercare di avere una visione più complessa e critica della realtà. Ma si può davvero sviluppare oppure è un dote innata? Secondo Kahan, «la curiosità scientifica è una predisposizione, non è qualcosa di effimero che arriva e se ne va. Il punto è capire come estenderla a chi ne è sprovvisto. Il segmento della popolazione che ha questa inclinazione dovrebbe sfruttarla al massimo e fare in modo di trasmetterla agli altri». L’educazione ha sicuramente un peso nel trasmettere la capacità e la voglia di essere curiosi, qualità che secondo diverse analisi si rivela cruciale per districarsi all’interno del bombardamento continuo di informazioni che arrivano da internet e dai social network, per restare sempre vigili e capaci di distinguere i fatti dalle bufale. Lisa Fazio, professoressa di Psicologia all’Università di Vanderbilt, a Nashville, nel Tennessee, ha guidato una ricerca che misura quanto l’illusione della verità interagisca con le nostre conoscenze acquisite. Secondo lo stu-
dio, la continua esposizione a concetti falsi, sbagliati, faziosi può portarci a farceli sembrare più verosimili. Restiamo comunque capaci di discernere grazie a quello che abbiamo imparato nel passato. La buona notizia è che la tendenza a lasciarci condizionare dalle informazioni sbagliate, quando vengono ripetute, è dovuta a meccanismi che possiamo controllare, se ne prendiamo coscienza. Come spiega il ricercatore Tom Stafford sul sito della BBC, la nostra mente tende a usare scorciatoie quando si trova di fronte a questioni complesse, preferendo i ragionamenti più plausibili e immediati. Spesso questa modalità funziona, mentre altre volte ci porta fuori strada. «Dovremmo abituarci a fare un controllo doppio su quello che ci sembra vero, per capire se lo è veramente. Questo è il motivo che porta gli accademici a riempire di referenze i loro testi, in modo che ci sia la possibilità di controllare e non di prendere per buono in modo acritico quello che si legge. Viviamo in un mondo dove i fatti contano ancora, o comunque dovrebbero contare. Se noi stessi ripetiamo cose senza averle verificate, contribuiamo a creare una situazione dove bugie e verità si confondono. Quindi, per favore, controllate prima di ripetere qualcosa». Un’indicazione quanto mai attuale considerando le recenti ricerche su come i Millennials, cioè i nati a ridosso del Duemila, interpretano i post che circolano sui social network come Facebook. Uno studio appena pubblicato dalla Graduate School of Education dell’Università di Stanford, in California, indica che la maggior parte degli studenti non è in grado di distinguere tra ciò che è vero e falso in rete. C’è una difficoltà diffusa a riconoscere la differenza tra contenuti comuni e pubblicitari e a capire quali sono le fonti delle notizie. E c’è di più: i ragazzi tendono ad avere una fede cieca nei motori di ricerca come Google, spesso limitandosi a leggere i primi risultati, senza chiedersi se contengano informazioni valide e affidabili.
Il termine «motore di ricerca» all’inizio, a metà degli anni 90, sembrava abbastanza strano. Eppure era una delle poche sicurezze che si possedevano, una volta imboccata l’autostrada della Grande Rete. Internet era ancora agli albori, lo spam e il phishing non erano ancora stati inventati. La connessione a Internet avveniva attraverso degli scatolini neri pieni di lucine che componevano un numero di telefono e poi scoppiettavano in una serie disordinata di scricchiolii. I siti web ufficiali erano ancora pochi, spesso istituzionali. Per orientarsi ci voleva una qualche forma di elenco telefonico. I motori di ricerca erano ancora molto spartani, poco invasi dalla pubblicità. Tutti noi utilizzavamo Virgilio, l’unico che parlava italiano: in Svizzera c’era www. search.ch, in Ticino www.ticerco.ch… Insomma il mondo non era ancora così globalizzato e ognuno rimaneva nel suo piccolo. In realtà, di motori di ricerca non ce n’erano molti di più di questi e Google è arrivato in un secondo tempo. Tra i primi, i più conosciuti, indispensabile, c’era proprio Yahoo! (il punto esclamativo è parte del marchio). Il suo nome bizzarro lo rendeva simpatico; sembrava quasi il grido di entusiasmo di chi si lanciava in un’esperienza inebriante. In pochi ricordavano che il nome, quel motore, lo prendeva da un popolo inventato da Swift, nei suoi Viaggi di Gulliver. Gli Yahoo erano una razza di servi umanoidi, rozzi e primitivi, al servizio dei temibili cavalli Houyhnhnm. Gli inventori del portale, Jerry Yang e David Filo, nel 1994 avevano scelto il nome togliendolo dall’acronimo «Yet Another Hierarchical Officious Oracle», cioè «ecco un altro oracolo gerarchico ufficioso». Come tutte le mitologie dell’era internettistica questa storia è troppo buffa per essere vera. Quel che è certo è che all’inizio il funzionamento dei motori di ricerca era abbastanza rudimentale. Il nome Yahoo! sembra invece che (tornando alle prerogative della razza swiftiana di cui sopra) descrivesse piuttosto il grado di rozzezza di quel primo sito. Semplice e scheletrico, vedi immagine qui sotto, il primo Yahoo! aveva però una sua grafica divertente, leggera
e affidabile e proponeva una serie di link interessanti: era il vero viatico per quelle prime avventurose navigazioni. Yahoo! aveva un altro grande vantaggio: era stato tra i primi siti web a metamorfosarsi in «portale», cioè in aggregatore di contenuti utili. Offriva indirizzi email gratuiti, spazio gratuito per caricare le proprie immagini digitali, informazioni di vario tipo come mappe delle città e quotazioni di borsa. Il suo servizio più curioso e ambizioso era, a nostro modesto avviso, «Answers», una pagina in cui chiunque poteva entrare e porre una domanda («Come si fa la torta di carote?»; «Perché la terra è rotonda?»; «Quanto sono alti gli Hobbit?»): nel giro di qualche tempo i viandanti curiosi potevano contare sulle risposte di navigatori più acculturati o esperti. Con l’arrivo di Google, nel 1998, il declino di Yahoo! è stato lento e inevitabile. Si potrebbe dire che Google abbia battuto le stesse tracce del portale azzurro: ha proposto prodotti analoghi, ma ha inventato più servizi e li ha messi in opera meglio. In verità, la forza dell’azienda di Mountain View sta nell’efficacia dei suoi algoritmi di calcolo, cosa con cui Yahoo! non può competere. L’azienda ha tentato una mossa disperata, soffiando alla concorrenza proprio una delle sue più promettenti manager, Marissa Mayer. Quest’ultima ha puntato ancora di più sul prodotto «portale», trasformando di fatto Yahoo! in un sito di informazione molto agguerrito e colorato. Ha potenziato i servizi gratuiti alla clientela ma non è riuscita nella sua impresa di salvataggio, che mirava a tutelare gli interessi degli azionisti. Oggi la notizia è funebre: Yahoo! non esiste più. Anzi presto cambierà nome e si chiamerà «Altaba». Credo che pochissimi di coloro che usano regolarmente il web si affidassero ancora ai servizi della «grande Y». E del resto le recenti notizie (una diffusa nello scorso settembre e un’altra in dicembre) erano tutt’altro che rassicuranti: negli scorsi anni centinaia di migliaia di dati personali legati agli indirizzi di posta elettronica erano stati rubati. C’è chi è corso a cambiare la password del proprio account per evitare il peggio: col senno di poi, forse non ne valeva la pena.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Società e Territorio
Per non smettere di lavorare
Disoccupazione Il Centro di Formazione Professionale dell’Ocst promuove le Aziende di Pratica Commerciale
dove si può operare come in una ditta vera: l’esempio della Prêt-à-porter di Locarno
Sara Rossi Guidicelli È a Locarno e si occupa di moda e casalinghi. Si chiama Prêt-à-porter, vende migliaia di capi l’anno, tonnellate di mobili e ha un giro d’affari di mezzo miliardo. Solo che quei soldi, quei vestiti, quegli articoli per la casa non esistono. Esistono solo il direttore, la sua assistente, il segretario, la responsabile risorse umane, l’ufficio marketing e contabilità. Il magazzino è un armadio di modestissime proporzioni con dentro piccoli fogli di carta. Tuttavia, il Prêt-à-porter di Locarno non è il gioco del monopoly. Qui, in questa Azienda di Pratica Commerciale, è tutto (quasi) come se fosse vero.
In Svizzera esiste una rete nazionale composta da una sessantina di Aziende di Pratica Commerciale «Sì, all’inizio sembra strano venire a lavorare qui pur sapendo che la merce non c’è, che lo stipendio non te lo danno, poi però ci fai l’abitudine». Nadine e Bessa sono due ragazze delle dodici persone impiegate alla Prêt-à-porter. La pratica dura tre mesi e ogni poche settimane si cambia ruolo. Alla fine Nadine, Bessa e gli altri avranno provato tutti i ruoli in ogni settore dell’azienda. Ma se troveranno lavoro prima, il loro contratto si interromperà all’istante. «Io non ho mai svolto la mia professione, quindi per me stare qui è come una passerella tra la scuola e il mondo del lavoro», dice Bessa. «All’inizio ero delusa quando il mio collocatore mi ha mandata in una “finta” azienda, poi però mi sono motivata perché ho visto che imparavo tutto come se fosse un vero rivenditore, solo che posso sperimentare un po’ tutti i mestieri: così ho il tempo di capire per cosa sono portata e cosa mi piace di più». «Io invece ho già lavorato e sono qui in attesa di essere reimpiegata in un nuovo posto. Per me è utile perché non perdo il ritmo, resto aggiornata e poi c’è un giorno a settimana in cui ci occupiamo di cercare lavoro. Da quando vivo questa esperienza nell’Azienda di Pratica Commerciale ho già fatto due colloqui: ho visto che i potenziali datori di lavoro prendono sul serio il lavoro che sto svolgendo qui. Lo considerano sia un lavoro sia una formazione e pos-
La Prêt-àporter impiega dodici persone. (Vincenzo Cammarata)
sono chiamare il responsabile di Prêt-àporter per avere le referenze e chiedere come ci comportiamo nella nostra professione», spiega Nadine. Andrea Bettosini è il direttore dell’azienda e Sabrina Martini è la sua assistente. Loro sono i formatori e gli unici salariati; lui si occupa di gestire i reparti e il personale, cioè gli utenti che arrivano e ripartono; lei è quella con la formazione in ambito commerciale. Sabrina è arrivata vent’anni fa, proprio quando l’Azienda di Pratica Commerciale è stata aperta da Ocst con un finanziamento pubblico. Ha fatto la sua esperienza, che all’epoca era di sei mesi, e poi il direttore di allora le ha proposto di restare, come formatrice e assistente di direzione. Ha fatto tutta la formazione, a livello cantonale e federale, ed eccola qui, entusiasta come allora. «Ne ho viste passare di persone, di storie belle e di storie tristi, storie a lieto fine o addirittura miracolose», racconta. «C’è gente di tutte le età che sta vivendo ogni tipo di situazione. Questa esperienza può essere vantaggiosa in ogni caso per chiunque; per esempio per chi ha fatto solo un tipo di lavoro molto specifico e adesso è alla ricerca di un impiego.
Deve aggiornarsi, sviluppare anche altre competenze, per aumentare le sue possibilità. Oppure chi ha preso una batosta perché è stato licenziato e sente il bisogno di ricominciare in modo più seguito, in modo da riacquistare fiducia in sé stesso. O ancora vengono i ragazzi dopo la scuola; se non trovano subito un lavoro, per loro è una fortuna avere qualcosa di più di uno stage: una realtà lavorativa esattamente come quelle che circolano nel mondo di oggi, che ti dà la possibilità di essere intraprendente e fare le tue proposte, ma che al contempo ti offre un servizio di coaching, che ti permette di avere dubbi e incertezze e ti dà una mano a superarli». Come una prova generale. Andrea Bettosini mi invita nel suo ufficio e mi spiega come funzionano le Apc. «Le Aziende di Pratica Commerciale vengono dagli Stati Uniti, e in Svizzera esistono da oltre una ventina anni. Da noi sono state importate per non lasciare a casa completamente gli operai delle fabbriche di orologi nei periodi di crisi. Oggi c’è una rete nazionale di una sessantina di aziende; una centrale si occupa dei servizi bancari e postali per renderli uguali a quelli di una vera banca
e di una vera posta e controlla che la nostra contabilità sia perfetta. Ogni partecipante al mattino riceve una lista degli acquisti che deve fare durante il giorno (con finti soldi, naturalmente), così che noi riceviamo le ordinazioni per vestiti e casalinghi, mentre le altre aziende hanno giornalmente acquirenti per i loro prodotti, che siano immobili o cioccolatini. Se i clienti scarseggiano, il nostro servizio marketing si mette in moto e chiama gli altri partecipanti delle Apc svizzere e fa pubblicità. Tutto come nella realtà». Non è facile entrare in questa logica, ma con un po’ di buona volontà piano piano mi sembra di capire. «Noi abbiamo iniziato con i vestiti, poi però ci siamo accorti che dovevamo spedire solo pacchi leggeri, quindi con La Posta. Vendendo anche mobili, grill e così via, i nostri praticanti imparano a usare anche il servizio Cargo». Sia Andrea Bettosini sia Sabrina Martini concordano con il fatto che la disoccupazione è aumentata rispetto agli inizi delle Apc. La tendenza inoltre è sempre di più quella di puntare su una collocazione tempestiva di chi è alla ricerca di lavoro. «L’Ocst era portatore di progetto per quattro Aziende
va a Seabourne, sulla costa. Ma altre due prospettive integrano quella di Nancy, perché la storia procede attraverso due ulteriori punti di vista, quelli di due ragazzini della upper class: Ella, figlia di un eminente archeologo, immersa in un clima intellettuale ma privo di attenzione e di calore; e Quentin, goffo ragazzino che trascorre le vacanze estive ospite del suo precettore, il vicario Mr Cheeseman. La diversa veste grafica farà distinguere ai giovani lettori le pagine di diario, in cui la scrittura è come se fosse direttamente quella di Nancy, errori, macchie e disegnini compresi, dalle pagine «ufficiali» e impeccabili in cui a parlare è il narratore, e in cui vengono presentati in terza persona Quentin e Ella e i loro punti di vista sulle vicende. Ognuno ha una visione «parziale» dei fatti e a mano a mano che tra loro si formano dei legami di amicizia, si intrecceranno anche le prospettive narrative. Fino alla soluzione dell’indagine – perché alla fine un’indagine c’è – la quale richiederà la
cooperazione dei tre ragazzini, diversi per estrazione e ceto sociale, ma uniti da uno stesso senso di solitudine e da un grande e generoso desiderio di giustizia.
di Pratica Commerciale, ma da questo mese di gennaio (2017) ne restano tre, la nostra di Locarno, l’Euromoda di Lugano e l’Iride a Porza», spiega Bettosini. «Tuttavia noi pensiamo che più una persona è formata e maggiori sono le sue chance di essere assunta. Troviamo importante che continui a esistere anche questa opportunità, soprattutto perché crediamo nella pedagogia del learning by doing, cioè dell’imparare lavorando, che sia per un inserimento o una riqualifica o un reinserimento. Come detto, poi, ci occupiamo anche molto della ricerca di lavoro: un’ora al giorno e una mattina a settimana sono dedicate a quello, imparare a cercare, inviare domande e simulare colloqui. Abbiamo anche notato che nel mondo del lavoro di oggi la durata degli stage è sempre più breve: da tirocini formativi diventano brevi periodi di prova sempre più mirati all’osservazione del candidato per decidere della sua assunzione; da noi invece la gente di ogni età ha veramente la possibilità di sperimentare il mestiere o di continuare a praticarlo se per un periodo deve stare a casa, e questa riteniamo sia un’offerta fondamentale».
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Julia Lee, Diario di Nancy piccola detective (illustrazioni di Chloe Bonfield, traduzione di Marina Invernizzi), San Paolo. Da 10 anni L’inserto giallo nell’elegante copertina nera e grigiazzurra dalla grafica rétro non lascia dubbi, e già il titolo è più che esplicito. Abbiamo in mano un giallo, una detective story. Dalle prime righe apprendiamo che siamo in Inghilterra, nel 1920: il pensiero non può non correre a Miss Marple, di Agatha Christie, a cui peraltro vanno i ringraziamenti finali dell’autrice per «aver ispirato la mia penna». Eppure, nonostante queste premesse, non è alla dimensione investigativa che possiamo ascrivere i pregi di questo libro, perché per molte pagine non ci sono colpi di scena in questo senso. Il pregio principale di questo libro è la scrittura, capace di delineare i personaggi – soprattutto i tre giovani protagonisti – con incisiva vivacità. C’è la «proletaria» Nancy, cresciuta con la zia, la nonna e il papà
vedovo, appassionata lettrice di gialli ma studentessa recalcitrante. E sebbene l’ortografia non sia proprio il fiore all’occhiello di Nancy, che a quattordici anni lascia la scuola e si mette a cercare lavoro, il diario che lei inizia a scrivere sprizza vivacità da ogni parola (anche se qualche lettore adulto storcerà il naso di fronte agli errori, lasciati realisticamente tal quali nel testo). È in parte attraverso questo diario che seguiamo le vicende: qui Nancy in prima persona ci narra del suo lavoro come cameriera presso Mrs Bryce, una giovane e misteriosa signora che la porta con sé in una villa di villeggiatura esti-
Telmo Pievani, Sulle tracce degli antenati, Editoriale Scienza. Da 9 anni È davvero «l’avventurosa storia dell’umanità», come dice il sottotitolo, quella che Telmo Pievani ci racconta in queste ricche pagine, dove informazione, divulgazione, dialoghi e narrazione si alternano conducendoci in un sorprendente viaggio a ritroso nel tempo, risalendo le tappe dell’evoluzione umana, fino a raggiungere i nostri antenati di sei milioni di anni fa. Da Neanderthal, il nostro parente più stretto; all’uomo di Denisova, la prima specie riconosciuta grazie al DNA; al piccolo Homo Floresiensis; all’Homo Georgicus; su su fino alla regina dei fossili umani, la famosa Lucy; e ancora più indietro. Sono dieci antenati dell’u-
manità «intervistati» dal piccolo Luca, cucciolo di Homo sapiens contemporaneo, con un linguaggio diretto, vivace e chiaro. Anche le informazioni scientifiche sono semplici ma rigorose, e daranno modo non solo ai bambini, ma anche agli adulti, di approfondire le loro conoscenze. Telmo Pievani è docente di Filosofia delle scienze biologiche presso l’Università di Padova ed è esperto di divulgazione, come prova questo bel libro. Oltre al sapere scientifico, ci offre anche un messaggio etico, perché dalla storia dell’evoluzione possiamo capire l’importanza del valore della diversità.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi La caduta (e l’ascesa) di Casa Norfolk «Non c’è niente di più strano di uno straniero in una terra strana». Così è venuto di pensare, parafrasando il titolo del famoso racconto di fantascienza di R. Heinlein (1961) al vostro Altropologo preferito durante la prima passeggiata mattutina del Nuovo Anno. Il fatto curioso è che non mi trovavo certo su un diverso pianeta così come succede al protagonista del suddetto romanzo. Perché – appunto – la cosa più strana che rendeva tutto più strano è che stavo camminando su di una spiaggia della costa Nord del Norfolk, là dove l’Inghilterra fa la gobba verso Est, quasi a voler congiungersi all’incerta linea costiera dei Paesi Bassi e così ricongiungersi all’odiato/amato Continente. Quando è il turno della bassa marea il mare del Norfolk scompare. Si ritira là in fondo, a volte fino a due chilometri e forse più dalle dune costiere spazzate dal vento. Appare in quelle ore di esilio dalla terra come una linea plumbea tracciata su di un orizzonte infinito. Il cromatismo delle nuvole sempre grevi di pioggia aggiunge
dramma nel contrasto coi colori dorati della sabbia esaltati dalla luce radente del solstizio appena trascorso. Allora si gonfiano cieli sconfinati che sembrano schiacciare ancor più la terra piatta, spianata, senza alture. Sono i cieli dell’East Anglia che hanno fatto grandi le visioni di Turner e di Constable. Ed ecco allora scandirsi contro l’orizzonte i mulini a vento che gli ingegneri delle Terre Basse vennero a costruire nel ’600 onde evitare che due buoni terzi del Norfolk finissero sott’acqua per via di un’erosione costiera incessante ed impietosa: terrificanti mareggiate in congiunzione con alte maree oggi riposte nelle pieghe più indicibili della cultura popolare hanno cancellato per sempre interi villaggi: Eccles, Clare, Shipden, Keswick, Wimpwell... E – si racconta nei pub quando si rimane in pochi – quando ancor oggi i marosi infuriano contro le difese costiere, si possono udire le campane delle chiese affondate scandire a morto. Quando poi il mare comincia a rifluire occorre far in fretta a rientrare: la marea è veloce,
quanti sono annegati per essere stati sorpresi a raccogliere vongole troppo lontano dalla terraferma. Terra che qui ferma non è mai e sembra confondersi con l’acqua sempre e dovunque: le maree si infilano per miglia e per chilometri su per i fiumi e dentro agli ultimi rigagnoli dell’entroterra. Le barche adagiate nel fango tornano a galleggiare e potranno riguadagnare il mare almeno per le prossime sei ore, poi giù di nuovo. Al confine Sud del Norfolk, non lontano da Cambridge, la storia si ripete: i Fens, terre basse e paludose oggi in gran parte drenate delle paludi ma ancora – e forse ancor più oggi che la terra nera ne marca ancor di più gli sconfini – più immense nel loro proiettarsi verso l’orizzonte. Su tutto, ritagliata contro la fine della terra, la massa della Cattedrale di Ely. Monumentale, preistorico accrescimento senza un piano apparente di guglie, barbacani, doccioni archi e contrafforti cresciuti, crollati e testardamente rifatti in epoche diverse man mano che crollavano per il terreno fradicio e le fonda-
menta molli. Il Norfolk è un paesaggio vuoto. Poche case, pochissimi abitanti. Norwich, la capitale, era la seconda città più grande (e più ricca) del Regno fino a metà ’600. Commerciava coi Paesi Baltici ed era nella Lega Anseatica. Poi la Storia ha preso altre strade ed il Norfolk è rimasto tagliato fuori dall’asse NordSud, fra Londra, Manchester, Glasgow ed Edimburgo che oggi detta le direzioni da prendere. E tagliato fuori il Norfolk rimase con la caduta della Casa Howard, Duchi del Norfolk e braccio destro della Casata Reale fin dai tempi della Conquista. Vicini alla Corona per destino storico e manovre di matrimoni sapientemente intrecciati: Thomas Howard, quarto duca del Norfolk, nacque nel 1536 ed ereditò il titolo dal suo nonno omonimo nel 1554. Il duca del Norfolk era non solo secondo cugino della regina Elisabetta I, era anche potente, sicuro di sé e forse anche un po’ temerario. Ricopriva incarichi di Stato importanti anche se la sua famiglia era nota per le simpatie nei confronti del Papa e del
cattolicesimo romano. Simpatie peraltro diffuse in tutto il Norfolk, che era stato moderno nel Medioevo per diventare – come spesso accade quando la Storia ti taglia fuori – medievale nella modernità rinascimentale di quegli anni. Fattostà che, rimasto vedovo per la seconda volta, Thomas fu accusato da Elisabetta di tentare di sposare Mary regina di Scozia, cattolica romana, per poi imporla come nuova sovrana. Imprigionato il 16 gennaio 1572 e in seguito rilasciato, una volta libero non esitò a complottare con il re di Spagna Filippo II per mettere Mary sul trono e ritornare il regno a Roma. Imprigionato per la seconda volta, fu giustiziato nella Torre di Londra, e quivi sepolto, il 2 giugno del 1572 all’età di 36 anni. Fine della Casa Howard, chiederete? Nient’affatto. Quattro generazioni più tardi il titolo di duca del Norfolk fu di nuovo concesso ai discendenti di Thomas Howard: oggi come sempre sono loro i responsabili per l’organizzazione dei funerali e dell’incoronazione dei reali britannici. Strano paese, il Norfolk.
ormai grandi e sereni. Ma suppongo che la sofferenza provata per l’abbandono di suo marito abbia lasciato nel suo animo una cicatrice che il tempo non riesce a rimarginare. Questo vale per tutte ma per chi, come noi, non ha avuto a tempo debito la sua parte d’affetto, il trauma risulta più acuto. Il desiderio che ora prova di avere accanto a sé un consorte, proprio nel senso di «una persona con cui condividere la sorte», le fa onore perché rivela un desiderio di vivere, di con-vivere, di sentire il suo cuore battere all’unisono con quello di un altro, che è il contrario della «depressione narcisistica» di chi si chiude in sé stesso, ormai insensibile ai desideri propri e altrui. L’esperienza che ho tratto da tanti anni di ascolto e di aiuto mi ha insegnato che la solitudine, non scelta, ma imposta dal destino è sempre dolorosa e che sono davvero tante le persone che dentro si sé desiderano mettersi in coppia, magari per condividere serenamente la quotidianità. Ma il timore di essere respinte, di sembrare patetiche, le dissuade dal tentare un approccio con chi incontrano sul loro cammino e in cui colgono la me-
desima propensione. Sono soprattutto gli uomini a mostrarsi più timidi e bloccati. Forse perché, in gioventù, l’approccio con l’altro sesso è avvenuto sulla spinta della pulsione sessuale e ora, divenuti più che adulti, non trovano altre motivazioni e nuovi codici di comunicazione per mettersi in relazione con chi si trova nella loro condizione. Eppure, mi creda, i cosiddetti single non solo desiderano uscire dall’isolamento in cui si trovano, ma ne hanno bisogno molto più di noi donne che, come nel suo caso, sanno circondarsi di buone amiche. Tuttavia nessuna amicizia può sopperire l’assidua presenza di un partner, per chi lo desidera naturalmente. L’incontro fatale accade di solito per «affinità elettive», per segrete sintonie, per cui è inutile esplicitare la richiesta di una relazione amorosa esibendo atteggiamenti di disponibilità, che spaventano gli uomini e li fanno scappare. Più opportuno invece propiziare le conoscenze condividendo attività neutrali, come un cineforum, un centro culturale, visite guidate, gite turistiche, occasioni gastronomiche, sport e passatempi, a seconda del carattere e delle propensioni.
Fermo restando che l’amore, come la felicità, non è un diritto ma una opportunità e, come tale, si può attendere ma non pretendere. L’attesa però, contrariamente a quanto si crede, non è una posizione passiva e rinunciataria, ma attiva, positiva, vitale. Scrive in proposito Oscar Wilde: «se la felicità fosse una casa, la stanza più grande sarebbe la sala d’aspetto». Sarà per questo che ho appena scritto un libro intitolato L’ospite più atteso per convincere, raccontando ancora una volta la mia storia, sulla importanza della maternità in generale e della gravidanza in particolare, una esperienza che, vissuta sino in fondo, può valere un’intera esistenza. Tanti auguri, cara Isanna, a lei e a tutti coloro che, per il solo fatto di essere vivi sono in attesa, anche senza saperlo, che qualcosa accada.
ironie e presagi negativi, provocata da quella che gli psicologi definiscono «l’apatia da benessere». Ed è l’incapacità di capire che, dietro a una scelta professionale e a una scelta di vita possa esserci il bisogno di cambiare e di osare superando i limiti rassicuranti del buon senso e del prevedibile. In proposito, sono rivelatrici le dichiarazioni dei diretti protagonisti di queste esperienze: giovani e meno giovani emigrati nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Australia, in Nuova Zelanda, e negli ultimi tempi anche in Cina e nel Sudest asiatico: confermano l’aspirazione a nuove dimensioni, aperte a carriere, attività, iniziative, persino invenzioni alle quali la Svizzera avrebbe messo il freno di una certa seriosità. Con ciò, figurarsi, attenti alla retorica di segno opposto. Non è che ogni altrove, e tanto più se lontano, risvegli
talenti originali: non s’intende, certo, esaltare le virtù del rischio. Però, dai casi di questi emigranti elvetici che, sfidando i vari «non ce la farai», se la sono cavata, e come, oltre frontiera, si deve ricavare una lezione: un incentivo utile proprio per i cultori della sicurezza, quali siamo. Con la sua risaputa verve provocatoria, il professor Leimgruber ha lanciato una sorta d’imperativo: «Tutti gli svizzeri dovrebbero emigrare, una volta nella vita». Suscitando risentimenti, ai quali, del resto, non è nuovo. A suo tempo, aveva messo in discussione il concetto di «suissetude», o «svizzeritudine». Una «purezza nazionale» sconfessata dai numeri: il 40 per cento degli svizzeri ha un genitore di origine straniera. Infine, per tornare al tema dell’emigrazione elvetica, è difficile misurare il
reale grado di appartenenza alla patria d’origine, nella cosiddetta Quinta Svizzera. Si tratta di una variegata compagine di ben 760’000 cittadini, e in continua crescita, spesso con doppia nazionalità, che nell’altrove hanno messo radici e che si sono mossi, sotto l’urto di esigenze diverse, mutate nel corso della storia, ma fino a un certo punto. Il fattore finanziario ha sempre avuto la sua parte, sin dai tempi dei nostri validi mercenari. Anche oggi si varcano le frontiere per motivi pecuniari. Un’ondata recente, che risale agli ultimi decenni, concerne gli emigranti della terza età, che hanno scelto paesi, accoglienti per clima e costo della vita, dalla Thailandia al Portogallo. O, magari, a pochi chilometri di distanza dal Ticino: a Porlezza o in Brianza, dove la pensione in franchi rende di più.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi L’attesa positiva Gentile signora Vegetti Finzi, le faccio innanzitutto i complimenti per il suo libro Una bambina senza stella, dove ho trovato una similitudine nella freddezza di una madre nell’infanzia. La mia domanda a lei è questa: si deve credere ancora di incontrare una persona con cui fare un cammino per gli anni che ci rimangono? Io sono una 57enne, mi reputo una persona dinamica e, pur lavorando, nel mio tempo libero, vado a correre, al cinema, a teatro, a ballare, cerco di far combaciare tutto questo con la cura della mia famiglia, con 2 figli ormai grandi (uno vive con me). Sono stata lasciata da mio marito 17 anni fa per una donna più giovane e dopo è stata dura andare avanti ma come una araba fenice sono riuscita ad uscire dalle ceneri con i miei figli che adoro e che mi paiono sereni. Adesso credo che sia venuto il mio momento e quindi desidero incontrare una persona con cui condividere la quotidianità, ma trovo persone superficiali e che non hanno intenzioni di iniziare una relazione seria. Forse ci si mette anche questo periodo di festività a far pesare la mancanza di
qualcuno che ti voglia bene, anche se so di sicuro che ho il bene dei miei figli e delle mie care amiche, ma non è la stessa cosa. Devo accantonare questo mio desiderio? So che non ha la sfera di cristallo ma mi farebbe piacere sapere cosa ne pensa. / Isanna Cara Isanna, grazie per i complimenti che rivolge al mio libro e per la consonanza che segnala tra le nostre infanzie, purtroppo rattristate da una madre fredda e distante. Mentre la cultura (basta pensare alle fiabe) ha da sempre accusato e punito la matrigna che odia e maltratta i bambini, solo ultimamente ci si è accorti di quanto possa essere dannosa una mamma indifferente. I figli hanno infatti bisogno di essere accolti con disponibilità, seguiti con sensibilità e accuditi con affetto, altrimenti si apre un vuoto nel loro cuore che, per tutta la vita, cercheranno di colmare. Per fortuna a ciascuno viene concessa una «seconda volta», una occasione per ottenere quanto, nell’infanzia, gli è mancato. Penso che lei sia stata una buona moglie, e una brava mamma per i suoi ragazzi
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Quando emigrare è un privilegio Andarsene, ma sempre con la prospettiva di poter rientrare in patria: è quella forma di emigrazione garantita, che spetta ai cittadini elvetici, alla stregua di un diritto acquisito. Con conoscenza di causa, Walter Leimgruber, docente di Scienza delle culture ed Etnologia europea a Basilea e presidente della Commissione federale per l’emigrazione, lo definisce, appunto, un privilegio, che, però, continua a essere sottovalutato e persino frainteso. Infatti, come ha ribadito, in una recente dichiarazione, per altro controversa, persiste un tenace tabù: i nostri concittadini, che decidono di affrontare l’incognita di un’esperienza altrove, rischiano addirittura di passare per «traditori della patria». Giudizi, che possono sembrare estremi, ma risuonano sempre. In pratica, la scelta di voltare le spalle alla tranquillità e al benessere del paese,
statisticamente il più ricco del mondo, sconcerta l’opinione pubblica. In altre parole, come rileva Leimgruber, anche nell’era globale, il vero svizzero rimane, per tradizione, un sedentario, uno che stenta persino a spostarsi da una località o da una regione all’altra. Figurarsi, poi, quando il salto concerne nazioni e addirittura continenti lontani. Insomma, a contrastare la voglia di partire, è un retaggio di tradizioni e di mentalità, anche se la Svizzera, paradossalmente, è sempre ai primi posti nelle classifiche mondiali, per spirito innovativo, soprattutto nell’ambito tecnologico. E, se ne rendono conto quei giovani svizzeri, fra i 20 e i 35, con un buon livello d’istruzione, quando fanno sapere di voler partire: si scontrano, nel loro ambiente familiare e sociale, con un’inattesa barriera di
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Ambiente e Benessere Reportage dalla Thailandia Per quanti sforzi si facciano, agli occhi dei thai resteremo sempre degli stranieri
Auto al Consumer Electronic Show Il Gruppo Fiat Chrysler Automobile ha partecipato per la prima volta al CES dove ha presentato il concept Chrysler Pacifica ibrida plug-in Portal pagina 14
Il vero re del bosco Considerato l’animale selvatico più grande che vive in Svizzera, il cervo è stato eletto animale dell’anno 2017 da Pro Natura pagina 15
Tra due mondi
Viaggiatori d’Occidente I malintesi culturali di un occidentale in Thailandia
Massimo Morello, testo e foto
pagina 11
L’importanza delle zone umide
Ambiente Gli ambienti naturali finiti nel
dimenticatoio sono un valore da riscoprire? Il 2 febbraio si celebra la giornata mondiale dedicata a paludi, torbiere e altri acquitrini
Loris Fedele Cosa intendiamo per zone umide? Sono le «paludi, torbiere, acquitrini e comunque specchi d’acqua naturali e artificiali, permanenti o temporanei, con acqua dolce o salata, stagnante o corrente, incluse le coste marine la cui profondità non superi i sei metri con la bassa marea». Questa definizione fu redatta nel 1971 alla Conferenza di Ramsar, tenutasi nell’omonima località iraniana sul Mar Caspio. In quell’occasione si stilò anche la «Convenzione di Ramsar» nella quale i Paesi firmatari si impegnavano a preservare le zone umide, soprattutto come habitat degli uccelli acquatici. L’aveva voluto l’Iwrb (l’Ufficio internazionale di ricerca sugli uccelli acquatici) organizzatore della conferenza. Firmò anche la Svizzera e finora sono 169 le nazioni che vi hanno aderito. Nel 1997 si decise di indire il 2 febbraio di ogni anno una «Giornata mondiale delle zone umide» per sensibilizzare la popolazione sull’importanza di quei biotopi e per fare costantemente il punto della situazione. Quest’anno il motto è: «Per la riduzione del rischio di catastrofi – Zone umide sane aiutano a far fronte agli eventi meteorologici estremi». In quella del 2016 invece si è voluto lanciare una sorta di grido d’allarme dicendo che dal 1990 a oggi oltre il 64 per cento delle zone umide di tutto il mondo è andato distrutto. La parte del leone in questa poco edificante classifica l’avrebbe fatta il continente asiatico. Come dobbiamo interpretare questa affermazione? Nel mondo oggi si contano 2186 zone umide di importanza strategica internazionale e la trasformazione e distruzione di molte zone naturali è fonte di preoccupazione per gli ambientalisti. Alle zone umide si riconosce il pregio di fornire acqua e cibo a innumerevoli specie di
piante e animali, ma soprattutto quello di salvaguardare la diversità biologica, di saper assorbire le precipitazioni abbondanti riducendo l’impatto delle inondazioni fluviali, di filtrare prodotti inquinanti o pericolosi di origine industriale rilasciati nelle acque, come i metalli pesanti, i fertilizzanti, i pesticidi. La Convenzione di Ramsar si prefiggeva proprio di guidare l’interesse globale per la conservazione e l’uso sostenibile di questi ambienti. Tuttavia la definizione adottata per le zone umide è così ampia che praticamente tocca tutte le attività umane. Se poi pensiamo che citando gli «specchi d’acqua temporanei» possiamo includere anche le risaie, dove viene coltivata la pianta che fornisce l’alimento base per tre miliardi di persone, il discorso può portarci lontano, rischiando di confonderci. Come pure se consideriamo nell’elenco gli estuari dei fiumi e i laghi costieri nei quali si pratica la pescicoltura. Per cui è probabile che quel dato mondiale di perdita del 64 per cento in 25 anni si riferisse alle sole zone umide naturali. Come abbiamo fatto a perdere così tanto? Semplicemente perché non le abbiamo considerate molto importanti: perché le loro dimensioni, spesso relativamente piccole, ce le hanno fatte trascurare. Ovviamente il discorso non è generalizzabile e va fatto per ogni nazione, o regione geografica, guardando anche alle realtà locali. In Svizzera le zone umide naturali si limitano per lo più alle paludi, alle torbiere, alle zone golenali, ai siti di riproduzione degli anfibi (come le rane o i rospi), oltre a qualche laghetto. Tra le cause principali di perdita e di degrado di queste zone vi sono i cambiamenti nell’uso del suolo, le bonifiche, la deforestazione, le mutate condizioni di un’agricoltura tradizionale, la crescita delle città e l’aumento delle infrastrutture, come le strade: in una parola, il progresso.
Tutto questo ha fatto sì che ambienti, una volta in comunicazione tra loro, sono stati fisicamente separati da opere dell’uomo e non per eventi naturali. Questi luoghi sono habitat di molte specie viventi utili, o addirittura necessarie, per l’intero ecosistema. L’ambiente naturale non è solo il risultato di una sovrapposizione di diversi elementi, ma è il prodotto delle loro interazioni nel corso del tempo. Per quanto riguarda le zone umide del Cantone Ticino un inventario, aggiornato al 2011, contava come di interesse nazionale: 18 torbiere, 56 paludi, 65 siti di riproduzione degli anfibi, 30 zone golenali e 131 prati secchi (in quanto sono importanti biotopi e si trovano lungo pendii molto scoscesi, ma anche lungo greti alluvionali). In tutto 300 siti da proteggere, a cui si aggiungevano nell’elenco altri 316 siti più piccoli, di puro interesse cantonale. Appare chiaro che questi luoghi non siano proprio del tipo che interes-
sa la nostra quotidianità. Li abbiamo spesso considerati di poco valore. Ma una svolta al riguardo è avvenuta sempre nel 1987, con l’accettazione dell’iniziativa di Rothenthurm. Sul territorio dei Cantoni di Svitto e Zugo, nella zona palustre di Rothenthurm, si trova la più grande «torbiera alta compatta» della Svizzera, visibile a vari stadi di sviluppo. In quell’area discosta, fuori dalle grandi direttrici di traffico, si voleva costruire una piazza d’armi. L’iniziativa bloccò il progetto. Da allora la Costituzione federale protegge per legge le paludi e le zone palustri di particolare bellezza e di importanza nazionale, vietando tra l’altro di costruirvi alcun impianto e di mutare la configurazione del terreno. Le paludi sappiamo bene cosa sono: acque stagnanti, biologicamente ricche di sostanze nutrienti. Possono evolversi generando le torbiere, terreni più asciutti ma che si inzuppano d’acqua quando piove, poveri d’ossigeno
e molto acidi. Tutte ospitano piante, animali e funghi parte dei quali sono vulnerabili e minacciati. Le zone golenali sono invece quelle al bordo dei fiumi, periodicamente inondate dalle piene. Sono ambienti che mutano d’aspetto, biologicamente ricchissimi. Ne stiamo riscoprendo il valore, anche perché in Svizzera si sono rilevate nelle golene 1200 specie vegetali, oltre a specie animali di grande interesse. Le zone golenali sono corridoi ecologici importanti per lo spostamento della fauna. L’arginatura e la rettificazione di fiumi e torrenti nel recente passato le avevano penalizzate. Oggi chi ha mezzi finanziari cerca di riportarle all’antico aspetto e di rivitalizzarle, non dimenticando che le golene residue sono anche luoghi attrattivi per lo svago e il tempo libero.
«Arrivato in Oriente ho speso anni a studiare tutto quello che potevo per capire come la pensano. Adesso lo so. L’Oriente sconvolge lo straniero perché lui è sintonizzato su un modo di pensare per contrapposizioni: o mi piaci o no. Per l’orientale, i due sentimenti possono coesistere in un unico cervello». Così mi disse Luca Invernizzi Tettoni, fotografo italiano che ha vissuto per quasi quarant’anni tra Bangkok e Singapore con deviazioni in tutto il Sud-est asiatico. E concludeva: «Ho capito che è tutta una finzione. Tu puoi anche diventare come gli orientali, ma sono loro che non ti accetteranno mai». Luca era un uomo di profonda cultura, di quei paesi parlava quasi tutte le lingue. È morto nel 2013 e mi mancano i nostri incontri sulla terrazza dell’Hotel Oriental di Bangkok, bevendo gin tonic e discutendo dell’Asia, dell’incontro e dello scontro tra culture diverse. «Il confine del mondo che m’interessa è la gente come noi» diceva, interpretando la parte dell’expat un po’ cinico che rifiuta il mito dell’assimilazione. La «gente come noi» erano quelli che si sono trasferiti all’estero per irrequietezza esistenziale, curiosità culturale, ricerca di un diverso stile di vita. Quello che conta per definirsi expat è dove ci si stabilisce. Lo spiega bene Bob Shacochis, giornalista e scrittore americano: «Fermati là dove nulla è familiare, dove la luce è surreale, gli odori sono quelli di spezie sconosciute e s’avvertono vibrazioni aliene. Immergiti in un altrove che rifletta un’immagine rovesciata di te stesso». La Thailandia è uno specchio perfetto di questo altrove: perché, per quanti sforzi facciamo, agli occhi dei thai resteremo sempre degli stranieri: farang. Il termine può essere spregiativo o amichevole, dipende dal contesto, ma è quasi sempre neutro. È la definizione di una diversità rispetto al khon thai, il popolo thai. Il farang è escluso dalla khwampenthai, la thailandesità, che accomuna phray e ammat, popolani e membri dell’élite, anche in piccole abitudini come il gusto per il som tam, l’insalata di papaya verde. Una volta accettata la diversità, la difficoltà di capire e l’esclusione, il farang/expat non può far altro che prendere atto degli equivoci culturali. Cominciando dall’espressione più comune in Thailandia: «Mai pen rai». Può significare, secondo i casi: non ti preoccupare, non importa, non è niente, va tutto bene… Il seguito è sottinte-
Vista notturna di Bangkok da un palazzo sul Chao Praya, il fiume che attraversa il centro storico della città.
so: sono ben altri i problemi, goditi la vita. Spesso è interpretata come una formula accomodante, superficiale, in realtà è un modo per cavarsi dall’impaccio o levare un altro dall’imbarazzo. È il corrispettivo semantico dell’insegnamento buddista secondo cui non vale la pena di soffermarsi su ciò che non si può cambiare. Mai pen rai è un mantra indispensabile al raggiungimento del sanuk. Questo è un altro concetto base nello stile di vita thai. Letteralmente significa divertimento, ma ha un contenuto più profondo. In termini che riecheggiano le filosofie orientali si può definire «la via della gioia di vivere». Il più profondo desiderio dei thai però è il sabai, il bene, in senso fisico, morale o psicologico, e ancor più il saen sabai, la sua forma assoluta, quasi una materializzazione del nirvana, l’estinguersi di ogni sofferenza. Sanuk e sabai inoltre sono la chiave di quegli atteggiamenti che definiscono il modo thai di rapportarsi agli altri: con gentilezza, disponibilità, allegria (a volte canzonatoria). Il loro eterno sorriso non è una maschera, come spesso sospettiamo, bensì un mezzo per comunicare la propria disposizione a condividere sanuk e sabai. Atten-
zione però a non cadere nell’equivoco culturale opposto, ossia del sorriso come immagine immutabile, simile a quello sul volto del Buddha. Altra parola del lessico thai che innesca molti equivoci culturali è chai. Significa cuore, ma in molti casi la traduzione migliore è mente. Infatti chai yen, il cuore freddo, è considerato una virtù. Tradotto come mente fredda rende meglio l’idea: è quella disposizione caratteriale e psicologica che permette di mantenere la calma. Al contrario chai rawn (un cuore o una mente calda) è quanto di più deprecabile: chi dimostra chai rawn gode di scarsa considerazione perché non è in grado di controllare le proprie emozioni. Ecco perché manifestare aggressività con un thai non serve a intimidirlo. Anzi, il locale ne trae la conclusione che si trova di fronte a una persona incapace di controllarsi. Allo stesso modo ogni altra manifestazione di forza (compreso lo stringere la mano con energia) viene considerata una forma di chai rawn, o comunque di maleducazione. Una delle variazioni sul tema del cuore è kreng chai, dove kreng significa riverente. L’espressione non si può semplicemente tradurre come «un cuore ri-
verente». Indica, infatti, un complesso di sentimenti ed emozioni che vanno dal rispetto alla paura, dalla sottomissione all’affetto. È il nucleo fondante del sistema di relazioni sociali thailandesi e ne attiva tutte le manifestazioni. Kreng chai significa dimostrare attenzione agli altri, partecipazione ai loro problemi, volontà di renderli felici. E così molto spesso i thai non esprimono il proprio pensiero quando credono possa offendere l’interlocutore o metterlo in imbarazzo. È un modo per evitare che l’altra persona perda la faccia, cosa che avverrebbe se si facesse notare un suo errore. Questo per uno straniero può rivelarsi un problema. Spesso, infatti, un thai risponde a una domanda dicendo ciò che pensa tu voglia sentirti dire, anziché la verità. Meglio dunque porre domande che non sottintendano una scelta già compiuta. Questa norma è così connaturata perché fa parte del sistema che costituisce l’impalcatura della società, definito nel rapporto pii-nong. Vale a dire anziano-giovane. Meglio ancora: maggiore-minore. Un rapporto gerarchico molto complesso: riguarda l’età, le gerarchie familiari, professionali, economiche, sociali, culturali, l’esperienza, lo status. È un sistema che cristallizza
Le passeggiate più belle
Informazioni
www.worldwetlandsday.org
le stratificazioni sociali, viste come un’espressione del karma, un destino assegnato in funzione dei meriti acquisiti nelle vite precedenti. Per la cultura occidentale, in cui i valori gerarchici sono sempre più messi in discussione, è un sistema incomprensibile; peggio, esecrabile. E ingenera l’ennesimo errore di comportamento. Per molti «viaggiatori», il modo apparentemente più facile d’integrarsi nella cultura thai è salutare tutti. Nel segno del wai, il tradizionale gesto di saluto congiungendo i palmi delle mani di fronte al viso e abbassando leggermente il capo. In apparenza un modo spirituale e democratico di rapportarsi all’altro. Spirituale lo è, ma non nella forma in cui lo intendono i neo-orientalisti, quale suggestivo segno di pace. Il wai, infatti, rappresenta l’unione delle forze cosmiche che compongono l’energia presente in ogni cosa e in tutti gli esseri. Ma democratico proprio no. Il wai al contrario è regolato dalla gerarchia: normalmente è rivolto dal minore al maggiore e con diverse sfumature nell’inchino e nella posizione delle mani. Per questo rivolgersi col wai per primi a chiunque non è considerato una forma di educazione democratica. Anzi, rischia di mettere in imbarazzo chi lo riceve. Alla fine, a forza di scansare equivoci, il vero rischio è la tipica sindrome degli expat provocata dal confronto tra visioni della vita troppo diverse, tradizione e modernità, misticismo e materialismo.
Esterno di un locale di Soi Cow Boy nel Red Light District di Bangkok.
Una danzatrice e il pagliaccio Ronald McDonald nel tipico saluto thailandese.
Solo su www.azione.ch, le escursioni proposte dal giornalista RSI Romano Venziani. Questa settimana un itinerario dedicato ai «Forti del Lucendro», il sistema di fortificazioni sorto sul massiccio del San Gottardo un secolo fa.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Ambiente e Benessere Reportage dalla Thailandia Per quanti sforzi si facciano, agli occhi dei thai resteremo sempre degli stranieri
Auto al Consumer Electronic Show Il Gruppo Fiat Chrysler Automobile ha partecipato per la prima volta al CES dove ha presentato il concept Chrysler Pacifica ibrida plug-in Portal pagina 14
Il vero re del bosco Considerato l’animale selvatico più grande che vive in Svizzera, il cervo è stato eletto animale dell’anno 2017 da Pro Natura pagina 15
Tra due mondi
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L’importanza delle zone umide
Ambiente Gli ambienti naturali finiti nel
dimenticatoio sono un valore da riscoprire? Il 2 febbraio si celebra la giornata mondiale dedicata a paludi, torbiere e altri acquitrini
Loris Fedele Cosa intendiamo per zone umide? Sono le «paludi, torbiere, acquitrini e comunque specchi d’acqua naturali e artificiali, permanenti o temporanei, con acqua dolce o salata, stagnante o corrente, incluse le coste marine la cui profondità non superi i sei metri con la bassa marea». Questa definizione fu redatta nel 1971 alla Conferenza di Ramsar, tenutasi nell’omonima località iraniana sul Mar Caspio. In quell’occasione si stilò anche la «Convenzione di Ramsar» nella quale i Paesi firmatari si impegnavano a preservare le zone umide, soprattutto come habitat degli uccelli acquatici. L’aveva voluto l’Iwrb (l’Ufficio internazionale di ricerca sugli uccelli acquatici) organizzatore della conferenza. Firmò anche la Svizzera e finora sono 169 le nazioni che vi hanno aderito. Nel 1997 si decise di indire il 2 febbraio di ogni anno una «Giornata mondiale delle zone umide» per sensibilizzare la popolazione sull’importanza di quei biotopi e per fare costantemente il punto della situazione. Quest’anno il motto è: «Per la riduzione del rischio di catastrofi – Zone umide sane aiutano a far fronte agli eventi meteorologici estremi». In quella del 2016 invece si è voluto lanciare una sorta di grido d’allarme dicendo che dal 1990 a oggi oltre il 64 per cento delle zone umide di tutto il mondo è andato distrutto. La parte del leone in questa poco edificante classifica l’avrebbe fatta il continente asiatico. Come dobbiamo interpretare questa affermazione? Nel mondo oggi si contano 2186 zone umide di importanza strategica internazionale e la trasformazione e distruzione di molte zone naturali è fonte di preoccupazione per gli ambientalisti. Alle zone umide si riconosce il pregio di fornire acqua e cibo a innumerevoli specie di
piante e animali, ma soprattutto quello di salvaguardare la diversità biologica, di saper assorbire le precipitazioni abbondanti riducendo l’impatto delle inondazioni fluviali, di filtrare prodotti inquinanti o pericolosi di origine industriale rilasciati nelle acque, come i metalli pesanti, i fertilizzanti, i pesticidi. La Convenzione di Ramsar si prefiggeva proprio di guidare l’interesse globale per la conservazione e l’uso sostenibile di questi ambienti. Tuttavia la definizione adottata per le zone umide è così ampia che praticamente tocca tutte le attività umane. Se poi pensiamo che citando gli «specchi d’acqua temporanei» possiamo includere anche le risaie, dove viene coltivata la pianta che fornisce l’alimento base per tre miliardi di persone, il discorso può portarci lontano, rischiando di confonderci. Come pure se consideriamo nell’elenco gli estuari dei fiumi e i laghi costieri nei quali si pratica la pescicoltura. Per cui è probabile che quel dato mondiale di perdita del 64 per cento in 25 anni si riferisse alle sole zone umide naturali. Come abbiamo fatto a perdere così tanto? Semplicemente perché non le abbiamo considerate molto importanti: perché le loro dimensioni, spesso relativamente piccole, ce le hanno fatte trascurare. Ovviamente il discorso non è generalizzabile e va fatto per ogni nazione, o regione geografica, guardando anche alle realtà locali. In Svizzera le zone umide naturali si limitano per lo più alle paludi, alle torbiere, alle zone golenali, ai siti di riproduzione degli anfibi (come le rane o i rospi), oltre a qualche laghetto. Tra le cause principali di perdita e di degrado di queste zone vi sono i cambiamenti nell’uso del suolo, le bonifiche, la deforestazione, le mutate condizioni di un’agricoltura tradizionale, la crescita delle città e l’aumento delle infrastrutture, come le strade: in una parola, il progresso.
Tutto questo ha fatto sì che ambienti, una volta in comunicazione tra loro, sono stati fisicamente separati da opere dell’uomo e non per eventi naturali. Questi luoghi sono habitat di molte specie viventi utili, o addirittura necessarie, per l’intero ecosistema. L’ambiente naturale non è solo il risultato di una sovrapposizione di diversi elementi, ma è il prodotto delle loro interazioni nel corso del tempo. Per quanto riguarda le zone umide del Cantone Ticino un inventario, aggiornato al 2011, contava come di interesse nazionale: 18 torbiere, 56 paludi, 65 siti di riproduzione degli anfibi, 30 zone golenali e 131 prati secchi (in quanto sono importanti biotopi e si trovano lungo pendii molto scoscesi, ma anche lungo greti alluvionali). In tutto 300 siti da proteggere, a cui si aggiungevano nell’elenco altri 316 siti più piccoli, di puro interesse cantonale. Appare chiaro che questi luoghi non siano proprio del tipo che interes-
sa la nostra quotidianità. Li abbiamo spesso considerati di poco valore. Ma una svolta al riguardo è avvenuta sempre nel 1987, con l’accettazione dell’iniziativa di Rothenthurm. Sul territorio dei Cantoni di Svitto e Zugo, nella zona palustre di Rothenthurm, si trova la più grande «torbiera alta compatta» della Svizzera, visibile a vari stadi di sviluppo. In quell’area discosta, fuori dalle grandi direttrici di traffico, si voleva costruire una piazza d’armi. L’iniziativa bloccò il progetto. Da allora la Costituzione federale protegge per legge le paludi e le zone palustri di particolare bellezza e di importanza nazionale, vietando tra l’altro di costruirvi alcun impianto e di mutare la configurazione del terreno. Le paludi sappiamo bene cosa sono: acque stagnanti, biologicamente ricche di sostanze nutrienti. Possono evolversi generando le torbiere, terreni più asciutti ma che si inzuppano d’acqua quando piove, poveri d’ossigeno
e molto acidi. Tutte ospitano piante, animali e funghi parte dei quali sono vulnerabili e minacciati. Le zone golenali sono invece quelle al bordo dei fiumi, periodicamente inondate dalle piene. Sono ambienti che mutano d’aspetto, biologicamente ricchissimi. Ne stiamo riscoprendo il valore, anche perché in Svizzera si sono rilevate nelle golene 1200 specie vegetali, oltre a specie animali di grande interesse. Le zone golenali sono corridoi ecologici importanti per lo spostamento della fauna. L’arginatura e la rettificazione di fiumi e torrenti nel recente passato le avevano penalizzate. Oggi chi ha mezzi finanziari cerca di riportarle all’antico aspetto e di rivitalizzarle, non dimenticando che le golene residue sono anche luoghi attrattivi per lo svago e il tempo libero.
«Arrivato in Oriente ho speso anni a studiare tutto quello che potevo per capire come la pensano. Adesso lo so. L’Oriente sconvolge lo straniero perché lui è sintonizzato su un modo di pensare per contrapposizioni: o mi piaci o no. Per l’orientale, i due sentimenti possono coesistere in un unico cervello». Così mi disse Luca Invernizzi Tettoni, fotografo italiano che ha vissuto per quasi quarant’anni tra Bangkok e Singapore con deviazioni in tutto il Sud-est asiatico. E concludeva: «Ho capito che è tutta una finzione. Tu puoi anche diventare come gli orientali, ma sono loro che non ti accetteranno mai». Luca era un uomo di profonda cultura, di quei paesi parlava quasi tutte le lingue. È morto nel 2013 e mi mancano i nostri incontri sulla terrazza dell’Hotel Oriental di Bangkok, bevendo gin tonic e discutendo dell’Asia, dell’incontro e dello scontro tra culture diverse. «Il confine del mondo che m’interessa è la gente come noi» diceva, interpretando la parte dell’expat un po’ cinico che rifiuta il mito dell’assimilazione. La «gente come noi» erano quelli che si sono trasferiti all’estero per irrequietezza esistenziale, curiosità culturale, ricerca di un diverso stile di vita. Quello che conta per definirsi expat è dove ci si stabilisce. Lo spiega bene Bob Shacochis, giornalista e scrittore americano: «Fermati là dove nulla è familiare, dove la luce è surreale, gli odori sono quelli di spezie sconosciute e s’avvertono vibrazioni aliene. Immergiti in un altrove che rifletta un’immagine rovesciata di te stesso». La Thailandia è uno specchio perfetto di questo altrove: perché, per quanti sforzi facciamo, agli occhi dei thai resteremo sempre degli stranieri: farang. Il termine può essere spregiativo o amichevole, dipende dal contesto, ma è quasi sempre neutro. È la definizione di una diversità rispetto al khon thai, il popolo thai. Il farang è escluso dalla khwampenthai, la thailandesità, che accomuna phray e ammat, popolani e membri dell’élite, anche in piccole abitudini come il gusto per il som tam, l’insalata di papaya verde. Una volta accettata la diversità, la difficoltà di capire e l’esclusione, il farang/expat non può far altro che prendere atto degli equivoci culturali. Cominciando dall’espressione più comune in Thailandia: «Mai pen rai». Può significare, secondo i casi: non ti preoccupare, non importa, non è niente, va tutto bene… Il seguito è sottinte-
Vista notturna di Bangkok da un palazzo sul Chao Praya, il fiume che attraversa il centro storico della città.
so: sono ben altri i problemi, goditi la vita. Spesso è interpretata come una formula accomodante, superficiale, in realtà è un modo per cavarsi dall’impaccio o levare un altro dall’imbarazzo. È il corrispettivo semantico dell’insegnamento buddista secondo cui non vale la pena di soffermarsi su ciò che non si può cambiare. Mai pen rai è un mantra indispensabile al raggiungimento del sanuk. Questo è un altro concetto base nello stile di vita thai. Letteralmente significa divertimento, ma ha un contenuto più profondo. In termini che riecheggiano le filosofie orientali si può definire «la via della gioia di vivere». Il più profondo desiderio dei thai però è il sabai, il bene, in senso fisico, morale o psicologico, e ancor più il saen sabai, la sua forma assoluta, quasi una materializzazione del nirvana, l’estinguersi di ogni sofferenza. Sanuk e sabai inoltre sono la chiave di quegli atteggiamenti che definiscono il modo thai di rapportarsi agli altri: con gentilezza, disponibilità, allegria (a volte canzonatoria). Il loro eterno sorriso non è una maschera, come spesso sospettiamo, bensì un mezzo per comunicare la propria disposizione a condividere sanuk e sabai. Atten-
zione però a non cadere nell’equivoco culturale opposto, ossia del sorriso come immagine immutabile, simile a quello sul volto del Buddha. Altra parola del lessico thai che innesca molti equivoci culturali è chai. Significa cuore, ma in molti casi la traduzione migliore è mente. Infatti chai yen, il cuore freddo, è considerato una virtù. Tradotto come mente fredda rende meglio l’idea: è quella disposizione caratteriale e psicologica che permette di mantenere la calma. Al contrario chai rawn (un cuore o una mente calda) è quanto di più deprecabile: chi dimostra chai rawn gode di scarsa considerazione perché non è in grado di controllare le proprie emozioni. Ecco perché manifestare aggressività con un thai non serve a intimidirlo. Anzi, il locale ne trae la conclusione che si trova di fronte a una persona incapace di controllarsi. Allo stesso modo ogni altra manifestazione di forza (compreso lo stringere la mano con energia) viene considerata una forma di chai rawn, o comunque di maleducazione. Una delle variazioni sul tema del cuore è kreng chai, dove kreng significa riverente. L’espressione non si può semplicemente tradurre come «un cuore ri-
verente». Indica, infatti, un complesso di sentimenti ed emozioni che vanno dal rispetto alla paura, dalla sottomissione all’affetto. È il nucleo fondante del sistema di relazioni sociali thailandesi e ne attiva tutte le manifestazioni. Kreng chai significa dimostrare attenzione agli altri, partecipazione ai loro problemi, volontà di renderli felici. E così molto spesso i thai non esprimono il proprio pensiero quando credono possa offendere l’interlocutore o metterlo in imbarazzo. È un modo per evitare che l’altra persona perda la faccia, cosa che avverrebbe se si facesse notare un suo errore. Questo per uno straniero può rivelarsi un problema. Spesso, infatti, un thai risponde a una domanda dicendo ciò che pensa tu voglia sentirti dire, anziché la verità. Meglio dunque porre domande che non sottintendano una scelta già compiuta. Questa norma è così connaturata perché fa parte del sistema che costituisce l’impalcatura della società, definito nel rapporto pii-nong. Vale a dire anziano-giovane. Meglio ancora: maggiore-minore. Un rapporto gerarchico molto complesso: riguarda l’età, le gerarchie familiari, professionali, economiche, sociali, culturali, l’esperienza, lo status. È un sistema che cristallizza
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le stratificazioni sociali, viste come un’espressione del karma, un destino assegnato in funzione dei meriti acquisiti nelle vite precedenti. Per la cultura occidentale, in cui i valori gerarchici sono sempre più messi in discussione, è un sistema incomprensibile; peggio, esecrabile. E ingenera l’ennesimo errore di comportamento. Per molti «viaggiatori», il modo apparentemente più facile d’integrarsi nella cultura thai è salutare tutti. Nel segno del wai, il tradizionale gesto di saluto congiungendo i palmi delle mani di fronte al viso e abbassando leggermente il capo. In apparenza un modo spirituale e democratico di rapportarsi all’altro. Spirituale lo è, ma non nella forma in cui lo intendono i neo-orientalisti, quale suggestivo segno di pace. Il wai, infatti, rappresenta l’unione delle forze cosmiche che compongono l’energia presente in ogni cosa e in tutti gli esseri. Ma democratico proprio no. Il wai al contrario è regolato dalla gerarchia: normalmente è rivolto dal minore al maggiore e con diverse sfumature nell’inchino e nella posizione delle mani. Per questo rivolgersi col wai per primi a chiunque non è considerato una forma di educazione democratica. Anzi, rischia di mettere in imbarazzo chi lo riceve. Alla fine, a forza di scansare equivoci, il vero rischio è la tipica sindrome degli expat provocata dal confronto tra visioni della vita troppo diverse, tradizione e modernità, misticismo e materialismo.
Esterno di un locale di Soi Cow Boy nel Red Light District di Bangkok.
Una danzatrice e il pagliaccio Ronald McDonald nel tipico saluto thailandese.
Solo su www.azione.ch, le escursioni proposte dal giornalista RSI Romano Venziani. Questa settimana un itinerario dedicato ai «Forti del Lucendro», il sistema di fortificazioni sorto sul massiccio del San Gottardo un secolo fa.
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Ambiente e Benessere
La moda dei vini speziati
Il vino nella storia Segno di prestigio sociale e sempre presenti ai banchetti di lusso del tredicesimo secolo Davide Comoli Intorno al 1200 i vini preferiti e i più pregiati erano il Vin Greco, le Malvasie, le Vernacce e i Moscatelli. Questi erano un segno di prestigio sociale e non potevano mancare nei banchetti di lusso. Fu in questo periodo che anche nell’ambito dei vini e dei cibi si manifestò la «follia delle spezie». Tutto doveva essere speziato, il palato doveva essere solleticato con sapori nuovi, coinvolgenti ed esotici, per stupire, meravigliare e anche per dimostrare la propria ricchezza, perché l’acquisto delle spezie, richiedeva ampie disponibilità economiche. I mercanti italiani, ebbero un ruolo molto importante nel commercio internazionale sia del vino sia delle spezie. In particolare, Venezia fu una delle principali artefici di questo settore. L’intraprendente città lagunare, fu una formidabile intermediaria con l’impero bizantino, il quale all’epoca era un raffinato cultore di specialità esotiche e di vini. Sin dall’anno Mille, Venezia era un’alleata degli imperatori di Costantinopoli ed aveva ottenuto privilegi fiscali che le consentivano di commerciare ogni genere di merce in ogni angolo dell’Impero Romano d’Oriente. Nel 1202 le navi veneziane imbarcarono i partecipanti della IV crociata indetta da papa Innocenzo III. A guidare la spedizione furono Bonifacio marchese di Monferrato, Baldovino di Fiandra e il doge Enrico Dandolo. Questa crociata non arrivò mai a Ge-
rusalemme a causa delle vicende politiche nelle quali s’imbatterono lungo il viaggio, ma ciò permise ai cavalieri di conquistare Zara e Costantinopoli. Venezia diventò così Signora di una parte di Costantinopoli, di Creta e di molte isole dell’arcipelago greco. Già padroni della Dalmazia, i veneziani si assicurarono così il possesso di una serie di isole, scali e porti che costituivano gli anelli di una catena ininterrotta dall’Adriatico fino all’odierna Istanbul (Costantinopoli). Ciò che rappresentò per la città veneta un’ulteriore grande affermazione sui mercati dell’Oriente. Venezia, consolidò così il monopolio del commercio dei vini del Peloponneso, Corfù, Cipro, Creta, Rodi e delle isole dell’Egeo. Da queste zone infatti, provenivano i pregiati Moscatelli e le rinomate Malvasie che Venezia mandava non solo sui mercati italiani, ma anche verso la Francia meridionale, la Spagna, le Fiandre e l’Inghilterra. L’apertura della cultura occidentale verso l’Oriente, l’intensificazione dei contatti, la celebrità di quei vini, condussero alla diffusione anche in Occidente dei vitigni necessari alla loro produzione. Nuove abitudini, nuove idee, nuove parole. Entrò così in uso in quegli anni la parola «muscato» insieme ai suoi derivati. Il profumiere era chiamato a Venezia «muschiere». «Nux muscata» fu chiamata nel latino medievale la nota spezia che noi conosciamo come «noce moscata», e «zucchero muscato» era lo zucchero profumato
Il Bucintoro di Palazzo Ducale – Venezia, olio su tela di Canaletto (II). (Museo di Milano: collezione Aldo Crespi)
che si usava per confettare la frutta. In quel mondo di profumi, il nome «moscato» fortemente evocativo, fu impiegato a designare certi vini dolci, aromatici, prediletti dalle classi sociali più agiate. Il prestigio di questi vini dorati e molto profumati era molto considerato, e a partire dal 1200 l’Italia diventò la nazione storicamente più importante per i moscati. A partire dalla fine del 1200, molte zone italiane diedero inizio al commercio locale dei vini tanto profumati richiesti da molti mercati. Per potere affermarsi e non soccombere alla concorrenza, da un lato venivano incoraggiati gli impianti di nuove vigne, dall’altro la tutela dei prodotti. A questo pensarono le leggi dei Comuni medievali. Gli statuti di di-
verse città, come ad esempio quelli di Vercelli del 1253, arrivarono a vietare la vendita di Moscato e altri vini d’importazione e obbligarono a impiantare una percentuale fissa di ceppi di Moscato rispetto ad altri vitigni. Già dagli inizi del 1300, Pier de Crescenzo, autore bolognese, nel suo Liber Ruralium Commodorum citava il Moscatello fra i vitigni più coltivati nella Penisola. Oltre ai celebri sopra citati era uso importante nel Medioevo il consumo dei vini aromatizzati con spezie rare e preziose, forti o dolci, come il coriandolo, il cardamomo, i chiodi di garofano, la cannella, che venivano miscelati in varie proporzioni con vino, miele e il prezioso zucchero orientale, andaluso o siciliano.
Un aspetto che sicuramente contribuì al successo e alla moda dei nuovi vini aromatizzati, fu il ruolo che il vino e le spezie ebbero anche nella preparazione di prodotti terapeutici. Fu in quel tempo molto apprezzato un vino aromatizzato per eccellenza, «l’Ypocras», che tra il 1200 e il 1600 conobbe un vero successo: il suo nome deriverebbe dal medico per eccellenza che fu Ippocrate. Essendo un prodotto ricco di costose spezie, diventò segno di un’elevata posizione economica e sociale, protagonista di feste, regalo prezioso e complemento indispensabile di un vero pranzo di gala, non solo per la borghesia italiana, ma anche alle corti dei nobili europei, dove questa moda durò fino alla fine del 1600, quando in seguito alle nuove condizioni storicoeconomiche, in Europa s’affermarono nuovi stili di vita. Fu durante il Medioevo che s’affermarono anche nuovi contenitori per il vino: le botti di legno e i barilotti sostituirono quasi totalmente le anfore d’argilla; con i fiaschi impagliati nel 1400 si diffuse l’uso delle bottiglie per portare il vino in tavola e si affermò decisamente l’uso del bicchiere. Le bottiglie poste sul tavolo erano chiuse spesso con tappi di frutta, con la filaccia, con una scodella capovolta o con il tappo di vetro troncoconico. Un altro grande cambiamento di quell’epoca fu il distacco dall’uso latino e greco di bere il vino mescolato all’acqua. Da qui in poi si inizierà a preferire il vino puro, ovvero non annacquato. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Ambiente e Benessere
Cipolle, vitellone, pinoli, uva passa... Dieci anni fa vi ho riportato queste due somme ricette in una versione casalinga, semplice. Oggi ve le ripropongo nella forma storica, più complessa. Sono due meraviglie napoletane. Ragù alla napoletana – Ingredienti per 8 persone: 800 g di pasta corta a piacere, 2 kg di pomodori pelati, 2 cipolle, 150 g di concentrato di pomodoro, 1 kg di fettine di carne di vitellone tagliate sottili, provolone semipiccante, basilico, aglio, prezzemolo, uva passa e pinoli, 50 g di lardo, 2 dl di vino rosso secco, 2 dl di olio di oliva, grana, sale e pepe.
Passo dopo passo il procedimento per preparare il ragù alla napoletana e la salsa genovese, che nonostante il nome è anch’essa di Napoli Ponete al centro di ogni fettina di carne il prezzemolo, un pezzetto di aglio, un pezzetto di provolone, l’uva passa (ammollata e poi strizzata) e i pinoli. Tritate le cipolle e mettetele a soffriggere in una casseruola con lardo e olio; quando ha preso colore alzate la fiamma e fate rosolare gli involtini su tutti i lati, poi sfumate con il vino e fate evaporare tutto il liquido. Quando è evaporato alzate di nuovo la fiamma, versate un paio di cucchiai di concentrato di pomodoro e girate il tutto spesso, facendo soffriggere, finché il pomodoro non assume un colore rosso scuro; allora aggiungete altre due cucchiaiate di concentrato e fate soffriggere ancora finché non scurisce. Aggiungete un paio di mestoli di acqua, abbassate la fiamma, unite i pomodori pelati spezzettati e portate a cottura dolcemente, togliendo gli involtini dalla casseruola e mettendoli da parte quando saranno cotti. Il ragù
deve sobbollire per almeno 3 ore. A fine cottura regolate di sale e aggiungete una grossa manciata di basilico. Cuocete la pasta, a piacere (basta sia corta), scolatela e conditela con il ragù bollente, una macinata di pepe nero e abbondante grana grattugiato. Servitela accompagnandola con gli involtini. Salsa genovese – Ingredienti per 8 persone: 2 kg di cipolle bionde, 1 kg di muscolo e cappello del prete di vitellone, 250 g di sedano, 300 g di carote, 1 fetta di prosciutto crudo da 100 g con il suo grasso, 6 pomodorini maturi, basilico, grana, 2 dl di vino bianco secco, 50 g di burro, 2 dl di olio di oliva, sale e pepe bianco. Pelate le cipolle e tagliatele a fette sottili; fate lo stesso con le carote e il sedano. Tagliate in due i pomodorini; unite il tutto in un grosso tegame con l’olio, il burro e il prosciutto crudo tagliato sottile. Fate soffriggere a fiamma vivace. Quando le verdure sono caramellizzate, unite il pezzo di carne e fatelo rosolare su tutti i lati. Sfumate con il vino, unite un pizzico di sale e una macinata di pepe. Aggiungete due bicchieri di acqua, coprite il tegame con un coperchio e iniziate la cottura a fiamma bassissima, mescolando di tanto in tanto perché non si attacchi e aggiungendo, ogni volta che il fondo si asciuga troppo, uno o due bicchieri d’acqua bollente. Dopo circa 5, 6 ore, quando la cipolla, ormai diventata cremosa, avrà raggiunto un colore che si avvicina al bronzo, la preparazione è quasi pronta. Regolate di sale e di pepe bianco, aggiungete qualche foglia di basilico, togliete la carne dal tegame, tagliatela a pezzi e tenetela in caldo; fate ulteriormente restringere la salsa: più lunga è la cottura, migliore è la riuscita della salsa. Cuocete la pasta: mezzi ziti o rigatoni o paccheri. Scolatela e conditela in una grande ciotola con grana grattugiato, basilico spezzato con le mani e la genovese; portate in tavola una salsiera con salsa in più.
CSF (come si fa)
wordpress
Allan Bay
Christine Rondeau
Gastronomia I ricchi ingredienti di due ricette per condire la pasta secondo la tradizione napoletana
Premessa. Io sono di origine piemontese, sebbene nato a Milano. Uno dei nonni era però napoletano che più verace non si poteva: recitava a Milano nel teatro dialettale napoletano ed era un ottimo cuoco. Purtroppo è morto prima che io nascessi, di lui so solo quanto mi hanno raccontato nonna e mamma. E oggi, in vena di riletture rigorose e di revival napoletano rispolvero il gattò, anche questa grande glo-
ria napoletana, che nonna diceva essere il suo piatto prediletto. Le patate le amo moltissimo e le preparo in tanti modi. Ma al primo posto, senza nessun dubbio, sta per l’appunto il gattò. Che è buonissimo, che ha un nome bellissimo, che deriva dal gateau francese, che è nobile, borghese e popolare allo stesso tempo, che è al contempo antipasto, primo ma anche secondo piatto ma anche piatto unico, che è facile da fare. L’unico problema è, questo lo sanno tutti: occhio alle ustioni, esce dal forno rovente che di più non si può e si intiepidisce lentamente. Lo preparo abbastanza spesso a casa. Ma non abbastanza per dominare un piatto così semplice, che per essere veramente ben fatto deve essere stato preparato infinite volte. Eccovi la ricetta.
Gattò di patate napoletano – Ingredienti per 6 persone: 1 kg di patate farinose, 3 uova intere leggermente sbattute, 50 g di formaggio tipo provolone a pezzettini, 300 g di pancetta dolce a pezzettini, 300 g di prosciutto cotto a pezzettini, 50 g di burro, pangrattato, 1 pizzico di sale, 1 pizzico di pepe. Lessate le patate, sbucciatele e passatele allo schiacciapatate. Schiacciatele bene in una ciotola, aggiungete tutti gli ingredienti (salvo il pangrattato), mescolate e amalgamate bene il tutto. Prendete una bella teglia, ungetela con burro, spolverizzatela con pangrattato e unite sul fondo poco burro a fiocchetti. Unite tutto l’impasto, livellatelo e spolverizzate con pangrattato. Mettete la teglia in forno a 150°: quando inizia a rosolarsi è pronto.
Ballando coi gusti Oggi due ricette di pani curiosi: il primo è impastato con polpa di zucca, il secondo è addirittura cotto alla griglia. Buon pane a tutti.
Pane con la zucca
Pane alla griglia
Ingredienti: 500 g di farina 0 · 300 g di polpa di zucca · 15 g di lievito di birra ·
Ingredienti: 700 g di pasta da pane.
1 uovo · 1 cucchiaio di olio di oliva · sale.
Tagliate la polpa di zucca a dadi, arrotolateli in carta di alluminio e cuocete in forno a 200° per 30’. Levate, fate intiepidire e passate la polpa al setaccio. Stemperate il lievito in 50 g di acqua e 2 cucchiai di farina, lasciate riposare per 20’. Mettete a fontana il resto della farina, unite il lievito, l’uovo, l’olio, 1 poco di sale e l’acqua necessaria per avere un impasto sodo e impastate bene. Fatelo riposare in un luogo asciutto e al riparo dalle correnti d’aria per 2 ore. A questo punto ri-impastate per 10’, poi fatelo riposare per altre 2 ore. Mettete l’impasto in uno stampo foderato di carta da forno e cuocete per 20’ in forno a 220°, poi abbassate a 180° e cuocete per altri 20’. Levate, fate raffreddare.
Mettete la pasta su un tagliere e aiutandovi con un tira pasta o con un matterello stendetela a pochi millimetri di spessore. Poi tagliatela a striscioline lunghe un palmo e larghe a piacer vostro, ma massimo 3 cm. Ammollate in acqua degli spiedini di legno per 10’. Arrotolate le strisce di pasta sugli spiedini, compattandola leggermente. Cuoceteli su una griglia rovente per una dozzina di minuti o poco più, girandoli spesso, in modo che cuociano in maniera uniforme. Levate, fate intiepidire. Serviteli sui bastoncini accompagnati da fettine di prosciutto crudo, salame, formaggio o quello che volete.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Ambiente e Benessere
Una vela anche per me
Sport Nasce l’Associazione Velabili per permettere la pratica della vela a persone con disabilità
Davide Bogiani Da qualche mese, il lago Ceresio si è tinto di colori. Rosso, verde e blu danzano e si rincorrono durante il fine settimana. E quando ci si avvicina al Circolo velico timidamente sulla vela si scorgono tre nomi: Pirando, Cerebral e Delfino. Stiamo parlando delle tre imbarcazioni del tipo Hansa 303W, portate sulle rive del lago di Lugano da skipper speciali. Sì, perché a governare le barche sono persone con disabilità.
Tra gli obiettivi: preparare alcuni ragazzi agli Special Games che si svolgono ogni quattro anni Velabili, questo il nome dell’Associazione, a capo della quale vi è il presidente Boris Keller. Lo abbiamo incontrato per saperne di più su questa primizia a livello non solo ticinese, ma addirittura svizzero: «Tutto nasce quattro anni fa, quando la Federazione Ticinese Integrazione Andicap (ndr. ora Integrazione Andicap Ticino) ha organizzato una settimana di barca a vela al mare per ragazzi con disabilità mentale. Io facevo parte del team come skipper; abbiamo navigato per una settimana attorno all’isola d’Elba» ci spiega Keller. «L’esperienza è stata molto positiva, per questo motivo è stata ripetuta l’anno successivo ed è entrata a far parte del calendario delle attività sportive per persone con disabilità mentale. Ogni anno vengono infatti ospitati nuovi ragazzi, i quali sono coinvolti attivamente sulla barca, sia nelle attività di navigazione, sia nei compiti di cucina, pulizia e altre attività indirettamente legate al mondo della barca».
Le barche di Velabili sul Lago di Lugano.
Questa esperienza è stata riproposta per altri tre anni, sempre con un grande riscontro da parte dei partecipanti. Sull’onda di questo entusiasmo e grazie all’ottima collaborazione con la Federazione Ticinese Integrazione Andicap, con il Circolo Velico di Lugano e con il Gruppo sportivo Insuperabili, è stato dato il via alla creazione dell’associazione Velabili, che prevede per l’appunto la navigazione con piccole imbarcazioni sul Ceresio. È d’altronde anche importante differenziare. Di fatto, com’è ovvio, è molta la differenza dei compiti e degli insegnamenti rivolti agli atleti quando hanno ha che fare con una grossa barca a vela come quella impiegata per l’Isola d’Elba, rispetto a quando si trovano confrontati con le piccole imbarcazioni per il lago: «Nella barca a mare – ci spiega Keller – è
importante il lavoro di coordinamento del team. Occorre gestire minuziosamente i compiti al timone, alla vela, di lettura della cartina e altro ancora. Sul lago invece le imbarcazioni sono di piccole dimensioni e possono ospitare soltanto due persone. L’insegnamento prevede quindi dei momenti a secco, con il gruppo, per poi scendere sul lago, accompagnati da un gommone». Il tipo di imbarcazione Hansa 303W permette di accogliere skipper con disabilità diverse; fisica, mentale, sensoriale. È facile da governare ed è utilizzabile per tutti, anche per coloro che non hanno esperienza con la vela. Si tratta inoltre di una barca molto sicura in quanto non scuffia (ndr: non si ribalta). Proprio per questo motivo, i partecipanti si sentono a loro agio e spe-
rimentano senza timore di sbagliare le manovre più diffuse: lascare, cazzare, tecniche per mantenere la rotta, tecnica di bolina e di traverso, gran lasco, eccetera. Le uscite di un’ora e trenta, ogni due settimane circa, permettono di costruire un percorso didattico e formativo molto interessante. Integrazione o inclusione? Keller spiega che «l’associazione Velabili dispone di imbarcazioni proprie e organizza propri campi di allenamento. Per questo motivo si parla di integrazione; tuttavia si tratta di un gruppo che rimane al di fuori del team di ragazzi normodotati del Circolo Velico». Lo scopo finale è tuttavia quello di includere le attività per persone con disabilità all’interno dei gruppi per normodotati. Il Circolo velico di Lugano in questo sen-
so è stato un pioniere, in quanto ha già permesso a un ragazzo con disabilità di entrare a far parte del gruppo di regata del team di normodotati. Parole, queste, che fanno rima con Special Olympics Svizzera, l’associazione mantello a livello nazionale per lo sport per persone con disabilità cognitiva. Special Olympics sta infatti seguendo da alcuni anni un concetto di inclusione di persone con disabilità cognitive nei club sportivi. Calcio, tennis, basket, vela e molte altre discipline sportive ospitano atleti anche con disabilità cognitive, tracciando quello che probabilmente, nel limite del possibile, sarà il futuro dello «sport e andicap». La stessa Special Olympics ha organizzato proprio lo scorso mese di ottobre una gara a livello nazionale sul lago Ceresio. «Sì è trattato – continua il Presidente – della prima gara di vela sul territorio elvetico. Hanno preso parte alla manifestazione 14 partecipanti per un totale di 7 equipaggi, misti di disabilità fisica e mentale. Per la prima volta in una manifestazione di Special Olympics, si sono uniti due tipi di disabilità. E non sono da poco le ambizioni di Velabili: «Ci siamo posti un obiettivo molto alto – conclude Keller –, ovvero quello di preparare alcuni ragazzi agli Special Games che si svolgono ogni quattro anni. Il prossimo appuntamento è in programma a Singapore nel 2019. Un obiettivo ambizioso ma non impossibile». Ne è dimostrazione il fatto che lo stesso Keller ha accompagnato lo scorso anno a Los Angeles un giovane sportivo ticinese agli Special Games, proprio nella vela. Sognando Singapore e remando per ottenere le qualifiche, è arrivato anche per noi il momento di congedarci. È tempo di lasciar sfrecciare i tre colori sul lago, di colorarlo di nuove linee e mosaici.
Non un prototipo, ma un progetto futuro
Motori A Las Vegas, dove sono in mostra le anticipazioni di ciò che forse sarà realtà tra dieci anni e più,
CES ha presentato il concept Chrysler Pacifica ibrida plug-in Portal Mario Alberto Cucchi Consumer Electronic Show ovvero CES. Così si chiama la fiera americana d’inizio gennaio che a Las Vegas mette in mostra il futuro su una superficie espositiva di 220mila metri quadri. Cinquant’anni di tecnologia. Nel 1967 fu la prima edizione a New York dove si presentarono poco più di cento aziende e 17mila visitatori, contro i 3800 espositori di quest’anno e gli oltre 160mila visitatori. Al CES nel 1970 ha debuttato il videoregistratore, negli anni Ottanta il Cd e a fine anni Novanta il Dvd. Quest’anno sotto i riflettori assieme a jeans con gps integrato, culle per neonati monitorabili dal tablet, robot
pulisci barbecue, tazze del caffè connesse per mantenerlo alla temperatura ottimale, droni, smart-letti e cinture con batteria incorporata, ci sono state le automobili. Nella capitale del Nevada i colossi automobilistici sono uniti nella corsa verso l’auto ecologica e la guida autonoma. A Las Vegas sono in mostra i progetti più avanzati, non prototipi che vedremo sulle strade tra un paio d’anni, ma anticipazioni di quello che forse sarà realtà tra dieci anni e più. Il Gruppo FCA (Fiat Chrysler Automobile) presente per la prima volta al CES ha presentato il concept Chrysler Pacifica ibrida plug-in Portal. Un nuovo tipo di veicolo ecologico adatto a
tutta la famiglia realizzato con partner come Samsung, Panasonic e Magneti Marelli. Portal è caratterizzata da un pianale basso e piatto che ospita le batterie di alimentazione sul suo fondo. Questa ibrida plug-in può trasportare sino a sei passeggeri disposti su tre linee da due sedili separati, a cui si può accedere tramite le porte scorrevoli che aiutano a vivere l’auto non come un mezzo di trasporto, ma come un’estensione del salotto di casa. Gruppo, ma anche individualità, grazie ad accorgimenti come gli altoparlanti rivolti verso ogni singolo passeggero, in modo che possa ascoltare il proprio brano musicale. Gli stessi altoparlanti vengono utilizzati per amplificare il suono della sirena di un’eventuale ambulanza in avvicinamento. Sì, perché Portal è proiettata verso l’ambiente che la circonda grazie a una serie di telecamere e sensori che «guardano» attorno all’auto a 360°.Quindi nel caso dell’ambulanza, aiutano il guidatore a capire da che direzione stia arrivando. Presentata come «progettata dai millennials per i millennials», è equipaggiata come i moderni smartphone con sensori d’impronte che sostituiscono la tradizionale chiave. Non manca un grande display dedicato al guidatore e utilizzato anche per gestire la guida autonoma di livello 3: l’auto può svolgere autonomamente manovre complesse, svolta-
re, cambiare corsia di marcia e reagire attivamente a eventi previsti e imprevisti, dall’evitamento di un ostacolo improvviso al cambio di direzione dei veicoli vicini. Nella parte bassa del cruscotto è posizionato un display più grande utilizzato per l’intrattenimento e la gestione delle App. Portal è la prima auto del Gruppo FCA pensata e progettata per essere al 100 per cento elettrica. La batteria da 100 kWh promette infatti un’autonomia di 400 chilometri. Grazie a un caricabatterie di nuova genera-
zione da 350kW in corrente continua, una volta connessa a prese dedicate dovrebbe recuperare 240 chilometri di autonomia in soli 20 minuti. Ma questo prototipo diventerà un’automobile di serie? Ad oggi non si sa, dato che Fiat Chrysler Automobile non ha rilasciato dichiarazioni in merito. Sicuramente lascia intendere che FCA non sta ferma a guardare i propri competitor ma che sono in sviluppo nuove tecnologie implementabili nei veicoli che debutteranno nei prossimi anni.
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Stefania Sargentini 5 1 3
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
Il re del bosco GIOCO N.1di Capodanno (BUON ANNO) allegato a parte 3
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Mondoanimale Il cervo, animale selvatico più grande della Svizzera,
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è eletto animale dell’anno 2017
Attualmente in Svizzera si contano circa 35mila esemplari di Cervus elaphus da noi conosciuto come cervo. Ritenuto vero re del bosco, per i grandi palchi del maschio, per il suo bramito e perché con la sua imponenza è l’animale selvatico più grande che vive in Svizzera, è eletto animale dell’anno 2017 da Pro Natura. Il cervo necessita di ampi spazi per le sue migrazioni stagionali, caratteristica che i responsabili di Pro Natura sottolineano spiegandone le caratteristiche salienti: «Il cervo è di fatto un assiduo pendolare che fa la spola fra l’ambiente diurno e quello notturno, tra l’habitat estivo e quello invernale». La sua spiccata esigenza di mobilità è poco nota, e si traduce nel fatto che il suo ambiente diurno è differente da quello notturno, e l’habitat estivo può distare anche dozzine di chilometri da quello invernale. Purtroppo, la crescente frammentazione del territorio in Sviz-
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zera pone non pochi problemi al re del protezione dei corridoi faunistici natubosco: «I suoi assi di migrazione sono rali, anche nella realizzazione di nuovi sempre più spesso interrotti da strade, e adeguati sovrappassi per la fauna», ferrovie e insediamenti umani». ribadisce la responsabile della comuniScegliendo questo assiduo pen- cazione e progetti della sezione ticinedolare dei nostri boschi come animale se, Martina Spinelli. dell’anno 2017, Pro Natura vuole proTornando a parlare dell’animaprio attirare l’attenzione sulla necessità le dell’anno, 150 anni or sono esso era di spostarsi della fauna indigena e sulle estinto sul territorio elvetico, vittima difficoltà che essa incontra. «Le stra- di una caccia implacabile e dello sfrutde, le ferrovie e gli insediamenti sono tamento incontrollato dei boschi. Il i principali ostacoli sul percorso quo- suo ritorno risale al 1870, quando nel tidiano o stagionale degli animali sel- canton Grigioni iniziarono ad arrivare vatici; (…) urge un numero maggiore i primi cervi provenienti dall’Austria, e di passaggi faunistici», rivendica sul le sue condizioni migliorarono definiticomunicato ufficiale, Andreas Boldt, vamente nel 1875 con la Legge federale esperto di fauna selvatica del sodalizio. sulla caccia che limitò i periodi venatoA questo proposito,1 accanto 2 all’e- 3 ri e inserì la protezione 4 5 delle femmine. 6 lezione di Re cervo, è stata lanciata Col tempo, anche il bosco saccheggiato pure la campagna di sensibilizzazione si riprese riconquistando terreno, menVia libera per la fauna 7 selvatica: «Sce- tre il cervo prese 8 a diffondersi in gran gliendo il cervo, abbiamo lanciato un parte delle Alpi e Prealpi svizzere. Negli segnale a favore della rimessa in rete anni Novanta alcuni esemplari giunti degli ambienti naturali9nel nostro ter- dalla 10 vicina Francia si insediarono in ritorio e ci impegniamo, oltre che nella alcune aree del Giura. Il cervo è «un erbivoro di poche 11pretese che mangia quel che trova sul piatto, nutrendosi per oltre il 90 per cento di piante presenti nel suo terri13 14 15 torio». E non dev’essere poco, visto che l’animale dell’anno 2017 è quindi un maschio adulto pesa fra i 170 e i 220 fondamentale disporre17di territori chilogrammi: «circa il18doppio di uno protetti in cui svernare in pace, come stambecco e otto volte più di un capriole cosiddette «zone di tranquillità». lo». La femmina è molto più piccola, ma Gli amanti degli20 sport invernali sono raggiunge comunque i21 90-130 chili. 22 invitati a rispettare queste aree appoConosciuto come «cervo rosso», sitamente contrassegnate. Informal’animale dell’anno rende giustizia al 23 zioni sull’ubicazione e l’importanza proprio nome24 solo in estate, quando il di questi luoghi di riposo per la fauna manto è bruno rossiccio, mentre dalla selvatica al sito www.zone-di-tranmuta autunnale emerge un pelo che va 26 al bruno grigiastro. Il manto quillita.ch. dal grigio invernale è più fitto e ispido di quello
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Nella stagione fredda, per risparmiare energia il cervo entra in una16 condizione di torpore per alcune ore al giorno limitando l’irrorazione sanguigna degli arti e delle parti ester19 ne del tronco. In questo stato, la sua capacità di fuga è fortemente ridotta e al minimo disturbo è costretto a passare in un istante dalla modalità di risparmio a pieno regime, con un enorme dispendio di energia.25Per
Giochi Cruciverba Forse non tutti sanno che Pascal all’età di soli 19 anni ideò la prima… Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 8, 12)
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I palchi di un cervo possono pesare anche otto chili. (Franco Banfi)
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estivo e cade a grossi ciuffi in tarda primavera. Il suo organo di 1senso2meglio sviluppato, «affidabile indicatore», è il naso: «Quando possibile, 7 il6cervo si sposta controvento e sceglie i luoghi di riposo in modo che l’aria porti l’odore 8 di possibili nemici in avvicinamento». Inoltre muove le orecchie una indipen1 dentemente dall’altra: «È un ottimo sistema per individuare con precisione le fonti di rumore e i pericoli». Gli occhi percepiscono tutto ciò che è in movimento «dato che le pu2 pille ovali possono dilatarsi molto, il cervo vede però piuttosto bene anche in situazioni di scarsa luminosità». Fra le curiosità che scopriamo di questo animale selvatico vi è la sua socialità: 5 9 «Tranne che nel periodo degli amori vive in branchi divisi per sesso. I branchi femminili sono l’unione di più famiglie di femmine e una famiglia consiste 3 e il giovane di un’adulta, il suo cerbiatto dell’anno precedente; la capobranco è una femmina di esperienza con compiti importanti come conoscere le aree di ritirata e le vie di accesso4 ai pascoli, 8 per-5 cepire quando è ora di cambiare territorio, sapere come comportarsi in presen9 za di fastidiosi esseri umani».
(N. 2 - “Cara fai vedere il dente al dottore”)
In inverno… ssst, non disturbare!
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Maria Grazia Buletti
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I giovani maschi lasciano la famiglia 6 all’età di 2-3 anni per unirsi a un branco di cervi maschi. È raro avvistarli 1 perché4 sono molto timidi ed estremamente preoccupati per la loro sicurezza, al di fuori del periodo degli 9 più amori quando diventano un po’ imprudenti: «In autunno si separa6 di no dal branco e, dopo lunghi mesi vita silenziosa e appartata, iniziano a mettersi rumorosamente 5 7in mostra: un maschio eccitato dà voce alla sua condizione fino a 500 volte all’ora e in 4 quel periodo non mangia, arrivando a perdere fino a un quinto del proprio peso». Una buona ricompensa, però, lo attende se riesce a 8 imporsi: «Allora sarà l’unico a coprire tutte le femmine presenti». E tutto questo 6 malgrado i palchi (ndr: le corna) di un soggetto di grandi dimensioni che pesano attorno 4 agli otto chili e ogni anno si rinnovano nel giro di pochi mesi. Palchi che 6 un proprio destiseguono anch’essi no: «All’inizio degli amori è un’arma pronta a7minacciare 1 e lottare, mentre dopo l’accoppiamento è solo un peso e, a fine inverno, le perderà». Così il re del 2 bosco deporrà la sua corona.
A R M F O A B V I R E S E N I S T O T O O T
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1 4 3 2 Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku4 7 (N. 3 - ... macchina calcolatrice) 6 AZIONE8- GENNAIO 7 2017 SUDOKU PER 1 2 3 4 5 6 7 8 Sudoku N. 1 GENI N.4 GENI 9
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O R Schema M E T A Soluzione C C H 11 Scoprire i 3 numeri 8 corretti da inseN O I 9 7 M A 6L C E rire nelle caselle 3 1 14 15 colorate. T B 3 P A O L4 O 2R 19 4 E5 C O 2 A E R7 E I Giochi per “Azione” - Gennaio 1 3 R Sargentini U R9 2017 6O 7 S A N N Stefania N. 2 GENI 9 3 5 A T A 6 E S T7 4 8 GIOCO N.1di Capodanno (BUON ANNO) allegato a parte R A N4 E C1I 9 C D A2 K A R Soluzione della settimana precedente ADENTISTA M– UnaAcoppia dalTdentista:OLui: «Deve Rfarmi E DAL un’estrazione molto velocemente Soluzione:
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9 5macché 2 4 7 6proceda!» 1 8 3 4 «Prima devo fare l’anestesia!» «No, tra poco inizia la2partita!» anestesia,
ORIZZONTALI 1. Le tracce del passato 4. Si alzano per andar via 9. Pronome personale 10. C’è anche quello di testa 11. Questi a Parigi 12. Simbolo chimico del terbio 13. Il presentatore Bonolis 15. Ne ha due Roberto 16. Si alzano dopo la partenza 18. Dà ripetizioni a voce... 20. Affluente della Mosa 21. Una lode a Dio
22. Pari nella lastra 23. La destra geografica 24. Agili saltatrici 26. 101 romani 27. Capitale del Senegal 229. Appassionato 3 4conoscitore
(N. 2 - “Cara fai vedere il dente al dottore”) «Ma che N.coraggio, 3 GENIcomplimenti!»: «CARA FAI VEDERE IL DENTE AL DOTTORE». 5. Verbo per mostre e vetrine 1 2 3 4 5 6 6. Le iniziali della cantante Consoli 5 9 C A R M8 E L A 7 5 9 6 4 3 8 7 8 7. Possessivo inglese 8 1 4 7 2 9 6 U F O 6R A M 8. Lo è la Groenlandia 9 10 3 6 2 8 1 5 9 3 P A B E T4 A 10. Avverbio di tempo 11 13. Produce … prodotti vari 2 7 3 4 5 6 1 6 I V I S I R 5 6 7 8 9 12 14 15 14.13Ha una pelle famosa 4 8 5 9 7 1 2 F E 4 D8 E 5 R7 E 1 S I E 17. Stato dell’Africa orientale 16 17 18 6 9 1 2 3 8 4 L S D9 V2 E N I E R 19. Sul pulsante dell’accensione 21 22 19 20 1 4 7 3 6 2 5 21. Il nome dello scrittore Wilde O T 1 4C E3 S T2O A8 L 23 24 22. Fu costruita sotto le direttive di Dio 5 3 8 1 9 4 7 R D O T T O4 7 I T 6 E 25. Il mangiare degli inglesi26 25 15 16 9 2 6 5 8 7 3 A V O R 6 I O8 7 T E A M 28. In testa al koala
(N. 4 - ... la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi) 1 10 12
Regolamento per i concorsi a premi 17 pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
VERTICALI 1. Vergogna, disonore 11 2. La tennista Vinci 3. Nota musicale 4. Essenza cosmica nella filosofia 13 14 cinese I premi, cinque carte regalo Migros 18 19 del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta 22 entro il 21 venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
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B L A S I T E R O S A C O R A D R E A M E luzione, corredata da nome, cognome, è possibile un pagamento in contanti indirizzo, email del partecipante deve dei premi. I vincitori saranno avvertiti OsuIl«Azione». S deiPartecipazione O O R spedita M E aN T AEC Azione, C IH I per iscritto. essere «Redazione nome vincitori sarà Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». pubblicato N O I M A L C E S Non si intratterrà corrispondenza sui riservata esclusivamente a lettori che T B Le vie P legali A Osono L escluse. O T R O risiedono O I Lin Svizzera. T A concorsi. Non A E R E I E C O L 9
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(N. 3 - ... macchinaonline: calcolatrice) Partecipazione inserire la
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soluzione del cruciverba o del6 sudoku 2 3 4 5 7 8 nell’apposito formulario pubblicato 9 10 11 sulla pagina del sito. 23 12 13 15 Partecipazione postale:14 la lettera o la cartolina postale che la so16 17 18 riporti 19 1
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Politica e Economia Obama cede il testimone Dopo 8 anni trascorsi alla Casa Bianca, il presidente uscente ha preso commiato parlando a tutti gli americani
Le difficili scelte di Theresa Per Theresa Mayè urgente chiarire quella che sarà la strategia del governo per il negoziato sull’uscita dall’Unione europea, spiegando una volta per tutte quello che si nasconde dietro il suo vago slogan «Brexit vuol dire Brexit»
Per Xi le sfide del 2017 Si preannuncia un anno cruciale per il leader del Partito Comunista Cinese che dovrà trovare una conferma della sua forza politica pagina 21
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Manifestazione di estrema destra pro Trump e contro l’immigrazione islamica in Inghilterra. (AFP)
Cavalcando l’onda americana
Trumpisti d’Europa Le forze antisistema europee che s’ispirano a Trump per guadagnare il potere, guardano
contemporaneamente a Putin. Una coincidenza che presto si trasformerà in una palese contraddizione Alfredo Venturi Cavalcare l’onda che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca: così le forze europee antisistema puntano a installarsi al governo. In alcuni Paesi l’obiettivo sembra a portata di mano perché asseconda la paura e la rabbia, sentimenti dominanti nelle nostre società oppresse da crisi e terrorismo. C’è anche una maliziosa circostanza verbale che attribuisce magici poteri al nome del nuovo presidente. La trump card non è forse l’atout, la briscola che permette di vincere la partita? Dunque non sorprende che i vari Wilders, Le Pen, Petry se la vogliano giocare sul tavolo della competizione elettorale, loro che hanno salutato entusiasti l’esito del voto americano. I commenti spaziavano dal «non è la fine del mondo, è la fine di un mondo» di Marine Le Pen al «vince il concetto delle nazioni etnicamente pulite» del greco Nikolaos Mijaloliakos, presidente di Alba dorata. E così l’anno dell’insediamento di The Donald vedrà l’Europa alle prese con alcune fra le sfide più cruciali della sua storia recente. Dalle inquietanti idi di marzo
olandesi a un nuovo allarmante maggio francese, fino a un enigmatico autunno tedesco. Ecco in un drammatico scaglionarsi di appuntamenti elettorali il variopinto fronte dei trumpisti d’Europa all’assalto del palazzo d’inverno: Geert Wilders contro Mark Rutte nei Paesi Bassi, Marine Le Pen contro François Fillon in Francia, Frauke Petry contro Angela Merkel in Germania. Anche altrove i populisti galvanizzati da Trump affilano le armi, in Ungheria come in Polonia, in Spagna come in Italia. Il fermento eurofobo e xenofobo dilaga da un capo all’altro del Vecchio continente, pronto a poggiare le sue fortune politiche sulla spalla del successore di Barack Obama. I movimenti populisti parlano «alla pancia», gli slogan sono semplici e di sicuro effetto. Fuori lo straniero, sbarazziamoci dell’euro, restituiamo il potere ai governi nazionali! Sono posizioni che tagliano ogni ponte con la tradizione. Se ne accorge a sue spese Beppe Grillo che tenta una clamorosa correzione di rotta: dirotta il gruppo parlamentare del suo Movimento cinque stelle dal grande amico di ieri, l’oltranzista britannico Nigel
Farage, a Guy Verhofstadt, proponendo di aderire all’alleanza Alde (liberali e democratici europei) di cui l’ex primo ministro belga è presidente. La mossa provoca scompiglio nella base grillina, non è facile dopo tante polemiche tornare con la coda fra le gambe all’ovile di Bruxelles. Il M5s cerca di minimizzare: non è una svolta, solo un’accortezza tattica per avere più spazio nel parlamento. Ma Verhofstadt respinge la proposta, lui personalmente era d’accordo, con l’adesione grillina il gruppo Alde sarebbe diventato la terza forza a Strasburgo. Sono i suoi deputati a imporre il rifiuto: «i nostri ideali sono inconciliabili con i loro». Grillo compie un’umiliante retromarcia bussando nuovamente alla porta di Farage. Un colpo durissimo per i cinque stelle, che nonostante i mugugni avevano approvato in rete la proposta del capo. Duro colpo anche per Verhofstadt, vacilla la candidatura alla successione di Martin Schulz come presidente dell’europarlamento. C’è un’altra incompatibilità all’orizzonte, i gruppi che in Europa s’ispirano a Trump vivono quella che prima o poi si trasformerà in una palese con-
traddizione: guardano con simpatia a Vladimir Putin e alla diplomazia muscolare della nuova Russia. Ma è possibile essere insieme trumpisti e putiniani? Lo è al momento, visto che il nuovo presidente non nasconde la sua ammirazione per l’autocrate del Cremlino, mentre quest’ultimo ha salutato con enorme soddisfazione un successo favorito da Mosca, a quanto pare, con ambigue manovre informatiche ai danni di Hillary Clinton, necessariamente «antirussa» come espressione degli apparati di Washington. Ma questa corrispondenza di amorosi sensi non è destinata a durare: non appena il nuovo Potus si metterà al lavoro i suoi collaboratori istituzionali lo porranno di fronte alle ferree leggi della geopolitica, alla indubitabile realtà che vuole Russia e Stati Uniti organicamente, strutturalmente rivali. C’è poi da considerare una collaudata regola storica: i nazionalismi difficilmente vanno d’accordo, tendono al contrario a entrare in competizione se non in collisione. Soprattutto quando l’enfasi è sui programmi protezionistici in campo economico. Trump minaccia di alzare dazi sulle importazioni, e
questa non è certo musica soave per le economie esportatrici europee. Come potrebbe la combattiva Marine, abituata a perorare con furente indignazione la causa dei produttori francesi tartassati dalle regole europee, giustificare la chiusura del grande mercato americano? Il trumpismo, da questa parte dell’Atlantico, rischia il cortocircuito. Occupa infine la scena l’effetto disgregante che la nuova realtà potrebbe avere sull’Unione Europea, già di per sé corrosa da molte incrostazioni di sfiducia, delusione, ostilità. Bruxelles è in crisi d’identità e d’immagine. È ormai cosa del passato la diarchia franco-tedesca fondata sulla rappacificazione che De Gaulle e Adenauer prima, Mitterrand e Kohl una generazione più avanti, seppero sostituire alla secolare inimicizia fra le due sponde del Reno. Parigi e Berlino hanno ripreso a guardarsi in cagnesco e tanto più lo faranno in caso di avvento populista all’Eliseo. Non a caso Marine Le Pen, caldeggiando l’abbandono della moneta unica, sostiene che l’euro è al servizio degli interessi germanici, tanto che secondo lei andrebbe chiamato Deutsche Mark bis.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Politica e Economia
Cosa riserva la rivoluzione Trump? Inauguration Day L’eredità Obama è ciò che The Donald trova alla Casa Bianca questo 20 gennaio,
giorno del suo insediamento. Sull’economia come su altri terreni la transizione appare fin d’ora accidentata Federico Rampini In una fase in cui la globalizzazione è sotto accusa da più parti, la rivoluzione di Trump in economia può essere la ricetta per un nuovo modello economico? E quanto diversa sarà rispetto al bilancio di Barack Obama? Partiamo da quest’ultimo punto, perché l’eredità Obama è ciò che Trump trova alla Casa Bianca questo 20 gennaio, Inauguration Day.
Obama ha fatto il miracolo economico, ma c’è un esercito di americani che non hanno lavoro, di giovani che non hanno accesso alle università 75 mesi consecutivi di crescita dell’occupazione, un record. 16 milioni di nuovi posti di lavoro creati. La disoccupazione scesa a livelli vicini al pieno impiego, 4,7% della forza lavoro, metà della media europea. E tutto questo è avvenuto dopo un punto di partenza terrificante: quel gennaio 2009 in cui Obama s’insediò alla Casa Bianca, vide 600’000 licenziamenti in un solo mese. L’America che lui ereditava da George W. Bush 8 anni fa era franata nella più grave crisi economica dopo la Grande Depressione degli anni Trenta. La storia di questi otto anni non è certo merito di un presidente, l’economia non obbedisce agli ordini dei governi. Ma Obama fece la sua parte, a cominciare dai contestati salvataggi delle banche e dell’automobile che costarono 700 miliardi (poi recuperati); e la maximanovra di rilancio Recovery Act che gettò altri 800 miliardi negli ingranaggi dell’economia, investimenti pubblici ed incentivi alle energie rinnovabili. Infine il robusto e decisivo aiuto della Federal Reserve: una politica monetaria innovativa inchiodò i tassi a zero e soprattutto iniettò 4000 miliardi di liquidità comprando titoli. Eppure il capolavoro della ripresa americana – che gli europei hanno ragione di invidiare – è stato seguito dall’elezione di Trump. Sull’economia come sugli altri terreni la transizione è accidentata, polemica, stizzosa. Trump ha passato la campagna elettorale a liquidare la ripresa obamiana: «Dati truccati». A seconda dei comizi, il repubblicano ha urlato che la vera disoccupazione è al 20%, o al 30%, perfino al 40%. Numeri in libertà, che lui è pronto a rimangiarsi dal 20 gennaio quando comincerà ad attribuirsi i meriti di ogni miglioramento. Ma nella sua comunicazione «post-fattuale», Trump coglie una verità. C’è una fascia di lavoratori che devono accontentarsi di impieghi precari, part-time e sottopagati, mentre avrebbero bisogno di fare il tempo pieno (in questo senso la «vera» disoccupazione è al 9%). C’è un esercito di americani che sono usciti dalla forza lavoro, hanno smesso di cercare un posto. C’è anche un pezzo di classe operaia declassata, che ha visto sparire le sue fabbriche in Messico o in Cina, si è ricollocata nei nuovi mestieri del terziario povero: camerieri di fast-food, cassiere degli ipermercati, fattorini di Amazon. Con buste paga dimezzate. I salari reali hanAnnuncio pubblicitario
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A Chicago, davanti a oltre 20 mila persone, Barack Obama nel suo discorso di commiato da presidente ritrova il carisma e il vigore di otto anni prima. (AFP)
no cominciato a salire solo di recente, i primi anni della ripresa obamiana hanno riprodotto il vecchio modello: tutti i benefici sono andati ad arricchire ancor più l’1%. Da queste ingiustizie nascono i populismi di destra e di sinistra, Tea Party e Occupy Wall Street. In quanto ai giovani, ha torto Obama quando dice di lasciargli un’America migliore. Mai come oggi l’università è diventata un lusso, con rette che superano i 50’000 dollari annui per le superfacoltà di élite. Trump sembra un improbabile Robin Hood: palazzinaro, elusore fiscale, e difensore della classe operaia? Lui vuole mantenere almeno alcune promesse: presidenza anti-global, populista e protezionista. Dazi punitivi contro chi produce all’estero, sgravi fiscali a chi reimporta capitali, e una generale riduzione delle tasse sulle imprese. Deregulation per i capitalisti e le banche. Via libera all’energia petrolifera. Investimenti a gogò nell’edilizia e opere pubbliche. Ce n’è un po’ per tutti, questo giustifica la luna di miele tra l’establishment industrialfinanziario, e il presidente-eletto. Gli esperti hanno sbagliato ancora: come dopo Brexit, anche dopo l’elezione di Trump non c’è stata l’Apocalisse, l’unico fracasso sono stati i tappi dello champagne che volavano a Wall Street. Il superdollaro sancisce l’attesa di un ritorno d’inflazione, e risucchia capitali dal resto del mondo, dalla Cina come dall’Italia. Da una ripresa solida, costante e moderata (Obama) potremmo passare ad un boom surriscaldato dal deficit pubblico. Dietro l’angolo, naturalmente, ci sarà prima o poi una recessione. Ma nessuno azzecca mai le previsioni sul quando e sul quanto. Per ora Trump può salire su una locomotiva avviata. E incominciare esperimenti che avranno ripercussioni sul mondo intero. Il più importante di questi esperimenti sarà probabilmente il neo-
protezionismo. La posta in gioco è una torta da 5000 miliardi di dollari. È il tesoro delle multinazionali americane, il valore totale accumulato negli anni dei loro investimenti diretti nel resto del mondo. È qui che Trump intende «prelevare» le risorse per il suo piano: «Make America Great Again». Ha già convinto Ford e United Technologies a cancellare due progetti di investimento all’estero, ambedue per costruire fabbriche in Messico. Dietrofront, le due multinazionali hanno ceduto alle pressioni del presidente e quegli investimenti li faranno negli Stati Uniti. Il bilancio in termini di posti lavoro salvati è modesto: circa duemila. Ma è il segnale di quel che Trump intende fare per mantenere le sue promesse. Se quei due successi iniziali dovessero essere replicati su vasta scala, quali saranno le conseguenze? Quanta occupazione si può salvare, o ri-nazionalizzare, invertendo la tendenza dopo un quarto di secolo di delocalizzazioni? Se la globalizzazione fa marcia indietro, chi saranno i vincitori e i perdenti? Su quel totale cumulato di 5000 miliardi di investimenti esteri delle multinazionali Usa la quota di gran lunga più grande è in Europa: 2950 miliardi. Segue l’America latina con 850 miliardi, al terzo posto arriva l’Asia con 780 miliardi. Trump ha già indicato i principali strumenti con cui può influire sulle scelte di localizzazione delle grandi imprese Usa. Il primo è lo strumento dissuasivo-punitivo più classico: i dazi doganali. Il presidente-eletto minaccia di infliggere una sovratassa del 35% sui prodotti che le multinazionali Usa reimportano nel mercato domestico dopo averli fabbricati all’estero. Il secondo strumento è un incentivo fiscale. La tassa Usa sugli utili societari è tra le più alte, attualmente l’aliquota è del 35%. Lui promette di ridurla in modo drastico, al 15%. Il terzo strumento, nella categoria degli incentivi, è la deregulation, anch’essa fra le promesse
di Trump per ridurre i costi di produzione sul territorio nazionale. Infine lui può usare il volano delle commesse pubbliche, per esempio la spesa militare: un argomento che ha usato nei confronti di United Technologies e Boeing.
Trump ora può iniziare con il più importante dei suoi esperimenti annunciati, il neoprotezionismo, che avrà ripercussioni sul mondo intero Il revival del protezionismo è meno nuovo di quanto sembri. Ronald Reagan, in un America pre-Nafta e preWto, colpì le auto giapponesi con i dazi, costringendo Toyota a creare fabbriche sul territorio degli Stati Uniti. Barack Obama lo usò nella maxi-manovra anti-recessiva. Il suo Recovery Act, la legge con cui varò 800 miliardi di investimenti pubblici nel 2009 per rilanciare la crescita, conteneva una clausola «Buy American»: favoriva i produttori americani come destinatari delle commesse pubbliche. Quella clausola fu impugnata, con risultati alterni, dai principali partner legati agli Stati Uniti da trattati di libero scambio, tra cui l’Unione europea e il Canada. Gli Stati Uniti non hanno mai smesso di praticare politiche industriali aggressive, a livello federale e ancor più a livello dei singoli Stati. I governatori degli Stati offrono spesso pacchetti di sgravi fiscali per attirare investimenti, o trattenere le imprese sul loro territorio. È una politica industriale che fa pagare il conto al contribuente. La sinistra, con Bernie Sanders, lo ha etichettato come Corporate Welfare: assistenzialismo per le imprese.
Se la svolta protezionista di Trump viene applicata su vasta scala, i partner commerciali non staranno fermi. Il Messico può fare ricorso in base alle regole del Nafta se ritiene di essere colpito da dazi contrari agli accordi. Un paese ben più grosso come la Cina, mercato ambito dalle multinazionali Usa, può decidere di rispondere colpo su colpo, varando dei contro-dazi. Interi mercati potrebbero chiudersi alle imprese americane. Prima che si avveri questo scenario da guerra commerciale, le lobby del capitalismo americano manovreranno al Congresso per condizionare Trump: dentro il partito repubblicano una solida corrente liberista è contraria alle barriere. Trump fin qui ha usato un effettoannuncio, per incidere sui calcoli di convenienze delle grandi imprese. Ma questi calcoli variano molto, la tipologia degli investimenti esteri non è uniforme. Ad una estremità, ci sono investimenti esteri che delocalizzano la produzione solo per sfruttare il costo inferiore della manodopera in un paese emergente, e da lì re-importano gran parte della produzione: è il caso delle «maquiladoras» costruite in Messico per approvvigionare il mercato Usa. È qui che le azioni di Trump possono cambiare il quadro delle convenienze. All’estremo opposto ci sono investimenti fatti per rifornire il mercato locale: è così in Europa, in parte anche in Cina. In questo caso chiudere le fabbriche per riportarle in America può significare indebolirsi su mercati esteri strategici. Infine ci sono multinazionali come Apple la cui catena produttiva è globale: in un iPhone sono incorporati componenti fatti in Cina, Giappone, Taiwan, Germania. Portare tutte le produzioni a casa può essere difficile, quasi impossibile. E alcuni fenomeni di reindustrializzazione americana sono in parte una beffa: si costruiscono fabbriche con poca manodopera umana, tanti robot e intelligenza artificiale.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Politica e Economia Abilità o indecisione nel gestire Brexit? L’«Economist» non ha dubbi e ha ribattezzato la May «Maybe», (Theresa «Forse»). (AFP)
Un Paese impreparato
Brexit A sei mesi dal suo insediamento e a poche settimane dall’attivazione dell’articolo 50 (dopo l’approvazione
del Parlamento) che sancirà l’avvio dei negoziati con Bruxelles, Theresa May ha dimostrato finora di non sapere come gestire la strategia per uscire dall’Unione europea
Cristina Marconi Theresa va alla guerra. Dopo le settimane più difficili del suo primo semestre a Downing Street, per la May è urgente chiarire quella che sarà la strategia del governo per il negoziato sull’uscita dall’Unione europea, spiegando una volta per tutte quello che si nasconde dietro il suo vago slogan «Brexit vuol dire Brexit». In un’intervista recente ha puntualizzato che non è interessata a «tenere pezzi di membership» della Ue e preferisce avere una soluzione su misura col resto d’Europa che permetta «l’accordo migliore possibile per la società britannica». Tradotto, questo vuol dire che Londra non cercherà a tutti i costi di restare nel mercato unico se questo significa dover accettare la libera circolazione dei lavoratori, che ormai viene messa in discussione non solo dal Labour ma perfino da un LibDem come Vince Cable, e dover mantenere la giurisdizione della Corte europea. Le anticipazioni del discorso di questa settimana confermano che, a meno di colpi di scena, questa sarà la linea seguita. Theresa «Maybe» (Theresa «Forse»), come è stata perfidamente ribattezzata dall’«Economist» in un numero che ne metteva in evidenza l’indecisione e la mancanza di direzione, ha deciso di reagire con piglio inflessibile: «Stiamo uscendo, ce ne stiamo andando». E, rispondendo alle accuse di «pensiero confuso» che erano state mosse nei confronti del governo dall’ex ambasciatore britannico a Bruxelles, Sir Ivan Rogers, ha aggiunto: «Il nostro pensiero non è per niente confuso in materia. È vero, ci siamo presi il nostro tempo. Era importante farlo e analizzare la questione». Una pro-
spettiva, quella delineata dalla May, che i mercati hanno letto con pessimismo e che ha portato ad un calo della sterlina, subito seguito da un dietrofront della stessa premier. «Non accetto i termini Brexit morbida e Brexit dura», ha prontamente specificato, aggiungendo che «coloro che sbagliano sono quelli che dicono che sto parlando di una “hard Brexit”».
La partecipazione al mercato unico non è possibile senza libera circolazione dei lavoratori, sul rifiuto della quale la May ha sempre detto di essere inamovibile Ed è tornata ad essere «Theresa Maybe» quando ha definito il suo obiettivo come «un accordo ambizioso e solido, che sia il migliore possibile per il Regno Unito, in termini di possibilità di scambio e di azione all’interno del mercato unico europeo». Solo che, come da sempre le viene fatto presente, la partecipazione al mercato unico non è possibile senza la libera circolazione dei lavoratori, sul rifiuto della quale lei ha sempre detto di essere inamovibile, nel rispetto delle indicazioni date dagli elettori in occasione del referendum. «Non si possono portare avanti i negoziati come fossero un esercizio di “cherry-picking”, di scelta dei frutti migliori», ha prontamente messo in chiaro Angela Merkel. La cautela della May – che si è insediata a Downing Street dopo un periodo
tumultuoso con il compito di interpretare e gestire i risultati di un voto difficile – è comprensibile, ma si è protratta per troppo tempo, lasciando spazio ai suoi critici per parlare di mancanza di leadership. Schiacciata tra gli euroscettici baldanzosi che da mesi invocano un taglio netto con Bruxelles e i diplomatici, i funzionari pubblici e chiunque abbia una responsabilità pratica nel districare Londra dall’Unione europea, i quali invece non mancano di sottolineare la fatica erculea che questo rappresenta, ora è costretta a venire allo scoperto, anche perché la scadenza di marzo è vicina e la May ha promesso di invocare l’articolo 50 prima della fine di quel mese, girando una clessidra che misurerà con esattezza i due anni prima della Brexit vera e propria. Due anni in cui a negoziare con Bruxelles ci sarà, accanto al governo, l’ex ambasciatore a Mosca Sir Tim Burrows, chiamato in tutta fretta a sostituire il dimissionario Rogers, accusato dal fronte euroscettico di essere poco convinto, e quindi poco convincente, in materia di Brexit. La sua lettera d’addio allo staff, lunga e forse più diretta di quella che ci si sarebbe aspettati da un ambasciatore, è un importante avviso contro la prospettiva molto anglocentrica con cui il governo punta ad avviarsi ai negoziati. Un bagno di realismo, verrebbe da dire, soprattutto per quanto riguarda il raggiungimento degli accordi commerciali che gli euroscettici presentano come la soluzione a qualunque problema economico post-Brexit: le tensioni tra Rogers e il governo erano iniziate quando quest’ultimo aveva fatto presente che per stringerne uno ci possono volere anche dieci anni.
Dopo il voto del 23 giugno scorso, c’era chi parlava di un pentimento da parte degli elettori sul risultato delle urne. Guardando al modo in cui la politica sta gestendo la faccenda, verrebbe da pensare che sia in corso l’esatto contrario. Ad essersi espresso in termini più favorevoli alla Brexit è anche il laburista Jeremy Corbyn, che nel tentativo di migliorare la sua immagine di leader di nicchia e di contenere l’emorragia di voti dal partito ha annunciato che «il Labour non è legato alla libera circolazione dei lavoratori europei come ad una questione di principio» e, pur ribadendo che «non possiamo permetterci di perdere il pieno accesso al mercato unico europeo da cui così tante aziende e posti di lavoro britannici dipendono», ha messo in chiaro che occorre un «cambiamento del modo in cui le regole sull’immigrazione operano nella Ue». In sintesi, il Labour vuole il mercato unico, ma anche una revisione delle regole sull’immigrazione e il ritorno di poteri a Londra in modo da permettere al governo di tracciare una strategia industriale adatta al Paese. Al di fuori della questione europea, il messaggio più forte di Corbyn è stato che intende proporre un tetto agli stipendi in tutto il Paese, in modo che nessuno, calciatori inclusi, possa guadagnare più di una certa cifra. E anche dalle fila di un partito europeista come i LibDem, che sta ritornando sulla mappa politica dopo la disastrosa esperienza durante il governo di coalizione, un veterano come Vince Cable ha scritto di avere «seri dubbi sul fatto che la libera circolazione europea sia sostenibile o anche solo desiderabile». Il partito, che va in tutt’altra direzione e
vuole un secondo referendum, ha preso le distanze dalle sue dichiarazioni, che dimostrano però come l’atmosfera politica sta cambiando rapidamente. E anche se l’accesso al mercato unico deve essere considerato una priorità, «può non essere conciliabile con le restrizioni alla libera circolazione» e per questo si potrebbe dover scegliere un’altra strada, per Cable. Secondo Nicola Sturgeon, la leader scozzese, un abbandono del mercato unico porterebbe ad un secondo referendum sull’indipendenza, in quanto metterebbe a repentaglio l’economia del Paese a nord del Vallo d’Adriano. La minaccia, più volte reiterata, per ora non è stata presa troppo sul serio, ma bisogna ricordare che i negoziati non sono ancora iniziati e la Brexit non c’è ancora stata. Quelle che circolano ora sono solo teorie. La May, nel suo tentativo di debellare il populismo e di saccheggiare voti a sinistra attraverso delle politiche sociali forti, ha delineato la sua visione di una «società condivisa», «shared society», che in contrasto con la «big society» del suo predecessore David Cameron punta ad andare incontro alle fasce più deboli, senza aspettare che sia la crescita economica a raggiungerle con un miglioramento delle condizioni di vita che non sempre arrivano per tutti. Marzo si avvicina e la premier sembra voler ricompattare il Regno Unito intorno all’idea di una comunità coesa, sedando il più possibile lo scontento in modo da avere spazio per comunicare al Paese le verità difficili che inevitabilmente emergeranno. Perché potrà anche essere un successo, ma l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea non sarà un successo semplice da raggiungere. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Politica e Economia
Un anno cruciale per l’uomo forte cinese
Le sfide di Xi Il 2017 si prospetta un anno pieno di incognite per il segretario del Partito Comunista
sia sul fronte interno sia su quello internazionale, che lo vedrà impegnato nel confronto con la politica asiatica del nuovo presidente americano Beniamino Natale Il 2016 è stato un anno positivo per il segretario del Partito Comunista, comandante in capo delle Forze Armate e presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, che ha rafforzato la propria posizione sia in patria che sulla scena internazionale. In ottobre Xi, che ha 63 anni, ha ottenuto dal VI plenum del Comitato Centrale il titolo di «core leader» – «centro» o «cuore» del Partito – una conferma della sua forza politica che lo mette nelle condizioni migliori per affrontare un 2017 pieno di incognite, prima di tutto quella della politica asiatica del nuovo presidente americano Donald Trump.
Xi ha concentrato tutto il potere nelle sue mani dominando direttamente o con i suoi fedelissimi i comitati che ha creato per la supervisone della politica e dell’economia La qualifica di «centro» del Partito era stata in passato attribuita a tre dei predecessori di Xi, – Mao Zedong, Deng Xiaoping e Jiang Zemin – ma non a Hu Jintao, «numero uno» del regime di Pechino dal 2002 al 2012. Con questo riconoscimento Xi affronterà da una posizione di forza le trattative tra le varie fazioni che avranno luogo nei prossimi mesi, in vista del 19esimo Congresso del Partito, previsto per l’ottobre del 2017. Il Congresso sceglierà il nuovo Ufficio Politico – il mitico «Politburo» nella parlata sovietica ancora in uso nella «nuova Cina» – e il suo standing committee, l’organismo più potente del Paese, che ora è composto di sette membri, cinque dei quali hanno superato il limite di età che è stato considerato fino ad oggi insuperabile (anche se, come vedremo, questa regola non scritta potrebbe essere abolita). Inoltre, dovranno essere sostituiti – secondo il quotidiano «Epoch Times», pubblicato negli Usa da fuoriusciti cinesi – «due quinti dell’attuale Politburo e almeno la metà dei 376 membri del Comitato Centrale». Hu Jintao è stato il primo – e a quanto sembra l’ultimo – leader a rappresentare una dirigenza collettiva nella quale il presidente della Repubblica e segretario del Partito era un «primus inter pares», non un monarca assoluto. Dopo Mao, Deng, dopo Deng, Jiang: ogni nuovo leader aveva un po’ meno potere del predecessore, in un graduale cambiamento della natura del potere cinese voluto proprio da Deng Xiaoping, e assecondato dagli altri «grandi
Xi Jinping (al centro): il suo potere si basa sulla lotta spietata intrapresa contro la corruzione. (AFP)
vecchi» della politica cinese per evitare che si riproducessero tragedie come il Grande Balzo in Avanti e la Rivoluzione Culturale, le iniziative politiche di Mao che avevano gettato il Paese nel caos e nella violenza. Questo processo si è ora interrotto: Xi ha concentrato tutto il potere nelle sue mani dominando direttamente o con suoi fedelissimi i comitati che ha creato per la supervisione di tutti gli aspetti della politica e dell’economia. Gli esperti ricordano che sia Jiang Zemin che, in misura minore, Hu Jintao hanno ancora dalla loro parte migliaia di funzionari, a tutti i livelli del Partito e dello Stato, e Xi dovrà faticare per imporre le sue scelte. Il suo potere si basa sulla spietata lotta che ha intrapreso contro la corruzione colpendo, nelle sue parole «sia le mosche che le tigri» – cioè i funzionari di basso e di alto livello. Il suo strumento è la Commissione Centrale per le Ispezioni di Disciplina o CCDI che è guidata dal suo alleato Wang Qishan, il quale compie quest’anno 69 anni. Una regola non scritta chiamata in cinese «qishang, baxia» (sette in su, otto in giù), stabilisce che i funzionari che hanno più di 68 anni debbano essere mandati in
pensione. Un alto funzionario, Deng Maosheng, ha affermato nel corso del plenum che questa regola si basa sul «sentito dire» e in sostanza non è mai esistita. Non solo. «Dopo il sesto Plenum, il cui tema è stato quello di promuovere disciplina e comportamenti morali fra i funzionari del Partito e gli impiegati statali, la CCDI ha ottenuto permessi dal Comitato Centrale del Partito di incrementare ancora di più il proprio potere», ha scritto Willy Lam, insegnante all’Università di Hong Kong e autore di numerosi libri e articoli sulla politica cinese. Lam aggiunge che negli ultimi mesi è emersa una fazione che fa riferimento a Wang, che si basa sulla promozione di alcuni dei suoi collaboratori quando era sindaco di Pechino e responsabile in varie vesti della politica commerciale e finanziaria della Cina. Il 19esimo Congresso dovrebbe indicare anche il successore di Xi Jinping e quello del premier Li Keqiang. Xi e Li sono gli unici due membri dell attuale standing commitee che non superano il limite dei 68 anni. Sul piano internazionale, Xi Jinping avrà il difficile compito di rispondere alle mosse di Trump, che al
momento sono impossibili da decifrare. L’anno scorso, il leader cinese ha messo a segno un paio di colpi di notevole importanza, concludendo significativi accordi di collaborazione con la Malaysia e le Filippine, due dei Paesi asiatici che hanno sul Mar della Cina Meridionale rivendicazioni antitetiche a quelle di Pechino. Di particolare rilevanza la rinuncia del discusso presidente filippino Rodrigo Duterte a usare a favore del suo Paese il giudizio della Corte Internazionale di Arbitrato dell’Aja. Interpellata dal suo predecessore, Benigno Aquino III, la Corte ha stabilito che le rivendicazioni della Cina su due isolotti che si trovano a poche miglia marittime dalle coste delle Filippine non hanno alcuna base storica e di diritto. Duterte ha annunciato la rinuncia nel corso di una visita in Cina, nello scorso ottobre. Anche il primo ministro malese, Najib Razak, si è dichiarato favorevole alle trattative bilaterali – da sempre caldeggiate dalla Cina in contrasto con quelle internazionali e/o regionali – durante una visita a Pechino, all’inizio di novembre. Sia Duterte che Razak sono in difficoltà, il primo per le critiche che ven-
gono mosse al suo programma di «lotta alla droga» basato sulle esecuzioni extragiudiziali dei sospetti trafficanti e consumatori (che in dicembre hanno superato le 5000), il secondo perché accusato di corruzione in uno scandalo con ramificazioni internazionali. Anche Vietnam, Brunei e Taiwan hanno rivendicazioni sulle frontiere marittime in contrasto con quelle della Cina. Pechino è insorta contro la decisione della Corea del Sud di schierare il sofisticato sistema antimissilistico americano chiamato Terminal High Altitude Area Defense (THAAD). La crisi in corso a Seul potrebbe portare entro pochi mesi alle dimissioni della presidente Park Geun-hye – anche lei accusata di corruzione – e in seguito all’elezione di un nuovo Parlamento. Considerando l’aggressività della Corea del Nord, alleata di ferro di Pechino, appare improbabile che un prossimo governo sudcoreano rinunci a quella scelta. Secondo il ministro delle Finanze di Seul Yoo Il-hoo, il governo cinese avrebbe già cominciato a esercitare «pressioni indirette» sulle imprese sudcoreane che hanno interessi in Cina per indurle a fare a loro volta pressioni sul governo perché rinunci al THAAD. Annuncio pubblicitario
Un gusto paradisiaco da condividere
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Politica e Economia
Utile di 24 miliardi nel 2016
Banca Nazionale Svizzera Aumenterà la distribuzione a Confederazione e Cantoni, ma resta anche necessario
incrementare i mezzi propri accumulando più riserve Ignazio Bonoli Preceduti di qualche giorno da quelli calcolati dagli economisti di UBS, la Banca Nazionale Svizzera ha pubblicato i primi risultati provvisori per l’anno 2016. La banca indica un utile d’esercizio di 24 miliardi di franchi, dovuto in particolare a 19 miliardi per le posizioni in valuta estera e a 3,9 miliardi per le rivalutazioni delle riserve d’oro. I risultati definitivi verranno resi noti soltanto il 6 marzo, ma di regola non si discostano molto da quelli provvisori. Il dato è quindi inferiore a quello valutato dall’UBS, che prevedeva un utile d’esercizio fra i 26 e i 27 miliardi di franchi. Gli economisti della grande banca si basavano sul fatto che il bilancio della BNS si è molto ampliato negli ultimi anni, soprattutto a causa dei forti acquisti di divise estere (in particolare euro) per evitare una troppo forte rivalutazione del franco sui mercati internazionali delle divise. Va però tenuto conto del fatto che anche piccole variazioni tra le rendite degli investimenti in divise estere possono provocare differenze notevoli sugli utili di fine anno. La notizia sorprende positivamente molti attori della politica e dell’economia. In particolare i Cantoni, che non solo sono i principali azionisti della Banca Nazionale, ma possono contare su un aumento della prevista partecipazione agli utili. Il dividendo per gli azionisti può essere infatti portato al massimo legale di 15 franchi per azio-
ne, ma anche la partecipazione straordinaria agli utili può essere aumentata. Probabilmente non raggiungerà il doppio del miliardo di franchi già sicuro, come hanno previsto gli economisti di UBS, ma sarà minore. Si dovrà però tener conto di alcuni fattori particolari. Intanto è ancora una volta evidente che gli utili della BNS dipendono in larga misura dall’evoluzione dei tassi di cambio sul franco svizzero e sono soggetti a forti oscillazioni. Così, mentre l’esercizio 2015 chiudeva con una perdita di 23,3 miliardi di franchi, il terzo trimestre del 2016 aveva portato l’utile provvisorio a 28,7 miliardi di franchi. Il quarto trimestre ha ridotto di parecchio questo utile, di modo che il risultato finale è quello annunciato di 24 miliardi. La legge sulla Banca Nazionale prevede anche che questo utile deve innanzitutto essere attribuito alle riserve. Così alla riserva per le operazioni valutarie verranno attribuiti 4,6 miliardi di franchi. Alla riserva per future ripartizioni vengono attribuiti 1,9 miliardi, il che garantisce una prima distribuzione di utili nella misura di un terzo alla Confederazione e due terzi ai Cantoni. Come si ricorderà (vedi «Azione» del 7.11.2016), lo scorso anno la Confederazione e la Banca Nazionale avevano concluso un accordo che non solo definiva la distribuzione di utili «di base» di un miliardo di franchi, ma prevedeva anche la possibilità di aumentare (o se del caso diminuire) questo importo, con però la possibilità
Grazie al buon risultato la BNS potrà devolvere a Cantoni e Confederazione più di 1 miliardo di franchi, quest’anno. (Keystone)
di compensare da un anno all’altro l’eventuale diminuzione, con lo scopo di mantenere la distribuzione regolare di 1 miliardo all’anno. Quest’anno, per la prima volta, dal
momento che la riserva per la distribuzione di utili supererà i 20 miliardi di franchi, sarà possibile effettuare una distribuzione supplementare. Non si raggiungerà però il miliardo di franchi
in più, come anticipato da UBS, ma le previsioni dicono che sarà almeno di mezzo miliardo. L’accordo con la Confederazione – la cui durata è prevista fino al 2020 – prevede infatti che questa distribuzione supplementare sarà possibile soltanto se l’apposita riserva non scenderà sotto la soglia dei 20 miliardi di franchi. Soddisfatti i Cantoni, una ventina dei quali hanno già inserito nei conti preventivi il contributo della Banca Nazionale, condizionati anche dalle incertezze sulle perdite di gettito fiscale dovute alla riforma della tassazione delle imprese, in votazione il 12 febbraio, nonché da drastici interventi per ridurre la spesa. La prudenza nel distribuire somme supplementari è dettata proprio dalle forti oscillazioni delle somme di bilancio della Banca Nazionale e dei relativi utili d’esercizio. Per esempio, nel 2015, la BNS aveva subito una perdita record di 23 miliardi di franchi, ma anche in questa occasione la Confederazione e i Cantoni avevano potuto beneficiare della distribuzione degli utili. Questo perché la riserva vincolata aveva raggiunto l’ammontare minimo, grazie proprio all’utile eccezionale di 38 miliardi di franchi realizzato nel 2014. La Banca Nazionale deve anche tener conto del fatto che la cifra del suo bilancio si è molto ampliata ed è vicina ai 700 miliardi. I mezzi propri sono invece di soli 80 miliardi e devono essere aumentati, approfittando dei buoni risultati annuali. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Zurigo, Lugano, Milano e altre destinazioni L’economia ticinese si trova a una svolta. Nei prossimi 20 anni, dovrà affrontare le conseguenze negative della limitazione dell’immigrazione, quelle di una possibile rottura definitiva con l’Europa, quelle derivanti dal ridimensionamento del settore finanziario, quelle dovute all’invecchiamento della popolazione e, dulcis in fundo, quelle della svolta energetica. Per chi si occupa di previsioni economiche non mancano quindi i soggetti su cui riflettere. Tuttavia le analisi oggettive su quello che potrebbe capitare e, soprattutto, le riflessioni su che cosa si dovrebbe fare fanno ancora difetto. In uno studio sull’Alptransit, appena pubblicato (Zurigo, Lugano, Milano, edito da Dadò), i ricercatori dell’IRE cercano di metter riparo a questa situazione. Si può infatti affermare che, nella loro pubblicazione, l’Alptransit non è che il pretesto per indagare su che cosa succederà nell’economia ticinese nei prossimi anni. In effetti il loro campo di osservazione comprende l’insieme
dell’economia cantonale e tiene conto anche di sviluppi che potrebbero manifestarsi solo tra qualche anno. Sei sono le analisi raccolte nella pubblicazione. Per carenza di spazio non le tratterò singolarmente. Mi limiterò ad elencare, un po’ alla rinfusa, quei risultati dell’analisi che mi hanno maggiormente colpito. Comincerò dai fattori di localizzazione – ossia dall’attrattività economica – che gli autori dello studio hanno valutato per l’insieme del cantone e per Lugano. In generale le due valutazioni si somigliano. Rispetto ai fattori di localizzazione molto importanti Ticino e Lugano difettano infatti per quel che riguarda la convenienza degli immobili, la disponibilità di lavoratori altamente specializzati e di lavoratori con qualifica professionale, la disponibilità di spazio attorno allo stabilimento, le condizioni fiscali e il prezzo dell’energia. Se questa è la percezione delle carenze in materia di disponibilità di fattori di localizzazione da parte delle aziende che si trovano in
Ticino, un po’ diversa è la valutazione che delle stesse fa il sottogruppo delle aziende immigrate, dal resto della Svizzera o dall’Italia. Gli imprenditori confederati lamentano soprattutto la mancanza di mercati finanziari, di lavoratori qualificati e le condizioni del traffico; quelli italiani trovano, oltre che nel traffico, anche nel mercato immobiliare i maggiori svantaggi di una localizzazione aziendale in Ticino. Osserviamo poi che gli autori di questa pubblicazione non si sono limitati a valutare l’attrattività economica del Ticino, ma hanno anche cercato, novità assoluta nel campo delle ricerche regionali nostrane, di valutarne la possibile repulsione, ossia i fattori che potrebbero indurre le aziende localizzate da noi a rilocalizzarsi fuori cantone. Nel formulario distribuito alle aziende la domanda sulla possibile rilocalizzazione è stata formulata in tre varianti: la prima prevede la rilocalizzazione entro 5 anni, senza precisare la ragione per la quale l’azienda prenderebbe questa decisione;
la seconda, la rilocalizzazione in caso di revisione degli accordi bilaterali con l’UE e, la terza, in caso di rivalutazione del franco. Solo il 4,4% delle aziende che hanno partecipato all’inchiesta reputano probabile una loro rilocalizzazione entro 5 anni. Questa percentuale sale al 4,8% in caso di rivalutazione del franco e al 7% in caso di revisione dei bilaterali. La pubblicazione dell’IRE parla di imprese e non di posti di lavoro. Si può comunque stimare che, se il campione di imprese che ha partecipato all’inchiesta fosse statisticamente rappresentativo, la revisione degli accordi bilaterali potrebbe far perdere all’economia ticinese circa 15’000 posti di lavoro (caro lettore, questa cifra non sta nella pubblicazione: è una stima che ho fatto io partendo dai risultati dell’inchiesta IRE). In definitiva, da questo studio si evince che Alptransit avrà effetti positivi sullo sviluppo di medio e lungo termine, in particolare per quanto concerne le relazioni di Lugano con Zurigo. La conclusione degli economisti dell’IRE
è però che l’impatto dell’Alptransit sarà molto minore di quello che potrebbe essere, se il cantone non cercherà di rafforzarlo con politiche che favoriscono l’innovazione tecnologica (che apparentemente sono già in atto) e con una riforma fiscale a favore delle imprese (vedremo tra un mese che cosa pensa l’elettorato a questo proposito). In seconda battuta non farebbero male anche misure destinate ad aumentare l’attrattività territoriale. A queste conclusioni sull’impatto di possibili diverse combinazioni di misure politiche gli autori della pubblicazione arrivano dopo aver trattato con metodi statistici le valutazioni fatte da un gruppo di esperti. Si sa che, in casi come questi, le valutazioni che si raggiungono non sono indipendenti dalla composizione del gruppo di esperti che le fa, anche quando le informazioni vengono trattate con metodi sofisticati. È uno dei pochi nei di questa pubblicazione quello di non aver reso noto la composizione dei panel di esperti consultati.
cui un sito pop come Buzzfeed, celebre per il suo mix di gattini virali e analisi politiche, aveva pubblicato un dossier «non verificato» sui rapporti tra Trump e la Russia di Vladimir Putin. Apriti cielo. Il dossier è stato redatto da un’ex spia britannica (quindi è privato, non c’entra con l’intelligence statunitense o russa) e racconta in 35 pagine gli incontri dei trumpiani e dei putiniani, le visite di Trump – con l’ormai celebre «golden shower» di prostitute russe sul letto di una suite in cui avevano dormito, tempo prima, gli Obama: sfregio al predecessore, soprattutto alla moglie – e ipotizza che i russi abbiano a disposizione materiale compromettente su Trump. Gli interessati smentiscono, dicono che si tratta di una caccia alle streghe permanente, urlano e sbraitano ogni genere di accusa contro «gli avversari corrotti», e soprattutto se la prendono con i giornalisti. Quelli di Buzzfeed
sono stati definiti «pattumiera», ma anche al reporter della Cnn – quel colosso di Jim Acosta – che chiedeva se gli incontri in Russia c’erano stati davvero Trump ha urlato: «You are fake news!», e non ha risposto alle domande (il portavoce di Trump, Sean Spicer, poi ha detto ad Acosta: non provare ancora a fare domande, ti cacciamo fuori). A ogni scontro corrisponde una buona dose di mansuetudine nei confronti di quei media che, di volta e in volta, non sono scesi nella pattumiera: le parti cambiano ogni volta, si sa che Trump sa essere cordialissimo e brutalissimo nel giro di ore (chiedere al «New York Times» per credere). Sul ruolo di Buzzfeed in questa storia si parlerà a lungo: il report su Trump circolava già da tempo, molti lo avevano visionato e ignorato, anche lo stesso presidente eletto e Barack Obama lo aveva visto, ma soltanto Buzzfeed lo
ha interamente pubblicato, mentre la Cnn ne aveva dato conto in modo abbastanza circostanziato, senza però tutti i dettagli. È giusto che il pubblico sappia quel che si legge nei palazzi dei poteri? È l’ultima domanda che tormenta i commentatori, assieme a tutte le altre, che vanno a formare l’esasperazione totale dei giornalisti nei confronti di questo strano presidente. A questo si somma un problema più grande, che riguarda la circolazione indefessa di «fake news», il dossieraggio permanente nei confronti dei politici . E di questo Trump, che diceva che Obama non era nato in America e che Hillary era pedofila, un po’ è responsabile. Una regola andrà trovata, non si sa bene quale sarà, ma serve cercarla ogni volta, ponderando gli umori e il narcisismo di Trump, che rischia di essere un lavoro a sé, e che non c’entra nemmeno molto con il giornalismo.
tanti anni si accorgono che adottare mezzi di comunicazione «mirati» è servito a poco. A mio avviso, se oggi a dominare la scena politica in Ticino c’è la Lega, è anche per queste incaute scelte. Al contrario dei «vecchi» partiti il fondatore della Lega aveva intuito l’importanza di un giornale proprio e della necessità di mantenere attivo, a tutti i costi, il filo diretto con i propri sostenitori. Tanti obiettano: ma i giornali avrebbero svenato comunque i partiti. Forse. Ma nell’ipotetico «conto perdite e profitti», prima di chiudere i giornali, i partiti hanno tutti dimenticato di inserire il valore di quanto avrebbero perso: senza informazione diretta con la base sarebbe stato per loro sempre più difficile capire e superare tutte le altre crisi. Trovo una indiretta conferma di questa mia convinzione nelle parole usate dal dir. Roncoroni dell’Otaf per spiegare la breve sospensione delle pubblicazioni di «Semi di bene» nel corso del 1993: «La situazione della
stampa scritta nel Canton Ticino (…) non è per niente rosea (…) coinvolge non solo i maggiori quotidiani ma anche le piccole riviste come la nostra. Di fronte alle difficoltà non bisogna comunque scoraggiarsi, ma affrontarle con atteggiamento positivo, costruttivo e soprattutto innovativo». Un anno di pausa e la rivista si reinventa e, aiutata anche dal Dipartimento della Pubblica educazione (quando si dice il caso: nelle persone di Sergio Caratti e Giancarlo Dillena, poi diventati direttori del «Corriere del Ticino»), riesce a riattivare il «fil rouge» con la sua base, quello curato dall’avvio e per tanti anni dalla straordinaria signorina Cora Carloni. Ma c’è anche un debito personale a spingermi a privilegiare «Semi di bene»: la rivista è stata la mia prima palestra di letture. Anni Cinquanta, appena iniziate le elementari, l’avevo scoperta a scuola, attratto dalla copertina con un disegno che recava le iniziali P.C. L’autore era il pitto-
re Pietro Chiesa, compaesano che vedevo soprattutto d’estate, in giro nei prati di Sagno, con il suo cavalletto su cui posava quadri che noi bambini vedevamo nascere prima con il nero del disegno del soggetto o del paesaggio, poi con i colori che lui carpiva dalla tavolozza con i pennelli e li trasferiva sulla tela. La sua bambina creata per l’Otaf, accosciata per far cadere dalla mano i semi nel terreno, dopo 95 anni compare ancora sulla copertina della rivista: un’ottima creazione grafica ne incastona il profilo nel bianco della grande S della testata, con la mano tesa che dal 1921 simboleggia ciò che i fondatori intendevano garantire alle persone nel bisogno e ai bambini meno fortunati. Emblema dello sviluppo e della continuità della missione dell’Otaf, «Semi di bene» dopo quasi un secolo continua a essere accolta con riconoscenza e ammirazione da tanti ticinesi che così conoscono o ricordano i semi dispensati in un secolo dall’Opera di Sorengo.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Trump-media, la strana coppia Non c’è nulla di più divertente e spaventoso del rapporto tra Donald Trump e i giornalisti: burrasca purissima, che non accenna a finire mai. A più riprese il presidente eletto d’America se l’è presa con «i media disonesti», o i media «fake», termine ormai buono per tutto, in particolare per ogni opinione dissenziente: nei comizi elettorali, su Twitter, a ogni occasione possibile, che si trattasse del muro con il Messico (chi lo paga?) o della performance di Meryl Streep o dei documenti sulle tasse non pagate o delle donne molestate o di quelle fatte salire su un letto di una suite moscovita per inscenare performance pornografiche. La storia di Trump e dei giornalisti è materia di studio di esperti di comunicazione, mentre i commentatori alle prese con il flusso ininterrotto di dichiarazioni trumpiane provano a interrogarsi – ogni tweet presidenziale è una notizia? E se
dice cose che non sono verificate come ci comportiamo: le riportiamo? Le confutiamo? Le ignoriamo? – su come gestire questa relazione faticosissima. Ancora oggi accreditarsi agli eventi di Trump è un mestiere laborioso, i permessi arrivano a singhiozzo, l’atteggiamento presidenziale è, per usare un eufemismo, scettico, i suoi uomini (e soprattutto la sua donna della comunicazione, Kellyanne) vanno in tv a dire che le tv e i media si dovranno rimangiare i loro pregiudizi – fa eccezione la ritrovata alleanza con le tv di Rupert Murdoch. Poi ogni tanto il prossimo inquilino della Casa Bianca sbotta: siete tutti malevoli, farò senza di voi. Negli ultimi giorni s’è raggiunto un nuovo climax, anche se chiamarlo così appare improprio e temporaneo: ogni giorno capita un climax. Trump ha tenuto la sua prima conferenza stampa da quando è stato eletto presidente, proprio nel giorno in
Zig-Zag di Ovidio Biffi I semi di bene dell’OTAF Marco Canonico, redattore responsabile, mi ha puntualmente fatto avere il numero in uscita della rivista «Semi di bene». È quello del 95.mo anno e per presentarlo, soprattutto alle nuove generazioni, occorre premettere che la rivista è forse la più longeva del Ticino e, di sicuro, anche la più discreta. La discrezione, del resto, da sempre caratterizza l’attività della rivista: diffondere il pensiero e lo scopo dell’Opera Ticinese per l’Assistenza della Fanciullezza e informare sulle attività e sulla missione dell’Otaf stessa, l’istituzione di assistenza che da 100 anni ha sede in uno dei più bei indirizzi del nostro Cantone: via Collina d’Oro, a Sorengo. Premetto che mi soffermerò sui «Semi» più che sul secolo «di bene» dell’Otaf. Non basterebbe una pagina intera a ripercorrere l’istoriato di questa fondazione, come fa il nuovo numero della rivista ricordando tappe e cambiamenti con il presidente (avv. Pier Mario Creazzo) e il direttore (Roberto Roncoroni) e illustrando le
nuove strutture portate a compimento negli ultimi tempi: dal quartiere Otaf sorto sull’antico sedime dell’Ospizio per Bambini Gracili di Sorengo – dove su mandato dell’Ufficio federale delle assicurazioni sociali Mario Botta e altri architetti hanno realizzato la funzionale e diffusa sede centrale – sino alla mirata serie di residenze per ospiti minorenni e adulti decentralizzate sparse nel Luganese e a Locarno. Intendo privilegiare la rivista perché la trovo ideale per esporre una mia particolare tesi: sono convinto che ogni movimento, attivo in campo sociale o politico, incapace di alimentare e distribuire una propria fonte informativa, sia destinato a scomparire. L’esempio più lampante lo hanno dato i partiti politici ticinesi: persi – per i costi elevati, ma non solo – i propri organi di stampa («Il Dovere» per il Plr, il «Popolo e Libertà» per il Ppd e «Libera Stampa» per il Ps) i partiti di maggioranza sono entrati in crisi con le rispettive basi e dopo
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Cultura e Spettacoli Prince per sempre A poco meno di un anno dalla sua scomparsa ecco la prima antologia ufficiale del poliedrico artista di Minneapolis pagina 29
Una grande nave musicale Inaugurata la scorsa settimana una delle più moderne e ambiziose sale da concerto europee, la Elbphilharmonie di Amburgo
Il Mago di Oz all’opera A Zurigo va in scena un’apprezzata versione del capolavoro per l’infanzia
Tre modi di fare arte Le opere di Hartung, Cavalli e Strazza sono esposte al Museo Civico Villa dei Cedri
pagina 30
De Mauro, intellettuale curioso
In memoriam Il linguista italiano era nato nel 1932 e nella sua lunga carriera ha affiancato lo studio e la ricerca
all’impegno sociale e civile Manuel Rossello
pagina 30
pagina 31
La fine del mondo
Mostre Riaperto il Centro Pecci di Prato
È stato Ministro della pubblica istruzione e ha compiuto un’importante opera di divulgazione tramite i media
con un’esposizione curata da Fabio Cavallucci
Gianluigi Bellei Il 16 ottobre ha riaperto il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. Una notizia importante perché è stato per lunghi anni il fulcro dell’arte contemporanea in Italia. Inaugurato nel 1988 era, assieme al Castello di Rivoli, una delle poche eccellenze dedicate all’arte dagli anni Cinquanta a oggi in Italia. Oltre mille le opere della collezione divise tra sculture, installazioni, dipinti, fotografie e video; fra Arte Povera, Transavanguardia, Poesia concreta e visiva… la collezione vanta opere di Anish Kapoor, Jan Fabre, Jannis Kounellis e Sol LeWitt, solo per citarne alcuni. Dopo alterne vicissitudini e scarsi visitatori, chiude. Nel 2006 il rilancio con l’ampliamento della sede museale commissionata, sempre dalla famiglia Pecci, noti imprenditori tessili di Prato, all’architetto Maurice Nio. I lavori iniziano nel 2010 e terminano appunto il 16 ottobre scorso, giorno dell’inaugurazione. Il progetto di Maurice Nio, architetto olandese, prevede l’abbraccio dell’edificio preesistente di Italo Gamberini attraverso una nuova struttura ellittica e fluida con una sorta di antenna curva in alto per captare idealmente la creatività circostante. Così scrive l’architetto: «sintonizziamo il mondo fisico su di una frequenza diversa, facciamo vibrare il materiale in modo nuovo». La superficie del vecchio edificio era di 4310 metri quadrati; l’ampliamento è di 7815. La superficie totale odierna del museo è di 12’125 metri quadrati. La struttura esterna è di certo accattivante e inusuale. Non a caso da subito viene chiamata «l’astronave». L’interno per ora è di difficile valutazione. Anche perché l’abbiamo visitato a lavori in via di definizione: stucchi, vernici, pavimenti, luci… Certo la forma ellittica non aiuta e comunque le luci
non sembrano ottimali. In ogni caso l’audacia della struttura sembra incoraggiante. Per l’inaugurazione è stata presentata la mostra La fine del mondo, curata dal nuovo direttore Fabio Cavallucci. Per Cavallucci l’arte non è più un modo di intendere la storia e la società in senso progressivo e lineare; non esiste un prima e un dopo; non ci sono più valori che segnano e distanziano il passato dal presente; ma la storia è costellata di cerchi che si affastellano uno dentro l’altro. Scomparse le ideologie totalizzanti, come il comunismo e il fascismo (ma altre altrettanto pericolose si stanno affacciando nel nuovo millennio), rimaniamo immersi in un mondo fluttuante dove le guerre diffuse, le esclusioni, le catastrofi ci accompagnano, pur non segnando il nostro vivere quotidiano. Per lui la fine del mondo è un sintomo: «lo stato di incertezza, la condizione di sospensione, l’incapacità di comprendere i grandi cambiamenti presenti, che ci fa pensare che una situazione che abbiamo conosciuto finora sia ormai giunta al termine». Certo non una visione apocalittica e millenaristica, tanto cara a religiosi o pensatori politici di vario stampo, ma semplicemente una sorta di epoché, di sospensione del giudizio perché come scrive René Descartes «se […] non è in mio potere di pervenire alla conoscenza di verità alcuna, almeno è in mio potere di sospendere il mio giudizio». Cavallucci sostiene che la fine del mondo coincide con la fine del nostro mondo culturale e dei suoi processi cognitivi e percettivi che ci hanno accompagnato dall’antica Grecia a oggi. La mostra è quindi il risultato di un «sentimento diviso tra vanità delle nostre azioni, nostalgia di ciò che è stato e non è più, e – forse – qualche bagliore di futuro…». Di con-
Ripercorrere la figura di Tullio De Mauro, l’insigne linguista da poco scomparso, significa seguire le linee di una carriera di studioso che oltre alla linguistica ha toccato i campi della lessicografia, dell’insegnamento universitario, dell’impegno di governo come ministro della pubblica istruzione e dell’impegno civile, sempre attento a porre in rilievo, come ha sottolineato Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera», il nesso tra lingua e società.
Al di là dei molti filoni d’indagine, una preoccupazione che ha sempre assillato de Mauro è stata quella di mettere al centro del suo lavoro la qualità dell’istruzione come fattore essenziale per la diffusione dell’uso dell’italiano, a sua volta condizione indispensabile per migliorare la coesione nazionale. Se l’italiano era dunque da lui inteso come un mezzo estremamente efficace per attuare l’omogeneizzazione delle classi sociali, gli era pur tuttavia estranea ogni visione purista nei confronti del dialetto, che considerava anzi un prezioso testimone della cultura materiale e il codice ideale nelle situazioni comunicative meno formali (i linguisti parlano di variazioni diastratiche. Al riguardo considerazioni valoriali sarebbero in ogni caso estranee al compito del linguista, che si attiene sempre a un’indagine di tipo descrittivo). Egli era pure ben cosciente che l’eredità idealista e crociana che ancora gravava (e forse ancora grava) sulla scuola italiana ostacolava una più ampia diffusione del sapere tecnico-scientifico tra gli strati della popolazione.
Aggiungo che per molti versi De Mauro è stato un precursore. Per esempio nel 1963 destarono scalpore tra gli storici della lingua i risultati della sua pionieristica ricerca sulla conoscenza dell’italiano all’epoca dell’Unità d’Italia. Dai dati contenuti nella sua Storia linguistica dell’Italia unita emergeva infatti che nel 1865 solo il quattro per cento della popolazione poteva considerarsi realmente italofono. Il toscano Bruno Migliorini manifestò scetticismo per l’esiguità del risultato e mise in dubbio la validità dello studio di De Mauro. Migliorini stesso s’incaricò di rifare tutta la sequenza di raccolta e analisi dei dati e pur spostando il più possibile a favore dell’italiano i dati suscettibili di margini di interpretazione, alla fine non arrivò che a uno scarno sei per cento. Le ricerche linguistiche di De Mauro s’incrociarono inevitabilmente con le grandi correnti metodologiche che via via s’imponevano in quegli anni, a cominciare dallo strutturalismo (chi non ricorda il «tout se tient» ripetuto come un mantra?), che in seguito venne più o meno soppiantato dalla semiotica (celebre l’immagine – leggermente apocalittica – della semiosfera di Todorov). Ma nel turbine di queste dispute sui metodi, spesso applicati dogmaticamente, egli mantenne dritta la barra delle sue ricerche con manzoniano giudizio, puntando sempre ad un obiettivo fondamentale, il progresso linguistico e culturale degli italiani. Col senno di poi si può affermare che ha avuto ragione De Mauro, i cui libri resteranno ancora a lungo tra le letture imprescindibili nel campo della linguistica. Quanto alla semiologia, valgano le parole di Cesare Segre, che qualche anno or sono la raffigurò beffardamente come «un pugile suonato in attesa che il prossimo rivale si presenti sul ring». Ma De Mauro è stato anche un intellettuale interessato ai mutamenti della società italiana. E visto che ho tirato in ballo questa parola così fuo-
Attento ai fenomeni linguistici, osservati nel loro impatto con la quotidianità. (tulliodemauro.com)
ri moda, azzardo l’ipotesi che egli sia stato in qualche misura, grazie a un impegno che spesso e volentieri ha superato gli steccati della sua disciplina, l’unico vero erede di Pasolini, anzitutto del Pasolini «corsaro». Ma nella vastità dei suoi interessi è certo nel campo della lessicografia che De Mauro ci ha regalato i risultati più duraturi. Tra i suoi lavori lessicografici, quello che probabilmente rimarrà più a lungo nella memoria del pubblico non specialistico è il suo per molti versi straordinario Dizionario della lingua italiana, edito da Paravia nel 2000 e noto come «Il De Mauro», il più ricco e ampio della nostra lingua in un solo volume. In questo podero-
so parallelepipedo di quasi tremila pagine la prima cosa che salta all’occhio sono le marche d’uso aggiunte ad ogni vocabolo. Il dizionario distingue così cinque «cerchi concentrici» di frequenza: 2000 parole fondamentali (p.es. abbastanza, zio); 2500 di alto uso (abbassare, zucchero); 1900 di alta disponibilità (abbaiare, zoppo); 40’000 di uso comune (bollitura, catalogo); 19’000 di basso uso (turcasso, scanagliare). Altre marche distinguono tra parole tecniche, letterarie, regionali, dialettali, obsolete ed esotiche, per un totale complessivo di circa 130’000 parole e 30’000 locuzioni. Ma sono l’accuratezza e la ricchezza dei lemmi a farne uno strumento prezioso. Basta
andare a voci complesse come democrazia o fare per rendersi conto della qualità della scuola lessicografica creata da De Mauro. Inoltre l’abbondanza di inserti, schede e appendici lo rendono al contempo una guida preziosa per l’acquisizione delle competenze linguistiche e testuali che formano dei cittadini consapevoli e dotati di spirito critico. Non si può non evocare, infine, lo splendido volume autobiografico (Parole di giorni lontani) che De Mauro scrisse nel 2006, rievocando la sua prima giovinezza a Torre Annunziata, un delizioso ritratto d’infanzia e della scoperta del suo personale lessico familiare.
La regina Baba Editoria Keller pubblica un piccolo gioiello letterario della giovane Alina Bronsky, in cui si racconta la vita
di un gruppo di persone ritornate a vivere nei territori contaminati intorno a Černobyl’ Henrique Oliveira, Transarquitetònica, legno brasiliano, mattoni, fango e altri materiali, 5x18x73 m. (Everton Ballardin)
seguenza la storia dell’arte non ha più un andamento cronologico ma alto e basso, orizzontale e verticale, passato e presente si mescolano senza preclusioni di sorta. Se la fine del mondo è già avvenuta e non sappiamo cosa ci prepara il futuro è ovvio che viviamo in un periodo di incertezze; e queste incertezze sono esposte in mostra ora come utopia, ora come distruzione, ora come visione. Al primo piano Thomas Hirschhorn apre la strada con Break Through nel quale il mondo cade dal soffitto squarciato tramite fili e oggetti vari come in una catastrofe senza volto. Henrique Oliveira con Transarquitetònica ci trasporta nella storia dell’uomo lungo un viaggio iniziatico (e un po’ claustrofobico) all’interno di un tunnel che scandisce la progressione architettonica – dalle costruzioni
in fango a quelle in pietra e poi in mattoni e cemento – fra odori e stratificazioni sensoriali. Da vedere le grandiose mappe realizzate da Qiu Zhijie nelle quali il sogno e la storia si intrecciano creando un universo parallelo, come una sorta di fantastilandia. Ma l’opera maggiormente intrigante è sicuramente Head On di un altro cinese Cai Guo-Quiang: novantanove lupi impagliati (o forse finti per non indispettire gli animalisti) corrono per cozzare contro una parete di vetro e venirne respinti. Una metafora della caduta del Muro di Berlino, o meglio dello scontro fra natura e cultura. Ma poi troviamo opere di Rossella Biscotti, di Björk, di Adel Abdessemed, Olafur Eliasson, delle Pussy Riot. In un angolo, un po’ isolati – brutta sistemazione – lavori di Marcel Duchamp, Pablo Picasso, Umberto Boccioni e la splendida scultura della venere curvacea del paleolitico,
simbolo della fertilità. A rafforzare l’idea che l’oggi e il passato coincidono. Infine, in occasione della mostra La fine del mondo, una selezione di opere della collezione del museo sono esposte a corollario in diverse sedi della regione: al Museo delle scienze planetarie di Prato, alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze, al Museo di storia naturale della Specola a Firenze, al Museo Leonardiano da Vinci al Castello dei conti Guidi, al Museo e istituto fiorentino di preistoria Paolo Graziosi di Firenze e alla Scuola normale di Pisa. Dove e quando
La fine del mondo, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato. A cura di Fabio Cavallucci. Orari 11.00-23.00. Lu chiuso. Fino al 19 marzo 2017. www.centropecci.it
Simona Sala Baba Dunja ha un gatto, un orto, una vicina – Marja – e dei sandali da trekking che le permettono di camminare senza sentire eccessivamente il dolore ai piedi, sempre gonfi. Glieli ha spediti sua figlia Irina, dalla Germania. Di tanto in tanto Baba Dunja arranca fino alla fermata del bus, che poi prende per raggiungere Malyši, una città stanca, incapace di rigenerarsi, dove il pesce del mercato puzza e in cui regna un rumore assordante. Baba Dunja potrebbe essere una vecchia qualsiasi, dedita a trascorrere i propri ultimi anni nella casa e nel paese della regione in cui è nata e ha sempre vissuto, senza desideri né grandi aspettative, il grosso della vita ormai alle spalle, mossa unicamente da una tranquilla brama di serenità. Come forse ogni vecchia del mondo. Solo che Baba Dunja vive nell’unica parte del mondo dove non si può
vivere, dove lo Stato ha proibito tassativamente di insediarsi, nonostante il terreno sia fertilissimo, nonostante la frutta incolta pieghi i rami degli albe-
Il romanzo di Alina Bronsky è edito da Keller.
ri e le zucchine raggiungano dimensioni straordinarie. Baba Dunja vive a Černovo, un villaggio rurale a pochi passi dal fatidico reattore che il 26 aprile del 1986 rese inabitabile la regione per 350’000 persone. A Černovo, una via principale e poche povere case, «Ci sono giorni in cui i morti si pestano i piedi a vicenda sulla nostra via principale. Parlano tutti insieme e non si accorgono delle sciocchezze che raccontano (…). Vedo Marina e Anja e Sergej e Vladi e Olya. Il vecchio liquidatore con la camicia a righe, le maniche arrotolate, gli avambracci muscolosi e le scarpe lucide. Era un dandy, all’inizio. È morto in fretta». Alla stessa stregua di un’altra manciata di reietti che, seguendo il suo esempio, hanno fatto ritorno alla spicciolata nel villaggio evacuato decenni prima, Baba Dunja trascorre una vita sospesa senza domani, ma appagata. Le autorità e la Milizia chiudono un occhio su quell’abusivismo
unico al mondo, forse consapevoli che, in fondo, lì la grassa Marja, il vecchio Sidorov, il debole Petrov e pochi altri, qualche gatto e una moltitudine di ragni, non possano dare fastidio a nessuno. Forse, egoisticamente, anche perché è sicuramente meglio per tutti che persone talmente contaminate da essere radioattive, se ne stiano per conto loro, lontane dagli occhi e soprattutto dai corpi altrui. Quella raccontata dalla giovane Alina Bronsky, che all’epoca del disastro nucleare aveva solamente otto anni, è una storia colma di grazia e di silente emozione, il corrispettivo letterario e poetico dell’indimenticabile raccolta di testimonianze della Premio Nobel 2015 Svetlana Aleksievič, Preghiera per Černobyl’ (edizioni e/o). Nonostante lo sviluppo improvvisamente tragico della vita terrena di Baba Dunja, ciò che resta alla fine del breve romanzo della Bronsky, è un inafferrabile senso di pace. In fon-
do questo pugno di persone scampate molto più a lungo di quanto inizialmente predetto dalla medicina e dall’opinione pubblica, che le voleva spacciate a breve, sa ancora cosa è giusto e cosa no, e, soprattutto sa quale sia il significato intimo di comunità. E paradossalmente, questa comunità mal assortita, eppure sempre più unita, capeggiata dalla dolce caparbietà di Baba Dunja (che, nella sua semplicità cresce fino a diventare un’antica e al contempo moderna eroina) si esprime attraverso un gusto per il grottesco che, come un tempo sapeva raccontare in modo meraviglioso il regista Emir Kusturica in film come Underground, è né più né meno il gusto per la vita. «Tra poco arriverà la primavera a Černovo. L’erba fresca comincerà a spuntare e gli alberi diventeranno di un verde tenue. Io andrò nel bosco e spillerò la linfa di betulla. Non perché voglio campare fino a cent’anni, ma perché è un’eresia rifiutare i doni della natura».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Cultura e Spettacoli Prince per sempre A poco meno di un anno dalla sua scomparsa ecco la prima antologia ufficiale del poliedrico artista di Minneapolis pagina 29
Una grande nave musicale Inaugurata la scorsa settimana una delle più moderne e ambiziose sale da concerto europee, la Elbphilharmonie di Amburgo
Il Mago di Oz all’opera A Zurigo va in scena un’apprezzata versione del capolavoro per l’infanzia
Tre modi di fare arte Le opere di Hartung, Cavalli e Strazza sono esposte al Museo Civico Villa dei Cedri
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De Mauro, intellettuale curioso
In memoriam Il linguista italiano era nato nel 1932 e nella sua lunga carriera ha affiancato lo studio e la ricerca
all’impegno sociale e civile Manuel Rossello
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La fine del mondo
Mostre Riaperto il Centro Pecci di Prato
È stato Ministro della pubblica istruzione e ha compiuto un’importante opera di divulgazione tramite i media
con un’esposizione curata da Fabio Cavallucci
Gianluigi Bellei Il 16 ottobre ha riaperto il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. Una notizia importante perché è stato per lunghi anni il fulcro dell’arte contemporanea in Italia. Inaugurato nel 1988 era, assieme al Castello di Rivoli, una delle poche eccellenze dedicate all’arte dagli anni Cinquanta a oggi in Italia. Oltre mille le opere della collezione divise tra sculture, installazioni, dipinti, fotografie e video; fra Arte Povera, Transavanguardia, Poesia concreta e visiva… la collezione vanta opere di Anish Kapoor, Jan Fabre, Jannis Kounellis e Sol LeWitt, solo per citarne alcuni. Dopo alterne vicissitudini e scarsi visitatori, chiude. Nel 2006 il rilancio con l’ampliamento della sede museale commissionata, sempre dalla famiglia Pecci, noti imprenditori tessili di Prato, all’architetto Maurice Nio. I lavori iniziano nel 2010 e terminano appunto il 16 ottobre scorso, giorno dell’inaugurazione. Il progetto di Maurice Nio, architetto olandese, prevede l’abbraccio dell’edificio preesistente di Italo Gamberini attraverso una nuova struttura ellittica e fluida con una sorta di antenna curva in alto per captare idealmente la creatività circostante. Così scrive l’architetto: «sintonizziamo il mondo fisico su di una frequenza diversa, facciamo vibrare il materiale in modo nuovo». La superficie del vecchio edificio era di 4310 metri quadrati; l’ampliamento è di 7815. La superficie totale odierna del museo è di 12’125 metri quadrati. La struttura esterna è di certo accattivante e inusuale. Non a caso da subito viene chiamata «l’astronave». L’interno per ora è di difficile valutazione. Anche perché l’abbiamo visitato a lavori in via di definizione: stucchi, vernici, pavimenti, luci… Certo la forma ellittica non aiuta e comunque le luci
non sembrano ottimali. In ogni caso l’audacia della struttura sembra incoraggiante. Per l’inaugurazione è stata presentata la mostra La fine del mondo, curata dal nuovo direttore Fabio Cavallucci. Per Cavallucci l’arte non è più un modo di intendere la storia e la società in senso progressivo e lineare; non esiste un prima e un dopo; non ci sono più valori che segnano e distanziano il passato dal presente; ma la storia è costellata di cerchi che si affastellano uno dentro l’altro. Scomparse le ideologie totalizzanti, come il comunismo e il fascismo (ma altre altrettanto pericolose si stanno affacciando nel nuovo millennio), rimaniamo immersi in un mondo fluttuante dove le guerre diffuse, le esclusioni, le catastrofi ci accompagnano, pur non segnando il nostro vivere quotidiano. Per lui la fine del mondo è un sintomo: «lo stato di incertezza, la condizione di sospensione, l’incapacità di comprendere i grandi cambiamenti presenti, che ci fa pensare che una situazione che abbiamo conosciuto finora sia ormai giunta al termine». Certo non una visione apocalittica e millenaristica, tanto cara a religiosi o pensatori politici di vario stampo, ma semplicemente una sorta di epoché, di sospensione del giudizio perché come scrive René Descartes «se […] non è in mio potere di pervenire alla conoscenza di verità alcuna, almeno è in mio potere di sospendere il mio giudizio». Cavallucci sostiene che la fine del mondo coincide con la fine del nostro mondo culturale e dei suoi processi cognitivi e percettivi che ci hanno accompagnato dall’antica Grecia a oggi. La mostra è quindi il risultato di un «sentimento diviso tra vanità delle nostre azioni, nostalgia di ciò che è stato e non è più, e – forse – qualche bagliore di futuro…». Di con-
Ripercorrere la figura di Tullio De Mauro, l’insigne linguista da poco scomparso, significa seguire le linee di una carriera di studioso che oltre alla linguistica ha toccato i campi della lessicografia, dell’insegnamento universitario, dell’impegno di governo come ministro della pubblica istruzione e dell’impegno civile, sempre attento a porre in rilievo, come ha sottolineato Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera», il nesso tra lingua e società.
Al di là dei molti filoni d’indagine, una preoccupazione che ha sempre assillato de Mauro è stata quella di mettere al centro del suo lavoro la qualità dell’istruzione come fattore essenziale per la diffusione dell’uso dell’italiano, a sua volta condizione indispensabile per migliorare la coesione nazionale. Se l’italiano era dunque da lui inteso come un mezzo estremamente efficace per attuare l’omogeneizzazione delle classi sociali, gli era pur tuttavia estranea ogni visione purista nei confronti del dialetto, che considerava anzi un prezioso testimone della cultura materiale e il codice ideale nelle situazioni comunicative meno formali (i linguisti parlano di variazioni diastratiche. Al riguardo considerazioni valoriali sarebbero in ogni caso estranee al compito del linguista, che si attiene sempre a un’indagine di tipo descrittivo). Egli era pure ben cosciente che l’eredità idealista e crociana che ancora gravava (e forse ancora grava) sulla scuola italiana ostacolava una più ampia diffusione del sapere tecnico-scientifico tra gli strati della popolazione.
Aggiungo che per molti versi De Mauro è stato un precursore. Per esempio nel 1963 destarono scalpore tra gli storici della lingua i risultati della sua pionieristica ricerca sulla conoscenza dell’italiano all’epoca dell’Unità d’Italia. Dai dati contenuti nella sua Storia linguistica dell’Italia unita emergeva infatti che nel 1865 solo il quattro per cento della popolazione poteva considerarsi realmente italofono. Il toscano Bruno Migliorini manifestò scetticismo per l’esiguità del risultato e mise in dubbio la validità dello studio di De Mauro. Migliorini stesso s’incaricò di rifare tutta la sequenza di raccolta e analisi dei dati e pur spostando il più possibile a favore dell’italiano i dati suscettibili di margini di interpretazione, alla fine non arrivò che a uno scarno sei per cento. Le ricerche linguistiche di De Mauro s’incrociarono inevitabilmente con le grandi correnti metodologiche che via via s’imponevano in quegli anni, a cominciare dallo strutturalismo (chi non ricorda il «tout se tient» ripetuto come un mantra?), che in seguito venne più o meno soppiantato dalla semiotica (celebre l’immagine – leggermente apocalittica – della semiosfera di Todorov). Ma nel turbine di queste dispute sui metodi, spesso applicati dogmaticamente, egli mantenne dritta la barra delle sue ricerche con manzoniano giudizio, puntando sempre ad un obiettivo fondamentale, il progresso linguistico e culturale degli italiani. Col senno di poi si può affermare che ha avuto ragione De Mauro, i cui libri resteranno ancora a lungo tra le letture imprescindibili nel campo della linguistica. Quanto alla semiologia, valgano le parole di Cesare Segre, che qualche anno or sono la raffigurò beffardamente come «un pugile suonato in attesa che il prossimo rivale si presenti sul ring». Ma De Mauro è stato anche un intellettuale interessato ai mutamenti della società italiana. E visto che ho tirato in ballo questa parola così fuo-
Attento ai fenomeni linguistici, osservati nel loro impatto con la quotidianità. (tulliodemauro.com)
ri moda, azzardo l’ipotesi che egli sia stato in qualche misura, grazie a un impegno che spesso e volentieri ha superato gli steccati della sua disciplina, l’unico vero erede di Pasolini, anzitutto del Pasolini «corsaro». Ma nella vastità dei suoi interessi è certo nel campo della lessicografia che De Mauro ci ha regalato i risultati più duraturi. Tra i suoi lavori lessicografici, quello che probabilmente rimarrà più a lungo nella memoria del pubblico non specialistico è il suo per molti versi straordinario Dizionario della lingua italiana, edito da Paravia nel 2000 e noto come «Il De Mauro», il più ricco e ampio della nostra lingua in un solo volume. In questo podero-
so parallelepipedo di quasi tremila pagine la prima cosa che salta all’occhio sono le marche d’uso aggiunte ad ogni vocabolo. Il dizionario distingue così cinque «cerchi concentrici» di frequenza: 2000 parole fondamentali (p.es. abbastanza, zio); 2500 di alto uso (abbassare, zucchero); 1900 di alta disponibilità (abbaiare, zoppo); 40’000 di uso comune (bollitura, catalogo); 19’000 di basso uso (turcasso, scanagliare). Altre marche distinguono tra parole tecniche, letterarie, regionali, dialettali, obsolete ed esotiche, per un totale complessivo di circa 130’000 parole e 30’000 locuzioni. Ma sono l’accuratezza e la ricchezza dei lemmi a farne uno strumento prezioso. Basta
andare a voci complesse come democrazia o fare per rendersi conto della qualità della scuola lessicografica creata da De Mauro. Inoltre l’abbondanza di inserti, schede e appendici lo rendono al contempo una guida preziosa per l’acquisizione delle competenze linguistiche e testuali che formano dei cittadini consapevoli e dotati di spirito critico. Non si può non evocare, infine, lo splendido volume autobiografico (Parole di giorni lontani) che De Mauro scrisse nel 2006, rievocando la sua prima giovinezza a Torre Annunziata, un delizioso ritratto d’infanzia e della scoperta del suo personale lessico familiare.
La regina Baba Editoria Keller pubblica un piccolo gioiello letterario della giovane Alina Bronsky, in cui si racconta la vita
di un gruppo di persone ritornate a vivere nei territori contaminati intorno a Černobyl’ Henrique Oliveira, Transarquitetònica, legno brasiliano, mattoni, fango e altri materiali, 5x18x73 m. (Everton Ballardin)
seguenza la storia dell’arte non ha più un andamento cronologico ma alto e basso, orizzontale e verticale, passato e presente si mescolano senza preclusioni di sorta. Se la fine del mondo è già avvenuta e non sappiamo cosa ci prepara il futuro è ovvio che viviamo in un periodo di incertezze; e queste incertezze sono esposte in mostra ora come utopia, ora come distruzione, ora come visione. Al primo piano Thomas Hirschhorn apre la strada con Break Through nel quale il mondo cade dal soffitto squarciato tramite fili e oggetti vari come in una catastrofe senza volto. Henrique Oliveira con Transarquitetònica ci trasporta nella storia dell’uomo lungo un viaggio iniziatico (e un po’ claustrofobico) all’interno di un tunnel che scandisce la progressione architettonica – dalle costruzioni
in fango a quelle in pietra e poi in mattoni e cemento – fra odori e stratificazioni sensoriali. Da vedere le grandiose mappe realizzate da Qiu Zhijie nelle quali il sogno e la storia si intrecciano creando un universo parallelo, come una sorta di fantastilandia. Ma l’opera maggiormente intrigante è sicuramente Head On di un altro cinese Cai Guo-Quiang: novantanove lupi impagliati (o forse finti per non indispettire gli animalisti) corrono per cozzare contro una parete di vetro e venirne respinti. Una metafora della caduta del Muro di Berlino, o meglio dello scontro fra natura e cultura. Ma poi troviamo opere di Rossella Biscotti, di Björk, di Adel Abdessemed, Olafur Eliasson, delle Pussy Riot. In un angolo, un po’ isolati – brutta sistemazione – lavori di Marcel Duchamp, Pablo Picasso, Umberto Boccioni e la splendida scultura della venere curvacea del paleolitico,
simbolo della fertilità. A rafforzare l’idea che l’oggi e il passato coincidono. Infine, in occasione della mostra La fine del mondo, una selezione di opere della collezione del museo sono esposte a corollario in diverse sedi della regione: al Museo delle scienze planetarie di Prato, alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze, al Museo di storia naturale della Specola a Firenze, al Museo Leonardiano da Vinci al Castello dei conti Guidi, al Museo e istituto fiorentino di preistoria Paolo Graziosi di Firenze e alla Scuola normale di Pisa. Dove e quando
La fine del mondo, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato. A cura di Fabio Cavallucci. Orari 11.00-23.00. Lu chiuso. Fino al 19 marzo 2017. www.centropecci.it
Simona Sala Baba Dunja ha un gatto, un orto, una vicina – Marja – e dei sandali da trekking che le permettono di camminare senza sentire eccessivamente il dolore ai piedi, sempre gonfi. Glieli ha spediti sua figlia Irina, dalla Germania. Di tanto in tanto Baba Dunja arranca fino alla fermata del bus, che poi prende per raggiungere Malyši, una città stanca, incapace di rigenerarsi, dove il pesce del mercato puzza e in cui regna un rumore assordante. Baba Dunja potrebbe essere una vecchia qualsiasi, dedita a trascorrere i propri ultimi anni nella casa e nel paese della regione in cui è nata e ha sempre vissuto, senza desideri né grandi aspettative, il grosso della vita ormai alle spalle, mossa unicamente da una tranquilla brama di serenità. Come forse ogni vecchia del mondo. Solo che Baba Dunja vive nell’unica parte del mondo dove non si può
vivere, dove lo Stato ha proibito tassativamente di insediarsi, nonostante il terreno sia fertilissimo, nonostante la frutta incolta pieghi i rami degli albe-
Il romanzo di Alina Bronsky è edito da Keller.
ri e le zucchine raggiungano dimensioni straordinarie. Baba Dunja vive a Černovo, un villaggio rurale a pochi passi dal fatidico reattore che il 26 aprile del 1986 rese inabitabile la regione per 350’000 persone. A Černovo, una via principale e poche povere case, «Ci sono giorni in cui i morti si pestano i piedi a vicenda sulla nostra via principale. Parlano tutti insieme e non si accorgono delle sciocchezze che raccontano (…). Vedo Marina e Anja e Sergej e Vladi e Olya. Il vecchio liquidatore con la camicia a righe, le maniche arrotolate, gli avambracci muscolosi e le scarpe lucide. Era un dandy, all’inizio. È morto in fretta». Alla stessa stregua di un’altra manciata di reietti che, seguendo il suo esempio, hanno fatto ritorno alla spicciolata nel villaggio evacuato decenni prima, Baba Dunja trascorre una vita sospesa senza domani, ma appagata. Le autorità e la Milizia chiudono un occhio su quell’abusivismo
unico al mondo, forse consapevoli che, in fondo, lì la grassa Marja, il vecchio Sidorov, il debole Petrov e pochi altri, qualche gatto e una moltitudine di ragni, non possano dare fastidio a nessuno. Forse, egoisticamente, anche perché è sicuramente meglio per tutti che persone talmente contaminate da essere radioattive, se ne stiano per conto loro, lontane dagli occhi e soprattutto dai corpi altrui. Quella raccontata dalla giovane Alina Bronsky, che all’epoca del disastro nucleare aveva solamente otto anni, è una storia colma di grazia e di silente emozione, il corrispettivo letterario e poetico dell’indimenticabile raccolta di testimonianze della Premio Nobel 2015 Svetlana Aleksievič, Preghiera per Černobyl’ (edizioni e/o). Nonostante lo sviluppo improvvisamente tragico della vita terrena di Baba Dunja, ciò che resta alla fine del breve romanzo della Bronsky, è un inafferrabile senso di pace. In fon-
do questo pugno di persone scampate molto più a lungo di quanto inizialmente predetto dalla medicina e dall’opinione pubblica, che le voleva spacciate a breve, sa ancora cosa è giusto e cosa no, e, soprattutto sa quale sia il significato intimo di comunità. E paradossalmente, questa comunità mal assortita, eppure sempre più unita, capeggiata dalla dolce caparbietà di Baba Dunja (che, nella sua semplicità cresce fino a diventare un’antica e al contempo moderna eroina) si esprime attraverso un gusto per il grottesco che, come un tempo sapeva raccontare in modo meraviglioso il regista Emir Kusturica in film come Underground, è né più né meno il gusto per la vita. «Tra poco arriverà la primavera a Černovo. L’erba fresca comincerà a spuntare e gli alberi diventeranno di un verde tenue. Io andrò nel bosco e spillerò la linfa di betulla. Non perché voglio campare fino a cent’anni, ma perché è un’eresia rifiutare i doni della natura».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Cultura e Spettacoli
Prince 4Ever, arte o speculazione?
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CD A diversi mesi dalla morte dell’artista
di Minneapolis la Warner Bros. pubblica l’immancabile antologia postuma
Ora che ce lo siamo lasciato alle spalle, appare davvero difficile negare che il 2016 sia stato un vero e proprio «annus horribilis» per gli appassionati di musica leggera, costellato dalle dipartite perlopiù premature di innumerevoli grandi artisti: dall’iconico David Bowie al sommo Leonard Cohen (senza dimenticare l’eccentrico Leon Russell e la leggenda del prog rock Keith Emerson), la lunga lista delle morti illustri si è conclusa soltanto negli ultimi giorni di dicembre, che hanno visto andarsene anche un pop idol come George Michael. E non vi è dubbio che uno dei dolori maggiori di quest’annata tanto tragica sia stato l’addio a Prince, artista più unico che raro nel panorama della scena mondiale: un performer che, fin dai tardi anni 70, era riuscito nel non semplice compito di coniugare con rara maestria (e molta sensualità e spirito di trasgressione) la cultura funk e R’n’B made in Usa con il più puro e raffinato pop da classifica. Ragion per cui oggi, ad alcuni mesi di distanza dalla sua scomparsa, ecco che, come da copione, il gigante discografico Warner Bros. non riesce a resistere alla tentazione di capitalizzare sul mito post mortem del grande artista, pubblicando una nuova raccolta antologica su doppio CD, contraddistinta dal poco fantasioso titolo di 4Ever. E si tratta di una decisione che ha generato aspri dibattiti tra i fan dell’artista di Minneapolis, alcuni dei quali si sono rifiutati di contribuire, tramite l’acquisto dell’album, a quella che percepiscono come una bieca operazione commerciale da parte di una major con la quale Prince – artista tra i primi a promuovere l’autoproduzione e l’indipendenza discografica dei musicisti – aveva rapporti quantomeno problematici. Del resto, ciò si riflette nella tracklist di questo 4Ever – che, incentrata sul periodo in cui il cantante era sotto contratto con la Warner, ignora completamente l’attività discografica successiva ai primi anni 90; nell’arco dei due dischi, l’ascoltatore viene quindi guidato attraverso le varie fasi della carriera di Prince comprese tra il debutto del 1978 e il 1992, passando da classici assoluti come i celeberrimi Raspberry Beret, Purple Rain e il più recente Sign O’ The Times a brani forse meno noti, ma altrettanto epocali, del calibro di Alphabet St. e Cream. Da notare, però, come quello che per alcuni è l’elemento di maggior pregio della compilation diventi, agli occhi di altri, il suo principale difetto: stiamo parlando del fatto che gran
parte della tracklist sia composta dai cosiddetti «single edits», ovvero dalle versioni abbreviate di quelle canzoni che, per ragioni legate alla programmazione radiofonica, Prince ha dovuto «tagliare» nel momento in cui ha deciso di pubblicarle come singoli promozionali. Ne consegue che chiunque sia alla ricerca delle versioni originali (per come concepite dall’autore) dei medesimi pezzi rimarrà probabilmente deluso, anche se tra i brani presentati nella loro variante «full length» ci sono gli intriganti Sexy M.F. e il già citato Purple Rain. Tuttavia, il fatto che la compilation debba risultare appetibile non solo per gli ascoltatori casuali, ma anche per i fan conclamati, giustifica la scelta di concentrarsi su varianti meno facilmente reperibili delle hit di Prince: come, ad esempio, l’insolita versione di Let’s Go Crazy, tratta dal 45 giri dell’epoca. Un’impressione favorita dal fatto che, essendo la raccolta basata principalmente su brani risalenti agli anni 80 (e quindi all’era del vinile), molte di queste versioni «da singolo» vengono qui pubblicate su CD per la prima volta. Comunque, il «piatto forte» dell’album (nonché il vero motivo per cui un completista dovrebbe acquistare questa collezione) è il raro Moonbeam Levels, risalente alle session del 1982: una traccia inedita – finora apparsa, in bassa qualità audio, solo su vari bootleg prodotti dai fan – che costituisce un assaggio dei tesori ancora nascosti negli archivi privati del performer statunitense. A parte ciò, non vi è, da parte della Warner Bros., nessun tentativo di soppiantare, con questa raccolta, quello che, per quanto datato, resta tuttora il fondamentale album antologico di Prince, ovvero The Hits/The B-Sides (1993), dal quale non si può comunque prescindere – soprattutto se si considera che nessun processo di rimasterizzazione digitale è stato compiuto sulle tracce di questa nuova raccolta. Ad ogni modo, al di là delle implicazioni (e limitazioni) palesemente commerciali che lo contraddistinguono, questo 4Ever rappresenta comunque un’ottima introduzione all’arte di un musicista sfuggente e innovativo – forse uno dei pochi nomi degli anni 80 ad aver innegabilmente esercitato un’influenza pervasiva e tuttora evidente sulla scena pop internazionale; e seppur non si tratti forse di un album destinato a lasciare un segno profondo nella discografia di Prince, è probabile che il tempo confermi la tempestività e lungimiranza di una pubblicazione che, in fondo, è stata pensata e diretta soprattutto alle masse.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Cultura e Spettacoli
Un piroscafo col vento in poppa
Architettura Ad Amburgo è stata inaugurata la maxisala da concerto Elbphilharmonie
Timoteo Morresi La nave ha finalmente rotto gli ormeggi ed è metaforicamente salpata: fuor di metafora la nuova spettacolare sala da concerti di Amburgo, la Elbphilharmonie, dopo il concerto inaugurale tenutosi l’11 gennaio, è pronta ad accogliere le più rinomate orchestre e i solisti più acclamati. Progettata dal duo di architetti svizzeri Herzog & de Meuron, a cui si devono altri capolavori, come la Tate Modern di Londra (2000), non passa inosservata: con i suoi 110 metri di altezza, l’edificio, tutto in mattoni e vetri, svetta sull’Elba all’estremità ovest della Hafenburgcity, quartiere recente costruito su una zona dismessa del porto. L’inaugurazione dovrebbe porre fine alle polemiche che hanno sin dalla nascita accompagnato il cantiere che, terminato, è diventato il nuovo simbolo della città: consegnato dopo sette anni di ritardo, ha visto i costi esplodere da 77 a… 865 milioni di euro (di cui 790 di fondi pubblici e 70 di donazioni private). La storia comincia nel 2003 quando gli architetti Alexander Gerard e Jana Marko, ricchi e amanti della musica, trovano un magazzino abbandonato e ai loro colleghi basilesi decidono di commissionare un progetto stimato intorno agli 80 milioni di euro, senza ancora l’albergo con i suoi 45 appartamenti, spazi pedagogici e una seconda sala da concerto. Ma la notizia si diffonde, il Comune si intromette e vede più in grande. Da privato, l’affare diventa pubblico. Nel 2005 un nuovo progetto, valutato 350 milioni, fa propria l’idea di erigere una costruzione moderna sul vecchio deposito. I lavori cominciano in tutta fretta nel 2007, ancora prima della conclusione dei piani: un errore fatale, che ha dato luogo a dei contenziosi giudiziari infiniti tra Herzog & de Meuron, l’impresa generale e la municipalità. Dopo dieci anni di peripezie, che hanno attirato l’interesse dei «tabloid» tedeschi e l’ira degli amburghesi, l’Elbphilharmonie
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rischiate di non vedere nelle sale Fabio Fumagalli
*** Mustang, di Deniz Gamze Ergüven, con Günes Nezihe Sensoy, Doga Zeynep Doguslu, Elit Iscan (Turchia 2015)
Un progetto degli architetti svizzeri Herzog & de Meuron. (Keystone)
è realtà ma la fattura è quasi triplicata. Ne valeva la pena? Gli specialisti dicono di sì. La struttura futurista ha già cambiato l’immagine della seconda città della Germania dopo Berlino (1’790’000 abitanti), realizzando un perfetto connubio tra materia e forme. Lo scafo del vascello è il magazzino di mattoni degli anni 60, alto 37 metri. Fa da base all’Elphi, la facciata composta da 1100 pannelli di vetro curvi che riflette l’ambiente e i capricci del tempo. A est (come dire?) piccole orecchie, branchie di pesce hanno funzione decorativa mentre a ovest i balconi degli appartamenti dell’albergo hanno la forma di… diapason. Al complesso si accede da una scala mobile gigantesca, lunga 82 metri, che mette capo alla «Plaza»: un vasto spazio posto alla congiunzione tra il vecchio e il nuovo, tra i mattoni e i pannelli di vetro. All’entrata colpisce l’eccellenza delle finiture. La grande sala dei concerti,
al centro dell’edificio, può ricevere fino a 2100 spettatori disposti su balconi intorno al palco. Nessun posto si situa a più di trenta metri dai musicisti. I muri e il soffitto sono tappezzati da una «pelle» di color bianco, composta da diecimila pannelli disposti in modo da diffondere il suono capillarmente. Come per la nuova Philharmonie di Jean Nouvel a Parigi l’acustica è stata realizzata dal giapponese Yasuhisa Toyota. I sedili sono di color grigio, il pavimento in quercia chiaro, come per alternare eleganza e sobrietà. Un organo di 4765 canne costruito dalla ditta Johannes Klais completa la struttura. L’orchestra «in residence» del nuovo gioiello sarà l’Orchestra radiofonica della Norddeutscher Rundfunk (ridenominata NDR Elbphilharmonie), diretta da Thomas Hengelbrock. Accanto alla sala principale sono disponibili una sala minore di 550 posti per i recital e uno «studio» di 170 posti.
Per far funzionare il tutto, la città di Amburgo metterà 6 milioni all’anno; fondi privati si aggiungeranno per raggiungere un preventivo di 12 milioni di spesa. L’introito derivante dalla vendita dei biglietti (i 450’000 biglietti per il 2017 sono andati a ruba!) dovrebbe pareggiare il conto. In cartellone sono annunciate le orchestre più prestigiose (Berlino, Vienna, Chicago, Londra…) e tutte le star della musica classica (Anja Harteros, Martha Argerich, Jonas Kaufmann, Cecilia Bartoli, Murray Perrahia…). Da Amburgo la nave sembra aver preso dunque il largo con il vento in poppa. Per le vicissitudini negative vissute prima del varo ricorda un altro tempio della musica, posto in riva all’oceano ma dall’altra parte del globo: l’Opera di Sidney, un’icona dell’architettura moderna, un cantiere rocambolesco durato 16 anni. E noi ci lamentiamo delle pareti del LAC!
Il Mago di Oz all’Opernhaus di Zurigo Opera In prima mondiale, fino al 5 febbraio, una riduzione scenica del capolavoro
per l’infanzia, con musiche di Pierangelo Valtinoni Marinella Polli Odore delizioso di pane speziato e cioccolata, gridolini di meraviglia, sospiri e anche qualche urlo di spavento, in questo periodo di inizio anno al Teatro dell’Opera di Zurigo, in occasione dell’attesa rappresentazione annua per i bambini, nella fattispecie l’opera in prima mondiale del compositore italiano Pierangelo Valtinoni, ovvero Der Zauberer von Oz. Lo spettacolo è un’irresistibile libera interpretazione del Meraviglioso mago di Oz (The Wonderful Wizard of Oz) dello scrittore statunitense L. Frank Baum, un classico della letteratura per i giovani, da cui fu anche tratto il celebre film diretto da Victor Fleming e con Judy Garland nei panni della protagonista Dorothy. Dorothy (un’insuperabile Deanna Breiwick) è anche qui una bambina che abita con gli zii in una fattoria del Kansas, ma che con la fantasia viaggia molto, sognando di continuo di trovarsi in un mondo stupendo e felice, di sconfiggere la strega cattiva dell’Ovest (grande Irène Friedli) e altri mostri, e di arrivare fino al regno smeraldino del Mago di Oz. Da una scena di scato-
Un nuovo anno con qualcosa di diverso?
Un momento dello spettacolo. (Danielle Liniger)
le scorrevoli fuoriescono, in modo da dare l’impressione ai giovani spettatori di star sfogliando un grande libro di figure, le diverse, colorate e concitate avventure lungo il filo di una fiaba sempre più magica. I personaggi, tutti alla ricerca di qualcosa di cui hanno estremamente bisogno, lo spaventapasseri (Jain Milne) di un cervello, l’uomo di latta (Cheyne Davidson) di un cuore per poter essere più simile agli umani, e il leone (Reinhard Mayr) di coraggio, si incamminano insieme
facendo nuovi incontri, tra cui la regina dei topi (Hamida Kristofferson), prestano aiuto e si aiutano vicendevolmente e imparano a rispettarsi e ad amarsi. Arrivati alla meta, essi vengono poi a scoprire che il grande mago di Oz (Daniel Hajdu) non esiste in quanto tale, ma è un semplice artista ventriloquo del circo. L’opera è dunque una divertente, coinvolgente versione del celebre romanzo, di cui coglie anche i molti messaggi di solidarietà, fratellanza,
bontà e coraggio. Tant’è, i bambini presenti all’Opernhaus in ogni ordine di posti non solo si divertono e sgranano gli occhi di fronte alla bellezza delle scene e dei costumi di Gideon Davey, all’ambientazione fantastica ideata con tatto e buon gusto dal regista Floris Visser, ma seguono il testo e gli splendidi cori (Kinderchor der Oper Zürich) e ascoltano persino la musica, moderna ma non troppo e spesso anche suggestiva. È una partitura variegata, questa di Valtinoni (libretto di Paolo Madron) che alterna momenti più melodici ad altri più atonali. Sul podio a distillarne le peculiarità alla testa di una precisa «Philharmonia Zürich» troviamo Kristiina Poska sempre assecondata dall’ottimo cast. Il pubblico, composto da bimbi accompagnati da mamme, papà, nonni o babysitter, alla fine delle due ore circa di rappresentazione applaude assai calorosamente, felice altresì di aver ricevuto insieme con il programma un bel Gioco dell’Oca con tutte le stazioni dello spettacolo. Le repliche di quest’ultima fatica commissionata al compositore italiano dalla sovrintendenza dell’Opernhaus si protrarranno fino al 5 febbraio.
Primo film di una regista turca, premiato con 4 César e la nomination agli Oscar 2016 quale miglior film straniero, questa favola femminista sulla condizione di cinque adolescenti cresciute in un villaggio turco discosto e dal patriarcato feroce vive di un contrasto straordinario. Da un lato, l’intransigenza tradizionale nei confronti della donna da parte di uno zio, ai confini di una violenza anche fisica. Dall’altro la grazia, la freschezza e la determinazione indimenticabile di cinque giovani protagoniste. Cronaca dell’oscurantismo di una società prigioniera del proprio passato, Mustang attinge però la sua straordinaria energia non soltanto dalle sue deliziose attrici: la giovane cineasta le immerge in universo estetico di grande armonia, cogliendo le loro reazioni incantate nel segno di una ricerca estetica che non è mai decorativa. Più le situazioni sono ai limiti della violenza maschilista e del moralismo, più la regia (nelle inquadrature, i colori, l’ambiente, le musiche) le sottolinea con moltiplicata armonia. Un contrasto più che sorprendente in una sceneggiatura che potrebbe anche risultare in parte prevedibile: una serenità disinvolta e allegra che decuplica la carica di un femminismo poetico e in definitiva irresistibile. ***(*) Three, di Johnnie To, con Louis Koo, Wei Zhao, Wallace Chung, Suet Lam, Hoi-Pang Lo (Hong – Kong 2016) Al suo... settantesimo film o giù di lì lo straordinario oltre che fecondissimo creatore di forme del cinema di Hong-Kong riesce a scoprirne una inedita. Un contenitore nuovo, a dir poco sorprendente, un ospedale con tanto di operazioni di chirurgia cranica riprese in dettaglio. Ovviamente trasposto in uno degli incredibili universi onirici dell’inimitabile Johnnie To, clamorosamente postmoderni e manieristi. Neurochirurgia e tanta commedia, con aggiunta quasi ovvia di azione scatenata. Ne nasce un mix paradossale e affascinante: fra lenzuola svolazzanti e colori iperrealisti, buffoni assurdi e truci cattivissimi nel consueto balletto coreografico caro alla tradizione nazionale. Un immaginario sfrenato, pronto ad ogni svolta della «storia» a superarne i limiti.
Biglietti in palio Martedì 17 gennaio 2017, ore 20.30 Sala Teatro LAC, Lugano Virgilio Brucia Testi ispirati dalle opere di Virgilio, H. Broch, E. Carrère, D. Kiš, A. Barchiesi, A. Fo e J. C. Oates. Regia di Simone Derai. Migros Ticino offre ai lettori di «Azione» biglietti gratuiti per le manifestazioni organizzate attraverso il Percento culturale. Per aggiudicarsi i biglietti basta scrivere una email contenente nome, cognome, indirizzo e titolo dello spettacolo scelto oggi lunedì 16 gennaio all’indirizzo giochi@azione.ch. I vincitori saranno estratti a sorte tra tutti partecipanti e riceveranno una conferma via email. Buona fortuna!
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Cultura e Spettacoli
L’Anima del segno
Mostra Opere di Hartung, Cavalli e Strazza esposte al Museo Civico Villa dei Cedri di Bellinzona,
fino al 29 gennaio 2017
Isabella Steiger Felder L’obiettivo della mostra è di avvicinare il visitatore ai modi di fare arte e a una riflessione sui materiali e i mezzi espressivi. Hartung come precursore dell’informale che appare sulla scena artistica negli anni 50 e si contrappone alla vecchia maniera dell’astrazione geometrica delle scuole del Costruttivi-
smo, di De Stijl e del Bauhaus. La complementarietà tra pittura e grafica, che qui riconferma la dignità della grafica come tecnica a sé e non è più vista come appendice della pittura. Sia in Hartung (1904-1989), sia in Strazza (1922), sia in Cavalli (1930) la pittura, il disegno e la grafica comunicano uno stesso sentire artistico. Hartung si afferma sulla scena ar-
Intervista a Massimo Cavalli Massimo Cavalli, quali sono, dal suo punto di vista, le affinità tra il suo lavoro e quello degli artisti Hartung e Strazza, a prescindere dalle tecniche artistiche che vi accomunano?
Hartung è una figura di riferimento per tutta la mia generazione. Con Strazza siamo colleghi. Sono stato nel suo studio a Roma intorno al ’96. Il linguaggio espressivo ci accomuna tutti e tre. Gli strumenti di lavoro e le tecniche sono molto personali. L’accento specifico nel proprio lavoro diventa personale. A proposito del suo lavoro i critici hanno ricordato il suo interesse per Morandi e per Braque. In che modo questi artisti hanno contribuito alla sua ricerca personale?
In particolare vi è il mio interesse per il lavoro di Morandi che non pratica la litografia, cosa che ho approfondito con interesse. In lui impressiona l’aderenza a un problema specifico, un desiderio molto personale. Braque segna il mio percorso, attraverso la raffinatezza e l’intelligenza del suo lavoro, soprattutto nei disegni. Entrambe le figure sono state di interesse per il mio lavoro. Picasso desta il mio interesse, ma in modo molto più moderato. La ragione di esporre insieme Hartung, Cavalli e Strazza si evidenzia soprattutto nell’uso del linguaggio informale. Ci sono casi in cui il mio lavoro e quello di Strazza sono molto vicini, senza volerlo sono nate delle affinità.
È stato docente per molti anni: in che modo l’insegnamento ha contribuito alla ricerca artistica?
L’insegnamento dell’incisione a gruppi di cinque o sei allievi interessati alla materia mi dava, nei vari problemi espressivi, moltissimo.
Le diverse tecniche quali la pittura, il disegno e l’incisione che ruolo hanno nel suo lavoro?
Ho sempre lavorato la pittura e l’incisione come tecniche con uguali interessi. Nella litografia, nella calcografia e nella pittura il problema espressivo fa stato. È la tecnica che diventa il problema espressivo e molto personale. La xilografia è un ambito poco conosciuto della sua attività. Come mai?
Ho praticato la xilografia a due riprese, nel 1950, nel ’60 e nel ‘70 in modo impegnativo ma ho sempre, sbagliando, distrutto tutto. Nella mia generazione il distruggere diventava necessità espressiva, come pratica contagiosa. Di litografie ce ne sono parecchie, realizzate da uno stampatore di Baulmes, Edmond Quinche, conosciuto grazie allo stampatore Gianstefano Galli, attivo a Novazzano. Mentre da Giorgio Upiglio ho lavorato e imparato moltissimo. Ho stampato lastre di zinco preparate per la litografia. Ho praticato la litografia durante tutto il mio percorso artistico e credo che l’ultima sia del 2011.
tistica con i lavori degli anni 1953-59, esposti alla Documenta di Kassel nel 1959. I primi acquarelli astratti sono del 1922, mentre nel 1924 realizza le prime tele astratte. Nel 1933 a Minorca crea opere dagli accenti sempre più informali, sulla base dei primi acquarelli. Nel ’54 Strazza è a Venezia e incontra tra gli altri Parmeggiani e Vedova. Cavalli completa gli studi a Milano (Accademia di Brera, 1954) ed espone nel 1967 alla nota Galleria il Milione di Milano. Tutti e tre seguono le orme della tradizione artistica europea indirizzando lo sguardo verso l’origine del segno dei grandi maestri. Cavalli s’interessa al lavoro di Morandi e Braque, Hartung a Frans Hals, a Rembrandt e a Goya, mentre Strazza s’interessa a Piranesi e Rembrandt. Tutti e tre gli artisti rivolgono l’attenzione ai loro predecessori, affrancandosi da ciò che è stato fatto per dar vita a nuovi modi di intendere e fare arte. L’esposizione si sviluppa su due diverse scelte museografiche. La disposizione è cronologica, susseguendo sale dedicate al singolo artista ad altre comuni. In particolare, il quadro dai toni bianco/grigio di Strazza (dal formato stabile, con poche variabili cromatiche e con un segno continuo che deborda lo spazio) riconferma il titolo Segno continuo, 2012, è contrapposto al quadro nero di Cavalli Senza titolo, 1990, di formato verticale (dai molti segni bianchi, contrastanti e verticali che riconfermano il formato), per poi ritrovare Hartung con L 1973 -12 1973, dove il doppio si evidenzia nella campitura e nei segni (vi è una contraddizione tra formato verticale e le campiture nere orizzontali). È messo in evidenza il fare arte di ognuno di loro: dal segno singolo, al doppio, al multiplo. Bellinzona diventa luogo di confluenza di un dialogo artistico tra cultura italiana – in cui operano sia Strazza sia Cavalli – e francese, terra di adozione di Hartung e luogo di elezione di Cavalli. La mostra indaga il tema del segno e la contrapposizione tra la pittura e l’incisione. Hartung sviluppa modi avanguardistici utilizzando strumenti di
Massimo Cavalli Vibrazioni, 1978 Acquaforte su rame Museo Civico Villa dei Cedri, Bellinzona Donazione dell’artista 1996. (Museo Civico Villa dei Cedri, Bellinzona)
uso comune quali spatole, raschietti, spazzole dalle setole di ferro già nel ’60, imprimendo una nuova svolta al suo lavoro (utensili ben visibili nella mostra a lui dedicata nel 2008, La quadratura del cerchio, Saint Paul de Vence). Strumenti che hanno forti affinità con quelli utilizzati da Cavalli e Strazza. Oltre a lasciare il segno e a moltiplicarlo, tendono a sottrarre materia. Negli artisti in mostra la ricerca estetica non è fine a se stessa, ma è la risposta a un connubio tra materia e segno, tra gestualità e controllo, tra corpo e strumento (in Hartung il corpo privato di una gamba durante la seconda guerra mondiale lo costringe a lavorare da seduto sulla sedia a rotelle). L’arte è intesa quale mezzo capace di ridare al soggetto una possibilità di conoscenza del mondo, attraverso le emozioni di un’esperienza pratica e tangibile. Cavalli persegue già negli anni 60 tutti gli elementi presenti nel suo linguaggio artistico futuro. L’astrazione come vigore e incisività dell’immagine, la ripetizione del
gesto, il segno che opera per eliminazione (Senza titolo, 1960). La pittura rappresenta ancora vaghi elementi paesaggistici, mentre la grafica di allora si allontana sempre più dalla mimesi, per dirigersi verso l’astrazione, anche se alcuni titoli (Canneto, Fili d’erba, SALA 04) rimandano a immagini naturalistiche. Alla fine degli anni 50 Strazza afferma di essersi interessato alla pittura di Hartung. Strazza opera già allora sul «fare segni» (Racconto segnico o Segni in attesa). Va ricordato il suo contributo didattico per l’incisione, tra cui il libro Segno e gesto, tecnica dell’incisione, Milano Edizioni Scheiwiller, punto di riferimento di un’intera generazione. Ciò che accomuna i tre artisti in esposizione è la particolare attenzione per materiali diversi, che raggiungono incredibili risorse espressive ed emozionali nella loro azione e lettura del mondo, per restituirci il piacere di una visita a una mostra degna d’interesse sia per i contenuti sia per il luogo suggestivo in cui si trova.
Al LAC un asino e una famiglia in maschera
Teatro A lan Alpenfelt ripesca dall’archivio radio una farsa di Dürrenmatt, mentre la celebre Familie Flöz
porta a Lugano un formula scenica di grande originalità e di successo internazionale Giorgio Thoeni Fra i radiodrammi di Friedrich Dürrenmatt, Il processo per l’ombra dell’asino è forse quello più famoso e rappresentato. Negli archivi radiotelevisivi della RSI è conservata una versione radiofonica del 1961 (con Ketty Fusco, Tino Carraro, Alberto Canetta, Raniero Gonnella e altri) e un’altra realizzata nel 1983 per il piccolo schermo da Sandro Bertossa. Oggi il testo è tornato alla ribalta grazie alla passione multimediale di Alan Alpenfelt, un artista che riunisce le caratteristiche ideali per declinare una commedia nata per essere ascoltata. Ecco dunque che Il processo per l’ombra dell’asino ha debuttato venerdi scorso al Teatro Foce di Lugano nell’allestimento diretto dal giovane regista (assistito da Adele Raes) come prima tappa di un’operazione antologica sui radiodrammi dell’autore di Konolfingen curata della compagnia V XX ZWEETZ in collaborazione con il Teatro d’Emergenza, Radio Gwendalyn, la rassegna Home e in coproduzione con LuganoInScena. La commedia è costruita come
una grottesca allegoria sociale, una «struttura sperimentale» per illuminare orrori, ipocrisia e immoralità del mondo. Alpenfelt rilegge Dürrenmatt per un affresco sonoro alla Bosch con pennellate espressioniste, humus drammaturgico dove coltivare il paradosso fra voci, atmosfere e attori che ruotano attorno al manichino «olofono» per quella speciale magia dove le regole dell’emozione le dettano i suoni, i timbri di una dimensione radiofonica senza leggìo (tutt’altro che scontata)
per un ascolto interamente in cuffia di una platea avvolta dall’illusione sonora, nel fascino teatrale della penombra. La storia racconta di una Grecia antica, di un dentista che affitta un asino e della disputa che nasce con l’asinaio per aver usato l’ombra del quadrupede, una prestazione non compresa nell’affitto. La vertenza finisce in tribunale e si trasforma in un affare di stato... tra voci registrate e attori in scena. I bravissimi Adalgisa Vavassori, Ulisse Romanò, Nello Provenzano, Roberto
La locandina per lo spettacolo del Teatro d’Emergenza. (www. luganoinscena.ch)
Albin e Mssimiliano Zampetti. Musiche dal vivo di Gabriele Marangoni, sonorizzazione di Enrico Mangione, luci di Andrea Borzatta, costumi di Laura Pennisi e «dramaturg» Simone Gonella. Sala piena e bella accoglienza alla prima. Un noir senza parole
Per aprire il cartellone del nuovo anno LuganoInScena ha scelto di ospitare la compagnia tedesca Familie Flöz con Hotel Paradiso, uno spettacolo che approda per la prima volta nella sala del LAC e che non passa inosservato grazie al suo linguaggio teatrale originale. La produzione nata dieci anni fa ha ormai fatto il giro del mondo registrando ovunque un grande successo di pubblico e di critica. Nata a Essen, oggi con sede a Berlino, la Familie Flöz è uno degli esempi più acclamati di «teatro fisico», rappresentazioni cioè che non fanno uso della parola ma che sfruttano il corpo, la pantomima e la maschera per dar vita a personaggi e a storie sorrette da una linea drammaturgica. Per intenderci, come nello stile dei Mummenschanz, dove gli artisti associano
studiate tecniche di movimento a vari tipi di maschera. La particolarità del linguaggio e dello stile della Familie Flöz si lega alla maschera espressiva in una dimensione esagerata, grottesca e non convenzionale (come la si ritrova nei Fasnacht di area germanofona), per personaggi al centro di scene in cui la clownerie diventa sale per trame gustose, complesse, volutamente paradossali. Non una parola, pochissimi effetti di luce e musica quanto basta per novanta minuti di gran teatro: in Hotel Paradiso sono solo quattro attori (gli straordinari Anna Kistel, Matteo Fantoni, Nicola Witte e Daniel Matheus diretti da Michael Vogel) che creano il vortice di una giostra con sedici personaggi in un noir in salsa bavarese ambientato in un albergo di montagna a gestione familiare dove ruotano sentimenti, scene esilaranti, melanconia, poesia. Un’allegoria della vita dove amore e morte vengono sdrammatizzati da un teatro dinamico, ironico, ritmato, unico e intelligente. Un lavoro di alta classe e con una gran cura del dettaglio. In altre parole: irresistibile.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Idee e acquisti per la settimana
shopping Lo Sciroppo al Sambuco del Mendrisiotto
Novità Sugli scaffali di Migros Ticino è giunto un nuovo prodotto della Sicas SA
di Chiasso, lo «Sciròpp da Sambügh». Intervista a Renzo Nespoli, direttore alla terza generazione dell’azienda famigliare chiassese
Renzo Nespoli, direttore della Sicas SA.
Signor Nespoli, come è nata l’idea di proporre lo sciroppo al sambuco?
L’idea è nata dal desiderio di voler rivisitare in chiave moderna un prodotto antico nella tradizione ticinese, ossia il classico sciroppo di frutta da diluire. Per farlo abbiamo però utilizzato i fiori di sambuco, ampiamente riconosciuti poiché ricchi di vitamine, flavonoidi, glicosidi, zuccheri e tannini e particolarmente adatti alla preparazione di sciroppi e bevande. Da dove provengono gli ingredienti utilizzati?
I fiori di sambuco – l’ingrediente principale - vengono raccolti verso la fine del mese di aprile dagli arbusti di sambuco che crescono spontaneamente nel territorio del Mendrisiotto. I restanti ingredienti sono invece quasi tutti di provenienza ticinese o svizzera, a seconda della disponibilità.
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Come avviene il processo di produzione?
I fiori di sambuco – raccolti freschissimi assieme alle corolle – sono dapprima controllati, separati dai gambi e puliti. La lavorazione successiva prevede la messa in infusione dei fiori in un apposito estrattore, operazione che permette di ottenere la base per lo sciroppo. Quest’ultima viene addizionata e miscelata ai restanti semplici ingredienti, vale a dire acqua, sciroppo di glucosio, acido
citrico e aromi naturali. La miscela viene infine filtrata, imbottigliata, pastorizzata ed etichettata. L’imballaggio scelto per lo Sciroppo al Sambuco del Mendrisiotto è in vetro, con la caratteristica chiusura meccanica a staffa, tipica della tradizione ticinese. Questa particolarità non solo garantisce la qualità del nostro sciroppo, ma soprattutto risulta pratica ed adatta al prodotto che, per essere completamente consumato, deve essere diluito con acqua e quindi ripreso più volte per l’utilizzo. Oltre alla classica modalità d’uso, per quali ricette potrebbe essere anche utilizzato lo sciroppo?
Lo sciroppo di sambuco è pure utilizzato per la preparazione del cocktail Hugo (un aperitivo nato nell’Alto Adige ma ormai diffuso anche da noi), a base di sciroppo al sambuco, prosecco o spumante (o aperitivo analcolico bianco per chi non gradisce l’alcol), acqua frizzante, ghiaccio e foglioline di menta… oppure anche per la preparazione di diversi dessert. Vi sono altre novità in cantiere da parte della vostra azienda?
Tutti questi progetti sono nati dall’ottima collaborazione con Migros Ticino e dalla voglia di sperimentare, quindi non è da escludere che inventeremo presto qualcos’altro…
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Idee e acquisti per la settimana
In forma d’inverno
Attualità Fate il pieno di vitamine grazie all’ampia scelta attualmente disponibile alla vostra Migros
di agrumi maturati al sole
L’inverno costituisce la piena stagione per gli agrumi provenienti dal sud Europa. Arance bionde, arance sanguigne, mandarini, clementine, pompelmi, limoni… giungono nei supermercati Migros al giusto grado di maturazione, pronti per essere consumati sia semplicemente come frutta, sia sotto forma di gustosissime e salutari spremute, oppure per la preparazione di fresche insalate, macedonie o per farcire pesce o pollame. Oltre ad essere vere e proprie bombe di vitamina C – utile per contrastare raffreddori, influenze e migliorare le difese naturali del corpo – gli agrumi contengono pure altre importanti sostanze quali fibre, vitamine del gruppo A e B, nonché sali minerali quali calcio, potassio e magnesio, sostanze in grado di rinforzare il sistema immunitario in generale. Inoltre gli agrumi hanno un apporto calorico ridotto, possono quindi essere consumati in grandi quantità, senza temere l’ago della bilancia.
Buono a sapersi
Gli agrumi sono originari del sudest asiatico e sono oggi tra i frutti più coltivati al mondo; l’arancia è quello più commercializzato dopo la banana. I maggiori produttori di arance sono gli Stati Uniti, il Brasile, l’Italia e la Spagna. L’arancia ha un periodo di maturazione di sette-otto mesi: più rimane sull’albero, più ne guadagna in dolcezza. Una volta raccolti, gli agrumi smettono di maturare, di conseguenza sono detti frutti non climaterici. Storicamente, dalla seconda metà del ‘700 i soldati della marina britannica ricevevano razioni di succo di arance e altri agrumi per prevenire lo scorbuto, malattia dovuta alla carenza di vitamina C. Recenti studi hanno mostrato che tra le molte proprietà di questa vitamina figura anche la facoltà di mantenere occhi e vista sani. Un limone o due clementine, un pompelmo o un’arancia media coprono il fabbisogno giornaliero di vitamina C. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Idee e acquisti per la settimana
Léger
Tutto un po’ più leggero Dopo gli abbondanti banchetti dei giorni di festa si ritorna con piacere a pasti più leggeri. Dalla colazione fino all’aperitivo e alla cena, Léger fornisce una valida alternativa ai prodotti convenzionali, anche di quelli ad alto contenuto calorico come il mascarpone o le chips. Un totale di oltre 80 prodotti che, nel confronto, contengono almeno il 30 per cento in meno di calorie, carboidrati o grassi. Tra questi pane, prodotti da forno, latticini, carne, salumi, prodotti salati e dolci.
Azione 20X Punti Cumulus Cumulus su tutti i prodotti Léger fino al 23 gennaio
Con il pane proteico a colazione la giornata inizia bene.
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Léger Latte magro UHT 1 l Fr. 1.45
Léger Coffee Milk 250 ml Fr. 1.30
Léger Burro mezzo grasso 200 g Fr. 2.95
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Idee e acquisti per la settimana
Alimentazione
Serbatoi di vitamine Anche se non forniscono energia, sono comunque fondamentali per i processi vitali: vitamine e sali minerali. E poiché il nostro corpo non può produrli da solo, dobbiamo assumerli attraverso il cibo. Ecco quali sono i nostri più preziosi fornitori Testo Nicole Ochsenbein; Foto Yves Roth; Styling Mirjam Kaeser
Vitamina A e provitamina A Importante per gli occhi e per conservare la vista. Questa vitamina liposolubile recita un ruolo di primo piano anche nel sistema immunitario. Da sapere
Buoni fornitori: carote, albicocche e fegato. Vitamina E Importante per la protezione delle cellule. È un antiossidante e protegge le nostre cellule. Buoni fornitori: olio di girasole, germi di grano, noci e semi.
Il fabbisogno di vitamine dovrebbe essere soddisfatto in primo luogo tramite una dieta equlibrita e secondo il principio della piramide alimentare. Gli integratori non sostituiscono una sana alimentazione.
Vitamina B12 Importante per il metabolismo energetico nonché per il sistema nervoso e per quello immunitario. Buoni fornitori: fegato, carne, pesce e uova.
Vitamina D Importante per mantenere in buono stato le ossa, la funzione muscolare e il sistema immunitario. È l’unica vitamina che il corpo è in grado di produrre almeno in parte da sé tramite la luce del sole.
Integratori vitaminici: utili o inutili?
Ferro Importante per la formazione del sangue e il trasporto di ossigeno nel sangue. Buoni fornitori: carni rosse, cereali integrali, germogli, semi e noci.
Magnesio Importante per le funzioni di muscoli e nervi e per la formazione e la crescita delle ossa. Buoni fornitori: semi di Chia, semi di lino, cereali integrali, noci e semi.
Buoni fornitori: salmone, funghi e uova.
Il caso speciale della vitamina D È l’unica vitamina che il corpo riesce a produrre da solo tramite la luce solare. D’inverno, quando l’irradiazine solare è scarsa, cresce il rischio di mancanza. Siccome i bambini piccoli si possono esporre al sole in modo limitato anche d’estate, l’Ufficio federale della salute consiglia di dargli preparati a base di vitamina D fino al terzo anno d’età.
Vitamina C Importante per il sistema immunitario e per la protezione delle cellule. Buoni fornitori: peperoni, broccoli, kiwi e arance.
Calcio Questa sostanza minerale è indispensabile alla formazione e alla crescita delle ossa e dei denti. Acido folico Questa vitamina del gruppo B è importante per il sistema immunitario e per il processo di crescita nel corpo. In particolare, dovrebbero assumerne una quantità sufficiente le donne che desiderano figli e le donne incinta.
In determinati momenti della vita non è però possibile coprire il fabbisogno tramite l’alimentazione. È il caso, ad esempio, della gravidanza o delle diete vegane. Allora ha senso assumere le sostenze necessarie, come l’acido folico e la vitamina B12, tramite un integratore alimentare.
Buoni fornitori: formaggi a pasta dura come il Parmigiano, yogurt, latte, mandorle e fagioli bianchi.
Suggerimenti
Il Mediterraneo in tavola La dieta migliore consiste in un’alimentazione equilibrata. Vi presentiamo piatti mediterranei e vi facciamo vedere quanto è facile mangiare in modo sano. Scoprire di più sul sito: migros-impuls.ch
Buoni fornitori: spinaci, broccoli, lenticchie, germi di grano, noci e semi.
iMpuls è la nuova iniziativa della Migros in favore della salute.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 gennaio 2017 • N. 03
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Idee e acquisti per la settimana
Alimentazione
Serbatoi di vitamine Anche se non forniscono energia, sono comunque fondamentali per i processi vitali: vitamine e sali minerali. E poiché il nostro corpo non può produrli da solo, dobbiamo assumerli attraverso il cibo. Ecco quali sono i nostri più preziosi fornitori Testo Nicole Ochsenbein; Foto Yves Roth; Styling Mirjam Kaeser
Vitamina A e provitamina A Importante per gli occhi e per conservare la vista. Questa vitamina liposolubile recita un ruolo di primo piano anche nel sistema immunitario. Da sapere
Buoni fornitori: carote, albicocche e fegato. Vitamina E Importante per la protezione delle cellule. È un antiossidante e protegge le nostre cellule. Buoni fornitori: olio di girasole, germi di grano, noci e semi.
Il fabbisogno di vitamine dovrebbe essere soddisfatto in primo luogo tramite una dieta equlibrita e secondo il principio della piramide alimentare. Gli integratori non sostituiscono una sana alimentazione.
Vitamina B12 Importante per il metabolismo energetico nonché per il sistema nervoso e per quello immunitario. Buoni fornitori: fegato, carne, pesce e uova.
Vitamina D Importante per mantenere in buono stato le ossa, la funzione muscolare e il sistema immunitario. È l’unica vitamina che il corpo è in grado di produrre almeno in parte da sé tramite la luce del sole.
Integratori vitaminici: utili o inutili?
Ferro Importante per la formazione del sangue e il trasporto di ossigeno nel sangue. Buoni fornitori: carni rosse, cereali integrali, germogli, semi e noci.
Magnesio Importante per le funzioni di muscoli e nervi e per la formazione e la crescita delle ossa. Buoni fornitori: semi di Chia, semi di lino, cereali integrali, noci e semi.
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Il caso speciale della vitamina D È l’unica vitamina che il corpo riesce a produrre da solo tramite la luce solare. D’inverno, quando l’irradiazine solare è scarsa, cresce il rischio di mancanza. Siccome i bambini piccoli si possono esporre al sole in modo limitato anche d’estate, l’Ufficio federale della salute consiglia di dargli preparati a base di vitamina D fino al terzo anno d’età.
Vitamina C Importante per il sistema immunitario e per la protezione delle cellule. Buoni fornitori: peperoni, broccoli, kiwi e arance.
Calcio Questa sostanza minerale è indispensabile alla formazione e alla crescita delle ossa e dei denti. Acido folico Questa vitamina del gruppo B è importante per il sistema immunitario e per il processo di crescita nel corpo. In particolare, dovrebbero assumerne una quantità sufficiente le donne che desiderano figli e le donne incinta.
In determinati momenti della vita non è però possibile coprire il fabbisogno tramite l’alimentazione. È il caso, ad esempio, della gravidanza o delle diete vegane. Allora ha senso assumere le sostenze necessarie, come l’acido folico e la vitamina B12, tramite un integratore alimentare.
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