Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Liberato da rocce e boschi, in alta Valmaggia torna a nuova vita il Vigneto della Pioda
Ambiente e Benessere Attraverso il libro Fallimento terapeutico, Paola Zuppiger ci consegna la cronaca minuziosa di una storia lunga 1235 giorni di sofferenza
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXX 6 marzo 2017
Azione 10 Politica e Economia Che ragioni si nascondono dietro la spaccatura della sinistra italiana?
Cultura e Spettacoli A Londra la Tate Britain celebra in modo «destabilizzante» gli 80 anni di David Hockney
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Stefano Spinelli
Una funambolica Accademia
Quell’ingenua idea di progresso di Peter Schiesser Concesso: se ci guardiamo attorno, possiamo trovare mille conferme che non stiamo vivendo tempi di speranza e di progresso. Un malcontento popolare diffuso in tutto l’Occidente ne è l’espressione. Allo stesso tempo, possiamo riconoscere mille motivi per credere che di progresso ne è stato compiuto e se ne compie tuttora. L’Era della confusione in cui siamo immersi rende acuti e più visibili questi parallelismi. Ma non è forse sempre stato così, nella storia dell’umanità? Chi ha creduto al progresso lineare della società umana nell’era della modernità, come le generazioni del secondo dopoguerra (ma non ci aveva già creduto la generazione di metà Ottocento?), non ha forse ceduto ad un’illusione, cieca di fronte a quanto contraddiceva i suoi ideali e la sua ideologia? Prendiamo la generazione degli anni Sessanta, cresciuta in tempi ribelli (anche ideologizzati), creativi, ricchi di scoperte, immersi in un vento di speranza, segnati dalla conquista di una libertà e individualità personale, anche in contrasto con la famiglia, dall’affermazione della prima musica giovanile globale, il rock, che sintetizzava con
parole, suoni, emozioni e riti la rottura generazionale nell’Occidente. A parte le derive terroristiche (non a caso avvenute in modo particolarmente virulento in paesi come l’Italia e la Germania, le cui società non avevano ancora fatto i conti con il passato fascista e nazista), i Sessanta sono stati anni con forti spinte verso il pacifismo, le libertà individuali, la parità tra uomo e donna, contro il razzismo. L’economia, poi, girava bene, generando un senso di rilassamento nella società. Cresciuti in un momento di progresso, si tende a vedere la realtà attraverso la sua lente: lo si cerca, lo si trova, lo si auspica ovunque. Ma, a cinquant’anni di distanza, diciamocelo: non sarebbe stato altrettanto facile, negli anni Sessanta e Settanta, trovare motivo di disperare nel progresso umano? Mai come allora l’umanità era minacciata di estinzione, avvolta com’era nella cappa nucleare della Guerra fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica; rivolgimenti geopolitici erano all’ordine del giorno (in Vietnam, in Medio Oriente con la Guerra dei sei giorni, nel continente africano...); dittature sanguinarie erano una forma di governo corrente; le risorse del Terzo mondo venivano depredate senza scrupoli, al prezzo di povertà, guerre e assassinii. Ma credevamo che tutto questo un giorno sareb-
be cambiato. Sì, avevamo fiducia nel genere umano, a volte anche a costo di non riconoscere che dietro ai proclami di uguaglianza dei popoli si celavano terribili dittature, come in Cina e nell’orbita sovietica (ricordo tazebao al Liceo di Lugano inneggianti al leader dei khmer rossi cambogiani Pol Pot): forse un’ingenua fiducia. A differenza di oggi, ieri la spensieratezza era qui, le crisi e le tragedie altrove. Oggi invece viviamo in contemporanea crisi e opportunità: ci ritroviamo in casa guerre lontane (il reclutatore dell’Isis perfettamente integrato nel Luganese è l’ultimo esempio di globalizzazione del terrore), ma con i novelli aggeggi elettronici ci troviamo in mano un potentissimo specchio delle nostre brame; possediamo un know how tecnologico che l’umanità non ha mai conosciuto prima ma mettiamo a rischio la nostra esistenza sul pianeta; ci muoviamo attraverso lo spazio con estrema facilità, ma così fanno anche altri, con il fardello delle loro tragedie. La lezione che possiamo trarne, anche noi generazioni del dopoguerra, è duplice: era illusoria la nostra spensieratezza (quanti dei problemi odierni hanno radici in quei decenni?), ma possiamo continuare a perseguire il «progresso», consapevoli che bisogna metterci di nuovo più impegno per ottenerlo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Attualità Migros
M Living the room 60°: le donne, il sogno, l’intrapresa Eventi Riparte un nuovo ciclo di appuntamenti sul divano rosso della Scuola Club di Migros Ticino
in occasione dei sessant’anni Tra le attività in programma per i festeggiamenti del suo sessantesimo compleanno, la Scuola Club di Migros Ticino rilancia Living the Room, il ciclo di incontri gratuiti con alcuni protagonisti del nostro tempo, che la scuola dedica al suo territorio. Sul divano rosso della sede di Lugano si alterneranno nei prossimi mesi due donne coraggiose, che incarnano la capacità di tenere vivo il sogno e di intraprendere.
Programma Living the room 60°. Le donne, il sogno, l’intrapresa
• Giovedì 6 aprile 2017 Selene Biffi Imprenditrice sociale e formatrice • Giovedì 18 maggio 2017 Gemma Martino, Medico e senologa Gli incontri avranno luogo presso la sede della Scuola Club di Migros Ticino di Lugano, via Pretorio 15, dalle ore 18.30 alle 20.00. Per le iscrizioni alla serata e le informazioni sugli appuntamenti: 091 821 71 50 – scuolaclub.lugano@migrosticino.ch
Ospite della prima serata – giovedi 6 aprile 2017 – sarà Selene Biffi, imprenditrice sociale, consulente, formatrice e speaker per numerose organizzazioni internazionali tra le quali ONU, Banca Mondiale, OSCE, Consiglio d’Europa e Microsoft. Nata a Monza nel 1982, Selene ha fondato numerose organizzazioni no-profit. A soli 23 anni e con soli 160 franchi crea Youth Action for Change con l’obiettivo di offrire corsi online gratuiti per giovani in 130 paesi del mondo. Nel 2010 è la volta di Plain Ink, un’organizzazione senza scopo di lucro che desidera raggiungere famiglie in situazioni di marginalità in India e in Afghanistan ed aiutarle a trovare soluzioni locali per migliorare la loro vita e la loro salute attraverso fumetti e libri per bambini. Nel 2010 Selene si trasferisce in Afghanistan, dove, nonostante la drammatica situazione di guerra, fonda The Quessa Accademy, la prima scuola per cantastorie le cui vicende sono raccolte nel libro autobiografico La maestra di Kabul. Benché giovanissima, Selene è vincitrice di oltre 50 premi internazionali tra i quali l’Intercultural Innovation Award delle Nazioni Unite, il Rolex Award for Enterprise (Young Laureate) e il Mother Teresa Award for Social Justice in India. La seconda serata prevista per giovedi 18 maggio è dedicata a Gemma Martino e alla sua quarantennale esperienza di medico e di senologa. Gemma Martino è direttore scientifico di Metis,
Gli incontri sono a entrata gratuita.
Centro Studi in Oncologia, Formazione e Terapia. Il suo percorso professionale è contemporaneamente un percorso umano, in un legame indissolubile di conoscenza e coscienza. L’approccio, al suo apparire, è rivoluzionario: a fronte di percorsi clinici che rischiano la spersonalizzazione e la supremazia della razionalità tecnica, Gemma e il suo gruppo ripartono dalla persona, dal suo corpo ferito, dal suo sentire, e fanno della relazione la parte che cura.
Metis diventa uno spazio di approfondimento dei problemi clinici, della diagnosi, della condotta terapeutica secondo la medicina convenzionale e complementare, ma anche punto di riferimento per percorsi di co-ricerca, apprendimento, solidarietà. I risultati pubblicati in riviste scientifiche e libri divulgativi confermano il valore unico in Europa di questa esperienza che ha saputo contaminare gli spazi istituzionali.
Le serate di Living the Room costituiscono un’opportunità preziosa di apprendimento oltre l’aula, grazie all’incontro e allo scambio con due donne che hanno contribuito ad aprire nuove strade e a rinnovare pratiche, metodologie, rappresentazioni sociali. Un bel modo per festeggiare una scuola che da 60 anni accompagna singoli, gruppi e organizzazioni ad attraversare il cambiamento e a rinnovare gli immaginari del possibile.
Invenzioni con le mele e le alghe
Un invito al mini-teatro
innovativi per il settore della cosmesi. Il laboratorio è oggi uno dei luoghi di ricerca più importanti del pianeta
Concorso
Mibelle Biochemistry Questa industria Migros sviluppa da 25 anni principi attivi
Tutto è iniziato con una mela, un frutto della qualità tardiva, coltivata ad Uttwil, in Turgovia. La tardiva si distingue dalle altre varietà di mela per la sua capacità di non diventare rugosa con il passare del tempo, anche dopo mesi dal raccolto. Proprio questa sua caratteristica ha attirato l’attenzione dei ricercatori. Per studiarla, Migros ha creato 25 anni fa un’unità di ricerca indipendente, la Mibelle Biochemistry, che oggi fa parte del Mibelle Group, un’industria della Comunità Migros. Fin dall’inizio comunque era stato chiaro che Migros non poteva essere l’unico acquirente dei prodotti nati dalla ricerca in questo settore biochimico. Fred Zülli, fondatore dell’unità di ricerca ci spiega che oggi i preparati elaborati qui sono esportati in 50 nazioni del globo. Il lavoro sulle mele di Uttwil, aveva mostrato come tali frutti possiedano speciali caratteristiche che possono essere isolate nelle loro cellule staminali. Si tratta di cellule non ancora specializzate, che contengono il patrimonio completo delle informazioni sui tessuti di un organismo. La possibilità di isolarle nei frutti di mela ha creato i presupposti per un’idea di successo.
Nel 2008 è stato presentato per la prima volta un protocollo per l’applicazione della scoperta all’industria cosmetica. Quello delle staminali vegetali è diventato un settore fondamentale: ogni produttore importante a livello mondiale vi sta lavorando. Mibelle Biochemistry è senza dubbio una delle centrali di ricerca più innovative al mondo. I suoi ricercatori continuano a trarre ispirazione dalla
Azione
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
natura e dalle proprietà delle piante, ad esempio nell’ambito della protezione dai raggi solari. Esiste un’alga particolare che si diffonde sui terreni innevati: di colore normalmente verde, se viene colpita dai raggi del sole diventa rossa e cade in una specie di letargia. L’alga è conosciuta da una cinquantina d’anni, ma sono Fred Zülli e il suo team che ne stanno verificando le proprietà cosmetiche. Dei campioni di
Fred Zülli: guida la Mibelle Biochemistry fin dall’inizio. (P. Dutto)
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
alga sono stati messi a cultura. In seguito si sono studiati gli effetti della loro esposizione a diversi tipi di luce. L’obiettivo è trovare il modo di integrare queste proprietà in prodotti per la protezione solare. Se riuscisse nell’intento, Mibelle si troverebbe a poter giocare di nuovo un ruolo importante a livello mondiale. La capacità di mantenere la pelle bianca nonostante l’esposizione al sole è un effetto molto ricercato, in particolare in Asia. Chi vuole emergere sul mercato deve profilarsi in modo adeguato e in questo settore Mibelle ha certamente una sua fisionomia. Non è da trascurare poi l’effetto positivo che si può ricavare dal sapere che il prodotto è stato ricavato da alghe così singolari: la storia di un prodotto è molto importante. Dall’alto della sua esperienza di 25 anni la Mibelle di Buchs (nel canton Argovia) ha quindi la possibilità di continuare a mantenere un ruolo guida a livello internazionale. La qualità dei suoi risultati è ancora più degna di nota considerando la sua collocazione nazionale: in Svizzera l’industria Migros riesce a esercitare un ruolo di rilievo, collaborando con le scuole universitarie e creando propri laboratori in settori chiave della ricerca. Tiratura 101’614 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Ai Minispettacoli di Minusio una versione della fiaba di Esopo Migros Ticino offre ai lettori di «Azione» biglietti gratuiti per le manifestazioni organizzate tramite il Percento culturale. Il concorso è riservato a chi non ha beneficiato di vincite nel corso degli scorsi mesi. Per partecipare basta inviare martedì 7 marzo una e-mail all’indirizzo giochi@azione.ch con il proprio nome, cognome, indirizzo, nonché orario dello spettacolo prescelto. I vincitori saranno estratti a sorte tra tutti partecipanti e riceveranno una conferma via e-mail. Buona fortuna!
Biglietti in palio Minispettacoli Rassegna per l’infanzia Do 12 marzo 2017, ore 15.00-17.00. Oratorio S. Giovanni, Minusio Topo di campagna, topo di città Compagnia Scintille, Katya Troise, Locarno. Tratto dalla favola di Esopo. Adattamento di Katya Troise.
Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Società e Territorio Un’accademia funambolica In visita alla Scuola Dimitri, che offre corsi di Bachelor e Master in Teatro di movimento e Arti dello spettacolo
Come finanziare un videogioco Gli sviluppatori che non possono permettersi gli ingenti costi dei test ricorrono all’early access, coinvolgendo i fruitori nello sviluppo del gioco
Una voce per i ciechi Successo crescente per gli audiolibri patrocinati dall’Unitas, realizzati grazie a una cinquantina di volontari pagina 8
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I corsi vengono organizzati nel Luganese, Locarnese, Bellinzonese e Mendrisiotto. (Ti-Press)
Come imparo a studiare?
Educazione Da 4 anni Pro Juventute organizza in Ticino corsi specifici per aiutare allievi di scuola media
a trovare un metodo per affrontare lo studio scolastico Stefania Hubmann Predisporre lo spazio, organizzare il tempo a disposizione, evitare distrazioni. Sono i capisaldi di uno studio che diventa non solo efficace ma pure interessante. Quanti allievi di scuola media – ragazze e ragazzi fra gli 11 e i 16 anni – sono in grado di mettere in pratica un approccio sistematico allo studio? Ad alcuni viene naturale, altri imparano seguendo i consigli dei docenti, altri purtroppo faticano a trovare una tecnica che corrisponda alla loro personalità. I metodi possono avere sfumature diverse ed ognuno deve scoprire quello che gli è più congeniale. Lavorando in modo mirato a questo obiettivo si creano basi solide per il futuro, a breve e lungo termine. Da quattro anni l’Ufficio Svizzera italiana di Pro Juventute offre questa possibilità attraverso un corso che conosce un successo crescente ed è ora presente nei quattro distretti cittadini. L’auspicio è poterlo presto estendere anche alle valli. Partito quattro anni fa nel Locarnese con sei allievi nell’ambito di un
progetto pilota sostenuto da un club di servizio, il corso «Impariamo a studiare – Alla scoperta dei metodi di studio» conta oggi una novantina di iscritti, mentre altri interessati sono in lista d’attesa. Proprio in queste settimane è in fase di svolgimento la sessione primaverile. Le sezioni sono due; una per gli allievi di prima e seconda media, un’altra per quelli di terza e quarta. I corsi sono otto, due per regione. Al Locarnese l’anno scorso si sono aggiunti Luganese e Mendrisiotto e da questa edizione le lezioni si svolgono anche nel Bellinzonese. In autunno il corso verrà riproposto secondo le stesse modalità. L’iniziativa si pone come offerta complementare alla scuola, dove le tecniche di studio sono trasmesse in maniera più implicita. Ogni insegnante fornisce sicuramente molte indicazioni in questo senso ai propri allievi, ma non tutti sono poi in grado di svilupparle ed adattarle alle proprie capacità di apprendimento. Ilario Lodi, direttore di Pro Juventute Svizzera Italiana, ribadisce l’importanza di approfondire i metodi di studio a fronte di insuccessi
scolastici dovuti in buona parte alle difficoltà riscontrate in questo ambito. Precisa Ilario Lodi: «Molti allievi non manifestano carenze a livello cognitivo, quanto piuttosto difficoltà a organizzarsi, a stabilire delle priorità e a lavorare in modo sistematico. Il corso propone un approccio semplice e pratico che parte dal sedersi al tavolo e dalla preparazione del materiale (riga, colori). Piccoli gesti che rivestono però la loro importanza. Le fonti di distrazione – cellulare in primis – vanno eliminate per rimanere concentrati sullo studio. Proponiamo esercizi concreti dapprima su materiale fornito da noi e in seguito sui contenuti scolastici dei singoli partecipanti». Partecipanti che imparano sia a preparare in modo mirato le verifiche sia, più in generale, a strutturare il lavoro di ripasso attraverso schemi e riassunti. Tali operazioni, oltre ad essere indispensabili per le successive tappe formative, si rivelano un sostegno anche per altri aspetti della vita. Si lavora infatti sull’attenzione, la concentrazione, la comprensione, l’assimilazione,
la memorizzazione e l’apprendimento. Durante quindici ore distribuite in sette o dieci momenti di attività si impara a lavorare sul proprio materiale utilizzando i colori e la sottolineatura, identificando le parole chiave, realizzando schemi e allenando la presa di appunti e le tecniche di memorizzazione. Quale il coinvolgimento dei genitori in questi corsi? A quell’età, quando si gettano le basi della propria personalità ma anche dello sviluppo scolastico, non si vuole certo affidarsi a mamma e papà per i compiti e lo studio. Un genitore è però tenuto a partecipare alla prima parte del primo incontro, per capire l’impostazione del corso. Ilario Lodi: «Al genitore possiamo comunque offrire qualche consiglio, a cominciare dal tempo che va lasciato alla figlia o al figlio per dedicarsi allo studio. Evitare eccessive pressioni e in molti casi anche troppe attività extrascolastiche è un punto di partenza a favore di una migliore gestione del tempo e quindi dello studio. Per quanto riguarda i metodi, notiamo che spesso i genitori non sanno quali suggerimenti offrire».
Il corso proposto da Pro Juventute persegue quattro finalità. Il direttore cita nell’ordine: «migliorare la resa scolastica, trovare piacere nello studio, aiutare i genitori, sostenere la scuola. A quest’ultima sono affidati molti compiti e il nostro intento a questo livello è quello di essere un attore complementare». «Attraverso la semplicità desideriamo riportare le emozioni all’interno dello studio laddove ancora non ci fossero», conclude Ilario Lodi. Come si legge nella presentazione online, i partecipanti hanno anche la possibilità di comprendere che «uno studio adeguato e curato porta ad essere maggiormente consapevoli delle proprie capacità e delle proprie facoltà». La proposta di Pro Juventute permette quindi di andare oltre l’acquisizione di competenze, sfruttando queste ultime su altri piani. Un’esperienza educativa a tutto tondo che trasforma le difficoltà in opportunità. Informazioni
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PUNTI
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Società e Territorio
Accademia Dimitri, gioiello di creatività Formazione Bachelor e Master in Teatro di Movimento
e Arti dello Spettacolo: allievi da tutto il mondo nella piccola Verscio Sara Rossi Un attore di commedia dell’arte arrivato dal Burkina Faso che sta scoprendo la clowneria, un clown russo che aggiunge la danza al suo curriculum, una ex ballerina svizzera formatasi vent’anni fa in Inghilterra che ora ha un progetto teatrale con un pizzico di acrobazia, un colombiano simpaticissimo che mi racconta tutto ciò, giornalista e giocoliere fin da piccolo che l’anno scorso è stato in India a insegnare arti circensi in una scuola per bambini indiani... ecco parte di una classe di Master della Scuola Dimitri che è appena stata in Ungheria a far spettacolo e presto andrà in tournée in Repubblica Ceca.
L’Accademia Teatro Dimitri di Verscio è l’unica scuola in Svizzera ad offrire la formazione in Physical Theatre Prima di tutto chiariamo che non è solo una scuola per aspiranti clown, anche se a fondarla è stato un clown, Dimitri, la cui impronta è e sempre sarà visibile. Oltre ai corsi amatoriali di teatro e acrobazia durante certi periodi dell’anno, l’Accademia Teatro Dimitri
è una delle quattro Scuole universitarie professionali in Svizzera dove studiare teatro. I 35 iscritti al bachelor sono formati in tutte le materie di base, come teatro di movimento, danza, voce, ritmo, acrobazia, improvvisazione teatrale, pantomima, clownerie, maschere, trucco, teoria del teatro. I 15 allievi di master lavorano invece su un proprio progetto creativo in collaborazione con tutte e quattro le sedi svizzere. Novità: dal prossimo autunno ci sarà un nuovo master, più teorico e in collaborazione con il Conservatorio, per chi vorrà stare dall’altra parte del palcoscenico, dietro le quinte. L’Accademia Teatro Dimitri di Verscio ha poi una sua specialità: offre una formazione per attori che basano il proprio lavoro sul movimento: si chiama Physical Theatre, teatro di movimento, ed è una delle rare scuole d’Europa, l’unica in Svizzera, che offre questo particolare approccio all’arte scenica. Ha inoltre anche un Dipartimento di ricerca su questa disciplina. Il Physical Theatre, mi riassume Corinna Vitale, decana della scuola, è quando in uno spettacolo l’aspetto più importante è lo strumento del corpo «suonato» nella sua completezza. «Sono arrivata qui molti anni fa come danzatrice», racconta Corinna, «e sono rimasta a lungo come artista,
poi come insegnante, oggi come responsabile dei corsi di master. Vuoi sapere come mai non sono più andata via? Forse il motivo principale è che qui si riuniscono tre vantaggi che di solito non si trovano in un luogo unico: la qualità artistica, la multidisciplinarietà e il lato umano. E così eccomi ancora qui». Che siano una famiglia entusiasta, un gruppo aperto, pieno di lingue e competenze artistiche, me lo conferma anche Santiago, un allievo di master che mi fa da Cicerone per tutto il mio pomeriggio di visita. «Quando andiamo nelle altre scuole di teatro “quelli di Verscio” li riconoscono subito», mi dice lui ridendo. «Anche se non ce n’è uno che sia nato qui!». La competizione non manca, ma nemmeno gli scambi: visto che – perlomeno per il master – ognuno arriva con già una sua specializzazione, un suo progetto, una sua strada che ha percorso e un’altra che ha in mente di percorrere, tutti hanno qualcosa da imparare anche dagli altri. Il gruppo di Santiago vive sotto lo stesso tetto e dalla mattina alla sera recita, costruisce, inventa, fa salti, danza, gioca con le parole, con le maschere, con le palline di stoffa o i palloni da calcio. Le lezioni non sono a tempo pieno: molto tempo è dedicato al progetto personale che ognuno ha portato al momento della selezione. «Non siamo gente che guarda tanto la tele», mi spiega Santia-
L’Accademia non è solo una scuola per aspiranti clown, anche se è stato il clown Dimitri a fondarla. (Stefano Spinelli)
Santiago Bello: «Quando andiamo nelle altre scuole di teatro ci riconoscono subito». (Stefano Spinelli)
go. «Qui siamo sempre in creazione... viviamo in questa natura bellissima e ci inventiamo tutto il resto». Santiago ci fa fare un giro del paese: ci sono tre edifici dove è insediata l’Accademia Teatro Dimitri. Ci mettiamo davanti alla Casa del Clown, nell’erba. Le montagne intorno, il campanile che spunta dietro al muretto, alcune statue di buffi personaggi che suonano il flauto e la fisarmonica. «La Svizzera è un posto straordinario, che è conosciuto per essere molto serio e per aver ospitato i più grandi comici del mondo», ci racconta questo ex giornalista e videomaker colombiano. «Pensate: Charlie Chaplin ha vissuto ed è morto qua, adesso abbiamo Daniele Finzi Pasca, Gardi Hutter, James Thiérrée, i Mummenschanz, Dimitri... ma dove la si trova un’altra terra così? Oltretutto qui siamo in una valle di clown: a Cavigliano c’è Pierre Byland, a Camedo vive la famiglia Dimitri!» Si gira. «E là a due passi abbiamo il Monte Verità!». Gli chiedo se nei posti del mondo che ha visitato si ride e ci si meraviglia per le stesse cose. No, mi risponde lui. Ci sono spettacoli che funzionano bene con un certo pubblico e non hanno successo con un altro. «I bambini di qui se indovinano il trucco di magia te lo dicono subito. Nel Tamil Nadu, dove sono stato con due compagne di corso a insegnare, non vogliono mai rovinare la magia e dopo ti chiedono di insegnargli come si fa. Il clown in Colombia è furbo, qui è più ingenuo,
a volte poetico, in India incarna l’esagerazione. In Sud America si lavora sul ridicolo, sull’assurdo, in Europa si curano di più i dettagli. Anche il modo di vedere il pagliaccio è diverso. Qua è una professione, al mio Paese non è rispettata per niente, cioè è apprezzata per strada, ma nessuno pensa che dietro a quei cinque minuti di spettacolo stia un grandissimo lavoro. I due mesi passati nella scuola di teatro indiana e in giro per i villaggi a fare spettacolo ci hanno mostrato come l’arte scenica lì sia un’offerta agli dei. Si recita tutta la notte, dalla sera alla mattina. Anche perché il bus che ti riporta a casa è solo alla mattina, quindi tanto vale... Ma anche proprio per una questione spirituale, e non importa che sia teatro per piccoli o per adulti». In ogni caso, concludiamo che ovunque ci si trovi, bisogna avere un dono per fare ridere e anche in generale per stare su un palco. «Secondo me qui all’Accademia Dimitri tutti i miei compagni sono dei supereroi, di quelli che si nascondono ogni tanto nella società. Ciascuno di loro sa fare qualcosa di straordinario, possiede un’abilità che lo rende unico». Mentre parla fa roetare prima uno, poi due, tre quattro palloni di calcio sopra la sua testa. «Quello che mi affascina di più del circo e del teatro è che rende possibile ciò che sembra impossibile. E poi mi affascina il rischio che corri a startene lì, in carne e ossa, con i tuoi superpoteri umani, davanti ad un pubblico.
La società connessa di Natascha Fioretti Da Konrad Lorenz all’era delle «dog company» Ho amato sin da subito l’oca Martina che seguiva Konrad Lorenz convinta fosse la sua mamma, così come la taccola Cioc salvata al triste destino del negozio di animali e il cane Wolf I. E non so cosa avrei dato per stare lì ad Altenberg in mezzo alla trentina di oche che ogni pomeriggio si radunavano sulla terrazza con il nonno per l’ora del tè. Scene impagabili per chi come me ama gli animali, animali in libertà, come diceva l’etologo austriaco, che potrebbero fuggire e invece rimangono perché sono affezionati. Ho sempre pensato, e poi ho imparato, quanto gli animali hanno da insegnarci nella vita di tutti i giorni. Sanno essere gentili, rispettosi, dignitosi, sinceri, affettuosi e fedeli molto più di quanto non lo siamo
noi. Ma soprattutto, ci diceva Lorenz a metà del Novecento, sanno essere «così meravigliosamente pigri: all’animale è assolutamente estranea la folle smania di lavoro dell’uomo moderno, cui manca perfino il tempo di farsi una vera cultura. Anche le api e le formiche, queste personificazioni della solerzia, trascorrono la maggior parte della giornata immerse in un dolce far niente, solo che quelle ipocrite non si fanno vedere quando se ne stanno tranquillamente a casa, ma solo quando sono al lavoro». Chi conosce gli animali, chi fa del suo rapporto con loro una scelta di vita basata sul rispetto e la responsabilità, sa che hanno il magico potere di ricordarci chi siamo, da dove veniamo e ci aiutano a mettere a fuoco le priorità e le urgenze secondo una scala del benessere in sintonia con i cicli e
i tempi della natura. Penso in particolare ai cani, che insieme ai gatti, più di qualsiasi altro animale, condividono le sorti dell’uomo moderno e, ai tempi dei social, contribuiscono ad ampliare il nostro giro di conoscenze. Provate a camminare per la stessa strada della vostra città, prima con il cane e poi senza, vedrete la differenza. Se hai un cane tutti si fermano eccitati ad accarezzarlo, ti chiedono come si chiama, ti raccontano che anche loro ne hanno avuto uno, oppure lo vorrebbero ma non hanno lo spazio... è come se ti conoscessero da sempre. Gli amici a quattro zampe possono fare la differenza e anche il mondo digitale e connesso se ne è reso conto. Forse vi stupirà sapere che la città più dog friendly del mondo, la start up city per eccellenza in fatto di cani e servizi, è Tel Aviv con 25mila amici
pelosi ufficialmente registrati e il più alto rapporto di cani per abitanti (un animale ogni 17 persone). In fatto di applicazioni, invece, c’è l’imbarazzo della scelta: Petfriendlyhotels aiuta a trovare le strutture che accettano animali domestici, My Pet On App è un libretto sanitario digitale che vi permette di ricordare tutte le date importanti per la salute del cane, My Dog Walk è l’app perfetta per cani a dieta e Dogalize permette di videochiamare dei veterinari a qualsiasi ora. Chissà se il Premio Nobel per la medicina apprezzerebbe, lui ci insegnava a comprendere gli animali attraverso un’osservazione attenta del loro linguaggio, dei loro comportamenti ed espressioni ma, soprattutto, ci diceva che «la chiave della comprensione dell’uomo passa attraverso la conoscenza degli animali». Per questo
mi ha fatto piacere scoprire che nella nostra epoca, in cui spazio e tempo si concentrano sempre più, ci sono startup, spazi coworking e aziende che permettono di portare il cane in ufficio. Google, per citarne una, si definisce una «dog company» perché il cane rappresenta la tenacia, la fedeltà ed ha una naturale propensione al gioco. Idem per Amazon: «ci sono probabilmente tre dozzine di persone che conosco soltanto grazie al mio cane» rivela Drew Herdener, senior public relations manager. E sono solo alcuni degli esempi che ci mostrano quanto le culture aziendali stiano cambiando ed evolvendo per creare luoghi di lavoro più umani, inclusivi e sereni. Ma, lavoro e tecnologia a parte, vi dico che ci sono poche cose belle nella vita come le passeggiate mattutine nel bosco insieme al mio cane.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Società e Territorio
Come finanziare un videogioco: il modello dell’early access
Industria del gioco Per gli sviluppatori che non possono permettersi le ingenti spese derivanti dai test, l’unica strada
per portare sul mercato le proprie produzioni è di coinvolgere gli utenti nello sviluppo del videogioco
Davide Canavesi Creare un videogioco dal nulla è un’attività estremamente lunga e complessa. Ci vogliono molti talenti specializzati in ambiti notevolmente diversi tra loro: programmazione, design, composizione musicale, illustrazione, narrativa, modellazione 3D, doppiaggio e molti altri. L’epoca in cui, per creare un gioco di successo, bastavano una o due persone, oramai appartiene ad un passato remoto. Con l’avvento di computer e console da gioco sempre più potenti e complesse, i team di sviluppo dei blockbuster videoludici contano centinaia di persone che lavorano in team specializzati sparsi per tutto il mondo. Serie come Assassin’s Creed o Call of Duty sono colossali sforzi umani e finanziari, supportati da publisher dotati di imponenti risorse sia finanziarie che pubblicitarie. Ma cosa succede quando un team non ha il supporto di grandi aziende con milioni di franchi da investire in un progetto? Una delle strategie possibili, sempre più adottate sia da team indipendenti che da studios già affermati, è l’early access, l’accesso anticipato. Conosciuto con diversi nomi (early funding, paid-alpha e altri ancora), questo modello di finanziamento nasce nel 2013 ad opera di Valve, software house famosa soprattutto per la
creazione della piattaforma di distribuzione digitale Steam. Steam non è solo un negozio online ma è anche una comunità di giocatori e un’importantissima vetrina per i giochi indipendenti. Grazie alla visibilità permessa da Steam, gli sviluppatori possono proporre i loro giochi in versioni ancora incomplete. In questo modo i giocatori possono ottenere un gioco spendendo generalmente meno di quanto avrebbero fatto per un prodotto definitivo, giocare in anticipo e influenzare le decisioni del team di sviluppo. I creatori del gioco invece ottengono fondi senza doversi legare a decisioni imposte da investitori esterni e ottengono importantissimi feedback dalla comunità che si forma attorno al loro titolo. Si tratta di un modello molto interessante, dal momento che segna un punto di rottura con quello che è lo sviluppo tradizionale di un videogame. Normalmente un gioco viene pubblicato solo in versione definitiva, dopo lunghi, rigorosi e costosissimi test interni, solitamente appaltati ad aziende specializzate. La fase di test è indispensabile ma è una spesa insostenibile per un team indipendente. L’early access sembra dunque essere un’ottima soluzione. Ed in effetti ci sono parecchi giochi di successo nati grazie a questo sistema: Don’t Starve, Subnautica, Ark: Survival Evolved, Ker-
Conan Exiles, un esempio di gioco early access.
bal Space Program e molti altri. L’ultimo della lista è Conan Exiles, un gioco a mondo aperto online ambientato nell’universo di Conan il Barbaro. In Conan Exiles impersoniamo un esule abbandonato in un deserto abitato da animali pericolosi e tribù sanguinarie. Lo scopo è semplicemente la sopravvivenza costruendo avamposti, creando utensili sempre più raffinati e cercan-
do alleanze con gli altri giocatori. Conan Exiles è un esempio interessante di gioco early access: con una spesa tutto sommato contenuta si ottiene un promettente gioco di sopravvivenza, divertente da giocare con gli amici. Il lato negativo è che ci sono problemi ricorrenti, errori, continui aggiornamenti (anche giornalieri!) da scaricare e altri difetti che sarebbero semplice-
mente inaccettabili in un gioco definitivo. Il mondo di Conan Exiles è quindi in continuo mutamento: nuovi oggetti, attività e possibilità vengono aggiunte mentre altre vengono eliminate. Un vero e proprio cantiere aperto virtuale. Nonostante difetti e fastidi però i giocatori rispondono positivamente a prodotti come questo. Conan Exiles è stato venduto in oltre 320’000 copie in una sola settimana. Di sicuro un ottimo traguardo per Funcom, lo studio di sviluppo. Comprare un gioco non finito «sulla fiducia» ha però i suoi rischi. Ci sono titoli in early access che impiegano anni per essere completati, oppure non lo sono mai del tutto. Titoli molto famosi come Rust, Ark: Surival Evolved o The Forest sono in sviluppo da anni, senza che se ne veda la fine. Senza la pressione di un investitore esterno, alcuni team semplicemente se la prendono fin troppo comoda per completare le loro opere. Il risultato è che spesso i giocatori fedeli, quelli che hanno supportato il titolo sin dall’inizio, perdono interesse e passano ad altro. Nonostante gli svantaggi di questo modello di finanziamento, l’early access sembra destinato a restare una valida alternativa per sviluppare videogiochi. Decisamente, ai giocatori piace far parte del processo di creazione del loro passatempo preferito. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Società e Territorio Sono gli utenti della Biblioteca di Unitas a decidere quali libri far leggere. (Marka)
Tra rocce e piode rispunta il vigneto Paesaggio Poco sopra il paese di Maggia,
adagiato su una roccia, il Vigneto della Pioda è tornato a splendere e produrre uva dal sapore particolare Elia Stampanoni
Una voce per i ciechi
Audiolibri Sotto l’egida di Unitas, una cinquantina di volontari
soddisfano la passione per la lettura di oltre 250 ciechi o ipovedenti dando voce a romanzi, saggi, biografie e altre pubblicazioni
Guido Grilli Benvenuti nell’universo dell’audiolibro, ovvero del libro parlato. Una cinquantina di lettori volontari capaci di dare voce alle pagine, animandone le trame, soddisfano la passione per la lettura di oltre 250 ciechi e ipovedenti, soci o utenti della biblioteca Braille e del libro parlato della Unitas; un piacere di cui altrimenti sarebbero privati. La produzione di audiolibri, silenziosa, quotidiana, in atto al centro di produzione di Unitas, presso Casa Andreina a Lugano, ha raggiunto ad oggi il considerevole traguardo di 5800 titoli che possono essere richiesti in prestito su diversi supporti o – dal 2015 – scaricabili direttamente dal catalogo online (solo da chi è iscritto alla biblioteca). Molti i lettori di lunga data e fedeli a questo singolare quanto prezioso impegno. Come Marisa Schilleci, pensionata di Breganzona, lettrice volontaria dal 2011, che incontriamo in una delle tre cabine di registrazione insonorizzate, mentre davanti a un microfono tiene aperto il libro a un terzo del suo volume di 377 pagine: «Già da vent’anni sono una volontaria di Unitas e quando ho saputo che qui davano corsi per lettori, siccome amo leggere, mi sono voluta mettere a disposizione. Vengo in sala registrazione il mattino. Questo è il mio quindicesimo volume». Con quali gratificazioni? «La scelta dei libri proviene principalmente dagli utenti e capita talora che qualcuno qui a Casa Andreina mi fermi dicendomi di aver apprezzato la lettura del “mio” libro e questo fa piacere. Chiedo sempre loro di dirmi quanto non va, per migliorarmi ulteriormente». A coordinare il lavoro dei lettori volontari è Franca Taddei Gheiler, a Unitas da dieci anni, capo-struttura del servizio Biblioteca, alla quale chiediamo di parlarci di questa diffusa e affascinante tipologia di libro. Iniziamo da un ritratto dei lettori volontari. «Attualmente abbiamo una cinquantina di lettori. La maggior parte di loro viene a registrare al Centro di produzione ma ci sono anche lettori che leggono/registrano a casa propria, scaricano un programma di registrazione e così possono dedicarsi a questa attività quando e come vogliono. Chi viene qui invece deve rispettare i turni perché abbiamo tre cabine semi-professionali che vengono occupate dalla mattina alla sera, è dunque giocoforza stabilire giorni e orari. Ci sono più donne che uomini, spesso è il passaparola a portare a conoscenza delle persone questa attività di volontariato. Le motivazioni variano moltissimo ma alla base c’è sempre il desiderio di fare qual-
cosa per gli altri e l’amore per la lettura, naturalmente. Tra i lettori contiamo anche alcuni ex professionisti che lavoravano per la radio e la televisione e che hanno il piacere di prestare la loro voce a chi non può più leggere. Anche l’età dei lettori varia, dai 30 agli 80 anni. Naturalmente i giovani hanno meno tempo da dedicare al volontariato ma per fortuna ci sono delle eccezioni. Leggere un libro ad alta voce non è un compito facile, soprattutto riuscire a coinvolgere chi ascolta. Il trucco? Credere in ciò che si legge, immedesimarsi, senza recitare troppo». Offrite una formazione specifica ai nuovi volontari? «Oggigiorno quasi non prendiamo nuovi volontari perché, come detto, il fabbisogno è ampiamente coperto dai nostri lettori. Per molti anni la formatrice è stata Ketty Fusco, nota attrice e scrittrice, e dopo di lei Carlo Nobile, ex docente di scuola anche lui attivo per molti anni in radio e televisione. Entrambi hanno svolto e svolgono il lavoro di formatori a titolo volontario. Non pretendiamo che vengano applicate le regole della dizione ma chiediamo una pronuncia chiara, una lettura scorrevole e partecipativa senza particolari cadenze regionali, se possibile, e se ci sono, tentiamo di correggerle». Quanto tempo richiede la lettura di un libro? «Beh, dipende dal numero di pagine e dal tipo di carattere con cui il libro è stampato; dipende dalle ore settimanali che il lettore dedica alla lettura. Bisogna pensare che i lettori non solo registrano ma si correggono, quindi un file di un’ora di lettura può corrispondere a tre ore di lavoro. Va aggiunto che esiste una convenzione fra la Biblioteca della Unitas e alcune biblioteche italiane per ciechi che svolgono lo stesso servizio, per cui qualora il titolo di un libro figuri già nel loro catalogo e venga richiesto da un utente, ecco che lo si reperisce da loro, in questo caso i tempi sono molto più rapidi». Ma come avviene la scelta dei titoli che decidete di trasformare in audiolibri? «Sono in primo luogo gli utenti della biblioteca a decidere cosa vogliono leggere (usiamo comunemente questo termine invece di “ascoltare”). Ci forniscono il libro e noi lo facciamo registrare. I tempi che intercorrono tra la scelta del libro e la sua trasformazione in versione audio non sono rapidissimi ma i nostri utenti sono pazienti e soprattutto molto grati a chi dedica il proprio tempo alla lettura. Talora nell’arco di un mese-un mese e mezzo, il libro è pronto e disponibile in catalogo. Altre volte invece trascorrono anche molti mesi prima che l’utente ottenga il libro
richiesto. In ogni caso, il cieco che volesse ascoltare il libro immediatamente può farlo: se sa usare il computer lo può passare allo scanner e ascoltarlo con la sintesi vocale (o voce artificiale). È una questione di gusti: la maggior parte degli utenti preferisce sentire la voce di un lettore in carne ed ossa, ma c’è chi opta per la voce neutra del computer perché priva di ogni interpretazione». Quali sono i generi maggiormente richiesti? «Soprattutto narrativa italiana e straniera ma abbiamo anche richieste di saggi, biografie, pubblicazioni che riguardano specifici ambiti di lavoro, dalla dialettologia alla fisioterapia. La vera peculiarità della nostra biblioteca sono le moltissime opere di autori svizzeri e ticinesi che non si trovano in altre biblioteche italiane e ciò anche grazie agli incontri con scrittrici e scrittori ticinesi che la nostra socia Raffaella Agazzi organizza ogni anno in primavera». Da quanto tempo esiste la Biblioteca? «È sorta due anni dopo la creazione di Unitas, nel 1948, grazie alla lungimiranza e alla tenacia del suo fondatore, Tarcisio Bisi che, cieco lui stesso, aveva da subito avvertito la necessità di diffondere la cultura tra i non vedenti. Naturalmente all’inizio c’erano solo i libri in Braille, in seguito sono arrivati i libri a caratteri ingranditi, quindi le cassette e infine i Cd e le schede memoria. Con l’avvento del digitale tutta la produzione si è decisamente velocizzata». Qual è il numero di utenti che usufruisce del servizio Biblioteca? «Sono circa 250 – dichiara la responsabile – ovvero un terzo dei soci di Unitas. Difficile dire se siano o meno in aumento, certo è che i giovani ciechi e ipovedenti nella loro quotidianità si servono sempre più del computer dotato di sintesi vocale o di un programma di ingrandimento nel caso degli ipovedenti. Va inoltre detto che ascoltare un libro è impegnativo, occorre essere concentrati, alla stessa stregua della lettura cartacea. La mia impressione è che chi ha ancora un residuo di vista faccia il possibile per leggere da solo, grazie a lenti speciali o al cosiddetto “macrolettore”. Quando la vista non glielo permette più allora ricorre ai nostri audiolibri. Va evidenziato che solo le persone cieche e ipovedenti, o con comprovata difficoltà nella lettura (ad esempio i dislessici), hanno accesso ai libri in catalogo. Le opere protette da copyright non possono essere diffuse in formato audio se non in seno ad associazioni che operano per persone disabili, come legifera l’articolo 24c della legge federale sul diritto d’autore. Non vi è dunque la possibilità per i “normodotati” di accedere al prestito dei nostri audiolibri».
Dal suo poggio poco sopra il paese di Maggia domina la valle, ma percorrendo il fondovalle quasi non lo si nota. E poi, chi penserebbe che lassù, tra rocce e piode, si potesse coltivare l’uva? Eppure il Vigneto della Pioda esiste ed è lì da molti anni, si presume sin dall’inizio del XX secolo, anche se poi cadde nell’oblio. Si tratta di oltre duemila metri quadri di superficie vignata, arricchita da quasi trecento sostegni in sasso (i «carasc»), da pergole in legno, da muri a secco e da una recinzione in pali di castagno, a sicurezza dell’appezzamento e di chi lì ci lavora. Le varietà coltivate, per un totale di quasi 600 «gambe», sono il Souvigner gris, una varietà tra il rosa e il viola particolarmente resistente e frutto di un incrocio tra Bronner e Cabernet Sauvignon, così come qualche esemplare di Isabella, la classica delle uve americane. Piante che sono state reinserite durante i lavori di ripristino tra il 2012 e il 2013, grazie al recupero effettuato sotto il coordinamento dell’APAV, Associazione per la protezione del patrimonio artistico e architettonico di Valmaggia. Gli interventi hanno richiesto un investimento di 180mila franchi, costi coperti dai contributi del Fondo svizzero per il Paesaggio, della Sezione forestale, della piattaforma paesaggio Cantone Ticino e dei proprietari del fondo, ossia Robin Garzoli e Comune di Maggia. Oltre al taglio degli alberi cresciuti a dismisura e l’estirpazione delle ceppaie, sono stati rifatti i muri di terrazzamento e posati vari «carasc» a sostegno delle viti, così come la paleria in castagno per le imponenti pergole oppure per la recinzione. Anche il pergolato lungo il sentiero d’accesso di fronte alla cappella è tornato in vita, con le piante di vigna a formare un passaggio suggestivo. Il progetto ha permesso di ripristinare un vigneto tradizionale, completamente abbandonato e posto in una posizione veramente particolare, ma nel contempo pure di valorizzare diversi monumenti storici presenti nelle immediate vicinanze. Si tratta delle scalinate di accesso da Maggia, costruite con imponenti lastroni di sasso, della cappella della Pioda e del suggestivo ponte che permette di superare le gole
della Valle del Salto, in prossimità del vigneto. La visita può rientrare in una bella gita a questa valle, un circuito che porta gli escursionisti dai 340 metri di Maggia su in alto, ai quasi mille metri dei primi maggenghi e monti che s’incontrano salendo. Il Vigneto della Pioda svetta invece a 476 metri di altitudine ed è attualmente gestito da Robin Garzoli: «Si trova in una zona di difficile accesso, ma beneficia di un clima favorevole, ben ventilato, tanto che non dobbiamo effettuare alcun tipo di trattamento», racconta il viticoltore valmaggese. Alle difficoltà d’accesso (bisogna calcolare almeno una decina di minuti di cammino sul ripido sentiero che parte dal paese di Maggia) si contrappongono quindi le opportunità per produrre un vino esente da trattamenti fitosanitari, che Robin Garzoli vorrebbe in futuro vinificare separatamente creando una nuova etichetta: «Sì, il 2016 è stato il primo anno di vendemmia e abbiamo potuto raccogliere circa un quintale d’uva; per il futuro prevediamo una produzione di circa 5-6 quintali che ci permetterà d’ottenere circa 500 bottiglie». Il suo lavoro, oltre a garantire la produzione di un’uva e di un vino dal sapore particolare, viste le condizioni e la storia dell’appezzamento, permette anche di mantenere vivo questo luogo e di ridare visibilità alla cappella, un monumento d’importanza cantonale con affreschi del XV secolo nella nicchia (attribuiti alla Bottega dei Seregnesi). Il vigneto, in dialetto locale «Al ronch dala Pioda», costituisce una straordinaria testimonianza della civiltà contadina, capace di trovare anche in un luogo apparentemente così discosto il terreno adatto alla coltivazione della vite e quindi al proprio sostentamento. Il progetto ha permesso pure la valorizzazione paesaggistica e culturale della zona, validamente sostenuta da un’azienda agricola della Valmaggia che, oltre a contribuire a creare il progetto, si occupa ora della gestione del vigneto e del mantenimento delle strutture tradizionali. Negli interventi di recupero è stato importante il coinvolgimento della popolazione di Maggia e delle vicine frazioni, scesa in campo con diverse ore di volontariato a sostegno dell’impegno preso da Robin Garzoli.
Il Vigneto della Pioda, duemila metri quadrati di superficie vitata. (Elia Stampanoni)
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni 8 marzo, il senso di una festa È una curiosa coincidenza il fatto che il giorno dedicato alla festa delle donne cada in marzo: «marzo» da «Marte», il dio della guerra e l’emblema dell’aggressività maschile. La scelta, per la verità, non è stata fatta apposta: nasce da un episodio che – come ha dimostrato la storica canadese Renée Clote – è stato inventato di sana pianta. La tradizione vuole che l’8 marzo del 1908 il proprietario di un’azienda abbia dato fuoco alla sua fabbrica di tessili di New York, occupata da 156 lavoratrici in sciopero che furono bruciate vive. Ma la ricerca della Clote non ha trovato traccia dell’episodio in nessun giornale dell’epoca, senza considerare che, quell’anno, l’8 marzo cadeva di domenica, giorno poco sensato per uno sciopero. Più tardi, in Russia, la diceria del massacro newyorkese fu ripresa dai bolscevichi, che a partire dal 1922 cominciarono a celebrare l’8 marzo. E di lì nacque e
si diffuse anche fuori dei confini sovietici la «festa delle donne». È giusto – e doveroso – che dopo millenni di misoginia e di prevaricazione maschile si renda omaggio alle donne. La letteratura occidentale di tutti i tempi straripa di maldicenze sulle donne, considerate «il peggiore dei mali», non solo nei versi di Euripide, ma anche in un libro sacro come il Siracide della Bibbia. Soprattutto negli ultimi due secoli le donne hanno potuto dare prova di quanto non siano affatto inferiori agli uomini per capacità intellettuali: scrittrici eccellenti, scienziate, artiste, autorità politiche hanno mostrato in abbondanza quanto sia infondato il pregiudizio millenario, radicato in una cultura quasi monopolisticamente maschile, che relegava la donna a un rango inferiore per capacità intellettuali e morali. Platone e Aristotele dimostravano con argomenti diversi –
filosofici e scientifici – questa inferiorità femminile; nel cristianesimo la storia di Eva faceva sì che alla donna venisse attribuita la colpa di tutte le sofferenze toccate al genere umano dopo la cacciata dal Paradiso terrestre; e, del resto, il dominio dell’uomo sulla donna era stato sancito dalla maledizione divina nella Genesi: «verso tuo marito ti spingerà il tuo desiderio, ed egli dominerà su di te». Bisogna arrivare a tempi moderni per assistere a una progressiva emancipazione e rivalutazione della donna. Ma ancora nel 1900 lo scienziato Paul Julius Möbius pubblicava il suo studio Sull’inferiorità mentale della donna: dove, valutando la differenza di peso dei cervelli maschili e femminili, dovuti a una diversa capacità della scatola cranica, ne traeva l’evidente «prova scientifica» dell’inferiorità mentale della donna: una sciocchezza che oggi, alla luce di quanto ci dicono le neuroscienze, può solo suscitare il riso.
Nella cultura occidentale, questa iniqua disparità dei sessi può dunque dirsi in gran parte rifiutata, anche se restano margini di ineguaglianza da colmare. Ma sostanzialmente la battaglia può dirsi vinta. E qui mi torna in mente la domanda che una donna di straordinario talento, che si è battuta per il riconoscimento della pari dignità e di pari diritti tra uomo e donna, si poneva a metà del secolo scorso: «Che cosa perdiamo, se vinciamo?». Si tratta di Simone De Beauvoir, che nel 1949 pubblicava Le Deuxième Sexe, subito salutato come una pietra miliare delle rivendicazioni femministe; ma la De Beauvoir era troppo intelligente per non esaminare compiutamente la questione. Certo, si batteva per uguali diritti e doveri – civili, politici e giuridici – per entrambi i sessi; ma temeva anche che il conseguimento dell’uguaglianza giuridica facesse cadere ogni diffe-
renza, oltre alla diseguaglianza. E, da vera donna qual era, intravedeva con inquietudine l’effetto di livellamento, di indifferenziazione, che il processo di emancipazione avrebbe potuto trascinare con sé; un effetto che oggi appare assai più chiaramente. Più recentemente, il tema è stato ripreso da un’altra eccellente studiosa, Luce Irigaray, che nelle sue opere è tornata più volte sulla differenza sessuale e sulle naturali diversità di tendenze, di stile e di attitudini che ne conseguono. Nei suoi libri afferma decisamente che non è vero che uomini e donne sono uguali e rileva che «la neutralizzazione dei generi comporta un rischio di morte individuale e collettivo». Non si tratta, dunque, di tornare ai bisticci tra Marte e Venere, ma di iniziare un nuovo percorso: dove ciascun sesso possa ritrovare una sua via, nel pieno rispetto della pari dignità dell’altro e della sua diversità.
Vedano Olona che ha fatto fortuna nelle ferrovie tra Boemia e Germania, fa infatti appena in tempo ad annuire al progetto di Georg Friedrich Bihl (1847-1935) e Alfred Woltz (1861-1935). Il sogno della sua nuova fabbrica di birra nata nel 1877 qui nel comune di Induno Olona, alle porte di Varese, vede la luce qualche anno dopo la sua morte. Giallo maionese-grigio tortora: salta agli occhi l’inusuale abbinamento di questi due colori. Un’alternanza ininterrotta con cui si gioca tutta la decorazione astratta ma che si legge pure sui mascheroni: la faccia è grigia, occhi e bocca, gialli; come pure i due cerchiolini all’altezza delle orecchie che danno l’illusione di quegli orripilanti orecchini pseudotribali allargalobi. Il contrasto cromatico inconsueto lo si nota molto nei classici fregi che scendono verticali. Come sulla facciata della sala cottura. Dove al pianterreno, a tener compagnia ai sette gradini per parte delle scale d’accesso, più il pianerottolo, ci sono ghirlande di luppolo
in ferro battuto. Dipinte di un giallo più acceso, tipo canarino. La pensilina su in alto all’ingresso è anche in ferro battuto e mostra le iniziali ginniche di Angelo Poretti più la C di Company. Dietro acceca quasi la luce partorita dall’acciaio inox dei silos. La sala cottura è abbastanza uno spettacolo: quattro enormi tini panciuti in rame, piastrelle bianche e verdi, due quadri bucolici a tema, lampadari in ferro battuto dove si ritrova il monogramma del fondatore. Un delicato tepore e un buon odore dolce di malto abitano la sala dove avviene la «cotta». Appoggio il palmo della mano alla panciona tiepida di rame e scatta di colpo un motivo di appartenenza o partecipazione, per un paio di minuti, al posto. La luce entra da generose finestre a tutto sesto probabilmente alte uguali a quelle in Hasenbergstrasse 31 a Stoccarda ovest. Indirizzo dell’ex birrificio Bachner progettato sempre da Bihl & Woltz e riconvertito in uffici e appartamenti. Appeso qui nel cuore del birrificio Po-
retti a Induno Olona (393 m) dovrebbe esserci un trittico di Augusto Colombo, ma il terzo quadro intitolato La festa della birra (1931) è stato tolto. Al suo posto, per una campagna pubblicitaria, c’è una biblioteca di luppoli vari, tra i quali, il Cascade, Saphir, Saaz, Aurora. Mascheroni leonini, come quelli avvistabili dalla strada appena prima della galleria, contraddistinguono la sala fermentazione. Fiumi di birra passano nei tubi sopra la testa. Lassù la scritta Carlsberg troneggia sulla cosidetta Torre dell’Acqua. L’Olona si sente passare sotto e s’intravede da un tombino. La galleria dove sbucava il tram ha un cancello. Su per i gradini del giardino stile rocaille, saliamo verso villa Magnani (1905), opera di Ulisse Stacchini, lo stesso architetto della stazione centrale di Milano. Una villa liberty vista birrificio jugendstil. Dove ora al pianterreno, una decina di Poretti diverse, dietro il bancone di marmo, dalle due guide, possono essere spillate.
a Melano e a Chiasso, si protesta nei confronti di un traffico insolito e, in fondo, inaccettabile. È una reazione popolare che la dice lunga e, a prima vista, può sembrare incongruente. Ma come, nella patria delle libertà, ci si rivolge alle autorità per limitarne la sfera, e nell’ambito in cui sono in gioco valori fondamentali quali la vita e la morte? Invece, proprio qui, si registra uno scollamento fra libertà ipotetiche, promosse dal rinnovamento culturale ed etico, e tradizioni e consuetudini, ancora radicate. Alla morte si continua ad assegnare spazi e modi d’espressione particolari, e chissà se sostituibili: il cimitero, con il culto delle tombe fiorite, il funerale, momento di riunione amichevole, e, persino nell’era di un crescente laicismo, la presenza del sacerdote. Con ciò, rilevando la continuità di abitudini e forme di pensiero tradizionali, non s’intende certo sottovalutare la portata di un rinnovamento giuridico, scientifico e morale: la
possibilità di allargare la sfera delle scelte individuali sino a quella estrema, insomma, sono sempre io a decidere, sino alle soglie dell’ultima destinazione. Ma, destinazione non è la parola giusta. In pratica, optando per una fine su misura, personalizzata, si rifiuta implicitamente di sottostare ai colpi del destino, di dominare l’imprevedibilità, di cavarsela come meglio si crede. Un diritto dell’uomo contemporaneo o una pretesa in fondo irragionevole? Interrogativi e perplessità si giustificano. Anche questa opportunità si presta a malintesi e abusi. Rischia di diventare una tendenza, imposta da nuove correnti di pensiero e addirittura di subire una banalizzazione. Oggi può capitare di imbattersi in persone che esibiscono quasi come un vanto, una sorta di superiorità ideologica, l’adesione a organizzazioni ad hoc, apparentemente no profit. Attenzione, non si tratta dell’iscrizione al club sportivo bensì di una scelta che nell’ambito familiare può creare dolorose lacerazioni.
A due passi di Oliver Scharpf Il birrificio Poretti a Induno Olona Un birrificio jugendstil ancora in funzione, da queste parti poi, è piuttosto incredibile. Eppure da ben più di un secolo i suoi grotteschi mascheroni a bocca aperta, a passarci via sulla strada, proprio all’imbocco della Valganna, ti lasciano di stucco. La posizione del birrificio desiderato da Angelo Poretti (1828-1901) e disegnato da Bihl & Woltz, duo di architetti di Stoccarda, non è per niente casuale. A quanto pare in quel luogo c’era una famosa fonte di acqua miracolosa chiamata la Fontana degli Ammalati, venivano persino da Milano apposta. Inoltre, non lontano, per tutto l’inverno, c’era il ghiaccio dei laghetti di Ganna e Ghirla. L’appuntamento per la visita guidata è alle dieci e un quarto nei posteggi davanti al negozio del birrificio che è un igloo di plastica con dentro casse di birra. L’appello, la pettorina arancio fluo con scritto il nome della multinazionale danese proprietaria del marchio Poretti, il tono di voce da libro stampato delle due guide, il latte alle ginocchia
me lo fanno venire. Il parco botanico secolare risolleva un po’ lo spirito. E prima di entrare negli stabilimenti, un sabato mattina ai primi di marzo, ecco là la facciata niente male di Villa Magnani. Angelo Magnani è il nipote ed erede di Angelo Poretti la cui eccentrica tomba al cimitero di Bregazzana qua sopra, oltre il bosco – così a occhio una ventina di minuti a piedi neanche – ho visitato per via dell’elefante di bronzo a grandezza naturale, orientato, tra l’altro, in direzione di questo luogo. Elisabetta, la guida incaricata di parlare della produzione di birra, mena il torrone sull’imbottigliamento. I macchinari oggi sono fermi, solo un operaio pulisce per terra. Dice che «in settimana c’è un rumore assordante e tutti gli operai nelle orecchie hanno i tappi». «I tappi delle bottiglie?» butta lì uno del gruppo. Ridono tutti a parte sua moglie. Finalmente fuori, vedo da vicino, su in cima lungo il cornicione, uno dei mascheroni che Angelo Poretti ha visto solo su carta. Il manovale di
Mode e modi di Luciana Caglio Come voglio io: fino all’ultimo traguardo S’incrociano, nelle cronache, notizie di segno opposto, specchio delle nostre contraddizioni. È successo, con un’evidenza addirittura emblematica, negli scorsi giorni, quando i media ci hanno raccontato la storia di Fabo, il dj Fabiano Antoniani, vittima dapprima di un incidente stradale che l’aveva reso cieco e tetraplegico, e poi vittima delle lacune giuridiche italiane. Per liberarsi da un’infermità e da una sofferenza per lui insopportabili, aveva chiesto di poter morire. Scelta impossibile in Italia. E, quindi, anche Fabo si è rivolto alla Svizzera, dove, com’è risaputo, il fin di vita per così dire agevolato, rappresenta un’opzione praticabile: in forme diverse, sia evitando un accanimento terapeutico, ormai inefficace, sia ricorrendo a interventi attivi e mirati a sopprimere un’esistenza ritenuta insensata e persino non dignitosa, un compito, quest’ultimo, affidato a veri e propri specialisti. Si è aperto così un ambito in continuo sviluppo, all’insegna di un obiettivo
che reca definizioni diverse, sfumate o invece crude: si parla, infatti, di «dolce morte» o di «suicidio assistito». Sta di fatto che l’attività, svolta da associazioni ad hoc, ha procurato alla Svizzera reputazione e credibilità ormai internazionali. Tanto da creare un settore turistico ben particolare, non certo da pubblicizzare, anche se assicura una
Un dilemma personale, ma anche per chi resta. (Keystone)
clientela che, appunto, fa parlare di sé. Fra i candidati alla morte organizzata oltre frontiera, provenienti dalla vicina Penisola, figurano, non di rado e anche per motivi finanziari, personaggi di rilievo: scrittori, politici, pensatori, gente, insomma, che può permetterselo. Ciò che doveva provocare, figurarsi, il prevedibile commento sull’abilità elvetica di sfruttare ogni occasione per far quattrini. Ora, per tornare all’aspetto contradditorio di questa notizia, proprio in Ticino siamo stati testimoni di una reazione rivelatrice: ecco che, mentre in Italia si ribadisce la necessità di adeguarsi, seguendo l’esempio di una Svizzera moderna e liberale, qui da noi le sedi destinate alla «dolce morte» sono guardate con sospetto. Anzi, per dirla tutta, la gente non ne vuol sapere: respinge la prospettiva che, a due passi dalla propria casa, si allestisca un centro che attirerà persone in procinto di suicidarsi, sia pure nel pieno rispetto della legge. Insomma, come è avvenuto
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Ambiente e Benessere L’infernale vulcano Ijen È il più grande cratere dell’Indonesia e del sud-est asiatico: bello ma pericoloso
La nuova frontiera del viaggiatore Si chiama Smart working e prevede un lavoro fatto di continui spostamenti, ma senza un ufficio e senza colleghi pare si perda facilmente il senso del tutto
DNA: passato e futuro «Il grande libro della vita da Mendel alla genomica» in mostra a Roma sino al 18 giugno
La soluzione alla malaria? In Africa, la ricercatrice Luna Kamau cerca il modo per sterilizzare le zanzare maschio pagina 18
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Quando le cure falliscono
Paola Zuppiger, autrice del libro Fallimento terapeutico (Capelli editore). (Stefano Spinelli)
Editoria In un libro la cronaca di una storia di profondo amore e di 675 difficili giorni di ospedale Maria Grazia Buletti
«Questa orribile situazione in cui mio marito ed io ci siamo trovati mi ha fatto crescere: oggi ho più coraggio di dire ciò che penso; sono diventata un’altra persona, anche grazie al confronto quotidiano con questi curanti». Attraverso Fallimento terapeutico (Capelli editore), un libro di 816 pagine, Paola Zuppiger ci consegna la cronaca minuziosa di una storia lunga 1235 giorni di sofferenza, 675 giorni d’ospedale, 500 in terapia intensiva, conclusasi con la morte, evitabile, del marito. All’inizio, un errore omeopatico: «Tutto comincia da alcuni basaliomi a crescita lenta, che non fanno metastasi; mio marito si affida a un medico FMH e omeopata, che dopo avere visto le lesioni ci comunica di poterle curare attraverso l’omeopatia: assunzione di tre granuli omeopatici mensili per tre mesi». Qualcosa non va per il verso giusto e gradualmente la pelle di Gustavo si ricopre di piaghe aperte. A questo punto il medico omeopatico dice: «Ho sbagliato e non so cosa fare». Quella reazione imprevista causa anche acqua nei polmoni: «Si va in ospedale». E tutto si trasforma presto in un interminabile incubo costellato di sofferenze e ostacoli, fallimenti terapeutici, diritti calpestati, rapporti
conflittuali con i curanti, siano essi medici, infermieri, e strutture ospedaliere. Un’incalzante odissea resa ancora più drammatica dal fatto che si tratta di quanto accaduto a suo marito, ricoverato in ospedali e cliniche sia ticinesi sia svizzero tedesche, senza un lieto fine, nell’ultimo ricovero oltralpe, la clinica di riabilitazione: «Dopo nove mesi e un giorno, ritorno a casa da sola». Ha condiviso con l’amato marito, invano, ogni attimo, ogni ora di ogni giorno di oltre due anni di odissea tra ospedali, cure a domicilio, mesi (più di cinque) in cui lei stessa si trasforma in una vera e propria curante specializzata, e clinica di riabilitazione. Dopo la morte del marito, Paola Zuppiger decide di riordinare i contenuti del suo puntualissimo diario per trasformarlo in un libro dalla scrittura incalzante e disarmante, precisa e perciò spietata nel trasmettere riga dopo riga quel senso di incertezza, di confusione, di onnipotenza di alcuni curanti, insieme alla sua impotenza nel non essere ascoltata, considerata. E ancora, dalle righe emerge la trasparenza del paziente in quanto individuo, con le proprie peculiarità che non sottostanno a protocolli standard, noncuranti che la vita, come la malattia e la cura, tutto può essere fuorché uniforme e uniformata.
Non è stato facile, all’inizio, immergerci nelle pagine di questo libro che, impietoso, ci restituisce le tappe di un doloroso quanto infinito pellegrinaggio dentro e fuori dai diversi reparti ospedalieri e riabilitativi, a ricostruire inesorabilmente un caso di «fallimento terapeutico», come la stessa autrice dice di essersi sentita dire, a un certo punto, da due medici. Ben 816 pagine che Paola Zuppiger, con lo pseudonimo di Alessia J., ha avuto il coraggio di scrivere. Una buona dose di coraggio è pure necessaria a chi vuole iniziare la lettura. All’autrice chiediamo perché un libro così lungo, se mai serviva per lenire le sue legittime ferite, qual è l’obiettivo: «Ho scritto questo libro affinché simili orrori non accadano più, perché si possa prendere coscienza del fatto che le persone, negli ospedali, devono essere rispettate soprattutto in quanto persone, e che si possa sviluppare l’umanità che manca incredibilmente tanto». Non è dunque una sorta di esercizio terapeutico che spinge Paola Zuppiger alla scrittura: «Tutte queste cose le avevo scritte, sera dopo sera, nel mio diario; poi a mio marito non serviva più, visto che era deceduto; volevo far riflettere la gente e i curanti; desidero ci si renda conto della mancanza di ascolto, del senso di onnipo-
tenza di alcuni camici bianchi, dell’agire corrente puramente tecnico con prescrizione di farmaci, terapie, esami invasivi secondo protocolli che non tengono conto dell’individuo, malgrado avessi sempre comunicato le reazioni paradosso che mio marito aveva nei confronti di alcuni farmaci specifici». Attraverso ogni riga, in divenire, ci si chiede dove siano finiti l’ascolto dei bisogni, dei desideri, delle aspettative del paziente Gustavo, e si vive l’angoscia della moglie di cui poche volte sono accolte le preziose informazioni, le domande, i timori, le angosce. Un obiettivo supportato dall’idea iniziale di scrivere sotto pseudonimo, Alessia J., e di rendere irriconoscibili nomi di medici e di ospedali e cliniche: «Poi, ho capito che Alessia aveva bisogno di un volto, di venire allo scoperto, affinché la storia, la nostra storia, fosse credibile per quella che è. Rimane la scelta di non divulgare nomi, cognomi e luoghi, a rispecchiare la coerenza di voler evidenziare il contenuto, la storia». Stando alle cifre del 2010, negli ospedali svizzeri ogni anno morirebbero tra i 500 e i 2000 pazienti a causa di errori medici, cifre che il medico e presidente della Fondazione svizzera per la sicurezza dei pazienti Dieter Conen ritiene ancora attuali. Con il racconto del proprio vissuto, Paola
Zuppiger non fa emergere solamente il profondo legame d’amore che la lega al marito e le permette di restare al suo fianco fino all’ultimo, donna, moglie, infermiera, curante. L’autrice mette sul piatto una realtà che mostra chiaramente un ampio margine di miglioramento di stile, rispetto, umanità e ascolto nell’ambito della relazione curante-paziente, dove i famigliari devono essere considerati parte attiva e preziosa fonte di collaborazione per l’obiettivo comune del prendersi cura dell’ammalato nel miglior modo possibile. «Desidero che le persone, soprattutto i curanti, prendano coscienza; senza polemiche e senza buttare la croce addosso a tutto il sistema, nel quale ho trovato qualche persona positiva, e questo si legge nel libro. Il fango? Non l’ho buttato su tutto, ma me lo sono trovato addosso io», conclude Paola le cui cicatrici, dice «sono talmente profonde che non credo si potranno mai richiudere, malgrado il tempo passi e io ho capito di dover andare avanti. Apprezzo di nuovo un tramonto, ho imparato a meditare, a fare astrazione, a pensare a quella pianta, al fiorellino giallo e al pezzettino di cielo che mi confortavano nei vari ospedali, permettendomi di trovare la forza di continuare a vivere».
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Ambiente e Benessere Il lago sulfureo nel cratere dello Ijen di colore turchese e, ben visibili, le nocive esalazioni di biossido di zolfo. (Stefano Ember)
Vulcano Ijen: inferno o paradiso?
Reportage Una meraviglia turistica oscurata dalla vita pesante e pericolosa dei minatori dello zolfo
A sinistra: i minatori che raccolgono lo zolfo all’interno del cratere lavorano a mani nude e senza alcuna protezione. Sopra: Minatori con il proprio carico di zolfo, circa 80 chili, che risalgono tra le rocce per arrivare alla vetta del vulcano. (Stefano Ember)
Teresa Frongia Nella parte orientale dell’isola di Java si erge il vulcano Ijen. È il più grande cratere dell’Indonesia e del sud-est asiatico. Il vulcano è attivo ed è caratterizzato da un’intensa produzione fumarolica; l’ultima eruzione registrata risale al maggio del 2012; mise in allerta le popolazioni dei villaggi vicini e decretò la chiusura del vulcano per motivi di sicurezza. Per arrivare allo Ijen bisogna rassegnarsi a una levataccia. La sveglia suona alle tre del mattino e si parte a bordo di una jeep o di un mini bus dai quali si scenderà dopo essere finiti nell’ombra del vulcano. Da qui si prosegue a piedi per arrivare, attraverso un sentiero immerso nella foresta, alla bocca del cratere; è un sentiero molto tortuoso e ripido con una pendenza di 20-40 gradi. Il cammino è di tre ore e mezza, il che mette a dura prova anche un fisico allenato. Durante la salita si incontrano i minatori dello zolfo che salgono o discendono dalla vetta col loro carico. Una volta arrivati alla cima del vulcano
le fatiche affrontate sono ricompensate dallo splendido paesaggio che si può ammirare, un’atmosfera quasi surreale. Ma ciò che colpisce e stupisce di più è la vista del lago sulfureo di color turchese all’interno del cratere, il lago è profondo circa 200 metri ed emette nocive esala-
zioni di biossido di zolfo. Tuttavia il sito è davvero incantevole, più unico che raro, un’atmosfera quasi paradisiaca per i visitatori. Purtroppo non possono pensarla così i minatori che lavorano all’interno del cratere in condizioni molto estreme.
Una volta risaliti dalle viscere del cratere i minatori percorrono ancora tre chilometri e mezzo per raggiungere il campo base e vendere il «raccolto». (Stefano Ember)
Ogni giorno alle due del mattino, circa 300 uomini, giovani e meno giovani, partono dalla base del vulcano e percorrono il ripido sentiero fino ad arrivare in vetta. Da qui devono camminare ancora per un altro chilometro lungo una discesa rocciosa, scoscesa e molto stretta per raggiungere le viscere del vulcano dove si trova il punto di raccolta dello zolfo. Questi uomini lavorano a mani nude a temperature molto elevate immersi in fumi tossici che respirano perché non hanno nessuna protezione per il viso e alcuni di loro non sono dotati neanche di scarpe, fragili infradito a parte. I gas sulfurei che fuoriescono dal lago in breve tempo bruciano i loro polmoni, gli occhi e la pelle danneggiando il loro stato di salute: l’aspettativa di vita di queste persone è molto bassa. Senza contare che non sono nemmeno protetti da malattie o infortuni. Si fanno fotografare volentieri in cambio di una sigaretta, richiesta un po’ grottesca visto che i loro polmoni sono già abbastanza provati dai gas sulfurei. Molti di questi minatori fanno anche delle piccole creazioni con lo zolfo fuso che vendono ai visitatori soprattutto nella discesa di ritorno dove si fermano per riposare e consumare un frugale pasto. Finita l’estrazione si caricano sul-
Un minatore crea un souvenir in zolfo da vendere ai visitatori. (Stefano Ember)
le spalle 60-80 chili di zolfo e risalgono per il sentiero roccioso per poi arrivare alla base del vulcano dopo altri tre chilometri e mezzo. Quasi tutti hanno le spalle segnate da profonde cicatrici dovute al carico pesante. Una volta arrivati al campo base venderanno il frutto del loro lavoro per un misero compenso che va, a seconda dei chili raccolti, dai 9 ai 12 franchi, uno stipendio che permette loro di sopravvivere a malapena ma di cui non possono fare a meno. È lecito chiedersi se sia possibile migliorare le condizioni di vita e di lavoro di queste persone.
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Ambiente e Benessere
Il mondo è il mio ufficio
Fiere, libri e turismo sostenibile
Viaggiatori d’Occidente Si possono conciliare lavoro e passione per i viaggi?
Bussole I nviti a
letture per viaggiare
Claudio Visentin Operatore: Che cos’è successo? Robert: Ecco… Io… Lavoro da casa. Operatore: O.K., c’è qualcun altro con lei? Robert: No, sono solo. Operatore: Quand’è stata l’ultima volta che ha parlato con qualcuno? Robert: Uh, con mia moglie questa mattina, credo. Operatore: Nessun altro? Robert: Non so… Beh, il postino, ma da dietro le tende… Va bene lo stesso? Operatore: No, temo di no. (Pausa) Ora le chiedo di aprire le tende, O.K.? Lasci entrare un po’ di luce…
Il lavoro a distanza non è solo una questione organizzativa, richiede anche la giusta condizione mentale Poi, certo, non è andata proprio così. Per cominciare la crescita del lavoro a distanza è stata lenta. Negli Stati Uniti nel 2015 il 24 per cento dei lavoratori ha svolto almeno una parte dei suoi compiti da casa, rispetto al 19 per cento del 2003 (fonte: Bureau of Labor Statistics). Non è un dato esaltante se pensiamo che almeno la metà dei lavori esistenti potrebbe essere svolta a distanza (fonte: Global Workplace Analytics). Soprattutto i millennial – nati tra il 1980 e il 2000 e cresciuti con le nuove tecnologie
Tre ragioni per visitarla
Pexels
Il resto potete immaginarlo: nonostante il sole sia alto, Robert è in pigiama, non ha ancora fatto la doccia, ha mangiato in modo compulsivo e disordinato, si è distratto guardando dei video e naturalmente non ha concluso nulla col suo lavoro. Così Colin Nissan, sulle pagine del «New Yorker», ha immaginato una chiamata al numero per le emergenze da parte di un lavoratore a distanza, caduto in confusione. Soltanto qualche anno fa, quando i progressi tecnologici resero possibile il lavoro a distanza, o telelavoro, l’avvenire appariva luminoso. Ciascuno avrebbe potuto lavorare da casa. Niente più ore perdute nel traffico per andare e tornare dall’ufficio; niente tempi morti, riunioni inutili, conflitti tra colleghi; e anche l’azienda ne avrebbe ricavato beneficio, utilizzando spazi minori e potendo contare al tempo stesso su un personale più soddisfatto e motivato.
Book Pride è la fiera dei piccoli editori indipendenti. La terza edizione si svolgerà dal 24 al 26 marzo a BASE, negli spazi dell’ex Ansaldo in via Bergognone 34 a Milano. In programma laboratori, presentazioni di libri ed eventi culturali.
– sono i naturali destinatari di queste proposte, anche se molti di loro preferirebbero forse il solido e stabile posto di lavoro dei genitori, ai loro occhi sempre più un miraggio. Nel frattempo abbiamo capito che il lavoro a distanza non è solo una questione organizzativa, richiede anche la giusta condizione mentale. Il rischio maggiore sono forme di isolamento. In passato si pensava che questo sarebbe stato bilanciato dal maggior tempo libero e dalla vicinanza ai figli e alla famiglia, ma siamo stati troppo ottimisti. Remote working non è di per sé sinonimo di Smart working: è la tesi di Tiziano Botteri e Guido Cremonesi, Smart working & smart workers. Guida per gestire e valorizzare i nuovi nomadi, Franco Angeli editore. Senza lo spazio dell’ufficio e la relazione con i colleghi, è facile perdere il filo. Non a caso lavorare da casa è richiesto sempre più spesso dai dirigenti, abili nel gestire al meglio la propria agenda. Proprio riflettendo su queste esperienze è nata una nuova proposta: se il lavoro a distanza ci imprigiona tra i muri di casa, usiamolo invece per viaggiare! Il nome è stato presto trovato: Remote Year. Finora il mondo di lingua inglese aveva legato l’esperienza
del viaggio soprattutto al Gap Year, ovvero una pausa di un anno nel proprio percorso di studi (spesso dopo la fine delle superiori e prima dell’università) o nel percorso lavorativo (per esempio quando si cambia lavoro). L’idea del Remote Year è invece diversa, perché non prevede di sospendere il proprio lavoro, ma solo di svolgerlo a distanza mentre si viaggia per il mondo. Seguendo questo filo rosso in rete troviamo numerosi consigli per organizzare da soli o con amici questa avventura. Altrimenti ci si può affidare a dei professionisti, per esempio Remote Year (www.remoteyear.com). Al prezzo di cinquemila dollari d’iscrizione più duemila dollari al mese per le spese, questa società procura alloggi, spazi di coworking e contatti per un anno in dodici diverse città del mondo. Le domande d’iscrizione per i settantacinque posti disponibili sono state migliaia e un’altra decina di organizzazioni simili ha visto la luce in poco tempo. A dire il vero l’entusiasmo iniziale dei partecipanti non ha retto sempre alla prova della realtà. Alcuni si sono visti ridurre il lavoro dopo i primi mesi in viaggio, perché la loro azienda non condivideva davvero il progetto, come
avevano creduto. Inoltre spostarsi ogni mese in una nuova città richiede continui adattamenti. Per esempio la qualità della connessione – un requisito essenziale – varia molto nei diversi continenti: in alcuni Paesi sudamericani o asiatici una videoconferenza è ancora una prospettiva troppo ambiziosa. Inoltre il fuso orario diverso può rendere difficile il coordinamento con i colleghi. L’esperienza sembra suggerire che il Remote Year non dovrebbe essere la prima esperienza di lavoro a distanza. Inoltre, cambiare città ogni mese può essere frastornante, meglio forse pensare a soggiorni più lunghi: un Paese diverso per ciascuna stagione? Naturalmente i liberi professionisti hanno avuto meno problemi, ma anch’essi hanno dovuto trovare un nuovo equilibrio per evitare che il tempo del viaggio e della scoperta limitasse troppo il tempo del lavoro, soprattutto a ridosso delle consegne previste. Resistere alle tentazioni non è sempre facile. Come ha scritto Jeremy Miller, un analista finanziario, dalla costa atlantica del Portogallo: «La mattina facevo surf, poi un po’ di lavoro nel caffè lì vicino, poi ancora surf». Avrà dato il meglio di sé ai suoi clienti?
Per cominciare i libri dei grandi editori si trovano in ogni libreria, più difficile è seguire la produzione dei piccoli editori, per esempio, Ediciclo, Exòrma o Iperborea nel campo dei viaggi. Inoltre il tema di quest’anno sarà lo straniero, prendendo ispirazione dal celebre libro di Albert Camus per mettere a fuoco una figura centrale del nostro tempo. Infinite le declinazioni: le frontiere, le migrazioni, la cittadinanza, la traduzione… Infine, grazie al patrocinio del Consolato svizzero, diversi incontri saranno dedicati ai grandi scrittori elvetici: Frisch e Dürrenmatt, Hermann Burger, Oscar Peer, Urs Widmer. Ma prima, ancora a Milano, visitate la quattordicesima edizione di Fa’ la cosa giusta!, la fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, dal 10 al 12 marzo nei padiglioni 3 e 4 di Fieramilanocity. Tra le diverse sezioni tematiche – la moda, l’arredamento ecologico, l’alimentazione vegetariana, i prodotti realizzati in carcere o l’economia circolare, basata sulla riparazione e sulla rigenerazione – come sempre avrà ampio spazio il turismo sostenibile e responsabile, di particolare significato in questo 2017 proclamato dalle Nazioni Unite Anno internazionale del turismo sostenibile. E dunque viaggi lenti e profondi nelle più diverse forme: a piedi, a cavallo e in bicicletta. In evidenzia l’Umbria, con il Cammino di San Francesco e di San Benedetto. Tra le proposte più curiose il No-Mafia Bike Tour, realizzato in collaborazione con gli operatori turistici che rifiutano di pagare il pizzo alle organizzazioni criminali.
Lo slogan-cartello con il tema del Book Pride 2017 che si terrà a Milano.
Problem solving con il pensiero laterale
Giochi matematici Come accrescere il nostro sapere attraverso gli enigmi di logica abduttiva Provate a risolvere i seguenti esempi. 1. Una pallina da ping pong è finita all’interno di un lungo tubo di metallo, piantato verticalmente nel terreno. In quale modo, è possibile recuperare la pallina, tenendo conto che le dimensioni del tubo non consentono di infilarci una mano? 2. Due bambini e un gruppo di adulti devono attraversare un fiume, avendo a disposizione solo una piccola barca in grado di trasportare al massimo o un solo adulto o due bambini. In che modo possono passare tutti sull’altra sponda? 3. La Principessa Rosa, che è stata rapita da un perfido stregone, appare in sogno al suo amato Principe Azzurro, dicendogli: «Domani all’alba, mi materializzerò nel tuo giardino, sotto forma di una rosa. Potrò tornare libera solo se
tu saprai riconoscermi, tra le altre cento rose già fiorite, senza commettere alcun errore». Come potrà il Principe Azzurro superare questa prova? 4. Quattro studenti arrivano molto tardi a una lezione. Il professore li rimpro-
vera aspramente, ma loro si scusano, sostenendo di aver forato una gomma mentre viaggiavano tutti sulla stessa auto. Come può il professore provare ad accertarsi rapidamente, se i quattro gli hanno mentito?
Soluzione
Il concetto di logica abduttiva (o abduzione) venne introdotto per la prima volta da Aristotele, ma è stato rivalutato solo verso la fine dell’Ottocento, dal filosofo statunitense Charles Sanders Peirce. Per più di due millenni, questo tipo di logica non è stato oggetto di studi specifici, essendo considerato un caso particolare dell’induzione. In realtà, lo scopo del ragionamento abduttivo non consiste nel ricavare delle regole, ma nel cercare di ricostruire una situazione iniziale, dall’osservazione di un determinato risultato. La risposta che, in questo modo, si ottiene non è sicura in assoluto, ma solo probabile. L’abduzione è la forma di logica che ci capita di usare più frequentemente
nella vita quotidiana, anche se spesso, inconsapevolmente. Secondo Peirce, costituisce il tipo di ragionamento che maggiormente consente di accrescere il nostro sapere. Gli enigmi di logica abduttiva richiedono, in genere, di individuare una particolare circostanza, del tutto plausibile, ma non dichiarata esplicitamente. La capacità mentale che tali giochi riescono a stimolare, è stata definita pensiero laterale dal celebre psicologo maltese, Edward de Bono, che la considera il modo più creativo per servirsi della mente. Il procedimento attivato da questo tipo di quesiti viene denominato più propriamente: problem solving, quando consente di risolvere una situazione concreta in maniera ingegnosa.
1. Bisogna riempire il tubo di acqua. In questo modo, la pallina da ping pong, galleggiando, emergerà alla sommità del tubo. 2. Prima, attraversano i due bambini e uno di loro torna indietro. Poi, attraversa un adulto e torna indietro l’altro bambino. Iterando questo procedimento, verranno traghettati, uno alla volta, tutti gli adulti. Sulla sponda iniziale resterà uno dei due bambini, che dovrà essere recuperato dall’altro. 3. Essendosi appena materializzata, la Principessa Rosa non potrà essere rorida di rugiada, come tutte le altre rose del giardino. 4. Il professore deve disporre in banchi separati i quattro studenti e chiedere a ciascuno di loro di scrivere su un foglio quale ruota hanno forato. Non avendo avuto modo di mettersi d’accordo, molto probabilmente i quattro forniranno delle risposte contrastanti.
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Ambiente e Benessere
Alla scoperta di noi stessi
Scienza A l Palazzo delle Esposizioni di Roma sino al 18 giugno è aperta la mostra «DNA. Il grande libro della vita
da Mendel alla genomica»
Blanche Greco Sapevate che l’uomo ha più del sessanta per cento di DNA in comune con una cipolla? Ciò che ci differenzia da una cipolla sta in quel determinante quaranta per cento, ma nel profondo tutti gli esseri viventi sono collegati e apparteniamo tutti al «grande albero della vita» di Darwin, discendiamo cioè, da quei primi organismi ancestrali apparsi sul pianeta più di tre miliardi di anni or sono, da renderci tutti parenti.
La pulce d’acqua ha un codice genetico molto più ricco dell’homo sapiens grazie a un genoma plastico Con uno scimpanzé siamo imparentati approssimativamente fino al novantanove per cento del DNA; con un gorilla, al novantacinque; con un cavallo, circa al novanta per cento, e man mano che facciamo i confronti con le altre specie, scopriamo di fare parte di un’unica grande famiglia. Ed è bene che l’uomo non si monti la testa perché – come impariamo alla Mostra «DNA – Il grande libro della vita da Mendel alla genomica», al Palazzo delle Esposizioni a Roma sino al 18 giugno – la pulce d’acqua ha un codice genetico molto più ricco dell’homo sapiens e, nella sua piccolezza, ha più risorse di noi grazie a un genoma plastico che le permette di modificare il proprio corpo a seconda dei cambiamenti dell’ambiente in cui vive, che siano periodi di grande umidità, oppure di siccità. La magia di questa mostra è che il visitatore aggirandosi tra le varie sezioni, di colpo si accorge che sta «scoprendo sé stesso», e che, se fino ad oggi è vissuto senza tutta una serie d’informazioni, adesso, queste sono di capitale importanza, a causa delle molte scoperte degli ultimi anni, che rivoluzioneranno la nostra vita e l’intero pianeta. Perciò questa mostra, organiz-
zata con la supervisione di un comitato scientifico di famosi ricercatori e premi Nobel, presenta sia la storia della scoperta del DNA, sia la situazione presente, nonché il probabile futuro, e induce tutta una serie di riflessioni che fanno uscire il visitatore con più domande che risposte. Se queste nuove scoperte, infatti, ci forniscono strumenti potentissimi per migliorare la nostra vita (aumentando la produttività dei raccolti, mettendo a punto nuovi medicinali, scoprendo la causa di tante malattie, o ad esempio, producendo organismi con il genoma realizzato in laboratorio per combattere l’inquinamento), sono anche in grado di fornire «armi» letali, ingegnerizzando virus molto potenti. Perciò non è un caso che la mostra inizi nel buio di una sala dove sui muri scorrono, come una pioggia benefica, le quattro famose lettere della molecola del DNA, fino a formare piante che diventano uccelli, che si trasformano in pesci che nuotano via, mentre si formano delle figure umane. Uscendo da questa sorta di grembo, ci si trova nello studio ottocentesco del frate boemo Gregor Mendel (1822-1884), il padre della genetica, riprodotto insieme a un quadratino del suo orto, dove coltivava i piselli degli esperimenti al centro dei suoi studi. C’è anche il suo microscopio, e persino la lettera, conservata negli archivi segreti del Vaticano, con la quale l’Arcivescovo di Vienna, il Cardinale Schwarzenberg nel 1855, tentò di bloccare «tutti questi studi» che sottraevano tempo alla missione ecclesiastica di frate Mendel e distraevano l’intero convento dei padri agostiniani. Passando in rivista i momenti e i personaggi cruciali di questa storia si arriva a Watson e Crick, con la loro molecola del DNA (1953), che valse loro il Nobel nel 1962; ma anche a Rosalind Franklin, che, prima di loro, nel 1952 fotografò e scoprì la forma elicoidale della struttura del DNA, determinante per la ricerca, ma che fu privata del Nobel a causa della sua morte prematura, e poi, quasi dimenticata.
Oppure allo strano destino di Henrietta Lacks, afroamericana, morta di cancro nel 1951, alla quale è dedicata la sezione della mostra sulle malattie genetiche. Per raccontare l’invisibile, ossia l’importanza di una molecola che è una catena di lettere, i curatori della mostra hanno utilizzato molti linguaggi e approcci diversi: dalle ombre cinesi, alle apparecchiature interattive, ai video, ai grafici, ai disegni animati e ai reperti originali delle ricerche arrivati dai musei di tutto il mondo, in un discorso mai banale, condotto con intelligenza e ironia, ammiccando anche a serial televisivi di successo che del DNA hanno fatto quasi un personaggio. Così se da un lato ci viene descritto come in un thriller il mancato incontro tra Mendel e Charles Darwin (suo contemporaneo e già famoso per la teoria sull’«Origine delle Specie»), che
avvenne solo postumo, intorno al 1930, quando le ricerche dei due scienziati furono integrate con successo; dall’altro, sa di fantascienza passare attraverso il «bosco dei cromosomi»; oppure trovarsi davanti al drappello degli animali clonati, riprodotti in gesso, mentre in una teca vediamo i reperti di Dolly e un maglione «con un motivo a pecorelle» creato con la lana della mitica pecora ottenuta per clonazione, in laboratorio, nel 1996. C’è persino la «scena del delitto», una sezione nata con la collaborazione della Polizia Scientifica che, per presentare la genetica forense, ha ricostruito un laboratorio stile CSI; e accanto, assieme al cranio di un uomo di Neanderthal, ci sono gli strumenti della paleogenetica, ossia lo studio del DNA delle specie estinte, che ha aperto agli «archeo-genetisti» scenari inaspettati sulle relazioni tra le diverse specie
umane vissute fino a poche decine di millenni fa. Ma se, come veniamo a sapere, solo a Hollywood possono resuscitare i dinosauri, si parla già per molte specie animali di de-estinzione e in Russia si sta studiando per riportare in vita i mammut lanosi. La domanda è: cosa ci faranno in un mondo così cambiato? Le continue scoperte e lo sviluppo di tecnologie emergenti nel campo della genetica hanno implicazioni di carattere etico, ma anche politico, economico e giuridico, per cui vale la pena chiedersi: con chi, condivideremo i nostri privatissimi dati genetici? Che cosa ci dice, veramente, un test genetico? Se lo chiedono da qualche tempo anche i centenari di un paesino sardo, finiti al centro di un giallo internazionale dopo che, in una ricerca sulla longevità, i dati relativi al loro prezioso DNA, sono passati di mano in mano, e poi spariti nel nulla.
Fare ritorno nel bel-luogo
Il seme nel cassetto Marco Martella, storico dei giardini racconta i motivi che ci spingono a entrare
in punta di piedi in quello che spesso è percepito come un luogo incantato: il giardino Laura Di Corcia Il giardino ha a che fare con l’utopia, ed è per questo motivo che il titolo di questa rubrica in una prima ipotesi doveva suonare Eutopia, il bel-luogo. Il senso del Seme nel cassetto è un po’ questo: libro dopo libro si riconosce nell’atto di fare giardinaggio un passo in direzione di un mondo nuovo, alternativo a quello che ci circonda, un mondo non dominato dalle logiche alienanti del successo, del risultato, un mondo ancorato ai cicli della natura, che ad essa guarda e insieme ad essa costruisce nuovi orizzonti di senso. E così Tornare al giardino di Marco Martella, storico dei giardini e fondatore a Parigi della rivista «Jardins», è in fondo un breve racconto sui motivi che ci spingono a entrare in punta di piedi in quello che spesso è percepito come un luogo incantato; un breve trattatello (forse la materia avrebbe potuto essere esposta più ampiamente, questa la critica rivolta al libretto) che ricorda che ai margini (avete presente il terzo paesaggio di Clément?), dove non guarda nessuno, in quelle zone ai limiti che sembrano dimenticate dallo sguardo benevolo di chi
L’immagine che fa da sfondo al libro di Marco Martella Tornare al giardino.
sorregge il mondo, proprio lì si rinnova la vita; proprio lì dovremmo recarci per riconoscere di nuovo il senso di questo nostro abitare la Terra. Che cosa cambia quando varchiamo quella soglia? Perché l’entrata in quel luogo chiuso, separato dal resto da un
recinto o una siepe (il latino hortus vuol dire proprio questo) ha in sé qualcosa di magico? È la nostra percezione del tempo ad essere scossa. Mettere il naso in un giardino, ammirarne gli alberi, le foglie, stare a guardare come le sta-
gioni passano e portano il loro contributo sulla vita in una metamorfosi continua che lascia al fondo le cose intatte, significa voltare anche solo per un attimo le spalle al tempo della contemporaneità, il tempo nevrotico e falsamente scintillante del post-industriale, quello tirannico, che non ammette eccezioni, il tempo monoteista già descritto dal regista Derek Jarman. Osservando i cicli di nascita, morte, e di nuovo di rinascita, noi uomini e donne del ventunesimo secolo, compressi in format preconfezionati entro cui infiliamo con forza e talvolta violenza vite che vorrebbero dipanarsi da sé, un po’ smarriti entro metropoli troppo ampie, noi ritroviamo «il tempo della vita», come sottolinea Martella, «quello che il nostro corpo animale non ha dimenticato e che non ci spinge costantemente avanti, come fa il tempo meccanico che dirige le nostre esistenze». Abbiamo perso la voce sottile e ipnotica degli dei: la Natura non è più abitata come nel passato da presenze altre, da un’alterità che ci spaventa e conforta al contempo. Oggi è il tempo pesante delle cose che pesano di
materia bruta, senza redenzione, tirate verso il basso dall’incapacità di vedere oltre, altrove: il giardino ci fa allora scoprire quella flebile voce che abbiamo dimenticato, la «sirena del mondo» che già a inizio del Novecento il poeta Camillo Sbarbaro dava per perduta, un modo poetico di vivere la nostra esistenza, a contatto con la natura, plasmandola con essa. E l’emergenza ecologica? «Invano tentiamo di reagire al naufragio ambientale utilizzando in modo più parsimonioso le risorse naturali» precisa Martella. «Invano, perché l’unica risposta possibile sarebbe tornare ad abitare poeticamente la Terra». E con umiltà. «Come suoi figli – continua Martella – affidando alle piante, all’acqua e agli animali la cura dell’anima mutilata». Quando state male, quindi, non temete: varcate un cancello, immergetevi in un giardino. Lì ci sono abbondanti risorse di guarigione. Bibliografia
Marco Martella, Tornare al giardino, Ponte alle Grazie, 59 pagg, 9 euro.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Ambiente e Benessere
Contro la malaria, un contraccettivo per le zanzare maschio Progetti del futuro Luna Kamau, professoressa e ricercatrice keniota, ha avviato un programma di ricerca e
Amanda Ronzoni Più di un milione di persone ogni anno perde la vita a causa della malaria. La maggior parte di loro si trova in Africa, e in gran parte sono bambini. Il secondo «progetto del futuro» (della serie inaugurata su «Azione» il 14 novembre scorso), riguarda le attività di una studiosa originaria del Kenya, Luna Kamau che, grazie a un grant (ndr: assegnazione di fondi) della Twas (The world academy of sciences: www.twas.org), ha condotto una serie di studi per acquisire conoscenza circa i meccanismi di questa epidemia per poterla contrastare efficacemente. La Kamau si occupa di genetica di popolazione, resistenza agli insetticidi ed ecologia dei vettori di malattie infettive. Coinvolta nel National Malaria Control Program (training, vigilanza, consiglio politico e strategico), ha partecipato a uno studio keniota sull’uso delle reti impregnate di insetticida contro le zanzare (CDC locali). Studiare la biologia e il comportamento delle zanzare è fondamentale per capire come ridurre il loro grado di pericolosità per l’uomo. Si è capito, ad esempio, che la densità è un parametro fondamentale: più alta è la popolazione di zanzare, più alto è il rischio di trasmissione. Quali sono i loro habitat, come si creano, come e quando si ri-
producono questi insetti, cosa rende forti e prospere le nuove generazioni? Rispondere a queste domande è fondamentale per avviare programmi di controllo e contenimento. Ci sono all’incirca 3500 specie di zanzare, raggruppate in 41 generi, ma la malaria viene trasmessa solo dall’Anopheles femmina, che si nutre di sangue durante il periodo riproduttivo, per generare le uova. Delle 430 specie di Anofele, poi, solo 30-40 agiscono come vettori della malattia in natura. I cambiamenti climatici – che con l’innalzamento delle temperature e delle piogge favoriscono in modo significativo la crescita della popolazione di zanzare –, l’incipiente resistenza agli insetticidi e una diminuzione dell’efficacia dei medicinali anti-malarici hanno messo in luce l’esigenza di cambiare strategia nella lotta a questa peste. In seguito agli studi supportati dal grant Twas, la professoressa Kamau ha potuto accedere al Grand Challenges Explorations della Bill and Melinda Gates Foundation. È nata così, presso il Kenya Medical Research Institute (KEMRI), l’idea di studiare un contraccettivo orale per le zanzare maschio: controllando la loro fertilità e la capacità riproduttiva si vuole intaccare in modo significativo la crescita generale della popolazione, diminuendone
Keystone
progettazione di una nuova strategia che mira al controllo e al contenimento del rischio di trasmissione della malattia
quindi la densità, soprattutto in prossimità dei centri abitati. Per prima cosa, il team guidato dalla Kamau si è occupato della realizzazione di contenitori speciali per ospitare la miscela di zucchero e contraccettivo, oltre a diossido di carbonio, che attira in modo particolare le zanzare maschio. Il secondo passo è stato quello di individuare quali sostanze usare per la contraccezione. Si sono testate due miscele sintetiche e una naturale, con un derivato di una pianta locale.
Sia le femmine sia i maschi si nutrono del nettare di fiori, ma le prime hanno bisogno di sangue per la produzione di uova. Se mordono individui infetti da malaria possono sviluppare il parassita e passarlo ad altre vittime. La zanzara femmina si riproduce una sola volta nel corso del suo ciclo vitale e non è in grado di discriminare tra maschi sterili o fertili. Lo sperma che riceve viene immagazzinato in una sacca detta spermateca (o ricettacolo seminale) e utilizzato per fecondare le uova a più riprese.
Gli esperimenti sono stati condotti in una colonia cresciuta in laboratorio, somministrando anche un colorante per identificare meglio gli individui oggetto di studio. Si è passati quindi a controllare quali sono gli effetti di questi contraccettivi orali sulla funzione spermatica e sulle uova, si è verificato se ci sono ripercussioni sulla competitività maschile nel periodo riproduttivo. Al momento non si è ancora riusciti a individuare una soluzione in grado di sterilizzare in modo efficace le zanzare maschio, ma il progetto ha comunque prodotto importanti risultati. In primis in termini di conoscenza riguardanti il vettore della malaria, ma soprattutto per le ricadute positive che ha avuto nelle attività di ricerca in loco. La qualità del lavoro della Kamau ha fatto da volano per il reperimento di fondi necessari a garantire continuità al suo lavoro in laboratorio e per la formazione di nuovi ricercatori. «Se riconoscono che sei un buon ricercatore» ha dichiarato la dottoressa, «ti affidano più facilmente studenti da formare e far crescere come ricercatori. E la formazione di scienziati locali è importante, perché questi sono in grado di valutare la gravità e la natura del problema che sperimentano in prima persona meglio di chi non lo vive direttamente». Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Insalata di farro verde con vinaigrette all’aglio orsino
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Ingredienti per 4 persone: 250 g di farro verde, nei reformhaus · 7 dl di brodo di verdura · 2 mazzetti di cipollotti · 3 cipolle rosse piccole · 2 cucchiai di olio d’oliva · sale e pepe · 100 g di formaggio fresco di capra. Per la vinaigrette: 10 g di aglio orsino · 1 dl di olio di girasole · 4 cucchiai di aceto di vino bianco · 1 cucchiaio di senape di Digione · sale e pepe · 20 g di capperi. 1. Lessate il farro verde nel brodo, coperto, a fuoco medio per circa 40 minuti. Spuntate i cipollotti e dimezzateli. Tagliate le cipolle rosse in sei. Irrorate le due varietà di cipolla con l’olio d’oliva e condite con sale e pepe. 2. Per la vinaigrette, tritate grossolanamente l’aglio orsino. Mescolatelo con l’olio, l’aceto e la senape in un recipiente alto. Frullate con il frullatore a immersione. Condite la salsa con sale e pepe. Sciacquate i capperi in un colino e aggiungeteli alla salsa. 3. Togliete il formaggio di capra dal frigorifero circa 10 minuti prima di servirlo. Grigliate le cipolle su una bistecchiera. Condite il farro ancora caldo con la vinaigrette. Servitelo con le cipolle grigliate e il formaggio di capra sbriciolato e sparso sull’insalata. Preparazione: circa 20 minuti + sobbollitura di circa 40 minuti. Per persona: circa 11 g di proteine, 31 g di grassi, 53 g di carboidrati, 2300
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Ambiente e Benessere
Vecchio Tifoso, quanto tempo è passato…
Sportivamente Dai Mondiali di sci alpino, ai playoff di hockey (che farà il Lugano?) e ai playout (si salverà l’Ambrì?),
con un FC Lugano che punta a riportare i tifosi d’un tempo e quelli più giovani a Cornaredo Alcide Bernasconi Sembra di entrare nella stanza da letto di un giovane tifoso dello sci – in particolare di Lara Gut – di un appassionato di tennis – in particolare di Roger Federer – nonché di una delle due più famose «curve dell’hockey» ticinese: che sono quella «nord» che sta a… sud del cantone e quella «sud» che sta invece nella pista più a nord. Di quale stanza parliamo? Ovviamente di quella del nostro caro Vecchio Tifoso che ha rinunciato a seguire sul posto gli avvenimenti invernali, per via degli acciacchi che gli consigliano molta prudenza. Così egli attende giornate soleggiate e temperature più miti per seguire quello che è stato il suo primo grande amore, dal quale per la verità non si è mai separato, ossia il calcio.
Una nota di merito va a Lara Gut, certo sfortunatissima, ma pur sempre prima svizzera a salire sul podio di St. Moritz Da quando il FC Lugano è tornato in Super League, Vecchio Tifoso afferma di sentirsi ringiovanito. Vorrebbe andare quasi ogni giorno a Cornaredo per vedere i volti dei bianconeri, perché degli ultimi che aveva visto giocare non c’è più nemmeno l’ombra. Ma la moglie, preoccupata come ogni moglie lo diventa a una certa età, gli ha nascosto
le chiavi dell’auto, anche – va detto a onor del vero – a causa di alcuni incidenti che hanno inferto… dolorose ferite alla carrozzeria. Gli amici hanno trovato comunque il modo per accompagnarlo allo stadio di calcio e alle piste di hockey, liete trasferte in compagnia che si contano però sulle dita di una mano monca, come ha osservato il suo più fedele accompagnatore. Fatta questa premessa, è ormai noto da tempo che seguiamo, quasi minuto per minuto, lo sport alla televisione. Di Federer trionfatore in Australia avevamo già scritto su questo settimanale, ricevendo perfino elogi dalle lettrici che stravedono per il tennista 1 2 3 4 5 6 basilese. Forse anche perché tra i lettori (e le lettrici) più scrupolosi non sono Alcide Bernasconi con Vecchio Tifoso, sulla tribuna dello stadio di Lugano. solo i giovani gli unici ad affondare il (RedAzione) 7 8 naso nelle pagine sportive. C’è infatti un esercito di nonne e di qualche bi- grande Giovanni Segantini dipinse al- sicuramente condizionato la prova del9 10 snonna, che di Federer non si lasciano cuni capolavori, fino agli ultimi giorni la ticinese, subito pronta a battersi per sfuggire nulla. Anche loro assistendo ai della sua vita stroncata da una perito- la medaglia più ambita. Lara, pur resiprodigi di Roger davanti alla tv. 11 nite, sono il 12 ricordo più bello di questa stendo con tenacia ai dolori non ancora Ma a far sognare Vecchio Tifo- edizione dei Mondiali. completamente assorbiti, aveva comunso, come detto, sono anche altri sport. Naturalmente con le medaglie que chiaro, nella mente, il suo percorso 13abbiamo 14 potuto 15 scriverlo 16 17 Non prima conquistate dagli svizzeri (fra cui tre mondiale, pronta a conquistare altre per cause di forza maggiore, ma i Mon- d’oro), più di quante erano state preven- medaglie, almeno un paio d’oro. diali Ne era certo anche Vecchio tifoso, 18di sci alpino di St. Moritz lo hanno 19tivate dagli esperti alla vigilia, questi 20 fatto vibrare sulla poltrona del salotto campionati hanno ricreato uno spirito con la stanza tappezzata di splendide di casa. E con lui, anch’io; noi che, solo di gruppo (anche fra gli spettatori ros- immagini di Lara, di Feuz e di Federer. 23 davanti per21 caso, assistevamo alle prove22 sci di socrociati) che ci ha coinvolti Anche Roger, tornato subito a casa per Coppa del mondo sul piccolo schermo, alla tv. Ancora una volta a trascinare gli accompagnare le gemelline innamorasiamo rimasti entrambi incantati dalla elvetici verso il podio te della neve e delle montagne, da Len24 25 26 è stata la nostra splendida Engadina. Le immagini re- Lara Gut, seppure «solo» con una me- zerheide, dove trascorre parte delle sue galateci da ottimi cameramen e registi, daglia di bronzo nella prima prova in vacanze, ha raggiunto St. Moritz. Qui, che27 spaziavano dalla Corviglia fin su al programma,28 il Super G. La brutta bot- sulla tribuna, mille signore l’hanno focapannno di legno (la famosa Segantini ta rimediata nella gara disputata nove tografato distraendosi un po’ dalle gare Hütte), sopra Muottas Muraigl, dove il giorni prima a Cortina d’Ampezzo, ha di sci. Ad ogni modo anche Federer ha
Giochi per “Azione” - Febbraio 2017 Stefania Sargentini
(N. 9 - Il portatore della accola olimpica)
S C O R E
Giochi Cruciverba Quanto dura la gravidanza di un cammello e quanti litri riesce a bere mediamente in una sola volta? Scoprilo leggendo a soluzione ultimata le lettere evidenziate. (Frase: 7, 4, 3, 2, 8)
dato in questo modo (con la sua presenza) il suo contributo, un sostegno importante ai nazionali rossocrociati. Avrebbe voluto complimentarsi con Lara Gut, ma sapete ormai tutti che cosa è successo alla sfortunata nell’allenamento fra i paletti di uno slalom improvvisato. Lara è caduta e il brutto incidente le ha messo fuori uso un ginocchio fino alla prossima stagione. Speriamo non di più. Roger ha altresì festeggiato il titolo della discesa conquistato da Beat Feuz. Bel momento per lo sport svizzero anche grazie all’oro vinto proprio nella combinata da Wendy Holdener davanti alla connazionale Michelle Gisin, nonché l’oro e il bronzo di Luca Aerni e Mauro Caviezel. Tre ori, un argento e due bronzi: solo l’Austria ha preceduto di pochissimo gli elvetici nella classifica mondiale. Questa la storia di un Mondiale da ricordare per noi. Ora ci sono i playoff di hockey e il Lugano – con il suo nuovo coach Greg Ireland al posto di Shedden – mira a un riscatto dopo una strampalata regular season. Quanto all’Ambrì, Gordie Dwyer ha sostituito Kossmann, e l’attende un finale di stagione che in pochi si attendevano, ossia un’altra corsa verso la salvezza. Anche nel calcio – sostituito il tecnico Manzo con Tramezzani – il Lugano, con un salto in avanti in classifica, punta a una posizione onorevole, e dimenticando le paure d’un tempo spera, partita dopo partita, di richiamare il pubblico allo stadio, come ai vecchi tempi. A cominciare dal suo Vecchio Tifoso!
U L I A L R G N O
F I L I P I R I S A T O S L E R A L A F I L C S O L E S C I A M R A I E M R M E C E
P R E D A
O T R E
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P I D N A
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku (N. 10 - Tredici mesi, più di sessanta) SUDOKU PER GEN 1
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12
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Sudoku
N. 49 per GENI Schema T R A R E D E N Soluzione: 2 8 5 Scoprire i 3 numeri C I M E I corretti daA inse- I rire nelle caselle 7 1 colorate. L E S I V I S P 4 3 6 P SUDOKUIPER LAZIONE A - NOVEMBRE S U2016O 8 A Schema N D E A L Soluzione I T N. 41 FACILE 6 7 A 2 S2 83 I 8 9N4 1 I 7 2 8 1 5 6 1 5 7 8 2 9 6 7 8 S I 3 6 1 7 9 3 6 1 7 6 4 57 T9 5 I 2 5 4 1 2 9 7 3 1 2 9 3 M A 9 5 7 8 6 T3 4 1 5N2 3 5 9 9 2 7 3 6 8 4 4 1 A E T2 4 I 5 7 8 64 1 9 8 1 4 9
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Giochi 9 per 2 “Azione” - Febbraio 2017
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N. 50 per GENI3 5 4 8 7 9 6 1 19. Un’affezione di petto della settimana precedente Stefania 3 Soluzione 4 7Sargentini 6 IL SIGNIFICATO DELLE PAROLE – Il tedoforo è: IL PORTATORE DELLA FIACCOLA 20. Pronome personale OLIMPICA. (N.22. 9 - IlUn portatore della accola olimpica)N. colpo all’uscio 42 MEDIO 24. Tredicesima lettera dell’alfabeto 1 2 3 4 5 6 4 3 2 F I L I P P O greco 9 8 4 3 2 6 1 5 7 8 5 6 9 6 7 5 4 8 1 9 3 I R I S R T 9 10 2 3 5 2 3 1 5 9 7 6 8 A T O S E R 11 12 6 3 1 L E 5 6 3 7 1 8 2 4 R A D E 13 14 15 16 17 Vincitori del concorso Cruciverba 1 4 2 6 3 9 5 7 S U L L A9 F7 I8 L A 11 su «Azione 08», 18 19 del 20.2.2017 20 8 C 9 I A C 4 S3 O L E 8 9 7 2 5 4 3 1 A A.Roncoroni, E. Meier, R. Garobbio 21 22 23 4 7 6 3 1 9 8 4 2 7 6 O L R S C I A M P I Vincitori del concorso Sudoku 25 26 su24«Azione 08», del 20.2.2017 4 5 6 9 7 3 8 2 R G R A3 I E 1 M I D
ORIZZONTALI 1. In posizione intermedia 3. Riscattati 9. Preposizione articolata 10. Sono tre quelle di Lavaredo 11. Saliera senza sale 12. Provocano danni 14. Una pausa nel film 15. Raganella arborea 16. Colpisce l’orecchio 17. I monti del Cile 18. Lieve soffio 19. Animali con gli zoccoli 21. Posti, collocati 22. Le iniziali dell’attore Selleck 23. Nodo inglese
24. Noi in latino 25. Filosofia morale VERTICALI 1. Scava gallerie 2. Malvagie d’altri tempi 3. Un 1 … ciglio 2 3 4 4. Mezzo greco… 5. Antico prefisso nobiliare 7 8 6. Sono parenti 7. Un particolare sedile 9 10 8. Contrapposto al dittongo 10. Stato dell’America del Sud 13. Residuo 12centrale 14. Animali col grugno 16. Dei veicoli senza ruote 18.13 Dagli Urali al14 Giappone
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros Partecipazione online: inserire la 20 21 22 23 24 10 - Tredici più diosessanta) del valore di 50 franchi, saranno sor-(N. soluzione delmesi, cruciverba del sudoku teggiati tra i partecipanti che avranno nell’apposito formulario pubblicato 1 3 4 5 6 7 8 25 pervenire la 26 soluzione corretta 272 sulla pagina 28del fatto sito. 9 10 11 entro il venerdì seguente la pubblica- Partecipazione postale: la lettera o zione la 13cartolina postale riporti la so14 29 del gioco. 30 12 31 32 che 33
(N. 11 - I fondi di ca è o con aceto)
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Politica e Economia Eccezione Spagna È l’unico Paese europeo che non ha una destra xenofoba e la gente (Barcellona) scende in strada per accogliere lo straniero pagina 24
Trump al Congresso Toni più moderati e ottimisti nel discorso del presidente americano, anche se la sostanza politica non è cambiata e anzi prevede più spese militari e meno tasse
Spy story nordcoreana Ucciso con gas nervino il fratellastro del leader Kim Jongun. La Malaysia indaga
Bilanci floridi nel 2016 La Confederazione chiude l’anno con eccedenze per 1,2 miliardi, ma nuovi risparmi sono in arrivo
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Le ragioni della spaccatura
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Massimo D’Alema (a destra) e Pier Luigi Bersani, gli artefici della rivolta, in una foto del 2010. (AFP)
Sinistra italiana Figure storiche come Massimo d’Alema e Pier Luigi Bersani hanno compromesso la compattezza
del partito. Ma è stato Matteo Renzi a far scattare il conto alla rovescia della rivolta Alfredo Venturi È stato Massimo D’Alema ad architettare la scissione, accusa Matteo Renzi di ritorno dalla Silicon Valley, dove è andato a smaltire l’amarezza del trasloco da Palazzo Chigi, che ovviamente considera temporaneo. L’ex premier ripropone quella stessa contrapposizione su cui cercò di fondare la sua proposta: da una parte lui, l’uomo rivolto al futuro, dall’altra la vecchia guardia da rottamare. Il processo si è arenato la prima domenica dello scorso dicembre, quando la maggioranza dei votanti ha bocciato senza appello la riforma costituzionale alla quale Renzi aveva legato le sue fortune politiche al punto da promettere, in caso di sconfitta, il ritiro a vita privata. Ha perduto e ha lasciato la guida del governo, ma non intende rinunciare alla segreteria del Partito democratico, dalla quale si è dimesso solo per esservi riconfermato. Una parte del Pd si è ribellata e un acceso dibattito ha portato alla scissione. Per un’opinione pubblica disorientata, che non riesce a capire perché mai la politica si concentri su problemi così diversi da quelli che affliggono il
Paese, le reali ragioni di questa spaccatura sono avvolte nel mistero. Perché certe figure storiche come D’Alema, appunto, o l’ex segretario Pier Luigi Bersani, o il presidente regionale della Toscana Enrico Rossi, hanno compromesso la compattezza del partito? Che cosa ha indotto il governatore pugliese Michele Emiliano prima ad accarezzare l’ipotesi scissionista, quindi a decidere di rimanere, ma in una posizione fortemente critica nei confronti del segretario, e di candidarsi alla successione? E perché contro la conferma di Renzi si è candidato anche Andrea Orlando, ministro della Giustizia proprio con Renzi, e ora con Gentiloni? In definitiva perché dividersi avvantaggiando i contendenti, siano essi le forze di centro-destra o gli anti-politici a cinque stelle? Le ragioni sono tante. Tanto per cominciare ce n’è una puramente tecnica, il ritorno al meccanismo elettivo proporzionale implicito in una recente sentenza della Corte costituzionale. Mentre il maggioritario tende a tenere unite le forze politiche, pena l’irrilevanza nelle sedi rappresentative, votare col proporzionale favorisce il prolifera-
re di gruppi e gruppuscoli alla ricerca di scampoli di potere. Un’altra ragione è la crescente insofferenza per il piglio decisionista di Renzi, da sempre accusato di arroganza e ora reso vulnerabile dall’esito del referendum. Ma ci sono ragioni più profonde, che trovano riscontro nello scenario internazionale. Il Partito democratico nacque con l’obiettivo di fondere la componente di provenienza comunista con la sinistra cattolica. Ma la fusione è mancata, l’amalgama non ha funzionato. Le due parti sono rimaste separate in casa. E da quando Renzi, che proviene dal mondo cattolico, ha provato a spostare l’asse del partito per guadagnare consensi fra i moderati delusi del centrodestra, è scattato il conto alla rovescia della rivolta. Di fronte alla tentazione moderata si agita una sinistra protesa alla riscoperta di se stessa. Il grande travaglio delle forze progressiste nasce dalla dialettica fra la nostalgia delle radici, che tende all’arroccamento sulle posizioni tradizionali, e la volontà innovativa che punta ad allargare il consenso oltre i vecchi steccati. Tendenza incoraggiata dal fatto che le politiche neo-
liberiste hanno compromesso l’antica fedeltà elettorale di un mondo operaio profondamente mutato, per esempio, o di categorie storicamente amiche come quella dei docenti. Il dilemma è visibile in Italia ma non soltanto qui. Le forze progressiste sono alla ricerca della via per riconquistare il consenso perduto, e sembra prevalere la tendenza a farlo tornando sulle tradizionali posizioni a sinistra. Il tedesco Martin Schulz sfida Angela Merkel contestando, non senza un pizzico di demagogia, la riforma del welfare voluta da Gerhard Schröder, l’ultimo cancelliere socialdemocratico. In modo più fortemente polemico il britannico Jeremy Corbyn prende le distanze dal neo-liberismo di Tony Blair, mentre l’americano Bernie Sanders tenta di dare al termine «socialista» diritto di cittadinanza negli Stati Uniti. Si tratta di processi così sostanziali da richiamare la svolta di Bad Godesberg della socialdemocrazia tedesca: allora fu recisa la radice marxista e il partito della classe operaia si aprì all’intera società, stavolta si riscopre non certo quell’antica vocazione ma il connotato umanitario, solidaristico, tendenzial-
mente statalista del socialismo che ne fu l’erede. In apparente controtendenza la Francia, dove stando ai sondaggi Marine Le Pen è insidiata non dal socialista Benoît Hamon ma dall’outsider social-liberale Emmanuel Macron. La posizione di Macron richiama quella occupata in Italia da Renzi, non a caso accusato dai transfughi del Pd di essere, proprio lui, il regista occulto della scissione, ideata per avere via libera verso destra. Quando le sinistre muovono in tutt’altra direzione, alla ricerca della purezza originaria, mettono in conto il rischio di favorire i fisiologici rivali conservatori e gli irrequieti portatori delle istanze populiste, che accusano in blocco il sistema dei partiti proponendo di spazzarli via. Dopo il successo di Donald Trump negli Stati Uniti sarà interessante vedere come gli elettori europei sapranno orientarsi fra queste nuove coordinate. In Francia, ovviamente, ma anche in Olanda, dove è imminente un voto pro o contro il demagogo Geert Wilders. E in Germania, dove davanti al quarto mandato della cancelliera Merkel si staglia l’inaspettata popolarità di Schulz.
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Politica e Economia
La Spagna contro i muri Immigrazione Il Paese iberico è l’unico tra i grandi Stati europei dove non vi sono partiti
Notizie dal mondo Usa-Russia: anche Sessions finisce sotto inchiesta
xenofobi e i rifugiati non sono visti come un problema. Ma dietro alla sorprendente volontà di accoglienza manifestata da una parte della popolazione spagnola si nascondono una politica migratoria molto restrittiva e ragioni di opportunismo politico
Gabriele Lurati «Casa nostra, casa vostra». Questo era lo slogan dell’imponente manifestazione che si è svolta un paio di settimane fa a Barcellona in favore di una politica di maggiore accoglienza verso i rifugiati. Secondo gli organizzatori, si è trattato della più grande marcia pro-immigrati di tutta Europa. Il successo dell’evento è stato inaspettato (circa 250’000 persone vi hanno preso parte), tanto che è stato ripetuto anche in altre città spagnole tra cui Madrid, dove un enorme striscione con la scritta «Refugees welcome» fa bella mostra di sé sul balcone del municipio e cattura l’attenzione dei turisti in arrivo a Plaza Cibeles. Un’analisi affrettata potrebbe portare a pensare che la Spagna rappresenti un unicum in Europa: un Paese aperto agli immigrati, mentre nel resto del continente trionfano i partiti che fanno leva sulla paura dello straniero. In realtà vi sono delle sfumature in questa apparente eccezionalità, causate dalla peculiarità storico-politica spagnola, e che obbligano ad altre interpretazioni. La prima è che la manifestazione di Barcellona si inserisce in un contesto di sfida e ostilità permanente tra l’esecutivo catalano con le sue ambizioni separatiste e il governo centrale di Madrid, che si nega ad ogni apertura e alla celebrazione di un referendum di indipendenza. Dietro agli striscioni che chiedevano di accogliere più rifugiati non vi erano solo critiche al governo conservatore di Rajoy per la sua politica restrittiva in materia di immigrazione, ma c’era anche la volontà da parte della società catalana di profilarsi sul panorama politico europeo come qualcosa di diverso: una Catalogna come terra d’accoglienza e differente nei fatti dal resto della Spagna. Insomma è stata anche l’occasione per ribadire una volta di più alla comunità internazionale che Barcellona è pronta a separarsi da Madrid, tanto è vero che si sono viste anche numerose esteladas (bandiere indipendentiste) e si sono ascoltati persino discorsi che facevano riferimento alla creazione di uno Stato autonomo e più solidale.
Il muro fra Messico e Stati Uniti di cui tanto parla Trump è poca cosa rispetto alle enormi recinzioni e al fossato costruiti nelle due enclavi spagnole in Marocco Una solidarietà verso gli immigrati peraltro più che legittima, quella gridata a gran voce dai catalani, dato che il governo del premier Rajoy sta disattendendo gli accordi presi con l’Unione europea in materia di accettazione della ripartizione di rifugiati. In Spagna sono stati accolti sinora solo 700 dei 16’500 rifugiati (provenienti principalmente dai centri di accoglienza di Grecia e Italia) pattuiti con l’Ue. Inoltre la politica anti-immigrazione del governo conservatore è una delle più dure d’Europa. Tuttavia, mentre in passato la gestione dei flussi migratori veniva criticata dalle alte sfere di Bruxelles, adesso, visti i venti xenofobi che soffiano per mezza Europa, viene presa a modello. Basti pensare ad esempio alle enormi recinzioni e al fossato costruiti a Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole in territorio marocchino. Si tratta di una specie di vallum romano: una linea di
Barcellona vuole dare il benvenuto ai rifugiati durante una manifestazione del 18 febbraio. (AFP)
fortificazione composta da tre muri di sei metri d’altezza e dieci chilometri di filo spinato. Al confronto il muro tra Messico e Stati Uniti di cui tanto parla Donald Trump è poca cosa in termini di pericolosità, se paragonato a quelli spagnoli. Questi sbarramenti rendono in effetti pressoché invalicabile (e in alcuni casi letale) l’accesso agli immigrati provenienti dall’Africa verso il suolo spagnolo. Per giustificare queste misure straordinarie, il delegato del governo spagnolo a Melilla è arrivato ad affermare che «senza barriere la città sarebbe diventata una specie di Lampedusa». Grazie alla costruzione di questi muri a Ceuta e a Melilla, alla militarizzazione delle frontiere e del mare e soprattutto agli accordi bilaterali col Marocco, in Spagna arrivano adesso ogni anno solo qualche migliaio di migranti via mare. La presenza numerica di rifugiati nel Paese è quindi minima e anche la percentuale di stranieri presenti in Spagna (poco più di quattro milioni, attorno al 9% della popolazione) non è molto alta rispetto ad altre nazioni europee. A differenza di altri Paesi però il grado di integrazione è maggiore per ragioni storico-linguistiche, dato che la maggior parte degli stranieri presenti in Spagna proviene dall’area latinoamericana. Questi due fattori (demografici e culturali) spiegherebbero le ragioni della quasi assenza di un sentimento xenofobo in terra iberica. Si pensi che, stando ai sondaggi, solo il 3% della popolazione ritiene che l’immigrazione sia un problema importante per il Paese. Altri esperti ritengono invece che le ragioni siano più di ordine economico-politico. Secondo le teorie di alcuni economisti, l’assenza di un movimento anti-immigrazione in Spagna è da ricondurre al fatto che i rifugiati non sono in competizione economica con i residenti. Il sistema di welfare spagnolo, a differenza di alcuni paesi del nord Europa o della stessa Svizzera, non prevede infatti alcun tipo di aiuto economico diretto o attribuzione di alloggi per i rifugiati o i richiedenti l’asilo. Inoltre, i
migranti che riescono a entrare in Spagna illegalmente dalla frontiera di Ceuta o Melilla scavalcando il muro, vengono detenuti immediatamente dalla polizia e rispediti ai Paesi di origine (le cosiddette devoluciones en caliente). Ai pochi che riescono miracolosamente ad arrivare sul suolo spagnolo viene negata loro in molti casi anche l’assistenza sanitaria. Queste misure coercitive, unite all’assenza di aiuti finanziari agli immigrati, non produrrebbero perciò nella popolazione spagnola una percezione di sottrazione delle proprie risorse economiche a beneficio degli stranieri (siano essi immigrati o rifugiati) e di conseguenza non sarebbe causa di ostilità nei loro confronti. Vi è anche una spiegazione più strettamente politica di questo fenomeno. Le dure misure restrittive adottate dal governo Rajoy in materia di immigrazione sarebbero già di per sé vicine alle ideologie dei movimenti di estrema destra e quindi scoraggerebbero la nascita di movimenti xenofobi in Spagna. A questo si aggiunge il fatto che essere dichiaratamente di estrema destra in Spagna è sempre stato considerato un tabù, in una nazione che ha vissuto una dittatura lunga quarant’anni e che non ha ancora fatto i conti con il suo passato. Paradossalmente, secondo gli studiosi, l’eredità franchista ha quindi impedito il nascere di movimenti di estrema destra (alle ultime elezioni generali il partito razzista anti-immmigrazione Vox ha ottenuto solo lo 0,2% dei suffragi). Secondo la vulgata popolare, invece, l’assenza di un grande partito con connotazioni xenofobe e di estrema destra sarebbe dovuto al fatto che questa ideologia è integrata all’interno dello stesso Partito popolare di Mariano Rajoy. Ne sarebbero una prova il fatto che alcune correnti del partito e qualche ministro dei governi del Pp non hanno mai preso pubblicamente le distanze dal franchismo. Si pensi inoltre che in Spagna vi sono tuttora numerosi comuni che nella loro denominazione contengono la parola caudillo (così veniva chiamato popolarmente Francisco
Franco), che vi sono ancora molte vie o piazze a lui dedicate, nonché un mausoleo con i resti del dittatore, situato poco fuori Madrid (e che è diventato anche luogo di pellegrinaggio di nostalgici franchisti o neo-nazisti). Non da ultimo va anche sottolineato che in Spagna il malcontento popolare generato dalla crisi finanziaria del 2008 non è sfociato nella comparsa di movimenti xenofobi nel panorama politico perché è stato in parte incanalato dapprima dal movimento degli indignados e poi dalla nascita di Podemos. Quest’ultimo partito ha saputo intercettare la rabbia di quei collettivi (in maggioranza giovani con un alto tasso di scolarizzazione) che sono risultati i più colpiti dalla crisi. Questo fatto è esattamente l’opposto di quanto sta succedendo nel resto del mondo: si pensi a paesi come la Germania (con Alternative für Deutschland), la Francia (con il Front National) o negli Stati Uniti di Trump, dove trionfa (o cresce nei sondaggi) il populismo xenofobo dell’estrema destra. A differenza di quest’ultimi partiti, Podemos si schiera ideologicamente con la sinistra radicale e ha una visione di apertura verso lo straniero e gli immigrati. Non casualmente lo stesso leader del movimento Pablo Iglesias ha voluto appropriarsi dei meriti dell’assenza di movimenti xenofobi in Spagna, dichiarando recentemente che «in Spagna non c’è un movimento di estrema destra perché esiste Podemos». In definitiva, per una serie di circostanze storiche, economico-politiche e congiunturali in Spagna l’immigrazione è ben integrata e non è vista come un problema, almeno per il momento. Si assiste pertanto al paradosso che siano i cittadini, dal basso, a chiedere al governo una maggiore apertura verso l’immigrazione, come è avvenuto nella manifestazione di Barcellona. È un po’ il mondo alla rovescia, in un Paese abituato ad andare in controtendenza storica, ma felice di essere estraneo ai movimenti xenofobi che stanno riscuotendo una rendita politica un po’ dappertutto.
Jeff Sessions (foto), il ministro della Giustizia dell’amministrazione Trump, ha parlato due volte con l’ambasciatore russo negli Stati Uniti durante la campagna elettorale. La notizia è stata rivelata dal «Washington Post», che cita fonti del Dipartimento alla Giustizia. Sessions avrebbe incontrato Sergey Kislyak, l’ambasciatore russo, una volta nell’estate 2016 e l’altra nel settembre 2016, quando l’intelligence americana aveva già iniziato a indagare sulla presunta interferenza russa nella campagna presidenziale. Durante le audizioni di conferma al Senato, Sessions aveva dichiarato sotto giuramento di non essere a conoscenza di presunti legami tra esponenti della campagna di Donald Trump e i russi. La «pista» russa continua quindi a perseguitare i membri del governo Usa e tocca l’uomo, Sessions appunto, che da segretario alla giustizia è responsabile delle indagini dell’FBI sul ruolo del governo di Mosca nelle elezioni. Sono stati proprio i contatti non autorizzati con i russi a portare alle dimissioni di Michael Flynn, il National Security Advisor, ossia consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump. Nel caso di Jeff Sessions, c’è però l’aggravante di aver mentito sotto giuramento nelle audizioni al Senato. Quando gli fu chiesto, nella testimonianza del 10 gennaio, come si sarebbe comportato, nel caso fosse venuto a conoscenza di comunicazioni tra la campagna di Trump e funzionari russi, Sessions rispose di «non essere a conoscenza di queste attività», aggiungendo di «non avere avuto comunicazioni con i russi». La Russia fa paura: torna la leva obbligatoria in Svezia La Svezia si appresta a reintrodurre il servizio di leva obbligatorio come risposta al riarmo e al «risveglio» politico della vicina Russia. Secondo quanto reso noto dalle agenzie, il reclutamento obbligatorio, soppresso nel 2010, dovrebbe partire nel gennaio del 2018 e riguarderà all’inizio 4mila diciottenni residenti nel paese scandinavo. Il ministro della Difesa svedese, Peter Hultgvist, nell’annunciare la decisione, ha citato «il deterioramento della sicurezza nella regione». La politica estera di Putin, tornata a essere espansiva, l’aumento del budget militare di Mosca a cui ha fatto eco due giorni fa un analogo annuncio da parte di Trump, devono aver fatto affrettare i tempi al governo di Stoccolma che pure aveva già annunciato l’intenzione di tornare all’«esercito di popolo» già nell’estate del 2016. In tutto il nord Europa il teatro militare sta cambiando in seguito al «risveglio» russo: anche la Lituania ha reintrodotto il reclutamento obbligatorio nel 2015 e persino la Germania intende rilanciare il progetto della Bundeswehr. La Svezia è a tutti gli effetti un paese neutrale e pacifista: non fa parte della Nato, non partecipa a conflitti armati da almeno due secoli, ha accumulato una vasta credibilità planetaria nella soluzione non violenta dei conflitti e nella tutela dei diritti.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Politica e Economia
Trump, svolta moderata
Il discorso al Congresso Il presidente americano ha lanciato un messaggio ottimista in stile Obama
dopo che all’Inauguration Day aveva evocato «carneficine»: «Pensiamo alle meraviglie se liberiamo i sogni del nostro popolo» Federico Rampini Una spinta al riarmo che può accelerare la crescita americana ma anche rilanciare una nuova guerra fredda. Meno tasse e meno regole sulle imprese per stimolare la competitività del made in Usa. Deregulation estesa a Wall Street «smontando» la riforma di Barack Obama, con nuovi rischi di bolle speculative. E naturalmente il protezionismo, che può frenare una globalizzazione già in fase di stallo. È questo lo scenario su cui bisogna ragionare, per valutare le conseguenze di Donald Trump. «Pensate alle meraviglie che possiamo realizzare se liberiamo i sogni del nostro popolo». Donald Trump nel suo primo discorso al Congresso a Camere riunite ha abbandonato i toni dark, parlando perfino di speranza come faceva un certo Barack Obama. «È finito il tempo in cui si pensava in piccolo. Le contese meschine sono alle nostre spalle». Dietro la novità di stile c’è anche un po’ di sostanza. Trump offre dei deal, degli affari, un po’ a tutti: certo alla sua maggioranza repubblicana, ma c’è anche qualcosa per l’opposizione democratica, e per gli alleati europei (sia pure in un discorso dove in 60 minuti la politica estera è quasi del tutto assente). Anche se i democratici devono fare muso duro perché la base vuole un’opposizione a oltranza, Trump gli lancia due temi di comune interesse. «Mille miliardi di investimenti in infrastrutture», è un obiettivo simile ai programmi elettorali di Hillary Clinton e Bernie Sanders. E grazie a Ivanka Trump fa capolino il «congedo parentale retribuito», roba da welfare europeo ma raro privilegio nelle aziende americane, un’altra idea che proponeva Hillary. C’è perfino un accenno – molto vago – ad una «riforma positiva sull’immigrazione» che secondo i più ottimisti può preludere a qualche tipo di sanatoria per alcune categorie di immigrati irregolari, magari selezionando i più qualificati. Resta però il muro col Messico, ed un’accelerazione delle espulsioni di clandestini.
Perché lanciare un riarmo generalizzato con massicci aumenti di forze armate, navi e cacciabombardieri? Quale guerra fredda ha in mente Trump? Agli europei Trump regala un inatteso disgelo sul tema delle spese militari. Aveva polemizzato più volte su quel Patto Atlantico dove il grosso degli oneri li sostengono i contribuenti americani mentre gli europei si godono una sicurezza pagata da altri. Trump annuncia che il suo messaggio è stato ricevuto dagli europei «e già stanno affluendo nuovi finanziamenti». Non è vero, ma chi se ne accorgerà? Trump canta vittoria, dichiara missione compiuta, tanto i suoi elettori non controllano. Ai repubblicani lui riserva il grosso dei suoi regali. C’è ovviamente la demolizione della riforma sanitaria di Obama («un disastro che sta implodendo»), un tema sacro per il Tea Party e la destra più oltranzista. Al posto di Obamacare? «Più scelta, meno costi, e cure migliori». È dai tempi di Lyndon Johnson, 1964, che ci provano tutti e nessuno ci riesce. Dietro la vaghezza dei propositi spunta quel che piace ai
Nel suo primo discorso al Congresso The Donald ha cambiato i toni parlando da presidente e non contro l’establishment di Washington. (AFP)
repubblicani: ulteriore privatizzazione di un sistema già ultra-privato. Deducibilità fiscale a fronte delle tariffe assicurative esose: un sistema che favorisce i redditi medioalti. «Massiccio sgravio fiscale». Qui siamo in pieno revival di Ronald Reagan. Dolce musica per le orecchie dei repubblicani. E tuttavia è proprio su questo terreno che i lavori parlamentari riservano incognite e pericoli. Tasse e spese le vota il Congresso, non il presidente. C’è una robusta ala di falchi anti-deficit nella destra, che nel 2011 e 2012 arrivarono vicini a paralizzare il bilancio federale e strapparono da Obama varie misure di austerity tra cui i tagli automatici, a pioggia, una mannaia che non risparmia neppure le spese militari. A costoro bisognerà fare ingoiare il «riarmo più grande della storia» nonché il maxi-piano per ammodernare le infrastrutture fatiscenti. I mercati vogliono credere che Trump farà un miracolo, e il Dow Jones ha polverizzato un nuovo record storico, superando anche la barriera dei 21’000 punti. Le ragioni dell’euforia dei mercati – finché dura – sono legate proprio agli scenari di politica economica che Trump preannuncia, promuove, promette. Se Trump mantiene le promesse abbiamo di fronte una robusta re-flazione, un’iniezione di spesa pubblica e uno sgravio fiscale che possono dare una spinta notevole alla crescita, peraltro già superiore da molti anni a quella europea. Donde l’attrattiva di investire negli Stati Uniti, tanto più che una re-flazione di questo genere dovrebbe puntellare la forza del dollaro, ormai quasi a parità con l’euro (dai minimi in qui era sceso alcuni anni fa, di 1,50 dollari per euro). E non basta. Bisogna ancora aggiungere la promessa di una deregulation a tutto campo per le imprese, in particolare uno smantellamento/semplificazione delle normative
ambientali. Il via libera agli oleodotti che Obama aveva bloccato. La demolizione almeno parziale della DoddFrank, la legge sui mercati finanziari con cui Obama aveva imposto restrizioni alle attività più speculative delle banche. Non è un caso se fra i titoli più premiati dai rialzi post-elettorali ci siano i bancari e gli energetici. «Dobbiamo ricominciare a vincere le guerre». Così Trump giustifica il boom della spesa militare, 54 miliardi aggiuntivi al Pentagono in un anno, il 10% di aumento degli stanziamenti bellici, un record storico in tempo di pace. Ma quali guerre vuole «ricominciare» a vincere, tenuto conto che Obama gliene ha lasciate in eredità così poche? I «rimasugli» di Afghanistan e Iraq, più gli interventi «chirurgici» giustificati in chiave anti-terrorismo e per lo più affidati a droni o commando, reparti speciali, poche migliaia di uomini? Perché lanciare un riarmo generalizzato, con massicci aumenti di forze armate, di navi e di cacciabombardieri, più un ambizioso programma di ammodernamento degli arsenali nucleari? Tutto questo, poi, con una presidenza dichiaratamente isolazionista, un Trump che dice: «Rispondo solo agli americani, non sono stato eletto dal resto del mondo, non esiste una bandiera mondiale né un inno mondiale». «America First», il suo slogan elettorale, lui lo ha spesso declinato in questo mondo: smettiamola di andare in giro per il mondo a raddrizzare torti, a fare i gendarmi, a spegnere conflitti altrui, occupiamoci di ricostruire un’America a pezzi. Strappo con una tradizione neo-imperiale che in chiave aggressiva o progressista ha unito Wilson e Roosevelt, Nixon e Reagan, Kennedy e Obama. Ma allora perché il riarmo a tutto campo? Quale nuova guerra fredda ha in mente Trump? Una spiegazione è elettorale.
Trump si vanta di avere avuto consensi plebiscitari nelle forze armate. Gli conviene curarsi la simpatia di quelle «tute mimetiche» che sono state a lui favorevoli quanto i colletti blu. Poi c’è l’ideologia nazionalista, il vero collante delle sue politiche. «America First» si concilia con una deterrenza a 360 gradi, che scoraggi qualunque nemico dell’America dal tentare manovre ostili. E qui colpisce la discrezione nelle reazioni dalle due capitali più coinvolte, Mosca e Pechino. Vladimir Putin forse si sta chiedendo se sia stato un buon investimento favorire l’elezione di Trump. Quando a Mosca qualche esponente di secondo piano dice «risponderemo al riarmo Usa», scatta il paragone con l’epoca Reagan-Gorbaciov: oggi come allora, Mosca non ha un’economia in grado di sostenere spese militari come quelle americane. Una delle ragioni per cui l’Urss andò al collasso fu lo sforzo per tener dietro al riarmo reaganiano. In questo caso sarebbe Trump a «vedere il bluff» di Putin, che ha saputo recuperare influenza geostrategica negli ultimi anni, ma si regge su un’economia debolissima. Il Pil della Russia è inferiore a quello dell’Italia o della Corea del Sud, poco superiore a quello della Spagna. È un miracolo che Mosca riesca ad apparire come una superpotenza alla pari della Cina quando il suo reddito nazionale è una frazione di quello cinese. In quanto alla Cina, i suoi bilanci militari in effetti stanno crescendo a ritmi «trumpiani», anzi ben superiori al 10% annuo, e da molti anni. Nonostante questo, il livello tecnologico e la proiezione globale delle forze armate cinesi resta molto indietro. La retorica militarista di Trump è basata sull’assunto che le forze armate della prima superpotenza mondiale siano state «debilitate» dalla cura Obama. In realtà gli esperti continuano ad assegnare
agli Stati Uniti una forza bellica che è superiore a quella delle cinque o sei potenze successive addizionate fra loro. Debilitata? In passato, soprattutto negli anni Settanta (Vietnam) e all’inizio del nuovo millennio (Afghanistan, Iraq) si fece strada la teoria dell’overstretch. Questa teoria ammoniva sul rischio di una dilatazione eccessiva dell’impero americano, fino a raggiungere dimensioni e costi insostenibili rispetto alla capacità dell’economia Usa. La teoria dell’overstretch si arricchiva di paragoni storici con altri imperi, da quello romano a quello britannico. Altre interpretazioni indicavano che le guerre perse dall’America (Vietnam, in parte anche i risultati disastrosi dell’invasione in Iraq) non lo sono state per mancanza di risorse militari, bensì per errori politici. L’ideologo che ispira Trump, Stephen Bannon, ha preso la sua visione del mondo da un libro del 1997, The Fourth Turning: An American Prophecy di Neil Howe. Libro apocalittico ma non nel senso religioso, propone una visione della storia americana (e mondiale) con grandi cicli di Rinascite e Distruzioni, guerre ineluttabili seguite da ricostruzioni economiche ed anche etico-politiche. Oggi secondo Howe ci sono le condizioni per il prossimo ciclo catastrofico, la Quarta Svolta, che potrebbe includere anche un nuovo conflitto mondiale. La lettura che ne dà Bannon fornisce una chiave possibile per il riarmo di Trump: il mondo è un caos, l’America è circondata di nemici, oltre a elevare muri di ogni genere, è meglio che a guardia delle fortificazioni ci sia una potenza spaventosa. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Politica e Economia
Chi ha ucciso Kim Jong-nam? Spy story Era il fratellastro maggiore del leader nordcoreano Kim Jong-un, costretto a respirare una dose letale
di gas nervino, una delle sostanze chimiche più pericolose del mondo Giulia Pompili Sono quasi le nove del mattino di un lunedì qualunque di febbraio, all’aeroporto di Kuala Lumpur. Lo scalo della capitale della Malaysia è uno dei più trafficati del mondo, perché situato in una posizione strategica a cinquanta chilometri a sud di Kuala Lumpur nel distretto del business malay, Sepang. Alle nove del mattino di lunedì l’aeroporto è gremito di persone, e nell’area adiacente al banco dei check-in si aggira un uomo piuttosto anonimo, vestito con jeans, giacca turchese e t-shirt blu, indossata su un fisico in sovrappeso, uno zainetto sulle spalle. Viene ripreso dalle telecamere di sorveglianza mentre alza la testa a cercare lo schermo delle partenze, e poi prosegue oltre, in attesa di tornare a casa. Ma saranno gli ultimi minuti della sua vita. Improvvisamente viene aggredito alle spalle. C’è una donna che lo afferra e gli copre la bocca con quello che sembra essere un panno, mentre un’altra, che gli compare davanti, forse spruzza qualcosa sul suo viso. Nel giro di pochi secondi le due donne scompaiono. L’uomo sembra spaventato, confuso, cammina veloce verso il banco delle autorità aeroportuali. Morirà venti minuti dopo, sull’ambulanza, mentre viene trasportato in ospedale. Il nome sul suo passaporto è Kim
Chol, ma non è la sua vera identità. Nel giro di ventiquattro ore le autorità malay scoprono che a essere ucciso, nel mezzo dello scalo aeroportuale più grande del Paese, in pieno giorno, mentre era in attesa di imbarcarsi su un volo Air Asia diretto a Macao, non è un uomo qualunque. Si tratta di Kim Jongnam, fratellastro del leader nordcoreano Kim Jong-un, l’uomo che dal 18 dicembre del 2011, cioè dalla morte del padre, guida la Corea del nord. Come sempre negli ultimi sedici anni, il primogenito del Caro Leader Kim Jong-il viaggiava con un passaporto con una falsa identità. Si nascondeva dal regime di Pyongyang da quando, nel 2001, era stato allontanato definitivamente, e in circostanze mai del tutto chiarite, dalla corsa alla leadership del Paese più isolato del mondo. Le autorità sudcoreane le chiamano «code di lucertola». Sono le unità, gli agenti, le risorse che possono essere sacrificate dopo un’azione d’intelligence. E infatti il giorno successivo all’omicidio, dopo solo poche ore di indagini, la polizia malaysiana arresta le due donne sospettate di aver ucciso il fratello del leader nordcoreano. La prima è ripresa dalle telecamere di sorveglianza dell’aeroporto mentre aspetta un taxi che la porterà in un hotel poco distante. Indossa una maglietta bianca con la
scritta LOL, l’acronimo per «laughing out loud», un’espressione che suona particolarmente spaventosa viste le conseguenze della sua azione. La donna si chiama Doan Thi Huong, è di nazionalità vietnamita, e secondo quanto ufficializzato dalle numerose conferenze stampa rilasciate dalle autorità malaysiane, oltre che dalle ricostruzioni dei media, lavorerebbe in un outlet di Kuala Lumpur da poco tempo. Ha ventotto anni, e ha studiato alla facoltà di Farmacia di Hanoi. L’altra donna arrestata è Siti Aishah, originaria di Giacarta. La polizia la trova in possesso di due passaporti diversi, entrambi indonesiani. La definiscono una ragazza giovane e ingenua, arrivata in Malaysia in cerca di lavoro. E in effetti qualcosa le accomuna. Entrambe spiegano alle autorità di essere state raggirate da alcune persone: a tutte e due era stato promesso un ruolo in uno show televisivo, credevano di partecipare a uno scherzo, una candid camera, non pensavano certo di dover ammazzare il fratellastro di uno degli uomini considerati dall’intelligence americana tra i più pericolosi del mondo. La loro versione è ancora sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori. Insieme alle due donne, la polizia malay identifica quattro nordcoreani, nel frattempo scappati in Corea del
Kim Jong-nam dal 2001 era stato allontanato dalle stanze del potere di Pyongyang. (AFP)
Nord dopo un lungo viaggio attraverso Giacarta e San Pietroburgo. Ma riescono a fermare un cittadino nordcoreano, Ri Jong Chol, sul quale però non pendono ancora capi d’accusa formali. Passano cinque giorni prima di capire cosa ha ucciso Kim Jong-nam. Nel frattempo il suo corpo è custodito nella sala delle autopsie dell’ospedale di Putrajaya, mentre a Seul si susseguono riunioni d’emergenza e le consultazioni con i servizi segreti: chi ha ucciso Kim Jong-nam? Dopo poche ore dall’incidente, tutti – America, Giappone, Corea del sud – dichiarano di avere un sospetto più che fondato: l’ordine dell’omicidio è arrivato direttamente da Pyongyang. Del resto, Kim Jong-nam era da tempo sotto la protezione cinese, e nel 2012, in un libro-intervista pubblicato dal giornalista del «Tokyo Shimbun» Yoji Gomi, si era espresso criticamente nei confronti del regime: «È destinato a durare ancora per poco. Senza le riforme la Corea del Nord collasserà», e poi: «Una terza generazione alla successione del potere è senza precedenti e in totale contraddizione con il socialismo a cui si ispira». Nel 2001 Kim Jong-nam era finito sui giornali internazionali per essere stato fermato all’aeroporto di Narita, nella capitale giapponese. Era accompagnato dalla famiglia, e tutti viaggiavano con passaporti falsi. Lo fermarono poco prima di uscire dall’aeroporto, e lui dichiarò di essere partito per andare a visitare Disneyland. Prima dell’incidente di Tokyo sembrava essere lui il predestinato, l’uomo che avrebbe dovuto sostituire il padre Kim Jong-il dopo la sua morte, godeva di titoli onorifici e ruoli che lo avrebbero traghettato facilmente a capo dell’establishment di Pyongayng. Perché era il primogenito, Kim Jong-nam, ma era nato da una relazione che Kim Jong-il aveva tenuto nascosta per molti anni. Kim Jong-il aveva avuto un figlio da Song Hye-rim, quella che è considerata il primo amore del Caro Leader, una donna che era già molto famosa in Corea del nord tra gli anni Sessanta e Settanta, perché era un’attrice di successo. Ma Song era sposata, e fu costretta a divorziare per entrare nelle grazie dell’allora leader di Pyongyang, Kim Il-Sung. Lentamente, fu allontanata dalla vita pubblica di Pyongyang. Morì
nel 2002 a Mosca, da sola, in un esilio de facto. Sembra che ad avvertire la polizia di frontiera di Tokyo durante il tentato viaggio a Disneyland di Kim Jong-nam, nel lontano 2001, furono proprio i suoi fratellastri. Un tradimento orchestrato per metterlo fuori dai giochi, e consegnare il posto di comando a Kim Jongchul. Ma poi anche quest’ultimo cadde in disgrazia: il famoso chef giapponese personale di Kim Jong-il, Kenji Fujimoto, rivelò in un libro che Kim Jong-chul era considerato «troppo effeminato» per fare il leader. Nel 2015 Jong-chul fu visto a Londra al concerto del famoso chitarrista Eric Clapton, quando ormai al potere era salito Kim Jong-un, il piccolo della famiglia. L’attuale leader cerca ancora di consolidare il suo potere, e oltre alle costanti minacce nei confronti di Corea del sud e America, attraverso test atomici e missilistici, ha già dimostrato di essere in grado di sacrificare i suoi stessi parenti: nel 2013 lo zio Chang Songtaek, cognato del Caro Leader, uno dei più alti in grado nella catena di comando di Pyongyang, fu arrestato e giustiziato per ordine diretto di Kim Jong-un. Forse vedeva nel navigato zio una minaccia all’accentramento del potere su di sé. Forse anche il fratellastro maggiore, Kim Jong-nam, era una minaccia. È morto in venti minuti dopo l’attacco, tra atroci sofferenze, ha detto il capo della polizia malay Khalid Abu Bakar dopo la pubblicazione dei risultati dell’autopsia. A uccidere Kim Jongnam è stata una sostanza chiamata VX, un agente nervino classificato dalle Nazioni unite come arma di distruzione di massa e vietato nel 1993. Le due donne che ora subiranno un processo in Malaysia, dopo aver avvicinato il fratellastro del leader nordcoreano, lo hanno costretto a respirare una delle armi chimiche più pericolose del mondo. «Sapevano cosa stavano facendo, o almeno conoscevano la procedura», ha detto la polizia, «perché subito dopo l’attacco sono corse a lavarsi le mani». Mentre la Corea del Nord continua a negare ogni accusa, l’assassinio di Kim Jong-nam e tutta la spy story che ha generato, è un punto di non ritorno nei rapporti di Pyongyang con il resto del mondo.
Problemi di nebbia e di soldi La seta indiana New Delhi è una della capitali più inquinate del mondo ma anche quella
con un altissimo tasso di corruzione Francesca Marino L’aspetto positivo è che siamo tutti d’improvviso guariti dalla tosse, dall’asma e dagli attacchi di panico che ci affliggevano da giorni e che dominavano le conversazioni di tutti e anche la programmazione dei canali di news. Da quando, la mattina dopo Diwali, ci eravamo svegliati a Delhi avvolti da una fitta e densa coltre di nebbia che rendeva impossibile vedere a più di dieci metri di distanza: colpa dei fuochi d’artificio sparati per due giorni con grande allegria e qualche senso di colpa di natura ecologico-ambientale, avevano detto tutti. Quando però, dopo due giorni, la nebbia non accennava a calare e l’aria era ancora irrespirabile, è cominciata la discussione su smog e qualità dell’aria di Delhi, che vanta ormai il poco felice primato di essere una delle capitali più inquinate del mondo. Fino a che una mattina, con un tempismo da record, è letteralmente spuntato dal nulla a Khan Market un negozietto letteralmente preso d’assal-
to da turisti, locali e soprattutto da telecamere di televisioni locali con tanto di giovanissimi ed entusiasti reporter d’assalto che intervistavano chiunque passasse di là, cani e gatti compresi. Il negozietto di cui sopra vendeva mascherine simil sala operatoria, ma di tessuto stampato in diverse fantasie e fornite di presunto filtro per purificare l’aria. Il giorno dopo, nella stessa Khan Market, sembrava di stare sul set di un film della serie «dopo l’Apocalisse». Bene, o almeno bene che per una volta un problema che si ripresenta ogni anno appena comincia la stagione invernale, e cioè la nebbia/coltre di smog che avvolge la capitale per diverse ore al giorno, venga quantomeno discusso. Ma, come sempre accade, la discussione è stata prontamente rimpiazzata da un problema di più immediata portata: dalla mattina alla sera il governo ha annunciato il ritiro dalla circolazione di tutte le banconote da 500 e 1000 rupie. Che saranno rimpiazzate in seguito, ma che per il momento devono essere velocemente convertite in banconote da 100
e da 50, le uniche ancora ammesse. Mi sono subito tornati alla memoria i felici tempi di quando giovanissima viaggiavo senza sosta per il Paese, e cambiare 100 dollari significava ritrovarsi con un malloppo delle dimensioni di uno zainetto pieno di mazzette di rupie rigorosamente spillate tre-quattro volte e poi avvolte in tre-quattro elastici. Liberare le banconote senza strapparle era un’impresa titanica, e nascondere viaggiando la quantità di denaro anche. La mossa a sorpresa è stata studiata dal governo per fare emergere la mole di denaro nero che circola principalmente tra Delhi e Bombay: dove lo spettacolo di signore della buona società che tirano fuori dalla borsetta quantità incredibili di denaro contante per pagare un paio di scarpe di Jimmy Choo non è affatto insolito. Come non è insolito, anche per chi non beneficia di mazzette pagate a scopo corruzione o concussione, tenere in casa quantità anche rilevanti di denaro contante. Perché se è vero che la corruzione dilagante si alimenta col denaro
nero e che le mazzette da 1000 hanno reso il tutto più semplice, è vero anche che l’economia indiana, quella della gente comune, si basa quasi esclusivamente sulla circolazione di contante. La maggioranza silenziosa, quella che non legge l’inglese e non figura nei notiziari, non possiede una carta d’identità figuriamoci un conto corrente bancario. Così, si assistono a scene deliranti fuori dalle banche e davanti ai bancomat, e a scenette degne della penna di un grande umorista. C’è chi ha fatto la spesa dal fruttivendolo ricaricando il cellulare del fruttivendolo in questione, chi ha pagato con carta di credito la bolletta dell’elettricità del sarto per farsi consegnare i vestiti, chi fa la spesa a credito dal solito negozietto all’angolo e si fa anche anticipare un po’ di contante. Uber e Ola hanno annunciato a tamburo battente l’introduzione dei pagamenti con carta di credito e sono spuntati posse per pagare con il bancomat in posti che fino al giorno prima si erano sempre rifiutati di adoperare una tesserina magnetica di qualunque genere.
Nebbia da inquinamento dopo Diwali. (AFP)
Fiorisce ovviamente il mercato nero, e c’è gente che compra banconote da 500 o 1000 a un tasso di sconto che va dal 3 al 20%. E a farne le spese sono come al solito i disgraziati: che non hanno un conto in banca né un bancomat e che tenevano sotto chiave dentro casa i loro sudati risparmi, in banconote da 500 o 1000, possibilmente, perché occupavano meno spazio. Gente che vaga disperata tra datori di lavori e vicini di casa cercando di convertire in banconote ancora valide quella che tra poco sarà carta straccia e che rischia di non poter pagare, ed è successo all’autista di alcuni vicini, le nozze del figlio o i funerali della nonna.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Politica e Economia
Bilanci positivi per la Confederazione ma restano necessari nuovi risparmi Conti pubblici Il Consiglio federale presenta nel 2016 un avanzo d’esercizio di 1,2 miliardi, ma vuole tuttora
contenere le spese. Ci si chiede se non utilizzare per altri scopi l’avanzo dei bilanci positivi, invece di ridurre il debito
Ignazio Bonoli La notizia di una chiusura positiva dei bilanci 2016 della Confederazione è passata quasi inosservata nei media nazionali. Eppure si tratta di 1,2 miliardi di franchi. Sarà perché la Confederazione ci ha abituati a preventivi che poi vengono sovvertiti dai consuntivi, oppure sarà perché l’effetto del freno alla spesa è superiore a quanto ci si sarebbe aspettati. Sta di fatto che con questo risultato – e questa è una notizia di non poco conto con i tempi che corrono – la Confederazione riporta il suo debito pubblico lordo sotto il livello dei 100 miliardi: più precisamente dai 124 miliardi del 2005 ai 98,8 miliardi del 2016 (dal 26% del PIL al 15%). Qualche giustificazione a questa situazione è stata data già con la presentazione dei conti. Una di queste, un po’ curiosa, è che, a causa degli interessi negativi praticati dalle banche nei confronti dei capitali a deposito, molte imprese, ma anche alcuni privati, hanno anticipato il pagamento delle loro imposte. Questo fatto ha provocato entrate per la Confederazione superiori al previsto, ma nel contempo lascia presagire che nei prossimi anni vi sarà un rallentamento. Questo fatto da solo avrebbe contribuito a migliorare il bilancio 2016 di 800 milioni di
franchi. A questi andrebbero aggiunti altri 500 milioni di entrate straordinarie che da sole giustificano quasi tutta l’eccedenza. Nel contempo le spese della Confederazione sono comunque aumentate, pur mantenendosi nei limiti previsti. D’altro canto è chiaro che di fronte a risultati positivi (anche nel 2015 si trattava di 2,3 miliardi di franchi) il Parlamento sia propenso ad allargare di più i cordoni della borsa. Il Consiglio federale non intende quindi abbandonare il principio della prudenza nella spesa pubblica e per questo – per quanto paradossale possa sembrare – torna ad annunciare un nuovo pacchetto di risparmi. Si tratterebbe di risparmiare un miliardo di franchi di spesa ogni anno tra il 2018 e il 2021. Aumenti di spese sono già previsti per il traffico, per l’AVS e per l’esercito. Senza misure di contenimento i disavanzi, a partire dal 2018, saliranno di circa 500 milioni fino a 1 miliardo di franchi ogni anno. Disavanzi che l’attuale meccanismo del freno alla spesa non permetterebbe. Il nuovo pacchetto partirà comunque dalla premessa che il piano di contenimento 2017 – 2019, attualmente all’esame delle Camere, venga accettato. A qualcuno potrà sembrare che Berna voglia risparmiare a tutti i costi,
CH10176_DEMI PAGE MIGROS MARKENFESTIVAL KW10 E10 HD.pdf
tuttavia il governo fa notare che non si tratta di veri e propri risparmi, ma piuttosto di rallentamenti nella crescita delle spese. Il piano permetterebbe di contenere l’aumento delle spese nel 2,8% all’anno, dal 2017 al 2020, invece del 3,2% senza interventi. Spese che comunque restano superiori alla prevista crescita dell’economia, nella misura del 2,5% annuo. Ciò è comprensibile, poiché la metà delle uscite della Confederazione sono dovute a spese vincolate. Il che significa anche che gli interventi sulle spese non vincolate potrebbero essere più pesanti. In questi casi si pensa dapprima sempre a tagli lineari per circa 500 milioni di franchi (pari al 3%). Di seguito si pensa a interventi mirati per 300 / 350 milioni di franchi all’anno nei settori in cui gli aumenti negli ultimi anni sono stati particolarmente forti. Infine, altri 150 milioni all’anno possono essere risparmiati in settori a gestione propria del governo (personale, informatica, consulenze esterne). Il Consiglio federale vuole valutare nel corso dell’anno se presentare un progetto meglio definito e comprendente anche riforme strutturali. Una di esse concerne il rilancio della tassazione delle imprese, dopo quella caduta in votazione il 12 febbraio. Dapprima si può valutare un effetto positivo nel fat3
14.02.17
11:20
Il Consiglio federale valuterà se presentare entro la fine dell’anno delle riforme strutturali del sistema di spese della Confederazione. (Keystone)
to che la Confederazione non dovrà indennizzare i cantoni per un miliardo, ma in seguito il problema si riproporrà. Tra le riforme si sta pensando anche a una revisione del meccanismo del freno alla spesa, nell’intento di renderlo meno rigido. In particolare, per poter utilizzare le eccedenze per altri scopi, che non siano quello della riduzione
del debito. Il Dipartimento delle finanze non è entusiasta della proposta, ma attualmente un gruppo di esperti si sta occupando del tema e dovrebbe consegnare un rapporto entro luglio. A tutti è comunque chiaro che una gestione con pochi debiti, ma in previsione di grandi spese, è una garanzia per le generazioni future. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Politica e Economia
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Thomas Kaufmann, gestore di fondi in azioni e immobili della Banca Migros
Negli ultimi anni le azioni e i fondi immobiliari svizzeri hanno impresso una marcia in più ai depositi degli investitori. Il grafico lo rivela chiaramente: chi negli ultimi tre anni possedeva fondi o azioni immobiliari ha ottenuto un considerevole apprezzamento del capitale. Nel solo 2016 i fondi immobiliari quotati alla borsa svizzera hanno guadagnato in media ben il 7%. Anche i prezzi delle obbligazioni sono progressivamente aumentati sulla scia del calo dei tassi, tuttavia penalizzando notevolmente il rendimento che, per le obbligazioni, si colloca in prevalenza al di sotto dello zero, anche a causa dell’introduzione dei tassi negativi. In altri termini, chi detiene questi titoli fino alla scadenza finisce in ultima istanza per perderci, considerando anche i tassi. Gli investimenti in obbligazioni svizzere hanno dunque perso di attrattiva per gli investitori privati. Nel caso dei fondi e delle azioni immobiliari, invece, il rendimento degli utili distribuiti si avvicina tuttora al 3%. Il motivo è da ricercare nel fatto che per gli immobili questo rendimento dipende dagli affitti introitati ed è toccato solo indirettamente dall’evoluzione dei tassi. Se in futuro i tassi tornassero a salire moderatamente, perderebbero terreno non solo le obbligazioni, ma anche i fondi e le azioni immobiliari. Tuttavia, i ren-
Indice obbligazionario svizzero Indice immobiliare indiretto Rendimento dei titoli di stato svizzeri, durata 10 anni
Il calo dei tassi degli ultimi anni (misurato in base al rendimento delle obbligazioni della Confederazione, in rosa) ha aumentato i prezzi degli immobili, quindi anche le quotazioni dei fondi e delle azioni immobiliari (in verde). Chi ha optato per questi investimenti ha ottenuto risultati molto migliori rispetto ai possessori di obbligazioni (in verde). (Dati: SIX, Banca Migros. La performance storica non è garanzia dei risultati futuri)
dimenti più elevati degli utili distribuiti compenserebbero parzialmente le perdite di corso dei prodotti immobiliari. Dal momento che i contratti di affitto sono in gran parte stipulati a lungo termine, in una prima fase questi rendimenti
potrebbero addirittura tornare a salire. La differenza del 3% tra il rendimento degli utili distribuiti e il rendimento negativo alla scadenza di molte obbligazioni è considerevole. Se nel prossimo futuro la situazione dei tassi non cambia
drasticamente e la Svizzera conferma la sua attrattiva come piazza economica e luogo dove vivere, tutto induce a credere che i fondi e le azioni immobiliari rimarranno molto più interessanti delle obbligazioni. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Occupati di domani: tutti accademici? Nel dibattito sugli obiettivi della politica della formazione emergono due opinioni contrastanti. I sostenitori della prima invitano le autorità a fare tutti gli sforzi possibili per aumentare la quota degli occupati con formazione di terzo livello, ossia con una formazione equivalente a quella accademica. Il loro argomento è che un’economia moderna per crescere ha bisogno soprattutto dell’apporto di lavoratori con altissimi livelli di formazione. Per inciso ricorderò che la formazione accademica è, in Ticino, quella verso la quale vorrebbe orientarsi la maggioranza degli scolari che terminano la scuola media. La formazione a livello terziario gode quindi di grande attrattiva anche tra gli scolari. La seconda opinione è propagata da coloro che invitano le autorità a fare sforzi soprattutto in favore del livello secondario di formazione, quello del tirocinio o della scuola di formazione professionale specifica. Il loro argomento è che un’economia come quella ticinese ha bisogno sì di lavoratori qualifi-
cati, ma non di accademici. Per dare maggior sostanza al dibattito vale la pena di consultare le statistiche. Da una decina di anni, l’Ufficio federale di statistica pubblica stime della suddivisione degli occupati a seconda dei livelli di formazione da loro raggiunti. In questa statistica gli occupati si distribuiscono fra tre livelli: il primo è quello della scuola dell’obbligo, mentre gli altri due sono già stati definiti qui sopra. Anche se i dati disponibili riguardano solo gli ultimi anni, le tendenze in atto sono abbastanza ben discernibili. Come ci si poteva attendere, la quota degli occupati con formazione di livello primario diminuisce. Tra il 2003 e il 2014, in Ticino, è diminuita di circa un quarto scendendo dal 20,4 al 15,6%. Anche la quota degli occupati con livello di formazione secondario si è ridotta, passando dal 57,1 al 48,9% (–14,5%). Spettacolare invece è stata l’ascesa della quota di occupati con formazione terziaria. La stessa è passata dal 22,4 al 35,5% segnando così un aumento pari al 55%. Anche
nel mercato del lavoro ticinese, quindi, le esigenze di formazione sembrano essere aumentate. Il divario tra quota di occupati con formazione secondaria e quota di occupati con formazione terziaria continua tuttavia ad essere significativo. Nel 2014 le due quote dell’occupazione erano ancora separate da una differenza di circa 13 punti. Tuttavia, se le tendenze dovessero continuare a svilupparsi così, nel 2020 la quota degli occupati con formazione terziaria raggiungerebbe, a un livello vicino al 44% del totale, quella degli occupati con formazione secondaria. E che le tendenze, in un’economia moderna, basata sul settore dei servizi, possono andare in questa direzione ce lo dimostra il mercato del lavoro della città di Zurigo (dalle dimensioni più o meno uguali a quelle del mercato del lavoro ticinese) dove le due quote si sono eguagliate già nel 2010. Che cosa ci dicono queste tendenze evolutive? Ci dicono che nel dibattito sui livelli di formazione hanno probabilmente ragione coloro che sostengono
che bisogna favorire una formazione al livello terziario perché è dove si muove la domanda di competenze anche nel mercato del lavoro ticinese, nel quale il settore dei servizi è pure il settore di occupazione dominante. Questo non significa tuttavia che tutti i giovani ticinesi debbano diventare degli accademici con laurea e dottorato o, come va di moda oggi, con bachelor e master, conseguiti nelle università tradizionali. L’introduzione della maturità professionale e delle scuole universitarie professionali ha dimostrato che vi è la possibilità di conseguire una formazione di livello terziario anche scegliendo l’opzione del tirocinio professionale. Si può anzi ipotizzare che il rapido aumento conosciuto dalla quota di occupati con formazione terziaria nel corso degli ultimi due decenni non ci sarebbe stato se non fossero state effettuate queste riforme. La creazione delle scuole universitarie professionali ha certamente sdrammatizzato la scelta della strada da seguire una volta terminata la scuola
dell’obbligo perché ha offerto, anche agli occupati con formazione secondaria, la possibilità di accedere al livello di formazione superiore. Ma il confronto tra la struttura dell’occupazione per livelli di formazione nel canton Ticino e nella città di Zurigo ci dice che, anche in futuro, continuerà ad esistere uno zoccolo di occupati senza formazione professionale specifica. A Zurigo gli occupati senza formazione professionale rappresentavano, nel 2014, il 20% circa del totale; in Ticino, invece, solo il 15,6%. Che lo zoccolo di non-qualificati sia a Zurigo più importante che in Ticino è forse il dato più sorprendente che emerge da questo confronto. In altre parole, l’economia dei servizi recluta sempre più lavoratori con livello di formazione terziario, ma ha bisogno anche di una quota abbastanza costante di non qualificati. Una delle maggiori conseguenze di questa evoluzione è che il divario nelle scale salariali, tra i salari più bassi e quelli più elevati, continua ad aumentare.
Sia i Repubblicani sia il Ps hanno fatto le primarie. La partecipazione popolare è stata fortissima a destra e buona a sinistra. Eppure i due vincitori, François Fillon e Benoit Hamon, secondo i sondaggi sarebbero eliminati al primo turno. E l’unica candidatura certa di arrivare al secondo turno è quella di Marine Le Pen. Una sua vittoria segnerebbe la fine dell’Europa. Resta improbabile; ma non è più impossibile. Al momento alle spalle della Le Pen c’è Emmanuel Macron. Al ballottaggio un centrista come lui dovrebbe vincere senza troppi problemi, pescando sia a destra sia a sinistra. Oltretutto Bayrou ha rinunciato a scendere in campo per sostenerlo. E, per quel che vale, il presidente uscente Hollande potrebbe dargli una mano. Ma la candidatura di Macron resta debole. Alle sue spalle non ha un partito, non ha un territorio. Ha un profilo più mediatico che autenticamente popolare. È più solido nelle aree metropolitane che nella Francia
profonda, rurale e diffidente delle novità. Non ha ancora quarant’anni. Già si parla di dossier contro di lui. E poi bisogna considerare gli agenti esterni, che possono influire sulla corsa all’Eliseo. Tifano per Marine Le Pen sia Putin, che l’8 novembre scorso ha già dimostrato grazie agli hacker e ad Assange di poter influire sulle libere elezioni di Paesi occidentali, sia il Califfo. Il terrorismo islamico ha già condizionato l’esito del voto in Spagna, dove la bomba di Atocha l’11 marzo 2004 fece duecento morti e portò alla sconfitta dei popolari di Aznar e alla vittoria dei socialisti. A Parigi una vittoria del Front National porterebbe inevitabilmente a un giro di vite contro la comunità islamica e in generale gli immigrati: proprio quello che i fondamentalisti auspicano, per radicalizzare l’Islam francese e fare proseliti tra i figli delle banlieues. Facciamo ora l’ipotesi che Macron alla fine non ce la faccia, e Fillon riesca ad agguantare il secondo posto, magari
sul filo di lana. Dietro di lui non si ripeterebbe al ballottaggio l’union republicaine che nel 2002 plebiscitò Chirac. La sinistra si è molto radicalizzata, ha espresso candidati antisistema come Mélenchon e in parte lo stesso Hamon; davvero sosterrebbe il candidato di destra, che oltretutto vuole tagliare mezzo milioni di funzionari pubblici? Facciamo invece l’ipotesi che al fotofinish per il secondo posto la spunti Hamon, magari grazie al tracollo di Mélenchon: la destra borghese è pronta a votare un presidente della sinistra radicale, che la sommergerebbe di tasse e non darebbe garanzie di linea dura sull’Islam? Consideriamo infine che sia Macron sia Marine Le Pen, se diventassero presidenti, faticherebbero parecchio a trovare una maggioranza parlamentare nelle successive elezioni legislative per l’Assemblea nazionale; e abbiamo così un quadro completo della difficilissima situazione in cui versa la Francia.
sche nella fascia alpina. Molti hanno accusato gli allevatori di non proteggere a sufficienza le greggi con alti recinti e con grossi cani maremmani. Ormai siamo al paradosso: il lupo in libertà, la pecora in cattività; per l’uno si prova ammirazione, per l’altra compassione (ma è quella che si deve ad un agnello predestinato al sacrificio). Il che fa sorgere più di un interrogativo sul rapporto che noi oggi intratteniamo con le diverse categorie di animali presenti nell’immaginario individuale e collettivo. Il declino della civiltà contadina e l’ascesa, per converso, della società dei servizi hanno generato una distorsione nel rapporto con il mondo animale. Certe specie sono come sparite dall’orizzonte visivo, soprattutto da quello dei bambini. Per vederle, osservare i loro movimenti, accarezzarle bisogna cercarle negli interstizi
rimasti verdi, tra autostrade, depositi e linee ferroviarie. Si è anche imposto un processo di antropomorfismo, ossia la tendenza a rappresentarsi l’animale sotto fogge umane. Il temibile lupo è diventato un lupacchiotto giocherellone, il feroce orso un amorevole orsacchiotto. Il cambiamento ha investito anche lo spazio pubblico e le relative gerarchie di valore. Parteggiare per il lupo piuttosto che per la pecora svela la scala delle preferenze forse più di tante indagini sociologiche. Il primo infatti è associato ad una gamma di caratteristiche positive: spirito libertario, audacia, fierezza, intelligenza; il secondo a tare e mancanze, come atteggiamenti gregari, sottomissione, ottusità, rassegnazione. Negli stemmi delle case regnanti e nei vessilli dei corpi speciali degli eserciti raramente si troverà effigiato un
erbivoro; numerosi saranno invece i carnivori come i leoni e le pantere, gli uccelli rapaci come le aquile (famosa quella bicipite della casa d’Asburgo), i pesci voraci come gli squali. Lo sguardo ebete dell’ovino intruppato non potrà mai reggere il confronto con l’occhio penetrante del predatore. Eppure la mansueta pecora ha nutrito – e tuttora nutre – intere generazioni. Procura reddito, è utile e inoffensivo. Ma forse sta proprio qui il suo punto debole; è questa sua indole bonaria a renderlo vulnerabile. Autocrati e predatori infatti non perdonano i deboli e gli inermi. Perché, come dice il proverbio, «chi pecora si fa, il lupo se lo mangia». In un’era in cui si celebrano nuovamente le virtù dell’uomo forte – dalla Russia agli Stati Uniti passando per l’Ungheria e la Turchia – gli animi miti e concilianti non potranno che aspettarsi il peggio.
In&outlet di Aldo Cazzullo Francia, vuoti di potere Quella che sta accadendo in Francia è una vera e propria rivoluzione. Per la prima volta, si profila un’elezione in cui nessuno dei due schieramenti che
da sempre si contendono il potere, la destra neogollista e la sinistra socialista, sarà rappresentato al ballottaggio per l’Eliseo.
François Fillon non ritira la candidatura dopo le indiscrezioni su Penelope. (AFP)
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Un tempo da lupi Il lupo è uscito dalle fiabe, dai proverbi e dalle formule propiziatorie per rovinare il sonno degli allevatori di ovini e caprini. Sulla sua presenza e i suoi comportamenti l’opinione pubblica si è subito divisa. C’è chi lo venera e chi lo maledice. Resta il fatto che oggi il predatore è protetto, anzi super-tutelato da una panoplia di leggi e norme. La sua vita vale 25 pecore, e poi non è detto che così tante vittime portino alla sua soppressione. In sua difesa il legislatore ha dispiegato uno zelo superiore alla media, come se dovesse farsi perdonare le decimazioni dei decenni precedenti. Simili scrupoli sono recenti. Nel Ticino pre-industriale il bestiame rappresentava una fonte vitale per quasi tutte le famiglie residenti nell’area alpina. Mandrie e armenti pascolavano alle diverse quote in tutta libertà. Ogni tanto qualche bestia precipitava in un
burrone o si spezzava una zampa. Il destino era il macello. Pensare che al rischio connesso alla morfologia del territorio (dirupi, cenge, pendii scivolosi) si aggiungesse anche la minaccia di un lupo o di un orso era davvero troppo. In quelle circostanze, condizionate da un acuto stato di necessità, un eventuale aggressore non avrebbe rivisto le luci dell’alba. Oggi il cantone ha un volto diverso. Il settore primario occupa uno spazio residuale nella scala delle attività economiche. Di conseguenza anche la sua forza politica, traducibile in voti, si è affievolita. Il lupo può dunque girovagare tranquillo. A placare le ire dei pecorai ci penserà lo Stato con adeguati indennizzi e quindi, in ultima analisi, il cittadino-contribuente. In queste ultime settimane, i nostri quotidiani hanno pubblicato parecchi interventi sulle ultime scorrerie lupe-
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Cultura e Spettacoli La magia di Angela Carter L’intraprendenza dell’editore Fazi ha riportato in libreria una signora della letteratura
Tracce d’architettura ticinese Pubblicata la raccolta di disegni realizzati dagli architetti Adamini di Bigogno, attivi a San Pietroburgo tra ’700 e ’800
La musica e il regime A colloquio con il direttore d’orchestra austriaco Ion Marin, da molti anni in Ticino pagina 41
Marco Zappa live Il cantautore, presente sulla scena 50 anni, è un importante testimone del nostro tempo
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Una sfida destabilizzante Mostre L’opera di David Hockney esposta
alla Tate Britain di Londra
Gianluigi Bellei David Hockney: se non lo conoscete segnatevi questo nome. Sembra sia il più grande artista vivente. Non a caso la Tate Britain di Londra – attenzione la Tate Britain, che si occupa di artisti storicizzati come per esempio Turner, e non la Tate Modern che espone personalità contemporanee – gli dedica un’esaustiva esposizione. Mostra che andrà poi al Centre Pompidou di Parigi e infine al Metropolitan Museum di New York. Tre musei fra i maggiori al mondo per sancire così la definitiva consacrazione di Hockney nell’Olimpo dell’arte. Proprio in occasione dei suoi 80 anni. Contemporaneamente l’artista sta lavorando a una vetrata della chiesa protestante londinese di Westminster Abbey, simbolo della monarchia, e Bradford la sua città natale gli dedicherà una mostra permanente nella Cartwright Hall. Insomma un viaggio a Londra è quasi d’obbligo, anche perché il suo lavoro va visto complessivamente e non per singolo quadro. Solo così infatti ci si può fare un’idea del suo pensiero e delle innovazioni che, anche in tarda età, continua a proporre. I singoli dipinti infatti, soprattutto i primi, possono risultare stucchevoli, commerciali, un tantino banalotti, in sintesi molto pop. In realtà siamo di fronte a qualcosa di maggiormente complesso e articolato che la mostra londinese rende bene donandoci una delle più belle esposizioni viste recentemente. Ma chi è Hockney? Nasce da una famiglia metodista il 9 giugno 1937 a Bradford nello Yorkshire dove studia al College of Art per poi proseguire al Royal College of Art di Londra. Compie viaggi a Berlino, a New York – dove conosce Andy Warhol, Dennis Hopper e Peter Fonda – e in Egitto. Nel 1964 visita per la prima volta Los Angeles che definisce «la nursery della moderna omosessualità». Qui prendono corpo le sue fantasie che rappresenta soprattutto attraverso l’acqua. A Bigger Splash del 1967 mostra uno spazio definito e razionale con una piscina, una casa con vetrate, due palme. Si nota l’assenza di figure ma soprattutto il getto d’acqua che si alza come uno spruzzo dopo il tuffo; simbolo di un’e-
iaculazione. Torna a Londra e in seguito di nuovo a Los Angeles, dove vive tuttora. La mostra londinese è divisa in 12 sezioni organizzate cronologicamente. Si parte con gli anni 1960-1962 nei quali sperimenta una sorta di astrazione con numeri e lettere che fanno da contraltare a figure con oggetti fallici. Segue la serie denominata Domestic Scenes nelle quali rappresenta il desiderio gay ritratto in un ambiente consuetudinario. I dipinti sono stilizzati, i colori accesi, gli oggetti quasi sospesi nell’aria. Eloquente Los Angeles del 1963 dove un uomo lava la schiena ad un altro sotto la doccia. Dal 1964 Hockney si trasferisce a Santa Monica, sempre nell’area di Los Angeles. Subisce l’influsso del suo ambiente moderno e geometrico ma anche dei giovani e atletici uomini. I dipinti si fanno minimalisti; giocano sulla trasparenza dell’acqua e la semplificazione delle forme. Negli anni Settanta inizia a pitturare con l’acrilico e realizza una serie di ritratti di coppia. Grandi tele dove la resa pittorica è meticolosa quanto rarefatta e gli intrecci fra le figure rappresentate enigmatici e silenziosi. Emblematici i ritratti di Christopher Isherwood e il partner Don Bachardy del 1968 tanto quanto quello del 1972 dove l’artista sancisce la dolorosa separazione dal suo boyfriend (lo studente d’arte Peter Schlesinger, definito un vero californiano; un bellissimo efebo). Nel 1980 si interessa al cubismo di Picasso e inizia una serie di fotografie realizzate con la Polaroid che assembla una accanto all’altra sino a realizzare un mosaico spezzettato di frammenti sfasati fra loro. All’inizio in maniera piuttosto organica e razionale e in seguito più sfaccettata e irregolare. Billy and Audrey Wilder del 1982 è composta da 144 immagini. Contemporaneamente dipinge gli immensi spazi naturali americani come il Grand Canyon. Ritorna all’olio e i colori si fanno maggiormente accesi e vitali. Gli spazi vengono realizzati unendo diverse tele per raggiungere dimensioni straordinarie, impressionanti (tre metri per cinque per esempio). Nel 2006 rientra nel nativo Yorkshire e i paesaggi ritornano calmi e ariosi. Nel 2010 questi si fanno mobili, stranianti, elettronici. Attraverso una serie
David Hockney, Billy & Audrey Wilder, Los Angeles, April 1982, 1982. (Richard Schmidt)
di video multi-screen e diversi monitor filma lo stesso paesaggio durante il miracolo delle quattro stagioni. 36 video sincronizzati per un’opera immaginifica che riecheggia le cattedrali di Monet. Poi torna a Hollywood. Gli ultimi lavori sono realizzati con un miscuglio di tecniche diverse utilizzando l’iPhone e in seguito l’iPad assieme ai classici pennelli. I risultati sono strabilianti, come il metodo, sempre più intrigante e deviante. La realizzazione dell’opera segue strade tortuose e multiformi e crea delle analogie e delle contraddizioni volutamente ambigue. Per esempio fotografa dei personaggi con l’iPad poi li dipinge e mette la stessa foto all’interno del quadro o viceversa. Card Players #3 del 2014 è un acrilico su tela raffigurante dei giocatori di carte
attorno a un tavolo; The Card Players del 2015 è una fotografia degli stessi personaggi reali con la foto del quadro precedente appesa al muro. Infine dipinge un quadro con il pennello, lo fotografa con l’iPad che utilizza per ridipingerci sopra, grazie all’applicazione Brushes, lavorando con le dita. Nell’ultima sala, in penombra, si può ammirare in diretta il procedimento usato e seguirne lo svolgimento. Stupefacente, memorabile, incredibile, destabilizzante, voluttuoso (termine che gli piacerebbe molto). La mostra scandisce così il percorso di un artista che non si accontenta dei risultati raggiunti, ma sa sperimentare con delle buone e solide basi artistiche (cosa non del tutto scontata: molti artisti che utilizzano i nuovi media
non sanno assolutamente disegnare), ma soprattutto non ripiega sui banalismi concettuali, sulle facili soluzioni o peggio sul gigantismo che fa leva sull’impressione piuttosto che sull’estetico. Senza nostalgie, come dice lui, per vivere il proprio tempo. Un artista versatile che non manca di stupire. Bella l’idea di dedicare la prima sala a una summa del suo lavoro con opere che vanno dal 1963 al 2014. Dove e quando
David Hockney, Tate Britain, Londra. A cura di Chris Stephens e Andrew Wilson con Helen Little. Orari: 10.0018.00. Fino al 29 maggio. Cataloghi Tate Publishing £ 40/29.99. www.tate. org.uk
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Cultura e Spettacoli
Finalmente Angela
Parole e poco più
scrittrice britannica che fu molto apprezzata da Salman Rushdie
edizione un ampio saggio sull’italiano contemporaneo di Giuseppe Antonelli
Letteratura Grazie all’editore Fazi ritorna in libreria Angela Carter,
Pubblicazioni Dopo dieci anni e in nuova
Stefano Vassere
La scrittrice britannica Angela Carter (19401992). (Keystone)
Mariarosa Mancuso Salman Rushdie la adorava. Angela Carter era la prima romanziera importante che aveva conosciuto, quando I figli della mezzanotte non era ancora in libreria. Era barocca, visionaria, con un gusto per il grottesco raro tra gli scrittori britannici. Apparteneva alla categoria degli scrittori che un lettore «può correre il rischio di conoscere»: il contrario di chi sulla pagina fa meraviglie e nella chiacchiera invece delude. Tale era Vladimir Nabokov, e lo sapeva benissimo. «Penso come un genio, scrivo come uno scrittore brillante, parlo come un bambino», diceva. Rifiutava le interviste, a meno che il giornalista non gli fornisse in anticipo le domande. In tal caso si scriveva le risposte, per filo e per segno, e le leggeva nascondendosi dietro una montagnetta di libri, se l’intervista era in televisione. Diventarono amici. Quando Angela Carter morì – il 16 febbraio 1992, aveva solo 52 anni – Salman Rushdie invece di sfoderare l’usuale retorica raccontò un paio di aneddoti tra commedia e tragedia. La scrittrice di Figlie sagge, Notti al circo, La camera di sangue, La bottega dei giocattoli, La donna pomodoro (sì, già i titoli fanno sognare, e non era da tutti scrivere saggi su «eros, cibo e letteratura» una ventina di anni fa). «Aveva da poco stipulato un’assicurazione sulla vita, aveva fatto in tempo a pagarne solo poche rate, era deliziata all’idea che i beneficiari avrebbero avuto diritto a un bel gruzzoletto», ricorda Salman Rushdie.
Quando le dissero che era malata di cancro, lo scrittore dei Versetti satanici la invitò a combatterlo e a sconfiggerlo. «Come la mettiamo con il mio fatalismo orientale?» fu la risposta. «Guarda che tra noi due l’orientale sono io» precisò Salman Rushdie, che di Angela Carter ammirava la fantasia, la ricchezza linguistica – erano gli anni del minimalismo, sembrava più chic, come arredare gli appartamenti in bianco e acciaio – e sopra ogni cosa il senso del picaresco. Tutte qualità che avevano in comune, oltre a uno smisurato amore per William Shakespeare. 25 anni dopo la morte di Angela Carter l’editore Fazi ripropone i suoi romanzi (da tempo assenti nelle librerie, bisognava andare per bancarelle o ordinare su maremagnum o eBay: non è pubblicità, è sopravvivenza in un’editoria che non spara nel mucchio cercando di azzeccare il bestseller). È appena uscito Notti al circo: la storia della trapezista Fevver (sarebbe «feather», ovvero piuma, nella pronuncia cockney). Nasce da un uovo e cresce in un bordello, adorando tutte le sue mamme che le raccontano favole prima di iniziare il lavoro. Qualche mese fa era uscito, sempre da Fazi, Figlie sagge, uno dei romanzi più belli della scrittrice: la storia delle ormai anziane gemelle Nora e Dora, figlie bastarde del grande attore scespiriano Melchior Hazard che sta per compiere cento anni e le invita alla festa (a sorpresa, per tutta la vita si era rifiutato di riconoscerle). La magnifica cavalcata scespiriana fa sfilare nonne che ragazzine aveva-
no posato per Lewis Carroll («non è da tutti avere una nonna che si era distinta nel baby porno», è il commento acidino e invidioso). Attrici che avevano recitato Amleto in calzamaglia attillata, ma anche con un abito più ampio la gravidanza era ben visibile. Figli legittimi che fanno carriera in teatro, e figli illegittimi (tendenzialmente gemelli, per moltiplicare agnizioni ed equivoci) che lavorano nell’avanspettacolo oppure a Hollywood («dialoghi aggiunti di William Shakespeare», recitavano certi demenziali titoli di coda). Salman Rushdie, che oltre a essere amico della scrittrice è un critico letterario che tocca il punto senza sprecare parole, commenta: «il romanzo è una forma bastarda, per questo i romanzieri amano i bastardi». Da La camera di sangue, il regista Neil Jordan ha tratto nel 1984 un film intitolato In compagnia dei lupi. Sono storie inspirate alle fiabe di Charles Perrault: ora però le fanciulle non sono fragili o indifese. Barbablù deve temere per la sua vita, e la Bestia imparare a radersi. Speriamo sia il prossimo titolo in via di ristampa, con un po’ di rancore perché sarebbe servito adesso. Come antidoto a La bella e la Bestia di Walt Disney. Non la versione a disegni animati uscita nel 1991. La nuova versione con attori veri – la Bella è Emma Watson – ripropone scena per scena il vecchio film (il 16 marzo nelle sale ticinesi). Solo Angela Carter, femminista guerriera, avrebbe potuto salvarci. O almeno seppellire il film sotto una battuta.
Nel panorama internazionale, o almeno europeo, la linguistica italiana si segnala per un canone non diffusissimo altrove: un filone di studi e quindi di libri dedicati al polso attuale della lingua e a qualche azzardo prognostico. «Come sta – cioè – l’italiano contemporaneo e dove sta andando, sul breve e sul medio termine». Maestro di questa linea è certamente Giuseppe Antonelli, che è professore di Linguistica italiana nell’Università di Cassino ma è anche noto perché conduce, sulla terza rete della Rai radiofonica, una seguita trasmissione linguistica che si chiama La lingua batte. Della preoccupazione scientifica sullo stato generale della nostra lingua fa parte anche la tentazione seriale: repertori lessicali millesimati, edizioni e aggiornamenti di studi e rilevazioni, veri e propri osservatori sistematicamente attenti a evoluzioni, tendenze, scricchiolii. Non stupisce quindi questo titolo, L’italiano nella società della comunicazione 2.0, dove il 2.0 ammicca al linguaggio tecnologico e cattura, con la stessa fava, almeno tre piccioni: la seconda edizione di uno studio dello stesso Antonelli di una decina di anni fa; l’allusione al fatto che parte consistente delle evoluzioni linguistiche attuali hanno a che fare con milieux tecnologici; il richiamo forse a nuovi studi, più recenti, che arricchiscono e qualificano quell’approccio ormai datato. Per ammissione dello stesso Antonelli, questo libro rimane «immutato» rispetto alla
prima edizione per quasi duecento delle duecentoquaranta pagine totali e ha nel solo ultimo capitolo l’unico materiale inedito. Ultimo capitolo, quindi, che si intitola Una lingua in e-voluzione (20072016). Dove, al netto dei fenomeni lessicali, perché il settore delle parole è notoriamente quello più periferico, precario, episodico e di moda, si capisce che per trovare qualcosa di nuovo bisogna superare la dimensione linguistica e abbracciare la molto meno circoscritta e osservabile sfera comunicativa. La verità è che il sistema linguistico, la struttura della lingua non soffre per nulla evoluzioni e confusioni tecnologiche; come diceva Tullio De Mauro già una ventina di anni fa, «non mi sembra di vedere nessuna novità di base, biologica, nelle nuove tecnologie di raccolta e fissazione e trasmissione dell’informazione affidata al nostro linguaggio». La storia delle nuove tecnologie (delle vecchie nuove tecnologie e di quelle più recenti) è notoriamente piena di sorprese e di cantonate: qualche anno fa andava di moda dire che nessuno avrebbe potuto pronosticare il successo degli sms, poi il fenomeno è esploso e imploso nel giro di pochi anni, vanno e vengono fiumi carsici comunicativi in barba a sapienti osservatori della comunicazione umana e l’unica certezza – viene da usare una formula da sbadiglio – è che non ci sono certezze. Certo è che, accettata la svolta comunicativa in tutto ciò, qualche prospettiva interessante in mezzo al pugno di mosche del linguista moderno finisce per rimanere. Tre esempi? La nozione legata al cosiddetto hashtag, un gesto pragmatico, un «buttar dentro» un tema in una situazione discorsiva; il repentino cambio di significato della parola sociale, che in pochissimi anni è passato da «legato alla società» a «legato alla socializzazione»; l’assolutamente nuovo storytelling delle serie tv. «Alla prova di un’analisi scientifica, quasi tutte le opinioni correnti intorno alla lingua telematica si rivelano leggende. Compresa quella sul progressivo imbarbarimento grammaticale. L’italiano resta al sicuro, ben saldo: anche perché i prestiti dall’inglese restano circoscritti all’ambito del lessico e non intaccano in alcun modo le strutture sintattiche o grammaticali». Bibliografia
L’italiano contemporaneo non dà affatto l’idea di essere in crisi.
Giuseppe Antonelli, L’italiano nella società della comunicazione 2.0, Bologna, il Mulino, 2016. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Gli Adamini sui cantieri degli zar
Editoria L’operosità di Tomaso, Leone e Domenico nei disegni conservati in Ticino studiati da Nicola Navone
Elena Robert Si rivolge alla comunità scientifica e a un pubblico più vasto la pubblicazione della raccolta di disegni conservata in Ticino degli architetti Adamini di Bigogno d’Agra, attivi a San Pietroburgo dalla fine del ’700 sino a metà ’800. Il volume, che per la prima volta indaga analiticamente la loro opera, esce nel ventesimo di attività dell’Archivio del Moderno dell’Accademia di architettura – USI, diretto da Letizia Tedeschi e segna un nuovo importante progresso su uno dei fronti di ricerca intrapreso fin dalla nascita dell’istituto, che ha portato a qualificarlo come un polo di riferimento in Europa per lo studio della cultura architettonica in epoca neoclassica in Russia. L’autore del catalogo e del corposo saggio che lo precede, Nicola Navone, vicedirettore dell’Archivio del Moderno e docente all’Accademia di architettura, è in prima linea impegnato da vent’anni nell’approfondimento scientifico del fenomeno dell’«aristocrazia» dell’emigrazione in Russia dalla Collina d’Oro nel ’700 e ’800. Alla riuscita delle ricerche dell’istituto ticinese hanno concorso l’apertura degli archivi delle famiglie Gilardi e Adamini ora conservati all’Archivio del Moderno, le molteplici collaborazioni con istituti museali e di ricerca svizzeri, italiani e russi, e il sostegno della Fondazione culturale della Collina d’Oro con Alessandro Soldini, della Fondazione Gilardi e del Comune di Collina d’Oro. Sono stati promossi in questi vent’anni nelle aree geografiche di riferimento convegni internazionali, un grande progetto abbinato a una mostra e la pubblicazione del corpus grafico degli architetti Gilardi di Montagnola attivi a Mosca (Alessandra Pfister e Piervaleriano Angelini, 2007). Studi e ricerche che sono alla base del volume odierno, frutto di ulteriori approfondimenti archivistici svolti da Nicola Navone in Russia, Svizzera e Italia. La raccolta Adamini è ricca e sostanzialmente integra dalle origini. Si
compone degli elaborati grafici riuniti da Tomaso Adamini (1764-1828), già in occasione del suo primo rientro a Bigogno nel 1810, e dai suoi due figli Leone (1789-1854) e soprattutto Domenico (1792-1860), le cui opere principali sono la casa per il mercante Antonov all’angolo tra la Mojka e il Campo di Marte (comunemente chiamata «Casa Adamini», 1823-1827), a San Pietroburgo, e la chiesa cattolica di Giovanni Battista a Carskoe Selo (1824-1826). La pubblicazione è dedicata a loro e alla raccolta di disegni che costituirono, mentre si indaga solo in parte l’attività del più noto cugino Antonio (1794-1846), per il suo ruolo nell’elevazione delle colonne dei portici della cattedrale di Sant’Isacco e soprattutto della Colonna Alessandrina eretta nel 1832 sulla piazza del Palazzo d’Inverno su progetto del francese Auguste de Montferrand. Anche per il Fondo Adamini si rileva il valore scientifico dell’insieme a livello internazionale, contribuendo lo stesso a far luce sui fenomeni di transfert tra la cultura architettonica italiana e russa. Si pensi, annota Nicola Navone, al ruolo dei costruttori italiani o ticinesi nella diffusione dei progetti architettonici elaborati a San Pietroburgo o a Mosca e realizzati nelle province, ma anche dei modelli deliberatamente imposti e messi in opera nelle campagne dall’imperatore Alessandro I (dal 1801 al 1825). La composizione articolata della raccolta Adamini, comprendente soprattutto l’opera di Tomaso e di suo figlio Domenico, in misura minore di Leone, e per quanto riguarda Antonio solo quella nei cantieri condivisi con i cugini, è interessante per la sua eterogeneità dovuta alla presenza di fogli di oltre una decina di architetti di nazionalità diverse operanti a Pietroburgo: documentano con una visione lungimirante il contesto nel quale lavoravano gli Adamini e l’ammirazione per l’operato di illustri colleghi. Tra questi fogli ve ne sono 22 di Francesco Bartolomeo Rastrelli (1700-1771) riferiti al monastero Smol’nyj, di grande
Progetto di rifacimento della cattedrale di Sant’Isacco, a San Pietroburgo, 1823 Archivio del Moderno. (Fondo Adamini)
rilevanza in quanto di quest’opera si registrano solo altri 25 disegni conservati in istituzioni russe o straniere. Ci sono poi fogli dell’italiano Carlo Rossi (17751849), fra i quali il prospetto completo dello Stato Maggiore, alla cui costruzione partecipò Domenico; o ancora di Luigi Rusca di Agno (1762-1822), per il Maneggio del Palazzo Aničkov; come pure del bergamasco Giacomo Quarenghi (1744-1817), per gli interventi nell’area dello Smol’nyj, l’Istituto Caterina e la sede del Consiglio di Tutela del Monte di Pietà. Al seguito di quest’ultimo, architetto di corte in Russia per 38 anni dal 1779, uno dei massimi protagonisti del rinnovamento neoclassico della capitale e dell’intera cultura architettonica in Russia furono molti Ticinesi attivi nella capitale. Nell’ambito del programma internazionale di celebrazioni per i duecento anni dalla morte di Giacomo Quarenghi, fino al 17 aprile la Pinacoteca Züst a Rancate espone i suoi disegni nelle raccolte grafiche degli architetti ticinesi, tra i quali quella degli Adamini. Nel saggio introduttivo al catalogo,
la minuziosa indagine di Nicola Navone è vestita di un taglio narrativo. Ne risulta, anche per il ricorso a non pochi contenuti inediti delle lettere scritte dagli Adamini ai famigliari a Bigogno (oltre un centinaio, trascritte nel 1997 da Mario Redaelli, nell’ambito delle ricerche compiute, con Pia Todorovic, sugli architetti della Collina d’Oro in Russia) uno spaccato vivo dell’attività a San Pietroburgo di questi capomastri e architetti particolarmente apprezzati nella capitale anche dalla committenza privata. Ancora sprovvisti della classica formazione accademica rispetto ai loro discendenti, si erano però esercitati nella piccola scuola di disegno aperta da Tomaso tra il 1810 e il 1814 circa nella casa di famiglia a Bigogno, avevano letto testi di architettura e in seguito praticato mestieri edili in botteghe nel nord Italia. Pur non avendo in linea di massima veicolato rilevanti linguaggi architettonici propri, tramandarono un peculiare modo di fare architettura, che si espresse nel vivo dei più presti-
giosi cantieri di San Pietroburgo. L’autore individua nella raison empirique e nella perizia costruttiva i caratteri che contraddistinsero il successo degli Adamini in una terra che, certo, offriva tantissimo lavoro ma in condizioni operative tutto sommato ostili per diversità culturale, clima, rivalità, competitività: dimostrarono uno spirito di adattamento notevole ai ritmi infernali dei cantieri pietroburghesi, versatilità, abilità organizzative, imprenditoriali e soprattutto relazionali nel tessere contatti, alleanze e strategie professionali e parentali, oltre che nel promuovere i propri interessi. Il volume sarà presentato alla Biblioteca cantonale di Lugano in primavera. Bibliografia
Nicola Navone Gli architetti Adamini a San Pietroburgo. La raccolta dei disegni conservati in Ticino, Mendrisio Academy Press-Silvana Editoriale 2017, 254 pp. www.arc.usi.ch/archivio
Quattro passi in prosa con Giorgio Orelli Recensioni Tornano in libreria i racconti di Un giorno della vita, pubblicati nel 1960 Pietro Montorfani Proviamo a fissare una data: l’autunno del 1960. A quell’altezza cronologica colui che di lì a poco sarebbe diventato il più celebre poeta svizzero di lingua italiana, con meriti che non si discutono, non aveva ancora mostrato, in quel genere, tutte le sue carte. Lungi dal dichiararsi soltanto – si fa per dire – uno scrittore in versi, era andato muovendosi come una cellula staminale, con i modi e le sicurezze di un intellettuale tout court: conferenze, lezioni, saggi critici, contributi radiofonici e recensioni, poi poesie certo, ma anche prosa, moltissima prosa, pagine e pagine di finissima narrativa d’occasione pubblicate in rivista, tra Italia e Svizzera, con un rigore e una costanza che non potevano dirsi casuali. Nonostante il successo giovanile di Né bianco né viola, vincitore del Premio Lugano nel 1944, e la successiva uscita di un volume di Poesie (1953) per le pur prestigiose Edizioni della Meridiana di Giuseppe Eugenio Luraghi (auspice Vittorio Sereni), non era ancora stato messo sul tavolo infatti il carico da venti di L’ora del tempo, l’autoantologia mondadoriana del 1962 che lo avrebbe definitivamente imposto all’attenzione della critica d’oltre confine. Bisognerebbe insomma chiedersi con che animo i lettori ticinesi dei primi anni Sessanta possano aver ac-
colto una bella novità come il libro di racconti Un giorno della vita, tredici testi più e meno brevi stampati anche qui da editori di nicchia (i milanesi Lerici) ma con tutti i crismi del caso, a iniziare dal viatico dei responsabili della collana, due palati fini come Mario Luzi e Romano Bilenchi. I racconti giungevano alla pubblicazione, tolta qualche avvisaglia consegnata a quotidiani locali negli anni Quaranta, dopo un lungo apprendistato in rivista, soprattutto sulle prestigiose pagine di «Paragone Letteratura» (curata da Anna Banti), e venivano raccolti sotto il titolo di uno dei pezzi della suite che ben si prestava a identificarli tutti: Un
giorno della vita, come dire il continuo rinascere dell’esistenza, ma anche la sua irripetibilità, il suo essere sempre «vita» nel pieno dispiegarsi di uno stupore esperienziale. Bene ha fatto quindi l’editore Marcos y Marcos a riprendere questo lontano libro, accolto in una collana diretta da Fabio Pusterla, e bene fa Pietro De Marchi nella sua postfazione (forse non nuova, però utile alla causa) a chiedersi quale traccia abbiano lasciato questi racconti nella cultura svizzero-italiana del secondo Novecento. Una traccia debole, purtroppo, non si può che concordare con lui, ma la causa è imputabile soltanto alla difficoltà di reperimento
Giorgio Orelli in una fotografia del 1998. (Keystone)
dei testi, non alla qualità degli stessi, a tratti davvero sopraffine. La cifra stilistica della prosa orelliana sta tutta, con minime variazioni da pezzo a pezzo, nella grande misura che la pervade: surreale ma non troppo, descrittiva senza eccedere nel dettaglio, calibratissima nella gestione dei dialoghi e nelle presentazioni dei personaggi. La lingua va di pari passo, equidistante dagli estremi: «né giovane né vecchia» la betulla di Ampelio (come il sarto di Serale), «né svelto né adagio» è l’incedere del protagonista nelle prime righe di Veronica, «né suo né nostro», infine, il «dialetto straordinario» delle storie narrate in Per un filino d’erba. Anche i protagonisti maschili, quasi tutti alter ego dello scrittore, amanti della bicicletta e garbati cultori della bellezza femminile, incarnano quella finezza e signorilità che erano riconosciute all’autore, con in più un’aria da straniero appena giunto da fuori porta che è invece un prestito del grande libro manzoniano. Un Orelli-Renzo si aggira tra queste pagine pronto a ogni nuovo incontro, parla con ragazze che, davanti ad antiche filande, sfuggono ai loro seduttori (Serale), oppure siede al tavolo di un’osteria chiedendo un «vino buono», che non faccia scherzi come quello della Luna Piena (Sosta al Lago d’Iseo). Il sorvegliato erotismo della poesia Ginocchi, per citare un testo emblematico, tratteggia qui e là anche que-
sta raccolta di prose, che a volte sanno accendersi di sincero sdegno come nei famosi «cardi» di Spiracoli: contro un funzionario delle Ferrovie Federali dalla carriera brillante e dal cervello poco fino (Veronica), contro uno straziante conferenziere venuto dall’Italia o una vecchia soprano «che non aveva mai fatto furore e tutt’a un tratto non le salta il ruzzo di fare il canto del cigno» (Suite provinciale). Allo stesso modo, per chi voglia cercarli, non mancano in queste pagine i delicati affondi fonosimbolici che hanno reso noto l’Orelli saggista, addirittura esplicitati, in qualche caso, per bocca degli stessi personaggi: «Riva Trigoso […] Il nome mi piace, – disse Dario. – Dopo Riva, non par vero che ci sia una parola ingorda come Trigoso». E via di questo passo. Lavoro, insomma, non ne mancherà di certo per tutti i lettori e gli appassionati di cose orelliane, che con questo gioiellino tra le mani (ma qualcosa scrisse anche in anni recenti e andrebbe recuperato) potranno riscoprire l’anima del prosatore, la sua produzione contenuta nei numeri eppure assai densa nei risultati, un piccolo incendio che va al di là del semplice fuoco di paglia. Bibliografia
Giorgio Orelli, Un giorno della vita. Marcos y Marcos 2017. 221 pagine.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Cultura e Spettacoli
Delicato dialogo tra discipline
Mostre Allo spazio Areapangeart di Camorino sono esposte fino al 17 aprile le porcellane di Michela Torricelli
e le pagine incise di Loredana Müller Eliana Bernasconi Succede di incontrare in Ticino spazi che hanno saputo conservare la funzione per la quale sono nati. Nel nucleo antico di Camorino la chiesa e la fontana al margine sopravvivono immutate e il bus, mezzo indispensabile che collega persone a luoghi, si muove agevolmente nella piccola piazza. Sarà un’illusione ma qui, sotto le montagne della Val Morobbia, la luce e l’aria sembrano chiare e terse. È qui che incontriamo Loredana Müller Donadini, che nel 2015, con il marito Gabriele, ha realizzato Areapangeart, un piccolo vivissimo centro culturale privato e autonomo che deve la sua esistenza alla ristrutturazione di alcune stalle di proprietà della famiglia. Tra pareti antiche e granito sono conservati proporzioni e volumi degli spazi agricoli in precedenza destinati alle mucche e all’ultimo cavallo da tiro di Camorino. Loredana Müller, nata nel 1964, è artista e animatrice culturale; i vent’anni trascorsi a Roma hanno contribuito alla sua formazione artistica; ha esposto in Italia e Europa, insegna da sempre arti visive applicate, si nutre di continua ricerca. Con un padre bernese architetto di formazione, una nonna scultrice e un nonno ingegnere e musicista, un’altra nonna spagnola e un nonno italiano docente universitario che conosceva 22 lingue... l’inclinazione per la multidisciplinarietà dei linguaggi artistici sembra essere naturale. «L’arte», spiega, «ci salva perché genera contatto umano, instaura una dimensione profonda di
ascolto, promuove progetti e trasformazioni, coltiva una logica di resistenza». Nel suo lavoro Loredana Müller Donadini unisce l’intuizione sensitiva a non comuni doti organizzative e cura una continua programmazione di incontri connessi al tema di ogni esposizione: nel centro di Camorino è un susseguirsi di linguaggi, dal parlato alla scrittura, dal video alla fotografia, passando per il documentario cinematografico del primo ’900 e senza dimenticare musicisti e compositori, che creano un tessuto sonoro, sperimentando dal vivo effetti nuovi del suono. Areapangeart si compone di 3 aree: una sala incontri per poesia, musica o cinema per 25 persone, un piccolo spazio per ospitare musicisti e artisti di passaggio e una notevole superficie espositiva al piano superiore. Il centro non ha scopo di lucro, vuole anzi tenersi ben lontano da logiche di mercato o dall’enfasi rumorosa e talvolta retorica degli eventi ufficiali artistici. In futuro desidera aprirsi ancora di più al fine di privilegiare artisti che per i più diversi motivi non hanno raggiunto grande visibilità. Questa quinta mostra presenta sculture in porcellana di Michela Torricelli e pagine incise di Loredana Müller. La ceramica non ha segreti per Michela Torricelli, che la pratica da una vita e ne conosce la misteriosa bellezza, l’alchimia soggiacente al processo di lavorazione delle sue tecniche, come nel giapponese «Raku nudo» permeato di cultura orientale. Le sue bianchissime
Uno degli spazi della mostra. (L. Mueller)
porcellane nascono da un lungo lavoro di manipolazione della terra e dell’acqua, hanno attraversato il calore del fuoco a 1200°C, sono piccoli monoliti color latte che sembrano racchiudere memorie ancestrali della materia che li ha contenuti. Eppure le porcellane non sono rimaste nella materialità, ma l’hanno trasformata in intangibili visioni di immacolata purezza e leggerezza. Ispirate da un viaggio della ceramista in Groenlandia, hanno nomi che ripor-
tano latitudini e longitudini di luoghi lontani, la loro candida luce fa percepire dimensioni inesplorate, costringe lo sguardo a fermarsi su segrete relazioni interiori che intercorrono tra frammento e totalità, pieni e vuoti della forma, variazioni e movimenti impressi sulle superfici. Anche Loredana Müller lavora con la materia, usa pigmenti naturali, fuliggine, inchiostri, ossidi della Val Morobbia, terre che raccoglie, carta povera che
fabbrica lei stessa. Le sue pagine incise alle pareti, benché non sia evidente, accomunano la sua ricerca a quella della ceramista, tra spirito e materia. Hanno nomi come Erbe di luglio, erbe dei lupi, erbe d’autunno, vivono di un’atmosfera speciale intrisa di poesia, ricordano pareti affrescate ma anche la luce di certe giornate invernali o le prime luci dell’alba, quando il sole sta per sorgere. Come in un erbario fossile i racemi restano imprigionati e impressi sulla pagina, indicano stagioni e fiori sognati, sono pagine dalle cromature forti, incisioni morbide come pastelli che non sembrano originate da matrici metalliche, il colore appare rarefatto, il segno lieve fatto di sapienti successioni di passaggi al torchio. A conclusione della mostra vi sono dei libri d’artista: Areapangeart collabora da sempre con editori e autori, produce piccoli libri d’arte dove le incisioni affiancano le parole. Con il testo Condotta forzata Marino Cattaneo qui inaugura un ciclo, una collana di poesie sul territorio. La condotta del titolo dista poco dal centro e partendo dai monti tra Camorino e Giubiasco scende vorticosamente a valle. Completa il testo una sorprendente lunghissima incisione cartacea. Dove e quando
Primae adumbrate – Prime ombre. Sculture in porcellana di Michela Torricelli, pagine incise di Loredana Müller. Camorino, Areapangeart. Fino al 17 aprile 2017. www.areapangeart.ch Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Prophet, maestro dell’alternative country
Toni, uomo tenero e grottesco Filmselezione Originalità commovente
CD L’eccentrico cantautore statunitense torna alla carica
con un nuovo lavoro
e svitata: un mix esplosivo dall’inatteso successo di critica e pubblico
Benedicta Froelich
Fabio Fumagalli
Per quanto possa apparire come perlopiù sconosciuto al grande pubblico europeo – almeno, a quello che non sia particolarmente attratto da certa musica americana cosiddetta indie, sovente ignorata dalle stazioni radiofoniche commerciali – quello del californiano Chuck Prophet è un nome in netta ascesa nell’ambito del cosiddetto country rock, o, più precisamente, alternative country; un mondo che l’artista frequenta dal lontano 1990, quando, dopo la militanza nella rock band Green on Red, Prophet (oggi anche songwriter di successo per nomi del calibro di Bruce Springsteen e Solomon Burke) si imbarcò in una carriera solista di cui questo nuovo Bobby Fuller Died For Your Sins, appena giunto nei negozi, costituisce l’ultimo capitolo. Il titolo dell’album, di primo acchito abbastanza singolare, costituisce un amaro quanto ironico omaggio al talentuoso e sfortunato cantante rock statunitense Bobby Fuller (1942-1966), il quale, dopo una breve quanto sfolgorante carriera, andò incontro ad atroce e misteriosa morte in circostanze mai chiarite: una vicenda che sembra, in effetti, modellata sull’abituale immaginario narrativo di Prophet, il quale, lungo l’intera tracklist del CD, narra vicende che attraversano i più svariati registri, passando dal surreale al tragicomico, fino a toccare accenti sognanti e malinconici. In effetti, questo disco dimostra una volta di più come Chuck rappresenti un curioso e quasi inclassificabile amalgama stilistico: nonostante, al primo impatto, appaia come un musicista country-rock dallo stile piuttosto tradizionale, è infatti dotato di uno spirito ironico e caustico, che per molti versi ricorda, seppure in chiave minore, la geniale vena sarcastica del suo compianto collega Warren Zevon: lo dimostrano appieno tracce quali Jesus Was a Social Drinker e Post-War Cinematic Dead Man Blues, in cui le liriche irriverenti e surreali sono accompagnate da coretti à la Beach Boys e indiavolati assoli di Fender. Così, sebbene il suo tocco non si possa forse definire come particolarmente originale o inconfondibile, Prophet dimostra grande abilità
*** Vi presento Toni Erdmann, di
Maren Ade, con Peter Simonischek, Sandra Hüller, Michael Wittenborn (Germania 2016)
Il nuovo lavoro di Chuck Prophet.
nell’arte del mélange di differenti generi: fermamente radicato nella tradizione musicale americana, eppure aperto alle contaminazioni, il musicista condisce gli arrangiamenti dei suoi brani non soltanto con riferimenti al cantautorato anglofono degli ultimi trent’anni, ma anche con sfumature rock’n’roll anni 60 o dal gusto vagamente hippie. Oggi, il nuovo lavoro si distingue innanzitutto per l’estrema godibilità e orecchiabilità: in questo senso, uno dei pezzi vincenti è senz’altro il semplice e irresistibile Bad Year For Rock’n’Roll, scanzonata ma agrodolce riflessione sull’ecatombe di musicisti illustri che ha caratterizzato il 2016 – un brano che, seppur contraddistinto da un incipit pressoché identico a quello di un classico del primo Bob Dylan, è sicuramente destinato a divenire un tormentone per i fan di Prophet. Sulla stessa linea troviamo anche la title track, Bobby Fuller Died For Your Sins, che, pur non presentandosi come un pezzo particolarmente degno di nota, mantiene un carattere assai accattivante e, al pari di diversi altri brani dell’album, richiama piuttosto da vicino il rock spensierato ma potente di band come Tom Petty e i suoi Heartbreakers. Si cambia invece (letteralmente) musica con Your Skin, un rock-blues elettrico nervoso e appuntito, che peraltro ricorda non poco alcuni classici del genere, così come accade anche con Killing Machine, collocabile sulla medesima linea. Meno interessante, purtroppo, la
rabbiosa cavalcata rock Alex Nieto, la quale, nonostante il tema delicato (la tragica vicenda del ventottenne di origine messicana ucciso senza motivo apparente dalla polizia di San Francisco nel 2014), non riesce ad elevarsi sopra il rango di abituale pezzo rock di medio livello – cosa che accade anche con il similare The Mausoleum. Tuttavia, il CD dimostra che Chuck ci sa fare anche con i brani di stampo più tradizionalmente soft e simil-romantico: benché non presenti una linea melodica particolarmente audace, Open Up Your Heart è infatti una ballata gradevolissima e perfino toccante, mentre il sognante e rarefatto We Got Up and Played costituisce decisamente uno dei brani più affascinanti del disco. Ecco quindi che dall’ascolto di quest’album emerge, ancora una volta, il ritratto di un ottimo, onesto professionista, immune da pretese di genialità o immortalità artistica e in grado di muoversi con invidiabile grazia e serietà sulla scena musicale, snocciolando dischi dalla qualità garantita. E si potrebbe dire che nel panorama rock odierno – in cui qualsiasi ragazzino imberbe si autopromuove al rango di genio dopo un debutto di successo – i performer provvisti di questo genere di onestà artistica siano da considerarsi merce alquanto rara: un motivo in più per apprezzare e far tesoro della produzione di un autore come Chuck Prophet, e augurarsi che altri giovani rocker possano presto seguire le sue orme con altrettanta integrità.
Toni Erdmann è una mosca bianca clamorosa. Il film più singolare e sconcertante dell’anno. Terzo lungometraggio girato da una 39enne cineasta tedesca pressoché sconosciuta, è un film originale, interessante, grottesco, lucido e divertente – seppur troppo lungo – ma anche crudelmente realista e specchio del presente. Poi, quasi per uno sberleffo nei confronti della logica di una sceneggiatura impeccabile nel paradosso, improvvisamente surreale, o francamente esilarante. In definitiva melanconico; e magari esasperante. Ma le singolarità dello strano oggetto firmato Maren Ade si accumulano: come il fatto che un film così particolare, divertente ma per tanti aspetti radicale e scostante, stia godendo di un’insolita, spettacolare adesione unanime presso la comunità notoriamente capricciosa dei critici festivalieri. Nonché di una clamorosa accoglienza da parte del grande pubblico delle platee internazionali. Tutto ciò si spiega probabilmente nella formidabile identità fra il film e i suoi personaggi. A perfetta immagine dei protagonisti, Toni Erdmann è al tempo stesso commovente e crudele;
Un successo inattesa per il terzo film della giovane Maren Ade.
sempre determinato, pur nei suoi momenti più sconsiderati e deliranti. È un film semplice e chiaro come la sua fotografia dalla luminosità piatta ma eloquente, attenta a quanto sta succedendo. Ma soprattutto un film dalla libertà così esplosiva da apparire eccentrica, con un tema però prezioso, ancorato nel tempo e nelle psicologie, come quello dei rapporti fra un padre e una figlia. Si tratta di una vicenda ampiamente condivisibile, di una banalità tutta apparente e di un falso realismo quasi documentaristico, il tutto sullo sfondo finemente introspettivo di una Romania dalla globalizzazione degenerata. Ma subito sopraggiungono le contraddizioni, più o meno allegre, di una filosofia dagli umanissimi quanto paradossali capovolgimenti. Un’esasperante serie di vicissitudini, tutte inventate dal pensionato e da tempo dimissionario genitore Winfried, autodefinitosi Toni (un clamoroso, sconosciuto Peter Simonischek), che si distingue per i lazzi smodatamente goliardici e i travestimenti sgangherati – da petroliere, ambasciatore, dentista o, ancora, amicone della star locale del tennis Ion Tiriac. Sono espedienti allegramente disperati: tentativi, commoventi e ovviamente indisponenti, di un goffo riavvicinamento edipico all’universo luccicante inseguito dalla figlia 37enne espatriata a Bucarest. La distante figlia Inès (una vibrante, e pure lei poco nota Sandra Hüller), brillantemente rampante ma fragile ed esausta, è una businesswoman ai vertici di una potente multinazionale, e nella propria asettica privacy è ossessionata dalle intrusioni imbarazzanti di quello strano papà. Due personaggi grotteschi, perfettamente antitetici: sui quali Maren Ade costruisce i suoi centosessanta minuti, in miracoloso equilibrio fra spasso, inverosimiglianza e angoscia. Fra le ragioni dell’intuito (che talvolta conducono al piacere del vivere la fantasia del presente) e quelle di una meccanica inesorabile di un quotidiano dall’esausta, sfuggente rincorsa, il film se le gioca entrambe. Ad esempio con uno striptease integrale a dir poco inatteso, come non avrete forse mai l’occasione di rivedere. Succede, quando l’assurdo riesce a mettersi al servizio della commedia umana.
Fotogrammi di poesia
Cinema Il lavoro dei registi si è ispirato molto spesso al lavoro dei poeti, dando luogo a opere di indubbio fascino Nicola Falcinella Sono tanti gli scrittori portati sullo schermo, più rari sono invece i poeti. Forse perché è più difficile trasporre in immagini le parole e le invenzioni della poesia. In anni recenti la tendenza si è invertita e i poeti, realmente vissuti o di fantasia, stanno recuperando lo svantaggio e sono diventati di gran moda al cinema. L’ultimo è l’autista di bus e compositore per diletto nel delizioso Paterson di Jim Jarmusch, uno dei film più belli del 2016. La poesia del quotidiano, le sorprese dell’amore, le bizzarrie della vita trattate con mano leggera dal regista di Dead Man (1995), nel quale il contabile in fuga nel nord dopo un omicidio si chiamava William Blake come il poeta inglese che scrisse delle «porte della percezione». Altro caso recente è Neruda di Pablo Larrain, una sorte di indagine, che assume la forma del poliziesco, intorno al poeta cileno simbolo dell’impegno civile contro le dittature e già raccontato, durante l’esi-
Un dettaglio della locandina di Paterson.
lio italiano, da Michael Radford e Massimo Troisi ne Il postino nel 1994. Ha avuto successo Il giovane favoloso (2014) di Mario Martone sulla vita di Giacomo Leopardi interpretato dal sempre bravo Elio Germano: un film ispirato solo a tratti (l’eruzione del Ve-
suvio nel finale), per un’operazione da professore del liceo convinto di reinventare il personaggio. Molto popolare tra gli italiani è Dino Campana con il suo fascino maledetto, un po’ maltrattato in Un viaggio chiamato amore (2002) di Michele Placido con Stefano Accorsi, un po’ meglio in Inganni (1985) di Luigi Faccini. Alda Merini è stata ritratta due volte, Ogni sedia ha il suo rumore (1995) e La pazza della porta accanto, da Antonietta De Lillo. Molto di moda tra i registi è Pier Paolo Pasolini, un interesse dai risultati contrastanti: il migliore, anche se discusso, è Pasolini (2014) di Abel Ferrara, che lo racconta negli ultimi giorni tra misteri e suggestioni interpretato da un mimetico Willem Defoe; buono anche Nerolio di Aurelio Grimaldi sugli ultimi mesi alle prese con l’incompiuto Petrolio. Originale e carico di visioni è Io non sono qui (2007) di Todd Haynes con sei personaggi in cerca di Bob Dylan: una biografia per episodi tra realtà
e possibilità con Cate Blanchett, Heath Ledger e Richard Gere. Sorprendente e visionario è Howl – Urlo (2010) di Rob Epstein e Jeffrey Friedman su Allen Ginsberg, dal titolo della sua opera più celebre. Tra le altre storie della Beat Generation: Barfly di Barbet Schroeder, biografia di Charles Bukowski interpretato da Mickey Rourke, Sulla strada di Walter Salles e Giovani ribelli – Kill Your Darlings (2013) di John Krokidas. Altra opera molto riuscita è Bright Star (2007) di Jane Campion (che nel 1990 diresse Un angelo alla mia tavola sulla poetessa Janet Frame), appassionante nel raccontare John Keats e il suo amore tormentato con Fanny Browne. Piccolo film, curioso e delicato con echi rohmeriani, è Un jeune poète di Damien Manivel passato a Locarno nel 2014: un giovane va a Sète, al cimitero dov’è sepolto il poeta Paul Valéry. Poeta a sua volta, Nelo Risi ripercorre in Poeti all’inferno (1970) la vita di Arthur Rimbaud (Terence Stamp) dal suo incontro con Verlaine fino al
viaggio in Africa, mentre l’ultimo suo lavoro è Possibili rapporti (2008) con l’amico Andrea Zanzotto. Rimbaud (Leonardo DiCaprio) e Verlaine tornano in Poeti dall’inferno (1995) di Agnieszka Holland. Un altro dei maudit, Charles Baudelaire, è raccontato in Les fleurs du mal (1991) di Jean-Pierre Rawson. Non troppo fortunato Dylan Thomas, fatto rivivere due volte nei modesti The Edge of Love di John Maybury e Set Fire To The Stars (2014) di Andy Goddard. La poesia di Walt Whitman illumina L’attimo fuggente di Peter Weir, con i giovani studenti della setta dei poeti estinti ispirati dal professor Keating alias Robin Williams. Da non dimenticare Wilde (1997) secondo Brian Gilbert, ma anche Shakespeare in Love e le diverse versioni di Cyrano de Bergerac dal dramma di Edmond Rostand. Curiosamente, tra i primi poeti al cinema ci fu Torquato Tasso, al centro di due opere del 1909 e 1914, rispettivamente di Luigi Maggi e Roberto Danesi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Cultura e Spettacoli
Musica all’ombra del regime Incontri A colloquio con il direttore d’orchestra Ion Marin, nato in Romania
ma che considera il Ticino la sua vera patria
Enrico Parola Nella natia Bucarest ha provato i privilegi e le ristrettezze del comunismo; a Vienna si è consacrato come direttore d’orchestra, «ma è stato il Ticino il luogo dove sono letteralmente nato una seconda volta, questo posto benedetto da Dio per clima naturale e sociale in cui vivo da 25 anni e che considero ormai la mia vera patria». Come tutti i grandi musicisti gira il mondo e consuma i suoi mesi tra aerei, camere di hotel, teatri e sale da concerti (ha diretto Pavarotti e Carreras, eccelle nel Belcanto italiano, tra un paio di settimane tornerà alla Scala con Anna Bolena di Donizetti), ma Ion Marin ancora si emoziona quando parla della «sua» Massagno, «un esempio di convivenza con i suoi 8mila abitanti di 62 Paesi diversi; venire a vivere qui mi ha aiutato ad esorcizzare le mie origini: il primo Marin a non nascere sotto un regime totalitario è stato mio figlio Alexis, che ora ha vent’anni e ha frequentato tutte le scuole qui». Quando parla di regime, Marin ne intende sia le luci assaporate soprattutto da bambino sia le ombre che anno dopo anno ha visto allungarsi, non solo sulla sua carriera di musicista. «Mio padre era direttore di coro e poi sotto Ceausescu divenne viceministro della cultura: una posizione privilegiata per tanti motivi, il salotto di casa nostra era il luogo
ufficiale dove i grandi artisti stranieri venivano ricevuti in Romania. Tra le mura domestiche ho visto passare miti come il pianista Sviatoslav Richter, i violinisti Isaac Stern e David Oistrakh, ma anche attori come Vittorio De Sica e Kirk Douglas. Fu attorno al tavolo di casa che si decise di far suonare al Festival Enescu il Doppio Concerto di Bach a Stern e Oistrakh, era un modo per contribuire seppur in modo simbolico al disgelo dei rapporto tra America e Unione Sovietica; anche se devo confessare che a quei tempi mi eccitava molto di più incontrare Douglas, avevo visto Spartacus e trovarmelo lì…» Non che il piccolo Marin fosse digiuno di musica, anzi: «La musica è stata da sempre presente nella mia vita, era la colonna sonora anche dei miei giochi: mentre facevo andare le macchinine per terra o sul divano canticchiavo i madrigali rinascimentali, conoscevo a memoria le melodie di Gesualdo, Striggio, Banchieri. A tre anni iniziai col pianoforte e il violino, la musica è stata un elemento talmente naturale e famigliare che non mi sono mai posto il problema di che cosa fare da grande». Forse se lo era posto di più suo padre: «Non voleva che diventassi un musicista, lui puntava soprattutto su mia sorella, maggiore di due anni; ma un giorno l’insegnante di pianoforte gli disse che lei proprio non era dotata, invece io le sembravo più
predisposto». Da qui l’iscrizione a una scuola di musica, a sei anni: «Scuole elementari dove c’era tanta musica: doppio strumento e solfeggio obbligatorio, c’era una selezione pazzesca, ogni anno due esami ad eliminazione; anche l’educazione musicale rientrava nella propaganda del regime, chi non eccelleva veniva cacciato, si creava un agonismo come fossero gare di atletica».
All’inizio a Ion Marin passare da Vienna a Lugano parve una follia – musicalmente parlando Grazie anche agli appoggi paterni (oltre che a un talento sempre più evidente) a 15 anni può andare a perfezionarsi con Carlo Zecchi al Mozarteum di Salisburgo: «Lì respiravo musica non solo a lezione: durante il festival estivo incontravo Karajan per strada, al bar vedevo Kempff (uno dei maggiori pianisti del 900, ndr.) sorseggiare la cioccolata al tavolino accanto al mio. A quell’epoca pensavo di diventare un pianista e magari un compositore, fu Zecchi a spingermi a provare la direzione: mi presentò a Franco Ferrara, ma erano più convinti loro di me».
Il direttore d’orchestra Ion Marin in una foto scattata al Conservatorio di Mosca. (Keystone)
È il periodo in cui Marin sente con evidenza e urgenza più stringenti i vincoli del regime comunista: «A scuola avevamo la divisa con marchiato sul braccio il nostro numero di matricola, così se qualcuno commetteva qualche stupidata anche fuori dalle lezioni – rompere un vetro, sputare per strada – poteva essere denunciato da chiunque. A 16-17 anni avrei dovuto iniziare a tenere concerti all’estero: al di là dei disagi logistici – mi ricordo un viaggio in Finlandia in treno, tre giorni e tre notti per un recital – ogni volta bisognava chiedere il permesso alle autorità perché non avevamo il passaporto. Fu allora, non avevo ancora diciott’anni, che capii come la libertà non fosse potersi comprare una certa macchina, ma potersi assumere la responsabilità della propria vita». Non tardò a prendersela, anzi la colse appena gli si presentò l’occasione: «Ero riuscito ad ottenere il permesso per andare a Vienna, appena fui là chiesi asilo politico, ma ci sarebbe voluto un po’ di tempo. Intanto assistevo alle prove alla Staatsoper, c’era Abbado che stava preparando il Wozzeck di Berg. All’improvviso venne chiamato a Berlino per sostituire Karajan, malato: era l’87, dopo un paio d’anni sarebbe stato scelto dai Berliner Philharmoniker come loro nuovo direttore principale; lasciò il podio durante una prova, incertezza generale, io che ero in platea mi alzai e chiesi di poter continuare al suo posto. Non mi conosceva nessuno, io di natura sono un timido ma quando si ha fame non si può essere timidi; e poi il Wozzeck era stato una mia tesi, quindi lo conoscevo perfettamente». L’exploit gli assicurò il posto di assistente, la cittadinanza per meriti artistici («l’ebbi prima del passaporto») e l’amicizia di Abbado: «Fu un secondo padre: grazie a lui e Domingo riuscii a far venire a Vienna mia moglie; mi raccontava di Toscanini e giocavamo a tennis, mangiavamo i tortelli di zucca che ci portava un amico mantovano». Furono anni di intenso lavoro: «Alla Staatsoper ci sono 312 recite d’opera all’anno, praticamente ero sempre in teatro, fosse l’ufficio o la sala; avevo voglia di vedere il resto del mondo e poi dopo la caduta del Muro mi preoccupavano certe derive di estrema destra, così nel 1991 decisi di cambiare aria. Pensai alla Svizzera, anche se musicalmente sembrava una follia passare da Vienna a Lugano, ma dopo 25 anni sono convinto di aver fatto la scelta giusta».
Macro e microcosmo
Noi e gli antichi A proposito della scoperta di un nuovo sistema planetario Elio Marinoni La sera di mercoledì 22 febbraio i media hanno diffuso con grande enfasi la notizia della scoperta, comunicata dalla NASA, di sette nuovi pianeti ruotanti attorno a una stella nana: insomma, una sorta di nuovo sistema solare. Molti telegiornali di prima serata hanno riservato la posizione di apertura a questa scoperta scientifica, spesso definita sensazionale, che dilata ulteriormente le dimensioni dell’universo e ulteriormente riduce quelle del pianetino su cui ci troviamo a vivere. Ciò dovrebbe indurci a riflettere sulla pochezza, o almeno sulla relatività, delle questioni a cui noi umani ci appassioniamo e per le quali ci battiamo, sovente fino a scannarci, sulla nostra terra, questa «aiuola» – per dirla con le parole di Dante (Paradiso, XXII, v. 151) – «che ci fa tanto feroci» e del-
Il sistema solare recentemente scoperto. (Keystone)
la quale già Publio Cornelio Scipione Emiliano, riferendo del sogno da lui fatto in quella parte del De republica che fin dall’antichità è stata tramandata sotto il titolo di Somnium Scipionis, affermava: «la terra mi apparve così piccola che io provai pena per il nostro impero [ossia per l’impero romano, ndr], con il quale noi arrivia-
mo a toccare, si può dire, un punto di essa» (Cicerone, La repubblica, VI, 17, trad. di Francesca Nenci). Senonché, la maggior parte delle notizie successive a quella d’apertura si riferivano a conflitti o a competizioni per il potere a livello internazionale, nazionale, regionale, municipale o addirittura di quartiere o di partito o di gruppi o
gruppuscoli delle più varie associazioni. E la sera successiva, la «sensazionale» scoperta scientifica era ormai relegata alla chiusura dei notiziari. Che lezione trarre da tutto ciò, se non che ciò che veramente ci importa non è l’infinitamente grande, ma l’infinitamente piccolo; non il macrocosmo, ma il nostro orticello?
Donna, e dunque mai capìta Narrativa Un altro
capolavoro di Esther Kreitman Singer Ida Moresco Il clamore sorto intorno a La danza dei demoni, secondo libro di Esther Kreitman Singer (sorella dei più celebri Isaac Bashevis e Israel Joshua), che ha scomodato critici del calibro di Susanna Nierenstein, «con Esther Singer ogni cosa è illuminata», non è da imputare solamente alla bravura dell’autrice, capace di creare un sorprendente equilibrio tra il cosmo tutto e il cuore stesso dei protagonisti, tra la storia con la maiuscola, e i piccoli sforzi quotidiani di sopravvivenza, ma soprattutto al fatto che a scrivere sia una donna. Esther Kreitman Singer, scomparsa oltre sessant’anni or sono, sicuramente, per quella sua condizione di donna, per di più ebrea, e non esattamente avvenente e, come se non bastasse, sorella di due mostri della letteratura, non poté affidare alla scrittura né la totalità del proprio tempo né dei propri pensieri. Sposò un tagliatore di diamanti con cui si trasferì dapprima ad Anversa e poi a Londra, (condizione che non dovette soddisfarla particolarmente, visto che tentò a più riprese di farsi invitare negli USA dal fratello Isaac), e da cui ebbe il figlio Morris, che si occupò anche della promozione e dalla traduzione in inglese dei suoi libri, scritti in yiddish. Dopo L’uomo che vendeva diamanti, Bollati Boringhieri ha ora dato alle stampe La danza dei demoni, nell’ottima traduzione di Marina Morpurgo, uscito anni fa con il titolo di Deborah, il nome della protagonista di questo romanzo di formazione – e disillusione. Deborah, figlia di un rabbino chassidico in un povero villaggio nella Polonia tra i due conflitti mondiali, si affaccia alla vita comprendendone da subito i limiti e la sofferenza, da una parte per la povertà involontariamente indotta dalla bontà del padre, dall’altra per la sua condizione femminile, in un mondo dettato da leggi inventate da uomini millenni prima. La speranza di un miglioramento per Deborah e tutta la desolante famiglia, si presenta con la possibilità di entrare nella corte di un importante tsadik – che ben presto si rivelerà un arrogante e grasso millantatore. A Varsavia seguiranno altre speranze disattese, che infiammeranno le gote di Deborah, la appassioneranno dandole nuovo afflato vitale, e che finiranno per trasformarsi in pesanti fardelli permeati di amarezza. Deborah diventa in qualche modo l’alter ego della scrittrice, grazie al quale (senza contare le indubbie qualità letterarie del libro) il lettore viene invitato in un mondo di cui in questi anni sono cambiate solamente le coordinate geografiche, ma non quelle delle regole sociali, e soprattutto, la condizione femminile.
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Cultura e Spettacoli Il suo recente album si chiama PuntEBarrier. (Ti-Press)
Anche jazz ticinese a Chiasso Festival Dal 16 al 18/3 nuova edizione della
rassegna: tra i protagonisti Roberto Pianca
Marco Zappa, 50 anni di rock svizzero in italiano Musica Nuovo disco e nuovo tour al via il 14 marzo al Sociale
di Bellinzona
Zeno Gabaglio L’attenzione verso quello che ti sta accanto – triste ma vero – è sempre minore (pigra, svogliata) rispetto all’attenzione verso quello che viene da lontano nel tempo e nello spazio. Così capita che una riflessione apparentemente elementare sul tema della cultura musicale nella Svizzera italiana ci venga indotta da un interessamento esterno, nella fattispecie un semplice messaggio proveniente dalla sede zurighese della SUISA, la cooperativa svizzera degli autori ed editori di musica: Marco Zappa è l’unico artista svizzero ad aver continuativamente incarnato il rapporto tra la canzone e la cultura italiana.
Per il cantautore la lingua è come uno strumento ed è necessario sentirla in tutte le sue componenti Non è questione di gusti – che ben si sa, se si vuol ragionare seriamente di cultura contano assai poco – ma di dati di fatto: in tutta la nazione non c’è nessun altro musicista che abbia generato un rapporto pluridecennale con l’autorialità in italiano (ivi compresi i dialetti) scandito da puntuali appuntamenti discografici e concertistici. Nessuno. E chiunque vorrà mai interessarsi seriamente della cultura musicale nella Svizzera italiana – cioè il mondo in cui la Svizzera italiana si è rappresentata nella canzone, tra fine Novecento e inizio Duemila – non potrà che passare da qui. Anche perché il percorso
tracciato da Marco Zappa non è di poco conto, e proprio in quest’inizio di 2017 se ne celebrano i cinquant’anni con un nuovo disco di inediti – PuntEBarrier – e con un tour che inizierà il prossimo 14 marzo al Teatro Sociale di Bellinzona. L’occasione non poteva quindi che apparire propizia per incontrare Marco Zappa e fare un passo indietro di circa mezzo secolo. «È iniziato tutto da mia madre, che mi vedeva come musicista in ambito classico. Abitavamo ancora a Bellinzona ed ero appena un bambino. Ho suonato due anni quasi per forza il pianoforte ma poi una zia mi fece scoprire la chitarra. In quel periodo imperversavano Celentano e i primi “cantanti urlatori” e immediatamente mi appassionai, raccogliendo i miei compagni di ginnasio in un gruppo per suonare alle feste degli studenti». Una band di ragazzi che suonano rock; oggi un’immagine socialmente piuttosto consolidata e anche accettata, ma nel Ticino degli anni Sessanta com’era la situazione? «Band praticamente non ne esistevano. C’era sì il bisogno di incontrarsi nel far musica, ma in genere ci si rivolgeva al repertorio popolare e anch’io ho passato diversi anni a cantare e suonare la Verzaschina o il Boccalino». Esistevano tutt’al più orchestrine, anche solo di 4-5 elementi, che proponevano «musica leggera» e «tornando a casa da scuola mi fermavo sempre affascinato ad ascoltarle davanti ai bar di Locarno». Quella delle orchestrine era però una musica già «vecchia» per l’epoca: cosa portò Marco Zappa verso le più moderne sonorità del rock? «La chitarra elettrica! Durante una serata in cui con il mio gruppo suonavamo all’Ora-
torio di Minusio, il prete che organizzava l’incontro diffuse dall’impianto il brano Apache degli Shadows. Una folgorazione, quegli iniziali suoni di chitarra elettrica riverberata» al punto da dover immediatamente cercare di replicarli sul proprio strumento. «Un amico elettrotecnico mi disse che utilizzando la parte inferiore dalla cornetta del telefono si poteva ricavare un microfono per la chitarra. Cosa che noi facemmo collegando i fili a una vecchia radio: ecco la mia prima chitarra elettrica, e ancora mi ricordo gli attraversamenti della città con la vecchia radio legata sul motorino per andare a fare le prove…». Peccati di gioventù, si potrebbe dire, anche se di lì a poco le cose si sarebbero fatte serie. In lingua inglese. «Ero cresciuto con il rock britannico, ascoltando mille volte i 45 giri per imparare gli assoli di chitarra e memorizzare i testi. E se anche la conoscenza della lingua era per tutti approssimativa, si scriveva e si cantava in inglese. I primi due LP li realizzammo appunto in inglese, e l’orgoglio fu che a produrceli c’era la EMI (la casa discografica dei Beatles!). Il passaggio all’italiano avvenne nel 1979: attorno a noi erano cambiati i gusti musicali e le attitudini culturali, ma soprattutto ero io ad aver maturato una nuova consapevolezza: la lingua che usi è come uno strumento che ti deve appartenere, le parole che scegli devi sentirle completamente tue».
È il centenario del jazz: molte rassegne, festival, pubblicazioni colgono la palla al balzo per celebrare la ricorrenza. Di fatto, quella che si ricorda quest’anno è la prima registrazione ufficiale di un brano musicale jazz, quel Livery Stable Blues che la (bianca) Original Dixieland Jazz Band incise nel 1917 a New York. A Chiasso ci si ispira all’avvenimento con l’allusione contenuta nel titolo del festival (il quale quest’anno, a sua volta, segna il ventennale): «To jazz or not to jazz, there is no question». Ma la cittadina di confine dedicherà al jazz anche un’esposizione tematica, al MAX Museo, di cui riferiremo più avanti. Per ora, ricordando il ricco cartellone in programma (vi spiccano David Murray e China Moses il 16 marzo; lo svizzero Bänz Oester e lo spettacolare duo Galliano-Carter il 17; Frank Salis e Roberto Pianca il 18; Tigran Amasyan e Roy Paci il 19) cogliamo volentieri l’occasione per sottolineare come sia nutrita, e soprattutto convincente la lista dei musicisti ticinesi che fanno parte del cast. Da un lato l’organista Frank Salis col suo trio pirotecnico, dall’altro il chitarrista Roberto Pianca con un quintetto di altissimo livello, porteranno davanti al pubblico i loro progetti più recenti. Nel caso di Pianca il concerto gli offre l’occasione di presentare un nuovo disco, Sub Rosa, che uscirà in Europa praticamente in contemporanea col festival. Si tratta di un album eccellente, registrato con una formazione di assoluto rilievo: al sassofono l’amico e sodale Dan Kinzelman, al pianoforte il newyorchese Glenn Zaleski (fa parte del gruppo di Ravi Coltrane), al basso Stefano Senni e alla batteria Luís Candeias. «Alcuni dei pezzi sono stati composti diversi anni fa, nel periodo in cui ero al Conservatorio» ci confida Pianca. «Altri li ho scritti più di recente: sono sempre stato pignolo, perché non mi sentivo mai abbastanza maturo per una cosa come questa. Quando finalmente ho trovato il coraggio di mettere in piedi un repertorio giocato sulle mie composizioni mi sono reso conto
che i brani avrebbero potuto subire anche delle modifiche. Quando suoni un pezzo da solo in camera tua non hai il quadro generale di come possa trasformarsi con altri quattro musicisti». Alla fine del processo di rielaborazione, ascoltando questo album si scopre in Pianca un pensiero musicale ricco e riflessivo, affine al suo carattere schivo e misurato. E il titolo sembra proprio sottolinerare il suo understatement: «Sub Rosa è una locuzione latina, significa “sotto la rosa”, ma nella lingua inglese la frase viene utilizzata per denotare segretezza, riservatezza. Perché l’ho scelto non te lo so dire: mi piaceva il suono delle due parole insieme. Certo, è un significato che si adatta a quello che sento in rapporto alla musica». Diversamente da molti altri chitarristi, nell’album Pianca non si pone nel ruolo del mattatore, non cerca la visibilità del solista, ma pare essersi concentrato nella preparazione di uno spazio espressivo per i suoi partner: «Esatto, a me non piace troppo apparire. Avrei potuto fare un disco anche più centrato sulla chitarra, ovviamente, ma è semplicemente venuto fuori così. Poi molte volte è la musica stessa che determina quali sono gli spazi necessari. Il disco è stato registrato a Mantova negli studi Digitube di Carlo Cantini, violinista di Trilok Gurtu. La casa discografica che lo pubblica è una piccola etichetta gestita da amici musicisti di Zurigo. Ho preferito fare una cosa più vicina a noi». Pianca contrappone questa scelta alla possibilità che ha avuto nel 2013 e 2015 di registrare due album con la prestigiosa etichetta tedesca ECM. Viene infatti spontaneo chiedergli se quell’esperienza abbia cambiato qualcosa nel suo modo di concepire la musica e la propria carriera: «Dopo aver inciso per ECM non è cambiato assolutamente nulla: l’unica cosa che posso vantare forse è proprio l’esperienza. Aver avuto la possibilità di lavorare con Manfred Eicher, fare un disco con un produttore di quel livello, pubblicare con un’etichetta conosciuta in tutto il mondo è importante, ma non ha cambiato qualcosa in me, a livello artistico». /AZ
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Nato a Lugano nel 1984, si è diplomato al Conservatorio di Amsterdam. (robertopiancamusic.wordpress.com) Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Storie di stadi Se si tratta di costruire uno stadio per il gioco del calcio perdiamo tutti la testa. Non solo a Roma. Esaminiamo il caso di Torino. Si dice: i torinesi praticano la virtù della prudenza, sono contrari a «fare il passo più lungo della gamba», detestano lo spreco. Per dimostrare quest’ultimo vanto, si cita il caso delle quattro colonne commissionate per decorare la facciata in restauro della chiesa del Corpus Domini. Quando con molta fatica per il loro trasporto le colonne arrivarono si accorsero che qualcuno aveva sbagliato nel prendere le misure. Cosa farne? Buttarle via dopo tutto quello che erano costate? A poche centinaia di metri c’era un altro cantiere aperto, il Palazzo di Città. Anche se il progetto non lo prevedeva, applicarono quelle quattro colonne sulla facciata, nell’ipotesi che, con il trascorrere del tempo nessuno ci avrebbe fatto più caso. Sono ancora lì. Ma per il gioco del calcio i Torinesi non badano a spese. Così, ospitando l’Italia nel 1990 il campionato mondiale, per esserne degni, costruirono un nuovo stadio, battezzato «Delle
Alpi», nome scelto con un referendum. Un capolavoro dell’architettura moderna, una meravigliosa astronave. Per concedere disco verde, il Coni pretende la pista d’atletica attorno al campo da gioco con il risultato di tenere lontani gli spettatori che avevano bisogno del binocolo per riconoscere i calciatori. Quante gare di atletica sono state ospitate al Delle Alpi? Una, ma ne valeva la pena. Trascorsi pochi anni si constata che il nuovo stadio non va, ha una capienza esagerata. Tiriamolo giù, prima che la sovrintendenza pensi di vincolarlo. Per farci cosa, al suo posto? Un nuovo stadio naturalmente: si chiama «Juventus Stadium», è di proprietà della squadra, pensato sul modello inglese come punto di riferimento per i tifosi, ben oltre i 90 minuti delle partite: 8 aree per la ristorazione, 21 bar, 34’000 metri quadrati di area commerciale. Nella storia di Torino c’è un altro impianto sportivo che nessuno ha voglia di ricordare: lo «Stadium», pensato per essere il più grande del mondo, maggiore di quelli di Atene e di Londra, dove si erano svolte le Olim-
piadi del 1896 e del 1908, per celebrare il primo cinquantenario dell’Unità d’Italia, nel 1911. Fu inaugurato il 30 aprile 1911 da re Vittorio Emanuele III e dalla sua signora, il giorno dopo l’apertura della Esposizione Universale. Sorgeva su un’area di 100’000 metri quadri su quella che fino alla fine dell’800 era stata la piazza d’armi per le esercitazioni militari e che ora ospita il Politecnico e altri istituti scolastici. Definito una «sorta di via senza ritorno nell’evoluzione darwiniana degli impianti sportivi», poteva ospitare 70’000 spettatori. Nel 1911 gli abitanti di Torino erano 427’733, un abitante su 6 poteva andare allo Stadium; in proporzione è come se ora a Torino costruissero uno stadio per 150’000 spettatori. Tutti gli sport potevano trovare ospitalità allo Stadium: corse di cavalli, di ciclismo, podistiche, gare di nuoto, lotta, tiro a segno con archi e balestre, tennis (il primo incontro di Coppa Davis a Torino, 15,16 maggio 1931, Italia-Olanda 3-0). E il football, direte voi? Beh, la struttura in calcestruzzo era così grande che impediva una visione
soddisfacente dei giocatori. Nei suoi trenta anni di vita ospitò ben cinque partite, di cui quattro con la nazionale italiana. In compenso lo Stadium ospitò tutti i circhi equestri di passaggio, serate pirotecniche, gare di palloni sferici. Nel 1923 fu teatro di una Passione di Cristo e il 27 maggio del 1928 si tenne un grandioso Carosello Storico, con tutta la nobiltà sabauda, il principe Umberto in costume da Emanuele Filiberto mentre sua sorella Jolanda interpretava la parte della moglie Margherita di Valois. Le cronache parlano perfino di una corrida incruenta allo Stadium! Intanto i club del calcio avevano cominciato a costruire i loro impianti e alla fine degli anni 30 anche lui fu tirato giù. Per distruggerlo ci volle il doppio del tempo impiegato per costruirlo. La tendenza di ciascun club a farsi il suo stadio è ritornata e oltre al «Juventus Stadium» in funzione con generale soddisfazione e profitto, anche l’altra squadra cittadina, il Torino Football Club fra pochi mesi avrà pronto il suo, chiamato «Filadelfia», dal nome della via e nel luogo dove
c’era il precedente stadio inaugurato nel 1926 e distrutto dalle bombe durante la guerra. È pensato con lo stesso criterio, come un club per i tifosi, con un museo ricco di cimeli, l’immancabile centro commerciale, aperto ogni giorno. Per ora la squadra del Torino gioca nello stadio più longevo della città. Nasce come «Stadio Mussolini» (indovinate in quali anni), nel dopoguerra diventa «Stadio Comunale», poi, rimesso a nuovo in occasione delle Olimpiadi invernali del 2006 «Stadio Olimpico»; battezzato infine «Stadio del Grande Torino», in ricordo della squadra caduta con l’aereo a Superga il 4 maggio 1949. Di sera incombe su chi lo circumnaviga per fare jogging come un’enorme e minacciosa massa nera. Si riaccende e ritorna in vita solo una volta ogni due settimane, quando il Torino gioca in casa. Fra pochi mesi, neanche questo breve ritorno in vita accadrà più. A quel punto inizierà l’acceso dibattito: cosa ne facciamo? Lo tiriamo giù? Oppure lo usiamo per ospitare corride e caroselli storici?
di Borsa, se anche ci si trattiene dall’appoggiare il dito sul pulsante che consente l’apertura della finestra (un po’ difficile rendere «se non si clicca col mouse»). Ma perché? Che cosa spinge severe e secolari testate a cospargere le loro pagine di inciampi, facce tristi, insulti delle giurie, procaci attrici o nullafacenti vestite di leggero tulle? È ovvio il motivo: trattenere un istante di più lo sguardo del lettore sulla pagina, dunque più o meno consapevolmente su tutti i contenuti della pagina: articoli, pettegolezzi e, essenzialmente, pubblicità. Quante più visualizzazioni si contano, tanto maggiore è il prezzo dell’inserzione, un sistema paradossalmente più onesto di quello della carta stampata. Si sa infatti che nella tiratura i giornali di carta hanno spesso aggiunto anche le copie omaggio, così da alzare i prezzi delle inserzioni pubblicitarie. Nella rete (non web) pare che sia più difficile barare sulle visualizzazioni. Questo spiega anche perché nei
giornali online (non posso dire in linea) la lettura di articoli interi è ridotta se non impedita per i non abbonati, ma i video sono gratuiti: dai 5 ai 15 secondi di video pubblicitari precedono sempre la visione desiderata! Si crea quindi una catena che trasforma la libera scelta in percorso obbligatorio. In caso di libertà, infatti, l’umano studia la situazione, in particolare sceglie che cosa vuole raggiungere. Non tanto il motivo, perché il motivo delle nostre scelte è sempre uno e uno solo, fare «ciò che è bene per me». Non in senso negativo, egoistico, non ciò che fa bene, mi porta dei beni, ma ciò che io ritengo un bene e di conseguenza una volta ottenuto confido mi apporti benessere, magari felicità. Posso ritenere un bene privarmi del cibo o di un vantaggio per favorire un’altra persona: avrò fame (male), ma sarò soddisfatto di me, quindi avrò più autostima e serenità (grandi beni). Dunque, una volta mirato il bene, con una non chiarissima, nemmeno
alle neuroscienze, spinta degli istinti e dell’intelligenza insieme esercito il volere, faccio quel che mi rende possibile raggiungere quel bene. Sia investire tutte le vecchiette, perché sono convinto che inquinino il paesaggio in modo inaccettabile, sia correre per prendere un treno. Se però qualcuno di questi passaggi è inquinato, per esempio l’istinto è sovrastimolato, o l’intelligenza non ha chiarezza e mancano gli strumenti per conoscere davvero la situazione (per esempio comprendere che cosa davvero inquina il paesaggio più delle vecchiette), allora non riesco a raggiungere un bene in linea con i miei propositi (per esempio di ecologismo e non assassinio). Ecco, leggere il giornale in rete può diventare faticoso, perché è faticoso trattenere l’istinto della curiositas, quindi prima o poi anche voi lo lascerete libero di imparare cose interessanti sugli applausi da foca di Nicole Kidman e sul tenore dei rapporti tra due fidanzati.
no il funzionario della PWC, mentre consegnava la busta del film vincitore, fosse distratto da un tweet in partenza o in arrivo. Dunque, è accaduto quel che non è mai successo nei passati decenni: è stata consegnata la busta sbagliata (quella che portava il nome della migliore attrice) e da lì il patatràc, l’equivoco, la confusione, il panico: «The winner is… La La Land! Anzi no, Moonlight! Anzi nohhhh, anzi bohhhh, anzi mahhhh…». In definitiva, la tecnologia, che dovrebbe garantire maggior precisione in un lavoro di somma precisione com’è la conta dei voti di un premio, è stata la buccia di banana su cui è scivolato l’intero baraccone hollywoodiano della cosiddetta Academy. Da sorriderci sopra, anzi da riderci su, anzi da sbellicarsi, anzi da piangere… Da andare a nascondersi per la vergogna. Dove? Sulla luna (in inglese «Moon» come Moonlight)? Sembra che sulla Luna ci sia spazio. E se i soldi non mancano, ci si può andare davvero
per una modica cifra. Bastano cento milioni di dollari e la villeggiatura è assicurata: tanto costeranno, dicono, i voli spaziali che vengono organizzati dal magnate americano Elon Musk (1, anzi 1–, anzi –1). Il quale si occupa di proporre trasferte turistiche interplanetarie a buon mercato: e i clienti non gli mancano. Due candidati passeggeri, rimasti anonimi, non si sono fatti pregare e hanno già versato la caparra per l’anno prossimo, quando la capsula Dragon 2 li accoglierà a Cape Canaveral per un giretto panoramico che percorrerà tra i 460 mila e i 630 mila chilometri. Dunque, visto che quello dei viaggi spaziali è un settore commerciale ritenuto molto redditizio, ci sono buone speranze che dopo aver distrutto l’ambiente del nostro pianeta e pressoché esaurito le sue risorse naturali per motivi essenzialmente economici, riusciremo a estendere il danno all’intero universo, pianeti, stelle, galassie, spazi intergalattici compresi. Se tutto
andrà bene (anzi male, anzi malissimo, com’è prevedibile), tra qualche anno avremo la possibilità di trascorrere le ferie di Natale su una stella cometa, il Capodanno su Plutone, il compleanno su Marte, San Valentino su Venere e il ponte di Carnevale su Saturno. Per ora, afferma Ajay Kothari, amministratore delegato di Astrox Corporation, non essendo i biglietti propriamente popolari, purtroppo gli aspiranti viaggiatori sono pochini: ma quando una trasferta costerà soltanto un milione di dollari, allora investire nel mercato turistico orbitale e suborbitale sarà conveniente. Resta da capire se quella cifra è «all inclusive», compresi sdraio, ombrellone e cabina. E se bisogna portarsi il telo e la crema solare da casa. E il telefonino? Funzionerà internet a quelle altezze? Si potrà mandare un wathsapp a mamma per dire che siamo arrivati bene? Tranquilli, ci potremo collegare per sapere com’è andata a finire l’ennesima edizione degli Oscar. Anzi no, anzi sì, anzi boh.
Postille filosofiche di Maria Bettetini La rete e il bene ultimo In pochi minuti ho saputo, questa mattina, che Warren Beatty ha letto la busta sbagliata alla cerimonia degli Oscar, che Fergie, la cantante, è inciampata mentre allietava la serata di Vogue a Palazzo Reale, durante la settimana della moda di Milano. Che quella stessa sera ha visto i fidanzati Fedez e Chiara Ferragni tenersi il muso; che Nicole Kidman batte le mani «come una foca», tenendo distanti le dita (smalto fresco?). Che Giuliana De Sio, attrice che stimo da sempre, ha pianto quando a Ballando con le stelle quella simpaticona della Selvaggia Lucarelli le ha detto che sembrava lo scimmione di Sanremo, invece del cigno che avrebbe dovuto essere, in buona compagnia di una candidata ad Amici che è stata definita troppo grassa per ballare e poi la stessa giurata, vedendola in lacrime, ha proseguito così: «piange perché è consapevole di essere sovrappeso, lo sa benissimo». Infine ho saputo che Rihanna e Kim Kardashian sono le «celeb» che più
di frequente sui red carpet si vestono solo di un velo non coprente. Avrò sfogliato un giornale di gossip (ma quante parole in slang statunitense si devono usare per toccare questi argomenti), si potrebbe pensare, oppure avrò visitato uno o più dei molti siti dediti a celeb, red carpet, gossip. O avrò trascorso il fine settimana (non il week-end) incollata alla televisione. No, ho solo letto un quotidiano molto serio, aprendo non solo le finestre di politica internazionale e nazionale, ma anche altre dai titoli già ammiccanti, che di solito evito perché ci perderei un sacco di tempo, non perché non mi divertano. Insomma, cercherei come tante, di poter usare ancora l’espressione «lo so perché l’ho letto dal parrucchiere», unica zona franca dei giornali che oggi hanno preso il posto di «Stop», «Confidenze», «Novella2000». Ma non è più possibile usare con sincerità la locuzione di cui sopra, perché queste notizie (non news) arrivano anche leggendo le quotazioni
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Anzi no, anzi boh Miglior film dell’anno? «The winner is… La La Land! Anzi no, Moonlight! Anzi no, Manchester By the Sea! Anzi no, Moonlight. Anzi no, Arrival! Anzi no, La La Land… Anzi no. Boh, anzi sì, anzi no, anzi ma…». Chi ha vinto l’Oscar quest’anno? Boh, chi sarà? Vuoi vedere che tra un paio di settimane sapremo che le buste non erano state scambiate e che il vero vincitore è davvero La La Land? Anzi no, Moonlight… Anzi no… Bella figuraccia, a Los Angeles, nella Notte degli Oscar (3)! Ma chi ha sbagliato? Sulle prime la colpa è ricaduta, coram populo, sul capo del povero Warren Beatty (6–), che conduceva la serata. Tutto il mondo l’ha visto disorientato, con i suoi ottant’anni, guardarsi intorno sperduto, senza capire che cosa stesse accadendo. Dunque: dagli all’anziano, al «rimbambito», con tanto di risatine e colpetti di gomito. Lui stesso ha ammesso lo sbaglio: «Non ho voluto fare lo spiritoso, mi scuso, non presenterò mai più gli Oscar…».
Poi però si è venuto a sapere che l’errore non andava attribuito alla vecchiaia di Beatty ma alla presunta efficienza di una società che si chiama niente meno che PriceWaterhouseCoopers (3, anzi 2+, anzi 2): si tratta di un’azienda specializzata in revisione dei conti e in lavori di precisione, anzi di super precisione, anzi di super super super precisione. Nella fattispecie, da oltre ottant’anni (anzi per la precisione da 83) esegue lo spoglio dei voti dei giurati, li conta con massima precisione, allestisce le buste dei vincitori, le sigilla con cura, le conserva con scrupolo fino allo spettacolo e le consegna attentamente nel momento della proclamazione in modo che i conduttori possano aprirle e leggerle in pubblico: un’operazione banalissima che potrebbero eseguire un paio di bambini mediamente svegli ma che, con le sue varie fasi, permette alla prestigiosa società di «auditing» di incassare un bell’assegno di consulenza annuale. Insomma, pare che quest’an-
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Idee e acquisti per la settimana
shopping Oggi cucino il brasato Attualità Per preparare un ottimo manzo brasato servono carne svizzera di qualità e un po’ di pazienza.
Il risultato è una carne ben saporita e meravigliosamente tenera che delizierà ogni ospite: anche le donne in occasione della loro festa dell’8 marzo
La carne giusta
I tagli di manzo più indicati per un buon brasato sono, dalla spalla, il fesone (detto anche traverso), l’aletta (ottima anche per il bollito) e il filetto. Dalla coscia invece la sottofesa, il magatello e il cappello del prete. Le caratteristiche della carne
Sono i tagli dell’animale dove la fibra muscolare risulta più dura rispetto a quelli destinati a preparazioni a cottura breve. Per questo motivo necessitano di una lunga cottura affinché le fibre si ammorbidiscano. Il metodo di cottura
Nella cottura lenta la carne viene prima rosolata per conferire la giusta tostatura e l’aroma di spezie, quindi brasata in un liquido (brodo, vino, birra) sulla piastra o in forno, un delicato procedimento che permette di renderla morbida, tenera e gustosa al punto giusto. Gli strumenti
È bene utilizzare delle pentole a fondo alto con coperchio, resistenti alla cottura in forno che trattengano bene il calore. I materiali più indicati sono ghisa e ceramica. La ricetta sfiziosa
Brasato al Barolo per 4 persone. Marinare in frigorifero per 12 ore 1 kg di arrosto spalla di manzo con l’aggiunta 1 bottiglia di Barolo e verdure miste tagliate a cubetti (p. es. 2 carote, 2 sedani, 1 cipolla, 1 spicchio d’aglio) e spezie varie (p. es. 1 rametto di rosmarino, 3 chiodi di garofano, 2 foglie di alloro, pepe nero). Togliere la carne dalla marinata, asciugarla con carta cucina e rosolarla in padella con un po’ di burro e olio di oliva per 5 minuti fino ad ottenere una bella crosticina in superficie. Togliere le verdure dalla marinata e aggiungerle alla carne. Cuocere il tutto per 15 minuti e salare a piacere. Aggiungere la marinata, coprire con un coperchio e far sobbollire a fuoco dolce per almeno 2 ore. La carne è cotta quando, infilzandola con un forchettone, quest’ultimo esce senza problemi. Preparare il sugo di accompagnamento passando al mixer le verdure e il fondo di cottura. Addensare il sugo sul fuoco se necessario e versare ancora caldo sul brasato affettato.
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Idee e acquisti per la settimana
Un pane con valore sociale
Attualità Il saporito pane al mais è la specialità di marzo proposta
Flavia Leuenberger
presso la filiale Migros di Agno dalla Fondazione La Fonte. È prodotto dal lunedì al venerdì in collaborazione con alcuni utenti disabili. Intervista a Elia Quadri, capo struttura alla «Fonte 7» della Fondazione La Fonte
8 marzo: una giornata tutta al femminile
Elia Quadri, di cosa si occupa la Fondazione La Fonte?
La Fondazione La Fonte si è costituita quale ambito istituzionale preposto nel promuovere, realizzare e gestire strutture nel Cantone Ticino, destinate all’integrazione sociale e professionale delle persone al beneficio o in attesa di una rendita di invalidità. Cos’ha di speciale il vostro pane?
Il nostro pane – oltre a essere buono come tutti gli altri nostri prodotti – è il risultato degli sforzi istituzionali nonché il veicolo che permette di aprire una breccia tra il muro che troppo spesso ha diviso ed in alcuni casi divide ancora il mondo della disabilità dal mondo «normale». Qual è il ruolo degli utenti nella sua produzione?
Gli utenti hanno un ruolo preponde-
rante nella produzione del pane. Anche se supervisionati da tre panettieri/ pasticceri qualificati, gli utenti sono in possesso di un attestato di capacità inerente il lavoro che svolgono e sono parte attiva nel processo di lavorazione dei prodotti. Perché acquistare questo pane?
Soprattutto perché è buono. Il Capo Produzione, signor Guadagnin, è Cavaliere della Confraternita dei Cavalieri del Buon Pane e questo, oltre ad essere motivo di orgoglio per la Fondazione, è anche un punto di riferimento per tutta la produzione e per lo standard dei prodotti. Non da ultimo il ricavato ci permette, come già accennato, di continuare con la nostra attività e di investire in progetti sempre più mirati e potenzialmente utili per la reintegrazione delle persone disabili.
Elia Quadri della Fondazione La Fonte.
A Migros Agno ogni mese un pane diverso della Fondazione La Fonte
Pane al mais 300 g Fr. 3.90 In vendita dal lunedì al venerdì, fino al 31.3.17, solo presso Migros Agno. L’intero ricavato della vendita viene ritornato alla Fondazione La Fonte.
Il pane al mais si accosta particolarmente bene a zuppe e minestre. È per esempio una vera delizia con il minestrone. (Flavia Leuenberger)
La Festa della Donna è un’occasione imprescindibile per sottolineare l’importanza della figura femminile nella nostra società. Nel 1946 l’Unione Donne Italiane scelse come simbolo della giornata la mimosa, questo non solo perché il bellissimo fiore fiorisce proprio in questo periodo, ma anche perché il suo colore giallo esprime al contempo eleganza, forza, vitalità, tenerezza e semplicità; proprio come possono essere le donne. L’8 marzo la mimosa viene offerta simbolicamente a nonne, mamme, figlie, mogli, compagne, amiche, colleghe … non solo dagli uomini, ma anche dalle donne stesse. Al di là dell’aspetto simbolico, la mimosa è una pianta appartenente al genere Acacia, di cui fanno parte oltre 1000 specie. La mimosa è originaria dell’Australia: fu portata in Europa dagli inglesi nella prima metà dell’Ottocento e sul litorale mediterraneo trovò le condizioni climatiche ideali per il
suo sviluppo. Le mimose che giungono da noi provengono dai dintorni di Sanremo, regione nota ovunque per la sua vasta produzione floreale. Per festeggiare ulteriormente l’importante ricorrenza dedicata alle donne, a Migros Ticino esistono pure due squisite tipologie di dolci, realizzate con grande perizia dai pasticceri del laboratorio di S. Antonino. La Torta Mimosa è una soffice creazione a base di pan di spagna e crema chantilly, il tutto ricoperto da irresistibile cocco grattugiato. Friabile fondo di pasta frolla farcito con panna e crema pasticcera sono invece i segni distintivi delle Tartelette Mimosa. Impossibile resistere a queste bontà! Mimosa al mazzo Fr. 6.90 Torta Mimosa 100 g Fr. 3.20 Tarteletta Mimosa al pezzo Fr. 2.90 In vendita solo l’8 marzo presso i banchi pasticceria e nei reparti fiori Migros
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Idee e acquisti per la settimana
aha!
Più di un semplice surrogato Che si tratti di una raffinata mousse di frutta, di una salsa spumeggiante o di un gelato rinfrescante: in cucina molti classici prevedono l’uso di cremosi prodotti lattieri, come ad esempio la ricotta. Una valida alternativa è la mousse di soia della linea aha! Si tratta di un prodotto completamente vegetale, adatto per un’alimentazione vegana o senza lattosio. Il suo vantaggio: con le creazioni a base di mousse di soia non bisogna preparare un aperitivo a parte per i vegani, perché il suo gusto piace anche ai flexitariani e ai «carnivori». La mousse di soia è ottima anche per preparare il pesto di aglio orsino, una crema di erbe aromatiche da spalmare oppure dei dessert alla frutta, come ad esempio un semifreddo.
Servito nei bicchierini, il semifreddo fa una splendida figura.
Foto zVg
Semifreddo alle more Per 8-10 bicchierini Preparazione Portate a ebollizione 100 g di zucchero e 200 g di more e lasciate cuocere per 5 minuti. Poi riducete il tutto in purea. Frullate a piacere e lasciate raffreddare. Mescolate bene la purea fredda con due vaschette di mousse di soia (360 g). Poi versate il tutto in piccoli bicchieri ghiacciati o in piccole ciotole e metteteli nel congelatore per almeno sei ore o durante la notte. Prima di servire, decorate a piacere con melissa fresca o menta e alcune more.
Il V-Label dell’Unione vegetariana europea (EVU) certifica prodotti adatti ad un’alimentazione vegetariana o vegana. Tutti gli ingredienti e gli additivi sono vegetariani o vegani.
L’etichetta aha! certifica prodotti particolarmente indicati anche per soggetti che soffrono di intolleranze e allergie.
aha! Soja Line Mousse Nature 180 g Fr. 3.90 M-Industria crea molti prodotti Migros, tra cui la mousse di soia di aha!.
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Pane del mese
Un aromatico engadinese Sur En non è soltanto un villaggio dell’Engadina, ma anche una vecchia varietà di cereale, utilizzato per produrre l’omonimo pane del mese delle panetterie della casa Migros. Questo tipo di frumento conferisce al pane un sapore nocciolato Testo Claudia Schmidt
Nel ghiaccio eterno dell’isola Spitsbergen vengono conservate, in una sorta di arca di Noé, le sementi più rare. Qui, per esempio, nella banca delle sementi sonnecchiavano ancora pochi semi della varietà di frumento engadinese Sur En. Ci sono voluti cinque anni affinché dai semi disponibili si potesse arrivare a coltivare sufficiente cereale Sur En per produrre un pane. Ma lo sforzo è stato pagante, poiché questa
farina grigionese in qualità TerraSuisse conferisce al pane un aroma fruttato-nocciolato. Grazie alla lavorazione della crusca – la parte esterna dei chicchi ricca di fibre – il pane acquista anche una dolce nota tostata. Questo sapore pronunciato fa sì che il croccante pane Sur En si abbini ottimamente con prodotti da spalmare marcatamente salati. www.migros.ch/pane
Silvio Vezzaro è panettiere presso la filiale Migros di Serfontana. È uno dei circa 900 panettieri che più volte al giorno producono il pane nelle 130 panetterie della casa, affinché ognuno possa trovare pane fresco e caldo fino all’orario di chiusura dei negozi.
Serie Il sapore del pane del mese Attuale in marzo: Pane engadinese di Sur En
Silvio Vezzaro
«I pani scuri sono molto gettonati» Perché è diventato panettiere? Fin da bambino l’arte bianca mi ha sempre appassionato. D’estate, durante le vacanze scolastiche, ogni mattina andavo dal fornaio e, mentre ero in attesa del mio turno, oltre ad annusare il profumo inebriante che si diffondeva il negozio, spiavo nel laboratorio per vedere come si faceva il pane. Quando fu il momento di scegliere quale scuola professionale frequentare, non ebbi dubbi.
Foto Veronika Studer (Food) / Gaëtan Bally (Porträt); Servier-Tipp Regula Brodbeck
Quali sono i suoi pani preferiti? Generalmente acquisto pani croccanti bianchi, ma anche quelli scuri o con i semi fanno parte della mia tavola. E poi, una colazione senza treccia non sarebbe tale! Come gusta solitamente queste qualità di pane? Si associano bene a qualsiasi cosa – sia dolce che salata – ma se c’è una cosa a cui proprio non riesco a rinunciare è «la scarpetta» con il ragù. Quali sono al momento le varietà particolarmente richieste dalla clientela? Tra le moltissime varietà dell’assortimento, quelli più richiesti ultimamente sono senza dubbio quelli scuri, in controtendenza con gli anni passati.
Consiglio
Pane spalmato di prosciutto Tritare grossolanamente nel cutter del prosciutto paesano, molto prezzemolo e un po’ di panna, fino ad ottenere un paté morbido. Spalmare il paté sulle fette di pane e cospargere con del prezzemolo tritato.
TerraSuisse è sinonimo di un’agricoltura vicina alla natura, rispettosa degli animali che si rifà alle direttive di IP-Suisse. Parte di
Con il suo impegno per la sostenibilità, Migros è da generazioni in anticipo sui tempi.
Pane engadinese di Sur En 360 g Fr. 3.20 In vendita nelle panetterie della casa di S. Antonino e Serfontana
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Pane del mese
Un aromatico engadinese Sur En non è soltanto un villaggio dell’Engadina, ma anche una vecchia varietà di cereale, utilizzato per produrre l’omonimo pane del mese delle panetterie della casa Migros. Questo tipo di frumento conferisce al pane un sapore nocciolato Testo Claudia Schmidt
Nel ghiaccio eterno dell’isola Spitsbergen vengono conservate, in una sorta di arca di Noé, le sementi più rare. Qui, per esempio, nella banca delle sementi sonnecchiavano ancora pochi semi della varietà di frumento engadinese Sur En. Ci sono voluti cinque anni affinché dai semi disponibili si potesse arrivare a coltivare sufficiente cereale Sur En per produrre un pane. Ma lo sforzo è stato pagante, poiché questa
farina grigionese in qualità TerraSuisse conferisce al pane un aroma fruttato-nocciolato. Grazie alla lavorazione della crusca – la parte esterna dei chicchi ricca di fibre – il pane acquista anche una dolce nota tostata. Questo sapore pronunciato fa sì che il croccante pane Sur En si abbini ottimamente con prodotti da spalmare marcatamente salati. www.migros.ch/pane
Silvio Vezzaro è panettiere presso la filiale Migros di Serfontana. È uno dei circa 900 panettieri che più volte al giorno producono il pane nelle 130 panetterie della casa, affinché ognuno possa trovare pane fresco e caldo fino all’orario di chiusura dei negozi.
Serie Il sapore del pane del mese Attuale in marzo: Pane engadinese di Sur En
Silvio Vezzaro
«I pani scuri sono molto gettonati» Perché è diventato panettiere? Fin da bambino l’arte bianca mi ha sempre appassionato. D’estate, durante le vacanze scolastiche, ogni mattina andavo dal fornaio e, mentre ero in attesa del mio turno, oltre ad annusare il profumo inebriante che si diffondeva il negozio, spiavo nel laboratorio per vedere come si faceva il pane. Quando fu il momento di scegliere quale scuola professionale frequentare, non ebbi dubbi.
Foto Veronika Studer (Food) / Gaëtan Bally (Porträt); Servier-Tipp Regula Brodbeck
Quali sono i suoi pani preferiti? Generalmente acquisto pani croccanti bianchi, ma anche quelli scuri o con i semi fanno parte della mia tavola. E poi, una colazione senza treccia non sarebbe tale! Come gusta solitamente queste qualità di pane? Si associano bene a qualsiasi cosa – sia dolce che salata – ma se c’è una cosa a cui proprio non riesco a rinunciare è «la scarpetta» con il ragù. Quali sono al momento le varietà particolarmente richieste dalla clientela? Tra le moltissime varietà dell’assortimento, quelli più richiesti ultimamente sono senza dubbio quelli scuri, in controtendenza con gli anni passati.
Consiglio
Pane spalmato di prosciutto Tritare grossolanamente nel cutter del prosciutto paesano, molto prezzemolo e un po’ di panna, fino ad ottenere un paté morbido. Spalmare il paté sulle fette di pane e cospargere con del prezzemolo tritato.
TerraSuisse è sinonimo di un’agricoltura vicina alla natura, rispettosa degli animali che si rifà alle direttive di IP-Suisse. Parte di
Con il suo impegno per la sostenibilità, Migros è da generazioni in anticipo sui tempi.
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20.02.17 15:26
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2.30 invece di 3.60
8.40 invece di 14.–
Fragole Spagna/Italia, vaschetta, 500 g
a partire da 3 pezzi
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Tutte le tavolette di cioccolato di marca Frey da 100 g, UTZ (M-Classic, Suprême, Eimalzin e confezioni multiple escluse), a partire da 3 pezzi, 20% di riduzione
Pollo Campese Amadori Italia, imballato, al kg
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30% Tutti i salami Rapelli Classico e Rustico, affettati e al pezzo per es. Classico affettato, Svizzera, 155 g, 4.90 invece di 7.05
50% 20% Tutti gli ovetti di cioccolato Frey in sacchetto da 165 g, UTZ per es. Freylini Mix, 3.65 invece di 4.60
50% Tutte le linee di posate Cucina & Tavola per es. cucchiaino da caffè Primo, il pezzo, –.45 invece di –.95, offerta valida fino al 20.3.2017
Migros Ticino Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 7.3 AL 13.3.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
Tutti i coltelli da cucina e le forbici Cucina & Tavola e Victorinox per es. spelucchino Victorinox, il pezzo, 1.55 invece di 3.10, offerta valida fino al 20.3.2017
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30% Filetti di salmone bio per es. con pelle, d’allevamento, Norvegia, in vaschetta, per 100 g, 3.50 invece di 5.10
30% Filetto di trota bio, gamberetti tail-on bio e salmone affumicato bio per es. salmone affumicato, d’allevamento, Irlanda/ Scozia/Norvegia, 260 g, 15.80 invece di 23.10
30%
3.80 invece di 5.50 Costolette di vitello TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g
20%
1.80 invece di 2.30 Carne di manzo macinata bio Svizzera, per 100 g
*In vendita nelle maggiori filiali Migros. Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 7.3 AL 13.3.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
30%
1.45 invece di 2.10 Fettine di tacchino M-Classic Ungheria, carne prodotta in base all’Ordinanza svizzera sulla protezione degli animali, per 100 g
30%
2.55 invece di 3.70 Salametti a pasta fine prodotti in Ticino, conf. da 2 pezzi, per 100 g
30%
5.60 invece di 8.– Bresaola Beretta Italia, affettata in vaschetta da 100 g
20%
4.30 invece di 5.40 Prosciutto affumicato bio* Svizzera, per 100 g
25%
3.95 invece di 5.40 Racks d’agnello Nuova Zelanda / Australia, imballati, per 100 g
40%
2.15 invece di 3.65 Prosciutto cotto Puccini prodotto in Ticino, al banco con servizio, per 100 g
50%
1.75 invece di 3.50 Prosciuttino dalla noce Quick TerraSuisse, affumicato per 100 g
40%
3.20 invece di 5.40 Filetto di maiale TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g
20%
2.40 invece di 3.– Arrosto di spalla di manzo TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g
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15.60 invece di 27.50
2.90 invece di 4.30
Pecorino Romano DOP in self-service, al kg
20% Tutto l’assortimento di antipasti Anna’s Best e bio per es. hummus al naturale Anna’s Best Vegi, 175 g, 2.70 invece di 3.40
1.75 invece di 2.65 Gnocchi freschi Di Lella conf. da 500 g
3.50 invece di 4.40 Broccoli Italia, imballati, al kg
conf. da 2
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1.40 invece di 1.80 Appenzeller surchoix per 100 g
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Carote bio Svizzera, busta da 1 kg
20%
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2.85 invece di 3.60 Mele Gala Svizzera, al kg
Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 7.3 AL 13.3.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
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14.40 invece di 18.– Raccard Tradition a fette, in conf. da 2 2 x 400 g
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2.50 invece di 3.90 Arance sanguigne bio Italia, rete da 1 kg
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2.80 invece di 3.55 Formentino bio Ticino, imballato, per 100 g
a partire da 2 pezzi
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Mango Perù, per es. 2 pezzi, 3.30 invece di 4.80, a partire da 2 pezzi, 30% di riduzione
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2.– invece di 2.90 Insalata Alice conf. da 250 g
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12.50
Tulipani tono su tono in mazzo da 20 disponibili in diversi colori, per es. gialli e bianchi
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5.90 invece di 9.20 Asparagi verdi Messico/Spagna, il mazzo, 1 kg
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adrliisnpeaIrmio! AncorHpeiù a partire da 2 confezioni
20%
Consiglio
Tutta la pasticceria svedese per es. torta svedese assortita, 2 pezzi, 2 x 115 g, 4.60 invece di 5.80
20% Panini M-Classic in sacchetto, per es. mini sandwiches TerraSuisse, 300 g, 1.80 invece di 2.30
–.60
di riduzione l’una Tutti i prodotti da forno Blévita (Beef Chips escluse), a partire da 2 confezioni, –.60 di riduzione l’una, per es. al sesamo, 295 g, 2.70 invece di 3.30
DOLCE RICOMPENSA Una squisita crema di vaniglia da servire con biscotti fatti in casa, impreziositi con pepite di cioccolato, è un’idea golosa da abbinare a una tazza di tè o di caffè, oppure da gustare come dessert o come ricompensa dopo aver stirato tutta la biancheria. Trovi la ricetta su migusto.ch e tutti gli ingredienti freschi alla tua Migros.
20%
4.15 invece di 5.20 Dessert Tradition Crème in conf. da 4 per es. alla vaniglia, 4 x 175 g
conf. da 4
Hit
3.90 Berliner 6 pezzi, 420 g
25% Tutti i tipi di caffè macinato per es. Exquisito, UTZ, 500 g, 5.40 invece di 7.20
20%
5.75 invece di 7.20 Gelato in coppetta monoporzione in conf. da 4 Ice Coffee, Japonais e banana split, per es. Ice Coffee, 4 x 165 ml
conf. da 2
20% Tutti gli yogurt Excellence per es. alle fragoline di bosco, 150 g, –.75 invece di –.95
20%
3.80 invece di 4.80 Mezza panna UHT Valflora in conf. da 2 2 x 500 ml
OFFERTE VALIDE SOLO DAL 7.3 AL 13.3.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
conf. da 3
30% Tortelloni e cappelletti M-Classic in conf. da 3 per es. cappelletti ai funghi, 3 x 250 g, 9.– invece di 12.90
conf. da 2
20% Chips Zweifel in conf. da 2 per es. Corn Chips Original, 2 x 125 g, 3.80 invece di 4.80
20%
20%
Alle M-Classic- und Bio-Chüechli sowie -Strudel Tutti i biscotti in sacchetto Midor tiefgekühlt, z.B. M-Classic Chäs-Chüechli, 4 Stück, (Tradition esclusi), per es. schiumini al cioccolato, 175 g, 1.80 invece di 2.30 280 g, 2.15 statt 2.70
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conf. da 3
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1.95
Spaghetti, pennette o tortiglioni Agnesi 500 g + 100% di contenuto in più, 1 kg, per es. tortiglioni
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4.55
Purea di patate Mifloc in conf. speciale 5 x 95 g
Rio Mare in conf. da 3 per es. tonno all’olio di oliva, 3 x 104 g, 9.10 invece di 11.40
conf. da 6
20%
20%
4.55 invece di 5.70
Tutti i tipi di senape e maionese M-Classic per es. maionese, 265 g, 1.20 invece di 1.55
Chicchi di mais M-Classic in conf. da 6 6 x 285 g
20% Tutto il pesce e i frutti di mare MSC, ASC e bio (Alnatura esclusi), surgelati, per es. gamberetti Pelican, MSC, 100 g, 2.05 invece di 2.60
40%
7.10 invece di 11.85 Crispy di tacchino impanati Don Pollo in conf. speciale surgelati, 1 kg
conf. da 3
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14.90
Filtro Brita Fill & Enjoy, 1,5 l disponibile in diversi colori, per es. lime, il pezzo, offerta valida fino al 20.3.2017
20%
7.40 invece di 9.30 Manella in conf. da 3 per es. al limone, 3 x 500 ml, offerta valida fino al 20.3.2017
20% Tutto l’assortimento Sarasay per es. succo multivitaminico, Fairtrade, 50 cl, 1.40 invece di 1.80
conf. da 9 conf. da 2
50% Tutti i tipi di Pepsi e Schwip Schwap in conf. da 6, 6 x 1,5 l per es. Pepsi regular, 5.50 invece di 11.–
30% Tutti i mitici Ice Tea in bottiglie di PET in conf. da 6, 6 x 1 l, UTZ* per es. al limone, 5.45 invece di 7.80
*In vendita nelle maggiori filiali Migros. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 7.3 AL 13.3.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
20% Articoli ai fiori di mandorlo Kneipp in confezioni multiple per es. crema per le mani in conf. da 2, 2 x 75 ml, 11.– invece di 13.80, offerta valida fino al 20.3.2017
conf. da 3
30% Shampoo e balsami Fructis in confezioni multiple per es. shampoo Fresh in conf. da 3, 3 x 250 ml, 7.45 invece di 10.65, offerta valida fino al 20.3.2017
40%
25.35 invece di 42.30 Salviettine umide per bebè Nivea in conf. da 9 Soft & Cream e Pure & Sensitive, 9 x 63 pezzi, per es. Soft & Cream, offerta valida fino al 20.3.2017
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Altre offerte. Rose Fairtrade, mazzo da 10, disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo 50 cm, per es. gialle e arancioni, 14.90 Hit
Frutta e verdura
Altri alimenti
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20% Tutto l’assortimento di reggiseni, biancheria intima e per la notte da donna (articoli Mey esclusi), per es. slip maxi Ellen Amber, Bio Cotton, tg. S, 7.80 invece di 9.80
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Fantasmini da donna Ellen Amber, Bio Cotton, in conf. da 10 disponibili in nero e grigio, numeri 35–38 e 39–42, per es. neri, numeri 35–38
Entrecôte di manzo TerraSuisse, Svizzera, al banco a servizio, per 100 g, 3.85 invece di 7.70 50% Azione valida da giovedì 9.3 Salmone affumicato, Scozia, conf. da 3 x 100 g/300 g, 11.70 invece di 19.50 40%
Pane e latticini
Fol Epi in conf. da 3, 3 x 150 g, 5.85 invece di 8.40 30% Lasagne M-Classic in conf. da 3, 3 x 400 g, 8.80 invece di 12.60 30% Tutti i filoni (pane fresco), per es. baguette alle olive Pain Création, 380 g, 3.10 invece di 3.90 20%
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Pesce, carne e pollame
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Fiori e piante
16.90
Culottes da donna Ellen Amber in conf. da 5 disponibili in nero, blu marino, acqua, taglie S–XL, per es. nere, tg. S
Tutto l’assortimento Finizza, prodotti surgelati, per es. pizza al prosciutto, 330 g, 2.80 invece di 4.– 30% Biscotti alla spelta bio in conf. da 2, 2 x 260 g, 6.30 invece di 7.90 20% Mentos White Gum in barattolo, 150 g, Green Mint o Tutti Frutti, per es. Green Mint, 6.50 Hit Tutto l’assortimento Subito ed El Mundo, a partire da 2 confezioni, 20% Contrex in conf. da 6, 6 x 1,5 l, 4.60 invece di 6.90 33% Pepsi in conf. da 6, 6 x 50 cl, Max e Regular, per es. Max, 4.– invece di 6.– 33% * Tutto l’assortimento di tè Tetley, per es. English Breakfast, 25 bustine, 2.05 invece di 2.95 30% Minestre in bustina Knorr in conf. da 3, per es. vermicelli con polpettine di carne, 3 x 78 g, 4.90 invece di 6.30 20% Tutti i sottaceti bio (Alnatura esclusi), per es. cetrioli alle erbe aromatiche, 270 g, 1.80 invece di 2.30 20% Tutto l’assortimento di condimenti liquidi e in polvere Mirador, per es. condimento liquido, 245 g, 1.80 invece di 2.30 20% Chips al naturale e alla paprica bio in conf. da 2 (Alnatura escluse), per es. al naturale, 2 x 140 g, 4.20 invece di 5.30 20% Tutta la pasta, i sughi per pasta e le conserve di pomodoro bio (Alnatura esclusi), per es. cornetti, 500 g, 1.55 invece di 1.95 20%
Narcisi in vaso, 10 cm, la pianta, 2.80 invece di 3.50 20%
Tutti i tipi di senape, maionese e ketchup bio (Alnatura esclusi), per es. maionese, 265 g, 1.75 invece di 2.20 20% Tutti i tipi di aceto e olio bio (Alnatura esclusi), per es. aceto di mele, 50 cl, 1.75 invece di 2.20 20% Purea di patate e rösti Mifloc bio (Alnatura esclusi), per es. rösti, 500 g, 1.95 invece di 2.45 20% Tutte le olive bio (Alnatura escluse), per es. olive greche Kalamata, 150 g, 2.15 invece di 2.70 20% Tutte le bevande istantanee al cacao e al malto, per es. Califora au chocolat, 500 g, 4.70 invece di 5.90 20% Olio di cocco spremuto a freddo Fairtrade bio e burro svizzero per arrostire bio, per es. olio di cocco spremuto a freddo Fairtrade, 200 g, 5.50 invece di 6.90 20% Tutti i tipi di aceto e olio bio (Alnatura esclusi), per es. olio d’oliva italiano, 50 cl, 7.10 invece di 8.90 20% Noci miste salate bio e mandorle al timo e rosmarino bio, per es. noci miste e salate, 170 g, 2.80 invece di 3.50 20%
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Pigiama corto da uomo John Adams, Bio Cotton, disponibile in rosso o blu, taglie S–XL, per es. blu, tg. M, 19.90 Hit
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Super Mix aronia/cocco e banana/ mirtilli rossi Sun Queen, per es. aronia/cocco, 50 g, 1.65 Novità **
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Le offerte sono valide dal 6.3 al 20.3.2017 e fino a esaurimento dello stock. Trovi questi e molti altri prodotti nei punti vendita melectronics e nelle maggiori filiali Migros. Con riserva di errori di stampa e di altro tipo.
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Narcisi in vaso, 10 cm, la pianta, 2.80 invece di 3.50 20%
Tutti i tipi di senape, maionese e ketchup bio (Alnatura esclusi), per es. maionese, 265 g, 1.75 invece di 2.20 20% Tutti i tipi di aceto e olio bio (Alnatura esclusi), per es. aceto di mele, 50 cl, 1.75 invece di 2.20 20% Purea di patate e rösti Mifloc bio (Alnatura esclusi), per es. rösti, 500 g, 1.95 invece di 2.45 20% Tutte le olive bio (Alnatura escluse), per es. olive greche Kalamata, 150 g, 2.15 invece di 2.70 20% Tutte le bevande istantanee al cacao e al malto, per es. Califora au chocolat, 500 g, 4.70 invece di 5.90 20% Olio di cocco spremuto a freddo Fairtrade bio e burro svizzero per arrostire bio, per es. olio di cocco spremuto a freddo Fairtrade, 200 g, 5.50 invece di 6.90 20% Tutti i tipi di aceto e olio bio (Alnatura esclusi), per es. olio d’oliva italiano, 50 cl, 7.10 invece di 8.90 20% Noci miste salate bio e mandorle al timo e rosmarino bio, per es. noci miste e salate, 170 g, 2.80 invece di 3.50 20%
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Pigiama corto da uomo John Adams, Bio Cotton, disponibile in rosso o blu, taglie S–XL, per es. blu, tg. M, 19.90 Hit
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Idee e acquisti per la settimana
Schwarzkopf
Protegge e rinforza i capelli dall’interno Finora la tecnologia Plex era prerogativa dei parrucchieri, ma oggi può essere utilizzata anche a casa. I nuovi prodotti per capelli Color-Expert della Schwarzkopf con tecnologia Omegaplex sono ora disponibili alla Migros. Essi prevengono la rottura dei capelli, fissano i colori e rinforzano i capelli. Per una tenuta delle tinte particolarmente lunga vi sono prodotti specifici per ogni colore di capello.
Schwarzkopf Color Expert Balsamo fissante* Fr. 6.30
Schwarzkopf Color Expert Cura fissante* Fr. 6.30
Schwarzkopf Color Expert Cura intensiva Color-Creme* biondo chiaro Fr. 9.40
Senza Omegaplex Il capello è più fragile.
Con Omegaplex Il capello è protetto e più forte.
Armin Morbach
«Le star sono entusiaste della tecnologia Plex» «Ho provato Color Expert e funziona davvero! Ho ottenuto una fantastica tinta, senza danneggiare i capelli. I capelli hanno un aspetto da sogno. La differenza si sente subito dopo l’utilizzo del prodotto. Il capello risulta ben curato e sano, come se non fosse stato tinto». Armin Morbach è ex giurato di «Germany’s Next Topmodel» ed esperto di capelli per Schwarzkopf.
Schwarzkopf Color Expert Cura intensiva Color-Creme* marrone scuro Fr. 9.40 *Nelle maggiori filiali
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 marzo 2017 • N. 10
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Idee e acquisti per la settimana
Vivekanand Palanisamy
Cosa si può fare per contribuire a proteggere l’ambiente?
Migros Bio Cotton
La scelta giusta
Chi ha a cuore la sostenibilità sceglie l’abbigliamento per bambini con il marchio Bio Cotton. Il cotone privo di sostanze inquinanti proviene da coltivazioni biologiche controllate e la sua rintracciabilità arriva fino al campo in cui viene coltivato
Scegliere programmi corti e a basse temperature per lavare i capi d’abbigliamento. Talvolta è sufficiente arieggiarli bene. Rinunciare all’uso dell’asciugatrice per il bene dell’ambiente e dei vestiti.
Testo Heidi Bacchilega; Foto Christian Dietrich
«Paghiamo prezzi equi» Migros si impegna a favore della coltivazione sostenibile del cotone e per garantire un’accurata lavorazione. Il passaggio al biologico non è vantaggioso solo per l’ambiente, bensì anche per i contadini. Vivekanand Palanisamy, produttore di cotone bio della «Armstrong Knitting Mills», ne conosce i vantaggi. Testo Heidi Bacchilega; Foto Thomas Eugster
Migros Bio Cotton magliette da bambino in duopack taglie 68-98 Fr. 19.–
Il cotone bio viene coltivato e lavorato separatamente.
Dal 2005 «Armstrong Knitting Mills» produce cotone bio per Migros. L’azienda famigliare è stata fondata nel 1969 nell’India del sud. Signor Vivekanand, quale il motivo del passaggio al cotone bio?
Volevamo contrastare le conseguenze ambientali negative che derivano dalla coltivazione convenzionale del cotone e nel contempo garantire ai contadini un reddito equo e stabile.
Migros Bio Cotton completo da bambina 4 pezzi, taglie 68-98 Fr. 25.–
Qual è la differenza principale nella coltivazione del cotone organico rispetto a quello convenzionale?
Per la coltivazione non si ricorre a semi geneticamente modificati. Inoltre abbiamo completamente rinunciato all’utilizzo di pesticidi e impieghiamo fertilizzanti vegetali quali humus e letame.
Vivekanand Palanisamy, direttore amministrativo della Armstrong Knitting Mills di Tirupur, India.
Quali i vantaggi per i coltivatori che passano all’agricoltura biologica?
Il cambiamento comporta un miglior tenore di vita per gli agricoltori. I coltivatori di cotone biologico ricevono un prezzo più elevato per il loro cotone. Oltre a un salario equo e a tempi di lavoro regolamentati, offriamo anche servizi medici e un regolare accesso all’educazione scolastica per i bambini. Una clinica itinerante si occupa dei contadini e dei loro famigliari malati. Campagne informative in ambito sanitario completano l’offerta.
Migros Bio Cotton maglietta a maniche lunghe taglie 68-98 Fr. 11.–
Il programma Eco della Migros è sinonimo di una produzione tessile sostenibile per l’ambiente, socialmente responsabile e rintracciabile.
Come vede lo sviluppo del mercato del cotone biologico?
Migros Bio Cotton maglietta da bambina taglie 68-98 Fr. 9.–
Il morbido tessuto del cotone è l’ideale per la pelle delicata dei più piccoli affinché si sentano a loro agio.
Migros Bio Cotton maglietta da bambino taglie 68-98 Fr. 9.–
Migros Bio Cotton maglietta da bambina taglie 68-98 Fr. 9.–
Se il cotone biologico viene pagato equamente saranno sempre di più i contadini che in futuro passeranno all’agricoltura biologica. Ciò a sua volta comporterà la crescita o lo sviluppo continuo del mercato del cotone bio. Del resto il mercato sta già crescendo: secondo il rapporto dell’organizzazione non profit «Textile Exchange» nel periodo tra il 2013 e il 2015 il numero di contadini passati alla coltivazione di cotone biologico è cresciuto del 13 per cento.
Migros Bio Cotton garantisce la coltivazione controllata di cotone biologico nel rispetto dell’uomo e della natura.
Parte di
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Idee e acquisti per la settimana
Vivekanand Palanisamy
Cosa si può fare per contribuire a proteggere l’ambiente?
Migros Bio Cotton
La scelta giusta
Chi ha a cuore la sostenibilità sceglie l’abbigliamento per bambini con il marchio Bio Cotton. Il cotone privo di sostanze inquinanti proviene da coltivazioni biologiche controllate e la sua rintracciabilità arriva fino al campo in cui viene coltivato
Scegliere programmi corti e a basse temperature per lavare i capi d’abbigliamento. Talvolta è sufficiente arieggiarli bene. Rinunciare all’uso dell’asciugatrice per il bene dell’ambiente e dei vestiti.
Testo Heidi Bacchilega; Foto Christian Dietrich
«Paghiamo prezzi equi» Migros si impegna a favore della coltivazione sostenibile del cotone e per garantire un’accurata lavorazione. Il passaggio al biologico non è vantaggioso solo per l’ambiente, bensì anche per i contadini. Vivekanand Palanisamy, produttore di cotone bio della «Armstrong Knitting Mills», ne conosce i vantaggi. Testo Heidi Bacchilega; Foto Thomas Eugster
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Il cotone bio viene coltivato e lavorato separatamente.
Dal 2005 «Armstrong Knitting Mills» produce cotone bio per Migros. L’azienda famigliare è stata fondata nel 1969 nell’India del sud. Signor Vivekanand, quale il motivo del passaggio al cotone bio?
Volevamo contrastare le conseguenze ambientali negative che derivano dalla coltivazione convenzionale del cotone e nel contempo garantire ai contadini un reddito equo e stabile.
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Qual è la differenza principale nella coltivazione del cotone organico rispetto a quello convenzionale?
Per la coltivazione non si ricorre a semi geneticamente modificati. Inoltre abbiamo completamente rinunciato all’utilizzo di pesticidi e impieghiamo fertilizzanti vegetali quali humus e letame.
Vivekanand Palanisamy, direttore amministrativo della Armstrong Knitting Mills di Tirupur, India.
Quali i vantaggi per i coltivatori che passano all’agricoltura biologica?
Il cambiamento comporta un miglior tenore di vita per gli agricoltori. I coltivatori di cotone biologico ricevono un prezzo più elevato per il loro cotone. Oltre a un salario equo e a tempi di lavoro regolamentati, offriamo anche servizi medici e un regolare accesso all’educazione scolastica per i bambini. Una clinica itinerante si occupa dei contadini e dei loro famigliari malati. Campagne informative in ambito sanitario completano l’offerta.
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Il programma Eco della Migros è sinonimo di una produzione tessile sostenibile per l’ambiente, socialmente responsabile e rintracciabile.
Come vede lo sviluppo del mercato del cotone biologico?
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Se il cotone biologico viene pagato equamente saranno sempre di più i contadini che in futuro passeranno all’agricoltura biologica. Ciò a sua volta comporterà la crescita o lo sviluppo continuo del mercato del cotone bio. Del resto il mercato sta già crescendo: secondo il rapporto dell’organizzazione non profit «Textile Exchange» nel periodo tra il 2013 e il 2015 il numero di contadini passati alla coltivazione di cotone biologico è cresciuto del 13 per cento.
Migros Bio Cotton garantisce la coltivazione controllata di cotone biologico nel rispetto dell’uomo e della natura.
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Idee e acquisti per la settimana
Delizio
Più spazio al sapore sullo scaffale
Intenso, sapido e aromatico: si presenta così il Lungo Crema. Per tutti coloro che non si accontentano di un Espresso con cui soddisfare la loro voglia di caffè.
Le capsule per il caffè Delizio sono confezionate oggi in un imballaggio richiudibile. Le scatole sono di formato ancora più piccolo, così sullo scaffale si crea maggiore spazio per la varietà degli aromi. Il prezzo delle capsule è però sempre lo stesso
Nuovo imballaggio - stesso contenuto allo stesso prezzo
Delizio Lungo Crema 12 capsule, 72 g Fr. 5.30
Fruttato, rinfrescante e aromatico: sono le qualità del Pure Origin Colombia Excelso. Creato utilizzando solo chicchi di caffè della regione Huila, in Colombia.
Il Lungo Vaniglia sprigiona un’aroma dolce di vaniglia nel caffè crème, in quello al latte o anche nell’Espresso. Delizio Lungo Vaniglia 12 capsule, 72 g Fr. 5.90 Nelle maggiori filiali
Delizio Pure Origin Colombia Excelso 12 capsule, 72 g Fr. 5.90
Vivace e intenso: ecco il Ristretto Forte. È ottimo da solo oppure anche per un buon Latte Macchiato.
Speziato, tostato, intenso: sono gli aromi del Coffee Bio & Fairtrade. È indicato per l’Espresso e il caffè lungo.
Delizio Ristretto Forte 12 capsule, 72 g Fr. 5.30
La nuova scatola dei Delizio è ora più piccola, compatta e richiudibile. Contiene però lo stesso numero di capsule e ha lo stesso prezzo. Questo perché nella produzione viene utilizzata una minore quantità di materiale da imballaggio. D’altro canto in questo modo la
Ricette al caffè
Caffè con dolcezza Grazie al suo aroma ricco, il caffè è un ingrediente versatile che si adatta a un gran numero di dessert. Ad esempio nel Tiramisù italiano o nel caffè Fudges inglese: i dolci traggono vantaggio dall’ampia gamma di aromi del caffè. Le varianti aromatiche del caffè contano circa 800 componenti, che concorrono all’impressione complessiva.
Variano da qualità in qualità e si sviluppano del resto particolarmente bene anche nel caffè freddo.
confezione occuperà meno spazio. Un chiaro vantaggio, perché in futuro negli scaffali si potranno disporre anche altre varianti di sapore. La varietà «Fair & Organic» contiene ora 12 capsule anziché 16 ed è offerta con il nuovo nome «Coffee Bio & Fairtrade».
Delizio Coffee Bio & Fairtrade 12 capsule, 72 g Fr. 5.60 Nelle maggiori filiali
Meno pungente, misurato, piacevole: questo è il Lungo Decaffeinato. Anche come Espresso sa esprimere un pieno sapore di caffè. Delizio Lungo Decaffeinato 12 capsule, 72 g Fr. 5.30
La ricetta per il Tiramisù con caffè alla vaniglia (nella foto) e altre irresistibili creazioni le trovate su www.delizio.ch/ricette. M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche Delizio.
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Delizio
Più spazio al sapore sullo scaffale
Intenso, sapido e aromatico: si presenta così il Lungo Crema. Per tutti coloro che non si accontentano di un Espresso con cui soddisfare la loro voglia di caffè.
Le capsule per il caffè Delizio sono confezionate oggi in un imballaggio richiudibile. Le scatole sono di formato ancora più piccolo, così sullo scaffale si crea maggiore spazio per la varietà degli aromi. Il prezzo delle capsule è però sempre lo stesso
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Ricette al caffè
Caffè con dolcezza Grazie al suo aroma ricco, il caffè è un ingrediente versatile che si adatta a un gran numero di dessert. Ad esempio nel Tiramisù italiano o nel caffè Fudges inglese: i dolci traggono vantaggio dall’ampia gamma di aromi del caffè. Le varianti aromatiche del caffè contano circa 800 componenti, che concorrono all’impressione complessiva.
Variano da qualità in qualità e si sviluppano del resto particolarmente bene anche nel caffè freddo.
confezione occuperà meno spazio. Un chiaro vantaggio, perché in futuro negli scaffali si potranno disporre anche altre varianti di sapore. La varietà «Fair & Organic» contiene ora 12 capsule anziché 16 ed è offerta con il nuovo nome «Coffee Bio & Fairtrade».
Delizio Coffee Bio & Fairtrade 12 capsule, 72 g Fr. 5.60 Nelle maggiori filiali
Meno pungente, misurato, piacevole: questo è il Lungo Decaffeinato. Anche come Espresso sa esprimere un pieno sapore di caffè. Delizio Lungo Decaffeinato 12 capsule, 72 g Fr. 5.30
La ricetta per il Tiramisù con caffè alla vaniglia (nella foto) e altre irresistibili creazioni le trovate su www.delizio.ch/ricette. M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche Delizio.
Offerta di primavera Fr. 89.–
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di sco o n u i d o t s all’acqui one smartph
Fr. 259.–
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invece di fr. 329.– p. es. 16 GB Fotocamera iSight da 8 megapixel, iOS 7
* Offerta valida alla stipula di un nuovo abbonamento M-Budget Mobile Maxi One (2 GB di dati, 2000 min. di chiamate, 2000 SMS, nessuna durata minima del contratto, fr. 29.–/mese, esclusa l’attivazione di fr. 40.–) e acquistando uno smartphone con un prezzo di vendita a partire da fr. 159.–. Azione valida dal 01.03 al 31.03.2017. ** Prezzo incluso lo sconto di fr. 70.–. FCM
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