Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXX 10 aprile 2017
Azione 15 M sho alle pa pping gine 3 3-41 / 5661
Società e Territorio Un nuovo opuscolo per promuovere le pari opportunità nella scelta professionale
Ambiente e Benessere La relazione neurofisiologica tra mani e cervello dimostra anche lo stretto rapporto tra le mani e il linguaggio: un manuale pratico di Elena Grandi spiega come aiutare i malati di Alzheimer
Politica e Economia L’attacco chimico in Siria riporta l’attenzione mediatica su un Paese senza pace dal 2011
Cultura e Spettacoli Roma dedica una mostra speciale al suo monumento simbolo, il Colosseo
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Un’Amministrazione in cerca di identità
Manet e la Parigi di fine 800 al Palazzo Reale di Milano
di Peter Schiesser
di Gianluigi Bellei
© René-Gabriel Ojéda/RMN-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari
A due mesi e mezzo dal suo insediamento, ancora non si intravvede la fisionomia dell’Amministrazione Trump, tanti sono stati gli inciampi, gli scivoloni, gli avvicendamenti. Finora possiamo dedurre che l’antipolitica non riesce tanto facilmente a sostituire la politica laddove, come negli Stati Uniti, le istituzioni e l’equilibrio dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) sono saldamente ancorati. Lo abbiamo visto: non basta un decreto governativo per cambiare la politica d’immigrazione, non basta neppure la maggioranza al Congresso per affossare la legge sanitaria di Obama. Trump non è un monarca assoluto. Se ne sta rendendo conto anche lui e sembra trarne l’unica lezione possibile: il tiro va aggiustato, i compromessi sono a volte l’unica via possibile. Un esempio? La rimozione dal Consiglio per la sicurezza nazionale di Stephen K. Bannon, il consigliere personale del presidente da molti definito l’eversiva mente grigia dell’Amministrazione Trump. Cooptando nello NSC l’ex direttore del sito politico di estrema destra Breitbart e al contempo estromettendo il direttore della CIA, il presidente mostrava di voler rompere con il passato, politicizzando, anzi ideologizzando un gremio in passato sempre e solo composto da tecnici, dalle più alte cariche responsabili della sicurezza nazionale. Ora nello NSC torna a sedere il direttore della CIA, mentre Bannon viene esonerato – resta da capire se nell’ombra potrà ancora influenzare il presidente, modellando la sua politica secondo la propria teoria del caos politico: creare le condizioni per un cambiamento radicale del sistema fomentando il caos politico e istituzionale. Comunque sia, Donald Trump dimostra di capire l’esigenza di una Realpolitik, quindi di dover rispettare interessi superiori. Tuttavia, le vere sfide, interne e di politica estera, arrivano ora: in particolare, la riforma fiscale che dovrebbe alleggerire le aziende e le classi alte è un’altra di quelle imprese in cui i proclami non bastano per forgiare un consenso nella maggioranza repubblicana al Congresso. Se poi estendiamo lo sguardo alla politica estera, il panorama si fa ancora più fosco. Il primo incontro con il presidente cinese Xi Jingping non ha potuto nascondere quanto si annunciava in questi mesi: i nuvoloni, in materia commerciale e di geopolitica, non si diradano tanto velocemente (vedi Federico Rampini a pagina 20). E Corea del Nord e Siria sono due dossier esplosivi su cui l’Amministrazione Trump rischia grosso, nel primo caso mettendo in pericolo la sicurezza di alleati come la Corea del Sud e il Giappone, oltre che la propria, essendo il regime di Kim Jong Un dotato di armi atomiche e missili balistici. La Siria poi, in particolare ora dopo il lancio di 59 missili Cruise contro la base aerea governativa da cui è partito l’attacco con armi chimiche su Idlib, diventa un enorme punto interrogativo: che cosa seguirà? È il preludio di un impegno militare contro al-Assad, con il rischio di scontri, anche involontari, con soldati russi? Oppure è la dimostrazione alla Siria ma anche al resto del mondo che Trump sa e vuole usare le armi quando ritiene che gli interessi degli Stati Uniti lo richiedano? La Corea del Nord è lontana, la diatriba con gli Stati Uniti va avanti da decenni a fuoco lento, ma sta assumendo contorni inquietanti, poiché il regime di Pyongyang sarà fra poco in grado di produrre missili che raggiungano gli Stati Uniti, e questa è una minaccia che nessun presidente americano può tollerare, figurarsi uno come Donald Trump, in cui la dottrina di America first sembra a volte declinarsi in America only. Non a caso, di fronte agli ultimi test missilistici nordcoreani il governo statunitense ha reagito dichiarando che viene esaminata ogni opzione, una formula che include l’intervento militare. Se consideriamo che Seoul, la capitale della Corea del sud, conta nella sua area metropolitana 25 milioni di abitanti e dista meno di trenta chilometri dalla frontiera nordcoreana, possiamo immaginarci quali conseguenze potrebbe avere un attacco americano non risolutivo alla Corea del Nord. Trump sembra esserne consapevole e cerca il sostegno della Cina, ma Pechino vorrà qualcosa in cambio. Vista la gravità della minaccia nordcoreana e la necessità di una concertazione con la Cina, possiamo sperare che il pragmatismo di Donald Trump favorisca la ricerca di relazioni decenti con il presidente cinese Xi Jingping. Fin qui, però, the Donald resta un mistero: ci sarà davvero una guerra commerciale con la Cina? Gli oscuri rapporti con la Russia di Putin sortiranno una suddivisione delle aree di influenza? La declamata volontà di protezionismo cambierà i parametri della politica economica americana e quindi del mondo intero? La marcia indietro nella politica ambientale rallenterà la lotta ai cambiamenti climatici negli Stati Uniti e nel mondo? Ci vorrà ancora tempo per sciogliere gli enigmi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Attualità Migros
M L’impegno nella promozione di salute e benessere
Ritiro di prodotto
Scuola Club Migros Ticino Un’offerta di corsi mirati a combattere la sedentarietà e ridurre
il livello di stress per accompagnare le persone verso uno stile di vita più sano È sotto il segno della cura alle persone e alla loro salute che la Scuola Club di Migros Ticino partecipa da anni all’impegno che la grande famiglia Migros dedica al miglioramento della qualità della vita in Svizzera. Ne è prova l’adesione alla grande campagna nazionale IMpuls avviata da Migros agli inizi di quest’anno. Tra le numerose iniziative in programma, la prima giornata di animazione dal claim «La Scuola Club muove la Svizzera» svoltasi il 28 gennaio ha raccolto quasi 400 iscrizioni nelle quattro sedi ticinesi. «Due sono gli obiettivi che ci proponiamo: aiutare le persone a combattere la sedentarietà che costituisce una tra le principali cause di malattia e contribuire a ridurre il livello di stress, oggi sempre più diffuso e trasversale» – ci spiega Charlie Bernasconi, coordinatore del settore Movimento e Benessere presso la Scuola Club di Migros Ticino – «Desideriamo accompagnare le persone verso
Master brevi per specialisti di settore Low back pain
22.04.2017 09.00 – 13.00
Il soggetto iperteso in palestra
20.05.2017 09.00 – 13.00
Incontri di 4 ore-lezione, Fr. 95.–.
scelte più salutari e incidere concretamente sugli stili di vita promuovendo la pratica regolare di un’attività fisica accessibile, divertente ed efficace». La scuola si è prefissa di raggiungere un pubblico il più possibile ampio con un’offerta che soddisfa esigenze eterogenee – dal riappropriarsi della propria coordinazione e resistenza, al perdere peso o, ancora, alla ricerca di un benessere interiore attraverso tecniche di rilassamento o meditazione – provenienti da popolazioni diverse - giovani, adulti, senior, donne. Accanto ai corsi classici proposti in tutte le 4 sedi si aggiungono continuamente stimolanti novità. Tra gli ultimi arrivi ci sono il Piloxing e il Super Jump, sul lato fitness, e, approfittando delle
pause pranzo, lo Yoga Business 30 minuti, sul fronte benessere. Quale riconosciuto centro di competenze, la Scuola Club di Migros Ticino promuove anche la formazione e il continuo aggiornamento degli istruttori fitness. «Riserviamo un’attenzione speciale a coloro che nel nostro territorio aiutano le persone a tenersi in movimento e a stare bene» – puntualizza Bernasconi – «Proponiamo 4 percorsi formativi con diploma che offrono un immediato posizionamento a livello professionale. Il Coach in nutrizione è una formula vincente e attuale. Cresce la richiesta da parte di coloro che desiderano formarsi nel campo dell’alimentazione, non solo nel campo dell’accompagnamento, ma anche per orientare più
consapevolmente le scelte che riguardano la loro stessa famiglia». A ciò si aggiungono l’Istruttore Fitness e il Group Fitness Instructor, due percorsi complementari che consentono di allestire programmi di allenamento personalizzati e seguire in modo competente chi desidera restare in forma. Chiude la rosa dei percorsi formativi il Massaggiatore Salute e Benessere che da ben 10 anni viene riproposto con grande successo. Nella prospettiva della formazione continua e per consentire agli istruttori il mantenimento della certificazione Qualicert, la Scuola Club di Migros Ticino propone, infine, una serie di Master Brevi che rispondono sia al bisogno di aggiornamento costante, sia all’esigenza di ampliare le competenze tecniche e relazionali del trainer. «C’è ancora molto da fare per diffondere stili di vita più sani. Per favorire questo cambiamento culturale la nostra scuola mette a disposizione la professionalità dei suoi operatori e la qualità delle sue strutture con un modello distintivo e per noi assolutamente vincente» puntualizza Charlie Bernasconi. «Quella della Scuola Club è davvero un’offerta “a misura d’uomo e di donna”: ci si tiene in forma e si ricerca il proprio benessere in gruppi piccoli di attività che consentono un elevato livello di cura da parte dell’istruttore e la nascita di belle relazioni tra i partecipanti. È facile che sorga un legame tra le persone e quando c’è una buona sintonia è anche più semplice restare fedeli al proprio impegno».
A causa di un difetto di qualità del sonaglio di legno arancione per il «Set musicale Eichhorn» (numero d’articolo 7463.864) sussiste il rischio di lesioni. Migros prega la sua gentile clientela di provvedere a che il giocattolo non venga utilizzato. Riportando l’articolo in qualsiasi filiale Migros si può ottenere il rimborso del prezzo di vendita pari a 15.80 franchi.
Il «Fiore di Pietra»: intervista sul Web Nel canale Youtube di «Azione» Mario Botta e Fabrice Zumbrunnen: https://youtu.be/V7T5InOp7N0
«Gino Ginooo Pilotinoooo»
Collaboratori Migros Ticino La creatività e il dinamismo sono ben presenti in azienda: intervista a Patrick Dodi,
che nel suo tempo libero è voce solista del gruppo punk-rock «...Piace?» Luca Corti Chi è Patrick Dodi?
È un ragazzo del Locarnese un po’ cresciutello, «venuto su» a pane e Nostrani del Ticino, con una forte passione per la musica e una certa predisposizione a far festa. Quando e come ti sei avvicinato all’arte dei suoni?
Relativamente tardi e… in motorino! Allora ero ancora apprendista ed è stato un periodo di grandi scorribande per andare ad assistere a vari concerti. È proprio a quell’epoca che ho acquistato la mia prima chitarra elettrica. Quali sono i tuoi punti di riferimento nel mondo della musica?
Beh… diciamo che non sono proprio uno da «looounge», preferisco ispirarmi piuttosto al sano e crudo punk rock dei Die Toten Hosen, dei Ramones o dei NOFX. Sei solo un interprete o scrivi anche canzoni tue?
Di principio scrivo una buona parte dei testi e compongo le relative melodie. Un mio pezzo solitamente nasce da fatti d’attualità o dalla nostra cultura popolare, ma a volte mi lascio trasportare dalle mie fantasie.
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Secondo te in un brano è più importante il testo o la melodia?
La tua prima volta?
Come quella di tutti… un vero disastro!
Di primo acchito mi viene da dire la musica, poi però per far sì che la cosa funzioni si deve avere un contenuto forte…
Ecco il luogo comune… essere una rockstar ti ha aiutato con le donne?
Devo ammettere che quando ho sostituito Josh – il vecchio frontman del gruppo – ci speravo molto… però sfortunatamente no, anzi!
Cosa ti frulla in testa prima? Parole o note?
Anche in questo caso è difficile generalizzare. A volte focalizzo il motivo e poi ci scrivo sopra, in altri casi il tutto sboccia insieme.
Ti sei mai fatto una canna?
Sai, devo dire che noi cerchiamo di fare del punk rock stupefacente, ma non cerchiamo stupefacenti per fare del punk rock.
Come ti senti prima di un concerto? Strizza?
No, sono piuttosto rilassato. Di solito più gente c’è e più mi sento a mio agio. Suonare davanti a poche persone mi riesce invece molto più difficile.
Che dire… Piace!
Scheda
Un bilancio dopo 10 anni d’attività con i …Piace??
4 album, 2 singoli, un DVD live in arrivo, un marchio di birra personalizzato e più di 100 concerti su palchi talvolta storici e prestigiosi sia in Ticino e Moesano sia nel Nord Italia… tutto sommato positivo direi!
Bene, ora facciamo sul serio… A chi vi accusa di aver scimmiottato i Vomitors che cosa rispondi?
Dico che è come accusare i Vad Vuc di aver copiato i De Sfroos, non ha nessun senso. Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Il video del brano Gino Pilotino si può vedere su https://youtu.be/fzbEJO73I7w. La tua musica in tre parole?
Sole, cuore, amore. Daiii…
Ok, birra, rock e fiesta.
Sei mai stato raccomandato? Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
No, purtroppo questo ancora mi manca… Sei un tipo da boxer o slip?
Una via di mezzo: stretch boxer, rigorosamente rossi. Tiratura 101’614 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Nome e cognome: Patrick Dodi. Domicilio: Brione s/Minusio. Stato civile: stabile. Stato mentale: instabile. Gruppo: «…Piace?» Ruolo: frontman. Genere: punk rock in dialetto ticinese. Datore di lavoro: Migros Ticino. Funzione: responsabile assortimenti carne/salumeria. Luogo di lavoro: centrale di S. Antonino. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Società e Territorio Sempre in viaggio Abbiamo incontrato tre autisti di bus turistici di passaggio a Lugano, ci hanno raccontato com’è il loro lavoro e cosa vuol dire oggi viaggiare sulle strade di tutta l’Europa
Quando le persone con disabilità invecchiano Alla Casa San Rocco di Morbio Inferiore è in corso un progetto pilota ideato in collaborazione con la Fondazione Diamante pagina 5
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In Ticino le ragazze trascurano i settori della tecnica. (Keystone)
Scegliere liberi dai pregiudizi
Formazione Esistono ancora lavori considerati maschili e altri femminili, un nuovo opuscolo sostiene
le pari opportunità nella scelta professionale Valentina Grignoli La spazzacamino e il sarto, il ballerino e la fisica teorica. Professioni atipiche, ma oggi le opportunità ci sono, basta saper scegliere. Prendere la propria strada professionale liberi da pregiudizi e stereotipi di genere e sociali, non sembra però sempre semplice, perché? La società attuale offre in fondo sulla carta pari opportunità di scelta. La scuola è uguale per tutti e le azioni di sensibilizzazione, volte a scardinare gli stereotipi, sono numerose. Nonostante ciò, è evidente dalle statistiche e dalla realtà quotidiana che i casi in cui una donna si cimenta in mestieri da sempre definiti da uomo, e viceversa, rimangono rari, tanto da diventare esemplari. Prendendo spunto dall’uscita dell’opuscolo Pari opportunità nella scelta professionale (edito dal CSFO, Centro svizzero di servizio Formazione professionale/ Orientamento professionale, universitario e di carriera, www.sdbb.ch), curato da Alessandra Truaisch e Beatrice TognolaGiudicetti, abbiamo deciso di conoscere più da vicino il problema. Nell’opuscolo vengono illustrati alcuni di questi «casi esemplari»: dalla carrozziera lattoniera all’educatore dell’infanzia. La caratte-
ristica di questi esempi però, è proprio l’eccezionalità, che si vorrebbe nei fatti norma, ma che fatica a farsi strada in una società ancora fortemente, più di quanto ci piace credere, condizionata da stereotipi e pregiudizi. Nella pubblicazione non mancano dati d’impiego e di formazione che evidenziano chiaramente come, se la tecnica e le scienze sono dominio prettamente maschile, cure, scienze umane e arte rimangono ancora retaggio femminile. «Mi sono avvicinata alla fisica tardi, perché ho sempre associato questo mondo agli uomini e alla manualità. Quando ho intrapreso la mia strada, pur non sentendo nessuna pressione dalla famiglia, non ho mai smesso di pensare che la fisica non fosse un mestiere da donne. Tutte le persone che se ne occupavano attorno a me – professori, relatori – erano uomini! Non avevo un modello femminile». Nonostante ciò, la donna che abbiamo di fronte è diventata nel tempo professoressa e ricercatrice in fisica teorica e cosmologia, in un mondo di predominanza tutt’ora maschile. Il problema in questo ambito è che nel contesto attuale di una società che si vuole paritaria a tutti i costi, iniziano a essere imposte quote rosa dall’alto. Ma la questione è delicata, e bisogna partire
dal basso. «Faccio parte di un progetto dell’Università di Ginevra, Athéna, il cui scopo è anche quello di incoraggiare le ragazze a seguire gli studi nelle scienze. È aperto ai liceali maturandi, si partecipa a lezioni e esami universitari seguiti da un tutor, ed è interessante notare come il numero di maschi e femmine sia pari in sede di selezione e esami. Si cerca poi di affiancare modelli femminili alle ragazze». Modelli che si spera possano migliorare la situazione, magari anche in Ticino. Qui i dati dei diplomi nelle scuole professionali del 2016 parlano chiaro: alla Arti e mestieri di Bellinzona su 36 promossi nessuna ragazza e alla Scuola professionale artigianale e industriale di Biasca, si parla di due studentesse su 112. Per la sartoria, a Viganello abbiamo un sarto su 29, e a Biasca nemmeno uno tra le 41 promosse. È proprio in questa scuola che incontriamo Mauro: «Ho iniziato come progettista meccanico, ma dopo due anni, in mancanza di stimoli e con la voglia di realizzare un sogno, ho cambiato strada». Mauro vorrebbe diventare costumista per cinema e teatro. «Per farlo mi serve il diploma di sarto, quindi eccomi qua! Non ho mai sentito pressioni o pregiudizi, i miei genitori mi appoggiano». Mauro è l’unico maschio in una
classe di sole ragazze, e sembra soddisfatto. «Per ora il solo disagio è quello legato alle creazioni: cuciamo sempre vestiti da donna! Ma l’ambiente in classe, rispetto agli anni di programmatore meccanico, è migliore, più serio, si impara di più. Merito delle mie compagne!». Anche per loro avere un ragazzo in classe a rompere gli schemi è una fortuna, lo scambio sembra reciproco. Marilena Fontaine, delegata ticinese alle pari opportunità, ci ha confermato l’idea che scelta e occasione non vanno purtroppo ancora di pari passo. «Oggi, seppure le opportunità siano aperte a tutti grazie alla scuola, le ragazze – solitamente con un rendimento migliore – tendono a scegliere la propria professione in campi tradizionalmente femminili. Vengono trascurati i settori della tecnica, ma è un peccato: qui ci sono molte professioni adatte anche a loro. Negli studi superiori la situazione è diversa, sempre più donne intraprendono una carriera accademica in diritto o medicina». Per Marilena Fontaine il problema principale è legato all’idea che ci si fa del futuro: «Le ragazze pensano alla famiglia, alla conciliazione casa lavoro una volta diventate mamme. I ragazzi invece si pongono prima di tutto il problema della carriera,
e poi del mantenimento di una famiglia. Aspirazioni diverse, che entrano in atto ancor prima di fare la propria scelta. Quello a cui le ragazze non pensano purtroppo è che questa influenzerà la loro situazione nel mondo del lavoro, dove le professioni tipicamente femminili sono quelle meno pagate e con meno prospettive di avanzamento». Quello su cui punta la delegata alle pari opportunità è l’importanza di informazione, di incontri, come per esempio la serata di presentazione dell’opuscolo sopracitato. Ma non solo, in Svizzera c’è per esempio la giornata Nuovofuturo, un progetto di cooperazione tra scuola, mondo del lavoro e genitori che incoraggia la parità tra uomo e donna nella scelta della professione e nella pianificazione di vita. Oltre a questo, per informarsi su professioni e formazioni esiste il Servizio documentazione dell’orientamento, a Bellinzona (tel. 091 814 63 51), attività complementare alla consulenza di orientamento che spesso molti non conoscono. La speranza è ora che con il tempo si sradichino gli stereotipi e che, attraverso nuovi modelli, si comprenda che sono le qualità, e non il genere al quale si appartiene, a renderci all’altezza di una professione.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Società e Territorio
In giro per l’Europa Incontri Tre autisti di bus turistici di passaggio a Lugano ci raccontano come è il loro lavoro e cosa vuol dire
viaggiare ai tempi dell’Isis. «Paura? Nessuna, sono turco, coriaceo, come potrei?», risponde Ahmet Kücük, conducente di una compagnia tedesca
Guido Grilli Giovedì. Mezzogiorno, cielo terso e clima primaverile. La moderna area di pullman lungo il fiume Cassarate dietro allo stadio Cornaredo di Lugano, dotata pure di una modesta pensilina, si concede alla stanchezza di decine di «driver» in viaggio per tutt’Europa come luogo di ristoro dopo ore al volante di confortevoli torpedoni, i più con la scritta «Holiday» a caratteri cubitali. Tracciamo qui il ritratto di chi per lavoro guida pullman da un Paese e una capitale all’altra, da una piccola città a una grande metropoli, dentro e fuori dai confini, abbracciando paesaggi e culture «ogni volta diverse», lontano da casa. Oggi chi stringe tra le mani il volante è in Svizzera, domani sarà a Nizza, la settimana prossima i suoi occhi vedranno Londra oppure Bruxelles. Il primo a narrare la propria scelta di vita porta il cognome del celebre astronauta che a proposito di viaggi ha toccato la luna. Si chiama Jim Armstrong, 58 anni, originario di Nottingham, nel Regno Unito (Uk) al centro delle cronache per l’imminente uscita dall’Unione europea. Lui si dice felice per la decisione di abbandonare l’Ue. «Per noi le cose non potranno che andare meglio finanziariamente: avremo una moneta più forte, perlomeno lo spero» – dichiara liberando una risata, con una tazza di thè in mano e comodamente seduto al suo posto di conducente e con alle sue spalle i posti dei passeggeri vuoti. «Oggi i miei passeggeri sono a spasso a Lugano, dopo che siamo stati in visita a Como, Bergamo e Milano, poi alle 15 ripartiremo. Lavoro per questa compagnia turistica inglese da tre anni, ma conduco pullman da ormai 18 anni. Amo il mio mestiere. Quando posso godermi questi paesaggi sono felice, è stupendo, mi sento in vacanza, mi sento di vivere in un sogno» – dice esibendo con enfasi un respiro d’aria e indicando l’orizzonte azzurro davanti a sé. «Non tutti i
Frank Hartmann (in alto), Ahmet Kücük (in basso), Jim Armstrong (a destra). (G.Grilli)
giorni è così. Ma oggi il mio sentimento è questo. Oggi non ho tra l’altro dovuto guidare a lungo, solo tre ore, pochi chilometri appena fuori il confine italiano. Il mio salario? Potrebbe essere migliore. Prendo 100 pounds al giorno (123 franchi, ndr.)». L’Europa è confrontata con l’allarme terrorismo. Quanto incide questo fenomeno sul suo mestiere, quotidianamente in viaggio da una nazione all’altra? «Personalmente ne ho paura e lo temo per la mia famiglia e anche per il futuro del Regno Unito» – dice l’autista inglese, evocando le conseguenze dell’attentato del 22 marzo scorso sul ponte di Westminster a Londra. Un altro tema di preoccupazione, avvertito da Jim Armstrong, è la pressione degli immigrati alle frontiere dei Paesi europei. «A Calais, il grande campo profughi poi smantellato dalla Francia, che collega il Regno Unito attraverso il canale di Dover, è per me il passaggio più critico: mi è successo più volte
di sorprendere immigrati clandestini nascosti nel mio pullman e di doverli allontanare. Mi accade in media dalle due alle tre volte all’anno. La polizia non interviene. Occorre essere vigili». A trascorrere tanto tempo tra il traffico di strade e autostrade europee è anche Ahmet Kücük, 54 anni, cittadino turco con passaporto tedesco. «Faccio questo mestiere da 25 anni, praticamente da sempre». Per lui i problemi non si chiamano né terrorismo internazionale né clandestini, bensì più concretamente la sua preoccupazione maggiore sono le aree di parcheggio dei torpedoni, «troppe volte occupate abusivamente dalle auto private e così ci troviamo spesso costretti a cercare altri posti non propriamente consoni e la polizia ci fa storie. Qui a Lugano invece questo spiazzo è assolutamente all’avanguardia, anche se un po’ fuori dal centro cittadino. Sono una ventina di anni che faccio tappe intermedie di viaggio a Lugano e mi
sono sempre trovato bene, soprattutto qui il parcheggio è gratuito» – sottolinea il conducente di lungo corso, che da cinque giorni guida il suo gruppo di 27 turisti pensionati, tra cui «un vivace 96enne in carrozzella» tra Como, Ascona, Lago Maggiore e che si appresta a ripartire verso l’Austria e la Germania. Cosa ama di più del suo mestiere? «L’azienda per la quale lavoro è sana e lo stipendio abbastanza buono, 2’500 euro al mese. Certo non sono i salari che pagano ai conducenti in Svizzera o in Lussemburgo. Fortunatamente ho tre figli, ma già tutti indipendenti, a parte l’ultimo di 19 anni che frequenta l’università. Il grande problema è il tempo libero: ormai la mia prima casa è questa» – afferma Ahmet battendo l’indice sul volante. «Poi, seconda, viene la casa a Berlino». «Il prossimo weekend sarò in congedo, ma poi mi attendono sei giorni di filata di lavoro in Olanda, poi altri due giorni di pau-
sa, e quindi dovrò guidare per altri cinque giorni in Austria. La mia vita è al volante di questo bus: Svizzera, Italia, Croazia, Ungheria, fino in Russia. Riesco comunque anch’io, come i miei turisti a bordo, a vedere città e realtà nuove e inoltre la nostra ditta ci paga l’albergo e il buon cibo, so di altri conducenti costretti invece a dormire la notte all’interno del loro torpedone». Stesso Paese di provenienza, la Germania, ma differente compagnia turistica è quella per la quale lavora Frank Hartmann, 58 anni, di Dortmund, che rinuncia «senza problemi» alla sua breve siesta nel suo posto di guida per offrire il proprio racconto di conducente professionista, che svolge ininterrottamente da tre decenni. «Del mio lavoro mi piace la libertà, in giro per l’Europa e di poter vedere cose sempre diverse. Io non sono certo il tipo da ufficio. Compio viaggi per i turisti ovunque, dalla Sicilia a Mosca. Certo, non posso dire che non sia anche un lavoro stressante, ogni giorno in mezzo a un traffico crescente». La spaventa il terrorismo? «Non ho paura. Se deve accadere può accadere ovunque, non importa se fai il conducente di autobus o chissà quale altro mestiere. Nel mondo siamo tutti stranieri». Quante ore di guida compie al giorno? «Dipende, in ogni caso al massimo otto, intercalate sempre da pause ogni due ore. Sono in viaggio per la maggior parte dell’anno. In definitiva, sono a casa pochi giorni nell’arco di dodici mesi». Vive solo? «Sì. Questo non è un mestiere per chi ama la vita di famiglia. Quella l’ho avuta un tempo, ho avuto anche una figlia che oggi ha 36 anni. È andata così, bisogna accettarlo. Ora quando torno a casa c’è solo posto per la stanchezza», dice Frank Hartmann, il quale riporta il discorso sulla passione del viaggiare tra un Paese e l’altro e dove – assicura – «per comunicare con il resto del mondo mi bastano il tedesco e quattro parole di inglese».
Aspettando l’estate con Infovacanze
Pubblicità alla RSI: nessun dumping
di vacanza per bambini e ragazzi
le tariffe dei passaggi pubblicitari sul piano nazionale
Famiglie Un’opuscolo informa su colonie, campi e soggiorni
Anche quest’anno alla vigilia delle vacanze di Pasqua l’Ufficio del sostegno a enti e attività per le famiglie e i giovani del Cantone pubblica l’opuscolo Infovacanze, che si presenta in una nuova veste grafica ma affronta un
vecchio problema: come armonizzare le esigenze lavorative dei genitori con le lunghe vacanze estive di ragazzi e bambini. Per aiutare i genitori l’opuscolo informa sulle colonie, i campi estivi, i soggiorni e i corsi di vacanza
Una nuova veste grafica per la pubblicazione di Infogiovani.
organizzati dagli enti che operano in Ticino. Per chi ha figli più grandicelli Infovacanze permette di conoscere alcune iniziative promosse al di fuori dei confini nazionali e fornisce indirizzi e recapiti per ottenere informazioni in merito alle colonie e i soggiorni di vacanza organizzati nella Svizzera romanda e tedesca. Infine si trovano anche le utili informazioni sui programmi di formazione Cemea per tutti i giovani che fossero interessati a diventare animatore di colonia, un’esperienza sicuramente arricchente che si può sperimentare anche grazie alla possibilità di ottenere un Congedo giovanile specifico per apprendisti e giovani assuntori di lavoro che operino a titolo volontario. Chi volesse consultare l’opuscolo Infovacanze lo può richiedere gratuitamente telefonando allo 019 814 71 51, scrivendo a ufficiodeigiovani@ti.ch, oppure, più semplicemente, la pubblicazione è sfogliabile online sul sito www.ti.ch/infogiovani.
Media È Admeira a fissare autonomamente
Maurizio Canetta Nell’interessante e completo articolo di Enrico Morresi sulla crisi della stampa, pubblicato su «Azione» la scorsa settimana, c’è un passaggio che merita alcune precisazioni. Morresi cita il rapporto annuale sulla stampa del professor Russ-Mohl che parla di «atteggiamento inverecondo di RSI, che pratica dumping sulla pubblicità nei confronti dei giornali», sostenendo che su questo punto Russ-Mohl ha ragione. Innanzitutto RSI non può praticare dumping, visto che non raccoglie né pubblicità né sponsoring, che sono compito di Admeira, la quale fissa autonomamente le tariffe. Admeira stabilisce il prezzo dei passaggi pubblicitari sul piano nazionale, confron-
tandolo annualmente con quello di tutti gli altri media concorrenti e tenendo conto del numero di spettatori e delle fasce orarie nelle quali gli spot vengono trasmessi. Il prezzo per la Svizzera Italiana è simile a quello per le altre regioni ed è logico che, con un numero minore di spettatori, il prezzo complessivo sia più basso. Il calcolo del prezzo per contatto/telespettatore indica invece che i prezzi sono allo stesso livello e non c’è nessun effetto dumping. Admeira inoltre non può escludere dai passaggi pubblicitari un’azienda solo perché è regionale, sarebbe contrario alla libertà di commercio. Allo stesso modo sarebbe impensabile praticare tariffe più alte nella Svizzera Italiana per escludere aziende di portata regionale.
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Società e Territorio
La disabilità affronta l’invecchiamento Casa San Rocco Il progetto pilota «Residenzialità e anzianità» è stato ideato in collaborazione
con la Fondazione Diamante e si rivolge a un piccolo gruppo di disabili Stefania Hubmann Incontrare in una casa per anziani un piccolo gruppo di residenti disabili ci sembra una realtà del tutto naturale. Eppure l’inclusione a questo stadio della vita è ancora in una fase di sperimentazione. Un progetto pilota, nato nel 2016 dalla stretta collaborazione fra la Fondazione Diamante e la Fondazione Casa San Rocco di Morbio Inferiore, mostra che il corretto approccio da parte dell’istituto, unito a un’adeguata formazione del personale e all’inserimento graduale dei nuovi ospiti, permette di raggiungere l’obiettivo. L’esperienza è arricchente per tutti, ma la soddisfazione e l’entusiasmo maggiori sono proprio quelli dei diretti interessati.
L’esperienza iniziata nel febbraio 2016 è caratterizzata da un approccio interdisciplinare È la loro testimonianza a confermare i vantaggi del trasferimento dalle strutture residenziali della Fondazione Diamante presenti nel Mendrisiotto alla casa per anziani quando l’autonomia tende a scemare. Un primo intervento sperimentale per gli utenti anziani l’impresa sociale lo aveva promosso nel 2012. Il Progetto Diurno Anziani ha infatti permesso per quattro anni a otto utenti di beneficiare di un accompagnamento socio-educativo per continuare a vivere nei rispettivi foyer con i propri coinquilini ed educatori. Di fronte ai repentini cambiamenti dello stato di salute nell’età avanzata l’iniziativa ha però mostrato alcuni limiti e indotto la Fondazione Diamante a cercare nuove soluzioni. Quattro utenti (tre donne e un uomo) sono ora a Casa San Rocco, dove sono entrati in momenti diversi a partire dal febbraio 2016. Incontriamo Alice, Lucia e Renata (nomi di fantasia) nella cucina che è stata allestita appositamente per il piccolo gruppo al terzo piano della Casa. Ci accolgono con simpatia, raccontandoci gli impegni quotidiani, dalla spesa alla preparazione del pranzo, dalle decorazioni ad altri lavoretti di bricolage. «Sono da poco in pensione e mi piace soprattutto fare i biscotti» racconta con disinvoltura Alice, precisando che «la mia camera è al secondo piano e ho
Tre degli anziani che beneficiano di uno specifico accompagnamento socioeducativo all’interno della casa per anziani di Morbio Inferiore .
un televisore tutto per me, mentre nel foyer ne avevamo uno per tutti in salotto». Alice è molto vicina a Lucia, che dorme su un altro piano ed è la decana dei quattro, avendo festeggiato da poco i 90 anni. Un’età che proprio non dimostra. Con senso dell’umorismo ci dice che la ricetta è quella di «lavorare e non essere sposate». Renata ha bisogno di maggiore sostegno essendo ipovedente, ma partecipa con piacere alle attività grazie alla presenza delle due educatrici. Il piccolo gruppo, la cui età è compresa fra i 60 e i 90 anni, beneficia infatti di uno specifico accompagnamento socio-educativo. Due nuove figure sono quindi state introdotte nel team della casa per anziani, come ci spiega il direttore John Gaffuri. «L’esperienza è molto gratificante, anche se all’inizio si è rivelata alquanto impegnativa. Il progetto si è focalizzato sui bisogni esistenziali dei nuovi residenti, così come avviene per tutti gli altri ospiti della casa, che accoglie complessivamente 121 persone. La dimensione socio-educativa è quindi entrata a Casa San Rocco, peraltro già aperta a esperienze diverse, dall’asilo-nido alla panetteria. In questo caso si trattava però di integrare nuove competenze a livello del nostro personale. La formazione è stata un aspetto essenziale, così come la figura di transizione che ha accompagnato i quattro utenti della Fondazione Diamante nel loro trasferimento e che in parte li segue tuttora.
Questo educatore dipende dalla Fondazione Diamante, mentre da parte nostra abbiamo assunto due educatrici sociali impiegate rispettivamente all’80 e al 50 per cento». La vita quotidiana dei quattro disabili anziani a Casa San Rocco è un calibrato mix di autonomia e integrazione. Da un lato, grazie alla cucina di cui dispongono, possono continuare a svolgere dal lunedì al venerdì quelle attività che erano proprie del foyer, come organizzare i pasti di mezzogiorno e la relativa spesa. Dall’altro, la scelta di disporre le loro camere su piani diversi, il pasto serale nel refettorio, la partecipazione alle attività ricreative e il weekend senza educatrici permettono di vivere appieno anche la nuova dimensione dell’istituto. Istituto che conserva un carattere familiare, molto vicino al sentire dei suoi ospiti. Per il direttore questa caratteristica è particolarmente importante. Precisa John Gaffuri: «Casa San Rocco in questi ultimi anni si è progressivamente aperta verso l’esterno, accogliendo nuove attività e servizi che stimolano i residenti. Mantenere il senso di appartenenza alla comunità e permettere di sentirsi ancora utili sono aspetti centrali del nostro modo di concepire il sostegno alle persone anziane non più autonome». Su questi valori si è fondato anche il progetto di presa a carico dei disabili anziani «Residenzialità e anzianità». L’educatrice Céline Federico Macconi,
giornalmente a contatto con i quattro utenti, conferma che «le attività vengono decise sempre insieme, assecondando i bisogni del piccolo gruppo e in base allo stato di forma dei singoli utenti». Anche per lei l’avvio del progetto è stato tutt’altro che scontato, ma oggi l’esperienza si rivela positiva. «Un ruolo chiave – precisa l’educatrice – lo ha giocato l’inserimento graduale nella struttura. Accompagnati da un educatore sperimentato già attivo in uno dei due foyer di provenienza, gli utenti sono venuti a Casa San Rocco dapprima per il pranzo, poi per alcune attività, trascorrendovi via via sempre più tempo. La relazione con i rispettivi foyer che li ospitavano è stata mantenuta». Nel frattempo nella casa per anziani sono stati allacciati nuovi contatti e alcuni dei residenti frequentano regolarmente la cucina del terzo piano. Bilancio favorevole anche per Maria Luisa Polli, direttrice della Fondazione Diamante, promotrice del progetto pilota presso l’Ufficio degli anziani e delle cure a domicilio e l’Ufficio invalidi. «Questo tipo di collocamento in una struttura medicalizzata permette di rispondere alle necessità di prestazioni sanitarie che si sono manifestate nell’ambito del Progetto Diurno Anziani senza però perdere le connotazioni legate ad un intervento socio-educativo. Per questo motivo con la Fondazione Casa San Rocco è stato promosso un approccio interdisciplinare che ha
visto gli educatori della Fondazione Diamante e gli operatori socio-sanitari della casa per anziani lavorare a stretto contatto per un anno. Tutti hanno così potuto acquisire nuove conoscenze e confrontarsi con dimensioni meno presenti nei rispettivi ambiti professionali. L’impegno, l’interesse e la curiosità dimostrati da entrambe le équipe hanno permesso di trovare soluzioni alle molteplici situazioni della quotidianità, considerando sia gli aspetti socio-sanitari che quelli socio-educativi». Entrambi i responsabili del progetto, attivamente sostenuto dagli uffici cantonali preposti, ritengono che il medesimo possa essere replicato in altri contesti. Esso garantisce quella continuità identitaria e progettuale evidenziata anche dallo studio «L’invecchiamento delle persone con disabilità» presentato lo scorso anno dalla SUPSI. Effettuata dal Centro competenze anziani su mandato del Gruppo operativo 7 dell’Ufficio degli invalidi, la ricerca offre il primo quadro generale del fenomeno nel nostro Cantone. L’obiettivo è quello di qualificare e quantificare il medesimo in modo da poter approfondire la riflessione sulle risposte da proporre. Risposte che ora passano da diverse sperimentazioni, ma che a lungo termine dovrebbero confluire in un’unità d’intenti. Se il fenomeno dell’invecchiamento delle persone con disabilità è relativamente recente, i dati raccolti dallo studio della SUPSI indicano l’ampiezza che tenderà ad assumere. Nelle case con occupazione si prevede che gli utenti sopra i 65 anni passeranno da 35 nel 2013 al doppio nel 2018 e al triplo entro il 2023. Gli utenti in età di pensionamento delle case senza occupazione da parte loro dovrebbero essere una ventina nel 2023 e il doppio entro il 2028. Il progetto pilota della Fondazione Diamante e della Fondazione Casa San Rocco, sperimentato con successo nell’ultimo anno, è caratterizzato da un approccio interistituzionale ed interdisciplinare. Esso dimostra come la diffusa presenza delle case per anziani rappresenti un’opportunità per ampliare le possibilità di accoglienza a favore delle persone disabili, pure interessate dall’aumento della speranza di vita. Un’opportunità che assicura il legame con il territorio, arricchendo nel contempo questi istituti della dimensione socio-educativa, attuale anche in relazione alla crescente presenza di patologie psichiche nella popolazione anziana in generale.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Avi, Le avventure di Boscoscuro, Il Castoro. Illustrazioni di Brian Floca. Da 8 anni Frutto di un’opportuna e intelligente operazione di recupero delle opere del grandissimo autore americano Avi (pseudonimo di Edward Irving Wortis, classe 1937) da parte delle Edizioni Il Castoro, questo romanzo si differenzia per ambientazione e tematiche dall’altro, che Il Castoro ci aveva proposto un paio di anni fa, Le avventure di Charlotte Doyle, e che avevamo altrettanto apprezzato. In quello l’ambientazione era realistica, seppur avventurosissima, e i personaggi umani. In questo, Le avventure di Boscoscuro, i personaggi sono
invece animali: topi, gufi, porcospini, con precisi e ben delineati caratteri e personalità. In entrambi però, c’è la forza inesauribile di appassionare chi legge, dovuta certo alla componente avventurosa, giustamente dichiarata in entrambi i titoli, ma anche all’intensa e coinvolgente figura del personaggio principale: là una ragazza, Charlotte, qua una topolina, Pimpinella, figure femminili di grandissimo coraggio, per le quali il termine «eroina» non è un’iperbole. Eroina, e commovente nel suo nome così antieroico, lo è davvero la topolina Pimpinella, che si trova a dover affrontare da sola le insidie di Boscoscuro, e in particolare la terribile figura del cattivo della storia, il Signor Ocax, gufo dalla sadica prepotenza. Pimpinella affronta tutto questo per dare un futuro alla sua numerosa famiglia, capitanata da suo padre, l’anziano Corbezzolo (a cui un tempo Pimpinella riconosceva un’autorità indiscussa, ma ora ne vede, anche in modo struggente, i tratti di ingenuità e goffaggine). La
zona è infatti controllata con la menzogna e la violenza dal Signor Ocax, a cui i topi devono chiedere il permesso per ogni cosa. Un regime del terrore, una dittatura alla quale la topolina non accetta di sottostare: il suo eroismo ha un senso anche politico, la sua ricerca è un bisogno di vederci chiaro, di fare luce sulla verità. Pimpinella lo fa con estremo coraggio ma senza nascondere le sue paure; mette in discussione tutto quanto ha imparato dai genitori, pur senza mancar loro di rispetto: eppure quella che lei mette in atto è un’assoluta e potente ribellione all’ingiustizia. Che è, proprio perché priva di sfrontatezza, ancora più efficace. Guido Van Genechten, In viaggio, EDT Giralangolo. Da 3 anni Una coppia di animali amici, uno più intraprendente, l’altro meno esperto ma pronto a meravigliarsi come un bambino: sono Porcospino e Ranocchio, che si mettono in viaggio in questo bell’albo del popolare illustratore belga Guido
Van Genechten. Come Topo e Talpa del Vento tra i salici di Kenneth Grahame, l’uno conduce l’altro – che non si era mai allontanato dal suo ambiente – alla scoperta del mondo. E sarà un viaggio di scoperta, un viaggio di formazione («Com’è tutto cambiato qui» dice Ranocchio al ritorno, «Anche tu sei cambiato, Ranocchio», osserva Porcospino), un viaggio-metafora della vita: «Sono in viaggio!» esclama Ranocchio, a viaggio concluso, sentendo il rumore del mare in una conchiglia. «Sempre» risponde nella solenne conclusione Porcospino, «lo sei sempre». I dialoghi sono costruiti così, semplicemente ma con una dinamica contrapposizione tra la prospettiva bambina di Ranocchio e quella più
saggia di Porcospino. Sin dall’inizio: «Vuoi venire con me?» «Per andare dove?» «In viaggio», risponde Porcospino, a ribadire che quello che conta è lo spostarsi e non la meta. Spostarsi nel senso di essere curiosi, di avere voglia di scoprire, di apprezzare le meraviglie che si incontrano, di avere il coraggio di lasciare le proprie abitudini e accogliere cose diverse. Senza impazienza, però, a piccoli passi, godendosi ogni tratto del viaggio. Appena lasciano il villaggio, Ranocchio esclama «Stiamo per fare un viaggio!», ma Porcospino osserva che «Siamo già in viaggio!». Il tutto senza pedanteria e con umorismo, in particolare quando alla prospettiva bambina di Ranocchio è associato il tormentone umoristico del «Siamo quasi arrivati?», a cui Porcospino risponde invitando ad assaporare, con tutti i sensi, ciò che si incontra: «Ascolta il rumore della pioggia che batte sul tetto». Illustrazioni tenere e argute, testi essenziali e vivaci: un libro che invita a mettersi in viaggio tra le pagine, insieme ai propri bambini.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Giappone: terzo movimento Terza ma forse non ultima escursione altropologica in terra giapponese a ponderare sui paradossi di quella che l’antropologo Alan Macfarlane, acuto e competente osservatore, ha definito «una civilizzazione preneolitica ad altissimo contenuto tecnologico». Terra di contraddizioni e paradossi certo il Giappone è – e resta. La sua economia del settore primario si basa da sempre sulla coltivazione del riso. La superficie pianeggiante ed irrigabile rappresenta una frazione della superficie totale del Paese, il che risulta in una produzione del nutrimento-base piuttosto bassa. La domanda che alimenta un dibattito ormai centenario è pertanto: perché il Giappone non sviluppò la cultura del riso a terrazzamenti come fecero con grande successo Corea, Cina, Thailandia – ed altri paesi risicoli? La risposta è complessa e ancor oggi poco conclusiva. Si parla si fattori ecologici: le montagne ripidissime del Giappone sono ricoperte da un suolo fine e poco drenante. Deforestare i fianchi delle montagne avrebbe comportato un aumento esponenziale delle devastanti colate di fango e detriti
che, sistematicamente, sconvolgono le pianure all’epoca dei monsoni. A questo va ad aggiungersi l’altro sorprendente dato – stavolta di natura tecnologica – dell’assenza dell’aratro nell’inventario agricolo. Aratro e ruota sono stati gli strumenti vincenti della rivoluzione neolitica nella Mezzaluna Fertile che poi hanno contribuito allo sviluppo delle aree limitrofe del Medio Oriente e dell’Europa. Bene: in Giappone, fino all’affermarsi degli influssi portoghesi fra il XVII ed il XVIII secolo non veniva usata nemmeno la ruota. Tutti i trasporti avvenivano col Cavallo di Sant’Antonio in interminabili carovane di facchini. Sì, perché – vuoi per logica conseguenza, vuoi per effetto domino – la storia economica e sociale del Giappone si caratterizza anche per l’assenza di animali da trasporto – primo fra tutti il bufalo d’acqua e da giogo. Responsabile di ciò ancora una volta una congiuntura ecologica ostile: la scelta era fra dedicare il poco terreno disponibile alla coltivazione del riso a suon di zappa e olio di gomito, oppure devolverlo al pascolo animale. E, si sa, più la bestia è gros-
sa, più pascolo deve esserle dedicato. Dunque niente bovini e niente ovini: in un clima invernale spesso molto rigido gli unici tessuti protettivi erano quelli derivati dalle fibre tessili vegetali e dalla seta. E questo, per giunta, nel contesto di un’economia termica dove – allora come oggi – le uniche fonti di riscaldamento degli spazi domestici erano certi piccoli bracieri nei quali ardeva la poca, preziosa legna disponibile – altroché gli ottanta e rotti quintali di legna che l’Altropologo riduce ogni anno in cenere a ottocento metri d’altezza. Figuriamoci poi se in quelle condizioni potesse anche lontanamente attecchire quel benemerito salvavite che fu – in tutti i tempi ed a tutte le latitudini – sua Maestà il Porco. Grande assente pure lui da uno scenario gastronomico nel quale anche figuranti minori quali pollami di terra e d’acqua – per non parlare di conigli e quant’altro – recitano ancor oggi a malapena: quando al Vostro fu servita con grande solennità una zuppa di pollo, quei quattro frammenti di pollo galleggianti in un mare d’acqua calda dovettero essere recuperati con la rete a strascico. E allora mi ve-
niva in mente – altre latitudini ma stesso dilemma esistenziale – quel contadino Ladino Romancio d’alta montagna che raccontava sconsolato come da loro il maiale allevato in casa con ogni cura e togliendo letteralmente il cibo di bocca a grandi e piccini ad un certo punto doveva essere sacrificato – ben prima che raggiungesse il peso da fantascienza dei maiali di pianura: o mangiavamo noi, o mangiava lui: «E dunque…» – concludeva con un sospiro. Ma, come si dice, al peggio non c’è fine: niente animali domestici, niente concime – resa dei campi di riso compromessa. Si rimediava allora con orinatoi sistemati dai contadini fuori di casa con il cortese invito rivolto ai passanti di farne uso liberale, con mille grazie ed arrivederci a presto. Eppure, nonostante tutto questo – altro paradosso di un paese paradossale – il Giappone ha sofferto molto meno di carestie di quanto sia successo laddove la gente poteva almeno sognare prosciutti e capponi – e qualche volta anche metterci i denti addosso. Quali allora le strategie per fare di necessità virtù? Fino ai tempi moderni il Giappo-
ne ha mantenuto un livello di pressione demografica comparativamente basso. Strategie molteplici e forse di vario merito morale ed etico. Al matrimonio in età relativamente tarda si accompagnava l’abbandono degli anziani in cima alle montagne e la pratica dell’infanticidio: i bambini che non potevano essere nutriti entro i confini stretti della dispensa di famiglia venivano eufemisticamente «rimandati indietro». E poi – e poi tutti consumavano (e mangiano tuttora) quantità minime di cibo derivato perlopiù dal mare – riserva inesauribile che non richiedeva né aratro né ruota. Il risultato è che – senza uova, senza latticini, senza maiali e senza grassi – oggi i giapponesi hanno la popolazione più longeva del globo. Come commentava ieri sera l’Altropologo ai suoi commensali al quindicesimo ordine in uno di quei ristoranti «giapponesi» gestiti da cinesi con la formula: «Tutto quello che puoi mangiare a quindici euro»: «Vi rendete conto che ciascuno di noi stasera ha mangiato tanto quanto quattro giapponesi?! E il bello è che così ci facciamo solo del male…»
considerata straordinaria, nel Vangelo secondo Luca, la parabola di Marta e Maria, dove Gesù afferma di apprezzare più l’assorto ascolto di Maria che le premure della servizievole Marta. Ma ora mi sembra che tutti, uomini e donne, siano incalzati dalla fretta e dalla superficialità, per cui la capacità di pensare è diventata strumentale: penso solo a ciò che serve. Il tempo libero, sempre meno libero, non lascia spazio al silenzio, alla riflessione, all’immaginazione. Esistere e fare tendono a coincidere, il resto viene considerato una perdita di tempo. Per fortuna i bambini, in quanto si sottraggono a questo ricatto, sono rimasti gli ultimi filosofi. Prevedo che entrambi i vostri figli soffriranno molto per la morte della nonna ma Giacomo non mancherà di interrogarsi anche sul mistero della fine. Non so se siete credenti ma, in caso affermativo, avrete già pronta la risposta più consolatoria: la promessa
di ritrovarsi nell’al di là. Per i non credenti è invece più difficile dar ragione di una sparizione improvvisa che non prevede rimedio: si muore una volta sola e per sempre. In proposito Françoise Dolto, una delle più significative psicoanaliste francesi, suggerisce di rispondere semplicemente così: «si muore perché si nasce. Tutto ciò che comincia finisce». È vero, ma a me sembra una constatazione un po’ troppo astratta per la mente di un bambino. Direi di aggiungere qualche osservazione più personale, come: «la nonna era così buona: sempre pronta ad aiutare, consolare, divertire, così brava a preparare la macedonia, a leggervi i libri, a portarvi in montagna, che non la dimenticheremo mai. Lei vivrà per sempre nei nostri cuori». Preparatevi però al seguito perché il vostro piccolo filosofo non si fermerà qui. Vorrà saperne molto di più. E voi restituitegli la parola, fategli esporre le
sue idee e vedrete che sono così profonde da indurvi a pensare. Noi adulti prendiamo ciò che accade come qualcosa di scontato, i bambini invece hanno il senso dell’enigma e l’urgenza di conoscere. Metterci in sintonia con loro ci aiuta allora a ritrovare la meraviglia, il sentimento che anima la ricerca. Per Aristotele, la meraviglia, premessa del filosofare, aiuta a porsi le giuste domande. Forse l’ambito più idoneo alla speculazione infantile è l’ecologia perché i più piccoli avvertono con i sensi, ancor prima che con l’intelletto, il pericolo che minaccia la vita sul nostro pianeta e, con la loro stessa fragilità, ci inducono a salvaguardarla.
il nuovo. A loro rischio e pericolo. Anche l’ufficio-casa potrebbe rivelarsi un flop. L’opinione pubblica, come sempre, esita. Portando il discorso sul concreto, com’è possibile trasformare un ambiente, spesso definito alienante, in luogo piacevole? Ci hanno provato gli studenti, impegnati nella ricerca del Politecnico di Milano con proposte che, appunto, riflettevano le ambiguità di una sperimentazione astratta, lontana dal mercato del lavoro. Certo, oggi più che mai, il posto di lavoro è sottoposto alle incognite reali dell’economia e della tecnologia. Ma, giustamente, all’indagine scientifica spetta uno spazio di manovra, dove l’ottimismo ha la sua parte, e forse l’illusione. E, quindi, potremmo essere alla vigilia «di un periodo di convergenza, in cui gli uffici devono ospitare più momenti della nostra esistenza», per dirla con i
docenti d’architettura milanesi. Con il risultato che, per il momento, l’ufficio-casa rimane in balia della confusione. E lo confermano le soluzioni proposte. Eccole, in riassunto: «In generale, più colore negli ambienti di lavoro» a cui affiancare « palestre, canestri da basket negli atri, sale giochi, cucine, divani per rilassarsi, salottini per mini riunioni, nicchie dove godere privacy telefonica, piccoli palchi per esibizioni musicali e teatrali,» e guarda un po’, persino lavanderie. Senza dimenticare gli aspetti «salutisti», e quindi percorsi esterni, fra gli alberi, piantati intorno all’azienda, parchi dove installare uffici sotto gazebi, e meglio ancora, scrivanie a bordo di barche, galleggianti su canali. E, dopo queste fatiche ricreative, non poteva mancare una camera da letto, con annesso bagno con doccia, destinata a un meritato riposo.
A prima vista, questo scenario si presta a facili ironie, persino a una condanna d’ordine morale, nei confronti di una visione in cui lavoro e svago sembrano parificati, anzi il divertimento ha il sopravvento. Ma, a ben guardare, si tratta di una facciata ingannevole. Certo, e giustamente, la società del tempo libero ha riabilitato, anche sul piano etico, svaghi sportivi e culturali, e persino un certo ozio. Qui, però, in cittadelle, dove lavoro produttivo e divertimento convivono nella quotidianità, si assiste a una forma strisciante di totalitarismo: favorita dalla libertà apparente, di lavorare quando si vuole, domenica e serate comprese, sempre a contatto con colleghi e superiori, lontani da quello che era, ed è, l’alternativa all’ufficio, alla fabbrica, al negozio: il bisogno di staccare, uscire, ritrovare il rifugio della casa, insostituibile.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Le domande dei bambini Cara Silvia, abbiamo due figli, Sara di undici anni e Giacomo di sette. Li abbiamo educati allo stesso modo ma non potrebbero essere più diversi. Sara è svelta, pratica, efficiente. Di fronte a ogni problema trova sempre la soluzione, anche se spesso «crede di averla trovata», e poi la faccenda si rivela più complessa del previsto. A ogni buon conto non solleva problemi e non ne dà. Giacomo invece è il suo esatto contrario. Sempre incerto, insicuro, ci mette tre ore prima di prendere una decisione: «vado o non vado al pigiama party dei miei amici?» , «e se mi viene sonno ?» , «e se devo andare in bagno di notte?» e se…e se… Non le dico poi la sfilza dei «perché»! «Perché le piante perdono le foglie e poi le rifanno?» , «Perché dobbiamo andare a scuola?», «Perché Dio ha fatto ammalare la mia compagna di banco ?», «Perché la nonna non mi risponde più?»
E via di seguito… Siamo preoccupati per lui perché è un bambino molto sensibile e non accetterà facilmente la morte della nonna, affetta da Alzheimer, che potrebbe sopraggiungere da un momento all’altro. Che cosa ci consiglia? Come dovremo rispondere alle sue inevitabili domande? Grazie tante. / Genitori preoccupati Cari genitori, non stupitevi se i vostri figli, pur amati e cresciuti allo stesso modo, si dimostrano diversi. Quattro anni di distanza cambiano tante cose. Di conseguenza, tra la prima figlia e il secondogenito, voi non eravate più gli stessi. Ma non solo, anche la differenza di sesso che li separa ha la sua importanza. Per secoli le donne sono state escluse dalle attività speculative. Relegate nella sfera privata, hanno avuto ben poche occasioni di emergere dalle incombenze domestiche e dalle questioni immediate. Per questo ho sempre
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Nell’ufficio-casa, si lavora meglio La questione sarebbe, innanzi tutto, logistica. Se si rende più accogliente il luogo di lavoro, ufficio, laboratorio, fabbrica che sia, ricreando un ambiente di tipo familiare, dove ci si sente a proprio agio, anche l’attività professionale è facilitata. Con vantaggi, ovviamente, reciproci: per l’azienda e il dipendente. Da qui il concetto di ufficio-casa, cioè «uno spazio ibrido tra dovere, riposo e piacere», come si leggeva sul «Corriere della Sera», in occasione della Design Week, organizzata dal Politecnico di Milano e dedicata a un tema in fieri: che tocca da vicino architetti e arredatori, e non soltanto loro. L’aggettivo «ibrido» la dice lunga. Bisogna, infatti, progettare ambienti in grado di soddisfare esigenze contrastanti, finora latenti e che, adesso emergono, almeno nelle nostre società liberali, ma devono fare i conti con una radicata tradizione: la
casa contrapposta, anche simbolicamente, all’ufficio. Una separazione in blocchi, per così dire, storici che, oggi, va ripensata. Perché, a quanto pare, si sta delineando una sorta di mutazione genetica. L’impiegato-tipo era quello che stava dietro una scrivania, inamovibile, ripetitivo nei gesti, prima con la macchina da scrivere, e poi con il computer, oggi si presenta, invece, con un’altra fisionomia, vuole altri spazi, altri attrezzi, maggiore autonomia, per passare dalla sedentarietà alla mobilità, sia materiale sia mentale. Per il momento si tratta ancora di indizi, però rivelatori di tendenza. Fatto sta che, sul piano mondiale, in Giappone, in Olanda, in California, ma anche in Austria, in Svizzera, il modello dell’ufficio-casa, se evidentemente ha conquistato le simpatie di sociologi e psicologi, mobilita anche quegli imprenditori apripista, capaci di fiutare
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Promemoria di una vita Alzheimer Pubblicato un manuale
pratico dedicato a chi lavora con persone affette da demenza e pensato per stimolare le loro funzioni cognitive residuali
Sara Rossi Guidicelli Elena Grandi lavora per il Centro diurno Alzheimer dell’Inrca di Ancona ed è esperta di cura del paziente con demenza senile. Nel 2011 ha pubblicato per le Edizioni Erickson il volume Se faccio, ricordo e recentemente è uscito Costruire la storia di vita con la persona con demenza, edito anche questo da Erickson. Si tratta di un manuale con schede e indicazioni per i parenti e gli operatori che desiderano costruire un album a partire da fotografie e documenti della persona anziana. Quando mi sono sposata, mia nonna purtroppo era già morta. Allora sua sorella, molto anziana e con la memoria fragile, mi ha scritto e regalato un quaderno con scritti pezzi della loro storia, cartoline del loro paese d’origine e ricette di famiglia. Non sembrava una biografia, ma per me e mia sorella (e mia cugina e persino mia mamma) questo quadernetto con la scrittura tremolante che saltava di palo in frasca è diventato un preziosissimo pezzo di noi stesse. Per questo, l’ultimo libro di Elena Grandi, messo su un tavolo in biblioteca tra le novità, ha subito attirato la mia attenzione. E le ho telefonato. «Ascoltare la storia di vita di un anziano, indipendentemente dallo stato della sua memoria, è sempre stato emotivamente rilevante, sia per me che per lui», mi spiega Elena Grandi. «Gli anziani, anche quelli che sembrano dimenticare tutto, ricordano con gli occhi e con le mani e con le mani possono raccontare la loro storia. Quindi costruendo, toccando, guardando e facendo, si possono ripercorrere meglio anche le vicende del passato. Per questo partiamo da materiale concreto, stimoliamo la memoria con fotografie, documenti, oggetti conosciuti e tutto ciò che racconta una vita e poi creiamo insieme
a loro l’album o la scatola che conterrà questi ricordi». Sono anni che Elena Grandi costruisce album autobiografici insieme ai suoi pazienti. «È molto emozionante quando le persone ti danno in mano la loro vita, ti fanno confidenze, ti raccontano i dolori. Sono frammenti di storia che bisogna raccogliere con molto rispetto e amore. Chiunque può accompagnare l’anziano in questo percorso, non solo i professionisti. L’attività è utile per la manualità della persona coinvolta, per stimolare la sua capacità di ricordare, per conservare i ricordi passati e presenti, per rispecchiarsi e trovarvi le proprie radici e infine anche per la memoria positiva dei parenti che potranno serbare il frutto di tale lavoro. In questo album la persona potrà rileggere e vedere ciò che è stata, cosa ha fatto, da dove viene e cosa sta facendo.». Il manuale presenta anche molti altri tipi di attività, dalla costruzione di una bambola con i vestiti del proprio nipotino a quella dei festoni per Carnevale, ma qui ci interessa soprattutto raccontare della raccolta autobiografica. Elena Grandi propone un possibile svolgimento dell’attività in modo dettagliato, anche se poi l’operatore la svilupperà a seconda della sua sensibilità, del suo rapporto con il paziente e del materiale che avrà in mano. Prima di tutto c’è la richiesta ai parenti dei documenti e delle immagini che rappresentano la persona: fotografie, attestati, pagelle, cartoline, biglietti, lettere, tutto quello che essi avranno voglia di fornire. Si possono poi separare in diverse buste a seconda delle fasi della vita: infanzia, giovinezza, età adulta, fase attuale. In base al materiale si può iniziare a creare un archivio, con la busta che riguarda il matrimonio, quella per la nascita dei figli, dei nipoti, eventuali traslochi e così via. Mentre si
È una mattina di luglio, l’uomo entra nel vagone rovente e sovraffollato della metropolitana reggendo un letto da campo in una mano, una Bibbia aperta nell’altra. Poi appoggia il letto per terra e comincia a leggere da un foglietto: «Vivo sulla strada da tre mesi, undici giorni e ventidue ore. Prima lavoravo come trasportatore ma ora ho un problema alla schiena e non posso più fare niente». Conclude con la lettura di un salmo dalla Bibbia e passa tra i viaggiatori con un bicchiere di plastica: «Ogni cosa aiuta, per favore». Qualcuno gli offre una bottiglietta d’acqua, due distinte signore gli allungano un dollaro ciascuna. A un’altra fermata della metro salgono dei ragazzi che fanno hip hop acrobatico sui pali del vagone e un secondo mendicante vestito con un sacco, un cartello di cartone al collo, le scarpe bucate; anche lui legge un salmo dalla Bibbia, vuol dire che funziona. È stato questo il mio primo impatto con New York. Sono qui per un corso di fotografia e per contattare gallerie d’arte, ma prima devo trovare il modo di guadagnarmi da vivere. Oltretutto, in un momento di fretta, sbaglio codice e mi faccio ritirare la carta di credito da un bancomat, senza più la possibilità di ottenere denaro contante.
È difficile che qualcuno assuma uno straniero senza permesso di lavoro, nessuno si vuole esporre alle sanzioni
Immagine utilizzata per la copertina di Costruire la storia di vita della persona con demenza delle Edizioni Erickson.
svolge il lavoro, l’operatore si fa raccontare. Prende appunti o registra. «Se intraprendiamo questo percorso diventiamo dei mediatori, le pietre sulle quali ci si appoggia per attraversare un fiume senza bagnarsi. Dobbiamo trovare il modo per rispettare le memorie del paziente, senza manipolarle, difendendolo da esse e dalle ripercussioni che queste potrebbero avere sui suoi familiari più stretti», sottolinea l’autrice. Si tralasciano gli episodi dolorosi, non si insiste su quelli bui, si mette in risalto un corso della vita pieno e unico. Si fa di tutto affinché questo sia un momento piacevole, quindi non si domanda ciò che risulta difficile: non si chiede di parlare oltre al desiderio dell’utente, non lo si fa scrivere se scrivere gli costa fatica, si cura l’aspetto estetico del quaderno senza mai renderlo infantile. Le domande: tutti amiamo che qualcuno si interessi con sincerità a noi e ci faccia parlare di quello che ci
sta a cuore. Le domande dell’operatore sono importanti, così come il modo in cui si pone all’ascolto. Elena Grandi propone una lunga lista di punti che si possono toccare per farci raccontare la storia di vita della persona, dal mestiere dei nonni al nome della maestra di scuola, dagli amici ai fidanzamenti, dai mobili di casa agli animali domestici. «La memoria è identità e l’identità è importantissima. Infatti non ho mai trovato qualcuno che non fosse interessato a costruire il suo album e tutti hanno accresciuto la propria autostima mostrando loro stessi nei vari momenti della vita, che fosse a una laurea o in cucina a zuccherare frittelle…». E il risultato è sorprendente: scatole (per chi ricorda poco) o veri e propri tomi con capitoli e racconti per chi è ancora ricco di molti ricordi. «Ho una paziente con cui ho creato il suo libro, molto particolare, perché sulla copertina è stata collocata l’impronta della sua
mano, fatta su una piastra di argilla. Una volta le ho chiesto, tramite un suo nipote, di prestarmelo per una presentazione. Non si ricordava di me, mi ha riferito il nipote; allora le ho scritto la mia richiesta per lettera, allegandole una fotografia di noi due al lavoro. La donna mi ha riconosciuta e ha acconsentito subito a prestarmi l’album… ma non l’originale! Una copia, perché questo libro, lei lo tiene in salotto, se lo guarda spesso e lo mostra a chi va a trovarla. I suoi parenti sono stati felici di scoprire certe cose di lei e di sapere che lei aveva piacere a condividerle. Il mestiere di Elena Grandi è aiutare a far scivolare vecchi cassetti. «La memoria», scrive infatti nel suo manuale, «è come un comò pieno di abiti. Per chi ha l’Alzheimer, i cassetti sono ancora pieni ma è diventato difficile aprirli. Ci vuole dunque qualcosa che stimoli, che eserciti l’apertura di questi cassetti».
Mi guardo in giro. D’estate qui si vive sempre all’aperto: fuori a cena, fuori per il cinema, fuori per i concerti. Parecchi sono fuori anche nel modo di vestire. Chi viene a New York spesso vuole uscire dall’ordinario, innovare, mostrare un atteggiamento eccentrico verso la vita; esibire un livello di libertà molto alto, se solo non fosse così esteriore. Comincio a cercare un lavoro. Chiedo ad amici che risiedono a New York se hanno bisogno di una baby-sitter, ma tutti sono già a posto. Dog-sitter allora? Anche qui niente. In rete le uniche offerte di lavoro vanno dal rappresentante di orologi al pasticciere di notte, all’estetista, ma non credo di essere capace. D’altronde l’economia ristagna. In compenso, da quando il terrorismo fa paura, il NYPD (New York Police Department) assume ottocento nuovi poliziotti ogni sei mesi. Qualcuno cerca «Pretty girls with pretty feet» per party estivi, le foto mostrano ragazze di origine asiatica e sudamericana con reggiseni leopardati, lascio perdere subito.
Grattacieli nei pressi di Bryant Park.
Bushwick, quartiere messicano con la pubblicità «Divorzio a 399 dollari».
Studio d’arte Tabla Rasa Gallery.
Alla fine finisco a lavare le verdure in un ristorante all’angolo, due ore ogni pomeriggio. Poi accetto la proposta di un amico interessato a lezioni private di italiano. È argentino con un nonno originario della penisola e vorrebbe chiedere la cittadinanza italiana. Intanto fa il traduttore di
«almeno un sorriso al giorno», come dice un ragazzo che si avvicina a una giovanissima senzatetto, offrendole un caffè all’angolo di Union Square. I miei progressi nel mondo del lavoro sono minimi: è difficile assumere uno straniero senza permesso di lavoro, nessuno si vuole esporre a possibili sanzioni. Alla fine riesco a lavorare per qualche settimana in un negozio di gioielli: dalle 13 alle 17, senza dare troppo nell’occhio, aiuto una commessa californiana nel reparto vasi e argenti. Alcuni scontrini arrivano a diverse migliaia di dollari, ma qui è normale. In questo modo trovo da mangiare e un posto dove dormire anche per il secondo mese. Passo il mio tempo libero facendo interviste e fotografie alle persone che mi sembrano interessanti. Dico loro che sto preparando un servizio giornalistico, ma forse è solo una scusa per ritrarre i personaggi di questa città incredibile.
Sullo sfondo, si indovina la statua della Libertà dopo un temporale estivo vista da Red Hook.
contenuti per Facebook. Resta incollato al computer dalle 8.00 alle 18.00, mangia pollo e beve mate. È un alunno diligente, dopo le nostre lezioni si appende in bagno le coniugazioni dei verbi e le ripassa spazzolandosi i denti. In tutto racimolo centocinquanta dollari alla settimana, un livello di sussistenza davvero minimo in una città così cara. Sono finita a dormire in un quartiere messicano, ai confini con il quartiere arabo della periferia estrema di Bushwik. Ho una microscopica stanzetta per un mese soltanto nell’appartamento di una ragazza messicana che lavora per una televisione cattolica. Altri se la passano anche peggio di me. New York è una città di broker, di artisti ma anche, sempre più, di senzatetto. In ogni angolo della città e lungo i marciapiedi è frequente incontrare qualche homeless, i compagni di quelli che ho visto il primo giorno; le associazioni di volontari cercano di offrire
A New York non conta il percorso ma il punto d’arrivo: scalare i vertici sociali, scrivere un libro, produrre un disco di tendenza, va bene tutto purché abbia successo. Ciò che sto imparando giorno per giorno lungo la strada – la sofferenza, l’amore, la tenacia – non sembra interessare a molti. Forse è solo apparenza, mi dico. Forse per scalfire questo strato di cinismo bisogna restare qui a lungo, entrare nelle case, abitare nei cuori delle persone. Ma io non ce la faccio. Sarà che vengo da una piccola città tra le Alpi, ma dopo due mesi sento la mancanza della natura, la puzza di gas diventa insopportabile, il rumore continuo dei condizionatori mi sembra un frastuono assordante. L’ultima notte resto in piedi fino alle sei di mattina e solo allora, alle prime luci dell’alba, New York si palesa in tutta la sua bellezza: lenta, silenziosa e amabile come una signora appena svegliata.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Ambiente e Benessere Il vino nel Rinascimento Una delle figure più romanzate da un punto di vista enogastronomico è di certo Caterina de Medici pagina 10
I campioni della stecca Al biliardo si cimentano principalmente due categorie di giocatori: quelli più tecnici e quelli più emotivi
E-Berlingo Multispace La multispazio di Citroen diventa elettrica senza però perdere le sue caratteristiche
Visite a distanza L’esperienza dei veterinari Stefano D’Albena e Francesca Caporelli, specializzati in cavalli
pagina 12
Un lavoro per viaggiare Viaggiatori d’Occidente Come sopravvivere due mesi a New York Valentina Lucchi, testo e foto
pagina 13
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Promemoria di una vita Alzheimer Pubblicato un manuale
pratico dedicato a chi lavora con persone affette da demenza e pensato per stimolare le loro funzioni cognitive residuali
Sara Rossi Guidicelli Elena Grandi lavora per il Centro diurno Alzheimer dell’Inrca di Ancona ed è esperta di cura del paziente con demenza senile. Nel 2011 ha pubblicato per le Edizioni Erickson il volume Se faccio, ricordo e recentemente è uscito Costruire la storia di vita con la persona con demenza, edito anche questo da Erickson. Si tratta di un manuale con schede e indicazioni per i parenti e gli operatori che desiderano costruire un album a partire da fotografie e documenti della persona anziana. Quando mi sono sposata, mia nonna purtroppo era già morta. Allora sua sorella, molto anziana e con la memoria fragile, mi ha scritto e regalato un quaderno con scritti pezzi della loro storia, cartoline del loro paese d’origine e ricette di famiglia. Non sembrava una biografia, ma per me e mia sorella (e mia cugina e persino mia mamma) questo quadernetto con la scrittura tremolante che saltava di palo in frasca è diventato un preziosissimo pezzo di noi stesse. Per questo, l’ultimo libro di Elena Grandi, messo su un tavolo in biblioteca tra le novità, ha subito attirato la mia attenzione. E le ho telefonato. «Ascoltare la storia di vita di un anziano, indipendentemente dallo stato della sua memoria, è sempre stato emotivamente rilevante, sia per me che per lui», mi spiega Elena Grandi. «Gli anziani, anche quelli che sembrano dimenticare tutto, ricordano con gli occhi e con le mani e con le mani possono raccontare la loro storia. Quindi costruendo, toccando, guardando e facendo, si possono ripercorrere meglio anche le vicende del passato. Per questo partiamo da materiale concreto, stimoliamo la memoria con fotografie, documenti, oggetti conosciuti e tutto ciò che racconta una vita e poi creiamo insieme
a loro l’album o la scatola che conterrà questi ricordi». Sono anni che Elena Grandi costruisce album autobiografici insieme ai suoi pazienti. «È molto emozionante quando le persone ti danno in mano la loro vita, ti fanno confidenze, ti raccontano i dolori. Sono frammenti di storia che bisogna raccogliere con molto rispetto e amore. Chiunque può accompagnare l’anziano in questo percorso, non solo i professionisti. L’attività è utile per la manualità della persona coinvolta, per stimolare la sua capacità di ricordare, per conservare i ricordi passati e presenti, per rispecchiarsi e trovarvi le proprie radici e infine anche per la memoria positiva dei parenti che potranno serbare il frutto di tale lavoro. In questo album la persona potrà rileggere e vedere ciò che è stata, cosa ha fatto, da dove viene e cosa sta facendo.». Il manuale presenta anche molti altri tipi di attività, dalla costruzione di una bambola con i vestiti del proprio nipotino a quella dei festoni per Carnevale, ma qui ci interessa soprattutto raccontare della raccolta autobiografica. Elena Grandi propone un possibile svolgimento dell’attività in modo dettagliato, anche se poi l’operatore la svilupperà a seconda della sua sensibilità, del suo rapporto con il paziente e del materiale che avrà in mano. Prima di tutto c’è la richiesta ai parenti dei documenti e delle immagini che rappresentano la persona: fotografie, attestati, pagelle, cartoline, biglietti, lettere, tutto quello che essi avranno voglia di fornire. Si possono poi separare in diverse buste a seconda delle fasi della vita: infanzia, giovinezza, età adulta, fase attuale. In base al materiale si può iniziare a creare un archivio, con la busta che riguarda il matrimonio, quella per la nascita dei figli, dei nipoti, eventuali traslochi e così via. Mentre si
È una mattina di luglio, l’uomo entra nel vagone rovente e sovraffollato della metropolitana reggendo un letto da campo in una mano, una Bibbia aperta nell’altra. Poi appoggia il letto per terra e comincia a leggere da un foglietto: «Vivo sulla strada da tre mesi, undici giorni e ventidue ore. Prima lavoravo come trasportatore ma ora ho un problema alla schiena e non posso più fare niente». Conclude con la lettura di un salmo dalla Bibbia e passa tra i viaggiatori con un bicchiere di plastica: «Ogni cosa aiuta, per favore». Qualcuno gli offre una bottiglietta d’acqua, due distinte signore gli allungano un dollaro ciascuna. A un’altra fermata della metro salgono dei ragazzi che fanno hip hop acrobatico sui pali del vagone e un secondo mendicante vestito con un sacco, un cartello di cartone al collo, le scarpe bucate; anche lui legge un salmo dalla Bibbia, vuol dire che funziona. È stato questo il mio primo impatto con New York. Sono qui per un corso di fotografia e per contattare gallerie d’arte, ma prima devo trovare il modo di guadagnarmi da vivere. Oltretutto, in un momento di fretta, sbaglio codice e mi faccio ritirare la carta di credito da un bancomat, senza più la possibilità di ottenere denaro contante.
È difficile che qualcuno assuma uno straniero senza permesso di lavoro, nessuno si vuole esporre alle sanzioni
Immagine utilizzata per la copertina di Costruire la storia di vita della persona con demenza delle Edizioni Erickson.
svolge il lavoro, l’operatore si fa raccontare. Prende appunti o registra. «Se intraprendiamo questo percorso diventiamo dei mediatori, le pietre sulle quali ci si appoggia per attraversare un fiume senza bagnarsi. Dobbiamo trovare il modo per rispettare le memorie del paziente, senza manipolarle, difendendolo da esse e dalle ripercussioni che queste potrebbero avere sui suoi familiari più stretti», sottolinea l’autrice. Si tralasciano gli episodi dolorosi, non si insiste su quelli bui, si mette in risalto un corso della vita pieno e unico. Si fa di tutto affinché questo sia un momento piacevole, quindi non si domanda ciò che risulta difficile: non si chiede di parlare oltre al desiderio dell’utente, non lo si fa scrivere se scrivere gli costa fatica, si cura l’aspetto estetico del quaderno senza mai renderlo infantile. Le domande: tutti amiamo che qualcuno si interessi con sincerità a noi e ci faccia parlare di quello che ci
sta a cuore. Le domande dell’operatore sono importanti, così come il modo in cui si pone all’ascolto. Elena Grandi propone una lunga lista di punti che si possono toccare per farci raccontare la storia di vita della persona, dal mestiere dei nonni al nome della maestra di scuola, dagli amici ai fidanzamenti, dai mobili di casa agli animali domestici. «La memoria è identità e l’identità è importantissima. Infatti non ho mai trovato qualcuno che non fosse interessato a costruire il suo album e tutti hanno accresciuto la propria autostima mostrando loro stessi nei vari momenti della vita, che fosse a una laurea o in cucina a zuccherare frittelle…». E il risultato è sorprendente: scatole (per chi ricorda poco) o veri e propri tomi con capitoli e racconti per chi è ancora ricco di molti ricordi. «Ho una paziente con cui ho creato il suo libro, molto particolare, perché sulla copertina è stata collocata l’impronta della sua
mano, fatta su una piastra di argilla. Una volta le ho chiesto, tramite un suo nipote, di prestarmelo per una presentazione. Non si ricordava di me, mi ha riferito il nipote; allora le ho scritto la mia richiesta per lettera, allegandole una fotografia di noi due al lavoro. La donna mi ha riconosciuta e ha acconsentito subito a prestarmi l’album… ma non l’originale! Una copia, perché questo libro, lei lo tiene in salotto, se lo guarda spesso e lo mostra a chi va a trovarla. I suoi parenti sono stati felici di scoprire certe cose di lei e di sapere che lei aveva piacere a condividerle. Il mestiere di Elena Grandi è aiutare a far scivolare vecchi cassetti. «La memoria», scrive infatti nel suo manuale, «è come un comò pieno di abiti. Per chi ha l’Alzheimer, i cassetti sono ancora pieni ma è diventato difficile aprirli. Ci vuole dunque qualcosa che stimoli, che eserciti l’apertura di questi cassetti».
Mi guardo in giro. D’estate qui si vive sempre all’aperto: fuori a cena, fuori per il cinema, fuori per i concerti. Parecchi sono fuori anche nel modo di vestire. Chi viene a New York spesso vuole uscire dall’ordinario, innovare, mostrare un atteggiamento eccentrico verso la vita; esibire un livello di libertà molto alto, se solo non fosse così esteriore. Comincio a cercare un lavoro. Chiedo ad amici che risiedono a New York se hanno bisogno di una baby-sitter, ma tutti sono già a posto. Dog-sitter allora? Anche qui niente. In rete le uniche offerte di lavoro vanno dal rappresentante di orologi al pasticciere di notte, all’estetista, ma non credo di essere capace. D’altronde l’economia ristagna. In compenso, da quando il terrorismo fa paura, il NYPD (New York Police Department) assume ottocento nuovi poliziotti ogni sei mesi. Qualcuno cerca «Pretty girls with pretty feet» per party estivi, le foto mostrano ragazze di origine asiatica e sudamericana con reggiseni leopardati, lascio perdere subito.
Grattacieli nei pressi di Bryant Park.
Bushwick, quartiere messicano con la pubblicità «Divorzio a 399 dollari».
Studio d’arte Tabla Rasa Gallery.
Alla fine finisco a lavare le verdure in un ristorante all’angolo, due ore ogni pomeriggio. Poi accetto la proposta di un amico interessato a lezioni private di italiano. È argentino con un nonno originario della penisola e vorrebbe chiedere la cittadinanza italiana. Intanto fa il traduttore di
«almeno un sorriso al giorno», come dice un ragazzo che si avvicina a una giovanissima senzatetto, offrendole un caffè all’angolo di Union Square. I miei progressi nel mondo del lavoro sono minimi: è difficile assumere uno straniero senza permesso di lavoro, nessuno si vuole esporre a possibili sanzioni. Alla fine riesco a lavorare per qualche settimana in un negozio di gioielli: dalle 13 alle 17, senza dare troppo nell’occhio, aiuto una commessa californiana nel reparto vasi e argenti. Alcuni scontrini arrivano a diverse migliaia di dollari, ma qui è normale. In questo modo trovo da mangiare e un posto dove dormire anche per il secondo mese. Passo il mio tempo libero facendo interviste e fotografie alle persone che mi sembrano interessanti. Dico loro che sto preparando un servizio giornalistico, ma forse è solo una scusa per ritrarre i personaggi di questa città incredibile.
Sullo sfondo, si indovina la statua della Libertà dopo un temporale estivo vista da Red Hook.
contenuti per Facebook. Resta incollato al computer dalle 8.00 alle 18.00, mangia pollo e beve mate. È un alunno diligente, dopo le nostre lezioni si appende in bagno le coniugazioni dei verbi e le ripassa spazzolandosi i denti. In tutto racimolo centocinquanta dollari alla settimana, un livello di sussistenza davvero minimo in una città così cara. Sono finita a dormire in un quartiere messicano, ai confini con il quartiere arabo della periferia estrema di Bushwik. Ho una microscopica stanzetta per un mese soltanto nell’appartamento di una ragazza messicana che lavora per una televisione cattolica. Altri se la passano anche peggio di me. New York è una città di broker, di artisti ma anche, sempre più, di senzatetto. In ogni angolo della città e lungo i marciapiedi è frequente incontrare qualche homeless, i compagni di quelli che ho visto il primo giorno; le associazioni di volontari cercano di offrire
A New York non conta il percorso ma il punto d’arrivo: scalare i vertici sociali, scrivere un libro, produrre un disco di tendenza, va bene tutto purché abbia successo. Ciò che sto imparando giorno per giorno lungo la strada – la sofferenza, l’amore, la tenacia – non sembra interessare a molti. Forse è solo apparenza, mi dico. Forse per scalfire questo strato di cinismo bisogna restare qui a lungo, entrare nelle case, abitare nei cuori delle persone. Ma io non ce la faccio. Sarà che vengo da una piccola città tra le Alpi, ma dopo due mesi sento la mancanza della natura, la puzza di gas diventa insopportabile, il rumore continuo dei condizionatori mi sembra un frastuono assordante. L’ultima notte resto in piedi fino alle sei di mattina e solo allora, alle prime luci dell’alba, New York si palesa in tutta la sua bellezza: lenta, silenziosa e amabile come una signora appena svegliata.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Ambiente e Benessere
Un grande grazie a Caterina Il vino nella storia Uno sguardo attraverso i banchetti delle grandi corti rinascimentali Davide Comoli Un invito alla sobrietà nel bere ci viene fornita da Pietro Aretino (1452-1556) personaggio famoso perché temuto dai potenti per le sue pasquinate licenziose e sferzanti che interpretavano lo scontento del popolo per la condotta del conclave seguito alla morte di Leone X. Conteso dalle grandi corti rinascimentali (Paolo III lo volle alla corte papale, i Gonzaga a Mantova, i Medici a Firenze), Pietro Aretino riteneva che i banchetti servissero per le relazioni sociali e per rinsaldare i rapporti con gli altri. Amava molto il vino e la sua cantina era notoriamente ben fornita; fu un gastronomo smodato, ma non un bevitore sfrenato e consigliava la moderazione se si voleva gustare appieno tutte le qualità del vino. In una lettera all’amico Jacopo Sansovino, detto il Tatti, famoso architetto e scultore dell’epoca dice: «Il vino temperatamente bevuto moltiplica le forze, cresce il sangue, desta l’appetito, fortifica i nervi, discarica la malinconia, desta l’allegrezza». Se fino verso il 1400 i vini italiani famosi non superavano la ventina, già nella prima metà del 1500 sembrava quasi di ritrovare tante qualità di vini quante Plinio ne aveva descritte nella sua Historia naturalis. Se pur brevemente, ecco riassunta la situazione vinicola delle regioni più prossime al Ticino. Che il Nebbiolo fosse già conosciuto in Piemonte lo dimostra una bolla del 1300 che minacciava i Canonici di S. Maria a Novara di scomunica perché tenevano Tabernam nel monastero stes-
Caterina de Medici con i figli, 1637. (Sailko)
so, ma già Pier de Crescenzi nel 1300 scriveva: «L’uva nibiola produce un vino ottimo da serbare e potente molto». Nel XV secolo un anonimo descrive il Resenium, l’antenato dell’odierno Arneis in questo modo: «Faceva uva buona da mangiare e vini atti a tagliare il Nebbiolo che così si faceva più leggero e morbido». Nel 1303 il Marchese di Clavesana rese obbligatoria in quel comune la coltivazione del Dolcetto e solo nel 1609 appare il nome Barbera; non mancano poi i bianchi tra i quali spiccano il Cortese e il Moscato. Avendo Genova un mercato in espansione, in città arrivavano vini dalle due riviere: da Dolceacqua arrivò un vino chiamato Rossese portato in Liguria dagli uomini di Andrea Doria (1466-1560) dopo una scorreria in territorio francese. Da Lerici e Portovenere
arrivarono le Vernacciole, il Vermentino e i Moscatelli, vitigni probabilmente importati in Italia durante la dominazione Aragonese alla fine del XIV sec. Ma già il Boccaccio (1313-1375) nel suo Decamerone cita la Vernaccia di Corniglia. In Lombardia i luoghi intorno ai laghi alpini sono importanti centri di produzione, ma Voghera in quel tempo era sicuramente il maggior centro di viticoltura lombarda. In Valtellina le uve Pignole vengono già menzionate da Pietro de Crescenzi e Ortensio Lando (1548) nel suo Commentario delle più nobili e mostruose cose d’Italia definendole: «L’archetipo di tutti i vini della valle». Grazie ai mercati di Bormio, il vino valtellinese trova sbocco verso i mercati svizzeri. Nel 1616, lo storico e diplomatico Giovanni Guler Von Weineck fa stampare a Zurigo un libro, Raetia, nel quale dice
tra l’altro che «I vini che si producono in Valtellina sono rossi e si preparano con grappoli sceltissimi. Essi sono buoni e gradevoli al palato e costituiscono una bevanda gradevole al palato e anche assai generosa salubre e opportuna… Essi sono limpidi e chiari come cristallo, generosi come l’acquavite…». Per chi fosse interessato a questo argomento consigliamo di consultare I vini italiani nel medioevo di Federigo Melis, stampato nel 1984 dall’Istituto Internazionale di Storia Economica «F. Datini» di Prato. Visto che siamo a Prato perché non accennare ai vini Toscani dell’epoca? Bianco famoso era già la Vernaccia di San Gimignano; altri bianchi provenivano dall’isola d’Elba e del Giglio, singolare il caso del Trebbiano di Montecarlo che alcune lettere datate 1492 dicono assai ambito a Firenze. In tema di rossi (che erano i più diffusi) abbiamo i robusti vini di Montepulciano, quelli di Cortona e i vini del Casentino un po’ più leggeri, più all’interno già emerge il Montalcino (il nome Brunello lo si ritroverà alla fine del 500). Il vino che darà fama alla Toscana appare alla fine del XIV sec. Molte sono le ipotesi sulle origini del nome Chianti, recenti studi affermano che il nome derivi dalla voce etrusca clanis l’antico nome del Mastallone affluente del fiume Arbia, che attraversa appunto la zona del Chianti. Da una lettera della contessa Isabella Guicciardini, 9 gennaio 1542, scritta al consorte, apprendiamo che: «Il Chianti mi piace assai e io non me ne diparto».
Nella Firenze inizio 1400 esistevano nel raggio di 3 miglia 90 spacci di vino tra taverne e venditori al minuto. Nel Rinascimento una delle figure più romanzate sotto l’aspetto che interessa alla nostra storia è Caterina de Medici, pronipote di Lorenzo il Magnifico. Caterina nacque a Firenze nel 1519. Personaggio molto importante nella storia e politica di quel tempo, fu madre di tre re di Francia e attraverso loro reggente per trent’anni. Secondo alcuni studiosi, Caterina è stata l’anello di congiunzione fra la civiltà rinascimentale italiana e quella francese (ma non tutti sono d’accordo). Bravissima a organizzare feste e balli, Caterina porta rinnovamenti alla corte di Francia anche in campo gastronomico, al suo seguito condusse maestri pasticcieri, cuochi e bottiglieri. A Firenze nel 500 già si producevano ottimi liquori profumando l’acquavite. I Rosoli, grazie a Caterina arrivarono in Francia e da allora Montpellier diventò un famoso centro di produzione di liquori. Infatti tra i suoi accompagnatori figurano i nomi di veri specialisti della distillazione come Arnaldo della Stufa, Rinaldo Montecuccoli e Luigi Alemanni, che scrisse un poema didascalico sul tema enologico che portò un avvicinamento tra le tecniche di vinificazione in uso in Francia e quelle Toscane. E fu grazie all’intervento di Caterina e del vitigno Trebbiano, portato con sé dalla Toscana, se oggi possiamo godere di quel meraviglioso distillato che è il Cognac, prodotto con il vitigno Ugni Blanc ovvero per l’appunto con il Trebbiano. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Ambiente e Benessere
I piatti? Sono i mattoni del mondo Una delle accuse che in molti, amici e non, mi fanno è quella di uno sfrenato eclettismo culinario, di non avere delle solide basi legate a un territorio o simili. E, sia chiaro, è un’accusa giustificatissima! Perché è proprio così: è vero. Parliamone un po’. Premessa: anni fa ho scritto anche questi due postulati sul mio eclettismo. Il primo postulato di Bay dice: i piatti sono i mattoni del mondo, più piatti conosci, più è grande la tua casa, se ne perdi qualcuno, è come una crepa nel muro della tua stessa costruzione. Il secondo dice: non chiedere mai quale piatto ti stanno preparando, è sempre un tuo piatto, il cuoco può essere più o meno bravo, e gli ingredienti utilizzati più o meno buoni, ma è sempre un tuo piatto. Un postulato, come è noto, è sempre valido ma non si può dimostrare. In questo senso devo onestamente riconoscere che un vecchio e amato amico che di nome e cognome fa John Donne mi ha dato un notevole aiuto nella formulazione del postulato. Ciò che mi ispirò di lui fu ciò che scrisse nel Seicento, cioè la sua meravigliosa poesia Per chi suona la campana, dalla quale Hemingway trasse il titolo di un suo celebre libro. Andate a cercarla, è «La» poesia più bella di sempre. Torniamo a noi. Non ho mai sofferto di sciovinismo culinario (e non solo culinario): è la cosa in assoluto più estranea al mio sentire che ci sia. E man mano che la mia passione per la cucina negli anni cresceva, oltre a imparare a cucinare e a raccogliere ricette italiane incominciai a raccogliere ricette, spunti, libri e quant’altro della cucina degli altri. Da subito, da sempre e per sempre convinto che i piatti si dividano in ben eseguiti e mal eseguiti, e che tutto il re-
sto, il Nostro Territorio, la Nostra Tradizione, i Piatti della Nonna e via dicendo siano concetti assurdi. Conta solo il talento di un cuoco e la bontà delle materie prime. Fra una mediocre pasta o risotto e una buona zuppa di montone mongola (è un piatto che amo molto) non ho mai avuto dubbi. Anni di viaggi, per lavoro e per piacere, sempre a caccia di buoni ristoranti, sempre curioso, hanno fatto il resto. Certo, viaggi non sistematici, la mia conoscenza delle altrui cucine è inevitabilmente casuale, a macchia di leopardo. Per questo motivo ho sempre utilizzato un bellissimo termine, «scorribande», che come dicono i dizionari sono una breve e rapida incursione in territori altrui – una definizione perfetta, dato che ho, sì, viaggiato tanto ma ho sempre abitato a Milano. Inevitabilmente conosco l’Europa meglio degli altri continenti. Amo l’Asia e il mondo arabo e per anni mi sono spinto in quelle lande. Sono andato molto spesso in Africa e negli Stati Uniti e ho lavorato per sei mesi in Giappone. Non sono mai stato in America Latina – mi dispiace, ma capita – per cui la mia conoscenza di quella cucina me la sono fatta in Europa e negli Stati Uniti, ed è pertanto inevitabilmente parziale. L’origine di tutto questo fu la mia prima grande cena che consumai con gusto. Mi trovavo a Londra, da Simpson’s: avevo sette anni, la ricordo ancora perfettamente. E oggi il risultato delle mie incursioni è sintetizzato nel postulato al quale ho dato il mio nome. Una nota finale: non sono obiettivo, per nulla. Vivo di passioni per la buona cucina, per cui alcune cose, non so perché, le amo di più, altre non mi piacciono, senza motivi apparenti. E per quello che amo sono capacissimo di chiudere, a volte, non sempre, qualche occhio, ma questo è terribilmente umano, di più, chiunque scrive lo fa.
CSF (come si fa)
Arunabha Goswami
Allan Bay
Nic McPhee
Gastronomia I postulati eclettici dell’autore di questa rubrica
Nell’articolo principale di questo nostro spazio ho citato la zuppa di montone alla mongola. Vediamo come si fa. Dato che c’è abbastanza spazio, ho aggiunto anche un gustoso piatto di manzo alla mongola. Della cucina mongola vi avevo scritto qualche anno fa, ma non vi avevo dato delle ricette. Eccole. Zuppa di montone alla mongola. Ingredienti per 4 persone. Pelate 3 pata-
te e tagliatele a dadini. Mondate 2 cipolle, 1 carota e 1 rapa e spezzettatele grossolanamente. Tagliate 600 g di montone a dadi e rosolateli in una casseruola in un filo di olio o (molto meglio) 1 noce di strutto. Aggiungete le verdure, mescolate e coprite con 2 litri di brodo di pollo o brodo fatto con le ossa e gli scarti del montone, bollente. Lasciate sobbollire per… dipende dal montone, diciamo da 1 a 2 ore. Unite 250 g di spaghetti cinesi (ma se volete utilizzare dei vermicelli nostrani, meglio se all’uovo) e completate la cottura per il tempo indicato sulla confezione degli spaghetti, che in alcuni casi vanno ammollati in acqua: se è scritto sulla confezione fatelo. Servite in ciotoline, prendete il cibo con le bacchette e alla fine gustate il brodo bevendo direttamente dalle ciotole.
Manzo alla mongola. Per 4 persone. Tagliate 600 g di noce di manzo a fettine sottili. Preparate una marinata mescolando insieme un abbondante cucchiaio di salsa di soia, 1 abbondante cucchiaio di vino aromatico o vermut dry, 1 cucchiaio abbondante di aceto e 1 cucchiaio di zenzero grattugiato. Coprite le fettine di carne con la marinata. Lasciate in infusione per almeno 15’ poi sgocciolate bene. In una casseruola scaldate 1 filo di olio e saltate le fettine, rigirandole velocemente. Dopo 2’ scolate la carne e tenetela in caldo. Aggiungete 4 cipolle tagliate fini e 2 spicchi d’aglio, cuocete per 5’, unendo se necessario poco olio. Unite poi 1 cucchiaio di semi di sesamo, la carne e una bella macinata di pepe nero. Regolate di sale. Servite con riso bollito.
Ballando coi gusti Oggi ancora gnocchi. Un piatto è al sugo di noci, che adoro, e l’altro è composto dagli eleganti gnudi.
Gnocchi ai semi di lino con sugo di noci
Gnudi di fagiolini
Ingredienti per 4 persone: 300 g di farina di grano saraceno · 200 g di farina 00 · 4 cucchiai di semi di lino · sale e pepe. Per condire: gherigli di 16 noci sbucciati · 60 g di ricotta · 2 fette di pancarrè · latte · aglio · olio di oliva · sale e pepe
Ingredienti per 4 persone: fagiolini g 800 · ricotta g 400 · 2 uova · 1 tuorlo ·
Pestate in un mortaio un terzo dei gherigli, il resto spezzettatelo. In una ciotola mescolateli con il pancarré privato dei bordi, ammorbidito in poco latte e strizzato, 1 spicchio di aglio mondato e tritato, la ricotta e 4 cucchiai di olio. Alla fine unite, se necessario, poca acqua bollente per avere una salsa fluida e regolate di sale e di pepe. Setacciate insieme le due farine e impastatele con acqua tiepida, aggiungete i semi di lino (poco) pestati e un pizzico di sale fino a ottenere un composto omogeneo. Coprite con un canovaccio e lasciate riposare per 30’ in un luogo fresco. Con l’impasto su una spianatoia infarinata formate degli gnocchi e infarinateli. Cuocete gli gnocchi in acqua salata bollente e raccoglieteli con una schiumarola man mano che salgono a galla. Conditeli con la salsa di noci, mescolate e servite immediatamente.
Spuntate i fagiolini, cuoceteli al vapore per 15’, scolateli e tritateli. In una ciotola mescolateli con la ricotta, le uova, il tuorlo, la farina, il formaggio, il pangrattato, sale, pepe e noce moscata. Fatelo riposare in frigorifero per 30’. Trasferite il composto sulla spianatoia infarinata, formate degli gnocchi. Portate a bollore abbondante acqua salata e cuocetevi gli gnudi; scolateli con il mestolo forato man mano che vengono a galla, trasferendoli in una terrina. Conditeli con burro fuso profumato con qualche foglia di salvia.
100 g di farina · grana grattugiato g 100 · salvia · 2 cucchiai di pangrattato · noce moscata · burro · sale e pepe
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Ambiente e Benessere
Vince la tecnica o l’emozione? Biliardo Tra i campioni della stecca si distinguono due grandi categorie di giocatori
Jacek Pulawski, testo e foto Sono molti i giocatori di biliardo che hanno una buona consapevolezza di quello che succede a un tavolo da gioco. Perché il biliardo è fatto anche di tecnica: non di rado questo tipo di giocatore durante una partita presta attenzione a molti dettagli; dalla forza che un colpo richiede, alla postura del corpo così come l’armonia delle angolazioni adatte alla simmetria del colpo stesso. Di solito escogitano una serie di movenze che anticipano un colpo, per garantirsi una prestazione regolare nell’arco di un torneo intero. Un insieme di gesti che vengono eseguiti in modo mirato e preciso: nel loro gioco non c’è spazio per il caso. Questo tipo di giocatori li ho chiamati «giocatori tecnici», in quanto della tecnica e della meccanica ne fanno una priorità.
Esiste però una seconda categoria di giocatori: quelli che si fanno trascinare dalle emozioni. I «giocatori emotivi» confidano nella loro mente e nel corpo. Credono di essere in grado di adattarsi alla situazione che si presenterà man mano che disputano un’incontro. Non sono consapevoli di come il tutto avviene e non gli importa nemmeno il perché una certa giocata sia stata eseguita in un determinato modo. Tale caratteristica fa apparire il loro gioco più rilassato e fluido. I più grandi campioni della stecca sembrano appartenere a questa categoria. Quando li osserviamo all’opera ci sembra di assistere a «un gioco da ragazzi» mentre in realtà si tratta di un estro riservato a pochi. Confrontando entrambi gli stili appare chiaro che i «giocatori tecnici» arrestano il loro potenziale di crescita a causa di un’eccessiva prudenza e rigidi-
tà. Dal canto loro, quelli «emotivi» non evolvono a causa via di un deficit nella tecnica dovuto alla spensieratezza con la quale affrontano le loro partite. Il rimedio per entrambi rimane certamente l’unione dei due stili. E così a volte capita che – non essendo delle macchine – i «giocatori tecnici» riescano a trasgredire alle loro regole di ferro, affidandosi alle sensazioni. Ed è a questo punto che riescono a sviluppare le loro idee, affidandosi all’istinto per ingannare la staticità mentale. Come disse Sun Tzu: «Una volta colte, le opportunità si moltiplicano». Questa sensazione si riferisce soprattutto ai giocatori tecnici poiché sono principalmente loro a trascorrere il tempo ad analizzare i molteplici dettagli sul come ad esempio posizionare i piedi o semplicemente bilanciare il corpo durante la partita. Secondo gli esperti, per cogliere al meglio l’attimo della stoccata bisogna abbandonare le vecchie abitudini. Il segreto starebbe nel condensare l’intera esperienza e, quando arriva il momento, mettere tutta l’energia per raggiungere il desiderato scopo. Una parafrasi di un detto agonistico del ramo suona nel modo seguente: «Giaci in silenzio e lasciati trasportare dal gioco». Non è da escludere che molti «giocatori tecnici» se da un lato potrebbero invidiare quelli «emotivi» per la facilità, la confidenza e la naturalezza delle loro giocate, dall’altro avranno il timore di rinunciare al proprio stile. Come per ironia, allo stesso tempo i «giocatori emotivi» avranno di certo il desiderio di assimilare maggior conoscenze tecniche, incluse tutte quelle movenze dinamiche sui quali potrebbero fare affidamento durante un incontro importante, senza tuttavia trasformarsi in puri tecnici. Per questo, forse, si sente spesso dire che tutti gli aspetti tecnici del bi-
liardo non servono a nulla, siccome, in fin dei conti, i pallini devono fare punti. Dopo aver assistito a diverse partite di serie A, credo di poter presupporre che ogni giocatore dovrebbe almeno una volta rinunciare al proprio stile di gioco per dedicarsi a quello
opposto: un esercizio per raffinare la propria personalità di gioco. Informazioni
Il servizio fotografico è stato possibile grazie alla gentile concessione e disponibilità del Club Leone di Chiasso.
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Ambiente e Benessere
La famosa multispazio francese diventa elettrica
Motori L’ultima evoluzione della Berlingo si chiama Citroen e-Berlingo Multispace e va ad affiancare le auto
a emissioni zero della Casa automobilistica Mario Alberto Cucchi Nato nel 1996 dalla matita italiana della carrozzeria Bertone e sviluppato dal Centro Stile Citroen, ha spiazzato la concorrenza sin da subito. Stiamo parlando del Berlingo. Per meglio definirlo, il Gruppo francese nato dall’unione di Peugeot e Citroen si è inventato una nuova nicchia di segmento che ha chiamato ludospace, pensando ad auto a metà tra il monovolume e il furgone. Il successo di Berlingo è testimoniato dalla sua longevità e dai quasi
tre milioni di esemplari venduti. Oltre vent’anni di vita, anche se il modello attuale, pur mantenendo la filosofia, è ben diverso dalla prima serie. L’ultima evoluzione si chiama Citroen e-Berlingo Multispace e va ad affiancare le auto a emissioni zero della Casa francese: la C-Zero, la E-Mehari e il Berlingo Van full electric, ovvero la versione commerciale. Anche Berlingo multispazio diventa elettrico, senza però perdere le caratteristiche che l’hanno reso famoso. Confermata l’ampiezza del bagagliaio che ha una capacità che va da 675 a 3mila litri se
vengono rimossi i sedili posteriori e si carica sino al tetto. Praticità, abitabilità e modularità sono quelle di sempre, ma ora si potrà scegliere tra le varie motorizzazioni anche quella a emissioni zero. Sotto il cofano, un propulsore elettrico compatto ad alte prestazioni da 67 cavalli. Ad alimentarlo ci pensano due pacchi di batterie agli ioni di litio dalla capacità di 22,5 chilowattora. Questi ultimi sono stati posizionati nel sottoscocca in modo da non rubare spazio ai passeggeri e non alzare il baricentro.
Grazie al sistema rapido bastano 15 minuti per ricaricare a metà le batterie agli ioni di litio L’autonomia è buona anche se non eccezionale: 170 chilometri. Va detto che la maggior parte degli automobilisti europei non percorrono più di 100 km al giorno. Insomma va bene nell’utilizzo quotidiano, ma per i lunghi viaggi bisogna prevedere delle soste per caricare le batterie. Ma è qui che e-Berlingo stupisce. Utilizzando il sistema di ricarica rapido, bastano 15 minuti per riempi-
re mezzo serbatoio di energia. I minuti diventano 30 per l’80 per cento. I tempi per una ricarica completa vanno invece dalle 8 alle 15 ore a seconda della stazione di ricarica utilizzata. E l’affidabilità? La batteria è garantita per 8 anni o 100mila chilometri, mentre la catena di trazione elettrica per 5 anni o 50mila chilometri. E le prestazioni? La coppia è pari a 200 Nm, quindi simile a quella di un diesel da 1600 cc. Ma la differenza è che con il propulsore elettrico è immediatamente disponibile e ne deriva un’accelerazione più immediata e lineare grazie anche al cambio a mono rap-
porto con presa permanente. Semplice come un automatico. A bordo di e-Berlingo, il cui arrivo nelle concessionarie europee inizierà a partire dal prossimo mese di maggio, si può contare anche su numerosi sistemi dedicati a migliorare la sicurezza come la telecamera di posteggio posteriore, il sistema di rilevamento della pressione degli pneumatici, il controllo elettronico della stabilità. Tra le chicche tecnologiche il pre-condizionamento termico comandabile da smartphone o computer per scaldare o raffreddare l’abitacolo in anticipo sul proprio arrivo. Annuncio pubblicitario
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Giochi per “Azione” - Aprile 2017 Stefania Sargentini
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Ambiente e Benessere
L’isola dei(N.cavalli 13 - ... girasoli, mais e saggina) Mondoanimale Appassionati ticinesi stanno sostenendo a distanza
1 2di Capo 3 4 Verde 5 l’allevamento di questi animali nell’arcipelago 7
Maria Grazia Buletti «Ci sono novità strepitose! Abbiamo salvato un cavallo con una “visita a distanza”; i ragazzi sono stati molto bravi e hanno seguito tutte le nostre indicazioni! Il cavallo sta già meglio a pochi giorni dall’intervento» è la recente telefonata che riceviamo dal veterinario Stefano D’Albena, specializzato in cavalli, che esercita insieme alla collega Francesca Caporelli. «Abbiamo visto dal video il cavallo sdraiato e abbiamo pensato potesse trattarsi di una colica. Poi, con le nostre indicazioni, i ragazzi ci hanno permesso di visitare l’animale e di comprendere che si trattava di qualcosa di ben diverso, probabilmente di neurologico, e abbiamo dato indicazioni per una terapia mirata che già sta dando i suoi frutti». Una «visita a distanza», seppure azzeccata, non è figlia della pigrizia di un veterinario poco professionista che non vuole recarsi a visitare il suo pazientecavallo. Il relativo entusiasmo riguarda il fatto che il paziente in questione si trova sull’Isola di Capo Verde e non è semplice, da Lugano, riuscire a dare una mano per risolvere una situazione patologica drammatica nella quale si teme addirittura di perdere il cavallo. A Capo Verde non c’erano i cavalli, un tempo. In mezzo al mare la vita è molto diversa dalla nostra e trovare farmaci e medici per gli animali non è cosa facile. Solo qualche settimana prima avevamo incontrato i veterinari D’Albena e Caporelli proprio per parlare di quei cavalli, del loro perché e soprattutto del prezioso aiuto che i due medici sono riusciti a dare per migliorare la qualità di
Giochi Cruciverba Forse non tutti sanno che Venezia ha… Termina la frase leggendo a soluzione ultimata le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 24, 5)
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vita di questi equini che rappresentano 9 anche una fonte di sostentamento della popolazione locale. 11 «I cavalli si adattano tantissimo all’ambiente che li ospita e l’esperienza che stiamo vivendo cavalli di Sal 13 14 15con i16 è un ottimo insegnamento anche per noi». 18 Siamo nell’Arcipelago di Capo Ver-19 de, un grappolo di isole di origine vulcanica è 20 nell’Oceano Atlantico. Il clima 21 caratterizzato da siccità, terreno arido e ventoso, senza prati erbosi e con poca 23 24 acqua: «Eppure ci sono i cavalli! Sono di derivazione portoghese (lo sbarco dei 27 navigatori portoghesi risale al 1460) e sull’isola di Sal se ne contano una decina circa». Stefano e Francesca si chiedono innanzitutto come sopravvivano questi equini, cosa mangino, come vengano accuditi e curati. «Il fieno è utopia, per 1 l’acqua 2 bisogna 3 4 parecchio 5 trovare darsi da fare e importare dalla terra ferma fieno, 9 cereali e il necessario per l’accu- 10 dimento e il sostentamento di questi animali sarebbe dispendioso». I due ve12 familiarizzano con i proprietari 13 terinari degli animali e comprendono quanto essi 15 tengano ai loro cavalli: 16 «Per loro sono un bene prezioso, in quanto veri e propri collaboratori: sull’isola i più fortunati lavorano nel18turismo, altri si arrangiano come possono, e chi ha i cavalli si dà20 da fare21 per portare a spasso i turisti, vivendo di questo». Poi si adoperano per dare loro una 23 24 mano: «Bisogna pensare che lì non c’è nulla delle comodità che a noi paiono 25 dei ovvie per il sostentamento e la cura cavalli». Azioni quotidiane come la cura degli26zoccoli operata dal maniscalco, il
controllo dei denti da parte del veteri10 nario dentista, le cure veterinarie di base (suture o medicazione di ferite, vaccina12 gravidanze e parti) non zioni, malattie, sono scontate. Il problema nasce già dal17 cibo: «Quando si arriva lì, si capisce subito che non c’è nulla e loro ovviano alla carenza di fieno e nutrienti per il cavallo attraverso un unico prodotto che noi abbiamo studiato a fondo per poter ottimizzare l’alimentazione di22questi equini». D’Albena racconta che questo «ammasso di polvere» arriva dal Brasile 25 26 e assomiglia a uno «sfarinato» nel quale è tritata fibra d’erba e fieno: «Essa viene mischiata con quel bene28preziosissimo che è l’acqua, per procurarsi la quale macinano chilometri in bicicletta, sulla quale caricano 40/50 litri alla volta per i loro cavalli». Stefano e Francesca studiano qualche preparato vitaminico a complemen7 ma comprendono 8 to di questo6 pastone, presto che le esigenze di questi cavalli vanno 11 ben oltre: «Ad esempio, non hanno mai ricevuto un vermifugo, e noi proviamo a provvedere costantemente 14 a inviarne; bisognava controllare, limare e aggiustare i denti (la dentatura sana e funzionale è essenziale per la mastica17 zione del cavallo), pareggiare gli zoccoli, curare le ferite che con quel clima (e sen19 za disinfettanti e antibiotici) non guariscono facilmente come da noi; controllare22 le gravidanze, castrare gli stalloni, altrimenti costretti a stare sempre chiusi perché il clima favorisce il continuo estro delle giumente e così via…». Mai avremmo immaginato una realtà così complessa, nella quale i cavalli si sono adattati in modo esemplare. Ce lo mostrano le fotografie (vedi il servizio
M A I N
A M P I A G O A
SUDOKU PER AZIO
completo su www.azione.ch) dei nostri interlocutori: quei cavalli sono molto belli e ben tenuti, assolutamente ben accuditi («i ragazzi se ne occupano con orgoglio e cercano di non far mancare loro nulla, nel limite delle loro forze»). Con entusiasmo e la consapevolezza di dare 6 aiuto come è possibile a1questi cavalli che si confrontano con una vita parecchio aspra, i due veterinari ci indicano ciò di cui più necessiterebbero: «Siccome laggiù manca tutto, pensiamo possa5 no far comodo semplici bende da lavoro che potrebbero fare le veci di bendaggi 3 6 e medicazioni di ferite, vaccini (importantissimi come le paste vermifughe), preparati vitaminici, medicine per equini (anche scadute) e quant’altro». 9 Nel mostrarci una realtà molto differente da quella in cui siamo soliti im-
A T I P I C I T A
L L U N. 9 I E N M O E B R E U O R O N E D N A T
maginare il cavallo, D’Albena e Caporelli raccontano che laggiù sono i benvenuti tutti quelli che possono dare una mano («Un maniscalco che insegni loro a pareggiare gli zoccoli, ad esempio»), insieme al materiale che si potrebbe raccogliere tramite loro, disposti a recarsi 7 8 a Capo Verde per dare periodicamente continuità a questa solidarietà verso equini che si meritano 2un miglioramen4 to della loro qualità di vita: «Chi volesse prendere contatto con noi,1lo può 4 7 fare contattando l’Equine Veterinary Service (078 622 15 13, 076 328 15 13 o scriverci 9 7 a sdhorsevet@gmail.com). Un concreto aiuto ai «cavalli nel vento» di queste isole 9sogno, che con il loro spirito di adatda tamento stanno insegnando parecchio 4 cura dei nostri anche a chi si5prenderà equini.
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34. Due lettere di Tiziano 35. Nei nomi propri composti VERTICALI 1. Parte di somma ripartita 2. Le iniziali dello scrittore Saba 1 battuta 2 vincente... 3 4 3. Una 4. Misure per bevande 5. Desinenza verbale 11 in speck 7. Due 8. Fiume del Piemonte 9. Porta 13 informazioni genetiche 14 10. Numero delle ossa del carpo 12. È perso senza limiti 16 scrittore Umberto 17 15. Lo 18. Anno a Parigi 20. «Viaggio» burocratico 22 22. 21 Famoso ippodromo inglese
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Sudoku
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Q U AN. 10 L MEDIO E T Scoprire i 3 numeri U S C I R E 9 corretti da inserire nelle caselle O E 9T E R 5E colorate. Giochi per “Azione” - Aprile 2017 TStefania A Sargentini R S 6C 8 A N S I A O 1 G I O R S G I Q A 7 E L L A D M C S E I P OU P O 8 5 T O R E N I O I L L I M B O M A R E A I S A R T E D I O T ZG E L I C E 6 S A R Soluzione:
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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I O R G I L L A D E I P O O R E N M A R E T E D I O E S A R S S E G T I A N
(N. 14 - ... alle venti, massimo alle venti e trenta)
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ORIZZONTALI 1. Correlativo di tale 6. Un anagramma di torte 11. Andare all’esterno 13. Il filosofo della «Ragion pura» 14. Una via per onde elettromagnetiche... 16. Sigla di Network Address Translation 17. È finita in fondo... 19. Una traccia nell’aria 21. Rende irrequieti 23. Sacca per liquidi 25. Le iniziali del poeta Quasimodo 27. Dio sbuffante 29. Riccardo I lo era di Leone 31. Le iniziali dell’indimenticabile Presley 32. Antica lingua francese 33. Primo cardinale inglese
L I E T A
G E S T B O R C M I I S
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E T R O 7K A 2 N T 3 N A 8 T6 I 2A O 9 T R E 7 9 5 E O L O 4 3 R E P 6 O N E 1 G I A7 N 8
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T A M I S S E G O 24. La Sofia Ricci 27 28 SUDOKU PER AZIONE A M N I S T I A N A - APRILE 2017 26. Nei giochi in tv Soluzione della settimana precedente 28. Aperto a Londra POVERO MASSIMO! – Massimo a cena arriva sempre per ultimo perché si dice: N. 9 FACILE e nel fascicolo tuttiSchema a cena alle venti: … MASSIMO ALLE VENTI E TRENTA». (N.30. 14Nel - ...volume alle venti, massimo alle venti«Venite e trenta) Soluzione 33. Due di voi 1 2 3 4 5 6 7 8 6 7 8 9 1 4 6 2 7 8 5 9 3 1A10L 6L U 7C 8E V E N A
N. 11 DIFFICILE
(N. 16 - Caldo letto e cene corte, vita lunga, sana e forte)
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Politica e Economia Presidenziali francesi A pochi giorni dal primo turno, tutta l’attenzione è puntata su Emmanuel Macron, l’uomo che potrebbe ridare slancio alla sinistra pagina 19
I decreti economici di Trump Stiamo assistendo alla fine della globalizzazione americana e forse di conseguenza all’inizio di una globalizzazione a egemonia cinese? Presto per dire se il protezionismo di Trump acceleri il declino Usa
I negoziati si sbloccano A sorpresa, Jean-Claude Juncker e Doris Leuthard annunciano la ripresa dei colloqui tra Svizzera e Unione europea
Il sogno di una casa propria Diventa ancora più difficile in Svizzera acquistare un’abitazione, soprattutto per le giovani famiglie
Macron, En Marche!
Fra i libri di Paolo A. Dossena
Presidenziali È l’uomo del momento in Francia e nel continente, per la sua agenda
riformatrice, liberale ed europeista
pagina 20
Paola Peduzzi
pagina 21
AFP
pagina 21
Emmanuel Macron è l’uomo del momento in Francia, con i suoi pochi anni e un’agenda riformatrice, liberale, europeista. Nessuno credeva che questo trentanovenne ex banchiere, ex funzionario dell’Eliseo, ex ministro dell’Economia, nessuna elezione vinta all’attivo potesse diventare la chance di riscatto cui s’appiglia un continente intero. Parlare bene dell’Europa sembra una follia, è stata una follia per anni e anni, ma oggi Macron, con quel suo viso affilato, è diventato «un patriota europeo», come scrivono i giornali francesi, il guardiano di un ordine che, tra Brexit e Donald Trump, sembrava destinato al collasso. L’Europa ci protegge, ripete Macron, con uno slancio degno di settant’anni fa, quando ancora il progetto europeo non aveva illuso e disilluso i cittadini: ai comizi ci sono tante bandiere blu con le stelle dorate, e anche nel quartier generale del candidato di En marche! e nei banchetti che stanno riempiendo tutta la Francia sventolano gloriose. Questo alimenta le attese di tutto il continente che va a caccia di una buona notizia e anche di una nuova occasione, magari la possibilità di federare nuove ed effervescenti forze neoeuropeiste come prima risposta collettiva al neonazionalismo.
Trump punisce Al-Assad
Tragedia siriana L’attacco chimico di Khan Shaykhun scatena la reazione militare americana e riporta in primo
piano la dimensione di un conflitto che si trascina dal 2011. Ma che da oggi forse è a una svolta Lucio Caracciolo La strage di Khan Shaykhun, cittadina del Nord-Ovest siriano, provocata secondo i ribelli da un attacco chimico a opera dell’aviazione di Bashar al-Assad, ha riportato l’attenzione mediatica sul massacro infinito che dal 2011 infuria in ciò che resta della Siria. Ma soprattutto ha scatenato l’immediata reazione degli Stati Uniti che nella notte di giovedì hanno lanciato da due navi americane di stanza nel Mediterraneo 59 missili cruise verso la base aerea siriana da cui si presume sia partito l’attacco con armi chimiche (foto). Nell’annunciarlo durante una conferenza stampa lampo, Trump ha detto che al-Assad ha ignorato gli avvertimenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu. E ha lanciato un appello affinché «tutte le nazioni civili si uniscano a noi nel cercare la fine del massacro e dello spargimento di sangue in Siria, e anche la fine del terrorismo di tutti i tipi». Sembra che gli Stati Uniti siano tornati ad essere il gendarme del mondo, sarà la svolta per la Siria? Limitiamoci per ora ad analizzare lo scenario strategico in cui si compie questa
guerra. Con una premessa: il caos sul terreno è totale, al punto che gli stessi combattenti non sono spesso in grado di distinguere chi hanno di fronte. La confusione è poi accentuata dalla diffusione di bande criminali, che prosperano sulle disgrazie altrui e traggono lauti profitti dalla continuazione del conflitto, attraverso ogni genere di traffici. L’unica certezza è l’entità del massacro: almeno 300 mila morti, forse molti di più, 8 milioni di sfollati interni, 5 milioni di profughi (di cui almeno un paio di milioni in Turchia, bloccati dal fragile accordo Merkel-Erdoğan), su una popolazione stimata attorno ai 23 milioni prima della primavera del 2011, inizio della tragedia. La prima dimensione strategica del conflitto riguarda l’inestinguibile ostilità fra Arabia Saudita e Iran. Stati nemici, per almeno tre ordini di motivi. Anzitutto, la politica: per Riyad la rivoluzione islamica del 1979, come qualsiasi dinamica politica interna al mondo musulmano, è minaccia esistenziale. Motivo per il quale i sauditi detestano a pari titolo i Fratelli musulmani, colpevoli di voler azzardare qualche forma di democrazia islamica.
In secondo luogo, l’etnia: arabi contro persiani. Niente di più diverso e di meno conciliabile. Infine, la confessione: gli iraniani sono in grande maggioranza sciiti, e si offrono come leader di un arco di correligionari esteso dal Mediterraneo al Golfo Persico, fino all’Asia centrale; i sauditi sono sunniti, aderenti alla versione radicale del wahhabismo, e si intitolano la leadership dei loro affini in tutto il mondo arabo, ma anche oltre. Di più, una corposa minoranza sciita abita la provincia orientale del regno. E la corte saudita la considera una quinta colonna iraniana, trattandola di conseguenza. Di questo incrocio di rivalità la Siria è il punto di caduta. Il regime di Bashar al-Assad è infatti riconducibile a quella che i sunniti considerano una variante particolarmente deplorevole dello sciismo, la molto esoterica setta alauita. Inoltre, anche per questo Damasco è considerata da Teheran una pedina assai utile, pur se non pienamente affidabile, per estendere la propria sfera d’influenza verso il Mediterraneo. Alla coppia Iran-Arabia Saudita occorre sommare, sul teatro siriano, un altro strano duetto, quello formato
da Russia e Turchia. La prima è scesa in campo con al-Assad e i suoi protettori iraniani – rafforzati dalle formazioni militari dello Hezbollah libanese – per varie ragioni: segnalare il suo rango di potenza mondiale, distinguersi dagli americani per la fedeltà agli antichi sodali (la famiglia al-Assad è da quasi sempre nella sfera di Mosca), ottenere basi militari sul Mediterraneo. La seconda, oggi provvisoriamente legata ai russi, ha promosso con i sauditi la guerriglia contro il regime di Damasco, nella speranza di ricostituire un suo piccolo impero neo-ottomano nel Levante arabo. Sullo sfondo, le potenze occidentali, in prima linea Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, hanno cavalcato la rivolta siriana per mettere in difficoltà l’Iran, loro avversario (anche in quanto nemico di Israele). E per questo hanno supportato non solo i ribelli «moderati», ma anche gruppi jihadisti che appartengono alla galassia di al-Qaeda, e inizialmente hanno tollerato lo stesso Stato Islamico. Chi vince e chi perde? Fino a giovedì vinceva al-Assad e con lui i suoi sponsor esterni, anzitutto Russia e Iran. Perdono i ribelli di ogni colore, a parti-
re dallo Stato Islamico e da altri gruppi jihadisti. E con loro Arabia Saudita, Turchia e le potenze occidentali. Resta da stabilire ora in che misura l’attacco di Trump cambierà i rapporti con alAssad, fino ad ora accettato come realtà di fatto, con cui fare i conti per una soluzione politica e per combattere lo Stato Islamico. Il punto è semmai che cosa resterà della Siria. In senso materiale – alcune città sono semidistrutte, compresa la un tempo splendida Aleppo. Sotto il profilo umano, stante che gran parte della popolazione è fuggita. Vero che molti siriani in esilio amerebbero rientrare in patria, ma in quali case? Con quali prospettive? Sotto il profilo geopolitico, la Siria è finita per il tempo prevedibile. Al suo posto, ammesso che le armi si plachino in tempi non estremi, una costellazione di feudi, probabilmente amministrati da potentati e milizie locali. Si possono già oggi individuare diverse macroregioni, di cui la principale è l’Alauistan, o «Siria utile», tra l’asse Damasco-Aleppo e il mare. Al-Assad avrà pure vinto, ma la Siria, e i siriani, hanno straperso.
C’è chi vuole credere in questa esperienza unica e rivoluzionaria di En Marche!, che fino a poco tempo fa era più un vezzo che un’alternativa strategica Il problema è che da un anno a questa parte le illusioni di élite e media sono state molte ed esagerate, e oggi l’azzardo è un lusso difficile da concedersi. Sarà un’altra bolla, Macron? Questa è la domanda che tutti si fanno a Parigi. C’è chi vuole credere in questa esperienza unica e rivoluzionaria: En Marche!, il partito di Macron, fino al settembre scorso era più un vezzo che una alternativa strategica. Macron era ancora ministro dell’economia e decise di fare «un’esplorazione» della Francia, con una marcia, per valutare paure e desideri dei cittadini e capire che cosa offrire. Macron voleva di fatto dire ai socialisti: non starò con voi, visto che voi non mi volete (la sua legge sulle liberalizzazioni era stata annacquata in Parlamento in tanti, brutali scontri personali e ideologici). Invece ora, con la sua naturale e informale improvvisazione, è alle prese con una missione grandiosa, quasi impossibile: costruire dal nulla una nuova classe politica. Se dovesse riuscirci, Macron diventerebbe immediatamente un modello da imitare, e anzi un po’ lo è già vedendo le delegazioni di partiti europeisti che vanno a guardare com’è e come funziona il quartier generale di En Marche!. C’è però chi resta scettico perché la proposta macroniana è sì sorprendentemente popolare, ma non rappresenta lo spirito prevalente nel Paese. La scorsa settimana c’è stato un dibattito televisivo con tutti i candidati, anche quelli minori, undici persone sul palco in prevalenza convinte che il destino francese sia slegato dal resto del continente, che l’Europa sia un fardello di cui è bene
Emmanuel Macron, liberale e europeista, incarna le speranze di rinascita di una nuova classe politica. (AFP)
liberarsi in fretta per investire su un ripiegamento. Questo è il clima francese, checché ne dicano gli «insurgent» liberali che sostengono il contrario, sicuri che questo sia il momento della verità per i francesi, e che non ci saranno troppe sbavature. Sfogliando i giornali, ascoltando i commentatori, rileggendo quel libro-sensazione del giovanissimo Edouard Louis che racconta la sua adolescenza disagiata e l’elettorato di Marine Le Pen (s’intitola Storia della violenza), l’insofferenza si può toccare con le mani, è nei dati di un’economia asfittica, è nei calcoli di una classe politica tradizionale poco ammirevole, è nella paura del terrorismo e del diverso. Il nazionalismo ha, in tutta Europa, radici antiche e ragioni diverse, ma finisce per esprimersi nello stesso modo, con un ripiegamento rabbioso, in cui tutto l’esistente pare soltanto creato per generare diseguaglianze e perpetrare inefficienze. La Francia non fa eccezione, anzi: il Front national di Marine Le Pen oggi si culla nella certezza – per quanto di certo non ci sia mai nulla – di arrivare al secondo turno delle presidenziali. I paragoni con il 2002, l’anno in cui il padre di Marine si giocò al secondo turno la presidenza contro Jacques Chirac, non reggono. Allora la qualificazione del Front fu una sorpresa agghiacciante, la scoperta che le divisioni nella sinistra francese avevano creato un vuoto talmente grande da permettere a una forza estrema di riempirlo: il fronte repubblicano anti Le Pen si creò in due settimane, solidissimo, e anche se tuttora molti a sinistra dicono sconsolati «ho dovuto votare per Chirac, sono pronto a tutto», il sollievo allora fu grande. Oggi la Le Pen è una forza consolidata, e anzi, a ogni dibattito tv è sempre più evidente che lei non viene considerata come un corpo estraneo, come una intrusa, tutt’al contrario: è un candidato come un altro. Questa normalizzazione – che è il grande successo di Marine, per quanto la base storica storca il naso – permette al Front national di essere la forza numero uno da sfidare e gli concede anche l’onore di stabilire che dimen-
sione può avere la vittoria. Se Marine Le Pen supera il 30/32 per cento al primo turno, il suo successo sarebbe grandioso (i suoi attivisti dicono scherzando, ma nemmeno troppo, che si vince già al primo turno, 50,1 per cento e arrivederci tra cinque anni) e la formazione di un fronte a lei contrario diventerebbe immediatamente emergenza.
Rispetto al 2002 la Le Pen è consolidata. E l’occasione di Macron è proprio quella di creare un argine contro il Fn, che attiri sia forze di destra che di sinistra Anche questo infatti è cambiato dal 2002: c’è oggi un candidato in grado di creare un’alleanza anti Le Pen? Ce n’era uno naturale, ed era François Fillon, candidato dei Républicains, ma la sua campagna elettorale è stata un disastro. Molti scandali, l’immagine deteriorata di un leader attaccato al denaro e al potere, un elettorato anziano, poca mobilitazione: questi sono gli ingredienti del collasso di Fillon, secondo quanto rilevano i sondaggi. Ma se è vero che non c’è nessuno che creda ancora nelle possibilità di Fillon, è anche possibile che questo crollo sia oggi sovrastimato: l’elettorato gollista, in Francia, ha una storia molto solida e molto antica, e anche se il candidato è debole, l’appartenza politica è un dato di fatto nelle abitudini del Paese. Se si guardano i trend dei sondaggi, si vede che l’intenzione di voto nei confronti di Fillon è costante, non in crescita naturalmente, ma resiliente. E questo non accade con nessun altro dei candidati, che anzi presentano una grande volatilità. Questo significa che un conto è dire chi si voterebbe, un altro è andare davvero a votare, e con i tassi di astensionismo che si sono registrati da ultimo e una campagna elettorale per i partiti tradizionali molto deludente, il rischio sorprese, al primo turno del 23
aprile, resta alto. Ma ci sono conseguenze anche per il secondo turno del 7 maggio, perché la costruzione di uno slancio in due settimane non è mai facile, figurarsi se si arriva dopo una conta lunga di inefficienze e delusioni. E soprattutto se si arriva con un candidato naturale come Fillon forse escluso. L’occasione di Macron è tutta qui, nella capacità di attrazione nei confronti di forze a oggi aliene. En Marche! è una compagine che nasce già ora con l’intento di creare un argine contro il Front national: attira sostegno sia a destra sia a sinistra, con una prevalenza di quest’ultima; propone un messaggio unificante ed europeista; si fonda su una mobilitazione straordinaria. Ma questo non basta. I timori sull’inconsistenza di Macron aumentano all’avvicinarsi del voto, complice anche l’ascesa del candidato della sinistra radicale, Jean-Luc Mélenchon, che è in tutto e per tutto l’anti Macron. Con il Partito socialista ridotto ai minimi termini (alcuni consigliano di non sottovalutare nemmeno il Ps, ma sembrano poco credibili), il leader del partito France insoumise è diventato la star della sinistra almeno per quelli che non riescono a digerire il cosiddetto «ubercapitalismo» di Macron. E l’analisi migliore di quel che sta accadendo adesso l’ha fatta proprio Mélenchon, quando dice che lui e Macron sono i prodotti naturali della crisi della sinistra, uno radicale e uno centrista, vinca il migliore. Il problema però non è tanto l’offerta politica che è estremamente variegata: il problema per l’elettorato francese – e per gli osservatori europei, che puntano tutto sulla Francia – è fidarsi dell’ignoto, che sia la candidata di una destra xenofoba con su un po’ di belletto, o il candidato debolissimo di una destra tradizionale e invecchiata o una vecchia volpe della sinistra-sinistra o un ragazzo giovane, con l’aria determinata che non accetta nemmeno di essere definito «centrista». E per un paese che da sempre è accusato di immobilismo questa è molto più di una scommessa in un anno un po’ pazzo di primavera elettorale.
Marco Gervasoni, La Francia in nero, Marsilio, 2017 «Forse è prematuro e smisurato parlare di fine dell’ordine liberale e di tramonto della globalizzazione». Con questo pronostico incomincia e si conclude questa storia dell’estrema destra francese fino al Front national (Fn) di Marine Le Pen, che, secondo Marco Gervasoni, sarà probabilmente sconfitta al 2. turno delle elezioni presidenziali di questa primavera. Per il Fn la facile e generica etichetta di «populismo» è inattendibile, dovremmo piuttosto parlare di «nazionalismo economico». Diversamente da destre e populismi degli altri paesi, l’Fn, radicato nel sistema politico francese da almeno trent’anni, ha infatti mantenuto una forte continuità di fondo fin dalle origini. Altra erronea semplificazione: immaginare che esista un filone politico che lega l’abate Barruel (con le sue teorie cospirative sui massoni del 1789) a Marine Le Pen, passando per il cesarismo di Napoleone III, il boulangismo, il nazionalismo radicale di Barrès e Maurras, la Repubblica di Vichy del maresciallo Pétain, il poujadismo e l’Algeria francese. La verità è che il pur esistente filone controrivoluzionario che incomincia con il 1789 è discontinuo. Per esempio il nazionalismo nasce a sinistra e, scrive Gervasoni, «l’estrema destra francese lo sposa solo a partire dalla fine del XIX secolo, quando adotta un sentimento, il culto dell’appartenenza etnico-storica al suolo, la cui paternità era fino a quel momento accreditata ai giacobini e alla gauche». Lo stesso scrive Rene Rémond: «La nazione, come fatto e come sentimento, è una realtà nata dalla rivoluzione… ormai l’adesione va alla nazione e non più alla corona, e questo è un fenomeno capitale, paragonabile al trasferimento di sovranità… Il simbolo di questo trasferimento è la battaglia di Valmy, in cui per la prima volta, i soldati francesi si battono al grido di “Viva la nazione”. È la vittoria della nazione sul vecchio lealismo monarchico… Questo nazionalismo di nuovo genere, questo sentimento moderno, rimane legato per molto tempo alla rivoluzione. Per quasi un secolo, fino alle grandi crisi del boulangismo e dell’affare Dreyfus, il nazionalismo è un sentimento piuttosto di sinistra, legato alle forze popolari e all’opera della rivoluzione.» (Introduzione alla storia contemporanea», Rizzoli-BUR., Milano, 2° ed. 1984). Anche Sergio Romano scrive: «La “nation” a cui Kellermann lancia i suoi evviva dalla collina di Valmy è una nazione “ideologica”». (Disegno della storia d’Europa, Longanesi &C., Milano, 1991). E che dire del legame del lepenismo con la religione? La controrivoluzione, dal 1789, è molto cattolica, ma, scrive Gervasoni, «dopo la Grande Guerra il clericalismo si indebolisce, fino ad arrivare negli anni Settanta del Novecento al neopaganesimo della nouvelle droite e, più recentemente, alla Laicité républicaine rivendicata da Marine Le Pen». La quale non è nemmeno ostile alla democrazia liberale. Cosa, allora, collega il Fn alle vecchie, varie destre francesi del filone controrivoluzionario che comincia nel 1789? Il rifiuto nazional-populista della modernità (mercato, globalizzazione, libera circolazione di merci e persone) e dell’emancipazione dell’individuo (attraverso l’uso della ragione) dalla comunità. Con il Fn «finanzieri» ed «ebrei» sono tornati ad essere il nemico.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Politica e Economia Presidenziali francesi A pochi giorni dal primo turno, tutta l’attenzione è puntata su Emmanuel Macron, l’uomo che potrebbe ridare slancio alla sinistra pagina 19
I decreti economici di Trump Stiamo assistendo alla fine della globalizzazione americana e forse di conseguenza all’inizio di una globalizzazione a egemonia cinese? Presto per dire se il protezionismo di Trump acceleri il declino Usa
I negoziati si sbloccano A sorpresa, Jean-Claude Juncker e Doris Leuthard annunciano la ripresa dei colloqui tra Svizzera e Unione europea
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Macron, En Marche!
Fra i libri di Paolo A. Dossena
Presidenziali È l’uomo del momento in Francia e nel continente, per la sua agenda
riformatrice, liberale ed europeista
pagina 20
Paola Peduzzi
pagina 21
AFP
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Emmanuel Macron è l’uomo del momento in Francia, con i suoi pochi anni e un’agenda riformatrice, liberale, europeista. Nessuno credeva che questo trentanovenne ex banchiere, ex funzionario dell’Eliseo, ex ministro dell’Economia, nessuna elezione vinta all’attivo potesse diventare la chance di riscatto cui s’appiglia un continente intero. Parlare bene dell’Europa sembra una follia, è stata una follia per anni e anni, ma oggi Macron, con quel suo viso affilato, è diventato «un patriota europeo», come scrivono i giornali francesi, il guardiano di un ordine che, tra Brexit e Donald Trump, sembrava destinato al collasso. L’Europa ci protegge, ripete Macron, con uno slancio degno di settant’anni fa, quando ancora il progetto europeo non aveva illuso e disilluso i cittadini: ai comizi ci sono tante bandiere blu con le stelle dorate, e anche nel quartier generale del candidato di En marche! e nei banchetti che stanno riempiendo tutta la Francia sventolano gloriose. Questo alimenta le attese di tutto il continente che va a caccia di una buona notizia e anche di una nuova occasione, magari la possibilità di federare nuove ed effervescenti forze neoeuropeiste come prima risposta collettiva al neonazionalismo.
Trump punisce Al-Assad
Tragedia siriana L’attacco chimico di Khan Shaykhun scatena la reazione militare americana e riporta in primo
piano la dimensione di un conflitto che si trascina dal 2011. Ma che da oggi forse è a una svolta Lucio Caracciolo La strage di Khan Shaykhun, cittadina del Nord-Ovest siriano, provocata secondo i ribelli da un attacco chimico a opera dell’aviazione di Bashar al-Assad, ha riportato l’attenzione mediatica sul massacro infinito che dal 2011 infuria in ciò che resta della Siria. Ma soprattutto ha scatenato l’immediata reazione degli Stati Uniti che nella notte di giovedì hanno lanciato da due navi americane di stanza nel Mediterraneo 59 missili cruise verso la base aerea siriana da cui si presume sia partito l’attacco con armi chimiche (foto). Nell’annunciarlo durante una conferenza stampa lampo, Trump ha detto che al-Assad ha ignorato gli avvertimenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu. E ha lanciato un appello affinché «tutte le nazioni civili si uniscano a noi nel cercare la fine del massacro e dello spargimento di sangue in Siria, e anche la fine del terrorismo di tutti i tipi». Sembra che gli Stati Uniti siano tornati ad essere il gendarme del mondo, sarà la svolta per la Siria? Limitiamoci per ora ad analizzare lo scenario strategico in cui si compie questa
guerra. Con una premessa: il caos sul terreno è totale, al punto che gli stessi combattenti non sono spesso in grado di distinguere chi hanno di fronte. La confusione è poi accentuata dalla diffusione di bande criminali, che prosperano sulle disgrazie altrui e traggono lauti profitti dalla continuazione del conflitto, attraverso ogni genere di traffici. L’unica certezza è l’entità del massacro: almeno 300 mila morti, forse molti di più, 8 milioni di sfollati interni, 5 milioni di profughi (di cui almeno un paio di milioni in Turchia, bloccati dal fragile accordo Merkel-Erdoğan), su una popolazione stimata attorno ai 23 milioni prima della primavera del 2011, inizio della tragedia. La prima dimensione strategica del conflitto riguarda l’inestinguibile ostilità fra Arabia Saudita e Iran. Stati nemici, per almeno tre ordini di motivi. Anzitutto, la politica: per Riyad la rivoluzione islamica del 1979, come qualsiasi dinamica politica interna al mondo musulmano, è minaccia esistenziale. Motivo per il quale i sauditi detestano a pari titolo i Fratelli musulmani, colpevoli di voler azzardare qualche forma di democrazia islamica.
In secondo luogo, l’etnia: arabi contro persiani. Niente di più diverso e di meno conciliabile. Infine, la confessione: gli iraniani sono in grande maggioranza sciiti, e si offrono come leader di un arco di correligionari esteso dal Mediterraneo al Golfo Persico, fino all’Asia centrale; i sauditi sono sunniti, aderenti alla versione radicale del wahhabismo, e si intitolano la leadership dei loro affini in tutto il mondo arabo, ma anche oltre. Di più, una corposa minoranza sciita abita la provincia orientale del regno. E la corte saudita la considera una quinta colonna iraniana, trattandola di conseguenza. Di questo incrocio di rivalità la Siria è il punto di caduta. Il regime di Bashar al-Assad è infatti riconducibile a quella che i sunniti considerano una variante particolarmente deplorevole dello sciismo, la molto esoterica setta alauita. Inoltre, anche per questo Damasco è considerata da Teheran una pedina assai utile, pur se non pienamente affidabile, per estendere la propria sfera d’influenza verso il Mediterraneo. Alla coppia Iran-Arabia Saudita occorre sommare, sul teatro siriano, un altro strano duetto, quello formato
da Russia e Turchia. La prima è scesa in campo con al-Assad e i suoi protettori iraniani – rafforzati dalle formazioni militari dello Hezbollah libanese – per varie ragioni: segnalare il suo rango di potenza mondiale, distinguersi dagli americani per la fedeltà agli antichi sodali (la famiglia al-Assad è da quasi sempre nella sfera di Mosca), ottenere basi militari sul Mediterraneo. La seconda, oggi provvisoriamente legata ai russi, ha promosso con i sauditi la guerriglia contro il regime di Damasco, nella speranza di ricostituire un suo piccolo impero neo-ottomano nel Levante arabo. Sullo sfondo, le potenze occidentali, in prima linea Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, hanno cavalcato la rivolta siriana per mettere in difficoltà l’Iran, loro avversario (anche in quanto nemico di Israele). E per questo hanno supportato non solo i ribelli «moderati», ma anche gruppi jihadisti che appartengono alla galassia di al-Qaeda, e inizialmente hanno tollerato lo stesso Stato Islamico. Chi vince e chi perde? Fino a giovedì vinceva al-Assad e con lui i suoi sponsor esterni, anzitutto Russia e Iran. Perdono i ribelli di ogni colore, a parti-
re dallo Stato Islamico e da altri gruppi jihadisti. E con loro Arabia Saudita, Turchia e le potenze occidentali. Resta da stabilire ora in che misura l’attacco di Trump cambierà i rapporti con alAssad, fino ad ora accettato come realtà di fatto, con cui fare i conti per una soluzione politica e per combattere lo Stato Islamico. Il punto è semmai che cosa resterà della Siria. In senso materiale – alcune città sono semidistrutte, compresa la un tempo splendida Aleppo. Sotto il profilo umano, stante che gran parte della popolazione è fuggita. Vero che molti siriani in esilio amerebbero rientrare in patria, ma in quali case? Con quali prospettive? Sotto il profilo geopolitico, la Siria è finita per il tempo prevedibile. Al suo posto, ammesso che le armi si plachino in tempi non estremi, una costellazione di feudi, probabilmente amministrati da potentati e milizie locali. Si possono già oggi individuare diverse macroregioni, di cui la principale è l’Alauistan, o «Siria utile», tra l’asse Damasco-Aleppo e il mare. Al-Assad avrà pure vinto, ma la Siria, e i siriani, hanno straperso.
C’è chi vuole credere in questa esperienza unica e rivoluzionaria di En Marche!, che fino a poco tempo fa era più un vezzo che un’alternativa strategica Il problema è che da un anno a questa parte le illusioni di élite e media sono state molte ed esagerate, e oggi l’azzardo è un lusso difficile da concedersi. Sarà un’altra bolla, Macron? Questa è la domanda che tutti si fanno a Parigi. C’è chi vuole credere in questa esperienza unica e rivoluzionaria: En Marche!, il partito di Macron, fino al settembre scorso era più un vezzo che una alternativa strategica. Macron era ancora ministro dell’economia e decise di fare «un’esplorazione» della Francia, con una marcia, per valutare paure e desideri dei cittadini e capire che cosa offrire. Macron voleva di fatto dire ai socialisti: non starò con voi, visto che voi non mi volete (la sua legge sulle liberalizzazioni era stata annacquata in Parlamento in tanti, brutali scontri personali e ideologici). Invece ora, con la sua naturale e informale improvvisazione, è alle prese con una missione grandiosa, quasi impossibile: costruire dal nulla una nuova classe politica. Se dovesse riuscirci, Macron diventerebbe immediatamente un modello da imitare, e anzi un po’ lo è già vedendo le delegazioni di partiti europeisti che vanno a guardare com’è e come funziona il quartier generale di En Marche!. C’è però chi resta scettico perché la proposta macroniana è sì sorprendentemente popolare, ma non rappresenta lo spirito prevalente nel Paese. La scorsa settimana c’è stato un dibattito televisivo con tutti i candidati, anche quelli minori, undici persone sul palco in prevalenza convinte che il destino francese sia slegato dal resto del continente, che l’Europa sia un fardello di cui è bene
Emmanuel Macron, liberale e europeista, incarna le speranze di rinascita di una nuova classe politica. (AFP)
liberarsi in fretta per investire su un ripiegamento. Questo è il clima francese, checché ne dicano gli «insurgent» liberali che sostengono il contrario, sicuri che questo sia il momento della verità per i francesi, e che non ci saranno troppe sbavature. Sfogliando i giornali, ascoltando i commentatori, rileggendo quel libro-sensazione del giovanissimo Edouard Louis che racconta la sua adolescenza disagiata e l’elettorato di Marine Le Pen (s’intitola Storia della violenza), l’insofferenza si può toccare con le mani, è nei dati di un’economia asfittica, è nei calcoli di una classe politica tradizionale poco ammirevole, è nella paura del terrorismo e del diverso. Il nazionalismo ha, in tutta Europa, radici antiche e ragioni diverse, ma finisce per esprimersi nello stesso modo, con un ripiegamento rabbioso, in cui tutto l’esistente pare soltanto creato per generare diseguaglianze e perpetrare inefficienze. La Francia non fa eccezione, anzi: il Front national di Marine Le Pen oggi si culla nella certezza – per quanto di certo non ci sia mai nulla – di arrivare al secondo turno delle presidenziali. I paragoni con il 2002, l’anno in cui il padre di Marine si giocò al secondo turno la presidenza contro Jacques Chirac, non reggono. Allora la qualificazione del Front fu una sorpresa agghiacciante, la scoperta che le divisioni nella sinistra francese avevano creato un vuoto talmente grande da permettere a una forza estrema di riempirlo: il fronte repubblicano anti Le Pen si creò in due settimane, solidissimo, e anche se tuttora molti a sinistra dicono sconsolati «ho dovuto votare per Chirac, sono pronto a tutto», il sollievo allora fu grande. Oggi la Le Pen è una forza consolidata, e anzi, a ogni dibattito tv è sempre più evidente che lei non viene considerata come un corpo estraneo, come una intrusa, tutt’al contrario: è un candidato come un altro. Questa normalizzazione – che è il grande successo di Marine, per quanto la base storica storca il naso – permette al Front national di essere la forza numero uno da sfidare e gli concede anche l’onore di stabilire che dimen-
sione può avere la vittoria. Se Marine Le Pen supera il 30/32 per cento al primo turno, il suo successo sarebbe grandioso (i suoi attivisti dicono scherzando, ma nemmeno troppo, che si vince già al primo turno, 50,1 per cento e arrivederci tra cinque anni) e la formazione di un fronte a lei contrario diventerebbe immediatamente emergenza.
Rispetto al 2002 la Le Pen è consolidata. E l’occasione di Macron è proprio quella di creare un argine contro il Fn, che attiri sia forze di destra che di sinistra Anche questo infatti è cambiato dal 2002: c’è oggi un candidato in grado di creare un’alleanza anti Le Pen? Ce n’era uno naturale, ed era François Fillon, candidato dei Républicains, ma la sua campagna elettorale è stata un disastro. Molti scandali, l’immagine deteriorata di un leader attaccato al denaro e al potere, un elettorato anziano, poca mobilitazione: questi sono gli ingredienti del collasso di Fillon, secondo quanto rilevano i sondaggi. Ma se è vero che non c’è nessuno che creda ancora nelle possibilità di Fillon, è anche possibile che questo crollo sia oggi sovrastimato: l’elettorato gollista, in Francia, ha una storia molto solida e molto antica, e anche se il candidato è debole, l’appartenza politica è un dato di fatto nelle abitudini del Paese. Se si guardano i trend dei sondaggi, si vede che l’intenzione di voto nei confronti di Fillon è costante, non in crescita naturalmente, ma resiliente. E questo non accade con nessun altro dei candidati, che anzi presentano una grande volatilità. Questo significa che un conto è dire chi si voterebbe, un altro è andare davvero a votare, e con i tassi di astensionismo che si sono registrati da ultimo e una campagna elettorale per i partiti tradizionali molto deludente, il rischio sorprese, al primo turno del 23
aprile, resta alto. Ma ci sono conseguenze anche per il secondo turno del 7 maggio, perché la costruzione di uno slancio in due settimane non è mai facile, figurarsi se si arriva dopo una conta lunga di inefficienze e delusioni. E soprattutto se si arriva con un candidato naturale come Fillon forse escluso. L’occasione di Macron è tutta qui, nella capacità di attrazione nei confronti di forze a oggi aliene. En Marche! è una compagine che nasce già ora con l’intento di creare un argine contro il Front national: attira sostegno sia a destra sia a sinistra, con una prevalenza di quest’ultima; propone un messaggio unificante ed europeista; si fonda su una mobilitazione straordinaria. Ma questo non basta. I timori sull’inconsistenza di Macron aumentano all’avvicinarsi del voto, complice anche l’ascesa del candidato della sinistra radicale, Jean-Luc Mélenchon, che è in tutto e per tutto l’anti Macron. Con il Partito socialista ridotto ai minimi termini (alcuni consigliano di non sottovalutare nemmeno il Ps, ma sembrano poco credibili), il leader del partito France insoumise è diventato la star della sinistra almeno per quelli che non riescono a digerire il cosiddetto «ubercapitalismo» di Macron. E l’analisi migliore di quel che sta accadendo adesso l’ha fatta proprio Mélenchon, quando dice che lui e Macron sono i prodotti naturali della crisi della sinistra, uno radicale e uno centrista, vinca il migliore. Il problema però non è tanto l’offerta politica che è estremamente variegata: il problema per l’elettorato francese – e per gli osservatori europei, che puntano tutto sulla Francia – è fidarsi dell’ignoto, che sia la candidata di una destra xenofoba con su un po’ di belletto, o il candidato debolissimo di una destra tradizionale e invecchiata o una vecchia volpe della sinistra-sinistra o un ragazzo giovane, con l’aria determinata che non accetta nemmeno di essere definito «centrista». E per un paese che da sempre è accusato di immobilismo questa è molto più di una scommessa in un anno un po’ pazzo di primavera elettorale.
Marco Gervasoni, La Francia in nero, Marsilio, 2017 «Forse è prematuro e smisurato parlare di fine dell’ordine liberale e di tramonto della globalizzazione». Con questo pronostico incomincia e si conclude questa storia dell’estrema destra francese fino al Front national (Fn) di Marine Le Pen, che, secondo Marco Gervasoni, sarà probabilmente sconfitta al 2. turno delle elezioni presidenziali di questa primavera. Per il Fn la facile e generica etichetta di «populismo» è inattendibile, dovremmo piuttosto parlare di «nazionalismo economico». Diversamente da destre e populismi degli altri paesi, l’Fn, radicato nel sistema politico francese da almeno trent’anni, ha infatti mantenuto una forte continuità di fondo fin dalle origini. Altra erronea semplificazione: immaginare che esista un filone politico che lega l’abate Barruel (con le sue teorie cospirative sui massoni del 1789) a Marine Le Pen, passando per il cesarismo di Napoleone III, il boulangismo, il nazionalismo radicale di Barrès e Maurras, la Repubblica di Vichy del maresciallo Pétain, il poujadismo e l’Algeria francese. La verità è che il pur esistente filone controrivoluzionario che incomincia con il 1789 è discontinuo. Per esempio il nazionalismo nasce a sinistra e, scrive Gervasoni, «l’estrema destra francese lo sposa solo a partire dalla fine del XIX secolo, quando adotta un sentimento, il culto dell’appartenenza etnico-storica al suolo, la cui paternità era fino a quel momento accreditata ai giacobini e alla gauche». Lo stesso scrive Rene Rémond: «La nazione, come fatto e come sentimento, è una realtà nata dalla rivoluzione… ormai l’adesione va alla nazione e non più alla corona, e questo è un fenomeno capitale, paragonabile al trasferimento di sovranità… Il simbolo di questo trasferimento è la battaglia di Valmy, in cui per la prima volta, i soldati francesi si battono al grido di “Viva la nazione”. È la vittoria della nazione sul vecchio lealismo monarchico… Questo nazionalismo di nuovo genere, questo sentimento moderno, rimane legato per molto tempo alla rivoluzione. Per quasi un secolo, fino alle grandi crisi del boulangismo e dell’affare Dreyfus, il nazionalismo è un sentimento piuttosto di sinistra, legato alle forze popolari e all’opera della rivoluzione.» (Introduzione alla storia contemporanea», Rizzoli-BUR., Milano, 2° ed. 1984). Anche Sergio Romano scrive: «La “nation” a cui Kellermann lancia i suoi evviva dalla collina di Valmy è una nazione “ideologica”». (Disegno della storia d’Europa, Longanesi &C., Milano, 1991). E che dire del legame del lepenismo con la religione? La controrivoluzione, dal 1789, è molto cattolica, ma, scrive Gervasoni, «dopo la Grande Guerra il clericalismo si indebolisce, fino ad arrivare negli anni Settanta del Novecento al neopaganesimo della nouvelle droite e, più recentemente, alla Laicité républicaine rivendicata da Marine Le Pen». La quale non è nemmeno ostile alla democrazia liberale. Cosa, allora, collega il Fn alle vecchie, varie destre francesi del filone controrivoluzionario che comincia nel 1789? Il rifiuto nazional-populista della modernità (mercato, globalizzazione, libera circolazione di merci e persone) e dell’emancipazione dell’individuo (attraverso l’uso della ragione) dalla comunità. Con il Fn «finanzieri» ed «ebrei» sono tornati ad essere il nemico.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Politica e Economia
È già il secolo di «Cindia»?
Economia Chi riempirà il vuoto che si sta creando in seguito al declino della potenza americana? Di sicuro siamo
solo all’inizio di un grande gioco che dovrà ridefinire gli equilibri del commercio mondiale Federico Rampini Una settimana prima di ricevere il presidente cinese Xi Jinping in Florida, Donald Trump firmava due ordini esecutivi che potevano segnare un’apertura delle ostilità negli scambi internazionali. Stiamo assistendo alla fine della globalizzazione «americana» e forse come conseguenza si prepara l’inizio di una globalizzazione «a egemonia cinese»? L’obiettivo dichiarato dei due decreti Trump è «combattere gli abusi» dei partner stranieri che contribuiscono a un deficit annuo di 500 miliardi di dollari (sarebbero addirittura 750 misurando solo gli scambi di merci: gli Usa riequilibrano in parte la bilancia commerciale con l’export di servizi). Il primo ordine esecutivo lancia «un’indagine ad ampio raggio sulle cause del deficit»: entro 90 giorni dovrà concludersi con delle raccomandazioni precise, dai rimedi contro le frodi alle rappresaglie contro le svalutazioni altrui. Il secondo ordine esecutivo richiede immediatamente «l’applicazione più rigorosa delle leggi anti-dumping», cioè le penalità previste contro quei produttori esteri che svendono sotto-costo. Dietro questa direttiva c’è un’insofferenza rivolta in parte verso quell’arbitro del commercio globale che è il Wto (World Trade Organization, con sede a Ginevra) ma in parte anche verso la stessa burocrazia americana. L’Amministrazione Trump sottolinea che dal 2001 ad oggi ben 2,8 miliardi di multe già inflitte per anti-dumping non sono state riscosse. I due decreti presidenziali non contengono un elenco dei paesi reprobi, non c’è una lista delle nazioni da colpire. Però se l’obiettivo è riassorbire l’enorme deficit commerciale, la lista è automatica: Cina, Germania, Messico, Giappone, Corea del Sud vantano i maggiori attivi con gli Stati Uniti e quindi hanno più da perdere.
La guerra dichiarata da Trump al dumping (diretta soprattutto contro la Cina) trascinerà il mondo in una guerra commerciale? È la Repubblica Popolare ad accumulare il più vasto attivo commerciale con gli Stati Uniti: 310 miliardi da sola, i due terzi del totale. Trump vuole istruire un dossier di accuse sufficienti a negare alla Cina l’ambìto status di «economia di mercato» in seno al Wto. Senza quello status – che Pechino voleva ottenere già a fine 2016 – è più facile colpire legalmente con dazi i prodotti cinesi. Altro obiettivo di Trump: dimostrare che il governo cinese manipola la valuta nazionale – renminbi o yuan – in modo da tenerla artificialmente debole aiutando così le sue aziende. Poi c’è una problematica tutta interna alla Cina, che esaspera gli imprenditori Usa: il 55% dei settori industriali cinesi pratica delle «discriminazioni contro gli investitori stranieri», per esempio con norme che li costringono a entrare in joint-venture con partner locali o a trasferire forzosamente il loro know how tecnologico. Di fatto il mercato cinese è molto meno aperto di quello americano. Ad essere accusata di dumping non è solo l’industria cinese, in settori come l’acciaio e l’alluminio. La svendita sotto-costo, secondo il Dipartimento del Commercio Usa, la praticano anche altri paesi asiatici nonché i maggiori produttori europei. Nell’elenco delle nazioni contro cui Washington ha
Il leader cinese Xi Jinping e la moglie Peng Liyan ospiti di Donald Trump e della first lady Melania nel resort di Mar-a-Lago in Florida. (AFP)
già presentato denunce e avviato cause legali anti-dumping, prima ancora dell’arrivo di Trump figuravano Italia, Germania, Francia, Belgio, Giappone, Corea del Sud e Taiwan. Su questi produttori Washington vuole applicare super-dazi punitivi che vanno da un minimo del 4% a un massimo del 150%. «La siderurgia americana – dice il segretario al Commercio Wilbur Ross – è sotto attacco da parte di stranieri che ricevono sussidi. Vogliamo solo l’applicazione rigorosa delle leggi». Paradossalmente, è più facile multare per dumping la Cina: finché non è riconosciuta come «economia di mercato», gli americani possono calcolare come costi di produzione «normali» quelli della propria industria. Chi s’illudeva che Trump avrebbe concentrato la sua offensiva protezionista su Cina e Messico, deve ricredersi. Perfino l’accusa di svalutazione competitiva viene estesa agli europei. Peter Navarro, principale consigliere di Trump per il commercio estero, denuncia «l’euro sottovalutato» come una distorsione del commercio fra le due sponde dell’Atlantico. Vengono riscoperti contenziosi antichi che l’Amministrazione Obama cercava di risolvere coi negoziati e con il progetto di nuovo trattato Ttip, mentre Trump ha un approccio più conflittuale. I super-dazi del 100% su Vespa e San Pellegrino – nulla a che vedere coi due ordini esecutivi firmati ieri – sono allo studio come rappresaglia per l’embargo europeo sulla carne agli ormoni. Perfino il protezionismo contro la Cina può danneggiare l’Italia: nel riesame delle fonti di deficit estero che Trump ha commissionato rientra anche una caccia alle produzioni con etichetta Ue ma assemblate in Cina: spesso accade con il made in Italy nell’abbigliamento e calzaturiero. «Altre nazioni – dice Trump – impongono alti dazi sui nostri prodotti, noi quasi niente sui loro». In parte è vero. È una delle ragioni per cui la guerra commerciale non sarà simme-
trica: l’America può infliggere agli altri i danni più grossi perché il mercato Usa è realmente il più aperto. Lo dicono i dati del Wto sui dazi prelevati all’import: quelli cinesi sono mediamente del 10%, quelli europei del 5%, gli americani solo il 3,5%. La sperequazione peggiora se ai dazi doganali si aggiunge l’impatto della fiscalità complessiva. L’Unione europea e altre nazioni hanno un’Iva che di fatto agevola l’export. Se si calcolano Iva e altre imposte, la Cina tassa i prodotti stranieri mediamente al 27%, l’Unione europea al 25%, gli Stati Uniti appena il 9%. Non a caso su un mercato come quello dell’auto la penetrazione di vetture dall’estero è del 26% in America contro il 4% in Cina. Trump vuole introdurre una specie di Iva mirata proprio sulle importazioni, la «border tax» o tassa al confine.
La conversione dell’America al protezionismo forse aprirà nuovi varchi per l’ascesa d una leadeship alternativa, quella della Cina o di «Cindia» Siamo a un passaggio epocale, la staffetta da un impero a un altro? Le politiche di Trump accelerano il declino degli Stati Uniti, precipitano la fine del «lungo secolo americano»? È evidente l’analogia con un’altra svolta storica che fu gravida di conseguenze: quando il baricentro degli scambi mercantili e di tutta l’attività economica si trasferì dal Mediterraneo all’Atlantico, segnando il tramonto di intere nazioni e l’ascesa di altre. All’interno della stessa economia genovese alcuni capirono come bisognava riconvertirsi, altri no. Le storie si divaricarono. Anche quelle individuali o familiari. L’Impero di Cindia è pronto a so-
stituire il Secolo Americano? Fui io a lanciare in Italia il neologismo Cindia più di dieci anni fa, quando vivevo a Pechino; da lì osservavo e raccontavo l’ascesa di ambedue i giganti asiatici, pur diversissimi tra loro, Cina e India. Oggi la questione si pone in termini nuovi e probabilmente più urgenti: rispetto a dieci anni fa abbiamo avuto la grande crisi del 2008 (che ha lambito anche Cindia, ma non con gli effetti drammatici che ha avuto sull’Occidente); l’ascesa dei nazional-populismi non solo in casa nostra ma anche a Pechino e New Delhi (Xi Jinping e Narendra Modi); infine Trump e la vittoria in America del primo presidente apertamente protezionista dell’era moderna. Il declino relativo della potenza leader, un fenomeno già in atto prima di Trump, è destinato ad accelerare? La storia non ama i vuoti... Chi riempirà il deficit di egemonia? Se esiste un progetto imperiale a Oriente, che cosa significa per noi? Tra gli sviluppi più recenti abbiamo avuto la cancellazione di fatto degli accordi di Parigi sul cambiamento climatico da parte della nuova Amministrazione americana. Poi ancora l’inizio di una revisione della politica commerciale, al termine della quale il mercato Usa potrebbe diventare meno aperto ai prodotti stranieri. Tutto questo apre nuovi spazi alla Cina, senza dubbio. Xi è stato veloce ad approfittarne. Già due mesi fa parlando al World Economic Forum di Davos il leader cinese si era appropriato della bandiera della globalizzazione. Anche sugli accordi di Parigi per la riduzione delle emissioni carboniche, Pechino si dice intenzionata ad andare avanti malgrado la defezione americana. Non bisogna concluderne frettolosamente che stiamo entrando a grandi passi in un «Secolo Cinese». La Cina, per adesso, sta difendendo le regole del gioco di un sistema che non ha costruito lei. È ancora una globalizzazione nata negli Stati Uniti, pensata dagli americani, con una cabina di regìa articolata fra
Washington, Wall Street, e la Silicon Valley. La Cina non ha ancora elaborato un progetto alternativo da proporre al resto del mondo. In quanto all’India, governata da un integralista religioso, è un laboratorio di tendenze che spesso anticipa quel che accade nel resto del mondo. Ma non la definirei un modello potenzialmente egemonico. Siamo comunque alle prime battute di un grande gioco per ridefinire gli equilibri mondiali. Sarebbe utile che anche l’Europa avesse qualcosa da dire sul mondo che verrà. In un editoriale sul «Corriere della Sera», Angelo Panebianco ha ripreso un tema che ho più volte affrontato: con il suo protezionismo Trump ancora una volta riesce a dire «il re è nudo», cioè ci mette di fronte a una realtà che avrebbe dovuto essere evidente, la globalizzazione si era arenata da tempo, le resistenze ai trattati crescevano da più parti, e in molti baravano al gioco da tempo. Però bisogna fare un passaggio successivo che nessuno oggi sta facendo in Europa. Chiedersi cioè perché contro i dazi di Trump si stanno levando proteste solo dal mondo delle imprese, mentre tacciono le organizzazioni sindacali. Tace anche il partito democratico americano, peraltro. Perché sa benissimo che Trump in questo campo è popolare tra i lavoratori. Sono i lavoratori che hanno torto? Forse «non capiscono» i vantaggi del libero scambio? Oppure capiscono fin troppo bene che quel sistema negli ultimi 25 anni non è stato costruito per loro? Il protezionismo di Trump non è una strategia valida per costruire un modello di sviluppo alternativo e più equo. Però è il primo colpo di piccone contro un ordine che era già impopolare, per delle solidissime ragioni. Dopo avere criticato noi stessi quell’ordine economico per tanti anni, non dobbiamo cedere al riflesso pavloviano di difendere il libero scambio in modo acritico solo perché lo attacca lui.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Politica e Economia
Il dialogo riparte, gli ostacoli restano
Accordi bilaterali L’annuncio a sorpresa della ripresa dei negoziati tecnici tra Svizzera e Unione europea rassenera
l’orizzonte, intanto Berna segue da vicino i passi di Londra dopo la Brexit Marzio Rigonalli Nelle ultime settimane, la diplomazia elvetica si è mostrata particolarmente attiva su due fronti, quello delle relazioni con l’Unione europea e quello dei futuri rapporti con la Gran Bretagna, non appena Londra avrà definitivamente lasciato l’UE.
Bruxelles aveva congelato una dozzina di dossier dopo la votazione sull’immigrazione di massa del 9 febbraio 2014 Con l’Unione europea è stato registrato un passo avanti dopo la decisione della Commissione europea di sbloccare tutti i negoziati sui dossier pendenti tra le due parti. La decisione è emersa dopo l’incontro, avvenuto a Bruxelles giovedì scorso, tra il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e la presidente della Confederazione Doris Leuthard. Il blocco di una dozzina di dossier era stato deciso da Bruxelles dopo il 9 febbraio 2014, ossia dopo l’accettazione da parte del popolo e dei Cantoni svizzeri dell’iniziativa popolare contro l’immigrazione di massa. Il blocco venne mantenuto anche dopo l’approvazione, da parte delle Camere federali nel dicembre 2016, della legge d’applicazione dell’iniziativa popolare, legge che introduce la preferenza per i lavoratori indigeni, ma che non viola la libera circolazione delle persone. Berna non ha mai accettato che i negoziati bilaterali venissero congelati e, più volte, si è attivata per chiedere la ripresa dei colloqui interrotti. L’ha fatto ancora recentemente, durante il viaggio a Bruxelles del consigliere federale Johann Schneider-Ammann, capo del Dipartimento federale dell’economia, e durante l’incontro a Berlino del capo del Dipartimento federale degli affari esteri, Didier Burkhalter, con il suo collega
Sigmar Gabriel. Come è noto, la Germania ha un ruolo centrale in Europa e la sua parola, in certi casi, può rivelarsi determinante. L’orizzonte fra Berna e Bruxelles si è dunque un po’ rasserenato. I colloqui riprenderanno e le due parti cercheranno di raggiungere compromessi condivisibili. La strada da percorrere, però, è ancora molto lunga e gli ostacoli da superare sono numerosi. Le rispettive posizioni divergono su più punti importanti. Basandosi sul documento approvato dai 28 paesi membri, alla fine di febbraio, l’UE persegue principalmente tre obiettivi nei rapporti con la Svizzera. In primo luogo, vuole concludere un accordo istituzionale, secondo il quale il controllo dell’applicazione degli accordi bilaterali deve essere esercitato dalla istituzioni comunitarie. In caso di conflitto, la decisione finale spetterebbe alla Corte europea di giustizia. Per di più, intende subordinare all’approvazione dell’accordo istituzionale, l’entrata in vigore di intese che prevedono l’accesso al mercato unico, come l’accordo sull’elettricità o quello sui servizi finanziari. Il Consiglio federale, però, non può accettare che l’accordo istituzionale assegni a giudici europei, dunque a giudici stranieri per la Svizzera, la soluzione dei conflitti che possono sorgere con l’applicazione degli accordi bilaterali. Ciò corrisponderebbe alla rinuncia di una parte della sovranità nazionale. D’altronde, un simile accordo non avrebbe nessuna chance di essere accettato in votazione popolare. Il fossato, dunque, è ancora ampio. Doris Leuthard e Jean-Claude Juncker hanno espresso la volontà comune di giungere ad un accordo entro la fine dell’anno. In secondo luogo, l’UE chiede alla Svizzera di continuare a contribuire al fondo di coesione, destinato ad aiutare i paesi dell’Est, il cui sviluppo economico e sociale è inferiore alla media europea. Anche se non vien proclamato a chiare lettere, il contributo svizzero vien visto come il
Doris Leuthard e Jean-Claude Juncker a Bruxelles annunciano la svolta. (Keystone)
prezzo da pagare per poter accedere al mercato unico europeo. La Confederazione non è contraria, ma prima di versare un nuovo contributo, vorrebbe garantirsi una contropartita, che resta da definire. Infine, Bruxelles attende di conoscere il contenuto dell’ordinanza federale che disciplinerà l’applicazione della legge sull’immigrazione di massa. I paesi confinanti con la Svizzera sono i più interessati, in particolare l’Italia e la Francia, perché temono discriminazioni nei confronti dei loro cittadini. Vi sono poi altri dossier, meno politici, ma molto importanti per l’economia elvetica, come per esempio quello sull’abolizione degli ostacoli tecnici al commercio, che dimostrano quanto vasto sia il cantiere aperto tra la Svizzera e l’Unione europea. Un cantiere che fino a pochi giorni fa è stato coordinato dal segretario di Stato Jacques de Watteville, e che d’ora innanzi è affidato alla segretaria di Stato Pascale Baeriswyl. Con la Gran Bretagna, la spinta alla ricerca di un rapido chiarimento è avvenuta lo scorso 29 marzo, quan-
do Londra ha avviato la procedura per l’uscita dall’Unione europea, con l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato dio Lisbona. Tra Londra e Bruxelles ci sarà, dunque, un negoziato che, almeno per ora, si presenta molto complicato e dall’esito incerto. Di fronte a questa nuova situazione, la Svizzera rischia di venir dimenticata e di trovarsi isolata, senza disporre di chiare prospettive su quelle che saranno le sue future relazioni con il Regno Unito. Per scongiurare questo pericolo e per avviare un dialogo con il governo britannico, Berna ha inviato a Londra il suo ministro dell’economia, Johann Schneider-Ammann. Lo scopo del Consiglio federale è di evitare il sorgere di un vuoto giuridico tra i due paesi, dopo l’uscita di Londra dalla comunità europea. Gli interessi in gioco sono importanti. Da anni, il Regno Unito e la Svizzera intrattengono relazioni strette, con un’attenzione tutta particolare dedicata al settore economico e finanziario. La Confederazione è il quinto partner commerciale della Gran Bretagna, dopo gli Stati Uniti, la Germania, la Francia e l’Olanda, ed
il Regno Unito è il quinto mercato in ordine d’importanza per le esportazioni elvetiche. Significativi sono pure gli investimenti svizzeri sul mercato britannico e quelli del Regno Unito in Svizzera. La presenza di due grandi e solide piazze finanziarie crea concorrenza, certo, ma non impedisce contatti regolari tra le autorità di vigilanza e le banche centrali. In Gran Bretagna vivono 34 mila cittadini svizzeri, mentre in Svizzera risiedono 39 mila britannici. Infine, la cooperazione tra i due paesi si rivela significativa anche nei trasporti e nei settori della formazione, della ricerca e dell’innovazione. Come è noto, la Gran Bretagna non può concludere accordi con Stati terzi prima del suo definitivo divorzio dall’UE. Per questo, Londra e Berna cercheranno di intendersi su un accordo commerciale bilaterale, che dovrebbe entrare in vigore non appena il Regno Unito sarà in grado di agire autonomamente. Dopo il voto popolare sulla Brexit, alcune voci hanno chiesto a Berna di allearsi con Londra per negoziare insieme il futuro con l’Unione europea. Voci che vedevano la possibilità di rafforzare la posizione svizzera appoggiandosi sulla forza diplomatica di un grande paese com’è la Gran Bretagna. Le voci, però, sono rimaste tali, un po’ perché Londra ha scelto di gestire la Brexit in forma autonoma, in difesa dei propri interessi e seguendo una via completamente diversa da quella percorsa dalla Svizzera fin ora, un po’ perché le premesse per una simile collaborazione non sono convergenti. Basta ricordare che la Gran Bretagna è un paese molto più grande della Svizzera, è la quinta economia mondiale ed ha 64 milioni di abitanti. È un’ isola aperta sull’Atlantico ed è situata ben lungi dal cuore dell’Europa dove si trova la Svizzera. Berna è comunque interessata all’accordo che Londra riuscirà a strappare all’Unione europea. Se l’intesa raggiunta sarà buona, la Svizzera potrà invocarla a sostegno delle sue rivendicazioni nelle future trattative con l’UE.
Un’abitazione in proprietà? Sempre più difficile Politica dell’alloggio Con molto denaro a disposizione le banche cercano nuove forme di credito ipotecario.
La FINMA teme però l’indebitamento e continua a mantenere condizioni severe per il finanziamento in proprio Ignazio Bonoli Dopo anni in cui la superficie abitativa per persona è andata aumentando in Svizzera, negli ultimi tempi stiamo invece assistendo a una diminuzione in particolare per quanto concerne l’abitazione in proprio. A partire dal 2000 questa superficie sarebbe diminuita del 40%. Lo dicono le statistiche che concernono l’acquisizione di un’abitazione in proprio. Questa evoluzione è dovuta a parecchi fattori, tra i quali emerge però quello dei costi. Se nel 2000 una famiglia composta di due persone poteva permettersi
un’abitazione - avendo a disposizione un reddito medio - di 161 metri quadrati, oggi questa proporzione deve essere ridotta a 100 metri quadrati, il che significa appunto una diminuzione del 38%. Come sempre in Svizzera queste statistiche divergono molto da cantone a cantone e da regione a regione. Nella regione di Zurigo, dove di regola i prezzi sono più elevati che altrove, nel mercato immobiliare la possibilità di acquisire un’abitazione in proprio, per una famiglia con un reddito medio, è scesa del 44%. Se, infatti, all’inizio del secolo questa famiglia poteva sognare una casa con una superficie abitabile di
Sono soprattutto le giovani famiglie che non possono permettersi di acquistare un’abitazione. (Keystone)
133 metri quadrati, questa possibilità è scesa oggi a 75 metri quadrati. Due sono i fattori che influiscono in maniera determinante su questa evoluzione: da un lato l’aumento dei prezzi dell’edilizia e dall’altro le aumentate esigenze per il capitale proprio necessario. Queste difficoltà, dovute alle maggiori esigenze nella sopportabilità finanziaria dell’investimento necessario, stanno provocando un divario tra le generazioni sul mercato immobiliare. Le statistiche sulle quote di proprietà dell’abitazione primaria mostrano infatti un vistoso calo di abitazioni in proprio fra le giovani famiglie. Gli esperti del mercato immobiliare chiedono un allentamento delle prescrizioni, mentre gli istituti di credito – nonostante gli appelli delle autorità monetarie a rallentare la concessione di crediti ipotecari – stanno cercando forme nuove di credito, nell’intento soprattutto di favorire i giovani. Una piccola banca regionale ha introdotto l’ipoteca «per principianti», attirandosi le ire dell’istituto di sorveglianza dei mercati finanziari. Anche la banca Raiffeisen, che ha conosciuto un «boom» eccezionale di crediti ipotecari, è stata invitata alla moderazione. Va comunque precisato che il livello eccezionalmente basso dei tassi
di interesse – spesso con uno zero davanti alla virgola – esercita uno stimolo contrario alle difficoltà citate in precedenza. Ma, per precisare meglio le cifre esposte in precedenza, prendiamo l’esempio di una coppia con un reddito di 120’000 franchi. Con questa entrata ci si può certamente procurare un’abitazione di 100 metri quadrati in tutta la Svizzera. Nel 2000 però, questa coppia si sarebbe potuta procurare una casa di 161 metri quadrati, anche con un reddito di 20’000 franchi inferiore. Ma nella citata regione di Zurigo questa possibilità sarebbe oggi scesa a 75 metri quadrati. Nella città di Zurigo i costi sono tali per cui la possibilità sarebbe ulteriormente scesa a 60 metri quadrati, cioè a 2,5 locali. Questo calo va di pari passo con un moderato aumento della quota di abitazione in proprio, rispetto al totale delle abitazioni. Nel 2000 si trattava del 34,8% e nel 2015 del 38,4% secondo gli ultimi dati dell’Ufficio federale di statistica. In altri termini, il mercato svizzero dell’alloggio continua ad essere dominato da una quota di locatari superiore al 60%. Anche in questo caso vi sono notevoli differenze fra cantoni e regioni. Nel Giura o nell’Appenzello interno la quota di proprietari supera il 50% (rispettivamente 53 e 58%),
mentre nel Vallese la quota è del 57%, ma probabilmente anche a causa delle numerose case di vacanza monofamiliari. Nelle grandi agglomerazioni cittadine la quota di proprietari scende vertiginosamente: Ginevra 19%, Basilea 15,5%, mentre il canton Zurigo sale al 29% grazie alla grande zona agricola. La statistica conferma inoltre che gli anziani che vivono in casa propria sono più numerosi. La classe d’età più frequente è quella fra i 66 e i 75 anni. Uno studio dell’Università di San Gallo dice anche che i giovani fino a 35 anni accedono alla proprietà, in sette casi su dieci, grazie all’aiuto dei genitori. Come favorire l’accesso dei giovani alla proprietà? Il tentativo della Raiffeisen di introdurre un’ipoteca per principianti è stato soffocato nel nascere dall’autorità di vigilanza, e le condizioni di sopportabilità continuano ad essere severe. Dal canto suo, la FINMA non vorrebbe che il mercato ipotecario andasse sempre più a sostituire quello obbligazionario, che oggi non rende più. In realtà, per calcolare il grado di sopportabilità dell’ipoteca, le banche si basano sempre su un tasso fisso di riferimento del 4,55%. Per evitare che molti giovani vengano esclusi dal mercato dell’abitazione in proprio sarebbero necessari alcuni adeguamenti.
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Classe media sotto pressione Ogni epoca della nostra storia ha la sua classe sociale di riferimento. Limitandoci alle esperienze più recenti possiamo affermare che, nel corso dei «trenta anni gloriosi anni» che hanno seguito la seconda guerra mondiale, la classe di riferimento era di sicuro quella operaia. Era il periodo dapprima della ricostruzione e poi di vari miracoli economici che hanno fatto aumentare rapidamente il benessere in tutti paesi dell’Europa occidentale. In quegli anni la crescita economica era sostenuta dall’espansione del settore industriale, in particolare del settore chimico e del metalmeccanico. I lavoratori del settore industriale che, da sempre, hanno rappresentato il fulcro della classe operaia, erano al centro dell’attenzione. Come al centro dell’attenzione era il conflitto tra capitale e lavoro nella distribuzione del reddito prodotto: da un lato la classe operaia, dall’altro quella dei capitalisti. È in questi decenni che poté nascere e svilupparsi, grazie alla rapida crescita dell’economia e grazie all’azione dei
partiti operai e dei sindacati, lo stato sociale. Le trasformazioni del tessuto economico e del modo di operare dell’economia, che si sono succedute a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo, hanno spedito la classe operaia in Paradiso per riprendere il titolo del famoso film di Elio Petri. L’epoca più recente, quella che ha fatto seguito alla grossa recessione della metà degli anni Settanta dello scorso secolo, è un’epoca, tutto sommato, di stagnazione economica che vede la società divisa in tre classi. I poveri, la classe media e i ricchi. L’attenzione di politici e ricercatori si è portata sulla classe media, nella quale, attualmente, si trova la quota maggiore della popolazione. Aiutandosi con limiti di reddito forse un po’ ampi, il nostro Ufficio federale di statistica calcola che gli effettivi della classe media rappresentano in Svizzera il 60% della popolazione. Ma le tendenze di sviluppo in atto sembrano minacciare la sopravvivenza di questa classe. In particolare, per non citare che quella attualmente più discussa, la digitaliz-
zazione dei processi produttivi e delle attività del settore dei servizi. Da quasi tre decenni, la digitalizzazione ha indotto una trasformazione radicale nel mondo del lavoro. Molte attività lavorative sono scomparse, altre sono state esportate in paesi con livelli salariali più bassi. A far paura alla classe media, però, più dell’evoluzione conosciuta sin qui sono i futuri sviluppi della digitalizzazione, quelli per intendersi che vengono designati con la sigla 4.0 per indicare che si tratta della quarta rivoluzione industriale. Questi sviluppi potrebbero portare alla dissoluzione della classe media e al ritorno di un mondo del lavoro diviso in due classi. Da una parte la classe delle persone ben remunerate con alte qualifiche e, dall’altra, quella dei non qualificati o dei tecnologicamente ridondanti, condannati a svolgere attività mal remunerate o, addirittura, ad essere esclusi dal mondo del lavoro. Partendo da considerazioni di questo tipo sul futuro della digitalizzazione, si è sviluppato, nel corso degli ultimi anni, anche un secondo dibattito: quello
sull’evoluzione dell’ineguaglianza nella distribuzione del reddito. Sono molte le pubblicazioni che trattano di questo tema da quando Thomas Piketty ha pubblicato il suo libro sul capitale nel Ventunesimo secolo. Stando alle stesse, nel mondo digitalizzato i poveri diventerebbero sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, mentre la classe media si dissolverebbe, con l’impoverimento della parte maggiore del suo effettivo. Sono molti i casi che si possono citare per confermare questa tesi, non però quello della Svizzera. Come abbiamo già ricordato più volte, nei passati anni, in Svizzera la tendenza alla crescita dell’ineguaglianza sociale non si è ancora manifestata e la quota della classe media nella distribuzione del reddito resta stabile, nonostante il forte incremento di popolazione registrato in questi ultimi due decenni. Ma, come dimostrano, anno per anno, le statistiche, questa stabilità viene assicurata solo dalla politica di redistribuzione del reddito da parte dello Stato. Se doves-
simo togliere i contributi dello Stato al reddito delle famiglie, l’ineguaglianza nella distribuzione del reddito sarebbe in aumento anche da noi. In altre parole, le tendenze in atto nel mondo della produzione inducono anche in Svizzera un rafforzamento dell’ineguaglianza sociale che, per fortuna viene frenato e, per il momento ancora, addirittura annullato, dalla politica di redistribuzione del reddito praticata dallo Stato con la tassazione progressiva del reddito e con le prestazioni delle assicurazioni sociali. Mentre, per il momento, possiamo compiacerci di questa situazione di stallo, non possiamo farci illusioni per il futuro. La tendenza alla crescita della quota di popolazione con più di 65 anni e la necessità di garantire l’equilibrio delle finanze pubbliche obbligheranno a riformare le istituzioni dello stato sociale. Se non troviamo, a livello politico, compromessi efficaci, nel corso dei prossimi decenni, l’ineguaglianza nella distribuzione del reddito ricomincerà ad aumentare anche da noi.
peste qualsiasi elemento maggioritario, che finirebbe in questo momento per favorire il partito più forte, secondo tutti i sondaggi: i grillini. Matteo Renzi è uscito bene dalle primarie tra gli iscritti del partito democratico. Ha vinto con un margine più largo del previsto: circa il 67 per cento, più del doppio di Andrea Orlando, quasi dieci volte tanto Michele Emiliano. Le primarie popolari, indette per il 30 aprile (strana data, in mezzo al ponte più lungo dell’anno, momento tradizionale per gli italiani di gite e vacanze: non proprio il massimo per favorire la partecipazione), confermeranno il verdetto. Paradossalmente però una forte affluenza potrebbe indebolire Renzi, anziché rafforzarlo. Questo perché il leader Pd, che in un primo tempo era considerato nel partito un intruso, oggi è più forte nel partito che nel Paese. Un paradosso per l’uomo che doveva portare la sinistra italiana oltre
le colonne d’Ercole del 30 per cento, giocare la partita a tutto campo, andare a prendere i voti degli indecisi, di Berlusconi, di Grillo: obiettivo fallito, come ha decretato il referendum costituzionale del dicembre scorso. Se si votasse oggi, il presidente della Repubblica Mattarella non potrebbe far altro che dare l’incarico di formare il nuovo governo a un esponente indicato dal Movimento Cinque stelle: forse Luigi Di Maio, forse la sindaca di Torino Chiara Appendino. Ed è possibile che le altre due forze sovraniste, anti-euro e anti-immigrazione, la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, accettino di far nascere un governo grillino, anche senza entrare a farne parte. Per questo Berlusconi, i centristi e una buona parte del Pd non hanno tutta questa fretta di andare a votare. Attendono che Grillo si sgonfi. Ma rischia di essere un’attesa vana. Neppure la palese incapacità della
Raggi di fare il sindaco di Roma sembra danneggiare l’ascesa dei populisti. Anche perché la situazione economica, nonostante qualche segno di ripresa, non è tale da incoraggiare l’ottimismo e il sostegno al governo, qualunque sia. Gentiloni guarda già al dopo elezioni: se il Pd non sfonda (e non sfonderà) ma limita i danni, potrebbe essere ancora lui l’uomo dell’accordo con Berlusconi. L’alternativa potrebbe essere l’unica novità dell’attuale esecutivo: il ministro dell’Interno Marco Minniti. A maggior ragione se la linea di frattura sarà ancora la sicurezza (in Italia in questi giorni non si parla che di rapine e di violenze), collegata nella percezione popolare con due altre grandi questioni: il terrorismo islamico, e l’immigrazione fuori controllo. Sempre nell’attesa dei risultati delle presidenziali in Francia, che potrebbero segnare un’altra sconfitta del populismo dopo quella olandese.
che giornalisticamente valgano più le emozioni e le credenze di chi vende notizie che i fatti accertati e declamati. Ma se la verità è soltanto un «optional», ovvero una questione di secondaria importanza, quel servizio televisivo non rischia forse di essere un esempio di «post verità»? Caso fortuito di sicuro (difficile credere che si volesse favorire qualcuno), sufficiente però a far planare un sospetto: i giornalisti sportivi sono ancora quelli di una volta? Il giorno dopo, oltre a un corsivo sulla prima del «Corriere» in cui il collega rubricista gioca, e bene, le sue carte contro gli atleti moderni – impegnati più a crearsi o a difendere una personalità fuoricampo che a meritare applausi sul campo – ecco una notizia ancor più pertinente al nostro tema: club e stampa, ancora una volta, indissolubilmente accapigliati. Invischiati tra le forche dei playout i dirigenti dell’HC Ambrì hanno pensato di coinvolgere nel momentaccio anche la stampa spor-
tiva. L’hanno fatto stigmatizzando un presunto impegno dei media a destabilizzare l’ambiente, quindi a indebolire allenatore e giocatori, visto che ogni santo giorno si sfornavano soluzioni alternative alla guida tecnica della squadra. Stavo pensando ai gaudiosi lanci mediatici dell’estate, dall’arrivo dei «grandi» rinforzi sino alle gioiose feste popolari, quando il presidente irrompe correggendo: sulle note di «ci hai creduto / faccia di velluto», comunica che aveva scherzato, voleva solo far provare ai giornalisti come si sta dopo una critica ingiustificata. La penitenza inflitta non è uno scherzo: «Scrivete pure tutto il male che volete del presidente, ma per favore, lasciate in pace giocatori e staff in queste settimane decisive». L’umanissimo episodio suggerisce un interrogativo: vuoi vedere che anche i presidenti non sono più quelli di una volta? E con tutte queste carenze, come potrebbe lo sport ticinese essere ancora quello di una volta?
In&outlet di Aldo Cazzullo La forza dei grillini Il governo italiano è sorretto dall’unica forza della sua fragilità. Troppo debole anche solo per cadere, Paolo Gentiloni va avanti in attesa degli eventi: le primarie del Pd, il G-7 di Taormina. E la nuova legge elettorale, che ricorda
molto la tela di Penelope: si disfa di notte il lavoro che viene fatto di giorno, perché le elezioni non le vuole nessuno. In particolare i centristi che sostengono la maggioranza e Berlusconi che non fa molto per indebolirla temono come la
Zig-Zag di Ovidio Biffi Riflessi poco dorati di sport e stampa Avrà fatto il callo l’amico Alcide che su «Azione» disserta di sport e ogni tanto mi vede irrompere nel suo campo come un «flasher». Spero anche che i lettori sapranno togliere (o aggiungere) la tara, tenendo conto che uso l’inchiostro sportivo solo saltuariamente e che sono uno dell’altro secolo. Di sicuro non avranno difficoltà a convenire con me, guardando a quello che capita oggi in Ticino, che i riflessi dorati scarseggiano nei gironi dello sport. So benissimo che, come nell’economia e nella società in generale, anche nello sport ci sono dei cicli imposti da contingenze varie. Ma decisamente da troppo tempo in Ticino ci troviamo alle prese con fallimenti, recuperi o cali, e di riflesso siamo messi piuttosto male, in generale declino. La colpa? Come sempre: di nessuno e di tutti, quindi anche dei media come da tempo si cicaleggia. Non è una novità che il mondo dello sport indichi o cataloghi i media tra gli animali feroci; il perché va forse
ricercato in questa ambivalente analisi: «Quando un uomo vuole uccidere una tigre, la chiama sport. Quando la tigre vuole uccidere lui, la chiama ferocia». Ma più che arrovellarsi sulle colpe attuali, vale la pena chiedersi come diavolo abbia fatto, fino a pochi anni fa, lo sport ticinese a muoversi così disinvolto e dinamico, in posizioni di élite e anche di eccellenza, inviando atleti a vestire maglie delle nazionali in diverse discipline, nel calcio e nell’hockey, interessando anche i livelli meno popolari con lo sci, il ciclismo, il nuoto, la pallacanestro e così via. Ciclo finito e che non tornerà? Chissà. Sarebbe però utile conoscerne cause o motivi, almeno per sapere come reagire al declino. Invece ci si incaponisce (tutti: dai presidenti agli allenatori, con la stampa perennemente incolonnata) a inseguire sceneggiate ormai quotidiane. Così, per inseguire le sue assurde utopie, lo sport ticinese è costretto a ingaggiare bande sempre più numerose di
mercenari (ogni riferimento a «Prima i nostri» è casuale) perché, dicono tutti, non ci sono più gli atleti di una volta. Ma davvero mancano solo quelli? Scrivo queste note dopo aver seguito, la domenica pomeriggio, un giornalista sportivo della Rsi specializzato in fondi (non in fondi di giornali, cioè editoriali; no: in fondicampo televisivi, praticamente l’inviato che a Mai dire goal chiamavano «raccattapalle per microfoni»). Era lì con un servizio sul FC Lugano al mare (4 giorni durante la pausa per la nazionale) in cui, come biscotti nel budino, c’erano interviste ai giocatori, ovviamente e rigorosamente riferite all’ennesima burrasca fra presidente e allenatore. Passato il filmato, ciacolando con il conduttore della trasmissione, l’autore avvisa, sereno come una pasqua, che quanto i giocatori hanno detto («non ci riguarda», «nessun problema», «tüt a posct», «siamo professionisti noi») poteva anche non essere vero. Ci siamo: pare
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Cultura e Spettacoli La schiettezza di Paolo È appena uscito il primo romanzo di Cognetti, scrittore dotato, concreto e sincero
Un successo strabiliante Nel suo nuovo album Divide Ed Sheeran oscilla tra pezzi fortemente commerciali e altri che ne denotano l’indubbio talento
Il coro del Papa in tournée Il direttore della Cappella Musicale Pontifica «Sistina» Massimo Palombella racconta il «suo» coro
Venezia e le bestie In una mostra in Laguna l’artista Pierre Casè presenta il suo personale bestiario
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G. van Wittel, Colosseo al tramonto (Archivi Alinari)
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Il Colosseo si mostra
Archeologia Fino al 7 gennaio 2018 Roma dedica un’esposizione al suo splendido monumento, simbolo della città Blanche Greco «Quella sera con un bel chiar di luna siamo andati al Colosseo. Ai rintocchi della mezzanotte, il custode, che era stato avvertito, ci ha aperto, ma come suo dovere, non ci lasciava mai. Allora lo abbiamo mandato a prenderci qualche boccale di vino buono all’osteria più vicina. Una volta soli nell’immenso edificio, abbiamo goduto di uno spettacolo magnifico e per niente melanconico. Era una grande e sublime tragedia, e non un’elegia». Stendhal nelle sue Promenades dans Rome, racconta che lasciò il Colosseo con amici e musicisti, alle due di notte, dopo un intermezzo musicale con il «prezioso quartetto di Bianca e Faliero di Rossini», e aver letto «alla luce chiara della luna», alcuni versi di Lord Byron, che di Roma e del Colosseo aveva già provato gl’incanti pochi anni prima. Era il novembre del 1828, e l’anfiteatro, che dalla metà del 1600 era diventato una delle mete romantiche del «Grand Tour», si ergeva enorme e solitario tra i campi e le vigne, ammantato di ombre, di echi luciferini, e spiriti magici che si nascondevano tra le frondose rovine. Infatti il vento, che da sempre spira impetuoso tra le arcate, le aveva riempite di terra, di vegetazione e di fiori, rendendole
simili a dei giardini pensili e selvaggi, dove abbondavano piante rare e tropicali, studiate da illustri botanici già nel 1648 nel primo trattato sulla flora del Colosseo. Sino alla fine dell’800, la «sensibilità romantica» impose ai nobili e intellettuali viaggiatori, il brivido di una visita al Colosseo al chiar di luna, come mostra anche un suggestivo schizzo di Goethe. Ma come avvertivano le guide del tempo, erano da evitare gl’insidiosi sotterranei, infestati di pericolose zanzare che fecero diverse vittime tra i visitatori, come la civettuola e capricciosa Daisy Miller, eroina dell’omonimo romanzo di Henry James, che per un furtivo bacio al tramonto, sfidò la sorte e morì a Roma di malaria. Queste e molte altre storie fanno parte del «fil rouge» che percorre la mostra: Colosseo. Un’icona a cura di Rossella Rea, Serena Romano e Riccardo Santangeli Valenzani, sulle metamorfosi di questo monumento arrivato sino a noi dopo circa 2000 anni di storia, e che oggi è annoverato tra le sette meraviglie del mondo moderno e visitato da più di sei milioni di persone all’anno. Da luogo di spettacoli, a «spettacolo» esso stesso, l’Anfiteatro Flavio, come era chiamato, è passato dai fasti dei giochi imperiali e delle potenti fa-
miglie romane per cui era stato creato nell’80 d.C. al totale abbandono, con la caduta dell’Impero Romano antico e l’avvento dei cristiani che, malgrado le suggestioni cinematografiche di Quo Vadis, non erano mai stati messi a morte nel Colosseo, e tuttavia di giochi gladiatòri e di divertimenti con spargimento di sangue, non ne volevano sentir parlare. E così l’Anfiteatro, divenuto Colyseus per l’enorme statua dorata di Nerone, poi Apollo, che gli sorgeva accanto, restò inutilizzato dal 523 d.C., fu in parte smantellato sotto Teodorico e i visigoti, conobbe il saccheggio e sopravvisse a violenti terremoti. Nel Medioevo, avamposto solitario di una Roma più piccola e meno popolosa, il Colosseo fu scelto come abitazione da aristocratici, mercanti e popolo minuto che al suo interno ricavarono appartamenti, strade, stalle, magazzini e botteghe, mentre la nobile famiglia dei Frangipane oltre alla propria residenza, ci costruì una fortezza con cui affermava il proprio potere e controllava le importanti strade che lo costeggiavano. Molte furono anche le congregazioni che intorno al 1300, anni in cui i Papi avevano lasciato Roma, addossarono chiesette e cappelle alla gigantesca struttura. Pensiamo a quella di San Giacomo – di cui rimangono schizzi e disegni – appartenuta
alla potente confraternita del Santissimo Salvatore, che al Colosseo nel 1500 creò anche un ospedale per i poveri e i pellegrini. Papa Sisto V lo avrebbe voluto consacrare e Gian Lorenzo Bernini progettò una cappella da situarsi al centro dell’arena del Colosseo, che non venne realizzata, come altre proposte similari. Per il Giubileo del 1750 però Papa Benedetto XIV fece approntare quattordici edicole della Via Crucis, disposte sul perimetro dell’arena, rimosse durante l’occupazione napoleonica, poi ricostruite, e ancora spostate, mentre gli archeologi cominciavano ad interessarsi e a scavare nel passato del monumento. Come la mitica Fenice, o forse più simile ad una gigantesca nave aliena, il Colosseo ha attraversato varie epoche, affascinante relitto che non passa mai inosservato: la sua immagine si ritrova al centro delle «bolle imperiali», i lussuosi sigilli usati da Federico Barbarossa nel XII secolo; nel «ritratto» quattrocentesco di Roma di Taddeo Bartolo al Palazzo Pubblico di Siena; nei quadri dei pittori fiamminghi Peter Brueghel il vecchio lo immortala come una Torre di Babele; ma anche Giovanbattista Piranesi si cimenta con il Colosseo nelle celebri acqueforti delle sue Antichità romane, mentre intorno al 1800 Carlo Lucangeli ne fa una ripro-
duzione tridimensionale, un modello in legno spettacolare e accurato che si può ammirare in mostra. Tornato al centro del panorama romano con l’apertura di via dei Fori Imperiali voluta da Mussolini, appare nelle foto della Roma liberata, assediato dai mezzi militari americani e dalla folla in festa. Se per Goffredo Parise bisognava «abbattere il Colosseo e rifarlo uguale, ma di plastica», Guttuso lo vedeva: «mezzo braciere e mezzo ossario», e lo dipinse come una natura morta di rovine. La mostra Colosseo. Un’icona attraverso più di cento opere racconta ai visitatori come nei secoli sia stato vissuto, immaginato, ritratto, studiato e restaurato. Tra le opere vi sono i reperti dei recenti scavi archeologici che ne confermano le trasformazioni, ma anche i quadri, gli scritti e le più varie rappresentazioni di cui è protagonista questa mitica «scenografia» di Roma, che secondo gli archeologi che continuano gli scavi, molto ancora ha da raccontare della città e del proprio lungo e travagliato passato. Dove e quando
Il Colosseo, Un’icona, Roma, Colosseo. Fino al 7 gennaio 2018. Orario estivo: 08.30-19.15.
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Cultura e Spettacoli
I figli della morte
In memoriam In ricordo di Primo Levi, nel trentennale della scomparsa
Daniele Bernardi Hurbinek, Henek, Peter Pavel e Kleine Kiepura: questi i nomi che mi sento di riportare, a trent’anni dal suicidio di Primo Levi (Torino, 1919-1987). Se difficile, in generale, è pronunciarsi sul destino di uno scrittore, difficilissimo è farlo con l’autore di Se questo è un uomo (1947). Le motivazioni ovvie (un muto rispetto di fronte al rigore nella catastrofe – ma quanto suonano vuote queste parole – e la volontà di non aggiungere niente a quanto è stato perfettamente detto con dolente coraggio), presto, lasciano spazio a quelle complesse: mentre la memoria della Shoah – che, ricordiamolo, in ebraico significa «tempesta devastante» – via via diviene il racconto di un racconto, come proteggere, oggi, la memoria di un vissuto la cui paradossale mercificazione è molto più di un ipotetico rischio? Forse, unicamente, avvicinando le pagine della Storia con la circospezione di chi si accosta a una tomba – come scrisse Giuseppe Ungaretti: «Cessate di uccidere i morti, / Non gridate più, non gridate / Se li volete ancora udire, / Se sperate di non perire. // Hanno l’impercettibile sussurro, / Non fanno più rumore / Del crescere dell’erba, / Lieta dove non passa l’uomo». Purtroppo, in questo tempo sguaiato non tutti credono ancora sacro considerare il valore del dolore pagato a carissimo prezzo e l’essere umili davanti alle macerie dell’umano. È per tale preziosa comunità che ho scelto di cogliere, dal secondo capitolo de La tregua (1963),
Primo Levi (31 luglio 1919 - 11 aprile 1987) in un’immagine non datata. (Keystone)
l’immagine di quattro bambini vissuti in Auschwitz assieme a Levi quando il campo veniva abbandonato al suo destino. Comincerò da Kleine Kiepura, «la mascotte di Buna-Mònowitz» (si tratta di una zona di lavoro). Dodicenne, «cresciuto troppo e male», era «il protetto del Lager-Kapo, il Kapo di tutti i Kapos» e i più lo guardavano con sospetto – «il suo nome», scrive Levi, «a torto, come spero, veniva sempre sussurrato nei casi più clamorosi di denunzie anonime alla Sezione politica e alle SS». Una volta che il centro di annientamento era stato evacuato, il ragazzo aveva seguito il destino di quelli che restavano e, per alcuni gior-
ni, se ne era stato rannicchiato in un angolo «con lo sguardo fisso nel vuoto». Poi, improvvisamente, aveva rotto il silenzio e preso a sproloquiare come un computer impazzito: nel suo delirio, sosteneva di «aver fatto carriera»; di essere, finalmente, divenuto Kapo: «Non si capiva se fosse follia o un gioco puerile e sinistro», continua Levi, «senza tregua, dall’alto della sua cuccetta vicino al soffitto, il ragazzo cantava e fischiava marce di Buna, i ritmi brutali che scandivano i nostri passi stanchi ogni mattina e ogni sera; e vociferava in tedesco imperiosi comandi ad uno stuolo di schiavi inesistenti». Il secondo bimbo si chiamava Peter Pavel. A non più di cinque anni era
divenuto capobanda di quel branco di «animaletti selvaggi e giudiziosi» che era il clan dei piccoli. Autonomo, taciturno, indipendente, era «biondo e robusto, dal viso intelligente e impassibile». Sapeva badare a se stesso e non chiedeva aiuti di alcun genere. Spariva dalle prime ore del giorno e si presentava solo per reclamare la zuppa e rimettersi a letto senza cambiare posizione sino al mattino seguente. Viene poi il turno del sagace Henek. Transilvano, quattordicenne, «di piccola statura e di aspetto mite» ma con un’insolita «muscolatura d’atleta», il suo nomignolo – in realtà si chiamava König – gli era stato dato da due ragazze che nutrivano un’ambigua simpatia nei suoi confronti. Il «mulino da ossa» del Lager era stato per lui «una buona scuola»: presto aveva appreso a mentire e dichiaratosi maggiorenne all’ingresso del mattatoio (dove la sua famiglia era stata sterminata all’istante) era scampato alla morte divenendo Kapo del Block dei bambini. Fin da piccolo, raccontava, assieme a suo padre aveva imparato a sparare ai rumeni lungo il confine e ad andare a caccia nei boschi. Mentre gli altri bimbi sostavano a Birkenau «come uccelli di passo», Henek «aveva subito capito la situazione»: grazie alle relazioni che aveva saputo intessere era sopravvissuto sino alla liberazione, selezionando personalmente le piccole vittime da mandare al gas. Ma fra tutte le creature, personalmente, quella che più lascia senza fiato è l’innocente Hurbinek. «Era un nulla», scrive Levi, «un figlio della morte,
un figlio di Auschwitz». Muto, senza nome e privo di storia – quell’appellativo era stato inventato da chi aveva tentato di interpretare i suoni inarticolati che emetteva – «era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo». «La parola che gli mancava», prosegue Levi, «che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere». Alla liberazione, proprio di Hurbinek – «che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero» – con cure materne si occupò lo stesso Henek: lo accudiva, gli dava da mangiare, lo ripuliva dalle lordure della miseria e, sempre, gli si rivolgeva «con voce lenta e paziente». Ancora su Hurbinek, Levi, con quella forza morale che gli è propria, dice «nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole». Ed è forse per questo che, oggi, nel rammentare il valore dello scrittore scomparso, non posso fare altro che tornare al ricordo di queste vite sbranate, poiché la loro immagine, che non sorge dalle trasfigurazioni di Ágota Kristóf o dalle fantasie di William Goldin, è il segno del tempo più vicino, del resto atroce di una realtà che non deve smettere di ammutolire. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Una nana come paradigma umano Narrativa/1 Esce per i tipi di Bompiani L’isola dei pavoni del tedesco Thomas Hettche Luigi Forte Un mostro, esclamò la regina Luise scorgendo all’improvviso nel sottobosco il piccolo Christian. Non era un bambino, ma un nano dal naso largo, animalesco, la voce da ventriloquo e le mani corte che penzolavano accanto al corpo tarchiato. Un mostro come sua sorella Marie, che quella parola non riuscì più a dimenticare per tutta la vita. Nel suo ultimo romanzo L’isola dei pavoni tradotto da Francesca Gabelli per l’editore Bompiani, Thomas Hettche rivisita la storia prussiana dell’Ottocento da una sorta di giardino dell’Eden, da quel lembo di terra che sembra una nave ancorata in un angolo del fiume Havel fra Potsdam e Berlino. È il racconto di un idillio che il tempo e gli eventi offuscano, di un mondo originario che il progresso altera e degrada, visto con gli occhi di una nanerottola che si fregiava del titolo di giovane castellana. Anche stavolta Hettche, nato a Treis-Karden nel 1964, cresciuto culturalmente a Francoforte fra germanistica e filosofia, con un debole per lo sperimentalismo, si mostra narratore preciso e curioso, amante del bizzarro e incline a grottesche fantasie. Già nell’ottimo noir, Il caso Arbogast (Einaudi, 2004) la sua scrittura rasentava il documento per spingersi ben oltre verso i fantasmi di una verità inafferrabile e ambigua. Là c’erano corpi inanimati, cadaveri: era un modo quasi epidermico di tallonare i personaggi. L’autore stesso ammise: «Le vicende di una vita sono sempre ciò che si può leggere sulla pelle». Qui gli eventi si seguono invece attraverso le deformazioni del corpo: la storia di Marie Dorothea Strakon giunta bambina su quell’isola felice è una sorta di esotica e triste fiaba che si alimenta di diversità e di profondi turbamenti. «Tutto così piccolo!», le sussurrava il suo amico Gustav destinato a crescere
ben più di lei e a integrarsi nella realtà degli adulti. Marie ha un cuore grande che i difetti del nanismo rischiano di soffocare. Eppure tutti le vogliono bene, a cominciare dal giardiniere di corte Fintelmann e da suo nipote Gustav, l’amore impossibile della saggia e sensibile nana, che da lui avrà un figlio che le verrà sottratto. Anche il re Federico Guglielmo III ama osservarla e talvolta, durante le sue brevi visite, la intrattiene sulla moglie Luise ormai scomparsa. Col tempo Marie diventa un’icona, un oggetto curioso da ammirare, una delle tante stranezze di quell’isola felice che la fa sentire perfino bella. Mentre il fratello Christian, inafferrabile e misterioso, si aggira come un fauno in quel paesaggio di acque e di fogliame per rispuntare d’improvviso nel loro nascondiglio segreto, rifugio di baci e amplessi. Si appartengono in quanto anomali e quasi inconsapevoli custodi di un’epoca in declino e le loro sagome bizzarre e ferme nel tempo testimoniano che il futuro ha radici nel passato.
Nel suo affascinante libro Hettche fonde sentimentalismo e riflessione, storia e guizzi fantasiosi L’isola dei pavoni è una sorta di baluardo contro ogni tentazione moderna, che pur s’insinua in quella natura ancora genuina attraverso le geometrie del grande architetto del paesaggio Peter Joseph Lenné, che la riplasmano in pura bellezza. Persino Marie ne è contagiata e scopre nuovi percorsi e prospettive che sembrano cancellare ogni senso di estraneità. È incantevole perdersi nel labirinto del roseto con la pergola disegnata da Schinkel, e am-
mirare ovunque centofoglie, ibischi, rampicanti, le nuove ortensie coltivate da Gustav e le palme acquistate presso un collezionista parigino, mentre i pavoni ostentano per la parata nuziale lo splendido blu delle loro piume che talvolta pare di ghiaccio. Ma l’ambiente è destinato a mutare. Le gabbie degli animali, su richiesta dello stesso monarca, si riempiono di nuove specie esotiche per l’istruzione e il divertimento dei turisti che ora affollano quel paradiso. Il progresso avanza e le novità sono ormai all’ordine del giorno: il primo parafulmine prussiano viene installato sul castello dell’isola, mentre Lenné fa costruire sull’Havel, con il consenso del re, un impianto idraulico a vapore per rifornire di acque tutte le piante e gli animali futuri. Hettche incalza il lettore con fatti, personaggi, aneddoti. Ci invita alle feste di Federico Guglielmo II e della sua giovanissima amante Wilhelmine Enke, ci guida nel serraglio fra lama, struzzi e pappagalli, mentre Marie scopre, in compagnia del principe ereditario, lo stanzino haitiano rivestito di tela dipinta. Ma le sorprese non si fermano qui. Il vecchio Fintelmann raccontava ai nipoti la storia dell’alchimista e metallurgista Johann Kunckel, che praticava la magia nera ai tempi del Grande Elettore, e sognava di fabbricare l’oro nel suo laboratorio sull’isola. Forse il suo spirito aleggia ancora fra i boschi insieme al suo cane dagli occhi di fuoco. In quel mondo di meraviglie, dove il fragore del mondo è un debole fruscio fra gli alberi, Hettche articola gli eventi della monarchia prussiana come su una scena astratta e lontana. Vi attraccano le Altezze Reali, i consiglieri di corte, membri delle migliori famiglie del regno, e persino il futuro Guglielmo I con la giovane moglie Augusta di Sassonia in fuga da Berlino. Ma il teatro della storia resta lontano e allo scrittore riesce il miracolo di filtrarlo con dolcezza e malinconia attra-
Un particolare del libro di Hettche, finalista, nel 2014, del Deutscher Buchpreis.
verso il destino della dolce Marie che condensa in sé il tramonto di un’epoca, che rifugge il caos della modernità che lei stessa osserva con sgomento durante una breve visita a Berlino. La nana diventa il vero paradigma umano, la mediatrice di una sensibilità a cui gli altri sono per lo più refrattari. Se si esclude forse l’amico Carl, il gigante, un veterano di guerra che lavora al castello, e Peter Schlemihl, il personaggio del romanzo di Chamisso, che non a caso si sentiva estraneo e isolato fra gli uomini. Ma chissà che anche lui non sia frutto della sua fantasia. È ormai ottantenne la piccola Marie quando si volge indietro, fra sogno e realtà, a ripercorrere i momenti più drammatici della propria vita: la morte del fratel-
lo ucciso in un attimo d’ira dallo stesso Gustav, la perdita del figlio cresciuto altrove e che pensa di riconoscere in un giovane turista, l’amore impossibile con il suo venerato amico e compagno. Hettche sa fondere in modo raffinato sentimentalismo e riflessione, storia e guizzi fantasiosi. Come la nanerottola Marie, donna colta e intelligente, lettrice onnivora, creatura fiabesca che scompare nell’incendio della serra delle palme. Di quel mondo non resta che il bagliore del fuoco e la magia di mille voci sospese nel tempo. Bibliografia
Thomas Hettche, L’isola dei pavoni, Bompiani, pp. 279, Є.
Dall’ascolto e dal silenzio un esordio con il botto
Narrativa/2 Dopo molti racconti di successo, Paolo Cognetti approda al romanzo – Il giovane autore italiano sarà
ospite di Chiassoletteraria all’inizio di maggio Pietro Montorfani Lasciatemelo scrivere: finalmente, finalmente un narratore italiano di oggi capace di suscitare vasti e incondizionati entusiasmi, nettamente al di sopra della politica dei bestseller progettati a tavolino, delle copertine ad effetto, dei libri che strillano invece di parlare. Paolo Cognetti è arrivato al successo straordinario del suo primo romanzo (Le otto montagne, edito da Einaudi lo scorso mese di ottobre e già in traduzione in tutto il mondo) dopo un lungo apprendistato fatto di documentari e racconti, di riflessioni sullo scrivere, di traduzioni dall’inglese. Ci è arrivato senza abbandonare la sobrietà dello stile e l’umiltà della persona, due caratteristiche che lo avvicinano molto alle montagne da lui tanto amate e celebrate. Che si possano ancora scrivere storie brevi, incisive, pulite, fatte di personaggi e luoghi reali, paghe della loro calma misura, è una benedizione. Nell’epoca dello strapotere dell’immagine, della retorica postmoderna e del poliziesco a ogni costo, Cognetti rappresenta un ritorno al più sano (e perciò più alto) orizzonte dello scrivere, nel quale entrano senza timori le grandi questioni che sempre covano sotto la lava ‒ amicizia, amore, perdono, morte, destino ‒ perché all’altro capo del filo c’è una lingua capace di accoglierle e di renderle vive sulla carta. Il merito, oltre
Il 7 maggio presenterà il suo romanzo a Chiassoletteraria. (Wikipedia)
che della perizia tecnica, sta soprattutto nella capacità di ascolto, di sé e degli altri, e nel lento decantare di una riflessione favorita dal silenzio (due cose che raramente si insegnano nelle scuole di scrittura). Certo non si può dire che Cognetti rappresenti una novità: nato e cresciuto nel gremio dei giovani autori di Minimum Fax, la casa editrice romana a cui
non saremo mai abbastanza riconoscenti per il grande lavoro di scouting presso le nuove leve, ha all’attivo tre raccolte di racconti (Manuale per ragazze di successo, 2004; Una cosa piccola che sta per esplodere, 2007; Sofia si veste sempre di nero, 2012) e una serie di meditazioni attorno all’arte di scrivere (A pesca nelle acque più profonde, 2014) in cui si esplicitano i riferimenti culturali
dell’autore: Raymond Carver, Ernest Hemingway, J. D. Salinger, Alice Munro, John Cheever, Flannery O’Connor. Quale sia il minimo comune denominatore di questi giganti della narrativa è presto detto: sono tutti americani, statunitensi o canadesi, e scrivono in inglese. Non è quindi un caso se Cognetti, prima del grande salto nel catalogo dell’editore torinese, abbia curato per Einaudi una personalissima antologia di storie ambientate a New York (da Fitzgerald a Truman Capote, da Mario Soldati a Pasolini), anch’essa una dichiarazione d’amore per un certo tipo di libro e per un certo tipo di letteratura. Il passo dall’America novecentesca, delle metropoli e delle lande desolate, alle montagne valdostane è meno azzardato del previsto se a farsene garante è proprio la secchezza della lingua e, soprattutto, la totale assenza di quei «trucchi da quattro soldi» che erano per Carver la vera morte della scrittura. Davvero non ci sono trucchi nella storia di Pietro e delle sue estati trascorse a Grana (l’originale è Graines, in Val d’Ayas, ma si intravede qualcosa anche della valle di Gressoney), una lenta introduzione alla vita adulta fatta di passeggiate con il padre e di confronti duri, da uomo a uomo, con l’amico Bruno, con il quale è impossibile non essere sinceri. Un libro molto maschile, molto all’antica anche laddove si pongano questioni moderne come l’inevitabile
scontro generazionale: «Mio padre morì quando lui aveva sessantadue anni, e io trentuno. Solo durante il funerale mi accorsi di avere l’età che aveva lui quand’ero nato io. Ma i miei trentun anni assomigliavano ben poco ai suoi: io non mi ero sposato, non ero entrato in fabbrica, non avevo fatto un figlio, e la mia vita mi sembrava per metà quella di un uomo, per metà quella di un ragazzo». L’esperienza diretta della vita in montagna, dal massiccio alpino alle cime del Nepal, non sfocia mai in una facile mistica delle vette, oggi molto à la page, ma tiene anzi l’autore saldamente ancorato alla concretezza delle cose, ai sassi, alle case, al cibo, al destino affascinante e complesso di ciascuno. È una prova maiuscola, questa di Cognetti, con soltanto il sospetto che sia servita una massiccia quantità di vissuto, un intero trentennio distillato passo passo in poche decine di pagine. Con questi parametri, il prossimo libro sarà una vera sfida. Bibliografia
Paolo Cognetti, Le otto montagne, Einaudi 2016, 199 pagine. Dove e quando
Paolo Cognetti sarà ospite di Chiassoletteraria domenica 7 maggio alle ore 16.45 allo Spazio Officina di Chiasso. www.chiassoletteraria.ch
Foto: Alexandra Wey
Pubbliredazionale Jaramana – un focolaio di crisi Il quartiere di Jaramana a Damasco ha sempre accolto a braccia aperte gli stranieri. I primi furono i profughi palestinesi, poi quelli iracheni. Dall’inizio della guerra nel 2011 il quartiere è il punto d’arrivo per i siriani in fuga da tutte le parti del Paese. Negli ultimi anni la popolazione si è più che raddoppiata. E ogni giorno arrivano famiglie nuove, dai paesi o da altri quartieri dove sono ancora in corso gli scontri tra l’esercito siriano, i ribelli e i combattenti islamisti. Jaramana è un quartiere abitato tradizionalmente da drusi e cristiani, ma dove le religioni convi-
vono di comune accordo. Benché sia stato più volte obiettivo di attacchi suicidi e benché la guerra si sia svolta nelle immediate vicinanze, il quartiere finora è stato risparmiato da combattimenti e bombardamenti. Sei mesi fa una granata ha colpito non lontano dalla casa della famiglia Al-Ahmad. Le schegge hanno mancato di pochi centimetri il viso di Zahra, moglie di Ali. Il quartiere dove è stata lanciata la granata è stato sgombrato, però da lì provengono ancora rumori di salve sparate con le mitragliatrici. Ma nessuno si preoccupa. La vita deve continuare, costi quel che costi.
Caritas aiuta con il necessario A Jaramana tra le risorse e le necessità delle persone c’è un abisso immenso. Al centro di Caritas sono registrate 5000 famiglie. A Homs le famiglie sono più di 11 000. Ad Aleppo vengono distribuiti 8000 pasti al giorno per cinque giorni alla settimana.
te online su: n e m a tt e ir d ia Donare /donazionesir h .c s ta ri a .c w ww Ali Al-Ahmad e sua moglie Zahra soffrono molto per la morte del primogenito.
Ali Al-Ahmad (49 anni): «Per quanto tempo ancora?»
Caritas presta aiuti diretti distribuendo buoni del valore tra i 50 e gli 80 franchi che consentono alle famiglie di acquistare vestiti, detersivi, coperte e beni alimentari (niente sigarette e articoli cosmetici). I buoni lasciano la scelta alle persone che sanno meglio di chiunque di cosa hanno bisogno. Caritas aiuta anche a pagare gli affitti che sono in continuo rialzo in seguito alla forte domanda da parte dei profughi. Caritas è riuscita a concludere degli accordi con cliniche e ospedali sui costi delle cure, prese a carico appunto da Caritas. Tra le misure di aiuto più importanti vi sono inoltre il sostegno psicologico e il sostegno ai bambini per la frequentazione della scuola.
La famiglia di Ali Al-Ahmad è una di milioni di famiglie che hanno perso la propria casa a causa della guerra in Siria. Il figlio maggiore è stato ucciso in guerra. La famiglia prova giorno dopo giorno a superare il lutto e a guardare avanti. Il suo dolore è infinito. Si chiede ogni giorno quando tutto questo finirà. «Se trovo lavoro, abbiamo qualcosa da mangiare, se no…» Ogni giorno Ali Al-Ahmad si propone alla sfida. Ora dopo ora l’uomo esile, invecchiato precocemente, si aggira nel quartiere di Jaramana, una periferia di Damasco, in cerca di lavoro. Quando guadagna un po’ di denaro, sua moglie Zahra (45) e i tre figli sopravvissuti Zenab (20), Hussein (17) e Hassan (12) non devono andare a letto con la pancia vuota. La famiglia Al-Ahmad è fuggita nel 2012 dal suo paese nei pressi di Aleppo e ha cercato rifugio a Damasco. Vive sul tetto di un condominio. Sebbene il loro
appartamento non protegga dalla pioggia, dal freddo d’inverno e dal caldo torrido d’estate, Ali è soddisfatto di questa dimora, perché l’affitto è basso e perché lui può guadagnare qualcosina con piccoli lavoretti di portineria. Un aiuto indispensabile Ali è fortunato perché si arrangia a fare di tutto. Aggiusta lavandini e libera gli scarichi. Non disdegna nemmeno trasportare la merce nel mercato. Ma neanche quest’uomo instancabile ce la fa a mantenere la sua famiglia. Ha bisogno di aiuto.
Ad agosto 2016 il figlio maggiore ha perso la vita in guerra, ad appena 22 anni. Mamma Zahra sta per ore seduta accovacciata e appoggiata contro una parete, lo sguardo nel vuoto: «Penso a mio figlio, nient’altro.» Ogni venerdì la famiglia si reca alla tomba di Mohamad che si trova in un paese distante 20 chilometri. Con la morte del fratello più grande, anche Hussein ha perso ogni appoggio. Non lascia quasi mai la sua stanza. L’impotenza e il sentirsi indifesi sfociano spesso in violenza. Ma Zenab e Hassan lottano instancabilmente per non lasciare che la famiglia si sfasci. E anche Ali tenta con tutte le sue forze di tenere riunito il suo piccolo mondo. «Prima della guerra vivevamo nella regione di Aleppo in modo molto semplice, ma avevamo il necessario. Ulivi, qualche animale, da mangiare. I figli andavano a scuola» ci racconta con nostalgia. Continua a tenere stretta la foto del figlio. E ogni volta i suoi occhi si riempiono di lacrime. La famiglia cerca giorno dopo giorno di lasciarsi il passato alle spalle e di guardare al futuro. E ogni giorno si domanda quando finalmente finirà la sofferenza. * Nomi e cognomi sono stati cambiati per tutelare le persone.
Per maggiori informazioni su Ali Al-Ahmad e sulla sua famiglia: farelacosagiusta.caritas.ch
Conto donazioni: 61-483603-8 Per donazioni online: caritas.ch/donazionesiria
Ali Al-Ahmad con il suo figlio più piccolo Hassan.
Aiuti oggi con una donazione
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Cultura e Spettacoli
Travolto dal successo
Musica Il nuovo lavoro del giovane Ed Sheeran denota una tensione
creativa che va oltre il pop di matrice puramente commerciale
Una vita semplice vista dall’autobus Filmselezione Poesia del quotidiano
in uno dei migliori film di Jim Jarmusch Benedicta Froelich Le ultime annate discografiche hanno dimostrato come l’età media delle star emergenti della scena pop-rock angloamericana si sia via via abbassata, al punto che parecchi recenti debuttanti si sono ritrovati travolti da immediato successo quand’erano poco più che adolescenti. Uno dei migliori esempi attuali è quello di Ed Sheeran, assurto al rango di massimo performer pop britannico grazie all’incredibile successo del suo terzo disco, Plus (2011), pubblicato alla tenera età di vent’anni; da allora, il giovane cantante non ha fatto un solo passo falso, al punto che il suo quinto lavoro (Divide, da pochi giorni nei negozi) è già un bestseller mondiale – anche se nessun recensore può ignorare il fatto che Shape of You, primo singolo di lancio dell’album, sia in realtà contraddistinto da sconcertante banalità, trattandosi di un poco fantasioso esempio di elettro-pop commerciale come se ne trovano decine in qualsiasi compilation di disco-dance. Fortunatamente, però, inserendo il CD nel lettore ci si rende conto che Divide offre parecchi brani dotati di maggiore inventiva compositiva: infatti, pur rimanendo nell’ambito dell’easy listening, atmosfere musicalmente più interessanti si possono riscontrare nell’energico Eraser – quasi interamente cantato in un ritmato recitativo non troppo dissimile da un vero e proprio rap à la Jay-Z – e anche in una traccia quale l’autobiografica Castle on the Hill, sorta di «amarcord» adolescenziale in salsa anglosassone; mentre la pur divertente New Man sembra confermare l’impressione che Sheeran tenda sovente a realizzare brani «riempitivi», al solo scopo di soddisfare la richiesta di un certo sound commerciale ormai implicita nei dettami dei passaggi radiofonici promozionali. Una sensazione confermata dalla sorprendente duttilità e diversità stilistica evidenti nel resto della tracklist, nella quale non mancano nemmeno due brani intrisi di atmosfere celtiche: il primo di essi, Galway Girl, non è che l’ennesima riproposizione di un cliché narrativo assai amato dai cantanti americani – quello della sfuggente ma adorabile fanciulla irlandese incontrata dall’io narrante
Fabio Fumagalli ****Paterson, di Jim Jarmusch, con Adam Driver, Golshifteh Farahani, Kara Hayward (Stati Uniti 2016)
Ed Sheeran in una foto scattata a New York in marzo. (Keystone)
in un pub della nota cittadina costiera – e qui reso particolarmente gradevole dal notevole accompagnamento del fiddle (versione «popolare» del violino). Da parte sua, l’irresistibile bonus track Nancy Mulligan è in tutto e per tutto una tradizionale ballata folk tipica dell’Isola di Smeraldo, con tanto di cori entusiasti, tin whistle e ritmi incalzanti tipici dell’Irish Step Dancing, che ne fanno un irresistibile divertissement, impreziosito dalla sua natura autobiografica (Nancy Mulligan era la nonna paterna di Ed). Suggestioni altrettanto gioiose si riscontrano anche in un altro pezzo presente solo nella deluxe edition del CD – Barcelona, sorta di cavalcata spensierata attraverso le atmosfere di una città oggi particolarmente «trendy» e alla quale Sheeran, come già Freddie Mercury prima di lui, rende appassionato omaggio; in questo caso, l’orecchiabilità del brano è tale da permettere di sorvolare sugli innumerevoli stereotipi che ne popolano le liriche. Meno convenzionali, per fortuna, le ballate romantiche che il CD offre: in particolare, stupiscono pezzi raffinati come Hearts Don’t Break Around Here e Perfect – esemplari richiami al più delicato soft rock anni 90, che certo non mancheranno di emozionare gli ascoltatori più giovani. Risulta efficace anche l’agrodolce e solenne Happier, cronaca delle sensazioni che colgono un ex partner nel momento in cui si rende conto di essere definitivamente divenuto, nella mente della sua
compagna di un tempo, un semplice elemento del passato; più convenzionale, al confronto, il pop romantico di How Would You Feel (Paean), che potrebbe provenire direttamente da un album di Mariah Carey. Tuttavia, ciò non fa che confermare come, ancor più che in passato, Ed sembri intenzionato a esplorare il lato più dolente e intimista del suo songwriting – come dimostra Save Myself, pezzo pacato e incredibilmente malinconico sulla solitudine di chi dedica tutta la propria vita agli altri, solo per ritrovarsi infine abbandonato. Le suggestioni dolenti riemergono anche in Supermarket Flowers, struggente cronaca della perdita di una madre molto amata: un pezzo forse un po’ enfatico, ma comunque efficace. In definitiva, ciò che davvero stupisce di questo disco è il perfetto equilibrio tra le necessità, per così dire, «commerciali» di un artista mainstream come Sheeran e le atmosfere e suggestioni più intense e complesse qui esplorate; soprattutto, la versatilità interpretativa mostrata da Ed è davvero notevole, visto che Divide passa con sorprendente disinvoltura da un genere musicale all’altro – dal soul americaneggiante di Dive al folk rock di What Do I Know?, e così via. Segnali che fanno ben sperare per il futuro di Sheeran, il quale, se riuscisse a mantenere questa elasticità e inventiva, potrebbe in effetti confermarsi come uno dei migliori cantanti pop della sua generazione, e non solo.
Non lo dimenticherete facilmente questo Paterson; che in ognuna delle sue identiche giornate conduce un bus della cittadina nel New Jersey che porta il suo stesso nome. Che ha visto nascere Lou Costello, quello della mitica coppia comica con Bud Abbott, conosciuti da noi come Gianni e Pinotto. Ma anche uno scrittore come Allen Ginsberg. E un altro poeta: William Carlos Williams, passato alla storia per «l’arte di rendere straordinario l’ordinario; grazie alla semplicità e alla discrezione del proprio immaginario». Se il tredicesimo film di Jim Jarmusch rimarrà fra i suoi capolavori è proprio perché riesce, nella sua infinita delicatezza, a ricreare in immagini questo concetto. Nel suo riserbo modesto, Paterson è anche lui un poeta minimalista. Ogni giorno, lungo il medesimo percorso, osserva dal suo posto di guida i piccoli dettagli quotidiani della cittadina, capta frammenti delle conversazioni che avvengono fra i passeggeri. Per infine annotare in versi, sul taccuino che porta sempre su di sé, tutta l’apparente
La locandina del film di Jarmush.
banalità di quel quotidiano. Regista da sempre raffinato, un po’ rockettaro e modaiolo, Jim Jarmusch sembra confondersi nel placido, incantato Paterson (Adam Driver, già Miglior attore a Venezia nel 2014 in Hungry Hearts di Saverio Costanzo). Lo coglie allora in primissimo piano, all’inizio di ognuno dei sette episodi che scandiscono la settimana di Paterson, quando si sveglia ogni mattina alle sei e quindici minuti esatti. Accanto alla sua assai più mutevole Laura (l’adorabile iraniana Golshifteh Farahani), affinché possano raccontarsi i loro sogni appena trascorsi, prima che lui riparta per la sua immutabile, sempre disponibile giornata. La monotonia imperante, l’eleganza vanamente rincorsa? No, la grazia assoluta. Mentre Laura prepara pasticcini, suona la chitarra, rinnova guardaroba e arredamento (il tutto rigorosamente in bianco e nero: a somiglianza di un cinema scomparso, da sempre rincorso dall’autore di Dead Man e Ghost Dog), lui discute di jazz e Iggy Pop con il proprietario del pub dove si reca ogni sera. Prima di sfiorare con un bacio la moglie, al suo ritorno: affinché lei gli ripeta quanto sia delizioso il suo gusto leggero di birra. Tutto è così gracile in Paterson, così poco importante da farci temere ad ogni istante il peggio. Ma i versi leggeri del taccuino ricalcano alla perfezione, quasi in un incastro armonioso di contrappunto, le immagini altrettanto normali e pulite della cittadina; un modo mirabile di significare gli sfondi che il cinema del regista possiede da sempre. Ecco allora un incontro delizioso con una ragazzina che Paterson scopre autrice di versi ancora più adeguati dei suoi. Ecco un finale in stato assoluto di grazia nella sua economia di mezzi. In due linee minimaliste di linguaggio impossibile, l’incontro surreale con un turista giunto dal Giappone, pure lui alla ricerca degli angoli prediletti dal solito William Carlos Williams. Momenti di poesia sospesa nel tempo (ineffabile antidoto all’agitazione fracassona che ci circonda) di un film fragile da fare decantare nella nostra memoria. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Incontrare il Divino cantando
Incontri A colloquio con Massimo Palombella, direttore della prestigiosa Cappella Musicale Pontificia «Sistina»,
che si è recentemente esibita nel Duomo di Milano Enrico Parola L’11 aprile 1770 il quattordicenne Mozart ascoltò il coro della Cappella Sistina intonare il Miserere di Gregorio Allegri; si trovava a Roma, era il mercoledì santo; col padre Leopold chiese di poter assistere ai Vespri nella Cappella Sistina proprio per ascoltare il capolavoro di Allegri. Per editto di Urbano VIII, che voleva preservarne la sacralità e farne un simbolo della liturgia papale, quel Miserere non poteva essere eseguito altrove né potevano essere diffuse copie del manoscritto: per i contravventori era addirittura prevista la scomunica. La biografia mozartiana racconta di come Amadeus tornasse il venerdì santo per riascoltarlo, riuscendolo poi a trascrivere perfettamente a memoria; la prodezza, tecnicamente illegittima (infatti Leopold portò i pentagrammi vergati dal figlio al maestro del coro) gli meritò l’udienza col papa e un’onorificenza.
Il Concilio Vaticano II assegnò al coro una funzione ecumenica, caldeggiandone anche l’attività concertistica Aneddoti a parte, quel che sorprende è poter ascoltare questo brano inciso dalla Cappella Musicale Pontificia «Sistina» (il coro del papa) per la Deutsche Grammophon, la mitica etichetta gialla che ha raccolto le registrazioni dei giganti della classica, da Karajan e Abbado a Pollini e la Argerich. Non è solo un segno dei tempi che cambiano, ma la certificazione di come sia evoluta e mutata l’attività del coro della Sistina. Non l’identità, «perché è rimasta quella degli inizi – le prime attestazioni di cantori vaticani risalgono al V-VI secolo: è il coro personale del papa, deputato innanzitutto ad accompagnare le liturgie che il pontefice celebra» spiega Massimo Palombella, dal 2012 direttore del coro.
La Cappella Musicale Pontificia «Sistina», o più semplicemente il coro del Papa. (youtube)
A segnare la svolta è stato il Concilio Vaticano II, che ha assegnato al coro altre due funzioni: «Da una parte l’attività concertistica: il coro non canta più solo durante le funzioni col papa, tiene concerti nelle chiese e anche nei teatri: ci siamo esibiti al Regio di Torino, al Carlo Felice di Genova, alla romana Santa Cecilia o al Maggio Musicale Fiorentino; però non si deve credere che sia un’attività profana a latere di quella sacra: l’unico scopo di questi concerti è evangelizzare attraverso la musica, mostrare la bellezza della verità con la bellezza dei suoni; infatti il repertorio che affrontiamo è sempre e solo sacro». Per questo si sono esibiti nel Duomo di Milano due giorni prima della visita di papa Francesco alla città. La seconda funzione è quella ecumenica: «Dal 2012 cantiamo con
i grandi cori delle altre confessioni, ad esempio quello ortodosso del Patriarcato di Mosca, il protestante Thomanerchor di Lipsia, l’anglicano di Westminster. Gli appuntamenti ecumenici si tengono nella basilica di San Pietro e sono fissi: il 25 gennaio, festa della conversione di san Paolo, e il 29 giugno, santi Pietro e Paolo; in questo secondo caso teniamo un concerto anche il 28, in Cappella Sistina». L’aumento e la diversificazione dell’attività si lega a un altro aspetto fondamentale: il miglioramento della qualità artistica della formazione vaticana. Il coro stava attraversando una fase di decadenza e Palombella è stato chiamato innanzitutto per riportarlo ai fasti antichi, quando i suoi direttori si chiamavano Palestrina, Desprez, Arcadelt. Non è un caso che sia stato
chiamato nel 2012, durante il pontificato di Benedetto XVI, quanto mai attento agli aspetti anche estetici della liturgia e profondo intenditore di musica. «In effetti la situazione presentava varie problematiche» ammette Palombella «Il coro cantava come cantavano i cori di teatro a fine Ottocento, in uno stile che non c’entra nulla con il nostro repertorio principe, che è quello rinascimentale, quindi a cappella (senza accompagnamento strumentale, ndr.) e polifonico. Ovviamente per ottenere uno stile più congruo alle note di Orlando di Lasso o Palestrina bisognava lavorare molto». Qui il maestro ha avuto un’ulteriore sorpresa: «I cantori provavano tre ore a settimana; io sono andato a controllare i loro contratti e ho visto che erano inquadrati come “ente lirico”, il che prevede un
impegno per le prove sì di tre ore, ma al giorno». Inutile dire che c’è stato un deciso ricambio nell’organico: «I coristi professionisti sono una ventina, ho cercato voci particolari per brani come il Miserere di Allegri, che richiede un altus capace di raggiungere il do acuto. Agli adulti si aggiungono le voci bianche: siccome quando c’è la muta della voce i piccoli cantori perdono il timbro richiesto, dobbiamo annualmente sostituirne un po’; ogni anno selezioniamo 12 bambini tra le 700 richieste provenienti dalle scuole di Roma; è una scelta di vita perché non solo iniziano a cantare da noi, ma frequentano le scuole vaticane: devono poter avere una certa flessibilità, seguire tutta l’attività del coro, le prove, l’accompagnamento delle liturgie papali e anche le varie trasferte che affrontiamo». Palombella deve difendersi da due tentazioni opposte: «Da una parte sentirsi schiacciati dall’immensità dei propri predecessori, come Palestrina o Desprez; dall’altra insuperbirsi per essere il coro del papa. Un privilegio impareggiabile è quello di poter accedere agli archivi vaticani e consultare i manoscritti vergati dai grandi musicisti del passato. L’emozione più grande? L’ho provata davanti al manoscritto del Miserere di Allegri». Il coro prova nella Cappella Sistina: anche cantare sempre tra gli affreschi di Michelangelo, davanti al Giudizio Universale e sotto la Creazione d’Adamo è un privilegio più unico che raro: «Ma le giuro che ci si abitua e quasi non ci si fa più caso. Certo, è un bell’abituarsi». Il coro risponde direttamente al papa; si dice che papa Francesco sia meno interessato alla musica rispetto al suo predecessore: «Niente affatto, anzi gli piace molto e come gusti è simile a Ratzinger: per il suo compleanno, ad esempio, ci ha chiesto di cantargli l’Et incarnatus est dalla Messa in do minore di Mozart. Invece per il compleanno di Benedetto XVI avevamo cantato un corale di Bach. Un autore che, come Mozart, non è nel nostro repertorio; ma a loro come possiamo negarlo?» Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Cultura e Spettacoli
Trasformare il nero in luce Mostre/1 Édouard Manet a Palazzo Reale di Milano Gianluigi Bellei Édouard Manet è un artista ambivalente. Difficile associarlo subito a un dipinto preciso. Certo non mancano i quadri scandalo; ma Monet ricorda le ninfee, Degas le ballerine, Renoir le belle donne nude e sensuali, Cézanne le nature morte con le mele, Pissarro i paesaggi… Per Manet non si riesce a farlo, scrive Akiya Takahashi, direttrice del Mitsubishi Ichigokan Museum di Tokyo. Gli artisti precedenti mostrano una grande coerenza di contenuti e soggetti e ciascuno «rivela un tocco personale e uniforme». Nella pittura moderna, ma ancor di più in quella contemporanea, essere facilmente riconoscibili è una strategia commerciale e di marketing che tutti conoscono e utilizzano. E questo vale non solo per l’arte… In alcuni casi il cambiamento di stile corrisponde al desiderio di seguire le ultime tendenze; ma anche qui si tratta di marketing. Per Manet, al contrario, siamo in presenza di quella che Takahashi chiama polisemia. La sue pennellate sono violente, eleganti, poetiche, lievi, ma sempre non prevedibili. Insomma, un artista inclassificabile come ha scritto Françoise Cachin, direttrice del Musée d’Orsay, nel 1983 in occasione della retrospettiva dedicata all’artista a Parigi e a New York. Un pittore eclettico; probabilmente il primo dei moderni. A lui sono state dedicate innumerevoli mostre, da quella citata del 1983 in occasione del centenario della morte a quella del Mitsubishi Ichigokan Museum di Tokyo del 2010, a quella veneziana del 2013 dedicata al confronto fra l’Olympia di Manet e la Venere di Urbino di Tiziano. Sì, perché Manet saccheggiava l’arte del passato e soprattutto la citava, partendo appunto da Tiziano e passando per Velàzquez e Goya. Ora è la volta di Milano che a Palazzo Reale propone una mostra – or-
ganizzata da MondoMostre Skira in collaborazione con il Musée d’Orsay – incentrata sulla sua città: Parigi, quella moderna di fine Ottocento. Avrebbe dovuto tenersi alla Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino a conclusione di un percorso di collaborazione con il museo parigino che aveva visto precedentemente realizzare quelle di Degas nel 2012, Renoir nel 2013 e di Monet nel 2015. Con la nuova sindaca 5 stelle Torino ha perso quest’occasione…
Accanto a Manet protagonista della mostra è anche la Parigi di fine Ottocento Parigi, dicevamo. Manet vive quell’esaltante avventura che è stata la riqualificazione della città da parte del Barone Georges-Eugène Haussmann nominato prefetto della Senna nel 1853 da Napoleone III. È un periodaccio fra colpi di stato, barricate, tribunali speciali, deportazioni in Algeria. Nel 1852 Luigi Napoleone si fa proclamare Napoleone III. Napoleone il piccolo, secondo Victor Hugo. Haussmann è il viceimperatore. Sventra la città per abbellirla, ingrandirla, sanarla dal putridume maleodorante di alcune zone. Un personaggio energico, testardo, astuto – sciocco e meschino per altri – che ridisegna il profilo di Parigi con enormi rettilinei, i famosi boulevard, che servono alla nuova borghesia per costruire ai lati le loro ville magnifiche ma anche per impedire la costruzione delle barricate, tanto temute dai Re e dagli Imperatori, nei dedali delle viuzze. Dal 1856 i lavoratori emigrano nelle periferie e sorgono i grandi magazzini, come il Bon Marché, i caffè, le brasserie, i
giardini pubblici e i teatri. La Repubblica conta i suo fedeli. Napoleone il piccolo offre all’esule Hugo l’amnistia. Lui rifiuta: «Se rimangono dieci repubblicani, sarò il decimo. Se ne rimane uno solo, sarò io». Il 1871 è l’anno della Comune: quel «gran sole carico d’amore» cantato da Rimbaud che sputa contro i vincitori «sifilitici, folli, re, burattini, ventriloqui». Tra il 1851 e il 1900 a Parigi vengono costruiti ogni anno 1240 nuovi edifici e sino alla fine degli anni Ottanta ha «l’aspetto di un cantiere a cielo aperto». La città diventa frenetica; ci si riversa nei grandi marciapiedi a parlottare, nei ristoranti, nei caffè-concerto. Manet fa parte dell’alta borghesia parigina. Elegante, raffinato, un po’ dandy, si trova a proprio agio all’Opéra come fra le cortigiane (così si chiamavano le prostitute d’alto bordo). D’altronde aveva una debolezza per il gentil sesso. Giuseppe De Nittis racconta che un giorno «Stava seguendo una giovane dalla figura sottile e aggraziata. La moglie tutto a un tratto lo raggiunse e gli disse ridendo di cuore: “questa volta ti ho beccato!”. Ma guarda un po’, rispose lui, pensavo proprio fossi tu». Appena trentenne fa subito scandalo con due dipinti: Olympia, che rappresenta una giovane sedicenne nuda e sfrontata che ti guarda dritto negli occhi, e Le déjeuner sur l’herbe, tela irriverente con quella donna nuda fra uomini vestiti in mezzo all’erba. Ma Manet è un artista parigino, fino al midollo, e i suoi dipinti ritraggono la vita e l’ambiente di quegli anni in fermento. Un artista moderno interessato più che ai luoghi e all’architettura agli umili che definisce gli «eroi moderni». La mostra milanese è divisa per argomenti. Inizia con i suoi amici: Émile Zola, ritratto con un libro in mano e sullo sfondo una copia di quell’Olympia che lui definisce la «figlia del nostro tempo, che incontrate
Édouard Manet, Stéphane Mallarmé, 1876. (René-Gabriel Ojéda/Réunion des Musées)
sui marciapiedi, con le spalle strette in uno scialletto di lana stinta», poi Stéphane Mallarmé che lo elogia in numerosi articoli, Berthe Morisot, pittrice, cognata e forse amante dell’artista. Segue l’influenza degli artisti spagnoli come si evince dal Combattimento di tori del 1865 e dal famoso Pifferaio dell’anno seguente. Ma come dicevamo Manet si interessa, oltre che al progresso della nuova città anche alle «fatiche e alle lacrime degli ultimi» rappresentando uno accanto all’altro, ma senza vedersi, il borghese e l’operaio. Poi il mondo femminile, tanto amato e presente nelle sue opere. Figure distanti, assorte nei propri pensieri che non guardano altro che nel vuoto oltre se stesse come ne Il balcone del 1868 nel quale la giovane in primo piano, sempre Berthe Morisot, sembra immersa sola nei propri pensieri. Manet muore a 51 anni nel 1883 dopo l’amputazione della gamba sini-
stra. Soffriva da anni di atassia locomotoria di origine sifilitica. La mostra comprende un centinaio di opere tra le quali 16 di Manet e le altre di artisti coevi come Boldini, Cézanne, Degas, Monet, Renoir o Signac. Buona l’illuminazione dello studio Balestrieri tendente all’eliminazione dei consueti abbagliamenti e riflessi tramite sorgenti alogene a varie fasce d’apertura e sorgenti LED ad apertura media per la luce calda. Allestimento con colori, tratti dalla tavolozza di Manet, come l’azzurro polvere o rossi cangianti per gli ambienti dedicati all’Opéra Garnier con i suoi balli fastosi. Dove e quando
Manet e la Parigi moderna, Palazzo Reale, Milano. A cura di Guy Cogeval, Caroline Mathieu, Isolde Pludermacher. Fino al 2 luglio. Catalogo Skira, euro 40. www.manetmilano.it
In onore della bestia secondo Pierre Casè
Mostre/2 A Punta della Dogana, Venezia, fino al 30 aprile è aperta una mostra con opere dell’artista ticinese Ada Cattaneo La passeggiata che dalle Zattere arriva fino a Punta della Dogana, affacciata sul Canale della Giudecca, ogni volta ti convince che Venezia rimane davvero un luogo fuori dalle geografie e dallo scorrere del tempo. In questi giorni, fino al 30 aprile, proprio qui si aggiunge anche una presenza speciale. Si tratta dell’artista Pierre Casè che, con premura e cortesia, accoglie il visitatore che giunge alla sua mo-
stra, ospitata in uno dei grandi saloni ai Magazzini del Sale. Nato a Locarno nel 1944 e oggi residente a Maggia, Casè è un esempio significativo di un diverso modo di fare arte, dato che, oltre al proprio percorso creativo, ha saputo dedicarsi anche alla promozione della ricerca di altri artisti: è successo negli anni Novanta, quando dirigeva la pinacoteca di Casa Rusca, ma anche nell’ambito del lavoro svolto per le fondazioni Gottfried Keller, Arp e Segantini. A
Uno scorcio della mostra di Pierre Casè a Venezia. (Cattaneo)
Venezia, invece, dove espone per la terza volta, egli torna a sviluppare le proprie opere in modo tale da richiamarci a una riflessione profonda sul nostro territorio. Come lo abbiamo trasformato? Lo stiamo vivendo in maniera giudiziosa? Offriamo il rispetto dovuto alle terre che ci hanno ospitato e sfamato attraverso i secoli? Cardine di questo ragionamento sono gli animali – da qui il titolo dell’esposizione Il bestiario – che, vivendo in simbiosi con l’uomo, gli hanno sempre garantito la sopravvivenza. Oggi il trattamento che viene spesso riservato alle «bestie» non rende giustizia a questo loro ruolo. L’artista ci introduce alle opere ripercorrendo i pensieri e le notizie che le hanno ispirate: racconta della «moda» odierna di impedire la crescita delle corna ai vitelli, per renderli innocui negli spazi sempre più ridotti in cui sono costretti a vivere, o della difficoltà di portare avanti la consuetudine della transumanza da valle fino agli alpeggi, poiché le mucche vengono selezionate per produrre sempre più latte, a scapito della loro resistenza fisica. Da questi e altri esempi il tema appare chiaro: l’artista sta considerando le alterazioni della natura, stravolta dall’uomo, e le sue opere esprimono senza reticenze questo sconvolgimento. I materiali che egli usa sono prevalentemente di riutilizzo e sono stati scelti proprio a richiamo di quel con-
testo contadino che ha caratterizzato aree come il Canton Ticino. Il supporto è costituito da lamiere di ferro, quelle stesse lamiere rimaste ad ossidarsi alla pioggia, che Casè ricorda impiegate per costruire alla bell’e meglio ripari per polli e galline. Su queste scorrono segmenti di filo spinato: «Per me è l’emblema della nostra società. Qualcosa che fa male, che urta e ferisce» dice Pierre Casè. Trattenuti da questi, come imprigionati, appaiono gli animali: sono silhouettes ritagliate nel ferro, ma soprattutto teschi di capre, pecore, volpi, gatti, tassi, mucche, ridotti alle sole ossa bianche, che risaltano sulla superficie bruna. Non sempre gli animali sono figure benevole: «Ricordo una sera di quando ero bambino, avrò avuto sei anni: mio nonno scendendo nella vigna si accorse che il tasso aveva mangiato tutti i grappoli maturi e avrebbe voluto solo farlo fuori». Ma, nonostante questo rapporto alterno fra conflitto e dipendenza, erano pur sempre presenze familiari nel «bestiario alpestre» delle valli ticinesi e oggi sembrano quasi scomparse, in un territorio che forse ha voluto dimenticare troppo in fretta la propria storia rurale. L’allestimento realizzato con impalcature da cantiere e tavole per ponteggio è scelto per non nascondere, ma anzi per svelare la struttura materica delle opere. Il grande libro di poesie che il visitatore può sfogliare, poi,
è un omaggio al fratello dell’artista, Angelo Casè, scomparso nel 2005: anche nelle sue poesie gli animali sono una presenza consueta, che ritorna di frequente, così come ne I compagni morti: «La terra è una grande volpe distesa e accaldata – sarà il disagio dell’ora che fugge, la sua tristezza che non riusciamo a dire, il silenzio che ci parla duramente di uno sparo – ma dove?». Presentare questa riflessione proprio a Venezia è una scelta insolita: il connubio fra la città e il mondo animale può apparire poco pertinente, ma l’interessante saggio in catalogo (Il bestiario, Fidia edizioni d’arte, Lugano, 2017) di Alberto Tosio Fei racconta invece come la storia della città sia ricca di bestie leggendarie e reali. Per chi, dopo aver visitato la mostra, ha voglia di andare per musei, quello di scienze naturali al Fondaco dei Turchi, rinnovato completamente nel 2011, è uno splendido modo per completare l’esperienza proposta da Casè. E, d’altra parte, come dice il titolo di un bel libro di Tiziano Scarpa dedicato alla città lagunare, Venezia è un pesce. Dove e quando
Pierre Casè, Il bestiario, con poesie di Angelo Casè. Venezia, Magazzini del Sale n. 5 alle Zattere. Orari: ma-do 10.00-18.00. Fino al 30 aprile.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Idee e acquisti per la settimana
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quello proposto dalle pescherie Migros potete star certi di consumare dei prodotti con la coscienza tranquilla. Tutto l’assortimento proviene infatti da fonti sostenibili
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Medaglioni di merluzzo e salmone affumicato in salsa allo zafferano Ingredienti per 4 persone: 1 dl di vino bianco • ½ bustina di zafferano • 2,5 dl di panna semigrassa per salse • sale e pepe • 500 g di filetti dorsali di merluzzo • 200 g di salmone affumicato (ad es. Sockeye) • 1 cucchiaino di senape dolce (ad es. senape ai fichi) • 1 cucchiaino d’olio di girasole Preparazione Scaldate il vino con lo zafferano. Unite la panna e condite con sale e pepe. Versate la salsa in una pirofila ampia. Scaldate il forno a 180 °C. Asciugate i filetti di pesce. Accomodate le fette di salmone su un foglio di carta da forno sovrapponendole leggermente e formando una lunga striscia. Spennellatele di senape e cospargetele di pepe. Accomodate i filetti di merluzzo sul salmone affumicato e avvolgeteli nel salmone. Tagliate il rotolo in medaglioni spessi 2 cm. Adagiateli nella salsa allo zafferano con la superficie di taglio rivolta verso l’alto. Irrorate i medaglioni d’olio. Cuoceteli in forno per 10-15 minuti. Cospargete di pepe.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Idee e acquisti per la settimana
Il pranzo pasquale è servito
Attualità Quest’anno per la ricetta
di Pasqua ci siamo rivolti al Ristorante Ferrovieri a Tenero, che ci propone una tipica preparazione romana: l’abbacchio alla cacciatora. L’agnello da latte per realizzare la ricetta lo trovate nella vostra macelleria Migros di fiducia
Gabriele D’Annunzio, che era nato in una regione di pastorizia diffusa come l’Abruzzo lo prediligeva: «Grasso, ma non troppo… quel tipo di grasso leggero che si squaglia facilmente durante la cottura e si consuma mentre la carne vi è morbida e saporita al punto giusto». Stiamo naturalmente parlando dell’abbacchio, termine usato una volta nel Lazio per indicare l’agnello da latte, ma oggi noto anche altrove ed esteso anche ad agnelli che abbiano già cominciato a brucare l’erba. Per riconoscere l’abbacchio vero dalla carne di animali di maggiore età non è sufficiente controllarne il peso, ma occorre osservare il colore della carne, che deve essere il più possibile rosa pallido: le tonalità via via più scure denotano animali sempre più cresciuti.
Il periodo migliore per l’abbacchio è la primavera. Gli esperti macellai di Migros Ticino sapranno proporvi, oltre alla ricetta che trovate in questa pagina, altri modi per festeggiare in tavola la Pasqua con piatti fedeli della tradizione. / Davide Comoli
Altre proposte di Migros Ticino: • Capretto ticinese • Gigôt d’agnello • Maialino da latte • Entrecôte Irish-Beef • Arista di vitello e maiale • Roastbeef di manzo • Rognonata di vitello
Abbacchio (agnello da latte) alla cacciatora Ingredienti per 6 persone 1 kg e ½ di abbacchio a pezzi olio d’oliva mezzo bicchiere d’aceto mezzo cucchiaio di farina 2 spicchi d’aglio 1 rametto di rosmarino due foglie di salvia sale pepe Preparazione In una grande padella versare l’olio, il sale e l’aglio, aggiungere l’abbacchio e rosolare a fuoco vivo per 15 minuti. Aggiungere la salvia, il rosmarino, il pepe.
Abbassare il fuoco, aggiungere l’aceto e lasciare rosolare per qualche minuto. Girare di tanto in tanto l’abbacchio per farlo rosolare uniformemente. Unire mezzo cucchiaio di farina e mezzo bicchiere d’acqua per addensare. Mettere il coperchio e cuocere per altri 20 minuti ca. Se il liquido si ritira troppo, aggiungere un po’ d’acqua. Quando l’abbacchio è giunto a cottura, servitelo ben caldo. Consiglio Terminata la rosolatura, la ricetta può essere preparata anche in forno (ca. 45 minuti a 180 gradi).
I titolari del Ristorante Ferrovieri di Tenero, Alex e Dragana Cristofari (a destra) con lo chef Miša. (Flavia Leuenberger)
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Idee e acquisti per la settimana
Aromi 100% ticinesi
Attualità È tempo di erbe aromatiche nostrane. Queste delicatezze sono coltivate
in modo biologico dall’azienda Mäder di Sementina e sono disponibili alla Migros in una ventina di varietà
Assortimento Ampia e variata, la gamma comprende prezzemolo liscio e riccio, menta, erba cipollina, basilico, coriandolo, salvia, rosmarino, aneto, timo, origano, alloro e maggiorana. Utilizzo Alloro, rosmarino, salvia e timo possono essere aggiunti ai piatti a inizio cottura, mentre le altre erbe sviluppano al meglio il loro aroma se unite all’ultimo momento.
Coltivazione biologica L’azienda Mäder di Sementina coltiva erbe aromatiche biologiche su una superficie di ca. 12 ettari. I parassiti e gli insetti nocivi sono combattuti tramite insetti utili o infusi, mentre le malerbe sono controllate con fogli di amido di mais.
Conservazione Le erbe a mazzetto si conservano qualche giorno in frigorifero nel loro imballaggio originale oppure sciolte lasciate in un bicchiere d’acqua. Prima dell’utilizzo lavarle brevemente sotto l’acqua fredda e tamponarle con carta da cucina. Essiccare: legare le erbe a mo’ di bouquet e tenerlo in un luogo secco e ombreggiato. Congelare: i rametti di rosmarino e timo si possono congelare interi, mentre della salvia e dell’origano solo le foglie. L’alloro non va congelato. Prezzemolo, aneto, basilico ed erba cipollina non perdono aroma una volta scongelati. Consiglio: riempire per due terzi una vaschetta per i cubetti del ghiaccio con erbette tritate. Aggiungere acqua e congelare. In questo modo si può disporre di aromi in qualsiasi momento.
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La colomba per tutti
Colomba senza glutine e senza latte 350 g Fr. 9.– In vendita nelle maggiori filiali Migros
Per Pasqua la panetteria regionale Jowa ha creato alcuni dolcetti che conquisteranno i palati di grandi e piccoli. Il simpatico coniglietto di pasta dolce oltre ad essere bello da vedere, è anche perfetto per la prima colazione o per una merenda ricca di gusto. E come se non bastasse, è stato arricchito con scaglie di cioccolato. Più invitante di così! Le tortine sono invece da molti
anni un grande classico dell’assortimento pasquale Migros, tanto che ogni anno ne vengono vendute oltre due milioni di pezzi a livello nazionale. Il ripieno è costituito da riso al latte e pasta di mandorle, a cui si aggiungono bianco d’uovo sbattuto, limone e uva sultanina. Chi non gradisce quest’ultimo ingrediente trova pure la variante senza uvetta.
Coniglio di Pasqua con scaglie di cioccolato 105 g Fr. 1.90
Perché rinunciare alle ricette più sfiziose anche se si è celiaci o intolleranti al latte? Grazie alla colomba senza glutine e senza latte «Il Pane di Anna» anche chi è affetto da questi disturbi può finalmente godersi questo dolce pasquale per antonomasia, insieme ai propri cari. La specialità è realizzata dall’azienda famigliare bresciana Molino Rivetti, la quale impiega nella produzione ingredienti sicuri e certificati, ma con un oc-
chio di riguardo per la ricetta tradizionale. Prima della lavorazione, oltre alla certificazione standard di assenza di glutine, le materie prime utilizzate vengono ulteriormente controllate da parte dei tecnici e dei responsabili controllo qualità aziendali. L’obiettivo è garantire il migliore livello di sicurezza possibile per i consumatori. Con la colomba «Il Pane di Anna» quest’anno la tavola di Pasqua sarà più ricca.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Idee e acquisti per la settimana
Le uova nostrane biologiche
Novità Quest’anno la caccia alle uova
Flavia Leuenberger
di Pasqua si fa con i «Öv Nostrán Bio»
Le uova nostrane biologiche sono la prima novità di quest’anno dell’assortimento dei Nostrani del Ticino. Sono prodotte a Bironico da una piccola e giovane azienda agricola a conduzione familiare, la Gigi’s Ranch, alla cui conduzione troviamo Margherita Marchesi. Ingegnere agroalimentare di formazione, dopo molti anni di attività nel settore alimentare, la signora Marchesi ha deciso di intraprendere una nuova avventura professionale: «Motore della creazione di questa azienda è stata, da una parte, la mia passione per gli animali e per la natura, dall’altra una sempre maggiore consapevolezza sull’etica della produzione e sull’importanza della qualità dei prodotti alimentari che consumiamo ogni giorno». Gigi’s Ranch è attiva dallo scorso febbraio è si occupa dell’allevamento di ca. 1500 galline ovaiole che producono mediamente 1300 uova biologiche al giorno. «La nostra produzione – pre-
cisa Marchesi – mira a generare benefici per l’ambiente e offrire prodotti alimentari ecologicamente sostenibili. Gli animali possono muoversi liberamente nel pollaio ed hanno la possibilità di uscire all’aperto ogni volta che lo desiderano. L’alimentazione è costituita da specifici mangimi certificati Bio per galline ovaiole. Inoltre, abbiamo rinunciato a mangime a base di soia in favore di semi di girasole». Infine, da notare, che l’azienda è ancora certificata «Bio in conversione». Ciò significa che le aziende che scelgono di aderire a metodi di produzione biologica devono superare un periodo di accertamento di due anni, tempo necessario per convertire tutte le attività aziendali al bio. Nelle prossime settimane dedicheremo un approfondimento a questo nuovo prodotto. Uova Nostrane biologiche 6 pezzi Fr. 5.20
Il giovedì è il giorno della Mozzarella di Bufala Campana DOP A 36 ore dalla produzione, direttamente dalla Provincia di Foggia, arriva nei maggiori supermercati Migros Ticino un prodotto d’eccellenza: la Mozzarella di Bufala Campana DOP. Questo delicato formaggio fresco a pasta filata è prodotto dall’azienda famigliare «Il Parco» a San Giovanni Rotondo, nel territorio del Parco Nazionale del Gargano, regione che si può fregiare del rinomato marchio DOP rilasciato dal Consorzio per la tutela del saporito latticino. Le bufale qui vengono allevate nel rispetto delle loro esigenze in stato semibrado. Il latte ottenuto, arricchito con siero innesto naturale del giorno prima, viene fatto coagulare con caglio naturale. Una volta tagliata, la cagliata viene filata con acqua bollente e infine mozzata a mano. Oltre alla mozzarella, l’azienda rifornisce Migros Ticino anche di deliziosi bocconcini e ricotta, anch’essi a base di latte di bufala.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Idee e acquisti per la settimana
Golosi festeggiamenti Flavia Leuenberger
I vincitori del «Jackpot dei formaggi»
Da sinistra, Floriano Torino di Migros, Denise Agustoni (in rappresentanza del marito Giuseppe), Bruna Bomio e Joe Kunz della Savencia Fromage & Dairy Suisse. (Giovanni Barberis)
Simona Gerosa, Marketing Ristorazione Migros Ticino
«Come ogni anno il sabato che precede la Pasqua i banchi pasticceria, i De Gustibus e i Ristoranti Migros vogliono stuzzicare le papille della
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nostra clientela con una scelta speciale di pasticceria. Le nostre creazioni sono preparate artigianalmente da 18 abili pasticceri con ingredienti freschissimi e di prima qualità. Tutte le specialità possono essere riservate in anticipo. Quest’anno la scelta verte su due torte con decorazione a tema: la torta “pulcino” a base di soffice pan di spagna, crema pasticcera e ricoperta di crema al burro e pasta di zucche-
ro gialla; e la St. Honoré con ovetto e coniglietto di finissimo cioccolato. In aggiunta a quest’ultime, proponiamo dei classici come la colombina di sfoglia alla crema pasticcera, la colombina di pan di spagna alla frutta o alla fragole, oppure ancora le mini mousse fragole, limone NOVARA 27/03/2013o panna cotta, tutte decorate con un simpatico coniglietto di cioccolato. Vi aspettiamo con le nostre golosità!».
Si è svolta negli scorsi giorni la premiazione congiunta dei due concorsi «jackpot dei formaggi» che sono stati proposti durante lo scorso anno grazie al sostegno e all’organizzazione dell’azienda Savencia Fromage & Dairy Suisse di Cressier. Il premio principale di ben 2’000 franchi, sotto forma di carte regalo Migros, se lo sono aggiudicati, rispettivamente, Bruna Bomio di Gudo e Giuseppe Agustoni di Mendrisio. I
due magnifici premi sono stati consegnati da Joe Kunz in rappresentanza della ditta organizzatrice e da Floriano Torino (Responsabile marketing settore prodotti lattieri e caseari). Ai vincitori vanno i nostri più sinceri complimenti. La tradizione di questo concorso continua! Proprio nelle scorse settimane si è svolta l’edizione primaverile: nelle prossime settimane vi daremo notizia dei vincitori. Annuncio pubblicitario
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conf. da 10
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24.90
Biancheria intima Ellen Amber in conf. da 10 slip midi o a vita bassa, disponibili in diversi colori, taglie S–XL, per es. slip midi, bianchi, tg. S, offerta valida fino al 24.4.2017
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3.25 invece di 6.50 Ammorbidente Exelia in flacone da 1 l per es. Golden Temptation, offerta valida fino al 17.4.2017
conf. da 7 a partire da 2 confezioni
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a partire da 2 pezzi
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Tutto l’assortimento Crème d’or prodotti surgelati, a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione
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Tutti i tipi di aceto e condimenti Ponti per es. aceto balsamico di Modena, 50 cl, 3.40 invece di 4.25
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9.60 invece di 14.40 Tutti i tipi di Rivella in conf. da 6, 6 x 1,5 l rossa, blu e tè verde, per es. rossa
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Altre offerte. Frutta e verdura
Pane e latticini
Limoni bio, Spagna/Italia, rete da 1 kg, 3.60 invece di 5.80 35%
Colomba Sélection regalo, 750 g, 14.– invece di 17.50 20% Michettine M-Classic TerraSuisse, 180 g, 1.60 invece di 2.– 20%
Pesce, carne e pollame
Tortellini Armando de Angelis, vaschetta, 1 kg, per es. al prosciutto crudo, 12.90 invece di 21.60 40%
conf. da 2
Fiori e piante
20% Dischetti di ovatta e bastoncini ovattati Primella in conf. da 2 per es. dischetti di ovatta, 2 x 80 pezzi, 3.– invece di 3.80
Altri alimenti
Near Food/Non Food
Tutti i ketchup e tutte le salse fredde Heinz, a partire da 2 pezzi 20% Gusci di meringhe, 120 g, 3.– invece di 3.80 20% Salse per insalata M-Classic in conf. da 2, French, French alle erbe aromatiche e Italian, per es. French, 2 x 700 ml, 3.60 invece di 5.20 30%
Foie gras au Piment d’Espelette, Francia, conf. da 100 g, 9.– invece di 12.50 25%
Capesante Pelican in conf. da 2, MSC, surgelate, 2 x 200 g, 12.85 invece di 18.40 30%
Foie gras, Francia, in conf. da 2 x 40 g, 11.50 invece di 15.80 25%
Cornetti al burro M-Classic in conf. speciale, surgelati, 24 x 45 g, 9.50 invece di 13.60 30%
Pollo Optigal speziato cotto al grill, Svizzera, al pezzo, 7.50 invece di 10.80 30% Azione solo per filiali con grill
Scatola con antipasti per le feste Happy Hour, prodotti surgelati, Composizione floreale con Cymbi1308 g, 11.55 invece di 16.50 30% dium, disponibile in diversi colori, la composizione, per es. bianca, 13.90 Hit *In vendita nelle maggiori filiali Migros. **Offerta valida fino al 24.4 Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DALL’11.4 AL 17.4.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
Tutto l’assortimento di alimenti per gatti Vital Balance, per es. Sensitive al tacchino, 450 g, 3.75 invece di 4.70 20% Pentola a pressione Kuhn Rikon, 7.0 litri, il pezzo, 99.– Hit **
Novità
20x PUNTI
Café Royal in bicchiere, 80 g, 2.90 Novità **
Da giovedì 13.4 fino a sabato 15.4.2017
20% Prodotti Taft in conf. da 2 per es. spray per capelli Ultra, 2 x 250 ml, 5.75 invece di 7.20
30%
59.90 invece di 89.90 Monopattino Globber my too fix 470 il pezzo
a partire da 2 confezioni
20%
Tutti i prodotti per l’igiene Secure (sacchetti igienici esclusi), a partire da 2 confezioni, 20% di riduzione
conf. da 3
20% Salviettine igieniche umide Soft in conf. da 3 alla camomilla, Sensitive o Comfort, per es. Sensitive, 3 x 50 pezzi, 5.50 invece di 6.90
conf. da 3
33% Dentifricio Candida Fresh Gel in conf. da 3 3 x 125 ml, 5.50 invece di 8.25
conf. da 3
20%
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1.15 invece di 2.30 Bistecca di collo di maiale marinata TerraSuisse per 100 g, offerta valida dal 13.4 al 15.4.2017
20% * sui tessili 017 4.4 –24.4.2
Fodera per cuscino ornamentale TESSA
100 % cotone, corallo o verde chiaro, 45 x 45 cm
7.40 invece di 9.30 Manella in conf. da 3 per es. Citron, 3 x 500 ml
incl. lavoro su misura per tende
micasa.ch
5.50 invece di 6.
90
* Vale per tessili per finestre (incl. lavoro su misura per tende), Sunlight, biancheria da letto (piumini a cuscini esclusi), tessili per il bagno, cuscini ornamentali e cuscini da giardino, coperte, tessili per la cucina e il tavolo (Cucina & Tavola esclusi) nonché tappeti e zerbini su misura.
OFFERTE VALIDE SOLO DALL’11.4 AL 24.4.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
Offerta valida dal 4.4 al 24.4.2017. In vendita in tutte le filiali Micasa e nello shop online. Lo sconto è valido solo per le nuove ordinazioni.
conf. da 2
Altre offerte. Frutta e verdura
Pane e latticini
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Pesce, carne e pollame
Tortellini Armando de Angelis, vaschetta, 1 kg, per es. al prosciutto crudo, 12.90 invece di 21.60 40%
conf. da 2
Fiori e piante
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Near Food/Non Food
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Da giovedì 13.4 fino a sabato 15.4.2017
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conf. da 3
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Fodera per cuscino ornamentale TESSA
100 % cotone, corallo o verde chiaro, 45 x 45 cm
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incl. lavoro su misura per tende
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90
* Vale per tessili per finestre (incl. lavoro su misura per tende), Sunlight, biancheria da letto (piumini a cuscini esclusi), tessili per il bagno, cuscini ornamentali e cuscini da giardino, coperte, tessili per la cucina e il tavolo (Cucina & Tavola esclusi) nonché tappeti e zerbini su misura.
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9.50 Olio di chia Alnatura 100 ml
Con indice di protezione 30.
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Formulazione ultraleggera . dal tocco asciutto
14.– Sport Sun Spray IP 30 Sun Look 200 ml
La freschezza del matcha per denti forti.
3.30 Dentifricio Matcha-Yatta Candida 75 ml
Protezione solare per tutta la famiglia.
18.80 Sun Milk IP 50 Family Pack Sun Look 400 ml
Protezione contro sbiadimento e sporco.
6.80 Impermeabilizzante Rapi Extreme 250 ml
Per creare filati in modo divertente. Per interni ed esterni.
5.90 Candela antizanzare Optimum il pezzo
Per lavorare a maglia in tutta comodità.
7.50 Ferri da maglia circolari 80 cm, 3,5 mm il pezzo
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* In vendita nelle maggiori filiali Migros. SU TUTTO L‘ASSORTIMENTO VITAL BALANCE®, OFFERTE VALIDE SOLO DAL 11.4 AL 17.4.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Idee e acquisti per la settimana
Verdi & Bianchi
Piacere del gusto
Partner perfetti Gli asparagi sono tra gli ortaggi più apprezzati in primavera. Con gli aromatici abbinamenti che qui vi suggeriamo il vostro piatto si trasforma in una vera esperienza gustativa
Il segreto del colore
Limone Con la sua fresca acidità il limone accentua l’aroma nocciolato degli asparagi verdi. Anche la scorza grattugiata si sposa bene con gli asparagi.
Gli asparagi verdi sono perlopiù della stessa varietà di quelli bianchi. La differenza sta nel fatto che quest’ultimi crescono sottoterra fino a quando non sviluppano il colore verde. Il risultato è un sapore più delicato e dolce rispetto ai cugini verdi. Gli asparagi nostrani coltivati sul Piano di Magadino sono disponibili a Migros Ticino da questa settimana.
Gli asparagi verdi hanno un sapore più intenso e pronunciato rispetto a quelli bianchi.
I delicati asparagi bianchi sono tra le verdure primaverili più apprezzate in Svizzera.
Antonio Lopes, responsabile del reparto frutta e verdura di Migros Serfontana. (Flavia Leuenberger)
Antonio Lopes
«Gli asparagi ticinesi sono molto richiesti»
Arancia Quello che manca di dolce agli asparagi verdi, lo apporta l’arancia. Contemporaneamente la sua leggera acidità mette meglio in risalto l’aroma degli asparagi.
Il responsabile del reparto frutta e verdura di Migros Serfontana è un grande appassionato di orticoltura. In primavera nel suo orto coltiva asparagi per uso famigliare
La clientela è impaziente di gustare gli asparagi?
Appena arriva la primavera, la clientela apprezza molto il nostro assortimento di asparagi. Sono molto richiesti in particolare anche gli asparagi coltivati nella nostra regione: sono disponibili già da questa settimana. Quante varietà sono offerte in negozio?
Dipende dalla filiale. Qui a Serfontana al momento offriamo diverse varietà di asparagi, tra cui quelli di produzione biologica. La gamma include asparagi verdi e bianchi di diversi spessori, come pure delicatissime punte di asparagi. Lei personalmente apprezza gli asparagi?
Assolutamente sì. Mi piacciono talmente tanto che da alcuni anni li coltivo con successo anche nell’orto di casa.
Come le piace cucinarli? Qual è la ricetta che consiglierebbe?
La migliore è la più semplice possibile: sbollentati per alcuni minuti e gustati così come sono, oppure di tanto in tanto accompagnati da un po’ di maionese o salsa olandese. Quando mangio gli asparagi li gusto anche senza contorni particolari. Grazie alla loro delicatezza, sono un piatto perfetto per i giorni di festa. Altre possibilità culinarie sono per esempio gli asparagi combinati con verdure stagionali e una salsa all’aglio orsino, oppure ancora punte di asparagi sbollentate e gratinate con uova, panna e parmigiano grattugiato. Cos’hanno di speciale gli asparagi verdi?
Gli asparagi verdi si preparano velocemente, perché non si devono pelare. Le parti inferiori del gambo si spezzano facilmente con una leggera pressione. Quest’ultime si possono poi utilizzare per preparare una zuppa di asparagi.
Le punte di asparagi bianchi sono tenere e dolci. Sono ideali per le insalate. Sono disponibili anche le punte di asparagi verdi.
Uova Le uova hanno sempre avuto affinità gustativa con gli asparagi. Grazie alla loro consistenza cremosa esaltano il delicato aroma degli steli carnosi.
Fragole Questi frutti stagionali non solo sono ottimi come dessert dopo un piatto principale a base di asparagi, ma insieme ad essi regalano una fresca combinazione fruttata alle insalate.
Gli asparagi verdi e bianchi sono ottenibili anche nella qualità biologica.
Ulteriori informazioni sul sapore di frutta e verdura: www.piacere-del-gusto.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Idee e acquisti per la settimana
Verdi & Bianchi
Piacere del gusto
Partner perfetti Gli asparagi sono tra gli ortaggi più apprezzati in primavera. Con gli aromatici abbinamenti che qui vi suggeriamo il vostro piatto si trasforma in una vera esperienza gustativa
Il segreto del colore
Limone Con la sua fresca acidità il limone accentua l’aroma nocciolato degli asparagi verdi. Anche la scorza grattugiata si sposa bene con gli asparagi.
Gli asparagi verdi sono perlopiù della stessa varietà di quelli bianchi. La differenza sta nel fatto che quest’ultimi crescono sottoterra fino a quando non sviluppano il colore verde. Il risultato è un sapore più delicato e dolce rispetto ai cugini verdi. Gli asparagi nostrani coltivati sul Piano di Magadino sono disponibili a Migros Ticino da questa settimana.
Gli asparagi verdi hanno un sapore più intenso e pronunciato rispetto a quelli bianchi.
I delicati asparagi bianchi sono tra le verdure primaverili più apprezzate in Svizzera.
Antonio Lopes, responsabile del reparto frutta e verdura di Migros Serfontana. (Flavia Leuenberger)
Antonio Lopes
«Gli asparagi ticinesi sono molto richiesti»
Arancia Quello che manca di dolce agli asparagi verdi, lo apporta l’arancia. Contemporaneamente la sua leggera acidità mette meglio in risalto l’aroma degli asparagi.
Il responsabile del reparto frutta e verdura di Migros Serfontana è un grande appassionato di orticoltura. In primavera nel suo orto coltiva asparagi per uso famigliare
La clientela è impaziente di gustare gli asparagi?
Appena arriva la primavera, la clientela apprezza molto il nostro assortimento di asparagi. Sono molto richiesti in particolare anche gli asparagi coltivati nella nostra regione: sono disponibili già da questa settimana. Quante varietà sono offerte in negozio?
Dipende dalla filiale. Qui a Serfontana al momento offriamo diverse varietà di asparagi, tra cui quelli di produzione biologica. La gamma include asparagi verdi e bianchi di diversi spessori, come pure delicatissime punte di asparagi. Lei personalmente apprezza gli asparagi?
Assolutamente sì. Mi piacciono talmente tanto che da alcuni anni li coltivo con successo anche nell’orto di casa.
Come le piace cucinarli? Qual è la ricetta che consiglierebbe?
La migliore è la più semplice possibile: sbollentati per alcuni minuti e gustati così come sono, oppure di tanto in tanto accompagnati da un po’ di maionese o salsa olandese. Quando mangio gli asparagi li gusto anche senza contorni particolari. Grazie alla loro delicatezza, sono un piatto perfetto per i giorni di festa. Altre possibilità culinarie sono per esempio gli asparagi combinati con verdure stagionali e una salsa all’aglio orsino, oppure ancora punte di asparagi sbollentate e gratinate con uova, panna e parmigiano grattugiato. Cos’hanno di speciale gli asparagi verdi?
Gli asparagi verdi si preparano velocemente, perché non si devono pelare. Le parti inferiori del gambo si spezzano facilmente con una leggera pressione. Quest’ultime si possono poi utilizzare per preparare una zuppa di asparagi.
Le punte di asparagi bianchi sono tenere e dolci. Sono ideali per le insalate. Sono disponibili anche le punte di asparagi verdi.
Uova Le uova hanno sempre avuto affinità gustativa con gli asparagi. Grazie alla loro consistenza cremosa esaltano il delicato aroma degli steli carnosi.
Fragole Questi frutti stagionali non solo sono ottimi come dessert dopo un piatto principale a base di asparagi, ma insieme ad essi regalano una fresca combinazione fruttata alle insalate.
Gli asparagi verdi e bianchi sono ottenibili anche nella qualità biologica.
Ulteriori informazioni sul sapore di frutta e verdura: www.piacere-del-gusto.ch
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Ci invii le prove d‘acquisto di formaggio svizzero e riceverà in cambio le figurine di legno Trauffer che desidera a un prezzo di favore. Per maggiori informazioni: www.formaggiosvizzero.ch <wm>10CAsNsjY0MDQx0TUxNDI2MAQAMcHCQQ8AAAA=</wm>
Ordino:
<wm>10CFXKrQ6AMAxF4Sfqcm9X6KCSzC0Igp8haN5f8eMQR52vtRgSvpa67nULgmZi1AxG4ZSUOajmSS2Q6Qr6zIeRZfSfFzWDAf01giz0Tgog0P68dB3nDbuTCwNyAAAA</wm>
numero di prove d’acquisto*
Mucca (14 × 10 cm)
10 prove d’acquisto*
prezzo promozionale
CHF 11.–
Vitello (8 × 5 cm)
8 prove d’acquisto*
CHF
9.–
Capra (9 × 8 cm)
8 prove d’acquisto*
CHF
9.–
Capretto (6 × 5 cm)
5 prove d’acquisto*
CHF
7.–
Cane con carretto (16 × 7 cm)
10 prove d’acquisto*
CHF 21.–
Bidoni del latte, 2 pz. (3 × 6 cm, assortimento di base)
5 prove d’acquisto*
CHF
8.–
Paiolo del formaggio (5 × 6 cm)
5 prove d’acquisto*
CHF
9.–
Formaggio svizzero (5 × 1 cm)
5 prove d’acquisto*
CHF
7.–
Caseificio, incluso il paiolo del formaggio (52 × 23 × 28 cm)
15 prove d’acquisto*
CHF 65.–
Casaro (10 cm)
10 prove d’acquisto*
CHF 20.–
Casara (10 cm)
10 prove d’acquisto*
CHF 20.–
Suonatore di corno delle Alpi SCM (10 cm)
10 prove d’acquisto*
CHF 22.–
Set completo (il caseificio, dal valore di CHF 65.–, è gratuito!)
20 prove d’acquisto*
CHF 143.–
Compilare questo talloncino, staccarlo e inviarlo con le prove d’acquisto di formaggio svizzero a:
Nome/Cognome Indirizzo
Formaggio Svizzero, casella postale, 3001 Berna
NPA/Località
Telefono
* Ossia lo scontrino o il codice a barre sulla confezione. Il prezzo e la quantità (peso) acquistata non importano
Sì, vi prego di informarmi sui concorsi e le campagne promozionali indetti da Formaggio Svizzero.
Il nostro Formaggio Svizzero. www.formaggiosvizzero.ch
MM-KW15/16-I
Tutti i premi includono IVA. Fino a esaurimento delle scorte. Pagamento contro fattura.
Svizzera. Naturalmente.
quantità/pz.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 aprile 2017 • N. 15
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Idee e acquisti per la settimana
Ellen Amber e John Adams
Per saperne di più
Sentirsi sempre piacevolmente freschi
Fibre con effetto rinfrescante integrato Per non sudare: la biancheria intima della linea John Adams è costituita da una miscela di fibre traspirante, che trasporta il calore e l’umidità del corpo verso l’esterno. In tal modo la pelle di mantiene fresca e asciutta. Grazie alle sue proprietà antibatteriche il tessuto riduce nel contempo gli indesiderati cattivi odori.
Sotto l’abbigliamento professionale la biancheria funzionale della linea intima «Keep Cool» agisce da climatizzatore.
Tutte le donne desiderano gambe belle e fresche. Questo vale ancor più quando le temperature sono alte e nonostante ciò il lavoro impone di indossare un abbigliamento formale, cui va obbligatoriamente abbinato un collant. Collant, calze e collant autoreggenti della linea «Keep Cool» di Ellen Amber sono fabbricate con filato ad alta tecnologia Lycra Fusion. Un filato dotato di microcapsule per collant che, quando indossati, con il leggero sfregamento rilasciano mentolo sulla pelle, ciò che comporta un benefico effetto rinfrescante. Nel contempo il sottilissimo tessuto delle calze copre perfettamente le imperfezioni della pelle conferendo alle gambe un aspetto liscio e uniforme. Grazie al filato speciale e alla particolare tecnica di filatura, il tessuto delle calze risulta particolarmente resistente alle smagliatura e di conseguenza molto duraturo.
È soprattutto durante la stagione calda che le regole d’abbigliamento in uso nel mondo del lavoro possono comportare indesiderate vampate di calore. Ad ovviare a questo sgradito effetto ci pensa la linea tessile «Keep Cool»: indossata sotto l’abbigliamento da lavoro, la biancheria funzionale John Adams per uomo e la calzetteria da donna Ellen Amber procura una piacevole freschezza e mantiene una durevole sensazione di frescura. Tale effetto è da ricondurre all’utilizzo di fibre dalle proprietà speciali, utilizzate anche nella fabbricazione dell’abbigliamento sportivo (vedi «Per saperne di più», a destra).
*Nelle maggiori filiali
John Adams Short* bianchi, neri o marine, taglie S-XL Fr. 17.80
John Adams Tank Top* bianco, nero o marine, taglie S-XL Fr. 17.80
John Adams Canottiera bianco, nero o marine, taglie S-XL Fr. 17.80
John Adams Shirt con scollatura a V* bianco, nero o marine, taglie S-XL Fr. 17.80
Ellen Amber Collant 7 Denier* nero, skin o cognac, taglie S-XL Fr. 17.80
Ellen Amber Stay Up 10 Denier* nero, skin o cognac, taglie S-XL Fr. 17.80
Ellen Amber Gambaletti* nero, skin o cognac, 2 paia, taglia unica Fr. 9.80
Ellen Amber Collant 15 Denier* nero, skin o cognac, taglie S-XL Fr. 17.80
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Idee e acquisti per la settimana
Ellen Amber e John Adams
Per saperne di più
Sentirsi sempre piacevolmente freschi
Fibre con effetto rinfrescante integrato Per non sudare: la biancheria intima della linea John Adams è costituita da una miscela di fibre traspirante, che trasporta il calore e l’umidità del corpo verso l’esterno. In tal modo la pelle di mantiene fresca e asciutta. Grazie alle sue proprietà antibatteriche il tessuto riduce nel contempo gli indesiderati cattivi odori.
Sotto l’abbigliamento professionale la biancheria funzionale della linea intima «Keep Cool» agisce da climatizzatore.
Tutte le donne desiderano gambe belle e fresche. Questo vale ancor più quando le temperature sono alte e nonostante ciò il lavoro impone di indossare un abbigliamento formale, cui va obbligatoriamente abbinato un collant. Collant, calze e collant autoreggenti della linea «Keep Cool» di Ellen Amber sono fabbricate con filato ad alta tecnologia Lycra Fusion. Un filato dotato di microcapsule per collant che, quando indossati, con il leggero sfregamento rilasciano mentolo sulla pelle, ciò che comporta un benefico effetto rinfrescante. Nel contempo il sottilissimo tessuto delle calze copre perfettamente le imperfezioni della pelle conferendo alle gambe un aspetto liscio e uniforme. Grazie al filato speciale e alla particolare tecnica di filatura, il tessuto delle calze risulta particolarmente resistente alle smagliatura e di conseguenza molto duraturo.
È soprattutto durante la stagione calda che le regole d’abbigliamento in uso nel mondo del lavoro possono comportare indesiderate vampate di calore. Ad ovviare a questo sgradito effetto ci pensa la linea tessile «Keep Cool»: indossata sotto l’abbigliamento da lavoro, la biancheria funzionale John Adams per uomo e la calzetteria da donna Ellen Amber procura una piacevole freschezza e mantiene una durevole sensazione di frescura. Tale effetto è da ricondurre all’utilizzo di fibre dalle proprietà speciali, utilizzate anche nella fabbricazione dell’abbigliamento sportivo (vedi «Per saperne di più», a destra).
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John Adams Short* bianchi, neri o marine, taglie S-XL Fr. 17.80
John Adams Tank Top* bianco, nero o marine, taglie S-XL Fr. 17.80
John Adams Canottiera bianco, nero o marine, taglie S-XL Fr. 17.80
John Adams Shirt con scollatura a V* bianco, nero o marine, taglie S-XL Fr. 17.80
Ellen Amber Collant 7 Denier* nero, skin o cognac, taglie S-XL Fr. 17.80
Ellen Amber Stay Up 10 Denier* nero, skin o cognac, taglie S-XL Fr. 17.80
Ellen Amber Gambaletti* nero, skin o cognac, 2 paia, taglia unica Fr. 9.80
Ellen Amber Collant 15 Denier* nero, skin o cognac, taglie S-XL Fr. 17.80
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M per Momenti di tenerezza.